Interpretazione e cura. Atti del 22° Colloquio sulla interpretazione (Macerata, 11-12 marzo 2002) 8881471701

Questo Colloquio si situa nella più ampia cornice dei rapporti tra medicina e scienze umane; il suo intento è quello di

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Italian Pages 132 [321] Year 2003

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Table of contents :
PREMESSA
IL LINGUAGGIO FILOSOFICO DI BRUNO TRA COMOEDIA E TRAGOEDIA
IL CONCETTO DI ‘TERMINE’ NEL DE MINIMO
«SAPER TRAR IL CONTRARIO DOPO AVER TROVATO IL PUNTO DE L’UNIONE»: BRUNO, CUSANO E IL PLATONISMO
LA SUMMA TERMINORUM METAPHYSICORUM FISIONOMIA DI uN’OPERA BRUNIANA QUASI POSTUMA
TRA FILOSOFIA E TEOLOGIA. BRUNO E I PURITANI
FIDES E CREDULITAS COME TERMINI CHIAVE DELLA SCIENZA MAGICA IN AGRIPPA E BRUNO
«BLASPHEMIA VERO EST FACERE DEUM ALIUM A DEO». LA POLEMICA DI BRUNO CON L’ARISTOTELISMO A PROPOSITO DELLA POTENZA DI DIO
MOTIVI LUCREZIANI IN BRUNO: LA TERRA COME ‘MADRE DELLE COSE’ E LA TEORIA DEI SEMINA
LEGGE E VIRTÙ CIVILI IN PATRIZI E BRUNO. UN CONFRONTO TRA I DIALOGHI DELLA HISTORIA E LO SPACCIO DE LA BESTIA TRIONFANTE
‘RIFORMAZIONE’, ERESIA E SCISMA NELLO SPACCIO DE LA BESTIA TRIONFANTE. UN ERCOLE NUOVO CONTRO IL «PEGGIO CHE LERNEO MOSTRO»
RAPTUS E CONTRACTIO TRA FICINO E BRUNO
IL CANTICO DEI CANTICI NEL DE UMBRIS IDEARUM
ABBREVIAZIONI E SIGLE
INDICE DEI NOMI*
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Interpretazione e cura. Atti del 22° Colloquio sulla interpretazione (Macerata, 11-12 marzo 2002)
 8881471701

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LETTURE BRUNIANE I-II

BRUNIANA & CAMPANELLIANA Ricerche filosofiche e materiali storico-testuali SUPPLEMENTI · STUDI 3

LETTURE BRUNIANE I · II DEL LESSICO INTELLETTUALE EUROPEO

1996 · 1997

a cura di EUGENIO C ANONE

ISTITUTI EDITORIALI E POLIGRAFICI INTERNAZIONALI® PISA · ROMA

Sotto gli auspici dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici

Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta degli Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali®, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge.

Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2002 by Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali®, Pisa · Roma UFFICI DI PISA: Via Giosuè Carducci 60 · I 56010 Ghezzano · La Fontina (Pisa) Tel. +39 (0)50 878066 (4 linee r.a.) · Fax +39 (0)50 878732 E_mail: [email protected] UFFICI DI ROMA: Via Ruggero Bonghi 11/b (Colle Oppio) · I 00184 Roma Stampato in Italia · Printed in Italy ISBN 88-8147-170-1 ISSN 1125-3819

INDICE

E. Canone, Premessa G. Aquilecchia, Il linguaggio filosofico di Bruno tra comoedia e tragoedia

IX 1

B. Amato, Il concetto di ‘termine’ nel De minimo

13

P. R. Blum, «Saper trar il contrario dopo aver trovato il punto de l’unione»: Bruno, Cusano e il platonismo

33

E. Canone, La Summa terminorum metaphysicorum: fisionomia di un’opera bruniana quasi postuma

49

M. Ciliberto, Tra filosofia e teologia. Bruno e i puritani

89

D. Giovannozzi, Fides e credulitas come termini chiave della scienza magica in Agrippa e Bruno

127

M. A. Granada, «Blasphemia vero est facere Deum alium a Deo». La polemica di Bruno con l’aristotelismo a proposito della potenza di Dio

151

A. Perfetti, Motivi lucreziani in Bruno: la Terra come ‘madre delle cose’ e la teoria dei semina

189

S. Plastina, Legge e virtù civili in Patrizi e Bruno. Un confronto tra i Dialoghi della historia e lo Spaccio de la bestia trionfante

211

S. Ricci, ‘Riformazione’, eresia e scisma nello Spaccio de la bestia trionfante. Un Ercole nuovo contro il «peggio che Lerneo mostro»

225

E. Scapparone, Raptus e contractio tra Ficino e Bruno

263

M. Tirinnanzi, Il Cantico dei Cantici nel De umbris idearum

287

Abbreviazioni e sigle

307

Indice dei nomi

309

PREMESSA

Il presente volume raccoglie gli Atti del primo e del secondo incontro delle Letture Bruniane del Lessico Intellettuale Europeo - CNR. I due incontri si sono tenuti a Roma, nella sede di Villa Mirafiori dell’Università «La Sapienza», rispettivamente il 25-26 ottobre 1996, e il 24-25 ottobre 1997. Il programma delle Letture Bruniane (19962000), messo a punto da chi scrive, si è articolato in cinque seminari internazionali promossi in vista del IV centenario della morte di Giordano Bruno. Preciso che gli Atti del terzo incontro (il convegno Giordano Bruno: problemi ermeneutici e storiografici, tenutosi a Roma il 23-24 ottobre 1998) saranno pubblicati presso l’editore Olschki nella collana del Lessico Intellettuale Europeo. Gli Atti del quarto incontro (Roma, 22-23 ottobre 1999) e del quinto incontro delle Letture Bruniane (Roma, 20-21 ottobre 2000) sono apparsi nella rivista «Bruniana & Campanelliana», rispettivamente: VI (2000), 2, pp. 321-535, e VIII (2002), 1, pp. 9-254. Per alcune informazioni sulle Letture Bruniane si può consultare il sito web: www.brunianacampanelliana.com, nonché il sito: www.cnr.it/CSLIE. Nel presente volume, i vari contributi si pubblicano senza aggiornamenti bibliografici, in quanto – considerando la quantità di edizioni di testi bruniani e di saggi sul filosofo nolano apparsi negli ultimi anni, ciò avrebbe comportato il rifacimento di una parte cospicua delle note del volume. Tuttavia, in aggiunta alla tavola delle Abbreviazioni e sigle che figura alla fine del presente volume, si possono qui segnalare le seguenti edizioni: G.B., Expulsion de la bête triomphante, texte établi par G. Aquilecchia, introd. de N. Ordine, notes de M. P. Ellero, trad. de J. Balsamo, Paris 1999, 2 voll. (Oeuvres complètes de G.B., Oeuvres italiennes, V/1-2); G.B., Des fureurs héroïques, texte établi par G. Aquilecchia, introd. et notes de M. A. Granada, trad. de P.-H. Michel revue par Y. Hersant, Paris 1999 (Oeuvres complètes de G.B., Oeuvres italiennes, VII). G.B., Opere italiane, rist. anast. delle cinquecentine, a cura di E. Canone, Firenze 1999, 4 voll. G.B., Poemi filosofici latini: De triplici minimo et mensura - De monade, numero et figura - De innumerabilibus, immenso et infigurabili, rist. anast. delle cinquecentine, a cura di E. Canone, La Spezia 2000 (volume apparso alla fine del 1999). G.B., Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. Ciliberto, Milano 2000. G.B., Opere magiche, edizione diretta da M. Ciliberto, a cura di S. Bassi, E. Scapparone, N. Tirinnanzi, Milano 2000. G.B., Spaccio de la bestia trionfante, a cura di E. Canone, 2a ed., Milano 2001. Ringrazio i partecipanti ai seminari di studi e ricordo con affetto Giovanni Aquilecchia.

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Premessa

Ringrazio Tullio Gregory, il quale ha sostenuto sin dall’inizio il programma delle Letture Bruniane, e i numerosi amici che mi hanno aiutato in vario modo nell’organizzazione dei seminari e nella messa a punto di questo volume. E. C.

GIOVANNI AQUILECCHIA IL LINGUAGGIO FILOSOFICO DI BRUNO TRA COMOEDIA E TRAGOEDIA

Pur nel prevalente scetticismo dei nostri giorni credo sia difficile poter non credere nelle coincidenze: difficile perché quella delle coincidenze è una credenza che a sua volta coincide con una constatazione di fatto. Va da sé che non intendo attribuire alla credenza/constatazione nelle/delle coincidenze alcuna ulteriore dimensione che non rientri nell’ambito della pura casualità. È in questo ambito che – dopo aver da mesi comunicato il titolo generico della mia conversazione (Il linguaggio filosofico di Bruno) caratterizzato però dall’aggiunta «tra comoedia e tragoedia» – mi è già da qualche settimana pervenuto il secondo «Supplement to the Italianist», il periodico del Dipartimento di Studi Italiani dell’Università di Reading, il cui primo articolo – dovuto, come del resto anche il secondo – al direttore del periodico stesso, Zigmund Baran ´ ski, porta come titolo le prime parole di una glossa in Poetriam Horatii (commento meglio noto come ‘Materia’, pubblicato a pp. 336-84 dei «Cahiers de l’Institut du Moyen-Age Grec et Latin», LX, 1990): «Tres enim sunt manerie dicendi...»; la citazione è ripresa al principio del testo dell’articolo con la specificazione «humilis stylus, mediocris et altus». Non basta: una seconda coincidenza verificatasi non più di tre settimane e tre giorni addietro, subito prima di aver avuto modo di por mano a queste note, consiste nel fatto che riordinando uno scaffale domestico caoticamente sovraccarico di carte e libri, mi sono occorse allo sguardo le ormai semisecolari ‘dispense’ di Alfredo Schiaffini per l’anno accademico 1942-43 (con l’aggiunta, ahimè, «XXI» – ultimo, e anche scarso – dell’era fascista) vertenti su Il «De vulgari eloquentia» di Dante. Quell’anno accademico fu il primo per il fabulante, e mi piace ricordare – incidentalmente, ma forse non troppo fuor di luogo, data la presente tematica bruniana –, che se per la storia della lingua egli era e sarebbe rimasto anche in seguito in ottime mani, per la filosofia teoretica ebbe il privilegio di avere quel maestro eccezionale che fu per lui (a parte la presa di posizione politica, e paradossalmente anche quella filosofica) Giovanni Gentile. Ma, per tornare ad rem, ad apertura di dispensa la prima sentenza su cui si fermarono gli occhi fu anche essa una citazione, di cui dirò tra poco. Ma non si allarmino gli ascoltatori: non è mia intenzione costringere il moltiforme linguaggio bruniano entro gli schemi più o meno rigidi della retorica classica e medievale. È infatti lo

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Giovanni Aquilecchia

scrittore stesso a dichiarare la varietà del proprio linguaggio conforme alla varietà stilistica da lui adottata pur nell’ambito di un medesimo genere, che è quello della trattatistica in forma dialogica. ‘Linguaggio’, ‘stile’, ‘genere’, sono termini comuni che pur necessiterebbero di specificazione semantica in rapporto all’uso che se ne intenda fare. Mi sia qui sufficiente notare, proprio sulla base dell’ormai remoto insegnamento schiaffiniano, che quando Dante scrive nel libro I, capitolo LV del De vulgari eloquentia, «nec... Deus locutus est ipsa quam dicimus locutionem», ciò va tradotto «né Dio parlò proprio in quello che noi chiamiamo linguaggio»; se locutio vale (ben al di là del contesto dantesco) ‘linguaggio’, lingua cioè parlata indeterminatamente, l’eloquentia sta invece a indicare lingua governata dall’arte: Vero è che una lingua indeterminatamente parlata sarebbe difficile udirla, ogni espressione essendo motivata da un’intenzione che a sua volta la caratterizza formalmente. Nell’uso moderno il termine ‘linguaggio’ non è quasi mai adoperabile assolutamente. Con riferimento alla scriptura – ove non sia adoperato assolutamente nell’ambito di teorie linguistiche – esso termine va qualificato aggettivalmente: linguaggio, ad esempio, scientifico o poetico o tecnico o appunto filosofico, quando pure l’aggettivo qualificante non sia nominale: linguaggio, ad esempio, dantesco, boccacciano ecc., che a sua volta implica pur ellitticamente la nozione di poetico, prosastico o altra mai, inclusa quella di filosofico. E questo potrebbe bastare per un proemio: il quale non sarà stato del tutto inutile se ci ha condotti a considerare la legittimità o meno della qualificazione filosofica applicata al linguaggio da Bruno adoperato nella scriptura dei suoi dialoghi italiani. A questo punto riferimento va fatto anzitutto al poderoso saggio introduttivo di Michele Ciliberto a quello strumento di lavoro indispensabile a qualsivolgia studio bruniano che è il suo Lessico di Giordano Bruno apparso nel 1979 come numero XVI della collana del Lessico Intellettuale Europeo. Sarebbe ozioso voler procedere in questa sede con una pur estrema sintesi del saggio. Mi sia tuttavia concesso di ricordare un punto che ritengo basilare nell’ambito dell’Introduzione al Lessico: là dove Ciliberto dichiara che «la lingua dei dialoghi e del Candelaio è mobile, plastica, irriducibile ad un registro unico, ad un solo tono, perché irriducibile ad un registro solo è [secondo Bruno stesso] la varietà infinita dei linguaggi della natura... La lingua deve riconoscere questa varietà, senza espungere da sé zone e sentimenti giudicati negativi: ed è per questo strutturalmente un “impasto” di livelli e piani diversi», anche se l’autore conferma – richiamandosi alla mia ormai antica Introduzione alla Cena (Torino 1955) che tale volgare, pur «intrecciandosi alle radici primarie della filosofia nola-

Il linguaggio filosofico di Bruno

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na, scatta di fronte a circostanze pratiche precise – l’esperienza in vernacolo [s’intende inglese] di... Recorde e Digges, e il carattere italianizzante della corte di Elisabetta» (p. XXXV). Ma soprattutto vorrei ricordare l’affermazione per la quale «Bruno resisteva in modo energico a un riassorbimento del suo lessico nelle parole-chiave filosofiche. Quell’impasto “volgare” non era accidentale, e non era riconducibile a un ordine parziale, fosse pure quello della terminologia filosofica: un lessico filosofico di Bruno può essere solamente un “lessico di Giordano Bruno”» (p. XXXVIII). Dichiarazione quest’ultima alla quale – se concerne, come concerne, soprattutto i dialoghi italiani, sento di poter aderire senza riserve: tanto che è proprio sulla base di tale convinzione che potranno trovare giustificazione gli appunti che seguiranno, intesi a illustrare quella «varietà» lessicale (che peraltro, come vedremo, non esclude neppure l’adozione di termini ‘metafisici’ della scolastica). Prima di procedere, ritengo dover ricordare anche che, quasi a ridosso del Lessico, usciva l’anno seguente un altro contributo notevole allo studio del linguaggio bruniano; interpretazione del pensiero di Bruno sul linguaggio in rapporto alla realtà, interpretazione dovuta a Mario Agrimi dal titolo: Giordano Bruno filosofo del linguaggio, «Studi Filosofici», II (1979, ma 1981), pp. 105-153. A giudizio di Agrimi la «strategia bruniana è quella di attestarsi sulla forte tradizione medievale del “mentalismo” e del “nominalismo”, per muovere da un lato all’attacco dei pedanti e per aprire dall’altro un rapporto di diretta e costruttiva investigazione della realtà naturale» (p. 139, nota 71); sempre a giudizio di Agrimi, la «parola non è per Bruno un’espressione che “fa conoscere”, ma che “significa”; è cioè un segno “indicativo” che vale per il “significato” cui allude. Il significato, che è ciò a cui si mira mediante la parola, non è un termine di riferimento esterno, bensì interno: la cui esistenza è mentale, epperciò può anche essere immaginaria e fantastica. Le trasformazioni del linguaggio derivano quindi dai diversi usi che esso richiede, in vista dei “significati” verso cui si intende indirizzarlo» (p. 146). Sarà la mia conclusione a riallacciarsi alle tesi dei due studiosi, almeno per quel che sembrano avere in comune. Giova intanto menzionare subito un altro ausilio prezioso per lo studio del lessico bruniano: la ristampa anastatica, con Presentazione di Tullio Gregory, Nota e indici di Eugenio Canone, della bruniana Summa terminorum metaphysicorum ad capessendum logicae ac philosophiae studium (Roma 1989), edito – come precisa il presentatore – da Raphael Egli da un manoscritto bruniano «De entis descensu» una prima volta a Zurigo (1595), poi ancora – postumamente – a Marburgo nel 1609, riprodotto da questa seconda edizione. Ma sarà il curatore stesso della ristampa anastatica a illustrare domani la

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Giovanni Aquilecchia

struttura dell’opera. Interessante per il nostro assunto il suo rinvio al Brunnhofer, Giordano Bruno’s Weltanschauung und Verhängniss (Lipsia 1882), il quale riscontrava nella Summa la presenza di due livelli filosofici: l’esoterico e l’essoterico. Interessante perché, a voler estendere la distinzione al corpus dialogico, sul piano linguistico, all’essoterico può almeno in parte corrispondere lo stile e il lessico della comoedia, laddove all’esoterico quelli della tragoedia: la prima intesa come livello espressivo ‘mediano’ (non senza cedimenti verso il ‘basso’; a non voler definirlo ‘umile’, e tanto meno, con termine ancor più deviante, ‘elegiaco’); la seconda come livello ‘alto’. Ma a questo punto si impone una prima verifica, quella della incidenza della terminologia aristotelico-scolastica nella prosa dei dialoghi londinesi in volgare, essendo proprio i due strumenti menzionati, il Lessico e la Summa anastatica a fornirci l’opportunità al sondaggio: tanto più che la seconda non manca di provvedere, tra gli altri, un «Indice delle entrate nella Summa e nella Praxis descensus», suddiviso, per quanto concerne quest’ultima, nella sezione «De Deo seu mente», e in quella «Intellectus seu idea»: va notato peraltro che, a parte l’assenza del termine actus nella seconda sezione e del termine unitas nelle due sezioni della Praxis, i termini di questa nel suo insieme corrispondono ai 52 elencati sub S[umma] vera e propria. Noto che ben 37 di questi 52 sono registrati (nella corrispondente forma italiana) nel Lessico: tenendo conto, nel caso di suddivisioni semantiche del lemma, della presenza di almeno una accezione corrispondente a quella del termine latino nella Summa. Le assenze da me rilevate sono: conceptio (noto che, viceversa, il termine concetto dei Dialoghi non trova corrispondente latino nella Summa); dare et accipere (ma nel dial. IV della Causa, a p. 314 dell’ed. Dialoghi italiani [BDI], Firenze 1958 – su cui il Lessico è basato: cfr. BOeuC III 265 – si legge: «o per ricevere le forme o per mandarle da sé, quanto all’essenza e sustanza sua, essa [i. e. la materia] non riceve maggior o minor attualità»); evidentia (che però nella Summa risulta aggettivizzata in evidens all’inizio del paragrafo relativo: il corrispondente italiano evidente è testimoniato dal Lessico per la Causa e per l’Infinito); habere: il corrispondente italiano non è documentato nel Lessico per l’accezione fornita dalla Summa: «Habere dicitur dupliciter: uno modo per motum absoluti, alio modo per motum respectivi, et hoc etiam vagatur per praedicamenta, sicut proxime dictum est de dare et accipere» (va notato tuttavia che nel Lessico non mancano esempi di avere in senso tecnico sotto altri lemmi: così, ad esempio, sub ricevere: «La potenza comunemente si distingue in attiva, per la quale il soggetto di quella può operare; e in passiva, per la quale o può essere, o può ricevere, o può avere, o può essere soggetto di efficiente in qualche maniera» (Causa, dial. III, BDI 280;

Il linguaggio filosofico di Bruno

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BOeuC III 203); idem: non esemplificato nel Lessico né con «stesso» né con «medesimo», con attinenza pur solo parziale alla definizione multifaria di idem nella Summa, nonché con valore sostantivale, indicherei, tra gli altri, l’esempio dei Furori, parte I, dial. V per il riferimento a «l’altezza de la sapienza divina, la quale è medesimo che la profondità della potenza e latitudine de la bontade» (BDI 1059); instrumentum (come distinto da medium, il quale a sua volta, italianizzato in mezzo è ampiamente esemplificato nel Lessico di contro a due sole occorrenze aggettivali); per se: manca il lemma nel Lessico (né mi sembra rilevabile, come tale, nel testo dei dialoghi, dove è invece abbastanza ricorrente l’espressione avverbiale da per se); prius et posterius: non compaiono nel Lessico esempi avverbiali di «prima che», «prima di», «prima» (ma vi è quello aggettivale e sostantivale); secundum quod ipsum non ha equivalente volgare nel Lessico; simul, non incluso con l’equivalente italiano «insieme» nel Lessico, ricorre ovviamente, sia in senso temporale che in quello congregazionale nei dialoghi italiani; ubi: non documentato nel Lessico (noto nell’Infinito, dial. I, BDI 379; BOeuC IV 81) l’avverbio latino alicubi, il cui equivalente italiano «in qualche luogo» è registrato nel Lessico sub «luogo, loco». La presenza diretta o indiretta, virtualmente totale nei Dialoghi italiani, dei termini metafisici da Bruno stesso in seguito illustrati nella sua Summa, sta a indicare, nell’ambito del polo ‘alto’ (quindi della tragoedia) del linguaggio bruniano una recettività solo in parte giustificabile con la dichiarazione metodologica contenuta nel dialogo IV della Cena e che ebbi occasione di citare in principio alla mia Introduzione alla prima edizione critica della Causa (Torino1973): «La prima lezzione che si dà ad uno che vuole imparar di argumentare è di non cercare e dimandar secondo i proprii principii: ma quelli che son concessi da l’avversario». Meno lineare la situazione per quanto concerne il lessico scientifico di Bruno. Pur qui soccorre un lavoro pregevole: il contributo della compianta Luisa Cozzi, dal titolo Il lessico scientifico nel dialogo del Rinascimento, al volume Il dialogo filosofico nel Cinquecento europeo a cura di Davide Bigalli e Guido Canziani (Milano 1990). All’omogeneità lessicale nell’ambito dei dialoghi latini del Quattrocento, come notava la Cozzi, sembra per contro corrispondere varietà nei dialoghi bruniani, conformemente alla varietà degli interlocutori: se infatti l’interlocutore secondario (l’inglese ‘Smitho’ nella Cena, lo scozzese ‘Dicsono’ nella Causa, il probabile gallese ‘Elpino’ nell’Infinito – non so se si sia fin qui notata questa possibilmente intenzionale triplice rappresentanza britannica) – se, dicevo, l’interlocutore secondario adotta la terminologia del primario, che è poi il riflesso più diretto e costante dell’autore, altrettanto non avviene, come del resto richiesto dalla veridicità dialogica, con i personaggi di contor-

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Giovanni Aquilecchia

no, i pedanti, caratterizzati anzitutto mediante l’eloquio latinizzante quando non del tutto latino, e i personaggi subalterni, che quando non parodino il pedante, sfiorano a volte il furbesco. È quindi essenzialmente dalla parlata degli interlocutori principali e immediati secondari che è dato rilevare il carattere del lessico scientifico nell’ambito essenzialmente dei dialoghi cosmologici. Originalità semantica va rilevata nell’uso di termini che pur appartengono al lessico comune o scientifico o filosofico di derivazione classica e medievale. Se abitudine, riferito ai poli terrestri o alla linea dell’equatore (Cena, dial. V, ed. critica, Torino 1955, pp. 225 e 226; BOeuC II 273) è rapportabile alla Quadratura circuli del Cusano nel De quadratura circuli del Regiomontano (Norimbergae 1533, pp. 5, 6, 7), altri termini possono detenere un margine disinvolto di originalità semantica, come, per limitarmi a pochi esempi, continente (usato dalla coppia Teofilo/Smitho nella Cena e da Filoteo/Dicsono nella Causa) sia come aggettivo (nella Causa/Infinito) che sostantivo (Cena/ Infinito) a indicare ‘lo spazio che contiene uno o più corpi celesti’; equatura (rilevabile nello Spaccio, BDI 759, al di là quindi della trilogia cosmologica), nel senso di ‘eguagliamento’; ancora nello Spaccio: equità (BDI 756) equivale a ‘uguaglianza’; i termini etere/aria (al maschile come il latino aer)/inane usati indifferentemente a indicare lo spazio, per dir così, vuoto dell’universo, che contiene i mondi infiniti ed è esso stesso infinito: termini questi rilevabili nell’Infinito appunto; da inane (sempre accoppiato con vacuo), termine di per sé non originale, Bruno deriva la forma, questa sì originale, del verbo inanirsi (Infinito, BDI 359; BOeuC IV 37). Accanto a inanirsi va ricordato anche inariarsi, ‘salire nell’aria’, invenzione di Bruno (rilevabile ancora nell’Infinito, BDI 483; BOeuC IV 273) non a caso in bocca a Filoteo. Ma per tornare a vacuo, già segnalato come sinonimo di inane, è notevole l’intenzionale distacco di Bruno da Aristotele, là dove, in un passo dell’Infinito (BDI 398; BOeuC IV 117) spiega il termine come «quello in cui può esser corpo e che può contener qualche cosa et in cui sono gli atomi e corpi», mentre «lui solo – cioè Aristotele – diffinisce il vacuo per quello che è nulla»: precisazione terminologica, a me sembra, che pur investe un aspetto basilare della cosmologia bruniana. L’arida – che a livello lessicale non può, ritengo, non derivare direttamente dal Genesi I, 9-10: «Congregantur aquae... et appareat arida... Et vocavit Deus aridam, “Terram”... », – sembra presentare, per bocca di Fracastoro, uno sviluppo semantico nell’Infinito (vd. BDI 454 ss.; BOeuC IV 219 ss.), assumendo qualità di elemento non meno dell’aria, dell’acqua e del fuoco. Si potrebbe continuare in questa rassegna, pur solo rilevando ulteriori termini elencati e chiariti dalla Cozzi. Ma è evidente, ai fini del mio assunto, che se alcuni di essi – nuovi o meno semantica-

Il linguaggio filosofico di Bruno

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mente – quali, tra quelli già menzionati, abitudine, continente, aria e altri ancora pur registrati dalla studiosa suddetta, quali acqua (nel senso generico di ‘liquido’), chiarezza (nel senso di ‘luminosità’), fermezza (nel senso di ‘consistenza’ o ‘stabilità’), fissare (nel senso di ‘rendere compatto’), inconstante (nel senso di ‘discontinuato’ e ‘mobile’), liquido (nel senso di ‘trasparente’), mediante (usato però come aggettivo, nel senso di ‘centrale’, ‘medio’), trasparente (nel senso non già di ‘diafano’, ma, pur impropriamente, di ‘lucido’ e ‘riflettente’), vertigine (nel senso di ‘moto circolare velocissimo’), campo (inteso come ‘ricetto generale’ nell’Infinito e ‘area’ nello Spaccio) ben rientrano, lessicalmente, nell’accezione linguistica e stilistica della comoedia (e si potrebbe aggiungere, come caso limite nel presente contesto il termine paradialettale mescuglia nell’Infinito (BDI 397; BOeuC IV 115), per di più in bocca a Filoteo), a livello linguistico e stilistico di tragoedia rientrano sicuramente termini quali circuito (nel senso di ‘orbita’), equidistante (nel significato, del resto comune, di ‘uguale distanza da uno stesso punto’), equidistanza, equità (nel senso di ‘uguaglianza’ nello Spaccio, BDI 756), exalazione (che sembra indicare una sorta di ‘gas’ sia nella Cena, ed. crit. 1955, p. 215; BOeuC II 255, che nell’Infinito, BDI 485; BOeuC IV 277), e vacuo. Né meno vi rientrano i termini rilevati all’inizio. Andrà invece ormai espunto dai repertori linguistici bruniani – come lo è già stato nei due testi critici della Causa (Torino 1973 e Paris 1996) – l’inesistente (nel testo originale) disolar, che fu dovuto a una malintesa interpretazione del lemma quale risulta spiegato in inglese nel New World of Words del Florio da parte dello Spampanato e conseguente errata – oltre che superflua – emendazione del genuino disoglar (= disogliar ) come ebbi occasione di dimostrare con una postilla nel Verri del 1958. Si aggiungano i termini derivati dagli atomisti, ricorrenti soprattutto nell’Infinito, a cominciare dall’ovvio grecismo atomo, ma anche – con spostamento nell’area mediana della comoedia –, espressioni esplicative (pur qui prevalentemente nell’Infinito) quali «primi corpi indivisibili» (BDI 477; BOeuC IV 261), «parte minime» (BDI 355, 415; BOeuC IV 27, 151), «minimi della natura» (BDI 461; BOeuC IV 233), «individui e minimi» (quest’ultimo nello Spaccio, BDI 643). Decisamente nell’area suddetta rientrano il termine particelle e il pur latineggiante particole (quest’ultimo nella Causa oltre che nell’Infinito). Quanto a veri e propri latinismi rilevabili in un contesto lessicale peraltro volgare – ancora una volta prevalentemente nei dialoghi dell’Infinito –, termini quali attrito, crasso, discorrere (dal lat. discurrere, ‘muoversi’), dissoluto (dal lat. dissolvere, ‘disciolto’ quindi o ‘scomposto’), o verbi derivati dal latino fluere (sia pure con passaggio dalla terza alla quarta coniugazione), adottando le medesime varietà prefissali del lati-

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no (effluire, influire, defluire, refluire dal lat. effluere, influere, defluere, refluere), e corrispondenti formazioni sostantivali (flusso, efflusso, influsso, reflusso), ovvero la variatio delle preposizioni prefissali latine applicate a una stessa radice (accesso e recesso, questa volta nella Cena, ed. crit. 1955, p. 227, BOeuC II 275, oltre che nell’Infinito, BDI 486; BOeuC IV 279, e in contesto non scientifico, nella Cabala, BDI 901; BOeuC VI 125). Pur sempre nell’ambito dei latinismi rientrano termini quali erroni (dal lat. erro-nis, ‘errante’) nell’Infinito (BDI 480; BOeuC IV 265) e nutar (lat. nutare) per ‘oscillare’ nella Cena (ed. crit. 1955, p. 223; BOeuC II 269) per limitarmi a questi due esempi che sembrano rappresentare un caso limite di lessico appropriato al genere alto della tragoedia adottato in un contesto scientifico. Al quale lessico pertengono anche parole derivate dal greco, se pur d’uso comune, ed espressioni, ma anche concetti, della fisica qualitativa classica filtrate attraverso il Medioevo latino: densità, denso contrapposto a raro (Cena e Infinito); concetti: luogo naturale, regione elementare (Infinito). Quanto ai termini di meccanica, sebbene, come osservato dalla Cozzi, siano propri della tradizione, non ne manca un’applicabilità specifica: è il caso del relativismo concettuale di grave e lieve quale espresso nella Cena (ed. crit. 1955, p. 211; BOeuC II 247), oltre che ripetutamente nell’Infinito, laddove la concezione peripatetica dei corpi mobili (grave, lieve e neutro) è esposta nel dialogo V dell’Infinito dall’interlocutore ‘Albertino’ nel suo originario stadio mentale di stampo aristotelico (BDI 508; BOeuC IV 317). Sul versante linguistico della comoedia, sempre nell’ambito scientifico, si incontrano termini d’uso comune con accezione tecnica: è il caso di forza, usato come sinonimo di appulso nell’Infinito (BDI 494; BOeuC IV 293), è anche il caso del resto tradizionale dell’uso di mobile come sostantivo (nella Cena e nell’Infinito) e di mole, che risale alla tradizione medievale nel significato di ‘volume’ o ‘massa’ in tutti e tre i dialoghi cosmologici. Quanto a momento, termine che, osservava la Cozzi, «avrà una certa importanza nella meccanica di Galileo» – pur affermando che «non è molto chiaro qual significato gli si debba dare» nell’uso di Bruno (ma per il riferimento galileiano ricorso va fatto, almeno, a Paolo Galluzzi, Momento. Studi galileiani, Roma 1979, pp. 166-97), quanto a questo termine, dicevo, occorre andar cauti (e per estensione la stessa cautela andrebbe applicata ad altri termini dell’uso comune presumubilmente tecnicizzati). Infatti il luogo in questione è nel dial. II della parte II dei Furori, BDI 1122, dove è detto che «in numero de moltitudine, numero de misure e numero de momento o pondo la verità si trova in tutte le cose». Paul-Henri Michel – il cui ricordo, per me carissimo, è legato alle mie prime esplorazioni parigine alla Bibliothèque Mazarine nell’ormai preistorico 1949 – nella sua peral-

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tro pregevole traduzione dei Furori (Paris 1954) ebbe a tradurre «car le nombre, appliqué à la multiplicité, à la mesure, au temps et au poids, traduit en toute chose la verité et l’être». Ma che abbia ragione Christiane Bacmeister (Von den heroischen Leidenschaften, übers. und hrsg. von Chr. Bacmeister, Einl. von F. Fellmann, Hamburg 1989) nel tradurre in tedesco «numero de momento o pondo» con «Zahl der Bedeutung oder des Gewichts» è mostrato dal contesto, nella Proemiale Epistola dell’Infinito, dello stesso dicolon, pur con i termini invertiti, là dove «gl’intimi e radicali errori de la filosofia volgare» vengono contrapposti al «pondo e momento» della filosofia nolana (BDI 359; BOeuC IV 37). Non mancano peraltro echi bruniani in Galileo. A livello non puramente linguistico, me ne ero occupato al convegno ateniese del ’94 su ΓAΛIΛAIOΣ ΓAΛIΛEI AIΡETIKEΣ ΦΩΝΕΣ, i cui Atti sono apparsi nel ’95 e cui partecipò anche Hilary Gatti con una relazione su Giordano Bruno’s «Ash Wednesday Supper» and Galileo’s «Dialogue of the two major World Systems», titolo da me ripreso pur con i termini debitamente invertiti per la III Lettura galileiana dell’Accademia dei Lincei in collaborazione con l’Istituto e Museo della Scienza (Firenze), ma ovviamente da un diverso angolo visuale. Mentre la mia relazione ateniese su Bruno’s Echos in Galileo, oltre che negli Atti in traduzione neo-greca, ha trovato ospitalità, per cura di Marta Fattori, nelle «Nouvelles de la République des Lettres» del ’95 (fasc. 1) nella lingua originaria inglese, la relazione lincea è apparsa nel «Nuncius» del ’95 (fasc. 2). Se mi sono indugiato a enunciare questi dati bibliografico-congressuali, è per giustificare la linea scheletrica degli appunti che seguono, i quali – per il versante galileiano – utilizzano (non senza le verifiche d’obbligo sui testi galileiani) la serie dei termini selezionati da Maria Luisa Altieri Biagi (Galileo e la terminologia tecnico-scientifica, Firenze 1965), mentre le ‘anticipazioni’ bruniane – sia pure talora per contrasto – sono inedite, pur avendo usufruito del vantaggio referenziale offerto dal Lessico cilibertiano. A me sembra che quando Galileo afferma nelle Considerazioni al Discorso di Lodovico Delle Colombe, che «il desiderio, l’appetito e ’l discorso» qualora siano attribuiti alle cose inanimate si possono «assimigliare... alle favole d’Esopo che fanno parlar le piante» (Edizione Nazionale, IV, p. 689), quanto in particolare concerne l’appetito egli intenda contrastare alla dichiarazione di Bruno, nel dialogo II dell’Infinito, per il quale – conforme del resto al suo principio animistico – «se la materia ha il suo appetito, il quale non deve essere in vano, perché tale appetito è della natura e procede da l’ordine de la prima natura, bisogna che il loco, il spacio, l’inane abbiano cotale appetito» (BDI 396; BOeuC IV 113). Tanto più che quando lo stesso

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Galileo nella giornata II dei Massimi sistemi usa un’espressione quale «l’appetito, per così dire, di separarsi dalla circonferenza» (E. N., VII, p. 243), con quel per così dire sembra usare il virgolettato a dissociarsi di nuovo da concezioni animistiche di tipo appunto bruniano. Identici termini in Galileo e Bruno possono peraltro rispondere a diverse applicazioni: è il caso di «aspetto di... congiunzione» (E. N., VII, p. 89) usato da Galileo nella giornata I in senso astronomico con riferimento a sole-luna-terra, e d’altra parte l’uso bruniano, in senso universale, come congionzione di contrari nel dialogo V dell’Infinito (BDI 524; BOeuC IV 349). Quanto ai «corpuscoli calidi» e «corpuscoli ignei» nelle Considerazioni suddette di Galileo (E. N., IV, p. 130), essi sono ben altra cosa dal minimo corpuscolo bruniano (nel dial. II della Causa, BDI 242; BOeuC III 133) «che contenga cotal porzione [di spirto] che non inanimi». Laddove la critica galileiana quanto all’uso assoluto di termini «contrari» quali caldo-freddo che si riducono a ‘gradi’ di una medesima scala di valori, ben corrisponde alla soluzione bruniana della ‘contrarietà’ espressa nel dialogo II della parte I dei Furori, per cui «tra il freddissimo e il caldissimo è il più caldo e il più freddo, e nel mezzo puntuale è quello che puoi dire o caldo o freddo, o né caldo né freddo, senza contrarietade» (BDI 977). Quanto a termini scientifici della tradizione, che Bruno talora sembra accettare pur concettualmente, è il caso dell’ecliptica nella Cena (ed. crit. 1955, p. 199; BOeuC II 221), ricorrente poi quattro volte nella Causa e una nell’Infinito), Galileo per l’uso dello stesso termine nella giornata I dei Massimi sistemi anticipa la spiegazione (E. N., VII, p. 482), e per l’uso di epiciclo (in una lettera a Mons. Dini) la fa seguire (E. N.,V, p. 298), laddove, quanto a quest’ultimo termine, Bruno l’aveva accettato senza commento nel dial. III della Cena (ed. crit. 1955, p. 153; BOeuC II 139) e poi nel dialogo IV, traducendo erroneamente (se pur forse non senza consapevole inclinazione) un noto se pur ambiguo passo di Copernico (ed. crit. 1955, p. 201; BOeuC II 229); ciò che non gli impediva peraltro di negare il «serviggio de gli epicicli e di altre chimere assai» nel dial. III dell’Infinito (BDI 435; BOeuC IV 185). Nel caso di equinoz(z)iale, laddove nella Cena e nello Spaccio il termine viene usato disinvoltamente, nel caso del galileiano Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (E. N., VII, p. 338) esso viene pur qui fatto seguire da spiegazione. Al principio intrinseco impulsivo del dial. IV dell’Infinito (BDI 484; BOeuC IV 273), fa riscontro il principio interno nella giornata II dei Massimi sistemi (E. N., VII, pp. 260-61), anche se la prudenza sembra indurre l’interlocutore Salviati, portavoce di Galileo, ad affermare di son sapere se quello che muove la terra sia principio interno o esterno, non senza però una precisa affermazione riguardo il movimento della terra. Per terminare questa

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esemplificativa comparazione terminologica tra Bruno e Galileo, vorrei limitarmi a notare che con la virtù primieramente impressa del dial. III della Cena (ed. crit. 1955, p. 181; BOeuC II 189) andrebbe confrontata la virtù impressa della suddetta giornata dei Massimi sistemi (E. N., VII, p. 261). Quanto alla pervasiva terminologia neoplatonica nei dialoghi italiani di Bruno – terminologia che gli deriva senza dubbio tramite la mediazione ficiniana, sì da spiegare, pur senza giustificarla, retrospettivamente rispetto alla composizione dei dialoghi stessi, la reazione del pubblico accademico alle sue lezioni oxoniensi – la terminologia neoplatonica, dicevo, richiederebbe una relazione a sé. Essa è rilevabile prevalentemente – come c’era da aspettarsi – nei dieci dialoghi divisi nelle due parti degli Eroici furori, sia per la componente prosastica che per quella poetica: specie per quest’ultima non senza altresì, e come c’era pure da aspettarsi, la fruizione di termini ed espressioni petrarcheschi. Che tale terminologia – derivi essa dalla fonte ficiniana o da quella petrarchesca – abbia nel contesto filosofico bruniano la funzione di esprimere un’originale concezione ‘ontologica’ e ‘teologica’ mediante l’uso di termini ed espressioni tradizionalmente prestigiosi e suggestivi, l’avevo invero sostenuto in più di una occasione nei decenni addietro. Ma non l’avevo dimostrato mediante un’analisi comparativa dei modelli espressivi con il linguaggio bruniano e dei differenziati significati speculativi nell’ambito dei rispettivi contesti pur nell’uso di analoghi o addirittura identici significanti. Il merito di aver intrapreso e condotto ormai a un grado notevole di credibilità tale dimostrazione, in particolare con riferimento al Sigillus sigillorum e ai Furori, spetta, come è noto, a Rita Sturlese e al suo impegno epidittico: in particolare con il tuttora (credo) inedito studio su Il problema della genesi degli «Eroici furori», in cui è convincentemente indicata la «sovrapposizione» della bruniana concezione immanentistica del divino alle espressioni della ficiniana concezione trascendentalistica. Ma, per dirla con un pedante dei Dialoghi, «iam nox humida caelo praecipitat» e non mi resta, in chiusura, richiamandomi alle nozioni linguistico-retoriche della comoedia e della tragoedia, che rinviare, come casi limite dell’una e dell’altra a livello stilistico, rispettivamente, al ben noto discorso di Mercurio nel dialogo I dello Spaccio contenente la registrazione delle minuzie decretate da Giove di «quel che deve essere provisto oggi nel mondo» (BDI 633), con specifico riferimento al microcosmo nolano e alla stessa dimora bruniana: la terminologia regionale e a tratti municipale – non riuscendo tuttavia a ridurre il dettato a livello dello stile umile – e per contro, a livello della tragoedia, non solo ampiamente, come è ovvio, ai Furori, ma anche a certe aperture dialogiche quale quella del dialogo I

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della Causa. Il quale ultimo esempio, come pure quello dello Spaccio, implicano nell’intenzione dell’autore e nell’espressione stilistica – sia pure a poli opposti – un’ulteriore componente del linguaggio bruniano: la parodia, la quale a sua volta rientra in quel genere satirico cui non pure vanno rapportati due interi dialoghi (Spaccio e Cabala) ma che affiora altresì non infrequentemente nel dettato degli stessi dialoghi cosmologici. E che dire di una componente più propriamente comico-umoristica che pur in maggiore o minore misura affiora nei dialoghi, con particolare evidenza nella Cena de le Ceneri, come accennavo nella già citata Introduzione del ’55 e come il mio accenno con riferimento al dialogo I è stato ben sviluppato da Daniela Quarta, nel pur già citato volume miscellaneo milanese a cura di Bigalli e Canziani, e come del tutto recentemente formulato da una valente brunista pisana della seconda generazione dopo la mia, Maria Pia Ellero, in una comunicazione nolana del febbraio ’96, con la constatazione che «la varietà di “propositi” e di “voci”, di temi e di linguaggi che il testo della Cena esprimerebbe... non riguarda i soli contenuti», ma come problema «riguarda le forme della rappresentazione: si mescolano in quel testo [ma forse, aggiungerei, non in quel testo soltanto] il dialogo filosofico e la commedia». Sia sufficiente, quindi, a termine di questi appunti, accorgersi che la formula «il linguaggio filosofico di Bruno tra comoedia e tragoedia» potrebbe più persuasivamente essere alterata – con l’uso di un aggettivo che ho già adoperato e che pur ricorre nei Dialoghi: l’alterazione che propongo è «il multifario linguaggio di Giordano Bruno».

BARBARA AMATO IL CONCETTO DI ‘TERMINE’ NEL DE MINIMO

Gli studi finora condotti sull’atomismo bruniano hanno rivolto prevalentemente la loro attenzione a ciò che costituisce il sostrato elementare di tale concezione, ovvero l’atomo, il minimo, il semen. Scarso rilievo è stato invece conferito alla nozione di ‘termine’ che Bruno stesso presenta come condizione di possibilità della genesi di ogni grandezza, costituita in ambito fisico, geometrico ed aritmetico da parti prime irriducibili. «Principium et fundamentum errorum omnium, tum in physica tum in mathesi, est resolutio continui in infinitum»1 ammonisce Bruno nel De triplici minimo et mensura. La trattazione del ‘termine’ svolta nel De minimo con l’intento di dimostrare l’incontraddittorietà dell’indivisibile, delinea la posizione di Bruno in merito alla questione della composizione del continuo, che, già presente nell’antichità, deve attendere almeno fino alla seconda metà del XVII secolo per essere trattata in termini propriamente matematici. Eppure, ancora in quell’epoca, le definizioni di ‘continuo’, συνεχς, di ‘contiguo’, τ χ µενον, dell’‘essere in contatto’, τ πτεσθαι, e di ‘consecutivo’, τ φεξς, date da Aristotele nel V libro della Fisica2 ed il ragionamento sviluppato a partire da esse nel VI3 per sancire, contro i ‘paralogismi’ di Zenone, l’impossibilità di comporre il continuo da indivisibili non hanno del tutto esaurito il loro vigore persuasivo, se l’anonimo dell’Euclides ad examen – databile tra il 1664 e il 1670 – poteva così esordire nel suo scritto: «Antiqua Zenonis opinio negantis continuum esse divisibile in infinitum aucthoritate Aristotelis consepulta coepit hoc saeculo reviviscere»4 . La filosofia dei secoli XIII e XIV aveva riservato gran parte del suo interesse a problemi implicanti, in un modo o nell’altro, la continuità, il limite e l’infinito. In particolare gli studi condotti dai ‘calculatores’ di Oxford e quelli svolti a Parigi sulla compositio continui e sulla latitudo formarum non potevano prescindere dalla riflessione 1. De minimo, BOL I,III 153. 2. Aristotele, Phys. V 3. 3. Ivi, VI 1-9. 4. Euclides ad examen Seu Disputatio De Principijs Geometriae, ms. XII D 61 della Biblioteca Nazionale di Napoli, c. 37r. L’opera è oggetto di un’interessante quanto particolareggiata analisi da parte di R. Gatto, Tra scienza e immaginazione. Le matematiche presso il collegio gesuitico napoletano (1552-1670 ca.), Olschki, Firenze 1994, pp. 236-61.

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su tali nozioni né dal confronto con gli argomenti aristotelici che – rinsaldati dalla Scolastica – costituivano la loro prima e incontestata sistemazione teorica. Nonostante la tendenza generale fosse quella di una sostanziale conformità alla tesi aristotelica dell’infinita divisibilità del continuo, erano comunque sorte posizioni indivisibiliste, anche di una certa audacia. Tuttavia, dati il loro carattere di eccezioni e la reciproca eterogeneità5 , esse non riuscirono a prevalere sulla linea interpretativa ufficiale che, intanto, veniva acquisendo nuovi argomenti dall’insegnamento di Ockham. La negazione dell’indivisibile in quanto res, condivisa dalle voci più autorevoli sia a Parigi che ad Oxford, riaffermò con rinnovato vigore l’impossibilità per il continuo di essere costituito da parti prime6 . Agli occhi di Bruno gli argomenti a favore della divisibilità all’infinito della grandezza apparivano rinsaldati dai nuovi metodi di indagine geometrica ed in particolare dai recenti sviluppi della trigonometria. L’adozione del calcolo approssimativo, l’utilizzo dei numeri irrazionali per esprimere il rapporto tra grandezze incommensurabili presupponevano la più completa adesione alla concezione continua della grandezza. Le soluzioni dei geometri della sua epoca, del misuratore «carens metro»7 , ai problemi della trisezione dell’angolo, della quadratura del cerchio – problema quest’ultimo che aveva conosciuto nuovi sviluppi con l’edizione greco-latina degli Opera di Archimede (Basilea, 1544) – intanto venivano osteggiate da Bruno in quanto non fondate sull’indivisibile: Sic igitur duo geometriae genera, quae quantum veritas a falsitate, scientia ab ignorantia, lux a tenebris abiunguntur, videre licebit, quarum altera a minimo posito tamquam necessario fundamento, altera vero a minimo ignorato incedit; altera in horribiles ambages, confusiones et 5. Nicholas Bonet e Nicholas d’Autrecourt si rivelarono gli unici ad attribuire quantità all’indivisibile, ma le loro posizioni divergevano in molti punti. Henry of Harclay componeva il continuo da indivisibili infiniti, mentre Walter Chatton, servendosi, allo stesso modo di Lucrezio (De rerum natura, I, 615-26), del paradosso dell’ineguaglianza tra infiniti, utilizzato poi anche da Bruno, dimostrava che il numero degli indivisibili era finito. Si vedano in proposito: P. Duhem, Le système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon a Copernic, VII, Hermann, Paris 1956, pp. 20-41; V. P. Zoubov, Walter Chatton, Gerard d’Odon et Nicholas Bonet, «Physis», I (1959), pp. 261-78; J. E. Murdoch, Superposition, congruence and continuity in the middle age, in Mélanges Alexandre Koyré. L’aventure de la science, II, Hermann, Paris 1964, pp. 416-41; Id., Infinity and Continuity, in The Cambridge History of Later Medieval Philosophy, II, editors N. Kretzmann, A. Kenny, J. Pinborg, Cambridge University Press 1982, pp. 565-91; A.C. Crombie, Da S. Agostino a Galileo, trad. it., Feltrinelli, Milano 1970, pp. 283-313; A. Maier, Scienza e filosofia nel medioevo, trad. it., Jaca Book, Milano 1984, pp. 271-338. 6. Vd., in particolare, J. E. Murdoch, Infinity and Continuity, cit., pp. 573-75. 7. De minimo, BOL I,III 266.

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irregularitatum confessas myriades intruditur, altera in omnium lucem sublevata nitescit8 .

Sebbene non sia possibile rintracciare un’unica posizione di Bruno intorno ai problemi geometrici richiamati9 , non si può fare a meno di scorgere nel De minimo una costante nel concepire la costituzione della grandezza fisica e matematica ex indivisibilibus. Il calcolo trigonometrico delle approssimazioni, qualora venga assunto – come avviene nei capitoli 10-12 del III libro – circoscrive la propria validità «ad minima sensus, non autem rei – precisa Bruno –, ubi non est danda ratio ex radice senarii»10 . Il ruolo determinante assegnato da Bruno alla nozione di ‘termine’ nella costruzione della sua concezione discreta della grandezza è ravvisabile a partire dal Camoeracensis acrotismus11 laddove, nell’articolo XXXVI, accanto all’accezione di spazio contenente i corpi, si attribuiva al vuoto una ratio disterminandi12 , che lo rendeva atto a distinguere non solo fisicamente i corpi, ma anche rationaliter i numeri e gli enti matematici. Il vuoto veniva presentato come fondamento della contiguità dei corpi, capace di interrompere la continuità corporea in virtù della sua natura di «neutrum extremorum», allo stesso modo che «ubi unitas est a dualitate discreta, intermedium aliquod sit opus est, quod neque unitas sit, neque dualitas, neque numerus». In quanto tale il vuoto non poteva intendersi come spazio, ma come «spatii terminus... medium contiguorum corporum: si enim esset spatium, haberet extremum distinctum ab extremo duorum corporum; et forte oporteret adhuc quaerere in infinitum, quid mediet inter illa extrema». L’istanza di un vuoto-termine prospettata nell’Acrotismus per porre fine al processo di divisibilità 8. Ivi, p. 240. 9. Cfr. G. Aquilecchia, Mathematische Aspekte in Brunos Denken von «De minimo» bis zu den «Praelectiones geometricae», in Die Frankfurter Schriften Giordano Brunos und ihre Voraussetzungen, Atti del Convegno di studio di Heidelberg (13-16 maggio 1990), hrsg. von K. Heipcke, W. Neuser und E. Wicke, VCH Verlagsgesellschaft GmbH, Weinheim 1991, pp. 135-43. Cfr. Id., Bruno e la matematica a lui contemporanea: in margine al ‘De minimo’ , «Giornale critico della filosofia italiana», X (1990), pp. 15159. Per una rassegna bibliografica sulla questione, si veda Id., Il dilemma matematico di Bruno tra atomismo e infinitismo, Istituto Suor Orsola Benincasa, Napoli 1992. 10. De minimo, BOL I,III 265. 11. Camoer. acrot., BOL I,I 139-40. 12. Cfr. Lampas trig. stat., BOL III 14, dove a proposito di Chaos, ossia del vuoto, si afferma: «Non est in compositione veluti pars, quamvis in compositis insitum sit et intelligatur, sed rationem habet disterminantis partes et distinguentis prima corpora individuorum, in quorum singulis contactu concurrentibus necessario interiectum sit oportet».

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del continuo diviene oggetto di un’ampia trattazione nel De minimo, in un’opera, cioè, della produzione bruniana più matura, in cui la speculazione geometrica è chiamata, dall’affermarsi dei nuovi metodi, a rendere conto dei principi che la sorreggono e la distinguono dalle posizioni correnti, come da quelle tradizionali. Si assiste, dunque, nel poema francofortese ad un’assidua presenza di riflessioni sul ‘termine’ che non escludono ripetizioni e contraddizioni, rivelando la percezione da parte di Bruno della potenzialità eversiva di tale concetto nei confronti della tesi della discontinuità. La nozione di ‘termine’ diviene così elemento imprescindibile su cui si misura la plausibilità della concezione discreta della grandezza. Ciò è evidente sin dall’Epistola dedicatoria che, dovendo fungere, secondo il progetto originario di Bruno, da introduzione all’intera trilogia dei poemi latini, sebbene pubblicata successivamente ai cinque libri del De minimo, dichiara quali elementi dell’opera: il ‘termine’, il ‘minimo’ e la ‘grandezza’. Tale posizione di preminenza, dichiarata negli intenti e conseguita nel corso della trattazione trova la sua ragion d’essere se si considera, con Bruno, il VI libro della Fisica di Aristotele in cui ha luogo la dimostrazione della divisibilità infinita del continuo. Essa presenta come primo argomento l’impossibilità di concepire estremità, τ σχατα, nell’indivisibile. Si tratta del cosiddetto argomento aristotelico del ‘contatto’, la cui importanza era stata rilevata anche dagli indivisibilisti del XIV secolo. Esso, infatti, non si limitava a sostenere che, dato il continuo, risulta impossibile ridurlo a componenti indivisibili, ma negava la possibilità dell’indivisibile simpliciter, in quanto incapace di dar luogo alla grandezza. Se per Aristotele si può parlare di continuità «quando i limiti di due cose, mediante i quali l’una e l’altra si toccano, diventano uno solo e medesimo»13 è «impossibile che qualcosa di continuo risulti composto da indivisibili… perché non c’è nessuna estremità di ciò che è privo di parti (infatti, diversi tra loro sono l’estremo e ciò di cui questo è estremo)». Per la stessa ragione tra gli indivisibili non vi può essere neppure contiguità, in modo tale che le rispettive estremità si diano semplicemente «insieme». Infatti, «poiché l’indivisibile è privo di parti, necessariamente esso dovrebbe essere in contatto come intero con un intero»14, e allora dall’aggregarsi di due indivisibili non si produrrebbe una grandezza maggiore, ma il darsi nello stesso luogo degli interi indivisibili. Ricostruito il ragionamento aristotelico, Bruno si appresta a ribattere: «Hic est Achilles: haec est, inquam, terminorum confusio, unde catholica illa ruina devolvitur, non distinguere minimum a termino minimi, partem 13. Phys., V 3, 227a 11-12 (trad. di A. Russo, Laterza, Bari 1968). 14. Phys., VI 1, 231a 24-29; 231b 3 (trad. cit).

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a termino partis... minimum non tangit se toto neque sui parte alterum minimum, sed suo fine plura potest attingere minima»15. La soluzione proposta da Bruno, per risolvere l’argomento del ‘contatto’, poggia sulla necessità di distinguere sia in fisica che in geometria, nel corpo e nel solido, nella superficie e nella linea, il ‘minimo’, che è la prima parte della grandezza, dal ‘termine’, sua estremità, grazie alla cui adimensionalità le parti si uniscono l’una all’altra e, nello stesso tempo, si distinguono reciprocamente. Il tentativo bruniano non è privo di precedenti nella storia delle idee. La stessa distinzione la possiamo rintracciare già nel XIV secolo in Gerard d’Odon e, in maniera più evidente, in Nicholas Bonet. Secondo quanto ci è tramandato da Giovanni Canonico, «Frater Gerardus» sosteneva che l’estremità attraverso cui l’indivisibile si salda con l’altro indivisibile in un unico continuo non va intesa «pro aliqua parte ejus», bensì «pro differentia loci discretiva», ossia per la differenza di luogo che discerne il davanti dal dietro il sù dal giù16. Gli sviluppi della posizione di Gerard d’Odon compiuti ad opera di Bonet17 accentuano e chiariscono la distinzione tra ‘estremità’ ed ‘ultima parte’ della grandezza, dando luogo a non poche analogie con la trattazione del termine del De minimo. Il continuo non risulta più composto da punti privi di dimensione – come sembrava invece ritenere Gerard – ma da quantità minime di grandezza non ulteriormente partibili in quantità, ma ancora divisibili in realtà «quidditative» diverse dalla grandezza. Questi «indivisibili assoluti» vengono identificati con le estremità attraverso le quali si stabilisce il contatto tra le ultime parti della grandezza, in modo tale che queste non risultino toccarsi l’una con l’altra nella loro totalità, ma con «aliquid sui» essenzialmente diverso dalla quantità. Analogamente, Cusano aveva parlato nel De idiota di un «punctum terminalem indivisibilem»18 il quale, non avendo quantità, non è ciò che aggiunto ad un altro punto costituisce la linea, perché la quantità non può essere costituita da non-quanti. Infatti, «si punctum puncto addas, nihil magis facis, quam si nihil nihilo iungas», diceva Boe15. De minimo, BOL I, III 160. 16. Il testo di Giovanni Canonico attraverso cui si conosce la posizione di Gerard d’Odon, Quaestiones super VIII libros physicorum Aristotelis, VI, quaest. I, è riportato e analizzato in P. Duhem, op. cit., pp. 403-404. Si noti la somiglianza d’espressione tra la «differentia discretiva» propria dell’estremità («ultimum») in Gerard d’Odon e la funzione «disterminans» del vuoto di Bruno. 17. L’argomentazione di Bonet è ampiamente analizzata in P. Duhem, op. cit., pp. 405-12, dove i testi presi in considerazione sono Nicolai Boneti Tractatus de praedicamentis, libellus de quantitate e Id., Physica, IV, VI. Cfr. V. P. Zubov, op. cit. 18. Nicolai De Cusa De idiota, in Opera Omnia, V, ex editione L. Baur, Meiner, Hamburg 1983, p. 173.

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zio nel De institutione arithmetica, citato da Cusano19 . Il «punto terminale», dunque, è distinto dall’atomo che è «quantitas ob sui parvitatem actu indivisibilis»20 , e deve essere considerato sia come termine della linea sia come congiunzione della linea con la linea21 , che si ritrova in ogni luogo della lunghezza, senza che di esso vi sia ulteriore termine: «si divisibilis foret, non foret terminus – osserva Cusano –, quia haberet terminum»22 . Tuttavia mentre la distizione tra termine e atomo, una volta formulata, non comporta per Cusano l’elaborazione di una teoria atomistica, Bruno, che in essa investe la dimostrazione della possibilità del discreto, muove di qui per intraprendere il tentativo di determinare positivamente la nozione di ‘termine’. La definizione esplicita di ‘termine’ espressa nel I libro del De minimo, e ribadita nel IV, è indissolubilmente connessa a quella di ‘minimo’: «itaque definias minimum, quod ita est pars, ut eius nulla sit pars vel simpliciter vel secundum genus. Definias terminum, cuius ita non est aliqua pars, ut neque sit ipse aliqua pars, sed est quo extremum ab extremo attingitur, vel quo pars partem, vel totum attingit totum»23 . Il discorso assume la forma di un chiasmo nel cui centro si trova la I definizione del I libro degli Elementa di Euclide: «Punctum est cuius pars nulla est». Per definire il termine ci si vale dunque di una nozione che è comune al minimo e che coincide con quella di punto, la quale è ritenuta l’origine della fallace identificazione del termine e del minimo. La definizione euclidea di ‘punto’ non designa per il Nolano un’entità geometrica sussistente di per sé, ma una proprietà, l’impartibilità appunto, che inerisce alla parte prima in quanto minima, all’estremità in quanto non-parte24 . Per rispondere alla natura di parte il termine dovrebbe essere costituito in modo tale che aderendo ad un altro termine dia luogo ad una grandezza maggiore, posto che «si vero partem vis nomine dici, / adiectam hanc aliis maius causare refirma»25 . Ma il 19. Ibid. Il testo citato è Boethius, De inst. arithm., II 4. 20. Ivi, p. 174. 21. Ivi. p. 171: «nam punctus est iunctura lineae ad lineam vel lineae terminus». 22. Ivi, p. 173. 23. De minimo, BOL I,III 161. Cfr. ivi, p. 284: «Quid minimum et terminus. Est minimum cuius pars nulla est, prima quod est pars. / Terminus est finis cui nec pars, quod neque pars est». 24. Ivi, p. 175: «Post haec dupliciter punctum distinguimus, ut sit / terminus hoc, illud vero pars ultima. Et ista / conveniunt, quoniam neutrius pars datur unquam, / ast minimum prima est, non est pars terminus ulla». 25. Ivi, p. 155. In base a tale definizione di parte si può affermare che i termini «sunt enim quibus fit tactus aliorum, non autem quae tangunt; non sunt quae haerent et faciunt quantum, sed quibus alia se attingentia contiguum vel continu-

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termine non può assumere una tale condotta dal momento che esso stesso non è grandezza: «non quantum est ullum, sed quanti est terminus ora»26 e dal non-quanto, ripete Bruno con Cusano e Boezio – e con Ockham – non può generarsi il quanto27 . Tuttavia per il Nolano la grandezza non potrebbe costituirsi se nelle parti (o quanti) indivisibili in cui si risolve non si dessero delle estremità nonquante attraverso cui venire a contatto e distinguersi reciprocamente. L’operazione concettuale compiuta da Bruno nella distruzione della divisibilità all’infinito della grandezza consiste nel ricomprendere nella positività dell’orizzonte fisico e geometrico ciò che ne veniva escluso in quanto non-essere. Il ‘non esser quanto’ del termine non autorizza – secondo Bruno – a negarlo simpliciter, né a conferirgli realtà puramente logica o potenziale, ma a considerarlo relativamente altro rispetto alla grandezza, dotato, al pari del minimo, di esistenza attuale. Una concezione molto simile veniva espressa pochi anni prima della pubblicazione del De minimo, da Francesco Patrizi nel De rerum natura, edito a Ferrara nel 158728 . Nella sezione dedicata allo spacio mathematico, il filosofo di Cherso, accingendosi a confutare l’infinita divisibilità del continuo, ammetteva che vi fosse un «minimum spacium»29 oltre il quale, scomponendo ancora la grandezza, non si trova più la dimensione, bensì «aliquid in spacio minimum, et diversum a spacio sit: hoc est non spacium»30 . Quest’ultimo, che Patrizi – concordando a suo dire con gli antichi geometri – chiamava punto, veniva presentato come contrario dello spazio e, in quanto tale, assolutamente privo di dimensione. Ciò, tuttavia, non impediva al punto di darsi attualmente nello spazio in qualità di termine della grandezza, in modo tale che «punctus enim indivisibils est, uti terminus, ipsa [linea minima] vero ut terminata»31 . Anche per Patrizi, dunque, l’indivisibilità si specificava a seconda che apparteum efficiunt. Sed nunquid quoniam nulla sunt pars, et apposita non faciunt maius, et ex his consequenter non sequitur compositio et integratio, ideo sunt infiniti?» (ivi, p. 161). 26. Ivi, p. 180. 27. Ivi, p. 162: «quod efficit quantum necessario est quantum». 28. Successivamente Patrizi ingloberà questo testo, senza rilevanti cambiamenti, nella Nova de universis philosophia, pubblicata per la prima volta a Ferrara nel 1591 e poi a Venezia nel 1593. 29. F. Patricii De rerum natura. Libri II. Priores. Alter de Spacio Physico, Alter de Spacio Mathematico, Ferrariae, excudebat V. Baldinus, Typographus Ducalis, 1587, c. 18v. L’esemplare consultato si conserva presso la Biblioteca Vaticana, segn. Barb. N. II 52. 30. Ibid. 31. Ivi, c. 24r.

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nesse alla parte minima di grandezza o al termine di essa. Ma, diversamente da Bruno, la distinzione non si dava a partire dall’analisi della nozione di punto, concepito univocamente come estremità e non come ‘atomo’ della dimensione. Le implicazioni contenute in tale divergenza si possono cogliere in tutta la loro rilevanza mettendo in relazione le due posizioni con l’indivisibilismo del XIV secolo e in particolare con quella tesi che, come si è osservato, si valeva di un’analoga rappresentazione del termine. Anche Nicholas Bonet, infatti, riteneva le estremità punti in atto intrinsecamente inerenti alla grandezza, se pur essenzialmente diversi da essa. Il ragionamento di Bonet procedeva però da una considerazione di carattere metafisico che distingueva due generi di quiddità32. Nel primo genere venivano annoverate le quiddità che hanno per fondamento una realtà semplice come, ad esempio, la quiddità della forma, della materia o delle intelligenze. Le quiddità del secondo genere, quali quelle composte di materia e forma, si risolvono invece in realtà eterogenee. La linea, come ogni genere di continuo, ha per fondamento il concorso di più realtà: oltre alla quantità essa è costituita dalle estremità, di natura ed ordine diversi da essa, le quali non hanno né il nome né la definizione di quantità, così come né la forma né la materia della pietra possono dirsi ‘pietra’. La giustificazione che Bonet adottava per rendere possibile il rapporto della grandezza con la sua estremità e fondare in tal modo la costituzione del continuo ex indivisibilibus prendeva le mosse da un’analogia con la relazione ontologica tra forma e materia. Allo stesso modo Patrizi, pur dimostrando una notevole abilità nell’individuare i punti più deboli dell’argomentazione aristotelica, non riusciva a fornire una spiegazione che, rimanendo intrinseca al discorso sulla ‘quantità’, chiarisse in che modo dall’unione di linee minime di natura continua potesse prodursi una realtà discreta, chiamata ancora ‘linea’. Per concepire come fosse possibile che «linee insecabili» – realtà semplicissime non costituite da punti – si unissero a formare una linea maggiore, la quale, venendo a comprendere i termini di congiunzione delle linee originarie, risultava invece costituita anche da punti, Patrizi ricorreva, come Bonet, al modello del composto di forma e materia: Neque impossibile ullum sequitur si ex talibus indivisibilibus lineis, divisibilis linea proveniat, eadem met ratione, qua ab eo docemur, ex materia et forma, quae corpora non sunt, corpus effici. Ex hisque non gravibus nec levibus, corpus et grave, et leve: Ex ijsdem non magnis, nô parvis, corpus magnum et parvum33.

32. Cfr. P. Duhem, op. cit., pp. 405-12. 33. F. Patrizi, op. cit., c. 23v.

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Tale modo di procedere non viene più accolto nel De minimo, dove la distinzione tra quantità e termine è concepita all’interno di una definizione geometrica – la definizione di punto – che conferisce al discorso sulla quantità fisica e matematica un’autonomia ancora inedita nell’ambito delle trattazioni filosofiche sull’argomento. Senza fare appello ad analogie con il piano ontologico – pur non potendo evitare di esprimersi con categorie ad esso comuni – Bruno compie una serie di tentativi per rintracciare le modalità con cui le due diverse determinazioni possano darsi in un medesimo, ossia come il non-quanto possa inerire al quanto, quale suo termine. Quel «quiddam ad partem... proprie relatum»34 con cui, senza una precisa connotazione, si designa inizialmente il termine, si determina ora come «affectio» della prima parte35 , ora come «accidens»36 . Se si ammette che sia accidente, però, non può trattarsi che di accidente necessario, o risulterebbe indifferente il darsi o il non darsi dello stesso minimo, dato che il termine è il fondamento della sua individualità. Accidentale, di conseguenza, risulterebbe anche la grandezza, poiché «terminus est principium dimensi ut unde seu de quo»37 . Le connotazioni di «accidens» e di «affectio» stanno dunque ad indicare un accadere ed un patire di qualcosa che ha luogo necessariamente nella grandezza, ma non è essenzialmente deducibile da essa. Il termine, infatti, non avrebbe luogo se il quantum – fisico, geometrico e matematico – esprimesse totalmente la dimensione, se non si ammettesse una natura antagonista, la quale, come aveva anticipato l’Acrotismus, coincide con la natura del vuoto. Anche nel De minimo il fondamento del termine è individuato nel vuoto, ma la ratio disterminandi si esplica in due modalità differenti: ora come ciò che permette la distinzione tra i due rispettivi termini delle parti38 , ora come unico estremo «qui neque pars huius

34. De minimo, BOL I,III 154. 35. Ivi, p. 172: «terminus est tantum, partisque affectio primae». 36. Ivi, p. 223: «neque atomus tangit atomum per se, sed, ut in superioribus est dictum, termino inter punctum unius et alterius mediante, hoc est per accidens seu per aliud quiddam». 37. Ivi, p. 181. 38. Ivi, p. 176: «Minima quatenus sunt unibilia, segregabilia etiam sunt, non se penetrant, non miscentur, sed se attingunt tantum, unde nihil est solidum corpus praeter ea, et ideo omnia praeter ea dissolvuntur, quorum non minus possibile est divortium, quam consortium: quod si ita est, non uno communi, sed duobus propriis terminis attinguntur, quos inter duos terminos est in quo fit contactus, et inde Democrito est vacuum interiectum corporibus. Et quia minimum a minimis, non omnibus punctis, sed certo numero definitis attingitur, consequens est, ut inter sphaeram attactam et plures sphaeras attingentes pyramidalis quaedam figurae

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faciei est nec faciei / illius, atqui interiecti duntaxat inanis / sic atoma, ut atomus stat terminus huius et eius»39 . Nel primo caso il termine risulta fondamento del contiguo e del discreto, nel secondo, invece, quell’unico estremo indivisibile sembra impedire una distinzione tra le parti che, di conseguenza, almeno nel punto di contatto, risultano continue. Non sono rari i luoghi in cui Bruno dimostra di non fare alcuna differenza tra ‘continuo’ e ‘contiguo’, dichiarando, ad esempio, a proposito dei termini che essi sono «quibus alia se attingentia contiguum vel continuum efficiunt»40 . In altre circostanze invece intende le due nozioni come contrari reciprocamente escludentesi e tuttavia l’unione tra le parti si risolve una volta come continuità, una volta come contiguità. Nel De minimo è dato di leggere che «perpetuoque inter minima extat terminus unus, / principium istius partis finisque sequentis»41 , ma anche che «duorum se contingentium termini non sint unum continuum,… sicut extremum unius ab extremo alterius est distinctum, et praeter ipsum insectile, cuius non ulla est pars, nihil vere continuum possis intelligere»42 . L’incongruenza ha origine nella duplice istanza cui è chiamato a rispondere il termine: dar conto del discreto sia nel processo ascensivo di composizione della grandezza, sia nel processo discensivo di divisione. Da una parte il termine deve fondare la monadicità del minimo e dunque, nell’aggregarsi delle parti, deve rimanere distinto dai termini degli altri minimi. Dall’altra, per poter porre fine al regressum ad infinitum della divisibilità del continuo deve essere unico tra due parti, o, ad ogni divisione, si richiederebbe un ulteriore medio tra i due termini contingenti. Lo sostiene esplicitamente Bruno nel capitolo 10 del II libro: «est igitur tactus puncti cum puncto, minime autem termini, sed termino, eoque duplici, et hoc videlicet quo utrumque conterminabile finitur, et hoc in quo terminorum efficitur concursus»43 . Da un lato il termine non può che aderire radicalmente al suo minimo, partecipando del suo stesso essere, dall’altro esso è il non-quanto per cui si dà la relazione ad altro, e dunque deve trascendere la monade. Salta in tal modo la distinzione tra ‘continuo’ e ‘contiguo’ concepita seconspacia resultent, sicut inter sex circulos attingentes aequales et unum aequalem attactum triquetra quaedam vacua relinquuntur...». 39. Ivi, p. 222. 40. Ivi, p. 161. 41. Ivi, p. 176. Cfr. ivi, p. 172: «namque minus nihilo puncto haec duo tacta vicissim / constituam, quod non minimum est, sed terminus horum / communis tantum...». 42. Ivi, p. 223. 43. Ibid.

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do le accezioni aristoteliche: il ‘contiguo’ bruniano, in cui le estremità si danno distinte nell’essere ma in un unico e medesimo luogo – il vuoto di grandezza – riassume in sé anche le funzioni del continuo aristotelico, mentre si definisce propriamente ‘continuo’ la sola grandezza assolutamente impartibile, in quanto una. ‘Continuo’ è il minimo, indissolubile in quanto costitutivamente semplice, ‘continuo’ è l’unico infinito spazio vuoto in cui non vi sono parti, ma «regioni» fra loro indiscernibili44. L’appello alla nozione di vuoto risponde alla duplice esigenza del termine di essere del minimo e fuori dal minimo, distinto e comune con gli altri termini, così come il «neutrum extremorum» intanto è differente dalle determinazioni discrete, in quanto è indifferente a ciascuna di esse. Non come res tra le res il vuoto distingue i corpi, ma come condizione trascendentale del loro distinguersi. Lo dimostra il fatto che nell’universo il vuoto non si dà fenomenicamente, ma sempre riempito dal corpo. Il modello fisico della relazione vuoto-corpo è ricalcato dal discorso matematico nella relazione termine-quanto, ma la matrice comune è quella stessa struttura concettuale che sottende la relazione ontologica tra la monade infinita, l’Uno, assoluta potenza indifferente, e le infinite determinazioni dell’essere. «Termino interminato di cosa interminata» era stato definito Dio nel De l’infinito, universo e mondi45 44. La definizione aristotelica del ‘continuo’, secondo la quale le estremità di ciò che si unisce divengono un’unica e medesima cosa, era stata sottoposta ad una critica serrata già nell’opera di Patrizi, il quale la riteneva l’«impostura» originaria da cui erano scaturiti tutti gli altri errori. Individuando immediatamente il nucleo della questione, Patrizi dichiarava inammissibile la divisibilità all’infinito del continuo perché fondata su una definizione insostenibile. Egli faceva notare come la nozione di estremità contenuta in quella definizione implicasse piuttosto la natura del discreto che quella del continuo. Il continuo, infatti, non ammette limiti interni e pertanto può essere proprio esclusivamente dell’uno e non dei molti: «Postea vero, cum continuum velle videtur deffinire, imposturam facit lectoribus. Neque enim quid sit continuum nos docet. Sed continua deffinit ea esse quorum extrema sint unum. At continua ista duo vel plura, erant ne continua, antequam eorum extrema in unum convenirent? vel continua non erant? Si continua non erant, ubi nam extrema habebant, antequam coirent? Nam si ipse dum contendit, rogat, ex indivisibilibus punctis, quo modo divisibile fiat? nobis ipse respondeat, ex non continuis quo modo continua sunt facta? Non continuorum, ostendat nobis extrema. Quid sunt extrema non continuorum? Sin vero affirmet, utrumque illud continuum fecisse; extrema habuisse: ea qu[a]e in unum iunxisse, atque ideo continua facta esse, vel continua esse. Nihil horum nos urgemus. Sed illud ab eo rogamus, ut non plura continua. Sed unum tantum continuum nobis diffiniat» (F. Patrizi, op. cit., c. 21r). Lo stesso Patrizi, tuttavia, non sarà in grado, come si è già notato, di fondare positivamente la costituzione della grandezza ex indivisibilibus, se non ricorrendo ad un’analogia, che sposta il discorso su un piano diverso da quello del quantum. 45. Infinito, BOeuC IV 85. La stessa espressione potrebbe designare – con il distinguo dell’estensione dimensionale – la natura dello spazio vuoto, infinito ricettaco-

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nel suo rapporto con l’universo. Ancora nel De minimo Dio è «principiium omnia promens, finis omnia terminans, medium nectens et discriminans omnia»46 , svolgendo a pieno la funzione del termine che, come aveva ben sintetizzato Cusano, e in piena conformità alla formula bruniana, costituisce sia le estremità di una linea, sia il punto di congiunzione-distinzione di una linea con l’altra. Inversamente al procedimento di Bonet e Patrizi, i quali spiegavano la costituzione della grandezza tramite l’analogia con il rapporto ontologico forma-materia, nel De minimo è piuttosto la relazione termine-quanto – che coincide con quella vuoto-corpo – a fungere da modello pratico-effettuale per la comprensione del rapporto ontologico tra l’Uno e l’universo, fermo restando il fondamento dell’atomo fisico, del punto geometrico e dell’unità aritmetica nella monade assoluta. Se, infatti, la nozione di vuoto interpreta perfettamente il doppio ruolo del termine nel rapporto di contiguità continua delle parti, essa non riesce, tuttavia, a dar conto della necessità dell’indivisibile nella composizione-divisione della grandezza. L’accidentalità necessaria del nesso parte-termine trova nel vuoto la modalità del suo accadere, ma non la sua ragion d’essere, la quale risiede innegabilmente – come dichiarano i capp. I-III del I libro e ribadisce il cap. I del IV libro – nella monade ontologica. Una volta posto, però, il fondamento ultimo del discreto non entra più nel merito della questione la quale si sviluppa su un piano del tutto autonomo in cui entrano in gioco argomenti esclusivamente «tecnici». Nel giustificare il patire da parte della grandezza l’azione discriminante del termine, Bruno utilizza l’argomento noto come ‘paradosso di infiniti disuguali’47. Tradizionalmente rivolto contro l’infinità attuale, esso rilevava come l’esistenza di quanti infiniti comportasse simultaneamente l’uguaglianza e la disuguaglianza degli stessi. Per Bonaventura se il mondo fosse eterno si produrrebbe l’assurdo che il numero delle rivoluzioni del sole nel suo orbe, sarebbe uguagliato, nella sua infinitezza, da quello delle rivoluzioni della luna, ugualmente infinito, mentre, in realtà, per ogni rivoluzione del sole se ne contano dodici della luna48 . Lo stesso argomento ve-

lo di un universo senza confini «nel quale et è e s’intende il tutto; et il quale non si può intendere, né essere in altro» (ivi, p. 117), costituendo in tal modo – come chiarirà meglio il capitolo VIII del I libro del De immenso – l’orizzonte di possibilità dell’esistenza di tutte le cose. 46. De minimo, BOL I,III 147. 47. Si veda in proposito J. E. Murdoch, Infinity and continuity, cit., pp. 569-73. 48. Vd. ivi, p. 570, nota 15, dove si riporta il testo di Bonaventura al riguardo (Comm. Sent., II, dist. I, pars I, art. I, Q. 2).

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niva utilizzato da Walter Chatton allo stesso modo di Lucrezio – che tuttavia non veniva menzionato – contro la divisibilità all’infinito della grandezza49. Anche per Bruno se le grandezze fossero divisibili all’infinito non vi sarebbe alcuna differenza tra l’una e l’altra perché tutte identicamente infinite. Di conseguenza la parte e l’intero si uguaglierebbero in quanto composte dallo stesso numero infinito di parti. Non si potrebbe più parlare di grande o di piccolo, bensì la parte e la grandezza si annullerebbero in una condizione di assoluta indifferenza50. A nulla vale, contro tale argomento, ricorrere ad una divisione del continuo in parti proporzionali, la quale appare condivisa dallo stesso Bruno51 a condizione che il processo di scomposizione abbia un termine che garantisca la differenza di misura tra grandezze: «Quid etiam iuvat ad partes proportionales confugere, quae, quantaecunque sint, et tales oportet esse quales adiectae maius et subtractae minus efficiant?»52. Neppure è sostenibile, come pretende Aristotele, una divisibilità infinita in potenza, dato che per Bruno non si dà potenza cui non segua il rispettivo atto. Lo Stagirita, dunque, non ha motivo di biasimare Anassagora per avere ammesso l’infinita divisibilità attuale, poiché le sue accuse possono rivolgersi identicamente contro di lui53. È opportuno notare che la ripresa di argomenti elaborati dalla Scolastica contro l’infinito risulta funzionale in Bruno – allo stesso modo che in Patrizi, il quale condivide anche la critica alla distinzione tra potenza e atto54 – alla negazione dell’infinita divisibilità della grandezza senza con ciò implicare la negazione dell’infinito simpliciter. Al contrario, il ‘paradosso degli infiniti disuguali’ garantisce anche la verità del suo reciproco: se è innegabile che dove vi è termine non può esservi infinito, è altrettanto vero che nell’infinito non si danno le differenze del termine, perché se una cosa fosse di numero finito, basterebbe da sola a negare l’infinito: Plures ne immensum spacium comprendere credes / palmos ac digitos, quam passus, iugera et actus? / Numquid in immenso fatuus discrimina quaeres / mensurae, inque infinito discrimina finis?... Illaque non plus contineant sine fine vicena / aut dena aut quina aut monades, quam millia; nec sint / praeteritis seclis (mundo existente perenni) / elapsi menses 49. Ivi, nota 16. 50. De minimo, BOL I,III 156-58, 162. 51. Ivi, pp. 251-54. 52. Ivi, p. 162. Cfr. ivi, p. 248: «Pro rerum modulo poteris cogitare minores, / ut certos numeros distantia certaque servet, / partibus ut constet quibus hoc superatur ab illo». 53. Ivi, pp. 157-58, 161-62. 54. F. Patrizi, op. cit., cc. 22r-23r.

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plures horaeque peractae / aut luces plures noctesque subinde futurae, / quam brumae, aestates, autumni, tempora veris, / quam lustra, aetates, Saturni altique recursus. / Quare infinitis ex his conflatur idem quod / ex infinitis illis; quia si minus unus / quam reliquus posset numerus, finitus hic idem / esset censendus. Porro si ex omnibus unum / finitum caperes titulo quocumque feratur, / finitus fieret numerus tunc omnis ob unum55.

Il darsi di grandezze infinite, quali lo spazio universale o la durata infinita o la serie infinita dei numeri, lascia inferire che la necessità del termine non è una necessità di ragione assoluta, ma si impone per dare un fondamento reale ad una situazione di fatto: «superficie terminari non erit omnis corporis ratio, sed finiti tantum corporis»56 sosteneva l’art. XXII dell’Acrotismus. Poiché, però, non si tratta di determinare l’infinito – stabilisce Bruno nel De minimo, delimitando in modo preliminare l’oggetto e le possibilità della scienza – «quanta haec ad numerum certum referenda putemus?»57. La ‘ragione misurante’, propria della scienza, non deve e non può interrogarsi sulla grandezza dello spazio infinito, né determinare il numero degli istanti dell’eternità, né comprendere l’infinità dei numeri: «ni sit et unus / continuus, qui non numero sed mole requirat / mentis ad examen sensus captumque venire»58. Essa deve operare nel finito con il finito stabilendo gli elementi costitutivi dei quanti, cioè di grandezze determinate, e fondando su di essi le regole dei loro rapporti. Perché si possano considerare reali gli oggetti della fisica e della matematica, perché si possa «misurare» senza «mentire», parlando propriamente di ‘parte’ e di ‘intero’, occorre rinnegare la divisibilità all’infinito del continuo che annulla, come si è visto, le differenze del quanto59.

55. De minimo, BOL I,III 156-57. 56. Camoer. acrot., BOL I,I 120. 57. De minimo, BOL I,III 156. 58. Ivi, p. 231. 59. Gli stessi limiti all’oggetto e alla ragione matematici venivano innalzati da Patrizi, il quale, in op. cit., c. 22r, dichiarava a proposito della infinita divisibilità: «praeterea procul est a re quam et ipse, et Mathematici tractant, finitas nempe magnitudines prae manibus habent, et contemplantur semper». In Patrizi appare maggiormente evidente come tali confini siano una diretta conseguenza del limite della ratio determinante, sussistendo la possibilità di immaginare la linea liberata dai propri termini per assumere l’infinita estensione e l’infinita divisibilità. Cfr. ivi, c. 20r : «Lineam enim negamus, a nostra mente, aut arte in infinitum posse produci: attamen eam quae punctis finita est, ijs liberata infinitudinem sui natura, fatemur subire... Fatemur in infinitam lineam, quae punctis libera, infinitudinem subijt in infinitum posse dividi. Sed in linea punctis terminata ac finita (sicuti veteres acceperunt, et docuerunt) id vero maxime pernegamus».

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Il concetto di termine diviene, così, nel De minimo, elemento determinante non solo per la confutazione degli argomenti geometrici tradizionali contro la struttura discreta del continuo, ma anche – e in alcuni casi indistintamente dal primo momento – per la critica alla geometria contemporanea, la quale, come si è anticipato, fonda il proprio metodo sulla concezione continua della grandezza. Il continuum geometrico, sebbene affiori in alcuni luoghi, come ad esempio nel I capitolo del IV libro, dove però viene inteso nel significato attribuitogli dal «Samio Pitagora», secondo cui la lunghezza è generata dal fluxus del punto60 , viene esplicitamente soppresso da Bruno non appena gli enti geometrici euclidei, quali il punto, la linea, la superficie, si dichiarano subordinati ai fondamenti della contiguità – il minimo e il termine – in relazione all’uno o all’altro dei quali possono, di volta in volta, essere intesi. Nel capitolo 7 del IV Libro, ovvero nel luogo delle definitiones geometriche, non si trova, infatti, una definizione assoluta di punto, di linea, di superficie e neppure di atomo, ma di punto, di linea, di superficie e di atomo, ora in quanto minimo, ora in quanto termine61 . La concezione atomistica della grandezza viene utilizzata per spiegare come non sia possibile ammettere commensurabilità tra il lato e la diagonale del quadrato. Valendosi della costruzione detta «Campus Democriti» Bruno mostra come i punti-minimi di forma perfettamente circolare si tocchino in maniera continua soltanto lungo il lato, mentre lungo la diagonale essi sono intermediati da spazi quadrangolari che rendono le due grandezze incommensurabili62 . Pur nella sua originalità, la soluzione di Bruno non costituisce una obiezione adeguata al tentativo della matematica coeva di rintracciare rapporti tra incommensurabili. Essa si pone sulla stessa linea dei numerosi espedienti logici elaborati dalla Scolastica per rispondere al noto argomento che, già in Ruggero Bacone63, rilevava come la composizione del continuo da indivisibili implicasse una corrispondenza reciproca tra i punti del lato e quelli della diagonale, ossia l’uguaglianza tra grandezze incommensurabili64. 60. De minimo, BOL I,III 269-74. Cfr. ivi, p. 148: «Ergo linea nihil est nisi punctus motus, superficies nisi linea mota, corpus nisi superficies mota, et consequenter punctus mobilis est substantia omnium et punctus manens est totum». 61. Ivi, pp. 284-85. 62. Ivi, pp. 227-29. 63. Cfr. P. Duhem, op. cit, p. 20. 64. I secoli XIII e XIV avevano proposto contro lo stesso argomento una gamma di soluzioni così ampia da comprendere, insieme a posizioni più ingenue e ‘realiste’, come quella di Henry of Harclay, peraltro molto simile all’ipotesi di Bruno, obiezioni di carattere prettamente logico che dimostravano un livello di elabora-

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Allo stesso modo nel dimostrare che l’angolo non può essere diviso in più di due parti65, Bruno ha presente sia quei «recentes omnium sub nomine geometrarum stupidissimi»66 che dividono l’angolo in parti innumerevoli, sia la nota questione del numero dei raggi che attraversano cerchi concentrici, rivolta, almeno a partire da Duns Scoto67, contro l’indivisibile. L’argomentazione bruniana prende le mosse dalla distinzione termine-minimo, la quale ha come esito inevitabile la negazione della nozione tradizionale di cerchio. Il vertice non è punto di confluenza di infinite rette così come il centro del cerchio non è «terminum omnium linearum a circunferentia»68, dal momento che il vertice ed il centro sono punti-minimi, ossia quanti indivisibili, per cui le rette che da essi si dipartono non lo attraversano, ma lo toccano, secondo il numero consentito dalla propria estremità69. In entrambi i casi non si può che concordare con Héléne Védrine70 riguardo alla presenza di un «ostacolo realista» nella matematica di Bruno che – come in quella di Patrizi – le impedisce di operare astraendo da un contenuto reale. Tale limite renderebbe i due filosofi – entrambi fautori di teorie innovatrici in ambito cosmologico – incapaci di recepire i progressi della matematica del tempo, con l’immediata conseguenza di ridurre le loro costruzioni geometriche a un puro «jeu d’enfant». Si tenga presente, però, che l’individuazione di parti minime risponde al riconoscimento della ragione umana del proprio limite a causa del zione tale da arrivare a concepire – seppure per poi rifiutarla, come nel caso di Alberto di Sassonia – la relazione della corrispondenza biunivoca propria della moderna teoria degli insiemi. Si veda al riguardo A. Maier, op. cit., pp. 281-90. 65. De minimo, BOL I,III 243-48, 324-26. 66. Ivi, p. 244. 67. Vd. P. Duhem, op. cit., pp. 20-21. Cfr. A. Maier, op. cit., p. 281. 68. Ivi, p. 245. 69. Anche in questa occasione il Nolano non sembra in grado di superare il livello delle scappatoie logiche proprie dell’indivisibilismo di un Gerard d’Odon o di un Nicholas d’Autrecourt. Il primo risolveva l’obiezione dei centri concentrici asserendo che i raggi che incontrano due punti immediatamente adiacenti della circonferenza maggiore non costituiscono un angolo, ma una linea, in modo tale che la circonferenza minore venga intersecata non in due punti ma in uno soltanto. Il secondo sosteneva che vi sono dei punti sulla circonferenza esterna per i quali non è possibile condurre una linea retta che conduca al centro (vd. A. Maier, op. cit., p. 282). Tuttavia, mentre Nicholas d’Autrecourt ammetteva di esulare, con tale discorso, dai termini geometrici, descrivendo la cosa così come appare, l’intento di Bruno è quello di fornire, con la logica del termine e del minimo, una soluzione ‘geometrica’ alla stessa obiezione. 70. H. Védrine, L’obstacle réaliste en mathématiques chez deux philosophes du XVIe siècle: Bruno et Patrizi, in Platon et Aristote a la Renaissance, Coll. Intern. de Tours, Vrin, Paris 1976, pp. 239-48.

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quale – lo si è riscontrato in Bruno come in Patrizi – essa non può avere come oggetti l’infinito e il continuo. Nel De minimo l’esclusione di tali nozioni dall’indagine matematica trova il suo fondamento nell’identificazione dell’infinito con l’assoluta indifferenza, che è propria dello spazio universale, dell’eternità e, principalmente, dell’ineffabile semplicissima monade divina, fonte di tutti i numeri e, in quanto tale, innumerabile essa stessa. L’assoluta indeterminatezza della «monade delle monadi»71 non può essere oggetto, bensì fonte e fondamento della conoscenza umana, la quale conosce in modo finito72 . La ragione può cogliere solo ciò che risponde alla sua capacità determinante, ovvero ciò che è costitutivamente suscettibile di essere numerato e misurato: Deus est monas omnium numerorum fons, simplicitas omnis magnitudinis et compositionis substantia, et excellentia super omne momentum, innumerabile, immensum. Natura est numerus numerabilis, magnitudo mensurabilis, momentum attingibile. Ratio est numerus numerans, magnitudo mensurans, momentum aestimans73 .

Il limite alla divisibilità diviene così la condizione di possibilità del costituirsi dell’oggetto di conoscenza, in quanto ne fonda la determinabilità. Nonostante la corrispondenza inconfutabile di tale limite ideale alla realtà del minimo e a dispetto dei metodi geometrici indicati nei capitoli 7-8 del III libro per rintracciare la parte prima della grandezza, il minimo sembra, a volte, porsi al di là della possibilità di oggettivazione soprattutto nel momento in cui rivela la propria inattingibilità: melius ergo (quod et necessarium) est putare... terminorum item atque partium mutuo se consequentium potentiam non ex natura infinitam, sed ex instituto vel casu vel etiam natura indefinitam. Ad praxim quippe nostram adeo usque termini atque partes sunt indefinitae; quia minimo vero a minimo nostri sensus et operis multo intervallo recedente, evenit ut vage ratio practicando dividat et componat, quod certorum numerorum differentiis ex rei veritate consistit74.

71. De minimo, BOL I,III 146. 72. La questione epistemolgica concernente la conoscenza matematica in Bruno è stata recentemente discussa in tutta la sua complessità da A. Bönker-Vallon, The Mathematics of Natural Philosophy in Giordano Bruno’s Latin Work. An Example of Early Modern Thought, in «Proceedings of the PMR Conference», XIX-XX (1994-96), Villanova University, pp. 125-32; Ead., Metaphysik und Mathematik bei Giordano Bruno, Academie Verlag, Berlin 1995; Ead., Meßtheoretische Grundlagen der mathematischen Exaktheit bei Giordano Bruno, «Bruniana & Campanelliana», III (1997), 1, pp. 47-75. 73. De minimo, BOL I,III 136. 74. Ivi, p. 232. Cfr. ivi, pp. 189-90: «Sensus verum circulum non apprehendit, qui

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Risulta allora riduttivo definire semplicemente «realista» l’ostacolo presente nella matematica bruniana, quando il limite alla divisibilità può considerarsi, con le dovute riserve, il limite che la ragione si pone a priori per potere operare. Inoltre, sebbene la riflessione matematica del De minimo non svolga con l’adeguato rigore scientifico la critica ai contemporanei, essa tradisce comunque l’esigenza di disporre di una geometria che, rimanendo nell’orizzonte tracciato dalle definizioni e dai principi euclidei e senza dover ricorrere ad analogie con il piano ontologico, sviluppi delle categorie nuove – il minimo e il termine – attraverso le quali costruire una risposta teoreticamente valida ai problemi geometrici del tempo. Si consideri, a riprova di ciò, il particolare utilizzo del ‘termine’ negli ultimi capitoli del II libro (11-15), dove si affrontano successivamente le questioni della tangenza tra sfera e sfera, sfera e piano, circonferenza e retta, della cosiddetta rota Aristotelis e dell’angolo di contatto, ancora al centro di accese polemiche nella seconda metà del XVI secolo75. A coloro che ritengono inconcepibile come il contatto del curvo con il retto possa darsi nel punto, negando con ciò la possibilità dell’indivisibile, Bruno obietta che occorre distinguere il contatto, ovvero il termine, dal punto: il punto-termine è proprio soltanto del punto-minimo perché solo al minimo quanto è concesso il minimo termine. In tutti gli altri circoli e sfere il contatto si dà «in puncto proportionali»76, cioè secondo un termine che aumenta o diminuisce proporzionalmente alla grandezza del circolo o della sfera cui inerisce, dato che la circonferenza maggiore si approssima con la curvatura alla norma del retto77. Come la terra può essere considerata appena un minimo se si prende come punto di riferimento la sfera circoscritta dal suo orizzonte78, così il termine di contatto della curva, pur tendendo al retto nel circolo maggiore, in proporzione rimane punto.

uno de innumerabilibus exorbitante puncto non est ipse... Ad verum ergo circulum coram obiectum vere videndum requiritur tum puncti, tum innumerabilium punctorum, tum sigillatim omnium ad omnes et ad centrum debita atque aequata dispositio manifesta, eorum inquam quae vulgo infinita, nobis vero indefinita capiuntur». 75. Cfr. L. Maierù, La polemica fra J. Peletier e C. Clavio circa l’angolo di contatto, in Storia degli studi sui fondamenti della matematica e connessi sviluppi interdisciplinari, Atti del Convegno Pisa-Tirrenia (26-31 marzo 1984); Id., Filologia, epistemologia e contenuti matematici in Henry de Monantheuil circa l’angolo di contatto, in La matematizzazione dell’universo. Momenti della cultura matematica tra ’500 e ’600, a cura di L. Conti, Porziuncola, Assisi 1992; R. Gatto, op. cit., pp. 48-49. 76. De minimo, BOL I,III 226. 77. Ibid. 78. Ivi, p. 224.

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La geometria del termine e del minimo relativizza le nozioni di punto, di linea e di superficie, che di volta in volta possono fungere da estremità o quanto o persino intercambiarsi tra di loro a seconda dell’ambito di riferimento considerato: il ‘punto proporzionale’ è ora punto, ora linea, ora superficie. Inoltre, dato che anche il termine, come si è appena riscontrato, possiede una certa dimensionalità, nulla impedisce di pensare che la medesima cosa che in un certo ordine di grandezze funge da estremità, in un altro possa considerarsi come quanto, ossia parte che aggiunta a parte accresce la grandezza. Il relativismo in ogni caso non è assoluto perché l’infinito fisico e matematico hanno sì estensione infinita, ma, essendo infiniti dimensionali non sono «totalmente infiniti»79, avendo un limite a quo, che riposa nel minimo e nel termine assoluti. Tuttavia, la distanza che separa la condizione di assolutezza propria del minimo simpliciter dalla condizione del relativo, cui obbediscono tutte le altre grandezze, appare in certi casi incolmabile nel poema latino, soprattutto quando si constata l’incapacità del minimo di oggettivarsi o quando, malgrado la precedente condanna, si riscontra l’adozione del calcolo approssimativo80. L’irraggiungibilità del minimo, che emerge in certi luoghi del poema, sembra porlo in una posizione di trascendenza rispetto alla grandezza misurabile, alimentando il sospetto della percezione da parte di Bruno di una tendenza mai esauribile, di un passaggio al limite, che renderebbero ‘indefinito’ il processo di divisione della grandezza. Tale sentore, non trasformato in formule esplicite, ma scorgibile in significativi passaggi, può essere letto come istanza di superamento dell’indivisibilismo ingenuo e «realista», di quel «jeu d’enfant», con cui Bruno rischiava di invalidare tutta la sua costruzione geometrica. La consapevolezza dell’intuizione, viene, però, offuscata e osteggiata nel De minimo dalla veemenza con cui si combatte la divisibilità all’infinito, dalla realtà degli «gnomoni», il numero determinato di minimi con cui le grandezze si accrescono, dal tentativo perseguito in tutta l’opera di dar conto della natura del termine, in modo da poter rendere inconfutabile la concezione atomistica del continuum geometrico. Il discorso matematico del De minimo non si svolge, certamente, nella prospettiva propria dei trattati scientifici elaborati in quel pe-

79. Infinito, BOeuC IV 85-87. 80. L’atteggiamento incostante di Bruno nei confronti del calcolo approssimativo è stato registrato da Carlo Monti nella sua introduzione a G. Bruno, Opere latine. Il triplice minimo e la misura. La monade, il numero e la figura. L’immenso e gli innumerevoli, a cura di C. Monti, Utet, Torino 1980, pp. 9-62. Cfr. i testi citati in nota 9.

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riodo sugli stessi problemi81. Ciò non rientra nelle intenzioni di un’opera in cui lo studio dei principi matematici diviene luogo di accesso per la contemplazione dei più profondi principi naturali e divini che di per sé rimarrebbero inespugnabili alla ragione umana. Tramite il punto, immagine della monade, l’uomo può rappresentarsi, nella modalità relativa propria del suo intelletto, la semplicità dell’Uno, in quanto il punto altro non è che la monade allontanata «ab esse assoluto» per divenire monade sita in qualche luogo82. L’identità sostanziale del fondamento ontologico con quello matematico e la possibilità di cogliere quello attraverso questo, nel momento stesso in cui non consentono a Bruno di trattare la matematica come scienza autonoma, lo esimono pure dal costringere la stessa entro gli schemi dell’argomentazione analogica. Per tale ragione in primo luogo, risulta improprio liquidare la geometria del De minimo come concezione indivisibilista tipica di quella forma mentis che, prima dei nuovi sviluppi in campo matematico, improntava di sé gli argomenti contro la divisibilità infinita della grandezza. Il tentativo di fondare la geometria dal suo interno, utilizzando categorie della ‘quantità’ – quali il minimo e il termine – che consentono di abbandonare il ricorso all’analogia con il piano ontologico, rappresenta l’assimilazione da parte di Bruno della frattura tra indagine geometrica e fondazione metafisica in corso nella seconda metà del ’500. La reazione dell’autore del De minimo a questo evento si traduce nella volontà di restituire al geometra del suo tempo il «metro» di cui è rimasto privo in seguito a tale cesura, deducendolo da principi teoretici intrinseci alla geometria. In secondo luogo, la coincidenza del limite alla divisibilità della grandezza con il limite che rende possibile l’operare della ragione umana impedisce di sottoscrivere incondizionatamente l’ipotesi di una matematica «realista» in Bruno.

81. La produzione matematica elaborata negli stessi anni in cui ha luogo la riflessione bruniana è riferita da Aquilecchia nei lavori precedentemente citati. Aquilecchia tenta anche, in via ipotetica, di distinguere le opere che Bruno poteva conoscere da quelle che, per motivi contingenti, rimanevano fuori dalla sua portata. 82. De minimo, BOL I,III 269-74: 273.

PAUL RICHARD BLUM «SAPER TRAR IL CONTRARIO DOPO AVER TROVATO IL PUNTO DE L’UNIONE»: BRUNO, CUSANO E IL PLATONISMO

Il titolo di questa ‘lettura’ prende spunto dal celebre passo con cui Bruno chiude la sua esposizione della metafisica dell’Uno-Tutto nel quinto dialogo del De la causa1. Il momento più alto della ricerca filosofica viene qui indicato nella capacità di rintracciare «il contrario dopo aver trovato il punto de l’unione» e non viceversa, nel cercare l’unità nelle diversità, come Bruno aveva sostenuto poco prima e come appare nella speculazione di stampo neoplatonico. Esaminato più attentamente, questo motto suggella l’interpretazione bruniana di Nicolò Cusano, che segue all’esposizione critica di Aristotele e Platone. L’intero dialogo può essere infatti interpretato sia come l’esposizione più completa della filosofia bruniana dell’UnoTutto, sia come l’espressione della volontà da parte dell’autore di proclamarsi come il vero filosofo, colui la cui speculazione è in qualche modo preparata da tutta la filosofia precedente. Questo motto può dunque essere assunto come chiave interpretativa della stessa ‘retorica’ con la quale Bruno rilegge l’intera storia della filosofia in funzione della sua speculazione. Conviene, dunque, tentare di capire quale uso – a prescindere dalle fonti filologicamente individuabili – Bruno faccia di autori come Platone o Cusano a conferma della proprie posizioni. Non c’è dubbio infatti che il Nolano non sia un «fidel relatore»2 di opinioni altrui, né tantomeno si muove in una prospettiva filologica. Tenendo conto della tendenza ad inquadrare la filosofia bruniana nella storia (anzi nella perennità) di certe idee, sembra opportuno, dopo aver individuato questo riferimento alla storia della filosofia, cercare le ragioni per le quali Bruno si richiama ad esempio a Cusano e a Platone. Nel caso di Aristotele, questa esigenza è ovvia: nella sua scuola, e in tutto il Rinascimento, questi era ancora il Filosofo per antonomasia, con il quale era assolutamente necessario confrontarsi. Quanto a Platone – al quale Bruno non dedica esposizioni sistematiche come ad Aristotele – egli è citato solo raramente e a proposito di un numero molto ridotto di questioni. Del resto, anche Ficino 1. Causa, Proem. epist., BDI 184: «Nel quinto dialogo... viene compito il fondamento de l’edificio di tutta la cognizion naturale e divina». 2. Causa V, BDI 326, detto di Aristotele parlando di Parmenide.

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«è quasi sempre citazione occulta»3. L’unico luogo in cui Ficino viene nominato, infatti, è un passo nel De monade, in cui appare come fonte dossografica sui gradi della realtà negli autori antichi4. Va osservato che talvolta, al contrario di quanto ci si aspetterebbe, Bruno critica esplicitamente Platone, sia per quanto riguarda la dottrina delle idee che per la cosmologia geometrizzante del Timeo. Quindi il platonismo di Bruno non può essere la scelta di una ‘setta’, di un’ideologia, di una scuola – o meglio, non di una sola. Analizzando il modo in cui Bruno si rifà alla tradizione platonica diventa chiaro che autori come Platone e Cusano sono utilizzati nel tentativo di integrare le diverse tendenze filosofiche in un’unica filosofia, quella nolana. IL TIMEO FRA PLATONE E FICINO Il Timeo sembra essere il testo platonico più citato nelle opere bruniane. L’occorrenza più frequente è quella relativa all’indissolubilità dei corpi celesti. Questa la traduzione ficiniana del passo: «Quapropter quia generati estis, immortales quidem et indissolubiles omnino non estis. Nec tamem unquam dissolvemini, nec mortis fatum subibitis»5. In Ficino il riferimento all’opinione di Platone non sembra avere un preciso rilievo filosofico, ma serve piuttosto a dedurre l’immortalità dell’anima da quella degli astri. Bruno, invece, citando nel De immenso: «Vos quidem dissolubiles estis, nequaquam vero dissolvemini», insiste sulla materialità implicita dei corpi celesti e sulla necessità di una virtù quasi provvidenziale che decide in quanto tale sulla temporalità o eternità degli enti finiti6. Distaccan3. R. Sturlese, Le fonti del «Sigillus sigillorum» de Bruno, ossia il confronto con Ficino a Oxford sull’anima umana, «Nouvelles de la République des Lettres» (1994), 2, pp. 89-166: 100. Il parallelismo fra tanti brani presentati in questo articolo e, in generale, l’influenza di Ficino su Bruno (su cui cfr. la letteratura citata dalla Sturlese) non mettono in discussione l’originalità del platonismo del Nolano, considerato che il traduttore e commentatore fiorentino era un punto di riferimento comune per gli studi platonici: «Bruno intende mostrare la perfetta sovrapposizione... della ‘pia philosophia’ ficiniana con la nolana filosofia» (ivi, p. 110, nota 28). 4. De monade 6, BOL I,II 408; cfr. M. Ficino, Theologia platonica, I, 1, in Id., Opera, Basilea 1576 (d’ora in poi Opera), p. 75 [corr.: 79]. 5. Platone, Tim. 41 b; Platonis Opera traslatione Marsilii Ficini, Basilea 1539 (d’ora in poi «trad. ficiniana»). Questa edizione riprende la paginazione della prima edizione del 1484, ma non ho potuto controllare se in questo passo ci sia un intervento dell’editore Simon Grynaeus. 6. De immenso II, 5, BDI 274: «certum est tamen, omni indicante natura, potentiam superstare et providentiam infinitae virtutis, quae cum justitia moderetur totum in infinito, cujus voluntate haec in aeternitate possint vigere, vel tempori subesse».

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dosi dal platonismo ficiniano, Bruno accetta il parallelismo tra corpi celesti ed esseri finiti, avvicinandoli ontologicamente. Da ciò risulta la posizione centrale di una universale volontà governatrice. Conviene accennare al fatto che nel De l’infinito Cusano è preso a testimone di questa interpretazione bruniana del Timeo7. Nello stesso modo in cui aveva già fatto uso del Timeo nei Dialoghi italiani8, anche nell’Acrotismus Bruno riprende questo passo del Timeo a conferma della propria opinione circa la necessità che la terra, come tutti gli astri, abbia un’anima, che in qualità di primo efficiens regge la materia9. Questo richiamo sottintende il problema, connesso alla questione dell’immortalità delle anime create, se possa darsi una cosa creata che duri in eterno, posto che è sicuramente insostenibile l’opposto, cioè che si dia una cosa increata non eterna. Anche nel processo romano, pur senza nominare Platone, Bruno ritorna sul problema della corruttibilità dei mondi, cioè degli astri, parlandone come di una questione che esula dalla dottrina della fede («creduta da Rabini et altri santi nel Testamento nuovo»), ma che è indifferente alla dogmatica cristiana10. In questo caso, il Nolano sembra avvicinarsi al pensiero platonico più dello stesso Ficino, perché indirizza l’attenzione del lettore verso la necessità teorico-scientifica di un principio di conservazione, mentre per Ficino – uno dei «Christiani Teologhi nutriti ne la disciplina Platonica»11 – la dottrina esposta nel Timeo serve a confermare la realtà dell’anima del mondo. La differenza tra Ficino e Bruno va quindi individuata nel loro modo di trasformare il pensiero platonico nell’interpretazione ontologico-metafisica del primo e nell’interpretazione sistematicometodologica del Nolano. Tuttavia Bruno non accetta l’intera cosmologia platonica, anzi la considera un mito di portata limitata. Egli critica anche il concetto centrale della cosmologia del Timeo, che considera l’universo strutturato geometricamente. Sembra evidente che Bruno abbia letto il commento di Ficino, dove in un passo cruciale si rileva che la cosmologia platonica confermerebbe l’unicità e centralità della terra. 7. Infinito III, BDI 440 s.: «Lo intese il Timeo... A questo modo d’intendere se non è pervenuta, pur pare che s’accoste la Dotta ignoranza del Cusano... onde non meno egli [il sole] che la terra viene ad esser composto di propri elementi»; cfr. N. Cusanus, De docta ignorantia, II, 12, § 164 s. (N. von Kues, De docta ignorantia, lateinisch-deutsch, hg. v. H. G. Senger, Meiner, Hamburg 1977, pp. 94-6.) 8. Cena 5, BDI 155; Causa 2, BDI 229. 9. Camoer. acrot., art. 63, BOL I,I 176. 10. A. Mercati, Il sommario del processo di Giordano Bruno, Città del Vaticano 1942, § 95, p. 82 s.; Firpo, Processo, doc. 51, p. 270. 11. Ibid.

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Secondo il commento di Ficino, Platone avrebbe mostrato che lo stesso modello divino del mondo è unico, perché ciò che contiene tutto non può lasciare nulla fuori di sé. Come se ci fosse una sola opera di un solo architetto, il Dio unico ha creato un solo mondo. Quindi non sarebbe possibile immaginare più mondi come sfere situate una fuori dall’altra. Ciò sarebbe in contraddizione con l’opera divina; inoltre lo spazio fra le sfere risulterebbe vuoto. Sembrerebbe più probabile concepire l’esistenza di tante sfere nelle sfere quante orbite sparse nel ‘vacuo’: ogni sfera sarebbe così un mondo nel mondo12. Il commento estende a considerazioni di carattere astronomico l’argomentazione che si trova già nel Timeo, che afferma l’unicità del mondo: «si modo ad unius similitudinem sit formatus... Ut igitur hic mundus esset animali absoluto simillimus, ex eo quod solus atque unus esset, idcirco neque duo neque innumerabiles procreati sunt, sed unus mundus unigenitusque factus est et erit»13. A questi argomenti Bruno replica, nel terzo libro del De immenso, che non serve «aggiungere cerchi a cerchi, orbite ad orbite»14. Bruno si rifà qui esplicitamente al commento ficiniano. Il giuoco delle sfere non serve ad altro che ad «adattare non la tua stoltezza alla natura, ma l’ordine della natura alle tue simmetrie»15. Il Nolano intende quindi ‘smascherare’ la circolarità e la regolarità del mondo platonico, indicandole come metafora e modello teorico («suppositiones et positiones») non conformi alla realtà effettiva delle cose. Il capitolo successivo del De immenso inizia con un dialogo fra una cimice ed una pulce, «formata all’insegnamento del divino Platone»16. Queste si sentono minacciate dall’intervento dal cameriere che – «scosso il materasso» – sta per causare, con la loro fine, una definitiva separazione. La pulce esorta la cimice a non temere tale prossima separazione, perché la loro amicizia, in quanto comune partecipazione allo spiritus, fa sì che l’altra sia «di gran lunga più intima a me di quanto io sia a me stessa». Con l’allusione agostiniana Bruno fa persino dello spirito degli insetti una presenza eterna del divino: lasciando il corpo, tale spirito si dimenticherà di sé, non dell’altro. Una certa consolazione viene dal fatto che migliaia di anni più tardi que12. Ficino, In Timeum, cap. 16, Opera, p. 1444; trad. ficiniana, p. 680 s. 13. Platone, Tim. 31 a-b; trad. ficiniana p. 709. Va notata la parola «unigenitus» (monogenes): sebbene Ficino adoperi questa parola, non sembra far uso del significato cristologico che assume nel contesto cristiano. 14. De immenso III 6, BOL I,I 365. Le citazioni in italiano (indicate con «trad. it.») sono tratte da G. Bruno, Opere latine, a cura di C. Monti, Torino 1980; qui: trad. it. 551. 15. Ibid.; si noti nel testo latino il giuoco di parole: «ineptiam... aptare». 16. De immenso III 7, BOL I,I 367; trad. it. 552.

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sti due corpi «saranno di nuovo insieme»17. Evidentemente, Bruno gioca sull’idea – cara a tutti i neoplatonici – dello spirito plastico che informa il mondo e si identifica con l’intimo spirito dell’uomo, attraverso il quale si garantisce la veridicità della conoscenza del mondo. L’elemento comico del dialogo tra la pulce e la cimice nasce dall’incommensurabilità tra le dimensioni di questi animaletti e l’immensità del cosmo. Il significato di questo esempio scherzoso, quindi, sta nell’affermazione della teoria dell’animalità del mondo, che riguarda anche le sue parti più minute ed infime. Ed è a questo che mira l’intero terzo libro del De immenso. Bruno ribadisce che qualsiasi teoria cosmologica è dotata di senso solo se è in grado di comprendere l’intero universo anche nelle sue parti e prospettive di volta in volta soggettivamente differenti. Bisogna ricordare che questo libro si apre con i celebri versi in cui Bruno ricorda quando da fanciullo a Nola, dal monte Cicala, osservava il Vesuvio solo come un profilo lontano18. Da una prospettiva non puramente soggettiva, perché mira sempre alla conoscenza della realtà oggettiva – di cui, tuttavia, il filosofo fa parte – deriva il riconoscimento dell’irregolarità dei fatti naturali e corporei. Se è vero che il moto regolare è proprio dei soli corpi regolari, risulta impossibile che i corpi celesti si muovano di un moto assolutamente regolare19. L’errore fondamentale delle teorie cosmologiche, sia aristoteliche che platoniche, sta nel concetto di un motore esterno che necessariamente – come si può vedere nella citazione da Ficino – considera il mondo in un moto conforme a se stesso e quindi perfetto e regolare. Questo altissimo primo motore, obietta Bruno, non esiste se non come anima della terra «cujus sedes praecipua sit in centro»20. Questo motore per Bruno non è vincolato da leggi geometriche, e il suo moto non è circolare, ma descrive delle spirali che non possono essere misurate secondo un metodo geometrico. La regolarità del cosmo non potrebbe non dar luogo a un cosmo uniforme in tutte le sue parti, o almeno destinato a divenire uniforme nel corso delle rivoluzioni dei tempi. Da questo deriverebbe una moltiplicazione, anzi una ripetizione infinita di fatti e cose nell’universo21. La vicissitudo della natura, invece, non con17. Ivi, p. 368. Bruno dice: «post bis ter millia centum / Annorum, adde quibus quoque bis tria, bisque tricenta / Millia». Ficino ha: «Hunc multi annorum solarium quindecim millibus. Alij aliter metiuntur»: Appendix commentariorum in Timaeum, cap. 20, Opera, p. 1468. 18. Cfr. P. R. Blum, Brunos Brunianismus, in Die Frankfurter Schriften Giordano Brunos und ihre Voraussetzungen, hg. v. K. Heipcke et al., Weinheim 1991, pp. 201-10. 19. De immenso III 6, BOL I,I 365. 20. Ibid. 21. Ivi, p. 371: «In natura circulus ideo non ullus est, ne similes omnino iidemque

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sente la ripetizione: l’«omnia ex omnibus» di Anassagora va interpretato nel senso della nascita di sempre nuove forme dal seno della materia eterna e unica22. L’idea di una natura geometrizzata può essere al più una fede o una speranza23: «Tanto che, dove naturalmente possiamo parlare, non è mestiero di far ricorso alle matematiche fantasie»24. La natura, infatti, non è sottoposta, come si potrebbe credere, a leggi matematiche, ma è una natura «novante» secondo la propria legge, e così dispone tutto da tutto25: «Variabitur ergo terrae centrum et respectus ad polum, cujus motus regulam geometrice velle praescribere male regulati ingenii est»26. La ragione filosofica dell’opposizione di Bruno alla matematizzazione del mondo fisico è da cercare nelle sue argomentazioni che fanno del punto di vista (respectus) e dell’esperienza estetica un dato fondamentale nell’interpretazione della natura. Tanto nel Timeo platonico quanto nelle teorie astronomiche, invece, si cerca di rendere i fenomeni celesti compatibili con strutture geometrico-matematiche27; o si mutano le tavole astronomiche seguendo i mutamenti del cielo – nel tentativo sempre ripetuto di ottenere dei calcoli che valgano in eterno, ma rimanendo di fatto nell’incertezza28; o infine ci si sforza di ridurre l’irregolarità naturale alla regolarità geometrica29. È vero però che anche Ficino aveva avvertito l’esigenza di stabi-

effectus aliquando redire possint; nullum quippe signum est, quo astra ad telluris aspectum omnia ad omnino eandem aliquando venire habeant posituram». E a p. 372: «In antiquioribus qui tot motuum differentias et singularum differentiarum irregularitatem non percepere, haudquaquam usque adeo demiror, ut in hominibus circa nostra tempora, quibus licuit plura cognoscere haec, quibus stantibus (quamlibet adhuc sub fide vel spe geometricantis naturae consistant) oportet per millena millium anni illius mundani numeros multiplicari». 22. Ivi, p. 372. 23. Ibid.: «quamlibet adhuc sub fide vel spe geometricantis naturae consistant». Sul ruolo della geometria in Bruno, vd. M. Mulsow, La geometria applicata nell’opera di Bruno, in Giordano Bruno. Gli anni napoletani e la ‘peregrinatio’ europea, a cura di E. Canone, Cassino 1992, pp. 146-52 (con bibliografia). 24. De l’infinito III, BDI 442. 25. De immenso III 5, BOL I,I 350: «Naturam ipsius moderari lege novantem / Omnia, ut e quovis quidvis disponat ob idque / Stulte disponi res credunt lege mathesis». 26. Ivi, p. 360. 27. Ivi, p. 365. 28. Ivi, p. 360: «sed hoc tantum astronomis faciendum restat, ut notabili poli facta mutatione, ratione tabularum suarum renovent tanquam non in aeternum, sed ad incertum (non breve tamen) usque aliquod tempus duraturas». 29. Ivi, p. 337 s.: «laborarunt ut aliquo pacto irregularitatem ad geometricam reducerent regularitatem».

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lire quale fosse il valore della matematica nella cosmologia timaica. Platone avrebbe adoperato le figure matematiche «non propter seipsa quidem sed propter naturalia», ma per il platonico cristiano gli enti geometrico-matematici sono immagini da interpretare in chiave biblica, secondo il detto per il quale Dio ha creato tutto secondo numero, misura e peso30. Paragonando questa teoria con gli sviluppi della teoria della natura da Galileo in poi, si può vedere come Ficino privi la geometria e la matematica della funzione strutturale che avrebbe condotto verso la matematizzazione della natura, mentre Bruno coglie appunto il senso del sapere matematico come struttura e modello – ma per negarne l’utilità scientifica nell’interpretazione dei fenomeni naturali. Nei tre casi, la natura assume un significato diverso (a prescindere dal significato proprio del Platone storico): dalla presenza della divinità onnipotente in Ficino, all’organicità infinita nel Nolano, ad una struttura comune alle forme del pensiero e alle leggi del misurabile in Galileo. CUSANO PLATONICO Per un’interpretazione dell’uso che Bruno fa di Platone conviene seguire le autocitazioni all’interno dei capitoli del De immenso – citazioni che che ci guidano tutte a Cusano. Infatti Bruno rimanda alla sua esposizione della dottrina cusaniana nel De la causa e alla sua «Invenzione del Minimo» (De minimo III), tutta ispirata ai paradossi del minimo e del massimo del De docta ignorantia. Anche negli Articuli adversus mathematicos Bruno adopera i teoremi cusaniani per negare l’idea dell’esistenza di una sfera o di un circolo nella natura fisica: «Neque intrinsice neque extrinsice in coelo circulus est vel apparet»31. Evidentemente il minimo sostituisce l’ideale della sfericità. Questo è il senso della polemica bruniana: «Ignorantia minimi facit geometras huius saeculi esse geametras, et philosophos esse philasophos». Per questa ragione – come osserva Giovanni Aquilecchia32 – Bruno 30. Ficino, In Timaeum commentarium, cap. 19, Opera, p. 1446: «Quoniam vero Plato mathematica haec non propter seipsa quidem, sed propter naturalia hic accepit: his praetermissis consideremus breviter, quae potissimum naturae mysteria per mathematicas imagines subintelligat. Principio quod in sacris literis legitur: Deum omnia in numero, mensura, pondere perfecisse, manifeste tangitur a Platone». 31. Articuli adv. math., membrum 23, art. 147, BOL I,III 74. Su questo scritto M.-L. Heuser-Keßler, Maximum und Minimum. Zu Brunos Grundlegung der Geometrie in den Articuli adversus mathematicos und ihrer weiterführenden Anwendung in Keplers ‘Neujahrsgabe oder Vom sechseckigen Schnee’, in Die Frankfurter Schriften Giordano Brunos, cit., pp. 181-97. 32. G. Aquilecchia, Mathematische Aspekte in Brunos Denken von «De minimo» bis zu

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critica i metodi di quadratura del cerchio: che da uno stesso pezzo di cera o di piombo si possano ricavare un cubo, una piramide o altre figure, dipende soltanto da un metodo «inartificioso e ageometrico»33. Anche la citazione da Platone – sempre nel contesto della critica alla matematica del De immenso –, che avrebbe detto che il vero circolo è composto «ex recto et curvo», non è in contraddizione con questa teoria, perché Bruno mantiene le riserve nei confronti della dottrina di Platone esposte nel De minimo34. Qui, infatti, Bruno dice che Platone ha insegnato che il circolo è composto da rette e da curve, poiché da ogni parte dista ugualmente dal centro, in esso alto e basso coincidono, la lunghezza e la larghezza, tra loro uguali, non differiscono dal diametro, così nella sfera tre sono le dimensioni finite identiche rispetto al centro; mentre nel cerchio e nella sfera infiniti lo sono rispetto ad ogni parte ed in tale senso imprompriamente la chiameremmo dimensioni35.

Evidentemente Bruno si riferisce al passo in cui Platone esemplifica i gradi di conoscenza astratta tramite il circolo, ascendendo dal nome all’idea: «Quod ab extremis ad medium aequaliter undique distat, illius ratio est, quod rotundi et circumferentiae et circuli nomine designamus». L’argomentazione si chiude con la frase: «Idem quoque de recta et curva dici potest figura, atque colore...»36. Sembra che Bruno abbia connesso l’ultima frase con la precedente, ricavandone l’affermazione che il circolo, in quanto definito dal moto lungo la circonferenza e dal raggio, è composto da retto e curvo. E non è una lettura del solo Bruno, perché anche Ficino, parafrasando lo stesso luogo platonico, afferma nella Theologia Platonica: «Circulus qui vel torno fit, vel pingitur, non est purus, quia nonnihil rectae

den «Praelectiones Geometricae», in Die Frankfurter Schriften Giordano Brunos, cit., pp. 13543. Sono da segnalare, nello stesso volume, anche gli altri contributi sulla matematica di Bruno di S. Otto, A. Bönker-Vallon, e K. Heipcke con W. Neuser e E. Wicke. 33. De minimo II 8, BOL I,III 219. Sulla quadratura del cerchio in Cusano e Bruno cfr. A. Bönker-Vallon, Metaphysik und Mathematik bei Giordano Bruno, Berlin 1995, pp. 114-19. 34. De immenso III 6, BOL I,I 366: «Quinimo et ipsum verum circulum ex recto et curvo compositum dixit Plato, quod quomodo sit, ab illo non accepimus, sed ejus rationem ex iis quae a nobis de minimo dicta sunt apprime cognoscere licebit». 35. De minimo II 7, BOL I,III 213: «Quatenus a centro undique distat aequaliter, in eodem ascensus coincidit cum descensu, et eodem longitudinem definit dimetiente atque latitudinem ab illa indifferentem sicut in sphaera tres dimensiones finitae sunt indifferentes a centro; in infinito vero circulo atque sphaera undique, quas improprie dimensiones diceremus»; trad. it. 162. 36. Platone, Epist. VII, 342 b e d; trad. ficiniana 948.

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figurae habet admixtum»37. È quindi tanto più notevole che Bruno si distacchi dalle ragioni platoniche: la composizione tecnica del circolo vale per lui come prova della sua composizione ontologica, e il circolo non esiste senza la retta. Invece nel platonismo ficiniano è il composto a condurre all’idea pura del circolo non composto. Non meraviglia, a questo punto, che Bruno non accetti il concetto platonico dell’idea. Il celebre paragone della linea nella Repubblica gli serve esclusivamente come esempio di una scala di quaternioni, e si conclude in un elogio dell’ombra quale parte integrante dell’ambito dell’essere38. Conseguentemente il De immenso si conclude con un forte attacco alle idee platoniche: A che servono, dunque, quelle fantasiose tecniche di Platone, quegli artifici, quegli archetipi, idee, immagini, quelle statue, quei carri della fantasia, quelle navi ricolme di quisquiglie, tutti posti fuori del mondo corporeo? Se immagini questo mondo finito, a che scopo poni le specie separate?39.

Quando Bruno nel De umbris idearum attribuisce un senso alle idee, questo avviene solo nel significato tecnico dell’arte della memoria. Mentre i teologi postulano l’esistenza di idee di cose singole (come non avviene in Platone), per l’ars memoriae tali idee di cose singole non implicano un loro statuto ontologico in senso realistico o altro40. Il punto di connessione fra la critica antiplatonica di Bruno e il suo apprezzamento di Cusano si trova proprio nel concetto di matematica e nell’interpretazione della natura. Bruno fa coincidere l’antinomia del circolo, composto dal retto e dal curvo, con il pensiero paradossale di Cusano, dicendo nel passo sopra citato che il circolo «Quatenus a centro undique distat aequaliter, in eodem ascensus coincidit cum descensu»41. Sebbene non si possa facilmente indicare il testo specifico di Cusano al quale Bruno fa allusione, è evidente che egli riduce la speculazione sulle ipostasi dello spirito alla coincidenza degli opposti secondo Nicolò da Cusa. Così anche seguendo le tracce che guida37. M. Ficino, Theologia Platonica, l. 12, cap. 1, Opera, p. 266. 38. De monade 5, BOL I,II 389. 39. De immenso VIII 10, BOL I,II 313; trad. it. 805. 40. De umbris, conceptus 29, in G. Bruno, De umbris idearum, a cura di R. Sturlese, Firenze 1991, p. 61: «Singularium ideas non posuit Plato, sed specierum tantum... Singularium ideas ponunt theologi... quia totalem causam asserunt esse Deum. Et nos in proposito singularium ideas volumus, quia sumimus ideati rationem secundum universalem figurati, et apprehensi similitudinem, sive illa sit ante rem, sive in re, sive res, sive post rem, atque ita sive in sensu, sive in intellectu, et hoc sive practico, sive speculativo». 41. De minimo II 7, BOL I,III 213 (il corsivo è mio).

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no al Platone ficiniano arriviamo a Cusano. La teoria del circolo viene citata anche negli Articuli adversus mathematicos42, dove Bruno afferma che la potenza ontologica del circolo sta nel centro, «et hoc est unum ex praecipuis miraculorum principiis»43. Anche qui Bruno ribadisce che i tentativi di quadrare il circolo non possono avere né successo né senso44. A parte alcuni luoghi in cui viene esplicitamente elogiato, anche Cusano, come Ficino, è una delle fonti nascoste di Bruno, che ne utilizza la figura dell’angolo crescente e decrescente, ricavandola dal De beryllo. In nota al De umbris, Rita Sturlese cita diversi luoghi in cui questo schema viene adoperato, ma in nessuno di questi Cusano viene nominato, tranne che nel De la causa, cui Bruno rimanda come a fonte propria nel De immenso45. Prendendo quindi in considerazione il De la causa come testo chiave del platonismo cusaniano di Bruno cercheremo di cogliere il significato del finale del dialogo quinto e di tutta l’opera. Il dialogo inizia con un’apoteosi dell’uno infinito, perfetto ecc., e insiste sul concetto della sfera come «certa similitudine» dell’uno, perché in essa le dimensioni coincidono46. Chiamando in causa autorità come Pitagora e Salomone, Parmenide e Eraclito, su cui Bruno dà un giudizio positivo, e come Aristotele, sul quale il giudizio è negativo, Bruno esclama: «Quelli filosofi hanno ritrovato la sua amica Sofia, li quali hanno ritrovata questa unità»47. In seguito Bruno fa illustrare al suo portavoce Teofilo l’importanza di questo concetto di unità, articolando la spiegazione in quattro «capi». Nel primo conferma l’unità riguardo ai gradi dell’essere, la «scala naturae», che fa convergere «la produzion de le cose» con «la cognizion di quelle», così come nel pensiero peripatetico e platonico l’atto purissimo dà luogo alla moltitudine48. Nel secondo «capo» Bruno discute il concetto di numero e figura in Pitagora e Platone, dando la sua preferenza a Pitagora, perché il suo concetto di numero è più astratto e insieme più generale di quello di Plato42. Articuli adv. math., art. 103, BOL I,III 60: «Ideo dato circulo semper dari posse veriorem, recte Cusanus definit». 43. Ivi, art. 104, BOL I,III 60. 44. Ivi, art. 115, BOL I,III 61. 45. De umbris, intentio 30. Sturlese nella sua edizione, p. 44, cita: Causa V, De minimo I 4, De immenso II 12 e VII 10, Summa terminorum metaphysicorum. Cfr. R. Sturlese, Niccolò Cusano e gli inizi della speculazione del Bruno, in Historia philosophiae medii aevi, Studien zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, a cura di B. Mojsisch e O. Pluta, Amsterdam 1991, pp. 953-66: 956 s. 46. Causa V, BDI 319. 47. Ivi, p. 324. 48. Ivi, p. 329 s.

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ne. Questo dà luogo a due conseguenze. Da un lato, Platone è accusato di gelosia e di interessarsi più della propria gloria e originalità che della verità49, argomento in apparenza del tutto estraneo al discorso metafisico che è il vero tema dell’esposizione di Bruno. D’altra parte, vediamo come in questo secondo «capo» l’argomentazione si rovesci: dalla prova dell’esistenza dell’uno si passa alla sua funzione di fondare la molteplicità. La differenza fra Pitagora e Platone, secondo Bruno, sta nel fatto che l’uno pitagorico è fondamento delle sostanze «come i numeri», mentre il primo principio pensato come un punto – teoria attribuita a Platone – dà origine alle sostanze «come figure»50. Questa differenza, si badi bene, svanisce appena una pagina più avanti, laddove punto, unità e infinito vengono chiamati «varie raggioni simili»51. Il vero principio metafisico e gnoseologico risulta essere la riduzione, in cui «l’intelletto... va simplificando quanto può»52. Bruno mette in risalto il carattere dialettico del pensiero sul principio, che consiste nella convertibilità di principio e principiato, di astrazione e concretizzazione, di unità e molteplicità: ciascuna di queste determinazioni non ha senso senza l’altra. L’unità, di conseguenza, non può essere un che di divino e di separato: il discorso bruniano dimostra come «ne l’unità consista la sustanza de le cose»53. Paradossalmente, qui Bruno si rifà piuttosto a Euclide, portandone alle estreme conseguenze il metodo assiomatico: «sarebbe consummatissimo e perfettissimo geometra quello che potesse contraere ad una intenzione sola tutte le intenzioni disperse ne’ principii di Euclide»54. E a questo fa seguito il primo accenno al metodo cusaniano: «Cossì dunque, montando noi alla perfetta cognizione, andiamo complicando la moltitudine; come descendendosi alla produzione de le cose, si va esplicando la unità»55. Nel terzo «capo» Bruno applica i concetti di accidente e sostanza alla relazione di uno assoluto e individuo moltiplicato, così da sostenere che l’individuale ha relazione al generico come l’accidente all’assoluto, come era stato affermato più volte nel corso del De la causa. Nel quarto «capo» seguono i segni e le «verificazioni»56 della coinci49. Causa V, BDI 331. 50. Ibid. 51. Ivi, p. 332. 52. Ibid. 53. Ibid. 54. Ivi, p. 332 s. 55. Ivi, p. 333. 56. Ivi, p. 334. Per un’interpretazione epistemologica vd. L. Spruit, Il problema della conoscenza in Giordano Bruno, Napoli 1988, pp. 215-20.

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denza degli opposti. I segni – ricavati dalla matematica – sono gli esempi tratti dalle figure geometriche di Cusano, «inventor di piú bei segreti di geometria». Anche qui, il punto decisivo dell’argomentazione di Bruno consiste nel far vedere «la differenza»57 all’interno della coincidenza nell’infinito. Le «verificazioni» provengono da «facultadi morali e speculative»58, e cioè, a legger bene, dalla retorica e dalla prassi di arti come la medicina, la politica, l’osservazione di corpi naturali59: «In conclusione, chi vuol sapere massimi secreti di natura, riguardi e contemple circa gli minimi e massimi de gli contrarii e oppositi. Profonda magia è saper trar il contrario, dopo aver trovato il punto de l’unione»60. A ragione, Nicola Badaloni ha ricollegato questo passo alle analogie lulliane61, perché anche queste mirano a sviluppare (secondo la terminologia cusaniana, ad «esplicare») la moltiplicità dall’unità tramite le derivazioni grammaticali di concetti e verbi. È un tratto peculiare della filosofia del Nolano il rintracciare persistentemente, a tutti i livelli dell’essere e del pensare, uno stesso concetto, una stessa forma di pensiero. Cosí persino nell’asinità Bruno può ritrovare la figura dell’unità degli estremi: Perché la sofia creata senza l’ignoranza o pazzia, e per consequenza senza l’asinità che le significa ed è medesima con esse, non può apprendere la verità; e però bisogna che sia mediatrice; perché come nell’atto mediante concorreno gli estremi o i termini, oggetto e potenza, cossí nell’asinità concorreno la verità e la cognizione, detta da noi sofia62.

Il ruolo dell’anima del mondo subisce una trasformazione: da primo motore esterno di tipo aristotelico, essa viene collocata al centro dell’essere, mentre nell’ambito della teoria della conoscenza assume la funzione di mediatrice. È ancora una volta evidente come Bruno non miri soltanto ad una teoria della natura, ma anche ad una filosofia della conoscenza. Questa sembra anche la ragione del giudizio non sempre positivo riguardo a Cusano. Cosí nel De l’infinito63 Bruno comincia dicendo: «Ha molto conosciuto e visto questo galantuomo ed è veramente uno de particularissimi ingegni ch’abbiano spirato sotto quest’aria», continuando però: «ma, quanto a 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63.

Causa V, BDI 335. Ibid. Ivi, pp. 338-40. Ivi, p. 340. N. Badaloni, La filosofia di Giordano Bruno, Firenze 1955, p. 47. Cabala I, BDI 873. De l’infinito III, BDI 441.

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l’apprension de la verità, ha fatto qual nuotatore da tempestosi flutti ormesso alto or basso; perché non vedea il lume continuo, aperto e chiaro, e non nuotava come in piano e tranquillo, ma interrottamente e con certi intervalli»64. Bruno critica proprio il concetto della «docta ignorantia», convertendolo in quello «Della ignorante dottrina», quasi volesse far sua l’opinione di Johannes Wenck, che aveva polemizzato con Cusano sotto il titolo De ignota litteratura65. In un primo momento Bruno accusa Cusano di non essersi liberato da «tutti gli falsi principii de quali era imbibito dalla commune dottrina onde era partito», cioè dalla dottrina degli elementi66. Al fondo però riconosce il valore metodologico e teoretico della teoria di Cusano, come si vede nello Spaccio. Anche questo testo muove da una concezione della natura come «mutazione, varietade e vicissitudine»67. Il merito di Nicolò da Cusa è dunque grande: «se fisicamatematica- e moralmente si considera, vedesi che non ha trovato poco quel filosofo che è dovenuto alla raggione della coincidenza de contrarii, e non è imbecille prattico quel mago che la sa cercare dove essa consiste»68. Che questo dialogo si apra con questa lode di Cusano non è dovuto soltanto al fatto che, con le parole di Sofia, «il principio, il mezzo ed il fine, il nascimento, l’aumento e la perfezione di quanto veggiamo, è da contrarii, per contrarii, ne’ contrarii, a contrarii: e dove è la contrarietà, è la moltitudine, è l’ordine, son gli gradi, è la successione, è la vicissitudine»69. Cusano ha per Bruno anche il merito di aver elaborato il metodo per vedere gli estremi nell’unità. Più avanti il Cardinale viene onorato con un attributo del cielo, il «Triangolo» o «Delta», perché Mi par degno che sia messo in mano del Cardinal di Cusa, a fin che colui veda, se con questo possa liberar gli impacciati geometri da quella fastidiosa inquisizione della quadratura del circolo, regolando il circolo ed il triangolo con quel suo divino principio della commensurazione e coincidenza de la massima e minima figura70.

64. Ibid. 65. De l’infinito III, BDI 442; su Wenck vd. E. Vansteenberghe, Le ‘De ignota litteratura’ de Jean Wenck de Herrenberg contre Nicolas de Cuse, Münster 1910; R. Haubst, Studien zu Nikolaus von Kues und Johannes Wenck, Münster 1955. 66. De l’infinito III, BDI 442. 67. Spaccio I, BDI 571 (si tratta dell’inizio dell’opera). 68. Ivi, p. 573. 69. Ibid. 70. Ivi, III, p. 755 s.

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Spetta quindi a Cusano di guidare la geometria applicata mediante il principio generale della coincidenza, che è un principio intellettuale, naturale e pratico di «commensurazione». Gli estremi non sono solo casi limite paradossali, ma principi regolativi universali, e l’aver scoperto questo sarebbe – secondo Bruno – il merito del Cardinale. Ma sappiamo bene che la cosmologia non è il tema centrale dello Spaccio, e per questo motivo è rivelatrice la ragione fornita da Sofia all’inizio del dialogo nel richiamare il principio dei contrari: «Tal io con il mio divino oggetto, che è la verità, tanto tempo, come fuggitiva, occolta, depressa e sommersa, ho giudicato quel termine per ordinanza del fato, come principio del mio ritorno... tanto piú grande, quanto maggiori son state le contradizioni»71. Per il Nolano tutta la filosofia è allo stesso tempo una ricerca ed una presentazione della verità, un dovere morale, un’impegno personale. Da questo punto di vista il problema non è solo quello di trovare un principio unico della filosofia, ma quello di rintracciare questo stesso principio a tutti i livelli del pensiero e della realtà. In questo hanno fallito Platone e Cusano, anche se quest’ultimo ha fornito a Bruno un modello. Gettare uno sguardo sul platonismo in Bruno non significa semplicemente rintracciare pedissequamente citazioni palesi o implicite, e neppure inquadrare il Nolano in una tradizione generale di filosofia platonica. Quest’ultimo interesse resta senz’altro legittimo per chi voglia tracciare la storia del platonismo, sebbene si debba prestare attenzione a non pietrificare la filosofia platonica in un ‘sistema’ o in un blocco determinato di problemi e soluzioni schematiche. È invece proprio il modo bruniano di rifarsi a Platone che ci ricorda che essere platonici – o più in generale attingere a una scuola filosofica o a qualsiasi tradizione – rappresenta un processo ermeneutico nel quale la fonte di influenza, e la stessa forma del pensare si trasformano a seconda del ricevente. Di conseguenza, sottolineare le componenti platoniche del pensiero bruniano contribuisce alla storia del platonismo nel senso che in Bruno è possibile vedere uno dei diversi esiti di quel modello e di quella storia. La cifra specifica di Bruno nell’adattare al proprio pensiero il platonismo, e in particolare il platonismo rinascimentale, si scorge, ovviamente, in un certo radicalismo nella ricerca del principio universale. Sembra che il Nolano ponga questo principio tanto al centro del mondo quanto al centro della ricerca. Ne deriva l’aspetto immanentistico, se non panteistico, della sua cosmologia e allo stesso tempo l’aspetto soggettivistico, se non trascendentale, della sua metodologia. 71. Spaccio I, BDI 573 s.

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Se in conclusione ci chiediamo quale sia questo principio unico, questo punto dell’unione, è evidente che esso non può trovarsi in un ‘al di là’: l’unità non può essere trascendente in un senso ficiniano-platonico o scolastico, perché un tale principio non sarebbe in grado di permeare il tutto e, conseguenza anche peggiore, non darebbe accesso alla comprensione di tutti gli estremi uniti in esso. Conviene ancora una volta guardare al testo dello Spaccio: «Gli estremi», dice Sofia, «fanno da punto di partenza del suo ritorno». Quindi l’avvicinarsi e distaccarsi da Platone, da Cusano e da tanti altri filosofi è per il Nolano un farsi indietro prima del salto, come «sé ritirando otto o diece passi a adietro» per superare un fosso72. Se Cusano è il mago che sa in quale ‘ratio’ consista la coincidenza dei contrari, che sa trarre gli opposti dall’unione, magia ancor più profonda è quella del ritorno di Sofia in Bruno.

72. Ivi, p. 574.

EUGENIO CANONE LA SUMMA TERMINORUM METAPHYSICORUM FISIONOMIA DI UN’OPERA BRUNIANA QUASI POSTUMA

La Summa terminorum metaphysicorum rimane tuttora un’opera di Bruno poco conosciuta, la cui fortuna critica si può paragonare per certi aspetti a quella dei suoi scritti che videro la luce solo nel 1891 nel terzo volume degli Opera latine conscripta1, nonostante il testo della Summa fosse stato pubblicato dal teologo e alchimista zurighese Raphael Egli2 parzialmente già nel 1595 – quando il filosofo nolano era sì vivo, ma si trovava già da tre anni nelle mani del Sant’Uffizio, nel grembo di Santa Romana Chiesa3 – e poi, con l’aggiunta della 1. A Firenze, presso l’editore Le Monnier, a cura di Felice Tocco e Girolamo Vitelli. Nel volume figurava tra l’altro la Lampas triginta statuarum, che presenta numerosi punti di contatto con la Summa terminorum metaphysicorum, anche in merito al confronto ravvicinato con alcuni concetti della teologia cristiana in rapporto al neoplatonismo (per alcune considerazioni riguardo a quest’ultimo aspetto cfr. F. Tocco, Le opere inedite di Giordano Bruno, Napoli 1891, pp. 76-77; A. Guzzo, Giordano Bruno, Torino 1960, pp. 239-240). 2. Cfr. E. Canone, Nota su Raphael Egli e la «Summa terminorum metaphysicorum», in G. Bruno, Summa terminorum metaphysicorum, rist. anast. dell’ed. Marburg 1609, Presentazione di T. Gregory, Nota e indici di E. Canone, Roma 1989, p. XII ss. Su Raphael Egli (Eglin, Iconius: 1559-1622) sono da vedere: H. J. Leu, Allgemeines Helvetisches, Eydgenößisches, oder Schweitzerisches Lexicon..., Theil VI, Zürich 1752, pp. 224-228; F. W. Strieder, Grundlage zu einer hessischen Gelehrten- und Schriftsteller-Geschichte, Bd. III, Göttingen 1783, pp. 299-318; J. Wälli, Raphael Egli (1559-1622), «Zürcher Taschenbuch», N.F., XXVIII (1905), pp. 154-192. Per l’approfondimento di alcuni aspetti dell’attività di Egli cfr. B. T. Morian, The Alchemical World of the German Court. Occult Philosophy and Chemical Medicine in the Circle of Moritz of Hessen (1572-1632), Stuttgart 1991, pp. 40-49 e 98-101; Id., Alchemy, Prophecy, and the Rosicrucians: Raphael Eglinus and Mystical Currents of the Early Seventeenth Century, in Alchemy and Chemistry in the XVI and XVII Centuries, ed. by P. Rattansi and A. Clericuzio, Dordrecht-Boston-London 1994, pp. 103-119; cfr. anche J. Gerber, Giordano Bruno und Raphael Egli: Begegnung im Zwielicht von Alchemie und Theologie, «Sudhoffs Archiv», LXXVI (1992), pp. 133-163. 3. Prima nella città lagunare e poi nella città tiberina. Come è noto, la notte del 22 maggio 1592, il nobile veneziano Giovanni Mocenigo fece rinchiudere Bruno in una stanza del suo palazzo in contrada San Samuele, denunciandolo il giorno dopo all’Inquisizione per eresia. La sera stessa il filosofo nolano venne arrestato e condotto nelle carceri veneziane di San Domenico di Castello. Il 27 febbraio 1593 Bruno entrava nelle carceri romane del Sant’Uffizio; ne uscirà l’8 febbraio del 1600 per essere tradotto nelle case del cardinal Ludovico Madruzzi in piazza Navona, dove – alla presenza dei cardinali inquisitori riuniti in congregazione, tra i quali san Roberto Bellarmino, e di altri testimoni, tra i quali il menagramo Kaspar

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Praxis descensus, nel 16094, quando l’anima del filosofo nolano era da tempo, come si affermava sarcasticamente nell’Avviso di Roma del 19 febbraio 1600, «ascesa con quel fumo in paradiso»5. Un’opera quasi postuma la Summa terminorum metaphysicorum ma anche singolare, se si tiene conto dell’intento e delle modalità di confronto di Bruno con la tradizione metafisica, sia aristotelico-scolastica che platonica, e tenendo presente la sua posizione fortemente critica nei confronti

Schoppe – il notaio Flaminio Adriani gli leggerà, con «alta et intelligibili voce», la sentenza di condanna. A porte aperte, in una sala piena di persone, come si afferma nello stesso testo della sentenza, Bruno sarà consegnato a «monsignor Governatore di Roma» per essere punito «delle debite pene». Cfr. Firpo, Processo, pp. 15, 40, e docc. 2, 6, 66. 4. Sulle due edizioni dell’opera cfr. la menzionata Nota su Raphael Egli e la «Summa terminorum metaphysicorum», in G. Bruno, Summa terminorum metaphysicorum, rist. anast. cit., pp. XI-XXI. Nel 1724 Christoph August Heumann aveva presentato la Summa terminorum metaphysicorum nella rivista «Acta Philosophorum» (XV, 1724, pp. 424-430) in un contributo dal titolo: Iordani Bruni Metaphysica. La Summa terminorum metaphysicorum fu ristampata nel 1889, a cura di Tocco e Vitelli, nel tomo IV del primo volume degli Opera latine conscripta (pp. 3-127). Va ricordato che la Summa era già stata pubblicata da August Friedrich Gfrörer nel volume: Jordani Bruni Nolani Scripta, quae latine confecit, omnia..., Stuttgardiae 1836, pp. 413-516. Tra gli studiosi che hanno sottolineato l’importanza della Summa terminorum metaphysicorum vanno menzionati in primo luogo proprio Felice Tocco – il quale la inserisce nel gruppo delle «opere costruttive» di Bruno (cfr. F. Tocco, Le opere latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane, Firenze 1889, pp. 1, 125-136) – e Augusto Guzzo, secondo il quale «se si dovesse scegliere, fra tutte le opere latine del Bruno, la più matura, completa e perfetta, per tradurla in una lingua moderna e far conoscere, attraverso di essa il Bruno latino, pochi scritti si presterebbero come la Summa terminorum metaphysicorum» (A. Guzzo, Giordano Bruno, cit., p. 239). In nota Guzzo osserva: «Questo parere fu espresso da uno dei migliori studiosi italiani del Bruno, Ludovico Limentani. Perciò Cordelia Guzzo tradusse, anni addietro, l’intera Summa terminorum metaphysicorum: di cui la seconda parte attende di uscire in un’Antologia bruniana curata da Augusto Guzzo per l’editore Marzorati di Milano» (ivi, p. 241, nota 1). Per la traduzione parziale dell’opera vd. Grande Antologia Filosofica, diretta da M. F. Sciacca, coordinata da A. M. Moschetti e M. Schiavone, parte III, vol. VI, Milano 1964, pp. 1399-1428. Aggiungo che la traduzione dell’intera Summa terminorum metaphysicorum si conserva tra le carte di Augusto e Cordelia Guzzo e sarà pubblicata da chi scrive (per i brani della Summa terminorum metaphysicorum citati in traduzione nel presente contributo si fa riferimento per lo più a tale versione). Ringrazio Giuliana Cavallo Guzzo e Giuseppe Invernizzi per le preziose notizie sulla traduzione. 5. «Giovedì mattina [17 febbraio 1600] in Campo di Fiore fu abbruggiato vivo quello scelerato frate domenichino da Nola, di che si scrisse con le passate: heretico ostinatissimo, et havendo di suo capriccio formati diversi dogmi contro nostra fede, et in particolare contro la Santissima Vergine et Santi, volse ostinatamente morir in quelli lo scelerato; et diceva che moriva martire et volentieri, et che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo in paradiso. Ma hora egli se ne avede se diceva la verità» (Firpo, Processo, doc. 73, p. 356).

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di una concezione dell’ente astratto e inteso in senso logico-verbale6. Singolare se si considera inoltre quando essa è stata composta: tra la fine del 1590 e i primi mesi del 15917, testo di alcune lezioni tenute dal filosofo a Zurigo a «certi dottori», come viene ricordato durante il processo veneto8. Più o meno a quel periodo risale l’abbozzo del De vinculis in genere9, quando Bruno attendeva alla pubblicazione del De triplici minimo e portava a termine gli altri due poemi latini10, apparsi anch’essi a Francoforte nel 1591, lo stesso anno in cui vedeva la luce il De imaginum, signorum et idearum compositione11. 6. Cfr. per es. Causa, BOeuC III 27, 297. Va ricordato che la Summa terminorum metaphysicorum è introdotta da una Praemissa de ente eiusque tum synonymis, tum in actum et potentiam distinctione che affronta la questione dei trascendentalia (cfr. G. Bruno, Summa terminorum metaphysicorum, rist. anast. cit., pp. 6-16 n.n.; BOL I,IV 713). 7. Prima del febbraio del 1591, probabilmente a seguito dell’applicazione di un ordine di estradizione da parte del Senato di Francoforte, Bruno partì dalla città dell’Assia e si recò a Zurigo. Si può ipotizzare che questo avvenne tra il dicembre del 1590 e il mese successivo; secondo Felice Tocco e Girolamo Vitelli forse già nel novembre del 1590 (cfr. I manoscritti delle opere latine del Bruno ora per la prima volta pubblicate, in BOL III, p. XXXIII; va ricordato che Bruno farà ritorno a Francoforte qualche mese dopo, e poté curare la stampa del De monade-De immenso nonché del De imaginum compositione). È Johann Wechel, lo stampatore della trilogia poematica di Bruno, a farci sapere, nella breve dedica premessa al De minimo – datata 13 febbraio 1591 (il 13 febbraio secondo il calendario giuliano, quindi il 23 febbraio secondo quello gregoriano) –, che il filosofo era dovuto partire «casu repentino» e che pertanto gli aveva chiesto, per via epistolare, di scrivere a suo nome una dedica a Enrico Giulio di Braunschweig (cfr. BOL I,III 123-124). A Zurigo Bruno incontrò Raphael Egli e Johann Heinrich Hainzel von Degerstein; a quest’ultimo il filosofo dedicherà il De imaginum compositione. 8. «Il detto Giordano… in Surigo leggeva, per quanto lui mi disse, a certi dottori non so che lettioni, se fossero lettioni de filosofia o d’altra scientia, perché non gli lo domandai, né me fu detto da lui né da altri» (deposizione del libraio Giacomo Brictano [Jacob van Brecht] del 26 maggio 1592, in Firpo, Processo, doc. 8, p. 153). 9. Probabilmente l’abbozzo del De vinculis risale già all’estate del 1590 (sulla cronologia delle opere inedite pubblicate da Tocco e Vitelli cfr. I manoscritti delle opere latine del Bruno, cit., pp. XXIV-XXIX). 10. Va rimarcato che nel De monade, numero et figura Bruno si richiamava a una metafisica-teologia neopitagorica e neoplatonica. 11. Come ebbe a puntualizzare Christoph Sigwart (Kleine Schriften, Erste Reihe, Freiburg i.B. 18892, pp. 122-123), la princeps del De minimo fu posta in vendita alla fiera primaverile di Francoforte del 1591, mentre quella del De monade-De immenso fu messa in vendita alla fiera autunnale dello stesso anno. Poco dopo il De monadeDe immenso, il filosofo pubblicherà, sempre «apud Ioannem Wechelum et Petrum Fischerum consortes», il De imaginum compositione (il tempo trascorso tra le due pubblicazioni dovette essere molto breve). Sigwart notava inoltre che, a differenza del De minimo, questi ultimi due volumi non figurano – per l’iscrizione del permesso di stampa – nel Censurregister del Senato di Francoforte, né compaiono nei cataloghi della fiera libraria. Il permesso di stampa al De minimo era stato concesso dal

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Opera tarda dunque12, che – come del resto anche gli altri scritti del periodo che va dal 1587 al 1591 (mi riferisco in particolare a quelli non pubblicati dall’autore) – pone una serie di problemi di carattere interpretativo e cronologico, in rapporto alle vicende biografiche di quegli ultimi anni di libertà del filosofo nolano. Tra le questioni da affrontare in via preliminare c’è quella relativa al titolo dell’opera. Se non mi sembra si debba dubitare circa l’autenticità del testo bruniano pubblicato da Raphael Egli13, non riconducibile a Bruno è con ogni probabilità il titolo Summa terminorum metaphysicorum14. Titolo, occorre ricordarlo, con cui Egli designa comunque solo la prima parte del testo, da lui edita nel 1595 a Zurigo assieme alla Praemissa de ente15, e che poi ha finito per estendersi a indicare l’intera opera, compresa quella Praxis descensus seu applicatio entis pubblicata nell’edizione marburghese di quattordici anni dopo16. D’altronde, lo stesso Egli nell’epistola dedicatoria a consigliere N. Gryphius il 17 marzo del 1591, secondo il calendario giuliano (= 27 marzo secondo il calendario gregoriano). 12. Un’opera tarda che tuttavia è da ritenere riprendesse, con ogni probabilità, precedenti lavori di Bruno, anche in rapporto alla sua attività di insegnamento (un discorso analogo può farsi per la Lampas triginta statuarum). 13. Non si può invece escludere qualche intervento di Raphael Egli sul testo, per es. di carattere stilistico, anche tenendo conto del rilievo di Guzzo circa il «limpidissimo latino» dell’opera (A. Guzzo, Bruno, Giordano, in Enciclopedia Filosofica, vol. I, Venezia-Roma 1957, col. 812). 14. Cfr. P. R. Blum, Aristoteles bei Giordano Bruno, München 1980, p. 14. Va notato che il titolo Summa terminorum metaphysicorum rinvia specificamente al quinto libro della Metafisica aristotelica – si veda tra l’altro l’intestazione del libro che figura nella diffusa edizione Giuntina delle opere aristoteliche con il commento di Averroè: «Aristotelis Metaphysicorum liber quintus, cum Aver. Commen. Summa libri. In hac Summa unica nonnullorum nominum multipliciter dictorum significationes distinguuntur» (Aristotelis Opera cum Averrois commentariis, vol. VIII, Venetiis 1562; rist. anast. Frankfurt a.M. 1962, c. 100r). In proposito, è da segnalare anche un’opera all’epoca attribuita a Tommaso d’Aquino e che Bruno quasi sicuramente ha tenuto presente nella discussione dei termini aristotelico-scolastici: De totius logicae Aristotelis summa, riprodotta ora in S. Thomae Aquinatis Opera omnia..., curante R. Busa S.I., vol. VII (Aliorum medii aevi auctorum scripta 61), Stuttgart-Bad Cannstatt 1980, pp. 641-665. 15. Questo il frontespizio della prima edizione: Summa terminorum metaphysicorum, ad capessendum Logicae & Philosophiae studium, ex Iordani Bruni Nolani Entis descensu manusc. excerpta; nunc primum luci commissa; a Raphaele Eglino Iconio, Tigurino, Tiguri, apud Ioannem Wolphium, typis Froschovianis, anno M.D.XCV. 16. Questo il frontespizio della seconda edizione: Summa terminorum metaphysicorum Jordani Bruni Nolani. Accessit eiusdem Praxis Descensus, seu applicatio Entis ex manuscripto, per Raphaelem Eglinum Iconium Tigurinum in Acad. Marpurg. Profess. Theolog. Cum Supplemento Rodolphi Goclenii Senioris, Marpurgi Cattorum, ex officina Rodolphi Hutwelckeri, anno 1609. Va ricordato che quello di articoli/tesi e

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Friedrich Salis17, datata 6 maggio 1595 – in cui, riferendosi alle lezioni di Bruno, usa la parola «dictare»18 –, non cita l’opera con il titolo che compare sul frontespizio, che tuttavia come si è ricordato recita: Summa terminorum metaphysicorum... ex Iordani Bruni Nolani Entis descensu manuscripto excerpta19, ma parla genericamente di «reliquiae metaphysicae» le quali rinvierebbero a una Lampas che «ille [Brunus] De Entis descensu adornabat integram»20. Nel 1595, il teologo zurighese decide di pubblicare solo la prima parte di tale Lampas, che esamina cinquantadue termini della tradizione metafisica21, in un ‘libretto’ che dichiara «non tanto contrario alla dottrina dei peripatetici» e utile per intraprendere lo studio della logica e della filosofia22; obiettivi che è da ritenere non dovessero essere tra le prassi/spiegazioni è uno schema ricorrente negli scritti di Bruno (si pensi ad es. al Camoeracensis acrotismus, agli Articuli adversus mathematicos e alle Theses de magia). 17. Figlio di Johannes Salis, detto Travers che, come suo padre, era stato commissario a Chiavenna. Nell’epistola dedicatoria, Egli afferma di aver parlato a lungo di Bruno con Johannes Salis nell’autunno del 1594, e probabilmente in quella occasione fu anche decisa la pubblicazione del volume (cfr. G. Bruno, Summa terminorum metaphysicorum, rist. anast. cit., p. 4 n.n.; BOL I,IV 6). 18. Si tratta di un brano noto, che offre un efficace ritratto del filosofo nolano: «Stans pede in uno, quantum calamo consequi possis, simul et dictare et cogitare; tam rapido fuit ingenio et tanta vi mentis!» (BOL I,IV 5). Si precisa che d’ora innanzi il testo viene citato secondo l’edizione Tocco-Vitelli. 19. Lo stesso si legge nell’intestazione interna: «Summa terminorum metaphisicorum [sic], ex Iordani Bruni Nolani Entis Descensu manusc. excerpta» (ed. 1595 cit., c. 5v). Cfr. anche G. Bruno, Summa terminorum metaphysicorum, rist. anast. cit., p. 1; BOL I,IV 14. Riferendosi a tale intestazione ripresa nell’edizione del 1609 Felice Tocco osservava: «Che la summa terminorum fosse un frammento dell’opera intera, è confermato da questa intestazione apposta dall’editore alla prima parte, Gfr. [= ed. Gfrörer], p. 423: Summa terminorum metaphysicorum ex Jordani Bruni Nolani entis descensu manuscripto excerpta, il che vuol dire che l’intero manoscritto del Bruno s’intitolava de Entis descensu ovvero Lampas de Entis descensu, ed una parte di esso era la Summa terminorum, che l’Eglin ne estrasse» (F. Tocco, Le opere latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane, cit., p. 125, nota 1). 20. BOL I,IV 5. 21. È da precisare che il testo si articola in cinquanta ‘voci’, cioè ampi articoli; Bruno – in particolare per la Summa terminorum – parla di ‘capitoli’, così come tradizionalmente veniva indicato per il quinto libro della Metafisica aristotelica: cfr. ivi, pp. 26, 90, 99. Due capitoli presentano come entrate termini correlati: XIX/XX (Dare et Accipere) e XXXI/XXXII (Prius et Posterius). Si precisa che nel presente contributo si userà il termine ‘articolo’ in riferimento sia alla Summa terminorum che alla Praxis descensus. 22. «Ego vero collectum a me hunc libellum, non magnopere a doctrina Peripateticorum abhorrentem, et utilem et gratum fore studiosis omnibus spero, si qui magistram philosophiae logicam et logicae alumnam philosophiam vel a limine (ut aiunt) salutarint» (BOL I,IV 5; cfr. anche la precedente nota 15).

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priorità del progetto bruniano di una Lampas de entis descensu23. Solo all’interno di tale progetto – che prevede, come Bruno stesso afferma, il piano di una «distribuzione dei predicati che vengono detti della sostanza e degli accidenti», per trattare poi della «loro formazione, per cui sono definiti gli enti metafisici e quelli che son medi tra i princìpi ed enti metafisici e fisici»24 – quella sezione terminologico-lessicografica assumeva un peculiare significato per Bruno, in relazione quindi non a un ordine alfabetico dei termini/concetti, ma a un ordinamento discensivo ontologico-gnoseologico dei predicati o attributi dell’ente, da substantia a evidentia. È da puntualizzare che per entia media sono da intendersi gli entia rationis, da accomunare alle umbrae; ombre che, come le idee, non hanno contrari, essendo infatti media tra luce e tenebre, vero e falso, bene e male25. Va qui ricordato che Raphael Egli era, dal 1588, ‘paedagogus’ presso il Collegium Alumnorum di Zurigo, e quindi poteva avere un interesse preciso a insistere sull’utilità del testo come sussidio per l’insegnamento della filosofia nel suo rapporto con la logica, a sua volta saldata alla grammatica. Sempre nell’epistola dedicatoria, si legge: Nec enim parum momenti ad res investigandas recteque tradendas horum explicatio terminorum attulerit, quandoquidem de rebus omnibus

23. Come già notava Guzzo, l’opera si collega quindi al «ciclo delle Lampadi» (A. Guzzo, Giordano Bruno, cit., p. 239). Sull’idea bruniana di ‘lampas’ cfr. Lampas trig. stat., BOL III 216-218, dove Bruno tra l’altro osserva: «Perficit haec Lampas Lampadem logicorum... Perficit Lampadem Lullii... Iisdem aliisque rationibus perficiuntur Lampades Rhetoricorum triginta diametrorum, triginta sigillorum et triginta lucernarum». È chiaro che i due primi scritti menzionati da Bruno corrispondono al De lampade venatoria logicorum e al De lampade combinatoria Lulliana. Riguardo agli altri tre, Tocco ha osservato che, se è evidente il riferimento alla Explicatio triginta sigillorum, la «Lampas Rhetoricorum» sarà da identificare con l’Artificium perorandi. Riguardo poi alla «Lampas triginta lucernarum» Tocco ipotizza – e secondo me giustamente – che Bruno si riferisca al De umbris idearum, cioè alle «trenta intenzioni delle ombre» e ai «trenta concetti delle idee» (F. Tocco, Le opere inedite di Giordano Bruno, cit., pp. 7-8, nota 3). 24. «Distributionem eorum quae de substantia dicuntur et de accidente praedicatorum, fusius in secunda huius voluminis parte proposuimus. Nunc formationem istorum, qua definiuntur entia metaphysica et ea quae media sunt inter metaphysica atque physica principia et entia, exercebimus. Formabilia sunt Deus seu mens, intellectus seu idea, amor seu anima mundi. Itaque iuxta tria haec pars ista ultima in tres applicationes distribuitur» (BOL I,IV 73). Va precisato che quella che nel brano appena citato viene detta ‘seconda parte’ dell’opera corrisponde alla Summa vera e propria, con l’esame di cinquantadue termini della metafisica sulla base essenzialmente della tradizione aristotelico-scolastica. Nel testo viene considerata ‘prima parte’ la Praemissa de ente, e ‘terza parte’ la Praxis descensus seu applicatio entis, a sua volta divisa in tre applicazioni. 25. Cfr. De umbris, intentiones II, IV, XXI, XXIII, XXX, BUI 26, 28, 40, 43-44.

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contracta vel aliis modis immutata ratione dici possunt, vel quidditative (ut cum Iordano loquar) vel denominative, affirmative aut negative, vel secundum rem vel secundum similitudinem, in recto denique vel in obliquo26.

Pedagoghi, aristotelismo di scuola, grammatica: è evidente che quella di Egli è una ‘vocazione’ non solo estranea a Bruno, ma da questi in generale aspramente combattuta – e va sottolineato che il teologoalchimista svizzero per vari aspetti potrebbe essere un personaggio del Candelaio, come figura intermedia tra Bartolomeo e Mamfurio. Anche con la pubblicazione nel 1609 della Praxis descensus, la dedica di Raphael Egli rimarrà immutata. È da aggiungere che, con l’inserimento nella seconda edizione della Summa terminorum metaphysicorum di due opuscoli di explicatio terminorum, rispettivamente dello pseudo-Atanasio27 e di Rudolph Goclenius (Göckel)28, si tenderà a rafforzare l’immagine dell’opera come manuale di lessicografia filosofica per le scuole; del resto, la stessa ristampa, nell’opuscolo di Goclenius, del De ente et essentia di Tommaso d’Aquino ap26. BOL I,IV 5-6 (Egli si riferisce in particolare alla Praemissa de ente). 27. Terminorum non nullorum explicatio e tractatu De definitionibus divi Athanasii episcopi Alexandrini, quae collectae sunt (G. Bruno, Summa terminorum metaphysicorum, rist. anast. cit., pp. 127-140). L’Explicatio – che presenta complessivamente dieci voci: Finitum, infinitum; Idioma; Natura; Actus; Unitas; Consubstantiale; Anima et mens; Voluntas; Corpus; Corruptibile – è un rimaneggiamento dell’opuscolo dello pseudoAtanasio noto come Tractatus de definitionibus e dipende dal testo del Tractatus inserito negli Opera omnia di Atanasio pubblicati a Basilea, presso Froben, nel 1556 (testo che rimase inalterato nelle numerose ristampe fino alla seconda metà del Seicento). Va ricordato che il Tractatus ebbe una notevole circolazione nel corso del Cinquecento, grazie anche alla pubblicazione in appendice del Compendium vocabularii theologici scholastici di Johann Altenstaig, edito a Parigi nel 1562 e ristampato nel 1567 e nel 1580. La versione del Tractatus che appare negli Opera figura anche nell’edizione degli scritti di Atanasio pubblicata a Parigi nel 1627 col testo greco a fronte. Solo a partire dall’edizione parigina degli Opera del 1698, curata da B. de Montfaucon e J. Loppin (ripresa poi da Migne), l’opuscolo si trova tra gli Spuria di Atanasio. 28. Terminorum quorundam explicationes per Rodolphum Goclenium Seniorem (G. Bruno, Summa terminorum metaphysicorum, rist. anast. cit., pp. 141-229). L’opuscolo è da considerare una sorta di specimen dei due lessici filosofici di Goclenius (Lexicon philosophicum, Francofurti 1613; Lexicon philosophicum Graecum, Marchioburgi 1615; rist. anast. di entrambi: Hildesheim 1964). All’interno del testo, Goclenius riporta con un proprio commento il De ente et essentia di Tommaso d’Aquino (rist. anast. cit., pp. 153-208) nella lezione in sette capitoli pubblicata nell’edizione romana degli Opera omnia. Le Explicationes comprendono complessivamente ventitré voci: Analoga; Bonitas; Contra naturam; Distantia; Existere seu esse alicubi; ∆ιχοτµεως; Facultas δ ναµις; Gradus; Hypolepsis πληψις; Modi; Notio; Notionale νοηµατικν; Nihil; Organicum; Principium individuationis seu singularitatis; Quies; Ratio; Simile; Terminus; Ultimatus; Iudicium; Iudicatio; Veritas.

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pariva del tutto in linea con tale programma29. Il testo di Bruno ha avuto così il singolare destino di essere conosciuto con un titolo che ne definiva programmaticamente un intento che non era quello del suo autore. Un titolo che ne ha condizionato sensibilmente la fortuna anche grazie a quella presentazione che evitava ogni approfondimento del progetto bruniano di una Lampas de entis descensu30, una ‘lampada metafisica’ che si collegava direttamente alla Lampas triginta statuarum, anche in merito alla connessione dei predicati alla triade suprema dell’ente, cioè mens, intellectus primus e spiritus: «plenitudo, idearum fons et lux»31. Si può qui già osservare che la denominazione di fons idearum per l’intelletto primo, il verbum – e nella Lampas triginta statuarum si sottolinea l’equivalenza con mundus idealis o Filius32 – pone qualche problema, in quanto in altre sue opere, per esempio nel Sigillus sigillorum, Bruno parla di fons idearum riferendosi al mondo supremo o anche alla forma prima (hyperusia o superessentia)33, mettendo in rapporto l’intelletto primo con il mundus ideatus o anche mundus physicus. Del resto per Bruno, così come l’anima e la natura, sia la mens che l’intellectus primus sono da dirsi ‘fecondi’34, anche se egli tiene ad insistere sulla loro distinzione35. 29. Cfr. la nota precedente. Riguardo allo scritto dell’Aquinate è stato anche di recente sottolineato: «Di fatto, ciò che Tommaso qui si propone è principalmente un lavoro sul lessico, un lavoro che come tale chiama direttamente in causa il problema della connessione tra l’ordine logico-linguistico e quello reale» (P. Porro, Introduzione a Tommaso d’Aquino, L’ente e l’essenza, a cura di P. Porro, Milano 1995, p. 7). 30. Titolo, questo, che – in mancanza di ulteriore documentazione al riguardo – ritengo sarebbe da preferire per designare l’opera nel suo complesso, mantenendo l’articolazione interna di Praemissa de ente, Summa terminorum metaphysicorum, Praxis descensus seu applicatio entis. 31. Cfr. Lampas trig. stat., BOL III 37 ss., 175, 183, 198 ss. Come è noto, a questa triade suprema – trias plenitudinis – nella Lampas triginta statuarum è speculare la triade infera – trias inanis – di Chaos, Orcus, Nox (BOL III 61). 32. Lampas trig. stat., BOL III 183. 33. Sig. sigill., BOL II,II 164, 203. Nella Praxis descensus si definisce la mens «essentia omnis essentiae fons», «virtutum et praedicatorum omnium fons» (Summa term. met., BOL I,IV 73, 85). Anche nello Spaccio si parla di «un nume de’ numi e fonte de le idee sopra la natura» (BDI 782); ancora, negli Eroici furori, si legge: «la forma de le forme, il fonte de la luce, verità de le veritadi, dio de gli dei, ... il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la monade, vera essenza de l’essere de tutti» (BDI 1123-1124, cfr. anche ivi, p. 940). 34. Cfr. per es. De umbris, conceptus XI, BUI 52; Ars mem., I, V, BUI 67; Sig. sigill., BOL II,II 165, 196; Lampas trig. stat., BOL III 60; Orat. valed., BOL I,I 12; De immenso, BOL I,I 239; Summa term. met., BOL I,IV 96. 35. «Rerum causae efficientes et moventes sunt intellectus et anima, supra quibus est principium unum absolutum, mens seu veritas, quorum essentia et poten-

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Un’altra questione da affrontare in via preliminare riguarda l’incompiutezza dell’opera. Come è noto, non è pervenuta la terza sezione della Applicatio entis, pertinente all’Amor seu anima mundi; le precedenti applicationes riguardano Deus seu mens e Intellectus seu idea36. Preciso subito che la triade brunana di mens, intellectus, anima corrisponde a νος, λγος e ψυχ . Pertanto al νος più che allo ν della triade plotiniana, anche se si tratta di una mens/νος-τ ν che assorbe i caratteri dello ν, cioè come Uno-molti con richiamo al Parmenide platonico e a Plotino37 (e va evidenziato che questo è un passaggio decisivo che per vari aspetti accomuna Bruno a Ficino38). Quindi al λγος come verbum – ma anche come natura, φσις39 – e alla ψυχ , che nella sua funzione di medio è πνεµα ed ρως. Altrove ho proposto di individuare la parte mancante della Praxis descensus con il manoscritto di Bruno cui si fa cenno nei documenti del processo veneto40; manoscritto che, sequestratogli da Giovanni Mocenigo e da questi consegnato all’Inquisitore di Venezia, viene così descritto nella prima lettera di denuncia del 23 maggio 1592: «un’opereta di sua mano, di Dio, per la dedution di certi suoi predicati universali»41. Mantenendo fermo il riferimento alla Lampas de entis descensu42, ritengo non si possa escludere – l’ipotesi mi sembra tia est infinita intensive et extensive: extensive, quia sunt in toto infinito seu ubique; intensive, quia sunt tota in toto et tota ubique. Sed mens eminentius; tota enim in toto est ita ut etiam sit tota extra totum et supra totum, quandoquidem est ens absolutum et per se et sibi sufficiens. Intellectus vero et anima non sunt extra totum neque supra totum, nisi mentis et intellectus significationem confundas, capiendo utrumque sub uno significato» (De rerum princ., BOL III 509). 36. Cfr. BOL I,IV 73, 102. 37. Cfr. Platone, Parm. 144e 5; Plotino, Ennead. VI 7, 14. 38. Riferendosi in particolare ai primi libri della Theologia Platonica, Paul Oskar Kristeller ha osservato: «gli attributi universali caratteristici del νος plotiniano sono nel Ficino passati al concetto di Dio. Cioè il concetto ficiniano di Dio comprende insieme gli attributi essenziali dello ν e quelli del νος. Anzi possiamo addirittura affermare che prevalgono nettamente nell’esposizione del concetto ficiniano di Dio i caratteri del νος plotiniano» (P. O. Kristeller, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, ed. riveduta, Firenze 1988, p. 177). 39. Cfr. per es. Sig. sigill., BOL II,II 176; Summa term. met., BOL I,IV 101 e 104-105 (dove si parla di «veritas intelligentiae» come physis). 40. E. Canone, Nota su Raphael Egli e la «Summa terminorum metaphysicorum», cit., p. XVI. 41. Firpo, Processo, doc. 2, p. 145. 42. Secondo alcuni studiosi – ma l’ipotesi è poco plausibile – il manoscritto autografo sui ‘predicati di Dio’, consegnato da Mocenigo all’Inquisitore nel maggio 1592, non sarebbe altro che il testo delle lezioni su «trenta attributi divini» da Bruno tenute a Parigi dieci anni prima e alle quali egli fa riferimento nel secondo costituto veneto (vd. Firpo, Processo, doc. 11, p. 161). Si tratta di una vecchia ipotesi

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anzi più verosimile – che il manoscritto autografo43 inviato da Mocenigo a Giovanni Gabriele da Saluzzo e di cui in seguito si sono perse le tracce corrispondesse all’intera Praxis descensus, forse completata e rivista da Bruno tra Francoforte e Padova; un periodo in cui egli continuava tra l’altro a lavorare anche alla Lampas triginta statuarum44, opera affine – e per vari aspetti – alla Lampas de entis descensu. In effetti, la Applicatio entis, già così come è pervenuta, corrisponde perfettamente alla pur sommaria descrizione di Mocenigo: «un’opereta..., di Dio, per la dedution di certi suoi predicati universali». Nella sua descrizione, Mocenigo probabilmente si richiamava in particolare a quanto si poteva leggere all’inizio della Praxis descensus, dove Bruno presenta in sintesi il significato del ‘descenso’ – a partire da Deus seu mens – riferendosi a ciò che viene predicato universaliter della sostanza45. Mi sembra inoltre che si possa del tutto escludere l’ipotesi che Raphael Egli possedesse il manoscritto completo della Praxis descensus, e decidesse di pubblicarlo nel 1609 omettendone l’ultima sezione sull’anima del mondo46. Non essendosi conservata, tra le carte del processo veneto, la lista presentata dal filosofo nolano nel corso del suo terzo costituto, la quale elencava i suoi libri sia a stampa sia manoscritti47, che – (cfr. D. Berti, Giordano Bruno da Nola, sua vita e sua dottrina, nuova ed. riveduta, Torino 1889, p. 476) ripresa anche in V. Salvestrini, Bibliografia di Giordano Bruno (1582-1950), 2a ed. postuma a cura di L. Firpo, Firenze 1958, p. 177, n. 238: «De’ predicamenti di Dio. Inedita e smarrita...», nonché in Firpo, Processo, p. 74. Per i dubbi circa l’identificazione – «ove si badi alle date e alle vicissitudini intercorse all’uomo» – cfr. G. Aquilecchia, Giordano Bruno, Roma 1971, p. 17. 43. Mocenigo parla di «un’opereta di... mano» di Bruno e, anche se non è possibile verificarlo, non credo si debba dubitare di tale affermazione. 44. La Lampas triginta statuarum fu copiata a Padova da Hieronymus Besler dal 1° settembre al 22 ottobre 1592 (per varie considerazioni cfr. F. Tocco e G. Vitelli, I manoscritti delle opere latine del Bruno, cit., pp. XXVIII-XXIX, LX-LXIV). 45. Vd. Summa term. met., BOL I,IV 73. 46. Non si può invece escludere che Raphael Egli possedesse solo degli appunti relativi alla sezione Amor seu anima mundi, e che li ritenesse inadeguati a una pubblicazione. 47. Firpo, Processo, doc. 13, pp. 165-166. Nel documento processuale della lista vengono citati solo l’inizio («Libri varii nostri impressi in diverse parti») e la fine («et finiens: “De sigillis Hermetis, Ptolomei et aliorum”»). Alla domanda dell’Inquisitore: «se tutti quelli libri che sono stati stampati sotto il suo nome et scritti a mano, secondo si contiene nella sudetta sua lista, sono stati composti da lui et se è tutta sua dottrina», Bruno risponde: «Tutti sono stati composti da me; et quel che si contiene è mia dottrina, salvo l’ultimo in lista, che non è stampato, intitolato De sigillis Hermetis, Ptolomei et aliorum, non è mia dottrina; ma io l’ho fatto trascrivere da un altro libro scritto a mano che era appresso de un mio scolaro alemano de Norimberga, che si chiama Hieronimo Bislero, che stava pocco fa in Padoa et m’ha

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come lui stesso afferma – «andavo revedendo per darli alla stampa subito che io ne havevo commodità o in Francoforte o in altro luoco»48, non è dato sapere se tale lista registrasse (e in che modo) quella sua opera sui ‘predicati universali’ di Dio. Appare comunque curioso che di quel manoscritto non si faccia più alcun riferimento durante il processo, né a Venezia né a Roma, dove fu poi forse inviato assieme all’incartamento processuale; un testo che, pur tenendo conto della non sempre facile lettura degli autografi bruniani49, avrebbe potuto avvalorare una delle accuse più gravi contenute già nella prima denuncia di Mocenigo: di aver cioè sentito dire a Bruno «che non vi è distintione in Dio di persone, et che questo sarebbe imperfetion in Dio»50. Accusa che del resto sarà confermata ampiamente dalle stesse parole di Bruno durante il processo: «per via di raggione et non per via di substantiale verità – dirà egli tra l’altro – intendo distintione nella divinità», dichiarando poi di aver dubitato sin dalla prima giovinezza «circa le divine persone»51. Sono temi su cui Bruno ritornerà più volte negli interservito per scrittor forsi dui mesi» (ivi, p. 166). Riguardo al De sigillis Hermetis cfr. anche ivi, doc. 16, p. 193, e doc. 51, pp. 286, 296. L’opera è da identificare con il «libretto di congiurationi» cui Mocenigo fa riferimento nella seconda lettera di denuncia, affermando di averlo trovato tra le carte del filosofo (ivi, doc. 3, p. 146). Durante il processo ripetitivo, Mocenigo preciserà di aver consegnato tale «libretto pieno di caratteri» all’Inquisitore (ivi, doc. 51, p. 286). 48. Ivi, p. 166. 49. Si può in tal senso ricordare che Felice Tocco e Girolamo Vitelli, nella presentazione del volume contenente gli scritti inediti del filosofo nolano, ringraziano il paleografo Cesare Paoli, per l’aiuto nel «decifrare luoghi per noi affatto indecifrabili, soprattutto nelle pagine autografe del Bruno» (BOL III, p. IV; per l’indicazione delle pagine autografe di Bruno nel codice appartenuto ad Avraam S. Norov cfr. ivi, p. XXI). 50. Firpo, Processo, doc. 2, p. 143; cfr. anche il corrispondente brano nel Sommario del processo, ivi, doc. 51, p. 253. Se ancora nella seconda lettera di denuncia, Mocenigo sottolineava che Bruno non credeva nella «santissima Trinità» (ivi, doc. 3, p. 146), nella terza denuncia – certo ben consapevole della gravità della questione – il delatore aggiungeva: «[Giordano Bruno] Mi disse anco in proposito del non saper di questi tempi, che, adesso che fiorisse la maggior ignoranza che habbi havuto mai il mondo, si gloriano alcuni di haver la maggior cognitione che sia mai stata, perché dicono di saper quello che non intendono, che è che Dio sia uno et trino, et che queste sono impossibilità, ignoranze et bestemie grandissime contra la maestà di Dio» (ivi, doc. 10, p. 158). Sul medesimo punto, il Sommario registra anche la testimonianza di Mocenigo durante il processo ripetitivo (gennaio-marzo 1594): «Due volte ragionando meco disse che non vi era Trinità in Dio, e ch’era una grande ignoranza e biastema dire che Dio fosse Trino et uno..., perché in Dio non v’era queste tre persone, e che era una pazzia a dirlo» (ivi, doc. 51, p. 253). 51. Ivi, doc. 13, pp. 168-169. Nel terzo costituto Bruno afferma di aver «dubitato circa il nome di persona del Figliuolo et del Spirito santo» dall’età di diciotto anni,

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rogatori a Venezia52, per chiarire la sua interpretazione di potenza, sapienza e bontà di Dio «nelli termini della filosofia», cioè quali attributi divini e non entità personali, anche citando i tre poemi filosofici apparsi a Francoforte nel 1591, nei quali si ritorna spesso sul tema della potenza, sapienza e bontà di Dio53. Tuttavia, con ogni probabilità, Bruno sapeva – o poteva comunque sospettare – che Mocenigo, delle «carte et libri» che gli aveva sequestrato, si era premurato di consegnare all’Inquisitore tutti quegli scritti che potevano avvalorare le proprie accuse o che gli erano sembrati, in qualche modo, compromettenti; e tra quelle carte c’era pure quella «opereta di sua mano, di Dio, per la dedution di certi suoi predicati universali». Per cui è molto probabile che anche per questo motivo egli si soffermi così diffusamente negli interrogatori sulla questione della triade divina di mente, intelletto quindi dal 1566, solo un anno dopo aver messo piede nel convento napoletano di San Domenico Maggiore (vd. ivi, p. 170, e doc. 51, p. 255). È da supporre che questo suo ‘dubitare’, in particolare «intorno l’incarnatione del Verbo», fosse non solo frutto di quella sua prima formazione filosofica improntata a un aristotelismo di indirizzo averroistico, che poteva favorire una certa incredulità, ma anche a probabili contatti con propaggini di quei circoli napoletani di valdesiani e di anabattisti antitrinitari che proponevano un’interpretazione radicale di Erasmo. Per alcune indicazioni su tali circoli radicali cfr. S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia (15201580), Torino 1987, pp. 206-208, e L. D’Ascia, Erasmo a Napoli, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXVI (1997), 2, pp. 165-170. 52. Come risulta dal Sommario, Bruno confermerà le sue posizioni anche a Roma, nel suo diciassettesimo costituto (primavera del 1597); cfr. Firpo, Processo, pp. 7879, e doc. 51, p. 255. 53. «Tutti [li articuli da me filosoficamente proposti et diffesi] possono esser conosciuti da quel che è stampato in questi ultimi libri latini da Francoforte, intitolati De minimo, De monade, De immenso et innumerabilibus et in parte De compositione imaginum. Et in questi libri particularmente si può veder l’intention mia et quel che ho tenuto; la qual, in somma, è ch’io tengo un infinito universo, cioè effetto della infinita divina potentia, perché io stimavo cosa indegna della divina bontà et potentia che, possendo produr, oltra questo mondo un altro et altri infiniti, producesse un mondo finito... Di più, in questo universo metto una providenza universal, in virtù della quale ogni cosa vive, vegeta et si move et sta nella sua perfettione» (ivi, doc. 13, pp. 167-168). È da segnalare che, quasi sicuramente, De minimo e De monade-De immenso erano tra quei «tre libri... a stampa» inviati da Mocenigo all’Inquisitore, assieme alla prima lettera di denuncia. Quanto poi al terzo ‘libro’ spedito da Mocenigo con la prima denuncia, Luigi Firpo ha proposto di identificarlo con il De la causa, ma è probabile che si trattasse di un volume che comprendeva sia il De la causa che il De l’infinito, testo – quest’ultimo – cui Bruno fa preciso riferimento nel suo quarto costituto (va sottolineato che dal censimento delle antiche stampe bruniane emerge che vari esemplari superstiti di De la causa e De l’infinito risultano legati in un volume unico). Cfr. ivi, p. 74; doc. 2, p. 145, doc. 14, p. 178; vd. R. Sturlese, Bibliografia, censimento e storia delle antiche stampe di Giordano Bruno, Firenze 1987, pp. 51-59.

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e amore, con espressioni che ricordano da vicino alcuni passaggi della Paxis descensus. È evidente che uno dei punti più delicati, in merito a quel problematico concetto di ‘persona’ da attribuire alla divinità, riguardava l’incarnazione del Verbo, che Bruno intende quale intellectus primus e come la stessa physis, universum, «unigenita natura»54. Così, nel suo terzo costituto egli, «dechiarando l’opinione d’Ario», afferma come secondo questi «il Verbo sia prima creatura del Padre; ... Ario diceva che il Verbo non era creatore né creatura, ma medio intra il creatore et la creatura, come il verbo è mezzo intra il dicente et il detto, et però essere detto primogenito avanti tutte le creature, non dal quale ma per il quale è stato creato ogni cosa»55. Le medesime espressioni vengono utilizzate da Bruno nell’articolo XXII. Medium della Summa terminorum metaphysicorum, come pure nella Lampas triginta statuarum e nel De monade: Medium dicitur multipliciter... Proportionaliter est in his quae contrariantur secundum voluntatem, finem et institutum, quae conveniunt per intercessorem et mediatorem; item inter agentem et id quod fit, seu terminum actionis vel subiectum, mediat ipsa actio seu fluxus quidam, sicut inter dicentem et dictum mediat verbum, inter creatorem et creaturam mediat verbum per quod omnia facta sunt56.

Come si è detto, durante il processo il filosofo nolano tiene a puntualizzare che, nelle sue discussioni sia a Napoli con i confratelli di San Domenico Maggiore sia a Venezia con «certi preti», avrebbe solo riferito quelle che riteneva le opinioni di Ario, come pure quelle di Sabellio57. Si può notare che nei suoi scritti Bruno concepisce il verbum come intelletto primo e natura in quanto domus pri54. Causa, BOeuC III 207. Nella Lampas triginta statuarum Bruno afferma che l’universo è «unigenitus primi intellectus» (BOL III 58). 55. Firpo, Processo, doc. 13, p. 171. Sul dubbio circa l’incarnazione del Verbo cfr. anche ivi, doc. 14, pp. 172-173, e doc. 15, pp. 185-186. 56. Summa term. met., BOL I,IV 42 (cfr. anche l’art. XXII. Instrumentum della prima sezione della Praxis descensus, ivi, p. 82). Vd. De monade, BOL I,II 374-375 e, in particolare, l’art. XXIV della sezione De primo intellectu (quinto infigurabile) della Lampas triginta statuarum: «Imaginare triadem, quae est in dicente verbo, et significato in eo quod dicitur ‘pater mens est qui dicendo produxit filium seu verbum, et per verbum dictum universa sunt producta’; verbum etenim illud non solum est substantia, sed substantiarum substantia, in quo est efficacia mundi producendi, conservandi et reparandi. Ita ergo se habet intellectus primus ad mentem absolutam, sicut verbum ad dicentem a quo procedit, et intelligitur habere esse medium inter omnia producta et super illa omnia et inter primum efficientem» (BOL III 51-52). 57. Cfr. Firpo, Processo, doc. 13, pp. 170-171, e doc. 15, p. 191; vd. anche Sommario, ivi, doc. 51, pp. 255-256 e 292-293.

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mogenita58; verbum che egli considera ‘consustanziale’ rispetto alla mens, ovviamente in una prospettiva filosofica molto distante dalle controversie trinitarie e cristologiche. Pertanto, nello Spaccio de la bestia trionfante egli farà riferimento alla «primogenita Minerva», mentre nel De minimo, nel De monade e nel De immenso come pure nel De imaginum compositione – richiamandosi a Mosè, Ermete Trismegisto, ai Caldei e agli Egizi – parlerà di lux primogenita59. Se quindi, nei suoi costituti, da un lato Bruno tiene a rimarcare che la sua concezione di potenza, sapienza e bontà quali attributi divini trova d’accordo «theologi et più grandi filosofi»60, dall’altro, egli deve riconoscere, anche per non apparire in palese contraddizione con quanto risultava chiaramente da quei suoi scritti già nelle mani del tribunale, che: Quanto poi a quel che appartiene alla fede, non parlando filosoficamente, per venir all’individuo circa le divine persone, quella sapienza et quel figlio della mente, chiamato da’ filosofi intelletto et da’ theologi Verbo, il quale se deve credere haver preso carne humana, io stando nelli termini della filosofia non l’ho inteso, ma dubitato et con inconstante fede tenuto61.

Interpretare la trinità divina «nelli termini della filosofia» («parlando filosoficamente», «per via di raggione») significava per Bruno un radicale cambiamento di prospettiva rispetto alla teologia cristiana, spingendosi – con l’idea di un universo infinito cui attribuire potenza, sapienza e bontà infinite – ben oltre quella concezione eterodossa che considerava le tre divine persone quali attributi di una medesima divinità e che poteva inclinare verso l’eresia sabelliana62. Non si trattava comunque di penetrare la divinità in sé, «per via di substantiale verità», ma di conoscere la divinità «per quanto si comunica alli effetti della natura»63. Come ha osservato Felice Toc-

58. Domus primogenita che sarebbe la ‘seconda casa’ della sapienza divina (cfr. Orat. valed., BOL I,I 14). 59. Cfr. BDI 702, BOL I,II 39, BOL I,II 463, BOL I,III 171 e BOL II,III 117. 60. «Doppoi, nella divinità intendo tutti li attributi esser una medesma cosa, insieme con theologi et più grandi filosofi; capisco tre attributi, potentia, sapientia et bontà, overamente mente, intelletto et amore, col quale le cose hanno prima l’essere per raggion della mente, doppoi l’ordinato essere et distinto per raggione dell’intelletto, terzo la concordia et simitria per raggione dell’amore» (Firpo, Processo, doc. 13, p. 168). 61. Ivi, pp. 168-169. 62. Accusa che ad es. veniva rivolta a Pietro Abelardo e a Guglielmo di Conches (cfr. T. Gregory, Anima mundi. La filosofia di Guglielmo di Conches e la Scuola di Chartres, Firenze 1955, pp. 114-120). 63. Spaccio, BDI 783.

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co: «La trinità secondo lui non è un processo interno di Dio, come lo intendono i Teologi, ma riguarda Dio come facitore del mondo... Non è dunque Dio in sé medesimo, ma il principio del mondo, che si deve considerare quale potenza, sapienza e amore»64. In tal senso, la triadicità del principio divino – come per le primalità campanelliane – si manifesta in ogni cosa65, mentre l’essenza della divinità, la sostanza in sé rimane innominabile e inconoscibile o incomprensibile66; l’uomo può attingere la divinità solo per analogia a livello del suo comunicarsi67, o per cenni e per via di negazione, come insegna la teologia apofatica68. Triadicità del principio divino che può essere concepita come triade di ‘essere, intelligenza, anima-vita’, ‘men-

64. F. Tocco, Le fonti più recenti della filosofia del Bruno, «Rendiconti della R. Accademia dei Lincei», Classe di scienze morali, storiche e filologiche, vol. I, 1892, pp. 593-594. Cfr. anche F. Tocco, Le opere inedite di Giordano Bruno, cit., pp. 42-44: «Talvolta il nostro Autore adopera il linguaggio delle scuole, ma corretto e adattato alle sue vedute... Così la triade suprema dell’essere pieno, vale a dire mente, intelletto e amore è quella stessa che, attinta ai neoplatonici, si legge nella Summa terminorum. Vero è che talvolta s’appella agli antichi teologi, e par che abbracci la loro interpretazione del domma trinitario... ma... per lui la suprema realtà non è chiusa in sé medesima, ma si dilarga nell’immenso circolo di tutti gli esseri, che tutti illumina e vivifica». 65. Come Bruno osserva nello Spaccio, riferendosi al culto degli Egizi: «Conoscevano que’ savii dio essere nelle cose, e la divinità, latente nella natura, oprandosi e scintillando diversamente in diversi suggetti, e per diverse forme fisiche, con certi ordini, venir a far partecipi di sé, dico de l’essere, della vita ed intelletto» (BDI 778). 66. Summa term. met., BOL I,IV 60 e 85-86: «substantia rerum est incognoscibilis et innominabilis»; «[Deus] Innominabilis est. Ea enim possunt nominari, quae et definita sunt; quorum vero non est finis neque terminus neque certificata natura, quod putas esse nomen? Illi subinde omne esse convenit, quia est rerum omnium essentia, item virtutum et praedicatorum omnium fons». Su questo punto Bruno si richiama tra l’altro a Cusano: «Ex hiis clarissime constat maximum absolute incomprehensibiliter intelligibile pariter et innominabiliter nominabile esse» (Nicolaus de Cusa, De docta ignorantia, lib. I, cap. V, ediderunt E. Hoffmann et R. Klibansky, Lipsiae 1932, p. 11). Va notato che sulla questione, nella Praxis descensus come in altre sue opere, Bruno ha presente le riflessioni dello pseudo-Dionigi Areopagita (De divinis nominibus, I, 5-7) e di Tommaso d’Aquino (Summa theologiae, I, q. 13, artt. 1-2). Cfr. Spaccio, BDI 649-650; Furori, BDI 1123; De monade, BOL I,II 462. 67. Nel De la causa Bruno rimarca che per i filosofi è sempre a partire dalla «università fisica» che ci si può – volendo – innalzare a quella «archetipa» (Causa, BOeuC III 287; cfr. anche ivi, p. 253). 68. «Qua de re Pythagorici, Plato et qui negativam meditantur theologiam, omnem dictionem a divina praedicatione denominationeque abigendam existimant, ut quidquid (etiam perfecti) de rerum principe dici et cogitari potest, idem per adcursum ad eminentissimam inattingibilemque rationem proprie etiam negari debeat» (Sig. sigill., BOL II,II 172). Cfr. Causa, BOeuC III 213; Furori, BDI 1122, 1158-1159, 1164.

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te, intelletto, amore’, ‘potenza, sapienza, bontà’ o in altro modo, ricollegandosi alla tradizione neoplatonica da Plotino a Proclo, ma anche con richiamo a una più antica sapienza. Bruno rinvia in tal senso agli Egizi69, e il riferimento è agli scritti attribuiti ad Ermete Trismegisto, in particolare al Pimander e all’Asclepius, testi che – come sottolineava Marsilio Ficino – trattano rispettivamente della potestassapientia e della voluntas di Dio70. Si è già ricordato come, nel corso del processo a Venezia, il filosofo nolano riconosca di aver dubitato dall’età di diciotto anni circa il nome di persona del Figlio e dello Spirito Santo, e di averli intesi come intelletto primo e come anima dell’universo71, fondamentalmente quali attributi della divinità «senza conoscer questo nome persona, che appresso sant’Agustino è dechiarato nome non antico, ma novo et di suo tempo»72. Nelle sue risposte, Bruno evita di

69. Summa term. met., BOL I,IV 102-103. 70. Argumentum Marsilii Ficini Florentini in librum Mercurii Trismegisti, in Marsilii Ficini... Opera, Basileae 1576, 2 voll.: II, p. 1836. 71. Bruno dichiara: «Così quanto al Spirito divino per una terza persona, non ho possuto capire secondo il modo che si deve credere; ma secondo il modo pittagorico, conforme a quel modo che mostra Salomone, ho inteso come anima dell’universo» (Firpo, Processo, doc. 13, p. 169). Per l’identificazione dello Spirito Santo con l’anima mundi, Bruno poteva richiamarsi – oltre ad autori più recenti, come per es. Agrippa di Nettesheim e Agostino Steuco – a una tradizione che aveva in Pietro Abelardo e in alcuni maestri della Scuola di Chartres tra le figure più rappresentative (è da segnalare che non tutti gli studiosi sono concordi su tale interpretazione, in particolare riguardo ad Abelardo; cfr. T. Gregory, Anima mundi cit., pp. 133-151). Va sottolineato che meriterebbe un’indagine approfondita il confronto tra Bruno e l’opera di un autore come Guglielmo di Conches (ma il discorso vale anche per una figura come Giovanni Scoto Eriugena), tenendo conto che sia la Philosophia mundi che il Dragmaticon philosophiae erano stati pubblicati nel corso del Cinquecento, anche se con varia attribuzione. 72. Firpo, Processo, doc. 13, p. 170. Nel quarto costituto Bruno precisa: «Per maggior dechiaratione di quanto ho detto questa mattina, io dico d’haver tenuto et creduto che vi sia un Dio distinto in Padre in Verbo et in Amore, che è il Spirito divino, et sono tutti questi tre un Dio in essentia; ma non ho potuto capir, et ho dubitato, che queste tre possino sortir nome di persone; poiché non mi pareva che questo nome di persona convenisse alla divinità, confortandomi a questo le parole di san Agustino, che dice: “Cum formidine proferimus hoc nomen personae, quando loquimur de divinis, et necessitate coacti utimur”; oltra che nel Testamento vecchio et novo non ho trovato né letto questa voce, né forma de parlar» (ivi, doc. 14, pp. 172-173; cfr. anche Sommario, ivi, doc. 51, pp. 256-257). È da notare che il passo citato da Bruno non si trova negli scritti di sant’Agostino. Angelo Mercati ha ipotizzato che Bruno intende forse riferirsi – citando a memoria – a un brano del cap. IV dell’ottavo libro del De Trinitate (vd. A. Mercati, Il Sommario del processo di Giordano Bruno, con appendice di documenti sull’eresia e l’inquisizione a Modena nel secolo XVI, Città del Vaticano 1942, p. 66, nota 2). Va aggiunto che nelle sue risposte Bruno

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usare il termine ‘ipostasi’73, che pure ricorre non di rado nei suoi scritti, e nella stessa Praxis descensus in relazione all’impossibilità di attingere «substantia et hypostasis» di Deus seu mens74. Bruno lo evita, e con ogni probabilità non deve essere stato un fatto casuale. Se nello Spaccio egli aveva fortemente ironizzato sull’idea di unione ipostatica del Verbo, discutendo apparentemente del centauro Chirone75, in generale nelle sue opere egli usa il termine ipostasi nel senso sì di sostanza individuale, come recitava la celebre definizione di Boezio76, ma va nel contempo puntualizzato che secondo Bruno si parla impropriamente di sostanza individuale per il supposito o per il sinolo; più che «sustanza particolare» si dovrebbe dire: «sustanza nel particolare»77, essendo l’anima del mondo la individua substantia. Per il filosofo nolano, ipostasi sta specificamente per ‘figura’, la configurazione che assume il composto, e in questo senso la formafigura determinata assunta dal sostrato materiale, e quindi in relazione alla «materia complessionata», la «complessione dell’individuo», il corpo. Configurazione che rinvia all’attività plasmatrice dell’anima del mondo, in quanto – pur parlando egli metaforicamente di composto di materia e di luce78 – non ci sarebbe per lui un’effettiva unione di materia e forma sostanziale79. Bruno usa il termine anavrà probabilmente tenuto presente anche alcuni passaggi della prima parte della Summa theologiae (q. 29, art. 3) di san Tommaso. 73. Il termine ricorre una sola volta nei documenti processuali, nella forma «ippostase» e usato non da Bruno (cfr. Firpo, Processo, doc. 14, p. 182). 74. Summa term. met., BOL I,IV 91. Il termine ‘ipostasi’ (anche nella forma aggettivale) ricorre in quasi tutte le opere di Bruno, dall’Ars memoriae ai poemi francofortesi e ai cosiddetti scritti magici. 75. «Or, che vogliamo far di quest’uomo insertato a bestia, o di questa bestia inceppata ad uomo, in cui una persona è fatta di due nature, e due sustanze concorreno in una ipostatica unione? Qua due cose vegnono in unione a far una terza entità; e di questo non è dubio alcuno. Ma in questo consiste la difficultà; cioè, se cotal terza entità produce cosa megliore che l’una e l’altra, o d’una de le due parti, overamente più vile» (Spaccio, BDI 823). Nel De immenso, con riferimento alla teologia trinitaria e all’idea di ipostasi/persona del Verbo, Bruno alluderà polemicamente a «sostanze, essenze, usie di nuovi Elohim» (De immenso, BOL I,II 55). 76. «Quocirca si persona in solis substantiis est atque in his rationabilibus substantia que omnis natura est nec in universalibus sed in individuis constat, reperta personae est definitio: “naturae rationabilis individua substantia”. Sed nos hac definitione eam quam Graeci πστασιν dicunt terminavimus» (Contra Eutychen et Nestorium, III, 1-6). Cfr. anche l’analisi di Tommaso d’Aquino nella Summa theologiae, I, q. 29, artt. 1-4. 77. Causa, BOeuC III 299. 78. Cfr. Lampas trig. stat., BOL III 90. 79. Si consideri in tal senso il seguente brano dell’Epistola esplicatoria dello Spaccio, tenendo conto delle espressioni ‘ipostasi’ e ‘ipostatica composizione’: «la sustanza spirituale, bench’abbia familiarità con gli corpi, non si deve stimar che pro-

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che per ‘statua’ e, con riferimento alle statue-ipostasi delle divinità nella Lampas triginta statuarum80, per le ‘figure’ del mondo intelligibile; come si legge nel Cantus Circaeus: formae generales e subiecta generalia rispetto a una forma generalissima e a un subiectum generalissimum81, che risulta ‘infigurabile’. E va rilevato che il concetto corrisponde a quanto Bruno osserva nel terzo dialogo dello Spaccio, dove – prendendo in esame il culto degli Egizi – egli fa riferimento alle diverse «specie che sono nel grembo della natura» («sette specie» così come sono sette nel Cantus Circaeus le deorum ypostases) rispetto al «fonte de le idee sopra la natura»82. È questa la ragione per cui nello Spaccio, seguendo l’impostazione dei neoplatonici, si riconosce il valore speculativo del politeismo, con la sua idea di entità mediatrici – le specie – tra unità e molteplicità83; e Bruno coglie con chiarezza il legame tra questa concezione filosofica e le enigmatiche statue animate84, simulacri viventi della divinità, di cui si discute nell’Asclepius85. priamente vegna in composizione o mistione con quelli... ma è una cosa, un principio efficiente ed informativo da dentro, dal quale, per il quale e circa il quale si fa la composizione; ed è a punto come il nocchiero a la nave, il padre di fameglia in casa ed uno artefice non esterno, ma che da entro fabrica, contempra e conserva l’edificio... soccorre a tutto, di dentro, con il vital calore ed umido radicale, onde tale ipostasi consista, e tal volto, figura e faccia appaia di fuori. Cossì si forma la stanza in tutte le cose dette animate, dal centro del core, o cosa proporzionale a quello, esplicando e figurando le membra, e quelle esplicate e figurate conservando. Cossì, necessitato dal principio della dissoluzione, abandonando la sua architettura, caggiona la ruina de l’edificio, dissolvendo li contrarii elementi, rompendo la lega, togliendo la ipostatica composizione» (BDI 556-557; cfr. il cap. III del primo libro del De minimo). Vd. anche Sig. sigill., BOL II,II 174: «Mens enim, quae universi molem exagitat, est quae a centro semen figurat, tam mirabilibus ordinibus in suam hypostasim educit...». Nella Lampas triginta statuarum si parla di «hypostases numerales» (BOL III 59). 80. Nell’opera i termini ‘statua’ e ‘ipostasi’ sono usati come sinonimi (cfr. per es. BOL III 206, 210). Nel Cantus Circaeus Bruno parla di «sette ipostasi degli dèi» (BOL II,I 256). 81. Cantus, BOL II,I 257. 82. Spaccio, BDI 782. 83. Ivi, pp. 777 e 781: «diverse cose vive rapresentano diversi numi e diverse potestadi; che oltre l’essere absoluto che hanno, ottegnono l’essere comunicato a tutte le cose secondo la sua capacità e misura... cossì pensar devi di ciascuno de gli dei per ciascuna de le specie sotto diversi geni de lo ente, perché sicome la divinità descende in certo modo per quanto che si comunica alla natura, cossì alla divinità s’ascende per la natura, cossì per la vita rilucente nelle cose naturali si monta alla vita che soprasiede a quelle... Vedi come a quell’una [semplice divinità] diversamente bisogna ascendere per la participazione de diversi doni; altrimente in vano si tenta comprendere l’acqua con le reti e pescar i pesci con la pala». 84. Ivi, p. 784. 85. Asclepius, 24.

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Con la triade di mente, intelletto e amore, nella Praxis descensus Bruno afferma come in nessun caso si debbano intendere «tria numina substantialiter distincta, sed unus Deus se ipso se ipsum cognoscens et amans»86, insistendo sul fatto che «nella divinità questi tre, come anche innumerevoli altri predicati che s’annoverano ad analogia di quelli, non fanno affatto alcuna distinzione»87. È da notare che il filosofo nolano, pur affrontando variamente nelle opere dell’ultimo periodo della sua attività le tematiche trattate nella Lampas de entis descensu – si pensi al tema del descensus che implicava la questione della scala dell’essere, come pure al problema degli attributi dell’ente infinito –, non fa in tali opere alcun cenno al testo della Lampas de entis descensu né alla sua composizione. Infatti, il brano del De minimo in cui si allude a un successivo scritto sulla metafisica, che potrebbe far pensare alla Summa terminorum metaphysicorum-Praxis descensus, è da interpretare come riferimento al De monade88. Nel brano – che dà una qualche notizia riguardo al periodo di completamento degli altri due poemi filosofici latini ed è da leggere assieme alla lettera di Johann Wechel premessa al De minimo89 – Bruno dichiara che, nei suoi scritti sulla metafisica e sull’anima, offrirà definizioni più accurate degli atomi e della loro natura eterna90. Se mi sembra abbastanza evidente che nel brano del De minimo l’opera sulla metafisica sia da identificare con il De monade – opera di metafisica, pur dall’angolazione di una teologia neopitagorica e neoplatonica91 –, più curioso potrebbe apparire l’appellati86. Summa term. met., BOL I,IV 80. 87. Nella ‘premessa’ alla sezione Intellectus seu idea della Praxis descensus Bruno riprende il tradizionale paragone tra la divinità e il Sole, tuttavia precisando: «Rursum in sole haec tria [i.e. substantia, lux, calor] tanquam una substantia et duo accidentia distinguuntur; sua vero tria in divinitate, sicut et innumera alia praedicata quae sub eorum analogia recensentur, nullam omnino faciunt distinctionem» (ivi, p. 103). 88. Per l’interpretazione del brano del De minimo come riferimento alla Summa terminorum metaphysicorum-Praxis descensus cfr. P. R. Blum, Aristoteles bei Giordano Bruno, cit., p. 104, nota 30. 89. BOL I,III 123-124. 90. Questo il brano del libro II del De minimo in cui, come si è detto, Bruno sta discutendo degli atomi: «Quaedam vero proprie intrinsecaque natura aeterna, immortalia, incomponibilia, indissolubilia, animae, Dii, Deus, de quibus accuratius in Metaphysicis et iis quae De anima, Deo nobis suppeditante tempus, a nobis definietur. Attamen nunc de futurus incertis liceat paulo, ad illam meditationem de profundioribus ingeniis exsuscitandam, evagasse» (BOL I,III 211; vd. anche l’analogo riferimento nel libro IV del De minimo, ivi, p. 273). 91. Va sottolineato che nel De immenso Bruno si riferisce al De monade come opera composta «magna ex parte ex authoritate experientiaque aliena» (BOL I,I 306307).

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vo di De anima per il De immenso, anche se non va dimenticato quanto si legge nell’epistola dedicatoria al duca Enrico Giulio di Braunschweig, epistola concepita da Bruno come clavis della trilogia poematica. Riferendosi a De minimo, De monade e De immenso, egli scrive: «Primum habet objecta simplicia, secundum abstracta, tertium composita. In primo sapientia habet corpus, in secundo umbram, in tertio animam»92. È un punto rilevante che meriterebbe un approfondimento, tenendo conto sia della tradizionale pertinenza dello studio dell’anima alla fisica sia del rapporto tra anima e compositum nella prospettiva del filosofo nolano93. Ad ogni modo, il De innumerabilibus, immenso et infigurabili può ritenersi a ragione il De anima bruniano, un De anima mundi s’intende. D’altronde, non si può non rilevare come la questione dell’anima del mondo e dello spiritus sia al centro della riflessione filosofica di Bruno non solo nel De immenso, ma in tutte le sue opere tarde – dalla Lampas triginta statuarum agli scritti sulla magia e al De imaginum compositione94 –, a conferma di un interesse che si mantiene costante nella sua attività. In merito alla sezione mancante dell’Applicatio entis, relativa appunto all’Amor seu anima mundi, è quindi possibile almeno in parte colmare tale lacuna – per quanto attiene alla dottrina – richiamandosi ad altre opere del filosofo nolano, in particolare alla Lampas triginta statuarum, che segue un medesimo criterio di applicazione dei predicati all’ente in quanto mens, intellectus e anima/spiritus. Per una predicazione – circa Amor seu anima mundi – dei concetti di actio, finis, materia, motus, quando, species, si possono ad esempio considerare rispettivamente gli articoli VIII, IX, XXII, III e XXIV, VIII, V della sezione De lumine seu spiritu universorum della Lampas triginta statuarum95. Del resto, se la Lampas de entis descensu risulta incompiuta sul piano del testo, non lo è nel suo complessivo disegno concettuale. Si possono inoltre segnalare alcuni rinvii interni presenti nel testo che confermano la struttura tripartita dell’opera: Praemissa de ente, Summa terminorum, Applicatio entis. Nell’articolo Potentia della Summa Bruno fa riferimento alla Praemissa e parla della Summa come 92. Ivi, p. 197. 93. Prospettiva che viene riassunta con grande efficacia nell’ultimo capitolo dell’opera, dal quale si possono citare come esempio alcuni versi: «Porro natura perenne / tractat opus, sensum non auget non minuitque. / Proxima formatrix anima est, vis intima cuique, / atque ut materies ipsam sese ipsa gubernat, / interno, ut limax, pulsu se extendit, in arctam / semet conglomerat molem...» (De immenso, BOL I,II 313). 94. Bruno ritorna più volte sulla questione dell’anima anche nei suoi costituti processuali, sia a Venezia che a Roma. 95. Cfr. BOL III 54, 55, 59-60.

La Summa terminorum metaphysicorum

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«secunda pertractatio»96. In quella che è una sorta di avvertenza alla Praxis descensus, sempre riguardo alla Summa, si legge: «Nella seconda parte di questo volume abbiamo proposto più ampiamente la distribuzione dei predicati che vengono detti della sostanza e dell’accidente. Ora ci occuperemo della loro formazione»; e si presenta la Praxis descensus come «pars ultima» dell’opera97. Ancora, nell’articolo Proprietas della sezione De Deo seu mente della Applicatio entis Bruno rinvia al rispettivo articolo della Summa98, così come egli si richiama all’articolo Fides della Summa nella relativa trattazione della sezione Intellectus seu idea della Praxis99. È inoltre possibile individuare numerosi nessi tra gli articoli della Summa e della Applicatio, nessi che confermano come un’architettura concettuale organica sia alla base della Lampas de entis descensu. Del resto, nella distribuzione dei cinquantadue termini della Summa100 si esprime, come si è detto, un preciso ordinamento discensivo101 che definisce la trama della Applicatio entis. Bruno si rivolge alla terminologia tradizionale della metafisica non per comporre un dizionario filosofico ma per sollevare la questione della legittimità di una fondazione metafisica rispetto alla predicabilità dell’ente nelle sue proprietà fondamentali e in quanto formabili, apprendibili; e va sottolineato che mens, intellectus, anima sono proprietà o nomi – ma Bruno dice anche subiecta – della substantia simplicissima102. Nell’opera si pone quindi la questione della legittimità della metafisica (mundus metaphysicus come mundus intelligibilis 1) tramite la verifica del suo linguaggio, in relazione al mundus physicus e a una teoria della conoscenza (mundus rationalis come mundus intelligibilis 2, anche quale mondo morale). Questo mi sembra il significato della Applicatio entis e, in generale, della Lampas de entis descensu, che va considerata nel suo insieme,

96. Questo il brano: «Potentiam superius distinximus, ubi ens distinguebamus et in propria significata distribuebamus atque suae analogiae modos, ... nunc vero iuxta reliqua praedicata, ut aliquid habeat proprium in hac secunda pertractatione, deducentes eundem terminum, dicimus potentiam aliam esse ad substantiam seu substantialem...» (Summa term. met., BOL I,IV 28). 97. Ivi, p. 73 (vd. la precedente nota 24). 98. Ivi, p. 90; va inoltre segnalato che nell’articolo Comprehensio della prima sezione della Praxis Bruno rinvia all’articolo Cognitio della Summa (cfr. ivi, p. 99). 99. Ivi, p. 126. 100. Cfr. la precedente nota 21. 101. A partire dal termine ‘sostanza’ (Summa term. met., BOL I,IV 14-15). Già nella Praemissa Bruno osserva che «“ente” si dice in primo luogo della sostanza» (ivi, p. 7). 102. Cfr. Lampas trig. stat. BOL III 183 (vd. inoltre l’arbor substantiae seu subiectorum, ivi, pp. 184, 223).

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a partire dalla Praemissa de ente con la discussione intorno ai trascendentalia. Rispetto alle fonti dell’opera o, quantomeno, agli autori e ai testi che Bruno ha presenti: nella Lampas de entis descensu, come negli altri scritti del filosofo nolano, confluiscono diverse componenti, anche distanti tra loro. Se per la Summa terminorum metaphysicorum il riferimento prioritario ed evidente è il quinto libro della Metafisica di Aristotele103 – il cosiddetto libro delle definizioni –, e non solo per la definizione della nomenclatura dell’opera, si può inoltre segnalare l’utilizzazione della Isagoge di Porfirio, comprendendo la nomenclatura della Summa terminorum anche i praedicabilia104, oltre i praedicamenta105 e, dei trascendentalia, il trinomio unitas, veritas, bonitas. Significativa, per la Lampas de entis descensu nel suo complesso, è la presenza di alcuni scritti di san Tommaso, in particolare della Summa theologiae106. Nella Praxis descensus si può tra l’altro cogliere l’incisiva presenza di Cusano, in special modo dei primi due libri del De docta ignorantia107. Per fare qualche altro esempio si possono menzionare, sempre in merito alla tradizione platonica, oltre al De divinis nominibus dello pseudo-Dionigi Areopagita108 e al Liber viginti quattuor philosophorum, le porfiriane Sententiae ad intellegibilia ducentes109, e quindi indirettamente Plotino presente anche attraverso la mediazione di Ficino, come traduttore e interprete-divulgatore.

103. Tuttavia, come già indicato da Tocco, nell’opera Bruno si rifà anche ad altri testi dello Stagirita, richiamandosi pure a scritti di aristotelici, in particolare Temistio (F. Tocco, Le opere latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane, cit., pp. 127-129) 104. Ad esclusione di accidens; va anche precisato che nella Summa terminorum l’entrata relativa alla trattazione di proprium è Proprietas. 105. È da rilevare che, riguardo alla sezione De Deo seu mente della Praxis descensus, l’applicazione delle categorie comportava il confronto con una tradizione che risaliva a sant’Agostino (ad es. in De Trinitate, V, 8, 9 ss.) e, in particolare, a Boezio (cfr. Quomodo trinitas unus Deus ac non tres dii, IV, 1-101). 106. Ho già ricordato la presenza nella Summa terminorum metaphysicorum di un’opera all’epoca attribuita a Tommaso d’Aquino: De totius logicae Aristotelis summa (cfr. la precedente nota 14). 107. Importanti i capitoli del libro I dedicati ai nomi di Dio dall’angolazione della teologia affermativa e della teologia negativa (cfr. Nicolaus de Cusa, De docta ignorantia, lib. I, capp. XXIV-XXVI, ed. cit., pp. 48-56). 108. È da sottolineare che Bruno ha presente lo pseudo-Dionigi – nella Praxis descensus come in altri suoi scritti, dal De umbris idearum al De imaginum compositione – anche per il concetto di supersubstantiale/superessentiale (cfr. Summa term. met., BOL I,IV 102, 104). 109. Si pensi ad es. al concetto di ens – cui Bruno collega quello di mens – come Uno-molti e Uno-tutto (cfr. Sententiae, 36, 38).

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La Summa terminorum metaphysicorum

Riguardo alla nomenclatura della Summa terminorum metaphysicorum, può essere utile riportare – con qualche modifica e alcune osservazioni – la ‘tavola’ messa a punto da Felice Tocco nella sua opera del 1889 e che evidenzia i rapporti tra i ‘capitoli’ della Summa terminorum e quelli del libro ∆ della Metafisica di Aristotele110. I numeri che precedono i termini greci si riferiscono appunto ai capitoli del quinto libro dell’opera aristotelica; ai termini greci faccio seguire il titolo del rispettivo capitolo nella citata edizione Giuntina111. BRUNO

ARISTOTELE

BRUNO

ARISTOTELE

I.

Substantia

8. οσα (De substantia)

XII.

Actus

..................

29. ψεδος (De falso)

Perfectio

Veritas

16. τλειον (De perfecto)

Bonitas

..................

II.

III.

IV. Unitas

V. Principium

VI.

VII.

X.

1. !ρχ (De principio)

XIV. Cognitio

..................

XV. Voluntas

..................

XVI.

Relatio

15. πρς τι (De ad aliquid)

XVII.

Actio

..................

Passio

21. π#$ος (De passione)

Caussa

2. α"τιον (De causa)

XVIII.

Elementum

3. στοιχε%ον (De elemento)

XIX.

VIII.

IX.

6. ν (De uno)

XIII.

Materia

24. τ κ τινος (De ex aliquo)

Quantitas

13. ποσν (De quanto)

Qualitas

14. ποιν (De quali)

Potentia

12. δναµις (De potentia et impotentia)

Dare

..................

XX.

Accipere

..................

XXI.

Habere

23. χειν (De habere) 20. ξις (De habitu)

Medium

..................

XXII.

XXIII . XI.

Instrumen-

tum

..................

XXIV. Finis

..................

110. F. Tocco, Le opere latine di Giordano Bruno cit., p. 127, nota 2. 111. Metaphysicorum libri XIIII, in Aristotelis Opera cum Averrois commentariis, vol. VIII, cit., cc. 100r-143r. Tocco tra l’altro osserva: «Dei termini aristotelici, sei soli il Bruno trascura, e ventotto invece ve ne aggiunge, vale a dire più del doppio. Ma bisogna notare che egli talvolta sdoppia, e anche triplica i termini che Aristotele avea raccolto in un solo» (F. Tocco, op. cit., p. 127, nota 2). I sei termini cui Bruno non dedica un articolo specifico sono i seguenti (anche in questo caso dopo il termine greco indico il titolo del capitolo rispettivo nell’edizione Giuntina): 4. φσις (De natura), 22. στρησις (De privatione), 25. µρος (De parte), 26. )λον (De toto), 27. κολοβν (De mutilo), 30. συµβεβηκς (De accidente).

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BRUNO

ARISTOTELE

BRUNO

ARISTOTELE

XXV. Contrarietas

10. !ντφασις κα+ τ!ναντα

XXXV. Diversum113

9. δι#φορα (De eodem, diverso, differenti, simili, et dissimili)

(De oppositis, contrariis, diversis, et eisdem specie) XXXVI.

Oppositio112

XXVI.

10. !ντφασις

Differentia114

..................

Proprietas

7. κατ,

κα+ τ!ναντα

(De oppositis, contrariis, diversis, et eisdem specie)

XXXVII.

συµβεβηκς115

Genus

28. γνος (De genere)

Species

10. τερα τ./

XXXVIII. XXVII.

Intentio

...................

Conceptio

..................

XXVIII.

XXXIX.

ε"δει XXIX.

Nomen

..................

XXX.

Ordo

19. δι#$εσις (De dispositione)

XXXI.

Prius

11. πρτερα κα+

(De oppositis, contrariis, diversis, et et eisdem specie)116 XL.

Per se117

18. τ κα$ (De secundum quod)

Secundum quo ipsum

18. τ κα$ (De secundum quod)

Motus

..................

Terminus

17. πρας (De termino)

0στερα

XXXII.

Posterius

(De priori et posteriori)

XLI.

11. πρτερα κα+ 0στερα

XLII.

(De priori et posteriori) XLIII. XXXIII.

Simul

XXXIV. Idem

.................. 9. τατ# (De eodem, diverso, differenti, simili, et dissimili)

XLIV. Necessitas

5. !ναγκα%ον (De necessario)

112. Nella tabella Tocco indica Oppositio, ma va precisato che nella Summa terminorum l’entrata è Opposita (BOL I,IV 47), mentre nelle due sezioni della Praxis descensus è Oppositio. 113. In relazione all’articolo Diversum della Summa terminorum metaphysicorum Tocco indica δι#φορα, ma va precisato che il termine greco corrispondente, esaminato da Aristotele nello stesso cap. 9, è τερα. 114. Tocco non segnala il termine greco corrispondente, ma in questo caso va indicato δι#φορα (cfr. la nota precedente). 115. Cioè «secundum accidens». È noto tuttavia che il termine che tradizionalmente costituisce il titolo del cap. 7 è τ ν (De ente). 116. Va rilevato che Aristotele, in questo capitolo del libro V della Metafisica, non si sofferma in particolare sul concetto di ‘specie’. 117. È da segnalare che nell’articolo Per se Bruno si richiama in particolare alla trattazione aristotelica nei Secondi Analitici (cfr. An. post. I, 4, 73a, 34 ss.).

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La Summa terminorum metaphysicorum BRUNO

ARISTOTELE

BRUNO

ARISTOTELE

XLV. Ubi

..................

XLIX. Comprehensio

..................

XLVI.

Quando

..................

L.

Auctoritas

..................

Situs

..................

LI.

Fides

..................

Comparatio

..................

LII.

Evidentia

.................

XLVII. XLVIII.

Riguardo a tale tavola, è inoltre da notare che Tocco collega l’articolo II. Veritas della Summa terminorum metaphysicorum al cap. 29 De falso della Metaphysica, capitolo in cui Aristotele dà i vari significati del termine ‘falso’ ma non parla della ‘verità’. Lo stesso vale per l’articolo XXX. Ordo rispetto al cap. 19 De dispositione – Bruno parla della ‘dispositio’ nell’articolo Quantitas –, nonché per l’articolo VIII. Materia rispetto al cap. 24 De ex aliquo – nel capitolo si parla di ‘materia’ ma solo all’inizio118. Si è già rilevata la mancanza di riferimenti espliciti alla Lampas de entis descensu negli altri scritti dell’ultimo periodo dell’attività di Bruno. Diverso, come si è già osservato, è il discorso per quel che concerne il piano di una vicinanza di carattere tematico. Si pensi, per fare un esempio, alla presenza nella Praxis descensus, come nella Lampas triginta statuarum, nel De magia e nel De immenso, dell’immagine pregnante delle festuche che si contraggono se gettate nel fuoco119 e delle gocce d’acqua che cadendo si conglobano in forma sferica, a conferma che essere, vita e intelligenza sono in ogni cosa e che tutte tendono per quanto possibile a conservarsi «quasi fuggendo il contrario»120. Tocco rinviava, per la Praxis descensus, in generale al De la causa121; tuttavia, un legame significativo – da scandagliare in tutta la sua articolazione e che coinvolge la questione della struttura e dell’obiettivo della Lampas de entis descensu – si pone in primo luogo con la Lampas triginta statuarum, ma anche con i poemi francofortesi, soprattutto con il De monade. Se poi fosse possibile collegare perspicuamente l’opera alle lezioni parigine del 1581-1582 quando, come viene affermato da Bruno nel suo secondo costituto veneto, egli scelse per argomento di tren-

118. Su quest’ultimo punto cfr. anche F. Tocco, op. cit., p. 128, nota 1. 119. Immagine questa già presente nel Sigillus sigillorum (BOL II,II 194). 120. Cfr. Summa term. met., BOL I,IV 103-104; Lampas trig. stat., BOL III 154; De magia, BOL III 406; De immenso, BOL I,II 93, 99, 157. 121. F. Tocco, op. cit., pp. 135-136.

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ta sue lezioni «trenta attributi divini» estratti dalla prima parte della Summa theologiae di san Tommaso122, si potrebbe allora parlare di una ripresa puntuale, mentre ci si deve accontentare – circa il collegamento in particolare tra la Praxis descensus, «di Dio, per la dedution di certi suoi predicati universali», e quella «lettion straordinaria» di un decennio prima – di un’ipotesi relativa a un’affinità tematica123. Va tuttavia rimarcato che il riferimento a Tommaso d’Aquino è importante anche per le lezioni zurighesi (un riferimento preciso alla Summa theologiae e inoltre al De veritate), così come è indubitabile il fatto che sulla questione degli ‘attributi’ e dei ‘nomi’ di Dio, Bruno sia ritornato a più riprese e a vari livelli, come è documentabile dalle sue opere124. Aggiungo inoltre che, se non è possibile indicare uno ad uno quei trenta attributi delle lezioni parigine, estratti dalla prima parte della Summa theologiae, si può essere abbastanza sicuri che tra essi figuravano i termini che rinviano a quelle proprietà dell’ente di ordine trascendentale: unitas, veritas, bonitas, e probabilmente anche i termini causa, vita125, così come – ipotizzando che Bruno abbia considerato assieme pure la tavola dei pre-

122. Firpo, Processo, doc. 11, p. 161. Con ogni probabilità il rinvio va inteso specificamente al primo trattato della prima parte, il cosiddetto De Deo Uno. In proposito, è da osservare che non convince la tesi di Rita Sturlese, la quale ritiene che il libro XIV della Theologia Platonica di Ficino sia il riferimento prioritario, anzi esclusivo delle lezioni bruniane del 1581-1582, sulla base tra l’altro di una presunta «identità contenutistica» tra il corso parigino e quello che il filosofo nolano tenne ad Oxford nell’estate del 1583. Senza nutrire il minimo dubbio in proposito, la studiosa pone la questione nei termini seguenti: «sono anche convinta ch’egli, ottenuta la lettura oxoniense, al pari di ogni professore di questo mondo incominciò a ripetere un “corso” già collaudato, precisamente quel suo primo corso parigino... E perché non avrebbe dovuto ripeterlo in un’altra università, le mille miglia lontana da quella parigina?» (R. Sturlese, Le fonti del «Sigillus sigillorum» del Bruno, ossia: il confronto con Ficino a Oxford sull’anima umana, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXIII (1994), 1, pp. 57-58). Se, mancando il testo di quelle lezioni, ogni ipotesi – motivata – può avere una sua plausibilità, ciò non mi sembra autorizzi tuttavia a ignorare del tutto quello che lo stesso autore afferma in proposito. Bruno in questo caso rinvia esplicitamente alla prima parte della Summa theologiae di Tommaso d’Aquino; credo pertanto che, per farsi un’idea di quelle lezioni parigine, sia importante tener conto di tale testo, anche alla luce delle altre opere bruniane che ritornano sul tema degli attributi divini. 123. Un medesimo discorso si potrebbe fare circa il possibile collegamento tra le lezioni bruniane sui trenta attributi divini e la Lampas triginta statuarum, anche in rapporto al quinto libro della Metafisica aristotelica, libro che tra l’altro prende in esame trenta termini. 124. Fino a quel singolare testo che è il De magia mathematica (cfr. BOL III 499). 125. Cfr. Summa theologiae, I, q. 5, art. 2; q. 11, artt. 3-4; l’intera quaestio 13; q. 16, art. 5; q. 18, art. 3.

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dicati dell’Ars generalis di Lullo126 – i termini aeternitas, potentia (potestas), sapientia, voluntas, tra i predicati assoluti, e principium, medium, finis, tra i predicati relativi. Si è detto della necessità di considerare la Lampas de entis descensu in modo unitario, pur tenendo conto della struttura bipartita di definizioni/applicazioni e della chiarificazione aristotelica da Bruno fatta propria nella Praemissa: ens si dice in vari modi, ma in primo luogo della sostanza127. D’altronde, il contrasto tra la Summa terminorum e l’Applicatio entis, alla luce di una medesima nomenclatura filosofica, è non solo voluto ma enfatizzato da Bruno, come fosse un contrasto tra una teologia catafatica e una teologia apofatica128. Una nomenclatura che da una parte corrisponde al linguaggio delle scuole, collocandosi quindi sul piano terminologico delle distinzioni logicometafisiche, mentre dall’altra è colta, per così dire, nel suo formarsi rispetto al suo stesso oggetto, per cui quel linguaggio esprime i limiti di un approccio logico-astratto alla questione dell’ente e la problematicità della definizione di subiecta che rinviano all’oggetto infinito. Riguardo all’ordinamento discensivo dell’opera, in qualche maniera speculare alla ‘discesa dell’ente’ (dalla sostanza ai modi della sostanza), nell’avvertenza alla Praxis descensus si legge: «Descendit ens primo in substantiam per contractionem differentiae, quae est iuxta tertium modum per se»129, e nella premessa alla sezione Intellectus seu idea Bruno puntualizza che la divinità «quodammodo ad omnia descendat» per la trina predicazione di essere/essenza (mens), intelligenza e amore, o anche sostanza, luce e calore130. Nella Sum-

126. Come del resto in altri suoi scritti, dal De compendiosa architectura alla Lampas triginta statuarum (riguardo a Lullo, per l’elenco dei predicati si veda già il Prologus dell’Ars generalis ultima). Cfr. tra l’altro le due classificazioni dei trenta predicati o attributi e praedicamenta nella Lampas triginta statuarum, BOL III 186-197. Per alcune considerazioni cfr. F. Tocco, Le opere latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane, cit., pp. 4-12, 43; Id., Le opere inedite di Giordano Bruno, cit., pp. 12-13, 24-27. 127. Summa term. met., BOL I,IV 7-8. Cfr. in particolare Metaph. IV, 2, 1003a 33 ss. 128. C’è stato anche chi, come Hermann Brunnhofer, ha interpretato Summa terminorum (‘peripatetica’) e Praxis descensus (‘neoplatonica’) nel senso di due livelli – essoterico ed esoterico – dell’opera (H. Brunnhofer, Giordano Bruno’s Weltanschauung und Verhängniss, Leipzig 1882, p. 81). 129. Summa term. met., BOL I,IV 73. Per quanto concerne il rapporto descensus-contractio Cusano aveva osservato: «Unde, quando recte consideratur de contractione, omnia sunt clara. Nam infinitas contracta aut simplicitas seu indistinctio per infinitum descendit in contractione ab eo, quod est absolutum, ut infinitus et aeternus mundus cadat absque proportione ab absoluta infinitate et aeternitate et unum ab unitate» (Nicolaus de Cusa, De docta ignorantia, lib. II, cap. IV, ed. cit., p. 73). 130. Cfr. Summa term. met., BOL I,IV 102-104. Per un confronto con un brano affine vd. il quarto capitolo del De monade, BOL I,II 358-359.

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ma terminorum, rifacendosi ad Aristotele131, Bruno aveva precisato che il terzo modo di dire per sé «è quello per cui si intende qualcosa di assoluto e non con altro»132; è in questo modo assoluto che si deve dunque considerare il ‘per sé’ della «contractio differentiae». Differenza che va interpretata come dyas o dualitas che distingue tutte le cose, e chiama in causa la materia133 nonché quella contrarietà «una originale e prima, che è primo principio de tutte l’altre»134. Più o meno nello stesso periodo in cui teneva le sue lezioni a Zurigo «a certi dottori»135, Bruno, utilizzando un linguaggio neopitagorico-neoplatonico, scriverà che «Dias ex Monade, (ut ex fluxu puncti linea) procedit. Sic essentia fluens in aliud, facit esse»136, anche se va tenuto conto che nell’universo infinito il punto e la linea, come la superficie e il corpo non differiscono137. Già nel De minimo, menzionando Pitagora, il filosofo nolano si richiamava alla teoria della ‘migrazione’ della monade nella diade138. Per tale originaria «contractio differentiae» – continua Bruno nella Applicatio entis – l’ente discende in quelle cose «quae sunt in substantia, cum substantia, circa substantiam et universaliter de substantia praedicantur»139, cioè

131. Vd. An. post. I, 4, 73a, 34 ss. 132. Summa term. met., BOL I,IV 63. 133. «Monas una omnis numeri substantia, Una prima Dias omnia distinguens, oppositio» (De monade, BOL I,II 346); «Principium primum Monas et substantia prima, / verum, omne, existens, quo sunt vera, omnia, et unum. / Inde Dias rebus tribuens discrimina primum, / per quam diversa, et quae sunt contraria, constant» (ivi, p. 459; cfr. anche ivi, pp. 329, 349-353). «Materia dualitas quaedam est, utpote multitudinis principium, contra lucis unitatem et simplicitatem commilitans» (Lampas trig. stat., BOL III 33). Riguardo al concetto di ‘dualità’ si possono citare per es. Cusano (che usa il termine binarius: Nicolaus de Cusa, De docta ignorantia, lib. I, capp. VII-VIII, ed. cit., pp. 16-17), e Giovanni Pico (cfr. De ente et uno, cap. VI, in G. Pico della Mirandola, De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno e scritti vari, a cura di E. Garin, Firenze 1942, pp. 422-425). Va precisato che l’idea di dualità viene da Bruno attribuita anche all’intelletto primo, in quanto universitatis principium e quindi Uno-molti (cfr. BOL III 44). 134. Spaccio, BDI 556. 135. Firpo, Processo, doc. 8, p. 153. 136. De monade, BOL I,II 353; cfr. anche ivi, p. 357. 137. «È necessario dumque che il punto ne l’infinito non differisca dal corpo: per che il punto scorrendo da l’esser punto si fa linea; scorrendo da l’esser linea si fa superficie; scorrendo da l’esser superficie, si fa corpo: il punto dumque perché è in potenza ad esser corpo, non differisce da l’esser corpo dove la potenza e l’atto è una medesima cosa. Dumque l’individuo non è differente dal dividuo, il simplicissimo da l’infinito, il centro da la circonferenza» (Causa, BOeuC III 277). 138. De minimo, BOL I,III 269. 139. Summa term. met., BOL I,IV 73.

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princìpi, parti, generi, differenze e modi. Rispetto a tale predicazione non bisogna perdere di vista l’unità dell’ente, che Bruno intende nel senso della massima complicazione e dell’indifferenza della sostanza infinita, quel «primo ente, et universal sustanza..., quell’uno individuo, in cui tutto si comprende»140. È bene ricordare in proposito quanto si legge nel quinto dialogo del De la causa circa l’ente, la sostanza e le categorie, con la critica ad Aristotele – «sofista ben secco» – e la difesa degli antichi «filosofi naturali, lasciando i logici ne le lor fantasie»141. Lo Stagirita, che pure riteneva uno, ente e vero come la medesima cosa: non ritrovò l’uno, non ritrovò lo ente, e non ritrovò il vero: perché non conobe come uno lo ente; e benché fusse stato libero di prendere la significazione de lo ente comune alla sustanza e l’accidente, et oltre de distinguere le sue categorie secondo tanti geni e specie, per tante differenze: non ha lasciato però di essere non meno poco aveduto nella verità, per non profondare alla cognizione di questa unità et indifferenza de la costante natura et essere142.

La polemica del filosofo nolano si rivolge contro i ‘logici’ e contro una concezione dell’ente universale considerato in un senso astratto, logico-verbale: Quindi i Peripatetici e Platonici, infiniti individui riducano143 ad una individua raggione di molte specie; innumerabili specie comprendono sotto determinati geni, quali Archita primo volse che fussero diece; determinati geni ad uno ente, una cosa; la qual cosa, et ente, è compresa da costoro come un nome e dizzione, et una logica intenzione, et in fine una vanità; perché trattando fisicamente poi, non conosceno uno principio di realità et essere di tutto quel che è, come una intenzione e nome comune a tutto quel che si dice e si comprende144.

Per Bruno, non solo va tenuto presente che nel concetto di «università fisica»145 dei ‘filosofi naturali’ ente, uno e vero sono quella medesima cosa che i ‘logici’ ridurrebbero a una vanità, e che pertanto 140. Causa, BOeuC III 297; cfr. ivi, pp. 273, 289, 315-317. 141. Con l’espressione «filosofi naturali» o «fisici», Bruno allude – in polemica con platonici e aristotelici – ai pensatori presocratici, da Senofane a Pitagora ed Eraclito, da Parmenide e Melisso a Empedocle e Anassagora etc. 142. Causa, BOeuC III 283. 143. Giovanni Gentile, seguendo Adolf Wagner, emenda: riducono (BDI 333). Cfr. G. Bruno, De la causa, principio et uno, a cura di G. Aquilecchia, Torino 1973, p. 154, nota alla riga 24 del testo. 144. Causa, BOeuC III 297. 145. Ivi, p. 287.

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«lo ente logicamente diviso in quel che è e può essere, fisicamente è indiviso, indistinto et uno; e questo insieme insieme infinito, inmobile, impartibile, senza differenza di tutto e parte, principio e principiato»146, ma – come egli preciserà nell’Applicatio entis – Dio o la mente «non è universale nel predicare, ma nel causare e nell’essere»147. Bruno tiene a rimarcare che l’universale di cui egli parla è quindi «quello che è prima dei singolari e causa dei singolari, non quello che è causato dai singolari ed è dopo di loro»148. Sarebbe il nostro stesso modus cognoscendi – dai ‘sensibili’ agli ‘intelligibili’ – che ci fa procedere in maniera inversa, facendoci anche concepire un descensus entis come una sorta di decorso della prima mens, «dall’unità a conoscere la molteplicità», mentre si tratterebbe di un solo atto149. Si può constatare come già nella Praemissa de ente siano messi a fuoco alcuni motivi di fondo della Lampas de entis descensu: assieme alla questione degli attributi divini, la dottrina dell’analogia entis e dei trascendentalia, che significava confrontarsi con aspetti cruciali della tradizione metafisica (e teologica) scolastica, ancora al centro del dibattito ontologico tra fine Cinquecento e prima metà del Seicento, sia da parte della scolastica cattolica che di quella riformata. Rispetto a tali tematiche, risulta decisiva la concezione bruniana della «omniforme sustanza» infinita – l’ente come «moltimodo e moltiforme e moltifigurato»150 – con l’applicazione dell’attributo divino della bontà all’infinito corporeo, «il buono, ente, corporeo infinito»151. Se si rivolge lo sguardo anche ad altre opere di Bruno, risulta chiaro l’orizzonte in cui si muove la Lampas de entis descensu riguardo alla questione degli attributi divini. Si è visto come Bruno, anche negli interrogatori durante il processo a Venezia («parlando filosoficamente»), intende Padre, Figlio e Spirito Santo come triade di mens, intellectus e amor seu anima mundi in rapporto agli attributi divini di potentia, sapientia, bonitas, ed è noto come tale dottrina fosse

146. Ivi, p. 27. 147. «Deus ergo est substantia universalis in essendo», «Neque etenim est universale in praedicando, sed in caussando et in essendo» (Summa term. met., BOL I,IV 73, 89). 148. Ivi, p. 116 (art. Prius et posterius). 149. Ibid. (art. Simul). 150. Causa, BOeuC III 25, 281. 151. Infinito, BOeuC IV 75. E va sottolineato che Bruno non perde l’occasione di piegare ai suoi fini il concetto, di ascendenza platonica e agostiniana, di bonum diffusivum (per alcune considerazioni sullo sviluppo di tale concetto in Abelardo e in altri autori medievali cfr. T. Gregory, Anima mundi cit., pp. 98-102).

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avvertita in sede teologica come problematica, in particolare per il pericolo di deviazione nel modalismo o sabellianismo (basti pensare alle accuse rivolte ad Abelardo, la cui Theologia Summi boni – ma anche altri scritti – con ogni probabilità Bruno conosceva bene). Per il filosofo nolano quei termini, come infiniti altri attributi divini, non pongono alcuna distinzione nella divinità. Essendo predicati della sostanza divina, che permane nella sua assoluta unicità e semplicità, non stanno a indicare le ipostasi della teologia trinitaria, quella distinzione delle divine persone che, come si è ricordato, era un’idea da Bruno avversata sin dalla prima giovinezza. «Nella simplicità della divina essenza – scrive egli negli Eroici furori – è tutto totalmente, e non secondo misura: e però non è più sapienza che bellezza e maestade, non è più bontà che fortezza; ma tutti gli attributi sono non solamente uguali, ma ancora medesimi ed una istessa cosa»152. Così, se nel suo terzo costituto, aveva ripetuto: «nella divinità intendo tutti li attributi esser una medesma cosa» e che «tutti li attributi che convengono al Padre convengono anco al Figliuol et Spirito santo»153, nell’Applicatio entis precisava che nella divinità sostanza luce e calore o mente intelligenza e amore, così come innumerevoli altri predicati, «nullam omnino faciunt distinctionem»154. È da rilevare che un punto fondamentale riguarda la considerazione dell’infinità degli attributi – e sono riconducibili ad attributi della «una infinita sustanza» i «doi geni di sustanza» del De la causa155 –, anche perché a Bruno preme trovare uno strategico avallo 152. Furori, BDI 1059; ivi, p. 1060: «dove è infinita sapienza, non può essere se non infinita potenza; perché altrimente non potrebbe saper infinitamente. Dove è infinita bontà, bisogna infinita sapienza; perché altrimente non saprebbe essere infinitamente buono. Dove è infinita potenza, bisogna che sia infinita bontà e sapienza, perché tanto ben si possa sapere e si sappia possere». Già nel De l’infinito: «tutti gli attributi de la divinità sono come ciascuno» (BOeuC IV 19-21); vd. anche De immenso, BOL I,I 245-246. Sulla questione cfr. l’analisi di Tommaso d’Aquino nella Summa theologiae, I, q. 13, art. 4, e q. 25, art. 1. Rispetto a tali considerazioni si tenga anche presente il concetto di ‘teologia circolare’, cui fa riferimento Cusano e che risale a Lullo: «Hoc tantum notatum esse admoneo, quomodo omnis theologia circularis et in circulo posita existit, adeo etiam quod vocabula attributorum de se invicem verificentur circulariter: ut summa iustitia est summa veritas, et summa veritas est summa iustitia, et ita de omnibus» (Nicolaus de Cusa, De docta ignorantia, lib. I, cap. XXI, ed. cit., p. 44. Cfr. anche l’idea di nome infinito di Dio che in sé complica tutti i nomi, ivi, capp. XXIV e XXV, pp. 50, 53). 153. Firpo, Processo, doc. 13, pp. 168 e 170. 154. Summa term. met., BOL I,IV 103. 155. Causa, BOeuC III 169. Come sottolinea Felice Tocco, riferendosi specificamente a un passaggio del terzo dialogo del De la causa: «la materia e la forma, o per dirla collo Spinoza il pensiero e l’estensione, non si possono se non impropriamente dire due sostanze, e ben piuttosto si diranno due facce, due attributi della

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metafisico-teologico alla sua concezione dell’universo infinito. In tal senso, nel De l’infinito – pur evidenziando la distinzione tra Dio e l’universo – egli tra l’altro dichiara: «Io dico Dio “tutto infinito” perché da sé esclude ogni termine, et ogni suo attributo è uno et infinito»156, e sempre nel primo dialogo dell’opera: «lascio i principii teologali, i quali con tutto ciò non admetteranno che la divina potenza sia più che la divina volontà o bontà; e generalmente che uno attributo secondo maggior raggione convegna alla divinità, che un altro»157. In modo netto, all’inizio del secondo dialogo del De l’infinito – come poi nel De immenso –, Bruno sottolinea: Per che il primo principio è simplicissimo, però se secondo uno attributo fusse finito, sarebe finito secondo tutti gli attributi; o pure secondo certa raggione intrinseca essendo finito e secondo certa infinito, necessariamente in lui si intenderebe essere composizione. Se dumque lui è operatore de l’universo, certo è operatore infinito, e riguarda effetto infinito158.

Nella prima sezione dell’Applicatio entis, Dio è detto «infinito d’infinita potenza, sapienza e bontà» con significative conclusioni al riguardo159, e ogni qualvolta nell’opera fa riferimento a una terminologia con assonanze trinitarie, Bruno tiene a puntualizzare il suo pensiero in proposito160, come nella premessa alla sezione Intellectus sostanza medesima, alla quale senza dubbio spettano parecchi dei predicati, che la coscienza religiosa attribuisce a Dio» (F. Tocco, Le opere latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane, cit., p. 346). 156. Infinito, BOeuC IV 87. 157. Ivi, pp. 97-99. 158. Ivi, p. 109. De immenso, BOL I,II 293: «Supra diximus in prima causa et optimo simplicissimoque principio omnia esse unum: ideo si unum eius attributum est finitum, nullum erit infinitum: et si unum est infinitum, omnia quoque sic esse necesse est». Per alcune considerazioni cfr. M. A. Granada, Il rifiuto della distinzione tra «potentia absoluta» e «potentia ordinata» di Dio e l’affermazione dell’universo infinito in Giordano Bruno, «Rivista di storia della filosofia», XLIX (1994), 3, pp. 495-532, in part. p. 516 ss. 159. «Qui infinitus infinita potentia, sapientia atque bonitate, infinito sibi subiecto in spatio, infinitamque potentiam susceptricem sufficientissime foecundavit atque foecundat, ut sicut ipse est infinitus intensive, totus ubique, ita etiam pro captu inveniatur infinitum corporeum seu materiale, quod variis partibus, variis in locis spatium et materiae appetitum compleat et expleat» (Summa term. met., BOL I,IV 76, art. Quantitas; cfr. anche l’art. Ubi, ivi, p. 96). 160. Così, nell’articolo Actio della sezione De Deo seu mente, Bruno precisa: «Actio illius, ut consequitur essentiam atque potentiam, est infinita et subiectum requirit infinitum, quam quidem esse necesse est, ut omnes tum theologi, tum principes philosophantes intelligunt; sed illius actum quidam collocant in ipsa divinitate, ut infinitum patrem infinitum generare filium asserant, nempe infinitam mentem infinitum intellectum, et ex hac relatione patris et filii cognoscentis et cogniti,

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seu idea161. Del resto, quello della suprema triade divina è un motivo ricorrente negli scritti bruniani, sviluppato da angolazioni diverse e con richiami più o meno diretti alla tradizione neopitagorica, neoplatonica ed ermetica162. Per Bruno si tratta comunque di modi, nomi, attributi di una medesima realtà divina, e va rimarcato che egli rifiuta la concezione neoplatonica della triade suprema nel senso di tre ipostasi, anche se sostanze del mondo intelligibile. Nella Lampas de entis descensu, come pure nella Lampas triginta statuarum, si porta quindi a compimento un disegno che per il filosofo nolano non era certo nuovo: delineare con il linguaggio stesso del neoplatonismo una concezione dell’ente e della sostanza radicalmente diversa rispetto a quella tradizione, in cui si invertiva il rapporto tra mondo fisico e mondo intelligibile163. In merito poi alla questione dell’analogia (analogia attributionis e analogia proportionalitatis): se Tommaso d’Aquino aveva affermato che «impossibile est aliquid predicari de Deo et creaturis univoce»164, Bruno – rifacendosi a tale impostazione e al principio secondo cui tra infinito e finito non vi è alcuna proporzione165 – sembra orienvicissitudinalique quadam seu vicissim commeante relatione, complicentia illa cognoscentis et cogniti propter compertam infinitam pulchritudinem, quam pater in filio, filius in patre unicam contemplatur, sequatur infinitus ille amor utriusque nexus, ita ut non sint tria numina substantialiter distincta, sed unus Deus se ipso se ipsum cognoscens et amans» (ivi, pp. 79-80). E poi, nell’articolo Genus: «Theologi ipsi viderint de illa univoca generatione, qua pater aequalem sibi filium genuerit et gignat» (ivi, p. 91). 161. «Nihilominus propter contemplationis necessitatem et ordinem tria in divinitate distincte speculanda pro captu ingenii nostri accipimus: essentiam nempe iuxta praedictas rationes, secundum quam paternitatem in divinitate nominabant; intelligentiam tanquam tantae essentiae primum effectum atque coaeternum Filium appellabant; amorem, qui ex conceptu pulchritudinis in tanta prole perspicuae, quem magnum daemona appellabant... Haec est sensus quaedam participatio et universalis intelligentiae per universum propagatae effectus, quem consequitur affectio et inclinatio, defectio et declinatio, amicitia et lis in rebus omnibus, quibus sunt, cognoscunt et amant omnia, ut trina illa praedicatione divinitas quodammodo ad omnia descendat» (ivi, pp. 103-104). 162. Nel De minimo Bruno parlerà della triade di Deus, natura e ratio come di «mens super omnia», «mens insita omnibus» e «mens omnia pervadens» (BOL I,III 136). Per alcune osservazioni sulle ‘triadi’ bruniane cfr. F. Tocco, Le opere latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane, cit., pp. 180-182, 352-353; Id., Le opere inedite di Giordano Bruno, cit., pp. 14, 43-44, 47-51. 163. Come tra luce fisica e luce metaforica (cfr. De immenso, BOL I,II 298-311). 164. Summa theologiae, I, q. 13, art. 5. 165. «Ipse [Deus] super omnem ordinem, super omnem seriem, omnis seriei et ordinis auctor, nullam recipit cum rebus quae ab ipso proficiscuntur comparationem. Mitto quod inter finitum et infinitum nulla est proportio, sed praedicata quae sunt communia aliis atque illi, sicut bonitas, aeternitas, veritas, non univoca

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tarsi verso una considerazione dell’equivocità nella predicazione di ente-sostanza e di ciò che è «circa la sustanza, non ente ma cosa di ente»166. Egli osserva: Come, dunque, non paragoniamo il carbone alla neve, dicendo questo più nero di quella, quella più bianca di questo, perché il paragone è tra cose che sono del medesimo genere e suscettive del medesimo predicato...; così molto meno paragoneremo la bontà divina o altra sua perfezione alla bontà d’una cosa finita, con la quale non ha niente in comune fuori del nome... Rimangano dunque le comparazioni, come sono espresse dagli attributi divini, se se ne danno, nella maniera equivoca e diversivoca, in cui il nome di buono, di vero, di bello e d’altri attributi del genere è proferito equivocamente di Dio e delle cose167.

È chiaro che la prospettiva muta profondamente se tali termini, come quelli trascendentali168, vengono riferiti non alle cose singole ma alla natura, al deus in rebus169. Così, nello Spaccio Bruno precisa che la Verità – la quale «empie il campo de l’Entità, Necessità, Bontà, Principio, Mezzo, Fine, Perfezione» – «si concepe ne gli campi contemplativi metafisico, fisico, morale, logicale»170, ma «uno è lo ente, buono e vero; medesimo è vero, ente e buono»171. Nei Furori, pur ribadendo riguardo alla monade la distinzione tra «essenza» e «geni-

ratione de aliis atque de ipso dicuntur, sed, sicut aeternum et corruptibile, finitum et infinitum, differunt plus quam genere» (Summa term. met., BOL I,IV 97). 166. Causa, BOeuC III 299. 167. «Sicut ergo non comparamus carbonem nivi, dicentes hunc nigriorem illa, illam vero hoc albiorem, quia comparatio est inter ea quae sunt eiusdem generis et eiusdem sunt susceptiva praedicati, quod secundum gradus uni, secundum alios alteri attribuatur; ita multo minus bonitatem divinam vel aliud quidpiam bonitati alicuius rei finitae comparabimus, cum qua nihil praeter nomen habet commune. Secundum rem vero maior concordantia est et convenientia inter album et nigrum, quae sunt in eodem genere et quibus eadem materia subiicitur, quam inter bonitatem hominis vel angeli et bonitatem Dei, quae in nullo communicant genere, quia illa supra genus est. Maneant ergo comparationes, ut sunt expressae a divinis, si quae sunt, sub ratione aequivoca vel diversivoca, qua nomen boni, veri, pulchri et huius generis aliorum aequivoce de illo et de istis proferuntur» (Summa term. met., BOL I,IV 97-98). 168. Si tenga presente, in riferimento ai trascendentalia e rispetto a una predicazione absolute e respective della divinità, quanto si legge nell’art. Secundum quod della sezione De Deo seu mente (ivi, p. 92; cfr. anche l’art. Proprietas, ivi, p. 90). 169. Nei Furori Bruno scrive che «tutto è pieno de divinità, verità, entità, bontà» (BDI 1123). 170. BDI 562. Sempre nello Spaccio Bruno afferma tra l’altro che «gli metafisici si rompeno la testa... circa l’equivocazione, univocazione ed analogia de lo ente» (ivi, pp. 743-744). 171. Ivi, p. 646.

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tura» (tra Apollo e Diana), egli nota che «questa monade che è la natura, l’universo... è la Diana, quello uno che è l’istesso ente, quello ente che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensibile»172. Come si legge nel De immenso, in relazione al principio di ‘discontinuità’ tra mondo immateriale e mondo materiale e in polemica con Palingenio Stellato: «Ergo continuum qui noverit, in spacioque / immenso immensum, verum, ens, unumque, bonumque, / cuique homogenea est lux una effusa perample, / quae, ratione alia, subiectum pro ratione / suscipitur magis atque minus, species manet una, / constat idemque genus»173. Non a caso nella Lampas de entis descensu, assieme al motivo proprio della teologia negativa, secondo cui Dio è innominabile in quanto alla divinità si possono attribuire o tutti i nomi o nessun nome174, figura il tradizionale riferimento a Esodo 3, 14 – dixit Deus ad Mosen: ego sum qui sum –, cui si richiamano in molti, dallo pseudo-Dionigi175 a Tommaso d’Aquino176 e a Giovanni Pico177, anche se nel testo bruniano, come già nel De la causa178, il riferimento assume una connotazione particolare, e comunque lontana dall’idea di personalità divina: Innominabilis est... Deus igitur aut nullo nomine aut omnibus nominibus erit significandus. Est enim omnia in omnibus, quia dat esse omnibus; et est nullum omnium, quia est super omnia, singula et universa essentia et nobilitate et virtute praetergrediens. Ut autem omne esse supereminet, continet, effundit atque conservat, ita omnia, quatenus sunt extra ipsum vel aliud ab ipso, sunt vanitas, nihil, non ens; relinquitur ut ipse sit solum ens, et hoc est nomen quod ipsius maxime possumus efferre et quod auditum et revelatum accepimus, ut appelletur ‘qui est’ vel ‘quod est’. Omnia enim reliqua ab ipso sunt quod subest vel quod deest vel abest179. 172. Furori, BDI 1125. 173. De immenso, BOL I,II 300. 174. Cfr. la precedente nota 66. Riguardo all’idea di ‘innominabilità’ dell’essenza/sostanza e dell’essere, è da osservare che Bruno – come già i neoplatonici – collega temi della teologia negativa a motivi aristotelici. Si può dire che essenza ed essere sono innominabili, e nel contempo che ad essi si addicono molti nomi, anzi tutti i nomi delle cose che sono, secondo l’idea di nome infinito di Dio che in sé complica tutti i nomi. Va tenuto conto anche della puntualizzazione di Tommaso d’Aquino: quando si predica del sommo ente e delle cose lo si fa non in modo univoco né in un senso del tutto equivoco, ma in senso analogico (Summa theologiae, I, q. 13, art. 5). 175. De divinis nominibus, I, 6. 176. Summa theologiae, I, q. 13, art. 11. 177. De ente et uno, cap. III, ed. cit., p. 398. 178. Causa, BOeuC III 213; cfr. anche ivi, p. 363, nota 88, con il rinvio agli Articuli adversus mathematicos (BOL I,III 26) oltre che al dialogo De possest di Cusano (cfr. Trialogus de possest, ed. R. Steiger, Hamburgi 1973, pp. 16-18). 179. Summa term. met., BOL I,IV 85-86.

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D’altronde, in quel testo così fortemente critico quale è il Camoeracensis acrotismus, Bruno aveva chiarito significativamente la sua posizione: Si etenim una est omnium rerum substantia, unum subjectum, una natura, de uno praedicata omnia certe verificantur. Si natura imaginetur extra rerum substantiam, ut quiddam per se existens, atque sepositum, rationabilius sane esset quaerere, an agere propter finem illi secundum unam, vel alteram contradictionis partem contingat. Sed ubi natura est ipsa universalis rerum substantia, et ipsum quod est, in diversis sane contrariisque habitis suppositis, diversas contrariasque adsumit denominationes et habitudines180.

È evidente che, dalla prospettiva dell’unicità della sostanza, la questione dell’analogia entis veniva a porsi su un piano diverso. L’idea di Dio come Mens insita omnibus, omnia in omnibus implicava inoltre che «Deus... est substantia universalis in essendo, qua omnia sunt»181, e nel De la causa Bruno aveva insistito sul fatto che le cose particolari, gli enti singoli – «accidenti di sussistenza... accidenti di essere»182 – sono, cioè hanno l’essere in quanto sostanza nella parte e non come parte della sostanza, che è «impartibile»183. Per il filosofo nolano, come per san Tommaso, in Dio essenza ed essere si identificano184, diversamente che negli enti che sono per

180. Camoer. acrot., BOL, I,I 109. E poco prima nel testo: «Sed pro ampliore quaesiti resolutione notandum, naturam agere omnia, et non unum sine alia: omnia item unam esse substantiam, quae non fit, sed est. Cui sane enti innumerae adveniunt dispositiones, quarum hae quidem sunt finis, illae vero ad finem. Porro cum non sint ipsa rerum substantia, et id quod est, nihil est ita finis, ut ad aliud non tendat, vicissimque ad omnia tendant omnia, diversorumque respectu, et finis sunt et ad finem, et contra finem» (ivi, pp. 108-109). 181. Summa term. met., BOL I,IV 73. Cfr. De minimo, BOL I,III 136. 182. «Non altrimente certi accidenti corporei fanno moltiplicazione di corporeità. Similmente certi accidenti di sussistenza fanno moltiplicazione di sustanza. In tal maniera certi accidenti di essere fanno moltiplicazione di entità, verità, unità, ente, vero, uno» (Causa, BOeuC III 299; cfr. anche ivi, p. 25). 183. Ivi, p. 287. Impartibilità o indivisibilità che riguardano la sostanza, come l’ente, l’universo infinito, l’intelletto primo, l’anima universale, la forma prima, Dio, l’atomo; vd. ivi, pp. 27, 237, 273; cfr. inoltre: Sig. sigill., BOL II,II 202; Lampas trig. stat., BOL III 53, 59, 174, 178; Summa term. met., BOL I,IV 14. 184. Come si legge nel De la causa: «uno essere lo ente, la sustanza e l’essenza» (BOeuC III 279; vd. ivi, p. 235). Richiamandosi a Cusano, Bruno definisce l’ente come actus essendi: «Primo enim ens de principali suo significato actum significat essendi; secundo rem (a qua reor ratumque deducitur) magis communiter, nempe tum actum essendi, tum quidditatem ipsam et essentiam» (Summa term. met., BOL I,IV 8). Cfr. De docta ignorantia, lib. I, cap. XXIII, ed. cit., pp. 46-47: «Et hinc maximum est forma formarum et forma essendi sive maxima actualis entitas. Unde

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partecipazione185. Tuttavia, il cambiamento di prospettiva tra i due autori è radicale: riguardo all’ente, che per Bruno è Uno-tutto moltiunico-moltimodo, e riguardo all’essenza, da lui intesa quale sostanza infinita che si esplica in una pluralità infinita di mondi186. Va anche osservato che egli parla di «vestigio dell’essenza», in relazione alle singole specie e rispetto a quell’essenza per sé che è senza specie187; così come egli distingue tra «substantia absoluta et propria et per se» e «vestigium substantiae»188, distinzione variamente presente nei suoi scritti e che rinvia a un duplice modo di considerare la medesima sostanza, in rapporto all’eternità e al tempo189. A Dio – vien detto nella Praxis descensus – «conviene tutto l’essere, perché è di tutte le cose l’essenza»190; «monade, vera essenza de l’essere de tutti», sintetizzavano gli Eroici furori191. Ma tale essenza – sottolinea Bruno – non deve essere intesa nel senso di qualcosa di comune a più cose, come «essenza trovata in più particolari»192, ma come condizione, fondamento di ogni essere193. L’essenza divina – l’entitatis essentia – non è in alcun luogo circoscritta, ma «in nessun luogo è assente, dando allo spazio d’essere spazio, al corpo d’esser corpo, e dando al corpo d’essere nello spazio»194. Pertanto, l’essenza non è Parmenides subtilissime considerans aiebat Deum esse, cui esse quodlibet, quod est, est esse omne id, quod est... Et quia ipse est entitas omnis esse et omnis motus est ad esse: igitur quies motus est ipse, qui est finis motus, scilicet forma et actus essendi». 185. «Unitas est praedicatum, quod cum veritate et bonitate participat... Rursum unum significat idem, ut Deus et Deitas sunt unum, id est idem, quia in eo non differt esse et essentia» (Summa term. met., BOL I,IV 16; cfr. anche ivi, p. 75). Di Tommaso d’Aquino vd. De ente et essentia, capp. 4-5; Summa theologiae, I, q. 3, art. 4. Così come essere ed essenza, in Dio coincidono potenza e atto, materia e forma; cfr. Causa, BOeuC III 25-27, 213, 271; Infinito, BOeuC IV 89; Furori, BDI 1050. 186. Fermo restando che per Bruno: «non falla chi dice uno essere lo ente, la sustanza e l’essenza» (Causa, BOeuC III 279). 187. Summa term. met., BOL I,IV 90 (art. Proprietas). 188. Ivi, p. 102. 189. Cfr. per es. Cena, BOeuC II 255-257. 190. Summa term. met., BOL I,IV 85 (art. Nomen). 191. Furori, BDI 1125. L’unità, la monade sarebbe quindi la sostanza dei numeri (cfr. il cap. II del primo libro del De minimo, BOL I,III 138-140). 192. Summa term. met., BOL I,IV 91 (art. Species). 193. Ivi, pp. 98-99 (art. Comprehensio); cfr. anche p. 85 (art. Conceptio). 194. «Divina item essentia ita est alicubi, ne intelligatur inclusa, contenta vel contracta loco. Dicitur non alicubi, ita ut non intelligatur exclusa, sed utrumque licet proferre eo sensu, quod non est in loco circumscriptive et quod est in loco definitive et repletive; haud quidem repletive, sicut corpora sunt in suis spatiis, sed quia nusquam abest, dando spatio esse spatium, corpori esse corpus, et corpori esse in spatio dando, item his quae non sunt in loco non esse in loco, spiritualibus esse

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compresa dalle cose come contenuta in qualche confine, pur comprendendo tutte le cose in quanto sostanza una, eterna e infinita. Si è in parte già ricordato l’esordio dell’articolo Substantia della sezione De Deo seu mente: «Dio dunque è sostanza universale nell’essere, sostanza per cui tutte le cose sono, essenza fonte di ogni essenza, per cui è tutto ciò che è, intima ad ogni ente più che la propria forma e la propria natura possa essere a ciascuno»195. Ed è significativo che, in questo stesso articolo, Bruno si richiami al tanto citato e discusso versetto 17, 28 degli Atti degli Apostoli, dal discorso di Paolo di Tarso all’Areopago196; versetto di cui è nota l’utilizzazione a volte eterodossa, e persino ‘panteistica’, da Origene fino a Toland197, anche per il riferimento al celebre verso stoico. Quindi, proprio a livello dell’essenza si darebbe assieme immanenza e trascendenza della divinità rispetto alla natura naturata. Si potrebbe anche dire che ogni ente singolo, per partecipazione, porta con sé il principio della sua trascendenza anche se, come rimarcava Tocco, la stessa mens – e non solo l’intellectus primus, l’anima o lo spiritus – viene da Bruno considerata intima a tutte le cose198. Così, in un gioco di specchi senza fine l’enigmatico sommo ‘artista’, Apollo

spiritualia, corporalibus esse corporalia, et tandem omnibus esse id quod sunt; atque ita est ubique, sicut ubique est aliquid, quia ipsum quodcunque est ipse est» (ivi, pp. 95-96, art. Ubi). Cfr. Liber viginti quattuor philosophorum, III; Nicolaus de Cusa, De docta ignorantia, lib. I, cap. XVI, ed. cit., p. 31. 195. Summa term. met., BOL I,IV 73. Già nel quinto dialogo del De la causa Bruno aveva notato: «quel principio indivisibile, che per essere unica e radical sustanza di tutte cose, non è possibile ch’abbia un certo e determinato nome, e tal dizzione che significhe più tosto positiva che privativamente»(BOeuC III 295). 196. «Propterea bene dicitur ‘in quo vivimus, vegetamur et sumus’; quia est vitae vita, vegetationis vegetatio, entitatis essentia» (Summa term. met., BOL I,IV 73). Act. 17, 28: «In ipso enim vivimus et movemur et sumus, sicut et quidam vestrum poetarum dixerunt: ipsius enim et genus sumus». Per il verso stoico vd. Arato, Phaenomena, v. 5, e l’Inno a Zeus di Cleante di Asso, Stoicorum veterum fragmenta, ed. H. von Arnim, I, fr. 537, v. 4. 197. Per un confronto tra interpretazioni diverse del versetto vd. ad es. Origene, De principiis, II, 1, 3, e Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 18, art. 4. Cfr. J. Toland, Pantheisticon, rist. anast. del testo latino del 1720 e trad. it., a cura di O. Nicastro e M. Iofrida, Pisa 1996, p. 244. 198. F. Tocco, Le opere inedite di Giordano Bruno, cit., p. 47, nota 1. Come si è già osservato, Bruno collega il concetto di mens al νος più che allo ν della triade plotiniana, e quindi all’idea di ens come Uno-tutto e Uno-molti. Va inoltre tenuto conto che la mens corrisponde al νος quale prima ipostasi ermetica – come del resto traduce Ficino nel Pimander –, cui seguono λγος e ψυχ . Vd. anche Liber viginti quattuor philosophorum, IV: «Deus est mens orationem generans, continuationem perseverans». Per il concetto di mens, Bruno ha presente in particolare le riflessioni di Cusano (cfr. il libro III dei dialoghi dell’Idiota).

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o Apelle che si voglia dire199, si riflette nella sua Diana, per cui «quel tutto che si vede di differenza ne gli corpi quanto alle formazioni, complessioni, figure, colori et altre proprietadi» non sarebbe altro – come si legge nel De la causa – che «un diverso volto di medesima sustanza; volto labile, mobile, corrottibile, di uno inmobile, perseverante et eterno essere»200. E non è un caso se tale questione venga sollevata in una delle proposizioni censurate201 che gli Inquisitori sottoposero a Bruno, e di cui nel Sommario del processo si conservano, seppure non integralmente, le sue ‘risposte’202. In quei frammenti superstiti che risalgono al 1597 – quando il filosofo era in carcere da cinque anni e la vicenda processuale volgeva al suo epilogo – ritorna così anche quel tema che costituisce uno dei cardini della nolana filosofia: «In hoc mundo nihil generatur, neque corrumpitur secundum substantiam»203. Così come ritorna, nelle responsiones, quell’immagine dello specchio che esprime in modo pregnante l’idea bruniana di sostanza e di anima, che è infinitamente ‘prismatica’ e ‘indistinta’ – tutte le anime, come insegnavano i platonici, sarebbero complicate nell’anima del mondo204. È, dice Bruno, «come se molti fragmenti di specchio si riunissero all’antica forma d’un specchio, l’imagini, ch’erano in ciascuno fragmine, sono annichilate, ma resta il vetro e

199. Cfr. Causa, BOeuC III 105-107; Furori, BDI 1099, 1123-1125. 200. BOeuC III 285. 201. Sulla base dell’esame da parte degli Inquisitori, durante la fase romana del processo, di un certo numero di libri di Bruno e delle sue varie deposizioni (cfr. la precedente nota 53). 202. Per le Responsiones ad censuras vd. Firpo, Processo, doc. 51, pp. 299-304; per l’analisi di Firpo delle varie proposizioni censurate cfr. ivi, pp. 79-86. 203. Rispetto a tale proposizione Bruno dichiara: «quanto al geno e specie, cioè spirito, acqua, arida et luce, dalli quali sono composte tutte le cose, e queste non possono essere altro che quel che sono state, né saranno altro che quel che sono, né alla loro grandezza o sostanza s’aggionge mai o mancarà ponto alcuno...; quanto alli particolari individui... sì come il corpo non è corruttibile secondo la sustantia, ma solamente secondo l’unione e temperamento e complessione, perché quello che in lui è acqua sempre fu e sarà acqua, quello che in lui è arida sempre fu e sarà arida, e la sustanza della luce sempre fu e sarà tale, così il spirito sempre fu e sarà spirito, di sorte che niente, che possiamo dire sostanza, si corrompe o more, ma cosa che risulta di sostanza, cioè dalla prima specie dell’ente» (ivi, doc. 51, pp. 300-301). Nella sua ‘risposta’ Bruno non manca poi di fare riferimento a Ecclesiaste 1, 9-10, un testo che egli aveva scelto – con qualche variazione – quale suo motto (vd. Giordano Bruno. Gli anni napoletani e la ‘peregrinatio’ europea, a cura di E. Canone, Cassino 1992, pp. 121-122). 204. Cfr. Nicolaus de Cusa, De docta ignorantia, lib. II, cap. IX, ed. cit., pp. 91-92; Lampas trig. stat., BOL III 58-59, 182-183.

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la sostanza, la quale era e sarà»205. Frammenti di un magnum speculum quali gocce infinite di un immenso oceano cosmico e, come recita un verso degli Eroici furori, «Goccia non scende a terra ad inglobarsi»206; ricollocato il frammento, rimane comunque la sua traccia.

205. Firpo, Processo, doc. 51, p. 302. Per l’immagine del magnum speculum cfr. ad es. De magia, BOL III 435; Lampas trig. stat., ivi, pp. 59-60. 206. BDI 1132.

MICHELE CILIBERTO TRA FILOSOFIA E TEOLOGIA. BRUNO E I PURITANI

A Tullio Gregory

Faccio subito una precisazione, a scanso di equivoci: in queste pagine mi propongo di offrire anzitutto delle ipotesi di ricerca, delle possibili linee interpretative, piuttosto che delle conclusioni definite, di carattere compiuto. Intendo farlo mettendo a fuoco una problematica che continua a restare abbastanza in ombra, nonostante i lavori che negli ultimi tempi sono stati dedicati allo studio degli anni trascorsi da Bruno in Inghilterra (a cominciare dal Convegno londinese del 1994, che a questo tema è stato esplicitamente dedicato)1. Mi riferisco in modo specifico alla questione dei rapporti fra Bruno e le correnti religiose – e teologiche – dominanti in Inghilterra, fra il 1583 e il 1585 – negli anni, cioè, del suo soggiorno prima a Oxford, poi a Londra. Eppure, come risulta in piena evidenza da studi ormai classici quali quelli di Patrick Collinson, furono anni decisivi per la Chiesa d’Inghilterra, insidiata da un travaglio, e da una lotta, che in certi momenti apparve addirittura mortale, fra gli anglicani da un lato, i puritani dall’altro («i più estremisti fra i protestanti», come si legge appunto in un libello coevo)2. È proprio nel 1584 – cioè nell’anno della pubblicazione dello Spaccio – che lo scon1. Se ne vedano ora gli atti: Giordano Bruno 1583-1585. The English Experience/ L’esperienza inglese, Atti del Convegno (Londra, 3-4 giugno 1994), a cura di M. Ciliberto e N. Mann, Firenze 1997. 2. Cfr. P. Collinson, The Elizabethan Puritan Movement, London 1967, p. 10. Di Collinson sono molto interessanti alcune osservazioni, di carattere generale, sul termine ‘puritano’, anche in rapporto al libro di R. Bancroft di cui si parlerà più avanti nel testo: «It is a remarkable fact that the people we know as puritan were only called puritans once, in the entirety of Bancroft’s venomenous publications (Otherwise the future archibishop calls them ‘our English Genevators’, ‘the seekers of the pretended Discipline’, ‘the pretended reformers’, ‘our pretended English Reformers’, ‘ours Disciplinarian men’). The word ‘puritan’ and what it would resonate, for the seventeenth century and for much of the remainder of English history, owed everything to a rather different reaction to Martin Marprelate, less respectable although equally indebted (apparently) to Richard Bancroft. This was a phenomenon of literary and even more dramatic anti-Martinism». Cfr. P. Collinson, Ecclesiastical Vitriol: Religious Satire in the 1590s and the Invention of Puritanism, in The Reign of Elizabeth I, Court and Culture in the last Decade, ed by J. Guy, Cambridge 1995, pp. 164-165.

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tro raggiunge l’acme, risolvendosi in una disfatta dell’opposizione puritana, ad opera del nuovo arcivescovo di Canterbury John Whitgift, il quale riesce ad assicurarsi da parte dei ribelli più ortodossi la sottoscrizione a una versione rivista dei suoi Articles; mentre il Parlamento, per parte sua, presenta una petizione a favore di un clero più preparato e di una riforma degli abusi, auspicando il ritorno dei «pastori» perseguitati e la fine degli aspetti più aspri della politica dell’arcivescovo. Le cose non cambiano, però, nel corso del 1585, l’anno della pubblicazione della Cabala: la Regina ordina ai vescovi anglicani di trattare con fermezza i Puritani («curious and busy fellows»); i Comuni emanano un Bill sull’ammissione degli uomini al ministero; Whitgift – fortemente sostenuto da Elisabetta – continua ad attaccare i ‘non-conformisti’ con altri interventi di ‘riforma’; il Parlamento, infine, approva un Act contro i Gesuiti venuti in Inghilterra, così si legge nel Preambolo, per promuovere ribellione e aperta ostilità verso la Regina3. Che Bruno – il quale frequentava attivamente gli ambienti di corte inglesi – sia rimasto estraneo al terremoto che scuote allora la Chiesa d’Inghilterra, resta difficile da credere; così come risulta difficile pensare che la problematica dello Spaccio e della Cabala sia lontana dalle polemiche di carattere religioso e teologico che erano allora all’ordine del giorno. Eppure sia nel primo che nel secondo dialogo morale è con il Cristianesimo – e, in modo particolare, con i Riformati – che il Nolano impegna una battaglia senza quartiere, ponendo con massima energia il problema della rinascita dell’antica religio civile e naturale, destinata a promuovere – dopo le tenebre cristiane – sia la ripresa della scienza e del sapere che lo sviluppo ‘pacifico’ del convitto umano, mettendo fine alle crudelissime lotte che da decenni, ormai, insanguinano la «misera ed infelice Europa»4. Non che non si siano fatti riferimenti a questo tipo di questioni, ma senza mai approfondirle in modo sistematico, analizzando, cioè, in modo ravvicinato la situazione inglese, a quella data. Si è preferito insistere sugli aspetti filosofici o, addirittura, letterari dei due dialoghi morali, considerando, da un punto di vista ‘generale’ – weltanschaulich, verrebbe da dire – i contributi che Bruno ha dato alla cultura moderna (come avviene in una interpretazione classica quale quella di Giovanni Gentile)5; oppure, quando si è 3. Per una prima analisi di questi eventi, cfr. B. Reardon, Il pensiero religioso della Riforma, Roma-Bari 1984. Ma, ovviamente, su questi temi la bibliografia è vastissima, anzitutto in lingua inglese. 4. L’espressione, di Bruno, è nello Spaccio de la Bestia trionfante. Cfr. BDI 622. 5. Di Gentile cfr. Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, con una Introduzione di E. Garin, Firenze 1990 (Ia edizione 1920).

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insistito sugli elementi di tipo religioso, si è battuto anzitutto sui rapporti tra Bruno e la tradizione dell’ermetismo radicale, anticristiano, individuando nello Spaccio la ripresa del progetto ermetico di una ‘riforma’, in chiave ‘solare’, dell’umanità (come si sostiene nell’importante libro della Yates)6. Sia nel primo che nel secondo caso, ci si è mossi dunque in una prospettiva di ‘storia generale’, la quale, come una sorta di cannocchiale rovesciato, ha distanziato – e per certi aspetti deformato – i caratteri di fondo dei due dialoghi morali. La tesi che intendo, invece, sostenere in queste pagine è che sia lo Spaccio che la Cabala sono profondamente inseriti nella lotta religiosa, teologica e politica che scuote l’Inghilterra a metà degli anni Ottanta, nella quale si situa in modo organico – a mio giudizio – anche la riprospettazione che il Nolano compie del suo ‘programma’ filosofico, spostandosi dalla dimensione cosmologica e scientifica a quella di carattere morale e religioso (spostamento su cui, in varie guise, si è costantemente interrogata la critica bruniana di ieri e di oggi). Sono due aspetti di uno stesso processo – teorico e biografico – con cui occorre, credo, fare i conti. Ma anche qui, a scanso di equivoci, è opportuno fare una seconda osservazione, questa volta di metodo: non penso affatto che ‘contestualizzare’ un testo voglia dire comprenderlo, né che studiarne la genesi significhi esaurire la complessità dei significati di cui esso è portatore. Tutt’altro. Non meno discutibile – e fallace – è però una prospettiva di tipo astrattamente ‘generale’, senza alcuna connessione con la situazione filosofica, politica, religiosa in cui determinate opere vennero scritte e pubblicate. Testi come lo Spaccio e la Cabala furono, anche, attori concreti di una lotta ‘concreta’: e così, a oltre quattrocent’anni di distanza, devono essere considerati7. Ma da questo punto di vista – ed è l’ultima osservazione di carattere preliminare che intendo fare – è tutta l’esperienza fatta 6. Mi riferisco, naturalmente, a Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari 1969 (Ia ed. inglese 1964). Va comunque rilevato che la Yates nei suoi primi studi bruniani si mostra particolarmente attenta alla polemica di Bruno con i teologi oxoniensi. Cfr., tra l’altro, i due importanti saggi Giordano Bruno e la disputa con i dottori di Oxford e La politica religiosa di Giordano Bruno, in F. A. Yates, Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, Introduzione di E. Garin, Roma-Bari 1988, pp. 1257. Successivamente, individuata nell’ermetismo la chiave d’oro per capire tutto Bruno, la Yates abbandonò definitivamente questa importante pista. Sul lavoro della studiosa inglese, cfr. da ultimo Frances Yates and Giordano Bruno, in Atti della giornata di studio «Giordano Bruno: testi e traduzioni», 3 ottobre 1994, a cura di H. Gatti, Roma 1996, pp. 19-40. Una ricognizione di carattere generale sugli studi bruniani degli ultimi decenni è nel mio lavoro Bruno ieri e oggi, in Giordano Bruno. Note filologiche e storiografiche, Firenze 1996, pp. 5-24. 7. Ho cominciato ad avviare un’analisi di questo tipo anni fa in La ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno, Roma 1986 (2a ed. 1992).

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a Londra dal Nolano che deve essere riconsiderata in modi nuovi, riallacciandosi, per quanto riguarda la cultura italiana, agli studi pionieristici di maestri come Ludovico Limentani e Napoleone Orsini. Come è noto, Bruno arriva a Londra nei primi mesi del 1583, preceduto da un dispaccio inequivocabile di Henry Cobham a Francis Walsingham: «Il signor doctor Jordano Bruno, Nolano, a professor in philosophy, intends to pass into England; whose religion I cannot commend»8. Si tratta, certo, di una segnalazione sintomatica, indice senza alcun dubbio del ruolo che Bruno era venuto assumendo a Parigi fra il 1581 e il 1583. Ma non è una notizia da enfatizzare in modo particolare, come in qualche caso si è fatto. Walsingham aveva messo in piedi un vero e proprio servizio informativo, con il quale egli diede un potente contributo alla politica sviluppata da William Cecil e da Elisabetta d’Inghilterra, volta a contenere la minaccia rappresentata, in modo costante, sia da Roma che dalla Spagna. La segnalazione di Cobham si inserisce in questo tipo di lavoro: era, in altre parole, una notizia di routine; come conferma il fatto che il riferimento al Nolano è incastonato fra due altre segnalazioni concernenti, sia l’una che l’altra, movimenti di italiani che si apprestavano a recarsi da Parigi a Londra (uno Strozzi e un Cornari, ad esser precisi)9. Resta comunque il fatto che Cobham abbia ritenuto opportuno di dover fare menzione di Bruno: il quale, come è noto, una volta arrivato a Londra si installò nella casa dell’ambasciatore francese, Castelnau, dove stava – così dirà agli Inquisitori Veneti – come suo «gentilhomo»10. Non era, naturalmente, una scelta 8. Vedilo ora in G. Aquilecchia, Giordano Bruno in Inghilterra (1583-1585). Documenti e testimonianze, «Bruniana & Campanelliana», I (1995), pp. 21-42: p. 24. 9. Per un altro riferimento a Cornari, nello stesso ambito di problemi, cfr. Calendar of Letters and State Papers relating to English Affairs, preserved principally in the Archives of Simancas, vol. III, Elizabeth, 1580-1586, edited by A. S. Hume, London 1896, p. 474, questa volta in una lettera di Bernardin de Mendoza al re di Spagna. Se non m’inganno, nella corrispondenza di Mendoza non si incontra il nome di Bruno, che tuttavia ebbe modo di conoscerlo bene presso la Corte di Elisabetta. A conferma di un incontro non superficiale – e della molteplicità dei rapporti stabiliti a Londra – sta il fatto che, a Parigi, Bruno si rivolse a Mendoza per ‘contrattare’ un suo rientro nella Chiesa di Roma: «Sono da sedeci anni incirca che io non mi sono mai presentato al confessore, eccetto dui volte – dice agli Inquisitori veneti –; una volta in Tolosa da un iesuito; et un’altra volta in Parisi a un altro iesuito, mentre trattavo, per mezo di monsignor Vescovo di Bergomo, allora nontio in Paris, et di don Bernardin di Mendoza de ritornar nella religione, con intenzione di confessarmi» (Firpo, Processo, p. 176). E, ancora: «Io ho già detto nelli mei constituti che del caso mio ne raggionai con Monsignor Vescovo di Bergamo, nontio in Francia, al qual fui introdutto da don Bernardin Mendoza, ambasciator Catholico, conosciuto da me nella corte d’Inghilterra...» (ivi, p. 197). 10. Firpo, Processo, p. 162.

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casuale: senza dover pensare necessariamente a missioni segrete di Bruno (che peraltro – e voglio sottolinearlo – non possono essere escluse), la decisione di risiedere a Londra presso l’ambasciatore francese aveva, in quel momento, motivazioni e significati precisi, oltre a consentirgli di prendere contatti (al più alto livello, va aggiunto) con autorevoli esponenti della cultura e dell’ambiente londinese. Ma la prima, effettiva presentazione di Bruno al pubblico inglese avvenne – e non fu senza conseguenze, credo – in un momento del tutto eccezionale: in occasione del viaggio che egli fece a Oxford, nel giugno del 1583, al seguito del voivoda polacco, Alberto Laski. Se si leggono le cronache dell’epoca non si stenta a capire che si trattò di un evento memorabile, destinato a lasciare – per la sua fastosità – un ricordo che, nelle cronache, sembra sfociare addirittura nel fiabesco. Era stata la stessa Regina – e va sottolineato – a raccomandare ai membri dell’Università di Oxford di accogliere il voivoda in modo adeguato e conveniente: cosa che essi fecero, puntualmente, organizzando sfilate in costume, pranzi sontuosi, rappresentazioni teatrali, e anche dispute ‘filosofiche’ su argomenti del tipo: «An Mares vivant diutius quam feminae?»; oppure «An sit divinatio per stellas?»11. In 11. Sulla visita di Laski a Oxford vale la pena di riportare il racconto che, riprendendo cronache coeve, ne fa Anthony à Wood: cfr. The History and Antiquities of the University of Oxford in two books by Anthony à Wood, M. A. of Merton College, now first published in English from the original MS in the Bodleian Library by John Gutch, M. A. Chaplain of All Souls and Corpus Christi Colleges, vol. II, Oxford 1796, pp. 215-218. «A noble and learned Polonian named Albertus Alaskie or Laskie, or de Alasco (so many ways do I find him written by our English Authors) being come to English Court to see the Fashions and admire the wisdom of the Queen, Letters dated the 13 May came from the Chancellor of the University by her Majesty’s command that the Members thereof should make provision for the reception of him according to his quality, being a Prince and Palatine of Sirad. The day appointed for his reception was the 10 of June which being come, he, with our Chancellor and certain Noblemen appointed to attend him, came from Ricot, and approaching the east part of the City, met them D. Humphrey, Dr. Tob. Matthew, Dr. Arth. Yeldard, Dr. Martin Culpeper, and Herb. Westphaling, in their scarlet Gowns: the last of whom made an Oration to them, which was answered very courteously in the Latin Tongue by the Prince. Coming nearer Oxford, met him the Mayor, Aldermen, Baillives and others in their scarlet Gowns; and after the Town Clerk, who was M. of Arts, had spoken a short Oration in the Latin Tongue, they presented to him, and Noblemen with him, Gloves... The next day in the Morn. he heard a Latin Sermon preached by Dr. Matthew, then several Exercises in the publick Schools, which being all finished to his great content, went to All Souls Coll. to dinner (the Warden thereof being now Vicechancellor) where besides a Speech delivered to him at the publick gate, had the view of several Copies of Verses made by some of that House, and curiously painted with Colours, that were hung to up there. After he had refreshed himself with a sumptuous

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breve: si trattò di una festa senza precedenti nel passato, senza paragoni nel futuro; venne, infatti, a costare qualcosa come 350 sterlientertainment, several of that House disputed before him in their common Hall to his great content. Between 3 and 4 the Clock he went to St. Mary’s, where Disputations were performed (as they were also the next afternoon) in Divinity, Law, Physick, Natural and Moral Philosophy: which done, he supped at Christ Church (which he did every night that he remained in the University) and then he with the Nobles and their respective retinews saw a pleasant Comedy acted in Christ Church Hall by several of the University, intitled Rivales, which giving them great content, the Author, Dr. Will. Gager, had the honour to receive from the Prince personal thanks. The next day he went to the schools, and there heard divers Lectures and Disputations, and thence to dinner at Magdalen College, where the same ceremonies were observed as at All Souls the day before. In the afternoon he went to Disputations again, where among other Questions disputed on were these two: An Mares vivant diutius quam feminae? Aff. An sit divinatio per stellas? Neg. Mr. Nich. Maurice of Corpus Christi Coll. was Respondent, who made an eloquent Oration preceding. The Opponents were Mr. Thom. Singleton of Brasenose, Mr. John Wickham of Ch. Church, Mr. Matthew Gwynne of St. John’s, and Mr. Will. Tooker of New Coll. The Moderator was Mr. Thom. Leyson, the Senior Proctor. All which quitted themselves with great applause from the Auditory, especially from the Prince, who afterwards gave a very good report of them. The Disputations being ended and the supper following at Christ Church, he saw a very stately Tragedy acted here, named Dido, wherein the Queen’s conquest with Aeneas, his narration of the destruction of Troy, was lively described in a Marchpaine Pattern. There was also a pleasant sight of Hunters, with a full cry of a kennel of hounds (partly as before, when the Queen was here) and Mercury and Iris descending and ascending from and to a high place. The Tempest also, wherein it rained small comfits, rose water and snew artificial snow, was very strange to the Beholders. The third day another Latin Sermon was delivered in the morning by Dr. William James, and the Prince viewed several Colleges, in most of which he was entertained with Speeches, Verses and Disputations: all which he answered in several languages extempore. At lenght he went to New Coll. where he was entertained with a sumptuous Dinner and Scholastical Exercises. After which were finished, all to his content, he set forward towards Woodstock, and without the Northgate in his way thiter he was invited to a costly banquet at St. John’s Coll. (the gates and outward walls thereof being covered with multitudes of verses and other emblemes of poetry): but his desire towards his journey’s end caused him not to accept of it, only a pithy Oration, delivered by a Fellow of That House. From thence he was accompained with divers Doctors and Heads of Houses in their scarlet Gowns to the mile-stone or thereabouts, and then the University Orator speaking another Oration, they all took their farewell of him, their Chancellor and the rest of noble company. Some days after, when they came to London, they made such a good report of their entertainment to the Queen, that she ordered that thanks should be sent to the University, as if had been done to her, and for her honour and credit. Such an entertainment it was, that the like before or since was never made for one of his Degree, costing the University with Colleges (who contributed towards the entertainment) about 350 £. And indeed considering the worthiness of the person for whom it was chiefly made, could not be less. He was one ‘tam Marti tam Mercurio’: a very gold soldier and a very good Scholar, an admirable Linguist, Philosopher and Mathematician. His deportment very winning and plausible, his personage

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ne12 (270, secondo valutazioni più circoscritte)13. Eppure, considerando il valore della persona per cui era stata indetta – il conte palatino –, non sarebbe stato possibile spendere di meno (almeno così si legge nelle cronache che ci restano di quell’avvenimento eccezionale). Fu in occasione di questa festa straordinaria – alla quale parteciparono con funzioni rilevanti Tobie Matthew (soprattutto), Martin Culpepper e, con un ruolo più modesto, Matthew Gwinne, cioè personaggi ben noti ai lettori dei dialoghi londinesi – che Bruno fu presentato per la prima volta al pubblico inglese – come egli stesso ricorda nella Cena, rievocando la disputa che l’aveva opposto al ‘pulcino’ oxoniense, della quale peraltro non si è (ancora) trovata traccia nelle cronache del tempo. Insomma – ed è questo che voglio proper, utterance sweet, natura facile and wit excellent. But that which was in him most observable, was his prodigality, for so far did he exceed his abilities, that being not able to keep within bounds (notwithstanding he had 50 Castles of great value with a wife) was forced at lenght to quit England (after he had tarried there 4 Months) to prevent the coming of Creditors, and retiring to his own Country, was afterwards seen at Cracow by an English Gentleman very poor and bare». È interessante sottolineare, in questo testo, oltre l’enfasi sulla visita del voivoda, il rilievo avuto in tutta la vicenda dai ‘dotti’ inglesi con cui Bruno ha rapporti più stretti – da Matthew Gwynne a Martin Culpepper, a Tobie Matthew, il quale, fin dal 1576, era il dean del College – il Christ Church – in cui Laski stabilisce il suo quartier generale per tutto il periodo del suo soggiorno oxoniense. Non privo di rilievo è anche l’accenno alle competenze linguistiche del principe, il quale, a seconda del luogo e del momento, si esprime nell’una e nell’altra lingua. È possibile, peraltro, che l’elogio delle traduzioni fatto da Bruno a Oxford – che tanto colpì sia N. W. che Florio – sia avvenuto anche nella scia di discussioni sul valore delle lingue suscitate dall’ammirazione per le conoscenze del voivoda. Non c’è poi dubbio, a mio giudizio, che nella ‘pomposa’ descrizione dei due ‘dottori’ oxoniensi – e dei loro sfarzosi abbigliamenti – fatta nella Cena Bruno abbia avuto in mente lo ‘spettacolo’ offerto dai maggiorenti della Università in occasione della visita di Laski. Infine va sottolineato l’accenno che nell’ultima – e breve – parte della sezione dedicata all’anno 1583 Anthony à Wood fa agli oxoniensi cui Leicester affida il compito di riformare lo statuto dell’Università. Insieme a quelli del vicancelliere e dei proctors in carica, spiccano i nomi di Tobie Matthew, di John Underhill (il ‘pulcino’ di cui parla Bruno nella Cena) e di Edward Gellibrand, il capo della comunità ‘puritana’. 12. Di 350 sterline si parla in The Progresses and Public Processions of Queen Elizabeth…, illustrated with historical notes by J. Nichols, a new edition in three volumes, vol. II, London 1823, pp. 405-411 (si tratta di una cronaca coeva, utilizzata ampiamente da Wood). 13. «June 10-13 [1583] Albertus Alaskie or Laskie, a Polish nobleman, who came to Oxford with the Cancellor, was entertained, by the University, at a cost about £ 270», in Oxford Books, A Bibliography of Printed Works relating to the University and City of Oxford or printed or published there, with Appendixes, Annals and Illustrations, vol. II, 1450-1650, by F. Madan, M. A., F. S. A., Oxford 1912, p. 22.

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dire – fu attraverso Laski e, indirettamente, attraverso Elisabetta che Bruno riuscì a conquistarsi un palcoscenico, e fu grazie al suo peso e al suo prestigio – assai plausibilmente – che egli riuscì ad ottenere, nell’Università di Oxford, la ‘lettura’ traumaticamente conclusasi nel mese di agosto dello stesso anno. È assai probabile, anzi, che siano stati proprio personaggi come Matthew – strenuamente impegnato, in quel momento, nella battaglia per diventare vescovo di Durham14 e perciò bisognoso di alti sostegni, cominciando da quello della Regina – a farsi sostenitori delle ambizioni del Nolano, per onorare una personalità che Elisabetta appoggiava in modo così forte e palese. È anche a questa luce, credo, che debbono essere lette le parole di considerazione – non facilmente comprensibili, a prima vista – pronunciate nel De la causa nei confronti di Matthew e Culpepper, distinguendoli dal «volgo di dottori oxoniensi»: l’uno e l’altro ammirevoli, scrive Bruno, «e per l’eloquenza e per la dottrina e per la civil cortesia...»15. Né è difficile, d’altra parte, capire l’at14. Su Tobie Matthew, cfr. P. Collinson, The Religion of Protestants, Oxford 1982. Sempre di Collinson si veda anche il saggio sopra citato Ecclesiastical Vitriol, assai notevole anche per una serie di considerazioni di carattere generale sulla ripresa della Chiesa – e del numero dei predicatori – negli anni Novanta del Cinquecento: «Archbishop Whitgift thought that in his first year, 1583, they may have been no more than 2.000. Now there were about 4.000, 100 per cent growth in perhaps fifteen years. In some of the slimier creeks and inlets the next generation of church leaders was emerging, deviously, even corruptly. But it was for the most part a more effective episcopal leadership than that of the earlier Elizabethan decades, whether we measure effectiveness by the standards of ecclesiastical governance, epitomized in Richard Neile, or by those of pastoral dedication, whose representative we can make Tobie Matthew. Neile and Matthew were two future archbishops of York, two glittering prizemen of the nineties. Mathew – osserva Collinson – was not without his slimy side, a simonist convicted by his own correspondence of parting with large sums of money to secure his preferment. But this was also the man who as bishop and archbishop preached as many as 1.500 sermons, most of them in country churches and market towns, and actively promoted thousands more» (ivi, pp. 150-151). 15. Per avere una idea della grave crisi in cui versa Oxford quando quando Bruno vi mette piede – e dei modi in cui già allora essa viene percepita – vale la pena di citare con ampiezza la lettera scritta il 25 gennaio del 1582 dal Cancelliere dell’Università, il conte di Leicester, che era stato ampiamente informato dai suoi confidentes dei gravi disordini e degli abusi che avvenivano nell’Atene inglese, con conseguenze gravissime sia sul terreno della scienza che su quello della religione: «The disorders, not muttered of, nor secretly informed here and there in corners, but openly cried out uppon continually and almost in every place, are such, as touch no less then your religion, your lives and conversation, and the whole estate of your Universitye, Professions and Learning. In religion the want of preaching and frequenting of Sermons are not unspoken of, though thanked God, as I am informed, not so much worthely to be noted, and yet a fault not so be neglected nether, but yet a convenient care of reformation in those both points may very well

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teggiamento di Matthew e Culpepper, in questo caso: si assumono il compito di spiegare la situazione al Nolano, invitandolo, in modo riservato e cortese, a lasciare immediatamente Oxford, proprio perché erano stati fra i primi ad aprirgli le porte dell’Atene inglese. Per il ruolo che avevano svolto, la fine traumatica delle lezioni del Nolano – e le complesse ragioni che l’avevano provocata – non potevano, ovviamente, lasciarli indifferenti. Perché Elisabetta abbia fatto rendere onori così eccezionali al Laski non è facile dire. Certo, in una lettera dell’11 maggio del 1583 be used... But the chiefest points are the want of instructing your youth in the Principles of Religion, the little care that Tutors have that waye, and most especially the suffering of secret and lurking Papists amongst you, which seduce your youth and carry them over by flockes to the Seminars beyond seas. This is so evident, that it cannot be denied, so heinous both in the publique estate and yours, both to God, Church, Prince and Cuntrye, that it cannot be excused, and so notoriously geven out to the discredit of that Universitye (for the other is untouched with it) and of you that are Members of it, that I heare the reports with great greef, and doe not a little marvele that you can be of so dull feeling in so sensible, manifest, and great a matter. In your Conversation and Life are these things noted. Excesse in apparell, as filke and velvet, and cutt dubbletts, hose, deepe ruffs and such like, like unto, or rather exceeding, both Inns of Court men and Courtiers. The Haunting of the Towne, that the streets are every daye and all daye longe more full of Schollers then Townsmen. The Ordinary Tables and Ale-houses, growen to great number, are not yet so many as they full straight all daye and so much of the night, with Scholler tipling, dicing, carding, tabling and I will not saye worse occupied. Yea and that is wondered at, that you that are Officers will see and suffer it, that there are lodged and bourded in the Towne very many of Schollers that neither have their names entered into your publick Matriculation, nor in College nor Haule Book, nor have any Universitye Tutor to answer for them... Noe this is not the old Universitye order... Your exercises of Learning, which carry indeed the face and estate of the Universitye in publique (for the private of Colledges and Haules I meddle not with nor heare much evill of them) consist (as I take it) especially upon the Readers, Hearers, Disputers, who are allo so generally found fault with, that whome to excuse or accuse above the others, I know not. The Q. Readers of Greek and Hebrue are plainlye said to read seldnome or never. The Physick, Law, and Divinity Readers few times, and very negligently when they do read. The Lady Margaret’s Lecture is read in like sort. The Schoole Lecturers worse, and almost only pro forma to no purpose. The hearers are most Lectures few, at some none. The Disputers in Divinity seldome called to dispute, and the Disputations superficially passed over when they are had. In Law and Physick, for seldome and negligent handling much worse. In Philosophie and logick nothing like to they have been heretofore. So to know the Universitie [sic] by the face, the wonted beutye of it is so decayed, that they say it were somewhat a hard matter». Cfr. Anthony à Wood, The History and the Antiquities of the University of Oxford, cit., pp. 212-214. Per quanto possa sembrare sorprendente, è un’analisi che Bruno avrebbe potuto tranquillamente condividere: a cominciare dalla contrapposizione fra la decadenza attuale e ciò che Oxford era stata nei tempi passati. Per un’analisi della condizione di Oxford al momento dell’arrivo di Bruno, cfr. il volume collettaneo curato da L. Stone, L’università nella società, introduzione di C. Vasoli, Bologna 1974.

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il voivoda, per parte sua, si dichiarava pronto a servirla fino alla morte16. Ma se si scorrono i testi della diplomazia dell’epoca si vede senza difficoltà come la venuta di Laski e l’accoglienza della Regina abbiano suscitato dovunque curiosità e interrogativi: se ne stupiva Giovanni Moro, ambasciatore veneziano in Francia17; ma non meno colpito era don Bernardin Mendoza, ambasciatore spagnolo in Inghilterra, che in un dispaccio a Filippo II del 4 di giugno del 1583 (pochi giorni, cioè, prima del viaggio a Oxford del principe polacco) torna sull’argomento, parlandogli della giostra organizzata da Elisabetta in onore del Laski, il quale l’aveva vista da una finestra insieme alla Regina e – va sottolineato – all’ambasciatore francese, il Castelnau. Non meno sbalorditi, e preoccupati, erano naturalmente gli inglesi, che, assai sospettosi, non riuscivano a comprendere lo scopo della visita in Inghilterra del conte palatino – un devoto cattolico, dicevano – che ascolta la messa18. Su questo, in effetti, non si sbagliavano: già nel 1571 Laski aveva scritto e pubblicato una De novis rebus polonicis ad religionem pertinentibus EPISTOLA ... ad novos in Polonia ministros Responsoria, in cui non lasciava dubbi sulle sue posizioni. Ecclesiam Catholicam sanguine eius [Christi] praeciosissimo dedicatam, unam esse affirmo: quae est universalis, ita omnia Divinitatis mysteria in ea sola esse reposita firmiter teneo. Extra quam neque salus, neque remissio peccatorum hominibus contingere potest. Huic a Christo Vicarius constitutus Romanus praesidet Pontifex: cui in regenda gubernandaque ecclesia non minor quam Petro apostolorum Principi, a Deo concessa est authoritas. Minime igitur mirum esse vobis videatur, si illi in fide lubens obedio, cuius potestatis imperio Christus ipse parendum mihi praecepit... Nolo igitur temerariae rebellionis stultitia inflammatus, spernere Christum in Romano Pontifice. Illum superiorem adoro, hunc tamquam personam eius in terris gerentem, fideliter observo. Neque ea ratione ut vos somniatis 16. Si veda per questo la lettera di Laski alla regina dell’11 maggio del 1583, Calendar of State Papers, Foreign Series of the Reign of Elizabeth, January-June 1583 and Addenda, preserved in the Public Record Office, edited by A. J. Butler, M. A. and S. Crawford Lomas, F. R. Hist. S., London 1913. 17. Calendar of State Papers and Manuscripts relating to English Affairs existing in the Archives and Collections of Venice and in other Libraries of Northern Italy, vol. VIII, edited by H. F. Brown, London 1894, pp. 59-60. Nel suo dispaccio Moro riferisce che il voivoda era stato accolto con grandi onori, oltre che con il saluto dell’artiglieria, per ordine espresso della Regina che aveva messo a sua disposizione, insieme alla casa, persone del suo servizio privato. A conferma dell’interesse che portava al personaggio, l’Ambasciatore informa il Senato anche della partenza di Laski da Londra, accennando pure ai debiti da cui era stato travolto; cfr. ivi, p. 92. 18. Per tutto questo, cfr. Calendar of Letters and State Papers relating to English affairs, preserved principally in the Archives of Simancas, vol. III, Elizabeth, 1580-1586, pp. 463 e 474.

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in Babylonicam ductus sum captivitatem... Sed quaeso, num is recte aliis consulere potest, cuius doctrina inexplicabilibus nefandissimorum errorum sordibus est depravata? Nunquid ex corruptissimo et amarissimo fonte dulcis aqua emanabit?... Vos mihi consulitis, qui Christum dereliquistis, Apostolos eiusque successores contempsistis, Ecclesiam suam abhorruistis...?

Così scrive, con una certa efficacia, il Laski, criticando con asprezza gli «scandala infinita», le «dissensiones continuae», le «sceleratissimorum haereticorum impurissimae professiones» e la «perpetua disceptatio», la «perpetua de religione pugna», la «perpetua miserabilis et afflictae conscientiae desperatio». Considerate – continua – quanta sit inter vos Sectarum diversitas, quam Authorum numerosa differentia: in religione impostura, in fede blasphemia, in opere incontinentia. Nullus ordo, nullus status, nulla potestas, nulla dignitas Ecclesiastica. Nihil inter vos praeter confusionem video. Nihil praeter dissensionem expertus sum: cum Deus non sit dissensionis, sed pacis Deus...

Al contrario, prosegue Laski «pacata est mea conscientia, quieta religio, tranquilla fides. Et ipsa cum aliis Catholicis una, unum baptisma, unus Deus, una Ecclesia, cuius caput est Christus, quae regitur et gubernatur ductore Spiritu Sancto. Haec non errat, haec non desipit, non delirat, firma stat et immobilis, perpetuo durat». Inutilmente, dunque, «contra hanc Pseudopropheta horrendissimus Antichristus, qui est seductor et author profligatissimi erroris miserandaeque conscientiae vestrae, cum Bestia quam scribitis, crudelissimas ferocissimae naturae suae vires exercere nititur, hanc impugnare tentat»: «frustra laborat – osserva Laski – quandoquidem est fundata supra firmam petram.» Non solo: «Ipsa autem Bestia cum Pseudoprophetis vestris, spiritu oris domini, in vindictam sui sanctissimi nominis, Sanctorumque eius, mirabiliter occidetur». Quamobrem – conclude Laski – admoneo vos, et per Spiritum Dei viventis obsecro, resipiscite aliquando, vestrosque errores recognoscite et emendate. Revertemini ad unitatem et gremium sanctae matris Ecclesiae, cuius uberibus estis nutriti: ne cum sediciosis et blasphemis aliis, quemadmodum Chore, Dathan et Abyron, vivi ad lacus infernales et tormenta nunquam finienda, in momento descendatis19. 19. De novis rebus polonicis ad religionem pertinentibus Epistola illustriss. D. Alberti Laski Palatini Siradiensis, in Ritvviany, Kiezmarck, et Dunaiecz, Baronis Polonici, ad novos in Polonia ministros Responsoria. Accessit altera epistola et censura doctissimi viri ad eundem illustrem D. Palatinum, 1571, A5r-A8r. Per capire l’asprezza della replica di Laski, conviene comunque vedere qualche punto della lettera che i nuovi ‘ministri’ polacchi gli avevano scritto: «Factum est autem, dedisti Romano oscula, oscula Pontifici. Hoc illud est, captivus in Babylonem ductus es... Tametsi autem non dubita-

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È un ‘vocabolario’ assai significativo, sul quale varrebbe la pena di indagare, facendo un confronto analitico – anche di tipo lessicale – fra questo testo e alcuni luoghi dello Spaccio, sottolineando la presenza, nell’uno e negli altri, di parole-chiave costanti assai significative, per quanto diffuse (dissensio, pax, impostura, ordo, Bestia, unitas...): nel quadro, poi, di una comune polemica antiriformata, sia pur condotta – va subito aggiunto – da prospettive assai diverse, per alcuni aspetti addirittura opposte (basta pensare, per fare un esempio, alle dichiarazioni di Laski sul ruolo e l’autorità del Papa). Comunque, che queste fossero le posizioni del conte palatino non era un mistero per nessuno; né egli, peraltro, le nascondeva: come si mus, te facti tui aliquas habere rationes, negamus tamen esse tales, quae piis et fidelibus Christi Domini servis satisfaciant... Nempe puduit te defectorum, vidisti multa in Ecclesia Christi scandala, certatim novas de Christo emergere opiniones, ne dicamus haereses, audivisti. Num ideo in adversariorum doctrinae Evangelicae castra transeundum erat? Minime gentium. An sic didicisti Christum, ut illum petram scandali esse nescires? et positum in signum cui contradicatur? qui nihilominus est lumen revelationis gentium, et gloria Israelis: quique dominari debet in medio inimicorum suorum, ut illos regat et conterat... Quod etiamsi Bestiae et Prophetae datum est grandia loqui, et vincere sanctos, ut de sanguine illorum ad ebrietatem, nauseam inquam potet: nihilominus penes agnum victoriam fore, quum ille sit Rex regum, et Dominus dominantium, et Bestiam pessum cum Pseudopropheta ituram... Hic iudicaturus est secundum eum sermonem, quem nobis loquutus est a Patre suo, non secundum placita aut inventa hominum. Nolumus te diutius detinere...», A2v-A4r. Per determinare ulteriormente la posizione di Laski – e le distanze da Bruno pur nella comune polemica antieretica – cioè antiriformata –, può essere utile vedere anche qualche brano della «alia epistola», contenuta nel volumetto, nella quale da un lato si loda Laski, dall’altro si contestano i nuovi ‘ministri’ polacchi. È un testo interessante anche per il rilievo critico fatto ad Ochino (B8r-B8v): «cum illa potius Babylon dici mereatur, in qua tanta est linguarum confusio, tanta doctrinae varietas, in qua sic per superbos homines, inter quos semper sunt iurgia, divisae sunt linguae, quae fuerunt per humiles apostolos congregatae, ut invicem se non intelligant et invicem sibi sint haeretici. Num autem haec non est vere Babylonica confusio?... Sed ego non video quo iure damnare possint alios, si longius aliquando progressi sunt a Calvini vel Zuingli dogmate; cum etiam ipsum Calvinum longius progressum esse constet quam praeceptorem suum Lutherum, quem ait rudimenta suae sectae posuisse, viamque sibi commonstrasse... Si licuit eorum Patriarchae Luthero totum Papatum, hoc est, Christianissimum universum, totam Ecclesiam Catholicam errorum condemnare, et novam et hactenus inauditam in Ecclesia Dei doctrinam excogitare; si licuit Calvino quoque non in omnibus Lutheri doctrinam recipere, sed aliquod novum doctrinae genus comminisci, quod cum Lutheri sententia minime conveniret; cur non licuerit idem et Anabaptistis et Trideistis, quandoquidem non omnia solo Luthero vel Calvino revelata, ut in certis doctrinae capitibus, longius etiam progrederentur? Bernhardinum Occhinum procul dubio novit illustriss. D. vestra; qui cum in Polonia fuisset aliquandiu, ante tres aut quattuor annos, mortuus est in Moravia. Scripsit is duos de sancta Trinitate Dialogos, in quorum altero non esse nefas contendit, Ecclesiae de adoranda Trinitate doctrinam in desceptationem vocare. Non negabis, inquit,

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era precipitato a scrivere che la «religion» di Bruno non era commendabile, con altrettanta solerzia Cobham, in una lettera a Francis Walsingham dell’11 maggio del 1583, facendo un quadro complessivo delle peripezie politiche del voivoda, sottolinea che «Alaschi showed himself during his abode in the Emperor’s Court and in Italy to be a Papist...»20. expedivisse tempore tuo disquiri, sit ne Christi corpus in pane et sanguis in vino, quamvis et esse et adorari debere Concilia per errorem decrevissent; et quoniam in Trinitate usu venire idem potest (nimirum quod errarit in illa asserenda Ecclesia universa) expedit negotium explorare. Equidem non video quo iure possint aut Lutheristae aut Calvinistae reprehendere vel Anabaptistas vel Trideistas, vel quoscunque tandem alios pestilentissimos haereticos, si ipsorum exemplo longius aliquanto, quam aut Lutherus, aut Calvinus, processerunt... Perfectio LutheranismiTrideismus est et Atheismus», B9v-C1r. Del tutto distante nei giudizi di merito – a cominciare da quello sulla Trinità –, Bruno avrebbe potuto invece condividere senza difficoltà il giudizio sulla ‘confusio Babylonica’ in cui versavano i ‘riformati’. 20. Vale la pena di leggere tutto il dispaccio di Cobham: «As for Alaschi, they ‘make me know’ that he was sometime a Palatine in Poland, and of great authority; rich of revenues, which through the great ‘port’ he kept were utterly consumed. He had hoped during the interregnum after the late king’s death to be elected king, in case the election had ‘grown’ on some of that country concorring with Palatine Borosco; which hope failing, he betook himself to ‘run the course’ of France, and was sent hinter for the conducting of the present French king into Poland. At that time he married in Paris a young Italian woman of mean condition and bad reputation. After the king’s return to France, Alaschi favoured the Emperor Maximilian; whose cause ‘not taking place for’ the election of Poland, upon Bathori, the present king of Poland’s coming to the Crown, Alaschi retired to the Emperor’s Court, where, and in Italy, he remained till he was restored to Bathory’s grace, who received him two years ago, relieving him with money and other means. This perhaps was not sufficient to satisfy his liberal mind and manner of expense. Alaschi showed himself during his abode in the Emperor’s Court and in Italy to be a Papist; he had divers gifts of sundry princes. These are the particulars of what they have informed me concerning Alaschi. I wish that his coming may be to good purpose and her Maiesty’s satisfaction» (cfr. Calendar of State Papers, Foreign Series of the Reign of Elizabeth, January-June 1583 and Addenda, cit., p. 341). Comunque Laski ritorna più volte nei dispacci di Cobham, che già in una lettera dell’11 marzo del 1582 aveva trasmesso a Walsingham una importante informazione: «Queen of Scots had sent order to Alasco that all her livings in France should be at d’Aubigny’s disposition, and to be spent as he thought good...», ivi, p. 187. Si capisce dunque perché – nonostante gli onori attribuiti al voivoda – Walsingham non vedesse l’ora che partisse: «The Palatine Alaski groweth not as yet to any resolution touching his departure hence, which is found strange, having no other errand hither, as he giveth out, than to see her Majesty and his country. The entertainment he receiveth here is very honourable, and surely the gentleman hath many good parts, which maketh him gracious towards all men» (cfr. Calendar of State Papers, Foreign Series of the Reign of Elizabeth, July 1583-July 1584, preserved in Public Record Office, edited by S. Crawford Lomas, F. R. Hist. S., London 1914, p. 8). Interessante per la ricostruzione della biografia di Dee l’accenno che si ritrova nella lettera di Arthur de Champernon a Walsingham del 29 giugno del 1584: «I found an Englishman with his

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Vorrei essere chiaro: come ho detto all’inizio, non mi propongo se non di fare qualche ipotesi di lavoro – sui rapporti, in questo caso, tra Bruno e Laski (arrivati a Londra, va aggiunto, contemporaneamente), sui quali ebbe certamente un’influenza il Castelnau. Insieme a profondissime differenze c’era infatti qualcosa di profondo che li univa e che rende, forse, più comprensibile la partecipazione di Bruno a quel viaggio (aggiungendosi – s’intende – all’appoggio dell’ambasciatore francese, prontissimo peraltro a registrare le preoccupazioni degli inglesi per l’‘inspiegabile’ accoglienza riservata da Elisabetta al voivoda). Qualcosa che, con inflessioni diverse, atteneva – se non m’inganno – proprio al giudizio sui ‘riformati’: divisi nel giudizio sul Papa romano, Bruno e il voivoda concordano sulle «infinitae dissensiones» scaturite in Europa ad opera dei seguaci di Lutero e di Calvino, sui danni da essi arrecati, con le loro «imposture», alla pace comune, al «convitto umano» (come avrebbe scritto Bruno nello Spaccio). Se ci siano state anche sintonie di ordine politico, allo stato degli atti è invece più difficile dire, anche se non vanno in alcun modo escluse... Comunque, è su tutta la vicenda di Laski in Inghilterra che occorrerebbe scavare più a fondo – dai motivi che lo spinsero a partire per Londra, alle accoglienze eccezionali di Elisabetta (spiegabili, assai probabilmente, con motivi di politica estera, connessi allo scacchiere europeo, a cominciare naturalmente dai rapporti con la Spagna)21, fino alla partenza ingloriosa: «post quattuor mensem aere alieno oppressus clam recessit», scrive il Camden (utilizzando termini del tutto affini a quelli di cui si serve l’ambasciatore veneziano il 27 aprile del 1584, avvertendo il senato della partenza del voivoda)22. Insomma, sul ‘Laski Affair’, come è stato chiamato, c’è ancora family at Cracow, called M. Dee, who, as he said, has followed Laski, quitting a certain for an uncertain hope. It is to be feared that he will repent of it at leisure», ivi, p. 558. Conferma ulteriore, questa decisione di Dee, del peso e della influenza che Laski aveva avuto a Londra. 21. Utile da questo punto di vista, può essere la lettera al re di Spagna di don Bernardino de Mendoza del 29 giugno del 1582, in cui si fa riferimento alla necessità di agire sul Laski per contrastare il piano – promosso da Elisabetta – mirante alla costituzione di un nuovo trattato fra re di Svezia, di Polonia e di Danimarca, attraverso il coinvolgimento del d’Alençon, il quale avrebbe dovuto sposare la figlia del re di Svezia (con un forte rafforzamento di Elisabetta, che, in questo modo, avrebbe potuto avere una forte presa sul d’Alençon medesimo: «come se l’avesse sposato lei stessa», si legge nella relazione di Mendoza). Cfr. Calendar of Letters and State Papers Relating to English Affairs Preserved Principally in The Archives of Simancas, vol. III, Elizabeth 1580-1586, cit., p. 380. 22. Per il testo del Camden, Annales rerum Anglicarum et Hibernicarum, regnante Elizabetha, ivi, p. 463: «E Polonia Russiae vicina, hac aestate venit in Angliam, ut

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da fare chiarezza. Più sicura è invece un’altra cosa: qualunque sia stato il motivo – di carattere religioso o politico, oppure di pura cortesia cortigiana – che consentì a Bruno di andare a Oxford al seguito del Laski, il fatto di essere giunto al seguito di un uomo così caratterizzato da ogni punto di vista ebbe, senza alcun dubbio, un peso sull’insieme della sua vicenda a Oxford. Nel bene e nel male, occorre aggiungere: se l’appoggio del voivoda contribuì a fargli ottenere la ‘lettura’, la sua partenza precipitosa, sotto il peso dei debiti, rese più facile ai ‘puritani’ oxoniensi la liquidazione del Nolano, ricorrendo – come si sa – a un’accusa di plagio. Un punto, però, va ribadito in via preliminare: in Inghilterra Bruno non venne mai scambiato per un cattolico, per un ‘papista’, nonostante l’appoggio del Laski e dell’ambasciatore Castelnau. Una cosa del genere non venne mai in mente a nessuno: né ai puritani né ad Elisabetta. Quando intendevano essere gentili, dicevano che era un uomo bizzarro e stravagante, dedito a «phantasticall toys»; se volevano metterlo al bando, lo citavano come esempio di plagio di opere altrui. Ma tutti – a cominciare dalla Regina, che dava voce a un giudizio comune – erano convinti che fosse un «ateo», un uomo senza fede, senza religione23. Da parte sua – nonostante dichiarazioni di principio – Bruno fece tutto il possibile, fin dall’inizio, per favorire – con i suoi comportamenti e, naturalmente, con i suoi scritti – il nascere, e lo svilupparsi, di una simile fama. Da questo punto di vista, l’essere giunto a Oxford «in the traine of Alasco the polish Duke»24 non gli fu di alcun giovamento25. La lettera scritta al vicecancelliere dell’Università di Oxford è stata sempre una ‘croce’ per gli interpreti di Bruno: ci si è chiesto se sia stata scritta prima o dopo la fine delle lezioni oxoniensi; o, addi-

Reginam inviseret, Albertus Alasco, Palatinus Siradiensis, vir eruditus… qui benigne ab ipsa, nobilibusque magno onore et lautitiis, ab Academia Oxoniensi eruditis oblectationibus atque variis spectaculis exceptus, post quattuor menses aere alieno oppressus clam recessit». 23. Per questo giudizio di Elisabetta, riportato da Giulio Cesare La Galla, cfr. Giordano Bruno. Immagini 1600-1725, a cura di S. Bassi, Napoli 1996, p. 48; per i giudizi degli inglesi, in generale, cfr. anche G. Aquilecchia, Giordano Bruno in Inghilterra, cit. 24. The Reasons which Doctour Hill Hath Brought, for the Upholding of Papistry, which is Falselie Termed the Catholike Religion: Unmasked, and Shewed to Be Very Weake and Upon Examination Most Insufficient for Thate Purpose, by George Abbot Doctor in Divinity et Deane of the Cathedrall Church in Winchester, The first part, At Oxford, 1604, p. 88. 25. Sulla singolare figura di Laski e sul soggiorno a Londra c’è una monografia in polacco, che forse varrebbe la pena di tradurre, dato il rilievo del tema: R. Zielinski, Olbracht Laski. Od kiezmarku do Londinu, Warszawa 1982. Si veda anche J. Kasprzak, A riddle of history: Queen Elizabeth I and the Albertus Laski Affair, «The polish rewiew», 14 (1969), nn. 1-2.

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rittura, si è sostenuto che la lettera sia solo una fictio, un testo di carattere essenzialmente ‘retorico’, mai inviato al suo destinatario (tesi sostenuta, in modo particolarmente vigoroso, da Ludovico Limentani26, che però non conosceva la testimonianza dell’Abbot, pubblicata dal McNulty)27. Qualunque sia la soluzione del problema – e anche a me è già accaduto di presentarne una28 – su un punto la lettera getta luce meridiana. Lo scontro di Bruno coi dottori oxoniensi avviene sul terreno religioso: o, meglio, su un nodo filosofico e scientifico che mette in campo, immediatamente, questioni di ordine biblico, religioso, teologico. Chi non conoscesse il modo di lavorare, e di scrivere, di Bruno potrebbe addirittura arrivare a parlare – sbagliando – di un incunabolo della Cabala del Cavallo Pegaseo. Sono infatti in azione lo stesso lessico (basta pensare al termine asino) e lo stesso metodo ‘esegetico’ che nel 1585 – con ben altro rigore e intensità, va detto subito – saranno messi al centro della radicale critica anticristiana sviluppata nel secondo dialogo morale. Ragguardevoli signori – scrive il Nolano, che qui si cita nella bella traduzione di Limentani – ci son di quelli, i quali, essendosi sufficientemente resi conto che, come neanche da noi si nega, la sapienza di questo mondo è pazzia appo Dio, avendo in avversione tutte le discipline speculative, non studiando affatto, essendo essi piuttosto portati ad ammettere che le opere della nostra giustizia son come lorde di mestruo, e che per esse niuno è giustificato al cospetto di Dio, niente fanno di buono. Intanto, tuttavia, per non essere ritenuti malvagi e ignoranti, tutt’a un tratto, senza studiare diventano dotti, secondo il detto: «Tu hai nascoste queste cose a’ savi, ed intendenti, e le hai rivelate a’ piccioli fanciulli». E del pari son fatti probi senza uopo di proprie buone azioni, secondo il detto. «Tu sei la giustizia mia, o Signore». Persino i più facinorosi si trasformano in santi, mondi e puri, secondo il detto: «Candidi son diventati nel sangue dell’agnello». Infine gente stolta, ignobilissima e infame non si riconosce seconda ad alcun nobile lignaggio, secondo il detto: «Voi siete la generazione di Dio, e il real sacerdozio».

Certamente, conclude Bruno, «cotali fanciulletti, giusti, puri, candidi, eletti, re, sacerdoti e semidei, che sarebbero capaci di trapassare la nostra semplicità, sino al centro dell’animo, io li pavento più che la morte stessa». Si tratta, in successione, di citazioni da Isaia, dalla Lettera ai Romani, da Matteo, da Geremia, dall’Apocalisse, dalla

26. L. Limentani, La lettera al Vice-cancelliere della Università di Oxford, «Sophia», 1 (1933), p. 328. 27. R. McNulty, Bruno at Oxford, «Renaissance Studies», XIII (1960), pp. 300-305. 28. La ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno, cit., pp. 95 ss.

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prima lettera di Pietro...29 Sono citazioni che nascono da una scelta concettuale – e anche ‘metodica’ e ‘lessicale’ – del tutto consapevole, nella quale si svela con nettezza il volto dell’avversario contro cui Bruno scende in campo fin dalle prime ‘polemiche’ oxoniensi: i puritani, l’‘estremismo protestante’ (per riprendere l’efficace espressione del libellista cinquecentesco). Al di là dell’accusa di plagio, su cui Abbot continuava ad insistere quasi vent’anni dopo, era questa la sostanza del contrasto. Ma a questo proposito conviene cercare di essere più precisi. A Oxford, come è ormai acquisito fin dall’inizio del secolo, quando fu pubblicato l’importante lavoro di G. Usher, The Presbyterian Movement in the Reign of Queen Elizabeth as illustrated by the ‘Minute Book of the Dedham Classis’, 1582 -1589 30, era presente una consistente comunità puritana, come risulta evidente dall’esistenza di una vera e propria ‘classis of Oxford’, cioè di una struttura tipica di questo movimento. Secondo l’analisi di Usher, il modello organizzativo era questo: il governo ecclesiastico, nelle parrocchie, era nelle mani dei pastori, degli anziani, dei diaconi, delle pie donne (widows). A loro volta, i ministri di dodici parrocchie si riunivano formando una classis al fine di trattare materie di interesse comune31. I delegati dei ministri e degli anziani di ventiquattro classes costituivano il sinodo provinciale ovvero il concilio; i delegati di questi sinodi davano vita al sinodo nazionale ovvero all’assemblea generale. In queste strutture era concentrata tutta l’autorità ecclesiastica. Il Principe era solo un membro della Chiesa, non il suo capo; egli era tenuto ad obbedire ai decreti della Chiesa, non a proclamarli o a formularli32. A Oxford, come si è detto, esisteva una classis, della quale facevano parte personaggi di primissimo piano di tutto il movimento puritano – da Richard West a Edward Gellibrand («He was the head of the Classis movement in Oxford, and one of the general leaders always consulted when any matters of great importance arose»)33, da John Dod a John Rainolds (o Reynolds)34, senza alcun dubbio, 29. L. Limentani, La lettera al Vice-cancelliere della Università di Oxford, cit. 30. Il libro esce a Londra nel 1905. 31. Ivi, p. XVII. 32. Ivi, pp. XVII-XVIII: «From these simple premises – osserva Usher –, however, grew a widely ramifying cause for argument and disagreement with each other, the State, and above all with the Established Church, which made the controversy long and the documents emboyding it even longer». 33. Ivi, p. XLI. 34. Anche se «the part he played in the Classical movement is very difficult to determine, though there can be little doubt that it was important, though, because of his official position, probably by advice and indirect aid rather than by direct

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insieme a Jewell e a Hooker, una delle personalità più eminenti del suo tempo: grande studioso di Aristotele, di cui commenta la Retorica, dotato, oltretutto, di una memoria formidabile che gli consentiva di padroneggiare tutta la letteratura classica: «he was – scrive Wood – a living library and a third University». Alberigo Gentili, che insegnava a Oxford e che lo conosceva bene, sosteneva addirittura che «Rainolds had read and did remember more of civil and canon law, than himself»35. Né si discostano da questo cliché le altre testimonianze di cui disponiamo: «he alone was a full-furnished library, full of all faculties, of all studies, of all learning; the memory and reading of that man were near to miracle»36. In una parola, un uomo eccezionale al quale non poteva essere rivolta alcuna critica: «only that he with Tho. Sparke were the pillars of puritanism, and grand favourers of non-conformity...»37. Volutamente si è fatto questo nome: di recente Patrick Collinson ha citato Rainolds a proposito dei dottori oxoniensi sbeffeggiati nella Cena de le Ceneri; a sua volta Giovanni Aquilecchia presentando, or non è molto, una raccolta di Documenti e testimonianze del soggiorno di participation», ivi p. XLV. Su tutto questo si veda ora P. Collinson, The Elizabethan Puritan Movement, cit. 35. Athenae Oxonienses. An Exact History of all the Writers and Bishops who have had their Education in the University of Oxford to which are added The Fasti or Annals of the said University, by Anthony à Wood, a facsimile of the edition 1813-1820, New York and London 1967, coll. 12-13. 36. Dictionary of National Biography, vol. XLVII, London 1896, ad voc. Naturalmente, notizie più aggiornate su Rainolds si trovano anche in studi più recenti: oltre che nei lavori di Collinson, nell’edizione della sua Oratio in laudem poeticae [circa 1572], with an Introduction and Commentary by W. Ringler and an English Translation by W. Allen jr., Princeton 1940. Si tratta di un testo particolarmente interessante, anche per delineare i rapporti tra Rainolds e l’Apologie for Poetrie di Sidney, di cui è noto il rapporto con Bruno. Sul tema Ringler fa alcune osservazioni, ma c’è ancora molto da scavare in questa direzione. 37. Athenae Oxonienses, cit, col. 14. Per un forte attacco – da parte cattolica – a Rainolds proprio su questo punto, cfr. The Guide of the Faith, or A third Part of the Antidote against the Pestiferous Writings of all English Sectaries, 1621, by S. N[orris], Doctour of Divinity, 1621 (per la critica a Rainolds, cfr. cap. V: Wherein is maintayned, that the true Church cannot erre: against D. Reynoldes, D. Fulke, and D. Whitaker; per il giudizio sull’immenso seguito che egli aveva, cfr. p. 43). Alla tesi di Rainolds – secondo cui «The Militant Church may erre, both in Manners and Doctrine» (riferendosi non solo al «flocke and people», ma ai «guiders and Pastours», e anche ai «Bishops, and Prelats, representing the whole in a generall all Councell» – dalle quali affermazioni ben si vede quanto fosse radicale la posizione di Rainolds), Norris obietta, in modo disarmante, che «seeing Protestants confesse that their Church may erre, or goe astray for a tyme, we must needs conclude that their Church is not the inerrable spouse of Iesus Christ, but the harlot of Sathan, the Temple of Baal, the Stewes of an advoutresse...» (ivi, p. 57).

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Bruno in Inghilterra, ha pubblicato una interessante lettera di Richard Hooker allo stesso Rainolds (che ne era stato il tutore accademico), nella quale discorrendo del carattere ‘fantasioso’ di Hugh Broughton, teologo e studioso di scienza rabbinica, ne parla, appunto, – per antonomasia, oltre che per omofonia – come di «an English Jordanus Nolanus», sicuro di essere ben inteso dal suo interlocutore38. Probabilmente – ed è questa, forse, la ragione effettiva del riferimento – sia l’uno che l’altro, nell’agosto del 1583, avevano assistito alle lezioni oxoniensi del Nolano, contribuendo a mettervi fine nel modo traumatico che sappiamo. Del resto, se si mettono a fianco da un lato la testimonianza di Abbot, dall’altro la battuta di Hooker, si vede che – oltre ad essere dello stesso tono – insistono entrambe, concordemente, sul carattere ‘fantasioso’ di Bruno. C’è dunque più di un motivo per fare il nome del Rainolds, discorrendo del Nolano. Ma, a questo proposito, si può aggiungere, forse, un’altra – e più pregnante (credo) – considerazione: nelle pubbliche Orationes che Rainolds venne tenendo a Oxford lungo gli anni Settanta e gli anni Ottanta, sono rifiutati in modo radicale – e preventivo, si potrebbe dire – tutti i capisaldi delle posizioni che Bruno si sarebbe sforzato di sostenere prima a Oxford, poi a Londra, cercando di stabilire relazioni positive con l’accademia inglese. Finché personaggi come Rainolds avessero avuto ruoli e responsabilità di primo piano, per Bruno a Oxford non ci sarebbe stato alcuno spazio39. Anzi, era già un miracolo – reso possibile, come ho cercato di dire, solo dal favore di Laski e dall’appoggio di anglicani come Matthew e Culpepper, sensibilissimi alla richieste della Regina – che gli fosse stato consentito di occupare,

38. P. Collinson, The Religion of Elizabethan England and of its Queen, in Giordano Bruno 1583-1585. The English Experience/L’esperienza inglese, cit., p. 21: «When Bruno in La Cena attacked certain Aristotelian pedants and ‘Pharisees’ with whom he had had such an unfortunate brush, he must have had in his sights dr. John Rainolds, the front-ranking Oxford theologian and Aristotelian whom, at a political level, Sidney’s political allies, Leicester and Walsingham, enthusiastically backed as the leading anti-Catholic controversialist, England’s secret weapon against Cardinal Bellarmine. Rainolds – osserva ancora Collinson – educated some of the cleverest men in late Elizabethan England, mainly with his celebrated lectures on Aristotle’s Rhetoric, but in Bruno’s perception he was a tedious Calvinist pedant». Cfr. anche G. Aquilecchia, Giordano Bruno in Inghilterra, cit., p. 37. 39. Conviene, da questo punto di vista, dare qualche notizia anche sulla ‘carriera’ e sulle principali funzioni istituzionali che Rainolds venne via via ricoprendo, fino alla morte: Fellow di Corpus Christi, a Oxford, dal 1566 al 1586; B. A. nel 1568; Dean of Lincoln College (quello di J. Underhill, l’avversario di Bruno ad Oxford) dal 1593 al 1598; Presidente di Corpus Christi dal 1598 al 1607, l’anno della morte. Ebbe, fra l’altro, un ruolo decisivo sia nella Hampton Court Conference del 1604 sia nel promuovere la traduzione della Bibbia nota come Authorized Version.

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sia pure per un momento, come ricorda sarcasticamente George Abbot, «il posto più alto della nostra migliore e più famosa scuola» («the highest place of our best and most renowned schoole»)40. Bruno, come è noto, nella Lettera al vicecancelliere della Università di Oxford insiste sistematicamente sulla distinzione fra ‘filosofia’ e ‘teologia’, fra ‘legge’ e ‘verità’ (anzi, verosimiglianza, nella Lettera), fra ‘scienza’ e testo biblico. Ma Rainolds – che a Oxford faceva testo – di siffatte distinzioni non ne volle mai sapere; agli occhi degli uomini dotti, esse appaiono – scrive – per quel che sono: «involucra impietatis», ai quali ricorrono solo coloro che, non volendo apparire apertamente atei, si sforzano di coprire in questo modo il loro errore. Sic Petrus Aponiensis, cum multis de rebus magicis abominanda vomuisset, adjecit ea cuncta se dixisse tantum topice; num eo minus a Pico Mirandula ut impius exagitatur? sic solent alii defendere, quae fatentur ipsi impia, modo dicant se defendere quoad lumen rationis; num eo minus reprehenduntur a Ludovico Vives, ut blasphemi? sic audent Itali (quid autem illi non audeant?) execranda scriptis in orbem dissipare; ut Casa, sed poetice, ut ait Hardingus, ut Pomponatius, sed philosophice sic ipse distinguit; neuter, Theologice, quod facile credo, sed uterque sacrilege; distinguant, quantum velint...41.

Mentre, invece, si tratta di capire «utrum veritatis defendendae costantiam a Deo praescriptam, a Sanctis expressam, a Sophistis contemptam, a Barbaris rejectam, nutricem probitatis, scientiae propagatricem, cum vere Christianis colendam arbitremini; an Aristotelis tuendi pertinaciam introductam a Gothis, propugnatam a Dunsis, reprehensam a Doctis, improbatam a Bonis, ignorantiae sementem, sentinam impudentiae, cum Pseudophilosophis retinere malitis»42. Allo stesso modo, se Bruno, nel De la causa, attaccherà in modo esplicito Ramo e i suoi scritti ‘pedanteschi’ («un francese arcipedante, c’ha fatte le Scole sopra le arti liberali e l’Animadversioni contra Aristotele»)43, Rainolds ne prende nettamente le difese, difendendo in un colpo solo sia Ramo che Calvino: Nos – scrive – videlicet Ramo favemus; illi Aristoteli. Immo vero illi errori favent, nos veritati. Illi adolescentibus Circea pocula propinari student,

40. The Reasons which Doctour Hill... cit, pp. 88-89. 41. D. Joannis Rainoldi Orationes duodecim, cum aliis quibusdam opusculis. Adiecta est Oratio funebris, in obitu eiusdem, habita a M. Isacco Wake, Oratore publico, Londini 1619, p. 227-228. 42. Ivi, p. 231. 43. BDI 260.

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nos profligari cupimus. An hoc negare possunt, qui modis omnibus machinantur, ut Aristoteles propugnetur etiam cum errat; veritas ab Aristotele dissentiens supprimatur? Et cum ipsi debeant reprehendi qui studio potius ducuntur hominis quam sapientiae, nos in odium ut trahant, prisco instituto, novo vocabulo, Ramistas nuncupant. Eodem plane modo (liceat enim sacra cum prophanis comparare) quo puriorem religionem profitentes initio Calvinistas vocabant. Est enim ut religioni sic Philosophiae suus quidam Papismus; uterque a Sorbonistis partim ortus, partim auctus...44.

Infine, mentre il Nolano si affannerà a difendere nel De la causa i «principi de la metafisica», i quali «quantunque barbari di lingua e cucullati di professione» erano stati – come Duns Scoto – l’onore dell’Inghilterra, Rainolds ne prende con asprezza le distanze, contrapponendo frontalmente ‘vera religione’ e ‘arguzie filosofiche’: «Quibus in Academiis floret Evangelium, ex illis exulant Dunsorum ineptiae. Testes Geneva, Lausanna, Basilea! testis Germania! Quibus in locis Aristoteles regnat, illic impietas maxime dominatur. Testes Lovanium, Lutetia, Patavium! testis Italia! Quare facessant omnia quae pietati officiunt». Perciò, continua, «defendamus Philosophiam; sed usque ad aras. Studeamus profanis artibus; sed referantur ad Sacras»45. In conclusione, «nescit omnia, qui Christum nescit. Vera religio est vera beatitudo. Nemo se decipiat: doctrina sine pietate venenum est... neque curiosas homuncionum naenias, neque speciosas Philosophorum argutias, nec ineptias Sophistarum, nec Dunsorum stultitias, sed veram et fructuosam doctrinam animo comprehendatis»46. Anzi: se c’è un motivo che attraversa costantemente questi testi di Rainolds, è la contrapposizione frontale all’Italia e alla cultura italiana, che della filosofia ‘eretica’ e ‘anticristiana’ si è fatta propugnatrice: da Pomponazzi, il quale «Aristoteli nimium tribuendo evasit impius», a Ficino, addirittura, che «ex somniis Platonicorum de daemonibus, evasit superstitiosus»47. Né c’è da stupirsi di questo accostamento:

44. Orationes, cit., pp. 380-381. 45. Ivi, pp. 180-181. 46. Ivi, pp. 189-190. 47. Ivi, p. 157. Il giudizio su Ficino va rimarcato. Di Rainolds è notevole anche un giudizio assai equilibrato su Erasmo, in un’opera molto interessante: Johannis Rainoldi De Romanae Ecclesiae Idolatria, in cultu sanctorum, reliquiarum, imaginum, aquae, salis, olei, aliarumque rerum consecratarum, et sacramenti Eucharistiae, Operis inchoati libri duo, Oxoniae 1596, p. 89: «Erasmus a Friderico Saxoniae Duce rogatus, ut suum de Luthero judicium ei aperiret, responsum ortus est a joco: ‘duo esse magna Lutheri peccata: unum, quod Monachorum ventres; alterum, quod Papae coronam attigisset’. Serioque, pergens, dixit: ‘irrepsisse errores in Ecclesiam, quorum emendatio necessaria sit; Lutherum iuste hos taxare, et summam doctrinae eius veram esse: sed lenitatem se in eo desiderare’. Sententia viri magni prudens et

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per Rainolds, è nella ‘parola’ filosofica lasciata sola a se stessa – senza la lanterna della fede – che s’annidano, strutturalmente, male, corruzione: Me Philosophos eodem sensu dicere, quo Tertullianus. «Quid simile Philosophus et Christianus? Quid Athenis cum Hierosolymis? Quid Academiae cum Ecclesia? Quid haereticus cum Christianis?» Philosophos appellat haereticos. Non agnoscit stolidam distinctionem «veritatis Philosophicae et veritatis Theologicae». Sed Philosophos appellat haereticos... Et tamen erit quisquam qui miretur, cur nobis non putem loquendum ut Philosophis? Loquentes ut philosophi varijs erroribus Graecam Ecclesiam, et Europam pene cunctam, antiquitus inquinarunt. Loquentes ut philosophi tetris opinionibus Italiam totam, ac utinam solam Italiam nostro tempore polluerunt. Loquuntur ut Philosophi homines impurissimi (si tamen homines sunt dicendi) Cornelius Agrippa et Nicolaus Machiavellus, qui de philosophia, ille naturali, iste morali, talia nobis praecepta vomunt, Qualia credibile est rictu ructasse trifauci/Cerberon, et Stigij tremenda lacus.

Pomponazzi, Ficino, Agrippa, Machiavelli, e ancora – la lingua batte dove il dente duole – «Pomponatius et Cardanus quorum alter illud execrandum opus de anima mortalitate; alter varios impios errores in Subtilitatibus suis propagavit»48. Ma non c’è da temere: «Distinguant vera». Ma sul giudizio di Rainolds su Erasmo – «bene de ecclesia meritus», «immerito a Bellarmino vocatus Lucianus», «calumniose accusatus, quod utatur jocis», «honorifice appellatus a Iansenio» – andrebbe fatta un’indagine specifica, anche tenendo conto del rapporto, decisivo, fra Bruno ed Erasmo sulla questione del culto dei santi, delle immagini, delle reliquie; insomma, per usare il termine di Rainolds, sulla questione dell’‘idolatria’. Nonostante le contrapposizioni radicali, i rapporti di uomini come Rainolds con la cultura ‘rinascimentale’ italiana – ed europea – sono più assai più complessi di quanto essi stessi lascino trasparire, ferma restando la condanna senza appello della ‘linea’ (si potrebbe dire) Machiavelli, Pomponazzi, Agrippa, Cardano e, naturalmente, Bruno. 48. Ivi, pp. 163-165. E ancora (p. 165): «Refutantur, non inficior, ille, tenuiter a contareno (sic); iste luculenter a Scaligero: sed quam multos interea a suis Philosophicis loquutionibus corruperunt! Plus nocent venena, quam prosunt pharmaca: nec omnes sumunt pharmaca, qui sumunt venena. Non omnes sanantur, qui sauciantur: et est quisquam tam fatuus, qui sauciari velit, ut sanari possit?» Rainolds si sforza, peraltro, di articolare la sua posizione, senza però intaccarne in alcun modo il nucleo essenziale: «Quid igitur?dicet quispiam, vetas legi profana, ne sauciemur? Non Aristotelem, Platonem, Ciceronem, Demosthenem, non Historiam, Philosophiam, Eloquentiam attingemus? Atque hic fortassis amplificabunt Philosophi, rem non tollendam propter abusum; agros ab aquis inundari; domos ab igne consumi; terram a Sole torreri; homines a tectis obrui; nec tamen propterea vel aquam vel ignem, vel solem, vel tecta, nobis fugienda. Parcant labori. Non rem extingui, sed abusum tolli; germanum usum restitui velim. Non dico nefas, profana legi: cum legis, tantum contrectas. Sed puto scelus profana credi: cum credis etiam, sauciaris... Cavendum tamen etiam, non solum quae defendas, sed quae modo legas.

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Philosophi; latrent Sorbonistae; fremant Epicurei; rideant Machiavelli (sic); vincit veritas. Ipsi trement, et ruent et putrescant: et vincit veritas; veritas, ut palma, quo magis deprimitur, eo magis emergit: eo gravi remittitur, quo violentius incurvatur»49. Se si pensa che Nam etsi cum legis, tantum contrectas: tamen contactu, ne fis securus, permulta nocent, nonnulla necant. Bestiolam quandam, quam vocant Cyniphem, esse docet Augustinus (sermo de tempore 87), in aere volantem, adeo exilem, ut visum oculi nisi peracute cernentis effugiat; quae tamen cum insederit, corpus acerbissimo fodit aculeo: ut quam ad stimulandum venire nescias, cum stimularit, stimulasse sero sentias. Si vestri oculi sint minus acuti, ut non cernatis istos, quos dico, stimulos Philosophiae: tamem cognoscite Philosophiam esse Cyniphem; solet incautos pungere...» (ivi, pp. 166-167). Della necessità di leggere con cautela i filosofi si erano, del resto, resi ben conto fra i ‘moderni’ Ludovico Vives (De veritate fidei Christi), Gianfrancesco Pico della Mirandola (De prenotione rerum), Girolamo Savonarola: «qui – scrive Rainolds – una voce, tres viri doctissimi, caute legendos a Christianis esse docent: quos tandem? non dico Philosophos, sed Philosophorum principes Aristotelem et Platonem. Quam ob causam? Aristotelem impios facere, Platonem superstitiosos... Ex philosophia Platonis et Aristotelis pestilentes errores, et primum invaserunt, et occuparunt diu, et hodie devastant Ecclesiam Christianam...», ivi, p. 157. Si sottolineava sopra l’opportunità di una ricerca sistematica sui rapporti fra Italia e Inghilterra nella seconda metà del Cinquecento: a questo proposito, si può già osservare che fra i pochissimi ‘autori’ italiani salvati da personaggi pur eminenti come Rainolds (o, anche, George Abbot) sono, precisamente, Girolamo Savonarola anzitutto, e poi i due Pico, Giovanni e Gianfrancesco. Per Abbot, cfr. Georgii Abbotti Reverendissimi Archiepiscopi Cantuariensis Explicatio sex illustrium Quaestionum, Francofurti 1616, p. 21: «Johannes Picus de Mirandula, vir nobilissimus et elegantissimus, libros plures conscripsit (uti omnes novimus) ex proposito, Astrologorum placita, consulturos. De his, Hieronymus Savonarola, italus superiori seculo, doctissimus, sic testatur: ‘Qui Pici Mirandulani, libros de astrologia legerit, et intellexerit, neque astrologiam irriserit, dignus est, qui ab omnibus irrideatur’. Sed Picus ille, nobilissimus et eruditissimus, ut acerrime perhibet censuram de doctrina ista omni; ut exempli causa ‘Philosophos antiquorum seculorum, contempsisse potius, quam confutasse Astrologiam’ (quod explicatius habet Savonarola, sic ‘Aristoteles et Plato, omnem tractantes Philosophiam, Astrologiam nec tetigerunt, neque mentionem eius fecerunt. Quam sane non omisissent, si secretum fuisset naturae’), ita de Electionibus lepide, prudenter tamen loquitur». Sull’astrologia, invece, Abbot non ha dubbi: «cum igitur e Scripturis sacris, vanitatem, et impietatem Chaldaicam redarguerim: ex rationis etiam et philosophiae fundamentis, Mathesim hanc everterim, ex historicorum, legumlatorum, politicorum sententia, Astrologiam damnandam esse docuerim...» (ivi, p. 104). Naturalmente, la ‘fortuna’ del pensiero italiano in Inghilterra non si risolve in questi ambienti: basta pensare a Machiavelli che, pur attaccato con asprezza (non solo) da Rainolds, viene tradotto pressoché integralmente a metà degli anni Ottanta da John Wolfe, oppure ad Aretino. Su Machiavelli in Inghilterra cfr. G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari, pp. 134 ss. (dove però non si fa alcun riferimento a Rainolds). Si tratta, lo ribadisco, di una ricerca che andrebbe condotta in modo sistematico. 49. Ivi, p. 177. «Quod si quis fortasse Philosophaster offenditur... ne tamquam Momus, ea quae dico, rodat in angulis, aut hoc illud virulentam, aut hoc aut illud

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questi sono testi della metà degli anni Settanta – e che successivamente Rainolds diventerà un ‘pillar of puritanism’ – non appare difficile immaginare quale possa essere stato l’atteggiamento suo e degli altri ‘dottori oxoniensi’ nei confronti di Bruno e delle sue lezioni. Ho voluto insistere su testi come questi anzitutto perché non sono in genere citati, almeno in rapporto a Bruno. Mentre solo avendoli presenti è possibile comprendere, credo, alcune cose: anzitutto l’asprezza della lettera scritta da Bruno al vicecancelliere della Università di Oxford, con quel sarcastico – e parodico – utilizzo di testi scritturali, che alla luce di testi come quelli appena visti diventa più comprensibile. Non solo: a meno che non si voglia sostenere che la lettera è una ‘fictio’ preparata da Bruno dopo essere stato cacciato, essa dimostra come il Nolano si sia immediatamente reso conto dei termini della situazione oxoniense, individuando con chiarezza la differenza tra ‘anglicani’ – più disposti a sostenerlo, per motivi connessi alle scelte ‘politiche’ della Regina Elisabetta – e ‘puritani’ come Rainolds, contro i quali rivolge con nettezza la punta della sua polemica, considerandoli del tutto estranei alle distinzioni che egli si studiava di proporre. In altre parole, la lettera illumina i motivi di fondo che stanno alla base della traumatica conclusione delle sue lezioni. Ma come si è visto dai testi appena citati, nelle posizioni di Rainolds e dei suoi amici più stretti c’era qualcosa di profondo, di serio, scattato con forza immediata di fronte alla figura e alle posizioni di Bruno: c’era, in fine, un programmatico rifiuto della cultura ‘rinascimentale’ italiana, nelle sue punte più aspre e radicali – da Machiavelli a Cardano a Pomponazzi. Un rifiuto entro cui agiscono potentemente – si è visto – anzitutto ragioni di ordine teologico e religioso –, che si riconfermano e si rinsaldano di fronte agli atteggiamenti e alle tesi sostenute da Bruno: il quale di quella cultura ‘anticristiana’ appare immediatamente un esponente tanto tipico quanto curioso e originale, per le inquietanti ‘bizzarrie’ che non si faceva scrupolo di sostenere e di diffondere. Forse, a questa luce, si comprende meglio perché nella lettera al vicecancelliere il Nolano

virulenta lingua laceret, sed Orationem meam refutet». Anche sulla figura di Momo andrebbe svolta una indagine accurata. Qui mi limito a citare solo due testi: A baite for Momus so called upon Occasion of a Sermon at Bedford iniurously traduced by the factious... with a Briefe Patrocinie of the Lawfull Use of Philosophie in the more Serious and Sacred Studie of Divinitie, by Tobie Bland Chaplaine to the right Honourable Iohn Lord Saint John, Baron of Bletfose, London 1589 (printed by John Wolfe); A Fig for Momus, containing Pleasant Varietie, included in Satyres, Eclogues, and Epistles, by T[homas] L[odge] of Lincolnes Inne Gent, at London 1595 (con il motto ‘Chi pecora si fa, il lupo se lo mangia’).

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abbia sottolineato di non fare alcuna «differenza tra Italiano e Inglese», volendo egli guardare «all’anima e alla cultura dell’intelletto», senza alcuna attenzione «a testa unta, a fronte segnata, a mani lavate e a membro circonciso». Così come si comprendono meglio sia l’attacco complessivo rivolto, nella Cena, alla cultura inglese, sia la rivendicazione del valore della cultura italiana alla quale dichiara con orgoglio di appartenere, presentandosi come «napolitano nato sotto più benigno cielo». Non si trattava né di un espediente di carattere letterario, né di gratuita arroganza. Al di là dei toni usati – che sono quelli soliti –, a Oxford, nell’estate del 1583, Bruno si rende subito conto della radicale impermeabilità alle sue tesi di tutti i dottori oxoniensi, di una totale, reciproca, incompatibilità che affonda le radici – lo intende assai bene – anche nella forza di differenti ‘tradizioni’ sia sul piano metodico che su quello culturale e filosofico: come chiarisce nel De la causa interpretando l’esplosione a Oxford della popina ciceroniana in chiave filosofico-storica, quale segno preciso della decadenza complessiva di un’intera civiltà. Per parte loro, i ‘dottori oxoniensi’ come John Rainolds – impegnati, con il meglio di se stessi, in una aspra e difficile battaglia teologica – non sapevano davvero che farsene di quell’‘ometto’ che, venuto al seguito di un uomo potente, si era messo a far lezione da una cattedra prestigiosa, con l’intenzione di spiegar loro che «the earth did goe round, and the heavens did stand still». Può darsi che mi sbagli: ma nel nomignolo che gli appioppa George Abbot, forse c’è anche un’eco del giudizio degli oxoniensi sui ‘voli’ copernicani del Nolano... Si credeva un grande uccello, capace di trapassare i cieli, e invece era solo un didapper: «a small diving water-flow»50, un piccolo uccello d’acqua, dal volo corto, senza coda. Altro che voli ‘ermetici’! Fra il «professore di una teologia meglio elaborata» e i teologi puritani come Rainolds ci fu rottura immediata, condita da reciproco disprezzo. Come conferma l’esito delle ‘lezioni’ copernicane del Nolano, di fronte alle quali erano, infine, esplosi il rifiuto – e la collera, verrebbe da dire – di tutti gli oxoniensi. Su questo punto vorrei essere chiaro: sono Copernico e la problematica di carattere astronomico ad essere al centro delle lezioni del Nolano, come testimonia con chiarezza, per primo, George Abbot. È vero che il futuro arcivescovo di Canterbury inserisce il ‘ricordo’ di Bruno in un contesto incentrato su un’accusa di plagio – da parte del ‘dottor Hill’, in questo caso, nei confronti di M. Bri-

50. Così appunto si legge nel The Oxford English Dictionary, rinviando anche a dabchick: «a small water-bird, found in rivers and other fresh waters». È un termine, la cui applicazione in chiave ironica è attestata proprio tra la fine del ’500 e del ’600.

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stow51. Ma ciò non intacca minimamente il valore della testimonianza di Abbot sul ‘contenuto’ effettivo delle lezioni del Nolano: anzi, è sintomatico che, a distanza di tanti anni, Abbot insista a sottolineare, a proposito di Bruno, come «he undertooke among very many other matters to set on foote the opinion of Copernicus, that the earth did goe round, and the heavens did stand still; whereas in truth it was his owne head which rather did run round, and his braines did not stand stil»52. Non c’è, a mio giudizio, alcun motivo per trascurare una testimonianza fondamentale come questa: la quale appare, anzi, tanto più credibile e puntuale alla luce dei testi di Rainolds sopra citati. Matters, cioè toys, come avrebbe detto N. W., insomma ‘bizzarrie’, fantasie senza fondamento, tipiche di un didapper: ma è di Copernico che, in questo caso, sta parlando. Ciò non toglie, naturalmente, che Bruno nelle sue lezioni abbia citato, usandolo a piene mani, il De vita coelitus comparanda: basta aver sentore del suo modo di lavorare – e conoscere qualcosa della sua formidabile memoria – per sapere che questo è del tutto possibile. Non si dice niente di nuovo osservando che, a volte, gli scritti del Nolano sono un mosaico di citazioni, incastonate in un discorso nuovo, originale. Ma questo significa solo che nel caso di Bruno identificare una ‘fonte’ non risolve in alcun modo il ‘problema’ di cosa egli avesse effettivamente in mente. Occorre, volta per volta, analizzare sia il testo che il contesto, cercando di capire cosa intendesse dire. A Oxford, al centro del discorso è l’adesione del Nolano al suo Copernico (come dirà nella variante del primo dialogo della Cena) – un Copernico che non ha niente a che fare con la versione ‘matematica’ e ‘calcolatoria’ del De revolutionibus, circolante a Oxford ad opera anzitutto di Henry Savile. Ed è precisamente intorno a questa ‘scelta’ che si consumano in via definitiva le già ardue possibilità di compromesso fra Bruno e i teologi oxoniensi, spingendo anche gli ‘anglicani’ che lo avevano aiutato ad ottenere la ‘lettura’ a schierarsi in modo intransigente. Se già era apparso sorprendente e controcorrente l’elogio delle traduzioni che Bruno aveva fatto nelle sue lezioni – che pure avevano riscosso l’ammirazione di uomini 51. «... when I had perceived, that you had been bold with M. Bristow for this third Reason also, I would have intreated you have done somewhat of your selfe, or to let all alone, least some body should tel you, that by D. Fulke the most part of your booke was answered before it was made...». Abbot si riferisce al libro di W. Fulke, A Retentive, to stay Good Christians, in True Faith and Religion, against the Motives of R. Bristow. Also, A discoverie of the Daungerous Rocke of the Popish Church, commended by N. Sander, London 1580, in replica all’intervento di R. Bristow, Demaundes to be proponed of Catholiques to the Heretikes, 1576. 52. The Reasons which Doctour Hill…, cit., p. 88.

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come N. W. e John Florio –, del tutto inaccettabili, in quell’ambiente, erano le sue fantasticherie astronomiche e cosmologiche. Pur venendo da un uomo che, nel campo, aveva già dato grande prova di sè, a Oxford quel Copernico era per tutti una bizzarria inaccettabile, inqualificabile: soprattutto per tutto quello che implicava dal punto di vista teologico, scritturale, religioso non faceva ridere nessuno – come dimostra puntualmente l’immediata cacciata del Nolano. Perfino Alberigo Gentili, che pure gli sarà vicino in un momento difficile della sua vita travagliata, scrivendo a Hotman nel novembre del 1583 ebbe a esprimersi in termini che lasciano capire come Bruno con quella scelta si fosse tagliato alle spalle tutti i ponti: «Abbiamo ascoltato opinioni tanto fasulle, assurde e vane di molti uomini importanti come ad esempio che il cielo è una pietra, che il Sole misura due piedi, che sulla Luna ci sono città e monti, che la Terra si muove...». Se questa era la posizione di Gentili, non è difficile immaginare cosa abbiano potuto pensare gli altri teologi come Rainolds di fronte al Copernico di Bruno... C’era però una via per cacciare quel fastidioso didapper: accusarlo di plagio, e così fu fatto, con intransigenza, senza neppure porsi il problema di entrare nel merito delle sue scoperte, accreditandone la fama di ‘ometto’ bizzarro e fantasioso, con il quale non valeva la pena di avviare alcuna discussione. Eppure, a suo modo, sui ‘dottori oxoniensi’ Bruno aveva fatto colpo, se a distanza di tanti anni il ricordo delle sue ‘lezioni’ si staglia intatto – come una sorta di ‘cammeo’ – nella pagina del severo – eppur arguto – arcivescovo di Canterbury: il quale contrappone, con simpatia – per quanto strumentalmente – la «great honesty of the litle man’s part», che, smascherato, accettava di andar via al nuovo plagiario, assai riottoso, che doveva essere ancora ricondotto alla ragione...53. Su quell’accusa merita però di fare una riflessione: è chiaro, anzitutto, che si tratta solamente di un espediente per costringere Bruno alla partenza. Che le cose stiano così stanno a mostrarlo da un lato gli scritti bruniani più strettamente connessi a quelle lezioni (il Sigillus e la Cena); dall’altro l’atteggiamento del Nolano di fronte all’accusa infamante che gli viene rivolta. Altro che «great honesty»! Accetta di andarsene perché coglie il nocciolo del problema che si cela dietro quell’attacco pretestuoso. Capisce, cioè, che, qua-

53. Forse conviene osservare che il libro di Abbot vuole essere appunto una sorta di ‘smascheramento’ delle posizioni di Hill, come è chiaro già dal titolo del suo lavoro: The Reasons which Doctour Hill hath Brought... Unmasked, and Shewed to be Very Weake..., cit.

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lunque cosa dica, la partita, a Oxford, è irrimediabilmente perduta, che difendersi è una pura perdita di tempo, che si è creato contro di lui un fronte compatto. In altre parole, comprende che, a quel punto, l’unica cosa che gli resta da fare è tornare a Londra per cercare di riprendere, in modi nuovi, il discorso filosofico e scientifico che gli interessa sviluppare, badando a difendere, anzitutto, il suo onore e la sua ‘credibilità’, rovesciando sugli altri le accuse che gli erano state rivolte: come fa appunto prima nella Cena e poi nel primo dialogo del De la causa, irridendo la ‘imitazione’ ciceroniana dei pedanti oxoniensi: essi sì veri plagiari, senza alcuna originalità! Del resto – come è stato sottolineato di recente anche a proposito di Machiavelli e dei plagi di Nifo – a quella data «l’inserimento e l’appropriazione di passi di autori classici e moderni in un proprio testo era pratica corrente». Non era dunque qui il punto dello scontro; così come non stava nella ‘citazione’ di temi ficiniani. Per quanto ridimensionato e criticato (come si è visto nei testi di Rainolds sopra citati), è difficile pensare che l’uso di testi di Ficino54 potesse, di per sè, portare a una decisione tanto drastica, allontanando dall’Università un uomo che era stato appoggiato da Tobie Matthew. A questo proposito, è anzi sintomatico che, una volta scoperto il ‘plagio’, si sia ritenuto necessario informare prima di tutti il decano del Christ Church, a evidente conferma del ruolo che Matthew aveva svolto in tutta l’intera vicenda oxoniense del Nolano55; così come è significativo che si sia deciso di rimettere Bruno alla prova prima di deciderne l’espulsione, forse proprio per considerazione dei suoi ‘protettori’. A meno che non sia stato lo stesso Matthew a chiedere di dare a Bruno un’altra chance: cosa che è, tuttavia, più difficile a credersi (oltre a contrastare con la testimonianza di Abbot). A quel punto, l’unica cosa che interessava sia agli ‘anglicani’ che ai ‘puritani’ era chiudere l’intera faccenda col minor spargimento di sangue, in silenzio. Ciò che essi si sforzarono, puntualmente, di fare, suscitando la furiosa reazione del Nolano, di cui sono vigorosa testimonianza prima le pagine della Cena, poi quelle De la causa: oltre al

54. Basta dare un’occhiata allo Short-title Catalogue of Books printed in England, Scotland and Ireland and of English Books printed abroad, 1475-1640, by A. W. Pollard, G. R. Redgrave et al., London 1986, per vedere come Ficino fosse assente a differenza dei due Pico e, soprattutto, di Savonarola (quest’ultimo, specie nei primi decenni del secolo). 55. The Reasons which Doctour Hill..., cit., pp. 88-89: «Wherewith when he [a grave man, and both then and now of good place in that University] had acquainted that rare and excellent Ornament of our land, the Reverend Bishop of Durham that now is, but then Deane of Christ-Church, it was at the first thought fit, to notifie to the Illustrious Reader, so much as they had discovered...».

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danno gli era, infatti, toccata anche la beffa. È una vicenda complessa sulla quale converrebbe indagare ulteriormente, allargando il campo dell’analisi: assai probabilmente sia l’assegnazione della ‘lettura’ a Bruno sia la sua traumatica conclusione furono anche un segno, e un momento, del conflitto tanto aspro quanto dissimulato in mille forme fra teologi ‘anglicani’ schierati con la Regina (come Tobie Matthew) e teologi ‘puritani’: della qual cosa Bruno si rese, peraltro, immediatamente conto, come appare evidente dalle stesse ‘varianti’ del primo e del secondo dialogo della Cena. A spiegare la durezza dei ‘puritani’ contro il Nolano c’è però un altro motivo del quale occorre prendere nota: come scriverà Gellibrand a Field il 12 gennaio del 1584, le speranze del ‘movimento’ a Oxford erano fondate non tanto sui ministri, quanto – e soprattutto – sulle giovani generazioni. Tanto più era impossibile che si consentisse di fare lezioni a un personaggio come Bruno, e su temi radicalmente esplosivi come Copernico56. A Oxford Bruno fu dunque anche vittima, per certi aspetti, di un gioco ‘interno’ agli schieramenti religiosi, politici e accademici certamente più grande di lui. Ma lo scontro si risolse in quel modo perché aveva tirato in ballo il suo Copernico (un Copernico che non aveva a che fare con interpretazioni di tipo convenzionalistico, ma che anzi rinsaldava una prospettiva cosmologica di tipo infinitistico). Che le cose stiano così, ce lo conferma proprio George Abbot: il quale – dopo essersi riferito ai termini e alla pronunzia utilizzata nelle sue lezioni da Bruno («chentrum and chirculus and chircumferenchia, after – egli scrive – the pronunciation of his Country village»)57, passa immediatamente a parlare di Copernico, affermando con massima chiarezza che è in un contesto di ordine astronomico e cosmologico che Bruno usa quei lemmi nelle sue lezioni. Da questo punto di vista, si può dire che le lezioni oxoniensi sono un testo di transizione, situate fra il Sigillus da un lato, e la Cena dall’altro: nella quale, dopo il fallimento del tentativo oxoniense, esse vengono sviluppate e radicalizzate riprendendo anche in termini nuovi la distinzione fra ‘legge’ e ‘verità’ che Rainolds e i suoi seguaci a Oxford avevano pregiudizialmente rifiutato, così come si erano mostrati nettamente ostili a una lettura in chiave allegorico-origeniana del testo biblico. In entrambi i casi, Bruno avrebbe trovato – ora e dopo – porte drasticamente serrate.

56. Daungerous Positions and Proceedings, published and practised within this Iland of Brytaine, London 1593, L1v-L2r. (Del libro esiste anche una copia anastatica, uscita nel 1972, basata sulla copia della Bodleian Library). 57. The Reasons which Doctour Hill..., cit., p. 88.

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Sul filo di questo ragionamento vorrei però fare un’altra riflessione, o, meglio, abbozzare un’altra linea di ricerca concernente il problema dei rapporti di Bruno con gli ambienti religiosi inglesi. Si tratta, infatti, di un lavoro che andrebbe svolto in maniera sistematica, senza limitarsi alle varianti della Cena che su questo sfondo di questioni sono state interpretate in modo più convincente. Che il problema riguardi l’insieme dell’opera di Bruno in Inghilterra mi pare comunque abbastanza acquisito: perfino in un libro come quello di John Bossy si insiste su questo tipo di questioni, facendo fra l’altro una giusta osservazione, credo (almeno in linea di principio), sulla necessità di una distinzione fra ‘teologi’ puritani e ‘politici’ puritani, anche se di qui prende le mosse per una serie di ricostruzioni senza alcun fondamento critico58. Vorrei invece richiamare l’attenzione su un altro punto a mio giudizio assai importante: sia lo Spaccio che la Cabala vengono pubblicati proprio nella fase più aspra dello scontro fra anglicani e ‘puritani’59: i quali – occorre aggiungere –, pur subendo colpi assai gravi, riescono a tenere a Londra, proprio in questo periodo, un sinodo nazionale alla cui preparazione dà una forte mano Edward Gellibrand, cioè la personalità più autorevole della ‘classis of Oxford’. Sull’inasprirsi, in quel torno di tempo, dello scontro religioso, non credo sia necessario spendere altre parole: basta pensare al diluvio di catechismi che sommerge in questo periodo le tipografie, al quale Bruno fa puntualmente riferimento nello Spaccio, sbeffeggiando i Riformati: «tra diece mila di simil pedanti – scrive sintomaticamente il Nolano – non si trova uno che non abbia un suo catecismo formato; se non publicato, al meno per publicare quello che non approva nessuna altra instituzione che la propria, trovando in tutte l’altre che dannare, riprovare e dubitare»60. Né meno intensi sono, in questo periodo, la pubblicazione e il commento di testi scritturali, a cominciare dai Salmi e dal Cantico dei cantici 61, che viene stampato a più riprese. Anzi, se si tiene conto di questo, si comprendono meglio anche le battute che Bruno fa nell’ultimo dialogo italiano, spiegando per quali motivi egli avesse rinunciato a chiamare 58. J. Bossy, Giordano Bruno e il mistero dell’ambasciata, Milano 1992, p. 341. La precisazione è contenuta nella Postfazione all’edizione italiana, assai più equilibrata del libro uscito in lingua inglese nel 1991. 59. Su questo punto mi permetto di rinviare al mio lavoro Proposte per Bruno. Sui rapporti tra «Cabala» e «Spaccio», in corso di stampa nella miscellanea in onore di Fulvio Tessitore. 60. A short-title Catalogue, cit., vol. 1, 1986, ad voc. (Catechism, Catechismus). 61. Anche per questo è istruttivo A short-title Catalogue, cit., vol. 1, p. 186, ad voc. (Bible, Song of Salomon).

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l’opera ‘cantica’, decidendosi a dargli il titolo Eroici furori: cioè «per il timor ch’ho conceputo – scrive appunto Giordano – dal rigoroso supercilio de certi farisei, che cossì mi stimarebono profano per usurpar in mio natural e fisico discorso titoli sacri e sopranaturali, come essi, sceleratissimi e ministri d’ogni ribaldaria, si usurpano più altamente, che dir si possa, gli titoli de sacri, de santi, de divini oratori, de figli de Dio, de sacerdoti, de regi...»62. I quali ‘farisei’ – va sottolineato – pur dichiarando, come Thomas Wilcox (membro, anch’egli, della classis di Oxford e poi con Field fra i più autorevoli rappresentanti della classis di Londra)63, di voler tenersi a una interpretazione chiara e letterale del Cantico («a plaine and simple sense of this book») commentando poi il testo, riprendono vecchi motivi ‘figurati’ discorrendo del matrimonio fra Cristo e la Chiesa; del reciproco aiuto dell’uno all’altro, del grande amore dello sposo per la sua Sposa...64. Non insisto, ora, su questo: ma sono persuaso che uno scavo approfondito nella pubblicazione e nel commento dei testi sacri usciti in Inghilterra a metà degli anni Ottanta consentirebbe di intendere meglio i due dialoghi morali – e, in modo particolare, la struttura della Cabala, la quale va letta, e decifrata, proprio su uno uno sfondo problematico e lessicale di questo genere. Lo stesso titolo del primo dialogo – Cena de le Ceneri – contiene un’allusione di carattere religioso, teologico65, sulla quale occorrerebbe indagare: probabilmente è connesso, in modo diretto, alla presenza nel dialogo dei due dottori ‘oxoniensi’, Nundinio e Torquato. A illuminare quale fosse, a quel momento, la situazione contribuisce efficacemente un libro stampato nel 1593 da John Wolfe, elo62. G. Bruno, Eroici furori, Introduzione di M. Ciliberto, testo e note a cura di S. Bassi, Roma-Bari 1995, p. 6. Per una ripresa in Inghilterra del tema bruniano del pedante cfr. Pedantius. Comoedia, nunquam antehac tipys divulgata, Londini 1621 (il pedante, in questo caso, assai probabilmente è da identificare con Harvey, cioè con l’inglese italianato). Varrebbe la pena di esaminare il testo e le trasformazioni – assai significative – attuate rispetto all’archetipo bruniano. 63. «He was a man of real importance and power, the head (with Field) of the London Classis»: G. Usher, The Presbyterian Movement in the Reign of Queen Elizabeth..., cit., p. XLVIII. 64. An Exposition uppon the Booke of the Canticles, London 1585; di Wilcox si veda anche, fra l’altro, A right Godly and Learned Exposition, upon the Whole Booke of Psalmes, London 1586. 65. Anche sulla Lordes Supper c’è un’alluvione di pubblicazioni: per restare al solo Wilcox sopra citato cfr. A Forme of Preparation to the Lordes Supper, del 1587 (si tratta, in effetti, di un catechismo); A Treatise of the Lords Supper, del 1588; The Substance of the Lordes Supper, del 1610. Sul carattere allusivo del titolo della Cena de le Ceneri ebbe a insistere nei suoi primi scritti bruniani sopra citati F. A. Yates, che però abbandonò presto questa pista, concentrandosi sull’importante tema dell’ermetismo.

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quente già dal titolo: Daungerous Positions and Proceedings, Published and Practised within this Iland of Brytaine, under Pretence of Reformation, and for the Presbiteriall Discipline. Ne è autore un personaggio di primo piano già allora – Robert Bancroft –, destinato poi ad assumere la più alta responsabilità nella Chiesa d’Inghilterra salendo sulla cattedra dell’Arcivescovo di Canterbury. Si tratta dunque di una ‘fonte’ assai particolare per molti aspetti, della qual cosa, utilizzandola, occorre naturalmente tener conto. Detto questo, il libro di Bancroft è una delle analisi più forti ed interessanti che siano state fatte dello scontro allora in atto (sia pure, si è già detto, da un punto di vista estremamente parziale). Cerchiamo, dunque, di vedere più da vicino il quadro che descrive: «The experience which we have hereof at this day in the Church of England – scrive Bancroft – is more then pregnant: partly through the divelish and traiterous practises of the Seminary Priests and Iesuites and partly by reason of the lewd and obstinate course, held by our pretended refourmers, the Consistorian Puritanes»66. Dunque, da un lato i gesuiti, dall’altro i puritani: «both of them labouring with all their might, by rayling, libelling, and lying, to steale away the peoples harts from their governours, to bringe them to a dislike of the present state of our Church, and to drawe them into parts-taking: the one sort, for the embracing of such directions, as should come unto them from Rome; the other for the establishing of that counterfeit and false Hierarchie, which they would obtrude uppon us by the countenance and name of the Church at Geneva»67. C’è però qualcosa di profondamente dannoso che accomuna gli uni e gli altri, mettendo in pericolo sia l’edificio della Chiesa che quello dello Stato: agiscono segretamente, si organizzano in ‘leghe’ e ‘federazioni’, senza che sia possibile scoprire le loro azioni: essi – continua Bancroft – non rivelano niente di se stessi, rifiutandosi di essere esaminati come la legge prescrive68. E qui arriviamo al centro del problema: For under pretence of not accusing themselves, if they finde any thing to be come to light, which may any waies touch them, they will utterly refuse 66. Daungerous Positions and Proceedings…, cit., B1v-B2r. 67. Ivi, B2r. 68. Ibid.: «The which proceedings of both the sort of disturbers, are so much the more dangerous, in that they deale so secretely, and have combined themselves, together with their Proselites, into such a league and confederacy; as get out what you can your selfe by meere chance (as they say) for the discovery of their actions, and attempts; you shall bee sure that neither the one sort nor the other will detect anything. Nay matters beeing detected in some sort to their handes, they will utterly refuse to bee examined, as law prescribeth: or if they take any oathe, it is as good never a with as never the better, they dally so exceedingly with it».

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for the most part to answere it, either upon oath or without oath: saying, that neither by the lawes of God, nor man, they are bound so to answere. Under colour whereof they exempt themselves from the ordinary course helde in iustice, for criminall causes, throughout all the world69.

Non solo: «as they deale for themselves, so doo they for their confederates, their favourers, relievers, abetters, and receivers: affirming it to be against the rules of the charity, to bring their Christian brethern and friends into any daunger, for doing of those things, which both the sorts of these seducers have drawne them into, and doo themselves iudge to be religious and just»70. Insomma, both the sorts are so setled in this seditious doctrine of Rhemes, which is as followeth, vz.: «If thou be put to an oath, to accuse Catholikes, for serving God as they ought to doo, or to utter any innocent man, to God enemies and his, thou ought test first to refuse such unlawfull oathes: but if thou have not constancie, and courage so to doo, yet know thou that such oathes binde not at all in conscience and law of God, but may and must be broken under paine of damnation»71.

Come si vede, la critica si rivolge sia contro i ‘papisti’ sia, soprattutto, contro i ‘refourmers in England’, i quali – scrive Bancroft – non solo hanno imitato ‘the Scottish Ministers’, «but have very farre exceeded both them and (as I thinke) all others, that hitherto have dealt that way»72. Ne sono derivate conseguenze gravissime – dal punto di vista della Chiesa e dello Stato – che Bancroft elenca, minutamente, citando anche le ‘fonti’ originali: The lawes, that maintaine Archibishops and Bishops are no more to bee accounted of, than the lawes maintaining the Stewes; That the humaine lawes, that maintaine them, are wicked and ungodly; The lawes are made their common sanctuarie, to defend all our wickednesse; Impiety is suffered to beare sway against the maiestie of God: and that by law and authority; Such lawes are retayned in force, as iustle and overthrow the royall prerogative of the sonne of God; As great indignity is offered unto Iesus Christ, in committing his Church unto the government of the common law, as can be, by meane hyrelings unto a king: in committing his beloved spouse unto the direction of the mistresse of the Stewes, and enforcing her to live after the lawes of a brothel-house 73. 69. «... which is, that before witnesses be produced against any supposed offender, the party accused shall first answere to the accusation, yea, or nay, etc., as wee use in England, and that in matters of life and death (but in these without an oathe) hee must first pleade guilty or not guilty», ivi, B2r-B2v. 70. Ivi, B2v. È un tema al quale, dal suo punto di vista, Bruno dedica importanti battute nello Spaccio. 71. Ivi, B2v. 72. Ivi, G3r. 73. Ivi, H4r.

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Pagina dopo pagina, Bancroft svolge una critica durissima e senza appello delle posizioni ‘puritane’, osservando tra l’altro che proprio nel 1583 – l’anno dell’arrivo di Bruno in Inghilterra – «the forme of discipline was compiled»74 (senza trascurare il ruolo svolto in questo campo, a Oxford, da Edward Gellibrand)75 , oltre a sottolineare in modo costante il nesso fra il ‘movimento’ inglese e la ‘pestilent doctrine’ ginevrina76. Su questo ultimo punto, è sufficiente consultare il registro dei libri pubblicati, in questi anni, in Inghilterra per vedere come Bancroft avesse ragione: da Calvino a Beza, è un susseguirsi di ‘titoli’ di matrice ginevrina, stampati non solo a Londra, ma anche a Oxford, da Barnes77. Né meno intense erano, comunque, le pubblicazioni di testi di Lutero e, in modo particolare, di Bullinger, al quale nell’agosto del 1573, Sandes vescovo di Londra scrive una lettera assai precisa nella quale elenca con precisione le tesi che i ‘new orators’ hanno cominciato a diffondere in Inghilterra: «They declare that «the civil magistrate has no authority in ecclesiasticall matters»; that «the Church of Christ admits of no other government than that by presbyteries, videlicet by the minister, elders and deacon»; that «each parish should have its own presbytery»; that «the choice of ministers of necessity belongs to the people»; that «the Church should be regulated and the State governed

74. Ivi, K3r: «... at lenght, (about the yeare, 1583) the forme of discipline (which is lately come to light) was: and thereupon an assembly or Councell being helde (as I thinke at London or at Cambridge) certaine decrees were made, concerning the establishing and the practise thereof». 75. Ivi, L1v-L2r. In particolare si riferisce a una lettera di Gellibrand del 12 gennaio del 1584, poco dopo dunque la partenza di Bruno da Oxford, che vale per questo la pena di citare, come indice delle difficoltà e dei successi, a quel momento, del movimento: «I have already entered into the matters whereof you write, and dealt with three or foure severall Colleges, concerning those among whom they live. I finde, that men are very daungerous in this point generally favouring reformation: but when it commeth to the particular point, some have not yet considered of these things, for which others in the Church are so much troubled: others are afraid to testifie any thing with their hands, least it breed danger before the time. And after, many favour the cause of reformation, but they are not Ministers, but young students, of whome there is good hope, if be not cut off by violent dealing before the time. As I heare by you, so I meane to goe forward, where there is any hope, and to learn the number and to certifie you thereof». Cfr. anche Usher, pp. 8-9. 76. Ivi, Aa-3r: «You may remember the seditious and intollerable propositions before mentioned, as they are truely collected out of our own countrey men’s books, infected at Geneva with that pestilent doctrine. Many examples also would have beene brought, for that purpose, out: Buchanan, Beza, Knox and the rest of that humor...». 77. Cfr. H. Carter, A history of the Oxford University Press, Oxford 1975, vol. 1.

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by the Law of God as found in the Canonical Scriptures»»78. È, precisamente, il ‘principio’ del processo di cui Bancroft, nel suo libro, individua gli sviluppi e le perverse conseguenze: «(in their owne conceites) – egli scrive – they have already attained their souveraintie. They and their conventicles... are true Church: and all England – conclude sconsolato – besides is in a schisme» (un lemma, quest’ultimo, tipico dello Spaccio). Naturalmente, mi rendo ben conto delle differenze di fondo tra Bruno e Bancroft, che non sto nemmeno a rilevare. Mi preme invece sottolineare l’importanza, e l’utilità, di un testo classico come questo anzitutto per cogliere, in presa diretta, i caratteri spiccatamente religiosi – anzi teologici – dello scontro in atto in Inghilterra a metà degli anni Ottanta. E poi per ribadire come il primo dialogo morale – nella sua ispirazione fondamentale – sia profondamente radicato in questa lotta. Un solo esempio: si è osservato come nel testo del teologo anglicano ricorrano, pagina dopo pagina, la questione della legge, della giustizia, del giuramento, della ‘buona’ religione. Ma è precisamente in questo quadro problematico che germinano, e si sviluppano, i grandi temi dello Spaccio. Ad essere chiari: è solamente analizzando il dibattito religioso e teologico esploso negli anni Ottanta in Inghilterra, che il primo dialogo morale comincia a svelare il suo ‘segreto’, rivelandosi attore concreto di una lotta concreta rivolta anzitutto contro chi – negando legge, giustizia, giuramento, in nome di una ‘pestilente dottrina’ – porta lo scisma nella società, distruggendola fin dalle prime fondamenta. Può darsi che mi sbagli: ma a questa luce si può forse intendere meglio perché Bruno, dopo la pubblicazione del De l’infinito, sia sceso sul terreno della problematica trattata nello Spaccio, riprendendo, a decenni di distanza, la battaglia di Erasmo contro il ‘servo arbitrio’ di Lutero. Non erano – sia ben chiaro – dispute ‘retrospettive’, per le quali Bruno non avrebbe avuto, credo, il minimo interesse. Al contrario, nello scontro fra Erasmo e Lutero ai suoi occhi si rifrangono – come in uno specchio esemplare – questioni di estrema attualità sia sul terreno teologico e religioso che su quello civile e ‘istituzionale’. Sta qui il ‘paradosso’ della ‘ripresa’ nello Spaccio di una polemica risalente a quasi sessant’anni prima: dal contrasto fra ‘libero’ e ‘servo’ arbitrio si sprigionano, per il Nolano, temi filosofici, teologici, antropologici di fortissima attualità, intorno ai quali la battaglia è ancora e sempre aperta – come dimostrano appunto i puritani con le loro maligne posizioni. ‘Attualizzando’ Erasmo e Lutero Bruno risale dunque alla prime scaturigini di un discusssio78. Cfr. Usher, op. cit., p. XVII.

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ne in ogni senso cruciale, facendo al tempo stesso una scelta di campo assai netta. Dal punto di vista dello scontro in atto non c’è dubbio infatti sulla parte in cui egli, subito, si schiera: con la Regina Elisabetta, contro gli ‘estremisti’ distruttori del «convitto umano». Non per nulla, verrebbe da dire, era passato attraverso l’esperienza oxoniense. Nel primo dialogo morale Bruno non si preoccupa dunque solamente – come ‘mago ermetico’ – della ‘riforma interiore’ della personalità dell’uomo, riformando il cielo. Al contrario: si pone il problema della legge («Tutti quei, ch’hanno giudicio naturale, disse Apolline, giudicano le leggi buone, perché hanno per scopo la prattica; e quelle in comparazione son megliori, che donano meglior occasione a meglior prattica»)79; della giustizia («le giustizie interiori mai sono giustizie senza la prattica esterna»)80; del giuramento («Vedete a che è ridutto il mondo... agl’infideli non si osserva fede...»)81. In altre parole – di fronte alla crisi radicale che stava attraversando la società inglese – allo schisme di cui parla Bancroft – si interroga sui fondamenti costitutivi del ‘vivere civile’ (incontrandosi su questo terreno con il Machiavelli dei Discorsi, pubblicati in Inghilterra da John Wolfe, lo stesso stampatore – si è già visto – del teologo anglicano); sulla funzione della religione; in una parola, sul problema decisivo del rapporto fra religione e civiltà, ponendo il problema di quale sia, in effetti, la ‘vera religione’: quella che consente al mondo di vivere in pace, alla scienza di progredire, alla filosofia di svilupparsi. A questo proposito occorre però essere netti: se dal punto di vista dell’analisi – e dell’individuazione dei caratteri e dei protagonisti della crisi in atto – è possibile rinvenire punti di contatto fra Bruno e il teologo anglicano nell’ambito di un comune atteggiamento antipuritano, del tutto opposte sono, naturalmente, le soluzioni dall’uno e dall’altro: mentre Bancroft si muove all’interno di un cristianesimo moderatamente riformato, il Nolano mette a fuoco una prospettiva di carattere nettamente pre (e post) cristiano, assumendo come punto di riferimento l’‘antichissima sapienza’ degli Egizii. Non è nel cristianesimo che si può individuare il fondamento ‘religioso’ del ‘vivere civile’. In ogni senso è vero anzi il contrario: le «daungerous positions» dei puritani sono inscritte, strutturalmente, nel codice genetico della religione di Paolo e di Lutero, di Beza 79. BDI 625. 80. Ivi, p. 657. 81. Ivi, p. 760. E ancora: «Vedete a che è ridutto il mondo, per esser messo in consuetudine e proverbio, che per regnare non si osserva fede...».

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e di Calvino. Ne sono una conseguenza intrinseca, diretta; non una degenerazione. Se dunque è vero che una società non vive senza legge e religione e senza rispetto del giuramento – come si afferma con decisione nello Spaccio – è in un’altra direzione, antitetica a quella cristiana, che bisogna dunque cercare. E su quale sia la via da battere per Bruno non ci sono dubbi: ‘vera’ religione è quella di Ermete e Machiavelli, fondata sul rapporto organico di operare magico e di azioni eroiche, di conoscenza della natura e di ‘amor di gloria’, di ‘amor di patria’ e ‘comunicazione’ con la divinità. È questa la radice della renovatio universale, dopo i secoli della tenebra cristiana: di qui e solo di qui possono germinare buone leggi, buone dottrine, buoni comportamenti, dando inizio a una nuova epoca del mondo. Prendendo le mosse dallo scontro fra ‘anglicani’ e ‘puritani’ – e dall’assunzione della centralità del rapporto tra ‘religione’ e ‘civiltà’ (problema, quest’ultimo, decisivo nel processo costitutivo di tutta la ‘modernità’) – è questa ‘religio’ civile e naturale, ‘vincolo’ dell’intera società, che Bruno individua e sviluppa nello Spaccio, proponendola all’élite politica e culturale dell’Inghilterra – da Philip Sidney (cui il dialogo è dedicato) alla Regina Elisabetta: una nuovaantica religio frutto dell’Asclepius di Ermete Trismegisto e dei Discorsi del Segretario fiorentino, dalla quale possa scaturire, finalmente, una nuova epoca di pace, di unione, di accrescimento delle scienze e del sapere per l’Inghilterra e, al contempo, per l’intera l’umanità. A ben vedere, lo Spaccio vuole essere, precisamente, questo: un trattato De vera religione, teso a indicare all’Inghilterra e ai suoi governanti la via da seguire per uscire dalla crisi – dallo schisme – in cui l’avevano precipitata, oltre alle congiure ‘gesuitiche’, soprattutto gli ‘estremisti protestanti’, i puritani. Per quanto possa apparire sorprendente, il primo dialogo morale vuole dunque rappresentare una proposta positiva, non un gesto di rottura – come dimostra puntualmente l’elogio delle ‘beatitudini’ cristiane che conclude questo testo eccezionale. Come già gli era accaduto altre volte, a Bruno non restò che registrare il fallimento di tutti i suoi progetti: della qual cosa dà conto la composizione della Cabala, un testo che in genere si legge – sbagliando – come una sorta di continuazione dello Spaccio. A vederli più da vicino, e senza pregiudizi, i due dialoghi rivelano invece un volto assai diverso, per non dire opposto: se lo Spaccio è un testo sulla renovatio, nella Cabala è il tema della ‘decadenza’ universale che predomina e s’impone. Tutt’altro che variazioni – e sviluppo – di un solo motivo, lo Spaccio e la Cabala rappresentano, insomma, due aspetti di fondo della riflessione di Bruno, organicamente connessi – l’uno e l’altro – alla battaglia ‘antipuritana’ del 1584-1585, ma pure distinti e inconfondibili, da ogni punto di vista.

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Se così stanno le cose, c’è però un nuovo problema che s’impone, con il quale occorre fare i conti in modi nuovi, abbandonando vecchie sequenze critiche: resta, cioè, da capire perché, a distanza di così poco tempo, Bruno abbia ritenuto opportuno adottare un registro ‘critico’ come quello della Cabala, fino al punto – sia detto tra parentesi – di dover riformulare in modi nuovi i rapporti fra i due dialoghi morali rispetto a quanto egli stesso aveva dichiarato nello Spaccio. Non è il tema di ricerca oggetto di queste pagine. Il che non toglie, naturalmente, che una osservazione di carattere preliminare sia già possibile: prima che in quello ‘storiografico’, è nel mondo ‘storico’ che sta la spiegazione di questo fondamentale mutamento di prospettiva. A dispetto di tutte le speranze coltivate – e della scelta nettamente antipuritana che aveva fatto con la pubblicazione dello Spaccio – il Nolano, con la proclamazione dell’anticanuova religio, era riuscito solamente a confermare la Regina Elisabetta nel convincimento che egli fosse un infedele, un empio, un ateo, senza alcuna possibilità di remissione. La porta che, per un momento, gli era sembrato di poter spalancare era stata di nuovo, inesorabilmente, sbarrata. Sprofondano anche qui, io credo, le radici della radicale – e tragica – rivolta anticristiana messa in atto da Bruno nella Cabala. Continuava la partita alzando la posta, secondo un modulo ricorrente nei momenti critici della sua difficile vita.

DELFINA GIOVANNOZZI FIDES E CREDULITAS COME TERMINI CHIAVE DELLA SCIENZA MAGICA IN AGRIPPA E BRUNO

«La magia dunque tanto di Moise quanto la assolutamente magia non è altro che una cognitione dei secreti della natura con facoltà d’imitare la natura nell’opere sue, e fare cose maravigliose agl’occhi del volgo»1. Così Bruno definiva in una delle deposizioni processuali rese dinanzi al tribunale romano dell’Inquisizione, quella scientia – «che non è per sé illecita sendo fondata nelle forze della natura»2 – attorno alla quale andava polarizzandosi il suo interesse e si concentrava l’impegno intellettuale negli anni che precedettero l’arresto. Appartengono a questo periodo conclusivo dell’attività bruniana gli opuscoli di argomento magico, pubblicati alla fine del secolo scorso dagli editori degli Opera latine conscripta e redatti da Bruno, più o meno contemporaneamente ai poemi della trilogia latina, durante il soggiorno ad Helmstedt alla fine degli anni ’80: il De magia, le Theses de magia, il De magia mathematica – trattati anepigrafi, così intitolati dagli editori delle opere latine – il De rerum principiis, la Medicina lulliana. Il De vinculis in genere, che per la sua impronta fortemente operativa può essere inserito in quello che Felice Tocco definì come l’Opus magicum bruniano3, fu invece completato – dopo un primo abbozzo francofortese – a Padova, presumibilmente nell’autunno del 15914. Sotto il profilo strettamente teorico, questi testi non offrono elementi tematici particolarmente originali rispetto alle opere precedenti; essi sembrano piuttosto ridefinire i principi della filosofia bruniana in senso pratico-operativo, realizzando così quella «tensione alla praxis»5 che sembra esserne un tratto caratteristico già a partire dalle prime opere. È solo in questi opuscoli tardi, tuttavia, che l’interesse per problemi di carattere magico si fa così urgente da impegnare Bruno nella stesura di una serie di scritti nei quali la riflessione sulla magia assume un ruolo «centra1. Firpo, Processo, doc. 51, p. 275. 2. Ibid. 3. Cfr. F. Tocco, Le opere inedite di Giordano Bruno, Tipografia della Regia Università, Napoli 1891, p. 214. 4. Tutti questi testi sono compresi in BOL III; per notizie dettagliate circa la loro datazione cfr. F. Tocco - G. Vitelli, I manoscritti delle opere latine del Bruno, ora per la prima volta pubblicate, ivi, pp. XVII-LXIV. 5. M. Ciliberto, Giordano Bruno, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 243.

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le» e in qualche modo «esclusivo». Perché ad un certo punto della sua maturazione filosofica egli abbia concentrato la sua attenzione su queste tematiche, rielaborando variamente teorie e linguaggi della tradizione magica antica e contemporanea, è difficile stabilire6. Certo è che l’intento principale di Bruno in questi scritti, soprattutto nel De magia e nelle Theses7, sembra essere quello di fornire una spiegazione fisica dei fenomeni magici, attraverso la quale ricondurre i mirabilia all’ordine naturale dei fenomeni. La magia, dunque, è per Bruno prima di tutto un problema filosofico; un «interesse teorico»8 per tematiche di carattere operativo. I presupposti che fondano l’azione magica in questi scritti coincidono pertanto con i principi costitutivi della nolana filosofia, e sono, in ultima analisi, la teoria dell’animazione universale e la dottrina neoplatonica della scala degli esseri. Da questi presupposti teorici, infatti, si sviluppa la possibilità di un’applicazione sul piano pratico che solo apparentemente ‘esorbita’ dalla sfera della naturalità e che è invece inserita nella infinita gamma di sollecitazioni alle quali la natura è pronta a rispondere. I termini fides e credulitas esprimono in quelle che tradizionalmente vengono indicate come le ‘opere magiche’ bruniane, un nucleo tematico particolarmente rilevante, poiché Bruno subordina al concetto espresso attraverso questi termini qualunque efficacia dell’azione magica, facendone così un punto di osservazione 6. Tra le ipotesi avanzate dagli studiosi di Bruno a questo proposito, particolarmente suggestiva si rivela quella di A. Corsano, che nel suo Il pensiero di Giordano Bruno nel suo svolgimento storico, Sansoni, Firenze 1940, p. 278 ss., insistendo sugli slanci riformistici della filosofia bruniana (che sarebbero emersi prepotentemente qualche anno più tardi con la pubblicazione del Sommario del processo: A. Mercati, Il Sommario del processo di Giordano Bruno, con appendice di documenti sull’eresia e l’Inquisizione a Modena nel secolo XVI, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1942), tentava di chiarire il pericoloso rientro di Bruno in Italia nel 1591 alla luce del progetto di riforma etico-religiosa, di cui gli opuscoli magici sarebbero espressione; lo stesso Corsano dichiarò in quelle pagine di «tentare di avanzare se non delle conclusioni, almeno una di quelle Arbeit-Hypothesen che possono far avanzare la ricerca rinnovandone gli orientamenti». 7. Nonostante gli scritti magici bruniani presentino una certa omogeneità nelle tematiche e nei contenuti, il che consente certamente una loro lettura sinottica, essi mantengono tuttavia ciascuno una loro peculiarità, e anche a voler tracciare una sola ulteriore distinzione all’interno del corpus degli opuscoli dedicati alla magia, si potrebbe rilevare, come suggeriva F. Tocco (op. cit., p. 214), una duplice prospettiva: da una parte l’interesse per la magia naturalis o physica, di cui Bruno si occuperebbe nel De magia e nelle Theses, dall’altra quello per la magia mathematica o superstitiosa, di cui sarebbero espressione il De magia mathematica e il De rerum principiis. 8. L. Spruit, ‘Magia: socia naturae’. Questioni teoriche nelle opere magiche di Giordano Bruno, «Il Centauro», VI (1986), pp. 146-169: 150.

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privilegiato per comprendere la sua concezione della prassi operativa; si tenterà quindi una comparazione tra l’uso di questi termini nei testi bruniani, in particolare nel De magia e nelle Theses, e la loro ricorrenza nel De occulta philosophia di Cornelio Agrippa, testo stampato per la prima volta integralmente a Colonia nel 1533, ma diffusosi in forma manoscritta già a partire dal 15109. Nonostante il giudizio piuttosto severo espresso su Agrippa nel De lampade combinatoria10, il De occulta philosophia rappresenta, infatti, la fonte principale cui Bruno attinge per la redazione dei suoi scritti di carattere magico, e non solo per la composizione di quel testo singolare che è il De magia mathematica, costituito in gran parte di estratti dall’opera di Agrippa, ma negli stessi opuscoli dedicati alla magia naturalis, dove l’influenza del De occulta philosophia è forse più rilevante di quanto sembrò allo stesso Tocco11. Alla formulazione del concetto brunia9. È nel 1510, infatti, che Agrippa invia a Giovanni Tritemio – abate di Würzburg e autore di importanti opere di argomento magico – il suo giovanile «compendium de magia», composto dopo il loro incontro nel monastero benedettino di quella città nell’inverno tra il 1509 e il 1510 (il manoscritto si conserva nella Biblioteca Universitaria di Würzburg). Nel 1531, presso lo stampatore Johannes Grapheus – che nel settembre del 1530 aveva dato alle stampe il De vanitate – Agrippa prepara la riedizione del trattato magico, che rimane comunque incompleta, contenendo solo il primo libro e gli indici del secondo e del terzo. Solo nel 1533, superati tutti gli ostacoli frapposti dagli Inquisitori, il De occulta philosophia viene alla luce, a Colonia, per i tipi di Johannes Soter. Per le intricate vicende editoriali dell’opera agrippiana cfr. A Prost, Les sciences et les arts occultes au XVIe siècle. Corneille Agrippa. Sa vie et ses oeuvres, Champion, Paris 1881-1882, pp. 359-381. 10. «A Lulli sufficientia ebibita nomen atque gloriam sibi comparare studuit ut plurimum magis suo testimonio vanae, quam plurimorum iudicio contemnendae sufficientiae Cornelius Agrippa, qui propriis super haec commentariis non tam Lullium quam se ipsum illustrare elaboravit» (BOL II,II 235). 11. È evidentemente molto difficile, a meno che non ci si trovi dinanzi ad un calco o ad una pagina copiata quasi letteralmente, indicare testi che in maniera inequivocabile possano essere proposti come fonti di tematiche, quali quelle dibattute in questi testi bruniani, molto spesso rintracciabili in larga parte della letteratura magica, non solo contemporanea, ma addirittura antica e medievale: si tratta molto più spesso di una stratificazione di fonti, che rende difficile individuare un referente privilegiato. Ciò nonostante, senza escludere, ad esempio, la possibilità che Bruno derivi direttamente da Ficino concetti che egli certamente conosceva nella rielaborazione propostane da Agrippa, è verosimile che il De occulta philosophia sia spesso il tramite attraverso il quale Bruno conobbe, non solo certe tematiche magico-astrologiche riconducibili alla tradizione precedente, ma soprattutto la fitta casistica ad esse connessa. Intendo dire che se è probabile che Bruno conoscesse attraverso Ficino (De vita, III, XXI, in Opera omnia, I, Basileae, ex officina Henricpetrina, 1576 [rist. anast. Torino 1962], pp. 563-564) l’experimentum ex phalangio di cui si parla nelle Theses (BOL III 478) e che è descritto da Agrippa in De occulta philosophia, II, XXIV (a cura di V. Perrone Compagni, E. J. Brill, Leiden 1992, p. 323; d’ora innanzi per il testo di Agrippa si farà riferimento sempre a questa

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no di fides seu credulitas concorrono, di fatto, tematiche ampiamente affrontate nel De occulta philosophia; non si tratta, però, di dottrine tipicamente agrippiane, ma piuttosto di tematiche largamente diffuse nella cultura contemporanea e rifluite poi nel De occulta philosophia. Intendo riferirmi, in particolare, alla teoria degli effetti terapeutici della fides negli interventi medici e alla dottrina dell’imaginatio come potenza dotata di un’effettiva forza di alterazione. Si tratta, come è noto, di dottrine di derivazione avicenniana12, già nucleo teorico fondamentale nella Theologia platonica di Marsilio Ficino13, a cui Bruno attinge largamente nel Sigillus sigillorum per la sua formulazione della dottrina della contractio animi14. Non è un caso che pro-

edizione, del cui ricco apparato di fonti si è tenuto particolarmente conto in questo articolo), è altrettanto plausibile che egli attingesse da Agrippa (De occulta philosophia, I, XLIII, p. 166) le notizie circa i poteri mirabili di alcune specie di fumigazioni che questi deriva dal Liber çeffer Razielis e che si trovano riproposti in modo quasi letterale nel De rerum principiis (BOL III 526). 12. La sezione psicologica del Kita-b al-Shifa-’, conosciuta in Occidente attraverso la traduzione latina di Gundisalvi, il Liber de anima, fu pubblicata per la prima volta a Pavia nel 1485; essa costituisce la fonte principale della concezione psicologicomagica e terapeutica dell’imaginatio, che ricorre così frequentemente negli autori della Scolastica latina e dell’età rinascimentale. In realtà diversi autori arabi avevano riconosciuto all’immaginazione una vis immutandi res che è il fondamento della causalità magica; Egidio Romano, ad es., negli Errores Philosophorum (redatti attorno al 1270), aveva ricondotto questa dottrina ad Al-Gazel (cfr. § 16: «De erroribus Algazelis: Ulterius erravit circa actionem animae nostrae, ponens animam per imaginationem nostram operari in corpore alieno») e ad Al-Kindi (§§ 6-7: «Errores Alkindi: Quod substantia spiritualis per solam imaginationem potest veras formas inducere... Quod per solum desiderium spiritualis substantiae, formae inducuntur»); cit. da P. Zambelli, L’immaginazione e il suo potere. Desiderio e fantasia psicosomatica e transitiva, in Ead., L’ambigua natura della magia, Il Saggiatore, Milano 1991, pp. 53-75 (già in «Miscellanea Mediaevalia», XVII: Orientalische Kultur und Europäisches Mittelalter, 1985, pp. 188-206). 13. Cfr. M. Ficino, Theologia platonica, XIII, in Opera omnia, I, cit., pp. 284-305; insieme ad Avicenna, Ficino è una delle auctoritates richiamate con maggior frequenza dai sostenitori della possibilità di una influenza diretta – ovvero di una reale capacità di produrre alterationes e perturbationes – dell’imaginatio sul corpo; a questo proposito cfr. P. Pomponazzi, De naturalium effectuum causis sive de incantationibus, Georg Olms Verlag, Hildesheim-New York 1970, (rist. anast. dell’ed. di Basilea 1567), p. 31 ss.; proprio nell’introduzione alla parziale traduzione francese del De incantationibus, H. Busson (P. Pomponazzi, Les enchantements, choix, traduction et notes par H. Busson, Le édition Rieder, Paris 1930, pp. 65-67) sottolineava l’influenza del capitolo ficiniano nella successiva letteratura filosofica ricordando il debito con esso di alcune pagine pomponazziane, ma anche degli Antiquarum lectionum libri di Celius Rhodiginus e di volgarizzatori come Pedro Mexia e Pierre de la Primaudaye. 14. Mutuata, come si è detto, dal XIII libro della Theologia platonica ficiniana, la sezione de multiplici contractione occupa le pp. 180-193 del Sigillus sigillorum (BOL

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prio quel XIII libro della Theologia platonica – riferimento costante per Bruno nel Sigillus – sia presente in maniera così massiccia nel De occulta philosophia, un testo che per la sua struttura, più volte definita «compilatoria», rappresentava una sorta di ‘enciclopedia’ delle scienze magiche dall’antichità al Rinascimento. Tuttavia, nonostante la forte presenza di questi motivi nel testo agrippiano, il debito con il De occulta philosophia nella definizione bruniana del concetto di fides seu credulitas, sembra rimanere in qualche modo esteriore; in questi scritti bruniani c’è infatti scarsa eco dei numerosi riferimenti alla magia carica di implicazioni religiose e promesse ‘soteriche’, che rappresenta invece il presupposto fondamentale per la formulazione del concetto di fides proposta da Agrippa nel libro dedicato alla magia coerimonialis15. L’impiego da parte di Bruno di temi presenti nel De occulta philosophia e comunque diffusi nella cultura contemporanea, inserendosi in un impianto teorico fondato sui principi e le implicazioni peculiari della sua riflessione filosofica, trasforma infatti inevitabilmente i motivi e gli spunti mutuati dalla tradizione, includendoli in un progetto interpretativo del tutto particolare. Ne deriva una concezione della magia che si salda strettamente alla gnoseologia bruniana e tende a rinnovare quegli spunti polemici nei confronti di alcune miserandae pratiche religiose, che rappresentano quasi una costante del pensiero bruniano e sono, di fatto, già presenti in opere quali il Sigillus e la Cabala del cavallo pegaseo16. Nella sezione conclusiva del trattato De magia Bruno inserisce un capitolo, intitolato De vinculis spirituum17, nel quale si propone di II,II 161-217); in essa Bruno distingue le species depravatae della contractio dalle species laudabiles, affrontando alcune tematiche che torneranno con lo stesso vigore polemico nelle Theses de magia; sul rapporto tra i due testi nel rifiuto, espresso in entrambi, delle forme più basse della contractio animi, cfr. A. Ingegno, Filosofia e cosmologia nel pensiero di Giordano Bruno, La Nuova Italia, Firenze 1978, cap. VI, pp. 237-283 (in particolare pp. 255-257 e passim), cui questo lavoro è evidentemente molto debitore. Su Ficino come fonte privilegiata del Sigillus, cfr. R. Sturlese, Le fonti del ‘Sigillus sigillorum’ di Bruno, ossia il confronto con Ficino ad Oxford sull’anima umana, «Nouvelles de la République des Lettres», 1994, 2, pp. 89-168. 15. Fatta eccezione per l’avvio e la pagina 412 del De magia, in cui Bruno lamenta la maxima iactura causata dall’introduzione delle lettere dell’alfabeto ad opera di Theut ed auspica la rinascita di quella forma di comunicazione diretta con la divinità che è la magia, intesa come lingua deorum, non vi è altro accenno – nel De magia e nelle Theses – al nesso tra magia e religiosità. 16. Per il Sigillus cfr. supra, nota 13; per la Cabala vd. BOeuC VI 79 ss. 17. Si tratta in realtà della serie di cinque capitoli che chiude il trattato; il titolo De vinculis spirituum compare solo in apertura del primo di essi («primum de eo quod est ex triplici ratione agentis, materiae et applicationis»), ma può essere ragionevolmente esteso ai quattro che seguono, da considerarsi, quindi, come i paragrafi in cui il capitolo De vinculis spirituum è articolato.

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individuare le condizioni che rendono possibile ed efficace quell’azione particolare, la cui ragione intima è per lo più inspiegabile – «occulta etiam maxima ex parte»18 – da cui si genera il vinculum dello spiritus seu animus. Nel De magia e nelle Theses, questo termine, pur mancando di una definizione precisa19, ritaglia una sfera semantica dai contorni ben definiti: esso designa l’azione e l’effetto prodotti sullo spiritus seu animus dall’ars ligatoris. Ne deriva un uso ‘tecnico’ del termine vinculum, assente, invece, nel De occulta philosophia, dove più termini, quali ligatio, obligatio, astrictio, o sintagmi, come vis obligandi et ligandi, concorrono a coprire tale area semantica20. Nel De magia, occupandosi fondamentalmente del vinculum spiritus che si realizza attraverso le facoltà conoscitive dell’animo, Bruno connette in maniera strettissima il discorso sull’ars magica alla sua dottrina gnoseologica. Egli riconosce che i sottili espedienti e le complesse tecniche di manipolazione attraverso le quali si irretisce l’animo (e che rappresentano gli strumenti privilegiati dell’azione magica), si rivelano infallibili quando agiscono sulle facoltà conoscitive più alte, anche se si realizzano in primo luogo attraverso la vis attrattiva – alla base di fenomeni quali l’incantatio e la fascinatio – che alcune realtà esercitano sui sensi, ovvero sul momento iniziale 18. De vinculis, BOL III 665; nel primo capitolo dedicato ai vincula spirituum nel De magia (BOL III 438), questa condizione particolare che rende possibile il buon esito dell’intervento («ut actiones in rebus perficiantur»), è fondata essenzialmente sulla potentia activa di colui che compie l’azione, sulla potentia passiva di colui che la subisce, e sulla debita applicatio di queste condizioni preliminari. 19. Non rende l’idea della complessa gamma di significati connessi al termine vinculum, la definizione recata da Bruno nelle Thes. de magia, BOL III 479: «Vincula vero corporis intelligimus omne genus, quo ipsum certa affectuum passione ita obligatur, ut aliqua eius actio laedatur seu impediatur, hoc autem est devinctum esse; unde aegritudinem inducere est ligare, curationem vero, solvere; unde et in vulgus modus loquendi inolevit, ut dicantur curati soluti, liberati ab infirmitate, quod significat esse extra vincula quibus detinebantur». 20. È interessante notare come il termine vinculum assuma una connotazione specifica, ed in qualche modo tecnica, in De occulta philosophia, cit., III, XXXIII (pp. 501-502) dove sono riscontrabili alcune affinità terminologiche con il capitolo del De magia intitolato De analogia spirituum che, insieme al primo capitolo De vinculis spirituum (BOL III 426-430), fu riconosciuto come intercalato da F. Tocco (op. cit., pp. 125-127). Si tratta di un capitolo in cui il termine spiritus non è usato, come nella sezione finale del trattato, come sinonimo di animus, ma indica piuttosto quelle sostanze, in cui la componente corporea è piuttosto tenue, che possono essere identificate con i demoni (buoni o malvagi), che pervadono l’intero universo e sono spesso «invisibiles... propter corporis eorum tenuitatem»; vi si descrivono i venti «vincula quibus spiritus alligantur» (ricalcando quindi l’espressione di Agrippa in De occulta philosophia, cit., III, XXXIII, p. 501) e viene ricordato come undicesimo di essi quello instaurato «per triplicis mundi virtutem: elementaris, caelestis et intellectualis», che rappresenta l’argomento centrale del capitolo agrippiano.

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dell’attività cognitiva21. I primi vincoli esaminati riguardano, quindi, i poteri del suono e della vista e sono perciò direttamente collegati con gli organi di senso22; i vincula più efficaci si riferiscono invece a due dei sensi interni della tradizione aristotelica: la phantasia e la cogitativa, che rappresentano il momento di passaggio tra la sensibilità e l’intelletto23. In queste pagine del De magia, si ripropone l’oscillazione per cui i termini phantasia e imaginatio vengono ora considerati come sinonimi (in quanto nome greco e latino di una stessa facoltà), ora distinti (perché preposti a connotare due diverse potenze dell’anima), secondo un’ambiguità che aveva già caratterizzato taluni interpreti della dottrina aristotelica24 ; anche nel testo bruniano immaginazione e fantasia non sempre si distinguono e, nello spazio di due pagine, vengono indicate indifferentemente 21. Cfr. De vinculis, BOL III 669: «Tres sunt portae per quas audet animarum venator ligare: visus, auditus et mens seu imaginatio. Quod si contingat per omnes illum intrare portas, potentissime vincit arctissimeque obligat»; sul ruolo dei sensi nell’attuazione del vincolo, cfr. BOL III 688-689. 22. Si tratta in realtà dei vincula secondo e terzo, avendo Bruno indicato come primo di essi quello che procede «ex triplici ratione agentis, materiae et applicationis», che a rigore non è propriamente un vinculum, ma la condizione essenziale di ciascuno di essi. Nella descrizione dei poteri insiti nel suono e nella vista, Bruno deriva molte argomentazioni dal De occulta philosophia (cfr. ed. cit., I, L; II, XXIV-XXVI). 23. Anche in Agrippa i capitoli che riguardano il potere dell’animo di immutare i corpi erano preceduti da una sezione (interna al capitolo LXI del libro I) in cui i sensi vengono distinti in esterni ed interni; questi, «ut vult Averrois» (la scansione è derivata in realtà da Ficino, De voluptate, in Opera, I, cit., p. 998), sono distinti a loro volta in quattro «vires interiores»: sensus communis, vis imaginativa, phantasia (vis existimandi atque cogitandi), memoria. Per una analoga, ma non perfettamente coincidente, distinzione in Bruno, cfr. la prima parte del paragrafo riguardante la cognitio nella Summa terminorum metaphysicorum, BOL I,IV 31; sulle facoltà che segnano il passaggio tra sensi ed intelletto nelle opere latine di Bruno e per le fonti di questi passi, cfr. R. Klein, L’imagination comme vêtement de l’âme chez Marsile Ficin et Giordano Bruno, «Revue de métaphysique et de morale», LXI (1956), pp. 18-39: 1920 (il saggio fu poi inserito in Id., La forme et l’intelligible, Gallimard, Paris 1970, trad. it. La forma e l’intelligibile. Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, Einaudi, Torino 1975, pp. 45-74) e L. Spruit, Il problema della conoscenza in Giordano Bruno, Biblipolis, Napoli 1988, pp. 112-159. 24. Sulla interscambiabilità, la distinzione e la confusione generata, talvolta, dalla resa del termine greco φαντασα attraverso il corrispondente latino imaginatio, cfr. il volume Phantasia/Imaginatio, Atti del V Colloquio del Lessico Intellettuale Europeo (Roma 9-11 gennaio 1986), a cura di M. Fattori e M. L. Bianchi, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988, in particolare la relazione introduttiva di E. Garin (pp. 320; già in «Giornale critico della filosofia italiana», LXIV (LXVI) 1985, pp. 349361) ed il contributo di E. Canone, Phantasia/Imaginatio come problema terminologico nella lessicografia filosofica tra Sei-Settecento, pp. 221-257; si veda inoltre R. Sturlese, Phantasia, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, VII, Schwabe, Basel 1989, coll. 526-535.

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come le facoltà sulle quali occorre agire per vincolare magicamente il senso e l’intelligenza25. Precedendo la sfera della razionalità, cui solo attiene la facoltà del giudizio, la fantasia rappresenta, infatti, la potenza attraverso la quale si insinua nell’animo la possibilità della deceptio: una sorta di deviazione del naturale processo conoscitivo, causata da un intervento sulla fantasia ad opera dell’uomo – «qui per voces vel per spectra, per visum vel per auditum perturbationes inducit»26 – o del demone, che agisce su di essa e sulle species interiori, in modo che al soggetto dell’operazione sembri di percepire oggetti reali. Quello che si ottiene manipolando la fantasia, continua Bruno, è comunque un vinculum leve se non viene rafforzato dall’azione sulla cogitativa, facoltà che si colloca ad un livello superiore nella gerarchia delle potenze conoscitive, in quanto in essa risiede la possibilità di controllare le informazioni provenienti dalle potenze inferiori avviando così l’actus reflexus della conoscenza27. Il 25. Cfr. De magia, BOL III 452: «Omnibus hisce modis cum contigat vinciri et obligari sensum, medico seu mago maxime insistendum est circa opus phantasiae; hoc enim est porta et praecipuus aditus ad actiones et passiones affectusque universos, qui sunt in animali; et ex hac alligatione sequitur alligatio profundioris potentiae, quae est cogitativa»; cfr. p. 453: «Multum vero faciunt ligamenta quae sunt ex ore diserti, ex specie unde certa dispositio oriatur et foveatur in imaginatione, quae est sola porta omnium affectuum internorum et est vinculum vinculorum»; nelle Thes. de magia, BOL III 481, Bruno sembra invece distinguere la phantasia, « significat potentiam apprehensivam et retentivam specierum», dall’imaginatio, che in qualità di intimior potentia, definisce e giudica i dati percepiti dai sensi; a p. 482 Bruno definisce la phantasia in questi termini: «Sub nomine phantasiae accipimus generaliter omnem potentiam sensitivam internam quae est ante cogitativam, nempe ut includit etiam sensum communem»; si tratta, come si è detto, di distinzioni non sempre ferme all’interno delle opere bruniane, cfr. a questo proposito R. Klein, art. cit., pp. 19-20 e passim, e N. Tirinnanzi, Ars e phantasia in Giordano Bruno, «Esercizi filosofici» I (1992), pp. 109-131 (soprattutto p. 109 nota 2), dove si trovano anche numerosi ed interessanti riferimenti alle tematiche sviluppate negli scritti magici. 26. De magia, BOL III 449; in questa pagina Bruno sostiene che la funzione della phantasia – «Cuius quidem munus est recipere species a sensibus delatas et continere et componere eas et dividere» – può essere influenzata da cause esterne in due modi: per intervento dell’uomo, appunto, «vel causa immediata, ut spirituali, rationali, seu daemone qui agit in phantasiam per somnia vel etiam per vigilias, ita internas species commovens, ut aliquid sensus externi apprehendi videatur»; a p. 426 Bruno aveva sostenuto che l’azione dei demoni può raggiungere direttamente il senso interno senza la mediazione dei sensi esterni: «demoni vero ne auribus ipsis quidem opus est, neque voce, neque sussurru, sed sensum ipsum internum ita penetrat, ut dictum est». Il termine ‘deceptio’, con cui ho tentato di definire gli effetti di questi interventi esterni sulla fantasia, non è presente nel testo bruniano. 27. Cfr. Thes. de magia, BOL III 482: «Cogitatione seu cogitativa potentia incipit actus reflexus cognoscitivae potentiae, et eius est vinciri primo et proprie in errores opinionis»; la cogitativa è infatti definita nella Lampas trig. stat., BOL III 141,

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fatto che la fantasia preceda l’ambito della razionalità stricto sensu, impedisce infatti a questa facoltà di spingersi oltre l’attività rappresentativa che le è propria, precludendole qualsiasi giudizio di verità o falsità riguardo alle species internae28; è la cogitativa invece che deve valutare l’aderenza con la realtà delle immagini prodotte in maniera del tutto spontanea (quindi non riflessa, come accade invece per la cogitativa) dall’attività fantastica «et eius est vinciri primo et proprie in errores opinionis». Gli spectra, ovvero le imagines interiores, che vincolano con forza l’animus degli ingegni creduli et superstiosuli, vengono infatti respinti – «veluti inanes umbrae»29 – da una intelligenza retta da una facoltà cogitativa che operi nel pieno delle sue forze, «distinguens vera ab apparentibus et sensum ancipitem a definito et certo»30. Tuttavia, è solo nelle Theses, che riguardo a questo argomento ampliano notevolmente il contenuto del De magia, che Bruno tenta una definizione precisa della fides: essa non è che l’«effectus et actus cogitativae»31, cioè una sorta di disposizione di come il «sensus rerum spiritalium, quae ex sensibili seu sensitiva apprehensione recipit non sensatum, ut ex forma lupi ovis inimicitiam et formidine mortis». Sul ruolo della cogitativa nell’azione magica cfr. L. Spruit, Magia: socia naturae, cit., pp. 162-165. 28. Cfr. Thes. de magia, BOL III 481, dove Bruno, allineandosi con le posizioni della tradizione scolastica, sostiene che ogni falsità si generi «sub actu affirmationis et negationis» e pertanto non può risiedere né nel senso, né nella phantasia: «sensus vero non affirmat neque negat, sed solum species praesentatas excipit». Ne deriva che il senso e la phantasia non possono propriamente sbagliare, anche se «ex horum perturbatione falli sequitur et fallere». Se è vero infatti che l’errore risiede proprie et immediate nella sola cogitativa, in virtù della analogia che lega i sensi e le facoltà superiori dell’animo, Bruno può affermare che «ex obligatione praeviarum facultatum sequuntur impedimenta et ligamenta consequentium». L’autonomia di giudizio della cogitativa diviene così quanto mai problematica; cfr. a questo proposito A. Ingegno, Filosofia e cosmologia, cit., pp. 243-245. 29. De magia, BOL III 452. 30. Cfr. Thes. de magia, BOL III 485; queste parole sono riferite specificamente all’«anima vegetior et minus in corpore consopita», che possiede naturalmente «potentem iudicii et operationis reflexionem» sulle species phantasiabiles che di volta in volta le si presentano. 31. Cfr. Thes. de magia, BOL III 489: «Generalis cogitativae effectus et actus, in quo omnes mores et omne cogitationis genus est fundatum, est fides, quae requiritur active in operante, et passive in operato seu subiecto operationis; sed praesertim passiva ista requiritur in omni subiecto, sine qua neque naturalis neque rationalis neque divinus operator aliquid producit aut per ordinarium producere potest». Sulla necessità che la fides risieda tanto nell’animo di chi compie l’azione che in quello di colui che la subisce, Bruno insiste a più riprese in questi testi, cfr. De magia, BOL III 436, e De magia math., BOL III 495; ma lo stesso concetto è già espresso nel Sig. sigill., BOL II,II 183: «Contractione per effectum fidei adeo prevalere dominarique animus supra corpora creditur, ut et montibus non sine ratione

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questa facoltà ad ‘assentire’ ai dati forniti dalle potenze inferiori: una «propensio ad assentiendum», come Bruno sostiene nella Lampas triginta statuarum32. Il ruolo della fides nell’azione magica si specifica dunque come una sorta di attitudine interna (la potentia assentiendi) ad attribuire realtà oggettiva alle species phantasiabiles, alla cui composizione la phantasia può tuttavia essere indotta dall’azione manipolatrice e dalle insidie di un uomo o un demone. Chi voglia vincolare magicamente l’animus di qualcuno deve perciò agire preliminarmente sulla sua fantasia, quindi sulla facoltà cogitativa, in cui risiede la possibilità di «excutere magicas eiaculationes»33, come fanno i saggi e coloro che «plus agunt in species phantasiabiles, quam a speciebus phantasiabilibus patiantur»34. Ciò che Bruno tende a sottolineare in questi testi è la necessità di controllare i primi momenti del processo conoscitivo attraverso quella regulata fides35 che impedisce all’animo di assumere un attegnos imperare posse dicamur. Porro tunc id vere maxime evenit, quando respondentia quaedam in principio activo cum passivo reperitur». 32. Cfr. Lampas trig. stat., BOL III 143; il termine fides è in qualche modo correlato al termine assensus anche a pp. 147 e 148: «Fides, quae sane non sumitur pro potentia, sed pro habitu, qui est assensus effirmatus consequens experientiam, sententiam, consilium et caetera praedicta». Come sottolineava G. Verbeke, già Tommaso d’Aquino usa il termine «imaginatio to refer to simple apprehension (simplex apprehensio), and the term fides or credulitas to signify judgment. The first term (simplex apprehensio) corresponds to the Stoic φαντασα, whereas the second is a traslation of the technical term συγκατ εσις (The Presence of Stoicism in Medieval Thought, The Catholic University Press, Whashington DC 1983, p. 18). 33. De magia, BOL III 454. Bruno si richiama in questo contesto all’episodio narrato nella Vita Plotini di Porfirio (cfr. Porphyre, La vie de Plotin, II, a cura di L. Brisson ed altri, Vrin, Paris 1992, p. 150), ricordando come i malefici indirizzati a Plotino da un non meglio identificato egiziano (che sulla scorta del testo porfiriano sappiamo essere Olimpio di Alessandria, un tempo allievo di Ammonio), ricaddero in realtà sul loro stesso autore, presumibilmente grazie alla virtus con cui Plotino era teso ad allontanarli. 34. Cfr. Thes. de magia, BOL III 485; cfr. Sig. sigill., BOL II,II 193: «Illud tamen importunius spectandum, ut maxime caveas, ne in phantasmata nimium incurrens, nec velut ea comprehendens, sed potius tamquam ab iisdem comprehensus (quemadmodum in Antipheronte factum ferunt) in eodem numero, qui aguntur potius quam agant, te constituas. Tales diximus, qui victus ratione, solitudine, silentio, umbra, perunctione, flagris, calore, frigore vel tepore, spiritu hinc contracto, inde abacto, vana phantasmatum meditatione perturbata phantasia, miserabilem incurrunt insensationem». 35. Cfr. Lampas trig. stat., BOL III 143: «Duplex autem haec potentia assentiendi aliquando est regulata, et tunc retinet nomen fidei simpliciter; interdum est perversa (utpote cum ex una parte a falsis prophetis et apostolis humana et diabolica pro divinis obtruduntur, ex alia parte vel a falsa imaginatione vel a sensus turbatione circumvenimur; aut ubi, cum sensus est anceps, ad unam partem definitur), et tunc non est fides, sed credulitas et imaginatio». L’espressione regulata fides ricorre

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giamento passivo – di pura ricettività – di fronte ai prodotti della propria immaginazione e gli consente invece di dominarla, mantenendo saldo il contatto con la realtà: «Item non solum distinguit quae ex ordinata phantasia ab his quae ab inordinata proficiscuntur, sed etiam ordinat, corrigit, disponit, et eius species ad libitum componit»36. Nella già ricordata pagina della Lampas, nella quale Bruno accenna, tra l’altro, alla dimensione teologica della fede sottolineata anche nella Summa terminorum metaphysicorum37, egli sostiene la possibilità che la falsa imaginatio ed il turbamento dei sensi generino nell’oggetto del vincolo quella «propensio ad assentiendum» che, lungi dal coincidere con la chiarezza della fides philosophica – «quae est de rebus manifestissimis et per se notis, ex virtute nostri luminis»38 – rappresenta invece una corruzione di essa e non può pertanto dirsi «fides sed credulitas et imaginatio». In questo testo Bruno distingue due tipi di fides, quella regulata, attraverso la quale l’animo controlla e domina i contenuti della propria immaginazione respingendo le species prive di fondamento reale, e una fides perversa, che si origina da un uso deplorevole delle facoltà inferiori dell’animo. Già nel Sigillus, discutendo delle forme di contractio fondate su una volontaria perturbazione della phantasia, Bruno aveva condannato violentemente le espressioni estreme di quella religiosità ‘sinistra’ che, aspirando alla visione e al contatto con il divino già nel Sigillus sigillorum nella sezione dedicata alla magia intesa come uno dei rectores actuum della conoscenza; in questo testo (p. 198) Bruno distingue due tipi di magia: «altera quae vel per credulitatem et fidei vim, vel per alias non laudabiles contractionis species sensum mortificat... altera vero est, quae per regulatam fidem et alias laudandas contractionis species tantum abest ut sensus perturbatione quandoque utatur, ut eumdem claudicantem fulciat, errantem corrigat, imbecillem et obtusum roboret et acuat». 36. Thes. de magia, BOL III 485-486; il riferimento è all’animo di coloro che, avendo una cogitativa vigile ed attenta, si sottraggono al dominio dei sensi e della phantasia, dai quali pure derivano per astrazione le species cogitabiles; a questa categoria appartengono personaggi quali Zoroastro, Socrate, Democrito e molti altri, la cui cogitativa «non a turbulento spiritu insistente, sed a divino aliquo irradiante, illuminante et assistente regebatur». Bruno svolge queste riflessioni all’interno della distinzione tra i due generi di stoltizia riconosciuti («non irrationabiliter») dai teologi: poiché stolto è considerato chi non conosce e sente «communiter seu ut vulgus» è possibile distinguere tra chi si trovi in questa condizione «infra vulgi opinionem et deterius sentiendo, nempe sensu et cogitatione magis tenebris immersa», e chi invece vi sia «supra vulgi sensum, utpote opinione altius emergente et ingenio animique obtutu». Appartengono naturalmente a questa categoria i sapienti che «difendono» la loro cogitativa dalle manipolazioni esterne e «licet tangatur corporeis quibusdam affectionibus, non tamen penetratur». 37. Cfr. Summa term. met., BOL I,IV 71-72 e 99-100. 38. Lampas trig. stat., BOL III 143.

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(si tratta in realtà di ben miseri e tristi numi), si prepara a raggiungere il rapimento estatico, provocando una volontaria alteratio nel delicato equilibrio corpo-anima, garantito dallo spiritus39. È in questo contesto che Bruno riconduce ad un pericoloso – e soprattutto voluto – turbamento della fantasia il fenomeno della comparsa di cicatrices sul corpo di quanti, «ardentioris phantasiae fervore», abbandonano l’animo ad una delle riprovevoli forme di contractio che lasciano il soggetto in balia della propria immaginazione40. Meno spunti polemici è possibile cogliere, invece, nell’analoga interpretazione del fenomeno della comparsa delle stimmate sul corpo di san 39. Tutte le specie di contractio indicate da Bruno come riprovevoli si fondano essenzialmente sul turbamento dell’attività fantastica favorito da alcuni accorgimenti (quali meditazioni, preghiere, gesti superstiziosi, cibi particolari) che si rivelano particolarmente efficaci sugli individui di temperamento melanconico, disposti, per ragioni organiche, a subire con maggiore facilità il turbamento della fantasia; cfr. Sig. sigill., BOL II,II 189-190: «Iam ad non magis ingeniosos apocalypticos nostros respiciamus… Hi mage naturale nutrimentum contemnentes postquam in maciem et vitiose Saturniam complexionem fuerint adacti, quibusdam (ad phantasiam perturbandam) aptissimis praeviis (quas pias subeunt) meditationibus ipsi faventem noctis umbram potiti, tristitiam quandam subeunt, ubi flagris lenius caedendo sese, ab internis calorem ad partes exteriores evocant, ut hoc interius mage remisso amplius in spiritu melancholicus tepor intendatur, et ut nulla ad extasim contrectandam desit occasio… alterius generis horripilationem subeunt, interimque virtute perturbati sensus facile proprii spiritus adpulsu alicui de immundis iisdem irrisoribus spiritibus intelligentiae copulantur, cum demum nescio in quem miserorum tristiumque numinum apertum intuitum et affatum adeo promoti credantur, ut ea audiant et percipiant, quae numquam in eorum cogitationem cadere potuissent. Quem quidem phantasiae turbatae impetum eousque in quibusdam invaluisse novimus, ut confossorum numinum, quorum speciem intensius animo contracserant, ardentioris phantasiae fervore cicatrices in proprio corpore inustas comperirent»; si vedano ancora l’undicesima e la quattordicesima specie di contractio, ivi, rispettivamente pp. 187-189 e 191-192; Spaccio, BDI 565; Furori, BDI 986-987. Sugli effetti deteriori della melanconia cfr. Agrippa, De occulta philosophia, cit., I, LX: De furore et divinationibus, quae in vigilia fiunt, de melancholici humoris potentia, quo etiam daemones nonnumquam in humana corpora illiciuntur, pp. 212-216 (per le fonti si veda, ivi, il ricchissimo apparato critico fornito da V. Perrone Compagni); sulla dottrina della melanconia in Agrippa cfr. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturn and Melancholy. Studies in the History of Natural Philosophy, Religion and Art, Nelson & Sons, London 1964; trad. it. Einaudi, Torino 1983, pp. 330337. 40. Del resto una consolidata tradizione medica facente capo a Galeno, e ancora viva nel Rinascimento, tendeva ad individuare nella phantasia uno stato psicologico perverso, riconducibile, per certi versi, al temperamento melanconico e consistente in una sorta di corruptio dell’intelletto; cfr. N. Burchardus, Repertorium philosophicum, Gerae 16143, art. Phantasia, p. 363: «Phantasiae nomen varie capitum a Philosophis et Medicis. Est enim quandoque phantasia intellectus vel rationis depravatio, vel cogitationis, proinde a communi iudicio devios simplex vulgus phantasticos nominat»; cit. da E. Canone, art. cit., p. 245.

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Francesco che Agrippa, riecheggiando una famosa pagina del De incantationibus di Pietro Pomponazzi, non esita ad attribuire al potere dell’immaginazione, esaltata per aver contemplato ardentemente le piaghe di Cristo41. La phantasia, infatti, se debitamente eccitata, ha il potere di imprimere l’immagine della cosa pensata nel sangue, che la veicolerà poi alle varie membra del corpo, producendovi realmente delle alterationes. Nel gruppo dei capitoli dedicati alla descrizione della «virtus immutandi res» acquistata dall’anima quando le «passiones quae phantasiam sequuntur», divengono particolarmente intense – «vehementissime sunt» – Agrippa si sofferma, riproponendo una casistica in gran parte di derivazione ficiniana, sulla descrizione degli effetti mirabili generati da una particolare condizione della «phantasia seu virtus imaginativa», ed insiste sui possibili usi di essa in termini positivi. Nel capitolo dedicato ai poteri di alterazione dei corpi generati dalla constantia animi, egli assume la medicina come ambito privilegiato per dimostrare come la fides, «quae est firma adhaesio, fixa intentio et vehemens applicatio», secondo una definizione mutuata dal De harmonia mundi di Francesco Zorzi42, sia la condizione imprescindibile per ottenere risultati concreti «in omni opere»43. In que41. Cfr. De occulta philosophia, cit., I, LXIV, p. 223: «Vehemens enim cogitatio, dum species vehementer movet, in illis rei cogitatae figuram depingit quam illi in sanguine effingunt; ille nutritis a se imprimit membris cum propriis, tum aliquando etiam alienis. Huc multi etiam Dagoberti cicatrices et Francisci stigmata referre volunt, dum ille correptionem vehementer timet, alter Christi vulnera vehementius contemplatur»; cfr. P. Pomponazzi, De incantationibus, cit., pp. 67-68 e 83-84; la fortuna della spiegazione naturalistica delle stimmate è attestata in T. Campanella, De sensu rerum, IV, II e in G. C. Vanini, De admirandis, XXXVIII e LVII. 42. Cfr. F. G. Veneto, De harmonia mundi totius cantica tria, Venetiis, in aedibus B. de Vitalibus, 1525, II, c. 269v: «Multum etenim operatur fides, quae est firma adhaesio, et fixa intentio cooperantis in quacunque re... Nec aliud est fides firma, et certa, quam a nobis exigit parens noster Christus non solum in baptismate, sed in quocunque opere, quod perpetramus, quam stabilis adhaesio, et vehemens applicatio ad ipsum cooperantem, et dantem vim, et ad opus, quod facere intendimus, adeo, ut fiat quodammodo in nobis idolum virtutis suscipiendae, et rei a nobis, vel in nobis faciendae»; in Agrippa il passo di derivazione zorziana si aggiunge all’originale nucleo ficiniano nella redazione del 1533, collocandosi, però, in un contesto del tutto estraneo alla disputa circa il valore simbolico del sacramento del battesimo, in cui si inseriva nell’opera di F. Zorzi; su questo concetto e, in generale, sull’influenza determinante del De harmonia mundi nella redazione finale dell’opera di Agrippa, cfr. V. Perrone Compagni, Una fonte di Cornelio Agrippa. Il «De harmonia mundi» di Francesco Zorzi, «Annali dell’Istituto di Filosofia», IV (1982), pp. 4574. 43. Cfr. De occulta philosophia, cit., III, LXVI, p. 228: «Debemus igitur in quovis opere et rerum applicatione vehementer affectare, imaginari, sperare firmissimeque credere: id enim plurimum erit adiumento. Et verificatum est apud medicos fir-

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sto capitolo Agrippa insiste sulla duplice componente che determina il fenomeno della guarigione: la «vehemens applicatio» del medico da una parte e la «firma et pertinax credulitas» del malato dall’altra. Il medico «fortis animi», infatti, ha realmente la possibilità di modificare la complessione organica del malato («immutare qualitates in corpore aegroti»), in virtù dei poteri che l’anima – «fortiter elevata et vehementi imaginatione accensa» – può esercitare «in corpore alieno». Si tratta di poteri notevolmente accresciuti dalla disposizione favorevole del malato «maxime quando ille medico adhibens fidem eo ipso sese disponit ad medendis et medicinae virtutem suscipiendam»44. Nella sezione conclusiva delle Theses de magia, invece, Bruno riprende la polemica contro le forme riprovevoli di religiosità descritte nel Sigillus, trascrivendo quasi alla lettera una

mam credulitatem, spem indubiam et amorem erga medicum et medicinam ad sanitatem plurimum conferre, etiam aliquando vel plus quam medicinam»; il passo dipende direttamente da M. Ficino, De vita, cit., III, XX, p. 561, a sua volta derivato da Avicenna, Liber de anima seu sextus de naturalibus, pars IV, cap. IV, a cura di S. Van Riet, Edition orientalistes-E. J. Brill, Louvain-Leiden 1968, p. 64. Nel De occulta philosophia non esiste comunque una vera e propria teorizzazione dei poteri terapeutici della fides, ma piuttosto un’estensione di alcuni presupposti della filosofia naturale in ambito magico, ed un richiamo alla medicina a dimostrazione della legittimità (verificata empiricamente) di tale passaggio. Un analogo procedimento è possibile scorgere nelle pagine bruniane che accennano ai poteri della fides in ambito terapeutico, cfr. Sig. sigill. (de quinta contractionis specie), BOL II,II 183-184; Furori, BDI 1035; De magia, BOL III 452-453. 44. De occulta philosophia, cit., III, LXVI, p. 228; su questo argomento si veda il breve contributo di R. Schmitz, Agrippa di Nettesheim et ses remarques sue les effets de la magie en medicine et en pharmacie, in Science de la Renaissance, VIIIe Congrès International de Tours, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 1973, pp. 223-227; sull’importanza della fides nelle guarigioni miracolose cfr., P. Pomponazzi, De incantationibus, cit., p. 51: «In tertio autem casu multum facit fides curandi, iuxta illud Galeni primo Prognosticorum capite 2, ille plures sanat de quo plures confidunt. Quare incredibile non est etiam sanitate posse produci ad extra ab anima taliter imaginante et desiderante de aegritudine»; e p. 54: «quantum faciat fides et imaginatio, satis ex his quae dicta sunt tam ex parte agentis quam passi, abunde patere potest quare haec extra rationem non fiunt»; alla p. 232, infine, Pomponazzi introduce un irriverente, per quanto implicito, paragone tra le reliquiae sanctorum e le ossa canum («Visum est enim superius, et medici ac philosophi hoc sciunt, quantum operentur fides et imaginatio sanandi et non sanandi. Unde si essent ossa canis, et tanta et talis de eis haberetur imaginatio, non minus subsequeretur sanitas») che non sfuggirà a T. Feyens, De viribus imaginationis tractatus, Lugduni Batavorum 1635, pp. 87-88: «Imo tantum imaginationi adscribit Pomponatius, ut putet ossa canum tanta posse miracula facere, si a colente ea putarentur esse ossa Sanctorum, quam si vere ossa Sanctorum essent, per solam colentis imaginationem», cit. da G. Zanier, Ricerche sulla diffusione e fortuna del «De incantationibus» di Pomponazzi, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 69.

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delle pagine più intense di quest’opera45. Il turbamentum della phantasia generato dall’assunzione di cibi diversi da quelli adatti alla propria complessione organica, da particolari meditazioni, unite al temperamento melancolico che spesso domina le complessiones naturales più soggette a questo tipo di alterazione, coincide con una delle più basse pratiche di quella magia desperatorum – «qui fiunt vasa malorum daemonum»46 – in cui consiste l’Arte Notoria, che Bruno aveva condannato nella sezione iniziale del De magia47. Con questo tipo di accorgimenti, infatti, lo spiritus – «hoc est subtilissima quaedam substantia corporea, quae quodammodo media inter substantiam animalem est et elementarem»48 – viene alterato al punto tale da lasciare i soggetti dediti a queste pratiche depravatae sotto il dominio assoluto e incondizionato della propria immaginazione, che li induce a ‘fingere’ un colloquium illusorio con la divinità e li rende, infine, ricetto di spiriti malvagi. L’approvazione bruniana va invece allo spiritus seu animus di chi, «per vegetam mentis virtutem», non solo risulta immune dai turbamenti cui vanno soggetti gli stolti, «sed etiam a vulgi trepidatione, non credens quae illud credit, non timens quae illud formidat»49. 45. Come è già stato sottolineato da A. Ingegno, Cosmologia e filosofia, cit., pp. 254257, la corrispondenza tra il Sig. sigill. (BOL II,II 189-190 e 191-192) e le Theses è particolarmente evidente nel passaggio di p. 488 dell’opuscolo di argomento magico («Practicant hanc rationem contemplatores et apocalyptici quidam et artis notoriae et propheticae professores et theurgi, qui certa victus ratione et certis meditationibus praeviis animum ad certum pietatis genus disponunt, promovent et habituant, ut tandem stultissimi putant se quorundam tragicorum numinum perfrui colloquio, et mira quaedam vident et referunt, talia tamen qualia ad stultitiam et pessimum maniae genus sint referenda»), ma può essere estesa a tutta la sezione del Sigillus dedicata alle contractiones perverse, i cui motivi fondamentali vengono ripresi nella parte finale delle Theses de magia, BOL III 483-489. 46. De magia, BOL III 398. 47. Cfr. ibid.: «Sexto si isti accessat cultus seu invocatio intelligentiarum et efficientum exteriorum seu superiorum... tunc vel fit ad finem contrahendi spiritus in se ipso, cuius ipse fiat vas et instrumentum, ut appareat sapiens rerum, quam tamen sapientiam facile pharmaco una cum spiritu possit evacuare; et haec est magia desperatorum, qui fiunt vasa malorum daemonum, quae per Artem notoriam exaucupatur»; cfr. Furori, cit. pp. 986-987. Espressioni quali vasa irae, iniquitatis, mortis, furoris, interfectionis et interitus… sono assai frequenti nella Bibbia per indicare fenomeni di possessione ed invasamento; negli Atti degli Apostoli (IX, 15) si legge invece l’espressione «vas electionis» ripresa poi da Dante per indicare S. Paolo in Inferno, II, 28 e Paradiso, XXI, 127-128. Per la definizione bruniana di ars notoria cfr. Lampas trig. stat., BOL III 7: «… Ars notoria est, qua quidam repente, non proprio, sed alieno ingenio fient sapientes; unde non illi, sed alius in ipsis noscit et operatur Calo- et Cacodaemon». 48. Thes. de magia, BOL III 464. 49. Ivi, p. 484.

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In questi testi, dunque, se da una parte Bruno riprende e per certi versi amplifica tematiche già sviluppate nelle opere precedenti e volte a condannare un uso perverso di quelle facoltà dell’animo in cui, di fatto, si determinano in maniera irrevocabile gli esiti del processo conoscitivo, dall’altra cerca di individuare le condizioni che rendono possibile il vinculum spiritus, dandone un’interpretazione esclusivamente naturalistica. Attraverso l’uso dei termini fides e credulitas come sinonimi50, Bruno intende perciò dimostrare come la «propensio assentiendi», che ha sede nella cogitativa, sia il presupposto fondamentale di ogni azione magica. Ogni operatore deve perciò applicarsi con forza, «maxime insistendum circa opus phantasiae»51, per suscitare in colui che subisce il suo intervento questa disposizione preliminare, in assenza della quale – «Haec nisi accesserint seu adsint praesertim» – viene inficiato irreparabilmente ogni risultato: «nihil fiet»52. È possibile tuttavia, come Bruno sostiene nel De vinculis, che ciò che si crede con forza – «vivacitate fidei vel credulitatis»53 – indipendentemente dalla sua rispondenza con la real50. L’espressione fides seu credulitas torna più volte in questi testi; cfr. Lampas trig. stat., BOL III 143; De magia, BOL III 436; De magia math., BOL III 495; De vinculis, BOL III 657; essa era comunque già presente nel Sig. sigill., BOL II,II 198. 51. De magia, BOL III 452; è in questo passo, già richiamato nella nota 24, che si esprime la concezione della phantasia/imaginatio come porta attraverso la quale l’ars ligatoris induce nell’animo del vincolato tutte le affezioni di cui esso può subire l’influsso, suscitandovi i sentimenti che naturalmente rifluiscono sul corpo («redundant in corpus», per questa espressione cfr. M. Ficino, Theologia platonica, XIII, I, in Opera, I, cit., p. 185) modificandone la complessione organica. È attraverso la phantasia, infatti, che si inserisce, di fatto, ogni modificazione che interessa il corporeo, e il cui vincolo consente di influenzare e controllare tutte le altre facoltà; cfr. De magia, BOL III 452 e Thes. de magia, BOL III 487. 52. De magia, BOL III 436. 53. De vinculis, BOL III 657; in questo paragrafo Bruno discute dell’infinita varietà dei legami con i quali un animo può essere avvinto sostenendo che solo raramente esso viene vincolato da un unico affetto: «Accidit vero ut quidam uno tantum obiecto teneatur interdum, vel propter sensus stupiditatem, qui ad reliquos ordines est caecus et remissus, vel propter vinculi unius vehementiam, quae sic unice affligat atque torqueat, ut inde aliorum sensus lentescat, obruatur, supprimatur. Hoc vero raro et in paucis accidit et est mirabile, ut in quibusdam, qui spe vitae aeternae et quadam vivacitate fidei vel credulitatis ita animo abrepti sunt et a corpore quodammodo distracti, et obiecto, cui phantasiae et opinionis virtute devincti erant, vehementius astringente, horribiles cruciatus ne sentire quidem visi sunt, ut in Anaxarcho philosopho et Andrea Galilaeo, in Laurentio presbytero et aliis usque ad nostram aetatem pro religionis specie in principes et reges sicariis est manifestum»; nel proseguio del paragrafo sono ricordati anche Diogene ed Epicuro; analoghi esempi si trovano in Sig. sigill., BOL II,II 192; Furori, BDI 1054; Lampas trig. stat., BOL III 101. Per un analogo riferimento ad Anassarco cfr. Agrippa, De occulta philosophia, cit., III, XLIII, p. 542 (ma anche Ficino, Theologia platonica, XIII, I).

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tà, e addirittura nel caso in cui sia frutto di una convinzione generata «virtute phantasiae et opinionis», mantenga tuttavia sull’animo un potere vincolante analogo a quello di un evento reale. In questo testo, infatti, Bruno dichiara equivalenti ai fini del vincolo dell’immaginazione, e quindi dell’animo in generale, la verità e l’opinione, la realtà e l’apparenza: «Vincibile, ut vere vinciatur, non tantum vera requirit vincula, nempe quae ex fundamento huiusmodi sunt, quantum apparentia, id est quae ex opinione; potest enim imaginatio sine veritate vere vincire, et per imaginationem vincibile vero obligare»54. È in questo contesto che egli giunge a formulare l’ipotesi, di derivazione ficiniana, che l’inferno sia un luogo fantastico, dove si espiano pene immaginarie55. Lo stesso Agrippa, già nel primo libro del De occulta philosophia, riecheggiando un passo di Giovanni Tritemio56, aveva sostenuto 54. De vinculis, BOL III 683; cfr. p. 665: «Plures quoque vincit phantasia et opinio, quam ratio; quin immo intensius illa quam ista». 55. Cfr. De vinculis, BOL III 683: «Etsi nullus sit infernus, opinio et imaginatio inferni sine veritate fundamento vero et vere facit infernum; habet enim sua species phantastica veritatem, unde sequitur quod et vere agat, et vere atque potentissime per eam vincibile obstringatur, et cum aeternitate opinionis et fidei aeternus sit inferni cruciatus, usque adeo ut et animus exutus corpore easdem tamen retinet species, iisdem nihilominus, quinimo etiam potentius interdum propter indisciplinam vel oblectationem vel imbibitam speciem per secula infelix perseveret»; ma la conclusione insinuata attraverso queste affermazioni sembra essere ancora più audace: se il fuoco infernale non è reale, ma un prodotto della propria immaginazione e il dannato soffre a causa di una falsa opinio maturata durante la vita terrena, allora, sembra suggerire Bruno, colui che non crede non può dopo la morte pagare per i peccati commessi in vita. Un’attenta analisi di questa tematica, nei suoi antecedenti e nei suoi sviluppi, non solo nel testo ficininiano, si trova in R. Klein, L’Enfer de Ficin, in Umanesimo ed esoterismo, Cedam, Padova 1960, pp. 47-84, ora in La forma e l’intelligibile, cit., pp. 57-118. Per le opinioni di Bruno circa Infernum, cfr. Firpo, Processo, doc. 51, pp. 266-267. Toni analoghi a quelli del De vinculis si ritrovano infine nella descrizione della Imago timoris nel De imaginum compositione, BOL II,III 211: «Dum metuunt sine morte malum, capiunt mala mortis; / namque in morte mali nihil est, porro ipsa Timoris / vis tantum torquet miseros et fama dolorum. / Sic animae nusquam accenso cruciantur ab igne, / atqui infelices primum ignorantia veri / efficit, et vultus naturae occultus inerteis / conturbat sensus, stulta phantasmata circum / credulitate leves agitant sine pondere mentes». 56. G. Tritemio, Epistula ad Joachinum marchionem Brandenburgensen de rebus convenientibus vero mago, in De septem secundeis idest intelligentiis sive spiritibus orbes post Deum moventibus... Adiectae sunt aliquot epistulae ex opere Epistolarum Io. Tritemii utilissimae, Coloniae, apud I. Birckmannum, 1567, pp. 114-115: «Decimo oportet in magia operantem esse confidentia, et de consecutione effectus nullatenus haesitare, non tamen ob id quod credulitas aliquid conducat in his, sed quod haesitatio firmitate operantis animae per medium in extremum frangit debilemque facit, sine cuius virtute stabili non fit a superioribus influxus optatus»; questa lettera da Sponheim del 26 giugno 1503 (pp. 110-116), come quella del 10 maggio 1503 (de tribus natu-

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qualcosa di analogo: se è vero che nell’azione magica la minima «haesitatio credulitatis» può pregiudicare irreparabilmente il risultato, la fiducia incondizionata è capace di generare mirabilia «etiam in operibus falsis»57. Questo concetto, espresso nel libro dedicato alla magia naturalis per sottolineare il ruolo della fede nella prassi magica e negli interventi medici, verrà riproposto da Agrippa nel libro sulla magia coerimonialis in un contesto notevolmente diverso. Questa sezione del De occulta philosophia risulta infatti la più rielaborata nell’edizione del 1533, quando l’interesse per le «valenze soteriologiche» della magia – maturato attraverso le varie ed intense letture compiute dopo il 1510 – spingeva l’autore ad insistere sulle potenzialità etico–religiose connesse alla scienza magica58. In questa fase, infatti, la magia rappresenta per Agrippa, oltre che uno strumento di conoscenza e in qualche modo di dominio della natura («Inest enim nobis ipsis rerum omnium apprehensio et potestas»)59, un mezzo di straordinaria efficacia per realizzare quella purificazione interiore che è insieme il presupposto per compiere mirabilia e per ricongiungersi a Dio. Come è stato ampiamente dimostrato da Paola Zambelli, Agrippa fu infatti profondamente influenzato dai fermenti di rinnovamento religioso che percorsero l’Europa della Riforma; senza entrare nel merito di un ipotetico, anche se mai dichiarato, avvicinamento a Lutero, è certo che «il progredire della ‘crisi’ protestante» amplificò in lui l’urgenza di un profondo rinnovamento, fondato sui presupposti di una austera riforma interiore, che egli volle affidare alla magia, intesa come «forma alternativa di vita religiosa»60. Nel terzo libro, dunque, Agrippa ralis magiae principiis), diretta a Giovanni di Württemberg (pp. 81-110), non è inclusa nell’epistolario di Tritemio (Epistolarum familiarium libri duo, Haganoae, ex officina P. Brubachii, 1536). 57. Cfr. De occulta philosophia, cit., I, LXVI, p. 228: «Ideoque oportet in magia operantem esse constanti credulitate, confidentem et de consecutione effectus nullatenus dubitare nec animo haesitare; nam, sicut firma et pertinax credulitas mirabilia operatur etiam nonnumquam in operibus falsis, sic diffidentia atque haesitatio virtutem animi operantis, quae inter utrunque extremum medium est, dissipat atque frangit; unde contigit optatum a superioribus influxum frustrari atque deperdi, qui sine animi nostri stabili ac solida virtute rebus et operibus nostris coniungi atqui uniri minime potest». 58. Su questo tema si veda V. Perrone Compagni, Il ‘De occulta philosophia’ di Cornelio Agrippa, in Le edizioni dei testi filosofici e scientifici del ’500 e del ’600, a cura di G. Canziani e G. Paganini, Franco Angeli, Milano 1986, pp. 99-111: 104 e 109. 59. De occulta philosophia, cit., III, III, p. 408; cfr. ivi, II, LIV, p. 381. 60. Cfr. P. Zambelli, A proposito del «De vanitate scientiarum et artium» di Cornelio Agrippa, «Rivista critica di storia della filosofia», XV (1960), pp. 166-180, in particolare p. 177: «Anche la magia diveniva una forma di ascesi e si sforzava di appagare

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svela «quae est principium et complementum et clavis omnium magicarum operationum: et ipsa est dignificatio hominis ad hanc sublimen virtutem ac potestatem»61. Ed è indicativo che egli richiami in queste pagine la «lex Mosaica de sacerdote», quasi a voler istituire un parallelo tra questi ed il buon mago62 che, distaccatosi dalle affezioni del corpo e purificato nell’animo, realizza quell’unione interiore con Dio, in virtù della quale acquista la «deificam virtutem» che lo rende capace di compiere qualunque operazione magica: «imprimere omne scientiae magicalis opus»63. È su questo presupposto che si fonda l’altro parallelismo, introdotto nel capitolo dedicato ai due «adminicula coerimonialis magiae», la religio e la superstitio, tra rituali religiosi e operazioni magiche. Benché contraria alla vera religio, che è quella rivelata direttamente da Dio, ogni forma di superstizione appare così non del tutto riprovevole, poiché essa conserva una certa affinità con la religione ortodossa, esplicandosi in miracoli, riti, e ogni sorta di cerimonie, in cui si esprime un potere non trascurabile «ex credulitate operantis»64. Riproponendo il riferimento all’epistola di Tritemio già ricordata, Agrippa giunge a sostenere, avvicinandosi all’estremismo di quella che sarà la posizione bruniana, che la «constans credulitas» ha una forza tale le esigenze religiose di Agrippa e dei sodali che gli si erano associati non solo e non tanto nella ricerca della potenza operativa, delle ricette mediche o della pietra filosofale, ma di una nuova e più intima spiritualità che, rispetto allo svuotamento delle pratiche e delle dottrine della chiesa di Roma, sembrava più attingibile negli antichi manuali misterici»; cfr. inoltre Ead., Magic and Radical Reformation in Agrippa of Nettesheim, «The Journal of the Warburg and Courtauld Institute», XXXIX (1976), pp. 69-103. 61. De occulta philosophia, cit., III, III, p. 407; proprio in relazione a questi passaggi del III libro, V. Perrone Compagni sottolineava nel suo La magia cerimoniale del «Picatrix» nel Rinascimento, «Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche», LXXXVIII (1977), pp. 279-330: 327, la confluenza di motivi caratteristici del manuale arabo nella versione definitiva del De occulta philosophia «proprio per quel suo delineare l’accesso alla magia come una “dignificatio”, morale e materiale, ed una progressiva deificazione dell’uomo attraverso la pratica di riti ed opere sacre che, pur sfuggendo alla comprensione razionale, rappresentano (se “pie... et integre observata, stabilique fide credita”) il mezzo che ci potrà gratificare di una “divina potestate”... Anche in Picatrix la perfezione del mago concilia la natura propria dell’individuo, la disposizione celeste, una cultura scientifica completa, una perfetta preparazione ascetica: elementi che danno al filosofo mago la capacità di operare mirabilia». 62. Cfr. V. Perrone Compagni, Una fonte di Agrippa, cit, p. 54. 63. De occulta philosophia, cit., III, III, p. 408. 64. De occulta philosophia, cit., III, IV, p. 411; sul rapporto tra religio e superstitio e sulle diverse posizioni assunte a riguardo da alcuni esponenti della cultura italiana dei primi del ’500, cfr. A. Prosperi, Intellettuali e Chiesa all’inizio dell’età moderna, in Storia d’Italia. Annali: Intellettuali e potere, Einaudi, Torino 1981, pp. 178-199.

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da produrre miracoli anche se ispirata da una religione che non è l’autentica, mentre l’esitazione e la diffidenza indeboliscono ogni opera, anche se perpetrata nel segno della vera religione: Tanta siquidem potest constans credulitas ut etiam miracula operetur etiam in opinionibus et operationibus falsis. Quilibet enim in sua religione etiam falsa modo firmissime credat veram, spiritum suum ea ipsa credulitatis ratione elevat, donec adsimiletur spiritibus illis, qui sunt duces et principes eiusdem religionis eaque operetur quae ratio et natura non discernunt. Haesitatio autem credulitatis et diffidentia omne opus non modo in superstitione sed etiam in vera religione infirmant et affectum quaesitum licet fortissimorum experimentorum enervant65.

Tuttavia, dopo questo esplicito riferimento all’efficacia della credulitas nei miracoli della vera religio66, la magia cerimoniale di cui si parla nel terzo libro viene ad identificarsi con l’arte che conduce l’uomo alla sua dignificatio e perfezione, condizioni che gli garantiscono l’autentica conoscenza di sé come creatura di origine divina, quindi l’immortalità e il potere di compiere azioni mirabili. Ed è per questo che, accentuatosi il ruolo di «ascesi purificatrice» attribuito alla magia, divenuta ormai una particolare forma di religiosità, nella sezione conclusiva del trattato Agrippa torna a parlare della fede in toni completamente diversi. Dopo i capitoli introduttivi dedicati all’importanza della religione e dell’occultamento dei suoi misteri, alla dignificatio richiesta al mago perché diventi operatore di miracoli, alla differenza tra religio e superstitio, Agrippa inserisce il capitolo dedicato alle tre guide della religione che conducono sul sentiero della verità, e che sono rispettivamente, amore, speranza e fede: «Fides vero, virtus omnium superior quatenus non humanis commentationibus, sed divinae revelationi tota innititur»67. Con questa definizione, che ricorda molto da vicino un passo del De verbo mirifico di Johannes Reuchlin68 – già citato nel De triplici ratione 65. De occulta philosophia, cit., III, IV, p. 411; è interessante notare come in questo passo i mirabilia prodotti dalla credulitas di cui si legge a p. 228 (qui riproposta da Agrippa quasi letteralmente) divengano miracula, convenenientemente con l’argomento del III libro che è appunto la magia religiosa o cerimoniale. 66. Un accenno piuttosto fugace alla possibilità di una spiegazione naturalistica dei miracoli della vera religione si trova anche in De occulta philosophia, cit., I, LXV, p. 227: «Haec enim, quando ad beneficium aliquod tota animi intentione erga superos defigitur, saepe corpus tam proprium quam alienum, circa quod est affecta, divino aliquo munere afficit: hoc modo legimus ab Apollonio, Pythagora, Empedocle, Philolao miracula facta fuisse»; la frase tra parentesi uncinate è un’aggiunta della redazione del 1533. 67. De occulta philosophia, cit., III, IV, p. 412. 68. Cfr. J. Reuchlin, Capnion vel De verbo mirifico, Tubingae, ex aedibus Th. Ansel-

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cognoscendi Deum69 – Agrippa sottolinea il ruolo speciale di dono soprannaturale che distingue la fede dalle altre guide della religione; è attraverso la fede infatti che l’uomo si avvicina alle realtà superiori fino a godere della loro stessa potenza70, ed è ancora la fede a congiungere nos Deo immediate. Gli esempi che seguono, derivati quasi esclusivamente da episodi biblici, devono perciò comprovare l’asserzione secondo la quale «est enim fides omnium miraculorum radix»71. È in queste pagine dunque che si profila la differenza sostanziale tra la «fides quae est vera fides», cioè la religiosa – «quae est supersubstantialiter super omnem scientiam» – e la credulità, «quae est infra scientiam»72, e che è comunque necessaria nelle pratiche superstiziose: «credulitatem igitur requirit superstitio, quemadmodum religio fidem»73. Posta questa sostanziale differenza, nei capitoli successivi l’uso del termine fides sarà limitato al solo contesto religioso74. Non così nei testi magici di Bruno, dove si consuma, mi Badensis, 1514, III, cc. [43v-44r]; la 1a ed. dell’opera apparve a Basilea nel 1494 e questa edizione Agrippa commentò, nel 1509, nell’Università di Dole; il passo citato riecheggia comunque, in maniera evidente, alcuni passaggi della I Lettera di san Paolo ai Corinzi. 69. Cfr. C. Agrippa, De triplici ratione cognoscendi Deum, a cura di P. Zambelli, in Testi umanistici sull’ermetismo, Fratelli Bocca, Roma 1955, p. 155; tutto il cap. V anticipa in realtà il contenuto di queste pagine del De occulta philosophia. 70. Cfr. De occulta philosophia, cit., III, V, p. 413: «Denique per fidem efficitur homo aliquid idem cum superis eademque potestate fruitur»; per questo passo cfr. J. Reuchlin, op. cit., I, cc. [13v-14r]; esso era già riecheggiato in De triplici ratione cognoscendi Deum, cit., p. 157. 71. Ibid.; cfr. De triplici ratione cognoscendi Deum, cit., pp. 156-157: «Magnum certe miraculum est homo Christianus, qui in mundo constitutus, supra mundum dominatur, operationesque similes efficit ipsi Creatori mundi, quae opera vulgo miracula appellantur, quorum omnium radix et fundamentum fides est in Iesum Christum». 72. Ibid., cfr. G. Pico, Conclusiones secundum Proclum, in Conclusiones sive Theses DCCCC, a cura di B. Kieszkowski, Librairie Droz, Genève 1973, n. 44, p. 47: «Sicut fides, que est credulitas, est infra scienciam, ita fides, que est vere fides, est supersubstantialiter supra scienciam et intellectum, nos Deo immediate congiungens». 73. De occulta philosophia, cit., III, V, p. 411. 74. Cfr. De occulta philosophia, cit., III, IX, p. 422, dove si tenta una definizione della fede ortodossa, che è fatta coincidere, naturalmente, con la religione cattolica (anche se il sentimento religioso di Agrippa è difficilmente contenibile negli schemi della religione ufficiale): «Haec est fides catholica, haec est ortodoxa religio, haec est Christiana veritas»; III, XLI, p. 525, dove nella rassegna delle opinioni circa la sorte dell’uomo dopo la morte, si accenna alla possibilità che la fede in Cristo venga predicata ai pagani post mortem, per garantire la loro salvezza nel giorno del giudizio: «Nam, ut certum est neminem sine fide Christi posse salvum fieri, ita probabile est hanc fidem adhuc multis paganis et saracenis post hanc vitam praedicari in illis animarum receptaculis ad salutem atque in illis veluti in communi cu-

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viene meno, il divario tra fides e credulitas, tra religio e superstitio, e l’autore non esita ad indicare nella ingenua credulità del volgo la radice dei miracoli di Cristo. Non senza una certa irriverenza, infatti, Bruno accenna alle vicende del figlio di Dio, presentato dai teologi come colui «qui per se potest omnia facere», ma che tuttavia non poté sanare coloro che non credevano all’efficacia dei suoi interventi; egli infatti non riuscì a vincolare l’immaginazione di coloro che ne conoscevano le umili origini e la modesta educazione e pertanto non avevano fiducia nelle sue capacità terapeutiche e nella possibilità che operasse miracoli75. È più semplice infatti, sostiene Bruno nel De magia, che i vincoli si dimostrino efficaci su coloro presso i quali non si è troppo conosciuti, potendo sfruttare in questo caso una sorta di aspettativa e fiduciosa predisposizione, che permette all’animus vincibilis di aprirsi all’intervento del vincolante, come spalancando, per accogliere il sole, finestre che diversamente resterebbero serrate76. Nel De magia mathematica Bruno sostituirà all’immagine delle finestre dell’animo, quella equivalente della porta, attraverso la quale entrano le impressioni prodotte ab arte ligatoris, alle quali è subordinato l’esito dell’intervento77. Anche in questo testo Bruno torna a parlare della sorte dell’«efficacissimus Dei filius, de quo dicitur quod ‘propter incredulitatem eorum’ in patria nulla poterat efficere miracula»78, per dimostrare come la fede stodia detineri, donec tempus adveniat quo maximus iudex meritorum facturum sit examen»; in chiusura dell’opera, III, LXV, p. 599, Agrippa ricorda di aver redatto il De occulta philosophia per quanti hanno una «casta et pudica mens ac illibata fides quae Deum timet ac reveretur»; ma gli esempi potrebbero essere moltiplicati. 75. Cfr. De magia, BOL III 453: «Et credunt theologi et concedunt et concionantur de eo qui per se potest omnia facere, quod non poterat curare eos qui illi non credebant, cuius impotentiae tota ratio refertur ad imaginationem, quam non potuit vincire; compatrueles enim, qui noverant humile illius genus et educationem, spernebant et irridebant medicum et divinum; unde illud vulgatum ‘nemo propheta acceptus in patria’». 76. Cfr. ibid.: «Facilius ergo quibusdam vincire est eos, apud quos minus est notus, ut ex opinione et apparatu fidei, cuius quidem potentia animae quodammodo se disponit, aperit, explicat, ac si fenestras aperiat ad solem concipiendum, quas alioqui occlusas teneret, datur aditus ad eas impressiones quas ligatoris ars exquirit, incutiendo subsequentia vincula»; si veda inoltre la bella immagine del De vinculis, BOL III 668: «Non ligat vincibile vinciens, sicut neque munitissimam arcem expugnat dux facile, nisi domestico aliquo proditore vel alio quocunque pacto consentiente vel succumbente vel utrunque tractabili ministro fiat aditus». 77. Cfr. De magia math., BOL III 495: «Idem iudicium est in aliis corporibus affectibus ex animo, qui si existat, obicem ponit et ianuam occludit, ne vel proficuae vel noxiae irrepant, tum in ipsum tum in ipsius corpus, impressiones». 78. Ibid.; cfr. Mt. 13, 58; sul ruolo imprescindibile della fede nei miracoli di Cristo ed in relazione a questo passo del Vangelo, si soffermeranno più tardi T. Campa-

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sia la condizione preliminare ed imprescindibile per gli effetti del vincolo. Cristo, dunque, irriso tra la sua gente, al pari di qualsiasi operatore al quale venga a mancare la certa dispositio di coloro ai quali erano destinati i suoi vincoli, perde ogni efficacia sul piano operativo, ed è impotente dinanzi alla moltitudine degli increduli. Nelle Theses de magia Bruno aveva infatti sostenuto esplicitamente che mancando la fede, anche solo da parte di colui al quale è diretta l’operazione, «neque naturalis neque rationalis neque divinus operator aliquid producit aut per ordinarium producere potest»79; egli sottoponeva così l’agente divino alle stesse condizioni degli operatori naturali. Nelle opere magiche, dunque, attraverso l’uso sinonimico dei termini fides e credulitas, Bruno tralascia ogni riferimento al contesto religioso in cui Agrippa inseriva, nel libro sulla magia cerimoniale, le sue riflessioni concernenti la fides. In un orizzonte che individua nell’ars magica, non solo una tecnica operativa con la quale dominare la natura, ma piuttosto un mezzo attraverso il quale superare i limiti derivati all’anima dalla sua condizione terrena (di comunione col corpo), Agrippa promuove una concezione della magia che è soprattutto morale e religiosa, secondo una concezione della religiosità saldamente connessa con l’ideale della «prisca theologia» e della «pia philosophia» che, attraverso il Corpus Hermeticum, gli scritti ficiniani, la cabala cristiana di Giovanni Pico e Reuchlin, attraversava tutto il Rinascimento. Al contrario, negli scritti magici nella nel Senso delle cose (cfr. Del senso delle cose e della magia, a cura di A. Bruers, Laterza, Bari 1925, IV, II) e G. C. Vanini nel De admirandis, dove l’autore accenna a una sua Apologia pro Christiana religione, in cui avrebbe chiarito le sue opinioni in accordo con la religione cattolica, proprio commentando questo versetto biblico (cfr. De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis, Lutetiae, apud A. Perier, 1616, LVII). Ma forti dubbi sulla possibilità che i miracoli di Cristo fossero interpretabili attraverso spiegazioni razionali erano stati insinuati da Pomponazzi in più luoghi del De incantationibus, per essere poi dissipati attraverso una dichiarazione di fedele adesione ai dettami della Chiesa, che ha tutto il sapore di una ‘ritrattazione’ di rito; cfr., ad es., De incantationibus, cit., cap. VI, p. 84: «Quamvis et illae figurationes in cordibus ex fixa imaginatione figurari possint, et talia stigmata in talis parribus generari, ut legitur de beato Francisco, tamen si ecclesia Dei determinat ista facta fuisse ex miraculo, sic firmiter tenendum est propter causam superius adductam». 79. Cfr. Thes. de magia, BOL III 489. Le accuse mosse a Bruno dal delatore Giovanni Mocenigo e dai suoi compagni di carcere, secondo la testimonianza dei quali egli avrebbe attibuito ai poteri delle sue arti magiche i «miracoli apparenti» del «Cristo mago», sembrerebbero confermare l’estremismo delle osservazioni contenute in questi testi, che non furono nelle mani degli Inquisitori e dei quali Bruno, naturalmente, non fece mai parola nel corso dei processi veneto e romano; cfr. Firpo, Processo, doc. 51, pp. 259-262.

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Delfina Giovannozzi

Bruno sembra portare alle estreme conseguenze le possibilità implicite nella concezione avicenniana dell’imaginatio e nel nesso tra questa e la fides già individuato da autori quali Pomponazzi, Paracelso e, più tardi, Vanini. Liberatosi di ogni preoccupazione di ortodossia come pure delle implicazioni sul piano teologico e dottrinale tradizionalmente connesse a questo argomento, Bruno svolge un’analisi esclusivamente naturalistica della fides, delle attitudini e delle disposizioni dell’animo da cui si origina, dei suoi straordinari poteri sul piano operativo80; consistendo in una sorta di fiduciosa aspettativa sull’esito dell’intervento essa diviene il vincolo supremo attraverso il quale vinciens e vincibilis, uniti, cospirano alla buona riuscita degli eventi straordianari, per cui Bruno può concludere: «Ideo est fides vinculum magnum et vinculum vinculorum»81.

80. È soprattutto nel De vinculis che Bruno indica nella capacità della personalità più carismatica di trascinare nei suoi vincula gli animi più deboli (adeguatamente preparati alla ricezione dell’intervento «transfuga quadam artis dissimulatione») l’unica radice dell’ars magica e dei vincoli sociali e politici. In questo testo, infatti, vinciens non è più soltanto l’operatore dell’intervento magico, ma il soggetto di ogni relazione sociale, che, in virtù della sua superiorità, abbia un particolare ascendente sul singolo o sulla moltitudo. Queste affermazioni, se da una parte lasciano intuire possibili sviluppi in chiave politica di presupposti quali la credulitas e il consensus, tuttavia non vengono esplicitamente riferite da Bruno a «tecniche di governo» o di «conservazione del potere». 81. Thes. de magia, BOL III 489.

MIGUEL A. GRANADA «BLASPHEMIA VERO EST FACERE DEUM ALIUM A DEO». LA POLEMICA DI BRUNO CON L’ARISTOTELISMO A PROPOSITO DELLA POTENZA DI DIO

Giordano Bruno stabilisce nei due primi libri del De immenso la necessità dell’universo infinito (e omogeneo) mediante un’argomentazione a priori di carattere metafisico-teologico tesa a confutare la dottrina di un universo contingente, finito e gerarchico sostenuta da Aristotele e dalla tradizione aristotelica cristiana. Questa argomentazione era basata su una precisa concezione della potentia divina e sulla tesi platonica della ‘diffusibilità’ del Bene, del principio di pienezza, per cui solo ciò che è infinito è perfetto e quindi creazione adeguata di Dio1. È un’argomentazione che ripete, in un modo più completo ed esaustivo, l’iter dimostrativo del primo dialogo del De l’infinito, universo et mondi, in particolare nella sua seconda parte, dove «quello ch’è dimostrato [nella prima] per la potenza passiva de l’universo, si mostra per l’attiva potenza de l’efficiente»2. Si tratta di un’argomentazione articolata che, secondo l’opinione di Bruno, si conclude rigorosamente, stabilendo senza dubbi la verità. Ancora il terzo libro del De immenso si avvia, quindi, con una vibrante ricapitolazione di quanto esposto precedentemente. Partendo dalla considerazione che il modo di pensare (sensus) dei «peripatetici e simili filosofanti» è fondato su princìpi infantili, Bruno si accinge a insegnare loro la verità dell’universo infinito «eodem... ordine... quo nos optima mater erudiit natura»3. Questo procedimento consiste in primo luogo nella constatazione su scala terrestre della relatività e indifferenza della percezione sensoriale del centro e del limite periferico (con il conseguente annullamento delle differenze qualitative fra entrambi), illustrata attraverso l’evocazione di impressioni infantili relative all’aspetto del monte Cicala e del Vesuvio; quindi nell’applicazione di questa constatazione su scala cosmica. Da essa derivano in primo luogo l’omogeneità dell’universo («rerum faciem distantia mutet / servatis rebus, sibique per totum alma et ubique / naturae constet majestas») e quindi il carattere celeste della Terra («tandem coelum nos esse, repertum / sit mihi, quam

1. 2. 3.

Cfr. Timeo 29d ss. e De immenso, BOL I,I 302-312. BOeuC IV 17. De immenso, BOL I,I 313.

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sumus iis qui coelum sunt quoque nobis»)4, e in secondo luogo la rettificazione dell’errore della ragione umana, o meglio la comprensione razionale dell’informazione sensibile; la costante centralità del punto d’osservazione e la conseguente mutazione della periferia (che si rivela apparente) portano ad inferire che «il centro è in tutto ed in ogni parte»5, la periferia o limite ultimo dell’universo, invece, in nessun luogo. L’ingenuità di considerare la Terra il centro assoluto di un universo finito e chiuso da un’ultima sfera, soggetto universale del tempo («subiectum temporis»; «tempus generale»)6 e del moto diario (il primum mobile), deriva, dunque, da una mancata riflessione sui dati della percezione sensibile, sulle apparenze. Bruno richiama allora con ironia l’immagine dell’almus doctor, costretto ad aggiungere sfere a sfere, in un processo senza fine («nam duodena caput jamque efferre videtur»)7, innescato dalla semplice negazione del moto diario della Terra. Per questo gli aristotelici possono essere paragonati a Narciso, il quale, cercando se stesso esteriormente, ossia nelle acque in cui si specchia la sua immagine (fuori della Terra e dei suoi movimenti nella metafora antiaristotelica), insegue invece vani simulacri, che lo allontanano ogni volta di più dalla sua realtà; così pure i Peripatetici, costretti a postulare un primo mobile e sfere sempre più lontane, «tralasciando le cose più vicine» per ricercare «sé e ciò che gli appartiene al di fuori di sé»8. Si sono ormai messi a fuoco una serie di temi attraverso i quali ricostruire il dibattito di Bruno con Aristotele e con la tradizione aristotelica. Uno di essi – il problema del tempo – ha recentemente

4. Ivi, p. 315. 5. Ivi, p. 316; si cita sempre, eccetto nei casi segnalati, dalla traduzione italiana di Carlo Monti: G. Bruno, Opere latine. Il triplice minimo e la misura. La monade, il numero e la figura. L’immenso e gli innumerevoli, Torino 1980. L’affermazione dell’ubiquità del centro era già stata enunciata nel libro I, 4; essa implica logicamente la nullità della periferia o limite ultimo. La nota formula ermetica era già stata citata da Bruno, applicata all’universo e attribuita a Senofane, nel libro II, 9 (BOL I,I 291). 6. Ivi, pp. 316 s. L’esistenza di un tempo universale associato a un movimento universale (diario) del mondo era già stata negata nel Camoeracensis acrotismus (Wittenberg 1588). 7. Ivi, p. 317. 8. Ibid. Questo uso del mito di Narciso è parallelo all’uso del motivo del Cane esopico – partendo dal poema di Tansillo – in La cena de le Ceneri (BOeuC II 51) e nello Spaccio de la bestia trionfante (BDI 730). Il motivo del cane esopico sarà ripreso in De immenso V, 1. L’associazione di finitezza con immobilità terrestre e di infinità con movimento terrestre era già stabilita nel De l’infinito, BOeuC IV 181-185. Da qui il ruolo storico e ‘aurorale’ di Copernico.

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richiamato l’attenzione degli studiosi9; si tratta infatti di un tema nel quale la moderna critica bruniana ravvisa aspetti di grande interesse. 1. IL RIFIUTO DELLA DISTINZIONE POTENTIA ABSOLUTA/POTENTIA DIO E LA «THEOLOGIA BEN CATTIVA DEL NOLANO»10

ORDINATA DI

Nel commento in prosa del primo capitolo del III libro del De immenso Bruno ricorda, ancora una volta per confutarla, la nota dottrina aristotelica, esposta in De caelo, I, 9, secondo la quale «extra universum non est locus, spacium, vacuum, corpus, motus, tempus»11. Tale affermazione indica, secondo Bruno, l’incapacità di Aristotele di distinguere lo spazio dal corpo che lo occupa. Inoltre, la tesi per la quale «qualsiasi corpo... è chiuso nella superficie dell’ultimo cielo [i. e. del primum mobile]»12, presuppone la finitezza dell’universo, una dottrina che, secondo l’opinione di Bruno, Aristotele stabilisce mediante un’argomentazione che parte dal movimento e dal luogo dei corpi, e che si rivela dunque sempre circolare, presupponendo la finitezza che pretende dimostrare. Per lo Stagirita, infatti, la dimostrazione che qualsiasi corpo «è racchiuso entro la superficie dell’ultimo cielo» è fondata sulla constatazione che «tutta la materia corporea è racchiusa entro la superficie dell’ultimo cielo»13. Orbene, per Bruno «fuori dall’universo non c’è nulla», proprio per la ragione antiaristotelica secondo la quale esso «è infinito»: «nihil est extra... quia infinitum est»14. È assurdo che la materia universale si limiti a quella sperimentabile in questo mondo finito; la materia come potenza passiva, come possibilità di essere, è infatti necessariamente infinita come la potenza attiva o potenza di fare, ossia, come la potenza divina: «activam passivamque, concupitivam expletivamque potentiam, sine termino necessario esse compertum est»15. Già nel De l’infinito Bruno aveva dato prova della sua ironia pungente contro questa limitazione a parte obiecti dell’effetto infini9. Si veda il recente saggio di N. Badaloni, Sulla struttura del tempo in Bruno, «Bruniana & Campanelliana», III (1997), 1, pp. 11-45. 10. L’espressione è del ‘postillatore napoletano’ che annotò lo Spaccio (BDI 782). Sulla polemica di questo lettore contemporaneo (un italiano riformato esiliato a Londra) nel De l’infinito, vd. infra nota 52. 11. De immenso, BOL I,I 318 s. 12. Ivi, p. 319. 13. De caelo, I, 9, 279 a 9. 14. De immenso, BOL I,I 319. 15. Ibid.

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to della potenza divina attiva, accennando alla «potenza passiva de le cose, la quale alla divina efficacia et attiva potenza non risponde»; aggiungeva quindi che: è cosa inconvenientissima, che il primo ed altissimo sia simile ad uno ch’ha virtù di citarizare, et per difetto di citara, non citareggia; e sia un che può fare, ma non fa, perché quella cosa che può fare non può esser fatta da lui: il che pone una più che aperta contraddizione, la quale non può essere non conosciuta, eccetto che da quei che conoscono niente.

Tornando ancora su questo tema nel quinto dialogo, Bruno ripeteva: suppone e non prova che alla potenza infinita attiva non risponda infinita potenza passiva, e non possa esser soggetto infinita materia, e farsi campo spazio infinito: e per conseguenza non possa proporzionarsi l’atto e l’azione a l’agente; e l’agente possa comunicar tutto l’atto, senza ch’esser possa tutto l’atto comunicato (che non può imaginarsi più aperta contraddizione di questa)16.

Va ricordato che Aristotele aveva negato già nella Physica (III, 5-8) la possibilità dell’esistenza in natura di un infinito in atto e che (in De caelo, I, 5-7) aveva enunciato la sua dimostrazione dell’impossibilità di un universo infinito, ossia di un corpo infinito in grandezza. La tradizione scolastica aveva fatto proprie le sue conclusioni a riguardo; Tommaso d’Aquino, per esempio, nella Summa theologiae (I, qu. 7, art. 3: Utrum possit esse aliquid infinitum actu secundum magnitudinem) afferma decisamente, ripetendo l’argomentazione aristotelica, che «de corpore quidem naturali, quod non possit esse infinitum in actu, manifestum est». Analogamente Buridano, nelle sue Quaestiones super libris quattuor de caelo et mundo (nella quaestio I, 17: Utrum possibile est esse corpus infinitum), nega la possibilità che l’effetto sia in qualche modo proporzionato all’infinità della causa divina, forse – come suggerito da Ghisalberti – perché la stessa nozione di effetto implica la finitezza, per cui un effetto infinito sarebbe intrinsecamente contraddittorio17.

16. BOeuC IV 37 e 363. 17. «Ego opinor quod non est possibile etiam per potentiam dei esse corpus infinitum secundum magnitudinem nec esse effectum infinitum secundum perfectionem. Credo enim quod deus non potest facere corpus ita magnum quin non possit facere maius corpus, nec rem ita perfectam quin posset facere perfectiorem. Unde credo quod non sit possibile aliquem effectum proportionari potentiae divinae, propter infinitatem illius potentiae» (Ioh. Buridani Quaestiones super libris quattuor de caelo et mundo, a cura di E. A. Moody, Cambridge Mass 1942, p. 79). Cfr. G. Buridano, Il cielo e il mondo. Commento al trattato ‘Del cielo’ di Aristotele, trad. di A. Ghisalberti, Milano 1983, p. 183.

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Bruno confuta l’argomentazione aristotelica nel secondo dialogo del De l’infinito, insistendo – come si è detto – sul suo carattere circolare. Nel successivo scontro con la cosmologia aristotelica e con le sue implicazioni sul piano teologico, testimoniato nel Camoeracensis acrotismus del 1588, il Nolano conferma – nell’articolo XXII – il suo rifiuto a definire il corpo come limitato da una superficie, ravvisando in questa definizione una petitio principii (la negazione del corpo infinito)18. Nell’articolo XXVII egli ripete che «infinitum dicimus non solum ut materiam, sed et ut actum»19. Nel De immenso del 1591 la confutazione si articola più o meno come nel dialogo italiano, ma con qualche aggiunta di grande interesse; all’esposizione dell’argomento della sproporzione tra la potenza passiva (materia) e la potenza attiva divina, che aveva causato le ironiche osservazioni del 1584, il poema latino aggiunge che questo è argomento non solamente aristotelico, ma mutuato dalla fonte di alcuni Teologi peripatetici, che distruggono il buon principio (che consegue dalla rivelazione divina), secondo il quale confessano un Dio di potenza divina infinita sia intensiva che estensiva. Lo distruggono con le supposizioni della perversa filosofia nelle quali sono stati educati, la quale filosofia conosce un effetto finito di una causa finita e allo stesso tempo stabilisce la potenza di Dio infinita estensivamente20.

È chiaro che la polemica di Bruno riguardo al problema dell’universo infinito e del suo rapporto con la causa divina, non è riferita solo ad Aristotele, ma alla singolare contaminazione – tipica della cultura cosmologico-teologica del secolo XIII e ancora alla base della concezione dell’universo dominante nell’epoca a lui contemporanea – della dottrina aristotelica con la teologia cristiana. Ma torniamo all’avvio del terzo libro del De immenso. Partendo dalla segnalata corrispondenza fra potenza passiva e potenza attiva e dall’evidenza che la causa dell’universo (Dio) è una potenza infinita, Bruno afferma che nulla impedisce che da essa provenga un effetto infinito: una pluralità infinita di individui perfetti nel loro

18. Cfr. BOL I,I 119 s. Bruno conclude che «per chi supponga che un corpo è infinito, il fatto che sia limitato da una superficie non sarà una definizione di tutti i corpi, ma unicamente del corpo finito»; ivi, p. 120. 19. Ivi, p. 123. 20. De immenso, BOL I,II 276: «Argumentum... est ex fonte peripateticorum quorundam Theologantium, qui bonum ex divinis relatis principium, quo Deum infinitae potentiae tum intensivae tum extensivae confitentur, convellunt perversae in quibus sunt educati suppositionibus philosophiae, quae finitum a finita causa cognoscit effectum: intereaque dei virtutem extensive infinitam constituit» (corsivo nostro; si è anche modificata la traduzione di C. Monti).

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genere («infinita in eodem genere perfecta multiplicata»), ossia un’infinità di mondi: i sistemi planetari («synodi ex mundis») orbitanti attorno ad una stella-sole già presentati nel libro I, 321. Contrariamente a quanti sostengono che da Dio, che è Uno, non può provenire un effetto molteplice, Bruno sostiene che da una «unità così grande» deriva necessariamente un effetto «unico e così grande» («tantum unum»), ossia l’universo infinito uno che contiene sistemi solari infiniti: questa è la versione bruniana della pluralità dei mondi esclusa sia da Aristotele (come assolutamente impossibile: De caelo, I, 8-9) che dalla tradizione cosmologica e teologica scolastica22, ma in questo caso per ragioni diverse. Per Bruno, ponendo l’effetto infinito dell’infinita potenza, non si producono il paradosso e la contraddizione insiti invece nel concetto (sostenuto da Aristotele e dalla tradizione) dell’unico mondo finito creato da Dio; in questa prospettiva l’effetto (finito) mente nel parlare della potenza (infinita) della sua causa. E qui Bruno inizia ad interloquire direttamente non con Aristotele, ma con la tradizione cosmologico-teologica cristiana che aveva sostenuto, di contro al «necessitarismo» aristotelico e neoplatonizzante, che Dio può creare una pluralità di mondi (come si evince dalla condanna del vescovo Tempier del 1277 che rifiutava la tesi «Quod Deus non posset plures mundos facere») e aveva ricondotto la creazione di un unico mondo, non ad un difetto di potenza, ma ad un decreto della sua libera volontà23. Bruno 21. Evidentemente ciò presuppone l’ampliamento della causalità divina, dalla mera causalità teleologica del movimento alla causalità efficiente del movimento e dell’essere stesso del mondo. Questo ampliamento si verificò fra i commentatori neoplatonici di Aristotele. Si veda R. Sorabji, Matter, Space and Motion. Theories in Antiquity and their Sequel, New York 1988, cap. XV: Infinite power impressed: the Neoplatonist Interpretation of Aristotle. 22. Così Tommaso d’Aquino esclude nella sua Summa Theologiae la possibilità di un’infinità di individui. Cfr. ivi, I, qu. 7, art. 4, Utrum possibile esse infinitum in rebus secundum multitudinem: «Impossibile est esse multitudinem infinitam actu, sive per se sive per accidens». La pluralità dei mondi è rifiutata allegando, oltre alla ragione aristotelica secondo la quale in questo mondo si raccoglie tutta la materia, la ragione, anch’essa aristotelica, secondo la quale «debent omnia esse ordinata uno ordine et ad unum» (I, qu. 47, art. 3: Utrum sit unus mundus tantum). 23. Sulla tesi condannata dal vescovo Tempier, la numero 27 del sillabo, cfr. R. Hissette, Enquête sur les 219 articles condamnés à Paris le 7 mars 1277, Louvain-Paris 1977, pp. 64 ss. e L. Bianchi, Il vescovo e i filosofi. La condanna parigina del 1277 e l’evoluzione dell’aristotelismo scolastico, Bergamo 1990. Sulla possibilità non attualizzata della pluralità dei mondi in autori importanti come Buridano, Oresme e Occam si veda S. J. Dick, Plurality of Worlds. The Origins of the Extraterrestrial Life Debate from Democritus to Kant, Cambridge 1982, cap. 2. Cfr., ancora, P. Duhem, Le système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic, IX, Paris 1958, cap. XX. Molti autori meno noti riconobbero inoltre la capacità divina di creare una plura-

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riassume quindi tutta una serie di argomenti scolastici che affermavano assieme alla possibilità divina, l’impossibilità dell’oggetto (la pluralità dei mondi; in questa fase Bruno non prende in considerazione le posizioni ‘più avanzate’, che riconoscono la possibilità della pluralità e spiegano la sua inesistenza appellandosi alla volontà divina). Dai riferimenti al suo antagonista, qualificato come «Presbyter» e «Reverendissimus», si evince che qui Bruno non si riferisce ad Aristotele, ma ai teologi: Potest equidem [Deus] (inquit Presbyter) facere infinitos mundos, sed natura non est capax, materia non est tanta, infiniti mundi fieri non possunt, quia hic est tota materia. At, o Reverendissime, cur non et tantundem materiae et tantundem spacii non potest esse sub eadem potentia?24

A queste considerazioni sull’infinità dell’universo a parte obiecti si aggiungono quindi quelle a parte efficientis, ossia, a partire dall’idea di Dio. La disgiunzione fra l’infinità della causa e il carattere finito dell’effetto, propria dell’aristotelismo, porta Bruno ad esaminare una serie di difficoltà implicite nella filosofia scolastica. Non c’è ragione di affermare che Dio possiede una potenza infinita se poi lo si rende finito nella sua volontà e produzione. Sarebbe come affermare che Dio «può compiere [dato che la sua potenza è infinita] ciò che non compie né vuole mai [l’universo infinito e i mondi infiniti che trascendono l’unico mondo finito creato] e, di conseguenza, può fare ciò che non vuole». Ciò creerebbe un divario tra gli attributi divini che a Bruno può soltanto sembrare incompatibile con la semplicità della divinità25. Egli si limita dunque a segnalare che il discorso scolastico implica attribuire a Dio – oltre alla potenza che concorre con la volontà alla creazione effettiva finita – «una potenza diversa, anzi contraria alla volontà [la potenlità di mondi nonostante la creazione, di fatto, di uno solo di essi; fra essi Pietro di Tarantasia e Agostino Trionfo di Ancona. Si veda E. Randi, Talpe ed extraterrestri; un inedito di Agostino Trionfo sulla pluralità dei mondi, «Rivista di storia della filosofia», XLIV (1989), pp. 311-326. Un buon bilancio della questione appare in L. BianchiE. Randi, Le verità dissonanti. Aristotele alla fine del Medioevo, Bari-Roma 1990, pp. 6167. 24. De immenso, BOL I,I 320. 25. Cfr. ad esempio De l’infinito, BOeuC IV 109: «Per che il primo principio è simplicissimo, però se secondo uno attributo fusse finito, sarebe finito secondo tutti gli attributi; o pure secondo certa raggione intrinseca essendo finito e secondo certa infinito, necessariamente in lui si intenderebbe essere composizione». Cfr. inoltre nel De immenso i principia communia, o «principi evidenti per sé stessi», IV: «Deus est simplicissima essentia, in qua nulla compositio potest esse, vel diversitas intrinsece», e V: «Consequenter in eodem idem est esse, posse, agere, velle, essentia, potentia, actio, voluntas» (BOL I,I 242 ss.).

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za infinita non voluta] ed una volontà contraria alla potenza [infinita]»26. Bruno procede così rapidamente alla conclusione, che non solo è contraria ai princìpi fondamentali della teologia scolastica e alle sue conclusioni cosmologiche di derivazione aristotelica, ma che rappresenta addirittura la loro condanna assoluta. Nell’ambito delle cose individuali create si può distinguere l’agente naturale, che opera con tutta la sua potenza, dall’agente volontario (l’uomo), che può ‘moderare’ la potenza e agire secondo la sua volontà. Nel caso dell’agente divino e immutabile quest’ultima non può essere pensata in conflitto con la potenza, ma solo come coincidente con essa, immutabile ed in accordo con l’unità e la semplicità divine. Perciò, afferma Bruno, Dio «non può fare se non ciò che vuole»27 ; la sua potenza non è maggiore che la sua volontà o, come aveva detto nel De l’infinito, «non può posser altro che quel che può; non può voler altro che quel che vuole; e necessariamente non può far altro che quel che fa: atteso che l’aver potenza distinta da l’atto conviene solamente a cose mutabili»28. Ciò significa che l’alterità affermata dal presbyter scolastico tra la potenza divina e la sua volontà è un errore che qui – per prima e unica volta nella sua opera, dopo la battaglia condotta nel primo dialogo del De l’infinito e nel primo libro del De immenso – Bruno chiama con il nome che le aveva assegnato la teologia scolastica dal secolo XIII: «Neque distinctionem potentiae in absolutam et ordinatam, vel ordinariam introducamus illo [Dio], ubi non libertatem protestetur, sed implicet apertam contradictionem»29. Bruno constata che la teologia scolastica aveva stabilito la 26. «Tibi sine causa Deus infinitae virtutis volens et efficiens est finitus, ut est agere potens quod nunquam aget neque volet, et consequenter potens facere quod non vult, potentiam aliam, imo et contrariam habens voluntati, et voluntatem potentiae contrariam» (ivi, pp. 319 s.; corsivo nostro). 27. Ivi, p. 320: «Credamus agens illud voluntarium quod est divinum et inmutabile, in quo voluntas cum virtute non repugnat, et cui virtus pro voluntate satis est, immo ipsa est voluntas quod sicut non potest velle nisi quod vult, et non potest a sua immobilitate, unitate et simplicitate deficere, ita non potest facere, nisi quae vult». Bruno ribadisce qui le conclusioni dei principia communia IV, V (cit. supra) e VIII: «In simplici essentia non potest esse contrarietas ullo modo, neque inaequalitas: voluntas, inquam, non est contraria et inaequalis potentiae» (BOL I,I 243). 28. BOeuC IV 89. 29. De immenso, BOL I,I 320. Sulla distinzione e sulla sua storia cfr. W. J. Courtenay, Capacity and Volition. A History of the Distinction between Absolute and Ordained Power, Bergamo 1990 e E. Randi, Il sovrano e l’orologiaio. Due immagini di Dio nel dibattito sulla ‘potenza assoluta’ fra il XIII e il XIV secolo, Firenze 1987. Cfr. anche M. A. Granada, Il rifiuto della distinzione fra ‘potentia absoluta’ e ‘potentia ordinata’ di Dio e l’affermazione dell’universo infinito in Giordano Bruno, «Rivista di storia della filosofia», XLIX (1994), pp. 495-532. Come è noto, la distinzione costituiva il fondamento teorico della pos-

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distinzione come garanzia della libertà divina e questa riflessione può in effetti essere verificata nei testi di Tommaso d’Aquino, Duns Scoto e Occam, nonché in autori cronologicamente più vicini a Bruno. Tuttavia la libertà divina, accettata senza riserve dal Nolano, era pensata da questi autori a prescindere dalla necessità, quasi postulando la contingenza della creazione e del suo ordine, che – di fatto – avrebbe potuto non essere o realizzarsi in maniera diversa e perfino migliore30. È qui che si manifesta un’aperta contraddizione, il conflitto fra gli attributi divini della semplicità, implicata dallo stesso concetto di Dio, e la pluralità che la ricordata distinzione stabilisce. La radice dell’errore si trova effettivamente nella concezione della libertà divina come scevra da ogni necessità, nell’averla pensata, cioè, secondo parametri umani. «È perfezione in noi (se si vuole)31 che possiamo fare molte cose che non facciamo» (ut possimus multa facere quae non facimus)32. E questo è esattamente quanto la teologia scolastica veniva dicendo sin da Pietro Lombardo, che nella distinctio I, 43 affermava: «Deum plura posse quam velle, quia plura sunt subiecta eius potentiae quam voluntati. Fateamur itaque Deum multa posse facere quae non vult, et posse dimittere quae facit». Nella distinctio I, 44 si stabiliva infatti che «Dio può fare meglio quello che fa»33. Pier Damiani aveva già indicato, nel De divina omnipotentia, che considerare come coincidenti la potenza di Dio e la sua volontà, affermando che Dio vuole ciò che può senza restrizioni, implicava ridurre la potenza e la libertà divine a un livello inferiore all’umano, potendo gli uomini fare molte cose che non vogliono e non fanno34. Duns Scoto, d’altra parte, radicalizzava questa concezione sibilità divina di creare – de potentia absoluta – una pluralità di mondi o – de potentia ordinata (corrispondente alla volontà di Dio) – la realtà di un unico mondo. 30. Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, qu. 25, art. 5 (Utrum Deus possit facere quae non facit): «Quidam enim posuerunt Deum agere quasi ex necessitate naturae... Sed supra ostendimus Deum non agere quasi ex necessitate naturae, sed voluntatem eius esse omnium rerum causam; neque etiam ipsam voluntatem naturaliter et ex necessitate a Deo provenit, quod alia provenire non possent... Nihil prohibet esse aliquid in potentia Dei, quod non vult, et quod non continetur sub ordine quem statuit rebus». Subito dopo l’Aquinate illustra questa situazione mediante la distinzione potentia absoluta/ordinata. 31. Ma Bruno lo ha messo in questione e rifiutato anche precedentemente: cfr. BOL I,I 247. 32. De immenso, BOL I,I 320. 33. Pietro Lombardo, Sententiae in IV libros distinctae, I,II, Quaracchi 1971, pp. 302 e 304. 34. Cfr. De divina omnipotentia, in PL, 145, 597 A-B, cit. da W. J. Courtenay, op. cit., p. 37, nota 5.

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al punto di indicare Dio e l’uomo come «agenti capaci di operare d’accordo con la legge retta senza agire necessariamente in conformità con essa»35. Perciò si può dire nel primo caso che l’agente abbia una potentia ordinata e nel secondo una potentia absoluta. La differenza fra uomo e Dio è in qualche modo una differenza di grado, poiché l’uomo non è signore della legge e quando la sua azione non si conforma ad essa (agendo de potentia absoluta) è disordinata, mentre Dio – signore assoluto – ha sempre potestà sulla legge e la sua azione de potentia absoluta non è mai disordinata, ma stabilisce anzi un ordine nuovo36 . La concezione scolastica della libertà divina come incompatibile con la necessità (forse proprio nella sua versione scotista) era stata attaccata energicamente da Bruno nel precedente capitolo (I, 12), interpellando il presbyter: Caveat ergo presbyter ille, qui divinam libertatem aeque inter contingentia et possibilia collocat atque nostram... non est ergo dignum ut Deum ex hujusmodi generis libertate aeque vel inaequaliter ad duo contradictoria volenda, vel agenda, velle vel agere posse referatur37.

Una libertà di questo tipo può essere secondo Bruno l’umana; essa è però indegna di Dio perché «deriva da un principio contingente, instabile e fluttuante tra i contrari»38. La libertà divina, invece, «è la stessa necessità», una necessità che non è coazione interna né esterna, ma piuttosto la manifestazione della propria natura: Infinita virtus si neque a seipsa finitur, nec ab alio, tunc necessitate suae naturae agit: non agit necessitate naturae alia a se et sua voluntate, in eorum morem quae necessitate subsunt; sed ipsa est (ut saepe dicimus) necessitas. Agit ergo necessitate, quae neque ab intrinseco et per se, neque ab extrinseco et per aliud frustrari potest39.

35. Giovanni Duns Scoto, Ordinatio, I, dist. 44, qu. unica (Utrum Deus possit aliter facere res quam ab ipso ordinatum est eas fieri), in Opera omnia, VI, Città del Vaticano 1963, p. 363. 36. Ivi, p. 367: «Dico ergo quod Deus non solum potest agere aliter quam ordinatum est ordine particulari, sed aliter quam ordinatum est ordine universali – sive secundum leges iustitiae – potest ordinate agere, quia tam illa quae sunt praeter illum ordinem, quam illa quae sunt contra ordinem illum, possent a Deo ordinate fieri potentia absoluta». 37. De immenso, BOL I,I 247. 38. Ibid. 39. Ivi, p. 246. Cfr. i principia communia VII («Voluntas divina est non modo necessaria, sed etiam est ipsa necessitas, cujus oppositum non est impossibile modo, sed etiam ipsa impossibilitas») e IX («Necessitas et libertas sunt unum, unde non est formidandum quod, cum agat necessitate naturae, non libere agat: sed potius immo

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La tesi bruniana di un’azione divina libera e al tempo stesso necessaria, poiché derivata dalla infinita potenza del creatore, era compatibile con la teologia cristiana solo sul piano ad intra dell’eterna, infinita e necessaria generazione delle persone divine. Ad extra, ossia sul piano della creazione dell’universo distinto da Dio, l’opera della divinità è per la teologia cristiana libera e non restrittiva della sua potenza infinita, anche se ‘costretta’ alla creazione di un universo contingente e finito. Nel De l’infinito, invece, Bruno dichiara l’azione ad extra «tanto infinita come la immanente»40 e, indicando nell’universo infinito – «il grande simulacro, la gran immagine e l’unigenita natura»41 – l’unica produzione dell’infinita e semplice essenza divina, egli finisce con il privare del suo significato più intimo il dogma trinitario-cristologico. Ma non seguiremo la discussione bruniana riguardo questo nodo centrale della religione cristiana42; torneremo invece al problema della libertà divina e del suo rapporto con la creatura. Come si è detto, una deformazione antropomorfa si trova all’origine dell’erronea dottrina della potenza divina e della sua distinzione in absoluta e ordinata, una rappresentazione di Dio e della sua azione in cui Bruno ravvisa un’«aperta contraddizione». Ma non si tratta semplicemente di un errore sul piano filosofico; per Bruno questa contraddizione comporta una ‘bestemmia’, una ribellione contro la maestà divina. Perciò conclude il capitolo I del terzo libro del De immenso con le parole seguenti: Blasphemia vero est facere Deum alium a Deo: voluntatem eius aliam atque alia[m], unam quae currit cum potentia, aliam quae abhorreat a potentia, in melius contradictoriorum alterum, vel deterius43.

Secondo Bruno, dunque, tutta la teologia cristiana, in particolare quella scolastica associata all’egemonia cosmo-ontologica di Aristotele, è una bestemmia contro la divinità; la sana e vera teologia è invece quella da lui proposta contro di esse: la concezione di Dio per la quale si produce necessariamente un universo infinito (e omogeneo) nello spazio e nel tempo. C’è quindi in Bruno un atteggiamento di sdegno verso una teologia che avrebbe deviato da un retto cammino; uno sdegno avvicinabile, per certi versi, a quello non libere ageret, aliter agendo, quam necessitas et natura, imo naturae necessitas requirit»), ivi, p. 243. 40. BOeuC IV 15; cfr. De immenso, BOL I,I 237. 41. Causa, BOeuC III 207; corsivo nostro. 42. Interessanti considerazioni al riguardo in H. Blumenberg, Aspekte der Epochenschwelle. Cusaner und Nolaner, Frankfurt 1976, pp. 126 ss. 43. BOL I,I 320.

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espresso da Descartes a Mersenne, nell’accusa alla teologia cristiana (anche se a partire da posizioni diverse rispetto a quelle bruniane) di essersi sottoposta – nell’accettare la dottrina delle verità eterne non create, valide per se stesse – a una concezione pagana di Dio come «assujetti au Styx et aux Destinées»44. L’esercizio ad extra della potenza divina (l’unico che si possa concepire razionalmente secondo Bruno) è considerato dalla tradizione extensive ed intensive: extensive quando riguarda l’estensione o grandezza spaziale e temporale dell’effetto, intensive quando riguarda la forza o intensità con la quale Dio lo attua45. Ci soffermeremo su entrambi i piani, cercando di chiarire come Bruno affronti le diverse posizioni aristotelico-scolastiche, per concludere con la sua affermazione della necessità dell’infinita azione-produzione divina. Tuttavia, avendo già analizzato il problema della potenza extensive considerata con una certa ampiezza in lavori anteriori46, ci concentreremo soprattutto sulla potenza ‘intensiva’, allo scopo di dimostrare come anche in questo ambito si sviluppi la polemica di Bruno con l’aristotelismo, e come solo su questo sfondo acquistino un senso pieno importanti pagine del Nolano. 2. INFINITEZZA DELLA POTENZA DIVINA EXTENSIVE Già Aristotele aveva riconosciuto che la potenza di Dio è infinita perché produce un effetto (il movimento del primo mobile) infinito nella durata47. La tradizione aristotelica ripeterà, a partire da questa considerazione, che la potenza di Dio è infinita extensive. L’estensione (spaziale) finita dell’universo non implica la finitezza extensive di detta potenza, poiché la tradizione si richiama sia all’impossibilità di un corpo infinito, nell’aristotelismo più ortodosso, sia – nel campo della teologia o di settori ad essa sensibili – alla libertà divina e alla distinzione potentia absoluta/ordinata, per cui Dio – agente non univoco – non opera con tutta la sua potenza, per cui «effectus eius semper est minor quam potentia eius»48. In questo modo la 44. Lettera a Mersenne del 15 aprile 1530, in R. Descartes, Oeuvres, I, a cura di Ch. Adam e P. Tannery, Paris 1964, p. 145. 45. Cfr. De immenso, BOL I,II 276 (cit. supra nota 20). 46. Cfr. in particolare M. A. Granada, Il rifiuto della distinzione fra ‘potentia absoluta’ e ‘potentia ordinata’ di Dio, cit. 47. Metaphysica, XII, 7, 1073a 7-8: «Muove infatti per un tempo infinito, e nulla di ciò che è finito possiede una potenza infinita» (trad. di G. Reale). Cfr. Physica, VIII, 10, 266 a13 e b 6. 48. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, qu. 25, art.2, ad 2. Cfr. il testo di Buridano, cit. supra nota 17.

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libera volontà divina modera la sua potenza producendo un universo finito e un mondo unico, come indica l’aristotelico Elpino nel De l’infinito: «la medesima potenza di far l’immenso et innumerabili è limitata dalla sua voluntà al finito e numerabili... Ha temprato [Dio] con la sua voluntà la quantità della moltitudine di mondi innumerabili»49. Del resto, per la tradizione aristotelica cristiana, la limitazione dell’universo corporeo era compensata ampiamente (e in questo coincideva con il platonismo), dall’‘immensità’ della creatura spirituale e angelica che abitava con Dio nell’empireo. Ma per Bruno – che rifiuta in più occasioni l’esistenza di un’entità puramente intelligibile e incorporea50 e identifica gli angeli con gli astri – il problema è l’estensione dell’universo corporeo, e si è già ricordato come egli concluda, contro tutti gli aristotelismi, che, sia dal punto di vista dell’oggetto (l’universo) che dal punto di vista del soggetto efficiente (Dio), esso è necessariamente infinito: «Bisogna che di un inaccesso volto divino, sia uno infinito simulacro nel quale come infiniti membri poi si trovino mondi innumerabili»51. Essenziale alla sua argomentazione è il rifiuto della distinzione potentia absoluta/ordinata, espresso nel primo dialogo del De l’infinito e nel primo libro del De immenso (in particolare nel cap. 12)52. L’universo infinito esiste necessariamente perché la potenza infinita di Dio, uno e semplicissimo, opera necessariamente ad extra con tutto il suo vigore. Inoltre, l’identità degli attributi divini permette (anzi richiede) di far coincidere la potenza con la bontà, applicando alla prima – e alla sua azione ad extra – il principio platonico della diffusibilità del Bene; in questo modo Dio procede «secun-

49. Infinito, BOeuC IV 97. 50. Si veda la critica all’infinito soprasensibile di Palingenio nel libro VIII del De immenso. Cfr. M. A. Granada, Bruno, Digges, Palingenio: omogeneità ed eterogeneità nella concezione dell’universo infinito, «Rivista di storia della filosofia», XLVII (1992), pp. 47-79, e Id., Thomas Digges, Giordano Bruno e il copernicanesimo in Inghilterra, in Giordano Bruno 1583-1585. The English Experience/L’esperienza inglese. Atti del Convegno di Londra (3-4 giugno 1994), a cura di M. Ciliberto e N. Mann, Firenze 1997, pp. 125-155. 51. Infinito, BOeuC IV 77. 52. Cfr. i nostri articoli: Il rifiuto della distinzione fra ‘potentia absoluta’ e ‘potentia ordinata’ di Dio, cit., e Giordano Bruno e l’interpretazione della tradizione filosofica: l’aristotelismo e il cristianesimo di fronte all’‘antiqua vera filosofia’, in L’interpretazione nei secoli XVI e XVII, a cura di G. Canziani e Y.-Ch. Zarka, Milano 1993, pp. 59-82, in particolare pp. 70 ss. La stessa implicita rivendicazione della distinzione, operata dal postillatore italiano nelle sue annotazioni al primo dialogo De l’infinito, conferma che la polemica bruniana è rivolta proprio contro questa distinzione. Cfr. la nostra annotazione al primo dialogo nella traduzione spagnola, G. Bruno, Del infinito: el universo y los mundos, Madrid 1993.

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dum totam potentiam quae est ipsa bonitas, aut nihil; quae est infinita, aut non ipsius; quae se diffundit infinite aut non ab ipso»53 . Bruno può così applicare alla produzione divina dell’universo corporeo infinito tutta la ‘retorica’ del platonico principio di pienezza: Dio sarebbe ‘ozioso’ e ‘invidioso’ se non producesse l’universo corporeo infinito54. Tuttavia, a differenza di Platone, Bruno non si riferisce ad un universo fisico perfetto e quindi ‘finito’ (il risultato dall’attività demiurgica nel Timeo), ma ad un universo perfetto e quindi ‘infinito’. In effetti, per Dio solo l’infinito è oggetto adeguato alla sua produzione: Infinitae caussae et principio nihil potest esse magnum, immo nequidem aliquid nisi infinitum: si ergo se rebus corporeis communicat, seu (potius) suam magnitudinem in rerum corporearum et multitudinis existentiam explicat, objectum pro captu ejus essentiae simulacrum, atque potentiae vestigium, infinitum magnitudine et absque numero subjiciat oportet55

giacché solo l’infinito è assolutamente perfetto: Ideo perfectum simpliciter et per se et absolute est unum infinitum, quod et quo neque majus esse potest quippiam, neque melius. Hoc est unum ubique totum, Deus, naturaque universalis: cujus perfecta imago et simulacrum nullum esse potest, nisi infinitum: finitum ergo quodlibet est imperfectum, mundus quicunque sensibilis imperfectus est56.

L’universo è così assolutamente perfetto e infinito, poiché tali attributi (convergenti nella formula anselmiana «maggior del quale nulla può esistere») si riferiscono non soltanto a Dio, ma anche alla sua ‘immagine’, ossia all’universo: Perfectum simpliciter est duplex, in essentia videlicet et in imagine. Primum est quod in toto et in omni parte totum, secundum quod est in toto totum. Primum est divinitas, intellectus universi, bonitas absoluta atque veritas; secundum est corporeum illius immensum simulacrum57.

C’è quindi una differenza fra Dio e l’universo58, fra l’infinitezza dell’uno e dell’altro, senza diminuzione dell’assoluta perfezione di entrambi. L’universo è rispetto a Dio «simulacro, immagine, idea 53. De immenso, BOL I,I 246. 54. Infinito, BOeuC IV 83-85; cfr. De immenso, BOL I,I 237 ss. 55. De immenso, BOL I,I 241. 56. Ivi, p. 307. 57. Ivi, p. 312. 58. Cfr. Infinito, BOeuC IV 85-87, dove ci si riferisce ai concetti cusaniani di complicatio e explicatio.

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unica, verbo unico che porta tutte le cose, specchio della incomparabile saggezza, potenza, e bontà»59, dove nell’espressione verbo unico sembra essere implicita la polemica con il dogma cristologico60. Non entreremo nell’arduo problema dell’identità essenziale fra Dio e universo, che traduce la coessenzialità della trinità divina rifiutata da Bruno. Segnaleremo piuttosto che, secondo Bruno, Dio trasmette tutta la sua bontà all’effetto esterno (esterno secondo la terminologia cristiana, dato che per il Nolano la divinità è immanente al suo effetto). Se producesse un effetto finito, Dio sarebbe finitamente buono per questo effetto e infinitamente cattivo per la repressione dell’infinito possibile non prodotto: Et sine fine malus, bonus et finite erit ille, / Cum tanto a rebus proprium magis abstrahit actum... Nullum ociosum et avarum potest ad bonorum effectum se comunicare et diffundere, et sine causa non se diffundens potest esse bonum. Primo sicut non potens est privative malum, ita potens et nolens [la situazione descritta per la distinzione fra potentia absoluta e ordinata, secondo la quale Dio può cose che non vuole e perciò può più di ciò che vuole e fa] id ipsum positive et affirmative esset, idemque pro finito effectu finite bonus esset efficiens, pro infinitae autem actionis repressione esset infinite malus61.

In questo modo l’infinita potenza divina extensive realizza necessariamente un universo infinitamente esteso ed eterno. 3. LA POTENZA DIVINA INTENSIVA NELLA TRADIZIONE ARISTOTELICA Il moto eterno infinito del primo mobile (la sfera delle fisse) ha luogo con intensità finita: la sua velocità è limitata ed esso impiega un preciso tempo (24 ore) per compiere il suo giro. Il geocentrismo e l’immobilità terrestre operano qui in modo decisivo, stabilendo un primum mobile in movimento diario e quindi la finitezza del mondo (mobile) e il suo tempo universale. La potenza che produce questo movimento non esercita un’azione o forza d’intensità infinita, ché in questo caso produrrebbe un movimento istantaneo, ossia al di fuori del tempo. In questa situazione Aristotele non conclude – è vero – che Dio o il primo motore abbia una potenza intensiva finita: nell’evidenza che una grandezza infinita, se esistesse, avrebbe una potenza infinita e muoverebbe nell’istante, egli affer-

59. De immenso, BOL I,I 312. 60. Per una simile allusione critica, cfr. ivi, pp. 234 ss. 61. Ivi, p. 238.

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ma che essa non può essere corporea62. Soltanto un agente incorporeo può infatti muovere in un tempo infinito con un’intensità finita. Ma Aristotele non afferma esplicitamente neppure che la potenza di Dio, infinita extensive, sia infinita anche intensive, causando un movimento di intensità o velocità finita63. In mancanza di una netta presa di posizione da parte di Aristotele, la tradizione che a lui si richiama seguirà due vie o perfino tre, se si considerano anche la linea di Proclo e di altri commentatori neoplatonici, secondo i quali l’universo, che riceve da Dio l’essere oltre il movimento, lo fa nella misura (finita) in cui gli è possibile, ossia, in ‘dosi’ successive e con una intensità finita. Questa linea interpretativa riconduce così all’inadeguatezza dell’essere mobile rispetto alla potenza divina la radice della finitezza dell’azione intensiva di Dio64. Ad essa risponderà Bruno idealmente con la sua tesi della perfetta corrispondenza fra agente e paziente, Dio e materia. Ma veniamo alle altre due vie con le quali Bruno entra in aperta polemica. Si tratta da una parte della linea strettamente filosofica che, perseguendo una esegesi di Aristotele indipendente dalla religione e dalla fede e postulando la simmetria fra causa ed effetto (che Bruno denominerà «legge dei relativi»), dichiara finita la potenza intensiva di Dio e l’intensità del movimento del primum mobile; dall’altra, della linea sviluppata per lo più da teologi e pensatori legati al dogma cristiano, secondo i quali la potenza intensiva di Dio è infinita, mentre la finitezza del suo effetto può essere ricondotta ad un limite intrinseco alla creatura e alla stessa sostanza corporea, ma soprattutto ad un atto volontario di Dio, che adegua il suo vigore alla velocità attuale del primum mobile. I filosofi La linea filosofica che considera finita la potenza intensiva di Dio ha un’autorità fondamentale: Averroè e nella tradizione latina i suoi

62. Vd. Physica, VIII, 10, 266b 6 ss.: il movimento istantaneo è una nozione contraddittoria dato che il movimento accade sempre nel tempo. Cfr. Physica, VI, 3, 234b 9 («necessariamente, quanto si trova in movimento solo si può muovere nel tempo») e Averroè, De substantia orbis, cap. 3, in Aristotele, Opera... cum Averrois Cordubensis Commentariis, IX, Venetiis, apud Juntas, 1573, c. 8 M-9 A: «... ex quo sequitur quod, si aliquod corpus habuerit virtutem infinitam, ut moveatur in non tempore. Sed declaratum est omnem motum esse in tempore. Nam in omni motu est prius et posterius, quae sunt in tempore». 63. Si veda A. Maier, Bewegungskräfte und Energien, in Metaphysische Hintergründe der Spätscholastischen Naturphilosophie, Roma 1955, p. 233. 64. Si veda R. Sorabji, Infinite Power Impressed, cit.

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garanti saranno i fedeli seguaci del Commentatore. In effetti, nel terzo capitolo del Sermo de substantia orbis, Averroè distingue i due infiniti (estensivo e intensivo) e riconosce il primo alle sfere celesti e ai loro motori, giacché il movimento del cielo è eterno; esclude invece il secondo: l’infinità intensiva del movimento celeste implicherebbe che questo movimento accadesse all’instante (in non tempore), mentre qualsiasi movimento si compie necessariamente nel tempo, consistendo in un prima e in un poi65. Il movimento istantaneo è quindi una contraddizione e come tale assolutamente impossibile66. Nonostante ciò, il motore immobile ha una potenza infinita? Il De substantia orbis non offre una risposta esplicita alla questione, ma il Commentario al De caelo segnala chiaramente che la potenza intensiva dei motori separati e pertanto del primo (Dio) è finita; in caso contrario e considerando che fra il motore infinito e il mobile finito non ci sarebbe proporzione, il movimento sarebbe istantaneo, contro l’evidenza del senso e la nozione stessa di moto. La potenza di Dio è quindi finita d’intensità: Sed iam declaratum est quod motores coelorum differunt et in potentia et in esse: et cum hoc unumquodque eorum movet per tempus infinitum: non igitur remanet, ut differant nisi propter diversitatem proportionis inter unumquodque eorum et corpus quod movetur. Et, si potentiae eorum essent infinitae in vigore movendi, non esset proportio inter motorem et rem motam, et, si hoc esset, non esset differentia inter eos neque esset illic multitudo omnino... nedum ut quilibet eorum [motorum] habeat potentiam movendi in infinito et, si ita esset, inveniretur motus in instanti et omne hoc est impossibile. Et ideo opinandum est quod potentiae moventium separabilium a materia sunt finitae uno modo, et infinitae alio modo... Et ideo credendum est quod potentiae moventium sunt terminatae proportionis ad corpora mota, et quod infinitas non inveniretur in eis nisi propter aeternitatem67.

Questa posizione doveva già essere sufficientemente diffusa nei circoli filosofici parigini del secolo XIII se risulta inclusa fra le tesi condannate dal vescovo Tempier nel 1277. La tesi n. 26 afferma 65. Vd. supra nota 62. 66. «Infinitum dicitur duobus modis, quorum unus est virtus infinitae actionis, et passionis in tempore, et est finita in se, scilicet in velocitate, et vigore, secundus est virtus infinitae actionis, et passionis in se. Virtus autem infinita in actione sua, aut passione non existit in corpore... haec enim non accidit corpori, nisi secundum quod est corpus infinitum, et ideo orbes movent et moventur in tempore, virtutes vero in actione et passione infinitas in tempore necessarium est esse in corporibus coelestibus» (Sermo de substantia orbis, cit., c. 9G). 67. Averroè, Commentario al De caelo, libro II, com. 38, in Aristotele, Opera, cit., V, c. 122 G-K. Cfr. ivi, com. 39, c. 123 F: «potentia motoris est terminata».

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infatti: «Quod Deus est infinitae vigoris in duratione, non in actione, quia talis infinitas non est nisi in corpore infinito, si esset»68. Non sappiamo con certezza chi poteva aver sostenuto questa dottrina, che non sembra risalire a Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia. La troviamo invece esposta, nel secolo XIV, dal famoso averroista Giovanni di Jandun. Egli dedicò – nelle sue Quaestiones sulla Fisica di Aristotele – una quaestio al tema «An Primum movens sit vigoris infiniti»69. In essa si sostiene che se Dio è causa efficiente immediata del movimento del primo mobile, la filosofia – ossia l’autorità della ragione incarnata nelle figure di Aristotele e Averroè – può soltanto dichiararlo di «potenza finita»70. Nell’opinione di entrambi, Dio – fatta eccezione per l’infinità della sua potenza estensiva – non agisce con una potenza infinita intensive, non potendo realizzare la velocità infinita del primum mobile. Questa è – secondo Giovanni di Jandun – la sola conclusione cui possa pervenire la ragione, anche se per fede egli sa e ‘confessa apertamente’ che Dio possiede una potenza infinita intensiva. Si tratta di una conclusione che sfugge alla ragione e ai princìpi naturali, che sembrerebbero piuttosto stabilire il contrario; essa può dunque essere sostenuta soltanto sul piano religioso, in cui fa fede la rivelazione divina. Mantenendo distinti – in linea con la tradizione averroista – l’ambito razionale e quello religioso, egli può sostenere che le ragioni naturali contrarie alla potenza infinita divina intensiva sono dissolte e annullate, poiché la verità della fede stabilisce che Dio non muove per necessità, ma secondo il suo intelletto e la sua volontà, ossia liberamente, in maniera tale da poter non muovere affatto o muovere con intensità inferiore alla sua potenza infinita, vale a dire con vigore finito, adeguandosi così alla capacità finita del primum mobile: Et similiter vigor eius [Dio] eo modo quo, vigorem habet est infinitus, sic quod non habet initium durationis, nec habebit terminum durationis, sed non est infinitus intensive, sic scilicet quod possit agere velocitatem infinitam... Et sic diceret Aristotelem et Commentatorem ut mihi videtur. Sed secundum fidem et veritatem dico, quod primum principium quod est Deus, sive moveat immediate active, sive non, est infiniti vigoris simpliciter. Et hoc non probo aliqua ratione, quia neque scio, neque puto possibile secundum principia naturalia, sed sola fide sic assero et simpliciter

68. Si veda R. Hissette, Enquête sur les 219 articles condamnés à Paris le 7 mars 1277, cit., pp. 60-63. 69. Giovanni di Jandun, Quaestiones super octo libros Aristotelis De physico auditu, Venetiis 1551, lib. 8, qu. 22, ff. 127v-129r. Per la presenza di questa tesi già in Sigieri di Brabante, vd. B. Nardi, Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, Roma 1945, pp. 50 s. 70. Ivi, f. 128 D.

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confiteor. Rationes autem in contrarium solvuntur propter hoc quod primum movens est movens per intellectum et voluntatem, et non de necessitate naturae, immo etiam posset non movere, et ideo non oportet quod moveat quantum movere potest: quia subiectum scilicet mobile non est possibile recipere illud quod ipse Deus de se posset facere, scilicet velocitatem infinitam71.

Per Giovanni di Jandun la dottrina teologica dell’Aquinate e di Duns Scoto non è sostenibile sul piano razionale, ma consiste piuttosto in una verità rivelata, da accettarsi come tale e non come verità filosofica, poiché razionalmente (sulla base del pensiero di Aristotele e Averroè) si conclude piuttosto il contrario: la necessità dell’azione divina e la sua potenza finita intensive. Non è molto diversa la posizione di Giovanni Buridano, che trattò la stessa questione – «Utrum primus motor, scilicet Deus sit infinite vigoris» – nelle sue Quaestiones super octo Physicorum libros Aristotelis e nelle In Metaphysicen Aristotelis quaestiones. Per il maestro parigino è chiaro che Aristotele e il suo Commentatore sono dell’opinione che la potenza divina intensiva sia finita; questa opinione appare fondata su ragioni di gran peso, fra le quali menzioneremo, per la loro rilevanza per l’impostazione bruniana, le seguenti: a) una potenza infinita implicherebbe il moto istantaneo del mobile e quindi qualcosa di intrinsecamente contraddittorio; ne consegue l’impossibilità della potenza infinita del motore72, il cui plus di potenza risulterebbe (sembra suggerito) ozioso e vano; b) se Dio muove volontariamente e liberamente, cioè non costretto da necessità naturale, la sua potenza intensiva può essere infinita; tuttavia, tenuto conto dell’impossibilità della velocità infinita, una potenza infinita sarebbe potenza dell’impossibile73 ; c) questa concezione di Dio come motore libero e volontario contraddice l’immutabilità di Dio e gli attribuisce una libertà inadeguata: la libertà umana di 71. Ivi, ff. 129 C-D. 72. In Metaphysicen Aristotelis quaestiones, Parisiis 1588, libro XII, qu. 6 (Utrum fuerit intentio Aristotelis et Commentatoris quod Deus moveat primum mobile active, an solum quod moveat ipsum per modum causae finalis), f. LXIXr, b. Non c’è nessun effetto osservabile a partire dal quale la ragione possa inferire l’infinità intensiva della potenza divina. Cfr. Quaestiones super octo Physicorum libros Aristoteles, libro VIII, qu. 11 (Utrum primus motor, scilicet Deus sit infinite vigoris), Parisiis 1509, f. CXIXv, b. 73. In Metaphysicen Aristotelis quaestiones, cit., f. LXVIIv, b: «Deus movet voluntarie et libere et non naturali necessitate: ideo non movet quantumcumque velociter potest movere, sed quantum vult. Ideo quamvis sit infinitae potentiae non sequitur quod moveat infinita velocitate... Contra dictam rationem obiicitur sic: ponamus inesse quod velit movere quantumcumque velociter potest. Non debet sequi impossibile et tamen sequeretur impossibile si esset potentiae infinitae active, quia sequeretur quod moveret infinita velocitate».

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scegliere fra possibilità diverse, di contro alla corretta concezione della libertas divina come autodeterminazione verso il bene: Deus non potest movere nisi quantum Deus potest velle, cum non moveat nisi per voluntatem, sed non potest velle movere velocius quam nunc vult, propter hoc quod ipse omnino immutabilis est et voluntas eius est ipsemet. Ideo etiam voluntas eius est omnino immutabilis. Ergo concluditur quod ipse non potest movere velocius quam ipse movet, et tamen velocius posset movere si esset infinitae potentiae activae74; nec Aristotelis putavit quod Deus posset facere vel movere maius mobile vel maiori velocitate et ad probandum arguisset per immutabilitatem voluntatis divinae... Sed aliqui aliter volunt arguere contra Aristotelem per libertatem voluntatis. Certum enim est quod voluntas Dei est summe libera et non esset libera si non posset in actus oppositos, ut si non posset aliquando movere aliquando non movere velocius aliquando tardius. Sed ad hoc responderet Aristoteles quod sicut voluntas nostra non dicitur libera ex eo quod potest peccare et velle peccare, sed ex eo quod potest bene agere ex sui gratia, Aristoteles sic diceret quod simpliciter et summe liberum dicitur [Deus] non quia potest in opposita sed quia est et agit sui ipsius gratia75; Deus est omnino immutabilis, sicut etiam fideles concedunt. Et Deus est sua voluntas, suus intellectus, sua intellectio et sua volitio. Ideo haec omnia sunt simplicitet penitus immutabilia, ex quo videtur sequi quod Deus non posset aliter intelligere quam intelligit, nec aliter velle quam vult. Et quia nec agit nec movet nisi per intellectum et voluntatem, ideo non potest aliter agere vel movere quam ipse agit vel movet76.

Comunque Buridano riconosce ‘per fede’ l’infinità della potenza divina intensiva: conoscenza rivelata che sfugge alla forza dimostrativa della ragione, le cui operazioni si determinano sempre a partire dall’esperienza: Tamen non obstante tali opinione Aristotelis et Commentatoris, ego fide pura credo quod Deus est infiniti vigoris et quod omnini mobili dato posset 74. Ivi, f. LXVIIv, b. 75. Quaestiones super octo Physicorum libros, cit., f. CXIXv, b. Per una trattazione della questione affine alla concezione aristotelica (filosofica) qui esposta da Buridano e contraria alla tesi teologica (aristotelico-scolastica), cfr. Bruno, De immenso, BOL I,I 247 (cit. supra). 76. In Metaphysicen Aristotelis quaestiones, cit., f. LXIX, a. Cfr. la replica di Buridano: l’immutabilità della volontà divina non impedisce che la sua decisione eterna e immutabile fosse in origine un’altra; Dio, infatti, avrebbe potuto non volere la creazione del mondo, che quindi non sarebbe stato creato (ivi, f. LXIXv, b). Dobbiamo notare che nell’impostazione dell’aristotelismo filosofico si esclude implicitamente la distinzione fra la potenza divina absoluta/ordinata. Buridano sembra invece accettarla quando precisa: «quando ergo tu dicis quod quicquid Deus potest velle, ipse vult, ego nego» (ibid.).

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movere et creare maius mobile in duplo et in centuplo et in quacunque proportione posses dicere, et sic de velocitate; sed hoc nescirem demonstrare ex principiis evidentiam habentibus ex sensatis77.

Il dibattito sull’infinità della potenza intensiva divina diventò più intenso nella filosofia italiana verso il 1500, suscitando gli interventi di molti rappresentanti dell’aristotelismo padovano e bolognese. Gli interventi nell’ambito della filosofia (di ascendenza averroista) sono stati studiati sufficientemente da Antonino Poppi78. Questa constatazione, insieme al carattere ripetitivo della tesi filosofica (la potenza intensiva di Dio è finita a causa della velocità finita del primo cielo e per il carattere contraddittorio del moto istantaneo che causerebbe), ci esimono da un’esposizione approfondita. Basti ricordare che questa è la tesi costantemente sostenuta da Elia di Creta o dal Medigo79 nel 1480, Alessandro Achillini nel 1494 e 149880, Agostino Nifo nel 150481, Girolamo Tagliapietra nel 150682, Pietro Pomponazzi nel 150783, Marco Antonio Zimara84. Dell’insieme delle loro argomentazioni sottolineeremo solo alcuni aspetti, a nostro parere interessanti per la radicale revisione che essi subiranno nel pensiero di Bruno. Tutti questi autori si dichiarano ‘filosofi di professione’, impegnati nell’esegesi di Aristotele e di Averroè e nella considerazione 77. Quaestiones super octo Physicorum libros, cit., f. CXXr, a. Cfr. inoltre In Metaphysicen, cit. ff. LXIXr, a e LXIXv, a. Così l’argomento che Dio possiede un vigore infinito, avendo creato il mondo dal nulla, è utilizzabile solo nella prospettiva della fede. Sullo sviluppo della questione nel secolo XIV si veda A. Maier, Bewegungskräfte und Energien, cit. 78. A. Poppi, Causalità e infinità nella scuola padovana dal 1480 al 1513, Padova 1966. 79. Elia di Creta, De primo motore, acutissima quaestio, An Deus gloriosus, omnium rerum Primum principium, moveat primum Coelum sicut efficiens et sicut finis, vel tantum sit movens sicut finis, in Giovanni di Jandun, Quaestiones super octo libros Aristotelis de Physico auditu, cit., ff. 130r-139v. 80. A. Achillini, Quodlibeta de intelligentiis (opera del 1494), in Opera omnia, Venetiis 1545; Id., De orbibus (opera pubblicata nel 1498), anch’essa inserita negli Opera omnia. Su Achillini cfr. B. Nardi, Saggi sull’aristotelismo padovano dal secolo XIV al XVI, Firenze 1958, cap. VIII, in particolare pp. 183-193. 81. De infinitate primi motoris (opera del 1504), in A. Nifo, In libros Aristotelis de Generatione et Corruptione Interpretationes et Commentaria, Venetiis 1543, ff. 119v-124r. 82. G. Tagliapietra, Summa divinarum ac naturalium quaestionum Romae in capitulo fratrum minorum publice discussarum, Venetiis 1506. Su questo autore cfr. B. Nardi, op. cit., cap. X, particolarmente pp. 294 ss. 83. P. Pomponazzi, Super libello De substantia orbis expositio et quaestiones quattuor (opera inedita, redatta nel 1507), ora raccolta in P. Pomponazzi, Corsi inediti dell’insegnamento padovano, I, a cura di A. Poppi, Padova 1966. 84. M. A. Zimara, Tabula et dilucidationes in dicta Aristotelis et Averrois, Venetiis 1564.

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puramente naturale dei problemi filosofici, al margine dell’insegnamento della fede. Di conseguenza, le loro opinioni non solo coincidono nell’affermare che il Filosofo ed il suo Commentatore ritenessero il vigore divino, ossia la sua potenza intensiva, finito, ma sono unanimi nel dichiarare che questa sia l’unica conclusione sostenibile sul piano dell’esperienza e della ragione filosofica. Tutti concordano, peraltro, nel dichiarare la loro ferma convinzione, basata sull’insegnamento della fede rivelata, circa la potenza intensiva infinita di Dio. L’alta concezione del creatore comunicata dalla fede rimaneva dunque in qualche modo estranea all’ambito filosofico. Su questo insistono con forza Nifo e Tagliapietra; il secondo, forse, non senza un certo sarcasmo: Conclusionem Theologorum tenemus, illam Philosophorum negamus, verum quia nos conclusionem Theologorum inter credita reponimus, et non inter ea, quae naturali ratione attinguntur (ut posteriores dicunt [riferimento al tomismo e allo scotismo]) rationes illorum solvere cogimur, ne quis credat nos conclusioni eorum habere propter argumenta, quae non trascendunt metam disputationis. Qui enim ultra vires naturae evagantur, dicunt deum esse ens simpliciter infinitum, reponi inter ea quae rationi naturali attinguntur, nos vero qui infra limina naturae militamus, illud credimus, at per rationem naturalem attingi non posse adiicimus85; nihil nobis apparet ad sensum, per quod possumus in primo arguere infinitatem vigoris, ergo, etc... Et has teneo ego esse firmas demonstrationes in via philosophi et Commentatoris contra tenentes oppositum, non tamen propter hoc catholicae fidei derogando, cuius negocium est supra naturam, et ideo ex sensatis a nobis convinci non potest, hinc est quod saepe saepius soleo deridere, quaerentes in fide catholica (in qua per revelationem et sub aenigmate propter eius excellentiam nobis scientiam concessit omnipotens deus) rationes et demonstrationes. Hoc enim fidei rationi repugnare videtur, propterea sine aliqua demonstratione et absque ambiguitate sacrosanctae ecclesiae doctoribus credendum esse censeo86 .

Fra le ragioni scelte da questi autori a favore della finitezza della potenza intensiva di Dio sono da segnalare: 1) impossibilità e contraddizione del moto istantaneo derivante dalla potenza infinita intensiva e dalla legge della simmetria fra causa ed effetto: 85. A. Nifo, De infinitate primi motoris, cit., f. 123 L-M (cit. in Poppi, Causalità e infinità, cit., p. 231). Cfr. ibid., f. 124 F (A. Poppi, op. cit., pp. 233 s.): «Posteriores theologi acceptis creditis, quae in libris sacris traduntur, prodidere eum [Deum] esse et vigore et tempore infinitum, et simpliciter ens, et nos acceptamus rem, sed hoc esse creditum, non ratione naturali demonstrabile». 86. G. Tagliapietra, op. cit., cap. 8 (cit. in Poppi, op. cit., pp. 267 ss.).

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Si [Dio] ut agens [i. e. come causa efficiente del moto del primo cielo] etiam consideretur, cum maximum in quo potest ipsum agens sit mensura potentiae agentis, maxima autem actio dei sit finita, et eius potentia similiter... Potentia infinita vigore, ad mobile finitum est proportio infinita, et motoris finiti ad mobile finitum est proportio finita. Igitur velocitas qua motor infinitus movet mobile finitum, erit in infinitum maior velocitate qua motor finitus movet mobile finitum. Igitur in non tempore. Velocitas enim infinita non potest esse nisi in non tempore87.

2) Negatività e contraddittorietà dell’infinito. Così Elia di Creta – per escludere l’infinità della potenza intensiva di Dio – insiste sull’inesistenza dell’infinito in atto e sul suo carattere contraddittorio, mettendo in evidenza il fatto che la parte dell’infinito verrebbe ad essere a sua volta infinita (da cui deriverebbe che il tutto non è maggiore che la parte)88. Pomponazzi, da parte sua, sembra osservare che Dio non può possedere un ‘vigore’ infinito perché l’unico modo di sfuggire al moto istantaneo (impossibile) sarebbe ammettere l’esistenza di un universo corporeo infinito in estensione mosso da Dio; conseguenza, anche questa, inammissibile: si daretur virtus motiva infinita opporteret dari corpus motum infinitum etiam..., quia virtuti motivae infinitae oportet quod correspondeat corpus motivum infinitum, quia aliter motus fieret in instanti89.

L’osservazione di Pomponazzi è molto interessante per noi, poiché sostiene – sulla base della simmetria causa/effetto – che la potenza infinita di Dio implica l’infinità dell’effetto sul piano intensivo ed

87. A. Nifo, op. cit., f. 122 D-E. Per Pomponazzi si veda Super libello de substantia orbis, cit., pp. 168 ss.; per Achillini cfr. A. Poppi, op. cit., pp. 187 e 193; per Zimara, ivi, p. 254, nota; per Tagliapietra, infine, ivi, pp. 266 e 270. 88. Elia di Creta, Quaestio de primo motore, cit., f. 138v, C-D: «Infinitum in actu non est ens, et a fortiori nec actus purus. Sed forte aliquis respondebit, quod non inconvenit in abstractis et non quantis: sed hoc nihil est, nam infinitum sive quantum vel quale vel quodcumque sit, eius esse est impossibile, nam aliter sequeretur quod totum est aequale parti suae: hoc autem est impossibile sive totum sit quantum, sive perfectionale: consequentia patet per has duas suppositiones, scilicet quod medietas infiniti est infinitum, secundo quod nullum infinitum, saltem cum imaginabitur actu existens, excedit aliud... Praeterea infinitum in actu, et totum et completum, est sermo contradicens sibi ipsi, nam ponendo aliquid esse totum et completum, oportet nihil esse extra ipsum, ponendo autem ipsum infinitum, sequitur quod semper est aliquid extra ipsum» (cit. in Poppi, Causalità e infinità, cit., p. 147). Elia di Creta nega quindi la perfezione dell’infinito, sostenendo una posizione per la quale tale nozione non può riferirsi a Dio. 89. P. Pomponazzi, Expositio libelli de substantia orbis, cit., p. 172. Tagliapietra sembra essere della stessa opinione: «intelligentia infinite nobilis infinite magnum caelum moveret», cit. da A. Poppi, op. cit., p. 266.

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estensivo (spaziale). L’infinità della potenza divina è annullata dall’impossibilità del suo effetto – il movimento istantaneo e il corpo infinito dell’universo. In Bruno invece troviamo, come si è visto, l’affermazione positiva di detta infinità della potenza divina appunto per la possibilità del corpo infinito (potenza infinita extensive). Ci resta da vedere come imposta il Nolano il problema dell’intensità. 3) Immutabilità di Dio, necessità della sua azione, coestensione di tutti i suoi attributi nell’unità divina. Tutti gli autori che stiamo esaminando sono unanimi nel rifiutare come contraria alla ragione (anche se certa per fede rivelata) la tesi tomista di un Dio motore «per intellectum et voluntatem». Lo stesso Elia di Creta insisteva su questo punto riferendosi ad «alcuni filosofanti latini»: «responsiones autem dictae a quibusdam Latinorum Philosophantibus, scilicet quod etiamsi posuerimus istos motores posse movere infinite velociter, tamen non volunt, est sermo extra Philosophiam»90. Per tutti, al contrario, Dio muove per necessità della sua natura e, considerata l’unità della sua essenza e dei suoi attributi (la differenza fra i quali è semplicemente di ragione), muove con tutta la sua potenza, portata all’atto dalla sua volontà. Il contrario, ossia la differenza fra la sua potenza infinita e il necessario effetto finito – vista l’impossibilità dell’effetto infinito –, attenterebbe alla sua immutabilità e unità: Ista abstracta et maxime primum, substantia non excedit suam potentiam, nec sua potentia excedit eius velle, vel voluntatem, nam haec omnia in illo omnino sunt idem, tamen differunt secundum considerationem, et immo faciunt tantum quantum possunt, et faciunt totum quod volunt... Et si quaedam istarum virtutum [gli attributi di Dio] sunt debiliores quibusdam, scilicet non ita fortes, non erit differentia inter nos et primam causam, et sic attribuitur ei defectus et diminutio ut nobis, quod est valde inconveniens91.

Così si esprime Elia di Creta. Da parte sua. Nifo insiste – naturaliter loquendo – sul fatto che se la potenza divina infinita restasse inattiva per muovere il cielo con l’intensità finita con la quale esso è effettivamente mosso, essa sarebbe inutile. Inoltre l’immagine di Dio come suscettibile di operare in modo diverso da come opera di fatto (nel segno della finitezza) contraddirebbe la sua immutabilità: Deus agit vel quantum sua potentia se extendit aut secundum partes potentiae. Si secundum totam potentiam, cum illa sit infinita, igitur motus

90. Elia di Creta, Quaestio de primo motore, cit., f. 138v C, cit. da A. Poppi, op. cit., p. 147. 91. Quaestio de primo motore, cit., f. 139r A. Per Achillini cfr. A. Poppi, Causalità e infinità, cit., pp. 189 ss. e B. Nardi, op. cit., pp. 189 ss.

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in non tempore.Si secundum partem agit, secundum partem non, illa pars per quam agit intelligatur esse A et illa per quam non agit intelligatur esse B... Vel igitur B est activa vel non; si non igitur in Deo partes potentiae A et B non erunt eiusdem rationis. Si activa et nunquam agit, tunc erit frustra in Deo... Deus mere necessario movet. Nam vel Deus ita agit quod aliter agere, vel egisse, vel actum fore, est implicans contradictionem, vel ita quod potest aliter agere, vel egisse, vel actum fore. Si primum, igitur Deus est agens simpliciter necessarium. Necessarium enim simpliciter est, quod nec est, nec fuit, nec erit aliter, nec contingit esse, vel fuisse, vel fore aliter. Si secundum, igitur variabilis, quia si potest velle actionem aliter quam nunc agit, igitur efficitur de volente nolens, quia et volente actionem A et nolens A tale autem est variabile92.

Troviamo la stessa argomentazione in Tagliapietra, perché secondo Poppi «proclamare infinita la sua virtù [di Dio] e poi rilevare che non passa mai all’atto a causa della non ricettività del mobile, è parimenti contrario alla mente del Filosofo, secondo il quale ad ogni potenza attiva deve rispondere un’altra passiva della stessa ampiezza, sotto pena di rendere oziosa e disordinata la prima»93; con l’aggiunta che «a Dio infine non basterebbe una esplicitazione ad intra della sua attività infinità»94. Sono motivi che troviamo in Bruno, per inferire però non la finitezza della potenza divina dall’evidente finitezza del suo effetto, ma la necessaria infinità dell’effetto partendo dall’infinità della potenza divina, ampliando alla sfera ‘intensiva’ (il vigore) l’infinità dell’essenza divina e della sua potenza estensiva, in accordo con i risultati raggiunti dalla teologia cristiana e con la stessa concezione aristotelico-averroista dell’unità e immutabilità divine. I teologi Per i teologi, invece, non esisteva alcun dubbio sul fatto che l’intenzione di Aristotele (in Physica, VIII, 10) fosse quella di dimostrare l’infinita potenza intensiva di Dio; nessun dubbio, inoltre, sul fatto che egli fosse riuscito a provarlo razionalmente. Mentre Guglielmo di Occam dissentiva da questa opinione95, Tommaso d’Aquino e Duns Scoto l’avevano difesa strenuamente. Gli argomenti con i quali i teologi scolastici del primo Medioevo stabilirono l’infinità della potenza intensiva di Dio sono stati analizzati rigorosamente da An-

92. 93. 94. 95.

A. Nifo, De infinitate primi motoris, cit., f. 122 I-L. A. Poppi, Causalità e infinità, cit., p. 266. Ibid. Cfr. A. Maier, Bewegungskräfte und Energien, cit., pp. 255 ss.

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neliese Maier96. A noi comunque interessa la tesi dell’infinità intensiva soprattutto in relazione al tentativo, operato dai teologi, di renderla compatibile con la constatazione del suo effetto finito: la velocità finita del movimento del primo mobile, contrariamente quindi alla legge della simmetria tra la causa e il suo effetto. Tommaso d’Aquino e Duns Scoto stabilirono la norma al riguardo. Tommaso d’Aquino fece fronte all’esegesi averroista di Aristotele nel suo commento alla Fisica. In questo testo – a proposito del capitolo VIII, 10 – egli presenta l’argomentazione che diverrà la linea cardine della teologia scolastica su questo problema: il principio secondo il quale l’agens materiale muove con tutta la sua forza, mantenendo la simmetria fra causa ed effetto, solo nel caso dei corpi e delle potenze presenti in essi. Nel caso delle intelligenze, e quindi di Dio, il movimento viene invece controllato ed indirizzato dall’intelletto, per cui la potenza divina viene spontaneamente a moderarsi e limitarsi, contraendosi al finito. San Tommaso sostiene infatti che l’azione della potenza divina «viene proporzionata» non a se stessa, ma allo scopo propostosi da Dio nella creazione97. Il fine che Dio si propone è un corpo (l’universo) in movimento. Orbene, la rappresentazione di un corpo con moto istantaneo è contraddittoria. Ma questo, lungi da portare alla conclusione del carattere finito della potenza motrice, obbliga a pensare che il mobile corporeo non può ricevere «un effetto uguale proporzionale alla potenza» divina98. Da ciò la moderazione e adattamento della potenza divina al suo fine e alla natura di esso. Nella Summa Theologiae (I, qu. 25, art. 2: «Utrum potentia Dei sit infinita») la posizione è ancor meglio precisata. Nella terza obiezione è presentato il moto finito del 96. Ivi, passim. 97. «Omnis potentia quae non est in magnitudine, movet per intellectum... Haec autem est differentia inter agens per intellectum et agens materiale, quia actio agentis materialis proportionatur naturae agentis; tanta enim procedit calefactio quantus est calor: sed actio agentis per intellectum, non proportionatur naturae ipsius, sed formae apprehensae; non enim aedificator tantum aedificat quantum potest, sed quantum exigit ratio formae conceptae. Sic igitur si aliqua esset virtus infinita in magnitudine, sequeretur quod motus ab ipsa procedens esset secundum proportionem eius... Si autem sit virtus infinita non in magnitudine, motus ab ipsa non procedit secundum proportionem virtutis, sed secundum rationem formae apprehensae, idest secundum quod convenit fini et naturae subiecti» (Tommaso d’Aquino, lectio XXI, § 10). 98. Ivi, §§ 10-11: «Manifestum est autem, quod nihil habens magnitudinem potest recipere effectum aequalem proportionaliter potentiae quae non est in magnitudine... Sed moveri velocitate infinita, idest in non tempore, contrariatur rationi magnitudinis, ut in sexto probatum est. Unde a primo movente infinitae virtutis, secundum Aristotelem, causatur motus diuturnitatis infinitae; non autem motus velocitatis infinitae».

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primo mobile come evidenza del carattere finito della potenza divina (intensiva), ossia la tesi dei filosofi. Nella risposta generale si afferma che, essendo l’essenza divina infinita, anche la sua potenza lo è necessariamente. E all’obiezione indicata si replica (richiamandosi alla intentio di Aristotele) che Dio, come motore incorporeo e «non univoco», «muove secondo la disposizione della sua volontà»99: Dio muove liberamente, non per necessità; non muove dunque secondo tutta la sua natura e potenza (infinite), ma secondo la natura del fine propostosi, e quindi con vigore finito. Poco dopo, nel corso dell’articolo 5 («Utrum Deus possit facere quae non facit») delle stessa questione 25, san Tommaso introduce – per rifiutare la tesi necessitarista che uguaglia la potenza e l’azione effettiva di Dio: «[Deus] non potest facere nisi ea quae facit» – la differenza fra la potentia absoluta e ordinata di Dio, in virtù della quale «dicendum est quod Deus potest alia facere, de potentia absoluta, quam quae praescivit et ordinavit se facturum»100. Sarebbe comunque stato possibile applicare al problema presente, anche se l’Aquinate non lo fa esplicitamente, la distinzione nella potenza divina e segnalare che, sebbene Dio in senso assoluto possa muovere il cielo con maggiore o minore vigore (ma non con intensità infinita, nella misura in cui questa nozione è contraddittoria e incompatibile con il mobile corporeo finito), ha deciso liberamente di muoverlo con la velocità con la quale de facto lo muove. Anche Duns Scoto si confronta con la posizione filosofica (averroista). A suo parere Averroè sbaglia nell’attribuire a Dio un’azione necessaria, poiché in questo modo non riconosce la libertà divina. Questo è in realtà un difetto e una limitazione che egli considera propri di tutto il pensiero filosofico greco e che ha trovato definitivo superamento nella concezione cristiana di Dio in cui si realizza, di fatto, una ‘depurazione’ dell’idea filosofica di causa prima in accordo con il dato rivelato. Dunque per i cristiani il problema ha facile soluzione, perché essi sono consapevoli che la potenza infinita di Dio «attua liberamente e contingentemente», non per necessità. Pertanto, come un agente infinito che operasse costretto da una necessità interna lo farebbe applicando tutta la sua potenza, quindi muovendo istantaneamente (contro l’evidenza empirica), così l’infinita potenza intensiva di Dio nel suo operare liberamente, muove 99. «Sed movens incorporeum est agens non univocum. Unde non oportet, quod tota virtus eius manifestetur in motu ita, quod moveat in non tempore. Et praesertim, quia movet secundum dispositionem suae voluntatis». 100. Summa Theologiae, I, qu. 25, art. 5 ad primum. Cfr. ibid.: «nihil prohibet esse aliquid in potentia Dei, quod non vult, et quod non continetur sub ordine quem statuit rebus».

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con il vigore che vuole e perciò conferisce al primo mobile la velocità finita che notiamo nel suo movimento diario: Sed christianis non est argumentum difficile, qui dicunt Deum contingenter agere; ipsi enim possunt faciliter respondere, quia licet virtus infinita necessario agens agat secundum ultimum sui, et ita in non-tempore, quidquid immediate agit, non tamen virtus infinita contingenter et libere agens: sicut enim est in potestate eius agere vel non agere, ita est in potestate eius in tempore agere vel in non-tempore agere; et ita facile est salvare primum movere corpus in tempore licet sit infinitae potentiae, quia non necessario agit, nec secundum ultimum potentiae, quantum scilicet posset agere, neque in tam brevi tempore in quam brevi posset agere101.

Come abbiamo detto, con l’Aquinate e Duns Scoto si fissa la posizione della teologia scolastica. La tradizione posteriore si limiterà a riprodurre la loro dottrina. Troveremo un esempio in Tommaso de Vio (1469-1534), il celebre cardinale Gaetano, generale dei domenicani e commentatore della Summa Theologiae dell’Aquinate. De Vio scrisse nel 1499 un trattato De Dei gloriosi infinitate intensiva, nel quale la posizione della teologia scolastica è reiterata. Effettivamente, il problema dell’intensità infinita del movimento – possibile a Dio e alla sua infinita potenza intensiva – è ovviato insistendo sul carattere libero dell’azione motrice divina102 e sull’impossibilità, a parte obiecti, dell’infinito in atto103. 4. LA POTENZA INFINITA INTENSIVA E IL SUO EFFETTO INFINITO IN BRUNO Dal già ricordato capitolo 15 del VII libro del De immenso si evince come Bruno avesse certamente presente il problema della potenza intensiva di Dio e del suo effetto104. In esso Bruno sottolinea come la rivelazione divina stabilisca «il buon principio» secondo il quale «Dio [ha] potenza infinita sia intensiva che estensiva», invece i «teologi 101. Giovanni Duns Scoto, Ordinatio I, dist. 2, pars 1, qu. 2, n. 156, in Opera, cit., II, p. 221. Poco prima lo stesso Duns Scoto si era rimesso, contro il necessitarismo nell’azione divina, alla critica manifestata: ibid., dist. 8, pars 2, qu. unica. Cfr inoltre A. Poppi, op. cit., pp. 82-92 e A. Maier, op. cit., pp. 243-245. 102. Lo scritto del Gaetano fu pubblicato nell’edizione dei suoi Opuscula omnia, Lione 1562. Cfr. A. Poppi, op. cit., pp. 170-185, particolarmente pp. 182-184, e più recentemente B. Pinchard, Le retour à Aristote et la question de l’infini. L’ordre de la nature à l’épreuve de la puissance de Dieu, in AA. VV., Rationalisme analogique et humanisme théologique. La culture de Thomas de Vio ‘Il Gaetano’, Napoli 1993, pp. 111-137. 103. Cfr. il Commentario alla Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, I, qu. 7, art. 4. 104. Cit. supra.

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peripatetici» (ossia, autori come l’Aquinate, Duns Scoto e tutto il loro seguito) «distruggono» il principio «con le supposizioni della perversa filosofia [aristotelica] nelle quali sono stati educati, la quale filosofia conosce un effetto finito di una causa finita». Bruno sembra insinuare che, sul piano intensivo, questi teologi o rendono privo di senso il principio – professato per fede e rivelazione – della potenza infinita intensiva di Dio, riconoscendo con Aristotele che il suo effetto è finito (perché è indiscutibile che un effetto finito procede da una causa finita), oppure sono inconseguenti con le premesse aristoteliche; essi negano – per fede – la correlazione causaeffetto, accettando per la causa infinita divina un effetto finito (la velocità finita del primo cielo), conseguenza della cosmologia aristotelica, che nega l’infinità dell’universo e stabilisce l’immobilità della terra centrale. Le incoerenze o contraddizioni nella filosofia aristotelica si accentuano quando «allo stesso tempo si stabilisce la potenza di Dio infinita estensivamente». In questo modo la potenza divina sarebbe infinita in un senso e finita in un altro (la posizione dei filosofi), o forse (nel caso dei teologi) avremmo simultaneamente la violazione dell’aristotelismo – della simmetria causa-effetto – e l’adesione alle sue supposizioni: un primo mobile con velocità finita. Più che tesi esplicite dello stesso Bruno si tratta di implicazioni che possiamo trarre legittimamente dalla sua formulazione. In questo capitolo Bruno rifiuta l’argomento dodicesimo contro la pluralità di mondi (presentato nel libro VI, cap. 6; BOL I,II 152 ss.) che si fondava sulla loro impossibilità e sulla sproporzione fra la materia (potenza passiva) e l’infinita potenza divina. Nella sua risposta Bruno qualifica l’argomento come «miseranda stultitia» e aggiunge che esso rappresenta un modo «astuto» di negare di fatto l’infinità della potenza di Dio, proclamato inizialmente (ma inconseguentemente) onnipotente105. Orbene, fra le impossibilità segnalate nell’argomento contrario non solo figurano fattori pertinenti al piano ‘estensivo’, ma emerge anche un riferimento al piano ‘intensivo’, ossia alla velocità con la quale Dio può muovere il suo effetto, dato che gli stessi teologi sostengono che «non et tot natura potest portare, quot ille [Deus]... vehementius insinuare»106, ossia: Dio può «muovere con maggior vigore (forza, intensità o veemenza) di quanto la natura può sopportare». Non ci sembra insensato vedere qui un riferimento alla capacità divina di muovere infinitamente (all’istante), anche se questa potenzialità non viene di fatto attuata 105. De immenso, BOL I,II 275 s. Cfr. ivi, p. 276: «Astute rerum Dominum mihi denegat, aiens / ad non possibiles effectus cunctipotentem». 106. Ivi, pp. 252 s.; corsivo nostro.

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perché il mobile (e il mobile finito) non l’ammette o sopporta107. È però nel De l’infinito, alla fine del primo dialogo, che Bruno affronta esplicitamente il problema della potenza intensiva divina e del suo effetto e, in opposizione ai filosofi aristotelici e ai teologi cristiani legati all’aristotelismo, enuncia la conclusione infinitista come conseguenza naturale delle loro stesse premesse. Nel primo dialogo del De l’infinito Bruno ha sviluppato una battaglia frontale contro la distinzione scolastica fra la potentia absoluta e ordinata di Dio (senza nominarla esplicitamente) allo scopo di eliminare qualsiasi ostacolo che potesse opporsi alla necessità e infinità dell’universo nello spazio e nel tempo, ossia alla necessità di un effetto della potenza divina, infinita extensive, infinitamente esteso. Si spiega così la conclusione trionfante di Filoteo: «se nel primo efficiente è potenza infinita, è ancora operazion da la quale depende l’universo di grandezza infinita, e mondi di numero infinito»108. A questo punto comunque, Elpino, il portavoce dell’aristotelismo non dogmatico, presenta una difficoltà: se Bruno ha ragione, qualsiasi effetto di Dio è infinito, ma il movimento del primo mobile è, di fatto, d’intensità finita. L’obiezione è chiamata a ripristinare – a partire dal presupposto dell’infinità della potenza divina da tutti accettata – la distinzione potentia absoluta/ordinata e la conseguente libera moderazione del potere divino nel causare l’effetto finito e contingente da esso voluto. Una volta concessa questa operazione finita, in virtù della quale il primo mobile è mosso con velocità ed intensità finite, si può ristabilire quella distinzione e con essa ripristinare la finitezza estensiva dell’universo e l’unicità del mondo, ossia i capisaldi del cosmo aristotelico. Il problema della potenza divina intensiva si presenta quindi in queste pagine carico di tutte le sue implicazioni più estreme. Ci soffermeremo pertanto sull’analisi di questi passaggi conclusivi del primo dialogo del De l’infinito, del quale non è stato sufficientemente sottolineato dalla critica l’aspetto polemico nei confronti della teoria peripatetica (filosofica e teologica) della potenza divina intensiva e del suo effetto109, con la conseguente incomprensione del testo bruniano.

107. Nel De l’infinito questo riferimento al piano intensivo non appare in modo esplicito (cfr. nel dialogo V il nono argomento: BOeuC IV 323 s., e la risposta: ivi, p. 363); esso manca, inoltre, nella presentazione dell’Epistola preliminare (ivi, p. 37). Nel De l’infinito per lo più Bruno considera indistintamente il piano estensivo e quello intensivo. 108. BOeuC IV 95. 109. Salvo il breve riferimento di Nardi nei Saggi sull’ aristotelismo padovano, cit., p. 186, nota.

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In effetti, Elpino riconosce: «Quel che dite contiene in sé gran persuasione, se non contiene la verità. Ma questo che mi par molto verisimile io lo affermarò per vero: se mi potrete risolvere di uno importantissimo argomento»110. L’argomento in questione è presentato da Bruno come l’ultima possibile difesa della concezione finitista. Che l’argomento non sia altro che l’effetto intensivo della potenza divina è evidente; altrettanto semplice è individuare in questo passaggio i riferimenti alle posizioni tradizionali di filosofi averroisti e teologi peripatetici cristiani. Bruno inizia esponendo la tesi averroista: è stato ridutto Aristotele a negar la divina potenza infinita intensivamente, benché la concedesse estensivamente. Dove la raggione della negazione sua era che essendo in Dio cosa medesima potenza et atto, possendo cossì movere infinitamente moverebe infinitamente con vigore infinito; il che se fusse vero, verrebe il cielo mosso in istante: perché se il motor più forte muove più velocemente, il fortissimo muove velocissimamente, l’infinitamente forte muove istantaneamente. La raggione della affirmazione era che lui eternamente e regolatamente muove il primo mobile, secondo quella raggione e misura con la quale il muove. Vedi dumque per che raggione li attribuisce infinità estensiva, ma non infinita absoluta, et intensivamente ancora111.

Elpino però non assume la tesi averroista, ma quella dei teologi, che presenta subito in termini a noi familiari: Per il che voglio conchiudere che sì come la sua potenza motiva infinita è contratta all’atto di moto secondo velocità finita, cossì la medesima potenza di far l’immenso et innumerabili è limitata dalla sua voluntà al finito e numerabili. Quasi il medesimo vogliono alcuni teologi, i quali oltre che concedeno la infinità estensiva, con la quale successivamente perpetua il moto dell’universo, richiedeno ancora la infinità intensiva, con la quale può far mondi innumerabili, muovere mondi innumerabili, e ciascuno di quelli e tutti quelli insieme muovere in uno istante: tutta volta cossì ha temprato con la sua voluntà la quantità della moltitudine di mondi innumerabili, come la qualità del moto intensissimo. Dove, come questo moto, che procede pure da potenza infinita, nulla obstante, è conosciuto finito, cossì facilmente il numero di corpi mondani potrà esser creduto determinato112.

Bruno può certamente opporre a questa concezione della teologia cristiana la sua concezione della coestensione di potenza e volontà

110. BOeuC IV 95. 111. Ivi, pp. 95 ss. 112. Ivi, p. 97.

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in Dio113. Come sottolinea Elpino, se Bruno ammette la potenza infinita di Dio sia intensiva che estensiva, proclamando necessariamente infinito il suo effetto (perché la materia è sempre all’altezza dell’efficiente), come giustifica che l’effetto intensivo sia finito? Cioè, come giustifica la velocità finita del movimento mondano e di ogni astro? Vediamo chiaramente che il Nolano ha preparato nella sua strategia dimostrativa questa difficoltà come ultima carta – certo decisiva – dell’aristotelismo, alla quale bisogna dare una risposta appropriata e conseguente dalla posizione infinitista. Altrimenti come abbiamo detto, Bruno avrà perso tutta la battaglia, dato che un effetto finito rende anche possibili gli altri effetti finiti che nel piano estensivo aveva precedentemente rifiutato. Dando una risposta appropriata a questa difficoltà, la vittoria sarà completa e l’infinità necessaria dell’universo sarà stata stabilita d’accordo con una sana teologia filosofica e secondo una concezione adeguata della potenza divina. Qual è la risposta bruniana? Possiamo intuirla: «prima, che essendo l’universo infinito et immobile, non bisogna cercare il motor di quello»114. Effettivamente, se il movimento diario è in realtà il movimento di un astro (la terra), se i movimenti sono sempre di astri singoli, perché non esistono le sfere celesti115, se l’universo è infinito e senza figura, la rappresentazione di un primum mobile sferico in moto diario, trascinando con sé tutto il suo universo interno in virtù dell’impulso che riceve dalla divinità come motore immobile esterno, è un sogno, una fantasia, una chimera. L’universo infinito, la totalità, è (e non può essere in un altro modo) immobile; la divinità o potenza infinita che lo produce è interna, immanente. I moti degli astri non hanno un motore esterno, un’intelligenza motrice, dato che essi si muovono «per il principio interno che è la propria anima»116. Vuol dire questo che Dio ‘non muove’ l’universo? È così, dice Bruno in un primo momento, giacché l’universo infinito è necessariamente immobile. Come dirà poco dopo, rispondendo nel secondo dialogo all’argomentazione aristotelica contro l’infinito, a partire dalla supposizione di un corpo infinito con movimento circolare diario, «giammai s’è ritrovato sì rozzo, e d’ingegno sì grosso, che abbia posto il mondo infinito e magnitudine infinita, e quella mobile»117. Si vede chiaramente che con la teoria copernicana del movi113. Ivi, pp. 97-99. 114. Ivi, p. 99. 115. Ibid.: «Terzo, che questi corpi mondani si muoveno nella eterea regione non affisi, o inchiodati in corpo alcuno». 116. Ibid. 117. Ivi, pp. 123 ss.

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mento terrestre e l’estensione bruniana del mondo chiuso nell’universo infinito è stato modificato radicalmente il problema della potenza intensiva di Dio e della sua azione. Nell’universo infinito immobile il movimento è sempre di intensità finita in soggetti finiti di movimento (gli astri) in virtù della potenza motrice finita radicata nella propria anima. Secondo quanto dice lo stesso Bruno: Secondo gli nostri principi non siamo forzati a dimostrar moto attivo né passivo de vertù infinita intensivamente: perché il mobile et il motore è infinito, e l’anima movente et il corpo moto concorreno in uno finito soggetto; in ciascuno dico di detti mondani astri. Tanto che il primo principio non è quello che muove; ma quieto et immobile dà il posser muoversi a infiniti et innumerabili mondi, grandi e piccoli animali posti nell’amplissima reggione de l’universo, de quali ciascuno secondo la condizione della propria virtù ha la raggione di mobilità, motività et altri accidenti118.

Il problema sembra quindi risolto e Bruno definitivamente trionfatore. Nonostante ciò, il Nolano è consapevole di poter affermare in modo più deciso la sua posizione nella risoluzione del problema. Mette perciò in bocca a Elpino una obiezione fittizia alla sua soluzione. Essa consiste nel fatto che, se Dio è immanente all’universo, se Egli è «l’essenza propria» delle cose o «l’anima delle anime» delle cose, in poche parole, se Dio «è tutto in tutto» («tutto lui è in tutto il mondo, et in ciascuna sua parte infinita e totalmente»)119, oltre a dare il potere di movimento agli astri, Egli effettivamente deve muovere anche il tutto120. E Bruno risponde con audacia: effettivamente Dio – come anima del mondo che si trova tutta in tutto –, muove con intensità infinita il tutto, l’universo infinito (e quindi anche le sue parti finite) e in conseguenza muove istantaneamente: Nelle cose è da contemplare (se cossì volete) doi principii attivi di moto: l’uno finito, secondo la raggione del finito soggetto, e questo muove in tempo; l’altro infinito, secondo la raggione dell’anima del mondo, ovvero della divinità, che è come anima de l’anima, la quale è tutta in tutto e fa esser l’anima tutta in tutto; e questo muove in istante121.

118. Ivi, p. 101. 119. Ivi, p. 87. 120. Ivi, p. 101: «Tutta volta, per quel che solete dire circa l’anima del mondo e circa l’essenza divina, che è tutta in tutto, empie tutto, et è più intrinseca alle cose che la essenza propria di quelle, perché è la essenzia de le essenzie, vita de le vite, anima de le anime; però non meno mi par che possiamo dire lui movere il tuttto, che dare al tutto il muoversi. Onde il dubio già fatto par che anco stia su li suoi piedi». 121. Ivi, p. 103; corsivo nostro.

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Il Nolano accetta ora come una necessità il fatto che la potenza infinita di Dio produca sul piano intensivo un effetto infinito e quindi che la velocità infinita del tutto (e delle sue parti), il movimento istantaneo, sia un fatto e non una contraddizione impossibile. Sembrerebbe dunque essersi verificato un radicale mutamento nelle sue opinioni: precedentemente egli aveva sostenuto l’immobilità necessaria dell’universo infinito, ora invece sostiene il suo necessario movimento istantaneo. Tale cambiamento è in realtà illusorio, poiché Bruno afferma la coincidenza del movimento istantaneo con il riposo o l’immobilità; essi sono, di fatto, la stessa cosa: il principio infinito è quello che insieme muove et ha mosso; onde secondo quella raggione il corpo mobile non meno è stabilissimo che mobilissimo... In conclusione questi corpi [gli astri] essere mossi da virtù infinita, è medesimo che non esser mossi; per che movere in instante et non movere, è tutto medesimo et uno122.

In conclusione, lì dove l’aristotelismo filosofico e teologico vedeva una contraddizione, un’impossibilità, Bruno rileva – d’accordo con il Cusano e il superamento della logica aristotelica nell’unità dei contrari – un’esemplificazione emblematica della coincidentia oppositorum nell’infinito, sia nell’infinito divino che nell’infinito universo, poiché entrambi sono, in ultima analisi, una stessa e unica cosa. Quindi solo resta «l’altro principio attivo del moto», la contrazione dell’anima universale come anima propria unita al corpo finito dell’astro, o di qualsiasi parte finita nell’universo, il cui principio opera «dalla virtù intrinseca, e per conseguenza è in tempo e certa successione, e questo moto è distinto dalla quiete»123. La risposta di Elpino – «or che tanto alta et efficacemente mi hai tolta e risoluta questa difficoltà, io cedo a fatto al vostro giudizio»124 – indica la coscienza bruniana di aver trionfato definitivamente sul finitismo aristotelico, la sua convinzione di avere stabilito senza appello possibile la necessità dell’universo infinito come attuazione dell’infinita 122. Ibid. 123. Ivi, pp. 103-105. Bruno torna a riferirsi al moto istantaneo come coincidentia oppositorum in De gli eroici furori (BDI 1044 ss.), sotto l’emblema di Circuit: «quel moto insieme si fa ed è fatto; onde per consequenza il sole viene sempre a ritrovarsi in tutti gli punti di quello [circolo]: perché s’egli si muove in uno instante, séguita che insieme si muove ed è mosso, e che è per tutta la circonferenza del circolo equalmente, e che in esso convegna in uno il moto e la quiete». Nel De l’infinito (BOeuC IV 103), al quale si rinvia in questa pagina degli Eroici furori (cfr. infra nota 130), il moto istantaneo si esprime con l’esempio della terra. Cfr. P.-H. Michel, La cosmologie de Giordano Bruno, Paris 1962, pp. 217-219 e 309; H. Védrine, La conception de la nature chez Giordano Bruno, Paris 1967, pp. 199-201. 124. BOeuC IV 105.

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potenza divina sia sul piano estensivo che su quello intensivo, senza che la sua concezione sia intaccata dalle difficoltà che sul piano della potenza intensiva attanagliavano l’aristotelismo filosofico – obbligandolo a negare l’infinità divina – e l’aristotelismo teologico, costretto a fratturare l’unità e l’immobilità divine, a snaturare la libertà di Dio e a introdurre una distinzione sofistica nella sua potenza, insomma a ‘bestemmiare’ Dio, per conciliare l’infinito divino con l’effetto finito. L’universo infinito nello spazio e nel tempo e immobile (o in movimento istantaneo), risolveva tutte le difficoltà, perché soltanto l’universo infinito era l’esplicazione conseguente alla causa infinita che lo aveva prodotto, e in lui si esprimeva o si comunicava. Possiamo comprendere in questo modo l’affermazione del Nolano nella Cena de le Ceneri, secondo la quale la sua filosofia dell’universo infinito e necessario «favorisce la religione più che qualsivoglia altra sorte di filosofia: come quelle che poneno il mondo finito; l’effetto e l’efficacia della divina potenza finiti»125. Insomma, l’aristotelismo è incompatibile con una sana teologia. Il confronto dialettico di Bruno con la concezione aristotelicoscolastica della potenza intensiva divina è sviluppato esplicitamente nel De l’infinito e solo accennato invece nel De immenso. Comunque non possiamo dedurre da questo fatto che Bruno avesse modificato la sua teoria posteriormente ai dialoghi italiani. Al contrario, egli l’ha conservata immutata, cosciente che costituiva un pilastro fondamentale della sua critica all’aristotelismo e della sua formulazione positiva del rapporto della causa divina con l’effetto naturale da essa prodotto. Che sia così, lo dimostra chiaramente il principio XVI in cui si dice: «Vanificare la potenza infinita di essere (sia estensiva che intensiva) altro non è che sia messo in atto un male infinito, allo stesso modo che è in atto lo spazio infinito»126. Lo mostra ancor più chiaramente il De minimo, dove Bruno fornisce alcuni esempi – di radice cusaniana – della coincidentia oppositorum nell’infinito: quelli di massimo e minimo, centro e periferia, circolo e linea retta, minimo arco e minima corda, per concludere con l’identità (in Dio e nell’universo infinito) di movimento d’intensità infinita e riposo: 125. Cena, BOeuC II 203. In modo simile Bruno aveva difeso, nel primo dialogo del De l’infinito, la sua filosofia della coincidenza, in Dio, di libertà e necessità; esse vengono infatti considerate, di contro agli errori della Riforma e alle posizioni di Lutero e Calvino, come del tutto compatibili con la libertà umana; cfr. BOeuC IV 91-95. 126. De immenso, BOL I,I 243: «Potentiam infinitam (extensiva sive sit, sive intensiva) ad esse frustrari est, sic actu malum infinitum poni, sicut et actu est spacium infinitum»; anche qui abbiamo modificato la traduzione di C. Monti.

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... in maximo et velocissimo motu, et simpliciter tardo, seu maxima quiete, quae omnino oportet esse unum atque idem. Nam simpliciter velox quod movetur ab A in B [due punti diametralmente opposti sulla circonferenza] et a B in A, simul est in A et in B et in toto gyro; itaque manet. Hinc divina sapientia quae attingit omnia et est in omnibus, dicta est mobilissima omnium, quia ubique manet, et immobilissima, quia ocissime attingit a fine usque ad finem et disponit omnia inter suos ubique terminos. Tribuitur illi motus, quia est vegetatio et vita, cuius virtute omnia moventur; tribuitur illi quies, quia est ipsa aeternitas et substantia, in qua et per quam omnia sunt et manent127.

Non c’è dubbio sul fatto che Cusano sia stato per Bruno ispirazione e sostegno decisivo nell’elaborazione della risposta alle difficoltà del moto in istanti. L’emblema Circuit degli Eroici furori con il motivo del moto istantaneo del sole128 è mutuato dal dialogo De possest del Cusano, nel quale viene citato il passaggio di Sapienza 7, 24 («omnibus enim mobilibus mobilior est sapientia»). Ecco il testo del Cusano: – Cardinalis: Esto ergo quod posse moveri in ipso sit actu, scilicet ut moveatur actu quantum est possibile: Nonne tunc penitus quiesceret? –. Bernardus: Nulla successio posset notari ex repentina velocitate. Ita utique motus deprehendi nequiret successione cessante. – Iohannes: Quando motus foret infinitae velocitatis, b et c puncta in eodem puncto temporis forent cum d puncto circuli fixi sine eo quod alter punctus scilicet b prius tempore fuisset quam c, aliter non esset maximus et infinitus motus, et tamen non esset motus, sed quies, quia nullo tempore illa puncta de d fixo recederent. – Cardinalis: Recte ais, abba. Maximus ergo motus esset simul et minimus et nullus129; – Cardinalis: Iam intelligetis facilius, quomodo concordabitis theologos, quorum alter dicit sapientiam quae deus omni mobili mobiliorem... Alius vero dicit primum principium fixum immobile stare in quiete, licet det omnia moveri130.

127. De minimo, BOL I,III 148. Cfr. H. Védrine, op. cit., pp. 202 ss. Bruno riecheggia il passo di Sapienza, 7, 24 e 8, 1, già ricordato in De gli eroici furori (vedi supra). 128. Cfr. supra, nota 123. 129. Niccolò Cusano, Trialogus de possest, a cura di R. Steiger, in Opera omnia, XI/2, Hamburg 1973, p. 24. Cfr. nella stessa pagina la figura geometrica alla quale si è ispirato Bruno per l’emblema Circuit descritto negli Eroici furori, BDI 1044. 130. Cusano, Trialogus de possest, p. 26 s. Cfr. Furori, BDI 1045: «Questo ho compreso nelli dialogi De l’infinito, universo e mondi innumerabili, e dove si dichiara come la divina sapienza è mobilissima (come disse Salomone) e che la medesima sia stabilissima, come è detto ed inteso da tutti quelli che intendono». L’ultima frase del testo del Cusano (per le cui fonti – Aristotele, Boezio, Tommaso d’ Aquino –, si veda l’apparato dell’edizione critica) va letta in relazione a Bruno, Infinito, BOeuC IV 101: «ma quieto et immobile dà il posser muoversi a infiniti et innumerabili mon-

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Identico riferimento a Sapienza 7, 24 troviamo nel terzo dialogo del De la causa, là dove Bruno, in stretto rapporto con il De possest, presenta la coincidenza nella divinità di tutta la potenza e di tutto l’atto. Per illustrare questo principio metafisico il Nolano fa appello al sole e al suo moto istantaneo, coincidendo questo moto di intensità infinita con la quiete: Or se vogliamo mostrar il modo con il quale Dio è sole, diremo (perché è tutto quel che può essere) che è insieme oriente, occidente, meridiano, merinozziale, e di qualsivoglia di tutti punti de la convessitudine della terra: onde se questo sole… vogliamo intendere che si muova e muta loco, perché non è attualmente in un punto senza potenza di essere in tutti gli altri, e però have attitudine ad esservi; se dumque è tutto quel che può essere, e possiede tutto quello che è atto a possedere, sarà insieme per tutto et in tutto; è si fattamente mobilisssimo e velocissimo, che è anco stabilissimo et immobilissimo: però tra gli divini discorsi troviamo che è detto «stabile in eterno», e «velocissimo che discorre da fine a fine», perché se intende immobile quello che in uno istante medesimo si parte dal punto di oriente et è ritornato al punto di oriente; oltre che non meno si vede in oriente, che in occidente, e qualsivoglia altro punto del circuito suo: per il che non è più raggione che diciamo egli partirsi e tornare, esser partito e tornato, da quel punto a quel punto, che da qualsivoglia altro de infiniti, al medesimo; onde verrà esser tutto e sempre in tutto il circolo et in qualsivoglia parte di quello131.

È evidente, dunque, che la discussione finale del primo dialogo De l’infinito sul moto in instanti non è un fatto isolato nell’opera del Nolano. Oltre a svolgere un ruolo decisivo nella critica della tradizione cosmologica e teologica aristotelico-cristiana, ha un rapporto strettissimo con i fondamenti metafisici della filosofia bruniana e viene spesso riproposta sia negli altri dialoghi che nei poemi latini. Per concludere diremo quindi che una battaglia costante attraversa tutta l’opera del Nolano, la battaglia contro la concezione aristotelica dell’universo finito, non solo perché essa è all’origine di una cosmologia erronea, fondata sul pregiudizio della terra immobile – causato a sua volta da una affrettata e superficiale adesione all’esperienza immediata del senso132 –, ma anche perché implica una teologia blasfema che «rende Dio diverso da se stesso», negando la sua unità e immutabilità, scindendo la sua volontà dalla sua potenza, considerandola finita (averroismo), o rendendo un ritratto di». Il Nolano sembra quindi avere tenuto in mente il testo del Cusano nello scrivere queste importanti pagine del primo dialogo del De l’infinito. 131. Causa, BOeuC III 209-211. 132. Cfr. il nostro saggio La imaginación y la construcción del universo infinito en Giordano Bruno, in corso di stampa in «Nouvelles de la République des Lettres».

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grottesco della sua volontà e libertà, esemplato sul modello antropomorfo (teologia scolastica). La restaurazione dell’universo infinito e necessario – partendo dall’‘aurora’ copernicana e quindi dalla restituzione alla terra del movimento – permetteva di recuperare la vera immagine dell’universo, ripristinando al tempo stesso una concezione coerente e appropriata di Dio e della sua azione creatrice, il tutto garantito dall’infinità della sua potenza, contro l’averroismo, e dalla sua necessaria attuazione su tutti i piani – spaziale, temporale e intensivo – di contro ai teologi scolastici.

AMALIA PERFETTI MOTIVI LUCREZIANI IN BRUNO: LA TERRA COME ‘MADRE DELLE COSE’ E LA TEORIA DEI SEMINA

...omnibus omnia large tellus ipsa parit naturaque daedala rerum. De rer. nat., V, vv. 233–234

Se, per usare l’espressione di Eugenio Garin, per tutto il Cinquecento si può parlare della ‘seduzione’ esercitata dai versi di Lucrezio1, le opere di Giordano Bruno, ed in particolare i poemi francofortesi, possono a buon diritto essere comprese in questa prospettiva. L’immagine del mondo della quale Bruno si fa portavoce prende certo le mosse dalla nuova cosmologia copernicana, ma trae pure alimento e forza da quell’«antiqua vera filosofia, per tanti secoli sepolta nelle tenebrose caverne de la cieca, maligna, proterva et invida ignoranza»2, nella quale l’atomismo epicureo-lucreziano ha un posto di rilievo3. Nell’Oratio valedictoria Bruno, ricostruendo la ge1. E. Garin sottolinea più volte nei suoi saggi l’influenza esercitata, a partire dalla metà del Quattrocento, dalla lettura dell’opera lucreziana – recuperata, come è noto, nel 1417 da Poggio Bracciolini – le cui suggestioni, attraversando tutto il Cinquecento, divennero particolarmente significative nella rinascita seicentesca dell’atomismo. Tra gli studi di Garin su questo argomento si vedano in particolare: Ricerche sull’epicureismo del Quattrocento, pubblicato per la prima volta nel 1959 nel volume Epicurea in memoriam Hectoris Bignone, ed ora in Id., La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, Sansoni, Firenze 19923, pp. 72-92; Il ritorno dei filosofi antichi, Bibliopolis, Napoli 19942, in particolare pp. 97-103; e infine la Nota apparsa sul «Giornale critico della filosofia italiana», XXXV (1959), pp. 443444. 2. Cena, BOeuC II 41. 3. Sull’influenza della filosofia epicureo-lucreziana nelle opere di Bruno si vedano: F. Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, La Nuova Italia, Firenze 1968, in particolare pp. 91-125 dove viene dato ampio spazio, soprattutto in relazione alle teorie sulla generazione, all’aspetto ‘lucreziano’ della filosofia di Bruno; M. A. Granada, Epicuro y Giordano Bruno: descubrimiento de la naturaleza y liberación moral (una confrontación a través de Lucrecio), in Historia, lenguaje, sociedad. Homenaje a Emilio Lledó, Editorial Crítica, Barcelona 1989, pp. 125-141; C. Monti, Incidenza e significato della tradizione materialistica antica nei poemi francofortesi di Giordano Bruno: la mediazione di Lucrezio, in Fonti e motivi dell’opera di Giordano Bruno, Atti del Convegno di Cassino (11-12 dicembre 1992), «Nouvelles de la République des Lettres», XIV, (1994), 2, pp. 75-87.

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nealogia della sapienza umana ricorderà, insieme a tanti antichi e moderni, anche Lucrezio. La domus sapientiae, spiega infatti Bruno nel discorso wittenberghese, nella sua edificazione vide diverse fasi epocali alle quali è possibile associare differenti aree geografiche. Se i primi sapienti furono gli Egizi, insieme agli Assiri e ai Caldei, sesti furono gli Italici, tra i quali egli annovera Archita, Gorgia, Archimede, Empedocle e Lucrezio; da ultimi i Germani: Alberto Magno, Cusano, Copernico, Palingenio – che Bruno non sapeva essere in realtà suo conterraneo4 – e Paracelso5. Non pochi sono i riferimenti bruniani all’autore del De rerum natura nei quali è possibile individuare significativi indizi dell’influenza di alcune tematiche lucreziane nella rinascita della «antiqua filosofia» propugnata dal Nolano. Prima fra tali ‘riscoperte’ la visione di un universo infinito difesa tenacemente da Bruno; un universo, come è noto, nel quale la visione atomistica della realtà avrà uno spazio di particolare rilievo. Tenendo presenti queste tematiche, vorrei qui analizzare alcuni aspetti del suo pensiero per i quali è possibile evidenziare significativi legami con il poema lucreziano, scegliendo come chiavi di lettura il concetto di semina e l’immagine della Terra come mater rerum. Le implicazioni speculative che i due termini comportano sono per molti versi collegate: l’immagine del pianeta Terra come grande animale, madre di tutte le forme di vita che la popolano, è strettamente connessa al suo continuo accogliere i semina vitalia: «...Tellus recipit vitalia solis ab orbe / semina, et ob motum radiorum temperat aestus», scrive Bruno nel De immenso6. Ovviamente le fonti da cui Bruno poteva attingere l’idea della Terra come grande animale, dotato – e soprattutto dispensatore – di vita sono diverse7: basti pensare a quanto quell’immagine, unita a quella dell’anima mundi, fos4. Sulla patria di Palingenio, cfr. F. Bacchelli, Note per un inquadramento biografico di Marcello Palingenio Stellato, «Rinascimento», XXV (1985), pp. 275-292. 5. Cfr. Orat. valed., BOL I,I 16-17. Su questo passaggio si è soffermata F. Yates, sostenendo, nell’evidente tentativo di inglobare Lucrezio nella sua lettura ermetica di Bruno, che l’universo del poeta latino sembrò a Bruno «una specie di sapienza egiziana di più vaste proporzioni», e ancora che «benché Bruno non approvasse completamente le vedute di Palingenio, non si può escludere che quest’ultimo lo abbia condizionato nell’interpretare erroneamente Lucrezio» (F. A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Roma-Bari 19923, pp. 271-272; ed. originale: London 1964). Per questo stesso passaggio dell’Oratio valedictoria – che si richiama a Proverbi 9, 1: «Sapientia aedificavit sibi domum, / excidit columnas septem» – si veda M. A. Granada, Giordano Bruno y la Stoa: ¿una presencia no reconocida de motivos estoicos?, «Nouvelles de la République des Lettres», XIV (1994), 1, pp. 123-151: 126. 6. De immenso, BOL I,II 77. 7. Sulla Terra animata e sull’analogia tra questo pianeta e il corpo umano nel Rinascimento mi è stata di grande utilità la lettura del saggio, di prossima pubbli-

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se ricorrente nel Rinascimento, con i suoi riecheggiamenti platonici, neoplatonici e stoici, e ancora quanto questi fossero importanti in tante pagine di Marsilio Ficino8. In Ficino tuttavia, la vitalità e l’anima della Terra e le proprietà attribuite ai semi rientrano in una complessa gerarchizzazione dell’emanazione divina che non trova riscontro in Bruno9, nella cui concezione dell’universo le ‘cose minime’ sono pervase dell’anima del mondo come le ‘grandissime e principalissime’: Sia pur cosa quanto piccola e minima si voglia, ha in sé parte di sustanza spirituale; la quale, se trova il soggetto disposto, si stende ad esser pianta, ad esser animale, e riceve membri di qualsivoglia corpo, che comunmente se dice animato: perché spirto si trova in tutte le cose, e non è minimo corpuscolo che non contegna cotal porzione in sé, che non inanimi10.

Cogliere il ‘minimo’, l’‘atomo’, il‘seme’ è per Bruno la chiave per scoprire i segreti della natura. La limitatezza dei sensi umani però, cazione, ‘Tellus animal magnum’: la metafora della terra viva da Ficino a Campanella dell’amica Susana Gómez López che ringrazio per avermi offerto l’opportunità di leggere una prima stesura del suo lavoro. 8. Per un raffronto tra Ficino e Bruno si vedano i recenti studi di R. Sturlese, in particolare: Le fonti del ‘Sigillus Sigillorum’ del Bruno, ossia: il confronto con Ficino a Oxford sull’anima umana, in Fonti e motivi dell’opera di Giordano Bruno, cit., pp. 89-167. La Sturlese richiama, tra gli altri, un passaggio del Sigillus sigillorum: «Ut igitur absolutam consummatamque artem adipiscare, animae mundi te copulari cumque ipsa copulatum agere oportet, quae naturali foecunditate rationibus plena mundum rationibus similibus plenum generat. Quae quidem rationes (ut et sentit Plotinus) in seminibus fingunt formantque universa quasi exiguos quosdam mundos», mettendolo in relazione con un luogo del IV libro delle Enneadi (3, 10) di Plotino, e con il relativo commento ficiniano (ivi, p. 146; per il passo di Bruno cfr. Sigillus sigillorum, BOL I,II 196; per le Enneadi cfr. l’edizione di Basilea del 1580, pp. 379380). Per l’influenza esercitata in Bruno dalle opere ficiniane si veda anche A. Ingegno, Cosmologia e filosofia nel pensiero di Giordano Bruno, La Nuova Italia, Firenze 1978, in particolare, pp. 126-146. 9. Ficino parla in realtà, oltre che dell’anima del mondo, anche delle anime delle dodici sfere, di cui quattro appartengono agli elementi e tra queste sta quella della terra: «si aquae terraeque vita insita est, neque tamen haec est Deus, ne immensus actus vilissimae potentiae sit addictus; neque angelus, ne clarissima mens obscurissimae naturae sit proxima, consequens est [ergo] ut aqua et terra animas habeant, quarum artificio hae sphaerae rebus pretiosissimis exornentur, quemadmodum et animulae quaeque animalium aquaticorum et terrenorum, videlicet duce sphaerae suae anima, corpuscola sua per insita semina gratissime pingunt atque figurant» (M. Ficino, Théologie Platonicienne de l’immortalité des ames, texte critique établi et traduit par R. Marcel, I, Les Belles Lettres, Paris 1964, p. 151). Per la teoria delle anime delle sfere in Ficino cfr. P. O. Kristeller, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, edizione riveduta con bibliografia aggiornata, Le Lettere, Firenze 19882, pp. 420-421. 10. Causa, BOeuC III 133.

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avverte il Nolano in molti luoghi delle sue opere, è un ostacolo di non poco momento nella percezione delle minime parti che costituiscono i composti. La saggezza di Lucrezio è in questo senso maestra: Bruno lo ricorda infatti nel De minimo, laddove sottolinea la grande distanza esistente tra il «minimum sensibile» e il «minimum reale»: Subsistens minimum ex quo sunt composta, quod unum / in fine attingunt quanta haec quaecumque creantur, / ne credas modico seiungier intervallo / a minimo nostris obiecto sensibus, altam / accipito docti rationem mente Lucreti, / indicat ut tenui natura constet imago. / Inquit enim rerum primordia corpora prima / tanto infra nostros sensus tantoque minora, / ut mire ad oculos minimae longo ordine partes / linquantur...11.

Diversi sono i passi del De rerum natura che Bruno poteva aver presenti trovandosi – «quod nequeunt oculis primordia cerni» – ad affrontare le stesse difficoltà del poeta latino12. Come Lucrezio, anche Bruno, che nel De lampade venatoria13 aveva direttamente citato i versi del quarto libro del De rerum natura, ricorda che tanti piccoli animali visibili nella loro interezza non lo sono per il loro terzo o tanto meno per le loro singole parti: ...Siquidem ut animalcula tanta videmus, / tertia pars quorum nulla virtute notari / possit. Quantum ergo cerebrum ventremque putandum? / Quanti oculi? Quantum cor, nervus, viscera, quae sunt / partibus inde aliis certam quoque nacta figuram, / et pariter variis consistunt undique membris? / Haec sane a propriis quanto distent elementis, / atque suum minimum 11. De minimo, BOL I,III 169. Bruno aveva già richiamato Lucrezio, a proposito della grande distanza che intercorre tra il minimo reale e quello sensibile, negli Articuli adversus mathematicos, dedicati a Rodolfo II e pubblicati a Praga nel 1588: «Minimum reale multum abesse a minimo sensibili non infeliciter ostendit Lucretius; mirabiliter enim natura amplius resolvit magnitudinem quam visus quicunque et qualiscunque possit apprehendere, resolutionem autem hanc in rebus esse omnia sensibilia indicant» (BOL I,III 27). 12. «Nunc age, res quoniam docui non posse creari / de nilo neque item genitas ad nil revocari, / nequa forte tamen coeptes diffidere dictis, / quod nequeunt oculis rerum primordia cerni, / accipe praeterea quae corpora tute necessest / confiteare esse in rebus nec posse videri» (De rer. nat., I, vv. 265-270). Oltre a questi versi, già segnalati da Carlo Monti nella sua traduzione dei poemi francofortesi (cfr. G. Bruno, Opere latine, a cura di C. Monti, Utet, Torino 1980, p. 125), di rilevanza non minore per questa tematica nel De minimo anche quelli, sempre del primo libro del De rerum natura, dove Lucrezio avverte: «Denique iam quaecumque in rebus cernis apertis / si fieri non posse putas, quin materiai / corpora consimili natura praedita fingas, / hac ratione tibi pereunt primordia rerum: / fiet uti risu tremulo concussa cachinnent / et lacrimis salsis umectent ora genasque» (vv. 915920). 13. De progressu, BOL II, III 71.

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quantum ars frugaliter urget, / nullo argumento concessum est posse videre14.

D’altra parte Bruno aveva già ricordato nel De la causa quanto fosse stato un tempo «assai aderente» alla concezione della materia degli epicurei, nella quale tuttavia individuava il limite di non cogliere «nella natura doi geni di sustanza, l’uno che è forma, e l’altro che è materia»15. Laddove però, come nei poemi francofortesi, Bruno esamina con particolare attenzione e sotto diverse angolazioni i principi primi di tutte le cose, le sue riflessioni sembrano risentire senza dubbio dell’influenza dell’epicureismo lucreziano. Il minimo è d’altra parte per Bruno, così come era stato per Lucrezio, l’elemento indivisibile di cui sono formati e in cui si risolvono continuamente tutti i composti, permettendo la mutazione infinita delle singole parti che compongono l’universo16. I celebri passi in cui Lucrezio paragona la possibilità di formare parole sempre diverse componendo variamente un esiguo numero di lettere con la capacità dei primi elementi che – diversamente associati tra loro – danno luogo alla molteplicità delle cose, esercitano una notevole suggestione sul pensiero bruniano e vengono infatti riecheggiati in più luoghi della sua opera17.

14. De minimo, BOL I,III 169. Cfr. De rer. nat., IV, vv. 116-122: «Primum animalia sunt iam partim tantula, quorum / tertia pars nulla possit ratione videri. / Horum intestinum quodvis quale esse putandumst? / Quid cordis globus aut oculi? Quid membra? Quid artus? / Quantula sunt? Quid praeterea primordia quaeque / unde anima atque animi constet natura necessumst? / Nonne vides quam sint subtilia quamque minuta?». K. Lasswitz mette in rilievo come in questo luogo del De minimo Bruno riprenda l’esempio di Lucrezio, che si ritrova in ogni «innovatore dell’atomismo», tra i quali Lubin, Sennert, Basson e Magnenus (Geschichte der Atomistik vom Mittelalter bis Newton, Verlag von Leopold Voss, Hamburg-Leipzig 1890, I, pp. 369-370; cfr. tutta la parte dedicata a Bruno, pp. 359-401). 15. Causa, BOeuC III 169. 16. «Ergo diu tandem ac varie exagitata necesse est / ut tandem hanc subeant cita corpora disposituram, / in qua vel maneant semper, vel plurima secla / contineant. Ergo si quae sors destruat unum / e mundis, plureisve simul, vel si lubet omneis, / (quod sane haud rerum patitur sine fine potestas, / extensusque vigor, sors non eademque locorum, / qui ad fatum innumeri nequeunt tractarier unum), / vita recursabit, naturaque materiei, / hoc ipso instaurata, suo dat cuncta recessu. / Sed non propterea rationis carpo elementa / impia, Democriti adstipulatus sensibus, atqui haec / mentem alta agnosco moderantem cuncta paternam» (De immenso, BOL I,II 126). Nel De monade Bruno porta l’esempio del processo generativo nel mondo vegetale – «quaecumque sint, licet, proportionaliter saltem, si non aperta similitudine, contemplari» – nel quale il procedere dal seme e il ritornare al seme è ritmato dall’ordine del senario (BOL I, II 429-430). 17. «Hoc natura parens, artisque pedissequus ordo / ponit componens, inque hoc speculando resolvit: / ut numero modico verba infinita reponit / litera et

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Non è certo questa l’unica eco lucreziana evidenziabile in Bruno quanto all’origine di tutte le cose. Nel parlare della mescolanza dei corpi primi da cui tutto scaturisce, Lucrezio afferma che la Terra ha in sé i corpora prima delle fonti, del fuoco, delle messi e che per questo «...magna deum mater materque ferarum / et nostri genetrix haec dicta est corporis una»18. Ricordando come fu venerata la magna mater, Lucrezio avverte tuttavia che da ciò deve restare ben lontana la superstizione. Bruno, accogliendo la lezione del poeta latino, dà molto spesso alla Terra l’appellativo di ‘madre’19. Si pensi in primo luogo al passaggio del De rerum principiis in cui Bruno sottolinea il doppio significato che può avere il termine terra, cioè elemento e pianeta20. Nel precisare che in quella sede si occuperà dell’elemento, il Nolano si sofferma proprio sulla concezione della Terra che «mater rerum merito appellatur»21. Come Lucrezio, anche Bruno ricorda, evocando i miti ad essa legati, che la Terra fu venerata dalla sapientissima antiquitas come madre degli dei22. Ma

accentus, quorum pars denique punctus / prima datur, quare hic tota est substantia in illis; / non aliter rerum simplex substantia prima est, / corporibus minimum corpus, quod et omnia tandem / attingunt resoluta. Nihil discordat in uno hoc». E ancora poco più avanti: «Neque multa oportet esse minimorum genera atque figuras, quemadmodum neque literarum, ut innumerabiles exinde species componantur...» (De minimo, BOL I,III 139 e 140). Si veda anche l’articolo VII dell’Acrotismus (BOL I,I 100–101). Il paragone tra le lettere e gli elementi che compongono i corpi è proposto da Lucrezio più volte; cfr. De rer. nat., I, vv. 197 e 823–826; II, vv. 688–690 e 1013. Per questo esempio in Bruno, si veda P.-H. Michel, La science au seizième siècle, Colloque international de Royaumont, 1-4 juillet 1957, Hermann, Paris 1960, pp. 249-264: 259, e Id., La cosmologie de Giordano Bruno, Hermann, Paris 1962, p. 145. 18. De rer. nat., II, vv. 598-599. 19. Cfr. ad esempio, oltre ai passaggi, soprattutto del De immenso, che richiamerò più avanti, l’Oratio valedictoria: «nec non abhorreamus hanc Tellurem matrem nostram unum ex astris nihilo multis circumstantibus indignius intelligere...» (BOL I,I 19). Per l’immagine bruniana della Terra particolarmente significativo l’articolo LXV dell’Acrotismus (BOL I,I 177-178). 20. De rerum princ., BOL III 530-531. Nel De immenso Bruno utilizza molto spesso Tellus per il pianeta e terra per l’elemento. 21. Ibid. Nello stesso senso Lucrezio aveva scritto che la Terra: «quapropter merito maternum nomen adepta est» (De rer. nat., II, v. 998). L’«eco letterale» del verso lucreziano nell’opera di Bruno è stata messa in evidenza da F. Papi, op. cit., p. 104. 22. Nel De immenso Bruno scrive che «Plato vocat tellurem antiquissimam Deorum, omnium qui sint intra coelum» (BOL I,I 376). Tra i testi di mitografia che nel Cinquecento ripresero il mito della ‘Grande Madre’ si veda, ad esempio, quello di Vincenzo Cartari, Le imagini de i Dei de gli antichi, nelle quali si contengono gl’Idoli, Riti, cerimonie, et altre cose appartenenti alla Religione de gli Antichi, indicato dalla Yates come possibile fonte iconografica di Bruno (op. cit., p. 246). Cartari ricorda tra gli autori

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forse ancora più interessanti diventano i nessi individuabili tra il De rerum natura e le opere di Bruno quando si passa ad esaminare quella capacità generativa, fortemente connessa alla teoria dei semina, che entrambi attribuivano alla Terra. Se diversi potevano essere i modelli cui Bruno poteva infatti ispirarsi – dal neoplatonismo all’ermetismo solare, da Pontano23 a Ficino – nell’identificare la nascita di tutte le cose nella continua unione tra il Sole e la Terra24,

classici che si erano soffermati su questo mito anche Lucrezio del quale cita, tradotti poeticamente in volgare, i vv. 606-607 e 600-603 del secondo libro del De rerum natura: «L’alta testa le cinsero, et ornaro / di corona murale, per mostrare, / ch’ella sostien Città, Ville, e Castella»; e ancora: «Questa fecer seder gli antichi Greci, / che poetando scrisser di lei, / sopra un carro, al cui giogo vanno insieme / duo feroci Leoni, che dimostra / che nell’aereo campo la gran terra / pendendo se ne sta per se madesima» (p. 215 della seconda edizione, in Venetia apresso G. Ziletti, e compagni, 1571. Le pagine 203-240 sono dedicate alla Gran Madre). 23. Cfr. B. Soldati, La poesia astrologica nel Quattrocento, Sansoni, Firenze 1906, pp. 265-275. 24. «Quando reluctantur coeuntes foemina masque, / spiclaque contorquent, nexuque Cupidinis acri / bella gerunt, genitalis adest hinc pluvius humor, / foecunda mater quem Tellus concipit alvo, / et Phoebus prius ardescens exsuxerat alte / crinibus auratis, gemina haec nectentibus ora» (De immenso, BOL I,I 290); si vedano inoltre i celebri versi del quinto capitolo del sesto libro del De immenso nei quali Bruno canta l’abbraccio generatore di vita dei due astri: «Liber et alma Ceres ita, Sol Tellusque propinqui, / sensibu’ clam nostris, miris complexibus haerent; / dum dea subque dei radiosa syndone versans / semet, et illius circa orbem sancta pererrans / nititur, ut toto pro viribu’ tota fruatur. / Spiritus aethereus vehit, et contemperat apte / spicula fulgente ex auro contorcta per omneis / quae recidunt parteis, terrai uterumque penetrant. / Haec foecunda Dei sunt semina, et optima prolis / principia usque adeo tantarum sunt specierum. / Namque ubi pertingerint foecundae foemora matris, / rore haec illa suo conspergit in alta retorquens / ora, iterum patrios quasi iam repetentia fines: / porro extra gremium nondum digressa resorbet, / atque uterum mater generoso semine complet». E ancora poco più avanti: «apparet nusquam frustra pharetratus Apollo, / coitus perpetuo sedes ac tempora mutat. / Concipit haec toto de corpore, et ingerit ille / corpus ab integro: neutri tamen inde recedit, / sic quoque Tellures geminae, haec et Luna, sorores» (BOL I,II 178-179). Sulle fonti neoplatoniche ed ermetiche di questi passaggi si sofferma F. Papi (op. cit., pp. 97-98). Recentemente si è occupato di questi versi anche M. A. Granada che, analizzando il rapporto tra il Sole e i pianeti, evidenzia la concezione bruniana di synodus ex mundis nella quale è possibile cogliere l’equilibrio ‘cosmo-biologico’ che il Nolano attribuiva all’universo. Granada mette inoltre in rilievo, sottolineandone la matrice stoica, che gli infiniti soli che popolano l’universo bruniano ricevono nutrimento dalle esalazioni umide dei pianeti (cfr. M. A. Granada, L’infinité de l’univers et la conception du système solaire chez Giordano Bruno, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», LXXXII (1998), pp. 243-275). Per la presenza di tematiche stoiche nelle opere di Bruno si veda dello stesso autore, Giordano Bruno y la Stoa: ¿una presencia no reconocida de motivos estoicos?, cit. Sempre per il connubio tra il Sole e la Terra nel De immenso si vedano anche BOL I,I 236 e I,II 50.

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non si può non pensare anche a quei versi, del secondo libro del De rerum natura, nei quali Lucrezio canta la vita del cosmo e, individuando in un ‘seme celeste’ l’origine di tutte le cose, raffigura il cielo come padre e la Terra come alma mater25. Il Nolano si sofferma sulle funzioni generative attribuite ai due astri anche quando affronta gli argomenti aristotelici a sostegno della differenza tra i corpi inferiori e quelli superiori26. Quello dell’omogeneità della materia è un tema particolarmente significativo e variamente articolato nella cosmologia bruniana. L’aspetto qui da sottolineare è quello legato all’essenza del fuoco: per Bruno infatti non solo il fuoco celeste – cioè il Sole, calore generativo e vitale – non differisce secondo la specie da quello della sfera sublunare, ma partecipa alla continua creazione della vita grazie al movimento della Terra. Il cielo non è più quindi, come per la fisica aristotelica, formato da «certe quinte essenze»27 e la materia non può più essere considerata un sostrato inerte: le forme – scrive Bruno nel De la causa – non hanno l’essere senza la materia, in quella si generano e corrompono, dal seno di quella esceno, et in quello si accogliono: però la materia la qual sempre rimane medesima e feconda, deve aver la principal prorogativa d’essere conosciuta sol principio substanziale, e quello che è, e che sempre rimane...28.

L’omogeneità della materia e la sua posizione non subalterna rispetto alla forma è uno dei fondamenti del sistema cosmologico di Bruno. In questa prospettiva è possibile leggere anche il ruolo che egli attribuisce agli astri: la Terra infatti non sarà più il luogo della materia inerte come per Aristotele, ma parteciperà attivamente alla generazione di ogni forma di vita grazie ad un continuo scambio con il Sole. Bruno, pur accettando la cosmologia copernicana per la quale il Sole aveva un posto centrale nel mondo, non gli attribuisce tuttavia una posizione gerarchicamente superiore a quella della Terra e degli altri pianeti che gli ruotano intorno e sui quali agisce in modo analogo: tra il Sole e gli altri astri la differenza risiede in definitiva solamente in una diversa

25. De rer. nat., II, vv. 991-998. 26. Sono dedicati a questi argomenti i primi due capitoli del IV libro del De immenso: Septem argumenta quibus Arist. et alii probant diversam esse substantiam corporum superiorum et inferiorum istorum e Responsio ad argumenta haec et similia. In universo non esse sursum et deorsum, motum universi nullum, sed in universo circularem seu arcualem (BOL I,II 1-15). 27. Infinito, BOeuC IV 203. 28. Causa, BOeuC 189-191, il corsivo è mio.

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disposizione degli elementi29 e in un loro diverso ruolo. Nel Sole infatti prevalgono quella luce e quel calore grazie ai quali esso può esercitare una forza generatrice su più terre: «hinc Ceres plures, inde Baccus unus: hinc veluti matres, inde pater»30. D’altra parte il Sole del nostro mondo non è che uno degli infiniti ‘soli’ che attraverso una continua emanazione di calore agiscono sulle infinite ‘terre’ che popolano l’universo31. Il fuoco del Sole comunque, come si è già detto, non solo non differisce per specie da quello della regione sublunare, ma solo grazie al movimento della Terra, che mitiga i suoi raggi, può esercitare la sua azione generativa. Bruno, in ultima analisi, nel tentativo di riportare i principi di tutte le cose ad una idea di natura ‘vicina all’uomo’, sottolinea quanto nella generazione sia primario il ruolo esercitato dall’anima e dallo spirito della Terra che presiedono quelli della «seminal materia». Il calore del Sole non deve certo la sua capacità vivificatrice al fatto di appartenere all’aristotelico mondo delle ‘quinte essenze’, ma a quello di agire congiuntamente all’azione generativa della Terra e di dispiegare quindi il suo calore, per usare un’efficace espressione del De

29. Scrive Bruno a proposito dell’omogeneità degli astri: «Sed ut a principio propositum resumamus, illud in mentem revocari volo, ut non solum eiusdem speciei planetas cum planetis intelligamus, sed et eiusdem, propter communem materiam atque omnino substantiam, generis soles atque tellures: ubi quippe lux illa est, ibi ignis est, ubi vero ignis, ibidem aqua, quid enim est ignis praeterquam aqua lumine affecta, seu luminis virtute formata?» (De immenso, BOL I,II 22). 30. De immenso, BOL I,II 20. Di seguito Bruno continua: «Hoc innuit Poeta: / Vos o clarissima mundi / lumina labentem coelo quae ducitis annum, / Bacchus et alma Ceres, vestro si munere Tellus / Chaoniam pingui glandem mutavit arista». Si tratta di Virgilio, Georgica, I, vv. 5-8. Il Nolano torna più volte nelle sue opere a ricordare come un unico sole eserciti il suo potere fecondatore su più terre; si veda, tra l’altro, quanto scrive in tal senso nel V capitolo del De monade dedicato alla Tetradis figura (De monade, BOL I,II 383). 31. «Materies ergo est mundi infinita decenter / excogitata mihi, quam nusquam concava Lunae, / non usquam emensi facies stellantis Olympi / terminet, at spacium replet quod concipit ultro,/ innumeras stellas, nempe, haec vaga corpora mundos, / quae nihilo foecunda minus tibi fingere possis, / quam Tellus, iisdem quia sunt compacta elementis, / talibus immensum spacium splendescit ab astris» (De immenso, BOL I,I 225-226). Su questo punto però, è bene ricordarlo, Bruno segnala una divergenza tra la sua visione e quella di Epicuro: scrive nel De l’infinito – ma ritornerà sullo stesso punto anche nel De immenso (BOL I,I 290) –: «Ma sia come si vuole, essendo l’universo infinito, bisogna al fine che sieno più soli: perché è impossibile che il calore e lume di uno particolare possa diffondersi per l’immenso, come poté imaginarsi Epicuro, se è vero quel che altri riferiscono» (Infinito, BOeuC IV 191). Bruno qui aveva presenti i vv. 564-613 del V libro del De rerum natura, espressamente citati nella Cena (vv. 564-569, 575-579, 585-589), nei quali Lucrezio si sofferma sull’unicità del Sole (Cena, BOeuC II 137-139).

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immenso, «instrumentaliter» su tutte le cose32. Ma un altro elemento di particolare rilievo attiene al modo in cui Bruno riteneva si dispiegasse la natura nella generazione di tutte le cose, la sua concezione cioè del modo di procedere dell’anima e dello spiritus della Terra, «ad ideam quae est in semine», attraverso alti e profondi ordini, per usare il suo linguaggio, nel costituire, collocare, temperare, distribuire e intessere le parti di ogni singolo essere vivente33. Il concetto di semina è d’altra parte legato a quello di generazione e al principio produttivo che Bruno attribuisce alla madre Terra. Significative in tal senso sono le immagini con le quali il Nolano descrive nelle sue opere la capacità di questo pianeta di fecondare continuamente i semina vitalia provenienti dall’orbe del Sole. Nell’aere, che Bruno pone in stretta unione con la forza del fuoco, fuoco che «non differt a substantia spiritus vitalis omnium rerum», vive la Terra che: ... miro hinc est praedita sensu, / qui, quoniam circum semet per cuncta propagat, / semper grata venit cunctis vita udinque ubique. / Ceu igitur nobis sunt ignis semina vita, / undique concipitur, micat undique discutiturque34.

È grazie al suo calore innato, proprio di tutti gli esseri viventi, che la Terra ha la capacità di vivificare tutte le cose, ed è sempre grazie ad esso che i raggi del Sole possono raggiungere i più reconditi luoghi terrestri ed esercitare, senza distruggere ciò che è raggiunto dalla forza del loro calore, un’azione feconda. In tutto ciò che ha la capacità di vivificare, Bruno vede l’incessante opera dello spiritus che 32. Scrive Bruno a proposito del calore del Sole: «quemadmodum calor ille sine anima spirituque Telluris ad nihilum esset: omnia ergo quae hic mirabilia videmus atque varia, ab idea et mente quae est in substantia huius astri emanant principaliter, a solis vero calore velut instrumentaliter, qua etiam ratione anima et spiritus quidam naturae insitus, ad ideam quae est in semine, confabricat et disponit et contemperat et digerit, et altis profundisque ordinibus intexit corpus, et corporis animalium membra, calor vero nativus, qui est in matre, et matrice, et utero circumstante, ut instrumentum et locus conservativus accedunt: humor ab anima opifice tanquam propria materia digeritur. Vide nunc quid a sole recognoscamus et a caelo, qui efficientem et materiam secundum universum definimus animam, et corpus Telluris matris atque progenitricis nostrae. Haec si perceperis, neque materiam neque efficientem longius inquires tanquam eminus sepositissimumque admirando, quem tibi proximum atque etiam internum colere debuisses» (De immenso, BOL I,II 9). Pochi capitoli più avanti ricorderà come la vita possa prosperare grazie all’ombra della madre Terra e al suo movimento che protegge ogni vivente dai penetranti spicula solis (BOL I,II 58, 62 e 77-78). Sull’importanza del movimento degli astri che mitiga il calore del fuoco si vedano ancora le pp. 141-142, e circa il moto della terra la p. 202. 33. Si veda il passaggio citato alla nota precedente, BOL I,II 9. 34. De immenso, BOL I,II 200.

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pervade l’universo. Nel quinto capitolo del De monade, soffermandosi sulla natura quatuor elementorum in mundo spirituali, dopo aver definito lo spirito come una sostanza intermedia tra l’anima e il corpo35, egli attribuisce a questa substantia una seminaria virtus. Tutte le cose hanno origine nelle viscere della Terra «per seminalem quandam emissionem et admissionem»36. I semina hanno tutti una loro specificità che è data dallo spirito che presiede ad ogni tipo di generazione: così l’uomo, per seguire da vicino un esempio di Bruno, non si genera dall’uomo, dalla sua carne o dalla sua formatio actualis, ma «ex spiritu qui est in semine hominis, si in matrice proprii fomenti, et nutriminis adiectione, circumstantiis adiuvetur»37. La materia prossima all’uomo è, in definitiva, il semen hominis, e ancora, la materia prima da cui deriva questo seme specifico è comune a tutti i semi38. Sul concetto di materia Bruno richiamerà l’atten-

35. «Est autem (quod nolo heic praetermittere) Spiritus substantia media quaedam, qua anima tum corpori adest, cum corpori propriam per se ipsam organizato vitam elargitur» (De monade, BOL I,II 396) Sul concetto bruniano di spiritus in relazione alla teoria della generazione di Lucrezio si vedano: F. Papi, op. cit., pp. 99-104 e C. Monti, Incidenza e significato della tradizione materialistica antica nei poemi latini di Giordano Bruno: la mediazione di Lucrezio, cit., pp. 83-84. Nel De magia (BOL III 415) Bruno soffermandosi sullo ‘spirito aereo’ scriveva: «Esse corpora insensibilia et spiritualia praedictae efficaciae, et a quibus vere in corporibus sensibilibus ipsis omnis est virtus, indicat aëreus ipse spiritus, qui mare universum concutit et discutit, et invictissimus ventorum impetus, qui serenissimo existente aëre purissimoque concutit terram, frangit arbores, diruit aedificia. Ut optime notat Lucretius, hoc corpus spiritale est quod omnia operatur in ipsis sensibilibus, unde ipsum ab anima differre non arbitrabantur plurimi philosophorum...». Il riferimento, come annotato in margine insieme agli stessi versi del De rerum natura nel manoscritto di Mosca del testo bruniano (c. 13r), è a «Lucret. V.°» (cioè, come segnalato da Tocco in nota: De rerum natura, V, vv. 235 e sgg.). Sempre nel De magia inoltre Bruno cita i versi lucreziani, II, 650-651 a proposito della condizione degli dei «quorum natura – egli scrive – ‘non est indiga nostri, nec bene pro meritis capitur neque tangitur ira’» (BOL III 434; il verso 651 era stato già citato da Bruno nella Lampas trig. stat., BOL III 40: «Per se, a se, ex se, in se beatissimum, cui nihil externum et aliud addere quicquam vel subtrahere potest. Non tamen illud profanum concludimus: ‘non bene pro meritis capitur, tangitur ira’, profanum inquam, si de ira et delectatione non etiam activa sicut vere passiva intelligi debet»). I versi I, 646-651 del De rerum natura sono gli stessi di I, 44-49, ai quali però molti editori fanno corrispondere una lacuna: non era così nelle edizioni cinquecentesche. 36. De monade, BOL I,II 396. 37. Ivi, p. 397. Si tengano comunque sempre presenti per la concezione di spiritus in Bruno anche quelli che potevano essere i referenti stoici. Cfr. M. A. Granada, Giordano Bruno y la Stoa:¿una presencia no reconocida de motivos estoicos?, cit., pp. 128131. 38. Cfr. De monade, BOL I,II 398. Bruno oltre che sul seme dell’uomo si sofferma su quello della pianta a proposito del quale specifica: «semen latius intelligo prop-

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zione, chiudendo il paragrafo del De monade che si è appena ricordato, affermando che la sua concezione di materia prima non è quella della fisica aristotelica, ma quella dei chymici, dai quali in questo caso, pur criticandone gli intenti, riprende il linguaggio e la nozione di materia prima ed indefinita. E’opportuno qui ricordare quanto si legge nel De la causa: Se dumque il spirto, la anima, la vita si ritrova in tutte le cose, e secondo certi gradi empie tutta la materia, viene certamente ad essere il vero atto, e la vera forma de tutte le cose39.

Efficacemente Michele Ciliberto, nel richiamare l’attenzione sulle espressioni adottate dal Nolano per definire la materia, ne individua una centrale proprio nel termine ‘seme’40. Si può pensare oltre che al De la causa, alla Summa terminorum metaphysicorum, testo più tardo e soprattutto più tecnico dal punto di vista lessicale, nel quale il termine ‘seme’ viene impiegato nuovamente nella definizione di materia41, e ancora, al modo in cui il termine viene utilizzato nel De monade, dove Bruno scrive: «Quod in mathematica est PUNCTUM, LINEA, PLANUM, PROFUNDUM, apud physicos est SEMEN, TRANSMUTATIO, FORMATIO, COMPOSITIO seu completio. Primo quippe est individuum atque minimum semen»42. Se dunque in matematica è il‘punto’ l’elemento primo cui risalire, per il mondo dei physici è il‘seme’ la partiter salices et ea quae insitione propagationem, insensibilis seminis virtute, concipiunt» (ibid.). 39. Causa, BOeuC III 137. 40. M. Ciliberto, Giordano Bruno, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 97. Cfr. Causa, BOeuC III 115 e 285-287. Proprio nel De la causa Bruno, prendendo significativamente in prestito un’immagine della teoria dei semina, scrive: «come nel proprio seme si contiene et implica la moltitudine de le conclusioni della scienza naturale» (ivi, p. 31; questa metafora del seme è ripresa di nuovo da Bruno – come suggerito da Aquilecchia, ivi, p. 327, nota 61, – e applicata alle sue dottrine nella Proemiale epistola del De l’infinito, BOeuC IV 47). 41. In quest’opera, pubblicata per la prima volta a Zurigo nel 1595 a cura di Raphael Egli, Bruno dopo aver individuato una duplicità nella materia, una prima et absoluta, seu prima simpliciter e l’altra contracta nel genus rerum naturalium, scrive a proposito di quest’ultima, che è a sua volta duplice secondo il proprio ordine: «prima, quae est subiectum formarum substantialium, quae nunc recipit formam videlicet nutrimenti, nunc seminis, nunc embryonis, nunc hominis...» (Summa term. met., BOL I,IV 21). La Summa fu ripubblicata nel 1609. Di quest’edizione è stata curata una ristampa anastatica da E. Canone (Edizioni dell’Ateneo, Roma 1989), del quale si veda, per una valutazione di quest’opera all’interno della nolana filosofia, il contributo presente in questo volume: La Summa terminorum metaphysicorum: fisionomia di un’opera bruniana quasi postuma. 42. De monade, BOL I,II 392. Il maiuscoletto dell’edizione ottocentesca rispecchia fedelmente quello dell’edizione originale.

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cella cui sono riconducibili tutte le infinite trasformazioni che si osservano in natura43. Già in queste pagine del De monade la specificità propria di ogni seme richiama senza dubbio i semina certa cantati nel primo libro del De rerum natura44, cioè quella specificità legata ai semi delle cose attraverso i quali la natura si autoproduce. Scrive Lucrezio: «Quae bene cognita si teneas, natura videtur / libera continuo dominis privata superbis / ipsa sua per se sponte omnia dis 43. Pur tenendo ben presente l’importanza per Bruno di fonti neoplatoniche, stoiche e veterotestamentarie alle quali far risalire le sue concezioni di spiritus e di anima mundi, non si può non pensare, soprattutto per alcuni aspetti della sua teoria della materia, alla filosofia della natura del poema lucreziano. Infatti, nonostante la lettura bruniana dell’atomismo antico fosse ancora lontana da un’interpretazione puramente quantitativa e meccanicista, ne riproponeva tuttavia molte teorie in quella chiave vitalistica e animistica che caratterizzò la rinascita della filosofia epicureo-lucreziana tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento. Per questa lettura dell’atomismo antico nel XVII secolo si vedano gli ormai classici studi di T. Gregory: Studi sull’atomismo del Seicento. I. Sebastiano Basson, «Giornale critico della filosofia italiana», XLIII (1964), pp. 38-65; Studi sull’atomismo del Seicento. II. David van Goorle e Daniel Sennert, «Giornale critico della filosofia italiana», XLV (1966), pp. 44-63; Studi sull’atomismo del Seicento. III. Cudworth e l’atomismo, «Giornale critico della filosofia italiana», XLVI (1967), pp. 528-541. Come è noto, il momento cruciale della rinascita dell’atomismo si avrà con Pierre Gassendi, il quale ad esempio leggerà i semina rerum lucreziani come un aggregato di atomi per il quale conierà il termine molecula (cfr. A. Lalande, Vocabulaire techinique et critique de la philosophie, I, P.U.F., Paris 19917, pp. 644-645; per il concetto di semina ‘molecolari’ nelle opere di Gassendi cfr. O. R. Bloch, La philosophie de Gassendi. Nominalisme, matérialisme et métaphyque, M. Nijhoff, La Haye 1971, in particolare pp. 251-254, 258, 267-268 e 445-456 e, ancora dello stesso autore, Gassendi et les «semences des choses», in Id., Matière à Histoire, Vrin, Paris 1997, pp.167-173). Per quanto riguarda Gassendi e le tematiche qui affrontate, è da ricordare che egli commentò nelle sue opere anche i versi lucreziani riferiti alla madre Terra. Diversamente da Bruno, Gassendi però negherà la possibilità di un’anima della Terra (cfr. soprattutto l’inizio della terza sezione, dedicata alla fisica, del Syntagma philosophicum, in Opera omnia, Lugduni, sumptibus L. Anisson et I. B. Devenet, 1658, II, pp. 1-3; di quest’edizione è stata curata da T. Gregory una ristampa anastatica pubblicata a Stoccarda nel 1964). Non è comunque da sottovalutare l’influenza che la filosofia di Bruno poté avere sui lettori del Seicento del De rerum natura: proprio Gassendi possedeva una copia del De monade-De immenso (cfr. R. Sturlese, Bibliografia, censimento e storia delle antiche stampe di Giordano Bruno, Olschki, Firenze 1987, p. 123), la stessa opera possedevano Daniel Sennert e John Evelyn, autore della prima traduzione inglese del poema lucreziano (Essay on the first book of T. Lucretius Carus De rerum natura, G. Bedle and Th. Collins, London 1956), il quale utilizzò alcuni passaggi del De l’infinito per commentarlo (per questo testo mi sia permesso di rimandare al mio John Evelyn e ‘the rational Bruno’, «Bruniana & Campanelliana», I (1995), pp. 233-248); per uno studio sulla diffusione della filosofia di Bruno si veda S. Ricci, La fortuna del pensiero di Giordano Bruno. 1600-1750, Le Lettere, Firenze 1990. 44. In particolare De rer. nat., I, vv. 169-171, e ancora: «Nil igitur fieri de nilo posse fatendumst, / semine quando opus est rebus quo quaeque creatae / aeris in teneras possint proferrier auras» (ivi, I, vv. 205-207).

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agere expers»45. L’autoproduttività della natura è un tema centrale per Bruno, e strettamente connesso alla sua idea di materia. Si pensi ad uno dei luoghi più celebri del De immenso, quel capitolo XVIII del VII libro – su cui la critica si è lungamente soffermata, sia per le fonti lucreziane, che per la teoria dei preadamiti46 – nel quale il Nolano torna ad occuparsi delle numerose specie che popolano l’universo, «...per fluxum genitalem et concipientis / semina matricis...», e dell’infinità delle terre e dei soli che ovunque riempiono lo spazio. Sia Lucrezio che Bruno affermano che la materia e i semina presenti in tutto l’universo fanno sì che esistano altri mondi, non dissimili dal nostro e anch’essi popolati da numerose specie47; non tutte però possono conservarsi in ogni luogo: «namque alias alibi 45. Ivi, II, vv. 1090-1092. 46. Cfr. F. Papi, op. cit., pp. 93-97. Per il poligenismo in Bruno oltre a questo luogo del De immenso (su questo passo ha recentemente richiamato l’attenzione M. A. Granada, Giordano Bruno e l’interpretazione della tradizione filosofica: l’aristotelismo e il cristianesimo di fronte all’«antiqua vera filosofia», in L’interpretazione nei secoli XVI e XVII, a cura di G. Canziani e Y. C. Zarka, Franco Angeli, Milano 1993, pp. 59-82: 78), si veda anche il De monade: «cum peperit Tellus genitrix animalia, primum / Ennoc, Leviathan, et quorum est tertius Adam; / maxima Iudaeae ut credebat portio gentis, / cui erat ex Uno tantum generatio sancta; / per totidemque (ferunt omnes) generatio rursum / est renovata Noah de progenitore, (sub undis / submerso seclo) Semum, Chamum, atque Iapetum» (BOL I,II 363); e ancora alcune pagine dello Spaccio messe in rilievo da M. Ciliberto nel suo Introduzione a Bruno (Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 84-88). Ciliberto ritornando sul nesso Vita-materia, sul quale si era già soffermato nel suo Giordano Bruno (cit., pp. 87-103), mette efficacemente in relazione le pagine dello Spaccio sul diluvio con l’accusa – mossa a Bruno da Giovanni Mocenigo – di sostenere «che come nascono gl’animali brutti di corrutione, così nascono anco gl’huomini, quando doppo i diluvii ritornano a nasser». Se da un lato Ciliberto sottolinea come le accuse di Mocenigo trovassero riscontro nei testi di Bruno, dall’altro, nel ripercorrere il suo atteggiamento di fronte agli inquisitori, ricorda come il Nolano – interrogato sulla possibilità di aver sostenuto la generazione spontanea per gli uomini – riferisse, dissimulando, di averla riportata come opinione «di Lucretio et Epicuro et altri simili» (cfr. Spaccio, BDI 797-799; per l’accusa di Mocenigo e la difesa di Bruno di fronte agli inquisitori, vd. Firpo, Processo, docc. 2 e 15, pp. 144 e 187). 47. Scrive Lucrezio nel II libro del De rerum natura (vv. 1067–1076): «... cum materies est multa parata, / cum locus est praesto nec res nec causa moratur / ulla, geri debent nimirum et confieri res. / Nunc et seminibus si tanta est copia quantam / enumerare aetas animantum non queat omnis, / vis eadem natura manet quae semina rerum / conicere in loca quaeque queat simili ratione / atque huc sunt coniecta, necesse est confiteare / esse alios aliis terrarum in partibus orbis / et varias hominum gentis et saecla ferarum». Questi versi sono gli stessi che Bruno cita nel De l’infinito per rispondere all’argomento aristotelico: «che suppone e non prova che alla potenza infinita attiva non risponda infinita potenza passiva, e non possa esser soggetto infinita materia, e farsi campo spacio infinito: e per consequenza non possa proporzionarsi l’atto e l’azzione a l’agente; e l’agente possa comunicar tutto l’atto, senza che esser possa tutto l’atto comunicato (che non può imaginarsi più aperta contradizzione di questa)» (BOeuC IV 363-365; per lo stesso argomento cfr. anche pp. 323-325).

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species victoria servat»48. Ma il punto di contatto più interessante tra queste pagine del De immenso e il De rerum natura risiede nel fatto che entrambi, Bruno e Lucrezio, ritengono che all’origine di tutte le specie ci sia la capacità della ‘madre Terra’ di produrre tutti gli esseri viventi. Se per Lucrezio, infatti, «Nam neque de caelo cecidisse animalia possunt / nec terrestria de salsis exisse lacunis»49, come è ancora rilevabile – aggiunge il poeta nei versi successivi riallacciandosi al concetto di generazione spontanea – grazie agli animali che vengono generati dalla terra attraverso le piogge e il calidus solis vapor50, per il Nolano non sono mai esistiti i primi esemplari di ogni specie destinati poi a propagarsi in vari luoghi51. Bruno torna più volte nelle sue opere sul fenomeno della pioggia che, a contatto con la polvere inaridita dal Sole, genera la vita: Haec itidem in se ipsis capiunt animantia quaeque / expresse, et plantae, et lapides: licet omne latenter / heic ubi se species confusa in imagine miscent, / nec tam se facile explicitant ex omnibus ipsam / expressam in speciem, ut pulvis fit rana repente / excoctus sole, ut primum gutta insidet illi: / in vermes tota aut muscas substantia abibit / stercoris, in vespas corpus vertetur equinum, / provida apis totoque bovis de corpore surgit52.

Se qui si può parlare di un’immagine che Bruno aveva potuto riprendere da Lucrezio, è comunque necessario sottolineare l’importanza che egli attribuiva alla capacità che ogni cosa ha di trasformarsi in un’altra e cioè al principio anassagoreo dell’omnia in omnibus53, attaccato da Lucrezio54, ma ripreso dal Nolano, come elemen48. De immenso, BOL I,II 282. Riguardo alla selezione delle specie in Lucrezio cfr. De rer. nat., V, vv. 855-887. 49. De rer. nat., V, vv. 793-794. 50. Ivi, V, vv. 795-800. 51. De immenso, BOL I,II 284. 52. Ivi, p. 147. 53. Scrive Bruno nel De la causa a proposito del principio anassagoreo: «DICSONO. – Voi mi scuoprite qualche modo verisimile con il quale si potrebe mantener l’opinion d’Anaxagora, che voleva ogni cosa essere in ogni cosa: perché essendo il spirto o anima o forma universale in tutte le cose, da tutto si può produr tutto. TEOFILO. – Non dico verisimile, ma vero: perché quel spirto si trova in tutte le cose, le quali se non sono animali, sono animate: se non sono secondo l’atto sensibili d’animalità e vita, son però secondo il principio e certo atto primo d’animalità e vita» (BOeuC III 135). In molti studi sul Nolano si è posto l’accento sul suo particolare approccio alla filosofia di Anassagora; si rimanda qui alla nota di Aquilecchia al passaggio appena citato (ivi, p. 352, nota 61). Bruno si sofferma su queste tematiche anche nella Lampas trig. stat.: «Dicitur omnia in omnibus, ex qua ratione, quia ipse est totus ubique praesens, dixit Anaxagoras ‘omnia esse in omnibus’; quia qui est omnia, est in omnibus» (BOL III 42). 54. De rer. nat., I, vv. 830-920.

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to fondamentale del suo concetto di vita e di materia. Inoltre, l’idea di generazione legata all’acqua richiama un altro aspetto particolarmente complesso del pensiero di Bruno. Mi riferisco alla sua lettura in chiave tutta «fisica» dei primi versetti del Genesi e a quella capacità vivificatrice che Bruno, ricollegandosi al testo biblico, dava all’acqua. Nel De la causa, soffermandosi sulla «materia naturale» dalla quale «si fanno tutte le cose naturali», dopo aver ricordato che per i pitagorici, per Anassagora, per Democrito e per i «Sapienti di Babilonia» tutte le cose si generano «per modo di separazione, di parto, e di efflusione», Bruno sottolinea come tutto ciò sottoscrisse anco Mosè, che descrivendo la generazione delle cose, comandata dal efficiente universale, usa questo modo di dire: «Produca la terra li suoi animali; producano le acqui le anime viventi», quasi dicesse: producale la materia; perchè, secondo lui, il principio materiale de le cose è l’acqua: onde dice che l’intelletto efficiente (chiamato da lui spirito) «covava sopra l’acqui», cioè li dava virtù procreatrice e da quelle produceva le specie naturali, le quali tutte poi son dette da lui in sustanza acqui55.

Per il Nolano Mosè introdusse l’immagine dello spirito di Dio che «covava» sopra le acque quasi a voler attribuire all’elemento acqua una virtù procreatrice chiamandola, come si legge nel De rerum principiis, «rerum omnium substantia»56. La sua azione sull’arida, cioè 55. Causa, BOeuC III 257–259. (Bruno si riferisce a Genesi, I, 20 e 24, e I, 2). In riferimento a questo passaggio del De la causa, Granada ha scritto: «Bruno indica la presenza in Mosè della concezione della terra come madre della generazione» (Giordano Bruno e l’interpretazione della tradizione filosofica, cit., p. 78). 56. «In duobus principiis materialibus, puta aqua et terra, consistunt tenebrae; et nomine tenebrarum usurpantur, praesertim aqua, quae interdum Abyssus interdum Styx appellatur, et intelligitur tanquam genitura omnium rerum, ut intellexit Thales et Moises, qui spiritum Dei incubantem in aquis introduxit, quasi dans illis virtutem procreatricem, sicut quando gallina incubat supra ovis; et quia omnia rerum semina sunt humida, ideo rerum omnium substantiam aquam appellant...» (De rerum princ., BOL III 510). Adotto qui la lezione proposta da R. Sturlese che legge substantiam e appellant laddove F. Tocco aveva letto semen e appellat. Queste correzioni sono state proposte dalla Sturlese nel suo La nuova edizione del Bruno latino apparso nel volume Giordano Bruno: testi e traduzioni, Atti della giornata di studio di Firenze (3 ottobre 1994), Università degli Studi di Roma «La Sapienza», Roma 1996, pp. 51–78: 64. Per le tematiche che questo passaggio bruniano richiama si veda anche il Sommario del processo, in Firpo, Processo, doc. 51, p. 300, e la lettera di Kaspar Schoppe a Konrad Rittershausen (Roma, 17 febbraio 1600) nella quale lo informava che Bruno riteneva: «Spiritum sanctum non esse aliud nisi animam mundi, et hoc voluisse Moysen, dum scribit eum fovisse aquas» (ivi, p. 350). Sull’espressione «covava» che sembra provenire direttamente dall’ebraico merahaefeth, e quindi sulla probabile conoscenza bruniana di questa lingua si vedano: A. Mercati, Il sommario del processo di Giordano Bruno, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1942, pp. 9-10, nota 18, e Firpo, Processo, p. 84. Comunque, come

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sulla terra completamente privata dell’elemento umido, ovvero sugli atomi, è ‘agglutinante’57. L’arida, e questo termine non può non richiamare il Genesi58, è per Bruno quella sostanza, quae a compositis separato spiritu, vapore et humido subsidet, et vel ultimo resolvitur non tanquam in substantiam continuam, sicut humor, vapor, spiritus, lux, sed discretam...59

In definitiva l’arida si identifica con gli elementi primi che nel De monade, e precisamente nel primo ordine della scala della decade, vengono individuati tra le dieci specie proprie dell’ente; al quinto livello – le prime cinque specie sono i principi semplici da cui deri-

messo in evidenza da Mercati, Girolamo, nelle Hebraicae quaestiones in libro Geneseos, notava che il verbo ebraico poteva essere reso proprio con incubabat e confovebat aggiungendo: «in similitudinem volucris ova calore animantis. Ex quo intellegimus non de spiritu mundi dici, ut non nulli arbitrantur, sed de spiritu sancto, qui et ipse vivificator omnium a principio dicitur. Si autem vivificator, consequenter et conditor. Quod si conditor, et deus: emittes enim ait spiritum tuum et creabuntur» (S. Hieronymi Presbyteri Opera, in Corpus Christianorum, Series Latina, LXXII, I, 1, Typographi Brepols Editores Pontificii, Turnholti 1959, p. 3 ). Nello stesso modo Giovanni Pico della Mirandola utilizza fovebat, nell’Heptaplus (cfr. p. 340 dell’edizione curata da E. Garin, Vallecchi, Firenze 1942). N. Tirinnanzi, nella sua traduzione del De rerum principiis (G. Bruno, De rerum principiis. Una riforma della «magia», Procaccini, Napoli 1995), rimanda in nota (p. 140, nota 18) per questo passo di Bruno all’Idea del theatro di Giulio Camillo. Scrive Camillo: «La materia prima veramente dichiamo noi esser acquea, percioché Mosè, incontanente che hebbe fatto mention di quella, come di sopra habbiamo detto, della materia comune al cielo et alla terra (la qual disse esser inane et vacua, cioè d’ogni forma) esplicò per apposition la sua natura, dicendo: ‘Et spiritus Eloin ferebatur super aquas’, benché il testo hebreo suoni ‘incubabat’» (p. 70 dell’edizione curata per Sellerio da L. Bolzoni, Palermo 1991; l’editio princeps è del 1550). 57. De rerum princ., BOL III 510-511, ma anche De l’infinito: «se dalla terra si removesse tutta l’acqua, di sorte che la rimanesse pura arida, bisognarebe necessariamente che il rimanente fusse un corpo inconstante, raro, dissoluto e facile ad esser disperso per l’aria, anzi in forma di corpi innumerabili discontinuati; per che quel che fa uno continuo, è l’aria; quello che fa per la coerenzia uno continuo, è l’acqua, sia che si voglia del continuato, coerente e solido, che ora è l’uno, ora è l’altro, ora è il composto de l’uno e l’altro» (BOeuC IV 227, ma si vedano più in generale per questo argomento le pp. 217-233). O ancora nel De immenso: «Ponderat ergo nihil, quod non concrerit in unum / partibus innumeris merito coeuntibus undae, / quippe atomos vincire suum est, vinctasque tenere, / ne incerto appulsu volitent per inania regna» (BOL I,II 152). Per il ruolo che, secondo Bruno, Mosè attribuiva all’elemento acqua si veda anche De immenso, BOL I,II 165. 58. È quanto ricordato anche da Giovanni Aquilecchia in occasione di queste Letture Bruniane; si veda il suo contributo, Il linguaggio filosofico di Bruno tra comoedia e tragoedia, nel presente volume. 59. De rerum princ., BOL III 532.

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vano altrettanti composti – Bruno pone infatti l’atomo, l’arida e la terra, principia rerum, rispettivamente, come egli specifica, per Democrito, Mosè ed Empedocle60. L’interpretazione che il Nolano dà dell’arida61 fornisce un’altra interessante chiave di lettura del suo atomismo62. Di nuovo significativo è un passaggio, nella sezione del De rerum principiis dedicata all’elemento terra, nel quale Bruno ripropone l’immagine dei piccoli corpuscoli, visibili quando i raggi del Sole attraversano le fessure di una finestra, con la quale Lucrezio aveva esemplificato il moto degli atomi63: Magis enim ad atomorum similitudinem accedunt corpuscola illa, quae non subsident et consistunt seu iacent, sed in radiis solaribus per foramina immissis conspiciuntur, praesertim aëre quiescente, quae aequali pulsu sursum moventur et deorsum et ad omnes locales differentias, idque velut a principio intrinseco admittunt, quandoquidem inter millia vix videbis unum et alterum eodem impetu ferri, ne possis credere quod a continuitate aëris commoti deferantur. Quicquid tamen id est, hoc tantum in praesentiarum concludimus, terram elementum per se omnino ab humido absolutum nihil aliud esse praeter eiusmodi corpuscola, atque ea quidem 60. De monade, BOL I,II 463-464. 61. Bruno torna più volte nelle sue opere ad identificare l’arida con gli atomi. Scrive nel De l’infinito: «l’arida a fatto disciolta da l’acqua, non è altro che vaghi e dispersi atomi» (BOeuC IV 233). Si pensi anche, solo per fare due esempi, al De minimo, BOL I,III 170 e all’Acrotismus: «Ejus materialia principia sunt Terra, seu Atomi, seu Arida, Abyssus seu Styx, seu Oceanus, Spiritus, seu aer, seu coelum, seu firmamentum» (BOL I,I 81). Proprio in questo passaggio dell’Acrotismus, nell’esemplare che Bruno inviò a Tycho Brahe, la parola terra è sottolineata ed in margine è annotato: «in primo Genes. ver. 2» (cfr. M. R. Pagnoni Sturlese, Su Bruno e Tycho Brahe, «Rinascimento», XXV (1985), pp. 309-333: 315). 62. Se sono in parte stati studiati i legami che gli atomisti e i corpuscolaristi del Seicento stabilirono tra le fonti veterotestamentarie e le fonti classiche dell’atomismo antico – si pensi all’identificazione tra Mocho, al quale si faceva risalire l’atomismo antico, e Mosè (cfr. D. B. Sailor, Moses and Atomism, «Journal of the History of Ideas», XXV (1964) pp. 3-16), identificazione riproposta, per fare un esempio italiano, anche da Giuseppe Valletta nella sua Historia filosofica (cfr. G. Valletta, Opere filosofiche, a cura di M. Rak, Olschki, Firenze 1975, pp. 260-261; su queste tematiche in Valletta si veda E. Garin, Giuseppe Valletta storico della filosofia, in Id., Dal Rinascimento all’Illuminismo, Le Lettere, Firenze 19932, pp. 183-196: 190-191) – poco si sa su questo aspetto dell’atomismo nel Cinquecento, che, almeno nel caso di Bruno, meriterebbe un approfondimento. Per quanto riguarda più in generale la lettura bruniana del Genesi e della filosofia mosaica, per la quale si devono aver presenti le opere di Marsilio Ficino ed Agostino Steuco, si veda A. Ingegno, op. cit., pp. 146-152. 63. L’esempio lucreziano, che però si riferisce al moto di tutti gli atomi, è lo stesso che Aristotele aveva attribuito a Democrito limitatamente agli atomi sferoidali. Cfr. De anima, I, 2, 404 a. Per il raffronto tra questo passo del De anima e i versi di Lucrezio, II, vv. 114-120, si veda Lucrèce. De rerum natura. Commentaire exégétique et critique, par A. Ernout et L. Robin, I, Les Belles Lettres, Paris 1925, p. 230.

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quae ad solem ita sunt conspicua, composita sunt, non atoma, et consequenter non sine aqua; imitantur tamen simplicium motum propter partium coëuntium paucitatem, ideoque non multae contrarietatis participatione64.

Proprio per quanto riguarda il movimento degli atomi, bisogna però ricordare che nel De immenso Bruno aveva criticato la teoria epicureo–lucreziana per la quale i minimi corpi si muovono per gravità verso il basso, teoria questa che mal poteva essere conciliata con la sua negazione dei luoghi naturali e con la sua concezione di un universo nel quale «in vano si cerca il centro o la circonferenza»65. L’analisi che qui si è proposta, benchè limitata a tematiche specifiche e circoscritte del pensiero bruniano, permette comunque di scorgere in quale modo il Nolano utilizzasse il De rerum natura, che sicuramente dovette costituire – anche laddove sono riscontrabili differenze di non poco momento e letture originali dell’atomismo antico – una fonte importante per le sue dottrine e una valida alternativa all’aristotelismo con il quale si confrontò puntualmente in tutte le sue opere. Non solo: il poema di Lucrezio fu per Bruno anche una sorta di repertorio da cui poter attingere immagini suggestive e particolarmente efficaci. In queste pagine si è cercato di

64. De rerum princ., BOL III 532-533. Cfr. De rer. nat., II, vv. 114-131: «Contemplator enim, cum solis lumina cumque / inserti fundunt radii per opaca domorum: / multa minuta modis multis per inane videbis / corpora misceri radiorum lumine in ipso / et velut aeterno certamine proelia pugnas / edere turmatim certantia nec dare pausam, / conciliis et discidiis exercita crebis; / conicere ut possis ex hoc, primordia rerum / quale sit in magno iactari semper inani, / dumtaxat rerum magnarum parva potest res / exemplare dare et vestigia notitiai. / Hoc etiam magis haec animum te advertere par est / corpora quae in solis radiis turbare videntur, / quod tales turbae motus quoque materiai / significant clandestinos caecosque subesse. / Multa videbis enim plagis ibi percita caecis / commutare viam retroque repulsa reverti / nunc huc nunc illuc in cunctas undique partis». 65. Cfr. C. Monti, Incidenza e significato della tradizione materialistica antica dei poemi latini di Giordano Bruno: la mediazione di Lucrezio, cit., pp. 80-81. Bruno, che in queste pagine doveva aver presenti i versi del secondo libro del De rerum natura 184215, non prese però in considerazione la teoria del clinamen esposta da Lucrezio nei versi successivi; d’altronde la sua necessità di affermare una relativizzazione dei luoghi mal si conciliava con il movimento degli atomi verso il basso, tanto più che, trovandosi a discutere gli argomenti aristotelici contro l’infinito, si sorprende che a sostenere il moto verso il basso siano proprio gli epicurei per i quali l’universo è infinito: «Nam mirum ut potuit talis sententia mentem / indugredi infinitum contestantis, ut ullus / terminus aut medium qua transitus est minimorum, / queis natura dedit perfundier undique circum, / continue ad imum casu influitantia dici / malint quam fluxus generali nomine ferri, / ac longum si per tractum delata subirent, / impetis adpulsus vi definita profundi / ora infinito spacio defuncta superne» (De immenso, BOL I,I 268-269).

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portare esempi in tal senso, ma si pensi ancora quanto questo tipo di lettura del De rerum natura sia presente in quei luoghi delle opere bruniane nei quali viene ripresa – come è stato più volte sottolineato – quella tradizione umanistica e rinascimentale che era stata largamente «sedotta» dall’immagine della Venere lucreziana come forza vivificante della natura66. Si pensi inoltre all’eco del rapporto tra Venere e Marte cantato da Lucrezio – la critica ha individuato in queste due divinità rispettivamente il principio costruttivo e quello distruttivo67 – che è possibile cogliere nel De statua Vulcani della Lampas triginta statuarum laddove Bruno, soffermandosi proprio su questo legame divino, lo descrive come un retinaculum e, rappresentando Venere come amicitia e Marte come lis, li identifica con i principia rerum68. Il ripensamento bruniano dell’atomismo epicureo-lucreziano è, come si è potuto vedere, complesso e articolato e soprattutto inserito in un uso delle fonti antiche che costituisce uno degli aspetti fondamentali della filosofia nolana. Se l’immagine della terra come ‘madre delle cose’ e la teoria dei semina possono fornire un esempio della lettura che Bruno dava dell’atomismo antico, molte altre sono le tematiche 66. Cfr. F. Papi, op. cit., pp. 121-123. Sulla vicinanza tra la Venere bruniana e quella botticelliana si veda F. Yates, op. cit., pp. 362-363. Per quanto riguarda l’immagine di Venere mutuata da Lucrezio dagli umanisti cfr. E. Garin, Ricerche sull’epicureismo del Quattrocento, cit., pp. 83-86. Ancora per Bruno cfr. De monade, BOL I,II 369: «Venus tres vegetativae potentiae regulat virtutes, NUTRITIVAM, AUGMENTATIVAM, et GENERATIVAM. Quarum, Generativa habet tres vires, Spermaticam seu SEMINATIVAM, Immutativam seu CONTEMPERATIVAM, et Formativam seu FIGURATIVAM». 67. Cfr. F. Giancotti, L’invocazione a Venere e i versi teologici, in Id., Il preludio di Lucrezio e altri scritti lucreziani e epicurei, G. D’Anna, Messina-Firenze 1978, pp. 157- 234: 204-213. 68. Cfr. Lampas trig. statut., BOL III 87: «Quod Martem et Venerem invisibili quodam retinaculo comprehenderit, notat contraria virtute formae cuiusdam, qualis est anima, coire et cohabitare et arctioribus constringi vinculis; per hanc enim significata amicitia [Veneris] et lis significata per Martem rerum sunt principia, quia ex contrariis concurrentibus in unum et quodammodo concordantibus virtute animae subsistentia naturalia constituuntur». La Lampas è una delle opere più complesse di Bruno. Sulla sua importanza all’interno della filosofia bruniana, dopo il giudizio poco positivo espresso da F. Tocco (Le opere inedite di Giordano Bruno, Tipografia della Regia Università, Napoli 1891), si vedano: F. A. Yates, op. cit., pp. 333-338, lettura questa tutta in chiave ermetica; N. Badaloni, Giordano Bruno. Tra cosmologia e etica, De Donato, Bari-Roma 1988, pp. 41-50, per il quale quest’opera rappresenta il tentativo di Bruno di «strutturare la scienza della natura» attraverso la «costruzione artificiale» (ivi, p. 41), e M. Ciliberto, Giordano Bruno, cit., pp. 205211, il quale scrive della Lampas: «si tratta, in effetti, di un testo in cui confluiscono in una sorta di sintesi straordinaria – orientata in senso pratico-inventivo – le componenti fondamentali di tutta la filosofia nolana, riorganizzate, a loro volta, in un quadro genetico-sistematico eccezionalmente elaborato» (ivi, p. 207).

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che potrebbero prestarsi a questo tipo di confronto e alle quali qui, solo in alcuni casi, si è fatto riferimento. Per concludere, non si può non ricordare il significato della scelta bruniana del modello lucreziano nella trilogia francofortese. Al di là della pur importantissima decisione di scrivere in versi come Lucrezio, dal quale, come sottolineava Fiorentino, prese in prestito buona parte del linguaggio69, Bruno doveva aver trovato molto vicine alle proprie le difficoltà terminologiche incontrate dal poeta latino nell’esprimere nella propria lingua gli obscura reperta dei greci, non solo per la povertà del latino, ma anche per la novitas rerum da trattare con parole nuove70. È quanto si può rilevare dai versi del primo libro del De minimo quando, nel difendersi dalle accuse che potevano venirgli da quei grammatici che giudicò sempre severamente, dichiarò la sua volontà di adeguare la lingua latina alle novità della sua dottrina71, riproponendo vocaboli antichi e coniando, se necessario, parole nuove. Non poeta labellis, ma, come scriverà nella chiusa del De immenso, uomo «durus, rusticus, asper»72.

69. F. Fiorentino, BOL I,I XL. 70. «Nec me animi fallit Graiorum obscura reperta / difficile inlustrare Latinis versibus esse, / multa novis verbis praesertim cum sit agendum / propter egestatem linguae et rerum novitatem» (De rer. nat., I, vv. 136-139). Si vedano anche i versi, sempre nel libro I, 830–833. 71. «... Tunc vi meritorum / multa renascentur quae iam cecidere, cadentque / quae fuerant in honore vocabula, nam volet usus. / Usus principiumque erimus, quando sapientum / dogmata priscorum priscis clarissima verbis / e fundo eruimus tenebrarum, pro novitate / (si sit opus) rerum, quocumque e fonte trahantur / commodius, vocum authores erimusque novarum. / Grammatici verbis, at nobis verba ministrent, / ii observent usum, quem nos indicimus ollis. / Nec genus insipiens temerata mente protervum / confundat species, turbet genus omne, ut ubique / artes in crepidam retrahantur grammaticalem» (De minimo, BOL I,III 135). 72. De immenso, BOL I,II 317. Negli ultimi versi di questo poema Bruno, sempre parlando di se stesso scrive: «Quod si ut sum factus, divûm pro munere, memet / ingerero rigidum, membrisque viriliter acrem, / infrenem, invictum, sementoseque sonantem; / Narcissis referam: peramarunt me quoque Nymphae» (ivi, p. 318).

SANDRA PLASTINA LEGGE E VIRTÙ CIVILI IN PATRIZI E BRUNO. UN CONFRONTO TRA I DIALOGHI DELLA HISTORIA E LO SPACCIO DE LA BESTIA TRIONFANTE

Le figure di Francesco Patrizi e di Giordano Bruno sono state accostate tra loro soprattutto per rimarcare le differenze tra le due personalità, differenze che risultano certamente macroscopiche, basti pensare, per rifarsi ad un tratto molto significativo, alla portata del diverso atteggiamento da essi assunto nei confronti della rivoluzione copernicana che, per Bruno rappresenta un radicale rinnovamento del pensiero, mentre per Patrizi rimane il rinnovamento di un’antica ipotesi matematica che denuncia l’incapacità di concepire l’universo infinito. Le vicende speculative dei due filosofi segnano gli ultimi decenni del secolo in cui l’intrecciarsi di riflessione metafisica e religiosa e di una nuova cosmologia sfocia in alcune espressioni di valore assoluto, tra le più alte della filosofia italiana, oltre che nello scontro duro, e talora drammatico e poi tragico con la censura ecclesiastica. All’interno delle differenze di cui si diceva, la lettura dello Spaccio de la bestia trionfante da una parte e dei Dialoghi della Historia dall’altra, ci induce a credere, tuttavia, che sussistano alcuni punti di convergenza ed analogie che meritano di essere sottolineate per la loro importanza. Non abbiamo indicazioni o prove di un contatto diretto, almeno prima del ’92, «tra i due filosofi che avevano pure non pochi tratti comuni, a cominciare dal carattere irregolare della loro formazione scolastica, del loro peregrinare al di fuori dell’ormai piccolo mondo italiano, e soprattutto, dall’evidente affinità di certi loro interessi essenziali, legati alla lettura degli stessi testi ed autori e da un’idea non dissimile dell’inevitabile ritorno ad una sapienza filosofica e religiosa anteriore al lungo ‘erramento’ prodotto dalla funesta congiunzione tra l’auctoritas teologica assurdamente imposta anche ai sapienti e il predominio di un’unica dottrina, posta nelle mani di falsi filosofi e di ciechi e boriosi magistri»1. Nonostante la presenza di questi elementi comuni è noto che il giudizio pronunciato da Bruno nel De la causa nei confronti di Patrizi è duro e senza appello. Qualche anno dopo la pubblicazione

1. C. Vasoli, Bruno, Ramo e Patrizi, «Nouvelles de la République des Lettres» (1994), 2, pp. 169-190, in part. p. 181.

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delle Discussiones peripateticae avvenuta a Basilea nel 1581, Bruno, infatti, provvide a cucire addosso al filosofo di Cherso «abiti da pedante», con tutto il disprezzo nutrito dal Nolano per pedanti e imbrattacarte, ripagando della stessa moneta chi «non solo senza profitto alcuno, ma etiam con un grandissimo sprofitto», aveva cucito e scucito Aristotele, e «conferito con mille altri greci autori amici e nemici di quello»2. L’impostazione fortemente erudita del lavoro compiuto da Patrizi sul corpus aristotelico, così impietosamente messa in risalto da Bruno, fu a lungo avvertita come un limite esteso all’intera opera patriziana, e peserà non poco sul giudizio che i critici formuleranno in seguito3. Come accennato, si è fatta l’ipotesi di un incontro, non provato da evidenze sicure, di Bruno con il chersino4 agli inizi del ’92 a Venezia, la città dove Patrizi aveva iniziato le sue esperienze intellettuali, e che rimane agli occhi del filosofo un modello insuperato di virtù politica5. Di certo sappiamo che la vicenda

2. Causa, BDI 260-61. 3. Poco più di un secolo fa, nel 1872, Francesco Fiorentino continuava a riconoscere a Patrizi una indubbia abilità nel distruggere l’altrui filosofia, ma non altrettanta nel costruirne una propria. Cfr. F. Fiorentino, Bernardino Telesio ossia Studi storici su l’idea della natura nel Risorgimento italiano, Le Monnier, Firenze 1872-1874, vol. I, pp. 364-414; vol. II, pp. 1-19, 375-379. E ancora, nel 1937, due anni dopo la pubblicazione dell’importante libro di P. M. Arcari, Il pensiero politico di Francesco Patrizi da Cherso, Zamperini e Lorenzini, Roma 1935, De Ruggiero non esitava a sottoscrivere il giudizio di Bruno, giudicandolo sostanzialmente esatto. Cfr. G. De Ruggiero, Storia della filosofia: Rinascimento, Riforma e Controriforma, Laterza, Bari 1937, p. 106. 4. L’ipotesi che questo incontro sia avvenuto nel ’92 è stata avanzata da M. Ciliberto, Giordano Bruno, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 262. 5. Non stupisce che Patrizi si ispiri nei suoi dialoghi alla Venezia storica come modello di città giusta. Il principio più valido su cui si basa la Repubblica veneta, elevata a simbolo del governo secondo i criteri della ragione, è, infatti, individuato dal filosofo nella scelta della costituzione mista, di cui Sparta e Venezia rappresentano gli esempi più illustri. La Serenissima ha saputo congiungere armoniosamente le tre forme del potere – la forma monarchica, aristocratica e democratica – come è detto nel sesto dialogo della Historia: « è l’una di quelle miste di tre; di uno, dei meno, e di tutti. Et gran meraviglia, come questo governo così mischiasse, per lo suo mantenimento. Per ciochè essendo l’uno, per la troppa libertà, e per la forza pericoloso molto: e i tutti per la troppa moltitudine confusi, e non atti al governo; e i manco, ambitiosi; e perciò seditiosi: volle Iddio che quello che non havrebbe mai huom mortale potuto antivedere, habbia col tempo per se stessa preso la nostra Republica» (Della Historia diece dialoghi..., in Venetia, appresso A. Arrivabene, 1560, f. 36r-v). La validità del modello politico veneziano del ‘governo misto’ è riconosciuta anche da Machiavelli che lo giudica più fermo e più stabile «perché l’uno guarda l’altro, sendo in una medesima città il principato, gli ottimati e il governo popolare» (N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1983, p. 24).

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di Patrizi chiamato nel ’92 ad insegnare alla Sapienza romana dopo l’elezione al soglio pontificio di Clemente VIII, ebbe influenza sulla decisione maturata da Bruno di tornare in Italia. Dal punto di vista di Bruno il fatto rivestiva grande rilievo; secondo quanto ci riporta la testimonianza di Mocenigo: «disse Giordano questo papa è un galant’huomo perché favorisce i filosofi e posso ancora io sperare d’essere favorito, e so che il Patritio è filosofo, e che non crede a niente...»6. Per quanto riguarda la conoscenza diretta che Bruno ebbe dell’opera di Patrizi non sembra che egli avesse letto gli scritti giovanili del filosofo di Cherso; ma certamente sono proprio i Dialoghi della Historia e i Dialoghi della Retorica che lo avrebbero maggiormente potuto interessare. Nel 1560 Francesco Patrizi aveva pubblicato i Della Historia diece dialoghi... ne’ quali si ragiona di tutte le cose appartenenti all’Historia, et allo scriverla, et all’osservarla. Egli dichiara apertamente che questa operetta è soltanto una parte della sua «impresa dell’eloquenza» ossia un «non picciol saggio» di un’opera assai più vasta destinata a trattare non solo della «oratoria, come hanno fatto fin qui le Retoriche di tanti maestri del dire», bensì «di tutti i parlatori et i scrittori». Né dubita che una simile impresa «incredibile utilità apporterà al mondo», riconducendo la conoscenza del linguaggio a quei sicuri fondamenti filosofici individuati, duemila anni prima, da Platone. E difatti la discussione patriziana sulla storia è inseparabile dalla sua critica radicale della retorica classica, delle sue origini e dei suoi meccanismi, fondata com’è sulla piena consapevolezza che la storia è in primo luogo narrazione e parola, tentativo di restituire attraverso i suoi moduli espressivi, cose e azioni che sono passate e restano affidate a varie forme di memoria. Ciò pone subito il problema della corrispondenza tra parole e cose, discorso e verità che sarà il tema centrale dei dialoghi Della Retorica che Patrizi pubblicherà nel 1562, ispirati dalla certezza che nella società e nella storia umana, dominate dal bisogno e dalla paura, il linguaggio adulterato, manipolato e piegato alle inevitabili necessità dell’ordine politico ha perduto la sua antica identità divina con l’Essere. All’epoca d’oro dell’umanità, infatti, risale l’unità del linguaggio divino e di quello umano, manifestazione diretta della sapienza originaria, capace di comprendere in sé e di risolvere l’anelito delle creature ad elevarsi al cielo e l’amorevole attenzione della divinità nei confronti della terra. La metafora del mondo come discorso trova il proprio fondamento speculativo nel principio affermato da 6.

Cfr. Firpo, Processo, pp. 248-249.

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Patrizi, che la natura stessa è struttura comunicativa, che la totalità degli esseri vive e si manifesta proprio in quanto può esprimere la propria essenza, le proprie qualità, neutralizzando felicemente sul piano della comunicazione ogni insidia di contrasto e di separazione. Il rapporto uomo - divinità non può, infatti, stabilirsi al di fuori di una autentica ed efficace dimensione comunicativa. Le condizioni ideali di questo rapporto si erano realizzate nell’antichità del mondo, nel tempo mitico dei sapientissimi Persiani, degli Egizi e dei Traci – di cui Patrizi racconterà distesamente nel primo dialogo della Retorica – in cui gli uomini possedevano tutte le verità e tutte le virtù, e conoscevano il vero linguaggio e «per lo mezo di così fatto parlare, opravano le meraviglie e i miracoli»7. Tra Dio, uomo e natura non c’era opposizione, asimmetria, incomunicabilità. Essi potevano realmente parlarsi ed intendersi: consisteva proprio in questo la divina sapienza degli Egizi. E questa era la ragione della loro profonda magia; il loro compiere miracoli. Quei cerimoniali non erano vane fantasie, ma vive voci che toccavano le orecchie degli dei i quali – dice Bruno nel dialogo terzo dello Spaccio – «come da lor vogliamo essere intesi non per voci d’idioma che per lor sappiano fengere, ma per voci di naturali effetti, talmente per atti di ceremoni circa quelle volsero studiare di essere intesi da noi»8. Il criterio dell’operatività del sapere e dell’efficacia delle azioni si offre, dunque, come la chiave di lettura per intendere, sia nelle pagine dedicate da Patrizi alla storia, sia nello Spaccio di Bruno, il riferimento ai tempi in cui quegli antichi savi conoscevano «dio essere nelle cose, e la divinità latente nella natura». Per Patrizi l’età felice, in cui voce naturale e voce divina erano fuse, non può esserci restituita; ma pur se non è possibile auspicare un ritorno, la decadenza dell’uomo e del linguaggio è giunta ormai ad un momento definitivo e cruciale tale da invocare la necessità di una riforma. Sulle modalità e i tempi di questa riforma Patrizi si sofferma nei dialoghi centrali della Historia. Anche alle radici dello Spaccio stanno uno straordinario approfondimento e una fortissima radicalizzazione del giudizio di Bruno sulla crisi del suo tempo storico in forte consonanza con gli argomenti usati da Patrizi. La crisi in cui versa l’umanità non è stata preannunciata da catastrofi o eventi clamorosi, ma anch’essa rappresenta una caduta, una lacerazione altrettanto grave e dolorosa; sancisce – come è stato detto – la rottura del rapporto

7. F. Patrizi, Della Retorica dieci dialoghi, in Venetia, appresso F. Sanese, 1562, f. 5r. 8. G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, a cura di M. Ciliberto, Rizzoli, Milano 1985, p. 264.

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tra uomo e natura, tra uomo e dio; è crisi comunicativa9. Nel malessere del tempo presente s’annida un fondo oscuro e il compito della storia è quello di dirci come questo fondo tenebroso ha potuto soppiantare la luce del mondo naturale. La scelta del dialogo come genere letterario sta ad indicare proprio la consapevolezza della difficoltà del tentativo intrapreso e il desiderio di tentare nuove strade interpretative, quando ormai quelle vecchie si sono mostrate infruttuose. Il filosofo di Cherso aveva già fornito i motivi ispiratori della sua opzione stilistica, che soddisfa esigenze teoriche ben precise, in una operetta scritta dieci anni prima, il Dialogo dell’honore Il Barignano10. Nella dimensione vivace e dialettica che i dialoghi riescono ad instaurare, alla circolarità della comunicazione s’intrecciano la fluidità del ragionare e il continuo scambio di ruoli, che si realizza proprio nell’alternarsi di domande e risposte tra gli interlocutori. Nel tono che Patrizi riesce ad imprimere soprattutto ai dialoghi iniziali pare proprio di risentire l’eco delle parole d’elogio al dialogare socratico che Machiavelli aveva pronunciato nell’Arte della guerra: «Molte volte un savio domandatore fa a uno considerare molte cose o conoscerne molte altre, le quali senza esserne domandato non avrebbe mai conosciuto»11 – ruolo che il filosofo di Cherso – che ben conosceva l’opera di Machiavelli – interpreta con convinzione, indossando i panni socratici. La scena del primo dialogo intitolato Il Gigante overo della Historia, è Venezia. Patrizi, rivolgendosi al Bidernuccio, racconta di un suo incontro, avvenuto quella mattina stessa nella chiesa di San Francesco alla Vigna, con «tre dei nostri più cari amici» e di come, passeggiando verso San Marco, il ragionamento era venuto a soffermarsi su alcune storie, specialmente quelle «della nostra nobil patria del Friuli... e dei nostri antichi Patriarchi»12. Il resoconto della conversazione fornisce al Bidernuccio lo spunto per entrare nel vivo dell’argomento e tessere le lodi «dell’historia, et bella et utile sopra modo… infatti ella è piena di ogni buona et rea maniera di vivere; e di ogni giuoco di privata e di pubblica fortuna. La quale tutto diversa sottosopra, e basso e alto ruota, e gli huomini et le famiglie, e le 9. M. Ciliberto, La ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno, Editori Riuniti, Roma 1986. 10. F. Patrizi, La città felice. Del medesimo: Dialogo dell’honore, il Barignano. Del medesimo: Discorso della diversità dei dei furori poetici. Lettura sopra il sonetto del Petrarca «la gola il sonno e l’ociose piume», in Venetia, per G. Griffo, 1553, ff. 20v-21r. 11. N. Machiavelli, Libri dell’arte della guerra, in Opere, a cura di E. Raimondi, Mursia, Milano 1966, p. 403. 12. F. Patrizi, Della Historia, cit., f. 1r.

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città e le republiche e gli imperi»13. Ma se il saper umano vuole contrastare il predominio della fortuna o «secondandola alzar se in stato», continua il Bidernuccio, non c’è niente che possa giovare di più a tal fine dell’historia che rende prudenti ed accorti. Poiché nella storia come «in ispecchio, o più veramente in Theatro, l’huom può vedere tutte le humane cose, e tutti i loro felici e sfortunati avvenimenti». Ogni uomo privato o pubblico può valersi dell’ammaestramento della storia in tutte le occorrenze della vita «si che le fortune altrui siano regola, e norma della loro». L’esordio, pronunciato da Messer Alfonso, di chiara ispirazione machiavelliana, ruota tutto intorno ai temi della fortuna che domina gran parte delle vicende storiche e del saper umano che ad essa solo può opporsi «in alcuna parte» e diminuirne l’impeto, e osservare attentamente nel gran teatro della storia gli avvenimenti fausti e infausti del passato, per trarne norme e regole per meglio vivere nel presente. La lettura delle storie antiche non può essere compiuta, infatti, come gratuita fruizione del piacere della varietà degli eventi, senza un risvolto pratico e concreto. Come veramente ‘pazzo’ è da considerare «l’historico che, trattando la sua materia, volesse ordinar vocaboli stimati nuovi e riformar i vecchi», ottenendo come unico risultato che il lettore sarà indotto piuttosto «a osservarlo e interpretarlo come gramatico, che intenderlo come istorico», dirà Bruno nella Cena14. La scelta di un atteggiamento attivo nei confronti dell’esperienza storica che Patrizi opera, e su cui ritorna con insistenza in più occasioni, lo induce ad esprimere la convinzione che non ci si può fermare al piacere tutto intellettuale di ripercorrere i casi del passato e godere della loro varietà. Proprio l’atteggiamento positivo e rivolto all’azione rende attuale quella possibilità insita nella narrazione storica – che altrimenti, irrigidita in una dimensione puramente retorica, andrebbe perduta – di essere interpretata come valido insegnamento per l’agire presente, capace di fornire regole e norme utili per la vita degli uomini affinché si possa «trarne quella utilità per la quale si debbe cercare la cognitione delle istorie»15, come aveva efficacemente affermato Machiavelli nel Proemio al libro primo dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Anche per Patrizi quindi far storia significa ripercorrere e comprendere il senso dell’operare dell’uomo, ritrovandovi quella convergenza di esperienza e ragione, di cui aveva parlato il segretario fiorentino nei Discorsi, l’integrazione di passato e presente in una visione che solo la consa13. Ibid. 14. Cena, BDI 121. 15. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, ed. cit., p. 10.

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pevolezza storica consente, indirizzando la fecondità e le ricchezze di ogni esperienza umana verso un uso più preciso della ragione. Nei Dialoghi della Historia la struttura tradizionale dell’opera storica viene ad essere sottoposta ad una profonda revisione; allo scopo pedagogico generico deve sostituirsene uno specifico: la storia deve insegnare all’uomo il comportamento politico, il funzionamento delle istituzioni e la condotta del governo. Fondamentale per assumere un nuovo atteggiamento nei confronti dei fatti storici è, per il filosofo di Cherso, la lezione di Machiavelli che inaugura una nuova impostazione storiografica pragmatico-politica, non più riconducibile entro schemi tradizionali. Si tratta dunque di rievocare il passato in funzione di una spiegazione del presente e soprattutto di suggerimenti utili all’operare politico. In una prospettiva oratoria e puramente descrittiva l’utilità della storia viene in gran parte vanificata e l’ossequio allo schema ricalcato sui modelli tradizionali diventa una mera convenzione letteraria e non un’adeguata ed efficace forma di scrittura che rispetti una precisa finalità: insegnare agli uomini le regole per realizzare una convivenza pacifica in una comunità retta da leggi giuste. Poiché nella storia «se niuna lezione è utile ai cittadini che governano le republiche, è quella che dimostra le cagioni degli odi e delle divisioni delle città, acciò che possino, con il pericolo di altri divenuti savi, mantenersi uniti»16. Attraverso la polemica che Patrizi conduce contro le auctoritates, Cicerone, gli umanisti, e Pontano in particolare17, riconosciute da una lunga tradizione e soprattutto consolidate dal mancato esercizio critico di intere generazioni di studiosi, si individua il preciso obiettivo di rimuovere l’opinione largamente accreditata che identifica la storia con la retorica. In questo quadro di riferimento il primato spetta all’arte della parola che consacra i valori che il passato ha espresso; Patrizi sferra con deci16. N. Machiavelli, Istorie fiorentine, a cura di F. Gaeta, Feltrinelli, Milano 1962, p. 69. 17. La famosa definizione che della storia fornisce Quintiliano: «una specie di poesia in prosa» (Institutionis oratoriae libri XII, X, 1, 31) è il punto di partenza assunto da Giovanni Pontano nel dialogo Actius (1507), che può considerarsi una piccola summa della teoria storiografica dell’umanesimo, con la sua lezione di stile che individua nella brevitas e nella celeritas le due principali doti della narrazione storica. Nella trattazione che Patrizi dedica all’ars historica brillano per la loro assenza i nomi dell’aristotelico Sperone Speroni autore di un Dialogo della istoria (1543) e di Francesco Robortello, professore dello stesso Patrizi allo Studio di Padova, che nel 1548 aveva pubblicato il De historica facultate disputatio. Le opere di questi maestri aristotelici erano in realtà ben note al filosofo di Cherso e «costituiscono spesso la segreta ‘filigrana’ di molte pagine patriziane», come afferma C. Vasoli, Francesco Patrizi da Cherso, Bulzoni, Roma 1989, p. 30 ss.

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sione il suo attacco al dogma umanistico della inscindibilità di storia e retorica, a quella pretesa di controllo totale del sapere che la retorica aveva cercato di realizzare rischiando, nella versione più estrema della tesi classicista, di ‘annientare la storia’. Al contrario, nella prospettiva teorica sviluppata nei Dialoghi, valida e imperitura non è l’arte che pretende di far grande il presente legandolo ai grandi esempi del passato, ma valida è la lezione dei fatti e dell’esperienza. Il criterio dell’imitazione si rivela falso e pericoloso. In apertura del dialogo IX l’imitazione da categoria storiografica e letteraria si trasforma in una visione complessiva del mondo, con valenze metafisiche. Il mondo è un teatro e gli uomini a guisa di istrioni tragici inscenano spettacoli per il divertimento e il sollazzo degli dei. Ma mentre gli attori recitano convinti di dar vita ad una finzione, paludati da re e potenti, i miseri mortali che vanno sulla scena del mondo in guisa di dei travestiti, s’ingannano da sé medesimi, procedendo in quelle azioni che di divino hanno solo le sembianze, le apparenze, dalle quali per altro sortiscono solo rovine ed infelicità. Patrizi ricollega il topos del teatro del mondo e l’immagine platonica dell’uomo ludus deorum (Leggi, I, 644 d - e, VII, 803 c) al tema dell’imitazione introdotto all’inizio: «Voi sapete che gli huomini tutti portano seco dal nascimento loro, lo studio dell’imitazione»18. Diventa forte in queste pagine di Patrizi la contrapposizione tra il mondo degli dei celesti e la vita degli uomini e incolmabile la loro distanza. In questa visione non certo antropocentrica dell’universo, che ricorda le tesi dello Zodiacus Vitae di Palingenio Stellato, l’uomo è veramente «simia coelicolum, risusque iocusque Deorum»19. La storia, ‘cognitione del vero’, al contrario, produce novità: «Molte cose si hanno hoggi e per l’avvenire si sapranno, che non sono né saranno a quelle simiglianti che sono state pel passato… Et non vi essendo tra loro simiglianza, non si potranno queste da quelle imitare»20 commenta Patrizi. La validità e la novità dell’apporto conoscitivo insito nella ricchezza dell’esperienza storica, coadiuva il momento più strettamente teorico nella soluzione dei problemi che concernono la vita degli uomini. Ad una conoscenza teorica che guarda alle ragioni tratte dall’essenza, si affianca l’utile apporto dell’esperienza. Anche sul terreno politico, studiando le diverse forme di governo, è necesssario prendere le distanze dall’imitazione di Aristotele, di Platone e di «tutti gli altri lor seguaci... i quali peraventura, alle Republiche dei loro tempi avevano l’animo...». 18. Della Historia, cit., f. 49r-v. 19. Zodiacus vitae pulcherrimum opus atque utilissimum Marcelli Palingenii Stellati poetae ad illustrissimum Ferrariae ducem Herculem secundum feliciter incipit, Venetiis, B. Vitalis Venetus impressit, s.d. [1535-1536], l. VI, vv. 11-24. 20. Della Retorica, cit., f. 57r.

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Patrizi arriva, dunque, a precisare quella che è sicuramente una delle novità più interessanti dei Dialoghi: la proposta di saldare il piano della storia, regno del particolare, della realtà effettuale a quello della filosofia che è ricerca delle cause e degli universali, esame ed investigazione della ‘vera natura’ delle cose21. Per rinvenire, infatti, i modi (le leggi e le civili creanze dei cittadini) capaci di dar vita «ad una communione d’huomini felice», non vi sono che tre strade: «Le contemplationi universali della natura umana: quali le sanno fare i filosofi: o la cognitione de’ particolari casi, o l’uno o l’altro insieme»22. Patrizi si sofferma soprattutto sul momento dell’operatività di questo modello di sapere e della sua efficacia per gli uomini riuniti in società. La comunità retta da leggi giuste e in cui si esercitano le virtù civili è la più alta realizzazione di quel modello di sapere che congiunge la filosofia («il rendere le cagioni delle cose, che tutto dì vengono al mondo, à Filosofi s’appartenga»), all’utilità della storia («È mestiere dello storico sapere l’effetto solo»), attuando così la conciliazione dell’universale e del particolare. Le caratteristiche di questa figura di intellettuale possono, forse, essere riassunte con un termine coniato da Bodin nella sua Methodus23, che condensa con una sola parola un concetto che si ritrova in Bacone, un philosophihistoricus, colui che oltre ad esporre i fatti cerca di capire le ragioni della loro successione e concatenazione24. 21. Per una interpretazione dell’Historia diversa rispetto a quella che proponiamo cfr. M. Muccillo, Francesco Patrizi: dalla storia alla natura, in Natura e Storia. Saggi di filosofia, a cura di G. Coccoli e C. Marrone, Edizione Sestante, Ascoli Piceno 1996, pp. 21-51, in cui la studiosa pone l’accento sul relativismo delle considerazioni di Patrizi, che richiamano una concezione pirronistica della storia, arginata solo dalla idea della natura, che il filosofo propone, intesa come stabile fondamento, in grado di dare certezza e ordine anche alla disciplina storica, soprattutto su di un piano metodologico. Secondo questa prospettiva gli eventi umani, come quelli naturali, sono innanzitutto soggetti alla legge della necessità. A nostro avviso, per certi versi, quello espresso nel Della Historia può rappresentare, invece, un contributo dato al passaggio dal riconoscimento dell’obbligazione naturale quale base della morale, della legge e dello stato, alla sua deduzione da un diritto naturale, grazie alla subordinazione della legge al diritto e all’integrazione dello studio degli stati passati (storia) con la costruzione di una comunità futura (filosofia). 22. Della Historia, cit., f. 24r. 23. J. Bodin, Methodus ad facilem historiarum cognitionem, in Oeuvres philosophiques, a cura di P. Mesnard, PUF, Paris 1951, p. 138 ss. 24. F. Bacone nel De augmentis scientiarum loda la scelta fatta dal Segretario fiorentino nei Discorsi di seguire il metodo induttivo, considerato quello più adatto al proteiforme argomento della politica, e di fungere da modello per l’azione. Cfr. The works of Francis Bacon, collected by J. Spedding, E.L. Ellis, D.D. Health, vol. I, Longman & Co., London 1857, p. 769.

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Il modello di sapere proposto da Patrizi assegna un ruolo determinante e attivo ai filosofi, ribaltando l’immagine tradizionale del filosofo che, perso in un mondo di idee incomunicabili, ‘straniato’, vive appartandosi dal resto della comunità. Egli inaugura una sorta di filosofia pratica, utile alla vita civile. Anche nello Spaccio è compito della Sofia umana, della filosofia ricreare un ristabilimento della giustizia, che è il termine chiave del dialogo bruniano25, inteso come ripristino di un corretto rapporto tra gli uomini e la divinità. La rivendicazione esplicita del ruolo della filosofia si costituisce come soluzione dei problemi teologici sulla base di una ridefinizione della conoscenza umana, del suo rapporto con la morale, e con il fondamento necessario per il sussistere delle forme di vita associata e di diritto. Nello Spaccio la filosofia comincia a cambiare ruolo e funzione – come è stato detto – così come avviene nei dialoghi della Historia. Connettendosi ad una rinnovata idea di prassi, basata sulla valorizzazione dei meriti, essa si configura come una struttura fondamentale del consorzio umano. La riconsiderazione del sapere filosofico e la ridefinizione del ruolo della storia confluiscono nella costruzione di una nuova immagine di società civile. Nei dialoghi IV-VI-IX della Historia, rispettivamente il Sanuto, lo Zeno e il Donato, protagonisti dei ‘conversari’ in quanto «savi intendissimi», direttamente impegnati nella vita civile, nel governo di Venezia, illustrano con efficacia, il vero volto di una comunità che voglia definirsi felice. Filosofia e storia, verità ed utile, convergono in un sapere che si fa operativo e veramente capace di tradurre «la lettione in attione». Entrambe promuovono le buone leggi e le civili creanze. «Alla Sofia succede la legge, sua figlia; e per essa quella vuole oprare, e per questa lei vuole essere adoperata; per questa li principi regnano, e li regni e le republiche si mantangono...»26. Sono, infatti, le scelte dei legislatori, l’accortezza e la saggezza di chi governa, a rendere senz’altro felice e grande una città, più che l’ubertà del sito o la mitezza del suo clima. Le leggi e le civili creanze sono ciò che legano la città, impedendone la sua degenerazione nella violenza e nella paura. La legge rappresenta senz’altro la vera misura della relazione tra gli uomini, ed uno degli scopi del diritto è proprio quello di ridurre quanto più è possibile l’incertezza degli individui nella loro interazione. Il fondamento del diritto risiede in principi che vanno al di là della comunità degli uomini. La giustizia non trova il proprio fondamento negli uomini, neanche nei più potenti tra di 25. M. Ciliberto, Giordano Bruno, cit., p. 127. 26. G. Bruno, Spaccio, ed. cit., p. 159.

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loro, ma si radica nella divinità e nelle leggi da essa date all’uomo. «Giove l’ha riposta in cielo ed essaltata con questa condizione, che faccia che gli potenti per la loro preminenza e forza non sieno sicuri, ma referendo il tutto a maggior providenza e legge superiore (per cui come divina e naturale, si regoli la civile) faccia intendere, che per coloro ch’esceno dalle tele d’aragno, sono ordinate le reti...»27. La legge che succede alla Sofia permette di determinare il fondamento e il principio divino assoluto del convitto umano. Gli dei – si dice nello Spaccio – «han fatto le leggi non tanto per ricever gloria, quanto per comunicar la gloria agli uomini; e però tanto le leggi e giudicii son lontane dalla bontà e verità di legge e giudicio, quanto se discostano all’ordinare ed approvare massimamente quello che consiste nelle azioni morali de gli uomini a riguardo de gli altri uomini»28. La giustizia e le leggi hanno per scopo la pratica della civile conversazione. Di esse alcune sono donate dagli dei, altre «finte» dagli uomini. Ma tutte mirano al comodo della vita umana dal momento che tutte hanno il compito di salvaguardare e incrementare la comunità degli uomini. Un altro elemento significativo è rappresentato dall’assunto che le norme giuridiche per essere efficaci devono evolversi con la realtà. Ma ogni autentico meccanismo di evoluzione culturale si deve basare sulla selezione positiva di quei tratti che hanno provato la loro adeguatezza – senza questo meccanismo, infatti, non si ha progresso, dove non si impara dall’esperienza si ha solo un cammino cieco; la legge evolve e adattandosi «alla complessione e costumi di popoli e genti reprime l’audacia con il timore»29. Essa è stata ordinata da Giove per favorire quel tanto che appartiene «alla communione de gli uomini e alla civile conversazione» e come dice Saulino: nessuna legge che non è ordinata alla pratica del convitto umano deve essere accettata. Infatti bene ha disposto Giove, perché o che vegna da cielo o che esca dalla terra, non deve essere approvata, né accettata quella istituzione o legge che non apporta utilità e commodità, che ne amena ad ottimo fine, del quale maggiore non possiamo comprendere che quello, che talmente indirizza gli animi e riforma gli ingegni, che da quelli si producano frutti utili e necessari alla conversazione umana; ché certo bisogna sia cosa divina, arte de le arti e disciplina delle discipline quella per cui hanno da esser retti e reprimuti gli uomini30.

27. 28. 29. 30.

Ivi, p. 160. Ivi, p. 164. Ivi, p. 159. Ivi, pp. 160-161.

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L’accento batte – come nella Historia – sull’utilità e l’operatività: in polemica con Lutero, Bruno sostiene che «le giustizie mai sono giustizie senza la pratica esterna»; Giove – infatti – ha comandato al giudizio (al quale è stata affidata «la defensione e cura della vera legge») che sia «accorto che per l’avenire approve il credere e stimare, ma giamai (lo metta al pari) del fare e dell’oprare». Anche Patrizi sostiene con decisione nel dialogo nono che «bisogna convertir la lettione in attione, si come la morale filosofia non basta di saperla, ma ella è fatta per farla in opra»31. Dunque in Patrizi come in Bruno l’insegnamento è quello di connettere azione e contemplazione, promuovendo una concezione attiva del sapere che spinga all’esercizio delle virtù civili. Come è detto da Machiavelli nei Discorsi, alla loro origine i corpi misti, lo stato e la religione, devono aver avuto qualcosa di divino, altrimenti non sarebbero cresciuti; essi infatti possono essere conservati solo se di tempo in tempo siano restituiti all’origine o se siano ‘rinnovati’32. Il rinnovamento di un corpo misto è una rinascita, e attraverso la rinascita il riacquisto o la ripresa di vita nuova e di nuove virtù. Una diretta conseguenza di questo rinnovamento è rappresentata per Bruno dalla sconfitta dell’Ozio. Nello Spaccio infatti giocano un ruolo essenziale le nuove virtù che salgono al cielo, scacciando i vizi antichi. Una funzione primaria è svolta dalla Fatica che si oppone frontalmente all’Ozio luterano (e in generale a qualsivoglia apologia dell’età dell’oro). La fatica è appunto la via regia attraverso cui l’uomo può realizzare la sua umbratile, finita libertà. Attraverso Sollecitudine, Zelo, Sagacità, l’uomo può tenersi lontano dalla Fortuna; può limitarne il potere, può persino cercare di utilizzarla a suo vantaggio. Nel dialogo ottavo dal titolo Il Valerio, Patrizi indica le sue nuove virtù: «Due virtù sono le civili, la prudenza e la giustizia e due militari la prudenza e la fortezza». Nello Spaccio la grande riforma, proposta da Giove, pone Verità, Prudenza, Legge a sostituire i vecchi simboli. La scelta saggia è prerogativa del prudente e del forte, di individui e società che sono animati da ambizione e da amore di gloria. Non manca, infatti, in entrambi i filosofi un’esaltazione del «superbo appetito di gloria» e il modello preferito da Bruno come da Patrizi è rappresentato da «quelle Republiche le quali lunghi tempi fiorirono gloriose», il modello cioè già teorizzato da Machiavelli nei Discorsi, sull’esempio del popolo romano «come più affrenato e ritenuto da vizi d’incivilitade e barbaria, e più esquisito e pronto a generose imprese, 31. Della Historia, cit., f. 50v. 32. N. Machiavelli, Discorsi, III, 1-15, ed. cit., p. 362.

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ch’altro che si sia veduto giamai»33, come afferma Sofia nello Spaccio, concludendo: «E mentre fu tale la lor legge e religione, tali furono gli lor costumi e gesti, tal è stato loro onore e lor felicitade». In questo modello si è concretizzata l’idea di una religione al servizio della politica di uno stato ben ordinato, retto da leggi giuste. Machiavelli esprime con efficacia questa valutazione: «La religione antica... non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria; come erano capitani di eserciti e principi di republiche. La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi»34. Si radica nel dialogo bruniano così come nei dialoghi Della Historia la riscoperta della religione civile dei Romani e della religione naturale degli Egizi, considerate come fondamento unitario della costruzione del sapere e della convivenza tra gli uomini. Il culto divino non ha altro obiettivo che non sia ‘il buon vivere degli uomini’. Il consorzio umano si mantiene e si sviluppa per azione della divinità, per le leggi e religioni che essa liberamente emana a questo scopo. Ottima religione è quella che riconosce il valore sociale delle buone azioni che fondano e rinsaldano la repubblica, e che si prefigge lo scopo di ripristinare «quella tralasciata consuetudine di bene», come è detto nel Della Historia. In primo piano balza l’interesse della repubblica di tipo romano, e nel dialogo nono intitolato Il Donato overo dell’utilità della historia, Patrizi ribadisce: «Ma si come à buon cittadino di Republica è più debita e più lodevol opra, è la cura del publico bene che del proprio: così più eccelente servigio tragge dall’historia che il tragge per la patria sua che se il fa per se medesimo; ed io vorrei... che le cose avvenute all’altre genti... convertissero in giovamento della patria loro; e le traducessero in uso di lei»35. E se infatti la comunità si deve indirizzare al bene e alla felicità di tutti e di ciascuno, perché «dove tutti sono felici i cittadini, quivi è anco felice ciascheduno», deve avere innanzitutto di mira la pace, la vera pace che risiede nelle istituzioni e nelle leggi ben ordinate e bene osservate; a tal fine deve fuggire la sedizione e la guerra, «che sarà sempre da quella città fuggita, la quale felice essere desideri…»36. Erasmianamente la pace è per Bruno la pietra di paragone delle religioni, e significativamente lo Spaccio si chiude con l’elogio dell’erasmiano principe cristiano, incarnato da Enrico III di Valois «re, santo, religioso», re che ama la pace e non apprezza «gli rumori, 33. 34. 35. 36.

G. Bruno, Spaccio, cit., p. 166. N. Machiavelli, Discorsi, II, 2, ed. cit., p. 224. Della Historia, cit., ff. 50v–54r. Della Historia, cit., f. 52r.

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strepiti e fragori d’instrumenti marziali che administrano al cieco acquisto d’instabili tirannie e prencipati della terra»37. Solo un governo retto con i criteri della ragione realizza la ratio beate vivendi: solo promuovendo le buone leggi e le ‘civili creanze’ (le ‘civili conversazioni’), si può vivere in società; operando in tal modo la repubblica degli uomini troverà equilibrio nei valori e sicurezza nella pace, raggiungendo quella felicità umana che, ottenuta grazie alla virtù e alla ‘ragion pratica’, merita la definizione di divina e beata.

37. Spaccio, cit., p. 305.

SAVERIO RICCI ‘RIFORMAZIONE’, ERESIA E SCISMA NELLO SPACCIO DE LA BESTIA TRIONFANTE. UN ERCOLE NUOVO CONTRO IL «PEGGIO CHE LERNEO MOSTRO»

Le ragioni filosofiche della contrapposizione tra Bruno e i ‘riformati’ sono state messe in luce con provvida efficacia dalla storiografia italiana dell’ultimo decennio, in particolare da Michele Ciliberto1, che ha proficuamente concentrato l’attenzione sul periodo inglese di Bruno, nel corso del quale il filosofo pervenne alla definizione della Riforma come punto estremo della crisi del mondo. Non sarebbe ozioso, ora, cercare di chiarire quale relazione la polemica anti-protestante di Bruno avesse con il concreto quadro politico europeo nell’ultimo trentennio del Cinquecento; e in special modo, quale traccia abbia lasciato nello Spaccio de la bestia trionfante non solo l’osservazione delle guerre di religione francesi, ma anche di altri avvenimenti ascrivibili tra le conseguenze politiche e sociali della Riforma. Induce a riflettere, innanzitutto, la circostanza che Bruno abbia affidato allo Spaccio una notevole rievocazione delle rivolte napoletane contro l’Inquisizione del 1548 e del 1564, rivolte scatenate dalla esplosiva combinazione di resistenze feudali e cetuali all’assolutismo spagnolo, piani antiasburgici della Francia e del Turco e diffusione delle idee e dei comportamenti ‘riformati’ nell’Italia meridionale. Sono pagine rilevanti, sul cui significato mi sono soffermato in altra sede2, e sulle quali gioverà ritornare. Appare senza dubbio degno di considerazione il fatto che nello Spaccio il ricordo delle esperienze napoletane trovi luogo e ragione all’interno dello svolgimento della polemica anti-riformata, condotta da Bruno non solo sul piano etico-filosofico e di filosofia della storia, ma anche intorno alla visibile fenomenologia etico-politica ed etico-sociale dello scisma. Lo Spaccio de la bestia trionfante fu scritto e pubblicato in Inghilterra, nel pieno delle lotte tra puritani e autorità anglicane, che si collocavano in un contesto internazionale, offerto dalle tensioni relati1. Cfr. M. Ciliberto, La ruota del tempo. Interpretazione di Giordano Bruno, Editori Riuniti, Roma 1986; Id., Giordano Bruno, Laterza, Roma-Bari 1990; Id., Introduzione a Bruno, Laterza, Roma-Bari 1996. 2. Cfr. S. Ricci, Giovinezza di un inquisitore. Giulio Antonio Santori, Giordano Bruno e il Santo Uffizio a Napoli, «Bruniana & Campanelliana», I (1995), pp. 249-272.

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ve alla posizione inglese rispetto alle guerre civili francesi, alla rivoluzione calvinista olandese e ai contrasti tra Spagna, Papato e potenze protestanti. Il problema inglese è largamente rappresentato, in quegli anni, al pari di quello francese, dalla ricerca di un punto di equilibrio e di stabilità contro processi estremi ed eversivi. Se in Francia Enrico III subisce le contrapposte pressioni di calvinisti, cattolici ligueurs e ‘terzo partito’ o politiques, che dilaniano la nazione e fiaccano il potere monarchico, in Inghilterra Elisabetta deve combattere per un verso le residue forze cattoliche, in quanto filospagnole e filo-romane, e quindi anti-nazionali, consolidando la Chiesa anglicana quale Chiesa di Stato e puntello della corona, e dall’altro raffrenare le intemperanze puritane, dirette contro l’anglicanesimo, accusato di subdola cedevolezza verso Roma e verso la Spagna. Sia Enrico III, sia Elisabetta avevano davanti a sé il non facile compito di salvare l’autorità della monarchia e le rispettive chiese nazionali dall’azione contrapposta ma convergente del calvinismo da un lato, del cattolicesimo ultramontano dall’altro, ciò che valse sicuramente a spingere i due sovrani, in una certa fase (quella in cui Bruno giunse in Inghilterra), l’uno verso l’altra. È per questo che Bruno, nelle opere stampate a Londra, accosta all’elogio di Elisabetta l’esaltazione di Enrico III. Questa circostanza indusse Frances Yates3 a segnalare nella ‘riforma’ proclamata nello Spaccio un progetto politico-religioso che Bruno avrebbe inteso offrire ai due sovrani uniti nella lotta contro gli opposti estremismi, quello ispano-ultramontano e quello puritano-ugonotto, benché la Yates conferisse a quel progetto un del tutto assorbente significato ermetico, e non distinguesse con adeguata chiarezza, come vedremo, la natura dello scontro che si verificava sotto gli occhi di Bruno, le mutevoli forze in campo e la posta in gioco. Elisabetta sorvegliava il cattolicesimo inglese, ma non aveva intenzione di adoperare il rigore repressivo reclamato dai puritani, e conservava nella Chiesa anglicana il modello episcopale e la suggestione rituale della Chiesa romana, rifiutando le posizioni estreme dei calvinisti in merito a gerarchia, liturgia, eucarestia e predestinazione, perseguite con durezza dal nuovo arcivescovo di Canterbury Richard Whitgift, nominato nel periodo in cui Bruno giunse in Inghilterra4. La regina avvertiva nel calvinismo un elemento eversivo 3. Cfr. F. A. Yates, The religious Policy of Giordano Bruno, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1939-40, pp. 181-207 (trad. it.: Ead., Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 29-57) e Ead., Giordano Bruno e la tradizione ermetica, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1969, capp. XII e XIII. 4. Sull’importanza di questi avvenimenti in relazione all’esperienza inglese di Bruno cfr. M. Ciliberto, Introduzione a G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, Rizzoli,

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dell’assolutismo monarchico: lo stesso elemento era all’opera, contemporaneamente, in Inghilterra, in Francia, dove minava la monarchia traballante dei Valois, e in Olanda, la cui sollevazione costituiva un duro colpo all’egemonia spagnola in Europa. Tra il 1583 e il 1584 Elisabetta vuole in qualche modo intendersi con Enrico III, stretto tra ligueurs, ugonotti e politiques, il ‘terzo partito’ guidato dal suo fratello minore Hercule-François duca d’Alençon, filo-calvinista, che costituiva una continua minaccia per il re, quasi il capo di uno ‘Stato nello Stato’, al pari del duca di Guisa capo degli ultramontani e di Enrico di Navarra capo degli ugonotti. Enrico III temeva tutti, e voleva, per parte sua, appoggiarsi a Elisabetta. Pensava di darle in sposo il d’Alençon, soprattutto per allontanarlo dalla Francia e dai suoi amici riformati5. Elisabetta, per un certo tempo, lasciò credere di intendere seriamente la prospettiva di questo matrimonio, che avrebbe avvicinato Londra e Parigi, distratto e neutralizzato d’Alençon, e rafforzato per conseguenza Enrico III sia verso i ligueurs che nei confronti degli ugonotti6. L’ambasciatore francese Milano 1983, p. 32 s. Il tema della collocazione di Bruno nello scontro fra anglicani e puritani è affrontato largamente da Ciliberto nella relazione presentata a questo stesso convegno, Fra filosofia e teologia. Bruno e i puritani. Sulla religione nell’Inghilterra visitata da Bruno cfr. ora i contributi di P. Collinson e J. Bossy al vol. Giordano Bruno. 1583-1585. The English Experience / L’esperienza inglese, Atti del convegno di Londra, 3-4 giugno 1994, a cura di M. Ciliberto e N. Mann, Olschki, Firenze 1997. 5. Su questo punto, e più in generale su d’Alençon, cfr. J. Boucher, Autour de François, duc d’Alençon et d’Anjou, un parti d’opposition à Charles IX et Henri III, in Henri III et son temps, études rèunies par R. Sauzet, Vrin, Paris 1992, pp. 121-131. 6. Nell’ambito della politica di pacificazione religiosa della Francia tentata con la pace di Saint-Germain (1570), Caterina de’ Medici aveva concepito il progetto di unire alcuni dei suoi figli a prìncipi e principesse protestanti: Enrico, ancora duca d’Angiò, a quel tempo, con Elisabetta d’Inghilterra, il d’Alençon con la figlia di Augusto di Sassonia, Margot (come in effetti avverrà nel 1572) con Enrico di Navarra (cfr. P. Chevallier, Henri III, Fayard, Paris 1989, pp. 142-147). Il disegno di unire Enrico a Elisabetta (già abbozzato nel 1567) fallì a motivo degli stretti legami tra il duca d’Angiò e il partito filo-romano dei Guisa, nonché della profonda pietà cattolica del principe, per cui, fin dal 1571, Caterina suggerì che a sposare la regina d’Inghilterra fosse piuttosto il più giovane d’Alençon, cattolico tiepidissimo, sospettato di criptoprotestantesimo, e addirittura di ateismo (cfr. la lettera di Caterina all’ambasciatore francese a Londra La Mothe-Fénelon del 25 luglio 1571, cit. in V. De Caprariis, Propaganda e pensiero politico in Francia durante le guerre di religione, I (1559-1572), ESI, Napoli 1959, p. 454). Il matrimonio di uno dei figli di Caterina con Elisabetta rientrava anche nei piani dell’ammiraglio Gaspard de Coligny, capo degli ugonotti fino alla strage di San Bartolomeo, che intendeva trascinare la Francia in una guerra contro la Spagna al fianco dei Paesi Bassi ribelli a Madrid e con l’alleanza inglese. Il 16 agosto 1579 il d’Alençon, accompagnato dal filosofo Jean Bodin, si fidanzò a Londra con la regina d’Inghilterra, suscitando peraltro risentite proteste negli ambienti puritani, avversi alle nozze della regina con un principe

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a Londra Michel de Castelnau – l’unico, vero e sicuro protettore che Bruno abbia avuto in Inghilterra – svolgeva questa missione: realizzare un’intesa di segno moderato tra Francia e Inghilterra, consacrata eventualmente dalle nozze di Elisabetta con d’Alençon, ma imperniata sulla Scozia, dove si sarebbe dovuto restaurare la cattolica Maria Stuart, particolarmente raccomandata da Enrico III al suo rappresentante. Sostenitore della linea favorevole alle ‘nozze francesi’ di Elisabetta era William Cecil, tesoriere del Regno, che avversava anch’egli i puritani. Risolutamente contrario, invece, alla politica di intesa anglo-franco-scozzese, se diretta alla restaurazione della Stuart e del cattolicesimo in Scozia, era Francis Walsingham, primo segretario di Stato, l’uomo al quale l’ambasciatore inglese a Parigi Henry Cobham aveva segnalato con ansia, il 28 marzo 1583, l’imminente approdo in Inghilterra di Bruno, «la cui religione» egli non poteva «approvare»: notazione relativa con tutta evidenza non certo agli interessi magicoermetici del Nolano, come credette la Yates, ma alla sua provenienza cattolica, come contribuisce a chiarire la lettura del dispaccio, largamente dedicato – lo ha sottolineato Giovanni Aquilecchia nel procurarne l’edizione integrale7 – ai maneggi di gesuiti e agenti della Ligue intorno alla persona di Maria Stuart. Walsingham voleva che Elisabetta si liberasse di quest’ultima con la violenza; che facesse lotta senza quartiere agli spagnoli, aiutando con maggiore determinazione i ribelli olandesi; che si appoggiasse ai puritani, piuttosto che combatterli, e che sposasse, invece che il fratello del re di Francia, cognato cattolico della cattolica Stuart, l’alto protettore dei calvinisti inglesi, e suo spasimante, lord Robert Dudley, conte di Leicester. La prospettiva di un’alleanza interconfessionale tra Elisabetta, Enrico e Maria, contro ugonotti e puritani da un lato, Spagna e Guisa dall’altro, e della correlativa compressione del calvinismo su entrambe le sponde della Manica, non sarebbe dovuta dispiacere al Nolano, reduce da Ginevra e dalla Francia, dove aveva potuto constatare personalmente almeno formalmente cattolico. Intorno agli anni Ottanta il progetto matrimoniale del d’Alençon con Elisabetta, continuamente discusso anche nei dettagli pratici, ma sempre rinviato dalla regina quanto all’effettiva realizzazione, acquista un diverso significato: se gli ugonotti e il d’Alençon (che si vede presto re d’Inghilterra e dei Paesi Bassi) lo coltivano nella speranza di legare la Francia alla lotta internazionale contro la Spagna, Enrico III lo concepisce come un diversivo, un tentativo di allontanare lo scomodo fratello dalla scena politica francese; per Elisabetta, infine, si tratta solo di una «comédie diplomatique»: fa gioco alla sovrana che il d’Alençon, gli ugonotti e il partito puritano tengano impegnati gli spagnoli nei Paesi Bassi sostenendone la rivolta, ma ella si guarda dal fornire ai loro progetti un appoggio decisivo (cfr. Chevallier, op. cit., pp. 450, 467). 7. Cfr. G. Aquilecchia, Giordano Bruno in Inghilterra (1583-1585). Documenti e testimonianze, «Bruniana & Campanelliana», I (1995), pp. 21-42.

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l’intolleranza calvinista e gli effetti delle guerre di religione; dove aveva cominciato a maturare la sua avversione alla Riforma8. È noto che lo scontro con l’ambiente puritano di Oxford nell’estate 1583 indusse Bruno a compiere una radicale identificazione tra ‘pedanteria’ intellettuale, opposizione alla «antiqua vera filosofia» e ‘asinità’ religiosa, documentata dalla prima redazione della Cena de le Ceneri, pubblico omaggio all’ambasciatore Castelnau (personaggio così discusso in Inghilterra a quel tempo), e i cui cospicui elementi di polemica anti-riformata e di disprezzo della plebe in-

8. Tradizionalmente, si considera l’incidente occorso a Bruno a Ginevra, nel 1579, culminato nella scomunica del filosofo da parte del Concistoro calvinista, come un episodio essenzialmente ‘civile’: Bruno sarebbe stato colpito, e poi costretto a lasciare Ginevra, per la insolenza offensiva dimostrata verso il professore di filosofia Antoine de la Faye, che aveva pubblicamente attaccato in un manifesto, rilevandone i gravi errori teorici. Bruno, che avrebbe aderito al calvinismo solo per convenienza, non per convinzione, sarebbe rimasto vittima della unità di chiesa e Stato caratteristica della teocrazia calvinista. M. Ciliberto (Giordano Bruno, cit., p. 13 s.) ha però richiamato l’attenzione sul fatto che Bruno «non si limita a offendere il professore di filosofia», ma «attacca, direttamente, i ministri calvinisti». Accusandoli, come risulta dai documenti ginevrini della vita (cfr. Spampanato, Vita, p. 633 s.), di essere dei «pédagogues», nel senso che l’espressione aveva avuto per san Paolo (vd. Epistola ai Galati, III, 23-24), il Nolano intendeva rimproverare «ai ministri di Calvino di non saper vivere nella fede di Cristo». Pertanto, il conflitto tra Bruno e la Riforma ginevrina non sarebbe stato soltanto ‘civile’, e avrebbe espresso una «insidia teologica»: cominciava a delinearsi nel Nolano una «critica del cristianesimo in senso generale», e più specificamente, del protestantesimo. A riprova di questa interpretazione, occorre aggiungere che, risalendo al senso paolino della polemica contro i ‘pedagoghi’, quale viene ripreso da Bruno, si individua un tema centrale della polemica cattolica contro i riformati, che sarà ripreso, negli stessi termini di Bruno, da Tommaso Campanella. Nella Epistola ai Galati san Paolo aveva conferito un significato negativo al termine ‘pedagoghi’. I cristiani di origine ebraica della Galazia pretendevano che anche i cristiani di origini gentili fossero sottoposti alla circoncisione, prima di essere accolti nella comunità; come dire: per essere buoni cristiani, bisogna essere prima buoni ebrei, e aver accettato in tutti i suoi aspetti la legge mosaica. San Paolo, quando accusa i Galati di essere «pedagoghi», vuol dire che essi vivono in una condizione pre-cristiana e non hanno inteso il messaggio liberatorio del Cristo, che supera di gran lunga, e capovolge, la legge tradizionale degli ebrei, la quale non è condizione né necessaria, né sufficiente, per essere accolti nella nuova alleanza tra Dio e gli uomini. In Bruno, questa accusa, rivolta ai calvinisti, assume un carattere fortemente polemico: essi, i calvinisti, vivono in una legge dura e aspra, in una mera prescrizione di atti e opere ancora chiusa alla legge di carità universale del Cristo. Si ha sentore che in questa polemica intorno al carattere ‘pedagogico’ in senso negativo della legge ebraica, ovvero di ogni legge e di ogni pratica che non sia pregna del rivoluzionario significato caritatevole del cristianesimo, Bruno ripetesse uno degli argomenti principali della polemica cattolica e umanistica contro la Riforma, che si incentrava intorno alla intrepretazione della Lettera ai Romani di san Paolo. Quando san Paolo scriveva che alla fede non sono indispensabili le opere, voleva significare che alla

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glese9 provocarono violentissime reazioni sia intellettuali che, per così dire, popolari, registrate con ansia nel De la causa, anch’esso dedicato dal Nolano al Castelnau, al quale implora protezione dagli «ingiusti oltraggi» che egli pativa10. Non furono ininfluenti i drammatici avvenimenti intercorsi tra il novembre 1583 e il giugno 1584. Innanzitutto, la scoperta della congiura cattolica e filo-spagnola contro la vita della regina, guidata da Francis Throckmorton, svenfede del cristiano non sono necessarie le opere prescritte dalla legge ebraica, e polemizzava contro quei cristiani di origine ebraica contro i quali scrive la Lettera ai Galati. In altri termini, era contro le opere della legge ebraica, non contro le buone opere intese come opere di carità nel senso più alto e più lato che san Paolo aveva scritto. Questo punto era ben chiaro ai filosofi italiani del tardo Cinquecento, come dimostra la esplicita trattazione che ne fa Campanella nel Dialogo politico contro luterani (1595), in termini che sembrano molto vicini a quelli della polemica che dovette dividere Bruno e i calvinisti a Ginevra nel 1579. San Paolo – scrive Campanella – quando sostiene che «si vive di vita spirituale senz’opere» rispondeva a quegli ebrei che ritenevano che «le cerimonie e la circoncisione fusse necessaria alla salute de’ gentili che nuovamente cristiani si facevano». Campanella aggiunge che le motivazioni di questa posizione dei giudeo-cristiani erano economiche, poiché vedendo che tanti pagani si facevano battezzare, l’imporre ad essi anche il rispetto della legge ebraica avrebbe significato costringere grandi moltitudini al versamento delle «decime e sacrificii» alle casse della «bottega di Gerosolima», ovvero del Tempio di Gerusalemme. E avrebbe inoltre significato «dare un pedante Giudeo a chiunque cristiano si faceva per insegnargli tanti minutelli legali, a quelli predicando che la legge era come Pedagogo», e che sotto i «puntigli del pedagogo» occorreva vivere, se ci si voleva cristianamente comportare, e salvare. Contro questa deformazione ebraica del primo cristianesimo, aggiunge Campanella, reagì san Paolo, e reagirono i primi capi cristiani, spiegando che la «scorza delle lettere», ovvero la letterale esecuzione delle prescrizioni ebraiche, le opere cerimoniali degli ebrei e le loro offerte e tributi al Tempio non erano affatto necessarie al buon cristiano e alla sua salvezza, giacché dopo l’avvento di Cristo redentore «non vale esser circonciso». Valgono piuttosto la fede in Cristo, e le buone opere, quelle di carità e di amore, senza le quali la «fede è morta». È possibile che a Ginevra Bruno, magari del tutto casualmente, senza alcuna predeterminazione o interesse teologico, forse discutendo con i suoi accigliati interlocutori che lo accusavano per lo scontro con il de la Faye, abbia espresso riserve tali verso la Riforma, condite da quel suo immaginoso linguaggio polemico, da scoprire la sua profonda avversione per uno dei punti decisivi della interpretazione protestante delle Scritture. Egli era stato pur sempre un monaco, un pugnace domenicano, e per quanto la filosofia gli interessasse più della teologia, non sarà riuscito a celare la sua irrisione per un punto fondamentale dell’eresia luterana e calvinista, nei termini in cui quella irrisione sarà espressa, più tardi, da Campanella. I calvinisti sono come i ‘pedagoghi’ ebraici sconfessati da san Paolo: essi pretendono di ridurre nel loro rigorismo precettistico e in un occhiuto controllo politico la fede operosa insegnata dal Cristo (cfr. T. Campanella, Apologia di Galileo e Dialogo politico contro luterani, calvinisti et altri eretici, a cura di D. Ciampoli, Carabba, Lanciano 1911, p. 128 s.). 9. Cfr. Cena, BDI 67-80. 10. Cfr. Causa, BDI 176; ma vd. anche i riferimenti alle polemiche e alle aggressioni subìte a seguito della pubblicazione della Cena, ivi, pp. 175, 194, 199.

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tata dagli agenti di Walsingham. La scoperta comportò, a partire dal gennaio del 1584, effetti che contribuirono, più o meno direttamente, a complicare la condizione personale del Nolano e a pregiudicare l’accoglienza della sua Cena: la espulsione dell’ambasciatore spagnolo Mendoza (con cui Bruno era in relazione), accusato di aver tenuto le fila della congiura; la crescente diffidenza verso Castelnau (garante del Nolano) a motivo dei suoi sforzi in favore di Maria Stuart (condivisi, tra l’altro, dall’unico seguace ufficiale che Bruno avesse in Inghilterra, Alexander Dicson, scozzese, cattolico e stuardista); e la promulgazione di pesanti decreti contro i cattolici inglesi e gli stranieri sospetti di ‘papismo’ (fra i quali non v’era ragione apparente di non annoverare, da parte inglese, lo stesso Bruno: anzi, può esservi motivo per ritenere che il Nolano si sentisse in qualche modo minacciato dal decreto che espelleva dal paese i preti cattolici ordinati dopo il 1558; egli aveva ricevuto gli ordini sacerdotali in Italia, nel 1572, e nonostante la sua apostasia e fuga dall’ordine domenicano, la circostanza avrebbe potuto essere adoperata contro di lui da malintenzionati eventualmente informati sul suo passato di prete cattolico). Maria Stuart vide peggiorata la sua condizione di ostaggio; infine, la morte del duca d’Alençon, nel giugno 1584, troncò qualunque progetto matrimoniale di Elisabetta con un principe francese, e, con esso, tutta la linea politica di Cecil. Insomma, il Nolano, suddito formale di Filippo II, e letterato protetto dall’ambasciatore francese, si trovò spettatore del fallimento della intesa franco-inglese, e in parte egli stesso fra i bersagli di una risentita rimonta puritana e anti-cattolica, anti-francese e anti-spagnola. Il ben noto compromesso documentato dalle correzioni e dai tagli apportati da Bruno nella seconda redazione della Cena de le Ceneri11, e la parziale palinodia recitata nel De la causa, dove il Nola-

11. Cfr. G. Aquilecchia, La lezione definitiva della «Cena de le Ceneri» di Giordano Bruno, «Atti della Accademia Nazionale dei Lincei», CCCXLVII (1950), Memorie della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, s. VIII, III, fasc. 4, pp. 209-243 (ora in G. Aquilecchia, Schede bruniane (1950-1991), Vecchiarelli, Manziana 1991, pp. 1-40), dove l’autore studia l’esemplare della Cena conservato nella Biblioteca Nazionale di Roma, recante cospicue varianti d’autore manoscritte, e che rappresentano, per una parte assai significativa, una ‘seconda redazione’ dell’opera. L’unico esemplare noto della Cena che recepisca nella stampa le suddette varianti – prova della effettiva seconda emissione corretta dell’opera – è conservato invece nella Biblioteca Trivulziana di Milano, ed è stato recentemente riprodotto anastaticamente, a cura di M. Ciliberto (Giardini, Pisa 1994). Un’imprescindibile analisi della ‘seconda redazione’ della Cena ha offerto lo stesso Ciliberto in La ruota del tempo, cit., pp. 48-49, e cap. III, cui si rifà di nuovo Aquilecchia, con ulteriori annotazioni, in Le opere italiane di Giordano Bruno. Critica testuale e oltre, Bibliopolis, Napoli 1991, pp. 18-43.

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no ebbe cura di reiterare l’elogio di Elisabetta, accennando pure alla vanità delle congiure che i nemici le organizzavano contro12, sono spiegabili con l’andamento della situazione politica inglese. Probabilmente, però, l’occultamento della polemica anti-protestante contenuta nella prima versione della Cena era dettato anche da una speranza: che personaggi come Dudley e Sidney, protettori dei puritani e avversari irriducibili della Spagna e del cattolicesimo, fautori dell’intervento militare diretto anglo-francese in Olanda al fianco dei ribelli calvinisti e contro gli spagnoli – malvisto da Elisabetta e da Enrico III, ma vivamente sostenuto in Francia da ugonotti e politiques – volessero essere altrettanto ardimentosi nella vita culturale che in quella politica, concedendo il loro appoggio alla battaglia filosofica che il Nolano, quasi solitariamente (se si eccettuano Dicson e la ormai effimera protezione di Castelnau), stava conducendo, anche a rischio della propria vita. La situazione precipitò nell’ottobre 1584, allorché Castelnau ricevette l’ordine di tornare a Parigi. Riaccesasi in Francia l’ostilità tra la Ligue e gli ugonotti, la linea politica di Enrico III subiva ora il grave condizionamento dei Guisa, ed Elisabetta dal canto suo doveva meglio guardarsi dai nemici interni come dalla Spagna. La durezza poliziesca di Walsingham prevaleva a Londra, mentre a Parigi la Ligue riusciva a imporre il ritiro di Castelnau, giudicato troppo tenero. Il suo soggiorno durò ancora fino al settembre del 1585. Bruno restò con lui in Inghilterra fino al comune rimpatrio. In un clima di rinnovata, violenta contrapposizione politico-religiosa, in Inghilterra come sul continente, Bruno è indotto ad approfondire la riflessione su quel rapporto tra ‘verità’ filosofico-scientifica e ‘legge’ etico-civile che nel quarto dialogo della Cena aveva troppo ottimisticamente ritratto. Non era sempre vero che i buoni teologi e i saggi regnanti favorissero sempre e comunque i gravi filosofi, e che i veri indagatori della natura non nuocessero in nessun caso, qualunque fosse l’assetto etico-civile, come aveva scritto nel De l’infinito13. Vi erano, invece, ‘leggi’ incompatibili con la effettiva ricerca della verità, così come vi erano ‘verità’ destinate a entrare inevitabilmente in constrasto con alcuni ordinamenti religiosi e civili. Era il suo caso. L’Inghilterra in 12. Cfr. Causa, BDI 222 s.: «... questa Diva Elisabetta, che regna in Inghilterra; la quale, per esser tanto dotata, esaltata, faurita, difesa e mantenuta da’ cieli, in vano si forzaranno di desmetterla l’altrui parole o forze?». 13. Cfr. Infinito, BDI 387: «... gli non men dotti che religiosi teologi giamai han pregiudicato alla libertà de filosofi; e gli veri, civili e bene accostumati filosofi sempre hanno faurito le religioni; perché gli uni e gli altri sanno che la fede si richiede per l’instituzione di rozzi popoli che denno esser governati, e la demostrazione per gli contemplativi che sanno governar sé ed altri».

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mano ai puritani e ai ‘pedanti’ non avrebbe mai accettato la ‘Nolana filosofia’, e questa non poteva respirare, in Inghilterra, senza provocare un conflitto radicale. Le opere successivamente stampate a Londra, soprattutto lo Spaccio e la Cabala, concepite nella consapevolezza dell’esasperazione della situazione inglese e nella percezione di nuovi venti di guerra nella Francia in cui il Nolano sapeva di dover tornare, esprimono in forma progressivamente più veemente questo tormento. Bruno esprime una posizione molto complessa, non assimilabile pienamente a nessuna delle fazioni politico-religiose in lotta, e in una situazione di obbiettiva difficoltà personale. Pertanto, nell’‘Epistola esplicatoria’ dello Spaccio, egli distingue il ‘programma minimo’ ed esplicito della sua opera dalle possibili, molteplici interpretazioni di cui le sue allegorie sarebbero suscettibili. Il Nolano dichiara che lo Spaccio è un trattato di «filosofia morale» che offre la disposizione preliminare e provvisoria di un’ampia materia (la riforma dell’uomo), destinata ad essere approfondita in altre opere: egli non scrive pertanto «assertivamente», ma «indefinitamente», limitandosi a disegnare «l’ordine, l’intavolatura, la disposizione, l’indice del metodo, l’arbore, il teatro e campo delle virtudi e vizii», che saranno chiariti in «altri particulari dialogi»14. Qui, una certa prudenza preventiva è dettata dalla consapevolezza della gravità della materia e dello sfavore che le tesi che egli si accinge a esporre potrebbero suscitare, sia in campo cattolico, che riformato: «se vedete vituperar cose che vi paiono indegne di vitupèro, spreggiate cose degne di stima, inalzate cose meritevoli di biasimo; e per il contrario; abbiate tutto per detto... indefinitamente»15. Bruno si presenta come uomo di fede autenticamente evangelica, estraneo alla inclinazione violenta e sopraffattrice che il cristianesimo segue nel tempo delle guerre di religione provocate dai ‘riformati’: egli è «di quella religione la quale comincia, cresce e si mantiene con suscitar morti, sanar infermi e donar del suo; e non può essere affetto dove si rapisce quel d’altro, si stroppiano i sani ed uccidono gli vivi»16. Ancora, Bruno propone uno schema abbastanza elementare di interpretazione delle allegorie dello Spaccio, che possa guidare il lettore nell’intricata selva di immagini dove egli si appresta a condurlo. Giove è «l’anima, l’uomo... rappresenta ciascun di noi»; il giorno in cui egli si decide a procedere alla riforma morale («mutar proposito di vita e di costumi») è quello in cui ricorre l’anniversario della Gigan14. Spaccio, BDI 555. 15. Ivi, p. 554. 16. Ivi, p. 552.

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tomachia, «segno de la guerra continua e senza triegua alcuna, che fa l’anima contra gli vizii e disordinati affetti»17. Gli altri dèi che partecipano alle decisioni di Giove rappresentano le «virtudi e potenze de l’anima», cooperanti nello «spaccio» della «bestia trionfante», che sono «gli vizii»18. Ma il lettore è quasi autorizzato a distaccarsi da questo fin troppo univoco e banale schema. Bruno gli offre un possibile livello di lettura, ma non ne esclude altri, anche contrastanti nell’effetto: Del resto, in questo mezzo ognuno prenda gli frutti che può, secondo la capacità del proprio vase; perché non è cosa sì ria che non si converta in profitto ed utile de buoni; e non è cosa tanto buona e degna che non possa esser caggione e materia di scandalo a’ ribaldi19.

Bruno aveva previsto, probabilmente, il risentimento dei riformati per le pagine che ad essi aveva polemicamente dedicato. Occorre subito avvertire della particolare inflessione terminologica che caratterizza la trattazione dei ‘riformati’ nello Spaccio20. Innanzitutto, è prevalentemente di ‘riformati’, o, meglio, come vedremo, di soggetti facilmente riconoscibili come tali, ma quasi mai direttamente definiti con quel termine, che il Nolano scrive: egli pensa a nemici concreti, che sono all’opera quotidianamente, còlti nelle loro riprovevoli azioni sociali, in cui l’astrattezza dottrinale e la perversione intellettuale della Riforma celebrano il loro ‘asinino’ trionfo. La ‘bestia’ riformata, l’‘asino’ protestante è una ‘bestia’ in movimento, una ‘bestia’politica, per così dire, non è soltanto quella che si fissa nelle astratte formule di fede. L’attenzione di Bruno è diretta ai comportamenti reali che i princìpi della Riforma suscitano nella vita civile, inscritti tuttavia in un ben preciso quadro di filosofia della storia. Quei comportamenti conducono a compimento un sinistro destino universale dell’uomo, segnato dal grado estremo – la Riforma, l’arrivo degli angeli nocentes profetato da Ermete, come ha dimostrato Ciliberto21 – del decadente ciclo giudaico-cristiano. Si tratta di qualcosa di meno, e al tempo stesso anche di più, che di una discussione strettamente teologico-confessionale, che sarebbe stata del tutto estranea agli interessi speculativi del Nolano. Quanto 17. Ivi, p. 560. 18. Ivi, p. 561. 19. Ivi, p. 555. 20. Cfr. preliminarmente su questo aspetto M. Ciliberto, Lessico di Giordano Bruno, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1979, 2 voll., i lemmi «eresia», «riformare», «riformato», «riformatore», «riformazione», «scisma». 21. Cfr. M. Ciliberto, La ruota del tempo, cit., cap. IV.

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ai termini ‘riformazione’ e ‘riforma’, nello Spaccio Bruno li adopera piuttosto per designare il suo programma di rinnovamento del cielo morale e intellettuale, contrapposto alla ‘falsa riforma’ dei ‘riformati’. I termini ‘eresia’ e ‘scisma’ ricorrono nello Spaccio assai raramente, sebbene in punti decisivi, e sono riferiti ai ‘riformati’ da un punto di vista inequivocabilmente cattolico, ma cattolico in un senso culturale e politico. Benché faccia esplicito riferimento alla concezione della salvezza sola fide come scaturigine della pravità protestante, quell’«eresia» è tutta collocata su un piano filosofico-storico e politico-sociale. Il Nolano ‘salva’ la Chiesa cattolica relativamente all’ufficio culturale e civile che essa ha svolto per secoli, superiore alle tendenze individualistiche, anarchiche e antistatuali che gli paiono essere state scatenate dalla Riforma; il ‘salvataggio’ non riguarda il piano dogmatico né quello filosofico-storico: la Riforma ha esasperato e reso devastante sul piano sociale e sul piano filosofico l’‘asinità’ giudaico-cristiana, non l’ha inventata. Resta però da comprendere se Bruno avesse previsto che fra le interpretazioni ‘libere’ dello Spaccio ve ne potesse essere una particolarmente malevola verso la Chiesa cattolica, e assai plausibile e facile nei paesi protestanti: che la ‘bestia’ spacciata nell’opera fosse identificabile con il pontefice, abitualmente definito con quel termine apocalittico da luterani e calvinisti. Giove, descritto dal Nolano come un vecchio stanco e sfiduciato, non «troppo leggittimo e buon vicario o luogotenente del primo principio e causa universale»22 (vicario di Cristo, vicario divino, sono appellativi riservati al pontefice romano, come è noto), mostrava i lineamenti decrepiti dell’uomo più che ottuagenario assiso nel 1584 sul trono di Pietro: Gregorio XIII, al secolo Ugo Boncompagni. Poteva apparire immediato e gustoso, a un protestante inglese, questo ritratto satirico del papa che aveva vanamente tentato, intrigando con Filippo II e con i Guisa, di eliminare Elisabetta I e di sostituirle Maria Stuart. Giove compare circondato da una corte (gli altri dèi) corrotta e depravata: come quella romana, avrebbero pensato i lettori protestanti. È padre di figli innumeri (papa Gregorio ne aveva uno, fatto governatore di Castel Sant’Angelo, oltre a numerosi nipoti, insigniti di porpora e favoriti con grave scandalo degli intransigenti). Stanco di vedere il suo culto (la religione cattolica romana) rovesciato, abbandonato e dileggiato dagli uomini, egli decide di convocare un tardivo «concilio» o «sinodo» degli dèi (parodia del Concilio di Trento e dei concilii cattolici in generale, per un lettore protestante): «montato sul solio di 22. Spaccio, BDI 555.

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safiro inorato Giove, con quella forma di diadema e manto con cui solamente ne gli sollennissimi concilii suol comparire»23. Si può immaginare l’ilarità di un interprete protestante, nel leggere di questo Giove canuto, incerto e impacciato nei movimenti come nei pensieri, che pretende di riformare l’irriformabile, e di farlo nel giorno anniversario della vittoria degli dèi sui Giganti, che a un orecchio ugonotto o puritano sarà forse suonato come un’allusione sarcastica all’anniversario più caro che potesse esservi per il papa che nel 1572 aveva definito la strage di San Bartolomeo una giornata molto lieta per la cristianità. Appare difficile che il Nolano non potesse rendersi conto di questa possibile lettura dello Spaccio in terra riformata, che egli sembra rendere di pagina in pagina sempre più credibile. La lunga «orazione» con cui Giove, nella seconda parte del primo dialogo dello Spaccio, apre il «concilio» divino, ha tutti i tratti del mea culpa, nel Confiteor recitato dai cattolici romani: «Io, misero peccatore, dico la mia colpa, la mia gravissima colpa...»; così Giove sottolinea il riconoscimento degli errori e delle debolezze degli dèi, passabile, in mente riformata, come l’ammissione delle colpe della Chiesa, della sua corruzione mondana, della sua infedeltà a Cristo24. Come non vedere, da un punto di vista protestante, una sorta di dileggio del pontefice romano nello sfogo del primo degli dèi, costretto ad ammettere: oggi siamo nel cielo peggio che se non vi fussemo, peggio che se ne fussemo stati discacciati, atteso che quel timor di noi, che ne rendea tanto gloriosi, è spento... la giustizia con la quale il fato governa gli governatori del mondo... fa che il cielo medesimo con cossì chiara evidenza... renda testimonianza de misfatti nostri. Perché si vedeno aperto gli frutti, le reliquie, gli riporti, le voci, le scritture, le istorie di nostri adulterii, incesti, fornificazioni, ire, sdegni, rapine ed altri iniquitadi e delitti25.

Il clima politico-religioso dell’anno 1584 poteva giustificare, in Inghilterra, una simile interpretazione dello Spaccio, e Bruno può averla lasciata credere come plausibile, accanto ad altre, parimenti possibili. Ma sotto l’apparenza anche fin troppo facile, quasi orecchiabile, di questi motivi anti-romani, il Nolano trasmette ben altro messaggio. Si tratta di un profondo rinnovamento intellettuale e morale, e per conseguenza politico, i cui confini il Nolano comincia a delineare verso la conclusione del primo dialogo dello Spaccio: Veri23. Ivi, p. 614 s. 24. Ivi, p. 609. 25. Ivi, p. 598.

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tà, Prudenza, Sofia, Legge, Giudizio prenderanno il luogo dei vecchi vizi e dei vecchi errori. Da queste pagine in avanti, il lettore protestante avrà avuto sentore che il Nolano vendeva una merce diversa da quella che aveva propagandato. Improvvisamente, la ‘riforma’ di Giove, che sembrava una burla anti-papista, si rovescia in un progetto di rivincita cattolica, quanto meno politico-militare. La Corona boreale, una delle figure della antica astrologia da emendare, viene assegnata a un uomo, a un uomo che dovrà venire, al futuro invitto braccio, che con la mazza ed il fuoco riportarà la tanto bramata quiete alla misera ed infelice Europa, fiaccando gli tanti capi di questo peggio che Lerneo mostro, che con moltiforme eresia sparge il fatal veleno, che a troppo lunghi passi serpe per ogni parte per le vene di quella... Bastarà che done fine a quella poltronesca setta di pedanti, che senza ben fare secondo la legge divina e naturale, si stimano e vogliono essere stimati religiosi grati a’ dei, e dicono che il far bene è bene, il far male è male; ma non per ben che si faccia o mal che non si faccia, si viene ad essere degno e grato a’ dei; ma per sperare e credere secondo il catechismo loro26.

Era appena l’inizio della lunga requisitoria contro i protestanti, che il Nolano sospende nel primo dialogo, per riprendere nel secondo, con toni di sdegno e di violenza crescente, e concludere nel terzo dialogo, scagliando contro di essi l’antica profezia ermetica. Ciò che qui conta è sottolineare l’esito per così dire politico verso cui quelle pagine corrono. La Corona boreale sembra promessa a un nuovo Ercole armato di mazza che distrugga i riformati. Ma cosa fare di un’altra, molto più celebre figura mitologica, il vero, vecchio Ercole del mito classico, mezzo dio e mezzo uomo tanto amato da Giove? Andrebbe fatta un’eccezione per lui, dice Giove, andrebbe lasciato al suo posto nei cieli, poiché, da uomo divinizzato, fu migliore di tanti dèi per nascita, «solo e singularmente per le virtudi e meriti de gli gesti eroici s’ha meritato il cielo»27. Ma per coerenza riformatrice il suo posto deve essere liberato, vi va fatta assurgere una grande virtù, la Fortezza, e l’eroe rispedito nel mondo degli uomini, quasi come un «dio terrestre», «luogotenente e ministro» di Giove, a liberarlo dai «nuovi ed inauditi mostri» che lo popolano, sotto le cui spoglie si possono senza difficoltà identificare, ancora un volta, i riformati28. Bruno non può sottrarsi alla forza attrattiva che il mito di Ercole esercitava al tempo suo, come l’aveva esercitata nella tradizione così 26. Ivi, p. 622 s. 27. Ivi, p. 627. 28. Ivi, p. 630.

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pagana che cristiana, medievale e umanistica, e come l’eserciterà, ancora più tardi, per esempio in Vico29. La sua ‘riforma’ del cielo antico non poteva non affrontare il controverso nodo rappresentato da Ercole. Nello Spaccio, la trattazione di questa figura centrale nelle antiche favole, passata, per secoli, attraverso un’intensa vicenda interpretativa, in senso sia allegorico-morale che storico, non si presta a facili assimilazioni. L’Ercole di Bruno non ha nulla né della negativa connotazione anti-cristiana apposta dai Padri della Chiesa, Agostino e Lattanzio in testa, né, al contrario, dell’Ercole-Cristo elaborato dalla posteriore letteratura medievale, limiti estremi raggiunti dall’esegesi del mito pagano. L’Ercole dello Spaccio non è un dio, né un dio-uomo; non nega Cristo, né lo prefigura, come era avvenuto in passato. È piuttosto un «dio terrestre», meglio, un «luogotenente» di Giove. Né costituisce il simbolo del puro contemplativo impegnato in un percorso di perfezionamento morale, come in certa parte della letteratura medievale. Egli è chiamato da Bruno a salvare gli uomini, ma non è chiamato a salvarli né dal peccato, né dal demonio. Bruno non lo presenta come il «famosior philosophus» di Petrarca, ma dell’Ercole di un Coluccio Salutati l’Ercole bruniano ritiene il carattere di «monumento perenne... a quanti hanno operato, fidando nelle loro umane forze, imprese ardue, strenue ed eccellenti con le azioni e con il pensiero»30: è quindi un eroe ‘sociale’, pratico, incaricato di ripurgare l’Europa dalla ‘peste’ protestante; Ercole si identifica con l’«uomo» dall’«invitto braccio», invocato vincitore dell’«Idra» scismatica. Invocazione che Bruno non compie ovviamente in nome della Chiesa di Roma con una intonazione schiettamente controriformistica, ma nell’auspicio che la sconfitta politico-militare della Riforma calvinista in Inghilterra come in Olanda (non è in discussione il ‘cattolicesimo’ di Stato anglicano) dischiuda la strada per la fondazione di una rinnovata civiltà morale e intellettuale, nella quale la scoperta-riscoperta bruniana dell’«antiqua vera filosofia» copernicana possa trovare la sua collocazione e il suo ruolo, contribuendo alla sconfitta dei disvalori luterani e calvinisti, ma anche alla liberazione dai ceppi di una scolastica (cattolica e protestante) incancrenita, all’esaltazione delle opere meritorie, alla costruzione della giustizia razionale, alla pacificazione dei popoli. Nella auspicata riunificazione spirituale dell’Europa, il cattolicesimo romano, inteso nel suo valore etico-civile e sociale positivo, può e deve, per Bruno, svolgere il suo ruolo. 29. Sul mito di Ercole tra antichità pagana, cristianesimo, letteratura umanistica e pensiero vichiano cfr. F. Gaeta, L’avventura di Ercole, «Rinascimento», V (1954), pp. 227-260, anche per la letteratura precedente. 30. Ivi, p. 255.

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A un lettore inglese, e riformato, l’evocazione di Ercole come castigatore dei mostri protestanti al pari dell’«invitto braccio» che si vorrebbe vincitore del nuovo «Lerneo mostro» dell’eresia avrà immediatamente provocato un attacco di gallofobia. Tanto i Valois, quanto i re di Navarra, pretendevano di discendere da Ercole in persona, e amavano presentarsi, nell’iconografia ufficiale, come epigoni dell’eroe. Bruno era stato alla corte dei Valois, e viveva nell’ambasciata francese a Londra. Il Nolano non avrebbe potuto ignorare che Robert Garnier, nel 1565, nella Tolosa riguadagnata al cattolicesimo (e dove il filosofo aveva trascorso due anni), aveva paragonato, nel testo di un’iscrizione trionfale, il giovane Carlo IX vittorioso sugli ugonotti all’Ercole bambino che uccide i serpenti31: Herculès commença dèz sa première enfance A combattre petit les Monstres inhumaines... Toy, cheminant encore soubz l’eaige d’innocence, La guerre et le discord as dublement estainctz32.

Carlo IX è l’«Hercule qui dompta les monstres de son aige» anche per Baïf: Carlo, «des monstres le ruineur»33. Più che Francesco I, al quale il modello erculeo era stato proposto da Erasmo, quale generica rappresentazione del principe valoroso ma prudente e saggio, sono Enrico II e i suoi figli (Carlo IX, Francesco II, Enrico III) gli Hercules galoises della poesia francese, e ciò proprio a motivo delle aspre prove procurate a quei sovrani dalle guerre di religione. Per Ronsard, come per tanti altri apologeti dei Valois, l’eresia è, da subito, il mostro che i re di Francia devono distruggere: «Les serpentes, les monstres, c’est la Réforme»34. Carlo IX giunge al punto di travestirsi da Ercole in una memorabile mascherata di corte, e quale novello Ercole viene commemorato nelle orazioni funebri. Enrico III, poi, è ‘Ercole’ prima ancora di cingere la corona di Francia. Come duca d’Angiò ed erede al trono, avendo sconfitto gli eretici nelle battaglie di Jarnac e di Moncontour (1569), egli viene celebrato come l’Ercole che ha distrutto l’Idra ugonotta: Ronsard gli dedica L’Hydre deffaict ou la louange de Monseigneur le duc d’Anjou35. E «de31. Intorno a questi riferimenti, e a quelli che seguiranno più avanti, al mito di Ercole nella letteratura cortigiana francese del Cinquecento, cfr. M.R. Jung, Hercule dans la littérature française du XVIe siècle. De l’Hercule courtois à l’Hercule Baroque, Droz, Genève 1966, cap. VIII. 32. R. Garnier, Poésies diverses, Lebègue, Paris 1949, p. 213. Vd. M. R. Jung, op. cit., p. 165. 33. Cfr. M. R. Jung, op. cit., p. 166. 34. Cfr. ivi, p. 165. 35. Cfr. ivi, p. 168.

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venu roi de France, Henri III se voit ainsi presque uniquement comparé à l’Hercule tueur de monstres»36. E questi mostri sono sempre, inequivocabilmente, gli ugonotti. Anche Hercule-François duca d’Alençon, in quanto fratello di Enrico III, partecipa al culto ‘erculeo’ dei Valois, sebbene in forma così minore, quanto imbarazzata. Il duca «était un petit personnage», nel fisico come nella mente, incline all’intrigo e al tradimento, «mais il portait deux grands noms», quello dell’eroe greco, e quello di due re di Francia. «Si on ne pouvait l’en louer», a causa della ambiguità politica e della infedeltà alla Chiesa e alla dinastia da lui sempre dimostrate, «on pouvait tout au moins lui montrer leur valeur exemplaire. Et c’est ce que les poètes ont fait»37. Pure Enrico di Navarra, capo degli ugonotti, meriterà più tardi l’appellativo di Hercule galois, e in una misura tale, che, nel suo caso, «le symbolisme herculéen devient tellement monnaie courante que l’on pourrait parler d’inflation»38. Durante gli ultimi anni delle guerre di religione, morto nel 1589 senza eredi diretti l’ultimo ‘Ercole’ Valois, ovvero Enrico III, il Navarra diventa l’Ercole che abbatte l’Idra, non più protestante, ora, ma ultramontana e ispanofila, la Ligue. Ma siamo già intorno al 1593 e oltre, e il Navarra non è più considerato, neppure da gran parte dell’opinione cattolica, un uomo di parte, sebbene il pacificatore che riunifica i francesi al di là delle divisioni confessionali ormai in via di superamento39. Ora, invocando nel 1584 un ‘nuovo Ercole’, Bruno voleva forse auspicare che Enrico III – già tanto sospetto e addirittura inviso, in Inghilterra, soprattutto negli ambienti puritani – prendesse la guida di una nuova coalizione anti-protestante? D’altra parte, il re di Francia aveva raffreddato, se non ostacolato la politica anti-spagnola e filo-ugonotta del fratello d’Alençon, e assistito senza muovere un dito, nel 1583, appena un anno prima della pubblicazione dello Spaccio, al fallimento rovinoso del suo disegno di cingere la corona dei Paesi Bassi ribelli a Madrid. Né era ancora chiaro quale ruolo il governo di Parigi e i suoi agenti in Inghilterra (fra i quali l’amba36. Ivi, p. 169. 37. Ivi, p. 174. 38. Ibid. 39. Cfr. ivi, p. 176. Su Enrico IV come Hercule galois vd. C. Vivanti, Henry IV, The Gallic Hercules, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 30 (1967), pp. 176-197. Su ‘Ercole’ come ‘eroe della civiltà’, datore di leggi e pastore di popoli, herôs correcteur de la terre e castigatore dei vizi sociali nella letteratura francese del tardo Cinquecento e in particolare in Ronsard vd., oltre il cit. Vivanti, anche R. Trousson, Ronsard et la légende d’Hercule, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XXIV (1962), pp. 77-88.

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sciatore Castelnau, che ospitava Bruno nella sua residenza londinese) avessero avuto nell’ultimo complotto stuartiano e papista contro la vita di Elisabetta. Oppure l’Ercole invocato da Bruno era Enrico di Guisa, l’acerrimo nemico degli ugonotti, capo dei cattolici ultramontani? Agente stipendiato del re di Spagna, dal 1581 il suo nome in codice per la diplomazia segreta spagnola era appunto quello dell’eroe greco40. E non manca, neppure nel suo caso, nella letteratura encomiastica francese, l’enfatica associazione della sua figura al mito di Ercole41. O, addirittura, più verosimilmente, l’‘Ercole nuovo’ dello Spaccio è già Enrico di Navarra, del quale forse Bruno auspicava o prevedeva un ennesimo voltafaccia, il ritorno al cattolicesimo e l’assunzione della guida del fronte anti-ugonotto? D’altro canto, morto che sarà d’Alençon, erede al trono di Francia, nel giugno 1584, sarà lo stesso Enrico III, dal Nolano tanto ammirato, a progettare per il futuro del suo Regno ancora un colpo di scena: la conversione del Navarra alla fede romana, e la sua ascesa al trono, con l’impegno di difendere il cattolicesimo e di contrastare l’espansione calvinista. Quando, il 3 giugno 1592, Bruno dichiarò agli inquisitori veneti di non aver mai ritenuto il Navarra «calvinista et heretico se non per necessità di regnare, ché, se non professasse l’heresie, non haveria chi lo seguitasse» nei suoi domini ormai conquistati dal calvinismo, e di essere stato animato dalla speranza e dalla previsione che «ottenendo lui pacifico il regno di Francia, haveria confirmati li ordini del Re passato»42, era egli informato dei passi diplomatici avviati in quel tempo da Enrico presso la corte romana, al fine di concordare il suo nuovo passaggio al cattolicesimo e il riconoscimento a re di Francia, e parlava dunque del Navarra con il senno di poi, o ripeteva un giudizio da lui tenuto fin dagli anni Ottanta, alimentato dalla conoscenza diretta della mutevole situazione politica francese? In altri termini, già intorno al 1584 il Nolano era fra quanti speravano effettivamente nella conversione del Navarra e nella sua ascesa al trono di Francia come sovrano cattolico, deciso a chiudere le guerre di religione, magari con una nuova campagna anti-ugonotta? Aveva ragione la Yates a ricordare, citando queste pagine di Bruno, che «questo era il genere di cose che nell’Inghilterra di Elisabetta non si potevano dire liberamente, se non da chi fosse rifugiato nell’ambasciata di Francia, sotto protezione diplomatica»43. 40. 41. 42. 43.

Cfr. P. Chevallier, Henri III, cit., p. 561. Cfr. ivi, p. 177. Cfr. Firpo, Processo, doc. 15, p. 189. F. A. Yates, L’arte della memoria, trad. it., Einaudi, Torino 1972, p. 292.

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Torneremo più avanti sulla possibile identificazione del ‘nuovo Ercole’ e del «futuro invitto braccio»: se sia Enrico III, o il Guisa, o il Navarra, o un altro dei personaggi eminenti della vita politica europea del tempo. È certo, comunque, quanto allo Spaccio nel suo complesso, che, quello che al principio sarebbe potuto sembrare un pezzo di satira anti-cattolica, si rivelava decisamente, nella prima parte del secondo dialogo dell’opera, un libello anti-riformato. In quelle pagine, Bruno delineava un disegno di società e di religione fondato sulla sostituzione, avvenuta in termini allegorici nel primo dialogo, della Prudenza, della Sofia e della Legge a tre decrepite figure del vecchio cielo astrologico e mitologico (Drago, Cefeo e Artofilace)44. Il tratto più importante di questa sostituzione (le vecchie figure sono prese da Bruno a simboli di vizi ‘impolitici’ o ‘antipolitici’, come l’Improvisione, la Stolta Fede, la Prevaricazione) è rappresentato dal nesso forte che Bruno stabilisce tra Sofia e Legge, quest’ultima, figlia della prima, «perché non è vera, né buona legge quella che non ha per madre la Sofia, e per padre l’intelletto razionale»45. La Sofia viene dunque chiamata, insieme alla Prudenza e alla Provvidenza (anch’esse virtù filosofiche, che hanno Dialettica e Metafisica per ancelle) a sostituire l’arbitrio, l’ignoranza, il fanatismo religioso, la violenza e l’interesse particolare nella determinazione degli ordinamenti civili. La Legge umana viene dunque a definirsi come effetto di «maggior provvidenza e legge superiore», «divina e naturale»: essa è articolata dalla Sofia ma rinvìa a una sapienza superiore, più che umana, dalla quale riceve vigore e dignità. Il sistema sociale che Bruno demanda alla Legge di costituire e di reggere è fondato sul consenso dei ceti inferiori a quelli superiori, ma parimenti sulla difesa dei deboli e la repressione di tirannie e iniquità. Un potere centrale saldo e forte sarà legittimo ed equo allorché preferirà la «raggione» alla «violenza»; terrà nel giusto conto la cultura e la scienza («le virtudi e studii utili e necessarii al commune sieno promossi, avanzati e mantenuti»); svilupperà la tutela dei non abbienti («li poveri sieno agiutati»); contrasterà la smodata bramosia di ricchezze («gli desiosi, avari e proprietarii sieno spreggiati e tenuti a vile»)46. È, questo, uno Stato che promuove o reprime, stimola o scoraggia ben precisi comportamenti etici e sociali. È uno Stato che non ama gli asceti e i soggetti socialmente inutili: «non pona in comparazione questo solitario disutile con quello di profittevole conversazione»; 44. Spaccio, BDI 619-622. 45. Ivi, p. 622. 46. Ivi, p. 653.

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che ritiene più gravi gli attentati al bene pubblico, che le offese ai sentimenti e agli interessi privati e ai precetti sessuali; che preferisce l’«appetito di gloria, onde risulta sovente bene alla repubblica», alla «sordida cupidiggia di danari»47. È uno Stato che dunque nutre valori, in gran parte appartenenti alla tradizione classica e al mondo aristocratico e cavalleresco (ma non nel senso di feudale!), al patrimonio platonico e umanistico dell’‘ottimo Stato’, all’idea erasmiana del perfetto principato cristiano, promotore di virtù e di bene comune sotto l’assidua sorveglianza della filosofia: eroismo, dedizione, amor di patria, ma anche protezione dei deboli, misericordia degli oppressi e dei poveri, sviluppo della cultura e della scienza. Su questo punto, questi valori, che Bruno dice massimamente magnificati in antico dal «popolo Romano» (esempio insuperato di virtù civile, giustizia e liberalità) incontrano l’etica cristiana, nella sua parte sensibile alla garanzia dell’equa mercede, sollecita nella solidarietà civile, come ben parve all’‘anonimo postillatore’ dello Spaccio: «Il popolo Romano messo per esempio di una vera Chiesa et regno d’Idio, cioè d’un popolo et republica a Dio cara et da lui favorita»48. Ma Bruno distingue accuratamente cristiani da cristiani, e distingue il comportamento che lo Stato giusto dovrà avere verso i protestanti, da quello che riserverà ai cattolici. I primi sono «poltroni, nemici del stato de le repubbliche», «che in pregiudicio di costumi e vita umana ne porgono paroli e sogni»; i secondi, invece, hanno una fede utile al bene comune e alla vita dello Stato; la loro «legge e religione» accende «la magnanimità ed ardore di quella gloria che séguita dal servizio della sua patria ed utilità del geno umano», e favorisce il «servizio della communitade»49. Solo una religione che produca «frutti utili e necessari alla conversazione umana» può essere accettata dallo Stato giusto; non, quindi, la riformata, che tiene «per minimo e vile, e per errore... l’azione ed atto di buone operazioni; dicendo che di quella non si curano gli dei, e per quelle, quantunque sieno grandi, non sono giusti gli uomini»50. Insomma, la dottrina protestante della iustitia sola fide si ripercuote disastrosamente sui sentimenti sociali, e distoglie gli uomini da «quelli gesti eroici che aumentano, mantengono e fortificano le repubbliche»51. L’incompatibilità tra protestantesimo e Stato giusto non è, in Bruno, solo di principio, ma anche di fatto. Bruno dedica le pagine 47. 48. 49. 50. 51.

Ivi, pp. 658-659. Ivi, p. 660, nota. Ivi, p. 659. Ivi, p. 654 s. Ivi, p. 655.

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finali della prima parte del secondo dialogo al puntiglioso e sdegnato catalogo dei comportamenti sociali e politici che condannano i riformati ad essere nemici «del stato de le republiche». I riformati costituiscono un potentissimo fattore di disgregazione della società europea. Con il pretesto di «riformare le difformate leggi e religioni» essi «vegnono per certo a guastar tutto quel tanto che ci è di buono» nel cattolicesimo; l’esperienza dell’eresia nel Regno di Napoli e delle guerre di religione in Francia ha fatto palese al Nolano che i riformati non recano altri frutti, che di togliere le conversazioni, dissipar le concordie, dissolvere l’unioni... mettere scisma tra popoli e popoli, gente e gente, compagni e compagni, fratelli e fratelli, e ponere in disquarto le fameglie, cittadi, repubbliche e regni... portano, ovunque entrano, il coltello della divisione ed il fuoco della dispersione...52

L’unità dello Stato, monarchico o repubblicano che sia, costituisce per Bruno un valore assoluto, che la divisione eretica getta nella polvere. Ancora, ai protestanti va ascritta la decadenza delle opere di civiltà e di socialità. Non solo essi non si sono affatto distinti nella promozione di opere caritative e assistenziali, culturali e scientifiche, ma hanno distrutto quelle usurpate ai cattolici: Veda qual riuscita facciano essi, e quai costumi suscitano e provocano ne gli altri, per quanto appartiene a gli atti de la giustizia e misericordia, e la conservazione ed aumento di beni pubblici; se per lor dottrina e magistero sono drizzate academie, universitadi, tempii, ospitali, collegii, scuole e luoghi di discipline ed arti; o pure, dove queste cose si trovano, son quelle medesime e fatte de medesime facultadi che erano prima che loro venissero e comparissero tra le genti. Appresso, se per loro cura queste cose sono aumentate, o pure per loro negligenza disminuite, poste in ruina, dissoluzione e dispersione53.

«Occupatori di beni altrui», quelli della Chiesa, i protestanti non ne curano lo sviluppo, ma ne perpetrano piuttosto un’odiosa rapina, spesso in combutta con i loro «predecessori», con i quali «dissipano, squartano e divorano». Nella Francia da lui attraversata pochi anni prima, il Nolano aveva potuto esperire le più assurde conseguenze economico-sociali delle guerre di religione: signori ugonotti che, impadronitisi delle terre ecclesiastiche, continuano a pretendere le decime dai contadini ad esse legati, e con più feroce avidità dei loro predecessori cattolici; oppure, immense proprietà immobiliari del clero svendute a prezzi ridicoli dal re di Francia, con l’auto52. Ivi, p. 661. 53. Ivi, p. 662.

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rizzazione del papa, a ricchi acquirenti nobili e borghesi appartenenti al fronte riformato: paradosso di una guerra in cui la Chiesa aliena ai suoi nemici i propri beni per consentire al re di armare eserciti che dovrebbero combattere contro coloro da cui proviene il loro soldo! E spesso, quegli eserciti erano composti di mercenari svizzeri e tedeschi di religione riformata: il conte palatino Gian Casimiro, calvinista, eminenza grigia e consulente militare e finanziario dei prìncipi ugonotti, riforniva di armi e di soldati tanto questi, quanto il re di Francia che doveva combatterli! Il lettore protestante dello Spaccio non avrà creduto ai suoi occhi, esitante tra il ritenere le righe con cui Bruno conclude questa violenta requisitoria anti-riformata uno scherzo di pessimo gusto, o l’ennesima provocazione papista. Il papa-Giove, sulla base delle accuse di Sofia, decreta, in una forma che riecheggia le bolle di scomunica e le condanne di Santo Uffizio, la distruzione fisica dei riformati: Se cossì è, e se tali saran compresi e convitti; e se dopo che saranno avertiti, mostrandosi incorrigibili, fermaranno i piedi de l’ostinazione, comanda Giove al giudizio... che le dissipe, disperda e annulle; e spinga con qualsivoglia forza, braccio ed industria sino a la memoria del nome di tanto pestifero germe54.

Novello Pio V, il papa-Giove indice addirittura una nuova crociata contro i calvinisti: E gionge a questo, che faccia intendere a tutte le generazioni del mondo, sotto pena de la lor ruina, che s’armino in favor di esso giudizio, in sino a tanto che sarà pienamente messo in essecuzione il decreto di Giove contra questa macchia del mondo.

Poi il concilio degli dei suggerisce, sebbene senza tante illusioni, che nell’attesa dell’improbabile ravvedimento, i protestanti non siano perseguitati, ma che almeno siano loro sottratti tutti i beni ecclesiastici di cui si sono impadroniti «con la rapina e violenta usurpazione», e condannati a viver dei propri mezzi55. Questa riduzione di pena non induca in equivoco. L’atteggiamento di Bruno verso i riformati si mantiene ostile e intransigente anche nel prosieguo dello Spaccio. La sede celeste lasciata vacante da Ercole, inviato sulla terra a piegare l’eresia, fa gola a molti. Il lungo dibattito tra Ricchezza, Povertade e Fortuna56, che si contendono il posto di Ercole recla54. Ivi, p. 662 s. 55. Ivi, p. 663 s. 56. Ivi, pp. 563, 666-698.

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mandolo ciascuna per sé, porge occasione al Nolano per mandare ancora più a fondo il suo attacco a un’idea di società fondata sulla prevalenza di interessi economici, biechi egoismi, «poltroneria» e ingiustizia. Giove rifiuta la sede di Ercole sia a Ricchezza che a Povertà, ed esprime il disgusto degli dèi per l’Avarizia, compagna ed «ombra» inseparabile di entrambe. Fa la sua comparsa nello Spaccio, dopo il «Lerneo mostro» della Riforma, un’altra orribile «bestia», Avarizia, appunto, «bestia multiforme», poiché è «tante bestie insieme insieme». Su di essa Bruno rovescia un’impressionante serie di definizioni negative, fra le quali, due che la «bestia» avara ha in comune con la «bestia» riformata: essa è «asinina», come i protestanti; è «porcina», come i falsi culti che essi hanno imposto57. La sede di Ercole è concessa a Fortezza. Non è solo una delle quattro virtù cardinali della tradizione tomistica; in Bruno acquista significato di virtù accentuatamente governativa e militare. Il Nolano ha un senso molto spiccato della giustizia e del governo ragionevole degli uomini, del ruolo politico della filosofia, dell’importanza della mediazione e finanche della dissimulazione (cui pure affida un posto, sebbene condizionato, nella sua riforma morale: «per forza di Necessitade»)58, ma dimostra di apprezzare parimenti l’uso ponderato e deciso della forza, l’esercizio inflessibile dell’autorità legittima, la fermezza nel governo della politica. Fortezza esprime questo senso autoritativo e difensivo dello Stato giusto: essa sarà «tutela de virtudi, unica custodia di Giustizia e torre singulare de la Veritade... rigida contro le voluttadi, spreggiatrice de la Ricchezza, domitrice della Fortuna, triomfatrice del tutto»59. Correlativamente, la tolleranza («Toleranza») è un valore assai poco familiare al Nolano, al contrario di quanto non si pensi, e a dispetto della fortuna che questo valore incontrava negli ambienti letterari e filosofici dell’epoca, per reazione ai durissimi scontri di contrapposte intolleranze. Bruno non appare essere fra i teorici della tolleranza e dell’equidistanza tra le religioni, né fra quelli dell’indifferenza dello Stato in materia spirituale, e della possibile, pacifica coesistenza, in Francia come altrove, tra cattolicesimo e protestantesimo. Egli si distingue dai ministri, giuristi, consiglieri e uomini di lettere, prelati e prìncipi, spesso anche di origine o di cultura italiana, che si affollano – a partire dagli inizi, intorno al 1560, dei contrasti di religione in Fran-

57. Ivi, p. 681. 58. Ivi, p. 564. Cfr. ivi, p. 709: Giove «fa lecito che [Dissimulazione] talvolta si presente in cielo, e non già come dea, ma come tal volta ancella della Prudenza e scudo della verità». 59. Ivi, p. 699.

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cia – attorno a Caterina de’ Medici. Cattolici detti politiques, poi anche machiavellistes, con connotazione negativa, ondivaga e contingente, però, fra i predicatori riformati (come nei periodi di intesa tra politiques e capi ugonotti, o di intesa tra questi e il re Enrico III, normalmente additato come massimo ‘machiavellico’ del Regno quando schierato con la Ligue o comunque contro i protestanti); perenne fra quelli della Ligue, ma con speciale accanimento tutte le volte che Enrico III appariva particolarmente arrendevole con gli ugonotti, e dopo l’assassinio del duca di Guisa (1588). Al principio della rivolta ugonotta e delle guerre civili questi cattolici transigenti chiesero che lo Stato cessasse la persecuzione degli eretici, e dichiarasse libertà di culto per tutte le religioni, non sposandone alcuna ed ergendosi al di sopra di tutte. Si tende sempre a non distinguere, nella storiografia bruniana, tra la linea politica di Enrico III e quella dei tolleranti, del ‘terzo partito’ politique, e fra questa e quella di Bruno. La simpatia del Nolano verso l’idea delle ‘nozze francesi’ di Elisabetta e l’avvicinamento tra Inghilterra e Francia in funzione anti-spagnola ha fatto ritenere alla Yates, ma non solo alla Yates, che la posizione politico-religiosa di Bruno in Inghilterra fosse analoga a quella dei politiques francesi, indistintamente giudicata dalla studiosa inglese, e non da lei sola, come posizione in fondo irenistica, pacifistica, intrisa di spiritualità neoplatonica ed ermetica, con la quale il Nolano sarebbe venuto in contatto e si sarebbe assimilato già durante il primo soggiorno in Francia, continuando a sostenerla anche nel secondo soggiorno in quel Paese. In realtà, i politiques conosciuti da Bruno, quelli attivi tra la notte di San Bartolomeo (1572) e la morte del duca d’Alençon (1584) non erano né irenisti né pacifisti. Essi entrarono spesso in contrasto, anche radicale e violento, con Enrico III e la sua linea di ricerca della pace interna ed esterna, adottando atteggiamenti sempre bellicosi, e comunque autonomi rispetto a quelli del sovrano. Essi agirono da fiancheggiatori del calvinismo sia francese che internazionale, piuttosto che collocarsi in una posizione intermedia tra cattolici ultramontani e ugonotti. Ciò che non poteva che risultare del tutto confliggente con le visioni politico-religiose di Bruno, soprattutto dopo il soggiorno in Inghilterra e l’esperienza diretta del puritanesimo. Occorre fare attenzione alla composizione sociale, ai disegni concreti, ai reali comportamenti dello schieramento politique, nonché alla loro evoluzione nel tempo. Si è detto che i cattolici politiques erano stati all’inizio soprattutto intellettuali e cortigiani, banchieri e giuristi. Il trauma della notte di San Bartolomeo, l’ascesa al trono di Enrico III (il più fervido, tra i Valois, nella fede cattolica romana e nella tutela delle prerogative regie), e la ripresa delle guerre di religione spinsero molti grandi feudatari a unirsi, al di là degli odi confessionali,

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in difesa dei comuni interessi nobiliari e contro l’aspirazione assolutistica del nuovo re. Così, il ‘terzo partito’ – come bene intende la storiografia francese su quel periodo60 – interpretò una poderosa spinta alla rifeudalizzazione della Francia e alla restaurazione di larghe autonomie sociali, regionali, municipali; esso diede corpo e voce a una violenta sfida all’assolutismo monarchico, convergente a quella sferrata dagli ugonotti. Il partito si ingrossò di prìncipi, e delle loro robuste clientele di piccoli nobili, ponendosi sotto l’ambiziosa e personalistica tutela del d’Alençon, che, insensibile ai richiami di Enrico III – del cui regno finì col diventare un’ulteriore, seria insidia – intrecciò disinvolte alleanze con gli ugonotti, con i puritani inglesi, con i ribelli protestanti olandesi, e si circondò di eretici e libertini. Non è un caso che della corte del d’Alençon facesse parte uno dei maggiori sostenitori dell’indifferenza e dell’equidistanza religiosa dello Stato, Jean Bodin, il quale, caduto in disgrazia presso Enrico III, seguì il di lui fratello, aspirante alla mano di Elisabetta e alla corona dei Paesi Bassi, nelle sue avventure, galanti e politicomilitari, fuori di Francia. Solo dopo la morte del d’Alençon, e l’estinzione di qualunque possibilità di continuità della dinastia dei Valois, il partito politique diventò il partito del re di Francia, nel senso che i suoi aderenti sostennero il progetto, concepito da Enrico III per salvaguardare l’indipendenza nazionale, di designare suo erede Enrico di Navarra, a condizione che abiurasse al calvinismo, si rifacesse cattolico e restaurasse completamente la fede romana in Francia. A quel punto, i politiques riacquistavano attorno all’idea di un Navarra convertito, e per timore delle minacce spagnole alla libertà della Francia, il senso della unità nazionale e della difesa della monarchia cattolica, senso che essi avevano perduto durante i lunghi anni in cui il partito era stato espressione degli interessi personali del d’Alençon e di importanti settori dell’aristocrazia feudale. Ma allorché i politiques subirono questa ulteriore trasformazione, peraltro ambigua, e non facilmente distinguibile dai tradizionali atteggiamenti filo-ugonotti del partito, Bruno era già ben lontano dalla Francia; egli aveva rotto nel 1586, proprio a Parigi, nel celebre incidente al Collège de Cambrai, i suoi rapporti con quegli ambienti. Per Bruno, i riformati avevano cominciato la guerra civile in Francia, e, ancor prima, distrutto l’unità spirituale dell’Europa; la loro fede è più guasta di quella dei cattolici. Pertanto, nello Spaccio, che viene scritto in Inghilterra, in piena reazione puritana e xenofoba, 60. Cfr. da ultimi Boucher, op. cit., e Chevallier, op. cit., passim, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche.

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e con un occhio alla situazione francese, tra la morte del d’Alençon, lo sbandamento dei politiques e la nuova alleanza tra Enrico III e i cattolici ultramontani contro gli ugonotti, «Toleranza» è solo una virtù ‘minore’, nel fiero corteo di Fortezza, associata, non a caso, ad altre virtù ‘forti’, tipiche di una concezione aristocratica e guerriera: «Magnanimità», «Longanimità», e quell’«Ira regolata e giusta», tanto utile «nel campo del Governo», sempre che sia illuminata dalla «lanterna della Raggione»61. Dal campo dell’azione politica, dal carattere del principe giusto sono espulse «Timore, Viltade, Pusillanimitade, Desperazione»62. Insomma, è uno Stato forte, ‘erculeo’, quello disegnato da Bruno, poco incline al compromesso e all’ambiguità, alla doppiezza e al quieto vivere. La filosofia e il senso di giustizia non bastano, se sono disarmati dall’indolenza, dal timore, dall’arrendevolezza. Sì che, al momento di ‘spacciare’ dal vecchio cielo Cassiopea, simbolo di Boriosità, Alterezza, Arroganza, Iattanza, «che si vedeno nel campo de l’Ambizione e Falsitade», il dio Marte insorge, facendo l’apologia di quei vizi, caratteristici della «mia bellicosa Ispagna», protetta da Cassiopea, «questa matrona che cossì boriosa, altiera e maestrale non si contentò di salir al cielo senza condurci la sua catedra col baldachino»63. Marte chiede che Cassiopea resti al suo posto, simbolo di «bellezza, gloria, maestà, magnanimità, e fortezza degna della protezion del scudo marziale»64. Giove concede al protettore della Spagna che Cassiopea resti sotto la sua tutela, ma lontano dagli «astri» e da «tanto virtuose dee»: la sua «catedra» è collocata «a basso», nel mondo degli uomini, poiché, sia pure «al nostro dispetto», cioè a dispetto del disdegno che il nuovo Olimpo prova per la violenza, la guerra è spesso necessaria, l’«autorità» della «fiammeggiante spada» è opportuno che si eserciti, commettendo i «tanti stupri, tanti adulterii, tanti latrocinii, usurpazioni ed assassinii» che il suo uso inevitabilmente «bisogna... comportar»65. Nel cielo delle virtù morali il posto di Cassiopea sarà tenuto da «regolata Maestà, Gloria, Decoro, Dignità, Onore»66, un’allegoria dell’esercizio temperato e razionale della funzione regia che è presentata quale ‘idea regolativa’ a quei monarchi comunque trascinati, o intrinsecamente inclini, ad eccessi marziali, a incontinenze e smodatezze spesso inevitabilmente connesse al potere. Questo 61. 62. 63. 64. 65. 66.

Spaccio, BDI 565 s., 699, 765. Ivi, p. 699. Ivi, p. 705. Ivi, p. 706. Ibid. Ivi, p. 564.

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riscatto per così dire tattico e subordinato dell’aggressività spagnola, della sua fierezza bellica, è particolarmente significativo. Nonostante gli orrori di cui gli spagnoli si son dimostrati capaci in Europa e fuori (nella Cena de le Ceneri Bruno aveva denunciato i metodi dei conquistadores nelle Americhe)67, il Nolano è consapevole del fatto che la «bellicosa Ispagna» costituisce il più efficace baluardo militare e politico all’espansione della Riforma. Non è casuale che all’evocazione delle necessarie, per quanto moralmente indegne, virtù guerriere della Spagna tenga subito dietro la decisione, da parte di Giove, di inviare sulla Terra anche un altro persecutore e uccisore di mostri, Perseo, figlio «bastardo» del re degli dèi, al quale è dato incarico di percorrere «col suo destriero alato» la «diletta Europa», alla ricerca dei «superbi e mostruosi atlanti, nemici de la progenie di Giove», servi di «Avarizia ed Ambizione»; pronto a liberare «più generose e più belle Andromede che per violenza di falsa religione vegnono legate ed esposte alle marine belve»; lesto a punire chi «viene ad usurparsi i frutti dell’altrui industrie e fatiche». Che attraverso queste raffigurazioni mitologiche e personificazioni negative Bruno alludesse ai protestanti e i loro misfatti è immediatamente chiarito, laddove Bruno aggiunge che gli dèi ordinano a Perseo, «gionto ad Ercule», di svelare il «ritratto abominando de la scisma ed eresia», e «alla perniciosa conscienza de gli malfattori ed ostinati ingegni metta il chiodo, togliendoli l’opra di lingua, di mani e senso»68. Questa alleanza tra Ercole e Perseo avrà ulteriormente impensierito i lettori riformati del Nolano; quelli particolarmente suscettibili si saranno chiesti se per i «mostruosi Atlanti» avidi e ambiziosi, usurpatori di beni altrui, non fossero da intendersi proprio essi, i protestanti; e i puritani inglesi avran sospettato finanche una velata allusione alla più celebre prigionia di «generosa e bella Andromeda» allora nota e deprecata nell’Europa cattolica, quella di Maria Stuart, ostaggio del governo britannico. La ex regina sopravviveva anche grazie ai fondi messi a sua disposizione dall’ambasciatore Castelnau, protettore del Nolano69. Il secondo dialogo dello Spaccio corre verso la conclusione, con la celebre contrapposizione tra Sollecitudine e Fatica da un lato, Ozio e Poltronaria dall’altro, pienamente dispiegata nella prima parte

67. Cfr. Cena, BDI 305. Vd. su questo argomento S. Ricci, Infiniti mondi e mondo nuovo. Conquista dell’America e critica della società europea in Giordano Bruno, «Giornale critico della filosofia italiana», LXIX (1990), pp. 204-221. 68. Spaccio, BDI 710 s. 69. Cfr. A. Fraser, Maria Stuart. La tragedia di una regina, trad. it., Mondadori, Milano 1996, p. 516.

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del terzo e ultimo dialogo, laddove il Nolano esalta la capacità fattrice e inventrice dell’uomo, l’operosità e la laboriosità, contro il mito dell’inoperosa e amorale ‘età dell’oro’70. Il Nolano fustiga l’Ozio in tutte le sue forme: la civettuola indolenza dell’aristocrazia esangue e snervata; la vacuità grammaticale dei pedanti e l’inutile formalismo dei cattivi filosofi; e non risparmia, ovviamente, il dispregio protestante per le buone opere, le «ociose credenze e fantasie»71. Tutta questa discussione di filosofia morale rifluisce nell’esame di un caso storico-politico concreto: la rivolta napoletana contro l’Inquisizione, nella cui rievocazione le figure allegoriche prendono fattezze umane: l’avidità rivela i tratti di Spagna e degli eccessi della legislazione contro gli eretici; l’ambizione si incarna nella riottosa nobiltà e nella cieca plebe di Napoli; la mancanza di prudenza si svela per caratteristica della politica francese verso l’Italia; e dietro tutti gli attori della vicenda partenopea si stagliano i due mostri dello Spaccio: l’Avarizia cacciata dal cielo e il «Lerneo mostro» dell’eresia, l’Ozio degli spregiatori delle buone opere, cui Ercole e Perseo devono dar la caccia. Ho cercato di rileggere recentemente72 la rievocazione bruniana delle rivolte napoletane e del loro contesto internazionale. Non è qui il caso di ritornarvi analiticamente. Mi limiterò a dire che Bruno – testimone della reazione ispano-papale alla diffusione del luteranesimo in Italia meridionale e della rivolta del 1564 –, ripensando, nello Spaccio, a quegli eventi, li colloca nel momento iniziale di quel processo di «disquarto» dell’Europa cristiana di cui, mentre scrive, ha sotto gli occhi il tragico capitolo francese e il non meno preoccupante capitolo inglese. L’esito della crisi napoletana del 1564 gli pare, vent’anni dopo, del tutto positivo. Bruno ha deprecato l’«Avarizia» dei governanti spagnoli e degli inquisitori napoletani, che, «sotto pretesto di voler mantener la Religione»73, avrebbero voluto rinnovare l’uso ebraico delle confische dei beni degli eretici e dei loro parenti74. Ma ha parimenti deplorato l’«Ambizione» del popolo napoletano, facilmente sconfinante in ribellione e anarchia.

70. Spaccio, BDI 712-718, 726-732. 71. Ivi, p. 746 s. 72. Cfr. supra, nota 2. 73. Spaccio, BDI 720. 74. Ivi, p. 722: «Mercurio... Ed è contra ogni legge, che per difetto del padre, vegnano multati gli agnelli e la madre. Sofia. È vero che mai ho trovato tal giudizio se non tra’ fieri barbari, e credo che prima fusse trovato tra’ Giudei, per esser quella una generazione tanto pestilente, leprosa e generalmente perniciosa, che merita esser spinta che nata».

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A giudizio del Nolano, è bene che Napoli resti sotto il suo «prencipe» spagnolo, piuttosto che cadere in mani francesi o, ancor peggio, turche, o crollare nell’abisso della discordia civile e religiosa in cui sarebbe precipitata la Francia75. Ritengo molto significativo che Bruno dia questa valutazione dell’episodio napoletano del 1564 proprio nello Spaccio, dedicato per tante pagine alle conseguenze civili e politiche della Riforma protestante, e in cui l’Avarizia che si avvale della religione come pretesto di dominio si rivela una connotazione non solo del governo spagnolo, ma anche del campo riformato: ... è cosa vera e certa, come essi [i riformati] sono veri e certi, che, quando da qualsivoglia altra professione e fede alcuno si muove a questa, da quel che era già liberale, doviene avaro... da donator del suo è rubbator ed usurpator de l’altrui...76.

Questa potenza distruttiva della moralità discende per Bruno dal nucleo teologico fondamentale della dottrina calvinista, la dottrina della predestinazione e della salvezza sola fide, senza le buone opere: Oltre, mentre dicono ogni lor cura essere circa cose invisibili, le quali né essi, né altri mai intesero, dicono ch’alla consecuzione di quelle basta il solo destino, il quale è immutabile, mediante certi affetti interiori e fantasie, de quali massimamente gli dei si pascano... E per la medesima caggione essi non denno essere molesti a color che non gli credono, e che le stimano sceleratissimi; perché non per questo che gli vegnono a credere e stimarli uomini da bene, cangiaranno destino. Oltre che, secondo la lor dottrina, non è in libertà de l’elezion loro di mutarsi a questa fede77.

È proprio su questo punto, che Bruno appoggia la sua teoria della guerra legittima e santa ai calvinisti: Ma gli altri [i cattolici] che credeno il contrario, possono giuridicamente, secondo la lor conscienza, non solamente essere a lor molesti; ma, oltre, stimar gran sacrificio a gli dei e beneficio al mondo di perseguitarli, ammazzarle e spengerli da la terra, perché son peggiori che li bruchi e le locuste sterili e quelle arpie le quali non opravano nulla di buono, ma solamente que’ beni che non posseano vorare, strapazzavano ed insporcavano con gli piedi, e faceano impedimento a quei che s’esercitavano78.

Non stupisce, dunque, che nella riforma delle immagini e personificazioni celesti, al posto di Orione, figura condensante gli aspetti 75. 76. 77. 78.

Cfr. ivi, p. 723 s. Ivi, p. 665. Ivi, p. 624. Ivi, p. 624 s.

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‘asinini’ del cristianesimo, ereditati dall’ebraismo (cecità intellettuale, ignoranza tenuta per massima sapienza, disprezzo per la natura e la ragione, della filosofia e della contemplazione), ed espressi in massima forma dal protestantesimo79, Bruno collochi, nel cielo delle nuove virtù e potenze etiche, ... la Industria, l’Esercizio bellico ed Arte militare; per cui si mantegna la patria pace ed autoritade; si appugneno, vincano e riducano a vita civile ed umana conversazione gli barbari; si annulleno gli culti, religioni, sacrificii e leggi inumane, porcine, salvatiche e bestiali; perché ad effettuar questo tal volta per la moltitudine de’ vili ignoranti e scelerati, la quale prevale a’ nobili sapienti e veramente buoni, che son pochi, non basta la mia sapienza senza la punta de la mia lancia, per quanto cotali ribaldarie son radicate, germogliate e moltiplicate al mondo80.

Alla Chiesa del Cristo miracoloso, quella delle cerimonie assurde e superstiziose, simboleggiata da Orione, Bruno sostituisce dunque la Chiesa militante (l’Arte militare), impegnata in una lotta senza quartiere contro i riformati. Alla Chiesa dogmatica, il cui simbolo, nello Spaccio, è Chirone, mezzo uomo e mezza bestia, metafora del dogma della duplice natura, umana e divina, del Cristo, «Favola inutile e perniziosa», il Nolano sostituisce invece la «non vana Religione, la non stolta Fede e la vera e sincera Pietade», ovvero un cattolicesimo depurato e riformato, del quale si metta a frutto soprattutto la straordinaria capacità di sviluppare solidarietà, unità, civiltà, la sua buona «Favola morale»81. È stato scritto recentemente di un «catholicisme nolain»82: la Chiesa romana vi resterebbe compresa come un’arma contro la Riforma, il nemico più potente della ‘Nolana filosofia’. Ciò non significa, tuttavia, che Bruno risparmi la dogmatica cattolica, l’intreccio tra aristotelismo e tomismo, e la concezione giudaico-cristiana dell’uomo – complessivamente respinta nella Cabala del cavallo pegaseo. Ma lo stato allora presente dell’Europa, e soprattutto della Francia, lo induce a ritenere imprescindibili necessità così la lotta contro la Riforma, come il contrasto alle intese del d’Alençon con ugonotti e ribelli olandesi. In questa prospettiva va collocata la conclusione dello Spaccio, in cui Bruno esalta l’amore per la pace che caratterizza Enrico III: 79. Orione non è solo metafora del Cristo miracoloso e ingannatore, ma di Lutero, del cui De servo arbitrio riprende il discorso contro la sapienza mondana. Cfr. M. Ciliberto, La ruota del tempo, cit., p. 158 s. 80. Ivi, p. 807. 81. Ivi, p. 825 s. 82. Cfr. B. Levergeois, Giordano Bruno, Fayard, Paris 1995, p. 298.

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Questa, questa, rispose Giove, è quella corona, la quale, non senza alta disposizion del fato, non senza instinto de divino spirito e non senza merito grandissimo, aspetta l’invittissimo Enrico terzo, Re della magnanima, potente e bellicosa Francia; che dopo questa e quella di Polonia, si promette, come nel principio del suo regno ha testificato, ordinando quella sua tanto celebrata impresa, a cui, facendo corpo le due basse corone con un’altra più eminente e bella, s’aggiongesse per anima il motto: Tertia coelo manet. Questo Re cristianissimo, santo, religioso, e puro può securamente dire: Tertia coelo manet, perché sa molto bene che è scritto B e a t i l i p a c i f i c i, b e a t i l i q u i e t i, b e a t i l i m o n d i d i c u o r e, p e r c h é d e l o r o è i l r e g n o d e’ c i e l i. Ama la pace, conserva quanto si può in tranquillitade e devozione il suo popolo diletto; non gli piaceno gli rumori, strepiti e fragori d’instrumenti marziali che administrano al cieco acquisto d’instabili tirannie e prencipati de la terra; ma tutte le giustizie e santitadi che mostrano il diritto camino al regno eterno. Non sperino gli arditi, tempestosi e turbulenti spiriti di quei che sono a lui suggetti, che, mentre egli vivrà..., voglia porgerli aggiuto per cui non vanamente vadano a perturbar la pace de l’altrui paesi, con pretesto d’aggionger gli altri scettri ed altre corone; perché Tertia coelo manet. In vano contra sua voglia andaranno le rubelle Franche copie a sollecitar gli fini e lidi altrui; perché non sarà proposta d’instabili consegli, non sarà speranza de volubili fortune, comodità di esterne administrazioni e suffragii che vagliano con specie d’investirlo de manti ed ornarlo di corone, toglierli (altrimente che per forza di necessità) la benedetta cura della tranquillità di spirito, più tosto leberal del proprio che avido de l’altrui. Tentino, dunque, altri sopra il vacante regno Lusitano; sieno altri solleciti sopra il Belgico dominio83.

Quell’amore per la pace non è in Enrico, secondo Bruno, ingenuo e rinunciatario pacifismo. La Francia è «potente e bellicosa», ma Enrico non intende giustamente impegnarsi in guerre che aggraverebbero la situazione del Regno. Bruno le ricorda distintamente. Sono le guerre volute e invocate da ugonotti e politiques (le «rubelle Franche copie») e dai loro alleati d’Oltremanica, i puritani, che il re di Francia non intende condurre. La conquista del Portogallo dal trono vacante è desiderata da Caterina de’ Medici, che contende a Filippo II la corona portoghese allo stesso fine per il quale ha incoraggiato il fidanzamento del d’Alençon con Elisabetta d’Inghilterra e le sue manovre intorno ai Paesi Bassi: procurare un regno al suo figlio minore, e allontanarlo così dalla Francia, privando il partito politique e gli ugonotti di un incontrollabile punto di riferimento nella stessa famiglia reale. Ma il progetto portoghese naufraga al largo delle isole Azzorre, dove la flotta spagnola batte quella france-

83. Spaccio, BDI 826.

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se (1583)84. Anche l’intervento nelle Fiandre a sostegno della rivolta anti-spagnola, voluto dal d’Alençon e da lui rovinosamente condotto, a un certo punto, con truppe proprie, come ricorda Bruno nello Spaccio, se fosse stato compiuto direttamente dal re di Francia avrebbe trasformato i conflitti intestini francesi in aperta, disastrosa guerra contro la Spagna. Rinnovando il piano (intervenire a fianco dei ribelli olandesi contro la Spagna e spostare così la Francia nell’area delle potenze protestanti) che nel 1572 era costato la vita all’ammiraglio Coligny, d’Alençon aveva accettato nel 1578 l’invito di Guglielmo d’Orange e degli Stati d’Olanda a proclamarsi pubblico «difensore della libertà dei Paesi Bassi contro la tirannia degli spagnoli». Nel 1580 il fratello del re di Francia viene addirittura proclamato sovrano ‘costituzionale’ dei Paesi Bassi, a condizione di un deciso intervento militare francese nella guerra delle Province Unite contro la Spagna. Intervento che Enrico III promette e rinvia, tergiversando, e confidando ai suoi ministri che egli non desidera affatto che l’avventura olandese del d’Alençon vada avanti, «car je veux conserver mon Etat et moins le voir ruiner pour lui [il d’Alençon] que pour personne du monde»85. Bruno, nello Spaccio, restituisce esattamente la natura del contrasto tra la politica ‘pacifica’ di Enrico e quella avventurosa e sconsiderata del fratello rispetto alla guerra d’Olanda. Allorché il d’Alençon decide, nel 1581, di armare truppe proprie e di dirigersi verso i Paesi Bassi, che hanno proclamato la propria indipendenza dichiarando decaduto dal trono Filippo II, Enrico ordina che i governatori delle province interessate ostacolino in ogni modo questa mobilitazione86. Ridotto allo stremo il suo tesoro di guerra, d’Alençon si rivolge alla sua promessa sposa, la regina Elisabetta. A Londra d’Alençon non riceve da Elisabetta che ipocrite lacrime d’amore: la Tudor non ha alcuna intenzione né di sposare l’irrrequieto Valois, né di aiutarlo più di tanto nella spedizione olandese, nella quale, in Inghilterra, credono molto più i circoli puritani, che non la sovrana. Nel 1578 Alessandro Farnese, il nipote di Carlo V, era succeduto a don Giovanni d’Austria nel governatorato spagnolo sui Paesi Bassi e nella repressione della rivolta, cominciando la lenta e difficile riconquista delle province meridionali. Egli riusciva a convincere la nobiltà vallona a non stipulare patti con il d’Alençon, e si rallegrava con Filippo II del fatto che finanche la regina Elisabetta avesse attenuato il suo sostegno al principe francese, una volta che questi era 84. Cfr. P. Chevallier, op. cit., pp. 483-487. 85. Lettera di Enrico III a Nicolas de Villeroy del 1580, cit. ivi, p. 479. 86. Su tutta la questione olandese, cfr. ivi, pp. 478-483.

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entrato in Olanda, e fosse giunta al punto di incoraggiare gli Stati delle province ribelli a riconciliarsi con Madrid87. Farnese era riuscito a rompere la compattezza del fronte avversario: l’unione tra le province meridionali, prevalentemente cattoliche, e quelle settentrionali, calviniste, e a contenere l’iniziativa del d’Alençon. Quattro anni più tardi, nel gennaio 1582, mentre Farnese avanza ulteriormente e vittoriosamente nei Paesi Bassi, d’Alençon vi fa ritorno, scortato ad Anversa dalla flotta inglese. È accompagnato dal suo rivale in amore e capo del partito puritano, il conte di Leicester, anch’egli aspirante sfortunato alla mano di Elisabetta e sostenitore dell’impegno anglo-francese al fianco dei calvinisti ribelli a Madrid: l’uomo che Bruno aveva elogiato nella Cena de le Ceneri, nella vana speranza di procurarsene la protezione88. Le truppe del d’Alençon e di Guglielmo d’Orange sono sbaragliate da Farnese, ed Enrico III si guarda bene dal correre in aiuto del fratello. Allorché d’Alençon, spazientito e isolato, cerca di imporre con la forza alle città olandesi il suo pieno dominio personale, e Anversa gli si ribella cacciandolo, Enrico III si limita a ironizzare, con l’ambasciatore veneziano Giovanni Moro (un’altra conoscenza di Bruno a Parigi)89, sulle prodezze di «mon frère le conquérant» (febbraio 1583)90. L’ambasciatore inglese a Parigi Henry Cobham informò il primo segretario del Regno sir Francis Walsingham della cattiva sorte del d’Alençon nello stesso dispaccio, datato 28 marzo 1583, in cui – come abbiamo visto – annunciava con disappunto il passaggio dalla Francia in Inghilterra del «Signor Doctor Jordano Bruno, Nolano, a professor in philosophy... whose religion I cannot commend». La notizia su Bruno scivola tra varie informazioni relative a maneggi cattolici e spagnoli in Inghilterra e alle pressioni che gli inglesi esercitano sul d’Alençon

87. Cfr. la lettera di Farnese a Filippo II, da Bouges, 20 ottobre 1578: «L’entrée du duc d’Alençon [in Olanda] donne à penser à plusieurs, et refroide fort la royne d’Angleterre vers les estatz, la quelle leur conseille de se réconcillier avecq Vostre Majesté, avant que se plonger plus avant avecq ledict duc, ne trouvant nullement bon sadicte entrée». In Correspondance d’Alexandre Farnèse... avec Philippe II, dans les annés 1578, 1579, 1580 et 1581, publiée par M. Sachard, première partie 15781579, C. Muquardt, Bruxelles, Gand et Leipzig 1853, p. 26. Intorno alle gesta di Farnese nei Paesi Bassi e al suo contrasto politico, militare e diplomatico con il d’Alençon vd. L. van der Essen, Alexandre Farnèse prince de Parme gouverneur général des Pays-Bas (1545-1592), Librairie nationale d’art et d’histoire, Bruxelles 1933-1937, 4 voll., III (1582-1584), in particolare i capp. VII e X. 88. Cfr. Cena, BDI 69. Intorno al significato della presenza del Leicester nella Cena cfr. M. Ciliberto, La ruota del tempo, cit., p. 50 s. 89. Gli dedica il De compendiosa architectura et commento artis Lullii (Parigi 1582). 90. Cfr. P. Chevallier, op. cit., p. 482.

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affinché resti nelle Fiandre nonostante la disfatta91. Ammalato di tisi e abbandonato al suo destino da Enrico, d’Alençon muore il 10 giugno 1584. La strana e tanto discussa decisione assunta da Bruno nella primavera del 1583 di trasferirsi a Londra, con lettere di raccomandazione di Enrico III, presso l’ambasciata del Castelnau (al centro dei sospetti dei puritani e dei servizi segreti del Walsingham) si situa dunque sullo sfondo della sconfitta del d’Alençon e del crollo dei piani olandesi del partito politique e degli ugonotti, che devono lasciare ai soli inglesi – che peraltro, a cominciare dalla regina Elisabetta, non ne ne sono unanimamente persuasi – l’appoggio alla secessione protestante dei Paesi Bassi. Lo Spaccio verrà composto e pubblicato nel 1584, quando i puritani, già attaccati per questioni religiose e di politica interna dalla Chiesa anglicana e da Elisabetta, vedono vacillare anche l’intervento inglese a difesa della rivoluzione olandese, sotto i colpi della rimonta spagnola guidata da Alessandro Farnese, e nel totale disimpegno francese nei Paesi Bassi. L’allusione polemica che Bruno compie, nelle pagine finali dello Spaccio, alle manovre inglesi e politiques nei Paesi Bassi sembra avere un nesso particolare con il dedicatario dell’opera, sir Philip Sidney. Questi è un convinto sostenitore della causa ugonotta. Nel 1572, a Parigi, è scampato al massacro di San Bartolomeo. In quella occasione si era legato ai maggiori pubblicisti calvinisti: Philippe du Plessis-Mornay, François Hotman, Hubert Languenet. Tornato in Inghilterra, appoggiò i puritani: suo zio il conte di Leicester ne era il maggior protettore e rappresentante presso la regina. L’avvicinamento tra Elisabetta ed Enrico III e il progetto delle nozze della sovrana con il d’Alençon trovarono Sidney del tutto contrario, ed egli condivise in qualche modo la disgrazia nella quale il Leicester cadde, per lo stesso motivo, presso Elisabetta. Nel 1583 Sidney si collegò ancor più strettamente alla linea puritana, sposando Frances Walsingham, la figlia dell’occhiuto e poliziesco primo segretario del Regno. Walsingham, Leicester e Sidney desiderano un’alleanza tra Elisabetta ed Enrico III, e un’intesa con il d’Alençon, ma che siano entrambe rivolte decisamente contro la Spagna, a sostegno dei ribelli olandesi, contro la Ligue ultramontana, e per il progresso della causa ugonotta in Francia. Quanto alle ‘nozze francesi’ 91. Cfr. G. Aquilecchia, Giordano Bruno in Inghilterra (1583-1585). Documenti e testimonianze, cit., p. 23 s.: «M. Pibrac, chancellor to Monsieur [il duca d’Alençon], departed yesterday towards Calais with their Majesties’ letters and instructions, and permission to induce Monsieur to stay in Flanders; which if he shall resolve the king [Enrico III] promises to give him assistance and support. Howbeit they have, it is said, prepared for his coming at Alençon [feudo del duca in Francia]. But today letters are come which notify he is sick».

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di Elisabetta, meglio non parlarne: il d’Alençon alleato in Olanda va benissimo; sul trono inglese, assolutamente no. Non solo il Valois è, almeno formalmente, cattolico, ma appare infido e troppo ambizioso. Bruno, tra Oxford e Londra, aveva cercato di ingraziarsi sia il Leicester che Sidney: comprese gradualmente di non poterne condividere il deciso filo-puritanesimo, ma è da questi personaggi che sarebbe potuto dipendere il suo pur improbabile inserimento nell’Università inglese (Leicester è cancelliere dell’Università di Oxford) e nella vita letteraria londinese (di cui Sidney è un astro luminoso e influente). Al di là delle pur importanti consonanze intellettuali tra il Nolano e Sidney92, quest’ultimo è sostenitore di una linea politica che il primo non apprezza. E lo lascia intendere, cautamente e rispettosamente, proprio verso la conclusione dello Spaccio, l’opera che comunque gli dedica. Bruno pubblica lo Spaccio intorno all’epoca in cui Sidney si reca a Parigi (estate 1584) per presentare a Enrico III le condoglianze della corte inglese per la morte del d’Alençon, e per convicere il re di Francia a mantenere la promessa di un cospicuo intervento militare francese in Olanda contro gli spagnoli. La morte del d’Alençon e la rottura dell’alleanza tra le province cattoliche meridionali e quelle calviniste del Settentrione hanno dischiuso al Farnese la via della riconquista delle Fiandre e del Brabante; la causa olandese vacilla. La conclusione dello Spaccio è chiara: sarà inutile che Sidney cerchi di persuadere il re di Francia a ripetere le insane gesta del fratello defunto. Enrico ama la pace, e merita la sua ‘terza corona’, quella celeste93; «sieno altri solleciti 92. Vi è ritornata da ultima molto efficacemente H. Gatti, L’idea di riforma nei dialoghi italiani di Giordano Bruno, «Nouvelles de la République des Lettres», (1996), 2, pp. 61-81. 93. Un motto, Tertia coelo manet (ripreso dalla divisa di Enrico III, dove suona Manet ultima coelo), che le contrapposte fazioni politico-religiose interpretavano e distorcevano ciascuna secondo il proprio interesse propagandistico: per gli ugonotti e i seguaci di Enrico di Navarra, il re si sarebbe meritata la ‘terza corona’ aprendo a quest’ultimo la via al trono di Francia; per i leghisti ultracattolici, il motto regale avrebbe piuttosto dovuto alludere ai meriti acquisiti dal Valois presso la Divina Provvidenza lottando contro l’eresia nel suo Regno (cfr. J. Jacquiot, L’iconographie et l’iconologie sous le règne du roi Henri III, roi de France et de Pologne d’après des médailles et des jetons, in Henri III et son temps, cit., pp. 141-154). Il Nolano, nello Spaccio, pare invece recepire il motto in un senso vicino a quello reso dal banchiere italiano Matteo Zampini, uomo della regina Caterina, e apologeta dei Valois nel De origine, et atavis Hugonis Capetis. Nella dedica al re del suo libretto, lo Zampini celebra in Enrico la «firmiorem sedem» della «religiosa pietas» dei suoi antenati. Da te, Enrico, scrive Zampini, «expectat Christiana Respublica, ut collapsum piae religionis cultum virtute restituas, prudentia formes, iustitia firmes, pietate conserves». Quella ‘terza corona’ che «in coelis expectare aperte profiteris» verrà a pre-

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sopra il Belgico dominio... ». Enrico III non aiuterà i ribelli olandesi e gli inglesi; e Sidney, per parte sua, destinato da Elisabetta al governatorato di Flessinga in Olanda, in una prosecuzione della guerra che la regina sostiene con assai scarsa convinzione, cadrà a seguito della ferita riportata per mano spagnola nella battaglia di Zutphen (settembre 1586). Intanto, Alessandro Farnese aveva trionfalmente completato, con la presa di Anversa (1585), la riconquista delle province meridionali dei Paesi Bassi. Un successo clamoroso, che impressionò profondamente l’Europa, e rafforzò la fama militare e politica del principe italiano. Spunta allora un’altra candidatura alla identificazione dell’Ercole bruniano, del «ministro di Giove», dell’«invitto braccio» evocato nello Spaccio quale liberatore d’Europa dai «nuovi ed inauditi mostri» protestanti: Alessandro Farnese, il restauratore del cattolicesimo e del dominio spagnolo nei Paesi Bassi meridionali; il maggior genio militare dell’Europa del tempo, ma anche governante sagacissimo, prudente, mai fanatico, che ha saputo aver ragione dei ribelli olandesi non solo con le armi, ma con l’abilità diplomatica e la saggezza politica. Non stupisce che nella pubblicistica legata al suo nome si trovi una caratterizzazione del personaggio e delle sue imprese così assonante con quella adoperata da Bruno nello Spaccio a proposito del ‘nuovo Ercole’. La grandezza di Alessandro consistette – per il gesuita Francesco Benci, che ne tenne l’elogio funebre, nel 1592 – nel sapere, come Ercole, combinare prodezza fisica e prudenza politica: Et vero potuit illis [ai popoli sottomessi] extorquere gladios, et eripere de manibus faces: mentes consceleratas et nefarias, nec sanare potuit, nec tollere. Sed tamen, ut quos devicerat bello, devinciret beneficio, Regique suo et Catholicae religionis obligaret, nullum nec humanitatis, nec officij, nec pietatis reliquit locum. Nempe, ut olim Hercules, quod finxerunt poëtae, perdomandis monstris ac tyrannis toto orbe terrarum, consulebat securitati saeculorum...94

L’Ercole-Alessandro è per Benci, come già per Bruno sarebbe dovuto essere l’invocato liberatore d’Europa dal morbo riformato, «immortalis Dei administrum» («ministro di Giove» nello Spaccio), in guerra «adversum impios»95. Ma ben prima che giungesse il tempo miare il re così della sua pietà, come della prudenza e saggezza dimostrate nelle angustie di Francia (cfr. M. Zampini, De origine, et atavis Hugonis Capeti..., apud Th. Brumennium, Parisis 1581, epistola dedicatoria). 94. F. Bencii S. J. Orationes et Carmina... editio secunda. Cui praeter multa poemata, accessit oratio de morte et rebus gestis Illustriss. Principis Alexandri Farnesii Ducis Parmensis, excudebat D. Sartorius, Ingolstadii 1595, p. 295 s. 95. Ivi, p. 305: «Te Ranuti Farnesi Dux Serenissime – scrive Benci rivolgendosi al

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degli elogi funebri, il Farnese trionfatore sui riformati è raffigurato e celebrato come Ercole nella propaganda coeva allo Spaccio. Una popolarissima incisione di Otto e Ghisbert Vaenius, probabilmente successiva alla presa di Anversa, raffigura il duca di Parma vittorioso sugli eretici con quegli attributi ‘erculei’ che Bruno aveva assegnato all’«invitto braccio» preconizzato nello Spaccio: la «mazza» nella destra, lo scudo di Atena, con il capo mozzato della Medusa offerto da Perseo alla dèa, nella sinistra (Atena è sempre al fianco di Ercole nelle prove più dure, e qui sta a simboleggiare la simbiosi di valor militare e ingegno politico nel Farnese; ma anche Bruno, come abbiamo visto, aveva posto un nesso tra Ercole e Perseo, auspicandone l’alleanza contro i ‘mostri’ protestanti)96. In definitiva, è con Farnese, piuttosto che con Enrico III, con Guisa o con Navarra, che la obiettiva situazione politica europea del 1584 (in cui la rivolta olandese si intreccia con la guerra civile francese e con le vicende interne inglesi), e la profonda avversione del Nolano per i riformati, inducono ad associare il ‘nuovo Ercole’ bruniano. Il duca di Parma corrisponde in pieno a quel «modèle du prince, rêve des humanistes, qui aimeraient voir un sage et un vertueux à la tête de l’état»: come Ercole, saggio e coraggioso, prudente e valoroso insieme97. Egli è l’unico principe cattolico che sia riuscito a infliggere dure sconfitte, cariche di conseguenze, al fronte protestante; egli è il braccio armato, ma anche avveduto e clemente, di quella Spagna che, nello Spaccio, Bruno recupera come unico saldo baluardo all’espansione politica della Riforma. Nello Spaccio, come nella situazione politico-religiosa dell’anno in cui l’opera apparve, il tormentoso 1584, le tensioni che attraversano le corti di Londra e di Parigi in relazione alla questione olandese e del d’Alençon si combinano con il conflitto tra Elisabetta e i puritani – al quale Bruno è sensibilissimo, come è venuto nuovamente insi-

figlio di Alessandro – ad quem hereditas paternae, ut rei, sic etiam gloriae, et factorum imitatio pertinet: quem aquila illa victrix ad volandum provocans suo volatu instruxit. Tu enim secundis eius proelijs, et consilijs fere ultimis interfuisti. Sed quod improbum fulmen ex infero submissum specu, non ex supera sede demissum, attingere ausum, non dico eximiam alitem commentitiam armigeram Iovis, sed Alexandrum Farnesium immortalis Dei administrum adversum impios in bello, cui sese pia iamdudum religione devoverat?». 96. Cfr. F. Kelly, Les portraits du prince de Parme. Essai d’Iconographie Méthodique, in L. van der Essen, Alexandre Farnèse, cit., IV/2, pp. 389-409: p. 408: «Alexandre, portant les attributs d’Hercule, la rondache (en latin Parma) au bras, marche à l’encontre de l’hérésie, guidé par la Religion sous les traits d’une femme voilée». 97. Cfr. M. R. Jung, op. cit., p. 161.

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stendo Ciliberto98. L’‘erculea’ fatica di Alessandro Farnese (proveniente da una famiglia legata tanto se non ancor più che i Valois e i Navarra al mito dell’eroe antico), che, proprio mentre Bruno scrive lo Spaccio, recupera a Filippo II una parte consistente dei suoi dominii e umilia i ribelli calvinisti, si staglia sullo sfondo delle lotte intestine inglesi: i puritani, fra cui spiccano, nell’aristocrazia, Sidney e il Leicester, pretendono da Elisabetta così la distruzione della Chiesa d’Inghilterra, come la guerra totale a Roma e alla Spagna. Una trattazione distinta richiederebbe, a questo punto, il tentativo di chiarire i possibili legami tra lo Spaccio e il coevo dibattito inglese sulla ‘bestia’ dell’Anticristo, che nelle polemiche agitate dai puritani appare centrale. Basti dire, ora, che Bruno sembra rovesciare, presentando la sua riforma come ‘spaccio della bestia’, proprio tutta la pubblicistica anti-cattolica e puritana. Per Calvino l’Anticristo era il papa di Roma; parimenti, è ovvio, per i puritani inglesi. Ma già Alberico Gentili, il giurista italiano amico del Nolano, aderente alla Riforma e riparato in Inghilterra (dove Bruno lo conobbe), nel De Papatu Romano Antichristo (1580-85), sostiene che non solo il papa, e i gesuiti, ma anche i puritani sono ‘anticristi’, sono ‘bestie’, poiché si oppongono all’autorità dei re99. Quando Bruno pubblica lo Spaccio, in Inghilterra la ‘bestia’ è la Chiesa romana, ma i puritani vengono estendendo l’uso di questo termine all’episcopato anglicano, e implorano Elisabetta di liberarli di un simile orrore. E presto, nel linguaggio puritano, ‘bestia’ e Anticristo saranno anche le università, le accademie, i luoghi della scienza mondana, al pari degli Stati assoluti e delle distinzioni sociali. Per reazione, le autorità anglicane cominciarono a sviluppare la tematica dell’Anticristo e della ‘bestia’ in altra direzione: il papa è Anticristo, dichiarò Whitgift, l’arcivescovo di Canterbury chiamato da Elisabetta a contenere il puritanesimo, ma, secondo il prelato anglicano, anche eretici e scismatici, dissidenti e protestatari della Chiesa inglese sono ‘bestie’ e anticristi, poiché fin dai primi tempi della Chiesa il demonio si è servito degli spiriti settari e turbolenti, autori di eresie e suscitatori di discordia, per distruggerla100. Bruno opera 98. Cfr. in questo stesso volume l’ulteriore, importante contributo offerto da Ciliberto a questo proposito: Fra filosofia e teologia. Bruno e i puritani. 99. Cfr. su questo punto, e sull’assimilazione tra gesuitismo, papismo e puritanesimo nel comune segno ‘anticristiano’ all’interno del dibattito religioso inglese del tardo Cinquecento e primo Seicento G. Barbuto, Il principe e l’Anticristo, Guida, Napoli 1994, pp. 215-219. 100. Cfr., su questi temi, Chr. Hill, L’Anticristo nel Seicento inglese, trad. it., il Saggiatore, Milano 1990, e B. McGinn, L’Anticristo. 2000 anni di fascinazione del male, trad. it., Corbaccio, Milano 1996, pp. 291-298.

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in questo quadro, connotato dalla estensione della definizione di ‘bestia’ ai puritani e in generale a tutti i settari che non riconoscono la supremazia della Chiesa anglicana e del potere sovrano. Farà pure riflettere che nel tempo in cui Bruno compone lo Spaccio – così caustico verso la decadenza cattolico-romana e al tempo stesso così duramente anti-riformato – in Inghilterra accadesse sempre più spesso che tanto gesuiti e papisti, quanto puritani e settari meritassero, anche all’interno di una stessa opera, come quella del Gentili, l’accusa di ‘bestia’ anticristiana, secondo una linea di apologia della potestà regia e del primato della Chiesa anglicana che verrà ripresa e amplificata da Giacomo I. Nella storia della fortuna di Bruno, molti han creduto che la ‘bestia trionfante’ di Bruno fosse il papa o il cattolicesimo romano. La complessità del discorso bruniano produce invece un’immagine ben diversa e più articolata della ‘bestia’, e più vicina alle stesse oscillazioni del dibattito inglese sull’Anticristo: il Nolano non era solo a ritenere, in quegli anni, in Inghilterra, che i puritani, e più in generale i calvinisti, meritassero il sinistro e inquietante appellativo che nelle Lettere di Giovanni era stato riservato a coloro che negavano, all’alba del cristianesimo, che Gesù fosse il Messia liberatore dei popoli. La ‘bestia’ da ‘spacciare’, allora, sono «Lutero e i suoi seguaci ‘riformati’», – come ha scritto Ciliberto – «massimi artefici e protagonisti della crisi» europea. Sono essi, per Bruno, i «nemici principali»101, contro i quali il Nolano invoca l’Ercole nuovo, forse Alessandro Farnese, che nel 1584 veniva liberando i Paesi Bassi dal calvinismo e infliggendo un duro colpo ai suoi alleati: politiques, ugonotti e puritani. Ciò non scuote affatto, né lo potrebbe, anzi rafforza, a quasi quattrocento anni dalla morte, la nostra devozione libera verso Giordano Bruno, vittima di una assai complessa situazione politica e religiosa, testimone della libertà filosofica e martire per essa; testimone dell’esigenza di liberazione dell’uomo dalla mortificazione del pensiero e dall’avara oppressione della privata ‘cupidiggia’, che nega la ‘civile conversazione’ e offende l’onore e salute delle ‘repubbliche’, indifferente se non ostile alla «antiqua vera filosofia». Egli rivendicò quella libertà dovunque si trovasse, al cospetto di qualunque chiesa, accademia o tribunale, cattolico o riformato che fosse, contro ogni forma di ottusa ‘pedanteria’ e di ‘asinino’ e ‘bestiale’ dominio, si trattasse pure di quello esercitato, a suo avviso, in nome di una riforma che si era annunciata come liberatrice da altre servitù.

101. M. Ciliberto, La ruota del tempo, cit., p. 26.

ELISABETTA SCAPPARONE RAPTUS E CONTRACTIO TRA FICINO E BRUNO

Le opere di Marsilio Ficino occupano un posto di rilievo nello ‘scrittoio’ di Giordano Bruno, nella biblioteca ideale che egli venne raccogliendo prima nel periodo del convento, a San Domenico Maggiore, quindi negli anni della lunga peregrinatio italiana ed europea. Si tratta di testi conosciuti in maniera puntuale e spesso a memoria, e utilizzati, dagli scritti parigini dei primi anni Ottanta alle ultime opere magiche, come arsenale di citazioni, allusioni, immagini suggestive, attraverso un confronto sempre serrato con l’interpretazione data da Ficino, «unus e principibus Platonicis», alle dottrine ed ai problemi propri della tradizione platonica1. Citazioni occulte e prelievi vistosi di intere porzioni di testo si alternano così nelle pagine bruniane a rilievi polemici o vere e proprie ‘riscritture’, secondo un gioco continuo di adesione e distacco, di fedeltà ed infedeltà rispetto ad una fonte, che risulta – come sempre in Bruno – piegata alla straordinaria autonomia e creatività di un pensiero che seleziona e rielabora con decisione i materiali di cui si serve, sviluppandoli o ristrutturandoli di volta in volta, secondo differenti linee di ricerca. A partire da queste considerazioni, ho cercato di indagare l’incidenza e lo sviluppo in alcuni scritti bruniani di un nucleo tematico particolarmente rilevante all’interno della dottrina ficiniana. Intendo dire il nodo concettuale che ruota intorno al motivo della contractio2, la forma suprema – e potente – di concentrazione intellettuale 1. Sulla presenza di Ficino negli scritti bruniani vd. in primo luogo A. Ingegno, Il primo Bruno e l’influenza di Marsilio Ficino, «Rivista critica di storia della filosofia», XXIII (1968), pp. 149-170; Id., Cosmologia e filosofia nel pensiero di Giordano Bruno, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 237-283. Cfr. inoltre M. A. Granada, Giordano Bruno et la «dignitas hominis»: présence et modification d’un motif du platonisme de la Renaissance, «Nouvelles de la République des Lettres», 1993, 1, pp. 35-89; R. Sturlese, Le fonti del «Sigillus sigillorum» del Bruno, ossia: il confronto con Ficino a Oxford sull’anima umana, «Nouvelles de la République des Lettres», 1994, 2, pp. 89-168; Ead., La nuova edizione del Bruno latino, «Rinascimento», n.s., XXXV (1995), pp. 373-396. 2. Per l’uso tecnico – legato ad un lessico di carattere medico – del termine ‘contractio’ in Ficino cfr. Marsilii Ficini Florentini Opera omnia, Basileae, ex officina Henricpetrina 1576, rist. an., La Bottega d’Erasmo, Torino 1962, I, p. 287: «Scribit Aristoteles omnes in qualibet arte viros excellentes melancholicos extitisse, sive tales nati fuerint, sive assidua meditatione tales evaserint. Quod ego ob eam causam arbitror evenire, quoniam humoris melancholici natura terrae sequitur qualitatem, quae nunquam late sicut caetera elementa diffunditur, sed arctius contrahi-

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che l’anima acquista raccogliendosi in se stessa, e che coinvolge il tema – delicatissimo ed impervio – del rapporto fra corporeo ed incorporeo, della comunicazione fra Dio, uomo e natura. Il nesso Ficino-Bruno sul punto specifico della contractio era stato colto e sottolineato già da Gabriel Naudé che, nelle Considérations politiques sur le coups d’état, criticando la tesi di coloro che sostenevano di essere assistiti nella loro opera da qualche genio o demone divino, così ribatteva: «Se fosse per me preferirei stabilire la verità di queste storie con la meravigliosa capacità di contrazione dello spirito forte ben spiegata da Marsilio Ficino e Giordano Bruno, dai quali anche Palingenio in tre o quattro luoghi del suo Zodiaco non sembra molto scostarsi»3. In anni vicini a noi, poi, diversi interpreti ed editori degli scritti bruniani hanno mostrato, con dovizia di esempi, come nella sezione che chiude la prima parte del Sigillus sigillorum la presentazione delle quindici specie di contractiones della mente umana sia attinta in gran parte a pagine ficiniane4. Si tratta, in particolare, di quel libro XIII della Theologia Platonica, in cui Ficino intende mostrare – e confermare «multis signis» – l’esistenza di un potere eccezionale, di un dominium dell’anima sul corpo, testimonianza di una autonomia che riposa nell’origine divina dell’anima e nel suo destino non mortale e transeunte. Fra i ‘segni’ che testimoniano la superiorità e l’autonomia dell’anima rispetto al corpo, Ficino annovera in primo luogo gli affectus phantasiae – appetito, piacere, timore, dolore – moti dell’animo che determinano – in condizioni di particolare intensità – mutamenti e turbamenti funzionali nelle strutture del proprio corpo e talvolta anche di altri corpi, ad esso esterni. Dunque, «corpus humanum animae suae cedit facillime», mentre non vale il contrario: e che l’anima non sia necessariamente turbata dalle passioni o dai tormenti del corpo è dimostrato da una serie di esempi classici – tur in seipsam. Ita melancholicus humor animam et invitat, et iuvat, ut in seipsam se colligat» (Theol. Plat., XIII, 2); ivi, p. 294: «Tertius vacationis modus fit ex melancholici humoris contractione animam ab externis negotiis sevocantis, ut anima tam vacet homine vigilante, quam solet dormiente quandoque vacare» (Theol. Plat., XIII, 2). 3. G. Naudé, Considérations politiques sur le coups d’état suivant la copie de Rome, cit. in S. Bassi, Immagini di Giordano Bruno. 1600-1725, Procaccini, Napoli 1996, p. 64. 4. Cfr. F. Tocco, Le opere latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le italiane, Le Monnier, Firenze 1889, pp. 362-373; A. Ingegno, Cosmologia e filosofia nel pensiero di Giordano Bruno, cit., pp. 251-283; R. Sturlese, Le fonti del «Sigillus sigillorum» del Bruno, cit., pp. 111, 114-119, 141-145. Vd. inoltre i riferimenti ed i prelievi ficiniani indicati in G. Bruno, Le ombre delle idee. Il canto di Circe. Il sigillo dei sigilli, Introduzione di M. Ciliberto, traduzione e note di N. Tirinnanzi, Rizzoli, Milano 1997, pp. 378-398.

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l’heroica virtus di Diogene, Polemone, Anassarco –, che Bruno puntualmente farà suoi, e continuerà, negli anni, a riproporre, in una serie di occorrenze legate al motivo della imperturbabilità e della «perfecta praxis» del filosofo5. E se, come vuole Platone, moti violenti dell’animo, sotto l’impulso degli affetti o lo stimolo dell’intensità speculativa, possono addirittura «resolvere et dissolvere» la struttura corporea, è soprattutto l’analisi degli affectus rationis a mostrare come il corpo sia uno strumento dal quale l’anima può prescindere: essa appare anzi in grado di esplicare le sue funzioni più alte proprio quando ne è separata6. «Magnum certe est mentis imperium, quae virtute sua a compedibus corporis solvitur. Ingens opulentia mentis, quae quotiens pretiosos Dei et naturae cupit thesauros, non ex terrae visceribus, sed ex proprio eruit sinu» scrive Ficino7, che presenta l’esperienza interiore, il raccoglimento in sè dell’anima, come stato di coscienza più intenso, vissuto indipendentemente da tutte le espressioni esteriori, ed anzi in contrasto con esse8. La caratterizzazione delle straordinarie possibilità che l’anima acquista contraendosi in se stessa, recuperando la sua unità originaria, è infatti presentata da Ficino, coerentemente con la sua concezione della conoscenza, come liberazione dai vincoli stabiliti dalle facoltà inferiori, violazione o sospensione delle leggi fisiologiche, momentanea interruzione del contatto anima-corpo in seguito alla sospensione della funzione mediatrice dello spiritus9. E di questo 5. Cfr. M. Ficini Opera, cit., I, p. 286: «Polemon Academicus rabidissimos canum morsus dum sentiret, ne expalluit quidem. Anaxarchus Abderites philosophus a Nicocreonte Cypri tyranno iussus est in saxum concavum coniici ferreisque malleis caedi. At Philosophus poenam corporis negligens inquit: “Tunde, tunde Anaxarchi vasculum, Anaxarchum ipsum nihil terres”» (Theol. Plat., XIII, 1). Per le occorrenze bruniane cfr. Sig. sigill., BOL II,II 192: «Ea tandem laudabilissima vere philosophis propria animi contractio est, qua crudelis Anaxarchus patiens ictus plus Nicreonta tyrannum affligebat, quam ipse torqueretur; qua et Polemon a rabidissimis canum morsibus ne expalluisse quidem»; Furori, BDI 1054; De vinculis, BOL III 657. 6. Cfr. M. Ficini Opera, cit., I, pp. 153, 263 e 286: «Quicunque magnum aliquid in quavis arte nobiliori adinvenerunt, id fecere praecipue, quando digressi a corpore in arcem animi confugerunt» (Theol. Plat., XIII, 2). 7. Ivi, p. 287 (Theol. Plat., XIII, 2). 8. Ivi, pp. 185, 203 e 255: «Tertium signum est quod omnes in seipsis experiuntur: quotiens volunt alicuius rei definitionem et causam invenire, nihil aliud conantur, quam ut omnibus sensus et phantasiae submotis obstaculis, profundae mentis intima penetrent, quibus tunc primum clarissime fulget quod venantur, cum primum in arcanae mentis adyta penetraverint, quasi intus scientiarum thesauri delitescant» (Theol. Plat., XI, 5). 9. Ivi, p. 292: «Quoniam anima operationes suas movendi et sentiendi in hoc corpore crassiore per spiritum sibi proximum explet, ideo quando vel propter de-

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rapimento temporaneo dell’anima, di questa straordinaria capacità di abstractio ed isolamento dal proprio corpo rendono concreta testimonianza i filosofi – da Pitagora a Zoroastro, da Socrate a Plotino – «semoti a sensibus», «secessi a corporis vinculis», «correpti a numine», in un distacco prolungato dalle impressioni sensibili che va di pari passo con l’intensità dello sforzo contemplativo; i poeti, «concitati» e «correpti» dal furore divino; i religiosi, fra i quali spicca l’esempio – ed il modello – altissimo dell’apostolo Paolo, che, scrive Ficino, «tres caelestium hierarchiarum caelos in divina abstractione animi conscendisse scripta eius, gesta discipuli monstrant»10, identificando il terzo cielo cui fu rapito l’apostolo nel grado supremo della conoscenza divina, che segna il distacco definitivo da ogni desiderio basso e materiale. All’apostolo è stato concesso di attingere il massimo punto cui possa condurre il rapimento estatico, quello stato perfetto della contemplazione che – possibile in vita soltanto a pochi e per un breve momento – coincide con il raptus dell’amore divino che, in tutta la sua gloria, innalza e fa ascendere alle gerarchie celesti quegli abitanti della terra che si sono dimostrati – «supergressis quoad possumus humanis limitibus» – davvero capaci di amarlo. Un processo di ascesa al divino nel quale si intrecciano sforzo individuale di purificazione da affetti e sensi corporei ed infusione di doni celesti, dominato dal motivo di un circolo d’amore, di una conversione dell’amante nell’amato, alle cui origini sta l’infinita potenza di seduzione delfatigationem spiritus in membris exterioribus resolvuntur, vel propter vapores humoresque meatus illi cerebri opplentur, per quos huiusmodi spiritus ad sensum motumque idonei solent ad membra transmitti, tunc animus sese quodammodo colligit, neque in sentiendis corporalibus qualitatibus, neque in regendis movendisque membris sui corporis, neque in tractandis externis negociis occupatur» (Theol. Plat., XIII, 2). 10. Ivi, p. 287 (Theol. Plat., XIII, 2). 11. Per i caratteri della contemplazione paolina nella Theologia Platonica cfr. M. Ficini Opera, cit., I, pp. 267-268, 302-303, 425. Ma per il tema del ratto e del circolo d’amore vd. soprattutto M. Ficino, De raptu Pauli, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Ricciardi-Einaudi, Torino 1977, VII, p. 932: «Rapit ille prae caeteris quem amat ardentius. Ardenter amat amantem. Non vult benignissimus ille raptor abs te aliud, quo feliciter rapiaris ab ipso, nisi ut vel mediocriter velis rapi; sed hoc quoque nunquam velles, nisi ille antea voluisset». E l’origine del circolo d’amore è subito indicata da Ficino nell’assoluta incommensurabilità fra finitezza umana ed infinità divina: «Finita quidem ut plurimum capere potes etiam si ab illis non capiaris; infinitum vero capere nihil aliud est quam capi. Et quemadmodum imago in speculo non respicit vultum, nisi ipsam vultus aspiciat, immo etiam quando haec vultum videtur aspicere, nihil hoc aliud est quam aspici hanc a vultu; rursus quemadmodum actio motusque non metiuntur nobis tempus nisi tempus revera haec ipsa dimetiatur; sic anima neque respicit Deum nisi prius ip-

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l’amor Dei11. Ma la prova più alta della meravigliosa disposizione dell’anima concentrata in se stessa a congiungersi con le potenze superiori, a ricevere, in determinate condizioni, messaggi celesti e divini, è certo la profezia, modulo privilegiato di comunicazione con le intelligenze supreme, che riposa da un lato sul ruolo centrale e mediatore svolto dall’anima nell’economia cosmica, dall’altro sulla connessione e simpatia che lega tutti i membri di un medesimo livello ontologico. Secondo Ficino, infatti, gli affectus rationis, ponendosi ad un livello superiore rispetto all’attività fantastica, rendono possibile la conoscenza di ciò che appartiene ad un ordine superiore a quello naturale, grazie alla comunicazione dell’anima con le due series – mentium ed idolorum – che ne garantiscono l’inserimento nell’ordine universale. Ma l’azione – pure costante – di tali series sull’anima viene da essa percepita solo quando la ratio – luogo della percezione e della coscienza delle informazioni che fluiscono dai diversi livelli ontologici – si rende disponibile a riceverli, interrompendo, sospendendo, sia pur brevemente, il suo contatto con il mondo del corporeo. Da qui quella che Ficino chiama vacatio animi, la contrazione dell’anima in se stessa, volta a favorire, con la sospensione delle funzioni inferiori, l’accesso al mondo delle intelligenze superiori e la ricezione di influssi diversi, sia che essi coinvolgano, con l’idolum, la fantasia ed in genere la dimensione corporea dell’uomo, sia, con la mens, la sua dimensione più alta. In tal modo, per Ficino, fatti comunemente ritenuti miracolosi – e resi invece possibili dal moltiplicarsi della forza della ratio e della virtus phantastica durante la vacatio – possono essere ricondotti all’azione di cause, costantemente presenti, ma rese operanti solo qualora l’uomo si disponga ad esserne strumento12. Ed egli insiste su questo processo, iscritto nella struttura perfetta dell’universo, nella serie ordinata delle cause, che implica per l’uomo di animo puro, non perturbato, la possibilità di cogliere gli impulsi superiori, sintonizzando su di essi il proprio istinto, così da «eadem velle ac nolle, quae cogitant superi». Sette sono i generi di vacatio enumerati da Ficino, sette le forme attraverso le quali si dischiude, per il sapiente, un cammino di purificazione ed ascesa dell’anima garantito da condizioni cosmiche precise: «Verum quando ita vacamus, ut huiusmodi advertamus in-

sam aspicientem, nec iudicat nisi diiudicantem» (ivi, pp. 932-934). Per una analisi puntuale e suggestiva di questo testo ficiniano vd. C. Vasoli, Marsilio Ficino e il «De raptu Pauli», in «Concordia Discors». Studi su Niccolò Cusano e l’umanesimo europeo offerti a Giovanni Santinello, a cura di G. Piaia, Antenore, Padova 1993, pp. 377-404. 12. Cfr. M. Ficini Opera, cit., I, pp. 288-292 (Theol. Plat., XIII, 2).

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fluxus, septem sunt vacandi genera. Somno, syncope, humore melancholico, temperata complexione, solitudine, admiratione, castitate vacamus»13. Lo stesso elenco che Bruno ricorderà, con sostanziale fedeltà, nel De monade14; gli stessi modelli ed esempi che modulerà nel Sigillus. Tuttavia, nonostante le corrispondenze – tematiche e lessicali – che stringono insieme Theologia ficiniana e Sigillus, nella sua prima opera londinese, dove ontologia, gnoseologia ed etica si intrecciano in nodi fittissimi, Bruno si muove secondo una impostazione ed una prospettiva assai originali. Anzitutto l’analisi bruniana delle quindici specie di contractio gode di una fondazione teorica estremamente sorvegliata, anticipata com’è da un ragionamento assai denso e complesso, che intreccia gnoseologia e metafisica, e si snoda attraverso un confronto costante con la tradizione neoplatonica, rappresentata per un verso da Plotino, per un altro dallo stesso Ficino. Si tratta di un’analisi serrata dello sviluppo del processo conoscitivo, di cui Bruno sottolinea con la massima energia anche polemica la sostanziale, profonda unità, fondandola su una convinzione di carattere schiettamente metafisico. Infatti, così come l’unità della Mens che feconda tutta la realtà si esplica secondo una pluralità, una molteplicità di gradi, «pro rerum diversitate et multitudine specierum», così anche il processo conoscitivo mantiene la propria unità, pure se distinto in diversi gradi e momenti – sempre omogeneamente, organicamente connessi alla varietà dei gradi generati dalla Mens universale. Il paradigma ontologico si rispecchia in quello gnoseologico, in quanto la Mens agisce in tutte le cose generando, a seconda delle loro capacità, una potenza conoscitiva che è lecito chiamare utilizzando denominazioni e nomenclature diver13. Cfr. ivi, p. 292. Ma cfr. anche p. 295: «Concludamus iam per septem vaticinii species tantam esse humanae animae adversus materiam excellentiam, ut et domito et sopito et semivivo corpore multo clarius videat multoque praestantius operetur, quam corpore operante, quasi ad magnifica quaevis efficienda subsidio corporis non indigeat. Ubi apparet quanta sit animae cum coelestibus concordia, quanta cum Deo cognatio, quae quotiens in se redit, coelestium arcanorum et divinae fit providentiae particeps» (Theol. Plat., XIII, 2). Per il tema della vacatio in Ficino, oltre alle classiche pagine di P. O. Kristeller, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, Le Lettere, Firenze 19882 (ed. or. The Philosophy of Marsilio Ficino, New York 1943), pp. 227-230, 396-398, vd. M. A. Granada, Cosmología, religión y política en el Renacimiento. Ficino, Savonarola, Pomponazzi, Maquiavelo, Anthropos, Barcelona 1988, pp. 104-121; S. Bokdam, La théorie ficinienne de la vacance de l’âme dans la «Theologia Platonica»: songe, prophétie et liberté, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», LVII (1995), 3, pp. 537-549. 14. De monade, BOL I,II 441: «Septem Platonici vacationis genera numerant: 1. Complexionis temperiem. 2. Lucidam et subtilem melancholiam. 3. Solitudinem. 4. Admirationem. 5. Ecstasim. 6. Puritatem. 7. Sommum».

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se, purché si sappia cogliere l’unità sostanziale del processo, e comprendere che in tutte le cose è vivo ed operante l’intelletto, e in modo più intimo di quanto ciascuna cosa riesca ad essere intima a se stessa15. Dissolta la tradizionale immagine di una pluralità di facoltà conoscitive, strutturate secondo una scansione gerarchica, e privilegiando il motivo dell’unità – dell’essere come del conoscere –, Bruno interpreta il rapporto tra le diverse facoltà – che sono da considerarsi come funzioni dell’anima, piuttosto che come sue parti – nei termini di distinzione operativa nella partecipazione comune ad un principio spirituale, ad una potenza cognitiva unica, che si esplica in modi diversi e genera atti differenti, a seconda della natura e della specificità dei soggetti cui essa si comunica. Dunque, «sia sul piano ontologico che su quello gnoseologico è sull’unità che occorre battere per intendere il valore e la funzione fondamentale delle differenze stesse, nell’ambito di un armonico e dinamico ordine universale»16, strutturato su di un ritmo di ascensus e descensus reso possibile dalla continuità fra i vari gradi della realtà, ed aperto all’attività conoscitiva dell’uomo, in quanto parte integrante di esso. Ciò che bisogna fare è ricercare, preparare e produrre in ogni moltitudine l’unità, in ogni diversità l’identità, avverte Bruno, sottolineando che il ricorso ad argomentazioni di carattere metafisico è qui funzionale ad un preciso intento esplicativo e, insieme, metodologico: «ut in omni multitudine unitatem, in omni diversitate identitatem, tentare, meditari et efficere doceamus»17. Infatti, qui... non disponit, quaerit, intelligit et facit unum, nihil disponit, nihil quaerit, nihil intelligit, nihil facit; qui ex multiplici sensu et multiplici cognitionis gradu unum sensum simplicemque unam cognitionem non 15. Sig. sigill., BOL II,II 174-175. E cfr. Lampas trig. stat., BOL III 40-41: «[pater seu mens]... principium... magis intrinsecum est rerum substantiae, et intimius in omnibus ac singulis, quam omnia ac singula esse possunt in se ipsis». Per una analisi di queste pagine del Sigillus cfr. M. Ciliberto, Giordano Bruno, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 35-40; Id., Senso e intelletto nei «Dialoghi» di Bruno, in Sensus-sensatio, VIII Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo (Roma, 6-8 gennaio 1995), Atti a cura di M. L. Bianchi, Olschki, Firenze 1996, pp. 200-205. Vd. inoltre L. De Bernart, Immaginazione e scienza in Giordano Bruno. L’infinito nelle forme dell’esperienza, ETS, Pisa 1986, pp. 15-40; L. Spruit, Il problema della conoscenza in Giordano Bruno, Bibliopolis, Napoli 1988, pp. 99-142. 16. M. Ciliberto, Giordano Bruno, cit., pp. 39-40, a commento del seguente passaggio del Sig. sigill., BOL II,II 179: «Unum ergo proprium subiectum unam simplicem radicem et unum virtuale principium recognoscit. Hinc fiat proportionale iudicium de intellectu primo ad alios intellectus, de primo superiorique cognitionis gradu ad alios cognitionis gradus. Una lux illuminat omnia, una vita vivificat omnia certis gradibus a superioribus ad inferna descendens, et ab infernis ad suprema conscendens; et sicut est in universo, ita est et in universi simulacris». 17. Sig. sigill., BOL II,II 180.

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est adeptus, nullum possidet sensum, nullam cognitionem: qui tandem ipsam non cognoscit et per eam non operatur, nihil cognoscit et nihil operatur. Pro gradibus autem participatae unitatis quidam participative cognoscunt et agunt18.

Coerentemente con l’insistenza sull’unità che connota questa prima sezione del Sigillus, Bruno fa seguire alle battute appena ricordate la presentazione dei diversi generi di contractio, casi eccezionali di intensificazione dell’attività conoscitiva, tutti caratterizzati dal raccogliersi dell’anima in se stessa nel tentativo di attingere tale unità, come se essa si riducesse ad un punto. Analogamente, nel De monade egli paragonerà la virtus della contractio nell’operare effetti straordinari alla forza che acquistano i raggi del sole negli specchi ustori «virtutis unione», raccogliendosi cioè intorno ad un unico centro19. Quello a cui guarda, a cui guarderà sempre Bruno come alla condizione fondamentale per pensare l’unità, per giungere al massimo grado della vita intellettiva, al livello estremo di conoscenza e contemplazione del divino, è questo progressivo raccogliersi dell’anima in se stessa, alla ricerca di un’unità che possa potenziarne le capacità sia conoscitive che operative, ripercorrendo a ritroso il cammino che dal fonte originario giunge fino alla molteplicità degli individui. Così, se l’ascensus è reso possibile dalla continuità fra i vari gradi della realtà, l’identità di natura che lega fra loro le diverse facoltà della conoscenza si pone come la necessaria premessa per muoversi con continuità all’interno di esse. E il rifiuto della conoscenza come scala gerarchica fondata sulla netta distinzione tra facoltà inferiori – legate al corporeo – e facoltà superiori – rivolte verso la mente divina20 – consente in primo luogo a Bruno di unificare, naturalizzandole, sia le contractiones dovute ad affetti, timori o desideri che quelle legate ad esperienze mistico-

18. Ibid. 19. De monade, BOL I,II 348: «Sic specula urentia, ea qua in centrum unum radii colliguntur unionis virtute, efficimus: sic ad omnium efficaciam miraculorum in libro, qui Sigillum Sigillorum dicitur, quindecim contractionis species explicavimus». 20. Cfr. Sig. sigill., BOL II,II 178: «Cur ubi Plotinus dixit inter imaginationem et intellectum geminam primae rationis speciem, alteram speculativam surgentem ad intellectum, alteram activam ad imaginationem potius declinantem, quarum activa semotior est a mente, in labore posita et quodammodo serviens externis, speculativa autem contraria se habet ratione; cur inquam non dixerim, eamdem potentiam hic et nunc passivam, laborantem, declinantem, tunc et ibi adsurgentem, non laborantem et activam?». Dove la critica alla posizione di Plotino (su cui cfr. M. Ficini Opera, cit., II, p. 1568) sembra investire direttamente anche la stessa gerarchia ficiniana delle facoltà.

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ascetiche, ponendo all’origine di tutti questi fenomeni una causa comune, puramente naturale. Attingendo copiosamente agli exempla ficiniani, ma di fatto evitando di riproporre la scansione – e distinzione – fra affectus phantasiae ed affectus rationis, in quanto una e identica è la forza con cui la ratio si eleva alla conoscenza intellettuale o scende ad assoggettarsi ai dati dei sensi e alle immagini della fantasia, Bruno traccia così una casistica variegata di fenomeni che vanno dalla contractio spatialis alla capacità di trascendere i confini dello spazio e del tempo, ai poteri dell’immaginazione transitiva, agli straordinari effetti operativi e terapeutici della fides21, non mancando però di insistere su un punto. Se la conoscenza appare come il manifestarsi di una forza che si diversifica perennemente, a seconda dei soggetti cui si partecipa, anche una forma così alta di esperienza intellettuale non può compiersi nell’uniformità, né garantire necessariamente un esito conoscitivo univoco, un sicuro approdo al fondamento divino da cui tutto si origina. Abbozzando un tema che tornerà poi, rinnovato e ridefinito, nel De vinculis, Bruno sottolinea come, in soggetti diversamente disposti, per effetto di contrazioni simili si possano produrre differenze sostanziali, perché è sempre dalle caratteristiche specifiche – e dalla disposizione – dei singoli individui che possono scaturire il bene o il male, il vizio o la virtù, il ricongiungimento alla purezza della Mens o il permanere in una sfera dominata dalle sollecitazioni dei sensi o dal pullulare delle immagini fantastiche. Questo accade, ad esempio, nel caso della prima contrazione, la contractio loci, prodotta dalla solitudine dell’eremo, e presentata da Ficino come lo stato in cui «animus nullis humanorum negotiorum curis distractus paulo vel numinum vel caelorum momento eadem quotidie cogitat, quae calestia numina cogitant facere»22. Muovendo dall’esame di tale contractio, Bruno segnala da un lato come la forza interiore affinata dalla meditazione e dalla solitudine abbia permesso a figure come Zoroastro, Mosè, Gesù, di giungere a forme superiori di conoscenza e di attingere alla fonte da cui scaturiscono – insieme – i fondamenti della vita civile e la possibilità di istituire nuovi ordini e nuove leggi. D’altro canto, però, opera una distinzione netta fra coloro che si ritirano in 21. Sig. sigill., BOL II,II 180-193. 22. M. Ficini Opera, cit., I, p. 295, dove così si conclude la descrizione della quinta forma di vacatio: «Quod quidem Zoroaster, Magorum princeps, solitudine viginti annorum dicitur assecutus, ubi de omni divinandi arte multa conscripsit et fecit. Similia operatum fuisse Orpheum in Thraciae desertis eius scripta Musaeo declarant» (Theol. Plat., XIII, 2). Su questo punto cfr. inoltre H. Cornelius Agrippa, De occulta philosophia libri tres, ed. by V. Perrone Compagni, Brill, Leiden-New YorkKöln 1992, pp. 569-570.

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luoghi solitari per amore della virtù e della verità e i «solitari disutili»23, che si sono sottratti «a negociorum conversatione», «ut humanum labores et curas fugerent, ocii et gulae amore illectos»24. E, sviluppando questo motivo «antiozioso», concentra la sua critica contro coloro che, contrapponendo all’ozio «positivo» – fecondo e favorevole al consorzio umano – un ozio «perverso», hanno generato «foetus perniciosissimi» per la pacifica, ordinata convivenza civile, insegnando agli uomini a non temere per le loro cattive opere, ed a confidare piuttosto in «nescio quibus sordidissimis... phantasiis, ad quas magis et certas (iuxta tam varia et dissepta eorum dogmata) de Cerere et Baccho credulitates, quam ad benefacta, Dii retributores respiciant»25. Prendendo le mosse dalla prima specie di contractio ed intrecciando terreno conoscitivo ed etico-religioso, qui, per la prima volta, Bruno colora le sue tesi di un chiaro significato rivolto contro i riformati, che alla considerazione e al riconoscimento positivo dell’opera dell’uomo sostituiscono fantasie malvagie, da cui il mondo è nuovamente respinto in quello stato di barbarie che, faticosamente, grazie all’opera delle leggi, aveva superato. Al di là delle loro differenze dottrinali, dei loro discordi e dissonanti catechismi, gli uomini della Riforma operano in modo concorde per dissolvere la comunità civile, esaltando l’ozio e deprimendo il valore della fatica e delle opere buone. E perciò vanno – biblicamente – combattuti e sterminati come zizzania, bruchi, locuste26. Si tratta di motivi e toni che cominciano a dischiudere le prospettive teoriche ed etico-politiche poi messe così lucidamente a fuoco nello Spaccio, dove, significativamente, si alluderà alle concezioni luterane, riprendendo alla lettera – ma in una prospettiva ben altrimenti matura – le stesse espressioni – «fantasma», «apparizione di turbata fantasia», «ociose credenze e fantasie» – già apparse nel Sigillus, nel quadro di una critica certo ancora sommaria e sintetica delle posizioni riformate27. E si tratta di espressioni che precedono immediatamente un nuovo anate-

23. Cfr. Spaccio, BDI 658: «Non faccia che colui che doma vanamente il corpo, sieda vicino a colui ch’affrena l’ingegno; non pona in comparazione questo solitario disutile con quello di profittevole conversazione». 24. Sig. sigill., BOL II,II 181. 25. Ivi, pp. 181-182. 26. Ivi, p. 182: «Hos sane exterminandos eque medio, tamquam seculi zizanias, erucas atque locustas, immo veluti scorpiones atque viperas, tollendos funditus, sicut illos ocio, avaritia et ambitione luxuriantes castrandos esse venefico antidotarium tempus succedens, seroque suo malo sapiens mundus iudicabit». 27. Per l’uso di questo lessico nello Spaccio cfr. BDI 624, 655, 664, 746-747.

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ma, anch’esso ricalcato sul tono ed il lessico alto, solennemente profetico del Sigillus28. Sul rapporto fra Sigillus e Spaccio si potrebbe insistere ancora. Tuttavia, un altro punto mi sembra debba essere ora messo in evidenza: nel Sigillus la critica bruniana alle forme «depravate» di contrazione non si limita solo ai luterani, ma si estende anche alle forme «malinconiche» e degenerate della spiritualità cattolica, all’ascetismo controriformistico, a quelle pessime specie di tensione spirituale, che inducono uomini stolti a compiere una vera violenza su se stessi pur di attingere un presunto contatto con il divino. Riprendendo e curvando nettamente in direzione della polemica religiosa le osservazioni ficiniane dedicate alla vacatio nel sonno – e più precisamente agli insomnia vana, privi di qualsiasi valore di vaticinio –29, 28. Spaccio, BDI 624-625: «Oltre, mentre dicono ogni lor cura essere circa cose invisibili, le quali né essi, né altri mai intesero, dicono ch’alla consecuzion di quelle basta il solo destino, il quale è immutabile, mediante certi affetti interiori e fantasie, de quali massimamente gli dei si pascano... Ma gli altri che credeno il contrario, possono giuridicamente, secondo la lor conscienza, non solamente essere a lor molesti; ma, oltre, stimar gran sacrificio a gli dei e beneficio al mondo di perseguitarli, ammazzarle e spengerli da la terra, perché son peggiori che li bruchi e le locuste sterili e quelle arpie le quali non opravano nulla di buono, ma solamente que’ beni che non posseano vorare, strapazzavano ed insporcavano con gli piedi, e faceano impedimento a quei che s’esercitavano... De tutti quanti, dunque, che diversamente credeno ed insegnano, disse Apollo, questi soli son meritevoli d’esser perseguitati dal cielo e da la terra, ed esterminati come peste del mondo, e non son più degni di misericordia che gli lupi, orsi e serpenti, nel spenger de quali consiste opra meritoria e degna: anzi tanto incomparabilmente meritarà piú chi le toglierà, quanto pestilenza e ruina maggiore apportano questi che quelli». Cfr. inoltre Firpo, Processo, pp. 178-179: «Io ho sempre tenuto et tengo che siano necessarie per la salute le buone opere; et che ciò sia vero, leggasi il mio libro intitolato De causa, principio et uno, overo De infinito, universo et mondo, fol. 19, dial. primo, che se vederà che io dico in particular queste parole, oltra molte altre cose, per comprobatione che le opere oltra la fede siano necessarie alla salute; dove dico: “questa spetie de religiosi, li quali insegnano li popoli a confidare senza l’opera, la quale è fine de tutte le religioni, essere più degna di essere estirpata dalla terra che serpi, draghi et altri animali pernitiosi alla natura humana; perché li popoli barbari per tal confidenza devengono più barbari, et quelli che sono naturalmente buoni devengono cattivi, così persuasi”, volendo io intendere, quando dico “religiosi”, tali religiosi, che cusì si chiamano tra loro, religione reformata, essendo diformatissima». 29. Cfr. M. Ficini Opera, cit., I, p. 292, che riprende un celebre passo della Repubblica: «Talibus insomniis homines illi solent illudi, qui voluptuosae vitae dediti ad ea quae movent sensus vehementer afficiunt, et phantasiam ad haec vel tanquam bona adsciscenda vel tanquam mala reiicienda affigunt acerrime; quo fit ut eorum reliquiae phantasiam turbent in somnis. Accedit quod, nimio gravati cibo vel potu, phantasiam in somno expeditam habent nunquam... In iis quoque propter vini calorem, incitata virtute genitalis seminis expultrice, moventur imagines amatae personae quas servat phantasia, unde cogitatur amplexus. Ex iis rationibus Plato in

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Bruno presenta come una specie «miseranda», «inmunda» di contractio quella che vediamo compiersi «in quibusdam rudibus, spurcis et hypocritunculis», i quali, tormentati e turbati da una bile «plus atra et crassa»30 di quanto sia conveniente – e lecito – in natura, che li conduce al massimo turbamento della facoltà fantastica, vincolandosi ad un atto estremamente forte della cogitativa, «venereas foedasque captant voluptates»31. Questa stessa forma di malinconia «pessime olens» agisce in quegli «apocalyptici» che tentano di procurarsi, attraverso il turbamento volontario dei propri sensi interni, «futiles et pecudinas quasdam revelationes... quae e porcinae eorumdem phantasiae perturbatione proficiscuntur»32. In questo caso, ci troviamo di fronte semplicemente ad un altro tipo di delectatio, ad un modo diverso, ma tanto più pericoloso di provare piacere, in quanto costoro, presentandosi come profeti e maestri di pietà, non fanno che nutrire ed alimentare la più turpe stoltezza della massa ignorante e asinina. All’origine dei fenomeni più alti di misticismo – dalla contemplazione estatica al prodursi del fenomeno delle stimmate – Bruno pone una identica causa, un perturbamento volontario della fantasia, una alterazione dei rapporti fra corpo e spiritus ottenuta grazie al ricorso ad una alimentazione diversa da quella che la propria natura richiederebbe, volta a produrre una complessione artificialmente, viziosamente saturnina. Ma un punto degno di essere ulteriormente sottolineato riguarda l’identificazione compiuta nel Sigillus della causa delle visioni ed estasi mistiche del cristiano con l’inganno di demoni. E sferzante è qui la polemica bruniana contro un tipo di misticismo che di fatto scende, nelle sue pratiche, al livello di tecniche magiche o demoniche, che danno l’illusione del colloquio e della comunicazione con divinità solo immaginarie33. I pessimi malinconici, infatti, «ut nulla nono libro de Republica concludit rationem saepe in somno usque adeo occupari, ut non libere influxus superiores persentiat» (Theol. Plat., XIII, 2). 30. Cfr. M. Ficinus, Three Books on Life, A Critical Edition and Translation with Introduction and Notes by C.V. Kaske and J.R. Clark, Medieval & Renaissance Texts & Studies-The Renaissance Society of America, Binghamton 1989, p. 366: «Alioquin influxus illius [scil. Saturni] importune susceptus in materia praesertim crassa fit quasi venenum, sicut et ovum putrefactione vel adustione fit venenosum, unde nascuntur vel evadunt immundi quidam, ignavi, tristes, invidi, daemonibus immundis expositi. Quorum commercium procul effugito». 31. Sig. sigill., BOL II,II 187-189. 32. Ivi, p. 187. 33. Per l’accostamento fra tecniche contemplative ed ars notoria cfr. Lampas trig. stat., BOL III 7: «Octava proportionatur Arti notoriae, quae ipsa Ars notoria est, qua quidem repente, non proprio, sed alieno ingenio fient sapientes; unde non illi, sed alius in ipsis noscit et operatur Calo– et Cacodaemon»; Thes. de magia, BOL

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ad extasim contrectandam desit occasio», meditando con grande intensità su un mistero della Croce qui trasfigurato con intenzione blasfema «ad alicuius Adonidis mortem», si abbandonano e si congiungono, in virtù di uno spirito ormai completamente turbato, a qualcuno «de immundis spiritibus irrisoribus intelligentiae», pur credendo di essersi finalmente sollevati ad una visione mistica densa di capacità divinatorie, al colloquio aperto con la divinità, tanto da poter «ea audire et percepire quae numquam in eorum cogitationem cadere potuissent»34. È grazie a tali forme superstiziose di contemplazione che i creduli, i simplices – e qui il lessico bruniano non potrebbe essere più esplicito – pensano di esser divenuti ad un tratto sapienti, profeti, «magni theologi et linguarum omnium periti». Ma, ribadisce Bruno, che già – contro Ficino – aveva espresso il suo scetticismo sull’ispirazione di quei Galilei ignoranti, «qui repente in summos evasere theologos»35, lo sono non certo in virtù di un sapere superiore attinto grazie alle modificazioni subite dal loro spiritus, quanto grazie all’intervento di demoni. Del resto – aggiunge – tali operazioni mai coinvolgono uomini dotati di «nobilioribus animis ingegniisque felicioribus», in grado di far riflettere l’atto proprio dell’immaginazione sopra l’oggetto fantastico36. La specie deteriore di contrazione riposa infatti non su quella forma di malinconia «temperatior», che vediamo al servizio degli ingegni più divini, in grado di levarsi al di sopra di essa grazie alla forza della facoltà cogitativa, quanto, piuttosto, su di una malinconia di ben III 488: «Practicant hanc rationem contemplatores et apocalyptici quidam et artis notoriae et propheticae professores et theurgi, qui certa victus ratione et certis meditationibus praeviis animum ad certum pietatis genus disponunt, promovent et habituant, ut tandem stultissimi putant se quorundam tragicorum numinum perfrui colloquio, et mira quaedam vident et referunt, talia tamen qualia ad stultitiam et pessimum maniae genus sint referenda». Vd. inoltre infra, pp. 249-250. 34. Cfr., per una possibile, ulteriore suggestione ficiniana su questo punto, M. Ficini Opera, cit., I, p. 295: «Sexta fit ab admiratione vacatio. Sibyllae et Pythiae sacerdotes, cum secederent in Iovis aut Apollinis antrum, ubi numen ipsum adesse credebant, tanto admirationis venerationisque stupore de maiestate numinis cogitabant, ut sensus, phantasia, ratioque actus suos illico praetermitterent. Tunc mens soli exposita numini, sive Deus ille fuerit, sive daemon, supernos persentiebat nutus» (Theol. Plat., XIII, 2). 35. Ivi, p. 287: «Galilaei quoque nonnulli olim subito inspirante Deo ex piscatoribus summi evasere theologi»; Sig. sigill., BOL II,II 169: «Et vix capio mysterium de quibusdam Galilaeis, qui repente in summos evasere theologos, et alios manuum impositione in eamdem sufficientiam promovebant». 36. Cfr. Thes. de magia, BOL III 485: «Anima enim vegetior et minus in corpore consopita habet potentem iudicii et operationis reflexionem super illas [scil. species phantasiabiles], distinguens vera ab apparentibus et sensum ancipitem a definito et certo».

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diversa qualità, propria di coloro che, per una sorta di debolezza intellettuale, sembrano affondare nel grembo di una materia più crassa. Bruno tratteggia qui – modulandola in direzione nettamente religiosa – la contrapposizione fra due tipi fondamentali di conoscenza che, se si basa da un lato su precise dottrine mediche tutt’altro che ignote allo stesso Ficino37, insiste dall’altro sul fatto che i processi di ricezione che caratterizzano la nostra conoscenza possono e debbono essere regolati dall’uomo, con il rischio costante, in caso contrario, di confondere visioni, sogni e allucinazioni di origine maligna con rivelazioni ed ispirazioni divine. Come sono possibili due esiti diversi – ed opposti – della malinconia, così esistono due tipi fondamentali di contractio, in rapporto ai quali gioca un ruolo essenziale la nostra disposizione e capacità di controllare il momento passivo della conoscenza, vale a dire l’ingresso nell’anima dei fantasmi dell’immaginazione. Si capisce quindi perché alle forme perverse di contractio Bruno contrapponga la «laudabilissima contractio», la forza imperturbabile del filosofo, in grado di dominare e vincolare – grazie alla potenza dell’intelletto – la forza dell’immaginazione, fino a farsi «perfecte beatus». Ma alle forme «vituperose», generate dall’ozio o dalla malinconia, egli contrappone anche – valorizzandola per contrasto – la contractio virtuosa di Tommaso d’Aquino, che, grazie alla straordinaria energia speculativa del suo animo, «cum collectis animi viribus in imaginatum coelum raperetur, adeo in unum spiritus animalis sensitivus atque motivus est collectus, ut corpus a terra in aerem vacuum tolleretur»38. Negando il carattere miracoloso dell’estasi di Tommaso, come vorrebbero invece i meno eruditi, forti della loro profonda e presuntuosa ignoranza, Bruno – facendo il nome di Zoroastro –39 ne sottolinea la possibilità sul piano della mera potenza naturale dell’animo, e non manca di insinuare: «Nescio an ad istam contractionis speciem referri velint domini theolo37. Per il motivo della malinconia in Ficino cfr. M. Ficini Opera, cit., I, pp. 287, 294; M. Ficinus, Three Books on Life, cit., pp. 108-136. Per tutti questi temi, incluso il motivo della duplice malinconia, vd. naturalmente R. Klibansky – E. Panofsky – F. Saxl, Saturno e la malinconia, Einaudi, Torino 1983 (ed. or. Saturn and Melancholy, London 1964). 38. Sig. sigill., BOL II,II 191. 39. Cfr. M. Ficini Opera, cit., I, pp. 302-303: «Putant Chaldaei posse insuper aliud quiddam ab anima mirabile fieri, ut scilicet radiis effusis in corpus suum ipsum lumine circundat et radiorum levitate tollat in altum. Quod in seipso fecisse patrem eorum Zoroastrem nonnulli referunt... Tali quodam igneo curru Magi atque Platonici Heliam Paulumque raptos in caelum fuisse dicerent, ac demum post mundi iudicium corpus, quod nostri glorificatum nominant, similiter raptum iri» (Theol. Plat., XIII, 4).

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gi raptum Pauli, quem et ipse non satis novit an in corpore an extra corpus fuerit»40. Una annotazione, questa relativa all’ascesa paolina, in cui Bruno attinge, modificandolo in senso limitativo attraverso la sostituzione del coelum imaginatum al coelum intellectuale, ad un passaggio del commento ficiniano a Enneadi I, IV, dove tale ascesa era collegata al congiungimento con l’intelletto plotiniano41. Ed una annotazione – giova ricordarlo – che sarà poi curvata nella Cabala nella direzione dell’aperta irrisione e del dileggio42. Dunque, la contractio può essere ‘virtuosa’ o perversa: può spingere la conoscenza – del sapiente come dell’umanità intera – verso la luce o verso le tenebre, verso una sapienza più alta o verso la peggiore e più corrotta ignoranza. Dipende dalla disposizione, dalla capacità e dalla responsabilità di ognuno. E questo perché il discrimine tra la buona e la cattiva contractio poggia su quelle facoltà intermedie, cerniere fra sensibile ed intelligibile da cui non è possibile prescindere nella conoscenza, che – lungi dal rendere possibile un immediato contatto con il divino – sono piuttosto chiamate a regolare e dirigere le facoltà più alte del conoscere assicurando una corrispondenza non illusoria fra dati della percezione e realtà. È attraverso l’opera40. Sig. sigill., BOL II,II 191. 41. Cfr. M. Ficini Opera, cit., II, p. 1568: «Intellectus communis et agens intellectui proprio rursus agenti [praeest], hic autem rationi, quasi iam patienti, ut inter agens commune patiensque proprium rite proprium agens medium sortiatur. Hinc itaque fit ut animus ad summum quandoque in se revocatus inveniat statim nondum inventa, et saepe vaticinetur, et opera omnibus miranda perficiat; quippe cum subito in mentem propriam revertatur, quae divina quadam virtute pollet, cui omnia patent. Sed de his in Theologia latissime disputamus. Ad hunc itaque intellectum, velut ad tertium, scilicet intellectuale, coelum super coelum imaginale atque rationale Plotinus forsan diceret Paulum ascendisse, et Moysen in hunc montem, et eiusmodi angelum prophetis plurima nuntiasse. Neque enim decere ad nos descendere numina, neque oportet animum divina visurum loca mutare: satis enim esse ad mentem et divina converti» (In Enneades, I, IV, 9). E sul rapporto animacorpo nel ratto di Paolo, vd. ancora ivi, I, p. 304: «Opinor... viri omnino abstracti corpus eo ipso in tempore brevissimo, quo est angelicus animus, per virtutem idoli antea consuetam neque moveri, neque sustineri, neque etiam contineri. Quod si moveatur vel sustineatur vel contineatur, id fieri arbitror per illud animae centrum, quam paulo ante unitatem vocavimus animae a Deo tributam, per quam Deo omnium centro et purae unitati concilietur, per quam non modo elementa corporis huius, sed etiam mundi conciliet, per quam solam posse Deum attingi sic aperuit Zoroaster: “Est intelligibile aliquid, quod intelligere te oportet mentis flore”. Florem mentis appellat Zoroaster ipsum animae centrum, quod Plato nominat mentis caput. Sententiam hanc nostram illud Pauli divini theologi confirmare videtur, quod inquit animum Deo raptum nec esse evidenter in corpore nec extra corpus, videlicet quia non insit corpori per idolum, sed adsit per centrum» (Theol. Plat., XIII, 5). 42. Cfr. Cabala, BDI 857.

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to di tali facoltà che si decide del tipo di fides da perseguire, e della possibilità di attingere o meno la forma più alta di contemplazione, quel contatto con il divino che è appunto il ‘sigillo’ della «buona contrazione», e che consente all’uomo di farsi ricetto della divinità nella forma più alta a lui concessa. Altrimenti, egli rischia di rimanere vittima dell’illusione del colloquio con divinità meramente immaginarie. Ed è un’illusione che si trasforma, in realtà, nella disposizione a farsi preda e vittima di potenze demoniche. Ed è questo un punto sul quale – a conferma della sua centralità – Bruno ritorna più volte, insistendo, nel Sigillus. Lo fa in primo luogo nella Quarta cautela – secondo un modulo che tornerà significativamente nel cuore dei Furori, collegato alla presentazione dei caratteri del furore ‘eroico’ –, sottolineando come l’uomo sia costantemente travolto dalle cose del mondo, che pure cerca di penetrare e dominare con la propria conoscenza43. Lo ribadisce nell’esortazione che chiude l’elenco delle diverse specie di contractio, dove leggiamo: Ex his habes contemplandi locum, quot modis frugaliter, inutiliter et perniciose spiritum contrahere, vires accire, animum intendere ad speculandum, speculata intelligendum et intellecta retinendum, novasque per temet formandum et concipiendum impressiones valeas... Illud tamen importunius spectandum, ut maxime caveas, ne in phantasmata nimium incurrens, nec velut ea comprehendens, sed potius tamquam ab iisdem comprehensus... in eorum numero, qui aguntur potius quam agant, te constituas44 .

E prosegue, insistendo sul punto che più gli interessa: «Tales diximus, qui victus ratione, solitudine, silentio, umbra, perunctione, flagris, calore, frigore vel tepore, spiritu hinc contracto, inde abacto, vana phantasmatum meditatione perturbata phantasia, miserabilem 43. Sig. sigill., BOL II,II 171: «A Circaeis demum veluti poculis abstinentes, caveamus ne animus a sensibilibus speciebus illectus, ita sui in ipsis fixionem faciat, ut intelligibilis vitae privetur delitiis, vinoque affectuum corporeorum et vulgaris authoritatis (quae cum pulsaverit aures sine divino vel rationis lumine, non absque aeternae vitae discrimine in nobilissimum consensus nostri triclinum introducitur) ebrius, perpetuo in praesumptuoso ignorantiae domicilio titubando pernoctet, ibidemque turbatae phantasiae velut insomniis exagitatus, amissis connatis alis intelligentiae, proruat, et Protei contemplatus vultum, nunquam concinne formatam, in qua conquiescat, speciem inveniat». Per la presenza di questo motivo nei Furori, cfr. BDI 988-989: «Non è furor d’atra bile che fuor di conseglio, raggione ed atti di prudenza lo faccia vagare guidato dal caso e rapito dalla disordinata tempesta... Non come inebriato da le tazze di Circe va cespitando ed urtando or in questo, or in quell’altro fosso, or a questo or a quell’altro scoglio; o come un Proteo vago or in questa, or in quell’altra faccia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo, né materia di fermarsi e stabilirsi». 44. Sig. sigill., BOL II,II 193.

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incurrunt insensationem»45. Infine, Bruno torna ancora ad insistere su questo punto nel breve abbozzo De magia, posto all’interno della sezione dedicata ai quattro rectores dell’attività intellettuale. Se infatti il Nolano indica qui nella potenza naturale della magia la guida più alta per gli uomini, si affretta però a sottolineare che si tratta non di quella magia che, agendo attraverso la forza della credulitas «vel per alias non laudabiles contractionis species», si configura necessariamente come mortificazione dei sensi, credulità, oscuramento demoniaco della ragione, estrinsecità rispetto a se stessi, quanto, piuttosto, di quella azione magica che, fondata sulla «regulata fides et alias laudandas contractionis species» può fortificare e garantire certezza ai sensi, scoprendo i segreti legami e le intime affinità delle cose, e costituendosi come ars consummatissima, non solo emula e socia della natura, ma sua rettrice e governatrice per dirigerne e dominarne le forze nel modo più efficace46. Nel Sigillus la polemica contro una accettazione passiva del divino, che comporti e si traduca in una svalutazione del conoscere e dell’operare umano, non resta dunque spunto isolato, ma si sviluppa in un articolato, argomentato rifiuto della ricerca di una comunione con il divino che si risolva in un turbamento delle facoltà conoscitive dell’uomo, nella contrapposizione della regulata fides alla credulitas, nell’esortazione a non essere preda, ma padroni della propria immaginazione, nell’invito insomma a non collocarsi fra coloro che «aguntur potius quam agant». È una possibilità che riposa concretamente sull’uomo quella di decidere se essere preda o padrone della propria vita fantastica, se cadere in una condizione ferina o elevarsi a livelli via via più alti di conoscenza. Si tratta di motivi cruciali nel pensiero di Bruno, destinati a tornare – variamente declinati e ricomposti, intrecciati a tematiche diverse e diversamente rilevanti – sia nei dialoghi italiani che nelle opere magiche degli ultimi anni. Anzitutto, l’incidenza della teoria della contractio appare particolarmente significativa negli Eroici furori, dove la menzione esplicita del «libro De’ trenta sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazione» è collocata in un luogo strategico, precedendo immediatamente le celebri battute sull’identità tra facere e fieri al livello supremo del conoscere, «atteso che veder la divinità è l’esser visto da quella, come il vedere il sole concorre con l’esser visto dal sole»47. Un nesso, quello fra Sigillus e Furori, che – a 45. Ibid. 46. Ivi, p. 198-199. 47. Furori, BDI 1091-1092: «È tanta la virtù della contemplazione (come nota Iamblico) che accade tal volta non solo che l’anima ripose da gli atti inferiori, ma, ed oltre, lascie il corpo a fatto. Il che non voglio intendere altrimente che in tante

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partire dalle indicazioni di Felice Tocco – non è sfuggito all’attenzione della critica: e studiosi autorevoli hanno insistito con forza su questo punto anche in anni recenti48. Ma non meno significativi appaiono i rapporti del Sigillus con lo Spaccio e la Cabala, dove il tema di una passività che si accompagna con la pretesa di una ispirazione superiore si lega – secondo moduli e forme che non è possibile ripercorrere qui analiticamente – alla ricerca delle fonti autentiche del sapere e della morale, dei criteri per distinguere la corretta conoscenza filosofica, civile, religiosa dalle illusioni pericolose, dagli inganni fantastici creati da una sapienza deteriore germinata sul terreno di una malinconia «fatta antro al Genio perverso», ed intrinsecamente legata all’esperienza cristiana, soprattutto nella versione datane dalla Riforma. Anche nelle più tarde testimonianze della ‘musa Nolana’ – le opere magiche degli ultimi anni – tornano alcune delle problematiche gnoseologiche messe a fuoco nell’opera londinese, ormai intrecciate con una riflessione sui caratteri ed il primato operativo della magia, arte suprema, in grado di attivare le infinite potenzialità contenute nell’anima mundi, e strumento privilegiato per vincolare ed indirizzare la volontà degli uomini. Temi ed immagini del Sigillus, insieme ad alcuni degli sviluppi testimoniati dai dialoghi morali, tornano così nel De vinculis, dove Bruno identifica le condizioni corporee della vincolabilità rispetto a Venere in quelle – tipiche della vacatio – caratterizzate da «intumescentia vasa», «tranquillus animus», «mens quieta», «corpus otiosum»; insiste sull’«humor melancholicus et ventosus» come naturale terreno di incontro fra uomini e demoni; constata l’impossibilità di coniugare «homines bestiales» ed «heroica vincula»; ribadisce la dissimmetria fra forza del vincolo ed effettiva esistenza delle cause vincolanti. È questo il caso della devozione che ci lega «supernis et immaterialibus, imo imaginariis et non repertis», così come delle pene di quell’inferno dell’immaginazione, già evocato da Ficino nel XVIII libro della Theologia Platonica : «Potest enim imaginatio sine veritate vere vincire, et per imaginationem vincibile vere obligare... Habet enim sua species phantastica veritatem, unde sequitur quod et vere agat, et maniere, quali sono esplicate nel libro De’ trenta sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazione, de quali alcuni vituperosa –, altre eroicamente fanno che non s’apprenda tema di morte, non si soffrisca dolor di corpo, non si sentano impedimenti di piaceri; onde la speranza, la gioia e gli diletti del spirto superiore siano di tal sorte intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano aver origine da dubbio, dolore e tristezza alcuna». 48. Cfr. F. Tocco, Le opere latine di Giordano Bruno, cit., pp. 362-373; R. Sturlese, Le fonti del «Sigillus sigillorum» del Bruno, cit., pp. 111, 125-130, 150-161.

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vere atque potentissime per eam vincibile obstringatur»49. E soprattutto, qui nel De vinculis, Bruno torna a battere sulla distinzione e lo scarto che corre fra un vincolo ‘superiore’, proprio del filosofo, ed uno ‘inferiore’, che affonda le sue radici nella credulitas. Il ragionamento di Bruno prende le mosse dalla considerazione che la natura non permette che gli uomini si incatenino saldamente ad un solo oggetto, preferendo distribuire con la massima varietà i suoi lacci di bellezza e di bontà, ed offrirli distintamente e separatamente «iuxta partium materiae numeros». Dunque, lasciarsi avvincere in maniera perenne o esclusiva da un solo vincolo costituisce un esperienza rara – ed estrema. Si capisce dunque perché tornino qui i lemmi e gli esempi – ficiniani – già utilizzati nel Sigillus per descrivere la laudabilissima contractio dei filosofi, «quando quis altitudine speculationis ita a corporeis affectibus semovetur, ut minime sentiat dolorem»50. Tuttavia, se nel Sigillus venivano lodate con toni ugualmente positivi esperienze pure dissimili come quelle di Anassarco, di Epicuro o dei martiri cristiani, diversa è nel De vinculis la curvatura del ragionamento. Qui l’accento batte, piuttosto che sul tema dell’unità, sulla descrizione di una realtà tramata da infinite differenze, dominata dal motivo della varietas, della difformità, dove il vincolo di un’unica bellezza non indica un percorso omogeneo e lineare, né si risolve necessariamente nell’intreccio di eximia virtus e summum bonum. Allo stoicismo dei martiri cristiani ed al fanatismo di coloro che – «spe vitae aeternae et quadam vivacitate fidei vel credulitatis» – si lasciano catturare e trascinare fino ad esiti tragici e violenti dall’unico oggetto dei loro pensieri e fantasie, fa così da contrappunto l’heroica voluptas raggiunta da Diogene Cinico e da Epicuro, avvinti e guidati da un’etica del distacco severo da tutti quei piaceri in cui si incarna il vincolo naturale della bellezza51. Ma la distinzione, delineata nel Sigillus, fra generi lodevoli e deteriori di contractio è ripresa soprattutto in alcuni passaggi del De magia e delle Theses de magia, dove la polemica bruniana contro l’attesa passiva di un contatto con la divinità viene coniugandosi, mediante la trascrizione fedele della pagina del Sigillus dedicata alle tecniche di contemplazione degli «apocalyptici», con la condanna del tentativo di godere del colloquio «quorundam tragicorum numinum», utilizzando moduli di comunicazione sostanzialmente omogenei alla 49. De vinculis, BOL III 683; M. Ficini Opera, cit., I, pp. 420-421 (Theol. Plat., XVIII, 10). 50. Sig. sigill., BOL II,II 192. 51. Cfr. De vinculis, BOL III 657. Per il nesso fra Sigillus e De vinculis su questo punto vd. inoltre E. Scapparone - N. Tirinnanzi, Giordano Bruno e la composizione del «De vinculis», «Rinascimento», n.s., XXXVII (1997), pp. 163-164.

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«magia desperatorum», alle più torbide pratiche dell’ars notoria e della teurgia: «et mira quaedam vident et referunt, talia tamen qualia ad stultitiam et pessimum maniae genus sint referenda»52. Nelle pagine conclusive del De magia, come è noto, si pone in maniera decisiva il problema di come la phantasia53, produttrice delle species internae, trasmetta alla «profundiori potentiae, quae est cogitativa» – e dalla quale germina, con l’assenso, il vincolo della fides – dati reali e non illusori, dal momento che tutto ciò che accade al di sotto della cogitativa – investendo direttamente il nesso anima-corpo e collocandosi nella neutralità della dimensione prerazionale – può essere modificato, corrotto e depravato54. Le condizioni che rendono possibili gli interventi ed efficaci i vincoli magici includono infatti la possibilità di falsificazione dei dati della conoscenza sensibile a partire dalla phantasia, costringendo la cogitativa a dare il proprio assenso e ad elevare a rango di realtà oggettive le immagini plasmate dalla facoltà fantastica, permettendo così l’ingresso nell’anima di ogni sorta di visioni e rivelazioni, anche di natura demoniaca: «Unde energumeni quidam videre sibi videntur quaedam spectacula et audire quasdam voces et sententias, quas putant vere ab externis subiectis insinuari, unde importunissime et constantissime asseverant se vera vidisse et vera audisse, ubi nimirum non sensus eorum decipitur, sed ratio»55. Ma l’immaginazione, «quae est sola porta omnium affectuum internorum et est vinculum vinculorum»56, opera tanto in coloro che, ponendosi in atteggiamento passivo rispetto a qualsiasi immagine interiore, permettono che essa eserciti il suo potere in modo incontrollato su tutte le facoltà, quanto nel sapiente che sappia dominarne la forza, vincolandola al senso della realtà, e dirigendo egli stesso lo sviluppo del suo pensiero a partire dal momento immaginativo. Coloro che sono capaci di di52. Thes. de magia, BOL III 488. 53. Ivi, p. 482: «Sub nomine phantasiae accipimus generaliter omnem potentiam sensitivam internam quae est ante cogitativam, nempe ut includit etiam sensum communem». 54. Cfr. De magia, BOL III 454: «Tota immutatio originaliter est in potentiis ante cogitativam, effective autem et principaliter a cogitativa. Inde omnis vis magica activa et passiva, et vinculis magicis species eousque subiiciuntur»; Thes. de magia, BOL III 482: «A cogitatione igitur seu cogitativa potentia incipit actus reflexus cognoscitivae potentiae, et eius est vinciri primo et proprie in erroribus opinionis». 55. De magia, BOL III 449. 56. Ivi, p. 452: «Omnibus hisce modis cum contingat vinciri et obligari sensum, medico seu mago maxime insistendum est circa opus phantasiae; hoc enim est porta et praecipuus aditus ad actiones et passiones affectusque universos, qui sunt in animali; et ex hac alligatione sequitur alligatio profundioris potentiae, quae est cogitativa».

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stinguere fra attività fantastica regolata ed «inordinata phantasia», scrive Bruno, riprendendo la distinzione fra uomini acti ed uomini agentes, «plus agunt in species phantasiabiles, quam a speciebus phantasiabilibus patiantur»57. Gli spiriti furiosi, irrazionali, saturnini che, vincolando a sé alcuni uomini, li rendono «pios, sanctos, in caelum suspirantes et seculi huius statum deplorantes», così come gli spettri che incatenano e colpiscono «idiotae, stulti, creduli et superstitiosuli», non hanno alcun effetto sugli ingegni ben disciplinati, su coloro «quorum spiritus seu animus, licet tangatur corporeis quibusdam affectionibus, non tamen penetratur, vincitur, sed per vegetam mentis virtutem altius sapit, ut non solum sit immunis a turbationibus stultorum, sed etiam a vulgi trepidatione, non credens quae illud credit, non timens quae illud formidat, contemnens ea in quae illud inhiat»58. «Horum habitus et conditio – prosegue Bruno, riferendosi in questo caso agli esempi classici di Zoroastro, Socrate e Democrito – a conditione cogitativae consequitur, quae non a turbulento spiritu insistente, sed a divino aliquo irradiante, illuminante et assistente regebatur»59. Ed è sullo sfondo di questo ragionamento che credo debba essere interpretato anche l’aspro attacco rivolto nel De magia a coloro che – qui incarnati dal «medicus pinguissimae Minervae» Levinus Lemnius – si fermano ad una spiegazione puramente fisiologica dei fenomeni legati ai turbamenti della fantasia, riconducendoli «ad maniam et melancholiam», e concludendo che gli spiriti che ne sono alla base «nihil aliud esse quam humores»60. La spiegazione propria della letteratura medica, tutta all’interno della tradizionale dottrina degli umori, appare a Bruno altrettanto unilaterale ed insufficiente di quella fatta propria dai teologi, che chiamano in causa unicamente l’operato di un «purum efficiens daemoniaci seu diabolici generis». È solo a partire da una determinata, specifica condizione organica – dominata da quell’humor melancholicus «quem saturnalium daemoniorum popinam seu balneum appellamus» – che può germinare l’intervento demoniaco, che si generano quegli «energumeni», «qui supra proprium ingenium variis loquuntur linguis et habitum variarum scientiarum demonstrant». E, chiarisce Bruno, insistendo sul ruolo che le condizioni materiali operano nei confronti dell’agente: Sicut ergo ad definitum semen in definito loco congrue expositum definita veluti accurrit anima, aut ex ipso velut emergens certam animalis formam 57. 58. 59. 60.

Thes. de magia, BOL III 485. Ivi, p. 484. Ivi, pp. 484-485. De magia, BOL III 451-452.

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vel viventis producit et emergere facit, ut ex hoc semine nascatur oliva, ex illo canis, ex illo homo, item in hoc corpore ita vel ita complexionato commodius nascuntur haec, commodius vero illa...; ita ex certa cordis vel cerebri vel spiritus animalis temperie et complexione, intemperie vel perturbatione, quasi in proprio campo et ex proprio semine, boni vel mali spiritus et principia intentionum enascuntur61.

Se «talia corpora tales animas, tales animae talia corpora in consistentiam producunt», è ancora una volta intorno alla condizione (e alla complessione) del malinconico e alla distinzione fra «le più specie de furori» e di influenze, che si determina – oltre che il terreno di azione proprio del mago –62 anche la linea di separazione che distingue l’uomo in grado di attingere poteri superiori dall’invasato63. Una dispositio dunque all’ascensus o al descensus, a lasciarsi incatenare da vincoli supremi o infimi, nella quale le passioni e le affezioni del corpo rivestono un ruolo non marginale, in quanto il corpo rimane pur sempre un tramite inevitabile e necessario per il costituirsi di ogni forma di conoscenza umana. Di conoscenza, ma anche – in prospettiva – di religione e di moralità, come testimonia quel lungo, polemico passaggio delle Theses de magia, nel quale le indicazioni per costruire o modificare la propria complessione e disposizione «certa victus ratione et certis meditationibus», lungi dal tracciare un semplice percorso fra follia e sapienza, fra «energumenus» ed «homo perfectus», si legano ancora una volta in modo esplicito e diretto – e ne fanno fede alcuni lemmi tipici della polemica religiosa bruniana – alla individuazione e caratterizzazione di una sapienza deteriore intrinsecamente legata all’esperienza cristiana. Sviluppando una indicazione del De vita ficiniano relativa appunto all’«exacta atrae bilis cura», Bruno scrive infatti che l’animo 61. Ivi, pp. 450-451. 62. Cfr. De vinculis, BOL III 697: «Sicut non ubique neque semper, quamvis optima iaciantur semina, rerum propagatio consequitur, ita neque irretientia vincula perpetuo et ubique, sed apto tempore et subiectorum congrua dispositione virtutem concipiunt effectus». 63. Per il ruolo della complessione corporea nello stabilirsi del «vincolo di Cupido» cfr. Furori, BDI 967-968: «Putto irrazionale si dice l’amore, non perché egli sia per sé tale; ma per ciò, che per il più fa tali suggetti, ed è in suggetti tali: atteso che, in qualunque è più intellettuale e speculativo, inalza più l’ingegno e più purifica l’intelletto, facendolo svegliato, studioso e circonspetto, promovendolo ad un’animositate eroica ed emulazion di virtudi e grandezza per il desío di piacere e farsi degno della cosa amata; in altri poi (che son la massima parte) s’intende pazzo e stolto, perché le fa uscir de proprii sentimenti, e le precipita a far delle extravaganze, perché ritrova il spirito, anima e corpo mal complessionati ed inetti a considerar e distinguere quel che gli è decente, da quel che le rende più sconci, facendoli suggetti di dispreggio, riso e vituperio».

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si abitua a «sapere vel desipere» anche a seconda delle specie di pensieri cui viene educato64. E dunque, si quis audire consuescat voces pecorum, rusticorum proposita, ignobilium, ignorantum et semiferorum, item videre tales vultus, tales species miserabiles, tragicos, deploratos, infortunatos, item iracundos, superbos, furiosos, ita anima omnino inficitur. Ita providendum maxime atque cavendum est ubi et cum quibus quispiam educetur, erudiatur, sub qua paedagogia, qua religione, quo cultu, quibus libris seu authoribus assuescat; quae omnia non per accidens, sed vere per se, si mala pessime aut deterius, si bona optime aut melius ingenium ingenerabunt, et cum hoc genium atque fortunam65.

64. Cfr. M. Ficinus, Three Books on Life, cit., p. 146: «Secundum et interim tam cibis humidioribus quam lavacris dulcibus et modicis unguentisque similibus caput et corpus totum ad summum pro viribus humectetur, ea tamen cautione ne vel destillatio irritetur, vel destruatur stomachus aut iecur, vel meatus corporis obstruantur... Aspiciantur quoque et audiantur, odorentur et cogitentur assidue quae oblectent, contraria vero longius arceantur». E vd. Thes. de magia, BOL III 489: «Assuescit ergo animus aegrotare, bene valere, hoc est sapere vel desipere, iuxta cogitationum species quibus educatur, ad quod conferunt materialiter nutrimenta, balnea, unctiones, efficienter ea quae per sensus externos capiuntur». 65. Ibid.

NICOLETTA TIRINNANZI IL CANTICO DEI CANTICI NEL DE UMBRIS IDEARUM

Studi recenti hanno sottolineato l’importanza di un testo quale il Cantico dei Cantici nella riflessione di Bruno: si tratta, per molti versi, di una lettura fondamentale, destinata a segnare in profondità il filosofo di Nola, che nel 1582 introduce la prima, densa sezione del De umbris idearum ricordando – in toni altamente positivi – il poema del «sapientissimus Hebraeorum». Non molto dopo, negli Eroici furori, i versi del Cantico (un’opera che – è utile ricordarlo – era assai letta e commentata anche nell’Inghilterra di quegli anni) ricorrono di nuovo, a illustrare passi di grande portata speculativa: del resto, l’autore stesso nota che il dialogo, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto chiamarsi Cantica. Ancora, nel De monade, all’interno di una analisi dai toni schiettamente platonici, incentrata sulla tensione tra «lux» e «tenebrae», le battute della Sulamita fanno da contrappunto alle dottrine vane di quanti hanno visto nell’ombra nient’altro che il «prope nihil» in cui si estenua la pienezza dell’essere1. Dagli scritti parigini fino ai poemi francofortesi, dunque, il Cantico dei Cantici continua ad agire a vari livelli sul pensiero di Bruno. È certamente chiaro che i riferimenti al poema di Salomone si intrecciano, nelle singole opere, a tematiche diverse, ed assumono un senso specifico in relazione agli obiettivi che, volta per volta, emergono: e tuttavia, a ben vedere, è possibile scorgere un tratto comune, pur nella molteplicità dei toni. Nel De umbris, i versi del Cantico alludono allo scarto tra essere assoluto ed essere comunicato; nei Furori, esprimono la consapevolezza di una esperienza interiore straordinaria, che può rivelarsi solo sotto i veli dell’esperienza amorosa. Con accenti non dissimili, nel De monade, le parole di Salomone portano in primo piano la centralità dell’ombra, nodo tra temporale ed eterno, in cui si comunica una luce altrimenti inaccessibile. Già da questi rapidi accenni, è forse possibile notare come, nell’interpretazione di Bruno, il Cantico dei Cantici diventi archetipo della dissimmetria tra infinito e finito: nei versi del poema sono dunque delineate in forma icastica le tappe del percorso – arduo, difficile e 1. Cfr. Furori, BDI 932; De monade, BOL I,II 389: «Numquid nihilum existimavit Salomon cum diceret: “sub umbra eius quem desideraveram sedi”?». Su questi temi, e sull’influenza esercitata dal Cantico dei Cantici sulla riflessione di Bruno, si vedano le considerazioni di M. Ciliberto, Esistenza e verità: Giordano Bruno e il «vincolo di Cupido», in G. Bruno, Eroici furori, a cura di S. Bassi, Roma-Bari 1995.

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mai perfettamente concluso –, per cui l’uomo si sottrae alla «vanitas» e riafferra, sia pur in in modo incompleto, il «primo vero e bene». Non si tratta, in questo senso, di temi originali: a partire da Origene, tesi simili erano già state sviluppate dai Padri della Chiesa, che nella loro esegesi del Cantico dei Cantici avevano intrecciato le vicende narrate nel poema con il grande motivo – platonico e neoplatonico – dell’ombra2. In questa prospettiva teorica, l’immagine della Sulamita seduta nell’ombra dello sposo era posta a sigillo della condizione strutturalmente umbratile in cui versa l’uomo nel corso della vita terrena; ma allo stesso tempo, in quanto figura dell’Incarnazione, la «sessio sub umbra» si apriva a interpretazioni di segno diverso, fino a diventare metafora dell’unione di umano e divino. Sono suggestioni che percorrono le opere dei commentatori: da Origene a Gregorio di Nissa, da Agostino a Gregorio Magno, a Bernardo di Clairvaux e Guglielmo di Saint-Thierry. Una tradizione antica, dunque,che Bruno poteva avere ben presente: in generale, i commenti al Cantico dei Cantici circolavano largamente, e anche l’esegesi del maestro alessandrino era ben conosciuta. L’edizione degli scritti origeniani, curata da Erasmo e uscita a Basilea nel 1536, era stata ristampata più volte, nel 1545, nel 1557 e nel 1571, mentre una seconda edizione dell’Origene latino – a cura di Gilbert Genebrard – era uscita a Parigi nel 1574. Inoltre, i commenti di Origene al poema di Salomone circolavano anche sotto il nome di Gerolamo, che aveva tradotto le due omelie dell’alessandrino sul Cantico dei Cantici, e cui si attribuiva la versione latina – stilata, in realtà, da Rufino – dell’ampio commento origeniano. L’edizione erasmiana degli scritti di Gerolamo, apparsa nel 1516, includeva pertanto le due omelie e – sia pur con qualche dubbio sulla sua reale attribuzione – anche il Commentarium in Cantica Canticorum. L’opera venne ristampata a Lione nel 1530; poi, a Parigi, nel 1533 e nel 1546; una nuova edizione venne pubblicata a Roma nel 1565 e nel 1573; quest’ultima, composta da nove volumi, fu nuovamente edita ad Anversa nel 1579 e a Parigi nel 1580. Tutte queste ristampe com2. Cfr. Proclo, Comm. in Remp., XII. In questo passo, commentando la nota articolazione platonica in mondo sensibile, mondo intelligibile e mondo umbratile, Proclo sottolinea la grande efficacia insita nelle ombre «copie e figure delle sostanze», che tuttavia mantengono un legame stretto con le realtà dalle quali promanano. Agendo sul vincolo che stringe insieme ombra e corpo, i maghi riescono pertanto ad ottenere «risultati mirabili»: muovendo da questa considerazione, l’autore intreccia le dottrine platoniche con l’analisi delle pratiche più torbide della magia e della teurgia. Suggestioni simili, che in seguito verranno a costituire la trama delle testimonianze più mature della «musa Nolana», restano comunque ai margini della riflessione svolta da Bruno nel De umbris, che sviluppa il motivo dell’ombra su un piano essenzialmente gnoseologico.

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prendevano le due omelie di Origene sul Cantico dei Cantici e – molto spesso – anche la traduzione, curata da Rufino in forma di omelie separate, dell’ampio commento origeniano3. Non stupisce, pertanto, che il ragionamento svolto da Bruno nella prima opera parigina si arricchisca di termini e concetti ricorrenti nell’esegesi del Cantico: quel che interessa, piuttosto, è notare come, tra le molte suggestioni che sono offerte dal poema – e che troveranno espressione in seguito, negli Eroici furori –, una sola sia l’immagine che si impone in questa testimonianza giovanile della «musa nolana». Nel De umbris idearum, infatti, l’attenzione di Bruno è tutta concentrata su un solo versetto del Cantico: «sub umbra eius quem desideraveram sedi». A partire da questo spunto teorico – destinato a tornare, a distanza di poche pagine, in passi di grande rilievo – Bruno elabora infatti il doppio motivo dell’ombra come limite costitutivo opposto all’uomo e come luogo di una esperienza straordinaria, ed estrema. L’intentio prima del De umbris si apre quindi proprio con il richiamo alle parole della Sulamita, che viene introdotta quale simbolo efficace della condizione in cui versa l’uomo, pura «vanitas» e accidente, la cui natura non può mai farsi tanto perfetta da accedere senza mediazioni al «campum veritatis». E proprio alla sproporzione tra ente e accidente alludono, secondo Bruno, le battute dell’Ecclesiaste: «vanità è l’uomo vivente. Tutto è vanità». Sedere all’ombra del vero e del bene appare pertanto la condizione di massima perfezione cui l’uomo può aspirare. Ma, a questo riguardo, il ragionamento di Bruno si curva in una direzione ben precisa: «non dico – scrive – all’ombra del vero e del bene naturale e razionale (da qui infatti si direbbe falso e male ), ma del vero e del bene metafisico, ideale e soprasostanziale»4. Si tratta di un passag-

3. Hieronymi Stridonensis Omnes quae extant lucubrationes, additis pseudoepigraphis et alienis scriptis ipsius admixtis, in novem tomos, Basileae, ex officina Frobeniana, 1516. Per la presenza di questi testi nella biblioteca di San Domenico Maggiore a Napoli, cfr. Spampanato, Vita, pp. 230-231 e Giordano Bruno. Gli anni napoletani e la «peregrinatio» europea. Immagini. Testi. Documenti, a cura di E. Canone, Cassino 1992, pp. 64 e 66. 4. De umbris, BOL II,I 20. Il motivo – di evidente ascendenza neoplatonica – del «mundus triplex» è riproposto da Bruno con continuità; tuttavia, la dottrina di una triplice articolazione della realtà tende a tradursi, nel ragionamento svolto da Bruno, in un richiamo preciso alla dissimmetria tra l’uomo e il principio originario. A questo riguardo, si vedano Spaccio, BDI 647; Sig. sigill., BOL II,II 164-165 e 216; Orat. valed., BOL I,I 14-15: «sapientia sibi aedificavit domum rationalem et intentionalem, quae est post mundum, ubi inspicitur umbra primae domus archetypae et idealis, quae est ante mundum, et imago secundae sensibilis et naturalis quae est mundus»; Lampas trig. stat., BOL III 96; De magia, BOL III 403: «tres mundi intelliguntur: archetypus, physicus et rationalis». Queste immagini saranno

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gio assai meditato. Attraverso un lessico di chiara ascendenza neoplatonica e dionisiana, Bruno cerca di precisare e di tenere distinti due livelli. Da un lato, la dimensione del bene naturale e razionale, dove l’ombra è segno del limite e metafora di un intreccio inestricabile di vero e di falso: in una prospettiva simile – come rileva l’autore –, il vero e il bene naturale e razionale sono necessariamente anche il luogo in cui si esprimono il «falsum» e il «malum». Dall’altro, la dimensione del vero e del bene «metafisico, ideale e soprasostanziale», rispetto al quale l’ombra non è più limite, ma via privilegiata della comunicazione. L’insistenza con cui Bruno sottolinea che la «sessio sub umbra» appartiene all’ambito metafisico e ideale testimonia pertanto come l’immagine della Sulamita sia interpretata, fin dall’inizio, come emblema di una esperienza che non rientra nell’ambito naturale, né si fonda sulle argomentazioni della ragione, ma individua l’istante di massima vicinanza tra l’anima dell’uomo e il «campum veritatis». In questo modo, Bruno fa rifluire in un contesto teorico profondamente mutato una dottrina dell’umbratilità che era già stata sviluppata con grande vigore teorico da Origene nel suo commento al Cantico dei Cantici5. Analizzando la figura della bella Sulamita seduriprese e sviluppate, in un contesto teorico ben più profondo, nel De imag. comp., BOL II,III 89-90, 94, 101 e 198. In particolare, la sproporzione tra bene finito e infinito viene tematizzata nel De monade, dove si ribadisce la distanza che separa il bene «physicum» e «rationale» dall’«archetypum»: «primum – scrive – est absolutum, supra, extra et ante res. Secundum adnexum rebus, in rebus, cum rebus. Tertius post res, infra res, abstractus a rebus». Su questi concetti si veda anche il commento di Ficino al Fedro platonico, in Marsilii Ficini Opera omnia, Basileae, ex officina Henricipetrina, 1576 (rist. anast. La Bottega d’Erasmo, Torino 1962), II, p. 1372. 5. Il commento al Cantico dei Cantici, composto da Origene intorno al 240, è stato tramandato nella traduzione latina curata da Rufino. Del testo greco rimangono solo alcuni frammenti, citati dai Padri greci e raccolti nella Philocalia di Origene. L’interpretazione avanzata dall’alessandrino si inserisce in una tradizione ormai consolidata: l’esegesi rabbinica era infatti concorde nel considerare il poema come metafora della alleanza tra Jahvè e il popolo di Israele. In questo senso, Origene si limita a sostituire il tema dell’unione di Dio e del popolo eletto con quello delle nozze mistiche tra Cristo e la Chiesa: uno spostamento che trovava, comunque, la sua giustificazione nei numerosi passi evangelici in cui Cristo è identificato con lo sposo. In parallelo, Origene introduce e sviluppa con particolare profondità teorica anche il tema originale dell’anima come ‘sposa’ di Cristo, una dottrina estranea alla prospettiva degli scritti neotestamentari, per quanto possa essere insinuato da alcuni passi della prima lettera di Paolo ai Corinzi. Nello stilare il suo commento al Cantico di Salomone, Origene riesce a mantenere un sostanziale equilibrio tra le due linee interpretative, anche se – di regola – l’interpretazione in chiave esistenziale fa seguito a quella ecclesiologica e viene quindi introdotta solo in ultimo, a sigillo dell’analisi. La dottrina dell’ombra è sviluppata soprattutto nel libro terzo,

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ta all’ombra dello sposo, il dottore alessandrino aveva affiancato all’esegesi rabbinica una interpretazione in chiave esistenziale, secondo cui la protagonista del poema non adombra soltanto l’immagine del popolo ebraico che si unisce a Dio e della Chiesa sposa di Cristo, ma allude – insieme – all’esperienza del singolo individuo nel corso della propria esistenza terrena. Ecco dunque che il motivo dell’ombra tende ad intrecciarsi con il grande tema paolino del «videre per speculum et in aenigmate»; nelle pagine dedicate al commento della «sessio sub umbra» è netto e continuo il richiamo alla condizione fragile e umbratile che accomuna tutti i viventi: «è necessario – scrive Origene – che tutti coloro che sono in questa vita stiano sotto qualche specie di ombra». L’ombra si dà infatti come limite duplice: è limite oggettivo, in quanto coincide con il corpo, che vela ed offusca lo splendore dell’anima, per cui «anche Giobbe – osserva l’alessandrino nel terzo libro del commento al Cantico – dice che la vita dell’uomo è un’ombra sopra la terra, credo nel senso che ogni anima in questa vita è ricoperta, come di ombra, da questo corpo crasso e pesante». Ma l’ombra è anche limite gnoseologico: troppo debole per sostenere direttamente lo splendore divino, l’occhio della ragione umana deve continuamente ricercare degli intermediari; «sedere nell’ombra» si rivela così l’unico modo di stabilire una relazione concreta – sebbene parziale – con il mondo ideale. Muovendo da considerazioni simili, Origene individua nella metafora dell’ombra la struttura portante su cui si fondano, a un tempo, i destini dei singoli individui e la storia dell’umanità. Si tratta, anche in questo caso, di un motivo schiettamente paolino: facendo leva sullo scarto che separa l’«umbra» della legge mosaica dalla «veritas» evangelica, l’analisi svolta da Origene coglie, nella storia dell’umanità, un movimento progressivo che germina dalle tenebre e si esaurisce nella pienezza della luce. Il tempo umano è pertanto scandito dall’avvicendarsi di ombre dissimili: come si legge nel Commento origeniano, l’umanità si trova avvolta nell’ombra mortale dell’idolatria e nel peccato finché non trova rifugio – grazie ad una straordinaria elezione divina – sotto l’ombra ristoratrice della dove l’autore prende le mosse dalle battute paoline di Eb. 10, 1 per descrivere la triplice gradazione dell’ombra: nel corso della storia, l’umanità muove infatti dall’ombra della morte all’ombra della legge mosaica, fino a giungere sotto l’ombra di Cristo. Cfr., a questo riguardo, Origene, Commento al Cantico dei Cantici, a cura di M. Simonetti, Roma 1976, pp. 194-199: «anche l’apostolo – si legge – dice che la Legge ha l’ombra dei beni futuri... e tutto l’antico culto è immagine e ombra delle cose celesti. Se la cosa sta così, è chiaro che stettero seduti sotto l’ombra della Legge tutti coloro che stavano sotto la Legge e possedevano solo l’ombra della vera Legge. Invece noi siamo estranei alla loro ombra perché non stiamo sotto la Legge, ma sotto la grazia».

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legge di Mosè. Successivamente, attraverso l’Incarnazione, l’ombra di Cristo si sostituisce all’ombra della Legge: sigillo di questo stato perfetto è, secondo l’alessandrino, la figura della Sulamita che siede nell’ombra dello sposo. Dunque, rispetto all’ombra ancora opaca della legge, il cristiano si trova avvolto da un’ombra più mite: «noi – si legge nel commento di Origene – stiamo sotto un’ombra migliore: viviamo infatti all’ombra di Cristo». In quest’ombra benefica, dunque, viene in parte appagato il desiderio dell’anima umana che aspira a riunirsi al suo principio. Ma, a questo riguardo, la posizione di Origene è netta: la sola volontà umana non è mai in grado di riafferrare, oltre la tenebra, l’«umbra» benefica dello sposo. All’opposto, perché si proceda dall’ombra della tenebra e della morte all’ombra della vita, è sempre necessario uno straordinario «beneplacito» da parte di Dio, che accetta di comunicarsi prima nell’ombra della legge, quindi nell’ombra di Cristo. Di conseguenza, per quanto sia punto estremo del manifestarsi di Dio agli uomini, anche l’«umbra» in cui siede la Sulamita rimane emblema di una condizione imperfetta, che trova il suo pieno compimento solo al di fuori del tempo naturale, quando all’uomo è concesso di contemplare senza veli ciò che prima aveva percepito «in umbra» e «in speculo»: «d’altra parte – conclude l’autore – anche il tempo di tale ombra si realizzerà pienamente alla fine del mondo, poiché... dopo la fine del mondo vedremo la verità non più come in uno specchio e per enigmi, ma faccia a faccia. Dunque verrà il tempo in cui tutte le ombre saranno rimosse e rimarrà solo la verità»6. Questi temi troveranno un interprete straordinario in Bernardo di Clairvaux7, che nel Sermo XLVIII super Cantica modula il tema –

6. Origene, Commento al Cantico dei Cantici, cit., pp. 193-199. È forte, in ogni caso, la persuasione secondo cui la condizione dell’uomo sulla terra sia intimamente congiunta all’ombra, al cui interno si determina una dialettica continua di bene e di male, di vita e di morte: cfr. op. cit., p. 198: «alcuni stanno seduti all’ombra della morte, cioè coloro che non credono in Cristo, invece la Chiesa dice con fiducia: ‘ho desiderato stare all’ombra dello sposo e mi sono seduta’, benché ci sia stato un tempo nel quale uno, stando all’ombra della Legge, poteva essere tenuto al riparo dalla violenza del calore e della vampa... Ora,... anche se è diversa l’ombra di cui uno può godere, sembra tuttavia necessario che ogni anima, finché è in questa vita, abbia un’ombra». 7. Gli ottantasei Sermones super Cantica scritti da Bernardo di Clairvaux testimoniano del diffuso interesse per il poema di Salomone; allo stesso tempo, offrono un contributo significato all’interpretazione di questo poema, in quanto si inseriscono con originalità nella tradizione esegetica inaugurata da Origene. Abile intreccio di lirica e di didattica, i Sermones furono presi a modello di molti commenti stilati in ambienti cistercensi. Su questi temi, cfr. A.M. Piazzoni, L’esegesi neomonastica, in La Bibbia nel Medioevo, a cura di G. Cremarcoli e C. Leonardi, Roma 1996, pp.

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schiettamente origeniano – dell’ombra che delimita – e condiziona – ogni aspetto dell’esistenza umana8. E tuttavia, rispetto al modello cui si ispira, Bernardo accentua con energia particolare l’idea secondo cui l’immagine della Sulamita seduta all’ombra dello sposo è posta a sigillo di una esperienza interiore rara e, proprio per questa ragione, squisitamente individuale: se infatti tutti gli uomini, per loro natura, si trovano a vivere nell’ombra, solo a pochissimi – osserva Bernardo – è concesso di sedere nell’ombra. Ecco che, in queste pagine, la dottrina dell’ombra si intreccia all’analisi di due destini opposti che coincidono con la vita naturale, da un lato, e, dall’altro, con la condizione di massima perfezione offerta all’uomo: alla constatazione amara del profeta Geremia – «sub umbra vivimus» – fa dunque da contrappunto l’esultanza della Sulamita, che afferma orgogliosamente «sub umbra sedi». Si tratta, secondo Bernardo, di due testi ugualmente incentrati sulla dottrina dell’ombra, ma profondamente diversi per senso e per ispirazione: la protagonista del Cantico, infatti, spicca perché evita di dare al suo ragionamento una portata universale; non dice dunque – sulla scorta delle battute di Geremia – «sub umbra “sedimus”, sed, singulariter, “sedi”». Ma questo non è casuale: serve al contrario, «ut agnoscas praerogativam». I versi del Cantico confermano così che la perfezione dell’uomo in questa vita non è data naturalmente, né può schiudersi per tutti allo stesso modo, in quanto costituisce il frutto straordinario di una «praerogativa», di un privilegio concesso a pochi. Sono fonti la cui eco ritorna nella prima intentio del De umbris idearum, dove Bruno prende le mosse dalla figura della Sulamita per introdurre una serie di temi tradizionalmente connessi alla esegesi del Cantico dei Cantici: il limite irriducibile opposto all’uomo, la dialettica tra la luminosità dell’anima e l’opacità del corpo, la tensione che spinge a concentrarsi nella mens per farsi partecipe del «vero e del bene». Ma, a ben vedere, il ragionamento svolto nella prima opera parigina si svilup217-285 (in particolare, pp. 228-231). Per quanto concerne la dottrina dell’ombra, la «strettissima affinità» esistente tra Origene e Bernardo è stata segnalata e discussa da J. Daniélou, Saint Bernard et les Pères grecs, in Saint Bernard thèologien, Actes du Congrès de Dijon (15-19 sept. 1953), pp. 48-50. In particolare, il Sermo XXXI si arricchisce di temi caratteristici del grande commento origeniano al cantico, mentre il Sermo XLVIII modula una serie di immagini tratte dalla seconda omelia di Origene Super Cantica. Sui complessi – e interessanti – rapporti tra le Omelie e il Commento al Cantico di Origene e i Sermones di Bernardo, cfr. L. Brésard-H. Crouzel, Introduction, in Origen, Commentaire sur le Cantique des Cantiques, Paris 1991, I, pp. 65-68. 8. Cfr. Sancti Bernardi Claraevallensi Opera, a cura di J. Leclercq, C.H. Talbot e H.M. Rochais, II (Sermones XXXVI-LXXXVI ), Roma 1958, pp. 67-73 ( in particolare, pp. 72-73).

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pa in direzione opposta rispetto alla tradizione cui attinge. Dall’analisi di Bruno, infatti, è volutamente omesso ogni richiamo al motivo del favore divino che consente all’uomo di sedere nell’ombra della verità: la capacità di conquistare, sia pure in una forma offuscata, l’immagine del primo vero e bene dipende invece da una concentrazione interiore che, in ogni caso, non tutti, né sempre, sono in grado di attuare. Un concetto, questo, che Bruno ha ben chiaro fin dall’inizio: e lo dimostrano i lemmi impiegati per delineare i tratti specifici della «sessio sub umbra». «Adeptio», la definisce già nelle prime battute, quasi a sottolineare che la perfezione non è per l’uomo uno stato naturale, ma costituisce, piuttosto, una conquista, l’esito – e il premio – di un affinamento interiore. Non solo: precisando ulteriormente il proprio pensiero, Bruno osserva poco oltre che la «sessio» della Sulamita è frutto straordinario di un «appulsus», uno slancio che proietta l’uomo oltre l’orizzonte naturale dell’ombra per avvicinarlo a quella traccia del vero e del bene metafisico e ideale che è racchiusa nella mente9. Richiamandosi all’«appulsus in mentem»10, l’autore evoca un concetto importante, sia per quanto concerne la tradizione di pensiero cui si richiama, sia alla luce della riflessione sviluppata – pochi anni dopo – negli Eroici furori, dove la dottrina dell’«appulsus» torna continuamente, in luoghi di grande portata speculativa. «Appulso fatale» è definita, già nell’Argomento che apre il dialogo, la guerra che inizia a lacerare lo spirito del furioso non appena questi si allontana dalla «quiete» e dalla «temperanza» proprie del sapiente: e gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ma, in particolare, è nelle pagine in cui si afferma la natura tutta interiore dell’esperienza di Atteone che il termine «appulso» viene impiegato in un senso assai vicino alla prima intentio del De umbris: nel cuore dei Furori, Bruno nota che l’ascesa verso il mondo intelligibile non si compie «per raggione ed ordi9. Cfr. De umbris, BOL II,I 20-21. L’interpretazione dell’anima come vincolo tra lo splendore della mens e l’opacità del corpo era stata sviluppata ampiamente anche da Ficino, un autore con le cui posizioni Bruno istituisce, fin dagli esordi parigini, un confronto continuo: cfr. Theologia Platonica, IV, I, in Marsilii Ficini Opera Omnia, cit., I, p. 737, dove il filosofo fiorentino ricorda che l’anima è nodo tra la mente e il corpo «quasi non possit clara mens opaco corpori aliter quam per animam perspicuam copulari, sicut et lucidum corpus denso per diaphanum, id est perspicuum, iungitur». Rispetto al testo ficiniano, Bruno lascia in secondo piano il concetto dello splendore connaturato alla mente e pone l’accento sul limite, insistendo sul fatto che il «diaphanum» è sospeso non tra luce e tenebra, ma tra «umbra ipsa» e «quid imaginis»: si tratta, in entrambi i casi, di due condizioni umbratili. 10. Per la dottrina secondo cui la mente è il luogo privilegiato in cui si riafferra una immagine della verità, cfr., tra gli altri, Origene, In Genesim, I, 13, e De principiis, I,I, 7.

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ne di moto locale, ma solamente per appulso d’una e d’un’altra potenza e facultade». Il fato del furioso è così scandito da un «appulso» per cui «il senso monta a l’imaginazione, l’imaginazione a la raggione, la raggione a l’intelletto, l’intelletto a la mente». Ed è nel momento in cui l’«appulso» coinvolge la mente che – si legge – «l’anima tutta si converte in Dio e abita il mondo intelligibile»11. Una persuasione, questa, che germina assai precocemente: fin dal De umbris la forma di conoscenza più prossima al «campum veritatis» viene definita nei termini di una conquista cui si giunge solo attraverso una tensione interiore che scardina lo sviluppo naturale della conoscenza, e concentra nella sola mente una forza cognitiva che ordinariamente si articola e si esprime in facoltà e funzioni distinte. La «sessio sub umbra» cantata da Salomone si rivela dunque tutt’altro che una condizione comune a tutti gli uomini o un dono gratuito della divinità, e la lucidità con cui è posto questo tema segna tutta l’originalità della prospettiva teorica in cui si muove il Nolano. Inoltre, sebbene il Cantico dei Cantici – a partire dal Medioevo e oltre – abbia offerto la trama stessa del linguaggio mistico, l’esperienza che Bruno descrive attraverso le parole della Sulamita risulta estranea a qualsiasi esito misticheggiante. L’«appulsus» con cui l’uomo si concentra nella mente non culmina nell’unione completa, né restituisce una «imago» fedele del primo vero e bene, ma solo un «quid imaginis», un suo riflesso opaco e imperfetto: fino all’ultimo, quindi, la conoscenza umana rimane circoscritta dall’ombra. Eppure, Bruno insiste con vigore sul diverso modo in cui si riafferra l’ombra del principio originario: quasi a confermare che, dal punto di vista dell’uomo, è massima la distanza tra l’«umbra ipsa» – percepita naturalmente dai sensi esterni, dalla phantasia e dalla ragione – e il «quid imaginis» conquistato, volta per volta, attraverso l’«appulsus» con cui l’uomo si fa partecipe, secondo le sue possibilità, del vero «metafisico, ideale e soprasostanziale». Ancora, nell’intentio quarta del De umbris, la dissimmetria che esiste tra l’ombra in cui si esprime la vita naturale e l’ombra in cui si manifesta la verità suprema torna al centro dell’indagine svolta da Bruno. In queste pagine, l’asse del ragionamento è costituito dalla persuasione secondo cui l’ombra non si dà come un principio del tutto omogeneo e indifferenziato: a seconda dei tempi e delle circostanze, infatti, l’uomo può trovarsi immerso in due forme opposte di ombra. A un estremo, l’ombra proiettata dalla tenebra e dalla morte; all’altro, l’ombra che emana dalla luce: di nuovo, siamo in presenza 11. Cfr. Furori, BDI 937 e 1022.

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di un tema intimamente connesso con l’esegesi origeniana del Cantico dei Cantici. Le dottrine di Origene, infatti, avevano trovato uno sviluppo originale, in chiave più spiccatamente gnoseologica, soprattutto nei commenti stilati in ambienti cistercensi; in modo specifico, proprio l’immagine dell’ombra in cui siede la Sulamita era stata utilizzata per alludere ai simulacri interiori plasmati dall’imaginatio e, successivamente, combinati in varie forme dalla phantasia. Prodotte dall’attività dei sensi interni, le ombre interiori diventavano pertanto un mezzo privilegiato sia per conoscere le realtà naturali sia per cogliere, sotto il velo del simbolo, i misteri divini: in entrambi i casi, comunque, l’«umbra» si rivela un medium estremamente fecondo, in quanto consente, ad un tempo, l’esperienza del mondo naturale e l’espressione di una verità altrimenti ineffabile12. Per quanto concerne una simile accezione dell’ombra nel senso di «species» interiore, può forse essere utile ricordare la posizione di un altro commentatore del Cantico, Guerrico d’Igny, un autore quasi contemporaneo a Bernardo di Clairvaux13. Nei suoi scritti, composti sul modello dei Sermones di Bernardo, l’abate d’Igny interpreta le battute del Cantico ponendo l’accento sulla «medietas» dell’ombra, nodo di luce e di tenebra, di temporale e di eterno, in cui si determina una dialettica serrata. Accanto all’ombra tenebrosa della materia – scrive – esistono infatti anche «aliae umbrae» che nascono nell’animo dell’uomo – «veluti in speculo» – a partire dalle cose esterne. E questo, ancora una volta, conferma che l’uomo si trova perennemente sospeso tra due generi di ombra: dagli enti inferiori hanno origine ombre di tenebra, «noxiae» e «graves», mentre altre ombre – «salubres» e «delectabiles» – si insinuano nell’animo umano, proiettate dalle realtà supreme e dalla luce: un dinamismo che l’abate di Igny delinea attraverso l’immagine di un ciclo continuo in cui si alternano «obumbratio» e «adumbratio». Dal mondo della materia – scrive – ascendono nell’anima umana «umbrae de inferioribus», che ne offuscano lo splendore («nos obumbrant»); all’opposto, la benevolenza divina fa inclinare verso l’uomo «umbrae de superioribus» che custodiscono la vita («nos adumbrant, et protegunt»): «cum enim – conclude – divinis appropinquamus, mundana superamus, et quatenus vel ad umbram lucis accedimus, eatenus ad umbram mortis evadimus»14.

12. Cfr. Guglielmo di Saint Thierry, Expositio Super Cantica, XCIV, Paris 1962, («Sources chrètiennes», 82), pp. 94-100, 218 e 326. 13. Guerrico d’Igny, morto nel 1157, ebbe una formazione di stampo scolastico. La sua opera principale, i cinquantasei Sermones, modula una dottrina incentrata sulla figura di Cristo, ispirandosi da vicino al modello proposto dagli scritti di Bernardo. 14. Guerric d’Igny, Sermons, a cura di J. Morson e H. Costello, I, Paris 1970; II,

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Spunti analoghi, anche sul piano lessicale, percorrono la quarta intentio del De umbris idearum, dove Bruno declina la dottrina dell’«umbra» in chiave esistenziale, accentuando lo scarto che separa l’«ombra di luce» dall’«ombra di tenebra»: da qui, infatti, hanno origine i diversi destini dei singoli uomini che scelgono di porsi «sub umbra lucis» o «sub umbra tenebrarum et, ut aiunt, mortis». Sfuma, una volta di più, il motivo provvidenziale, secondo cui l’ascesa verso la verità è guidata e garantita dalla divinità, che attraverso l’ombra della luce si inclina continuamente verso l’uomo e lo indirizza verso il mondo intelligibile. In queste pagine, infatti, l’attenzione del Nolano è tutta concentrata sull’uomo, che, muovendo dall’«umbra tenebrarum», riesce tuttavia a concentrare al massimo grado le sue forze interiori e, in ultimo, trasforma una esistenza necessariamente finita in una esperienza dell’infinito: si tratta dunque di un processo che scaturisce da una forte concentrazione della volontà e non da una particolarissima elezione divina. Un atteggiamento intimamente «eroico», dunque: a questo riguardo, è sintomatico che Bruno, pur mantenendo il tema schiettamente neoplatonico dell’«umbra mortis» come metafora di un’esistenza racchiusa entro la dimensione della materia e dei corpi, insista con uguale vigore sul nesso che congiunge «ombra», «tenebre» e «ozio»: «umbra mortis – scrive – quod est cum potentiae superiores emarcescunt, et ociantur, aut subserviunt inferioribus, quatenus animus circa vitam tantum corporalem versatur, atque sensum»15. Trovarsi nell’«ombra della luce» significa, all’opposto, spostare ininterrottamente il limite naturale; ma questo – osserva l’autore – può accadere solo quando le facoltà cognitive inferiori sono vinte e travolte dall’impeto delle potenze superiori, che, a loro volta, si lasciano avvincere dalle realtà supreme: «umbra lucis, quod est cum potentiae inferiores superioribus adspirantibus in aeterna eminentioraque obiecta subiiciuntur, ut accidit in coelis versanti, qui spiritu inritamenta carnis inculcat»16. Due condizioni ugualmente connotate dall’ombra: e, tuttavia, a giudizio di Bruno, tra i due opposti fati cui l’uomo può aspirare si 1973 («Sources chrètiennes», 166 e 202): II, pp. 398-416; in particolare, cfr. pp. 401-402. I Sermones dell’abate di Igny furono editi a più riprese nel corso del ’500: alle edizioni parigine del 1539 – curata da Jean de Gaigny per i tipi di Gervais Chevallon – e del 1547 – stampata da Simon de Collines – segue una nuova edizione, curata da Jean de Coster e pubblicata a Lovanio nel 1555 da Philippe Nutius. Quest’ultima edizione venne ristampata ad Anversa nel 1556, a Lovanio nel 1573 e a Parigi nel 1563 da Gabriel Buon. 15. De umbris, BOL II,I 22. 16. Ibid.

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dà uno scarto significativo: «illud – conclude – est umbram incumbere in tenebras; hoc est umbram intendere in lucem»17. La tensione che consente di superare l’ostacolo opposto dall’ombra naturale è descritta – si è visto – attraverso l’immagine della «adpiratio»: ancora, si tratta di un tema destinato a tornare nel cuore dell’ultimo dialogo londinese. Scrive, infatti, Bruno: «le due specie apprensibili della divina bellezza e bontade di quell’infinito splendore ... talmente influiscono nel desio intellettuale e razionale, che lo fanno venire ad aspirare infinitamente, secondo il modo in cui infinitamente grande, bello e buono apprende quell’eccellente lume»18. Dunque, «mentre verrà sempre oltre ed oltre aspirando, potrassi dire che versa circa l’infinito»19. È solo un esempio della fitta trama di rapporti che stringe insieme le due opere: e tuttavia è significativo che, già nel De umbris, Bruno abbia voluto descrivere l’ascesa verso l’ombra della luce ricorrendo a un lemma che suggerisce l’idea di un desiderio mai perfettamente appagato. Un concetto, questo, che Bruno ribadisce con insistenza quasi ossessiva: nell’intentio sesta temi gnoseologici e ontologici si intrecciano di nuovo, e si connettono ai due modi distinti secondo cui l’ombra si comunica all’uomo. Nei sensi esterni e interni, così come nella ragione, l’uomo coglie infatti l’ombra quale si manifesta nelle innumerevoli trasformazioni degli enti naturali: ovvero, come nota l’autore, «in motu et alteratione». Intelletto e memoria, al contrario, afferrano l’ombra come stabilità immutabile: «in intellectu vero, intellectumque consequente memoria, umbra est ut in statu»20. Una distinzione non di poco conto: l’autore rileva che quanto viene percepito dai sensi e dalla ragione come mutevole, incostante, fluido, é invece colto dall’intelletto come unico e inalterabile. La forma più eminente del conoscere rimanda, pertanto, ad uno sforzo dell’intelletto, che afferra l’unità stabile sottesa alla vicissitudine dei mutamenti. In un quadro teorico simile, non stupisce certo che Bruno, giocando sulla affinità esistente tra i due termini «status» e «sessio», introduca per la seconda volta l’immagine biblica della bella Sulamita seduta nell’ombra dell’amato e la interpreti come archetipo di una «notitia supernaturalis et suprasensualis»: una accezione assai vicina, anche sotto il profilo lessicale, alle battute con cui si apre la prima intentio. Eppure, c’è uno sviluppo significativo: se, nel primo caso, la mente poteva afferrare un «quid imaginis», adesso Bruno è 17. 18. 19. 20.

Ibid. Furori, BDI 1060-1061. Ibid. De umbris, BOL II,I 23.

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netto nell’identificare la conoscenza somma con una ulteriore esperienza – per quanto estrema – dell’ombra. Rendendo più radicale la dottrina dell’ombra, il Nolano approfondisce e rende problematico il senso di quelle dottrine neoplatoniche e origeniane, che, pure, aveva sviluppato in toni originali nella parte iniziale del De umbris. In queste pagine, infatti, è salda la convinzione secondo cui la «notio supernaturalis» non può in alcun caso essere descritta nei termini di una visione, anche se parziale: dalla massima concentrazione dell’intelletto può scaturire, al più, la capacità di comprendere l’ombra come totalità stabile, sottratta alle metamorfosi che contraddistinguono il mondo naturale. Una esperienza straordinaria, comunque; ma, proprio in quanto tale, effimera: poiché una simile «sessio» o «status» non può persistere a lungo in quanti vivono «naturaliter» e sono esposti al richiamo continuo delle immagini interiori, che ricreano nell’intimo dell’uomo un simulacro del dinamismo universale, essa non è, né può mai essere, acquisita una volta per tutte. Per questo motivo, scrive Bruno, lo stato della Sulamita è sempre indicato con il passato remoto o con l’imperfetto, e mai con il tempo presente21. Affiora qui un ulteriore tema connesso alla esegesi del Cantico dei Cantici: nella seconda omelia Super Cantica, Origene si sofferma a lungo, infatti, sul senso di alcune scelte linguistiche operate dell’autore. In modo specifico, nota che nel passo «sub umbra eius quem desideraveram sedi, et fructus eius dulcis gutturi meo», la situazione iniziale, espressa al passato, si contrappone decisamente alle battute conclusive, in cui si adotta il tempo presente. Non è, secondo il dottore alessandrino, uno spostamento casuale: «quam pulchre non ait – scrive – “in umbra illius concupisco”; sed “in umbra eius concupivi”, et non “sedeo”, sed “sedi”»22. L’uso del tempo passato rivela invece, da parte dell’autore, la consapevolezza di come la «sessio sub umbra» non può mai essere interpretata come tappa conclusiva del rapporto tra Dio e l’uomo. I versi in cui viene descritta la «sessio» nell’ombra 21. Ibid.: «Quae sessio seu status quia in naturalibus degentibus non multum perseverat (mox enim atque statim sensus isti nos insiliunt atque deturbant, ipsique nostri duces phantasmata nos circumveniendo seducunt) sessio illa potius praeterito absoluto vel inchoato, quam praesenti tempore designatur. Dicit enim “sub umbra sedi”, vel “sedebam”». 22. Cfr. Origen, Homelies sur le Cantique des Cantiques, Paris 1963 («Sources chrètiennes», 37), pp. 90-91. Per la traduzione italiana, cfr. Origene, Omelie sul Cantico dei Cantici, a cura di M. Simonetti, Verona 1998, pp. 79-80. Le due omelie di Origene sul Cantico dei Cantici sono posteriori al Commento, e probabilmente furono pronunciate intorno al 245. Menzionate da Gerolamo nella Epistola XXXIII ad Paulum, sono state tramandate in una traduzione curata dallo stesso Gerolamo su richiesta di papa Damaso.

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dell’amato non devono perciò essere scissi dalle parole successive, che completano l’itinerario spirituale adombrato nel poema biblico: «ego – prosegue Origene – desideravi in umbra requiescere, sed postquam me protexit sua umbra etiam fructibus illius saturatus sum, et dico «et fructus illius dulcis in gutture meo»». Emerge da queste considerazioni il nesso profondo che l’autore stabilisce tra «umbra» e «fides»: solo mediante l’ombra benefica della fede l’uomo può accedere alla verità, poiché una volta raggiunta l’«umbra» «verrà a te anche il corpo da cui promana quell’ombra». La vicenda narrata da Salomone si conclude solo con la visione «facie ad faciem»: rispetto a questa condizione perfetta la «sessio sub umbra» si pone, strutturalmente, nel passato. All’opposto, nella interpretazione di Bruno, la «sessio» è situata nel passato proprio in virtù della sua singolarità: frutto di un travaglio che impegna al massimo grado le forze cognitive più alte, la conquista di uno stato perfetto è mai definitiva e accade spesso, anzi, che l’ombra stabile cui accede l’intelletto torni a dissolversi per effetto delle potenze inferiori, poiché sensi e fantasia fanno irrompere nell’animo umano le ombre mutevoli degli enti naturali e impongono, di nuovo, il primato dell’«umbra» quale successione infinita di metamorfosi. Da questo punto di vista, dunque, l’esperienza più rara dell’umbratilità non appartiene, né può appartenere, al tempo presente. La riflessione svolta da Bruno nel De umbris, come si è visto, procede su due livelli: da una parte, il richiamo alla perfezione della «sessio sub umbra» e, dall’altra, l’analisi delle forme ordinarie della conoscenza; in entrambi i casi l’ombra si configura, ad un tempo, come limite e come punto di forza straordinario. In particolare, è nell’intentio quindicesima che il filosofo pone esplicitamente la dottrina dell’ombra quale «medium» essenziale di ogni cognizione e, tessendo insieme immagini e concetti di ispirazione platonica, esalta la funzione mediatrice dell’«umbra», che consente di accedere per gradi alla verità assoluta: «umbra – afferma Bruno – igitur visum praeparat ad lucem. Umbra lucem temperat: per umbra divinitas oculo esurientis sitientisque animae caliganti nuncias rerum species temperat atque propinat. Eas igitur umbras quae non extinguunt, sed servant atque custodiunt lucem in nobis et per quas ad intellectum, atque memoriam promovemur atque perducimus, recognosce»23. Il discorso di Bruno si arricchisce qui attraverso tutta

23. De umbris, BOL II,I 29-30. È importante notare che Bruno, in apertura di questo passo, pone a sigillo dell’«umbra mortis» l’immagine biblica del Leviatano, evocando così – sia pure in forma criptica – l’esegesi proposta da uno dei testicardine della mistica medioevale: cfr., a tale riguardo, Gregorio Magno, Moralia in

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una serie di immagini già ampiamente sviluppate – in un contesto, naturalmente, diverso – nel Sermo XXXI super Cantica di Bernardo di Clairvaux. In questo scritto, percorso in profondità da suggestioni del commento origeniano al Cantico e tutto incentrato sulla dottrina della «lux meridiana» quale metafora della maestà divina, l’autore prende le mosse dall’immagine del fulgore inaccessibile che offusca l’occhio del fedele per esaltare, parallelamente, l’«umbra fidei»: è infatti l’ombra benefica della fede che, scrive Bernardo, «lucem temperat oculo caliganti, et oculum preparat luci; scriptum enim est: “fides mundans corda eorum”. Fides itaque lucem non extinguuit, sed custodit»24. È un passo cui sembra richiamarsi da vicino – sia per i lemmi impiegati, sia per i riferimenti biblici inseriti – la quindicesima intentio del De umbris: tuttavia, anche in presenza di vistosi calchi stilistici, Bruno rimane sostanzialmente «infedele» alle fonti cui si ispira. Anche in questo caso, secondo un modulo già esaminato in precedenza, lascia cadere il tema del rapporto tra «umbra» e «fides», mentre, allo stesso tempo, sposta l’asse del ragionamento su un piano strettamente gnoseologico: l’ombra di cui parla Bruno non trasmette all’anima umana una traccia della luce divine, ma è il veicolo attraverso cui si comunicano quelle «species» interiori che «annunciano» le realtà esterne e consentono all’uomo di conoscere il mondo naturale e di modificarlo. Non solo: il motivo tradizionale – e presente in Bernardo – dell’occhio offuscato che conosce la luce per il tramite dell’ombra si complica in Bruno, che lo amplia ulteriormente introducendo l’immagine – di chiara ascendenza biblica – dell’anima «affamata» e «assetata»25: «per umbram – ricorda il Nolano – divinitas oculo esurientis sitientisque animae caliganti... species temperat». Attraverso un abile lavoro di intarsio, dunque, la dottrina dell’ombra torna a connettersi intimamente con il tema – ricorrente in queste pagine – della tensione inesauribile che indirizza l’uomo verso la verità: concludendo la sua analisi, Bruno invita infatti a riconoscere quelle ombre che non offuscano, ma conservano la luce. «Eas igitur umbras, quae non extinguunt, sed servant atque custodiunt lucem..., recognosce»: così si esprime il filosofo, riprendendo quasi alla lettera i termini adottati da Bernardo di Clairvaux per definire la «buona ombra» della fede. Attraverso queste ombre, infatti, «siamo condotti e indirizzati all’intelletto e alla memoria». «Intellectus atque memoria»: quasi a chiudere un

Iob, P. L. LXXVI, 671b-672a. 24. Bernardi Claraevallensis Sermones Super Cantica, in Opera, cit., I (Sermones IXXXV), Roma 1957, pp. 222-225. 25. Cfr., tra i tanti, Is. 32, 3.

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circolo, Bruno si richiama proprio alle due facoltà che stanno a fondamento della «sessio sub umbra». In un quadro teorico simile, dunque, il primato della memoria non si giustifica solo su un piano pratico, né si lega al mero riconoscimento dell’indubbia efficacia operativa dell’attività mnemonica; l’insistenza di Bruno sul vincolo che congiunge «memoria», «intelletto» e «ombra della luce» sembra invece riposare su un concetto preciso: la persuasione, cioè, che solo nell’intelletto e nella memoria – in cui trova consistenza il dato dell’intelletto – diventa possibile comprendere nella sua unità il principio che si manifesta alle potenze cognitive inferiori come una serie caotica di alterazioni. Sullo sfondo di una indagine che coinvolge, in prima istanza, i limiti della conoscenza, si staglia, una volta di più, il richiamo all’esperienza estrema in cui il limite stesso viene mutato in profondità e convertito sotto lo spinta di una concentrazione intensissima dell’intelletto. L’influenza del Cantico dei Cantici e, in modo più specifico, l’immagine della «sessio sub umbra» agiscono dunque con continuità sulle ricerche condotte da Bruno nella prima opera parigina: ciò è particolarmente evidente nell’intentio quindicesima, dove il richiamo alle dottrine degli esegeti si fa via via più esplicito. Questi temi, tuttavia, non cessano di interagire con la speculazione del Nolano: nel capitolo successivo – l’intentio sedicesima – le dottrine di Bernardo balzano di nuovo in primo piano, all’interno di un ragionamento che fa perno proprio sul concetto di «fides». Richiamandosi infatti alle parole di Isaia «nisi credideritis, non intelligetis»26, Bruno modula tutta una serie di suggestioni tratte dalle opere di Cusano per mostrare come la «fides» razionale sia presupposto necessario di ogni sapere27. Torna, pertanto, la dottrina dell’ombra come «medium»: contro l’ottusità di quanti interpretano l’offuscarsi della luce esclusivamente come segno del limite e della «vanitas» in cui versa l’uomo, Bruno difende di nuovo il primato di quelle «umbrae» che adeguano la luce suprema alla capacità dell’occhio umano. E, sintomaticamente, il filosofo pone a sigillo di questa analisi battute che sembrano ricalcare i termini impiegati da Bernardo di Clairvaux per descrivere gli effetti benefici dell’«umbra fidei», nella quale si cela – e si rivela – quanto non può essere colto dall’uomo nella sua nuda essenza. «An non expedit – si legge nel cuore del Sermo XXXI Super Cantica – tenere vel involutum quod nudum non capis?»28. E, con toni analoghi, Bruno ammonisce i detrattori dell’om26. Is. 7, 9. Queste battute sono poste da Bruno a epigrafe del De imaginum compositione, BOL II,III 87. 27. Cfr. N. Cusano, De docta ignorantia, III, 11. 28. Cfr. Bernardi Claraevallensis op. cit., p. 225.

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bra: «norint sat expedire vel involutum tenere quod nudum non capias»29. Accanto alle analogie, risalta netto lo scarto tra i due autori: è infatti evidente che la riflessione svolta da Bernardo verte sui contenuti che l’intelletto umano potrà cogliere senza veli solo nella vita ultraterrena. In questo senso, dunque, il rapporto tra «nudum» e «involutum» rimanda alla dissimmetria tra finito e infinito, tra eterno e transeunte: nel corso della vita terrena, l’uomo afferra come «nudi» solo i dati della scienza naturale. La verità assoluta, al contrario, rimane accessibile solo sotto il velo dei simboli. Si tratta di concetti che Bernardo definisce con precisione particolare nel De consideratione, dove il ragionamento ruota intorno alla contrapposizione tra la «nuditas» delle conoscenze scientifiche e il carattere necessariamente involuto e umbratile dei misteri divini, che acquistano certezza solo grazie alla «fides». Solo dopo la morte – conclude Bernardo – il nesso che stringe insieme «umbra» e «fides» finisce per dissolversi, di modo che «ea quae iam certa sunt nobis, erunt aeque et nuda»30. A giudizio di Bruno, al contrario, ogni forma di conoscenza mantiene un carattere inevitabilmente simbolico: «umbra» e «fides», dunque, sono tratti costitutivi del sapere. Costretto nell’orizzonte della «vanitas», l’uomo non è capace di riafferrare la nuda essenza delle cose: deve, al contrario, misurarsi con le ombre, le immagini, i simulacri, che attraverso un involucro sensibile permettono di conoscere una realtà in continuo mutamento. Nella prospettiva del De umbris viene così a cadere il motivo – caro ai commentatori del Cantico – secondo cui la stessa ombra benigna della fede, al pari di ogni altra ombra, è destinata a dissolversi, fino a rivelare la «lux meridiana». Il destino dell’uomo – ribadisce invece Bruno – si gioca tutto entro l’orizzonte dell’ombra, tanto che la perfezione massima coincide – sintomaticamente – con la capacità di cogliere l’unità che si cela nell’ombra e che non è altro se non un’ombra «ut in statu». In questo modo, comunque, Bruno finisce per ribaltare la gerarchia tradizionale di conoscenza, «umbra», «fides» ed esperienza del principio sommo: sono infatti proprio le forme ordinarie del sapere che richiedono, continuamente, la mediazione dell’ombra e della «fides» razionale. Opposta è la situazione se si guarda ai passi in cui Bruno svolge la dottrina della «notitia supernaturalis»: dall’intentio prima – come pure dall’intentio sesta – è escluso ogni richiamo alla fides, sia teologica, sia filosofica e gnoseologica. In quanto emblema di un sapere ultrarazionale, la figura 29. De umbris, BOL II,II 31. 30. Bernardi Claraevallensi De consideratione ad papam Eugenium, V, 3, 6.

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della Sulamita rimane estranea alla «bona umbra» della «fides», su cui si fonda la conoscenza naturale. Del resto, a conferma dell’attenzione con cui Bruno tiene separati i due estremi dell’esistenza umana – la condizione, cioè, del sapiente – la cui conoscenza del mondo viene, necessariamente, mediata dalla fides – e quella della Sulamita – occorre notare come, nel De umbris, i richiami – espliciti o impliciti – alla «sessio sub umbra» descritta nel Cantico sono sempre connessi al tema di una esperienza rara: non è dunque casuale che l’autore, nel momento in cui deve delineare la condizione del sapiente, ricorra a una metafora diversa. Nell’intentio ventiquattresima, scrive infatti che quanti si propongono di giungere alla retta conoscenza devono necessariamente rifugiarsi «ad umbram arboris scientiae»: per distinguere nella fitta trama di verità e falsità che caratterizza l’esistenza naturale dell’uomo, è dunque opportuno fare continuo riferimento all’ombra quale «neutrum» tra due contrari. Ma questo, a ben vedere, significa che esiste una differenza profonda tra chi cerca la conoscenza tenendosi entro il limite in cui convergono bene e male, vero e falso, e l’esperienza di chi, invece, si è seduto nell’ombra emanata dall’unico «vero e bene metafisico, ideale e soprasostanziale». A un estremo, l’immagine di Adamo seduto all’ombra dell’«arbor scientiae»; all’altro, l’immagine della Sulamita seduta nell’ombra dello sposo: tra questi due opposti si compie, a giudizio di Bruno, il fato dell’uomo31. Lasciando cadere ogni richiamo al primato della «fides» e insistendo allo stesso tempo sul carattere straordinario ed effimero della «sessio sub umbra», Bruno introduce un elemento di forte tensione rispetto alle interpretazioni del Cantico ormai consolidate. Era infatti comunemente accettata l’esegesi di ascendenza origeniana, secondo cui le vicende narrate nel poema alludono all’unione di Cristo con la Chiesa. In un contesto simile, le suggestioni erotiche presenti nel Cantico dei Cantici vengono costantemente trasfigurate nel linguaggio della contemplazione mistica. Una tendenza, questa, che si ritrova di frequente anche nella poesia di ispirazione biblica: nelle Eclogues sacrées prises du Cantique des Cantiques de Salomon, pubblicate a Parigi nel 1576, Remy Belleau fa rifluire i temi-cardine dei commenti di Origene e di Bernardo di Clairvaux all’interno di una concezione dell’amore schiettamente neoplato31. Cfr. De umbris, BOL II,II 34: «Umbra... abstrahitur ergo ab omni veritate, sed non est sine illa. Et non reddit ineptos ad illam (si idealis sit umbra) concipere enim facit contraria et diversa, cum sit unum. Umbrae enim nihil est contrarium, preciseque nec tenebra, nec lux. Ad umbram ergo arboris scientiae confugit homo pro cognitione tenebrae, et lucis, veri et falsi, boni et mali, cum quaeret ab illo Deus : “Adam ubi es?”».

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nica e ficiniana. «L’Eglise – scrive infatti nella seconda ecloga – se vante estre belle comme la fleur, fraiche comme la rose, tendre comme les lis qui croissent au fond des valles, desire ardemment prendre son repos sous l’ombre de Jesus-Christ son espous»32. Un simile intreccio di immagini erotiche e richiami spirituali, giustificato – del resto – dal senso letterale del poema, era però visto con sospetto negli ambienti riformati, dove i commenti lasciavano sullo sfondo gli amori della Sulamita e di Salomone per insistere su temi quali la fede, il grande amore di Dio per la Chiesa e il rapporto privilegiato tra Cristo e l’anima fedele. A questo proposito, le due traduzioni del Cantico dei Cantici curate dall’Olivetano nel 1535 e nel 1538 sono illuminanti per comprendere la natura del dibattito connesso all’interpretazione del Cantico dei Cantici. Nella prima edizione, infatti, viene offerto al lettore un ampio ambito di autonomia: se – in apertura – si ricorda l’esegesi tradizionale, che vede nel poema di Salomone una «devis mystique damor spirituel et divin, entre Christ lespoux, et Leglise son espouse», le note esplicative poste a margine del testo muovono, invece, in direzione diversa. Privilegiando il senso letterale del racconto, il commento al testo pone costantemente l’accento non tanto sul legame mistico e spirituale tra Cristo e la Chiesa, quanto, piuttosto, sulla relazione amorosa tra Salomone e la Sulamita. Nell’edizione del 1538 – che, del resto, era diretta a un pubblico più vasto – le scelte del traduttore, al pari del commento, mirano ad attenuare le parti più esplicitamente erotiche del poema, a favore di una lettura del tutto spirituale. Ma, anche in questo caso, si determina uno spostamento importante: invece di insistere sul tema dell’unione tra Cristo e la Chiesa, si dà risalto al vincolo che unisce Dio al popolo dei fedeli; questo rapporto privilegiato tende infatti a configurarsi come la cifra interpretativa unica che consente di porre nella giusta prospettiva le vicende narrate nel Cantico33. Per quanto ricca di richiami alla tradizione, l’analisi condotta da Bruno nel De umbris è, come si è visto, ugualmente lontana sia dalle interpretazioni che fanno leva sul nesso tra la Sulamita e la Chiesa, sia dal commento in chiave riformata, incardinato sulla dottrina dell’«anima fedele». Alla luce di questa lettura particolarissima del Cantico dei Cantici, dunque, è forse possibile cogliere l’estrema ori-

32. Su questi temi, cfr. J. Couchman, «Les eclogues sacrées prises du Cantique des Cantiques de Salomon» et la poésie biblique de Remy Belleau, «Renaissance et Réformation», XI (1987), 1, pp. 29-40. 33. Cfr. M. Engammare, La violette et le rossignol, in Théorie et pratique de l’exégèse, Genève 1990, pp. 363-383.

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ginalità di Bruno, che, nel momento in cui definisce i presupposti gnoseologici e ontologici delle proprie ricerche sull’«ars memoriae», si impadronisce di una immagine densa di significati e suggestioni, e la innesta all’interno di una riflessione tutta incentrata sul rapporto complesso tra l’uomo e la verità somma: in questo modo, elementi appartenenti a una tradizione di pensiero antichissima sono fatti rifluire in un contesto teorico che appare già ben saldo nei suoi principi e profondamente innovato.

ABBREVIAZIONI E SIGLE

Animadversiones Ars deform. Ars mem. Ars rem. Articuli adv. math. Articuli adv. Perip. Artificium peror. Asino cill. Cabala Camoer. acrot. Candelaio Cantus Causa Cena De comp. architect. De imag. comp. De immenso De lamp. combin. De magia De magia math. De minimo De monade De Mord. circ. De progressu De rerum princ. De somn. int. De spec. scrutin. De umbris De vinculis Explicatio Figuratio Furori Idiota triumph. Infinito Lampas trig. stat. Libri Phys. Aristot. Med. Lull. Mordentius Orat. cons. Orat. valed. Praelect. geom. Sig. sigill.

Animadversiones circa lampadem Lullianam Ars deformationum Ars memoriae Ars reminiscendi Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus Peripateticos Artificium perorandi Asino cillenico Cabala del cavallo pegaseo. Con l’aggiunta dell’Asino cillenico Camoeracensis acrotismus Candelaio Cantus Circaeus De la causa, principio et uno La cena de le Ceneri De compendiosa architectura et complemento artis Lullii De imaginum, signorum et idearum compositione De innumerabilibus, immenso et infigurabili De lampade combinatoria Lulliana De magia De magia mathematica De triplici minimo et mensura De monade, numero et figura De Mordentii circino De progressu et lampade venatoria logicorum De rerum principiis, elementis et causis De somnii interpretatione De specierum scrutinio et lampade combinatoria Raymundi Lullii De umbris idearum De vinculis in genere Explicatio triginta sigillorum Figuratio Aristotelici Physici auditus De gli eroici furori Idiota triumphans De l’infinito, universo e mondi Lampas triginta statuarum Libri Physicorum Aristotelis explanati Medicina Lulliana Mordentius Oratio consolatoria Oratio valedictoria Praelectiones geometricae Sigillus sigillorum

308 Spaccio Summa term. met. Thes. de magia

BDI

BOeuC

BOL

Firpo, Processo Spampanato, Vita

Abbreviazioni e sigle Spaccio de la bestia trionfante Summa terminorum metaphysicorum Theses de magia

Dialoghi italiani. Dialoghi metafisici e dialoghi morali, nuovamente ristampati con note da G. Gentile, 3a ed. a cura di G. Aquilecchia, Firenze 1958 (2a rist. 1985). Oeuvres complètes de Giordano Bruno, collection dirigée par Y. Hersant - N. Ordine. Oeuvres italiennes, édition critique établie par G. Aquilecchia, Paris: I. Chandelier, introd. philol. de G. Aquilecchia, préf. et notes de G. Bàrberi Squarotti, trad. de Y. Hersant, 1993; II. Le souper des Cendres, préf. de A. Ophir, notes de G. Aquilecchia, trad. de Y. Hersant, 1994; III. De la cause, du principe et de l’un, introd. de M. Ciliberto, notes de G. Aquilecchia, trad. de L. Hersant, 1996; IV. De l’infini, de l’univers et des mondes, introd. de M. A. Granada, notes de J. Seidengart, trad. de J.-P. Cavaillé, 1995; VI. Cabale du cheval pégaséen, préf. et notes de N. Badaloni, trad. de T. Dagron, 1994. Opera latine conscripta, publicis sumptibus edita, recensebat F. Fiorentino [V. Imbriani, C. M. Tallarigo, F. Tocco, H. Vitelli], Neapoli [Florentiae], 1879-1891, 3 voll. in 8 parti: I,I (Neapoli 1879), I, II (Neapoli 1884), I, III (Florentiae 1889), I,IV (Florentiae 1889); II,I (Neapoli 1886), II,II (Florentiae 1890), II,III (Florentiae 1889); III (Florentiae 1891). L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, a cura di D. Quaglioni, Roma 1993. V. Spampanato, Vita di Giordano Bruno, con documenti editi e inediti, Messina 1921, 2 voll.

INDICE DEI NOMI*

Abbot, G., 104, 105, 107, 108, 111n, 113, 114 e n, 115n, 116, 117 Abelardo, P., 62n, 64n, 78n, 79 Achillini, A., 171 e n, 173n,174n Adam, C., 162n Adriani, F., 50n Agostino di Ippona, santo, 64 e n, 70n, 111n, 238, 288 Agostino Trionfo di Ancona, 157n Agrimi, M., 3 Agrippa di Nettesheim, H. C., 64n, 110 e n, 129 e n, 130n, 131, 132n, 133n, 138n, 139 e n, 140, 142n, 143, 144, 145 e n, 146 e n, 147 e n, 148n, 149, 271n Alberto di Sassonia, 28n Alberto Magno, santo, 190 Aldermen, 93n Al-Gazel, 130n Al-Kindi, 130n Allen, W. Jr., 106n Altenstaig, J., 55n Altieri Biagi, M. L., 9 Ammonio Sacca, 136n Anassagora, 25, 38, 77n, 203n, 204 Anassarco, 142n, 265 e n, 281 Andrea, santo, 142n Anisson, L., 201n Apollonio, 146n Aquilecchia, G., IX, 32n, 39 e n, 58n, 77n, 92n, 103n, 106, 107n, 200n, 203n, 205n, 228 e n, 231n, 257n, 308 Arato di Soli, 86n Archimede, 14, 190 Archita, 77, 190 Aretino, P., 111n Ario, 61 Aristotele (lo Stagirita), 6, 13 e n, 16, *

25, 30, 33, 42, 70 e n, 71 e n, 72 e n, 73, 76, 77, 106, 107n, 108, 109, 110n, 111n, 151, 152, 153, 154, 155, 156 e n, 157, 161, 162, 165, 166 e n, 167n, 168, 169, 170, 171, 175, 176 e n, 177, 179, 181, 186n, 196, 206n, 212, 218, 263n Arnim, H. von, 86n Atanasio, 55n Atanasio, pseudo, 55 e n, Augusto di Sassonia, 227n Autrecourt, N. d’, 14n, 28n Averroè, 52n, 166 e n, 167 e n, 168, 169, 171, 177 Avicenna, 130n, 140n Bacchelli, F., 190n Bacmeister, C., 9 Bacon, F., 219 e n Bacone, R., 27 Badaloni, N., 44 e n, 153, 208n, 308 Baillives, 93n Balsamo, J., IX Bancroft, R., 89n Baranski, Z., 1 Bàrberi Squarotti, G., 308 Barbuto, G., 261n Barnes, 122 Bassi, S., IX, 103n, 119n, 264n, 287n Basson, S., 193n Bathori, 101n Bedle, G., 201n Bellarmino, R., santo, 49n, 107n, 110n Belleau, R., 304 Benci, F., 259 e n Bernardo di Clairvaux, 288, 292 e n, 293 e n, 296 e n, 301 e n, 302 e n, 303 e n, 304

L’indice dei nomi è a cura di Teodoro Katinis. Nell’indice non sono registrati i nomi contenuti nei titoli citati nei vari contributi, né quelli di editori e tipografi (tranne nel caso in cui compaiano come figure di rilevanza storica). Nell’indice non è registrato il nome di Giordano Bruno, data la frequenza con la quale esso ricorre nel volume. Per i rinvii interni si fa uso della sigla vd.

310 Berti, D., 58n Besler, H., 58n Bèze, T. de, 122 e n, 124 Bianchi, L., 156n, 157n Bianchi, M. L., 133n, 269n Bigalli, D., 5, 12 Bloch, O. R., 201n Blum, P. R., 37n, 52n, 67n Blumenberg, H., 161n Bodin, J., 219 e n, 227n, 248 Boezio, A. M. T. S., 17, 18n, 19, 65, 70n, 186n Boezio di Dacia, 168 Bokdam, S., 268n Bolzoni, L., 205n Bonaventura da Bagnoregio, santo, 24 e n Bonet, N., 14n, 17 e 17n, 20, 24 Boneti, N., 17n Bönker-Vallon, A., 40 Bossy, J., 118 e n, 227n Boucher, J., 227n, 248n Bracciolini, P., 189n Brahe, T., 206n Brancoft, R., 120, 121, 122, 123, 124 Brecht, J. van, 51n Brésard, L., 293n Brictano, G.: vd. Brecht, J. van Brisson, L., 136n Bristow, M., 113 Bristow, R., 114n Broughton, H., 107 Brown, H. F., 98n Bruers, A., 149n Brunnhofer, H., 4, 75n Buchanan, 122n Bullinger, H., 122 Buon, G., 297n Burchardus, N., 138n Buridano, G., 154 e n, 156n, 162n, 169, 170 e n Busa, R., 52n Busson, H., 130n Butler, J., 98n Calvino, G., 100n, 101n, 102, 108, 122, 125, 185n, 229n, 261 Camden, 102 e n Camillo, G., 205n

Indice dei nomi Campanella, T., 139n, 148n, 229n, 230n Canone, E., IX, 3, 38n, 49n, 57n, 87n, 133n, 138n, 200n, 289n Canonico, G., 17 e n Canziani, G., 5, 12, 144n, 163n, 202n Cardano, G., 110 e n, 112 Carlo V, imperatore, 255 Carlo IX, re, 239 Cartari, V., 194n Carter, H., 122n Casimiro, G., 245 Castelnau, M. de, signore di Mauvissière, 92, 98, 102, 103, 228, 229, 230, 231, 232, 241, 250, 257 Caterina de’ Medici, 227n, 247, 254, 258n Cavaillé, J.-P., 308 Cavallo Guzzo, G., 50n Cecil, W., 92, 228, 231 Celio Rodigino, 130n Champernon, A. de, 101n Chaplaine, B. T., 112n Chatton, W., 14n, 25 Chevallier, P., 227n, 228n, 241n, 248n, 255n, 256n Chevallon, G., 297n Ciampoli, D., 230n Cicerone, 130n, 217 Ciliberto, M., IX, 2, 89n, 119n, 127n, 163n, 200 e n, 202n, 208n, 212n, 214n, 215n, 220n, 225 e n, 226n, 227n, 229n, 231n, 234 e n, 253n, 256n, 261 e n, 262 e n, 264n, 269n, 287n, 308 Clark, J. R., 274n Cleante di Asso, 86n Clemente VIII, papa, 213 Clericuzio, A., 49n Clerk, T., 93 Cobham, H., 101 e n, 228, 256 Coccoli, G., 219n Coligny, G. de, 227n, 255 Collines, S. de, 297n Collins, T., 201n Collinson, P., 89 e n, 96n, 106 e n, 107n, 227n Conti, L., 30n Copernico, N., 10, 113, 114, 115, 117, 152n, 190

Indice dei nomi Cornari, ambasciatore di Venezia, 92 en Corsano, A., 128n Costello, H., 296n Coster, J. de, 297n Couchman, J., 305n Courtenay, W. J., 158n, 159n Cozzi, L., 5, 6, 8 Crawford Lomas, M. A., 98n Crawford Lomas, S., 98n, 101n Cremarcoli, G., 292n Crombie, A. C., 14n Crouzel, H., 293n Culpepper, M., 93n, 95 e n, 96, 97, 107 Cusano, N., 6, 17 e n, 18, 19, 24, 33, 34, 35 e n, 39, 40n, 41, 42 e n, 44, 45, 46, 47, 63n, 70 e n, 75n, 76n, 79n, 83n, 84n, 86n, 87n, 184, 186 e n, 187n, 190, 302 e n D’Ascia, L., 60n Dagron, T., 308 Damaso, papa, 299n Daniélou, J., 293n Dante Alighieri, 1, 141n De Bernart, L., 269n De Caprariis, V., 227n De Ruggiero, G., 212n De Vio, T., 178 Dee, J., 102n Del Medigo, E., 171 e n, 173 e n, 174 en Della Casa, G., 108 Democrito, 21n, 27n, 137n, 193n, 204, 206 e n, 283 Demostene, 110n Descartes, R., 162 e n Devenet, I. B., 201n Dick, S. J., 156n Dicson, A., 231, 232 Digges, T., 3 Dini, P., 10 Diogene di Sinope, il Cinico, 142n, 265, 281 Dionigi Areopagita, pseudo, 63n, 70, 83 Dod, J., 105 Dudley, R., conte di Leicester, 95n, 96n, 107n, 228, 232, 256 e n, 257, 258, 261

311 Duhem, P., 14n, 17n, 20 e n, 27n, 28n, 156n Duns Scoto, G., 2, 28, 159, 160n, 169, 175, 176, 177, 178 e n, 179 Egidio Romano, 130n Egli, R., 3, 49 e n, 51n, 52 e n, 53n, 54, 55 e n, 58 e n, 200n Elia di Creta: vd. del Medigo, E. Elia, profeta, 276 Elisabetta I, regina d’Inghilterra, 3, 90, 92 e n, 93n, 94n, 96 e n, 97, 98 e n, 102 e n, 103 e n, 107, 112, 117, 124, 125, 126, 226, 227 e n, 228 e n, 231, 232 e n, 235, 241, 247, 248, 254, 255, 256, 257, 258, 259, 260, 261 Eller, M. P., 12 Ellero, M. P., IX Ellis, E. L., 219n Empedocle, 77n, 146n, 190, 206 Engammare, M., 305n Enrico Giulio, duca di Braunschweig, 51n, 68 Enrico II, 239 Enrico III di Valois, 223, 226, 227 e n, 228 e n, 232, 239, 240, 241, 242, 247, 248, 249, 253, 254, 255 e n, 256, 257 e n, 258 e n, 259, 260 Enrico IV, di Navarra, 227 e n, 240 e n, 241, 242, 248, 258n, 260 Enrico, duca di Guisa, 227, 241, 242, 247, 260 Epicuro, 142n, 197n, 202n, 281 Eraclito, 42, 77n Erasmo da Rotterdam, 60n 109n, 110n, 123, 288 Ermete Trismegisto, 62, 64 Ernout, A., 206n Esopo, 9 Essen, L. van der, 256n, 260n Euclide, 18, 43 Evelyn, J., 201n Farnese, A., 255, 256 e n, 257, 258, 259, 260 e n, 261, 262 Fattori, M., 9, 133n Faye, A. de la, 229n, 230n Federico III di Sassonia (il Savio), 109 Fellmann, F., 9

312 Feyens, T., 140n Ficino, M., 33, 34, 35, 36 e n, 37 e n, 38, 39 e n, 40, 41n, 42, 57 e n, 64 e n, 70, 74n, 86n, 109 e n, 110, 116 e n, 129n, 130 e n, 131n, 133n, 140n, 142n, 191 e n, 195, 206n, 263 e n, 264, 265 e n, 266 e n, 267 e n, 268 e n, 270n, 271 e n, 273n, 274n, 275 e n, 276 e n, 277n, 280, 281n, 285n, 290n, 294n Field, 117, 119 e n Filippo II, 98, 231, 235, 254, 255, 256n, 261 Filolao, 146n Fiorentino, F., 209 e n, 212n, 308 Firpo, L., 35n, 50n, 51n, 57n, 58n, 59n, 60n, 61n, 62n, 64n, 65n, 74n, 76n, 79n, 87n, 92n, 127n, 143n, 149n, 202n, 204n, 213n, 241n, 273n, 308 Florio, J., 7, 95n, 115 Fracastoro, G., 6 Francesco d’Assisi, santo, 138, 139n, 149n Francesco I, re, 239 Francesco II, re, 239 Fraser, A., 250n Fulke, W., 114n Gaeta, F., 217n, 238n Gaetano, il (o il Caietano): vd. de Vio, T. Gager, W., 94n Gaigny, J. de, 297n Galeno, C., 140n Galilei, G., 8, 9, 10, 11, 39 Galluzzi, P., 8 Garin, E., 76n, 90n, 91n, 133n, 189 e n, 205n, 206n, 208n, 266n Garnier, R., 239 e n Gassendi, P., 201n Gatti, H., 9, 91n, 258n Gatto, R., 13n, 30n Gellibrand, E., 95, 105, 117, 118, 122 en Genebrard, G., 288 Gentile, G., 1, 77n, 90 e n, 308 Gentili, A., 106, 115, 261, 262 Gerber, J., 49n

Indice dei nomi Geremia, profeta, 104, 293 Gesù Cristo, 98, 99, 100n, 101n, 109, 119, 122, 139 e n, 147n, 148 e n, 149 e n, 229n, 230n, 235, 236, 238, 253 e n, 271, 290n, 291 e n, 292 e n, 296n, 304, 305 Gfrörer, A. F., 50n, 53n Ghisalberti, A., 154 e n Giacomo I, re d’Inghilterra, 262 Giamblico, 279n Giancotti, F., 208n Giorgio Veneto: vd. Zorzi, F. Giovanni d’Austria, 255 Giovanni di Jandun, 168 e n, 169, 171n Giovanni di Württemberg, 144n Giovanni Gabriele da Saluzzo, Inquisitore a Venezia, 58 Girolamo, santo, 205n, 288, 299n Goclenius (Göckel), R., 55 e n Gorgia, 190 Granada, M. A., IX, 80n, 158n, 162n, 163n, 189n, 190n, 195n, 199n, 202n, 263n, 268n, 308 Grapheus, J., 129n Gregorio di Nissa, 288 Gregorio Magno, papa, 288, 300n Gregorio XIII, papa, 235 Gregory, T., X, 3, 49n, 62n, 64n, 78n, 201n Grynaeus, S., 34n Gryphius, N., 52n Guerrico d’Igny, 296 e n, 297n Guglielmo d’Orange, 255, 256 Guglielmo di Conches, 62n, 64n Guglielmo di Saint-Thierry, 288, 296n Gundisalvi, D., 130n Gutch, J., 93 Guy, J., 89n Guynne, M., 94n, 95 e n Guzzo, A., 49n, 50n, 52n, 54n Guzzo, C., 50n Hainzel von Degerstein, J. H., 51n Harclay, H. of, 14n, 27n Haubst, R., 45n Health, D. D., 219n Heipcke, K., 15n, 37n, 40n Hercule-François, duca d’Alençon,

Indice dei nomi 102n, 227 e n, 228 e n, 231, 240, 241, 247, 248, 249, 253, 254, 255, 256 e n, 257 e n, 258 Hersant, L., 308 Hersant, Y., IX, 308 Heumann, C. A., 50n Heuser-Keßler, M.-L., 39n Hieronymi Stridonensis, 289n Hill, C., 261n Hill, T., 113, 115n Hissette, R., 156n, 168n Hoffmann, E., 63n Hooker, R., 106, 107 Hotman, F., 257 Hotman, J., 115 Hume, A. S., 92n Humphrey, D., 93n Imbriani, V., 308 Ingegno, A., 111n, 115n, 141n, 191n, 206n, 263n, 264n Invernizzi, G., 50n Iofrida, M., 86n Isaia, profeta, 104, 302 Jacquiot, J., 258n Jame, W., 94n Jewell, 106 Jung, M. R., 239n, 260n Kaske, C. V., 274n Kasprzak, J., 103n Katinis, T., 309n Kelly, F., 260n Kenny, A., 14n Kieszkowski, B., 147n Klein, R., 133n, 134n, 143n Klibansky, R., 63n, 138n, 276n Knox, 122n Kretzman, N., 14n Kristeller, P. O., 57n, 191n, 268n La Galla, G. C., 103n La Mothe-Fénelon, ambasciatore francese a Londra, 227n Lalande, A., 201n Languenet, H., 257 ∫aski, A., 93 e n, 95n, 96, 97, 98 e n, 99, 100, 100n, 101 e n, 102 e n, 103 e n, 107

313 Lasswitz, K., 193n Lattanzio, L. C. F., 238 Leclercq, J., 293n Lemnius, L., 283 Leonardi, C., 292n Leu, H. J., 49n Levergeois, B., 253n Leyson, T., 94n Limentani, L., 50n, 92, 104 e n, 105n, Lincolnes Inne Gent, T. L. of, 112n López, S. G., 191n Loppin, J., 55n Lorenzo, santo, 142n Lubin, 193n Lucrezio Caro, T., 14n, 25, 189, 190 e n, 192 e n, 193 e n, 194 e n, 195n, 196, 197n, 199n, 201, 202 e n, 203 e n, 206 e n, 207 e n, 208 e n, 209 Lullo, R., 54n, 75 e n, 79n, 129n Lutero, M., 100n, 101n, 102, 109n, 122, 123, 124, 144, 185, 222, 253n, 262 Machiavelli, N., 110 e n, 111e n, 112, 116, 124, 125, 212n, 215 e n, 216 e n, 217 e n, 222 e n, 223 e n Madan, F., 95n Madruzzi, L., cardinale, 49n Magnenus, 193n Maier, A., 14n, 28n, 166n, 171n, 175 e n, 178n Maierù, L., 30n Mann, N., 89n, 163n, 227n Marcel, R., 191n Margherita di Valois: vd. Margot, figlia di Caterina de’ Medici Margot, figlia di Caterina de’ Medici, 227n Marprelate, M., 89n Marrone, C., 219n Massimiliano II d’Austria, imperatore, 101n Matteo, evangelista, 104 Matthew, T., 93n, 95 e n, 96 e n, 97, 107, 116, 117 Maurice, N., 94n Mayor, 93n McGinn, B., 261n

314 McNulty, R., 104 e n Melisso, 77n Mendoza, B. de, 92n, 98, 102n, 231 Mercati, A., 35n, 64n, 128n., 204n, 205n Mersenne, M., 162 e n Mesnard, P., 219n Mexia, P., 130n Michel, P.-H., IX, 8, 184n, 194n Migne, J. P., 55n Mocenigo, G., 49n, 57 e n, 58 e n, 59 e n, 60 e n, 149n, 202n, 213 Mojsisch, B., 42n Montfaucon, B. de, 55n Monti, C., 31n, 152n, 155n, 185, 189n, 192n, 199n, 207n Moody, E. A., 154n Morian, B. T., 49n Moro, G., 98 e n, 256 Morson, J., 296n Moschetti, A. M., 50n Mosè, 62, 127, 204 e n, 205n, 206 e n, 271, 277n, 292 Muccillo, M., 219n Müller, J., 6 Mulsow, M., 38n Muquardt, C., 256n Murdoch, J. E., 14n, 24n N. W. [Whithalk, N.?], 95n, 114, 115 Nardi, B., 168n, 171n, 174n, 180n Naudè, G., 264 e n Neile, R., 96n Neuser, W., 15n, 40n Nicastro, O., 86n Nichols, J., 95n Nicocreonte di Cipro, 265n Nicolas d’Oresme, 156n Nifo, A., 116, 171e n, 172 e n, 173n, 174, 175n Norov, A. S., 59n Norris, S., 106n Nutius, P., 297n Occam, Guglielmo di, 14, 19, 156n, 159, 175 Ochino, B., 100n Olimpio di Alessandria, 136n Ophir, A., 308

Indice dei nomi Ordine, N., IX, 308 Origene, 86 e n, 288, 289, 290 e n, 291 e n, 292 e n, 293n, 294n, 296, 299 e n, 300, 304 Orsini, N., 92 Otto, S., 40n Paganini, G., 144n Palingenio Stellato, M., 83, 163n, 190 e n, 218, 264 Panofsky, E., 138n, 276n Paoli, C., 59n Paolo di Tarso, santo, 86, 124, 141n, 147n, 229n, 230n, 266, 276n, 277 e n, 290n Papi, F., 189n, 194n, 195n, 199n, 202n, 208n Paracelso, 150, 190 Parmenide, 33, 34, 42, 77n, 85n Patrizi, F., 19 e n, 20 e n, 23n, 24, 25 e n, 26, 28, 29, 211, 212 e n, 213, 214 e n, 215 e n, 216, 217 e n, 218, 219 e n, 220, 222 Perrone Compagni, V., 129n, 138n, 139n, 144n, 145n, 271n Petrarca, F., 238 Piaia, G., 267n Piazzoni, M. A., 292n Pibrac, M., 257n Pico della Mirandola, G., 108, 111n, 116n, 147n, 149, 205n Pico della Mirandola, G. F., 76n, 83, 111n, 116n Pier Damiani, 159 Pietro d’Abano, 108 Pietro di Tarantasia, 157n Pietro Lombardo, 159 e n Pietro, apostolo, 98, 105 Pinborg, J., 14n Pinchard, B., 178 Pio V, papa, 245 Pitagora, 27, 42, 43, 76, 77n, 146n, 266 Platone, 33, 34, 35, 36 e n, 39 e n, 40 e n, 41 e n, 42, 43, 46, 47, 57n, 63n, 110n, 111n, 164, 194n, 213, 218, 265, 273n, 277n Plessis-Mornay, P. du, 257 Plotino, 57 e n, 64, 70, 136n, 191n, 266, 268, 270n, 277n

Indice dei nomi Pluta, O., 42 Polemone, 265 e n Pollard, A. W., 116n Pomponazzi, P., 108, 109, 110 e n, 112, 130n, 139 e n, 140n, 149n, 150, 171 e n, 173 e n Pontano, G., 195, 217 e n Poppi, A., 171 e n, 172n, 173n, 174n, 178n Porfirio, 70, 136n Porro, P., 56n Primaudaye, P. de la, 130n Procacci, G., 111n Proclo, 64, 166, 288n Prosperi, A., 145n Prost, A., 129n Quaglioni, D., 308 Quarta, D., 12 Quintiliano, 217n Raimondi, E., 215n Rainolds (Reynolds), J., 105, 106 e n, 107 e n, 108 e n, 109 e n, 110 e n, 111n, 112, 113, 114, 115, 116, 117 Rak, M., 206n Ramo, P., 108 Randi, E., 157n, 158n Rattansi, P., 49n Reale, G., 162n Reardon, B., 90n Recorde, R., 3 Redgrave, G. R., 116 Regiomontano: vd. Müller, J. Reuchlin, J., 146 e n, 147n, 149 Ricchieri, L. M.: vd. Celio Rodigino Ricci, S., 201n, 225n, 250n Ringler, W., 106n Rittershausen, K., 204n Robin, L., 206n Robortello, F., 217n Rochais, H. M., 293n Rodolfo II d’Asburgo, imperatore, 192n Ronsard, P. de, 239, 240n Rufino, 288, 289, 290n Sabellio, 61 Sachard, M., 256n

315 Sailor, D. B., 206n Salis, F., 53 Salis, J., 53n Salomone, 42, 64n, 186n, 287 e n, 288, 290n, 295, 300, 305 Salutati, C., 238 Salvestrini, V., 58n Sander, N., 114n Sandes, vescovo di Londra, 122 Sauzet, R., 227n Savile, H., 114 Savonarola, G., 111n, 116n Saxl, F., 138n, 276n Scaligero, G., 110n Scapparone, E., IX, 281n Schiaffini, A., 1 Schiavone, M., 50n Schmitz, R., 140n Schoppe, K., 49n, 204n Sciacca, M. F., 50n Scoto Eriugena, G., 64n Seidel Menchi, S., 60n Seidengart, J., 308 Sennert, D., 193n, 201n Senofane, 77n, 152n Sidney, P., 125, 232, 257, 258, 259, 261 Sigieri di Brabante, 168 e n Sigwart, C., 51n Simonetti, M., 291n, 299n Singleton, T., 94n Socrate, 137n, 266, 283 Soldati, B., 195n Sorabji, R., 156n, 166n Spampanato, V., 7, 229n, 289n, 308 Sparke, T., 106 Spedding, J., 219n Speroni, S., 217n Spinoza, B., 79n Spruit, L., 43n, 128n, 133n, 135n, 269n Steiger, R., 83n, 186n Steuco, A., 64n, 206n Stone, L., 97n, Strieder, F. W., 49n Strozzi, 92 Stuart, M., 228, 231, 235, 250 Sturlese, R., 11, 34n, 41n, 42 e n, 60n, 74n, 131n, 133n, 191n, 201n, 204n, 206n, 263n, 264n, 280n

316 Tagliapietra, G., 171 e n, 172 e n, 173n, 175 Talbot, C. H., 293n Tallarigo, C. M., 308 Tannery, P., 162n Tansillo, L., 152n Temistio, 70n Tempier, E., vescovo di Parigi, 156 e n, 167 Tertulliano, Q. S. F., 110 Tessitore, F., 118n Throckmorton, F., 230 Tirinnanzi, N., IX, 134n, 205n, 264n, 281n Tocco, F., 49n, 50n, 51n, 53n, 54n, 58n, 59n, 62, 63n, 70n, 71 e n, 72n, 73 e n, 75n, 79n, 80n, 81n, 86 e n, 127 e n, 128n, 129, 122n, 199n, 204n, 208n, 264n, 280 e n, 308 Toland, J., 86 e n Tommaso d’Aquino, santo, 52n, 55 e n, 56n, 63n, 65n, 70 e n, 74 e n, 79n, 81, 83 e n, 84, 85n, 86n, 136n, 154, 156n, 159 e n, 162n, 169, 175, 176 e n, 177, 178 e n, 179, 186n, 276 Tooker, W., 94n Trithemius, J., 129n, 143 e n, 144n, 145 Trousson, R., 240n Underhill, J., 95n, 107n Usher, G., 105 e n, 119n, 123n Vaenius, G., 260 Vaenius, O., 260 Valletta, G., 206n Van Riet, S., 140n Vanini, G. C., 139n, 149n, 150 Vansteenberghe, E., 45n Vasoli, C., 97n, 211n, 217n, 267n Védrine, H., 28 e n, 184n, 186n

Indice dei nomi Verbeke, G., 136n Vico, G., 238 Villeroy, N. de, 255n Virgilio, 197n Vitelli, G., 49n, 50n, 51n, 53n, 58n, 59n, 127n, 308 Vivanti, C., 212n, 240n Vives, L., 108, 110n Wagner, A., 77n Wälli, J., 49n Walsingham, F., 92, 101 e n, 107n, 228, 231, 232, 256, 257 Warden, 93n Wechel, J., 51n, 67 Wenck, J., 45 e n West, R., 105 Westphaling, H., 93 Whitgift, J., arcivescovo di Canterbury, 90, 96n, 226, 261 Wicke, E., 15n, 40n Wickham, J., 94n Wilcox, T., 119 e n Wolfe, J., 111n, 112n, 119, 124 Wood, A., 93n, 95n, 97n, 106 e n Yates, F. A., 91 e n, 119n, 190n, 194n, 208n, 226 e n, 228, 241 e n, 247 Yeldard, A., 93n Zambelli, P., 130n, 144 e n, 147n Zampini, M., 258n, 259n Zanier, G., 140n Zarka, Y.-C., 163n, 202n Zenone, 13 Zielinski, R., 103n Ziletti, G., 195n Zimara, M. A., 171 e n, 173n Zoroastro, 137n, 266, 271 e n, 276 e n, 277n, 283 Zorzi, F., 139 e n Zoubov, V. P., 14n, 17n Zwingli, H., 100n