Dialettica e interpretazione. Studi su Hegel e la metodica del comprendere

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Gianluca Garelli

Dialettica e interpretazione Studi su Hegel e la metodica del comprendere

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Gianluca Garelli Dialettica e interpretazione Studi su Hegel e la metodica del comprendere

Il volume è frutto di una ricerca svolta presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze e beneficia per la pubblicazione di un contributo a carico dei fondi d’Ateneo dei quali risulta titolare il prof. Gianluca Garelli.

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Indice

INTRODUZIONE. Dialettica e interpretazione Nota al testo

p. 7 20

Parusia dell’assoluto. Heidegger e l’introduzione alla “Fenomenologia dello spirito”

23

II.

Legge e riconciliazione: lo spirito del cristianesimo

39

III.

Il senso dell’infelicità della coscienza

55

IV.

Antigone e la dialettica: una riconsiderazione

105

V.

Aristofane come figura dello spirito

123

VI.

Il carattere passato del sublime

165

I.

VII. La dialettica sulla soglia.

Nota sulla teleologia secondo Hegel

177

VIII. “Un’ideale tragedia di Edipo”.

Peter Szondi e il tragico come dialettica

195

Un monumento per il classicismo. La lezione hegeliana di Peter Szondi

227

X.

Estetica, dialettica ed ermeneutica materiale

245

XI.

Ermeneutica e metodica, a partire da Wolfgang Wieland

267

IX.

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XII. Hegel e lo spirito della traduzione

283

Tavola delle abbreviazioni

299

Indice dei nomi

301

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Introduzione

Dialettica e interpretazione

1. Gli studi raccolti in questo volume sono legati a ricerche in corso di svolgimento da parecchi anni, più volte esposte in occasione di convegni, seminari o dibattiti; spesso hanno già avuto una pubblicazione precedente, che per l’occasione attuale è stata tuttavia rivista e integrata in varia misura. A richiederlo era lo stato dell’arte, come si suol dire; o anche più semplicemente il personale approfondimento del lavoro di ricerca. La decisione di riunire questi saggi in un libro è maturata con la convinzione che tale lavoro sia giunto a un momento di svolta: e di ciò mi accingo a rendere conto in breve in questa introduzione. Il mestiere della lettura e dell’esegesi di testi della filosofia classica – in particolare il confronto sistematico con la Fenomenologia dello spirito di Hegel, ma non solo con essa, né fortunatamente solo con il pensiero hegeliano – mi ha reso via via familiare una pratica interpretativa che nel tempo ho concepito sempre più consapevolmente nei termini di un’ermeneutica dialettica. L’espressione non suggerisce probabilmente un’irruzione di novità, né avrebbe la pretesa di farlo. Essa, tuttavia, esprime una presa di posizione rispetto al dibattito degli ultimi due decenni intorno al destino della filosofia dell’interpretazione, e lo fa con una scelta di campo che mi pare opportuno precisare in questi termini: qui non si sta parlando di un’ambiziosa teoria generale dell’interpretazione, bensì appunto di una pratica, ancorché naturalmente di una pratica critica e riflessiva1. In

1

Che questa opzione non sia incline a risolvere l’ermeneutica filosofica in una “Sache der Fundamentalontologie” (quale – secondo la critica di Peter Szondi – essa sarebbe divenuta sulla linea post-heideggeriana) dipende certamente, per quel che può valere, anche da una propensione per così dire affatto personale. Chi conosce l’ubriacatura heideggeriana che ha segnato, tra esaltazione e polemica, gran parte della filosofia italiana degli anni ottanta del secolo scorso

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questione cioè è un’attività di volta in volta occasionata (il termine è mutuato da Günther Anders, anche se me ne servo in un’accezione che propriamente andersiana non è2) dall’incontro con un’alterità – un oggetto, un tema, un testo, un problema – la cui frequentazione può contribuire allo sviluppo di un certo habitus. In questo senso mi pare decisamente preferibile parlare di atteggiamento ermeneutico, prima che di metodo; sebbene anche quest’ultima espressione, al di là dell’interdetto gadameriano, meriti piena considerazione nel presente contesto, soprattutto se restituita alla sua etimologia3.

può forse comprendere, fra l’altro, il senso d’un certo disagio nei confronti della controversa figura storica dell’uomo e del pensatore Martin Heidegger: un disagio che per manifestarsi non aveva bisogno della recente pubblicazione dei famigerati Quaderni neri, con il dibattito che ne è seguito. È difficile del resto non riconoscere ancor oggi una qualche ragione di merito a Theodor Wiesengrund Adorno, quando questi intravvedeva nel linguaggio heideggeriano i germi perniciosi del “gergo dell’autenticità” (cfr. Th.W. Adorno, Il gergo dell’autenticità. Sull’ideologia tedesca, 1964, trad. it. di P. Lauro, introd. di R. Bodei, Bollati Boringhieri, Torino 1989): ideologia dei cui effetti nefasti anche la cultura italiana fatica a liberarsi, invischiata com’è, e in maniera del tutto bipartisan, nelle pastoie spesso un po’ sterili ereditate da una pur grandiosa tradizione storicista. (Come formidabile antidoto alla mistica oracolare di certa scolastica heideggeriana, al limite, non resta che accontentarsi di rileggere ogni tanto le pagine dedicate da Thomas Bernhard al “filisteo nazionalsocialista coi pantaloni alla zuava”: cfr. T. Bernhard, Antichi Maestri. Commedia, 1985, trad. it. di A. Ruchat, Adelphi, Milano 1992, p. 60.) Anders parlava di Gelegenheitsphilosophie (“filosofia d’occasione”) in riferimento a una saggistica filosofica che non poteva ricondursi né alla critica letteraria né alla filosofia accademica propriamente detta, bensì a “un ibrido incrocio tra metafisica e giornalismo, cioè un filosofeggiare che ha per oggetto la situazione odierna, squarci caratteristici del nostro mondo d’oggi” (cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato. 1: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, 1956, trad. it. di L. Dallapiccola, introd. di C. Preve, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 43). È evidente che questa accezione di “filosofia d’occasione” non può estendersi, per definizione, a una serie di studi prettamente accademici di argomento hegeliano. Mi pare tuttavia non manchino buoni motivi per applicare un atteggiamento occasionalista (nella consapevolezza delle complesse derivazioni storico-filosofiche del termine) anche al lavoro ermeneutico, in particolare quello di ispirazione dialettica. Mi auguro che questa affermazione possa trovare riscontro e almeno parziale conferma nei saggi che compongono questo volume. Cfr. C. Gentili, Ermeneutica e metodica. Studi sulla metodologia del comprendere, Marietti, Genova 1996.

2

3

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Dialettica e interpretazione

Per un verso, il punto di vista dal quale prendono le mosse questi percorsi hegeliani è allora – per citare Adorno – la convinzione “che la dialettica […] non è un punto di vista filosofico accanto ad altri ugualmente possibili, ma che l’impostazione dialettica è propriamente contenuta nell’impostazione filosofica”. In tal senso la filosofia (“anche se qui a rigore non si possono dare definizioni”, ammonisce giustamente Adorno) può presentarsi “come il movimento dello spirito la cui intenzione propria e peculiare è la verità, senza che essa possa presupporre di possedere questa verità come qualcosa di pronto e definitivo, contenuto in una delle sue proposizioni particolari o in un’altra forma immediata qualsiasi”4. Per altro verso poi, ove la pratica dell’interpretazione si configuri anche come un lavoro di paziente e dinamico confronto con la propria eredità storica, essa si presenta come una continua e mai compiuta interrogazione tanto sul senso del classico (il quale, per parte sua, è tale perché possiede anzitutto la capacità di tenere viva questa dynamis, esercitando in ciò la propria permanente attualità), quanto sui costi effettivi di quella eredità stessa. Tale pratica si riconosce così pienamente nella tradizione ermeneutica: e ciò al di là sia degli eccessi di quanti per lungo tempo hanno preteso di trasformare questo termine in una moda filosofica fin quasi a svuotarlo di significato, sia delle scomuniche di coloro che, più di recente, si sono affrettati – con uno zelo talora comico e degno di altra causa – a ripudiare del tutto questa parola. Se possibile, in questa sede si vorrebbe invece restituire il termine ermeneutica a un uso insieme più sobrio e filosoficamente appropriato. L’accostamento di dialettica ed ermeneutica, per come viene qui proposto, presenta almeno una declinazione peculiare: il fatto cioè che entrambi gli elementi dell’endiadi possano assumere di volta in volta, a seconda della prospettiva in cui li si mette a fuoco, una prevalente funzione di sostantivo oppure di aggettivo. Si potrà così parlare di una dialettica impegnata in un’attività ermeneutica, cioè in una pratica di interrogazione e interpretazione del testo; ma anche

4

Th.W. Adorno, Terminologia filosofica (1973), a c. di S. Petrucciani, trad. it. di A. Solmi, Einaudi, Torino 2007, p. 83.

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di un’ermeneutica intesa a concepire l’attività stessa del filosofare come un’attività dialettica, ovvero impegnata nella costante definizione di sé attraverso il confronto e il riconoscimento del proprio altro. Aggiungo, a scanso di equivoci: è fuori discussione che questo modo di intendere l’attività filosofica non è l’unico possibile; e che anzi esso oggi, su scala planetaria, sembra costituire tutt’altro che una koiné. Nel riproporlo in questa occasione, pur con tutta la modestia del caso, intendo semmai esprimere la convinzione che il tentativo di etichettare questo approccio come un sapere meramente storico-critico e ricostruttivo deriva spesso da un fraintendimento superficiale, segno di una certa insensibilità circa le questioni in gioco: cosa che tra l’altro sembra ribadire, se mai ce ne fosse bisogno, proprio la diffusa mancanza di effettiva carità ermeneutica che affligge gran parte della cultura contemporanea.

2. Gli addetti ai lavori sanno forse che il prolungato confronto di chi scrive con il testo della Fenomenologia dello spirito ha prodotto, negli anni passati, anzitutto un’edizione italiana del capolavoro hegeliano5. Essa ha in genere ricevuto un’accoglienza benevola, e anche – come è giusto – qualche utile osservazione critica e qualche opportuno suggerimento, che spero di mettere a frutto quanto prima in una seconda edizione. Mi pare che questa sede sia intanto l’occasione migliore per ribadire quanto scritto nella nota editoriale, e che finora ho avuto modo di esplicitare solo in occasione di dibattiti pubblici e conversazioni private: la mia traduzione non può oggettivamente contrapporsi alla storica versione di Enrico De Negri, sulla quale si sono formate intere generazioni di studiosi italiani, né ambisce a farlo. Essa, se mai, è stata concepita come serrato e costante dialogo con il testo di De Negri, e come ponte fra la nostra tradizione hegeliana (che proprio a traduttori come De Negri – per citare solo lui – deve moltissimo) e le nuove frontiere spalancate dalla Hegel-Forschung degli ultimi decenni, in particolare nell’ambito post-analitico. Lo può verificare chiunque abbia la pa5

G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito. Sistema della scienza, parte prima, a c. di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008.

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zienza di ponderarne le scelte, che in parte ho anche cercato di motivare in qualche studio successivo6. Vero è che “per il traduttore”, come ammoniva Franz Rosenzweig, “non c’è propriamente un bene e un meglio, ma solamente un peggio e un meno peggio”7; farsi paralizzare da questa affermazione significherebbe però semplicemente rinunciare al lavoro del tradurre, che è attività insieme dialettica ed ermeneutica per eccellenza, come si è inteso chiarire nell’ultimo capitolo di questo volume. In un libro del 2010, intitolato Lo spirito in figura, ho poi cercato di indagare principalmente la relazione fra momento estetico e momento logico nel cammino ascensionale dello spirito, diretto alla realizzazione della propria autocoscienza. Mi sembrava importante insistere sul fatto che, nel quadro della Fenomenologia, la spiritualizzazione del senso non traduce la famigerata Aufhebung in una pura e semplice cancellazione del sensibile, né tantomeno culmina in un rinnegamento per così dire gnostico della materialità e della corporeità8. Anzi: in una prospettiva dialettica compiutamente intesa, le cose non possono assolutamente risolversi in questo modo – se è vero che il movimento dialettico consiste semmai proprio nella inquietudine (Unruhe) determinata dall’identità di identità e non-identità, così come dall’inseparabilità di immediatezza e mediazione. Lo spiritualizzarsi del senso non può allora che esigere una continua tesi dell’estetico, ovvero una costante posizione (Satz) del sensibile, e con ciò del momento rappresentativo e pre-concet6

7 8

Cfr. G. Garelli, Lo spirito in figura. Il tema dell’estetico nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, Il Mulino, Bologna 2010 (in particolare il capitolo II, dedicato al tema della Meynung, e il capitolo VI, sulla Versöhnung); nonché Id., Hegel e le incertezze del senso, Ets, Pisa 2012. F. Rosenzweig, Briefe, Schocken, Berlin 1935, p. 625. Interessante ricordare, su questo punto, quanto coraggiosamente affermato da R. Bodei, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, Il Mulino, Bologna 2014, p. 148: “Non c’è in Hegel alcuna posizione gnostica, alcuna Ur-sophia che esista indipendentemente dal mondo” – e questo nonostante la presenza indubbia, nel sistema hegeliano, non solo dell’eredità di Proclo, ma anche di istanze peculiari del pensiero escatologico. Cfr. in proposito soprattutto J. Taubes, Escatologia occidentale (1991), a c. di E. Stimilli, pref. di M. Ranchetti, Garzanti, Milano 1997; ma anche e più sinteticamente Id., Hegel, in Encyclopedia of Morals, a c. di V. Ferm, Peter Owen Ltd., London 1957, pp. 207-212.

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tuale: poiché il movimento dell’esistenza spirituale può descriversi anche, e del tutto propriamente, come questa inesauribile opera di cancellazione e riscrittura dell’estetico. Conformemente a tale quadro interpretativo, in altre sedi ho quindi cercato di mettere in questione una lettura della fine della ‘religione artistica’, e più in generale del destino della rappresentazione, concepita in termini d’uno sguardo puramente elegiaco9. Si pensi, per esempio, al famoso passo della Fenomenologia in cui Hegel parla delle opere dell’arte classica come di “bei frutti staccati dall’albero”, e di un’affascinante “fanciulla” che – diversamente dall’immediatezza con cui la natura garantiva quei doni – li offre adesso “nella radiosità dello sguardo consapevole di sé e del gesto del porgere”10. Un interprete autorevole come Jean-Luc Nancy ha sostenuto che, nella redazione di questa pagina, Hegel probabilmente oscillava fra la citazione di figure femminili pompeiane riprodotte nelle incisioni d’un volume di Cristoph von Muhr e il ricordo affatto personale di episodi autobiografici di gioventù legati a Nanette Endel11. Ora, in questa sede non è possibile discutere nel merito le suggestioni proposte dal filosofo francese per spiegare questo passaggio del testo hegeliano: ci si limiterà a osservare che la “fanciulla che succede alle Muse”, come la chiama Nancy, forse non sarebbe da vedere solo come figura di transizione verso l’istituzionalizzarsi delle forme plurali e irriducibili d’un arte ormai emancipata dall’abbraccio della religione, ma andrebbe intesa anzitutto come una rappresentazione efficace – e proprio in quanto tale – dell’indispensabilità dell’elemento estetico nel cammino del discorso filosofico verso la trasparenza del concetto. Si tratta insomma ancor sempre di preservare (al limite, al di là delle stesse intenzioni dell’autore) il valore propriamente figurale della strategia adottata da Hegel nel descrivere la “storia romanzata dello spirito”, nella convinzione fra l’altro che l’assenza di un’esplicita menzione nella Fenomenologia della parola ‘estetica’, lungi dal ne9

10 11

Cfr. G. Garelli, L’estetica nella “Fenomenologia dello spirito”, in L’estetica di Hegel, a c. di M. Farina, A.L. Siani, Il Mulino, Bologna 2014, pp. 49-66. FdS, p. 704 (GW IX, 402). Cfr. J.-L. Nancy, La fanciulla che succede alle Muse, in Le Muse (1994, 2001²), trad. it. di C. Tartarini, Diabasis, Reggio Emilia 2006, pp. 63-80.

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gare il valore di quell’opera nella definizione stessa della disciplina che porta questo nome, ne mette problematicamente in crisi fin dalle origini lo statuto sistematico. Con queste premesse in uno studio del 2012, Hegel e le incertezze del senso, ho quindi cercato di approfondire l’indagine intorno alla prima figura fenomenologica (la ‘certezza sensibile’) e al significato del suo ripresentarsi ricorsivo in luoghi successivi dell’opera, sotto specie diverse (in particolare nel rapporto fra fede e illuminismo del cap. VI, nell’interpretazione della religione cristiana del cap. VII e nel ‘sapere assoluto’ del cap. VIII). Il puro e semplice “stare a vedere” la successione di queste occorrenze, per parafrasare proprio Hegel, si trasforma da sé in un interrogativo intorno al tema della relazione fra logos e Wirklichkeit: questione di cui sono a dir poco evidenti le implicazioni teologiche (al di là ovviamente di ogni asfittica preoccupazione confessionale). Per questo, in quella sede, si difendeva l’opportunità d’un ripensamento della relazione fra cristianesimo e modernità, da effettuarsi – proprio sulla scorta di Hegel – alla luce di una fruttuosa contaminazione disciplinare (filosofia, ovviamente, e in particolare estetica; ma anche teologia, scienza letteraria, filologia, storia dell’economia classica – per citare solo alcune delle discipline interessate). Ora, in votis, a questi due volumi sulla Fenomenologia avrebbe dovuto far seguito un terzo libro, più esplicitamente dedicato agli scritti hegeliani della maturità: progetto che invece ho preferito accantonare. Ritengo infatti doveroso, a questo punto, ammettere i dubbi, maturati nel frattempo, circa l’effettiva praticabilità di un progetto di quel tipo. L’approfondirsi del confronto con altri aspetti e momenti del pensiero hegeliano è stato fecondo per lo sviluppo della prospettiva inaugurata da quei lavori; tuttavia, il tentativo di estendere anche agli scritti hegeliani successivi al 1807 la prospettiva in precedenza adottata si è venuto rivelando aporetico: senza dubbio per questo tanto più istruttivo, ma tale da scoraggiare appunto la preparazione di un terzo volume, almeno quale lo avevo concepito nell’atto di licenziare il secondo per le stampe12. Del 12

Cfr. G. Garelli, Hegel e le incertezze del senso, cit., p. 7.

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resto, presso rigorosi cultori del pensiero di Hegel quei due lavori precedenti hanno avuto un’accoglienza a tratti generosa e suscitato un qualche interesse, ma anche registrato – se così si può dire – un legittimo sospetto nei confronti di una lettura tutto sommato refrattaria alle implicazioni di certi “infortuni” dialettici (per estendere l’eufemismo che un interprete ha autorevolmente applicato al De orbitis planetarum13), e fin troppo interessata al residuo teologico della Fenomenologia dello spirito. Debbo riconoscere che questa diffidenza non è infondata, e anzi ha raccomandato un supplemento di cautela da parte mia nelle mie incursioni successive. Non ritengo tuttavia che i saggi qui raccolti vadano considerati alla stregua di meri resti di un naufragio. Essi al contrario si inseriscono, mi auguro con coerenza, nel filone di ricerca proposto dalle due monografie sopra menzionate sviluppandone aspetti non marginali, sempre nell’intento di non far confliggere l’esegesi storico-testuale e la proposta interpretativa. Ciò al fine di evitare forzature controproducenti, e anzi allo scopo di mettere in luce quanto più chiaramente possibile il carattere peculiare della prospettiva adottata.

3. I primi tre contributi di questo volume presentano, da punti di vista diversi, altrettante aporie inevitabili per chi si addentra nell’universo della Fenomenologia dello spirito: il problema del cominciamento, il significato della riconciliazione e le difficoltà implicite in una nozione di spirito concepita come dimensione in cui possa venir meno la scissione (e dunque l’infelicità) della coscienza individuale. Il primo saggio, Parusia dell’assoluto, mi pare possa costituire una ripresa di rilevanti questioni emerse negli studi precedenti, e insieme una possibile introduzione alle indagini esposte nel seguito di questo libro. Esso prende le mosse da un aspetto direi provocatorio dell’interpretazione hegeliana proposta da Heidegger: l’affermazione secondo cui “la Fenomenologia dello spirito comincia in modo assoluto con l’assoluto”. Lungi dal palesare (come pure sarebbe logicamente plausibile, giusta la lettera della citazione) una 13

Cfr. R. Bodei, La civetta e la talpa, cit., p. 153.

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Dialettica e interpretazione

sostanziale superfluità del circolo in questione, questa affermazione chiama piuttosto in causa in modo esplicito le radici teologiche del pensare hegeliano, facendone la premessa indispensabile per una duplice mossa teorica: da una parte, l’invito a porre correttamente la domanda sul senso stesso dell’esperienza fenomenologica nel suo dispiegarsi; dall’altra, la sfida posta da un movimento dialettico che dalla presenza iniziale dell’assoluto non è affatto già da sempre garantito circa il successo dell’esito, bensì semmai pienamente responsabilizzato rispetto all’istanza della propria autonoma realizzazione. Pur nella tipica (e talora, perché negarlo, francamente irritante) provocazione della sua lettura, anche nel confronto con Hegel Heidegger si mostra dunque capace di indicare – quasi come un rabdomante – il punto esatto in cui bisogna scavare; anche se poi, per parte sua, non mi pare faccia sempre un uso condivisibile dell’acqua che è capace di trovare. Sulla base di una lettura (certamente selettiva) del frammento francofortese noto con il titolo Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, il secondo capitolo, Legge e riconciliazione: lo spirito del cristianesimo, presenta una sorta di genesi ideale della nozione di Versöhnung (poi ampiamente ripresa e sviluppata da Hegel soprattutto nella conclusione del cap. VI della Fenomenologia). Questo saggio si propone di estendere geneticamente un tema che avevo già affrontato nel libro del 2010, e la cui comprensione continua a sembrarmi imprescindibile per chi voglia sottrarre il procedimento dialettico hegeliano all’accusa triviale (ma dura a estinguersi) di costituire da ultimo un rassicurante ottimismo metafisico, tanto sul piano individuale quanto su quello storico. Dare concretezza alla riconciliazione tramite l’“amore” (Liebe) costituisce infatti un tema complementare a quella responsabilizzazione del sé che è implicita nella parusia dell’assoluto: si tratta infatti della premessa indispensabile, esistenziale ancor prima che speculativa, per la conquista dell’autocoscienza e di una dimensione spirituale autentica. L’intera questione si ripresenta anche, a pieno titolo, nel più ampio contributo incluso nel libro: Il senso dell’infelicità della coscienza. Se la scissione e la lacerazione sembrano appartenere alla struttura peculiare della coscienza stessa, si tratta comunque di indagare in che modo quest’ultima può liberarsi della propria costi15 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tutiva “infelicità”, e divenire davvero autocoscienza accedendo alla dimensione plurale e storica del “Noi” e dello “spirito”. Seguono poi due contributi, dedicati – se così si può dire – alla significativa presenza del tragico e del comico antichi nella Fenomenologia. Non si tratta di ricognizioni esaustive, ovviamente (soprattutto per quanto riguarda il tema del tragico); esse tuttavia ambiscono a riproporne l’importanza sul piano insieme storico e sistematico, in una prospettiva di cui credo si possa rivendicare, pur con ogni cautela, una certa originalità. In Antigone e la dialettica: una riconsiderazione, pur ripercorrendo i risultati di alcune fra le interpretazioni più celebri della trattazione fenomenologica sul tragico antico, l’attenzione si concentra soprattutto sulla funzione svolta dalle pagine dedicate allo “spirito vero” nel disegno per così dire strutturale dell’opera del 1807, privilegiando una riflessione sulla posizione che il tema della “bella eticità” occupa nello sviluppo sistematico della Fenomenologia: operazione che ne suggerisce l’accostamento funzionale – nel quadro del capitolo VI sullo ‘Spirito’ – a quella che nel capitolo I, nella ‘Coscienza’, è la figura della ‘certezza sensibile’. Ciò permette tra l’altro una riconsiderazione complessiva dei rapporti fra spirito e coscienza, spirito e natura, cultura (Bildung) e natura; e aiuta anche a riflettere sulla dialettica che si instaura fra una natura ‘prima’ (in sé inaccessibile, e tuttavia pur sempre da postularsi: proprio come la pura esteriorità presupposta dalla sinnliche Gewißheit quale centro gravitazionale di ogni esperienza) e una natura ‘seconda’, che è già oscuro prodotto del lavoro dello spirito. Ne va dunque di una dialettica in cui ogni presunta immediatezza è già da sempre, in qualche modo, mediazione, pur senza dissolversi per questo in mero costrutto artificiale. Le conseguenze di questo approccio appaiono rilevanti, al di là delle ambiguità del testo hegeliano, anche per una valutazione più serena del dibattito intorno al pensiero della differenza, che spesso proprio nel dispositivo dialettico della Fenomenologia, e in particolare nelle pagine sulla tragedia, ha individuato l’obbiettivo per eccellenza d’una polemica inesauribile. Aristofane come figura dello spirito, quinto saggio della raccolta, ha per oggetto il ruolo della commedia antica nel cammino che lo spirito compie verso la conquista della propria autoconsapevolezza. 16 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Dialettica e interpretazione

Si tratta di un ruolo decisivo: non per nulla la presenza di Aristofane è rintracciabile, sia pure in forma di citazione spesso nascosta, in alcuni passaggi del capitolo VII della Fenomenologia. Anche al di là di un’opportuna analisi della trama testuale, in questo senso comunque densa e ricca forse oltre ogni aspettativa, non deve sfuggire il contenuto propriamente speculativo di questa presenza. Per Hegel la commedia ebbe la sua effimera stagione quando i greci cessarono di trovare compiuta soddisfazione spirituale nella bellezza ideale dell’arte classica. In ciò, essa attesta lo spalancarsi d’una dimensione di assoluta libertà (una “servitù senza signoria”, per parafrasare Kojève), ma sancisce anche il vuoto determinato dall’abbandono del divino: un abisso che avrebbe potuto colmarsi solamente grazie all’irruzione di un’esperienza rinnovata del sacro (la religione cristiana). Il carattere passato del sublime, sesto studio della raccolta, propone una critica all’uso spesso alquanto spregiudicato che della nozione di sublime si fa nella critica artistica e nella letteratura militante, attraverso una rilettura selettiva di alcune pagine hegeliane dedicate al sublime kantiano. Insieme al saggio successivo, La dialettica sulla soglia, esso costituisce un’incursione esplicita nelle opere hegeliane successive alla Fenomenologia. I due saggi assieme, oltre ad affrontare questioni intorno a cui da tempo oriento le mie ricerche (ovvero il rapporto fra estetica e teleologia, e più in generale fra dialettica hegeliana e pensiero trascendentale), chiariscono fra l’altro le ragioni di quella cautela che suggerisce di non estendere sic et simpliciter il modello ermeneutico ricavato dalla lettura del capolavoro del 1807 anche ai testi enciclopedici e sistematici più tardi. “Un’ideale tragedia di Edipo” e Un monumento per il classicismo cercano poi di inquadrare lo specifico contributo offerto da Peter Szondi rispettivamente alla vicenda della teoria del tragico (interpretato, al di là della canonizzazione storica dei generi letterari, come una dialettica della coscienza: Edipo e non Antigone, tanto per intendersi) e alla ricezione dell’estetica di Hegel (nella forma sistematizzata e pubblicata da Hotho), nonché di portare il discorso sul tema della definizione e della ricezione del classico. I capitoli X e XI (Estetica, dialettica ed ermeneutica materiale ed Ermeneutica e 17 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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metodica) portano esplicitamente a tema l’idea che è alla base dell’endiadi ermeneutica/dialettica, attraverso il confronto con prospettive di matrice rispettivamente extra-gadameriana (ancora Szondi) o post-gadameriana (Wolfgang Wieland). Infine il saggio conclusivo, Hegel e lo spirito della traduzione, lungi dalla pretesa di avanzare un’ambiziosa teoria, descrive l’atto del tradurre come dispositivo insieme dialettico ed ermeneutico, proprio nel senso che si è cercato di illustrare nella presente introduzione. Questo saggio conclude così la raccolta ribadendo, quasi con un esempio di esperienza concreta, il significato anzitutto pratico dell’atteggiamento che ispira l’intero volume.

4. In un passaggio della sua Vita di Hegel, Karl Rosenkranz scrive: In autunno andò a Tubinga, in autunno a Bamberga, in autunno a Norimberga, in autunno a Heidelberg, in autunno a Berlino e in autunno morì; è questo uno di quegli strani aspetti dell’umano destino, di cui si preferirebbe scoprire il motivo nell’individualità stessa, e per cui si potrebbe definire Hegel una natura autunnale, un frutto maturo e succoso14.

Al di là della (dubbia) suggestione di questa immagine, e anche del significato simbolicamente più ampio che essa può rivestire in un bilancio complessivo circa l’eredità odierna della filosofia hegeliana15, è difficile che non tornino in mente qui le considerazioni sui prodotti dell’arte classica, definiti dallo stesso Hegel nella Fenomenologia – lo si è già ricordato – come quei “bei frutti staccati dall’albero”, che ormai è una fanciulla a offrirci:

14

15

K. Rosenkranz, Vita di Hegel (1844), a c. di R. Bodei, Mondadori, Milano 1974, p. 46. Cfr. R. Bodei, La civetta e la talpa, cit., pp. 110-120 (in particolare, per un inquadramento del passo citato di Rosenkranz, p. 117).

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Ma la fanciulla che offre quei frutti ormai colti è più della loro natura, la quale li offriva immediatamente nel dispiegarsi delle sue condizioni e dei suoi elementi – l’albero, l’aria, la luce e così via; infatti la fanciulla riunisce tutto ciò, in una maniera superiore, nella radiosità dello sguardo consapevole di sé e del gesto del porgere16.

Ebbene, ormai anche la nostra relazione con quel “frutto autunnale maturo e succoso” che è il pensiero hegeliano costituisce in effetti, a pieno titolo, la relazione con un classico per eccellenza: un classico della filosofia. Quale sia lo “sguardo consapevole” in grado oggi di porgerci ancora quel frutto costituisce, fuor da ogni metafora, una questione affatto filosofica degna della massima considerazione. I saggi che compongono questo libro vorrebbero offrire un contributo a formulare e ad affrontare tale questione in modo non del tutto inadeguato.

16

FdS, p. 704 (GW IX, p. 402).

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Nota al testo I saggi qui raccolti sono per lo più comparsi (o sono destinati a comparire) in volumi collettanei, riviste o atti di convegni. Di seguito fornisco l’elenco delle sedi della loro precedente – o futura – pubblicazione. Nel ringraziare editori, direttori e curatori per l’autorizzazione concessami, segnalo comunque che tutti i contributi già pubblicati e qui riproposti sono stati sottoposti a revisione, avendo subito tagli o integrazioni testuali e bibliografiche che vanno ben al di là della semplice uniformazione editoriale. I) Parusia dell’assoluto. Testo concepito in occasione di un seminario coordinato da R. Morani tenuto il 27 novembre 2013 presso l’Università di Genova. In forma un po’ diversa è uscito (con il titolo Parusia. Heidegger, Hegel e la questione di una Einleitung) sulla rivista «parol», 26, 2014, pp. 91-102. II) Legge e riconciliazione: lo spirito del cristianesimo. Saggio inedito, sviluppa la traccia della relazione presentata il 30 gennaio 2013 al convegno “Legge e religione” tenutosi all’Università di Torino. III) Il senso dell’infelicità della coscienza. In questa versione, il contributo nasce dall’integrazione di due testi: il Saggio sull’infelicità della coscienza. Una lettura di Hegel, uscito nell’«Annuario filosofico», 27, 2011, pp. 181-213; e la prima parte di Hegel: la coscienza infelice, il sistema e il problema della totalità, pubblicato nel volume Costruzione di un concetto. Paradigmi della totalità nella cultura tedesca, a c. di M. Pirro, L. Zenobi, Mimesis, Milano-Udine 2014 (in particolare, pp. 45-51). Va detto però che il testo qui presentato ripristina il progetto originario del primo articolo (poi funestato dai tagli imposti da un anonimo – e non troppo empatico – referee). Anche in questo caso, la stesura finale ha potuto approfittare di un’esperienza di discussione seminariale presso l’Università dell’Aquila (15 marzo 2012). IV) Antigone e la dialettica: una riconsiderazione. Versione ampliata e approfondita del contributo Hegel, il tragico, la dialettica, uscito in Tragos. Pensiero e poesia nel tragico, a c. di N. Novello, Campanotto, Udine 2014, pp. 125-132 – volume che raccoglie gli atti del convegno “Filosofia, letteratura, tragico”, tenutosi a Bologna il 16 e 17 novembre 2012. V) Aristofane come figura dello spirito. Riproduce, debitamente inte-

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grato, l’omonimo contributo pubblicato sull’«Annuario filosofico», 25, 2009, pp. 243-272. VI) Il carattere passato del sublime. Testo inedito, trae spunto dalla relazione tenuta il 31 ottobre 2014 alle giornate di studi “Il sublime e le arti: dal tragico al kitsch, dall’arte alla natura” organizzato dal Centro Studi Arti della Modernità presso l’Università di Torino. Una versione ridotta (che riproduce il testo della relazione) apparirà nel giugno 2016 sulla rivista «CoSMo». VII) La dialettica sulla soglia. Intervento concepito come parte della lezione tenuta al seminario del Dottorato in Filosofia dell’Università di Padova il 16 aprile 2013. Presentato poi, con integrazioni e modifiche, il 17 dicembre 2013 al convegno “Da Hegel ad oggi/Von Hegel bis heute. Sviluppi della riflessione estetica tedesca e italiana dopo la morte dell’arte”, svoltosi presso il Goethe-Institut e l’Università degli Studi Roma Tre; in tale forma è in corso di pubblicazione sia in tedesco (Zweck des Systems. Hegel: die Teleologie als Schwelle, in Das Ende der Kunst als Anfang freier Kunst, a c. di F. Iannelli, F. Vercellone e K. Vieweg, Fink, München 2015) sia nell’edizione italiana degli atti (Fine del sistema. Hegel: la teleologia come soglia, in Fine o nuovo inizio dell’arte, a c. di F. Iannelli, G. Garelli, F. Vercellone e K. Vieweg, Ets, Pisa 2015). Rispetto a quest’ultima, la versione qui riprodotta presenta tuttavia tagli, integrazioni e qualche modifica. VIII) “Un’ideale tragedia di Edipo”. Peter Szondi e il tragico come dialettica. In questa forma, il saggio nasce dall’integrazione e rielaborazione di due contributi: Ermeneutica filosofica e “Saggio sul tragico”. Note su Peter Szondi, in «Itinerari», 1, 1997, pp. 25-60; e “Un’ideale tragedia di Edipo”. Il “Saggio sul tragico” alla luce dell’epistolario di Szondi, in «Il cannocchiale», 3, 1998, pp. 33-47 (che raccoglie, a c. di G. D’Acunto, gli atti di un incontro della serie “La parola, i discorsi. Giornate di studio su mito, simbolo, interpretazione”, Roma, Accademia d’Ungheria, 9 maggio 1997). IX) Un monumento per il classicismo. Riproduce, riveduta, la (assai sfortunata, da un punto di vista redazionale) Introduzione a P. Szondi, La poetica di Hegel, trad. it. di A.M. Marietti, Einaudi, Torino 2007, pp. VII-XXIV. X) Estetica, dialettica ed ermeneutica materiale. Riduzione, ampiamente riveduta, del saggio Tra filologia ed estetica, originariamente ap-

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Gianluca Garelli

parso negli Atti del III Convegno Internazionale dell’AISE tenuto a Siena il 4-5 maggio 1996: Il paesaggio dell’estetica, Trauben, Torino 1997, pp. 269-282. XI) Ermeneutica e metodica, a partire da Wolfgang Wieland. Testo concepito in occasione della giornata di studi in onore di Carlo Gentili “Eredità nietzschiane”, tenuta il17 dicembre 2011 presso la Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna. Pubblicato poi con minuscole varianti e il titolo Tra filologia e dialettica: note sul metodo dell’ermeneutica filosofica in «Annali del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Firenze», 17, 2011, pp. 167-178. XII) Hegel e lo spirito della traduzione. Sviluppa spunti presentati in occasione di un seminario tenuto il 14 aprile 2011 presso l’Università di Pisa ospite di L. Amoroso, riproducendo infine, con integrazioni, il testo uscito con il medesimo titolo nel volume Confini dell’estetica. Studi in onore di Roberto Salizzoni, a c. di E. Antonelli, A. Martinengo, Aracne, Roma 2014, pp. 287-302. Firenze/Torino, Pasqua 2015 G.G.

In ricordo di Mario Laugier (1933-2013)

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–I–

Parusia dell’assoluto. Heidegger e l’introduzione alla “Fenomenologia dello spirito”

1. I motivi per nutrire qualche diffidenza nei confronti dell’interpretazione heideggeriana del pensiero di Hegel (cui Heidegger dedicò notoriamente importanti corsi e seminari e qualche scritto di indubbia rilevanza) non mancano. Della parzialità di tale confronto risentono per esempio una lettura tutto sommato riduttiva della concezione hegeliana del tempo1; una trattazione del tema del negativo che sfiora in qualche caso la semplificazione, a scapito della complessità dei testi originari; una certa tendenza ad adattare forzatamente la figura di Hegel a un affresco generale della storia della metafisica tutt’altro che indiscutibile e che, quanto a correttezza interpretativa, aveva già lasciato dietro di sé vittime illustri (a cominciare da Kant); infine, una concezione dell’assoluto che, sia pure propugnata (almeno in una certa fase) in nome della concreta gettatezza dell’esserci umano e finito, sembra riconoscere poco credito alla complessità del punto di vista dialettico. Si tratta peraltro di questioni ampiamente note agli addetti ai lavori, sulle quali poco o nulla di originale si potrebbe aggiungere in questa sede2.

1

2

Su questo aspetto si vedano almeno M. Pagano, L’eternità come ricapitolazione del tempo nella prospettiva di Hegel, in Il tempo in questione. Paradigmi della temporalità nel pensiero occidentale, a c. di L. Ruggiu, Guerini e Associati, Milano 1997, pp. 253-254; L. Ruggiu, Lo spirito è tempo. Saggi su Hegel, Mimesis, Milano-Udine 2013; G. Frilli, Passato senza tempo. Tempo, storia e sapere assoluto nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, Verifiche, Trento 2015. Sulla questione in generale mi permetto di rimandare anche a G. Garelli, Lo spirito in figura. Il tema dell’estetico nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, Il Mulino, Bologna 2010, cap. I. Ho discusso (sia pure sommariamente) alcuni problemi dell’interpretazione heideggeriana di Hegel in G. Garelli, (Rin)negare. Heidegger e/o Hegel, pref. a F. Brencio, La negatività in Heidegger e Hegel, Aracne, Roma 2010, pp. 13-22.

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Considerazioni come queste non debbono tuttavia offuscare un aspetto, che riguarda in generale le letture offerte da Heidegger dei grandi rappresentanti della storia del pensiero occidentale. Mi pare cioè evidente che, pur nella sconcertante parzialità dei punti di vista di volta in volta adottati dal filosofo di Messkirch, le sue interpretazioni dei classici della filosofia costituiscono per noi una guida irrinunciabile; e ciò per la loro straordinaria capacità di mettere allo scoperto – per così dire – i punti nevralgici delle costruzioni filosofiche in esame. Basti pensare a Descartes, spesso testualmente sovrainterpretato da Heidegger, eppure da lui lucidamente descritto come svolta decisiva nella nascita del moderno soggettivismo e della mathesis universalis3; oppure a Kant, la cui immaginazione trascendentale nell’interpretazione heideggeriana (assai più debitrice del neocriticismo marburghese di quanto l’autore di Kant e il problema della metafisica sarebbe stato forse disposto ad ammettere) risulta a dir poco forzata – eppure è difficile negare che su quel punto specifico sta o cade l’intera costruzione del kantismo, e insieme avviene la svolta decisiva della filosofia classica tedesca. Ebbene, qualcosa di analogo mi pare accada anche nel caso di Hegel – o almeno, di quell’aspetto del confronto di Heidegger con Hegel che verrà tenuto brevemente in considerazione in questa sede: la cosiddetta ‘Introduzione’ alla Fenomenologia dello spirito. Testo che Heidegger prende in esame non solo nel corso del 19311932 su La fenomenologia dello spirito di Hegel e in un incompiuto Commento del 1942, ma anche nel saggio Il concetto hegeliano di esperienza, che costituisce il contributo più esteso fra quelli contenuti in Sentieri interrotti (1950). Aggiungo che, al di là di ogni considerazione sulla difficoltà di tradurre in italiano il termine Holzwege (“sentieri interrotti” è stata notoriamente la felice proposta di Pietro Chiodi), il tema del saggio di Heidegger su Hegels Begriff der Erfahrung costituisce in effetti un sentiero intricato, destinato a perdersi nell’oscurità. Perché il problema di un’‘introduzione’ al punto di vista della coscienza è appunto un cammino interrotto par

3

Cfr. R. Morani, Soggetto e Modernità. Hegel, Nietzsche, Heidegger interpreti di Cartesio, Franco Angeli, Milano 2010, in particolare pp. 243 ss.

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excellence, là dove ogni Erfahrung sembra sottrarsi per definizione alla riduzione descrittiva4. Una circostanza su cui farebbero bene a riflettere non solo i feticisti del mind-body problem, ma anche – per quanto di propriamente hegeliano interessa in questa sede – coloro che vogliano riflettere sul senso più generale della transizione dalla filosofia del Bewusstsein alla filosofia dello spirito (ovvero, per evocare una storia degli effetti tutta inglese potremmo dire: da una Phenomenology of Mind alla Phenomenology of Spirit)5.

4

5

Su questo punto mi paiono condivisibili le osservazioni di A. Kenny, Nuova storia della filosofia occidentale. IV: Filosofie dell’età contemporanea (2007), a c. di G. Garelli, trad. it. di G. Garelli, L. Rossi, Einaudi, Torino 2013, pp. 265-268. Ho cercato di articolare brevemente questo punto nella recensione a Lo Spirito. Percorsi nella filosofia e nelle culture (2011), a c. di M. Pagano, in «Intersezioni», 1, 2013, pp. 176-181. – Vorrei infine denunciare con franchezza una premessa utile a comprendere le osservazioni che avanzerò nel corso di questo contributo, cercando di spiegare – nei limiti del possibile – quale sia il punto di vista da cui esso prende le mosse. Bisogna senz’altro riconoscere i meriti dell’ondata di neo-hegelismo che ha attraversato (a mio modo di vedere, con esiti assolutamente salutari) parte del dibattito post-analitico soprattutto in area americana, risvegliando l’attenzione non solo e non tanto per l’olismo semantico, quanto per aspetti del pragmatismo e del comunitarismo decisamente utili a ripensare in maniera costruttiva la frattura fra analitici e continentali. Detto questo, il percorso ermeneutico qui suggerito si presenta tuttavia come affatto alternativo: a partire dal fatto che, come si diceva nell’introduzione di questo volume, esso non nasconde un ripensamento della propria ispirazione in senso lato ‘teologica’. Ciò, va detto, rischia oggi di attrarre non pochi sospetti e qualche critica. Nel corso di un (peraltro interessantissimo) scambio epistolare telematico con un recensore, ho per esempio di recente appreso con qualche incredulità che oggi in certe parrocchie hegeliane, con lo schermo di una presunta restituzione filologica, si viene guardati con massima diffidenza anche solo se si adopera en passant l’espressione “scritti teologici giovanili” (senza alcuna intenzione di contrabbandare alcunché, se non il riguardo per la Wirkungsgeschichte e l’oggettiva – non ideologica né pretestuosa, cioè – pertinenza disciplinare delle tematiche in questione). È peraltro opportuno ribadire, a scanso di equivoci, che propendere per un’interpretazione (in senso lato, ripeto) teologica della Fenomenologia dello spirito non significa affatto spacciare per scientifica una lettura confessionale di questo classico del pensiero. Significa solamente riconoscere per esempio che, per la comprensione di quanto esso può ancora dirci, accade talvolta di scoprire che sono più utili certe pagine di Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer di quanto lo siano interi scaffali di commentatori di rito accettato.

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2. La lettura della Fenomenologia dello spirito, dice Heidegger, è stata per lui addirittura una “battaglia” condotta per la comprensione di “qualcosa di essenziale”. Eppure, a un primo sguardo, la sua interpretazione dell’opera non pare troppo eccentrica rispetto agli standard della storiografia filosofica tradizionale. La Fenomenologia si configura tutto sommato ai suoi occhi come una storia della coscienza finita – ossia, determinata dall’opposizione di soggetto e oggetto – alle prese con le tappe di un arduo cammino propedeutico alla scienza. Questa è orientata alla stessa cancellazione del punto di vista naturale e ingenuo, in nome di un sapere speculativo capace di elevare l’individuo all’universale, abolirne la temporalità esistenziale particolare e trasformarne infine la collocazione prospettica in punto di vista assoluto. A uno sguardo che non esiterei a definire dunque, absit iniuria, tutto sommato un po’ riduttivo, il compito della “storia romanzata dello spirito” poteva così apparire quale racconto dal successo inevitabile e dall’esito scontato, in quanto già da sempre narrato a partire dalla meta conquistata – e, soprattutto, inevitabilmente raggiunta. L’absolutes Wissen trova conferma della sua e della nostra giustificazione (il famigerato “per noi”) una volta raggiunta la vetta, al termine dell’ascesa della coscienza verso la propria consapevolezza di sé. E qui Heidegger può ben denunciare il disegno metafisico hegeliano come agli antipodi del proprio progetto filosofico. Se la metafisica di Hegel procede inesorabilmente a “cancellare” o “eliminare” il tempo, cioè a dissolverlo e farlo “dileguare”6, come pare di poter leggere nelle ultime pagine della Fenomenologia, ecco che per contro solamente nell’endiadi di essere-e-tempo potrà radicarsi per il filosofo di Messkirch un discorso davvero capace di assumere su di sé la questione della finitezza. In tal senso, la Fenomenologia dello spirito viene letta anche da Heidegger in sostanziale continuità con il lavoro sistematico proseguito da Hegel a Heidelberg e poi a Berlino: una filosofia come scienza cui pare programmaticamente indifferente il destino del Dasein individuale. E non ci sarebbe nemmeno bisogno di ri-

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Cfr. M. Heidegger, La fenomenologia dello spirito di Hegel (1931-1932), a c. di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1991, p. 41.

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cordare che l’analitica esistenziale, e poi la concezione dell’essere come Ereignis, si ispirano invece a un progetto radicalmente alternativo a quella metafisica della storia di cui Hegel sarebbe appunto il campione indiscusso. Davvero però possiamo accontentarci di questa contrapposizione rigida e schematica? Non è forse proprio il punto di vista della Fenomenologia, la sua sfida essenziale, a mostrare almeno potenzialmente – magari spingendosi al di là della lettura heideggeriana, sia pure anche grazie a essa – un’interpretazione non riconducibile a questo hegelismo un po’ caricaturale?

3. Bisogna dunque procedere con ordine. E procedere con ordine significa qui muovere dall’inizio, che in questo caso è anche cominciamento. Compito, questo, tutt’altro che agevole, se non si tiene in considerazione ciò che invece dovrebbe insospettire il lettore – ossia quel titolo fittizio delle pagine iniziali, Einleitung, che nel 1807 non c’era, e non per nulla non viene affatto riportato dall’edizione critica dei Gesammelte Werke se non nell’indice generale di mano hegeliana (oltre che, per convenzione, nei titoli correnti delle pagine)7. Il fatto è che Hegel non ha mai inteso scrivere – alla lettera – una Einleitung al System der Wissenschaft (tale era notoriamente il titolo originario dell’opera che, in votis, del sistema avrebbe dovuto costituire la “prima parte”). E questo per ragioni che si possono riscontrare per esempio anche nell’apertura della successiva Vorrede: l’esercizio della filosofia si svolge già da sempre in medias res8; altrove leggiamo che non si impara a nuotare prima di buttarsi nell’acqua, come pretenderebbe di fare un certo “scolastico”9; e via di seguito, con l’intero armamentario delle tradizionali (meta)critiche hegeliane a Kant. Del resto, le perplessità rispetto a questa decina 7 8

9

Cfr. FdS, pp. 57-67 (GW IX, pp. 53-62). FdS, pp. 3-5 (GW IX, pp. 53-54). Sulla questione in generale cfr. W. Marx, Hegels Phänomenologie des Geistes. Die Bestimmung ihrer Idee in ‘Vorrede’ und ‘Einleitung’, Klostermann, Frankfurt a.M. 1971, pp. 8 ss. Cfr. per esempio Enc, pp. 16-17 (GW XX, pp. 50-51).

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di pagine che Hegel fa precedere all’attraversamento delle varie ‘stazioni’ fenomenologiche propriamente dette sono ben giustificate anche quanto al contenuto. Se la logica dialettica non è la logica formale, e più ancora, se in filosofia metodo e svolgimento debbono in effetti coincidere nel divenire della cosa stessa, ecco abbondanti ragioni di imbarazzo di fronte a un “metodo dell’esposizione” trattato, sia pure a scopo propedeutico, quasi alla stregua (come qualcuno ha osservato) d’una sorta di “operatore” capace di mettere formalmente in rapporto soggetto/oggetto, differenziazione e negazione10. Ma come giustificare, nel contesto dialettico, la premessa di una simile struttura formale della coscienza – a prima vista ben poco conciliabile con lo spirito delle critiche mosse contestualmente al kantismo? E come spiegarne il problematico rapporto con l’interrompersi, a un certo punto, dell’intero movimento fenomenologico della coscienza, ossia con il telos costituito dal sapere assoluto? È su questo che – ritengo – le considerazioni di Heidegger si rivelano davvero preziose; e ciò indipendentemente dal fatto che si condivida o meno la portata complessiva della sua interpretazione. Per ragioni di comodità espositiva, mi limiterò a individuare – fra i numerosi spunti del suo discorso, che pure ripercorre l’intero svolgimento del testo hegeliano – quattro aspetti di particolare rilevanza per il presente contesto, augurandomi di riuscire almeno in prima approssimazione a mettere in luce quale sia la posta in gioco per il lettore della Fenomenologia.

4. (I) Va notato in primo luogo come Heidegger sottolinei la peculiarità di quello che i curatori chiamano ‘Ursprünglicher Zwischentitel’ dell’opera, ossia il titolo intermedio collocato inizial-

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L’espressione “operatore formale” in riferimento ai contenuti metodologici dell’‘Introduzione’ è stata coniata da K. Cramer, Bemerkungen zu Hegels Begriff vom Bewusstsein in der Einleitung zur Phänomenologie des Geistes, in Seminar: Dialektik in der Philosophie Hegels, a c. di R.-P. Horstmann, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1989, pp. 360-393. Per una più estesa disamina della questione qui in gioco, cfr. G. Garelli, Hegel e le incertezze del senso, Ets, Pisa 2012, pp. 31-37.

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mente da Hegel dopo la ‘Prefazione’: “PARTE PRIMA. | SCIENZA | | ESPERIENZA | DELLA | COSCIENZA”, poi soppresso nel corso della tiratura del libro, e sostituito (o affiancato, in alcuni esemplari) dall’altra titolazione: “I. SCIENZA | DELLA | FENOMENOLOGIA | DELLO | SPIRITO”11. Ora, Heidegger sostiene che la sostituzione del titolo fosse dovuta con ogni probabilità a una sorta di arretramento dell’autore, di fronte all’enfasi (grafica, ma non solo) da lui stesso riservata alla nozione di Erfahrung. Ciò perché, come si legge ancora nel testo del ’42, “nonostante lo scomparire […] del suddetto titolo, nel corso dell’opera si tratta ovunque, nei punti decisivi, dell’esperienza”12. (Anche un interprete per molti aspetti assai lontano dal filosofo di Messkirch, Ernst Bloch, avrebbe del resto fedelmente definito la Fenomenologia dello spirito una Fahrende Er-fahrung: “esperienza che viaggia”, o meglio esperienza d’un viaggio, potremmo dire13.) Ma al di là di ogni azzardo etimologico, comunque tutt’altro che una rarità nella produzione dello stesso Heidegger, qui vale la pena piuttosto tenere ben presente l’osservazione generale di quest’ultimo: DELLA

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FdS, p. 55 (GW IX, p. 51). Una sommaria ricostruzione della vicenda si può trovare nella mia introduzione a FdS (pp. XVI-XVII). Cfr. su questo passaggio M. Heidegger, Il concetto hegeliano di esperienza, in Sentieri interrotti, a c. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 103. Più avanti Heidegger nota non meno opportunamente anche la scomparsa dell’articolo determinativo dal titolo principale, che passa da La fenomenologia dello spirito a Fenomenologia dello spirito, osservando: “Dietro la caduta quasi impercettibile dell’articolo ‘La’, si nasconde un mutamento decisivo nel pensiero di Hegel e nel modo della sua divulgazione. Il mutamento, quanto al suo contenuto, riguarda il sistema” (ibidem, p. 181). Non vi è modo qui di soppesare ulteriormente tale preziosa indicazione, della quale comunque si è tenuto conto nella traduzione einaudiana del testo, desiderando restituire l’opera al contesto del pensiero hegeliano del 1807 e sottrarlo agli irrigidimenti sistematici degli anni successivi. L’argomento è già trattato diffusamente anche in M. Heidegger, La fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 28 ss. 12 M. Heidegger, Hegel, a c. di G. Moretti, trad. it. di C. Gianni, Zandonai, Milano 2010, p. 79. 13 Cfr. E. Bloch, Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel (1962²), a c. di R. Bodei, Il Mulino, Bologna 1975, p. 79.

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Se dunque Hegel, per un attimo, ha intitolato Scienza dell’esperienza della coscienza quest’opera in cui si compie la metafisica moderna, allora noi non possiamo tralasciare la chiarezza di quest’attimo, anzi dobbiamo cercare di chiarire l’opera a partire da essa14.

(II) Ma che cosa si intende qui per “esperienza”? Per introdurre la nozione hegeliana di esperienza si possono utilmente citare due affermazioni di Theodor W. Adorno. La prima recita: Si potrebbe dire che la filosofia di Hegel deve essere intesa come un grande tentativo di rendere conto di tutta la concreta esperienza spirituale e non solo del suo scheletro, che quest’ultimo si presentasse sotto forma dei meccanismi della percezione sensibile o dei meccanismi del pensiero. Anche il pensiero più puro contiene esperienza.

In tal senso la filosofia di Hegel va intesa come un pensare concreto: “Concreto è per lui il tutto, forse anche per una reminiscenza del significato originario della parola ‘concretum’: il tutto è il concresciuto”. È per questo che, diversamente dalla dialettica, intesa come pensiero della mediazione, empirismo e realismo sono posizioni astratte, isolate, ossia incapaci di farsi adeguatamente carico dell’intero cui appartengono15. Heidegger, per parte sua, 14 15

M. Heidegger, Hegel, cit., p. 78. Le citazioni sono tratte da Th.W. Adorno, Terminologia filosofica (1973), a c. di S. Petrucciani, trad. it. di A. Solmi, Einaudi, Torino 2007, pp. 354-355 e 348 (lezione del 20 dicembre 1962: ‘Razionalismo ed empirismo’). Di questo corso cfr. anche la lezione del 5 giugno dello stesso anno (‘L’esperienza filosofica’, ibidem, pp. 77-87). Per un inquadramento generale del rapporto fra idealismo hegeliano ed esperienza, rimane però fondamentale dello stesso Adorno soprattutto il saggio Il contenuto di esperienza della filosofia hegeliana, in Tre studi su Hegel (1963), trad. it. di F. Serra, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 89-132, in particolare per le considerazioni sul rapporto fra la nozione di esperienza e quella di mediazione, e per una discussione del significato sistematico del concetto idealistico di “spirito” contro le derive dell’individualismo; oltre che, naturalmente, per la più generale critica adorniana alla concezione positiva di dialettica, che culminerebbe, giusta l’affermazione della verità dell’intero, in un estremo e per certi aspetti inevitabile tradimento delle istanze empiristiche presenti nella stessa filosofia hegeliana.

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non è avaro di suggerimenti in proposito, a cominciare dal nesso che stabilisce – sempre in riferimento alle pagine dell’‘Introduzione’ hegeliana – fra il sapere come ‘aver-visto’ e la nozione di sképsis, intesa nel suo significato originario, connesso appunto al senso del vedere16. Egli sottolinea inoltre a più riprese il rapporto, stabilito da Hegel, fra il movimento dialettico e il camino della coscienza: rapporto che costituisce appunto il filosofare stesso17. Si legge già nelle lezioni dei primi anni Trenta: “Il concetto hegeliano della esperienza nel titolo della sua Fenomenologia […] non va affatto nella direzione dell’attuale concetto fenomenologico di esperienza” (Heidegger pensa qui evidentemente a Husserl), ma “va piuttosto nella direzione del […] fare la propria esperienza di qualcosa – in senso, cioè, sia negativo che positivo – in modo che questo qualcosa si dimostri vero, esperire che esso non è come in principio appariva ma è in verità diverso”18. In questo quadro, l’esperienza va intesa anzitutto come sorgere alla coscienza del nuovo oggetto di volta in volta certo19, in virtù di quell’operazione di negazione determinata che costituisce l’inquietudine della coscienza medesima, scandendone le tappe nel suo fluido divenire. Si tratta di un cammino – per parafrasare un’efficace osservazione di Gianni Vattimo – in cui l’“Io penso” non si limita ad accompagnare kantianamente (in quanto mera funzione gnoseologica) le rappresentazioni di volta in volta presenti alla coscienza, ma diviene protagonista attivo e fattivo di esperienze autenticamente vissute20. La parola esperienza non può dunque essere spiegata in tale contesto dall’accezione, per Heidegger palesemente riduttiva, che le conferiva la filosofia dell’empirismo (e probabilmente anche di certo kantismo, interpretato alla luce dell’empirismo): una metafisica che pure pretenderebbe di essere depositaria massimamente fedele del senso dell’esperienza, e che invece non fa-

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M. Heidegger, Il concetto hegeliano di esperienza, cit., pp. 133, 138. Ibidem, pp. 166, 133. M. Heidegger, La fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 51-52. M. Heidegger, Hegel, cit., pp. 108-110. Cfr. G. Vattimo, Introduzione all’estetica di Hegel, Giappichelli, Torino 1970, pp. 5-7.

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rebbe che ridurne la nozione al “sedimento insipido e asciutto di una bevanda che prima era fresca”21. (III) Che mai determina allora l’Unruhe della coscienza, da cui scaturisce l’intero movimento dialettico? Donde proviene, insomma, quello squilibrio che spinge la coscienza a non accontentarsi della propria certezza originaria, né delle presunte verità di volta in volta acquisite, per intraprendere e continuare quel cammino che Hegel definisce notoriamente “via del dubbio”, “dell’ambage e della disperazione”?22 Non per nulla (e bisognerebbe essere grati a Heidegger per questa osservazione, che meriterebbe più attenzione di quanto non ne mostri abitualmente la Hegel-Forschung), Nella Fenomenologia dello spirito la prima figura della coscienza – la certezza sensibile – è infatti, per quanto riguarda la nostra facoltà di comprensione, proprio ciò che in verità è la cosa più difficile da comprendere, poiché in essa deve già essere pensato l’assoluto, seppur nella sua povertà e non-verità. […] E come potrebbe essere altrimenti, se la conoscenza dell’assoluto è il raggio attraverso il quale l’assoluto ci tocca23.

Ecco allora un indizio per interrogarsi sul senso profondo della dialettica fenomenologica – quel movimento della vita dello spirito in cui forma e fine fanno tutt’uno, come nella trattazione aristotelica del vivente24, e che (per usare ancora le parole di Heidegger) costituisce una dinamica in cui “il processo nel corso storico della storia della formazione della coscienza non è sospinto da dietro, verso l’indeterminato”, per così dire in modo meccanico, bensì “è attratto dal fine a esso intrinseco. Il fine attraente produce se stesso mentre

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M. Heidegger, Hegel, cit., p. 137. FdS, p. 60 (GW IX, p. 56). M. Heidegger, Hegel, cit., p. 123. L’ultima affermazione è una parafrasi di un celebre passaggio dell’‘Introduzione’ hegeliana; cfr. FdS, p. 58 (GW IX, p. 54): “il conoscere non è infatti il rifrangersi del raggio, ma il raggio stesso con cui la verità ci tocca”. Cfr. per esempio Aristotele, Fisica II 7, 198a25.

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appare nel corso dell’attrazione stessa e porta immediatamente il corso della coscienza nella pienezza della sua perfezione”. Mai avverbio fu forse più infelice – bisogna aggiungere di passaggio – di quell’“immediatamente”. Che cosa, se non mediazione, produce infatti la natura stessa del movimento dialettico? Puntualizzarlo tuttavia non sminuisce affatto la portata complessiva dell’osservazione heideggeriana. L’esperienza (per usare una terminologia che già Kant aveva tratto dalla filosofia naturale dell’epoca e collocato in una posizione di rilievo, nell’‘Architettonica della ragion pura’) non è mera coacervatio, accumulazione di dati, bensì appunto teleologia rationis humanae25. (IV) Con ciò tuttavia sembra di fatto rafforzarsi la visione – apparentemente, come si diceva, del tutto condivisa da Heidegger – dello Hegel propugnatore d’una concezione della storia organicistica senza residui, in ossequio alla più compiuta delle cattive teleologie. E va detto che un supplemento di inquietudine rischia di sorprendere il lettore dell’affermazione heideggeriana secondo cui “il procedere [fahren] proprio dell’esperire [erfahren] ha il significato originario del condurre”26. Verrebbe infatti da completare la metafora e commentare beffardamente: l’assoluto come Führer della dialettica fenomenologica, insomma, che qui pare dispiegarsi in tutta la sua metafisica violenza27. Ma anche senza indulgere a mere pro-

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M. Heidegger, Il concetto hegeliano di esperienza, cit., p. 145. Cfr. Immanuel Kant, Critica della ragion pura, A833/B861. M. Heidegger, Il concetto hegeliano di esperienza, cit., p. 168. Tale osservazione, che francamente eccede ogni possibile ermeneutica del dettato testuale, non pare del tutto fuori luogo al cospetto di letture di Hegel che faticano tuttora a tacitare un pregiudizio di fondo contro le conseguenze politicamente nefaste della metafisica tedesca. Cfr. per esempio A. Kenny, Nuova storia della filosofia occidentale. III: Filosofia moderna (2006), a c. di G. Garelli, trad. it. di L. Corti, Einaudi, Torino 2013, p. 322: “È vero che il modello prussiano elogiato da Hegel era una monarchia costituzionale, e che il nazionalismo da lui predicato non era contiguo al razzismo totalitario dei nazisti. Nondimeno la carriera filosofica di Hegel, come quella di Rousseau, costituisce un monito contro le conseguenze disastrose che possono scaturire da una metafisica viziata”. Siamo sicuri, mi domando, che fraintendimenti del genere non abbiano nulla a che fare anche con gli effetti nefasti della retorica che tra-

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vocazioni come questa, in base alla teleologia di cui sopra la Fenomenologia dello spirito si dovrà comunque concepire nel suo complesso appunto come introduzione al sistema – in particolare alla Scienza della logica, la cui episteme va intesa secondo Heidegger come quello “stare-presso” (Dabeistehen) capace di giustificare appunto la continuità di logica e ontoteologia: “Per Hegel la scienza dell’esperienza della coscienza, cioè l’ontologia del vero ente nel suo esserci, rinvia all’altra parte della scienza come alla ‘scienza vera e propria’”28. In questo senso, la finitezza che compete alla coscienza ingenua – aveva scritto Heidegger – è una “finitezza occasionale”, destinata senz’altro a consumarsi “retroattivamente” nel cammino fenomenologico; poiché “Il sapere assoluto è ciò che anche il sapere relativo – pur se non dispiegato – è già”29.

5. Un’affermazione insieme più problematica e (almeno per chi scrive) più interessante si legge tuttavia ancora nel saggio Hegels Begriff der Erfahrung: un decennio dopo la pubblicazione dell’opera, dice Heidegger, la “fenomenologia” era decaduta, in seno al sistema scolastico dell’Enciclopedia (1817), a una parte nettamente delimitata della filosofia dello spirito. La parola “fenomenologia” è di nuovo, come nel secolo XVIII, il nome di una disciplina che sta fra l’antropologia e la psicologia30.

Con il che si palesa, se non una aporia vera e propria, quantomeno una circostanza un po’ equivoca e degna di riflessione. Che accade infatti quando la Fenomenologia – cammino indispensabile

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pela da certe interpretazioni novecentesche, e di cui le righe heideggeriane appena citate costituiscono un esempio (del quale, non fosse che per questi possibili effetti, sarebbe bene diffidare almeno un poco)? M. Heidegger, Il concetto hegeliano di esperienza, cit., p. 178. M. Heidegger, La fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 74 e 68. M. Heidegger, Il concetto hegeliano di esperienza, cit., pp. 183-184. Cfr. anche, utilmente, Id., La fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 28-37.

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verso la compiuta e consapevole auto-manifestazione31 dell’assoluto, e paragonata altrove nientemeno che all’Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura32 – si riduce a occupare infine un ruolo limitato e tutto sommato decaduto, all’interno del sistema stesso, e ciò quando la Wissenschaft der Logik sia ormai intesa come scienza dell’assoluto originariamente essente-presente presso di sé, ossia “assoluto prima della creazione”?33 Questo slittamento prospettico, da parte di Hegel, non occulta forse qualcosa di decisivo proprio per la comprensione della Fenomenologia stessa? Il punto è, osserva Heidegger, che quanto Hegel scrive nel terzo capoverso dell’‘Introduzione’, cioè che “unicamente l’assoluto è vero, o che unicamente il vero è assoluto”34, di per sé considerato (cioè senza un precedente riferimento alla totalità del cammino dialettico della coscienza, che tuttavia sarebbe tale verità stessa a rendere logicamente possibile) costituisce un’asseverazione non dedotta né giustificata. E ciò non per una viziosità delle affermazioni hegeliane, si badi bene, bensì piuttosto perché “nessuna giustificazione raggiungerebbe il loro fondamento […]. Esse pongono ciò stesso che giustifica. In esse parla la volontà dell’assoluto che in sé

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Heidegger insiste giustamente, a questo proposito, sulla natura non solo oggettiva, ma anche soggettiva del genitivo contenuto nel titolo dell’opera, Phänomenologie des Geistes: si tratta infatti di un “genitivo dialettico-speculativo” il cui senso è conservato solo a patto di intendere nella sua complessità il ruolo dell’assoluto, insieme meta e condizione preliminare del cammino fenomenologico (M. Heidegger, Il concetto hegeliano di esperienza, cit., p. 180). Di passaggio osservo il parere diverso, almeno rispetto al primo dei due genitivi contenuti nell’espressione “scienza dell’esperienza della coscienza”, autorevolmente sostenuto ancora da W. Marx, Hegels Phänomenologie des Geistes, cit., p. 21: sottolineando la distinzione fra “sapere apparente” (das erscheinende Wissen) e la “scienza” (Wissenschaft), Marx insiste sul fatto che è il punto di vista della coscienza, e non già quello scientifico del “per noi”, a fare esperienza nel cammino fenomenologico hegeliano. In proposito ci si limiterà qui a osservare che la distinzione fra il valore dei genitivi dei due titoli pare problematica, ma certamente meritevole di riflessione ulteriore, poiché in qualche misura dalla loro interpretazione dipende anche la valutazione complessiva del ruolo sistematico da attribuire alla Fenomenologia hegeliana. M. Heidegger, Il concetto hegeliano di esperienza, cit., p. 129. Ibidem, p. 184. FdS, p. 59 (GW IX, p. 54).

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e per sé vuol già essere presso di noi”35. Ora, tale volontà dell’assoluto di essere presso di noi e manifestarsi è designata ripetutamente da Heidegger, nelle pagine dedicate al confronto con Hegel, con il termine teologico insieme più appropriato e più impegnativo che si possa immaginare: parusia. Si legge così che “‘La fenomenologia dello spirito’ significa: la parusia dell’assoluto nel suo regno”36; che “Lo sforzo della scienza proviene […] dalla sua relazione alla parusia”; che “la nostra stessa essenza rientra nella parusia dell’assoluto”; e ancora, infine: “L’esperienza, quale presentazione della rappresentazione assoluta, è la parusia dell’assoluto”37.

6. Ecco perché la Fenomenologia dello spirito, lungi dal descrivere una storia provvidenziale dall’esito garantito, con il suo “scetticismo automaturantesi” può avere per noi piuttosto il valore di un exemplum, direi perfino l’esortazione a una sorta di secolare e laica imitatio: un “Calvario” dello spirito, che – confermando una celebre affermazione contenuta in Fede e sapere – si palesa per Heidegger ancora quale “teologia dell’assoluto quanto alla sua parusia nel Venerdì Santo dialettico-speculativo”38. Al divino, questo apparire è essenziale: come si legge nell’Estetica, qui “la parvenza stessa è essenziale all’essenza; la verità non sarebbe, se non paresse e apparisse, se non fosse per qualcosa, per se stessa tanto quanto è per lo spirito in generale”39. Nella Vorlesung del 1931-1932 Heidegger 35

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M. Heidegger, Il concetto hegeliano di esperienza, cit., p. 122. Si veda anche Id., La fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., p. 63: “Bisogna continuare a ripetere: Hegel presuppone già all’inizio ciò che ottiene alla fine. Ma questa proposizione non può essere enunciata e addotta come obiezione nei confronti dell’opera”. M. Heidegger, Il concetto hegeliano di esperienza, cit., p. 183. Ibidem, pp. 125, 174, 169. Affermazioni di analogo tenore si leggono anche in apertura del corso sulla Fenomenologia: “L’assoluto c’è già, altrimenti come potrebbe essere cercato? La ragione lo produce solo liberando la coscienza dalle limitazioni”; “la Fenomenologia dello spirito comincia assolutamente con l’assoluto” (M. Heidegger, La fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 71-72). M. Heidegger, Il concetto hegeliano di esperienza, cit., p. 184. Est, pp. 12-13 (HW XIII, p. 21).

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scriveva efficacemente a questo proposito: “la fenomenologia è il modo, e non uno tra gli altri, in cui lo spirito stesso è”40. Ma un simile Erscheinen non costituisce un’acquisizione garantita una volta per sempre circa il destino del Weltgeist, bensì anzitutto una possibilità esistenziale che sta alla nostra decisione di volta in volta rinnovare, se è vero che l’impegno della coscienza finita e in cammino è la liberazione dal proprio Eigensinn. Essa deve dubitare e perfino disperare della possibilità di rendersi presente l’essenza assoluta alla stregua di un Ding qualunque, quasi si trattasse di un ente a disposizione, di una Vorhandenheit meramente utilizzabile e manipolabile. E deve dubitarne seriamente: “quest’idea degrada fino all’edificazione e addirittura all’insulsaggine, qualora vi manchino la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo”41. Per parafrasare Giovanni 1,5, è proprio in questo esercizio che prende forma la disponibilità ad accogliere finalmente la luce, dopo aver abbandonato le tenebre della cieca Meynung (che con l’Eigensinn fa tutt’uno: tale è la “notte” che “si vede quando si fissa negli occhi un uomo”, aveva scritto Hegel nei suoi appunti jenesi, parafrasando probabilmente Jacob Böhme; poiché quando lo si fa “si penetra in una notte che diviene spaventosa; qui a ognuno sta sospesa di contro la notte del mondo”42). Nelle lezioni del 1931-1932 Heidegger affermava, in termini tanto efficaci quanto consapevolmente problematici: Il sapere assoluto deve, all’inizio della sua storia, essere altro da quello che è alla fine. Certo, ma questa alterità non significa che il sapere all’inizio non sia in generale ancora sapere assoluto. Al contrario – proprio all’inizio esso è già sapere assoluto, ma non ancora venuto a se stesso, non ancora divenuto altro, ma soltanto l’Altro.

E più avanti: “La Fenomenologia dello spirito comincia in modo assoluto con l’assoluto. Si fa chiaro da sé che l’accesso all’opera è, 40 41 42

M. Heidegger, La fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., p. 55. FdS, p. 15 (GW IX, p. 18). FSJ, p. 71 (GW VIII, p. 187).

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non a caso, difficile”43. Ecco perché, in conclusione, vale la pena ricordare ancora una volta l’osservazione di Heidegger secondo cui Nella Fenomenologia dello spirito la prima figura della coscienza – la certezza sensibile – è […] proprio ciò che in verità è la cosa più difficile da comprendere, poiché in essa deve già essere pensato l’assoluto, seppur nella sua povertà e non-verità44.

In essa – che, non va dimenticato, è la figura della Meynung per eccellenza – l’assoluto si dà cioè nella dimensione di una parusia necessaria, eppure ha lo statuto per così dire latente di un’effettualità solo possibile. Ma la difficoltà di questo inizio non è solo una difficoltà esegetica: è la difficoltà di un cominciamento carico di responsabilità – quella responsabilità insieme esistenziale e storica cui ho fatto ripetutamente cenno, sia pure in modo obliquo, fin dall’inizio di questo contributo. Poiché l’alternativa è chiara: o questo sapere gravido di effetti (wirklich, dice Hegel in apertura della Vorrede45) è garantito una volta per tutte indipendentemente da noi – e dunque in qualche modo non ci riguarda affatto – oppure il divenire dell’assoluto rimane per noi un compito immane. Pensiero certamente paradossale, quest’ultimo, ma credo non privo di senso, anzi propriamente speculativo. Un pensiero che la dialettica potrà ben ritenere di essersi lasciata una volta per sempre alle spalle quando sarà finalmente in grado di articolare la struttura logica del sistema; e che tuttavia nella Fenomenologia appare in principio e come problema di principio, proprio là dove tutto si decide: sul confine dell’esperienza – che è come dire nel luogo dell’intreccio indissolubile di inquietudine e possibilità di redenzione.

43 44 45

M. Heidegger, La fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pp. 67 e 75. M. Heidegger, Hegel, cit., p. 123. FdS, p. 5 (GW IX, p. 11).

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– II –

Legge e riconciliazione: lo spirito del cristianesimo

Fra i cosiddetti ‘scritti teologici’ del giovane Hegel, risalenti al periodo di Francoforte, ce n’è uno che può rivelarsi piuttosto significativo per approfondire un aspetto qualificante del rapporto tra legge e religione. Si tratta di un ampio testo redatto negli anni 1798-1800, e pubblicato nel 1907 da Hermann Nohl con il titolo (non di conio hegeliano) Lo spirito del cristianesimo e il suo destino. A queste pagine gli storici della filosofia sono soliti riconoscere una grande importanza, sia per la genesi della dialettica hegeliana, sia anche per l’impostazione dell’analisi della religione che Hegel avrebbe poi ripreso in parte nella Fenomenologia dello spirito (1807), e soprattutto nelle più tarde lezioni berlinesi. In questa sede non intendo tuttavia esporre lo stato degli studi intorno a questo ampio frammento hegeliano, e nemmeno offrirne l’ennesima presentazione complessiva1. Il mio scopo, piuttosto, è forse a un tempo più modesto e più ambizioso, nella misura in cui mi propongo di argomentare in favore della tesi seguente: quando nel frammento giovanile parla delle religioni storiche e ne svolge la trattazione intorno a nozioni come “amore”, “legge”, “destino” o

1

Per un inquadramento generale dell’interpretazione qui proposta si vedano L. Illetterati, P. Giuspoli e G. Mendola, Hegel, Carocci, Roma 2010, pp. 3646, ed E. Fackenheim, The Religious Dimension in Hegel’s Thought, Beacon Press, Boston 1967 (soprattutto l’introduzione e pp. 156-158); nonché – sull’aspetto teologico-politico dello Spirito del cristianesimo – gli studi di B. Bourgeois, Hegel at Francfort, Vrin, Paris 1970 e R. Caputo, Il tragico nel primo Hegel. Tragedia cristiana e destino della modernità, Pensa MultiMedia, Lecce 2006 (con ampia bibliografia, pp. 347-365). Una ricognizione dei temi principali dello scritto in questione, con un cenno anche alla sua problematica struttura, si trova infine in R. Dottori, La colpa, il destino e la riconciliazione con sé della vita nei “Manoscritti di Francoforte”, in Arte, religione e politica in Hegel, a c. di F. Iannelli, Ets, Pisa 2013, pp. 41-58.

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“riconciliazione”, Hegel sta di fatto elaborando ante litteram qualcosa come una figura dello spirito. Espressione impegnativa, questa, che qui sta a significare: un’immagine dialettica capace di porre in modo esemplare questioni che non smettono di riguardarci, quando ci interroghiamo sul tema della colpa e della sua possibilità di estinzione. In questa virtualità ermeneutica mi pare risieda il valore ormai classico delle pagine che cercherò di presentare.

1. Prenderò dunque le mosse da quanto si legge nello Spirito del cristianesimo a proposito della figura di Abramo. L’atto con cui Abramo si rende capostipite della nazione ebraica, dice Hegel, consiste in un gesto di separazione: è la rottura dei vincoli e del tessuto etico della vita associata entro i quali il patriarca era vissuto fino a quel momento. Certamente anche altre tradizioni mitologiche ricordano i nomi di personaggi capaci di abbandonare la loro patria, per fondare qualcosa di diverso: per esempio Cadmo o Danao. La loro intenzione tuttavia, afferma Hegel, era per così dire opposta a quella di Abramo. Lasciata in battaglia la terra d’origine, Danao e Cadmo andarono in cerca di un luogo in cui essere liberi e poter amare, mentre Abramo al contrario “volle non amare, e per ciò essere libero”2. Voler non amare significa volersi emancipare dalla propria origine, avvertita come legame non più accettabile. In questa prima accezione, il termine “amare [lieben]” designa dunque per Hegel la relazione immediata – o presunta tale – all’interno della stirpe, ossia quel sentire condiviso che alimenta il tessuto etico della famiglia e della tribù. La disponibilità assoluta, da parte di Abramo, a rompere con questo genere di vincoli di sangue trova ulteriore conferma nell’episodio del sacrificio del figlio, gesto fondamentale che sancisce il primato della fedeltà alla legge divina, contro ogni naturalità del legame umano, come più tardi avrebbe notoriamente sottolineato (in chiave antihegeliana) il Kierkegaard di Timore e tremore. Ma già il giovane Hegel ricordava come l’unico amore di Abramo fosse per Isacco e per la speranza nella propria discen-

2

STG, p. 377 (HW I, p. 277).

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denza; eppure egli fu disposto a distruggerlo, tanto che “si placò solo quando ebbe sentimento certo che questo amore non era così forte da renderlo incapace di colpire il figlio amato con la sua propria mano”3. Ora però, agli occhi di Hegel, presso il popolo ebraico quella disponibilità a “non amare”, cioè appunto – in termini meno enfatici – a interrompere il legame di sangue, era destinata a risolversi in seguito in una forma di relazione dispotica con la legge: “Mosè impresse alla sua legislazione il sigillo di una minaccia bellamente orientale, la perdita di ogni godimento e di ogni felicità”, basata sul “terrore della forza fisica”, in cui non ne andava dunque di una “verità”, bensì piuttosto di un “comando”. Hegel si diffonde qui a paragonare, in una lunga digressione, la legislazione di Mosè a quella di Solone e di Licurgo: “I greci dovevano essere uguali perché erano tutti liberi e autonomi, gli ebrei perché erano tutti incapaci di autonomia”4. In questo senso, la vita politica degli ebrei può essere ancora paragonata da Hegel, poco dopo, a un “sistema dispotico”, dal momento che presso di loro non vi è traccia di qualcosa come un “diritto costituzionale”: come si legge qualche pagina più in là, “vana” sarebbe stata “la speranza dei Romani di ammorbidire il fanatismo” del rapporto degli ebrei con la loro legge5. Non credo sia qui necessario sottolineare i limiti generali di una simile lettura dell’ebraismo, biasimare un uso della terminologia che a noi oggi può suonare a dir poco avventato6, o per altro verso ricordare quanto la canonica polarizzazione Atene/Gerusalemme sia eloquente circa il classicismo da cui è nutrito – e in parte acce-

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STG, p. 379 (HW I, p. 279). STG, pp. 386-387 (HW I, pp. 287-288). STG, p. 393 (HW I, p. 297). Cfr. D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I “Quaderni neri”, Bollati Boringhieri, Torino 2014, pp. 48-60. Il paragrafo di questo studio dedicato a Hegel (pp. 48-60) meriterebbe probabilmente una discussione approfondita; va comunque tenuta in massima considerazione l’osservazione di pp. 52-53: “inquietanti sono le pagine contenute nel saggio Lo spirito del cristianesimo e il suo destino […]. La prima parte è costituita da una fenomenologia storica dell’ebraismo nella quale gli stereotipi della diffamazione volgare acquistano legittimità filosofica”.

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cato – il giovane Hegel. Quello che merita piuttosto rilevare, in questa sede, è la verticalità della relazione che, in via quasi esemplare (e appunto, sia detto una volta per sempre, con tutti i difetti impliciti in questa sorta di tipologizzazioni), in tale affresco l’ebraismo intrattiene con l’autorità normativa. Si tratta di una relazione affatto diversa tanto dalla cosiddetta bella eticità della polis greca, quanto dallo ius, quello “statuto giuridico” peculiare del mondo romano, basato secondo Hegel sulla nozione astratta di “persona”7.

2. In questo quadro, la predicazione di Gesù si configura, agli occhi del giovane Hegel, appunto come esplicita negazione del legalismo. Ed è precisamente tale negazione ciò che finisce per trasformare Gesù in vittima sacrificale, facendo sì – per converso – che il suo messaggio trovi accoglienza presso coloro che non si riconoscevano più nel “destino” ebraico, avvertendolo ormai come legame “estraneo e artificioso”8. L’insegnamento di Gesù, la sua “buona novella”, non propone infatti di sostituire all’antica servitù una nuova servitù. Al contrario – se è consentito parafrasare un po’ liberamente René Girard – si potrebbe dire: nel cristianesimo si fa strada una concezione che, mentre smaschera la violenza implicita nella sacralità della legge, finisce per determinare l’inevitabilità del sacrificio di Cristo9. È per questo che, stando a Giovanni, Gesù secondo Hegel può affermare: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv. 15,15). Ed ecco allora che in questa nuova Alleanza, scrive Hegel, “Le pratiche religiose” possono essere “la cosa più spirituale, più bella”, in quanto costituiscono “lo sforzo di unificare le sepa-

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Si ricordino in proposito, per esempio, le considerazioni sul Rechtzustand contenute nella Fenomenologia dello spirito (VI.A.c). STG, p. 396 (HW I, p. 318). Cfr. per esempio R. Girard, La violenza e il sacro (1972), trad. it. di O. Fatica, E. Czerkl, Adelphi, Milano 1980; Id., Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1978), trad. it. di R. Damiani, Adelphi, Milano 1983; Id., Il capro espiatorio (1982), trad. it. di C. Leverd, F. Bovoli, Adelphi, Milano 1987.

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razioni” e di “presentare l’unificazione nell’ideale come pienamente esistente, non più in contrapposizione alla realtà; sono quindi il tentativo di esprimere questa unificazione e di confermarla in un agire”. Si osservi che, per converso, le medesime ritualità potrebbero rivelarsi “la cosa più vuota”, se venisse loro a mancare quello “spirito di bellezza” di cui si diceva: poiché esse sarebbero “la servitù più insensata che richiede una coscienza del proprio annientamento, un agire in cui l’uomo esprime la sua nullità, la sua passività”. Per dirla con un linguaggio hegeliano più tardo, le ritualità prive di bellezza denunciano di essere fuori di sé: cioè alienate e prodotte da una coscienza infelice10. Quando parla della pratica religiosa come della “cosa più spirituale, più bella”, Hegel sembra allora – se non proprio cedere a una concezione estetizzante del rituale – certamente inglobare la bella eticità greca nel destino del cristianesimo (non per nulla più tardi, nella Fenomenologia dello spirito, l’avvento della Bildung cristiana verrà da lui collocato, non senza qualche forzatura, in piena continuità con il declino della tragedia e poi della commedia attica). Quel che più interessa, qui, è però l’insistenza di Hegel sul fatto che in base alla predicazione di Gesù la violazione del sacro si rende di fatto inevitabile, implicita com’è nella denuncia dell’arbitrio del formalismo della legge. Bisogna tuttavia evitare un equivoco. Parlando di “purità […] del cuore”, agli occhi di Hegel il Vangelo non intende affatto opporre al formalismo esteriore e farisaico la purezza dell’intenzione interiore – la legge morale, intesa magari sul modello kantiano dell’imperativo categorico (come tutto sommato Hegel ancora credeva pochi anni prima, quando, trovandosi a Berna, tra la primavera e l’estate del 1795 scriveva la sua Vita di Gesù). Anche su questo punto, la posizione hegeliana pare già in sostanziale continuità con quella da lui assunta più tardi (penso in particolare al cap. IV della Fenomenologia, ove Hegel tratterà la celeberrima figura della coscienza infelice; ma anche per certi versi al cap. VI, ove in tutt’altro contesto, cioè nella trattazione della tragedia greca, si mostrerà

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STG, pp. 395-396 (HW I, p. 318).

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come l’interiorità del comando, indipendentemente dalla qualità della legge che ne è la matrice, rischia di ostinarsi in una opposizione unilaterale, incapace di accogliere dentro di sé il negativo, l’alterità, la scissione – come bene ha mostrato fra gli altri, con Hegel e insieme contro di lui, la filosofa americana Martha C. Nussbaum11). Secondo lo Spirito del cristianesimo, infatti, Gesù non opera soltanto contro il vuoto legalismo o contro l’eteronomia del comando. Alla luce del suo insegnamento, anche la legge morale à la Kant, che pure conserva la signoria dentro di sé (vale a dire, è autonoma), resta una forma di servitù, poiché essa fa dell’universalità della norma un elemento estraneo e oggettivo, e finisce per considerare impulsi, inclinazioni e perfino l’amore sempre e solo alla stregua di determinazioni patologiche del volere. Di qui la pretesa rigida e unilaterale del dovere, che volendo dominare tutte le azioni, consegna la coscienza dell’uomo alla dilacerazione (Zerrissenheit). L’astratta “signoria” del vuoto Sollen è il paradosso di una legge che ordina amore – laddove però da una parte è palese che nell’amore autentico “viene meno ogni pensiero di dovere”, mentre dall’altra è perfino intuitivo che il dovere, per definizione, non è mai compiuto in tutto e per tutto “volentieri”12. L’insegnamento di Gesù è dunque volto, secondo Hegel, a portare a compimento spirituale una dimensione della giustizia altra da quella mera deontologia in cui è inevitabile che legge e inclinazione siano destinate a trovarsi su versanti contrapposti. Il senso del cristianesimo consiste nel pleroma: pienezza in cui, al vuoto precetto, “Gesù contrappone il genio superiore della riconciliazione [Versöhnlichkeit] […] il quale non solo non agisce contro quella legge, ma la rende del tutto superflua”. Qui, continua Hegel, “il concetto è soppiantato [verdrängt, ‘rimosso’] dalla vita”, e non si tratta di una perdita di universalità, bensì di un “vero infinito guadagno a causa della ricchezza di vive relazioni con gli individui”. A 11

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Cfr. M.C. Nussbaum, La fragilità del bene (1986), trad. it. di M. Scattola, Il Mulino, Bologna 2001², pp. 172-174. Su questo punto si veda anche P. Vinci, L’Antigone di Hegel, in Antigone e la filosofia, a c. di P. Montani, Donzelli, Roma 2001, pp. 37-38. STG, pp. 399-400 (HW I, pp. 322-323).

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costituire “una lacerazione della vita” era semmai, anzi, la forma meramente possibile e astratta del precetto. Lo “spirito di riconciliazione [Geist der Versöhnlichkeit]” dunque “richiede in universale […] l’elevazione oltre l’intera sfera della giustizia e del torto mediante l’amore”13. È evidente che qui “amore [Liebe]” è inteso in una nuova accezione, diversa da quella iniziale: non più vincolo di un costume atavico soffocante, bensì liberazione nella comunità dello spirito, in cui la agape non è disposta nemmeno a farsi “misurare il suo diritto dal giudice [Richter]”, bensì “si riconcilia [versöhnt sich], senza alcun riguardo al diritto [Recht]”14.

3. “Gesù dice: ‘Non giudicate per non essere giudicati; sarete misurati con lo stesso metro con cui avete misurato’”15. Nel ricordare questo versetto evangelico, il giovane teologo Hegel sembra coraggiosamente accostarlo alla diagnosi con cui l’amico Friedrich Hölderlin, nel frammento su Giudizio, possibilità, essere (redatto intorno alla metà degli anni novanta, e dunque poco tempo prima dello Spirito del cristianesimo), invitava a intendere il “giudizio [Urtheil ]”, secondo un’etimologia forse improbabile ma non priva di efficacia teoretica, come quella “partizione originaria [Ur-Theilung]” che fa di ogni atto del giudicare (urtheilen) non già una sintesi (synthesis) – come si potrebbe pensare sulla scorta della filosofia critica di Kant – bensì una dieresi (diairesis): una frattura, una scissione16. Questo accostamento ha per Hegel una duplice conseguenza, linguistica ed etica. (a) Prima conseguenza è che, già nell’uso del linguaggio, il paradosso del giudizio consiste in ciò: mentre affermo – tramite la copula – una composizione di soggetto e predicato, ecco che di fatto 13 14 15 16

STG, pp. 402-405 (HW I, pp. 327-331). STG, p. 404 (HW I, p. 328). STG, p. 409 (HW I, p. 335). Cfr. F. Hölderlin, Urtheil und Seyn (1795), in Sämtliche Werke, a c. di F. Beissner, Cotta, Stuttgart 1946-62, vol. IV, p. 226; trad. it. Giudizio, possibilità, essere, in Sul tragico, a c. di R. Bodei, Feltrinelli, Milano 1989, p. 75. Cfr. anche Id., Scritti di estetica, a c. di R. Ruschi, SE, Milano 2004, p. 55 (per la collocazione cronologica del frammento, cfr. ibidem, pp. 171-172).

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(omnimoda determinatio est negatio) sancisco piuttosto all’origine una frattura tra due entità, postulandone io stesso la scissione entro la continuità del reale. (b) Tanto più nell’ambito dell’azione dunque, e questa è la seconda conseguenza, giudicare significa dividere: arrestarsi alla dimensione giudicante implica così, per il giovane Hegel, rifiutare il pieno riconoscimento dell’altro, cioè essere indisponibili a un effettivo superamento della distanza rispetto al proprio simile. Nel linguaggio teologico dello Spirito del cristianesimo, tutto ciò potrebbe tradursi così: voler togliere il bruscolo dagli occhi del fratello significa collocarsi per principio al di fuori del regno dell’amore. È appunto constatando la difficoltà propriamente umana della riconciliazione, come si legge poco più avanti nello scritto, che Giovanni il Battista “sperò fiduciosamente dal suo successore, al posto del suo battesimo con l’acqua, un battesimo con il fuoco e lo spirito”17. Se, con queste premesse, prendiamo ora in esame la trattazione hegeliana della colpa, possiamo intendere meglio il senso dell’intera disamina qui condotta da Hegel. La colpa, dice Hegel, è una distruzione dell’unità della natura le cui conseguenze ricadono “tanto in colui che distrugge quanto in ciò che è distrutto”. Nel sancire la colpevolezza, la legge penale non può esimersi dal comandare la punizione del delitto, ma con ciò anch’essa “per il suo contenuto” finisce per trovarsi “opposta alla vita, poiché ne indica la distruzione”18. Infatti con la punizione “il reo è privato dell’identico diritto che ha violato in un altro con la colpa”. Tutto ciò, si badi bene,

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STG, p. 410 (HW I, p. 336). “Per il contenuto, […] la legge è opposta alla colpa; è quindi da questa esclusa, e tuttavia permane. Infatti la colpa è una distruzione della natura; e poiché la natura è una, essa è distrutta tanto in colui che distrugge quanto in ciò che è distrutto. Quando a essere opposto è ciò che è unico, l’unificazione degli opposti è presente solo nel concetto: è stata fatta una legge; se l’opposto è stato distrutto, rimane il concetto, la legge; ma in tal caso questa esprime solo ciò che manca, la lacuna, poiché in realtà il suo contenuto è stato levato; e allora la legge si chiama legge penale. Questa forma della legge è immediata, e per il suo contenuto è opposta alla vita poiché ne indica la distruzione; ma tanto più difficile appare pensare come la legge, in questa forma di giustizia positiva, possa essere eliminata” (STG, pp. 411-412; HW I, pp. 338-339).

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non vale solo per la legge del taglione, ma riguarda per Hegel ogni forma di sanzione penale, anche la più equa e clemente: giacché la pena non può mai essere semplicemente condonata, e per essere applicata ha sempre bisogno di “forza”, cioè di esercizio del potere (Macht). In caso contrario, infatti, la legge si autosopprimerebbe (höbe sich selbst auf), “si leverebbe da sé”: La legge è stata infranta dal reo: il suo contenuto non vi è più per lui, egli lo ha eliminato; ma la sua forma, l’universalità, lo perseguita e si attanaglia addirittura alla sua colpa; il suo atto diviene universale e il diritto che egli ha eliminato è eliminato anche per lui19.

Ricostruiamo brevemente l’argomentazione di Hegel. La colpa è frattura nell’unità dell’essere; ma il paradosso della legge – ovvero di ciò che a rigore deve punire la colpa – è appunto che essa, nel giudizio, non può che muoversi inevitabilmente nella medesima logica della scissione, senza essere in grado di risanare la frattura. La legge deve stare sotto il segno dell’universalità, della comune appartenenza; ma è appunto nell’astrattezza della sua validità generale che alligna il germe d’una lacerazione ulteriore: nomos e hamartia si coappartengono indissolubilmente, come insegna San Paolo (Rm. 7,7-25). Ecco perché, da una parte, la giustizia esige di essere soddisfatta in maniera non sommaria: per esempio, essa non può accontentarsi della punizione di un colpevole in rappresentanza di tutti gli altri; ciò avrebbe infatti al più un valore di deterrenza come gesto di validità esemplare, e dunque collocato ancora sul piano dell’universale, là dove invece giustizia esige la riparazione di azioni colpevoli particolari. D’altra parte, però, poiché la legge non dispone comunque di alcuna via “per rendere un’azione non accaduta”, in tale logica retributiva il delitto finisce per attribuire alla dilacerazione una “realtà eterna”: in base alla mera applicazione letterale della legge, per definizione, non è possibile alcuna riconciliazione effettiva. Ciò

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STG, p. 412 (HW I, p. 339).

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che con la pena si estingue è il reato, ma non la colpa in quanto tale. A questo proposito, può essere utile un’altra, ampia citazione del testo hegeliano – un passaggio fra i più celebri dello Spirito del cristianesimo, con il suo duplice rimando al teatro tragico antico e moderno, a Eschilo e a Shakespeare: La vita è immortale e, se spenta, appare come la sua ombra terrificante che fa valere ogni suo ramo e lascia libere le sue Eumenidi. L’illusione della colpa che crede di distruggere la vita altrui e con ciò di ampliarsi si dissolve per il fatto che lo spirito disincarnato della vita distrutta le si avanza contro proprio come Banquo, il quale, venuto a Macbeth da amico, non fu estinto con la morte, anzi immediatamente dopo prese posto nel suo seggio, ora non più come commensale ma come spirito malvagio. Il colpevole credeva di avere a che fare con una vita estranea, mentre in verità ha distrutto solo la propria, poiché la vita non è diversa dalla vita, poiché la vita è nell’unica divinità. Nella sua presunzione egli ha certamente distrutto qualcosa, ma solo l’amicizia della vita che egli ha mutata in nemica. È innanzitutto l’atto che ha creato una legge il cui dominio ora si avanza; questa legge è l’unificazione nel concetto dell’uguaglianza tra la vita violata, apparentemente estranea, e la vita stessa del colpevole che è incorso nella punizione. Ora primariamente la vita violata [das verletzte Leben, ‘la vita offesa’; l’espressione, come è noto, sarebbe piaciuta ad Adorno] si avanza come forza ostile contro il reo e lo maltratta come egli ha maltrattato. In tal modo la punizione come destino è la reazione, eguale all’azione del reo, di una forza che egli stesso ha armato, di un nemico che egli stesso si è fatto nemico.

Di nuovo, appunto: nomos e hamartia si coappartengono per essenza. Il rimando a Shakespeare sembra suggerire qualcosa di più di quello all’Orestea di Eschilo, alla trasformazione delle Erinni in Eumenidi. La pagina continua così: Una riconciliazione col destino sembra essere ancora più difficile a pensarsi che una riconciliazione con la legge penale, poiché per riconciliarsi col destino sembra che debba essere levato

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l’annientamento. Ma il destino, in rapporto a una riconciliazione [Versöhnlichkeit], ha questo vantaggio sulla legge penale, che esso si muove nell’ambito della vita mentre la colpa legalmente perseguibile e la punizione si muovono nell’ambito di opposizioni insuperabili, di realtà assolute20.

4. Riconciliarsi con il destino, dunque, si presenta come un compito immane. Ma se è vero che il destino, diversamente dalla legge, si muove nell’ambito della vita, che cosa dovrà mai intendersi qui per Versöhnlichkeit? Sappiamo che il termine, nel tedesco corrente, significa insieme “riconciliazione” e “perdono”. È noto anche che più tardi Hegel gli preferirà Versöhnung – parola destinata, insieme alla famigerata Aufhebung, a nutrire intere generazioni di diffidenti antidialettici, molti dei quali tutt’altro che ingiustificati. Davvero però il verbo versöhnen non è altro che il grimaldello del temuto “sistema”, con tutto il suo ottimistico panlogismo? La posta qui in gioco mi pare, come sempre, più seria di ogni banalizzazione. Proviamo dunque a vedere come si sviluppa l’argomentazione hegeliana in queste pagine. Perché possa avvenire l’autentica riconciliazione di un delitto, è necessario in primo luogo che sia il colpevole a riconoscere la propria mancanza. Per far ciò, egli deve tuttavia anzitutto (a) riconoscere la propria coappartenenza originaria al principio che da lui è stato offeso (Hegel, come s’è visto, lo chiama appunto la vita); e (b) riconoscere che tale appartenenza rende insufficiente, per l’espiazione della colpa, la mera logica retributiva – per quanto quest’ultima possa essere equa, e per quanto egli sia tenuto a non sottrarsi in alcun modo alla pena inflittagli dalla legge. Questa duplice consapevolezza ha dunque da prendere forma, nel colpevole, in qualcosa di nuovo: un “sentimento […] interamente diverso dalla paura della punizione”21. Il timore di essere scoperti e sanzionati per il proprio misfatto costituirebbe infatti ancora un elemento estraneo,

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STG, pp. 415-416 (HW I, pp. 342-343). STG, p. 416 (HW I, p. 344).

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un dominus o un potere coercitivo e diverso da sé; mentre il riconoscimento della propria responsabilità insegna a fare i conti non solo con il mondo, ma anzitutto con se stessi, in modo da essere in grado, un giorno, di salutare nuovamente la vita “come amica, non con leggerezza ma veramente dal profondo dell’anima”. Il passo dedicato al pentimento è a dir poco suggestivo. Vi si legge: Con sacrifici, con espiazioni i colpevoli hanno prodotto dolore a se stessi; come pellegrini nell’arido deserto, calpestando a piedi nudi a ogni passo la sabbia ardente, hanno prolungato e moltiplicato la coscienza del male e il dolore; da una parte si sono pienamente accorti di quel che hanno perduto, della loro lacuna [Lücke]; dall’altra però vi hanno scorto interamente la vita, se pure come ostile, e hanno così reso possibile a se stessi riassumerla.

La peculiarità di questo processo, quando è condotto in modo autentico e genuino, sta allora in questo: nel pentimento anche l’elemento ostile (cioè la punizione) è avvertito come vita a me affine, e non solo come un qualcosa che umilia la mia pulsione immediata. Qui sta la premessa indispensabile di ogni redenzione, vale a dire la chance di un nuovo inizio: di quel momento in cui cioè il “sentimento della vita che ritrova se stessa è l’amore, e in esso si riconcilia il destino”. Solo a questo punto Gli aculei della coscienza non pungono più, poiché dell’atto è stato cancellato lo spirito cattivo, non vi è più inimicizia nell’uomo e l’atto rimane tutt’al più come una carcassa senza vita che giace nell’ossario della realtà, nella memoria22.

Hegel insiste molto sul fatto che tale riconciliazione non è conquistata senza fatica, né a buon mercato. Essa non è né Verdrängung, rimozione, né semplice Lücke, difetto di memoria, più o meno 22

STG, pp. 417-418 (HW I, pp. 345-346).

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simulato, e dunque ancora colpevole. Qui la Versöhnlichkeit si rivela piuttosto l’analogo di ciò che, in una delle pagine più profonde della Fenomenologia dello spirito (VI.C.c), Hegel tratterà sotto il titolo del Vergeben, “perdonare”. E con questo l’attenzione si sposta, dal versante del colpevole, al versante di chi giudica. Come la coscienza di chi è sottoposto a giudizio, quando voglia riconciliarsi davvero, ammette la propria responsabilità nell’aver commesso il male, così anche la coscienza di chi giudica non può non dismettere il proprio abito di anima bella e riconoscere nella propria tentazione di superbia una sostanziale affinità con quell’altra: è l’atto del perdono appunto, che consiste sempre in un gesto rischioso, esposto com’è al pericolo del fallimento23. Perché – è importante insistere su questo punto, contro ogni vulgata hegeliana, e forse in parte anche contro l’interpretazione che Hegel darà poi di se stesso – ogni riconciliazione (la famigerata Versöhnung) è esposta al fallimento: non è affatto l’inevitabile risultato di una storia ottimisticamente intesa. Nella riconciliazione autentica, da una parte, non vi è la pretesa né di restaurare la condizione precedente alla violazione, né di evitare le conseguenze dell’atto compiuto. Ma non vi è neppure, dall’altra, la pretesa di innalzare l’atto del giudicare al di sopra della realtà stessa: poiché pur sempre de te fabula narratur. Dunque, nel ricordare l’affermazione di Gesù “Non giudicate per non essere giudicati, poiché sarete misurati con lo stesso metro con cui avete misurato”24, Hegel sottolinea con forza che il senso di tale affermazione non va confuso con quello, ancora una volta meramente retributivo, di un agire frenato solo dal timore delle conseguenze. Ciò costituirebbe l’ennesima, vuota lettera della legge, non l’autentico

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Ecco perché, sia detto qui per inciso, anche nello Hegel più maturo la Versöhnung non sembra affatto implicare l’incedere dello spirito come success story garantita ottimisticamente dall’affermarsi trionfale del logos. Sul tema del perdono nella Fenomenologia dello spirito rimando a G. Garelli, Lo spirito in figura, Il Mulino, Bologna 2010, cap. VI, pp. 151-175. Più in generale, le osservazioni seguenti sono debitrici anche dello studio di M. Bouchard, F. Ferrario, Sul perdono. Storia della clemenza umana e frammenti teologici, B. Mondadori, Milano 2008. STG, pp. 421-422 (HW I, p. 352).

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spirito di redenzione. La frase di Gesù “Ti sono rimessi i tuoi peccati” non implica per il giovane teologo l’annullamento della punizione o anche solo il sollievo per averla fatta franca, bensì “la certezza di aver riconosciuto”, nella fiducia dell’altro, “un cuore eguale al [proprio], di avervi letto l’elevazione al disopra della legge e del destino”. Questo significa l’affermazione hegeliana secondo cui la fede in Gesù non è una sottomissione, ma “una conoscenza dello spirito, attraverso lo spirito”: si tratta cioè del levarsi (ecco l’altra parola famigerata: la famosa Aufhebung) del legame servile, per la “ricostituzione di un vivo legame, di uno spirito d’amore e di fede reciproca”25. Fa così nuovamente la sua comparsa il motivo della necessità di un superamento dialettico del giudizio come scissione, diairesis. Dove c’è spirito, insomma, l’intero movimento non proviene da una legge estranea, superiore all’uomo, bensì sorge propriamente dall’uomo; il ritorno allo stato originario, alla totalità, è possibile perché il peccatore è più che un peccato esistente, un delitto che ha personalità: è un uomo; delitto e destino sono in lui; egli può di nuovo tornare in se stesso; e se lo fa, quelli sono sottomessi a lui26.

La riconciliazione non è allora il gesto titanico di un eroe impegnato in una lotta contro potenze più grandi di lui, né la paralizzante attesa dell’irrompere d’un deus ex machina che risolva miracolosamente l’impasse; la riconciliazione è piuttosto il lavoro faticoso e costruttivo di una umanità alle prese con tutta la sua fragilità, ma battezzata nello spirito – donde ancora il senso della frase di Giovanni il Battista: “Io vi ho immerso nell’acqua, ma egli vi battezzerà con lo spirito santo e con il fuoco” (Lc. 3,16); laddove, chiosa Hegel citando Matteo, “báptisma è l’intera consacrazione dello spirito e del carattere” (Mt. 21,25)27.

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STG, pp. 424-425 (HW I, pp. 356-357). STG, p. 423 (HW I, pp. 353-354). STG, p. 453 (HW I, p. 390).

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5. Con le considerazioni precedenti si è cercato di fare un po’ di luce sulla nozione di “riconciliazione” (Versöhnung, Versöhnlichkeit), intesa come quel modo di concepire il rapporto fra la colpa e la possibilità della sua estinzione che costituisce la peculiarità dello spirito del cristianesimo secondo il giovane Hegel. Ma se il nostro interesse non è anzitutto storiografico, perché si può sostenere che queste considerazioni ancora ci riguardano? Di fronte a tale domanda, che poi – se mi è lecito dirlo – è parte della questione più generale circa il senso dell’ermeneutica di un testo filosofico del passato, ci si limiterà a sottolineare quanto segue. Che il discorso teologico hegeliano non presenti in alcun modo tratti banalmente edificanti, e che la sua attualità – va sottolineato con forza – non sia affatto vincolata a opzioni confessionali, è attestato in modo indiretto, più che da ogni sforzo esegetico di riesumazione testuale, da quanto ha osservato una grande pensatrice del Novecento, ebrea (fa piacere ricordarlo, visto quanto si era letto in apertura nel testo di Hegel), e certamente non sospetta di particolari simpatie o affinità rispetto al pensiero dialettico: Hannah Arendt. La quale, nel paragrafo 33 di The Human Condition (1958), faceva a propria volta risalire nientemeno che alla predicazione di Gesù di Nazareth la scoperta, a suo dire decisiva, del “ruolo del perdono nel dominio degli affari umani”. Secondo la Arendt era stato infatti Gesù a sostenere, “contro ‘scribi’ e ‘farisei’, che non solo Dio ha il potere di perdonare”, ma anzi “questo potere […] va praticato dagli uomini gli uni verso gli altri prima che essi possano sperare di essere perdonati anche da Dio. Nel Vangelo non si suppone che l’uomo perdoni perché Dio perdona, ma possiamo leggere che, ‘se perdonerete con il cuore’, ‘anche’ Dio perdonerà” (Mt. 18,35; Mc. 11,25; Mt. 6,14-15). Infatti, continua la pagina arendtiana, Diversamente dalla vendetta, che è la naturale, automatica reazione alla trasgressione e che per effetto dell’irreversibilità del processo dell’agire può essere prevista e anche calcolata, l’atto del perdonare non può mai essere previsto; è la sola reazione che agisca in maniera inaspettata e che quindi ha in sé, pur essendo una reazione, qualcosa del carattere originale dell’azione. Perdo-

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nare, in altre parole, è la sola reazione, che non si limita a re-agire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata28.

Riconciliare non significa fare come se nulla fosse stato, bensì permettere il fluidificarsi di una relazione che una colpa o un’offesa hanno irrigidito. Ecco perché lo spirito del precetto “non giudicare!” consiste nell’invito – per parafrasare Hegel – ad aufheben, “levare” la frattura, riaprire una possibilità – precisamente ristabilendo quella comunicazione che la colpa sembra avere interrotto, e per superare la quale non basta attenersi alla lettera della legge. Rifiutarsi per principio di farlo significa macchiarsi di una colpa ancora più grave, come si può ricordare citando con la Arendt l’evangelista Marco: “in verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna” (Mc. 3,28-30). Il peccato contro lo spirito è il più grave: è il peccato contro il futuro. Poiché – come afferma la filosofa, in un passaggio che si può citare conclusione, e che mi pare illustri meglio di ogni esegesi storico-filosofica come va inteso anche lo spirito del cristianesimo intorno a cui si interrogava il giovane Hegel – senza un supplemento spirituale alla mera letteralità, cioè senza quel donum gratuito che rende possibile il perdonum e con ciò la Versöhnlichkeit, “la nostra capacità di agire”, dice Arendt, “sarebbe per così dire confinata a un singolo gesto da cui non potremmo mai riprenderci”29.

28

29

H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), trad. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1988, pp. 175-178. Ibidem, p. 175.

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– III –

Il senso dell’infelicità della coscienza

1. La celebre dichiarazione contenuta nella Vorrede della Fenomenologia dello spirito, secondo la quale “il vero è il tutto” ovvero “l’intero” (das Ganze)1, qualora se ne lascino per un momento da parte la fortuna come slogan e la valenza programmatica, a prenderla sul serio si rivela talmente impegnativa da mettere in crisi persino il tentativo di parlarne in modo sensato. Se “il vero è il tutto”, infatti, come si potrà mai pensare di rendere conto adeguatamente di questa stessa verità? Limitarsi ad affermarla sarebbe un’asseverazione vuota e tautologica; ma pretendere di giustificarla richiederebbe il dispiegamento del sistema stesso – cioè, a ben vedere, un’altra tautologia: la ripetizione degli scritti hegeliani, magari qua e là emendati dalle loro incertezze, e addirittura integrati nelle loro lacune2. Un’affermazione come “il vero è il tutto” rischia così di suonare come un vuoto enunciato che, se spiegato in termini di mera identità (“vero = tutto”), rasenta la ridondanza priva di significato reale.

1 2

FdS, p. 15 (GW IX, p. 19). Anche la vexata quaestio della proposizione speculativa, di cui Hegel tratta sempre nella ‘Prefazione’, va collocata nel quadro problematico costituito in generale dal linguaggio adeguato a esprimere il sistema. Per un inquadramento generale della questione mi limito a rimandare a W. Marx, Absolute Reflexion und Sprache, Klostermann, Frankfurt a.M. 1967; circa il controverso significato dello spekulativer Satz, in riferimento al rapporto fra dialettica e linguaggio, rinvio agli studi seguenti: J. Simon, Das Problem der Sprache bei Hegel, Kohlhammer, Stuttgart 1966²; J.P. Surber, Hegel’s Speculative Sentence, in «Hegel-Studien», 10, 1975, pp. 211-230; G. Wohlfart, Der spekulative Satz. Bemerkungen zum Begriff der Spekulation bei Hegel, De Gruyter, Berlin-New York 1981; nonché E. Caramelli, La proposizione speculativa nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, tesi di dottorato, Scuola Normale Superiore/Istituto Italiano di Scienze Umane, 2014 (con ampia bibliografia). Sul tema, in generale, cfr. anche G. Chiurazzi, Teorie del giudizio, Aracne, Roma 2005, cap. III (‘La verità dell’intero’), pp. 59-72.

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Per essere riempita di contenuto, tale identità dovrebbe poter attingere all’identità originaria precedente ogni differenza; dovrebbe cioè fare appello a un’intuizione di quel famoso “Assoluto” che, sempre stando alla Vorrede, è oscurità in cui tutte le differenze si fanno indistinguibili, “notte in cui, come si suol dire, tutte le vacche sono nere”: la qual cosa però, lungi dal descrivere l’origine che trascende ogni differenza, la dice lunga piuttosto sull’“ingenuità dovuta alla vacuità di conoscenza”, sul suo “colpo di pistola” e sui suoi “fuochi artificiali” che si spacciano per l’empireo3. Il nodo non è semplice da sciogliere, né per risolverlo è sufficiente averlo individuato con una certa chiarezza. Si pensi per esempio ancora alla Einleitung della Fenomenologia, e in particolare a quella pagina che descrive il modo in cui il sapere procede dialetticamente. La coscienza, dice Hegel, differenzia da sé qualcosa a cui nel contempo si rapporta; ovvero – per esprimersi altrimenti – vi è qualcosa per questa coscienza stessa; e il lato determinato di questo rapportarsi, ossia il lato dell’essere di qualcosa per una coscienza, è il sapere. Da questo essere per un altro noi distinguiamo però l’essere in sé; ciò che è rapportato al sapere viene parimenti distinto da esso, e posto come essente anche al di fuori di questo rapporto; il lato di questo in sé si chiama verità. […] Se ora noi indaghiamo la verità del sapere, pare che esaminiamo ciò che esso è in sé. Tuttavia, in tale indagine il sapere è il nostro oggetto, è per noi; e l’in sé di esso, quale ne risulterebbe, sarebbe piuttosto il suo essere per noi; ciò che noi affermeremmo come sua essenza non sarebbe la sua verità, bensì solamente il nostro sapere di esso. L’essenza o la misura ricadrebbe in noi, mentre ciò che dovrebbe esserle comparato, e sul quale si tratterebbe di decidere tramite questa comparazione, non sarebbe necessariamente tenuto a riconoscerla. […] Si vede bene che si tratta, in entrambi i casi, della stessa cosa; l’essenziale però è che, per tutta l’indagine, si tenga fermo

3

FdS, pp. 12, 21, 51 (GA IX, pp. 17, 23-24, 48).

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questo: entrambi questi momenti, concetto e oggetto, essere per un altro ed essere in se stesso, ricadono a loro volta nel sapere che stiamo indagando. […] Essendo entrambi gli aspetti per la coscienza, essa stessa è la loro comparazione; è per questa stessa coscienza che il suo sapere dell’oggetto può corrispondere o meno a quest’ultimo4.

In questa discussa pagina, Hegel sembra presentare il processo del conoscere come una ripetizione costante e ricorsiva della medesima operazione. Nell’opporre a se stessa un contenuto, la coscienza finisce per assistere al puntuale “ricadere” entro di lei di tutte le configurazioni assunte successivamente dal sapere. Non per nulla c’è stato chi, nel commentare l’‘Introduzione’ della Fenomenologia, ha parlato di questa dialettica, se non proprio nei termini di una struttura quasi-trascendentale, quantomeno come di un “operatore formale” della coscienza, che ne accompagna e determina l’intero cammino5. Ora, è inutile nascondersi che la tentazione di formalizzare l’ingenerosa prosa hegeliana è a volte molto forte, non fosse che per metterne alla prova l’effettiva coerenza e la tenuta logica dei passaggi più oscuri e controversi. Altrettanto certo è però che, se si è disposti ad ammettere per carità ermeneutica qualcosa come un senso generale dell’operazione intrapresa da Hegel, quella tentazione formalizzante entra ben presto in pieno conflitto con l’idea stessa d’un “sapere assoluto”: a uno sguardo logico-formale, la pretesa di sciogliere (ab-solvere) da ultimo in una superiore autocoscienza le fratture implicite nel punto di vista limitato e accidentale della coscienza deve sembrare nient’altro che una chimera. E se le cose stessero davvero in questi termini, anche il pensare dialettico sarebbe infine condannato a quella che Hegel chiama altrove “cattiva infinità”: “questo continuo sorpassare il limite, che è l’impo4 5

FdS, pp. 63-65 (GA IX, pp. 58-59). Cfr. K. Cramer, Bemerkungen zu Hegels Begriff vom Bewusstsein in der Einleitung zur Phänomenologie des Geistes, in Seminar: Dialektik in der Philosophie Hegels, a c. di R.-P. Horstmann, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1989, pp. 360-393.

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tenza di toglierlo e la perenne ricaduta in esso”; “non un procedere e un venir più avanti, ma la ripetizione sempre dello stesso, un porre, un togliere, e poi daccapo un porre e daccapo un togliere; una impotenza del negativo”. Tanto che, alla fine, “la noia” di una simile “ripetizione” condurrebbe a un solo risultato: far “soccombere il pensiero”6. Ecco allora riemergere con prepotenza il medesimo paradosso dal quale si erano prese le mosse. Se il vero è das Ganze, e se inoltre si pretende di dire, dal punto di vista di una coscienza (che, in quanto tale, conserva le proprie irriducibili determinatezze) la verità su/di questo vero, è necessario trovare il modo di mettere insieme ciò che a prima vista sembra affatto indisponibile a ogni composizione – il tutto e la parte, il finito e l’infinito; e si tratta, per di più, di farlo muovendosi all’interno della finitezza medesima, cioè dal punto di vista di coscienze che, almeno al principio, debbono sapersi come accidentali, limitate – in una parola, non divine. Fin dai primi anni jenesi, del resto, è noto che Hegel aveva individuato nella soluzione di tale problema il compito della filosofia, formulandolo più o meno in questi termini: bisogna trovare un modo soddisfacente per dire l’“assoluto”, ma inteso come “l’identità dell’identità e della non-identità”7. Tale è la missione della filosofia, e di qui provengono anche il suo lavoro (Arbeit), la sua fatica. E a questo scopo mira appunto la dialettica, se è vero che il pensiero, oltre a non annoiarsi nella ripetizione dell’identico, deve appunto lottare anzitutto per non soccombere. Che cosa poteva intendere allora Hegel, quando – prendendo le distanze dalla filosofia dell’identità propugnata dalla scuola di Schelling e dalla relativa idea di Assoluto (scritto per l’occasione rigorosamente con la maiuscola) come “unità indifferenziata” – affermava che “il vero è il tutto”? Nelle righe della ‘Prefazione’ che fanno seguito a questa frase si può già trovare un’indicazione preziosa per cercare una risposta a questa domanda: 6 7

SL, pp. 249-251(GW XXI, pp. 222-223). PSC, p. 79 (GW IV, p. 64): “Ma l’assoluto stesso è con ciò l’identità dell’identità e della non-identità; opporre ed esser-uno sono contemporaneamente [zugleich] in esso”.

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Il tutto però non è altro che l’essenza che si compie attraverso il suo sviluppo. Dell’assoluto, bisogna dire che è essenzialmente risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità; e appunto in questo consiste la sua natura: essere qualcosa di effettivo, soggetto, o divenire-se-stesso8.

Quasi in apertura della ‘Prefazione’, “das durch seine Entwicklung sich vollendende Wesen” è quindi descritto con un’immagine non meno celebre e suggestiva: Il bocciolo dilegua nel dischiudersi del fiore, e si potrebbe dire che quello viene confutato da questo; allo stesso modo, la comparsa del frutto mette in chiaro che il fiore è un falso modo di esistere della pianta, e il frutto ne prende il posto come verità di essa. Queste forme non si limitano a essere differenti, ma, in quanto reciprocamente incompatibili, si rimuovono a vicenda. La loro natura fluida ne fa però, nel contempo, momenti dell’unità organica, in cui non soltanto esse non sono in contrasto, ma l’una non è meno indispensabile dell’altra: ed è solamente questa pari necessità a costituire la vita del tutto9.

Solo un linguaggio “plastico”, capace di sciogliere nella fluidità speculativa la rigidità pietrificata del giudizio, potrà intraprendere la descrizione fenomenologica dell’esperienza compiuta dalla coscienza, quando questa abbandona il punto di vista cosiddetto “naturale” per andare alla ricerca della scienza, ossia della comprensione concettuale del reale. Unicamente la filosofia come dialettica può insomma rendere conto dell’affermazione secondo cui “il vero è il tutto”, giustificandola. Con questo, però, il problema originario non ha ancora trovato un’indicazione procedurale pienamente soddisfacente. Per rendere conto del vero come totalità sarà forse necessario ripercorrere dunque l’intera Fenomenologia dello spirito? In effetti, a rigore l’opera-

8 9

FdS, p. 15 (GW IX, p. 19). FdS, p. 4 (GW IX, p. 10).

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zione non sarebbe possibile senza presupporre la conquista del sapere assoluto, cioè la chiarificazione concettuale del punto di vista filosofico ormai raggiunto, dal quale si possa narrare il senso dell’intero cammino. Eppure, proprio la famiglia di metafore cui appartiene l’immagine citata contiene indicazioni di per sé già abbastanza suggestive. Un’immagine simile a quella contenuta nella ‘Prefazione’ si trova per esempio anche nel testo delle lezioni hegeliane edite da Georg Lasson. Tentando di chiarire che cosa davvero intendesse per “concetto”, Hegel avrebbe detto ai suoi uditori del corso di estetica: Nel germoglio [Keim], in questo punto piccolissimo, che non è certamente un punto geometrico, ma è pur sempre qualcosa di minimo, in questa unità in cui non c’è ancora nulla da distinguere o che mostra solo una distinzione insignificante, sono contenute tutte le determinazioni che mostrerà l’albero. L’intero albero è contenuto nel germoglio in modo ideale, e cioè soltanto in sé. Se il germoglio si sviluppa dando luogo all’albero, quest’ultimo è la realtà [Realität] del germoglio. Il germoglio è il concetto dell’albero, l’albero la realtà […]. L’unica vita che è presente nell’albero, nei rami, nelle foglie e nei fiori è il suo concetto, che esiste come vivente10.

Si tratta certo d’una metafora, dunque appunto di una rappresentazione che in questo caso si sostituisce al concetto proprio nell’atto in cui cerca di descriverlo; e come tale va dunque intesa. Nell’albero dispiegato della Fenomenologia, però, proprio la natura di tale metafora sembra suggerire la ricerca del “germoglio”: qualcosa come un nucleo seminale, un’idea a partire da cui orientare anzitutto il rapporto fra coscienza, verità e totalità. L’esperimento richiede ogni cautela: come si è detto, ogni tentativo (tanto più se si tratta d’un tentativo esplicitamente non concettuale) di isolare 10

ÄL, p. 157. Cfr. anche PhKK, p. 35: “nell’albero non c’è alcunché che già non fosse nel germoglio. Ora, l’idea è l’unità del concetto e della realtà [Realität]; essa è la realtà in maniera tale per cui quest’ultima è determinata solamente dal concetto, e non dà alcunché, se non l’esplicazione di questo [concetto]”.

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una struttura permanente nel continuum della prosa hegeliana si espone al rischio del costitutivo fraintendimento. Qui però non vi è alcun intento di sostituire l’immagine al concetto, né tantomeno di descrivere (sia pure, questa volta, in termini non formali) una presunta struttura ricorsiva del movimento dialettico. Piuttosto, si è alla ricerca di una risposta alla domanda seguente: nelle figure attraversate dalla Fenomenologia, è possibile cogliere qualcosa come un germoglio che possa valere come exemplum dell’intero movimento della coscienza, mentre questa è alla ricerca della consapevolezza di sé, cioè della propria verità?

2. Nel secolo scorso, autorevoli interpreti del pensiero hegeliano, soprattutto in area francese, hanno a più riprese sottolineato la centralità della figura dell’unglückliches Bewußtseyn nella Fenomenologia dello spirito. A detta di Jean Hyppolite, per esempio, l’“esperienza che l’autocoscienza scissa fa nella sua infelicità”11, quale viene descritta in conclusione del capitolo IV dedicato alla “verità della certezza di se stesso”, costituirebbe addirittura il tema fondamentale dell’opera. “Infatti la coscienza come tale, non essendo ancor giunta all’identità concreta della certezza e della verità, e opinando quindi un al di là di sé, nel suo fondamento è sempre coscienza infelice (in senso ampio)”12. Si tratta di un’affermazione impegnativa, perché da essa parrebbe evincersi nientemeno che la legittimità di distinguere fra una “coscienza infelice” intesa stricto sensu – che costituisce appunto l’ultima figura a presentarsi nel momento dell’‘Autocoscienza’ (IV.B) – e quella che, in senso lato, potrebbe dirsi l’infelicità determinata in generale nella coscienza dalla scissione che le è sempre e comunque costitutiva, causandone l’implacabile irrequietezza13. Affermando tutto ciò, Hyppolite peraltro ri-

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13

FdS, p. 146 (GW IX, p. 123). J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel (1946), trad. it. di G.A. De Toni, pres. di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 231. Non sarà inutile, a questo proposito, una puntualizzazione terminologica. Come è noto, Hegel diffidava dall’adottare, in filosofia, rigidi tecnicismi (al

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prendeva un’indicazione di Jean Wahl, il quale, nel suo studio dedicato a Le malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel (1929), aveva ricostruito la genesi della figura in questione nel penriguardo mi permetto di rimandare alla Nota al testo che ho premesso alla mia traduzione di FdS, pp. XLV-XLIX). Ciò vale anche per parole decisive come “coscienza [Bewußtseyn]” e “autocoscienza [Selbstbewußtseyn]”, che infatti assumono nella Fenomenologia valenze di volta in volta differenti, pur in un coerente quadro d’insieme. Senza alcuna pretesa definitoria bisognerà allora ricordare che, a un livello molto generale (a), per Hegel l’intero procedimento fenomenologico consiste nella transizione dalla “coscienza” all’“autocoscienza” (e in ciò sta propriamente il farsi soggetto della sostanza, ma anche il passaggio dal punto di vista naturale e ingenuo a quello del sapere filosofico o assoluto). A un secondo livello tuttavia (b), poiché la successione delle figure – come si avrà modo di constatare anche in questa sede – è essenzialmente una progressiva presa di coscienza di sé (il per-sé), che attraversa la negazione determinata di ciò che prima non era ancora consapevole (l’in-sé), in certa misura ogni passo nel cammino fenomenologico sarà anche un incremento di autocoscienza, rispetto alla coscienza implicita nel passo precedentemente compiuto; il che dipende, in ultima analisi, dalla non-coincidenza di “certezza [Gewißheit]” e “verità [Wahrheit]”. La struttura in senso lato ricorsiva della Fenomenologia, in qualche modo paragonabile a un frattale, complica poi ulteriormente le cose: infatti (c), in apertura del IV capitolo (cioè nel passare dal momento che Hegel definisce propriamente ‘Coscienza’, e che comprende i capp. I-III, a quello chiamato ‘Autocoscienza’, appunto il cap. IV) si legge in modo esplicito che la “certezza” prima riguardava un oggetto “altro” dalla coscienza, mentre ora “l’in-sé dell’oggetto e il suo essere per un altro sono identici” (FdS, p. 121; GW IX, p. 103): per cui “con l’autocoscienza, noi abbiamo […] accesso al regno in cui la verità è di casa”. (d) A ciò si aggiunga ancora, almeno, che l’indice stesso dell’opera può leggersi nel segno una triade per-sé (coscienza dello spirito in generale, capp. I-VI), in-sé (cap. VII: la religione come noumenologia dello spirito, secondo un’espressione di Hyppolite) e in-sé-e-per-sé (sapere assoluto, come compiuta autocoscienza dello spirito e telos dell’intero movimento); e anche questa considerazione non esaurisce la complessità del discorso. – Non deve stupire dunque che citando Hegel (o i suoi commentatori) si parli di autocoscienza in riferimento per esempio al paragrafo IV.A, su ‘Autonomia e non-autonomia dell’autocoscienza; signoria e servitù’ (il quale si apre con la celebre affermazione secondo cui “L’autocoscienza è in sé e per sé allorquando, e per il fatto che, essa è in sé e per sé per un’altra autocoscienza”; FdS, p. 128; GW IX, p. 109), e poi si torni a parlare di coscienza trattando del paragrafo successivo (IV.B), in riferimento appunto ai diversi modi in cui si dispiega la di lei “infelicità”. Nelle pagine che seguono, parlando di coscienza e di autocoscienza cercherò di attenermi – nella misura in cui ciò è possibile – a questa cornice generale di riferimento; non senza aver ribadito peraltro che la relazione fra i due termini in questione è sempre

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siero hegeliano, rintracciandone le varie ricorrenze a partire dagli scritti giovanili. Anche per Wahl, come poi per Hyppolite, “l’intera storia della coscienza umana è […] la storia della coscienza dilacerata”; per cui “la coscienza razionale non può esprimersi se non attraverso una serie di manifestazioni incomplete, una successione di conflitti e di errori che si rettificano continuamente”14. Secondo questi interpreti, si può dunque a buon diritto parlare di infelicità, nelle pagine delle diverse opere hegeliane, ovunque una coscienza ritrovi dentro di sé l’opposizione fra finitudine e accidentalità – da un lato – e infinitezza e necessità – dall’altro; trovandosi poi alle prese, sempre dentro di sé, con il problema apparentemente insolubile della loro conciliazione. In questo senso, nei cosiddetti Scritti teologici giovanili raccolti nel 1907 da Nohl potrà per esempio dirsi “infelice” la religione del popolo ebraico, sublime e separata dalla vita, in cui – all’opposto di quanto non accada nella “bella eticità” greca – l’essenza infinita di Dio si contrappone come signoria assoluta al nulla della creatura (si pensi a Ecclesiaste I, 2: “Vanità delle vanità, dice Qoèlet, | vanità delle vanità, tutto è vanità”). Anche il cristianesimo però può rappresentare agli occhi del giovane Hegel il paradigma d’una religione dell’infelicità, soprattutto se inteso come espressione di una fede e di un sentimento d’amore astratti e puramente soggettivi, oppure qualora in esso prevalgano il vuoto formalismo e l’esteriorità del culto. Il che è accaduto quando la comunità cristiana delle origini, lasciandosi influenzare dall’ideale propriamente romano dello ius astratto, ha dato vita a una “unione affatto esteriore della chiesa e di Cristo”; oppure quando la religiosità medievale ha finito per fare “del sensibile, del questo, per esempio del pane e del vino, il simbolo dell’immateriale, contraddizione felice, ma che nell’anima dei discepoli doveva dar origine a un sentimento d’aspirazione tri-

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per così dire posizionale, seppure non incoerente; le possibili, apparenti incongruenze nel testo hegeliano richiedono dunque un supplemento di carità ermeneutica, nel rispetto 1) del contesto e 2) dell’uso plastico del linguaggio che caratterizza intenzionalmente la prosa della Fenomenologia. J. Wahl, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel (1951²), trad. it. di F. Occhetto, pref. di E. Paci, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 64, 112.

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ste e come senza speranza”15. Ma l’infelicità della coscienza costituisce poi anche il filo conduttore delle filosofie post-kantiane, o almeno di quelle che Hegel chiama “filosofie della riflessione”, ovunque l’Io tenti invano di ripiegarsi su se stesso, sperando di cogliere finalmente in modo trasparente la propria origine. Ferme restando le loro irriducibili differenze, tutte queste filosofie hanno in comune agli occhi di Hegel l’incapacità di porre correttamente il problema dei limiti della soggettività16. – Come dimostra la varietà degli esempi, non è affatto opportuno ricondurre dunque la “coscienza infelice” a un unico modello storico: essa del resto non è ancora una configurazione mondana dello spirito (queste, nella Fenomenologia, si presenteranno solamente a partire dal cap. VI, dedicato al Geist in senso stretto17), ma sembra piuttosto riferirsi, come è stato notato, a una “caratteristica universale della natura umana”18. 15

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C’è chi ha contestato esplicitamente, peraltro, la tesi di Wahl secondo cui il riferimento privilegiato della coscienza infelice sia l’ebraismo, il quale in Hegel non sarebbe invece affatto “a shape of the Weltgeist”. Nella seconda parte della trattazione hegeliana dell’‘Autocoscienza’ ne andrebbe piuttosto dell’“eredità cristiana delle Scritture ebraiche” e della sua pretesa di farsi coscienza universale, come emerge con chiarezza da un’analisi della seconda fase dello sviluppo interiore della coscienza infelice medesima. Cfr. H.S. Harris, Hegel: Phenomenology and System, Hackett, Indianapolis 1995, p. 44. Cfr. J. Wahl, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., pp. 34-84; e J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., pp. 232-235. Cfr. T. Pinkard, What is a “shape of spirit?”, in Hegel’s “Phenomenology of Spirit”. A Critical Guide, a c. di D. Moyar, M. Quante, Cambridge U.P., Cambridge-New York 2008, pp. 112-129. J.W. Burbridge, “Unhappy Consciousness” in Hegel. An Analysis of Medieval Catholicism?, in The “Phenomenology of Spirit” Reader. Critical and Interpretive Essays, a c. di J. Stewart, Suny Press, Albany 1998, p. 202. Burbridge ricorda che le osservazioni hegeliane potrebbero ben adattarsi anche ai culti orientali che, penetrati nella Roma imperiale, si proponevano come forme di spiritualità in diretta concorrenza con le filosofie ellenistiche: soprattutto con lo stoicismo e lo scetticismo, sui quali appunto si soffermano le pagine della Fenomenologia che precedono la trattazione della coscienza infelice. (Assai meno convincente mi pare, invece, il successivo riferimento di Burbridge al buddismo: esempio evidentemente scelto allo scopo di generalizzare la validità della figura in questione nella sua natura di esperienza umana universale). In altra prospettiva, già Otto Pöggeler aveva peraltro messo in guardia dal trat-

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L’idea condivisa dai due autorevoli esponenti del neohegelismo francese, secondo cui il nucleo teorico della Fenomenologia va ricercato appunto nella dilacerazione tutta interna alla coscienza, l’infelicità della quale sarebbe determinata dalla sua stessa pulsione inesausta verso la crescita della propria autoconsapevolezza, ha peraltro trovato tra gli studiosi un’accoglienza contrastata. Da più parti è stata ribadita l’esigenza storico-filosofica di restituire l’analisi delle pagine in questione al loro contesto19, prendendo di fatto le distanze, in modo più o meno accentuato, dalla convinzione di Wahl (da molti interpreti giudicata troppo radicale) secondo cui “la coscienza infelice, in quanto è questa molteplicità di coscienze successive, è […] identica nella sua essenza al movimento stesso della dialettica”20. Al di là di ogni cautela storico-filosofica, la tesi

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tare le Gestalten dell’‘Autocoscienza’ alla stregua di descrizioni di figure sociali: si tratta piuttosto di figure ancora astratte, e proprio in ciò consiste appunto la loro peculiare universalità (O. Pöggeler, Hegels Idee einer Phänomenologie des Geistes, Alber, Freiburg i.B.-München 19732, p. 248). Cfr. W. Marx, Das Selbstbewußtsein in Hegels Phänomenologie des Geistes, Klostermann, Frankfurt a.M. 1986, pp. 126-127. A questo proposito, negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, anche in Italia si sono registrate interpretazioni contrapposte. Dopo la limpida lettura del capitolo sull’‘Autocoscienza’ offerta da De Negri (cfr. E. De Negri, Interpretazione di Hegel, Sansoni, Firenze 1969, cap. XIII: ‘Servitù e infelicità dell’autocoscienza’, pp. 278-299), nel 1972 Enzo Paci pubblicò per esempio una Prefazione all’edizione italiana dello studio di Wahl (ora in J. Wahl, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., pp. IX-XXIX), in cui sostanzialmente condivideva con l’autore francese l’idea che l’intero capolavoro hegeliano sia segnato in maniera determinante dall’intento di cancellare la scissione fra vita e coscienza (quest’ultima sarebbe infelice appunto perché non riesce ad attingere la coincidenza con la propria stessa origine, essendone separata dalla riflessione). Pochi anni dopo, Sergio Landucci (nel quarto capitolo di Hegel: la coscienza e la storia. Approssimazione alla “Fenomenologia dello spirito”, La Nuova Italia, Firenze 1976, pp. 107-149), ebbe invece modo di contestare la “cattiva estensione, del tema appunto della coscienza infelice, ond’essa rappresenterebbe, più che una figura determinata, una sorta di protagonista segreto, o di punto focale, di tutta la Fenomenologia dello spirito, che è una cattiva eredità del libro del Wahl” (ibidem, p. 146). A qualche decennio di distanza, un sereno riesame di questi studi potrebbe aiutare a ricostruire, oltre alla storia della fortuna (e delle sfortune) del pensiero hegeliano in Italia, anche il clima ideologico nel quale si muovevano i suoi interpreti. Questo compito va tuttavia ovviamente ben al di là degli intenti del presente contributo. J. Wahl, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 112.

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di Wahl – il cui libro nel frattempo è divenuto a propria volta un classico della storiografia filosofica – resta illuminante per una comprensione autentica delle idee portanti della Fenomenologia dello spirito, e del suo tentativo di superare la scissione attraverso la faticosa conquista dell’autocoscienza21. In questo senso, l’esame della dialettica descritta nelle pagine sull’unglückliches Bewußtseyn, lungi dal trasformarsi (come è stato insinuato da alcuni critici di Wahl) in una languida apologia di un esistenzialismo asfittico, si può rivelare un momento indispensabile per comprendere anche quella “felicità della coscienza”22 che sarà infine l’elemento proprio del sapere assoluto.

3. La lotta per il riconoscimento con cui si apriva il capitolo IV della Fenomenologia, seguita dalla dialettica fra signore e servo, aveva esibito il nesso fra autocoscienza e libertà (IV.A). Con buona pace delle letture eccessivamente ideologiche di quelle pagine, anch’esse un po’ troppo inclini a trascurarne la collocazione nel contesto originario (evidentemente è questo il destino delle più celebri figure della Fenomenologia, e in particolare di quelle dell’‘Autocoscienza’)23, tale nesso si era venuto configurando nei termini di 21

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Cfr. O. Pöggeler, Hegels Idee einer Phänomenologie des Geistes, cit., pp. 231298, in cui l’autore presenta la centralità del capitolo fenomenologico dedicato all’‘Autocoscienza’, individuandone le ragioni della fortuna nel suo costituire appunto l’idea fondamentale di una fenomenologia dello spirito, intesa come formazione d’una nuova soggettività. Cfr. anche Id., Selbstbewußtsein als Leitfaden der “Phänomenologie des Geistes”, in G.W.F. Hegel, “Phänomenologie des Geistes”, a c. di D. Köhler, O. Pöggeler, Akademie Verlag, Berlin 1998, pp. 136-141. A questo riguardo si veda ancora W. Marx, Hegels Phänomenologie des Geistes. Die Bestimmung ihrer Idee in ‘Vorrede’ und ‘Einleitung’, Klostermann, Frankfurt a.M. 1971, p. 113-123. J. Wahl, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 112. Sia pure in plateale polemica con le interpretazioni inclini a sottolineare “la pretesa sensibilità che Hegel nutrirebbe per… l’infelicità!”, almeno su questo punto Landucci perviene a una conclusione in tutto e per tutto analoga a quella di Wahl (S. Landucci, Hegel: la coscienza e la storia, cit., p. 125, nota). A dispetto dell’interpretazione di Kojève e della fortuna che essa ha avuto nei suoi lettori, non è infatti nella figura di signoria e servitù che Hegel intende presentare l’estremo dell’ineguaglianza assoluta. Come ha sostenuto Harris,

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un’indipendenza dell’Io dal mondo: donde la scaturigine della successiva dialettica di stoicismo, scetticismo e coscienza infelice (IV.B). Lo stoicismo aveva condotto all’elemento del pensare l’emancipazione astratta dell’Io rispetto alla mutevolezza e all’instabilità delle vicende mondane24: la libertà si può dare sul trono come in catene, e tanto l’imperatore-filosofo (Marco Aurelio) quanto lo schiavo saggio (Epitteto), pur nella distanza assoluta della loro posizione sociale, potranno scorgerne l’elemento essenziale nell’indipendenza dell’individuo rispetto ai condizionamenti esteriori. Certo, il mondo continua a sussistere, con tutto il suo carico di irrazionalità e le sue implicite e dolorose contraddizioni, al di fuori dell’animo e del “pensare astratto”25: il sapiente, sottovalutandone dapprima la realtà in modo deliberato, finisce così poi col negarla. Ecco perché, proprio su questo punto, è lo scetticismo a inverare l’opzione stoica: esso infatti è in-sé e per-sé ciò che lo stoicismo era ancora solamente insé. Per lo scettico, il mondo esterno va come annullato, fino a negarne le manifestazioni e le evidenze sensibili, e a rifiutare di chiamare verità ciò che appare vero26. Nel fare ciò, tuttavia, il “pensare inquieto”27 della coscienza scettica si imbatte a sua volta in una contraddizione. Nel momento in cui nega ogni certezza, infatti, quella fa un’affermazione che si trova costretta a spacciare e a difendere per vera, senza sapere come28. È la nuova consapevolezza di questa contraddizione insanabile a determinare la crisi dello scetticismo: Nello stoicismo, l’autocoscienza è la semplice libertà di sé, come tale; nello scetticismo questa libertà si realizza, annienta

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questo fraintendimento (dal quale invece Wahl sarebbe stato immune) in Kojève farebbe tutt’uno con la convinzione secondo cui lo spirito assoluto non è che “ideologia”. Kojève non avrebbe cioè “colto il punto per cui l’identificazione sociale e il Sé universale sono più fondamentali dell’identità naturale e del Sé singolare: non avrebbe cioè capito che l’Autocoscienza non è mai immediatamente singolare” (H.S. Harris, Hegel: Phenomenology and System, cit., p. 42). Cfr. FdS, pp. 137-140 (GW IX, pp. 116-119). FdS, p. 148 (GW IX, p. 125). Cfr. FdS, pp. 139-143 (GW IX, pp. 119-121). FdS, p. 148 (GW IX, p. 125). FdS, pp. 142-144 (GW IX, pp. 120-121).

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l’altro lato, costituito dall’esistere determinato; ma tale autocoscienza libera piuttosto non fa che duplicarsi, e ora si vede come qualcosa di doppio. In tal modo la duplicazione, che prima era ripartita in due singolarità – il signore e il servo – si è nuovamente volta in unità. Si dà così il duplicarsi dell’autocoscienza entro se stessa, che è essenziale nel concetto dello spirito; però non si dà ancora la sua unità; e la coscienza infelice è la coscienza di sé come di quell’essenza fattasi duplice, che non fa che versare nella contraddizione. A tale coscienza infelice questa contraddizione della sua essenza risulta essere un’unica coscienza; perciò essa – che è scissa entro di sé – nell’una delle due coscienze deve avere sempre anche l’altra; e così, quando ritiene di essere pervenuta alla vittoria e alla quiete dell’unità, deve anche immediatamente venirne di nuovo espulsa29.

Dunque è in seno allo scetticismo (e non allo stoicismo, nonostante ogni apparente affinità) che la coscienza ritrova un’attitudine – se è lecito anticipare in parte i contenuti della penultima sezione della Fenomenologia – che si potrebbe definire religiosa. Ciò accade quando lo scetticismo, che è coscienza simul incerta et certa, diviene in grado di capire la propria stessa contraddizione: la figura che si affaccia sulla scena fenomenologica, in questo movimento, è ancora una volta il per-sé (la consapevolezza) di ciò che in quella precedente era solo in-sé. È l’esperienza dolorosa in cui un’unica coscienza sembra contenere “due Io”, senza però riuscire a unificarli. E proprio a questo punto Hegel intraprende l’analisi della coscienza infelice, ricca fra l’altro anche di numerose osservazioni di grande finezza psicologica: ovvero segue la dialettica di quel Bewußtseyn il cui punto di vista è dilacerato fra la singolarità della coscienza – genitivo soggettivo, da un lato – e la coscienza dell’immutabile – genitivo oggettivo, dall’altro. Si potrebbe aggiungere anzi che l’infelicità è determinata dal fatto che la coscienza ancora non sa di essere fondamento di entrambi quei lati in opposizione; ossia, per così 29

FdS, p. 144 (GW IX, pp. 121-122).

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dire, non sa ancora che quei due genitivi sono insieme soggettivi e oggettivi. La coscienza infelice sta piuttosto in questo punto intermedio, in cui il pensare astratto tocca la singolarità della coscienza in quanto singolarità. Essa stessa è tale contatto; è l’unità del pensare puro e della singolarità; anche questa singolarità pensante – ossia il pensare puro, e l’immutabile inteso essenzialmente a sua volta come singolarità – è per la coscienza infelice. Non è invece per lei il fatto che il suo oggetto – l’immutabile, che la coscienza considera essenzialmente nella figura della singolarità – sia costituito da lei stessa, cioè sia appunto la singolarità della coscienza30.

Non è nelle possibilità – e nemmeno nelle intenzioni – del presente contributo un commento esauriente del disegno e della fitta trama delle argomentazioni presentate da Hegel in questo delicato passaggio dell’opera del 180731: qui ci si limiterà a proporre una lettura che giustifichi le questioni enunciate in conclusione. Volendo tuttavia offrire una definizione operativa e del tutto provvisoria dell’infelicità della coscienza, in base almeno alle considerazioni

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FdS, p. 148 (GW IX, p. 125). Per una dettagliata ricostruzione della trama argomentativa e dello sviluppo di questa complessa figura, nel quadro dell’intero capitolo fenomenologico sull’‘Autocoscienza’, rimando ai puntuali e insostituibili commentari di W. Marx, Das Selbstbewußtsein in Hegels Phänomenologie des Geistes, cit., in particolare pp. 124-177; e di H.S. Harris, La fenomenologia dell’autocoscienza in Hegel, cit., pp. 102-175. Si veda anche P. Vinci, “Coscienza infelice” e “anima bella”. Commentario della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, Guerini e associati, Milano 1999, pp. 224-303; nonché la sintetica e più recente ricostruzione di D. Wandschneider, La “coscienza infelice” nella “Fenomenologia” di Hegel – una forma teoretico-conoscitiva di disperazione, in Disperazione. Saggi sulla condizione umana tra filosofia, scienza e arte, a c. di G.F. Frigo, Mimesis, Milano-Udine 2010, pp. 167-178. Una presentazione della scissione incarnata dalla coscienza infelice intesa come “forma di vita […] in un continuo stato di crisi” che si riproduce in vari contesti storico-culturali (a partire dal mondo ellenico), fra l’altro accostata esplicitamente alla disperazione di Kierkegaard, si trova anche in T. Pinkard, La “Fenomenologia” di Hegel. La socialità della ragione (1994), a c. di A. Sartori, I. Testa, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 114-130.

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svolte finora, si potrebbe dire: infelice è l’esperienza dolorosa di quel Bewußtseyn il cui punto di vista è dilacerato fra la singolarità finita, mutevole e accidentale (M), e il pensiero di un qualcosa di infinito, immutabile e inattingibile (I). Hegel, non a caso, aveva definito in apertura la Fenomenologia come “la via del dubbio [Zweifel], o più propriamente come la via dell’ambage e della disperazione [Verzweiflung]”32, sottolineando come appunto tutte le figure della coscienza siano segnate dalla dualità. Il che significa: l’infelicità è determinata dal fatto che la coscienza all’inizio non sa di essere fondamento dei lati tra loro in opposizione. Comprenderlo, per lei, significa conquistare la propria emancipazione. L’inizio del movimento, come sempre in Hegel, avviene all’insegna di una (almeno presunta) immediatezza. La coscienza scorge dentro di sé la presenza di due autocoscienze in contrasto, e intuisce l’opposizione di quei due oggetti fra loro: (1.) Io: “M ≠ I”. Nel farlo, poiché avverte anche la propria instabilità e mutevolezza, cioè il proprio carattere accidentale e finito, essa sa tuttavia anche di doversi collocare sul versante della singolarità accidentale (M). L’Io infatti ha dentro di sé una contraddizione, e sapendo di essere scisso non può certamente collocarsi dal lato che riserva all’unità salda e immutabile (I). (2.) Io: “(Io = M)”; (3.) Io: “(Io = M) ≠ I”. Hegel riassume questa fase iniziale nei termini seguenti: Dato che la coscienza infelice è, inizialmente, soltanto l’unità immediata di entrambe le autocoscienze, le quali però per lei non 32

FdS, p. 60 (GW IX, p. 56) (la sottolineatura parziale dei termini tedeschi è mia). Cfr. T. Pinkard, La “Fenomenologia” di Hegel. La socialità della ragione, cit., p. 116.

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sono identiche, ma anzi opposte, ecco che ai suoi occhi l’una – cioè quella semplice e immutabile – risulta quale essenza; mentre l’altra – quella molteplice e mutevole – risulta l’inessenziale. Entrambe, per lei, costituiscono essenze reciprocamente estranee; essa stessa, poiché è la coscienza di questa contraddizione, si pone sul lato della coscienza mutevole, e si considera l’inessenziale; ma in quanto coscienza dell’immutabilità, ossia dell’essenza semplice, deve nel contempo procedere a liberarsi dall’inessenziale; vale a dire, a liberarsi da se stessa33.

Ecco perché la coscienza si sente insoddisfatta, e desidera migliorare la propria condizione. Non le piace essere scissa, e soprattutto non le piace trovarsi dalla parte del transeunte: vorrebbe in qualche modo essere divina anche lei. Questa scissione è il suo tormento, la ragione della sua implacabile Unruhe. Essa cerca dunque di lasciarsi alle spalle quella condizione di accidentalità inessenziale (M) che la caratterizza intimamente, per conquistare l’universalità immutabile ed essenziale (I), ma lo fa senza rendersi conto dell’intima, triplice contraddittorietà di questa sua pretesa. Per un verso (a), se mai l’immutabile accogliesse l’istanza della coscienza mutevole, di fatto perderebbe la sua stessa caratteristica essenziale, che è appunto l’immutabilità; per altro verso (b), la stessa coscienza inquieta, per ottenere ciò che vuole, dovrebbe nientemeno che “liberarsi da se stessa”, e ciò proprio in quanto è per essenza mutevole e accidentale (M). Infine (c), poiché la sua essenza – anche se la coscienza ancora non ne è consapevole – consiste nell’essere nondimeno “unità immediata” dei due lati (M + I), il suo movimento non può che risultare ulteriormente contraddittorio: e ciò perché in esso “nessuna delle due parti perviene alla quiete nel proprio contrario, ma anzi in quello non fa che riprodursi, daccapo, come contrario”. Le parole con cui Hegel presenta questa intricata situazione iniziale fanno pensare alla genesi di un’intima scissione che – magari sulla scorta di un raffinato lettore dell’estetica hegeliana, quale fu Peter Szondi – non sarebbe fuori luogo definire tragica: 33

FdS, p. 144 (GW IX, p. 122).

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Si è perciò in presenza di una lotta contro un nemico, la vittoria sul quale costituisce piuttosto un atto di sottomissione […]. La coscienza della vita, del suo esistere e del suo fare non è altro che il dolore per tali esistere e fare, poiché la coscienza in tutto ciò non ha altra consapevolezza se non quella di avere come essenza il suo contrario, oltre a quella della propria nullità34.

L’osservazione non è priva di sottigliezza: quanto più, vedendo la propria inevitabile collocazione sul versante dell’accidentalità, la coscienza mutevole si sforza di cancellare da sé le determinazioni inessenziali, tanto più l’essenza immutabile le risulta preclusa, dal momento che l’immutabilità e l’universalità le si confermano come caratteri esclusivi di ciò che è altro da lei. Come nella frattura peculiare delle filosofie della riflessione, l’Io si scopre inetto a cogliere la propria identità tetica originaria, e con questa la sua altrettanto originaria libertà35. Ecco perché avverte che la propria infelicità è conseguenza dell’inanità degli sforzi, che dileguano e periscono vanificando la medesima ragione per cui erano stati intrapresi: il fare con cui esso conduce la propria vita non sembra del resto che confermare dolorosamente e in concreto la diagnosi dello scetticismo, dalle cui contraddittorie vicende la coscienza è peraltro appena reduce. Il problema appare inaggirabile, poiché i due lati tra loro in conflitto albergano appunto entro la medesima coscienza infelice. Al punto di vista filosofico già compiuto non sfugge che con la dinamica della coscienza mutevole si ha anche “il movimento della coscienza immutabile”, essendo le due coscienze in fondo una cosa

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FdS, p. 145 (GW IX, p. 122). – Il debito contratto dalla concezione del tragico elaborata da Szondi, oltre che nei confronti della dialettica hegeliana in senso lato, anche nei confronti dell’idea di una scissione della coscienza analoga a quella descritta in questo luogo della Fenomenologia dello spirito, si può rintracciare quasi a ogni pagina del suo scritto di abilitazione: cfr. P. Szondi, Saggio sul tragico (1961), trad. it. di G. Garelli, introd. di S. Givone, a c. e con un saggio di F. Vercellone, Einaudi, Torino 1996. In proposito cfr. C. Gentili, G. Garelli, Il tragico, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 201-204 e passim. Cfr. J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., pp. 239-241.

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sola. Proprio questa unità prefigura la verità superiore, secondo cui la coscienza è in qualche modo tutta la realtà – e con questo, magari, la (anche troppo) celebre tesi della coincidenza di razionale e reale. Sappiamo tuttavia che il cammino non è ancora giunto a far sì che questa bilateralità sia anche per la coscienza. Dunque “nella misura in cui appartiene a noi”, cioè al punto di vista del sapere assoluto che ridescrive il movimento fenomenologico, “questa considerazione […] è qui intempestiva”, infatti “finora ai nostri occhi è sorta solamente l’immutabilità in quanto immutabilità della coscienza, la quale dunque non è l’immutabilità vera, bensì è ancora inficiata da un’antitesi; non è sorto l’immutabile in se stesso e per se stesso”36. Dal punto di vista di questa superiore consapevolezza, Hegel può così già delineare le tre fasi del divenire della figura della coscienza infelice: ma tale sguardo sinottico, ripetiamo, ancora non spetta alla coscienza mutevole. L’unità del mutevole (M) e dell’immutabile (I) è al momento solo per noi: si palesa cioè soltanto al punto di vista dello spettatore che, opportunamente guidato dalla narrazione filosofica, sta a guardare il cammino della coscienza; non ancora però allo sguardo dell’Io narrato, intento ad attraversare le varie tappe del suo cammino.

4. Nella disfatta del primo momento, in cui la coscienza mutevole che tentava di ascendere all’immutabile ne veniva implacabilmente respinta, è stato tuttavia compiuto un piccolo passo. Apparentemente forse un’inezia; ma un’inezia dal carattere davvero decisivo, proprio come essenziale è quella minuscola gemma dalla quale debbono poi sbocciare foglia, fiore, frutto, seme, albero dispiegato. Bisogna dunque cercare di chiarire in che modo la coscienza mutevole cominci ad accorgersi che la relazione tra mutabile e immutabile non è unilaterale, bensì bilaterale, cioè avviene nei due sensi: Proprio per questo, l’immutabile che entra nella coscienza è nel contempo toccato dalla singolarità, ed è presente soltanto

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FdS, p. 146 (GW IX, p. 123).

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insieme con questa; e la singolarità, lungi dall’essere stata cancellata dalla coscienza dell’immutabile, non fa che comparirvi di continuo. In tale movimento però la coscienza infelice sperimenta appunto questo presentarsi della singolarità NELL’immutabile, e dell’immutabile NELLA singolarità37.

In questo non facile passaggio, mi pare che Hegel faccia osservare quanto segue. Lavorando per cancellare le determinatezze che ne sanciscono l’inessenzialità e cercando di “elevarsi verso l’immutabile”, la coscienza mutevole (Io = M) è riuscita almeno a stabilire un rapporto con il suo altro (I). Ammettiamo pure che si tratti di un rapporto di rifiuto, o di un desiderio a senso unico. Comunque, anche così, la determinatezza mutevole della coscienza attinge in qualche modo l’universale; sia pure – lo si ripeta – in quanto altro da lei. Essa può cioè già intravedere una qualche unità, per quanto instabile, nel fare esperienza della relazione con esso. E poiché la relazione è naturalmente fra due termini, altrimenti non sarebbe relazione per davvero, è l’immutabile stesso, in quanto “entra nella coscienza”, a essere a propria volta “toccato dalla singolarità”, rendendosi ora “presente soltanto insieme con questa”38. Nella sua ancora istintiva salita all’immutabile, insomma, la coscienza viene sistematicamente respinta. A lungo andare, però, è come se essa anche così capisse che c’è qualcosa che la respinge, cioè si raffigurasse il proprio altro in una maniera determinata, anche se non ancora trasparente alla razionalità. Per spiegare che cosa intenda qui Hegel si potrebbero citare i Salmi di Davide, o i libri dei Profeti che preannuncerebbero l’Incarnazione39: l’epifania con cui l’immutabile adesso si rivela alla coscienza in una figura assume la consistenza di un evento non meno singolare di quanto non lo sia la coscienza medesima. Il che potrebbe apparire inevitabile, se si considera che è pur sempre dentro la coscienza che quell’evento si 37 38 39

FdS, p. 145 (GW IX, pp. 122-123). FdS, p. 145 (GW IX, p. 123). Cfr. J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., pp. 243-244.

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presenta; ma questa non è una circolarità viziosa, se è vero che i due lati dell’opposizione dovranno infine appunto scoprire la loro unità. O meglio: questo movimento è bensì un circolo, ma è vizioso solamente dal punto di vista della coscienza mutevole, e non dell’intero. Per la coscienza singola, dunque, il fatto che l’immutabile riceva la figura della singolarità costituisce in generale un evento accidentale; e allo stesso modo anch’essa non fa che trovarsi opposta a questo accadimento, e dunque ha tale relazione per natura. […] Di fatto, grazie alla figurazione dell’immutabile il momento dell’aldilà non soltanto è rimasto, ma anzi si è ulteriormente consolidato; se da un lato, infatti, la figura della singola realtà effettiva sembra averlo senz’altro avvicinato alla coscienza singola, dall’altro esso ormai le sta di fronte come un’unità sensibile impenetrabile alla vista, con tutta l’asperità propria di un’entità effettiva; la speranza di farsi tutt’uno con l’immutabile deve rimanere tale, vale a dire deve rimanere vuota e priva di appagamento nel presente; e infatti fra la speranza e il suo adempimento si erge appunto l’accidentalità assoluta, ossia l’indifferenza immobile che è insita nella stessa figurazione dell’immutabile, su cui peraltro la speranza stessa si fonda. La natura dell’uno essente, la realtà effettiva di cui si è rivestito, ne hanno cagionato necessariamente il dileguarsi nel tempo e l’allontanamento nello spazio, e fanno sì che esso rimanga senz’altro distante40.

Essendo l’immutabile per definizione un’essenza unitaria, il suo presentarsi in figura reale e polimorfa assume caratteri transitori, che la coscienza mutevole attribuisce all’iniziativa dell’immutabile stesso; quest’ultimo le si concede in una figurazione altrettanto singolare quanto è singolare lei stessa. Ma il suo concedersi è già da sempre anche un sottrarsi, il suo darsi un negarsi. Si dilegua nel tempo, si allontana nello spazio: e così facendo resta comunque “senz’altro distante”. Quasi al modo di un ossimoro, la sua mani-

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FdS, pp. 146-147 (GW IX, p. 124).

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festazione è allora in realtà “impenetrabile alla vista”; la sua “entità effettiva” è aspra e incomprensibile, e forse addirittura crudele nella sua incapacità di superare quello “stare di fronte” che ne costituisce essenzialmente la natura di figurazione, grazie a cui per paradosso proprio nel rivelarsi “il momento dell’aldilà non soltanto è rimasto, ma anzi si è ulteriormente consolidato”. Al termine della lunga citazione riportata sopra, Hegel parla peraltro anche di “speranza” rispetto a un “adempimento”, il quale pure sembra ostacolato proprio dall’accidentalità che aveva alimentato quella stessa speranza. Si tratta probabilmente di un riferimento alla suprema figurazione dell’immutabile: l’Incarnazione. Il cristianesimo primitivo era precisamente religione della speranza nella parusia, cioè nel ritorno di quel divino che si è dato ephapax figura umana. Ancora una volta, le pagine del capitolo sull’‘Autocoscienza’ sembrano così prefigurare la disamina della offenbare Religion svolta da Hegel più avanti, nel capitolo VIII: alla morte di Cristo e al dileguarsi della sua presenza farà seguito la sua Auferstehung nell’immanenza dello spirito comunitario (la koinonía di cui parla 1Gv. 1, 3)41.

5. Sul cammino che la porterà a cogliere l’unità di singolo e immutabile, per “elevare all’assoluto divenire-uno il rapporto […] con l’immutabile figurato”42, la coscienza deve sforzarsi di levare l’elemento di esteriorità che caratterizza ancora la sua relazione con il divino. Anche in questo caso, il suo movimento presenta una scansione triplice. Come è stato suggerito da più parti, è forse possibile accostare i tre momenti che ne scaturiscono alle tre “età” della storia, modulate (analogamente fra l’altro all’escatologia di Gioacchino da Fiore) sul modello delle tre Persone della Trinità43: all’età del Padre 41

42 43

Per questa interpretazione del cristianesimo come comunità spirituale, nel capitolo fenomenologico dedicato alla ‘Religione’ (cfr. in particolare FdS, pp. 499-502; GW IX, pp. 407-409), rimando a G. Garelli, Hegel e le incertezze del senso, Ets, Pisa 2012, in particolare il cap. III (‘Il mito del dato e il dono del Logos’), pp. 79-103. FdS, p. 147 (GW IX, p. 124). Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel. Lezioni sulla “Fenomenologia

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corrisponderebbe così l’ebraismo; all’età del Logos incarnato, il cristianesimo; e a queste dovrà seguire infine l’età dello Spirito. Si tratta, di nuovo, d’un movimento che verrà ripreso e approfondito da Hegel nel capitolo sulla ‘Religione’, ove soltanto, peraltro, si potrà davvero legittimare il riferimento a tre età storiche concrete. Nelle pagine che vengono qui prese in esame la tripartizione ha invece a che fare piuttosto con l’articolarsi interno dell’autocoscienza: essa descrive perciò atteggiamenti presenti, sia pure in misura diversa, in ciascuna delle modalità che la coscienza assume in relazione all’“immutabile figurato”44. Il confronto con un Immutabile che si è dato figura – e che Hegel a questo punto chiama “secondo immutabile”

44

dello spirito” tenute dal 1933 al 1939 all’École Pratique des Hautes Études raccolte e pubblicate da Raymond Queneau (1947), a c. di G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996, p. 86. Osservo di passaggio che il nesso Hegel-Gioacchino, in rapporto alle figure dell’‘Autocoscienza’, era stato sottolineato – non senza significative consonanze con Karl Löwith – anche da Jacob Taubes; il quale tuttavia si riferiva alla figura di signoria e servitù, e non a quella della coscienza infelice. La storia contiene per Taubes “la vicenda dell’interazione fra signoriguerrieri e servi-lavoratori”; essa “incomincia con la lotta in seguito alla quale un signore acquisisce il dominio su uno schiavo, ne consegue che la prima fase storica dev’essere tale per cui in essa l’esistenza umana è determinata totalmente dal dominio del signore. Nel corso di questa fase, pertanto, sarà lo spirito della signoria a rivelare le sue possibilità di umanità. Ma se la storia è una dialettica fra signoria e servitù, è necessario che anche la servitù venga a manifestarsi attraverso un’azione storica. Dunque, la prima fase deve essere seguita da una seconda, nella quale l’esistenza umana sarà determinata dalla consapevolezza e dall’azione dello schiavo. Da ultimo, se la fine della storia rappresenta una sintesi di signoria e servitù (nonché la comprensione di tale sintesi), a queste due fasi deve seguirne una terza, durante la quale l’esistenza umana neutralizzi l’antagonismo fra uomo e uomo” (J. Taubes, Hegel, in Encyclopedia of Morals, a c. di V. Ferm, Peter Owen Ltd., London 1957, pp. 207212, qui p. 209). Circa l’effettivo rapporto tra la filosofia di Hegel e il pensiero dell’abate calabrese, anche per un inquadramento delle interpretazioni appena citate, si veda M. Pagano, Hegel e Gioacchino, in Gioacchino da Fiore nella cultura contemporanea, a c. di G.L. Potestà, Viella, Roma 2005, pp. 59-67; nonché in generale M. Borghesi, L’età dello spirito in Hegel. Dal Vangelo ‘storico’ al Vangelo eterno, Studium, Roma 1996. In questo senso piuttosto ristretto mi pare vada intesa anche l’osservazione – peraltro non priva di suggestioni – secondo cui con il passaggio dall’‘Autocoscienza’ alla ‘Ragione’ si inaugurerebbe anche l’“immanenza” della razionalità, e con ciò l’“Ateismo”. Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., p. 86.

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(I2), perché non è più esattamente quello di prima: essendo stato toccato dalla singolarità, non è più assolutamente indeterminato – fa sì che, a propria volta, la coscienza a questo punto non sia ormai soltanto “mutevole”, ma abbia sentimento della propria singolarità (M2). Semplificando, si potrebbe forse dire che le esperienze della sconfitta e del lutto aiutano la coscienza a crescere, a essere meno instabile, cioè appunto a divenire più consapevole di sé. Secondo quanto Hegel scrive a mo’ di provvisoria ricapitolazione, Agli occhi di tale coscienza, il primo immutabile risulta essere solamente l’essenza estranea che condanna la singolarità; ma poiché il secondo immutabile è una figura della singolarità proprio come lo è la coscienza, quest’ultima in terzo luogo diviene essa stessa spirito: ha la gioia di ritrovarvi se stessa, e diviene consapevole che la propria singolarità è riconciliata con l’universale45.

Si ponga fra l’altro attenzione a una circostanza. Constatando il passaggio dal primo immutabile (I) al secondo immutabile (I2), la coscienza disporrebbe già di un indizio significativo circa la possibilità di una riconciliazione finale con l’universale: (4.) (M2) → (I2).

45

FdS, p. 146 (GW IX, p. 123). Cfr. H.S. Harris, La fenomenologia dell’autocoscienza in Hegel, cit., p. 116: “Il primo intrasmutabile è un giudice estraneo; il secondo è un’altra figura umana; mentre il terzo è spirito, e a questo livello è svanita la distinzione tra le due figure umane, così che la coscienza trasmutabile è finalmente riconciliata con l’universale”. Harris (ibidem, pp. 118-119) accosta quindi il percorso dell’autocoscienza religiosa, di cui la coscienza infelice è cifra, alle tappe della biografia spirituale dell’apostolo Paolo, che era nato ebreo, aveva perseguitato i cristiani, si era poi convertito senza aver mai incontrato Gesù, e infine era vissuto esemplarmente in quella che – come vedremo – Hegel chiama terza relazione della coscienza infelice. Anzi sarebbe stato proprio Paolo a esperirla per primo, in certo modo addirittura inventandola: “Non si trattò di una visione corporea, bensì del suono di una voce, e di una voce che parlava di sé come ancora vivente e perseguitata nella sua comunità sopravvissuta” (cfr. Gal. 2, 20).

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L’immutabile infatti, assumendo figura singolare, ha de facto dismesso la rigidità della propria astratta definizione essenziale: in qualche maniera dunque è mutato. E anche la coscienza non è più quella di prima, cioè ha perduto l’assoluta, fluida mutevolezza che l’aveva caratterizzata fino a quel momento: consapevole della propria singolarità, essa cerca dunque daccapo di levare l’elemento di esteriorità che ancora caratterizza la sua relazione con la totalità divina. Il suo sforzo presenta un’articolazione triplice. a) Il primo modo (M2.I) è quello della purezza. La coscienza pura “non si relaziona al suo oggetto pensando, ma si limita a procedere, per così dire, in direzione del pensare, ed è devozione [Andacht]”46. Nel dire ciò, Hegel sta evidentemente giocando con l’etimologia del termine Andacht: an-denken, qui, indicherebbe un atteggiamento mentale che va in direzione del pensare vero e proprio, volgendosi verso di esso, e tuttavia mostra ancora tutta la sua lontananza dal pensiero scientifico, dal concetto. Lo attestano le immagini, tanto efficaci quanto sarcastiche, con cui Hegel descrive appunto la devozione: Il suo pensare, in quanto devoto, rimane un suono indistinto di campane o una calda nebulosità diffusa, un pensare musicale che non giunge al concetto, il quale invece sarebbe l’unico modo immanente e oggettivo del pensiero. Tale sentire infinito, puro, interiore avrà bene un proprio oggetto; ma questo, non essendo concettuale, sopraggiunge come qualcosa di estraneo. Si presenta così il movimento interiore dell’animo puro, che sente se stesso, ma in modo doloroso, quale scissione; il movimento di una nostalgia infinita, la cui certezza è di avere a propria essenza un animo puro come quello, puro pensare che pensa se stesso come 46

FdS, p. 148 (GW IX, p. 125). Nel rendere nella nostra lingua la variante Daranhindenken, che si trova in altri testi di Hegel, il traduttore italiano dei saggi löwithiani raccolti sotto il titolo Hegel e il cristianesimo usa l’efficace espressione “andar pensandoci”, che mi pare restituisca assai bene l’idea della vaghezza in cui Hegel vede ancora immerso questo grado di coscienza infelice (cfr. K. Löwith, Hegel e il cristianesimo, a c. di E. Tota, Laterza, Roma-Bari 1976, p. 44).

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singolarità; e di essere conosciuta e riconosciuta da tale oggetto proprio perché questo si pensa come singolarità47.

La coscienza infelice non è più libertà nella forma di un pensare puro (al modo dello stoicismo), né è più il pensiero della contraddizione e della negazione (secondo l’attitudine scettica): essa ora si sforza di determinare il proprio contenuto, ossia di pensare assieme universale e singolarità. Il suo atteggiamento devoto è peraltro descritto da Hegel in termini di languore sentimentale, nostalgico, e in ultima analisi indefinito. Il suo oggetto, tradotto nel racconto cristiano, è un Dio che si è fatto uomo, cioè si è dato figura personale incarnandosi, e che tuttavia “sfugge – o meglio: che è già da sempre sfuggito – all’atto con cui si cerca di afferrarlo”48. L’essenza immutabile, pur dandosi nella sua singolarità effettiva al modo di un oggetto della certezza sensibile, “non è che qualcosa di già dileguato”, e dunque non si lascia “afferrare”. La coscienza lo “sente [fühlt] soltanto”, cioè ne avverte genericamente la presenza, ma in questo modo, al contrario di quanto desiderava, si trova a coglierne la mera “inessenzialità”: Alla coscienza può pertanto farsi presente solamente il sepolcro della sua vita. Ma poiché anche questo sepolcro è una realtà effettiva, e il garantire un possesso durevole è contrario a tale natura, ecco che anche questa presenza del sepolcro è soltanto la lotta per un impegno che deve necessariamente andare perduto. Tuttavia, avendo fatto l’esperienza per cui il sepolcro della sua immutabile essenza effettiva non ha alcuna realtà effettiva, e che la singolarità dileguata, in quanto dileguata, non è la singolarità vera, la coscienza smetterà di andare alla ricerca della singolarità immutabile come effettiva, o di tenerla ferma come dileguata49.

L’essenza manifesta si sottrae alla percezione: noli me tangere 47 48 49

FdS, pp. 148-149 (GW IX, p. 125). FdS, p. 149 (GW IX, pp. 125-126). FdS, p. 149 (GW IX, p. 126).

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(Gv. 20,11-18)50. Si noti che questo “sentire” l’essenza dileguata è un fühlen, che nulla ha ormai a che fare con l’oggetto della “certezza sensibile immediata [unmittelbaren sinnlichen Gewißheit]”. La dilacerazione che la coscienza avverte – afferma Hegel, con toni che ben parrebbero adattarsi per esempio al sublime kantiano51, inteso come sentimento estetico soggettivo – è appunto un sentimento di se stessa, del cui vero significato tuttavia non è ancora consapevole. Allo stesso modo, chiosa Hyppolite, “Il discepolo, il crociato, il romantico […] si genuflettono dinanzi alla croce o intraprendono le crociate ma nell’un caso come nell’altro arrivano solo al sentimento della loro infelicità, alla coscienza della scomparsa di ciò che per loro è l’essenza”52. È per questo che anche la venerazione del sepolcro, in quanto rivolta a una realtà sensibile, deve essere superata e consegnata a un passato del credere, come aveva spiegato Wahl: “se i cristiani non possono assicurarsi un durevole possesso dei luoghi santi, se le crociate sono destinate a restare un tentativo vano, lo si deve alla stessa ragione per cui la coscienza sensibile non può mai mostrarci un qui senza che questo dilegui”53. Per parafrasare il Vangelo (Lc. 24,5-6): come cercare “fra i morti colui che è vivo?”. 50

51

52

53

Cfr. J.-L. Nancy, Noli me tangere. Saggio sul levarsi del corpo (2003), trad. it. di F. Brioschi, Bollati Boringhieri, Torino 2005; G.L. Most, Il dito nella piaga. Le storie di Tommaso l’Incredulo (2005), trad. it. di D. La Rosa, Einaudi, Torino 2009. Su queste letture delle interpretazioni figurative di Gv. 20, in esplicito riferimento alla trattazione fenomenologica hegeliana, rinvio ancora a G. Garelli, Hegel e le incertezze del senso, cit., cap. III. Cfr. R. Bodei, “Tenerezza per le cose del mondo”. Sublime, sproporzione e contraddizione in Kant e in Hegel, in Hegel interprete di Kant, a c. di V. Verra, Prismi, Napoli 1981, pp. 179-218. J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., pp. 252-253. J. Wahl, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 163. Cfr. H.S. Harris, La fenomenologia dell’autocoscienza in Hegel, cit., p. 137: “La lotta epica, la nuova guerra di Troia, che riunì tutti i principati della Cristianità cattolica, aveva come obiettivo la riconquista dei ‘luoghi santi’, e in special modo del Sepolcro del Salvatore. Hegel afferma in modo esplicito che il fallimento delle crociate era da vedersi come un simbolo del riconoscimento del fatto che la via della salvezza non può consistere nella dipendenza dall’‘intrasmutabile figurato’ inteso come un altro essere singolare (il corpo nella tomba). La coscienza deve accettare che la tomba sia vuota, ossia che la realtà fisica del Salvatore se ne sia andata tanto tempo fa”.

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La coscienza deve ora guardare altrove; la scomparsa del sepolcro anticipa in tal modo quel dileguare del dileguare di cui Hegel parlerà trattando della “religione rivelata”, e grazie a cui l’intero movimento dello spirito potrà infine diventare una verità anche per sé. b) Un altro modo della coscienza infelice di rapportarsi al “secondo immutabile” (M2.II) è quello improntato al desiderio e al lavoro. Anche in questa seconda attitudine la coscienza è in preda alla scissione, poiché rimane inconsapevole dell’intero movimento che è in corso dentro la figura dell’infelicità. Essa orienta attivamente il proprio desiderio e il proprio lavoro verso una realtà che non è più ai suoi occhi “qualcosa di nullo in sé, che questa abbia soltanto da levare e consumare”; anzi, la realtà effettiva che questa coscienza si trova di fronte è tale e quale a lei, cioè “spezzata in due”: “da un lato è in sé nulla, ma dall’altro è anche un mondo consacrato”54. La scissione si palesa cioè del pari fra una realtà che per un verso alla coscienza appare priva di significato e di valore, caduca, instabile e accidentale com’è, soprattutto in rapporto all’immutabilità dell’essenza; ma che per un altro verso è anche un mondo nel quale la coscienza pure abita, alterandolo e modificandolo con il proprio lavoro. Non so se si possa affermare davvero, come è stato pur autorevolmente suggerito55, che in questo passaggio Hegel anticipi di quasi un secolo le considerazioni svolte da Max Weber circa il nesso fra capitalismo e cristianesimo (è noto che Weber quando parla di etica protestante e spirito del capitalismo pensa alla religione cristiana della prima età moderna, e in particolare alla professione di fede calvinista). Di certo però non può sfuggire la rilevanza del legame stabilito da Hegel fra una coscienza che ha ormai trasferito al proprio interno la dinamica conflittuale propria della lotta a morte fra le autocoscienze (e con ciò dell’intera figura di signoria e servitù), finendo in tal modo per trasformare ulteriormente anche la stessa 54 55

FdS, p. 150 (GW IX, p. 127). F. Chiereghin, Freedom and Thought: Stoicism, Skepticism, and Unhappy Consciousness, in The Blackwell Guide to Hegel’s “Phenomenology of Spirit”, a c. di K.R. Westphal, Wiley-Blackwell, Oxford 2008, pp. 68-69.

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configurazione dell’immutabile. È ben vero infatti che questo, in sé, le resta sconosciuto e precluso; ma esso ha prima ceduto e abbandonato la propria Gestalt “al godimento della coscienza”. Si spiega così l’origine del double bind che unisce il dono che la coscienza attribuisce all’immutabile “da cui è partito il movimento” (e che consiste “delle capacità e delle forze, cioè di doni che provengono dall’esterno, che l’immutabile rimette alla coscienza affinché questa ne faccia uso”) e il “relazionarsi alla realtà effettiva” da parte della coscienza stessa, che con le forze avute in grazia esercita il proprio fare, ossia agisce e opera su ciò che l’immutabile stesso le lascia in godimento56. Ecco allora, come ha scritto ancora Hyppolite a commento di questa pagina, che “il pane e il vino non sono più cose, in sé nulle, di cui la coscienza si impossessi: l’uomo riesce a farle uscire dalla terra con il suo operare e le consuma”57. La coscienza infelice, tuttavia, assume a questo punto un atteggiamento fatalistico: qualsiasi cosa avvenga, avviene per volontà divina o per divina Provvidenza58. Ai suoi occhi tutto – ma proprio tutto: dalle forze con cui lavora al risultato del suo fare – ha adesso il significato di un dono gratuito dell’immutabile: La coscienza immutabile rinuncia alla propria figura e la cede; al cospetto di ciò, la coscienza singola ringrazia, e ciò significa che si interdice l’appagamento che deriva dalla consapevolezza della propria autonomia: mostra cioè che l’essenza del fare è lungi da lei, attribuendola all’aldilà; attraverso questi due momenti, in cui entrambe le parti danno e rinunciano a vicenda, la coscienza assiste così senz’altro al sorgere della propria unità con l’immutabile59.

In questo secondo momento, pertanto, il singolo si mostra come il servo di quel signore che è il Dio della sua stessa autocoscienza: 56 57

58 59

FdS, p. 151 (GW IX, pp. 128, 127). J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., p. 255. H.S. Harris, La fenomenologia dell’autocoscienza in Hegel, cit., pp. 150-151. FdS, p. 151 (GW IX, p. 128).

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l’animo (Gemüth) ne ha il sentimento (fühlt), ma ancora non lo sa come identico alla sua stessa coscienza60. Ecco perché quest’ultima finisce per attribuire il proprio fare a un’essenza a lei estranea, cosicché il suo lavoro – diversamente da quello descritto nella figura precedente, grazie al quale il servo conquistava la propria indipendenza dal signore – sfocia questa volta in un sentimento di dipendenza assoluta. La coscienza riconosce il merito del proprio operare all’altro da lei, e dunque anzitutto nel servizio di culto (Dienst) e nella commemorazione religiosa (appunto l’Andenken, la commemorazione liturgica) lo ringrazia per aver rinunciato alla propria figura, concedendola in dono a lei: il verbo eucharizein, da cui deriva “Eucaristia”, in greco significa propriamente “rendere grazie”61. Se nella figura di signoria e servitù Hegel aveva dunque affermato, in una celebre definizione del “lavoro”, che esso “è desiderio tenuto a freno, dileguare trattenuto”, e proprio in quanto tale esso bildet, cioè “è formazione”62, ora invece ciò che viene trattenuto è piuttosto l’appagamento, e con questo la consapevolezza che la coscienza ha della propria indipendenza. Pure in tale momentanea interdizione tuttavia si fa lentamente strada, per lei, la possibilità di intuire la propria unità con l’essenza immutabile. Come dire: è anche attraverso il gesto della rinuncia e del ringraziamento che la coscienza può riprendersi la sua libertà e la sua vita, riappropriandosi così della propria essenza. Infatti la coscienza, abdicando alla parvenza dell’appagamento del proprio sentimento di sé, ne raggiunge l’appagamento effettivo; essa è stata infatti desiderio, lavoro e godimento; in 60

61 62

È opportuno peraltro precisare che l’espressione del rapporto fra la coscienza mutevole e quella immutabile in termini di relazione fra “uomo” e “Dio”, per quanto possa risultare efficace alla semplificazione dell’argomento in questione, a questo punto costituisce ancora in realtà una forzatura del dettato hegeliano: a rigore infatti Hegel “sarebbe stato disposto a menzionare quei nomi concreti solo dopo che noi avessimo conseguito dei concetti adeguati al loro significato”, mentre qui si ha ancora a che fare con “‘aspetti’ astratti dello spirito autocosciente” (H.S. Harris, La fenomenologia dell’autocoscienza in Hegel, cit., p. 110). J.W. Burbridge, “Unhappy Consciousness” in Hegel, cit., p. 207 (nota 25). FdS, p. 135 (GW IX, p. 115).

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quanto coscienza, essa ha voluto, fatto e goduto. Il suo ringraziare, nel cui atto riconosce l’altro estremo come essenza e leva se stessa, è a sua volta un fare che è proprio della coscienza; un fare che controbilancia quello dell’altro estremo, e che oppone alla cessione del beneficio un fare uguale; se quell’estremo le concede la propria superficie, la coscienza peraltro lo ringrazia anche, e appunto rinunciando al proprio fare – vale a dire alla propria essenza – essa invero fa più di quell’altro, che per parte sua si limita a scostare da sé una superficie. Tutto il movimento si riflette dunque nell’estremo della singolarità, e non soltanto nel desiderare, nel lavorare e nel godere effettivi, ma persino nello stesso atto del ringraziare, in cui sembra accadere proprio il contrario63.

Hegel aggiunge alla descrizione dell’ulteriore ribaltamento dialettico della coscienza l’ennesima, raffinata analisi psicologica: dietro il ringraziamento si cela nientemeno che il pericolo dell’ipocrisia. C’è senza dubbio qualcosa di meschino, eppure anche di dialetticamente grandioso, nel movimento con cui la coscienza ricomincia qui a impadronirsi di sé. Si tratta allora di stabilire che cosa in tutto ciò sia apparente, e che cosa invece effettivo. A ben guardare, quel gesto di gratitudine che rinunciando a sé attribuisce all’altro i meriti del proprio operare è un fare non meno effettivo, per il quale anzi la coscienza finisce per sentirsi tanto più meritevole, quanto più si palesa lo squilibrio fra i due estremi del movimento. L’essenza immutabile ha infatti concesso di sé solamente la “superficie”, rifiutando di comunicare se stessa per come è in sé, mentre l’“anima pia” (come la chiama Hyppolite) sa ora di aver dato tutto, avendo abdicato perfino alla signoria sul proprio fare, al punto di rinunciare a ogni merito, e di rendere grazie per tutto, quasi che tutto le venisse in grazia di una concessione del proprio altro. Ma proprio in questi gesti di massima umiliazione di sé64, come s’è detto, la sua libertà e 63 64

FdS, p. 152 (GW IX, p. 128). Sulla dialettica del volere, implicita persino nel più scrupoloso rispetto della legge, rimando alle considerazioni svolte in G. Garelli, Il cosmo dell’ingiustizia. Fine della teleologia e fini della responsabilità, Il Melangolo, Genova 2005, cap. II: ‘La legge contro la legge. San Paolo, Kant, Jonas’, pp. 29-57.

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la sua essenza ritornano in tutta la loro forza: non per nulla, insegna San Paolo (Rm. 7,7-25), nella dialettica di legge e peccato il legame con la radice della propria individualità cresce tanto più – fino addirittura al peccato di superbia – quanto più l’Io cerca di liberarsene. Quel gesto di rinuncia si è rivelato essere solo apparente, poiché è a propria volta di superficie: la coscienza, ponendolo in essere, non ha affatto rinunciato a se stessa. c) Nel terzo momento del suo rapportarsi all’immutabile (M2.III), la coscienza infelice fa infine ritorno nel pensare. Hegel presenta questo passaggio ricapitolando il movimento che lo ha preceduto, e delineandone la dialettica nei termini seguenti: Con ciò, ha fatto il suo ingresso la terza relazione del movimento di questa coscienza; essa, emergendo dalla seconda, è una coscienza che, con il suo volere e con il suo portare la propria attività a compimento, ha avuto vera prova di sé come coscienza autonoma. Nella prima relazione, questa coscienza era solamente concetto della coscienza effettiva, ossia era l’animo interno, che nel fare e nel godimento non è ancora effettivo; nella seconda relazione la coscienza si dava realtà effettiva come fare e godere esteriori; ritornata da questa esteriorità, però, essa ha ormai fatto esperienza di sé come coscienza dotata di realtà effettiva e capace di conferirla, e la sua verità è di essere in sé e per sé. In tutto ciò, però, il nemico è stato rintracciato nella sua figura più propria. Nella lotta dell’animo la coscienza singola è soltanto come momento musicale, astratto; nel lavoro e nel godimento, intesi come realizzazione di questo essere privo d’essenza, la coscienza può immediatamente dimenticarsi di sé, e in questa realtà effettiva la consapevolezza della peculiarità viene abbattuta da quel riconoscere che ringrazia. Tale abbattere costituisce però, in verità, un ritorno della coscienza entro se stessa, e precisamente un ritorno a sé come alla realtà effettiva che essa considera veritiera65.

65

FdS, pp. 152-153 (GW IX, pp. 128-129).

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Se non vuole limitarsi a denunciare l’ipocrisia dell’equivoco che essa stessa ha alimentato, la coscienza deve farsi consapevole fino in fondo del significato della propria auto-spoliazione, considerato che l’indipendenza, ai suoi occhi, è ancora solamente un in-sé. E dal momento che, con l’atto della rinuncia realizzato nella seconda relazione, il suo desiderio e il suo interesse hanno ormai tralasciato di concentrarsi sul mondo, ecco che la condizione per riconoscere l’obiettività torna a stabilirsi nel pensare (secondo una modalità di passaggio dall’elemento del desiderio a quello del pensiero che Hegel già aveva delineato nella prima sezione del capitolo sull’‘Autocoscienza’, trattando del signore e del servo). In questo terzo momento, il pensiero esorta allora la coscienza a diffidare della purezza delle proprie intenzioni, insegnandole a considerare “immediatamente la propria realtà come qualcosa di nullo”, così come il proprio operare alla stregua di un “fare di nulla [ein Thun von Nichts]”, nel duplice senso del genitivo: nullo è in fondo il contenuto oggettivo di quel fare, così come nullità è anche il suo soggetto. Con questo la coscienza, rimuginando fra i rimorsi, impara a diffidare sistematicamente delle proprie pulsioni, giacché esse, anche le più basse e bestiali, sono latenti perfino nell’agire all’apparenza più puro. Certo, quando è costretta a prendere atto della propria radicale mancanza di purezza, la coscienza sprofonda ulteriormente nell’infelicità: È nelle sue funzioni animali che la coscienza è consapevole di sé come di questa singolarità effettiva. Tali funzioni, invece di venire compiute con disinvoltura – come qualcosa che in sé e per sé è nullo, e che non può venire ad avere alcuna importanza e alcuna essenzialità per lo spirito –, essendo quelle in cui il nemico si mostra nella figura che gli è peculiare, sono piuttosto oggetto di seria preoccupazione, e divengono appunto della massima importanza. Poiché però tale nemico si riproduce nella propria sconfitta, la coscienza che se lo impone, anziché liberarsene, non fa che indugiare di continuo presso di lui, e se ne vede sempre inquinata; nel contempo, dato che questo contenuto del suo sforzo, lungi dall’essere qualcosa di essenziale e di universale, è quanto di più umile e singolare, noi allora non vediamo altro che

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una personalità tanto infelice quanto misera, limitata a sé e al suo fare modesto, intenta a covare se stessa66.

Staccata dalla (presunta) immediatezza originaria, la coscienza è adesso come bloccata; essa fatica a ritrovare se stessa perfino nelle sue funzioni animali “naturali” (qualunque cosa ciò possa voler significare), che nel loro torbido legame con la singolarità ora le sembrano latenti in qualsiasi intenzione apparentemente pura. L’ossessiva riflessione su questo stato di cose, d’altronde, risospinge la coscienza nella miseria del proprio rimuginare. Affinché questo sforzo non sia sterile, essa dovrà dunque rimettersi all’opera, per riuscire a elaborare anche la nuova forma in cui le si è palesata la sua inessenzialità. La consapevolezza della propria vanità finirà così per elevarla al sacrificio e all’ascesi: opzioni che – si suole osservare – Hegel descrive avendo in mente in primo luogo gli esempi offerti dagli asceti e dai monaci medievali; più in generale si può comunque pensare, qui, a ogni religiosità che si esprima nella forma della rinuncia e della mortificazione.

5. Ci si domanda peraltro, a questo punto, perché mai la coscienza mutevole e accidentale, sempre di nuovo delusa dal proprio essere e dal proprio fare, non deduca dal proprio fallimento la necessità di procedere definitivamente alla cancellazione di sé: vuoi sacrificandosi, cioè portando la sua scelta ascetica fino alle estreme conseguenze, vuoi piuttosto facendola finita, una volta per tutte, con una vita che non si lascia afferrare se non in forma di una spirale di desiderio inappagato. Che cosa si oppone in lei all’apparentemente agognata Selbsvernichtung? Il fatto è, dice Hegel, che la coscienza, perfino quando si manifesta questa intenzione di autoannientamento, è segnata essenzialmente, come s’è visto, dal “pensiero dell’immutabile”: riflettere su questa circostanza la conduce all’ennesimo, decisivo ribaltamento dialettico, e con ciò all’ennesima maturazione (M3). 66

FdS, p. 153 (GW IX, p. 129).

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(5.) (M3) → (I3) La coscienza finita e l’immutabile, infatti, non stanno più di fronte immediatamente nella loro opposizione come, all’inizio, il mutevole si atteggiava rispetto al suo ganz Anderes. Fra la coscienza e il divino vi è appunto ora quel “pensiero dell’immutabile”: una frase di cui – ancora una volta – sarà bene cominciare a ponderare l’ambiguità del genitivo. Tale pensiero è infatti intermedio fra quegli estremi, e in questo modo ne garantisce appunto il rapporto (che altrimenti sarebbe impossibile, ovvero semplicemente impensabile): (6.) (M3) = P (I) In quanto tale, il rapporto non è una mera negazione, bensì piuttosto qualcosa di positivo. Riflettendovi, la coscienza potrà cominciare a scorgere in esso il principio di unificazione, fra mutevole e immutabile, del quale fin dall’inizio sta andando in cerca, attraverso il dubbio e la disperazione delle sue varie scissioni. Qui trova manifestazione esemplare quel movimento propriamente dialettico che, ancora nell’‘Introduzione’ dell’opera, era stato qualificato come negazione determinata: del resto è appunto nella figura della coscienza infelice che il cammino dello spirito si è lasciato alle spalle lo scetticismo, e con esso la sua volontà di negazione assoluta (che poi non è mai davvero tale, e infatti – come si è detto all’inizio – di quello scetticismo finisce per palesare l’intima contraddittorietà; fatto sta comunque, come scrive Hegel, che “lo scetticismo […] nel risultato scorge sempre e soltanto il puro nulla” e pretende di fare astrazione dalla concretezza delle determinazioni risultanti da quel medesimo negare)67. Insomma: la coscienza ascetica si rende ora conto che, nel suo stesso negare, essa si tiene pur ferma a qualcosa, e in questo modo prende parte alla costruzione di un positivo, che è poi la medesima possibilità di relazionarsi al divino che ritrova in sé68. 67 68

FdS, p. 62 (GW IX, p. 57). Non stupisce, sulla base di queste considerazioni, il più tardo interesse di Hegel – nella Scienza della logica, ma poi anche nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, fino alle sue ultime lezioni del 1831 – per la prova

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Affinché quella tendenza a “covare se stessa” non assuma connotati patologici, la coscienza deve rendersi però conto di un fatto: essa finora ha lavorato sempre e soltanto sulla propria singolarità (Einzelheit), mentre si tratterebbe piuttosto di levare la contraddizione inconciliabile che una simile autoreferenzialità continua a stabilire, ribadendo la relazione fra universale e singolare nei termini di un’opposizione. Il risultato – che riveste un’enorme importanza per la comprensione del pensiero hegeliano in generale – è la necessità di una mediazione: il tentativo di annientare immediatamente il proprio essere effettivo è mediato dal pensiero dell’immutabile, e avviene entro questo rapporto. Il rapporto mediato costituisce l’essenza del movimento negativo, nel quale la coscienza si dirige contro la propria singolarità; movimento che però, in quanto rapporto, è in sé altrettanto positivo, e produrrà per la coscienza proprio quella sua unità69.

Nella coscienza infelice tuttavia tale consapevolezza matura solo per gradi, e – poiché ci troviamo nell’elemento del pensare – essa palesa in prima istanza una necessità per così dire logica: Questo rapporto mediato è quindi un sillogismo, in cui la singolarità, che inizialmente si fissa in quanto opposta all’in-sé, è congiunta in una conclusione sillogistica con quest’altro estremo soltanto attraverso un terzo termine. Tramite questo termine medio, l’estremo della coscienza immutabile è per la coscienza

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ontologica dell’esistenza di Dio: cfr. D. Henrich, La prova ontologica dell’esistenza di Dio (1967²), trad. it. di S. Carboncini, Prismi, Napoli 1983, pp. 238268 (per una panoramica generale delle varie ricorrenze del tema, cfr. anche G. Borruso, Nota del traduttore, in G.W.F. Hegel, Lezioni sulle prove dell’esistenza di Dio, Laterza, Roma-Bari 1970, pp. 7-13). L’affinità fra le pagine dedicate alla coscienza infelice (in quanto intuirsi da parte di una coscienza, finita, in un’altra coscienza, infinita) e l’argomento a priori di Anselmo è stata sottolineata anche da H.S. Harris, La fenomenologia dell’autocoscienza in Hegel, cit., p. 107. FdS, p. 153 (GW IX, p. 129).

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inessenziale; la quale, a propria volta, è per quella immutabile solamente attraverso il medio; quest’ultimo perciò è tale da rappresentare entrambi gli estremi, e da svolgere reciprocamente le funzioni dell’uno presso l’altro70.

La citazione sembra parlare in termini puramente logici. Perché sia effettivamente possibile quella terza relazione (5.), il suo enunciato dev’essere il risultato di un ragionamento di andamento sillogistico: maior: (M3) → (x) minor: (x) → (I3) conclusio: (M3) → (I3). In realtà, Hegel ha qui in mente qualcosa di molto concreto. Perché il rapporto fra universalità e singolarità abbia effettivamente luogo, cioè non si risolva daccapo nei termini di una alterità assoluta refrattaria a ogni comunicazione, si profila alla coscienza la necessità di un intermediario in grado di farsi carico della singolarità propria di un estremo di quella relazione, e dell’universalità propria dell’altro estremo. Ritengo che, ancora una volta, decisivo in questo passaggio sia il ruolo giocato dal linguaggio, e cioè appunto dalla possibilità stessa di una comunicazione di questo senso di alterità da parte della coscienza. Hegel aveva affermato in maniera paradigmatica già all’inizio della Fenomenologia, trattando della figura della certezza sensibile: “È il linguaggio però, come vediamo, a essere più veritiero; in esso siamo noi stessi a confutare immediatamente il nostro intendere, […] poiché l’universale è il vero della certezza sensibile”71. Per esprimere la propria singolarità, così come la forma

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FdS, p. 154 (GW IX, pp. 129-130). FdS, p. 72 (GW IX, p. 65). Cfr. A. Massolo, “Die Sprache aber ist… das Wahrhaftere” (1964), in La storia della filosofia come problema, a c. di L. Sichirollo, Vallecchi, Firenze 1973, pp. 192-197.

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di epifania accidentale che le si è opposta, anche nel caso della coscienza infelice è allora il pensiero a richiedere la forma della Sprache. In caso contrario, esso rischia di rimanere appunto, come nelle relazioni precedenti, una nebulosità indefinita: nulla più di una mera intenzione di senso. Ciò che la coscienza riconosce, in questo modo, è dunque il proprio bisogno di un’entità mediatrice che sia depositaria dell’intellezione del Verbum. La mediazione stessa è condizione di possibilità della comunicazione, cioè del dispiegarsi del Logos nel movimento dialettico. Si delinea così una sorta di sillogismo aristotelico di prima specie, in cui per ora chiameremo ‘x’ il termine medio – quando inizialmente si aveva x = P (I), ove P sta per pensiero (ma si è visto appunto che questo pensiero deve trascendere la dimensione di mera privatezza, se ha da assumere una forma logica articolabile in linguaggio). Gli estremi sono ora la singolarità di M e l’universalità di I: (7.a) (M) → [(x)] → (I) (7.b) (I) → [(x)] → (M). La coscienza si rivolge dunque a un ministro-mediatore (x), il quale dev’essere senz’altro “un’essenza consapevole”, se deve potersi relazionare alla coscienza finita, aiutandola a superare il loop della propria singolarità, dell’idiozia del suo linguaggio ancora incapace di universalità; e se d’altronde deve nel contempo trascendere la chiusura di quella singolarità stessa, perché solo così la può liberare: il che alla lettera significa – come suggerisce il testo – assolvere. Qui assoluzione significa propriamente riconciliazione rispetto alla “colpa del proprio fare”: è la Versöhnung, parola che in Hegel svolge un ruolo fondamentale, a patto naturalmente di non farla diventare una vuota formula. In questo contesto, il riferimento all’assoluzione significa propriamente almeno tre cose. (a) In primo luogo, significa riconciliazione rispetto alla “colpa del proprio fare”: e in questo modo, nel capitolo sull’‘Autocoscienza’, si prefigura il movimento parallelo con cui più avanti – alla conclusione del capitolo sullo ‘Spirito’ (VI.C.c) – l’anima bella di92 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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smetterà la sua presunta, astratta superiorità sulla coscienza che agisce. Con il perdono, dirà a quel punto Hegel, ciascuna delle due coscienze realizza l’unità dell’universale con il singolare, e lo fa non da sola, ma attraverso la mediazione dell’altra72. (b) In secondo luogo, il potere dell’assoluzione libera la singolarità dal gravame delle sue colpe, in base a quello che Hegel, appunto trattando del Gewissen, parafrasando ancora il Vangelo chiamerà “il potere di legare e di sciogliere” (Mt. 16,19 e 18,18)73. Al volere del singolo (del cui “fare” e dal cui “godimento”, in quanto meramente “suoi”, la coscienza si vuole liberare) si sostituisce così il “consiglio su ciò che è giusto” e ciò che non lo è, cioè la parola proveniente da quell’entità mediatrice che in tal modo acquisisce la propria autorità mondana. Una volta che la coscienza abbia cessato di perseguire il proprio appagamento individuale, per quanto sempre più rarefatto e sublimato, la sua azione si limiterà così a “seguire una deliberazione [Beschluss] estranea”: ciò significa che “secondo il lato del fare o del volere cessa di essere azione propria”74. (c) In ultima analisi, è poi ancora questa ab-solutio a rendere possibile e comprensibile, nel passaggio al capitolo finale della Fenomenologia, lo stesso “sapere assoluto”, grazie al quale lo spirito, una volta riconosciuta tra continuità e fratture la specularità del movimento di Entäußerung ed Erinnerung, che ne ha intessuto l’intera vicenda, deve ritrovare se stesso nella storia e nel mondo. Tra l’individualità accidentale da una parte, che si era elevata sino all’ascetismo, e l’immutabilità divina infine fattasi figura dall’altra, è dunque nata, come modalità di rapporto, l’istituzione, il cui esempio per eccellenza continua a rimanere per Hegel (a quanto è dato di capire dal linguaggio ellittico della Fenomenologia, e nonostante le cautele di cui si è detto a più riprese), la chiesa 72

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Sul tema del perdono cfr. G. Garelli, Lo spirito in figura. Il tema dell’estetico nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, Il Mulino, Bologna 2010, cap. VI (‘La libertà del perdono. Il verbo della riconciliazione’, pp. 151-175). Per il parallelismo di queste due figure fenomenologiche cfr. anche, in generale, P. Vinci, “Coscienza infelice” e “anima bella”, cit. FdS, p. 428 (GW IX, p. 349). FdS, p. 154 (GW IX, p. 130).

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medievale75. Qui il fare proprio del sacerdote in quanto tale, svolgendo appunto opera di mediazione, ha il significato di un’“azione trans-individuale” che a ben vedere non appartiene all’individuo singolo che lo pratica. Tanto è vero che il prete fatica perfino a comprenderne il senso. Non per nulla dalla bocca del celebrante si ode esclamare “Mysterium fidei!”, dopo la benedizione del pane e del vino, nel sacramento cattolico dell’eucaristia; ma anche nel sacramento della confessione, quando pronuncia la formula “Ego te absolvo…”, il sacerdote non può certamente ritenere di parlare a nome della propria singolarità76.

6. A questo punto avviene il ribaltamento definitivo. Esso, come sempre nella Fenomenologia hegeliana, è reso possibile dal fatto che l’inquietudine della coscienza deve dispiegare fino in fondo il proprio movimento, non potendo acquietarsi in uno stato intermedio di sospensione. La coscienza del resto si sente in balìa di qualcosa che non capisce, e che non sembra per parte sua comprendere il bisogno che essa ha di purezza assoluta. Ma procediamo con ordine: accettando quella mediazione, la coscienza infelice fa a meno da una parte della verità, ormai raggiunta, della propria autonomia autocosciente, dato che la coscienza si trova coin-

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In questo probabile riferimento alla chiesa medievale non è difficile scorgere peraltro anche una prefigurazione della successiva razionalità moderna, di cui Hegel parlerà in maniera più diffusa nel capitolo V, ove “certezza e verità della ragione” troveranno Verwirklichung in varie altre forme di universalità concreta e pronta a oggettivarsi. Cfr. ancora H.S. Harris, La fenomenologia dell’autocoscienza in Hegel, cit., p. 172: “La voce del consigliere dice: ‘Io ti assolvo…’. Ma questo è solo implicitamente un atto assoluto del sé. Se lo considerassimo realmente come un atto assoluto di questo sé singolare, cadremmo di nuovo in quell’aborto morale che è l’attribuzione di un’‘indulgenza’. Quella che viene resa assoluta è l’azione totale del peccatore, ma come ciò possa accadere è un segreto divino […]. Ma per il peccatore ciò che lo rende ‘assoluto’ non è la sua propria penitenza, ma l’atto di Dio; e la parte di Dio resta nascosta, eccezion fatta per le parole del consigliere che parla in suo nome”. Il che non toglie, ovviamente, che sia appunto la penitenza a conferire “validità all’atto di autorità” (ibidem, p. 175).

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volta nel movimento di qualcosa che le è interamente estraneo, le cui rappresentazioni e il cui linguaggio le risultano privi di senso; dall’altra, della proprietà esteriore, dato che la coscienza cede qualcosa del possesso che aveva acquisito con il lavoro; d’altra parte ancora fa a meno del godimento ottenuto, dato che la coscienza se lo interdice di nuovo del tutto con il digiuno e le mortificazioni77.

La coscienza infelice ha ormai rinunciato a tutto: all’indipendenza, alla proprietà frutto del lavoro, al godimento; ha alienato per intero il suo Io. Ma la radicalità della sua ascesi non consiste nella negazione assoluta, che qui nuovamente sarebbe rappresentata dall’alternativa dell’estinzione della propria volontà (per inedia, più che per suicidio: nella sua forma, questo argomento hegeliano per certi versi sembra costituire una risposta ante litteram a quello poi sviluppato da Schopenhauer, una decina d’anni più tardi e con ben altre premesse e intenzioni, nella Welt als Wille und Vorstellung). Consiste, piuttosto, nella totale spoliazione con cui la coscienza sa finalmente di essere rivestita soltanto della propria nudità. Essa “ha la certezza di essersi veramente alienata il proprio Io, e di aver fatto della propria autocoscienza immediata una cosa-oggetto”78. Il proprio fare e il proprio desiderare, quella coscienza li ha ormai alienati all’istituzione mediatrice: tutto quello che fa, a questo punto, lo fa solo per sottomissione e obbedienza. Sul versante oggettivo, d’altronde, essa rinuncia ormai anche ai frutti del suo lavoro, dei quali al livello precedente l’anima pia ancora poteva godere, non fosse che per provare la gioia della gratitudine e della privazione: ora tuttavia ciò non le è più consentito, essendole chiaro che anche quella riconoscenza non era se non l’ennesimo inganno lubrico. Mi pare opportuno notare come Hegel, ancora una volta, sottolinei qui la necessità del gesto effettivamente compiuto (proprio come effettiva e non solo verbale dovrà mostrarsi la riconciliazione del perdono, se vorrà essere efficace). E ciò perché la natura

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FdS, p. 154 (GW IX, p. 130). FdS, pp. 154-155 (GW IX, p. 130).

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intimamente razionale della Wirklichkeit non implica affatto che l’esistenza vissuta perda la sua concretezza, e che l’agire umano smarrisca la propria natura fallibile e tentativa. L’esito non è scontato né garantito una volta per tutte: ed è per questo che la civetta di Minerva può alzarsi in volo sempre e soltanto sul fare del crepuscolo, per ricondurre a una spiegazione scientifica ciò che ha già trovato appunto una propria Verwirklichung. A tale proposito potrebbe essere interessante verificare – ma sia detto qui solo di sfuggita – in che modo e fino a che punto, nella logica del luterano Hegel79, si venga problematicamente configurando l’istanza affatto cattolica della centralità dell’opera per la salvezza e la redenzione; il che non è altro, poi, se non l’immane questione dello spazio di cui dispone la libertà all’interno del sistema, e della possibile apertura di quest’ultimo: “Il gesto di rinuncia a sé poteva trovare conferma unicamente in questo sacrificio effettivo, poiché soltanto con esso dilegua l’inganno insito in quella riconoscenza interiore che ringrazia con il cuore, con la disposizione del sentire e con la bocca”80. Solo con l’effettivo e concreto compimento di questo sacrificio “la coscienza, così come ha levato il fare in quanto fare suo, in sé ha anche dismesso l’infelicità che le veniva da questo fare”. In sé, dice Hegel; perché per lei tutto ciò non può che avvenire ancora per opera dell’“attività dell’altro estremo del sillogismo, l’essenza essente-in-sé”. La coscienza cioè, pur riconoscendo che nel fare della propria singolarità c’è una volontà universale, non riesce a non vedervi ancor sempre un’iniziativa proveniente dal proprio altro: ecco perché essa non può non terminare il suo cammino nel dolore, e deve mantenersi ancora nel-

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Su questo aspetto cfr. E. De Negri, Interpretazione di Hegel, cit., pp. 297-298. Per il luteranesimo di Hegel cfr. anche le considerazioni sulla natura dell’eucarestia (come “identità di manducatio spiritualis e di manducatio corporalis”) in R. Bodei, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, nuova ed., Il Mulino, Bologna 2014, pp. 136-143. Una lettura attenta a individuare nella teologia hegeliana istanze compatibili con il cattolicesimo è invece esemplarmente quella di H. Küng, Incarnazione di Dio. Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia (1970), trad. it. di F. Janowski, ed. it. a c. di D. Pezzetta, Queriniana, Brescia 1972. FdS, p. 155 (GW IX, p. 130).

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l’infelicità. La possibilità di aufheben tutto ciò, per lei, tuttora “rimane un aldilà”. Al termine del cammino della sua infelicità, l’Io individuale scopre il nulla ontologico della propria esistenza81: esso per un verso è un’individualità svuotata, a paragone per esempio dell’ens quo maius cogitari nequit – Dio, l’assoluto di cui la logica moderna comincerà presto a indagare l’esistenza razionale e necessaria. Per altro verso la coscienza, appunto rimettendo il proprio fare a qualcosa che la trascende, verifica come la sua stessa volontà individuale si sia ridotta a una mera puntualità inestesa: anch’essa non è alcunché, a paragone dell’onnipotente volontà divina. Eppure la buona novella che quella coscienza si sente proclamare è promessa di un senso ulteriore, di un riscatto da questa singolarità infelice: “dal mediatore al suo servizio la coscienza si fa enunciare questa certezza, per quanto ancora spezzata: che […] il suo misero fare è, in sé, proprio l’inverso, ossia fare assoluto”82. Sebbene ancora in via negativa, la coscienza ha infatti ormai posto la premessa per potersi riconoscere nell’universalità del Sé: nella negazione della volontà singola, si profila il sorgere della volontà universale. Quando l’immutabile, Dio, viene inteso come oggetto assoluto, assoluto ontologico in cui essere e fare coincidono, sorge al pensare un contenuto nuovo e tutto moderno: si fa strada “la rappresentazione della ragione, cioè della certezza che la coscienza possiede di essere, nella propria singolarità, assolutamente in sé: ovvero, di essere ogni realtà”83. Con ciò, come ogni termine medio, anche la mediazione operata dall’istituzione ecclesiastica medievale, nella sua sacra funzione riconciliatrice, presto dovrà togliersi, ottemperando al proprio sacri81

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Cfr. P. Vinci, “Coscienza infelice” e “anima bella”, cit., p. 227: “La coscienza infelice tematizza dunque in modo radicale la questione del destino della coscienza singola. Essa descrive una parabola che non avrà, dal suo punto di vista, un esito positivo, ma metterà comunque in luce la grandezza del compito che Hegel assegna alla sua filosofia: portare il singolo, nella sua indipendenza e irriducibilità, a ritrovarsi in un fondamento comune, capace di confermare il suo valore e il suo senso”. FdS, p. 156 (GW IX, p. 131). Ibidem.

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ficio, in nome della continuità della dialettica84. In questa trasformazione della mediazione non è difficile scorgere ormai anche una prefigurazione generale del moderno spirito oggettivo, con le sue istituzioni e la sua razionalità secolarizzata85.

7. Se è vero – stando all’ipotesi, sia pure problematica, prospettata in apertura di questo saggio – che la figura della coscienza infelice, come cifra della scissione, contiene una sorta di nucleo ideale dell’intero cammino della Fenomenologia, ciò è dovuto in primo luogo al fatto che in essa si enuncia compiutamente e con la massima chiarezza il problema generale dell’autocoscienza, ovvero di quel passaggio dalla sostanza al soggetto, che è il telos immanente alla vicenda descritta da Hegel in tutta l’opera del 1807: La sostanza vivente inoltre è l’essere, che in verità è soggetto, ossia, in altri termini, che in verità è dotato di realtà effettiva, soltanto nella misura in cui quella sostanza è il movimento del porre se stessa, cioè la mediazione del divenire altro da sé con se stessa. La sostanza, in quanto soggetto, è la pura negatività semplice, e proprio per questo è la scissione del semplice, ossia lo sdoppiarsi che genera opposizione; il quale è a propria volta la negazione di tale diversità indifferente e del suo opposto. Il vero è solamente questa uguaglianza che si ricostituisce, ossia la riflessione entro di sé che avviene nell’essere-altro, e non già un’unità originaria come tale, o un’unità immediata come tale. Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha al proprio inizio la sua fine come suo scopo, e che è effettivo solamente attraverso il proprio svolgimento e la propria fine86.

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Sul significato del sacrificio del termine medio nel sillogismo fenomenologico rimando alle considerazioni svolte in G. Garelli, Lo spirito in figura, cit., pp. 87-90. Cfr. J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., p. 258. FdS, pp. 14-15 (GW IX, p. 18).

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Ciò ha a che vedere in primo luogo con il ruolo attribuito da Hegel al cristianesimo nella storia dello spirito. In questione è il significato filosofico dell’Incarnazione, del dileguarsi di Cristo, e della sua successiva Aufhebung nella comunità spirituale. Si legge nella ‘Prefazione’ della Fenomenologia: Che il vero sia effettivo soltanto come sistema, o che la sostanza sia essenzialmente soggetto, è quel che si esprime nella rappresentazione che enuncia l’assoluto come spirito; si tratta del concetto più elevato e sublime, un concetto che appartiene all’età moderna e alla sua religione87.

E questo perché, per usare ancora le parole di Wahl, “Nel momento in cui prende forma nel cristianesimo, l’immutabile cessa d’essere propriamente l’immutabile. È questo l’esito dell’intera Fenomenologia”88. Per quanto sia in buona misura discutibile un’interpretazione che pretenda di leggere il capolavoro hegeliano del 1807 isolandone una singola figura suggestiva, l’analisi fin qui condotta sembra dunque confermare la centralità della “coscienza infelice” anzitutto per chi, nel confronto con Hegel, cerchi una prospettiva filosofica in cui la singolarità (intesa come fare, desiderare, pensare) non pretenda di ergersi a luogo e a criterio assoluto del vero. In questo senso, l’affermazione hegeliana contenuta nell’apertura del capitolo sull’‘Autocoscienza’, secondo cui “Con l’autocoscienza, noi abbiamo ora avuto accesso al regno in cui la verità è di casa”89, significa infatti anche (e forse soprattutto) questo: la coscienza sbaglia, quando pensa e agisce come se – in quanto singolarità – la verità e il mondo fossero cosa sua. L’istanza propriamente moderna secondo cui l’assoluto è soggetto dovrebbe infatti immunizzare non solo dall’unilateralità per cui l’assoluto sarebbe “un essere o un’es-

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FdS, p. 19 (GW IX, p. 22). Sul significato di questo passo, cfr. J. Taubes, Hegel, cit., pp. 210-212. J. Wahl, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 109. FdS, p. 121 (GW IX, p. 103).

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senza, o un universale in generale”, ma anche dall’unilateralità opposta, che riduce da ultimo la moderna soggettività a esiti secondo i quali emancipazione significherebbe esclusivamente un singolare connubio di bulimia appropriativa (con la conseguente incapacità di distinguere fra pubblico e privato) e allergia alle regole condivise90. Lungi dal convertirsi peraltro in un principio di sottomissione all’auctoritas, in ciò l’insegnamento hegeliano si rivela semmai come garanzia del contrario. Se l’autocoscienza, che è telos del movimento dialettico, non deve concepirsi più in termini sostanzialistici, l’affermazione secondo cui “sostanza vivente inoltre è l’essere, che in verità è soggetto, ossia, in altri termini, che in verità è dotato di realtà effettiva, soltanto nella misura in cui […] è il movimento del porre se stessa, cioè la mediazione del divenire altro da sé con se stessa”91 vale anzitutto come riconoscimento della transizione a una dimensione comune dell’autorità razionale: il sapere assoluto non coincide mai per definizione con l’own claim di singolarità isolate, individuali o collettive che siano92. Poste queste premesse, all’interprete della figura della coscienza infelice rimangono tuttavia ancora aperti almeno due ordini di pro-

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Cfr. quanto scrive per esempio Antonio Negri, Rileggendo Hegel, filosofo del diritto, in P. Piovani et al., Incidenza di Hegel. Studi raccolti nel secondo centenario della nascita del filosofo, Morano, Napoli 1970, p. 270: “Spostiamolo, questo formidabile ostacolo, dalla nostra via! Liberiamo la nostra prassi e il nostro pensiero dal suo fascino! Forse solo l’odio, come espressione della particolarità insubordinata nella quale cresce il nostro pensiero, può ancora definire la qualità di un rapporto con Hegel”. FdS, p. 14 (GW IX, p. 18). Cfr. J.C. Kinlaw, Skepticism and the Unhappy Consciousness, in Hegel’s “Phenomenology of Spirit”. New Critical Essays, a c. di A. Denker, M. Vater, Humanities Press, Amherst (N.Y.) 2003, pp. 213-241 (per queste osservazioni, si vedano in particolare le pp. 214-215, ove l’autore riconosce il proprio debito nei confronti dell’interpretazione della Fenomenologia offerta da Pinkard). A questo proposito, mi sembra che valga la pena di citare anche una più antica considerazione di Enrico De Negri: “Può ben darsi che leggendo meglio le pagine dello Hegel, vagliandone ogni parola, mettendo alla riprova del cervello elettronico ognuna delle sue approssimative equazioni, ne risulti qualcosa di utile per il bene comune della società contemporanea, così remota da un Io che sia Noi e viceversa” (E. De Negri, Interpretazione di Hegel, cit., p. 295).

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blemi: il modo di affrontarli non costituisce invero una scelta di poco conto. (a) In primo luogo, resta da decidere se l’indicazione di questa trascendenza, rispetto alle pretese dell’individualità, si debba oggi interpretare anzitutto in direzione di quella che Terry Pinkard ha chiamato sociality of reason93, vale a dire di uno spazio delle ragioni concepito in termini orizzontali e dunque in fondo negoziabile nella pratica intersoggettiva; oppure – e non solo in ossequio alle numerose suggestioni teologiche contenute nel testo hegeliano, che come tale rimane ovviamente figlio del proprio tempo – anche e forse soprattutto come rivendicazione più radicale di un’essenzialità che trascende per così dire verticalmente il singolo. (b) In secondo luogo – e, si badi bene, quale che sia la risposta che si tenterà di dare alla questione appena posta – non è difficile prevedere un’ulteriore obiezione in forma di domanda retorica. Presentata in questi termini, la stessa proposta hegeliana non finisce forse per riprodurre ancora una volta, sia pure a un altro livello, la scissione e con essa le dinamiche contraddittorie della coscienza infelice, che pure si proponeva di superare? In questo modo, infatti, il Venerdì Santo speculativo e la salita verso “il Calvario dello spirito assoluto”94 sembrerebbero assomigliare un po’ troppo a quella unendliche Annäherung cara ai romantici, alla quale invece Hegel notoriamente non aveva inteso fare alcuna concessione95. Ma in

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Cfr. T. Pinkard, La “Fenomenologia” di Hegel. La socialità della ragione, cit., p. 115 (nota 47), in cui si afferma esplicitamente che l’argomento elaborato da Hegel nelle pagine dedicate alla coscienza infelice si estende all’intera Fenomenologia, nel senso che in esse si profila in che senso “il punto di vista oggettivo è costruito socialmente”, e in questo modo può anche entrare in conflitto con il punto di vista meramente soggettivo. In prospettiva affine – ma con uno sguardo rivolto principalmente all’interpretazione della figura di signoria e servitù – si veda anche R. Pippin, Hegel on Self-Consciousness, Princeton U.P., Princeton-Oxford 2011. FdS, p. 532 (GW IX, p. 434). La lettura di Wahl, per esempio, parrebbe in ultima analisi favorevole a un effettivo riavvicinamento della prospettiva hegeliana a quella romantica: “Così troviamo trasposta da Hegel sul piano filosofico la ironia quale s’esprimerà nelle opere d’uno Schlegel, e la rivelazione d’un Novalis nella Sais immaginaria. Inoltre, vediamo coincidere lo sforzo di contraddizione costante del primo

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questa ennesimo tentativo di emendare la dialettica dall’imbarazzante presenza dell’Assoluto ontologico non si nasconderà forse un fraintendimento della proposta hegeliana in generale? È evidente che, rispetto a difficoltà di questa portata, in gioco è la stessa tenuta di una qualunque interpretazione immanente della Fenomenologia dello spirito: ma la loro disamina va ben al di là dei limiti imposti a questo contributo. Rimango convinto che, per cominciare a rispondervi in maniera non troppo inadeguata, il punto decisivo consista comunque nel non lasciarsi tentare dall’ennesima interpretazione sostanzialistica del sapere assoluto; ciò che Hegel stesso aveva inteso evitare in ogni modo, quando scriveva: “ciò che è posto non è un essere o un’essenza, o un universale in generale, ma qualcosa di riflesso entro di sé: un soggetto”96. L’autocoscienza ha così da imparare a stare speculativamente nella verità dell’intero97: la non-coincidenza dell’Io con se stesso, l’indisponibilità per lui di attingere immediatamente all’origine afferrando il proprio elemento come un oggetto (Ding) disponibile fra gli altri, sono aspetti del senso della cosa stessa (Sache). Il cui movimento è possibile solo ed esclusivamente perché l’autocoscienza, nella sua costitutiva inquietudine (Unruhe), porta dentro di sé una traccia di altro: la chance dell’effettività appunto di quel senso stesso. Dunque, si sbaglierebbe a intendere l’autocoscienza, in quanto dotata di un sapere assoluto, nei termini di un soggetto onnipotente, che pensa e agisce come se la verità e il mondo fossero

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e lo sforzo d’interiorizzazione del secondo. Grazie alla filosofia di Schelling, servendosi di essa e poi superandola, Hegel poteva avvicinarsi allo scopo che si proponeva. A nostro avviso non si tratta d’altro che di questo: conseguire un romanticismo classico – un classicismo romantico, e far scaturire, come doveva tentare con altri mezzi Hölderlin, dalla più profonda infelicità della coscienza la sua più profonda felicità” (J. Wahl, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 17; il corsivo finale è mio). FdS, p. 18 (GW IX, p. 19). Così Pöggeler riassume il movimento con cui la singolarità si mette in relazione con il tutto, nella dinamica dell’autocoscienza: “Das Einzelne stellt sich hinein in ein übergreifendes Ganzes; dieses übergreifende Ganze ist ein Prozeß, in dem das, was ist, seiner selbst bewußt wird und so in Freiheit sich selbst ergreift” (O. Pöggeler, Hegels Idee einer Phänomenologie des Geistes, cit., p. 246).

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semplicemente (e appunto, immediatamente) cosa sua. Grazie all’esperienza della propria infelicità, essa ha piuttosto appreso a fare del proprio questo un all-gemein98, a prendere congedo dall’idiozia del mein e della Meynung, arrivando finalmente a scoprire “che, da sé, non può pensare e agire ‘in nome di Dio’”99. Il suo sapere consiste nel concreto esercizio comune di una razionalità della quale il singolo è parte nella sua libertà, senza tuttavia potersene mai fare interamente signore e padrone. – Simul vacua et plena, solo qui l’autocoscienza può ritrovare il germe d’una possibile felicità: in quella totalità essenziale che la trascende, e che Hegel chiama spirito100.

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Cfr. E. De Negri, Interpretazione di Hegel, cit., p. 299. Indicativo appunto di questa direzione mi pare per esempio anche l’appello “a riempire quel vuoto ‘mio’”, di cui Hegel parla all’inizio del capitolo V, dedicato alla ‘Ragione’: cfr. FdS, p. 164 (GW IX, p. 173). 99 H.S. Harris, La fenomenologia dell’autocoscienza in Hegel, cit., p. 175. 100 In questa prospettiva, la nozione di spirito viene filosoficamente a collocarsi “nel campo di tensione tra ciò di cui l’uomo è consapevole e responsabile e ciò che egli non ha a sua disposizione. Lo spirito è delimitato, non è tutto, perché non v’è spirito al di qua della coscienza e della libertà; d’altra parte l’esperienza dello spirito si spinge al di là di ciò che la ragione individuale può controllare e delimitare”. Così (riprendendo e commentando il lemma Spirito redatto da Jacques Guillet per il Vocabulaire de Théologie Biblique diretto da X. Léon-Dufour) scrive M. Pagano, Lo spirito nella filosofia del Novecento, in Verso una nuova età dello spirito, a c. di G. Colzani, Messaggero, Padova 1997, pp. 15-91; ma cfr. ora anche M. Pagano, Lo spirito: un percorso tra le culture e nella filosofia, in Lo spirito. Percorsi nella filosofia e nelle culture, a c. di M. Pagano, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 13-61.

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– IV –

Antigone e la dialettica: una riconsiderazione

1. Nell’introdurre la prima edizione italiana della Teoria del dramma moderno di Peter Szondi (uscita da Suhrkamp nel 1956 e pubblicata in Italia da Einaudi nel 1962), Cesare Cases, pur riconoscendo nel giovane comparatista ungherese un “buon modello metodologico” e un “buon antidoto contro le estetiche […] che si sfiancano nel vano tentativo di cambiare camaleonticamente categorie ad ogni nuovo lume di luna” – dunque “un interprete di prima forza” della letteratura teatrale, capace di “inquadrare in modo così persuasivo una materia ancora tanto fluida” –, non esitava a individuare un difetto di quella dissertazione nella “rigida ossatura” determinata da alcuni “limiti di carattere formalistico”1. In nota, tale critica veniva estesa da Cases anche al successivo scritto di abilitazione di Szondi, il Saggio sul tragico (1961), del quale lo stesso editore Suhrkamp aveva peraltro rifiutato la pubblicazione. Infatti i risultati cui Szondi perviene nel suo secondo libro, secondo Cases, nel complesso “non sembrano persuasivi”. A detta di Szondi, non esiste il tragico, almeno non come essenza. Esso piuttosto è un modo, una determinata maniera in cui l’annientamento minaccia di compiersi o si compie, e cioè quella dialettica. Tragico è soltanto quel soccombere che deriva dall’unità degli opposti, dal ribaltamento di una cosa nel suo contrario, dall’autoscissione2.

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2

C. Cases, Introduzione, in P. Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950, trad. it. di G. Lunari, Einaudi, Torino 1962, pp. XXXIII-XXXIV. P. Szondi, Saggio sul tragico, a c. di F. Vercellone, trad it. di G. Garelli, pref. di S. Givone, Einaudi, Torino 1996, pp. 74-75.

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Affermazioni che Cases commentava così: Questa tesi è efficacemente riassunta nel verso di Jean de Sponde che funge da motto al libro: En me cuidant aiser, moi-même je me nuis. Essa sceglie a prototipo l’Edipo re […] ciò che permette di risolvere il problema su un piano etico-psicologico, nel rapporto dialettico tra bene e male, mentre il conflitto tra le “potenze universali” appare meglio ove si prenda come prototipo l’Antigone3.

Non che Szondi ignori, ovviamente, il tragico come conflitto fra potenze; e tuttavia sembra ammetterlo “solo in via subordinata” (l’unica Antigone su cui egli si diffonde nel Saggio è in effetti quella propriamente moderna di Kierkegaard). Inoltre nella sua trattazione i due modelli non sembrano giustificare la loro unità categoriale. Piuttosto, conclude Cases: Il vecchio problema di come ricondurre ad unità il tragico dell’Edipo re e quello dell’Antigone ci sembra sia stato risolto da Lukács, che nella sua tipologia del dramma lo “rovescia” materialisticamente additandone la base in due diverse situazioni di vita, entrambe in rapporto con le crisi rivoluzionarie della società: quella dello scontro diretto di due forze sociali e quella della “presentazione del conto”, in cui partiti o gruppi o individui scontano le conseguenze delle loro azioni precedenti (oltre all’Edipo Lukács menziona La morte di Danton di Büchner come rientrante nel medesimo tipo)4.

Non è mia intenzione, in questa sede, discutere la pertinenza delle obiezioni mosse a Szondi da Cases, né tantomeno argomentare pro o contro la prospettiva lukácsiana elogiata da quest’ultimo in alternativa al presunto “formalismo” del primo – anche se credo che una disamina della questione potrebbe fare un po’ di luce, fra 3 4

C. Cases, Introduzione, cit., p. XXXIII (nota). Ibidem. Si noti che entrambi i drammi, quello di Sofocle e quello di Büchner, sono trattati da Szondi nel Saggio sul tragico, e anzi costituiscono precisamente l’oggetto del capitolo di apertura e di chiusura della seconda parte dello studio.

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l’altro, sulla matrice ideologica della politica editoriale che ha attraversato buona parte del secolo scorso (il disinteresse di Einaudi nei confronti del Saggio sul tragico si sarebbe significativamente protratto ancora per più di trent’anni)5. Mi sembra invece opportuno, in una riconsiderazione – per quanto rapida e selettiva – del tema del tragico in Hegel, mettere in questione l’assunto secondo cui la soluzione materialistica di Lukács sarebbe l’unica capace, in un quadro dialettico, di “ricondurre ad unità il tragico dell’Edipo re e quello dell’Antigone”. Mi propongo quindi dapprima di segnalare come proprio Szondi offra un’indicazione di lettura capace di mostrare in che modo, nello stesso Hegel, quell’unità si possa ricostruire in chiave non meno dialettica, e certo più immanente allo sviluppo argomentativo della Fenomenologia dello spirito. Ciò ha conseguenze decisive anche per quanto accennerò poi nella parte conclusiva, ove mi soffermerò ad analizzare in breve un punto delicato per le interpretazioni classiche delle pagine fenomenologiche sulla bella eticità antica. L’intento sarà quello di mostrare, di nuovo, come ogni presunto riferimento alla naturalità del carattere tragico debba scontrarsi con il senso stesso della dialettica intesa come mediazione6. Al di là della questione (qui tutto sommato poco rilevante) della possibile fedeltà o infedeltà di Hegel a Sofocle, l’origine del tragico antico e la Aufhebung della bella eticità organica, almeno nella Fenomenologia, non mi pare abbiano a che vedere in prima battuta né con la perentoria naturalizzazione dei ruoli nel rapporto fra maschio e femmina (come ha denunciato ripetutamente il pensiero della differenza), né con una presunta risoluzione storico-politica del contrasto fra Creonte (ovvero lo stato) e Antigone (ovvero la famiglia) in un’unità superiore, in cui la cellula e l’organismo devono essere in armonia e non in opposizione nel tutto7. Per queste 5 6

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Cfr. S. Givone, Prefazione a P. Szondi, Saggio sul tragico, cit., p. VII. Sulla questione, trattata nel quadro del linguaggio speculativo peculiare della Fenomenologia hegeliana, cfr. E. Caramelli, Destino e rappresentazione. Il linguaggio tragico nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, in «Annali del Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze», 16, 2010, pp. 55-82. Cfr. in questo senso per esempio L. Canfora, Storia della letteratura greca, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 176. Sul tema cfr. però anche le più ampie osserva-

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ragioni, mi pare interessante indagare in che senso tali questioni abbiano piuttosto a che fare con la natura intimamente logica che è peculiare del procedimento dialettico.

2. Se è vero che Peter Szondi sceglie a ‘prototipo’ della propria trattazione un modello del mito di Edipo che trascende la fedeltà al dettato sofocleo per esacerbarne una presunta morfologia ideale (come gli avrebbe fatto notare Karl Kerényi8), vediamo dunque in che modo l’apertura del capitolo del Saggio sul tragico dedicato a ‘Edipo re’ delinei – insieme al nucleo ideale del mito di Edipo – anche il germoglio dialettico del tragico stesso. Scrive Szondi: Più d’ogni altra opera, l’Edipo re appare intessuto di tragicità nella trama della sua azione. Ovunque lo sguardo si fissi nella vicenda dell’eroe, esso incontra quell’unità di salvezza e annientamento che costituisce un tratto fondamentale di ogni tragico. Giacché a essere tragico non è l’annientamento in sé, ma il fatto che la salvezza si trasformi in annientamento; la tragicità non si compie nel declino dell’eroe, ma nel fatto che l’uomo soccomba proprio percorrendo quella strada che ha imboccato per sottrarvisi9.

Il Saggio di Szondi sviluppa a partire da qui la sua analisi di sette capolavori teatrali, intorno al nucleo tragico della coscienza: “Si tu nous fais du mal, il nous vient de nous-mêmes” (Agrippa d’Aubigné) e – come sottolineava Cases – “En me cuidant aiser, moi même je me nuis” (Jean de Sponde) sono i motti collocati in esergo al suo libro, mentre la sezione propriamente ermeneutica si apre con un frammento di Eschilo: l’aquila ferita riconosce, nella freccia che la

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zioni di G. Severino, Antigone e il tramonto della “bella vita etica” nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel (1971), ora in Id., La filosofia e la vita. Prima e dopo Hegel, a c. di P. Becchi, F. Michelini e R. Morani, Morcelliana, Brescia 2012, pp. 267-285 (in particolare pp. 269-272). Cfr. P. Szondi, Briefe, a c. di C. König, T. Sparr, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1993, pp. 76-77. P. Szondi, Saggio sul tragico, cit., p. 79.

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sta uccidendo, piume delle sue piume10. Ora, la tesi che voglio sostenere è che se è vero che di questo procedimento bisogna riconoscere l’ispirazione hegeliana, tale nucleo dialettico della coscienza ha in Hegel una collocazione ben precisa, che a detta di autorevoli interpreti (penso, in area francese, ai classici commentari di Jean Wahl e di Jean Hyppolite) costituisce nientemeno che il germoglio concettuale originario della Fenomenologia dello spirito: le pagine del capitolo sull’‘Autocoscienza’ dedicate alla “coscienza infelice”. Non ha torto infatti Hyppolite – anche se si tratta di un’affermazione problematica, che qui debbo limitarmi ad accogliere senza argomentazioni ulteriori11 – quando afferma che l’“esperienza che l’autocoscienza scissa fa nella sua infelicità” costituisce il tema fondamentale dell’intera Fenomenologia: “Infatti la coscienza come tale, non essendo ancor giunta all’identità concreta della certezza e della verità, e opinando quindi un al di là di sé, nel suo fondamento è sempre coscienza infelice (in senso ampio)”12. Mi limito dunque a riassumere qui, delineandolo per sommi capi, il movimento fondamentale compiuto dalla coscienza infelice: essa dapprima (a) vede dentro di sé l’opposizione fra un infinito essenziale e immutabile e un finito inessenziale e transeunte; ma, poiché nel farlo avverte la propria instabilità e mutevolezza, cioè il proprio carattere accidentale e finito, (b) si rende conto di doversi collocare sul versante della singolarità accidentale: non potrebbe che essere così, del resto, considerando che l’Io sa di essere scisso e non può certamente mettersi dal lato che riserva all’unità salda e immutabile. Pertanto (c), scrive Hegel, la coscienza infelice […], poiché è la coscienza di questa contraddizione, si pone sul lato della coscienza mutevole, e si considera l’inessenziale; ma in quanto coscienza dell’immutabilità,

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Ibidem, pp. 1, 77. Per un approfondimento della questione cfr. Il senso dell’infelicità della coscienza, supra, cap. III. J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel (1946), trad. it. di G.A. De Toni, pres. di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 231.

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ossia dell’essenza semplice, deve nel contempo procedere a liberarsi dall’inessenziale; vale a dire, a liberarsi da se stessa13.

Questa scissione è il tormento della coscienza, la sua implacabile Unruhe. Essa cerca di lasciarsi alle spalle la propria condizione accidentale; ma per riuscirci dovrebbe “liberarsi da se stessa”, proprio in quanto è mutevole per essenza. Ora però, le parole con cui Hegel presenta tale condizione iniziale ricordano proprio quelle che Szondi avrebbe adoperato per descrivere la scissione tragica: Si è perciò in presenza di una lotta contro un nemico, la vittoria sul quale costituisce piuttosto un atto di sottomissione […]. La coscienza della vita, del suo esistere e del suo fare non è altro che il dolore per tali esistere e fare14.

Anche al di fuori del suo contesto speculativo, l’osservazione hegeliana è psicologicamente piuttosto sottile: quanto più la coscienza mutevole vede l’inevitabilità del proprio destino, e dunque si sforza (invano) di cancellare le proprie determinazioni inessenziali, tanto più l’essenza immutabile le risulta preclusa; l’immutabilità e l’universalità le si confermano infatti come caratteri esclusivi di ciò che è altro da lei. L’Io avverte che la propria infelicità è conseguenza della vanità degli sforzi da lui stesso compiuti; e il suo tormento pare inaggirabile proprio perché i due lati tra loro in conflitto si trovano all’interno della medesima coscienza infelice.

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FdS, p. 144 (GW IX, p. 122). FdS, p. 145 (GW IX, p. 122). – Osservo di passaggio che anche Lucien Goldmann avrebbe di lì a poco insistito sul paragone fra la visione tragica del mondo e la hegeliana coscienza infelice: cfr. la discussione con Herbert Marcuse del 9 dicembre 1962 di cui in S. Naïr, M. Lowy, Lucien Goldmann o la dialettica della totalità (1973), trad. it. di M.N. Pierini, Erre Emme, Roma 1990, pp. 114-128 (sono debitore di questa interessante indicazione al dott. Giacomo Dini).

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3. Certamente, si osserverà, la scissione costituita dalla coscienza infelice sussiste solo nella misura in cui il Sé ancora non si è reso compiutamente autoconsapevole, ossia – si potrebbe aggiungere – è tale dal punto di vista di un sapere ancora non assoluto. Il che in altri termini, agli occhi di alcuni interpreti, ha questo significato: tragico e dialettica sarebbero sostanzialmente incompatibili, perché dove c’è dialettica, il tragico viene meno; e dove c’è tragico, non c’è posto per la conciliazione dialettica. La coscienza infelice – lo diceva lo stesso Jean Wahl – altro non è del resto che una tappa, per quanto decisiva, sul cammino dal quale dovrà scaturire “dalla più profonda infelicità della coscienza la sua più profonda felicità”15. Ho espresso in altra sede qualche riserva nei confronti di un’interpretazione del rapporto fra il tragico e la dialettica che si attesti sulla rigida denuncia della loro inconciliabilità16; qui mi limiterò solo a ricordare l’osservazione di George Steiner, secondo cui anzi proprio il “rifiuto della fissità, della chiusura formale”, che costituisce “uno dei cardini del metodo” hegeliano, è semmai indizio di un’affinità profonda fra il tragico e il pensiero dialettico17. È noto che le pagine della Fenomenologia dedicate alla trattazione dello “spirito vero” (V.C.a) e dell’eticità, rielaborando gli argomenti – più ancora che dell’Edipo re sofocleo, sul quale Hegel ritorna invece nei corsi di estetica18 – dei Sette a Tebe di Eschilo e 15

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J. Wahl, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel (1951²), trad. it. di F. Occhetto, Laterza, Roma-Bari 1994², p. 17. Per una panoramica di questa “antica discordia” fra filosofia e poesia, che culmina nella tensione di tragico e dialettica, mi permetto di rimandare a G. Garelli, Introduzione. L’ambiguo destino della catarsi, in Filosofie del tragico, a c. di G. Garelli, B. Mondadori, Milano 2001, pp. 1-23; nonché a Id., La filosofia del tragico: nuove forme di un’antica discordia, in «Nuova informazione bibliografica», 1, 2011, pp. 35-52. Cfr. G. Steiner, Le Antigoni (1984), tr. it. di N. Marini, Garzanti, Milano 2003, pp. 31-32. Va ricordato peraltro che, stando alle successive Vorlesungen dedicate da Hegel alla filosofia dell’arte, perché scaturisca il tragico non è necessario che entrino in conflitto (come accade nell’Antigone) potenze etiche contrapposte: Edipo esprime per esempio il diritto della coscienza nel suo opporsi unilaterale al diritto delle forze inconsce e sotterranee; qui la rovina dell’eroe non deriva da un’azione esterna, ma dalla passione da lui stesso incarnata. Cfr. per esempio la nota a margine in EH23, p. 295 (VPhK, pp. 304-305): “Nell’Edipo

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dell’Antigone di Sofocle, procedono alla descrizione della dialettica dell’etico individuandone all’origine due momenti contrapposti: la legge divina (che si realizza nella donna e nella sfera familiare) e la legge umana (che si realizza nell’uomo e nella sfera politica)19. Dice Hegel: “Il regno etico […] nella sua sussistenza costituisce un mondo immacolato, non contaminato da alcuna scissione”20. Ciò

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re e nell’Edipo a Colono la collisione è il diritto della spiritualità individuale cosciente di contro alla Cosa che è in- e per-sé”). Per un primo approfondimento di questo aspetto cfr. A. Siani, La tragedia, in L’estetica di Hegel, a c. di M. Farina, A.L. Siani, Il Mulino, Bologna 2014, pp. 181-195. In quanto segue, riprendo sinteticamente le considerazioni da me svolte nel capitolo dedicato a Hegel di C. Gentili, G. Garelli, Il tragico, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 133-143. Per una trattazione del significato sistematico dell’Antigone nella Fenomenologia, cfr. F. Iannelli, Oltre Antigone. Figure della soggettività nella “Fenomenologia dello spirito” di G.W.F. Hegel, Carocci, Roma 2006, in particolare pp. 27-42 (con bibliografia); nonché il saggio di G. Severino, Antigone e il tramonto della “bella vita etica” nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit. FdS, p. 306 (GW IX, p. 250). L’assenza di scissione, nel contesto della bella eticità greca, costituisce tuttavia un assunto problematico, come si vedrà anche nel seguito. Del tutto condivisibili le osservazioni in proposito di Giulio Severino, Antigone e il tramonto della “bella vita etica” nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., p. 271: “Hegel […], nella Fenomenologia, non solo scorge, già nella bella armonia del consenso, nella felice partecipazione universale al governo e alla vita comunitaria ed anche nella stessa religiosità dell’uomo greco, il momento della dissonanza e del contrasto, ma individua e descrive l’affiorare di quel principio della libertà soggettiva che, alla fine, si riconosce come la forza onnifondante, infinita da un lato e dall’altro profondamente ambigua, della vita religiosa e comunitaria, principio che appare come la necessità stessa del terribile destino la quale conduce questo mondo al proprio tramonto”; e ancora, su questo equilibrio sostanziale instabile: “Nella Fenomenologia […] egli mette in evidenza che, negli stati democratici dell’antica Grecia, la guerra e il sentimento della morte, che essa diffonde negli animi, sono i tragici espedienti di cui si serve la comunità per conservare se stessa e la sua unità, minacciata non da nemici esterni ma da quell’interno nemico che è il ritrarsi degli individui nella vita privata” (ibidem, p. 274); per concludere: “La colpa sublime di Antigone e il suo tragico destino sono da cercare, quindi, nell’ascolto e nell’obbedienza a quella legge divina che, se porta alla luce del sole la coscienza morale dell’uomo, libera altresì gli istinti e il tremendo egoismo. Nel personaggio e nell’azione di Antigone Hegel ritiene, pertanto, siano rappresentati quei sistemi particolari della società i quali, in precedenza tenuti a freno, si scatenano contro lo stato etico e lo distruggono” (ibidem, p. 284).

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Dialettica e interpretazione

che determina la bellezza della città-stato è proprio l’equilibrio per cui essa all’interno ha il proprio radicamento nella famiglia, mentre sul versante esterno è la guerra a tenere a freno i particolarismi dei singoli individui. Tuttavia il conflitto scaturisce con il polarizzarsi delle due leggi che regolano la vita della città: la legge propria degli dèi inferi (che è inconsapevole, interiore, e plasma i legami di sangue della famiglia) e quella propria degli dèi superni (che è esplicita, pubblica, e fa dell’individuo un cittadino). Ora, il problema sul quale dobbiamo riflettere è che la differenza fra queste due leggi parrebbe, per Hegel, legata ‘immediatamente’ al genere (maschio/femmina), e dunque postulerebbe qualcosa come un fondamento ‘naturale’: mentre è noto che sono proprio nozioni come naturalità e immediatezza a fare problema, una volta almeno che si sia accolto il punto di vista fenomenologico-dialettico. Torniamo brevemente al contenuto della vicenda dei labdacidi, parafrasato da Hegel. Il giovane uomo lascia l’oikos e diviene cittadino; per difendere la sua polis mette a rischio la propria vita, mentre la donna rimane a guardia della legge dei Lari e dei Penati. Dunque, l’elemento positivo nel quale il maschio si muove alla luce del giorno è il politico; mentre la custodia familiare è l’elemento negativo, notturno, in cui si muove la femmina. – Una volta morto combattendo in difesa della città, l’individuo viene restituito al dominio della famiglia: mentre il suo Thun (‘fare’) riguardava la città-stato, è la famiglia a tutelare il suo Seyn (‘essere’). E questo, nella saga, è il destino di Eteocle. Ma la femminilità (la cui massima, pura manifestazione è la condizione sororale), seguendo le leggi non scritte di Ade, vuole preservare anche il corpo di Polinice, che pure contro Tebe ha combattuto, dall’orrore della decomposizione a cielo aperto; vuole dargli degna sepoltura, impedendone la violazione da parte degli animali selvatici e degli elementi naturali: Avendo liberato il proprio essere dal proprio fare, ossia dalla sua unità negativa, il morto è la singolarità vuota, è solamente un passivo essere per altro, lasciato in preda a ogni bassa individualità irrazionale e alle forze materiali astratte, le quali – l’una in virtù della vita di cui essa è provvista, le altre in virtù della loro natura negativa – adesso sono più potenti di lui. La famiglia tiene lon-

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Gianluca Garelli

tano dal morto questo fare che lo disonora, opera di appetizioni prive di coscienza e di essenze astratte; vi sostituisce il proprio fare, e sposa il proprio congiunto al grembo della terra, all’individualità elementare e non transeunte. In tal modo, lo rende sodale d’una comunità che, piuttosto, domina e tiene a vincolo le singole forze materiali e le basse forme di vita che volevano scatenarsi contro di lui e distruggerlo. Questo estremo dovere costituisce dunque il compimento della legge divina, ossia l’azione etica positiva nei confronti del singolo21.

Che cosa significa sottrarre il defunto alla dissoluzione nell’elemento naturale? Significa guadagnare alla morte la dimensione della spiritualità. In ciò consiste appunto il compito dei familiari: il prodotto del loro fare (ein Getanes) garantisce al morto il riconoscimento; gli onori da essi attribuitigli sono “consolazione” e insieme “rendono possibile la ‘conciliazione’ (Versöhnung) con quell’estremo accadere che altrimenti non sarebbe che uno sprofondare nel nulla, uno scivolare nel buio”22. Dunque, i riti funerari restituiscono il defunto alla terra, che è il medesimo luogo donde ha avuto origine la sequenza delle generazioni. Nel caso di Polinice, tuttavia, la missione femminile per eccellenza – cioè la tutela della sacralità della famiglia – si trasforma in un crimine nei confronti della città: a lui, che contro la polis ha combattuto, non spetta sepoltura. Non accettando l’editto di Creonte, Antigone si rende dunque colpevole agli occhi di quest’ultimo – proprio come egli lo è a quelli di Antigone, rispetto alle leggi non scritte. La caratteristica principale del personaggio tragico secondo Hegel è così l’unilateralità: esso è guidato dall’unico pathos della sostanza che lo spinge ad agire. L’eroe tragico non conosce il dubbio: sa con certezza ciò che deve fare, e lo realizza. In questo senso, si potrebbe dire che a differenza della colpa di Edipo, il delitto commesso da Antigone è affatto consapevole; ma chi lo compie, nella sua rigida unilateralità, ha occhi solo 21 22

FdS, pp. 299-300 (GW IX, p. 245). P. Vinci, L’Antigone di Hegel, in Antigone e la filosofia, a c. di P. Montani, Donzelli, Roma 2001, p. 35.

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Dialettica e interpretazione

per l’esclusività della propria legge: “Dato però che le due leggi sono essenzialmente congiunte, l’adempimento dell’una evoca l’altra, e lo fa – sulla scorta dell’atto – come un’essenza violata e ora nemica, che esige vendetta”23. La tragedia di cui Antigone è protagonista non deriva dunque da un conflitto fra il dovere e la passione, né da una contrapposizione fra la ragione e il cuore, bensì mostra l’opposizione di due diversi livelli dell’esistenza24. Da questa vicenda, la coscienza fenomenologica in cammino verso la propria autoconsapevolezza finisce per apprendere che quanto, all’inizio, appariva estraneo a lei, non è che l’altro lato d’una sostanza etica unitaria: Soltanto nell’uguale assoggettamento di tutt’e due i lati il diritto assoluto ha trovato compimento, e solo così ha fatto la sua comparsa la sostanza etica intesa come la potenza negativa che li inghiotte entrambi: è comparso, cioè, il destino onnipotente e giusto25.

Al cospetto del destino (Schicksal) tanto Antigone quanto Creonte, intesi come individualità unilaterali, finiscono inevitabilmente per soccombere. Nella figura di Antigone, il Sé greco mostra così in maniera emblematica di non saper rinunciare alla “semplice autocoincidenza”: ancora “non è in grado di esprimere quell’essenziale forza spirituale che consiste nel riuscire a mantenersi nell’alienazione, a sopportare la potenza del negativo”26; mentre d’altro lato, nel contempo, con questa figura “Hegel scorge nella religione

23 24

25 26

FdS, p. 311 (GW IX, p. 255). Cfr. C. Gentili, G. Garelli, Il tragico, cit., p. 139. Cfr. anche l’osservazione di G. Severino, Antigone e il tramonto della “bella vita etica” nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., p. 281: “La tragedia di Sofocle non è […] interpretata da Hegel come la rappresentazione del conflitto fra una libera coscienza morale e l’arbitrio di un potere statale assoluto, ma come se vi fosse espressa, con mirabile giustizia, la pari legittimità e il pari torto di due coscienze morali che obbediscono ad imperativi etici fatalmente contrastanti ed unilaterali”. FdS, p. 313 (GW IX, p. 256). P. Vinci, L’Antigone di Hegel, cit., pp. 37-38.

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degli inferi e nel culto dei morti, praticati dalla famiglia antica, un alto presentimento del valore del singolo. Egli ritiene inoltre che questo presentimento nasca nella famiglia proprio dall’esperienza di quel momento della morte che è costitutivo del singolo e ne segna la radicale finitezza”27.

4. Che cos’è la bella eticità? Come è stato efficacemente riassunto da Terry Pinkard, nella Sittlichkeit del mondo greco fra individuo e norma etica non c’è scissione bensì armonia; l’individualità, che ancora non si è fatta soggettività, presta una fede incondizionata alle regole e ai ruoli sociali rigidi riconosciuti come naturali: per cui, nel mondo greco idealizzato da Hegel, “gli uomini fanno una cosa, le donne un’altra; i governanti fanno una cosa, i sottoposti un’altra; i signori fanno una cosa, i servi un’altra; così va il mondo e, se il 27

G. Severino, Antigone e il tramonto della “bella vita etica” nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., p. 276. – Va aggiunto, e non solo per ragioni di completezza, che questa interpretazione dell’Antigone sarebbe stata ripresa e arricchita da Hegel non solo nei Lineamenti di filosofia del diritto del 1821 (§ 166), ma anche nei corsi di lezioni tenuti a Heidelberg e a Berlino. Senza trascurare le diverse sfumature presenti nelle varie letture hegeliane della tragedia (ove talora ad Antigone sembra riconosciuto, nella storia dello spirito, un ruolo pari o addirittura superiore a quello di Socrate), si può dire che nello Hegel più tardo il tragico viene da una parte concepito ancora in termini di dialettica dell’eticità, mentre dall’altra tale nozione si adatta – soprattutto nel quadro della filosofia dell’arte – a una definizione più idonea a designare l’intera gamma offerta dalla storia del genere letterario corrispondente. Certamente esso è “conflitto fra due potenze recanti diritti d’eguale portata”; eppure, come si è altrove osservato (C. Gentili, G. Garelli, Il tragico, cit., p. 143), “il mondo moderno è segnato dall’irrompere dell’accidentalità, e gli eroi delle sue tragedie non possono non risentirne: essi agiscono certamente in base al loro carattere, le cui passioni (la gelosia in Otello, l’ambizione in Macbeth, e così via: passioni che il filosofo designa ormai come ‘semplicemente formali’) non incarnano più, come nell’antichità, un pathos etico sostanziale. Ecco perché Hegel, già nella Fenomenologia, solo con molte riserve ammetteva la validità della tragedia moderna; mentre anche nell’Estetica, l’Antigone di Sofocle, con la sua ineguagliata capacità di rappresentare lo scontro interno allo spirito nel suo divenire mondano, rimane per lui ‘di tutti i capolavori del mondo antico e moderno […] l’opera d’arte più eccellente e più soddisfacente’” (per le citazioni cfr. FdS, pp. 482-483; GW IX, pp. 290-291; nonché Est, p. 1361; HW XV, p. 550). Sull’intera questione cfr. anche A.L. Siani, Il tragico, cit.

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Dialettica e interpretazione

mondo sociale deve funzionare correttamente, esso non può essere nulla di diverso da questo”28. E ancora, afferma Pinkard, la tragedia sofoclea inscena secondo Hegel come le esigenze individuali di normatività, che agiscono secondo la coscienza personale, per così dire lottino per emergere da una situazione nella quale non c’è concezione della coscienza su cui sia possibile fondare l’agire; l’intrico in cui è immersa Antigone è quello di chi esperisce un’identificazione immediata con il proprio ruolo sociale (il suo essere sorella, il suo prestar fede alla legge divina) giungendo al contempo a esperire che proprio quell’identificazione immediata è tanto impossibile (e dunque avendo già visto sfiorire quell’identificazione nella propria esperienza di sé), quanto inevitabile, poiché è qualcosa che le è semplicemente richiesto. Noi moderni siamo in grado di vedere all’opera la coscienza di Antigone; Antigone può solamente esperire il conflitto e la colpa29.

Eppure: è forse mai esistita davvero, una condizione come quella descritta da Hegel? La mia impressione è che il classicismo hegeliano non si possa risolvere solamente in chiave di una sua relativizzazione storiografica, nel quadro della lunga vicenda che lega l’antico al moderno nella cultura di lingua tedesca, a partire da Winckelmann e attraverso l’intera Goethezeit30. Il problema che vi è sot28

29

30

T. Pinkard, La “Fenomenologia” di Hegel. La socialità della ragione (1994), a c. di A. Sartori, I. Testa, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 136; ma si veda più recentemente anche Id., What is a “shape of spirit”?, in Hegel’s “Phenomenology of Spirit”. A Critical Guide, a c. di D. Moyar, M. Quante, Cambridge U.P., Cambridge 2008, p. 117: “nell’interpretazione di Hegel, l’Antigone di Sofocle rende visibile al pubblico greco” la “cecità” e la “contraddizione” che altrimenti sfuggono allo sguardo unilaterale dell’eroe tragico – in ultima analisi, quella contrapposizione fra norma e realtà effettiva che determinerà il sorgere della riflessione, e con ciò anche la fine della bella eticità. T. Pinkard, La filosofia tedesca 1760-1860. L’eredità dell’idealismo (2002), a c. di M. Farina, Einaudi, Torino 2014, pp. 282-283. Per una ricostruzione di questo panorama, cfr. P. Szondi, Antico e moderno nell’estetica dell’età di Goethe, in Id., Poetica e filosofia della storia, a c. di R. Gilodi, F. Vercellone, Einaudi, Torino 2001, pp. 179-381.

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Gianluca Garelli

teso mi pare sia anzi squisitamente filosofico, e coinvolga l’intera concezione hegeliana della dialettica fenomenologica intesa come mediazione. Qui mi limiterò a enunciare una proposta interpretativa che, in quanto tale, non intende postulare una verità asseverata bensì piuttosto indicare una direzione di ricerca. È ancora Pinkard a confortare questa interpretazione, quando scrive: Il concetto greco di libertà, che per i greci era possibile solamente entro la loro forma di Sittlichkeit […] nel mondo moderno sembra realizzabile in guisa individualistica, senza la “datità” richiesta dalla Sittlichkeit greca, ma tale da tenere conto del tipo di riflessività distaccata che la “libertà assoluta” sembra esigere31.

La tesi che intendo proporre in conclusione è allora la seguente: la bella eticità, nella misura in cui è concepita come momento originario che si fonda sulla presunta naturalità, ha uno statuto in certo modo paragonabile – per posizione e funzione all’interno dell’opera – a quello svolto dal dato nella prima figura del cammino fenomenologico, ovvero la ‘certezza sensibile’: in quanto tale, essa non è oggetto di un accesso immediato, bensì è centro ideale intorno a cui si polarizza la ricostruzione dell’esperienza della coscienza. Dal punto di vista della sua realtà storica, tuttavia, non si tratta che di un mito (analogamente al senso, si badi bene, per cui Wilfrid Sellars parlava di “mito del dato”32 a proposito appunto del correlato oggettivo peculiare della ‘certezza sensibile’). Ciò non ne sminuisce

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32

T. Pinkard, La “Fenomenologia” di Hegel. La socialità della ragione, cit., p. 305. L’intera evoluzione della lettura pinkardiana di Hegel sembra ruotare intorno al paradosso di una dialettica fra l’esigenza per così dire di lasciarsi la natura alle spalle, e per altro verso riconoscere una (affatto problematica) normatività della natura stessa, che pare tuttavia in questo modo reintrodurre il mito del dato, come mostra soprattutto T. Pinkard, Hegel’s Naturalism: Mind, Nature, and the Final Ends of Life, Oxford U.P., Oxford 2012. Cfr. in proposito le osservazioni di L. Corti, Ritratti hegeliani. Un capitolo della filosofia americana contemporanea, Carocci, Roma 2014, pp. 235 ss. Cfr. W. Sellars, Empirismo e filosofia della mente (1956), Introduzione di R. Rorty con una Guida al testo di R. Brandom (1997), trad. it. di E. Sacchi, Einaudi, Torino 2004, p. 87.

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minimamente la funzione, nel quadro della descrizione hegeliana; la quale, al contrario, ne è arricchita precisamente della consapevolezza per cui il procedimento dialettico non può che avvenire all’insegna della mediazione, financo dell’oscillazione fra la continuità e la discontinuità (l’identità di identità e di non-identità, avrebbe detto il giovane Hegel)33. Tutto questo ha a mio parere alcune conseguenze rilevanti: in primo luogo, per esempio, rispetto alle tradizionali letture di genere dell’interpretazione fenomenologica di Antigone34. Sotto questo profilo, al di là di ogni pregiudiziale ideologica, rimango convinto che proprio la lettura delle pagine sulla “bella eticità” della Fenomenologia possa contribuire in maniera decisiva alla rottura dello schema rigido maschile/femminile, famiglia/città, legge scritta/legge del cuore, che molto spesso è stato imputato al logocentrismo hegeliano, come suo inevitabile e sgradevole corollario35. Anzi: che, a prendere davvero sul serio questa dialettica, il ‘femminile’ non risulti infine affatto un mero dato naturale è mostrato proprio dalla paradossale contraddizione vivente costituita dalla stessa Antigone; la quale è figlia di un legame incestuoso, opposta già nel nome alla funzione generatrice, insensibile all’amore di Emone e al richiamo della sorella Ismene – e tutto questo, si badi, proprio in nome della legge che dovrebbe definirne la femminilità. Una lettura coerente33

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35

Ho cercato di articolare questa interpretazione generale della dialettica (fenomenologica) hegeliana in G. Garelli, Lo spirito in figura. Il tema dell’estetico nella “Fenomenologia dello spirito”, Il Mulino, Bologna 2010. Cfr., per un quadro generale, P. Jagentowicz Mills, Hegel’s “Antigone”, in The “Phenomenology of Spirit” Reader. Critical and Interpretive Essays, a c. di J. Stewart, Suny Press, Albany 1998, pp. 243-271; nonché i capitoli finali di A. Luchetti, D. Guastini, K. Tenenbaum ed E. Ferrario, raccolti sotto il titolo di ‘Altre Antigoni’, in Antigone e la filosofia, a c. di P. Montani, cit., pp. 243-334. Si veda anche K. De Boer, The Eternal Irony of the Community: Aristophanian Echoes in Hegel’s “Phenomenology of Spirit”, in «Inquiry», 52, 2009, pp. 311-334. Secondo un’istanza formulata per esempio in altra prospettiva, attraverso un confronto critico con Hegel, anche da un interprete di primo piano delle letture di genere della Fenomenologia hegeliana: cfr. J. Butler, La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte (2000), trad. it. di I. Negri, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Cfr. anche M. Nussbaum, La fragilità del bene (1986), trad. it. di M. Scattola, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 133-188.

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Gianluca Garelli

mente dialettica di queste pagine della Fenomenologia potrebbe dunque contribuire a fugare obiezioni basate unilateralmente sulla – pur possibile – presenza nella trattazione hegeliana di eccessi residuali di tipo sostanzialistico36.

5. Qualche considerazione, infine, per concludere questo breve percorso, e ritornare così alle questioni dalle quali esso aveva preso le mosse. Disponiamo infatti, a questo punto, di alcuni elementi in più non solo per sottolineare con Steiner l’affinità fra la fluidità del metodo hegeliano e la scissione tragica, ma anche per comprendere più a fondo e radicalizzare il senso di quello che ancora Steiner ha chiamato “incorporamento” del tragico stesso nel pensiero dialettico37. Che la dialettica sia, a un tempo, il tragico e la sua Aufhebung non costituisce solamente la traduzione figurale d’un principio logico universale, e nemmeno la mera controprova che quel principio logico sarebbe all’opera anche nella concretezza dei rapporti etici. La scissione tragica della bella eticità ha piuttosto la funzione di spiegare l’origine culturale di un movimento dello spirito “che si concluderà con l’autoaffermazione dell’individuo moderno autocosciente e padrone dei suoi atti”38; ed è per questo che il problema della tragedia non è che l’altra faccia della vicenda di quella sostanza che deve farsi soggetto, di cui Hegel narra il cammino appunto nella Fenomenologia: “Secondo il mio modo di vedere, che dovrà giusti36

37 38

Almeno in questo senso, sia pure ristretto rispetto all’insieme della sua complessa interpretazione hegeliana, mi pare del tutto condivisibile l’osservazione di Slavoj Žižek circa la lettura hegeliana di Antigone: “la lezione da trarre da questo punto di vista è che, quando ci imbattiamo in un testo che descrive la corruzione e la scissione di un’unità originaria, abbiamo sempre a che fare con una fantasia ideologica e retroattiva che oscura il fatto che questa unità originaria – questo stato armonioso che poi si è diviso in guerrieri e sacerdoti – non è mai esistita, che essa è una proiezione retrospettiva generata dal processo di scissione”. Cfr. S. Žižek, Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico. Libro I (2012), trad. it di C. Salzani, W. Montefusco, Ponte alle Grazie, Milano 2013, p. 580. G. Steiner, Le Antigoni, cit., p. 39. P. Vinci, L’Antigone di Hegel, cit., p. 33.

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Dialettica e interpretazione

ficarsi proprio attraverso la presentazione del sistema, tutto dipende da questo: cogliere ed esprimere il vero non come sostanza, ma anzi propriamente come soggetto”39. In altre parole: se Hegel, nelle varie configurazioni sistematiche assunte dal suo pensiero, potrà intendere il tragico come conflitto di potenze etiche di pari livello, e non già come lotta impari fra uomini e dèi, ciò è anche dovuto al fatto che per lui il tragico, in quanto dialettica, va strappato dall’abbraccio del sublime (Erhabenes), e anzi deve consistere proprio nella esemplare Aufhebung del sublime stesso, in nome della continuità fluida del movimento dialettico. Ne va del superamento della cattiva infinità e della possibilità di conferire un senso alla dinamica della coscienza, cui spetta la fatica più grande: ritrovare se stessa nel proprio altro. Vale a dire, come si osservava in apertura: la coscienza deve imparare a considerare la propria infelicità come momento di una realtà spirituale più grande; un momento insieme conservato e rielaborato nell’esperienza del lutto come emblema del tragico cristiano, che è davvero 39

FdS, p. 13 (GW IX, p. 18). – La scelta di rendere in questo modo il tedesco “das Wahre nicht als Substanz, sondern ebensosehr als Subjekt aufzufassen” ha suscitato qualche perplessità in coloro che – seguendo fra l’altro la versione di Enrico De Negri – ritengono accidentale la mancanza dell’avverbio nur (che solo, a rigore, consentirebbe di collocare sullo stesso piano Substanz e Subjekt). Il passo è reso particolarmente controverso anche dalla equivocità di das Wahre, che esprime notoriamente nell’opera sia per esempio la dimensione di eticità sostanziale dello spirito greco, sia l’elemento concettuale in cui si muove il soggetto del sapere assoluto. Mi ripropongo di lavorare, in vista della prossima edizione riveduta della mia traduzione della Fenomenologia, per una migliore resa italiana di ebensosehr e per una attenuazione dell’avversativa (probabilmente resa enfatica dal “ma anzi”, che accentua troppo la contrapposizione). Rimango tuttavia convinto che il riconoscimento della convergenza articolata dei concetti di sostanza e soggetto, cui è orientato l’intero cammino fenomenologico, possa avvenire solamente sul piano della soggettività (certo una soggettività dialettica e non rigida); in questo, confortato anche dalla più recente opzione di Terry Pinkard, che nella sua versione americana (disponibile on line alla pagina http://terrypinkard.weebly.com/phenomenology-of-spirit-page.html) traduce così il passo in questione: “everything hangs on apprehending and expressing the true not as substance but rather even more as subject”. Fatte queste doverose precisazioni, non ritengo peraltro che la differenza di traduzione possa incidere significativamente sulla tesi proposta in questo contributo.

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Gianluca Garelli

il senso del Logos incarnatosi nella realtà effettiva. Questo può ancora insegnare all’interprete odierno anzitutto quel passo molto famoso della ‘Prefazione’ che, quasi come ekphrasis di un’ideale scena di Deposizione o di Compianto, recita così: La morte, se così vogliamo chiamare quell’ineffettività, è la cosa più terribile, e tenere fermo ciò che è morto è quanto richiede la massima forza. […] Ma la vita dello spirito non è quella che ha soggezione al cospetto della morte e si conserva intatta dalla devastazione, bensì quella che sopporta la morte e che in essa si mantiene. Lo spirito conquista la propria verità solamente ritrovando se stesso nell’assoluta lacerazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo, come quando di qualcosa noi diciamo “questo è nulla”, o “è falso”, e, così liquidatolo, ce ne allontaniamo per passare a qualcosa d’altro; lo spirito anzi è questa potenza solamente in quanto guarda in faccia il negativo, si sofferma presso di esso. Questo soffermarsi è la forza magica che volge il negativo nell’essere40.

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FdS, p. 24 (GW IX, p. 27).

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–V–

Aristofane come figura dello spirito

1. I testi hegeliani che trattano della commedia, direttamente (opere a stampa) o indirettamente (corsi di lezioni), sono numerosi1, e in essi alla figura di Aristofane (450 a.C. circa-388 a.C. circa)

1

Per una ricognizione generale sul tema del comico in Hegel si vedano, oltre agli studi a vario titolo citati nel seguito del presente contributo: G. Schapiro, Hegel’s Dialectic of Artistic Meaning, in «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», 35, 1976/77, pp. 23-35; A. Paolucci, Hegel’s Theory of Comedy, in Comedy. New Perspectives, a c. di M. Charney, «New York Literary Forum» 1, 1978, pp. 89-108; H. Schneider, Hegels Theorie der Komik und die Auflösung der schönen Kunst, in «Jahrbuch für Hegelforschung», 1, 1995, pp. 81110 (in particolare sulla relazione fra teoria del comico e commedia, e sul rapporto di quest’ultima con il problema della fine dell’arte); S.C. Law, Hegel and the Spirit of Comedy. Der Geist der stets verneint, in Hegel and Aesthetics, a c. di W. Maer, Suny Press, Albany 2000, pp. 113-130 (con relative indicazioni bibliografiche); M.W. Roche, Tragedy and Comedy: A Systematic Study and a Critique of Hegel, Suny Press, Albany 1998; Id., Hegel’s Theory of Comedy in the Context of Hegelian and Modern Reflections on Comedy, in «Revue internationale de Philosophie», 221, 2002/03, pp. 411-430; A. Gethmann-Siefert, Drama oder Komödie? Hegels Konzeption des Komischen und des Humors als Paradigma der romantischen Kunstform, in Die geschichtliche Bedeutung der Kunst und die Bestimmung der Künste, a c. di A. Gethmann-Siefert, L. De Vos e B. Collenberg-Plotnikov, Fink, München 2005, pp. 175-187 (sul comico come transizione dall’arte classica all’arte romantica); F. Valagussa, La commedia e il negativo, in «aut aut», 364, 2014, pp. 47-62; e soprattutto K. De Boer, The Eternal Irony of the Community: Aristophanian Echoes in Hegel’s “Phenomenology of Spirit”, in «Inquiry», 52, 2009, pp. 311-334, che contiene indicazioni significative circa l’importanza di Aristofane (Lisistrata e Donne al parlamento soprattutto) non solo per le pagine della Fenomenologia dedicate alla commedia, ma anche per quelle dedicate più esplicitamente alla tragedia, specialmente là dove la donna è indicata da Hegel come “eterna ironia della comunità”. Per un inquadramento cfr. infine anche F. Iannelli, Oltre Antigone. Figure della soggettività nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, Carocci, Roma 2006, pp. 43-46; e K. Düsing, La teoria hegeliana della religione artistica e della ‘morte’ dell’arte, in Arte, religione e politica in Hegel, a c. di F. Iannelli, Ets, Pisa 2013, pp. 79-99 (in particolare pp. 85-86 e 92-93).

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spetta sempre una posizione centrale. Si può anzi aggiungere che l’interpretazione della commedia antica proposta da Hegel, in particolare nelle sue lezioni di estetica e di storia della filosofia, esercitò un’influenza notevole in modo più o meno esplicito nel corso di tutto il XIX secolo, non solo sull’estetica e sulla filosofia in generale, ma anche sulla letteratura filologica dedicata al commediografo greco2. L’esempio più significativo, in proposito, è quello costituito da un uditore delle lezioni hegeliane, Heinrich Theodor Rötscher (1803-1871), poi docente ginnasiale a Bamberg e fecondo pubblicista su argomenti di estetica e drammaturgia, che nel 1827 diede alle stampe uno studio dal titolo significativo: Aristophanes und sein Zeitalter. Eine philologisch-philosophische Abhandlung zur Alterthumsforschung. Erano i tempi della più fervida attività didattica dello Hegel berlinese, e forse non sarà inutile ricordare che alla “trattazione filologico-filosofica” di Rötscher avrebbe di lì a poco attinto anche il giovane Kierkegaard per la sua dissertazione su Socrate e il concetto di ironia, pubblicata nel 18413. Per certi aspetti, è difficile sottrarre la lettura del lavoro di Rötscher all’impressione di una certa salmodiante ‘sistematica’ di conio hegeliano: a partire dall’assunto generale che, per una modernità nella quale l’accesso al mondo non pare più garantito dalla fiducia nell’immediatezza del reale (fiducia a cui ancora poteva attingere la sensibilità degli antichi), ogni ambito dell’esperienza umana sarà mediato dal pensare – compreso quello della poesia drammatica e in particolare della commedia. Di quest’ultima sarà dunque necessario procedere a una “deduzione” che ne giustifichi teoricamente i vari momenti concettuali, in una chiave di filosofia della storia assiologicamente 2

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Cfr. M. Holtermann, Der deutsche Aristophanes. Die Rezeption eines politischen Dichters im 19. Jahrhundert, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2004, pp. 109-110 (e, in generale, tutto il cap. IV di questo studio). Come osserva K. De Boer, The Eternal Irony of the Community, cit., pp. 325 ss., è merito di Holtermann l’aver suggerito (ancorché senza approfondimento) l’importanza di Friedrich Schlegel, e in particolare di un saggio del 1794 sul ruolo della donna nella letteratutra greca, per comprendere l’influenza esercitata da Aristofane su Hegel. Cfr. S. Kierkegaard, Sul concetto di ironia in costante riferimento a Socrate (1841), a c. di D. Borso, Rizzoli, Milano 1995.

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orientata. Eppure, al di là di ogni residuo scolastico, in Rötscher un’idea propriamente hegeliana sembra applicarsi con frutto allo studio di Aristofane: la grandezza dei protagonisti della storia dello spirito si lascia desumere anzitutto dalla loro capacità di cogliere e pensare in profondità il proprio tempo (“wie tief sie ihre Zeit ergreiffen”)4. Le considerazioni seguenti prenderanno dunque le mosse da un assunto: pur senza sminuire in alcun modo l’importanza del ruolo esercitato da altri autori nell’elaborazione dell’idea hegeliana del comico – e penso in particolare, come si vedrà brevemente più avanti, a Plauto e soprattutto a Shakespeare (sarà anzi proprio un passo di ardua interpretazione contenuto nella Fenomenologia dello spirito a offrire in proposito un’indicazione decisiva) –, non mancano le ragioni per affermare che la teoria della commedia elaborata da Hegel nelle sue varie formulazioni (a partire almeno dal saggio del 1802-1803 su Die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Naturrechts)5 è intimamente segnata dalla sua profonda conoscenza di Aristofane: personaggio che agli occhi del filosofo di Stuttgart definisce e incarna idealmente il ruolo storico-spirituale di un intero

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5

H.Th. Rötscher, Aristophanes und sein Zeitalter. Eine philologisch-philosophische Abhandlung zur Alterthumsforschung, Vossische Buchhandlung, Berlin 1827, p. 1. Il riferimento implicito, ovviamente, è alla ‘Prefazione’ dei Lineamenti di filosofia del diritto: “ciascuno è un figlio del suo tempo; così anche la filosofia è il tempo di essa appreso in pensieri [ihre Zeit im Gedanken erfaßt]” (LFD, p. 15; GW XIV, p. 15). Bisognerà almeno ricordare qui che O. Pöggeler (Hegels Idee einer Phänomenologie des Geistes, Alber, Freiburg im Breisgau-München 19732, p. 296) ha sottolineato la diversa e peculiare valutazione della commedia offerta da Hegel nelle pagine della Fenomenologia, rispetto al saggio del 1803 Über die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Naturrechts. A propria volta H.S. Harris, in un testo che si avrà qui ripetutamente occasione di citare, pur condividendo l’opportunità di leggere i due testi in una prospettiva di sviluppo, insiste invece sulla possibilità di conciliarne sostanzialmente il contenuto, ben consapevole peraltro che a Hegel nella Fenomenologia sta a cuore mostrare che la commedia è la forma di espressione artistica maggiormente autoconsapevole, cioè più dotata di autocoscienza (H.S. Harris, Hegel’s Ladder. II. The Odyssey of Spirit, Hackett Publishing Company, Indianapolis-Cambridge 1997, p. 647, nota 77). Sul punto cfr. anche H. Schneider, Hegels Theorie der Komik, cit., p. 81.

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genere letterario, tanto che gli autori successivi (con le loro opere) addirittura non sarebbero più definibili come “comici” in senso altrettanto proprio. Di qui dunque la tesi generale del presente contributo: nella Fenomenologia dello spirito Aristofane rappresenta una sorta di ‘figura dello spirito’, in quanto incarna esemplarmente un momento storico-ideale della coscienza in cammino verso la propria autoconsapevolezza. Del resto, come ha fatto osservare Peter Szondi, quando Hegel si occupa di letteratura non è mai semplicemente in questione la vicenda di un singolo genere, bensì un’intera “filosofia dell’opera d’arte e della storia dell’arte e della poesia”6; filosofia che, in quanto tale, coinvolge a vario titolo l’intero divenire della Geistesgeschichte. Non per nulla “tutte le commedie di Aristofane per Hegel sono politiche”7, il che significa: il filosofo era ben consapevole del fatto che il significato profondo del riso suscitato dalla commedia di Aristofane non andava riposto in un’ideale dell’ilarità intesa come distrazione (quasi nel senso di un moderno divertissement estetico, o magari cabarettistico). Piuttosto Aristofane nella sua opera agiva da autentico cittadino ateniese, come un patriota – secondo quanto suggeriscono anche le lezioni hegeliane di storia della filosofia: Questo poeta, che gettò lo scherno su Socrate nella maniera più amara e beffarda, non fu un volgare buffone o un basso giullare che si sia fatto giuoco d’ogni cosa più sacra e migliore, e abbia tutto sacrificato ai suoi frizzi pur di far ridere gli Ateniesi. Anzi, tutto ha per lui un significato assai più profondo e le sue celie celano nel loro intimo una grande serietà. Egli non voleva semplicemente deridere; e, per giunta, deridere cose rispettabili sarebbe stata cosa affatto stupida e melensa. È ben misera l’arguzia, che è priva di sostanzialità, che non si fonda sulle contraddizioni insite nelle cose stesse; e l’arguzia di Aristofane è tutt’altro che superficiale ed estrinseca. In generale non è possibile colpire esteriormente con lo scherno ciò che non abbia in 6

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Cfr. P. Szondi, La teoria hegeliana della poesia (1991), trad. it. di A.M. Marietti, introd. di G. Garelli, Einaudi, Torino 2007, p. 10. M. Holtermann, Der deutsche Aristophanes, cit., p. 114.

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sé il proprio scherno, la propria ironia. Infatti il comico consiste nel mostrare un uomo o una cosa quali si dissolvono in se stessi nella loro albagia; e se la cosa non contiene in sé la sua contraddizione, il comico è superficiale e senza base. Quando dunque Aristofane si diverte alle spalle del demos, vi è in fondo allo scherno una grande serietà politica; e tutte le sue commedie stanno ad attestare ch’egli era un nobile, eccellente, schietto cittadino ateniese. Ci sta dinnanzi un autentico patriota, che, sebbene sapesse d’incorrere nella pena di morte, non esitò in una delle sue commedie a consigliar la pace. In lui, patriota intelligentissimo, si esprime la serena letizia d’un popolo sicuro di sé che offre se stesso in spettacolo8.

Già nelle lezioni degli anni venti (in particolare la Philosophische Weltgeschichte 1822-23 e la Philosophie der Kunst 1823) si può peraltro riscontrare quella considerazione decisiva successivamente registrata anche dall’Estetica Hotho: Questo è nell’insieme il concetto dell’antica commedia classica, quale ci è conservata nelle opere di Aristofane. A tale proposito si deve nettamente distinguere se i personaggi in azione sono comici per se stessi oppure solo per gli spettatori. Solo nel primo caso abbiamo il vero comico, in cui fu maestro Aristofane. Conformemente a questo punto di vista, un individuo si manifesta come ridicolo solo quando mostra di non prendere sul serio la serietà stessa del suo fine e della sua volontà. In tal modo questa serietà comporta sempre per il soggetto stesso la propria distruzione, perché questo non può impegnarsi di per sé in alcun

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LStF II, pp. 86-87 (HW XVIII, pp. 481-482). Su questa immagine patriottica di Aristofane si sofferma M. Schulte, Die “Tragödie im Sittlichen”. Zur Dramentheorie Hegels, Fink, München 1992, pp. 209-281 – il quale però non si concentra particolarmente sulla Fenomenologia dello spirito, ed è utile per un inquadramento del tema soprattutto nel saggio sul Diritto naturale e nell’Estetica. Si vedano in generale anche M.W. Roche, Tragedy and Comedy. A Systematic Study and a Critique of Hegel, cit.; e Id., Hegel’s Theory of Comedy in the Context of Hegelian and Modern Reflections on Comedy, cit.

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superiore interesse universalmente valido che conduca a una discordia essenziale e, se lo fa, porta ad apparenza solo una natura che con la sua presente esistenza ha già annullato immediatamente ciò che pare voglia effettuare, cosicché risulta che non ne è affatto compenetrata9.

È stata una capacità peculiare del popolo ateniese del V secolo quella di saper ridere di se stesso. Non può sfuggire il profondo significato speculativo di questa osservazione: mentre la tragedia infatti esigeva la sconfitta e da ultimo il soccombere dell’eroe, in essa caratterizzato come individuo nobile e capace di incarnare un pathos in modo fuori dall’ordinario, la vicenda della commedia ha altri protagonisti, che esigono una risoluzione accettabile, permettendo in questo modo la stessa sopravvivenza della vicenda (cioè la continuità della storia). Ma ciò può avvenire solo là dove il riso sia generalizzato a tutte le componenti del dramma, e non riguardi esclusivamente lo spettatore in quanto tale: in Aristofane anche l’eroe comico ride, e non è mero oggetto di scherno altrui. Il verificarsi delle condizioni idonee per tale evento eccezionale, nella storia dell’arte e dell’estetica, costituisce una peculiarità della storia ateniese (ed è proprio questo, ritengo, a suscitare il particolare interesse di Hegel). La commedia di Aristofane cioè rispecchia in quale misura la “passione politica” determini in maniera del tutto peculiare la “turbolenta democrazia ateniese” (assai più che la polis in generale: tanto è vero che “nessuna delle innumerevoli Città-stato della Grecia ha prodotto la commedia o al-

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Est, p. 1363 (HW XV, pp. 581-582). Per il corso del 1823, cfr. EH23, p. 301 (VPhK, p. 311), ove si legge fra l’altro, dopo la trattazione della commedia di Aristofane, lapidariamente: “Nel comico l’arte ha la sua fine”. Su questo punto specifico cfr. S.C. Law, Hegel and the Spirit of Comedy, cit., p. 118. – Una certa prossimità con la trattazione del comico nella Fenomenologia può invece trovarsi nelle lezioni del 1820-1821, con particolare riferimento a Socrate e al principio dell’interiorità: cfr. H. Schneider, Hegels Theorie der Komik, cit., p. 107. L’idea di Aristofane come “poeta politico” e “patriota” Hegel aveva potuto rinvenirla peraltro già nei primi traduttori tedeschi delle commedie aristofanee, Johann Justus Herwig (Nuvole, 1772) e Johann Georg Schlosser (Rane, 1783): cfr. ibidem, pp. 94-95.

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cunché di simile”10). E se è vero che, per la situazione politicoculturale ateniese della fine del V secolo, lo spirito della libertà soggettiva sembrava a Hegel costituire ancora qualcosa di estraneo11, non meno vero è che proprio con la commedia alla coscienza si manifesta qualcosa di decisivo. Aristofane potrà così rappresentare agli occhi del filosofo il culmine della classicità e, nel contempo, colui che prepara lo spirito a qualcosa di nuovo: e potrà farlo proprio in virtù del fatto che nella sua figura, come in un punto estremo, si concentra il portato della grande stagione storico-spirituale della gloria ateniese. Insieme con Euripide, Aristofane è il drammaturgo meglio conservato della grecità classica: egli – come è stato osservato – “rappresenta, con sorniona pienezza, l’Atene del maturo V secolo: nessun altro autore ne offre un’immagine così arguta, aggraziata, sommessamente sofferta”. Che sia proprio Aristofane – le cui commedie erano “elementi costitutivi della vita ateniese al tempo della guerra del Peloponneso”12 – a fornire, una volta per sempre, “la misura del classico” è dunque un’affermazione che, proprio in senso hegeliano, può diventare straordinariamente vera13. Ma non si tratta, con ciò, di riproporre un classicismo di maniera, o un’apologia idealistica e idealizzata della città elogiata dal Pericle descritto da Tucidide – della potenza politica di Atene non meno che della sua stupefacente attività artistica, letteraria e filosofica, che la vide teatro dell’attività di Fidia, Euripide, Anassagora e infine Socrate. Qui si tratta di capire, piuttosto, in che senso proprio la Atene del conflitto democratico, drammaticamente coinvolta nella guerra del Peloponneso, sia al centro dell’attenzione di Hegel, e in particolare della Fenomenologia; e ancora, se mai qui di ‘classicismo’ si può parlare, in che misura a Hegel tale norma sia data da Aristo10

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B. Marzullo, ‘Premessa’ ad Acarnesi, in Aristofane, Le commedie, a c. di B. Marzullo, Newton Compton, Roma 2003, p. 3. Cfr. P. Vinci, L’Antigone di Hegel. Alle origini tragiche della soggettività, in Antigone e la filosofia, a c. di P. Montani, Donzelli, Roma 2001, pp. 31-46. F.H. Sandbach, Il teatro comico in Grecia e a Roma (1977), trad. it. di M. De Nonno, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 25. B. Marzullo, Introduzione alla seconda edizione, in Aristofane, Le commedie, cit., p. XLIII.

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fane non meno che dai tre grandi tragici, ai quali si è invece soliti riferire pregiudizialmente la sua preferenza14. Rispetto a tanta enfasi collocata sul ruolo della tragedia nella presunta sanzione hegeliana della fine dell’arte, e anzi forse proprio in conseguenza di essa15, sarà allora innanzitutto opportuno richiamare l’attenzione sulla circostanza che già nella Fenomenologia dello spirito la commedia costituisce il termine ultimo (il telos) dell’intero processo dell’espressione artistica, e con questo un passo decisivo verso la Aufhebung dell’estetico in generale: in questo quadro alla poesia comica non spetterà affatto un significato spirituale sottovalutabile, rispetto a quello della tragedia16. Allo scopo di argomentare la tesi generale proposta circa il ruolo di Aristofane nella Fenomenologia dello spirito, il presente contributo si proporrà dunque, nel seguito, un duplice intento: (a) esaminare la presenza concreta di Aristofane nell’opera del 1807, individuandone il più possibile in modo puntuale le tracce nei quattro capoversi in essa esplicitamente dedicati al fenomeno della poesia comica;

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Esemplare di questo approccio interpretativo, ampiamente condiviso, è un’osservazione di G. McFadden (il cui lavoro sul comico, non limitato alla teoria hegeliana, si concentra peraltro soprattutto sull’estetica Hotho): “Hegel’s ideas on comedy are perhaps not so original as his theory of tragedy, but they pull things together in his powerful way” (G. McFadden, Discovering the Comic, Princeton U.P., Princeton 1982, p. 89). Su questo punto cfr. infra, cap. IX di questo volume. Cfr. in proposito ancora le osservazioni di S.C. Law, Hegel and the Spirit of Comedy, cit., pp. 113-114; nonché J. Loewenberg, Hegel’s Phaenomenology: Dialogues on the Life of Mind, Open Court, La Salle 1965, p. 331. L’insufficiente ponderazione del rapporto fra Hegel e Aristofane è stata lamentata da W. Desmond, Beyond Hegel and Dialectic. Speculation, Cult, and Comedy, Suny Press, Albany 1992 (in particolare al cap. VI: ‘Can philosophy laugh at itself? On Hegel and Aristophanes – With a Bow to Plato’, pp. 301-342). – Per quanto riguarda più strettamente l’attenzione al ruolo del comico nella Fenomenologia dello spirito, fa infine positivamente eccezione soprattutto il secondo tomo del monumentale commentario di H.S. Harris, Hegel’s Ladder. II. The Odyssey of Spirit, cit. (pp. 632-638), che contiene una ricostruzione preziosa della presenza di Aristofane nei quattro capoversi della Fenomenologia dedicati da Hegel alla commedia, nel capitolo sulla ‘Religione’: cfr. FdS, pp. 486-489 (GW IX, pp. 397-399).

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(b) specificare la rilevanza filosofica del comico in tale contesto speculativo17: tale rilevanza ha a che fare con la circostanza che la commedia autentica, a detta di Hegel, apparve quando i greci cessarono di essere emozionalmente soddisfatti dell’idealità del bello. Sulla base di queste premesse, ritengo potrebbe infine rivelarsi più agevole comprendere la funzione riservata alla commedia nel futuro sistema della filosofia hegeliana, in riferimento alla decisiva questione della negazione18.

2. Per essere adeguatamente compresa, la trattazione del comico contenuta nella Fenomenologia dello spirito esige qualche elemento di contestualizzazione all’interno dell’ambito più generale costituito dalla sezione dedicata all’arte spirituale, nel capitolo sulla ‘Religione’. Come è stato ripetutamente osservato, la preminenza e il ruolo decisivo attribuito in questa sede alla poesia tragica non dipende da un astratto giudizio di valore, né da una preferenza propriamente critico-estetica, bensì dalla considerazione per cui alla tragedia classica, nella ricostruzione hegeliana, spetta di realizzare dialetticamente il compito storico incarnato nel mondo dell’arte vivente19. Si tratta peraltro di individuare in breve almeno alcuni fra gli argomenti addotti qui da Hegel per spiegare il ruolo della tragedia greca nel suo legame con l’eticità classica in generale, nonché le ragioni della loro Aufhebung. Dirò subito che, a mio modo di vedere, queste ragioni non tanto suggeriscono un rinnovamento interno al genere della poesia tragica, cioè la strada della distinzione fra tragico antico e tragico moderno (quella poi battuta, tanto per intendersi, da Kierkegaard e in seguito da gran parte della filosofia del Novecento20), quanto piuttosto invitano a riflettere sulla dialet-

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Cfr. W. Desmond , Beyond Hegel and Dialectic, cit., p. 321. Cfr. A. Paolucci, Hegel’s Theory of Comedy, cit., pp. 106-107 e 91. Sul rapporto fra commedia e negazione cfr. anche in generale S.C. Law, Hegel and the Spirit of Comedy, cit. Fra le varie ricostruzioni della questione, cfr. A. Gethmann-Siefert, Einführung in Hegels Ästhetik, Fink, München 2005, p. 211. Mi permetto di rimandare, su questo punto, a G. Garelli, L’ambiguo destino

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tica implicita nella successione storica dei generi poetici – secondo quella “filosofia della storia della poesia” alla quale, citando Szondi, si accennava in precedenza21. A questo scopo è opportuno prendere le mosse dall’analisi di una pagina non facile della Fenomenologia dello spirito, che mi pare da intendersi soprattutto a partire dalla comprensione della centralità attribuita alla tragedia nel processo di lenta emergenza della soggettività che impronta il congedo dal mondo greco classico22. Il passo in questione si riferisce alla Pizia, sacerdotessa di Apollo a Delfi, e all’oscurità del linguaggio dell’oracolo. Hegel vi introduce tuttavia un’analogia inaspettata: Questa sacerdotessa, per bocca della quale parla il bel dio, non è per nulla diversa dalle ambigue sorelle del destino che, con le loro promesse, inducono al delitto, e che nel linguaggio bifido di ciò che esse spacciano per sicuro, ingannano colui che s’è fidato del senso manifesto. Per cui, la coscienza che sia insieme più pura di quest’ultima, che crede alle streghe, e più assennata e profonda di quella prima, che presta fede alla sacerdotessa e al bel dio, al cospetto della rivelazione, fatta dallo spirito del padre stesso, circa il delitto che lo ha assassinato, è irresoluta a vendicarsi, e va alla ricerca di altre prove ancora: e

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della catarsi, in Filosofie del tragico, a c. di G. Garelli, B. Mondadori, Milano 2001, pp. 1-23; nonché in generale a C. Gentili, G. Garelli, Il Tragico, Il Mulino, Bologna 2010. In questo senso pare piuttosto significativo che proprio Szondi, riproponendo in chiave dialettica il tema del passaggio dal tragico antico al tragico moderno, avesse altrove individuato nelle variazioni storiche della tragedia di Edipo (e non già nel paradigma di Antigone, prevalente in Hegel) il punto di riferimento privilegiato per la filosofia e l’ermeneutica del tragico: cfr. P. Szondi, Saggio sul tragico (1961), a c. di F. Vercellone, pref. di S. Givone, Einaudi, Torino 1996. La prevalenza in Szondi del modello di Edipo su quello di Antigone, e dunque della frattura etico-psicologica rispetto a quella consistente nel conflitto di potenze universali, era stata già rilevata da C. Cases, Introduzione a P. Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950, trad. it. di G. Lunari, Einaudi, Torino 1979, p. XXXIII. Come ho cercato di argomentare in G. Garelli, Il servo senza il signore, in Il destino di Prometeo. Razionalità, Tecnica, Conflitto, a c. di L. Sanò, in «Paradosso», Il Poligrafo, Padova 2009, pp. 109-119; nonché più diffusamente in Id., Lo spirito in figura, Il Mulino, Bologna 2010, cap. VII.

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ciò in ragione del fatto che quello spirito rivelatore potrebbe anche essere il demonio23.

Il responso pitico e il linguaggio oracolare sono qui dunque paragonati alla profezia di quelle streghe, “sorelle del destino”, che nell’apertura del Macbeth di Shakespeare (atto I, scena III) inducono alla rovina l’ambizioso protagonista, il quale ne maledirà infine il linguaggio “bifido” e ambiguo (atto V, scena VII)24. Ma i riferimenti a Shakespeare non sono finiti: poco dopo l’allusione è infatti all’Amleto (atto I, scena V), e precisamente al passo in cui si manifesta lo spirito paterno – di lì a poco in Amleto, tuttavia (atto II, scena II), si insinuerà il dubbio che quanto gli appare sia uno spirito demonico. In questione sono sempre gli effetti pericolosi dell’ambiguità del linguaggio, rispetto a cui la coscienza di chi presta fede al responso della Pizia non pare tanto diversa da quella che si lascia irretire dalle parole delle streghe. E tuttavia Hegel dice testualmente che quest’ultima non contiene più quell’elemento di purezza che ancora si poteva riscontrare nella prima, essendo ormai traviata dall’ambizione – passione che preclude all’usurpatore ogni possibilità di riscatto e di salvezza25. Certo, a differenza di quella di Macbeth, la coscienza di Amleto si mostra “più assennata”, perché non è preda di quella passione negativa. Per contro, Amleto può indicare emblematicamente la strada psicologica e riflessiva intrapresa dalla coscienza tragica moderna, condannata al dubbio e all’inazione. Ma non sarà a una coscienza paralizzata nell’agire che spetterà il compito di sobbarcarsi il faticoso cammino dello spirito. Di qui appunto l’idea del generale ‘carattere di passato’ proprio della tragedia successiva al grande Sofocle, prima ancora che dell’arte tout court; e di qui pure la necessità, anche per comprendere il tragico moderno, di spiegare la funzione storica della commedia antica.

23

FdS, pp. 482-483 (GW IX, pp. 394-395). Su questa Zweizüngigkeit del linguaggio tragico nella Fenomenologia cfr. E. Caramelli, Destino e rappresentazione. Il linguaggio tragico nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, in «Annali del Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze», 16, 2010, in particolare pp. 75-79. 25 Est, pp. 1370-1371 (HW XV, p. 560). 24

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Nella sua breve ma intensa vicenda, la tragedia classica ha inoltre contribuito in maniera determinante alla razionalizzazione della coscienza (e con questo al primo, faticoso emergere della soggettività), determinando fra l’altro la crisi irrimediabile del politeismo olimpico, se è vero quello che osserva Hegel, secondo cui addirittura già Eschilo, nelle Eumenidi, avrebbe attribuito ad Apollo e all’Erinni una “mancanza di effettività” dietro la quale si manifesta sempre più la sostanziale contraddittorietà delle figure divine. Si tratta di quel processo registrato, nell’epoca tragica dei greci, già da Senofane, e poi da Platone: Questo destino porta a compimento lo spopolarsi del cielo […]. La cacciata di simili rappresentazioni prive di essenza, che veniva sollecitata da alcuni filosofi dell’antichità, incomincia dunque già in generale nella tragedia, perché in essa la suddivisione della sostanza è dominata dal concetto, per cui l’individualità è l’individualità essenziale, e le determinazioni sono i caratteri assoluti. L’autocoscienza che è rappresentata nella tragedia conosce e riconosce pertanto un’unica potenza suprema […]. Ma anche i personaggi della stessa essenza divina, così come i caratteri della sua sostanza, convergono nella semplicità di ciò che è privo di coscienza. Rispetto all’autocoscienza, questa necessità si determina come quella potenza negativa per cui tutte le figure che entrano in scena non riconoscono se stesse in tale potenza, bensì vi trovano piuttosto il proprio declino. Il Sé compare qui solamente come attribuzione dei caratteri, ma non come il termine medio del movimento. Ma l’autocoscienza, la semplice certezza di sé, di fatto è la potenza negativa, l’unità di Zeus, dell’essenza sostanziale, e della necessità astratta: è l’unità spirituale in cui tutto ritorna26.

Così, mentre il coro tragico resta in qualche modo inchiodato alla sua funzione, che lo vincola a una compassione priva di attività e alla convinzione della sostanziale estraneità della “vita divina”,

26

FdS, p. 485-486 (GW IX, pp. 396-397).

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nell’individualità umana si fa lentamente strada il riconoscimento che la sorte di dèi ed eroi dipende dalla coscienza. È un processo di razionalizzazione destinato a sfociare nella distruzione del principio che rendeva possibile la tragedia classica: D’altra parte, nella misura in cui la coscienza coopera all’azione e appartiene ai caratteri, questa unificazione – poiché quella vera, fra il Sé, la sostanza e il destino, ancora non si dà – è un’unificazione esteriore, è un’ipocrisia istrionica: l’eroe che appare di fronte allo spettatore qui si disgrega nelle due componenti della sua maschera e dell’attore, cioè nella persona e nel Sé effettivo. L’autocoscienza degli eroi deve venir fuori dalla sua maschera, facendosi avanti e presentandosi per come essa si sa, come il destino tanto degli dèi del coro quanto delle stesse potenze assolute; ed essa allora non è più separata dal coro, cioè dalla coscienza universale27.

La caduta della maschera è allora a un tempo causa e segno del venir meno dell’effetto tragico. Spetta all’anti-eroe comico di “levare” l’ipocrisia istrionica, in un processo che coinvolge il significato politico del teatro, costretto a mutare in corrispondenza delle nuove condizioni storiche. In pochi decenni, sembra sostenere così Hegel, è il mondo della polis ateniese a essere drasticamente cambiato: gli dèi e gli eroi hanno mostrato la loro eguale impotenza al cospetto di Ananke; ma la stessa potenza del fato non potrà più rappresentarsi in termini individuali (altrimenti essa finirebbe per assumere caratteri e sembianze di una singola divinità o di un singolo eroe: cioè assumerebbe di nuovo una maschera). Pertanto, non si tratta ormai che di riconoscere il predominio di un principio astratto28. 27 28

FdS, p. 486 (GW IX, pp. 397). Tale principio, si potrebbe aggiungere, trova in Aristofane la propria emblematica sanzione in uno scambio di battute del tardo Pluto (risalente al 388 a.C.): “CREMILO – Come fa Zeus a comandare sugli dèi? | PLUTO – Coi soldi, ne ha di più!”. – Difficile, a questo proposito, non far correre il pensiero all’immagine con cui nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx definì a propria volta l’“etere” del concetto hegeliano: “il denaro dello spirito, il va-

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Ma qual è la forza effettiva che, nelle vesti di Ananke, obbliga dèi ed eroi a muoversi e da ultimo a soccombere, se non proprio la poesia intesa come prodotto della libera attività umana consapevole di sé? La commedia di Aristofane condivide con la sofistica e con Socrate un mondo in fase di potente e irreversibile razionalizzazione, in cui il pensare ha ricondotto le vicende divine ed eroiche a una trama del tutto umana. ‘Smascheramento’, in questo senso, può anche significare che quanto spinge ad agire è spiegabile in termini di tornaconto personale o di banalità delle circostanze: quel “destino” che ancora infondeva al tragico un alone di sacralità viene così ormai in qualche modo demitizzato29. Nel mondo dell’arte spirituale l’attività poetica dell’autocoscienza si fa chiara a se stessa – e il suo esito estremo è appunto la commedia, in cui alla nascente soggettività fa da contrappeso la definitiva perdita della Sittlichkeit, il venir meno della dimensione ingenua dell’ethos30. Per questo motivo la fine dell’“ipocrisia” che ha luogo nel comico, il fatto cioè che l’attore comico sani quel divario della rappresentazione che è a fondamento del teatro tragico, non implica una pura e semplice coincidenza fra l’attore e il personaggio, come se il primo non facesse che recitare se stesso. “Al contrario, e in modo propriamente hegeliano,” come è stato osservato, “il divario che nella tragedia separava l’attore dal suo personaggio è trasposto in quest’ultimo: un carattere comico non è mai pienamente identificato con il suo ruolo, conserva

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30

lore speculativo ideale dell’uomo e della natura” – insomma, quell’elemento neutro e inodore che pensa di poter costituire la cifra (appunto) logica pura delle figure mondane (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, a c. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1968, p. 164). Su questo celebre e controverso passaggio cfr. W.R. Beyer, Die Rede vom “Geld des Geistes”, in «HegelJahrbuch», 1988, pp. 13-29; e M. Quante, “Die Logik ist das Geld des Geistes”. Zur Rezeption der Hegelschen Logik im Linkshegelianismus und der Kritik der pölitischen Ökonomie, in Hegel – 200 Jahre Wissenschaft der Logik, a c. di C. Wirsing, A.F. Koch, F. Schick e K. Vieweg, Meiner, Hamburg 2014, pp. 413432. Cfr. G. Vattimo, Introduzione all’estetica di Hegel, Giappichelli, Torino 1970, p. 83. Cfr. M.W. Roche, Tragedy and Comedy, cit., pp. 161 e 308. Su questo aspetto si può vedere utilmente anche il vecchio studio ‘hegeliano’ citato in apertura di H.Th. Rötscher, Aristophanes und sein Zeitalter, cit., pp. 48-49.

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sempre la capacità di osservarsi dall’esterno”: ed è proprio questo, come si vedrà, ciò che permette al cittadino di ridere di sé31. Quando Hegel parla della necessità che l’eroe si tolga la maschera, poco importa che egli citi o meno esplicitamente la sua fonte: in questione è il teatro di Euripide. Va detto che nella Fenomenologia, e in particolare nella sezione dello ‘Spirito’ dedicata alla bella eticità greca, Eschilo e Sofocle erano stati citati ben più esplicitamente (anche se a loro volta, come consueto nell’opera del 1807, mai per nome); mentre la stessa cosa non può forse dirsi di Euripide, autore che poteva evidentemente creare più di qualche imbarazzo in un contesto ultra-classicistico. Eppure a Hegel non sfugge per questo il suo ruolo decisivo. Al Sé (Selbst) ritratto da Euripide, la ragione della propria libertà sembra ancora oscura: nel suo rimanere in balia della propria passione e dei propri desideri, cioè in una condizione sostanzialmente privata, il personaggio della tragedia euripidea parla dunque il linguaggio della disintegrazione sociale della bella eticità32. Nelle sue tragedie infatti Euripide non acconsente più a trattare le passioni nei termini del pathos etico in cui l’universale si incarna nell’eroe, né tantomeno si riconosce nell’uso tradizionale del coro, che nella tragedia precedente conosceva o scorgeva passioni ignote all’eroe (e in tal senso il politeismo del paganesimo olimpico si conferma come la dimensione religiosa indispensabile alla tragedia classica: ma con Euripide tale dimensione mostra la corda). Da questo punto di vista, è sufficiente confrontare opere tragiche di contenuto mitologico affine, l’Orestea di Eschilo con l’Elettra di Euripide, per rendersi conto dell’enorme distanza che separa i due autori: alla base delle loro azioni tutti i personaggi euripidei non mostrano già, appunto, di riprodurre in modo compiuto dei pathe etici, bensì rivelano moventi assolutamente non-etici che semmai, alla peggio, pretendono di ammantarsi di ragioni etiche. In questo senso, Euripide potrebbe dunque presentarsi come una sorta di critico dell’ideologia ante litteram (almeno nel senso 31

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S. Žižek, Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico. Libro II (2012), trad. it. di C. Salzani, W. Montefusco, Ponte alle Grazie, Milano 2014, p. 89. M.W. Roche, Tragedy and Comedy, cit., pp. 159-160.

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etimologico di questa parola): ed è perciò che si è potuto parlare, a questo proposito, di una “consciously hypocritical tragedy”33. Del resto, si ricorderà che proprio un confronto ‘epocale’ fra Eschilo ed Euripide era stato messo in scena dallo stesso Aristofane nelle Rane nel 405 a.C.: commedia che fu redatta nel pieno precipizio della situazione politica ateniese (la sconfitta di Egospotami è dell’estate di quell’anno, mentre la capitolazione nella guerra del Peloponneso sarebbe arrivata l’anno successivo). In questa commedia – l’unica, a quanto si sa, che godette dell’eccezionale privilegio di una replica – Aristofane non risparmia attacchi durissimi a Euripide, assimilandolo al sofista (v. 894: “EURIPIDE – …che io possa | perfettamente smantellare | gli argomenti che nel mio | dire affronto”) e in qualche modo prefigurandone l’empietà (vv. 887-890: “EURIPIDE – …sono diversi gli dèi che prego io. | DIONISO – Dèi personali, i tuoi? Uno stampo nuovo? | EURIPIDE – Proprio così”) – un’accusa che, di lì a poco, sarebbe toccata anche a Socrate. In generale, Aristofane attacca il gusto decadente, in senso morale ed estetico, della poesia euripidea: DIONISO – …hanno sconciato l’arte: gli danno un coro, e fini-

sce qui. Gli pisciano in grembo, alla tragedia, se mai gli tocca: un poeta coi coglioni, dove lo trovi più! (vv. 92-96). SERVO – Appena Euripide arriva quaggiù, si esibisce davanti ai mariuoli e i borsaioli, i parricidi e gli scassinatori: nell’Ade ce n’è una folla. Loro stanno a sentire i suoi ragionamenti storti, gli arzigogoli, le contorsioni e le capriole, si entusiasmano e gli danno il primo posto. Lui subito se ne va di testa: arraffa il trono, dove sedeva Eschilo (vv. 771 ss.).

Oltre che con Euripide, è evidente che Aristofane ce l’ha in generale con gli “innovatori” di quello che poi è stato chiamato ‘illuminismo’ ellenico: in una parola, come ha osservato Bruno Snell, con coloro che a suo dire costituiscono “una genia di chiacchieroni,

33

Cfr. H.S. Harris, Hegel’s Ladder. II. The Odyssey of Spirit, cit., pp. 632-633.

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di corruttori della gioventù e di buoni a nulla. Euripide, i Sofisti e Socrate (per quanto diversi siano) per Aristofane altro non fanno che insegnare con raffinata abilità affaristica ogni sorta di malizie e astuzie che sgretolano la semplice morale del bravo cittadino ateniese e l’antica e solida struttura dello Stato”. Dando forma a una critica che poi sarà ripresa anche dal Gorgia di Platone (501 sgg.), le Rane di Aristofane criticano insomma la prosaicità di contenuti che ha infine preso il posto della poesia elevata di Eschilo, e in generale un’edonizzazione di quell’arte che “dovrebbe fare degli uomini cittadini valenti e utili, e invece li corrompe”34. In questa insospettabile vicinanza fra l’anti-socratico Aristofane e l’ultra-socratico Platone incomincia peraltro a palesarsi la complessità di una vicenda che, come ha suggerito ancora Snell, intreccia il maestro della commedia antica alle vicende dell’intera storia dell’estetica occidentale, fino almeno alla Nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche. Per Aristofane, infatti, Euripide è poeta immorale e sofista cavilloso, eppure ha saputo mettere in scena l’irrazionalità umana proprio conducendo il discorso e la riflessione al suo termine assurdo, con esiti paradossalmente alternativi a quelli auspicati dall’ottimismo socratico: “la ragione fallisce invece di condurre al successo, come fa invece il demone di Socrate”. Proprio la compresenza e l’interazione, nel medesimo scenario, di Euripide, di Socrate e dei sofisti, pur nella loro diversità, autorizzava così Aristofane a mostrarne la comune matrice politica negli “atteggiamenti nichilistici” cui metteva capo il loro pensiero: attaccandoli, egli indicava il declino di quel mondo al quale il suo occhio conservatore guardava con nostalgia, se non addirittura con “atteggiamento romantico e reazionario”35.

3. La gestazione dialettica del passaggio dalla tragedia alla commedia è affidata, nella Fenomenologia dello spirito, a soli quattro 34

35

B. Snell, Aristofane e l’estetica, in La cultura greca e le origini del pensiero europeo (1948), trad. it. di V. Degli Alberti, A.M. Solmi Marietti, Einaudi, Torino 1963, pp. 166-167. Ibidem, pp. 175, 183-184, 187.

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capoversi: ed è proprio del contenuto di queste pagine che si occuperà il resto della mia proposta di lettura. La trattazione vera e propria della commedia incomincia in questo modo: La commedia ha dunque innanzitutto il lato per cui l’autocoscienza effettiva si presenta come il destino degli dèi. Queste essenze elementari, in quanto momenti universali, non sono un Sé e non sono nemmeno effettive. Esse sono certo provviste della forma dell’individualità, ma questa ne costituisce solamente un attributo immaginario, e in sé e per sé non conviene a tali essenze; il Sé effettivo non ha per propria sostanza e contenuto un simile momento astratto. Il Sé, il soggetto, è dunque elevato al di sopra d’un tale momento, come al di là d’una proprietà qualitativa singola, e proprio indossando questa maschera dà voce all’ironia di tale qualità, che pretende d’essere qualcosa per sé. L’ostentata esibizione dell’essenzialità universale si tradisce e palesa nel Sé; l’essenza si mostra imprigionata in una realtà effettiva e lascia cadere la maschera proprio quando pretende d’essere qualcosa di giusto. Il Sé che qui entra in scena col significato di qualcosa d’effettivo gioca con la maschera, una volta che l’ha indossata per essere il proprio personaggio; ma uscendo da questa parvenza, ben presto si presenta nuovamente nella sua nudità e nella sua dimensione abituale; dimensione che esso mostra non differente da quella del Sé vero e proprio: tanto dall’attore quanto dallo spettatore36.

La commedia corrisponde dunque per Hegel, in primo luogo, a una rappresentazione scenica nella quale tutta l’“ipocrisia” si palesa come tale, registrando la definitiva dissoluzione dei vincoli rappresentativi che nella tragedia ancora legavano umani e divini37. Nella commedia, cioè, sono gli esseri umani a rivelarsi padroni della propria decisione e responsabili del proprio destino: in essa anche l’artificio euripideo del deus ex machina, emblematica attestazione dello scacco cui era pervenuta l’incapacità del genere tragico di ri-

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FdS, pp. 486-487 (GW IX, pp. 397-398). J. Loewenberg, Hegel’s Phaenomenology, cit., p. 328.

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solvere l’intrico del mythos, mostra ormai anche agli occhi di Hegel la propria inutilità38. Qui infatti non c’è bisogno che un dio si cali dall’alto per recidere, in modo inappellabile, il garbuglio di una vicenda che i personaggi non sono più in grado di dipanare. Più ancora, anzi: in Aristofane almeno un dio, Dioniso (certamente una divinità atipica, rispetto a quelle che compongono il pantheon olimpico), può addirittura presentarsi sul palco con la propria maschera, per agire e prendere parte al drama insieme agli altri personaggi, mostrando un carattere in tutto e per tutto affine a quello di un uomo comune. E infatti, come si è già ricordato, nelle Rane è proprio Dioniso a mettere in gara fra loro Eschilo ed Euripide, e infine a decidere (non senza tentennamenti, come mostra il v. 1413: “DIONISO – La verità: questo mi pare bravo, l’altro mi piace”) di far risalire il primo dagli inferi per salvare la tragedia, e lasciarvi invece il secondo, della cui poesia pure riconosce la seduzione. È come se Hegel, in questa pagina, sottolineasse dunque ironicamente la circolarità dell’atteggiamento anti-euripideo di Aristofane: giacché solo la mossa dello smascheramento – dovuta appunto a Euripide – ha reso possibile la commedia, e con questo la sanzione del fallimento inevitabile di ogni tentativo di restaurazione del tragico più antico: progetto cui bisogna rinunciare, in quanto regressivo e antistorico. Allo stesso modo, dice Hegel, è destinata al fallimento la pretesa che un “momento astratto” si erga a sostanza indipendente – e di questo tenore, come si vedrà, era pure la denuncia antisocratica contenuta nelle Nuvole (ma è pur vero che parlando di “momento astratto” Hegel per esempio potrebbe anche semplicemente pensare, come è stato osservato39, al tentativo ridicolo di estrarre la Pace da un pozzo, nell’omonima commedia aristofanesca andata in scena nel 421 a.C.). Nel Sé, scrive Hegel, ogni “ostentata esibizione dell’essenzialità universale si tradisce e palesa” nella sua astrattezza: e il verbo verraten (‘tradire’) sembra qui insinuare nel processo di smascheramento una sorta di recondita anticipazione del tradimento per an-

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S.C. Law, Hegel and the Spirit of Comedy, cit., p. 117. H.S. Harris, Hegel’s Ladder. II. The Odyssey of Spirit, cit., p. 633.

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tonomasia, quello di Giuda, che consentirà con la passione e la morte di Cristo di rivelare finalmente in forma religiosa un’universalità concreta. Ha osservato ancora Harris che in questo movimento la stessa figura evangelica di Gesù verrebbe per così dire tecnicamente ad assumere i tratti del personaggio comico, in quanto “anima assolutamente bella” di un Sé che indossa la maschera della divinità pur essendo Persona di carne e di sangue: e anche l’affermazione contenuta in Gv. 10,30, “Io e il Padre siamo una cosa sola [egò kai ho patèr hen esmen]”, non farebbe, in questo senso, che mostrarne la prossimità al principio generale del comico40. Ora, non si tratta naturalmente di individuare, nella vicenda evangelica, residui o tracce di manifestazione del principio che anima il comico antico, quanto piuttosto di sottolineare quale momento decisivo del passaggio dal paganesimo al cristianesimo l’effettiva prossimità dialettica che sussiste fra la commedia antica, intesa come svuotamento definitivo dei contenuti del mondo della bella eticità, e la Menschwerdung Gottes annunciata dal Vangelo – in altre parole, l’evento spirituale che rende possibile il passaggio alla rappresentazione del divino propria della religione cristiana, la kenosis intesa come valore significante per eccellenza, che dà senso decisivo al processo di autocoscienza dello spirito. Prima che tutto ciò venga esplicitamente tematizzato nel cammino fenomenologico, le pagine sulla commedia antica sembrano allora condividere la diagnosi della realtà più amara che Hegel poteva ritrovare anche nella poesia dell’ex compagno di studi allo Stift di Tübingen, Friedrich Hölderlin; la cui celebre elegia Brod und Wein affratella Cristo a Dioniso, presentandolo come l’ultima divinità a essersi manifestata sulla terra: “O anche è venuto, lui stesso, e ha preso figura d’uomo; | Ha chiuso e compiuto, consolando, il convito celeste [Oder er kam auch selbst und nahm des Menschen Gestalt an | Und vollendet’ und schloß tröstend das himmlische Fest]”41. Sono versi la cui eco può udirsi anche in un passo, collocato più avanti nella Fenomenologia, che denuncia la dissoluzione di ogni legame fra la religione e la bellezza sostan40 41

Ibidem, p. 634. F. Hölderlin, Pane e vino (1800-1801), vv. 107-108; in Poesie, a c. di G. Vigolo, Einaudi, Torino 1958, p. 104.

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ziale del mondo etico, dopo che la risata della commedia ha definitivamente smascherato la natura di rappresentazione peculiare della religione artistica: Agli occhi di tale coscienza […] è ridotta al silenzio pure la fiducia nelle eterne leggi degli dèi, così come tacciono gli oracoli, che davano a conoscere il particolare. Le statue, ora, sono cadaveri dai quali è fuggita l’anima che vi infondeva la vita, e anche gli inni sono parole cui è sfuggita la fede; le mense degli dèi sono prive di cibo e bevanda spirituali, mentre dai suoi giochi e dalle sue feste la coscienza non sente più ritornare quella gioiosa unità fra sé e l’essenza. Alle opere della Musa manca la forza dello spirito […]. Ormai, a questo punto, tali cose sono ciò che esse sono per noi: bei frutti staccati dall’albero; un destino benevolo ce li ha offerti, al modo in cui li porge una fanciulla; non ci sono più la vita effettiva della loro esistenza, non l’albero che li portava, non la terra né gli elementi che ne costituivano la sostanza, e nemmeno il clima che ne costituiva la determinatezza, ossia l’alternarsi delle stagioni che governavano il processo del loro divenire. – Così il destino, con le opere di quell’arte, non ci rende il loro mondo, non ci dà la primavera e l’estate della vita etica, in cui esse erano fiorite e maturate, ma unicamente il velato ricordo di questa realtà effettiva42.

La fuga degli dèi e lo smascheramento scenico compiuto dalla commedia hanno preparato il terreno per la novità dello spirito: sarà la religione rivelata a esprimere il significato della riconciliazione implicita nel “farsi uomo dell’essenza divina”43 e la consapevolezza “della perdita d’ogni essenzialità in questa certezza di sé, e della perdita proprio di questo sapere di sé, della perdita tanto della sostanza quanto del Sé; è quel dolore che trova enunciazione nella durezza delle parole: Dio è morto [Gott gestorben ist]”44. Nelle pa-

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FdS, p. 492 (GW IX, p. 402). FdS, p. 489 (GW IX, pp. 400). FdS, p. 491 (GW IX, pp. 401).

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gine sulla commedia, questo tema teologico sembra profilarsi già con una certa chiarezza là dove Hegel esplicita il passaggio dal rituale pagano del sacrificio al “mistero del pane e del vino”: Questo universale dissolversi, nella sua individualità, dell’essenzialità in generale con le sue figurazioni, diventa nel suo contenuto più serio e pertanto più ardito e più amaro, in quanto tale contenuto ha un suo significato più rigoroso e più necessario. La sostanza divina riunisce entro di sé il significato proprio dell’essenzialità naturale e di quella etica. Riguardo all’elemento naturale, l’autocoscienza effettiva, già nell’impiego che ne fa per adornarsi, per la propria abitazione e simili, e nel far banchetto della propria vittima, si mostra come il destino a cui è svelato il segreto relativo all’essenzialità spontanea [Selbstwesenheit] della natura. È di questa che l’autocoscienza si appropria nel mistero del pane e del vino, insieme appropriandosi anche del significato dell’essenza interna, e nella commedia essa è in generale consapevole dell’ironia di tale significato45.

Ora, una denuncia del dissolversi dell’ethos, e con ciò del declino della città e della famiglia, portatrici dei costumi e delle tradizioni che avevano permesso l’eccellenza politico-culturale di Atene, Hegel poteva trovarla bell’e pronta per esempio nei Cavalieri di Aristofane: e proprio a questo alludono probabilmente le righe seguenti della Fenomenologia, quando denunciano le conseguenze del dilagare pubblico e privato della nuova mentalità democratica: Ora, per quel tanto che contiene l’essenzialità etica, questo significato è da una parte il popolo inteso nei suoi due lati: il lato dello stato, ossia il demos vero e proprio, e il lato della singolarità familiare; dall’altra, però, è il puro sapere autocosciente, ossia il pensare razionale dell’universale. – Quel demos, la massa universale che si sa tanto come signore e reggente, quanto come intelletto e discernimento intelligente a cui si deve riguardo, si coarta

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FdS, pp. 487 (GW IX, pp. 398).

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e si seduce tramite la particolarità della propria realtà effettiva, e presenta il contrasto ridicolo fra l’opinione che ha di se stesso e la sua esistenza immediata, fra la sua necessità e la sua accidentalità, fra la sua dimensione universale e quella volgare. Quando il principio della singolarità del demos, nella sua separazione dall’universale, si presenta nella figura vera e propria della realtà effettiva, avanza manifeste pretese sulla comunità – della quale peraltro è la segreta rovina – e le dà un allestimento istituzionale, si svela allora immediatamente il contrasto fra l’universale, inteso come teoria, e ciò che è da farsi nella pratica: si svelano il totale disimpegnarsi degli scopi propri della singolarità immediata dall’ordine universale, e lo scherno che quella singolarità riserva a quest’ultimo46.

La polemica contro il demos si traduce notoriamente, in Aristofane, in un attacco politico diretto contro la figura di Cleone. Come è stato notato, quando i Cavalieri viene portata per la prima volta sulla scena (nel 424 a.C.) Atene è in guerra da otto anni: l’illuminata signoria di Pericle aveva trovato in Sparta un limite e assieme un incentivo, all’interno aveva sollecitato, con grandiosità e benessere, forze inquietamente democratiche. Pericle non è in grado di fronteggiare […] la nuova realtà: viene rovesciato, rieletto, travolto dalla pestilenza. Per Atene esplodono tre decenni in cui si scontrano […] due mondi opposti […] la borghesia commerciale, impaziente, spregiudicata, progressista […] [i]ntenta processi a Pericle ed alla stessa Aspasia, a Fidia ed Anassagora: si impadronisce infine, e legittimamente, del potere. Cleone ne è il più radicale rappresentante47.

Contro lo “strabiliante, costruttivo realismo” di Cleone, si esercita dunque “l’appassionata, ma vuota idealità di Aristofane”, la cui mentalità è ormai incapace di vedere nella nuova democrazia una

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FdS, pp. 487-488 (GW IX, p. 398). B. Marzullo, ‘Premessa’ a Cavalieri, in Aristofane, Le commedie, cit., pp. 94-95.

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forza razionalmente in grado di salvare Atene e il suo impero48. Come il poeta comico aveva già denunciato nell’invettiva antidemocratica contenuta negli Acarnesi rappresentati l’anno precedente (425 a.C.), il demos non cessa di farsi raggirare dai politici, lasciandosi abbindolare e votando tutto ciò che gli si propone nell’assemblea; eppure è e si ritiene detentore del potere e del comando sulla città, e dunque in diritto di stravolgere ogni usanza consolidata. L’insostenibile contradditorietà della situazione è sottilmente messa in scena da Aristofane, che trasforma il demos in un personaggio, cioè in una Einzelheit (“singolarità”) alla quale è preclusa la possibilità di trasformarsi in Individualität autentica, proprio per la sua costitutiva incapacità di identificarsi con un pathos etico autentico49. La chiave ora sta nell’equiparazione fra il personaggio storico di Cleone e il personaggio scenico di Paflagone: un nome che deve il suo conio probabilmente al significato del verbo paphlazein, che vuol dire ‘gorgogliare’, ‘tartagliare’50 – onomatopea in cui è chiaramente implicita la denuncia del ritorno all’inciviltà e alla barbarie. Hegel poteva trovare una denuncia simile del resto anche nelle Vespe (422 a.C.), satirica messa in scena del sistema giudiziario ateniese, in cui il coro è costituito dal tribunale – la votazione in tribunale essendo l’altra grande funzione pubblica appannaggio del demos. Nel mirino di Aristofane c’è ancora una volta una decisione populista di Cleone, che aveva potenziato le funzioni del tribunale dell’Elièa, aumentandone il compenso (magari senza peritarsi troppo, in tal modo, di avviare questa istituzione a farsi strumento di eteriai capaci di esercitare il controllo politico). Ma al di là dei circostanziati riferimenti alla realtà cittadina del suo tempo, Aristofane in sostanza anche qui non fa che aderire alle lamentele dei conservatori, sulla scorta dell’approssimativa e ideologica suddivisione dei cittadini fra “‘buoni’ (chrestoi) e ‘cattivi’ (poneroi)”: da una parte gli esponenti delle famiglie più agiate e in vista, dall’altra il popolo e i parvenus, come lo stesso Cleone, che era uomo nuovo impostosi

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Ibidem. H.S. Harris, Hegel’s Ladder. II. The Odyssey of Spirit, cit., p. 635. Cfr. F.H. Sandbach, Il teatro comico in Grecia e a Roma, cit., p. 26.

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a scapito del predominio delle antiche famiglie (i “galantuomini” che il coro delle Rane ancora contrapporrà agli “imbecilli”)51. Certamente Hegel poté leggere, infine ulteriori attacchi contro la rozzezza del demos anche nella Lisistrata (inscenata nel 411 a.C.), ove Aristofane immagina che le donne rispondano allo stallo e alla crisi determinata dalla guerra rifiutandosi al debito coniugale – laddove invece nelle più tarde Ecclesiazuse (392 a.C.) il poeta sarebbe ritornato sul luogo comune del carattere instabile e scarsamente realistico del genere femminile: le donne in parlamento sapranno bensì governare con tatto ed equità, pregi che tuttavia “nella sproporzionata impresa si riveleranno, come spesso accade, astratti e anzi controproducenti”52. Anche queste due commedie sono fonti preziose, dalle quali il filosofo avrebbe tratto elementi per una delle sue successive definizioni della comicità, quella che si dà allorché qualcuno, andando alla ricerca di qualcosa di sostanziale, fa mostra di un’individualità intimamente in contrasto con il risultato della sua stessa ricerca53. Nella commedia di Aristofane Hegel ritrova dunque un contenuto effettivo di estrema serietà – il durissimo contesto politico ateniese negli anni della guerra del Peloponneso –, e si trova a fare i conti con le simpatie conservatrici del poeta comico, delle quali (come traspare qua e là dalle righe della Fenomenologia) è difficile immaginare che non apprezzasse certe vette sarcastiche. Ma con ciò, di nuovo, si tocca un punto che merita qualche approfondimento, e non solo perché l’etichetta generica di ‘conservatore’ rischierebbe, come è stato notato, di oscurare il “‘lealismo’ verso la politica cittadina” mostrato a più riprese da Aristofane54. Certo, lo Hegel della Fenomenologia, curioso lettore di Rousseau, smascheratore delle premesse nichilistiche implicite nell’astratto universa-

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Ibidem, pp. 31-32. B. Marzullo, ‘Premessa’ a Ecclesiazuse, in Aristofane, Le commedie, cit., p. 914. Per una lettura filosofica delle Ecclesiazuse cfr. ora anche L. Canfora, La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone, Laterza, Roma-Bari 2014. Est, p. 1343 (HW XV, p. 529). Su questo aspetto cfr. G. McFadden, Discovering the Comic, cit., pp. 91 ss. L. Canfora, Storia della letteratura greca, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 242.

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lismo della “volontà generale” e acuto analista della Terreur e della “furia del dileguare”, non avrebbe faticato a condividere la critica dell’utopia ‘comunista’ avversata da Aristofane e poi sviluppata dal socratico Platone nella Repubblica55. Ma il procedimento dialettico esige maggiore pazienza e un supplemento di sottigliezza, anzitutto per interrogarsi a fondo sulla funzione rappresentativa propria della commedia, e quindi sulla natura della Vorstellung in generale: in questo senso, ciò che sta a cuore a Hegel non è tanto la correttezza o la legittimità delle idiosincrasie di Aristofane, e sarebbe fuorviante spiegare il ruolo a questi riservato nella Fenomenologia nei termini di un’affinità elettiva fra due spiriti conservatori. Piuttosto, a Hegel interessa esibire nella commedia antica il compiuto ribaltamento di un principio del tragico: in Aristofane, l’uomo della strada (non l’eroe, e nemmeno lo Staatsmann in quanto tale) ritrae e incarna l’individualità. Si prenda, in questo senso, ancora il caso degli Acarnesi. Chi sarà mai il personaggio di Diceopoli? Il suo nome è pretenzioso e assiologicamente impegnativo: come nota Harris, significa più o meno “Mr. Just City” – un ‘sig. Cittagiusta’ che tuttavia finisce per rivelarsi una marionetta stolidamente in balia degli eventi. E vale forse la pena di fermarsi ancora un po’ a sottolineare la pregnanza di significato dei nomi attribuiti da Aristofane ai suoi personaggi: anche Lisistrata per esempio – continua Harris – potrebbe trovare il proprio corrispettivo in inglese in un’improbabile “Mrs. Let-theArmy-go-Home” (qualcosa come ‘sig.ra Scioglietelerighe’: sarà bene non dimenticare che questa commedia era stata composta due anni dopo l’epilogo disastroso della spedizione contro Siracusa)56. Diceopoli e Lisistrata personificano appunto l’esercizio dell’intelligenza e della critica da parte di un singolo, mentre il volgare Salsicciaio delle Vespe – ancora una controfigura di Cleone – incarna gli scopi egoistici della coscienza singolare e corrotta, che si nasconde sotto le vesti democratiche e si ammanta ideologicamente di un universalismo vuoto e astratto. Quasi a dire: ciò che

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Ibidem, p. 247. H.S. Harris, Hegel’s Ladder. II. The Odyssey of Spirit, cit., p. 635.

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un tempo costituiva la sostanza etica, la realtà effettiva della gloria politica e culturale di Atene, ora si è scisso nei due lati della critica astratta da una parte, e del concreto e losco maneggio egoistico dall’altra, per cui gli interessi individuali hanno ormai usurpato la cosa pubblica e corrotto i principi che rendevano possibile il benessere comune. Pericle, che nella celebre orazione funebre di Tucidide (II,35-36) ancora cercava di delinearsi con il profilo dell’eroe, era morto solamente da una ventina d’anni, ma era ormai palese che la costituzione da lui varata aveva avuto per esito contraddizioni insanabili. Nella prospettiva della Fenomenologia, l’analisi del declino di Atene significa tuttavia anzitutto l’individuazione di un momento nodale del procedere dello spirito verso la propria autocoscienza: è quanto emerge dalle considerazioni sulla commedia antica ulteriormente svolte in quella sede da Hegel.

4. Quando, nel capoverso successivo, Hegel si riferisce a divinità che riprendono sembianze naturali, ha in mente anzitutto la commedia filosoficamente più celebre di Aristofane: le Nuvole57, la cui prima rappresentazione risale al 423 a.C. (è cioè immediatamente successiva alla morte di Pericle). Negli agoni comici di quell’anno, Aristofane si classifica tuttavia soltanto terzo: e va detto che egli stesso probabilmente dubitava della piena riuscita della sua opera (che pure, per molti versi, giudicava la sua commedia migliore), tanto da progettarne una seconda versione. Al centro della vicenda c’è la figura di Socrate, emblematica dell’“illuminismo di quegli anni: l’immaturo, vagheggiante Aristofane ne è scosso ma anche provocato, sostanzialmente attratto” – un po’ come gli era accaduto con Euripide58. La vicenda è nota: Strepsiade, contadino sommerso dai debiti a causa delle spese scriteriate del figlio Fidippide, va in cerca di aiuto da Socrate (ritenendo evidentemente che questi possa

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Cfr. T. Pinkard, La “Fenomenologia” di Hegel. La socialità della ragione (1994), a c. di A. Sartori, I. Testa, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 403-405. B. Marzullo, ‘Premessa’ a Nuvole, in Aristofane, Le commedie, cit., p. 183.

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insegnare l’uso dell’astuzia) e lo trova sospeso per aria, immerso fra le congetture più strane, fra le quali, per esempio, c’è quella secondo cui le divinità protettrici dei filosofi non sono più gli dèi olimpici, nazionali, bensì appunto le nuvole: “SOCRATE – Che dèi giuri: prima cosa, da noi sono fuori corso! | […] | Vuoi chiaramente conoscere la vera essenza delle divine cose? | STREPSIADE – Se si può, perdio! | SOCRATE – E intavolare discorso con le Nuvole, nostre divinità?” (vv. 247-250). In effetti, il recalcitrante Fidippide fa progressi davvero straordinari alla scuola di Socrate, giungendo perfino a percuotere il padre; tanto che Strepsiade, esasperato, alla fine darà fuoco al “pensatoio”. Ora, è ben vero che la vicenda inscenata da Aristofane, oltre a legittimare in qualche modo una certa pubblica aggressività verso Socrate, con la sua denuncia avrebbe potuto condurre direttamente all’apertura formale di un procedimento per empietà (dike asebeias) nei suoi confronti59. Non meno vero è però che questo atteggiamento trova le proprie condizioni di possibilità in un clima piuttosto diffuso: “almeno tre […] poeti fecero di Socrate il proprio obiettivo polemico. Il frammento 352 di Eupoli così suona: ‘Odio anche Socrate, quel miserabile chiacchierone, che a tutto ha pensato tranne che a come procurarsi il pasto del giorno dopo’”60. Nella stessa tornata di rappresentazioni comiche risulta che pure il poeta Amipsia, con il suo Conno, si rivolgesse esplicitamente contro Socrate61; mentre nelle Rane, vent’anni dopo, di nuovo Aristofane (in questo, davvero precorrendo in qualche modo Nietzsche) avrebbe infierito ancora sulle presunte responsabilità di Socrate e del suo razionalismo logologico62 nel declino della stagione tragica: “CORO – Che piacere non fare | continuamente chiacchiere | vicino a Socrate sdegnando | poesia rifiutando i cardini | della tragedia. Perdere | il proprio tempo in ciance | boriose e futili quisquilie | è da persona folle” (vv. 1491-1499).

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L. Canfora, Storia della letteratura greca, cit., pp. 219-221. F.H. Sandbach, Il teatro comico in Grecia e a Roma, cit., p. 49. L. Canfora, Storia della letteratura greca, cit., p. 219. Uso qui l’espressione “logologia” nel senso adoperato da B. Cassin, L’effetto sofistico. Per un’altra storia della filosofia (1995), trad. it. di C. Rognoni, pref. di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 2002.

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Si ritorni dunque, con queste premesse, al testo hegeliano: Il pensare razionale sottrae l’essenza divina alla sua figura accidentale; opponendosi inoltre alla saggezza aconcettuale del coro, che adduce sentenze etiche d’ogni sorta e fa valere una quantità di leggi e concetti determinati circa il dovere e il diritto, solleva tutto ciò alle semplici idee del bello e del bene. – Il movimento di questa astrazione è la coscienza della dialettica che tali massime e leggi hanno in sé, e dunque la coscienza del dileguare della validità assoluta in cui esse prima si manifestavano. Poiché dileguano la determinazione accidentale e l’individualità superficiale accordate dalla rappresentazione alle essenzialità divine, a queste ultime, secondo il loro lato naturale, non resta ancora che la nudità della loro esistenza immediata; sono nuvole, sono un fumo che dilegua, proprio come fanno quelle rappresentazioni. Una volta che, secondo la loro essenzialità pensata, esse sono divenute i semplici pensieri del bello e del bene, queste essenzialità sopportano di venire riempite con qualsivoglia contenuto63.

Dunque, paradossalmente, anche se secondo la successiva presentazione di Aristotele (Metafisica I,6; 987b1) Socrate avrebbe richiamato la filosofia dal cielo alla terra, il ritratto che ne dà Aristofane è ancora pienamente assimilabile a quello di un physiologos: sarà del resto Platone nel Fedone (97b-98b) a far parlare Socrate stesso della propria iniziale adesione al naturalismo di Anassagora, dal quale prende le distanze invece nell’Apologia (26d-e)64. I nuovi dèi propugnati dalla scienza filosofica sono allora presentati in forma di entità naturali, le Nuvole appunto, che compongono il coro della commedia: “SOCRATE – …le Nuvole del Cielo, grandiose dee per tutti i perdigiorno. Esse pensieri discorse concettose ci forniscono, l’arte di imbrogliare con tornita chiacchiera, sorprendere e incantare” (v. 316). Hegel non si lascia pertanto sfuggire l’occasione di contrapporre questo nuovo, particolarissimo coro a quello

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FdS, p. 488 (GW IX, pp. 398-399). Cfr. L. Canfora, Storia della letteratura greca, cit., pp. 226-227.

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della tragedia classica, la cui saggezza era per così dire paralizzata al cospetto di potenze superiori. Le Nuvole e il loro sovrano, “Dinos, l’etereo turbine” (v. 380), sono precisamente quei “concetti” (la cui invenzione, per altro verso, lo stesso Aristotele aveva attribuito a Socrate) ai quali, alla fine, Strepsiade preferirà i suoi proverbi nutriti di saggezza popolare: li manderà in fumo, appiccando il fuoco al “Think Tank” socratico65. Interessante, ancora una volta, è che pur sottolineando in ogni modo l’antitesi che sussiste fra il tessuto connettivo etico della polis ateniese, con i suoi valori tradizionali, e l’astrazione del pensare concettuale introdotto da Socrate, non c’è nostalgia che possa prendere il sopravvento sulla consapevolezza hegeliana che simili forme di unilateralità regressiva sono improponibili. È su questa base anzi che bisogna intendere il motivo per cui, nello specchio della prosa hegeliana, il conservatorismo di Aristofane può sembrare dialetticamente rafforzato: resa emblema delle concezioni tradizionali della verità e della bellezza, la poesia aristofanesca perde forse un po’ della sua complessità storica (poiché, come ha osservato ancora Canfora, sarebbe comunque almeno problematico annoverare Aristofane fra gli ‘antidemocratici’ tout court, o magari addirittura fra gli ‘oligarchi’, per la sua costante polemica contro Cleone66), ma diventa funzionale a una polarizzazione implicita nella dialettica della Fenomenologia. Si tratterà dunque di sottolineare ancora una volta il senso attribuito qui da Hegel alla circostanza che Aristofane incarna la figura ideale della coincidenza fra poeta, spettatore e attore: una figura comica atta a designare anzitutto un destino politico epocale67. 65

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L’espressione è di H.S. Harris, Hegel’s Ladder. II. The Odyssey of Spirit, cit., p. 636. L. Canfora, Storia della letteratura greca, cit., pp. 236-238. Sul rafforzamento, in Hegel, del conservatorismo di Aristofane cfr. anche M. Holtermann, Der deutsche Aristophanes, cit., p. 114. Vale la pena qui almeno di accennare, di passaggio, alla sostanziale non-assimilabilità dei concetti di comico, ironia e satira nel discorso hegeliano. Da una parte, la commedia ha una dimensione diversa dalla soggettività solo finita e soggettiva della satira, portando a espressione una soggettività infinita. Dall’altra, mentre il comico preserva il suo contenuto, l’ironia lo dissolve e di-

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Le nuvole, scrive dunque Hegel, sono “semplici”: a differenza della “semplice idea” della tragedia, che, per essere davvero tale, esige di essere incarnata (cioè di essere unità di intuizione e concetto in un pathos incarnato da un personaggio), il “semplice pensiero” si è astratto e si è reso unità immediata di opposti concettuali. Per cui nelle Nuvole è possibile individuare un nucleo ‘dialettico’ per esempio anche nel dibattito, organizzato da Socrate, che vede la prevalenza del Discorso Ingiusto sul Discorso Giusto. Attenzione però: in questa dialettica, la cui duplice unilateralità è funzionale alla definizione concettuale del “bene”, come si vedrà alla fine, sarà paradossalmente il tertium costituito dal “piacere” (dunque una pulsione per così dire erotica) a indirizzare verso il “regno delle Nuvole”68. L’esito di questo movimento può così essere in tal modo sorprendentemente affine, per esempio, a quello dell’Encomio di Elena del sofista Gorgia, che scagionava Elena da ogni responsabilità per la guerra di Troia. Adottando una strategia diversa, ma non meno significativa, questo sarebbe stato il senso anche dell’Elena di Euripide, tragedia in cui si sosteneva che la moglie di Menelao in realtà non aveva mai seguito Paride a Troia, perché Ermes l’avrebbe nascosta in Egitto, mandando in sua vece a Ilio un’immagine dotata di respiro e di vita, in tutto simile a Elena in carne e ossa: “L’oggetto della difesa dei troiani, il trofeo per cui combattevano i greci, non ero io, era solo il mio nome. Ermes mi aveva portato nelle pieghe dell’etere, mi aveva coperto con una nuvola” (‘Prologo’, vv. 42-44)69. La possente signoria (logon dynastos megastes; fr. 1 Lanata, 8-11) del discorso di Gorgia70 contava sull’efficacia ero-

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strugge (nichilisticamente). Ecco perché, come si legge anche nell’Estetica postuma redazionata da Hotho, in Aristofane i personaggi sono “comici per se stessi” e non solo per noi (Est, p. 1363; HW XV, p. 529). Cfr. S.C. Law, Hegel and the Spirit of Comedy, cit., pp. 123-124. Harris, aiutato in questo ancora dall’inglese-americano, gioca sapientemente con l’espressione Cloudcuckooland, che significa ‘Paese della Cuccagna’ (ma contiene, appunto, il termine cloud, “nuvola”): cfr. H.S. Harris, Hegel’s Ladder. II. The Odyssey of Spirit, cit., p. 636. Euripide, Elena, a c. di M. Fusillo, Rizzoli, Milano 1997, pp. 48-49. Cfr. Gorgia, Encomio di Elena, in Gorgia, Isocrate, Encomio di Elena, a c. di R. Pezzano, Gribaudo, Cavallermaggiore 1993, p. 21; su cui cfr. ancora M.

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tica e demonica della parola stessa, sottratta alla razionalità dell’argomentazione; mentre nella successiva prospettiva platonica sarebbe stata proprio la signoria del Discorso Ingiusto sulla terra a trovare compimento nel processo per empietà intentato contro Socrate, e nella sua condanna a morte tramite la cicuta. Una condanna a cui Aristofane aveva forse dato un contributo decisivo, e della quale è come se infine la Fenomenologia dello spirito suggerisse implicitamente la necessità storica71. Anche in questo senso la lettura hegeliana della dialettica del tragico (e della sua Aufhebung) sembrerebbe così preludere alla futura interpretazione benjaminiana della morte di Socrate quale archetipo del dramma martirologico (una vicenda che in Benjamin verrà declinata nel passaggio dalla tragedia classica al Trauerspiel barocco tedesco72). Prevalenza del Discorso Ingiusto, dunque, come trionfo del piacere: La forza del sapere dialettico lascia le leggi e le massime determinate dell’agire in preda al piacere e alla leggerezza della gioventù, che ne è traviata; e mette armi per l’inganno in mano alle ansie dell’età avanzata, la cui preoccupazione si riduce alla

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Untersteiner, I sofisti, B. Mondadori, Milano 1996, pp. 159-200 (in particolare pp. 165-166). Così sintetizza (già in riferimento alla Fenomenologia, oltre che alle successive lezioni di estetica) K. Düsing, La teoria hegeliana della religione artistica e della ‘morte’ dell’arte, cit., p. 93: “L’ironia e la derisione dell’antropomorfismo umanizzato, che Hegel già scorge in Aristofane o Socrate, è passata sopra questi dèi; la soggettività finita puramente umana si è accomiatata da questo contenuto religioso che una volta era sostanziale. Hegel chiarisce nella sua interpretazione di Socrate che è sopraggiunto un principio moderno che distruggerà lo spirito greco, ossia il principio della soggettività”. Esemplare in questo senso la distinzione fra tragedia e commedia proposta da Hegel nel corso del 1823 (secondo il manoscritto di Hotho): “Nella tragedia a venir fuori vittorioso è l’eterno sostanziale, nella commedia la soggettività come tale” (EH23, p. 292; VPhK, p. 302). Sul piano dell’arte poetica, dunque, la commedia attica porta a compimento quel passaggio dalla (mera) sostanza al soggetto che costituisce notoriamente il programma teorico enunciato da Hegel nella ‘Prefazione’ della Fenomenologia. Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco (1928), trad. it. di F. Cuniberto, introd. di G. Schiavoni, Einaudi, Torino 1999, pp. 76 ss.

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singolarità della vita. I puri pensieri del bello e del bene, una volta liberati dall’opinione, che racchiude in sé la loro determinatezza intesa sia come contenuto, sia come assoluta – quella fissità a cui si attiene la coscienza –, mostrano dunque lo spettacolo comico per cui finiscono per svuotarsi, e proprio in tal modo divengono ludibrio per l’opinione e per l’arbitrio dell’individualità accidentale73.

Il riferimento decisivo, in questo passo, è costituito dal cenno alla “gioventù”. Il sapere ‘dialettico’ (che, almeno in questa accezione, accomuna Socrate e i sofisti) corrompe e travia il giovane, ai cui occhi la saggezza dettata dall’esperienza diviene oggetto di gioco e di scherno. Niente di più facile che qui Hegel, sullo sfondo del travaglio politico di Atene, pensi anche agli Uccelli (commedia rappresentata nel 414 a.C., anno in cui essa fu peraltro sconfitta da una pièce di Amipsia)74. In quest’opera, come è stato osservato, Aristofane reagiva con veemenza “al più terrifico evento della storia di Atene, la mutilazione delle Erme”, da parte di un gruppo di giovani (forse ubriachi) fra i quali forse c’era anche Alcibiade: sinistro presagio, oltre che segno possibile della presenza in Atene di infiltrati filospartani75. Se, come è molto probabile, Hegel ha ben presente questo scenario, ecco allora che la “gioventù” cui egli allude non è solamente quella della fiction teatrale (Fidippide, il figlio scapestrato di Strepsiade nelle Nuvole), ma comprende anche la spregiudicatezza e l’ambizione di Alcibiade, da poco incriminato e destituito, per poi venire richiamato ad Atene, dopo essere stato perfino dalla parte dei lacedemoni (prima di fare una bruttissima – ancorché prevedibile – fine, in Persia, sotto i colpi di un pugnale). Ma Alcibiade è quello stesso personaggio che, dopo la sua irruzione al banchetto descritta nel Simposio platonico (212d ss.), racconta di essere innamorato di quel “grande erotico” che è Socrate – un “Sé singolare” che già andava in giro per Atene ben prima che Aristofane lo met73 74 75

FdS, p. 488 (GW IX, p. 399). Cfr. ancora H.S. Harris, Hegel’s Ladder. II. The Odyssey of Spirit, cit., p. 636. B. Marzullo, ‘Premessa’ a Uccelli, in Aristofane, Le commedie, cit., pp. 484485.

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tesse in scena come maschera dell’astrazione empia. Ora, il giovane Fidippide, personaggio delle Nuvole, e l’ambiguo Alcibiade, sono entrambi (certamente, l’uno nella finzione, l’altro nella realtà storica) discepoli di Socrate, ed entrambi manifestano le possibili conseguenze di opinioni prodotte dal capriccio dell’individualità accidentale. Socrate si aggira ironicamente per l’agorá insegnando l’esercizio del pensare, attività che fino a quel momento sembrava preclusa al singolo – e tale era stata, almeno fino a che di individualità in senso proprio si poteva parlare solamente a proposito degli dèi olimpici, o al massimo delle città, o dei condottieri delle comunità schierati sui campi di battaglia76. Certamente, a differenza dei sofisti – ma appunto, con una radicalità ancora maggiore della loro – l’insegnamento di Socrate è rivolto a tutti, perfino agli schiavi – o meglio sarebbe forse dire: è un insegnamento che non si paga, ma è accessibile a tutti quanti condividano l’uso del logos, che per etnocentrica catacresi finisce qui per coincidere quasi con il possesso della lingua greca tout court: si pensi al pais del Menone, del quale, prima di fargli dimostrare il teorema di Pitagora, Socrate accerta presso altri almeno la proprietà del linguaggio (hellenizei? – Men. 82b4). In questo senso, Meleto e Anito, i suoi accusatori, sembra quasi non si rendano conto di abitare la medesima koiné di Socrate: il mondo nuovo del declino della polis. L’argomento elenchico (elenkon), l’ironia e la maieutica di Socrate sono la “determinatezza assoluta” del puro pensare, Alcibiade ne è il prodotto concreto; e in questa filiazione, come s’è detto, non va certamente sottovalutato l’ascendente erotico esercitato dal maestro sul suo discepolo. Il logos socratico, lungi dal risolversi in un puro formalismo astratto, fa aggio dunque su un elemento costitutivamente demonico che Hegel conosce fin troppo bene e di fatto assume a pieno titolo nella Begierde che anima l’inquietudine dialettica: è tale appetizione a costituire perfino il propellente al cammino dello spirito verso la propria autocoscienza, se è vero, come ha scritto Félix Duque, che “nella Fenomenologia c’è un amore del sapere” per cui “solo alla fine si avvista una terra dove la coscienza, 76

H.S. Harris, Hegel’s Ladder. II. The Odyssey of Spirit, cit., p. 637.

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che ha provato tutto, sa che non può entrare senza trasformarsi in regno delle ombre”77. Commedia si dà allora per Hegel solo con lo spettacolo di un intelletto ordinario che riconosce nella propria interiorità la manifestazione della divinità stessa, in ossequio a quel nuovo principio demonico di cui Socrate sarebbe stato il cultore, e Aristofane la coscienza auto-smascherante78. Si tratta di uno spettacolo inevitabilmente triviale, nel quale al Socrate delle Nuvole – come ha intuito Hans-Robert Jauss – finisce per spettare, rispetto all’elemento sostanziale della bella eticità, un ruolo in certo modo simmetrico (ancorché rovesciato) a quello svolto più avanti dal Neveu de Rameau con il suo linguaggio della lacerazione79. La dialettica socratica disgrega il mondo greco, preparando il terreno alla coscienza infelice quale figura di un mondo deprivato del divino. Nell’intento di illustrare questo passaggio della Fenomenologia dello spirito, Alexandre Kojève ha così voluto parlare di una servitù senza signoria: “Aristofane è un già-Borghese, che ha nostalgia della passata Signoria, […] Eschilo è un ancor-Signore, che ha nostalgia della Borghesia imminente”80. Il cittadino ateniese, spettatore di Aristofane, dunque “cerca la verità; è la dialettica di Socrate che distrugge tutto: il relativismo, l’ironia critica, l’impiego delle nozioni vuote (‘astratte’) del Bello e del Bene”81. Forse la pur suggestiva 77

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Cfr. F. Duque, Tutto il sapere del mondo, in «Iride», 52, 2007, pp. 570-571. Cfr. anche G. Garelli, Lo spirito dell’inquietudine, in FdS, pp. IX-XXXVIII. Cfr. M. Holtermann, Der deutsche Aristophanes, cit., p. 111. Cfr. H.R. Jauss, “Le Neveu de Rameau”. Dialogue et dialectique (ou: Diderot lecteur de Socrate et Hegel lecteur de Diderot), in «Revue de Métaphysique et de Morale», 89, 1984, pp. 145-181. Di una “sovversione del senso” nella commedia, in cui Herren e Diener si scambiano i ruoli, si parla esplicitamente nelle ultime pagine dell’Estetica Hotho: qui “i servi sono padroni e i padroni servi” (Est, p. 1379; HW XV, p. 571). Valagussa ha giustamente individuato in questo passaggio l’“altro senso” della dialettica di signoria e servitù (Herrschaft e Knechtschaft) del cap. IV della Fenomenologia, dalla quale “nasce ogni possibilità di senso” (F. Valagussa, La commedia e il negativo, cit., p. 55). A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel. Lezioni sulla “Fenomenologia dello spirito” tenute dal 1933 al 1939 all’École Pratique des Hautes Études raccolte e pubblicate da Raymond Queneau (1947), a c. di G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996, pp. 317-318.

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Gianluca Garelli

espressione di Kojève non è esente da una certa oscurità82; va tuttavia riconosciuto che essa è comunque particolarmente efficace a sottolineare come, grazie alla commedia di Aristofane, la coscienza sia effettivamente pervenuta alla consapevolezza che l’essenza divina alligna nel suo proprio fare, ossia in quell’attività che plasma artisticamente le figure olimpiche ed eroiche appunto come rappresentazioni poetiche. E l’effetto di comicità, a ben vedere, sgorga anzi proprio dal fatto che tutte le parti in gioco si sono ormai rivelate differenti dal modo in cui si erano fatte avanti inizialmente, diverse anche da quanto pretendevano di apparire, rivelando l’armamentario di maschere, travestimenti e artifici tecnici con i quali l’uomo comune si fa avanti sulla scena. La divinità non ha più bisogno di incarnarsi nella statua, nell’atleta o nell’eroe tragico, né può più farlo candidandosi a modello per l’imitazione. La commedia costituisce così il culmine della religione artistica in quanto momento di passaggio ineludibile verso la concettualità del pensare puro. Come scrive Hegel, si tratta ancora, in questo senso, di cercare nell’unione con la natura il segreto della sua Selbstwesenheit: la guida in questo passaggio sarà ancora una volta l’ineffabile Euripide, con le sue terribili Baccanti, che nel loro rimando al “mistero del pane e del vino” precedono in qualche modo il mistero del “significato dell’essenza interna”. La commedia insomma non è nient’altro che la consapevolezza “dell’ironia” che si palesa nel “significato” dell’intera vicenda. Nell’ultimo dei capoversi dedicati dalla Fenomenologia al tema del comico, il portato di tutto ciò diviene chiaro: il comico mette in scena l’unione del Fato con il Sé, e Socrate altri non sarebbe che l’interprete di un nuovo mondo – quello preparato dal nous del filosofo naturale. Siamo nuovamente al cospetto dell’ambiguità dei caratteri individuati in Socrate da Aristotele: è ben vero che il Socrate del Fedone, come si è già ricordato, prendendo le distanze da Anassagora, porterà la filosofia dall’ambito della fisica a quello dell’etica; ma non meno vero è che, con la dialettica socratico-pla-

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Rimando in proposito a quanto ho cercato di argomentare in G. Garelli, Il servo senza il signore, cit., pp. 119-120.

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tonica, la ricerca della verità (induzione) diviene esercizio di pensiero puro (concetto). Tragedia e commedia trovano così una sintesi nell’esercizio della filosofia, mentre lo stesso sacrificio di Socrate permette il definitivo inabissarsi degli dèi, che vengono così aufgehoben (levati e conservati) al modo di forme platoniche. Il documento grandioso di questo movimento è il dialogo interiore che Socrate, nel Critone, dice di aver condotto con le Leggi della città; mentre ancora nel Fedone al “puro pensare” si spalanca il regno delle essenze eterne: si prepara cioè l’argomento in favore dell’immortalità individuale83. Socrate, nel suo intero cammino, non ha fatto altro che seguire con coerenza il monito dell’Oracolo di Delfi: ma la sua attenzione per la voce del daimon non è che l’altra faccia di una forma di sapere umano destinato a diventare universalmente il paradigma della misura delle cose84. In questo egli è propriamente figlio del suo tempo, che è anche l’età della sofistica, dell’uomo misura di Protagora: il tempo che inaugura la positiva affermazione della singolarità del Sé. Dato che la coscienza singola, nella certezza di se stessa, è ciò che si presenta come questa potenza assoluta, tale potenza ha perduto la forma di qualcosa di rappresentato, di separato in generale dalla coscienza e a essa estraneo – quali erano la statua, o anche la bella corporeità vivente, o ancora il contenuto dell’epos nonché le potenze e i personaggi della tragedia; e l’unità non è nemmeno quell’unità inconsapevole che era propria del culto e dei misteri; anzi, l’autentico Sé dell’attore coincide con il suo personaggio, e così pure lo spettatore, il quale in ciò che gli viene rappresentato si trova pienamente a casa propria, e vede in gioco se stesso. Ciò che questa autocoscienza intuisce è che, dentro di lei, quanto assume la forma di un’essenzialità a lei contrapposta piuttosto si dissolve ed è abbandonato nel suo pensare, nella sua esistenza concreta e nel suo fare; è il ritorno di tutto ciò che è universale nella certezza di se stesso, la quale è pertanto questa

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H.S. Harris, Hegel’s Ladder. II. The Odyssey of Spirit, cit., p. 637. Cfr. J. Loewenberg, Hegel’s Phaenomenology, cit., pp. 332-333.

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perfetta mancanza di paura e la perfetta inconsistenza essenziale di tutto ciò che è estraneo; ed è un benessere e un abbandonarsi al benessere da parte della coscienza, quali, al di fuori di questa commedia, non si trovano più85.

In quell’effimero equilibrio fra il non-più della divinità olimpica e il non-ancora della coscienza cristiana, con il suo nuovo portato di infelicità, Aristofane ha potuto così in qualche modo rinfrancare la coscienza e per un istante rassicurarla, mostrandole che il mondo non costituisce più, per lei, un luogo inospitale ed estraneo, ove a predominare sono potenze ed entità sconosciute, bensì un universo propriamente umano, ove l’uomo non incontra altro che se stesso e si rispecchia solamente nella propria finzione. Il divino, che già in precedenza si era manifestato come opera umana, ma che ancora non era saputo come tale, ora si disvela come prodotto dell’attività dello spirito, proprio grazie alla decisiva mediazione del linguaggio: infatti è stata la poesia, nelle sue varie forme, a mostrare che l’indipendenza della figura divina (ancora tale, per esempio, nella statua marmorea) può manifestarsi come un fare. In quanto negazione, la commedia antica prepara così per Hegel il cuore dell’uomo per qualcosa di nuovo86, mentre per un momento solo – un attimo, “ein Augenblick der Geschichte” – la coscienza finita è lasciata a se stessa, libera, completamente felice, in un benessere che non ha l’eguale nella sua travagliata vicenda: è, alla fine del mondo classico, l’istante di una “conciliazione massimamente fragile fra il principio della singolarità e quello dell’universalità”87.

5. Anche se il ricordo di un passato glorioso, a confronto con la presente durezza della guerra del Peloponneso, costituiva per gli ateniesi un orizzonte amaro, Hegel sa che essi andavano a teatro anche per ridere. La loro ilarità, però, era determinata non dal mero bisogno di divertissement, ma dal desiderio mimetico di vedersi rap85 86 87

FdS, p. 489 (GW IX, p. 399). Cfr. A. Paolucci, Hegel’s Theory of Comedy, cit., pp. 97-98. M. Schulte, Die “Tragödie im Sittlichen”, cit., p. 277.

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presentati sulla scena, da parte di uno di loro, con i loro caratteri e i loro difetti – ma comunque per ridere insieme con il personaggio, e cercare insieme a lui “una risoluzione accettabile”, diversa dalla sconfitta e dal soccombere che incombevano sull’eroe tragico. Che è come dire: nella commedia la polis non difende né occulta le proprie contraddizioni, ma pone liberamente se stessa sul palco. Insieme ai suoi spettatori, Aristofane assiste allo spettacolo della dissoluzione della sostanza etica, anche per opera di Socrate e del suo esercizio di una filosofia intesa come nuova cura dell’anima. Poiché è appunto Socrate, con il suo esercizio inesausto della dialettica, il destino della religione artistica: così, mentre Socrate demitologizza la tradizione mitica nella razionalità, Aristofane demitologizza la razionalità nel riso88. Per lo Hegel della Fenomenologia del resto, che già aveva parlato del daimon socratico in termini di estrema configurazione assunta dal linguaggio dissennato della mantica e dell’oracolo89, in questo plesso di problemi consiste appunto il significato storico e spirituale della commedia aristofanesca: solo il cristianesimo potrà colmare il vuoto che essa ha spalancato. Alla luce dell’osservazione conclusiva delle pagine dedicate da Hegel alla religione artistica, sul “benessere e un abbandonarsi al benessere da parte della coscienza”, potrà così forse intendersi meglio, infine, anche il senso letterale di un controverso passo dell’Estetica Hotho, che recita: “Se non si è letto Aristofane, non si può veramente sapere wie den Menschen sauwohl sein kann”90. La 88

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Cfr. W. Desmond, Beyond Hegel and Dialectic, cit., p. 315 (traggo di qui l’osservazione citata, estrapolandola tuttavia dalle implicazioni argomentative nelle quali è inserita dall’autore). Cfr. FdS, p. 467 (GW IX, pp. 381-382): “Come quel saggio dell’antichità cercava nel suo proprio pensare che cosa siano ‘buono’ e ‘bello’, lasciando invece al demone il compito di conoscere il cattivo contenuto accidentale del sapere […] così la coscienza universale ricava il sapere dell’accidentale dal volo degli uccelli, o dagli alberi, o dal fermento della terra, i cui vapori privano l’autocoscienza del senno che le è proprio”. Est, p. 1364 (HW XV, p. 553): “Questa assoluta libertà dello spirito che è in sé e per sé fin dall’inizio si consola di tutto ciò che l’uomo intraprende, questo mondo della serenità soggettiva, è ciò in cui ci introduce Aristofane. Se non si è letto Aristofane, non si può veramente sapere quanto gli uomini possono spas-

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critica si è interrogata a lungo intorno alla possibilità che la costruzione di un superlativo con il prefisso sau- costituisca, qui, una dotta e anche troppo recondita citazione goethiana, o non piuttosto – come è difficile escludere, se si ha un po’ di dimestichezza con la concreta spiritualità incarnata dei testi del professor Hegel – almeno un colorito residuo del dialetto svevo (nel quale l’espressione dem ist’s sauwohl significa qualcosa come er hat volles Behagen, “ci ha pieno gusto” – del resto, wohl sein indica etimologicamente proprio la pienezza d’essere91). Trascinato dal proprio oggetto, e quasi immedesimandosi in esso, Hegel poteva del resto ben trovare il più straordinario modello di trivialità nella spietata e terribile epichairekakia dei personaggi di Aristofane, incapaci di nascondere il loro divertimento alle spalle della sventura altrui; o magari nel suo discorso scatologico e nelle sue abbondanti oscenità sessuali92. Tutte cose che non hanno spaventato la filosofia, se è vero ciò che si racconta perfino del dialettico Platone, che richiesto di informazioni circa i costumi e le istituzioni degli ateniesi, avrebbe inviato a Dionigi di Siracusa nientemeno che i testi di Aristofane93. Nell’interesse della Fenomenologia dello spirito per il passaggio dalla tragedia alla commedia, e per la contiguità di quest’ultima con l’esercizio della dialettica, ritengo sia in gioco la comprensione del portato filosofico di quello che il commediografo Cratino chiamava

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sarsela” (corsivo mio; traduzione lievemente modificata). Le lezioni del 1823 riportano invece l’espressione al singolare: “wie dem Menschen sauwohl sein kann” (EH23, p. 300; VPhK, p. 310): “Se non lo si è letto, non si può sapere quanto l’uomo può spassarsela”). Cfr. M. Holtermann, Der deutsche Aristophanes, cit., p. 112, nota 70; nonché F. Valagussa, La commedia e il negativo, cit., pp. 54-55. F.H. Sandbach, Il teatro comico in Grecia e a Roma, cit., pp. 40, 52. Su questa circostanza insiste W. Desmond, Beyond Hegel and Dialectic, cit., p. 323, il quale riporta anche l’aneddoto secondo cui, dopo la morte di Platone, sarebbero state rinvenute le commedie di Aristofane sotto il suo cuscino. Va detto che Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, III, 18) racconta l’episodio in termini un po’ diversi, parlando piuttosto di “mimi” e non facendo esplicitamente il nome del commediografo: “Pare che Platone sia stato il primo a introdurre in Atene anche le opere del mimografo Sofrone da altri neglette e che al suo stile abbia conformato alcuni caratteri e una copia di mimi sia stata rinvenuta sotto il suo cuscino” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a c. di M. Gigante, Laterza, Roma-Bari 1987, vol. I, p. 106).

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euripidaristophanizein, “fare alla maniera di Euripide e di Aristofane”: a indicare l’ambiguo rapporto di double-bind per cui Aristofane poteva giudicare Euripide un pessimo esempio di straccioneria e di mancanza di moralità, senza tuttavia smettere mai di citarlo di continuo, perché ne condivideva sostanzialmente la ‘nuova’ razionalità94. Si tratta a ben vedere di quella stessa prossimità poetica fra tragico e comico alla quale Platone alludeva anche nella pagina conclusiva del Simposio (223c6-d12), in cui forse è contenuto qualcosa di più di un semplice provocatorio paradosso, come si è stati a volte tentati di pensare riduttivamente. Da dove incomincia, infatti, il cammino diurno della dialettica filosofica, se non propriamente dalla constatazione dell’assopirsi della tragedia e della commedia, ormai ebbre e incapaci di tener desta la loro coscienza?95 Socrate, pur gran bevitore, non si ubriaca mai, è immune dal furore bacchico, non partecipa all’orgia, non si addormenta quando tutti ciondolano il capo (nystazein) alla fine del banchetto, ma insiste imperterrito nel suo discorso e, fattosi giorno, riprende il suo cammino fino al successivo tramonto: Socrate stava discorrendo con loro. Peraltro Aristodemo dichiarava di non ricordarsi di quello che dissero – anche perché non aveva assistito dal principio e oltretutto sonnecchiava – ma la cosa principale, diceva, era che Socrate li costringeva ad ammettere che lo stesso autore deve saper comporre commedie e tragedie, e chi con la sua arte è tragediografo deve essere anche commediografo. Ed essi, costretti a questa ammissione senza seguire gran che, ciondolavano il capo, e prima si addormentò Aristofane e poi, a giorno fatto, Agatone. Allora Socrate, dopo averli messi a dormire, si alzò e se ne andò (e Aristodemo come al solito lo seguì); e giunto al Liceo, si lavò e vi trascorse, come altre volte, il resto della giornata; e dopo averla così trascorsa fino a sera, tornò a casa a riposarsi96. 94 95 96

L. Canfora, Storia della letteratura greca, cit., pp. 232-233. Cfr. W. Desmond, Beyond Hegel and Dialectic, cit., p. 340. Platone, Simposio, a c. di F. Ferrari, introd. di V. Di Benedetto, Rizzoli, Milano 1994, p. 233 (traduzione lievemente modificata).

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– VI –

Il carattere passato del sublime

1. Nel linguaggio ordinario, prima e forse più ancora che nella vicenda storica dell’estetica, alla nozione di sublime sembrano corrispondere in generale almeno due accezioni, che è bene distinguere con cautela1. In un primo senso, semanticamente più rigoroso (e su questo mi soffermerò in breve all’inizio, sulla scorta di una ricostruzione offerta da Remo Bodei), il sublime è una categoria dalla storia notoriamente lunga e complessa: se nell’antichità – e in modo esemplare nell’Anonimo autore del trattato Perì hypseos – essa rimanda all’“idea di una verticalità d’animo trasmessa non tanto dalla natura […], quanto, e soprattutto, dalla parola”, in epoca moderna esso pare invece “sostanzialmente riferito alla natura”2, e costituisce un momento decisivo della coscienza post-cartesiana. Con questa (si pensi a Pascal), da una parte l’essere umano non può più considerarsi “quale essere armonicamente incastonato nel diadema della natura”; dall’altra però, proprio perché la res cogitans è in grado di abbracciare idealmente territori più vasti della stessa res extensa, “il barlume gettato dal pensiero illumina l’uomo disorientato, rivelan1

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Per un inquadramento generale della nozione di sublime mi limito a rimandare – oltre che al classico studio di S. Monk, Il sublime (1935), a c. di G. Sertoli, Marietti, Genova 1991 – a B. Saint-Girons, Il sublime, Il Mulino, Bologna 2006; e a R. Bodei, Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia, Bompiani, Milano 2008. Favorevole a una strategia che definirei decisamente deflazionistica della nozione è poi l’ampia ricognizione dedicata recentemente al sublime da Giuseppe Panella (nella trilogia Il sublime e la prosa. Nove proposte di analisi letteraria, Clinamen, Firenze 2005; Storia del sublime, Clinamen, Firenze 2012; Prove di sublime e altri esperimenti. Letteratura e cinema in prospettiva estetica, Clinamen, Firenze 2013); essa – pur muovendo da una prospettiva e ricorrendo a un metodo distanti da quelli presupposti dal presente contributo – costituisce comunque un formidabile repertorio di notizie e di spunti sulla storia filosofica e artistica della categoria in questione. R. Bodei, Paesaggi sublimi cit., pp. 22-23.

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done la sproporzione non solo rispetto al cosmo, ma anche rispetto a se stesso”3. Così, la stagione del sublime naturale (cioè appunto moderno) “si situa, sul terreno filosofico, tra I piaceri dell’immaginazione di Addison (1711) e la Critica del Giudizio di Kant (1790) e raggiunge il suo culmine con Burke nel 1757”; mentre in ambito poetico e pittorico essa si spinge un po’ più in là, “dal primo romanticismo letterario tedesco di Friedrich Schlegel fino a Victor Hugo e dai quadri di William Blake e Johann Heinrich Füssli fino a quelli di Caspar David Friedrich e William Turner”4. È noto infine che la nozione in questione ha subito in tarda età moderna un declino della propria fortuna. A partire dall’interdetto di Croce – che la bocciava come indebita intromissione dell’etico nell’estetico – essa ha attraversato fasi alterne: dopo un prolungato congedo, negli ultimi decenni del XX secolo il tema è tornato a riscuotere quella popolarità che oggi pare nuovamente messa in discussione. La stessa ‘rinascita’ tardonovecentesca del sublime va peraltro ascritta a fattori diversi: sul versante europeo, anzitutto al lavoro di JeanFrançois Lyotard, e in particolare alla sua interpretazione filosofica del ruolo svolto dalle avanguardie artistiche nell’epoca della fine dei “grandi racconti”; mentre in area anglosassone, e segnatamente americana, è stato decisivo il ruolo svolto dagli Yale Critics in ambito letterario5, o per esempio da una figura come Barnett Newman sul piano delle arti visive6. In America, il ritorno del sublime si inserisce in un programma esplicitamente rivolto contro la presunta superiorità morale dell’uomo sulla natura, contro gli impedimenti della memoria, e infine contro i vincoli imposti dal classicismo umanistico europeo; e corrisponde in non piccola misura anche alla ri3 4 5

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Ibidem, p. 28. Ibidem, p. 145. Sul cosiddetto sublime americano si veda, in traduzione italiana, l’antologia La via al sublime, a c. di M. Brown, V. Fortunati e G. Franci, Alinea, Firenze 1987 (con testi di G.H. Hartman, H. Bloom, P. De Man, P.H. Fry, F. Ferguson, J. Arac); nonché il capitolo conclusivo, ‘Bellezza e sublime’, in A.C. Danto, L’abuso della Bellezza. Da Kant alla Brillo Box (2003), trad. it. di C. Italia, introd. di M. Senaldi, Postmedia, Milano 2008, pp. 163-179. B. Newman, The Sublime is Now (1948), in Select Writings and Interviews, Knopf, New York 1990.

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vendicazione del rapporto peculiare che l’uomo americano intrattiene (o crede di intrattenere) con il proprio ambiente7. Dirò subito che, per certi aspetti, negli ultimi decenni del Novecento la popolarità del tema8 presentava a mio modo di vedere anche tratti di eccesso, soprattutto quando il sublime pareva trasformarsi in una clavis universalis, una sorta di grimaldello con cui interpretare e magari risolvere a volte un po’ a buon mercato i conflitti teorici apparentemente non passibili di mediazione, estendendosi talora indiscriminatamente alle più varie provocazioni e aporie che costellano, negli ambiti espressivi più diversi, la cultura tardomoderna. Prima di trarre precipitose conclusioni è comunque opportuno fare qualche ulteriore distinguo: non fosse che per sottolineare come l’operazione interpretativa condotta da Lyotard, con la sua raffinata lettura dell’estetica kantiana9, non meriti certo di essere confusa con molti tentativi, assai meno plausibili, di ritrovare nella frettolosa lettura di una porzione isolata della terza Critica la chiave per interpretare sub specie aestheticae elementi affatto eterogenei tratti dall’intera vicenda storico-culturale del Novecento. Quasi in una sorta di paradossale compensazione, la cultura contemporanea parrebbe così presentarsi quale epoca in cui la rinuncia a tematizzare il sublime come categoria filosofica corrisponderebbe a un suo paradossale inveramento in una certa prassi artistica o critica; ovvero, detto in breve: potendo rendere conto dello smisurato e dell’abnorme in una modalità apparentemente non compromessa con la metafisica della bellezza, il sublime risulterebbe appropriato alla produzione e all’interpretazione dei prodotti più diversi dell’arte contemporanea – ready-made, concettuale, visual art, e così via, in una frastornante ripetizione che del fortunato titolo di Newman ha finito per fare quasi uno slogan: The sublime is now! Per questa via, ecco allora che la prima accezione di sublime –

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R. Bodei, Paesaggi sublimi, cit., pp. 174-176. Cfr. W. Welsch, Ästhetisches Denken, Reclam, Stuttgart 1993. Fra i numerosi e importanti testi dedicati da J.-F. Lyotard al sublime kantiano mi limiterò qui a ricordare Peregrinazioni. Legge, forma, evento (1990), Il Mulino, Bologna 1992; Leçons sur l’Analytique du Sublime, Puf, Paris 1991; Anima minima: sul bello e il sublime, Pratiche, Parma 1995.

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quella filosoficamente più rigorosa, che si è presentata in apertura – collassa quasi inevitabilmente (e non senza equivoci) in una seconda accezione, assai meno determinata; ancora Bodei sembra esprimerla in maniera efficace quando scrive che, in tale prospettiva più ampia e indefinita, “il sublime non è altro che quell’eccedenza di senso, quell’invisibile ultravioletto verso cui ci spostiamo ogni volta che cerchiamo di sporgerci, trasformandoci, verso gli estremi e inesplorati confini della nostra esperienza”10. Di qui la legittimazione di fatto dell’uso a dir poco duttile della categoria in questione, e il suo “risorgere in vesti sempre diverse”: per esempio, appunto nel corso del XX secolo, “nella mistica della guerra e nei regimi totalitari” (un episodio della progressiva emigrazione del sublime dalla natura alla storia), ovvero nel rapporto dell’uomo con “lo spazio siderale”, anche dopo che la natura ha cominciato a venire “ridotta a un’inesauribile scorta di beni e di energie a disposizione”, e dopo che fattori solo apparentemente eterogenei quali la tecnica, il turismo di massa e lo scempio del paesaggio ne hanno ormai smussato (non casualmente, verrebbe da dire) la fruibilità estetica; ovvero ancora – ed era una diagnosi tutt’altro che imprevedibile – nell’appello al sublime come surrogato estetico dell’esperienza religiosa11.

2. Domandiamoci dunque: quale nozione di sublime hanno in mente i fautori di una rinascita postmoderna della categoria? Qual è il loro autore di riferimento? Non certo l’Anonimo, e nemmeno il Burke della Inquiry. Rifiutando inoltre, come è prevedibile, di riconsegnarsi alla prospettiva hegeliana circa il “carattere passato” dell’arte bella, e per altro verso nell’impossibilità di sottrarsi al 10 11

R. Bodei, Paesaggi sublimi, cit., p. 182. Ibidem, pp. 161, 179, 33; nonché, sul ritorno del religioso, pp. 146-147. Si tratta evidentemente di motivi che rendono alquanto difficile riproporre senza opportune cautele una categoria segnata (come insegnano fra l’altro le pagine che lo stesso Bodei dedica a Leopardi, nel suo volume) dal fallimento del progetto umanistico che l’ha generata, e che rischia di essere in buona parte incapace, per numerose ragioni, di rispondere in modo adeguato a “bisogni” e “aspettative” del nostro tempo.

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punto di vista della radicale storicizzazione di essa, costoro privilegiano la strategia di un ennesimo ritorno a Kant, da perseguirsi tuttavia dopo il presunto fallimento del progetto hegeliano. Sublime sarebbe allora, per adottare le parole kantiane, tutto “ciò che è assolutamente grande”, “grande al di là di ogni comparazione”12. Questa scelta però non è affatto pacifica, e anzi mi sembra implicare alcune difficoltà degne di nota. In primo luogo, essa manca spesso d’un serio e non superficiale confronto con la specifica valenza della dottrina kantiana delle facoltà. Ricorderemo allora di passaggio che, secondo l’‘Analitica del sublime’ contenuta nella Critica del giudizio (§§ 23-29), il sublime è un sentimento che nasce all’interno del soggetto in seguito al particolare rapporto di impasse che, in determinate occasioni, viene a stabilirsi fra la ragione e l’immaginazione; rapporto che (a differenza di quello ludico e armonico che è alla base del bello) va inteso anzitutto nella sua natura conflittuale. Dice Kant: il soggetto che cerca di approssimarsi al senso di quelle rappresentazioni il cui contenuto trascendente è per sua natura inesponibile, ossia le idee della ragione (la libertà morale, l’assoluto ontologico, il mondo nella sua totalità e il posto che io occupo in esso in quanto soggetto pensante finito), non riesce a ottenerne una rappresentazione intuitiva adeguata13. Ed ecco che il naufragio nell’infinita distesa dell’oceano dello spazio e del tempo – che fra l’altro, come ben ricordava a suo tempo Hans Blumenberg14, è un naufragio appunto dell’immaginazione, niente affatto un naufragio reale – fa tutt’uno con la costitutiva impossibilità di rappresentare in una forma sensibile per esempio l’infinita potenza delle forze della natura. Lasciamo stare, in questa sede, ogni considerazione circa un aspetto storicamente complesso e in parte irrisolto della teoria kantiana del sublime, ossia 12

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14

I. Kant, Critica del Giudizio, trad. it. di A. Gargiulo riv. da V. Verra, introd. di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 167, § 25 (“das, was schlechthin groß ist”; “das, was über alle Vergleichung groß ist”). Per una presentazione complessiva della dottrina kantiana del sublime cfr. ora S. Feloj, Il sublime nel pensiero di Kant, Morcelliana, Brescia 2012 (con ampia bibliografia). Cfr. su questo punto il classico lavoro di H. Blumenberg, Naufragio con spettatore (1979), trad. it. di B. Argenton, Bologna, Il Mulino 1985.

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una certa problematica contiguità – dati questi presupposti – fra il piano trascendentale e quello psicologico-empirico, e limitiamo pure la nostra attenzione all’effetto determinato da questo peculiare naufragio della rappresentazione: il conflitto fra immaginazione e ragione postula qui, di nuovo in una strategia compensativa, un’armonia collocata a un livello più elevato, per cui “l’accordo spezzato è ritrovato su un piano più alto e l’umiliazione del soggetto si trasforma nell’esaltazione della sua superiorità e della sua autonomia”15. In questa armonia, ricreata per così dire soggettivamente a un livello superiore, consiste appunto il sublime (das Erhabene) kantiano. Ma di quale armonia si parla? Giustamente è stata rilevata la difficoltà, attraverso questa via, “di ricondurre l’armonia nel sistema della storia e della poesia”16. Non per nulla, nella coerente analitica offerta da Kant, non c’è spazio a rigore per qualcosa come un sublime dell’arte, se non per via eccentrica e affatto indiretta. Ed è a questo punto che si manifesta, nella sua inaggirabilità, il nodo teorico Kant/Hegel; e qui si gioca anche uno dei momenti fondamentali del passaggio – per dirla con Peter Szondi17, fra i massimi interpreti della vicenda storico-speculativa dell’estetica moderna – dalla Wirkungsästhetik (l’estetica dell’‘efficacia’, dell’effetto sul fruitore, quale si è sviluppata da Aristotele al XVIII secolo) alla Realästhetik (l’estetica post-kantiana, immersa nella concreta ‘realtà’ storica dell’opera d’arte). A tale proposito, basterà fare riferimento (più che ai vari corsi di Vorlesungen hegeliane) alla monumentale Estetica di Hegel raccolta e pubblicata dal discepolo Heinrich Gustav Hotho tra il 1835 e il 1838, e in particolare alle pagine della seconda parte di questo testo, che – proprio nella sua configurazione, in 15

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Così riassume efficacemente S. Givone, Storia dell’estetica, Laterza, RomaBari 1988, p. 38. G. Panella, Il sublime e la prosa, cit., p. 13. Cfr. P. Szondi, Antico e moderno nell’estetica dell’età di Goethe, in Id., Poetica e filosofia della storia, trad. it. di R. Gilodi, G. Garelli, a c. di R. Gilodi, F. Vercellone, Torino, Einaudi 2001, pp. 179-185. Sul tema del sublime fra Kant e Hegel, cfr. anche le importanti considerazioni del medesimo autore in P. Szondi, La poetica di Hegel, trad. it. di A. Marietti Solmi, introd. di G. Garelli, Einaudi, Torino 2007, pp. 101-111.

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parte magari anche infedele rispetto al dettato hegeliano – ha notoriamente svolto un ruolo decisivo per la storia dell’estetica contemporanea. Pagine che vanno sotto il titolo di ‘Sviluppo dell’ideale nelle forme del bello artistico. Cap. II: Il simbolismo del sublime’18. Il problema del sublime, stando all’Estetica, è strettamente connesso alla questione del destino della soggettività. Secondo Hegel, Kant avrebbe operato una “riduzione […] di tutte le determinazioni al soggettivo, alle facoltà dell’animo, l’immaginazione, la ragione ecc.”, dal momento che il sentimento del sublime, per il filosofo di Königsberg, “riguarda solo le idee della ragione”; per lui “Il sublime in generale è il tentativo di esprimere l’infinito senza trovare nel regno dei fenomeni un oggetto che si mostri adeguato a questa rappresentazione”19. Per Hegel, invece, le cose stanno diversamente: e a ricordarlo in modo inequivocabile è ancora il titolo di una sezione dell’Estetica, dedicata a ‘L’arte del sublime’. Un’espressione quest’ultima – arte del sublime – che per Kant, collocato appunto al di qua della soglia del pensiero storico, e con ciò della Realästhetik (come hanno ricordato, fra gli altri, autori come lo stesso Szondi e Odo Marquard20) – semplicemente non avrebbe avuto senso. Si legge in un luogo assai citato della filosofia hegeliana dell’arte: Bellezza dell’ideale e sublimità vanno accuratamente distinte. Infatti nell’ideale l’interno compenetra la realtà esterna di cui è interno, in questa guisa, che i due lati appaiono reciprocamente adeguati e reciprocamente perciò compenetratisi. Nel sublime, invece, l’esistenza esterna, in cui la sostanza viene portata a intuizione, è abbassata nei confronti della sostanza, in quanto questo atto e il valore strumentale dell’esistenza esterna sono l’unico modo perché possa essere reso intuibile all’arte l’unico Dio, che per sé è senza forma e non può essere espresso nella sua essenza positiva da nulla di mondano e di finito. Il sublime presuppone 18

Est, pp. 409-426 (HW XIII, pp. 465-484). Est, pp. 410 (HW XII, p. 466). 20 Cfr. O. Marquard, Kant e la svolta in direzione dell’estetica, in Estetica e anestetica (1989), a c. di G. Carchia, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 37-69. 19

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il significato in una autonomia di fronte a cui l’esterno deve apparire solo come subordinato, nella misura in cui l’interno non vi appare ma va tanto oltre che a rappresentazione non viene appunto nient’altro che questo stesso essere e andare oltre21.

Questa è fra l’altro la ragione per cui, secondo Hegel, un concetto come quello di sublime, per quanto appropriato a una certa trattazione della sfera del religioso, pare ormai aufgehoben nell’epoca e nella prospettiva della dialettica22. Con Hegel siamo di fronte, per parafrasare un’osservazione avanzata a suo tempo da Gianni Carchia, a una metamorfosi del movimento di elevazione che è compito della ragione: dall’Erhabenes all’Aufhebung23. Ma con questo, è evidente che la partita non si gioca più soltanto sul terreno del giudizio estetico: qui a fare irruzione è la dialettica, o – meglio – il pensiero speculativo, da articolarsi sul piano della storicità dello spirito, e non su quello di una presunta struttura trascendentale e immutabile delle facoltà costitutive della mente umana.

3. Nel contesto della filosofia hegeliana, la questione del sublime si trasforma così da peculiarità del giudizio estetico, quale era in Kant, in problema più generale del destino del logos: un problema ‘logico’. È dunque opportuno richiamare quanto Hegel scrive in proposito nel primo libro della Scienza della logica (1831²). In un passo della ‘Dottrina dell’essere’ (‘Sezione II, Quantità; Capitolo II. Il quanto’) si fa riferimento proprio al sublime, a proposito del movimento che caratterizza quella condizione definita come “cattiva infinità qualitativa”: “non un procedere e un venir più avanti, ma la ripetizione sempre dello stesso, un porre, un togliere, e poi daccapo un porre e daccapo un togliere; una impotenza del negativo”24. E ancora, la successiva ‘Nota I’ prosegue in termini sarcastici, che richiamano esplicitamente il sentimento del sublime: 21

Est, pp. 420-421 (HW XIII, p. 478). G. Panella, Il sublime e la prosa, cit., p. 13. 23 Cfr. G. Carchia, Retorica del sublime, Roma-Bari, Laterza 1990. 24 SL, p. 249 (GW XXI, p. 222). 22

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La cattiva infinità […] (questo continuo sorpassare il limite, che è l’impotenza di toglierlo e la perenne ricaduta in esso) suol essere riguardata come un che di sublime e come una sorta di culto, nella stessa maniera che nella filosofia cotesto progresso è stato ritenuto un che di ultimo. Il progresso all’infinito ha in vari modi servito a tirate, che vennero ammirate come prodotti sublimi. Nel fatto però questa sublimità moderna non rende grande l’oggetto, che anzi sfugge, ma soltanto il soggetto, che inghiottisce in sé quantità così grosse25.

Porre e togliere, dunque, in un movimento mai esausto, ma fondamentalmente sterile. Porre e togliere, in una sorta di peculiare e tutta moderna fuga dal logos da parte di una soggettività malintesa, perché insieme bulimica e ipertrofica: “L’incapacità di rendersi padrone dell’opposizione qualitativa di finito e infinito […] si appiglia, come a suo rifugio, alla grandezza”, ma di fatto rimane priva di realtà effettiva. Hegel ha in mente qui, a ogni buon conto, la questione delle antinomie cosmologiche trattate da Kant nella ‘Dialettica trascendentale’ della Critica della ragion pura, scorgendo la radice di questa aporia nell’impostazione trascendentale della critica kantiana, e più in generale nell’idea che la critica della ragione pretenda di essere una legislazione stabilita a priori una volta per tutte circa i domini spettanti alle varie facoltà. La citazione è celebre: la coscienza, nel suo intuire e nel riferimento dell’intuizione all’intelletto e alla ragione, è un ente che contraddice a se stesso. È questa una troppo gran tenerezza per il mondo, di allontanar da lui la contraddizione e trasportarla invece e lasciarla sussistere insoluta nello spirito, nella ragione […]. Il cosiddetto mondo invece (significhi poi il mondo oggettivo, reale, oppure, secondo l’idealismo trascendentale, l’intuire soggettivo e la sensibilità determinata dalla categoria intellettuale) non manca perciò menomamente della contraddizione; se non che non la può soppor-

25

SL, p. 250 (GW XXI, p. 222).

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tare, e questa è la ragione per cui è dato in preda al nascere e al perire26.

Die sogenannte Welt – il “cosiddetto mondo”, dice Hegel: “cosiddetto” perché il soggetto che lo abita non è in grado di reggere alla prova secolare per eccellenza, e dunque nell’antinomia razionale finisce per dibattersi titanicamente, parteggiando ora per il versante oggettivo, ora di nuovo per quello soggettivo, senza tuttavia liberarsi mai dalla propria unilateralità. Perché il mondo non manca di contraddizione, anzi è il luogo in cui questa propriamente deve manifestarsi; ma la finitudine delle cose che lo abitano, lasciata a se stessa, non è in grado di sopportarla. Tale è del resto la ragione, afferma chiaramente Hegel, del divenire che costituisce la realtà effettiva, nonché della morte che di necessità la pervade, e che esige di essere pensata ed elaborata, non già meramente contemplata e fissata staticamente da uno sguardo insieme titanico e sgomento (e in fin dei conti improduttivo) quale quello del sublime.

4. Certo, non mancherebbero buone ragioni per ribaltare almeno in parte l’accusa, ripagando Hegel con una moneta simile, e per esempio ritrovando nell’impresa della coscienza che pretende di ripercorrere per intero il racconto della propria storia, nel travaglio del negativo e nella sua Aufhebung (precisamente la capacità di “tenere fermo ciò che è morto”27, secondo la celebre espressione contenuta nella ‘Prefazione’ della Fenomenologia), null’altro che una versione di titanismo per così dire logico-speculativo; vi si potrà cioè vedere da ultimo un racconto in sé non meno velleitario di ogni discorso testé criticato circa l’elevatezza del sublime di matrice kantiana. Osservazioni come queste, per quanto evidentemente biso-

26

SL, p. 260 (GW XXI, p. 232). Cfr. anche, analogamente, il § 48 dell’Enciclopedia (GEL, pp. 205-207; GW XX, pp. 84-85). Su questo aspetto della critica hegeliana a Kant, cfr. R. Bodei, Tenerezza per le cose del mondo. Sublime, sproporzione e contraddizione in Kant e in Hegel, in Hegel interprete di Kant, a c. di V. Verra, Prismi, Napoli 1981, pp. 179-218. 27 FdS, p. 24 (GW IX, p. 27).

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gnose di approfondimento, potrebbero avviare un discorso di ben altra portata e vastità circa la polarità kantismo/hegelismo che ancora attraversa (come ebbe a osservare Richard Rorty) il pensiero contemporaneo. In favore per così dire di Hegel resta tuttavia il fatto che, non già sul piano di una rischiosa diagnosi epocale, ma su quello più sobrio della coerenza concettuale, si palesa che solo adottando un punto di vista di filosofia della storia dell’arte (per esempio, appurando che se l’arte simbolica, per Hegel, esprime un contenuto eminentemente sublime, nell’arte romantica a farsi sublime è semmai la forma28) di fatto è possibile interrogarsi sulla stessa ragione della ricomparsa del sublime nell’arte moderna. Nell’appello a un ritorno al sublime dopo la cosiddetta fine dei grandi racconti, pare insomma difficile non rilevare un’enfasi sulla temporalità che agli occhi dello storico dell’estetica rende non troppo plausibile il riutilizzo sic et simpliciter di un dispositivo – come l’analitica di Kant – che ha pensato il sublime esplicitamente in chiave astorica, o addirittura sovrastorica29. Ecco perché, in conclusione, mi sembra convincente soprattutto la diagnosi che Bodei offre delle cause che hanno determinato il declino della fortuna del sublime, mentre un po’ meno persuasiva mi appare ogni difesa delle ragioni – diciamo così – della più tarda revanche postmoderna (soprattutto europea) del sublime: quest’ultima ha infatti registrato semmai proprio il fallimento di quella “vasta famiglia di strategie educative elaborate dall’umanesimo”, attraverso le quali “il moderno individuo europeo delle élite” aveva potuto trovare e consolidare la propria soggettività, quasi un corrispettivo estetico dello “sforzo titanico” compiuto da un’umanità che “cerca di sanare la ferita narcisistica di non trovarsi più in posizione privilegiata nell’universo”30. Sono queste, per concludere, le ragioni che suggeriscono una

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Cfr. G. Pinna, L’estetica, in Hegel. Guida storica e critica, a c. di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 235. 29 Si pensi in questo senso all’affermazione di Bodei, tanto suggestiva quanto problematica nelle sue implicazioni, secondo cui “Il paesaggio non è natura: è cultura proiettata” (R. Bodei, Paesaggi sublimi, cit., p. 19). 30 Ibidem, pp. 8, 33, 37, 161, 179.

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certa cautela nei confronti di ogni recupero della categoria del sublime che non passi attraverso la rigorosa disamina della distanza che separa Kant non solo da Hegel e dall’Anonimo (o Pseudo-Longino), ma anche da noi31. In tal senso, chi si interessi al destino del sublime potrebbe probabilmente giovarsi dell’invito alla cautela contenuto nelle parole che si leggono ancora nella ‘Prefazione’ della Fenomenologia dello spirito, quando Hegel scrive che, su terreni come questo, Lo spirito si mostra così povero che, per il proprio ristoro, sembra anelare al mero sentimento del divino in generale, così come il viandante nel deserto non desidera altro che un semplice sorso d’acqua. Ciò di cui lo spirito si accontenta dà la misura di quanto grande sia stata la sua perdita32.

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32

Al di là delle implicazioni che essa riveste nel contesto della sua occorrenza specifica, vale qui probabilmente la pena di citare in conclusione l’osservazione di Wendy Steiner, circa l’opportunità di favorire oggi un’estetica orientata alla rinascita della bellezza all’insegna della relazione con l’alterità, più che dall’ipetrofia autoreferenziale del sublime: “None of this pleasurable and complex reciprocity occurs in the experience of the Kantian sublime, which was the aesthetic model for high modernism. In the sublime, as we shall see, aesthetic experience is specifically the non-recognition of the self in the Other, for the Other is inhuman, chaotic, annihilating” (W. Steiner, Venus in Exile. The Rejection of Beauty in 20th-Century Art, The University of Chicago Press, Chicago 2001, p. XXIV – più in generale anche il capitolo I: ‘The monster sublime’, pp. 1-31). In altra prospettiva, sulla questione cfr. ancora A.C. Danto, L’abuso della bellezza, cit. FdS, p. 8 (GW IX, p. 13).

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– VII –

La dialettica sulla soglia. Nota sulla teleologia secondo Hegel

1. In che misura è corretto affermare che il procedimento dialettico hegeliano comporta una forma di teleologia?1 In che termini si può parlare d’una generale Zweckmäßigkeit implicita nella hegeliana storia dello spirito? La questione è delicata perché la storia delle interpretazioni, come è noto, è stata anche troppo prodiga nell’attribuire a Hegel profezie e diagnosi pseudo-teleologiche di vario genere: la fine o (addirittura) la morte dell’arte, la fine della storia, e così via. Al di là degli erramenti della vulgata2, un quarto di secolo fa Valerio Verra, in un saggio dedicato a La razionalità della teleologia in Hegel 3, aveva messo in guardia dalla po1

2

3

Per un inquadramento generale della nozione di teleologia e della sua costitutiva ambiguità semantica mi limito a rimandare agli studi seguenti: N. Hartmann, Teleologisches Denken, De Gruyter, Berlin 1951; J. Simon, Teleologisches Reflektieren und kausales Bestimmen, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», 30, 1976, pp. 369-388; J.-E. Pleines, Teleologie. Chance oder Belastung für die Philosophie, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», 44, 1990, pp. 375-398; Zum teleologischen Argument in der Philosophie. Aristoteles – Kant – Hegel, a c. di J.-E. Pleines, Königshausen & Neumann, Würzburg 1991; J.-E. Pleines, Teleologie. Ein philosophisches Problem in Geschichte und Gegenwart, Königshausen & Neumann, Würzburg 1994; G. Garelli, La teleologia secondo Kant. Architettonica, finalità, sistema (17811790), Pendragon, Bologna 1999 (pp. 101-117); R. Spaemann, R. Löw, Fini naturali. Storia e riscoperta del pensiero teleologico, trad. it. di L. Allodi, G. Miranda, pref. di C. Ruini, Ares, Milano 2013 (nuova ed.; su Hegel cfr. particolarmente le pp. 208-232). Cfr. in proposito la considerazione di R. Bodei, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, nuova ed., Bologna, Il Mulino 2014, p. 144: “Molto spesso si scambia […] in Hegel la causa efficiente con la causa finale, e si crede […] che sia effettivamente lo spirito, l’Idea ‘in sé e per sé’, a produrre il mondo e a guidare capricciosamente la danza delle cose (ed è questa la vulgata su Hegel)”. Il saggio è apparso originariamente nella rivista «Fondamenti», 14-16, 1989/90, pp. 87-119; è stato poi raccolto nel volume postumo da cui sono

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livocità della nozione in questione: sono forme diverse e diversamente esplicite di “teleologia” quelle che pervadono l’opera di Hegel, ovunque il filosofo “esprime lo sforzo di mostrare come la finalità ricopra un arco di significati che vanno dalla vita naturale a quella storica, dal cammino della coscienza verso il sapere, agli sviluppi del pensiero teleologico e di quello filosofico in senso stretto”. Perché se per esempio, da una parte, è comprensibile in che senso la razionalità della natura animale si spieghi per Hegel in termini sostanzialmente debitori della fisica aristotelica, assai più problematica si rivela, dall’altra, ogni considerazione teleologica legata alle forme del divenire storico – fino alla famigerata “astuzia della ragione [List der Vernunft]”, che tesse l’arazzo variopinto della Geistesgeschichte4. Il presente contributo si prefigge di fare il punto almeno su qualche aspetto della trattazione hegeliana della teleologia, al fine di individuare e – nei limiti del possibile – neutralizzare alcuni equivoci di cui una lectio facilior di certi luoghi del sistema sembra aver disseminato la storia della ricezione. Ciò può risultare in questa sede di un qualche interesse anche in considerazione del fatto che, come è noto, la critica hegeliana della teleologia affonda le proprie radici in un momento cruciale della storia dell’estetica, ovvero il confronto di Hegel con il Kant della Critica del giudizio5.

4 5

tratte le citazioni: V. Verra, Su Hegel, a c. di C. Cesa, il Mulino, Bologna 2007, pp. 165-195. Ibidem, pp. 170, 185. Qualunque ricorso alla nozione di teleologia, nel corpus degli scritti hegeliani, presuppone in modo più o meno esplicito il confronto con Kant. Lasciando da parte i corsi delle lezioni, le occorrenze principali della trattazione della finalità che si sono tenute presenti in questo contributo sono a) le pagine di Fede e sapere dedicate al giudizio riflettente kantiano, e in particolare al rapporto fra intelletto archetipo e giudizio teleologico (cfr. PSC, pp. 154-164; GW IV, pp. 339-346); b) la disamina, contenuta nel cap. V della Fenomenologia dello spirito (sez. A.a), del “rapporto teleologico” come “rapporto esterno rispetto agli elementi che lo compongono” (cfr. FdS, p. 176; GW IX, p. 146); c) il capitolo III, espressamente dedicato alla ‘Teleologia’, che conclude la sezione II (‘Oggettività’) della ‘Dottrina del concetto’, nella Scienza della logica (cfr. SL, pp. 833-856; GW XII, pp. 154-172); d) le sezioni, parallele alla trattazione contenuta nella Logica, che si trovano nelle varie edizioni dell’Enciclopedia (qui si farà riferimento ai §§ 153-160 dell’Enciclopedia del 1817, e ai

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2. Un’esposizione emblematica e nel complesso esaustiva della concezione hegeliana della teleologia si legge nello Zusatz al § 205 della Grande enciclopedia: Quando si parla di scopo, si suole avere di fronte agli occhi soltanto la finalità esterna. Le cose, da tale punto di vista, non sono considerate come dotate in sé di una loro determinazione,

§§ 204-212 della Grande enciclopedia). Vale infine almeno la pena di ricordare e) il cenno alla circolarità del movimento della “ragione teleologica” che si legge nella Propedeutica (cfr. HW IV, 55; § 172). Ora, senza voler con ciò trascurare le differenti sfumature assunte di volta in volta dall’argomentare hegeliano, si può credo sostenere che la trattazione della teleologia contenuta in questi passaggi testuali sia nell’insieme fondamentalmente coerente, pur nella diversità dei contesti. Come ha riassunto efficacemente ancora Verra, muovendo dal punto di vista fenomenologico, “la ragione, in quanto osservatrice, corrisponde ancora a un livello molto limitato di autocoscienza ed opera essenzialmente in forma istintiva. Ma, a differenza dell’animale, che nella soddisfazione del proprio istinto trova il proprio compimento, la ragione come istinto è scissa, lacerata nella sua soddisfazione”. Donde la dimensione esteriore della finalità e la conseguente necessità di postulare “un altro intelletto”, come nei §§ 76-79 della kantiana Critica del giudizio: “perché osservare vuol dire ricondurre un processo, un movimento, a schemi di essere e di fissità; ma ciò che caratterizza il processo organico invece è proprio il suo […] non lasciarsi comprendere in momenti che presentino il carattere dell’essere o della fissità”. Ecco perché, nella trattazione propriamente logica offertane in seguito da Hegel, il problema della finalità non può trovare posto nelle sfere dell’essere o dell’essenza, bensì riguarda il concetto, ossia una dimensione capace di pensare speculativamente che la verità della necessità è la libertà, mentre la verità della sostanza è il concetto/soggetto (V. Verra, Su Hegel, cit., pp. 172175). – La letteratura critica sul tema è sterminata. Mi limito qui a rimandare agli studi ormai classici di cui mi sono avvalso per la stesura di questo contributo: G. Wohlfahrt, Der spekulative Satz. Bemerkungen zum Begriff der Spekulation bei Hegel, De Gruyter, Berlin-New York 1981; Hegel interprete di Kant, a c. di V. Verra, Prismi, Napoli 1981; F. Menegoni, La recezione della “Critica del giudizio” nella logica hegeliana: finalità esterna e interna, in «Verifiche», 18, 1989, pp. 443-458; Hegel und die Kritik der Urteilskraft, a c. di H.F. Fulda, R.-P. Horstmann, Klett-Cotta, Stuttgart 1990; F. Chiereghin, Finalità e idea della vita. La recezione hegeliana della teleologia di Kant, in «Verifiche», 19, 1990, pp. 127-229; V. Giacché, Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella “Scienza della logica” di Hegel, Pantograf, Genova 1990; L. Lugarini, Finalità kantiana e teleologia hegeliana, in «Archivio di storia della cultura», 5, 1992, pp. 87-103; T. Pierini, Theorie der Freiheit. Der Begriff des Zwecks in Hegels “Wissenschaft der Logik”, Fink, München 2006.

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ma soltanto come mezzi che vengono usati e consumati per la realizzazione di uno scopo che si trova fuori di esse. Questo è in generale il punto di vista dell’utilità che in altri tempi ha avuto grande importanza anche nelle scienze, ma poi è caduto meritatamente in discredito e si è riconosciuto che non poteva condurre alla vera comprensione della natura delle cose. Certo, bisogna render giustizia alle cose finite, considerandole come qualcosa che non è ultimo e che rinvia al di là di sé. Ma questa negatività delle cose finite è però la loro propria dialettica e per riconoscerla ci si è dapprima affidati al loro contenuto positivo. In quanto poi dal punto di vista teleologico si tende, con buona intenzione, a mostrare la saggezza divina che si manifesta specialmente nella natura, va osservato in proposito che con una tale ricerca di fini, a cui le cose servono come mezzi, non si va oltre il finito ed è facile cadere in riflessioni meschine; così, per es., quando si osserva non soltanto la vite dal punto di vista della sua ben nota utilità per l’uomo, ma anche il sughero in rapporto ai tappi che vengono ritagliati dalla sua corteccia per chiudere le bottiglie. In questo senso si sono scritti in altri tempi libri interi, ed è facile stabilire che in tal modo non può venir promosso il vero interesse né della religione né della scienza. La finalità esterna precede immediatamente l’idea, ma ciò che sta sulla soglia spesso è proprio ciò che è più insoddisfacente6.

In polemica contro ogni facile teodicea, e ben consapevole dell’intricato dibattito intorno alla teologia fisica che aveva animato la filosofia già nel secolo precedente, Hegel non esita a prendere le distanze da qualunque insulsa concezione à la Pangloss, che confonda il finalismo con un provvidenzialismo consolatorio. L’esempio finale della quercia da sughero è ispirato da Schiller7, e non lascia dubbi in proposito. Nessuno degli enti naturali – per dirla ancora con Verra – può “arrogarsi il valore di fine ultimo, chiudersi nella sua finitezza” nell’intento di usare gli 6 7

GEL, pp. 431-432 (HW VIII, pp. 361-362). Si vedano in proposito le osservazioni dei curatori in GW XII, p. 348; l’esempio risuona anche nella Scienza della logica: cfr. SL, p. 836 (GW XII, p. 156).

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altri enti8. Donde anzitutto il senso dell’affermazione hegeliana secondo cui la teleologia sta come “sulla soglia”. Un’osservazione importante, che sottolinea come la logica immanente al giudizio teleologico rappresenti un passaggio in qualche modo necessario, e tuttavia limitato alla dimensione dell’esteriorità dello scopo: bisogna dunque guardarsi da ogni tentazione di irrigidire tale passaggio, trasformandolo in una struttura statica del pensare – uno di quei feste Gedanken che Hegel, nella Fenomenologia, invitava a sciogliere nella fluidità (Flüßigkeit) del movimento dialettico. E di qui anche la necessità di ripensare da capo l’opposizione fra meccanismo e finalismo, articolandola finalmente in senso dialetticospeculativo, al di là dell’impostazione kantiana. Per gli intenti della presente esposizione, propongo nel seguito di riassumere il discorso hegeliano per sommi capi come segue. (a) Nel capitolo sulla teleologia contenuto nella Scienza della logica Hegel scrive che, mentre meccanismo e chimismo hanno bisogno di “condizioni ed eccitamenti dell’attività che sopravvengano dal di fuori”9, nella teleologia il concetto di “scopo” (Zweck) serve piuttosto a rendere il sapere autonomo da condizioni esterne: in esso, dice Hegel, trovano unità aspetti che nelle sfere precedenti risultavano indifferenti e indipendenti. (b) Il rapporto con la trattazione kantiana della teleologia vi è peraltro descritto nei termini di un’ambivalenza. Da una parte infatti (e in ciò consiste per Hegel un merito indiscutibile della terza Critica) Kant ha permesso di capire quale sia il senso filosofico autentico della questione, giungendo a distinguere tra “finalità esterna” e “finalità interna”. Andando in cerca del Naturzweck e del principio di autodeterminazione (Selbstbestimmung) degli enti dotati di finalità propria, egli ha così aperto la via alla comprensione filosofica del vivente. D’altra parte tuttavia (e qui risiedono per Hegel i limiti dell’impostazione kantiana), la disamina del giudizio teleologico resta

8 9

V. Verra, Su Hegel, cit., p. 169. SL, p. 832 (GW XII, p. 153).

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ancorata, in Kant, ai metodi non autenticamente dialettici della “vecchia metafisica [vormalige Metaphysik]” della scuola10. E sono proprio vincoli metodologici siffatti a impedire un salutare abbandono del livello insidioso ed equivoco della finalità esterna. (c) Due sono per Hegel gli aspetti più rilevanti nella trattazione kantiana della teleologia. Per un verso, ne va della questione del sostrato sovrasensibile e dell’intellectus archetypus, cui Hegel si riferisce dapprima in maniera esplicita in apertura; e in seguito in modo obliquo, con un cenno indiretto al tema della teologia fisica esaminato da Kant nella ‘Dialettica trascendentale’ della prima Critica11: Quanto più il principio teleologico si connette con il concetto di un intelletto extramondano e fu perciò favorito dalla pietà o devozione, tanto più sembrò allontanarsi dalla vera indagine naturale, che vuol conoscere le proprietà della natura non già come estranee a questa, ma come determinatezze a lei immanenti, e solo un tale conoscere si chiama conoscere concettuale [Begreiffen]12.

Per altro verso, e prima ancora13, Hegel mette in questione il tema delle antinomie e della loro inadeguata risoluzione dialettica; coerentemente con la tradizionale impostazione della sua critica a Kant, egli accosta così la “terza antinomia” della Critica della ragion pura14 all’“antinomia del giudizio teleologico” trattata nella Critica del giudizio ai §§ 69-70: L’antinomia del fatalismo col determinismo e della libertà riguarda parimenti l’opposizione del meccanismo e della teleologia; poiché il libero è il concetto nella sua esistenza [das Freye ist der Begriff in seiner Existenz]15. 10 11 12 13 14 15

SL, p. 834 (GW XII, p. 154). Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, A620-B648/A630-B658. SL, pp. 833-835 (GW XII, pp. 154-155). Cfr. SL, pp. 834, 837-839 (GW XII, pp. 154, 157-159). Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, A444-B472/A471-B479. SL, p. 834 (GW XII, p. 154).

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Come è noto, la soluzione kantiana delle antinomie in questione andava in direzione della compossibilità di tesi e antitesi, qualora queste siano debitamente considerate sotto rispetti diversi: dunque determinismo e libertà, meccanismo e finalismo. Per quanto riguarda l’antinomia del giudizio teleologico, tuttavia, Kant si sarebbe infine risolto secondo Hegel a considerarla come alternativa fra due massime del giudizio16, tra le quali non si tratterebbe che di scegliere di volta in volta, a seconda delle occorrenze e delle necessità epistemologiche del contesto in esame. Eppure, obietta Hegel, Se il meccanismo e la finalità stanno uno di contro all’altro, appunto per questo non si possono prendere come equivalenti, quasi ciascun di essi fosse per sé un concetto giusto, di valore eguale all’altro, e tutto si riducesse a sapere quale dei due, caso per caso, si possa applicare17.

Al contrario, si tratta di capire piuttosto “se la loro verità non sia costituita da un terzo, oppure se l’uno non sia la verità dell’altro. – Se non che la relazione di scopo si è dimostrata essere la verità del meccanismo”; e con esso del chimismo, che qui viene “messo assieme […] sotto il titolo della necessità naturale”18. (d) Come emergeva dalla citazione della Grande Enciclopedia riportata in apertura (§ 205 Zus.), Hegel sembra dunque avere in mente una nozione di Zweckmäßigkeit pressoché del tutto modellata sull’operare tecnico-poietico propriamente umano19, della quale 16 17 18 19

Cfr. I. Kant, Critica del giudizio, § 75. SL, p. 834 (GW XII, p. 154). SL, pp. 834-835 (GW XII, pp. 154-155). Accezione questa, sia detto di passaggio, la cui unicità Kant aveva pur messo in questione non solo trattando del Naturzweck nella seconda sezione della Critica del giudizio, bensì già in sede di trattazione del ‘Terzo momento dei giudizi di gusto’ (§§ 10-17), allorché si interrogava intorno alla problematica consistenza di una Zweckmäßigkeit ohne Zweck. Sull’intera questione si veda G. Carchia, Kant e la vrità dell’apparenza, a c. di G. Garelli, Ananke, Torino 2006; rimando anche alle considerazioni sulla “tecnica” della natura e della facoltà di giudicare in G. Garelli, La teleologia secondo Kant. Architettonica, finalità, sistema (1781-1790), cit., pp. 125-132.

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mette in luce i limiti di mera finalità esterna. Del resto, la finalità interna sarà da Hegel presa in considerazione – nel contesto della Scienza della logica – solamente all’altezza della trattazione dell’“idea della vita”, poiché – secondo la formulazione enciclopedica del 1817 (§ 162) – solo nella ricostruzione dialettica dell’Idea intesa come “unità assoluta del concetto e dell’oggettività” fine e mezzo fanno tutt’uno20. Ma questa, appunto, è un’altra storia: una vicenda che si svolge – stando alla lettera del dettato hegeliano – al di là della “soglia” rappresentata dalla teleologia propriamente detta. Al di qua di tale soglia invece non è sufficiente stabilire, come vorrebbe Kant, quale dei due principi – tra meccanismo e teleologia – sia opportuno di volta in volta usare (il termine, si vedrà, non è affatto casuale) per “un conoscere soggettivo, cioè accidentale, […] che in certe occasioni applica l’una oppure l’altra massima secondo che la ritiene idonea per oggetti dati”21. Si tratta piuttosto di capire, invece, quale dei due principi sia vero, nell’accezione propriamente hegeliana di autonomo (selbständig, cioè ‘autosussistente’) e capace di determinarsi da sé. E qui emerge la ragione profonda dell’accostamento della terza antinomia cosmologica della Critica della ragion pura all’antinomia del giudizio teleologico: la finalità “è il concetto in esistenza libera”, mentre il meccanismo (e con esso il chimismo) è ancora immerso nell’esteriorità, cioè in un’estranea necessità naturale. Giacché a uno sguardo speculativo, secondo Hegel, la teleologia stessa deve rivelarsi quale verità del meccanismo22.

3. Per intendere meglio quest’ultima affermazione – la teleologia come intima verità del meccanismo – e consentire una pausa nella ricostruzione dell’inesorabile dettato hegeliano, si possono citare 20 21 22

EHd, p. 103 (GW XIII, p. 98). SL, p. 839 (GW XII, p. 158). Verità significa, nel contesto della dialettica in questione, “accordo di concetto e realtà”, ma anche “superiorità ontologica”: secondo una concezione qualitativa del vero orientata non alla confutazione degli ‘errori’ del punto di vista intellettualistico, bensì al superamento dialettico-speculativo del punto di vista del finito (cfr. V. Giacché, Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella “Scienza della logica” di Hegel, cit., pp. 57-58 e, più in generale, pp. 45-74).

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di passaggio alcune osservazioni di Georges Canguilhem sul “meccanismo” cartesiano. Considerazioni che, pur condotte da un punto di vista tutt’altro che assimilabile a quello dialettico (anche se forse non ne sarebbe inverisimile una genealogia almeno indirettamente e latamente hegeliana: basti citare, in proposito, il nome di Jean Hyppolite), sembrano in qualche modo offrire un prezioso contributo alla comprensione del problema. Si legge dunque ne La conoscenza della vita (1965), a proposito del meccanismo: Ci troviamo qui in presenza di un atteggiamento tipico dell’uomo occidentale. La meccanizzazione della vita dal punto di vista teorico, e l’utilizzazione tecnica dell’animale sono fatti inseparabili. L’uomo può divenire signore e possessore della natura solo a condizione di negare ogni finalità naturale e di considerare come semplice mezzo l’intera natura, compresa la natura apparentemente animata, fatta eccezione di lui stesso23.

La clausola finale – “fatta eccezione di lui stesso”, in riferimento all’essere umano – sarà probabilmente da rimettersi in questione, alla luce delle osservazioni conclusive. Tuttavia bisogna prima osservare, ancora con Canguilhem: sembra che la teoria dell’animale-macchina acquisti il suo senso soltanto grazie a due postulati che troppo spesso si trascura di mettere bene in evidenza. Il primo è quello che afferma l’esistenza di un Dio fabbricatore, il secondo quello secondo cui il vivente è un dato primitivo che precede la costruzione della macchina24.

Il che significa: il meccanismo non fa che confermare di fatto la validità dell’eziologia aristotelica (esprimendosi a sua volta in termini di causa efficiente, formale e finale, oltre che ovviamente di res extensa come materia dei processi naturali), proponendo tuttavia una differente dislocazione dei tipi di causalità teorizzati da Aristotele. 23

24

G. Canguilhem, La conoscenza della vita (1971²), trad. it. di F. Bassani, Il Mulino, Bologna 1976, p. 162. Ibidem, pp. 163-164.

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La teoria dell’animale-macchina sarebbe, quindi, nei confronti della vita, ciò che un’assiomatica è nei confronti della geometria: non è altro […] che una ricostruzione razionale la quale, però, soltanto per una finzione ignora l’esistenza di ciò che deve rappresentare […]. Si può, quindi, dire che Cartesio, sostituendo il meccanismo all’organismo fa scomparire dalla vita la teleologia; si tratta, però, di una scomparsa soltanto apparente, poiché il finalismo viene messo tutto intero nel punto di partenza25.

Il meccanismo, nella diagnosi di Canguilhem, è dunque una teleologia mascherata: una teleologia che occulta, da principio e per principio, il proprio orientamento a un fine che rimane inespresso, pur essendo assolutamente efficace.

4. Torniamo dunque alla trattazione kantiana, e nella fattispecie all’ultimo punto: (d) la distinzione fra giudizio determinante e giudizio riflettente, là dove per Kant – come ricorda Hegel – la facoltà del giudicare è “un anello di collegamento fra l’universale della ragione e l’individuale dell’intuizione”. Ora, continua Hegel, mentre il giudizio determinante si limita a sussumere “il particolare sotto l’universale”, laddove in tale operazione il concetto puro dell’intelletto si rivela peraltro “un che di astratto che diventa concreto soltanto in un altro, nel particolare”, lo scopo “al contrario è l’universale concreto, che ha in lui stesso il momento della particolarità ed esteriorità ed è perciò attivo e costituisce lo stimolo a staccar sé da se stesso [sich von sich selbst abzustossen]”26. D’altra parte, “la relazione di scopo non è […] un giudicare riflettente, che considera gli oggetti esterni solo secondo una unità, come se [als ob] un intelletto li avesse dati ad uso della nostra facoltà conoscitiva, ma è il vero in sé e per sé, che giudica oggettivamente e determina in maniera assoluta [absolut bestimmt] l’oggettività esteriore”. Cogliere la distinzione kantiana fra giudizio determinante e

25 26

Ibidem, pp. 164-165. SL, pp. 839-840 (GW XII, p. 159).

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giudizio riflettente significa dunque per Hegel riconoscere che la “relazione di scopo” è “più che un giudizio; è il sillogismo [Schluß] del libero concetto per sé stante”27. In questo tertium che infine si rivela essere lo scopo, la finalità esterna esige di venire aufgehoben, ‘levata’. Ecco allora che, in ideale parallelismo rispetto allo Zusatz citato in apertura, si può utilmente leggere in conclusione il § 155 dell’Enciclopedia del 1817: Il rapporto teleologico è dapprima la finalità esteriore; poiché il concetto è ancora contrapposto immediatamente all’oggetto, non lo ha ancora prodotto a partire da sé. Lo scopo è perciò finito, in parte quindi secondo il suo contenuto, in parte anche per il fatto che esso ha una condizione esterna presupposta in un oggetto preesistente inteso come il materiale della sua realizzazione. La sua autodeterminazione è pertanto solo formale, racchiusa nello scopo soggettivo, e lo scopo compiuto è soltanto una forma esteriore28.

Con ciò, va comunque certamente ascritto a merito di Kant l’aver spalancato la via all’Idea, “anche se per un giro assai obliquo [in einer sehr schieffen Wendung] e in maniera soltanto negativa [nur negativ]”29. Così prosegue Hegel ancora nel § 155 dell’Enciclopedia di Heidelberg: Questo scopo finito appartiene a una ragione esteriore, finita, quindi propriamente a un intelletto esteriore; – anche il concetto nelle sue determinazioni immediate, il giudizio dell’intelletto e il sillogismo hanno come tali soltanto un’esistenza in un intelletto soggettivo. La comune rappresentazione di uno scopo cade semplicemente in un tale intelletto e scopo. Col concetto della finalità

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28 29

La finalità consiste dunque in un sillogismo a tre termini (scopo soggettivo/mezzo/scopo realizzato): “ma in realtà si tratta di un processo dialettico dove ciascuno dei termini si mostra via via come l’intero sillogismo” (V. Verra, Su Hegel, cit., p. 179). EHd, pp. 101-102 (GW XIII, p. 95). SL, p. 837 (GW XII, p. 157).

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interna Kant ha risvegliato l’idea in generale e in particolare l’idea della vita. Egli ha liberato la ragion pratica dalla finalità esteriore solo nella misura in cui ha riconosciuto come assoluto l’elemento formale della volontà, l’autodeterminazione nella forma dell’universalità; il contenuto è però indeterminato e l’agire conforme allo scopo è condizionato da un materiale e produce per ciò anche solo il bene formale o, il che è lo stesso, realizza solo mezzi. – Già il concetto aristotelico della vita contiene la finalità interna e sta perciò infinitamente al di sopra del concetto della moderna teleologia30.

A leggere fra le righe, diviene chiaro che – per servirsi della terminologia aristotelica evocata in conclusione – in gioco qui non è più soltanto un’attività poietica, bensì anche una praxis dotata per così dire di fine in sé. Il che non esclude affatto, peraltro, che Hegel – coerentemente con le riflessioni da lui svolte fin dagli anni di Jena – possa riconoscere nel mezzo inteso come strumento il carattere peculiare e culturalmente imprescindibile anche di quella razionalità teleologica che a questo punto potremmo chiamare, senza indugio, ragione strumentale31. La citazione mostra dunque in modo esplicito in che senso Aristotele e Kant costituiscono i punti di riferimento imprescindibili per comprendere la strutturale ambivalenza di ogni trattazione hegeliana della teleologia. Per un verso infatti, con il superamento speculativo della finalità esterna, Hegel si propone di attingere daccapo – al culmine della stagione idealistica – alle profondità della fisica aristotelica, identificando la realtà con il telos della sua stessa effettuazione (si pensi alla nozione di Wirklichkeit, che Hegel concepisce espressamente come moderna traduzione dell’aristotelica energeia, ma che a questo punto si rivela assai prossima anche alla nozione sorella di entelecheia). Per altro verso, nella posizione hegeliana si registra però anche l’inequivocabile eredità della nozione kantiana di Selbsterhaltung: l’autonomia e autosussistenza di una ragione capace di darsi i propri scopi, in cui l’autokinesis di Aristotele si è

30 31

EHd, p. 101 (GW XIII, pp. 95-96). Su questo punto cfr. ancora R. Bodei, La civetta e la talpa, cit., pp. 180-188.

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fatta, oltre che Selbstbewegung, anche Selbstbestimmung. Il movimento spontaneo in cui consiste lo svolgimento immanente al pensare non è che l’altra faccia di una venerabile istanza programmatica della Fenomenologia: il passaggio dalla sostanza al soggetto.

5. Un’ultima considerazione sarà infine riservata a commento delle osservazioni che Hegel dedica al rapporto teleologico, designandolo esplicitamente in termini di Gewalt, “violenza”. L’operare di esso, si legge ancora nella Scienza della logica, mette avanti [stellt hinzu] un oggetto come mezzo, lo lascia esteriormente consumare [abarbeiten] in luogo suo, lo abbandona al logorio [gibt es der Aufreibung Preis], e si conserva dietro di lui contro la violenza meccanica32.

Questa citazione è anche troppo suggestiva, qualora la si confronti con alcune fra le pagine più celebri della Fenomenologia dello spirito. Senza tentare azzardati parallelismi testuali, mi limiterò a segnalare l’espressione “violenza meccanica” con cui si conclude: se la teleologia è la verità del meccanismo, quest’ultimo costituisce la prassi, a tratti brutale, dell’agire orientato secondo fini. Certo, si tratta di una Gewalt in qualche modo inevitabile: è esercizio di un potere, prima ancora che uso violento della forza. E infatti bisogna ammettere che, rispetto agli “scopi finiti della finalità esterna”, il mezzo designa l’emergere di “un che di superiore”, in quanto – come commenta ancora Verra – possiede “una consistenza e una continuità del tutto diverse dalle soddisfazioni singole più o meno effimere che può procacciare”33. Così, scrive Hegel, “l’aratro è più nobile che immediatamente non siano i suoi godimenti ch’esso procura”, poiché “Lo strumento [Werkzeug] si conserva, mentre i godimenti immediati passano e vengono dimenticati”34. Del resto,

32 33 34

SL, p. 848 (GW XII, p. 166). V. Verra, Su Hegel, cit., p. 180. SL, pp. 848-849 (GW XII, p. 166).

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pure gli scopi prodotti con sapienza tecnica (poniamo: una casa, un orologio) “adempiono […] alla destinazione loro soltanto col loro uso e logorio [Gebrauch und Abnutzung]”35. Poco sopra si leggeva inoltre che “Con i suoi strumenti l’uomo domina la natura esteriore, anche se per i suoi scopi le resta anzi soggetto”36; mentre nella pagina successiva compare il celebre passo sulla circolarità del movimento teleologico che costituisce, direi, una (non disinteressata) parafrasi hegeliana della definizione di Zweck offerta in apertura del § 10 della Critica del giudizio37 – ove tuttavia per Hegel, ancora una volta, tale movimento in Kant paleserebbe “la mancanza di un sillogismo formale [den Mangel eines formalen Schlusses überhaupt]”, e daccapo la mancata coincidenza di scopo e mezzo38. È qui che ha origine dunque quella che potrebbe chiamarsi la cattiva infinità del processo della mediazione (der unendliche Progreß der Vermittlung): Si può dire quindi dell’attività [Thätigkeit] teleologica che in essa la fine è il cominciamento [das Ende der Anfang], la conseguenza è la ragion d’essere, l’effetto è la causa, ch’essa è un divenire del divenuto, che in lei giunge all’esistenza soltanto quello che già esiste ecc., vale a dire, che tutte in generale quelle determinazioni di rapporto, che appartengono alla sfera della riflessione o dell’immediato essere, hanno perduto le loro differenze, e che quello che viene enunciato quale un altro, come la fine, la conseguenza, l’effetto ecc., nella relazione dello scopo non ha più la determinazione di un altro, ma è anzi posto come identico col semplice concetto39.

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38 39

SL, p. 852 (GW XII, p. 169). SL, p. 849 (GW XII, p. 166). I. Kant, Critica del giudizio, trad. it. di A. Gargiulo riv. da V. Verra, introd. di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 107: “Se si vuole spiegare che cosa sia uno scopo secondo le sue determinazioni trascendentali (senza presupporre niente di empirico, come il sentimento di piacere), esso è l’oggetto d’un concetto, in quanto questo è considerato come la causa di quello (il fondamento reale della sua possibilità); e la causalità di un concetto rispetto al suo oggetto è la finalità (forma finalis)”. SL, p. 851 (GW XII, p. 168). SL, p. 850 (GW XII, p. 167).

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Di qui il paradosso estremo del rapporto teleologico: se non viene correttamente inteso – se non viene cioè inteso come soglia dello speculativo, ovvero come verità del proprio superamento – questo rapporto rischia di covare in sé il principio della sua stessa perversione, facendo del meccanismo la verità della Zweckmäßigkeit. Alla relazione esteriore e meccanica si sostituisce per così dire un’immediatezza negativa: un venir meno della differenza, per cui l’esteriorità tra forma e contenuto, tra scopo soggettivo e oggetto, può venire risolta assolutizzando la forma universale della volontà e lasciando il contenuto nell’indeterminazione. Tale negazione assoluta del condizionamento oggettivo, che sposta tutto sul piano della soggettività, recupera bensì un aspetto dell’unità indifferente esteriore del meccanismo, ma nella forma peggiorata dell’utilitarismo e della ragione strumentale, tutta volta alla manipolazione dei propri contenuti. Ecco perché, anche nel caso della teleologia, “ciò che sta sulla soglia […] è proprio ciò che è più insoddisfacente”: perché il punto in cui sembra finalmente negata e messa in discussione la relazione meccanica, alla soglia dell’idea, è anche quello in cui si manifesta il pericolo di un potenziale rovesciamento che nella storia dello spirito ha già trovato le proprie figure, e che nel presente si traduce nel rischio di una nuova, ennesima e forse più profonda manipolazione ideologica40.

6. Tanto nella Scienza della logica41 quanto nella Grande enciclopedia (§ 209, Zusatz) Hegel parla esplicitamente di questa Gewalt teleologica in termini di List der Vernunft:

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41

GEL, pp. 431-432 (HW VIII, pp. 361-362). Cfr. l’osservazione sul ‘sapere assoluto’ di S. Žižek, Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico. Libro II (2012), trad. it. di C. Salzani, W. Montefusco, Ponte alle Grazie, Milano 2014, p. 41: “la risposta hegeliana consiste semplicemente in uno slittamento di prospettiva che riveli il carattere positivo di questa negatività, il suo essere condizione di possibilità: ciò che appare come negatività suprema costituisce in sé una positiva condizione di possibilità, giacché l’universo di significato può sorgere solo contro lo sfondo della sua distruzione”. Cfr. SL, p. 848 (GW XII, p. 166).

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La ragione è tanto astuta, quanto potente. L’astuzia consiste in generale nell’attività mediatrice che, facendo in modo che gli oggetti operino l’uno sull’altro in conformità alla loro natura e si consumino nell’operare l’uno sull’altro, tuttavia realizza soltanto il suo scopo, senza mischiarsi direttamente in questo processo. Si può dire in questo senso che la provvidenza divina si comporta come l’astuzia assoluta rispetto al mondo. Dio lascia fare gli uomini con le loro passioni e i loro interessi particolari, e ciò che ne risulta è l’attuazione dei suoi intenti, che sono qualcosa di diverso da ciò per cui si sono primariamente adoperati quelli di cui Dio si serve42.

La citazione riporta così alle questioni esposte in apertura del presente discorso. Certo è che il linguaggio qui adoperato (con il ricorso a termini propri del finalismo e della razionalità strumentale, quali “scopo” e “intenti”) si presta sommamente all’equivoco. Chi non avverte infatti, in queste righe, il pericolo di uno scivolamento più o meno avvertito verso quella cattiva teleologia di cui Hegel è stato tanto spesso accusato? Sarebbe peraltro grave ignorare che proprio nella delicatezza di questo punto è in gioco anche la consistenza di ogni diagnosi hegeliana circa la libertà delle manifestazioni storiche dello spirito (istituzioni culturali e politiche, arte, religione, ecc.)43. Proprio questo passaggio tuttavia, nella sua ambiguità, pare decisivo per chi sia disposto a salvaguardare il senso dello sforzo operato dalla dialettica: la distinzione fra finalità esterna e finalità interna e il passaggio speculativo all’‘Idea’, al di là della soglia teleologica, sono infatti indispensabili se si vuole sottrarre la Wirklichkeit alla razionalità meramente strumentale. Poiché solo nel movimento del concetto l’oggetto non è più considerato come semplice mezzo su cui esercitare una violenza a esso 42 43

GEL, p. 434 (HW VIII, p. 364). Opportune cautele nei confronti di una facile interpretazione provvidenzialistica di questo passo si richiamano anche, sia pure in una prospettiva diversa da quella qui adottata, in V. Giacché, Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella “Scienza della logica” di Hegel, cit., pp. 108-111.

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Dialettica e interpretazione

estranea, al fine di piegarlo a essere qualcosa d’altro da ciò che è di per sé44. Nel movimento descritto da Hegel, dunque, a me pare vada sottolineata in modo adeguato anzitutto la presa di distanza da ogni cattiva concezione del logos secondo cui il pensiero costituisce una mera attività appropriativa: il transito attraverso la soglia teleologica e la sua Aufhebung insegnano che il pensiero non appartiene a un soggetto meramente calcolante, né questi può ridurre il reale a oggetto in tutto e per tutto disponibile, manipolabile – in una parola, ancora: utile – facendo della particolarità dei propri scopi il telos assoluto della realtà. Se tale consapevolezza viene meno, a mancare è anche una dimensione di vera autocoscienza: lo insegnano molte considerazioni della Fenomenologia dedicate al trionfo della “cosa” nella sua “vuotezza”45, quando a prevalere è un pensiero che ragiona solo in termini di sfruttamento, organizzazione e suddivisione della forza-lavoro, detenzione del potere economico in un mondo che fa la sua comparsa, dice Hegel, quando i vecchi idoli sono andati in pezzi46. Fino a che punto lo stesso Hegel abbia saputo mantenersi in equilibrio, in questo difficile passaggio oltre la soglia teleologica verso il dispiegamento del proprio sistema, è un interrogativo da ultimo forse indecidibile, che non smette di sollecitare i suoi lettori – ammiratori o detrattori che siano. A qualunque dei due partiti ci si voglia ascrivere, a me pare comunque che tale questione non possa riguardarci solo per un malinteso senso del sapere storico: essa è decisiva anche per lo statuto presente di una filosofia ermeneutica della cultura, ove in tale espressione il genitivo non sia da intendersi nella mera funzione oggettiva. 44

45 46

Su questo punto si veda ancora V. Verra, Su Hegel, cit., p. 182. Sulla funzione dell’“astuzia della ragione” in Hegel cfr. anche in generale le provocatorie ma illuminanti osservazioni di S. Žižek, Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico. Libro II, cit., pp. 21 ss. FdS, p. 424 (GW IX, p. 345). FdS, p. 362 (GW IX, pp. 295-296). In proposito mi permetto di rimandare alle considerazioni svolte in G. Garelli, Lo spirito in figura. Il tema dell’estetico nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 924 e 137-149. Sull’intera questione è ancora da vedere R. Bodei, La civetta e la talpa, cit. (passim).

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– VIII –

“Un’ideale tragedia di Edipo”. Peter Szondi e il tragico come dialettica

1. Significative indicazioni sul valore teorico di quello che, negli anni, Peter Szondi sarebbe venuto raffinando come il proprio procedimento ermeneutico si possono trovare sul terreno costituito dalla teoria e dalla storia dei generi letterari1. Nell’ambito della Gattungsgeschichte è infatti non solo fruttuoso ma addirittura necessario, secondo Szondi, “unire il punto di vista interpretativo con quello genetico”2, coniugando all’immanenza dell’interpretazione l’istanza della storicità del testo: poiché “ogni opera d’arte dimora nelle tre dimensioni temporali, o meglio queste prendono parte a essa, ne costituiscono la tensione intrinseca, che è la sua storicità”3. In tutto ciò si cela tuttavia un rischio propriamente connesso alla struttura circolare del procedimento interpretativo. Se si ammette, anche solo in via preliminare, che sia l’opera stessa a schiudere nella sua Spannung passato, presente e futuro, ossia che il tempo risieda nell’opera, non si finirà per fare dell’opera d’arte, proprio al contrario, una sorta di estasi atemporale, cioè storica-

1

2

3

Su questo problema mi limito a rimandare ai seguenti lavori: E. Agazzi, L’ermeneutica di Peter Szondi e la letteratura tedesca, Campanotto, Udine 1990; J. Bollack, Un futuro nel passato. L’ermeneutica materiale di Peter Szondi, trad. it. di C. Viano, postf. a P. Szondi, L’ora che non ha più sorelle, Gallio, Ferrara 1990; Peter Szondi. La storia, le forme, l’unità della parola, a c. di E. Agazzi, G. La Guardia e G. Raio, Multimedia, Salerno 1997; Peter Szondi: filosofia del tragico, pensiero storico, ermeneutica letteraria, a c. di G. D’Acunto, in «Il cannocchiale», 3, 1998, pp. 3-100; R. Gilodi, Per una critica della ragion letteraria, in P. Szondi, Poetica e filosofia della storia, a c. di R. Gilodi, F. Vercellone, Einaudi, Torino 2001, pp. 5-22; C. König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura (2004), a c. di M. Pizzigrilli, Quodlibet, Macerata 2009. P. Szondi, Gattungsgeschichte, Sozialgeschichte und Interpretation, in Das lyrische Drama des Fin de Siècle, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1974, pp. 15-30 (qui p. 22). Ibidem, p. 17.

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mente decontestualizzata? Ancorché formulata in termini diversi, non è lontana da questa osservazione l’obiezione di “agnosticismo ideologico” mossa a Szondi da Cesare Cases, quando questi mostrava di voler respingere un metodo che muove per l’appunto dall’assolutezza e dal primato del proprio oggetto4. È a questo proposito che si rivela allora decisiva un’analisi dell’incontro fra l’ermeneutica, la teoria dei generi e la loro storia. Szondi ne era ben consapevole, quando scriveva che “la storia dei generi, così come è stata scritta e insegnata ancora trent’anni fa, oggi non è più possibile”5. Nell’introduzione alla sua tesi di dottorato, la Teoria del dramma moderno (1956), l’autore chiarisce la concezione che lo avrebbe accompagnato pressoché costantemente nel corso delle sue analisi successive (con la parziale, come si vedrà, ma proprio per questo tanto più significativa eccezione costituita dal Saggio sul tragico). La teoria che pretenda di stabilire “confini” immutabili per ciascun genere letterario risale ad Aristotele (“Seit Aristoteles” è, fra l’altro, l’espressione che fa parallelamente da incipit alle due dissertazioni citate). Aristotele sarebbe cioè all’origine di una concezione in base alla quale la forma dell’opera letteraria è estranea al divenire, è “sostanzialmente indifferente alla storia”6, non entra mai in contraddizione o in tensione dialettica con il proprio contenuto (pena il fallimento stesso dell’artisticità dell’opera), e anzi finisce per condizionare pesantemente a sua volta la materia dell’opera – giacché solo dall’armonia di forma e contenuto, ossia dalla esposizione di un contenuto idoneo nella forma del genere appropriato, può nascere un’opera letteraria autentica. Si ricorderà che obiettivo polemico della Poetica era anzitutto la contaminazione dell’epico con il drammatico: 4

5 6

Cfr. C. Cases, Introduzione a P. Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950 (1956), trad. it. di G. Lunari, Einaudi, Torino 1979, p. XIII. Su un altro versante cfr. anche le osservazioni di E. Lämmert, Peter Szondi. Una retrospettiva in occasione del 65° anniversario della sua nascita, in Peter Szondi. La storia, le forme, l’unità della parola, cit., p. 15: la concezione di Szondi “può ancora essere intesa negli anni cinquanta come eco di una tradizione formativa che assegna all’opera d’arte, in base alla sua validità sovratemporale, una posizione particolare fra le altre forme di oggettivazione culturale”. P. Szondi, Gattungsgeschichte, Sozialgeschichte und Interpretation, cit., p. 15. P. Szondi, Teoria del dramma moderno, cit., p. 4.

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Dialettica e interpretazione

l’epica seguì la tragedia fino ad essere imitazione di persone serie, con discorso in versi, da questa invece si distingue per possedere metro uniforme ed essere una narrazione; e inoltre per la lunghezza: in quanto l’una si sforza il più possibile di rimanere entro un solo giro del sole, o poco più, mentre l’epica, indefinita riguardo al tempo, si distingue proprio per questo aspetto […].

Certo, Aristotele prosegue ipotizzando che “la tragedia e i versi epici all’inizio erano composti in modo simile”, e ammettendo la loro comune derivazione dal giambo; ma con ciò lo stagirita non pare affatto intenzionato a prefigurare in qualche misura la storicità del genere, quanto piuttosto ad affermarne il riconoscimento progressivo: “e perciò chi, riguardo alla tragedia, sa distinguere la buona dalla cattiva, lo sa fare anche per l’epopea”, in quanto si è finalmente appropriato della sua forma (Poetica 1449 b 9-18)7. Aristotele, dunque, alla base di una tradizione plurisecolare. La successiva “storicizzazione del concetto di forma” è conseguenza piuttosto della concezione hegeliana del rapporto di forma e contenuto, del “legame indissolubile che si viene a instaurare nell’Estetica tra forma e contenuto, tra espressione artistica e comprensione intuitiva del proprio tempo nell’orizzonte dell’‘apparire sensibile dell’idea’”8. Le vere opere d’arte, scriveva Szondi nella Teoria del dramma moderno citando la hegeliana Scienza della logica, sono quelle in cui forma e contenuto si dimostrano identici: e in ciò l’istanza di Hegel è apparentemente prossima a quella aristotelica, ma in ragione dell’impianto storicizzante del suo sistema conduce per converso precisamente al temporalizzarsi del genere letterario, e in breve allo storicizzarsi della stessa poetica dei generi: “Lirica, epica, drammatica si trasformano, da categorie sistematiche, in categorie storiche”9. In questo quadro generale, dice Szondi, non restano aperte allora che tre vie. Seguendo la prima (a), si può “ritenere che le tre 7 8

9

Aristotele, Poetica, a c. di D. Guastini, Carocci, Roma 2010, pp. 56-57. R. Bodei, La storicità del bello, introd. a P. Szondi, Antico e moderno nell’estetica dell’età di Goethe, Guerini, Milano 1995, p. 20. P. Szondi, Teoria del dramma moderno, cit., p. 4.

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categorie poetiche fondamentali avessero perduto, col loro carattere sistematico, la loro stessa ragion d’essere; onde la loro esclusione dall’estetica ad opera di Benedetto Croce”. Oppure (b), Al polo diametralmente opposto era il tentativo di ritirarsi dal terreno storico della poetica, dei generi poetici concreti, su un piano atemporale. Questa tendenza è attestata […] dalla Poetica di E. Staiger, che fonda i generi poetici in tre diversi modi d’essere dell’uomo, in ultima analisi nelle tre ‘estasi’ del tempo

– donde qui la sostituzione, nei Grundbegriffe der Poetik (1946) di Staiger10, dei sostantivi generici dell’epica, della lirica e del dramma con gli aggettivi corrispondenti, i concetti fondamentali di “lirico”, “epico” e “drammatico”11. Una terza alternativa, infine (c), è quella aperta dalla dialettica hegeliana e dai suoi seguaci: “restare sul terreno storicistico”. Ciò non può avvenire tuttavia, ancora una volta, rispolverando semplicemente la dialettica in una delle forme per così dire volgarizzate, perché in questo modo il pericolo di una riduzione strutturale e di uno schiacciamento dell’opera nel suo contesto è sempre in agguato. L’esempio di un’analisi storica che non si limiti a registrare eventi intorno a luoghi comuni, ma metta ermeneuticamente in questione i singoli punti di vista, compreso il proprio, Szondi l’ha saputo successivamente offrire anzitutto nei suoi corsi di lezioni su 10

11

Ricordiamo che Szondi aveva compiuto a Zurigo i propri studi universitari appunto sotto la guida di Emil Staiger, critico letterario il cui approccio fortemente speculativo muoveva dall’esigenza di offrire un fondamento all’analisi estetica e stilistica, nella convinzione che anche l’antropologia filosofica potesse trarre giovamento dalla teoria letteraria. La critica stilistica di cui Staiger si considerava esponente attingeva soprattutto alla fenomenologia husserliana e all’analitica esistenziale heideggeriana: cfr. E. Staiger, Fondamenti della poetica (1946), a c. di A. Borsano Fiumi, Mursia, Milano 1979. P. Szondi, Teoria del dramma moderno, cit., p. 4; cfr. Id., Poetica e filosofia della storia, cit., p. 313. È stato osservato che proprio i Grundbegriffe di Staiger, insieme con Das Problem des Tragischen di T. Spoerri (1947), avrebbero esercitato la massima influenza (ancorché sotterranea) sulla gestazione della nozione szondiana di tragico: cfr. M. Cometa, Szondi e il Tragico, in Peter Szondi. La storia, le forme, l’unità della parola, cit., p. 96.

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Antico e moderno nell’estetica dell’età di Goethe e – in riferimento alla poetica dei generi e alla sua storia in epoca idealistica – su La teoria hegeliana della poesia e La poetica dei generi di Schelling (ove si indaga il progetto schellinghiano di una deduzione delle forme artistiche e dei generi letterari, fornendo nel contempo significative indicazioni sullo statuto dell’arte tragica nella filosofia dell’identità)12. Nel corso su Antico e moderno – in cui il protagonista del titolo, Goethe, non è oggetto di trattazione specifica – non è esplicitamente tematizzata la collocazione di Hegel, nella cui prospettiva viene pure concepita di fatto l’intera ricostruzione: a partire da Winckelmann si è sviluppata infatti un’estetica che ha incominciato ad autocomprendersi in termini storici. È il passaggio da un’epoca dominata dalle poetiche normative all’estetica intesa come filosofia dell’arte; o, ancora, dalla Wirkungsästhetik alla Realästhetik culminante proprio con Hegel13. Nella Vorlesung hegeliana Szondi ribadisce che “la riflessione sulla natura dell’arte moderna […] può imparare molto dall’estetica hegeliana, e soprattutto dalla sua analisi geschichtsphilosophisch delle forme”14 – laddove l’aggettivo rivela l’interesse per quella filosofia della storia che permette all’analisi delle forme di concretizzarsi proprio come storia dei generi. Con e oltre Hegel, però, per Szondi – non tanto preoccupato di “verificare una particolare teoria della storia” quanto piuttosto, da buon filologo, “di trovare nella dialettica forma-contenuto dei suoi testi drammatici gli indicatori estetici di processi sociali carichi di conflitti”15 – “la concezione dialettica […] del rapporto forma-contenuto è messa a frutto in quanto la forma viene considerata come una sorta di contenuto ‘precipitato’”16. L’immagine (la forma intesa come contenuto precipitato) è tratta dall’adorniana Filosofia della 12

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14

15 16

Cfr. P. Szondi, Antico e moderno nell’estetica dell’età di Goethe, trad. it. di G. Garelli, in Id., Poetica e filosofia della storia, cit., pp. 179-381; Id., La poetica di Hegel e Schelling, trad. it. di A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1986. Cfr. F. Vercellone, La classicità romantica di Peter Szondi, in P. Szondi, Poetica e filosofia della storia, cit., pp. 165-178. P. Szondi, La poetica di Hegel, trad. it. di A. Marietti, introd. di G. Garelli, Einaudi, Torino 2007, p. 132. E. Lämmert, Peter Szondi. Una retrospettiva, cit., p. 14. P. Szondi, Teoria del dramma moderno, cit., p. 5.

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musica moderna: in breve, è necessario riconoscere la modalità adeguata di applicazione della dialettica anche al processo genetico che sta alla base del rapporto fra forma e contenuto. Un riconoscimento duplice: da una parte, la forma non è astorica e sovratemporale, ma deriva concretamente dal contenuto, pur senza rinunciare per questo al suo carattere “solido e durevole” (giacché proprio tale carattere è un fatto storicamente inconfutabile nella perdurante fortuna dei generi); dall’altra, “è data anche la possibilità che l’enunciazione contenutistica entri in contraddizione con quella formale”17, senza che ciò si debba risolvere in un fallimento del valore artistico, come si poteva normativamente postulare a partire da Aristotele: l’opera stessa spalanca, nelle sue manifestazioni storicamente più efficaci, quell’“antinomia interna che fa diventare storicamente problematica una forma letteraria”. Il procedimento immanente di Szondi, in virtù di un ripensamento dell’unità hegeliana di teoria e storia, si rivela così estremamente fecondo nell’interpretazione di certi fenomeni letterari (come le avanguardie18). È il riconoscimento di questa tradizione, fatta costitutivamente di continuità e fratture, a permettere fra l’altro all’ermeneutica szondiana di rendere dialetticamente conto appunto delle fratture, e non solo dell’unità19. Si può pertanto comprendere in che cosa consista l’attestarsi nell’ambito dell’estetica dell’interpretazione operata dal critico letterario (quelle nozze fra filologia ed estetica che Szondi vorrebbe celebrare appunto con la propria ermeneutica20): lungi dal ricorrere ad astratte classificazioni definitorie, è la dialettica stessa, intrinseca 17 18 19

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Ibidem. Cfr. C. Cases, Introduzione, cit., pp. XIII ss. Cfr. J. Bollack, Un futuro nel passato, cit., p. 159: “La tradizione è fatta di fratture. Non se ne può cogliere la presenza se non attraverso gli spostamenti. La storia si lascia afferrare, da un lato dal movimento dialettico che produce l’opera nella sua struttura formale e nelle condizioni esterne della sua produzione, e dall’altra nella distanza in cui si trova l’interprete, dal momento che non può superare questa distanza che lo separa da essa, se non approfondendo lo scarto iniziale attraverso una riflessione critica […]. Così un angolo di rottura ne capta un altro. Il critico si situa situando l’autore, che è situato prima di lui”. Cfr. P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria, trad. it. di B. Cetti Marinoni, pref. di G. Cusatelli, Einaudi, Torino 1992, p. 17.

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al divenire storico dell’estetica, a consentire la ricostruzione di un’analisi criticamente significativa, che si accende per dir così proprio dove si imbatte nel contrasto. Infatti “alla conoscenza dell’elemento formale si potrà giungere, per lo più, solo quando ciò che prima era ovvio si è trasformato in un problema”21; e nella dissertazione szondiana del 1956 il punto di partenza è il concetto di dramma, inteso come fenomeno letterario e teatrale storicamente definito (nato nell’Inghilterra elisabettiana, poi proseguito nella Francia del XVII secolo, e sopravvissuto nel classicismo tedesco). Sulla sua assoluta “primarietà”, sulle condizioni del suo definirsi essenzialmente dialogico, della sua rappresentabilità, e quindi (a conferma del proprio metodo) sulla sua crisi, Szondi in tale testo si diffonde ampiamente. La storia dei generi ha dunque significato solo previo il riconoscimento che essa si gioca all’interno delle opere, nella dialettica che si spalanca fra forma e contenuto, fra tramandato e interdetto: ciò che costituisce la tensione (Spannung) di ogni testo letterario. “Solo come analisi di tale dialettica è, mi sembra, oggi legittima la storia dei generi”: essa è propriamente questa identità che rimane permanente nel cambiamento, ovvero, dialetticamente, questo mutamento che presuppone un’identità. Anche dopo la presa di commiato dai concetti di genere ‘eterni’, astorici, che hanno dominato la poetica dai greci fino all’illuminismo incluso, anche dopo la storicizzazione della stessa poetica dei generi, dovuta a Hegel, la storia dei generi presuppone una continuità e un’identità che certo non è rimessa al mutamento storico, ma che in esso si realizza come identità del nonidentico22.

Szondi sostiene così l’importanza di un approccio all’opera d’arte che ne rispetti la specificità e la singolarità, e nel contempo fornisce significativi esempi di analisi storica di dottrine estetiche e

21 22

P. Szondi, Teoria del dramma moderno, cit., p. 7. P. Szondi, Gattungsgeschichte, Sozialgeschichte und Interpretation, cit., p. 18.

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poetiche dell’idealismo e dell’età di Goethe, elaborandoli in chiave di una dialettica non dogmatica: in tal modo, la stessa questione hegeliana del “carattere passato dell’arte”, e della fine di un’epoca, non si traduce affatto nella fine della storia dello spirito. Si potrebbe anzi dire che Szondi è uno dei più vivaci testimoni del destino aperto e promettente che la dialettica continua ad avere in ambito estetico, anche (e soprattutto) dopo che la nottola di Minerva ha intrapreso il suo volo, rendendo davvero possibile un colloquio rinnovato fra letteratura e filosofia.

2. Nel 1956, si è visto, Szondi aveva dato alle stampe Teoria del dramma moderno 1880-1950, presso i tipi di Suhrkamp Verlag. Si trattava di un testo breve e denso (poco più di un centinaio di pagine), dalla struttura attentamente ripartita: a una sintetica introduzione e a due capitoli sul dramma (nel senso storicamente specifico in precedenza ricordato), faceva seguito una Überleitung o ‘Transizione’, in cui veniva chiarito il significato della “svolta tematica” delle due sezioni successive, dedicate rispettivamente ai tentativi di salvataggio e di soluzione operati nel genere drammatico proprio nei termini di quella dialettica fra forma e contenuto che avrebbe messo capo, in alcuni autori, a una “fondazione che viene motivata ed è quindi a sua volta tematica”23. La Teoria terminava con una pagina pensata “in luogo di una conclusione”, in cui si legge fra l’altro: “La storia della drammaturgia moderna non ha un ultimo atto; su di essa non è ancora calato il sipario […]. È solo giunto il momento di comprendere ciò che è stato fatto, e di tentarne una formulazione teorica”. La critica non esaurisce la prassi drammaturgica, anche se cerca di spiegarla, e il compito di una teoria del dramma non è dunque prescrittivo (poiché, altrimenti, la critica alla tradizionale storia dei generi nelle sue pretese normative e la peculiarità della dialettica che a questi è intrinseca andrebbero irrimediabilmente perdute): “Il suo compito è la registrazione delle nuove forme, perché la storia dell’arte non è determinata da idee, 23

P. Szondi, Teoria del dramma moderno, cit., p. 62.

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ma dal loro realizzarsi in forma”; esso consiste da ultimo in una denuncia della problematicità della stessa tradizione: l’evoluzione storica del rapporto di soggetto e oggetto ha reso problematica, con la forma drammatica, la tradizione stessa. Un’epoca per cui l’originalità è tutto non conosce, al posto della tradizione, che la copia. Perché un nuovo stile ridiventi possibile bisognerebbe quindi risolvere non solo la crisi della forma drammatica, ma anche quella della tradizione come tale24.

Al di là delle questioni prettamente tematiche25, importa qui anzitutto osservare che il Saggio sul tragico (1961), scritto di abilitazione di Szondi, alla precedente dissertazione si avvicina tanto per la mole – non ponderosa – quanto per l’architettura interna. E se la forma, come s’è detto, è in qualche modo contenuto precipitato, non sarà irrilevante osservare che sebbene la trattazione del tragico costituisca una frattura rispetto alla Gattungsgeschichte sottesa alla dissertazione dottorale, Szondi ribadisce in una lettera a Fritz Arnold (Insel Verlag) del 13 dicembre 1960: “Per quanto concerne la struttura del lavoro, mi sono ampiamente attenuto alla Teoria del dramma moderno, e vorrei che questa continuità fosse visibile nell’indice”26. Da uno scambio epistolare con Karl Kerényi (risalente all’estate del 1958) sappiamo poi con quanta ostinata applicazione Szondi lavorasse al proprio progetto. A Kerényi aveva inviato in visione il capitolo sull’Edipo re, presentandolo con parole che attestano un’idea non ancora definitiva della struttura del Saggio: “L’interpretazione appartiene a una serie, e costituirà la prima parte di un libro dedicato al tragico”27. Le obiezioni contenute nella risposta

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26

27

Ibidem, p. 136. L’evoluzione dei temi della Habilitationsschrift di Szondi, dai primi studi degli anni cinquanta (un saggio sull’Alceste risale al 1956), è sinteticamente ricostruita da M. Cometa, Szondi e il Tragico, cit., pp. 92-93. P. Szondi, Briefe, a c. di C. König, T. Sparr, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1993, p. 114. Ibidem, p. 75.

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di Kerényi (datata 31 luglio 1958) sarebbero parse a Szondi dettate da un eccesso di filologia e forse poco interne alla cosa (“Come detto, questo capitolo non fa parte di un lavoro su Sofocle, ma di un lavoro più generale”, avrebbe ricordato in seguito Szondi ancora a Kerényi28); esse tuttavia scorgevano piuttosto lucidamente la direzione intrapresa dal giovane abilitando. Caro Peter, ciò che tu presenti come la tragicità di Edipo è contenuto nella tradizione [di questo mito], direi che è presente perfino nel nucleo di essa […]. Ma così elaborata e inasprita come tu la inasprisci, la materia non si trova in nessuno di coloro che nell’antichità le hanno dato forma, al massimo – all’incirca – vi è in tutti assieme […] è evidente che ti stai occupando di teoria del tragico. Ma tu devi sapere con precisione dove ti collochi, quando presenti il tragico in questo modo. Non sei più all’interno di quelle opere poetiche concrete sulle quali ti basi […]. Tu hai in mente una tragedia ideale di Edipo29.

Ancor più sintomatica della propensione di Szondi per la costruzione di modelli ‘ideali’, in questo senso, sarà poi la sua insistenza con l’editore nel privilegiare il titolo delle singole tragedie ai nomi degli autori trattati nella seconda parte: come se le opere davvero costituissero figure del tragico autonome e in qualche modo indipendenti dai loro poeti30. Proseguita tenacemente la propria strada, Szondi propose il lavoro ancora a Suhrkamp. Una lettera del 5 settembre 1960, firmata da Siegfrid Unseld (al vertice della casa editrice dall’anno precedente), ne rifiutava però in modo perentorio la pubblicazione. Scriveva Unseld che, pur con tutta la “simpatia” per l’impostazione generale del libro31, esso “nella forma attuale” non era pubblicabile in una sede prestigiosa. “Lei solleva una pretesa che con questo breve 28 29 30 31

Ibidem, p. 76. Ibidem, pp. 76-77. Ibidem, p. 115. Ibidem, p. 106.

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lavoro non è in grado di soddisfare”: il Saggio si presenta ai severi occhi di Unseld come una serie di abbozzi e materiali quasi raffazzonati, addirittura “privi di connessione”, che “non costituiscono un libro concluso e rotondo”. Al lettore rimane “un’impressione di insoddisfazione”: accanto a capitoli indubbiamente riusciti (quello sul Dantons Tod di Büchner) ve ne sono altri assai meno efficaci (quello iniziale su Schelling). E poi la perplessità dell’editore pare soprattutto di carattere generale. A Unseld sembra evidente che Szondi ha di mira la connessione fra tragico e dialettica in modo troppo vago: “Lei rinuncia a fissare un concetto generale” del tragico; “ciò […] mi pare costituire una debolezza; la peculiarità della Sua posizione mi sembra mostrarsi solo in controluce, in filigrana e non nella cosa stessa”. Le uniche prese di posizione esplicite si nascondono “nel dettaglio” di alcuni particolari; insomma, nel libro “domina […] un’atmosfera di tensione” irrisolta, in cui i testi vengono schiacciati dai commenti e questi ultimi non riescono tuttavia a liberarsi dall’oppressione di un’eccessiva aderenza ai primi, così che la lettura risulta spesso “di troppo breve respiro, quasi asmatica”32. Il 10 settembre 1960, in una risposta a Unseld che pure riconosceva, più per dovere che per convinzione, alcuni limiti del suo testo (“la Sua critica fino a un certo punto coincide con la mia autocritica”33), Szondi affermava comunque di non prendere neppure lontanamente in considerazione la possibilità di rimettervi mano. La Sua ripetuta obiezione secondo cui questo lavoro è eccessivamente impersonale trascura, credo, il fatto che io non sono un filosofo, non è mio compito e certo nemmeno mio diritto offrire una concezione personale del tragico in questo mondo34.

E ancora: “Lei misconosce i miei scopi (e con ciò – si j’ose dire – anche il valore del mio lavoro), quando crede che io sollevi una pretesa di questo genere”. Non c’è revisione di sorta che possa colmare tale distanza di punti di vista: il testo venne dunque ritirato e 32 33 34

Ibidem, pp. 106-107. Ibidem, p. 103. Ibidem.

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trovò ospitalità presso Insel Verlag. Da una lettera indirizzata a Fritz Arnold, Lektor di quella casa editrice, ricaviamo quindi ulteriori indicazioni dell’autore: “Ora, per quanto riguarda il titolo, purtroppo sono costretto a rimaner fermo alla formulazione originaria, Saggio sul tragico. Mi rendo conto che Dialettica del tragico” (ovvero la soluzione proposta da Arnold) “è un titolo interessante, e potrei dimenticare le mie obiezioni affettive e stilistiche, se solo fosse giusto. Ma non lo è. Giacché nel mio lavoro non si tratta della dialettica del tragico, ma del tragico come dialettica”35. Per non parlare, ricorda poi Szondi, dell’antipatica consonanza che un titolo come quello proposto da Arnold avrebbe potuto richiamare, alludendo alla Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno: nonostante la mai taciuta ammirazione nei confronti di quest’ultimo, Szondi non aveva insomma nessuna intenzione di apparire ‘scolastico’. Nella primavera del 1961 il libro veniva finalmente dato alle stampe, con soddisfazione del suo autore36. Parrebbe dunque legittimo domandarsi – poiché le critiche prese in esame non risultano del tutto infondate, e tuttavia sembrano in certo modo antitetiche, e comunque affatto incapaci di scalfire i propositi dell’autore – se avesse ragione Kerényi, nell’osservare che la trattazione di Szondi era eccessivamente influenzata da una concezione astratta del tragico, o se non fossero piuttosto legittime le obiezioni di Unseld, che scorgevano nella difficile leggibilità del Saggio una carenza teoretica di fondo. Si tratta così, in primo luogo, di analizzare la struttura dell’opera, dal momento che alla sua forma architettonica l’autore attribuisce molta importanza. A una breve ‘Introduzione’ (che, oltre a presentare lo studio nel complesso, risponde alla funzione di giustificare la prima sezione, dedicata alla “filosofia del tragico”) segue una presentazione di dodici “fra pensatori e poeti” di area tedesca: come infatti si dice in apertura, soltanto “a partire da Schelling v’è una filosofia del tragico”, la quale “emerge come un’isola”37 da un ambito assai più vasto, che affonda le proprie radici 35 36 37

Ibidem, p. 113. Cfr. ibidem, p. 121. Cfr. P. Szondi, Saggio sul tragico (1961), trad. it. di G. Garelli, a c. di F. Vercellone, pref. di S. Givone, Einaudi, Torino 1996, pp. 3-4.

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in Aristotele. Ciò non vuole significare che all’evoluzione storica del contesto più squisitamente poetologico la struttura dialettica del tragico, intima chiave di accesso al fenomeno, sia rimasta del tutto estranea, ancorché solo l’idealismo speculativo abbia saputo offrire gli strumenti concettuali per pensarlo a fondo: Il significato del momento dialettico per il concetto di tragico risulta anche dal fatto che esso può già cogliersi là dove ancora non si parla del tragico, ma della tragedia come concreta opera d’arte: nella Poetica di Aristotele e nei suoi seguaci38.

Delle concezioni filosofiche del tragico Szondi presenta una serie di brevi testi, “estrapolati” non senza qualche consapevole forzatura dalla struttura teorica in cui erano originariamente inseriti, fino quasi a renderli aforistici. Segue un commento sintetico (con la parziale eccezione delle pagine dedicate a Hegel, pensatore che d’altra parte “sta alla base delle altre interpretazioni; ragion per cui è Hegel prima di ogni altro a dover essere citato in apertura di questo studio, che è debitore nei confronti suoi e della sua scuola di cognizioni, senza le quali non avrebbe potuto essere scritto”39). E se ci si arresta a una prima lettura dei “commenti”, è francamente difficile non condividere l’impressione di Unseld. La prosa di Szondi è scarna e a tratti ingenerosa, brachilogica come quella di certi lavori dei francofortesi; la maglia argomentativa è talmente fitta da ridurre l’esposizione all’essenziale; i nessi non sempre sono di evidenza immediata. Al centro del libro è collocata la cosiddetta ‘Transizione’: un lungo paragrafo conclusivo della prima sezione, che ripropone una struttura già collaudata nella Teoria del dramma moderno. Ma in questa sede le pagine dell’Überleitung rivestono una funzione un po’ diversa. Nella tesi di dottorato, a quella sezione spettava il compito di presentare una “teoria del mutamento stilistico”: doveva rendere ragione della suprema tensione fra forma e contenuto che

38 39

Ibidem, p. 70. Ibidem, p. 6; su Hegel cfr. ancora ibidem, pp. 19-30.

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è alla base del divenire storico del genere letterario, permettendo (come si è detto) di introdurre la trattazione di quelle opere teatrali in cui “l’opposizione tematica di soggetto e oggetto riceve una fondazione nell’ambito della forma drammatica, ma una fondazione che viene motivata ed è quindi a sua volta tematica”40. Nel Saggio sul tragico, invece, a una collocazione analoga corrisponde una qualche diversità funzionale. Essa corrisponde anzi, a ben vedere, a un movimento in direzione in certo modo opposta, giacché il passaggio qui è operato fra le teorie filosofiche del tragico e le analisi di otto opere, “rappresentative delle quattro grandi epoche della poesia tragica”: l’antichità greca, il barocco, il classicismo francese e la Goethezeit41. Lungi dal descrivere una sorta di progresso concettuale, qui si muove dalla constatazione dell’inadeguatezza del concetto alla concretezza dell’interpretazione dell’opera. Questo è infatti il significato fondamentale della prima sezione: le teorie filosofiche del tragico devono aiutare a “leggere le definizioni dei diversi pensatori guardando non alla loro filosofia, ma alla possibilità di analizzare tragedie con il loro aiuto”42. Si evince quindi che per la struttura del libro la ‘Transizione’ rappresenta il termine ultimo al quale può spingersi una trattazione teorica (concettuale) del tragico. Nella seconda sezione, ‘Analisi del tragico’, Szondi esibisce poi la struttura dialettica intrinseca alle opere, commentate in ordine cronologico per agevolarne la comprensione di significativi “rapporti trasversali”43. La scelta dei testi conferma l’idea szondiana, sostenuta fin dalla metà degli anni cinquanta, che “vi può essere un nucleo tragico in opere che hanno essenzialmente un esito non-tragico” (come nel caso di Calderón)44. Al termine del Saggio non vi è infine nemmeno una pagina “in luogo di una conclusione”, come invece (s’è detto) avviene nella Teoria.

40 41 42 43 44

P. Szondi, Teoria del dramma moderno, cit., p. 62. P. Szondi, Saggio sul tragico, cit., p. 76. Ibidem, p. 6. Ibidem, p. 76. M. Cometa, Szondi e il Tragico, cit., p. 93.

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3. Gert Mattenklott, discepolo di Szondi e fra gli editori delle sue opere, ha scritto che nel Saggio sul tragico l’argomento storico viene messo in secondo piano a favore di quello strutturale. Quanto Szondi chiama qui, rifacendosi a Schelling e a Hegel, l’“idea” del tragico e la sua “dialettica” interna, si rivela nei suoi commenti alla filosofia e alla storia letteraria del tragico come un triste paradosso di attualità sempre costante45.

Per altro verso, Cesare Cases ha osservato che dopo la Teoria del dramma moderno il pensiero di Szondi si sarebbe indirizzato “piuttosto a immettere […] le istanze della teoria della ricerca filologica […] nelle discussioni teoriche. La struttura bipartita del Saggio sul tragico […] rivela già questa tendenza. Il lavoro successivo sembra staccare i due filoni colà ancora giustapposti”: da una parte indagini di ermeneutica filologica condotte con modalità sempre più “tecniche” sulla scorta soprattutto di Schleiermacher; dall’altra ricerche sulle dottrine estetiche classiche e romantiche46. Anche in questo caso, il confronto fra le considerazioni dei due studiosi offre spunti degni di nota. a) Come nella Teoria del dramma moderno, nel Saggio sul tragico si profila un’analisi della dialettica fra struttura e storia. A differenza di quanto non avvenisse nella dissertazione dottorale, però, nel Saggio questa dialettica non si gioca interamente nell’analisi dell’opera; non mette capo (o non prende spunto, a seconda che del circolo si voglia privilegiare un piano storico-letterario, oppure un livello storico-speculativo) a una storia o una metastoria di un genere letterario.

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46

G. Mattenklott, Premessa a E. Agazzi, L’ermeneutica di Peter Szondi e la letteratura tedesca, cit., p. IX; cfr. anche G. Mattenklott, Peter Szondi. In occasione di una edizione delle lettere, in Peter Szondi. La storia, le forme, l’unità della parola, cit., p. 50. C. Cases, Postfazione a P. Szondi, Poetica dell’idealismo tedesco, Einaudi, Torino 1974, p. II.

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b) Questo perché Szondi si rende conto che il tragico di cui vuole trattare non è anzitutto un genere letterario, ma qualcosa d’altro: non è un fenomeno della psiche, come poteva essere per la teoria della tragedia aristotelica (la catarsi) o quella degli psicologi di fine secolo, non è semplicemente un oggetto della poetica (cui pure Szondi dà assoluta priorità nelle sue interpretazioni), non è una dimensione “metafisica” in senso stretto, perché mai egli ammette un’intrinseca tragicità dell’esistenza, quel ‘pantragismo’ […], ma è piuttosto una “filosofia”, o più esattamente una forma in cui la filosofia si scontra con la vita47.

Per esprimerci ancora in termini provvisori: il tragico sembra piuttosto qualcosa come una struttura dialettica che affonda le proprie radici nella realtà, ma non coincide con la dialettica tout court: non necessariamente dove si dà dialettica si dà infatti tragico, né la dialettica dei concetti pare poter risolvere il tragico dentro di sé. Dunque non si considera possibile ridurre al concetto logico-formale proprio della dialettica un fenomeno come il tragico, cui si deve il li-

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M. Cometa, Szondi e il Tragico, cit., p. 91. Cfr. anche ibidem, p. 94: “Non una parola sulle riflessioni psicologistiche sul tragico, né sulle teorie del tragico espressioniste, fortemente legate alla poetica di cui pure Szondi si sente attento interprete […]. Non una parola su Lukács, né un riferimento all’epocale Metaphysik der Tragödie (1911) né a Josef Körner, né, più vicino a lui, Benno von Wiese, o per converso, all’inquietante dibattito nazista sulla tragedia. È come se Peter Szondi volesse riallacciarsi direttamente alla koiné classico-romantica, saltando a piè pari tutto il dibattito ottocentesco. Si pone insomma come al cospetto di una tabula rasa, il cui grado zero è segnato dall’estetica di Hegel e da null’altro. A mala pena, e solo di sfuggita, ricorda nel testo i suoi più diretti maestri, Staiger, Kommerell, Benjamin, e segnala, solo in negativo, personaggi pure importanti come O. Mann, J. Bahnsen o J.H. von Kirchmann”. Per un approfondimento degli autori citati cfr. M. Cometa, Il Tragico. Materiali per una bibliografia, «Aesthetica Preprint», 29, 1990; nonché Id., Il demone della redenzione. Tragedia, mistica e cultura da Hebbel a Lukács, Aletheia, Firenze 1999.

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vello più elevato della poesia, e che viene sempre compreso in connessione con l’interpretazione dell’esistenza48.

c) Ciò non significa tuttavia che la trattazione del tragico venga riportata su un piano ontologico extra-dialettico: Szondi non sembra prendere nemmeno in considerazione la possibilità di un pensiero non dialettico, e anzi pare diffidare, evitandola, anche della parola ‘ontologia’, che la stessa dialettica sembra aver svuotato di senso. Non per questo si potrà però approdare a un Gattungsbegriff di staigeriana memoria, che si pretenda ancora una volta ontologicamente radicato in un’apertura dell’uomo al mondo; né si concluderà che la ‘struttura’ del tragico permane invariata e immutabile nella storia. Essa, anzi, è costitutivamente rimessa al divenire storico: si tratta di vedere, dice Szondi, se e come il tragico stesso “si modifichi”. d) Ma se le cose stanno in questi termini, ecco ricevere nuova luce la posizione intermedia assunta dal Saggio, collocato com’è fra ermeneutica materiale, teoria dei generi, estetica e filosofia della storia. È al centro di queste direttrici che si trova quella sorta di punto archimedeo capace di respingere da una parte le critiche di Unseld (incapacità di formulare una prospettiva filosofica originale sul tragico) e dall’altra quelle di Kerényi (eccessiva remissione alla teoria del tragico, con inevitabile allontanamento dalle opere concrete). L’estetica e la filosofia della storia apportano alla ricerca strumenti concettuali in assenza dei quali il critico non saprebbe comprendere autenticamente l’essenza del tragico, che è dialettica. Solo a partire dalla filosofia dell’idealismo tedesco tali strumenti sono stati efficacemente forgiati, e anzi i filosofi, da Schelling in poi, hanno riconosciuto il tragico e lo hanno collocato tra i loro temi – anche se non ne hanno mai fatto il proprio oggetto privilegiato. Né d’altronde avrebbero potuto, per i limiti di quegli strumenti stessi: il presupposto di una perfetta corrispondenza di logica e ontologia da una parte pare rifiutarsi alla radicalità del tragico, in quanto lo supera nel concetto, senza poterne dall’altra rendere ragione per 48

Cfr. P. Szondi, Saggio sul tragico, cit., pp. 72-74; qui p. 74.

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questa sostanziale eterogeneità (giacché il tragico appunto non è un concetto). Quando si richiama alla filosofia della storia, Szondi non pensa a qualcosa come la “storia dello spirito” o men che meno alla “storia dell’essere”. Spiritus ubi vult spirat – in un passo del corso sulla Goethezeit Szondi, parafrasando il versetto giovanneo, prende le distanze tanto dal riduzionismo monistico quanto dalle sue funeste conseguenze49. Ma tale cautela, anche a fronte della complessità del reale, dell’irriducibilità della storia, delle fratture della tradizione, non comporta pragmaticamente un abbandono del metodo dialettico: quest’ultimo anzi pare in grado di spiegare tutte quelle cose molto meglio di altri. In una nota collocata in apertura del Saggio sul tragico si legge: “Dialettica” e “dialettico” designano, nel corso di tutto questo studio, secondo l’accezione di Hegel, anche se senza le implicazioni del suo sistema, gli stati di fatto e i processi seguenti: unità degli opposti, ribaltamento dell’uno nel suo contrario, autonegazione di sé, autosdoppiamento50.

E già in una lettera all’editore Suhrkamp del 30 novembre 1955 Szondi aveva scritto: “dialettico” – sono assolutamente della Sua opinione, egregio dottor Suhrkamp: la parola oggi va adoperata soltanto con molta cautela. D’altronde un’indagine che è debitrice, per quanto riguarda il suo metodo e i suoi punti di vista, della dialettica hegeliana, può farne a meno tanto poco quanto un libro su Kierkegaard o su Heidegger può fare a meno del termine “esistenziale”51.

È stato notato: Szondi si serve del termine “dialettica” secondo “un’accezione che più volte sfiora, o almeno comprende, quella del ‘paradosso’ irrisolvibile, della ‘scissione’ inconciliabile” – ossia, se 49 50 51

Cfr. P. Szondi, Poetica e filosofia della storia, cit., p. 206. P. Szondi, Saggio sul tragico, cit., p. 12 (nota). P. Szondi, Briefe, cit., p. 63.

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vogliamo, vi ricorre con una certa vaghezza. La dialettica è per Szondi cioè una strategia per “cogliere il tragico nel momento in cui esprime la massima lacerazione dell’essere e non nei momenti successivi della disfatta o della conciliazione”52. Ma uno Hegel privato delle “implicazioni del suo sistema” è ancora, davvero, Hegel? A ben vedere, tuttavia, non è questo ciò che preoccupa Szondi. Né pare che egli sia affatto interessato allo hegelismo “senza spirito assoluto” propugnato dall’ermeneutica filosofica per esempio gadameriana. Fatto è che alla filosofia della storia di cui parla Szondi poco importa conservare una fedeltà scolastica all’ontologia dialettica, per non risolversi in pura e semplice storia delle idee. Anzi, precisamente l’esperienza del dissolversi del fondamento ontologico libera la dialettica dalle sue “implicazioni” sistematiche, e la riconsegna, per dir così, dalla rigidità del sistema alla libertà di una sorta di fenomenologia. Una fenomenologia del tragico alla quale (se l’ermeneutica è, come è, innanzitutto un’attività interpretativa53), per “venire a capo di un concetto generale”54, spetta il compito di ricostruire il percorso di questo “concetto” sui generis, nella successione degli autori presi in esame con ponderata architettura. Verificando in tal modo che cosa significhi che il tragico è una struttura sempre attuale (Mattenklott), e in che senso peculiare si possa nondimeno pensare a partire dal Saggio alla “giustapposizione” di due filoni (Cases).

4. Per esprimersi in termini kantiani: più ‘ideale regolativo’ che concetto predicabile in un giudizio determinante55, ovvero – come

52 53

54 55

M. Cometa, Szondi e il Tragico, cit., pp. 92, 101. Nel Traktat über philologische Erkenntnis, contenuto nelle Hölderlin-Studien (1967), Szondi avrebbe citato, per corroborare questa convinzione, la proposizione 4.112 del Tractatus di Wittgenstein: “La filosofia non è una dottrina, ma un’attività. Un’opera filosofica consta essenzialmente d’illustrazioni” (L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, a c. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1968, p. 27). Cfr. P. Szondi, Poetica dell’idealismo tedesco, cit., pp. 6-7. P. Szondi, Saggio sul tragico, cit., p. 6. Cfr. rispettivamente A. Negri, Peter Szondi e la “filosofia del tragico”, in «Il cannocchiale», 3, 1998, p. 20; L. Tassoni, Vita del testo e ermeneutica contemporanea, ibidem, p. 75.

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è stato osservato – “prodotto di una semiosi in atto” più che presupposto categoriale, il tragico di cui parla Szondi sarà dunque un’essenza o un fenomeno storico? La tradizione, sulla scorta della Poetica di Aristotele, ha concepito il tragico anzitutto come genere letterario: si è avuto modo di saggiare, in quanto detto finora, la maestria di Szondi nel seguire l’evoluzione storica interna ai singoli generi, ed è noto come peraltro egli non inclinasse mai ad astratte universalizzazioni. Che le prime pagine del Saggio paiano dunque ridurre la storia della poetica del genere tragico in età moderna a una semplice Wirkungsgeschichte della poetica aristotelica (pur con prese di distanza, riprese, fraintendimenti56) non deve scandalizzare. Szondi, fra l’altro, non corrobora la sua concezione della ‘storia degli effetti’ con un ideale di tradizione continuistico ed esente da fratture: egli anzi preferisce ricordare il valore prevalentemente poetico-normativo delle concezioni del tragico elaborate della teoria letteraria e dalla filosofia precedentemente all’epoca dei grandi sistemi dell’idealismo classico tedesco. La questione è insomma, come si dice fin dall’‘Introduzione’ parafrasando Hegel, che “anche su questa regione la nottola di Minerva incomincia il suo volo solo sul fare del crepuscolo”57. Questa scelta di campo condiziona però in maniera decisiva la trattazione szondiana del fenomeno tragico. Con qualche forzatura, si potrebbe dire che è della peculiare dialetticità del tragico, nell’ampia accezione già indicata, che Szondi va alla ricerca nello scandagliare le “strutture teoriche” dei filosofi da lui presi in esame. Senza entrare nel dettaglio della sua disamina, diremo almeno che è questo il caso per esempio di Schelling, Hölderlin, Solger, e in parte anche di Friedrich Theodor Vischer, nei quali il conflitto tragico, pur con modalità diverse, si risolve sempre in un tertium, in un punto di fuga che, oltre a impedire la stasi derivante da una trasformazione della tensione polare in un reciproco annullamento delle forze, tiene ferma proprio tale Spannung pur rimandando sempre al di là di essa58. Questa modalità di concepire il tragico tocca 56 57 58

P. Szondi, Saggio sul tragico, cit., pp. 3-4. Ibidem, p. 5. Cfr. S. Givone, Prefazione a P. Szondi, Saggio sul tragico, cit., p. X.

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il proprio culmine, come è facile intuire, con Hegel. Nel paragrafo a lui dedicato Szondi non fa tuttavia ciò che sarebbe stato facile attendersi di primo acchito, ossia commentare le pagine della Fenomenologia dello spirito dedicate ad Antigone, né prende le mosse da quel “riecheggiamento formalizzato”59 che è la teoria del tragico, più o meno inserita all’interno del sistema, nelle Lezioni di estetica (ovviamente nella versione Hotho). Su questi aspetti egli si sofferma solo più tardi e velocemente, dopo aver seguito invece con una certa puntualità l’origine della dialettica del tragico negli scritti giovanili – in particolare lo Spirito del cristianesimo e il suo destino. Questa scelta consente di scorgere la genesi di quel movimento del tragico che ne costituisce, a un tempo, il venire in luce della struttura e l’Aufhebung dialettica. Per il giovane Hegel “Il procedimento tragico è […] la dialettica dell’eticità”60, la tragicità è caratteristica di un mondo dell’eticità che nel destino si pone in disaccordo con se stesso e trova la riconciliazione nell’amore, mentre il mondo della legge, che gli è opposto, e che si basa sulla rigida contrapposizione di universale e particolare, non offre al tragico alcuna possibilità. Nella Fenomenologia, per converso, il conflitto sorge proprio fra il mondo della legge e quello dell’amore61.

E questo perché, come scrive Szondi, la dialettica, da manifestazione teologico-storica (nello spirito del cristianesimo) e da postulato scientifico (orientato a una nuova fondazione dell’etica) si fa legge universale e metodo della conoscenza. In tal modo la dialettica, che è insieme il tragico (e il suo superamento), si spinge al di là dei limiti dei due scritti giovanili e abbraccia ora anche la sfera della legge […]. Elevata a principio universale, essa non tollera più che alcun ambito le rimanga precluso62. 59 60 61 62

P. Szondi, Saggio sul tragico, cit., p. 28. Ibidem, p. 25. Ibidem, p. 28. Ibidem, p. 29.

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Una definizione della tragedia di grande ampiezza formale come quella dell’Estetica sarebbe stata invece fornita da Hegel più tardi, nel quadro del sistema, “solo con riluttanza”, ancorché essa derivi da un conseguente sviluppo della sua stessa prospettiva. Qui il filosofo osserva il sorgere, tutto moderno, del momento del caso; nel tragico moderno gli “eroi”, coinvolti in circostanze accidentali, più che destinali, si comportano in base alla “peculiarità del loro carattere, che non incarna necessariamente un pathos etico, come avveniva nell’antichità”63. Ciò spiega la svolta nella concezione hegeliana del tragico, che segna drasticamente anche l’impostazione szondiana del problema. La stessa presa di distanza della dialettica dall’ambito in cui questa ha avuto origine conserva in sé qualcosa di tragico; una tragicità tuttavia destinata a risolversi nel logos, nel pensiero concettuale. A ben vedere, tuttavia, la risoluzione del conflitto tragico in un tertium che lo rispecchi è in tutto e per tutto connessa al problema della rappresentazione. Alla cui dimensione potenzialmente antitragica non sfuggono nemmeno pensatori apparentemente assai lontani dalla dialettica di conio hegeliano, come ha saputo intuire Goethe, secondo il quale addirittura ovunque si profili Ausgleichung, appianamento o composizione catartica del conflitto, il tragico vien meno: una concezione che, se nella prassi poetica sembra escludere la tragedia, è dettata proprio dalla consapevolezza della lacerazione insostenibile e irrisolvibile presente meno nelle forzature dell’opera d’arte che “negli avvenimenti della vita reale”64: il dolore del commiato, l’inarrestabile, faustiano divenire dell’attimo. Né sfugge alla conciliazione implicita nella rappresentazione una lettura immanente del tragico schopenhaueriano, laddove il cieco volere messo in scena dalla tragedia, i cui eroi si dilaniano a vicenda, viene per l’appunto esibito, e come tale in qualche modo rimandato a una dimensione ideale, ancorché precaria e funzionale alla presa di coscienza, da parte del Wille stesso, della propria lacerazione (“ciò che […] ogni arte contiene in sé come possibilità – il fatto che la

63 64

Ibidem, pp. 26-27. Ibidem, p. 36.

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conoscenza, che si origina nel volere stesso e dovrebbe essere al suo servizio, gli si rivolti contro – si fa evento nella tragedia”)65. Così dicasi anche della solidale cooriginarietà di apollineo e dionisiaco postulata da Nietzsche, il cui riesame lo condurrà in seguito a pronunciare il ‘Tentativo di autocritica’ premesso alle tarde edizioni della Nascita della tragedia, nel quale il filosofo avrebbe finito per riconoscere quanto latente hegelismo ancora permeasse le pagine redatte anni prima. Discorso per molti aspetti analogo richiedono le concezioni nelle quali la coscienza del tragico fa tutt’uno con l’idea di un’intima lacerazione del reale stesso. Così in Kierkegaard, nella sua peculiare elaborazione della tragedia di Antigone (“proprio la liberazione da ciò che porta alla morte deve condurre a essa”, ancora una volta dialetticamente66); in Simmel, per il quale “le forze distruttrici che sono rivolte contro un essere scaturiscono dagli strati più profondi di questo stesso essere”67; in Hebbel, che “abbandona il punto di vista dell’idealismo tedesco” in nome di un “pantragismo” in cui la specificità del fenomeno tragico si fa sempre meno peculiare, quanto più generale diviene la sua applicazione alla realtà; e così ancora in Scheler. Proprio riprendendo una metafora scheleriana, con la quale si “elabora un modello mitologico per tutti i percorsi del tragico” – “tragico è il volo di Icaro, le cui ali fissate con la cera si deteriorano tanto più quanto più egli si avvicina al sole, che la scioglie”68 –, Szondi apre le pagine della ‘Transizione’. L’immagine, inaugurando una sorta di “nominalismo tragico”69, segna così nel Saggio il passaggio dalla storia filosofica del tragico all’ermeneutica delle tragedie, in nome di una mediazione resa possibile dalla filosofia della storia (ossia derivante solo da una considerazione filosofica della storia della filosofia del tragico; una filosofia che prepara lo strumento della propria stessa caduta):

65 66 67 68 69

Ibidem, p. 39. Ibidem, p. 48. Ibidem, p. 57. Ibidem, p. 63. F. Vercellone, La dialettica del tragico, postf. a P. Szondi, Saggio sul tragico, cit., p. 147.

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La storia della filosofia del tragico non è priva essa stessa di tragicità. È simile al volo di Icaro. Infatti, quanto più il pensiero si approssima al concetto generale, tanto meno gli aderisce l’elemento sostanziale a cui deve lo slancio. Al culmine dello sguardo all’interno della struttura del tragico, il pensiero ricade esausto su se stesso. Laddove una filosofia, in quanto filosofia del tragico, diviene qualcosa di più del riconoscimento di quella dialettica cui concorrono i suoi concetti fondamentali, laddove essa non definisce più la propria tragicità, non è più filosofia. Pertanto la filosofia non sembra poter concepire il tragico – ovvero il tragico non esiste70.

Ragione non ultima di tale esito è che i pensatori che hanno saputo interrogarsi sul tragico in modo davvero significativo, anche quelli che sembrano più distanti da una concezione aufhebend, non intesero con ciò definirne la peculiarità in modo specifico facendolo coincidere con la dialettica stessa: essi anzi non avevano come intenzione precipua di definire il tragico, ma si sono imbattuti, all’interno della loro filosofia, in un fenomeno che hanno definito come il tragico, sebbene esso fosse una forma di tragico: la concrezione assunta dal tragico nel loro pensiero71

– la quale anzi risulta fin troppo spesso imprigionata nel “progetto metafisico” del singolo filosofo. È proprio in considerazione di ciò che in fin dei conti trattare insieme testi filosofici e opere letterarie non si rivela una scelta arbitraria, ma anzi l’esito di un percorso conseguente; tanto che addirittura “la filosofia del tragico concorda con la poesia tragica: in luogo della definizione schopenhaueriana del tragico”, per esempio, “bisognerebbe pertanto parlare a maggior ragione del tragico in Schopenhauer, della tragicità schopenhaueriana – al modo in cui si parla di una tragicità shakespeariana”72. La conseguenza è “che non esiste il tragico, almeno non come essenza. 70 71 72

P. Szondi, Saggio sul tragico, cit., p. 64. Ibidem, p. 73. Ibidem, p. 74.

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Esso piuttosto è un modo, una determinata maniera in cui l’annientamento minaccia di compiersi o si compie, e cioè quella dialettica”73. Se però “la contraddizione tragica non può essere mantenuta e superata in una sfera sovraordinata – sia essa immanente o trascendente”74, senza che ne venga con ciò snaturata la radicalità, che cosa può fare una filosofia che intenda tenere il proprio sguardo fisso sul tragico? Una possibilità è meditare sul significato di una “dialettica bloccata nel suo oggetto”, sulla scorta delle considerazioni di Benjamin75: in particolare lo Ursprung des deutschen Trauerspiels, la cui ‘Premessa gnoseologica’ contiene una teoria dell’idea nei confronti della quale Szondi pare essere per molti versi debitore, nella sua concezione del tragico. L’idea, così come è definita nella premessa gnoseologica di Benjamin, non è un universale che comprende in sé il particolare, un concetto cui sussumere i fenomeni, ma piuttosto la loro “virtuale coordinazione oggettiva”, la loro “configurazione”76.

Una teoria destinata ad abbracciare, lo si è notato, una sorta di nominalismo tragico – esito ultimo e forse inevitabile di uno sguardo che non può avvicinarsi al proprio oggetto se non per la strada dialettica insegnata dalla filosofia, ma che né in una soluzione filosofica e concettuale né, men che meno, nella mera riduzione del tragico a categoria estetica o a genere letterario può trovare davvero soddisfazione. Il tragico può per molti versi definirsi fenomeno dialettico, ma la dialettica è più del tragico; e a nulla, se non a una radicalizzazione di tale nominalismo, vale notare che la stessa filosofia della storia del tragico non può aspirare a un punto di vista assoluto e sovrastorico, sottraendosi alla stessa storicizzazione77. 73 74 75

76 77

Ibidem. Ibidem, p. 75. Cfr. F. Vercellone, La dialettica del tragico, cit., pp. 150-158; S. Givone, Prefazione, cit., pp. XIV sgg.; A. Negri, Peter Szondi e la “filosofia del tragico”, cit., pp. 13-21. P. Szondi, Saggio sul tragico, cit., p. 65. Cfr. ibidem, p. 69.

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Il tragico, dunque, come puro nome? Se Szondi non pare, nonostante tutto, intenzionato a trarre esplicitamente questa conclusione, ciò è dovuto in primo luogo alla peculiarità del modo in cui egli intende il momento dialettico, che non risulta rigidamente radicato in una logica ontologica ma si manifesta assai più nel disincanto causato dalla filosofia della storia del tragico e nell’opera d’arte tragica stessa. Il momento dialettico cioè “non rimane un’esclusiva del punto di vista filosofico: esso è noto anche a quello drammaturgico e a quello della filosofia della storia”78. Di qui, proprio attraverso il consumarsi del concetto in una lettura filosofica della storia filosofica del tragico, la necessità di ritornare all’opera, in un esercizio ermeneutico inteso nuovamente come “pura tecnica dell’interpretazione”79. Non si può, insomma, dare del tutto torto a Kerényi quando sosteneva che Szondi pareva spinto alla ricerca di una sorta di ‘Edipo ideale’ – ricerca che doveva mettere capo a una esasperazione della struttura dialettica del testo, e al privilegiamento di un certo modo di intendere il tragico. Scrive del resto Szondi in apertura del primo capitolo della seconda sezione del Saggio, dedicato proprio a Edipo re: Più di ogni altra opera, l’Edipo re appare intessuto di tragicità nella trama della sua azione. Ovunque lo sguardo si fissi nella vicenda dell’eroe, esso incontra quell’unità di salvezza e annientamento che costituisce un tratto fondamentale di ogni tragico80.

Si potrà allora parlare, non del tutto illegittimamente, di un tragico di Edipo (e non semplicemente dell’Edipo di Sofocle) come struttura della coscienza; struttura del cui divenire storico-artistico la seconda parte del Saggio descrive una problematica ma avvincente fenomenologia. Tale fenomenologia è la storia della logica del tragico stesso, la storia della sua dialettica; gli otto i testi drammatici che Szondi prende in esame (non tutti, si è detto, dall’esito ‘tragico’ 78 79 80

Ibidem, p. 72. S. Givone, Prefazione, cit., p. XV. P. Szondi, Saggio sul tragico, cit., p. 79.

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in senso classico) sono tenuti insieme da questo filo rosso: il tragico nella e della coscienza, luogo in cui la tragicità dialettica non viene mai meno, e nel contempo elabora secondo articolazioni sempre più raffinate il proprio movimento, in conformità allo sviluppo e ai gradi di consapevolezza della coscienza dell’eroe. Su questa base si può allora seguire il filo rosso che lega le diverse opere, a partire dai “rapporti trasversali” che accomunano il carattere e la sorte di Edipo e Sigismondo, incrociati a quelli fra i loro genitori, tanto che nella tragedia ideale di Edipo il vero colpevole pare talora Laio, o il proprio corrispettivo calderoniano Basilio. “Non a torto l’opera di Calderón è stata definita una versione cristiana dell’Edipo”81, scrive Szondi, laddove, ne La vida es sueño, il destino è lasciato alla libera decisione dell’agente. “La religione cattolica professa la libertà del volere, e l’agire di Sigismondo non può pertanto essere predeterminato”82: solo dal credere o non credere, dalla inconsequenzialità dell’agire dipende il destino dei protagonisti, lacerati fra un improbabile tentativo di stornare le profezie e, nel contempo, di trovare perversa conferma all’inevitabilità delle loro azioni. La vicenda psicologica è poi seguita da Szondi nell’Otello, la cui tragicità infatti dipende innanzitutto dal fatto che il conflitto “si combatte non nel palazzo del doge, ma […] nell’intimo” del Moro83, ove si schiude lo spazio per l’esercizio della malvagia e filtrante ironia di Iago (moderno corrispettivo secolarizzato dell’antica ironia degli dèi) che porta Otello a travisare da sé la realtà, conferendo significati perversi a cose di per sé neutre e innocue: “Come nel Don Carlos la lettera, [nell’Otello] il fazzoletto è dotato di un potere funesto sull’uomo, che è tragico, dacché è egli stesso a conferirglielo”84. La tragicità della coscienza tocca uno dei suoi culmini nella tragedia cristiana di Gryphius, il Leo Armenius, in cui persino la fede non costituisce più un univoco appiglio:

81 82 83 84

Ibidem, p. 86. Ibidem, p. 89. Ibidem, p. 95. Ibidem, p. 98.

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Anziché fare del credente un martire, sottratto dalla propria fede alla tragicità del suo destino, la religione diviene la sua sorte tragica, non procurandogli la salvezza anelata e promessa, ma un soccombere che dalla croce di Cristo, presso la quale giunge a compimento, non è trasfigurato, ma inasprito in un tragico contrappunto85.

Così pure nella Fedra di Racine, alla cui incapacità di scelta fra amore e fedeltà è dovuta la conseguente incapacità di attingere, se non corrompendola, alla pureté che ad altri pare invece gratuitamente concessa86. Esplicitamente nell’intimo del protagonista avviene poi la vicenda tragica del Demetrio di Schiller, che non mostra, in occasione delle “due svolte che avvengono nella [sua] coscienza”, la sicurezza che gli garantisce il dominio sul mondo esterno87, e nella cui abissalità “si profila una luce che si oscura da se stessa, e un’ombra capace di trasformarsi in luce, che però non è in grado di rischiarare completamente l’oscurità da cui sorge, e in ultimo ne cade vittima”88. Alla base delle vendette trasversali dei due rami dinastici della Famiglia Schroffenstein di Kleist si trova precisamente la diffidenza, “malinconia dell’anima”, che porta alla fissazione scritta di quel contratto che pretende di sostituirsi come cultura a una natura ancora incorrotta, causando così la rovina della famiglia e del suo patrimonio, che avrebbe dovuto invece salvaguardare89. Esemplare, ultimo (anti)eroe di questa fenomenologia del tragico della coscienza (alla quale non spetta più nemmeno la compiutezza di questo nome) è infine il protagonista del Dantons Tod di Büchner. Qui la tragedia non riguarda solo il fallimento del progetto e dell’ideale rivoluzionario, ma l’uomo in quanto “vittima di se stesso”, lacerato fra una memoria che rifiuta il suo passato, e che proprio per questo non vuole essere mai davvero coscienza – essendo peraltro incapace di vivere il proprio presente, nel quale il 85 86 87 88 89

Ibidem, p. 100. Ibidem, p. 106. Ibidem, p. 113. Ibidem, pp. 118-119. Ibidem, p. 126.

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sentimento della continuità della vita si capovolge in noia90. L’estrema peculiarità del personaggio tragico Danton “non consiste nel fatto che le contraddizioni della vita lo sospingono alla morte, ma nel fatto che la morte entra in contrasto con la sua vita sul medesimo terreno di questa”, in uno spirito che assiste ormai inerte e incredulo a tutto ciò che vive, compresa paradossalmente la propria stessa esecuzione capitale. La tragicità di Danton è la sua vita, non più il destino di morte che attende l’eroe – come è attestato dallo splendido chiasmo che conclude il libro: “Dantons Tod ist das Leben Dantons”, “La morte di Danton è per Danton la vita”91.

5. Dopo Hegel, ha ricordato Bodei, “la storicità sembra perdersi nei meandri della psicologia”92. L’osservazione pare trovare conferma ripercorrendo la storia drammaturgica del tragico esibita da Szondi: i protagonisti percepiscono nella vicenda tragica la propria dissoluzione, non quella di potenze etiche in conflitto, che pure li plasmano e continuano fino all’ultima scena, in qualche modo, a dominarli. La complessa scelta teorica di Szondi, nella trattazione del tragico, appare più chiaramente in questa luce. Egli individua, si è detto, un filo rosso nella tradizione della dialettica drammaturgica, il culmine della quale – la rinuncia al concetto – pare risolversi in un abbandono della filosofia dettato da motivazioni filosoficamente più che plausibili. Non basta infatti limitarsi a obiettare che la dialettica sembra portare con sé l’irrimediabile composizione della frattura, e quindi la morte del tragico, per prendere le distanze dalla provocazione di Szondi. Anche perché, per farlo, bisognerebbe in primo luogo offrire convincenti ragioni della necessità che l’esibizione del tragico sia filosofica, e quindi anzitutto logico-concettuale, per essere davvero adeguata e persuasiva; e poi pretendere di sostenere che l’ermeneutica materiale, oltre a esserne la base, non costituisca un esito legittimo, filosoficamente coerente e forse addi90 91 92

Ibidem, p. 136. Ibidem, pp. 138-139. R. Bodei, La storicità del bello, cit., p. 21.

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rittura propriamente epocale (nel senso del tedesco zeitgemäß) di questo percorso. Il vero problema, semmai, può derivare da un’assolutizzazione sul piano speculativo dell’esito del percorso di Szondi: e questo in ragione di una peculiare caratteristica del suo modo di intendere il tragico, che mi sembra possa farsi risalire alla preponderante continuità con un certo retaggio di matrice idealistica. A partire da Schelling, avrebbe detto Szondi, “l’accadere della tragedia, ciò che l’eroe patisce e ottiene, diventa simbolo di un accadere più profondo, che dev’essere compreso non con i concetti della psicologia” (ossia studiando le reazioni psichiche, la Wirkung della rappresentazione sullo spettatore) “ma con quelli della filosofia. Mai un pensiero ha potuto riconoscersi nella poesia tanto quanto l’idealismo tedesco nella tragedia, soprattutto nell’Edipo re”93: e dal momento che Szondi si colloca consapevolmente su questa linea, il tragico di cui parla è sempre, per così dire, una figura dello spirito intesa come tonalità del soggetto individuale che lo esperisce, e che è autore del proprio stesso destino. In questo aspetto, il procedimento ermeneutico di Szondi sembra in qualche modo risentire, sia pure su tutt’altro piano, dell’influenza teorica dei lavori del padre Leopold, psichiatra di fama e sostenitore della cosiddetta Schicksalsanalyse94. Insomma: non è la realtà a essere lacerata e contraddittoria, nella prospettiva del tragico di Szondi, perché (come attesta in massimo grado la sua lettura del Danton di Büchner) di fatto la realtà, in questa prospettiva, non c’è più: essa è stata pienamente fagocitata 93 94

P. Szondi, Poetica e filosofia della storia, cit., p. 362. Per un’introduzione al legame teorico fra Peter e Leopold Szondi cfr. M. Hubay, Le teorie dei due Szondi sul destino tragico, in «Il cannocchiale», 3, 1998, pp. 5-12. Nel riassumere alcune osservazioni su questo tema, ha sintetizzato efficacemente E. Agazzi (Dall’Officina di Peter Szondi, in Peter Szondi. La storia, le forme, l’unità della parola, cit., p. 82) che la teoria del destino di Leopold Szondi si può spiegare “in tre punti: a) l’uomo è una creatura in grado di governare la vita del sentire (Gefühlsleben) con l’aiuto della volontà (enunciato); b) questa concezione si lega al corso della vita umana, alle conseguenze di questo corso, alla particolare dipendenza di questo dalle qualità e dagli elementi ereditati e dai fattori legati al milieu; c) questa concezione è dialettica e funzionale rispetto a vari elementi opposti, che emergono dalla sfera intima dell’uomo e dal suo contatto con il mondo”.

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dalla dialettica cui soggiace la coscienza del protagonista, secondo un andamento che – come è stato notato – già traspariva nella Teoria del dramma moderno: “il luogo scenico viene sempre più determinato da una drammaturgia incentrata sull’Io”95. Emblematica, in proposito, l’immagine della “spina nella carne” di kierkegaardiana memoria (la “freccia di Epaminonda”96), la cui inquietante presenza ritorna a più riprese nelle pagine di Szondi per esempio dedicate a Hölderlin (Der Stachel, Der andere Pfeil); e che apre, nella forma della frammentaria citazione di Eschilo, la seconda sezione del Saggio, dedicata all’analisi delle tragedie: l’aquila scopre nella freccia che la trafigge piume delle sue piume97. Anche in questo senso la logica del tragico di cui parla Szondi è dunque la storia di un’“ideale tragedia di Edipo”. Szondi pare in tal modo paradossalmente collocarsi di nuovo dalla parte di Aristotele e della sua preferenza, accordata in più luoghi della Poetica, a tale vicenda tragica: “Ma nei fatti concreti non dev’esserci nulla di irrazionale [alogon], se non in modo esterno al dramma, come nell’Edipo di Sofocle” (1454b6-8)98. Ciò non è tuttavia senza conseguenze, giacché scegliere a modello l’Edipo re permette di risolvere il problema su un piano per così dire individuale, “mentre il conflitto tra le ‘potenze universali’ appare meglio ove si prenda come prototipo l’Antigone”. La cui tragicità, nel Saggio szondiano, appare evidentemente e non per caso “solo in via subordinata”99. E poco importa che i limiti di questa scelta di campo vengano rilevati da chi scorge sullo sfondo dell’attività teorica di Szondi un sospetto agnosticismo ideologico, oppure da chi – per converso – rinviene nel Saggio un costitutivo difetto di quella “colorazione ontologica” che sola potrebbe farne una positiva proposta filosofica100: le perplessità (e financo, insospettabilmente, le conclusioni) non sono poi così distanti.

95

T. Sparr, Peter Szondi, in Peter Szondi. La storia, le forme, l’unità della parola, cit., p. 60. 96 P. Szondi, Saggio sul tragico, cit., p. 48. 97 Ibidem, p. 77. 98 Aristotele, Poetica, cit., pp. 78-79. 99 C. Cases, Introduzione, cit., p. XXXIII (nota). 100 S. Givone, Prefazione, cit.

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Il Saggio sul tragico di Szondi ha per tema il tragico della coscienza, e non le contraddizioni della realtà: “Si tu nous fais du mal, il nous vient de nous-mêmes” (Théodore-Agrippa d’Aubigné) ed “En me cuidant aiser, moi même je me nuis” (Jean de Sponde) sono i motti che Szondi colloca programmaticamente in esergo al suo libro. E che ne segnano inconfondibilmente sia la vocazione ermeneutica, sia i limiti speculativi nei quali muove e che anzi l’autore stesso si è imposto: “nel mio lavoro non si tratta della dialettica del tragico, ma del tragico come dialettica”. Non solo non ogni dialettica è tragica, ma Szondi sapeva bene che la dialettica non esaurisce il tragico – e probabilmente proprio per questo egli teneva a ricordare a Unseld di non essere un filosofo, e di non avere (nel rispetto di quello che Gert Mattenklott ha definito un autentico “ethos filologico”) alcun diritto né tantomeno alcuna intenzione di presentare una propria concezione filosofica del tragico “in questo mondo”. In luogo di tutto ciò, al posto cioè di una trattazione compiuta e sistematica101, Szondi aveva preferito dare sul tragico un Saggio, di grande dignità letteraria, della propria ermeneutica filologica. Se è vero – come è stato notato – che solamente sulla base di una (restrittiva e problematica) definizione in termini di genere letterario è oggi ancora possibile “tracciare una continuità tra il modello greco e il teatro tragico cristiano o moderno”102, la sobrietà apparentemente scarna cui mette capo il tentativo di Szondi si rivela da ultimo ricca di suggestioni teoriche sulle quali vale la pena continuare a riflettere.

101

102

Cfr. M. Cometa, Szondi e il Tragico, cit., pp. 95, 102; nonché A. Negri, Peter Szondi e la “filosofia del tragico”, cit., p. 17. C. Gentili, La filosofia come genere letterario, Pendragon, Bologna 2003, p. 105.

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– IX –

Un monumento per il classicismo. La lezione hegeliana di Peter Szondi

1. Da buon pensatore storico, oltre che da eccellente filologo, Peter Szondi1 era ben consapevole dei problemi testuali posti dalle Lezioni di estetica nell’edizione stabilita dall’allievo di Hegel Heinrich Gustav Hotho (pubblicata fra il 1835 e il 1838 e poi di nuovo, con qualche lieve variante, nel 1842)2. Nonostante le migliori intenzioni (“Gli obblighi imposti da una tale redazione si possono confrontare con le esigenze che dovrebbe soddisfare un bravo e accorto restauratore di antiche pitture”, scriveva il curatore nella ‘Premessa’ alla prima edizione dell’opera3), non sono ignote ormai agli studiosi le ragioni della diffidenza nei confronti di un’edizione come quella di Hotho, indubbiamente meritoria, ma che tradisce a ogni pagina interventi in prima persona, suture, rielaborazioni, sistematizzazioni arbitrarie dei materiali4. Il monumentale lavoro condotto

1

2

3

4

Il giovane professore di origine ungherese tenne lezioni sull’estetica hegeliana per due volte, nel semestre estivo 1962 a Göttingen, e poi in quello invernale 1964-1965 alla Freie Universität di Berlino. Il testo di quest’ultima Vorlesung, intitolato Hegels Lehre von der Dichtung, si trova nel volume di lezioni Poetik und Geschichtsphilosophie I (Studienausgabe der Vorlesungen. Band 2), Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1974, pp. 267-511. Con il titolo La teoria hegeliana della poesia esso uscì in italiano in un volume (comprendente anche le lezioni di Szondi su La poetica dei generi di Schelling) intitolato La poetica di Hegel e Schelling, trad. it. di A.M. Marietti, Einaudi, Torino 1986. La sola sezione hegeliana è stata poi ripubblicata anastaticamente dal medesimo editore con il titolo La poetica di Hegel, introd. di G. Garelli, Einaudi, Torino 2007. Cfr. G. Garelli, L’estetica hegeliana. Percorsi bibliografici (in Est, pp. XXXVIIXLVI). H.G. Hotho, Premessa alla prima edizione, trad. it. di P. Galimberti in G.W.F. Hegel, Introduzione alla “Estetica”, con un saggio di W. Biemel, Guerini, Milano 1996, pp. 31-32. Per le notizie sui criteri editoriali introdotti dagli studiosi dello Hegel-Archiv, cfr. A. Gethmann-Siefert, Ästhetik oder Philosophie der Kunst. Die Nachschriften und Zeugnisse zu Hegels Berliner Vorlesungen, in «Hegel-Studien», 26,

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negli ultimi decenni soprattutto nell’ambito dello Hegel-Archiv, con l’intento di restituire versioni filologicamente più attendibili dei materiali disponibili (in primis i quaderni degli uditori), ha quindi messo a disposizione degli studiosi una quantità notevole di testi che autorizzano una lettura più ricca e complessa dell’estetica hegeliana, attenta all’evoluzione e alle sfumature, in specie riguardo ai corsi degli anni berlinesi. A detta di alcuni, le conseguenze di questo lavoro editoriale sarebbero addirittura dirompenti. Secondo pareri autorevoli, proprio gli aspetti tradizionalmente considerati più inattuali, nella filosofia hegeliana dell’arte – in primo luogo, la tesi circa la fine o la morte dell’arte stessa, insieme all’inaggirabile residuo classicistico dell’approccio di Hegel alla questione – ne risultano messi in discussione o smentiti, quando non addirittura capovolti. Più volte Annemarie Gethmann-Siefert ha del resto ribadito la necessità di combattere i pregiudizi storiografici circa la presunta rigidità dell’estetica hegeliana (che sarebbe piuttosto un autentico work in progress). La studiosa ha parlato inoltre di uno Hegel estetico ancora sostanzialmente sconosciuto, capace di sorprendere chi si occupi della disciplina non solo in chiave di storia delle idee o di filosofia della cultura, ma con approccio teorico e sistematico5. Ed è indubbio che l’accesso a un’edizione critica dei principali manoscritti degli uditori, certamente più freschi e attendibili, ha consentito di mettere in questione aspetti e formule dell’edizione Hotho dati per scontati per un secolo e mezzo: a partire dal dogma definitorio per cui il bello sarebbe “manifestazione sensibile dell’idea”, una formula non di conio hegeliano che in realtà, secondo la studiosa, conferirebbe al discorso di Hegel un colorito eccessivamente platonico. Il platonismo enfatizzato da Hotho attenuerebbe infatti l’interesse (al limite, piuttosto aristotelico) per il concreto contenuto

5

1991, pp. 92-110. Per una presentazione panoramica della questione, cfr. P. D’Angelo, Introduzione a EH23, pp. V-XXXVI; A. Gethmann-Siefert, Einführung in Hegels Ästhetik, Fink, München 2005; e L’estetica di Hegel, a c. di M. Farina, A.L. Siani, Il Mulino, Bologna 2014 (con relative indicazioni bibliografiche). A. Gethmann-Siefert, Einführung in Hegels Ästhetik, cit., pp. 13-15.

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dell’opera d’arte, e costituirebbe un supporto per così dire ideologico a un classicismo più orientato alla bellezza che alla “vitalità” dell’idea stessa nell’aspetto sensibile dell’opera: un aspetto che Hegel, a lezione, avrebbe invece giustamente considerato nella sua piena realtà storica e nel suo concreto valore culturale6. Ragion per cui, come è stato osservato, in ultima analisi “l’interpretazione dell’estetica hegeliana fornita dagli studiosi dello Hegel-Archiv tende ad accreditare l’idea che la componente ‘sistematica’ di tale estetica sia frutto della sovrapposizione di Hotho, e che una lettura diretta delle Nachschriften ci mostri un inedito Hegel ‘fenomenologo dell’arte’”7. In questa sede non è evidentemente possibile esporre in maniera adeguata argomenti tanto complessi, discuterne l’effettiva portata rivoluzionaria, né tantomeno prendere posizione su alcune specifiche affermazioni della Gethmann-Siefert8. D’altra parte, ribadire l’importanza storica del vecchio testo di Hotho, concretizzatasi in una lunga e inaggirabile storia degli effetti, non significa affatto proporne una difesa d’ufficio. Ci si limiterà pertanto a richiamare l’attenzione su una questione che la Gethmann-Siefert colloca al centro della propria attività editoriale ed esegetica, rinvenendovi i maggiori impedimenti che si frappongono al riconoscimento della attualità teorica dell’estetica di Hegel: le conseguenze del classicismo di cui è intrisa la dialettica hegeliana, così come risulta dal testo di Hotho. Un tema, come si vedrà, alla cui comprensione la Vorlesung di Szondi può offrire un contributo davvero non sottovalutabile.

2. Un inquadramento della questione del classicismo non può prescindere da un richiamo, sia pur breve, alla vexata quaestio della cosiddetta ‘morte’ dell’arte. Diamo per assodato, com’è ovvio, che

6 7 8

Ibidem, pp. 29-34. P. D’Angelo, Introduzione, cit., p. XXXIII. Cfr. per esempio quanto si legge, in linea generale, circa la funzione della filosofia, e dunque dell’estetica filosofica, in A. Gethmann-Siefert, Einführung in Hegels Ästhetik, cit., alle pp. 28 ss. (ove si tratta della possibile attualità “sistematica” dell’estetica dell’idealismo).

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non sia in gioco con ciò qualcosa come la reale sopravvivenza dell’arte al pensiero hegeliano: sarebbe evidentemente una follia attribuire a Hegel la convinzione di una scomparsa storica dell’arte dopo che la nottola di Minerva ha spiccato il suo volo. Così come diamo per scontata ogni precisazione circa il fatto che Hegel ha privilegiato rispetto alla nozione di “fine” o – più ancora – di “morte” quella, comunque assai meno equivoca, di “carattere passato [Vergangenheitscharakter]” dell’arte. In questione, infatti, non sono meri slogan o parole d’ordine, ma un discorso assai più articolato circa la cosa stessa, ovvero il mutamento di funzione dell’arte nell’età tardo-moderna. Quando l’arte, avendo smarrito la propria solidarietà con la religione e il sacro, si trova relegata in ambiti ormai distanti dal nesso sostanziale con la Wirklichkeit, essa deve abdicare alla propria vocazione per l’assoluto in favore di altre forme – nella fattispecie quelle del concetto e della filosofia – che per Hegel sono più appropriate al presente. Nel tempo il tema ha goduto di una dignità crescente, e la sua fortuna – anche come slogan, oltre che come permanente oggetto di indagine storica e sistematica – continua tutt’oggi. Certo, fatta questa doverosa premessa, occorrerebbe forse domandarsi almeno quanto sarebbe grande la resistenza ad applicare con altrettanta enfasi retorica il concetto di “morte” a un qualunque altro momento aufgehoben della storia dello spirito. Resta però il fatto che classicismo e morte dell’arte sembrano questioni destinate a stare o cadere insieme. Il che significa: il classicismo potrà da ultimo non confliggere con gli elementi più attuali dell’estetica hegeliana solo a patto (e niente affatto paradossalmente) che si prenda sul serio proprio la determinazione del carattere passato dell’arte, per portare alle logiche conseguenze il progetto hegeliano di costruzione di una “filosofia della storia dell’arte”. Per verificare la portata della lettura di Szondi rispetto a simili, delicate questioni, sarà opportuno prendere le mosse da un assunto decisivo, contenuto nelle prime pagine del testo: è solo grazie all’insegnamento storico-dialettico di Hegel che le cosiddette “scienze dello spirito” hanno potuto acquisire consapevolezza del carattere “spiccatamente storico” del loro oggetto. Di fronte a tale consapevolezza riflessiva, ogni atteggiamento ermeneutico volto a ricono230 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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scere la “positività” dell’oggetto stesso dovrà dunque, proprio per rendere conto di sé, compiere un “passo oltre la fatticità (o, meglio, attraverso la facciata della fatticità)”9. Tale passo costituisce peraltro il movimento determinante in direzione di un’indagine filosofica che sia immanente all’opera. Qui è decisivo il fatto che “L’estetica di Hegel non costituisce solo un elemento del suo sistema filosofico, è anche una sintesi monumentale situata alla fine di un’epoca”: l’età di Goethe. È quanto si legge a più riprese nel corso Antico e moderno nell’estetica dell’età di Goethe (che pure non tematizza esplicitamente le Lezioni di Hegel), laddove in una nota della Lezione prima Szondi dice: Quando si parla della poetica dell’età di Goethe, è facile essere tentati di metter ordine nel gran numero di questioni, idee, riflessioni, nella molteplicità dei singoli modi di pensare di quest’epoca, comprendendoli a partire dalla sintesi nella quale tutti dovevano venir superati [aufgehoben], ovvero l’estetica hegeliana […]. Noi non vogliamo cedere completamente a questa tentazione, ma la nostra discussione […] è così condizionata dall’obiettivo storico e tematico di Hegel che noi scegliamo come criterio di questa frammentaria esposizione proprio la storicità di ogni bello, che Hegel ha posto al centro dell’attenzione, la storicità del bello in tutte le sue manifestazioni o, in altre parole, la comprensione dell’impegno dell’età di Goethe intorno alle questioni di poetica come confronto speculativo sulla storicità dell’arte”10.

Per queste ragioni sarebbe fuorviante ricercare nell’estetica hegeliana qualcosa come un’astratta teoria del bello, mentre essa si 9 10

P. Szondi, La poetica di Hegel, cit., p. 6. Il corso Antike und Moderne è contenuto, insieme alla Vorlesung hegeliana, in P. Szondi, Poetik und Geschichtsphilosophie I, cit., pp. 11-265; trad. it. di G. Garelli, Antico e moderno nell’estetica dell’età di Goethe, in P. Szondi, Poetica e filosofia della storia, a c. di R. Gilodi, F. Vercellone, Einaudi, Torino 2001, pp. 179-381; la citazione è tratta da p. 184 (nota 9). Sull’intera questione cfr. il saggio introduttivo di F. Vercellone, La classicità romantica di Peter Szondi, ibidem, pp. 165-178.

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propone piuttosto di “intendere teoreticamente sia la struttura concreta dell’opera d’arte […], sia la sua storia”, ossia vuole comprenderne la struttura proprio attraverso la storicità che le è immanente: “la filosofia hegeliana dell’arte è insieme una filosofia dell’opera d’arte e della storia dell’arte e della poesia [eine Philosophie des Kunstwerks und der Geschichte von Kunst und Dichtung]”11. Szondi dunque si inscrive pienamente in quella tradizione interpretativa che vede, per un motivo o per l’altro, nell’estetica di Hegel il “punto d’arrivo della filosofia dell’arte [Zielpunkt des kunstphilosophischen Denkens] dell’età di Goethe”12. E non sono pochi gli autori nei quali egli poteva trovare conferma del proprio orientamento, la cui interpretazione hegeliana era conservatrice solo in apparenza. Si prenda per esempio A History of Modern Criticism di René Wellek, a cui – sia pure senza risparmiare le critiche – Szondi fa costante riferimento nei suoi corsi di lezioni, e si vedrà che anche per Wellek Hegel costituisce il “culmine dell’intero, stupefacente sviluppo della speculazione tedesca intorno all’arte”13. Non senza peraltro rilevarne poche pagine più tardi, proprio in merito alla questione della fine dell’arte, l’ambiguità (un’autentica “testa di Giano”), dal momento che dell’estetica hegeliana un lato […] guarda indietro, al passato, anelando all’ideale greco di serenità e arte ideale, alla completa fusione di forma e contenuto ch’egli vedeva nella scultura greca, in Omero e in Sofocle; e l’altro, rivolto verso il futuro, […] osserva senza preoccupazione e anzi soddisfatto la morte dell’arte.

Ragion per cui, conclude Wellek, si tratterà di pensare a Hegel e alla sua estetica “come ad una sommità, ad una strada che finisce – ma finisce in un vicolo cieco”14. Un’analisi che, come vedremo, Szondi poteva comunque condividere solo a metà, lungi com’era 11 12 13

14

P. Szondi, La poetica di Hegel, cit., p. 10. P. Szondi, Poetica e filosofia della storia, cit., p. 368. R. Wellek, Storia della critica moderna. II. L’età romantica (1955), trad. it. di A. Lombardo, Il Mulino, Bologna 1961, p. 406. Ibidem, p. 425.

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dal ritenere che il dispiegarsi della dialettica avesse consegnato l’estetica a un punto morto. In questo senso, Szondi poteva trovare un’interpretazione senza dubbio più congeniale in un classico della storiografia hegeliana, Die Vollendung der klassischen deutschen Ästhetik durch Hegel (1931) di Helmut Kuhn, che non per nulla costituisce un altro strumento imprescindibile per la sua attività didattica. “Quando parliamo di un compimento dell’estetica classica tedesca in Hegel”, scrive Kuhn, “con questo non si intende un accrescimento qualitativo o quantitativo”, come se con Hegel una volta per sempre “si fosse raggiunto il massimo assoluto di perspicuità e conoscenza dell’oggetto” in questione. La precisazione non è di poco rilievo: Hegel è “compimento” dell’estetica classica tedesca perché in lui le tendenze teoriche e i percorsi sviluppati all’interno del pensiero precedente trovano composizione in una trattazione organica e conclusiva, in grado di farne appunto Aufhebung15. D’altra parte, prosegue Kuhn, è solo grazie alla sistematizzazione di Hegel che siamo circolarmente in grado di comprendere la stessa filosofia hegeliana dell’arte sulla base del contesto poetico e filosofico che l’ha preceduta: e se questa precisazione potrà sembrare quasi ridondante, va detto che nel programma di Kuhn – in polemica con quanti (per esempio Rudolf Haym) accentuavano il superamento filosofico dell’arte – essa costituisce il passaggio indispensabile per consentire la storicizzazione anche del punto di vista hegeliano, fino a giungere al passo più ardito, ossia la giustificazione dialettica del suo stesso rovesciamento16. Come si accennava in precedenza, non deve comunque trarre in inganno un certo tradizionalismo, nell’interpretazione di Hegel, che sembra accomunare tutti questi autori. Giacché Szondi per la sua Vorlesung ha certamente anche un altro punto di riferimento, sia pur citato solo di passaggio in apertura: il compatriota György Lukács. Il cui nome compare qui esclusivamente come autore del saggio introduttivo all’Ästhetik hegeliana curata nel 1955 da Frie15

16

H. Kuhn, Die Vollendung der klassischen deutschen Ästhetik durch Hegel (1931), in Schriften zur Ästhetik, a c. di W. Henckmann, Kösel, München 1966, pp. 15-144; qui p. 22. Ibidem, pp. 100, 121.

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drich Bassenge, senza aggiunta di ulteriori considerazioni17. Ma l’esiguità del rimando (forse determinata peraltro anche dal tono marcatamente ideologico di tutta la seconda parte del saggio lukácsiano) non è di per sé significativa. Anche a detta di Lukács l’estetica hegeliana rappresenta infatti un compimento: “nel campo della filosofia dell’arte” essa costituisce il “punto più alto raggiunto dal pensiero borghese, dalle tradizioni borghesi progressiste”18. Al di là della coloritura ideologica – dalla quale peraltro Szondi, docente della Freie Universität di Berlino, sembrerà ampiamente immune – Lukács è in grado di scorgere in Hegel il legame indissolubile di trattazione storico-dialettica ed elaborazione delle categorie estetiche: quel nesso in cui il classicista Hegel, per il quale “nulla c’è né ci potrà mai essere […] di più bello” dell’antichità classica di Sofocle e di Fidia, individua la chiave dialettica del collegamento fra una problematica “essenza assoluta” delle categorie estetiche e il “carattere storico e relativo del loro concreto manifestarsi”19. Più esplicitamente ancora, scrive Lukács, “L’estetica hegeliana si fonda […] sulla dialettica, sull’interazione dialettica tra contenuto e forma e, precisamente, […] sulla priorità del contenuto”: ecco perché le forme dei generi artistici non sono affatto arbitrarie, bensì “emergono, al contrario, dalla determinatezza concreta di una certa situazione sociale e storica (situazione del mondo)”20. Dal che risulta, fra l’altro, il valore potenzialmente inesauribile dello stesso classicismo hegeliano: La posizione particolare che Hegel attribuisce all’arte classica greca acquista in questa prospettiva un valore estetico universale e, al di là di esso, un universale valore filosofico. Talché l’intera estetica diventa una grandiosa rivelazione dei principi umanistici: l’espressione dell’uomo universalmente sviluppato, non alterato, 17

18 19 20

Cfr. P. Szondi, La poetica di Hegel, cit., note 5 e 7, pp. 11-12. Il saggio lukácsiano L’estetica di Hegel risaliva al 1951, ed era stato ripubblicato poi in G. Lukács, Contributi alla storia dell’estetica (1954), trad. it. di E. Picco, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 114-156. G. Lukács, Contributi alla storia dell’estetica, cit., p. 114. Ibidem, pp. 123-124. Ibidem, pp. 125-126.

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non frantumato dalla perniciosa divisione del lavoro; dell’uomo armonico […]. Naturalmente questo ideale di humanitas fornisce il criterio assoluto per la valutazione di qualsivoglia stile artistico, di qualsiasi genere o singola opera d’arte21.

3. Quale aporia potesse scaturire da una lettura dialettica ‘progressiva’ del classicismo hegeliano è un problema che era stato già chiaramente individuato da Karl Marx nell’‘Introduzione’ a Per la critica dell’economia politica (1859): “la difficoltà non sta nell’intendere che l’arte e l’epos greco sono legati a certe forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è rappresentata dal fatto che essi continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili”22. Peraltro, un aspetto qualificante dello hegelismo di Szondi consiste proprio nell’assunzione di un punto di vista dialettico in nome dell’abbandono di ogni pretesa normativa in estetica: il venerabile problema poetologico che, per esempio, da Aristotele conduce fino alle differenti risposte – tutte prese a suo tempo in esame da Szondi23 – circa i canoni relativi alle forme poetiche proposti da Benedetto Croce, dal maestro di Szondi a Zurigo Emil Staiger, da Walter Benjamin nella ‘Premessa gnoseologica’ alla dissertazione sul dramma barocco tedesco. Ora, proprio nella dialettica di forma e contenuto e nel reciproco rovesciamento di ciascuno dei due termini nell’altro la dissertazione dottorale di Szondi riconosceva, grazie a Hegel – ma in questa prospettiva dialettica non è per lui meno decisiva la lettura della Filosofia della musica moderna (1949) di Adorno – la possibilità di storicizzare la stessa poetica dei generi (lirica, epica e dramma). Infatti, là dove “è data anche la possibilità che l’enunciazione contenutistica entri in contraddizione con

21 22

23

Ibidem, p. 127. K. Marx, Per la critica dell’economia politica (1859), trad. it. di E. Cantimori Mezzomonti, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, a c. di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 742. Cfr. P. Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950 (1956), trad. it. di G. Lunari, Einaudi, Torino 1962.

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quella formale”, sarà proprio “questa antinomia interna” a rendere “storicamente problematica” una forma letteraria, o in generale una forma artistica24. Per noi si tratta così di verificare, almeno per sommi capi, in che modo considerazioni come queste finiscano per interagire con la lettura dell’Estetica hegeliana proposta da Szondi negli anni sessanta. Come si dice ancora esplicitamente ne La teoria hegeliana della poesia25, prendere sul serio il nesso fra storicizzazione e dialettica formacontenuto – lungi dallo schiacciare la concretezza e la peculiarità dell’arte nel quadro del sistema filosofico (come vorrebbe una certa vulgata antispeculativa) – significa piuttosto muovere alla ricerca della “natura” e della “struttura specifica” dell’opera. Significa cioè mettere a punto uno sguardo immanente al divenire storico dell’arte che dunque “diventa possibile non malgrado, ma grazie alla filosofia di Hegel, che mira alla mediazione di universale e particolare, di astratto e concreto, e non alla sussunzione del particolare sotto l’universale, del fenomeno sotto il concetto”26. In questo senso, la dialettica costituirà per Szondi non uno strumento dogmatico per interpretare l’arte in maniera eteronoma, ossia dal punto di vista del pensiero concettuale dispiegato e volto a realizzare post festum la conciliazione a ogni costo, ma piuttosto, al contrario, la chiave di accesso al divenire della realtà stessa, allo scopo di intenderne l’immanente processualità – quel processo che, in estetica, è anzitutto la vicenda storica della nozione di bello27. Ecco perché andrà ascritto fra i meriti di Hegel l’inserimento del “lato materiale-tecnico” nella (storia della) filosofia dell’arte28; e qui varrà la pena notare del tutto di passaggio come l’ermeneutica materiale di Szondi, nonostante ogni differenza di principio e di metodo, si ritrovi schierata sullo stesso versante di un’altra ermeneutica, invero decisamente poco hegeliana, come quella di Luigi Pareyson, quando questi scrive: 24

25 26 27 28

Cfr. P. Szondi, Teoria del dramma moderno, cit., pp. 4-6. Sulla questione, si veda R. Gilodi, Per una critica della ragion letteraria, in P. Szondi, Poetica e filosofia della storia, cit., pp. 5-22. Cfr. P. Szondi, La poetica di Hegel, cit., p. 33. Ibidem, p. 23. Ibidem, p. 27. Ibidem, p. 81.

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Secondo Hegel l’unica sede dell’universale è il particolare, senza che per questo il particolare dissolva in sé l’universale. In tal senso il concetto filosofico dell’arte consiste nelle interpretazioni storiche dell’arte: ed è ben questa la vera e grande originalità dell’estetica hegeliana29.

Sulla base di simili premesse, diviene allora chiaro anche il senso della citazione adorniana che, in queste lezioni, serve quasi da motto augurale alle nozze fra estetica storica ed ermeneutica materiale: Un’opera d’arte non la si capisce se la si traduce in concetti – se si fa semplicemente questo la si fraintende in anticipo – bensì non appena si è all’interno del suo movimento immanente […]. Le opere d’arte vengono capite in tale maniera soltanto attraverso la filosofia dell’arte30.

4. Se, a questo punto, incominciamo a trarre le fila del discorso, possiamo forse comprendere quale sia l’impatto dell’interpretazione szondiana rispetto alle grandi questioni sollevate in apertura, ossia fondamentalmente il problema del classicismo hegeliano e quello del “carattere passato” dell’arte, intesi come due aspetti inseparabili, due facce della stessa medaglia. Incominciamo con la questione della cosiddetta fine dell’arte. Anche Szondi insiste con decisione sull’inaggirabilità, in Hegel, del nesso arte-religione. Di questo ritrova il modello nella “divinità della scultura greca” non più che nella “pittura religiosa del cristianesimo”31, il cui Dio, lungi dal rifiutare l’antropomorfismo dallo sguardo ancora “vuoto e senz’anima” della statuaria greca, lo radicalizza fino al punto di farsi “interamente uomo”32. Ma nella Vorle29

30

31 32

L. Pareyson, Il mondo dell’arte, in G. Calabrò et al., L’opera e l’eredità di Hegel, Laterza, Roma-Bari 1972, p. 48. Th.W. Adorno, Presupposti, trad. it. di E. De Angelis, in Note per la letteratura, introd. di S. Givone, Einaudi, Torino 2012, pp. 162-163; cfr. P. Szondi, La poetica di Hegel, cit., p. 96. P. Szondi, La poetica di Hegel, cit., pp. 79-80. Ibidem, p. 148.

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sung capita di imbattersi anche, ripetutamente, in articolate disquisizioni circa il destino dell’arte dopo il crollo del sistema idealistico: si pensi per esempio a quanto Szondi scrive a proposito della doppia anima del realismo, o prima ancora circa le difficoltà di comprendere in termini hegeliani il romanzo realistico borghese, oppure la poesia del XX secolo33. Sempre, in queste circostanze, prevale in Szondi la preoccupazione del filologo: la soluzione da lui proposta non è mai azzardata, e ciò la rende fra l’altro ampiamente affidabile e condivisibile. Szondi esorta per esempio a evitare affrettati anacronismi nell’applicare alla nostra epoca un “concetto hegeliano di arte”34; alla conclusione del corso, si schermisce dalla possibilità di aver suggerito con la sua interpretazione “un’illecita attualizzazione” della materia proposta35; mentre già dopo poche pagine la cautela lo aveva indotto a suggerire ai suoi uditori di separare la trattazione dell’Estetica dagli eccessi del “panlogismo” del sistema hegeliano, che non ne costituirebbero affatto un presupposto indispensabile (e qui, forse, l’eccesso di prudenza speculativa non è esente a sua volta da una certa problematicità)36. Ma al di là di questo doveroso riconoscimento alla cautela dello Szondi esegeta e docente, gli elementi teoreticamente più attuali della sua interpretazione debbono essere ricercati proprio nel contesto della sua trattazione della forma d’arte classica: allorquando – nella prospettiva dell’Estetica hegeliana – “è mezzogiorno”, ossia è scoccata “l’ora meridiana in cui il concetto del bello è perfettamente presso di sé” e risplende nelle “tre arti della scultura, della poesia epica e della tragedia”37. In primo luogo, dal punto di vista testuale, sono qui esemplari per chiarezza le pagine in cui trattando della tripartizione classica delle forme d’arte (che vede notoriamente nell’arte simbolica la tesi, in quella classica l’antitesi e in quella romantica la sintesi) Szondi si 33 34 35 36

37

Cfr. ibidem, pp. 151, 131 ss. Ibidem, p. 132. Ibidem, p. 214. Ibidem, pp. 30-31. Per un’interpretazione opposta, almeno su questo punto specifico, si può vedere ancora il saggio di G. Oldrini, La struttura logica dell’Estetica di Hegel, in L’estetica di Hegel e le sue conseguenze, Laterza, RomaBari 1994, pp. 3-26. P. Szondi, La poetica di Hegel, cit., pp. 117, 199.

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Dialettica e interpretazione

sforza di fare appello a una nozione di dialettica assai più duttile e meno dogmatica di quella suggerita dalla sistematizzazione scolastica – anche se forse, complice l’architettura di Hotho, non riesce a emanciparsene del tutto. La sua lettura infatti cerca almeno di spiegare l’apparente contraddittorietà della posizione intermedia del classico, individuando un “doppio” movimento dialettico che permette di conciliare il classico con il negativo dell’antitesi, e la maturità romantica (per servirci di una metafora biologica di conio herderiano), ossia la sintesi, con la decadenza dell’arte. Da una parte, Szondi ricorda allora che, nella prospettiva dello spirito intento al proprio cammino dialettico “verso il suo essere-in-sé-e-persé”, l’arte non potrà che confermare nell’epoca posthegeliana la propria appartenenza al passato, almeno quanto alla sua destinazione suprema, per abdicare infine necessariamente in favore della filosofia e del concetto. Dall’altra tuttavia, se nella vicenda storica della bellezza “si ripercorre lo sviluppo dell’ideale”, sarà “la forma d’arte classica” ad apparire legittimamente “come sintesi”: questa, ricorda Szondi, è infatti preceduta da una tesi – costituita da quell’unità immediata di idea e forma, di divino e natura, che è presente per Hegel nelle “religioni naturali” – e da un’antitesi, costituita dalla forma d’arte simbolica38. In secondo luogo, è proprio nella sua insistenza sulla dimensione immanente della dialettica storico-artistica che la lettura di Szondi contribuisce a valorizzare gli aspetti più attuali della filosofia hegeliana dell’arte. Voltate le spalle all’idea – propriamente romantica, e per Hegel impraticabile – di una mitologia del futuro, l’argomento dialettico si può infatti estendere a un presente che “non conferma tanto l’appartenenza dell’arte al passato, quanto il carattere passato della filosofia idealistica”. In un certo senso, vuol dire Szondi con questo, pare che sia l’arte stessa oggi, certamente oltre Hegel (ma

38

Ibidem, pp. 143-144. Su questo punto specifico, per una lettura alternativa e più articolata di quella szondiana, attraverso l’analisi della nozione di “segno” e un confronto sistematico con le diverse collocazioni attribuite da Hegel alla “religione della luce” a partire dalla Fenomenologia, cfr. B. Haas, Religione come rappresentazione (con chiarimenti sulla religione dei Parsi), in Arte, religione e politica in Hegel, a c. di F. Iannelli, Ets, Pisa 2013, pp. 147-160.

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non senza di lui), ad aver emesso la propria sentenza sulla filosofia, precisamente quando si rifiuta di venire “giudicata secondo quel criterio ideale” che il pensiero stesso ha dovuto abbandonare39. Ed è proprio qui, non poi così paradossalmente, che secondo Szondi l’estetica contemporanea potrà essere ancora tematizzata a partire dal punto di vista della generale concezione hegeliana dell’ideale e delle tre forme d’arte, solo che si dovrà fare anche quel passo a cui Hegel non poté decidersi, non da ultimo in considerazione della sua meta finale, la filosofia: e cioè il passo della storicizzazione dello stesso concetto ideale dell’arte. Ciò che Hegel ha fatto solo con esitazione, quando nel contesto della forma d’arte romantica ha parlato di un ideale romantico, di una bellezza romantica, che ha carattere interiore40

(ove il riferimento è anzitutto alle conseguenze della Riforma protestante in ambito artistico, alla pittura olandese, alle forme espressive di un’arte ormai in relazione con la “prosa” della vita borghese). Tutto questo non implica la sanzione del carattere irrimediabilmente passato dell’arte (o peggio defunto: la distinzione di stampo crociano fra “ciò che è vivo” e “ciò che è morto” essendo destinata, dice Szondi, a rivelarsi formulazione tanto presuntuosa quanto problematica). Significherà piuttosto uno sforzo positivo per pensare nuovamente l’arte in termini filosofici, e che siano tuttavia accettabili sia per l’arte sia per la filosofia. Certo, un’arte non più giudicata secondo un classicismo statico, sulla base del modello unico e irripetibile dell’antichità greca: per un buon pensatore dia39

40

Ibidem, pp. 120, 151-153. – Da questo punto di vista, sia lecito aggiungere, hanno ragione quanti (e sono ormai molti, a partire da A. Gethmann-Siefert) affermano che anche le ultime conseguenze del disenfranchisement (Entmündigung, “destituzione”) filosofico dell’arte, di cui ha parlato il filosofo americano Arthur C. Danto (The Philosophical Disenfranchisement of Art, Columbia U.P., New York 1986), rimangono, in un modo o nell’altro, pienamente all’interno dell’orizzonte spalancato dalla filosofia della storia dell’arte hegeliana. P. Szondi, La poetica di Hegel, cit., p. 172.

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Dialettica e interpretazione

lettico, infatti, il classico – rinunciando a presentarsi come origine – ha proprio il merito di scardinare ogni dottrina normativa, grazie al “valore euristico” della “interconnessione hegeliana di concetto e storia”41.

5. Rimane aperta la questione circa la peculiarità della dottrina hegeliana della poesia: una questione non da poco, invero, se si pensa che le sono dedicate, fin specificamente dal titolo, le lezioni di Szondi. Un titolo che tuttavia, bisogna dirlo, era tanto legittimo nel contesto didattico cui faceva riferimento il loro autore, quanto rischia altrimenti di essere fuorviante. Del resto, è lo stesso Szondi a rendersi conto di un certo squilibrio tematico della propria trattazione (che dedica alla dottrina hegeliana della poesia appena un quinto del totale42, se si eccettuano le considerazioni sparse nell’ambito della trattazione della “forma d’arte del paragone”), e a premurarsi di spiegare come la Vorlesung consista in realtà in un vero e proprio corso introduttivo all’intera Estetica di Hegel. Un corso concepito come inquadramento storico-filosofico alla teoria poetica, contenuta notoriamente nella terza parte dell’Estetica. Da una parte, Szondi non risparmia critiche all’inadeguatezza e alla parzialità della trattazione hegeliana della poesia, e proprio appellandosi a ciò che altrimenti è stato individuato come autentico punto di forza dell’Estetica: “Che il vero merito della filosofia hegeliana dell’arte consista nella congiunzione di teoria speculativa e comprensione artistica forse non diventa evidente in nessun altro punto come qui, dove questa sintesi non si realizza”43. In questo caso davvero a poco varrebbe, ancora una volta, scaricare ogni colpa sulla sistematizzazione del testo di Hotho. Anche in considerazione del fatto, sostiene Szondi, che siamo alle prese con una concezione del linguaggio del tutto inadeguata alle esigenze della poetologia44. Si pensi da una parte all’idea di metaforicità come 41 42 43 44

Ibidem, p. 39. Cfr. ibidem, pp. 175 ss. Ibidem, p. 110. Ibidem, pp. 114-115.

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carattere essenziale e imprescindibile del linguaggio poetico, e – per contro – alla convinzione hegeliana che ritmo ed eufonia costituiscano elementi meramente esteriori rispetto al contenuto poetico: per il quale, stando così le cose, nulla dovrebbe andare perduto per esempio in una traduzione, o nel caso di una versione in prosa45. Nel corso su Hegel, Szondi dedica peraltro alla trattazione dei generi poetici considerazioni degne della massima attenzione, per esempio sulla poesia drammatica (un tema notoriamente assai caro all’intellettuale ungherese46). In ogni caso, ricorda Szondi, occorre precisare come in questo contesto la nozione di “prosa” richiami “qualcosa di più di un concetto linguistico-stilistico”, indicando piuttosto “una forma sia del generale stato del mondo, come direbbe Hegel, sia dell’arte” che a tale stato corrisponde; più ancora, la forma linguistica propria dello spirito pervenuto al concetto47. Si tratta di un destino in certo modo inscritto per Hegel nella natura stessa della filosofia – e dunque anche dell’estetica, se filosofia essa vuole rimanere. Il destino implicito nello sguardo filosofico, a partire addirittura dalla prima figura della Fenomenologia dello spirito, la ‘certezza sensibile’. È noto: da un lato, quella certezza ha in mente ciò che sente come se si trattasse del “questo” singolo nella sua immediatezza; dall’altro, tuttavia, nel momento in cui pretende di esprimere il proprio stesso Meynen, essa ricorre inevitabilmente a una mediazione, a un universale – appunto il linguaggio48. La singolarità immediata (l’aistheton di un’estetica che ha ormai sostanzialmente sciolto i legami con la propria etimologia, con buona pace del professor Baumgarten e delle sue simiae) è irriducibile al logos. Più ancora: tutto il movimento dialettico è predeterminato dal linguaggio, che per Hegel è

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46

47 48

Si veda in particolare Est, p. 1078 (HW XV, p. 228); per contro, cfr. quanto Hegel afferma nell’‘Introduzione’, Est, p. 49 (HW XIII, p. 61). Sull’intera questione cfr. infra, cap. XII. Cfr. P. Szondi, La poetica di Hegel, cit., pp. 204 ss. Sul tema, in altra prospettiva, cfr. anche S. Vizzardelli, Peter Szondi interprete della poetica hegeliana, in «Il cannocchiale», 3, 1998, pp. 57-63. P. Szondi, La poetica di Hegel, cit., p. 195. Cfr. FdS, pp. 69-79 (GW IX, pp. 63-70).

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Dialettica e interpretazione

la vita stessa dello spirito, e che proprio nella sua fluidità è paradossalmente “più vero”. Come ha scritto Jean Hyppolite, “Nel criticare qui le pretese della certezza sensibile, Hegel critica ogni sapere immediato, ogni filosofia dell’intuizione o dell’alogon – filosofie che rinunziano a pensare per ricondurci all’ineffabile, cioè al puro essere”49. Pur nella lucida consapevolezza delle difficoltà che possono derivare da un certo suo ostinato “carattere passato”, in ciò sembra consistere a tutt’oggi anche il senso della lezione hegeliana di Peter Szondi.

49

J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel (1946), trad. it. di G.A. De Toni, pres. di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze 1989, p. 109.

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Estetica, dialettica ed ermeneutica materiale

1. Nella tradizione dell’ermeneutica novecentesca, Peter Szondi (1929-1971) costituisce senza dubbio una delle figure più interessanti. Il presente contributo si propone di rivendicare il permanente interesse della riflessione szondiana non solo nel campo degli studi filologici, dai quali essa proviene, quanto nell’ambito – oggi più che mai controverso – dell’ermeneutica filosofica. Punto di partenza delle nostre considerazioni sarà la definizione szondiana di ermeneutica letteraria, che lo studioso propone nelle sue lezioni: L’ermeneutica letteraria è la scienza dell’interpretazione – interpretatio – di opere letterarie. Benché essa abbia improntato in larga misura la filosofia e, in quanto autoriflessione, le scienze dello spirito del Novecento, non si può dare senz’altro una risposta affermativa alla seguente domanda: se oggi esista questa disciplina1.

I termini dell’impostazione del problema sono chiari fin dall’incipit del corso. Si tratta del modo in cui bisogna avvicinare e interpretare opere letterarie; e ciò costituisce un ambito particolare del più vasto campo di pertinenza della scienza dell’interpretazione in generale. Come si avrà modo di vedere, tale particolarità non sarà priva di conseguenze anche sul piano del metodo, dal momento che l’oggetto condiziona sempre l’atto interpretativo; e tanto più in questo caso, in cui l’oggetto è costituito da un qualcosa la cui definizione è estremamente problematica: l’opera d’arte letteraria.

1

P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria, trad. it. di B. Cetti Marinoni, pres. di G. Cusatelli, Einaudi, Torino 1992², p. 3.

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Szondi ricorda da principio che il rapporto dell’ermeneutica con le scienze dello spirito (Geisteswissenschaften), e in particolare con i loro sviluppi e i loro esiti nella filosofia del Novecento, è assai stretto, e per molti aspetti ben noto (si pensi anzitutto alla peculiare linea di sviluppo della scienza dell’interpretazione, che va dall’Origine dell’ermeneutica di Dilthey a Essere e tempo di Heidegger, per sfociare in Verità e metodo di Gadamer). Tuttavia questo stato di fatto, la nobiltà di questo lignaggio per così dire, non è di per sé garanzia della verità della cosa in questione: anzi, nel trasformarsi in discorso filosofico dalle pretese universalistiche, l’ermeneutica sembra aver smarrito parte del proprio concreto significato esegetico, che è stato messo in mora dagli esiti ultra-gadameriani della teoria dell’interpretazione. Al tavolo di un simposio sull’ermeneutica, oggi lo studioso di scienza letteraria siede al fianco del teologo e del giurista al modo di un parente povero. Il suo posto gli spetta per diritto ereditario, e la schiera dei suoi antenati non è né più breve né meno illustre. Ma il suo contributo non può essere molto grande2.

La questione dello statuto epistemologico dell’ermeneutica letteraria si poneva con particolare urgenza peraltro proprio a chi, come Szondi, faticava a riconoscersi in una Literaturwissenschaft soggiogata dal modello positivistico, nelle sue varie declinazioni, non meno che da quello storicistico. L’istanza di ridurre a ‘fatti’ misurabili i fenomeni letterari è spesso illusoria, non già perché – come tutti i ‘fatti’ – i testi letterari non possano essere oggettivamente misurabili e studiabili, ma perché ciò significa spesso incapacità di interrogarsi sulle condizioni storiche del sorgere delle stesse istanze metodologiche3. Szondi è comunque lungi dal pretendere che questa affermazione si traduca in un cieco accantonamento delle risorse garantite dai metodi concretamente elaborati: “raffinato mediatore 2

3

P. Szondi, Bemerkungen zur Forschungslage der literarischen Hermeneutik, in Einleitung in die literarische Hermeneutik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1975, p. 404. Ibidem.

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tra gli eccessi del formalismo e i condizionamenti inaccettabili dello storicismo”, egli comunque “aspirava […] a un’azione mediatrice, che da un lato inaugurasse un’interpretazione interna alla storia, ma dall’altro potesse affrancarla da ogni prevaricazione emanante dal contesto storico”4. Infatti è assolutamente estranea alle intenzioni di Szondi la volontà di rinunciare alle acquisizioni dei vari metodi elaborati nel tempo dalla critica letteraria (pur nella necessità di vigilare affinché le loro pretese totalizzanti non si convertano in riduzionismo): La scienza storica e letteraria moderna nacque nel secolo XIX in contrapposizione ai sistemi speculativi dell’idealismo tedesco. Si dovette immolare l’affermazione di Hegel: “Tanto peggio per i dati di fatto”; si dovette sacrificare la conoscenza speculativa all’indagine sui dati di fatto. L’indirizzo positivistico ha dato risultati troppo importanti perché si debba rimpiangere questa evoluzione5.

Sarebbe peraltro non meno contrario ai principi dell’ermeneutica szondiana proporre una critica letteraria capace di saltare per così dire al di là della propria ombra e del proprio passato, attingendo a qualcosa di indefinito come un metodo astorico o valori incondizionati. Lo sguardo dello scienziato letterario diviene tuttavia, a questo proposito, particolarmente severo nei confronti di una tradizione che pure per molti aspetti non gli è estranea. Il termine di riferimento (più critico che polemico, nonostante le lamentele di qualche commentatore) è infatti qui la linea diltheyano-heideggeriana dell’ermeneutica, culminante in Hans-Georg Gadamer; la medesima tradizione che ha visto fra i propri protagonisti, sul coté più specificamente letterario, quell’Emil Staiger di cui Szondi fu allievo a Zurigo, e dal 4

5

G. Cusatelli, Premessa alla seconda edizione italiana, in P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria, cit., p. IX; e Id., Intorno a Szondi, dopo Szondi, in P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria, Pratiche, Parma 1975, p. 8. P. Szondi, Poetica dell’idealismo tedesco, trad. it. di R. Buzzo Margari, postf. di C. Cases, Einaudi, Torino 1974, p. 8.

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quale, come è stato osservato, egli “aveva tratto soprattutto l’esercizio dell’‘arte dell’interpretazione’”, più che la propensione per la critica stilistica di cui Staiger fu eminente rappresentante6. Amico personale di Szondi, nonché supervisore dell’edizione postuma delle sue opere, Jean Bollack in un importante saggio (Un futuro nel passato. L’ermeneutica materiale di Peter Szondi) ha saputo tracciare con precisione i lineamenti fondamentali della peculiare posizione szondiana all’interno della koiné ermeneutica successiva a Heidegger. Negli esiti più recenti di questa tradizione Szondi rinveniva tutti i limiti di una sorta di atteggiamento teologico-dogmatico, facente capo a un falso superamento dell’erudizione e delle aporie (indiscutibili) in cui si era perversamente involuta la filologia; un atteggiamento la cui legittimazione sarebbe stata sancita, nelle sue stesse conseguenze filologicamente funeste, dalla ricezione del lavoro di Gadamer. Se si è disposti ad accettare questa situazione, tuttavia, l’inevitabile critica circa lo stato in cui versa la Literaturwissenschaft contemporanea rischia di capovolgersi nel suo opposto: una sanzione de facto della legittimità di un qualcosa come una ‘conoscenza esistenziale immediata’ – esito in ultima analisi non troppo distante da quello per cui Emil Staiger aveva ritenuto di poter fondare una distinzione fra i generi letterari su base ontologica. Già si è detto tuttavia che, di Staiger, Szondi non era disposto ad accettare l’idea che sia “il sentimento più soggettivo” a costituire la base del lavoro scientifico, né “concorda con il maestro sul fatto che il primo approccio empatico con il testo e la sua successiva conferma nella documentazione e nel confronto dei dati possono determinare il successo del filologo”7.

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C. Cases, Postfazione a P. Szondi, Poetica dell’idealismo tedesco, cit., p. II. Per quanto concerne l’ermeneutica staigeriana cfr. soprattutto E. Staiger, Die Kunst der Interpretation, Atlantis Verlag, Zürich 1955 (si tratta di una raccolta di interpretazioni dedicate alla letteratura tedesca redatte fra il 1945 e il 1955, cui precede un capitolo introduttivo generale: pp. 9-33). Per l’influenza della teoria staigeriana su Szondi si veda anche E. Staiger, Fondamenti della poetica (1946), a c. di A. Borsano Fiumi, Mursia, Milano 1979. E. Agazzi, L’ermeneutica di Peter Szondi e la letteratura tedesca, introd. di G. Mattenklott, Campanotto, Udine 1990, pp. 1-2.

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Bisogna riconoscere che un simile atteggiamento può risultare vagamente estraneo al lettore dotato di qualche sensibilità ermeneutica autenticamente gadameriana, in quanto Szondi sembra qui ragionare in termini piuttosto riduttivi e accomunare con una certa approssimazione prospettive che non sono affatto coincidenti, e nemmeno del tutto compatibili. In che misura, per esempio, una teoria assoluta dell’empatia trovi davvero fondamento nel lavoro di Gadamer, magari nell’istanza della “fusione degli orizzonti”, rimane non chiaro e francamente almeno discutibile8. Questa precisazione non deve tuttavia pregiudicare a sua volta la comprensione di quanto Szondi sta cercando di dire, né deve scoraggiare dal condividere in generale la sua diffidenza – che è poi la perplessità dello studioso di ermeneutica letteraria – nei confronti di un orizzonte complessivo in cui alle esigenze più genuinamente esegetiche e metodiche è lasciato ben poco spazio. Una delle palesi conferme a questo modo di procedere verrebbe, secondo Szondi, da quello che a suo dire (il bersaglio polemico si ritrova in più luoghi della sua opera) è l’irritante arbitrio dell’interpretazione heideggeriana della poesia di Hölderlin, nella quale il presupposto sembra scavalcare e quasi trascurare il documento testuale, e l’ipotesi contraria o sfavorevole viene sistematicamente scartata9. Nella prassi di una simile ermeneutica, il testo si riduce a mero pretesto. Szondi ha in mente invece la necessità di rifondare un’ermeneutica dal valore scientifico, e muove quindi la propria critica a chiunque presuma di poter interrogare “più lontano”, eludendo di fatto la questione della comprensione del testo e qualunque istanza filologica10. A che cosa mai ha saputo mettere capo la più recente er-

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Per una discussione del confronto fra Verità e metodo (1960) e gli esiti dell’ermeneutica successiva, anche nei suoi aspetti regionali (compresa l’ermeneutica letteraria) cfr., dello stesso H.-G. Gadamer, Verità e metodo 2, a c. di R. Dottori, Bompiani, Milano 1995, particolarmente l’‘Introduzione’ (pp. 3-31). E. Agazzi, L’ermeneutica di Peter Szondi e la letteratura tedesca, cit., pp. 2223. Per l’interpretazione heideggeriana di Hölderlin (Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, Klostermann, Frankfurt a.M. 1981) cfr., in italiano, M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, a c. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988. Per queste considerazioni cfr. dunque J. Bollack, Un futuro nel passato. L’ermeneutica materiale di Peter Szondi, trad. it. di C. Viano, postf. a P. Szondi,

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meneutica filosofica? Essa sembra aver trasformato l’interpretazione in una “Sache der Fundamentalontologie”: un affare di pressoché esclusiva pertinenza dell’ontologia fondamentale11. Ciò ha portato a desistere dall’interrogarsi circa la concretezza dei procedimenti esegetici specifici12, sicché di fatto l’ermeneutica letteraria si trova a non aver compiuto alcun reale progresso rilevante rispetto allo stato in cui versava nel XIX secolo13. Lungi tuttavia dal potersi abbandonare a una sorta di vittimismo, sono innanzitutto gli stessi letterati a dover fare un esame di coscienza, per spiegare questo stato di cose: infatti “la scienza letteraria degli ultimi cent’anni, per quanto opposte fossero le tendenze che l’hanno determinata, non ha praticamente mai avvertito, in base alle sue premesse, la necessità di un’ermeneutica materiale”14. Sul versante più strettamente speculativo, si è potuto assistere a un certo atteggiamento dell’ermeneutica filosofica (in perenne, ancorché non sempre esplicitamente dichiarata, polemica con il metodo delle scienze della natura), il quale ha per così dire insistito sulla teorizzazione del cosiddetto circolo ermeneutico, “quantunque

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L’ora che non ha più sorelle, trad. it. di G.A. Schiaffino, Gallio, Ferrara 1990, pp. 151-154. Sull’ermeneutica materiale di Szondi si vedano ancora: Peter Szondi. La storia, le forme, l’unità della parola, a c. di E. Agazzi, G. La Guardia e G. Raio, Multimedia, Salerno 1997; Peter Szondi: filosofia del tragico, pensiero storico, ermeneutica letteraria, a c. di G. D’Acunto, in «Il cannocchiale», 3, 1998, pp. 3-100; R. Gilodi, Per una critica della ragion letteraria, in P. Szondi, Poetica e filosofia della storia, a c. di R. Gilodi, F. Vercellone, Einaudi, Torino 2000, pp. 5-22; C. König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura (2004), a c. di M. Pizzigrilli, Quodlibet, Macerata 2009 (con bibliografia); D. Thouard, Philosophie, Philologie und Hermeneutik bei Peter Szondi, in «Internationales Jahrbuch für Hermeneutik», 5, 2006, a c. di G. Figal, pp. 347-357; Id., Herméneutique critique: Bollack, Szondi, Celan, P.U. du Septentrion, Villeneuve d’Ascq 2012. P. Szondi, Bemerkungen zur Forschungslage der literarischen Hermeneutik, cit., p. 404. Fa eccezione, in questo senso, la Teoria generale dell’interpretazione di Emilio Betti, comparsa nel 1955 e tradotta in tedesco nel 1967: una proposta di cui Szondi mostra di essere al corrente, ma in merito alla quale non mi risulta prenda alcuna significativa posizione esplicita. P. Szondi, Bemerkungen zur Forschungslage der literarischen Hermeneutik, cit., pp. 404-405. P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria, cit., p. 6.

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di estrema rilevanza gnoseologica per l’ermeneutica, sia riguardo alle questioni relative al suo fondamento filosofico sia riguardo alla sua metodologia”, conferendogli nel procedimento argomentativo addirittura “una funzione che sembrava dispensare quest’ultima dalla critica delle proprie modalità conoscitive”. Prosegue Szondi: Dello “scandalo” del circolo, in cui l’intendimento deve malgrado tutto riconoscere il proprio presupposto, s’è fatto un elemento rassicurante. Da Heidegger non ci si è lasciati dire due volte che “l’importante non sta nell’uscir fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta” (tesi in cui c’è indubbiamente molto di vero), e da quel momento s’è risposto a dubbi e problemi di natura metodologica con l’unico argomento che per l’appunto ci si muoveva nel circolo ermeneutico15.

Così – è stato osservato – se si è disposti ad accettare il principio secondo cui tutto è interpretazione si debbono poi accettare anche le due gravi conseguenze per cui (a) si perde la specificità delle ermeneutiche regionali e (b) diviene difficile riuscire a stabilire, per via extra-metodica, la riuscita o l’insuccesso di una singola impresa interpretativa16. Prima di mettere mano alla ricostruzione storica della tradizione metodica da Chladenius a Schleiermacher, Szondi critica dunque un’ermeneutica fondata (secondo una probabile, indebita accentuazione degli aspetti “divinatori” presenti nel procedimento interpretativo delineato nell’Hermeneutik dello stesso Schleiermacher17) su un presunto sostrato “empatico” che costituisce il legame ultimo fra l’interprete e il suo oggetto, teorizzato in base a una certa concezione delle Geisteswissenschaften. Tale modo di intendere l’atto ermeneutico si risolve però in un capovolgimento di mezzi e fini: il circolo ermeneutico è divenuto il termine ultimo dell’atto interpretativo e il soggetto interpretante finisce per perdere di vista la cen15 16 17

Ibidem, pp. 6-7. M. Ferraris, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 1988, pp. 372-373. Su questo aspetto cfr. G. Vattimo, Schleiermacher filosofo dell’interpretazione, Mursia, Milano 1986², pp. 219 e passim.

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tralità e l’inaggirabilità del testo, che invece dovrebbe essere il vero protagonista dell’interpretazione. Bollack non esita ad adoperare termini addirittura taglienti (e forse ingenerosi, oltre che poco pertinenti rispetto al disegno teorico gadameriano) per definire questo paradosso e imputarlo all’ermeneutica ‘filosofica’: “La differenza tra la situazione storica dell’autore e quella del lettore, invece di costituire l’oggetto di una riflessione, e di essere inserita nel processo interpretativo, dopo essere stata prima riconosciuta e, poi, valutata, è utilizzata da Gadamer contro la storia”. Più o meno deliberatamente, “Gadamer non ha fatto altro che codificare una pratica che va contro il testo”18. L’aporia di atteggiamento, più che di procedimento (abbiamo visto come Szondi stesso riconoscesse l’inevitabilità e perfino la produttività di una proficua collocazione entro il circolo ermeneutico), effettivamente denunciata da Szondi e poi da Bollack come un limite grave per il rigore della scienza letteraria, e che si palesa nel concreto dell’approccio ai testi, è ulteriormente favorita anche sul piano teorico e per così dire formale dall’ambiguità concettuale che si nasconde in un’espressione come “arte dell’interpretazione”, quando questa viene riferita come definizione dell’ermeneutica tout court: Essa si definisce sì “arte” nell’antiquato senso letterale […] – ars interpretandi, mestiere dell’interpretare – ma l’idea che si tratti di un’arte di cui si può tutt’al più dare un saggio, senza che sia possibile insegnarla e tantomeno sottoporla a un’analisi critico-conoscitiva, è stata indubbiamente favorita dalla scelta di questa parola19.

Si è già cercato di puntualizzare che la critica di Szondi, se intesa alla stregua di una confutazione della proposta teorica gadameriana, avrebbe l’onere di mostrarsi assai più caritatevole con il proprio oggetto, da diversi punti di vista. D’altronde, sarebbe vano ricercare nei testi di Szondi che abbiamo a disposizione una lettura più pun-

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J. Bollack, Un futuro nel passato, cit., pp. 155-156. P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria, cit., p. 7.

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tuale del capolavoro gadameriano del 1960, Verità e metodo. Se tuttavia si sospende il giudizio su questo aspetto e ci si limita a concedere a Szondi ciò che effettivamente il suo testo richiede, ossia la legittimità di guardare (almeno in questo senso molto gadamerianamente) alla storia degli effetti dell’ermeneutica filosofica dopo Gadamer, sarà difficile negare qualche ragione alla presa di distanza critica che si è succintamente delineata. Si tratta dunque di vedere, a questo punto, quale direzione possa prendere una pars construens della teoria szondiana dell’interpretazione.

2. Nei testi di Szondi sono numerose le suggestioni orientate a ricostruire in qualche modo un paradigma ermeneutico che sia appropriato alla situazione storica e nel contempo capace di contribuire scientificamente all’esegesi del patrimonio letterario; laddove, è appena il caso di ricordarlo, questa scientificità non è ovviamente modellata su un ideale ispirato alle scienze della natura, né si limita a riproporre anacronisticamente una concezione delle scienze dello spirito appiattita su quella diltheyana, cui pure è tanto debitrice. Tale tecnica interpretativa deve costituirsi precisamente in rapporto al proprio oggetto specifico, i testi letterari, e alla propria condizionalità storica, cioè all’epoca in cui viene elaborata. Solamente questa consapevolezza fa sì che il modello proposto da Szondi non si trasformi, come per ingiustificato incanto, in una definitiva e perentoria sanzione metodica del ‘come’ si debba avvicinare un testo per capirlo veramente, in base al postulato di strutture immutabili ed eterne dell’oggetto o del soggetto dell’interpretazione. Per ora l’istanza in considerazione è costituita da un atteggiamento critico e consapevole nell’avvicinare l’interpretandum, e segnatamente l’opera letteraria. A tale scopo non serve postulare universali di sorta: ogni opera d’arte ha infatti (questa la caratteristica espressione di Szondi) “un che di monarchico”: essa chiede […] di non essere paragonata, e questa pretesa, in quanto esigenza di assolutezza, fa parte integrante del carattere di ogni opera d’arte, che vuole essere un tutto, un microcosmo. E la scienza letteraria non può limitarsi ad ignorare questo punto,

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se il suo procedimento vuole essere adeguato al suo oggetto, ossia scientifico20.

Lungi così dal risolversi in una dissoluzione entro ciò che l’ha preceduta, la storicità dell’opera d’arte è costituita esplicitamente dalla sua unicità nel tempo, cioè dall’individualità di ogni prodotto artistico. Ma qui si rende forse opportuna una puntualizzazione. Affermando tutto ciò, Szondi non fa altro che ribadire l’opportunità e anzi il dovere, da parte del’interprete, di entrare “in intimità con ogni specifica opera d’arte, sforzandosi di vedere in essa la storia” e non il contrario21; e ciò esplicitamente contro le tendenze esegetiche di un riduzionismo sempre in agguato, che muovono per così dire dall’esterno dell’opera per spiegarla, e finiscono in tal modo per ridurla al contesto storico, politico, sociale, psicologico… In una lezione dedicata al rapporto fra teoria dei generi, sociologia ed ermeneutica Szondi si esprime con vigore contro tutte quelle tendenze della ricerca in cui “l’opera d’arte non è tematizzata come opera d’arte”, e che la feriscono nella sua dignità collocandola al livello di mera sovrastruttura22. Dal momento che, in virtù della sua stessa impostazione storicizzante, risulta assai difficile delineare esaustivamente qualcosa come la teoria ermeneutica di Peter Szondi, nella parte rimanente di questo contributo si cercherà di raccogliere il più ordinatamente possibile alcuni spunti lungo la direttrice che in questo senso pare più significativa, almeno per il presente contesto. Se dunque ogni opera d’arte costituisce storicamente un evento a sé, pur secondo modalità di volta in volta differenti, il principio scientifico per cui “un caso non fa testo” perde la sua validità. Ché i testi non si presentano come degli esemplari, ma come degli individui. La loro interpretazione deve essere con-

20 21

22

P. Szondi, Poetica dell’idealismo tedesco, cit., p. 16. R. Bodei, La storicità del bello, introd. a P. Szondi, Antico e moderno nell’estetica dell’età di Goethe, Guerini, Milano 1995, p. 12. P. Szondi, Gattungsgeschichte, Sozialgeschichte und Interpretation, in Das lyrische Drama des Fin de Siècle, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991², p. 25.

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dotta in primo luogo sulla base del procedimento concreto da cui risultano, e non sulla base di una regola astratta, che del resto non si può stabilire senza la comprensione dei singoli passi e delle singole opere23.

È forse perfino superfluo far notare come, in queste pagine, la lettura di Szondi si inscriva a pieno titolo in quella storia dell’ermeneutica che affonda le proprie radici nelle cosiddette scienze idiografiche, e che è stata ripresa da quasi tutte le teorie filosofiche dell’interpretazione avanzate nel XX secolo, almeno in area continentale. Ma si tratta di una tradizione che Szondi non assume acriticamente, nel nome di una indiscussa e in certo modo tranquillizzante continuità: un’ipotesi che anzi, come si è visto, egli deliberatamente rifiuta. In una densa pagina del saggio già citato Bollack delinea bene questo atteggiamento di opposizione all’ermeneutica che nasce dalla Fundamentalontologie: un’opposizione esercitata con il metodo, quando egli sottomette la critica della comprensione letteraria alla specificità dei suoi oggetti, e con una riserva che gli è propria. La tradizione è fatta di fratture. Non se ne può cogliere la presenza se non attraverso gli spostamenti. La storia si lascia afferrare, da un lato nel movimento dialettico che produce l’opera nella sua struttura formale e nelle condizioni esterne della sua produzione

(come si vede assai bene, fra l’altro, nella dialettica di forma e contenuto di matrice hegeliana e adorniana, che Szondi ripropone nella dissertazione del 1955 sulla Teoria del dramma moderno24), 23 24

P. Szondi, Poetica dell’idealismo tedesco, cit., p. 15. Cfr. P. Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950, trad. it. di G. Lunari, introd. di C. Cases, Einaudi, Torino 1962, pp. 5-6: nella Filosofia della musica moderna di Adorno “la concezione dialettica hegeliana del rapporto formacontenuto è messa a frutto in quanto la forma viene considerata come una sorta di ‘contenuto precipitato’. Questa metafora, mentre sottolinea il carattere solido e durevole della forma, ne esprime anche l’origine dalla sfera del contenuto, e quindi il suo valore predicativo. […] Ma così è data anche la possibilità che l’enunciazione contenutistica entri in contraddizione con quella

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e dall’altra nella distanza in cui si trova l’interprete, dal momento che non può superare questa distanza che lo separa da essa, se non approfondendo lo scarto iniziale attraverso una riflessione critica [… che] include nell’atto della comprensione l’analisi delle proprie determinazioni. Così un angolo di rottura ne capta un altro. Il critico si situa situando l’autore, che si è situato prima di lui25.

Una dialettica concettuale, quella descritta da Bollack, che Szondi stesso aveva approfondito, nella sua struttura formale, in un saggio su Schiller intitolato significativamente L’ingenuo è il sentimentale26, così come nei due capitoli (IX e X) dedicati sempre a Schiller nel corso su Antico e moderno nell’estetica dell’età di Goethe27. Dialettica in cui uno dei due termini, il secondo (nello specifico schilleriano, il “sentimentale”), non consiste che nella riconquista del proprio opposto (ossia l’“ingenuo”), ma “con i condizionamenti del suo altro, la riflessione”28. In una parola, nei termini della questione che qui interessa: l’ermeneutica è l’arte di saper porre una distanza, la quale certo verrà ridotta in qualche modo dall’atto interpretativo, ma da tale atto verrà anche costantemente riconfermata e tenuta ferma, in nome dell’irriducibilità di quella alterità che è il testo. In questo quadro dialettico, è evidente che anche l’ideale di una linearità univoca del procedimento interpretativo è destinato a venir meno. Szondi lo afferma a chiare lettere trattando del caso specifico posto dall’ermeneutica filologica. Merito indiscusso della teoria del circolo ermeneutico inaugurata da Heidegger e ripresa da Verità e metodo di Gadamer è stato quello di aver insistito sull’importanza di analizzare il momento interpretativo in rapporto al suo contesto storico (cosa che in virtù delle stesse istanze di scientificità non può

25 26 27 28

formale […]. Ma è questa antinomia interna che fa diventare storicamente problematica una forma letteraria”. J. Bollack, Un futuro nel passato, cit., p. 159. Cfr. P. Szondi, Poetica dell’idealismo tedesco, cit., pp. 45-90. Cfr. P. Szondi, Poetica e filosofia della storia, cit., pp. 288-314. P. Szondi, Poetica dell’idealismo tedesco, cit., p. 80.

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comunque essere respinta da qualunque metodo positivo che sia davvero interessato a superare la propria impasse). Ma che mai succede, tuttavia, se il contesto si “insinua”, come dice Szondi, fino a minare gli stessi presupposti atemporali del discorso filologico? Qui hanno origine “quelle che in Verità e metodo Gadamer chiama le aporie dello storicismo”. E sempre qui si sono viste mettere “in questione le basi della stessa interpretazione storico-grammaticale” di origine settecentesca: “una volta divenuta dubbia la possibilità di apprendere come stessero veramente le cose in passato, sarà non meno dubbio che ci si trovi in condizione di stabilire come fosse intesa un tempo una certa enunciazione”29. Ecco allora che la filologia tradizionale (“che in quanto storica si credeva indipendente dal contesto storico in cui essa stessa operava”30) è destinata a involgersi in una crisi profonda, alla base delle difficoltà in cui l’ermeneutica contemporanea ancora agita convulsamente le proprie questioni. È anzitutto questa la ragione per cui una teoria ermeneutica, oggi, non potrà presentarsi credibilmente come mera riabilitazione delle ermeneutiche che l’hanno preceduta, almeno fino a Boeckh accecate dal miraggio della raggiungibilità di un qualcosa come l’intenzione autorale31. Si tratta di una questione di specifica pertinenza della filologia: posto che le ermeneutiche prefilosofiche aspiravano a quell’ideale di trasparente universalità astorica dei loro criteri, cosa che la loro stessa condizionatezza storica non era in grado di concedere, non avrebbe nemmeno senso pensare di ridurre la problematica metodologica comportata dalla filologia alla più generale metodica delle Geisteswissenschaften, assegnate da Dilthey e dalla tradizione dello storicismo a un’autonomia idiografica rispetto al modello delle scienze della natura. Giacché “proprio il richiamo alle conclusioni di Dilthey impone di rilevare come il sapere filologico differisca sostanzialmente da quello storico”. L’esempio di Szondi è efficace quanto basta: “Con-

29 30 31

P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria, cit., pp. 15-16. Ibidem. P. Szondi, Bemerkungen zur Forschungslage der literarischen Hermeneutik, cit., p. 405.

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siderando la guerra dei trent’anni e un sonetto di Andreas Gryphius, si vedrà che i due argomenti non possono assolutamente diventare oggetto di sapere in uguale modo”32. Anzi, nel caso della guerra dei trent’anni è ragionevole credere ormai che la metodologia storica, coadiuvata dalle scienze economiche e sociali, si avvicini per certi aspetti più al modello delle scienze della natura (almeno nei limiti di misurabilità che l’odierno statuto epistemologico di queste discipline consente di raggiungere nell’analisi di fenomeni siffatti) di quanto non possa fare un’indagine filologica sul sonetto di Gryphius (e piace qui ricordare che, se non a un sonetto, a un dramma luttuoso di Gryphius, il Leo Armenius, è dedicato uno fra gli esempi più belli di ermeneutica szondiana, nel Saggio sul tragico33). Continua Szondi: Ciò che distingue la scienza letteraria rispetto a quella storica è il suo considerare attuali anche i testi più antichi. Mentre la scienza storica deve e può andare a prendere il suo oggetto (l’avvenimento passato) dagli abissi del tempo, per trasferirlo nella attualità del sapere (ché al di fuori di questo esso non è attuale), il sapere filologico invece ha sempre di fronte a sé l’opera d’arte come dato attuale, e con essa deve sempre ricominciare a misurarsi […] in un ininterrotto tentativo di far risalire il sapere alla conoscenza, alla comprensione del detto poetico34.

Sono quindi chiamate in gioco le differenti finalità del modello naturalistico (così come di quello storico: in questo caso non c’è differenza di intenti) rispetto a quello filologico. Mentre la scienza esatta – della natura o dello spirito che sia – non ha il proprio fine nel processo ricostruttivo, ma semmai nella trasmissione didattica di un contenuto il più oggettivo possibile, la scienza letteraria ha il compito e il dovere di favorire e sviluppare qualcosa come un habitus, cioè un perenne e inesausto confronto con il testo, senza cri32 33

34

P. Szondi, Poetica dell’idealismo tedesco, cit., p. 5. Cfr. P. Szondi, Saggio sul tragico, a c. di F. Vercellone, trad. it. di G. Garelli, pref. di S. Givone, Einaudi, Torino 1996, pp. 100-106. P. Szondi, Poetica dell’idealismo tedesco, cit., p. 5.

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stallizzarsi nella presunzione (che proprio non le compete) di raggiungere da ultimo un sapere oggettivo. Certo, esistono tecniche di emendazione del testo; ma non è in queste specifiche competenze che si esaurisce il compito della filologia. L’autore rammenta in proposito – e qui si profila già un ulteriore produttivo incontro fra filosofia e letteratura; incontro che, come è facile attendersi, si gioca essenzialmente sul terreno dell’estetica – una celebre affermazione del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein (proposizione 4.112): “La filosofia non è una dottrina, ma un’attività. Un’opera filosofica consta essenzialmente d’illustrazioni [Erläuterungen]”35. Szondi rivendica l’applicabilità di questa affermazione anche alla filologia, almeno programmaticamente, nel suo modo di concepirne il compito.

3. Tentiamo una ricapitolazione. Dilthey e con lui le cosiddette “scienze dello spirito” hanno proposto alla filologia e più in generale alla scienza artistica un modello parzialmente inadeguato, con le conseguenze che si sono viste. Il positivismo in tutte le sue varie forme, per converso, ha preteso con un eccesso di arbitrio di allontanare la filologia dalla riflessione filosofica (e soprattutto dalla considerazione filosofica della storia, che dovrebbe stare a fondamento di ogni ermeneutica). Il rischio in cui incorrono entrambe le alternative è per esempio quello di fare della Literaturwissenschaft qualcosa di assolutamente estraneo all’estetica, oppure quello di misconoscere all’ermeneutica filologica uno statuto autonomo. Quali percorsi restano dunque ancora aperti al teorico dell’interpretazione? Szondi, si è detto, nega la possibilità di prelevare per così dire un modello di teoria ermeneutica metodicamente efficace elaborato nel passato e di trasferirlo, ex abrupto o con qualche revisione marginale, adattandolo al presente36. Il fatto è che costitutiva del sapere ermeneutico, almeno dopo la positiva lezione impartita dall’evoluzione dell’ermeneutica filosofica, è precisamente quella 35

36

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. it. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1968², p. 27. P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria, cit., p. 17.

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“torsione” che l’interpretazione deve saper compiere su se stessa per interrogarsi non solo ed esclusivamente sul proprio oggetto, ma anche su di sé, sulle proprie condizioni di possibilità, “sul suo modo di pervenire alla conoscenza del suo oggetto”37. Se i termini qui adoperati sembrano per certi aspetti quasi kantiani, non bisogna dimenticare comunque che qui è soprattutto lo Szondi studioso di Hegel a far sentire la sua voce. Ecco quanto si afferma nel primo capitolo del testo redatto per il corso di Introduzione all’ermeneutica letteraria: non è ammissibile occupare acriticamente il posto vuoto dell’ermeneutica letteraria del nostro tempo con l’ermeneutica filologica tramandataci dai secoli passati, in primo luogo perché questa, contro i suoi stessi intenti, ha delle premesse storiche, e in secondo luogo perché con “ermeneutica letteraria” intendiamo una scienza dell’interpretazione che, se non intende prescindere dalla filologia, vuole però sposare questa all’estetica38.

È quindi non a caso nelle pagine introduttive del corso su La dottrina hegeliana della poesia che Szondi chiarisce il significato e la portata teorica di questo “matrimonio” fra filologia ed estetica, quale vorrebbe essere la sua ermeneutica. La quale, proprio nella sua impostazione hegeliana (che non significa, naturalmente, attestata irremovibilmente alla struttura sistematica del pensiero di Hegel, ma anzi sensibile soprattutto all’istanza storico-dialettica del suo insegnamento), trova collocazione nel quadro di un’ampia ricostruzione dell’estetica filosofica formulata a partire dalla Goethezeit. Così, l’interesse della scienza letteraria per la filosofia dell’arte non può e non deve limitarsi alla generica constatazione che l’estetica la riguarda solo in quanto “dopo tutto si tratta della filosofia del suo peculiare oggetto”39. Ciò non sarebbe ancora di per sé suf-

37 38 39

P. Szondi, Poetica dell’idealismo tedesco, cit., p. 4. P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria, cit., p. 17. P. Szondi, La poetica di Hegel, trad. it. di A.M. Marietti, introd. di G. Garelli, Einaudi, Torino 2007, p. 5.

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ficiente a spiegarne la portata euristica sul piano storico: dal momento che è un fatto, per esempio, che le scienze della natura e le stesse scienze storiche non sembrano dipendere, quanto alla verità del loro oggetto, dalla filosofia della natura o dalla filosofia della storia, delle quali anzi diffidano non senza qualche ottima ragione. Uno dei meriti della reazione alle istanze onnipervasive del positivismo è stato precisamente, per la scienza letteraria, il compimento di quel “passo oltre la fatticità” i cui alfieri sono stati la Geistesgeschichte e la critica stilistica; queste ultime non hanno tuttavia saputo problematizzare filosoficamente la propria situazione più di quanto abbia fatto il positivismo nelle sue varie forme. Ora, nell’ermeneutica si tratta “di non descrivere soltanto l’opera d’arte, ma altresì di comprenderla – non nel senso, beninteso, di comprendere quello che l’artista ha voluto dire, ma di comprenderla nella sua esistenza e natura di opera d’arte”40. Sposare la filologia all’estetica significa dunque che la scienza letteraria dell’interpretazione deve anzitutto fare i conti con la concezione dell’arte propria del suo tempo, oltre che, di volta in volta, con quella peculiare dell’epoca cui appartiene l’opera. Ma le due epoche non sono tenute insieme da una continuità che è la storia stessa a garantire, magari – gadamerianamente – come una sorta di spirito oggettivo emendato da ogni presunzione di assolutezza; tale storia è invece anzitutto la realtà di una distanza e delle fratture che segnano ogni sguardo rivolto al passato. Szondi non propone dunque una concezione universalistica e sovratemporale della tradizione, come carattere di un pensiero che pretende la riduzione dell’irriducibile. In apertura della terza lezione del corso sull’estetica della Goethezeit si legge piuttosto quale sia la sua opinione circa la storia delle idee: La “storia dello spirito” [Geistesgeschichte] prende in francese il nome di histoire des idées, in inglese di history of ideas, ovvero storia dei pensieri [Gedanken]. Queste espressioni sono più precise e più sobrie della nostra, tedesca, che fa pensare a Hegel. Infatti in una storia delle idee, dei pensieri, non si presuppone

40

Ibidem, p. 7.

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che vi sia un unico spirito la cui storia è la storia di noi tutti, ma si seguono le storie delle concezioni, dei concetti, delle idee presi singolarmente; tant mieux se essi, in un momento storico, racchiudono insieme quell’unica spiritualità che pare improntare l’epoca. La storia dello spirito oggi non va più tanto di moda; troppo si è abusato di essa, nel suo nome; con troppa leggerezza è stato ridotto sotto l’unità ciò che era diverso; con troppa facilità si è voluto vedere nelle distinzioni un unico spirito che le unificava. Nulla potrebbe opporsi maggiormente all’ambizione della storia dello spirito dell’affermazione che esso soffia dove vuole. Dal momento però che questo, in quanto spirito umano storico, non determina proprio in maniera del tutto arbitraria il luogo, il tempo e il modo del suo spirare, anche la questione relativa alla storia dello spirito è legittima41.

L’ermeneutica filologica si presenterà allora piuttosto come una “meditazione contingente e pratica radicata nell’esegesi di singoli testi”42 capace di rinunciare a ogni pretesa di universalità, senza tuttavia dismettere un riferimento (invero problematico) a un quadro storico-concettuale ampio, di cui comunque si concepisce in qualche modo come erede. Di qui la necessità di un esame accurato della teoria letteraria elaborata in quella figura che, nel bene e nel male, costituisce la “sintesi monumentale situata alla fine di un’epoca”: l’Estetica di Hegel43. Solamente un’adeguata considerazione del divenire storico del fenomeno estetico, oltre che delle modalità del suo autocomprendersi, può costituire infatti a parere di 41

P. Szondi, Poetica e filosofia della storia, cit., p. 206. M. Ferraris, Storia dell’ermeneutica, cit., p. 372. 43 P. Szondi, La poetica di Hegel, cit., p. 8. Si veda, a proposito del ruolo esplicitamente riconosciuto alla dialettica hegeliana in questo contesto, anche quanto Szondi scrive in un passaggio (poi espunto) collocato in apertura del corso sulla Goethezeit: “la nostra discussione della poetica dell’epoca è così condizionata dall’obbiettivo storico e tematico di Hegel che noi scegliamo come criterio di questa frammentaria esposizione proprio la storicità di ogni bello, che Hegel ha posto al centro dell’attenzione, la storicità del bello in tutte le sue manifestazioni, o, in altre parole, la comprensione dell’impegno dell’età di Goethe intorno alle questioni di poetica come confronto speculativo sulla storicità dell’arte” (P. Szondi, Poetica e filosofia della storia, cit., p. 184 nota). 42

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Szondi la base idonea per un discorso che si proponga esplicitamente la fondazione di un’ermeneutica materiale (ossia capace di indagare nel concreto dell’opera). Questa “deve perciò basarsi sulla concezione dell’arte propria del nostro tempo, e proprio per questo sarà a sua volta storicamente condizionata e non provvista di una validità universale e sovratemporale”44. Tali sono le ragioni per cui, nell’apparente alternativa fra esposizione sistematica ed esposizione cronologica, Szondi opta nelle sue lezioni invece per una terza via: un “riesame critico” delle teorie ermeneutiche storiche, che faccia sorgere nell’interprete la consapevolezza della stessa storicità del punto di vista da cui egli guarda e giudica il passato (secondo un andamento, ancora una volta, prettamente circolare). Alcuni esiti specifici dell’ermeneutica di Peter Szondi sono ampiamente noti. Si pensi alla fecondità delle sue interpretazioni di Hölderlin (proprio nel Saggio sulla conoscenza filologica, fra l’altro, la difficile prima strofa dell’inno Friedensfeier diventa occasione di virtuosismi ermeneutici, per uno Szondi intento a dominare e dimostrare i limiti e l’efficacia tecnica del metodo dei “luoghi paralleli” rispetto a quello delle “varianti”45); all’importanza delle sue letture di Rilke e di Celan46; per tacere del fatto che, proprio sul piano metodologico, l’indirizzo scelto da Szondi si rivela produttivo anche per una parziale rilettura della Hermeneutik di Schleiermacher, a suo avviso trascurata e unilateralmente intesa dai suoi più celebri lettori proprio in quelle concezioni e in quegli spunti che invece non solo potrebbero precorrere i suggerimenti della moderna scienza letteraria e della linguistica, ma di una stessa concezione “materiale” dell’ermeneutica47.

44

P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria, cit., p. 17. P. Szondi, Poetica dell’idealismo tedesco, cit., pp. 9 ss. 46 Cfr. rispettivamente P. Szondi, Hölderlin-Studien, in Schriften I, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1978, pp. 261-412; Id., Celan-Studien, in Schriften II, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1978, pp. 319-442 (trad. it. L’ora che non ha più sorelle, cit.); Le “Elegie duinesi” di Rilke, a c. di E. Agazzi, SE, Milano 1997. 47 Cfr. P. Szondi, Bemerkungen zur Forschungslage der literarischen Hermeneutik, cit., p. 406; ma più in generale, per un primo inquadramento delle questioni qui accennate, cfr. anche Id., Poetica dell’idealismo tedesco, cit., pp. 210 ss.; nonché Id., Introduzione all’ermeneutica letteraria, cit., pp. 131 ss. 45

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Non è dato, nel presente contesto, addentrarsi ulteriormente negli aspetti e nei risultati specifici del lavoro interpretativo di Szondi; d’altra parte, la difficoltà di astrarre per così dire una teoria sistematica dell’interpretazione dalle sue proposte è implicita nella natura stessa del suo discorso. Se l’unica forza probante dell’interpretazione risiede nell’interpretazione stessa; se l’opera è evento in sé irriducibile e l’ambiguità le è costitutiva e ineliminabile, soprattutto là dove oggetto d’indagine è quella realtà massimamente sfuggente che è la parola, ecco che la medietas in cui si colloca Szondi non può che apparire virtuosa proprio nella sua condanna, da una parte, di un esercizio acritico e astratto della filologia, e dall’altra del lassismo esegetico di ogni relativismo filosofico; e ciò proprio in nome del concreto e inesausto esercizio di quella attività che è anzitutto l’interpretazione di testi letterari. In riferimento all’esegesi hölderliniana Szondi poteva così scrivere ancora, per esempio: “Questa ambiguità può apparire al filologo scandalosa”; eppure, “anche se il suo compito è quello di riconoscere i rapporti costitutivi del testo e di dare soluzione al problema, tuttavia la soluzione non può consistere nell’eliminare un’ambiguità che è insita nel testo. La soluzione filologica non deve sostituirsi al problema”48. Non senza aggiungere, poche pagine più avanti: l’ipotesi secondo la quale un’opera non è concepita come qualcosa di univoco, che una parola non si deve intendere come polivalente solo nel caso che questa polivalenza fosse già nelle intenzioni dell’autore; tale ipotesi non significa affatto che di conseguenza tutte le interpretazioni siano giustificate. Al contrario, solo al di là di questa falsa alternativa si può vedere la vera difficoltà, e anche il compito di chi cerca di comprendere un testo: distinguere ciò che è falso da ciò che è vero, ciò che è estraneo da ciò che è pertinente, senza mutilare la parola, che è spesso obbiettivamente ambigua, né il motivo, che non è quasi mai univoco, in nome di una pretesa univocità49.

48 49

P. Szondi, Poetica dell’idealismo tedesco, cit., p. 23. Ibidem, p. 25.

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Dialettica e interpretazione

Si tratta del rischio connesso a ogni atto interpretativo: esso porta con sé la possibilità del fallimento e della mancanza di rispetto e di carità, di fronte all’irriducibilità del proprio oggetto. Ecco perché da una teoria ermeneutica intesa in questo senso non è lecito attendersi ulteriori affermazioni generali, di principio o di valore, né specifiche indicazioni procedurali. Il punto è, come è stato osservato, che “Il sapere dell’ermeneutica letteraria dev’essere per Szondi inteso come ‘conoscere perpetuato’, in quanto sempre di nuovo costretto a ritornare sulle sue premesse per verificarne l’adeguatezza”50. La scienza letteraria non deve dimenticare che il suo oggetto è l’arte; essa dovrebbe ricavare i propri metodi da un’analisi del processo creativo, e può sperare di attingere una vera conoscenza solo se approfondisce l’esame delle opere, della “logica secondo cui esse sono prodotte”51,

secondo quanto ha scritto Adorno su Paul Valéry. La ricerca di una sorta di criterio esterno per la felicità o la riuscita dell’interpretazione sarebbe in questo senso dunque il primo dei fraintendimenti dai quali l’ermeneutica farebbe bene a guardarsi: il tradimento della propria natura di esercizio, di attività. Il rischio implicito in ogni approccio interpretativo così “dovrà essere dimostrato ex novo in ogni nuovo lavoro. Ma affrontare a viso aperto questo pericolo, invece di cercare riparo presso altre discipline, questo è il prezzo che deve pagare, se [essa] ambisce a essere scienza”52. Non si tratta, in ogni caso, di un abbandono alla techne pura e semplice. Il filologo potrà ben poco se non si sforzerà di assumere consapevolmente su di sé la propria stessa condizionatezza. In questo aspetto di torsione si riconferma il fondamento filosofico di qualunque discorso ermeneutico. Laddove l’ermeneutica filologica sembra andare al di là di sé, essa incontra produttivamente l’estetica e la filosofia della storia, per definire ogni volta la propria scientificità. In tale incontro fra 50

E. Agazzi, L’ermeneutica di Peter Szondi e la letteratura tedesca, cit., p. 1. P. Szondi, Poetica dell’idealismo tedesco, cit., p. 26. 52 Ibidem. 51

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discipline e competenze diverse prende le mosse quella Metahermeneutik “senza la quale anche l’ermeneutica letteraria non può avere una sufficiente comprensione di se stessa”53.

53

P. Szondi, Bemerkungen zur Forschungslage der literarischen Hermeneutik, cit., p. 408.

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– XI –

Ermeneutica e metodica, a partire da Wolfgang Wieland

1. Il dibattito filosofico degli ultimi anni ha fatto registrare, non solo in Italia, una svolta in direzione anti-ermeneutica. L’ampia convergenza di intenti e programmi che, alla metà degli anni ottanta del secolo scorso, suggeriva addirittura di parlare dell’ermeneutica come di una vera e propria koiné nell’ambito della filosofia continentale (con qualche significativo baluardo che sembrava espugnato anche al di là dell’Atlantico)1, oggi è divenuta – se non proprio un ricordo – certamente una posizione di retroguardia. A cadere in sospetto è stato in primo luogo l’atteggiamento che aveva condotto molti a trattare con eccessiva disinvoltura la contrapposizione fra ermeneutica (come erede delle scienze dello spirito) ed epistemologia (nel suo correlato con le scienze della natura). Più che ai principali protagonisti del dibattito, di solito maggiormente cauti dei loro entusiasti seguaci, è legittimo pensare qui a certi eccessi di scuola: per esempio si è oltremodo accentuata la distinzione fra verità e metodo tematizzata da Gadamer, si è esaltata la portata ontologica del racconto e della narrazione (al centro degli interessi di Ricoeur) come cifra privilegiata dell’esercizio del logos, o in Italia la contrapposizione di matrice pareysoniana fra “pensiero espressivo” e “pensiero rivelativo” è talora stata adoperata addirittura come vessillo contro un ideale scientifico di attività filosofica2. A 1

2

Cfr. G. Vattimo, Ermeneutica come “koiné”, in «aut aut», 217-218, 1987, pp. 3-11; Id., Introduzione a Filosofia ’87, a c. di G. Vattimo, Laterza, Roma-Bari 1988, in particolare pp. VII-VIII. Per una critica radicale degli argomenti avanzati dall’ermeneutica filosofica, cfr. l’esplicita palinodia di M. Ferraris, L’ermeneutica, Laterza, Roma-Bari 1998; nonché Id., Postfazione. Estetica come aisthesis, in Estetica razionale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011², pp. 573-586. Si vedano anche D. Marconi, Per la verità, Einaudi, Torino 2007 e Id., Il mestiere di pensare, Einaudi, Torino 2014.

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lungo andare, tutti questi atteggiamenti hanno così oggettivamente manifestato limiti e aspetti censurabili, in primo luogo per le loro conseguenze riduttive, poco promettenti sul piano scientifico, e spesso non al passo con il dibattito filosofico in corso anche in area continentale. L’idea di venire a patti con il relativismo (implicita per esempio nella opposizione tra democrazia e filosofia decretata a un certo punto da Rorty), o quella di congedarsi finalmente dalla nozione di verità (come ha proposto ancora di recente Vattimo), sono state considerate da più parti addirittura come una sorta di alto tradimento della vocazione filosofica tout court. Certamente, le scomuniche sono apparse spesso meno ragionevoli delle presunte eresie, e non di rado la polemica è sembrata alimentarsi, nei suoi toni più carichi di livore, di una ricerca un po’ sospetta del capro espiatorio di turno, dettata da interessi non sempre propriamente ispirati alla purezza della theoria. Al di là di occasionali considerazioni, tuttavia, s’è venuta palesando con sempre maggiore chiarezza l’ambiguità implicita nella stessa nozione di koiné: se quest’ultima era stata adottata per sottolineare gli aspetti comunicativi della vocazione ermeneutica, a lungo andare essa ha finito con l’oscurare differenze reali e sottovalutare la distanza (quando non l’incompatibilità) delle diverse prospettive in gioco. A scapitarne è stata così l’ermeneutica stessa: perfino chi, pochi anni prima, di quella koiné aveva parlato con entusiasmo, alla metà degli anni novanta si trovava costretto ad ammettere un certo “disagio nei confronti della fisionomia ‘ecumenica’, ma anche alquanto generica e vaga, che l’ermeneutica è venuta assumendo nella filosofia contemporanea, finendo […] per perdere molto del suo significato”3. Il risultato è stato così l’involontaria legittimazione di un atteggiamento generalizzato contro l’ermeneutica, che di lì a poco avrebbe preso piede anche in molte delle sue presunte roccaforti. A tutto ciò va aggiunto peraltro che, pur prescindendo dalle singole prese di posizione, non si può non rimanere perplessi di fronte al3

G. Vattimo, Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la filosofia, Laterza, Roma-Bari 1994, p. IX. Vattimo ha peraltro riproposto l’idea di ermeneutica come koiné anche più di recente, in Della realtà. Fini della filosofia, Garzanti, Milano 2012.

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l’unilateralità e spesso all’estrosa occasionalità degli argomenti portati, e ripetuti quasi come se si trattasse di slogan gridati contro gli slogan che invece erano di moda poco tempo prima. In realtà, a uno sguardo storico-filosofico non superficiale, argomentare contro l’ermeneutica in generale appare tanto poco sensato quanto lo sarebbe pretendere di esprimere qualcosa di più d’una preferenza personale, di uno stile, o magari solo di un’idiosincrasia o un’antipatia nel momento in cui si facesse professione di anti-fenomenologia o di anti-esistenzialismo, oppure si polemizzasse – poniamo – contro la filosofia analitica tout court, eccetera. Unterschiedenes ist gut – mai come in questo caso l’affermazione di Hölderlin mostra la sua sobria pertinenza.

2. Probabilmente anche in base a simili considerazioni, in un libro dal titolo significativo – Ermeneutica e metodica – uscito nel 1996, lo studioso bolognese Carlo Gentili, cogliendo le prime avvisaglie e le ragioni profonde della crisi, aveva suggerito di intraprendere una direzione di ricerca in cui la filosofia dell’interpretazione sapesse riconsiderare il proprio rapporto con la nozione di “metodo”. A questo scopo, si sarebbe dovuto favorire il colloquio della prospettiva ermeneutica più influente, quella di Gadamer, non solo con quanto elaborato da teorie dell’interpretazione più legate alla loro origine filologica e critico-letteraria, e per questo inevitabilmente più sensibili all’istanza metodica (Hans-Robert Jauss, Peter Szondi), ma anche con alcune istanze del programma della Nuova Fenomenologia Critica formulato in Italia da Luciano Anceschi. Si trattava, in qualche misura, di immunizzarsi dagli effetti di una certa deriva post-gadameriana attraverso una correzione di rotta comunque interna all’ermeneutica stessa, ricorrendo auf Gadamer gegen Gadamer, come aveva affermato esplicitamente lo stesso Jauss4. Con questo suggerimento, che insieme era anche un programma di lavoro, Gentili non faceva del resto che richiamare l’attenzione

4

Cfr. C. Gentili, Ermeneutica e metodica. Studi sulla metodologia del comprendere, Marietti, Genova 1996, p. 9.

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sulle radici storiche più genuine dell’ermeneutica5. Che non sono di certo il relativismo antiepistemologico di un mondo che smarrisce la sua verità in nome dell’affabulazione generale o dell’anarchia, in cui everything goes e tutte le interpretazioni sono equivalenti una volta liberatesi del ‘Criterio’ (purtroppo, secondo i conservatori; ovvero per fortuna, secondo i teorici progressisti dell’emancipazione). Tutto al contrario: le radici dell’ermeneutica stanno piuttosto nella filologia, nella messa in questione dell’immediatezza nel rapporto con il traditum, e dunque anzitutto con la testualità della scrittura. Ne va infatti della verità del testo nel duplice senso del genitivo: è in gioco l’accertamento storiografico di ciò in cui quel determinato testo consiste, una volta debitamente riportato al suo contesto (genitivo oggettivo); ma è in gioco anche la pietas della ricerca delle intenzioni di senso che quel medesimo testo porta con sé, o che in esso si sono sedimentate nel tempo (genitivo soggettivo), quando l’interprete cerchi di immergersi in esso, dando vita così a quell’inesauribile dialettica di prossimità e distanza in cui consiste l’interpretazione filosoficamente intesa. Di qui l’opportunità di tornare a riflettere, al di là delle mode, sul significato della stessa nozione di “metodo”, metà hodós secondo l’etimologia della parola, che rimanda allo svolgimento e al senso di un cammino. Nelle note che seguiranno, si cercherà di indicare brevemente perché questa osservazione non debba ridursi a un banale artificio retorico, ma riguardi molto concretamente il passaggio da un’ermeneutica intesa come filosofia pratica – secondo un’accezione, presente anche in Gadamer, che ne rafforzava la prossimità al contesto del dibattito sulla cosiddetta “riabilitazione della filosofia pratica” – a un’ermeneutica intesa come pratica filosofica nella lettura e nell’interpretazione del testo. Una pratica che mette in questione anzitutto la memoria individuale e collettiva, il cano-

5

Cfr. per una panoramica generale: G. Vattimo, Schleiermacher filosofo dell’interpretazione, Mursia, Milano 1986², pp. 7-33; Il pensiero ermeneutico. Testi e materiali, a c. di M. Ravera, Marietti, Genova 1986; G. Gusdorf, Storia dell’ermeneutica, Laterza, Roma-Bari 1989; P. Szondi, Introduzione all’ermeneutica letteraria, Einaudi, Torino 1992²; M. Ferraris, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 1988; M. Jung, L’ermeneutica, Il Mulino, Bologna 2002.

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nizzarsi della tradizione fra continuità e fratture, e con ciò la nozione stessa di classico.

3. Non so fino a che punto si tratti di una circostanza casuale, e ignoro se e in che misura sia possibile pensare a una sedimentazione concettuale di lungo periodo, o almeno sia lecito postulare un’affinità elettiva sul piano teorico: vorrei però ricordare che a Carlo Gentili si deve anche la traduzione italiana di un libro che – a parere di chi scrive – costituisce uno dei testi più istruttivi dell’ermeneutica filosofica novecentesca: Die aristotelische Physik (1962, 1970², 1992³) del filosofo (e medico) tedesco Wolfgang Wieland, nato nel 1933 e allievo proprio di Gadamer e di Karl Löwith a Heidelberg; città nella quale (dopo una lunga carriera nelle università di Hamburg, Marburg, Göttingen e Freiburg i.B.) Wieland insegnò fino alla sua emeritazione, avvenuta nel 1998. Le ripetute edizioni, a distanza di anni, mostrano come il testo di Wieland su Aristotele abbia resistito nel tempo, rimanendo uno degli studi di riferimento sulla filosofia della natura dello stagirita. Altrettanta attenzione meritano gli aspetti più strettamente metodologici della sua proposta, la quale tuttavia è come celata tra le righe, o meglio forse sarebbe dire: accompagna il cammino stesso dell’interpretazione, in qualche misura mettendosi alla prova, praticando appunto in concreto quell’ermeneutica di cui è concreta testimonianza. Nell’‘Introduzione’, peraltro, così come qua e là nel corso dell’intero volume, Wieland offre indicazioni teoriche decisive circa la questione del metodo, nel senso sopra accennato. A oltre cinquant’anni dalla sua comparsa, mi pare dunque che valga ancora la pena tentare di saggiarne la consistenza6. Fin dalle prime pagine, insieme al debito nei confronti dell’ermeneutica gadameriana (Wahrheit und Methode era uscito da appena due anni, quando lo scritto di abilitazione di Wieland veniva pubblicato per la prima volta), La Fisica di Aristotele mostra anche 6

Cfr. W. Wieland, La Fisica di Aristotele. Studi sulla fondazione della scienza della natura e sui fondamenti linguistici della ricerca dei principi in Aristotele (1970²), a c. di C. Gentili, Il Mulino, Bologna 1993.

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segnali, se non proprio di una presa di distanza, quantomeno di un posizionamento autonomo dell’autore nel quadro d’una filosofia intesa in senso ermeneutico. Rispetto al maestro Gadamer, Wieland aveva del resto anche una formazione di Naturwissenschaftler, e interessi espliciti per gli aspetti più propriamente logico-epistemologici della storia del pensiero, antico e moderno. Trattandosi poi, nel caso specifico, di un lavoro su Aristotele, è ben comprensibile che le preoccupazioni dell’autore fossero rivolte in primo luogo al “problema del rapporto tra interpretazione filosofica e interpretazione filologica”. Da una parte il testo non può essere pretesto di una lettura svincolata da precisi impegni esegetici; dall’altra, questi medesimi impegni sembrano subito configurarsi, nella prospettiva wielandiana, non tanto come criteri normativi di correttezza (i quali in ultima analisi non dipendono dall’ermeneutica in senso stretto, bensì dalle singole competenze disciplinari richieste dall’atto interpretativo), quanto – se è lecito dire così – da una sorta di impegno etico nei confronti delle virtualità di significato contenute nel testo stesso. Sul frequente contrasto fra l’approccio filologico e quello filosofico scriveva dunque Wieland: Sembra che questa contrapposizione venga attualmente troppo marcata su entrambi i fronti. In un’interpretazione del testo, oggi come oggi, nessuno più inseguirà il fantasma ‘della’ esatta interpretazione. L’importanza di un’opera letteraria o filosofica si rivela infatti proprio nell’abbondanza delle sue possibilità d’interpretazione così come nella molteplicità e nella fertilità dei suoi effetti. Soltanto l’inadeguatezza di un’interpretazione (per esempio quando essa contraddice il testo) può essere sempre provata, ma mai l’esattezza di una singola interpretazione rispetto alle altre (quando tutte queste sono in contraddizione non con il testo, ma tutt’al più reciprocamente). Non c’è dunque, a stretto rigore, alcuna netta alternativa tra interpretazioni sbagliate ed esatte, ma sempre e soltanto un’alternativa tra interpretazioni che risultano possibili ed altre che non lo sono. Una distinzione di principio tra interpretazione filosofica e interpretazione filologica può difficilmente essere stabilita, malgrado le differenze di me-

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todo occasionalmente notevoli, ove si rifletta nel contempo che non esiste in definitiva alcuna reale interpretazione di un testo, se essa non è guidata da un interesse concreto per le cose in esso trattate7.

Di questo passaggio meritano di essere sottolineate in particolare almeno tre sollecitazioni, che propongo di riassumere nel modo seguente: (a) l’interpretazione non può decidere a priori i criteri della propria riuscita, anche se questo non significa naturalmente rinunciare alla consapevolezza delle competenze richieste di volta in volta dalla complessità dell’interpretandum (se si tratta di studiare Aristotele, per esempio, è evidente che la mancata conoscenza del greco sarebbe un limite piuttosto grave: ma ciò non dipende né da una qualitas occulta del testo aristotelico, né da un principio di autorità; dipende piuttosto dalla circostanza evidente che solo competenze linguistiche adeguate permetteranno di individuare in maniera più efficace le potenzialità di significato presenti nel testo o nei testi in questione); (b) il metodo dell’ermeneutica ha dunque propriamente a che fare con la costitutiva e inesauribile pluralità delle possibilità di senso e degli effetti impliciti nel testo stesso; (c) per queste medesime ragioni, più che di correttezza o scorrettezza, sarà opportuno parlare allora di possibilità o impossibilità dell’interpretazione stessa, cioè della sua praticabilità effettiva (Peter Szondi direbbe qui probabilmente: della sua consistenza “materiale”). Vale a dire, per conservare la metafora implicita nell’etimologia di “metodo”: bisognerà parlare di interpretazioni più o meno percorribili, ovvero più o meno aporetiche di altre. In tutti i casi, condizione imprescindibile del percorso ermeneutico è l’“interesse concreto” per la Sache in questione: e qui interesse significa immersione nella cosa, unita alla capacità di mettere in gioco i propri pregiudizi. Di essi Wieland non si limita a sottolineare la natura di condizioni di possibilità della “fusione di oriz-

7

W. Wieland, La Fisica di Aristotele, cit., pp. 32-33.

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zonti”, secondo il tentativo di riabilitazione del pregiudizio condotto da Gadamer8, ma ricorda debitamente anche il rischio di schiacciare il testo sotto il peso della precomprensione dell’esegeta. Interessante è notare peraltro che questo peso può essere determinato tanto da un effettivo sovraccarico di attesa, quanto dall’apparente neutralità e asepsi delle aspettative, nella sua – per così dire – insostenibile (e insospettabile) pesantezza. In questo senso, la filosofia e la filologia di per sé considerate corrono pericoli molto simili, che sono poi quelli connessi a ogni atto ermeneutico; là dove, però, la filosofia è più esposta al rischio della Überinterpretation, mentre la filologia mostra talora una deplorevole mancanza di consapevolezza circa i propri stessi presupposti: Nella storia della filosofia dei nostri giorni non mancano interpretazioni che si attendono dal loro oggetto soltanto di veder confermata la propria posizione sistematica. La letteratura filologica conosce una situazione analoga, con la sola differenza che il dato di fatto della posizione dell’interprete non diviene in questo caso ancora sufficientemente chiaro, in quanto i pregiudizi filosofici più recenti vi vengono assunti in maniera tacita, e sono anzi tanto più attivi quanto meno si sa di essi9.

Sono queste le ragioni che spingono appunto in direzione di un recupero della nozione di “metodo” intesa nel suo significato etimologico: la dimostrazione positiva che una determinata strada porti a risultati fruttuosi, non può mai essere guidata da un avvertimento metodologico, ma solo dal percorrere effettivamente questa strada. È ben vero che nessuna enunciazione scientifica può contraddire determinate regole logiche e metodologiche. D’altro canto, però, un risultato concreto non può essere ottenuto mediante l’applicazione

8

9

Cfr. H.-G. Gadamer, Verità e metodo (1960), a c. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983, pp. 325-340. W. Wieland, La Fisica di Aristotele, cit., p. 33.

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di queste regole soltanto: ne risulta che la metodologia ha essenzialmente soltanto una funzione di controllo10.

Parafrasando un po’ liberamente il testo di Wieland – spero senza fraintenderne o distorcerne le intenzioni – si potrebbe forse dire: certamente esistono prassi consolidate (se non addirittura ‘regole’ vere e proprie), nella pratica interpretativa; il possesso di determinate competenze e la capacità tecnica di applicarle sono condizioni indispensabili perché il processo ermeneutico abbia anche solo un inizio promettente. Non si può pensare, tuttavia, che sia sufficiente una Anwendung (adplicatio) di questi prerequisiti – intesi alla stregua di istruzioni tecniche per l’uso fool-proof – per ritenere di aver risolto una volta per tutte il problema filosofico dell’interpretazione. Il filosofo italiano Luigi Pareyson – in tutt’altra prospettiva, d’accordo – avrebbe detto in proposito, ricorrendo alla nozione di formatività, che solamente nell’atto stesso del proprio farsi l’interpretazione, come ogni processo formativo, può rendere conto fra l’altro della sua forma e del suo modo di fare11. E anche per Wieland (così come per Pareyson, almeno in questo senso) l’interpretazione è insieme necessaria e infinita, proprio per le ragioni sopra addotte12. Confidare in una completa conformità dell’atto erme10 11

12

Ibidem, p. 50. Cfr. L. Pareyson, Estetica. Teoria della formatività (1954), Bompiani, Milano 1988, cap. II.1, p. 59: “Formare, dunque, significa ‘fare’, ma un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare. […] Un’operazione è formativa nella misura in cui dell’opera che ne risulta si può dire ch’è fatta bene non in quanto ‘ha seguito le regole’, ma in quanto è una ‘riuscita’, cioè quando ha scoperto la propria regola invece di applicarne una prefissata”. Rispetto a Pareyson, Wieland – in ciò, probabilmente, influenzato dall’idea gadameriana di storia degli effetti – mi pare peraltro accentuare maggiormente le carenze implicite nel punto di vista che assume l’intentio auctoris come criterio dell’interpretazione: “Ogni pensatore oblìa sempre se stesso nella misura in cui non può mai produrre un criterio definitivo di verità per il suo pensiero. Ogni filosofia dev’essere dunque provata per così dire ‘dall’esterno’, perché ad ogni pensiero rimane nascosta la sua propria legge. Alle premesse evidenti che stanno a fondamento della storia della filosofia appartiene anche la constatazione che, tra ciò che una filosofia è, e ciò per cui essa si dà ad intendere, permane una differenza ineliminabile. Questi aspetti stanno l’uno contro l’altro in un rapporto complementare, tanto più che l’autointer-

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neutico alle norme del suo svolgimento non solo è una chimera, ma rischia di rivelarsi addirittura controproducente: “Quando […] il pensiero pone delle regole, già per questo motivo esso non può seguirle. Del tutto al contrario, queste regole devono spesso limitarsi a compensare ciò che nel pensiero manca”13. Un conto, dunque, è richiamare il metodo, inteso come un effettivo percorrere la strada dell’interpretazione; un altro conto è invece parlare astrattamente di metodologia esauriente, la quale – con tutti i dovuti distinguo – si rivela quasi sempre una chimera, che se mai ha un interesse sul piano ermeneutico, lo deve proprio al fatto che palesa una carenza: il suo significato, dice Wieland, è anzitutto “compensativo”.

4. La prospettiva ermeneutica di Wieland, pur con ogni cautela, riconosce infine esplicitamente i propri presupposti hegeliani. Qui di seguito mi limiterò, per concludere, a focalizzare l’attenzione su quattro elementi che qualificano questa filosofia dell’interpretazione anche in rapporto alla sua natura propriamente dialettica.

pretazione è raramente una descrizione dell’esistente e più spesso la compensazione di una lacuna. Questa è una delle ragioni per cui si giunge di rado a risultati fruttuosi quando si vuol comprendere un autore servendosi delle sue stesse affermazioni. Ma è anche una delle ragioni per cui un autore necessita dell’interpretazione. Ed è radicato nell’essenza del comprendere stesso, e non in una qualunque forse casuale oscurità o mancanza di chiarezza del testo di volta in volta preso in esame, il motivo per cui l’interpretazione è un compito che non può mai essere portato interamente a compimento” (W. Wieland, La Fisica di Aristotele, cit., pp. 52-53). Si veda inoltre ciò che Wieland ribadisce più avanti, contro le chimere che accomunano paradossalmente storicismo e positivismo, in questo singolarmente affratellati (ibidem, p. 128): “Una rappresentazione assolutamente fedele, dal punto di vista storico, di un qualunque pensatore è un puro fantasma; si riuscirebbe a ciò, solo se si potesse innalzare l’interpretazione che l’autore in esame dà di sé al criterio supremo del suo stesso giudizio. Ma questo sarebbe un procedimento del tutto antistorico: la posizione storica di qualunque pensatore si definisce attraverso possibilità che stanno nella sua impostazione, ma non sono da lui stesso realizzate. Ne viene che l’interpretazione data dall’autore ha non di rado funzioni di compensazione” (corsivo mio). 13 Ibidem, p. 50.

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(a) In primo luogo, come si è già ricordato, interrogarsi sullo statuto dell’ermeneutica significa lavorare per una presa di consapevolezza teorica intorno al problema della storicità, tra memoria e tradizione: e con questo, in primo piano si pone il tema della relazione fra continuità e discontinuità storiche. La critica dell’ideologia ha spesso e volentieri costruito la propria polemica nei confronti dell’ermeneutica intorno alla presunta vocazione conservatrice di quest’ultima14: l’ermeneutica, in particolare quella post-gadameriana, avrebbe accentuato in maniera eccessiva un ideale di tradizione concepito in termini di continuità e di fusione. A questo proposito, Wieland ha buon gioco tuttavia nel ricordare che proprio a Hegel, se non ci si accontenta di una lettura semplicistica e banalizzante della sua filosofia della storia, si deve la più radicale tematizzazione del problema dell’alterità e della frattura. Il monismo ontologico del discorso, in Hegel, si ricompone in identità solamente nella conservazione – e non nel semplice superamento – della tensione fra identità e non-identità. Dunque, Hegel costituisce per l’ermeneutica un “punto di svolta”, in quanto con la sua dialettica fornisce un’indicazione decisiva per imparare a considerare l’estraneo certamente rapportandolo al proprio, ma pur sempre appunto in quanto estraneo: la prossimità qui non è che l’altra faccia della distanza. Appartiene ad ogni autentica comprensione storica la constatazione che soltanto nella consapevolezza della distanza dal proprio interlocutore è dato scoprire che ci si avvicina a lui. Si è oggi inclini a valutare maggiormente l’importanza che la storia degli effetti (Wirkungsgeschichte) ricopre per la comprensione di una forma storica. Ma si deve anche osservare che ciò è soltanto una reazione a determinate unilateralità legate alla coscienza storica, alla quale dovrebbe toccare in primo luogo proprio di riconoscere la tradizione come tradizione15.

14

Cfr. a questo proposito l’ormai classica raccolta di contributi Ermeneutica e critica dell’ideologia (1971), ed. it. a c. di G. Ripanti, Queriniana, Brescia 1979. 15 W. Wieland, La Fisica di Aristotele, cit., p. 43.

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Si tratta di un’istanza molto delicata, e dalle conseguenze certamente ambigue: ma la natura virtuosa e non viziosa di questa circolarità, ancora una volta, non dipenderà da altro che dall’atto concreto con cui l’interprete saprà collocarvisi, modulando la relazione con il proprio oggetto e privilegiando, a una concezione rigida e dogmatica della dialettica, quella concezione fluida di essa della quale Hegel parlava nella ‘Prefazione’ della Fenomenologia dello spirito16. (b) In secondo luogo, una chiara matrice hegeliana si lascia scorgere anche nella diffidenza di Wieland, già sopra notata, nei confronti di un modo di intendere il metodo come astratta introduzione allo svolgimento della “cosa stessa”: la dialettica è appunto immersione nella fluidità del reale, superamento delle aporie legate a una concezione del logos prigioniera della scissione fra essere e pensare, realtà e coscienza. Un passo dello scritto aristotelico Sulle parti degli animali, citato nel libro di Wieland, si presta in modo egregio a questa ridefinizione esemplare del metodo ermeneutico. Aristotele vi afferma infatti un principio che a buon diritto si potrebbe affermare in generale, mutatis mutandis, anche della tecnica filosofica dell’interpretazione: τῆς γὰρ αὐτῆς περὶ νοῦ καὶ τοῦ νοητοῦ θεωρῆσαι, εἴπερ πρὸς ἄλληλα, καὶ ἡ αὐτὴ θεωρία τῶν πρὸς ἄλληλα πάντων, καθάπερ καὶ περὶ αἰσθήσεως καὶ τῶν αἰσθητῶν (de part. an. A 1, 641b1-4): è compito della medesima scienza la trattazione della conoscenza e del conoscibile17.

(c) Il terzo elemento non è che una conseguenza del precedente: l’istanza aristotelica, se recepita appunto in un quadro storico-dialettico, costituisce un esempio eccellente della differenza che si genera all’interno dello sguardo peculiare dell’ermeneutica moderna. In questo senso vale la pena citare anche le considerazioni svolte da Wieland in una nota di qualche pagina precedente, proprio sul

16 17

Cfr. FdS, p. 25 (GW IX, p. 28). W. Wieland, La Fisica di Aristotele, cit., p. 55, nota 27.

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rapporto fra Aristotele e Hegel, in riferimento al celebre passo di Metafisica Λ (1072b18-30) riportato senza alcun commento nella conclusione della hegeliana Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Qui – mette in guardia Wieland – Hegel non intende semplicemente “accogliere” il pensiero aristotelico annullando la distanza temporale; il metodo storico-dialettico della filosofia non prevede affatto qualcosa del genere. In realtà, non esiste quasi luogo hegeliano nel quale sia evidente più che in questo la sua fondamentale differenza da Aristotele, costante dietro ogni apparente affinità. Anche questa citazione non si colloca infatti al di fuori della dialettica specifica del pensiero hegeliano. Per Aristotele la νóησις νοήσεως è una possibilità che l’intelletto finito dell’uomo non può raggiungere, rimanendo riservata unicamente a Dio. Con la sua filosofia, per contro, Hegel tenta di indicare appunto la via lungo la quale proprio l’intelletto finito […] si eleva al sapere assoluto […]. Egli pensa di aver indicato alla coscienza finita la via a quel sapere assoluto che in Aristotele era riservato a Dio e irraggiungibile per gli uomini. Non si limita, dunque, a far qui semplicemente sua una posizione aristotelica, ma vuole portare Aristotele oltre Aristotele stesso18.

Un movimento analogo, fatto insieme di appropriazione e distanza, di identità e differenza, caratterizza ogni atto ermeneutico in quanto tale, se questo non si nutre del mito positivistico della metodologia dell’interpretazione. (d) Da ultimo, si tratta di tematizzare il senso – per la prospettiva ermeneutica – della vexata quaestio circa il primato metodico del linguaggio19: un primato che non si risolva (secondo quanto vuole

18

Ibidem, p. 42, nota 23. Per una lettura ermeneutica del rapporto fra Aristotele e Hegel che, nel commentare le pagine della Fenomenologia dello spirito dedicate a signoria e servitù, procede almeno in parte in direzione simile a quella indicata su questo punto da Wieland, si veda J. Taubes, Hegel, in Encyclopedia of Morals, a c. di V. Ferm, Peter Owen Ltd., London 1957, pp. 207-212. 19 Sulla questione del linguaggio (con particolare riguardo all’eredità culturale

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una vulgata triviale, non a caso alimentata ad arte dai critici dell’ermeneutica stessa) nella confusione tra fatto e interpretazione, ma significhi anzitutto una consapevolezza: l’operazione interpretativa consiste essenzialmente in una costante disponibilità a mettere in questione i principi del logos dell’interprete e dell’interpretandum (in ciò consistette a suo tempo, sia detto per inciso, anche la novità e l’elemento più scandaloso dell’interpretazione condotta da Wieland sulla Fisica aristotelica). Come si ribadisce nella ‘Postilla alla seconda edizione’, l’analisi linguistica, nella misura in cui essa assume rilievo per la filosofia, in verità non assume mai il linguaggio come un dato di fatto, dato che, per lo meno, ogni analisi linguistica di carattere filosofico è sempre, nello stesso momento, anche una critica del linguaggio stesso20.

Anche nella prospettiva di Wieland, il risultato di queste considerazioni pare così confermare il legame indissolubile che unisce l’ermeneutica al generarsi e trasformarsi della tradizione, culminante nella canonizzazione del classico. Una delle peculiarità dei classici del pensiero consiste infatti proprio nella constatazione che “l’occuparsi di essi conduca non di rado a porre in questione ciò che dell’oggetto esaminato veniva dato per acquisito ed assunto come premessa della discussione”, portando sempre l’interprete “a convinzioni nuove e non banali”21. In questo senso, un’ermeneutica concepita – sulla scorta delle considerazioni di Wieland – come pratica della lettura e dell’interpretazione del testo filosofico si viene a configurare anzitutto come una scepsi produttiva esercitata nei confronti delle sue proprie premesse. Il suo compito non consiste nell’esplorazione di cose

greca), rispetto alla struttura circolare del procedimento ermeneutico, cfr. ancora le osservazioni di C. Gentili, Il simbolo tra mito e segno, in Ermeneutica e metodica, cit., pp. 154-166. 20 W. Wieland, La Fisica di Aristotele, cit., p. 438. 21 Ibidem, pp. 433 e 435.

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che ci rimarrebbero in caso contrario sconosciute, ma nell’interrogare ciò che viene dato solitamente per acquisito22.

Ovvero, per parafrasare ancora un’espressione di Hegel: il suo lavoro consisterà in primo luogo nel favorire l’interpretazione intesa come passaggio dal meramente “noto” all’effettivamente “conosciuto”23.

22 23

Ibidem, p. 34. FdS, p. 23 (GW IX, p. 26).

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– XII –

Hegel e lo spirito della traduzione

1. In uno degli aforismi conservati nel cosiddetto Wastebook, il quaderno hegeliano di appunti risalente agli anni di Jena (18031806), si legge: Esprimersi nella propria lingua è uno dei massimi momenti di formazione culturale [Bildungsmomente]. Un popolo appartiene a se stesso. Basta con le stranezze, compresi i caratteri da stampa latini!1

Nulla sarebbe più facile che cedere alla tentazione di interpretare il contenuto di questo frammento come frutto d’un impulso nazionalistico, magari tenendo conto degli anni e delle circostanze storiche in cui è stato redatto, e tanto più se non si è sufficientemente immuni dal pregiudizio – triviale ma purtroppo duro a estirparsi – dell’idealismo come ideologia del pangermanesimo e di uno Hegel più tardi (a Berlino) apologeta dell’assolutismo prussiano, nonché smaccato difensore delle politiche più reazionarie2. Eppure proprio la biografia del filosofo dovrebbe mettere in guardia da conclusioni così affrettate. La Vita di Hegel di Karl Rosenkranz rimane in questo senso una lettura preziosa, non solo per il suo complessivo valore documentario sulla figura storica del personaggio Hegel, ma anche là dove – proponendo ampi stralci delle introdu-

1 2

AJ, p. 125 (GW V, p. 500). Contro questa immagine del pensiero hegeliano, tanto fuorviante quanto difficile da sradicare, si vedano almeno le considerazioni di T. Pinkard, La filosofia tedesca (1760-1860). L’eredità dell’Idealismo (2002), a c. di M. Farina, Einaudi, Torino 2014, pp. 343 ss., e più in generale Id., Hegel: A Biography, Cambridge U.P., Cambridge 2000. Cfr. anche R. Bodei, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, nuova ed., Il Mulino, Bologna 2014, pp. 74-86.

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zioni alle sue lezioni – essa ci aiuta a comprendere quale problema propriamente filosofico si nasconda dietro alle considerazioni hegeliane “sulla terminologia in generale”, e in particolare dietro all’invito “a rendere, per quanto è possibile, tutti i termini nella propria lingua nativa”3. In questione non è tanto il rapporto fra un linguaggio ordinario nella “pratica quotidiana” in cui parla l’“uomo comune” e la possibile infiltrazione in esso di barbarismi o di ibridi idiomatici, bensì la dimensione linguistica indispensabile al pensiero – l’elemento in cui si esprime la verità di una cultura, e dunque il medium proprio della filosofia. A conferma della solidità delle convinzioni di Hegel, in questo senso, si può del resto citare anche l’abbozzo della sua lettera a Johann Heinrich Voss (databile al maggio 1805): Lutero ha fatto parlare la Bibbia in tedesco, Ella, Omero: è il più grande regalo che possa essere fatto a un popolo; infatti un popolo rimane allo stato barbarico e non considera come sua proprietà le cose pregiate che viene a conoscere, finché non impara a riconoscerle nella propria lingua. Se Ella vuol dimenticare questi due esempi, Le dirò che il mio sforzo è diretto a far parlare la filosofia in tedesco. Se una volta si potesse giungere a tanto, diventerebbe infinitamente più difficile dare alla piattezza l’apparenza di un discorso profondo4.

In questo senso, sembra suggerire il filosofo, bisogna tener presente un duplice ordine di considerazioni. In generale, scrive Hegel, È proprio della più alta cultura di un popolo il poter esprimere tutto nella propria lingua. I concetti che noi esprimiamo con parole straniere sembrano avere per noi qualcosa di estraneo, che non ci appartiene propriamente e immediatamente5. 3

4 5

K. Rosenkranz, Vita di Hegel (1844), a c. di R. Bodei, Mondadori, Milano 1974, p. 198. Ep I, p. 207 (BvaH, pp. 99-100). K. Rosenkranz, Vita di Hegel, cit., p. 199. Di tenore analogo anche la missiva indirizzata da Hegel a Peter Van Ghert nel dicembre 1809, circa la possibilità

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Nell’ambito del discorso filosofico, il ricorso sistematico a una terminologia fremd (‘estranea’, oltre che straniera) è tuttavia foriero anche di un problema ulteriore, strettamente connesso al precedente, le cui ricadute sono tuttavia più specificamente dannose sul piano scientifico. La lunga citazione hegeliana riportata da Rosenkranz vi si sofferma poco dopo: Questa terminologia straniera, usata in parte inutilmente, in parte in modo strampalato, produce un grosso danno perché trasforma i concetti, che in sé sono movimento, in qualcosa di fisso e di immobile; avviene così che lo spirito e la vita della cosa stessa scompaiano e che la filosofia precipiti in un vuoto formalismo, che non è difficile acquistare e sfoggiare in chiacchiere. A quelli che non la capiscono, questa terminologia sembra però essere qualcosa di molto difficile e profondo. Proprio questo è quel che seduce in tal terminologia: in effetti è molto semplice impadronirsene. Ed usarla è tanto più facile, perché in tal modo mi è permesso di dire tutte le insulsaggini e le banalità possibili, qualora non mi vergogni dinanzi a me stesso di parlare a persone in una lingua che esse non capiscono6.

Nell’autunno del 1831, pochi giorni prima di essere colpito dalla fulminante malattia che in breve lo avrebbe condotto alla morte, nella ‘Prefazione’ alla seconda edizione della Scienza della logica Hegel scrive che “La filosofia non abbisogna […] in generale di alcuna speciale terminologia”, e in essa “un’affettazione di purismo sarebbe addirittura fuor di luogo là dove non si deve assolutamente guardare che alla cosa”7. Ma nel contesto degli aforismi jenesi è dif-

6 7

di ottenere un incarico di insegnamento in Olanda: “Riguardo alla lingua con cui abitualmente son tenuti i corsi di lezioni nelle università olandesi, si dovrebbe almeno da principio tenere corsi in latino; se il costume poi permettesse di tralasciare questo uso, ben presto tenterei di esprimermi nella lingua del paese; credo infatti che sia in sé essenziale per il vero possesso di una scienza, che la si possieda nella sua madrelingua” (Ep II, p. 76; BvaH, pp. 298-299). K. Rosenkranz, Vita di Hegel, cit., p. 200. SL, p. 11 (GW XXI, p. 11).

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ficile non pensare soprattutto a quel passaggio della ‘Prefazione’ alla Fenomenologia dello spirito in cui si parla del compito filosofico come necessità di rimettere in movimento das Fixe, di “ridurre alla fluidità i pensieri solidificati [feste Gedanken in Flüssigkeit zu bringen]”, ovvero “conferire realtà effettiva [Wirklichkeit] all’universale e infondervi spirito, levando [durch das Aufheben] quei pensieri le cui determinazioni si sono solidificate”8. Sono ragioni come queste a suggerire del resto a molti traduttori l’opportunità, specialmente nel caso della prosa hegeliana, di non cedere almeno in linea di principio alla tentazione di applicare quasi meccanicamente un protocollo semantico stabilito una volta per sempre: il problema essendo semmai proprio quello di restituire nella lingua filosofica di arrivo (per quanto possibile, e con tutti i rischi del caso) il senso di una scrittura in cui pensieri irrigiditi debbono lasciare spazio alla loro fluidificazione speculativa9, e non giungere al lettore come qualcosa di “fisso” e “immobile”, né tantomeno di “estraneo”.

2. Nelle sue importanti lezioni sull’estetica di Hegel, Peter Szondi ha fra le altre cose sottolineato una costitutiva incongruenza della dottrina hegeliana della poesia. Essa da una parte esemplifica infatti, e in modo eccellente, quella “congiunzione di teoria speculativa e comprensione artistica” che costituisce un autentico punto di forza della filosofia dell’arte di Hegel, palesando tuttavia dall’altra una concezione del linguaggio affatto inadeguata alle esigenze della poetologia10. Ciò sembra manifestarsi nella maniera più evidente là dove l’‘Introduzione’ all’Estetica Hotho, parlando della traducibilità del linguaggio poetico, sembra sostenere una posizione a dir poco incoerente. Per un verso Hegel individua infatti nel contenuto metaforico un carattere essenziale e costitutivo del discorso poetico in quanto tale (dunque, non una sua funzione meramente 8 9

10

FdS, p. 25 (GW IX, p. 28). Cfr. in proposito le osservazioni di Valerio Verra nella nota di edizione a GEL, p. 74. In proposito si veda anche la mia nota editoriale in FdS, p. XLIX. Cfr. P. Szondi, La teoria hegeliana della poesia, trad. it. di A. M. Marietti, introd. di G. Garelli, Einaudi, Torino 2007, pp. 110 e 114-115.

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esteriore); per cui una composizione che si limitasse ad adornare con immagini un originario contenuto prosaico non potrebbe che risultare insoddisfacente: nella produzione poetica ci si potrebbe comportare così: prima pensare in prosa quel che deve essere manifestato, poi portarlo in immagini, in rima; di modo che l’immagine si aggiungerebbe alle riflessioni astratte semplicemente come ornamento ed abbellimento. Però tale modo di procedere potrebbe dar luogo solo a una cattiva poesia, poiché ciò che nella produttività artistica ha validità nella sua unità inseparata, opererebbe qui come attività separata11.

Verrebbe meno cioè proprio quell’“attività produttrice spirituale” che si serve del “lato sensibile” per conquistare la coscienza di sé12. Per altro verso, sempre nell’Estetica Hotho, e segnatamente nelle pagine dedicate alla poesia nel quadro del sistema delle singole arti, si manifesta invece la convinzione che gli elementi propriamente sensibili, per esempio quelli del suono (l’eufonia, il ritmo) – “Essendosi […] ritirato il contenuto spirituale dal materiale sensibile” – riducono la lingua a essere “solo un mezzo” per la comunicazione del contenuto autentico della poesia. Per cui, riadattando ed enfatizzando liberamente un’istanza della Poetica aristotelica circa la presunta sufficienza della lettura a far sì che la tragedia realizzi le sue proprietà (dià gar tou anagignoskein phanerà hopoia tis estin)13, Hegel può sostenere che nulla di una composizione poetica dovrebbe davvero andare perduto, nel caso di una sua trasposizione in prosa, o perfino in una traduzione: per quel che è propriamente poetico [für das eigentlich Poetische] è indifferente se un’opera di poesia è letta o ascoltata, ed essa può

11 12 13

Est, p. 49 (HW XIII, p. 61). Ibidem. Aristotele, Poetica XXVI, 62a11-13.

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anche essere tradotta in altre lingue senza che ne venga essenzialmente diminuito il valore, oppure può essere trasportata da rima in prosa e quindi posta in rapporti tonali interamente diversi14.

Si può naturalmente discutere sul grado di effettiva incoerenza di queste due citazioni, e anche sui margini di plausibilità di un’interpretazione che intendesse rivendicarne in qualche modo la compatibilità (è ben vero che per esempio rapporti tonali da una parte e metafore o immagini dall’altra non sono tra loro assimilabili, né di norma sono altrettanto facili da trasporre dalla lingua dell’originale alla lingua d’arrivo; ma il problema qui è più radicale, e riguarda in linea di principio la distinzione tra elemento estetico ed elemento concettuale in generale). Tale questione meriterebbe senz’altro un approfondimento immanente alle pagine dell’estetica hegeliana. Affrontarla non è però l’obbiettivo specifico del presente contributo; né è mia intenzione, in questa sede, tentare un’analisi complessiva del significato di questa fiducia hegeliana nella traducibilità universale del discorso poetico. Mi limiterò in proposito a formulare l’ipotesi seguente: lungi dal costituire un’astratta e univoca apologia del logos filosofico, questa istanza lascia trasparire una concezione assai più complessa della dialettica che è all’opera tra il residuo della funzione simbolica, propria della poesia e del linguaggio in generale, e l’elemento universale – entrambi caratteri costitutivi della Sprache, e che fanno di essa (se-

14

Est, p. 1078; HW, p. 228. Cfr. anche, per un riscontro letteralmente più fedele al dettato hegeliano, EH23, pp. 262-263 (VPhK, pp. 271-272): “un’opera poetica può venir letta, e si può anche tradurla in altre lingue, portarla in altri rapporti sonori. È indifferente se noi ascoltiamo o leggiamo un’opera poetica. La rappresentazione è l’elemento vero e proprio attraverso il quale la Cosa ci diviene obbiettiva”. Ma di nuovo, per contro, si veda tuttavia EH23, pp. 2324 (VPhK, pp. 21-22): “Sarebbe fare cattiva poesia trasportare in immagini un pensiero prosaico già precedentemente concepito, come appiccicare commenti e orpelli alla riflessione astratta; la produttività è piuttosto l’inseparatezza dello spirituale e del sensibile”; e soprattutto cfr. ancora EH23, p. 267 (VPhK, pp. 277): “Ora la rappresentazione, per essere poesia, deve essere conformata in modo tale che non sia un semplice comprendere; la Cosa quindi non deve essere in noi semplicemente nella guisa dell’intelletto, ma deve venirci davanti in immagine”.

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condo un celebre passaggio contenuto non per caso nel capitolo sulla ‘Certezza sensibile’ della Fenomenologia), proprio in quanto luogo della manifestazione della dialettica fra estetico e logico, un elemento “più veritiero [das Wahrhaftere]”15. Nelle considerazioni proposte di seguito cercherò dunque di mostrare come una riflessione sulla peculiarità di questa dialettica abbia molto da insegnare non solo, com’è ovvio, in vista di una ricostruzione storiografica più soddisfacente della concezione hegeliana della poesia, ma anche nella prospettiva di un’indagine su un caso esemplare di attività ermeneutica, quale è l’atto del tradurre. Non pretenderò con questo di confrontarmi con la letteratura critica sempre più specialistica sulla tecnica e la teoria della traduzione, che è esponenzialmente cresciuta negli ultimi decenni. Proporrò piuttosto qualche riflessione nella prospettiva di una filosofia della traduzione16.

3. La parolina “è” inquieta da secoli il pensiero. – In che cosa consiste questo collegamento per eccellenza, la copula, che unisce il soggetto alla parte nominale di un giudizio, per esempio “A è B”? Più in generale: in che modo si può porre la domanda per definizione tautologica, “che cos’è l’è?”. Fin dagli albori della filosofia, da problema grammaticale e linguistico, tale domanda è divenuta la questione per eccellenza, in cui logica e metafisica, ontologia e teoria della conoscenza determinano il loro interrogarsi sul reale e sul mondo: e dalle risposte che le sono state date, spesso affatto inconciliabili fra loro, dipende la natura inquieta e polemica che è peculiare del pensiero filosofico17. 15

16

17

FdS, p. 72 (GW IX, p. 65). Su questo complesso passaggio fenomenologico rimangono decisive le considerazioni di A. Massolo, “Die Sprache aber ist… das Wahrhaftere” (1964), in La storia della filosofia come problema, a c. di L. Sichirollo, Vallecchi, Firenze 1973, pp. 192-197. Riprendo nei paragrafi seguenti, in forma ampliata e talora significativamente modificata, i materiali presentati in G. Garelli, L’atto del tradurre. Questioni di filosofia del ‘linkaggio’, in «Multiverso», 10, 2010: Link, Forum, Udine 2010, pp. 45-48. Su questo aspetto si veda A. Moro, Breve storia del verbo essere. Viaggio al centro della frase, Adelphi, Milano 2010.

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Se prendiamo le mosse dal senso comune, ci accorgiamo per esempio che accade che questo talora ceda alla tentazione di sostituire semplicemente alla parolina “è” il segno dell’uguale “=”. Certo, non sempre il senso comune è ingenuo come pretenderebbe la filosofia. Eppure quante volte, magari prendendo appunti, si adotta per brevità una sorta di convenzione grafica per cui “A è B” si trascrive semplicemente nella forma di un’equivalenza del tipo “A = B”? Ovvio che non è richiesta la consulenza di un esperto in philosophicis per sapere che il segno di uguaglianza, lì, è improprio, nel senso che non può indicare un’identità. Potremmo dire che quell’uguale designa il legame della copula, eppure in questa sua funzione esso è rappresentazione convenzionale ma non rappresentanza ontologica: tant’è vero che non sarebbe lecito traslarne il mero valore per così dire algebrico in un contesto discorsivo. Un conto sarebbe stabilire, poniamo nello svolgimento di un’equazione, che “x = a” – qui l’uguaglianza autorizza a sostituire un determinato valore ovunque compaia l’incognita. Un altro conto sarebbe invece intendere nello stesso modo il valore della copula per esempio in una proposizione del tipo: “questo corpo è azzurro”. Per comodità, ripeto, se ne potrà certo annotare il contenuto nella forma “x = a”; ma non ci sarà bisogno di Platone per capire che questo determinato corpo e quel determinato colore in sé (qualcosa come l’idea platonica di azzurro, appunto) non sono affatto due nozioni equivalenti. Nelle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809), Schelling poteva così rilevare che la proposizione di cui sopra “non significa che il corpo, per ciò e in ciò in cui è corpo, sia anche azzurro, ma significa soltanto che quel qualcosa che è questo corpo, quantunque non sotto il medesimo aspetto, è anche azzurro”18. Per un certo rispetto, si può dunque scrivere con provvisoria e condizionata legittimità

18

F.W.J. Schelling, Sämmtliche Werke, a c. di K.F.A. Schelling, Cotta, StuttgartAugsburg 1860, vol. VII, p. 341; Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi sono connessi (1809), trad. it. di M. Losacco, riv. da F. Moiso, con un commentario a c. di A. Pieper, O. Höffe (1995), ed. it. a c. di F. Moiso, F. Viganò, introd. di F. Moiso, Guerini e Associati, Milano 1997, p. 84.

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“questo corpo è azzurro” = “x = a”

ma, per un altro verso, sarà più propriamente corretto dire che “questo corpo è azzurro” ≠ “x = a”

– e ciò sia detto non per vocazione lapalissiana, ma per illustrare, con un esempio affatto banale, come in quel particolare nesso che è costituito dalla copula sia implicita una dialettica di identità e differenza: grazie alla copula, in qualche modo, “l’identico è il diverso”. Ovvero, come ha osservato Heidegger proprio commentando il testo schellinghiano: il primo dei due termini, l’identità, qui “assume su di sé la possibilità” del diverso “come di una sua modificazione”; la differenza è solo nella misura in cui è appunto l’identità a garantirne la consistenza ontologica19. Che non ne vada, con ciò, solo di una nebulosa astrazione filosofica diviene più chiaro quando ci si interroghi su quel caso esemplare di nesso identità/differenza che è la mediazione implicita appunto nell’atto del tradurre, a partire dalla metafora che designa semanticamente questa operazione nelle principali lingue occidentali: nel latino traducere, che si ritrova poi nel francese traduire, nello spagnolo traducir, nell’inglese translate, e perfino (come calco) nel tedesco übersetzen. Si tratta dunque di un atto del ‘trasporre’, ossia – come ha osservato Georges Mounin – del “far passare, […] facilitare il passaggio da una lingua all’altra, […] trasportare”20. Bisogna però riflettere sul fatto che se la traduzione da una parte non è una mera trascrizione, cioè un’operazione compiuta solo “sulla forma scritta delle parole”, essa dall’altra non riguarda nemmeno un presunto puro contenuto, quasi fosse una semplice trasposizione: chi lo afferma non coglie la peculiarità vivente del tradurre, riducendolo a un banale atto meccanico (del resto: quand’è che i sistemi 19

20

M. Heidegger, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana (1936), a c. di E. Mazzarella, C. Tatasciore, trad. it. di C. Tatasciore, Guida, Napoli 1994, p. 147. G. Mounin, Teoria e storia della traduzione, trad. it. di S. Morganti, Einaudi, Torino 1965, p. 19.

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automatici di traduzione – nonostante la loro crescente affidabilità – suscitano tanta ilarità, se non appunto quando propongono soluzioni che finiscono per tradire il loro funzionamento sostanzialmente meccanico?).

4. Un modo fruttuoso per impostare dialetticamente questa contrapposizione forma/contenuto consiste piuttosto nel comprendere che il legame costituito dalla copula può farsi elemento dinamico ed esplicativo solo se siamo disposti a intenderla anche in modo transitivo, cioè non sempre e soltanto come sanzione di una mera posizione o stato, ma in qualche circostanza anche come segno di un di più – cioè di una donazione ontologica. In questa prospettiva, è opportuno fare ancora un passo indietro, nella storia della filosofia classica tedesca, per affiancare all’osservazione di Schelling l’analisi critica che Hölderlin e Hegel, un tempo suoi compagni al seminario teologico di Tübingen, hanno rivolto alla nozione di “giudizio” (intesa appunto, nel discorso apofantico o dimostrativo, come unione di un soggetto e di un predicato: “A è B”). Sottolineandone la lettera e l’etimologia (ancorché presunta), così scriveva Friedrich Hölderlin nel frammento Giudizio, possibilità, essere (1795): Giudizio [Urtheil] è nel senso più alto e più rigoroso l’originaria separazione dell’oggetto e del soggetto intimamente unificati nell’intuizione intellettuale, quella separazione mediante la quale soltanto diventa possibile oggetto e soggetto, la originaria partizione [Ur-Theilung]. Nel concetto di partizione è già contenuto […] il necessario presupposto di un intero di cui oggetto e soggetto sono parti21.

Vale a dire: l’intuizione (magari quella del corpo azzurro di cui sopra) è un che di unitario; invece il giudizio – apparentemente

21

F. Hölderlin, Urtheil und Seyn (1795), in Sämtliche Werke, a c. di F. Beissner, Cotta, Stuttgart 1946-62, vol. IV, p. 226; trad. it. Giudizio, possibilità, essere, in Sul tragico, a c. di R. Bodei, Feltrinelli, Milano 1980, p. 75.

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volto a garantire l’unità del reale attraverso la parolina “è” – non fa che scomporre tale unità in elementi (appunto: “questo corpo” + “azzurro”), affidandone poi la ricomposizione al soggetto giudicante. Abbiamo evidentemente a che fare qui con una denuncia del punto di vista kantiano, che secondo il giovane Hegel “si arresta semplicemente nell’antitesi [in dem Gegensatze verweilt]”22, ed è dunque incapace di pensare a fondo – appunto – l’identità dell’identità e della non-identità. Nel § 166 dell’Enciclopedia (1830³) Hegel avrebbe ribadito che in un giudizio come “A è B” gli elementi della relazione “sono posti come essenti per sé e, al tempo stesso, come a sé, non come identici l’uno all’altro”23. L’atto del giudicare, ossia quell’operazione del soggetto cui Kant attribuiva un valore sintetico e costruttivo per eccellenza, costituisce piuttosto per Hegel un momento fondamentalmente diairetico, dal momento che presenta le proprie componenti nella loro isolata separatezza24. Al di là di ogni apparente tecnicismo nella formulazione di questi pensieri, la posta qui in gioco è piuttosto concreta. Hegel vuol dire: se siamo interessati a capire davvero la complessità dell’affermazione “A è B”, non possiamo accontentarci di porla come un factum brutum nella sua immediatezza, bensì dobbiamo ricostruirne la ragione. Ma ciò è possibile solo se si è disposti a cercare, nella copula, quel percorso di mediazione che ha portato ad affermare appunto che “A è B”. È questo il significato della celebre affermazione della Fenomenologia dello spirito (1807) secondo cui “il vero è il tutto”25. La complessa verità dell’intero sta cioè nella sua storia processuale, e dunque nella domanda: come?, ovvero: a quali condizioni si è giunti a stabilire quella determinata identità? Il dato deve lasciare il posto al processo insieme con il suo risultato; il che, al perché; il giudizio, infine, al sillogismo. Potremo insomma sensatamente enunciare che “A è B” solo se sapremo ricostruire l’attività di quel medio (‘M’) che consente tale affermazione. Nei termini

22 23 24 25

PSC, p. 137 (GW IV, p. 325). GEL, p. 387 (GW XX, p. 182). Cfr. G. Chiurazzi, Teorie del giudizio, Aracne, Roma 2005, pp. 61-72. FdS, p. 15 (GW IX, p. 19).

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della logica tradizionale, ‘M’ altro non sarebbe che il termine medio del sillogismo di prima specie: “A è M” (premessa maggiore) “M è B” (premessa minore) dunque, “A è B” (conclusione). Ciò significa che l’intero processo è legittimato solo dal collegamento che unisce i due estremi, anche se nella conclusione esso scompare. Volendo alludere alla portata teologica che la mediazione del Logos riveste nel pensiero hegeliano e più in generale nella filosofia dell’idealismo classico tedesco, si potrebbe forse aggiungere, non meno legittimamente: se si vuole capire in che senso “A è B”, bisogna indagare la portata implicita del sacrificio di ‘M’26.

5. Si provi a immaginare, ora, che l’unione di ‘A’ e ‘B’, nel giudizio “A è B”, corrisponda alla relazione che sussiste fra l’originale (‘O’) e la sua traduzione (‘T’). In che senso si può dire dunque che “O è T”? Va da sé, non certo in quello di una mera identità (“O = T”): la traduzione è infatti copia, trasposizione non solo da una lingua a un’altra, ma anche (e in molti possibili sensi) da un orizzonte a un altro. Nel migliore dei casi essa, come recita il titolo di un libro di Umberto Eco dedicato proprio a questo tema, riesce a Dire quasi la stessa cosa27 – ma appunto: quasi. Eppure non si tratta soltanto di rassegnarsi all’ineluttabilità del declino, o di arrendersi alla consapevolezza – ahi quanto dolorosa, per chiunque si accinga a tradurre per esempio un classico – della verità dell’affermazione di Franz Rosenzweig: “für den Übersetzer gibt es eigentlich kein gut und besser, sondern nur ein schlecht und weniger schlecht”28. Piuttosto si tratta di riconoscere come, su questo punto, Hans-Georg 26

27

28

Su questo aspetto cfr. G. Garelli, Lo spirito in figura. Il tema dell’estetico nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 87-96. Cfr. U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano 2003. F. Rosenzweig, Briefe, Schocken, Berlin 1935, p. 625.

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Gadamer abbia probabilmente avanzato un’osservazione decisiva, sottolineando come la mimesis – e la traduzione è senz’altro, in qualche modo, una forma di mimesi d’un testo – non sia semplice riproduzione o copia contraffatta dell’originale, ma svolga un ruolo decisivo nel conferire e nel far riconoscere all’originale stesso la propria realtà e verità. Si può parlare, a questo proposito, di accrescimento ontologico, cioè di liberazione di significati latenti capaci di mettere in luce virtualità proprie dell’originale, che uno sguardo reso ottuso dall’abitudine rischierebbe altrimenti di lasciarsi semplicemente sfuggire29. In questo senso, l’affermazione benjaminiana secondo cui “una traduzione, per quanto buona, non [può] mai significare niente per l’originale”, richiederà di essere messa almeno parzialmente in questione30. È infatti anche a partire dalle sue traduzioni che l’originale merita davvero di essere considerato come tale: ecco perché la traduzione costituisce un’attività ermeneutica per eccellenza. Se ‘O’ non è identico a ‘T’, esso è comunque anche ‘T’, ovvero lo è non assolutamente ma in un certo senso, perché ‘T’ ne costituisce un’interpretazione, ne libera alcune virtualità significative, contribuendo alla realizzazione della sua storia degli effetti. ‘T’ senza ‘O’ non sarebbe; ma anche ‘O’ senza ‘T’ sarebbe qualcosa di meno – perderebbe in qualche misura, per quanto magari minuscola e apparentemente insignificante, la propria consistenza storica e ontologica. – Ma di nuovo: che cosa, se non l’atto del tradurre, costituisce qui il termine medio, quel legame che permette di intendere la verità di “O è T” non come mera identità di contenuti trasposti in forme diverse, bensì come una transitiva donazione di senso?

6. Torniamo dunque in conclusione all’affermazione hegeliana della traducibilità universale della poesia, e ai paradossi cui essa sembrerebbe condurre in nome di una concezione apparentemente 29

30

H.-G. Gadamer, Verità e metodo (1960), a c. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983, pp. 168-179. W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a c. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1981, p. 41.

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votata al sacrificio di ciò che è autenticamente estetico nell’atto della creazione poetica – il sacrificio per esempio della metafora, del ritmo, dell’eufonia; disposta addirittura al sacrificio della parola stessa, e in ultima analisi del linguaggio nella sua concretezza storica. Il presente discorso aveva preso le mosse, si ricorderà, dalla necessità di pensare e scrivere di filosofia nella propria lingua nativa, in quanto unico medium capace di restituire la fluidità del pensiero, sottraendolo alla sua tendenza all’ossificazione e alla fossilizzazione in qualcosa di statico e di fisso. Ma come conciliare questa istanza con la pretesa appunto della traducibilità universale, ossia con la fiducia nell’esistenza di un unico logos universale capace di rendere conto appieno del manifestarsi dello spirito?31 Una possibile risposta di matrice hegeliana a questo apparente paradosso può venire da un’analisi condotta dall’interno della dinamica propria dell’atto del tradurre, esaminando il rapporto che si è visto intercorrere fra originale e traduzione. Da una parte la Sprache, che è “più veritiera” del senso, nella sua funzione universale esige che il contenuto spirituale debba potersi comunicare in forma linguistica a ciascun essere umano, indipendentemente dalle condizioni contingenti nelle quali si trova – e indipendentemente, potremmo aggiungere, da quale sia la lingua di arrivo di questo movimento. Dall’altra, la stessa pulsione che spinge lo spirito a manifestarsi, e a manifestarsi come logos – ovvero eminentemente in forma linguistica –, riguarda (non può non riguardare) appunto la particolarità delle lingue storiche, che nella loro concretezza rappresentano una sorta di indispensabile corrispettivo estetico alla manifestazione logica dello spirito, ne sono per così dire l’inaggirabile e indispensabile residuo simbolico32: come si diceva, lo spirito 31

Nell’utilizzare la nozione hegeliana di “spirito” ho presente, in queste pagine, il volume Lo spirito. Percorsi nella filosofia e nelle culture, a c. di M. Pagano, Mimesis, Milano-Udine 2011 (in particolare i contributi del curatore: Introduzione. Un percorso tra le culture e nella filosofia, pp. 13-61; e Lo spirito nel pensiero di Hegel, pp. 345-70). Ho discusso questo volume, anche in esplicito riferimento alle tematiche qui proposte, in «Intersezioni», 1, 2013, pp. 176-181. 32 Ho cercato di restituire il senso di questo tema (nel senso etimologico: questa posizione o positività dell’estetico) in G. Garelli, Lo spirito in figura, cit., al

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può infatti aspirare all’universalità del significato solo ed esclusivamente manifestandosi (esteticamente, linguisticamente) negli orizzonti definiti, costituiti dai singoli idiomi storici. Nel saggio sul Compito del traduttore (1921), dando voce a quell’autentico messianismo linguistico che lo portava a confidare nell’originaria affinità delle lingue tra loro, Walter Benjamin – ormai ben al di là della stagione idealistica – avrebbe sostenuto che nella traduzione “la vita dell’originale raggiunge, in forma sempre rinnovata, il suo ultimo e più comprensivo dispiegamento”; poiché anche nell’ambito della traduzione vale: en arché en ho logos, all’inizio era la parola […]. Anzi il valore della fedeltà, che è garantita dalla letteralità, è proprio questo: che si esprima, nell’opera, la grande aspirazione all’integrazione linguistica33.

Mentre tuttavia, secondo la prospettiva di Benjamin, nell’atto del tradurre l’originale trapassa “per così dire, in una zona superiore e più pura della lingua, in cui a lungo andare non può vivere”34, in quella hegeliana (o post-hegeliana) qui presentata se il carattere non statico, e dunque il movimento speculativo, della dialettica deve conservare un qualche insegnamento, esso non può risolversi tout court né in una “lingua della verità”, intesa come “vera lingua” del dispiegarsi anestetico del concetto, né tantomeno in una lingua ideale, “nel presentire e descrivere la quale”, per dirla ancora con Benjamin, “è la sola perfezione cui il filosofo può aspirare”, privo com’è di una “musa della traduzione”35. Alla luce delle considerazioni che si è cercato di proporre, mi parrebbe piuttosto che anche un’affermazione storiografica neuquale rimando per un inquadramento complessivo della questione in riferimento almeno alla Fenomenologia dello spirito. Sulla questione del simbolico, sia pure in una prospettiva leggermente diversa da quella qui prospettata, cfr. P. D’Angelo, Simbolo e arte in Hegel, Laterza, Roma-Bari 1989; nonché la dissertazione di dottorato di M. Farina, La struttura simbolica dell’arte in Hegel, Università del Piemonte Orientale, 2012. 33 W. Benjamin, Il compito del traduttore, cit., pp. 42, 49. 34 Ibidem, p. 45. 35 Ibidem, p. 47.

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trale come quella del linguista Georges Mounin secondo cui sarebbero “ragioni legate all’esegesi religiosa” ad aver avviato “il lavoro specifico di traduzione verso una definizione sempre più sottile”36 finisca per assumere un significato filosofico nuovo e ben più impegnativo di quanto (forse, probabilmente) non intendesse il suo stesso autore. In una parola: se, come scrive ancora questo padre della moderna traduttologia, “Cristianizzare equivale sempre a tradurre”37, ecco che proprio in tale indicazione potrebbe nascondersi, per chi raccolga l’eredità della dialettica hegeliana, una sfida ermeneutica tanto più istruttiva quanto più essa appare delicata, rischiosa, e a un tempo promettente.

36 37

G. Mounin, Teoria e storia della traduzione, cit., p. 19. Ibidem, p. 33.

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Tavola delle abbreviazioni I testi hegeliani sono citati sulla base delle edizioni elencate qui di seguito. La sigla è seguita (ove necessario) dal volume (in cifra romana) e dall’indicazione della pagina (in numero arabo). Le traduzioni sono state in molti casi ritoccate, per ragioni di correttezza o di uniformità lessicale.

AJ

Aforismi. Il quaderno d’appunti di Jena, a c. di C. Vittone, premessa di R. Bodei, Vittone Editore, Monza 2006.

ÄL

Vorlesungen über die Ästhetik. I – Die Idee und das Ideal, a c. di G. Lasson, Meiner, Leipzig 1931.

BvaH

Briefe von und an Hegel: von 1785 bis 1812, a c. di J. Hoffmeister, Meiner, Hamburg 1969³.

EHd

Enciclopedia (Heidelberg 1817), a c. di F. Biasutti, L. Bignami, F. Chiereghin, G.F. Frigo, G. Granello, F. Menegoni e A. Moretto, Verifiche, Trento 1987.

EH23

Lezioni di estetica. Corso del 1823 – Nella trascrizione di H.G. Hotho, a c. di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2000.

Enc

Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a c. di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1989.

Ep I

Epistolario I (1785-1808), a c. di P. Manganaro, Guida, Napoli 1983.

Ep II

Epistolario (1808-1818), a c. di P. Manganaro, Guida, Napoli 1988.

Est

Estetica, a c. di N. Merker, N. Vaccaro, pref. di S. Givone, Einaudi, Torino 1997.

FdS

La fenomenologia dello spirito. Sistema della scienza, parte prima, a c. di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008.

FSJ

Filosofia dello spirito jenese, a c. di G. Cantillo, Laterza, Roma-Bari 2008. 299

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GEL

Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Parte prima: la Scienza della Logica, a c. di V. Verra, Utet, Torino 1981.

GW

Gesammelte Werke, a c. della Rheinisch-Westfälische Akademie der Wissenschaften e della Deutsche Forschungsgemeinschaft, Meiner, Hamburg 1968 ss.

HW

Werke, 20 voll., a c. di E. Moldenhauer, K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1970.

LFD

Lineamenti di filosofia del diritto, a c. di G. Marini, con le Aggiunte di E. Gans a c. di B. Henry, Laterza, RomaBari 2010.

LStF

Lezioni di storia della filosofia, a c. di E. Codignola, G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1981 ss.

PhKK

Philosophie der Kunst oder Ästhetik – Nach Hegel. Im Sommer 1826 – Nachschrift Friedrich Carl Hermann Victor von Kehler, a c. di A. Gethmann-Siefert, B. CollenbergPlotnikov, Fink, München 2004.

PSC

Primi scritti critici, a c. di R. Bodei, Mursia, Milano 1990.

SL

Scienza della logica, a c. di A. Moni, riv. da C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1988.

STG

Scritti teologici giovanili, a c. di E. Mirri, trad. it. di N. Vaccaro, E. Mirri, Guida, Napoli 1989.

VPhK

Vorlesungen über die Philosophie der Kunst, a c. di A. Gethmann-Siefert, Meiner, Hamburg 2003.

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Indice dei nomi

Addison, J. – 166 Adorno, Th. Wiesengrund – 8n, 9, 9n, 30, 30n, 48, 206, 235, 237n, 255n, 265 Agazzi, E. – 195n, 209n, 224n, 248n, 249n, 250n, 263n, 265n Alcibiade – 155, 156 Allodi, L. – 177n Amipsia – 150, 155 Amoroso, L. – 22, 249n Anassagora di Clazomene – 129, 145, 151, 158 Anceschi, L. – 269 Anders, G. (G. Stern) – 8, 8n Anonimo del Sublime – 165, 168, 176 Anselmo di Canterbury (o di Aosta) – 90n Antonelli, E. – 22 Arac, J. – 166n Arendt, H. – 53, 54, 54n Argenton, B. – 169n Aristofane – 5, 16, 17, 20, 123, 123n, 124, 124n, 125, 125n, 126, 126n, 127, 127n, 128, 128n, 129, 129n, 130, 130n, 135n, 136, 136n, 138, 139, 139n, 141, 144, 145, 145n, 146, 147, 147n, 148, 149, 149n, 150, 151, 152, 152n, 153, 153n, 154, 154n, 155, 155n, 157, 157n,

158, 160, 161, 161n, 162, 162n, 163 Aristotele – 32n, 151, 152, 158, 170, 177n, 185, 188, 196, 197, 197n, 200, 207, 214, 225, 225n, 235, 271, 271n, 272, 273, 273n, 274n, 276n, 277n, 278, 278n, 279, 279n, 280n, 287n Arnold, F. – 203, 206 Aspasia – 145 d’Aubigné, T.-A. – 108, 226 Bahnsen, J. – 210n Bassani, F. – 185n Bassenge, F. – 234 Baumgarten, A.G. – 242 Becchi, P. – 108n Beissner, F. – 45n, 292n Benjamin, W. – 154, 154n, 210n, 219, 235, 295n, 297, 297n Bernhard, T. – 18n Betti, E. – 250n Beyer, W.R. – 136b Biasutti, F. – 299 Biemel, W. – 227n Bignami, L. – 299 Blake, W. – 166 Bloch, E. – 29, 29n Bloom, H. – 166n Blumenberg, H. – 169, 169n Bobbio, N. – 136n

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Bodei, R. – 8n, 11n, 14n, 18n, 29n, 45n, 81n, 96n, 165, 165n, 167n, 168, 168n, 174n, 175, 175n, 177n, 188n, 193n, 197n, 223, 223n, 254n, 283n, 284n, 292n, 299, 300 Boeckh, A. – 257 Böhme, J. – 37 Bollack, J. – 195n, 200n, 248, 249n, 250n, 252, 252n, 255, 256, 256n Bonaventura da Bagnoregio – 35 Bonhoeffer, D. – 25n Borghesi, M. – 77n Borruso, G. – 90n Borsano Fiumi, A. – 198n, 248n Borso, D. – 124n Bouchard, M. – 51n Bourgeois, B. – 39n Bovoli, F. – 42n Brandom, R. – 118n Brencio, F. – 23n Brioschi, F. – 81n Brown, M. – 166n Büchner, G. – 106, 106n, 205, 222, 224 Burbridge, J.W. – 64n, 84n Burke, E. – 166, – 168 Butler, J. – 119n Buzzo Margari, R. – 247n Calabrò, G. – 237n Calderón de la Barca, P. – 208, 221 Canfora, L. – 107n, 147n, 150n, 151n, 152, 152n, 163n Canguilhem, G. – 185, 185n, 186 Cantillo, G. – 299 Cantimori Mezzomonti, E. – 235n

Caputo, R. – 39n Caramelli, E. – 55n, 107n, 133n Carboncini, S. – 90n Carchia, G. – 171n, 172, 172n, 183n Cases, C. – 105, 105n, 106, 106n, 108, 132n, 196, 196n, 200n, 209, 209n, 213, 225n, 247n, 248n, 255n Cassin, B. – 150n Celan, P. (P. Antschel) – 250n, 263, 263n Cesa, C. – 175n, 178n, 300 Cetti Marinoni, B. – 200n, 245n Charney, M. – 123n Chiereghin, F. – 82n, 179n, 299 Chiodi, P. – 24, 29n Chiurazzi, G. – 55n, 293n Chladenius, J.M. – 251 Cleone – 145, 146, 148, 152 Codignola, E. – 300 Collenberg-Plotnikov, B. – 123n, 300 Colzani, G. – 103n Cometa, M. – 198n, 203n, 208n, 210n, 213n, 226n Conte, A.G. – 213n, 259n Corti, L. – 33n, 118n Cramer, K. – 28n, 57n Cratino – 162 Croce, B. – 166, 198, 235, 299 Cuniberto, F. – 154n Cusatelli, G. – 200n, 245n, 247n Czerkl, E. – 42n D’Acunto, G. – 21, 195n, 250n Dallapiccola, L. – 8n Dalmasso, G. – 150n

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Dal Pra, M. – 61n, 109n, 243n Damiani, R. – 42n D’Angelo, P. – 169n, 190n, 228n, 229n, 297n, 299 Danto, A.C. – 166n, 176n, 240n Danton, G.J. – 106, 205, 222, 223, 224 Davide – 74 De Angelis, E. – 237n De Boer, K. – 119n, 123n, 124n Degli Alberti, V. – 139n De Man, P. – 166n De Negri, E. – 10, 65n, 96n, 100n, 103n, 121n Denker, A. – 100n De Nonno, M. – 129n Descartes, R. (Cartesio) – 24, 24n, 186 Desmond, W. – 130n, 131n, 161n, 162n, 163n De Toni, G.A. – 61n, 109n, 243n De Vos, L. – 123n Di Benedetto, V. – 163n Di Cesare, D. – 41n Diderot, D. – 157n Dilthey, W. – 246, 257, 259 Dini, G. – 110n Diogene Laerzio – 162n Dionigi di Siracusa – 162 Dottori, R. – 39n, 249n Duque, F. – 156, 157n Düsing, K. – 123n, 154n Eco, U. – 294, 294n Endel, N. – 12 Engels, F. – 235n Epaminonda di Tebe – 225 Epitteto – 67

Eschilo – 48, 108, 111, 134, 137, 138, 139, 141, 157, 225 Eupoli – 150 Euripide – 129, 137, 138, 139, 141, 149, 153, 153n, 158, 163 Fackenheim, E.L. – 39n Farina, M. – 12n, 112n, 117n, 228n, 283n, 297n Fatica, O. – 42n Feloj, S. – 169n Ferguson, F. – 166n Ferm, V. – 11n, 77n, 279n Ferrari, F. – 163n Ferrario, E. – 119n Ferrario, F. – 51n Ferraris, M. – 251n, 262n, 267n, 270n Fidia – 129, 145, 234 Figal, G. – 250n Finzi, S. – 54n Fortunati, V. – 166n Franci, G. – 166n Friedrich, C.D. – 166 Frigo, G.F. – 69n, 77n, 157n, 299 Frilli, G. – 23n Fry, P.H. – 166n Fulda, H.-F. – 179n Fusillo, M. – 153n Füssli, J.H. – 166 Gadamer, H.-G. – 246, 247, 248, 249, 249n, 252, 253, 256, 257, 267, 269, 270, 271, 272, 274, 274n, 295, 295n Galimberti, P. – 227n Gans, E. – 300 Gargiulo, A. – 169n, 190n

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Gentili, C. – 8n, 22, 72n, 112n, 115n, 116n, 132n, 226n, 269, 269n, 271, 271n, 280n Gethmann-Siefert, A. – 123n, 131n, 227n, 228, 228n, 229, 229n, 240n, 300 Giacché, V. – 179n, 184n, 192n Gianni, C. – 29n Gigante, M. – 162n Gilodi, R. – 117n, 170n, 195n, 231n, 236n, 250n Gioacchino da Fiore – 76, 77n Giovanni il Battista – 46, 52 Giovanni Evangelista – 37, 42, 76, 81, 81n, 142 Girard, R. – 42, 42n Giuda Iscariota – 142 Giuspoli, P. – 39n Givone, S. – 72n, 105n, 107n, 132n, 170n, 206n, 214n, 219n, 220n, 225n, 237n, 258n, 299 Goethe, J.W. – 117n, 170n, 197n, 199, 199n, 202, 216, 231, 231n, 232, 254n, 256, 262n Goldmann, L. – 110n Gorgia da Lentini – 139, 153, 153n Granello, G. – 299 Gruppi, L. – 235n Gryphius, A. – 221, 258 Guastini, D. – 119n, 197n Guillet, J. – 103n Gusdorf, G. – 270n Haas, B. – 239n Harris, H.S. – 64n, 66n, 67n, 69n, 78n, 81n, 83n, 84n, 90n, 94n, 103n, 125n, 130n, 138n, 141n, 142, 146n, 148,

148n, 152n, 153n, 155n, 156n, 159n Hartman, G.H. – 166n Hartmann, N. – 177n Haym, R. – 233 Hebbel, F. – 210n, 217 Heidegger, M. – 5, 8n, 14, 15, 20, 23, 23n, 24, 24n, 26, 26n, 28, 29, 29n, 30, 30n, 31, 31n, 32, 32n, 33, 33n, 34, 34n, 35, 35n, 36, 36n, 37, 37n, 38, 38n, 41n, 212, 246, 248, 249n, 251, 256, 291, 291n Henckmann, W. – 233n Henrich, D. – 90n Henry, B. – 300 Herwig, J.J. – 128n Höffe, O. – 290n Hoffmeister, J. – 299 Hölderlin, F. – 45, 45n, 102n, 142, 142n, 213n, 214, 225, 249, 249n, 263, 263n, 269, 292, 292n Holtermann, M. – 124n, 126n, 152n, 157n, 162n Horkheimer, M. – 206 Horstmann, R.-P. – 28n, 57n, 179n Hotho, H.G. – 17, 127, 130n, 153n, 154n, 157n, 161, 170, 215, 227, 227n, 228, 229, 239, 241, 286, 287, 299 Hubay, M. – 224n Hugo, V. – 166 Husserl, E. – 31 Hyppolite, J. – 61, 61n, 62n, 63, 64n, 72n, 74n, 81, 81n, 83, 83n, 85, 98n, 109, 109n, 185, 243, 243n

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Iannelli, F. – 21, 39n, 112n, 123n, 239n Illetterati, L. – 39n Isocrate – 153n Italia, C. – 166n Jagentowicz Mills, P. – 119n Janowski, F. – 96n Jauss, H.-R. – 157, 157n, 269 Jonas, H. – 85n Jung, M. – 270n Kant, I. – 23, 24, 27, 33, 33n, 44, 45, 81n, 85n, 166, 166n, 169, 169n, 170, 170n, 171, 171n, 172, 173, 174n, 175, 176, 177n, 178, 178n, 179n, 181, 182, 182n, 183, 183n, 184, 186, 187, 188, 190, 190n, 293 Kehler, K.H.V. von – 300 Kenny, A. – 25n, 33n Kerényi, K. – 108, 203, 204, 206, 211, 220 Kierkegaard, S. – 40, 69n, 106, 124, 124n, 131, 212, 217 Kinlaw, L.C. – 100n Kirchmann, J.H. von – 210n Kleist, H. von – 222 Koch, A.F. – 136n Köhler, D. – 66n Kojève, A. – 16, 66n, 76n, 77n, 157, 157n, 158 Kommerell, M. – 210n König, C. – 108n, 195n, 203n, 250n Körner, J. – 210n Kuhn, H. – 233, 233n Küng, H. – 96n

La Guardia, G. – 195n, 250n – Lämmert, E. – 196n, 199n Landucci, S. – 65n, 66n La Rosa, D. – 81n Lasson, G. – 60, 299 Lauro, P. – 8n Law, S.C. – 123n, 128n, 130n, 131n, 141n, 153n Léon-Dufour, X. – 103n Leopardi, G. – 168n Leverd, C. – 42n Licurgo – 41 Loewenberg, J. – 130n, 140n, 159n Lombardo, A. – 232n Losacco, M. – 290n Löw, R. – 177n Löwith, K. – 77n, 79n, 271 Lowy, M. – 110n Luca Evangelista – 52, 81 Luchetti, A. – 119n Lugarini, L. – 179n Lukács, G. – 106, 107, 210n, 233, 234, 234n Lunari, G. – 105n, 132n, 196n, 235n, 255n Luther, M. (Lutero) – 284 Lyotard, J.-F. – 166, 167, 167n Maer, W. – 123n Manganaro, P. – 299 Mann, O. – 210n Marco Aurelio imperatore – 67 Marco Evangelista – 53, 54 Marconi, D. – 267n Marcuse, H. – 110n Marini, G. – 300 Marini, N. – 111n

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Marquard, O – 171, 171n Martinengo, A. – 22 Marx, K. – 135n, 136n, 235, 235n Marx, W. – 27n, 35n, 55n, 65n, 66n, 69n Marzullo, B. – 129n, 145n, 147n, 149n, 155n Massolo, A. – 91n, 289n Mattenklott, G. – 209, 209n, 213, 226, 248n Matteo Evangelista – 52, 53, 93 Mazzarella, E. – 26n, 291n McFadden, G. – 130n, 147n Mendola, G. – 39n Menegoni, F. – 179n, 299 Merker, N. – 299 Michel, K.M. – 300 Michelini, F. – 108n Miranda, G. – 177n Mirri, E. – 300 Moiso, F. – 290n Moldenhauer, E. – 300 Moni, A. – 300 Monk, S. – 165n Montani, P. – 44n, 114n, 119n, 129n Montefusco, W. – 120n, 137n, 191n Morani, R. – 20, 24n, 108n Moretti, G. – 29n Moretto, A. – 299 Morganti, S. – 291n Moro, A. – 289n Mosè – 41 Most, G.L – 81n Mounin, G. – 291, 291n, 298, 298n Moyar, D. – 64n, 117n

Muhr, C. von – 12 Naïr, S. – 110n Nancy, J.-L. – 12, 12n, 81n Negri, Antimo – 213n, 219n, 226n Negri, Antonio – 100n Negri, I. – 119n Newman, B. – 166, 166n, 167 Nietzsche, F. – 24n, 139, 150, 217 Nohl, H. – 39, 63 Novalis (F. von Hardenberg) – 101n Novello, N. – 20 Nussbaum, M.C – 44n, 119n Occhetto, F. – 63n, 111n Oldrini, G. – 238n Omero – 232, 284 Paci, E. – 63n Pagano, M. – 23n, 25n, 77n, 103n, 296n Panella, G. – 165n, 170n, 172n Paolo di Tarso – 47, 78n, 85n, 86 Paolucci, A. – 123n, 131n, 160n Pareyson, L. – 236, 237n, 175, 175n Pascal, B. – 165 Pericle – 129, 145, 149 Petrucciani, S. – 9n, 30n Pezzano, R. – 153n Pezzetta, D. – 96n Picco, E. – 234n Pieper, A. – 290n Pierini, M.N. – 110n Pierini, T. – 179n

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Pinkard, T. – 64n, 69n, 70n, 100n, 101, 101n, 116, 117, 117n, 118, 118n, 121n, 149n, 283n Pinna, G. – 175n, Piovani, P. – 100n Pippin, R.B. – 101n Pirro, M. – 20 Pitagora di Samo – 156 Pizzigrilli, M. – 195n, 250n Platone – 134, 139, 147n, 148, 151, 162, 162n, 163, 163n, 290 Plauto, Tito M. – 125 Pleines, J.-E. – 177n Pöggeler, O. – 64n, 65n, 66n, 102n, 125n Potestà, G.L. – 77n Preve, C. – 8n Proclo – 11n Protagora di Abdera – 159 Quante, M. – 64n, 117n, 136n Queneau, R. – 77n, 157n Racine, J. – 222 Raio, G. – 195n, 250n Rameau, J.P. – 157, 157n Ranchetti, M. – 11n Ravera, M. – 270n Ricoeur, P. – 267 Rilke, R.M. – 263, 263n Ripanti, G. – 277n Roche, M.W. – 123n, 127n, 136n, 137n Rognoni, C. – 150n Rorty, R. – 118n, 175, 268 Rosenkranz, K. – 18, 18n, 283, 284n, 285, 285n

Rosenzweig, F. – 11, 11n, 294, 294n Rossi, L. – 25n Rötscher, H.T. – 124, 125, 125n, 136n Rousseau, J.-J. – 33n, 147 Ruchat, A. – 8n Ruggiu, L. – 23n Ruini, C. – 177n Ruschi, R. – 45n Sacchi, E. – 118n Saint-Girons, B. – 165n Salizzoni, R. – 22 Salzani, C. – 120n, 137n, 191n Sandbach, F.H. – 129n, 146n, 150n, 162n Sanna, G. – 300 Sanò, L. – 132n Sartori, A. – 69n, 117n, 149n Scattola, M. – 44n, 119n Schapiro, G. – 123n Scheler, M. – 217 Schelling, F.W.J. – 58, 102n, 199, 199n, 205, 206, 209, 211, 214, 224, 227n, 290, 290n, 291n, 292 Schelling, K.F.A. – 290n Schiaffino, G.A. – 250n Schiavoni, G. – 154n Schick, F. – 136n Schiller, F. – 180, 222, 256 Schlegel, F. – 101n, 124n, 166 Schleiermacher, F.D.E. – 209, 251, 251n, 263, 270n Schlosser, J.G. – 128n Schneider, H. – 123n, 125n, 128n Schopenhauer, A. – 95, 218

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Schulte, M. – 127n, 160n Sellars, W. – 118, 118n Senaldi, M. – 166n Senofane di Colofone – 134 Serra, F. – 30n Sertoli, G. – 165n Severino, G. – 108n, 112n, 115n, 116n Shakespeare, W. – 48, 125, 133 Siani, A.L. – 12n, 112n, 116n, 228n Sichirollo, L. – 91n, 289n Simmel, G. – 217 Simon, J. – 55n, 177n Snell, B. – 138, 139, 139n Socrate – 116n, 124, 124n, 126, 128n, 129, 136, 138, 139, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 154n, 155, 156, 157, 157n, 158, 159, 161, 163 Sofocle – 106n, 107, 112, 115n, 116n, 117n, 133, 137, 204, 220, 225, 232, 234 Sofrone di Siracusa – 162n Solger, K.W.F. – 214 Solmi Marietti, A. – 9n, 30n, 139n, 170n, 199n Solmi, R. – 295n Solone – 41 Spaemann, R. – 177n Sparr, T. – 108n, 203n, 225n Spoerri, T. – 198n Sponde, J. de – 106, 108, 226 Staiger, E. – 198, 198n, 210n, 235, 247, 248, 248n Steiner, G. – 111, 111n, 120, 120n Steiner, W. – 176n

Stewart, J. – 64n, 119n Stimilli, E. – 11n Suhrkamp, P. – 212 Surber, J.P. – 55n Szondi, L. – 224, 224n Szondi, P. – 5, 7n, 17, 18, 21, 71, 72n, 105, 105n, 106, 106n, 107, 107n, 108, 108n, 110, 117n, 126, 126n, 132, 132n, 170. 170n, 171, 195-226, 227-243, 245-266, 269, 270n, 273, 286, 286n Tartarini, C. – 12n Tassoni, L. – 213n Tatasciore, C. – 291n Taubes, J. – 11n, 77n, 99n, 279n Tenenbaum, K. – 119n Testa, I. – 69n, 117n, 149n Thouard, D. – 250n Tommaso apostolo – 81n Tota, E. – 79n Tucidide – 129, 149 Turner, W. – 166 Unseld, S. – 204, 205, 206, 207, 211, 226 Untersteiner, M. – 154n Vaccaro, N. – 299, 300 Valagussa, F. – 123n, 157n, 162n Valéry, P. – 265 Van Ghert, P. – 284n Vater, M. – 100n Vattimo, G. – 31, 31n, 136n, 251n, 267n, 268, 268n, 270n, 274n, 295n Vercellone, F. – 21, 72n, 105n,

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117n, 132n, 170n, 195n, 199n, 206n, 217n, 219n, 231n, 250n, 258n Verra, V. – 81n, 169n, 174n, 177, 178n, 179n, 180, 181n, 187n, 189, 189n, 190n, 193n, 286n, 300 Viano, C. – 195n, 249n Vieweg, K. – 21, 136n Viganò, F. – 290n Vigolo, G. – 142n Vinci, P. – 44n, 69n, 93n, 97n, 114n, 115n, 120n, 129n Vischer, F.T. – 214 Vittone, C. – 299 Vizzardelli, S. – 242n Voss, J.H. – 284 Wahl, J. – 62, 63, 63n, 64n, 65,

65n, 66, 66n, 67n, 81, 81n, 99, 99n, 101n, 102n, 108, 110, 110n Wandschneider, D. – 69n Weber, M. – 82 Wellek, R. – 232, 232n Welsch, W. – 167n Westphal, K.R. – 82n Wieland, W. – 5, 18, 22, 267-281 Wiese, B. von – 210n Winckelmann, J.J. – 117, 199 Wirsing, C. – 136n Wittgenstein, L. – 213n, 259, 259n Wohlfahrt, G. – 179n Zenobi, L. – 20 Žižek, S. – 120n, 137n, 191n, 193n

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Finito di stampare nel mese di giugno 2015 a cura di PDE Spa presso LegoDigit s.r.l. – Lavis (TN)

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