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Italian Pages 151 [165] Year 2003
Percorsi 55
Di Tullio De Mauro nelle nostre edizioni: Capire le parole Idee per il governo. La scuola Introduzione alla semantica Linguistica elementare. Con esercizi e test di verifica Minima scholaria Minisemantica dei linguaggi non verbali e delle lingue Prima lezione sul linguaggio Storia linguistica dell’Italia unita (con C. Bernardini)
Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture (con F. De Renzo)
Guida alla scelta della scuola superiore
a cura di Raffaella Petrilli M. Emanuela Piemontese Massimo Vedovelli
Tullio De Mauro Una storia linguistica Interventi di Alberto Asor Rosa Carlo Bernardini Gianni Borgna Sabino Cassese Emilio Garroni Enzo Golino Renato Guarini Giuseppe Laterza Giulio C. Lepschy Giovanni Nencioni Alba Sasso Walter Veltroni Aldo Visalberghi Emanuele Djalma Vitali
Editori Laterza
© 2003, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2003
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel settembre 2003 Copy Card Center - via Marcora, 30 20097 San Donato Milanese (Mi) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-7121-5 ISBN 88-420-7121-8
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.
Introduzione
Il 25 marzo 2002 un ampio pubblico di studenti, docenti, donne e uomini di chiara fama, allieve e allievi vecchi e nuovi ha festeggiato Tullio De Mauro al Centro Congressi dell’Università di Roma “La Sapienza”, in occasione del suo settantesimo compleanno, che cadeva il 31 dello stesso mese, giorno di Pasqua. L’incontro era stato preparato, all’insaputa del festeggiato, come seminario di studi su un tema importante, «Lingua e società nell’Italia contemporanea», chiamando a discuterne un gruppo di relatori i cui nomi, già nella semplice forma di citazione, disegnano un profilo straordinariamente nitido e riconoscibile della storia culturale e civile recente del nostro Paese: Alberto Asor Rosa, Carlo Bernardini, Gianni Borgna, Sabino Cassese, Emilio Garroni, Enzo Golino, Renato Guarini, Giuseppe Laterza, Giulio C. Lepschy, Giovanni Nencioni, Alba Sasso, Walter Veltroni, Aldo Visalberghi, Emanuele Djalma Vitali. E tuttavia, ciò che li ha uniti attorno al tavolo delle conferenze di via Salaria è la circostanza di aver svolto insieme con Tullio De Mauro una parte del proprio lavoro di ricerca, di insegnamento, di impegno nell’industria culturale o nell’amministrazione della cosa pubblica. Di aver condiviso con Tullio De Mauro la passione intellettuale e civile, politica ed educativa. Il proposito del seminario è stato quello di ottenere, grazie a quelle voci autorevoli, una sintesi realistica, vivace, non troppo paludata, del lavoro di Tullio De Mauro, dei progetti e delle realizzazioni nei molti settori in cui svolge da molti V
anni la sua attività. Abbiamo pensato di distribuire gli interventi intorno ad alcuni temi principali che tracciano la biografia intellettuale del festeggiato: la linguistica teorica e applicata e la storia linguistica italiana; la filosofia del linguaggio; la politica culturale realizzata attraverso la stampa e l’editoria; la comunicazione sociale quale occasione di condivisione e partecipazione alla vita civile nelle sue varie manifestazioni; la scuola come luogo in cui si forniscono gli strumenti linguistici e comunicativi che permettono ai cittadini di accedere alla partecipazione civile. In questo libro raccogliamo le cose che sono state dette in quella giornata: ne esce il ritratto di uno studioso che guarda con lo stesso acume ai problemi del linguaggio e della società, in cui vive ogni linguaggio, che non si sottrae alle sfide dell’uno e dell’altra, che reputa impegno morale far seguire alla teoria il progetto e l’applicazione pratica. Ci sembra che la simpatia che traspare da molti degli interventi qui raccolti – e che ha reso, come avevamo sperato, molto poco seriosa la giornata – sia la traccia più evidente di quanta generosità Tullio De Mauro abbia profuso e profonda nel suo impegno. Formatosi, a Roma, alla scuola di studiosi come Antonino Pagliaro e Guido Calogero, Tullio De Mauro ha insegnato nelle Università di Napoli “L’Orientale”, Chieti, Palermo, Salerno. Dal 1974 è alla facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza” di Roma. Fino al 1996 vi ha insegnato Filosofia del linguaggio; attualmente, nella nuova facoltà di Scienze Umanistiche, tiene la prima cattedra di Linguistica generale istituita nell’allora facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza”. È tra i promotori e fondatori della Società di Linguistica Italiana, del Giscel (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica), della Società italiana di Filosofia del linguaggio, del recentissimo Gruppo per lo studio della lingua parlata entro la Società di Linguistica. VI
È stato Assessore alla formazione e alla cultura alla Regione Lazio negli anni Settanta e da allora non ha mai abbandonato l’impegno diretto nell’amministrazione della cosa pubblica: nel 1996-1997 come Presidente dell’Istituzione Biblioteche di Roma, e nel 2000-2001 come Ministro della Pubblica Istruzione nel governo presieduto da Giuliano Amato, incarico per il quale ha provveduto a elaborare i decreti attuativi della riforma dei cicli scolastici. Ricopre l’incarico di Delegato del Sindaco di Roma per gli affari universitari. Ha ideato e diretto opere e collane editoriali per alcuni tra i maggiori editori italiani (Laterza, UTET, Paravia, Editori Riuniti). Ha collaborato a radio e televisione ed è stato costantemente presente nella stampa italiana. Per anni ha curato per il settimanale «L’Espresso» una fortunata rubrica sui problemi della scuola. I suoi lavori, per una rassegna dei quali rimandiamo alla Bibliografia degli scritti riportata alla fine del volume, sono tradotti in molte lingue. L’incontro del 25 marzo, di cui offriamo qui gli atti, è stato reso possibile grazie alla disponibilità dell’Università di Roma “La Sapienza”, delle facoltà di Scienze Umanistiche, di Filosofia, di Studi Orientali e di Lettere e Filosofia; dei Dipartimenti di Studi Filologici, Linguistici e Letterari, e di Filosofia; e grazie alla collaborazione con le case editrici Laterza (Roma-Bari), Paravia-Bruno Mondadori (Torino-Milano), UTET (Torino). Un ringraziamento particolare va a Rosalba Casula, per la collaborazione prestata nel raccogliere e curare i testi degli interventi, a Salvatore Speranza per l’aiuto dato all’organizzazione, e a Giuseppe Laterza, per lo spirito con cui ha seguito e favorito l’iniziativa. Un pubblico numeroso ha partecipato alla giornata, tra cui molti amici, colleghi, allievi. Non è possibile qui menzionarli tutti, mentre lo è rivolgere loro un ringraziamento. Tra le ragioni di tanta partecipazione sta forse il fatto che Tullio VII
De Mauro è uno di quei professori «’e na vota», di quelli che – andando controcorrente – continuano a convincere i giovanotti e le giovanotte, le signore e i signori che lo incontrano che «i professori universitari siano dappertutto e tutti persone gentili e dabbene, galantuomini...». I curatori
Tullio De Mauro Una storia linguistica
AVVERTENZA Tutte le indicazioni relative alle opere di Tullio De Mauro citate nei testi sono rintracciabili nella Bibliografia degli scritti alla fine del volume.
Aperture
Renato Guarini*
A Tullio De Mauro da un «fratello di luna»
Rappresentare l’Università “La Sapienza” all’incontro di studio di oggi ha per me un importante valore accademico ed un particolare coinvolgimento personale. Dal punto di vista accademico è l’occasione per incontrare, salutare ed esprimere l’apprezzamento e la gratitudine del nostro Ateneo ad un illustre collega ed amico che ha saputo magistralmente interpretare nei vari aspetti il ruolo di «uomo dell’Università». Le accezioni più tipiche che voglio richiamare sono la capacità di rivestire i diversi ruoli delegati, la probità nel proporsi, la saggezza nell’indirizzare, l’equilibrio nel dirimere e l’acutezza nell’individuare sentieri sempre nuovi. La vita di un professore deve essere attentamente ed equamente divisa tra presenza nella società e nell’Università e, all’interno dell’Università, tra ricerca, docenza e partecipazione alla gestione organizzativa ed amministrativa. Nel caso di Tullio De Mauro la certezza intima e personale della necessità di un ampliamento della formazione dei giovani per un aggancio saldo al sentiero dello sviluppo è stata la caratteristica peculiare dell’uomo Ministro dell’Istruzione provando nei fatti che un tale connubio dà sicurezza nell’operare del policy-maker. Grande è l’ammirazione ed intensa la gratitudine per Tullio De Mauro che è un vero uomo dell’Università. * Pro-Rettore dell’Università di Roma “La Sapienza”.
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Questo affermo a nome di tutti i colleghi della “Sapienza”. Personale ed affettuosa è invece la testimonianza di un nato nel 1932. Ho l’onore di essere «fratello di luna» di Tullio, siamo entrambi nati nel marzo del 1932 nella stessa fase lunare. Con le parole di Odilon Redon (surrealista pittore francese, 1840), e in chiave di fratellanza, osserverò che «l’autorità che un altro ha su di noi non viene né dalla sua posizione né dalla sua fama; nasce spontaneamente a prima vista verso colui di cui sentiamo docilmente la superiorità. Mi piacciono gli uomini che hanno un futuro». Un arrivederci fra dieci anni per festeggiare i nostri ottant’anni.
Alberto Asor Rosa*
Una riflessione notturna
Mi è stato affidato l’incarico di svolgere un’introduzione a questa giornata dedicata al lavoro di Tullio De Mauro, ma non so bene in che cosa possa consistere. Quindi, ascolterete insieme con me che cosa è venuto fuori da una mia rapidissima e notturna riflessione. Potrei limitarmi, in realtà, a leggere l’elenco delle sezioni in cui si suddividono i lavori: «Per una storia linguistica. Lingua e società nell’Italia contemporanea. 1 - La ricerca del senso. 2 - Una politica culturale. 3 - La comunicazione sociale. 4 - Scuola e linguaggio. 5 - Le parole e l’uso». Sono altrettanti aspetti, altrettante facce della lunga operosità e, userei una parola forte, della missione intellettuale di Tullio De Mauro nel nostro tempo. Poiché di ognuna di queste facce sarà data un’illustrazione specifica, vorrei anch’io dare una tonalità più personale a questa introduzione. Ho calcolato, appunto notturnamente, che i settant’anni di Tullio De Mauro coincidono quasi alla lettera con i cinquant’anni della nostra conoscenza: 1952 o 1953 al massimo. Io ho conosciuto Tullio, non so se lui se ne ricordi, in un edificio della “Sapienza”, che oggi non esiste più, rimpiazzato dall’attuale mostruoso edificio delle segreterie, che si chiamava l’ex casermetta (probabilmente con un riferimento alla sua destinazione originaria, che era quella della milizia universitaria fascista), luogo di raduno, in quel periodo lontano,
* Docente di Letteratura italiana all’Università di Roma “La Sapienza”.
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degli studenti che facevano parte di una cosa poi scomparsa con il 1968, cioè l’Organismo Rappresentativo Universitario Romano. Tullio in quel momento, cinquant’anni fa, era già un esponente di spicco dell’Unione Goliardica Romana, e io un semplice peone del gruppo Rinascita, che era uno degli ultimi risultati storici del patto di unità d’azione fra Partito Socialista e Partito Comunista. Abbiamo cominciato, dunque, da studenti universitari, con un impegno civile. Questo filo rosso, come del resto ha già ricordato molto opportunamente Renato Guarini, attraversa tutta la vita di Tullio De Mauro, in cui è estremamente difficile dire quando finisce il rigore estremo dello studioso e dove comincia la passione dell’intellettuale impegnato, disposto a spendersi per la comunità. Di questo lungo percorso io vorrei ricordare soltanto una tappa, che è caduta in un momento in cui la nostra amicizia era particolarmente ravvicinata e fervida: la Storia linguistica dell’Italia unita, 1963. Soltanto quelli che erano presenti allora possono rendersi conto del senso profondo, quasi sconvolgente, che questo libro ha rappresentato, contemporaneamente, per una disciplina come quella della storia della lingua italiana e per un certo modo sostanziale di concepire i problemi culturali e intellettuali di questo strano e difficile Paese che si chiama Italia. Passando attraverso la sua disciplina e innovandola profondamente, dunque senza togliere alcunché alla correttezza e al rigore degli studi, Tullio compiva con quell’opera una grande operazione civile: interveniva nel modo suo, nel modo giusto, su un ganglio vitale, su un nodo estremamente complesso della nostra coscienza nazionale, della nostra formazione civile e del nostro modo di essere in qualche modo cittadini all’interno del nostro Paese. Questa vocazione si è moltiplicata in una infinità di libri, alcuni di carattere più rigorosamente scientifico, altri più indirizzati alla divulgazione e alla formazione dei cittadini. La sua battaglia per una alfabetizzazione sostanziale deve restare nella storia della nostra cultura contemporanea, secondo la linea per cui tra formazione linguistica, informazione, con8
senso e crescita civile e intellettuale del Paese c’è un rapporto assolutamente coerente e reciproco. Mi piace qui ricordare che Tullio ha portato agli onori dell’accademia, anche dell’accademia linguistica, personaggi che potevano apparire marginali dal punto di vista di una storia linguistica intesa più dottrinariamente, come Pasolini e come Totò, in un abbraccio a comprendere le trasformazioni viventi della lingua italiana e al tempo stesso a riportarle entro il circuito di un rigore e di una disciplina da diffondersi sempre più vastamente. Ho seguito questo percorso da vicino per molti anni e di recente in maniera anche più ravvicinata perché abbiamo fondato insieme un Dipartimento universitario (cosa rarissima: quando lo abbiamo fondato, forse perché si trattava oltre che di un atto scientifico anche di un atto di amore reciproco, abbiamo scatenato una storia in confronto alla quale quella dei Capuleti e dei Montecchi potrebbe apparire una barzelletta). Questa lunga frequentazione, questa lunga conoscenza e questa lunga amicizia mi spingono tuttavia a dire che il filo rosso del rapporto fra rigore scientifico e passione civile è stato poi a sua volta supportato da un tratto umano raro, soprattutto nell’accademia, raro anche nel mondo intellettuale, e che è la presenza in lui di una grande, forte ironia e autoironia. Tullio è uno che sa anche ridere, ridere di cuore, e sa anche sorridere di sé, di ciò che è, di ciò che è stato, di ciò che appare e forse anche delle parole di lode e di ammirazione che noi gli tributiamo volentieri nel corso di questa giornata. Questo tratto umano fa parte della sua grandezza di intellettuale e io lo voglio ricordare ricordando che in quella lontanissima occasione del 1952 abbiamo cominciato facendoci delle matte risate su quello che stavamo facendo in quel momento. Di tutto questo, di questa amicizia, di questo rapporto, di questa dedizione io lo ringrazio, credo a nome di tutti quelli che lo hanno conosciuto e frequentato in tutti questi anni.
Linguistica e semiotica
Giovanni Nencioni*
Al caro e ammirato collega Tullio De Mauro
Carissimo Amico, mi giunge l’invito all’incontro di studio del 25 marzo intitolato «Per una storia linguistica. Lingua e società nell’Italia contemporanea», organizzato per onorare e festeggiare i tuoi settant’anni. Vedo che io non sono soltanto invitato, ma anche designato a parlare sul tema «Per una storia linguistica dell’Italia contemporanea», ciò che costituisce per me un colmo di stima e di affetto. Purtroppo i miei novantun anni escludono che io possa venire a Roma e anche comporre un testo degno dello Studioso che l’incontro intende onorare. Tuttavia nella caligine che la grave età mi procura scorgo la nostra storia linguistica agitata dal contrasto di due tendenze opposte: la tendenza alla accelerata estensione della lingua istituzionalmente italiana, oltre la tradizionale minoranza dei parlanti colti, alla quasi totalità dei cittadini italiani, sospinti dalla educazione obbligatoria di una scuola media finalmente comune al possesso di una lingua di comunicazione sufficiente ad abilitarli alla comunicazione nazionale, cioè a renderli cittadini effettivi; e sospinti anche, e forse più, dall’italiano letto e parlato trasmesso dalla radio e dalla televisione. La rapida e impetuosa maturazione del nostro uso effettivamente nazionale (anche se tardiva rispetto ad altre nazioni parlanti lingue neolatine) ha provocato la reazione dei dialet* Accademico della Crusca.
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ti, più vivi in Italia che in altre nazioni, come ha recentissimamente dimostrato la rivista della molto cara Maria Corti, sempre attenta – usque ad mortem – alle vicende sociolinguistiche: l’ultimo numero di «Autografo» dedicato appunto a Morte e rinascita del dialetto: da Zanzotto ai novissimi reca finanche la traduzione di una commedia di Plauto in dialetto pavanese. Ma in più altri luoghi, ad esempio in Piemonte, si è giunti da tempo a istituire circoli di studio e di conversazione orientati sul dialetto locale e regionale. Senza parlare di provvedimenti più forti e incisivi, quali i riconoscimenti legislativi dell’uso e del valore anche normativo dei dialetti; riconoscimenti che, anche i più recenti (come ho dimostrato altrove), con le approssimazioni al linguaggio legislativo tradiscono la frettolosa passione e l’inesperienza giuridica dei proponenti. Si alzano finalmente, in alcune parti d’Italia, proposte di riscatto della dignità dei dialetti sostituendo al loro nome tradizionale ma subordinante di dialetti il nome paritario di lingue, indipendentemente da ogni altro carattere. Aggiungo, per concludere questo tema, due lontani ma ancora vivissimi ricordi personali. Non pochi anni fa mi recai, come rappresentante dell’Accademia della Crusca, in una città del Veneto a parlare di alcuni temi linguistici. Nel comunicare ebbi l’impressione di esser ascoltato da un pubblico chiuso e diffidente. Intuito il motivo di quell’umore, chiarii che non ero lì per parlare della lingua nazionale contro il dialetto, che lì era vivo e vitale; e subito l’attenzione dell’uditorio cambiò da fredda e diffidente in cordiale. Qualche tempo dopo, a Bologna, presi un treno per Firenze e mi trovai in uno scompartimento dove io ero il solo viaggiatore perché di fronte a me sedevano tre ferrovieri in uniforme di servizio, che parlavano fra loro di questioni di servizio, escludendomi, ovviamente, dal loro colloquio. Io li udivo alternare disinvoltamente due lingue: lo stretto dialetto bolognese, che mi era incomprensibile, e un italiano normale, corretto. La disinvolta alternanza tra le due lingue, di 14
cui compresi chiaramente il motivo contingente, mi confortò tuttavia a riflettere. Da quel giorno sono passati alcuni anni. Il rigoglio di un’Italia dotata, per evidenti ragioni di tarda unificazione linguistica, di una viva molteplicità di linguaggi e di tradizioni ma avviantesi all’uso comune di un dialetto già affermatosi come voce nazionale della letteratura e del diritto, e socialmente comunicante con tutta la nazione (e oltre di essa) come lingua ufficiale dello Stato mediante i principali strumenti di comunicazione nazionale (e internazionale), rischia oggi di scendere dal piano della grande politica al piano di un politicismo che tende a fare dei dialetti le lingue prime e reali di una pluralità etnica, culturale e politica, riducendo la lingua italiana da voce dell’intera nazione come unità politica, linguistica e culturale a strumento ufficiale di una aggregazione multietnica, multiculturale e multilingue riunitasi in unità federale per motivi di prestigio e di peso internazionale. Il fatto che in alcune di queste unità aggregate il capo politico parli alla propria comunità in dialetto, e riservi l’italiano solo ai propri interventi parlamentari affinché tutti i deputati lo comprendano, può diventare, se tale scelta assume un deciso e aperto fine politico, il fine a ritroso della concreta e non fittizia unificazione politica dell’Italia. Il sospetto o timore che la sopravvissuta ricchezza linguistica, etnica e culturale dell’Italia possa giungere, col fermento di dissensioni politiche, ad una sostanziale disunione dell’Italia unita è forse l’incubo di un decrepito vagheggiatore, come io sono, della pur varia Italia, linguisticamente battezzata da Dante e ribattezzata da Alessandro Manzoni. Ma se altri, come è possibile, pensa diversamente da me, lo prego di chiarire a se stesso il fine ultimo del suo disegno; perché la scelta, il valore e l’uso del proprio linguaggio sono il cardine del vero cittadino. Oggi che lo Stato assume il compito di curare la preparazione linguistica, culturale e professionale di tutti i suoi cittadini la sua lingua non può essere ridotta a una soprastruttura strumentale. 15
Poscritto. Perdona se, sentendoti il più vicino amico di tutti i possibili presenti al convegno*, approfitto di te per due ragioni: 1. perché tu giudichi se il mio discorso è ammissibile ad una lettura congressuale (perché oggi vale per me il bel verso di un nostro poeta: «Non son qual fui; perì di me gran parte»); 2. perché, se gli dai il tuo placet, tu lo passi alla segreteria che lo fornisca di un caritatevole lettore. Ti ringrazio di cuore di questo insolito servizio. Se sono fisicamente assente alla tua festa non lo sono moralmente; mi unisco con tutto me stesso all’onore che ti fanno i convenuti per ringraziarti di ciò che hai fatto, per tanti anni, e tuttora seguiti a fare, per la lingua e per la scuola italiane con dedizione estrema, con genialità ammirevole, con amore tenace. Te ne ringrazio caldamente, nella convinzione che i tuoi settant’anni non ti congedino, ma ti confermino nella tua importante missione. Credimi il tuo Giovanni Nencioni Accademia della Crusca Firenze, 14 marzo 2002 * Giovanni Nencioni non ha potuto prendere parte di persona ai lavori, ma ha inviato il testo che qui riproduciamo e che è stato letto pubblicamente.
Emilio Garroni*
Un’esperienza sensata
Non tocca a me celebrare i meriti di uno studioso di statura internazionale e intrattenermi sulle molte sue opere filosofiche, teoriche, storiche, filologiche, dall’Introduzione alla semantica alla Storia linguistica dell’Italia unita, che ha avuto anche civilmente e politicamente, oltre che scientificamente, meriti di grande rilievo, dalla preziosa edizione italiana del Cours di Saussure, che ha rivoluzionato in Italia, e non solo in Italia, il modo di leggere quell’autore capitale, al Grande Dizionario Italiano dell’Uso, opera monumentale, rigorosa e spregiudicata, di cui sono abitualmente un attento e sempre soddisfatto consultatore, fino agli infiniti saggi, note, interventi sull’uso della lingua, sulla didattica e sulla scuola in genere, di cui egli è il primo degli specialisti. Giustamente mi è stato assegnato un tema che mi è particolarmente vicino e che, anche per questo, mi lega di più a Tullio e ai suoi contributi, in forza non però dell’amicizia ormai pluridecennale, ma di un genuino e personale interesse intellettuale che precede la stessa amicizia. Cioè: la «questione del senso». Il «senso», nel mio caso, non come «questo o quel senso», legato a un singolo atto linguistico, ma quale «condizione dell’avere un’esperienza sensata, una conoscenza coerente e oggettivamente valida e in genere un linguaggio effettivamente capace di significare e di comunicare». È una condizione non pacifica, tenuta a fondare e costruire la sensatezza dell’esperienza, * Docente di Estetica all’Università di Roma “La Sapienza”.
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ma sempre rischiando l’insensatezza; il che per altro verso è una conferma paradossale che essa è operante anche in questo caso. Senza un senso-condizione, anche l’insensatezza, che è in realtà una richiesta negativa di senso, non sarebbe tale: sarebbe l’esistente, né sensato, né insensato. E a noi sarebbe in definitiva vietato di pensare. Vorrei ricordare non le opere maggiori, ma tre lavori relativamente brevi che però hanno inciso profondamente su di me. Mi hanno fatto comprendere concetti fondamentali intorno a cui giravo da tempo e mi hanno permesso di comprendere meglio anche altri problemi di cui mi occupavo per mio conto e di cui non vedevo ancora la connessione con quelli. Naturalmente, rischio con ciò di dare della sua operosità un’immagine unilaterale, anche se, spero, non distorta. Mi riferisco in primo luogo a un vecchio saggio: Modelli semiologici: l’arbitrarietà semantica, pubblicato in «Lingua e stile» nel 1966; in secondo luogo a Ludwig Wittgenstein. His Place in the Development of Semantics, Reidel, Dordrecht 1967; e infine a Minisemantica, pubblicata da Laterza nel 1982, che è, sì, un’«operina», ma nel senso in cui sono operine, in campi disparati, anche certe opere brevi, dense e decisive, come, che so?, Linguaggio e mito di Cassirer o il Breviario di estetica di Croce. Modelli semiologici uscì in un periodo difficile in Italia per la semiologia. Era allora una disciplina di moda, di cui spesso è stata oscurata l’intrinseca serietà e distorta la ragion d’essere. Era, soprattutto per i novizi, una disciplina fin troppo attirante per la sua presunta onnipotenza, quindi suscettibile di fraintendimento, e di fatto fu spessissimo assai male usata. Ebbene, se quel saggio capitasse oggi sotto l’occhio di un non-specialista, potrebbe apparirgli come uno dei tanti contributi su un argomento allora largamente battuto e ribattuto. Per strano che appaia, non è invece così. Oggi può essere considerato un saggio dalla tesi ovvia, ma per suo merito, come accade a tutti i saggi chiarificatori, che vengono digeriti e non più discussi, come se appunto fossero stati ovvi fin 18
dall’inizio. O forse sì, lo erano, ma nel senso che proprio l’ovvio, come ci avverte Wittgenstein, è più difficile da comprendere. Allora fu, almeno da noi e per quanto ne so, il primo saggio che mettesse definitivamente in chiaro, anche in rapporto al testo di Saussure cui De Mauro stava finendo di lavorare, nonché ai Prolegomeni di Hjelmslev, che una cosa è l’arbitrarietà del significante rispetto al significato, cioè il loro rapporto di immotivazione, e una cosa l’arbitrarietà semantica. Segno che, almeno al di fuori di una ristretta cerchia di specialisti, la distinzione netta tra immotivazione significante-significato e arbitrarietà semantica non era poi tanto pacifica. Di fatto si leggevano non raramente testi che risultavano confusi ed equivoci anche in forza di questa mancata distinzione. Io non ricordo bene a quale categoria appartenessi allora, forse, credo, spero, più a quella dei lucidi, anche se forse non mancavano intersezioni con la parte dei confusi, in forza di un’allora assidua lettura della Critica del gusto di della Volpe, che non era esente da ambiguità su quel punto essenziale. Certo è che, a partire da quel saggio, nessuno osò ripetere più le solite cose mal orecchiate. Ma, con la lettura di quel saggio e poi del saggio wittgensteiniano, mi accadde, per quanto mi riguardava direttamente, qualcosa di più: che la almeno più precisa consapevolezza della nozione di arbitrarietà semantica, nonché la nuova semantica di Wittgenstein – legata, scriveva De Mauro, a una concezione antropologica e tale da prevedere non un sistema «tout serré», ma un «open system» – indusse o rafforzò in me l’idea di un dominio del senso possibile, variamente delimitabile, che ricopre la totalità del dicibile e che è, come tale, indicibile. Questo, precisamente, è stato nei decenni successivi un tema per me centrale anche in funzione dell’interpretazione che andavo via via elaborando della terza Critica kantiana, dove appunto l’idea di totalità dell’esperienza e quindi del senso possibile, che è solo un’idea indeterminata e indeterminabile, è tuttavia condizionante per la stessa formazio19
ne dei significati determinati e per la costruzione di una conoscenza determinata. Non so, a dire il vero, se il mio interesse per quel tema e l’uso che feci di quei lavori fosse per l’amico Tullio, giustamente e probamente sdegnoso delle vuote speculazioni e sempre attento alle «cose stesse», un motivo netto di compiacimento e solo di compiacimento. Forse c’è stata sempre, tra di noi, una qualche differenza nell’intendere i medesimi temi, pur nel consenso di fondo, e questa è stata per me un’altra preziosa occasione di sollecitazione intellettuale. Che forse – dico: forse – avesse anche qualche perplessità su quel modo di affrontare la questione era anche per me una remora salutare. Del resto su un autore studiato da entrambi, il già citato Wittgenstein, potevano rivelarsi le medesime differenze, a mio parere però più nel modo di esprimersi che di pensare: Tullio ne metteva in evidenza l’aspetto pragmatico, l’«uso» in quanto uso effettivo; io pensavo e penso invece che in Wittgenstein convivano consapevolmente due significati della parola: l’«uso effettivo» da una parte e l’«uso come condizione» dall’altra, che inevitabilmente si richiamano a vicenda. Infine: la differenza si limitava a una questione di accento, più su un versante della parola che sull’altro, e non includeva una vera opposizione. Resta il fatto in ogni caso che, speculazioni o no, io sono in debito con lui anche per una migliore conoscenza di Wittgenstein, mentre lui vanta solo crediti con me. Ma quello, come si diceva una volta, non fu che un inizio. Il peggio o, secondo me, il meglio venne poi con Minisemantica. In Minisemantica, infatti, quell’idea della totalità del dicibile – ripeto: come tale, indicibile – consegue da una teoria di modelli semiologici determinati, dettagliati, rigorosamente definiti, e in particolare dall’esame del modello lingua, e viene svolta a mio parere fino in fondo. Dall’arbitrarietà semantica si passa lì decisamente ed esplicitamente a ciò che mi stava più a cuore: all’indeterminatezza semantica, appunto. Non mi soffermo sull’argomento, perché è effettivamente complicato ed è del resto a tutti voi noto, tanto più che sul20
l’argomento ho scritto un saggio in onore dello studioso e dell’amico: L’indeterminatezza semantica: una questione liminare, in accordo quindi con il titolo del volume: Ai limiti del linguaggio, pubblicato da Laterza per i suoi sessantacinque anni. In quel saggio Minisemantica veniva fatta cortocircuitare, spero correttamente, ma di nuovo bisognerebbe domandarlo anche a Tullio, con la Critica della facoltà di giudizio, nel senso già accennato. Sta il fatto che ho utilizzato fino in fondo tutti i suggerimenti e i chiarimenti che da lui mi sono venuti, comunque poi li abbia utilizzati. Minisemantica è davvero un piccolo capolavoro, un agile libretto, un «classico», direi, che ci fa capire molto di più di certi libri ponderosi, ripetitivi e ridondanti. È un trattatello esemplare. Così io l’ho letto, così l’ho utilizzato, così continuo a servirmene: è per me un punto di riferimento irrinunciabile, anche se non sta a me dire se l’ho letto, l’ho utilizzato e continuo a servirmene nel modo giusto. Mi fermo qui per quanto riguarda l’esposizione dei miei debiti principali, senza neppure ricordare gli infiniti altri che mi riguardano non più come studioso, ma come persona che cerca di capire i vari aspetti della vita e della cultura che ci circondano. Ma, infine, non può mancare una sacrosanta concessione all’amicizia e all’affetto che ci lega. Concludo, quindi, dicendo che, a parte i libri, per quanto importanti siano, lo ringrazio e per l’amicizia e per l’affetto che egli mi ha sempre dimostrato e che io gli ho sempre ricambiato, a lui e alla carissima Silvana. In occasione dei suoi settant’anni e in riferimento ai prossimi decenni, esprimo non un augurio, ma la certezza che egli continuerà ad esercitare, da maestro qual è, la sua produttività intellettuale con la consueta energia, probità e capacità innovativa, sfruttando la sua straordinaria cultura e mettendo in campo come al solito la sua intelligenza prontissima*. * Emilio Garroni, impossibilitato a presenziare ai lavori, ha inviato il testo qui riprodotto.
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Giulio C. Lepschy*
«Tuttavia, Professore, qualche parolina in più!»
Sono contento di essere stato invitato a partecipare a questo incontro, come amico personale di De Mauro da circa un quarantennio e anche, come diceva Alberto Asor Rosa, in quanto studioso che ha passato la sua vita accademica prevalentemente all’estero, e che porta quindi un’eco dell’importanza di De Mauro nella linguistica internazionale, oltre che naturalmente della sua centralità per la linguistica italiana e la storia della lingua italiana. Il tema che mi è stato assegnato, «Le parole e l’uso», si potrebbe interpretare in modo molto generale con riferimento all’importanza del linguaggio, e del suo uso effettivo nel parlare, come prospettiva in cui vanno visti tutti i lavori di De Mauro. In realtà, a me pare più giusto e interessante soffermarmi sulle parole, intese in un senso un po’ più specifico, come elementi lessicali. Vorrei dunque riferirmi al lessico, a una questione che è sempre stata centrale per gli interessi di De Mauro, sia dal punto di vista della lessicologia, della riflessione teorica sul lessico e sul suo posto nella competenza linguistica, sia dal punto di vista della lessicografia, cioè della preparazione e pubblicazione di dizionari e vocabolari di varia natura. In particolare vorrei rifarmi alle riflessioni sul Vocabolario di base della lingua italiana presentate nel 1980 come appendice a un memorabile e fortunato volumetto dei «Libri di Base» degli Editori Riuniti [cfr. Guida all’uso delle parole, * Docente di Linguistica all’Università di Reading in Gran Bretagna.
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1980, NdR]. Questo lavoro di De Mauro era intrinsecamente collegato ai suoi interessi, di cui tutti i partecipanti ovviamente hanno parlato, di carattere civile e politico, cioè allo studio del linguaggio come elemento centrale per la scuola, e in generale per la promozione culturale e sociale. De Mauro proponeva un elenco di poco più di 6000 parole che dovrebbero costituire il vocabolario di base noto a tutti gli italiani. Può sembrare una banalità, ma in realtà la proposta era rivoluzionaria. Questo vocabolario di base consiste del vocabolario fondamentale (circa 2000 parole), del vocabolario d’alto uso (un po’ più di 2000 parole), e del vocabolario di alta disponibilità (un po’ meno di 2000 parole). Di queste proposte parlarono allora i giornali, ed esse provocarono anche ironie da parte di pubblicisti e letterati, che non ne avevano capito né le basi teoriche né le implicazioni pratiche. Le ricerche continuarono in seguito portando all’approfondimento di molti aspetti: dagli studi sulla frequenza relativa delle parole, nei vari tipi di lingua, scritta e parlata, fino alla precisazione di nozioni importanti, come quella di unità lessicale polirematica. Le polirematiche sono i sintagmi che il dizionario deve registrare separatamente, perché non sono derivabili sommando i valori dei singoli componenti: per esempio, vedere rosso, stare a cuore ed espressioni di questo tipo. Un’altra questione a cui De Mauro ha contribuito a dare una sistemazione coerente riguarda le etichette d’uso (quelle che i dizionari inglesi chiamano labels) che caratterizzano le espressioni secondo la loro appartenenza regionale, settoriale, di registro e così via. Tutti questi studi e approfondimenti sono poi confluiti in un’opera formidabile, se posso dirlo senza peccare di immodestia, dato che nell’esecuzione di questa impresa compaio insieme con Edoardo Sanguineti fra i collaboratori di De Mauro. Si tratta dei sei volumi del Grande Dizionario Italiano dell’Uso, pubblicati dalla UTET nel 1999. Questo grande dizionario ha il maggior lemmario (o lista di voci) fra tutti i vocabolari italiani. Alcuni lamentavano che il vocabolario di ba24
se fosse insufficiente, nel senso che non offriva (e come avrebbe potuto?) l’enorme numero di parole che gli scrittori vogliono avere a loro disposizione. Un recensore finiva con l’invito ironico: «Tuttavia, Professore, qualche parolina in più!». Questi critici trovano ora una risposta forse superiore alle loro forze, cioè un vocabolario con circa 250.000 voci. Oltre al vocabolario di base (circa 6000 parole), qui si trova il vocabolario designato come comune (circa 47.000 parole), tecnico scientifico (oltre 100.000 parole), letterario (circa 5000 parole), regionale (circa 5000 parole), dialettale (circa 300 parole – sono le parole del dialetto che si usano, come se fossero citate, entro testi italiani), quello costituito dagli esotismi (circa 7000 parole; questa è un’area in cui si dibatte se siano troppe e/o superflue le parole straniere, in particolare inglesi, che si usano in italiano). Infine, il vocabolario di basso uso (circa 23.000 parole) e il vocabolario obsoleto (circa 14.000 parole, che si incontrano in testi letterari ma che non si usano in testi scritti oggi se non per motivi particolari, quasi richiamandosi ai testi letterari in cui compaiono). L’attribuzione di queste etichette che ho citato, di questi labels, non è una faccenda ovvia e banale, ed è costata a tutta la redazione e a De Mauro, che controllava e rileggeva tutte le voci, un impegno che ha portato a soluzioni a volte innovative, a volte inaspettate. Di recente una mia perfezionanda a Londra, che lavorava sulla diffusione delle parole italiane nelle lingue europee, mi ha parlato delle difficoltà che aveva incontrato cercando di stabilire la data e l’ambito di diffusione del termine lambrusco. Il Nuovo Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di Cortelazzo e Zolli (1999) dà il senso «vitigno emiliano da cui si trae un vino da pasto rosso e frizzante», che sarebbe attestato dal 1350 circa. L’idea che Boccaccio potesse bersi un buon bicchiere di lambrusco è simpatica, ma sembra, di primo acchito, poco verosimile. Controllando il Grande Dizionario Italiano dell’Uso di De Mauro troviamo forse un avviamento alla risposta corretta. De Mauro dà per «vitigno e uva nera dell’Emilia» e «vino ros25
so che se ne ricava» una data: ‘av. 1803’, cioè di quasi cinque secoli più tarda, ma dà anche una seconda accezione («vite selvatica») che risale al Trecento. A quale punto esattamente si situino, nel periodo fra Trecento e Ottocento, le citazioni che sono riferibili non più a una vite selvatica, ma bensì alla vite e al vino emiliano rosso e frizzante che se ne ricava, è una questione non ovvia e che richiede evidentemente una ricerca di tipo filologico, o forse anche di piacevole degustazione, nella quale si saranno gradevolmente impegnati i collaboratori del Grande Dizionario. Da questo sono già derivati ottimi lavori collaterali come il cosiddetto monovolume, una sintesi che occupa già un posto preminente fra i vocabolari italiani in un volume, e il Dizionario Etimologico preparato da De Mauro con Marco Mancini. Se posso concludere con un auspicio, un’altra sintesi a cui credo che De Mauro abbia già pensato e che sarebbe desiderabile sarebbe un Dizionario di Pronuncia Italiana basato sul lavoro del Grande Dizionario e che rispetto a quelli esistenti desse molte più informazioni sulle pronunce reali, come vengono usate di fatto, invece di limitarsi a proporre ipotetici e poco rivelatori modelli normativi. In un campo come quello della pronuncia dell’italiano forse è diffusa l’impressione che si sappia già tutto, che si sappia anche troppo. In realtà le cose non stanno affatto così. Perfino su un tratto ampiamente studiato come il raddoppiamento fonosintattico, quello che induce i toscani e gli italiani centro-meridionali, non i settentrionali, a dire a [k·k]asa invece di a [·k]asa, raddoppiando l’iniziale della parola dopo la preposizione, le condizioni del fenomeno sono insufficientemente note, come indicano i pregevoli studi recenti di Loporcaro. Per le e e le o aperte e chiuse tutti sanno che la loro distribuzione è problematica. Il titolo di Manzoni I promessi sposi viene pronunciato generalmente nell’Italia settentrionale (e in particolare in Lombardia e in Piemonte) come I prom[ε]ssi sp[o]si, invertendo le aperte e le chiuse del toscano e della 26
pronuncia centro-meridionale. Errore grave, secondo i puristi; ma la questione della pronuncia modello non è ovvia, e nel nostro caso non va dimenticato che la pronuncia citata è probabilmente più vicina a quella usata da Manzoni nell’enunciare il suo titolo. Naturalmente non si tratta solo di casi come la distinzione delle e e delle o aperte e chiuse. I vocabolari di pronuncia che esistono in generale non informano sulla pronuncia reale, in modo paragonabile a quello praticato nei dizionari di pronuncia inglese, come quelli di Daniel Jones, di Peter Roach, di John Wells. Per esempio, le rese della a italiana non introducono contrasti fonologici, però sarebbe interessante sapere, registrare, come di fatto differiscono l’una dall’altra le pronunce della a, per esempio in parole come pane e basta: una a più arretrata in Toscana di quanto sia al nord (dove la vocale è più avanzata in Lombardia, palatalizzata in Emilia, velarizzata in Piemonte), ma meno di quanto sia nell’Italia meridionale. Tutto questo offrirebbe appunto ampio materiale di utile descrizione. È un lavoro che adesso si può fare; in passato, quando la gente parlava abitualmente i dialetti, non aveva molto senso chiedere come pronunciava l’italiano. L’italiano era una lingua letteraria, pronunciata in maniera abbastanza artificiosa secondo norme puristiche. Oggi l’italiano forse è già diventato, o almeno sta diventando, una madrelingua, usata da parlanti nativi. Si tratta di un fenomeno che De Mauro più di ogni altro ci ha aiutato a capire, e proprio questo consente, tra l’altro, di creare un sistematico dizionario descrittivo di pronuncia. Vorrei concludere con un piccolo ricordo personale, richiamandomi alla presenza dell’editore Laterza. Io ricordo una conversazione negli anni Sessanta con il padre dell’editore (una conversazione a cui era presente, credo, anche Tullio), in cui scherzosamente Vito Laterza, sapendo che lavoravo a Londra, mi aveva esortato a rientrare in Italia perché se no «qui fa tutto De Mauro». E io gli avevo risposto che proprio questo mi dava grande tranquillità, mi lasciava libero di 27
restare senza troppi rimorsi a leggere tranquillamente alla British Library, sapendo che a tante cose, a cui pure tenevo, nell’ambito dell’impegno civile e culturale, ci pensava, più efficacemente di quanto avrei potuto fare io, Tullio De Mauro. E anche per questo vorrei dire: grazie, Tullio!
Una politica culturale
Walter Veltroni*
Parola di Ministro
Ho conosciuto nella vita feste a sorpresa, ma convegni a sorpresa è la prima volta che mi capita di vederne. Ma credo che sia il modo giusto per fare gli auguri a Tullio: essendo lui assolutamente poco festaiolo ed essendo invece, giustamente, molto «convegnaiolo», è giusto che ci sia una occasione come questa per parlare di quello che Tullio ha fatto e fa per la cultura del nostro Paese. Quando mi hanno detto che c’era questa circostanza ho ovviamente detto subito di sì, per due motivi. Il primo è formale, e lo lasciamo subito da parte: essendo Tullio il mio delegato per i problemi dell’Università, non avrei mai potuto mancare. Il secondo motivo, invece, è più di sostanza: mi faceva piacere esserci, perché Tullio è una delle persone per le quali io ho più stima e considerazione e alla quale mi lega veramente amicizia ed affetto. Conosco Tullio da moltissimi anni, leggo Tullio da moltissimi anni. Non sempre accade che le due cose coincidano felicemente, ma quando coincidono il piacere è scoprire che la persona che conosci corrisponde all’idea che ti eri fatto leggendo i suoi scritti. A Tullio mi lega una esperienza culturale e politica molto prossima che ha avuto recentemente un suo momento alto nella assunzione da parte di Tullio della responsabilità di Ministro della Pubblica Istruzione, lavoro che a me sembrava stare, se posso dire così, in qualche modo tra la ricerca, lo stu* Sindaco di Roma.
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dio, l’insegnamento e l’impegno civile. Mi sembrava anche bello per il Paese, quando si parlò appunto della necessità di nominare un nuovo Ministro della Pubblica Istruzione, che fosse designata una delle massime personalità della ricerca e dello studio applicato ai temi della formazione. D’altra parte, Tullio era stato tanti anni fa anche Assessore alla Regione Lazio, sempre ai temi della formazione e della cultura, con risultati assolutamente di rilievo. E a me sembra importante, in un momento come quello che noi stiamo vivendo, ragionare su questo elemento della biografia di Tullio De Mauro. Si parla molto dell’impegno degli intellettuali. Oggi stiamo vivendo di nuovo una stagione di ripresa, di iniziativa, di responsabilità e persino di protagonismo da parte degli intellettuali. Lo saluto come un fatto di grandissima importanza: non ho alcun fastidio, alcun imbarazzo, alcuna preoccupazione. È un fatto che tanta parte del mondo intellettuale (poco importa in questo momento in quale schieramento sia impegnata) senta il bisogno di ritrovare il desiderio di dire la sua dopo anni nei quali sembrava essere tutto imploso in una condizione nella quale la politica era stata delegata a coloro i quali facevano politica. A me sembra importante la ripresa di protagonismo che c’è oggi da parte dell’intellettualità. E non solo da parte degli intellettuali, ma anche da parte di cittadini che si interrogano sul destino del loro Paese. Un Paese ha bisogno di un circuito di formazione delle sue decisioni che sia alimentato dal sapere di coloro i quali nell’Università o nelle professioni possono portare un contributo che deriva dall’esperienza e dalla conoscenza. In fondo, la grandezza di altre democrazie, penso alla democrazia francese, sta proprio nel fatto di aver costantemente saputo alimentare un rapporto tra alcuni istituti di eccellenza – lì persino con una sorta di monopolismo di questa dimensione da parte di uno in particolare – e il momento della decisione politica. Invece in Italia la tendenza della politica è stata sempre di guardare con preoccupazione all’irrompere sulla scena della decisione di 32
punti di vista che fossero alimentati da consapevolezza maturata nelle cattedre universitarie o nelle professioni esercitate al più alto livello. La vita di Tullio è invece una vita giocata tutta su queste due dimensioni: ricerca e impegno civile. I temi della sua ricerca sono sempre stati messi a fuoco con l’occhio di chi teneva inevitabilmente come scenario di osservazione il suo Paese. Tutta la sua riflessione sulla storia della lingua italiana e sulle sue evoluzioni è una riflessione dalla quale, credo, potrebbero discendere moltissime decisioni politiche, e una parte di queste sono arrivate anche nel corso della sua esperienza amministrativa e di governo. Mi ricordo di aver parlato con Tullio più volte del fenomeno di neoanalfabetismo che sembra riemergere in un Paese come il nostro, e motivato non socialmente ma dal fatto che gli agenti formatori della consapevolezza, della coscienza culturale di ciascuno di noi si sono progressivamente trasformati. Non userò questa occasione per fare la tradizionale e ormai un po’ desueta riflessione sulla televisione: tutte le volte che ci si incontra, si fanno sulla televisione affermazioni aspre e poi magari quelli che le fanno, alla sera, sono tra i più attenti spettatori delle trasmissioni più imbarazzanti. Dico però solamente questo, che non c’è dubbio che siamo di fronte a un doppio fenomeno: da un lato c’è la curiosità intellettuale stimolata dai grandi mezzi di comunicazione, non solo la televisione ma, per esempio, anche la rete (e Tullio ha dedicato alla rete e alla lingua in rete una riflessione piuttosto consistente). Dall’altra parte, però, c’è l’imbarazzante omologazione di linguaggi, la riduzione delle parole a disposizione, l’assunzione di modi di dire che vengono progressivamente immessi nel vocabolario di ciascuno a sostituire apparati concettuali più complessi. C’è una riflessione sulle nuove tecnologie che Tullio ha fatto in un’intervista nel ’96, che ho ritrovato, e che dice: direi che in buona parte le nuove tecnologie ripropongono il problema della divaricazione socioculturale tra le persone. La tecno33
logia del computer però è relativamente più semplice, più popolarmente accettabile, più connessa al nostro mondo, fabbricato di pulsanti, di clic. In questa realtà multimediale la giovane generazione si orienta bene come pure l’anziana poiché risulta più semplice attivare un computer e l’uso di un computer che non sviluppare la capacità di leggere ed acquisire tranquillità nel consultare un libro. Visti in questa prospettiva, gli effetti della distanza culturale tra le persone che può provocare l’approccio alle tecnologie possono essere minori anche se certamente esistono.
E ancora un’ultima citazione sulla lingua. Che cos’è una lingua? Per rispondere, la mente corre subito a: parole, suoni, significato, regola di grammatica, che di una lingua appaiono costituire il corpo; corre e spesso si ferma. E allora si è tratti a pensare che come una lingua anche una scienza sia fatta di certe parole e convenzioni di stile: dite rasatura dei peli e siete comuni e inattendibili; dite invece tricotomia e siete scientifici. Dite gruppo di parole e non vi daranno retta; dite struttura morfosintagmatica e vi faranno tanto di cappello. Una lingua è fatta sì di parole e regole, ma anche della vita, delle pratiche operative di chi la usa, della sua istruzione ed educazione: addestramento, disse Wittgenstein. Se una scienza è una lingua ben fatta, lo è perché non disciplina solo le parole che usa, ma filtra, ordina, coordina e orchestra le pratiche conoscitive, il training di chi intende dedicarvicisi. Io penso che il fatto che qualcuno sia entrato nelle nostre parole con tanta determinazione, con tanta profondità, che con tanta passione intellettuale abbia cercato di leggere le nostre parole per trarne una sorta di fotografia dello stato della cultura del Paese, e abbia da qui però continuato il suo percorso individuale per capire, al di là della legislazione di tutto questo, che bisognava mettere la propria vita, il proprio sapere a disposizione della trasformazione di questo stato di cose, è la ragione per la quale almeno uno come me non può non essere grato a Tullio per tutto quello che ha fatto in questi cinquant’anni e un po’ di più, ed essere qui per ringraziarlo. 34
Siccome nei compleanni ci sono i regali, allora anch’io ho un regalo per Tullio, che è l’unico regalo che a Tullio De Mauro si può fare, ed è l’Enciclopedia, però non quella di Diderot e d’Alembert né altre: è l’Enciclopedia di Roma, della tua città che così ti vuole fare gli auguri.
Gianni Borgna*
La linguistica in edicola
Molte cose giustificano la mia presenza qui: in primo luogo e soprattutto l’amicizia nei confronti di Tullio De Mauro e anche la collaborazione strettissima che c’è tra lui e me ormai da tanto tempo. Devo aggiungere, anche, che sono stato un suo allievo: mi sono laureato con lui, correlatore era Emilio Garroni. Già per questi motivi, quindi, mi sembra che questo momento di incontro sia particolarmente carico di senso. Ma ce ne sono altri: c’è stato l’incontro e la collaborazione con Tullio a metà degli anni Settanta, alla Giunta della Regione Lazio, quando Tullio diventò Assessore regionale alla Cultura, io ero Consigliere regionale con lui, capogruppo del Pci. Fu un’esperienza molto importante: quella della Regione, nel 1975, è stata la prima delle varie Giunte di sinistra di Roma. Ci sarebbe da ricordare il nostro impatto con via della Pisana (lo consegniamo ad altri futuri incontri), che fu anche divertente, se vogliamo, e anche un po’ allucinante, ma lasciamo perdere. A differenza di Alberto Asor Rosa che ricordava il suo primo incontro con De Mauro all’inizio degli anni Cinquanta, io ho conosciuto Tullio prima ancora di conoscerlo fisicamente, un giorno in cui, ancora ragazzino – avrò avuto sedici anni – ero andato dal giornalaio a comprare un giornale. All’inizio degli anni Sessanta cominciavano ad uscire i libri in edizione economica, compresi quelli della Laterza, che si trova* Assessore alla Cultura del Comune di Roma.
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vano anche nelle edicole, almeno in quelle più grandi, più spaziose. Quel giorno mi sono imbattuto nella seconda edizione, presumo, comunque nella edizione economica di Storia linguistica dell’Italia unita, che uscì nel ’65. Ho comprato quel volume così di getto, un po’ per l’interesse, per la curiosità e anche per la citazione di Gramsci, che era proprio sulla fascetta pubblicitaria di copertina, e che diceva che ogni volta che affiora la questione della lingua ciò significa che si stanno imponendo una serie di altri problemi ecc. Era l’idea che la lingua e lo studio della lingua possono concorrere – utilmente anzi, direi, sostanzialmente – a comprendere la trasformazione di una società. A scuola tutte le cose della lingua, seppure erano affrontate, lo erano in modo generalmente pedante, noioso; ma quando ho cominciato a sfogliare la Storia linguistica dell’Italia unita ho visto che era invece un libro di tutt’altro tenore. Credo che questa idea di guardare alla lingua per comprendere la trasformazione di una società sia non solo molto importante, ma veramente un debito che abbiamo nei confronti di Tullio De Mauro, perché Tullio ha agito sempre da studioso, da linguista, ma anche sempre con la prospettiva di capire nel profondo, attraverso la lingua, le trasformazioni, lo sviluppo della società. A lui si devono tante altre cose, penso all’edizione critica importantissima del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure, uscita nel ’67, in un periodo in cui la linguistica, lo strutturalismo erano molto di moda, ma in Italia Saussure era conosciuto più per le citazioni che non per la lettura diretta. Ecco, Tullio De Mauro è stato sempre attento ad una infinità di cose che sono riportate nei suoi libri, a cominciare appunto dalla Storia linguistica che ha avuto tante edizioni, ma poi anche in tanti altri suoi interventi saggi, scritti ecc. È uno studioso, per esempio, che affronta sempre i problemi con una minuziosità di apparati, di documentazione, citando statistiche. Può apparire pedante o arido indulgere a citare statistiche, ma in realtà è molto importante. Noi in Ita38
lia siamo spesso vittime di una cultura parolaia in cui si dicono cose, concetti, ma senza mai fondarli scientificamente sui dati. Tullio, al contrario, affronta qualunque questione cercando sempre di dimostrarne i fondamenti, citando anche le cose più minute, più particolari, e mostrando che tutto questo coincide con la ricerca del senso delle questioni. Veltroni ha citato, poco fa, l’impegno di De Mauro nella politica culturale in cui ha fatto confluire la riflessione su tante questioni importanti quali la scuola, la televisione. Usando un approccio diverso rispetto ad altri studiosi, Tullio ha dimostrato un grande interesse verso la televisione, verso il ruolo che la televisione ha avuto anche nell’unificazione linguistica del Paese, senza però enfatizzarlo. Nella politica culturale di Tullio, l’enfasi sta semmai nei confronti della scuola, di cui vede la grande rilevanza. A differenza di chi vede ormai tutto in termini di televisione e di mondo audiovisivo, Tullio pensa che sia la scuola l’elemento fondamentale di formazione linguistica, e anche culturale e civile. Credo che questo sia molto importante e caratterizzi la sua ricerca; così come l’interesse che ha mostrato verso alcune figure di studiosi italiani: penso a Pasolini, ma anche a don Milani, che hanno parlato molto sia di scuola sia di televisione, in modo però assolutamente irregolare e anticonformista, e che appunto Tullio ha sempre valorizzato nel suo lavoro, anche se non sempre condividendone approcci, considerazioni, riflessioni. Per concludere, vorrei ancora ricordare che Tullio De Mauro, linguista e studioso di questa qualità e spessore, è sempre stato attentissimo ai fatti più marginali del costume o alle discipline ritenute minori. Come segno della sua apertura mentale penso al fatto che non mi abbia mai fermato quando mi sono incamminato nello studio della canzone. E anzi due miei libri hanno l’onore, posso dire, di avere l’uno un suo intervento, l’altro – la Storia della canzone italiana, nella sua prima edizione da Laterza – addirittura la sua prefazione. Questa attenzione, oggi, è forse scontata, perché ormai tutti, compresi i grandi linguisti, si occupano della canzone: ci so39
no addirittura antologie scolastiche dedicate a questo. Una ventina di anni fa, invece, quando uscì la Storia della canzone italiana, l’interesse non era assolutamente scontato. Quando scrivevo quelle cose, ricevevo spesso reazioni piuttosto diffidenti se non anche apertamente critiche da parte di chi riteneva che stessi affrontando, non si sa bene per quali motivi, argomenti assolutamente insignificanti, banali, marginali. Tullio De Mauro invece non solo ha creduto in quelle ricerche, ma ha scritto a sua volta cose molto importanti su questi fenomeni. È questo che, per me, dimostra la sua grande duttilità, la sua grande apertura mentale ed anche – come è stato detto – quel suo senso del limite, un senso dell’ironia e dell’autoironia che è uno dei tratti che veramente fanno di lui una personalità molto particolare e, soprattutto, un uomo che è a tutti noi molto caro.
Giuseppe Laterza*
Prima l’autore, poi il titolo
Tullio De Mauro è uno degli artefici principali del catalogo Laterza e quindi ho sentito doveroso venirlo a dire qui, dire una cosa che già si sa, venirla a confermare, anche se mi sarebbe molto piaciuto, credo anche a Tullio, se questo l’avesse detto mio padre, che con Tullio ha lavorato per quarant’anni. Il rapporto – lo racconta Tullio stesso in un piccolo saggio – cominciò nel 1962, quando, grazie agli uffici di Tullio Gregory, De Mauro portò in casa editrice la Storia linguistica dell’Italia unita, che sarebbe uscita l’anno dopo. Dei pregi scientifici dell’opera è stato detto da altri, e non sta all’editore ripeterli. È un libro che ha avuto una straordinaria fortuna editoriale; dopo la prima edizione nella «Biblioteca di Cultura Moderna», poi aggiornata e rivista nel 1970, ha avuto cinque edizioni nell’«Universale Laterza», la nostra collana tascabile, tre edizioni nella «Biblioteca Universale Laterza», sei edizioni nei «Manuali», l’ultima dell’anno scorso. Ha percorso, ha visitato quasi tutte le collane della casa editrice. Da allora Tullio ha pubblicato con noi gran parte delle sue opere, dall’Introduzione alla semantica, del 1965, a Minisemantica, del 1982; da Linguistica elementare, del 1998, a Prima lezione sul linguaggio che sta per uscire [pubblicato nel 2002, NdR]: il futuro è già cominciato, è già qui, il futuro è già oggi! Oltre a questi libri di ricerca e di sistemazione del sapere, in funzione anche didattica, De Mauro ha pubblicato, e que* Editore.
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sto per noi è altrettanto importante, anche interventi di politica culturale, quella politica culturale cui facevano riferimento il Sindaco e altri intervenuti, come quelli raccolti, ad esempio, nel volume Capire le parole e nel volume Idee per il governo. La scuola, e più recentemente Minima scholaria. I suoi libri sono stati un punto di riferimento e di discussione nel campo degli studi linguistici, ma anche nella didattica scolastica, in quella universitaria, e nei giornali e nel dibattito dell’opinione pubblica. Libri che hanno avuto grande successo in Italia, sono stati ristampati tante volte, ma anche, come sapete, all’estero: sono stati tradotti in molte lingue, alcuni, ahimè, anche senza accordi con l’editore. Nel 1967 De Mauro curò per Laterza quella che è diventata l’edizione di riferimento del Corso di linguistica generale di Saussure. Al di là di questo, Tullio De Mauro, grazie a un rapporto molto forte e intenso con mio padre, ha aperto tutto il settore degli studi linguistici della casa editrice, sia favorendo la traduzione di libri importanti, come il Profilo storico della linguistica moderna di Leroy, gli Elementi di linguistica generale di Martinet, i manuali di Robins e Lyons, Le strutture della sintassi di Chomsky, tutti libri frutto di questo sodalizio, sia favorendo l’incontro con la casa editrice di studiosi come Anna Davies Morpurgo, Giulio C. Lepschy, Raffaele Simone, Giorgio Cardona, Francesco Antinucci, solo per fare alcuni nomi. Anche qui, se si fosse solo limitato a questo il contributo di De Mauro – che già sarebbe enorme – non si direbbe tutto, perché il contributo è andato molto al di là della linguistica. Per quarant’anni il sodalizio umano e intellettuale con mio padre ha investito tutta la produzione editoriale: De Mauro è stato un consigliere e un ispiratore attento, anticipatore delle nuove tendenze, al tempo stesso grande conoscitore del mondo editoriale in tutte le pieghe e quindi in grado di comprendere – cosa rara – le ragioni dell’editore, di analizzare i problemi e di dare consigli sia sui libri scolastici sia sui testi universitari, senza trascurare la saggistica, con una sensibilità 42
insieme per la ricerca e per la divulgazione. Aggiungo, con un’altra cosa rara: il mettere insieme una grande passione intellettuale, e anche capacità di indignazione al momento giusto, con una altrettanto grande apertura intellettuale. Le due cose non facevano contrasto. Tante volte è accaduto di sentire Tullio dire: «Questo è un libro con cui io non concordo quasi per nulla, ma va pubblicato». Ecco, questo è molto raro e difficile nel nostro Paese, e di questo la casa editrice ha beneficiato enormemente. Quando sono entrato in casa editrice, vent’anni fa, Tullio vi era già da vent’anni, quindi ho guardato a lui come a una presenza fondamentale, naturale, come parte di questa impresa, che vuole essere quella di pubblicare libri a tanti livelli, utili a far riflettere criticamente sulla realtà. Tullio ha sempre unito la sua passione intellettuale con una grande sobrietà anche nell’espressione. Ricordo che qualche anno fa lo andai a trovare e gli chiesi consiglio, perché anche questo succedeva, su una copertina; era la collana dei «Manuali» che stavamo per varare, e gli dissi di una mia idea: «Tullio, c’è questa nuova collana, sono dei manuali, cioè libri che sistematizzano le opere, tutto sommato metterei prima il titolo, diversamente da quello che si usa fare, e poi l’autore». E ricordo che Tullio mi guardò, ci pensò un po’ su, si strinse nelle spalle, poi con il suo modo tipico disse: «Perché si compra un libro Laterza? Per l’autore. E un manuale? Perché è di quell’autore. Non lo so...». Bastò quello! Uscii con le idee assolutamente chiare, e infatti la copertina della collana dei «Manuali» ha prima l’autore e poi il titolo. Anche di questa intelligente, preziosa attenzione agli strumenti di bottega di quella forma di artigianato intellettuale che resta ancora oggi l’editoria, credo che tutti noi gli dobbiamo essere – io certamente gli sono – enormemente, profondamente grati.
Società e comunicazione
Enzo Golino*
La comunicazione sociale
Con una di quelle domande che imbarazzano i grandi quando i bambini, all’improvviso, pretendono insoliti ragguagli al di fuori della abitudinaria chiacchiera quotidiana, mio figlio Andrea – aveva cinque anni – mi chiese una volta che cosa fosse il linguaggio; e aggiunse che, secondo lui, era quella cosa che gli usciva dalla bocca in forma di «parole suonate». Probabilmente aveva ascoltato brani di conversazioni che intrattenevo con amici in cui si discettava di lingua, linguaggio, dialetto, parlanti, fonemi, scrittura. Dopo attimi di silenzio, che mi parvero eterni, mi venne un’idea che lì per lì mi sembrò bizzarramente luminosa: il linguaggio è come il cibo – gli dissi – che si cucina in un pentolone che sta in una parte del cervello. Il cuoco impara a cucinare fin da quando hai cominciato a esistere nella pancia della mamma, cresce con te, la prossima volta ti dirò chi è. Quel cibo è fatto di tante parole: pane, maccheroni, bistecca, dentice, spinaci, banana, pera e via elencando. Mentre mastichi quel cibo, cioè quelle parole, nella tua mente si forma il discorso, tante frasi messe insieme che trasmettono le cose che vuoi dire a quelli che stanno parlando con te. Insomma, dalla bocca ti viene fuori il linguaggio con i suoni che tu ritieni più adatti alle cose che vuoi dire alla persona con la quale stai parlando. Ogni parola ha un suono particolare che corrisponde alle espressioni e ai sentimenti che tu vuoi tra* Giornalista e critico letterario.
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smettere: amore, odio, rabbia, dispetto, attesa, desiderio, bisogno e tanti altri suoni che imparerai a modulare nella vita di tutti i giorni. Mio figlio ne fu convinto, soprattutto gli piacque l’idea del suono, visto che lui stesso aveva accennato alle «parole suonate». L’idea del linguaggio che si mastica come un cibo dalle infinite varietà è una metafora che certamente avrebbe infastidito gli scienziati del linguaggio: a me sembrò una trovata assai elementare, e quindi facilmente comprensibile a un bambino, per designare la materialità della lingua. La lingua, quindi, non come un dono misteriosamente insufflato da un qualche Spirito Santo nella specie umana, poiché sappiamo non solo da Tullio De Mauro che «l’edificazione di una lingua è un ‘istinto naturale’, un dato bio-genetico». Se è vero che il cibo ha un suo linguaggio, parla di per sé, ed è una delle colonne portanti della convivialità universale anche in modo pericoloso (la mela di Adamo ed Eva, i veleni del Borgia, la carne di mucca pazza... l’elenco è sterminato), non è difficile trasferire alla lingua le stesse proprietà di comunicazione sociale: capovolgendo come un gioco carnevalesco la piramide che vede al vertice il linguaggio parlato e gestuale, non la categoria del cibo (lévi-straussianamente parlando) crudo e cotto. Desisto dall’andare oltre in questa azzardata analogia gastronomica, già pavento i sarcasmi degli addetti ai lavori. Anche se mi conforta, in questo azzardo, la celebre sentenza di Ferdinand de Saussure: «Il linguaggio è una cosa troppo importante perché se ne occupino solo i linguisti». Ulteriore conforto ricavai ancor più, qualche anno dopo la chiacchierata con mio figlio, ascoltando un testo di De Mauro da lui medesimo letto a un convegno del CIDI (14-15 marzo 1975), poi stampato nel suo libro Scuola e linguaggio (1977) e ripreso in svariate occasioni. Si chiama, quel testo davvero seminale, Dieci tesi per una educazione linguistica democratica, e l’aggettivo «democratica» era proprio quello giusto per turbare la purezza delle «anime belle» della linguistica inquietate dal suo presunto sapore classista. 48
Nella prima tesi, dunque, c’è una frase che da allora costituisce il mio alibi teorico – oltre alla sentenza saussuriana – per l’azzardata equazione tra cibo e linguaggio. De Mauro dixit: Dati i molti legami con la vita individuale e sociale, è ovvio (ma forse non inutile) affermare che lo sviluppo delle capacità linguistiche affonda le sue radici nello sviluppo di tutt’intera la personalità degli esseri umani, dall’età infantile all’età adulta, e cioè nelle possibilità di corretta socializzazione, nell’equilibrio dei rapporti affettivi, nell’accendersi e maturarsi di interessi intellettuali e di partecipazione civile. E, prima ancora che da tutto ciò, lo sviluppo delle capacità linguistiche dipende da un buon sviluppo organico e, per dirla più chiaramente ancora, da una buona alimentazione. Troppo spesso dimenticati, frutta, latte, zucchero, bistecche sono condizioni necessarie, anche se non sufficienti, di una buona maturazione delle capacità linguistiche.
Deprivazione linguistica e deprivazione alimentare hanno a volte fonti comuni e conseguenze parallele (reddito insufficiente, povertà, società economicamente depresse, carenze educative e affettive). Benché mi sia qui servito in modo biecamente obliquo di questa analogia demauriana, sento di avere in qualche modo raffigurato, con l’aneddoto dell’inizio, un aspetto non trascurabile della materialità della lingua: uno degli obiettivi teorici e pragmatici più accanitamente perseguiti dal De Mauro linguista e cittadino nella costruzione del suo edificio concettuale che lo ha ispirato nell’ideazione e nella realizzazione del Grande Dizionario Italiano dell’Uso edito in sei volumi dalla UTET (1999), già assurto all’onore della sigla: Gradit. Pagato il mio debito a Saussure, l’autore del Cours de linguistique générale pubblicato postumo nel 1916 dai suoi allievi Charles Bally e Albert Sechehaye dopo una attenta rielaborazione dei loro appunti, ricordo che la traduzione italiana (Laterza 1967, la prima edizione esaurita in pochi giorni) porta la firma di Tullio De Mauro: sua l’introduzione, suo il commento. Avventurosamente, con l’incoscienza del pro49
fano e la curiosità dell’esploratore dilettante, indossando la troppo sottile corazza della liberatoria tesi di Saussure che ho sopra ricordato, scrissi un articolo per la rivista «Tempi Moderni» (n. 32, inverno 1968) diretta da Fabrizio Onofri cercando di spiegare l’importanza dell’evento. L’articolo divenne successivamente un capitolo del mio libro Cultura e mutamento sociale (Edizioni di Comunità, Milano 1969). Era anche il mio esordio nel ruolo liberamente assunto di chiosatore delle attività demauriane che sono state un punto di riferimento del mio lavoro di giornalista culturale e di critico letterario. Non potevo quindi mancare all’appuntamento recensorio con la nuova edizione (1970) di uno studio importante come la Storia linguistica dell’Italia unita. La recensione, intitolata «Un racconto con noi per protagonisti», uscì su «L’Espresso» (24 maggio 1970) ancora «formato lenzuolo», le foto in bianco e nero, bellissimo. Eccola: A più di un secolo dall’unità, dopo trasformazioni immense avvenute nella lingua e nel Paese, ancora mancano la grande grammatica, la storia stilistica, l’analisi sociolinguistica dell’Italia contemporanea. La «politica linguistica» della scuola, visibilmente fallimentare, non sarà mai avviata ad un livello accettabile in assenza di una minuziosa descrizione delle diverse norme d’uso della lingua. Isolate iniziative tentano di stimolare l’opinione pubblica e la classe dirigente intorno al grave problema della diseducazione linguistica. Ma si tratta di episodi inadeguati alla vastità di un argomento che investe settori nevralgici della società. Oggi alcuni editori, orientati da qualche sagace persuasore, stampano testi di linguistica ad un ritmo impensabile negli anni passati. Sarebbe un autentico delitto lasciare che il filone si esaurisca in una momentanea presenza sul mercato se intanto non si fondano mentalità e strutture educative in grado di alimentare, nel quadro della cultura italiana, una più articolata coscienza linguistica. Già nel 1963 Tullio De Mauro, con la Storia linguistica dell’Italia unita (Laterza), dimostrava una vivace sensibilità all’oggetto specifico del suo lavoro e ai motivi che determinano sul «fattore lingua» una larga convergenza di interessi civili. Questa sensibilità ri50
torna più acuta, anzi violenta, nella nuova edizione del volume riveduta e ampliata. La mutualità dei rapporti tra storia non linguistica e storia linguistica risulta giustificata da elementi decisivi. Consapevole che alla dimensione storica tradizionale è necessario integrare una dimensione analitica, De Mauro documenta il mutamento linguistico in un secolo di vicende unitarie sulla base dei dati riguardanti la funzione dell’esercito e della burocrazia, l’incremento demografico delle città, il processo di urbanizzazione, i fenomeni migratori, l’incidenza dei mass media, della scuola, dell’industria, e cioè i centri e i filtri di unificazione linguistica. Non a caso Denis Mack Smith si è accorto che questa mappa linguistica del Paese «poteva dare lume agli storici»; un linguista come Giacomo Devoto «ha visto che l’utilizzazione di strumenti analitici e statistici e l’attenzione sociolinguistica» qualificano storicamente il libro. Sintomi di uno spontaneo intreccio interdisciplinare, gli interventi di Mack Smith e di Devoto confermano la legittimità di una formula storicista innervata da solide componenti analitiche: lo «storicismo freddo», che De Mauro persegue da tempo nello studio dei fatti linguistici. Ed è quasi un obbligo ricordare quanto ha scritto De Mauro nell’introduzione al Cours di Saussure, da lui tradotto nel 1967, annotando le teorie del linguista ginevrino: «L’uso che una società fa della propria lingua è la condizione per cui la lingua è ‘viable’, capace di vita» [...] «D’altra parte proprio il suo essere radicalmente affidata alla società espone la lingua a mutamenti, quando l’esigenza di distinzioni già esistenti venga meno o, al contrario, sorga l’esigenza di distinzioni nuove» [...] «i passaggi da uno stato di lingua ad un altro non rispondendo a nessuna universale razionalità. Nel descriverli, la linguistica si trova dinanzi a fenomeni contingenti, temporalmente e spazialmente circoscritti, causati dall’imprevedibile risultato dell’incontro, nel sistema, di eventi eterogenei, interni ed esterni rispetto all’equilibrio del sistema linguistico in una certa fase» [...] «Uno stato di lingua è ‘storico’ non già perché ‘si sviluppi’, ma perché le motivazioni che lo sorreggono sono di carattere contingente, temporalmente e socialmente determinato». È in questa chiave che la Storia di De Mauro trova una convalida teorica, il suo profilo epistemologico. L’indice più vistoso del mutamento della lingua italiana consiste nella regressione dei dialetti. Masse di parlanti condannate al ghetto dialettale hanno cominciato a far uso dell’italiano sotto la 51
spinta di imponenti fenomeni. Una lingua di dotti, incline ai toni aulici e gelosamente cristallizzata nelle opere letterarie, statica e immobile, è stata costretta a modificare di giorno in giorno abitudini secolari. L’emigrazione, evento clamoroso nel cangiante panorama di esplosioni sociali, ha favorito l’acquisizione dell’italiano sottraendo alle zone di più intensa dialettalità nuclei di analfabeti che mai avrebbero avvicinato la lingua nazionale. Così lo scambio tra quanti parlavano dialetto e quanti parlavano italiano, in quelle zone, diventava più vantaggioso per i secondi. Il soggiorno all’estero, da questo punto di vista, ha esercitato effetti positivi sugli emigranti: nei primi decenni della vita unitaria al flusso migratorio corrispondeva una crescita qualitativa nell’istruzione. Attratta dai centri urbani, la lingua italiana procede verso uno standard comune, funzionale, parlato, esteso a tutto il territorio, senza però trascurare gli apporti dialettali. In eguale misura De Mauro manifesta la sua insofferenza per esaltatori e nemici del dialetto, per populisti e puristi a senso unico del tutto privi di lucidità critica. Non è lecito infatti ignorare che l’italianizzazione dei dialetti, di quel che restava dei dialetti, ha suscitato nella lingua, dall’interno, una fortissima carica innovatrice spiccatamente popolare. Invece, fino all’unità politica, la lingua italiana si arricchiva «attingendo alla latinità o a fonti esotiche». Una lingua viva, dunque, è il termine ultimo del processo unitario che De Mauro racconta come un romanzo dove i protagonisti, finalmente, non sono soltanto gli intellettuali animatori della «questione della lingua» ma coloro che questa lingua adoperano quotidianamente convogliando in essa le modificazioni riflesse nelle varietà regionali, nelle innovazioni fonologiche, nella lingua dei legislatori, nella poesia. Da Montale a Pavese, da Saba e Sbarbaro a Ungaretti e Quasimodo, anticipati da un illustre precursore come Leopardi, poi da Pascoli e Gozzano, i poeti maggiori del Novecento «parlano più di tutti il linguaggio di tutti». Per la prima volta nella storia della sua tradizione linguistica la poesia italiana «sa e sente di potersi rivolgere a tutti con una lingua che tutti intendono, e può correre quindi la sua avventura ai limiti estremi delle possibilità di utilizzazione del comune patrimonio linguistico». In questa prospettiva l’avanguardia poetica degli anni Sessanta ha potuto disporre di «una totale apertura linguistica» per quei suoi esperimenti che hanno avvertito l’ardua ispirazione di andare oltre 52
gli schemi linguistici comuni faticosamente raggiunti. Arriva qui, e alla discussione del ruolo esplicato dai programmi televisivi nell’estensione dell’italiano, l’arco storico della ricerca di De Mauro. Nessun ragguaglio potrà evocarne la rigorosa, appassionata, nitida complessità meglio di una sentenza di Ludwig Wittgenstein: «Rappresentarsi una lingua significa rappresentarsi una forma di vita».
Riletta oggi questa recensione, non per merito del recensore ma per intrinseca coerenza del libro, è ancora una prova di quanto De Mauro, scrivendo la sua Storia, abbia avuto in mente la necessità della comunicazione sociale sia come oggetto dei suoi studi linguistici sia come trattamento formale del suo modo di costruire e porgere gli argomenti teorici, le ricerche sul campo, i profili degli autori. Insomma, un efficace melting pot comunicativo. Esercitarsi con successo in questa impresa e soddisfare una molteplicità di utenti esige notevoli capacità divulgative per non immiserire la complessità di un tema con l’alibi della chiarezza a tutti i costi. Nel caso di De Mauro accresce queste doti, in possesso di altri pochi suoi colleghi – maestri, coetanei, allievi – quel binomio inscindibile a cui accennavo prima, e cioè il linguista e il cittadino: binomio che irrobustisce l’attitudine appassionata alla comunicazione sociale, la voglia caparbia di insegnare a masticare linguaggi dentro la società, a suonarli negli ambienti più diversi secondo i bisogni del vivere comune, delle norme di una codificata ma sempre aperta democrazia linguistica. Forse una radice di questo atteggiamento, che non sfugge a questioni teoriche tra le più sofisticate, si può trovare in un pensiero marx-engelsiano elaborato dai due filosofi nell’Ideologia tedesca: [...] la coscienza che noi abbiamo delle cose, del mondo, questa coscienza è il linguaggio. In tanto noi capendo, ragionando e operando ragionatamente riusciamo a stabilire dei rapporti con gli altri, con le cose, in tanto noi riusciamo a trasformare razionalmente il mondo, in quanto abbiamo delle parole che ci guidano nello stabilire questi rapporti. 53
Un’altra radice del filo comunicativo che tiene insieme le idee linguistiche di De Mauro richiama Antonio Gramsci, di cui cito un passo esemplare dai Quaderni del carcere: Se è vero che ogni linguaggio contiene gli elementi di una concezione del mondo e di una cultura, sarà anche vero che dal linguaggio di ognuno si può giudicare la maggiore o minore complessità della sua concezione del mondo.
D’altronde il problema della comunicazione sociale che capillarmente orienta l’opera e la figura pubblica del linguista e del cittadino De Mauro – non per nulla ex Ministro della Pubblica Istruzione succeduto a Luigi Berlinguer – investe a pieno titolo l’educazione linguistica dell’intero corpo sociale, dal privato al pubblico, dal singolo al collettivo. Se dovessi restringere a tre direttrici di carattere generale questa esigenza morale – il linguaggio è lo specchio etico della società – guarderei alla triade Scuola-Famiglia-Mass Media come obiettivo irrinunciabile del multiforme progetto educativo delineato da De Mauro: oggi sempre più necessario in una società che si avvia ad assumere dimensioni multiculturali e ad ampliare le sue modalità comunicative. Corrisponde quindi all’arricchimento della comunicazione sociale del Paese Italia, che mai vorrei vedere ingessata negli stereotipi ideologici e lessicali di marca berlusconiana, la costruzione (vogliamo definirla riformista?) di un idioma «capace di unificare senza omologare» (formula che il pessimista Pier Paolo Pasolini e il rivoluzionario don Lorenzo Milani avrebbero polemicamente apprezzato, e che mai accetterebbe il rovinologo Guido Ceronetti...). De Mauro auspica un sistema linguistico che non soffochi le parlate minoritarie e i dialetti, e si articoli sempre meglio in forme già disponibili come quelle strettamente municipali e regionali, o come l’italiano popolare unitario («nato nelle zone marginali della vita sociale»), l’italiano regionale colloquiale, l’italiano standard. 54
Questo sistema espressivo aveva preso forma concreta in una ricca costellazione di scrittori e scritture suddivisa in sette percorsi cronologici in cui le scelte obbedivano doverosamente al canone tradizionale ma altre erano decisamente inconsuete e perciò innovative. Il panorama è ampio, da Francesco d’Assisi a Umberto Eco, da Dante Alighieri a don Lorenzo Milani, da Galileo Galilei a Indro Montanelli, da Vittorio Alfieri a Gaetano Salvemini, da Niccolò Machiavelli a Benito Mussolini, da Tommaso Campanella alla triade Nenni-Togliatti-De Gasperi, da Ludovico Ariosto a Edoardo Sanguineti, da Torquato Tasso a Eugenio Montale, da Giambattista Vico a Primo Levi, da Giacomo Leopardi a Italo Calvino, da Giosue Carducci ai condannati a morte della Resistenza... Sono più di 350 brani – inquadrati e commentati dal punto di vista storico-culturale, linguistico, stilistico – raccolti nel volume antologico Parlare italiano (1972), altra tappa del mio goloso appostamento recensorio alle opere del De Mauro. E di nuovo su «L’Espresso» sempre «formato lenzuolo» (13 agosto 1972) scrissi l’articolo intitolato Tanti modi di parlare italiano. Le furiose battaglie contro l’imbecillità di tanti libri per la scuola sembrano dare qualche frutto. Nell’accidentato panorama editoriale scolastico, saturo di ridicoli prodotti da sottobosco, alcuni esperimenti indicano la direzione in cui bisogna lavorare. È il caso di Parlare italiano, antologia di letture per il biennio della scuola media superiore: di secolo in secolo Tullio De Mauro vi ha registrato le manifestazioni positive e negative del nostro accesso alla lingua. Parlare italiano non è una sentenza autoritaria o un travestimento ideologico. Vuole semplicemente illustrare antiche e moderne condizioni espressive di un Paese dove nel 1950 appena diciotto abitanti su cento «usavano abitualmente la lingua comune» mentre soltanto oggi, a più di cento anni dall’unificazione, «più della metà della popolazione adopera come lingua d’uso abituale l’italiano». In Italia nel 1861 si contavano 75 analfabeti ogni 100 abitanti. Al termine della seconda guerra mondiale, quando fu pos55
sibile computare statisticamente gli analfabeti e i semianalfabeti (il fascismo aveva vietato questa indagine perché lesiva dell’onore nazionale), l’indice di analfabetismo o di semianalfabetismo riguardava ancora un quarto della popolazione italiana. Il fascismo, continua De Mauro, osteggiò anche i dialetti e i primi sintomi di italiano popolare unitario, l’italiano nato dalle lotte politiche e sindacali, nelle trincee della Grande Guerra, l’italiano delle canzoni di guerra o di protesta contro la guerra, l’italiano delle lettere e delle cartoline «che servono ai tribunali militari per incriminare i soldati contadini non entusiasti della guerra». Conflitti e ritardi costellano la lunga marcia verso l’unità linguistica e l’analfabetismo: documentando questo fenomeno di massa, tormentosa ricerca d’identità individuale e collettiva, Parlare italiano mette l’accento su un altro aspetto del progetto enunciato nel titolo, e cioè la necessità di una efficace educazione linguistica. Sotto questa etichetta pedagogica si annida un groviglio di problemi teorici e pratici: in breve si può dire che l’educazione linguistica non si ottiene soltanto con l’insegnamento dell’italiano o portando l’allievo a raggiungere l’«espressione aderente e sentita» nell’uso della lingua (magari mortificando il suo dialetto nel ghetto delle classi differenziali...). Piuttosto l’allievo e il docente ai quali De Mauro ha destinato l’antologia debbono acquistare la consapevolezza delle diverse possibilità d’uso della lingua, dei diversi stili». Insieme, allievo e docente dovranno rendersi conto che nella società d’oggi sempre più articolata «in classi distinte dal punto di vista della divisione del lavoro, dei redditi, della cultura, la lingua comune tende ad essere usata secondo una pluralità di norme d’uso». Insomma, l’educazione linguistica è più che mai un dovere civico, uno strumento di liberazione. Prendere coscienza di tutto l’arco dei linguaggi scritti e parlati significa inoltre distinguere le occasioni in cui si parla e si scrive nel modo ad esse adeguato, e mette in grado di smascherare le formule verbali che inducono alla persuasione forzata (come la propaganda, la pubblicità). La coscienza critica degli usi linguistici saprà anche rifiutare il vacuo terrorismo dei puristi, o il pedestre buonsenso di chi condanna indiscriminatamente oscurità e complessità di stile (talvolta giustificate da ragioni espressive o da asperità concettuali). Non è facile dunque, in assoluto, realizzare un programma che investa alle radici la formazione dell’individuo. Ma in Italia le diffi56
coltà aumentano: alla quantità degli stili e dei modi d’uso della lingua si aggiungono le componenti dialettali e le varianti regionali della lingua. Ora non si tratta di rallegrarsi del progressivo declino del dialetto in favore della lingua, benché sia augurabile l’affermazione totale di una lingua comune. L’obiettivo da realizzare proprio nella scuola è invece l’equilibrio didattico fra lingua e dialetto perché tutti i cittadini, senza rinunciare al dialetto, abbiano in dote la lingua come strumento espressivo comune. La difesa all’ingrosso del dialetto è un espediente demagogico già debellato nel 1868 da Alessandro Manzoni: «Fino a che una lingua d’egual natura non sia riconosciuta anche in Italia, la parola ‘dialetto’ non ci potrà avere un’applicazione logica, perché le manca il relativo». A questa linea manzoniana risponde l’educazione linguistica progettata in Parlare italiano attraverso l’abbozzo meritorio e inedito di una storia degli stili (tuttora assente negli studi linguistici italiani). La scelta antologica del migliaio di pagine va dall’epoca dei primi testi in volgare (tra l’ottavo e il nono secolo) agli inizi del presente decennio, con una appendice di traduzioni da scrittori stranieri. In lingua e in dialetto, illustri o anonimi o poco noti, gli esempi di poesia, di prosa letteraria, scientifica, tecnica, politica, giuridica, giornalistica, epistolare, diaristica, orale, rappresentano l’avventura linguistica della nostra società non tralasciando (altra novità) le voci escluse, i senza-parola che finalmente imparano a parlare. In una successiva edizione De Mauro potrà correggere piccole imperfezioni, centrare meglio alcuni commenti introduttivi, infittire le osservazioni sullo stile e i nessi tra lo stile e la mentalità, accogliendo autori troppo essenziali al suo stesso discorso per essere ignorati (o tenuti fuori dalla tirannia dello spazio). E così pure sarà bene ampliare la storia illustrata della città italiana dal Medioevo ad oggi, a cura di Bruno Zevi, che accompagna e integra i materiali dell’antologia. Questa sintesi fotografica corredata da nitide didascalie è un arricchimento visuale importante, tanto risulta autentico e funzionale. Con ardita e solida prospettiva culturale, Zevi accosta il linguaggio dell’architettura e dell’urbanistica agli stili della lingua italiana, che a sua volta trova in monumenti, piazze, chiese, edifici, dunque nell’intero assetto della città, riscontri e analogie, differenze e rotture: uno scambio utilissimo ad attrarre lo sguardo più distratto sul disegno affascinante dell’evoluzione linguistica e urbanistica nazionale. 57
Benché siano trascorsi trent’anni, Parlare italiano è più aderente alla realtà attuale di quanto non lo siano – per esempio – le apocalittiche profezie sulla distruttiva uniformità della lingua italiana determinata dai mass media, sul peso schiacciante dell’inglese, sulla ridotta circolazione dell’italiano nei Paesi economicamente avanzati. Ipotesi largamente corretta da un’indagine recente del Ministero degli Esteri commissionata al Dipartimento di Studi linguistici della “Sapienza”: il gruppo di lavoro era diretto da Tullio De Mauro, con la collaborazione dell’Università per Stranieri di Siena. Obiettivo della ricerca, la diffusione dell’italiano all’estero per motivi di studio e di lavoro. L’italiano insomma è ancora un importante veicolo di comunicazione nel mondo: persino in Giappone dove il tiramisù dal 1990 è il dolce più popolare (Marisa Di Russo in Autori Vari, Soavi sapori della cultura italiana, Franco Cesati Editore, Firenze 2001) e il linguaggio della nostra gastronomia ha conquistato posti di eccellenza (insegne dei ristoranti, nomi dei piatti regionali più celebri) tanto da insidiare in questo campo il dominio dell’inglese. È augurabile che ne prendano atto con rigorosa diligenza i nostri politici impegnati nelle organizzazioni comunitarie europee. Nella Babele linguistica di Bruxelles dove l’Europa si accinge a diventare una entità di 25 Paesi, e di altrettante lingue, è augurabile che l’idioma italiano non rischi la fine del vaso di coccio vittima di imperialismi linguistici a senso unico che tengono in conto soltanto la potenza economica e la diffusione. Buoni motivi, ma per quanto riguarda l’italiano c’è dell’altro. Per esempio, la imponente tradizione culturale. Per restare sul territorio nazionale e dei suoi circuiti comunicativi, è ormai una banalità ricordare cifre che da circa mezzo secolo De Mauro ripete quasi ossessivamente per indicare il percorso della lingua italiana nel corpo del Paese. I numeri, questo inestirpabile tabù della nostra cultura umanistica, dicono che il cammino dell’italiano prosegue: benché 58
– insiste De Mauro, «garibaldino dell’alfabeto» – ancora oggi soltanto la metà della popolazione abbia conseguito la licenza media dell’obbligo o titoli più elevati. L’altra metà, a dir poco, manca degli strumenti che le consentono di controllare il proprio modo di esprimersi in italiano. Vari decenni fa, Giacomo Devoto parlava di «uso responsabile della lingua». Si tratta ancora di un privilegio ristretto a una minoranza (Intervista di Nello Ajello, «la Repubblica», 17 gennaio 1998).
Gli effetti dell’italianizzazione, anche se imperfetti e squilibrati, si avvertono grazie all’«aumento della scolarità nelle classi giovani della popolazione» e all’ascolto televisivo che negli anni Cinquanta e Sessanta «è stato un fattore di primo piano», dice De Mauro commentando l’appena pubblicata indagine dell’Istat realizzata nel dicembre 2000 su un campione di circa 20 mila famiglie (Giulio Benedetti, «Corriere della Sera», 13 marzo 2002). Eppure, se l’italiano avanza e oggi è parlato da quel 92,3 per cento della popolazione che talvolta lo alterna al dialetto, il dialetto resiste in percentuali ridotte ma non trascurabili. Una sorta di bilinguismo che De Mauro ha spesso indicato come linea di tendenza effettiva rispetto alle più lamentose previsioni di totale annullamento delle parlate locali. Con il risultato che il dialetto non è più quella gabbia obbligata che imprigionava in un ghetto espressivo umiliante chi non possedeva l’idioma nazionale, ma viene oggi usato in particolari momenti da più della metà degli italiani ai fini di «una comunicazione rapida, diretta, efficace, amichevole, affettuosa o colorita». Anche in questa sfera della comunicazione sociale De Mauro ha avuto lo sguardo lungo attaccando polemicamente la «fallacia monolinguistica» delle storie letterarie che trascuravano o ignoravano i poeti dialettali, magari registrandoli con distratta noncuranza. Né dimentico la sintonia con le tesi di Gianfranco Contini, maestro di studi filologici e di cri59
tica, secondo il quale «l’italiana è sostanzialmente l’unica grande letteratura nazionale la cui produzione dialettale faccia visceralmente, inscidibilmente corpo col restante patrimonio». Del resto ho auspicato che a raccontare il Novecento delle Patrie Lettere fosse una figura di storico dotata di virtuose caratteristiche come la genialità analitica testuale di Gianfranco Contini, la penetrazione psicologica e affabulatoria di Giacomo Debenedetti, l’acuto sguardo sociolinguistico di Tullio De Mauro. Lo so, è un’utopia, una chimera la cui specie non è contemplata dal patrimonio genetico vigente (Novecento, sei finito!, «la Repubblica», 28 gennaio 1988). Infine, se si analizza la produzione giornalistica di De Mauro, quella in cui meglio si avverte che il linguaggio è una cosa molto reale che chiunque può masticare e suonare a suo piacimento e necessità, si vedrà quanto ampio sia lo spazio che De Mauro dedica alla comunicazione sociale nello studio dei fatti linguistici. Nel mio lavoro multimediale questo aspetto è stato un punto di riferimento costante. Ho avuto il privilegio – ricordo solo alcune occasioni – di ottenere dal professor De Mauro impegnative collaborazioni. Quando ero responsabile del Servizio Lettere e Arti presso la Direzione dei programmi culturali televisivi della Rai, chiesi di scrivere per la televisione, a lui e a Umberto Eco, una storia della lingua italiana dalle origini agli anni Sessanta in cinque puntate, con l’apporto di inserti sceneggiati e di materiale documentario. Gli sventurati risposero, e con loro collaborò ai testi Enzo Siciliano. La regia fu di Piero Nelli, molto amato dai cinefili per il suo film La pattuglia sperduta. Intitolato Parlare Leggere Scrivere, quel programma andò in onda dal settembre 1973, e riscosse un certo credito. Ma negli anni successivi ogni mia proposta di replicarlo, aggiornato, cadde nel vuoto. Ottimo esempio di interesse delle gerarchie vialemazzinesche per la comunicazione sociale sub specie di educazione linguistica. E pensare che un settore dell’azienda si fregia appunto del nome di Rai Educational... 60
In seguito – ero a «L’Espresso» come responsabile del Servizio Cultura – De Mauro si occupò di curare una pagina dedicata alla scuola, ogni settimana, e fu un altro periodo (dal n. 11, 17 marzo 1985 al n. 22, 2 giugno 1985) di produttiva collaborazione. E ancora su «L’Espresso» una rubrica – durò tre anni (dal n. 40, 6 ottobre 1985 al n. 40, 9 ottobre 1988) – a sua firma, senza bellurie cruschevoli o escogitazioni enigmistiche. Si sentiva invece quanto la parola trattata da De Mauro fosse per i lettori un invito a masticarla bene, a suonarla con i toni giusti, a servirsene con usi appropriati nella realtà quotidiana, incarnando anche inconsapevolmente, quei lettori profani, il movimento mentale così descritto da Ludwig Wittgenstein: «Rappresentarsi una lingua significa rappresentarsi una forma di vita». Chissà se a quei lettori, come a me è accaduto, sarà toccato in sorte di leggere una frase dello psicologo russo Lev S. Vygotskij, il quale ha paragonato il significato di una parola a una goccia d’acqua: «un minuscolo specchio dell’immenso mondo, un riflesso condensato della nostra coscienza collettiva e storica». Riprendo questa immagine bellissima da una recensione del libro di De Mauro, L’Italia delle Italie (1987), felicemente intitolata La goccia parlante, che scrissi per «la Repubblica» (23 maggio 1987). Ancora l’acqua, stavolta nella forma sterminata del mare, mi suggerì il titolo L’oceano linguaggio – distesa di parole in cui De Mauro si muove da esperto navigatore – del breve articolo («L’Espresso» n. 32, 13 agosto 1998) che dedicai a Linguistica elementare (1998). Per completare questa personale minibibliografia di quadretti recensorî, cito la conclusione di uno di essi, per ora l’ultimo, che riguarda l’aureo libretto di Carlo Bernardini e Tullio De Mauro, Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture (2003): «Domina, nei dialoganti, la voglia di smascherare le parole quando diventano ‘ruffiane dello spirito’. Una lezione per tutti» (Fiabe contro calcoli, «L’Espresso» n. 8, 20 febbraio 2003). 61
Forse ho ecceduto nell’incrociare queste schegge autobiografiche con la figura di comunicatore sociale insita nella personalità di De Mauro, il tema che mi è stato affidato e che spero di essere riuscito almeno in parte a illustrare. Difficile però esimersi da siffatte testimonianze quando è la vita nella sua pienezza, «la calda vita», e non solo la cattedra, il magistero, le opere, a offrire queste opportunità a chi coltiva interessi culturali analoghi sia pure a un livello di piacere dilettantesco che spinge a scriverne. Per quel che mi riguarda, con tutte le limitazioni del profano. E allora la goccia parlante, l’oceano linguaggio, la battaglia contro le parole ruffiane, diventano anche una metafora esistenziale a cui non si può (non si vuole) sfuggire. Questo circolo trinitario è una possibile veritiera rappresentazione del lavoro di De Mauro, la sintesi autobiografica del suo modo di studiare il linguaggio nel complesso labirinto della specie umana, la sua straordinaria capacità di comunicazione sociale nel villaggio globale macluhaniano sempre in bilico sull’orlo dell’entropia informativa. Un villaggio alle prese con una nuova insidia: l’omologazione che può provocare nelle coscienze dei consumatori di parole la congerie di dati e di linguaggi prelevata a ritmi da infarto nei canali di quel Far West enciclopedico che risulta essere Internet. Chissà se riusciremo a salvarci aggiornando la nostra educazione linguistica con quel proverbio di Salomone – mirabile esempio di arma semiologica – che De Mauro ben conosce: «Morte e vita sono in potere della lingua e chi l’accarezza ne mangerà i frutti».
Sabino Cassese*
Gendarmi, bollette e piccoli passi
Ogni volta che cancelliamo un tecnicismo inutile, una verbosità o un compiacimento professorale, ogni volta che riusciamo a rendere più largamente comprensibile un testo, sappiamo di fare un piccolo passo... sulla via della eguaglianza di tutte e di tutti disegnata cinquant’anni fa dalla Costituzione della Repubblica.
Vorrei mettere sotto il segno di questa frase scritta da Tullio De Mauro nel 1999 nell’introdurre il libro dal titolo Dante, il gendarme e la bolletta le poche considerazioni che sto per fare sul tema di questa sessione, la comunicazione sociale, e più precisamente sul linguaggio del legislatore e dell’amministrazione; in una parola, sugli usi linguistici del potere o, se preferite, su lingua e democrazia. Sia chiaro che vi parlo di una parte importante, ma piccolissima, dell’opera di De Mauro, che non si è interessato solo di linguistica, ma anche di teoria della linguistica, di storia della lingua, di storia del pensiero linguistico, di semantica, di linguaggi settoriali, come quelli degli economisti, dei giuristi, dei giornalisti, di dialetti e, poi, di scuola e di storia della scuola, e di educazione linguistica, di editoria, ecc. Insomma, si è interessato della lingua e anche di tutti i suoi veicoli e i suoi contesti. Goethe giovane racconta, da qualche parte, con compiacimento, di aver sentito, nei villaggi, recitare sue poesie da * Docente di Diritto amministrativo all’Università di Roma “La Sapienza”.
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fanciulle che ritenevano d’averle apprese dalle loro nonne e bisnonne. Credo che De Mauro possa, con altrettanto compiacimento, voltandosi indietro, osservare che quel nesso così bene riassunto nella frase che ho citato, tra lingua ed eguaglianza, è divenuto ormai patrimonio comune. Voglio aggiungere che quel nesso De Mauro stesso è andato scoprendolo in un lungo percorso che inizia nel 1963 con la Storia linguistica dell’Italia unita. Qui egli si interessa della lingua della legislazione italiana per rilevare, da un lato, corruzione, ineleganza, rozzezza, imprecisione terminologica del legislatore; dall’altra la difficoltà dei rapporti tra lingua giuridica e lingua comune. Tornerà, più avanti, nel 1970 e nel 1973, in scritti numerosi, di divulgazione, poi raccolti in Le parole e i fatti e in L’Italia delle Italie, sugli usi linguistici della magistratura, che, ad esempio, adopera, nella sentenza Braibanti, l’espressione sacri bronzi per campane, e sull’«oscurità [...] di casa nei nostri codici e ancora più nella miriade di leggi e decreti». Le cose non sono cambiate – mi permetto un breve salto in avanti –, perché in una sentenza emessa il 14 gennaio scorso dal Tribunale amministrativo del Lazio (Sezione II, n. 250/2002) si legge che il «precipitato logico-assertivo» di talune norme dimostra l’«immanenza ordinamentale» di un principio, per cui, «intervenuta l’appercezione dei dati» si rivelano «tipologie inficianti» e «contenuti vulneranti». Il giudice conclude annullando quella che egli chiama l’«adozione della conclusiva effusione provvedimentale», lasciando il lettore nel dubbio di trovarsi in un ufficio pubblico o in una camera da letto. Torno al percorso fatto da De Mauro. Dicevo che in questa prima fase egli si sofferma sulla chiarezza del linguaggio del potere e sui rapporti tra questo e la lingua comune. È solo nel 1978, in una lezione su Linguaggio e vita sociale, tenuta alle Frattocchie, che osserva: «quando parliamo di cose che riguardano la vita di tutti [...], cose che riguardano la scelta di tutta la società, dobbiamo essere capaci di trovare e far trova64
re le parole il più possibile semplici». Questo è un «diritto civile». Più tardi, nel 1982, nel 1983 e nel 1985, nell’introdurre i tre convegni sul linguaggio della divulgazione, segnalerà, accanto alla «tensione tra i bisogni comuni di comprensione, di informazione e di certezza [...] e i bisogni di determinatezza terminologica, di distacco dal parlare comune propri delle correlative tecniche operative» (così nel 1983), il rapporto del linguaggio con i «modelli possibili di convivenza politica e civile» e l’importanza della lingua per l’accesso non solo al sapere, ma anche al potere (così nel 1982). Ora, vorrei richiamare la vostra attenzione sull’importanza di questo cambiamento. La lingua, in quest’ultima frase, non è intesa come fattore del rigore scientifico o operativo di un universo chiuso di sapienti o di potenti. Non è considerata come elemento di chiarezza dei comandi di un’autorità superiore, perché questi si impongano con maggiore facilità ai sudditi. Ma è vista in una terza e nuova ottica, in funzione della eguaglianza dei cittadini e della loro partecipazione al sistema politico (e, quindi, di democrazia). Il cittadino non è solo ricevente, ma è anche soggetto che può partecipare, grazie all’informazione, all’esercizio del potere. La lingua non è considerata come un fatto interno alla comunicazione, ma come mezzo della democrazia. Tre punti divengono importanti: il nesso tra potere e lingua; la forza di esclusione e le diseguaglianze che discendono da certi usi linguistici; la comprensibilità come uno dei mezzi per assicurare l’eguaglianza e garantire la partecipazione sociale e politica. Non è un caso che questa svolta nel modo di considerare la lingua e la sua funzione sociale avvenga negli anni Settanta, con il «disgelo» costituzionale e l’inizio della lunga crisi dell’assetto politico uscito dalla caduta del fascismo. Dietro questa svolta c’è di certo un libro molto amato e molto citato da De Mauro, la Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana, che è del 1967, dove si può leggere, con riferimento alle «inaugurate immagini dell’Orco» dei Sepolcri 65
non dirò mai ai miei scolari che inaugurare vuol dire augurare male. C’è scritto nella nota. Ma è una bugia. L’ha inventata il Foscolo perché non voleva bene ai poveri. Non ha voluto far fatica per noi. Lei [la professoressa] mi faceva tenere un quaderno sulle note per costringermi a imparare a mente quella lingua. E io dovevo imparare un’altra lingua per parlare a chi?
De Mauro è così riuscito a cogliere l’anima degli avvenimenti dell’epoca e a portarla nel mondo chiuso di una disciplina. Seguiranno i lavori applicativi di quest’idea, su cui non posso intrattenermi. Questi si svolgeranno su due piste. Una è quella generale, che va dal vocabolario di base, ai libri di base, al periodico «Due parole». L’altra è quella diretta più specificamente al linguaggio legislativo e burocratico, che va dalla partecipazione al lavoro per il Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche alla riscrittura della bolletta dell’Enel. Ho indicato il percorso fatto da De Mauro e il contributo innovativo che egli ha dato alla lingua e alla democrazia. Voglio terminare con una parola sulla continuità della sua opera, sul metodo e sullo stile. Sulla continuità, perché, a leggere i suoi scritti quarant’anni dopo, colpisce la costanza con la quale, per tanti anni, De Mauro ha battuto il chiodo della semplicità del linguaggio, arricchendo e sviluppando ogni volta le sue argomentazioni. Deve aver ascoltato le parole di Plutarco, per cui non bisogna permettere che la fama – come una corona d’alloro vinta ai giochi atletici – inaridisca, ma bisogna sempre aggiungere qualche cosa di nuovo e di fresco per risvegliare la gloria delle imprese passate e renderla così immune da vecchiezza e incrollabile. Quanto al metodo e allo stile, De Mauro si differenzia dalla maggior parte degli intellettuali della nostra epoca. È impegnato, ma non passionale, né indignato. Critico, ma non disperato. C’è, anzi, in lui un ottimismo di fondo, che lo porta, ad esempio, a segnalare sempre il progresso del numero de66
gli italofoni e i benefici recati dalla televisione. Il suo stile non è mai gonfio o rancoroso. Preferisce l’ironia e la levità. Sembra dire, con l’abate Galiani «voyons et ne prévoyons pas». È per questo che vorrei concludere citando la quarta delle undici regole del parlare difficile (da Come è facile parlare difficile del 1979): «non direte: ‘che fai?’, ma ‘da parte di chi viene formulando questa frase viene rivolta una interrogazione a chi viene ascoltando circa il verificarsi da parte sua di qualche azione’. Siete già – aggiunge De Mauro – in condizione di offrire i vostri servizi per stilare comunicati della direzione democristiana o per trovar posto nei ministeri come estensore degli ‘avvisi al pubblico’». Ecco, dobbiamo essere grati a De Mauro anche per questa sua capacità di sorridere e di farci sorridere.
Emanuele Djalma Vitali*
La patologia del linguaggio medico: goitrigeno o gozzigeno?
Di fronte a tanti numi della cultura, avrei dovuto sottrarmi, per umiltà, all’immeritato onore di partecipare a questo seminario. Invece, da abusivo, da ruspante, da naïf, eccomi qua. Ringrazio gli organizzatori e chiedo a Voi tutti una oblazione di tolleranza. Surrogati della parola. A proposito di tolleranza, consentitemi di evocare un episodio che mi ha permesso di prendere atto di due cose: la prima è che debbo essere grato a Tullio De Mauro di essere riuscito a smussare certe mie intolleranze e idiosincrasie nei confronti del linguaggio medico (che peraltro rimane pur sempre, ed è risaputo, un malato grave), senza mai deplorare, sconfessare, pretendere di emendare e indottrinare; la seconda è l’ulteriore conferma della possibilità di elargire alcuni insegnamenti senza ricorrere ad architetture verbali, a discorsi più o meno paludati, con il solo linguaggio gestuale. La forza della gestualità ben mirata risiede nella capacità di essere un’arma agile, efficace e sintetica, anche se, forse, poco accademica. È, se non altro, una valida e comoda arma difensiva per il povero accademico (in questo caso lo stesso De Mauro) quando non riesce a sottrarsi a temi un po’ noiosi che lo investono inopportunamente, proprio in un giorno festivo e in piena fase postprandiale (la digestione * Libero docente di Scienze dell’alimentazione e di Storia della medicina all’Università di Siena.
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è una cosa seria: non coinvolge solo l’apparato digerente, ma anche la sfera psichica, ottundendola senza tuttavia anestetizzarla). Ricordo che un giorno non recente stavo blaterando, con toni atrabiliari, contro inammissibili esempi di «traduzione servile» di termini stranieri. Ero animato non da un deteriore sciovinismo terminologico, ma solo dalla constatazione di una deplorevole e diffusa carenza, da parte di alcuni specialisti, di rigore espositivo e di intelligibilità del messaggio (requisito doppiamente doveroso quando la comunicazione avviene a livello divulgativo). In quell’occasione, come esempio di traduzione servile di termini medici, menzionai l’aggettivo goitrigeno (dal francese goitre, «gozzo») in sostituzione dell’abituale, intelligibile e trasparente gozzigeno. Blanda reazione mimica dell’ascoltatore, consenziente ma quasi annoiato. Non basta, mi dissi, occorre un esempio più «forte», più stimolante. Sul «Corriere della Sera» del 3 dicembre 1977, un noto ematologo, al posto di piastrina (il più piccolo elemento corpuscolato del sangue) o del più ampolloso trombocito aveva più volte disinvoltamente usato l’abominevole, repellente plateleto (dall’inglese platelet, «piastrina»), tra l’altro rendendo incomprensibile il discorso. Un esempio di magniloquenza ingiustificata e, per di più, una totale assenza di empatia nei confronti del destinatario del messaggio, oltretutto profano. A questo secondo esempio in reazione, sebben muta, anzi mutacica, si risolse in una mimica più viva, ma improntata a sommo disgusto. Null’altro. E non perché l’interlocutore fosse obnubilato per il grave impegno digestivo, ma solo perché avevo rimescolato melma in modo improduttivo, senza poter quindi ricavare commenti, riflessioni, guida critica. Eppure, un po’ sadicamente, tentai l’ultima carta, la via del dubbio. Nell’ambito delle scienze nutrizionali, molti usano una parola che mi disturba, mi fa orripilare, non so se a torto o a ragione: palatabile (e palatabilità) sul modello anglofono (palatable e palatability), a mio avviso forma abusiva 70
e servile di appetibile, gustoso, gustativamente idoneo e simili. Insomma, chiesi, l’aggettivo palatabile possiede una peculiare fisionomia lessicale, una dignità autonoma, una sua pur sfumata differenza di significato rispetto ad appetibile? A me sembrava un inutile doppione, un sinonimo abusivo, privo di diritto di asilo non solo nella lingua di base, ma anche nei lessici specialistici. Se è così, pensavo, dovrebbe essere ostracizzato. A questo punto l’accademico si scosse. Si assestò nella poltrona, assumendo un atteggiamento meno scomposto. Sbarrò gli occhi (dovrei dire «dilatò la rima palpebrale»), fissò lo sguardo nel vuoto, sollevò e addusse le spalle, inarcò i sopraccigli, corrugò la fronte, serrò le labbra, estese e divaricò le dita, volse le palme in avanti, mosse lentamente la testa da un lato e dall’altro, emise un suono sommesso: «beh!?». Un troncamento, un semplice fonema, una mezza parola. Il tutto si svolse, a dir molto, in otto secondi. Apprezzai la muta eloquenza di quella conferenza gestuale a tutto corpo, con i suoi messaggi polivalenti e esortativi: occorre riflettere ulteriormente, delineare meglio i campi dei significati, rimeditare sulla tesi, elevare il tasso di tolleranza, poi ridiscutere il tema. Compresi, mi sentii appagato, interiormente più ricco, dirottai su un argomento soft che non richiedeva attenzione, mentre l’accademico nuovamente si scomponeva (stavo per dire «si sbracava») e riprendeva a gustare la vita, nel momento placido, crepuscolare della digestione. Metafore e misure: diamoci una mano. Mi sono già concesso qualche espressione metaforica. L’uso della metafora, nel linguaggio medico, è stato deplorato (direi «bollato»: altra metafora) da Robert Escarpit e da Alessandro Beretta Anguissola nel 2° Convegno nazionale su Il linguaggio della divulgazione (Accademia dei Lincei, aprile 1983). Eppure, penso che la metafora, sebbene estranea al rigore, non gli sia del tutto avversa. E che sia, anzi, un efficace antidoto alla pedanteria. Del resto, quando Escarpit e Beretta Anguissola deprecavano l’uso di espressioni metaforiche nel linguaggio biomedico, 71
alcune di queste si erano già felicemente affermate e senza danno: per esempio, nodulo sentinella, attacco febbrile, dramma pancreatico, insulto traumatico, monitoraggio epidemiologico, mediatore chimico ecc. In medicina, mi sembra, la metafora non è biasimevole per sé, ma per l’uso improprio o ingiustificato che se ne fa. Donde una domanda-proposta, forse ingenua: perché voi linguisti non date vita a un gruppo interdisciplinare di studiosi che miri, tra l’altro, ad approfondire il tema del ricorso all’uso della metafora nei vari linguaggi settoriali? Una simile iniziativa farebbe esultare di gioia il redivivo Sir Charles Percy Snow, promotore del dibattito sulle «due culture» (Two cultures and the scientific revolution, 1959; The two cultures and a second look, 1964). Tra l’altro, il processo di standardizzazione delle unità di misura, vivacemente ripreso poco prima del 1969, non va considerato come riserva di caccia per specialisti di scienze esatte. Dovrebbe, se non altro, concedere un minimo di ascolto anche a chi opera nell’ambito delle discipline applicative e tecniche, i cui orizzonti di studio coinvolgono maggiormente la comunicazione sociale. Non si può ignorare che la «rivoluzione metrologica», energicamente affrontata soprattutto da fisici e matematici, si è configurata anche come un non trascurabile disturbo della comunicazione tra specialisti di differente matrice culturale, nonché fra tecnici e pubblico. Per esempio, fra medico e paziente. Il quale ha diritto di capire e con il quale il medico ha il dovere di farsi capire. Vi prego, non lasciatevi sopraffare dalla tentazione di replicare che molti medici non hanno la pazienza e lo scrupolo di approfondire il colloquio con il malato: è vero, ma sarebbe un discorso improduttivo. Ciò che intendo far presente è che la situazione potrebbe aggravarsi se le idee del medico stesso vengono ulteriormente scompaginate da intralci metrologici. Dal 1969 a oggi, non soltanto i medici di base ma anche quelli impegnati nella ricerca non sono riusciti ad assimilare compiutamente i dettami del Système International d’Unités 72
(simbolo SI) che, tra l’altro, implica l’abbandono delle unità tecniche, quali la caloria e il millimetro di mercurio, e l’uso, in loro vece, rispettivamente, di joule e pascal (e loro multipli chilojoule e chilopascal). Né, i medici stessi, si sono rassegnati a esprimere i valori di glicemia, azotemia e quant’altro non più in termini di milligrammi per cento centimetri cubi, ma in indigesti milliequivalenti per litro. Sorvolo, poi, su altri intralci, di natura operativa, tra cui quelli connessi alla necessità di allestire, a livello industriale, nuove scale graduate per strumenti di misura in uso in laboratorio e nella pratica clinica, a cominciare dal comune sfigmomanometro. Attualmente, se un medico poco incline al dialogo medico-paziente o costretto alla fretta per imposizione dei superiori (gli ambulatori istituzionali, per primi, danno il cattivo esempio, non dimentichiamolo) segnala al paziente in esame che la sua pressione arteriosa è di 90/140 (sottinteso millimetri di mercurio, unità peraltro quasi ignorata dal pubblico, per il quale quei numeri sono misteriosi e non meglio definiti punti), tutto procede liscio perché quella monca informazione clinica è sufficientemente orientativa. Ma se il medico è ligio al SI e ha usato un apparecchio au dernier cri e segnala che la pressione è 12/18,6 (corrispondente a quella precedentemente ipotizzata), che succede al paziente? «Stramazza!», esclama Tullio De Mauro. Potrei farla lunga, con il rischio di far stramazzare anche voi. Ma consentitemi di segnalarvi, prima della conclusione, un evento significativo. La più prestigiosa rivista medica statunitense, «The New England Journal of Medicine», che tra le prime impose ai collaboratori di attenersi rigorosamente al SI, in un editoriale (A retreat from SI units) comparso nel numero datato 2 luglio 1992, ha annunciato di fare macchina indietro, ripristinando così l’uso e il rispetto delle unità di misura convenzionali. Però, ovviamente, il dibattito non è concluso. Mi auguro che i metodologi della comunicazione lo tengano presente. 73
Conclusione. Dovrebbe nascere un Molière ogni mezzo secolo. Il linguaggio, la mentalità e il comportamento dei medici dovrebbero essere depurati, bonificati, anche con il pungolo dell’ironia di tipo bonario, esortativo, insomma demauriano. I medici (e i membri delle altre corporazioni con velleità elitarie), grazie a questi stimoli, potrebbero diventare più sobri e meditati nel linguaggio e forse anche nello stile di comportamento. Ne trarrebbero vantaggio perfino i pazienti, che hanno il diritto di capire, di ricevere informazioni sul loro stato di salute e sui rischi connessi a determinate scelte terapeutiche (mi riferisco, in particolare, alla stesura del «consenso informato» che, per i suoi delicati aspetti medico-legali, richiede adeguata padronanza del linguaggio, chiarezza di intenti e altro). Persiste una antica carenza di rigore linguistico anche all’interno degli stessi ambienti accademici (che, nel bene e nel male, fanno scuola) e permane un limitato impegno verso la chiarezza espositiva e divulgativa. Il linguaggio medico, a livello di scuola, potrebbe essere emendato. Meno ottimisti, invece, possiamo essere nei confronti dei metalinguaggi, compresi quelli, per così dire, marginali. Tra questi il medical-burocratese (chiedo venia per il neologismo abusivo), per il quale (esempio tratto da una vecchia circolare dell’Inps) un individuo che aspira a essere ammesso alle cure termali viene classificato come termando, come se dovesse essere cotto a fuoco lento.
Carlo Bernardini*
Impulso professionale irrefrenabile
Tutte le volte che penso alla possibilità che abbiamo, noi fisici e matematici, di parlare di cose e fatti e ragionamenti utilizzando linguaggi formalizzati, immagino di fissare negli occhi un linguista e di dirgli, alla romana: «Nun sai che tte perdi». Ha scritto Bryce De Witt, un distinto fisico teorico di Austin nel Texas, in un suo testo del 1992 (Decoherence without Complexity and without an Arrow of Time): «The formalism is able to generate its own interpretation» («Il formalismo è in grado di generare l’interpretazione di se stesso»): e questa affermazione appare, bisogna ammetterlo, necessariamente di smisurata arroganza per chi si è dedicato alle trappole della struttura proposizionale del pensiero. Eppure, De Witt dice la verità. Ma, ahimé, mi trattengo dall’infierire perché non è tanto la potenza smisurata delle mie «formule» che – lo so bene – non riuscirei a trasmettere al linguista, quanto il gusto esaltante di adoperarle. C’è un problema di addestramento a farlo che appare insormontabile, e mi pare che sia proprio uno di quei casi di comunicazione di «felicità di cui non si ha precedente esperienza» che sono stati già considerati da illustri studiosi della psiche o della mente: è impossibile ridurre a una proposizione la percezione dei piaceri, e questo dei linguaggi formali – che lo si creda o no – è un piacere dei più sottili e inquietanti. * Docente di Metodi matematici della fisica all’Università di Roma “La Sapienza”.
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Dico questo oggi e di fronte a voi perché, in realtà, sono tormentato da una domanda: per quale motivo mi sembra che il nostro Tullio, benché sia «soltanto» finissimo umanista, percepisca a volte il senso di quello che ho appena detto? Come fa? Quale parte del suo cervello entra in funzione nel rendersene conto? So che ci sono molte risposte possibili. La curiosità: Tullio sarebbe lo specchio di ogni interlocutore linguisticamente analizzabile e lo analizzerebbe freddamente, scientificamente, per impulso professionale irrefrenabile, come un entomologo che analizza i costumi sessuali di mantidi o bruchi o ragni senza che gli importi condividerli. La conoscenza: Tullio non sopporta di avere un settore oscuro nella sua cultura professionale e registra ogni informazione al riguardo, per decidere poi, con criteri suoi, se merita o no spenderci/perderci del tempo; dare tesi di laurea? far fare una ricerca? La religiosità: Tullio pensa che se dio... No, lo escludo. L’avidità estetica: Tullio non può nemmeno concepire l’idea che un piacere linguistico gli sia precluso, sicché venderebbe l’anima al diavolo per procurarselo; figuriamoci se non tenta di spremere gli amici a portata di mano che navigano in quelle acque. Non so optare per uno dei suoi possibili moventi; ma, avendolo visto all’opera con l’immane Gradit, il Grande Dizionario Italiano dell’Uso, impresa durante la quale riusciva a mettere soggezione al punto che mia moglie arrivava a dirmi, di qualche lemma: «attento che Tullio te lo boccia», mi sono convinto del fatto che è possibile che abbia capito il problema, che lo abbia acquisito come conoscenza tacita nel suo mentalese (direbbe Pinker), ma non sia in grado di esprimerlo a parole. Insulto peggiore verso un linguista non potevo trovarlo, ma va preso invece come un complimento profondo, genuino e non ipocrita, dunque insulto apparente, indice di ammirazione; e si tratta di ammirazione «da fisici», che sono sempre pronti a scappellarsi di fronte alle intuizioni ineffabili. 76
Lo aiuterò, perciò, a continuare. La nostra, voglio dirgli ancora una volta, è poesia in simboli, strumento con un potere evocativo anche più lungimirante e denso di ogni lirica. Certo, non ci sono canti per una donna o celebrazioni di idilli, o elegie che ispirino sentimenti puri; non ci possono essere, in una formula. Ma che importa? Le parole facciano le ruffiane dello spirito, intanto che le formule fanno da microscopio o telescopio della mente. Chi può portarci a vivere al bordo dell’universo se non una teoria cosmologica? Chi può evocare i quarks se non il «modello standard»? Chi può farci vedere il botto di una supernova, la creazione di una coppia elettrone-positrone, le cariche che migrano in un semiconduttore, un condensato di Bose-Einstein, eccetera eccetera? Ecco, io vedo qualcosa, e vorrei che lo vedessimo tutti: ma è possibile? Ma se non so nemmeno dire a parole quello che vedo? E allora, che cosa ho dato a Tullio per il Gradit, che metafore, che surrogati, che immagini? Che ci sia un problema, mi sembra evidente. Che Tullio ne sia cosciente, pure. Penso perciò di poter lasciare un semplice messaggio, in questa festosa occasione: «Ancora un piccolo sforzo, prego».
Scuola e linguaggio
Aldo Visalberghi*
La resistenza energica, persistente e decisa delle persone colte
Ringrazio per l’invito a partecipare a questo convegno dedicato a un grande filosofo del linguaggio che ho avuto l’onore di avere collega per alcuni decenni, e di apprezzare e spesso ammirare non solo come linguista, ma anche come attivo costruttore di una pedagogia democratica. Ma soprattutto vorrei qui rilevare come fra le due cose ci sia una interrelazione organica e profonda. Educazione vuol dire «comunicazione», comunicazione vuol dire «impiego di linguaggi», non solo di quello verbale, ma prevalentemente di quello verbale, e largamente di quello scritto, e poi dei molti linguaggi di cui De Mauro ha spesso e mirabilmente parlato. De Mauro è stato particolarmente impegnato a delineare la molteplicità di dimensioni interrelate di una linguistica democratica, come è largamente apparso dalle altre relazioni: una linguistica aperta anche alle tecnologie, al lavoro, agli usi concreti, ai dialetti. Ha curato un volumone sul dialetto romanesco che è interessantissimo anche per chi il romanesco lo capisce poco come il sottoscritto, che è invece triestino. Forse questo spiega il mio interesse per tali cose, perché noi triestini siamo di quelli che parliamo il dialetto in famiglia e la lingua italiana nei rapporti che lo esigono. E sappiamo anche riconoscerci una ricchezza: ci sono frasi dialettali che sono intraducibili nell’italiano standard senza commento sulle * Docente di Pedagogia all’Università di Roma “La Sapienza”.
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sfumature. Il pluralismo linguistico – a cominciare dal possesso anche del dialetto ma allargandosi poi al possesso di altre lingue, moderne soprattutto, ma anche antiche – è allargamento della mente. Della mente che, però, essa stessa ha una prevalente dimensione sociale, ma può essere di una socialità allargata, democratica, che nega antitesi e esclusioni. È la prospettiva che ci apre De Mauro. Dopo aver ricevuto questo invito ho sentito il dovere di andare a tirar fuori le opere di De Mauro, spesso ornate da una lusinghiera dedica, ne ho fatto una grossa pila e le ho un po’ risfogliate tutte. Sono andato in cerca di contraddizioni eventualmente manifestatesi nel tempo, che sarebbero umane e comprensibili: però, non ne ho proprio trovate. Un’altra cosa è in lui costantemente presente, ma appare particolarmente presente in un volume da lui curato: l’importanza che egli dà alla capacità di comunicare in campo scientifico. L’informazione scientifica è un problema fondamentale, e De Mauro fa riferimento spesso a un tipo di dimostrazione di questa importanza, particolarmente nel nostro Paese, relativa a ricerche che abbiamo compiuto, con una collaborazione internazionale vastissima, nell’ambito delle attività dello IEA, Associazione per la valutazione dei progressi educativi, dove l’Italia se l’è sempre cavata maluccio, particolarmente a livello di scuola secondaria superiore. Come sapete, questo è il più problematico dei nostri livelli di istruzione, che è ancora in attesa di riforme serie, al di là delle riforme finora attuate, pur nella direzione giusta (e anche di questo sono grato a Tullio). Attraverso ripetute indagini in tempi successivi abbiamo visto che un po’ i risultati migliorano. Ma in che modo si migliora rispetto ad uno dei problemi fondamentali, quale il divario nord-sud? La differenza di media in materie scientifiche, che venticinque anni fa era del 34%, dopo quindici anni si è ridotto al 25%, ma, se mi permettete, anche questa è una cifra che fa paura! Ci sono degli aspetti che ci confortano: per esempio, nella seconda di queste imponenti ricerche a livello mondiale, di 82
cui però ci sono larghe messi di risultati utilizzabili a livello nazionale, abbiamo visto una situazione molto interessante relativa agli istituti cosiddetti sperimentali. Quelli da noi esaminati erano una quarantina circa, molti dei quali linguistici, perché la maturità linguistica è come sospesa per aria, non esistono istituti linguistici pubblici se non nell’ambito di questi istituti sperimentali. Ebbene questi istituti sperimentali dimostravano un décalage da nord a sud molto ridotto, quasi inesistente, e la preparazione scientifica come media generale nettamente superiore a quella degli istituti normali. Si noti il fatto che a questa indagine partecipavano per metà istituti linguistici, e il risultato si otteneva probabilmente grazie a una didattica un po’ avventurosa, ma spesso creativa propria dello sperimentalismo pedagogico. Esso in generale cura molto di più il polimorfismo del linguaggio impiegato; invita molto di più gli insegnanti di scienze a fare anche educazione linguistica. Tutti gli insegnanti sono anche, o se volete addirittura essenzialmente, insegnanti di linguaggio e/o linguaggi: è il loro primo compito, ma si tratta di un compito difficile da svolgere perché, se sono modernamente orientati, sanno bene che i linguaggi non si insegnano tramite definizioni. La definizione serve quando è nato un problema nella reale situazione di ricerca, di attività, di organizzazione, e quindi in casi eccezionali; i linguaggi si imparano usandoli, ma non possiamo giungere ad usarli senza una qualche guida discreta, intelligente, tempestiva. Che nella scuola questo avvenga è essenziale: purtroppo, la mia esperienza mi dice che avviene troppo poco. Anche se tutta l’opera di De Mauro mi sembra orientata chiaramente in quella direzione, non è che la scuola la segua ancora troppo impegnativamente: mi auguro lo faccia nel futuro. De Mauro si è occupato anche di politica scolastica in senso stretto, cioè di organizzazione e programmazione delle istituzioni scolastiche. Un suo libro recente, del 1995, pubblicato da Laterza, si intitola Idee per il governo. La scuola. Queste idee si basano largamente sui risultati di ricerche anche scien83
tifiche del genere di quelle che ho menzionato e si concludono con dieci indicazioni di punti fondamentali. Si parte dall’educazione degli adulti perché, come è stato anche qui accennato, in un Paese dove il 50% della popolazione non è andata al di là della licenza elementare l’aspetto familiare e anche vicinale dell’educazione (che non è importante quanto quello scolastico, ma quasi: lo sappiamo da altri studi) evidentemente non funziona abbastanza. Per levarci dai guai non c’è altro che realizzare seriamente l’educazione degli adulti o permanente o ricorrente o illimitata, come si può dire: il che tutti auspicano, ma pochi e soprattutto poche istituzioni serie riescono a realizzare. Secondo punto: estendere a tutti l’educazione prescolastica. Terzo punto: portare l’obbligo a 16 anni. Come sapete, ad oggi, non ci siamo ancora arrivati. Quarto punto: unità del ciclo di base. Su questo potrei discutere perché l’unità eccessivamente rigida anche organizzativamente può essere in parte inopportuna. I bambini hanno anche bisogno di «passare», di avere il senso del passaggio, però con unità di intenti capace di realizzare una contiguità, fra l’altro nell’uso dei linguaggi, che è essenziale. Quinto punto, e vi prego di fare attenzione: sistema di valutazione oggettiva nazionale del profitto. Ogni scuola deve essere in grado di sapere a che punto è, da che punto era partita, in che situazione è (perché poi ci sono anche strumenti atti a rilevare le caratteristiche del contesto: contesto familiare, contesto vicinale, contesto dei gruppi minori di collaborazione e così via). Questo fatto è considerato fondamentale tanto che nei punti successivi – cioè l’incentivazione del lavoro degli insegnanti, l’incentivazione del progresso dei capaci e meritevoli a tutti i livelli – l’esistenza di questo sistema di «valutazione oggettiva» del profitto è richiamata come essenziale perché tutto ciò si possa essenzialmente attuare. Qui non mi dilungo sull’importanza dei test oggettivi, gli unici a poterci dare praticamente anche risultati rapidi. 84
Si passa poi ai punti fondamentali, soprattutto comparabili, dell’aggiornamento e della riqualificazione degli insegnanti, di un’intelligente riforma della scuola secondaria superiore anche dal punto di vista di una minore e meno astratta differenziazione, e poi soprattutto della preparazione di base degli insegnanti. Questa è l’unica cosa che già in buona parte è partita, con una legge del ’90, ma va a rilento data l’estrema complessità del problema. Come sapete, attualmente anche per gli insegnanti elementari è previsto un quadriennio di preparazione, ma forse erano quelli che ne avevano meno bisogno perché se la facevano da soli: insegnando, almeno a giudicare dal fatto che ottengono buoni risultati. Questi sono i punti indicati da De Mauro con largo consenso da parte di tutti coloro che da decenni si occupano delle anomalie e insufficienze della scuola italiana, certo molto diverse per livelli, perché mentre la scuola elementare italiana si colloca in testa come rendimento rispetto ai Paesi avanzati (è al quarto, quinto posto), la scuola media già declina al diciassettesimo, e le scuole secondarie superiori sono le ultime fra quelle del mondo avanzato (la Spagna, che talvolta ci confortava essendo un po’ più bassa, ora è passata davanti a noi in parecchi settori). Nel volume del 1995 che ho citato c’è anche un mio intervento piuttosto ampio. Mi sono riletto anche quello e ho visto che si sono fatti scarsissimi progressi dal 1950-55; certo, si sono fatti, ma sono largamente insufficienti, sia nell’organizzazione scolastica sia nelle strutture socio-economiche dominanti. Bisogna lavorare molto, e devo dire che le cose rimangono tali e quali anche ora, passati altri sei anni. Ci sono buone direzioni di lavoro alle quali devo dire che De Mauro Ministro, prolungando e approfondendo l’opera di Luigi Berlinguer, ha dato una buona spinta; ma va detto anche che questa spinta oggi sembra in grave crisi perché un giudizio generale sul progetto Moratti, cioè sulla legge delega che ha presentato, ci dice che le uniche cose concrete che vi sono presenti sono la riduzione del numero degli insegnanti, i ri85
sparmi nel finanziamento della scuola, e soprattutto – cosa gravissima – della ricerca scientifica. L’Italia già si pone, fra i Paesi avanzati, all’ultimo posto nella percentuale del prodotto nazionale lordo destinato alla ricerca scientifica, e ora si vuol scendere ancora più in basso. Cosa intollerabile contro la quale non bastano le manifestazioni di piazza: occorre una resistenza energica, persistente e decisa del mondo delle persone colte, particolarmente dei ricercatori. Tuttavia, giustamente, l’impostazione di De Mauro, come è stato già notato per altri aspetti, non è, neanche per questo aspetto della «funzione di struttura» delle istituzioni educative, aprioristicamente pessimista. Come potevo concludere sei anni fa, anche adesso ripeto che i nostri mali sono da tempo sempre gli stessi, ma non sono incurabili; dobbiamo e possiamo curarli, ma la proposta Moratti sembra proprio tesa a renderli invece per qualche tempo ancora, fino a che queste destre resteranno a spadroneggiare nel Paese, incurabili.
Alba Sasso*
«È la cultura, baby!»
Io credo di avere la fortuna oggi di poter dire una cosa che a questo tavolo nessun altro poteva dire, se non altro per ragioni biologiche. È un tratto della particolare umanità di Tullio De Mauro: Tullio è una persona molto amata dalle donne, per questa sua capacità di essere insieme un intellettuale straordinario e una persona capace di vivre tout simplement con la gente. E inoltre, Tullio De Mauro è stato uno dei pochi intellettuali di questo Paese a far sentire anche gli insegnanti, che sono in genere le insegnanti, degli intellettuali, e di questo gli siamo grati. Perché è una persona che si indigna quando sul giornale si scrive: «in fondo è solo una maestrina». Ed è proprio di questo che voglio parlare, dell’impegno democratico di Tullio e di tanti altri per una scuola di qualità: la scommessa alla base di quel patto che portò, nell’ormai lontano 1972, Luciana Pecchioli, Tullio De Mauro e Lucio Lombardo Radice a costituire con straordinaria acutezza e con lungimiranza politica e culturale il Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti. Poi Tullio avrebbe voluto fare anche il CIDDU, il Centro di Iniziativa Democratica degli Universitari, ma vuoi per la bruttezza del nome, vuoi per altri motivi non se ne fece più niente. E vorrei collocarmi nella linea tracciata da Carlo Bernardini, una linea che guarda al futuro, la linea di «un altro piccolo, grande sforzo». Vorrei * Deputato, già Presidente del CIDI – Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti.
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partire dall’affermazione che Tullio De Mauro ha fatto al convegno del CIDI del 2002, il trentesimo, appunto: «La scuola italiana ha preso in carica all’indomani della seconda guerra mondiale un Paese nel quale la maggior parte della popolazione riusciva sì e no a parlare il proprio dialetto. In cinquant’anni la scuola italiana ha fatto un miracolo, anche se ancora molto resta da fare». E su quel molto da fare e sul come farlo dobbiamo interrogarci. Tutti abbiamo un cruccio, perché la scuola italiana ha ancora, come diceva Don Milani, il problema dei ragazzi che perde; ha ancora il problema di quella che un lontano rapporto Censis chiamava la dissipazione culturale: ragazze e ragazzi che non possiedono le competenze, soprattutto di lettura e scrittura, adeguate al titolo che hanno conseguito. E ha ancora il problema del condizionamento dell’ambiente sociofamiliare rispetto al successo negli studi. E allora? Lasciamo perdere? Come dicono alcuni notisti politici «dismettiamo inutili sogni, utopie illuminate, fantasie egualitarie, rassegniamoci: la scuola non è fatta per tutti». Lasciamo perdere quanto è stato fatto in questi anni, lasciamo da parte il dibattito sulla scuola condotto appunto da quel partito della scuola di cui parlava De Mauro in un altro convegno del CIDI: il partito di Don Milani, Pontecorvo, Visalberghi, De Mauro, Pecchioli e tanti altri. Lasciamo perdere il sodalizio straordinario tra Scuola e Università su questi temi. Lasciamo perdere il tavolo operoso e riflessivo di quei silenziosi costruttori della democrazia che sono gli insegnanti. Lasciamo perdere le ragioni forti che stavano dietro le scelte riformatrici dei governi di centrosinistra. Lasciamo perdere il Libro Bianco di Jacques Delors, le indicazioni comunitarie. C’è stato un tempo nella nostra storia in cui per eliminare il ritardo dei treni si eliminavano i treni che arrivavano in ritardo. Certo, una strada per lasciar perdere è quella di proporre una scuola che si limiti a rilevare differenze, squilibri sociali, e anzi li renda principi regolativi della sua fisionomia e della sua funzione; un malthusianesimo di ritorno. Una 88
scuola a due velocità, lo ricordava nel suo intervento il prof. Visalberghi, sin dai primi anni, sin dalla scuola elementare, e dopo la scuola media una canalizzazione precoce in percorsi separati e gerarchicamente organizzati. Possono essere questi i tratti di un Paese moderno, europeo? Può essere messo in discussione il diritto di tutti all’istruzione nella cosiddetta società della conoscenza, proprio in quella società nella quale occorre rispondere a bisogni nuovi e diffusi di apprendimento? E allora, Tullio, o la scuola diventa strumento per disegnare un progetto più evoluto e solidale di organizzazione sociale – ripeto quello che tu hai sempre detto in tanti anni – e di sviluppo equilibrato dell’economia, oppure la formazione finisce con l’assecondare un processo di destrutturazione sociale, con l’asservirsi a un’economia statica, con il rispondere ai bisogni più avari e congiunturali delle imprese. Ma questo noi non lo vogliamo. Sarebbe un progetto di destrutturazione della scuola pubblica, un tradimento del patto costituzionale, una rinuncia dello Stato a svolgere il ruolo di garante della qualità e dell’equità dei sistemi formativi. Così come sarebbe un pericoloso ritorno indietro proporre una scuola povera di cultura, una scuola «minima» come le case minime dei lavoratori degli anni Cinquanta. Proprio oggi che serve sapere di più e serve che tutte e tutti sappiano di più, così come sarebbe assai miope far prevalere o assecondare un’idea strumentale di sapere. «Poche chiacchiere», hanno detto qualche anno fa gli studenti dell’Università Federico II di Napoli durante una cerimonia che ricordava gli insegnanti ebrei di quella Università allontanati dal loro posto dalle leggi razziali del 1938: «A noi queste storie del vostro passato non interessano, noi siamo qui per imparare quello che ci serve per lavorare». Abbiamo lavorato in tante e in tanti su questi temi, su un sapere in grado di misurarsi con il patrimonio di conoscenze che danno valore, identità, fisionomia alla nostra storia. Ci siamo confrontati e abbiamo lavorato su un’idea di sapere che, a partire dall’attenzione «alla crescita e alla valorizzazio89
ne delle persone» – frase stampata sui curricoli della Scuola di base elaborati dalla Commissione istituita dal Ministro De Mauro in attuazione della legge 30 –, si proponga di formare menti aperte e critiche in grado di leggere e interpretare la realtà, di comprenderne i cambiamenti, di orientarsi in essa «secondo ragione». Perché passa da qui la possibilità di costruire, sulla base di un sapere condiviso, un’etica pubblica e laica, rispettosa delle differenze e delle diversità. Allora, le nostre bambine, i nostri bambini, le ragazze, i ragazzi devono imparare l’inglese e l’informatica? Certo, ma basterebbe? L’obiettivo più importante non è quello di arricchire la mente, di imparare a ragionare, di avere un’idea del mondo, facendo esperienze vaste e disinteressate, imparando ad apprezzare la bellezza di quegli apprendimenti che non servono a nulla? E allora cultura diventa possibilità di interpretazione del mondo, di conoscere e riconoscere gli altri, di scambiarsi sapere. Oggi dobbiamo dare bussole, diceva Tullio De Mauro al nostro convegno di Bologna di qualche anno fa, dobbiamo dare punti cardinali. L’inglese, certo, ma anche il possesso pieno della lingua a partire dalla propria: «è la lingua che fa eguali». La lingua per liberare il pensiero. L’informatica, certo, ma sollecitando studio e ricerca sul potenziale cognitivo delle tecnologie, sulla loro capacità di aiutare, forse modificare le nostre capacità di conoscenza, di comunicazione. Su questo percorso di ricerca, che è già scuola, impegno continuo, ostinato di tante e tanti, non si può tornare indietro. Perciò, intendiamo continuare a lavorare, a partire dalla forza di un’elaborazione che ha le sue radici profonde in un processo ormai trentennale, percorso raccolto e venuto a definizione proprio nei processi legislativi degli ultimi anni. Questo lavoro va custodito, continuato, approfondito. C’è un’altra cosa che vorrei sottolineare. La scuola oggi, certo non tutta, ma una grande parte, è più avanti rispetto alle attuali scelte politiche e legislative. È più avanti per i processi che l’attraversano e che l’hanno attraversata; per le do90
mande inedite, nuove e difficili a cui deve rispondere nella quotidianità, spesso in solitudine. E allora adesso diventa un valore la sua lentezza, la sua capacità di elaborare nel tempo, di conservare pensiero, di intrecciare e accumulare esperienza e riflessione, di resistere a ogni semplificazione. «Se avessi tanto tempo in più – diceva il Piccolo Principe all’inventore della pillola per eliminare la sete, che gli chiedeva come avrebbe utilizzato il tempo così guadagnato – andrei adagio adagio verso una fontana». E allora non si torna indietro rispetto ai mille fili che si chiamano ricerca e innovazione già attuata e sperimentata, non si torna indietro rispetto a un patrimonio di pensiero e di operatività, di elaborazione e di pratiche didattiche consolidate. Non saremo mai troppo grati a Tullio De Mauro per aver fornito a questa scuola, con le Dieci tesi per una educazione linguistica democratica – punto di partenza decisivo per ragionare del nesso profondo tra sapere, democrazia e uguaglianza – un percorso di formazione, occasione di ricerca e riflessione, piste di lavoro inesauribili, forse anche un sogno, sicuramente una motivazione. È per questo sogno, per questa motivazione, per questa responsabilità che occorre andare avanti. Un altro «piccolo sforzo», ha ragione Carlo Bernardini, perché oggi a cinquant’anni dal dettato costituzionale che considera l’istruzione fattore di decondizionamento sociale; dopo gli interventi degli anni Sessanta e Settanta volti a rendere quel sistema più equo, meno classista e diseguale; di fronte ai problemi che ancora rimangono nel nostro sistema scolastico, noi non vogliano rinunciare alla scuola «secondo Costituzione»: la scuola che rimuove gli ostacoli, la scuola che garantisce pari opportunità..., così come non possiamo rinunciare a un principio educativo di formazione alla cittadinanza. Un principio educativo secondo il quale diventare cittadini di un mondo più vasto significhi dialogo costante con le altre e con gli altri. Una scuola dove la valorizzazione delle differenze serva a rendere ognuna e ognuno forte del dialogo con storie altre, culture altre, e serva a emancipare ognuno 91
dall’angustia del pregiudizio. Occasione per formare donne e uomini in grado di pensare criticamente, di rifiutare le certezze affrettate e il pensiero semplificato. Con quale malinconia politica si può pensare che la scuola debba diventare occasione di risparmio, debba liberarsi del peso di tutte le diversità, essere segnata da una cultura o meglio non cultura, povera, localistica; debba rinunciare a essere luogo di costruzione di un sapere condiviso, ricco, plurale. È una proposta miope, un boomerang per il futuro. Non c’è modernità, non c’è possibilità di crescita per il Paese se si rinuncia a costruire questo luogo di formazione delle nuove generazioni, se c’è meno cultura per tutti, se cultura non diventa capacità di capire i cambiamenti in corso e di adattarvisi, lungi dall’essere quel concetto complesso di cui parlava De Mauro all’ultimo convegno del CIDI; se si dismette l’idea che l’istruzione rappresenti una risorsa per la democrazia, per farsi solo una leva potente per lo sviluppo dell’economia. Ed è per questo che, forti di una storia collettiva, forti delle nostre convinzioni, vogliamo riprendere la strada senza timore dell’affanno per la salita. E infine vorrei comunicarvi la suggestione di una immagine. In un tardo pomeriggio di gennaio-febbraio 2001, quando si concludeva il lavoro sui curricoli nella Commissione De Mauro, nei corridoi del Ministero si aggirava un uomo lieve, solo; solo no, anzi inseguito da segretarie e funzionari che gli dicevano: «Ministro dove va?», perché nei ministeri non si usa che il Ministro giri nei corridoi, ora meno che mai. Veniva a cercare un gruppetto di noi che davano i penultimi ritocchi al documento: gli ultimi sono sempre i suoi, con i suoi computer, con le sue mani, ghostwriter di se stesso. Buona educazione di un signore meridionale? Bon ton? Facilità di relazione? Non lo so. Non saprei come dirlo. Lo dico come lo direbbe Humphrey Bogart: «È la cultura, baby!».
Bibliografia degli scritti di Tullio De Mauro*
* Questa è una bibliografia di lavoro, non rivista dall’autore, curata da Silvana Ferreri.
AVVERTENZA L’elenco include in generale lavori di prevalente interesse linguistico o scolastico-educativo di taglio specialistico. Sono quindi esclusi (salvo un paio di eccezioni) articoli e recensioni apparsi in quotidiani e settimanali: nel settimanale «Il Mondo» (1956-64); nelle rubriche fisse sulla scuola e sul linguaggio del settimanale «L’Espresso» (1981-91); in «Paese Sera-Libri» e «Paese Sera» e «L’Ora» (1965-81), avvertendo che la serie «Le parole e i fatti» fu ristampata in parte nel volume Le parole e i fatti, 1977, e la serie «La prova della parola» nel volume L’Italia delle Italie, 1979; nei quotidiani «l’Unità», «Il Mattino», «il Sole-24 ore» ecc. Sono anche esclusi articoli e note di urbanistica e architettura apparsi nei mensili «Nord e Sud» (1955 sgg.), «L’architettura. Cronache e storia» (1955-56), note di politica pubblicate nei mensili «Critica liberale» (1954 sgg.), «Nord e Sud», «Comunità». Ovviamente sono omessi anche i testi preparati per la RAI. Le traduzioni sono sempre segnalate nella loro prima edizione; invece le riedizioni di libri in lingua italiana e le riedizioni di traduzioni sono segnalate solo saltuariamente.
1954 Origine e sviluppo della linguistica crociana, «Giornale critico della filosofia italiana», XV, pp. 376-391. 1955 Studi italiani di filosofia del linguaggio (1945-1955), «Rassegna di filosofia», IV, pp. 301-329. 1956 Linguaggio, poesia e cultura nel pensiero e nell’opera di Leo Spitzer, «Rassegna di filosofia», V, 2, pp. 148-172. 1957 Lukács e la critica marxista, «Nord e Sud», IV, 29, pp. 121-123. La cultura italiana e il neopositivismo, 1: La polemica contro lo storicismo, «Nord e Sud», IV, 37, pp. 31-48. A proposito di una nota di Leo Spitzer, «Convivium», X, p. 248. 1958 La cultura italiana e il neopositivismo, 2: Analisti in Italia, «Nord e Sud», V, 39, pp. 20-35. La polemica contro lo storicismo (lettera di F. Rossi Landi e risposta), «Nord e Sud», V, 40, pp. 103-120. Intorno alla storia del significato di “democrazia” in Italia, «Il Ponte», 95
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Appunti e spunti in tema di (in)comprensione, «Linguaggi», II, 3, pp. 22-32. Relazione d’apertura, in AA.VV., Linguaggio dell’informazione e nuove tecnologie, Atti del III convegno nazionale promosso da Selezione dal Reader’s Digest col patrocinio del Comune di Milano, Selezione dal Reader’s Digest, Milano, pp. 11-24. Una guida al comporre, in AA.VV., Antologia Garzanti. Ottocento e Novecento, Garzanti, Milano, vol. II, pp. 737-758. I dottorati di ricerca, in AA.VV., La questione universitaria, a cura di Claudio Gori Giorgi, La Nuova Italia, Firenze, pp. 146-151. La scuola difficile. Problemi e prospettive della scuola italiana, Circolo Che Guevara di studi politico-sociali, Trieste (ciclostilato). Il computerese. Linguaggio speciale e gergo diffuso, in AA.VV., La memoria del futuro. Economia, cultura e politica nella società informatizzata, a cura di Paola M. Manacorda, La Nuova Italia Scientifica, Roma, pp. 150-154. L’informatica nella didattica della medicina, in AA.VV., Informatica e medicina, Editrice Compositori, Bologna. Introduzione, in Leggibilità e comprensione, Atti dell’incontro di studio, Roma 26-27 giugno 1986, a cura di Tullio De Mauro, Maria Emanuela Piemontese, Massimo Vedovelli, «Linguaggi», III, 3, pp. 5-7. 1987 ARTICOLI E VOLUMI Lingua e dialetti in Italia, in AA.VV., La formazione dell’insegnante di lingue in ambiente di lingue in contatto, Atti del colloquio italo-catalano, 25-27 maggio 1985, «LIS», Pubblicazioni del Dipartimento di Scienze del linguaggio dell’Università di Roma “La Sapienza”, Roma, pp. 11-21. Nuove vie e nuovi compiti dell’educazione linguistica superiore, in AA.VV., Educazione linguistica di base e programmazione, Lisciani e Giunti, Firenze, pp. 65-76. Viva e vera, in Jader Jacobelli (a cura di), Dove va la lingua italiana?, Laterza, Roma-Bari, pp. 65-73. 122
Gli strumenti della comunicazione, in Proscuola 86. Rassegna del libro di testo scolastico e della attività scolastiche (Verona 19-23 febbraio 1986), Verona, pp. 8-10. La lingua universale è un’utopia, come la Torre di Babele, «Atlante», maggio, pp. 16-17. Parlare femminile, parlare maschile, in «Prometeo», V, 20, pp. 109117 (con Nora Galli de’ Paratesi). Il senso della linguistica, «Insegnare», III, n. 6, pp. 7-8, 11-16, 22-26. Osservatorio linguistico, «Italiano & oltre», II, 1, p. 17; 2, p. 80. La lingua italiana e i misteri del comprendere, «La vita scolastica», XLIII, 7, pp. 6-8. Quel prete disubbidiente (per il ventennale della morte di don Milani), «l’Unità», 30 giugno, p. 2. Questione della lingua in Italia, in AA.VV., Gramsci: le sue idee nel nostro tempo, a cura di Carlo Ricchini, Eugenio Manca, Luisa Melograni, Editrice l’Unità, Roma, pp. 118-120. PREFAZIONI E INTRODUZIONI Canachi in emigrazione, in Carmine Abate, In questa terra e altrove. Testi letterari di emigrati italiani in Germania, Pellegrini, Cosenza, pp. 3-6. Presentazione, in Pietro Leone, Lo spettacolo della politica, Editoriale Bios, Cosenza, pp. 5-7. Note linguistiche, in Giuseppe Manfredonia, Tann’ e mo (Allora e ora), Edizioni di San Marco, Bologna, pp. 79-83. Nazionalità e internazionalità degli studi linguistici, Prefazione in Lia Formigari, Franco Lo Piparo (a cura di), Prospettive di storia della linguistica. Lingua, linguaggio, comunicazione sociale, Editori Riuniti, Roma, pp. XI-XXV. Presentazione, in Sergio Staino, Le domeniche di Bobo, Editori Riuniti, Roma, pp. 5-8. Vituperatio PP, Introduzione a Parole, paroline, parolacce. Vocabolario del pentapartito, Editrice l’Unità, Roma, pp. 3-15. 123
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RIEDIZIONI E TRADUZIONI Kriticko izdanje prirediot, in F. de Sosir, Kurs opste lingvistike, Izdavacka Knjizanica Zorana Stojanovica, Novi Sad, pp. 5-21, 227406. Guida alla scelta della facoltà universitaria, 10a edizione, Il Mulino, Bologna. Le lauree brevi, 4a edizione, Il Mulino, Bologna (con Francesco De Renzo). Guida all’uso delle parole, 12a edizione, Editori Riuniti, Roma. 1998 ARTICOLI E VOLUMI Prima persona singolare passato prossimo indicativo, Bulzoni, Roma. Linguistica elementare, Laterza, Roma-Bari. Passato e futuro dell’educazione linguistica, in Silvana Ferreri e Anna Rosa Guerriero (a cura di), Educazione linguistica vent’anni dopo e oltre, “Quaderni del GISCEL”, La Nuova Italia, Firenze, pp. 13-35. Il mitico Ingarrica (in ricordo di Carmine De Luca), in «C’era due volte...», V, 9, pp. 13-15. Qualche considerazione sulla simbolicità delle parole, in Franco Ratto, Giuseppe Patella (a cura di), Simbolo, metafora e linguaggio, Edizioni Sestante, Acquaviva Picena (AP), pp. 359-364. PREFAZIONI E INTRODUZIONI Il premio Tivoli-Europa, in Filippo Bettini, Armando Gnisci, Il cammino di Santiago. La giovane poesia d’Europa nel 1997, Meltemi, Roma, pp. 7-10. RIEDIZIONI E TRADUZIONI Guida alla scelta della facoltà universitaria, 11a edizione, Il Mulino, Bologna. Le lauree brevi, 5ª edizione, Il Mulino, Bologna (con Francesco De Renzo). 141
DIB. Dizionario di base della lingua italiana, 2ª edizione, Paravia, Torino (con Gian G. Moroni). Dizionario visuale della lingua italiana, 2ª edizione, Paravia, Torino (con Angela Cattaneo). Storia linguistica dell’Italia unita, 12ª edizione, Laterza, Roma-Bari. Introduzione alla semantica, 9ª edizione, Laterza, Roma-Bari. 1999 ARTICOLI E VOLUMI Ricordi e testimonianze, in AA.VV., Elena Croce e il suo mondo. Ricordi e testimonianze, CUEN, Napoli, pp. 105-108. Il linguaggio dalla natura alla storia. Ancora su Gramsci linguista, in Giorgio Baratta, Guido Liguori (a cura di), Gramsci da un secolo all’altro, Editori Riuniti, Roma, pp. 68-79. Grande Dizionario Italiano dell’Uso - Gradit, ideato e diretto da T. De Mauro, 6 voll.+ CD-rom, UTET, Torino. La presenza culturale italiana nei paesi del Mediterraneo, Relazione al LXXIV congresso internazionale della Dante Alighieri, «Pagine della Dante», LXXIII, 4, pp. 3-8. Dante, il gendarme e l’articolo 3 della Costituzione, in Tullio De Mauro, Massimo Vedovelli (a cura di), Dante, il gendarme e la bolletta. La comunicazione pubblica in Italia e la nuova bolletta Enel, Laterza, Roma-Bari, pp. 3-11. Nota linguistica sulla bolletta Enel, in Tullio De Mauro, Massimo Vedovelli (a cura di), Dante, il gendarme e la bolletta. La comunicazione pubblica in Italia e la nuova bolletta Enel, Laterza, Roma-Bari, pp. 15-31. Réponse, in Faculté de philosophie et lettres. Departement d’études romanes, Doctorat honoris causa du Professeur Tullio De Mauro, UCL, Louvain, pp. 17-24. Il secondo Premio Tivoli-Europa, in Filippo Bettini, Armando Gnisci, Forse questo è il confine. La giovane poesia d’Europa nel 1998, Meltemi, Roma, pp. 7-8. 142
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di), Didattica ed educazione linguistica, La Nuova Italia, Firenze, pp. VII-XI. Prefazione, in Roberto Beretta, Il piccolo ecclesialese illustrato, Ancora Editrice, Milano, pp. 5-7. RIEDIZIONI E TRADUZIONI Linguística elementar, traduzione di Isabel Teresa Santos, Editorial Estampa, Lisboa. 2001 ARTICOLI E VOLUMI Dizionario delle parole straniere, Garzanti Linguistica, Milano (con Marco Mancini). La culture et la langue, in Sabino Cassese (a cura di), Portrait de l’Italie actuelle, La documentation française, Paris, pp. 125-150; ed. it.: La cultura e la lingua, in Sabino Cassese (a cura di), Ritratto dell’Italia, Laterza, Roma-Bari, pp. 141-161. Il linguaggio come tecnica dell’esprimersi, in Consiglio Nazionale Forense, Il linguaggio, la condotta, il metodo, I seminari dell’Avvocatura (febbraio-marzo 2000), Il Sole-24 Ore, Milano, pp. 3-12. La lingua come ritratto implicito ed esplicito di un paese, in «Antologia Viesseux», n.s., VII, 19-20, pp. 17-22. PREFAZIONI E INTRODUZIONI Introduzione, in Bruno Bisceglia, Alfredo Rizzi, Alcune analisi statistiche delle encicliche papali, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, pp. 5-11. Prefazione, in Luigi Berlinguer, Marco Panara, La scuola nuova, Laterza, Roma-Bari, pp. VII-XIV. Prefazione, in Grazia Basile, Le parole nella mente: relazioni semantiche e struttura del lessico, Franco Angeli, Milano, pp. 7-9. RIEDIZIONI E TRADUZIONI Linguistica elementare, 6ª e 7ª edizione, Laterza, Roma-Bari. Minisemantica ecc., 7ª edizione, Laterza, Roma-Bari. Minima scholaria, 2ª edizione, Laterza, Roma-Bari. 145
2002 ARTICOLI E VOLUMI I Miserabili, in Paolo Domenico Malvini, Maria Concetta Mattei (a cura di), Il mio libro, Biblioteca Comunale di Trento, Trento, pp. 85-87. Discorso inaugurale [inaugurazione anno accademico 2000-2001], e Intervento introduttivo, in Università di Castel S. Angelo, Lezioni scelte, vol. VII, a.a. 2000-2001, 2001-2002, IPS Editrice, Roma, pp. 12-17, 27-33. Prima lezione sul linguaggio, Laterza, Roma-Bari. “Ho cercato solo i miei montanari e ho trovato i cittadini”. Don Milani in cinque punti, «Valore scuola», 10, pp. 6-11. Lettura e lingua, a cura di Angelo Angeloni, «La Scrittura. Rivista letteraria trimestrale», VI, 14-15, pp. 32-34. Obscura lex sed lex? Riflettendo sul linguaggio giuridico, in Gian Luigi Beccaria, Carla Marello (a cura di), La parola al testo. Scritti per Bice Garavelli Mortara, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2001 (ma 2002), pp. 147-159. Un nuovo riflesso statistico e lessico-semantico tra parlato e scritto, in Maurizio Dardano, Adriana Pelo, Antonella Stefinlongo (a cura di), Scritto e Parlato. Metodi, testi, contesti, Atti del colloquio internazionale di studi (Roma, 1999), Aracne, Roma, pp. 31-42 (con Fiammetta Carloni). Il seme della differenza, tra natura e storia, in Rosa Bianca Finazzi, Celestina Milani, Paola Tornaghi, Alfredo Valvo (a cura di), EUROAL. L’alterità nella dinamica delle culture antiche e medievali: interferenze linguistiche e storiche nel processo di formazione dell’Europa, ISU Università Cattolica, Milano, pp. 17-29. La grande lezione di Mario Lodi, «La Vita Scolastica», LVI, 19, pp. 4-5. Parole dalla trincea, «IBC. Informazioni commenti inchieste sui beni culturali», X, 3, pp. 21-23. Le nuove tecnologie multimediali per il miglioramento della scuola, in Amedeo Pistolese, Sandro Scalabrini (a cura di), Play and Game. Bambini e computer fra gioco e scuola, EDUP, Roma, pp. 135140. 146
C’è una scuola grande come il mondo, «Insegnare. Mensile del Centro di iniziativa democratica degli insegnanti» [rubrica fissa nelle due ultime pagine in tutti i dieci numeri dell’anno]. Una lingua, tante lingue, in Annarita Puglielli (a cura di), Qui è la nostra lingua, CD-rom, Università di Roma Tre-Comune di Roma, Roma. PREFAZIONI E INTRODUZIONI Introduzione, in Il dizionario dei sinonimi e contrari, con sinonimie ragionate e tavole nomenclatorie, Paravia, Torino, pp. III-XII. Prefazione, in Giuseppe Bellosi, Marcello Savini (a cura di), Verificato per censura. Lettere e cartoline di soldati romagnoli nella prima guerra mondiale, Il Ponte Vecchio, Cesena, pp. 13-16. Prefazione, in Silvana Ferreri (a cura di), “Non uno di meno”. Strategie didattiche per leggere e comprendere, «Quaderni del GISCEL», La Nuova Italia, Firenze, pp. XI-XVIII. Prefazione, in Fabio Rossi, La lingua in gioco. Da Totò a lezione di retorica, Bulzoni, Roma, pp. 13-16. Prefazione, in Vito Laterza, Quale editore. Note di lavoro, Laterza, Roma-Bari, pp. VII-XII. Prefazione, in Mizio Ferrari, Libero docente. Lettera ad un preside, Fratelli Frilli editori, Genova, pp. 9-10. Prefazione, in Massimo Vedovelli, L’italiano degli stranieri. Storia, attualità e prospettive, Carocci, Roma, pp. 11-13. Prefazione, in Vladimir Majakovskij, Vladimir Majakovskij, testo russo a fronte, introduzione, traduzione e note di G. Ruju, Editori Riuniti, Roma, pp. 7-8. Prefazione, in Marco Rossi Doria, Di mestiere faccio il maestro, 2a edizione, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, pp. 5-10. Prefazione, in Isabella Chiari, Ridondanza e linguaggio: un principio costitutivo delle lingue, Carocci, Roma, pp. 11-15. RIEDIZIONI E TRADUZIONI Linguistica elementare, 8ª e 9ª edizione, Laterza, Roma-Bari. Capire le parole, 4ª edizione, Laterza, Roma-Bari. 147
Mikré semasiología ton me rhematikón kai ton physikón-istorikón glossón, metáphrase-epiméleia Mariánna Kondyle, Nesos, Atene. 2003 ARTICOLI E VOLUMI Contare e raccontare, in Carlo Bernardini, Tullio De Mauro, Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture, Laterza, Roma-Bari, pp. 75-136. Per le scuole di società sostanzialmente democratiche, «Insegnare. Mensile del Centro di iniziativa democratica degli insegnanti», 2, pp. 25-28. A proposito del Congresso della Gioventù liberale del 1952 e di “Critica liberale” nella tradizione gobettiana: cinquant’anni dopo. Testimonianze, Comunicazione in IRSE-«Critica liberale», Roma, pp. 39-44. Lettura e linguaggio, Corso di perfezionamento seminariale 1993, in Silvana Ottieri Mauri (a cura di), Vent’anni di scuola per Librai, Scuola per Librai Umberto e Elisabetta Mauri, Milano, pp. 273287. Il dizionario dei sinonimi e contrari compatto, Paravia, Torino. L’italiano nel mondo, in Tullio De Mauro et alii, Italiano 2000, pp. 13-22 (v. sotto). La cultura per la cittadinanza, la produttività, la democrazia, in Domenico Chiesa, Sofia Toselli (a cura di), Scuola, società e sviluppo. Il diritto di tutti alla cultura, CIDI- Zanichelli, Loescher, Bologna, pp. 18-22. Per una università ‘glocale’, in Università degli Studi di Catania, «Bollettino di Ateneo. Dossier tra localismi e globalizzazione”, IX, 1-2 (giugno 2003), pp. 40-45. Timpanaro e la linguistica, in Il filologo materialista. Studi per Sebastiano Timpanaro, editi da Riccardo Di Donato, Scuola Normale Superiore, Pisa, pp. 91-103. Nuove parole italiane dell’uso del «Grande dizionario italiano dell’uso», ideato e diretto da Tullio De Mauro con la collaborazione 148
di Giulio Lepschy e Edoardo Sanguineti, UTET, Torino (vol. VII del Grande dizionario italiano dell’uso). PREFAZIONI E INTRODUZIONI Premise e Introduction in Tullio De Mauro, Shigeaki Sugeta, Lesser-Used Languages and Romance Linguistics, Bulzoni, Roma, pp. IX, XI-XV. Premessa, in Franco Gallo, Giovanni Iorio Giannoli, Paolo Quintili (a cura di), Per Sebastiano Timpanaro. Il linguaggio, le passioni, la storia, Edizioni Unicopli, Roma, pp. 7-10. Introduzione, in Nuove parole italiane dell’uso del «Grande dizionario italiano dell’uso», ideato e diretto da Tullio De Mauro con la collaborazione di Giulio Lepschy e Edoardo Sanguineti, UTET, Torino (vol. VII del Grande dizionario dell’uso), pp. VII-XVI. Prefazione, in Franco Valente, La lingua legata: educazione e rieducazione del mio linguaggio, Editori Riuniti, Roma, pp. 7-14. CURE Tullio De Mauro, Shigeaki Sugeta (Eds), Lesser-Used Languages and Romance Linguistics, Bulzoni, Roma. Italiano 2000. I pubblici e le motivazioni dell’italiano diffuso fra stranieri, Bulzoni, Roma (con Massimo Vedovelli, Monica Barni, Lorenzo Miraglia). RIEDIZIONI E TRADUZIONI Guida all’uso delle parole, 12a edizione, Editori Riuniti, Roma (con una nuova Postfazione, pp. 209-23).
Indice
Introduzione
V
Aperture A Tullio De Mauro da un «fratello di luna» di Renato Guarini
5
Una riflessione notturna di Alberto Asor Rosa
7
Linguistica e semiotica Al caro e ammirato collega Tullio De Mauro di Giovanni Nencioni
13
Un’esperienza sensata di Emilio Garroni
17
«Tuttavia, Professore, qualche parolina in più!» di Giulio C. Lepschy
23
Una politica culturale Parola di Ministro di Walter Veltroni
31
La linguistica in edicola di Gianni Borgna
37
Prima l’autore, poi il titolo di Giuseppe Laterza
41
151
Società e comunicazione La comunicazione sociale di Enzo Golino
47
Gendarmi, bollette e piccoli passi di Sabino Cassese
La patologia del linguaggio medico: goitrigeno o gozzigeno? di Emanuele Djalma Vitali
63 69
Impulso professionale irrefrenabile di Carlo Bernardini
75
Scuola e linguaggio La resistenza energica, persistente e decisa delle persone colte di Aldo Visalberghi
81
«È la cultura, baby!» di Alba Sasso
87
Bibliografia degli scritti di Tullio De Mauro
93
Percorsi Laterza
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22.
Finzi, R., Civiltà mezzadrile. La piccola coltura in Emilia Romagna De Felice, F., La questione della nazione repubblicana De Rosa, L., Conflitti e squilibri nel Mezzogiorno tra Cinque e Ottocento Silvestre, M.L. - Valerio, A. (a cura di), Donne in viaggio. Viaggio religioso politico metaforico Preta, L. (a cura di), Nuove geometrie della mente. Psicoanalisi e bioetica Donghi, P. (a cura di), Limiti e frontiere della scienza Allovio, S., La foresta di alleanze. Popoli e riti in Africa equatoriale Destro, A. - Pesce, M., Come nasce una religione. Antropologia ed esegesi del Vangelo di Giovanni Università degli Studi di Bari - Facoltà di Lettere, Cinquant’anni di ricerca e didattica. Atti del convegno 25-27 febbraio 1998 Forni Rosa, G., Il dibattito sul modernismo religioso Macioti, M.I., Pellegrinaggi e giubilei. I luoghi del culto Careri M. - Cattaneo, R. (a cura di), Cambiare la Pubblica Amministrazione. L’esperienza della Regione Lombardia Viazzo, P.P., Introduzione all’antropologia storica Kowohl De Rosa, C.S., Storia della cultura tedesca fra «ancien régime» e Restaurazione. Cronache e personaggi Negrotti, M., Artificiale. La riproduzione della natura e le sue leggi Amendola, G. (a cura di), Scenari della città nel futuro prossimo venturo Losano, M.G., Un giurista tropicale. Tobias Barreto fra Brasile reale e Germania ideale Donghi, P. (a cura di), Aree di contagio Amoruso, V., La letteratura americana moderna. 1861-1915 Simili, R. - Paoloni, G., Per una storia del Consiglio Nazionale delle Ricerche, vol. I Simili, R. - Paoloni, G., Per una storia del Consiglio Nazionale delle Ricerche, vol. II Piromallo Gambardella, A., Le sfide della comunicazione
23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54.
Fabris, A., Il tempo dell’uomo e il tempo di Dio. Filosofie del tempo in una prospettiva interdisciplinare Bartolini, F., Roma borghese. La casa e i ceti medi tra le due guerre Losano, M.G., Cinque anni di legge sulla privacy. Un bilancio dei primi cinque anni Artioli, U., Pirandello allegorico. I fantasmi dell’immaginario cristiano Fanizza, L., Senato e società politica tra Augusto e Traiano Villari, R. (a cura di), Controllo degli stretti e insediamenti militari nel Mediterraneo Folin, M., Rinascimento estense. Politica, cultura, istituzioni di un antico Stato italiano (versione on line) Bravo, A. - Pelaja, M. - Pescarolo, A. - Scaraffia, L., Storia sociale delle donne nell’Italia contemporanea Sportelli, A., Generi letterari. Ibridismo e contaminazione Ferrari, S., Lo specchio dell’Io. Autoritratto e psicologia Battimelli, G. - De Maria, M. - Paoloni, G., L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Storia di una comunità di ricerca Narducci, E., Lucano. Un’epica contro l’impero (non uscito) Fedele, M., Il management delle politiche pubbliche Piasere, L., L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia Bentivegna, S., Politica e nuove tecnologie della comunicazione (in preparazione) Bocchini Camaiani, B., Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernità Donghi, P. (a cura di), La nuova Odissea (in preparazione) Biscardi, L. - De Francesco, A. (a cura di), Vincenzo Cuoco nella cultura di due secoli Chiarini, R. (a cura di), Quale Europa dopo l’euro Pazé, V., Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea Maniscalco, M.L., Sociologia del denaro Favole, A., Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte Lo Piparo, F., Aristotele e il linguaggio Cappelli, O. (a cura di), Mezzo mondo in rete Di Giovanni, P., Filosofia e psicologia nel positivismo italiano Pecchinenda, G., Videogiochi e cultura della simulazione Sebesta, L., Alleati competitivi. Origini e sviluppo della cooperazione spaziale fra Europa e Stati Uniti Ruffini, F., Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé Donghi, P. (a cura di), Il governo della scienza