Il racconto come teologia. Studio narrativo del terzo vangelo e del libro degli Atti degli Apostoli [2 ed.] 8810221389, 9788810221389

Dall'uscita della prima edizione (1996), gli studi narrativi sui Vangeli e sugli Atti degli apostoli hanno compiuto

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Il racconto come teologia. Studio narrativo del terzo vangelo e del libro degli Atti degli Apostoli [2 ed.]
 8810221389, 9788810221389

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Collana BIBLICA J.-L. SKA, Introduzione alla lettura del Pentateuco. Chiavi per l'interpretazione dei

primi cinque libri della Bibbia

]."-L. SKA, La strada e la casa. Itinerari biblici

L. MAzziN GHI, «Ho cercato e ho esplorato». Studi sul Qohelet

I volti di Giobbe. Percorsi interdisciplinari, a cura di G. MARcoNI

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C. TERMINI

R. MEYNET, Morto e risorto secondo le Scritture J.-L. SKA, Abramo e i suoi ospiti. n patriarca e i credenti nel Dio unico Chiesa e ministeri in Paolo, a cura di G. DE VIRGn.IO C. D'ANGELO, Il libro di Rut. La forza delle donne. Commento teologico e letterario

E. BoRGID, Giustizia e amore nelle Lettere di Paolo. Dall'esegesi alla cultura contem­ poranea

G. VANHOOMISSEN, Cominciando da Mosè. Dall'Egitto alla Terra Promessa

J.-L. SKA, Il libro

sigillato e il libro aperto

R. MEYNET, Leggere la Bibbia. Un'introduzione all'esegesi Y. SIMOENS, l/libro della pienezza. n Cantico dei Cantici. Una lettura antropologica e teologica

X. LÉON-DuFoUR, Un biblista cerca Dio J.-L. SKA, I volti insoliti di Dio. Meditazioni bibliche

X. L�oN-DuFOUR, Dio si lascia cercare. Dialogo di un biblista con Jean-Maurice de

Montremy

A. MARCHAOOUR, I personaggi del Vangelo di Giovanni. Specchio per una cristologia narrativa

C. D'ANGELO, I.:amore del Trafitto. Discepolato e maturità cristiana

F. Cocco, Sulla cattedra di Mosè. La legittimazione del potere nell'Israele post-esili­ co (Nm 11; 16)

J.-L.

SKA, Una goccia d'inchiostro. Finestre sul panorama biblico

G. BARBAGUO, La Parola si moltiplicava S. FAUSTI, Per una lettura laica della Bibbia

P. BovATI, «Cosi parla il Signore». Studi sul profetismo biblico F. Cocco, Il somso di Dio. Studio esegetico della «benedizione di san Francesco» (Nm 6,24-26) R PENNA, Paolo scriba di Gesù C. BusATO BARBAGUO, I mille volti di Gesù U. VANNI, Intervista sull'Apocalisse. Collasso del cosmo o annuncio di un mondo nuovo? J.-N. ALErn, Il racconto come teologia. Studio narrativo del terzo vangelo e del libro

degli Atti degli apostoli

Jean-Noil Aletti

IL RACCONTO COME TEOLOGIA STUDIO NARRATIVO DEL TERZO VANGELO E DEL LIBRO DEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI

EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA

Traduzione dal francese di Carlo VaJentino Traduzione della prefazione e del capitolo I di Romeo Fabbri Prima edizione, ED, Roma: 1996 Prima edizione con aggiunte, EDB, Bologna: giugno 2009

Realizzazione editoriale: Probemio editoriale srl, Firenze •1996

Edizioni Dehoniane, Roma

02009 Centro editoriale dehoniano via Nosadella 6 40123 Bologna EDB• -

ISBN

978-88-10-22138-9

Stampa: Sograte, Città di Castello (PG) 2009

PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Esaurita la prima edizione del mio saggio Il racconto come teo­ logia, le Edizioni Dehoniane di B ologna hanno ritenuto utile pubbli­ carne una seconda edizione riveduta e accresciuta. Perciò in questa nuova edizione ho aggiunto un capitolo, il primo, sulla teoria lucana della testimonianza, che divide piuttosto nettamente gli Atti degli apostoli in due parti. Infatti, Luca presenta Pietro come il rappresen­ tante dei testimoni oculari e Paolo come il rappresentante dei testi­ moni che siamo chiamati a essere anche noi oggi. Questo capitolo, con il suo riferimento all'attualità, aiuterà fin dall'inizio il lettore a scoprire alcune idee fondamentali del narratore lucano, invitandolo a entrare nella dinamica del suo racconto. Avrei voluto aggiungere alla prima edizione alcune analisi nar­ rative dei principali passi degli Atti degli apostoli, fra cui At 10-- 1 1, che è un vero capolavoro di composizione e teorizz azione della testi­ monianza apostolica. Ma poiché questo passo e gli altri che avevo in mente sono stati scelti come tesi di dottorato da alcuni miei studen­ ti, dovrò attendere la conclusione e la pubblicazione delle loro ricer­ che in base alle regole della deontologia accademica - per poter presentare a mia volta quei passi molto belli e ricchi. Dall'uscita della prima edizione di questo saggio gli studi narra­ tivi sui vangeli e sugli Atti degli apostoli hanno fatto enormi progres­ si. Sono felice di aver potuto contribuire per interposta persona (i miei studenti dottorandi degli anni passati) alla divulgazione e alla pratica di questo approccio. Su Marco, si possono leggere i lavori di M. Vironda, G. Bonifacio e, ben presto, di P. Mascilongo; su Luca, -

6

Prefazione alla seconda edizione

quello di C. Broccar do: sono quattro saggi che fanno onore all'ese­ gesi biblica italiana 1 Rileggendo il mio testo, sono rimasto piacevol­ mente sorpreso al vedere che non era invecchiato e poteva quindi essere ripubblicato tale e quale. Ringrazio le Edizioni Dehoniane per aver osato affrontare questa nuova sfida. . . .

Roma, giugno 2008

1 M. VIRONDA, Gesù nel Vangelo di Marco, Bologna 2003; C. BRoccARDo, LA fede emtlrginata: analisi narrativa di Luca 4-9, (Studi e ricerche), Assisi 2 006; G. BoNIFACIO, Per­ sonaggi minori e discepoli in Marco 4-8, (AnBib) , Roma 2008.

INTRODUZIONE

NARRAZIONE

E

TEOLOGIA

La collana in cui appare questo volume si propone di far (ri)sco­ prire i pregi della teologia narrante; lodevole iniziativa! In un prece­ dente saggio sulla narratività del terzo vangelo, in particolare a pro­ posito del modo in cui Luca tratta della questione della regalità di Gesù, avevo segnalato il carattere insuperabile del racconto, mostrando che questa regalità non poteva essere espressa con dei concetti in quanto, per essere proclamata e confessata in modo ade­ guato, doveva essere raccontata, essendo la sua comprensione e pro­ clamazione strettamente legate alle modalità della sua rivelazione. Il titolo di «re» è infatti inseparabile dal cammino che lo giustifica, che ne costituisce anche la sostanza. Ecco perché «il lettore comprende, ma solo alla fine del macro-racconto, perché Gesù parla del Regno solo in parabole, sotto forma di racconti. La narrazione ha qui la meglio sul concetto: è forse la sua più grande vittoria!».1 Se uno degli scopi della teologia narrante è effettivamente quello di mettere in guardia i nostri contemporanei sul fatto che il discorso teologico cri­ stiano troppo spesso ha dimenticato la natura propriamente narrati­ va dei racconti evangelici, facendone più una riserva di prove, dove le affermazioni e le elaborazioni dogmatiche trovavano la loro con­ ferma, che una norma per l'enunciazione teologica stessa, allora l'ap­ proccio narrativo ha certamente più che una ragion d'essere.

1 J.-N. ALETTI, L'arte di raccontare Gesù Cristo. Luca, (Biblioteca biblica 7), Brescia 1991 , 182.

Lo.

scrittura na"ativa del Vangelo di

8

Introduzione

Ciò detto, l'approccio narrativo al racconto evangelico non può diventare a sua volta un racconto: la sua dimostrazione del carattere insuperabile del racconto non si sviluppa narrativamente. Ma allora l'esegesi non dà forse l'impressione di recuperare il racconto, di assi­ milarlo, di concettualizzarlo, e fargli poi perdere il suo carattere insu­ perabile? In che modo deve procedere l'approccio narrativo per introdurre al racconto, stimolare il desiderio di entrare nella sua dinamica infinitamente ricca, senza sostituirsi a esso? Non possono rispondere a priori a questi interrogativi, ma solo sperare di interes­ sare e stimolare il lettore, al punto di spingerlo a lasciarsi a sua volta sedurre dalla narrazione lucana. In breve, per dirla in termini para­ dossali, l'esegesi narrativa, che può essere solo posteriore al raccon­ to che analizza, deve nondimeno conservare un carattere essenzial­ mente introduttivo: rinviando al racconto, avendo come unico scopo quello di favorire la sua rilettura (o riletture ), essa resta quindi subordinata a esso. LUCA: UN NARRATORE DEGNO DI QUESTO NOME?

Che Luca sia un teologo, e un grande teologo, oggi nessuno lo nega: l'opera di F. Bovon, che porta proprio questo titolo (Luc le théologien ) , l'ha sottolineato nel modo dovuto, riprendendo i risulta­ ti più salienti dell'esegesi contemporanea. Non è perciò il caso di ritornare su questo punto. Ugualmente, tutti riconoscono il genio letterario di Luca, che eccelle in tutti i generi allora in vigore. Oltre alle parabole e ai rac­ conti di miracoli, ha composto preghiere e inni, come il Magnificat e il Benedictus,2lettere;3 sa, come gli autori di allora, raccontare i viag­ gi - il vangelo e gli Atti ne menzionano molti4 �, descrivere con pre­ cisione un naufragio,5 riferire cospirazioni, bastonature, arresti,

2 Gli esegeti ammettono oggi, e con ottime ragioni, il lavoro redazionale di Luca per questi due cantici. Parlare di semplice ripresa di inni preesistenti risulta insufficiente. 3 Cf. At 15,23 -29 ; 23,26-30. 4 Per il libro degli Atti, cf. 1 4,1 -7.19-25 ; 15,3 6-16,12 ; 18,18-23 ; 19 ,2 1-22; 20,1-6.13-16; 21,1-3.7.15 -16. ' Cf. At 27,1-28, 16.

Introduzione

9

imprigionamenti e liberazioni.6 Eccelle però soprattutto nell'arte oratoria.7 I discorsi che egli presenta sono di una grande varietà e denotano uno spirito perfettamente a proprio agio in diverse cultu­ re: secondo il locutore (Gesù, Pietro, Stefano, Paolo, Tertullo, ecc.), l'uditorio (ebreo o greco), le circostanze (un processo, una partenza, un'agora, ecc.) e la funzione (proclamazione, accusa, difesa, testa­ mento, ecc.), l'allocuzione può seguire le regole dell'esegesi giudaica del tempo, conservare la composizione dei discorsi giudiziari greco­ ellenistici, o riprendere gli elementi delle esortazioni testamentarie giudaiche.8 Alcuni esegeti, che ben conoscono i prestiti che Luca prende dalla versione greca della Bibbia, detta dei LXX, ma che hanno meno familiarità con gli approcci nuovi, pensano che gli sforzi con­ temporanei per interpretare l'opera lucana a partire dalla letteratu­ ra ellenistica siano più o meno destinati al fallimento,9 e che il solo sfondo che possa spiegare adeguatamente l'armonia della composi­ zione lucana sia la LXX. Non c'è alcun dubbio che la tipologia luca­ na trova tutti i suoi prototipi nell'ambito biblico; ugualmente, non c'è alcun dubbio che gli studi contemporanei non sono tutti dello stesso valore e si esauriscono spesso nell'individuare i modelli letterari 6 Cf. At 4,1-2; 5,18.21-27; 6,11-12; 12,3; 16,19; 17,5-9; 21,27-36 (arresti); At 4,3; 5,1816,23-40; 23 ,10--28 ,31 (imprigionamentilevasioni); At 7,54-8,3; 14,2-6.19; 16,22; 21,30-32; 22,24-29; 28,3-7 (bastonature, lapidazioni); At 9,23-24; 20,3; 23,12-35; 25,1-6 (cospirazioni). 7 Ecco alcuni esempi dei generi utilizzati: l) prefazi; 2) sommari; 3) racconti di viag­ gi (Le 9,51-19,44; At 12,25-21,16; 27,1-28,16); 4) dichiarazioni in contesto di pasti (duran­ te i symposia: Le 7,36-50; 11,37-54; 14,1-24, dove il mangiare raggruppa quattro pericopi); 5) discorsi, che costituiscono dal 20 al 35% del racconto della storiografia ellenistica: negli Atti non ci sono meno di 28 discorsi. Da notare a questo proposito la tecnica dell'interru­ zione (At 2,36; 4,1 ; 7,53; 10,44; 17,32; 19,28; 22,22; 23,7; 26,34) o della susseguente discus­ sione (At 2,40; 13,43; 15 ,12; -28,23). 8 Oltre alle parole di Gesù nel corso dell'ultima cena, in Le 22,14-38, le parole di Paolo agli anziani di Mileto in At 20,18-35 appartengono al genere testamentario. Gli ele­ menti esterni e interni sono grosso modo i seguenti: il locutore convoca tutta la comunità o, nel caso dei Testamenti dei dodici patriarchi, la propria famiglia; annuncia la sua morte; annuncia anche le difficoltà di coloro che devono succedergli; li esorta a una condotta esemplare; garantisce la sua successione; li benedice; nei Testamenti, il contesto del discor­ so comprende anche la morte e il seppellimento. 9 Cf. l'opinione netta di R. O'TooLE, The Unity of Luke's Theology: An Analysis of Luke Acts, Wilmington, Delaware 1994, 12: «Any effort to interpret Luke's double work primarily in terms of Hellenistic literature is m.istak:en». 23; 12,4-11;

lO

Introduzione

invece di sfruttame tutte le potenzialità per l ' interpretazione di Luca/Atti. Ma il caveat non deve far dimenticare il gran numero di trattati eUenistici che apparentano l'opera lucana alla sto riografia del suo tempo.10 Thtto dipende evidentemente dall'uso che si fa di questi dat i l et terari. L'arte di Luca non è stata mai, o quasi mai, messa in discussione al livello de gli episodi, ancora chiamati micro-racconti, e per alcune sezioni, org anizzate in modi diversi, secondo i canoni letterari del tempo 1 1 Ma si può dire che Luca ha concepito il suo dittico prima di tutto come un racconto, cioè come una macro-unità narrativa, e può egli essere qualificato veramente come narratore, o è invece solo uno scaltro compilatore? In effetti un approccio narrativo a Luca/Atti ha senso solo se si applica a un insieme che meriti il nome di racconto. Ora, i lavori contemporane i hanno sollevato la questione dell'oppor­ tunità e della pertinenza dell'approccio narrativo, per il fatto che l'or­ ganizzazione del testo lucano non sembra né omogenea né totale. È v ero che, come nella maggior parte dei racconti del loro tempo, gli episodi evangelici non sono sempre fortemente agganciati tra loro, al punto da determinare un intreccio di situazione (cosa accadrà? in che mo d o l'eroe supererà questa difficoltà?, ecc.). Per alcuni critici que· sto s ignificherebbe che gli evangelisti non sono dei veri narratori. Senza pro nunciarmi qui su Matteo, Marco e Giovanni, credo di aver dimostrato, 12 sulla scia di altri che il racconto lucano, anche se episo­ dico, d'altronde come quelli del suo tempo, forma nondime no una real e unità. Il giudizio espresso sulla narratività evangelica non deve d'altra parte far dimenticare che i vangeli sviluppano intrecci di rive­ lazione (chi è Gesù, come manifesterà quello che egli è, ecc.?), che favoriscono la disposizione in modo contiguo di episodi relativ amen te indipendenti, ma la cui funzione è allora cumulativa.13 .

,

­

10 Cf.,

in particolare, D. AUNE, The New Testmnent in its Literary Environment, Phi· ladelphia 1 989, 120·131 . 11 Luc a sa disporli in modo chiastico, alternato, intrecciato, ecc. Sa anche preparare i temi e gli episodi, utilizzare transizioni, sommari. ecc. 12 Cf. ALE111. L'arte di raccontare Gesù Cristo. 13 Questa natura episodica dei racconti evangelici autorizza del resto una lettura indipendente (relativamente, s'intende) dei diversi episodi, in vista della preghiera, della contemplazione, come l'ha ben compreso la liturgia.

bttroduzione

11

QUALE METODO?

L'espressione «approccio narrativo» è troppo generica; è chiaro che esso non è l 'unico. Ma, essendo la componente narrativa forte e pregnante - non ho detto che sia la sola, a differenza di coloro che vedono solo dei parallelismi, alternati o concentrici, perché i princi­ pi di composizione lucani sono molteplici e complessi -, è importan­ te seguirlo docilmente e rigorosamente. Come ne L'arte di racconta­ re Gesù Cristo, resterò nell'ambito della narratologia contempora­ nea, con la dovuta flessibilità, e senza rinviare alle diverse scuole. Non fornirò perciò informazioni sulle teorie attualmente in voga, né proporrò un percorso del metodo.14 Attenendomi agli scopi della collana, metterò piuttosto in evidenza la pertinenza teologica delle tecniche narrative lucane, senza imbarcarmi in discussioni che risul­ terebbero inevitabilmente astruse per i profani. L'approccio narrativo che seguiremo qui ha avuto per molto tempo come oggetto privilegiato, se non unico, i racconti romanze­ schi, di molto posteriori a Luca e agli altri vangeli, e fino a un certo punto la sua armatura concettuale è stata determinata da questo fatto! I narratologi contemporanei sono passati tutti per questa stra­ da. Non sarebbe quindi più appropriato cercare piuttosto un model­ lo narrativo tra quelli dell'epoca dei racconti neotestamentari, essen­ do essi molto probabilmente conosciuti da Luca? Non c'è alcun dub­ bio che l 'approccio narrativo non può non considerare l'esistenza di modelli romanzeschi e storiografici contemporanei a Luca/Atti, e con ciò cercare di determinare il grado di originalità di Luca. N ono­ stante tutto, le griglie di lettura fornite dalla narratologia sono molto utili per rendere l'esegeta attento alle diverse istanze narrative e alla loro articolazione. 'Iì"a i racconti del passato e quelli di oggi le diffe­ renze sono spesso enormi, ma dobbiamo ancora alla narratologia di aver messo in evidenza le distanze e di averle registrate. Perché pri­ varsi allora di un approccio che, sebbene originariamente legato alla letteratura romanzesca recente, dispone di tutti gli strumenti che

14 D lettore interessato a un 'iniziazione al metodo può leggere le opere ad hoc men­ zionate nella bibliografia alla fine del volume.

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Introduzione

possono mettere in evidenza la ricchezza del tessuto narr ativo dei racconti antichi? In realtà il problema del metodo è subordinato a quello dei risultati: quelli dell'approccio narrativo sono forse più determinan­ ti di quelli dello studio della storia della tradizione e della redazio­ ne? Non posso dare una risposta prima di averne mostrato concre­ tamente la fondatezza. A dire il vero, l'approccio narrativo non si sostituisce agli altri. Esso non rifiuta le analisi che cercano di deter­ minare l'origine di una tradizione, l'originalità del vocabolario e del pensiero dei rispettivi autori, attraverso il confronto con l'uso di un'epoca e di altre culture. Anche l'approccio narrativo mette a confronto un racconto con quelli del suo tempo - e di tutti i tempi. Ma il confronto verte allora sulla consistenza degli attori, il tipo di intreccio o di prospettiva, sulla scelta degli episodi, la scansione degli eventi. Personaggi, spazio e tempo sono gli strumenti privile­ giati grazie ai quali si entra in un racconto. E vedremo come l'atten­ zione posta sulla natura narrativa di un testo evangelico permette di affinare i risultati degli studi esegetici che hanno per oggetto la sto­ ria della redazione. IL DITTICO

LUCANO

Il Vangelo di Luca e gli Atti degli apostoli formano un dittico e il racconto non si ferma in Le 24. È possibile limitare l'analisi, come ho fatto ne L'arte di raccontare Gesù Cristo, al solo vangelo, perché, come ho dimostrato lì, anche se Luca è un racconto aperto, i segni di chiusura sono abbastanza netti per potersi limitare alla prima tavola del dittico. Thttavia, andando fino alla fine degli Atti, si dispone chia­ ramente di più spazio e di maggiori opportunità di individuare le tec­ niche narrative e la loro funzione, e soprattutto di valutare l'ampiez­ za del progetto lucano. È questa la direzione che prenderò ora. Ammettiamo, con tutti gli esegeti, che il dittico Luca/Atti formi un'unità letteraria e teologica.15 Il nostro narratore ne ha fatto non15 et l'ultimo in ordine di tempo, R.C. TANNEJDLL, The Narrative Unity of Luke-Acts. A Literary lnterpretation, 1: Luke, Philadelphia 1986; 2: The Acts ofthe Apostles, Minnea­ polis 1990.

bttroduz.ione

13

dimeno due racconti distinti, quindi separabili. Entrambi sono infat­ ti preceduti da un prologo, 16 e l'ascensione di Gesù viene raccontata due volte e in modo diverso: la prima molto sommariamente, come si deve in una conclusione (cf. Le 24,50-52a) , la seconda in modo più esteso, perché costituisce l'episodio che mette in moto il racconto degli Atti (cf. At 1 ,4-1 1). La domanda che allora ci si pone è piutto­ sto semplice: se Luca intendeva scrivere una «unità narrativa» , una storia in cui il destino di Gesù e quello dei suoi discepoli si potesse­ ro leggere insieme, come l'espressione compiuta del piano salvifico di Dio, perché ha introdotto una cesura, creando così due racconti indipendenti? Non posso rispondere a priori a questa domanda, più importante di quanto possa sembrare. Mi auguro che il percorso che ho appena iniziato renderà conto di questa anomalia. L'ITINERARIO PROPOSTO

Senza esagerare, si può dire che in materia di approccio narrati­ vo i modi di procedere si riducono grosso modo a tre o quattro: l) seguire il racconto passo passo, cioè episodio per episodio, e mette­ re progressivamente a nudo le regole della sua articolazione; questa è la soluzione scelta da Tannehill in The Narrative Unity of Luke­ Acts; 2) presentare i personaggi principali del racconto e l'evoluzio­ ne delle loro relazioni, con tutto ciò che questo implica, come ha fatto A. Culpepper nel suo Anatomy of the Fourth Gospel; 3) analiz­ zare in dettaglio alcuni episodi rappresentativi della narrazione luca­ na e, a partire da ciò, abbozzare i contorni della sua «teologia narra­ tiva», itinerario che io stesso ho scelto ne L'arte di raccontare Gesù Cristo; 4) partire dalle tecniche narrative di Luca, in particolare dalle più ampie, per mostrare come esse determinino fondamentalmente la teologia lucana, fornendo così delle chiavi di lettura valide per la maggior parte degli episodi del dittico. Quest'ultimo è il percorso che seguirò nelle pagine seguenti; e, dato che il mio precedente sag­ gio sulla narratività trattava esclusivamente del vangelo, questo pri­ vilegerà il libro degli Atti, ma quel tanto che basta!

16 Cf. Le 1,1-4 e At 1,1-3. Il secondo prologo è un indubbio segno di inizio.

14

Introduzione

Certo, è impossibile, e sconsigliato, dire tutto, specialmente quando lo spazio assegnato è ristretto. Sarebbe stato senz'altro inte­ ressante approfondire la concezione lucana della storia della salvez­ za, la sua escatologia e la sua ecclesiologia. Speriamo che uno studio ulteriore possa mostrare, in questi campi, l'apporto decisivo dell'ap­ proccio narr ativo. Devo anche scusarmi se su alcuni punti sarò molto sintetico e riconoscere che, se certe aff ermazioni non riceveranno la dovuta giu­ stificazione, ciò è dovuto al non voler annoiare il lettore che ha meno familiarità con le tappe, necessariamente lunghe, dell'analisi. Gli specialisti potranno, ne sono sicuro, non solo verificare i miei risulta­ ti, ma continuare per conto proprio le piste che propongo alla loro riflessione. Dopotutto, ciò che un esegeta desidera è introdurre a una pratica, aiutare il suo lettore a padroneggiare un approccio per pene­ trare più a fondo la sobria bellezza dei testi biblici. È perciò con un certo rammarico che mi sono deciso a non fare di questo saggio un'introduzione pratica alla lettura narrativa di Luca/Atti. Per rime­ diare a questa mancanza, ho dedicato l'ultimo capitolo a questa pedagogia di lettura, fornendo un esempio di analisi narrativa. Quanto alla mia scrittura, essa cerca di copiare quella di Luca, ehe procede per precisazioni successive, che ripete modificando, con delle varianti. Mi capiterà perciò di riprendere l'analisi di alcune pericopi, per sfruttame progressivamente tutta la ricchezza. IL TESTO DEGLI ATII DEGLI APOSTOLI

È noto che il testo occidentale e la recensione alessandrina del libro degli Atti differiscono su molti punti. È un problema che ha la sua importanza, in particolare per la storia della redazione.17 Per l'approccio narrativo, però, è più interessante seguire una sola recen­ sione, nella misura in cui si delinea in essa la continuità delle tecni­ che. Le due recensioni, l'occidentale e l'alessandrina, potrebbero 17 Cf. ad esempio l'ipotesi di M.-E. BoiSMARD A. LAMOUILLE, Les Actes des deux ap6tres, 3 voli., Paris 1990, secondo i quali gli Atti avrebbero conosciuto due edizioni suc­ -

cessive, un testo occidentale, di Luca, e un testo alessandrino, che sarebbe una revisione del precedente.

Introduzione

15

costituire l'oggetto di un approccio narrativo comparato. Per ragio­ ni di comodità mi sono deciso a considerare solo l'alessandrina, quella seguita dal Nuovo Testamento greco di Aland, dal momento che questo non presentava conseguenze gravi per il presente lavoro. Concludendo, desidero esprimere il mio ringraziamento alle Edizioni Dehoniane per la loro proposta di scrivere questo libro. Senza tale richiesta, forse non avrei mai trovato il tempo e il gusto di intraprendere questo cammino. Come dice il proverbio, «l'appetito vien mangiando». È l'augurio che faccio anche al lettore!

CAPITOLO l UNA TEORIA DELLA TESTIMONIANZA

Il tema della testimonianza negli Atti degli apostoli è già stato oggetto di molti studi.1 Senza riprendere ciò che è stato detto - e spesso ben detto - qui vorrei solo sottolineare una difficoltà che non ha ancora attirato sufficientemente l'attenzione degli esegeti. Di che si tratta? L'inizio degli Atti (1,8) indica chiaramente che i discepoli devono essere testimoni di Gesù e per questo riceveranno lo Spirito Santo. Nei primi discorsi, quelli di Pietro (At 2- 11), viene effettiva­ mente sottolineato il legame fra testimonianza e dono dello Spirito, ma nei discorsi seguenti, soprattutto quelli di Paolo in At 22 e 26, che sono vere testimonianze,2 lo Spirito Santo non viene più ricordato. Ciò significa che Paolo non ha ricevuto quello/colui che il Risorto aveva promesso ai suoi discepoli e/o che la sua testimonianza è infe­ riore a quella di Pietro e degli apostoli che lo hanno preceduto? Testimonianza certo, ma meno valida, perché non ispirata? E se la forza di testimoniare gli viene dallo Spirito, perché quest'ultimo non viene menzionato in At 22-28? Per essere pertinenti, le risposte non possono trascurare le tecniche lucane e, scoprendole, ci renderemo conto non solo della bellezza letteraria del dittico Luca/Atti, ma anche delle sfide della testimonianz a che siamo chiamati a rendere.

1 Per il mio personale contributo si veda in questo volume il capitolo 3. 2 Che i discorsi di At 22 e 26 siano tali viene detto esplicitamente dalla voce a Paolo in At 23,11.

divina

18

Capitolo l

CoNDIZIONI E COMPONENTI DELLA TESTIMONIANZA

Gesù e la testimonianza Thtti riconoscono che, negli Atti degli apostoli, è Gesù a defini­ re la testimonianza in tutte le sue componenti. Già in Le 24,48 il Risorto aveva dichiarato ai discepoli riuniti attorno a lui che dove­ vano essere testimoni di «queste cose» (touton ) .3 E, fin dall'inizio degli Atti, afferma chiaramente che dovranno rendergli testimonian­ za (A t l ,8). Testimoni non più solo di «queste cose», per mostrarne la realtà e la coerenza, ma testimoni di Gesù. Mentre la formula di Le 24,48 sottolinea il contenuto (testimoniare queste cose), quella di At 1,8 (mi sarete testimoni) evidenzia il legame esistente fra Gesù e i testimoni. Infatti, il pronome greco mou è un genitivo di origine - gli apostoli sono testimoni, perché sono stati dichiarati e costituiti tali da Gesù4 - ma è anche un genitivo soggettivo - Gesù è più che mai il loro Signore - e oggettivo - perché essi parleranno di lui. Certo l'enunciato (mi sarete testimoni) non dice in che cosa consista la testimonianza, ma non ci si aspetta questo da un esordio, nel quale si esprime tutto il resto in nuce. At 1,8 indica senza ambiguità che Gesù ha fissato l'estensione geografica della testimonianza. La testimonianza deve giungere fino agli estremi confini della terra, determinando cosi quella che viene chiamata convenzionalmente missione. 5 Inoltre, il suo contenuto è radicalmente cristologico: mentre in Le 9,2 Gesù aveva inviato i Dodici ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi, aveva

3 Su ciò che nasconde questo pronome neutro cf. E. MAN:ICARDI, «La terza apparizio· ne del Risorto nel Vangelo di Luca», in Rivista di teologia dell'evangelizzazione 1(1997), 5·21. 4 Cosl i testimoni sono scelti o nominati da Gesù (cf. 1 ,2) o da Dio, e anche Pietro segnalerà questa condizione, essenziale per la testimonianza (At 10,41). s Secondo molti esegeti, oltre a enunciare le tappe della testimonianza, At 1,8 fisse· rebbe anche quella del racconto e della sua composizione. Senza negare il carattere pro. lettico dell'affermazione del Risorto, non bisogna dimenticare che il narratore segue vari tipi di composizione: quella in cicli (ciclo di Pietro e ciclo di Paolo; d pp. 75-76), quella basata sulla synkrisis (specialmente fra le passioni di Gesù e di Paolo), che unifica Luca/Atti (ivi, 65-80), e infine quella in sezioni, come indica G. BETORI, «La strutturazione del libro degli Atti: una proposta», in RivBib 42(1994), 3-34.

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Una teoria della testimonitmza

detto più o meno la stessa cosa ai settantadue discepoli in Le 10,9 e aveva affermato, in Le 24,47, che la proclamazione fatta «nel suo nome» avrebbe riguardato la conversione e il perdono dei peccati, in At 1 ,8 tutto viene cristologizzato: la testimonianza (relativa a Gesù) costituisce lo scopo della missione e la sua estensione eguaglia, se non supera, quella del vangelo.6 Oltre a fissare l'oggetto e l'estensione della testimonianza, Gesù enuncia anche la conditio sine qua non della possibilità di questa testimonianza: la dynamis dello Spirito Santo. In altri termini, nella testimonianza la competenza viene unicamente dalla ricezione dello Spirito Santo. E Pietro riconosce e ripete che la testimonianza dipen­ de da questo dono.7 Certo, in At 1 ,8 il lettore non può ancora sape­ re perché lo Spirito debba donare la forza - più che le capacità ora­ torie - per testimoniare: il contesto della violenza e della persecuzio­ ne giustificherà progressivamente la scelta del termine. Solo la forza dello Spirito potrà venire in aiuto alla fragilità di coloro che devono testimoniare davanti ad autorità che li minacciano e non esitano a perseguitarli, fino alla morte (At 7). l discepoli e la loro testimonianza

Oltre a sottolineare che è stato lo stesso Risorto a enunciare le componenti della testimonianza - sia pure solo in nuce il racconto insiste sul fatto che i discepoli hanno ben compreso il messaggio del loro Signore. Infatti, la prima cosa che Pietro chiede ai compagni è di trovare un sostituto di Giuda (At 1 ,15-26). Nel suo discorso affer­ ma: «Bisogna che fra coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in cui il Signore Gesù ha vissuto in mezzo a noi, incomincian-

6 Qui è escluso uno studio della relazione fra i campi lessicali del vangelo e della testimonianza negli Atti. I due campi hanno per oggetto Cristo, ma la loro insistenza è diversa: il vangelo designa il messaggio salvifico ottenuto mediante la fede in Gesù Cristo, mentre negli Atti la testimonianza connota l'impegno degli araldi (fino alla morte, ecc.). Inoltre, considerando lo svolgimento del racconto, si può affermare che la testimonianza è più estesa; in realtà, il vocabolario del vangelo scompare dopo At 20,24 (o 21,8, poiché vi è menzionato l'evangelista Filippo), mentre quello della testimonianza va sino alla fine del libro (At 28,23). 7 Cf. ad esempio At 2,32-33; 5,32.

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do dal battesimo di Giovann i fino al giorno in cui è stato di tra noi assunto in cielo, uno divenga, insieme a noi, testimone della sua risurrezione» (vv. 21-22). Thtta la frase è protesa verso la sua conclusione, cioè verso la necessità di avere un testimone della risurrezione di Gesù, ma Pietro enuncia al tempo stesso la conditio sine qua non che deve soddisfa­ re questo testimone: essere stato con Gesù fin dall'inizio, aver visto ciò che egli ha fatto e aver ascoltato ciò che ha detto. Per far parte del gruppo dei Dodici non basta aver visto il Risorto, bisogna essere stati con lui fin dall 'inizio, fin dal battesimo di Giovanni. Così la testi­ monianza dei Dodici viene chiaramente delimitata e si vede imme­ diatamente perché Paolo non potrà far parte dei Dodici. Si noterà anche che in At 8,12.35 e 40 non si afferma che il diacono Filippo rende testimonianza a Cristo, ma solo che annuncia la buona novella di Gesù:8 nella prima parte degli Atti, il vocabolario della testimo­ nianza relativa a Gesù Cristo viene riservato agli apostoli che hanno percorso insieme a lui le strade della Galilea e della Giudea, fino alla sua ascensione. 9 Perché? Aff ermando che chi rimpiazzerà Giuda sarà con loro testimone della risurrezione, Pietro sottolinea una componente decisiva della testimonianza relativa a Gesù: la sua pluralità o, più esattamente, il suo carattere collegiale. Dall'essere stati insieme (v. 21a: «fra coloro che ci furono compagni») si passa al testimoniare insieme (v. 22b: «insieme a noi, testimone»). E il narratore sottolinea che questa testimonianza collettiva non è cacofonica, presentando Pietro come portavoce del gruppo: egli infatti parla in prima persona plurale («noi ne siamo testimoni, noi. . . noi. . .» ).10 Il giorno di Pentecoste, Pietro ripete ciò che ha già aff ermato in precedenza, cioè che sono loro i testimoni della risurrezione di Gesù (At 2,32). Per la prima volta, un discepolo enuncia in piena cono8 In questi versetti,il verbo greco è euaggelizomai. 9 L'osservazione vale per Saulo/Paolo: in At 9,la voce divina non dice che egli sarà testimone di Cristo, ma che porterà il suo nome ai popoli, ai re e ai figli d'Israele (v. 15); parimenti al v. 20 dello stesso capitolo si afferma che il nuovo discepolo proclama (kèrys­ sein) la messianicità di Gesù, ma non lo testimonia. 10 A causa dell'uso della prima persona singolare, la dichiarazione di Paolo in At 26,22 («io continuo a rendere testimonianza») merita tutta la nostra attenzione.

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scenza di causa e con assoluta chiarezza la relazione esistente fra la risurrezione di Gesù, l'invio dello Spirito e la testimonianza: essendo risorto e avendo ricevuto lo Spirito, Gesù lo ha effuso sugli apostoli, dando loro la forza di testimoniare la sua risurrezione. Come si può vedere, la conoscenza che Pietro ha delle condizioni e delle compo­ nenti (cioè del processo) della testimonianza dimostra che lo Spirito ha assolto il suo compito, rendendo competenti e capaci di testimo­ niare discepoli che fino ad allora erano vissuti nella paura. Inoltre, per Pietro in At 2 l'effusione dello Spirito non è solo ciò che permet­ te di testimoniare; gli effetti della sua presenza - profezie, parlare in lingue, ecc. -, descritti dal narratore ai vv. 4-12 e segnalati da Pietro ai vv. 16-20, costituiscono una prova fondamentale della risurrezione di Gesù; profetizzando grazie allo Spirito ricevuto in abbondanza, gli apostoli testimoniano la vittoria e la signoria di colui che era stato crocifisso. Così la profezia è testimonianza resa al Risorto. Ma Pietro e gli altri non si accontentano di testimoniare: dicen­ do perché lo fanno, dimostrano di sapere perché lo fanno. In altri ter­ mini, negli Atti la testimonianza include la conoscenza di ciò che la permette e la costituisce; quindi per gli apostoli il fatto di dichiarar­ si testimoni fa parte della testimonianza. Riguardo al suo oggetto, la testimonianza è più o meno ampia, secondo i destinatari. Fino ad At 13, gli apostoli testimoniano unica­ mente o quasi11 la risurrezione di Gesù. L'unica eccezione è At 10,39, dove Pietro afferma che i discepoli sono testimoni anche di tutte le cose da lui compiute nella regione dei giudei e in Gerusalemme. Ma il contesto spiega il motivo di quest'aggiunta da parte dell'apostolo: infatti, n Pietro si rivolge a un gruppo di pagani, che hanno certa­ mente già sentito parlare12 di Gesù di Nazaret, del suo ministero e della sua morte, ma non hanno potuto, a differenza delle folle dei giudei che lo seguivano continuamente, assistere alle sue guarigioni 11 Come dichiara Pietro in At 1,22; 2,32; 3,15. L'ultima relativa di 3,15 («noi ne (hou] siamo testimoni») è ambigua; infatti, il relativo hou può essere maschile («(di Gesù] di cui noi siamo testimoni») o neutro («[il suo essere risorto] di cui noi siamo testimoni»). I tra­ duttori seguono questa seconda lettura, senza dubbio a causa dell'asindeto; di fatto, con un kai il referente sarebbe evidentemente Gesù («Colui [Gesù] che Dio ha risvegliato dai morti e di cui noi siamo testimoni»); 4,33; 5,32; 10,41-42; cosi anche Paolo, in At 13,31. 12 Cf. il «voi sapete,. di A t 10,37.

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e ascoltare il suo insegnamento; perciò egli deve farsi garante del ministero salvifico di Gesù. Il contenuto della testimonianza varia in base agli ascoltatori. Nella prima parte degli Atti, gli apostoli limita­ no la testimonianza quasi esclusivamente alla risurrezione di Gesù perché, attraverso Pietro, il loro portavoce, si rivolgono a giudei che hanno conosciuto e incontrato Gesù e non hanno quindi bisogno di testimoni di ciò che ha detto e fatto. Ma, in seguito, si rivolgono sem­ pre più a persone che non lo hanno né visto né conosciuto, per cui devono estendere la loro testimonianza a tutta la sua vita. Testimo­ nianza inalienabile, come dimostrano i vangeli, che ne sono le tr� cce scritte. Se davanti ai giudei della Palestina del tempo gli apostoli testi­ moniano anzitutto la risurrezione del loro maestro, il lettore di At 13,16-41 non può non chiedersi perché Paolo non inserisca il proprio nome nelle liste dei testimoni della risurrezione. Dopo aver detto: «Egli [Gesù) è apparso per molti giorni a quelli che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme, e questi ora sono i suoi testimoni davanti al popolo>>, Paolo non aggiunge: «Anch'io sono testimone della sua risurrezione, perché è apparso anche a me; anch'io l'ho visto e ascoltato». Perché non parla di quell'incontro? QuAU TESTIMONI E QUALE TESTIMONIANZA ?13

Paolo costituito testimone? In At 13,31-32 Paolo omette di dire che il Risorto è apparso anche a lui sulla via di Damasco, perché, come affermano alcuni, sa di non avere lo statuto di apostolo e di non poter quindi testimonia­ re con un'autorità pari alla loro? Certamente no, perché poco dopo il suo discorso, il narratore chiama apostoli lui e Barnaba (At 14,4.14). Si potrebbe obiettare che, a differenza degli altri, essi rice­ vono una sola volta questo titolo,14 ma l'obiezione non regge, perché

13 Riguardo all'idea che Luca si fa della testimonianza, cf. il c. 3, perché le riflessioni che seguono non ripetono ciò che viene detto in quella sede. 14 Notiamo che, tranne in A t 15,23, gli apostoli non si danno mai il titolo di apostoli («noi siamo apostoli»), che viene usato solo dal narratore. L'eccezione di 15,23 deriva dal

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il narratore non dice mai «l'apostolo Pietro» o «l'apostolo Giacomo)> ma usa sempre il titolo collettivamente, al plurale.15 D fatto che Paolo non venga mai chiamato apostolo da solo non significa che il narratore non lo consideri tale, ma semplicemente che, incentrando l'attenzione sul suo ministero a partire da At 16 - in At 15,39-40 si aff erma che Barnaba e Paolo si separano -, non vi sarà più occasio­ ne di applicargli un titolo usato unicamente al plurale.16 Pur appartenendo al gruppo degli apostoli, Paolo non sarebbe un testimone avente lo stesso valore? Anche in questo caso bisogna rispondere negativamente, perché, come Pietro, Paolo è certo di essere un testimone accreditato: lo affermano il narratore (At 18,5; 28,23), Dio (23,1 1), il Risorto (citato da Paolo, 22,18 e 26,16), Anania (pure citato da Paolo, 22,15), e Paolo stesso dichiara pubblicamente che Dio glielo ha confermato e che egli è proprio tale (20,21; 20,24;17 26,22). Perciò, come gli altri apostoli, Paolo rende testimonianza alla realtà della risurrezione e alla presenza di Gesù nella sua Chiesa. Ma all ora perché, in At 13,31-32, Paolo non menziona il suo nome fra quelli che hanno incontrato il Risorto? ecc.,

Quando Paolo parla del suo essere-testimone? Chiaramente nel discorso pronunciato davanti ai giudeP8 di Antiochia di Pisidia Paolo usa il vocabolario dell'annuncio per

fatto che si tratta di una lettera ufficiale e che, nelle lettere ufficiali dell'antichità, il mit­ tente o i mittenti declinavano i loro titoli: («io/noi [segue il titolo], al tal dei tali [o a un gruppo], salute [segue il corpo della lettera o del messaggio])». 15 L'osservazione vale per il titolo anziani (o presbiteri), che accompagna del resto quello di apostoli in At 15 («gli apostoli, gli anziani»). 16 Il lettore non deve quindi stupirsi vedendo scomparire il termine «apostoli» (ulti­ ma menzione in At 16,4) quando Paolo diventa l'unico protagonista del racconto. 17 Non includo At 20,26 nella lista per l'ovvia ragione che si tratta di un'imprecazio­ ne che sottolinea la verità dell'enunciato che accompagna. 18 Paolo li chiama «uomini d'Israele» (v. 16), come Pietro in At 2,22; 3,12 e 5,35; se quest'ultimo li chiama «giudei» all'inizio del suo discorso (At 2,14), è per sottolineare la connotazione geografica del termine (gli ebrei che abitano la Giudea, in particolare gli abitanti di Gerusalemme); infatti, gli Atti sottolineano varie volte che sono stati loro ad accusare ingiustamente e a rifiutare Gesù e non tutti gli ebrei. L'uso dell'espressione «Uomini d'Israele» in At 13,16 avvia una riflessione sulla storia del popolo eletto, Israele (cf. vv.17.23.24; notare l'inclusione «popolo d'Israele» ai vv. 17 e 24).

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descrivere il su o ruolo e quello di Barnaba: «Vi annunciamo la buona novella)) (v. 32). Si tratta certamente di un annuncio evange­ lico, come conferma ampiamente la seconda parte del discorso (vv. 26-41 ), che ha tutte le caratteristiche di un kerygma primitivo, 19 sot­ tolineando bene che la testimonianza è resa da coloro che «sono sali­ ti con lui [Gesù] dalla Galilea a Gerusalemme». Paolo non ha segui­ to Gesù sulle strade della Galilea e non può essere testimone con loro del suo ministero. Ma se in seguito il racconto afferma che egli è un vero testimone, perché Paolo stesso non lo dice nel corso di questo discorso di A t 13? È interessante vedere come la prova biblica di Paolo in At 13 segua fedelmente quella sviluppata da Pietro in At 2 e riprenda i passi dell'Antico Testamento che profetizzano e quindi confermano la risurrezi one di Gesù. Così il narratore mostra che Paolo è fedele al kerygma apostolico e sottolinea anche la sua competenza omile­ tica, aggiungendo che gli viene chiesto di continuare il sabato suc­ cessivo. Si obietterà probabilmente che i discorsi dei due apostoli non hanno avuto gli stessi effetti: quello di Pietro, il giorno di Pen­ tecoste, è stato seguito da molte conversioni (A t 2,41 ), mentre Bar­ naba e Paolo vengono perseguitati (At 13,50). Ma la reazione dei giudei di Antiochia non è dovuta all'incompetenza di Paolo, bensì al suo successo, come afferma laconicamente il narratore: vedendo accorrere tutta la città, «i giudei furono pieni di gelosia»20 (At 13,45). In breve, fin dali 'inizio della sua missione Paolo possiede la stessa forza kerygmatica di Pietro. Ma anche se fornisce ai suoi ascoltatori le prove che li indurranno ad ammettere la risurrezione del suo Signore, il nuovo missionario non si presenta ancora come testimone diretto. Perché? Non è la prima volta che Paolo parla ai giudei. Poco dopo il suo incontro con il Risorto, ha cominciato a proclamare nelle sinagoghe che Gesù è il Messia e il Figlio di Dio (At 9,20-22) e molto probabil­ mente allora i suoi argomenti erano gli stessi di quelli esposti in At 19 Cioè la passione, la morte e la risurrezione secondo le Scritture, il perdono dei pec­ cati, l'esortazione alla conversione. Come è noto, la synkrisis esigeva che questa seconda parte somigliasse ai primi kerygmi di Pietro (At 2 e 3); cf. infra, pp. 75-79. 20 Stessa reazione che in At 5,17.

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13. Thttavia il narratore non ne indica il contenuto, perché prima vuole segnalare la sua vocazione ufficiale alla missione in At 13,1-3. Quindi riguardo alla predicazione di Paolo si può notare negli Atti un vera evoluzione: l) poco dopo l'incontro con il Risorto (At 9,20): annuncio e pre­ dicazione segnalati dal narratore, senza indicarne al lettore il conte­ nuto; 2) missione ufficiale (At 13-20) con due discorsi missionari emblematici dei due mondi ai quali si rivolge Paolo, ma senza che egli si dichiari testimone: - il primo ai giudei di Antiochia (At 13,16-41), - il secondo ai greci e pagani di Atene (A t 17,22-31 ); 3) prigioniero e accusato, Paolo presenta la sua difesa di fronte alle autorità giudaiche e romane in tre discorsi; parla del suo essere­ testimone di Gesù Cristo in At 22 e 26, e ne parla per la prima volta alla prima persona singolare: «Fino a questo giorno io continuo a rendere testimonianza agli umili e ai grandi» (At 26,22).21 Così le scelte del narratore sono chiare: solo alla fine, quando deve difendersi, Paolo parla di testimonianza: da accusato diventa un vero testimone di Cristo, perché in definitiva è lo stesso vangelo, il Cristo, a essere rifiutato e accusato. Ma al lettore attento non sfugge certamente la differenza fra il modo in cui Pietro e Paolo si presentano come testimoni. Il primo insiste fortemente su «noi ne siamo testimoni», mentre il secondo è indotto a dichiarare: «lo con tinuo a rendere testimonianza»,22 dopo aver riferito ciò che gli ha dichiarato Gesù, per bocca di Ana­ nia o direttamente in una visione: «Mi è stato detto:" Tu sarai testi­ mone" o "Tu mi renderai testimonianza"». Enunciando l'affidabili­ tà della sua parola, Paolo rinvia a quella che g li ha dato la sua com­ petenza e gli ha ordinato di parlare di conseguenza. In breve, il rac­ conto degli Atti descrive l'evoluzione della testimonianza resa al

21 At 22,1-21; 24,10a21; 26,2-23. Si noti che Paolo non dice «io ne sono testimone», perché negli Atti i locutori umani (apostoli o messaggeri) usano il sostantivo «testimone» (martys) al plurale, come riferito a un'entità collettiva (il gruppo dei testimoni), quando indicano così loro stessi («noi ne siamo testimoni»). Lascio al lettore la riflessione sul motivo di questa scelta ... 22

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Risorto: dall'attestazione della realtà della risurrezione (Pietro) si passa al racconto di un incontro che ha cambjato una vita ed è divent ato il punto di riferimento per eccellenza, per sé e per gli altri (Paolo). Vedremo più avanti ciò che vuole fare intravedere questa evoluzione. TESTIMONIANZA E SPIRITO SANTO

All'inizio ho evidenziato la relazione esistente fra la venuta dello Spirito e la testimonianza: non solo lo Spirito Santo dona la competenza e la forza di testimoniare, ma gli effetti della sua presen­ za, in particolare la profezia, attestano la risurrezione e la signoria di Gesù.23 Ora vorrei mostrare che la relazione fra lo Spirito e la testi­ monianza non è a senso unico (Spirito - testimonianza), ma che il percorso può essere inverso (testimonianza - effusione dello Spiri­ to). Vediamo perché.

Altri aspetti della testimonianza L'episodio di Cornelio (At 10,1-11,18) è importante non solo perché descrive in modo decisivo e definitivo il futuro della Chiesa - l'ammissione dei pagani avrà conseguenze inaudite, già per lo svol­ gimento del racconto lucano24 - ma anche perché ha permesso agli apostoli di riflettere sulle vie di Dio e, correlativamente, di compren­ dere e notificare l'importanza della loro testimonianza. 23 È praticamente l'unico aspetto sottolineato da C.S. KEENER, The Spirit in the Gospels and Acts: Divine Purity and Power, Peabody, MA 1997, 190-213. Incentrando l'at­ tenzione sullo Spirito di profezia e quindi sui discorsi ispirati (cf. At 2,4; 2,14-36; 4,31; 6,10; 10,44-46; 11,28; 13,9-11; 21,4.11), l'autore si accontenta di studiare, negli Atti, il racconto della Pentecoste. Questo tipo di approccio ha il difetto di essere solo lessicale.Ma bisogna chiedersi se l'ispirazione di un discorso debba essere ammessa solo quando è esplicita­ mente segnalata dal narratore con termini ad hoc; prima di rispondere bisogna studiare la strategia e le tecniche narrative. 24 Dato che gli Atti vogliono condurre progressivamente il lettore verso la missione ai pagani, l'episodio di Cornelio riveste un'importanza decisiva, perché attribuisce a Pie­ tro (il quale sottolinea di essersi limitato a obbedire al Dio imparziale) la loro prima con­ "ersione: cosl non si poteva accusare Paolo di aver preso un'iniziativa con cui i Dodici e gli altri apostoli non erano d'accordo o che accettavano con grandi riserve; anche la deci­ sione unanime dell'assemblea di Gerusalemme costituirà una svolta decisiva e ufficiale.

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In questo episodio la ripetizione dei motivi non può non colpire lettore:25 il narratore non si accontenta di descrivere le visioni di Cornelio (10,3-6) e di Pietro (10,9-16); anche i personaggi del rac­ conto le menzionano e varie volte:26 il

visione di Cornelio descritta dal narratore (10,3-6) visione di Pietro descritta dal narratore (10,9-16) visione di Cornelio ricordata dagli inviati di Cornelio (10,22) visione di Cornelio narrata dallo stesso Cornelio (10,30-32) visione di Pietro narrata dallo stesso Pietro (11,5-10) visione di Cornelio presentata da Pietro (11,13-14)

Senza entrare nei dettagli, evidenziamo subito il punto essenzia­ le per il nostro tema: a Cornelio la voce celeste chiede solo di «far venire un certo Simone detto anche Pietro» (10,5). Il messaggio è chiaro: spetta a Pietro e a lui solo parlare di Cristo; pur essendo cele­ ste, la voce non ha voluto sostituirsi all'apostolo e questo aspetto viene ben sottolineato nel racconto: Cornelio invia immediatamente tre messaggeri (vv. 7-8) e, quando Pietro giunge da lui, vede che il centurione, la sua famiglia e i suoi amici lo aspettano (vv. 24b.27), segno che la sua venuta riveste per tutti loro un 'importanza decisi­ va. Il fatto che la divinità non riveli direttamente Gesù Cristo a Cor­ nelio, ma voglia che sia Pietro a farlo, sottolinea che per conoscere Cristo bisogna necessariamente passare attraverso una testimonianza apostolica. Così la tensione narrativa orienta l'attenzione verso la testimo­ nianza di Pietro, che è estremamente concisa: rivolgendosi a persone che non hanno conosciuto Gesù terreno, Pietro non dovrebbe dilun­ garsi maggiormente? Senza dubbio il narratore ha scelto di abbrevia­ re per non indisporre un lettore che conosceva già la prima tavola del

25 I fenomeni di ridondanza, piuttosto numerosi nel dittico lucano, hanno evidente­ mente una funzione narrativa. Quelli relativi alla vocazione di Paolo (At 9,22 e 26) sono stati molto studiati, ma ve ne sono molti altri, ad esempio in At 10-11. Su questo fenome� no, cf. W.S. KuRZ, «Effects of Variant Narrators in Acts 10-11», in NTS 43(1997), 570·586. 26 Si noti la disposizione speculare dei richiami. Qui non viene rilevata l'allusione del v. 28 (quando Pietro osserva: «Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immon­ do nessun uomo»), perché non si tratta di una menzione esplicita; ma, senza parlarne espressamente, Pietro ne indica il senso e la portata.

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dittico (Luca), ma vale la pena notare l'evoluzione della testimonian­ za di Pietro, che sottolinea le diverse manifestazioni dell'imparziali­ tà divina.27 Evidenziamo solo tre punti del suo breve discorso. a) Pietro afferma che gli apostoli sono testimoni di tutto il mini­ stero di Gesù (v. 39), perché i suoi ascoltatori non lo hanno né visto né conosciuto, se non per sentito dire: la testimonianza autorizzata degli apostoli non è necessaria solo per Cornelio e i suoi, ma per tutte le generazioni future. b) Se per la vita di Gesù sono possibili testimonianze diverse da quelle degli apostoli - si può immaginare uno scrittore che incontri Gesù e poi pubblichi le sue impressioni -, dopo la sua risurrezione Gesù non è apparso «a tutto il popolo, ma (solo) a testimoni» accre­ ditati in quanto scelti in precedenza da Dio stesso (v. 41) e nessuna testimonianza può sostituirsi alla loro. c) In verità, Pietro non dice che la testimonianza resa dagli apo­ stoli alla risurrezione è esclusiva, perché invoca le Scritture profeti­ che (v. 43). Ma bisogna notare l'ordine nel quale vengono ricordate le due testimonianze: anzitutto quella degli apostoli e solo in segui­ to quella delle Scritture.28 L'ordine scelto da Pietro (e dal narratore) veicola una teoria della relazione fra le due testimonianze: le Scrittu­ re diventano testimonianza solo grazie a quella degli apostoli, perché la lettura che questi ultimi ne fanno permette loro di diventare ciò che esse sono, cioè testimonianze del disegno salvifico di Dio per la nostra umanità, disegno annunciato, disegno pienamente realizzato in Gesù, suo Figlio. Perciò la testimonianza apostolica è essenziale e

7:7 Ai vv. 34-36, ma il ministero di Gesù viene presentato da Pietro come quello che realizza pienamente questa imparzialità universale di Dio (i destinatari di Gesù vengono indicati volutamente in modo generico - «tutti coloro che stavano sotto il potere del dia­ volo�, v. 38) . L'importanza di questa nuova dimensione della testimonianza deriva dal fatto che Pietro la ripete ancora due volte, nella sua relazione degli avvenimenti ai giudei di Giudea in At 11,17 (il dono dello Spirito fatto ai pagani esattamente come a loro è segno dell'imparzialità divina) e in occasione dell'assemblea di Gerusalemme in 15,8 (dove associa imparzialità divina e conoscenza dei cuori). 28 Non si tratta di un caso, come dimostrano At 2,32-36 (la testimonianza apostolica precede il ricorso alle Scritture) e 13,31-39 (stessa cosa). Il legame essenziale fra la testi­ monianza degli apostoli e quella della Scrittura è stato reso essenziale da Gesù stesso (et J.-N. ALETn, L'arte di raccontare Gesù Cristo, 151-169) , e gli Atti mostrano che gli aposto­ li hanno ben compreso la lezione del Risorto.

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anteriore (nel senso appena enunciato )29 ali' altra testimonianza, per­ ché questa dipende dalla prima per essere riconosciuta come profe­ zia orientata verso il Risorto. In altri termini, se gli apostoli non ren­ dono la loro testimonianza, gli altri testimoni non possono compiere il loro lavoro. La posta in gioco è enorme. Chiariti questi punti, ritorniamo alla relazione oggetto del nostro studio: in At 10,34-48 la testimonianza di Pietro precede la discesa (lett. «la caduta», v. 44) dello Spirito su Cornelio e i suoi. Chiaramente la progressione del testo lascia intendere che l'esito dipende da ciò che Pietro deve dire:30 lo Spirito ricevuto è quello di Gesù, quello annunciato dai profeti, ecc. Infatti, il lettore attento non può non averlo notato: è quando l'apostolo parla della remissione dei peccati (nel nome di Gesù) - per tutti gli uomini senza discrimi­ nazione: Pietro descrive il ruolo di Cristo come la manifestazione per eccellenza dell'imparzialità divina - annunciata dai profeti, che lo Spirito di profezia scende sugli ascoltatori. Così si mette in risalto il ruolo salvifico della testimonianza e, reciprocamente, l'effusione dello Spirito diventa una conferma della verità della testimonianza di Pietro sul ministero di Gesù come manifestazione piena dell'im­ parzialità divina (prova ne è il fatto che lo Spirito scende su pagani!). Se tale è la relazione fra testimonianza e dono dello Spirito negli Atti, è sorprendente che il racconto non menzioni lo Spirito quando Paolo rende testimonianza al Signore, ad esempio in At 22 e 26.

Lo Spirito e la testimonianza di Paolo Se l'autore degli Atti nomina Paolo fra gli apostoli e lo ricono­ sce come testimone della risurrezione di Gesù, perché non dice che la sua testimonianza è causata e ispirata dallo Spirito? Infatti il rac­ conto indica chiaramente che questo testimone non ha nulla da invi29 Cioè come testimonianza, perché cronologicamente le Scritture precedono di gran lunga gli avvenimenti descritti negli Atti. 30 Cornelio dice all'apostolo che tutti sono pronti ad ascoltare «tutto ciò che dal Signore ti è stato ordinato» (di dire, v. 33). Ma il Signore non ha dettato nulla a Pietro, per cui egli non dovrà fare un discorso preparato da altri. L'opinione (erronea) di Cornelio ha evidentemente la funzione di sottolineare l 'importanza della testimonianza di Pietro: non � stato lui a voler parlare, ma il Signore, per bocca di Cornelio.

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diare agli altri apostoli: ha ricevuto lo Spirito e, fin dall'inizio, sa di averlo ricevuto; il suo ministero porta frutti spirituali. 31 Come spie­ gare il silenzio di At 21-28? Come abbiamo già notato, il fatto che lo Spirito non venga men­ zionato in At 21,1 1 e 28,2532 non significa che non doni a Paolo la forza necessaria per testimoniare il suo Signore. Per interpretare correttamente questo silenzio bisogna seguire le tecniche lucane. La prima risposta, insufficiente ma comunque interessante, è il fatto che i discorsi di At 22-26 non sono dei kerygmi, in altri termini non hanno la funzione di presentare la passione, morte e risurrezione di Gesù per suscitare una risposta di fede e una corrispondente condot­ ta morale. Ma questa risposta non basta, perché il discorso di Stefa­ no in At 7 non ha la forma di un kerygma e provoca, del resto, la col­ lera dei suoi ascoltatori, e tuttavia il narratore afferma che il diaco· no parla «pieno di Spirito Santo» (7,55) e lo stesso Paolo in At 22 riconosce che il discorso di Stefano fu una testimonianza vera e tota­ le, conclusa con la morte: «Quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anch'io ero presente» . Perciò la forma non kerygmati­ ca dei discorsi di Paolo in At 22-26 non basta a spiegare il motivo per cui il narratore, pur riconoscendo che il prigioniero rende una testimonianza autentica, non dica che essa proviene dalla forza dello Spirito Santo. Ma il fatto che non venga menzionato nei discorsi di Paolo in At 22-26 non significa che lo Spirito Santo è assente; si può anzi presu· mere che sia proprio lui a dare a Paolo in catene la forza di testimo­ niare il suo Signore. È comunque importante vedere se questo silen­ zio non rifletta una strategia narrativa e, in caso affermativo, quale. Ora basta andare ad At 20, cioè a monte dell'episodio del tempio, dove comincia la cattività di Paolo, per trovare (in parte) la chiave dell'enigma. Infatti, durante il suo discorso·testamento agli anziani di Efeso Paolo afferma di essere incatenato allo Spirito33 e di essere

31 C1 At 9,17 (detto da Anania); 13,2.4.9 e 19,6 (detto dal narratore); 20,22-23 (detto Paolo, agli anziani di Efeso). 32 In At 23,8.9 il termine greco pneuma non indica lo Spirito Santo. 33 At 20,22. Il dativo (to pneumati) può indicare lo strumento («legato da qualcosa») e/o il contatto (attaccato a, legato a qualcosa o a qualcuno), come in At 21,33. da

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testimonianza

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avvertito da lui delle tribolazioni che lo aspettano. Lungi dali'essere abbandonato o separato dallo Spirito, Paolo è incatenato allo stesso ed è da lui che viene condotto, da lui che sarà protetto nelle tribola­ zioni: nessuna immagine poteva esprimere più fedelmente il fatto che ormai non è più Paolo ad agire - egli è incatenato - ma è lo Spi­ rito a condurlo là dove dovrà andare e gli darà la forza di testimo­ niare come deve. Questa profezia di At 20 prepara quindi il lettore a non vedere più menzionato lo Spirito Santo durante la passione di Paolo. In altri termini, il narratore ci fa comprendere che, come Gesù in Luca,34 Paolo annuncia la sua passione; e, come esige la synkrisis, la vivrà come il suo Signore, nell'insicurezza, nella precarietà e nella povertà. Lo Spirito di profezia si manifesta un 'ultima volta prima della passione, in At 21 ,11, per indicare che non si manifesterà più con gli effetti che hanno fino ad allora permesso di riconoscerlo: l'apostolo sarà preso, accerchiato, minacciato, ma paradossalmente riconosciuto innocente, come il suo Signore.35 Ecco perché il lettore non si stupirà di sentire Paolo riferire, in At 22 e 26, le parole con le quali il Risorto si presenta a lui: «Io sono Gesù [il Nazareno] che tu perseguiti»;36 perciò, quando perseguitava i discepoli, Paolo perseguitava in realtà Gesù stesso e quando i giu­ dei ai quali si rivolge perseguitano Paolo fanno lo stesso: per bocca di Paolo è Gesù stesso, perseguitato, a farsi riconoscere! Paolo testi­ monia veramente il suo Signore, la sua passione è la stessa; egli testi­ monia il Risorto con le sue catene e le sue catene sono quelle del Risorto. La testimonianza raggiunge il suo punto culminante.37

34 Le 9,22; 9,43-45; 18,31-34. 35 Riguardo allo Spirito c'è synkrisis anche negli itinerari di Gesù e di Paolo, perché la presenza dello Spirito in loro viene ricordata all'inizio dei loro rispettivi ministeri (Le 4,1.16.18; At 13,9.14), ma non durante il percorso che li conduce al luogo del supplizio (a partire da Le 9,51 - l'unica eccezione è l'esaltazione profetica di Le 10,21 - e a partire da At 21 ) . Sul naufragio il narratore come prova di veridicità (véridiction) analoga a quella della morte in croce per Gesù, c1 pp. 87-89. 36 At 22,8 e 26,15 («il Nazareno» manca in 26,15). 37 Senza analizzare le synkriseis diverse di Luca/Atti, A. NEAGOE, The Trial of the Gospel. An Apologetic Reading of Luke's Trial Narratives, (SNTS MS 116), Cambridge 2002 mostra comunque la relazione essenziale esistente fra testimonianza e processo in LucaJAtti.

32

Capitolo l

Dalla testimonianza di Paolo alla nostra In At 22 e 26 la descrizione che Paolo fa del Risorto è breve e tali sono anche le sue affermazioni. Non parla della vita di Gesù, di ciò che gli è stato rivelato del mistero del Figlio di Dio. L'apostolo insiste piuttosto sulla trasformazione provocata da questo incontro. Thtta la sua vita ne

è stata radicalmente cambiata e per lui testimoniare signi­

fica raccontare il percorso di una conversione, di un amore ricevuto. La vita di Paolo è diventata interamente testimonianza, perché rac­ contandola egli rivela al tempo stesso

il

perdono e la grazia del suo

Signore: annunciarlo significa allora riprendere l 'intero percorso. Così

il

narratore degli Atti fa comprendere al suo lettore

il

tipo

di testimonianza che deve rendere, lui che, come Paolo, non ha segui­ to Gesù sulle strade della Palestina. Senza dubbio, la nostra testimo­ nianza non sostituisce assolutamente quella degli apostoli, ma benché la loro resti il riferimento necessario, conserva la sua verità solo se, fino alla fine dei tempi, dei credenti possono, grazie a loro, testimo­ niare un incontro personale con Cristo, un incontro che ha definitiva­ mente cambiato la loro vita. Attraverso testimonianza di Paolo,

il

il

modo in cui descrive la

narratore degli Atti ci mostra la relazione

esistente fra la testimonianza della generazione apostolica e la nostra.

CoNCLUSIONE Occorre ricordare, terminando, che l 'utiliZzazione del viaggio da parte del narratore lucano nei suoi due libri (Luca e Atti) - verso Gerusalemme

in

Luca é verso Roma negli Atti - simboleggia altri

viaggi, altri percorsi: quello del discepolo (in Luca) e quello del testi­ mone (in Atti)? Questa tecnica narrativa risale a Omero, e in vari autori antichi si può trovare questa stessa utilizzazione del viaggio per descrivere percorsi di tipo iniziatico38 o di altra natura. Questo ci per-. mette di apprezzare anche la cultura, discreta ma reale, del narratore lucano.39 38

Come in L'asino d'oro di Apuleio (II sec. d.C.). se qui richiamo un principio molto seguito dai grandi scrit­ tori del tempo e ignorato dagli esegeti contemporanei: «ni disseminate lungo tutto Luca/Atti. Cominciamo con questi contatti diretti, che, come vedremo, non sono privi di interrogativi.

VOCI CELESTI, VISIONI E APPARIZIONI Che il numero dei fenomeni teofanici sia notevole, lo mostra in modo evidente un semplice rilevamento:3

Le 1 ,5-25:

l'angelo Gabriele appare a Zaccaria e gli annuncia che avrà un figlio profeta;

Le 1,26-38: l'angelo

Gabriele appare a Maria e le annuncia che

sarà madre del Messia; 3 D corsivo indica che è uno degli attori del racconto (non direttamente re) a riferire una visione o un intervento divino.

il narrato­

Quale posto per Dio nel racconto lucano?

87

Le 2,8-14: gli angeli appaiono ai pastori e annunciano loro la nascita del Messia-Salvatore; Le 3,22: lo Spirito Santo discende su Gesù e la voce divina dichiara che egli è il Figlio prediletto; Le 9,28-36: la voce divina rivela ai tre discepoli che Gesù è il Figlio, l 'Eletto (di Dio); Le 22,43: allora gli [a Gesù] apparve un angelo dal cielo per con­ fortarlo; Le 24: diverse apparizioni di angeli alle donne e del Risorto ai discepoli (cf. At 1,3); At l ,4-9: ultima apparizione e ascensione gloriosa di Gesù al cielo; At 1 ,10-11: due angeli appaiono e invitano gli apostoli a muo­ versi; At 2,1-4: tuono, lingue di fuoco e venuta dello Spirito Santo sopra gli apostoli; At 4,31: terremoto e invio dello Spirito Santo; At 5,19-20: un angelo libera gli apostoli e chiede loro di predica­ re nel tempio; At 7,55: Stefano vede la gloria di Dio e Gesù assiso alla destra di Dio; At 7,56: Stefano dice di vedere il Figlio dell'uomo assiso alla destra di Dio; At 8,26.29: un angelo del Signore e lo Spirito Santo danno ordi­ ni a Filippo in vista d eli' evangelizzazione; At 8,39: lo Spirito Santo prende Filippo e lo porta in un altro luogo per continuare il suo lavoro di evangelizzazione; At 9,4-6: una luce viene dal cielo e Gesù parla a Saulo; At 9,10-15: Gesù appare ad Anania, perché vada a battezzare Saulo; At 9,12: Gesù aggiunge che Saulo, in visione, ha visto lui, Ana­ nia, venirgli incontro; At 9,27: (menzionato dal narratore) Barnaba dice agli apostoli che Saulo ha visto il Signore e ha parlato con lui;· At 10,3-6: un angelo di Dio appare a Cornelio per dirgli di man­ dare a cercare Pietro; At 10,10-15: Pietro vede i cieli aprirsi, discendere una tovaglia piena di animali impuri e sente una voce che gli ordina di mangiare;

Capitolo l

38

At

10,19-20:

lo Spirito Santo ordina a Pietro di ricevere i due

uomini che egli stesso gli ha inviato; At l 0,22: gli inviati di Cornelio informano Pietro che Cornelio ha ricevuto da un angelo santo l'ordine di andare a cercarlo; At l 0,30-32: Cornelio racconta a Pietro la visione che ha avuto; At 10,44-46: lo Spirito Santo scende su Cornelio e la sua fami­

glia; essi lodano e parlano in lingue; At 11,5-10:

Pietro racconta ai fratelli di origine ebraica la visione

che ha avuto; At 11, 12: Pietro riferisce che lo Spirito Santo gli aveva detto di seguire gli inviati di Cornelio; At 11,15: Pietro racconta che lo Spirito Santo era sceso su Corne­ lio e i suoi, così com 'era sceso su di lui e sui discepoli il giorno di Pen­ tecoste; At 12,6-10: Pietro è liberato dalla prigione da un angelo; At 12,11: Pietro comprende che Dio ha inviato l'angelo per sal­ vario e lo dice; At 13,2: lo Spirito Santo domanda che Paolo e Barnaba siano

messi a parte;

16,6-8: lo Spirito Santo impedisce a Paolo di andare in Asia; 16,9: visione di Paolo - un macedone gli chiede aiuto; At 16,26: mentre, di notte, Paolo e Sila pregano nella prigione in At

At

cui si trovano, un violento terremoto fa saltare tutte le catene; At

18,9: a

Corinto,

in

visione, il Signore dice a Paolo di annun­

ciare il vangelo senza timore;

A t 22,6-11: a Gerusalemme, davanti alla folla, Paolo racconta la visione sulla via di Damasco; At 22, 1 7-21: nello stesso discorso, Paolo racconta come il Signo­ re Gesù gli sia apparso una seconda volta nel tempio per comunicar­ gli la sua missione ai pagani; At 23,1 1: a Gerusalemme, il Signore appare a Paolo e gli annun­ cia che sarà suo testimone a Roma; At 26, 14-18: a Cesarea, davanti ad Agrippa, Paolo racconta la visione sulla via di Damasco, e la missione che il Risorto gli aveva allora affidato; At 27,23: Paolo dice che un angelo gli è apparso per assicurargli che tutti i compagni di missione avrebbero avuta salva la vita.

Quale posto per Dio nel racconto lucano?

Impressionante, vero? Si dirà forse che Luca non è né il primo né l'unico a segnalare l'irruzione del divino, sotto forma di visioni o di voci celesti. Molti esegeti hanno già segnalato il ruolo programmatico degli interventi della Provvidenza nella storiografia ellenistica. 4 E coloro che conoscono bene l'Antico Testamento ricorderanno, a ragione, che prima della letteratura ellenistica i racconti biblici attri­ buivano già un tale ruolo agli interventi divini di questo tipo. Nel libro della Genesi Dio parla direttamente, e spesso in modo familiare, con gli attori umani - Adamo, Eva, Abramo. . . - per far conoscere la loro vocazione, annunciare loro la nascita di un figlio, ecc. Ugualmente, nei racconti che descrivono gli eventi dell'esodo, Dio si intrattiene rego­ larmente con Mosè; al tempo della conquista, egli si rivolge anche a Giosuè e, al tempo dei re, dialoga con Davide, Salomone, Elia . In modo molto colorito, il libro di Giona ci descrive un Dio che interpel­ la il profeta per affidargli una missione, gli ordina di predicare a Nini­ ve, gli notifica perfino ciò che deve dire e che, proprio alla fine, lo rende partecipe delle proprie idee sulla giustizia e il perdono. In tutti questi racconti gli interventi divini fanno parte del tessu­ to narrativo e la loro importanza non dev'essere minimizzata, perché hanno 1 ) una funzione programmatica, quando, sotto forma di visio­ ne, di sogno o di oracolo, indicano in anticipo ciò che accadrà e il modo, 2) una funzione performativa, quando Dio protegge, salva, distrugge, punisce, o ricompensa ecc., e 3) una funzione interpretati­ va, dopo gli eventi, per giustificarli o per indicarne il significato, la portata. Come si può facilmente immaginare, queste tre funzioni sono presenti in Luca/Atti, e tutto lascia pensare che qui Luca si muova sulla scia degli autori sacri, forse in modo più ampio. Dobbia­ mo però individuare l'originalità del narratore lucano, e soprattutto determinare perché il libro degli Atti menzioni tante irruzioni divi­ ne. Infatti, gli apostoli non hanno forse ricevuto lo Spirito Santo per poter decidere dali 'interno, senza aver bisogno di rivelazioni specia­ li o di ordini venuti dali' esterno, fossero essi di angeli o di voci cele­ sti, che indicassero loro dove andare e che cosa fare? . .

4 Cf. Diodoro di

l'ultimo in ordine di tempo, SoUIRES, The Pltm of God, Sicilia, Dionigi di Alicarnasso, Giuseppe Flavio.

15-20, che

menziona

40

Capitolo 2

L'INIZIATIVA DIVINA E SUA INTERPRETAZIONE

È evidentemente possibile spiegare le apparizioni divine «demitologizzandole», vedendo cioè in esse ogni volta la metafora di un 'ispirazione interiore. Quando il narratore scrive: « YHWH disse a Elia: va' presso il torrente Cherit!» o: «II Signore Gesù disse a Paolo: perché mi perseguiti?», il lettore deve allora com­ prendere: «Elia, sotto l'ispirazione divina, passò a oriente del Giordano e poi passò nel territorio di Sidone . . . », «Paolo fu tra­ sformato interiormente dal Risorto e si sentì chiamato a quella che sarebbe stata la sua missione». Thtti i passi in cui lo Spirito Santo parla, ordina, porta i missionari qua e là,5 potrebbero essere senza alcun dubbio compresi come l'espressione immaginosa di una mozione spirituale interiore, e appoggiare questa ipotesi. Il lettore accorto può del resto prevedere fin dall'inizio del libro degli Atti che il racconto traboccherà di profezie, di sogni e di visioni, perché Pietro, nel suo discorso inaugurale, lo annuncia ellitticamente, citando Gl 3,1: [. . . )

i vostri i vostri

figli e le vostre figlie profeteranno, giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni (At 2,17).

Con Pietro, il narratore vede in tutte queste manifestazioni il risultato dell'effusione dello Spirito «su ogni carne», e il resto del racconto attuerà questa dichiarazione, facendone una profezia. Il meno che si possa dire è che il racconto lucano concede le sue chia­ vi di lettura e i suoi principi di veridizione.6

s Cf. i versetti degli Atti menzionati sopra: At 8,29.39; 10,19; 11,12; 13,2; 16,6. 6 Veridizione. Termine tecnico (viene dalla semiotica), conosciuto dai narratologi. Si applica al veridire del racconto. Le due componenti della veridizione sono l'essere e l'ap­ parire; infatti: vero = essere + apparire; fa/so = non-essere + non-apparire; mendace = non­ essere + apparire; segreto essere + non-apparire. L'analisi deve individuare tutti i segni grazie ai quali gli enunciati (del narratore e dei personaggi) si manifestano come veri, falsi, mendaci o segreti. La veridizione si applica pure all'essere e all apparire degli attori o per­ sonaggi (apparire franco, ma essere mendace; apparire violento, ma essere tenero; essere Messia, ma non apparire tale; essere Messia e apparire tale; ecc.). =

'

Quale posto per Dio nel racconto lucano?

41

Thtto sommato, l'interpretazione «demitologizzante», anche se banalizza il racconto, non lo tradisce, nella misura in cui non lo priva della sua intensità teologica. Infatti, ciò che il racconto sottolinea, ogni volta che menziona una frase o una visione celeste, è l'iniziati­ va divina: gli eventi riferiti saranno in qualche modo generati dalla parola potente ed efficace � Dio stesso. Nondimeno, questa inter­ pretazione non fa che rimandare le difficoltà; infatti, prima di molte importanti decisioni prese dagli apostoli, il narratore non menziona alcuna visione, teofania o altro intervento straordinario. Tale è il caso dell'elezione per la sostituzione di Giuda (cf. At 1,21-26), dell'istitu­ zione dei diaconi (At 6,1-69), del concilio di Gerusalemme (cf. At 15). Bisogna con ciò concludere che queste decisioni non sono ispi­ rate dallo Spirito Santo e che hanno pertanto valore e importanza minori di quelle in cui Dio appare e dice ciò che bisogna fare? Cer­ tamente no, perché nella lettera-decreto che gli apostoli inviano ai cristiani di origine pagana al termine della loro deliberazione, dichia­ rano il contrario: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi. . . [di diventare ebrei]» (At 15,28). E se c'è una decisione capitale per la vita e la storia della Chiesa, è proprio questa. Se quin· di l'importanza delle decisioni non è l'unico fattore che possa spie­ gare perché alcune sono precedute da teofanie e altre no, secondo quali criteri si comporta il narratore a questo riguardo? Bisogna con­ siderare alcuni episodi più da vicino. LE TEOFANIE DI CONFERMA7 Le 3,22;

9,35 e 22,43

Cominciamo dalle più semplici, cioè dalle teofanie che seguono

gli eventi. Quelle del battesimo (Le 3,22) e della trasfigurazione

7 Lascio al lettore il compito di verificare che le apparizioni del Risorto in Le 24 possono essere integrate in questa categoria. Sebbene esse abbiano un'importanza erme­ neutica decisiva - mirano infatti a giustificare la coerenza dell'itinerario di Gesù, le sue sofferenze e la sua morte in croce -, non ne parlerò qui, !imitandomi a rinviare a quanto ho già detto al riguardo nel capitolo VIII di L'arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa del Vangelo di Luca, Brescia 199L

42

Capitolo 2

(9,35) non sono proprie di Luca, ma hanno, come in Matteo e Marco, una funzione del tutto analoga: quella di confermare l'identità filia­ le di Gesù nel momento stesso in cui essa si manifesta in modo para­ dossale. Infatti la voce divina proclama Gesù «Figlio prediletto» dopo che egli ha voluto ricevere presso Giovanni il battesimo di penitenza con tutti coloro che confessavano i loro peccati: la voce celeste non chiede a Gesù di farsi battezzare, ma è dopo il suo gesto di umiltà, di solidarietà semplice e anonima con i peccatori pentiti che Dio lo riconosce tale, attestando così che il modo in cui Gesù concepisce e inizia la sua missione rivela veramente la sua filiazione divina. La proclamazione celeste non viene fatta per essere sentita da Giovanni o dagli altri attori presenti, ma solo da Gesù - e dal let­ tore, che deve comprenderla come una conferma sia dell'essere che del modo di apparire di Gesù. Al momento della trasfigurazione la voce celeste si fa sentire di nuovo, ma questa volta si rivolge ai tre discepoli: «Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo» (Le 9,35). Ora, la trasfigurazione e questa affermazione, che ne è il punto culminante, si comprendono solo da ciò che precede, cioè la dichiarazione di Gesù relativa al rifiuto di lui, alle sue sofferenze, alla sua messa a morte e alla sua risurrezione. Solo dopo che Gesù ha accettato tutto questo, in un atteggia­ mento che va ancora più in là della solidarietà silenziosa del battesi­ mo, egli viene glorificato nel suo corpo e la sua dignità filiale viene proclamata. È necessario comprendere bene l'aggiunta «ascoltate­ lo»: la voce domanda ai discepoli di ascoltare Gesù (soprattutto) quando dice loro che deve passare attraverso il rifiuto, le sofferenze e la condanna a morte. E proprio come al battesimo, la proclamazio­ ne celeste non ha funzione intradiegetica, cioè per gli attori: Pietro, Giacomo e Giovanni diranno dell'evento agli altri apostoli solo molto tempo dopo, e quando Gesù riaffennerà che è necessario che egli sia «consegnato» essi non comprenderanno più degli altri il significato delle sue parole (cf. Le 9,45). In effetti, la voce divina viene menzionata prima di tutto per il lettore, che deve comprende­ re, come al battesimo e ancora di più, che Gesù riceve la piena approvazione del Padre suo quando accetta di passare per la strada del rifiuto e della messa a morte, approvazione che non può essere altro che un'affermazione della sua filiazione.

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Quole posto per Dio nel racconto lucano?

Nell'agonia (cf. 22,43), l'angelo appare a Gesù. La funzione è n la stessa del battesimo e della trasfigurazione: avendo appena dato a suo Figlio la forza di andare fino in fondo nella lotta che egli ha accettato di intraprendere, il Padre non si limita a fornire un aiuto paterno, ma conferma anche che il cammino accettato da Gesù è quello giusto. Ancora una volta si può dire che si tratta di una con­ ferma sia dell'essere che del modo di apparire di Gesù. At 23,11 Altre apparizioni di conferma, questa volta negli Atti, vengono ancora menzionate per il lettore. Mi limito qui a quella di At 23.8 Il narratore segnala infatti che la notte dopo la sua comparizione davanti al sinedrio, il Signore appare a Paolo e gli dice: «Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma» (At 23,11). Nessun altro attore del racconto si vedrà rivolgere un incoraggiamento simile, tanto più che Paolo è solo, circondato da soldati e persone che gli sono ostili. Ma il narratore colloca la teofania a questo punto del racconto con un'evidente intenzione prolettica: quando, davanti al governato­ re Pesto, Paolo si appellerà all'imperatore (cf. At 23,11), il lettore non vedrà in questo un effetto della paura, né l'espressione di un colpo di testa - egli aveva deciso già da molto tempo di andare a Roma (d At 19,21) -, né la semplice rivendicazione di un diritto, ma lo strumento mediante il quale Paolo potrà compiere la profezia divina. Si vede così che la teofania di At 23,11 ha una triplice funzione: l) conferma a Paolo la giustezza e la qualità della sua testimonian­ za, 2) sottolinea anche per il lettore l'estrema competenza kerygma­ tica e retorica di Paolo, 3) prepara gli avvenimenti futuri (la decisio­ ne di Paolo di appellarsi a Cesare, il viaggio verso Roma, ecc.) e in qualche modo li genera. 8 At 18,9�10 è anche una cristofania di conferma e di consolazione, avendo inoltre funzione prolettica (le accuse di Paolo davanti a Gallione non avranno seguito). Sic� come questa apparizione può essere analizz ata come quella di At 23, mi limito a presen­ tare la seconda, i cui effetti narrativi sono più ampi una

.

44

Capitolo l

At 7,55-56 Le voci celesti e la visione che sono state brevemente presenta­ te erano fatte soprattutto per il lettore; invece la cristofania di At 7,55-56 - almeno le parole di Stefano che la riferiscono - riguarda anche direttamente gli attori, perché, notificando a tutti la sua visio­ ne, il nostro diacono ha certamente fatto precipitare la sua sorte. D'altra parte, a differenza degli interventi divini menzionati sopra, questo è silenzioso: il Signore appare, ma non si rivolge a Stefano, per dirgli che il suo discorso era interessante e vero, per intimargli di notificare a tutti la visione che ha avuto, per incoraggiarlo, oppure per promettergli la vittoria. Per questo fatto, la visione non fornisce immediatamente la sua ragion d'essere. Ma il lettore non può non vedervi una conferma: se non fosse così, i cieli si sarebbero forse aperti? L'importante è che Stefano dica ad alta voce ciò che vede, provocando così il furore dei giudei che lo circondano e la sua lapi­ dazione. Si sarà notato, spero, il paradosso: l'affermazione della vit­ toria di Gesù sulla morte e della sua signoria non permette a Stefa­ no stesso di scampare alla morte, piuttosto ve lo conduce. Ma la visione celeste e ciò che essa provoca, la lapidazione di Stefano, sono ancora fatti per il lettore, per le somiglianze che il racconto stabilisce tra la morte di Stefano e quella di Gesù:

At 7,59-60 «Signore Gesù, accogli il mio spirito»

Le 23,34.46 «Padre, perdonali; non sanno quello fanno»

che «Signore, non imputar loro questo peccato»

«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»

Come l'affermazione da parte di Gesù della sua esaltazione (cf. Le 22,69-70) aveva spinto le autorità a consegnarlo a Pilato e alla morte, cosi Stefano, proclamando questa esaltazione, percorre lo stesso itinerario del suo Signore: una morte nella piena fiducia e nel perdono. Per il lettore cristiano la sua lapidazione non è più allora un contro-segno; tutt'altro, perché, nel momento in cui Stefano rende il suo spirito, le sue parole acquistano tutta la loro verità: i

Quale posto per Dio nel racconto lucano?

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suoi ascoltatori sono, come i loro padri, degli assassini (cf. At 7,5153).9 Ma l'apparizione del Figlio dell'uomo in gloria completa anche la testimonianza di Stefano e ne fa un compendio perfetto del van­ gelo; infatti il v. 32 fa chiaramente allusione alla morte di Gesù e il v. 36 è una proclamazione della sua risurrezione. Stefano muore da perfetto testimone di Cristo nella totalità del suo mistero pasquale. La voce celeste, invece, e la sua notifica pub­ blica hanno un'altra funzione, narrativamente più estesa: quella di portare al suo compimento la logica dell'annuncio del vangelo, che vuole che i suoi messaggeri soffrano la persecuzione. Fm qui gli apo­ stoli avevano incontrato opposizione, erano stati minacciati (cf. At 4,21 ) , imprigionati (cf. 4,58), persino frustati (cf. 5,40), ma erano sem­ pre usciti indenni da queste prove e sempre più decisi. Con la morte di Stefano, l'antagonismo raggiunge il suo grado più alto.10 La pro­ clamazione del vangelo prende una svolta drammatica, e i suoi aral­ di sanno ormai fin dove devono arrivare. Stefano non è soltanto il primo martyr - nel senso in cui l'intendiamo oggi: una persona che muore a causa della sua fede -, ma diventa anche il modello del testi­ mone, perché non muore soltanto per Gesù Cristo, ma come lui. Le apparizioni che sono state sommariamente presentate sono tutte delle conferme fornite per il lettore. Hanno in comune il fatto di andare al centro delle vie di Dio, sottolineando ogni volta la logi­ ca paradossale dello stesso itinerario, quello della testimonianza, sia essa di Gesù o dei suoi discepoli. Il racconto lucano non è perciò gui­ dato soltanto da un processo di veridizione e di verificazione: fa com­ prendere che questo processo è voluto e operato da Dio stesso. Ed è proprio questa la funzione delle poche teofanie collocate in momen­ ti decisivi del racconto, come abbiamo avuto modo di vedere.

9 D lettore avrà certamente percepito il sottile parallelismo stabilito da Luca tra la fine di questo episodio e quello di Nazaret in Le 4,16-30. 10 Con G. BETORI, «La strutturazione del libro degli Atti: una proposta», in RivBib 42(1994), 33 l'episodio di Stefano deve essere considerato come la fine della prima parte degli Atti.

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Capitolo 2

QUANDO lL CIELO NON PARLA? Le teofanie di conferma sono poco numerose, in confronto a quelle che precedono gli eventi e li provocano. Ed è probabilmente il loro numero che fa difficoltà al lettore contemporaneo, forse trop­ po presto incline a tacciare il narratore lucano di ingenuità. Prima di esprimere un giudizio sul valore del narratore, cominciamo con l'in­ dividuare dove e quando queste manifestazioni hanno luogo, per meglio percepire poi il loro ruolo narrativo e semantico.

Nel terzo vangelo L'elenco presentato sopra mostra in effetti che queste profezie celesti, sotto forma di voce, di visioni o di sogni, sono rarissime in Luca, che le riserva soltanto agli episodi relativi alla nascita di Gio­ vanni Battista e di Gesù (Le 1,5-2,14). Fin dal momento in cui inizia il suo ministero, Gesù prende il posto delle voci angeliche: è lui - e lui solo - che annuncia gli eventi e ne determina il significato. L'episodio di Nazaret è a questo riguardo emblematico, perché Gesù interpreta n le Scritture in modo sovrano, per rendere nota la propria vocazio­ ne e 1 destinatari della sua azione, per profetizzare l'incomprensione e il rifiuto da parte dei suoi concittadini.11 E lungo tutto il suo mini­ stero è ancora lui che annuncia le sue sofferenze, la sua condanna a morte e la sua risurrezione,12 la rovina di Gerusalemme13 e, durante l'ultima Pasqua, le prove dei discepoli, il tradimento di Giuda e il rin­ negamento di Pietro;14 è sempre lui che dichiara al ladrone crocifisso al suo fiallko: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (Le 23,43). In breve, in Luca è Gesù il padrone degli eventi. Forse .�i dirà, e a ragione, che sebbene onnisciente Gesù non fa che conformarsi alla volontà onnipotente del Padre suo. I famosi «è necessario», notati con cura dagli esegeti, lo mostrano in modo chia11 Sull'approccio narrativo a Le 4,16-30 cf. ALE1TI, L'arte di raccontare Gesù CriIlo, c. II. 12 a. Le 9,22.44; 13,32-33; 11,24-25; 18,31-33; 22,37. 13 Cf. Le 13,34; 19,41-44. 14 Cf. Le 22,21; 22,31-34. Si veda anche la profezia concernente la preparazione della Pasqua in Le 22,10-13.

Qut�le posto per Dio nel racconto lucano?

ro. 15 Gesù è così solo il portavoce della volontà divina, colui nel quale e attraverso il quale essa si manifesta in modo pieno. Certa­ mente, nell'annunciare questi «è necessario», Gesù vuole proprio esprimere la sua volontà di obbedire a Dio suo Padre, ma si avrebbe torto a credere che egli sia solo un esecutore senza iniziativa, un buon discepolo che adempie docilmente tutti i compiti che gli ven­ gono assegnati. Ho mostrato altrove come la fedeltà di Gesù e il suo passaggio attraverso le sofferenze esprimano un amore che non può non arrivare fino all' estremo.16 «È necessario» non fa quindi riferi­ mento a una necessità eteronoma o meccanica, ma alle vie volute da Gesù stesso in pieno accordo con Dio suo Padre. Ne/ libro degli Atti Dio interviene molto negli Atti, ma bisogna aggiungere che egli non detta mai il contenuto degli annunci del vangelo, dei discorsi e nemmeno delle profezie. Così, lo Spirito ordina a Filippo di avvici­ narsi al carro che si trova a poca distanza (cf. At 8,29), ma non gli suggerisce quello che deve dire. È Filippo che, sentendo l'eunuco leggere un passo di Isaia, prende l'iniziativa e lo interpella: «Capisci quello che stai leggendo?» (At 8,30). E il profeta Agabo, dopo aver preso la cintura di Paolo ed esser­ si legato mani e piedi, dichiara: Questo dice lo Spirito Santo: l'uomo a cui appartiene questa cintura sarà legato così dai Giudei a Gerusalemme e verrà quindi consegnato nelle mani dei pagani (At 21 ,11);

lo Spirito Santo parla attraverso Agabo e il narratore si guarda bene dal menzionare una qualche voce proveniente dal cielo e che parla direttamente alle persone presenti. Già a Pentecoste, anche se gli apostoli ricevono lo Spirito Santo, è con le loro parole che essi inter­ pretano quanto è accaduto, alla luce delle Scritture e dell'evento Gesù Cristo: niente viene dettato loro dall'alto, a differenza dei veg-

15 C1 Le 2,49; 4,43; 9,22; 13,33; 17,25; 22;37. 16 ALEITI, L'arte di raccontare Gesù Cristo, c. IX.

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Capitolo l

genti delle apocalissi, giudaiche o cristiane,17 che devono ripetere scrupolosamente ciò che hanno visto o sentito lassù. Il lettore può verificare da sé che negli Atti, Dio non impone mai ai discepoli il con­ tenuto della loro testimonianza. Si obietterà forse che tutti i discorsi in cui il cammino di Gesù viene interpretato con l'aiuto delle Scritture, riproducono le lezioni di esegesi date dal Risorto ai discepoli di Emmaus e agli Undici: «Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Le 24,27; ugualmente 24,44-45). Pietro non ripete forse ciò che ha sentito dal suo Signore, e il lettore degli Atti non riceve forse le lezioni di esegesi del Maestro tramite i discepoli? È vero che Le 24 indica chiaramente che per primo il Risorto apre l'intelligenza dei discepoli alla comprensione delle Scritture, per mostrare la coerenza del suo cammino; ma, nel men­ zionare ciò, il narratore intende proprio preparare il lettore alle esposizioni fatte dagli apostoli negli Atti, e mostrare che l'annuncio (egli è vivo, noi ne siamo testimoni) e l'esegesi dei discepoli (che ne rievocano la logica con un percorso attraverso le Scritture) non sono una loro invenzione, bensì vengono unicamente da Gesù. È quindi Gesù, il Risorto, che ha fornito materia e metodo dei primi discorsi degli Atti. Ma ciò non dispensa gli apostoli dall'adat­ tare la loro proclamazione all'uditorio e alle circostanze. Inoltre, non si può dire che i discorsi di Paolo, soprattutto quelli di At 22-28, riprendano le lezioni di esegesi menzionate da Le 24; ciò nonostante anch'essi costituiscono una testimonianza autentica resa al Signore Gesù, come afferma Paolo stesso nella visione menzionata in At 23,1 1 . In breve, anche se lo Spirito viene in aiuto agli araldi del van­ gelo - Pietro, Filippo o Paolo18 -, mai detta loro quello che devono dire. Lo Spirito viene ad abitare nei credenti non per parlare al posto loro, ma per permettere a essi di parlare con le loro stesse parole, con la loro cultura, la loro storia personale, la loro esperienza e il loro amore per il Signore Gesù. Si tratta semplicemente di un fatto o bisogna vedere in ciò l'effetto di una tecnica narrativa, grazie alla 17 Si veda, ad esempio, il finale del libro di Enoc, o anche Ap 1,19; 10,4; 14,13; 19,9; 21,5.

18

Oltre

alla Pentecoste, et At 4,8; 7,55;

13,9.

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Quale posto per Dio nel racconto lucano?

quale il lettore viene invitato a meglio percepire che cosa sia la testi­ monianza e la proclamazione del vangelo? Cercherò di rispondere quando dovrò analizzare i discorsi di Paolo in At 22-26.

Dalle teofanie alle cristofanie È necessario andare più a fondo di quella che si chiamerà «la generazione cristologica» degli eventi e, di conseguenza, del raccon­ to lucano. Per il vangelo abbiamo visto che, a partire dal ministero pubblico - il discorso a Nazaret in Le 4 -, è Gesù che prende l'inizia­ tiva e conduce lo sviluppo degli eventi, e che fissa il compito futuro dei discepoli (cf. Le 24,47-48). Il fenomeno si ripete negli Atti, in modo ancora più esteso, perché copre l'insieme del racconto, e ciò fin dal primo episodio. Gli esegeti hanno infatti unanimemente nota­ to l'importanza programmatica del racconto dell'ascensione (At 1,411). È il Risorto che annuncia la Pentecoste (vv. 3 8a) e che fissa il compito dei suoi discepoli: «Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra». In questi versetti, alcuni esegeti non vedono soltanto un programma, ma vi vedono delineato anche il piano del libro, in funzione dei campi della testimonianza: - a Gerusalemme: At 1-7, - in Giudea e Samaria: At 8-12, - fino agli estremi confini della terra: At 13-18. Certo, l'espansione missionaria entra nella dinamica del raccon­ to, tanto più che il Risorto riprende e precisa il suo annuncio degli Atti quando dichiara a Paolo: «È necessario che tu mi renda testimo­ nianza anche a Roma» (At 23,1 1 ) ; ma essa non basta a rendere conto di tutte le dimensioni del racconto, tanto più che, come la maggior parte delle protessi lucane, quella di At 1,8 resta volutamente vaga e non è sufficiente a determinare la composizione di tutto il libro.19 È .

19 È noto che gli annunci fatti in Luca/Atti restano ellittici: bisogna aggiungere che si tratta di una tecnica narrativa lucana, del resto molto diffusa nei racconti antichi e di Omero. Per una valida proposta di composizione del libro degli Atti, cf. BETORI, «La strut­ turazione del libro degli Atti», che si trova in appendice alla fine del presente volume, p. 224.

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Capitolo 2

tuttavia vero che At 1,5.8 determina tutto il libro come l) una testi­ monianza, 2) resa a Cristo, e che questi due punti troveranno pro­ gressivamente il loro contenuto nella successione degli episodi. La dimensione cristologica è quindi molto pregnante fin dall'inizio, poi­ ché il Risorto fissa i diversi ruoli in relazione fondamentale a lui: nel corso del racconto si tratterà sempre di Cristo; si parlerà delle sue sofferenze, della sua risurrezione e della sua esaltazione, ci si ricor­ derà delle sue parole,20 si battezzerà nel suo nome, si opereranno guarigioni in suo nome, il gruppo dei suoi discepoli sarà perfino chia­ mato «cristiani». Ma il Risorto non è solo presente nei discorsi: resta con la sua Chiesa e continua a intervenire. Infatti la cristofania dell'ascensione, che mette in moto gli eventi seguenti, non è la sola. Il Cristo appare ancora a Stefano (cf. 7,55),21 a Paolo sulla via di Damasco, ad Ana­ nia, e di nuovo a Paolo.22 Si risponderà che egli non è il solo a inter­ venire: anche lo Spirito Santo ha un ruolo decisivo, perché non viene soltanto ad abitare nel cuore dei credenti, ma sceglie anche chi vuole (cf. At 13 ,2) , invia dove vuole (cf. At 8,29.39-40; 16,6-7) e ispira quel­ li che devono essere testimoni di Gesù Cristo. Questo è vero, e si può anche individuare una certa specializzazione dei ruoli; tuttavia si può dire che il racconto è globalmente centrato sul Cristo, tanto più che l) nei suoi ultimi discorsi, Paolo ritorna due volte sull'incontro della via di Damasco (cf. At 22 e 26), 2) il primo e l'ultimo versetto degli Atti formano una magnifica inclusione, passando dall'insegnamento di Gesù (cf. 1,1) all'insegnamento di Paolo relativo a Gesù (cf. t.ìJ 28,31 ) . ..t:..,

LA

FUNZIONE DEGLI INTERVENTI CELESTI

Così, gli interventi di Dio, di Cristo e dello Spirito, sotto forma sogni, di effusioni o di visioni, non precedono né il contenuto della testimonianza, né le decisioni relative alla strutturazione e all'orga-

di

Cf., tra l'altro, At 11,16. Si tratta al tempo stesso di una cristofania e di una teofania. 22 Cf. At 9,4-6; 9,10-15; 18,9; 23,1 1 . L'espressione «il Signore» (con l'articolo, in greco: ho kyrios) fa riferimento ogni volta al Cristo. 20 21

Quale posto per Dio nel racconto lucano?

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nizzazione della Chiesa. Ma il loro numero esige che ci si interroghi sulle ragioni per le quali il narratore li ha riferiti, tanto più che gli attori del racconto molte volte dicono che il Signore è apparso loro per chiamarli o per annunciare loro ciò che doveva accadere. Anche se qui si deve escludere una presentazione dettagliata di tutti questi interventi celesti, una classificazione è comunque possi­ bile. Oltre agli annunci di Le 1-2 e dell'ascensione, ci sono delle effu­ sioni dello Spirito,23 delle liberazioni dalla prigione,24 delle scelte di missionari,25 delle incitazioni a evangelizzare nuove persone o regio­ ni.26 Ma più della classificazione, ciò che è importante è determinare le ragioni di tanti interventi. Certo, essi avvengono nella maggior parte dei casi in momenti critici, decisivi - imprigionamenti, svolte nell'evangelizzazione -, ma abbiamo visto che in circostanze ugual­ mente delicate come la sostituzione di Giuda o la deliberazione di Gerusalemme, Dio, Cristo o lo Spirito non dicono niente - cosa che nessuno, spero, avrà l'impudenza di interpretare come un'assenza. È del resto evidente che questi interventi mirano a sottolineare che la divinità guida gli eventi e li farà accadere conformemente alla sua volontà. Nondimeno è necessario e doveroso domandarsi perché essa fa irruzione in certe occasioni e non in altre. LE SCELI'E DI DIO

Molti commentatori hanno già notato il parallelismo esistente tra At 9 e 10. In ciascuno degli episodi, la divinità appare dapprima a una persona che ancora non crede in Gesù Cristo, poi a un disce­ polo di Cristo, che comincia opponendo una resistenza a quanto il cielo gli propone: Anania ha infatti sentito dire che Saulo ha perse­ guitato i discepoli a Gerusalemme ed è venuto a Damasco per arre­ starne altri; e Pietro, alla voce celeste che gli ordina di mangiare ciò che vede, controbatte di non aver mai mangiato in vita sua qualco23 Cf. At 2,1-4; 4,31; 10,44-45; 19,6. 24 Cf. At 5,19-20; 12,6-11; 16,26. 2S Cf. At 8,26.29.39. L'incontro di Paolo sulla via di Damasco è da annoverare in questa categoria, come indicano le parole del Risorto ad Anania in At 9,15-16. Si veda anche la visione ad Anania in At 9,10-16; At 13,2. 26 Di nuovo At 8,26.29; At 10; At 16,6-9.

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Capitolo 2

sa di impuro, esprimendo così indirettamente che gli sta a cuore la Legge mosaica e che in nessun caso vuole infrangerla su questo punto. La voce divina dà allora alcune spiegazioni e ripete l'ordine. Nello schema seguente sono riportati gli elementi comuni ai due episodi: At 9 - Saulo

e Anania

A t lO

-

Cornelio e Pietro

Saulo cade a terra e sente una voce «Saulo, Saulo» «Chi sei, o Signore?» ordine: «Alzati ed entra nella città» esecuzione

Cornelio vede un angelo del Signore «Cornelio» «Che c'è, Signore?» ordine: «Manda degli uomini a Giaffa» esecuzione

Il Signore appare ad Anania ordine: «Va' sulla strada Diritta» obiezione relativa a Saulo reiterazione dell'ordine breve spiegazione esecuzione

Visione di Pietro e voce celeste: ordine: «Uccidi e mangia» obiezione relativa all'impurità legale breve spiegazione ordine esecuzione

Senza arrivare fino a dire che At 9 e lO si somigliano come due gemelli, bisogna riconoscere che i loro punti in comune toccano qualcosa di essenziale. Per il mio scopo, che è quello di vedere per­ ché il racconto menzioni le voci celesti, i punti più interessanti sono le resistenze di Anania e Pietro. Infatti, menzionando le obiezioni dei due discepoli di Gesù, Anania e Pietro, il narratore intende sottoli­ neare l'enormità delle scelte divine. Domandare a uno dei discepoli di Gesù di andare a visitare uno dei loro più feroci persecutori, e a un giudeo osservante di accettare l'ospitalità di un pagano, è per lo meno sorprendente! Il parallelismo tra i due episodi non impedisce al secondo di insistere di più sulla resistenza di Pietro: tre volte la voce celeste gli domanda di consumare gli animali impuri e per tre volte egli rifiu­ ta. E la sua resistenza è narrativamente normale, nella misura in cui la voce non gli presenta ragioni valide. Perché non dovrebbe trat­ tarsi di una tentazione? E se Dio avesse voluto mettere alla prova Pietro, provare la sua fedeltà alla Legge? A dire il vero, la spiega­ zione fornita dalla voce celeste - «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più impuro» (At 10,15) - non chiarisce nulla. Infatti, l)

Quale posto per Dio nel racconto lucano?

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il contenuto della tovaglia risale al cielo prima che Pietro abbia potuto eseguire l'ordine divino («Uccidi e mangia»); 2) Dio ricorre al suo agire potente, ma non dice né come né perché questi anima­ li impuri siano stati purificati; 3) dopo che la visione è cessata, Pie­ tro continua a interrogarsi su ciò che Dio gli abbia voluto dire. Le perplessità di Pietro non sono finite, perché, se lo Spirito Santo gli formula ora un ordine concreto, quello di seguire immediatamente i due uomini che stanno per presentarsi a lui, non dice nulla della loro origine né delle ragioni per le quali essi vengono a cercarlo. Saranno gli inviati a dargli le informazioni sull'identità del loro padrone (nome, professione, qualità religiose). Quanto alla ragione della loro venuta, non va al di là di ciò che Pietro già conosceva (cf. v. 20b ) E ciò che lo Spirito non gli dice è che Cornelio aspetta che egli gli parli . . . di che cosa, di chi? Infatti la voce celeste non ha sug­ gerito il nome di Gesù né a Cornelio, né a Pietro. Sta a quest'ulti­ mo prendere l'iniziativa! E per i discorsi, lo abbiamo notato, lo Spi­ rito non suggerisce mai le parole ! La prima funzione d eli 'intervento celeste non è quindi soltan­ to quella di mostrare che la divinità dirige sovranamente gli even­ ti; infatti le obiezioni mosse dai discepoli indicano anche che le vie di Dio sono per lo meno sorprendenti. L'accento è più sull'aspetto inaudito delle scelte di Dio che sulla sua sovranità. Quando di fron­ te ai fratelli di origine ebraica deve giustificare la sua decisione, Pietro insiste sulle visioni ricevute, sull'effusione dello Spirito, per sottolineare proprio che né lui né alcun altro avrebbe potuto immaginare che dei goyim, dei pagani, avrebbero ricevuto lo Spi­ rito in abbondanza e allo stesso modo di essi, ebrei e apostoli, il giorno di Pentecoste. Si obietterà forse che il narratore fa di tutto per rendere ragionevole l'accettazione di Cornelio come discepo­ lo di Gesù Cristo. Lo presenta infatti come pio, timorato di Dio, generoso, ecc. (cf. At 10,1-2); e le stesse qualità sono quelle riferi­ te dai due uomini inviati a cercare Pietro (cf. 10,22). In realtà ciò che spinge Pietro a far visita a Cornelio non sono i meriti di que­ st'ultimo, ma proprio l'ordine celeste (cf. 10,20), come egli stesso ripeterà a Cornelio e alla sua famiglia: «Dio mi ha mostrato che nessun uomo è impuro; per questo sono venuto senza esitare quando mi avete mandato a chiamare» (10,28-29). Pietro non ha .

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fatto altro che seguire le direttive divine, senza considerare i meri­ ti umani. Inoltre, in At 1 1 , il nome di Cornelio non viene più men­

zionato ed egli rientra nell'anonimato. In effetti il problema solle­ vato oltrepassa di gran lunga la questione della sua statura mora­ le e religiosa. È in gioco la possibilità per degli incirconcisi, dei non ebrei, di appartenere a pieno titolo al gruppo dei discepoli e di essere chiamati «frateUi», come gli altri, con la sola menzione della loro origine («fratelli che provengono dai pagani», At 13,23), senza che in questo appellativo ci sia alcunché di peggiorativo.27 Il narratore menziona quindi la condizione e la vita esemplare di Cornelio solo per ragioni narrative: la fama di Cornelio tra gli ebrei ha fatto sl che l'evento non potesse non essere un giorno conosciuto dai «fratelli» di origine ebraica. Era ugualmente importante che la prima persona scelta da Dio per questa missio­ ne fosse Pietro, figura dominante della prima comunità, e che la reazione dei fratelli di origine ebraica fosse di glorificare Dio, rico­ noscendo così che è stato lui a volere questi eventi e a farli acca­ dere: «Dunque anche ai pagani - da notare che non usano più il termine "incirconcisi" - Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!» (At 1 1,18). L'INIZIATIVA DMNA E n. SUO RICONOSCIMENTO

Da parte degli attori Il narratore non si limita perciò a segnalare che Dio guida gli eventi con una potenza sovrana, ma utilizza anche le incomprensio­ ni e le obiezioni dei discepoli per mettere in rilievo inatteso delle scelte divine. Attraverso queste reazioni di sorpresa o di stupore il racconto indica che Dio vuole che le sue vie siano riconosciute. In altri termini: il riconoscimento del piano di Dio fa parte integrante di questo piano. Si sarebbe potuto immaginare che l'episodio della conversione di Cornelio finisse con la domanda e l'ordine di Pietro:

'1:1 Si noti a questo proposito che, a differenza degli ebrei davanti ai quali si spiega, Pietro evita di chiamare «incirconcisi» coloro presso i quali si è recato (cf. At 11,3).

Quale posto per Dio nel racconto lucano?

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«Forse che si può proibire che siano battezzati con l'acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi? ». E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù (At 10,47-48).

Che Pietro abbia compreso le vie di Dio e vi abbia volentieri dato il suo assenso, va bene; ma non sembra bastare: è importante che i suoi fratelli di origine ebraica possano a loro volta fare lo stes­ so cammino verso la luce, passare dall'incomprensione alla lode. Ecco perché Pietro si preoccupa di spiegare loro quanto è accaduto; e non lo fa in un modo qualsiasi. Inizia menzionando la sua visione, con la triplice ripetizione dell'ordine divino, e la spiegazione divina («Quello che Dio ha purificato, tu non considerarlo impuro», v. 9), ma senza commentarla, senza aggiungere, ad esempio: «Il Signore mi voleva far comprendere che d'ora in poi non si deve più dire di un essere umano che è impuro». Ciò facendo, Pietro mette i suoi ascol­ tatori in una situazione identica a quella che era stata allora la sua: la visione conserva ancora il suo segreto. Solo in seguito, quando men­ ziona la venuta dello Spirito Santo sui pagani, egli propone un'inter­ pretazione. Certamente si sarà notato che ciò che ha colpito Pietro e quelli che l 'hanno accompagnato presso Cornelio è il fatto che degli incirconcisi abbiano ricevuto lo Spirito Santo in pienezza, come loro stessi nel giorno di Pentecoste (cf. 11,15; cf. già 10,43.47). Ma non può essere che si tratti di un fatto unico, dovuto alla qualità spirituale eccezionale di Cornelio? No! Pietro e i suoi fratelli di origine ebrai­ ca possono riconoscere in questa nuova Pentecoste un disegno più universale proprio perché l'apostolo la mette in relazione con la parola del Signore Gesù («Sarete battezzati nello Spirito Santo»). E l'interesse dell'interpretazione di Pietro sta in questo: l) egli lega la venuta dello Spirito alla parola del Risorto, facendo così del­ l'effusione dello Spirito sui gentili l'attuazione della sua volontà ­ nuova conferma della generazione cristologica del percorso riferito negli Atti. 2) È la venuta dello Spirito Santo, e non la visione degli animali da sgozzare e mangiare, che apre a Pietro l'intelligenza delle vie di Dio, il che dimostra precisamente che la venuta dello Spirito era necessaria. Ma allora, a che serve la triplice visione degli anima­ li impuri? Soprattutto a incuriosire, a mettere in guardia Pietro. E dopo la venuta dello Spirito sui pagani, l'apostolo può vedere che

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essa esprimeva in modo immaginoso l 'universalità del disegno di Dio, che vuole la salvezza degli uomini di tutte le razze e culture. La visione indicava quindi quali fossero i destinatari toccati dalla profe­ zia del Risorto (in At 1,5). 3) L'interesse del discorso di Pietro e della reazione dei fratelli di origine ebraica in At 11 deriva ugualmente dal fatto che essi riconoscono le vie di Dio, non per quello che egli ha fatto per loro, ma per quello che ha fatto per altri, quegli stessi che erano considerati peccatori che incorrevano nella collera divina. C'è in questo versetto di At 1 1,18 un reale progresso nella lode, nella proclamazione della gratuità e della misericordia divina, perché non si applica soltanto a ciò che Dio ha fatto al suo popolo, ma anche e soprattutto alle nazioni. Certamente uno dei frutti dello Spirito è aprire gli occhi e il cuore, far comprendere cioè le vie di Dio e far aderire a esse di modo che, dissipata ogni gelosia, ciascuno possa lodare per i doni fatti agli altri. Su questi differenti punti At 9 e 10--1 1 articolano le stesse componenti di Le 1-2.28

Le voci celesti e il riconoscimento da parte del lettore At 8,26-40 Le manifestazioni celesti con le quali il Signore fa conoscere le sue scelte non sono evidentemente le uniche nei vangeli e negli Atti. Ma, suscitando quasi ogni volta le reazioni degli attori per la loro stranezza o la loro apparente incongruenza, esse indicano un'insi­ stenza e invitano gli attori a meditare sulle vie di Dio. Più si va verso la fine del libro, più si parla delle visioni passate - soprattutto di quella della via di Damasco, sulla quale ritornerà -, segno evidente della loro importanza. Questi interventi sottolineano in ogni caso che la divinità - questo termine designa sia Dio Padre, che il Risor­ to e lo Spirito Santo - guida gli eventi secondo il suo volere, chiaman­ do un persecutore zelante e violento, facendo dei gentili dei membri a pieno titolo della Chiesa. Ho detto che le scelte più importanti e più sconcertanti espres­ se dalle voci celesti avevano come primo effetto quello di disorien-

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re Gesù

Sulla funzione narrativa delle apparizioni in Le 1-2, cf. ALETI'I, L'arte di racconlll­ Cristo� c. III.

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tare i discepoli e far sollevare loro delle obiezioni. Ma il lettore sarà anch'egli coinvolto in questo processo di continue sorprese? È possibile mostrare che è anch'egli implicato nel lavoro di riflessione al quale sono invitati i discepoli? At 8,26-40 permetterà di fornire una risposta chiara. Questo episodio, in cui, come vedremo, il genio del narratore raggiunge l'apice, è stato già oggetto di numerosi studi, ai quali pos­ siamo in un primo tempo appoggiarci. Per la morte di Stefano, per le apparizioni a Paolo-Anania e a Cornelio-Pietro, abbiamo già indivi­ duato una tecnica familiare a Luca, e in uso al suo ·tempo: il paralle­ lismo - in greco synkrisis. La ritroviamo qui, poiché il passo segue lo sviluppo di Le 24,13-33, nei suoi nuovi sviluppi e tensioni:29 Le 24,13-33

At 8,26-39

presentazione dei due uomini che parlano degli eventi recenti

invio di Filippo presentazione dell'eunuco che legge il profeta Isaia

Gesù li raggiunge e li interroga

Filippo lo raggiunge e interroga

essi raccontano gli eventi enigmatici

l'eunuco domanda delle spiegazioni

Gesù interpreta le Scritture che parlano di lui (e dà un significato agli eventi)

Filippo annuncia ciò che riguarda Gesù (spiegando così la profezia)

essi invitano Gesù a restare

l'eunuco domanda il battesimo

frazione del pane, riconoscimento, Gesù scompare

battesimo e scomparsa di Filippo

emozionati, essi si mettono in cammino per raggiungere gli altri

l'eunuco prosegue la sua strada pieno di gioia

È difficile negare i tratti paralleli; tuttavia anche le differenze saltano agli occhi. Se in entrambi gli episodi si tratta delle Scritture, 29 Questo parallelismo è stato ben studiato da J. DuPONT, Études sur les évangiles synoptiques, 2 voll., Louvain 1985, 1129-1152; si veda anche J.-M. GmLLAUME, Luc inter­ pr�te des anciennes traditions sur la résurrection de Jésus, Paris 1979, 80-81; e, per Le 24, c1 ALET11, L'arte di raccontare Gesù Cristo, c. VIII.

Capitolo �

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queste non intervengono allo stesso modo nell'intreccio; si assiste in qualche modo a un incrociarsi tra i due passi: Lc 24,13-33 enigma dell'evento Gesù Scritture esplicative

At 8,26-40 Scrittura enigmatica l'evento Gesù come spiegazione

In Le 24 è la morte di Gesù che sembra mettere in discussione

tutta la sua vita, e il ricorso alle Scritture aiuta a capire che il Cristo doveva passare attraverso le sofferenze. In At 8, invece, è la Scrittu­ ra a suscitare degli interrogativi, e Filippo può rispondere mostran­ do come la passione e la morte di Gesù illuminino il passo e gli fac­ ciano acquistare tutta la sua forza. Anche il finale è differente: Le 24,33 descrive i due uomini che hanno fretta di annunciare agli altri discepoli la buona novella della risurrezione, del cammino attraver­ so le Scritture, del riconoscimento alla frazione del pane; mentre in At 8,39, anche se l'eunuco è pieno di gioia, non manifesta alcun desi­ derio di ritornare a Gerusalemme, alcuna ansia di annunciare il van­ gelo, e il racconto non dice che Filippo, trasportato dallo Spirito ad Azot, narri ciò che è capitato a lui e all'eunuco. Se pertanto nessuno degli altri attori del macra-racconto - gli apostoli e i discepoli da una parte, gli abitanti di Azot dall'altra - sa nulla dell'evento nell'imme­ diato, e se l'evento stesso non ha incidenza su quelli seguenti, non sembra avere alcuna funzione al livello intradiegetico: allora a che cosa serve? Non si esagera forse nell'affermare che l'episodio non è fatto per gli attori? L'eunuco non è forse il primo beneficiario del suo incontro con Filippo, poiché ha potuto, grazie a lui, ascoltare la buona novella, conoscere Gesù Cristo, come indica un altro princi­ pio di composizione del passo, questa volta concentrico, individuabi­ le grazie alle ripetizioni del vocabolario ?30 a v. 25

sommario: «verso Gerusalemme», «molti villaggi», «annunciava la buona novella»

30 Cf. D. MINoUEZ, «Hechos 8�. Analisis estructural del relato», in Bib 57(1976), 168-191.

Quale posto per Dio nel racconto luamo?

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b

vv. 26-28: «Filippo», «sulla strada», «un eunuco» c v. 29: «lo Spirito» («avvicinati») v. 31: «come potrei (comprendere)?» D v. 30 vv. 34-35: «di chi parla il profeta?», «gli annunziò la buona novella di Gesù» vv. 36-39a: «che cosa impedisce di essere battezzato?» c' v. 39b: «lo Spirito» («lo rapì») b' v. 40: «l'eunuco», «proseguì per la sua strada», «Filippo» a' v. 40: «egli [Filippo] annunciava la buona novella», «tutte le città», «verso Cesarea».

D testo non sembra forse spiegarsi e ripiegarsi intorno ai vv 3435, dove si dice che Filippo annuncia all'eunuco la buona novella di Gesù? Nessuno può negare che l'annuncio di Gesù Cristo non sia stato decisivo per l'eunuco, ma il narratore non dice assolutamente nulla del contenuto di questo annuncio, mentre nei vv. 32b-33 cita integralmente il passo di Isaia (53, 7b-8a ). Ed è sintomatico che i parallelismi individuati sopra non possano far apparire questa cita­ zione. Una simile assenza porta forse a concludere che la citazione ha solo un ruolo secondario? Il fatto che il resto dell'episodio non parli più della Scrittura potrebbe farlo credere; ma prima di rispondere, osserviamo che il racconto non dice: «Filippo ascoltò: il passo era del profeta Isaia (testo della citazione)». Ciò non vuoi dire evidentemen­ te che il diacono non abbia sentito nulla, altrimenti come avrebbe potuto porre la sua domanda? Significa soltanto che la citazione viene menzionata per il lettore. Ma a qual fine? Per fargli forse comprendere, nel caso non lo avesse ancora capito, che Gesù è il Servo sofferente di Isaia? L'assen­ za di una qualsiasi esegesi - del tipo dei discorsi di Pietro in At 2--4: «E Filippo gli mostrò che Gesù era la pecora di Is 53 . . . » - rende nulla que­ sta ipotesi: il narratore suppone che il suo lettore sia già introdotto nel­ l'esegesi cristologica di Is 53. Vuole piuttosto informarlo puramente e semplicemente di questo episodio? Ma allora perché citare integral­ mente ls 53,7-8 se il resto del racconto non è determinato dal suo con­ tenuto? Thtto sommato, qualsiasi altra profezia sarebbe andata bene. Gli esegeti hanno già suggerito che il contenuto del passo viene notificato al lettore perché possa individuarvi i tratti che l'eunuco ha in comune con l'uomo sofferente di Is 53: essere umiliato e senza discendenza. Infatti il testo di Isaia ha senso solo se si tiene conto del-

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l'insistenza con la quale il narratore ripete il qualificativo «eunuco»: in tutto cinque volte, ai vv. 27.34.36.38.39, e ciò a vantaggio del letto­ re - in effetti Luca avrebbe potuto dire «l'uomo», come in numerosi altri episodi. Inoltre, il narratore non si preoccupa di dirci se Filippo conosca lo stato del suo interlocutore, né se l'eunuco conosca il nome e la funzione di Filippo, 31 perché le sue informazioni sono ancora fatte per il lettore. Quest'ultimo viene così invitato a interrogarsi sul rapporto tra la condizione di eunuco, la profezia di Is 53 e il Cristo sofferente, a ricordarsi anche dei divieti cultuali relativi all'eunuco, enunciati in Dt 23,2,32 le riflessioni di ls 56,3-5,33 e a metterli in rap­ porto con l'osservazione dell'eunuco, breve ma carica di allusioni, proprio a causa della sua condizione: «Che cosa mi impedisce di esse­ re battezzato?». Certo, il narratore non segnala che questo battesimo è per la remissione dei peccati, che l'eunuco è battezzato «nel nome del Signore Gesù»; o, per dirla con le parole di un altro autore: n battesimo che egli [l'eunuco] ricevette non fu apparentemente per lui mediatore dell'effusione dello Spirito per quanto Filippo ne fosse il

ministro; costui battezzava soltanto «per (eis) il nome del Signore Gesù», come sappiamo dagli eventi di Samaria (cf. A t 8,16). Nemmeno fu un rito di ingresso in una comunità nuova perché, appena battezza­ to, l 'uomo continua il suo cammino verso il suo paese dove il vangelo è ancora sconosciuto. L'unico effetto visibile del battesimo che ha rice­ vuto è la gioia provata proseguendo il suo viaggio (cf. At 8,39). A parte questa gioia, il battesimo ricevuto dall'eunuco fu un rito puramente gratuito.34

Questo giudizio salta chiaramente dai silenzi del testo alla non esistenza delle realtà corrispondenti. Ora, l'approccio narrativo ci insegna a interpretare i «vuoti» di un racconto in considerazione del tipo di intreccio e delle istanze narrative. E, come ho detto sopra, il

31 È opportuno considerare qui che non avviene lo stesso in At 10,22, dove i due inviati cercano di dipingere Cornelio nel modo più vantaggioso possibile, per impressio-­ nare favorevolmente Pietro. 3Z In Dt 23,2 si dice che i maschi castrati non possono partecipare al culto. 33 Is 6,3-6: gli eunuchi non devono dire di essere degli alberi secchi, perché, se osser­ vano la Legge, avranno accesso a Dio, il che vale più di ogni discendenza. Si veda lo stes­ so tipo di riflessione in Sap 3,14-15, con in contrasto la discendenza dell'empio, 3,16-19. 34 M. 0UESNEL, «Le sacramentel dans le Nouveau Testament», in RSR 7(1987), 210..

Quale posto per Dio nel racconto lucano?

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racconto non sviluppa la relazione tra gli attori; di conseguenza non si sovraccarica di dettagli su ciò che questi attori dicono o diventano, ma riferisce solo le informazioni che possono essere utili al lettore, perché è a questo livello - extradiegetico - che l'episodio trova la sua funzione. E At 8,26-40 suscita precisamente l'attenzione del let­ tore sui destinatari del vangelo: chi è invitato a credere, quali sono le condizioni, ecc.? Perché l'episodio è collocato in questo punto del racconto? In altre parole, perché la buona novella viene proposta a un eunuco (al quale la legge ebraica vietava la partecipazione al culto), dopo che era stata annunciata a un popolo (i samaritani) con­ siderato eretico dai giudei, e prima che raggiungesse un persecutore accanito (Saulo) e degli incirconcisi (la casa di Cornelio)? Non si tratta di analizzare a lungo At 8,26-40, ma di coglierne l'interesse per la relazione tra narratore e lettore. Ciò che abbiamo osservato mostra che gli interventi divini straordinari, sotto forma di voci celesti o altro, sono fatti perché con gli attori - talvolta prima, come in At 9, dove il lettore conosce prima di Saulo ciò che Dio vuoi fare di lui; talvolta dopo di essi - il lettore possa interrogarsi sulle vie divine e, per lo meno, stupirsene. Ma è tutto qui? Perché il racconto insiste tanto sulla proclamazione di queste vie da parte dei discepoli? LA PROCLAMAZIONE DELLE VIE DIVINE

Il racconto non si limita: a menzionare gli interventi divini e il loro riconoscimento da parte degli attori umani - almeno da parte dei discepoli. Vedremo più avanti come il narratore sviluppi e ampli in estensione e in comprensione il processo del riconoscimento. Ma quest'ultimo può essere privato o pubblico. Ed è interessante notare come il narratore lucano tenda a favorire il riconoscimento pubbli­ co, facendone una proclamazione, un annuncio ufficiale, da parte di testimoni accreditati. La maggior parte degli episodi degli Atti insi­ ste sul fatto che i discepoli obbediscono a quanto il Signore ha volu­ to nel passato e vuole nel presente, e che essi rendono partecipe di ciò chiunque accetta di ascoltarli. Guardandolo più da vicino, il pro­ cesso di riconoscimento e di proclamazione non inizia con il libro degli Atti, ma fin dai primi episodi del terzo vangelo, come mostra­ no i cantici di Maria, di Zaccaria e di Simeone.

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Capitolo 2

Da parte di quali attori umani? Abbiamo già notato, ed è inutile insistere ancora su questo punto, che in Luca Gesù è per eccellenza colui che rivela le vie di Dio, e nel corso di tutta la sua vita. L'episodio del tempio (cf. Le 2,49) è chiaramente il punto di partenza della serie, poi le tentazioni, il discorso a Nazaret, tutte le volte in cui dice che è necessario andare qua o là, che è necessario (o era necessario) che egli soffra prima di entrare nella gloria,35 ecc. Non sorprenderà constatare che negli Atti questo compito incombe ai discepoli, poiché Gesù li qualifica come suoi testimoni e a Pentecoste ricevono tutto quanto è loro necessario per compiere ciò. I diversi discorsi di Pietro, di Stefano e di Paolo sono altrettanti richiami dell'agire divino, che ha voluto, da molto tempo, come ave­ vano annunciato i profeti, salvare tutti gli uomini in Gesù Cristo. Il lettore non può non notare questa insistenza degli apostoli sul vole­ re e l'agire potente di Dio, perché ritorna in continuazione. Ciò che pure colpisce negli Atti è 1) la coscienza che gli attori hanno di essere stati scelti e qualificati da Dio per proclamare le sue vie, e 2) il fatto che sembrano fare a gara per notificare questa quali­ fica. La proclamazione qualificata, vera, è quindi una componente essenziale del racconto degli Atti. Pietro non cessa mai di dirlo a pro­ posito della vita, della morte e della risurrezione di Gesù36 e, duran­ te l'assemblea di Gerusalemme, egli ricorda agli altri discepoli di essere stato scelto da Dio per essere il primo a portare il vangelo ai non ebrei (cf. At 15,7). Allo stesso modo, riferendo la visione della via di Damasco, Paolo dichiara ai suoi ascoltatori che è stato Cristo stesso a notificargli la sua qualifica:37 Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti mini­ stro e testimone . (At 26,16). . .

Aggiungiamo che se, nei loro discorsi e nelle loro preghiere, i discepoli sono i soli a confessare veramente il piano di Dio, gli avver35 a. la lista degli «è necessario» nella nota 2 di questo capitolo. 36 C1 At 1,22; 2,32; 3,15; 3,32; 10,39.41. Paolo lo dice anche in 13,31. 37 Si veda anche At 22,18.

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sari sono anch'essi implicati in questo processo di riconoscimento. E non è il narratore che li spinge a questo, ma sono essi stessi che si obbligano a entrarvi, attraverso la voce di uno dei loro più influenti rappresentanti, Gamaliele. La sua riflessione a proposito dell'inse­ gnamento e dell'agire dei discepoli suona come una profezia degli eventi che seguono: Se questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a distruggerla (At 5,33-39).38

Il «voi» non si riferisce qui a delle persone qualsiasi, ma all'as­ semblea del gran consiglio, il sinedrio. Thtte le autorità ebraiche hanno quindi sentito l'opinione del fariseo e si trovano così invita­ te a fare esse stesse una verifica. Il lettore non deve minimizzare l'importanza di questo principio di discernimento, perché esso viene proprio da un uomo che non segue Gesù. E senza dubbio bisogna aggiungere che questo principio l) rende in qualche modo necessaria la verifica e, con ciò stesso, il seguito del racconto; 2) permetterà al narratore di non intervenire per sostenere i fatti e giustificarli: la loro stessa esposizione ne sarà la prova più efficace. Su questo punto ancora il racconto si mostra insuperabile, insosti­ tuibile. L'interesse del principio di Gamaliele deriva quindi dal fatto che egli lega il riconoscimento della volontà divina alla sorte dei testimoni, al s�ccesso del gruppo che si rifà a Gesù. Ed è possi­ bile già percepire perché la proclamazione del disegno di Dio sia ugualmente importante negli Atti: la vita dei testimoni è insepara­ bile da essa. Leggere il racconto di ciò che essi dicono e fanno diventa il luogo stesso del discernimento, del riconoscimento e della proclamazione delle vie di Dio.

Per quali interventi divini? Ciò che in primo luogo proclamano gli attori del racconto è evi­ dentemente l'agire salvifico di Dio in Gesù Cristo. Ma questo agire

RES,

38 Questa frase è un topos che si rittova altrove nella letteratura ellenistica; cf. Soul­ The Pian of God, 176.

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viene costantemente collegato con ciò che l'ha reso possibile, un volere continuo; .:come aveva promesso ad Abramo e alla sua discendenza» di Maria in Le 1,52 o «come aveva promesso ad Abra­ mo» di Zaccaria in Le 1,72 rinviano a un desiderio che Dio ha espres­ so fin dall'inizio. Inoltre, l) rendendosi conto che ciò che accade loro, a essi e a noi tutti, è frutto di una promessa molto antica, Maria e Zaccaria ne sottolineano la coerenza; 2) che questo rapporto tra presente e inizio della storia sacra si stabilisca fin dali 'inizio del rac­ conto, indica chiaramente che nella storia di Gesù e dei suoi disce­ poli è tutta la storia umana che troverà la manifestazione della sua logica; 3) che la proclamazione solenne e innica di questi due attori sia anch'essa inaugurale, sottolinea con sempre più forza che il rac­ conto lucano vuole fin dali 'inizio stimolare il lettore a questa logica. Cercherò di mostrame le ragioni progressivamente, sull'esempio del narratore. Se gettiamo ora uno sguardo su ciò che i discepoli proclamano del beneplacito e dell'agire divino, si vede subito che esso abbraccia le tre dimensioni temporali del passato, del presente e del futuro. Il primo annuncio riguarda evidentemente l'opera che Dio ha compiu­ to attraverso il ministero di Gesù - soprattutto i suoi miracoli (cf. At 2,22) -, la risurrezione di questo stesso Gesù (cf. At 2,23-24; 3,13; ecc.) e la sua glorificazione, come Messia e come Signore (cf. At 2,36). E ciò stesso viene messo in relazione con le profezie: fin dai primi discorsi l'evento della risurrezione diventa inseparabile da ciò che l'annunciava, da ciò che gli dà tutto il suo rilievo e ne fa l'even­ to principale della salvezza. L'agire passato di Gesù non è il solo menzionato. Infatti gli apo­ stoli compiono anch'essi dei miracoli che danno loro occasione di dire a tutti che essi guariscono nel nome di Gesù. At 4,10 è a questo proposito interessante perché Pietro, quando dà la sua spiegazione della guarigione dello storpio, evita di dire che è stato lui a guarire; in greco la frase è costruita in modo da escludere ogni attore umano: La

cosa sia nota a tutti voi e a tutto il popolo d'Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risusci­ tato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo.

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Ma anche dai primi discorsi di Pietro, la passione e le sofferen­ ze di Gesù sono integrate in questa dinamica dell'agire divino (cf. At 3,18). Infatti è stato il passaggio del loro Maestro attraverso le sofferenze ignominiose e la sua morte con i peccatori, a gettare il sospetto sull'autenticità della sua testimonianza. Ecco perché in Le 24 il Risorto ritorna sul «bisognava» delle sofferenze per il suo ingresso nella gloria, un «bisognava» notificato già prima della sua passione (soprattutto in Le 18,31-32; 22,37), ma che i discepoli alloeo ra non potevano comprendere. Sull'esempio del Risorto, gli apostoeo li nei loro discorsi rimandano a queste sofferenze per dire che esse erano volute da Dio, che erano state annunciate dai profeti. Nono­ stante tutto, se il giorno di Pentecoste (cf. At 2) Pietro ricorre a molti testi per mostrare che Gesù doveva risorgere, per la sua morte ignominiosa, al contrario, si limita a rinviare globalmente ai profeti. Certo, lo stesso apostolo, in At 4,11, riprende esplicitamene. te le parole del Sal 118,22 («La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d'angolo») e in At 8,26-40 il narratore cita inte­ gralmente Is 53,7-8, ma l) questo non dà luogo ad alcuna esegesi approfondita e 2) in At 8 nessun'altra persona all'infuori dell'eunu­ co beneficia della spiegazione di Filippo. Certo, con Stefano, la rilet­ tura di tutta la storia d'Israele viene considerata dal punto di vista della persecuzione dei (di tutti i) profeti (cf. At 7,52): che Gesù, pro­ feta e giusto per eccellenza, abbia quindi subito la loro sorte, fa parte della logica dell 'incirconcisione costante e risoluta del popo­ lo. Il «bisogna» sembra entrare ancora in gioco, ma si fa molta fati­ ca a vedere in questo la volontà divina: la· coerenza è quella del rigetto, del rifiuto delle vie di Dio, ed è umana. Bisognerebbe domandarsi perché il narratore non si preoccupa di fornire al letto­ re la spiegazione dettagliata data dagli apostoli a proposito della necessità delle sofferenze di Cristo e della conformità della sua morte infame alla volontà divina. Infatti in At 17,3 Paolo ha impie­ gato del tempo - tre sabati - per dimostrare che «il Messia doveva morire e risuscitare dai morti». Perché Luca resta così discreto su queste prove e sull'esegesi coerente dei passi biblici che esse dove­ vano comportare? Man mano che il racconto degli Atti si dispiega, gli apostoli si rendono conto che Dio vuole vedere anche i non ebrei diventare

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membri a pieno titolo della Chiesa. La dichiarazione di Pietro ai fra­ telli di origine ebraica è la prima: Se dunque Dio ha dato a loro [ai non ebrei) lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedi­ mento a Dio? (At 11,17).

Questa domanda richiama l'espressione che normalmente si pronuncia quando ci si vuole discolpare di qualcosa: «Non sono stato io, è stato lui!». E Pietro non si limita a trasferire su Dio tutta la responsabilità di ciò che egli stesso ha accettato di fare, cioè essere ospite nella casa di un incirconciso e battezzarlo, ma sottolinea dal­ l'inizio alla fine che è stato Dio a spingerlo: dapprima con una tripli­ ce ingiunzione, poi facendo scendere lo Spirito su questi non ebrei. Paolo e Barnaba forniscono questa stessa giustificazione, tratta dal libro di Isaia, come tutti sanno (cf. Is 49,6), rivolgendosi agli ebrei di Antiochia che si oppongono con forza alle loro affermazioni: Così infatti ci ha ordinato il Signore: «lo ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza sino all'estremità della terra» (At 13,47).

È quindi Dio che ha avuto l'iniziativa e che la formula con le parole di un tempo, con le quali aveva qualificato il suo servo, indi­ cando così senza alcun dubbio che si trattava di una profezia e che la sua volontà, immutata, trova negli apostoli lo strumento della sua realizzazione. Davanti all'assemblea di Gerusalemme, Paolo e Bar­ naba raccontano «quanti miracoli e prodigi Dio aveva compiuto tra i pagani per mezzo loro» (At 15,12). E nel corso di questa stessa assemblea, Giacomo ricorre ugualmente alle Scritture (cf. Am 9,1 112) per dimostrare come Dio aveva già nel passato fatto conoscere il suo desiderio di chiamare i non ebrei (cf. At 15,17-18). La responsa­ bilità e la realizzazione sono sempre di Dio. Senza soffennarmi qui a lungo sulla dottrina lucana della Prov­ videnza, vorrei tuttavia ricordare che il discorso di Paolo ad Atene (cf. At 17,22-31) fa parte di questa profonda consapevolezza che negli Atti gli apostoli hanno delle dimensioni dell'agire divino. Non è un caso se il primo discorso di Paolo a dei non ebrei tratti del modo corretto e sbagliato di parlare di Dio e della sua provvidenza. Si dirà

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certamente che fu un completo fallimento, ma è da vedere. Infatti, se alcuni (verosimilmente di tendenza epicurea) lo deridono, altri (di tendenza stoica) accettano di ascoltarlo un'altra volta, e parecchi diventano credenti. Ma il rifiuto degli epicurei, come quello dei sad­ ducei a proposito della risurrezione (in At 23,8), suggella l'errore di questi gruppi, e sottolinea al contrario il valore della teologia degli apostoli, che si ricollega, su alcuni punti decisivi, ad altre tradizioni filosofiche (stoica, ad esempio) o religiose (quella dei farisei) il cui valore era allora riconosciuto.39 Quanto agli eventi futuri, gli apostoli dicono chiaramente che sono mossi dalla volontà divina, ed essi vogliono !asciarla agire. Quando il profeta Agabo profetizza la prigionia di Paolo, quest'ulti­ mo si rivolge a tutti dicendo loro di essere pronto ad andare fino alla morte per il suo Signore, e conclude cosi: «Sia fatta la volontà del Signore! » (At 21,14), come Gesù al Getsemani (cf. Le 22,42). Il meno che si possa dire è che gli attori sanno ciò che attende Paolo, ma sanno anche che nulla si farà senza l'appoggio della volontà divina. Il racconto dell'imprigionamento di Paolo e il viaggio verso Gerusa­ lemme diventano così l'attuazione di questa volontà. Resistenza e adesione al disegno di Dio Ciò che d'altro canto colpisce è l'adesione totale dei discepoli alle vie di Dio. Al sinedrio, che gli proibisce di parlare, Pietro rispon­ de che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (cf. At 4,1 9; 5,29). Gamaliele va ancora più in là quando dichiara che non serve a nulla opporsi ai discepoli, se Dio è con loro, se è nel suo nome che essi parlano e agiscono (cf. At 5,38-39). Il vangelo, fin dai primi epi­ sodi, indicava già molto chiaramente che Dio può superare i nostri

39 Sulridea di Provvidenza in questi discorsi, si veda J.H. NEYREY, «Acts 17, Epicu­ reans, and Theodicy. A Study in Stereotypes», in D.L. BALCH (ed.), Greeks, Romans, and Christians, FS A.J. Malherbe, Minneapolis, MN 1990, che rinnova sensibilmente la proble­ matica. Il tono polemico del discorso permette di vedervi una presa di posizione in rap­ porto alle correnti filosofiche di allora. L'autore si pone chiaramente tra coloro che l) riconoscono in Dio un giudice giusto, 2) ammettono una sopravvivenza dopo la morte in un altro mondo e 3) una retribuzione dopo la morte. Questa teodicea viene evidentemen­ te colorata cristologicamente (cf. At 17,31).

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dubbi e le nostre resistenze: Zaccaria viene ridotto al silenzio, ma avrà il figlio che Dio gli ha promesso, prima di potere a sua volta confessare le vie di Dio. L'episodio è ancora più interessante perché dimostra come le resistenze siano integrate nel piano divino. Lo stes­ avviene per il rifiuto di Gesù da parte delle autorità ebraiche: con­ segnandolo a Pilato perché sia messo a morte, esse non hanno sol­ tanto agito per ignoranza (cf. At 3,17), ma hanno in realtà assecon­ dato il disegno di Dio, perché, con il loro agire - incosciente e/o omi­ so

cida -, le profezie hanno potuto trovare compimento (cf. At 13,27). n rifiuto del vangelo da parte degli ebrei e l'imprigionamento di Paolo, e poi il suo viaggio a Roma, obbediscono alla stessa logica: volendo la morte dell'apostolo, gli ebrei gli permettono in realtà di andare a testimoniare fin nella capitale dell'impero, secondo quanto prevedeva il disegno di Dio (cf. At 23,11), e, rifiutando di credere nella buona novella, essi hanno dato agli apostoli la possibilità di ann unciarla alle nazioni che, invece, l'accoglieranno (cf. At 28,28). Gli attori umani possono aderire alle vie di Dio appena ne hanno conoscenza (come Maria), resistere e poi cooperare (come Zaccaria; Paolo; e Pietro in At 10); o resistere in modo duraturo (come le autorità giudaiche in Luca, e poi tutto il popolo negli Atti) . L'importante è che queste incomprensioni e cecità siano state annun­

ciate dalla divinità stessa e che siano di nuovo esplicitamente notifica­ te dagli apostoli. È quanto fa esattamente Paolo alla fine del libro degli Atti (cf. 28,26-27). Il racconto riesce a coniugare l'agire onnipo­ tente di Dio e la libertà umana. Mai gli attori del racconto lucano sono delle marionette manipolate dalla Provvidenza. La loro libertà, anche e soprattutto peccatrice, rimane. Analizzando il finale del libro degli Atti, ci si dovrà d'altra parte interrogare su questo mistero delle vie di Dio, che denuncia i rifiuti e nondimeno li integra nella sua opera di salvezza.

RAccoNTO E PIANO DIVINO DI SALVEZZA Pertanto

il racconto lucano più va avanti, più insiste sulle scelte

sorprendenti di Dio e sulla loro proclamazione da parte dei discepo­ li. Forse è proprio questo che distingue le due tavole del dittico: in Luca nessuno dei discepoli può immaginare che Gesù debba passa-

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re attraverso le sofferenze e (o per) entrare poi nella gloria. Negli Atti invece, grazie allo Spirito ricevuto, essi non solo sono in grado di comprendere l'itinerario del Maestro, ma anche di favorire le nuove dimensioni prese dalla buona novella, di accogliere i suoi nuovi araldi - in particolare Paolo - e i suoi nuovi destinatari, i non ebrei; e di accettare soprattutto l 'itinerario paradossale riservato ai testimoni del vangelo. Il lettore non può non sentire ciò che gli ripete continuamente il narratore, attraverso tutti gli interventi celesti e la loro orchestrazio­ ne da parte dei discepoli: è la divinità - Dio il Padre, Gesù il Figlio e lo Spirito - ed essa sola che guida gli eventi, sceglie e invia i suoi aral­ di, decide i campi di missione, conforta nelle prove. Abbiamo visto però che il racconto non si limita a riferire questa presenza continua e potente della divinità, ma mostra anche quale sia la logica che regge le fila del piano divino. Infatti l'aspetto sorprendente degli eventi si accompagna sempre a una percezione della loro coerenza, fosse anche paradossale. Gamaliele non è il solo a proporre dei principi di discernimento che possano determinare la pertinenza degli eventi e del racconto che li riferisce. Pietro lo fa anch'egli davanti ai fratelli di origine ebraica (cf. At 11,5-17), poi davanti agli altri discepoli a Gerusalemme (cf. At 13,8-10). E ogni volta che deve spiegarsi duran­ te la sua detenzione a Gerusalemme e a Cesarea, Paolo riprende il suo itinerario per dimostrare che è conforme alla fede dei suoi padri, ne è anzi l'espressione perfetta. Questa insistenza degli (di tutti gli) attori, discepoli e opposito­ ri, sul riconoscimento delle vie di Dio, fin nel vissuto della vita e del­ l'agire dei discepoli, determina evidentemente il procedimento del racconto lucano: il narratore non deve fare altro che presentare gli eventi e l 'interpretazione che ne danno gli attori stessi perché il suo racconto diventi il luogo insuperabile della verifica del lettore. Il racconto lucano si presenta quindi alla lettura come il raccon­ to del riconoscimento e della proclamazione delle vie di Dio nella loro totalità, spaziale e temporale. Rimane tuttavia da studiare più da vicino la funzione di questa insistenza. Se il racconto mette tanto l'accento sulla potenza divina operante in Gesù e nei suoi discepoli, è perché il movimento cristiano cresceva e si fortificava o, al contra­ rio, perché dava l 'impressione di venir meno, esigendo per ciò stesso

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un'interpretazione che supplisse a una manifestazione deficiente? Non si può ugualmente pensare che il racconto abbia la funzione di aiutare e di consolare dei cristiani disorientati dalle prove alle quali erano sottoposti gli araldi del vangelo, esponendo loro concretamen­ te la logica divina del loro itinerario? Il narratore non mira piuttosto a provocare il loro stupore e a farli aderire alla scelte divine, oppure a mostrare che la divinità appoggia la loro «via», e a esprimere così la sua legittimità e la sua superiorità, come continuità e compimen­ to della fede biblica? Al punto in cui siamo non possiamo risponde­ re con sicurezza a queste domande. Si rivela quindi qui più che mai necessario entrare nella tecnica narrativa di Luca.

CAPITOLO 3 GESÙ E I SUOI DISCEPOLI. LE RAGIONI DI UN PARALLELISMO

Nel capitolo precedente ho avuto occasione di individuare alcu­ ni casi di parallelismo.1 Del resto le corrispondenze giocano a vari livelli. 1) Il narratore può costruire due o più passi secondo lo stesso scenario o la stessa progressione. Così, le articolazioni di At 8,26-40 sono all'incirca quelle dell'episodio dei discepoli di Emmaus in Le 24. La similitudine di scenari può evidentemente significare che la funzione degli episodi sia identica, ma non necessariamente. 2) Le somiglianze possono toccare direttamente gli attori, come in At 7, dove le ultime parole di Stefano sono le stesse di Gesù morente sulla croce, indicando così che il diacono muore da vero discepolo, alla maniera del maestro, senza sentimenti di odio e nella totale fiducia in Dio. Nella maggior parte dei casi il parallelismo è molteplice. Infatti, per l'episodio dell'eunuco appena menzionato, il narratore non si limita a riprodurre lo stesso tipo di intreccio di Le 24, ma è tutta una rete di relazioni che si instaura con il contesto prossimo e lontano. Certo, l'itinerario dell'eunuco ha molti punti in comune con quello dei due discepoli di Le 24, ma esistono altri parallelismi, 1) di opposizione o di contrasto, in At 8, tra l'incredulità di Simone il mago e la fede dell'eunuco, 2) poi di somiglianza, tra la situazione dell'eunuco, del servo di Isaia e di Gesù - senza discendenza e nella sofferenza.

1 'Iì'a Le 7,59 e Le 23,34.46; tra At 8,26-40 e Le 24,13-35; tra At 10 (apparizioni a Cor­ nelio + Pietro) e At 9 (apparizioni a Saulo + Anania).

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Capitolo 3

Esaminerò ora come nel dittico lucano ci siano altri parallelismi, e in numero impressionante. L'importante sarà di determinarne l'esatta funzione e di percepime la portata per lo status del racconto stesso. In effetti, fino a ora, questi parallelismi non sono stati studia­ ti narrativamente. In che cosa questo approccio modifica le prospet­ tive e i risultati? Cercherò di rispondere debitamente a questo inter­ rogativo.

IL PARALLELISMO, TECNICA DOMINANTE IN Luc.A/AITI Come tecnica letteraria, il parallelismo è molto antico. Com'è noto, esso ha un ruolo dominante nella poesia biblica, e la sua estensione va dalle micro-unità a degli insiemi che possono rag­ giungere l'estensione di un libro. Già da molto tempo i parallelismi biblici sintattici e lessicali sono stati oggetto di studio, ma molti studi recenti hanno dimostrato come sia necessario anche conside­ rare il loro uso attoriale. 2 Degli attori possono infatti essere descrit­ ti con tratti comuni: dei re, ìn 1-2 Re, si dice che assomigliano o meno a Davide; ugualmente, Giosuè, Gedeone, Elia somigliano a Mosè, Eliseo è come Elia, ecc. Senza entrare immediatamente nei dettagli di queste somiglianze, spesso tipologiche, tra attori biblici, riconosciamo che il modello mosaico sembra il più pregnante, poi­ ché Mosè è al tempo stesso capo del popolo, liberatore e salvatore, intercessore, maestro e rivelatore: si può comprendere come le altre grandi figure d'Israele abbiano potuto avere uno o più tratti in comune con lui. Si dovranno esaminare le possibili - perfino probabili - connotazioni tipologiche, con i loro effetti, dei paralle­ lismi esistenti tra gli attori di Luca/Atti e quelli dell'Antico Testa­ mento.

2 Cioè tra attori - o tra personaggi. Cf. D.C. Al.usoN JR, The New Moses, Edinburgh 1993, 12-15. Egli menziona molto giustamente lo studio di M. FISHBANE, Biblical lnterpre­ tation in Ancient lsrael, Oxford 1985, 372-379, dove si possono trovare degli esempi. Ugualmente Y. ZAxoVITOI, «Assimilation in Biblical Narratives», in J.H. TIGAY (ed.), Empirica/ Models for Biblical Criticism, Philadelphia 1985, 176-196.

Gesù e i suoi discepoli. . .

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L'estensione della tecnica in Luca Prima di affrontare direttamente la questione dei parallelismi tra attori - tecnica che gli specialisti chiamano synkrisis -, segnalo alcuni macro-parallelismi lucani, evidenziati fin dalla metà del XIX secolo da un certo numero di esegeti,3 che avevano già notato l'estensione del procedimento in Luca/Atti.4 Nei diversi generi lette­ rari, il narratore procede per accoppiamenti o per riprese a distanza: - le parabole: due sul Regno, accoppiate in Le 13,18-21;5 quelle di Le 13, dove l'accoppiamento è duplice: il pastore che cerca e trova la pecora perduta l la donna che cerca e trova la dramma perduta; il figlio minore l il figlio maggiore; - ma, a distanza, si trovano degli attori in situazioni simili, anche se non figurano allo stesso livello del discorso: i due samaritani (cf. Le 10,30-37 e Le 17,11-19), i due diaconi Stefano e Filippo (cf. At 7 e 8), le due «Pentecoste» (cf. At 2,1-4; 10,44-47), i maghi Simone ed Elimas di At 8,8-24 e 13,6-12, o ancora i re Erode e Agrippa, davan­ ti ai quali compaiono rispettivamente Gesù (cf. Le 23,8-12) e Paolo (cf. At 25,13-26,32); ecc.; - i discorsi sono per il narratore ugualmente l'occasione per pro­ cedere per accoppiamento. In At 24, ad esempio, egli presenta due punti di vista diversi, la requisitoria di Tertullo e l'arringa di Paolo.6 Egli segnala ancora che le reazioni al discorso di Paolo sono duplici, le une negative, le altre positive, come in At 17 e 23, come abbiamo visto, ma anche in 28,24. O anche delle reazioni in due tempi, dappri-

3

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Per una panoramica della storia della ricerca su questo argomento, in particolare sui parallelismi Gesù/Paolo nell'opera lucana, cf. A.J. MAITILL, «The Paui-Jesus Parallels and the Purpose of Luk-Acts: H.H. Evans Reconsidered», in NT 17(1975), 15-21, che men­ ziona, senza essere però esauriente, degli esegeti del XIX secolo (B. Bauer, E. Zeller, H. H. Evans, R.B Rackham) e del XX secolo (H.J. Cadbury, H. Windisch, M.D. Goulder, ecc.). 4 È sufficiente notare qui che le tecniche narrative delle due tavole del dittico sono le stesse. Non ne traggo alcuna conclusione circa l'unità redazionale e teologica di Luca/Atti, perché non è il mio scopo. Dopo tutto, è stato già tanto dimostrato da altri che sembra oggi inutile sprecare energie per sfondare delle porte già aperte. 5 Queste sono le sole parabole lucane sul Regno. Infatti queUa di 19,12-27 (più giu­ stamente chiamata parabola del Re) non comincia con la formula «il regno di Dio è simi­ le a . . ». 6 Su questo procedimento, presente in Thcid.ide e in altri autori greci, si veda J. DE RoMILLY, Pourquoi la Grèce?, Paris 1992, 123-132. .

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ma il successo (Le 4,22; At 13,42; 17,2-4; 17,10-12), poi il fallimento (Le 4,28-30; At 13,50-52; 17,5-8; 17,13-14).

La synkrisis lucana Gli esempi che abbiamo menzionato sono solo un modesto cam­ pione dei diversi tipi di parallelismo stabiliti dal narratore lucano. Dopo tutto, la maggior parte di essi sono al servizio delle numerose synkriseis - termine che designa i parallelismi o confronti tra attori.1 È infatti a questo livello, come vedremo, che il racconto lucano mostra la sua vera originalità. Non che la synkrisis sia un'invenzione di Luca; ho infatti detto sopra che la Bibbia, molto prima di lui, aveva stabilito un parallelismo vicino o lontano tra molti eroi; tutti conoscono anche i fenomeni di accoppiamento creati da Omero nel­ l'Iliade e nell' Odissea. E nelle Vite parallele di Plutarco, contempora­ neo di Luca, la synkrisis diventa una tecnica generalizzata. Il racconto lucano riserva anch'esso alla synkrisis uno spazio considerevole. Thtti i lettori conoscono, nel vangelo, il parallelismo tra Giovanni Battista e Gesù, che inizia con le due apparizioni del­ l'angelo Gabriele a Zaccaria e a Maria.8 Quanto ai commentatori, essi insistono sul fatto che i parallelismi hanno la funzione di mette­ re maggiormente in evidenza Gesù. Così Zaccaria dubita, mentre Maria crede; Elisabetta è liberata dalla sua sterilità, mentre Maria, sebbene vergine, diventa madre; Giovanni è profeta, ma Gesù è il Messia, il Figlio di Dio, ecc. Grazie a tutta una serie di tratti paralle­ li, il narratore mostra progressivamente la differenza di condizione, di vocazione, tra Giovanni e Gesù. Al contrario, il parallelismo stabi­ lito tra la morte di Stefano e quella di Gesù (cf. Le 23 e At 7) mette in rilievo le somiglianze. Certo, Stefano non è né il Messia, né un pro-

7 n confronto non si limita agli attori umani (o personaggi), perché è possibile con­ frontare YHWH e gli idoli - synkrisis di opposizione, evidentemente -, il tempio alle altu­ re idolatriche, i vizi e le virtù, ecc. II termine synkrisis ha questo significato in Sap 7 ,8; 2Cor 10,12. In altri testi può indicare un decreto (nel libro dei Numeri: 9,2; 29,6.11.18) o l'atto di interpretare (cosi, in Dn 2,4.3). Per la letteratura greca e latina, si veda F. FOCKE, «Syn­ krisis�, in Hermès 58(1923), 327-368. 8 Per una lista dei parallelismi, si veda J.-N. AIEm, L'arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura na"ativa del Vangelo di Luca, Brescia 1991, c. III.

75

Gesù e i suoi discepoli. . .

feta, né un apostolo, soltanto un diacono, ma il testo insiste chiara­ mente su ciò che egli dice e vive negli istanti che sono per lui gli ulti­ mi: muore molto semplicemente come il suo maestro, da vero disce­ polo, intercedendo per i suoi carnefici e abbandonandosi totalmente nelle mani del suo Signore, che l'accoglie nella sua gloria. Questi due esempi mostrano così che una synkrisis può mettere in evidenza le somiglianze o le differenze tra due attori. Sarà evidentemente neces­ sario per noi determinare perché il narratore insista ora sulle diffe­ renze, ora sui punti comuni. Quanto alla sua estensione, la synkrisis lucana abbraccia il ditti­ co Luca/Atti e risulta essere la tecnica più usata dal narratore. In effetti, negli Atti essa copre i cicli di Pietro e di Paolo, in altre paro­ le, più di due terzi del libro. Non si può infatti negare che il narrato­ re abbia stabilito numerose somiglianze tra i due attori. Ma entram­ bi somigliano a loro volta al Gesù del terzo vangelo. In breve, la syn­ krisis permette di esplorare le due tavole dell'opera e obbliga il let­ tore a interrogarsi sulla sua o sulle sue diverse funzioni. I PARALLEUSMI TRA PIETRO E PAOLO Gli studiosi hanno già da molto tempo segnalato i parallelismi tra Pietro e Paolo nel libro degli Atti. In un primo tempo mi limite­ rò a rilevare solo i più salienti - perché basati su ripetizioni lessico­ grafiche -, prima di commentarli brevemente:

Discorsi inaugurali simili - Pietro e Paolo, pieni di Spirito Santo

Compiono gli stessi segni

- guarigione di un malato, seguita ogni volta da spiegazione menzione di durata della malattia

Pietro in At 1-12

Paolo in At 13-28

2,14-36 2,4; 4,8

13,16-41 13,9

3,1-10 3,12-26

14,8-10 14,13-17 14,8 (dalla

4,22 (40 anni)

- esorcismo - conflitti con dei maghi - risurrezione - vengono presentati a essi tutti i malati

nascita)

5,16

16,16-18

Simeone:

Elimas:

8,8-24 9,36-43 5,16

13,6-12 20,7-12 28,9

. .

76

Capitolo 3

Entrambi vengono scelti per evangelizzare i pagani i credenti ebraici rendono grazie al racconto di ciò che Dio ha fatto in favore delle nazioni

Visioni per l'evangelizzazione Impongono le mani perché quelli che hanno ricevuto il solo battesimo di acqua ricevano lo Spirito Santo Imprigionamenti e liberazioni imprigionati percossi comparizione davanti al sinedrio e testimonianza liberazione a mezzanotte

Pietro in At 1-12

Paolo in At 13-28

10--1 1 (15,7)

13-28

1 1,18

21,20

10,9-16

16,9

· 8,17

19,6

4,3; 5,18; 12,3-4

16,23; 21,33; 24,27 16,22-23; 23,2 23,1-10 16,25-40

5 ,40 4,7; 5,26 (5,19) 12,6-1 1

Senza alcun dubbio, in At 1-12 Pietro è la figura dominante del racconto, anche se non viene menzionato in tutti gli episodi (in par­ ticolare At 7 e 9). Lo stesso avviene per Paolo in At 13-28, fatta ecce­ zione per At 15, che riferisce le deliberazioni e le decisioni dei disce­ poli riuniti a Gerusalemme. Questa è la ragione per cui molti esege­ ti pensano che il libro segua la composizione flessibile dei cicli del­ l'Antico Testamento, con un'opera di rifinitura che permetta di sal­ dare i due insiemi: At 9 preparerebbe il ciclo di Paolo e At 15 sareb­ be l'ultimo passo in cui Pietro ha un ruolo decisivo da giocare. I parallelismi esistenti tra Pietro e Paolo sembrano favorire chiara­ mente questa ipotesi. Del resto non è affatto escluso che il narrato­ re, da buon conoscitore dei racconti biblici, abbia più o meno rical­ cato la sua composizione sulla loro, fino a un certo punto. ll seguito del capitolo mostrerà perché. Una volta individuato il parallelismo s'impone la domanda di come interpretarlo. Il racconto vuole mostrare che Paolo è un vero apostolo o testimone di Cristo, alla maniera di Pietro? Senza dubbio! .Certo, Paolo non ha seguito Gesù di Nazaret «dal battesimo di Gi�

Gesll e i suoi discepoli. . .

77

vanni fino alla sua ascensione» (At 1,22), e non può perciò, come Pietro, Mattia e gli altri, far parte dei Dodici. Ma il narratore stesso lo definisce due volte «apostolo», con Barnaba, in At 14,4.14, e nes· sun indizio permette di concludere che egli faccia di Paolo un testi­ mone di seconda classe, anzi proprio il contrario! Infatti egli opera gli stessi segni del capo degli apostoli; il primo discorso che di lui riferisce il narratore, quello della sinagoga di Antiochia di Pisidia, non ha nulla da invidiare, a livello retorico e kerygmatico, a quello di Pietro in At 2; e il racconto insiste sul fatto che la sua testimonianza è gradita al Signore, che glielo notifica perfino in visione (cf. 23,11). È vero che, quando i discepoli vennero a sapere che un certo Saulo, noto persecutore, si era convertito, ebbero una reazione di meravi­ glia e di paura (cf. At 9,21 .26); il racconto però non menziona poi alcuna reticenza da parte degli apostoli: i segni operati da Paolo e i suoi discorsi non sono riferiti per persuadere gli altri discepoli circa il suo valore o il suo status di apostolo. Il narratore non cerca piutto­ sto di convincere il suo lettore - un lettore ancora più reticente per­ ché sa, dalle lettere dello stesso Paolo, che quest'ultimo ha continua­ mente sofferto a causa dell'opposizione di altri missionari cristiani? Ora, negli Atti non si trova alcuna traccia di questa messa in discussione della competenza di Paolo da parte di altri missionari. Facendo di Pietro il primo evangelizzatore dei pagani, e facendo assumere a tutta l'assemblea di Gerusalemme, composta di aposto­ li e presbiteri di origine ebraica, la responsabilità di non far circon­ cidere i fratelli provenienti dal paganesimo (cf. At 15,28-29), il nar­ ratore proscioglie evidentemente Paolo, che non può più essere accusato di avere strappato il gruppo cristiano dalle sue radici ebraiche.9 Forse il suo racconto cessa per questo di essere affidabi­ le? In realtà il narratore non pretende di fare un resoconto esau­ riente dei fatti. Nessun racconto sfugge a questa regola, soprattut­ to quello di Luca, che sa mettere in evidenza alcuni fatti e tacerne altri, seguendo in ciò numerosi storici del suo tempo: questo fa

9 In At 21,21, l'apostolo Giacomo esprime un'altra accusa (Paolo avrebbe voluto far abbandonare la Legge mosaica ai fratelli di origine ebraica), che non tocca i cristiani pro­ venienti dal paganesimo e che non si ritrova nelle lettere paoline.

78

Capitolo 3

parte della retorica del silenzio.10 È importante quindi cogliere le accentuazioni che Lt�:ca dà alla sua narrazione. Ora, ciò che egli sottolinea sono le opposizioni provenienti dall'esterno, soprattutto quelle degli ebrei che hanno rifiutato il messaggio del vangelo dovunque esso sia andato. E su questo punto il narratore è prolis­ so. Si giudichi al riguardo: Paolo è minacciato di morte fin da subi­ to dopo la sua conversione, durante il suo soggiorno a Damasco (cf. 9,23-24 ), poi a Gerusalemme (cf. 9,29-30); dev'essere fatto allonta­ nare dalla regione di Antiochia (cf. 13,50), viene maltrattato a !co­ nio (cf. 14,2.5), a Listra (cf. 14,19), a Filippi (cf. 16,19-40), a Tessalo­ nica e Berea (cf. 17,5-15), a Corinto (cf. 1 8,6.12), a Efeso (cf. 19,9; 19,21 -40); si complotta contro di lui in Grecia (cf. 20,3), lo voglio­ no uccidere, ed è arrestato nel tempio a Gerusalemme (cf. 21 ,30-22,29); viene schiaffeggiato (cf. 23,2) e compare davanti al sinedrio; di nuovo si complotta contro di lui (cf. 23,12) e dev'esse­ re, per questo motivo, trasferito a Cesarea, dove resta due anni in prigione (cf. 24,27). Deve difendersi davanti al governatore e al re (cf. 24-26). È vittima di un naufragio e sfugge alla morte (cf. 27,1344), viene morso da un serpente (cf. 28,3) e, quando arriva a Roma, ba sempre le catene (cf. 28,20); vi resta due anni, ma sempre in libertà vigilata (cf. 28,16.30). Il racconto non nasconde perciò le continue peripezie di Paolo. Cosi facendo, fa comprendere qualcosa di essenziale circa il suo iti­ nerario: c'è un necessario legame tra l'annuncio della buona novella e le tribolazioni del suo messaggero? È su questo punto che salta agli occhi la differenza con Pietro. In effetti, fatta eccezione della compa­ rizione davanti al sinedrio, tutta la parte finale degli Atti (i cc. 21-28) non ha l'equivalente nel ciclo di Pietro. Non che Pietro non abbia sofferto per Cristo. I parallelismi del quadro precedente dimostrano bene che fin dali 'inizio il successo della predicazione è accompagna­ to anche da opposizioni, che col tempo possono diventare più dure. Se quindi il narratore menziona le comparizioni e la testimonianza di Pietro davanti al sinedrio, ciò non è paragonabile alle disavventu10 Sulla retorica del silenzio e la sua applicazione negli Atti, si veda D. MARoUERAT, «"Et quand nous sommes entrés dans Rome". L'énigme de la fin du livre des Actes (28,1631)», in RHPR 73(1993), 6-1 1.

79

Gesù e i suoi discepoli . . .

.re di Paolo, che ho appena enumerato. Dopo la sua liberazione mira­ ·colosa (cf. At 12), Pietro scompare dalla scena per ritornarvi solo ibrevemente, durante il concilio di Gerusalemme. Ciò non significa evidentemente che egli abbia avuto in seguito un vita di tranquillo pensionato, ma solo che il narratore non parla del suo ministero suc­ cessivo, né della sua passione, né dell'orizzonte di morte che circon­ da gli araldi del vangelo. Cerchiamo di vedere perché. IL PARALLELISMO TRA PIETRO, GLI APOSTOLI E

GESù

Una lettura anche rapida degli Atti non può non rilevare che ciascuno dei discepoli testimonia il vangelo a suo modo. Certo, il loro percorso ha dei punti principali comuni, ma il narratore fa in modo che ciascuno possa riprodurre in modo originale l'itinerario di Gesù. Così, di Stefano riporta solo un discorso e la sua morte - con un atteggiamento che è lo stesso di Gesù in Le 23. Quanto a Filippo, viene notificata solo la sua attività missionaria (cf. At 8), piuttosto brevemente, come si addice per un attore secondario. Due tratti lo fanno assomigliare a Gesù: il successo del suo insegnamento e i numerosi miracoli operati, in una formula che non può non ricorda­ re il sommario di Le 7,22: E le folle prestavano ascolto unanimi alle parole di Filippo sentendolo parlare e vedendo i miracoli che egli compiva. Da molti indemoniati uscivano spiriti immondi, emettendo alte grida e molti paralitici e stor­ pi furono risanati (At 8,6-7). In breve, con Filippo il vangelo manifesta la sua potenza salvifica e la sua attrazione. E di Pietro, quali tratti il narratore mette in eviden­ za? Su quali punti ne fa una figura simile al Gesù del terzo vangelo? Gesù in Le

Pietro in At

4,14

2,4

4,18-27

2,14-41

20,17

4,11

Discorsi pieno di Spirito Santo prima del discorso inaugurale discorso inaugurale (che insiste sullo Spirito di profezia) parlano della pietra scartata diventata pietra angolare

80

Capitolo 3 Gesù in Le

Pietro in At

7).2

3,1-10; 9,32-35

4 ,40 4,42 4,33-37; 6,18; 8,27-39

5,15 5,16 5,16

7,11 -17; 8,49-56

9,36-43

19,48; 20,19

4).1

22,66-71

4,5-22; 5,28-40

Segni e reazioni guarigioni i malati sono guariti al passaggio di Gesù e di Pietro le folle accorrono da ogni luogo esorcismi risurrezioni (fanno prima uscire la folla) Le autorità giudaiche e

loro reazione

paura di arrestarli o di punirli a causa del popolo davanti al sinedrio (Gesù Messia e Figlio di Dio)

A dire il vero, in molti dei parallelismi rilevati Pietro non è il solo menzionato: anche gli altri apostoli fanno dei miracoli e, davan­ ti al sinedrio, sono insieme a lui. È vero che ogni volta è lui a pren­ dere l'iniziativa11 per rispondere e annunciare Gesù Cristo, facendo­ si portavoce del gruppo, però è sempre l'insieme degli apostoli che si ha di mira e che viene minacciato dalle autorità. In breve, anche se Pietro appare ogni volta come il leader, non è mai solo. I tratti che lo apparentano a Cristo valgono emblematicamente per lui, ma anche per gli altri membri del «collegio» apostolico. Quali sono questi trat­ ti? Un parlare che ha autorità e un agire efficace, che attira le folle portandole alla conversione, ma che provoca d'altra parte la reazio­ ne minacciosa delle autorità religiose. Per alcuni apostoli, come Giacomo, il fratello di Giovanni, la minaccia arriverà fino alla morte (At 12,2). Ma il fatto viene solo segnalato, senza niente di più. Molti esegeti, è vero, interpretano l'episodio dell'imprigionamento e della liberazione di Pietro come n E

ciò fin dall'inizio del macro-racconto, con l'elezione di Mattia (cf. At 1,13-26).

81

Gesù e i suoi discepoli. . .

una morte e risurrezione simboliche, perché si trovano in esso alcu­ ni motivi dei racconti della risurrezione:

viene nella casa dove sono riuniti i fratelli le donne sentono il messaggio l Rode lo riconosce dalla voce corre (corrono) a dirlo agli altri gli altri non credono loro stupore a vederlo vivo scomparsa di Gesù/Pietro

Gesù in Le 24

Pietro in At 12

24,36

12,12

24,5-7 24 ,9 24,1 1 24,41 24,31

12,14 12,14 12,15 12,1 6 12,17

A questi parallelismi si possono aggiungere altri elementi che sembrano dover connotare una liberazione da ogni influenza umana, una liberazione definitiva: l) prima il gesto e la parola dell'angelo che fanno uscire l'apostolo da uno stato di morte: l'imperativo «alzati» (in greco: anasta) non può non ricordare l' «alzati» (anasthéti) di Pietro che riporta Tabità in vita in At 9,40; 2) poi l'impossibilità in cui si trova Erode di ritrovare l'apostolo (At 12,19) indica proprio che que­ st'ultimo viene sottratto alla vista del mondo, che non può quindi più catturarlo; 3) infine, dicendo che va «Verso un altro luogo», il narra­ tore può indicare quasi in modo ellittico che Pietro non scompare sol­ tanto dal racconto, ma che va . . . «verso altri cieli». Questi indizi che favoriscono l'assimilazione della liberazione di Pietro a una risurrezione sono innegabili. È necessario senz'altro interrogarsi sulla possibile tipologia che ha permesso questa assimila­ zione: perché infatti il percorso narrativo (che simboleggia il percorso reale) del capo degli apostoli termina come quello del suo Signore? A questo punto, sottolineo tre punti: l) il racconto non descrive né la morte di Pietro, né la sua risurrezione; si tratta soltanto di con­ notazioni, e al livello del racconto primario bisogna ritenere che Pie­ tro non muore; 2) il Pietro di At 1-12 ha un'autorità simile a quella del Gesù di Luca; egli prende infatti l'iniziativa di parlare, guarire, ecc.; come il suo maestro, si mostra docile allo Spirito Santo in tutte le circostanze; impressiona infine per la sua sicurezza nelle prove; 3) si può notare il poco spazio riservato dal racconto a questa scompar­ sa-risurrezione.

82

Capitolo 3

Forse perché è arrivato il momento di lasciare il primo piano della scena a un altro attore, ma più ancora perché il narratore ha riservato le comparse, i processi e la morte - una morte simbolica? per l'ultima parte del libro degli Atti:12 la passione che descriverà sarà quella di Paolo. Vediamo perché il narratore ha scelto questo attore e non un altro. IL PARALLELISMO

TRA

GESÙ E PAOL013

Arriviamo così ai tratti comuni, di gran lunga più numerosi e più completi, esistenti tra il Paolo degli Atti e il Gesù del terzo vangelo (cf. tabella a p. 83). Gli esegeti hanno rilevato anche altri elementi comuni: Gesù e Paolo «proclamano il regno di Dio» (Le 8,1; At 28,31), sono pieni di Spirito Santo (cf. Le 4,1 ; At 9,17; 13,9) e molte frasi di Gesù nel terzo vangelo si comprendono solo in funzione degli Atti: così Le 21 ,18 e At 27,34 («nemmeno un capello del vostro capo perirà>>), Le 10,19 e At 28,3-6 («né scorpioni né serpenti vi faranno del male»). Ugual­ mente l'amicizia tra Erode e Pilato, menzionata ellitticamente in Le 23,12, viene nuovamente menzionata in At 4,25-26, questa volta con la chiave della sua interpretazione (cf. Sal 2,1-2). Ma la tabella di p. 83 e quella di p. 84 mostrano come il narratore abbia accumulato e particolarmente rielaborato i parallelismi relativi alle tappe che vanno dai discorsi testamentari alle comparizioni davanti alle autorità. Questi ultimi meritano di essere presentati in dettaglio, perché le somiglianze verbali sono spesso molto forti (p. 84). Il narratore non si limita ad accumulare i parallelismi tra le due passioni, quella di Gesù e quella del suo testimone, ma insiste anche sulla consapevolezza che i due attori hanno di dover passare attra­ verso di essa, perché «sia fatta la volontà di Dio» (cf. Le 22,42; At 12 Q uesta parte inizia probabilmente con la prima menzione del desiderio di Paolo di andare a Roma (cf. 19,20-22). Cf. la suddivisione di G. BETORI, «La strutturazione del libro degli Atti: una proposta», in RivBib 42(1994), 33. 13 Riprendo qui. insistendo più sui paralle lismi narrativi che sulle riprese lessicogra­ fiche, un certo numero di parallelismi segnalati, tra gli altri, da MATIILL, «The Paul-Jesus Parallels», 22-46 e W. RADL, Paulus und Jesus im lukanischen Doppelwerk, Bem-Frankfurt 1975.

Gesù e i suoi discepoli. . .

21,14), come indicano i due discorsi testamentari e l a maggior parte dei «bisogna». Ma perché il narratore ha scelto Paolo piuttosto che Pietro - stando alla tradizione, quest'ultimo non morì su una croce come il suo Signore? Gesù in Le

Paolo in At

predicano nelle sinagoghe

4,15.16.33.44; 6,6; 13,10

il loro percorso è deciso dallo Spirito

4,1 .14 5,18-26; 6,18; 8,26-39ss 4,33-37

9,20; 13,5.14; 14,1; 17,1-2; 17,17; 18,4.1 9; 19,8 19,6.7; 20,22 14,8-lOss

Il loro ministero

segni esorcismi

16,16-18

Loro passione e sua preparazione

decidono di andare a Gerusalemme/Roma

Gerusalemme: 9,51

Gerusalemme: 19,21; 20,22;

Roma: 19,21 discorso testamento annunci della loro passione i

«bisogna» relativi al loro percorso14

si inginocchiano e pregano «Sia fatta

la (tua) volontà (divina)» percossi prima del processo 1) davanti al sinedrio, il giorno dopo l'arresto 2)

davanti alle autorità romane

false accuse 3) davanti alle autorità giudaiche desiderose di ascoltarli

22,14-38 9,22; 9,44; 18,31-33 2,49; 4,43; 9,22; 13,33; 17,25; 22,37; 24,7.26.44 22,41 22,42 22,63 22,63-71 22,66 Pilato: 23,1-7 23,2

Erode: 23,8-12 23,8

20,17-35 14,22; 20,22-23; 21,11b 9,16; 14,22; 19,21; 23,1 1; 25,10; 27,24 20,36 2 1 , 14 23,2 22,30-23,10 22,30 18,12; Felice: 26,1-27 17,7 Agrippa: 26,2-32 25,22

14 Oltre alla terza persona del verbo de6 (dei al presente, ou edei all'imperfetto), si noti l'«era necessario» (anagkaion) di At 13,46. Non tengo conto del verbo greco meUein, la cui sfumatura varia e che non è il caso di discutere qui, perché il numero degli altri voca­ boli è ampiamente sufficiente per ciò che voglio mostrare.

84

Capitolo 3

4) davanti alle autorità romane

Gesù in Le

Paolo in At

Pilato: 23,13-24

Festo: 25,1-12

23,25 23,32 motto/quasi motto (ultima prova) 23,26-56 apparizione confortevole di un angelo 22,43 eucaristia sul pane 22�19-20; 9,12-17 ingresso in gloria/Paolo dichiarato «diO» 24 consegnati agli esecutori accompagnati da altri prigionieri

Discorsi testamentari

27,1 27,1 27,6--28,1 1 27;1,3 20,11; 27,33-3815 28,1-10

22,15-16 22,15 22,27 22,28 22,37 22,29 22,30

20,25 20,23 20,19.24 20,19 20,24 20,28 20,32

23,2.5 23,10 23,18

24,5 25,7 21,36; 22,22

domande sulla loro origine nulla che corrisponda alle affermazioni nulla che meriti la morte

23,6-7 23,4.14 23,15.22

avrebbero voluto liberarlo

23,16.22

23,34 25,18 25,25; 26,31; (28,18) 26,32

23,27

21 ,36

fine prossima e menzione del Regno dovranno soffrire banno servito nelle prove e fino alla fine conferiscono autorità ai loro successori che parteciperanno all'eredità-celeste

Accuse degli ebrei contro Gesù e Paolo sollevano il popolo/gli ebrei viene sottolineata la forza delle accuse le grida della moltitudine

Le reazioni delle autorità

La moltitudine del popolo che li segue

15 I gesti di Paolo riprendono quelli di Gesà, ed è su questo punto che gioca la syn­ krisis tra Gesù e Paolo. Bisogna perciò accettare il parallelismo. Ma non si tratta della cena del Signore, perché il narratore non segnala la distribuzione del pane sul quale è stato pro­ nunciato il ringraziamento. Come dice MAR.oUERAT, «"Et quand nous sommes entrés dans Rome". L'énigme de la fin du livre des Actes (28,16-31 )», 12 nota 29: questo silenzio «evita di assimilare l'equipaggio della nave a un'assemblea cristiana».

85

Gesù e i suoi discepoli. . . EsTENSIONE DELLA SYNKRJSJS: LA FUNZIONE DI AT 27,9-28,11

Prima di affrontare la questione è necessario . esaminarne un'al­ tra, quella della funzione del naufragio in At 27, perché essa può (o non può) rafforzare i parallelismi e determinare fondamentalmente la loro interpretazione. Diversi esegeti pensano infatti che questo naufragio sia per il cammino di Paolo l'equivalente narrativo e sim­ bolico della morte di Gesù in croce di Le 23.16 Quelli che sostengo­ no questa interpretazione si basano soprattutto su argomenti ester­ ni al racconto del naufragio: l) il modo in cui Paolo stesso parla delle sue tribolazioni in 2Cor 1 1 ,23; 2) il fatto che nella Bibbia la tempe­ sta viene spesso vista come una minaccia mortale;17 3) il parallelismo globale tra Le 22-24 e At 20--28 permette di dedurre che il naufragio abbia un posto equivalente all'episodio della croce. Essi rilevano poi gli elementi narrativi che possono essere considerati come paralleli­ soli in Le 22-23 e At 27: - la predizione di Paolo che, molto prima della tempesta, annun­ cia che il viaggio sarà un danno per la nave e le loro vite (cf. At 27,10); prima della sua passione Gesù annuncia ugualmente la gravi­ tà dell'ora e ciò che l'attende (cf. Le 22,37-38); - la violenza degli elementi (cf. At 27,18-20); in Le 23 Gesù viene percosso e inchiodato sulla croce; - l'assenza di sole, durante il giorno, e di stelle, durante la notte (cf. At 27,20); alla morte di Gesù il sole si eclissa (cf. Le 23,44) - con l'indicazione della durata in ciascuno dei racconti (cf. At 27 ,20; Le 23,44); - le forze al limite delle quali si trovano i passeggeri della nave (cf. At 27,21 .33); in Le 23 Gesù è morente; - Paolo è con altri prigionieri e i soldati decidono di metterli a morte perché non scappino (cf. A t 27 ,42); in Le 23, con due crimina­ li, Gesù è nelle mani dei soldati;

16 Cf. M.D. GoULDER, Type and History in Acts, London 1964, 62-63; RADL, Paulus L'ipotesi viene ripresa da I. PERvo, Luke's Story of Paul, Minneapolis

und Jesus, 222-25 1.

1990.

17 Per il termine 2,11; Gb 37,6; Sir 21,8.

greco

cheimbn, si veda ad esempio Esd 9,6; 10,9; 4Mac 15,32; Ct

86

Capitolo 3

- la nave si arena (cf. At 27,41). Gesù spira e il velo del tempio si squarcia (cf. Le 23,44-45). Nurne rosi sono al contrario gli esegeti che rifiutano di vedere nell'episodio del naufragio un equivalente narrativo della morte di Gesù. Basandosi su numerosi elementi del passo, essi ne fanno piut­ tosto un'operazione di salvataggio o meglio, di salvezza, se si vede in esso una dimensione simbolica. Infatti: - alla fine tutti sono salvi; - Paolo prevede il naufragio (cf. 27 ,26) e, più della tempesta, annuncia la sua felice conclusione, dichiarando: «Neanche un capel­ lo del vostro capo andrà perduto» (27,34); egli stesso resta saldo durante la prova, perché Dio l'ha avvertito in sogno dell'esito posi­ tivo di essa (cf. 27,24). Se quindi Paolo non parla mai di morte, ma di salvezza, come si potrebbe interpretare il naufragio come una morte, anche se simbolica? - ben lungi dall'essere una morte, il naufragio è al contrario e paradossalmente una conferma divina in favore di Paolo. Infatti è lui, il prigioniero, che salva tutti gli altri, compresi i suoi guardiani: egli indica come fare per scampare al pericolo, prevede, consola, denuncia la fuga dei marinai, ecc. Inoltre, Dio stesso gli ha detto che tutti i passeggeri saranno salvati a causa sua (cf. 27,23s)! Infine, sal­ vando Paolo dal naufragio e facendo di lui un attivo taumaturgo, il racconto fornisce la conferma ultima, in ogni caso necessaria, per­ ché, com'è stato detto, nel mondo ellenistico di allora solo il giusto poteva essere salvato dalle acque, protetto com'era dalla divinità. 18 Il segno di protezione si riproduce in At 28,4: la collera o la vendet­ ta divina non può punire uno che non ha commesso niente di male; si arriva perfino a considerare Paolo come un dio (cf. 28,6b)19 e a

18 Cf. G.B. MILES - G. TRoMPF, «Luke and Antiphon: The Theology of Acts 27-28 in the Light of Pagan Beliefs about Divine Retribution, Pollution, and Shipwreck», in HTR 69(1976), 259-267; G. TROMPF, «On Why Luke Declined to Recount the Death of Paui: Acts 27-28 and Beyond», in C.H. TALBERT (ed. ), Luke-Acts. New Perspectives from the SBL Seminar, New York 1984, 225-239; D. LADOUCEUR, «Hellenistic Preconceptions of Ship­ wreck and Pollution as a Context for Acts 27-28», in HTR 73(1980), 435-449; S. M . PRAE­ DER, «Acts 27:1-28:16. Sea Voyages in Ancient Literature and the Theology of Luke­ Acts», in CBQ 46(1984). 19 Luca non cerca di correggere l'impressione. Si confronti con At 14,14-18.

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Gesù e i suoi discepoli. . .

trattarlo con molti onori dopo la guarigione che opera (cf. 28,10). E per i suoi lettori greci il narratore aggiunge un altro motivo che con­ ferma che gli dèi sono con Paolo: il vascello che conduce Paolo da Malta a Roma reca l'insegna dei Dioscuri (cf. At 28,10).20 Si vede d'altra parte perché era necessaria una conferma divina: fin lì, infat­ ti, Paolo aveva proclamato la sua innocenza e la conformità del suo ministero al piano divino, ma chi poteva attestare che era veramen­ te così, se non la divinità? Il naufragio e la sua positiva conclusione gliene offrono l'occasione. Gli esegeti sono pertanto divisi sull'interpretazione del naufra­ gio. Chi ha ragione? Certamente non si può confondere il naufragio di una nave con la morte di un uomo; e dato che Paolo insiste sul fatto che nessuno perirà, non si può dire che egli muoia, a meno che non si voglia fraintendere completamente il testo. A dire il vero, fin dall'episodio della vocazione (cf. At 9) si può quasi prevedere che il racconto non parlerà della morte di Paolo. Il Signore dice infatti ad Anania, a proposito di Saulo: «Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (9,16). Certo, come ogni prolessi, questa potrebbe ellitticamente includere la morte. Ma gli altri annunci che Dio farà in seguito all'apostolo, allora prigioniero, non menzioneranno più questa eventualità (cf. At 23,1 1; 27,23). L'orizzonte del racconto resta la testimonianza a Roma, e anche se la testimonianza può arri­ vare fino al versamento del sangue, per Paolo il racconto punta verso la comparizione davanti all'imperatore e non verso la morte. La dif­ ficoltà che pone il finale degli Atti deriva in realtà dall'assenza di processo davanti a Cesare. Ciò nonostante, gli esegeti che vedono nel naufragio un equiva­ lente narrativo - in altre parole strutturale della morte di Gesù in Luca, non hanno tutti i torti. Cominciamo con un argomento di con­ venienza: se per la liberazione di Pietro in At 12 il narratore fa capi­ re che essa va interpretata simbolicamente, in relazione alla risurre­ zione di Gesù, non si vede a priori perché l'episodio del naufragio -

20 Cf. LADOUCEUR, «Hellenistic Preconceptions», 443-448. Castore e Polluce erano i protettori dei marinai.

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Capitolo 3

non potrebbe ugualmente avere una dimensione simbolica: al tempo stesso come verifica ultima di una vita e come itinerario che ricalca quello di Cristo. Dopotutto, la situazione è proprio quella di una minaccia mortale e perfino di una quasi-morte. D'altro canto non è la (sola) distruzione della nave che dev'essere presa come un equi­ valente della morte di Gesù, ma l'episodio nel suo insieme. Infatti, come le scene ai piedi della croce (dalla crocifissione a quella della folla che si percuote il petto) descrivono l'ultima prova di Gesù, con la quale la sua innocenza diventa manifesta e riconosciuta da tutti nel momento stesso in cui viene annoverato tra i malfattori, così il naufragio e la sua positiva conclusione costituiscono l'ultima confer­ ma dell'innocenza di Paolo: mentre il disastro avrebbe potuto far credere a una punizione divina, gli eventi si concludono in modo opposto, poiché il prigioniero viene considerato come un dio! È nel­ l'avversità, soprattutto di fronte alla morte, che si manifesta l'inno­ cenza dei veri amici di Dio. Non è quindi la morte fisica che costitui­ sce il criterio decisivo del parallelismo tra Le 23-24 e At 27-28,11, ma la loro rispettiva funzione. Ho mostrato altrove21 che la posta in gioco della passione e della morte di Gesù è il riconoscimento, a diversi livelli, ma da parte dei diversi attori, della sua innocenza e della loro colpevolezza. Ora, durante il naufragio, l'atteggiamento di Paolo è esattamente lo stesso di quello di Gesù in croce ed è a que­ sto livello che funziona il paragone: - durante tutto il tempo della prova, Gesù e Paolo mostrano una fiducia incrollabile in Dio; - né l'uno né l'altro cercano di fuggire; Gesù non scende dalla croce e, da parte sua, Paolo avverte il centurione che i marinai cer­ cano di fuggire (cf. At 27,30-32); - essi esprimono la loro fiducia in Dio con la preghiera (cf. Le 23,46; At 27 ,24.35). Infatti la risposta divina in At 27,24: «Ecco, Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione», suppone che l'apostolo abbia pregato e domandato che tutti abbiano salva la vita; ed è lo stesso atteggiamento di Gesù che dice di aver pregato per i suoi discepoli e che, poi, invoca il perdono per tutti quelli che 21

AI..ETn , L'arte di raccontllre,

c. VII.

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Gesù e i suoi discepoli. . .

l'hanno messo a morte. È soprattutto grazie alla sua liberazione dalla morte che tutti possono sperare nella salvezza (cf. At 2,21; 4,12). Che d'altra parte il naufragio sia stato l'evento col quale Dio ha definitivamente manifestato l'innocenza di Paolo, lo mostra anche il resto del macro-racconto. Anche se l'apostolo resta incatenato (cf. At 28,20), non si menziona più il processo né il giudizio, e si vede perché. Dopo la conferma divina fornita dall'episodio del naufragio, nessun tribunale potrebbe onestamente fare meglio. Il racconto sop­ prime semplicemente un processo che non aggiungerebbe nulla ali 'innocenza di Paolo, tanto più l) che in realtà Paolo è già compar­ so davanti al tribunale di Cesare (cf. At 25,10) ed è stato pienamente discolpato, e 2) che nessuno a Roma gliene chiede spiegazioni. Non è del resto necessario sottolineare che Paolo stesso, insistendo sulla sua innocenza allo stesso modo in cui aveva insistito su quella di Gesù, mostra bene come funziona la synkrisis: At 13,28 (gli abitanti di Gerusalemme) «pur non avendo trovato in lui [Gesù] alcun motivo di condanna a morte . . . » . At 28,18 (i romani) «Volevano rilasciarmi, non avendo trovato in me alcuna colpa degna di morte ». . . .

È necessario andare quindi in un'altra direzione per determina­ re la funzione del finale del libro (cf. At 28,17-31). Prima di interrogarci su questo finale, ripetiamo la perdita che ci sarebbe (per l'interpretazione) qualora si ignorasse il gioco metaforico e la synkrisis sviluppati dal narratore in At 27,9-28,10. I risultati ai quali sono finora giunto permettono cosi di risponde­ re alla domanda che avevo posto sopra: perché il narratore svilup­ pa la passione di Paolo e non quella di Pietro? La prima risposta, superficiale ma narrativamente pertinente, è stata che le diverse protessi del libro degli Atti, a cominciare da quella di At 9,16, annunciano le sofferenze di Paolo ma non quelle degli altri testi­ moni. La loro descrizione esaudisce quindi la profezia divina e i presentimenti di Paolo. Ma questa risposta non è sufficiente; è necessario andare oltre.

90

. capitolo 3

LA FUNZIONE DEL PARALLELISMO:

IMITARE

PAOLO?

Per spiegare la lunga passione di Paolo si è fatto evidentemente ricorso a ciò che dice Gesù nel terzo vangelo sul rapporto tra il disce­ polo e il maestro. I passi in cui Gesù parla dell'essere discepolo sono i seguenti: Le 6,27-49, ugualmente 9,23-27; 14,27 («Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepo­ lo») e 14,33 («Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo»). Non c'è dubbio che Le 9,23 e 14,27 descrivano proletticamente quello che sarà l 'itinerario di Paolo, le sue numerose prove al servizio del vangelo; anzi alcuni ritengono che, riportando le parole di Gesù, il narratore pensasse a Paolo, che diventa cosl il prototipo del discepolo. Secondo altri,22 la chiave del parallelismo tracciato tra Gesù e Paolo si trova in Le 6,40: Il discepolo non è da più del maestro; ma ognuno [discepolo] ben pre­ parato sarà come il suo maestro. D

versetto non parla affatto di insegnamento teorico, ma di una preparazione attraverso il cammino e l'esperienza, soprattutto attra­ verso le opposizioni e le sofferenze al servizio del vangelo. Thtto som­ mato, lo stretto parallelismo tra le due passioni va oltre la somiglian­ za quantitativa: Paolo non ha affrontato soltanto le stesse prove del suo maestro; attraverso di esse e grazie a esse è diventato sempre più simile a lui. Gesù vuole quindi che i suoi discepoli gli somiglino. Ma le prove non si ordinano e non sembra che Paolo le abbia desiderate: le ha accettate, il che non è la stessa cosa - bisogna qui escludere ogni maso­ chismo. Ma non per questo scompare la difficoltà sollevata da At 20-28. Infatti, quando si dice che Paolo diventa il prototipo del disce­ polo, se non sbaglio, si intende dare al parallelismo una funzione impe­ rativa, per lo meno esortativa: «Fate come Paolo!», il quale aveva a sua volta fatto «come» Cristo. L'apostolo diventa così un (altro?) modello da imitare. Ma, lo ripetiamo, le prove non si imitano; ci si trova sotto­ posti a esse per necessità, perché non si può fare diversamente. 22

Cf. MATTilL, �The Jesus-Paul Parallels», 40-46.

Gesù e ; suoi discepoli. . .

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Il racconto di At 21-28 dice forse che è necessario percorrere lo stesso cammino di Paolo, subire violenze, accuse, naufragi, per meri­ tare il nome di discepolo e somigliare a Cristo? Certamente no; infatti Le 9,23 o 14,27 sottolineano chiaramente che ciascuno deve portare la propria croce, né quella di Cristo né quella di Paolo. Ogni discepolo ha o avrà il proprio itinerario, le proprie tribolazioni al ser­ vizio del vangelo. Perciò, At 21-28 può descrivere solo l'itinerario di Paolo, che non è materialmente identico a quello di Gesù, anche se gli somiglia per altre ragioni. Non è quindi forse la costanza, la resi­ stenza e la fiducia di Paolo che il lettore è invitato a imitare quando si trova egli stesso sospettato o perseguitato a causa del vangelo? Non c'è dubbio. Ma ciò non è sufficiente a spiegare i dettagli e la par­ ticolarità della narrazione di At 21-28. Thtte le vite dei santi hanno uno scopo esortativo, ma questo scopo non esaurisce né la ragion d'essere né lo sviluppo del racconto. È vero che il discorso di Paolo agli anziani di Mileto (At 21,1835) ha, come tutti i discorsi testamentari, una funzione esortativa e che Paolo si presenta lì chiaramente come un modello da imitare. Egli ha servito il Signore nell'umiltà e nelle prove (cf. At 20,19), ha portato a compimento il suo ministero (diakonia, cf. At 20,24), ha fatto ciò che il Signore ha chiesto ai suoi discepoli, essendo colui che serve (cf. Le 22,26-27; cf. At 20,34-35). Ma Paolo parla del suo servi­ zio passato. L'imitazione interviene quindi per quello che fu il suo compito di pastore. A partire da At 21, Paolo non viene più presen­ tato come il fondatore o il pastore delle comunità: il discorso testa­ mentario mirava in parte ad assicurare questo passaggio. Egli diven­ ta ora prigioniero, e ciò che gli accade fa parte dell'itinerario che il Risorto gli ha riservato come specifico, secondo quanto aveva annunciato ad Anania in At 9,16. Ritorno quindi alla domanda: a quale scopo, in At 21-28, il nar­ ratore descrive questi eventi - la rivolta contro Paolo nel tempio, la seduta davanti al sinedrio, i diversi processi con i loro discorsi, il nau­ fragio? Certamente per mostrare che Paolo è un discepolo perfetto, che somiglia in tutto al suo maestro, soprattutto per le sofferenze. Gli altri, in particolare Pietro, non rientrano quindi in questa categoria? Hanno sofferto meno? Si potrebbe obiettare che all'epoca in cui fu scritto il libro degli Atti, Pietro - e del resto anche Paolo - non aveva

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· ·Capitolo 3

ancora subìto il martirio e che di conseguenza il narratore non pote­ va parlame. Spero di dimostrare che questo tipo di risposta storico­ critica, che ancora viene riportata in alcuni commentari al libro degli Atti, non rende per niente conto del genere letterario e teologico di Luca. Per fare ciò, devo ora affrontare il difficile finale del libro: At 28,11-31. IL FINALE D EL LIBRO DEGU ATII23

Alcuni silenzi A molti livelli, At 28,17-31 dà l'impressione di lasciare aperti numerosi interrogativi. D. Marguerat ha enumerato i diversi silenzi, che ripeto qui con lui. l) A livello teologico, il piano salvifico di Dio viene annunciato profeticamente da Paolo in 28,25-28, ma non viene raccontato, se non in poche parole! 2) A livello politico, manca il riconoscimento da parte di Roma dell'innocenza di Paolo e del valo­ re della fede cristiana. 3) A livello religioso, se appare chiaro che d'ora in poi il movimento cristiano sarà il portatore dell'annuncio salvifico, i rapporti futuri con il giudaismo sono ben lungi dall'essere chiaramente descritti; Paolo rimprovera gli ebrei, invitandoli al pen­ timento, senza però escluderli o, al contrario, le sue affermazioni suo­ nano come un rifiuto, e annunciano già l'antigiudaismo della Chie­ sa? 4) A livello letterario, il racconto è più aperto che chiuso. In effetti, la comparizione davanti a Cesare annunciata varie volte, da Pesto (cf. At 23,12) e dal Signore, in visione (cf. 27,24), non avrà luogo prima della fine del racconto - si tratta di una prolessi esterna. E se la prima tavola ha descritto la morte/risurrezione di Gesù, per­ ché la seconda non dice nulla della «fine» di Paolo? Non bisogna quindi parlare di una retorica del silenzio? Senza analizzare in dettaglio il passo, notiamo che alcuni di que­ sti silenzi erano narrativamente prevedibili. Una volta mostrato e

23 Molti studi sono stati dedicati a questo finale; cito solo i più recenti: C.J. HEMER, Book of Acts in the Setting of Hellenistic History, (WUNT 49), TUbingen 1989, 383387; MARGUERAT, «"Et quand nous sommes entrés dans Rome". L'énigme de la fin du livre des Actes (28,16- 31)». The

Gesù e ; suoi discepoli. . .

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esso il parallelismo tra Le 23 e At 27,6-28,10, diventa pressoché evidente che il racconto non poteva menzionare la «fine» fisica di Paolo, non più di quella di Pietro, e per le stesse ragioni, come ha dimostrato la presentazione di At 12,5-19. Precedentemente ho anche notato come la morte di Paolo non sia mai annunciata esplici· tamente, nemmeno nella protessi di At 9,16. L'apostolo si dichiara disposto a morire per il Signore Gesù (cf. At 21 ,13), ma aggiunge «a Gerusalemme». Una volta lasciata la città per sempre, non affronta più questa eventualità, e la logica narrativa del racconto ne ha mostrata la ragione. Quanto al processo di Paolo a Roma, anche se viene effettiva· mente annunciato dall'interessato, che si appella all'imperatore (cf At 23,11; 25,11-12; 26,32; 28,19), e da Dio, in una visione (cf. 27,24), il nar­ ratore aveva il dovere di non raccontarlo. Lo stretto parallelismo con le comparizioni di Gesù, evidenziate dalla tabella a p. 83, depone già in favore di questo silenzio finale. Ed esistono altre ragioni. In effetti, come abbiamo ugualmente segnalato, Paolo ha avuto tutto il tempo di spiegarsi «davanti al tribunale di Cesare» (cf. At 25,10) e di essere pro· sciolto. Se c'è comparizione davanti all'imperatore - e sappiamo che avrà luogo, poiché la parola divina non sbaglia mai - essa avverrà fuori racconto. Ma se il narratore sa di non dover raccontare questo proces· so, perché non fa dire semplicemente all'angelo: «Non temere, arrive­ rai a Roma» oppure, come in At 23,11: «Sarai mio testimone a Roma»? In realtà non è come capitale dell'impero che la città è impor· tante negli Atti, ma perché, testimoniando davanti a colui che ha sulla terra l'autorità più alta, Paolo darà al vangelo una notorietà universa... le e ufficiale. Più che il luogo, la menzione dell'imperatore in 27,24 ricorda la posta in gioco del viaggio e della sua positiva conclusione. Ma questo richiamo non implica affatto che la comparizione stessa debba far parte del racconto. A che serve allora il finale del libro? amm

Il ruolo di Paolo in At 28, 17-31 Il finale degli Atti svela il suo segreto solo nel caso in cui se ne

percepiscano due punti essenziali: l) il suo sottile parallelismo con � 24 e 2) il rapporto di compimento nel quale il passo si trova con Le 4,24-27.

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Capitolo 3

La mia prima affermazione non mancherà certamente di sor­ prendere, dato che le differenze tra Le 24 e At 28 sono enormi. In Le 24, Gesù incontra i suoi discepoli per farsi riconoscere, ma anche e soprattutto per spiegare loro la coerenza del suo cammino; inoltre, non accusa nessuno. In At 28, al contrario, Paolo non si rivolge a dei fratelli nella fede, ma agli ebrei, e le sue affermazioni non hanno nulla di tenero; diventa anzi loro accusatore attraverso la voce del profeta Isaia; inoltre non parla né del proprio cammino né di quello del suo Signore per espome la logica, ma dei destinatari della parola di Dio e del loro atteggiamento.24 Nonostante queste differenze, Paolo, come Gesù in Le 24, si fa l'interprete autorizzato e ultimo del piano di Dio, mostrando come l'atteggiamento attuale degli ebrei sia del tutto simile a quello dei loro antenati, profetizzando ugualmente l'accoglienza positiva che i pagani faranno del vangelo. Notiamo di passaggio un altro motivo comune a Le 24 e At 28, quello degli ascoltatori e dell'accoglienza fatta al messaggio: il Signore risorto si lamenta della lentezza dei discepoli nel credere, e Paolo stigmatizza l 'incapacità cronica del popolo d'Israele a comprendere. E come Le 24 invitava a meditare sulla coerenza del cammino di Gesù in rapporto con le Scritture, così At 28 esorta gli ebrei, ma anche e soprattutto il lettore, a riflet­ tere sul senso della storia d 'Israele e sulla decisione di Dio nei suoi confronti. Ultimo punto comune a Le 24 e At 28: se da una parte i rispettivi eroi, Gesù e Paolo, danno Il delle risposte, dall'altra non sviluppano per nulla il percorso che le giustifichi. Il lettore viene così ogni volta invitato a un lungo periplo, dapprima attraverso il libro di cui questi capitoli sono la conclusione, poi attraverso tutte le Scritture.

Le ragioni di un parallelismo Sulla scia di questo ruolo ermeneutico attribuito a Paolo in At 28, vediamo come questo stesso capitolo porti a compimento la pro-

24 La questione dei destinatari del vangelo (giudei e/o pagani) sarà studiata pià avanti.

Gesù e i suoi discepoli. . .

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lessi fatta da Gesù nel discorso-programma di Le 4. Certo, l'omelia di Nazaret è il primo discorso di Gesù riportato dal narratore, mentre le affermazioni di Paolo in At 28 formano la conclusione degli Atti, ma anche del dittico, e non si può attribuire loro la stessa funzione. Eppure è proprio questa differenza (inizio di un ministero - conclu­ sione di un altro) che bisogna considerare: con le sue affermazioni Gesù profetizza non solo il suo destino, ma quello dei suoi discepoli, e con le parole conclusive rivolte agli ebrei di Roma Paolo sigilla in qualche modo la verità e il compimento delle parole del suo maestro. Come lui, egli è stato chiamato a essere «luce delle genti» (cf. Le 2,32; At 13,47) ed è stato, per questo, respinto dai suoi correligionari. Le sue affermazioni agli ebrei di Roma riprendono originalmente quel­ le che il suo maestro rivolge agli abitanti del suo villaggio, Nazaret. E il loro ministero può così essere messo in relazione: . •

Elia/Eliseo

Gesù

Paolo

inviati per la salvezza delle nazioni

Le 4,26-27;

Le 2,32; 24,47

At 13,47; 22,21

il popolo li perseguita

1Re 19; 2Re 6,31-32

Le 4,24-29; 23

At 22,18

cf. 1Re 17; 2Re 5

Si vede allora perché sia lui che il narratore ha scelto per porta­ re a termine il suo racconto (At 21-28): le prove di Paolo sono quel­ le del profeta rigettato dai suoi a causa della sua stessa vocazione, dramma stigmatizzato e profetizzato da Gesù nel suo discorso inau­ gurale (cf. Le 4). Ma come non vedere che il narratore gioca su que­ sta riproduzione di un dramma che ha avuto oome attori tutti i pro­ feti, allo scopo di mostrare che esso trova in Paolo il suo punto cul­ minante e la sua svolta, perché con la sua testimonianza si realizza pienamente il piano di Dio in favore delle nazioni? È pertanto nel discorso finale rivolto agli ebrei di Roma che è possibile identificare il filo che attraversa il dittico e che determina i diversi parallelismi (le synkriseis) , soprattutto quelli tra Gesù e Paolo. In breve, è per il suo essere apostolo delle nazioni che Paolo è stato scelto come l'at­ tore principale dell'ultima parte degli Atti.

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Capitolo 3

E se si rileggono di conseguenza le diverse frasi di Gesù sulla sorte riservata ai profeti,25 diventa chiaro che esse non sono soltan­ to una lettura del passato, ma che annunciano quanto accadrà agli apostoli e a Paolo in particolare. Mi limito a citare due di questi passi, perché mettono in evidenza il legame tra ciò che accade ai discepoli e quella che fu la sorte degli inviati di un tempo:

Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v'insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellera­ to, a causa del Figlio dell'uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esulta­ te, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti (Le 6,22-23). Per questo la sapienza di Dio ha detto: Manderà a loro profeti e apo­ stoli, ed essi li uccideranno e perseguiteranno (Le 1 1,49).

Con l'oracolo finale di Paolo di At 28,26-29 tutta l'opera luca­ na trova il suo compimento. Per il lettore, le parole di Paolo agli ebrei sottolineano la generazione cristologica degli eventi: la pro­ fezia di Le 4 non riguardava soltanto il ministero e la messa a morte di Gesù, ma aveva anche per orizzonte la vocazione e il ministero di Paolo. Al tempo stesso segnalava che il rapporto Israe­ le-nazioni sarebbe stato una delle principali poste in gioco del rac­ conto. E al di là stesso dell'oracolo finale, è tutto il cammino apo­ stolico di Paolo che manifesta la verità e la forza delle parole inau­ gurali del suo maestro di Nazaret. Il cerchio è così chiuso, il raccon­ to arriva alla sua fine. Spero di aver mostrato l) l 'importanza strutturante dei paralle­ lismi (tra attori) nel e per il racconto lucano, e 2) il loro ruolo deter­ minante per entrare nella comprensione che il narratore ha del piano di Dio. Possiamo perciò cogliere meglio la loro dimensione tipologica e la loro funzione.

2S Le 4,24.27; 6,22-23; 11,47.49.50; 13,34.

Gesù e i. suoi discepoli. . .

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SYNKRJSIS E TIPOLOGIA La tipologia lucana Come ha fatto notare M. Fishbane, la tipologia, che consiste nel vedere «in persone, eventi o luoghi, il prototipo, il modello o la figu­ ra di persone, eventi o luoghi cronologicamente posteriori>), è tradi­ zionalmente associata ali' esegesi cristiana patristica e classica. 26 In realtà essa è già presente e operante nella letteratura giudaica anti­ ca, ellenistica e rabbinica, nel Nuovo Testamento e, anche molto prima, nella stessa Bibbia ebraica, al punto che è possibile parlare, senza alcun anacronismo, di tipologia intrabiblica. Senza studiare in maniera esauriente il modo in cui i libri del Nuovo Testamento hanno, sulla scia delle tradizioni bibliche, corre­ lato certi eventi o certe persone, spesso lontane nel tempo, ripetia­ mo, sulla scia di tanti altri, che cogliere delle relazioni non significa «scoprire il sensus plenior del testo», ma piuttosto quello «della pie­ nezza e delle opere misteriose dell'agire divino nella storia»,27 di cui il testo si fa eco e interprete. Va da sé anche che per il Nuovo Testa­ mento la tipologia si è sviluppata intorno alla figura di Cristo. La vera questione, ben individuata dagli specialisti, è evidentemente quella della natura delle analogie stabilite nelle tipologie. Ora, fatta eccezione per la Lettera detta agli Ebrei, non si troverà nel Nuovo Testamento nessuna elaborazione teorica continua. Che la Lettera agli Ebrei abbia potuto teorizzare queste correlazioni, deriva dalla sua natura argomentativa, mentre il racconto, se da una parte si pre­ sta meno a fare una teoria della tipologia, dall'altra la pratica in genere con sottigliezza. Questo è vero, ma in che modo il lettore la può individuare e apprezzarne i tratti? Questa è forse la ragione per cui un narratore come Matteo si è sentito obbligato a intervenire massicciamente, in parte, perché il suo lettore potesse cogliere le cor­ relazioni operate e la loro portata. Senza pronunciarci qui sulla qua­ lità del racconto matteano, osserviamo soltanto che il narratore luca-

26 n

FJSHBANE, Biblical lnterpretation in Ancient lsrael, 372-379. FISHBANE, Biblical lnterpretation in Ancient lsrael, 352

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Capitolo 3

no procede diversamente, che non interviene come narratore per mettere in evidenza la propria esegesi tipologica, lasciando questa preoccupazione all'attore principale: Gesù. Ed è proprio questa la particolarità della tipologia lucana: l ) la voce che narra il racconto alla terza persona resta molto discreta, lavora in sordina, effettuando numerose correlazioni tra attori e tra avvenimenti, ma senza dirlo; 2) in compenso, l'esegesi di Gesù, l'eroe del racconto, è esplicitamente tipologica. Altrove ho mostrato come Luca resti deliberatamente discreto allo scopo di lasciare a Gesù la preoccupazione di avviare ufficialmente questa lettura tipologica e di svilupparla a seconda degli eventi, fino a dopo la sua risurrezione, quando appare · ai discepoli. 28 In effetti è chiaro che Luca non ha atteso il discorso di Gesù a Nazaret (cf. Le 4,21-27) per mettere in relazione gli eventi che riferisce con quelli di un tempo poiché il primo episodio del suo racconto, l'annuncio a Zaccaria, è interamen­ te tipologico, com'è stato più volte segnalato.29 Che il primo episodio parli di una promessa, soprattutto quella di una discendenza, è di buon augurio per un racconto che si propone proprio di narrare la buona novella. Ma mettendo questa promessa e la risposta di Zacca­ ria in relazione con la promessa divina di una discendenza numero­ sa e la corrispondente risposta di Abramo in Gen 15, il narratore invita immediatamente i lettori familiari con i libri biblici a interro­ garsi sulla finalità di Le 1,5-25 e, attraverso di esso, su quella del macro-racconto lucano; l'episodio mira forse soltanto a opporre Abramo e Zaccaria come il credente all'incredulo, o indica invece qualcosa che sarebbe dell'ordine di un nuovo inizio, ecc.? E il macro­ racconto nella sua interezza si presenterà come il compimento pieno della promessa fatta al patriarca, nel quale saranno benedette tutte le nazioni, ecc.? Anche con la sua discrezione, la tipologia del narra­ tore suscita gli interrogativi, e forza a ritardare le risposte. In compenso, quando il narratore dà la parola a Gesù, gli lascia esprimere con chiarezza la sua esegesi tipologica, nella quale i com-

28 Cf. ALETII , L'arte di raccontare, c. VIII. 29 Cf., l'ultimo in ordine di tempo, M. CoLERIDGE, The Birth of the Lukan Narrative. Narrative as Christology in Luke 1-2, Sheffield 1993, 33-41, che segnala il ventaglio delle allusioni veterotestamentarie e le possibili synkriseis.

Gesù e i suoi

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discepoli. . .

mentatori hanno rilevato almeno due componenti: l) la continuità, perché Gesù si situa egli stesso nella discendenza dei profeti (cf. Le 4,23-27; 13,33-34 ); 2) la pienezza, perché in lui la loro attesa e il loro destino trovano il loro climax (cf. Le 4,22; 22,37), nella misura in cui la sua presenza esprime un più («ben di più c'è qui . », Le 1 1,31-32; ugualmente 20,9-18). Non si può negare che la tipologia lucana abbia questa dimensione di memoria, che sia perfino un esercizio di memoria spirituale, un memoriale, soprattutto dopo la risurrezione. Innegabile è anche che questo rapporto col passato spieghi la pre­ senza di numerosi episodi nel racconto lucano.30 Ma dopo quello che già abbiamo percepito della ricchezza delle synkriseis lucane tra Gesù e i suoi discepoli, è difficile poter ammettere che la correlazio­ ne tra gli attori del terzo vangelo e le figure del passato, che ne sono i prototipi e i modelli, esaurisca la tipologia del dittico. . .

Il processo di reduplicazione Se si legge il terzo vangelo da solo, senza la seconda tavola degli Atti, l'esegesi sembra mettere Gesù in rapporto con le sole figure bibliche del passato. Dobbiamo a M.D. Goulder l'aver mostrato che una tale esegesi sarebbe indebitamente riduttiva.31 Il compimento di cui Gesù è portatore non è un termine, ma un trampolino, grazie al quale il racconto lucano trova al tempo stesso la sua generazione e il suo dinamismo. Infatti la vita di Gesù fornisce i tipi di vita ecclesia­ le, e il racconto fa di lui il prototipo delle figure del discepolo. Ma è importante sottolineare che questa dimensione prolettica della riflessione tipologica lucana non è separata dai modelli veterotesta-

30 Per i diversi episodi in cui entrano in gioco le correlazioni tipologiche (soprattut­ to attoriali) e per il loro inventario, si vedano i commentari al Vangelo di Luca. Non è necessario aggiungere che bisogna distinguere tra gli episodi propri di Luca (quelli di Le 1-2, il discorso a Nazaret, la risurrezione del figlio della vedova di Nain in Le 7, la donna curva in Le 13, i dieci lebbrosi in Le 17, ecc.) e quelli della duplice o triplice tradizione sinottica (la moltiplicazione dei pani, la trasfigurazione, l'ingresso a Gerusalemme, ecc.), dove la tipologia era operante già prima che il narratore lucano la riprendesse, eventual­ mente modificandola. 31 GoULDER, Type and History in Acts, che riconosce di dover molto a R.B. RACJCHAM, The Acts of the Apostles, London 1901.

100

Capitolo 3

mentari. In breve, in numerosi passi, il narratore unisce e articola le due dimensioni - analettica e prolettica - attraverso le quali l'agire e l'essere di Gesù acquistano tutta la loro portata. In modo quanto mai evidente Le 4,18-27 è il primo episodio in cui il narratore fa entrare in gioco queste due dimensioni: se ci si ferma alla lettura di Luca, si percepirà solo il rapporto di compimento delle profezie e delle figure bibliche; ma se si continua la lettura fino alla fine degli Atti ci si accorge che le parole di Gesù a Nazaret annunciavano già il ministero e il destino di Paolo. La tavola precedente (p. 95) indicava le corrispondenze genera­ li a partire dalle quali si è sedimentata la tipologia lucana. Altre colonne avrebbero potuto essere aggiunte, sia dell'Antico che del Nuovo Testamento, perché il narratore lucano descrive la vocazione di Gesù (cf. Le 2,32) e quella di Paolo dopo di lui (cf. At 13,47) pren­ dendo i titoli che Dio dà al suo servo in Is 42,6 e soprattutto 49,6: TI

ho stabiJito come aHeanza del popolo, per essere la luce delle nazioni perché la mia salvezza [arrivi] fino aU'estremità della terra.

Che Paolo e Barnaba applichino a se stessi questi passi di Isaia sembra presuntuoso, dato che una lunga tradizione vuole che essi designino in ultima analisi il Cristo. Ora, il racconto lucano obbliga il lettore a una maggiore flessibilità. Ciò detto, l) Paolo, Barnaba e gli altri apostoli non dicono mai di essere «alleanza del popolo»; se l'in­ sieme delle figure bibliche sembrano trovare in Gesù il loro punto di convergenza, non accade lo stesso per gli apostoli, che ne prendono solo alcuni tratti. 2) Paolo e Barnaba avrebbero potuto vedersi chia­ mare «luce delle nazioni)), da parte del Signore Gesù (cf. At 13,47a), se quest'ultimo non avesse egli stesso meritato di portare il titolo prima di loro? In altri termini, l'applicazione delle corrispondenze agli apostoli non è diretta, ma passa attraverso Gesù, che non è solo un intermediario tra le figure di un tempo (prototipi) e gli apostoli, ma diventa a sua volta il prototipo di ciò che gli apostoli sono chia­ mati a essere. 3) Riferendo che l'appellativo «luce della nazioni» è stato conferito ai discepoli dal Signore Gesù stesso, il narratore intende segnalare al suo lettore che l'ampliamento della tipologia non viene né da essi, né soprattutto da lui, e che la tipologia è cristo-

Gesù e i suoi discepoli. . .

101

logica non soltanto per il suo contenuto, ma anche per la sua origine e la sua enunciazione. Che Gesù non sia un semplice anello nella serie tipologica lo prova un fatto narrativo: negli Atti i parallelismi non vengono stabi­ liti mai direttamente o indirettamente tra gli apostoli e le figure di un tempo. Certo, Pietro - e anche Paolo - compiono miracoli che sono della stessa natura di quelli di Elia o di Eliseo - ad esempio, la risurrezione di Tabità (cf. At 9,36-42) o quella del giovane Eutico (cf At 20,7-12); tuttavia nessuna delle parole o dei motivi rinviano agli episodi equivalenti dei libri dei Re, mentre le allusioni all'agire di Gesù sono evidenti. La tipologia lucana, pur insistendo sulla conti­ nuità, non è quindi triangolare, nel senso che non può essere scom­ ponibile in tre relazioni correlate due a due: l) tra le figure bibliche del passato e Gesù, 2) tra Gesù e i suoi discepoli, 3) tra le figure bibli­ che del passato e i discepoli di Gesù; quest'ultimo lato del triangolo è assente in Luca/Atti, dove il rapporto tra le figure bibliche e gli apostoli non è diretto, ma passa attraverso Gesù e si basa sul compi­ mento operato in lui. Il narratore lucano non vede quindi in Gesù un semplice anello in una serie, ma un punto culmine e, al tempo stesso, un inizio. Punto culminante o climax, Gesù lo è - come segnala egli stesso in parec­ chie occasioni - a Nazaret (cf Le 4,21), ugualmente nel tempio, pro­ prio prima della sua passione (parabola dei vignaioli, Le 20,9-18; il Messia e Davide, 20,41-44) e durante la sua passione (cf. Le 22,37). Ma fa capolino anche una novità.32 Il lettore giustamente mi doman­ derà: che cosa c'è di nuovo? Riservo la risposta per il prossimo capi­ tolo. Quanto al problema del parallelismo tra Gesù e i suoi discepo­ li, è importante determinare in che cosa Gesù è prototipo delle gran­ di figure ecclesiali descritte negli Atti. Lo è innanzitutto per lo Spiri­ to Santo che ha ricevuto dal Padre e che poi trasmette, secondo quanto dice lo stesso Pietro: Innalzato alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che aveva promesso, egli [Gesù] lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire (At 2,33). 32 Cf. Le 5,36-39; Le 22,20 che ha «la nuova alleanza nel mio sangue)); l'aggettivo nuovo non appare nelle recensioni matteana e marciana (cf. Mt 26,28; Mc 14,24).

102

Capitolo 3

Il prototipo diventa così l'operatore della somiglianza, ecco la grande novità; ma essa ricorda quella riconosciuta dagli autori bibli­ ci, quando Dio creò l'uomo - ogni uomo: si noti l'estensione - a sua immagine e somiglianza. E questa somiglianza con Cristo non tocca soltanto gli apostoli e gli evangelisti, in particolare Paolo, di cui si è visto perché essi sono destinati a illustrare le diverse synkriseis, ma si estende a tutti i suoi discepoli, al punto che il Risorto può dire al persecutore Paolo: «lo sono Gesù, che tu perseguiti! ». La tipologia non tocca soltanto l'élite, l'uno o l'altro apostolo che compirebbe gli stessi segni del maestro, ma si applica a tutti i battezzati. Nel raccon­ to lucano, tipologia e universalità sono congiunte, e ciò a partire dalla Pentecoste. Ma se la tipologia memoriale di Luca veicola l'idea di compi­ mento, nel senso in cui, come si è visto, Gesù è superiore a tutte le figure del passato, cosa succede per quella degli Atti? Il narratore descrive gli apostoli e, più globalmente, gli araldi del vangelo, in una posizione superiore al prototipo Gesù? In breve, il modello viene superato dalle sue «copie», per quanto originariamente somi­ glianti? In realtà i parallelismi vanno ben al di là di una somiglian­ za: è Gesù stesso che si fa riconoscere nei suoi discepoli. Più che sapere se essi gli somigliano, il lettore è invitato a comprendere che è il Cristo che vive in essi e che, attraverso di essi, raggiunge tutta l'umanità. Più che una somiglianza, il parallelismo tra Gesù e i discepoli in Luca/Atti dà l'impressione di descrivere la struttura stessa del vangelo. Il prossimo capitolo aiuterà a precisare quest'ul­ tima affermazione. CoNCLUSIONE

Perché il narratore si compiace di moltiplicare le somiglianze tra Gesù e i suoi discepoli, specialmente tra Gesù e Paolo? Abbiamo messo in evidenza la natura tipologica della synkrisis lucana, che invita il lettore a leggere il racconto di Luca/Atti come l'esposizione concreta del piano divino di salvezza, nella sua coerenza, nella sua logica. Le somiglianze tra attori sottolineano le costanti della volon­ tà divina, ma soprattutto, negli Atti, esse rispondono a una questio­ ne essenziale, quella di una Chiesa che non ha più la presenza visibi-

Gesù e i suoi discepoli. . .

103

le del Gesù prepasquale: sì, il Risorto rimane presente nella sua Chie­ sa, mediante il suo Spirito, che fa moltiplicare i modelli eristici. Lungi dall'allontanarsi dal giusto cammino, gli apostoli e i discepoli mani­ festano al contrario fedelmente, col loro agire e la loro parola, que­ sta presenza salvifica del loro Signore e Maestro al mondo intero. Se da una parte la tipologia lucana ha la funzione primaria di connotare le molteplici relazioni esistenti tra Gesù e le figure del passato, tra Gesù e i suoi discepoli, dall'altra essa tocca anche gli ebrei e i pagani (le nazioni). Non ho voluto ancora trattare queste corrispondenze, ma vi sarà l'occasione di ritornarci. Quanto alla tecnica della synkrisis, alla quale sono state dedica­ te queste pagine, non è certo la sola utilizzata da Luca. Mi auguro solo di aver mostrato il suo ruolo essenziale nella strutturazione del racconto lucano in tutte le sue dimensioni. Non c'è bisogno di aggiungere che questa tecnica sottolinea l'unità letteraria e teologi­ ca del dittico lucano. Nell'ultimo capitolo si vedranno, con l'aiuto di Le 15, le conseguenze decisive che la considerazione della synkrisis ha per l'interpretazione di numerosi passi di Luca/Atti. -

CAPITOLO 4 IL VANGELO E L'IMPLICAZIONE DEI SUOI ARALDI. UNA CERTA IDEA DI TESTIMONIANZA

D primo annuncio che il Vangelo di Marco mette sulla bocca di Gesù è molto generico: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vici­ no; convertitevi e credete al vangelo». Alcuni versetti dopo, lo stesso narratore segnala che Gesù inse­ gna in una sinagoga (cf. Mc 1,21), ma non fornisce alcuna informa­ zione sul contenuto della predicazione. Registra soltanto la reazione dell'uditorio, colpito nel sentire un insegnamento impartito con tanta autorità. Del resto, quando Gesù parla di sé è perché i suoi ascoltatori lo interrogano su ciò che ha fatto e detto, per affermare la sua autorità, ma senza grandi discorsi. E nel primo insegnamento di una certa lunghezza che il narratore riferisce, in Mc 4, Gesù non rimanda a se stesso, almeno direttamente. Il racconto marciano è in questo il riflesso fedele di quella che fu la predicazione del Maestro? Molti esegeti e teologi lo pensano; alcuni lo affermano perfino con forza: Gesù, «inviato di Dio, non cerca di distogliere da Dio l'atten­ zione dei credenti per attirarla su di sé: non si ha il diritto di impu­ targli una tale manovra. Egli cerca di far conoscere Dio così come si rivela per tutti parlandogli come un padre al proprio figlio» .1 Ma allora, come non essere colpiti dalla predicazione del terzo vangelo, Le 4,16-30, in cui Gesù non cessa di parlare di sé? Se è storicamente concepibile che Gesù voglia rivelare Dio senza attirare l'attenzione su se stesso, il racconto· lucano obbliga a riflettere, dal momento che

1 J. MoiNoT, L'homme

qui venait de Dieu, Paris 1993, 498.

106

Capitolo 4

ci mostra esattamente

il contrario. Come spiegare

questo importan­

te capovolgimento? Nel corso di questo capitolo si vedrà che, per

il narratore

luca­

no, gli araldi della buona novella non possono non parlare di se stes­ si. L'esempio tipico

è evidentemente quello di Gesù, ma questo vale 22 e 26, il cui racconto del proprio cammino è

anche per Paolo in At

esattamente equivalente a una testimonianza resa a Cristo e alle vie di Dio, quando «raccontare la propria vita» equivale a testimoniare il vangelo ! Cerchiamo quindi di vedere come _il narratore procede per far entrare progressivamente l'itinerario degli araldi nel conte­ nuto del vangelo. GESù, ARALDO E OGGETI'O DEL VANGELO

L'episodio di Nazaret (Le 4) Ho appena detto che, in quella che si

è soliti chiamare

l' «ome­

lia di Nazaret» , Gesù parla di se stesso, al punto che tutto nell'epi­ sodio mira a mettere in rilievo la sua identità profetica; ma bisogna aggiungere che ciò non avviene senza circonlocuzioni né ellissi. Infatti, Gesù non dice mai: «Quello di cui parla Isaia

sono io!».

Si

risponderà forse che, con la loro reazione di ammirazione, gli abi­ tanti di Nazaret hanno implicitamente compreso che

è

così. Ma

nelle affermazioni che seguono Gesù continua tuttavia a procedere per ellissi. Due volte ripete che i profeti Elia ed Eliseo furono invia­ ti a degli stranieri, e intende senza dubbio affermare che lo stesso avviene per lui: Elia (vv. 25-26)

C'erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone.

Eliseo (v. 27)

C'erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eli­ seo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman il Siro.

Gesù

Ci sono molti poveri e ciechi . . . a Nazaret, eppure nessuno di essi sarà evangelizzato, guarito [da me], ma i poveri e i malati di altre città e regioni.

Il Vangelo e l'implicllzione dei suoi araldi. . .

107

Ma Gesù non pronuncia le ultime tre righe della tavola! Proba­ bilmente i nazaretani non impiegano molto tempo per comprende­ re che egli non li vedeva come i destinatari del suo agire salvifico, e la loro speranza delusa si trasforma in rabbia, in proporzione a quanto il loro desiderio aveva di ambiguo, di possessivo - egli era il «loro» eroe. Desiderio del resto comprensibile: a memoria biblica, il loro villaggio non aveva ancora suscitato una grande figura, un pro­ feta o altro. Dopo tutto non erano loro, i disprezzati, i poveri di cui parlava Isaia? Comunque sia, il messaggio di Gesù viene colto, senza che quest'ultimo abbia avuto bisogno di fare nomi. Questo è il dato importante: il primo discorso di Gesù in Luca è interamente cristologico. In effetti, il narratore sa mettere in evidenza con molta abilità lo status profetico di Gesù: egli è consapevole di essere l'inviato escatologico, sa a chi è stato inviato, e lo dice in modo apodittico. Ho già commentato altrove la cristologia pregnante dell'episodio, perciò non è necessario ritornare sui dettagli. 2 Qui voglio soltanto sottolineare che la venuta e l 'identità del messaggero escatologico fa parte del vangelo, così come sarà importante sottolineare al capitolo 4 che i destinatari ne fanno ugualmente parte. Il narratore mostra infatti chiaramente che l'araldo è inseparabile dalla buona novella: rifiutare o rigettare Gesù significa precludersi la strada al messaggio e a ciò che esso permette di ricevere della salvezza di Dio. D'altra parte, i fedeli riuniti nella sinagoga di Nazaret sembrano essi stessi interessati tanto (se non di più ) alla persona di Gesù quan­ to al suo messaggio. La loro reazione comincia con l'essere molto positiva. Certo, molti esegeti interpretano negativamente la loro doman­ da, a causa dei suoi paralleli in Matteo e Marco:

lo di

1 Cf. J.-N. Aurrn , L'arte di riiCCOntan Guù Cristo. La scrittura narrativa del Vange­ Luca, Brescia 1991, 35-53.

108

Capitolo 4 Mt 13,54-57

Mc 6,2-3

La gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli?

Ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: «Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da nol" ?. ».

Non è egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi? Da dove gli vengono dunque tutte queste cose?».

E si scandalizzavano per causa sua.

Lc 4,22 Thtti gli rendevano

testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca

e dicevano: «Non è il figlio di Giuseppe?».

E si scandalizzavano di lui.

La tavola evidenzia che in Luca, a differenza di Marco/Matteo, gli ascoltatori all'inizio sono ben disposti: apprezzano il discorso di Gesù e la loro sorpresa è piena di ammirazione. Anche le loro parole sul­ l'origine di Gesù devono essere interpretate positivamente, e infatti così è stato, ma in due direzioni, a prima vista incompatibili. Alcuni hanno visto la domanda dei nazaretani come un riconoscimento obli­ quo; il «non è il figlio di Giuseppe?» equivale allora a qualcosa come «è figlio di suo padre» o meglio «non è forse uno dei nostri?».3 Il ver­ setto andrebbe allora nello stesso senso di Le 2,52, dove si diceva che «Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini»; gli abitanti di Nazaret conoscono perciò, per averle conosciute de visu, le qualità intellettuali e spirituali di Gesù, e raddoppiano la loro ammirazione nell'ascoltare la sua omelia. Altri esegeti insistono di più sulla distanza che provoca l'ammirazione dei nazaretani:4 ammirazio3 a. A. VANHOYE, 4>. Le 11,49-51: «Per questo la sapienza di Dio ha detto: Manderò a loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno; perché sia chiesto conto a questa generazione del sangue di tutti i profeti, versa­ to fin dali 'inizio del mondo, dal sangue di Abele fino al sangue di Zac­ caria, che fu ucciso tra l'altare e il santuario. Sl, vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione». Le 13,33: «Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io vada per la mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme». Le 13,34: «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te . . . ».

Sebbene Gesù sia pienamente consapevole del modo in cui i suoi correligionari trattano i profeti e quale sorte gli riservano, mai rinuncia a proporre loro la buona novella della salvezza, perché il

157

Il Vangelo e i suoi destinatari. . . tempo della conversione e del perdono

è

a portata di mano. La

denuncia dell'indolenza e, correlativamente, della violenza contro coloro che predicano la conversione indica l 'opportunità del momento: tutti in Israele sono invitati a udire la sua voce perché, attraverso di lui, anche se non

è Dio stesso che li interpella. Il modello profetico, è sufficiente a rendere conto di tutte le componenti del

mistero di Gesù, spiega, nonostante tutto, abbastanza bene l'evolu­ zione dei suoi rapporti con le élite del paese; non è la prima volta che un profeta accusa

i pastori

d 'Israele e annuncia la distruzione di

Gerusalemme. Quanto agli annunci della passione,21 non nascondono certo

il

ruolo dei capi religiosi, almeno il primo, ma non entrano nella serie delle dichiarazioni polemiche appena rilevate, per

il

genere e per

il

contenuto. Gesù non li pronuncia sotto minaccia - non sono narrati­ vamente legati a una pressione di nemici sanguinari o pieni di odio. Inoltre si può notare che chiamano sempre meno

in causa i capi del

popolo che lo consegneranno:

Le 9,22: «D Figlio dell'uomo, disse, deve soffrire molto, essere riprova­ lo dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte ». Le 9,44: «Il Figlio dell'uomo sta per esser consegnato in mano degli uomini». Le 18,32: «Sarà consegnato ai pagani, schernito, oltraggiato, coperto di sputi e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno . . » . . . .

.

Il primo annuncio presenta la lista delle autorità implicate, ma esse si limitano a rigettarlo - non si dice che lo consegneranno e ne chiederanno la morte; il secondo e

il

terzo usano il passivo: «Sarà

consegnato», senza che venga specificato da chi esattamente, segno che non

è

l'elemento essenziale. Gesù annuncia le sue sofferenze

non per accusare coloro che lo respingeranno, ma piuttosto per esprimere il significato del suo viaggio verso Gerusalemme e per cri­ stologizzare tutto l 'itinerario. 22

ll

Cf. Le 9,22; 9,43-45; 18,31-34. Su questi problemi, cf. J.AN. ALE:m, Gesù Cristo: unità del Nuovo Testamento?, Roma 1993, 177-195. 22

158

Capitolo 5

È possibile tuttavia vedere delinearsi o abbozzarsi, nelle affer­ mazioni di Gesù, una teologia della sostituzione, nel senso che, come beneficiario della salvezza, il popolo d'Israele sarebbe rimpiazzato da altri? È vero che in molte parabole Gesù annuncia la destituzio­ ne di coloro che l 'hanno rifiutato e hanno voluto la sua morte. Se è possibile non vedere necessariamente negli invitati che vengono meno (cf Le 14,15-24) un'allusione ai soli membri del popolo eletto, lo stesso non si può dire per quella del re (cf Le 19,12-27) che fa ucci­ dere in sua presenza i concittadini ribelli, o per quella dei vignaioli omicidi (cf. 20,9-19) rimpiazzati da altri e a loro volta messi a morte. D'altra parte il narratore non lascia dubbi sull'applicazione della parabola, notando che gli stessi ascoltatori ne hanno compreso la portata: Gli scribi e i sommi sacerdoti cercarono allora di mettergli addosso le mani, ma ebbero paura del popolo. Avevano capito che quella parabo­ la l'aveva detta per loro (Le 20,19).

Non bisogna comunque interpretare il finale della parabola lucana con l'aiuto di quella di Matteo, dove Gesù dichiara: «Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare» (Mt 21,43); in Le 20,16, egli dice soltanto che il proprietario (Dio) della vigna «Verrà e manderà a morte quei coltivatori, e affiderà ad altri la vigna)). Il Gesù di Luca parla certamente di sostituzione, ma solo dei responsabili religiosi del popolo,23 mentre in Matteo si trat­ ta di insiemi più ampi, di popoli, di cui uno rimpiazzerà l'altro. Non è possibile quindi trovare in Luca una teologia della sostituzione: durante il ministero di Gesù, il popolo resta il primo beneficiario del­ l'annuncio della salvezza. Del resto Gesù non si reca presso i pagani, il che fa riemergere la questione sollevata sopra: facendo riferimento a Elia ed Eliseo, Gesù lasciava supporre che il suo agire salvifico avrebbe avuto i

23 Circa l'identità dei sostituti, si presentano almeno due possibilità, sulle quali gli esegeti esitano a scegliere: l ) quella di un cambiamento interno al popolo ebraico e posteriore a Iabne, quando tutta l'autorità cesserà di essere sacerdotale e passerà nelle mani dei rabbini; 2) o il passaggio all'autorità degli apostoli, incaricati ormai di guidare il popolo di Dio.

Il Vangelo e i suoi destinatari. . .

pagani come primi destinatari; invece resta nel suo paese. Si può par­ lare di incoerenza? Al seguito dei commentari, si può rispondere che il narratore lucano ha omesso l'episodio della cananea per evitare che Gesù dichiarasse in esso, come in Mt 15,24: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d 'Israele». Senza scartare questa soluzione, pienamente pertinente, notiamo che, pur ometten­ do questo episodio, Luca avrebbe potuto raccontarne altri per mostrare la preoccupazione di Gesù di esprimere, con la sua presen­ za presso i pagani, che erano anch'essi beneficiari della misericordia divina. In realtà, è più indicato considerare alcuni elementi significa­ tivi del racconto lucano. l) Se Gesù non si reca a far visita agli stra­ nieri non vuoi dire che rifiuti di guarirli, che li dimentichi o li consi­ deri incapaci di credere in lui. In effetti, quelli che egli addita come esempio ai suoi correligionari, sia per l'agire che per la fede, sono degli stranieri, eretici samaritani e pagani.24 E non bisogna sottova­ lutare la dimensione prolettica di questi esempi, con i quali Gesù indica ai membri del suo popolo l'accoglienza che sarà riservata al vangelo da parte dei samaritani e dei pagani. 2) Correlativamente, Gesù non dice mai di essere stato inviato solo ai suoi compatrioti o correligionari. L'universalismo della sua missione emerge chiara­ mente nella dichiarazione che fa in seguito al suo incontro con Zac­ cheo: «Il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Le 19,10). Si obietterà forse che egli intenda con questo i soli israeliti, secondo quanto dice egli stesso di Zaccheo: «Perché anch'egli è figlio di Abramo» (Le 19,9). Ma il modo in cui le due frasi sono articolate vieta di vedere in esse una dichiarazione ristretta. In effetti, proprio perché è venuto a salvare tutti quelli che sono perdu­ ti, israeliti, samaritani o pagani, Gesù deve ristabilire nella sua digni­ tà di figlio un israelita peccatore: se tutti i peccatori sono oggetto della sua misericordia, allora dovrà ben esserlo anche un membro peccatore del suo popolo! 3) Gesù ha voluto dare l'avvio alla missio­ ne presso i pagani solo dopo la sua risurrezione, perché con essa egli è diventato Signore di tutti, e lascia ai suoi discepoli la responsabili-

24 Per l'agire, cf. Le 10,29-37, la parabola detta del buon samaritano, e per la fede, Le 7,9; 17,11-19.

160

Capitolo 5

tà di essere testimoni di lui, del suo itinerario, davanti a tutte le nazioni senza eccezione alcuna, perché queste sono le destinatarie del vangelo (cf. Le 24,47-48; At 1 ,8). Luca, quindi, riserva la missione presso i pagani per la seconda tavola del suo dittico, cioè il libro degli Atti; infatti è lì che tratta in modo privilegiato la questione del rap­ porto d'Israele con le nazioni. Ricordando ai nazaretani gli esempi di Elia ed Eliseo, Gesù non ha voluto perciò dire che sarebbe andato di persona ad annunziare la venuta del regno di Dio ai pagani, ma che questi ultimi erano anch'essi beneficiari della salvezza, perché Dio, libero nei suoi doni, può inviare i suoi messaggeri a guarire chi vuole. E noi abbiamo sopra dimostrato che il discorso di Nazaret annunciava anche il ministero di Paolo presso le nazioni pagane, e che la tipologia che metteva in atto era quindi più ampia di quanto vi potesse apparire.

Passione e apparizioni del Risorto .,, La cospirazione ordita contro Gesù è senz'altro opera delle autorità ebraiche, che, per questo fatto, si separano dal popolo, che letteralmente «pendeva» dalle labbra di Gesù (Le 19,48); non si può però concludere che, durante il processo, il popolo resti lontano dal dramma e indenne da ogni responsabilità. Infatti, all'inizio del pro­ cesso davanti a Pilato solo le autorità - il sinedrio - sono presenti e attive, accusando Gesù di sollevare il popolo (cf. Le 23,5), mentre quest'ultimo è assente. Invece, dopo che Gesù è ritornato dal palaz­ zo di Erode, Pilato convoca «i sommi sacerdoti, i capi e il popolo» (Le 23,13), perché tutti siano messi a confronto sull'accusa di sedi­ zione. Il procuratore ha davanti a sé un gruppo gerarchizzato, strut­ turato, non una semplice moltitudine informe: la sua testimonianza diventa perciò più importante e ufficiale e tale è appunto lo scopo ricercato da Pilato. Ma è quando deve pronunciarsi ufficialmente su Gesù che il popolo fa causa comune con i suoi leader: «A morte costui! Dacci libero Barabba!» (Le 23,18). Ho già mostrato altrove la verità paradossale della scena: nel momento in cui grida: «A morte!» con le autorità, il popolo testimonia la falsità delle accuse fatte nei confronti di Gesù; infatti, come avrebbe potuto quest'ultimo solleva­ re contro i romani questo popolo che, lungi dall'essere sedotto, -

Il

Vangelo e i suoi destinatari. . .

161

domanda la sua morte?25 Che il popolo sia a sua insaputa testimone dell'innocenza di Gesù, non impedisce che sia immischiato nel dram­ ma e accresca la menzogna delle autorità. Il narratore vuole perciò stigmatizzare la responsabilità di tutti in Israele? Molti indizi mostrano che in realtà Luca non vuole accusare in particolare né le autorità né il popolo. 1) Pilato e i soldati romani sono implicati al pari dei correligionari di Gesù: il primo per la sua viltà,26 i secondi per i loro sadici schemi.27 E che dire del discepolo che lo tradisce? 2) Ai piedi della croce sono numerosi coloro che rico­ noscono che la morte di Gesù è ingiusta e costituisce una grande disgrazia: le donne di Gerusalemme piangono (cf. Le 23;27-31) e le folle venute al Calvario per lo spettacolo se ne tornano battendosi il petto, gesto che esprime dolore e rimorso (cf. Le 23,48). 3) Se nel rac­ conto lucano delle scene ai piedi della croce si possono rilevare parecchi motivi delle suppliche del giusto perseguitato,28 altri tratti denotano una prospettiva nettamente diversa. Dio non è assente, ma molto vicino, e Gesù si abbandona a lui con totale fiducia. E se la sua innocenza viene confessata a voce alta solo dal centurione, implicita­ mente è riconosciuta dalle folle che se ne tornano pentite. Solo i capi religiosi e i soldati non confessano la loro colpa. Ma la ragione di ciò è strutturale: se non ci fossero più oppositori, Gesù non sarebbe più accusato ingiustamente, e la sua costanza, la sua innocenza non potrebbero così apparire agli occhi di tutti gli altri attori del dramma. n modello scelto da Luca per raccontare questi eventi, quello dell'in­ nocente che per la sua costanza nelle prove si vede riconosciuto giu­ sto proprio alla fine, questo modello, dicevo, esige che ci siano dei nemici irriducibili fino alla morte, perché possa manifestarsi l 'inno­ cenza di Gesù. L'accusa di Luca nei loro riguardi è ancora meno forte visto che Gesù stesso, l'innocente e il giusto, chiede di perdonare a tutti, accusatori e carnefici, «perché non sanno quello che fanno» (Le 23,34). 4) Non va dimenticato anche che il racconto lucano insiste

25 Cf. ALETn, L'arte di raccontare, 142. Cf. ALE:rn, L'arte di raccontare, 144-145. 21 Cf. Le 23,36-37. 28 Questi tratti sono dominanti in Matteo e Marco. Cf. ALBTn, L'arte di racconttue, 132-137; ID., Gesù Cristo: unità del Nuovo Testamento?, 173-177. 26

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Capitolo 5

troppo sulla necessità teologica nella quale si trovava Gesù di passa­ re attraverso le sofferenze,29 per sottolineare uniformemente i pesi della menzogna e della malvagità degli altri attori del dramma. Queste osservazioni invitano fortemente a concludere che l'ac­ cusa di antigiudaismo mossa al terzo vangelo è per lo meno anacro­ nistica. Anche solo a livello lessicale, l'appellativo non è giustificato, poiché in Luca il termine «giudei» è usato solo da non giudei30 o in relazione a essi.31 In breve, Luca non scrive da straniero, ma come se lui stesso e il suo lettore appartenessero al popolo ebraico; a questo riguardo, l'aggiunta «città dei giudei>> in Le 23,51 è l'eccezione che conferma la regola. È sufficiente qui menzionare il primo episodio del vangelo - dato che l'inizio di un racconto è rivelatore della pro­ spettiva scelta dal narratore -, che comincia alla maniera dei raccon­ ti della LXX scritti nel periodo ellenistico: Tobia 1,1-2

Ester greco 1,1

Le 1,5

Libro della storia di Tobi, figlio di Tòbiel, figlio di Anàniel, figlio di Aduel, figlio di Gàbael, della discen­ denza di Asiel, della tribù di Nèftali. Al tempo di Salmanàssar, re degli Assiri . . .

Nel secondo anno del regno del gran re Assuero, il primo gior­ no di Nisan, Mardo­ cheo, figlio di Iair, figlio di Simei, figlio di Kis, della tribù di Beniami­ no, ebbe un sogno. Era un giudeo che abitava nella città di Susa . . .

Al tempo di Erode, re

della Giudea, c'era un chiamato sacerdote Zaccaria, della classe di Abìa, e aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Eli­ sabetta.

L'importante qui è che Luca descrive degli eventi che hanno appassionato gli abitanti di Gerusalemme, della Giudea e della Gali29

24,7 .44.

Sul «bisogna» delle sofferenze di Gesù in Luca, cf. ad es. Le 9,22; 17,25; 22,37;

30 Cosi in Le 23,3 (Pilato a Gesù: «Sei tu il re dei giudei?»); 23,37 (i soldati romani: «Se sei il re dei giudei, salva te stesso»; romani perché non dicono la stessa cosa dei giu­ dei presenti: «Se è il Messia di Dio, l'Eletto»); 23,38 (anche l'iscrizione sulla croce non può essere stata scritta che da non giudei: «Quest'uomo è il re dei giudei»). 31 Così procede il narratore, in Le 7,3, dove il centurione invia a Gesù dei notabili giudei, e in 23,51, dove, per i suoi lettori (non ebrei e poco familiari con la geografia della Terra santa) che non sapevano dove si trovasse il villaggio di Arimatea, aggiunge «una città dei giudei».

Il

Vangelo e i suoi destinatari. . ..

163

lea. Quando i due discepoli dicono a Gesù, che si è unito a loro sulla strada per Emmaus: «Tu solo sei cosi forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?» (Le 24,18) riflet­ tono l'opinione del narratore, per il quale l'arresto e la morte in croce di Gesù - forse rievocati al momento deU'arresto di Paolo ­ risuonano ancora alle orecchie di molti in Israele. Ma se è così, e se il narratore si rivolge anche a questi, per testimoniare davanti a tutti loro, abbiamo un ulteriore motivo per respingere l'antigiudaismo del suo racconto, a meno che non si voglia ammettere che egli si rivolga a essi per provocare la loro ira. Riconosciamo tuttavia che al narra­ tore, oltre al talento, era necessaria_ l'onestà per testimoniare in favo­ re dell'innocenza e della giustizia di Gesù, senza incolpare oltre misura coloro che l'avevano accusato e consegnato. Le 24, conclusione del primo racconto di Luca, serve ancora al nostro scopo, in quanto il capitolo mostra che, nonostante il rifiuto di cui fu oggetto da parte degli abitanti di Gerusalemme e delle autorità religiose in particolare, Gesù, lungi dal rispondere allo stes­ so modo, ne fa i primi beneficiari della buona novella (Le 24,47). 1n questa reazione si evidenzia chiaramente l 'innocenza che perdona. GLI ATII DEGU APOSTOLI parole che Gesù rivolge ai suoi apostoli prima di essere assunto in cielo sono considerate da molti commentatori come un annuncio della composizione degli Atti, determinata dalle successi­ ve aree geografiche della testimonianza: Gerusalemme, la Giudea, la Samaria e, da lì, fino agli estremi confini della terra (cf. At 1 ,8). Senza rifiutare quanto questa ipotesi abbia di pertinente, ricordia­ mo soltanto che la serie riprende, precisandola, quella di Le 24,47: gli ebrei del paese di Gesù restano i primi destinatari della predica­ zione apostolica. Gesù ripete il suo ordine, e gli apostoli sono invi­ tati a realizzarlo. Si sarà notato di passaggio che, tenuto conto dei destinatari della testimonianza, le affermazioni di Gesù, pur essendo alquanto vaghe, autorizzano parecchie conclusioni. Essendo gli abitanti di Gerusalemme e della Giudea nella loro grande maggioranza mem­ bri del popolo eletto, gli apostoli dovranno cominciare con l'andaLe

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re verso di loro, per essere testimoni di Gesù, della sua risurrezio­ ne e della coerenza del suo itinerario. Ma dal momento che i giu­ dei non mettevano piede in Samaria, se i missionari vi dovevano andare non era certo per evangelizzare dei giudei, ma degli eretici: menzionando questa regione, Gesù ampliava implicitamente i destinatari della buona novella. Il terzo elemento della serie («fino agli estremi confini della terra�) intende designare forse i soli ebrei della diaspora o anche i pagani? La precedente menzione della Samaria permette di comprendere che l'ampliamento non è solo geografico, ma anche religioso: se da una parte gli apostoli devono annunciare Gesù agli ebrei della Palestina, dall'altra sono invitati ad ampliare il loro raggio d'azione anche ad altri, eretici e pagani. Vediamo in che modo essi hanno compreso ed eseguito l'ordine del loro maestro. l primi discorsi degli Atti

Il giorno di Pentecoste Pietro si rivolge chiaramente ai suoi cor­ religionari. Non era certamente facile annunziare che Gesù era il Cristo a persone che per la maggior parte - almeno gli abitanti di Gerusalemme - erano state gli attori del dramma e avevano grida­ to: «A morte!». Come non provocare la loro esasperazione, come attirare la loro attenzione e introdurle al mistero della risurrezione? Nascondendo forse la loro responsabilità? Sminuendola? Evitando di parlare di questo dramma? Ora, lungi dal minimizzare il ruolo dei suoi correligionari, Pietro sembra al contrario sottolineare solo quello: «Voi l'avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l'ave­ te ucciso>> (At 2,23). Sono loro i soggetti dei verbi «inchiodare» e «uccidere», mentre i pagani ne sono solo uno strumento, una sem­ plice mano. Comunque il climax del discorso dell'apostolo non è l'accentuazione dell'agire mortifero dei gerosolimitani, ma, dopo averlo brevemente menzionato, opporre a esso quello di Dio, che ha risuscitato Gesù, e provocare così con l'aiuto della Scrittura una riflessione sulla necessità teologica e la realtà di questa risurrezio­ ne. Certo, il discorso termina ritornando sugli ascoltatori («quel Gesù che voi avete crocifisso�, At 2,36b) , ma questo ritorno ha una funzione retorica, quella di invitarli a reagire, a esprimere il loro

165

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pentimento, e con ciò la loro fede nel Risorto. Se i gerosolimitani sono già i destinatari del messaggio della risurrezione, ne sono anche i beneficiari, nella misura in cui per essi è la promessa dello Spirito (cf. At 2,39), e il dono dello Spirito è legato alla risurrezione di Gesù (cf. At 2,33). Si sarà notato che Pietro, se da una parte non tace l'agire dei suoi correligionari, dali' altra non dice nulla della loro responsabilità, qualificando questo agire come ingiusto o peccaminoso. Eppure il narratore nota che alla fine gli ascoltatori si sentono trafiggere il cuore (cf. At 2,37) e che devono pentirsi (cf. 2,38). Soltanto dopo che sono stati sconvolti dalle parole di Pietro, quest'ultimo affronta la questione della loro conversione, ma senza infierire su di essi; infat­ ti la sua intenzione è di insistere soprattutto sulla mediazione cristi­ ca, sulla remissione dei peccati in/per Gesù. Nel discorso - rivolto questa volta al popolo32 - che segue la guarigione dello storpio, Pietro insiste ora sull'ingiustizia del loro agire e, in opposizione, sull'innocenza di Gesù: , Il Dio di Abramo, di lsacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, avete chiesto che vi fosse graziato un assassino e avete ucciso l'autore della vita.

È vero quindi che l'apostolo insiste perciò sempre di più sull'in­ giustizia del popolo e, per opposizione, sulla giustizia di Gesù? Ora, alcuni versetti dopo, ecco che egli aggiunge: «Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, così come i vostri capi» (At 3,17); Pie­ tro riprende qui le parole di Gesù in croce (Le 23,34) L'ignoranza, se relativizza la responsabilità, certamente non la sopprime; infatti, anche se ignoravano che Gesù era il principe della vita e il Figlio di Dio, sapevano almeno che le loro accuse erano false, che Barabba era un assassino, ecc. Ma paradossalmente Pietro fa di questa igno­ ranza e del dramma che ne scaturisce uno strumento del disegno di .

32 n narratore, lo ripetiamo, usa «popolo» quando è nel tempio (cf. Le 1 ,10.21; Le 19,47-21,38), perché è come popolo di Dio, dell'alleanza, che essi pregano e offrono sacri­ fici. Non sorprende quindi sentire qui Pietro parlare di alleanza in At 3,25.

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«Dio [che] ha adempiuto così ciò che aveva annunziato in preceden­ za» (At 3,18): la messa in croce di Gesù, invece di allontanarli dal­ l'opera salvifica - maledicendoli -, ne fa al contrario i primi benefi­ ciari: «Dio, dopo aver risuscitato il suo servo, l'ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione e perché ciascuno si converta dalle sue iniquità» (At 3,26). In breve, nel momento stesso in cui Pietro ricorda al popolo e ai suoi capi la loro responsabilità, dice loro che essi restano i beneficia­ ri della promessa fatta ai loro padri, purché si pentano e credano in colui attraverso il quale soltanto potranno ottenere il perdono: Gesù risorto. Il ritornello è lo stesso degli altri discorsi di Pietro davanti al sinedrio (cf. At 4,10-12; 3,30-31). Le persecuzioni e i primi annunci ai pagani O

gente testarda e incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo! Come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi ucci­ sero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli e non l'avete osservata (At 7,51-53).

Così Stefano conclude il discorso che causerà la sua morte. Pro­ babilmente il narratore utilizza questa dichiarazione forte, che riprende quelle dei profeti perseguitati e messi a morte dagli israeli­ ti di allora, per abbozzare il tema della persecuzione della Chiesa,33 quasi sicuramente condotta dalle autorità e dagli abitanti di Gerusa­ lemme. Ma non nomina i persecutori, eccetto Saulo (cf. At 8,3), e ne abbiamo vista la ragione alla fine del capitolo precedente.34 Questo vuole certamente dire che la persecuzione è reale, e, se provoca la dispersione dei discepoli in Giudea e Samaria, il narratore si mostra interessato, più che a quelli che la istigano o la conducono, agli effet-

33

--·

Il verbo «perseguitare» (di6k6) è usato per la prima volta da Stefano in At 7,52, immediatamente ripreso dal narratore, con il sostantivo «persecuzione» (diogmos) in 8,1 . Per le altre ricorrenze, cf. At 9,4.7-8; 13,30; 22,4.7-8; 26,1 1.14-15. 34 Cf. p. 139, su Paolo come esempio della conversione che deve operare il popolo d'Israele.

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ti positivi che provoca: la conversione di Saulo e la chiamata dei pagani. Si obietterà forse che non c'è alcun nesso di causa ed effetto tra la persecuzione scatenata proprio dopo la lapidazione di Stefano e le conversioni di Saulo e di Cornelio. In realtà, per i due attori, il legame narrativo è evidente, l) perché è nella sua intenzione perse­ cutoria contro i discepoli dispersi che Saulo incontra il Risorto sulla via di Damasco, 2) perché con la prima persecuzione e la conversio­ ne del primo pagano iniziano le due reazioni che d'ora in poi scan­ diranno l'annunzio del vangelo, da una parte il rifiuto e la persecu­ zione degli ebrei e dall'altra l'adesione dei pagani. In effetti, se fino alla morte di Stefano sono state solo le autori­ tà - i sommi sacerdoti del partito dei sadducei e il sinedrio35 - a minacciare i discepoli di Gesù, mentre il popolo è stato loro favore­ vole36 e molti in Gerusalemme hanno creduto nel vangelo/7 questo stesso popolo cambia ora atteggiamento, come constata lo stesso Pietro in At 12,11, quando viene liberato miracolosamente dalla pri­ gione: «Ora sono veramente certo che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che si attendeva il popolo dei giudei». L'aggiunta «dei giudei» è interessan­ te dal punto di vista semantico, perché se in Luca Gesù e i suoi disce­ poli non erano estranei al popolo eletto, ora gli apostoli e lo stesso narratore sembrano allontanarsene; la moltiplicazione del vocabolo giudei negli Atti, soprattutto a partire dal capitolo 10, deriva certa­ mente dal fatto che i pagani cominciano a entrare nella Chiesa, ma anche dal crescente antagonismo dei membri del popolo eletto, anche al di fuori della stessa Giudea. La violenta reazione degli ebrei di Gerusalemme non impedisce affatto ai missionari di continuare ad andare nelle sinagoghe . ovun­ que si disperdano, perché sperano proprio di vedere gli ebrei della diaspora accogliere la loro predicazione meglio di quanto abbiano fatto i gerosolimitani. Anzi, in un primo tempo, essi predicano unica­ mente agli ebrei (cf. At 11,19). Ma col crescere delle conversioni dei pagani gli apostoli si vedono obbligati a inviare loro Barnaba, che 35 Cf. At 36 Cf. At 37 Cf. At

5,17 (sadducei) e 4,3.7; 3,18.27-28 (sinedrio). 2,47; 3,11; 4,21; 5,26; 6,8. 2,41; 4,4; 6,7.

168

Capitolo 5

recluta Saulo: nasce così progressivamente la missione ai pagani. Tht­ tavia i predicatori continuano, ogni sabato, ad andare nelle sinago­ ghe per insegnare e discutere con i loro correligionari, che restano i destinatari privilegiati del messaggio evangelico (At 13,33.46); del resto Paolo non trascura mai di andare nelle sinagoghe.38 Paolo e i destinatari del vangelo Il narratore segnala espressamente che è a causa del successo riscosso da Paolo e Barnaba, quindi per gelosia, che gli ebrei di Antiochia di Pisidia rifiutano la loro predicazione (cf. At 13,45); al che i due missionari dichiarano per la prima volta che si rivolgeran­ no ai pagani: Era necessario che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo ai pagani. Cosl infatti ci ha ordinato il Signore: Io ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza sino all' estremità della terra (At 13,46-47).

È con queste parole pubbliche che ha quindi inizio la missione ai pagani. Certo, la dichiarazione sembra indicare che i pagani rim­ piazzino gli ebrei come destinatari del vangelo e che la strategia della missione abbia preso una svolta nuova. La citazione biblica invocata, ls 49,6, invita però a vedere il gesto dei due missionari come un'obbedienza alla volontà eterna di Dio: non è soprattutto o soltanto perché gli ebrei di Antiochia rifiutano la loro predicazione che essi si dirigono verso i pagani, ma perché Dio aveva voluto e annunciato attraverso i profeti la loro accoglienza del vangelo. Ma non bisogna dimenticare che Paolo continua ad andare nelle sinagoghe per discutere con gli ebrei, e che l'adesione di questi ulti­ mi al vangelo non cessa da un momento all'altro (cf At 14,1; 21,20). Ciò significa che la decisione di Paolo e di Barnaba è puntuale, che vale per la città di Antiochia di Pisidia dove predicano, ma non suona come un principio immutabile, «una volta per tutte». Lo sce-

38

C1 At 9,20.31; 13,5.14; 14,1; 17,1-2.10.17; 18,4.5.19; 19,8.

Il Vangelo e i suoi destinatari. . .

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nario è del resto più o meno lo stesso nella maggior parte delle città della diaspora in cui Paolo passa:39 l) inizia col predicare nelle sinagoghe del luogo (cf 13,14; 14,1; 17,2.10.17; 18,4.19); 2) dove incontra un'accoglienza favorevole, almeno presso alcu­ ni (cf. 13,43; 14,1 ; 17,4.11-12; 18,20); -3) mentre altri imprecano o almeno istigano la gente del posto contro di loro (cf. 13,44-45; 14,2; 17,5.13; 18,6; 19,9); 4) davanti al loro rifiuto, Paolo dichiara che si rivolgerà ai paga­ ni (cf. 13,46-47; 18,6); 5) gli ebrei passano alla persecuzione, portando Paolo o i cristia­ ni davanti al tribunale, o attentando perfino alla loro vita (cf. 13,50; 14,5.19; 17,13; 18,12-17; 20,3); 6) obbligando così i missionari a cambiare città (cf. 13,31; 14,6.20; 17,10.14-13; 20,3). Gli ebrei restano perciò, fino all'arresto di Paolo, i primi desti­ natari del vangelo; solo dopo la loro animosità o il loro rifiuto Paolo decide ogni volta di rivolgersi ai pagani. Ciò non significa che i mis­ sionari considerino i pagani dei destinatari di seconda classe - essi hanno ricevuto lo Spirito Santo esattamente come i credenti di ori­ gine ebraica40 -, ma che ci tengono a rivolgersi in primo luogo a colo­ ro che possono, per la loro fede nel Dio dei padri e per la loro cultu­ ra biblica, riconoscere in Gesù di Nazaret il Messia di Dio e il salva­ tore di tutti. Questa costante priorità accordata agli ebrei non va certo con­ tro le parole di Gesù o contro le visioni che hanno chiesto a Pietro e Paolo di andare dai pagani. E le tracce di dualismo che si possono cogliere nel racconto lucano derivano dal fatto che, in funzione degli attori o del rapporto narratore/destinatario, il punto di vista espres­ so non è lo stesso. Il piano di Dio è inglobante da sempre, nel senso che Dio voleva la salvezza di tutta l'umanità, ebrei e non ebrei.

39 Riprendo qui per comodità le sei tappe descritte da A. VANHOYE, «Les juifs selon les Actes des apòtres et les épitres du Nouveau Testament», in Bib 72(1991), e identifica­ bili in molti episodi. 40 Ci si ricorderà che questo è l'argomento principale addotto da Pietro. Cf. At 1 1,13-18; 13,8-11.

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Capitolo 5

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INDICE DEI PASSI STUDIATI

TERZO VANGELO

(Le)

Le 1-3 Lc 4 Le 15,1-10 Le 15,11-32 Lc 22 Le 23,34.46 Lc 24

145-150 106-113 132 150-152 208-216 181-217 84 44 57 81 182-184

ATTI DEGLI APOSTOLI (AT) At 1-12 At 7,55-56 At 8,26-40 At 9 At 10 At 13-28 At 22 At 23,11 At 26 At 27,9-28,11 At 28,17-31

75-76 44-45 56-61 51-56 118-137 51-56 75-76 83-84 1 17-137 138-142 170-171 43 137-142 170-171 85-102 92-102 171-180

INDICE

Prefazione

alla seconda edizione ... . ........ .............. .... ........ ....... p. .

INTRODUZIONE NARRAZIONE E TEOLOGIA LucA: UN NARRATORE DEGNO DI QUESTO NOME? QUALE METODO ?

5

I L DITTICO LUCANO

»

7 7 8 11 12

L'ITINERARIO PROPOSTO IL TESTO DEGLI ATI'I DEGLI APOSTOLI

))

13

»

• • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • •• •

»

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14

CAPITOLO 1 UNA TEORIA PELLA TESTIMONIANZA CoNDIZIONI E COMPONENTI DELLA TESTIMONIANZA QuALI TESTIMONI E QUALE TESTIMONIANZA ? TESTIMONIANZA E SPIRITO SANTO CoNCLUSIONE CAPITOLO 2 QUALE POSTO PER DIO NEL RACCONTO LUCANO? VOCI CELESTI, VISIONI E APPARIZIONI L'INIZIATIVA DIVINA E SUA INTERPRETAZIONE LE TEOFONIE DI CONFERMA . QUANDO IL CIELO NON PARLA ? LA FUNZIONE DEGLI INTERVENTI CELESTI

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»

. . . • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • ••

17 18 22 26 32

35 36 40 41 46

50

242

Indice LE SCELTE DI

Dio

p.

L'INIZIATIVA DIVINA E IL SUO RICONOSCIMENTO VIE

. . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . .

»

51 54

»

61

»

68

»

)) ))

71 72 75 79 82

AT 27,9-28,11 ............................................ ))

85

LA PROCLAMAZIONE DELLE

R.ACCON10 E PIANO DIVINO DI

DIVINE

SALVEZZA

3 GESÙ E I DISCEPOLI. LE RAGIONI DI UN PARALLELISMO

CAPITOLO

I L PARALLEUSMO, TECNICA DOMINANTE IN

I PARALLELISMI TRA PIETRO E PAOLO IL PARALLEUSMO

TRA

ESTENSIONE DELLA

LucAIATTI .. . . . ... . . . . ... . . . . . . . . . . . . .

. . . . ... .

PIETRO, GLI APOSTOLI E

IL PARALLELISMO TRA GESÙ LA FUNZIONE DI

...... ......... .............

E

PAOLO

•••••••

GESù

. . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . .. .

»

SYNKRISJS: 90 92 97

LA FUNZIONE DEL PARALLEUSMO: IMITARE PAOLO? IL FINALE DEL LIBRO DEGU

Am

SYNKRISIS E TIPOLOGIA CoNCLUSIONE

CAPITOLO

»

102

»

»

105 106 117 143

»

145

4

IL VANGELO E L'IMPLICAZIONE DEI SUOI ARALDI. UNA CERTA IDEA DI TESTIMONIANZA GESù, ARALDO E OGGETIO DEL VANGELO . . . . . .. . . . . . . . . . . .. . .. . . . . . . . . LA PARADOSSALE TESTIMONIANZA DI PAOLO IN AT 22 CoNCLUSIONE

5 VANGELO E I SUOI DESTINATARI. ISRAELE E LE NAZIONI IN LUCA/Am IL RACCONTO EVANGELICO (LucA) GLI ATII DEGLI APOSIDLI

» »

CAPITOLO IL

••••••••••• •••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••

6 IL RACCONTO COME TEOLOGIA. IL PADRE E I DUE FIGLI: Le 15,11-32

146 )) 163

»

CAPITOLO

LA COMPOSIZIONE DEL PASSO

GLI ATIORI E LE I..ORO RELAZIONI

......................... ............... . .

)) 181 )) 182 )) 187

243

Indice LA PARABOLA NEL MACRO-RACCONTO. L'INTERTESTUAUTÀ LUCANA AL DI LÀ DEL CONCETI'O, IL RACCONTO

• • • • • • • • • • • •• • • • • • • • • • • • • • • . . . .

...

p. 208 » 216

CoNCLUSIONE

QUALE TIPO DI RACCONTO IN LUCA? AllEGATO 1: LA COMPOSIZIONE DEL LIBRO AllEGATO 2: GRIGLIA DI LEITURA

DEGU

»

ATri

)) 224 )) 225 )) 231

BIBLIOGRAFIA INDICE DEI PASSI STUDIATI

219

. . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . .

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239