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Italian Pages 144 Year 2019
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Filosofia e politica
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Stefano Catucci Potere e visibilità Studi su Michel Foucault
Quodlibet
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Prima edizione: dicembre 2018 Prima ristampa: maggio 2019 © 2018 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di nw srl presso lo stabilimento di LegoDigit srl, Lavis (tn) ISBN 978-88-2290-303-7 | e-ISBN 978-88-229-1022-6
Collana diretta da Elettra Stimilli Comitato scientifico: Emanuele Coccia, Dario Gentili, Federica Giardini, Paolo Napoli, Judith Revel, Massimiliano Tomba
Volume pubblicato con il contributo del DiAP Dipartimento di Architettura e Progetto, Sapienza Università di Roma.
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Indice
7 Prefazione
15
1.
Potere e visibilità
29
2.
Essere giusti con Marx
43
3.
La prigione oltre la teoria
59
4.
Filosofia dell’urbanismo
79
5.
Il lavoro della dispersione
91
6.
La linea del crimine
109
7.
Il pensiero pittorico
127
Nota ai testi
129 Riferimenti bibliografici
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Prefazione
La lotta per la visibilità è una delle principali ragioni di conflitto che le società occidentali hanno conosciuto in un periodo storico di lunga durata, almeno dalla fine del Medioevo a oggi. Michel Foucault ne scrive specificamente in un piccolo saggio del 1977, La vita degli uomini infami, ma in realtà tocca la questione durante tutto l’arco del suo percorso di ricerca. Già in Storia della follia, del 1961, che pur non essendo cronologicamente il suo primo libro vale comunque come opera d’avvio, il tentativo di restituire parola a un fenomeno rimasto al di sotto della soglia del linguaggio coincide con la volontà di farlo emergere dalla zona d’ombra nella quale era stato relegato, mentre più tardi il principio della «partizione» (partage), da lui considerato una delle procedure che determinano la produzione dei discorsi, è anche un sintomo di quanto ogni società si organizzi intorno a un preciso regime di visibilità (Foucault 1971a, 10-12). Come sempre, in Foucault, non si tratta di un movimento a senso unico. Da un lato, infatti, la visibilità rientra fra le strategie del potere, è una condizione che mira a far presa sul corpo degli individui e della popolazione imponendo loro schemi di riconoscibilità sempre più accurati: quanto più riesce a rendere visibili i suoi oggetti, tanto più il potere si nasconde, tende al limite dell’invisibilità, si trincera dietro meccanismi e automatismi che lo presentano come una pura tecnica. Dall’altro accedere alla visibilità è una rivendicazione che sale dal basso, perché il diritto a essere visibili equivale alla possibilità di prendere parola e di essere ascoltati, dunque di diventare soggetti politici. La visibilità è motivo di lotta perché intorno ad essa si scontrano forze opposte che non raggiungono mai un punto di equilibrio, ma sono fra loro in un rapporto di «agonismo» permanente: non una guerra, non un «affrontamento faccia a faccia che paralizze-
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prefazione
rebbe entrambe le parti», ma un «reciproco incitamento» che prende spesso le forme della «provocazione» (Foucault 1983, 249). Foucault ha raccontato tutto questo nei libri, nei corsi, nei saggi sparsi, nelle interviste, in testi occasionali, non sviluppando una “teoria” della visibilità – cosa che del resto non ha fatto per nessuno dei concetti con i quali ha lavorato, a partire da quello di “potere” –, ma cercando di ricostruirne frammenti di storia, nella convinzione che questi fossero maggiormente capaci di far risaltare differenze e, attraverso di esse, di far emergere l’importanza della questione. Non è un tema sul quale egli abbia focalizzato la sua attenzione in modo sistematico, eccezion fatta per alcune parti di Sorvegliare e punire, ma è un problema che ha costeggiato di continuo le sue ricerche e che a volte affiora in primo piano lasciando intravedere alcune preoccupazioni fondamentali della sua filosofia, a partire dall’esigenza di sviluppare un’ontologia e una critica del presente. Del resto in un’epoca definita in gran parte dal suo rapporto con le immagini, come la nostra già si dichiara da molto tempo prima dell’avvento di Internet, non è possibile rinunciare a una critica delle condizioni della visibilità, operazione che per Foucault si pone essenzialmente nei termini di una storia genealogica. Non farlo sarebbe come deporre le armi del pensiero di fronte al modo in cui le immagini vengono prodotte, organizzate, distribuite, di fronte al potere che deriva dal loro controllo, dal fatto di rendere o non rendere visibile questo o quello. Si è molto parlato negli ultimi anni, e giustamente, dello “sguardo” di Foucault, intendendo con questo anche lo stile visivo della sua scrittura, il fatto cioè che gli eventi storici vengano spesso colti e raccontati da lui descrivendo per immagini i momenti che segnano discontinuità. Molto meno è stata tematizzata finora la questione della visibilità come tale, ricondotta per lo più al modello panottico che Foucault ha esposto appunto in Sorvegliare e punire. I sistemi microfisici di sorveglianza sono però soltanto uno dei mezzi attraverso i quali si svolge la lotta per la visibilità. Gli ambiti che fanno della visibilità un oggetto di contesa sono infatti molti di più, molto diversi e anche controversi. L’estensione del vedere non coincide né con quella dei discorsi né con quella del sapere, anche se l’unità di questi tre poli è stata un sogno coltivato dalla medicina in un’epoca molto breve della sua storia, tra la fine del xvii e l’inizio del xviii secolo (Foucault 1963a, 128). La loro articolazione reciproca è però de-
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prefazione
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cisiva per definire i rapporti di potere in cui viviamo. È significativo che per affrontare questo tema Foucault abbia fatto spesso riferimento a esperienze estetiche. Non solo perché le condizioni di visibilità si esprimono anzitutto tramite immagini, ma soprattutto perché la lotta per la visibilità si manifesta più chiaramente là dove si tenta di trasgredire l’ordine vigente, costringendo il potere a ridefinirsi e a inventare nuovi sistemi per fare presa su ciò che rischia di sfuggirgli. È un campo di questa lotta la scrittura, che dalla narrazione delle gesta dei monarchi, dei cavalieri e degli eroi si è aperta fino a ritenere degna di essere raccontata anche la vita di uomini e donne comuni, parte di una comédie humaine che viene a occupare uno spazio via via più ampio in letteratura con i romanzi sentimentali, di formazione e di cronaca della vita urbana. Oggi è difficile leggere uno dei libri più discussi dell’Ottocento, I Miserabili (1862), con una prospettiva paragonabile a quella dei contemporanei, agli occhi dei quali i personaggi di Victor Hugo rappresentavano novità assolute. Né il criminale né il povero diavolo, e nemmeno qualcuno che riassumesse in sé entrambe le figure, come Jean Valjean, erano mai stai protagonisti in letteratura, come non lo erano mai state le ragazze madri, come Fantine, le bambine trattate come schiave, come Cosette, o i terribili coniugi Thénardier che la schiavizzano. Ma più in generale, dalle figure più scialbe a quelle che hanno acquistato notorietà attraverso il racconto delle loro imprese criminali, come Lacenaire (1803-1836) o Mesrine (1936-1979), dalle Confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas de Quincey (1822) fino alle Storie di ordinaria follia di Charles Bukowski (1972), la storia della letteratura ha visto spostare continuamente il confine tra fama e infamia, cioè fra il diritto a ottenere parola e visibilità da un lato, e la condanna a rimanere dietro la soglia del silenzio e dell’invisibilità dall’altro. La letteratura come discorso dell’infamia, e come luogo sottratto all’obbligo della verità, è per Foucault un esempio privilegiato di provocazione nei confronti del potere. Ma è un campo di lotta anche la produzione dell’immagine: sebbene abbia vincoli maggiori rispetto alla letteratura, essa sfida pur sempre il potere ogni volta che sposta l’asse della visione, ci fa vedere quello che non vedevamo, confonde i nostri punti di riferimento, rivendica la dignità della raffigurazione come atto politico. Gli esempi che Foucault trae dalla pittura e dalla fotografia sono eloquenti, da questo punto di vista, perché toccano sempre i punti
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prefazione
limite che qui sono stati brevemente ricapitolati. Si accede a una visibilità che non è ancora concessa varcando un confine, trasgredendo un limite, facendo vacillare stabilità che sembravano acquisite, esponendosi a una presa ulteriore del potere ma già preparandosi a sottrarglisi di nuovo. L’individuo, che dall’avvento del sistema delle discipline è diventato al tempo stesso il prodotto e la posta in gioco del potere, appare allora come in bilico sul doppio binario della visibilità passiva, che gli promette protezione, e di quella attiva, che gli fa correre dei rischi, certo, ma gli restituisce un ruolo politico. Non serve la sociologia per constatare quanto questa situazione sia stata profondamente riplasmata, oggi, dai nuovi mezzi di comunicazione, a cominciare dai social network, i quali attraverso la proliferazione delle forme di autorappresentazione biografica hanno aperto la strada al massimo livello mai raggiunto della visibilità individuale attiva e, contemporaneamente, al massimo livello mai raggiunto dalle tecniche di controllo, dunque della visibilità individuale passiva. Ma l’inflazione dei selfie e la rete onnicomprensiva dei big data, l’autonarrazione quotidiana e la manipolazione delle opinioni sono tutti lati della stessa lotta per la visibilità ora installata su un campo nuovo, che ha appena cominciato ad articolarsi. Nell’oltrepassare il confine tradizionale, istituzionale, fra chi aveva o no accesso alla visibilità pubblica, alla dignità di parola in uno spazio che non fosse delimitato territorialmente – spazio di famiglia, di vicinato, di lavoro, di organizzazioni politiche e sindacali, di piazza – sono venuti meno anche i filtri che dividevano l’opinione informata dalla reazione viscerale, la testimonianza dall’affabulazione. Diffondere notizie inverificabili è stato a lungo un privilegio del potere: le strategie della disinformazione sono da tempo considerate un dato endemico delle società complesse. Ora è un atto alla portata dell’individuo comune, a condizione che egli mostri di credere in ciò che diffonde e che quindi stabilisca un patto di fiducia con la propria cerchia di “amici” o di followers. Foucault ha colto un simile atto di rovesciamento nelle lettres de cachet con le quali in Francia, nel xviii secolo, per un periodo breve ma storicamente significativo, le persone comuni si rivolgevano al re per denunciare le malefatte di qualcuno: scritti di delazione di cui a volte si faceva persino commercio, vendendo condanne in bianco già firmate su cui bastava aggiungere a piacere il nome del reprobo. Chi era abbastanza scaltro,
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prefazione
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osserva Foucault, trovava il modo di portare dalla propria parte un frammento del potere sovrano, assoluto, per mettere nei guai chi gli avesse intralciato la strada anche sulla base di pretesti insignificanti. L’arbitrio però era tale che l’istituto delle lettres de cachet finì presto non solo per screditarsi, ma per proiettare il discredito anche sulla monarchia, aprendo così la strada alla nascita di un meccanismo disciplinare anonimo (cfr. Foucault 1977a e qui il saggio La linea del crimine, pp. 91 e sgg.). Il paragone è indubbiamente labile, ma permette almeno di vedere sia come gli strumenti di comunicazione non funzionino mai a senso unico, dall’alto verso il basso, sia come gli usi che infrangono con più forza una barriera esistente possano essere riassorbiti dal potere ed essere costretti a rimodularsi in fretta, non appena si renda necessario farvi presa. Nel xviii secolo la risposta al discredito in cui le lettres de cachet avevano fatto precipitare la monarchia è venuta anzitutto dal sistema giudiziario. Oggi non è dato prevedere la direzione del mutamento, anche se la manipolazione dei social network è già in uno stato molto avanzato. Basti osservare, qui, che in gioco è di nuovo una lotta per la visibilità – e per la parola – che potrà spostarsi verso orizzonti imprevedibili, una volta che sia esaurito il ciclo dei conflitti attuali. Alcuni episodi di una serie televisiva britannica, Black Mirror (iniziata nel 2012), mostrano situazioni distopiche nelle quali i social media condizionano ferocemente tanto il potere quanto la vita quotidiana, in un intreccio fra visibilità attiva e passiva che rispecchia molto da vicino i paradossi attuali: il Primo Ministro inglese che, sotto ricatto, è costretto dai suoi followers a compiere un atto sessuale con un maiale in diretta televisiva, e che viene premiato per questo da un’eccezionale impennata di consensi; la ragazza intrappolata in un sistema nel quale il credito sociale dipende dai like sul proprio profilo, e che accumula passi sbagliati perdendo via via tutto ciò che ha fino a trovarsi in una condizione di marginalità senza recupero. Sembra il domani, ma forse solo perché è molto simile all’oggi. Del resto già nel 2014 il governo cinese ha varato un progetto di Social Credit System attualmente in fase di sperimentazione su base volontaria, ma che dovrebbe essere diffuso su larga scala e forse reso obbligatorio nei prossimi anni Venti: una serie di parametri sottoposti a un algoritmo permetterebbe di distinguere il cittadino affidabile da quello inaffidabile, mescolando parametri
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prefazione
come la puntualità nel pagare le tasse, il tipo di acquisti effettuati, il tempo passato sui videogiochi etc. In cambio il buon cittadino otterrebbe buoni spesa, prestiti agevolati, non gli sarebbe richiesto di lasciare un deposito per il noleggio di automobili etc. Lo scrittore americano Kevin Kelly, co-fondatore della rivista «Wired», lo ha raccontato in un libro significativamente intitolato L’inevitabile (Kelly 2016). Eppure le ondate di odio, di rancore, di rappresaglia comunicativa che si sono scatenate negli ultimi dieci anni sui social network rivelano anche qualcosa di diverso. Non solo le immagini e le parole sono state già ampiamente manovrate un po’ ovunque nel mondo per creare consenso e dirottare opinioni, ma sono le stesse forme di visibilità a cui essi danno accesso, sono i contenuti a cui danno rilievo pubblico a gettare un’ombra di discredito sugli stessi media che oggi ci sembrano inarrestabili. Non appena si rivelerà più utile limitarne l’amplificazione, quelle forme di visibilità e di parola potrebbero ripiegarsi su sé stesse e trasformarsi in rumore, travolgendo anche le forme di socializzazione e di controinformazione che pure hanno trovato posto nei social network. A quel punto potrebbero instaurarsi nuove forme di esclusione, non definite totalmente all’interno della rete (la decisione del governo cinese, ammesso che sia praticata, è già un atto che si impone dall’esterno al mondo dei social media) e nuovi confini potrebbero sorgere, spostando altrove la lotta per la visibilità. Naturalmente questa non è neppure un’ipotesi, è un azzardo, forse solo una fantasia che sarebbe insensato far discendere da una lettura di Foucault. È indubbio che abbia saputo vedere lontano, per esempio in tema di migrazioni: rispondendo a un intervistatore giapponese, nel 1979, aveva esposto per esempio con estrema lucidità le ragioni per cui era prevedibile che il «problema dei rifugiati» in fuga dal Vietnam, tema allora di attualità, fosse solo il presagio dei grandi fenomeni migratori del xxi secolo (cfr. Foucault 1979b). Ma attribuirgli doti divinatorie su qualcosa che allora non esisteva nemmeno nell’immaginazione sarebbe una forma di cecità o di idolatria, e più probabilmente di tutte e due le cose insieme. Rimane la lotta per la visibilità come fatto che attraversa le nostre società, il mondo attuale, e di cui attraverso i testi di Foucault possiamo non intravedere il futuro, ma ricostruire alcuni momenti di genealogia, riallacciandoli al presente solo per mostrare quanto questa lotta sia ancora viva.
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prefazione
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I testi raccolti in questo volume sono stati scritti nell’arco di quindici anni, nel corso di un confronto continuo con l’opera di Foucault sollecitato anche dalla pubblicazione postuma delle conferenze, dei seminari e soprattutto dei corsi al Collège de France, impresa iniziata nel 1997 e portata a termine nel 2015. Durante questo periodo è stato come se Foucault non avesse mai smesso di proporre temi nuovi, analisi e intuizioni che hanno continuato a sorprendere, come già sorprendevano i suoi libri. I testi sono stati selezionati scegliendo quelli che affrontavano, in modo più o meno diretto, il rapporto fra visibilità, potere, esperienza estetica e impegno militante. In questi problemi sta il filo rosso che li attraversa e che ora propongo come spunto per ricerche ulteriori. Ognuno di essi è stato rielaborato proprio per approfondire o mettere in luce quel nodo di questioni, in modo da rendere più chiara la sequenza. Si tratta di saggi: ognuno di loro scava perciò in un luogo puntuale, affronta temi specifici senza pretesa di sistematicità. Il fatto di essere raccolti intorno a un nucleo coerente, tuttavia, è ciò a cui è affidata l’unità del libro.
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1. Potere e visibilità
1. Vedere, potere Una tradizione filosofica che porta il nome di Aristotele, ma che risale a tempi più remoti, identifica la vista con la fonte principale di ogni nostro conoscere e ritiene che proprio per questo essa sia il senso più amato dagli uomini. L’età moderna, secondo Michel Foucault, ha fatto slittare quest’antica identificazione verso un altro baricentro: il privilegio di cui la vista gode dipenderebbe, infatti, dal ruolo discriminante che ricopre nella definizione delle relazioni di potere. Il suo legame con la conoscenza sarebbe perciò mediato, e le stesse certificazioni che risalgono a un’etimologia che consegna alla radice del “vedere” parole come “idea”, “teoresi”, “evidenza”, andrebbero riconsiderate sullo sfondo di quel dispositivo di potere-sapere in base al quale diventa impossibile ipostatizzare «un soggetto di conoscenza» potenzialmente «libero in rapporto al sistema di potere» (Foucault 1975a, 31). Per Aristotele, dalla vista intesa come organo del sapere deriva tutta un’antropologia, posto che gli uomini, come recitano le prime parole della Metafisica, «sono portati per natura verso la conoscenza». Per Foucault, invece, a ipotesi antropologiche occorre rinunciare: la vista è epistemologicamente significativa in quanto strumento e posta in gioco del potere-sapere, ma appunto per questo è necessario che la fisiologia dell’organo visivo esca di scena, che si consideri non la vista come senso naturale, ma la distinzione fra il visibile e l’invisibile. È in forza di questo mutamento di piani che per Foucault diviene centrale non la vista, ma lo sguardo, cioè un vedere già incarnato in un corpo e in una storia: non l’occhio teoretico della disposizione naturale vero il conoscere, ma quello prodotto dal gioco sociale dei rapporti di forza, secondo un’impostazione filosofica che resta fedele a Nietzsche.
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potere e visibilità
Lo spostamento dell’asse della visibilità dal piano della conoscenza a quello del potere-sapere è coerente con la trasformazione percettiva ed epistemologica prodotta in Occidente, secondo Foucault, dall’instaurarsi del sistema delle discipline appunto all’alba della modernità. Anche in questo caso a essere messo in mora è un precetto aristotelico, quello secondo cui non si dà scienza dell’individuo, ma solo dell’universale. A liquidarlo, di nuovo, non è una soluzione teorica, ma una prassi, o per meglio dire una serie disseminata di strategie che agendo localmente, e tuttavia rispondendo a un’istanza ovunque omogenea, costruiscono gli individui a misura dei saperi che li renderanno conoscibili. Lo «sblocco epistemologico delle scienze dell’individuo», come viene definito in Sorvegliare e punire (Foucault 1975a, 208), ha alle spalle lo sviluppo degli studi clinici, nei quali a partire dal xviii secolo fanno ingresso elementi come la descrizione del singolo malato, l’interrogatorio, l’anamnesi, il dossier. Quando le discipline si saranno compiutamente affermate nel corpo sociale, quella «individualità qualunque» che un tempo si collocava al di sotto di ogni possibile «soglia di descrizione» sarà già, invece, universalmente visibile, come vuole il paradosso che ovunque, nel sapere moderno, lega fra loro l’individuale e l’universale: Essere guardato, osservato, descritto in dettaglio, seguito giorno per giorno da una scritturazione, era un privilegio. La cronaca di un uomo, il racconto della sua vita, la sua storiografia redatta lungo il filo della sua esistenza facevano parte dei rituali della sua potenza. Ora, i procedimenti disciplinari invertono questo rapporto, abbassano la soglia della individualità descrivibile e fanno di questa descrizione un mezzo di controllo e un metodo di dominazione. (Foucault 1975a, 236)
La visibilità, tuttavia, non è solo strumento di sorveglianza e normalizzazione, ma anche posta in gioco dei rapporti di forze che determinano la fisionomia del potere, dato che essa costituisce, in fondo, un bene raro. Non tutto, in un tempo storico e in una società dati, è visibile. Né tutto quel che è visibile coincide punto per punto con ciò che, sotto quelle stesse coordinate, è enunciabile. Con buona pace di ogni riduzionismo linguistico, per Foucault la coincidenza del visibile e del dicibile è stata solo una parentesi storica, una condizione di equilibrio ideale e transitoria che il sapere occidentale si è illuso di coltivare in una breve fase di passaggio e di trasformazione.
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1. potere e visibilità
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A darcene conto è il libro del 1963 sulla Nascita della clinica, a torto ritenuto solo un’appendice di Storia della follia. Ma proprio da quelle pagine emerge come anche nel suo momento di massimo equilibrio «la reversibilità del visibile nell’enunciabile» sia rimasta «un’esigenza e un limite, più che un principio originario» (Foucault 1963a, 128). Nel volgere di pochissimi anni, all’inizio dell’Ottocento, il precetto della «descrivibilità totale ed esaustiva» che trasforma la malattia in un testo da leggere, se non in un alfabeto da decifrare, si scontra con una sorta di eccedenza del visibile che oppone a quella linguistica una dimensione estetica. Saranno allora le forme della sensibilità fissate dalla metaforica del “colpo d’occhio” e da una tecnica sempre più intesa come una specie di “arte” a prendere il posto dell’ideale coincidenza fra quel che si può vedere e quel che si può dire. La teoria del discorso, in Foucault, è dominata dalle procedure di esclusione come da una serie di ordinatori epistemologici primari: l’interdetto, il partage, la volontà di verità, sono le tre varianti fondamentali che egli prende in considerazione, sottolineando come i primi due sistemi di esclusione siano stati storicamente sospinti verso il terzo, cioè verso la distinzione tra il vero e il falso (Foucault 1971a, 16-17). Benché sottoposta a un regime analogo, la visibilità mantiene sempre, rispetto all’ordine del discorso, un’eccedenza irriducibile all’esclusione. Si può persino ipotizzare che tutto quanto Foucault attribuisce alla possibilità di forzare i limiti discorso, facendone «brillare» le alterità – immagine prediletta da Foucault –, tutto ciò che attiene al piano della «resistenza» – termine centrale eppure sommamente indeterminato dei suoi studi dei tardi anni Settanta – sia da ricondurre precisamente a quell’eccedenza visibile in forza della quale gli enunciati sono costretti e piegarsi e a riformularsi. Se così fosse, perché non concluderne che il piano della resistenza sia strettamente intrecciato, in Foucault, con la dimensione estetica? E perché non mettere in rapporto questa conclusione con la tematizzazione, nei suoi ultimi scritti, di quelle tecniche del sé riunite sotto la dicitura di «estetica dell’esistenza»? Per ora, prima di arrivare a conclusioni, sappiamo che Foucault ha indicato visibilità e dicibilità come due ordini distinti e sempre alla ricerca di una correlazione che solo in una brevissima fase storica, e solo illusoriamente, hanno soggiornato in un luogo di piena coincidenza. E che d’altra parte il visibile, non diversamente dall’enunciabile, è oggetto di un investimento di potere, dunque di una lotta, di
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potere e visibilità
un conflitto. Non sarà inutile, allora, ripercorrere due sole tappe di questa lotta, due episodi, sia pure collocati a un livello diverso, per comprendere cosa ne sia, in Foucault, della visibilità del potere come tale, del suo accesso allo sguardo, come pure dell’opacità che può sottrarvelo. Un’opacità che rappresenterebbe non solo un elemento integrante della visibilità del potere, ma la possibilità stessa di intendere a sua volta l’analisi foucaultiana del potere come un’estetica, più ancora che come una fisica o una microfisica. 2. Il sole, l’aquila, l’individuo comune Il legame fra potere e visibilità percorre da cima a fondo la ricerca di Sorvegliare e punire e, com’è chiaro fin dal titolo, si declina sotto la forma di una specifica relazione: quella che oppone il guardare e l’essere guardati. L’intera parabola del potere assoluto, presa in esame a partire dalla pratica dei supplizi, è letta da Foucault come la fenomenologia di una sovranità che fa spettacolo di sé stessa, del suo dominio e della sua presa fisica sul territorio e sui corpi. Le discipline, d’altra parte, vengono presentate come forme della visibilità, tant’è che non solo le sue procedure, per esempio l’esame, sono da intendere come una presa di visione, ma la loro stessa definizione come pratiche di una «anatomia politica» (Foucault 1975a, 227) le riconduce, per analogia, a quel paradigma clinico che aveva offerto al nuovo sistema di potere uno strumentario epistemologico omogeneo. Il “vedere” di cui è questione nelle discipline coincide, infatti, con quello teorizzato e messo in opera dagli anatomisti: è funzionalistico, perché scompone e ripartisce qui gli organi, là gli individui, in base al ruolo che ricoprono e ai compiti cui sono chiamati; è analitico, perché tende a isolare unità elementari che in campo medico saranno le costituenti del tessuto organico, mentre in campo sociale saranno appunto gli atomi dell’individualità; è universalizzante, perché concepisce quella base elementare come qualcosa di uniforme che attraversa e avvolge l’intero ambito di competenza, corpo fisico e corpo sociale; è normalizzante, perché stabilisce su entrambi i piani la regola di un corretto funzionamento che in un caso viene dedotto dal suo stato di cessazione, ovvero dalla morte, nell’altro dalla disposizione produttiva assegnata a ciascuna delle cellule individuali.
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L’analogia potrebbe essere ulteriormente sviluppata. Ma ciò che resta fuori dallo sguardo clinico, vale a dire lo statuto asimmetrico della relazione fra colui che guarda e colui che viene esaminato, diventa invece iil fulcro intorno a cui ruota il senso stesso del meccanismo disciplinare. Per descrivere questo meccanismo Foucault introduce l’esempio del Panopticon, l’architettura detentiva ideata da Jeremy Bentham che tuttavia, fin dal momento in cui viene proposta, possiede già la «vocazione» a trasformarsi in una funzione sociale generalizzata, nel vero e proprio «diagramma»del potere disciplinare: non semplicemente un edificio, il Panopticon, ma principio panoptico e panoptismo (Foucault 1975a, 226). Il modello del Panopticon e la lettura che Foucault ne svolge sono talmente noti che non occorre ripercorrerne i singoli passi. Più fruttuoso può essere concentrarsi su alcuni aspetti particolarmente indicativi per una riflessione sul gioco del visibile e dell’invisibile nelle forme del potere moderno. Foucault, in primo luogo, considera uniti da una relazione direttamente proporzionale il regime di visibilità e i processi dell’individuazione, che nel caso delle discipline assumono il tratto preliminare della costituzione dell’individuo come tale, dunque della «individualizzazione» (individualisation). In questo senso, l’emergere del meccanismo panoptico segna il «rovesciamento dell’asse politico» dell’individuazione. In società diverse – quella feudale e assolutistica, scrive Foucault, è solo uno dei possibili esempi – l’individuazione è di tipo «ascendente», è cioè «massimale dalla parte dove si esercita la sovranità e negli strati superiori del potere. Più si è detentori del potere, più si è marcati come individui attraverso rituali, discorsi, rappresentazioni plastiche» (Foucault 1975a, 210), fino al punto in cui questo genere di visibilità assume i caratteri dell’eccesso e diviene «insostenibile» per chi è più lontano da quella sfera maggiore. In un sistema disciplinare, al contrario, l’individuazione è un processo «discendente»: «nella misura in cui il potere diviene più anonimo e più funzionale, coloro sui quali si esercita tendono a essere più fortemente individualizzati», e a esserlo mediante tecniche di «osservazione» che privilegiano i casi più periferici rispetto al centro rappresentato dalla norma sociale (Foucault 1975a, 211). In una società disciplinare, detto altrimenti, i processi di individuazione investono più il bambino dell’adulto, più il malato e il folle che il sano, più il criminale che il legalitario, e quando si vorranno mettere
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sotto osservazione i casi “normali” lo si farà precisamente ricercando cosa resta, in loro, del bambino, del folle, del criminale, come avviene «in tutte le scienze, analisi e pratiche con radice “psico-”» (Foucault 1975a, 211). Un simile rovesciamento dell’asse dell’individuazione – identico a quello che instaurava, contro il monito di Aristotele, le scienze dell’individuo – implica come primo corollario che la visibilità sia un fattore ambivalente: è produttivo, perché è ciò che fabbrica, con un solo gesto, gli individui e la conoscenza che possiamo averne; ma è anche una «trappola», perché per suo tramite gli individui sono consegnati a un regime di osservazione costante e «inverificabile», che li porterà a farsi attivi sorveglianti di sé stessi, proprio come avviene esemplarmente per i prigionieri del Panopticon. L’occhio del potere, in altre parole, viene interiorizzato, si installa in ciò che è stato chiamato coscienza e autocoscienza: la visibilità diventa la condizione di una forma universale di esposizione che toglie ai singoli il beneficio dell’oscurità come rifugio: «colui che è sottoposto a un campo di visibilità, e che lo sa, prende a proprio conto le costrizioni del potere» (Foucault 1975a, 221). Il paragone con il modello del serraglio che Le Vaux aveva costruito a Versailles, e di cui Foucault si chiede se Bentham vi si fosse ispirato, si basa precisamente sul l’estensione dell’«osservazione individualizzante» a partire da un padiglione centrale attorno al quale sono disposte le gabbie di diversi animali. Applicando questo modello agli uomini, il panoptismo eredita dal naturalismo classificatorio settecentesco un tratto oggettivante che si ripercuote direttamente sullo statuto dell’individuo osservato, il quale «è visto, ma non vede», e dunque è «oggetto di una informazione» ma non diviene mai «soggetto di una comunicazione» (Foucault 1975a, 218). La società disegnata dal principio panoptico tende così a polarizzare la distinzione fra «gli individui privati da una parte e lo Stato dall’altra» (Foucault 1975a, 236). Ma se in Foucault è chiaro quanto il principio della sorveglianza renda visibili e trasparenti i primi, molto meno definito è il problema della visibilità del secondo. La ricostruzione sembra oscillare fra due letture diverse. Da un lato Foucault sostiene che un sistema di potere non rigido e pesante, com’era quello di ancien régime, ma «sottilmente presente» nelle «funzioni che investe», sia portato a nascondersi e a considerare come un inu-
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tile orpello le vecchie insegne della sovranità: il sole che era stato il simbolo della monarchia assoluta nel suo momento di massimo splendore e l’aquila che aveva volato un’ultima volta con Napoleone, figura collocata precisamente «al punto di congiunzione dell’esercizio monarchico e rituale della sovranità e dell’esercizio gerarchico e permanente della disciplina indefinita» (Foucault 1975a, 236-237). Dall’altro, a fronte della disseminazione delle pratiche di sorveglianza, lo Stato persegue un processo di centralizzazione che si esprime tramite un repertorio di immagini dure a morire. E non perché si tratti solo di simboli la cui risonanza postuma è stata più lunga del lecito e del dovuto, ma perché l’invisibilità costitutiva del potere moderno ha continuato a manifestarsi attraverso veri e propri eidola, figure spettrali la cui consistenza non è stata rimossa neppure dai movimenti rivoluzionari. Le critiche più forti che Foucault ha rivolto alla tradizione del marxismo, più che a Marx stesso, suonano in questo senso anche come un’autocritica rivolta all’impianto storico messo a punto in Sorvegliare e punire, ma che dopo allora egli non avrebbe cessato di mettere a punto. Che nella teoria politica non sia stata ancora tagliata la testa al re, come Foucault amava ripetere, che sempre di nuovo le rivoluzioni abbiano vagheggiato luoghi mitici come i Palazzi d’Inverno e le stanze dei bottoni, non dipende solo da un difetto dell’analisi politica, ma dal difetto di “individuazione ascendente” del potere moderno, per rendere visibile il quale si fa ricorso a surrogati di immagine. La vera «civiltà di spettacolo», scrive Foucault, è stata quella antica, nella quale pochi oggetti venivano esibiti a una moltitudine di uomini. Il potere moderno agisce in maniera inversa, procurando «ad un piccolo numero, o perfino ad uno solo, la vista istantanea di una grande moltitudine» (Foucault 1975a, 236). Ma allora è proprio la visibilità del «piccolo numero» e di «uno solo» a fare problema, tanto da far dubitare che le vecchie insegne della sovranità siano – come Foucault vorrebbe – del tutto inadeguate a darne rappresentazione. Gli studi di Foucault evitano programmaticamente di concentrarsi sulla persistenza di questo carattere di centralizzazione, e non è certo un mistero che la maggior parte delle critiche rivolte alla sua analisi del potere riguardino proprio questo aspetto. Negli anni successivi a Sorvegliare e punire egli avrebbe tentato di estendere il suo sguardo a una dimensione più ampia, accostando alla microfisica disciplinare la
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vera e propria fisica della biopolitica, ma senza rinnegare i risultati delle sue ricerche precedenti e proprio per ciò avvolgendosi in problemi mai del tutto risolti riguardo la successione storica, l’intreccio e la rispettiva dominanza assunta via via da quei due aspetti (cfr. Esposito 2004, 16 e sgg.). È forse anche questo uno dei motivi che hanno spinto Foucault ad abbandonare presto l’esame dei biopoteri e a concentrarsi sulle tecniche di governo. Ma il potere disciplinare, per restare al livello di Sorvegliare e punire, sembra produrre un duplice regime di invisibilità: quella del potere centrale, per il quale non resta se non l’immagine di una torre presto dissolta nell’anonimato del meccanismo interiorizzato dai soggetti, e l’«invisibilità laterale» che impedisce agli individui di entrare in comunicazione gli uni con gli altri se non attraverso la mediazione di quello stesso meccanismo. Un sistema trasparente e tuttavia doppiamente celato: è questo il paradosso del potere moderno che Foucault sottolinea e nel quale la nostra società gli appare ancora irretita. 3. Un Argo dagli occhi invisibili Accanto all’aquila che ancora troneggia nei tre schermi posti l’uno accanto all’altro da Abel Gance nella sequenza finale del suo Napoleon (1927), un altro repertorio di immagini andava però formandosi, nel corso dell’Ottocento, più aderente al sistema delle discipline e al regime di visibilità da esse instaurato. È quello del romanzo criminale e poliziesco, le cui trame innalzano a sistema quel «paradigma indiziario», individualizzante, che delle discipline costituisce la caratteristica peculiare e che ha trovato il suo medium specifico nell’organizzazione della polizia (cfr. Ginzburg 1979). A lungo Foucault avrebbe indagato sul senso assegnato alla polizia nel passaggio fra Sette e Ottocento, riconoscendo in essa il punto di snodo che connette le discipline ai biopoteri. Il «paradosso della polizia», afferma per esempio in una conferenza del 1979, consiste nel fatto di dover accrescere la forza dello Stato e garantire, al tempo stesso, sicurezza e benessere delle persone, dunque nel suo essere contemporaneamente «un’arte del governare e un metodo per analizzare una popolazione che vive in un territorio» (Foucault 1981, 143). La polizia risponde perciò a un’istanza di visibilità disseminata ovunque e almeno potenzialmente rivolta a tutto – azioni, condotte,
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opinioni –, ma che per Foucault non si deve identificare né con «la totalità dello Stato» né con «il regno come corpo visibile e invisibile del monarca». Se pure ai suoi inizi la polizia venne intesa come espressione diretta dell’assolutismo reale, essa è funzione del processo discendente dell’individuazione operata dalle discipline: «siamo, con la polizia, nell’indefinito di un controllo che tenta idealmente di raggiungere il pulviscolo più elementare, il fenomeno più passeggero del corpo sociale […], l’infinitamente piccolo del potere politico». Perché abbia efficacia, la polizia deve essere in grado però di nascondersi dietro la polvere quotidiana che indaga. Dev’essere come un Argo non dai cento, ma dai mille occhi, eppure invisibile: «uno sguardo senza volto che trasforma tutto il corpo sociale in un campo di percezione» (Foucault 1975a, 233). Una «permanente presa in carico del comportamento degli individui», quella operata dalla polizia, tradotta in rapporti e registri che richiedono una nuova organizzazione dei dossiers individuali, e che tuttavia rimane in gran parte legata alla possibilità di agire in incognito tramite una rete di osservatori, delatori, collaboratori che non vestono alcun tipo di divisa, ma fanno parte dello stesso mondo sociale sul quale riferiscono in modo occasionale o regolare. Il principio a partire dal quale opera la polizia è che ogni individuo produca tracce dei suoi pensieri, opinioni, percorsi, attività lecite o illecite. Ed è proprio di tutto un secolo, il xix, avere interiorizzato il sistema della traccia al punto da comprenderlo come una maniera di essere nel mondo. Basterebbe confrontare la ricostruzione di Foucault con quelle che Walter Benjamin ha dedicato alla Parigi di quell’epoca per averne una conferma immediata: Se qualcuno entra in una stanza borghese degli anni Ottanta allora, in tutta la comoda e tranquilla agiatezza che essa irradia, l’impressione: “qui non hai niente da cercare” è la più forte. Qui non hai niente da cercare, perché qui non c’è alcun luogo nel quale il suo abitante non abbia già lasciato la sua traccia: sulle mensole mediante ninnoli, sulla poltrona mediante una copertura, sulle finestre mediante qualcosa di trasparente, di fronte al camino mediante il parafuoco. (Benjamin 1933, 16)
L’abitare ottocentesco si riassume, secondo Benjamin, nell’idea del «lasciare tracce», e proprio per questo i materiali preferiti per l’arredamento sono quelli che meglio le conservano, anzitutto il vel-
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luto. Ma le tracce sono la base stessa dell’indagine di polizia, tanto che i suoi campioni letterari, dall’Auguste Dupin di Edgar Allan Poe allo Sherlock Holmes di Conan Doyle, sono specializzati nel risalire da tracce infinetisimali non solo ai colpevoli di un delitto, ma anche a coloro cui fanno capo le abitudini più innocenti e quotidiane. Benjamin ricorda come Bertoldt Brecht, in una poesia del Libro di lettura per gli abitanti della città, adotti come refrain un consiglio prezioso: «cancella le tracce». Rendersi il più possibile invisibili dalla sorveglianza cui i cittadini sono sottoposti sembra essere, così, strategia di una piccola resistenza di ogni giorno da opporre al sapere di polizia generalizzato, a rimarcare una volta di più come visibilità e invisibilità siano la posta in gioco di una lotta, non solo forme date nel campo sociale. Per Michel Foucault, tuttavia, il controllo di polizia non agisce in una sola direzione, dall’alto verso il basso, ma è reversibile, come reversibili sono per lui tutte le opzioni di visibilità di un sistema di potere piramidale e reticolare, qual è quello delle discipline. Il panoptismo presuppone che i sorvegliati siano anche sorveglianti, o per meglio dire che nessuno sia posto al di fuori di uno sguardo in grado di sorvegliarlo, fossero pure coloro che occupano le sfere più alte del potere. Avviene in fabbrica, a scuola, negli ospedali, e avviene anche nell’opera della polizia. Il suo «è un sistema a doppia entrata», perché risponde alla volontà del potere centrale mettendo in moto l’apparato giudiziario, «ma è anche suscettibile di rispondere a sollecitazioni dal basso» (Foucault 1975a, 234). L’esempio portato da Foucault riguarda ancora, in realtà, l’operato della polizia come ausiliaria del potere sovrano: sono le lettres de cachet richieste «dalle famiglie, dagli avvocati, dai notabili locali, dagli abitanti di quartiere, dai curati di parrocchia» che finirono per screditare definitivamente la monarchia e il suo arbitrio. Ma è sufficiente che queste piccole istanze di potere diffuse nella società abbiano la meglio, è sufficiente che il sistema disciplinare rinunci alla tutela del sovrano e si instauri come meccanismo panoptico anonimo, perché l’istituto delle lettres de cachet scompaia e la polizia sia chiamata a far corpo con un’istituzione, più che con la società disciplinare nel suo insieme. Certo, Foucault sottolinea il fatto che la disciplina non possa essere identificata con istituzioni e apparati, come pure che la polizia, accanto al potere giudiziario, continui a esercitare il doppio ruolo del braccio
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secolare dello Stato e del controllo esercitato “in nome del popolo”. Ma appunto perché si colloca in questo delicato punto di cerniera fra l’alto e il basso del potere, la polizia diventa uno strumento ambiguo, che ha imposto – e continua a imporre – allo Stato le sue prerogative restando in larga parte invisibile, anzi facendo emergere in piena visibilità solo quelle, tra le sue molte funzioni, che un tempo erano assegnate alle gendarmeria. Di quest’ultima la polizia di oggi è l’erede diretta. Ma allora il consiglio di “cancellare le tracce” si fa ancora più pressante, e urgente, perché risponde con una istanza di invisibilità a un potere che ancora vuole vedere “tutto” senza esser visto, ed è ancora un «occhio senza volto» che tuttavia fa meno corpo con la società che con i suoi apparati. 4. Estetica del potere Dunque un potere invisibile, o che si dà immagine solo attraverso surrogati, e che ha bisogno, per essere portato entro una soglia di visibilità, di uno sguardo microfisico, e d’altra parte soggetti sottoposti a una visibilità permanente tramite le discipline che lo fabbricano e un principio di sorveglianza generalizzato del quale è emblema la polizia, Argo diviso e dissimulato in una superficie visibile e un sottobosco invisibile. Questa formula riassume le tesi di Foucault sin qui passate in rassegna e ripropone un dilemma ricorrente di fronte ai suoi scritti, quello che riguarda i margini di resistenza, o di libertà, praticabili per un soggetto. «Ciò di cui Foucault ha coscienza», ha scritto Gilles Deleuze, «e in misura crescente dopo La volontà di sapere, è di rinchiudersi progressivamente nei rapporti di potere. Quindi invoca dei focolai di resistenza in un “faccia a faccia” con i focolai del potere; ma da dove dovrebbero arrivare queste resistenze? Foucault si domanda: come oltrepassare la linea, come superare i rapporti di forze? Oppure si è condannati a un tête à tête con il potere, sia che lo si detenga sia che lo si subisca?» (Deleuze 1990, 132). Nel caso determinato dell’opposizione fra ciò che è visibile e ciò che è invisibile nella dinamica del potere moderno, come si potranno articolare queste resistenze? È sufficiente l’indicazione di Brecht, l’invito a «cancellare le tracce», o non si dovrà piuttosto cercare in pratiche diverse?
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In un testo del 1977, intitolato La vita degli uomini infami, Foucault descrive gli effetti che i discorsi del potere hanno avuto su esistenze divenute esemplari appunto per essere emerse alla visibilità solo in un lampo, nei brevi testi che le hanno raccontate, enfatizzate e singolarmente poetizzate per sottoporle a un giudizio e a una condanna. Gli «uomini infami» sono, in realtà, precisamente questo: vite rimaste ordinariamente al di sotto della soglia della visibilità ed emerse solo nei discorsi che le hanno messe concretamente in gioco, esponendole allo sguardo del potere. Le storie in questione risalgono all’età classica, appartengono dunque al periodo del potere sovrano, sia pure in fase declinante. Le fonti che ce le rendono oggi disponibili, sebbene solo nella forma in cui le si era volute «cacciare dal mondo», sono «gli archivi degli internamenti, della polizia, delle suppliche al re, delle lettres de cachet», dunque di tutti quei dispositivi che per Foucault rappresentano i primi rudimenti del nuovo sistema disciplinare. Per la vita quotidiana, per l’individuo qualunque, emergere alla visibilità era stato dunque l’oggetto di una lotta, così come acquistare dignità di racconto era stato il prodotto di un’esigenza che in quelle vite infami aveva svolto i suoi esperimenti di laboratorio. «Nelle ragnatele del potere», scrive Foucault, «per circuiti assai complessi, vengono a impigliarsi le dispute di vicinato, le liti fra genitori e figli, i malintesi delle coppie, gli eccessi nel vino e nel sesso, le baruffe pubbliche e tante passioni segrete» (Foucault 1977a, 252). Ha avuto così inizio un immenso «mormorio» destinato a non fermarsi più e a rendere visibili «le variazioni individuali della condotta, le vergogne e i segreti», strappando il «qualunque» dalla dimensione di silenzio nel quale era stato tanto a lungo mantenuto. Chiaro che le vite individuali diventano «descrivibili e trascrivibili» solo nella misura in cui «sono attraversate dai meccanismi di un potere politico». Ma è appunto questo ciò che accade nella modernità. E che il linguaggio capace di far parlare la quotidianità sia segnato dalla presenza del potere, senza mai riuscire a liberarsene, indica in fondo come «uno dei tratti fondamentali della nostra società» sia il fatto che «il destino vi assume la forma del potere, della lotta con o contro di esso» (Foucault 1977a, 250). In questo scritto, particolarmente denso, Foucault parla tuttavia meno di visibilità che di presa in discorso della vita comune e sembra non indicare alcuna eccedenza fra il primo e il secondo piano,
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quasi che i lampi e la luce da cui quelle vite sono illuminate fossero un frutto esclusivamente del discorso. Proprio la piena coincidenza fra il piano del visibile e quello del dicibile, d’altra parte, era ciò che faceva problema in Nascita della clinica e che Foucault aveva considerato illusorio: un’esigenza di principio alla quale non aveva mai corrisposto una realtà. Certo, l’accesso al discorso e alla visibilità da parte dell’esistenza comune segue percorsi molto vicini e per lunghi tratti identici. Ma che le loro strade non concidano del tutto è precisamente ciò che offre agli individui un punto d’appoggio nel loro tête à tête con il potere. Per quanto gli studi di Foucault sulla sessualità, sulle tecniche di governo, sulla cura di sé, continuino a privilegiare il linguaggio come luogo di problematizzazione del soggetto, al piano della visibilità rimane quel carattere di eccedenza che sfugge ai principi di esclusione sui quali poggia l’ordine del discorso, poiché risponde a una differente genealogia. In Nascita della clinica, Foucault aveva definito “estetica” quell’eccedenza. E il fatto che questo termine ritorni nei suoi ultimi scritti, sia pure in un’accezione sensibilmente diversa, per indicare l’ambito delle pratiche di sé, può forse suggerire come in questa dimensione debba essere ricercato un principio utile alla “resistenza”, o insomma alla lotta che i soggetti conducono «con o contro il potere». È probabile che alcune delle oscillazioni dell’analisi di Foucault sul potere dipendano dall’avere spesso sovrapposto, senza averli ulteriormente problematizzati, i piani del dicibile e del visibile. In fondo, era così in Sorvegliare e punire, dove il persistere delle immagini arcaiche del potere si spiegava poco restando solo sul piano dell’investimento discorsivo delle discipline, e dove lo stesso carattere di centralità dello Stato veniva lasciato sullo sfondo, appena accennato e consegnato appunto a un’immagine. Il richiamo dell’ultimo Foucault a pratiche di sé da intendere come una «estetica dell’esistenza» ricorda, però, che quella della visibilità non è solo una presa sugli individui operata dai meccanismi di potere, ma anche un’istanza che gli individui stessi rilanciano come volontà di costituirsi in autonomia. Fare della propria vita un’opera d’arte, in questo senso, è come eleggere per il proprio sé un orizzonte di visibilità che contempli anche il segreto e le zone d’ombra come due dimensioni non accessibili al discorso e che possiedono tuttavia una forza plastica di determinazione del soggetto. Un processo di individuazione che sia
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anche estetico, e non solo discorsivo, è la posta in gioco di una forma di soggettivazione che non voglia limitarsi a pratiche di esodo o a cancellare le tracce, ma voglia anche tentare di progettarle. Nel tête à tête con il potere la visibilità che ciascuno progetta di sé è al tempo stesso un limite invalicabile e un nuovo punto di presa, ma è in ogni caso il prodotto di un’idea che attribuisce all’esistenza un valore esemplare. La vita come monumento è ancora una volta un segno che riconduce a Nietzsche. Forse si è troppo in fretta rinunciato a leggere quanto di Nietzsche resta anche negli ultimi scritti di Foucault. Eppure occorre tornare a leggerli proiettando le sue analisi della sfera etica su quelle del potere che risalgono agli anni precedenti, senza staccarli da esse e senza considerarle il frutto di una svolta o di un ripiegamento. E in queste analisi, nelle une come nelle altre, il problema di un sé la cui visibilità risulti eccedente alla presa esercitata dal potere, è un filo rosso da tenere stretto.
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2. Essere giusti con Marx
1. Nascita di una querelle Il riconoscimento tributato da Michel Foucault a Marx nella conferenza Che cos’è un autore? del 1969, dove il suo nome viene posto accanto a quello di Freud tra i «fondatori di discorsività», è a prima vista un gesto di risarcimento. Potrebbe anzi essere considerato come uno, forse il più vistoso, fra i numerosi atti di riparazione che Foucault era andato ripetendo, nei confronti di Marx, dopo averne ridimensionato il ruolo e la figura nelle pagine di La parole e le cose. In questo libro Foucault aveva sottolineato il rapporto di stretta continuità che lega Marx alle analisi economiche di Ricardo e, più in generale, al quadro epistemologico del xix secolo. Se Marx «si oppone alle teorie “borghesi” dell’economia», aveva scritto, «e se in tale opposizione progetta contro esse un rovesciamento radicale della Storia, tale conflitto e tale progetto hanno per condizioni di possibilità non già la ripresa in mano della Storia intera, ma un evento che tutta l’archeologia può situare con precisione e che ha ordinato simultaneamente, entro un’identica modalità, l’economia borghese e l’economia rivoluzionaria del xix secolo». Per questo «il marxismo è nel pensiero del xix secolo come un pesce nell’acqua»: al livello profondo del sistema di sapere occidentale non introduce «alcun taglio reale», alcuna frattura, collocandosi «senza difficoltà» all’interno di una disposizione epistemologica che lo accoglie, in fondo, con favore, dato che era stata lei stessa a produrlo (Foucault 1966a, 283-284). Prima di queste affermazioni, gli scritti di Foucault non avevano suscitato particolare interesse da un punto di vista politico. L’esplicito riferimento a Marx, invece, lo trascinò quasi a forza in un ambito che lo costrinse, nel corso degli anni, a una serie di precisazioni, retti-
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fiche e giustificazioni delle quali la definizione contenuta in Che cos’è un autore? sembra rappresentare l’apice, proprio perché restituisce a Marx la centralità storico-epistemologica che in precedenza Foucault gli aveva revocato. In realtà, Foucault si era espresso in modo molto simile già prima di Le parole e le cose, nel corso di un convegno tenutosi a Royaumont nel 1964 i cui atti vennero però pubblicati solo nel 1967, cioè dopo l’uscita del libro “incriminato”. Nel suo intervento, intitolato Nietzsche, Freud, Marx, Foucault sosteneva che ciascuno dei tre autori aveva contribuito a rifondare «da zero la possibilità di un’ermeneutica» dopo l’eclissi conosciuta dalle tecniche di interpretazione alla fine del xvi secolo. Marx, Nietzsche e Freud «hanno cambiato la natura del segno» concependolo non come un materiale inerte, passivo, ma come l’effetto di un’interpretazione precedente che occorre rovesciare e di cui bisogna, perciò, impadronirsi. Marx, per esempio, «non interpreta la storia dei rapporti di produzione, ma interpreta un rapporto che si offre già come interpretazione, perché si presenta come natura». Questo significa che l’interpretazione precede sempre il segno e che nessun mito dell’origine, nessuna “robinsonata”, può intervenire restaurando l’immagine di una datità neutra e primaria (Foucault 1967a, 137-146). Sebbene l’espressione «instaurazione discorsiva» non facesse ancora parte, a quel tempo, dello strumentario linguistico di Foucault, il senso della sua valorizzazione di Marx va nella direzione che si sarebbe precisata più avanti e legittima la strategia difensiva da lui adottata. Alle accuse piovute sui giudizi di Le parole e le cose Foucault replicava, infatti, di non aver voluto ricostruire l’archeologia complessiva del sapere occidentale, ma di essersi limitato a prendere in considerazione solo alcuni ambiti, in uno dei quali, l’economia politica, l’opera di Marx non aveva introdotto tratti rilevanti di novità rispetto alle analisi che lo avevano preceduto (Foucault 1975b, 808). Se si vuole cercare il taglio prodotto da Marx all’interno della nostra cultura, dunque, bisogna uscire dai temi di Le parole e le cose. Marx, dichiara Foucault in un’intervista del 1971, «ha proceduto come molti fondatori di scienze o di tipi di discorso: ha utilizzato un concetto esistente all’interno di un discorso già costituito» per poi spostarlo e trasformarlo «nel fondamento di un’analisi e di un tipo di discorso totalmente altro. Ha estrapolato la nozione di
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2. essere giusti con marx
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plusvalore direttamente dalle analisi di Ricardo, dov’era quasi in filigrana – in questo senso Marx è un ricardiano – e ha costruito su questo concetto un’analisi sociale e storica che gli ha permesso di definire i fondamenti, o in ogni caso le forme più generali della storia della società occidentale e delle società industriali del xix sec. Cosa che gli ha permesso anche di fondare un movimento rivoluzionario che resta vivo» (Foucault 1971c, 167). Per essere giusti con Marx, come si può dire riecheggiando non solo un celebre passaggio di Storia della follia dedicato a Freud, ma una formula retorica ricorrente nell’opera di Foucault, per essere giusti con Marx bisogna dunque andare oltre la sua lettura in chiave economicistica e individuare altrove l’ambito nel quale egli ha determinato una vera discontinuità epistemologica producendo «la possibilità e la regola della formazione di altri testi», come il concetto di «fondazione discorsiva» richiede. È lungo questa direttrice che Foucault, in un’altra intervista, afferma: «si può pensare che Marx abbia introdotto nella coscienza storica e politica degli uomini una frattura radicale e che la teoria marxista della società abbia inaugurato un campo epistemologico interamente nuovo. Se al lavoro sulle scienze umane [di Le parole e le cose] aggiungessi l’analisi della coscienza storica in Occidente dopo il xvi sec., allora la grande frattura sarebbe al livello di Marx» (Foucault 1967b, 578). 2. C’è Marx e Marx Il riferimento a Le parole e le cose, fin qui un Leitmotiv obbligato dalla piega politica della sua ricezione, assume un peso diverso, e un tratto quasi malinconico, nel 1978, nel corso di un dialogo con il giapponese Mika Yoshimoto che verteva appunto sul rapporto con l’eredità marxiana. Poeta, sindacalista, filosofo, Yoshimoto era coetaneo di Foucault e aveva pubblicato, nel 1965, un libro che ebbe grande impatto sul movimento del ’68 giapponese: L’illusione comune. Questo era il nome che egli dava all’idea occidentale di Stato, a suo modo di vedere profondamente diverso da quello asiatico. «Io avevo vagamente pensato», scrive Yoshimoto, «che gli Stati sono come una specie di sacco che avvolge un popolo dalla testa ai piedi: se l’uomo può spostarsi, viaggiare da un sacco all’altro e cambiare
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nazionalità, non può tuttavia uscire dal sacco finché vive in questo mondo». Per l’Occidente, invece, il cuore della convivenza è la società, non lo Stato, che invece si presenta appunto come il frutto di un’«illusione comune». Nei paesi occidentali perciò, osserva Yoshimoto, lo Stato è sempre più piccolo della società e per quanto si possa essere nazionalisti «non lo si immagina mai come un sacco che avvolga tutta la nazione, ma lo si considera sempre come una comunità illusoria». Gli stimoli dell’incontro con Foucault sono per lui da collocare sullo sfondo di un’intesa che proprio allora poteva concretizzarsi, visto che in quegli anni Foucault aveva messo il tema della società al centro delle sue ricerche sulla biopolitica, ma parte anche dalla richiesta di chiarimenti sulla posizione nei confronti del marxismo, tema sul quale l’interlocutore giapponese si dimostra molto curioso. «Quando torno su Le parole e le cose», gli dice Foucault rispondendo a una domanda, «provo sempre una sorta di rammarico. Se lo scrivessi oggi, il libro assumerebbe sicuramente un’altra forma, dato che oggi ragiono in modo diverso. Si tratta di un saggio piuttosto astratto e limitato alla considerazione di problemi di natura logica. Attualmente, invece, sono piuttosto interessato ai problemi concreti, come quelli che incontriamo a proposito della psichiatria e delle prigioni, e ritengo che sia solo a partire da tali problemi concreti che riusciremo, alla fine, a suscitare qualcosa» (Foucault 1978b, 245). L’atteggiamento autocritico non deve trarre in inganno. Più di un segnale, negli scritti e nei detti di Foucault, mostra come proprio intorno al 1978 egli avesse avuto modo in diverse occasioni di tornare ai nodi teorici di Le parole e le cose e di riconsiderarli in una linea di forte continuità rispetto ai nuovi ambiti problematici da lui affrontati e quasi con l’intento di ricucirli con questi ultimi, di “impacchettarli” insieme, per usare una sua immagine ironica. E tuttavia il mutamento di prospettiva, innegabile, ruota anche attorno al nome di Marx e alla diversa valutazione della sua opera, tolta dall’ambito della teoria economica e oggetto, perciò, di una diversa messa a fuoco. Per un verso, l’intera impresa della genealogia del potere viene vista da Foucault «all’interno di un orizzonte generale definito da Marx», anche se «questo non è lo spazio della comunistologia, definito dai partiti comunisti» (Foucault 1975c, 752-753). Per un altro, viene specificato quale sia il Marx che Foucault predilige: il Marx filosofo dell’attuali-
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tà più che il profeta di rivoluzioni a venire, lo storico che descrive le condizioni concrete del lavoro e della produzione più che il teorico delle funzioni astratte del capitale, lo studioso che analizza i mutamenti dei meccanismi disciplinari nell’esercito più che il fondatore di un movimento politico. È il Marx del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte e della II parte del Libro I del Capitale, nel quale l’immagine di un potere compatto, monolitico, lascia il posto alla descrizione di una molteplicità di forme di dominio e di assoggettamento, dunque a una varietà di poteri non riconducibili a un’unica specie, non comprensibili alla luce di un’unica categoria1. Occorre perciò distinguere Marx da Marx, se si vuole comprendere il rapporto che Foucault ha avuto con lui, e soprattutto separarlo dai marxismi. Non per giocare il gioco del “ciò ch’è vivo e ciò ch’è morto”, ma per cogliere il senso della relazione fra il nuovo progetto di filosofia critica abbozzato da Foucault e il tipo di situazione che un Marx non ridotto a essere solo «un pesce nell’acqua» del xix secolo aveva aperto. 3. Per Marx senza marxismo Mettendo a confronto le rettifiche dei giudizi di Le parole e le cose e la nuova impostazione delle ricerche di Foucault degli Settanta si possono isolare alcuni aspetti di un suo atteggiamento di lungo periodo nei confronti di Marx, una serie di costanti che qui possono essere riassunte in poche formule. Rifiuto della trasformazione del marxismo in “scienza positiva”, ovvero della linea inaugurata dagli interventi di Bernstein e Kautsky al tempo della II Internazionale. Parallelamente rifiuto di considerare la dialettica come il «nervo vitale» dell’analisi marxiana, per usare un’espressione che compare nel testo che più di ogni altro ha segnato i termini dell’opposizione alla linea scientista della II Internazionale, ovvero Storia e coscienza di classe di György Lukács. Se il primo aspetto, la negazione del carattere scientifico del marxismo, è coerente con le critiche di Foucault a letture concentrate principalmente 1 Cfr. Foucault 1981-82, pp. 186-189. Foucault nomina il Libro II del Capitale. È merito di Rudy M. Leonelli avere notato che il riferimento, in realtà, è all’edizione del Capitale che Foucault possedeva e consultava: un’edizione tascabile che divide il Libro I in diversi tomi, il secondo dei quali corrisponde ai contenuti da lui richiamati.
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sulle strutture dell’economia, l’opposizione alla ripresa del motivo dialettico in Marx si lega alle sue critiche nei confronti dell’umanismo. Essendo una filosofia del ritorno a sé, la dialettica indica la strada di una riconquista dell’autenticità e della verità dell’uomo ma così, proprio perché promette «l’uomo all’uomo», risulta indissociabile da una morale umanista, al punto che Hegel e Marx possono essere visti come «i grandi responsabili dell’umanismo contemporaneo» (Foucault 1965, 451, cfr. anche Foucault 1969d, 823). L’utopia antropologica di Marx, alla quale per esempio si è ancora richiamato Derrida in Spectres de Marx, non persuade né affascina Foucault, che la ritiene anzi la sua marca più specificamente ottocentesca. In un passaggio del dialogo con Yoshimoto, a questo proposito, Foucault fa riferimento all’operazione di depurazione di Marx da Hegel compiuta da Engels in termini che vale la pena riportare per intero: Non ho mai smesso di chiedermi se il modo in cui Engels ha fatto tabula rasa di Hegel non comportasse, da qualche parte, un errore. Ma come è possibile, allora, superare un tale errore, per riferire alla nostra epoca tale problema? A me è sempre sembrato importante distinguere l’ambito della teoria della volontà in tre livelli: in primo luogo, quello che chiamerei l’ambito del fantasma individuale, poi quello – sociologico ed etnologico – della famiglia, della parentela e del sesso, infine quello che comprende il fantasma collettivo. E partendo dall’idea che, così dissociandolo, si poteva trarre profitto da quel che, di Hegel, Marx non aveva voluto liquidare, ho tentato poi di approfondire la questione. (Foucault 1978b, 244)
Tornando però alle prese di posizione nei confronti del marxismo, occore menzionare anche la polemica di Foucault nei confronti di quei marxistes empiristes et mous che diffidano, in realtà, del materiale storico concreto barricandosi dietro un rispetto dei testi che li incatena alla tradizione accademica (Foucault 1973a, 406). Con Yoshimoto cita il nome di Étienne Balibar, considerandolo autore di una lettura «tutta interna» a Marx che si preoccupa solo di mostrare quanto egli aveva previsto a partire dall’interpretazione di «una o due frasi» dei suoi testi, evitando però di confrontarsi con la storia reale e precludendosi, perciò, la possibilità di comprendere i problemi dell’attualità in una prospettiva genealogica. L’ammirazione per l’erudizione e l’abilità di Balibar non impedisce a Foucault di «sorridere», perché gli è chiaro il motivo che porta a intendere il compito del filosofo marxista
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in una sorta di ermeneutica infinita: «la permanenza degli apparati dello Stato borghese negli Stati socialisti», o la continuità fra «la struttura dell’esercito zarista» e quella «dell’Armata Rossa all’epoca di Trotskij», sono questioni storiche le cui conseguenze giungono fino al presente e che andrebbero perciò affrontate «sulla base dei dati storici reali che abbiamo a disposizione», non cercando di interpretare le spigolature di un testo (Foucault 1973b, 406-407)2. È una deriva accademica, questa, contro la quale Foucault si pronuncia più volte rimanendo del tutto in linea con la critica da lui rivolta a Derrida nella sua replica a Cogito e storia della follia: un’ermeneutica che riduce il discorso a una serie di «tracce testuali» per garantire l’autonomia del “testo” rispetto alla sua storia e per elidere gli «avvenimenti» che esso ha prodotto o che in esso si sono rispecchiati (Foucault 1961a, 508). La “metafisica della parola” che Foucault rintraccia in Derrida diventa, nel caso di Marx, la posta in gioco di una pretesa ortodossia che si risolve in una vera e propria dogmatica del tutto sterile, quando pretende di applicare concetti ricavati dal testo a una materia in continua trasformazione come quella dei campi storici. Il marxismo non è una scienza. Se però lo fosse, bisognerebbe essere consapevoli del fatto che non esiste scienza il cui sviluppo consista nei commenti alle tesi del suo fondatore (Foucault 1973b, 409). Per distinguersi da questa inclinazione accademica Foucault sostiene, in un’intervista del 1975, di praticare nei propri lavori una specie di gioco. Mi capita spesso di citare concetti, frasi, testi di Marx, ma senza sentirmi obbligato ad aggiungere il piccolo documento di identificazione che consiste nel fare la citazione di Marx, mettere accuratamente il riferimento a pié di pagina e accompagnare la citazione con una riflessione elogiativa. Mezzi attraverso i quali si è considerati come qualcuno che conosce Marx, che riverisce Marx e che sarà perciò a sua volta riverito dalle riviste cosiddette marxiste. Cito Marx senza dirlo, senza mettere le virgolette, e poiché non sono capaci di riconoscere i testi di Marx passo per uno che non lo cita affatto» (Foucault 1975c, 752).
Un fisico, aggiunge, non si sente obbligato a citare Newton o Einstein nelle sue ricerche di fisica. Ma se vi fosse il dubbio che un simile esempio riveli una certa condiscendenza verso l’immagine scientifica 2 Il saggio di Balibar al quale Foucault fa riferimento è La réification du “Manifeste communiste” (Balibar 1972, 38-64).
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del marxismo, basta leggere ancora poche righe per chiarire come Foucault abbia in mente di nuovo il problema della storia, dell’analisi dei suoi dati concreti a partire da una instaurazione discorsiva: È impossibile fare storia oggi senza usare un insieme di concetti che sono legati, direttamente o indirettamente, al pensiero di Marx e senza collocarsi in un orizzonte che è stato descritto e definito da Marx. Al limite, ci si potrebbe chiedere che differenza possa esserci fra l’essere storico e l’essere marxista (Foucault 1975c, 753).
Quell’orizzonte di ricerca non coincide con lo spazio della «comunistologia» definita dai Partiti Comunisti, i quali «indicano il modo in cui Marx deve essere utilizzato per poter essere proclamato, da loro, marxista» (ibidem). 4. Quello che in Marx non si trova Fino a questo punto la querelle tra Foucault e il marxismo del suo tempo, nel quale non esita a inscrivere anche uno dei suoi maestri, Louis Althusser, si può riassumere nell’atteggiamento che separa da un lato le filosofie del rispetto letterale, a cui appartiene anche la pretesa del monopolio intellettuale sull’autore rivendicato dal Partito Comunista, dall’altro un pensiero che incrocia il nome di Marx con quelli di Freud e Nietzsche alla ricerca di un punto di rottura con il passato e del momento inaugurale di un’esperienza moderna alla quale ancora apparterremmo3. Il Marx al quale egli guarda è, come abbiamo visto, essenzialmente lo storico e l’autore di una analisi della società che segnerebbero autentici punti di rottura rispetto all’epoca che lo precedette e che delineano, appunto, un nuovo ordine del discorso: «il 18 brumaio, ecco una storia che non ha nulla delle storie del xviii secolo» (Foucault 1976c, 166). Rimane però il fatto che proprio relativamente all’analisi sociale svolta da Marx, e al suo modo di intendere il potere, il percorso seguito da Foucault negli anni Settanta prenda le distanze più marcate da quel modello. 3 Nei confronti di Althusser, negando che le analisi economiche di Marx costituiscano una «rottura epistemologica» rispetto a quelle di Ricardo, e dunque riaffermando le tesi di Le parole e le cose, la posizione è presa in Foucault 1967e, 587.
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Pur continuando a ritenere marxista, nei fatti, l’esigenza di portare l’indagine sul terreno concreto della storia, l’impianto concettuale costruito da Foucault sembra funzionare come una messa in discussione sistematica dei principi del discorso di Marx. Non è qui il caso di misurare l’ampiezza e la portata delle singole critiche all’impianto marxista che emergono da Sorvegliare e punire (1975), da La volontà di sapere (1976), come pure dai testi dei Corsi tenuti al Collège de France in quegli anni, in particolare da quello di Bisogna difendere la società (1976). Sono questioni note, anzi sono probabilmente le più note a tutti coloro che hanno letto almeno una volta quei testi e che di lì hanno preso le mosse per una messa in mora del marxismo molto più radicale di quella fatta propria da Foucault stesso, come nel caso di uno dei suoi allievi più stretti, François Ewald, autore di un’analisi in questa direzione che ruota intorno al tema della biopolitica (Ewald 1986). È innegabile, tuttavia, che l’analitica del potere delineata in Sorvegliare e punire, e soprattutto l’idea conduttrice di una «microfisica del potere», abbiano avuto fra i loro obiettivi anche quello di rinnovare lo sguardo sulle dinamiche delle relazioni sociali portandolo verso una direzione ben distinta da quella di Marx e del marxismo. Il problema del corpo, per esempio, così com’è emerso nelle pratiche politiche del ’68, sembra a Foucault «profondamente antimarxista». Lo dichiara in un’intervista del 1975, Potere e corpo, rilasciata alla rivista «Quel corps?»: «in che modo i movimenti rivoluzionari europei potranno liberarsi da “l’effetto Marx”, dalle istituzioni proprie al marxismo del xix e del xx secolo? In questo senso si orientava il movimento [sc. del ’68]. Nel rimettere in discussione l’identità marxismo = processo rivoluzionario, identità che costituiva una specie di dogma, l’importanza del corpo è uno degli elementi rilevanti se non essenziali» (Foucault 1975d, 151)4. Di fronte all’obiezione dell’intervistatore, che gli segnala come «la coscienza dell’effetto di potere sul corpo nella situazione del lavoro» faccia parte dell’armamentario marxista, Foucault replica che il tipo di relazione con il corpo al 4 Va aggiunto che, poche righe sopra, Foucault si riferisce al ’68 come a un «processo politico» che non qualificava, però, come «rivoluzionario», assumendo al riguardo una posizione di dubbio: «non so se è rivoluzionario». Quando dunque, nella parte citata del testo, adotta questa espressione, lo fa per semplificare il discorso aderendo all’opinione comune, ma senza che il termine «rivoluzionario» ne risulti confermato o enfatizzato.
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quale ora si guarda è cambiato: «oggi le rivendicazioni sono piuttosto quelle del corpo salariato che non quelle dei salariati», mentre il discorso dei marxisti rimane legato a una serie di «temi rituali» che provengono dai testi di Marx e che hanno sepolto anche quanto di più interessante egli ha scritto sul corpo sotto gli imperativi della «coscienza» e dell’«ideologia». Bisogna anche «smarcarsi», prosegue, «da paramarxisti come Marcuse, che danno alla nozione di repressione un ruolo esagerato. Poiché, se il potere non avesse altra funzione che quella di reprimere, se non lavorasse che come censura, esclusione, sbarramento, rimozione, come una specie di grosso Super-io, se non si esercitasse che in modo negativo, sarebbe molto fragile: «se è forte, è perché produce effetti positivi a livello del desiderio […] e anche a livello del sapere» (Foucault 1975d, 152). Si può dire che questa dichiarazione riassuma bene la posizione del Foucault degli anni Settanta nei confronti di Marx e soprattutto del marxismo, pur sempre con l’inflessione che ormai conosciamo e che tende a distinguere le analisi concrete di Marx dal suo deposito in una dogmatica ideologica. Più ancora, è una buona sintesi dei problemi che Foucault non ha cessato di sollevare contro Marx e il marxismo nel tentativo di trovare le basi per un’analisi critica dei processi sociali che andasse pur sempre nella direzione di una prassi politica da reinventare. Al di là dei testi più noti, anche in quelli d’occasione, come le interviste, le sue prese di posizione al riguardo si moltiplicano. «Marx e Freud», dichiara per esempio nel corso di un dialogo con Gilles Deleuze del 1972, Gli intellettuali e il potere, «non sono forse sufficienti per aiutarci a conoscere questa cosa enigmatica, a un tempo visibile e invisibile, presente e nascosta, investita dappertutto, che si chiama potere. La teoria dello Stato, l’analisi tradizionale degli apparati di Stato non esaurisce probabilmente il campo d’esercizio e di funzionamento del potere» (Foucault 1972a, 125). In Marx si assiste sempre, ripete più volte, a un identico movimento di pensiero: si incontra la lotta di classe e ci si chiede cosa sia la classe, non cosa sia la lotta. Ma in questo modo si ipostatizza quasi una sostanza, identificata a sua volta con una coscienza, e si perde di vista la dinamica da cui sorgono i movimenti sociali (Foucault 1977b, 268). A causa dello stesso vizio teorico si ignorano le relazioni fra una classe e le relative pratiche biopolitiche (Foucault 1977c, 306), così come la preoccu-
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pazione di sviluppare una teoria dello Stato impedisce al marxismo e al socialismo di elaborare una propria «razionalità governamentale», vale a dire una misura «ragionevole e calcolabile» dell’estensione e degli obiettivi della propria pratica di governo. Marx, e dopo di lui il marxismo, si sono posti il problema di una «razionalità storica» e di una «razionalità economica» della quale si è discusso fino all’esaurimento se fossero in grado di tenere o no. Al limite, si può dire che l’esperienza di governo dei marxisti si è dotata anche di una «razionalità amministrativa» capace di intervenire in campi come quelli della sanità o delle assicurazioni sociali. Ma oltre questi tre livelli, i primi due condizionati da una visione metafisica del potere e l’ultimo da un raggio d’azione troppo specifico e ristretto, non viene elaborato alcun tipo di «razionalità governamentale» autonomo. «Non c’è», afferma Foucault in una lezione del corso Naissance de la biopolitique (1979), «una razionalità governamentale socialista. Il socialismo infatti, la storia lo ha mostrato, non può essere messo in opera se non in collegamento su tipi di governamentalità diversi», nati altrove rispetto ai suoi principi, cioè, e non messi in discussione dalla sua pratica (Foucault 1979a, 93). Si è coniugato con una governamentalità liberale, diventando quasi una sorta di «contrappeso» e di «correttivo» rispetto ai rischi interni di quel sistema. Oppure si è coniugato con una governamentalità «iperamministrativa» coerente, di fatto, con quella di uno stato di polizia, nel contesto del quale le istanze socialiste funzionano come una logica interna degli apparati amministrativi stessi (Foucault 1979a, 93-94). È persino possibile che la fissazione accademica sull’interpretazione della parola di Marx abbia funzionato come un tentativo di rimediare a questa mancanza di governamentalità autonoma: «l’importanza del testo nel socialismo è, credo, proporzionale alla lacuna rappresentata dall’assenza di un’arte socialista del governare» (Foucault 1979a, 95). 5. L’impoverimento dell’immaginazione politica Con queste ultime parole si tocca il cuore delle preoccupazioni di Foucault nei riguardi di Marx e del marxismo: preoccupazioni che in nessun modo possono essere collocate nel solco delle influenze presenti o assenti, del consenso o del dissenso teorico, della fedeltà o
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meno a un’idea di filosofia intesa come semplice interpretazione della realtà sociale o come elaborazione di una pratica critica. E il cuore sta tutto nel problema della elaborazione di un «nuovo immaginario politico» rispetto al quale il marxismo, assai più di Marx, gli sembra avere operato come una sorta di gigantesco inibitore storico (Foucault 1978b, 245). «Quello che mi interessa», dichiara ancora nella conversazione con Yoshimoto, «è di suscitare, appunto, una nuova immaginazione politica. Una delle caratteristiche della nostra generazione – ma probabilmente anche di quella che ci precede, così come di quella che viene dopo di noi – è rappresentata dalla mancanza di immaginazione politica» (ibidem). C’è quasi un accento benjaminiano nel modo in cui Foucault riferisce, qui, agli uomini del xviii e del xix secolo «la facoltà di sognare l’avvenire della società umana»: l’utopia, che Foucault ha per lo più disprezzato e nella quale Deleuze, invece, riconosceva la forma più alta di critica al presente che una società abbia mai saputo esprimere, viene in questa circostanza rivalutata proprio come capacità di immaginare un futuro diverso, di franchir la limite, come pure si potrebbe dire pensando al linguaggio del primo Foucault. Non si tratta, naturalmente, solo di un deficit di fantasia, ma in gran parte anche di un deficit di coraggio: un termine, quest’ultimo, che com’è noto compare di frequente nei testi dell’ultimo Foucault. Il «progressivo inaridimento», l’«impoverimento» della nostra immaginazione politica è in buona parte, egli sostiene, da addebitare al marxismo. «Marx non esiste», avrebbe detto in un’altra occasione, «è solo un’entità costruita intorno a un nome proprio» dal marxismo (Foucault 1976c, 38). Parlando con Yoshimoto si esprime in maniera diversa, risalendo dagli epigoni al fondatore di un nuovo ordine discorsivo: «Marx è un fatto», è «un essere incontestabile come evento storico», ripudiare il quale o «cercare di trascenderlo sarebbe una cosa sprovvista di senso come negare la battaglia navale del mar del Giappone», al largo di Tsushima. Il marxismo, invece, è «una somma di rapporti di potere, o meglio una somma di meccanismi e di dinamiche di potere» che esiste «in quanto causa dell’impoverimento, dell’inaridimento dell’immaginazione politica» (Foucault 1978b, 246). “Tornare a Marx” non può essere, per Foucault, una parola d’ordine, se non a patto di rinunciare a un esercizio di analisi testuale e di raccogliere la sfida di un pensiero nuovo capace di proiettarsi verso il
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futuro e di passare il limite del presente. Era questo, in fondo, il programma di rinnovamento dell’impresa critica kantiana che Foucault aveva proposto nel suo celebre saggio su Bataille e la «trasgressione», testo mai abbastanza valorizzato come esplicitazione delle ricadute politiche della sua filosofia. Ed è questo, nei confronti di Marx, un gesto di paradossale fedeltà che invita a «sbarazzarsi del marxismo», come recita il sottotitolo del dialogo con Yoshimoto, in nome della produzione di un nuovo immaginario politico. Negando di volersi esaurire nell’interpretazione e nel commento, quello di Foucault è un pensiero della pratica politica radicato su un’istanza di analisi storica che egli attribuisce direttamente all’eredità di Marx. Immaginare una nuova forma di governamentalità è il compito più impegnativo e stringente che egli ci ha lasciato, pochissima importanza avendo il fatto che la si voglia o no continuare a chiamarla socialista. «Il socialismo non è l’alternativa al liberalismo. Non appartengono allo stesso livello, anche se vi sono livelli nei quali si urtano, nei quali non vanno bene insieme. Da cui la loro possibilità di simbiosi infelice» (Foucault 1979a, 95). Ma una nuova governamentalità richiede un lavoro dell’immaginazione che si affranchi dagli schemi accademici e dogmatici che l’hanno impoverita. Non possiamo pensare di trovarla «nascosta all’interno del socialismo e dei suoi testi. Non la si può dedurre da lì. Occorre inventarla» (Foucault 1979a, 95). Mai come oggi, una simile affermazione suona attuale alle nostre orecchie e spinge a non guardarci intorno solo con rassegnazione e pessimismo.
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3. La prigione oltre la teoria
1. La nascita del Gip Tra la fine del 1970 e l’inizio del 1971 una serie di proteste e di rivolte scosse il mondo delle prigioni francesi: scioperi della fame, ammutinamenti, presa di ostaggi. Una grande ondata di arresti aveva colpito poco prima il movimento giovanile francese, investendo in particolare la fazione maoista riunita nel gruppo Maggio 1968 e lo staff della rivista «La Cause du Peuple». Dopo la cosiddetta Loi-anticasseurs, approvata il 1° giugno 1970 per contenere i disordini a Parigi e in altre città, vennero arrestati più di duecento militanti dei movimenti di sinistra. La presenza di un alto numero di prigionieri politici è stato certamente uno dei fattori scatenanti delle rivolte nelle prigioni francesi e anche uno dei motivi per cui queste proteste furono organizzate pensando fin dal principio al coinvolgimento dell’opinione pubblica. Fuori dalle prigioni vennero formate diverse organizzazioni per dare sostegno ai giovani che erano stati vittime di queste massicce misure di carcerazione. Organizzazioni molto note in Francia come Secours Rouge o come la Organisation des Prisonniers Politiques nacquero precisamente nel 1970. Tuttavia il Gip, Groupe d’information sur les prisons, la cui Fondazione fu annunciata da un Manifesto pubblico datato 8 febbraio 1971, aveva un programma diverso dagli altri, perché invece di concentrarsi sul problema dell’imprigionamento politico spostava l’attenzione sulle condizioni generali della vita in carcere. Il Manifesto del Gip era firmato da Jean-Marie Domenach, un intellettuale cattolico che durante la Seconda Guerra Mondiale aveva animato la resistenza degli studenti universitari di Lione e che in seguito prese posizioni anticoloniali, in particolare durante la guer-
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ra d’Algeria; da Pierre Vidal-Naquet, storico del mondo antico che aveva preso ugualmente posizioni anticoloniali durante i fatti d’Algeria e che era stato fra i primi, nel 1967, a esprimersi in favore della creazione di uno stato palestinese indipendente; infine da Michel Foucault, il cui indirizzo parigino del n. 285 di rue de Vaugirard era diventato il quartier generale dell’organizzazione. Il testo era diretto e conciso: soltanto una pagina per denunciare la carenza di informazioni sulle prigioni e reclamare il diritto di sapere come funzionavano, le condizioni di vita, lo stato degli edifici, la situazione igienica e la qualità del cibo, delle cure mediche, dei laboratori e così via. Gli autori affermavano di voler sapere perché le persone andavano in prigione e come potevano uscirne. In breve, il loro scopo era dissotterrare una realtà che si poteva definire come «una delle regioni nascoste del nostro Sistema sociale e una delle scatole nere delle nostre vite». 2. L’intollerabile Altre figure di spicco dell’intellettualità francese si unirono al Gip nei mesi seguenti, fra queste Daniel Defert, Gilles Deleuze, Jean-Paul Sartre. La maggior parte dei suoi attivisti, tuttavia, era composta da parenti dei prigionieri comuni e, come ha ricordato Daniel Defert, nel giro di pochi anni l’organizzazione fu capace di promuovere ben 35 rivolte carcerarie. All’interno del Gip Foucault era l’unico che aveva svolto ricerche sulle pratiche di internamento durante la sua carriera accademica, con Storia della follia (1961), e sarebbe stato anche l’unico a sviluppare l’esperienza politica di quegli anni in un nuovo campo di ricerca relativo proprio all’istituzione carceraria: i corsi che tenne al Collège de France fra il 1972 e il 1973, Teorie e isitituzioni penali e La società punitiva, rappresentavano il primo abbozzo dei contenuti da lui sviluppati in Sorvegliare e punire, libro del 1975 che avrebbe avuto come sottotitolo La nascita della prigione. Era inevitabile, perciò, che egli fosse sollecitato più di ogni altro membro del Gip a prendere posizione pubblicamente sulla situazione carceraria non solo come militante, ma anche come teorico. In un’intervista rilasciata a una rivista svizzera nel 1972 disse che gli era stato chiesto «un migliaio
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di volte» di scrivere un articolo sulla prigione ideale, o se non altro sulla migliore prigione possibile, e che mille volte aveva risposto che si trattava di una questione completamente fuori dai suoi progetti e dai suoi interessi (Foucault 1972b, 81). Foucault ha cercato il più possibile di tracciare una linea di demarcazione fra le sue attività di militante e di ricercatore, seguendo l’idea che non vi sia una relazione consequenziale fra ciò che si pensa e ciò che si fa: «le “migliori” teorie non proteggono affatto da scelte politiche disastrose», come ha dimostrato l’esempio di Heidegger, e «certi grandi temi, come l’“umanesimo”, possono servire a qualsiasi cosa», come dimostrano gli omaggi resi a Hitler da Max Pohlenz, il grande storico dello stoicismo antico (Foucault 1984b, 585). Anche nell’intervista del 1972 Foucault ribadiva questa convinzione, dicendo per esempio: «preferirei non fosse posta alcuna relazione tra il mio lavoro teorico e la mia attività nel Gip. È importante per me» (Foucault 1972b, 296). E tuttavia quella relazione non solo esisteva, come lui stesso ebbe a riconoscere qualche riga dopo, ma era qualcosa che suscitava in lui un senso di malessere riguardo ai temi della sua ricerca. La militanza si rifletteva nel lavoro teorico e questo, d’altra parte, tendeva a rispondere al disagio nei confronti delle misure di polizia con cui si era reagito al Maggio 1968, con processi di discriminazione e di carcerazione di massa: spettri di un passato lontano, e in linea di principio superato, ma che erano stati artificialmente e sorprendentemente riattivati nel presente. Questo tipo di connessione tra l’attività militante e la teoria ha lasciato un segno molto significativo all’inizio di Sorvegliare e punire: «che le punizioni, in generale, e la prigione derivino da una tecnologia politica del corpo, è forse meno la storia che non il presente ad avermelo insegnato» (Foucault 1975a, 24). Era impossibile per lui rimanere in silenzio rispetto al suo rapporto con un’attività politica nella quale all’epoca aveva investito tante energie e che lo aveva visto prendere spesso posizione nel dibattito pubblico. È utile riportare per intero la pagina di Sorvegliare e punire che rivendica questa relazione: Nel corso di questi ultimi anni, un po’ ovunque nel mondo si sono prodotte rivolte nelle prigioni. I loro obiettivi, le loro parole d’ordine, il loro svolgimento avevano sicuramente qualcosa di paradossale. Erano rivolte contro tutta una miseria fisica che dura da più di un secolo: contro il freddo, il
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soffocamento e l’affollamento, contro i muri vetusti, contro la fame, contro i colpi. Ma erano anche rivolte contro prigioni modello, contro i tranquillanti, contro l’isolamento, contro il servizio medico o educativo. Si trattava di rivolte i cui obiettivi non erano che materiali? Rivolte contraddittorie, contro il decadimento ma anche contro il confort, contro i guardiani ma anche contro gli psichiatri? In effetti, in tutti questi movimenti era proprio di corpi e di cose materiali che si trattava, come se ne tratta in quegli innumerevoli discorsi che la prigione ha prodotto dall’inizio del secolo xix. Ciò che ha generato quei discorsi e quelle rivolte, quei ricordi e quelle invettive, sono proprio piccole, infime materialità. Libero, chi vorrà, di vedervi solo cieche rivendicazioni o di supporvi strategie straniere. Si trattava veramente di una rivolta, a livello dei corpi, contro il corpo stesso della prigione. Ciò che era in gioco, non era la cornice troppo frusta o troppo asettica, troppo rudimentale o troppo perfezionata della prigione, era la sua materialità nella misura in cui è strumento e vettore di potere, era tutta la tecnologia del potere sul corpo, che la tecnologia dell’«anima» – quella degli educatori, dei filosofi e degli psichiatri – non riesce né a mascherare né a compensare, per la buona ragione che essa non è che uno degli strumenti. È di questa prigione, con tutti gli interventi del potere politico sul corpo che essa riunisce nella sua architettura chiusa, che io vorrei fare la storia. Per puro anacronismo? No, se intendiamo con questo fare la storia del passato in termini del presente. Sì, se intendiamo con questo fare la storia del presente. (Foucault 1975a, 24)
Chi è interessato alla ricostruzione del pensiero di Foucault può trovare in questa pagina più di un elemento che permette di illustrare la linea di una ricerca filosofica. In primo luogo il programma di una storia del presente. Quindi l’enfasi assegnata alle tecnologie dei corpi e all’idea del corpo stesso come punto di intersezione fra il potere e gli individui. Ancora, la convinzione che ogni istituzione, non importa quanto sia raffinata o evoluta, rifletta una molteplicità di relazioni di potere contingenti. Infine la conseguente fragilità di ogni istituzione, sempre vulnerabile di fronte a una critica in grado di ricostruire la sua storia e di riconoscerne la costitutiva debolezza. Chi invece preferisce andare al di là della ricostruzione di un pensiero e concentrarsi sul contributo di Foucault alla nostra comprensione delle prigioni può dirigere la sua attenzione sulle espressioni che definiscono alcuni campi di forze e di conflitti. Anzitutto la tensione fra l’energia delle rivolte e la materialità fisica da cui sono nate. Quindi il contrasto fra il corpo della prigione e il corpo dei prigionieri. Ancora, la ribellione contro la punizione e contro le cure mediche, cioè contro il degrado e contro il confort. Infine il divario
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tra le tecnologie del corpo e le tecnologie dell’anima. Queste tensioni individuano un campo che Foucault considerava fondamentale per valutare il tipo di pressione esercitato dal sistema delle punizioni: il «carcerario», ovvero il regime di pratiche concrete, e non giuridiche, a cui sono sottoposti quotidianamente tutti i carcerati. Solo se neghiamo la contingenza delle nostre istituzioni penali possiamo pensare che la detenzione appartenga alla natura dei nostri legami sociali. Solo senza interrogare il senso storico dell’imprigionamento come tale possiamo concepire la prigione come un fenomeno costante che sia sottoposto nel tempo a forme di aggiornamento e di miglioramento. Il vero punto di sutura fra l’opera teorica di Foucault e la sua attività di militante nel Gip si trova lì dove le rivolte dei prigionieri sottolineano precisamente la storicità delle istituzioni penali. I prigionieri lottano contro l’«intollerabile», una parola spesso ripetuta nei documenti del Gip. E intollerabile, secondo Foucault, è proprio ciò che fa esplodere il contrasto fra la contingenza storica di un’istituzione e il suo potere effettivo nel presente. Per affrontare il crimine la società occidentale non ha ancora escogitato un sistema diverso da quello della detenzione. Ma la prigione stessa diventa intollerabile, come istituzione, quando viene vista come la contropartita naturale del crimine e quando i suoi metodi di coercizione vengono applicati su larga scala, diventando un modello di intervento generalizzato. La prigione, perciò, non è intollerabile solo quando è fatisciente e non diventa tollerabile quando è sana. Poiché veicola un potere, il suo impatto dipende dal modo in cui questo potere si esercita, rivelando l’atteggiamento di un’epoca nei confronti di quanto essa relega ai margini dei legami sociali. 3. Scienza della prigione e scienza dei criminali Nel passaggio fra Sette e Ottocento, il sistema delle punizioni e la pratica dell’internamento vennero radicalmente trasformati da un insieme di fattori concomitanti: l’affermazione di una serie di meccanismi capillari di sorveglianza e di controllo richiese l’istituzione di un apparato di gestione centralizzato e questo, a sua volta, la creazione di una rete di sistemi periferici non necessariamente di tipo carcerario. «Un sistema generale di sorveglianza-reclusione», scrive
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Foucault, «penetra tutto lo spessore della società, assumendo forme che vanno dalle grandi prigioni costruite sul modello del Panopticon sino alle società di patronato e trovano il loro punto di applicazione non soltanto fra i delinquenti, ma anche tra i bambini abbandonati, gli orfani, gli apprendisti, i liceali, gli operai, ecc.» (Foucault 1973, 37). Ciò che lega queste pratiche diverse è una nuova considerazione dei corpi, non più semplicemente assoggettati a un potere che può disporne fino al limite della loro distruzione. Questo accadeva ancora nell’ancien régime, e i supplizi descritti da Foucault sono la testimonianza eloquente di questo atteggiamento nei confronti del corpo dei condannati. Ma con l’affermarsi delle discipline, con il diffondersi della rivoluzione industriale e la trasformazione dei sudditi in lavoratori, i corpi sono diventati utili, una sorta di capitale sociale su cui non si potevano applicare punizioni di tipo distruttivo. La reclusione moderna, intesa come sistema di ravvedimento, di rieducazione, di avviamento al lavoro e di reinserimento nella società, è dunque il risultato di processi storici che hanno definito la prigione prima di ogni intervento della legge e per rispondere a esigenze sociali più vaste della lotta al crimine. La teoria penale ha dovuto provare a giustificarla post factum, nota Foucault, aderendo a una spinta sociale che ormai rispecchiava un profondo cambiamento di atteggiamento nei confronti della punizione. Nell’arco di mezzo secolo l’Europa era passata dallo spettacolo delle esecuzioni pubbliche alla prescrizione di un impiego del tempo in stato di detenzione (Foucault 1975a, 7). Quel che era venuto emergendo, e si era imposto, era un meccanismo di controllo che faceva percepire più chiaramente come una minaccia i vecchi metodi di accanimento sui corpi. Tutti gli scandali sorti nel passaggio fra il xviii e il xix secolo intorno all’economia della punizione, le nuove giustificazioni del diritto di punire, sostenute da un punto di vista politico oppure morale, erano soltanto conseguenze di questo mutamento nel nostro modo di considerare i corpi umani: perché potessero diventare utili, era necessario proteggerli dalle aggressioni del precedente sistema penale e persino educarli, allenarli a un nuovo tipo di lavoro che richiedeva una certa dose di abilità e molta resistenza fisica. Foucault descrive la nascita del concetto di “forza lavoro” in termini che ricordano molto quelli impiegati da Hannah Arendt nel suo The Human Condition, testo noto in italiano con il titolo Vita activa (1957), e che sono invece più lontani da
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quelli dell’economia classica. La prigione, secondo Foucault, è uno specchio della nostra società e della sua storia, ma può anche essere vista come il diario dei cambiamenti nascosti che hanno determinato un passaggio cruciale in direzione della modernità. Nei primi decenni del xix secolo era già chiaro che in prigione l’applicazione di una sentenza non era strettamente regolata dalla legge. «Il carcerario» era una sorta di potere indipendente che agiva dentro le prigioni stabilendo, senza far ricorso a nessuna decisione di una corte di giustizia, le condizioni della vita quotidiana dei detenuti: il loro diritto a momenti d’aria, i loro contatti con altri prigionieri e con i visitatori provenienti dal mondo esterno alla prigione, i loro scambi epistolari, il loro cibo e così via. La durezza o la morbidezza della punizione venivano decise nella prigione stessa, luogo dove le autorità dominavano come dei sovrani locali. Nel 1818 il politico francese Élie Decazes disse che la legge non penetrava nella prigione e che l’intero sistema dell’imprigionamento rappresentava un enigmatico pericolo. Mescolando prigionieri condannati per crimini differenti, la prigione finiva per creare una comunità omogenea e un gruppo organizzato di nemici, tutti associati contro la società esterna. Inoltre dando ai detenuti cibo, vestiti e un salario per il lavoro che facevano, la prigione offriva una vita migliore di quella degli operai nelle fabbriche. In questo senso la prigione veniva vista come un’istituzione che, invece di scoraggiare il crimine, lo incoraggiava e lo rendeva più forte. Il circolo del «carcerario» – è l’espressione che Foucault usa come sostantivo per definire tutto il regime interno alla prigione – veniva inoltre a volte valorizzato per inventare e sperimentare forme di punizione alternativa. La pratica della deportazione, anche associata con le imprese di colonizzazione e con la costituzione di eserciti coloniali, seguendo il modello della Legione Straniera, era un tentativo di evitare gli inconvenienti che derivavano dall’imprigionamento. Ma anche la forma interna delle prigioni veniva chiamata in causa, anche il cambiamento più efficace andava nella direzione che trasformava il “circolo carcerario” in una categoria antropologica: il primo progetto era stato quello di stabilire una “scienza delle prigioni”, teorizzata per esempio in Francia da Julius e Charles Lucas intorno al 1836, ma il risultato finale fu piuttosto quello di una nuova “scienza dei criminali”, una disciplina costruita con elementi presi dalla psicologia, dalla fisiognomica, dalla psichiatria, dall’analisi psicopatologica
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e dalla sociologia (Foucault 1973a, 29). Una scienza delle prigioni avrebbe dovuto definire le linee guida di un’istituzione orientate verso la correzione del criminale: architettura, igiene, amministrazione, uso del tempo, pedagogia. Una scienza dei criminali definisce invece la delinquenza come una deviazione e l’imprigionamento come una reazione infelice ma necessaria. Con le parole di Foucault: Ciò che all’inizio del xix secolo e con altre parole veniva rimproverato alla prigione (il fatto che costruisse una popolazione “marginale” di “delinquenti”) viene ora considerate inevitabile. Non soltanto lo si accetta come un fatto, ma lo si costituisce come dato primordiale. L’effetto “delinquenza” prodotto dalla prigione diventa il problema della delinquenza, cui la prigione deve dare una risposta adeguata. Rovesciamento criminologico del circolo carcerario. (Foucault 1973a, 29-30)
L’affermazione di questa nuova scienza dei criminali appartiene allo stesso periodo in cui si spegne il dibattito pubblico sui problemi dell’imprigionamento. Con il suo tipico piacere per l’individuazione di una data storica, Foucault colloca questo momento intorno al 1848. A quel tempo la prigione era diventata uno degli strumenti più importanti per ridefinire la relazione fra il potere e il corpo, ora considerate come vettore della forza-lavoro. Perciò la prigione non è solo un’istituzione che può essere cambiata o migliorata a seconda dei periodi storici. È piuttosto una categoria del cambiamento antropologico e sociale oltre a essere, al tempo stesso, un sismografo del modo in cui una società tratta i suoi fenomeni marginali, espandendo i propri confini per includerli oppure semplicemente rigettandoli. 4. Il trattamento della marginalità Prendiamo per esempio le cronache della primavera 2016 e la vicenda della collocazione dei migranti che attraversano il Mediterraneo. Alla fine del mese di maggio di quell’anno ci sono state discussioni sul progetto di hotspot in mare aperto, galleggianti, proposto dal governo italiano per gestire la previsione di un aumento dei movimenti migratori nei mesi successivi: navi che avrebbero dovuto contenere e accogliere temporaneamente persone in arrivo dal Medio Oriente e dal Nord Africa per il tempo necessario alle ope-
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razioni di identificazione. Dopo una selezione effettuata al di fuori del territorio fisico della nazione, i migranti sarebbero stati portati a terra oppure espulsi, qualora non fosse stato concesso loro il permesso di restare. La Commissione Europea si era detta favorevole a questa soluzione avanzata da un governo guidato dal Partito Democratico, ma di fatto molto simile a quella suggerita tempo prima dalla Lega Nord, che aveva individuato nelle piattaforme abbandonate dalle compagnie del petrolio e del gas i luoghi idonei per stabilire campi temporanei per l’identificazione dei migranti. Contro questa decisione si sono schierate però tanto le agenzie umanitarie quanto la chiesa cattolica. Il vescovo Nunzio Galantino, all’epoca portavoce della Conferenza Episcopale Italiana, dichiarò in un’intervista che si trattava pur sempre di luoghi di detenzione e che l’incarceramento non era una risposta per migranti che avevano comunque il diritto di reclamare asilo. L’uso delle navi non avrebbe permesso di seguire le procedure nel rispetto delle leggi internazionali sulla protezione di chi fugge da una guerra, da uno stato di oppressione o anche solo dalla miseria: «è impensabile usare le navi che stazionano nel Mediterraneo per trattenere migliaia di persone in attesa di una destinazione non specificata. A meno che non le si voglia portare indietro, nei porti della Libia e dell’Egitto, condannandole inevitabilmente a nuove forme di sfruttamento» (Galantino 2016). Le navi come prigioni galleggianti erano inconcepibili prima di queste ondate migratorie, ma soprattutto non lo erano prima che in Austria e in Ungheria si pensasse a costruire muri per fermare i movimenti di popolazione, prima che le autorità europee abbandonassero la gestione dei migranti ai Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, in breve prima che fosse presa una decisione politica, implicita o esplicita, sul trattamento delle popolazioni marginali. Si può immaginare, nel migliore dei casi, che in futuro questi hotspot galleggianti sarebbero potuti diventare più o meno confortevoli, si può fantasticare sul fatto che avrebbero potuto avere cabine singole, aria condizionata e televisione, o addirittura che potessero finire per somigliare alle navi da crociera di lusso, con piscine, sale per il fitness e per la danza, ristoranti a cinque stelle. Il fatto della detenzione non sarebbe stato comunque rimosso e il trattamento delle persone in fuga dalle loro case sarebbe stato pur sempre il frutto di una decisione politica sul loro futuro.
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Lo stesso è per la prigione. La si può cambiare o migliorare, ma il rapporto fra l’illegalità e l’imprigionamento eccede ogni progetto di riforma e ogni dibattito sui limiti o sugli scopi della prigione. Foucault ha mostrato che le riforme hanno sempre fatto parte della prigione, considerate come un fenomeno storico, e che fin dall’inizio esse accompagnano l’evoluzione del carcere. Naturalmente ogni società ha bisogno di difendersi dall’illegalità e dal crimine, e naturalmente tutti quelli che passano una parte più o meno lunga della loro vita in prigione sono interessati ai progetti di miglioramento. Ma un’idea di base del lavoro del Gip era di non sviluppare teorie sulla prigione ottimale, bensì di chiedere puntualmente ai detenuti stessi ciò di cui avevano bisogno e che volevano, nella convinzione che fossero le persone più competenti al riguardo. Perché pensiamo che la prigione sia la migliore risposta possibile all’illegalità? Abbiamo ancora bisogno di prigioni oppure possiamo pensare ad altre misure per affrontare e contenere la criminalità? In un sistema generalizzato di controllo e di punizioni, quella che Foucault chiama l’età delle discipline, la prigione non aveva l’effetto indesiderato, ma proprio il compito di produrre la delinquenza, un ingranaggio importante all’interno di quel sistema di governo. La carcerazione, secondo Foucault, era uno degli elementi fisici che assicurava la visibilità del soggetto e permetteva di agganciare l’esercizio del potere all’educazione e all’uso del corpo. Ma oggi? Viviamo ancora in una società disciplinare? Non siamo passati attraverso l’età del biopotere e attraverso una significativa riduzione di quello che ci si aspetta dalla prigione? La rieducazione, il recupero, l’addestramento sembrano essere ormai obiettivi di un’epoca passata, mentre l’opera di contenimento dei prigionieri non implica più l’idea di una redenzione sociale, o almeno non la implica per larga parte di coloro che entrano in prigione solo con la prospettiva di uscirvi per ritornare nella loro condizione di marginalità assoluta. Si potrebbe allora definire la prigione un anacronismo? Era questo suo essere fuori tempo ciò che il Gip definiva intollerabile? Oppure stiamo lavorando ancora per produrre sempre nuovi fenomeni di esclusione e di delinquenza, come indica l’esempio delle navi galleggianti per identificare e selezionare i migranti? La risposta certamente non è semplice, tanto più che un ritorno alla società del controllo e della punizione sembra essere non solo
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una realtà attestata dai fatti, ma anche il principale desiderio manifestato da società che fanno fatica a immaginare il futuro e cercano di proteggersi da tutto quello che viene percepito come una minaccia ben visibile, incarnata dal corpo dei delinquenti e dei migranti, non messa in capo agli automatismi dei nostri sistemi di governo. 5. Una tecnologia dell’esclusione “Discontinuità” è una delle parole chiave della filosofia di Michel Foucault. Rifiutando la visione tradizionale che legge la storia lungo una linea retta, come una catena di fatti e di conseguenze, rifiutando di adottare categorie come “evoluzione” e “progresso” per spiegare il movimento del processo storico, Foucault traduce nei suoi propri termini l’idea di “rottura” introdotta da Gaston Bachelard nell’epistemologia. Anche la Nouvelle Histoire che in Francia si era concentrata sui fenomeni di lunga durata, e che aveva avuto come centro propulsore la rivista «Les Annales», gli sembrava andare nella direzione di una presa di distanza dai modelli di comprensione storica più consolidati, come sottolinea nell’introduzione a L’archeologia del sapere: i vecchi problemi dell’analisi tradizionale (quale legame stabilire tra avvenimenti disparati? Come fissare tra loro un nesso necessario? Qual è la continuità che passa attraversa di loro e il significato complessivo che finiscono per assumere nel loro complesso? Si può definire una totalità, oppure ci si deve limitare a ricostituire delle concatenazioni?) vengono ormai sostituiti da domande di altro genere: quali strati bisogna isolare gli uni dagli altri? Quali tipi di serie instaurare? Quali criteri di periodizzazione adottare per ciascuna di esse? Quale sistema di relazione (gerarchia, dominanza, stratificazione, determinazione univoca, causalità circolare) si può descrivere tra di loro? (Foucault 1969a, 6)
Le lunghe durate non sono omogenee, non proiettano le «peripezie politiche» e i «loro episodi» su uno sfondo unitario, ma individuano le persistenze e i cambiamenti, «i processi irreversibili, le regolazioni costanti, i fenomeni di tendenza che giungono al culmine e mutano direzione dopo continuità secolari». Invece di cercare la coerenza fra gli eventi della storia politica, la Nouvelle Histoire ha fatto emergere gli «strati sedimentari» di una civiltà materiale che non può essere neppure affrontata secondo un’unica prospettiva, ma
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richiede l’individuazione di una molteplicità di differenze e di divisioni. «Alle successioni lineari, che avevano costituito fino a quel momento l’oggetto della ricerca, si è sostituita una serie di sganciamenti in profondità» (Foucault 1969a, 5). Ogni periodo può rivelare dietro di sé «molti passati», molte possibili rotture, e compito degli storici è appunto riconoscere i luoghi, i momenti in cui si producono delle smagliature e si diversificano reti di avvenimenti che normalmente consideriamo come facenti parte di un unico fenomeno. Al centro dell’attenzione storica, perciò, non ci saranno più le successioni dinastiche, i rovesciamenti di governo, le guerre, le grandi carestie, ma realtà che prima dell’intervento della scuola delle «Annales» a malapena sembravano offrirsi alla possibilità di una comprensione storica: «storia delle vie marittime, del grano o delle miniere d’oro, storia della siccità e dell’irrigazione, storia della rotazione agricola, storia dell’equilibrio tra la fame e la proliferazione raggiunto dalla specie umana» (Foucault 1969a, 6). I meccanismi di internamento e di esclusione rappresentano per Foucault una delle strutture di lunga durata delle nostre società. Prima ancora di ricostruirne la storia occorre mostrarne la storicità, spesso negata o semplicemente non percepita. Anche la prigione non è una realtà costante, un’entità storica che avrebbe solo conosciuto variazioni, adattamenti e progressi nel corso del tempo e la cui durezza è dipesa essenzialmente dai cambiamenti nella severità delle punizioni. È piuttosto l’istituzione che ha dato forma alle pratiche di internamento e che si è posta come espressione fisica di un gesto sociale, quello appunto rappresentato dai meccanismi di esclusione. Nel Medioevo, racconta allora Foucault, l’imprigionamento era fondamentalmente un trattamento medico e religioso per contenere il disadattamento e la diversità. Solo in età moderna si è sviluppato e specializzato come un metodo per la punizione del crimine, per quanto ancora nel xviii secolo la prigione fosse in primo luogo uno strumento di conoscenza, una tecnologia attraverso la quale il potere definiva gli individui e faceva presa su di loro. Senza essere ancora parte integrante della teoria penale, la prigione era in quell’epoca un’espressione particolarmente luminosa della razionalità e dell’etica di un nuovo sistema sociale basato su un meccanismo di controllo molto esteso. All’interno di questo sistema la prigione era un’istituzione rispettata e di cui le persone potevano andare fiere. Si erano af-
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fermate forme di punizione «più gentili» che parlavano il linguaggio della dignità umana e che di fatto corrispondevano a un potere non più interessato alla distruzione dei corpi. Il vecchio spettacolo della legge che rendeva visibili i criminali nel momento della tortura e del supplizio venne sostituito da punizioni basate sull’impiego del tempo nel chiuso della prigione, una specie di modello sociale ripreso anche sul piano del lavoro salariato al tempo della rivoluzione industriale. La base di questa profonda rottura storica era rappresentata da un sistema di sorveglianza meticoloso, attentissimo ai dettagli, molto diffuso e soprattutto – a differenza di quanto avveniva in precedenza con la ritualità del potere sovrano – raramente visibile, al punto da potersi confondere con un automatismo delle società umane, se non con una delle caratteristiche “naturali” della loro evoluzione. La storia, tuttavia, non è finita con l’avvento di questo sistema, le discipline non rappresentano l’ultimo stadio delle nostre relazioni di potere. Foucault anzi ha mostrato come, all’interno del sistema da lui definito “biopolitica”, la prigione non svolga più un ruolo centrale. Fra il xviii e il xix secolo l’età delle discipline aveva avuto bisogno di un ordine sociale molto forte e lo aveva ancorato a una serie di istituzioni simili fra loro anche dal punto vista architettonico: scuole, fabbriche, ospedali e naturalmente prigioni. Il biopotere agisce diversamente: non si basa su un ordine da imporre alle attività umane e non forza né guida i processi storici, ma cerca piuttosto di regolarli. La prigione dunque non ha più, al tempo della biopolitica, la stessa funzione che aveva all’interno di una società del controllo. E allora cosa ne giustifica ancora l’esistenza, e cosa spiega il ricorso massiccio all’imprigionamento, nelle società occidentali, dopo il 1968? Abbiamo ancora bisogno della prigione? 6. Ascoltare i detenuti, criticare il presente Come si è detto, Michel Foucault non si è mai concentrato su una teoria della “buona” prigione, e neppure su quella di una prigione “migliore”, ma d’altra parte non si è nemmeno mai schierato per l’abolizione della prigione tout court. Mentre perciò lasciava aperta questa domanda teorica sulla necessità della prigione nel mondo attuale, si concentrava su casi particolari, problemi concreti, specifiche
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rivolte nelle prigioni francesi. «Se mi occupo del Gip», ha detto ancora nell’intervista del 1972 che qui è stata già citata, «è precisamente perché preferisco un lavoro effettivo alla chiacchiera universitaria e a scribacchiare dei libri». Ancora una volta, dunque, egli cerca di tracciare una linea di distinzione molto netta fra la sua ricerca e il suo impegno di attività: «scrivere oggi un seguito della mia Storia della follia che arrivi fino all’epoca attuale mi sembra privo di interesse. Al contrario, un’azione politica concreta in favore dei detenuti mi sembra del tutto sensata» (Foucault 1972b, 301). Eppure questa enfasi sulla distanza fra teoria, ricerca storica e azione militante è, dopo tutto, un’opzione teorica che Foucault avrebbe diversificato nel corso degli anni e che proprio la militanza nel Gip avrebbe in qualche modo maturato. Sorvegliare e punire non è un seguito di Storia della follia e non è neppure un manuale per l’azione in favore dei detenuti, ma è stato pur sempre il frutto di un rapporto con le rivolte delle prigioni dei primi anni Settanta, se non proprio con l’impegno nel Gip. D’altra parte il potere, seguendo quanto viene detto in quel libro, non è una sostanza, una realtà che si possa isolare, ma un insieme di relazioni che circolano e di cui tutti, in modi diversi, partecipano. Per questo il potere non può essere cambiato da una singola azione, per quanto efficace o spettacolare possa essere, ma solo da una serie di piccole azioni concrete, precise, come se solo una microfisica dell’azione politica potesse rispondere adeguatamente alla microfisica del potere stesso. L’azione politica deve perciò essere locale, puntuale, orientata verso singoli obiettivi che le persone possono realmente raggiungere e non proiettata verso orizzonti utopici. Il Gip voleva restituire la parola ai prigionieri: ascoltare le loro voci, le loro richieste, informare non solo per rendere visibile il loro mondo ma soprattutto per restituire visibilità a loro stessi in quanto portatori attivi di rivendicazioni politiche. «Quando i detenuti parlano si creano tantissimi problemi»: gli stessi giornali che chiedevano a lui insistentemente di scrivere articoli sulla prigione si rifiutavano poi di pubblicare i testi scritti dai detenuti, nei quali si diceva molto semplicemente “vogliamo questo e quello”. Siamo così poco abituati ad ascoltare ciò che i prigionieri hanno da dire che la stampa preferisce per lo più accontentarsi di una rappresentazione più astratta della realtà, ma corrispondente alle idee preconcette e all’immagine comune della prigione: piuttosto che
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3. la prigione oltre la teoria
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sentire la voce dei denuti «preferiscono le rivolte sui tetti». Ma «dal momento in cui i detenuti parlano, siamo portati subito nel cuore del problema» ed è per questo che «il primo passo da fare», in ogni caso, è sempre «dare la parola ai detenuti» (Foucault 1972b, 302). Nel giugno del 1971 il Gip pubblicò la prima Inchiesta sulle prigioni (Enquête sur les prisons): si trattava di questionari riempiti in forma anonima dai carcerati in almeno 20 prigioni diverse e consegnati ai membri del Gip seguendo vari escamotages. Daniel Defert ha raccontato che le persone, all’interno del Gip, avevano «pochissimi strumenti per verificare le informazioni» e praticamente nessuna possibilità «di identificare le fonti» (Defert 2003, 28). Qualcuno dalla prigione di Toul, piccola città nel Nordest della Francia, riferiva di pratiche di isolamento e di restrizioni talmente mostruose che erano difficili da credere. Si seppe poi che questa storia era stata portata all’attenzione del Gip da un cappellano della prigione e una rivolta a Toul, alla fine dello stesso anno, diede evidenza pubblica a uno scandalo cui gli stessi militanti, all’inizio, stentavano a dare credito: «l’informazione è una lotta», ha commentato Defert (Defert 2003, 29). Per riprendere le parole di Foucault, quando i detenuti parlano di cose materiali che gli interessano – avere o no una televisione nelle celle, essere o no autorizzati a giocare a pallone –, non stanno mettendo in questione delle inezie, ma nient’altro che «la condizione del cittadino comune in un mondo capitalista», la condizione delle «persone che hanno perduto sé stesse» e per le quali non c’è bisogno di trovare teorie, ma spazi in cui possano essere ascoltati e opportunità di parlare (Foucault 1972b, 305). Il circolo carcerario ha bisogno di essere conosciuto, reso visibile e superato. Per quanto all’inizio del xix secolo la prigione fosse considerata responsabile della creazione di delinquenza, le società occidentali hanno richiesto sempre più prigioni. Il vero problema, perciò, non è l’alternativa fra «prigione modello o abolizione della prigione», ma è criticare il modo in cui percepiamo, produciamo e trattiamo la marginalità sociale. Rispondendo a una precisa domanda del suo intervistatore («lei conosce una prigione modello?»), Foucault non ha difficoltà nel riconoscere che esistono, altrove, prigioni migliori che in Francia: «per esempio in Svezia», dove sulla via tra Uppsala e Stoccolma diceva di aver visto, già all’inizio degli anni Sessanta, un penitenziario che so-
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migliava a un edificio scolastico molto confortevole. Il problema non è però, ribadiva, mirare alla «prigione modello» o all’«abolizione della prigione». I processi di marginalizzazione che oggi noi produciamo attraverso il carcere prigione non sparirebbero automaticamente con la sua abolizione, perché la società si doterebbe di altri mezzi, altre tecnologie, altri strumenti per isolare una parte della società e definirla come un residuo rispetto alla parte buona della comunità. Tutte le opposizioni studiate e descritte da Foucault nella sua opera ricalcano, sostanzialmente, lo stesso schema: il folle e il ragionevole, il sano e il patologico, il normale e l’anormale. La prigione è stata la principale tecnologia per la produzione e il trattamento della marginalità da meno di tre secoli a questa parte. Può essere considerata perciò un’invenzione relativamente recente e, come tale, un’istituzione relativamente giovane. Per cambiarla e per renderla più vivibile non dobbiamo aspettare le soluzioni prospettate da giuristi, storici, filosofi ma, secondo Foucault, dovremmo ascoltare i detenuti, farli accedere a una forma di visibilità che non sia soltanto quella del controllo, restituire loro un ruolo politico attivo all’interno delle nostre istituzioni. Chi studia la società, a tutti i livelli, ha uno specifico dovere da assolvere: «offrire una critica del sistema che spieghi il processo attraverso cui la società attuale spinge ai margini una parte della popolazione» (Foucault 1972b, 306). Questo lavoro critico non è né un anticipo dell’impegno militante né una sua diretta conseguenza, ma lo costeggia in un lavoro di continuo confronto reciproco, nella convinzione che i cambiamenti si svolgono sempre su più piani, e che scavando da direzioni diverse si può giungere al centro della stessa galleria.
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4. Filosofia dell’urbanismo
1. La città, lo spazio del potere Il riferimento alla città compare due volte già nella prima pagina di Storia della follia. Si parla dell’espulsione della lebbra «ai margini della comunità, alle porte della città», e dell’istituzione di nuove «città maledette», i lebbrosari, che si moltiplicano sul territorio europeo fino a raggiungere la cifra di circa diciannovemila al termine dell’epoca delle Crociate (Foucault 1961a, 11). D’altra parte l’immagine della cinta muraria e delle porte, ovvero della possibilità di chiudere e aprire la città, regolando gli accessi e le ammissioni, viene richiamata lungo tutta la prima parte del libro per designare le tecniche di esclusione con le quali, lungo un arco di tempo che va molto al di là del Medioevo, le società europee hanno definito e protetto la propria identità. Il bordo oltre il quale l’alterità viene isolata, fissata e relegata somiglia molto, e non solo per metafora, a una cinta muraria che con la sua solidità divide il dentro dal fuori, il lecito dall’illecito, ma anche il vero dal falso, se si amplia il sistema degli interdetti a quello descritto nell’Ordine del discorso (1971). Eppure, nonostante la sua presenza aurorale, e nonostante le continue apparizioni nei lavori successivi a Storia della follia, l’importanza del tema urbano in Foucault non è ancora stata messa sufficientemente in rilievo dagli studi critici. Certo, nella maggior parte dei casi si tratta di un motivo che compare soltanto sullo sfondo e che, all’apparenza, costituisce solo una variante di quella grammatica dello spazio la cui funzione egli tentò di chiarire in un’intervista del 1976: «metaforizzare le trasformazioni del discorso tramite un vocabolario basato sulle categorie del tempo conduce inevitabilmente a usare il modello della coscienza individuale, con la sua temporalità
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specifica. Al contrario, […] metafore spaziali, strategiche, permettono di afferrare precisamente i punti nei quali i discorsi si trasformano in, attraverso e a partire da rapporti di potere» (Foucault 1976c, 33). E tuttavia, nel pensiero di Foucault la città non costituisce esclusivamente un esempio fra gli altri, né solo una metafora spaziale il cui significato possa essere semplicemente assimiliato a quello di altre. A mano a mano che il problema del potere viene portato al centro della sua ricerca, il problema della città mostra di occupare un ruolo sempre più specifico, con tutte le relazioni che essa incarna e con le tecniche di governo che richiede. A permettere di osservare più da vicino l’interesse nutrito da Foucault per il tema urbano sono soprattutto i testi dei corsi tenuti al Collège de France negli immediatamente successivi alla pubblicazione di Sorvegliare e punire (1975). Le pagine di Bisogna difendere la società(1976), e più ancora quelle di Sicurezza, territorio, popolazione (1978), offrono infatti elementi sufficienti per delineare una sorta di “filosofia dell’urbanismo” che costeggia in parallelo, e passo per passo, le diagnosi di Foucault sulle trasformazioni dei sistemi di potere dal Medioevo all’età moderna e fino all’avvento della società di massa. Attraverso le indicazioni che provengono da quei testi è possibile anche individuare la frattura epistemologica subita dall’architettura nel passaggio dall’età classica alla modernità e di collocarla, ancora una volta, in parallelo con quelle studiate da Foucault in Le parole e le cose (1966). Anche in questo caso si tratta pur sempre di indicazioni frammentarie, non di analisi compiutamente sviluppate. Ma se davvero la «cassetta degli attrezzi» che Foucault ci ha lasciato può permetterci di pensare con lui, ogni possibile indizio, specie se corposo, si rivela utile a comporre il quadro di una comprensione del nostro presente. 2. Problemi nuovi e specifici L’emergere della città come luogo non esclusivo, ma privilegiato per l’analisi dei mutamenti delle pratiche di governo, appare già chiara quando si prendono in esame alcuni degli scritti più noti di Michel Foucault. Ogni lettore di Sorvegliare e punire, per esempio, ricorda come la situazione d’emergenza della «città appestata» abbia fornito il modello descrittivo del primo insorgere del sistema disciplinare,
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inteso come «blocco» perché ancora appoggiato al peso dell’autorità sovrana, mentre il Panopticon di Jeremy Bentham rappresentava ai suoi occhi «il diagramma del potere moderno» proprio perché emblema di un passaggio ulteriore: quello che trasforma lo stato d’eccezione in automatismo, in procedura quotidiana di funzionamento della macchina sociale. I testi dei corsi al Collège de France, però, non prendono in considerazione soltanto esempi, modelli, diagrammi ispirati al governo della città o a macchine architettoniche. A delinearsi, semmai, è una prospettiva nella quale la città si trova al centro delle preoccupazioni sociali dalle quali emerge la dimensione biopolitica e che determinano il rapporto che questa intrattiene, di volta in volta, con il sistema delle discipline. Foucault chiama “biopolitica”, com’è noto, quella trasformazione delle relazioni di potere che ai meccanismi della sorveglianza associa e fa subentrare un principio di regolazione dei fenomeni di massa che prende in carico l’uomo non più come “corpo utile”, ma come “essere vivente”. Se le discipline ritagliano dalla molteplicità una unità artificiale, l’individuo, sottoposta a un addestramento continuo che ha come criterio di riferimento la sua “normalizzazione”, la biopolitica agisce piuttosto attraverso meccanismi di sicurezza che investono i «processi specifici della vita, come la nascita, la morte, la procreazione, la malattia» (Foucault 1976c, 209). E se le discipline sono una forma di «anatomia politica» che ha di mira i corpi individuali da educare, la biopolitica ha come unità di misura la popolazione, concetto biologico e politico che ha iniziato a delinearsi alla metà del xviii secolo e la cui comparsa ha lentamente spostato il baricentro delle relazioni di potere fino a collocarlo su coordinate che sono ancora in gran parte le nostre. Negli anni nei quali ha lavorato sulla nozione di “biopolitica” – più o meno dal 1976, ovvero da Bisogna difendere la società e da La volontà di sapere, al 1979, anno del corso su La nascita della biopolitica –, Foucault ha proposto diverse ricostruzioni cronologiche del passaggio dal sistema disciplinare a questa nuova riorganizzazione delle relazioni di potere, indicando periodizzazioni sensibilmente differenti riguardo non solo alla loro successione, ma anche al loro reciproco articolarsi in un insieme di pratiche nel quale compiaono contemporaneamente, sia pure con pesi diversi (cfr. Esposito 2004, 16 e sgg.). Al di là delle varianti che il suo disegno storico assume,
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e al di là delle importanti ripercussioni che comportano per la comprensione della biopolitica come tale, possiamo considerare un punto fermo il giudizio espresso da Foucault circa le motivazioni che hanno richiesto lo sviluppo di una logica della sicurezza fondamentalmente distinta da quella della sorveglianza, anche se tutt’altro che incompatibile con essa. Nella lezione del 25 gennaio 1978 tali motivazioni vengono immediatamente ricondotte al tema urbano: «è proprio il problema della città, credo, a essere al cuore dei diversi esempi dei meccanismi di sicurezza. E se è vero che il disegno della tecnologia delle sicurezze, molto complessa, appare verso la metà del xviii secolo, credo che questo accada nella misura in cui la città poneva dei problemi economici e politici, dei problemi di governo che erano, al tempo stesso, nuovi e specifici» (Foucault 1978a, 65). Problemi «nuovi» e «specifici», dunque, che impongono di pensare la città in modo diverso da quanto era stato fatto sino ad allora, di collocarla sotto un’altra scala di priorità la quale, a sua volta, comporterà una serie di mutamenti anche sul piano percettivo, estetico e progettuale. Nessuno di questi ordini di problemi è estraneo al gioco di un potere che si riorganizza cercando di funzionalizzare a proprio vantaggio le tecniche che già trova sul campo. Dal rapporto che i diversi saperi specialistici legati alla città intrattengono con le tecnologie della biopolitica emergerà, così, anche il nuovo ruolo assegnato all’architettura e all’urbanistica nel passaggio fra il xix e il xx secolo. 3. Il potere sovrano e il problema della capitale Nella lezione inaugurale del corso Sicurezza, territorio, popolazione, l’11 gennaio 1978, Foucault prende in esame tre casi esemplari che individuano il modo in cui lo spazio urbano è stato problematizzato nell’epoca compresa fra il sistema di ancien régime e l’insorgere delle preoccupazioni biopolitiche. Il primo esempio proviene da un trattato pubblicato ad Amsterdam nel 1682 da Alexandre Le Maître: La Métropolitée. Il sottotitolo, molto dettagliato, indica che lo scritto si rivolge al modo in cui concepire il ruolo di una capitale, il suo uso attivo e passivo, l’unione delle sue parti e l’«anatomia» di queste, le sue funzioni commerciali e così via. Presupposto di una simile “teoria della capitale” è la suddivisione delle
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componenti sociali dello Stato in tre ordini distinti: contadini, artigiani e «terzo ordine», che Le Maître chiama anche «terzo stato», costituito dal sovrano e dagli ufficiali di corte a suo servizio. Estendendo per analogia questa ripartizione, si può concepire sia la relazione gerarchica fra i tre ordini, visti come i diversi piani di un edificio, sia la composizione stessa del territorio di uno Stato, che vedrà collocati nelle campagne i contadini, nei piccoli centri, in prevalenza, gli artigiani, e nella capitale «la gente di testa», come scrive Le Maître, alla quale si aggiungeranno solo i commercianti, gli operai o gli stessi artigiani strettamente necessari al suo sostentamento. Per essere adeguata al ruolo che ricoprono i suoi abitanti, la capitale deve rispondere a una serie di parametri che Foucault riporta nella sua esposizione. Una capitale dev’essere anzitutto raggiungibile con la stessa facilità da ogni parte del territorio statale, e dunque deve collocarsi il più possibile al centro dei suoi confini. In secondo luogo essa deve dare visibilità a virtù civiche come l’onestà, al senso del rango e alla gloria dello Stato: altrimenti detto, deve soddisfare una funzione estetica e simbolica che ne fa non soltanto il «cuore politico» del territorio statale, ma anche l’«ornamento». La capitale, inoltre, deve diffondere su tutto il territorio le leggi e i valori morali dello Stato, deve costituire un richiamo per i commerci, anche grazie all’apertura verso prodotti esteri, ed è la sede naturale per le istituzioni scientifiche, perché è da qui che il sapere e la verità potranno essere diffuse in tutto lo Stato. Se il trattato di Le Maître è esemplare, agli occhi di Foucault, è perché svolge «una riflessione sulla città svolta essenzialmente in termini di sovranità», o meglio ancora nei termini di una relazione fra «sovranità e territorio» attraverso la quale soltanto cominciano ad affacciarsi questioni che riguardano «funzioni propriamente urbane» di tipo economico, morale, amministrativo. Il sogno di Le Maître, prosegue Foucault, «è di basare l’efficacia politica della sovranità su una distribuzione spaziale»: un «buon sovrano» sarà ben collocato all’interno di un territorio, e d’altra parte «un territorio che è ben amministrato (policé) al livello della sua obbedienza al sovrano è un territorio che ha una buona distribuzione spaziale» (Foucault 1978a, 15-16). Il sogno di Le Maître, l’aspetto utopistico del suo progetto, è perciò quello di uno Stato bien capitalisé, cioè ben regolato attorno alla sua capitale, e che riassuma nel corpo della sua città più rappresentativa i connotati politici, territoriali ed economici dominanti.
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4. Dal controllo sul territorio all’architettura Il secondo esempio preso in considerazione da Foucault riguarda le città di nuova fondazione nate, nel corso del xviii secolo, in molte regioni dell’Europa del Nord, significativamente le stesse da cui si sono irradiate le teorie politiche più influenti dell’epoca: un arco geografico che va dalla Francia alla Svezia passando per l’Olanda e coprendo l’intera fascia baltica. Fra tutte, Foucault ne sceglie una che si trova in Francia, ai confini della Touraine e del Poitou, e che ha per nome Richelieu. Anche questa è, come le altre, una «città artificiale», cioè costruita dal nulla seguendo il tipico schema del campo romano, lo stesso che in Sorvegliare e punire era servito come punto di riferimento per illustrare le procedure di quadrillage con le quali opera il sistema disciplinare e utilizzate anzitutto in ambito militare. Tra la fine del xvii e l’inizio del xviii secolo, «in particolare nei paesi protestanti – di qui l’importanza di tutto questo nell’Europa del Nord –, è stata rimessa in vigore la forma del campo romano contemporaneamente agli esercizi, alla suddivisione delle truppe, ai controlli collettivi e individuali nella grande impresa della disciplinarizzazione dell’esercito» (Focault 1978a, 17). Che le città di nuova fondazione vengano progettate su questa base di riferimento comporta, secondo Foucault, un evidente cambiamento di rotta nella maniera di pensare il tema urbano. All’epoca di Le Maître la città veniva concepita a partire da una unità più grande, il territorio, e a partire da quell’analogia tra i rapporti gerarchici dei diversi ordini sociali e la struttura di un edificio che permetteva di vedere un parallelismo fra il «macrocosmo» dello stato territoriale e il «microcosmo» della sua capitale. Le città di nuova fondazione che recano in sé l’impronta del campo romano sono pensate, invece, a partire da un’unità più piccola, «una figura geometrica che è una specie di modulo architettonico, il quadrato o il triangolo suddivisi a loro volta per delle croci in altri quadrati o altri rettangoli» (Foucault 1978a, 18). In queste nuove città domina, in generale, un principio di simmetria. D’altra parte, è un’oculata gestione delle asimmetrie a distinguere le singole zone delle città e ad assegnarle a diverse funzioni, rispettando le esigenze di densità e di traffico in quelle adibite ai commerci, nonché le differenze sociali in quelle destinate all’abitazione. A Richelieu, per esempio, non tutti i rettangoli nei quali la
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città è ripartita sono di eguale dimensione. A partire dall’arteria che la attraversa al centro, corrispondente all’antico decumano, vi sono rettangoli più piccoli, e dunque strade più fitte, nella zone centrale dei mercati, mentre a mano a mano che ci si allontana verso l’esterno della città le dimensioni crescono, le vie si diradano, lasciando posto agli uffici pubblici, alle case per i meno abbienti e alle residenze più fastose. Questo semplice schema, osserva Foucault, rispecchia esattamente il modo in cui le discipline trattano lo spazio per organizzare le molteplicità: suddiviso in base a un rigoroso criterio gerarchico, lo spazio viene minuziosamente analizzato e ripartito tanto secondo le funzioni che deve assicurare, quanto secondo il tipo di relazioni di potere che deve comunicare. Costruire una città da zero, come se sorgesse nel vuoto, e darle la forma di uno spazio chiuso e ben regolamentato sono appunto le prestazioni tipiche di un sistema disciplinare applicato alla riflessione sulla città. «Nel caso di Le Maître e della sua Métropolitée», conclude Foucault, «si trattava insomma di “capitalizzare” un territorio. Lì [a Richelieu], si tratterà di dare forma architettonica a uno spazio. La disciplina è dell’ordine della costruzione (costruzione in senso ampio)» (Foucault 1978a, 19). 5. Verso la città biopolitica Ultimo esempio passato in rassegna nella stessa lezione è quello del piano di riorganizzazione della città di Nantes approvato dalla municipalità nel 1755. Il modello utilizzato per questo piano, precisa Foucault, è di derivazione inglese, dato che lo sviluppo commerciale della città aveva intensificato i suoi rapporti con l’Inghilterra. Lo stesso firmatario del progetto, Vigné de Vigny, si presenta come «architetto del Re e della Società di Londra, intendente degli edifici del Signore Duca d’Orléans». Il piano non si basa sull’idea di ricostruire interamente la città, né su quella di darle una forma simbolica che corrisponda alle sue funzioni. Il procedimento, semmai, è quello di tener conto di un certo numero di dati concreti già esistenti e di organizzarli in modo da massimizzarne i benefici e ridurre al minimo gli inconvenienti o i rischi che ne derivavano. In primo luogo Vigné de Vigny propone di creare assi stradali abbastanza ampi per assicurare l’igiene e l’areazione, per rendere più facile l’intervento sulla spor-
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cizia, evitare l’accumulo dei rifiuti e limitare l’insorgere dei miasmi. Ridisegnare gli assi stradali doveva inoltre permettere di intensificare gli scambi commerciali e di favorire la circolazione dall’interno all’esterno della città e viceversa, garantendo al tempo stesso un buon livello di sorveglianza sugli accessi a un centro urbano ormai non più protetto da cinte murarie. Infine, il piano di Nantes indicava alcune linee per lo sviluppo ulteriore della città, la cui crescita veniva proiettata, in fasi successive, sulle due sponde della Loira, costruendo prima su un lato poi su un altro, nonché realizzando ponti di collegamento fra le nuove aree, per rispondere via via alle esigenze determinate da un prevedibile aumento della popolazione, ma tenendo il più possibile compatto il tessuto urbano. Quest’ultimo aspetto riflette, evidentemente, una preoccupazione di tipo disciplinare, perché tenere compatta una città, e non allungarla soltanto su una delle due rive del fiume, significava non voler perdere i vantaggi del quadrillage. Ma nonostante il peso esercitato dall’impianto disciplinare, il piano di Vigné de Vigny presentava aspetti che Foucault ritiene indicativi di una nuova maniera di problematizzare la città, direttamente legata all’avvento delle tecnologie della sicurezza. I dati materiali sui quali poggiava il progetto, infatti, non riguardavano solo la conformazione esistente della città, ma il ruolo della popolazione, le sue condizioni di vita nel presente e in un prevedibile futuro. La città, in altri termini, non veniva pensata in base a un punto di perfezione funzionale, ma in rapporto un massimo di efficacia che avrebbe dovuto essere sempre rinegoziato con i rischi inestirpabili dalla vita urbana. A differenza dello spazio disciplinare – perimetrato, chiuso e rigidamente ripartito in elementi funzionali –, lo spazio della nuova città biopolitica veniva pensato come un’entità flessibile, aperta, polifunzionale. Le strade, per esempio, avrebbero dovuto essere igieniche, ma anche essere il luogo del traffico, dei commerci, come pure dei furti, della criminalità e di tutto ciò che si poteva prevedere accadesse nella città senza poter essere realmente eliminato. I dati che un buon progetto di sicurezza doveva tenere in conto, allora, riguardavano un problema di equilibrio: quale tasso di criminalità può essere sopportato da una città, posto che la criminalità, come tale, non potrà mai essere del tutto estirpata, e che tipo di protezione dev’essere fornita ai cittadini affinché questi si sentano sufficientemente sicuri in un luogo che dovranno pur sempre condividere con dei criminali?
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Se la disciplina lavora in uno spazio vuoto, artificiale, e ne immagina un’organizzazione perfettamente ordinata e funzionale, le tecnologie biopolitiche della sicurezza operano con potenzialità positive e negative, cercando forme di regolazione che ne permettano la convivenza. Soprattutto, queste tecnologie guardano verso il futuro, concepiscono la città come un organismo vivente e in divenire, sono imperniate attorno alla gestione di eventi che si presentano come serie aperte, dunque stimabili solo in termini di probabilità statistica: quanti veicoli circoleranno, quanti passanti, quanti rifiuti giaceranno non raccolti, quanti abitanti ci saranno, quanti fuorilegge, e così via. Per riassumere, spiega Foucault, mentre la sovranità capitalizza un territorio, ponendo anzitutto il problema della sede del governo, e mentre la disciplina architetta uno spazio e si pone come problema essenziale quello di una distribuzione gerarchica e funzionale degli elementi, la sicurezza cerca di organizzare un ambiente in funzione di avvenimenti o di serie di avvenimenti o di elementi possibili, serie che occorrerà regolarizzare all’interno di un quadro polivalente e trasformabile. Lo spazio proprio della sicurezza rinvia dunque […] al temporale e all’aleatorio, un temporale e un aleatorio che bisognerà inscrivere entro uno spazio dato (Foucault 1978a, 22).
6. Filosofia dell’urbanismo Le analisi di Foucault che qui sono state riassunte autorizzano, in prima istanza, una serie di conclusioni interne al suo pensiero, perché utili a fissarne alcuni aspetti. Anche se non viene affrontato direttamente nelle opere maggiori, e solo marginalmente in un corso al Collège de France, il problema della città rappresenta ai suoi occhi, con tutta evidenza, uno dei cardini centrali dell’esperienza moderna. Nelle epoche precedenti la concezione della città era condizionata da elementi di una episteme che semplicemente le veniva applicata, trovando nel modo di immaginare la vita urbana nient’altro che la variante di un sistema più generale. Con l’avvento della biopolitica, invece, la questione della città si trova proiettata al cuore di una nuova episteme della quale rappresenta non solo una delle possibili espressioni di superficie, ma una componente costitutiva e strategica. La “filosofia dell’urbanismo” alla quale ho fatto cenno consisterebbe
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perciò, in Foucault, in una sorta di doppio movimento. Da un lato vengono individuate le tappe storiche che collocano le trasformazioni dei saperi urbani in un preciso parallelismo con quelle di altri campi epistemici, per esempio l’economia, la biologia e la linguistica1. Dall’altro le diverse maniere di pensare la città diventano modelli esemplari per indagare i mutamenti subiti in Occidente dai sistemi di potere lungo una fase cruciale per la gestazione del governo contemporaneo, ovvero per una specifica ontologia dell’attualità. Proprio quest’ultimo aspetto permette, d’altra parte, di uscire dall’ambito pur sempre ristretto di una lettura dell’opera di Foucault. Nessun ambito di studio permette infatti di individuare non solo le trasformazioni, ma anche le forme di persistenza degli a priori storici, quanto le vicende dell’architettura e dell’urbanistica nel corso del xix e del xx secolo. Foucault ha sempre ammonito a non pensare le discontinuità storiche da lui descritte come momenti di un’evoluzione storica lineare. Eppure non c’è dubbio che nel passaggio da un’episteme all’altra, o da una fase genealogica all’altra, si sia tentati di cogliere una serie di mutamenti irreversibili, qualcosa che cancella per sempre il passato sostituendolo con principi del tutto nuovi. Il singolare intreccio temporale con il quale viene presentato il passaggio dal sistema disciplinare alla biopolitica, per esempio, viene considerato anche dai critici più accorti come una questione “irrisolta”, sulla quale peserebbe una sorta di indecisione teorica. Il caso della città, invece, non solo pone in risalto la coesistenza di motivi disciplinari e sicuritari nel corso della storia europea, ma mostra anche, e con molta chiarezza, come la disciplina abbia a lungo condizionato l’applicazione stessa dei dispositivi biopolitici, per esempio sovrapponendosi ad essi come a una serie di dati di realtà si può sovrapporre, superandoli, il finalismo tipico dell’utopia. Naturalmente a dominare, secondo Foucault, è ancora l’utopia dell’ordine, ovvero quel modello militare della società che nel pensiero europeo, come si afferma in Sorvegliare e punire, ha avuto la meglio sul modello filosofico che guardava, piuttosto, all’ideale di una società giusta. Architettura e urbanistica hanno pensato edifici e città che erano disciplinari e biopolitiche al tempo stesso, e nelle quali l’elemento dirimente era il diverso peso attribuito ai due principi, tanto 1 La legittimità di questo parallelo, che riattualizza oltretutto il valore assegnato da Foucault alle indagini di Le parole e le cose ben oltre la data di scadenza del suo progetto di un’archeologia del sapere, è esplicitamente suggerita in Foucault 1978a, 81.
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che i singoli spazi potevano essere concepiti secondo un progetto “a dominanza disciplinare” oppure a “dominanza biopolitica”, senza che il passaggio da una dimensione all’altra comportasse la sparizione di uno dei due modelli. Una questione di accenti, dunque, ma non solo. Le vicende dell’architettura e dell’urbanistica indicano come le tappe dei mutamenti storici possano essere reversibili, portando i principi più antichi – ivi compreso quello territoriale del potere sovrano – a prevalere sui più recenti. Ma indicano anche come il confine tra sorveglianza e sicurezza sia estremamente sottile, e come intorno a questa linea, a seconda del modo in cui la si percorre o la si guarda, venga messo in gioco non tanto il progetto di un edificio o di una città, ma quello delle forme di vita delle quali edifici e città disegnano l’habitat concreto. 7. Discontinuità e sovrapposizioni A questo proposito l’esempio preso esplicitamente in considerazione da Foucault in una lezione del corso del 1976, intitolato Bisogna difendere la società, riguarda il modo in cui, nel xix secolo, è stata concepita l’immagine della città ideale e, come sua traduzione progettuale, la forma della città operaia. È questo, infatti, il caso che meglio di altri permette di verificare come i dispositivi disciplinari e quelli biopolitici tendano a sovrapporsi gli uni sugli altri: è possibile osservare molto agevolmente come la città operaia articoli, in qualche modo intersecandoli perpendicolarmente, dei meccanismi disciplinari di controllo sul corpo, sui corpi, grazie alla sua reticolazione, tramite la sua stessa suddivisione, attraverso la distribuzione localizzata delle famiglie (ciascuna in una casa) e degli individui (ciascuno in una stanza) (Foucault 1976b, 216).
In Sorvegliare e punire, uscito appena un anno prima, Foucault aveva parlato di come il sistema disciplinare agisca tramite una suddivisione analitica degli spazi. Nel caso della città operaia ritroviamo letteralmente alcuni dei meccanismi analitici già emersi e descritti in quel libro: «suddivisione della popolazione, sottomissione degli individui alla visibilità, normalizzazione dei comportamenti». Quello che ne deriva, prosegue Foucault nella lezione del 17 marzo 1976, è «una specie di controllo poliziesco spontaneo esercitato anche attraverso
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potere e visibilità
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la stessa disposizione spaziale della città». Contemporaneamente, nel disegno ideale ed effettivo della città operaia troviamo tutta una serie di meccanismi che sono, al contrario, dei meccanismi regolatori, i quali riguardano la popolazione in quanto tale e che consentono o addirittura inducono determinati comportamenti. Ad esempio quelli del risparmio, strettamente connessi al problema dell’alloggio, all’affitto dell’abitazione ed eventualmente al suo acquisto. Si tratta inoltre di meccanismi collegati ai sistemi di assicurazione sulle malattie o sulla vecchiaia; alle regole di igiene destinate a garantire la longevità ottimale della popolazione; alle pressioni che la stessa organizzazione della città esercita sulla sessualità, dunque sulla procreazione; oppure alle pressioni sull’igiene delle famiglie; alle cure destinate ai bambini; alla scolarità». (Foucault 1976b, 216-217)
Questa lunga citazione segnala alcuni elementi che concorrono a definire il “manifesto” di un’architettura e di un’urbanistica di tipo sicuritario, biopolitico, e al tempo stesso il tipo di relazione che essa intrattiene con un programma di tipo disciplinare. Già qualche anno prima, nel 1973, nel corso di un’intervista Foucault aveva rivolto lo sguardo verso il tipo di comportamento indotto dal sistema di affitto delle abitazioni popolari, in particolare prendendo in considerazione quelle che in Francia vengono chiamate H.L.M. (Habitations à Loyer Moderé): «le persone che vi abitano sono forzate a mantenere un livello di vita che non corrisponde alle loro possibilità finanziarie. Oggi, in Francia, sono degli assistenti sociali a fare il budget domestico di queste persone», a riprova del fatto che la concezione della città, il suo disegno e il suo mantimento da parte dell’amministrazione pubblica, siano ormai determinate da quella «funzione terapeutica» che è caratteristica, appunto, della tecnologia biopolitica: «oggi il mondo si sta evolvendo verso un sistema ospedaliero e il governo acquisisce una funzione terapeutica» (Foucault 1973d, 446). Accanto all’impronta biopolitica, tuttavia, non solo convivono, ma addirittura predominano, specialmente quando vengono associati a una spinta utopica, gli aspetti di un programma disciplinare che si ritrova nella meticolosa e dirigistica assegnazione agli individui e alle famiglie di spazi che corrispondono anche a un preciso regime di visibilità. Ne è testimonianza, secondo Foucault, l’idea fourierista del falansterio e il suo sviluppo da parte di Godin, il cui impianto costituisce una sintesi paradossale di filantropia e ultradisciplina (Foucault 1982a, 61).
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4. filosofia dell’urbanismo
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8. La sicurezza e la disciplina: l’esempio di Le Corbusier Schematizzando, e anzi estremizzando fin quasi alla provocazione gli argomenti di Foucault, si può dire che se tipico della disciplina è architettare da zero uno spazio, mentre tipico delle tecnologie biopolitiche è il tentativo di regolarizzare situazioni di fatto proiettandole verso le serie aperte dei loro sviluppi futuri, il programma disciplinare tende a prevalere ogni volta che l’urbanistica viene pensata in base a un preciso sistema architettonico, che tende verso l’ideale di un funzionamento perfetto, mentre gli aspetti sicuritari ottengono maggior peso ogni volta che il progetto di architettura viene compreso a partire da un problema urbanistico. A sostegno di questa tesi si potrebbe citare il testo fondatore dell’urbanistica moderna, la Teoria general de la urbanización di Ildefonso Cerdà (1867), nel quale la città è considerata non come un insieme di case, strade, infrastrutture, ma come un organismo «di persone, di cose, di interessi di ogni genere, di mille elementi diversi» che concorrono a definire «l’organismo e la vita» di una città, ovvero ciò che «anima la sua parte materiale»: né più né meno che il problema biopolitico della popolazione riconosciuto come elemento costitutivo, rispetto al quale le forme del progetto di architettura sfilano in secondo piano (Cerdà 1867; cfr. Cavalletti 2005, 21 e sgg.). Come controprova, d’altra parte, e per limitarci a un solo caso, ma esemplare, si potrebbero prendere il pensiero teorico e l’opera di Le Corbusier, per il quale, com’è noto, architettura e urbanistica devono essere pensate insieme, ma precisamente a partire da quell’attività inventiva, poetica, e dunque rigorosamente progettuale, che egli identifica con un’architettura la cui funzione ideativa si estende ben oltre i limiti della costruzione per investire il senso della socialità globalmente intesa. Se anche ci si sofferma su un solo testo di Le Corbusier, per esempio Maniera di pensare l’urbanistica (1946), si può constatare quanto le preoccupazioni di tipo schiettamente biopolitico fossero al centro delle sue riflessioni. Architettura e urbanistica, spiega Le Corbusier, devono non solo rispondere a «necessità biologiche» che, «imposte da abitudini millenarie», sono entrate a far parte della natura umana come tale, ma devono addirittura produrre il biologico dell’uomo, e farlo al meglio, se per loro tramite si vuole perseguire quella «gioia di vivere» che rappresenta il fine utopico di ogni civiltà (Le Corbusier
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1946, 57-58). Già in Verso un’architettura (1923) Le Corbusier aveva descritto con chiarezza la duplice funzione, politica e terapeutica, della sua architettura: introducendo il Manuale dell’abitazione, in quel libro, a titolo d’esempio egli suggeriva che i suoi principi fossero adottati dalla «lega contro l’alcolismo» e dalla «lega per il ripopolamento», individuando in questo modo, al di là dello stile iperbolico che gli è proprio, le questioni relative alla salute e alla natalità come fattori essenziali per il progetto architettonico (Le Corbusier 1923, 95). Poco più di vent’anni dopo, guardando ai grattacieli di New York, Le Corbusier rafforza ulteriormente la sua intuizione originaria e fa dell’architettura, qui ancora strettamente interrelata con la dimensione dell’organismo urbano, una delle tecniche biopolitiche per antonomasia. «Nella conquista dell’altezza», scrive Le Corbusier, «è implicita la soluzione di alcuni dei maggiori problemi dell’urbanistica moderna: la possibilità di ristabilire le condizioni di natura (sole, spazio, verde); la separazione del pedone dall’automobile», altrimenti fonte di rischio per la vita di quest’ultimo, nonché «la formazione di attrezzature definite come prolungamenti dell’abitazione, capaci di aprire nuovi orizzonti alla puericoltura e all’eugenetica e di offrire nuovi modi di vita sia ai giovani che agli adulti» (Le Corbusier 1946, 24). Il termine “eugenetica”, usato senza imbarazzo nel 1946 – ma Le Corbusier iniziò a scrivere il suo libro sulla ricostruzione postbellica nel 1943 –, produce disagio in chi legge. La questione di fondo, però, viene inquadrata con eccezionale chiarezza: l’architettura, come matrice di un sistema di potere terapeutico, agisce sulle condizioni di sicurezza biologiche della popolazione e ne determina il miglioramento selettivo sulla base di un programma di ottimizzazione del progetto che include non solo i suoi aspetti tecnici, ma anche la definizione di nuove forme di vita. Cosa siano d’altra parte i «prolungamenti dell’abitazione» ai quali fa riferimento viene specificato qualche pagina dopo. Sono «di due ordini», spiega Le Corbusier: «puramente materiale innanzitutto: l’approvigionamento, i servizi domestici, il servizio sanitario, la cura e il miglioramento fisico del corpo; d’ordine più particolarmente spirituale poi: il nido, la scuola materna, la scuola elementare, la scuola per apprendisti» e così via (Le Corbusier 1946, 58-59). Il programma biopolitico dell’urbanistica di Le Corbusier, d’altra parte, è sostenuto su un’idea del progetto architettonico indubbiamente coerente, ma molto più sbilanciato in senso disciplinare. Per Le
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4. filosofia dell’urbanismo
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Corbusier, in altri termini, l’architettura può adempiere al suo compito biopolitico solo operando al modo di una disciplina che prescrive funzioni e doveri. Già il riferimento al “macchinismo”, per quanto egli l’abbia attenuato dopo la Seconda Guerra Mondiale, va in questa direzione: una “macchina per abitare” è precisamente ciò che concepisce l’abitare stesso come un’operazione tecnica della quale è possibile ottenere – o anche solo pensare – condizioni di funzionamento ottimale. Più in generale, però, è il continuo riferimento a un principio d’ordine, anch’esso da ottimizzare, a reintrodurre nel suo pensiero una dominanza disciplinare molto accentuata. L’analisi degli spazi urbani, delle distanze fra luogo d’abitazione e luogo di lavoro, degli spostamenti legati alle attività quotidiane o al tempo libero, non costituisce per lui una base esistente da sottoporre a iniziative leggere, di regolazione, ma la rappresentazione di un dissesto sul quale occorre intervenire in modo consistente, ridisegnando quasi da zero le città contemporanee. Anche l’insistenza sulla statalizzazione della proprietà fondiaria, tema molto diffuso nella cultura urbanistica d’inizio secolo, è motivato essenzialmente dall’esigenza di lasciare il più possibile carta bianca allo sforzo organizzativo-disciplinare di un progetto d’architettura esteso su scala urbana. «Ordine e pulizia» figurano al primo punto fra le «condizioni positive da instaurare» nell’ambiente urbano dell’età industriale, proprio come il «disordine tumultuoso» è al primo posto delle «condizioni negative» esistenti (Le Corbusier 1946, 101). Ed è sufficiente una breve incursione in un altro testo di Le Corbusier, Urbanistica (Le Corbusier 1924) per vedere formulata la logica di una comunità urbana rifondata da zero sulla base di singolo progetto architettonico-urbanistico, quello degli immeubles-villages, edifici giganti che contengono, oltre alle abitazioni, anche un ampio numero di servizi e di ambienti per il lavoro: quando li si progetta e li si costruisce, «lo si fa in vista di costituire una comunità la cui gestione porterà a sua volta alla conquista della libertà grazie all’ordine». 9. Il ritorno del più arcaico La tensione fra motivi disciplinari e biopolitici si rispecchia anche nei progetti di Le Corbusier: per un verso pensati in vista dell’abbattimento della tradizionale separazione fra spazio interno e spazio ester-
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no, spazio della casa e spazio della città o della natura; per un altro, invece, tutt’altro che aperti e flessibili, ma anzi rigidi e prescrittivi per quel che riguarda le loro modalità d’uso. L’idea stessa che forme di vita e funzionamento di edifici e città debbano tendere a uno stato ottimale – corrispondente alla “biologia” dell’architettura, alla perfezione del legame sociale e al conseguimento della felicità individuale (Le Corbusier 1946, 84) – mostra quanto il principio disciplinare sia stato capace di assorbire e piegare ai propri fini ogni preoccupazione biopolitica. E d’altra parte, proprio l’aspetto disciplinare del programma corbusiano, con la sua istanza utopica di rendere ordinate le forme di vita umane in base a un progetto di architettura integrato con il pensiero dello spazio urbano, cioè con quello che Cerdà definiva la «vita» della popolazione, è alla base del successo e della diffusione che la sua impronta ha avuto nell’architettura del secondo Novecento. Un esempio, in questo senso, può venire dall’Italia, da Roma, dalla grande unità d’abitazione pensata e costruita negli anni Settanta da Mario Fiorentino, Corviale, nella quale la prevalenza di aspetti disciplinari e la rigorosa ripartizione funzionale degli spazi, resa ancor più rigida dall’allora diffusissimo sistema di costruzione a setti portanti, non solo è evidente, ma è alla base di tutti i problemi che ne hanno fatto un emblema del disagio urbano (cfr. Catucci 2006). Con il prevalere del desiderio d’ordine torna a farsi sentire anche un’esigenza persino più arcaica del sistema moderno delle discipline, vale a dire il principio sovrano-territoriale al quale sembrava si fosse dato commiato dopo l’avvento del macchinismo panottico. Come si è ricordato, in Sorvegliare e punire Foucault aveva descritto l’intreccio fra potere disciplinare e potere sovrano ricorrendo, ancora una volta, all’esempio di una città, o meglio del governo di una città assediata dalla peste. Primo banco di prova dell’incasellamento disciplinare, il controllo della città appestata costituisce una «situazione d’eccezione», un’emergenza di fronte alla quale, come «contro un male straordinario», il potere si erge rendendosi «ovunque presente e visibile», costruendo «per un certo tempo ciò che è contemporaneamente la controcittà e la società perfetta». L’insieme delle pratiche disciplinari, in questo caso, si presenta come un «blocco» rigido il cui funzionamento è garantito dalla strettissima dipendenza con un potere centrale costantemente vigile e onnipresente (Foucault 1975a, 223). Un secolo e mezzo dopo lo «stabilimento panoptico» supererà la forma del bloc-
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co disciplinare disseminando e automatizzando l’esercizio del potere, in modo che questo non appaia più aggiunto «dall’esterno, come una costrizione rigida o come qualcosa di pesante sulle funzioni che investe, ma sia in esse sottilmente presente per accrescerne l’efficacia» (Foucault 1975a, 225). Ma nella vicenda dell’architettura e dell’urbanistica moderna, il ritorno all’immagine di un blocco disciplinare si ha ogni volta che la gestione della città viene pensata in base a una situazione di emergenza, cosicché anche i motivi della sicurezza, quando vengono ricondotti allo stato d’eccezione dell’incombenza di un pericolo mortale per la convivenza civile, tornano ad essere sottoposti al centralismo di un’autorità politica che riattiva, con le sue dinamiche, le categorie territoriali dell’antico principio di sovranità. La compatibilità di questa forma più arcaica del potere disciplinare con le strategie biopolitiche del potere moderno è resa oggi particolarmente evidente dalle reazioni dei sistemi democratici occidentali al pericolo rappresentato dalla strategia terroristica dell’«urbicidio» (Shaw 1997, 67-75), così com’è stata resa evidente dal modo in cui i regimi totalitari del Novecento hanno reso costante il riferimento a uno stato d’eccezione (Foucault 1976a, 206 e sgg.). Più in generale, però, proprio le vicende dell’architettura e dell’urbanistica novecentesca evidenziano quanto la progettazione di edifici, quartieri e città a dominanza disciplinare abbia avuto come conseguenza il sistematico ricorso a un principio di sovranità territoriale che, nei casi più “leggeri”, si è espresso nel bisogno costante di intervenire sulla “gestione” di intere realtà urbane mai capaci di raggiungere un livello di funzionamento automatico e anche per questo divenute ingovernabili: dagli immeubles-villages alle grandi periferie delle metropoli occidentali, è questo uno dei caratteri salienti che hanno prodotto il risorgere, in anni recenti, di categorie apparentemente obsolete come quella delle “classi pericolose” (cfr. Castel 2004). 10. Urbanistica, architettura, ontologia del presente Per completare il quadro delle osservazioni dedicate da Foucault ai temi della città e dell’architettura bisognerebbe estendere l’analisi ad altri interventi. Uno è stato già citato qui, l’intervista Spazio, sapere, potere (Foucault 1982a), nella quale egli da un lato sottoli-
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potere e visibilità
nea il primato delle forme di vita rispetto alle decisioni progettuali dell’architettura e dell’urbanistica, per esempio affermando che non esistono architetture “di liberazione” o “di oppressione”, dall’altro mostra come anche il progetto di una città concorra a una più generale sistemazione dell’episteme di un’epoca, sebbene in quell’intervista e in quel periodo della sua attività egli non faccia più ricorso a questo termine. L’altro è invece un ampio progetto di ricerca dei primi anni Settanta del quale Foucault risulta essere stato almeno formalmente il capofila, volto allo studio dei mutamenti dell’interesse degli architetti per la città all’inizio del xix secolo: se in quel periodo la casa d’abitazione, e non più solo gli edifici più rappresentativi, diventano esplicitamente un tema per l’architettura, si deve precisamente alle mutate condizioni delle città, la cui esplosione demografica e produttiva richiede a livello di popolazione un più deciso intervento dell’autorità in termini di organizzazione e di controllo, ovvero in uno schema che mette insieme, ancora una volta, motivi disciplinari e motivi biopolitici. Questo era, a grandi linee, l’impianto di un progetto il cui dettaglio fa pensare a un intervento solo di supervisione da parte di Foucault, ma che è interessante sia perché fa emergere in concreto una delle “piste di ricerca” su cui provava a incamminarsi chi seguiva la sua scia o il suo insegnamento, sia perché ancora precede la messa a fuoco, da parte sua, della questione della biopolitica. Consultabile negli Archivi Foucault, questo progetto non è però mai approdato a una forma definitiva, almeno per quanto sia stato possibile verificare, e quindi può essere letto solo come un’indicazione di massima, l’individuazione di un tema non indagato fino in fondo. Nel 1974 tenne a Rio de Janeiro una conferenza intitolata Urbanizzazione e salute pubblica, di cui al momento rimane solo il titolo, coerente con i contenuti del progetto di ricerca di cui si è appena parlato. Un altro progetto di ricerca che toccava l’ambito architettonico e urbanistico gli venne recapitato a Parigi poche settimane prima della morte. Proveniva dall’Università di Berkeley, era firmato da tre studenti che partecipavano ai suoi corsi – Keith Gandal, David Horn, Stephen Kotkin – e metteva a fuoco le trasformazioni della governamentalità, concentrandosi anche su due episodi architettonici: la sperimentazione urbana nelle colonie francesi e il ruolo del Bauhaus nella Repubblica di Weimar. Nonostante le lacune di una documentazione che potrebbe essere almeno in parte arricchita, le osservazioni di Foucault sul tema della
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4. filosofia dell’urbanismo
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città fin qui esaminate permettono di estrapolare lo schema di una “filosofia dell’urbanismo” i cui tratti, oltre che confermare con nuovi esempi alcune delle sue intuizioni, mostrano la problematica stratificazione delle relazioni di potere che caratterizzano le nostre società. Lette con il suo sguardo, architettura e urbanistica non solo si collocano all’interno di un quadro di trasformazioni epistemologiche all’interno delle quali, almeno in un periodo decisivo come il passaggio dal xviii al xix sec., esse hanno svolto una funzione strategica. Più ancora, architettura e urbanistica testimoniano, con i loro sviluppi, la “lunga durata” di forme del potere la cui persistenza non è confinata solo a situazioni di emergenza, ma è parte integrante della quotidianità in cui viviamo. Forse è possibile affermare che ad architetti e urbanisti è toccato il compito di affrontare continuamente stati d’eccezione che si sono prodotti, nel corso del Novecento, in uno strato ben più profondo della politica. E che lo sviluppo delle metropoli contemporanee, con la crisi dei sistemi abitativi tradizionali, abbia posto architettura e urbanistica di fronte alla tentazione di fornire soluzioni globali, spesso pensate come un idealistico rilancio delle utopie di un ordine impossibile. Per tornare a Le Corbusier, non si può ignorare che Verso un’architettura è una risposta alla frattura epocale rappresentata dalla Grande Guerra, così come Maniera di pensare l’urbanistica è una risposta all’incipiente ricostruzione europea. Che la ricostruzione abbia poi prodotto, nei fatti, quella che W. G. Sebald ha definito una intensiva omogeneizzazione degli spazi urbani (cfr. Sebald 1999) non è, da questo punto di vista, che una conseguenza della relazione fra lo “stato d’eccezione” della vita metropolitana e la vocazione utopica di un’architettura ordinatrice. Gli appunti che si possono trarre dalla riflessioni di Foucault sul tema urbano, perciò, non riguardano solo la ricostruzione di una “archeologia dell’architettura” moderna – compito che è comunque possibile e auspicabile anche a partire da un ripresa di quel progetto di ricerca interrotto. Sono, piuttosto, un contributo a una diagnosi dell’attualità, alla comprensione di «ciò che sta succedendo adesso», dunque a quell’esigenza pressante di lavorare a un’ontologia del presente che rappresentava, per Foucault, il senso stesso di una riflessione critica.
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5. Il lavoro della dispersione
1. Pensare l’Altro Fra gli schemi che tuttora condizionano la ricezione dell’opera di Michel Foucault il più duro a morire è quello relativo alla questione del soggetto: la si vuole assente o strenuamente combattuta fino alla prima metà degli anni Settanta, poi risorta in maniera inattesa negli ultimi anni di vita. Simmetrico a questo gioco di cancellazione e ricomparsa sarebbe, in Foucault, il rapporto con il problema dell’alterità: presente in maniera persino ossessiva nei suoi saggi del “primo periodo”, quando l’Altro prende via via le fattezze del lebbroso, del folle, del malato, del criminale, dell’ermafrodita, dell’anormale, ma poi sacrificato da una riflessione che a partire dalla fine degli anni Settanta si concentra sulle forme di costituzione del sé. A una filosofia dell’alterità, in altre parole, farebbe seguito una filosofia dell’identità, così come a una concezione antagonistica delle relazioni di potere farebbe seguito un’etica in gran parte dimentica della relazione con l’altro. Questo lo schema, in realtà facilmente confutabile attraverso una lettura capace di cogliere nei testi ben più di un accenno al problema del soggetto nel primo periodo, e ben più di semplici allusioni alla questione dell’altro in quelli del periodo estremo. Dal momento in cui la lettura e lo studio dei testi di Foucault è diventata oggetto di una cura filologica, il carattere sommario delle letture schematiche ha perso credito, non solo fra gli specialisti. Al di là delle semplificazioni, però, un problema rimane e lo si può riassumere con le parole usate da Salvatore Natoli in un convegno del 2007 dedicato all’eredità intellettuale lasciataci da Foucault. L’ambito a cui si rivolge Natoli è appunto quello degli ultimi studi sulle forme di soggettivazione, dunque a libri come L’uso dei piaceri e
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potere e visibilità
La cura di sé, entrambi apparsi nel 1984, con i quali veniva compiuto un deciso cambio di rotta rispetto al progetto originario di una Storia della sessualità annunciato nel retro di copertina di La volontà di sapere (1976). Questo afferma Natoli: «centrale [nell’ultimo Foucault] è l’auto-perfezione come sottrazione al potere; aurorale la relazione di alterità. In Foucault non ci sono gli altri, se non in termini di gioco di potere. L’altro, inteso nel senso del riconoscimento dell’Altro – diciamo, la linea Lévinas – manca, ma bisogna completare questa linea, perché senza l’Altro torna, rapace, l’onnipotenza dell’Io» (Natoli 2007, 213). La precauzione usata da Natoli, quella che ammette la presenza dell’alterità almeno «in termini di gioco di potere», distingue la sua affermazione dallo schema che ho descritto all’inizio: neppure nel “primo” Foucault l’Altro troverebbe un luogo proprio nel quale risiedere, ma sarebbe solo assorbito nelle relazioni di potere, dunque esposto a un meccanismo di esclusione/inclusione che davvero lo cancellerebbe «come sull’orlo del mare un volto di sabbia», per riprendere la bella e celebre immagine finale di Le parole e le cose (Foucault 1966a, 414). Eppure proprio in quel libro Foucault aveva esplicitato come l’idea di un’archeologia del sapere avesse preso avvio precisamente da un’indagine sulla follia intesa come «storia dell’Altro», ovvero come analisi di un’«esperienza limite dell’Altro», svelata in un rapporto di esclusione-inclusione che Giorgio Agamben avrebbe poi collocato sotto la categoria dell’eccezione: escludere l’Altro «per scongiurarne il pericolo interno» e al tempo stesso includerlo «al fine di ridurne l’estraneità» (cfr. Agamben 1995). Cosa pensare, dunque, di questo doppio movimento che cerca di ricostruire la storia dell’Altro e rischia tuttavia di scioglierlo in una serie di variazioni sul Medesimo? Davvero la relazione di alterità rimane una lacuna nel pensiero di Foucault? Davvero egli non riesce a pensare l’Altro se non nei termini delle relazioni di potere o, al limite, in quelli dell’eccezione? E l’invito di Natoli a compensare questa mancanza, a “completare la linea”, può trovare ascolto continuando a pensare con Foucault oppure bisogna uscire dalla sua ombra, abbandonare il suo strumentario concettuale e lavorare a un’integrazione con altre esperienze di pensiero, pena la riduzione della sua eredità a un nuovo sistema dell’identità e del soggetto?
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5. il lavoro della dispersione
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2. Scegliere il linguaggio Per circoscrivere lo spazio occupato da Storia della follia nella ricerca di Michel Foucault possiamo individuare un punto d’inizio e un punto di arrivo: da una parte il testo che compare per primo nel volume, la Prefazione alla prima edizione (1961), poi eliminata in quelle successive, dall’altra l’appendice con la quale, nel 1971, risponde alle obiezioni sollevate da Jacques Derrida in Cogito e storia della follia, conferenza pronunciata alla presenza dello stesso Foucault e pubblicata sulla rivista «Critique», prima di comparire nella raccolta di saggi La scrittura e la differenza (1968). In entrambi i casi Foucault si impegna a fondo nel tentativo non solo di pensare, ma di dar voce a un’alterità radicale: l’alterità del non-senso di fronte a quella del senso, di ciò che è rumore di fronte a ciò che è linguaggio, di ciò che è non-storia di fronte a ciò che è storia. Nella Prefazione gli appaiono molto chiare sia l’ambizione dell’impresa sia la difficoltà di sfuggire alla logica di una filosofia trascendentale, preoccupata di stabilire le condizioni di possibilità dell’incontro con l’altro. L’immagine alla quale fa subito riferimento è quella di una pagina di libro contornata da un margine bianco: quel margine, così come gli spazi bianchi che separano le parole, contribuiscono alla definizione del testo non meno di quello che viene scritto, così come ciò che una cultura esclude da sé condiziona la sua identità non meno dei contenuti positivi che la connotano esplicitamente. Eppure com’è possibile dar conto di quei margini, restituire loro capacità di espressione, se il linguaggio è già interamente collocato entro l’orizzonte del senso? Come ospitare il rumore senza trasformarlo in suono, dunque senza tradire il suo carattere di alterità assoluta? Individuato il paradosso che rischia di paralizzare il suo progetto, Foucault lo salta con quella che potremmo chiamare una “regola di teoresi provvisoria”, da lui tuttavia mai più rimessa in discussione. A un problema che investe in prima battuta il linguaggio risponde con una scelta di linguaggio: un linguaggio «sufficientemente neutro», egli dice, che sappia fin dal principio di essere «coinvolto nel gioco» ma che riesca ugualmente «ad autorizzare lo scambio» fra senso e non-senso, fra parola scritta e margine bianco. Di questo linguaggio neutro non viene data una definizione, ma viene offerto semplicemente l’esempio lungo tutto lo svolgimento del libro. È un linguaggio
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potere e visibilità
che assegna pari dignità alle fonti più diverse, si tratti di rapporti di polizia o di testi filosofici, di referti medici o di testimonianze letterarie, confessioni estorte, decreti amministrativi. La neutralità consiste appunto nel lasciar spazio alla dispersione storica delle testimonianze nella convinzione che questo metodo lasci filtrare nel testo almeno qualcosa del silenzio dell’alterità, se non altro il resoconto di quei momenti passeggeri nei quali l’insensatezza si è palesata come tale allo sguardo del senso ed è stata fugacemente intercettata da questo. L’incontro con l’altro, in questa prospettiva, non viene costruito nel quadro di un sistema teorico, ma corrisponde all’irruzione materiale, nel testo, di un’alterità che non si lascia contenere nel discorso: è un primo, ma particolarmente significativo accenno a quel pensiero del di fuori che Foucault avrebbe sviluppato, di lì a poco, in un confronto con Maurice Blanchot. La risposta a Derrida, più o meno dieci anni dopo, è dello stesso tenore. Commentando le pagine nelle quali Foucault attribuisce a Descartes il più forte gesto teorico di esclusione della follia dal campo della senso, e dunque il suo esilio nel campo del rumore, Derrida ne aveva contestato la legittimità interpretativa mettendo in questione, tramite la sua critica, l’intera impresa di Storia della follia. L’iperbole del Demone Maligno, scriveva Derrida, non esclude la follia dal procedimento del dubbio, ma ve la include al punto da farne una sua condizione interna. Descartes cerca di spingere il suo cammino fino alla sorgente a partire dalla quale lo Stesso, l’Altro, la Ragione e la Follia hanno la possibilità di dirsi e di determinarsi. Il che implica per un verso che la posizione della certezza viene raggiunta da Descartes non contro, ma dentro la follia; per un altro che la conclusione «Cogito, ergo sum» vale anche per chi sia folle. Secondo Derrida, è questo un chiaro indice del fatto che la filosofia sia un tentativo di eccedere ogni totalità finita e determinata, come pure del fatto che ogni parola la cui ambizione sia quella di dire l’iperbole conservi al suo interno un segno dell’esclusione da cui è nata e si prepari, perciò, al suo ritorno, in una visione da collocare a metà strada fra la dialettica hegeliana e la teoria freudiana della rimozione. La storicità della filosofia consisterebbe, da questo punto di vista, proprio nel dialogo fra iperbole e finitezza, tra eccesso e totalità: intesa come traccia, la parola conserva un legame con ciò che, sotto di lei, è scomparso e si espone così a una crisi che anticipa, se addirittura non pianifica, la
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5. il lavoro della dispersione
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riemersione del suo rimosso. La replica di Foucault si concentra precisamente sul ruolo da assegnare al linguaggio: evento, egli sostiene, e non traccia testuale, riproduzione di una contingenza che va oltre il linguaggio stesso e non solo accumulo di segni offerti alla lettura, alla distillazione del detto e del non-detto. Se Derrida avesse ragione, non avrebbe avuto valore per Descartes sottoporsi alla prova delle Meditazioni, un cammino quasi rituale che qualifica il soggetto filosofico e abilita il suo diritto alla parola a condizione che egli si esponga alle trasformazioni prodotte dagli eventi discorsivi: né più né meno di quelle che, in seguito, Foucault avrebbe definito “tecnologie del sé”. L’idea della parola come raschiatura, del testo come griglia che tutto contiene in sé è appunto il rimprovero che Foucault rivolge polemicamente a Derrida. Il discorso, ai suoi occhi, è proiettato verso ciò che lo trascende: restituirgli uno statuto metafisico, come fa Derrida, significa tornare a ricomprendere il suo potenziale di alterità all’interno del gioco della filosofia. 3. L’alterità dentro di noi: la dispersione Nell’intervallo fra i due testi qui indicati come l’alfa e l’omega del progetto di Storia della follia, Foucault pronunciò un intervento di omaggio a Jean Hyppolite (1969b) che chiarisce e al tempo stesso complica il ruolo che la relazione di alterità svolge nel suo pensiero. Hyppolite, scrive Foucault, ha mostrato come la filosofia sia costantemente esposta al confronto con ciò che, fuori di lei, la trascende, essendo “non-filosofia”. È appunto quest’ultima dimensione a catalizzare la sua attenzione: Hyppolite la lega ai momenti del cominciamento e della fine della filosofia, Foucault la definisce più spesso come il “fuori” o il “di fuori”. I temi dell’alterità e della trascendenza sono per lui indiscernibili: Foucault non tematizza l’Altro, nel senso dell’Alter Ego, ma l’estraneità intesa nel duplice significato dell’altro da sé e dell’altro dal discorso, o dall’ordine del discorso. La dialettica hegeliana, prosegue nel testo dedicato a Hyppolite, gli appare come il più vigoroso tentativo di far rientrare anche la non-filosofia fra le prerogative della filosofia, dunque di assorbire l’alterità, nella forma della negazione, in un disegno che la limita e la contiene, scongiurando il maggior rischio che assumerla comporterebbe: l’apertura di
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un processo di dispersione al fondo del quale non troveremmo più alcuna struttura sistematica, alcuna soluzione filosofica in grado di restituirci il senso unitario di una totalità. Precisamente a uno sguardo verso la dispersione invitano, invece, le figure concettuali che egli aveva cercato di mettere alla prova attraverso le sue letture di Blanchot, Bataille, Rousseau e molti altri autori che non rientrano nei canoni di una tradizione filosofica ordinata. L’insistenza sul “pensiero del di fuori”, sulla trasgressione, sull’opera assente, sono altrettanti indizi del fatto che i suoi riferimenti agli esclusi, ai folli, ai malati, ai criminali e così via non siano in alcun modo da intendere come l’abbozzo di una fenomenologia dell’Altro, ma come esempi limite di una relazione con l’alterità che per la sua forza, la sua radicalità, impone al pensiero di tornare sui propri passi e di rinunciare all’architettura di un sistema che tutto riassuma all’interno di un unico movimento, o di un’unica sfera. L’Altro, per Foucault, non ha bisogno di essere trovato o incontrato da un soggetto che, conquistata la certezza su di sé, si apra verso ciò che gli è estraneo. Al contrario, l’alterità è già da sempre contenuta nei processi attraverso i quali un’identità viene costruita, è già presente negli atti di esclusione che lasciano un bordo bianco attorno a ciò che siamo o che presumiamo di essere. Non insisterà più, se non in maniera occasionale, sul carattere neutro che il nostro linguaggio dovrebbe assumere per portare su di sé il carico dell’alterità. In compenso, non cesserà di insistere sugli effetti di dispersione che fin dal principio lastricano la strada dei processi di individuazione. 4. Un’evidenza minacciata Che questi ultimi rientrino a pieno titolo nel computo delle relazioni di potere, è una conseguenza coerente con lo sviluppo preso dalle ricerche di Foucault a partire dai primi anni Settanta. Non c’è individuazione, neppure la più consapevole e filosofica, che possa risolversi in un lavoro compiuto nel proprio foro interiore. Non c’è ragione del cuore, o dell’anima, che non sia già abitata da quel Fuori che solo illusoriamente abbiamo tentato di tenere a bada. Una delle immagini più forti di Sorvegliare e punire, quella secondo cui il sogno filosofico della comunità ideale sarebbe stato soppiantato dal
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sogno militare di una comunità ordinata, rinvia ancora una volta a questo meccanismo: l’individuo non è un punto di partenza, ma un’unità ritagliata dall’insieme delle relazioni sociali. A essere “primo”, nella logica di una filosofia critica, non è l’io, ma appunto la relazione. Se i fenomeni ci appaiono rovesciati, se possiamo pensare l’Altro solo partendo dall’esperienza che ciascuno ha di sé, è proprio perché siamo stati trasformati in monadi, ingranaggi di una macchina multisegmentaria il cui funzionamento non potrebbe che rinviare a un’ipoteca teologica: al principio della teodicea. È appena il caso di notare come nell’ultimo Husserl i riferimenti alla monadologia e all’armonia prestabilita prolifichino, accanto ad altri testi nei quali si pone il tema di una Wir-Subjektivität, proprio laddove si tratta di costruire la relazione di intersoggettività e come uno dei rari testi di György Lukács che risente di un’influenza fenomenologica, la giovanile Estetica di Heidelberg, argomenti l’inevitabilità della teodicea per ogni filosofia che postuli la possibilità della piena comprensione dell’altro: solo una filosofia che riconosca l’essenzialità dell’equivoco, e che rinunci all’idea di un’ideale corrispondenza fra soggetti, può sfuggire secondo Lukács a questo rischio (cfr. Catucci 2003). Di questa intuizione si può avere la riprova, del resto, guardando agli esiti della proposta di Habermas sulla comunità della comunicazione linguistica, luogo nel quale i conflitti per il reciproco riconoscimento si accordano in nome di un ideale di democrazia che ancora porta su di sé tracce di utopia. Anche la riflessione di Paul Ricoeur, che pure muove da una critica radicale al monologismo della coscienza fenomenologica, tende a una forma di ricomposizione dialettica del Sé e dell’Altro da Sé, poli che «passano l’uno nell’altro» tenendo insieme, in un accordo non privo di aspirazioni utopiche, il nucleo instabile dell’Ipse e quello stabile dell’Idem. È il contrario del Foucault che pensa, seguendo Bataille, a un limite non tendente a ripiegarsi su sé stesso ma aperto verso l’illimitato, verso il “tutt’altro”, al punto da esporre l’essere al rischio della propria distruzione, in un gesto nel quale nulla può essere riassorbito nell’identità di un soggetto che ritorna a sé. E il contrario anche del Foucault che, seguendo Blanchot, mostra come un linguaggio aperto alla trascendenza si collochi appunto in uno «spazio neutro» nel quale la consistenza del soggetto viene messa a repentaglio: se la riflessione occidentale ha così a lungo «esitato a pensare l’essere del
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linguaggio», scrive, è perché ha «presentito il pericolo che l’esperienza nuda del linguaggio farebbe correre all’evidenza dell’io sono» (Foucault 1966b, 113). Non come l’Altro si costituisca a partire dal sé, dunque, ma come il sé venga costruito a partire da uno stato di dispersione originaria è il problema con il quale Foucault si confronta e che troviamo al centro anche dei suoi ultimi scritti. 5. Erotica, etica, alterità Con il saggio del 1969 dedicato a Hyppolite, come si diceva, il quadro viene però complicandosi. E questo accade anzitutto nel nome di Hegel, fin qui trattato come una sorta di referente da cui prendere congedo con tutte le forze, eppure mai del tutto esiliato dall’orizzonte del pensiero di Foucault. Dopo essere stato oggetto di una dissertazione giovanile oggi perduta, e dopo essere comparso saltuariamente in qualche passaggio comunque significativo di alcuni suoi lavori – primo fra tutti L’ordine del discorso –, Hegel ritorna con forza negli ultimi scritti di Foucault. A giusto titolo Mariapaola Fimiani ha di recente potuto portare alla luce l’eredità hegeliana nascosta al fondo di testi come La cura di sé e L’uso dei piaceri, nonché quella più esplicita nominata nel corso su L’ermeneutica del soggetto, riconducendola al problema del “riconoscimento” (Anerkennung), dunque a una questione chiave nella vicenda della relazione di alterità (Fimiani 2007). Per un verso l’attenzione dell’ultimo Foucault per la questione del riconoscimento viene incontro a una più generale ripresa del tema nel passaggio fra anni Settanta e Ottanta (cfr. Honneth 1992, Crespi 2004). Per un altro si tratta di uno sviluppo delle sue tesi sulla forma «agonistica» della relazione fra il soggetto e il potere articolata però, nella fase estrema del suo pensiero, intorno alle questioni dell’amicizia e dell’amore. La questione controversa dei rapporti tra il soggetto e il potere sembra trovare in Foucault una via d’uscita, in effetti, nelle forme della relazione privata nelle quali la struttura agonistica dei conflitti non mira agli esiti dell’assimilazione e della normalizzazione, ma a una costituzione autonoma del sé. Che una simile costituzione si compia attraverso i percorsi di uno scambio è indice della fedeltà di Foucault al principio di un’originaria dispersione alla base dei pro-
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cessi di individuazione. E che la posta in gioco dello scambio sia il superamento dell’asimmetria che ne condiziona gli inizi è segnale di una ripresa di motivi hegeliani che diventa evidente in passaggi che richiamano le figure del signore e del servo, sia pure sempre rimarcando la sua distanza da una concezione dialettica, come si vede ancora in una delle ultime interviste, rilasciata nel 1984, e intitolata Il sesso, il potere e la politica dell’identità, leggibile anche in italiano nel terzo volume dell’Archivio Foucault edito da Feltrinelli (1998). È il campo dell’Erotica greca, in particolare, che fornisce a Foucault un modello per ripensare la costituzione del sé a partire da una relazione amorosa asimmetrica: il giovane al quale si indirizzano le passioni degli adulti è all’inizio solo un «oggetto di piacere» ma, al tempo stesso, in quanto è destinato a diventare a sua volta un adulto libero, si scopre irriducibile a una logica del dominio alla quale progressivamente si sottrae. Il giovane, così, rovescia la sua relazione con l’adulto, da passivo che era si trasforma in soggetto attivo, conquista la propria libertà e autonomia in un rapporto sempre reversibile nel quale il ruolo dell’adulto è quello di temperare il proprio desiderio per rendere possibile e accompagnare questa crescita (Foucault 1984a, 199 sgg; cfr. Fimiani 2007, 35-59). Ma al di là dell’Erotica, è anche il «servizio d’anima» che si compie nella relazione d’amicizia, esemplificata da Foucault attraverso un’analisi dello scambio epistolare fra Seneca e Lucilio, a prospettare una via per la costituzione del sé che si svolge pur sempre a partire da un Altro nei confronti del quale si è collocati in una posizione asimmetrica: quella dell’adulto rispetto al giovane o anche quella del maestro rispetto al discepolo (Foucault 1983, 202-216). Non c’è in Foucault, a differenza di quanto avviene nella dialettica hegeliana, il raggiungimento sia pure transitorio di un momento di equilibrio, non c’è conquista dell’identità che assorba la dipendenza dall’Altro come una componente interna del processo. Non c’è il rischio di quel ritorno alla «onnipotenza dell’Io» evocata come un timore da Natoli. Già il ricorso a un’immagine come quella dell’agonismo, piuttosto che dell’antagonismo, evidenzia come per Foucault non sia risoluzione del percorso che porta il soggetto a costituirsi in autonomia. Anche l’essere autonomo è una distillazione della relazione con l’Altro, ed è semmai proprio la relazione di alterità il punto di partenza che permette di distinguere il proprio sé rimanendo tutta-
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via all’interno di quel gioco fra il dominio e il suo rovesciamento mai portato a un punto di risoluzione. Se è lecito ancora citare il giovane Lukács, è proprio in questa mancanza di risoluzione che egli vedeva il motore primo di ogni etica. Ed è appunto la dimensione etica ciò a cui Foucault mira, soprattutto negli ultimi scritti, per ricondurre la sua descrizione dello scambio amoroso e amicale dalla sfera delle relazioni private a quella, più ampia, del politico. 6. La moltitudine del Sé Amore, amicizia, servizio d’anima, sono dunque da collocare sotto la sfera di una relazione agonistica nella quale dominio e rovesciamento del dominio si presentano come esiti instabili di un comportamento strategico fondato su fenomeni di dispersione, e non sul progetto dialettico di un’identità che abbia superato e assorbito il conflitto con l’alterità. Solo quello che viene diviso in due poli opposti da un gesto teorico può essere portato a sintesi. Ma è precisamente la logica binaria dell’opposizione ciò a cui Foucault cerca di sottrarsi facendo riferimento a un ethos delle relazioni reciproche. L’uso del plurale, in questo caso, è obbligato. Non l’affrontamento tra l’Io e l’Altro, fra il Sé e l’Altro da Sé, ma la reciprocità fra una moltitudine di Altri e una correlativa moltitudine nel Sé è quel che ricaviamo dalla sua lettura. Le strategie della soggettivazione sono molteplici, seguono percorsi variabili e comunque sempre reversibili, poiché rimangono sospese in quella forma di reciprocità che autorizza lo scambio senza definirne i contorni, in una sorta di ambiente che si può definire “neutro” solo in confronto con la pretesa di totalizzazione del processo dialettico: anche la “neutralità” del linguaggio che permetteva lo scambio con l’esperienza della follia acquista, in questa prospettiva, un significato più preciso. Il punto di fuga a cui tende ogni versione della dialettica è, per Foucault, un ideale utopico: quello habermasiano della comunicazione trasparente ne è solo un’ennesima variazione. Il carattere provvisorio, puntuale, locale della strategia è ciò che egli sostituisce alla dialettica ed è ciò a cui lega la prospettiva di un’etica che si traduce immediatamente in valore politico. Se la dialettica sussume l’Altro nell’identico e finisce per ricondurre anche l’opera della contraddizione in un tessuto omo-
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geneo, la strategia proviene da un principio di dispersione e mira a preservare la disgiunzione e la molteplicità. Già nel Corso del 1979 al Collège de France, intitolato Nascita della biopolitica, Foucault sottolineava come mantenere aperta la condizione dell’eterogeneità non impedisca la connessione e la coesistenza. Sostituire la strategia alla dialettica «non fa valere termini contraddittori in un elemento dell’omogeneo, destinato a garantire la loro risoluzione in unità; al contrario, ha la funzione di stabilire quali sono le connessioni fra termini disparati, che restano tali» (Foucault 1979a, 49). Non l’Altro come tale, dunque, ma la moltitudine degli Altri, e più in particolare degli Altri con i quali siamo in contatti più vicini, per amore o per amicizia, diventa perciò la serie molteplice e disparata a partire dalla quale il sé si costituisce via via, in forme che sono pur sempre mutevoli e provvisorie proprio perché mai separate dall’agonismo della reciprocità. Fuori da queste forme di relazione non c’è definizione del sé. Le strategie della soggettivazione rispondono al richiamo di una continua messa in discussione, dunque di una continua messa in relazione, che mina un’immagine stabile dell’identità per consegnarci a un lavoro di costruzione interminabile consegnato alla sfera pubblica e non racchiuso nell’interiorità della coscienza. È grazie a questa proiezione che si può intendere il richiamo dell’ultimo Foucault a una «estetica dell’esistenza», giacché la vita può prendere la forma di un’opera d’arte, e al limite lo fa sempre, solo se la si concepisce fin dal principio immersa nell’orizzonte pubblico. Dunque in Foucault è la dispersione, e non la divisione in poli omogenei, seppure pensati come contraddittori, ad avviare il processo di definizione del sé. Ed è il mutamento instancabile delle strategie a coincidere, secondo le parole di Foucault, con quello che i Greci chiamavano appunto ethos.
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6. La linea del crimine
1. Il nemico pubblico numero uno Il 2 marzo 1977 a Parigi, al n. 17 della rue Jacob, gli uffici dell’editore Jean-Claude Lattès vennero perquisiti dalla polizia durante un’operazione che mirava a provare l’acquisizione illegale del memoriale scritto in carcere da un detenuto in attesa di giudizio. Il testo era in libreria da qualche giorno e prometteva già di diventare un bestseller. Si intitolava L’instinct de mort. L’autore, il rapinatore e pluriomicida Jacques Mesrine, veniva allora definito in Francia, tanto negli ambienti giudiziari che sulla stampa, «il nemico pubblico n. 1». Pochi giorni dopo un nuovo quotidiano, «Le Matin de Paris», pubblicava a pagina 11 un commento di Michel Foucault: Le poster de l’ennemi public n° 1 (Foucault 1977d). Il pretesto era l’«odiosa» perquisizione della casa editrice, ma a Foucault si chiedeva qualcosa di più: un parere sullo scandalo provocato dall’uscita del libro e sulle reazioni scomposte da parte tanto della giustizia, quanto dei media. Foucault affrontava il nodo ma, lasciando forse deluso chi si aspettava espressioni di simpatia nei confronti di un criminale che si racconta, spostava lo sguardo verso il problema per lui realmente significativo, cioè verso i meccanismi di funzionamento della giustizia. Quando le gesta del crimine saturano lo spazio della comunicazione, scriveva Foucault, le persone non hanno più attenzione per altro e «accettano di non sapere quanto accade dalla parte di una giustizia che pure si esercita in loro nome». Occorre perciò risalire oltre la cortina di fumo che lo stesso Mesrine ha contribuito ad alimentare e superare il primo impatto con il clamore suscitato dal libro. Cosa fa realmente scandalo, infatti, nel memoriale di Mesrine? «Non il contenuto», del tutto in linea con il cliché preconfezionato del
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malvivente sportivo e cavalleresco, che gioca con il commissario e con la legge una partita basata su un reciproco riconoscimento di ruoli: se c’è un giorno in cui Mesrine si è dimostrato perfettamente ligio alle regole «è stato proprio quando ha scritto questo testo». A fare scandalo è semmai il momento della pubblicazione, perché non essendo ancora stata pronunciata la sentenza il libro rischiava di oscurarla, indebolendone così l’autorità. Nel suo libro, Mesrine confessava 39 crimini, fra i quali anche diversi omicidi. Un accusato che confessa: non dovrebbe essere ciò a cui la giustizia penale più aspira e che risparmia tanta fatica agli inquirenti? Non tutte le confessioni, però, sono ugualmente bene accette alla giustizia. Anzi, lo sono soltanto quelle che vengono rese all’interno della cornice formale della procedura. Bisogna cioè che la confessione sia «prodotta», «utilizzata» dalla giustizia e «pubblicata al momento giusto». Una confessione di questo genere è come la firma dell’imputato sulle carte che permetteranno di condannarlo. È un atto di resa («Bravo! Lei ha vinto signor ispettore»), è quasi un contratto («Accetto in anticipo la mia condanna, signor giudice»); ma, in ogni modo, deve avvenire nel colloquio singolare fra la giustizia e colui che dev’essere giudicato. Sarà tollerato di buon grado che la confessione venga indirizzata all’opinione pubblica dopo la condanna, perché è una maniera di dire alla buona gente: «i vostri giudici che mi hanno punito avevano ragione». Ma spargere la propria confessione ai quattro venti, dietro le spalle del giudice, quando ancora si è un semplice imputato, è non rispettare il gioco. E questo è inammissibile. (Foucault 1977d)
L’utilità del libro di Mesrine, se ce n’è una, sta per Foucault precisamente nell’aver smosso «questo gioco sottile della pubblicità e del segreto di cui l’apparato giudiziario fa uso per il suo funzionamento». Rinviando al mittente i clichés che gli erano stati cuciti addosso e di cui si era fregiato lui stesso come fossero medaglie sul suo petto, Mesrine aveva finito per lasciar emergere interrogativi che oltrepassavano largamente il suo caso e le sue stesse intenzioni di scrittore. Fino a che punto, in una democrazia, il sistema giudiziario può far uso del segreto? È legittimo mantenere il silenzio su quanto avviene in camera di consiglio, o imporre il silenzio a chi dev’essere giudicato? Se L’instinct de mort fa persino «ridere» per quanto è banale e per quanto consumati sono i suoi stereotipi («un rewriting da supermarket»), le domande suscitate dall’operazione editoriale oltrepassa-
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6. la linea del crimine
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no l’ovvietà mettendo in gioco il momento della confessione e i mezzi attraverso cui viene diffusa. Non le parole di Mesrine, dunque, ma il fatto di aver preso parola in anticipo sulla sentenza rappresenta, agli occhi di Foucault, l’attraversamento della linea che contorna il gioco e il volto della giustizia. 1. Un crocevia Il breve articolo sul caso Mesrine seguiva di poche settimane la pubblicazione, su «Les Cahiers du chemin», di uno dei saggi più originali e interessanti scritti da Foucault in quegli anni, La vita degli uomini infami. In principio doveva servire da introduzione per un’antologia di testi d’archivo da lui raccolti nel corso degli anni: brevi profili di persone comuni provenienti da registri di internamento, relazioni di polizia, suppliche rivolte al Re, lettres de cachet. Questo progetto editoriale venne però abbandonato in favore di un’idea più ambiziosa, un’intera collana, «Les vies parallèles», che l’editore Gallimard aprì e chiuse nel corso di due anni, 1978 e 1979, dopo aver pubblicato solamente due titoli: l’autobiografia dell’ermafrodita Herculine Barbine dite Alexina B. e Le Cercle amoureux d’Henry Legrand. Foucault, che più tardi avrebbe riutilizzato almeno le lettres de cachet in un volume curato insieme alla storica Arlette Farge (Le Désordre des familles, 1982), decise comunque di pubblicare senza modifiche il testo introduttivo, al quale evidentemente riconosceva un senso non episodico. La vita degli uomini infami sembra essere infatti uno di quei testi d’orientamento che a volte Foucault ha scritto rapidamente come per fissare, sul suo cammino, un punto che permettesse di collegare le ricerche a venire con quanto egli aveva già fatto negli anni precedenti. Si tratta per lui di indicazioni provvisorie, che non prendono mai la forma di un disegno sistematico. Eppure di queste maniere di sintetizzare il senso di un lavoro o di un percorso Foucault ha sempre avuto bisogno, lo dimostrano molti passaggi dei suoi corsi al Collège de France, quasi a voler dare rilievo e concretezza a connessioni che attraversano i suoi scritti come fiumi carsici. Da un punto di vista meramente cronologico La vita degli uomini infami cade più o meno due anni dopo la pubblicazione di Sorveglia-
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re e punire (1975) e uno dopo quella di La volontà di sapere (1976). Contemporaneamente teneva al Collège de France il corso Sicurezza, territorio, popolazione. Foucault si trovava dunque nel pieno dell’elaborazione che conteneva il passaggio dall’analisi del potere disciplinare a quella del biopotere e, tramite il progetto sulla storia della sessualità, conduceva verso gli studi sull’ermeneutica del soggetto. Da un lato La vita degli uomini infami era molto vicina alle ricerche sulla genealogia del potere e fotografava la nascita di un nuovo sapere sulla vita quotidiana degli individui, una «immensa possibilità di discorso» non ancora inquadrata dentro la griglia di comprensione che le sarebbe stata assegnata nell’età moderna: quella «dell’Amministrazione, del giornalismo e della scienza» (Foucault 1977d, 256259). Dall’altro rinviava a una fase più remota delle sue ricerche, retrocedendo fino a Storia della follia (1961) e incontrando, lungo questa direttrice, alcuni dei temi da lui affrontati negli anni Sessanta all’interno degli scritti dedicati alla letteratura: questioni che allora apparivano ai margini dei suoi interessi ed erano comunque trattate solo in modo occasionale, ma che in realtà sono da porre direttamente in rapporto con le riflessioni dei suoi ultimi anni dedicate alla problematizzazione del soggetto (cfr. Revel 1996). La vita degli uomini infami si colloca perciò in un crocevia che collega il primo e l’ultimo Foucault non solo attraverso la risonanza fra problemi affrontati in momenti e su terreni diversi, ma anche attraverso un gesto estetico che nei suoi lavori è ricorrente e ha il valore di un segnalatore di tensione, di un rilevatore di presenze indispensabile per focalizzare l’attenzione sull’emergere di una zona di discontinuità nel flusso apparentemente scorrevole del tempo storico. 2. Bellezza e spavento Quando vuole motivare la scelta dei testi da includere nell’antologia, Foucault precisa subito di non aver voluto costruire «un libro di storia», ma di essersi lasciato guidare dal «gusto», dal «piacere», dall’«emozione», dal «riso», dalla «sorpresa», da «un certo sgomento di cui mi sarebbe forse difficile giustificare l’intensità, ora che è passato il momento della prima scoperta». Impressioni «fisiche», aggiunge poco dopo, «vibrazioni» venute da testi «che hanno scosso in
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me più fibre di quanto non possa quella che normalmente si chiama letteratura» e i cui effetti egli fa risalire a una singolare mescolanza di bellezza e di eccesso, di classicità e di miseria (Foucault 1977a, 245). Per Foucault si tratta di una concessione all’estetica che, in forma così esplicita, è tutt’altro che usuale. Il fatto che subito dopo egli intervenga per sistematizzare i criteri per la scelta dei documenti è un modo per attenuare quell’espressione di sensibilità spontanea, poco in linea con la metodicità del suo lavoro di storico e di filosofo. Oltre a questa forma di outing estetico, però, ci sono anche parole ricorrenti che poste l’una accanto all’altra, con le loro assonanze e i loro contrasti, testimoniano la posizione speciale occupata, nell’esperienza e nel pensiero di Foucault, da queste brevi e tendenziose biografie di uomini oscuri. Parla di intensità, di forza, di poeticità, di un effetto misto «di bellezza e di spavento», di «esistenze-lampo» il cui «ritorno attuale nel reale» avviene esattamente tramite le stesse parole con le quali le si era volute «cacciare dal mondo» (Foucault 1977a, 245). Basterebbero questi riferimenti a misurare la sua distanza dalla lezione dello strutturalismo, a cui tutte le categorie della forza e dell’espressione dovevano rimanere estranee, come ha mostrato Jacques Derrida nel saggio che apre La scrittura e la differenza, intitolato appunto Forza e significazione (Derrida 1967). Ancora di più, quelle parole scelte da Foucault, associate a biografie così icastiche e concise, confermano come per lui il riferimento estetico a scene storiche capaci di condensarsi in immagini coincida con l’istituzione dei campi discorsivi all’interno dei quali, di volta in volta, egli colloca e sviluppa le sue indagini. L’emergere dalle fonti d’archivio dei profili incerti degli uomini infami istituisce una differenza all’interno di un campo, quello della conoscenza degli individui, che inizia a emergere per uno sguardo pubblico senza ancora poter essere ricondotto a categorie omogenee o a una standardizzazione degli interventi attuati nei loro confronti. «Perché una parte del passato sia investita dall’attualità», ha scritto Walter Benjamin, «fra loro non deve sussistere nessuna continuità». Le fonti d’archivio alle quali Foucault fa riferimento appartengono in effetti tutte all’età classica, cioè ai cent’anni che vanno grosso modo dal 1660 al 1760. È la stessa epoca indagata in Storia della follia, la stessa in cui Velázquez dipinse Las Meninas (1656), la stessa anche del supplizio descritto all’inizio di Sorvegliare e punire. Ciò che maggior-
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mente risalta di quel secolo, ai nostri occhi, è proprio la sua disomogeneità rispetto ai sistemi d’ordine e di potere che si sono affermati successivamente, nell’età moderna, e dai quali discende l’organizzazione della società e del sapere all’interno della quale noi viviamo. Eppure proprio grazie alla percezione di questa differenza, che all’inizio cogliamo sensibilmente, quelle fonti si rivolgono a noi in modo vivido e gli uomini infami tornano a parlarci come attraverso un «téléscopage del passato attraverso il presente» (Benjamin 1989, 527). Ad averli riportati in vita, in qualche modo, è stato un certo indice della casualità tipica di tutte le ricerche d’archivio, è stata la folgorazione estetica del ricercatore per le differenze istituite da quei documenti, ma è stata soprattutto la prima registrazione dei fatti, il bisogno che ha fatto uscire esistenze del tutto anonime dalla loro soglia di invisibilità, il momento fatidico del loro contatto con il potere. 3. Cos’è l’infamia I criteri adottati da Foucault per selezionare i testi sistematizzano un gioco nato pur sempre, com’egli dice, da una «piccola mania». I testi dovevano riferirsi a personaggi realmente esistiti, del tutto oscuri, e dovevano non solo averli raccontati nel modo più breve possibile, ma anche avere esercitato un ruolo attivo nelle loro vite, contribuendo a determinarne il destino. Per figure celebri come Gilles de Rais, Sade, Lacenaire, o magari per lo stesso Mesrine l’infamia, in fondo, non è che un altro nome attribuito al carattere sinistro della loro fama. Quelle raccolte da Foucault sono invece storie di uomini «rigorosamente infami», cioè rimasti al di sotto di ogni fama, «poveri spiriti smarriti su cammini sconosciuti» la cui unica traccia sulla Terra è stata quella lasciata nelle poche righe che ne hanno registrato, con un linguaggio bizzarramente enfatico, la collisione con qualche manifestazione del potere. Il monaco scandaloso, l’usuraio misantropo, l’astrologa stravagante, il padre di famiglia inaffidabile, il mercante litigioso, i piccoli bricconi e i poveri diavoli raccontati in quelle brevi note non acquistano ai nostri occhi nessuna gloria e nessuna grandezza, anzi restano «soltanto quello per cui li si è voluti opprimere, né più né meno». Eppure la «disparità» tra le cose raccontate e il modo di dirle, il fatto che di
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fronte ad azioni qualsiasi e a crimini mediocri si sia sentito il bisogno di attribuire loro una certa monumentalità e una postura teatrale, genera il contrasto da cui nasce la loro singolare bellezza, una forma di letterarietà che risulta fuori luogo e straniante, perché priva di rapporti con la finzione della letteratura (Foucault 1977a, 250-252). Nei testi scelti da Foucault sono state infatti messe realmente in gioco delle vite, alcune delle quali sono state spezzate o soffocate proprio a partire dalle parole usate per descriverle. Eppure da quelle biografie fulminanti, impensabili se confrontate con il linguaggio burocratico delle procedure moderne della giustizia, traspare qualcosa che non ha solo rapporto con la realtà di singole esistenze, ma investe la produzione discorsiva dell’individualità come tale e, quindi, la stessa costituzione del soggetto. Colta nel limite sottilissimo che separa l’anonimato delle vite qualsiasi dalla sopravvivenza postuma in una denuncia all’autorità, l’infamia si mostra come una forma sui generis di problematizzazione del soggetto, cioè come uno di quei processi attraverso i quali gli esseri umani hanno percepito sé stessi come qualcosa su cui occorreva riflettere. Come si legge in un passo di L’uso dei piaceri, il percepirsi degli uomini come malati, pazzi, parlanti, operanti, oppure come criminali risponde a «giochi di verità» differenti che bisogna non solo decifrare, ma anche smontare, per poter riconoscere pezzo dopo pezzo tutti gli aspetti che li costituiscono (Foucault 1984a, 13). Nell’età classica la struttura di esclusione che colpiva i folli e gli anormali doveva trovare un suo linguaggio per ritagliare intorno agli individui una precisa forma di visibilità e di riconoscibilità. L’infamia di cui parla Foucault si colloca precisamente nel punto in cui l’emergere dell’esistenza individuale non riesce a conciliarsi con il regime di normalità che si sta imponendo. L’individualità è ancora troppo imprecisa e labile per poter ottenere un’attenzione di tipo conoscitivo, e al tempo stesso è già troppo piena di differenze e idiosincrasie per poter essere ridotta entro uno standard privo di flessibilità. Gli esseri «oscuri e sfortunati» raccontati dai documenti d’archivio sono perciò le figure di un passaggio, di una mutazione. Dopo quell’epoca, le vite ordinarie hanno avuto accesso alla dignità della narrazione, per quanto questo abbia comportato una cattura più precisa operata su di loro dalle maglie del potere. È una ripetizione dello schema tante volte descritto da Foucault – e in modo molto chiaro, per esempio, in La
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volontà di sapere – sulla relazione agonistica fra potere e resistenza, e sul modo che il potere ha di far presa proprio sulle sporgenze irrequiete dei comportamenti che resistono. Gli individui, però, non sarebbero stati catturati a lungo tramite i meccanismi di sorveglianza e di addestramento del potere disciplinare. Foucault fa riferimento al delinearsi di un principio di regolazione dei fenomeni di massa che ha come oggetto non più gli individui come tali, ma l’unità molteplice costituita dalla popolazione. È l’avvento del biopotere, che matura nel xx secolo portando a compimento un processo iniziato alla fine dell’età classica, e che ha avuto come esito transitorio eppure decisivo il periodo della modernità disciplinare, intorno alla prima metà del xix secolo. In tutto questo tempo il racconto delle vite infami ha lasciato sul campo qualcosa che non è rimasto chiuso negli archivi insieme ai documenti: una certa riottosità all’ordine, una maniera di rivendicare l’alterità, persino un certo linguaggio talmente carico di immaginazione da risultare sempre fuori misura. Gli individui hanno trovato risorse per rendersi visibili attraverso questo linguaggio della dismisura che in un primo tempo era stato rivolto contro di loro, ma di cui hanno finito per appropriarsi a mano a mano che esso filtrava nel linguaggio della letteratura popolare. Le biografie degli uomini infami non sono direttamente all’origine di una letteratura, eppure mostrano come «alla svolta tra il xvii e il xviii secolo i rapporti del discorso, del potere della vita quotidiana e della verità si sono annodati in un modo nuovo, in cui la letteratura stessa si è trovata coinvolta» (Foucault 1977a, 260). 4. Sorvegliare e sedurre Uno degli aspetti di questo intreccio fra discorso, potere e vita quotidiana è costituito dal problema della visibilità degli individui, questione che si lega, in quell’epoca, al sorgere del sistema disciplinare che Foucault descrive, in Sorvegliare e punire, con parole molto vicine a quelle del testo su La vita degli uomini infami. Nel corso del xviii secolo la «soglia di visibilità» degli individui avrebbe subito uno spostamento storico fondamentale grazie allo «sblocco epistemologico» di un insieme di pratiche sperimentate anzitutto dal sapere
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medico (Foucault 1975a, 208). L’individuo qualsiasi, che un tempo era destinato a rimanere sempre sotto la soglia di visibilità, diventa allora universalmente visibile. Per un lungo periodo è la medicina a mettere a punto un sistema per la conoscenza dell’individuo sviluppando i metodi dell’anamnesi, dei colloqui con il singolo malato, raccogliendo in dossiers i dati relativi alle singole persone. In seguito, l’istituzione che ha preso in carico gli individui e i loro comportamenti è la polizia, la quale attraverso tutta una rete di sorveglianze spesso anonime «trasforma tutto il corpo sociale in un campo di percezione» illimitato (Foucault 1975a, 233). La visibilità, però, non è solo uno strumento di sorveglianza e di dominio, ma è anche la posta in gioco della sfida che gli individui lanciano al potere per costituirsi come soggetti in modo autonomo, senza seguire un cammino integralmente predeterminato. Il saggio su La vita degli uomini infami fa eco, in questo, a Sorvegliare e punire: come sarebbe indubbiamente facile smantellare il potere, se esso si limitasse a sorvegliare, spiare, sorprendere, proibire e punire; ma esso incita, suscita, produce; non è semplicemente occhio e orecchio, ma fa agire e parlare. (Foucault 1977a, 259)
L’esempio su cui Foucault concentra la sua attenzione, come si è detto, è quello delle lettres de cachet: ordini emessi direttamente dal re, certificati dalla sua firma e dal suo sigillo, controfirmati da uno dei suoi ministri. Durante l’ancien régime venivano usate per regolare pratiche di governo, ma soprattutto vi si faceva ricorso nel sistema giudiziario come a una specie di rito abbreviato e privilegiato che poteva arrivare a condanne senza processo. Benché l’istituzione delle lettres de cachet fosse più antica, solo nell’età classica era diventata l’asse portante di una procedura diffusa che conduceva a imprigionare, deportare o condannare al confino persone private della possibilità di replicare e di difendersi, agendo quindi «al di fuori della giustizia regolare» (Foucault 1977a, 255). Le lettres de cachet ebbero questo valore all’interno di una cornice molto limitata: per «non più di un secolo» e «soltanto in Francia». Malgrado ciò, si è trattato di un episodio «importante nella storia dei meccanismi di potere» perché ha mostrato come l’arbitrio del re potesse diventare esso stesso oggetto di contesa ed essere distribuito «secondo circuiti complessi e in tutto un gioco di domande e risposte» (Foucault 1977a, 255).
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In Sorvegliare e punire Foucault aveva descritto le lettres de cachet come «un sistema a doppia entrata» che per un verso rispondeva alla volontà del potere centrale, mettendo in moto l’apparato giudiziario, per un altro era suscettibile «di rispondere a sollecitazioni dal basso», dato che a richiederle erano le famiglie, i loro avvocati, i notabili locali, i curati di parrocchia, i vicini di quartiere (Foucault 1975a, 234). I giudizi del re non venivano accordati senza verifiche, e questo comportava la mobilitazione della polizia, degli informatori, insomma di tutto quell’apparato di controllo che restituiva al sovrano l’attendibilità delle cose denunciate, quando non si impantanava nelle pratiche di una corruzione diffusissima che contemplava addirittura l’acquisto di lettres de cachet in bianco, con la condanna già proclamata e il nome della vittima da aggiungere sul foglio. L’abuso di potere, perciò, non avveniva a senso unico. Gli ordini del re «non si abbattevano all’improvviso, dall’alto in basso, come segni della collera del monarca, se non nei casi più rari». Ognuno, semmai, cercava di usare per i propri fini le prerogative extra legem del potere assoluto, quasi che le lettres de cachet mettessero i meccanismi stessi della sovranità a disposizione di chiunque fosse «abbastanza astuto da captarli» (Foucault 1977a, 255). Attraverso questo sistema, dunque, il principio della sovranità assoluta veniva trascinato dentro i fatti più minuti della vita quotidiana, dato che chiunque, «se sa giocare il gioco, può diventare per l’altro un monarca terribile e senza legge: homo homini rex». Ma per appropriarsi di questo potere, che interviene in modo insondabile nei rapporti di lavoro, di vicinato e di famiglia, bisogna saperlo attirare verso contesti la cui mediocrità o banalità non sarebbe di rilievo tale da giustificare l’intervento del sovrano. Il potere, perciò, deve essere sedotto, e proprio per questo il registro descrittivo usato nelle lettres de cachet per raffigurare anche «i più piccoli disordini della condotta» doveva avere qualcosa di sproporzionato, di grandioso, di involontariamente letterario (Foucault 1977a, 255). Non esisteva infatti, a quel tempo, un codice prefissato per raccontare le malefatte di tutti i giorni e non era ancora stato steso sugli individui un linguaggio amministrativo e scientifico che pretendesse di essere «quello dell’osservazione e della neutralità». Nei secoli xvii e xviii, scrive Foucault, si è in un’epoca «ruvida e barbara» in cui le mediazioni del sapere moderno non si sono ancora pienamente
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costituite e le agitazioni dei miserabili imitano molto da vicino il fasto delle cerimonie regali: non solo non c’è un linguaggio comune, ma c’è uno scontro fra i disordini che si vogliono dire e il rigore delle forme che è necessario seguire. Da qui vengono, per noi che osserviamo da lontano questo primo affiorare del quotidiano nel codice del politico, strane folgorazioni, qualcosa di intenso, che si perderà in seguito, quando si farà di questi uomini e di queste donne degli “affari”, dei fatti diversi o dei casi. (Foucault 1977a, 259)
5. La letteratura come discorso dell’infamia Nello smottamento dei sistemi discorsivi in cui sono coinvolte le vite degli uomini infami si assiste a un duplice passaggio che rende la loro specifica forma di letterarietà problematica ed emblematica al tempo stesso. Per un verso, infatti, dai documenti d’archivio emerge quell’ingiunzione a fissare in discorso i fatti più minuti della vita quotidiana da cui sono sorti, in Occidente, nuovi sistemi di governo e di guida tanto delle popolazioni quanto dei singoli individui, omnes et singulatim. A partire dal suo progetto sulla Storia della sessualità, com’è noto, Foucault ha studiato in particolare le pratiche della confessione e la trasformazione della pastorale cristiana in un obbligo generalizzato a dire il vero su sé stessi e a rendere perciò visibili, almeno potenzialmente, anche gli aspetti più reconditi della propria vita. I testi presi in considerazione nel saggio su La vita degli uomini infami si collocano però in un registro che ha qualcosa di violentemente artificioso. Lungi dall’essere prodotte da una confessione, o anche solo da un’istigazione al confessare, quelle brevi trame sono per lo più il frutto di denunce, delazioni, illazioni, sono condizionate dall’arbitrio che cerca di perseguire i propri scopi, possiedono cioè un carattere strutturalmente tendenzioso. Le falsità che contengono, tuttavia, non impediscono loro di avere un’efficacia concreta e di portare alla condanna delle persone raccontate. La conseguenza è stata quella di collocare proprio all’origine del discorso moderno sull’individualità uno spazio di finzione, e di credito attribuito alla finzione, che al termine dell’età classica avrebbe infine trovato il suo ubi consistam in ciò che chiamiamo, nel senso moderno del termine, letteratura.
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Foucault descrive sinteticamente, nelle pagine finali del suo saggio, il processo storico che investe la letteratura moderna persino di un imperativo etico collocato precisamente nel punto di intersezione fra l’obbligo della confessione e la retorica seduttiva delle lettres de cachet. È in questo luogo apparentemente contraddittorio che «il sistema di costrizione mediante il quale l’Occidente ha obbligato il quotidiano a mettersi in discorso» finirà per salvare, a modo suo, l’aspirazione degli individui a non adeguarsi passivamente alle norme che vengono loro imposte, a non essere governati in tutti gli ambiti della loro vita, insomma a riservarsi margini di libertà che possono prendere le sembianze dello scandalo, della rivolta, della trasgressione. Ed è significativo che proprio quest’ultima parola, “trasgressione”, ricompaia nel saggio su La vita degli uomini infami a tanti anni di distanza dal momento in cui, scrivendo su Georges Bataille, Foucault ne aveva fatto il perno di una riformulazione del programma critico della filosofia, proiettata verso ciò che oltrepassa i limiti storici dei sistemi di sapere in cui viviamo (Foucault 1963b). Se nell’epoca premoderna la vita quotidiana era suscettibile di accedere al discorso solo vestendo i panni del “favoloso”, ovvero attraverso la sua trasfigurazione nello straordinario e nell’eroico, la letteratura moderna la rappresenta nei suoi aspetti più nascosti, intimi, scendendo fino al limite del proibito per seguire «un’ingiunzione a scovare la parte più notturna» dell’esistenza, nella quale a volte essa scopre «le figure solenni del destino» (Foucault 1977a, 260). Ma se d’altra parte il registro del favoloso doveva sempre spingersi verso l’impossibile, o quantomeno verso l’improbabile, vivendo dunque in una zona di indecidibilità tra il vero e il falso, la letteratura moderna si colloca fin dal principio «in una decisione di non-verità», presentandosi come un artificio che tuttavia si impegna a produrre effetti di verità e per questo si spinge fino all’esibizione dell’inconfessabile. Quando il favoloso esce dal campo della letteratura, questa diventa allora letteralmente «discorso dell’infamia». Il suo campo d’osservazione e di racconto riguarda l’ordinario della vita quotidiana, ciò che è senza gloria e che non ha bisogno di essere presentato attraverso funzioni cerimoniali, ma dev’essere il più possibile svelato nella sua nudità, come ciò che non può essere visto se non attraverso gli occhi della letteratura stessa. È questa, secondo Foucault, «l’etica immanente al discorso letterario dell’Occidente», ma è anche la ragione del suo
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rapporto ambivalente con il potere, dato che la letteratura si accanisce a rendere visibili gli strati più oscuri dell’individualità ma al tempo stesso, per scovarli, deve farsene carico, diventando essa stessa trasgressione e scandalo, rompendo i codici ed eludendo le regole (Foucault 1977a, 261). In fondo la fascinazione reciproca della letteratura e della psicoanalisi riposa, osserva Foucault, su questa ambivalenza. Ma d’altra parte che il compito etico e sociale della letteratura abbia avuto il suo luogo di nascita nello stesso spazio in cui si collocavano le biografie degli uomini infami, e che il suo insorgere abbia costeggiato la rappresentazione del crimine, della disobbedienza, o anche solo della stravaganza delle vite ordinarie, dovrebbe essere un indizio sufficiente del fatto che per Foucault il rapporto della letterarietà con la bellezza sia da ricondurre non a un fatto di stile o di linguaggio, e tantomeno alla raffigurazione di un lato “romanzesco” dell’esistenza che costituisce ciò da cui il romanzo moderno si è progressivamente liberato (Foucault 1977a, 261). Al pari di quella delle biografie degli uomini infami, la bellezza della letteratura è legata per lui all’emergere di uno strato incoercibile dell’individualità, a una sorta di disobbedienza o di irregolarità che rende la differenza degli individui tanto più irriducibile e riottosa quanto più viene resa visibile, cioè esposta alla presa di un potere che tuttavia, nel competere con quella disobbedienza così ostinata, ripetitiva e in fondo banale, si dimostra incapace di afferrarla del tutto e di soffocarla una volta per sempre. 6. Noi, Pierre Rivière Anche nel presentare il testo d’archivio che ha avuto maggiore popolarità fra quelli riproposti da lui e dalla sua cerchia di allievi, Io, Pierre Rivière, Foucault fa appello alla categoria estetica del bello. Perché al di là dei motivi che avevano portato a riconoscere nell’affaire Rivière un buon esempio su cui studiare la formazione del sapere psichiatrico e i suoi rapporti con le istituzioni giuridiche, quel che aveva fermato per più di un anno l’attenzione di Foucault e dei suoi allievi su quei documenti era stata «semplicemente la bellezza» del memoriale di Rivière: «tutto è partito dal nostro stupore» (Foucault 1973c, xvii). L’affaire Rivière non era mai stato considerato un caso di particolare rilievo, eppure aveva suscitato un certo interesse nell’ambiente psi-
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chiatrico e giuridico al punto al punto da produrre un corposo dossier di relazioni specialistiche che venne pubblicato per la prima volta, in forma parziale, sulle «Annales d’hygiène publique et de médecine légale» del 1836. Poi, così com’era sorto, l’interesse per Rivière era tramontato, facendo ricadere la sua figura nel silenzio. La sorte di Rivière, da questo punto di vista, non era molto diversa da quella degli uomini infami. Il suo crimine mancava di grandiosità e di eccezionalità: il parricidio era relativamente frequente nella Francia del suo tempo, se ne contavano dai dieci ai quindici casi l’anno, e il fatto che Rivière fosse un contadino autodidatta, a malapena capace di leggere e di scrivere, rendeva anche le sue efferatezze conformi, in fondo, alle aspettative e ai pregiudizi dell’epoca, senza farle apparire come qualcosa di inusitato o di unico. Niente a che vedere con il caso di Lacenaire, il criminale borghese e brillante scrittore dalla cui penna era uscito un memoriale pubblicato proprio nel 1836, a pochi mesi di distanza dalla sua esecuzione alla ghigliottina: Mémoires, révélations et poésies. Il caso Rivière sarebbe stato completamente oscurato dal monopolio esercitato allora, nella cronaca, da Lacenaire, i cui scritti e le cui gesta avrebbero attirato nel tempo l’attenzione di scrittori come Stendhal, Balzac, Dostoevskij, Lautréamont, solo per citarne alcuni. Eppure la bellezza del racconto di Pierre Rivière sarebbe stata, agli occhi di Foucault, più importante della costruzione ben studiata data da Lacenaire alle sue memorie. Rivière, infatti, non mette in scena sé stesso per trasfigurarsi in personaggio letterario, lavorando con gli ingredienti della ribellione e della grandezza, ma compie il percorso esattamente inverso, collocando il registro lirico dei racconti criminali all’interno della sua strategia omicida. Il testo di Rivière, osserva Foucault, non è né una confessione né una difesa. Visti dall’esterno, lo stile e il linguaggio sono molto simili a quelli dei racconti pubblicati dalla stampa popolare dell’epoca su fogli volanti o su quei giornali che in Francia si chiamavano canards. In quelle pagine, con lo stesso tipo di posizione lirica da cui Edgar Lee Masters avrebbe fatto parlare i defunti nella sua Spoon River, i misfatti vengono raccontati in prima persona, e in versi, come se fosse l’omicida stesso a cantare le sue gesta, senza mascherare l’orrore e la propria colpa. Lo spazio di questo «lirismo fittizio» è stato riempito da Pierre Rivière «con un delitto reale di cui aveva progettato già prima il racconto e del quale ha fatto, sotto richiesta del giudice, il rendiconto preciso» (Foucault 1973c, 226).
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Il suo è un «delitto-racconto» che ha dietro di sé un terreno ben determinato di storie, conoscenze, esperienze che tuttavia perdono ogni aspetto ornamentale, stilistico o letterario per diventare, invece, le condizioni di possibilità di un omicidio concepito già come un testo e immaginato fin dal principio come parte di una scrittura del crimine. In modo analogo, le lettres de cachet erano state la condizione di visibilità delle vite infami e sussisteva un rapporto di consustanzialità fra le biografie raccontate e le vite reali che erano state racchiuse in poche righe. Certo, il memoriale di Pierre Rivière è scritto da lui, e anche l’epoca dei documenti è diversa. «Nel 1836», ricorda Foucault, «si era nel bel mezzo del dibattito sull’utilizzazione dei concetti psichiatrici nella giustizia penale» (Foucault 1973c, xvi) e alcuni psichiatri fra i più illustri dell’epoca, chiamati dall’avvocato, si erano mobilitati per salvare Rivière dalla condanna a morte puntando sulla circostanza attenuante del suo stato patologico. È la potenziale esemplarità in un dibattito giuridico-scientifico ad avere attirato, all’epoca dei fatti, l’attenzione sul suo caso, sia pure per un breve periodo, mentre le biografie degli uomini infami facevano riferimento al sistema della sovranità assoluta e avevano bisogno, per diventare degne di interesse, di essere raccontate con un linguaggio pieno di amplificazioni immaginative. Di fronte a entrambi i casi, ovvero di fronte a queste diverse tipologie di fonti d’archivio, Foucault però confessa la stessa reazione di meraviglia e la stessa fascinazione per la bellezza. Nessuno di quei testi era nato con un’aspirazione programmatica al bello, e se il memoriale di Rivière era progettato come un’imitazione della letteratura criminale era solo per riportarla nella dimensione di un omicidio reale, dunque per usare la letteratura a rovescio, verso una sua perdita di letterarietà. La meraviglia viene dalla discontinuità fra le vite raccontate in quei documenti e l’ordine che si cerca di costruire intorno a loro, nel corpo sociale, come scavando delle nicchie che fossero capaci di contenere quelle esistenze, e di isolarle. Il crimine, del resto, è l’emblema araldico del comportamento antisociale, e c’è un innegabile «potere di disturbo» (Foucault 1973c, xix) che gli uomini infami esercitavano nei confronti dei loro contesti di appartenenza, e che il memoriale di Pierre Rivière pianificava mettendo in difficoltà anche i pareri degli psichiatri, non essendo affatto chiaro se quel testo fosse da giudicare come «segno di follia o prova di lucidità»: era stato
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questo, probabilmente, a far decadere l’interesse per il caso Rivière subito dopo che era stata ottenuta la commutazione della pena di morte in carcere a vita (Foucault 1973c, 220). È il potere di disturbo ciò che unisce, ai due capi del processo storico che porta dall’ancien règime al sistema delle discipline, le vicende degli uomini infami e quella di Pierre Rivière. Ed è come se Foucault avesse colto non nel crimine come tale, ma nel racconto del crimine, una riserva di possibilità per la costruzione di sé in forme autonome rispetto a quelle dominanti. Un’estetica dell’esistenza che procede attraverso le vie traverse di una disobbedienza ordinaria, vista dall’esterno come un crimine o pianificata nei termini di una scrittura. Naturalmente occorre, per questo, che il racconto del crimine non sia già contenuto nei dispositivi del potere-sapere vigenti, che sia cioè effettivamente l’effetto di un’azione di disturbo. Da questo punto di vista un memoriale come quello di Mesrine, che segue alla lettera le convenzioni del genere poliziesco, testimonia come entrambi, il malfattore e la legge, operino sullo stesso terreno senza mettere in discussione le regole del gioco, e come dunque la stessa identità con la quale il criminale riconosce sé stesso sia stata definita, colonizzata e messa al lavoro dal sistema di norme che lo definisce e lo giudica. Le esistenze degli uomini infami erano invece fuori norma, o come tali erano percepite, al punto da richiedere la produzione di testi spiazzanti e tendenti al registro dello splendore per poter essere incanalate entro i rapporti di potere del tempo. E Pierre Rivière usa gli schemi del racconto popolare, ma li declina in modo inatteso per rovesciare, a modo suo, «il gioco della legge, del delitto e della memoria» (Foucault 1973c, 227). Il potere di disturbo di cui tutte queste vite sono portatrici è una manifestazione concreta della «dispersione dei punti di resistenza» che nella dinamica di ogni relazione di potere «attraversa le stratificazioni sociali e le unità individuali» (Foucault 1976b, 86). Ciò che Foucault chiama “intensità”, nel loro caso, è senz’altro il tipo di «sporgenza» su cui il potere «fa presa», ma è anche la misura dell’energia spesa da quelle vite hanno per sfidare il potere e condurlo, imprevedibilmente, in una impasse facendogli compiere, anche solo per un breve momento, un giro a vuoto. È così, per esempio, che l’istituto delle lettres de cachet finì per screditare definitivamente la monarchia e il suo arbitrio, aprendo la strada alla rinuncia alla tutela del sovrano da parte di tutte le piccole istanze di potere che vi avevano fatto ricorso, le quali fini-
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6. la linea del crimine
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rono per organizzarsi in un meccanismo disciplinare anonimo. Le vite degli infami sono, in questo senso, tante cronache della piccola riottosità degli uomini ordinari, del loro rifiuto a lasciarsi inquadrare dalle norme, della testarda impazienza che li spinge a scontrarsi con chi è loro più vicino fino a sacrificare, per la condanna che li aspetta, proprio ciò che sembrano avere di più caro: un desiderio di autonomia, e magari un egoismo, che sconfina con l’aspirazione a sentirsi liberi. 7. Spostare la linea Resta il fatto che le biografie degli uomini infami, così come il memoriale prodotto da Rivière per un’aula di tribunale, rendono visibile della vita ordinaria solo ciò che entra in contatto con il potere, nel momento quelle esistenze entrano in collisione con esso: Mi si dirà: rieccoci, sempre con la stessa incapacità di oltrepassare la linea, di passare dall’altra parte, di ascoltare e far comprendere il linguaggio che viene da altrove e dal basso, sempre la stessa scelta, dalla parte del potere, di quello che esso fa o fa dire. (Foucault 1973c, 249)
Foucault era consapevole dell’impasse prodotta da questa condizione: nel gioco del potere gli uomini sono continuamente portati a sfidarlo e la loro forma di resistenza più acuta, persistente, consiste proprio nello spostare di continuo la linea, nel cambiare il campo in cui confrontarsi e battersi con il potere, intestardirsi contro di lui. Non ha senso chiedersi, in questo senso, se sia il potere a cambiare la posizione della linea oppure se siano le individualità. La solidità delle norme e dei sistemi di potere somiglia, per Foucault, a quanto Wittgenstein diceva del rapporto fra le regole e le sue applicazioni: paragoniamo quel rapporto a un corpo rotante, e capiremo che la stabilità dell’asse di rotazione dipende dalle applicazioni che vi fluttuano attorno, non da quanto rigido immaginiamo quell’asse. Uno dei tratti fondamentali della nostra società, osserva Foucault, è che «il destino vi assume la forma del rapporto con il potere, della lotta con o contro di esso» e che i momenti di maggiore intensità delle nostre vite, quelli dove maggiormente si concentrano le nostre energie, corrispondono ai momenti di più forte competizione con il potere (Foucault 1977a, 249).
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Per questo i micro-ritratti tendenziosi delle vite infami, il memoriale di Rivière, il potere di disturbo rispecchiato nelle scritture della trasgressione e del crimine, possono essere considerate testimonianze “dal basso”, perché mostrano uno spostamento della linea, colgono cioè sul fatto un momento di impasse o di riformulazione in cui le strategie del potere si riprogrammano, pronte a far presa di nuovo su ciò che, subito dopo, tenderà a fuggire verso un’altra direzione, aprendo nuove sfide in campi che non possiamo prevedere.
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7. Il pensiero pittorico
1. Foucault e la pittura Nel corso di un’intervista che risale al 1975 Foucault confessava di essere più sensibile al lavoro della pittura piuttosto che a quello della letteratura: «devo dire che non ho mai amato molto la scrittura. Nella pittura invece mi affascina la materialità» (Foucault 1975e, 707). A prima vista è un’affermazione sorprendente, tanto più se la avviciniamo a una seconda “confessione” rilasciata al suo interlocutore: «[la pittura] è una delle rare cose su cui scrivo con piacere e senza dovermi battere con nessuno. Credo di non avere nessun rapporto tattico o strategico con la pittura». Qui ci troviamo un’ennesima volta, leggendo Foucault, di fronte alla questione del piacere della scrittura, un tipo di relazione che probabilmente non ha mai corrisposto allo sforzo di elaborazione richiesto dalle sue opere più importanti, dai suoi libri, ma per il quale Foucault si è riservato almeno qualche piccola divagazione. Al di là del testo dedicato a Raymond Roussel (1963), il più celebre degli scritti per i quali Foucault ha esplicitamente evocato la questione del piacere, e al di là di saggi come quello sulle Vite degli uomini infami (1977), nel quale ha raccontato della sorpresa, dell’eccitazione e del divertimento che possono essere alla base dell’interesse per documenti apparentemente grigi come le lettres de cachet del xvii secolo (ma grigio, non bisogna dimenticarlo, è per lui anche il colore della genealogia), bisognerà dunque aggiungere alla lista delle parole scritte con piacere anche quelle dedicate alla pittura. Questo ambito, tuttavia, non conta che pochi testi, oltretutto piuttosto diseguali fra loro. Conosciamo il piccolo saggio su Magritte, Ceci n’est pas une pipe, pubblicato pochi mesi dopo la morte del pittore, nel 1968, e poi apparso in una versione ampliata nel 1973. C’è poi
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una conferenza pronunciata al club Tahar Haddad di Tunisi il 20 maggio 1971, La pittura di Manet, la cui trascrizione è stata pubblicata, come spesso è accaduto per i suoi testi inediti, prima in traduzioni non autorizzate e poi in una versione “ufficiale”. Ci sono infine alcuni scritti di circostanza: Les mots et les images, recensione della traduzione francese di due libri di Erwin Panofsky apparsa nel 1967 su «Le Nouvel Observateur»; La force de fuir, osservazioni svolte a margine di una mostra di Paul Rebeyrolle (1973); una Présentation ai disegni di Constantin Byzantios esposti alla Galerie Karl Finkler di Parigi (1974); La peinture photogénique, intervento per il catalogo di una mostra di Gérard Fromanger alla Galerie Jeanne Bucher sempre di Parigi (1975). A questi testi, per delle ragioni che vedremo, bisognerebbe aggiungere La pensée, l’émotion, presentazione di una mostra fotografica di Duane Michals (1982). La grande raccolta dei Dits et écrits di Foucault non offre altri riferimenti, e d’altra parte non ci sono attualmente materiali che permettano di dare corpo alle voci sui due presunti inediti sulla pittura, due libri che Foucault avrebbe citato come opere già compiute, ma di cui l’esistenza, almeno finora, non è stata confermata. Uno si intitolerebbe Le noir et la couleur, e sarebbe dedicato a Manet, l’altro sarebbe una monografia su Andy Warhol: entrambi i testi risalirebbero alla fine degli anni Sessanta. La celebre analisi di Las Meninas di Vélazquez in Le parole e le cose, con i nomi e le opere di Bosch e di Goya citati a più riprese durante tutti gli anni Sessanta, da Storia della follia a L’ordine del discorso, completerebbero questa lista e, a parte qualche eccezione, traccerebbero una cronologia parallela a quella degli scritti di Foucault sulla letteratura, la maggior parte dei quali è concentrata in una fase della sua attività che non oltrepassa la metà degli anni Settanta. Rispetto a questi ultimi, ad ogni modo, gli scritti sulla pittura restano molto meno numerosi, sono meno conosciuti e sono anche stati meno considerati, salvo eccezioni notevoli (per esempio Jay 1993 e Certeau 1982, 1986), almeno fino agli anni Duemila, quando hanno cominciato a uscire studi dedicati specificamente a questo tema (fra gli altri di nuovo Jay 2007 e Iacomini 2008). Malgrado ciò, se si considera più attentamente quel che Foucault dichiarava nell’intervista del 1975 citata poco fa, le ragioni del suo interesse per la pittura mostrano di essere in realtà molto coerenti con il cammino della sua ricerca e dei suoi libri. In primo luogo c’è la que-
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stione della materialità, un aspetto che Foucault considerava centrale nel suo studio sugli enunciati e sui fatti del linguaggio in generale, comprese le opere letterarie, ma che nel caso della pittura acquista un valore costitutivo. La conferenza di Tunisi è imperniata direttamente su questa nozione: dal Rinascimento in poi, scrive Foucault, Manet è stato il primo pittore, che ha dato un ruolo, all’interno dei suoi quadri, alle «proprietà materiali dello spazio sul quale dipingeva» (Foucault 1971c, 4). Ancora: Manet «reinventa (o forse inventa?) il quadro-oggetto, il quadro come materialità, il quadro come cosa colorata che viene illuminata da una luce esterna e davanti al quale, o intorno al quale, lo spettatore è invitato a muoversi» (Foucault 1971c, 5). Infine: Manet «ha messo al lavoro nella rappresentazione gli elementi fondamentali della tela», ha insistito sulla fisicità della tela e questa è stata «la condizione fondamentale – è la conclusione di Foucault – «perché un giorno ci si sbarazzasse della rappresentazione come tale e si lasciasse giocare lo spazio con le sue proprietà pure e semplici, cioè con le sue stesse proprietà materiali»(Foucault 1971c, 35). Dunque, nella prospettiva di un’archeologia del sapere che segue la linea delle trasformazioni storiche della pittura, l’accento posto sulla sua materialità agisce in senso contrario rispetto al principio di rappresentazione e annuncia l’irruzione di una discontinuità che rompe l’ordine dell’episteme moderna facendo sorgere nuove modalità dello sguardo. 2. Parole e immagini Dopo aver seguito brevemente la prime delle tre “confessioni” di Foucault, vorrei provare a prendere molto sul serio le altre due. La prima riguarda il piacere di scrivere sulla pittura e, soprattutto, la libertà che deriva dalla sensazione di non doversi «battere con nessuno». In questo caso verificare la sue parole è molto semplice: basta leggere uno qualunque dei testi da lui dedicati alla pittura per constatare con piena evidenza la leggerezza, la densità e la gioia che che accompagnano il dispiegamento del suo talento descrittivo, l’efficacia visiva della sua scrittura, la precisione dei dettagli dovuta a una capacità di osservazione minuziosa e brillante. L’analisi di un quadro permette a Foucault di far emergere i giochi dello sguardo facendo leva
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sull’aderenza delle parole a immagini che egli considera come forme dinamiche, movimenti ritratti nell’attimo della loro instabilità e del loro divenire, piuttosto che immagini fisse di un’immobilità astratta dal tempo. Non cerca necessariamente di essere originale nelle sue descrizioni, non vuole stupire con il virtuosismo dell’interpretazione. Nel capitolo di Le parole e le cose dedivato a Las Meninas, per esempio, la descrizione del quadro si ricollega, di fatto, a una tradizione che risale ai primi ammiratori di Vélazquez, fra i quali il poeta Francisco de Quevedo rappresenta probabilmente il caso emblematico. Quevedo considerava questo quadro come un teatro dello sguardo, una messa in gioco delle differenti posizioni e direzioni dei personaggi sulla tela, i cui sguardi si mescolano in una sorta di polifonia non governata da un punto di vista privilegiato. E Antonio Palomino, nel 1724, nel suo libro intitolato El museo pictórico y escala óptica, aveva già dato ai personaggi del quadro le stesse caratterizzazioni che si ritrovano nel testo di Foucault. Altri autori, durante il Novecento, hanno cercato di sviluppare una lettura originale di Las Meninas. John R. Searle, per fare un solo esempio, ha reinventato tutta la scena per arrivare alla conclusione che la coppia reale da noi intravista nello specchio in fondo alla sala non è il vero soggetto della tela alla quale il pittore sta lavorando, e della quale vediamo solo il retro, perché in realtà egli starebbe dipingendo proprio Las Meninas (Searle 1980). Un’interpretazione del tutto ipotetica, basata fondamentalmente sulla proiezione geometrica della porzione di tela raffigurata da Vélazquez, e che comunque richiede una concezione di quel quadro come di un’opera piena di misteri. Nessun enigma, invece, nella lettura che ce ne offre Foucault. Al contrario, egli si mantiene con tutta semplicità nel solco di una tradizione che tuttavia fa uscire dal suo terreno d’origine, quello della filosofia dell’arte o dell’estetica, per collocarla in quello delle trasformazioni archeologiche, cioè dei mutamenti che regolano, nel corso della storia, le differenti esperienze dell’Ordine. Di conseguenza Foucault vede nella pittura una delle manifestazioni storiche del senso e non, come nella visione classica, un capitolo di storia dell’arte nel quale occorre interrogarsi su questioni di stile e di linguaggio.
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3. Uno stile visivo La “confessione” più interessante, nell’intervista del 1975, è tuttavia la terza, quella secondo la quale la pittura non avrebbe avuto, nella sua ricerca, nessuna importanza «tattica o strategica». Nel xix secolo il critico e storico dell’arte Giovanni Morelli ha risolto molti casi di attribuzione incerta, nella pittura del Rinascimento italiano, concentrando l’attenzione sugli elementi più trascurati dagli artisti in fase di esecuzione, vale a dire sui dettagli che non avevano nessuna importanza tattica o strategica in rapporto alla definizione di uno stile: si può ipotizzare che nella composizione di un affresco i pittori non abbiano prestato particolare attenzione a piccole cose difficilmente visibili da lontano come la forma delle orecchie dei personaggi, la rifinitura delle dita di una mano, l’accenno di una vela dipinta piuttosto in fretta sullo sfondo del mare. Ed è precisamente su questo tipo di dettagli, nei quali è presumibile che gli artisti procedessero con degli automatismi, che Morelli ha pensato di trovare il segreto della loro firma autentica. Applicando per analogia lo stesso metodo all’opera di Foucault, potremmo forse ricavare dall’analisi delle cose da lui scritte sulla pittura alcuni motivi della sua esperienza intellettuale che rischierebbero, altrimenti, di passare inosservati. In questo modo riconosceremo, nel modo in cui Foucault sviluppa i suoi argomenti, la trama di un pensiero che procede per immagini, un pensiero pittorico, la cui articolazione è strutturata su due livelli: uno riguarda la strategia narrativa dei suoi scritti, l’altro il rilievo che l’estetica dell’immagine ha nella sua concezione di una ontologia del presente. Il primo livello è senz’altro il più evidente: nei suoi libri Foucault ricostruisce il senso di successioni e fratture storiche che vengono ogni volta fissate attraverso delle immagini, veri e propri tableaux vivants nei quali il movimento della storia sembra arrestarsi per qualche istante, il tempo che serve a riconoscervi la messa in scena di una forma d’esperienza. Si potrebbe avvicinare questo suo modo di lavorare all’idea che Walter Benjamin aveva dell’immagine dialettica, ovvero di quel tipo di immagine che in un momento determinato si presenta come la raffigurazione delle forze opposte di un’epoca storica. Per rimanere però più vicini ai testi di Foucault, potremmo riallacciarci più facilmente a un commento di Michel de Certeau, che
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proprio in questo senso ha sottolineato il carattere visivo e lo stile ottico del suo lavoro. Le opere di Foucault, scrive Certeau, riportano a volte dei quadri e delle incisioni. Ma il testo stesso è ritmato da scene e da figure. La Storia della follia si apre con l’immagine della Nave dei folli; Le parole e le cose con Las Meninas di Vélazquez; Sorvegliare e punire con il racconto del supplizio di Damiens, etc. È forse un caso? No, ogni libro è scandito da immagini a partire dalle quali si sviluppa il lavoro sottile che distingue le loro condizioni di possibilità e le loro implicazioni formali. In realtà queste immagini istituiscono il testo. Lo ritmano come le intuizioni stesse di Foucault, il quale vi riconosce le scene di una differenza, i soli neri delle delle “teorie” che afferrano. Delle ragioni dimenticate si muovono in questi specchi. (Certeau 1986, 55)
Certeau, oltretutto, approfondisce la sua intuizione anche in altri testi dello stesso periodo, come Il sole nero del linguaggio e Microtecniche e discorso panottico. In quest’ultimo, in particolare, egli si concentra sulla scrittura di Foucault, in particolare quella di Sorvegliare e punire, mostrando come attraverso di essa, proprio grazie alla ricchezza delle immagini di cui si nutre, si assiste a un rovesciamento dell’episteme panottica che ancora caratterizza la nostra epoca nel suo contrario, cioè nella «sovversione di un discorso panottico». Si avverte una tensione, scrive Michel de Certeau, fra la «tesi storica» e lo «stile» di Foucault, ed è quest’ultimo a operare la trasgressione di cui le forme del sapere ancora non sono capaci, facendo «venire in mente l’immagine di un danzatore travestito da bibliotecario» (Certeau 1982, 164). La fissazione del movimento storico in una serie discreta di istanti bloccati nelle immagini ci permette di vedere, nella storia, il lavoro congiunto delle forze materiali e dell’immaginazione, come pure di percepire, al di sotto dei fenomeni visibili, «la potenza del sogno e l’invenzione del pensiero», come Foucault ha scritto a proposito delle fotografie di Duane Michals (Foucault 1982b, 245). Le immagini, d’altra parte, hanno una relazione molto chiara con le epoche storiche delle quali diventano le icone: non sono rappresentazioni, ma diagrammi. Esposta alla vista, l’immagine-diagramma di un passaggio storico costituirà la base di un’esperienza comune per lo scrittore e per il lettore, diventerà il punto di riferimento condiviso che permetterà di dare alla prosecuzione del discorso appunto lo statuto
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di un’esperienza, e non quello della dimostrazione teorica oppure quello della lectio ex cathedra. Ci sono momenti, nella scrittura di Foucault, nei quali sembra di riconoscere quel che Gérard Genette ha detto a proposito dei romanzi di Flaubert, il quale a volte interrompe la narrazione e pare quasi scendere dalla pagina del romanzo per mettersi a sedere accanto al lettore e osservare con lui quello che accade al di fuori delle avventure e dei pensieri dei suoi personaggi, sulla scena della realtà in cui sono collocati (Genette 1966). Lo stile ottico e visivo della scrittura di Foucault ha senza dubbio una grande importanza tattica e strategica nella sua opera. Ma la pittura esercita sul suo pensiero anche un’altra influenza probabilmente meno vistosa. Nel suo libro La vita delle forme, Henri Focillon ha utilizzato una formula molto bella quando parla, a proposito dell’ornamentazione, di «un’arte del pensiero che non ha nulla in comune con il pensare», cioè con la logica di un’argomentazione discorsiva (Focillon 1934, 9). Michel Foucault ha cercato di far parlare un’arte del pensiero concentrata nello spazio visivo senza però volergli “dare la parola”, non ha cercato cioè di tradurre i fatti della pittura in un insieme di enunciati linguistici. Al contrario, egli ha cercato di aprire il linguaggio a un’esperienza “altra”, di rendere più deboli la forza e le abitudini del linguaggio di fronte a una maniera di pensare che non ha niente in comune con la logica e l’ordine del discorso. La Prefazione alla prima edizione di Storia della follia, quella del 1961, ci mostra come Foucault affrontasse il problema di far parlare un’esperienza che non apparteneva al gioco del senso e del significato, abbassando le pretese organizzative e di controllo del linguaggio, scegliendo di ridurre al minimo la terminologia scientifica, per esempio, di evitare il più possibile opzioni sociali e morali, di effettuare insomma un lavoro che qui è stato già descritto parlando dell’alterità (nel saggio Il lavoro della dispersione, pp. 79-90). Anche in questo caso si può tracciare un’analogia con la forma di discorso utilizzata da Foucault in relazione alle opere della pittura: nessuna terminologia accademica o specialistica, ma al contrario la rivendicazione di una mancanza di competenza in questo ambito (Foucault 1967b, 620), nessuna opzione estetica, ma al contrario la rinuncia allo sforzo di restituire con parole le impressioni provocate dalle immagini. E se, nel caso dell’analisi del fenomeno chiamato “follia”, la ricerca di un linguaggio «neutro» e «senza appoggio» comportava la volontà di
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far parlare direttamente i documenti d’archivio, nel caso della pittura la neutralità del linguaggio si mette alla prova abbandonandosi all’opera meticolosa e persino pedissequa della descrizione, cioè limitando al minimo il movimento ermeneutico dell’interpretazione. 4. Al di là del principio di rappresentazione In Le mots et les images, recensione della traduzione francese di due libri di Erwin Panofsky – Essais d’iconologie e Architecture gothique et pensée scolastique –, Foucault torna sulla questione del linguaggio e presenta sotto una luce nuova la dimensione specifica del pensiero pittorico. Il metodo analitico di Panofsky si spoglia delle parole care alla storia e alla critica d’arte evitando accuratamente di restaurare quel genere di linguaggio, ma se «revoca il privilegio del discorso» non è per «rivendicare l’autonomia dell’universo plastico, bensì per descrivere la complessità» dei rapporti «fra il discorso e il visibile» (Foucault 1967b, 621). Così, siamo condotti verso il nodo della relazione fra il visibile e il dicibile che rappresenta uno dei problemi fondamentali di tutta la riflessione di Foucault. Nascita della clinica aveva spiegato come, a partire dalla metà del xvii secolo, le trasformazioni della scienza medica avessero ruotato intorno a uno spostamento della relazione tra il visibile e l’enunciabile: «correlazione perpetua e oggettivamente fondata», scrive Foucault (Foucault 1963a, 200), ma che d’altra parte passa abbastanza rapidamente da un modello semiotico molto vicino alla filosofia del linguaggio di Condillac – nel quale i sintomi manifestati dal paziente sono visti come i segni che rivelano la malattia, e dunque il visibile è visibile a condizione di essere enunciabile – a un modello estetico nel quale la continuità epistemologica dello sguardo e della parola è rotta, e dove la relazione di questi due elementi acquista un carattere espressivo e non ha più la forma della coincidenza assoluta. In quest’epoca si scopre che il linguaggio non è capace di aderire completamente all’osservazione medica, ma che lascia sempre fuori di sé un residuo non linguistico, un’eccedenza che il linguaggio non può contenere ma, appunto, può “esprimere” se si dota di una sintassi adeguata che non potrà essere un semplice riflesso della percezione.
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I cambiamenti della relazione tra il visibile e il dicibile costituiscono, agli occhi di Foucault, un elemento essenziale per la definizione di una cultura in una svolta precisa della sua storia. Per analizzare questa relazione, Panofsky ha scelto come punto di partenza non il linguaggio, cioè la sua capacità o incapacità di aderire alla percezione, ma le differenze che rendono quest’ultima irriducibile ai fenomeni del senso e del significato. In questa chiave, la relazione tra il visibile e il dicibile si rivela essere un insieme molto complesso nel quale rientrano dinamiche di «intreccio, isomorfismo, trasformazione, traduzione», senza dimenticare il simbolismo, i parallelismi etc. Non solo «il discorso e la forma si spostano l’uno rispetto all’altro», ma il discorso stesso si rivela non essere «il fondo interpretativo comune a tutti i fenomeni di una cultura. Far apparire una forma non è una maniera contorta […] di dire qualcosa. […] Il discorso e la figura hanno ciascuno il loro modo d’essere» (Foucault 1967b, 621-622). Del resto, sappiamo bene che Foucault non distingue il modo d’essere dei fenomeni storici per separarli l’uno dall’altro e per studiare la loro singolarità, ma che la sua ontologia privilegia sempre la tessitura della relazione, dato che il suo interesse fondamentale è quello di descrivere il funzionamento reciproco e le condizioni di esercizio del rapporto tra il visibile e il dicibile. Partire dalla pittura, e non dagli enunciati, non significa allora mettere l’una accanto all’altra due forme dell’ontologia, quella di ciò che è visibile e quella di ciò che dicibile, ma sviluppare una via d’accesso estetica all’ontologia come tale. Il pensiero pittorico è perciò il momento estetico della stessa ontologia che altrove, nell’opera di Foucault, è stata affrontata in prevalenza dal lato del linguaggio. Questa parola, “estetica” – che Foucault utilizza raramente e che, dal punto di vista storico, egli riferisce fondamentalmente al passaggio del sapere clinico da una posizione nominalista a un’esperienza basata sulla sensibilità, anzi su una «bella sensibilità»1 – acquisisce dunque ai suoi occhi una legit1 L’uso del termine “estetica” più significativo nell’opera di Foucault è probabilmente quello che compare in Nascita della clinica (Foucault 1963a, 121-122), là dove egli parla di come «l’esperienza clinica si identifichi con una bella sensibilità». Ecco la citazione completa: «Tutta la dimensione dell’analisi si svolge solo al livello di un’estetica. Ma questa estetica non definisce solamente la forma originaria di ogni verità. Essa prescrive, al tempo stesso, delle regole di esercizio e diviene, a un secondo livello, estetica nel senso della prescrizione delle norme di un’arte. La verità sensibile è ormai aperta, più che ai sensi come tali, a una bella sensibilità. Tutta la struttura complessa della clinica si riassume e si
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timità teoretica nuova laddove definisce il senso di un accesso visivo all’ontologia. Il merito principale che Foucault attribuisce a Panofsky è quello di avere moltiplicato, tramite l’iconologia, il tipo di relazioni tra il visibile e il dicibile con le quali lo storico dell’arte è ormai chiamato a fare i conti. Il confronto trasversale tra la storia, le idee, i rituali, le convenzioni, le tipologie, le tradizioni, gli stili, apre infatti su una grande quantità di intrecci possibili. Grazie a Panofsky, allora, una parola chiave per la storia dell’arte e dell’immagine, “rappresentazione”, ha smesso di indicare una funzione unitaria, stabile nel tempo, e si è invece estesa fino a diventare un intero sistema di variabili che convergono tra loro in una rete di effetti possibili. «Fino alla fine del xix secolo la pittura occidentale “rappresentava”», scrive Foucault, ma questo significa semplicemente che «attraverso la sua disposizione formale un quadro stabiliva sempre un rapporto con un certo oggetto». Alla relazione semplice fra la rappresentazione e il suo oggetto Panofsky ha ora sostituito «l’analisi di una funzione rappresentativa complessa che attraversa, con dei valori differenti, tutto lo spessore formale del quadro» (Foucault 1967b, 620). Quest’ultima precisazione è importante, perché ci permette di comprendere meglio l’apparente sfasatura cronologica tra l’affermazione di Foucault appena citata – «fino alla fine xix secolo la pittura occidentale “rappresentava”» – e la ricostruzione storica sviluppata in Le parole e le cose. Qui, a partire dall’analisi di Las Meninas, Foucault com’è noto descrive l’età della Rappresentazione come un’epoca che finisce con la nascita del soggetto moderno, ovvero con l’avvento dell’Uomo, il quale riunisce tutte le funzioni del rappresentare nell’unità di uno sguardo sovrano. Una volta che questo genere di soggetto è apparso, il principio della rappresentazione inizia a declinare e comincia semmai l’età della Storia, per riprendere la terminologia e le scansioni presentate in quel libro. Quando parla specificamente di pittura, Foucault sembra proporci una compie nella rapidità prestigiosa di un’arte: “In medicina tutto o quasi tutto dipende da un colpo d’occhio o da un istinto felice, mentre le certezze si trovano piuttosto nelle sensazioni dell’artista che nei principi dell’arte” (Cabanis)». È appena il caso di aggiungere che il secolo di cui Foucault parla in questo testo, il xviii, è anche quello della nascita dell’estetica filosofica moderna, com’è anche appena il caso di notare che la questione del colpo d’occhio e dell’istinto estetico del medico sia stata ripresa esplicitamente, nel secolo successivo, da Hermann von Helmoltz.
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cronologia significativamente diversa, nella quale la rappresentazione rimarrebbe dominante fino alla fine del xix e all’inizio del xx secolo, cioè in piena età dell’Uomo e della Storia. Le cronologie, nell’opera di Foucault, hanno sempre un valore più euristico che normativo, fenomeni differenti si trasformano a velocità differenti, l’emergenza di un nuovo sistema di sapere si sovrappone a quello che preesiste, ma non lo fa sparire. La pittura potrebbe allora essere il territorio ben circoscritto nel quale il principio di rappresentazione non ha cessato di regnare fino alla fine del xix secolo. Ciò che Foucault scrive, tuttavia, non autorizza questa interpretazione. La complessità delle relazioni determinate dal sistema della funzione rappresentativa, così com’è stata analizzata da Panofsky, va ben oltre l’idea di un vecchio principio che resiste al mutamento dei tempi e del pensiero. Nel xix secolo non si smette di “rappresentare”, ma la rappresentazione non obbedisce più alle stesse regole di prima, non svolge più lo stesso ruolo, non occupa più lo stesso spazio. Quello che la pittura mette davanti ai nostri occhi, come se fosse la presa in visione «di una sorta di sintomatologia culturale», è una forma di sensibilità, un sistema di valori, una forma di costituzione dello sguardo che ha seguito lo stesso cammino di trasformazione degli altri spazi del sapere, ma che si manifesta per l’appunto in immagini. In questo senso parlare di “rappresentazione” per la pittura del xix secolo è per Foucault, una volta di più, una maniera per affrontare i cambiamenti intervenuti nei rapporti fra quello che si vede e quello che si dice. «Due principi hanno regnato […] sulla pittura occidentale a partire dal xv secolo fino al xix», scrive per esempio nel saggio dedicato a Magritte (Foucault 1968, 643). Il primo riguarda la separazione tra rappresentazione plastica e linguistica, una che «implica la somiglianza», l’altra che la esclude. La relazione fra queste due forme di rappresentazione è sempre una coordinazione, mai un’identità, anche se in concreto questo tipo di coordinazione si traduce quasi sempre in una subordinazione: infatti «o il testo viene regolato dall’immagine (come nei quei quadri nei quali sono rappresentati un libro, un’iscrizione, il nome di un personaggio), oppure l’immagine è regolata dal testo (come nei libri nei quali il disegno viene a completare, come se seguisse semplicemente un cammino più corto, quello che le parole sono incaricate di rappresentare)» (Foucault 1968, 643). Non importa la direzione della subordinazione e dunque chi
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sia, di volta in volta, l’elemento dominante fra i due: «l’essenziale è che il segno verbale e la rappresentazione non sono mai dati unitariamente, insieme e nello stesso tempo» (Foucault 1968, 643). Il secondo principio è quello dell’«equivalenza tra il fatto della similitudine» e «l’affermazione di un legame rappresentativo», cosa che comporta l’impossibilità di «dissociare similitudine e rappresentazione» (Foucault 1968, 643-644). Nel contesto di questa ricostruzione, il problema della rappresentazione non viene considerato a partire dalla presenza o dall’assenza di un soggetto che riassuma in sé le funzioni molteplici dello sguardo, ma a partire dal meccanismo dell’immagine come tale, o per meglio dire a partire dal modo d’essere dei segni che la costituiscono. I segni continuano a stabilire un legame rappresentativo con ciò che designano, e questo vuol dire che essi rientrano, in un modo o nell’altro, nella dinamica del significare: la pittura dunque, anche se con i mezzi che le sono propri e con la sua istanza primaria di visibilità, si colloca pur sempre nell’orizzonte del significato, un ambito che il xix secolo non ha dissolto, ma solo ordinato diversamente, articolandolo in base a scale di valori differenti. Un elemento interessante di raccordo fra la letteratura, arte di quello che si dice, e la pittura, arte di quello che si vede, può essere costituito dalla nascita del museo. Se si osserva questo avvenimento tipico del xix secolo prendendo la storia come principio regolatore dell’episteme moderna, il museo è un corollario della volontà di instaurare il dominio di uno sguardo totalizzante sulla vita dei fenomeni culturali, il compimento di un pensiero dialettico e il prolungamento dello sforzo di ricondurre la pittura stessa entro il dominio delle scienze dell’uomo, se non proprio uno strumento per l’antropologizzazione dell’arte come tale, una forma di classificazione omologatrice ed evoluzionista del suo cammino storico. Quello che non era previsto, con la nascita del museo, era la nascita di una pittura “da museo”, di una pittura cioè che si appropriasse delle condizioni messe in opera dal museo e che si rapportasse in modo nuovo al suo passato, alla sua estensione geografica e a sé stessa, e dunque conseguemente anche ai suoi segni. «È ben possibile», scrive Foucault nel saggio dedicato a La tentazione di Sant’Antonio di Flaubert è ben possibile che Le Déjeuner sur l’herbe e Olympia siano state le primee pitture “da museo”: per la prima volta nell’arte europea dei nuovi quadri sono stati dipinti non esattamente per replicare a Giorgione, a Raffaello e a
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Vélazquez, ma per testimoniare un rapporto nuovo [e sostanziale] della pittura con sé stessa proprio sotto l’egida di questo rapporto singolare e visibile, e al di sotto di riferimenti decifrabili, dunque per manifestare l’esistenza dei musei e il tipo di parentela che vi acquistano i quadri stando al suo interno (Foucault 1967c, 142).
Non c’è dunque una sfasatura cronologica tra la pittura e le altre forme dell’esperienza intellettuale, non si assiste, nel campo dell’immagine, alla conservazione di un sistema vecchio e sopravvissuto troppo a lungo tanto a sé stesso, quanto alle trasformazioni generali dell’episteme. I mutamenti della pittura sono perfettamente contemporanei a quelli delle altre forme di sapere e delle altre arti, perché i quadri “da museo” sono quello che La tentazione di Flaubert è stata in rapporto allo sviluppo di un’istituzione come la biblioteca. Dal momento in cui si ripiega su sé stessa e mette al centro del suo modo di operare non gli oggetti del mondo, in rapporto ai quali esercitava tutta una varietà di funzioni rappresentative, ma i suoi stessi segni, la pittura segue il passo di tutte le altre forme del sapere e dell’arte, facendosi carico di tutta la responsabilità, ovvero della combinazione di vincoli e di libertà, che appartengono alle prerogative di una filosofia critica: o meglio, in questo caso, di un pensiero pittorico che non ha niente in comune col pensare. 5. Il piacere del segno I nomi dei pittori ai quali Foucault ha legato il gesto della messa in scena dell’atto del dipingere e della materialità dell’opera compiuta sono noti. Manet, colui che ha lavorato sul quadro inteso non come «uno spazio normativo la cui rappresentazione attribuisce allo spettatore un punto unico dal quale guardare», secondo le leggi della prospettiva, ma come «uno spazio in rapporto a quale ci si può muovere» senza che sia possibile sapere se vi sia, e tantomeno quale sia, un possibile punto di vista “corretto” dal quale osservare lo spettacolo (Foucault 1971c, 31). Paul Klee, riferimento importante che Foucault ha collocato in stretta correlazione con la nascita dell’episteme contemporanea: Klee, dice Foucault in un’intervista del 1967, «è colui che ha prelevato dalla superficie del mondo tutta una serie di figure che valevano come segni e che li ha orchestrati, all’interno dello spazio
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pittorico, in modo da lasciar loro la forma e la struttura di segni, cioè conservando la loro modalità dell’essere segni, ma al tempo stesso facendoli funzionare in modo che non avessero più un significato». E aggiungeva ancora: «quel che c’è in me di non strutturalista, e di non linguista, si esalta di fronte a un tale uso del segno» (Foucault 1967d, 614), affermazione che ci invita una volta di più a valorizzare il ruolo alternativo – strategico e tattico – che la pittura svolge nel pensiero di Foucault in vista di un accesso all’ontologia alternativo (e complementare) a quello del linguaggio. Quel che dunque viene meno nell’opera di Klee, in questa lettura, è il legame di subordinazione tra il segno pittorico e il segno linguistico, elemento che, come abbiamo visto, costituiva per Foucault un principio della pittura classica. Ancora: Kandinskij, il cui contributo originale consisterebbe nella rottura dell’altro principio classico, quello che legava la somiglianza e la rappresentazione riferendo entrambe all’ordine del significato. Kandinskij non ha dissociato i termini di quell’accostamento, scrive Foucault, ma «ha dato congedo simultaneamente alla somiglianza e al funzionamento del significato» attraverso l’affermazione, sempre più insistente, di quelle linee e di quei colori di cui lui diceva che erano “cose”. L’astrazione, nel caso di Kandinskij, rovescia la relazione di visibilità: il segno non sta più lì per indicare qualcosa, ma diventa a sua volta la “cosa” della pittura e mette in gioco l’atto del dipingere senza alcuna dimensione, cioè senza che la pittura abbia più bisogno di richiamare né il meccanismo della rappresentazione, né quello dell’espressione. A tutti questi autori Foucault attribuisce il ruolo che, nella conferenza del 1969 intitolata Che cos’è un autore?, aveva chiamato dei «fondatori di discorsività», riferendosi essenzialmente agli autori di opere letterarie e filosofiche. I «fondatori di discorsività» non sono solamente «autori delle loro opere», ma autori che ««hanno prodotto qualcosa in più: la possibilità e la regola di formazione di altri testi», di altre opere, di altre maniere di affrontare anche i vecchi temi e le vecchie forme del pensiero e dell’arte (Foucault 1969b). Anche in questo caso l’interesse di Foucault per i prodotti del discorso che chiamiamo “opere”, comprese le cosiddette “opere d’arte”, è focalizzato sul loro valore epistemologico, mentre il punto di vista propriamente estetico rimane ai margini delle sue preoccupazioni. Dal momento in cui il meccanismo della rappresentazione non è sto-
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ricamente più al centro delle arti figurative, della loro produzione e della loro ricezione, è poco importante per lui che gli artisti optino per una scelta stilistica o per un’altra, per un linguaggio o per un altro. Non è necessario, per esempio, che la pittura contemporanea sia astratta e che rinunci dunque sistematicamente all’immagine di tipo riproduttivo. Se si può dedurre dagli scritti di Foucault un’estetica della pittura, con tutte le precauzioni del caso, dovrebbe avere come principio l’eliminazione di ogni partito preso stilistico e la preferenza per un pensiero pittorico la cui matrice epistemologica e critica esclude ogni possibilità di poetica normativa, a qualsiasi livello. Nell’intervista a «L’Imprévu» del 1975 usata qui come punto di partenza, Foucault aveva sottolineato fino a che punto Manet era stato indifferente ai canoni estetici, a quelli della tradizione, a quelli del presente e più in generale a tutto ciò che fondava il piano di una sensibilità comune, alla quale egli opponeva il gioco di uno spiazzamento sistematico, molto simile al meccanismo della trasgressione da lui descritto partendo dal modello del linguaggio letterario. «E fra i contemporanei», gli chiede il giornalista, «quali sono quelli che la interessano di più?». La risposta di Foucault è in due tempi. Anzitutto i pittori americani – per esempio Tobey, del quale aveva acquistato un quadro con i diritti d’autore di Storia della follia –, ma anche Rothko e Warhol. Poi gli iperrealisti, e la risposta su questi ultimi si fa più articolata: all’inizio «non mi ero reso ben conto di cosa mi piacesse in loro. Era legato senza dubbio a ciò che essi fanno intorno alla ripresa dei diritti dell’immagine. E questo dopo una lunga svalutazione. Per esempio, quando a Parigi, dove si è sempre molto in ritardo, si sono ritirate fuori le tele di qualche pittore pompier come Clovis Trouille, io ero colpito dal mio piacere nel guardare quelle opere e al tempo stesso dal piacere che le persone avevano in generale. Era la gioia! La corrente passava fisicamente, sessualmente. D’improvviso saltava agli occhi l’incredibile giansenismo che la pittura ci aveva imposto per decine e decine di anni» (Foucault 1975e, 706-707). Piacere per la pittura e piacere di scrivere sulla pittura, due aspetti che si intrecciano dunque. Che ci si abbandoni al gusto per le immagini, in effetti, non significa che si tenti di restaurare un legame rappresentativo con l’immagine: un problema, questo, che non dipende dallo stile o dal linguaggio delle opere, ma dall’episteme che governa un’epoca. E poiché il restauro della funzione rappresentativa dell’immagine è impossibile, allora l’impiego dell’im-
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magine, nella pittura, non potrà più avere un senso puramente riproduttivo, ma potrà svolgere persino una funzione critica. Rinunciarvi a nome di un rigorismo estetico paragonabile alla severità normativa del giansenismo significa perdere uno degli strumenti attraverso i quali l’arte interviene sulla realtà e contribuisce a mettere in crisi i legami dominanti di sapere-potere. Da questo punto di vista è significativo il fatto che Foucault attribuisca a Magritte un ruolo a simile a quello che aveva riconosciuto a Raymond Roussel nell’ambito del discorso letterario. La scrittura di Roussel dava vita per lui a qualcosa che non si costituiva nell’unità di un senso e non poteva realmente essere pensata né divenire l’oggetto di un sapere. Se la costruzione di un senso segue normalmente un movimento centripeto che va dalla dispersione empirica all’unità del significato, Roussel ha imposto invece al gioco del linguaggio una dinamica centrifuga, conducendolo precisamente verso un’avventura della dispersione che mette in pericolo tutte le nostre certezze acquisite. Lo stesso è per Magritte, con la sua messa in scena della relazione fra segni linguistici ed elementi figurativi. Ceci n’est pas une pipe, scrive Foucault, ci offre il formulario di un’operazione complessa che «evita il fondo del discorso affermativo su cui riposa tranquillamente la somiglianza» e che «fa giocare delle pure similitudini e degli enunciati verbali non affermativi nell’insensibilità di un volume senza luogo e di uno spazio senza piano» (Foucault 1968, 650). Alla fine di questo processo l’affermazione tipica della pittura di rappresentazione – “questa è una pipa” – si troverà trasformata in qualcosa di diverso – “questa non è una pipa” – mostrando da una parte quanto la pittura abbia smesso di affermare, anche quando resta palesemente fedele alla presentazione di immagini che tuttavia sono solo apparentemente riproduttive; dall’altro suggerisce che questa trasformazione non appartiene solamente alla pittura, e neppure solamente all’opera d’arte, ma a tutte le similitudini che circolano nel nostro campo d’esperienza e che il pensiero pittorico evidenzia con il sorriso ironico della critica: «verrà un giorno» – conclude Foucault pensando all’opera di Andy Warhol, e dunque alla luce di un giorno già venuto – «verrà un giorno in cui l’immagine stessa, con il nome che porta, sarà disidentificata dalla similitudine indefinitamente trasferita su una serie. Campbell, Campbell, Campbell, Campbell».
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6. Pittura, critica e politica Quello che qui è stato chiamato pensiero pittorico, dunque, non è che una risorsa del pensiero critico che dà la direzione a tanta parte dell’opera di Foucault e che va oltre le diatribe estetiche e poetiche, perché attraversa da un capo all’altro la cultura del presente avendo come obiettivo la restituzione alla filosofia di una presa sul fenomeno che oggi sembra condizionarla maggiormente: l’immagine. Distogliere gli occhi da questi fenomeni per dedicarsi, nella pittura d’arte, in modo esclusivo e normativo all’astrattismo, o ancor più per condannare come inattuale, popolare, passatista l’impiego dell’immagine apparentemente riproduttiva, significa impedirsi l’accesso critico ai dispositivi di sapere-potere che sono quelli della nostra epoca, ovvero rinunciare a un pensiero del presente che abbia valore non solamente estetico, ma propriamente e specificamente politico. Si può criticare il gusto di Foucault per le opere di pittura e attribuirgli sostanzialmente incompetenza, come a volte è stato fatto. Si può anche osservare che i pittori ai quali ha fatto riferimento nei suoi testi degli anni Settanta, fondamentalmente Fromanger e Reyberolle, erano relegati allora in uno spazio nel quale la sperimentazione del linguaggio visivo coincideva con un’attitudine così sinceramente militante da aver sparso sulle loro opere un velo di polvere che ancora oggi si fatica a eliminare. Sono osservazioni legittime, magari non generose e comunque rivedibili. Non è importante, perché in ogni caso si tratta di giudizi che non riescono a intaccare lo spessore del pensiero pittorico di Foucault, con l’interesse non-estetico che lo spinge a guardare la riattivazione di un’arte capace di opporre una nuova forma di resistenza critica alla propagazione di tutte quelle forme di consenso, di pubblicità e di comunicazione che fanno delle immagini un uso acritico, se non proprio cinico e tendenzioso, elevandole al grado di veri e propri feticci. È per questo che una pittura militante, malgrado le sue ingenuità e le sue semplificazioni, possedeva per Foucault un interesse che egli non cercava minimamente di dissimulare, ma al contrario rivendicava. La questione, per lui, non era mai estetica, ma riguardava il modo di partecipare a quella forma di diagnosi critica del presente che egli ha cercato di praticare costantemente, fino alla messa in opera di quella forma estrema di rovesciamento dei dispositivi dominanti da lui chiamata, significativamente, «la forza di fuggire»: altro riferimento al
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testo capitale sulla trasgressione che aveva dedicato, in precedenza, a Bataille. Così scriveva Foucault nel 1973 commentando una serie di quadri di Rebeyrolle intitolata I cani: «La pittura ha almeno questo in comune con il discorso: che quando fa passare per suo tramite una forza che crea della storia, diventa politica» (Foucault 1973e, 401).
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Nota ai testi
Una prima versione di Potere e visibilità è stata pubblicata, con il titolo Il visibile e l’invisibile, in F. Rimoli e G. M. Salerno (a cura di), Conoscenza e potere. Le illusioni della trasparenza, Carocci, Roma 2006, pp. 49-61. Essere giusti con Marx deriva da una relazione tenuta all’Università di Bologna nel 2008 ed è stato pubblicato per la prima volta in Rudy M. Leonelli (a cura di), Foucault-Marx: paralleli e paradossi, Bulzoni, Roma 2010, pp. 43-59. La prigione oltre la teoria è la rielaborazione di The Prison Beyond its Theory. Between Michel Foucault’s Militancy and Though, in F. Giofré, E. Fransson, B. Johnsen (a cura di), Prison Architecture and Humans, Cappelen Damm Akademisk, Oslo 2018, pp. 329-342. Filosofia dell’urbanismo è una versione più estesa di Michel Foucault filosofo dell’urbanismo, in M. Cometa e S. Vaccaro (a cura di), Lo sguardo di Foucault, Meltemi, Roma 2007, pp. 63-84. La prima stesura di Il lavoro della dispersione è apparsa in M. P. Paternò (a cura di), L’idea e la differenza. Noi e gli altri, ipotesi di inclusione nel dibattito contemporaneo, Rubbettino, Catanzaro 2008, pp. 51-60. La linea del crimine è stato pubblicato, con il sottotitolo Michel Foucault e la vita degli uomini infami, su «Agalma», 32, 2016, pp. 75-88. Il pensiero pittorico è la versione italiana, ampiamente rimaneggiata, di un testo pubblicato in Francia nel 2004 e scritto in occasione del Colloque de Cérisy dell’anno precedente: La pensée peinturale, in P. Artières (a cura di), Michel Foucault, la littérature, les arts, Kimé, Paris 2004, pp. 127-144.
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