Scritti di filosofia e religione 1792-1806. Testo tedesco a fronte 8830101036, 9788830101036

I testi presentati in questo volume documentano il percorso intellettuale e religioso del giovane Schleiermacher dalle p

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Sommario
Etica e religione nei primi scritti di Schleiermacher di Davide Bondì
1. L’esperienza pietistica
2. Le rapsodie filosofiche
3. Il valore della vita
4. I discorsi sulla religione
5. I monologhi
6. La festa di Natale
Riferimenti bibliografici dell’introduzione
Cronologia della vita e delle opere
Nota editoriale
SCRITTI DI FILOSOFIA E RELIGIONE 1792-1806
Il valore della vita [1792-93]
Sulla religione. Discorsi a quelle persone colte che la disprezzano [1799]
Primo discorso. Apologia
Secondo discorso. L'essenza della religione
Terzo discorso. L'educazione alla religione
Quarto discorso. La socievolezza della religione o la Chiesa e il sacerdozio
Quinto discorso. Le religioni
Monologhi. Un dono di Capodanno [1800]
Presentazione
I. Riflessione
II. Verifiche
III. Visione del mondo
IV. Prospettive
V. Giovinezza e vecchiaia
La festa di Natale. Un dialogo [1806]
Note ai testi
Il valore della vita
Sulla religione. Discorsi a quelle persone colte che la disprezzano
Monologhi. Un dono di capodanno
La festa di Natale. Un dialogo
APPARATI
I. Bibliografia
II. Indice dei nomi
III. Indice generale
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Scritti di filosofia e religione 1792-1806. Testo tedesco a fronte
 8830101036, 9788830101036

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BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE Collana fondata da

GIOVANNI REALE diretta da

MARIA BETTETINI

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FRIEDRICH D.E. SCHLEIERMACHER SCRITTI DI FILOSOFIA E RELIGIONE 1792-1806 IL VALORE DELLA VITA – SULLA RELIGIONE. DISCORSI A QUELLE PERSONE COLTE CHE LA DISPREZZANO – MONOLOGHI. UN DONO DI CAPODANNO – LA FESTA DI NATALE. UN DIALOGO

Testo tedesco a fronte A cura di Davide Bondì

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE

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In copertina: Friedrich Schleiermacher in un disegno di H. Lips, 1899 © Quagga Media / Alamy Stock Photo / IPA Progetto grafico generale: Polystudio Copertina: Zungdesign

ISBN 978-88-587-9316-9 Realizzazione editoriale: Alberto Bellanti – Milano www.giunti.it www.bompiani.it © 2021 Giunti Editore S.p.A./Bompiani  Via Bolognese 165 - 50139 Firenze - Italia  via G.B. Pirelli 30 - 20124 Milano Prima edizione digitale: aprile 2021

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Sommario

Etica e religione nei primi scritti di Schleiermacher

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di Davide Bondì

Cronologia della vita e delle opere Nota editoriale Il valore della vita

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Sulla religione. Discorsi a quelle persone colte che la disprezzano

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Monologhi. Un dono di Capodanno

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La festa di Natale. Un dialogo

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Note ai testi

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ETICA E RELIGIONE NEI PRIMI SCRITTI DI SCHLEIERMACHER

di Davide Bondì

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1. L’esperienza pietistica Schleiermacher fece ingresso nel Paedagogium di Niesky nella primavera del 1783, a quattordici anni. Accedeva così all’istituto educativo della Comunità dei Fratelli (Brüdergemeine), fondata nel 1722 sulle pendici del monte Hut nell’alta Lusazia per volontà del conte Nikolaus L. von Zinzendorf. La comunità herrnhutiana, che aveva accolto i Fratelli moravi (Unitas Fratrum) del ramo hussita e altri esuli e dissidenti protestanti, si affermò nel corso del Settecento come un’importante cerchia pietistica, cui Federico II concesse l’autonomia di una chiesa indipendente (1754). Con l’istituzionalizzazione, i tentativi di Zinzendorf protesi a evitare il settarismo per convenire in un’ecumene sovraconfessionale di fatto fallirono, e la Brüdergemeine perse il privilegio di sentirsi un’ecclesiola in ecclesia in nome del diritto di diventare una chiesa.1 Zinzendorf aveva esposto le idee basilari della professione di fede herrn­hutiana in alcuni discorsi tenuti dal 23 febbraio al 9 aprile 1738 nella sua casa berlinese.2 In contrasto con la religione filosofica illuministica e con la teologia luterana ufficiale, le verità teologiche della nuova devozione potevano essere ridotte all’«eterna divinità di colui che è diventato uomo»; alla «vera, essenziale, naturale e inconfusa umanità del Dio che viene dal cielo»; e alla grazia e al perdono ricevuto «per merito dell’agnello immolato».3 Zinzendorf conferiva ai dogmi – scrive Osculati – «un forte accento interiore e personale» allo scopo di far uscire la fede «dalla pura e semplice affermazione astratta, e renderla un criterio vissuto e sperimentale di adesione al messaggio neotestamentario». L’immagine del Christus patiens ingenera infatti nel credente una viva impressione che «ne avvolge l’esistenza» e favorisce un’immedesimazione psicologica capace di liberare dalle ipocrisie. Esposti, nella Crocifissione, al sangue e alle piaghe, alla passione e alla morte di Gesù, i fedeli esperiscono la verità del cristianesimo senza alcun ricorso a concetti e a forme verbali. L’«incontro tra la giustizia divina che punisce e la grazia che espia, come si mostra nella passio1 

Cfr. Uttendörfer 1925. I discorsi furono pubblicati più tardi. Cfr. Zinzendorf 1758. 3  Cfr. Osculati 1990, p. 339. 2 

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ne e nella morte del Redentore, deve ripetersi nella vita del credente» perché dall’unione mistica venga la salvezza.4 Conta dunque il fatto unico ed essenziale della conversione interiore, mentre «le diverse forme confessionali di cui la cristianità è costituita sono solo strumenti relativi» della fede. «La nostra chiesa» – scrive Zinzendorf – «è un libero luogo per tutte le anime, che secondo la loro conoscenza vogliono essere fedeli».5 Lo spirito della «comunità emotiva dei credenti» – si legge nella biografia diltheyana – «s’impossessò presto» del giovane Friedrich, che più tardi «indicò come punto più profondo della religiosità herrnhutiana, il modo in cui in ogni discorso, in ogni stato d’animo, in ogni attività s’intrecciavano la dottrina della corruzione naturale e degli effetti soprannaturali della grazia» tanto che «questo influsso penetrante diveniva, grazie a tale contrasto, battaglia personale, esperienza personale di ogni individuo».6 Nei Discorsi (1799), Schleiermacher ricordava l’esperienza di Niesky con un giudizio netto e venato da grande intensità espressiva: La religione è stata il grembo materno, nella cui sacra oscurità la mia giovane vita fu nutrita e preparata per il mondo che le era ancora precluso; in essa il mio spirito ha respirato ancor prima che avesse trovato i suoi oggetti esterni, l’esperienza e la scienza; essa mi ha aiutato quando iniziai a comprendere la fede paterna e a purificare il cuore dalle macerie del passato.7

Secondo l’uso della Comunità dei Fratelli, nell’autunno del 1785 Schleiermacher fu trasferito dal Paedagogium di Niesky al Seminarium di Barby, nei pressi di Halle, comprendente una facoltà teologica e una filologica. A Barby, l’esperienza religiosa vissuta nel raccoglimento e nella condivisione sembra arretrare per lasciar luogo a un «cristianesimo da conventicola» che riempie l’animo di dubbi e incertezze.8 Nelle conversazioni dei seminaristi iniziano allora ad affiorare interrogativi sul pensiero moderno e la mente si volge alla vicina università di Halle, roccaforte della filosofia wolffiana e della critica teologica semleriana. Schleiermacher, in particolare, viene maturando dei dubbi sulla «dottrina della re4 Sulla “comprensione esperienziale” nella devozione herrnhutiana cfr. Seibert 2003, pp. 68-95. 5  Citazioni tratte dall’esposizione di Osculati 1990, pp. 341, 345, 351. 6  Dilthey 2008, vol. I, p. 63. 7  F.D.E. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (1799), KGA I/2, p. 195; infra, p. 179. 8  Cfr. Nowak 2001, pp. 27 e sgg..

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denzione» e «sulla divinità di Cristo», che il 21 gennaio 1787 esprime con franchezza al padre: Io non posso credere che il Dio eterno, vero, sia lo stesso che chiamava se stesso solo figlio dell’uomo; io non posso credere che la sua morte sia stata una riconciliazione “sostitutiva”, perché egli stesso non lo ha mai detto espressamente e perché non posso credere che essa fosse necessaria; infatti, è impossibile che Dio voglia punire eternamente l’umanità per il fatto che essa non è divenuta perfetta, dal momento che Egli l’ha creata esplicitamente non per la perfezione, ma per l’aspirazione ad essa.9

Il sofferto distacco dalla fede propugnata nel seminario pietistico era in accordo – come ha notato un fine interprete10 – con «il principio cardinale dell’ermeneutica illuministica» (la comprensione dell’intentio auctoris), attraverso cui il giovane studioso rivelava la dissonanza tra quanto «espressamente detto» dal Gesù storico e il discorso dogmatico sulla riconciliazione “sostitutiva” (si ricordi l’enfasi di Zinzendorf sui meriti dell’Agnello immolato). Con ciò, si profilava il motivo della rivalutazione della natura sensibile. Le inclinazioni al desiderio e le imperfezioni del volere sono dotazioni creaturali ed «è impossibile che Dio voglia punire eternamente l’umanità per il fatto che essa non è divenuta perfetta, dal momento che Egli l’ha creata» così. La dottrina della redenzione, pensava Schleiermacher, è infondata se, da un lato, l’essere umano è incolpevole per la propria condizione e, dall’altro, Cristo non può avere natura divina. In questi pensieri è già presente un atteggiamento critico e intellettualistico inconciliabile con la dogmatica dei Fratelli moravi.11 Nei mesi successivi fu inevitabile l’allontanamento dal seminario di Barby, e il doloroso conflitto con il padre.12 Così Schleiermacher prese anche congedo «dall’amicizia, dall’amore e dalla socievolezza» vissuti in comunità. Il primato della vita pratica e della comunicazione spirituale sarebbero rimasti tuttavia un’eredità indelebile rielaborata, e quasi trasfigurata, nelle sue ricerche sull’etica. La religione – si legge ancora nei Discorsi – «mi è rimasta quando Dio e l’immortalità svanirono dal mio sguardo dubbioso; mi ha guidato nella vita attiva».13 9 

Lettera di Schleiermacher al padre del 21/1/1787 (n. 53), KGA V/1, p. 50. Thouard 2007, p. 27. 11  L’esperienza pietistica è ricostruita dettagliatamente in Meyer 1905 e Meckenstock 1984, pp. XXVI e sgg. 12  Cfr. la lettera dell’8/2/1787 (n. 54), scritta dal padre, che inizia con l’apostrofe «Oh, folle figlio!», KGA V/1, p. 53. 13  F.D.E. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren 10 

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Nell’estate del 1787, Friedrich s’iscrisse all’università di Halle, dove Johann August Eberhard era subentrato ad Alexander Gottlieb Baumgarten, allievo diretto di Christian Wolff. Approdava allora – secondo le parole di Dilthey – nella casa della filosofia moderna in cui il sistema di Wolff aveva portato a termine, «con precisione matematica e regolare consequenzialità, il mondo del pensiero costruito passo passo da Cartesio, Spinoza e Leibniz».14 Grazie all’apostolato wolffiano, il pietismo, che nel secolo precedente aveva giocato un ruolo decisivo per la fondazione dell’istituzione, nel Settecento era ormai in secondo piano. Tra i docenti, Schleiermacher aveva modo di apprezzare il giovane filologo Friedrich August Wolf, trasferitosi a Halle nel 1783;15 mentre le lezioni di Eberhard lo sollecitavano allo studio di Aristotele e Platone, rinsaldando il suo entusiasmo per il pensiero antico. Il primo tentativo filosofico pervenutoci, e forse la prima traduzione in forma teorica delle esperienze comunitarie cui si è accennato, consiste infatti in alcune note di lettura dei libri ottavo e nono dell’Etica Nicomachea, dedicati ai problemi della socievolezza e dell’amicizia.16 Eberhard era allora studioso in vista anche per la sua polemica contro il pensiero kantiano. Nel 1788 avrebbe fondato il «Philosophisches Magazin» e nel 1792 il «Philosophisches Archiv», gli avamposti delle obiezioni alla filosofia trascendentale ispirate dal razionalismo di scuola.17 D’altro canto, a Barby Schleiermacher era già venuto per suo conto a conoscenza, attraverso una recensione apparsa nella jenese «Allgemeinen LiteraturZeitung», della Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785) e aveva studiato i Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik (1783). In una lettera del 14 agosto 1787 al padre scriveva: per quanto riguarda la filosofia kantiana che mi consigliate di studiare, ormai da tempo mi sono fatto di essa opinioni molto favorevoli, proprio

Verächtern (1799), KGA I/2, p. 195; infra, p. 179. Per il significato del soggiorno di Schleiermachecher a Niesky e Barby, in rapporto all’educazione familiare e allo sviluppo autonomo del suo pensiero, cfr. Moretto 1979, pp. 51-156 e Seibert 2003, pp. 31-63. 14  Dilthey 2008, vol. I, pp. 82-83. 15  Cfr. Lettera di J.B. v. Albertini del 2/12/1787 (n. 82), KGA V/1, p. 94 e ArndtVirmond 1985, cit. p. XXX. 16 F.D.E. Schleiermacher, Anmerkungen zu Aristoteles: Nikomachische Ethik 8-9 (1788), KGA I/1, pp. 1-44. 17  Vi scrisse soprattutto il direttore, ma vi collaborarono studiosi autorevoli come Johann Christian Schwab. Lo stesso Kant in un opuscolo del 1790 rispose alle obiezione eberhardiane, cfr. Kant 1790. In proposito si vedano Beiser 1987, pp. 217 e sgg. e Bucci 2012, pp. 55-72.

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perché riconduce la ragione dai deserti metafisici negli ambiti che sono di sua peculiare pertinenza. A Barby, pertanto, ho già letto i Prolegomena con due buoni amici, ma di questo scritto ho certo compreso solo quel tanto che è dato comprenderne senza aver letto la Critica della ragion pura. Se finora, dal momento che non ho potuto ricevere la Critica, non sono stato in grado nel collegium di Eberhard di raffrontare la filosofia wolffiana con quella kantiana, questo accadrà certo nelle prossime ferie […] Per quanto tuttavia mi è dato capire di Kant finora, egli lascia il giudizio del tutto libero in merito alla questione religiosa.18

Messo piede nella casa dell’illuminismo, sono già germogliati i motivi della critica alla metafisica e ai suoi rivestimenti dogmatico-fideistici, e l’attenzione di Schleiermacher si orienta a un confronto tra la filosofia wolffiana e quella kantiana, alla luce di quanto emerge nel collegium di Eberhard. Sotto la sua guida, come sappiamo, il giovane studioso si applica all’Etica Nicomachea. È dunque sul piano della filosofia morale che quel confronto tra filosofia illuministica e filosofia critica è destinato a profilarsi. Infatti, rimane anzitutto incerto il rapporto tra l’etica dei beni (l’amore, l’amicizia, la socialità) di Aristotele, l’Ethik der Vollkommenheit propugnata da Eberhard in continuità con la prima e la morale antieudemonistica di Kant. E ancora, in una prospettiva interna alla filosofia trascendentale, bisogna soppesare il rapporto tra la critica della ragione teoretica, nella sostanza condivisa, e la dottrina dei postulati dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima, ammessi nella dialettica della ragion pratica.19 Nell’estate del 1789, Schleiermacher lasciò l’università di Halle alla volta di Drossen, una cittadina vicino a Francoforte sull’Oder, dove lo accolse la casa dello zio materno Stubenrauch. Qui preparò l’esame di candidato di teologia sostenuto a Berlino, dove si fermò per qualche mese.20 Alla fine di ottobre del 1790 si trasferì come precettore presso la residenza della famiglia Dohna nel castello di Schlobitten, e vi rimase fino all’inizio del 1793. All’attività pedagogica, affiancò allora l’ufficio di predicatore riformato.21 Molti sforzi in questi anni furono rivolti a quel confronto tra la filo18 

Lettera al padre del 14/8/1787 (n. 80), KGA V/1, p. 92. nel «Philosophisches Magazin» era intervenuto più volte contro la filosofia morale di Kant. Si veda, ad esempio, Eberhard 1792, pp. 366-372 e 373-379. 20  Cfr. la predica del 15 luglio 1790 a commento di Lc 5,29-32 tenuta in occasione dell’Examen pro licentia concionandi in KGA III/3 (Nr. 1), pp. 7-11. 21  Le omelie tenute a Schlobitten dal 12 dic. 1790 al 12 febb. 1792 sono raccolte con numerazione 2-7 in KGA III/3, pp. 12-77. Per la ricostruzione della biografia dagli anni di Drossen a quelli di Schlobitten, cfr. Nowak 2001, pp. 42-58. 19  Eberhard

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sofia wolffiana e quella kantiana, l’etica concreta e quella formale, e al problema di coordinare la questione morale a quella religiosa, data la liquidazione dei rivestimenti dogmatici condotta dalla critica della ragione speculativa. Così Schleiermacher sarebbe approdato ad alcune interessanti soluzioni in un quadro rapsodico e frammentario, ma originale e foriero di rilevanti sviluppi.

2. Le rapsodie filosofiche Sotto il titolo di rapsodie filosofiche, Schleiermacher intendeva raccogliere gli scritti Über das höchste Gut (Il sommo bene, 1789), Über die Freiheit (La libertà, 1790-92) e Über den Wert des Lebens (Il valore della vita, 1792-93). Tuttavia, possono essere considerati tematicamente pertinenti al progetto anche scritti non destinati alla pubblicazione come le Notizen zu Kant: Kritik der praktischen Vernunft (probabilmente 1789), Freiheitsgespräch (1789), An Cecilie (probabilmente 1790) e il frammento Notiz zur Erkenntnis der Freiheit (1790-92). Si tratta di lavori diseguali per forma stilistica (note di lettura, brevi trattati, dialoghi, riflessioni intime), la cui unità è riconducibile al tentativo di svolgere una ramificata indagine sui principi della morale nell’orizzonte dei problemi posti dalla filosofia pratica di Kant.22 Nel saggio Über das höchste Gut si delinea il motivo dell’autonomia della morale dalla religione e della virtù dalla felicità.23 La decostruzione del vincolo etica-religione è contraria all’indirizzo di studi teologici prevalente nella cultura tedesca della seconda metà del secolo, ove domina la lezione consegnata da Lessing a L’educazione del genere umano (1780). Mentre la separazione di virtù e felicità è, sì, conforme alla dottrina proposta da Kant nell’Analitica della Ragion pratica, ma investe polemicamente la riconciliazione dei due principi resa, nella Dialettica trascendentale, proprio dall’espressione iperbolica di sommo bene. L’autonomia della dimensione morale, tuttavia, non comporta per Schleiermacher l’esclusione di ogni tipo di coordinamento con le sfere della Frömmigkeit (devotio) e della Glückseligkeit (beatitudo). Benché non discenda con necessità dai dettami dell’etica, la religione può esservi infatti 22 

Oltre alle ormai classiche messe a punto di Herms 1974, Moretto 1979 e Blackwell 1982, bisogna segnalare, tra le più accurate ricostruzioni storiografiche dei testi citati, Meckenstock 1988, Oberdorfer 1995, Thouard 2007, Seibert 2003, Giacca 2015. 23  F.D.E. Schleiermacher, Über das höchste Gut (1789), KGA I/1, pp. 81-125.

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accostata in modo soggettivo, per l’armonia delle facoltà e la destinazione dell’uomo. Nel saggio An Cecilie, ad esempio, si legge: La ragione lo convince che tutte le supposte obiezioni contro la verità di queste idee [le idee di Dio e dell’immortalità dell’anima] e tutte le inorgoglite prove della loro nullità [Nichtigkeit] poggiano solo su basi molto deboli e si sorreggono su null’altro che malintese esperienze e ipotesi ondeggianti. Il cuore lo induce a ritenere che quand’anche l’obbligazione morale, indipendentemente da tutto il resto, fosse solo fondata sull’essenza della ragione questa disposizione [Einrichtung] resterebbe solo un passo falso della natura e una triste necessità, se non vi fosse una destinazione dello spirito umano e se l’esistenza di un essere sommo non ci garantisse la saggezza e la celata armonia di questa costituzione del nostro essere.24

Se Schleiermacher avesse derivato la religione dai principi della ragione pratica sarebbe ricaduto nel pervicace errore commesso da Kant.25 Non può, tuttavia, essere negato che egli legittimi l’esperienza religiosa in base al suo rapporto con quella morale, derivando la religione non direttamente dalla ragione pratica, ma dall’accordo che si realizza in questo mondo tra ragione pratica e desiderio. L’accordo delle facoltà, infatti, rimanda alla possibilità che un essere sommo lo abbia disposto. Al tipo di accordo possibile tra virtù e felicità, poi, Schleiermacher dedica pagine impegnative. L’errore commesso da Kant con la dottrina del sommo bene è riconducibile alla concezione retributiva che fa seguire alla buona condotta il benessere, come all’azione malvagia segue la punizione. Ma la prospettiva retributiva viene meno quando si pensi che noi scegliamo il bene grazie al sentimento morale, che orienta la facoltà di desiderare verso i dettami delle idee pratiche. L’insistenza sull’autonomia della legge morale ha, infatti, indotto Schleiermacher a recidere la determinazione diretta della volontà da parte della ragione (portatrice soltanto di regole dell’agire e della facoltà di giudizio) e corrispettivamente lo ha spinto a ricercare moventi della volontà buona coincidenti con un modo specifico della facoltà di desiderare. Giacché, in breve, la ragione non determina direttamente la volontà, un desiderio sui generis determina l’essere umano a seguire le leggi morali. La retribuzione della virtù con la felicità prospettata da Kant può allora essere respin24 

F.D.E. Schleiermacher, An Cecilie (1790), KGA I/1, pp. 189-212; cit. p. 211. Ciò l’autore non fa, ed ha pertanto ragione Emanuela Giacca a considerare le lettere a Cecilia in continuità con il rifiuto della dottrina dei postulati avanzata nel saggio sul sommo bene, cfr. Giacca 2015, pp. 32-36. 25 

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ta: «se il valore personale non dipende dalle azioni prodotte, che non sono in nostro potere poiché dipendono dalle circostanze [la dotazione naturale], bensì si basa solo su principi [di ragione che entrano in rapporto con la nostra struttura antropica], allora […] appare indifferente se il possesso della felicità sia collegato o meno alla dignità connessa [virtù] e di conseguenza il nesso [retributivo] felicità-virtù non potrà più essere pensato come necessario».26 Stabilito così che il sommo bene non coincide con la felicità – domanda Schleiermacher – «cosa dovrà dunque essere?». «Nient’altro» – risponde – «che la quintessenza (Inbegriff) di tutto quello che è possibile conseguire secondo determinate regole in un certo modo di procedere, è a dire quello razionale puro (ungemischten)». «Se la legge morale è data come una funzione algebrica,» – aggiunge – «allora con sommo bene non dobbiamo pensare niente di diverso dalla linea curva che è tutto ciò e contiene tutto ciò che è possibile attraverso quella funzione». Da cui risulta anzitutto che il sommo bene è la quintessenza dei beni, l’‘espressione realizzata’ della legge morale e, ancora, che coincide con la loro ‘totalità’, piuttosto che identificarsi con una meta perfetta. «È l’oggetto» – scrive l’autore – «prodotto secondo il comando della ragione nella sua piena estensione», «la totalità di ciò che è possibile attraverso la pura legge di ragione».27 Eppure, Schleiermacher ritiene che esista un diverso tipo di convergenza tra la felicità e la legge morale. La Begehrungsvermögen (facoltà di desiderare) – si legge nelle ultime pagine del saggio – favorisce lo sviluppo del moralisches Sinn, quando, «per mezzo di una costante attenzione e di un lungo esercizio», ostacola l’impatto di sensazioni troppo forti che potrebbero provocare l’infelicità».28 Allora la facoltà di desiderare, esercitando una funzione di contenimento «dei movimenti burrascosi dell’attrarre e del respingere», induce a una «spassionata mitezza» che lascia campo all’interesse morale.29 Come ha osservato opportunamente Günter Meckenstock, Schleiermacher nel saggio sul sommo bene propone una concezione ascetica della dottrina eudemonistica. Prima è reciso il nodo gordiano che lega la felicità all’etica, poi la Glückseligkeit è riaccostata alla virtù per un accordo spontaneo tra il desiderio del benessere e quello del bene. 26  F.D.E. Schleiermacher, Über das höchste Gut (1789), KGA I/1, p. 104. Per un esame dettagliato di queste argomentazioni cfr. Bondì 2016. 27  Le citazioni precedenti si trovano nell’ordine in Über das höchste Gut (1789), KGA I/1, pp. 90-91, 91, 92. 28  Ivi, p. 124. Cfr. Oberdorfer 1995, pp. 194-228. 29  F.D.E. Schleiermacher, Über das höchste Gut (1789), KGA I/1, p. 125.

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Lo scritto La libertà, in linea con gli altri prima citati, affronta il problema speciale riguardante l’effetto dell’attività razionale sulla coscienza empirica e rimanda a quello generale del rapporto tra mondo delle idee e dei fenomeni. Per Schleiermacher si tratta di individuare il punto di contatto tra la natura intelligibile e sensibile dell’uomo e, pertanto, di spiegare l’incidenza dei valori nel mondo storico. Queste ricerche introducono peraltro in un cantiere variegato di letture, che vanno dalla tradizione wolffiano-leibniziana filtrata dall’insegnamento di Johann August Eberhard, passando per l’illuminismo inglese e scozzese di Anthony Ashley-Cooper di Shaftesbury e Francis Hutcheson, fino alle dispute sull’intervento della libera causalità nelle azioni. Problema controverso, quest’ultimo, che vide disporsi su schieramenti opposti non solo studiosi della Populärphilosophie, come Christian Garve, scettici, come Christian Andreas Creuzer, leibniziani, come August Heinrich Ulrich, ma anche kantiani arroccati su posizioni inconciliabili, come Karl Leonhard Reinhold e Carl Christian Erhard Schmid. Nella seconda sezione del saggio, Schleiermacher mostra che i principi dell’assolutezza dell’ideale e della ragion sufficiente possono essere mantenuti in una prospettiva filosofica pluralistica, capace di individuare i diversi modi di riconnettere determinismo pratico e determinismo teoretico. Coordinando i due punti di vista, adeguatamente distinti, l’autore riesce nella giustificazione dei predicati morali in assenza di libertà. Quest’ultima è una nozione illusoria derivante dal misconoscimento della vera natura dell’eticità, che consiste nell’attività della ragione pratica idonea a tradursi mondanamente per mezzo del sentimento e della sua specifica necessità. «Mi manca soltanto» – scrive l’autore – «la capacità di leggere nel libro del destino, in esso vedrei segnato per ogni istante della mia vita lo stato della mia moralità tanto esattamente e indubitabilmente come lo stato del cielo nelle tabelle degli astronomi».30 Il Gefühl der Freiheit, per Schleiermacher, può soltanto essere «il risultato di un’accresciuta coscienza di quella peculiarità della nostra facoltà di desiderare che ci rende capaci della moralità», la coscienza quindi della naturale disposizione morale.31 Un altro importante aspetto discusso nella seconda sezione riguarda la possibilità di mantenere, entro un’etica deterministica, un concetto adeguato di giustizia divina. Il gioco dell’amabile necessità (liebriche [sic] Notwendigkeit) – sostiene l’autore – imprime un perfezionamento alla co30 

F.D.E. Schleiermacher, Über die Freiheit (1790-92), KGA I/1, p. 285. Ivi, p. 282. Per un esame dettagliato delle argomentazioni di Schleiermacher cfr. Bondì 2017. 31 

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munità umana nel suo complesso. L’occhio dell’osservatore attento scorge l’infinita saggezza, giustizia e amore di Dio quando si distacca dalla miope contemplazione dell’individuo singolo e guadagna uno sguardo d’insieme sullo spettacolo variopinto del mondo. Il regno morale «si espande dalla rozzezza animale del cannibale, che si nutre della carne dei suoi fratelli, e dall’orrenda depravazione del peggiore malfattore, fino alla stupenda perfezione dei più saggi mortali e alla divina virtù di un Cristo o di un Socrate».32 La giustizia di Dio è testimoniata da questa molteplicità in movimento verso l’ideale morale. Il debito da Schleiermacher contratto con l’opera di Kant, su cui Wilhelm Dilthey per primo richiamò l’attenzione, è il debito di un’intera generazione, impegnata a discutere i temi della filosofia dopo la riformulazione concettuale e linguistica della Critica della ragion pratica ‘quasi scritta dal cuore dell’epoca’. Tuttavia, per la capacità di far reagire con il mosaico delle questioni poste da Kant istanze teoriche del pensiero classico e moderno, Schleiermacher consegue già in questi anni una posizione inconciliabile con le tesi kantiane e, a ben vedere, irriducibile a quelle leibniziano-wolffiane. La soluzione del problema etico sta nella mediazione tra l’universalità della legge e la particolarità dei sentimenti e, pertanto, nell’inserimento dell’ideale morale nel continuum della vita psichica e sociale. Schleiermacher svincola così la Sittlichkeit da norme e postulati che limitano le aspirazioni dei singoli in difesa di un’etica positiva e produttiva di beni morali.33 Nell’approssimazione di ragione e mondo, la dottrina dei doveri dei moderni è ricongiunta con la dottrina dei beni e delle virtù degli antichi. L’identificazione del concetto di höchstes Gut con la totalità dei beni concreti si sposa con la riflessione aristotelica depurata da elementi eudemonistici.34 La buona condotta non conduce alla felicità, ma l’attività morale nel suo complesso è inseparabile da quel che si consegue nell’amicizia, nella famiglia, nella comunità e nello Stato.35 Le relazioni comunitarie nel loro complesso vengono così delineandosi quale piano coestensivo, e non semplicemente espressivo, del sentimento morale. 32 

Ivi, entrambe le citazioni p. 281. «La concezione antropologica schleiermacheriana supporta, al contrario di quella di Kant, un’etica che tende a non limitare in modo universale, ma a dirigere in modo produttivo e individualizzante, tramite il sentimento morale e il giudizio etico che l’indirizza, determinati contenuti già inscritti nella natura umana». Cfr. Brino 2007, p. 59. 34  Cfr. le già citate Anmerkungen an Aristoteles (1788) e F.D.E. Schleiermacher, Übersetzung von Aristoteles: Nikomachische Ethik 8-9 (1789), KGA, I/1, pp. 45-79. 35  Oberdorfer 1995, pp. 74 e sgg. 33 

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3. Il valore della vita Über den Wert des Lebens. Ein Fragment fu il titolo scelto da Dilthey per il manoscritto, che – secondo il condivisibile parere di Dorette Seibert – rappresenta una «sintesi provvisoria delle conoscenze» a quel tempo acquisite da Schleiermacher.36 Lo stesso Dilthey ne colloca la stesura tra l’estate del 1792 e l’inizio del 1793, negli ultimi mesi del sereno soggiorno presso il castello di Schlobitten, mentre lo studioso «si guardava intorno liberamente».37 Bernd Oberdorfer ha osservato che l’innovazione più importante del testo consiste nel tentativo di connettere l’oggettività dei criteri del giudizio e del comportamento etico con «la descrizione differenziata e sfaccettata delle strutture di ciascun rapporto umano (psichico, fisico, sociale) e cosmico contingente».38 In termini più sintetici e restrittivi, potremmo dire che l’originalità del frammento dipende dalla messa a punto del problema storico nella filosofia morale. Il problema storico accomuna già i due lemmi del sintagma scelto da Dilthey come titolo del saggio. Il ‘valore’ è la dimensione propriamente umana che irrompe nel piano della natura, e la ‘vita’ è la sequenza fenomenologica-temporale di realizzazione dei valori. Nel tempo della vita – scrive Sorrentino nell’introduzione alla prima edizione italiana del saggio –, «il soggetto razionale prende forma nel contesto della naturalità», così che «il senso ultimo è trasferito dalla totalità conclusa» del processo «al singolo che produce valori etici». Viene allora delineandosi una filosofia difforme da quella «che si ritiene tributaria di una secolarizzazione della “teologia della storia”» in ragione dell’inerenza dell’«elemento ideale alla contingenza».39 Questa forma di storicismo, capace di saldare ethos e temporalità, ha rappresentato nel corso dell’Ottocento un’alternativa sia ai sistemi morali trascendenti sia alle Geschichtsphilosophien finalistiche. Nelle prime pagine del saggio, Schleiermacher rimanda al radicamento esistenziale del giudizio sulla vita. Riusciamo nella comprensione o descrizione del passato nell’istante in cui abbandoniamo la temporalità del presente. Allora non siamo catapultati al di fuori della dimensione pratica dell’esistenza, ma l’inclinazione al godimento è interrotta in favore dell’in36 

Seibert 2003, p. 250. Dilthey 2008, vol. I, p. 192. 38  Oberdorfer 1995, p. 315. 39  Sorrentino 2000, pp. 11, 16, 15. In merito al nesso storia-etica nella concezione matura di Schleiermacher cfr. Scholtz 1995 e Brino 2014. 37 

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teresse conoscitivo. In tal senso rimane valida la tesi di Wilhelm Dilthey secondo cui nello scritto «non esiste alcun giudizio scientifico sul valore della vita, bensì solo giudizi soggettivi di natura emotiva».40 Di fatto, l’adesso in cui si può descrivere fedelmente il passato è il medesimo adesso in cui è possibile elaborare un’idea universale sul valore della vita. È così implicitamente delineata la circolarità tra giudizio storico e filosofico, che costituisce uno dei tratti peculiari della filosofia ermeneutica proposta dall’autore nelle lezioni del 1809/10.41 In Über den Wert des Lebens, infatti, Schleiermacher raffronta ciò che la vita è stata effettivamente con la sua destinazione, ovvero con l’idea universale di quel che deve essere. Com’è noto, la nozione di destinazione (Bestimmung), forse coniata da August Friedrich Wilhelm Sack, ebbe larga fortuna nei paesi di lingua tedesca nel corso della seconda metà del Settecento e, più precisamente, da quando apparve (1748) il saggio Betrachtung über die Bestimmung des Menschen scritto dal teologo riformato Johann Joachim Spalding. La critica recente ha messo in luce l’importanza per il dibattito scientifico del tempo dello scritto di Spalding, che vantò undici edizioni in meno di un cinquantennio, l’ultima pubblicata proprio nel 1794.42 Kant, Mendelssohn, Herder, Schiller e Fichte, per ricordare solo le personalità più autorevoli, se ne occuparono con interesse.43 Le riflessioni di Schleiermacher si stagliano pertanto in questo orizzonte. Abbandonato il piano trascendente in cui il concetto era elaborato se 40  Dilthey 2008, vol. I, p. 193. Alla dottrina del giudizio storico qui profilata si riallacciano le riflessioni consegnate agli appunti La lezione di storia (1793), stesi mentre l’autore rivestiva l’incarico di docente nel seminario del Berlin-Kölnischen Gymnasiums retto da Friedrich Gedike (cfr. F.D.E. Schleiermacher, Über den Geschichtsunterricht, 1793, KGA I/1, pp. 487-498). A commento della relazione si vedano Nowak 1991 e Jordan 1998. Si veda anche la traduzione italiana di Hagar Spano: Schleiermacher 2011. 41  F.D.E. Schleiermacher, Allgemeine Hermeneutik 1809/10 (Abschrift von Schleiermachers verlorenem Manuskript), KGA II/4, pp. 71-115. Si vedano le traduzioni italiane di Moretto e Marassi: Schleiermacher 1998, pp. 331-403 e Schleiermacher 2015, pp. 195-293. Sul rilievo dell’ermeneutica di Schleiermacher per la tradizione storicistica e, più in generale, per la filosofia del Novecento, cfr. Gadamer 2004, pp. 211-237, Frank 1995, pp. 7-67 e Tessitore 1995, pp. 709-730. 42  Si veda Spalding 2011. Oltre al saggio introduttivo di Giuseppe Landolfi Petrone ivi contenuto, cfr. Beutel 2014. 43  Per la teoria della destinazione in rapporto alla “filosofia della storia” nelle opere di Kant e Mendelssohn, cfr. Hinske 1989; per gli scritti fichtiani sull’argomento Fonnesu 1993, Gueroult 1974, pp. 72-95 e l’introduzione di Lauth, in Fichte 1981, pp. 147182. Per la storia del concetto nell’Ottocento, si rimanda invece a Macor 2013. Interessante è anche la criteriologia della traduzione del termine presentata in Macor 2015.

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non dallo stesso Spalding da rilevanti personalità come Abbt, l’autore respinge anche il portato delle interpretazioni esclusivamente empiristiche ed eudemonistiche dell’illuminismo, inneggianti ai sentimenti della vita e della forza. La destinazione sta piuttosto nell’accordo delle facoltà: Conoscere e desiderare non devono essere due cose in me, ma una sola. Perfetto, permanente accordo di entrambe le cose, nella misura massima in cui entrambe sono in me possibili, unità di entrambe nel fine e nell’oggetto: ecco cos’è l’Umanità, ecco cos’è il bel fine posto all’essenza umana.44

Schleiermacher colloca la radice dell’accordo delle facoltà nel sentimento del piacere: «non aspiro a nessuna conoscenza, non evoco nessuna rappresentazione, che non siano, in alto o basso grado, accompagnate con la coscienza di questo sentimento», poiché «il sentimento di piacere esprime la tendenza della facoltà di desiderare ed è l’impulso capace di mettere in moto tutte le facoltà conoscitive, esso è anche il punto in cui ambedue possono unificarsi».45 L’accordo permanente di desiderio e conoscenza fondato sul sentimento del piacere diverge, come si è detto, dalla felicità nell’accezione della Populärphilosophie. Qui si tratta infatti del piacere che induce a desiderare «la verità stessa», della «gioia per l’accordo delle singole cose con la regola», del rappresentarsi «tutto come subordinato a leggi che ho trovato e sono state poste in me stesso». «Lo scopo più importante e più avanzato della mia destinazione» – scrive l’autore – consiste nella «tendenza» a realizzare le leggi nell’agire, «nel sacro desiderio di conformare la mia intera esistenza alla ragione», in breve, nel piacere per la conoscenza e l’applicazione degli imperativi morali.46 Alla morale repressiva dell’obbligazione è così sostituita una morale positiva, conforme alle aspirazioni naturali. L’autore compie poi un altro passo, moltiplicando gli scopi della destinazione. «Per la limitatezza del nostro essere» – si legge – abbiamo tuttavia un «doppio scopo dell’esistenza», «un’aspirazione doppia dell’anima», al piacere sensibile e a quello morale. È necessario riconoscere insieme l’esistenza di tale rapporto e la sua funzionalità rispetto all’etica. La vita deve offrire l’occasione «di esercitare e sviluppare i beni morali, ma 44 

F.D.E. Schleiermacher, Über den Wert des Lebens (1792-3), KGA I/1, p. 410; infra, p. 41. 45 Ibidem. 46  Ivi, pp. 412-13; infra, p. 45.

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senza costringermi», vale a dire senza un istinto assoluto che diriga l’azione. Se mancasse il sentimento del piacere per gli oggetti, le regole morali ci s’imporrebbero, saremmo necessitati alla produzione dei beni e verrebbe meno la possibilità di attribuire valore alla condotta etica. «Deve essere opera mia [di una duplice, non di una unilaterale necessità]» – si legge più avanti – «delimitare la mia aspirazione alla felicità mediante la virtù».47 Nella pagine in esame, Schleiermacher approda infine alla convinzione che la differenza di felicità (l’accordo casuale delle facoltà) e virtù (l’armonia essenziale delle disposizioni) non si configura come un nesso di mutua esclusione. La virtù è il primo e sublime interesse dell’essere umano, ma l’esistenza di un’aspirazione al godimento è tra le condizioni di possibilità del valore della vita. «Ho sempre sentito parlare molto di una gioia vera e di una gioia falsa, di una vera felicità e di una falsa felicità», ma «dove qualcosa può essere qui vero o falso? “Piacere e avversione”: ciò lo capisco; “vero piacere e falso piacere” è per me un suono vuoto».48 Così è restituita dignità alla dimensione della felicità (anch’essa vero piacere), che il discorso sulla vita non può espungere dalla trattazione. «Con troppa facilità» – osservava Moretto – era stato escluso «dalla descrizione del Wesen umano l’aspetto decisivo della sensibilità».49 Il resto del frammento svolge il motivo di una filosofia integrale dell’uomo storico, inserendo i casi della felicità a fianco della trattazione morale e rendendo così esplicita la novità della Geschichtsphilosophie di Schleiermacher. I sentimenti procurati dalle impressioni degli oggetti, dalle relazioni sociali, dai giochi della fantasia e dalla conoscenza della natura, benché divergano dalla somma destinazione morale, costituiscono altrettanti scopi della vita.50 L’apprezzamento della dimensione sensibile spinge l’autore a considerazioni di grande interesse sulle condizioni d’esistenza dei popoli extraeuropei e contro l’orgoglio delle civiltà del progresso materiale. Siamo ben disposti a riconoscere l’originalità del sistema magico e mitologico dei greci, la bellezza dell’arte rinascimentale italiana, ma disconosciamo in «modo dispotico» «tutto quello che ci è ignoto», disprezziamo l’abitante del Nord e dei paesi equatoriali, «nella cui anima non siamo capaci di porci e immedesimarci». «Chiamiamo rozzi tutti i popoli presso cui la totale mancanza 47 

Ivi, pp. 413 e 421; infra, pp. 42 e 63. Ivi, p. 421; infra, p. 63. 49  Moretto 1979, p. 150. 50  Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Über den Wert des Lebens (1792-3), KGA I/1, pp. 414-420; infra, pp. 49-61. 48 

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di cultura europea ha reso sin troppo invisibile ai nostri viaggiatori quanto è caratteristico della loro». L’errore sta nell’applicare ovunque la stessa misura, nel giudicare gli altri secondo criteri buoni per noi. Ricadiamo così in una forma di provincialismo spaziale speculare al provincialismo temporale o agli anacronismi con cui giudichiamo il passato. All’atteggiamento descritto bisogna contrapporre il punto di vista secondo cui un’altra natura, un altro clima, un altro modo di vivere possono rendere loro del tutto superfluo ciò che a me sembra far parte delle prime necessità; presso di loro, possono conferire a piccolezze che io disprezzo un valore sorprendente; possono rendere, per loro, componente fondamentale della felicità perfino molto di ciò che io porrei dalla parte del male.51

Nel giudicare i popoli extra-europei dovremmo allora riconoscere che il destino conduce la felicità altrettanto benevolmente per vie differenti.52 I paradigmi, che qui iniziano a essere elaborati, dell’incommensurabilità nei principi dell’organizzazione sociale e dell’equipollenza nelle differenti vie alla felicità, incisero non poco sugli sviluppi delle scienze comparative del linguaggio e della religione, offrendo al dibattito politico ottocentesco un punto di vista contrastante con il colonialismo.53 Ecco dunque un esito cruciale dell’esame: il valore della vita dipende dalla doppia destinazione posta in noi con il marchio di Caino che portiamo impresso sulla fronte (la sensibilità) e con l’aspirazione morale (sintesi di sensibilità e idee della ragione). Svincolata dalle nostre scelte è anche la misura secondo cui disponiamo di questa «infinita, doppia, riserva»: «il destino misura la quantità di gioia dovuta a ciascuno, quella di cui uno, volendo, può appropriarsi». Il mio destino – scrive Schleiermacher – è la somma dei miei rapporti esterni; nei miei rapporti, e mediante essi, ci sono le mie azioni; le mie azioni formano le mie inclinazioni e forze; le mie inclinazioni e le mie for51 

Ivi, 457; infra, p. 133. Cfr. ivi, pp. 450-457; infra, pp. 121-133. 53  Con il risultato su enunciato di una filosofia integrale dell’uomo storico sono affini le teorie della storia ottocentesche che hanno riformulato il concetto hegeliano di objektiver Geist. Tra esse, possono essere annoverate le concezioni di August Böckh, Heymann Steinthal, Mortiz Lazarus, Georg Simmel, Antonio Labriola, Wilhelm Dilthey, Ernst Cassirer, Franz Boas. L’inclusione delle oggettivazioni prodotte dalle funzioni sensibili nella storia delle civiltà, tuttavia, indusse solo alcuni dei pensatori citati a estendere i concetti di “storia” e “civiltà” a tutti popoli e a tutte le comunità della terra (cfr. Bondì 2013, pp. 27-30, 92-101). 52 

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ze costituiscono il mio io. Cosa in questo caso è dunque mio? Cosa è del destino? […] Posso essere libero nella misura e nel significato che voglio, non posso tuttavia impedire l’esistenza delle cose esterne e l’obbedienza alle loro leggi se non mediante queste leggi, e nemmeno posso mutare la natura fondamentale della mia anima su cui poggia la costituzione dell’impressione. Posso seguire il filo della necessità, come tutto il resto attorno a me, soltanto se qualcosa in me continua a essere io; parimenti deve appartenere a me ciò che produce dapprima dall’interno i miei rapporti esterni, e quel che applico e determino in me dopo che tali rapporti hanno operato su di me. L’aspirazione della mia natura volge da sé a cogliere la gioia e respingere il dolore; allora tutto quel bene di cui sono date tutte le condizioni esterne, e che devo solo cogliere al fine di goderne, è un dono del destino, ed è colpa mia se non diventa mio; solo quel male, che consiste in un’impressione cui non posso in alcun modo sottrarmi, è un peso che la vita m’impone; se non evito ciò che è evitabile, se accresco l’inevitabile stesso, permettendo che abbia in me conseguenze foriere di dolore, le quali rappresentano già un’arbitraria applicazione e destinazione dell’impressione, ebbene ciò è opera mia.54

Così il destino determina la costituzione della nostra personalità, i doni benèfici e i mali inevitabili della vita. Esso ci pone finanche nelle condizioni di una scelta parziale in ragione della doppia aspirazione naturale di cui ci ha munito. «L’uomo è l’essere lasciato libero dal destino», afferma l’autore in ottemperanza alla dottrina dell’indeterminazione della volontà esposta nel saggio sulla libertà. «Come a un figlio maturo», il destino «gli concede la sua parte di eredità» e la facoltà di governarla.55 Se le nostre possibilità di realizzare gli scopi dell’esistenza sono in ultima analisi nelle mani dell’amabile e impersonale necessità, se «essere libero» significa «assolvere il destino» – come l’autore afferma alla fine del saggio – allora, la valutazione della nostra vita rimanda a quella del destino stesso.56 Esula, quindi, dalla misurazione del grado in cui sono stato capace di realizzare i beni morali e la felicità, e consiste nella considerazione del grado in cui il destino mi ha consentito ciò. 54 

F.D.E. Schleiermacher, Über den Wert des Lebens (1792-3), KGA I/1, p. 427; infra, pp. 75-77. 55  Ivi, p. 429; infra, p. 79. 56  «Ich spreche das Schicksal frei» ivi, p. 469; infra, p. 157. Si legge ancora: «Immaginavo di essere il suo liberto, attrezzato per uno scambio franco, con una piccola ma sicura e precisa parte di eredità; invece sono solo un bambino che si ammansisce con determinate soddisfazioni, senza che sappia davvero quel che gli concede o gli nega» (p. 465; infra, p. 149).

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4. I discorsi sulla religione In una lettera a Henriette Herz del 1799, Schleiermacher scriveva: «il 15 del mese di aprile, alle nove e trenta del mattino, ho chiuso con la religione. Vada pure per il mondo a vedere cosa le accadrà».57 Erano nati i Discorsi sulla religione. La stesura del primo e del secondo discorso si era dipanata tra il 1798 e il 1799, mentre Schleiermacher ricopriva l’incarico di predicatore riformato all’ospedale Charité di Berlino; i tre rimanenti erano stati redatti tra febbraio e aprile del nuovo anno, mentre suppliva con l’ufficio di predicatore a Potsdam. La vita nella capitale si era per lui configurata come un’ellisse con due fuochi: l’ambiente pietistico, in cui già doveva sentirsi un herrnhutiano di ordine superiore, e la cerchia romantica raccoltasi attorno a Henriette Herz e Dorothea Mendelssohn Veit, in cui primeggiava la figura di Friedrich Schlegel. Probabilmente, come osserva Moretto, «l’impulso che sta all’origine dell’opera prima di Schleiermacher deve essere individuato nei colloqui di argomento religioso intrattenuti con Friedrich Schlegel».58 Da parte sua, Wilhelm Dilthey aveva sostenuto che i Discorsi nascevano, sì, mentre l’amico lo incalzava, spronava e tormentava, fino a estorcergli la promessa di un nuovo lavoro letterario ma, a ben vedere, maturarono «dalla profondità più intima», «da un sentimento di traboccante ricchezza», in contrasto con «tutti i partiti di allora in materia di religione».59 In effetti, gli impulsi nutriti al contatto con la nuova generazione furono filtrati da bisogni spirituali personali e rifusi con gli elementi culturali acquisiti negli anni precedenti.60 È possibile individuare almeno due momenti di cesura nella formazione di Schleiermacher. Il primo, motivato dai dubbi sui fondamenti dogmatici del pietismo, spinge l’autore a elaborare un sistema di etica in cui la dottrina illuministica del sentimento è conciliata con l’assolutezza dell’ideale morale kantiano;61 il secondo in cui la 57 

Lettera a Henriette Herz del 14/4/1799 (n. 629), in KGA V/4, p. 90. Moretto 1998, p. 20 che, a riguardo, concorda con Meckenstock 1984a, p. LIV. Quest’ultimo ha documentato la prossimità intellettuale di Schleiermacher con la cerchia romantica ricostruendo il carteggio intrattenuto con Henriette Herz durante la stesura dell’opera, cfr. Meckenstock 1984a, pp. LVII-LXI. Si veda anche Nowak 2000. 59  Dilthey 2010, II, p. 245. 60  Dilthey riporta le parole scritte in proposito a Sack: «Il mio modo di pensare non ha altro fondamento che il mio carattere, la mia mistica innata, la mia formazione proveniente dall’interiorità». Dilthey 2010, II, p. 195 e nota 69. 61 Cfr. supra, Le rapsodie filosofiche. 58  Cfr.

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concezione etica giovanile è integrata con l’intuizione metafisica spinoziana dell’inerenza del finito all’infinito.62 La complessa dinamica di distanziamento dall’illuminismo non può essere allora ridotta all’influenza esercitata dallo stile di pensiero della cerchia romantica, ma passò per l’assimilazione critica delle filosofie di Kant, Jacobi e Spinoza. Come ha sostenuto Gunter Scholtz, «la fine dell’illuminismo non si specchia nella biografia di Schleiermacher, ma è prodotta dal suo lavoro».63 Nell’opera è messo in forma un registro linguistico alto. «Nei confronti della cosa suprema che il linguaggio può raggiungere» – scrive l’autore – «conviene usare anche tutta l’accuratezza e magnificenza del discorso umano». «È pertanto impossibile esprimere e comunicare la religione altrimenti che in maniera oratoria, con tutto l’impegno del linguaggio, disponendosi, per questo, ad assumere a servizio ogni arte capace di sostenere il discorso fluido e mobile».64 La scelta del genere letterario – ritiene Omar Brino – «segnala un approccio che pone la religione in una dimensione che non basta osservare dall’esterno, ma occorre riconoscere dall’interno».65 Denis Thouard aggiunge che «il carattere irriducibilmente singolare dell’esperienza religiosa non può essere ridotto [nemmeno] alla generalità costitutiva del linguaggio», seppure quest’ultimo conservi la possibilità di un punto di fuga dalla fissità attraverso una «retorica del vago». L’esperienza religiosa, in breve, introduce quel genere particolare di espressione che tende «all’indeterminatezza» e «coltiva l’imprecisione» e «l’abbondanza», in cui la parole signifiant, il fonema con funzione denotativa, è sostituita dalla parole vivante, simile al suono musicale.66 62  A propria volta, il principio d’inerenza assumeva nelle pagine di Schleiermacher il valore di un fondamento metafisico capace di garantire la sintesi di sensibilità e mondo ideale difesa nell’etica. Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Spinozismus (1793/94); Id., Kurze Darstellung des Spinozistischen Systems (1793/94) e Id., Über dasjenige in Jacobis Briefen und Realismus, was den Spinoza nicht betrifft, und besonders über seine eigene Philosophie (1793/94), KGA I/1, pp. 513-558, 561-582 e 585-597. Per un’interpretazione mi sia permesso rimandare a Bondì 2017a. 63  Scholtz 1995, p. 22. 64  Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (1799), KGA I/2, p. 269; infra, p. 325. Hermann Patsch rimanda in proposito anche ai riferimenti all’arte e alla poesia del terzo discorso, ricollegandoli alle riflessioni di Schlegel, Hülsen e Novalis. Cfr. Patsch 1986, pp. 13 e sgg. Per il significato di Novalis nell’opera di Schleiermacher, cfr. Sommer 1973. 65  Brino 2010, p. 10. 66  Thourad 2007, pp. 240 e 244-245. Al motivo della musica in rapporto alla mistica è dedicato l’intero Scholtz 1981.

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Nel terzo discorso, il secolo è raffigurato come un vortice, una vertigine generale, che inabissa i tempi trascorsi e scuote dalle fondamenta i cardini del mondo e della società, dell’arte e della scienza. Al suo interno, la superstizione, combattuta nei concetti politici e nelle convenzioni sociali, persiste in un sapere proteso unicamente a scopi pratici, che nega diritto di cittadinanza al sentimento e all’intuizione. Per l’eccessiva stima della facoltà intellettiva, nell’educazione sono neglette quelle disposizioni immediate della coscienza, la cui comprensione avrebbe scalzato il concetto tradizionale di religione. Anche i migliori tra gli illuministi, vale a dire gli uomini di cultura tedeschi, nell’atto stesso di negarne gli aspetti dogmatici, almeno in parte ne condividono il nome con gli intellettuali inglesi e francesi.67 In conformità con l’opera di Lessing, infatti, l’idealismo trascendentale ha tentato una riforma parziale del concetto di religione centrata sul contenuto morale della vita. Perfino il recente saggio di Fichte Sul fondamento della nostra fede in un governo divino del mondo, apparso nel «Philosophisches Journal» alla fine del 1798, è in linea con la scelta kantiana di trattare la fede entro i limiti della ragione, che l’autore spinge però fino alla deduzione della religione dalla morale.68 Le idee di Dio e dell’immortalità dell’anima sono dunque state problematizzate, ma i pensatori tedeschi non hanno saputo riformularle entro una concezione ben fondata. In verità, dichiara Schleiermacher, il velo sotto cui l’autentica essenza della religione è nascosta continua a resistere con tenacia nei «frammenti di metafisica e morale, cui è attribuito il nome di cristianesimo razionale».69 «L’idea 67  Per l’obiettivo dell’opera, l’autore sembra far coincidere la cultura inglese con la tendenza utilitaristica dell’illuminismo, ma egli conosceva bene la varietà delle posizioni teoriche invalse nel dibattito religioso accesosi in Inghilterra, come mostrano le traduzioni delle prediche di Hugh Blair condotte, assieme al suo protettore Friedrich S.G. Sack, nel 1794-95 e delle prediche di Joseph Fawcett, approntate a Berlino nel 1798. Cfr. Schleiermacher 1795 e Schleiermacher 1798. 68  Gli scritti fichtiani apparsi nel «Giornale filosofico» tra la fine del 1798 e il marzo del 1799 furono tre: assieme a quello citato: l’Appello al pubblico e lo Scritto di giustificazione giuridica, indirizzato all’autorità accademica di Jena. Rimase incompiuto il quarto, Richiami, risposte, domande, rivolto a chi era intervenuto nella polemica, e pubblicato solo nel 1845, mentre il saggio progettato come quinto, Da una lettera privata, apparve nel gennaio del 1800. Si possono leggere tutti nella traduzione italiana di Moretto: Fichte 1989, pp. 71-239. 69  F.D.E. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (1799), KGA I/2, p. 199; infra, p. 187. – È questo il tratto che agli occhi di Schleiermacher accomuna concezioni tanto diverse come quelle di Lessing, Kant, Herder e Fichte. Franz Wittekind ricostruisce i gangli fondamentali dei Discorsi alla luce

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di Dio» – aggiunge rivolgendosi ai philosophes – «non sta così in alto come credete, né tra gli uomini davvero religiosi vi furono mai zelanti, entusiasti o fanatici dell’esistenza di Dio».70 L’idea dell’immortalità dell’anima è addirittura «contraria allo spirito della religione», estendendo oltre ogni misura i contorni definiti della nostra personalità piuttosto che dissolverli gradualmente nell’infinito cui bisogna ricongiungersi.71 Contro il secolo, lo studioso si appella allora a una critica superiore, che giunge al fondamento dell’esperienza devozionale, liberandola sia dalle ipoteche dogmatiche sia dalle implicazioni morali. «Vorrei condurvi» – scrive – «nelle più intime profondità dalle quali essa anzitutto si rivolge all’animo; vorrei mostrarvi da quali disposizioni dell’umanità promana».72 La critica – si legge nel secondo discorso – deve penetrare meglio la struttura spirituale e distinguere l’“intuizione” dalle “regole morali” e dal “concetto”: «la prassi è arte, la speculazione è scienza, la religione è sentimento e gusto per l’Infinito», «tutto» in essa «deve promanare dall’intuire».73 L’intuizione – però – da principio attivo che elargisce forma alla materia, secondo il concetto consegnato al dibattito filosofico nella critica kantiana, è ricondotta da Schleiermacher all’azione dell’eterno, che ottunde «il dinamismo dell’uomo» e lo invita alla «contemplazione inattiva».74 L’accento è pertanto posto sulla relazione immediata dell’individuo con il tutto, in senso inverso rispetto all’appropriazione riflessiva delle filosofie dell’identità. Se il metodo trascendentale ha inaugurato una rivoluzione filosofica giunta, nell’idealismo fichtiano, alla costruzione del mondo mediante il movimento dell’Io, nei Discorsi è l’Universo a strutturare il sé attraverso la percezione.75 L’autore mette così a frutto la nozione di coscienza immediata elaborata nelle Spinoza-Studien (1793-94) e nello scritto Wissen, Meinen, und Glauben a stretto confronto con le idee di Friedrich H. Jacobi.76 della polemica con il concetto fichtiano, cfr. Wittekind 2000. Anche Moretto sostiene che in fatto di religione «Schleiermacher e Fichte non erano destinati a capirsi». Moretto 1992, p. 50. 70  F.D.E. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (1799), KGA I/2, p. 245; infra, p. 270. 71  Ivi, p. 246; infra, p. 279. E ancora: «Sarete ripagati dello spavento dell’autoannientamento, attraverso il sentimento dell’infinito che è in voi» (p. 261; infra, p. 309). 72  Ivi, p. 197; infra, p. 183. 73  Ivi, p. 212; infra, p. 213. 74  Ivi, p. 219; infra, p. 225. 75  Per il concetto di riflessione in Fichte e nella cerchia romantica, cfr. Benjamin 1982, pp. 13-55. 76  Tra gli scritti recenti sul rapporto tra la filosofia di Jacobi e quella di Schleierma-

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«Ogni intuizione, secondo la sua natura,» – spiega ancora Schleiermacher – «è collegata con un sentimento», «entrambi sono qualcosa solo perché sono originariamente uno e indivisi». L’istante misterioso della loro unione è come il «primo effluvio di cui la rugiada cinge i fiori appena sbocciati, è pudico e delicato come un bacio verginale, benedetto e prolifico come un abbraccio sponsale». Alla minima scossa, però, l’intuizione si discioglie dall’abbraccio del tutto e il sentimento «s’innalza dall’intimo e si espande come il rossore della vergogna e del piacere sulla guancia». Allora, il primo stadio della coscienza si ritrae «nell’oscurità di una creazione originaria» e il momento del massimo rigoglio religioso passa.77 Nel quinto discorso, Schleiermacher approfondisce la teoria presentata nel secondo soffermandosi sulla storicità dei sentimenti dell’infinito. Le religioni positive, contro cui il secolo si è scagliato in difesa dell’elaborazione razionale dei contenuti della fede, sono «le forme determinate sotto le quali la religione infinita si presenta nel finito». Solo al loro interno «è possibile una formazione individuale» ove la disposizione devozionale acquisisca la determinatezza, l’immediatezza e la vitalità assenti nel culto razionale e nelle sistemazioni concettuali delle sette.78 «Gli uomini religiosi sono assolutamente storici,» – vi si legge – «ciò non costituisce il loro minor vanto, ma è anche la fonte di grandi fraintendimenti».79 Sul piano ontologico, l’affezione dell’infinito è l’atto di nascita dell’autocoscienza religiosa, le cui manifestazioni, nel loro intreccio con le altre, strutturano la storia. Sul piano gnoseologico, ciò significa che il rapporto tra le religioni positive esula interamente dalla connessione pragmatica invalsa nella concezione illuministica della storiografia. Il giudaismo non è il precursore del cristianesimo, giacché ogni religione può «essere cher, cfr. Giacca 2015, pp. 97-132. Secondo Jacobi, il problema dell’esistenza delle cose al di fuori di noi può essere risolto solo da una rivelazione (Offenbarung) fondata sull’intuizione e sul sentimento, in cui la coscienza è passiva rispetto all’oggetto. Cfr. lettera di Jacobi a Hamann del 13-VI-1783, in Verra 1963, pp. 15 e 162; al riguardo anche Ivaldo 2003, pp. 75-80, Pettoello 1986, pp. 4-12 e Pistilli 2008, pp. 161-178. Il «realismo superiore» di Schleiermacher non è però una fede nell’esistenza dell’oggetto esterno, ma la percezione immediata dell’inerenza del finito nell’infinito. Wissen, Meinen, und Glauben è il titolo attribuito a una lettera indirizzata da Schleiermacher al conte Wilhelm Dohna ove la fede è intesa come autocoscienza immediata. Cfr. la lettera a Wilhelm von Dohna scritta prima del 1796 (n. 326), in KGA V/1, pp. 424-428 e, al riguardo, Herms 1974, pp. 137-140 e Thouard 2007, pp. 97-102. 77  F.D.E. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (1799), KGA I/2, pp. 219, 221; infra, pp. 229 e 231. 78  Ivi, pp. 298-299; infra, pp. 381-383. 79  Ivi, p. 313; infra, p. 411.

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compresa solo mediante se stessa».80 E il contenuto dell’intuizione che sta al centro del cristianesimo in particolare rispecchia la concezione sviluppata in tutte le pagine precedenti. «La storicità del cristianesimo» – scrive Olivetti – «si distingue da quella delle altre religioni perché la storicità della religione viene assunta a contenuto stesso della religione cristiana».81 Al suo centro sta infatti l’intuizione «dell’universale contrapposizione di tutto ciò che è finito all’unità del tutto» (I) e del modo in cui la divinità «media l’inimicizia contro sé e pone dei limiti a un’avanzante distanza da sé» (II).82 Dando rilievo al principio dell’opposizione all’infinito, il cristianesimo è avverso all’infausta mescolanza di fede e falsa morale che trova all’esterno, ma rivolge la sua forza polemica anche al proprio interno per combattere la corruzione che vi si annida. Così, la vicenda delle sue evoluzioni è prescritta dall’intuizione postavi a capo, che predica l’impossibilità di un’adeguazione definitiva del reale all’ideale.83 Per la stessa ragione, d’altro canto, il cristianesimo si distingue da un qualsiasi fenomeno storico che possa essere totalmente superato. Esso «ha la migliore prova della sua eternità nella sua corruttibilità, nella propria triste storia, e aspettando sempre una redenzione dalle cose miserevoli […] vede sorgere volentieri, al di fuori di questa corruzione, altre e più giovani forme di religione».84 Scheiermacher ha così tratteggiato una concezione trascendentale della storia, mettendo a fuoco il principio perenne secondo cui la religione si conserva mutando. Al contempo, ha suggerito un modello d’interpretazione filosofica della storia religiosa sottratto ai nessi pragmatici e centrato sull’alternanza tra dissidio (I) e riconciliazione (II) di reale e ideale. I due ordini di comprensione invero possono coesistere perché sempre sarà possibile valutare le religioni in rapporto a serie finite e sempre rimarrà necessario, per intenderle iusta propria principia, adottare il punto di vista del rapporto tra finito e infinito. La storicità coincide con l’individualità d’ogni intuizione, garantita dalla sua immediata apertura alla totalità, mentre la storia in senso empirico rimane una costruzione cognitiva legata alla violenta scissione del finito dal tutto. Buona parte della storiografia tede80 

Ivi, p. 314; infra, p. 413. Olivetti 1974, p. 141. 82  F.D.E. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (1799), KGA I/2, p. 316; infra, p. 417. 83  Riguardo agli sviluppi della riflessione sulla storicità del cristianesimo nella Dottrina della fede (1821-22), cfr. Brino 2003, pp. 306 e sgg. 84  F.D.E. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (1799), KGA I/2, p. 325; infra, p. 435. 81 

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sca successiva, a partire da Leopold von Ranke, può essere letta come un tentativo di articolare la tensione tra la concezione ermeneutica dell’individuale e l’interpretazione pragmatica dei fatti storici.85 Come nella poesia, la comprensione religiosa avviene attraverso un giudizio emotivo ed è radicata in una situazione esistenziale, ma la natura di questo giudizio è altra cosa dal rispecchiamento in noi del contenuto dell’intuizione data. Comprensione si ha solo dall’interno, quando riusciamo a pervenire a un nuovo centro esistenziale e a esprimerlo in modo personale, come nella libera comunicazione ascoltare è già parlare. Nel quarto discorso, Schleiermacher motiva la degenerazione delle chiese esistenti in riferimento alle ingerenze dello Stato nella vita delle comunità. «Che ci si liberi nuovamente di questo scandalo è nostro comune interesse»,86 dichiara il Redner agli illuministi, osservando però che lo scandalo di una chiesa politicizzata nasce con gli atti di costituzionalizzazione compiuti dagli Stati moderni in ottemperanza alla politica di controllo dei comportamenti sociali. Senza tali interventi, la vera ecclesia si sarebbe separata mediante un movimento spontaneo dalle istituzioni educative, costituendosi in piccole comunità dai confini indeterminati. La concessione dei diritti di corporazione ha invece irrigidito una dinamica fluida, operando come la terrificante testa di Medusa che tutto pietrifica. Ora, «ogni cosa è condannata a rimaner fissa nello stato in cui appunto si trovava» e i veri devoti «sono posti nelle condizioni di non poter fare per essa il poco che potrebbe ancora esser fatto».87 Al loro posto subentrano insegnanti votati a funzioni pedagogiche e amministrative, le assemblee si trasformano in confraternite, alla camera privata del circolo di fratelli viene sostituito il tempio pubblico in cui s’impartisce lezione. Hegel prende in esame le teorie schleiermacheriane nella Prefazione allo scritto sulla Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling (1801) e in Fede e sapere (1802). Non è qui possibile ripercorrere analiticamente le considerazioni hegeliane e conviene, invece, soffermarsi almeno su un aspetto.88 Nei Discorsi – sostiene Hegel – il principio jacobiano, che esprime la bellezza soggettiva del protestantesimo, è pervenuto al 85 

Per Ranke cfr. Di Bella 2005, pp. 293-294. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (1799), KGA I/2, p. 288; infra, p. 363. 87 Ivi, p. 282; infra, p. 351. 88  Per una ricostruzione dettagliata dei giudizi hegeliani si vedano in bibliografia i quattro scritti di Emanuele Cafagna apparsi nel 2012, 2013, 2014 e 2015 e, ancora, Bonacina 1998 e Kimmerle 1990. 86  F.D.E.

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più alto potenziamento perché l’universo è stato posto nel mondo terreno [das Diesseits]. La percezione comune è intesa in un senso più ideale, capace di conciliare il soggetto con l’universo o la natura. Tuttavia, «l’intuizione dell’universo, soggettiva e oggettiva insieme,» rimane di nuovo qualcosa di particolare, non «consolida la propria espressione all’esterno, né affida la propria vitalità all’oggettività». Si esprime semplicemente nello sforzo di «eternare l’arte senza opera d’arte». La critica di Hegel riallaccia la teoria della percezione immediata dell’infinito all’idea di comunità religiosa a essa correlata. Quando il virtuoso fa ingresso nell’assemblea dei fedeli, la qualità soggettiva della sua intuizione non è cancellata, ma posta al centro di una comunità speciale, ove «le conventicole e i particolarismi si fanno valere e si moltiplicano all’infinito», modificandosi a ogni istante «come figure di un mare di sabbia in balìa dei venti».89 Manca l’edificazione di un’oggettività condivisa che confermi la fede stessa, nessuna legge può rappresentare il terreno comune delle diverse intuizioni e «a tale situazione si adatta certo molto bene la separazione illuministica di chiesa e Stato». Per innalzarsi a una vera oggettività sarebbe necessario svincolare la coscienza religiosa dalla percezione naturale-immediata, e assegnarle il valore di un’intuizione spirituale atta a determinarsi organicamente e conservarsi nelle leggi. Solo quando la soggettività, che si oppone all’esteriorità dei culti tradizionali e alla morale della religione naturale, trova nella realtà di una comunità la conferma effettiva della propria fede, l’identità di finito e infinito consegue una validazione storica. Il fatto che l’intuizione rimanga sospesa nella proiezione espressiva, determinando una moltiplicazione delle soggettività disincagliate da un universo etico condiviso, mostra che il soggettivismo non è veramente superato, vale a dire che la conciliazione dell’infinito con il finito, presupposta nell’esistenza concreta, era solo apparente.90 Riaccostando gli studi di Emanuele Cafagna e di Pierluigi Valenza, osserviamo in conclusione che la discussione sulle Reden diventa anche il terreno di confronto tra idee diverse di libertà. Secondo Hegel, la soggettività per non smarrire il suo contenuto deve trovare conferma nell’universo etico-storico «che rende le obbligazioni civili e politiche determinazioni non meramente positive, ma manifestazioni oggettive della libertà». A un’altezza più rarefatta si ferma la «gravità della libertà» per Schleiermacher e, invero, non nell’intuizione solo sentita interiormente, 89  90 

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Dalla traduzione datane in Bonacina 1998, pp. 89-90. Cfr. Cafagna 2014, pp. 180-181.

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ma in un «divenire che non accetta una determinazione fissata una volta per tutte».91 In un libro recente, Jürgen Habermas ha sostenuto che Schleiermacher, separando le religioni dalla dogmatica teologica e dalla morale omologante, ha riconosciuto loro una forza comunicativa contrastante con la funzione che rivestono nel mondo contemporaneo.92 Quali sentimenti dell’infinito indisponibili alla razionalizzazione, esse pongono un limite all’universalità astratta del nucleo autoritario del potere e, in ragione della valorizzazione dell’individualità, promuovono una forma di coesione democratica rispettosa della pluralità.

5. I monologhi La stesura di questo «manifesto dell’etica romantica» avviene in poco meno di un mese, tra la prima e l’ultima settimana del novembre 1799. L’editore Christian S. Spener, entrato in possesso del manoscritto in dicembre, può mandare il testo in stampa nel gennaio del 1800,93 negli stessi giorni in cui per i tipi dell’editore Voß appare la fichtiana Destinazione dell’uomo. Poco prima che Schleiermacher iniziasse la dettatura del saggio, Friedrich Schlegel gli aveva indirizzato il consiglio di scrivere ancora qualcosa «su Spinoza» o anche «sui limiti della filosofia» per farsi intendere dai «filosofi in senso proprio» con cui non era riuscito a entrare in rapporto [en rapport kommen]» attraverso i Discorsi.94 Secondo l’ipotesi di Meckenstock, il consiglio sollecitò la stesura dei Monologhi, che «muovono al confine tra filosofia scientifica e vita individuale, e tentano di mediare questi due ambiti in compenetrazione reciproca in vista di un’universalità concreta».95 In effetti, Schleiermacher stesso assegnava al nesso Leben – Philosophie il valore di un distanziamento dal formalismo kantiano e dall’approccio speculativo di Fichte.96 Al suo editore, insoddisfatto dell’annuncio del 91 

Cfr. rispettivamente Cafagna 2012, p. 116 e Valenza 1998, p. 328. Habermas 2015, p. 191. In proposito Brino 2017. 93  Cfr. Meckenstok 1988a, pp. XVII-XX. 94  Lettera di F. Schlegel del 10/10/1799 (n. 710), KGA V/3, p. 215. 95  Meckenstok 1988a, p. XVI. Si veda anche Moretto 1998, pp. 30 e sgg. 96  Cfr. in proposito anche F.D.E. Schleiermacher, Rezension von Immanuel Kant Anthropologie (1799), KGA, I/2, pp. 363-369 (tr. it. Schlegel 2008, pp. 543-547) e Rezension von Johann Gottlieb Fichte: Die Bestimmung des Menschen (1800), in KGA I/3, pp. 235-248 (tr. it. Schleiermacher 2002). 92 

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saggio, ad esempio, dichiarava: basta si capisca che «i Monologhi contengono altro rispetto a ciò che ogni fichtiano ha cura d’avanzare», che «sono in lotta contro tutti i partiti» e propongono qualcosa di peculiare.97 Perfino, uno dei primi interpreti, Friedrich H.C. Schwartz, in una recensione apparsa nel 1801 nella «Allgemeine Bibliothek der neuesten theologischen und pädagogischen Literatur» di Gießen, indicava la peculiarità dell’opera in un «idealismo emozionale» capace di conciliare razionalismo e misticismo, pensiero ed esperienza.98 Agli amici che confessavano la difficoltà di riconoscere nel testo il suo carattere,99 Schleiermacher ribatteva che i Monologhi esibiscono proprio quella legge interna del suo essere che nella quotidianità viene intorbidita dalla circostanze.100 All’originalità di concezione corrisponde una costruzione linguistica singolare, che induce l’autore a parlare dello scritto come di «un estratto lirico dal permanente diario dell’anima».101 Ehrhardt ha osservato che, oltre agli immediati riferimenti alla letteratura cristiana edificante, alla poesia intimistica e ai soliloqui di Shaftesbury, in essi rifulge l’esempio platonico del «dialogo interno», ove «uno, nel pensiero, si comporta come due».102 Il primo e il secondo soliloquio hanno a tema l’individuarsi del soggetto attraverso la riflessione. Se nella filosofia fichtiana l’io si riconosce nell’autoriferimento, nei Monologen la costituzione del soggetto morale rimanda all’originaria apertura a un infinito trascendente. Altrimenti da «tutte le dottrine morali e sistemi dei saggi, che giammai possono essere di una tale forza, si tratta qui» – scrive ancora Ehrhardt – «di un’“alta conversione”»,103 coincidente con il farsi carico di sé dopo essersi scoperti in rapporto con l’eterno. La riflessione risponde allora al bisogno di affrancarsi dalla corrente del tempo e dall’indegna necessità della vita sensibile. Ma ciò non significa che la coscienza possa essere concepita come assolutamente libera, giacché l’au97 

Cfr. lettera a J.C.P. Spener del 25/12/1799 (n. 762), KGA V/3, p. 321. Cfr. Meckenstok 1988a, pp. XXXV-XXXVII. 99  Cfr. lettera di Dorothea Veit Mendelssohn del 15/5/1800 (n. 867), in KGA V/4, p. 43. 100  Cfr. lettera a H. v. Willich dal 18/9/1808 al 19/9/108 (n. 2837), in KGA V/10, p. 251: «io sono davvero così, questo è la mia disposizione interiore, la mia vera essenza, ma l’essenza non si manifesta mai adeguatamente all’esterno [in der Erscheinung]». Wilhelm Dilthey definiva l’opera «rappresentazione di un carattere, filosoficamente cosciente di se stesso e moralmente compiuto», Dilthey 2010, II, p. 320. 101  Lettera a C.G. v. Brinckmann del 19/4/1800 (n. 847), in KGA V/3, p. 484. 102  Ehrhardt 2005, pp. 81-82. In una lettera di F. Schlegel troviamo in effetti la singolare designazione di Mono-Dia-Monolog. Cfr. lettera di F. Schlegel e D. Veit dell’inizio agosto 1800 (n. 922), in KGA V/4, p. 179. 103  Ehrhardt 2005, p. 88. 98 

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tonomia dal dominio sensibile si riallaccia alla dipendenza dall’ordine superiore dell’infinito. E tuttavia, la relazione con quest’ultimo ‘as-soggetta’ solo nel senso che rende l’uomo una individualità irriducibile a sintesi mondane. Rimandando all’infinito, il sentimento morale rivela alla coscienza la differenza tra se stessa e tutti gli altri enti e, dunque, la propria libertà.104 Se lo spirito così concepito «è la prima cosa e l’unica» – aggiunge Schleiermacher nel primo monologo –, bisogna decostruire lo stereotipo di un mondo indipendente dallo spirito. «Quel che mi degno di chiamare mondo» – si legge – «è soltanto l’eterna comunità degli spiriti, il loro vicendevole influsso, il loro reciproco costituirsi, l’alta armonia della libertà». Solo questa totalità socialmente determinata può operare sull’individuo singolo, orientarlo e a volte opporgli una resistenza. «La libertà urta contro la libertà, e ciò che accade porta i segni della limitazione e della comunità». La necessità è allora «il tono specifico del bel conflitto della libertà, che ne rivela l’esistenza»; più che alla natura, è riconducibile alla storica determinatezza delle interazioni sociali.105 Secondo una linea argomentativa già proposta nei Discorsi, la riflessione o il «ritorno a sé» dal tutto dell’esperienza religiosa approda alla scoperta dell’umanità.106 Non si tratta di fare regole e tentativi – scrive Schleiermacher –, ma di un’unica libera decisione che «produce in me la chiara coscienza dell’umanità».107 Realizzando sul versante pratico il processo d’individuazione posto a capo dell’esperienza mistica, l’eticità viene così a coincidere con la particolarizzazione della legge nel singolo e con la formazione di un’esistenza spirituale irripetibile. L’autore può allora confessare: «mi è ormai diventato chiaro che ogni uomo deve rappresentare l’umanità in modo proprio, in una peculiare mescolanza dei suoi elementi, affinché essa si riveli in ogni modo e si pos104  Cfr. Moretto 1979, p. 256, Andolfi 2011, p. 20 e Thouard 2007, p. 175. Quest’ultimo scrive: «mettendo in primo piano una dipendenza assoluta e non, come Fichte, una libertà assoluta, Schleiermacher pensa la soggettività sotto la condizione dell’individualità: il soggetto prende coscienza di se stesso […] come già preso da un processo di individuazione». 105  F.D.E. Schleiermacher, Monologen. Eine Neujahrsgabe (1800), KGA I/3, pp. 9-11; infra, pp. 451-455. 106  Cfr. Giacca 2015, pp. 163-165. L’autrice considera la riflessione come «reinclusione, nella propria irriducibile individualità, dell’infinità esperita nel sentimento religioso», per cui «lo schema immanentistico, secolarizzato, del determinismo giovanile viene arricchito e allargato attraverso la prospettiva trascendente introdotta dalle Reden». 107  F.D.E. Schleiermacher, Monologen. Eine Neujahrsgabe (1800), KGA I/3, p. 16; infra, p. 465.

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sa realizzare, nella pienezza dell’infinitudine, tutto ciò che può effondersi dal suo seno».108 Dall’intimo della filosofia di Schleiermacher emerge infine la proposta di un’etica pluralistica volta all’affermazione degli individui. Al suo interno – come ha scritto Claudio Cesa – «la peculiarità di ciascuno non sono i casi infiniti di un ente che si chiama uomo, ma ogni uomo “rappresenta” l’umanità in tutti i tratti specifici di essa».109 Il punto – ha sostenuto Moretto – «mi sembra che questa Bestimmung non può essere esterna alla vita stessa» perché l’idea etica «origina dalla concretezza sofferta dell’azione propria dell’individuo».110 La coscienza dell’umanità è liberatoria non solo perché – come si è detto – recide il vincolo con il mondo ma anche perché affranca da una morale interna generale e prescrittiva. Nell’introduzione alla sua traduzione italiana, Ferruccio Andolfi ha racchiuso in queste parole il significato storico dell’opera: A Schleiermacher spetta il merito di aver dato per primo una forma astratta all’intuizione della vita propria del secolo XIX, cioè di quel secolo in cui gli individui, una volta liberati in linea di principio dalle istituzioni del privilegio e della disuguaglianza, vogliono anche ‘distinguersi l’uno dall’altro’, nella loro determinatezza e non scambiabilità.111

Ciò consentiva a Schleiermacher una profonda revisione del concetto di destinazione avanzato da Fichte nell’opera coeva.112 In essa la Bestimmung è pensata come «un divenire messo in azione in me da una determinazione esterna», ove «la personalità già da tempo è scomparsa e sprofondata nell’intuizione della meta» e l’uomo «si considera, si onora e si ama soltanto come uno degli strumenti dell’infinito scopo razionale». Per Schleiermacher, invece, la destinazione morale coincide con il piano individuale, con il «‘che cosa sono io’».113 Se scopo dell’uomo è divenire sempre più quel che è,114 trovata la propria umanità, egli deve aspirare a estenderla con un’attività trasformatri108 

Ivi, p. 18; infra, p. 469. Cesa 2010, p. 623. 110  Moretto 1979, p. 275. 111  Andolfi 2011, p. 27-28. 112  Die Bestimmung des Menschen (1800), cfr. Fichte 2001. 113 Citazioni tratte rispettivamente da F.D.E. Schleiermacher, Rezension von Johann Gottlieb Fichte: Die Bestimmung des Menschen (1800), in KGA I/3, pp. 241, 248 e 241 (tr. it. di O. Brino: Schleiermacher 2002, pp. 46, 52, 47) e Id., Monologen. Eine Neujahrsgabe (1800), KGA I/3, p. 42; infra, p. 513. 114  «Divenire sempre più quel che sono, è questa la mia unica volontà». F.D.E. Schleiermacher, Monologen. Eine Neujahrsgabe (1800), KGA I/3, p. 42; infra, p. 513. 109 

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ce alla realtà che gli sta intorno. Perché il futuro diventi «libera proprietà, e non signore»,115 all’opera condotta su se stessi bisogna affiancare l’opera condotta sul mondo, altrimenti il suo corso regolare continuerebbe a limitare la personalità appena emersa. La formazione interna deve trapassare nell’attività esterna e ogni carattere peculiare dell’umanità deve armonizzarsi con l’interiorità: «quale che sia la cosa da me abbracciata, essa porterà il mio conio, e tutto ciò che la mia intelligenza ha colto del campo infinito dell’umanità sarà anche costituito in me in modo appropriato e trapasserà nella mia essenza».116 Nelle sofferte riflessioni sulla morte dell’amico («mi uccide il loro morire») che tanto avevano colpito la sensibilità di Jean Paul,117 l’autore giunge a sostenere che voler morire è il fine anelato per chi è «pervenuto allo scopo del compimento della sua peculiarità» e «non avrebbe null’altro da operare in sé».118 Secondo le battute del quinto monologo, che sembrano anticipare i motivi della nona sinfonia di Beethoven, d’altro canto, non vi è vecchiaia fintanto che lo spirito è orientato all’azione intima, giacché il senso per il vero mondo non può dipendere dal corpo. Il terzo monologo riprende la polemica abbozzata nei Discorsi contro l’egoismo rozzo e predatorio dell’epoca che ha eletto il dominio materiale del mondo a proprio fine. Schleiermacher riconosce il valore del sentimento della vita innalzato mediante la comunità, ma le sue «aspirazioni non si arrestano modestamente a questo miglior rapporto dell’uomo con il mondo esterno».119 La società vuol garantire solo un benessere esteriore e disconosce i bisogni interiori, «quel che c’è di una comunità spirituale è svilito a servizio della comunità mondana».120 I rapporti sociali rispondono esclusivamente a interessi personali e ciò è inevitabile fintanto che si restringe il significato delle istituzioni alla funzione di preservare i singoli egoismi e proteggere dai conflitti che ne nascono. Sostituendo invece la concezione di un’individualità governata dall’arbitrio con un’immagine eticamente densa dell’individuo, le istituzioni pregiuridiche e giuridiche si stagliano alla nostra considerazione come formazioni capaci di arricchire le istanze umanitarie dei singoli mettendoli reci115 

Ibidem. F.D.E. Schleiermacher, Monologen. Eine Neujahrsgabe (1800), KGA I/3, p. 24; infra, p. 481. 117  Cfr. lettera di F. Schlegel del 5/5/1800 (n. 861), KGA V/4, p. 20. 118  F.D.E. Schleiermacher, Monologen. Eine Neujahrsgabe (1800), KGA I/3, p. 51; infra, p. 529. 119  Ivi, p. 30; infra, p. 493. 120  Ivi, p. 32; infra, p. 497. 116 

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procamente in comunicazione.121 L’educazione e i costumi, lungi dall’estenuarsi in «morte formule», «regole e abitudini», diventano occasioni per il libero sviluppo e il libero agire, la comunicazione linguistica, «attraverso cui lo spirito appartiene al mondo ancor prima di trovarsi», si trasforma in uno strumento di comprensione reciproca e lo Stato può davvero esprimere un «altissimo grado di esistenza».122 In linea con i saggi sul comportamento e sul decoro,123 nei Monologhi i legami familiari e amichevoli e, a un diverso livello, le istituzioni sono considerati l’ambito di realizzazione di una moralità concreta oggettivata nei rapporti storici. Schleiermacher, ha scritto Dilthey, risolve la scissione kantiana tra ambito prudenziale e dimensione dell’eticità nel pensiero «di una moralità produttiva [bildende Sittlichkeit], che non limita sensibilità, fantasia, passione attraverso la semplice imposizione della legge, ma la nobilita attraverso lo spirito».124 Il ricongiungimento dell’essere al dover essere, perseguito nell’opera, dà insomma corpo a quelle istanze delle rapsodie etiche cui l’autore conferirà forma sistematica nelle Grundlinien einer Kritik der bisherigen Sittenlehre (1803).125 Già nei Monologen, la storia può essere concepita come il processo di oggettivazione delle energie morali e l’etica può essere intesa, secondo l’espressione del Brouillon zur Ethik (1805/06), come «la scienza della storia, vale a dire dell’intelligenza come manifestazione». In questo orizzonte, la differenza temporale acquista un rilievo del tutto nuovo per la dottrina morale. Riecheggiando la rivendicazione consegnata da Fichte all’Appello al pubblico, «questo mondo non è la mia patria», Schleiermacher dichiara infatti d’essere «un cittadino profetico del mondo futuro», «spinto a esso da una vitale fantasia e una forte fede».126 I cospiratori di un tempo migliore devono innalzarsi dalla «bassa pianura del pre121 

Cfr. Brino 2010, p. 22. F.D.E. Schleiermacher, Monologen. Eine Neujahrsgabe (1800), KGA I/3, pp. 33-37; infra, pp. 499-505. 123  Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Versuch einer Theorie des geselligen Betragens (1799), in KGA I/2, pp. 163-184 e Id., Über das Anständige (1800) in KGA I/3, pp. 73-99. 124  Dilthey 2010, II, p. 374. Omar Brino ha sviluppato questa linea interpretativa: Kant faceva discendere cultura e politica dalla sensibilità e dall’amor proprio, insistendo sulla distinzione tra l’ambito prudenziale e finalità propriamente morale. Con il concetto di Bildung, proposto nei Monologhi, la moralità non può più essere opposta alla sfera prudenziale, poiché anche quest’ultima promana dalle forze interiori dell’animo. Cfr. Brino 2004. 125  L’esame maggiormente dettagliato di quest’opera è presentato in Brino 2007. Approfondita anche la ricostruzione offertane in Giacca 2015, pp. 177-242. 126  F.D.E. Schleiermacher, Monologen. Eine Neujahrsgabe (1800), KGA I/3, p. 35; infra, p. 503. 122  Cfr.

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sente [niedere Fläche der Gegenwart]», e preparare una società che converta i vantaggi pratici in avanzamenti spirituali.127 La fissità conferita al pensiero morale da Kant è così oltrepassata e, tuttavia, per Schleiermacher, in ciò assai distante da Hegel, nessuna istituzione del futuro può esprimere compiutamente le potenzialità etiche dell’umanità. Claudio Cesa ha osservato che il rinnovato interesse per l’opera di Schleiermacher dipende anche dall’esaurimento della discussione, tutt’altro che futile, sulle istituzioni come incorporamento positivo e progressivo dello spirito e della libertà.128 Ciò non toglie la fiducia nelle istituzioni, ma pone il tratto caratteristico della storicità nel valore intrasferibile dell’individuo e delle formazioni comunitarie che lo arricchiscono senza esaurirne i contenuti vitali.

6. La festa di Natale L’idea di scrivere un dialogo sulla festa di Natale sovvenne a Schleiermacher di sera, «accanto alla stufa», dopo aver assistito al concerto del flautista Friedrich Ludwig Dülon (1769-1826) tenuto nella sala della cattedrale di Halle il 3 dicembre 1805. Tre settimane dopo, la mattina della Vigilia, l’autore spediva gli ultimi fogli allo stampatore Schimmelpfennig perché ne fossero messe al più presto in commercio alcune copie anonime, per vedere se gli amici berlinesi ne avrebbero riconosciuto la paternità.129 Nel gennaio del nuovo anno il libretto era già distribuito a Halle, Berlino, Jena e altre città tedesche. Parzialmente soddisfatto del risultato, benché la prima parte del dialogo gli apparisse meno elaborata della seconda, l’autore dichiarava l’analogia del lavoro con i Monologhi per la brevità, la celerità della stesura e, soprattutto, l’immediatezza dell’ispirazione.130 Se non lo avesse ani127 

Ivi, p. 31; infra, p. 497. Cesa 2010, pp. 620-621. 129  Hermann Patsch, curatore dell’edizione tedesca della Weihnachtsfeier, ha messo in luce le allusioni e i tratti esoterici dell’opera che non potevano sfuggire alla cerchia iniziatica degli amici, cfr. Patsch 1991. Si veda anche Emanuel Hirsch, Schleiermachers «Weihnachtsfeier», in Hirsch 1968, pp. 7-52. 130  È giudizio condiviso che lo scritto concluda la stagione romantica. Proprio le autotestimonianze di Schleiermacher, volte a sottolineare che è stato concepito come «qualcosa di simile a un’opera d’arte» (lettera a Georg A. Reimer del 10/2/1806, n. 2142, KGA V/8, p. 466), documentano, secondo Patsch, «il collegamento con le ambizioni letterarie degli amici romantici». «Per questo,» – scrive lo studioso – «la Festa di Natale è un’opera della Frühromantik, apparsa dopo la dissoluzione della scuola dei primi ro128 

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mato la fretta di offrire il testo come dono di Natale, lo avrebbe accompagnato con una collezione di brevi scritti sulle feste comandate e i sacramenti.131 All’università di Halle, Schleiermacher era stato chiamato nell’ottobre del 1804 per ricoprire le cattedre di teologia e di etica. Dopo l’allontanamento dalla capitale, imposto dal capo della Chiesa riformata berlinese Friedrich S.G. Sack in seguito allo scandalo letterario delle Lettere confidenziali (1800), il giovane predicatore aveva trascorso gli ultimi due anni a Stolp, attendendo alla stesura dei Lineamenti di una critica della dottrina morale finora avutasi (1803).132 Giovanni Moretto, nell’introduzione alla prima edizione italiana de La festa di Natale,133 ha ricordato le proteste del vecchio maestro Johann A. Eberhard alla notizia che un herrnhutiano, tacciato di ateismo, fosse invitato come teologo in una facoltà di stretta osservanza luterana.134 Al giovane professore non mancò tuttavia un’accoglienza favorevole nella cerchia romantica della città, raccoltasi attorno alla figura del maestro di cappella e direttore della «Berlinische Musikalische Zeitung», Johann F. Reichardt (1752-1814). La sua casa, nei pressi del castello di Giebichenstein, era frequentata da giovani esponenti del movimento, tra cui primeggiavano gli scrittori Achim von Arnim e Clemens Brentano, tanto che il giardino panoramico adiacente, apprezzato perfino da Goethe, meritò il titolo di Herberge der Romantik (ostello del romanticismo). Adolph Müller, allievo di Schleiermacher, in una lettera al padre del 18 febbraio 1806 sottolineava «i grandi e piccoli riferimenti» agli ospiti di casa Reichardt contenuti nell’opera, e «le frecciate e le allusioni contro i dotti del posto». Achim von Arnim, in una missiva a Savigny scritta un giorno prima, si esercitava a indovinare l’identità dei personaggi. A parte i richiami espliciti a Charlotte Schlegel (Ernestina) e Charlotte von Kathen (la Carlotta protagonista del racconto di Carolina), che troviamo in alcune lettere dello stesso autore, la questione dell’identificazione mantici», Patsch 1995, p. XLIX. In proposito si vedano anche Moretto 1994, pp. 26-27 e Brino 2010, pp. 44-47. 131  Le suddette informazioni si ricavano dalle lettere a Joachim C. Gaß del 5/1/1806 (n. 2111), KGA V/8, p. 423, allo stesso del 4/2/1806 (n. 2136), KGA V/8, pp. 456-457, a Georg A. Reimer del 10/2/1806 (n. 2142), KGA V/8, p. 466 e a Ehrenfried Th. Von Willich del 20/6/1806 (n. 2201), KGA V/9, p. 49. 132  F.D.E. Schleiermacher, Vertraute Briefe über Friedrich Schlegels Lucinde (1800), in KGA I/3, pp. 139-216 e Id., Grundlinien einer Kritik des bisherigen Sittenlehre (1803), in KGA I/4, pp. 27-358. 133  Cfr. Schleiermacher 1994. 134  Moretto 1994, pp. 13-14.

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dei convenuti alla festa di Natale, ha osservato Hermann Patsch, rimane aperta.135 La prima parte del testo descrive l’incontro di una devota compagnia di amici riuniti per la Vigilia. La sala addobbata, dove si ammira la tavola su cui Ernestina ha disposto i doni e dove i convitati s’intrattengono gaiamente, è una miniatura della libera socievolezza cristiana. I membri della piccola comunità intessono un dialogo a più voci centrato sul tema dell’amore materno e del Bambino divino, quasi una sinfonia con molte variazioni sull’educazione religiosa, sull’arte sacra, sulla diversa devozione degli uomini e delle donne, sul valore mistico della musica. Nella seconda parte, tre donne, Ernestina, Agnese e Carolina, narrano altrettante novelle sul rapporto della madre con il figlio, mentre Federica le accompagna o le conclude al pianoforte. Dopo l’interruzione di alcuni conoscenti, è la volta dei discorsi teologici di Leonardo, Ernesto e del capofamiglia Edoardo, finché non giunge Giuseppe, presenza tanto attesa, che dichiara di non essere venuto per fare discorsi celebrativi, ma per gioire insieme alla devota compagnia e cantare qualcosa di gaio. In un frammento databile tra il 1800 e il 1803, Schleiermacher dichiarava l’intento di rinnovare il Simposio platonico, inserendo il tema della divinità al posto del contenuto originario, in modo che Socrate proponesse il panegirico di Cristo.136 La festa di Natale può forse essere considerata uno sviluppo del progetto trascritto in quell’appunto, ma l’opera d’arte che ne risulta non è ascrivibile alla forma dialogica.137 Dalla cornice narrativa si dipartono infatti il dialogo a più voci, le novelle delle donne, i discorsi degli uomini, e il lettore intuisce, e vagheggia, la musica al pianoforte di Sofia e Federica quale punto di fuga dalla parola. Se lo scritto, secondo un’indicazione dello stesso autore, si propone di mostrare un’amichevole coesistenza tra i diversi modi di concepire il cristianesimo,138 ciò avviene perché 135 

Patsch 1995, pp. L-LV. Schleiermacher, Fragment 169, Gedanken V (1800-1803) in KGA I/3,

136  F.D.E.

p. 325.

137 In una recensione anonima apparsa nel «Dresdner Abend-Zeitung» dell’8 marzo 1806, il libretto era definito un’«originale opera classica» (cfr. Patsch 1995, p. XLVII). Friedrich Schlegel, invece, non nascondeva all’autore che lo stile gli pareva troppo artificiale e in poco spazio si affollavano troppe persone, cfr. lettera di F. Schlegel del 23/6/1807 (n. 2501), in KGA V/9, p. 476. 138  «I modi più diversi di concepire il cristianesimo sono qui riuniti in una modesta stanza non soltanto in pacifica convivenza, in quanto si ignorano vicendevolmente, ma anche in amichevole confronto». F.D.E. Schleiermacher, Die Weihnachtsfeier. Ein Gespräch (1806), in KGA I/5, p. 99 (Vorerinnerung zur zweiten Ausgabe, 1826).

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il cristianesimo, oltre a molteplici significati, accoglie e promuove diverse forme espressive che, tuttavia, rimangono al di qua della possibilità di un pronunciamento definitivo. Dilthey e Barth hanno messo in luce il valore della costruzione artistica della prima parte del testo in cui è rappresentata la gioia festosa della piccola comunità. Nelle conversazioni intavolate ciascuno conserva il diritto di essere se stesso, e dall’intimo armonizzarsi nel dialogo delle molteplici opinioni traluce l’ideale di una serena vita cristiana realizzata nella socievolezza.139 Il dono di uno spartito musicale rallegra Sofia che mostra disinteresse per i lavori femminili del ricamo e dell’uncinetto. Il tema della maternità emerge con decisione al cospetto della storia raffigurata del cristianesimo. Nell’oscurità del tugurio, una forte luce illumina il capo del Bambino e si riflette sul viso reclinato della Madre, Sofia allora, rivolta ad Ernestina, esclama «Oh mamma! Tu potresti esser bene la madre beata del bambino divino». E tale riconoscimento del principio per cui ciascuna madre può onorare nel figlio la rivelazione del divino è chiosato dall’inno Lasset uns ihn lieben (Amiamolo) accompagnato al pianoforte da Carolina. La conversazione volge poi sul sentimento devozionale di Sofia. Leonardo teme che la forte religiosità della bambina la induca a rompere i legami familiari e a sacrificare l’esistenza in un seminario herrnhutiano. Ciò consente alla gaia compagnia di riflettere sulla spontaneità della disposizione religiosa di Sofia renitente a forzature, alle seduzioni del culto esteriore, alla superstizione e all’idolatria. Autonomamente, la bambina si avvicina alla comprensione allegorica della Bibbia, apprezza l’arte applicata alla religione solo perché la prima è espressione della vita, coglie il nesso tra i piccoli doni natalizi e il grande regalo del ringiovanimento dell’umanità, e accetta con letizia quanto la vita offre, pronunciando «sì» innanzi alla gioia e alla tristezza, aspirando ad avere in modo puro e totale ogni stato d’animo e ogni sentimento. Dalla libera comunicazione della prima parte si passa ai racconti delle donne. Moretto ha interpretato le novelle alla luce del valore attribuito da Schleiermacher, «fin dalla seconda lezione del Broullion», all’aspetto narrativo. Se la scienza storica, come l’autore avrebbe sostenuto più tardi, «è l’illustrazione [Bilderbuch] della dottrina dei costumi», la vita etica non deve essere dedotta ma narrata.140 A differenza degli uomini, in cui regna un’inquieta tensione, una battaglia passionale con il mondo, e il bisogno di una conversione attraverso cui tutto ciò sia superato, nel sentimento vita139  140 

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Dilthey 1970, p. 774, 781 e Barth 1994, pp. 175. Moretto 1994, p. 39.

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le delle donne è già data l’«unione immediata del divino con l’infantile»,141 per cui esse possono rendere testimonianza dell’infanzia di Gesù attraverso una comunicazione diretta. In una messa di Natale, Ernestina nota una donna seduta su una sedia con un piccolo al seno «in un dialogo d’amore e nostalgia con la madre», «forme viventi e belle immagini di Maria e del Bambino».142 Faceva così la conoscenza della sorella più anziana del marito, Edoardo, che sarebbe diventata amica e guida della giovinezza e del piccolo figlio, morto in guerra molti anni dopo. Nel racconto di Agnese, un bambino attraverso il battesimo, celebrato secondo la consuetudine antica, in cui tutti i convitati protendono le mani verso il suo capo, riceve il dono di una vita nuova. La madre è l’unica a premonire profeticamente il futuro irradiarsi della religiosità in ogni direzione. Nel terzo racconto, Carlotta si rassegna malinconicamente all’imminente dissoluzione del figlio per una malattia improvvisa. Proprio la vigilia di Natale crede di dover rendere il piccolo angelo al cielo. Quando si solleva dal sonno ristoratore cui s’era abbandonata per mancanza di forze, però, trova il bambino in via di guarigione. «Ero malinconicamente e dolcemente commossa dall’idea di mandare un angelo in cielo nel tempo in cui celebriamo la discesa sulla terra dell’angelo supremo. Ora, entrambi giungono a me nello stesso momento, direttamente donati da Dio. Durante la festa della rinascita del mondo, il preferito del mio cuore è rigenerato per me a nuova vita».143 Il primo dei discorsi teologici è tenuto dall’«uomo oltremodo pensante, riflettente, dialettico, estremamente razionale», Leonardo. Moretto vi scorge un rappresentante del metodo storico-critico, che tiene fede «al principio primo dell’ermeneutica, per il quale i libri sacri non costituiscono un caso speciale, nell’interpretazione, rispetto ai così detti libri “profani”». Secondo questa chiave di lettura, anche il suo discorso «è un movimento costitutivo del pensiero teologico di Schleiermacher».144 Nella recensione all’opera apparsa in un numero della «Jenaische Allgemeine Literaturzeitung» del 1807, Schelling avrebbe dunque sbagliato nell’interpretare il personaggio quale portatore di un valore negativo e, su tale base, nel tacciare di elitarismo culturale e mancanza di univer-

141  F.D.E. Schleiermacher, Die Weihnachtsfeier. Ein Gespräch (1806), in KGA I/5, p. 71; infra, p. 595. 142  Ivi, p. 73; infra, p. 599. 143  Ivi, p. 81; infra, p. 613. 144  Moretto 1994, p. 54.

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salità la prospettiva religiosa del libro.145 Dopo un’interessante riflessione sulla superiorità del valore mnestico delle cerimonie rispetto alla tradizione scritta, Leonardo riconosce nel cristianesimo «una forte ed energica presenza; ma» – aggiunge – «quanto poco Cristo, la persona reale, è presente in tal senso».146 I valori universali della riconciliazione e della rinascita sono un patrimonio dell’umanità celebrato nella festa senza vero rapporto con l’esistenza storica di Gesù, su cui la critica filologica esprime pareri discordi. L’infanzia di Cristo sembra pertanto una proiezione simbolico-mitica della cerimonia: «il fondamento storico esperienziale della cosa è tanto debole che la nostra festa ne è tanto più glorificata e prende la sua forza […] dal fatto che talvolta la storia stessa è creata da queste consuetudini».147 Interviene allora Ernesto, per ovviare all’unilateralità del discorso precedente. La sua prospettiva kerygmatica è centrata sul significato della redenzione attraverso cui si superano i contrasti tra finito e infinito, sensibilità e idea, tempo ed eternità. La disposizione d’animo che accompagna e giustifica la festa è la gioia per il superamento dello stato di scissione. La gioia che proviamo, suona la conclusione del discorso di Ernesto, può «venire solo da colui per il quale i contrasti non dovettero essere superati in precedenza». Il sentimento di una vita riconciliata rimanda così «all’idea necessaria di un Redentore» e permette di venire a capo del punto di vista della «critica inferiore» avanzato da Leonardo.148 L’ultimo discorso è tenuto dal capofamiglia Edoardo, in una prospettiva teologica che è stata attribuita alla posizione degli idealisti tedeschi, «tutti senza eccezione» inclini a vedere «nella ouverture del Vangelo filosofico per eccellenza una sorta di anticipazione cifrata dei loro sistemi».149 La prospet145  «Se avesse trovato lo spazio per presentare il suo rifiuto della vostra religiosità in maniera meno convenzionale, e non come mera opposizione, proseguendo egli avrebbe ben potuto addurre questo fatto – che cioè per voi ci sia un tale “cattivo principio” e un dispregiatore come lui – come un segno della non universalità del vostro essere […] Che ci si scandalizzi di voi è quindi scusabile già per il fatto che voi vi scandalizzate di lui» Schelling 1994, p. 151. 146  F.D.E. Schleiermacher, Die Weihnachtsfeier. Ein Gespräch (1806), in KGA I/5, p. 85; infra, p. 619. 147  Ivi, pp. 87-88; infra, p. 621. 148  Ivi, p. 92; infra, p. 629. 149  Moretto 1994, p. 50. Barth giudica Edoardo l’avanguardia del pensiero di Schleiermacher, cfr. Barth 1994, p. 191. Vale forse la pena rammentare che da qui a poco, l’autore avrebbe energicamente criticato la prospettiva speculativa di Fichte, contestata (come abbiamo visto) sin dalle Reden, recensendo i Grundzüge des gegenwuartigen Zeitalters. Cfr. KGA I/5, pp. 119-152. In proposito si veda Ghia-Brino 2010.

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tiva cristologica di Edoardo prende le mosse dall’interpretazione del tema dell’incarnazione del Verbo nel Prologo del Vangelo di Giovanni: io concepisco, di preferenza, l’oggetto di questa festa non quale bambino costituito e manifestantesi in questo e quest’altro modo, generato da questa o quella madre, qui o lì; ma come Verbo divenuto carne, che era Dio ed era presso Dio. La carne però, come sappiamo, non è altro che la natura sensibile limitata e finita; il Verbo, invece, è il pensiero, il conoscere; e il divenire carne del pensiero è dunque il manifestarsi di questa essenza originaria e divina in quella forma.150

Nella festa noi celebriamo pertanto noi stessi, la natura umana che, con riferimento all’espressione schellingiana, Edoardo chiama Erdgeist, spirito della terra, identità di essere e divenire.151 Con Erdgeist, Edoardo non indica pertanto l’uomo in sé separato dai singoli uomini ma, secondo il principio messo a punto nel quinto discorso sulla religione, ogni uomo particolare come manifestazione peculiare dell’umanità. Alla tematica cristologica, tradotta dal piano riflettente (Leonardo), a quello del sentimento (Ernesto), fino al terreno speculativo (Edoardo), si riallaccia il problema ecclesiologico. L’individuo singolo riconosce la propria umanità, la intende e la erige, solo nella vivente comunità degli individui, in cui perde la propria esistenza cangiante per ritrovare il punto d’unione di contingente e assoluto. Questa comunità, o autocoscienza vivente dell’umanità, è la Chiesa che, consentendo il superamento della scissione, rispecchia la nascita di Cristo. In essa si ricongiungono gli uomini capaci di pervenire allo spirito con il pensiero e le donne che nel sentimento possiedono un’autocoscienza superiore alla scienza. Come ogni individuo, però, diviene nella Chiesa ciò che veramente è, così la Chiesa stessa è qualcosa di divenuto, il cui punto di avvio deve essere posto con la nascita di Cristo. Karl Barth ha visto così sospinta la nascita di Cristo ai margini della considerazione. In un’importante recensione apparsa nel 1925, a proposito dell’ultimo discorso leggiamo: «se la scienza per gli uomini, e almeno il sentimento per le donne, provvedono a giustificare la partecipazione alla Chiesa, dove va a finire la posizione centrale di Cristo, che per un istante sembrava presupposta dall’elaborazione di questo concetto di Chiesa?» E ancora, «qual è il contenuto di questo Cristo? L’“incarnazione del Verbo” 150  F.D.E. Schleiermacher, Die Weihnachtsfeier. Ein Gespräch (1806), in KGA I/5, p. 94; infra, p. 631. 151  In proposito si veda Patsch 1992.

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è veramente qualcosa di diverso da quell’esaltazione dell’umanità che nei dialoghi delle donne […] c’è stata delineata così intuitivamente, come lo specifico del Natale?».152 Mentre Barth scorge al centro della celebrazione natalizia il motivo universalistico della suprema perfezione della natura umana riconosciuta nel Bambino dalla madre, che spingerebbe ai margini l’effettiva vicenda storica di Gesù, Schelling, nella recensione del 1807, disapprova che l’autore avesse messo il suo essere «del tutto particolare ed eccezionale in connessione con la festa in sé universale e appartenente all’umanità». Al soggettivismo schleiermacheriano corrisponderebbe la concezione particolaristica dell’ecclesia da cui alcuni, come Leonardo, sono esclusi quali dispregiatori. «Proprio perché distinguete completamente e anzi contrapponete la religione e ciò che chiamate Chiesa a ciò che unisce un popolo come totalità, voi trasformate questa realtà in qualcosa di particolare e di contrastante con ciò che è comune».153 L’ingresso di Giuseppe interrompe e conclude i discorsi teologici degli uomini. Barth riconosce in questo personaggio l’autoritratto dell’autore «alla stessa maniera che in certe figure d’angolo di dipinti medievali si poteva riconoscere il pittore».154 L’atteso Giuseppe sostiene di non essere venuto per tenere discorsi privi di forza persuasiva proprio per la loro natura didascalica. Alla freddezza dei concetti degli uomini contrappone l’espressione sentimentale dei canti e dei racconti delle donne, fino a dichia152  Barth 1994, pp. 193-194. Erwin H.U. Quapp ha letto le considerazioni di Barth sulla Weihnachtsfeier come prova decisiva del distanziamento dell’approccio teologico dello studioso da Schleiermacher. Cfr. Quapp 1978. 153  Schelling 1994, pp. 148 e 160. Già nel 1799, Schelling aveva contestato il soggettivismo delle Reden nel frammento Epikurisch Glaubensbekenntnis Heinz Widerporstens (si veda ora Schelling 1935 e Dilthey 1970, pp. 452-455). Mentre in Philosophie und Religion, apparso nelle edizioni tubingensi di Cotta nel 1804, aveva messo a punto il concetto di religione nel quadro del suo idealismo oggettivo. La festa di Natale venne accolto tiepidamente dalla cerchia romantica, come mostrano i giudizi rintracciabili nella corrispondenza di Achim von Arnim, Clemens Brentano e Rahel Varnhagens (cfr. Patsch 1995, pp. LVII-LIX). F. Schlegel, il 26 agosto 1807, scriveva a Tieck: «Il signor Schleiermacher dà continuamente di sé un’immagine di piccolo messia. Ma basta guardare in faccia la bamboletta giudiziosa per scoprirvi il bambino professore. Nei suoi scritti domina quello che qui [nella cattolica Colonia] si chiama un fuoco calvinista, e precisamente un fuoco che non vuole bruciare» (tratto da Moretto 1994, p. 15). 154  Barth 1994, p. 173. È peraltro evidente che, come i diversi discorsi teologali, anche le diverse forme espressive – il dialogo, le novelle, e la musica – esprimono le intenzione di Schleiermacher, il quale, pertanto, non può essere identificato con nessun personaggio singolo.

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rare che ogni forma della parola è troppo rigida per «l’argomento ineffabile». «Venga il bambino, se ancora non dorme,» e «lasciate che si possa cantare qualcosa di devoto e di gaio».155 Il passaggio dal concetto, attraverso il sentimento morale, a quello mistico è pertanto riflesso nel passaggio dal discorso teologale degli uomini, ai racconti e ai canti delle donne, alla musica dei bambini. Ogni bel sentimento – aveva sostenuto Edoardo nel corso del dialogo – si presenta a buon diritto nella sua compiutezza solo quando abbiamo trovato il suono adeguato a esso; non la parola, che può solo essere un’espressione mediata, un elemento plastico, ma il suono in senso proprio. E proprio con il sentimento religioso la musica è imparentata nel modo più intimo.156

155  F.D.E. Schleiermacher, Die Weihnachtsfeier. Ein Gespräch (1806), in KGA I/5, p. 98; infra, p. 637. 156  Ivi, p. 63; infra, p. 583.

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Cronologia della vita e delle opere

1768 Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher nasce a Breslavia il 21 novembre, figlio di un pastore della chiesa riformata. 1783-1787 Riceve la prima educazione in una comunità pietistica dei fratelli moravi, una comunità herrnhuteriana, al Pädagogium di Niesky presso Görlitz fino all’autun­no del 1785 e poi nel seminario teologico di Barby sull’Elba. 1787-1789 Compie i suoi studi di filosofia, filologia e teologia all’Università di Halle. 1789 Sostiene l’esame di teologia a Berlino. 1790-1793 Si reca a Schlobitten come istitutore presso il conte Dohna (dall’ottobre 1790 fino al maggio del 1793) e perfeziona i suoi studi letterari e teologici. 1794 Dopo essere stato ordinato pastore della chiesa rifor­mata di Prussia diventa coadiutore a Landsberg e ini­zia lo studio di Spinoza. 1796-1802 Inizia la sua missione di predicatore e di pastore a Berlino presso la chiesa della Charité. Frequenta i circoli romantici stringendo, dal 1797, una profonda amicizia in particolare con Friedrich Schlegel. 1798-1800 Collabora alla celebre rivista Athenaeum. 1799 Schleiermacher s’impone sulla scena culturale con due opere importanti: pubblica infatti Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern e i Vertraute Briefe über Fr. Schlegels Lucinde. 1800 Pubblica i Monologen. 1801 Esce la prima raccolta di prediche, frutto della sua intensa attività pastorale. 1802 Predicatore a Stolpe. Inizia la traduzione di Platone già progettata a Berlino. 1803 Vengono pubblicate le Grundlinien einer Kritik der bisherigen Sittenlehre, in cui tratta il problema etico opponendosi a Kant e a Fichte.

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1804 Inizia l’insegnamento di teologia all’Università di Halle e inizia la pubblicazione di una prima parte dei dialoghi di Platone. 1805 A partire dal 20 maggio tiene il primo corso di ermeneutica presso la Facoltà di Teologia dell’Università di Halle. Termina la stesura della Weihnachtsfeier. 1806 Diviene professore ordinario. 1807 Si trasferisce a Berlino dopo la chiusura dell’Università di Halle per gli eventi bellici. 1809 A Berlino sposa Henriette von Willich, da cui avrà quattro figli, e diviene pastore della Chiesa della Trinità. 1810 È professore di filosofia e di teologia all’Università di Berlino. 1811 Pubblica la fondamentale introduzione alla teologia protestante Kurze Darstellung des theologischen Studiums, riedita nel 1830. 1814 Diventa segretario dell’Accademia delle Scienze di Berlino. 1815 Viene nominato rettore dell’Università di Berlino. 1817 Sinodo a Berlino della Chiesa luterana e riformata a cui Schleiermacher partecipa non senza contrasti con le autorità. 1821 Esce la prima edizione, riedita nel 1830, del trattato dogmatico Der christliche Glaube. 1828 Esce l’ultimo volume della traduzione dei dialoghi di Platone. 1834 Muore a Berlino il 12 febbraio.

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Nota editoriale

I libri di Schleiermacher presentati di seguito sono già stati più volte tradotti in italiano. Il curatore di questa edizione ha raffrontato le sue con le precedenti traduzioni, accogliendo a volte le lezioni esistenti, con l’intento di offrire le migliori soluzioni. L’apparato dell’edizione critica tedesca ha fornito la base per la stesura delle note. In generale, ci si è attenuti all’indicazione dei riferimenti, evitando commenti e glosse. Il lettore evincerà una linea interpretativa dall’introduzione, alla cui bibliografia deve rifarsi per le abbreviazioni delle note ai testi. Diamo di seguito brevi sintesi, corredate da indicazioni redazionali, della genesi delle opere accolte in questo volume. Lelio Mariscotti ha offerto un prezioso contributo alla revisione delle traduzioni.

Il valore della vita Dilthey colloca la stesura del saggio tra l’estate del 1792 e l’inizio del 1793, negli ultimi mesi del sereno soggiorno presso il castello di Schlobitten (Dilthey 2008, p. 192). La datazione è motivata dal reperimento di una lettera dello zio Stubenrauch contenente un invito al nipote a sviluppare l’argomento di una predica sul salmo 90,10 scritta per lo stesso capodanno e titolata Il vero apprezzamento della vita (Dilthey 1870, Anhang, pp. 46-47 e KGA III/3, Nr. 6, pp. 52-65). La lettera di Stubenrauch non è poi stata conservata, come mostra il riferimento alla lacuna in una nota del carteggio: KGA V/1, p. 250, nota *180. Anche Meckenstock è disposto a riconoscere il primo germe del Fragment nella predica indicata da Dilthey, benché individui un’affinità più stringente con l’altra, probabilmente redatta nei primi mesi del 1794, che ha per titolo Del giusto modo di riflettere sui sostegni e sugli ausili che Dio ha messo a disposizione di ciascuno per il miglioramento, in cui Schleiermacher affronta il problema della diversa ripartizione delle perfezioni morali e dell’invarianza complessiva delle occasioni di miglioramento (predica su Lc 11,28, KGA III/3, n. 18, pp. 178186, indicata da Günter Meckenstock, Einleitung des Bandherausgebers, KGA I/1, p. LXV). Il titolo del saggio è desunto da una lettera scritta l’11/09/1792 da Friedrich Carl Gottlieb Duisburg (1765-1822) a Schleiermacher (n. 192, KGA V/1, p. 258). La prima pubblicazione parziale del frammento è data nell’appendice con paginazione autonoma, i Denkmale der inneren Entwicklung Schleiermachers, apposta da Wilhelm Dilthey al Leben Schleiermachers (pp. 46-63). La traduzione qui presentata è condotta sull’edizione integrale del saggio, apparsa in KGA I/1, pp. 391-471. La prima edizione italiana è stata curata da Sergio Sorrentino (Il valore della vita, Marietti, Genova 2000), che ne ha proposto una suddivisione in paragrafi ispirata alla scelta curatoriale fatta da Terrence N. Tice e Edwina Lawler per l’edizione inglese (On What Gives Value to Life, Schleiermacher: Studies and

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Translation, Edwin Mellen Press, Lewiston-Queenston-Lampeter 1995). Qui il testo è, secondo la sua forma originaria, privo di scansioni; la traduzione, pur attenta al pregevole lavoro di Sorrentino, è personale. Nell’apparato si è tenuto conto dell’edizione critica in tedesco, di quella italiana e di quella inglese.

Sulla religione. Discorsi a quelle persone colte che la disprezzano «L’impulso che sta all’origine dell’opera prima di Schleiermacher» – ha scritto Giovanni Moretto – «deve essere individuato nei colloqui di argomento religioso intrattenuti con Friedrich Schlegel» (Moretto 1998, p. 20. Così anche Meckenstock 1984a, p. LIV). Wilhelm Dilthey aveva sostenuto che i Discorsi nascevano, sì, mentre Schlegel lo incalzava, spronava e tormentava, fino a estorcergli la promessa di un nuovo lavoro letterario ma, a ben vedere, maturarono «dalla profondità più intima» dell’autore, «da un sentimento di traboccante ricchezza», in contrasto con «tutti i partiti di allora in materia di religione» (Dilthey 2010, p. 245). La stesura del primo e del secondo discorso veniva dipanandosi a cavaliere tra il 1798 e il 1799, mentre Schleiermacher ricopriva l’incarico di predicatore riformato all’ospedale Charité di Berlino, i tre discorsi rimanenti erano redatti tra febbraio e aprile del nuovo anno, mentre suppliva con l’ufficio di predicatore a Potsdam. A Henriette Herz, Schleiermacher scriveva: «il 15 del mese di aprile [1799], alle nove e trenta del mattino, ho chiuso con la religione. Vada pure per il mondo a vedere cosa le accadrà» (KGA V/4, p. 90). L’opera fu stampata nel mese di giugno dall’editore Johann Friedrich Unger e apparve in libreria anonima. Alla prima, seguirono altre tre edizioni cui l’autore apportò considerevoli modifiche (1806, 1821 e 1831). Nell’edizione del 1806, il secondo Discorso fu interamente rivisto, mentre a quella del 1821 furono apposte una Prefazione alla terza edizione e spiegazioni a ciascun discorso (cfr. F.D.E. Schleiermacher, Kritische Gesamtausgabe I/12, Über die Religion (2.-)4. Auflage. Monologen (2.-)4. Auflage, hrsg. von G. Meckenstock, Walter de Gruyter, Berlin – New York 1995, pp. 1-322). La traduzione qui presentata è condotta sulla prima edizione pubblicata in KGA I/2, pp. 185-326, tenendo conto delle principali traduzioni italiane (Discorsi sulla religione e Monologhi, a cura di Gaetano Durante, Sansoni, Firenze 1947, pp. 1-204; Scritti filosofici, a cura di Giovanni Moretto, pp. 83-255; Sulla religione. Discorsi a quegli intellettuali che la disprezzano, a cura di Salvatore Spera, Queriniana, Brescia 2005). Le varianti delle altre edizioni tedesche non sono riportate. Nell’apparato ci si è ispirati alle note della Kritische Gesamtausgabe e a quelle di Giovanni Moretto.

Monologhi. Un dono di capodanno La stesura di questo «manifesto dell’etica romantica» avvenne in poco meno di un mese, tra la prima e l’ultima settimana del novembre 1799. L’editore Christian S. Spener, entrato in possesso del manoscritto in dicembre, mandò il testo

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in stampa nel gennaio del 1800. Come i Discorsi, anche quest’opera fu pubblicata anonima. Al suo editore, insoddisfatto dell’annuncio del saggio, Schleiermacher rispondeva: basta si capisca che «i Monologhi contengono altro rispetto a ciò che ogni fichtiano ha cura d’avanzare», che «sono in lotta contro tutti i partiti» e propongono qualcosa di peculiare (lettera a J.C.P. Spener del 25/12/1799 (n. 762), KGA V/3, p. 321). Alla prima edizione, ne seguirono tre (1810, 1822 e 1829), ciascuna arricchita da una nuova prefazione, e tutte stampate da Reimer. Poche furono comunque le rielaborazioni contenutistiche e le revisioni stilistiche apportate nelle edizioni successive alla prima (cfr. KGA I/12, pp. 325-394). Questa traduzione è condotta sull’edizione del 1800, ristampata in KGA I/3, pp. 1-61, tenendo conto delle principali traduzioni italiane (Discorsi sulla religione e Monologhi, a cura di Gaetano Durante, Sansoni, Firenze 1947, pp. 205-299; Scritti filosofici, a cura di Giovanni Moretto, su citato, pp. 257-327; Monologhi, a cura di Ferruccio Andolfi, Diabasis, Reggio Emilia 2011). Nell’apparato ci si è ispirati alle note della Kritische Gesamtausgabe e a quelle di Giovanni Moretto.

La festa di Natale. Un dialogo L’idea di scrivere un dialogo sulla festa di Natale sovvenne a Schleiermacher dopo aver assistito al concerto del flautista Friedrich Ludwig Dülon (1769-1826) tenuto nella sala della cattedrale di Halle il 3 dicembre 1805. La mattina della Vigilia, l’autore spediva gli ultimi fogli allo stampatore Schimmelpfennig perché ne fossero messe al più presto in commercio alcune copie anonime. Nel gennaio del nuovo anno il libro apparve nelle librerie. Nel Promemoria alla seconda edizione, l’autore scriveva: «i modi più diversi di concepire il cristianesimo sono qui riuniti in una modesta stanza non soltanto in pacifica convivenza, in quanto si ignorano vicendevolmente, ma anche in amichevole confronto» (KGA I/5, p. 99). Karl Barth ha messo in rapporto il testo con il contenuto delle prediche pronunciate a Schlobitten il 25 dic. 1790, a Landsberg il 26 dic. 1795 e a Stolp il 26 dic. 1802, centrate su Gal 4, 4 (cfr. Predigten 1790-1808, rispettivamente n. 3, n. LXI dei Predigtentwürfe in Landsberg e n. 41 dei Predigtentwürfe Stolp, KGA III/3, pp. 20-28, 467 e 851-852). La seconda edizione dello scritto apparve nel 1826 presso l’editore Reimer, con circa 300 variazioni; ciò significa – scrive Hermann Patsch – che «nemmeno una singola pagina rimase com’era» (Einleitung des Bandherausgebers, KGA I/5, p. LXV). La traduzione qui presentata è condotta sulla prima edizione pubblicata in KGA I/5, pp. 39-98, tenendo conto della traduzione italiana (F.D.E. Schleiermacher, La festa di Natale. Un dialogo. Interpretazioni di Friedrich W.J. Schelling e di Karl Barth, a cura di Giovanni Moretto, Queriniana, Brescia 1994, pp. 59-141). Le varianti della seconda ed. tedesca non sono riportate. Nell’apparato ci si è ispirati alle note della Kritische Gesamtausgabe e a quelle di Giovanni Moretto.

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SCRITTI DI FILOSOFIA E RELIGIONE 1792-1806

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ÜBER DEN WERT DES LEBENS

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IL VALORE DELLA VITA [ 1792-93 ]

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Riproduzione della prima pagina del manoscritto de Il valore della vita.

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Perché dovrei negare a me stesso che ieri mi sono coricato con una ricchezza di pensieri e sensazioni più grande e, per dir così, più pregna del consueto della vita passata e della sua impressione su di me? Che ora mi sono levato con un battito del cuore più intenso, con immagini più varie, con attività più fervida d’idee grandiose? Come se lasciassi dietro di me un tempo maggiore e dovessi occuparmi di un futuro più esteso. Che un anno della mia vita sia trascorso conferisce a questa giornata certo un significato peculiare più elevato; benché tale significato riposi soltanto su una determinazione arbitraria, benché la vita ieri non abbia fatto un salto, e oggi non dia avvio ad alcunché di nuovo.1 Essa continua a tenere senza interruzione, sommessamente e solennemente, il suo passo abituale, ogni sera rivendica da me esattamente lo stesso passato delle altre sere, ogni mattina mi consegna proprio lo stesso futuro delle altre mattine. Eppure non è una mera illusione quella che produce la particolare impressione di questa mattina; infatti, anche quando cerco di distruggere gli oscuri sentimenti dell’inconsueto e del nuovo, dalla medesima fonte mi si impone un novero di idee molto più nitide e importanti. Proprio perché la vita trascorre priva d’interruzioni in questo modo, in ogni istante io sono richiamato dalla ragione e dal sentimento all’azione e al godimento. Se convenientemente la ragione mi condanna per ogni ozioso gioco della fantasia con il passato e con il futuro, la sensazione mi strappa con impazienza a ogni fredda considerazione su tale argomento che non le procuri nessun piacere immediato – ma pure, quanto è necessaria per me una riflessione complessiva sulla vita nella sua interezza! È qui, infine, che ragione e sensazione convengono su questo obiettivo conclusivo, e dove io non ho bisogno di cacciare l’una per lasciar spazio all’altra; qui è dato un tempo che io sono abituato, con i miei simili, a considerare un punto privo di estensione e di proprietà in se stesso, destinato soltanto a designare il limite tra due sezioni della vita. Il presente che altrimenti mi travolge nel suo vortice irrilevante, come consistesse solo in se stesso e tutto ciò che gli è esterno gli fosse pure estraneo, mi sembra che in questo istante non esista e io mi divido in passato e futuro; per dir così, io non sono ma ero e sarò. La vorace sensazione oggi è priva di pretese e deve accogliere come un dono ciò che le dedico. Avverto così in modo più forte e nitido il comando della ragione a guardare avanti e indietro; in tal modo la ragione spera di ottenere dalla sensazione sedata che una tale operazione sia condotta secondo il suo modo e la sua regola. Ma è semplice rassegnazione ciò che acquieta la sensazione? Oh, voglio stare in guardia! Io lo sento, essa abbastanza fiduciosamente è lusingata dalla speranza di potersi insinuare inavvertitamente, e di introdurre di soppiatto il suo pennello magi-

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co, le sue immagini, i suoi colori trasfiguranti l’un nell’altro al posto dell’arida e puntigliosa scrittura della ragione. Davanti a me ho l’intero futuro; in esso non vi è nulla che possa essere separato – una grande immagine indistinta. Indietro – non sono in grado di misurare la totalità secondo un parametro; considerato il suo inizio sullo sfondo di questo istante, io ho mutato più di una volta il mio scopo, il mio tipo di esistenza, anzi quasi tutto il mio essere; spesso non mi riconoscerei, spesso mediterei inutilmente su ciò che ero e volevo essere, spesso sembrerebbe lacerato il filo che guidava il mio cammino. È dunque una fortuna che la medesima illusione che soddisfaceva questo sguardo pure lo limiti. Al posto dell’interezza del passato mi si manifesta una sua parte, più unitaria, più agevole da scorgere nel complesso, e cionondimeno varia nel suo contenuto e grande se considerata in rapporto al tutto, con una nitidezza che invano desidererei ridotta in questo o in quel punto, con tutte le sue gioie e avversità, con le più evidenti testimonianze di come io abbia accolto entrambe, con tutte le buone azioni e prove della mia umanità. Così, questa parte mi si presenta e mi conduce a forza con sé al cospetto di un duplice tribunale; e non vuol lasciarmi finché sensazione e ragione non hanno espresso un giudizio su cosa io fossi per questo passato e cosa esso fosse per me, per poi sacrificarmi alle aspettative e alle leggi che entrambe stabiliranno sul futuro. Come è dolce per me la quieta solitudine in cui posso abbandonarmi a queste riflessioni! Posso goderne perché nessuno mi si impone per condividere con me i miei pensieri – voi, dolci creature attorno a me, desiderate solo un istante per abbracciarmi e fare in modo che io legga nei vostri occhi il vostro amore.2 Quando penso al giorno che gli esseri umani sembrano aver destinato a livello sociale principalmente a questo scopo, quel giorno che cionondimeno in genere ci sottraiamo a vicenda, quale variopinta e opprimente immagine tale pensiero mi precipita nell’anima d’un sol colpo. La più insulsa costrizione sociale spinge a darsi da fare gli uni per gli altri, ma persino quando sembra che le persone vogliano esserci soltanto per un altro, balugina dai loro occhi un desiderio selvaggio, l’egoismo orecchia ansiosamente dietro le quinte e aspira ad accelerare l’istante in cui la socialità potrà decorosamente ritirarsi, al fine di sbarazzarsi di quella invadente presenza. E quando l’egoismo è riuscito a sbarazzarsene, quali assurde immagini del futuro, quali stolti calcoli, quale semplicistico trasecolare per il passato! Quali falsi ricordi, allettanti o ingrati! Piuttosto che ritenere di essersi ormai sollevati oltre la bassa sensibilità, alla più alta sfera della meditazione, essi appagano la loro anima inane soltanto con un piacere davvero misero, con un reciproco riversare, in certo qual modo

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privilegiato, d’idee infantili e vuoti formulari. Ma anche tra i migliori, che non accomunerei volentieri a quella ingente massa, ne conosco molti che mi soddisfino in proposito? Invero, coloro nei quali le sensazioni colgono certi aspetti più a fondo hanno qualcosa di comune nei loro giudizi o piuttosto nelle impressioni generali del loro giudizio: un certo sereno sentimento di gratitudine per il passato e una gaia attesa del futuro. Solo chi porta rancore per il suo amico e cerca deliberatamente le tracce del suo fuorviare, solo colui al quale l’aculeo del dolore, che adesso lo affligge, non concede né oblio né riposo o imparzialità, può essere escluso da questo sentimento universale. Ma questo sentimento quanto poco conclude, e fino a che punto il poco concesso è rifuso, quasi in tutti, in modo così improprio e irregolare. Ciò dipende dal fatto che questo sentimento non è sempre sorto nel modo giusto. Essi pensano bene che sia devota rassegnazione, saggia placidità o perizia ottenuta con vera fatica trasformare il male in bene, ciò che è spiacevole in qualcosa di piacevole. Ritengono addirittura che a loro sia costato molto accordarsi con se stessi per i lati oscuri della vita, o metterli in conto come parte di essa, perfezionare la vita per merito delle grandi forze che si troverebbero in loro stessi e in considerazione di esse. Come i sovrani, pretendono di essere magnanimi ancor prima di essere stati giusti. Ahimè, è un gioco affatto strano quello che conducono con se stessi. Esistenza, esistenza! Ciò è per loro una cosa tanto preziosa, e l’intima gioia per essa riempie così tanto la loro anima che non possono in alcun modo venire a capo del fatto che, nel ricordo della cosa stessa, hanno ben volentieri dimenticato il modo in cui ne fossero ossessionati. Essi hanno vissuto! Che meraviglioso e denso sentimento! Per abbandonarvisi fino in fondo e senza preoccupazioni gli sacrificano con cuore sollecito la riflessione su singole parti, quale ne sia stata la natura, e si inabissano solo in una sì grande coscienza. Essi vivranno! – cosa serve loro di più per gioire del futuro! O se non fosse questa la vera origine di quel sentimento insopprimibile dell’intera vita, se esso fosse sorto da una giusta valutazione di tutte le singole parti, da una regolare comparazione secondo principî autonomamente ponderati, come mai mi giungerebbero all’orecchio quasi con clamore obliqui giudizi quando li indirizzo a queste singole parti? – e tuttavia io li ho sempre trovati così. Come sono pochi quelli che pongono nel giusto rapporto ciò che ha un valore solo per essi con gli scopi e le disposizioni universali della vita? Che soppesano reciprocamente nel modo opportuno finanche questi grandi interessi della vita spesso

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tanto mutevoli? In cui le ultime sensazioni e idee suscitate in loro da un oggetto non furono determinate dal tono del loro giudizio generale sull’oggetto? Quelli che seppero correggere, anche solo in un istante di riflessione, l’impressione negativa che il loro temperamento e il loro stato d’animo ha conferito loro una volta per tutte? Quelli che unirono tra loro tutte le esperienze precedenti grazie alla sola capacità di uscire da se stessi per esprimere un onesto e imparziale giudizio su ciò che li riguarda? Essi non sono in grado di individuare alcun mezzo per farlo; o si applicano con gli occhi a singole parti senza elevarsi fino alla totalità o cercano la totalità al di fuori delle sue parti, si fanno ingannare da quel sentimento generale della vita, rimangono fermi – beninteso nel ricordo – unicamente al molteplice e cangiante operare dei vari oggetti su di loro, considerano l’impressione che tale operare provoca in loro come fosse sorta da una valutazione di tutte le singole parti della loro vita, e credono così di aver portato a termine qualcosa a cui non hanno affatto ancora dato inizio. – E se ciò fosse una beata illusione? Se proprio l’assenza di una vera conoscenza della vita rendesse loro dolce la vita? Cosa mi sarebbe d’aiuto? Per me non c’è alcuna gratificante illusione! Sono incatenato da vincoli magici, quanto più a lungo tanto meglio, alla solenne verità come Gandalin alla verità velata;3 senza sapere se bellezza oppure orrore si celino sotto il suo velo, io continuo a rimanere aderente solo a lei, e do la caccia con infaticabile diligenza a chi me la sottrae mentre io mi batto per essa. Devo dunque ricercare cosa sia la verità della vita, e dovesse pure non esser nulla, si dovesse poter gioire della propria verità solo quando ci si inganna, io dovrei saperlo; e l’essere così sapientemente infelice o il dover disprezzare la mia esistenza mi darebbero tuttavia un sentimento che non vorrei scambiare con la meschina felicità di quelli che brancolano nell’oscurità. Ma fiducioso, già da lungo tempo vivo più felice di Gandalin, in ragione della persuasa fede che più a lungo si è aderenti alla verità tanto meglio è, e più felice di Sonnemon,4 secondo cui verità e felicità non sono che una cosa sola – quest’ultima è la forma in cui la verità si mostra agli stolti e alla stoltezza degli esseri umani, a ciascuno a suo modo, e ognuno vede ciò che si immagina; quella è la forma in cui la verità si manifesta, sebbene lo faccia raramente, ma pure rivela la sua esistenza, a coloro che vorrebbero

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smettere di essere stolti e a ciò che, negli esseri umani, stoltezza non è. Non sarà pertanto così auspicabile essere felici in virtù dell’illusione. È vero, Hedion è pieno di autocompiacimento e di beatitudine quando ripensa al tempo passato ed è un così zelante apologeta della vita che bisognerebbe quasi invidiarlo per come essa gli è stata favorevole.5 È pertanto un eroe sì grande nell’arte di essere felice? Per niente, e ciononostante il suo sentimento è così integralmente naturale! Con questo sguardo rivolto alla sua vita passata, egli scorge l’insieme degli oggetti che hanno operato su di lui e hanno contribuito a definire la sua vita; tali oggetti non gli mancarono mai, e tutto questo era a sua disposizione, assegnando all’idea della sua esistenza una ricchezza e una pienezza che egli percepisce con sommo gaudio. Ma in tutto questo operare degli oggetti, egli scorge qualcosa solo nella misura in cui ciò offre materia alla sua riflessione e al suo sentimento; e non gli riconosce altro valore. Godimento, per quanto elevato e perfezionato in virtù del sentimento per il bello, dal raffinamento e dallo studio circa i principî del piacevole, dal sentire comunitario, dalla fusione con l’intellettuale e l’etico – la sua soluzione rimane comunque sempre il godimento, e per lui la vita è soltanto disposizione e destinazione al godimento. Se ora viene ricondotto al modo in cui la vita ha portato per lui a compimento questo scopo, cosa farà, poveretto? La sua prima idea della dignità e della grandezza della vita, che crede di aver tratto da un ricordo di tutte le impressioni, e che invece è sorta soltanto da una rassegna generale degli oggetti, lo induce a credere che è stata una buona vita, e gli è così facile convincersi di ciò che dovrebbe certo dismettere tutto il suo amore per la vita e tutto il suo attaccamento e la gioia legati a essa se solo s’imbattesse in un altro risultato, che non sia in tutto e per tutto di mero comodo. In qualche periodo, egli ha certo sperimentato molte contrarietà, e proprio il suo attaccamento al godimento ha acuito la sua sensibilità per il fatto che anche una sola di queste contrarietà gli affaticava il cuore tanto quanto le altre; ma ora, nel ricordo, egli può non concederlo né a me né a se stesso; egli depone un velo su ciò, ne muta l’immagine e, appena possibile, ne distoglie gli occhi. All’inizio poteva trattarsi di deliberata illusione; ora questo procedimento è intimamente intessuto nel suo modo d’agire; la fantasia e la sensazione ne sono al servizio. Per quanto saldamente la fantasia riesca pure a trattenere i ricordi della soddisfazione e della gioia, essa è resa interamente incapace di comportarsi in egual modo con gli eventi avversi; dovrebbero essere rievocati troppi rapporti, colti saldamente nell’anima troppi ricordi fugaci, per riprodurre l’impressione del dolore e della pena – in tutti questi casi, la fantasia si ferma dunque solamente alle impressioni generali dell’attività

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ricorrenti nell’esperienza quotidiana, della veloce sequenza e molteplicità delle idee, della tensione dell’anima nello stato d’attesa; e tutto ciò offre certamente la riflessione retrospettiva sia sull’infelicità sia sulla felicità, ma non era questo il sentimento dominante iniziale. Così dunque la sensazione è falsificata; al posto di un oggetto le è sostituito un oggetto successivo completamente diverso, e il giudizio su ciò che la vita era per la sensazione è trasformato, in riferimento a una sua parte consistente, in ciò che la vita stessa, pur riassunta in un quadro complessivo, è per la sensazione ora. Pertanto, essa certamente sembra con le sue decise trasformazioni e il veloce mutamento della sensazione soltanto bella, interessante e amabile. Il suo ricordo è piacevole, senza che per questo lo sia stata la sua sensazione. Ma non emergono anche in lui distorsione e autoinganno? Cosa recentemente faceva prorompere dal suo petto, pur tra tutte le sue difese, profondi sospiri? Un unico sentimento spiacevole che si fonde con un’amarezza tanto più grande in questo giudizio sorridente, è a dire in quello sull’inarrestabile velocità della vita. Semplicemente troppo presto fu sottratto dagli oggetti che operavano su di lui; essi rimasero in infinita molteplicità, egli ritiene che offrirebbero materia al godimento per un’eternità; ma non può adeguarsi alla loro misura. In se stessa insufficiente, la sua vita scompare un po’ alla volta; al termine di ogni periodo si è distanziata da molti oggetti, e sin troppo presto verrà il momento in cui essa scomparirà per tutti gli oggetti, in cui si soffermerà nell’ultimo possibile godimento in un unico sguardo accomiatantesi da tutto, così come questa romantica e amabile catena di colline termina in quelle alte rocce sospese vertiginosamente sull’oceano. Egli è fermo qui, sull’ultimo scoglio, e sospira. Ma cosa produce quello speciale stato d’animo in cui G** indugia sempre in queste riflessioni?6 Egli era quasi sempre felice e gaio, ma non parla mai del passato in modo diverso se non come di un peso che egli ha deposto con felicità. Si tratta appunto della fugacità, della confusione nel giudizio: per quanto egli distinguesse e avvertisse vivacemente anche nell’istante medesimo dell’azione quel che agiva su di lui piacevolmente o produceva un perfezionamento in una facoltà della sua anima, tuttavia egli nel ricordo, dove ha innanzi a sé l’intera grande massa del passato, non può aderirvi; il suo sguardo rimane fisso a un’impressione più generale. La sua naturale pigrizia gli dipinge l’intero peso degli oggetti e dei loro effetti solo nella forma in cui tutto lo determinava ed esigeva la sua reazione. Ciò che gli si poneva innanzi, lo costringeva all’attività; quello che lo colpiva energicamente rischiava di riversare una tempesta nella sua anima e mirava al declino di una delle sue forze. Da questo punto di vista egli guarda indietro alla policroma massa da oggetti da cui è stato circondato. Per quanto siano stati

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numerosi per lui gli oggetti, anche i piccoli, che passano velocemente grazie a impressioni lievi ma spesso reiterate, gli sembra quasi che non abbiano giocato alcun ruolo nella sua vita, o un ruolo niente affatto rilevante; la sua memoria gli rappresenta invece con diligente fedeltà gli oggetti più capaci d’incidere e importanti. Tutti gli sembrano combattenti da cui egli è sfidato un po’ alla volta alla battaglia, o che egli stesso ha provocato; volentieri riporta alla memoria i colpi che gli hanno assestato, che ha abilmente evitato o a cui ha saldamente resistito. La fantasia compiacente attribuisce loro una forza che non avevano, come il racconto di una battaglia lo fa nei confronti dell’esercito avverso, e così fa loro trainare come nemici sconfitti il suo carro trionfale, e attraverso l’arco del trionfo del passato fa ingresso nel futuro. Per quanto viva con lui, ho sempre inutilmente tentato di strapparlo a questa illusione; non sono stato in grado di mostrargli che molti oggetti, che considera nemici, hanno piuttosto combattuto per lui come gli amici più entusiasti, e per mezzo di dolci istanti di soddisfazione del sentimento ed elevazione dello spirito hanno rinsaldato le sue forze contro tutto ciò che lo avversava. Nel godimento medesimo ci si comporta passivamente, e l’impressione di ciò gli è sfuggita, ma l’impressione relativa, prima, alla guerra e alla lotta, poi, alla reazione che lo stesso essere colpiti necessariamente suscita, gli è rimasta. Egli non sa più nulla dei deliziosi istanti in cui un fluire generale di sentimenti piacevoli lo cullava in un dolce oblio di tutte le imperfezioni e di tutti i rapporti opprimenti della vita, ma sa ancora come un’attesa intensa di un piacere vitale confondeva la sua immaginazione, come si sforzava inutilmente, nel piacere stesso, di ordinare e giudicare le singole sensazioni, come si sarebbe sbarazzato ben volentieri, esternandola, della pressione della gioia che era in lui e che, per una qualche necessità, doveva tenere a freno essendone tormentato con il sentimento di una violenta impotenza; come soffriva della fiacchezza che la soddisfazione di un qualunque sentimento sempre produce e a malapena era in grado di strappare le sue forze dallo stato di tramortimento. Egli ha felicemente risolto alcuni problemi a lungo controversi, ha trovato alcune verità ricercate con passione, ma la magnifica coscienza di ciò alla lunga non gli è risultata tanto evidente quanto lo stato in cui dubbio e incertezza lo tormentavano, in cui doveva sforzarsi violentemente al fine di non smarrire, per gli sviamenti incrociati di una ragione che ha perso il filo, la coscienza della ragione stessa e la facoltà del suo retto uso in altre cose; egli sa anche quanto a lungo ha dovuto lavorare su di sé per acclimatarsi alla nuova verità, per espungere tutte le idee sulla vita con essa confliggenti e introdurre nell’anima tutte le conseguenze della verità, come egli in seguito l’abbia tratta quale gravoso capi-

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tale senza poterla investire, e come essa lo abbia risarcito con la spesso spiacevole e ripetuta cognizione delle molte incoerenze, altrimenti non percepite, del modo comune di pensare, come lo abbia oppresso vedere gli uomini brancolare nell’oscurità e non essere inteso quando offriva loro la sua luce, come doveva difendersi da tutte le miserevoli detestabili idee che la vista di ciò gli imponeva. Gli istanti in cui percepiva uno stato della sua volontà felicemente raggiunto e perfezionato gli sembrano aver avuto meno valore e compenso; erano solo istanti, ma le grandi e difficili, le acuminate e gravose battaglie, con cui li aveva guadagnati, le sente ancora, sente ancora come più tardi doveva allontanare da sé i molti carichi di giudizi falsi, e combattere a lungo faticosamente contro l’opinione degli uomini che non lo comprendevano e continuavano ancora a giudicarlo secondo ciò che non era più. Così di certo per lui, con siffatto ricordo, ogni godimento, anche il migliore della vita, non è nulla, tutte le gioie procurategli da esso gli appaiono così insignificanti, così misere, che egli crede impossibile – quand’anche la cosa è di certo così – che un tempo le abbia cercate e un tempo abbiano avuto un valore per lui. Per amor loro crede che non avrebbe intrapreso nemmeno la cosa più futile che il bisogno gli ha estorto, perché comunque una volta o l’altra occorre farsi spazio tra questo esercito furioso. Che qui si sia tutelato e si sia messo in salvo dall’attacco, ecco qua la sua gioia. Il suo occhio indugia sulla resistenza felicemente prestata, come un vincitore obbligato si trattiene sulla vista dei suoi trofei. Con tale sentimento di potenza si collega il sentimento di spossatezza che sempre accompagna la coscienza di un lungo dispendio di forze. In questo istante riposa volentieri, ora che la vita lo ha finalmente lasciato in pace; egli ha soltanto ricordato, ha racimolato il sentimento che le sue forze, fossero ora pure esaurite, abitavano in lui ancora esattamente così e in quella misura, ed è andato così incontro a un futuro, che lo sfidava nuovamente e proprio nello stesso modo, e dopo la sua felice conclusione egli avrebbe gioito di uno sforzo altrettanto pesante, ma andato a buon fine. Quale intreccio di illusioni! Sulla sua valutazione della vita e su quella di Hedion, D** si è soffermato sempre con una certa supponenza.7 Egli si sente sempre pieno di forza, e per questo, a uno sguardo non meno fugace, gli pare che tutte le innumerevoli cose con cui è entrato in contatto siano state là soltanto per ricevere impressioni da lui ed erigergli così monumenti della sua esistenza. Ora, egli s’inganna esattamente come Heidon e ritiene che quell’idea, che è solo un’opinione sulla vita in generale sorta da una fugace sensazione, sia il risultato di una precisa riflessione sulla sua vita: per quanto abbia impiegato spesso le sue forze

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allo scopo di procurarsi il godimento, egli crede comunque che la sua vita ora gli apparirebbe vuota e misera se gli offrisse soltanto ricordi al riguardo. Queste immagini sono per lui troppo delicate e fini, egli deve avere qualcosa di più icastico per rammentarsi della sua vita. Se trovasse pochi posti che si segnalano per le trasformazioni operate e le intenzioni portate a compimento, adesso il tempo passato, per quanto in realtà gli era stato caro, sarebbe avvolto nel colore della noia, e la vita gli parrebbe un ruolo molto al di sotto dell’attore che lo deve interpretare, un ruolo di second’ordine, privo di un posto qualsiasi in cui egli possa sviluppare le sue forze e mostrare il suo fine senso artistico. Ora quindi per lui molte delle cose, che quando erano vicine giudicava in modo diverso, sono un nonnulla; parecchie cose pertanto gli appaiono oggi come un oggetto vuoto a cui non sarebbe stato il caso di applicarsi, mentre a suo tempo se ne era occupato molto seriamente; pertanto adesso egli sorvola freddamente su alcuni dei soli della sua vita cui un tempo attribuì un interesse vitale. Si raccoglie soltanto lì, dove trova monumenti della sua attività; la fantasia sa renderli vantaggiosi con i loro allestimenti e seguiti, e quanto maggiormente sembrano colmare il periodo, che si addensa nella memoria più del dovuto, tanto più ne è riempito il suo cuore. Con quanta facilità egli non trova quel che cerca! Egli si dedica alle sue azioni nelle loro singole parti e si compiace del loro acuto progetto, della loro abile esecuzione e dello splendore del successo che il protagonista s’infinge con tanta facilità. Apprezza in tal modo se stesso, secondo il tratto prevalente: l’insieme delle azioni che hanno lasciato una traccia notevole, o la forza che hanno richiesto, o la consistenza dei loro effetti. Ma non è solo un ingrato che ignora volutamente alcuni amabili aspetti della vita di cui ha goduto a pieno; in questa ingannevole autostima subisce un ulteriore danno. Buon per lui sarebbe se non pensasse così spesso alla vita passata! Nell’agire medesimo aveva ancora un altro criterio di valutazione delle sue azioni, il suo ideale comprendeva infatti in sé qualcosa di diverso da una manifestazione, per quanto possibile costante e impetuosa, delle forze della sua anima, e – raggiunto o mancato – talvolta era questo l’ideale delle sue azioni, così come lo scopo dei singoli atti o la regola del giudizio su di essi. Adesso, nel ricordo, ciò sparisce dietro di lui. La vita è per lui essere attivi, ed egli intende portare a coscienza di aver vissuto molto e intensamente. Male per lui è ora soltanto il misero, l’insignificante, quello che in questa valutazione, se non ha interamente la preponderanza, si sa comunque nascondere magistralmente; buono per lui è tutto ciò che è grande, abbastanza indifferente se si tratti di una grandezza della fantasia o della ragione, della passione o della virtù. Ma dove poteva rintracciare l’insieme

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dei grandi, appariscenti atti, se ha voluto escludere tutti quelli che secondo l’intima legge delle azioni doveva eliminare? Pertanto, quando lo riconducevo a questo punto, il suo giudizio morale era sempre in evidente contraddizione con quello a cui era ricorso immediatamente dopo l’impresa; ciò che allora condannava, adesso lo loda e assolve. Vedeva allora l’azione in sé, com’era davvero; ora, che ha innanzi le azioni tutte assieme, le vede dal punto di vista unilaterale da cui parte, ciascuna in un piano e in una connessione immaginari, in cui cade su esse una luce del tutto diversa. A confronto della forza intensa e della grande dimensione delle sue azioni, la loro struttura morale gli appare soltanto come una singola circostanza determinata da circostanze. Un tempo, furono i rapporti della vita, in pieno contrasto con la moralità, a render necessario che se ne infrangessero le regole da una parte o dall’altra; in un altro momento, furono i grandi progetti superiori, al cui cospetto un’idea singola doveva ben retrocedere; in un altro momento ancora, furono i più nobili sentimenti dell’uomo, secondo i quali agì, quelli che vengono fraintesi solo perché si lasciano alle spalle il freddo concetto comune, come lo si trova dentro di sé in una circostanza abituale priva d’entusiasmo; era stato anzi proprio l’interesse per la stessa virtù che almeno una volta lo spinse a infrangere in apparenza quelle regole, per poi poter servire tanto meglio questo interesse. Così egli trascura, sorridendo e senza malessere, questa considerazione, ben convinto che la disarmonia delle sue azioni con l’idea dell’eticità è stata causata dalle circostanze più che essere stata conseguenza della debolezza della sua volontà; e va vivendo della buona speranza che l’armonia che non si realizzò nel tempo passato, secondo tutte le regole della probabilità debba compiersi tanto più spesso e tanto meglio nel futuro. Io però vedo come, grazie a una più frequente ripetizione di questa sequenza d’idee, la virtù perda una parte sempre più consistente della sua influenza su di lui. Un’orgogliosa supponenza seppellisce inavvertitamente la sua tranquillità per il futuro; marcio e traballante è il bastone che il futuro gli consegna e che per adesso rinfranca ancora e accelera i suoi passi. Egli invoca audacemente il futuro, qualsiasi forma esso voglia assumere, e per potere in seguito gioire molto più della sua vita preferirebbe vederlo il più possibile complesso ed enigmatico; esso non potrebbe certo offrirgli niente che possa prevalere sulle sue forze e possa anche solo essere pericoloso. – Vedrà: se qualcuno lo considererà orribile, il futuro lo ridurrà in ridicolo, come Biondetta, nella forma più amabile, piacevole, attraente.8 Così accade ai più con le loro riflessioni sulla vita: esse portano loro molte trepidanti aspettative sul futuro, ma quasi nessuno gli si fa incontro con una fondata e serena imperturbabilità e uno spirito pronto. Costoro possiedono molti bei discorsi sul passato, ma nessuno gli rende giustizia.

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Ciascuno chiude il proprio conto, ma a nessuno riesce la prova. Quello per cui ogni singolo aspetto della vita non vale, nel ricordo che lo contempla, esattamente quanto valeva per lui nel presente in cui ne godeva, ha necessariamente sbagliato, una volta o l’altra. La vita ha molteplici aspetti; non è possibile, qualora se ne voglia stimare opportunamente un aspetto, modellare ogni cosa con tale ardore sulla base di un sentimento generale, spesso falsificato in ragione di un’impressione presente. Devo trarre un buon presagio dal fatto che ho mostrato e spiegato a me stesso sì tanti errori commessi dagli uomini al riguardo non senza un vivace sentimento di disappunto? O devo sperimentare il triste destino di vedere errori senza poterli, perfino nel medesimo istante, evitare? Per lo meno il mio attuale sentimento non mi deve corrompere, questo voglio ottenere. Abbandonatemi tutti, oh voi preziosi impulsi della mia attuale esistenza! Che nessun singolo impulso, e nemmeno l’impressione comune di tutti insieme, determini il mio giudizio. Vai tu, infelice eppure amato amore che, con la tua nobilissima influenza sul cuore e sullo spirito, mai così sentita, pure non mi annunci altro che ore torbide e una lunga complessa battaglia della ragione con desideri irrealizzabili ma intimamente avvertiti!9 Adesso soltanto nasconditi, e non bussare alla porta della mia memoria. E tu, immagine del diletto amico, il cui destino conserva le gioie della comunicazione attraverso una lunga separazione, non stimolare, almeno ora, alcuna malinconica nostalgia.10 Voi, buone, giovani creature, cui dedico così volentieri i momenti più cari della mia giornata, voi che riequilibrate le ore di travaglio e affanno con molti istanti di risarcimento, non vi stringete adesso alla mia anima con tanto affetto.11 E voi, gioie ancora nuove, non ancora consumate, di una vita domestica proficuamente attiva, non corrompetemi a beneficio del momento in cui vi ho conosciuto in tutta la vostra dolcezza.12 Il mio temperamento non deve esercitare nessuna influenza sulla coloritura del mio dipinto. La fredda serietà non mi deve condurre a scomporre con sottigliezza sofistica quelle gioie del mio stato, che a un primo sguardo assomigliano a un illusorio congegno meccanico, fino al punto in cui non posso più avere una percezione delle singole parti, e il torpido sangue che scorre nelle mie vene non deve riversare nello scarso contenuto della

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vita la sequenza, in larga misura lenta, e la debole impressione delle mie percezioni. Il celere, istantaneo, attuale mutare di immagini e pensieri profilantesi e diradantesi non mi deve frastornare durante tale ricerca; voglio contenere questo flusso ed esso deve riversarsi solo a gocce nel canale che gli assegnerò. Ma, ancora, mi è principalmente necessaria una precauzione per evitare gli errori che ho appena scorto; devo separare completamente ciò che quelli hanno ovunque frammisto: l’idea universale di ciò che deve essere la vita e il giudizio su ciò che la mia vita è stata effettivamente. Una volta scorporata, la prima deve procedere ed essere posta in tutt’altra luce. Come potrei determinare giustamente e onestamente anche il valore di un periodo trascorso se non possedessi i più chiari e precisi concetti sul valore e sul proposito della vita in generale? Se, anche senza alcuna predilezione, senza nessuna influenza di sensazioni attuali, raccolgo le impressioni e gli effetti di ciò che mi è capitato, allora sono certo in possesso di un vero aggregato, ma di cose ineguali, e a che può giovarmi, se mi manca un principio per porre queste parti eterogenee in rapporto reciproco, determinare da questa molteplicità una totalità, e giudicare così il valore della vita? Perché questa idea mi dà di colpo quello spiacevole sentimento dell’improvvisa scoperta di un’importante penuria, dove si è vissuto a lungo senza esserne consapevoli? – Cosa significa questo sentimento? Come? Sono forse quello che avrebbe vissuto senza occuparsi della sua destinazione e della parte che ne ha ora realizzato? Il mio cuore dice no. O avrei io ben conosciuto e goduto la vita nelle sue parti, ma senza considerarla nella sua interezza sotto questo profilo se non in fuggevoli istanti? Anche di ciò non posso darmi colpa. Ma avverto questo, che quando agivo non ero sempre consapevole in modo perspicuo del risultato complessivo di questa riflessione e delle sue ragioni. Invero in me si costituiva, da quel giudizio dell’intelletto, una certa ideale sensazione della vita, a cui talvolta mi relaziono; eppure ho spesso goduto della vita e apprezzato il suo godimento senza commisurare a questo ideale la sensazione effettiva. In tal modo forse sono giunte inavvertitamente, in virtù di nuove conoscenze, nuove massime e nuovi punti di vista sulla vita, nuove parti nelle mie idee e sensazioni sulla vita stessa, che non ho armonizzato con le vecchie. Che confusione se questo fosse accaduto! Allora, o io ho misurato secondo due diverse unità, credendo di servirmi solo di una e stimando in modo erroneo le diverse parti fra di loro; oppure ho continuato a usare quell’unità di misura che non avevo ricercato con chiarezza, e allora però ho ritenuto le informazioni da essa fornitemi come il risultato di quella unità di misura che invece era la mia; le oscure idee che avevo posto a base della valutazione di singole parti e godimenti della vita non erano parti della chiara idea della totalità di cui ero talvolta consapevole. E sarei quindi immancabilmente diventato

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incoerente aderendo ora a nuove, ora a vecchie idee, senza avvertire l’ambivalenza dei miei principî – l’orribile contrassegno di persone dimidiate, inconsapevoli e incoscienti. Ma per questo non dovrei mai essere autorizzato a cambiare le mie idee sulla vita? Difficilmente al giovane che per la prima volta fa ingresso nel mondo, quand’anche egli sia un frutto che matura velocemente, la sua prima riflessione sulla vita terrena consegnerà un risultato esatto, tale per cui si possa rasserenare per sempre! Egli pertanto in ciò cambierà, deve cambiare. Ma se queste trasformazioni avvengono impercettibilmente, se incidono sul suo modo di agire già molto tempo prima che egli le assuma all’interno della sua teoria, diventa soltanto un uomo ordinario. Senza umiliazione, posso dunque tornare con il pensiero ai momenti critici della mia vita finora trascorsa, e concedermi: sono mutato più di una volta – ma ci ho pensato! Solo – ciò non deve mai aver fine, devo ancora continuare a essere in pericolo di dover mutare? Non vi è in nessun luogo un punto in cui devo smettere e il mio risultato rimanere saldo e immutabile? Innanzi a me si staglia l’orrendo pericolo di un irrimediabile scetticismo pratico, e io rimarrei sempre lontano dalla convinzione, l’unica rassicurante, di possedere la verità? Una giusta condotta mi proteggerà sempre da ciò. Quando non accolgo alcuna nuova massima sulla vita senza ricercarne il nesso con il mio intero sistema, quando eseguo sempre con serietà e cautela ognuna di queste ricerche generali come se fosse l’ultima che io potessi mai avanzare, il pensiero che tutti i miei principî siano validi solo per un certo periodo, che presto segua un nuovo cambiamento, non produrrà mai una noncuranza scettica o un’avventatezza impaziente. Vi è inoltre certamente un momento della vita in cui io posso, con sforzo sincero, sperare con maggiore probabilità di prima di aver trovato una pertinente verità, ai cui decreti devo attenermi con la più sacra serietà, e questo momento è adesso. Fintanto che si sale la montagna, non è possibile giudicare quel che vi è attorno; quando ormai si scende, è troppo tardi per guardarsi attorno; ma in alto, fin quando si cammina sulla vetta, ecco il momento. Ora dunque, prima di ogni cosa, sono in grado di presentare una verifica, un confronto dettagliato dei miei pensieri. Il periodo della giovinezza è alle mie spalle; non mi è più permesso, secondo le prerogative della minore età, prendere a pretesto l’ignoranza del mio intelletto sui suoi diritti e doveri, e lasciare irrisolti i più importanti e pressanti compiti nella speranza di una migliore illuminazione. La signoria della fantasia ha una fine; le sue instabili gioie hanno lasciato spazio a una serena pace che sorge da una riflessione sulle cose, colte nel modo in cui sono reciprocamente connesse. Da despota delle altre forze psichiche, la fantasia è diven-

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tata loro amica comune. L’egoismo del piacere si è ritratto, innanzi al desiderio di essere qualcosa per gli altri. Non è ancora venuto il momento che con inutile durezza chiede ragione alla maggior parte degli uomini dei debiti impagabili degli anni passati e vendica con un vuoto incolmabile la mancanza d’abilità nell’occuparsi di oggetti grandi e duraturi, e nell’amare solo quelli; il momento in cui anche tra i migliori l’abitudine smussa la maggior parte degli stimoli finora presenti, e in cui anche per chi aveva sempre avuto speranza negli uomini, un loro totale abbandono getta troppo facilmente una cupa ombra di futilità e vanità sull’intero apparato della vita terrena; non è ancora venuto il momento della nausea. Nessuna agitazione in merito all’intera vita adesso turba la mia anima. La mia aspirazione alla verità ha trovato le sue ragioni e i suoi limiti. Un certo sentimento di sanità dell’anima mi rende imparziale, e tu, benefica libertà, nobiliti tutto! Nemmeno, sono prigioniero senza riscatto in qualche carcere, non ho alcuna ragione per celare a me stesso la mia opinione definitiva sulla vita, perché sarebbe inutile dirmela. Qualunque sia quest’opinione, è certo possibile, tra le mille strade che ancora mi sono aperte dalla vita, disporne una che le sia conforme. Esco dunque interamente da me stesso; in questo istante sono semplicemente un uomo in vista della domanda: cosa deve essere, cosa può essere questa vita per l’essere umano in generale? Voi, ricordi della mia vita, tornate indietro, solo quando tale questione è risolta, e lasciatemi misurare secondo questo metro se essa è stata per me molto o poco. Voglio sapere cosa la vita può essere per l’essere umano; questo presuppone una determinata idea di ciò che l’essere umano stesso deve essere. Buon per me che sono in chiaro al riguardo e per fortuna ho evitato l’ampio viale disseminato di errori e contraddizioni. Essi vedono bene o, se non pervengono a idee chiare al riguardo, sentono bene che l’idea della destinazione dell’uomo debba stare alla base di ciascuna valutazione comune della vita;13 ritengono pure di non poter trarre quest’idea da nessun’altra parte che dall’osservazione dell’essere umano, e di non poter osservare l’essere umano da nessun’altra parte che in una di quelle forme che la vita gli ha assegnato; e in entrambe le opinioni hanno ragione. E quindi si mettono all’opera, e credono di fare abbastanza raffrontando reciprocamente queste forme, e lasciano dilagare la loro fantasia, e considerano migliore la forma su cui la fantasia si sofferma di preferenza; e a partire da queste premesse ragionano sulla destinazione dell’uomo, così da conseguire in anticipo un risultato sul valore della vita, al fine di ottenere l’idea

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da cui soltanto doveva risultare. Ma cosa la contraddizione provoca nella maggior parte delle persone? Essa li lascia in buona pace. Quelli però che la avvertono, e non possono rimanerne appagati, escono benintenzionati da se stessi e cercano la loro destinazione nelle leggi di un’Intelligenza suprema, della cui intera essenza possono avere un concetto solo in virtù della precedente idea di cosa dev’essere l’uomo, e di cui, se volessero lasciarne inesplorata l’essenza stessa, possono ricavare le leggi unicamente da una considerazione della finalità del mondo, in virtù della condizione dell’uomo al suo interno. Oppure determinano lo scopo dell’esistenza umana dall’idea della sua durata – e voi, dubbi sull’immortalità, voi che sorgete in ogni uomo pensante e osservante, voi che potete bene essere rappresentati dall’intelletto come irrilevanti e futili, ma certo di tempo in tempo emergete dalle eterne oscillazioni della fantasia, voi assillate interamente la loro ricerca e li rendete tentennanti nelle loro ragioni. Io non sono l’unico che si è divincolato attraverso quegli scogli. È vero che non puoi osservare l’essere umano altrimenti che in qualcuno degli stati in cui la vita l’ha di certo posto, ma questo stato non gli ha dato proprio altro che le modificazioni, le direzioni, la combinazione delle sue diverse facoltà; astrai da ciò e attieniti solo alla cosa stessa, a quel che ad esso è peculiare in quanto essere umano, senza riferimento a uno stato particolare, attieniti a ciò che ne costituisce l’essenza, alle sue facoltà di pensare, di sentire, di agire in virtù del pensiero e della sensazione. Queste contengono contemporaneamente la tua destinazione; esigi dalla vita ciò di cui hanno assolutamente bisogno per perdurare ed essere accresciute, e la proporzione in cui la vita può porgerti ciò sia l’unica unità di misura del suo valore complessivo. In tal modo non si presenta alcun circolo nella tua ricerca e tu non hai bisogno né di interrogare strisciando la vita sulla tua destinazione, come lo schiavo interroga il despota su ciò che egli intende consentirgli di essere e sui diritti che per grazia vuol concedergli, né di uscire pavidamente da te stesso in un qualsiasi altro modo. Quel che la coscienza della tua essenza ti ordina di essere e diventare: ecco cosa ti viene comandato, qualsiasi essere superiore esista fuori di te e qualsiasi cosa esso possa volere; anzi, quand’anche tu esistessi un solo istante, devi consentire che ciò ti sia comandato anche per tale unico istante, e nessuna opinione sulla durata dell’esistenza umana in generale può esercitare una qualche influenza al riguardo. È proprio questo adesso il corso generale delle idee e ogni filosofo e filosofastro – qualunque sia la sua praxis – è in grado di tagliare fintanto che specula questi difficili nodi. Ma con ciò

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sarei migliorato ancora poco oltre me stesso, per quanto grande il passo possa pur essere. Cosa c’è ora in me? Tutto l’affaccendarsi e l’operare dell’anima si scinde in due grandi diramazioni: conoscere e desiderare. Non posso tuttavia fermarmi al fatto che la vita debba sempre condursi secondo questi due aspetti, che non debba mai far mancare loro oggetti, in modo tale che essi, per quel che la riguarda, possano essere mantenuti sempre in attività. Sarebbe certamente questa la prima cosa che dovrei esigere dalla vita, ma che idea vuota e indeterminata! Il fatto di contenere materia per la possibilità della mia sopravvivenza è sicuramente la prima condizione indispensabile per uno stato quale dev’essere il mio, ma proprio per questo io non posso ancora soppesare il suo valore secondo tale criterio. “Attività” è pur sempre lo scibbolet14 di molti nostri filosofi; la vita deve renderci possibile l’attività. Bene! L’attività è certamente la condizione necessaria della vita della mia anima, la forma universale sotto la quale in essa deve accadere tutto ciò che è destinato ad accadere; ma il discorso può qui vertere soltanto sulla semplice esistenza? Io voglio stimare il valore della vita; qualcosa ha valore solo in rapporto a un certo scopo; io dunque ritengo la vita come mezzo e questo scopo non dovrebbe essere altro che la semplice esistenza, a prescinder dal modo e dal tipo dell’esistenza? E per questo non dovrebbe essere necessario altro che una semplice messa in funzione delle singole forze, a prescindere dalla loro legge di combinazione, connessione, subordinazione? Ma in questo modo ciascuna possibile vita soddisferebbe altrettanto bene questo fine, e non vi sarebbe alcuna differenza nel suo valore, e nessuna entità misurabile di esso. No, in me vi è ancora di più, e per questo le mie esigenze sono maggiori. – Mi soddisferà di più se altri trovano la differenza nei gradi di attività? Un’attività più debole sarebbe una vita meno rilevante, una più forte sarebbe una vita migliore; la somma dei rapporti che considerata in se stessa rende possibile solo quella più debole sarebbe una vita peggiore; la somma dei rapporti che è nella condizione di produrre la vita più forte sarebbe uno stato migliore; io gradirei meno quella, e più questa. E non dovrebbe esserci alcun’altra differenza nel bene degli esseri umani che la forza da cui sono affetti e reagiscono? E il grado supremo di questa tensione eccitabile dei nervi, di questa celere mobilità degli organi, di questa intimità e profondità dei pensieri e dei sentimenti, sarebbe anche il grado supremo della dignità umana? Ecco di che si tratta: se una sola delle mie forze deve trovarsi in un’attività tanto eccellente, le altre possono allora restare in quiete, ma ne soffrono; se tutte devono stare in eminente attività, allora l’attività più forte decrescerà nel corso del tempo, le più deboli perdureranno e si manterranno, e la somma alla fine sarà ovunque uguale. Pertanto, ancora una volta nessuno scopo a cui gli uomini dovrebbero tendere, e che non sarebbe raggiunto da ciascuno indivi-

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dualmente, e ancora una volta nessuna differenza della vita. Altri procedono quindi oltre, e calcolano l’anima e le sue forze come i dati di un’equazione algebrica; una tale attività – ne hanno quindi calcolato l’intensità, ma hanno inoltre calcolato se sia commisurata alla combinazione e alla proporzione delle diverse forze – non solo permetterà di conservare e far perdurare le diverse forze, ma anche di accrescere se stessa nella medesima favorevole proporzione; e rendere possibile ciò sarebbe la vetta del bene della vita. Ma se costoro non intendono essere nella ricerca ciascuno il proprio io ma solo uomini in generale, come inizieranno a darvi corso? Questa proporzione di forze non è originariamente uguale in tutti gli esseri umani; così ancora una volta non vi è nessuna unità di misura universale del valore della vita, e ogni regola al riguardo renderebbe comunque inattuabile l’intenzione per cui essi intendevano servirsene. E supposto pure che la proporzione fosse uguale, come credono di trovarla? Quand’anche io possa astrarre dalle modificazioni e dagli orientamenti delle forze quella in opera in uno stato qualsiasi, e possa diventare consapevole della forza medesima, in tal modo si dà proprio una coscienza immediata e originaria della loro proporzione e di una legge della loro subordinazione? Se però tale proporzione non dovesse essere desunta originariamente ma dall’osservazione degli stati, essi ricadrebbero allora nel primo circolo. Ma se non fosse nemmeno così, come potrei trovare da un’osservazione pur così intensa, eseguita per così lungo tempo, la proporzione delle forze e la formula sotto cui dovrebbe essere compreso l’influsso degli oggetti per esservi conforme? Le mie diverse facoltà sono simultaneamente presenti nella mia anima secondo la loro proporzione, le impressioni degli oggetti si susseguono secondo leggi che non possono essere determinate; le mie forze permangono in me; ciò che opera su di loro è, per lo meno sotto questo aspetto, oltremodo transitorio, decresce, scompare e fa posto ad altre impressioni, le quali forse annullano nuovamente il suo intero effetto. Dove, in tali circostanze, è possibile trovare un principio secondo cui si possa anche solo predisporre un calcolo? Per questo, nell’esecuzione di tale calcolo, tali persone sono esseri umani in generale molto di rado e ciascuno si ritrae nel proprio minuto io, elegge arbitrariamente a regina la sua prediletta tra le forze psichiche e abbozza leggi di subordinazione per le altre. Di conseguenza, ciascuno crede di aver mostrato in maniera persuasiva di essere realmente ciò che tutti devono diventare. I grandi calcolatori del quando e del come farebbero quanto di meglio per ottenere il suddetto principio, ma non lo conseguono! Anche l’elevazione del loro sé, che descrivono con parole tanto sontuose, depone contro di loro. Se con ciò intendono soltanto un ampliamento dell’orizzonte delle loro forze, una moltiplicazione degli oggetti che abbracciano, allora sotto questo sublime titolo è di nuovo nascosto il tacito bisogno di occupazione; se intendono una cancellazione di

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alcune imperfezioni di queste forze, un accrescimento del loro valore, allora ciò presuppone senz’altro uno scopo determinato che è qualcosa di diverso dall’attività e dalla pura esistenza attraverso di essa. Sì, un tale scopo c’è, e tutto mi conduce alla bella idea che ne ho. Conoscere e desiderare non devono essere due cose in me, ma una sola. Perfetto, permanente accordo di entrambe le cose, nella misura massima in cui entrambe sono in me possibili, unità di entrambe nel fine e nell’oggetto: ecco cos’è l’Umanità, ecco cos’è il bel fine posto all’essenza umana; fornire oggetti che occupano non solo ciascuna potenza singolarmente presa ma in cui si mostra anche l’accordo di entrambe le potenze e grazie a cui tale accordo può essere favorito: ecco la prima condizione che pongo alla vita. – Questa bella armonia ha forse segni nascosti? La sua essenza è celata sotto difficili formule che solo un profondo studio della lingua cifrata della metafisica insegna a svelare? Spetta a una sapienza segreta distinguere gli oggetti che le sono idonei? Il primo segno della natura conduce all’attrazione, da tutti percepibile, del sentimento. Sentimento del piacere e della avversione, o come altro lo si può definire, a qualcuno quel nome sembra già sin troppo abusato; è questa la pietra di paragone che mi mostra a quali oggetti entrambe le mie forze possono unificarsi. Se il mio desiderio non è solo un cieco impulso ad afferrare quel che mi si offre, si distingue in amore e odio, in desiderare e aborrire; io voglio unire a me, voglio possedere, solo ciò che mi procura il gradevole sentimento del piacere; e cosa, di diverso da questo sentimento, pone anche in movimento le mie forze conoscitive? Non accedo a nessuna conoscenza, non evoco nessuna rappresentazione che non siano, in alto o basso grado, accompagnate con la coscienza di questo sentimento; a quel che mi ha procurato piacere, o da cui presagisco di poterne trarre, dirigo i dardi dei miei pensieri; tutte le operazioni del conoscere si stagliano innanzi a me come oggetti di piacere o di avversione; inutilmente assumerei come loro obiettivo quel che già ora mi tormenta in quanto oggetto di avversione; avverto in me la contraddizione di ciò, e mi affretto a toglierla. Poiché questo sentimento di piacere esprime la tendenza della facoltà di desiderare ed è l’impulso capace di mettere in moto tutte le potenzialità conoscitive, esso è anche il solo punto in cui ambedue possono unificarsi; così, a seconda del modo in cui me ne allontano, riconoscerei ciò che non desidero, o desidererei quel che non posso conoscere. Questo sentimento è pertanto ciò che devo perseguire stabilmente; anzi, addirittura, posso amare in me ciascuna cosa solo nella misura in cui ognuna promuove tale sentimento; l’avversione – quand’anche essa sia qualcosa di effettivo nell’esperienza, tuttavia nell’idea mi pone solo di fronte un’esistenza negativa – mi rende molto meno di ciò che ero. Qui sono dunque al punto in cui mi incontro con tutti gli altri;

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all’idea di ciò che è piacevole, della gratificazione, della felicità; era infatti senz’altro questo ciò a cui quelle persone alludevano con tutte le loro formule dell’attività e dell’attività proporzionata; ma per quali vie differenti vi siamo giunti, e quanto al contempo ci allontaniamo di nuovo l’un dall’altro. Io voglio le singole parti di ciò che chiamate felicità solo come segno dell’accordo istantaneo, immediatamente presente, delle mie potenzialità; voi volete l’intero per se stesso, esso è per voi l’uno e il tutto; perché altrimenti cerchereste di mettere in relazione la felicità con tutto, di estenderla a ogni cosa e, in suo possesso, di opporvi a tutti gli attacchi con migliaia di formule e argomentazioni? Per tale ragione volete anche rimanere fermi in quest’area; la mia via procede oltre. Come? Dovrebbe essere questo l’intero accordo di cui è capace la mia natura? Queste le molte cose che giammai possono diventare una? Questi mille tipi di piacere che confliggono stabilmente tra loro? Voi credete che sia solo una guerra tra l’amore e la gelosia, una disputa tra le belle dell’harem per il fazzoletto del sultano. Gridate loro: andate e accordatevi, alternatevi e dividetevi in me, oppure offrite le vostre grazie e lasciate decidere il vostro valore e il mio umore; e così, voi credete, esse vi ubbidiranno, e voi certo otterrete un’unità, esattamente come il mondo è sorto dal caos per lo scontro degli atomi;15 invece col tempo alcune cose piacevoli vinceranno, altre perderanno; alcune vi appariranno portatrici di maggior piacere rispetto alle altre. Così non mi sorprende che molti di voi concedano che si inchinerebbero volentieri davanti ai cavalli se il destino avesse preferito offrir loro la mano, infatti voi non avete certamente proceduto molto oltre gli animali. Negli animali, la rappresentazione è soltanto la percezione dell’impressione che qualcosa ha causato sui loro sensi, è coscienza dell’effetto provocato su essi dall’apparire dell’oggetto più che conoscenza dell’oggetto stesso; e anche questo è sufficiente per produrre il sentimento del piacere. Soltanto questo tipo di conoscenza è unificato con il vostro desiderio attraverso ciò che chiamate la vostra felicità; e intendete prendere per Umanità una siffatta armonia? A parte quella impressione, l’uomo ha la facoltà di mettere in rapporto la sua conoscenza con gli oggetti stessi, e pertanto essa si divide in verità ed errore. Anche voi onorate la verità, ma la vostra felicità riposa negli oggetti, e così voi stimate quella, in tutte le sue diramazioni, solo nella misura in cui vi concede nuovi punti di vista sul modo per lei opportuno di rapportare a voi le fugaci apparizioni degli oggetti e sul modo in cui poter trarre piacere da esse. Così ponete la facoltà superiore a servizio della condotta che avete in comune con gli animali. Perché nascondete a voi stessi l’intimo interesse delle vostre migliori conoscenze? L’idea del bello

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vi è cara solo perché vi rende capaci di percepire con piacere il bello degli oggetti? E non sarebbe per voi del medesimo valore quand’anche attorno a voi si trovassero solo oggetti brutti, ed essa vi permettesse di cogliere solo ciò che non è piacevole? Il vostro piacere al riguardo non è quello di avere l’idea stessa, di poterla pensare come rappresentazione vostra? E quando voi cercate una qualsiasi verità, ciò accade sempre e soltanto in ragione di uno scopo da perseguire con oggetti che si possono connettere con essa? Non per gioire della verità medesima e dismettere l’odiato errore? – Piacere per la verità, avversione per l’errore! Anche questo tipo di conoscenza infatti è posta di certo in movimento e attività solo mediante il piacere e l’avversione. Ma come accordo questa conoscenza prodotta in virtù del piacere con il mio desiderio? Dove trovo un rapporto tra i due? Non perché la conoscenza mi rimandi a oggetti che il piacere aspira a procurare. Il piacere per gli oggetti è un piacere diverso; nessun oggetto corrisponde a queste idee e ogni godimento procurato dagli oggetti, sebbene sia possibile soltanto mediante queste idee, comunque è casuale e di genere comune. Il piacere per la verità è piacere per le regole, gioia per l’accordo delle singole cose con la regola, consiste nel fatto che posso rappresentarmi tutto come subordinato a leggi che ho trovato, che sono poste in me stesso. E tale nobile sentimento non dovrebbe fondare un accordo, degno dell’umanità, tra le mie potenzialità fondamentali? Il piacere per le regole è la forza motrice della mia conoscenza; sia allora il piacere per le regole nell’agire la tendenza della mia facoltà di desiderare. La ragione è la facoltà delle leggi, l’apice delle mie potenze conoscitive.16 Il piacere per le leggi mi spinge a mettere tutte le mie conoscenze in rapporto con essa, allo stesso modo anche il piacere per le leggi nell’agire sia la tendenza del mio desiderio! Questo è lo scopo più importante e più avanzato della mia destinazione! Questa è la somma, più profonda unificazione essenziale delle mie forze! Questa è umanità al sommo grado, nella sua vera, più intima essenza! Ogni godimento procurato dagli oggetti denota in verità soltanto un accordo casuale delle forze, dal momento che poggia solo su apparizioni che passano velocemente. Bene! Convengo volentieri con voi che trasformate tutti i tipi di godimento in parti costitutive della felicità e volete cancellarne il contrasto con un accordo di mediazione. Che si dia oppure no un’arte per unificarli, ed essere felici nell’accordo, io ho trovato comunque la cosa migliore! Solo che tu non devi rimanere commista con altri tipi di go-

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dimento! Tu, solenne virtù, sei una straniera tra loro! Non vuoi aver nulla in comune con loro, né il loro entusiasmo, né i loro ornamenti e neppure il loro alterno destino. Se tu tacessi, io parlerei per te. Io non posso associare te – regina della mia anima, sacro desiderio di conformare la mia intera esistenza alla ragione – con essi! Tu ti sforzi di annettere e rendere conforme alla ragione, all’apice del mio essere, tutto ciò che è in me e da me dipende. Perciò tu comandi equamente, esigi un regno tuo, un dominio a te appartenente, nella mia anima; – essa è tua! Tu non aspiri soltanto a essere pari a quei godimenti ed esserne parte; tu non vuoi mai soccombere quando combatti con essi; io non devo mai esprimermi contro di te; e quando tutti quei godimenti cedessero alla disperazione, non devono mai ottenere qualcosa ove tu avanzi delle rivendicazioni. Sia! E se io potessi comprenderti ovunque, se tu parlassi ovunque, se tutto ciò che accade in me potesse essere in rapporto con te, allora tu saresti tutto in tutto, e la felicità non sarebbe più niente per me. Come potrei aspirare a quel che è accidentale, se vedessi ovunque innanzi a me ciò che è essenziale? Ma perché mi abbandoni così spesso? Perché così spesso mi si presentano scelte a cui ti rifiuti in ogni modo di conferire un impulso dirimente? Perché talvolta concedi un impulso in un modo che è troppo flebile per la mia percezione? Perché non comandi in me a ogni istante, e così spesso mi abbandoni a quelle scelte? Ahimè, è la limitatezza del mio essere! Così io ho bisogno di entrambi: uno scopo doppio della mia esistenza, un’aspirazione doppia della mia anima, di uno indipendentemente dall’altro, di questa limitata da quella. La virtù domina illimitatamente nella mia anima, ma non universalmente; la felicità saprebbe riempire con il godimento e l’aspirazione ogni parte della mia esistenza, ma deve riconoscere la subordinazione alla virtù. Per spingermi oltre nella connessione di entrambe, non saprei trovare i dati da nessuna parte, ma ne riconosco il rapporto e ciò mi è sufficiente. In esso adempio la mia destinazione, e secondo ciò oriento anche le mie richieste alla vita. La limitazione della mia aspirazione alla felicità mediante le leggi della virtù, se a questa va concesso l’onore di ciò, deve essere opera della mia volontà e non una necessità che il mio stato m’impone; la mia stessa aspirazione alla virtù non sarebbe ancora una volta possibile, se fosse un comando delle cose imposto dall’esterno. La vita dunque, se devo stimarla, deve necessariamente offrirmi materia per essere felice, deve darmi occasione di esercitare e sviluppare i beni morali, ma senza costringermi. Secondo questo criterio voglio giudicarne il valore; sono questi i due grandi aspetti della mia indagine.

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Sii tu dunque, o virtù, il primo, sublime interesse della ragione; che io scovi il rapporto in cui la vita si trova nei tuoi confronti, che veda se la vita mi conduce più vicino a te, se nelle circostanze che mi riguardano c’è uno spazio sempre più ampio per le tue eterne leggi. Ma come? La mia fantasia spazia inquieta e disturba la mia impresa. Il sentimento inferiore, indignato per la servitù che gli ho annunciato, chiede indomito per lo meno di conoscere il salario per cui qui deve servire. Un’indagine tanto severa, come quella relativa alle richieste della virtù alla vita, non deve essere interrotta dal grido selvaggio di inclinazioni ambigue, essa esige un sacro silenzio nell’anima che in questo modo io non sarò in grado di ottenere. Vieni dunque tu, sensazione del piacevole, con le tue aspirazioni di soddisfazione! Vieni fantasia, tu che eserciti l’usura con quei tesori! Giacché l’incertezza mi predice da parte vostra meno tranquillità di tutto il resto, che il vostro giudizio venga ascoltato; ma sia esso quel che sia, saprò poi mantenere entro i giusti limiti la vostra gioia o afflizione. Voi non dovete disturbare quel sacro ufficio al quale non siete degne di prendere parte. Come può dunque la vita consegnarmi oggetti in cui io posso percepire un accordo casuale delle mie forze? In che modo può mettere a tacere il mio desiderio di felicità e benessere? Oh! Con quale amena abbondanza mi viene incontro la risposta a questa domanda! Legato al corpo terreno, vivendo soltanto al suo interno, come non sentirmi così dappresso attratto da tutte le cose che, simili a esso in virtù delle comuni leggi, agiscono su di lui, essendone altresì affette. Migliaia di singole impressioni mi giungono dalle cose attraverso i sensi; e quanto varie e numerose sono tra esse quelle che li lusingano e dilettano. Nessun cieco impulso mi conduce alle cose e mi trattiene da tutte quelle indifferenti o meno allettanti; tanto più le amo tutte come figlie di una scelta personale. Nessuna limitata uniformità mi ottunde un po’ alla volta, infatti la mia vita in esse muta quotidianamente, con uno stato in cui io sono morto per esse, e anche il loro effetto su di me si trasforma periodicamente in uno stato di impotenza e di morte. La fragranza ristoratrice del mondo vegetale, la graziosa melodia dei boschetti scompaiono per ritornare a me sempre nuovi; gli oggetti della vista si rinnovano quotidianamente nella luce ciclica del sole, nel chiarore cangiante della luna; colori e forme trascorrono in un gioco variopinto di impressioni sempre diverse. E cosa mi consegna la vita perché si appropri del mio corpo e si trasformi in me stesso, quanto essa si accattiva le

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simpatie per tale unione condotta mediante il piacevole solletico dei sensi! Quale varietà infine, quale molteplicità di tutti questi oggetti nelle diverse parti della terra! Non sono tutti accessibili per me? Se intendessi dare la preferenza a una certa struttura di queste sensazioni rispetto a tutti gli altri tipi di cose piacevoli, potrei solo scegliere tra il ghiaccio compatto del Polo Nord e il voluttuoso caldo dell’Asia con i suoi torridi prodotti; tra la rozza, non ancora sufficientemente civilizzata America e ogni singola zona di quella piccola parte del mondo che costituisce la mia patria. L’intera terra è dell’essere umano e chi può dire, quando la forma del mondo sensibile attorno a lui lo tedia, che gli sia assolutamente preclusa un’altra qualsiasi forma? Io non mi lamento di piccoli difetti quando essi non mi sospingono tanto da stimolarmi all’utilizzazione dei mezzi attraverso cui posso sottrarmene; infatti tali mezzi sono accessibili. E comunque, anche senza tale presa di possesso formale, quante cose posso attrarre da tutte le parti della terra nella sfera del mio appagamento tramite la grande comunità universale degli uomini! Ma, non solo mediante le impressioni di singoli oggetti, la vita mi benedice con flussi sempre nuovi di felicità; anche le configurazioni del complesso della natura sembrano essere quasi approntate in favore della mia intera essenza; tutto in essa mi arride mediante il gaio sentimento del potenziamento della mia vita e della presaga speranza della sua piacevole prosecuzione. Anche ciò che nella natura sembra contrapposto reciprocamente vi contribuisce in egual misura. Quando la calura dell’estate favorisce la circolazione degli umori nel mio corpo, quando per dir così accresce la coscienza di tutte le mie componenti e mi permette, immerso nel sentimento di me stesso, di avvertire la mia vita intima in tutte le sue parti; quando il flusso dell’aria fredda purifica e rafforza tutti i canali che attraversa, e i miei deboli occhi assorbono incolumi i raggi della luce; quando il freddo, per la resistenza che vi oppongo, mi conferisce il sentimento della forza e sembra rasserenare lo spirito diminuendo la pressione del corpo; quando mi immergo nei tuoi flutti, onda avanzante e, in un nuovo elemento, scambio per così dire il sentimento della mia esistenza con quello di un’altra creatura; quando questa complessiva armonia del mondo, che è disposta per i bisogni del corpo, a fianco dei bisogni stessi, mi gratifica con il sentimento della salute, dell’autosufficienza – oh, come è bella allora la vita! In tutti questi appagamenti tuttavia io mi comporto solo patendo le cose esterne e se tra noi non vi fosse alcun rapporto alternativo, allora apparterrei a esse più di quanto potrei definirle mie; che nuova fonte di gioie è pertanto la supremazia che sono in grado di esercitare su di loro! Sono

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forte abbastanza da distanziarle dai punti in cui mi intralciano la strada; le costringo ad approssimarsi se le anelo e spero di ricavarne gioia. Le sviluppo accuratamente dai loro germi, dalle loro parti più piccole le ricompongo; me ne prendo cura, respingo le forze che potrebbero danneggiarle, sono il loro padre, il loro autore. Ma anche un mio cenno è spesso sufficiente per la loro distruzione; anniento in un istante ciò a cui la natura ha lavorato lunghi anni; trasformo le cose da parti viventi della natura in strumenti morti delle mie forze; muto secondo leggi calcolate la loro essenza e forma, e le rendo adatte ai miei scopi. Così l’essere umano si erge a signore della natura circostante, che è pronta a sostenerlo ovunque egli impari a servirsene. Ma vi è ancora un’altra, altrettanto generosa, fonte di felicità nel mondo inanimato. Grazie a lei ottengo delizia e potere, e ciò va bene, ma in essa traggo anche piacere, e questo è ancor meglio. Nel profondo di me, sento la delicata idea del bello e di tutto ciò che vi è imparentato. Se anche non sapessi donde viene e nemmeno dove va precisamente, sento comunque il suo delicato ma forte potere. Per quanto sia fondata nella mia natura e ne sia un prodotto necessario, quell’idea comunque non solo si attiva in me con forme e leggi di un mondo proprio, ma aspira a qualcosa che le sia conforme anche all’esterno. Che ciò le venga concesso in sì considerevole copia, che possa trarre godimento dagli oggetti esterni, è uno dei più bei contributi della vita alla mia felicità. Riguardo alle forme organiche regolari della natura, che costituiscono un tutto in se stesse, si rallegra principalmente della coscienza e del graduale sviluppo delle loro leggi; il suo supremo godimento sta per me nelle forme irregolari, nel raggruppamento di cose che possono essere unificate in un tutto solo mediante la fantasia e la connessione d’idee. Sino a che punto la natura si accorda con delicato favore a tutte le mie idee di questo tipo! Onde lontane, grandi e sublimi, fluttuano su di me, innanzi a me si estendono mari tempestosi, rocce verso le nubi arroccate, e foreste sterminate avvolte in un’opprimente oscurità; davanti a me in silente nobiltà si ergono montagne con le loro valli digradanti e il paesaggio cangiante si estende in modo incantevole in un variopinto baluginio. Così intere masse, così singole parti sono nutrimento consistente per il senso artistico e per il gusto, questo peculiare inspiegabile sentimento dell’anima umana. Proseguendo così nell’elenco dei diversi principî della sensazione nella mia anima, nessuno si accosta di più a questo senso per il bello del senso per il sociale, per tutto quello che è simile a me, in cui mi rivedo, e per tutte le sensazioni piacevoli che ne derivano. Quanto questo sentimen-

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to, che mi offre la capacità della socialità, è strettamente legato a tutto ciò che in me appartiene alle sorgenti e alle condizioni della virtù!17 In ragione di ciò, esso mi offre già un valore indipendente da tutto il resto, ma come potrebbe concedermi un godimento della felicità senza tutte le benefiche manifestazioni della vita mediante le quali la socialità si è realizzata ed estesa? Oh voi, benedizioni meravigliose della mia esistenza; voi, lietissimi godimenti dell’anima, coronate il quadro della ricca materia della felicità, che il flusso della vita conduce con sé. Sono grato all’intera disposizione di questo mondo per il fatto di potervi vivere veramente con esseri umani; e quanti tipi di cose dovevano essere proprio così, quanti tesori a lungo nascosti dovevano ritrovarsi nel mondo esterno affinché la comunità che ho costituito con i miei fratelli fosse in parte cagionata, in parte mantenuta e resa così universale come ora è. Quanti aiuti esterni furono necessari perché l’amore per il genere umano possa ora fondermi in uno con tutti i milioni di persone che sono, furono e saranno qui, perché ora io sappia che esistono e possa gioire della loro esistenza come della mia, perché sappia come la mia natura è modificata in loro in modo infinitamente vario, come su vie così diverse essi si formino, si sviluppino e compiano progressi nella loro destinazione. Quanta felicità mi mancherebbe se per me fosse impossibile la sentita partecipazione a tutto ciò! Dal momento che mi è accessibile la grande comunità con tutti quelli della mia specie, in modo tale che posso unificarmi con loro nell’intimo sentire, se non nell’agire, mi è spianata una sfera del godimento che va ben oltre la ristretta cerchia dei miei particolari bisogni, mi è donato un oggetto per il mio sentimento più bello, mi sono concesse nazioni come sorelle e generazioni come padri e figli. Poiché il corso mirabile degli accadimenti mondani ha diviso così a lungo gli uomini tra loro, ha impresso in molte classi un peculiare contrassegno, e ha impedito il sin troppo facile distruggersi degli uni attraverso gli altri, allora questa disposizione della vita rende possibile interiorizzare quelle sensazioni generali attraverso la delimitazione della loro estensione. Io non intendo soltanto espandermi nel sentimento della grandezza, voglio anche contrarmi nella coscienza della forza. Così anche qui il mio stato anticipa i miei bisogni; esso mi dona una patria. In una luce più intensa, esso mi avvicina maggiormente coloro che assieme a me ruotano entro una sfera attorno a un centro, che non hanno in comune con me solo l’umanità, ma che assieme a me conferiscono all’umanità una medesima regola, anzi un’unica cerchia di applicazione. Come questi individui mi si approssimano progressivamente per essere da me apprezzati e amati sempre più inti-

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mamente! Una parte del mondo è imparentata con me mediante l’educazione e i costumi, un popolo attraverso la lingua e, dunque, il tratto caratteristico del modo di pensare, uno Stato attraverso le leggi, intere zone abitate, intere classi di uomini, mediante il loro rapporto con queste leggi, attraverso la loro vita in quel luogo. Poiché infine la soddisfazione dei miei bisogni è sparpagliata in cose tanto diverse, per ciascuna delle quali è necessario un trattamento specifico, e ognuno di questi richiede diverse abilità e una particolare disposizione dell’anima, allora la vita mi rende possibile la soddisfazione del più intimo, del più segreto, desiderio della mia anima sociale: stringere con poche persone per lunghi periodi della vita, per la vita e per la morte, il più solido e sicuro legame della comunità domestica, e condividere con loro l’impressione di tutti gli avvicendamenti casuali della vita. Voi, gioie silenziose dell’attività comunitaria, del sentimento comunitario, rimanete il coronamento della mia vita! Non abbandonatemi come minacciate di fare! E quando rifletto su tutti i molteplici doni della vita ed esamino davvero accuratamente il valore di ciascuno, il più bello rimane sempre che l’uomo può condurre vita domestica. Ciò urgeva e si muoveva in me prima che io lo sapessi, erano questi gli oscuri desideri del mio petto, con cui mi avvicinavo a centinaia di oggetti per cercare se la loro soddisfazione si trovasse presso di essi; ciò mi rende adesso così sereno e tranquillo. Voi, dolci gioie, voi soltanto potete riempire l’anima, perché siete ben delimitate! Voi prediligete una semplice e ristretta cerchia, ma siete in grado di apportare una compiuta unità. Molteplicità e serenità nella delimitazione, avvicendamento e attività nella regolarità, intimità e godimento nella rassegnazione, ecco la mirabile materia che la vita consegna in voi all’essere umano, e di cui così pochi sanno che fare. E amicizia e amore, per cui il mio cuore ha sempre battuto con tanto entusiasmo, voi che raddoppiate le forze dell’anima con i loro diletti e l’esistenza intera dell’uomo, non devo annoverare anche voi tra i doni della vita? La connessione delle sensazioni mi ha travolto ed ero in procinto di passare oltre lasciando inosservato un grande ramo della felicità, di certo tanto carico di frutti dorati come tutti i rimanenti. Appunto, l’interesse, il piacere per la verità che, grazie alla sua esistenza, mi concesse il primo indizio della mia destinazione; quanto esso è favorito nelle sue manifestazioni appropriate dalla disposizione complessiva della vita! Come quasi ogni oggetto intorno a me mi promette gioia in virtù di una riuscita applicazione delle mie forze conoscitive! Se il mondo si trovasse di fronte a me privo di regole e caotico, senza sollecitare in me la supposizione che a

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qualsiasi livello vi siano leggi dei suoi mutamenti, senza che potessi riferire con sicurezza a esso e alle sue parti le idee fondamentali del mio intelletto, quanto il mio stato sarebbe vuoto e alienato! Come sarebbe triste e squallido se tutte le forze della natura e tutte le cose in sé mi fossero disposte chiaramente innanzi con la loro essenza e le loro proprietà! Scienza senza interesse, principî senza ipotesi, nessun fenomeno sorprendente; e, dopo l’asciutta enumerazione delle leggi, non vi sarebbe alcun’altra occupazione che starsene davanti alla natura e verificarne il calcolo. È dato così, proprio nel mezzo tra i due, il felice rapporto in cui mi trovo nei confronti di tutto ciò che mi sta attorno, che può diventare un oggetto della mia conoscenza e non si lascia pensare in modo maggiormente favorevole per mantenermi in un’attesa di continua tensione e per accrescere in me mediante sempre nuovi bisogni il sentimento del piacere, già ripetuto in vario modo, per la verità conseguita. Migliaia di fenomeni della natura mi conducono ai concetti delle forze, il cui modo di operare non spiega mai a sufficienza e dà spazio sempre a nuovi collegamenti, conferme, confutazioni. Scambio un vecchio errore con una nuova tesi. Ma tra i continui progressi e le nuove percezioni, anch’essa mi appare insufficiente ed erronea nel suo tempo. La distruggo allora volentieri perché sembra che mediante ogni distruzione il mio edificio guadagni in fondatezza e bellezza. Rimango sempre in un amalgama di verità ed errore, eppure sempre in un diverso amalgama: se infine sono certo di una regola, vi sono nuove applicazioni di essa da cercare, o da correggere o sui cui confini disputare. Se sono certo di un fatto singolo, sono spinto a cercare la regola da cui segue. Se sono ancora incerto di entrambi, che ricco campo si apre per l’acume, l’arguzia e l’intelletto inventivo. E se vi sono oggetti così grandi, distanti, misteriosi per cui so che il mio intelletto non può affrontarli con sicurezza, sono comunque tutti disposti in modo tale che l’audacia della mia fantasia possa utilizzarli come materia della sua costruzione. Là vidi splendere nella luce celeste le pietre più belle della sua corona. Se ne trovano innumerevoli, affinché la fantasia possa costruire da tali oggetti il castello dell’infinità, far divampare come scintille piccoli mondi da mondi maggiori, lasciare che si formino mediante acqua e fuoco, e poi sparpagliarli di nuovo nel nulla oppure offrirli in pasto ai più grandi, porre un corpo, come fosse un Dio, al centro del tutto affinché tutto gli giri attorno in armoniosa concordia. Così la fantasia costruisce, e si desta dal suo sogno per ricadere ancora in un sogno nuovo. Così il mondo, in sé un enigma eterno, mi concede sempre nuovi indizi che mi lasciano sperare nella sua soluzione; un impenetrabile segreto lascia trasparire sempre alla fantasia qualcosa della propria essenza, qualcosa che mi induce a spiegare il resto. Posso mettermi alla ri-

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cerca di un vecchio pozzo o scavare nuove vene, ovunque il gioco dei colori della debole lampada, che porto giù con me nella fittissima oscurità degli oggetti, mi mostra qualcosa che appare degno della mia illuminazione, e una ricerca riuscita o fallita mi offre sempre nuove prospettive e nuovi stimoli. Anche l’uomo, esattamente come la natura, occupa e si offre sempre alle mie facoltà conoscitive. Quale inesauribile materia d’indagine! Quanto a lungo deve osservare, provare, rigettare prima di pervenire finanche alle prime leggi della sua natura, al nome e alla funzione delle sue forze! Nel mutamento permanente delle idee, cui per celerità, multiformità e segretezza non può essere eguagliato nulla di ciò che posso osservare nel mondo, com’è difficile trovare l’origine, la composizione e il valore anche solo di una singola azione. Lo stimolante compito si rinnova in esso stesso centinaia di volte prima di essere una buona volta risolto. E in quanti molteplici rapporti la vita pone questa natura umana, di per sé già tanto ricca di materia d’indagine. Essa ci si mostra in migliaia di forme. Ogni volta, a seconda di dove ci troviamo, a seconda che gli oggetti intorno a noi si oscurino o si rischiarino, mutino o rimangano stabili, essa ci appare ora uniforme, nel salire e nello scendere operante sempre, in sé e fuori di sé, secondo le medesime leggi; ora come una cosa mirabile che non è mai possibile conoscere, la quale, mediante la scoperta di nuovi fenomeni, annienta tutti i sistemi che si sono eretti su essa e, mediante la scoperta delle conseguenze, confuta tutte le precedenti opinioni sui suoi fondamenti; che dalle cose più piccole causa le più grandi trasformazioni e lascia senza frutto i più spaventosi sovvertimenti; sempre nascosta nei suoi moventi, ma sempre capace di attrarre alle indagini come a un facile compito, mai suscettibile di una soluzione e tuttavia mai oggetto di rinuncia; mai abbandonata dal nostro intelletto nonostante tutte le illusioni. La mia fantasia ha ora percorso l’intero cerchio, finché sono tornato a me stesso, e qui mi fermo, e mi soffermo sull’infinita mole della felicità che è possibile nella vita umana. Ma se ora con il medesimo criterio dovessi giudicare me stesso e gli altri sulla nostra saggezza nel goderne! Se fosse da addebitare a una colpa interamente nostra tutta la parte di questo infinito tesoro di cui non ci siamo appropriati! Se ogni sensazione contraria di sofferenza e dolore fosse interamente opera nostra e non potessimo addebitarla sul conto della vita; ah, quale giudizio! E ho poi attribuito alla vita qualcosa che non vi sia davvero contenuto? Ho assunto per piacere e gioia qualcosa che non possa portare legittimamente questo titolo? Ho sempre sentito parlare molto di una gioia vera e di una gioia falsa, di una vera felicità e di una falsa felicità, ma non c’è corda nella mia anima che corrispon-

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da a questa tonalità. In origine tale distinzione deriva dal tempo in cui felicità e virtù erano poste sul medesimo piano, il sentimento della virtù vietava in certi casi il godimento di alcune gioie, e la virtù doveva quindi entro una certa misura smetterla di essere una gioia, malgrado non si potesse negare che essa era comunque in qualche misura gioia; si avanzavano pertanto eccezioni e clausole e distinzioni. Ma io non ho bisogno di tutto ciò. Se in tutti questi tipi di felicità ve ne fosse stato uno che non si accorda con la virtù, sarebbe senz’altro esso a sottrarmi la virtù; ma separate, come ai miei occhi virtù e felicità sono, la gioia priva di virtù sarebbe per tale ragione una falsa gioia? Poiché la sacrifico dovrei ammettere che è una gioia. Deve essere opera mia delimitare la mia aspirazione alla felicità mediante il comando della virtù; e dove qualcosa può essere qui vero o falso? “Piacere e avversione”: ciò lo capisco; “vero piacere e falso piacere” è per me un suono vuoto. Certo il piacere non è altro che impressione e sensazione ma, proprio perché è sempre sensazione, è sempre vero, non è mai qualcosa di diverso dal suo apparire. Ah, non è la delimitazione della virtù che produce l’infinita distanza tra ciò che gli uomini hanno in termini di felicità e quel che, mi pare, potrebbero avere; ben lontana dal vietare ognuno di quei tipi di piacere, essa si accontenta con il semplice sacrificio di singoli godimenti. Per cui il discorso non dovrebbe vertere sulla vera e la falsa gioia. Ma se ne fanno un vantaggio al fine di ammantare la loro incapacità e pigrizia, che li hanno resi incapaci di godere per la loro ottusità e i loro sensi offuscati. Ciò che non arride più loro o ciò che non possono più ottenere lo addebitano come sacrificio alla virtù. Fanno della propria meschinità una pietra angolare della moralità che certamente non regge per nulla, ma da cui guardano con pronunciata avversione alle gioie dei figli del mondo. Accusano tutte le gioie di quelli d’essere false gioie e la vita medesima d’essere una valle di miseria e lacrime, e ritengono ancora di rendere con ciò un servizio a Dio e pertanto intonano a se stessi un canto di lode. Ma il fatto di denigrare tutto ciò in cui ci imbattiamo qui deve accrescere la lode dell’essere supremo o rendere più sentita l’attesa di un mondo futuro che aspettiamo dalla sua mano creatrice, e preparare al suo godimento? Chi crede davvero di rendere un servizio a un artista presso un esperto quando stima indegna una sua bella opera solo perché spera di poterne esibire un’altra fatta da lui ancora più bella? O il fatto che qui non si incontri nulla che le dia qualche soddisfazione deve accrescere l’idea dell’eccellenza della nostra anima? Come se si potesse, per quella ragione, ave-

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re una speranza tanto più certa che qualcosa sia ben strutturato per il fatto che lo si trova del tutto inadeguato al suo primo stato. Proprio a favore della vita, tuttavia, nessuna ingiustizia deve cogliermi di soppiatto; non il fatto che, se ora penso ad alta voce alle orecchie degli esseri umani che ritengono di avere così tante rimostranze contro la propria condizione, uno di loro, anzi forse prima o poi io stesso in ore di sofferenza, possa rigettare il mio attuale giudizio e dire: così parlò uno felice! Perché dovrei tacere a me stesso il lato malevolo della vita? È un’ingenua illusione ed è indegno di un uomo coraggioso volersi nascondere il male per cui si soffre e tremare quando il suo nome viene alle labbra. Se il mondo è soltanto un frutto dell’incertezza, una sorgente del caso, cosa vi sarebbe infatti per me di più onorevole, dal momento che felicità e infelicità vi crescono abbondantemente in modo simultaneo e ciò dipende solo dalla mia abillità, di cogliere quella che ho voluto? A chi altro se non a me potrei assegnare volentieri l’onore della mia felicità? C’è un Essere supremo che governa; soltanto in questo modo tutte le mie convinzioni e sentimenti sono, nonostante la sua saggezza, nel tutto ricolmo di mistero; e io non credo di trattare questo Essere come un nobile benefattore a cui il grato cliente elogia ogni aspetto deficitario del suo esiguo dono come fosse di qualità eccellente, ed evita accuratamente ogni parola che possa ricondurre al sentimento della sua insufficienza. O Egli ha mai richiesto la mia adulazione? Mi ha mai comprato come suo mediatore per vendere all’uomo cattiva merce al più alto prezzo possibile? Non lo nego dunque a me stesso, tra i maestri della felicità è diffuso ancora un altro significato di quella differenza tra vera e falsa soddisfazione, che deve invero contenere a sua volta un’utilizzazione sbagliata, poiché tali attributi non possono mai essere assegnati a questo concetto; tuttavia, quel significato poggia su un pensiero che è troppo evidente e troppo vero perché non vi debba necessariamente ricorrere in merito al mio giudizio sul valore della vita. Nel mio giudizio precedente, sembrava che io considerassi tutti quegli oggetti che mi passavano innanzi in una tanto mirabile luce come fonti permanenti, e sempre coincidenti con se stesse, della gioia. Avevo il diritto di farlo? Sì, nella misura in cui mediante l’applicazione dei miei sentimenti e concetti, che essi rendono possibili, quegli oggetti mi conferiscono una coscienza di me stesso e delle importanti proprietà della mia natura o della perfezione acquisita della mia anima. Questo sentimento è costantemente piacere, fintanto che non perdo di nuovo me stesso o smetto di amare la mia natura. In tal misura, gli oggetti sono pertanto fonti permanenti di piacere; ma se questo fosse l’unico effetto che io esigessi da loro, non mi contraddirei

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poi con me stesso e non limiterei, contro la mia intenzione, le mie richieste verso la vita alla sola messa in opera dell’attività? Infatti, non appena la mia anima è attiva, deve certo rallegrarsi di se stessa, e questo è più un suo merito che un dono della vita. Quindi, non voglio tenere in conto soltanto la coscienza di me stesso che gli oggetti esterni stimolano, ma anche le impressioni che i medesimi producono mediante il loro rapporto con i sentimenti e i concetti a essi applicati. Anche in questa relazione gli oggetti sono fonti permanenti di piacere? Per niente! Non è certo quasi mai lo stesso oggetto, secondo la sua più intima essenza e le sue principali proprietà come fenomeno sensibile, a produrre il mio piacere, ma solo la sua apparenza, la sua superficie o un suo qualsiasi stato, mutevole e passeggero; in seguito, senza che l’oggetto scompaia, lo stato stesso può diventare in me fonte di avversione, anzi può diventare ciò anche il medesimo oggetto, se lo valuto secondo un’altra relazione nei miei confronti. Ora, essi definiscono una falsa gioia quella che sgorga da un oggetto di cui vedono, o credono di vedere, che sotto un altro riguardo diventerà una fonte di avversione. Io mi troverei allora comunque in una valle di lacrime: così tutto sarebbe falsa gioia, dall’instabile sensazione che la bella vista dei fiori di un campo produce in me fino al fervore con cui stringo al cuore l’amico della mia anima. O non diventeranno entrambi, secondo il corso naturale delle cose, causa di una avversione, la quale per grado è interamente uguale al piacere che ne traggo ora? Dovrebbero più opportunamente definirla una falsa aspirazione alla gioia e una falsa corsa alla felicità piuttosto che una falsa gioia. Guarda! L’appagamento è uguale a se stesso ovunque; non ce n’è uno vero e uno falso; continua a essere soltanto la semplice, leggera impressione dell’istante. Accettalo, è una parte della tua felicità; ma se invece di vedere vuoi sempre afferrare, invece di godere vuoi avere, invece che sostare in modo semplice e appagante presso l’impressione di un oggetto vuoi trarlo a te e divorarlo per intero con insaziabile desiderio, devi allora senz’altro addebitare a te stesso il fatto che il tuo conto non torna, e il piacere che provavi al punto di partenza non per questo è diventato meno piacere. Il pensiero è dunque sempre falso e la colpa dell’inganno, che loro a causa di quel pensiero credono di attribuire alla vita, non sussiste. Ma se stiamo all’esperienza che vi si trova alla base, è certamente giusto che gli oggetti attorno a me non sono, dal punto di vista del loro particolare effetto sul mio sentire, permanenti fonti di piacere e che la sfaccettata avver-

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sione, da essi provocata in me, è un potente contrappeso a fronte dei pregi della vita che prima mi arridevano tanto piacevolmente. Il mio corpo istituisce la mia connessione con le cose esterne mediante le impressioni dei sensi; ma questa unione è poi un alto regno dei cieli? Anche a parte la gioiosa coscienza della facoltà di percepire, si tratta davvero di impressioni intensamente piacevoli? Solo un magico gioco di colori, solo profumi, solo suoni melodici? Nessuna forma ripugnante, nessuna offesa del più fine dei sensi, nessun ululato avverso, nessun guaito del dolore e della morte, nessuna immagine della distruzione? Le gioie della gola – alla base almeno, e sotto tale nome, così poco umane! –, eppure quasi ognuno ne dipende: ecco il marchio di Caino che abbiamo sulla fronte a contrassegno della nostra parentela, ed esse danno molto piacere.18 Ma in questo caso non posso fare altro che divorare l’oggetto per venire in possesso dell’impressione del piacere, e non diventano forse queste gioie, anche con l’uso più misurato e attento, la causa inevitabile della malattia e del dolore? E quanto orribilmente il palato espia poi in se stesso i peccati della sua gioventù. Ma va meglio con quella famosa armonia della natura con la mia intera esistenza? È vero, l’essere umano in generale è fatto per ogni piccolezza, e in ciascuna può vivere e apprezzare la sua vita, tuttavia la particolare costituzione del corpo rende una cosa più avversa e dannosa per uno, un’altra per l’altro; e la natura con presaga provvidenza si preoccupa sinceramente che ciascuno si trovi nel luogo per cui sembra che lo abbia effettivamente preparato? Quanti sono tormentati dalla propria vita inferma perché il loro corpo è battuto da venti avversi o è inaridito da un sole troppo caldo! Io non intendo tralasciare nulla della fermezza che vieta di lamentarsi del proprio male se la sua pressione non è ancora sufficiente per sospingerci agli antidoti del caso, e non voglio reprimere il senso di libertà cui è aperto il mondo quand’anche una sua parte fosse del tutto insopportabile; essa è comunque il complemento a un male di cui ci si fa carico; ma la natura non resiste quasi sempre a un tale trasferimento di una pianta da un terreno a un altro? La conoscenza del meccanismo della natura mi conferisce potere su essa, ma quando queste forze si rivolgono proprio contro di me e la mia supremazia non mi basta per proteggermi da esse, una siffatta conoscenza mi tormenta con un presentimento tanto più sicuro dei mali che mi minacciano. La natura mi concede la prima occasione di sviluppare l’idea del bello e del sublime

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e il gioco interno di quest’idea non può essere altro che piacevole, ma la sua applicazione all’esterno, cui la natura altresì mi sospinge, sarà sempre così piacevole come la trovai in precedenza? Io erigo in me a ideale questa idea nella sua intera consistenza, non posso pertanto pretendere che nella natura le corrisponda qualcosa, per tacere del fatto che non può corrisponderle tutto; ma se tutto sembrasse almeno sforzarsi di avvicinarsi a essa, ne sarei volentieri soddisfatto e lascerei aggiungere il resto dalla mia fantasia; ma quanto spesso nella natura trovo rispetto a questa idea soltanto una contraddizione che opera su di me nel modo più spiacevole; talvolta la natura, nelle riproduzioni informi, sembra dimenticare i suoi modelli, e scompare la leggiadra illusione per cui le attribuisco tanto volentieri l’intenzione di produrre il bello e, al posto di solidi prodotti d’idee formative, non scorgo niente più che effetti casualmente alterati di forze meccaniche. Quanto spesso essa appare povera e vuota nella realizzazione e composizione delle sue forme, tanto che ogni pensiero di grandezza e bellezza è costretto a indietreggiare in me violentemente. E quanto questo senso del bello e del sublime non viene offeso soprattutto tra gli esseri umani! Guai a chi vuole guardare a essi e alle loro opere con un tal senso. Essi non si sono lasciati educare al senso del bello, e strisciano nella polvere molto al di sotto di questa sfera sublime; per loro è quasi incomprensibile cosa ciò sia nell’anima; e, quando io li attendo a un punto in cui potrebbero davvero venir animati mediante tali sentimenti, strisciano privi di gusto dietro un’idea irrilevante e vengono deprivati della grande impressione che contrassegna la loro natura. Sono così, così sono le loro opere e, se a volte mi accorgo di qualcosa di grande tra essi, inevitabilmente mi fa star male lo sventurato fraintendimento che perseguono al riguardo. La vita con le sue istituzioni sviluppa in me i fondamenti e i sentimenti della socialità, e la coscienza di questa disposizione psichica mi lascia sempre fluttuare in una bella sfera del nobile sentimento di sé; ma la sensazione che la socialità mi procura mediante i suoi oggetti, e che mi toccherà tanto più spesso e intensamente quanto più è vitale in me la disposizione psichica, quanto frequentemente m’immerge nello sconforto e nel malumore! Sarebbe una follia se pretendessi che ogni individuo appartenente all’umanità corrispondesse al mio amore per il genere umano, o dovesse contribuire visibilmente allo scopo che attribuisco all’umanità nel pensiero; una follia sarebbe se desiderassi assolutamente percepire progressi al miglioramento in tutti gli accadimenti degli uomini nel loro complesso, in tutto ciò che di nuovo avviene tra essi; ma anche senza queste pretese, quanto è ricolmo di sofferenza il dono che la vita mi ha fatto con la conoscenza dell’umanità! Se essi tengono sempre in mano il velo della verità senza mai scoprirlo, se sono

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sempre alle calcagna dei mutevoli beni della vita senza mai afferrarli, se conficcano la punta incessantemente nell’anello della perfezione senza mai riuscire a prenderlo sulla lancia, se illudendo e illusi fraintendono sempre se stessi e la propria essenza e non hanno mai raggiunto il perfezionamento pur fra tutte le istituzioni che lo hanno reso possibile, cosa ne è allora della felicità che deriva dall’amore per l’essere umano! Vorrei volentieri ridimensionare il mio ideale di socialità a un’immagine ben raggiungibile: solo leggi che mi ricordano nel loro scopo l’essere umano, solo persone che si sentono felici nelle leggi; ma se scorgo nelle leggi soltanto egoismo e usurpazione del singolo, nei cittadini soltanto persone che percepiscono come un male necessario doversi trovare nello Stato, per le quali le leggi più care sono quelle che tengono indebitamente sotto protezione le loro particolari condizioni a fronte di tutto il resto o almeno che possono trasgredire con estrema facilità, quando la patria nel corso della sua esistenza decade o l’aspetto positivo della sua istituzione si dilegua nella generale variabilità delle costituzioni umane – cosa rimane dell’elevata e onorata felicità del sentimento patriottico? Se il legame della mia comunità più ristretta è stato istituito da un’amara costrizione e il destino mi incatena a coloro che non posso amare; se il mio spirito non può essere con coloro in favore dei quali devo agire e tra noi si è consolidato un grande baratro che non lascia sussistere alcuna comunicazione; se le loro gioie mi giungono all’orecchio inascoltate e inavvertite, e così i miei pensieri giungono al loro; se coloro che amo soffrono; se stendo la mia soccorrevole mano inutilmente; se l’impotenza consuma ogni buona volontà rendendola inconcludente e non permettendo alcun alleviamento, e va in fumo ogni bene che escogito per loro, quanta sofferenza la vita rende allora possibile e dove si trova il porto della felicità in cui sembrava introdurmi in modo tanto facile e piacevole! Le sofferenze della verità io le conosco; ne ho vuotato l’amaro calice fino in fondo; posso ben affermare che il mio cuore era privo di colpa, ma il filo labirintico della vita mi condusse a lungo beffardamente intorno alla vicina meta. Non oso, dal novero delle terribili immagini di quegli eventi, le quali mi si parano ancora innanzi, evocarne alcune nel vivido ricordo, perché l’intera schiera delle restanti le seguirebbe inevitabilmente. Sarebbe dunque questo il risultato del conto, il cui esito definitivo era atteso con tanto interesse dalla sensazione e dalla fantasia? Cosa può rimaner loro da tale conto se non un sentimento della vita molto cupo, in cui non sono in grado di distinguere e di valutare meglio di prima la proporzione tra gioie e sofferenze! Ma sensazione e fantasia non hanno ancora fi-

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nito con le loro richieste alla vita e con i conti da fare con essa. Ora, né io né alcun altro individuo è padrone di scegliere come gli pare tra questa doppia, infinita riserva; ognuno è limitato dalle sue condizioni a suo modo in ciò che può raggiungere e in ciò che può evitare. Non posso dire: “è merito mio ciò che di tutta quella quantità di male ho evitato ed è colpa mia ciò che di tutto il bene possibile non ho goduto”, oppure il contrario. No: il destino misura la quantità di gioia dovuta a ciascuno, quella di cui uno, volendo, può appropriarsi; per la parte che non coglie, la colpa va addebitata a lui; il destino misura la quantità di sofferenza dovuta a ognuno, quella che deve sopportare; la parte che si procura al di fuori di questa è opera sua. Così dunque quella grande enumerazione è solo il criterio generale per giudicare il carattere della vita mediante la proporzione in cui i suoi doni stanno soprattutto rispetto alla possibile totalità, e per giudicare l’imparzialità del destino mediante la proporzione in cui concede a ciascuno rispetto agli altri. Qual è però il criterio con cui il destino misura? Come potrò io separare quel che esso mi ha procurato e quello che io ho meritato da me? Il mio destino è la somma dei miei rapporti esterni; nei miei rapporti, e mediante essi, ci sono le mie azioni; le mie azioni formano le mie inclinazioni e forze; le mie inclinazioni e le mie forze costituiscono il mio io. Cosa in questo caso è dunque mio? Cosa è del destino?19 Se per rispondere a questa domanda devo immergermi nell’oscura controversia sulla libertà, farei meglio a rinunciarvi del tutto. Posso essere libero nella misura e nel significato che voglio, non posso tuttavia impedire l’esistenza delle cose esterne e l’obbedienza alle loro leggi se non mediante queste leggi, e nemmeno posso mutare la natura fondamentale della mia anima su cui poggia la costituzione dell’impressione. Posso seguire il filo della necessità, come tutto il resto attorno a me, soltanto se qualcosa in me continua a essere io; parimenti deve appartenere a me ciò che produce dapprima dall’interno i miei rapporti esterni, e quel che applico e determino in me dopo che tali rapporti hanno operato su di me. L’aspirazione della mia natura volge da sé a cogliere la gioia e respingere il dolore; allora tutto quel bene di cui sono date tutte le condizioni esterne, e che devo solo cogliere al fine di goderne, è un dono del destino, ed è colpa mia se non diventa mio; solo quel

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male, che consiste in un’impressione cui non posso in alcun modo sottrarmi, è un peso che la vita m’impone; se non evito ciò che è evitabile, se accresco l’inevitabile stesso, permettendo che abbia in me conseguenze foriere di dolore, le quali rappresentano già un’arbitraria applicazione e destinazione dell’impressione, ebbene ciò è opera mia. Se dalle mie azioni precedenti è rimasta una disposizione psichica che mi rende incapace del godimento di una gioia che è in mio potere, o che prolunga e accresce l’impressione di un oggetto avverso, allora quella deprivazione e questo accrescimento sono opera mia; che proprio qui dunque la mia aspirazione alla gioia si umili sotto le leggi della virtù e il criterio della mia felicità sia contrassegnato con il suo marchio! Non solo il bene deve essere raggiungibile secondo le mie forze naturali, cosa che devo considerare un dono del destino, è necessario anche che, per ottenere il bene, davvero non sia richiesta alcuna manifestazione della mia forza opposta alle leggi della virtù; e se potessi poi evitare il male che mi colpisce solo nella misura in cui accetto di rinunciare a qualcosa della mia moralità, con che diritto allora il destino pretenderebbe che me ne astenga! Questa sarebbe forse una regola, sufficientemente sicura per dimostrare agli uomini con debita evidenza che la loro condizione è ancora abbastanza buona e che potrebbero essere sufficientemente felici se la loro saggezza fosse pari almeno alla metà della loro cupidigia e i loro desideri più cocenti non perdessero tutto il fuoco nel bagno glaciale dell’accidia. Illusione e autoinganno sono anzi il vero elemento della loro vita, e sarebbe necessario davvero molto per dimostrare loro l’aspetto cattivo della loro amicizia, per deprivarli di ogni nascondiglio ove potrebbero continuare a ritrarsi abbandonando il terreno della verità. La mia regola non riuscirà a fare ciò; essi mi riconoscono la regola eppure accusano il destino della più deplorevole parzialità; rimarranno fermi tuttavia alla considerazione che il destino imponga quasi un eccesso di mali ad alcuni, ma risparmia loro con solerte attenzione la fatica di allontanare da sé il dolore, li subissa di beni e quasi non consente loro la rappresentazione della maggior parte dei mali della vita; opprime altri invece sotto un peso insopportabile così che dopo le più gravi fatiche riesce loro a stento lo sforzo di catturare una gioia anche solo una volta. Per quanto ciò risuoni dagli sproloqui di uomini comuni e miopi, credo che, se uno volesse essere sincero, ammetterebbe qualcosa di questa prospettiva. Anche se non vi permettete l’effusione di lamenti da donnette, anche se avvolgete tale parziale ammissione in belle sentenze filosofiche, e con la gravità del sag-

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gio chiudete un occhio sulle iniquità del destino, la cosa rimane uguale. Ammetto a me stesso che ci sono istanti in cui, secondo il punto di vista da cui in quei momenti guardo, l’opposto non mi è del tutto chiaro; dipenda ciò dal fatto che stimi una gioia più grande perché mi è estranea o che trascuri una sofferenza perché non l’ho sentita. Ora, già prima d’iniziare l’indagine, il mio sentimento mi dà un altro risultato. Delle diverse classi in cui gli uomini sono suddivisi dai rapporti della vita, posso considerare quella che voglio: ognuna mi attira e mi respinge nella medesima misura delle altre, seppure da un’altra prospettiva; quanto più sono stato capace di mettermi al posto di ogni altro mediante la marginalizzazione della mia condizione particolare e l’elaborazione di riflessioni generali, tanto più in ognuna di queste trasposizioni mi sembra di rimanere uguale. L’uomo è l’essere lasciato libero dal destino: questa è stata per me da sempre un’idea venusta;20 come a un figlio maturo, il destino gli concede la sua parte di eredità e gli concede di governarla, e non dovrebbe distribuirla a tutti allo stesso modo? A ingannare l’uomo è solo il modo della corresponsione. A qualcuno forse toccano gioielli grezzi, e l’inesperto considera costui povero, forse egli stesso, prima di intenderne il valore, si considera tale, ma poi li stima come quel mercante stima la perla del Regno dei cieli.21 Se un altro riceve in monete luccicanti la medesima somma, in consistente quantità ma scarso valore, è perciò più ricco perché viene ammirato maggiormente? Mi sembra che i potenti della terra siano appagati con denaro cartaceo, che certo significa somme più alte, seppure nel giro d’affari tornano a perderne ampiamente il sopravanzo. Questo sentimento di uguaglianza di ciascun individuo in merito al beneficio procurato dal destino per la felicità, sentimento che mi si è imposto in ogni indagine imparziale, mi procura una felicità e serenità che non vorrei sacrificare. Anche ciò non è privo di presunzione; quando poi, anche a prescindere da questo convincimento, sento in me i vantaggi effettivi della felicità, li avverto molto di più come vantaggi miei; ma in questo caso si tratta di un tipo migliore di presunzione. Secondo l’opinione comune, avrei molte più persone meno felici sotto di me che persone più felici sopra di me, sacrifico però volentieri e facilmente a quel sentimento il piccolo orgoglio di questa opinione. Non dovrebbe esso portare con sé abbastanza verità da meritare tale sacrificio? Non dovrebbe superare ovunque la prova? Possa ora prendere in considerazione quei rapporti che sembrano porre davanti all’essere umano più o meno materia per la felicità, o che

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lo rendono più o meno capace di afferrare ciò che ha a disposizione e goderne. Le prime, per dir così, originarie gioie dell’essere umano sono indubitabilmente quelle che scaturiscono da impressioni sensibili piacevoli e dal potere sulla natura; e già qui sembra che la vita associata abbia consolidato un grande baratro tra gli esseri umani. Vi è una classe di uomini inferiore e una superiore; la prima in effetti vive per lo più nella natura ed esercita sulla natura un qualche tipo di potere, ma è costituita quasi soltanto da servi sottoposti a un potere superiore, i quali aspirano invano a utilizzare qualcosa della natura per sé; nei loro confronti la natura è indocile e sterile. Nella meschinità della vita che conducono, vengono a conoscenza soltanto con le impressioni spiacevoli di oggetti grossolani e la maggior parte di loro non conosce nemmeno la prima condizione di tutte le gioie sensibili: la pulizia; invece di poter rivolgere gli occhi verso oggetti piacevoli, sono costretti ad attendere soltanto a tristi occupazioni e, invece di solleticare il palato con cibo gustoso, sono contenti di aver appena qualcosa per difendersi dal tormento della fame. Così gli oppressori stessi descrivono gli oppressi, per quanto possano solo compatirli o rallegrarsi della loro opera; ma il destino irride la loro vanteria. Quando si aggirano nelle loro abitazioni adorne, avvertono forse qualcosa che eguagli la gioia del povero che abbellisce le sue fragili suppellettili? Quando hanno stuzzicato i loro sensi, avvertono forse qualcosa che si lasci paragonare con il pasto trangugiato avidamente dal lavoratore esausto? Non riconoscono una verità di cui rappresentano l’esempio più chiaro: il piacere, che poggia sulla soddisfazione di un bisogno della natura, ottiene sempre la sua particolare impressione ad ogni nuovo appagamento, invece quello che si basa semplicemente sul sentimento di uno stimolo esterno perde a ogni nuovo appagamento la sua impressione artificiale nella misura in cui l’organo ricettivo corrispondente è intorpidito dall’abitudine allo stimolo. Quanti tra questi individui felici non desiderano invano di essere, almeno una volta, affamati. Essi devono allora o rinunciare a ogni piacere causato da siffatte impressioni o devono cercarlo proprio sulla medesima via di colui cui credono di essere a capo; oppure possono correr dietro a questo ramo della felicità solo soffrendo; l’immaginazione precorritrice vede ovunque soltanto un esaurimento e una carenza di oggetti presto destinata a esser temuta. Possono gli individui di classe agiata vantarsi un po’ di più del loro dominio indiretto sulla natura? Se il povero non lo esercita per sé, comunque lo esercita, e tutte le impressioni piacevoli che la sua vita quotidiana gli offre all’interno di quella possono per lui diventare piaceri di tipo permanente giacché si adattano compiutamente ai suoi bisogni. Non così coloro

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di cui il povero è a servizio. Sospinti tra altri uomini, pressati da altri uffici, costoro vivono separati dalla natura; non la conoscono e, nemmeno, essa è loro amica. Se in loro si agita la nostalgia per la natura è, come il primo amore, un sentimento oscuro a cui il fanciullo non è in grado di assegnare alcun oggetto. Se a volte le vengono vicino, più per distanziarsi dai loro oggetti quotidiani che per approssimarsi a lei, ne rimangono stupiti come di un’inerme rarità, oppure la loro gioia per essa è dovuta a un’attrazione affettata, intensa ma passeggera. Se voi stessi attendeste alle vostre belle creazioni sotto l’influenza del cielo aperto, se voi stessi lavoraste sulla terra e vi rendeste simili al contadino, solo allora trarreste di cuore e con gioia appagamento dalla natura, di cui vi vantate che vi appartenga. Io scorgo tale possibilità, che qualcuno la imiti. L’essere umano è dunque in un rapporto scorretto con la felicità che ricava dalla natura; in questo caso pertanto non vedo alcun vantaggio del ricco, ma un male che riguarda tutti parimenti, seppure in diverso modo; un male necessariamente fondato nella condizione artificiale dell’essere umano, contro cui sarebbe possibile una salvezza soltanto nei sogni arcadici di nobilitazione di una parte e semplificazione dell’altra. Abbagliati dagli sfarzi della vanità, molti si augurano di appartenere a coloro che, esteriormente più elevati degli altri, annoverano pochi tra i loro simili. Non è necessario che confuti questa follia. Non solo ci inganniamo sul contenuto della gioia dei grandi, ma ciò che comunemente è considerata la loro fortuna, costituisce in verità la loro pena; se sono felici non lo sono in ragione di ciò per cui si distinguono dagli altri, ma per quello che hanno in comune con loro. Lo dice un uomo che nei suoi giudizi aveva piena consapevolezza della vita 22 e io, saldamente convinto di ciò, piuttosto sarei stato incline a lamentarmi se avessi in qualche modo dovuto prendere parte al loro stile di vita. Allora mi abbagliava l’orgoglio della mediocrità che, dacché la ricchezza si è separata dal prestigio, si erge al di sopra dell’orgoglio della grandezza. Che il primo sia quindi più fondato del secondo? Che i grandi siano puniti mediante un’assenza di felicità, davvero attinente alla loro condizione, a causa dell’invidia non desiderata della folla? No, il destino è troppo giusto per tali deprivazioni. Quanto spesso li vidi felici quando si abbassavano alle gioie degli altri, e quale pienezza di appagamento dava loro in quell’occasione qualche piccolezza umana che un altro percepisce come qualcosa di quotidiano senza ricavarne particolare piacere sensibile; ogni istante di questo tipo

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per loro è accresciuto da ciò di cui sono per dir così derubati. Solo anime indolenti, troppo torpide per inseguire la felicità, hanno immaginato che sia impossibile salvarsi dalla stanza di tortura dell’etichetta tra le braccia della natura, dell’amicizia e della gioia domestica, e che l’obbligo della condizione nobiliare avveleni con iniquità anche le ore che essa evidentemente non può intaccare. A molti, certamente, la mancanza di resistenza contro l’impressione provocata dagli obblighi lascia nell’anima un’inerme debilitazione, ma come posso addebitare ciò al destino? Il secolo, che ovunque si batte per l’indipendenza, disprezza i grandi perché la loro essenza ha per dir così la costrizione a suo fondamento; essi soffrono del loro male; ma questo male è forse più grande perché brilla e perché un tempo non era considerato tale? La grandezza è solo un’apparenza ma ciò su cui si fonda, il potere e la violenza sugli altri, questo è forse un reale favore del destino attraverso cui esso sa moltiplicare la somma della felicità dei suoi diletti. Ah, se la grandezza togliesse a chi soffre sotto il suo giogo così tanto quanto bisognerebbe concludere dalla sollevazione generale nei suoi confronti e se desse a colui che la possiede così tanto quanto toglie a chi la subisce: ma no! Essa si lascia interamente convertire in flagello del debole, ma non si trasforma mai in cornucopia del potente. No, aurea libertà, non è mai possibile godere di te quando lo si voglia far da soli; chi crede di escludere gli altri dal tuo possesso è costretto ad allontanare se stesso da te; nella misura in cui l’uomo fa schiavi e possiede schiavi, diventa egli stesso schiavo. Messi da parte i vantaggi morali della potenza, per quanto siano discutibili, il peculiare contributo della grandezza alla felicità non è da sovrastimare. Il godimento della grandezza in sé diventa una sensazione spiacevole in ogni istante in cui qualcuno si considera, quale essere umano, uguale a tutti gli altri; anche in altro modo, vedo aprirsi due vie egualmente tristi per i potenti. Il mai sopito sentimento del diritto dell’oppresso all’insubordinazione, all’odio, all’inganno lascia una torbida amarezza nell’anima dei potenti, che avvelena tutte le gioie del desiderio di dominio. Se però poco per volta si abituano a considerare l’essere umano come una macchina servizievole, allora in egual misura devono disprezzarlo; e come il loro potere può ancora conferir loro un sentimento del proprio pregio, se disprezzano quelli sopra i quali s’innalzano attraverso il potere? Non bisogna negare che il potere è uno strumento efficace per procurarmi molteplici gioie, in quanto mi permetterebbe di usare tempo e forza di altri uomini per le mie intenzioni; posso così per la mia felicità mettere in funzione un insieme altamente differenziato di cose esterne e utilizzare molte cose senza dover agire personalmente. Ma il carico del po-

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tere è esso stesso un contrappeso sufficiente all’eccesso di godimenti provocato da tali rapporti. Così almeno mi pare quando io salgo dal gradino più basso del potere, dall’autorità del padrone di casa sui suoi servi, fino al più alto dispotico potere del sovrano. Nulla è più difficile da governare e tollerare che l’uomo dipendente. Il suo amore è tanto pericoloso come la sua malvagità e il suo timore tanto fastidioso come la sua dedizione, i suoi servizi valgono di rado la fatica e la noia di addestrarlo, e la cura e l’attenzione, che richiede di continuo e che disturbano i pochi appagamenti e istanti di soddisfazione, sono scarsamente ricompensate dal sentimento di dominio e di espansione dell’esistenza, e dal conseguimento della liberazione da qualche spiacevole necessità. Vi sono tre tipi di potere dell’uno sugli altri: il potere rappresentativo che una persona esercita in nome della legge; il potere indiretto o la dipendenza che chi possiede in eccesso il sostituto universale dei bisogni esteriori,23 oppure ha a sua disposizione i mezzi universali per la soddisfazione dei desideri altrui, impone a quelli che di contro gli accordano soltanto singoli desideri e gli possono soddisfare solo particolari bisogni; il potere assoluto diretto, che in modo più o meno limitato sottomette le azioni e le forze di uno all’arbitrio dell’altro; allo stesso modo vi sono tre tipi corrispondenti di asservimento e questi, per quel che mi pare, sono tutti da reperire, seppure in diverse commistioni, nello stato in cui ogni uomo si trova. I primi due tipi di potere non sono soliti essere invidiati sotto questo riguardo e i tipi corrispondenti di asservimento non sono in genere deplorati: quanto più il potere legislativo di un singolo è esteso, tanto più di solito è rigida la sua subordinazione giuridica, e all’opposto; il potere indiretto detiene in tutti i casi un grado abbastanza proporzionato di dipendenza; e se colui che sembra godere di una più grande facilità nella soddisfazione dei suoi bisogni è in possesso del mezzo di scambio universale a ciò utile, al contrario colui che deve acquisirlo soprattutto con un tipo di azioni o prodotti gode normalmente di una perfetta libertà nella scelta della persona con la quale intende istituire un rapporto del genere, e la facilità con cui cambia un padrone e ne trova un altro conferisce alla sua dipendenza apparente l’essenza della libertà. Qui i rapporti si tengono così chiaramente in equilibrio che, in ragione di ciò, anche il giudizio della massa è reso il più delle volte imparziale; e quasi in ogni

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luogo in cui è dato sentire una lamentela al riguardo, essa si riferisce a qualcosa che purtroppo accade sin troppo facilmente, vale a dire che uno di questi due tipi di potere pone in atto una commistione con il terzo. È quest’ultimo tipo quello del tutto intollerabile per l’essere umano; solo per questo le persone sono solite lamentarsi della mancanza di libertà come di un ostacolo fondamentale e irrimediabile alla felicità quando sono oppresse dal potere assoluto arbitrario, e io dovrei essere in grado di difendere la legittimità del destino anche dove avviene ciò. È ben difficile in questo caso distinguere tra quel che il destino apporta all’uomo e quel che egli stesso si procura, ma nella misura in cui complessivamente è possibile farlo, sembra confermata anche in questo caso la correttezza del mio sentimento. Deve pur essere pagato un tributo per la distribuzione degli universali benefici della natura e per tutti i vantaggi generali della vita associata, ognuno deve pur sacrificare una parte dell’originaria indipendenza esistente al di fuori dei vincoli delle leggi civili e sembra non esservi alcun modo più facile per piegarsi a siffatta necessità di questo assoggettamento diretto. Senza alcuna cura diretta del proprio e con la massima sicurezza, chi concepisce in tal modo lo scopo di questo sacrificio consegue una partecipazione corrispondente ai beni della vita, e quando in certo modo si deve agire o patire per gli altri mediatamente o immediatamente senza interesse del cuore, in quale modo al cuore risulta poi più facile e meno faticoso fare tale sacrificio, che sbarazzandosene tramite singole azioni abituali in cui è soltanto necessario seguire fedelmente una data regola? Allora certo il potere più assoluto riceverebbe tutto ciò che è tollerabile e benefico del potere giuridico; ma la passione di chi detiene il potere si assoggetta a una regola siffatta? E non sono queste le sofferenze più grandi causate dalla sottomissione, che sono generate dagli attacchi di passione del potente? Solo, non saprei come addebitare al destino queste sofferenze, poiché l’uomo ha certo in sé un verace mezzo per ridimensionarne l’impressione fin quasi a un nonnulla. Poniti a seguito della ragione, essa è un muro di ferro da cui rimbalzano senza forza tutte le frecce della passione con qualsivoglia furore siano state scoccate. Io non difendo il senso ottuso dello schiavo la cui felicità consiste nel non avvertire l’ingiustizia, ma perché il sentimento dell’ingiustizia deve trasformarsi in passione? Se deve essere uno dei sentimenti più nobili, orientalo all’ingiustizia che viene commessa e non a quella che capita a te. È il primo imperativo della ragione sottomettersi alla forza irrazionale dove ciò sia necessario, e la po-

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tente passione è la forza più irrazionale. Guarda la passione dunque e, mediante la resistenza e l’arretramento, la tua ragione, per quanto tu sia debole, riporterà la vittoria su essa, qualunque potenza possa pur esserle collegata. Chi per qualche ragione occupa l’ultimo gradino del potere, sottomesso per propria scelta senza avere sugli altri nessun potere simile, sembrerà soffrire nel peggiore dei modi sotto tale pressione; perché però devo giudicare costui in sé più infelice di tutta la rimanente classe di coloro la cui felicità particolare è stata causata dalla fatica, dal lavoro e dalla lotta contro l’inerte forza irrazionale? Dove una tale sottomissione è un rapporto scelto secondo arbitrio, quegli stessi che vi hanno parte mostrano di preferire l’aver a che fare con l’irrazionale vivente piuttosto che con l’inerte. Dove il rapporto è obbligato, dal negro comprato fino alle più tenui tra le innumerevoli forme di schiavitù che è dato trovare anche nella nostra parte del mondo e nei nostri Stati, non posso certo far altro che detestare in ampia misura quelli che sostengono il diritto degli uomini a una tale condotta; ma tanto meno posso esimermi da una difesa del destino, che è in grado di risarcire il sofferente per l’ingiustizia degli uomini, procurando agli oppressi in ragione di questa cattività, mediante la natura della cosa ma senza il consenso dei detentori del potere, la materia e il mezzo per la felicità, di cui essi, immutate tutte le altre circostanze, non avrebbero potuto essere partecipi senza questa costrizione. Il grande scopo della nostra epoca di annientare tutte le tracce di questo violento assoggettamento non vale allora niente? Non è certo così. Ma se tutti fossero convinti che sia vana illusione voler accrescere, per mezzo di tale annientamento, la somma della felicità in favore di una classe qualsiasi di uomini, allora rimarrebbe più pura e più santa l’intenzione di coloro che, senza riferimento a ciò, desiderano solo attenuare l’offesa del senso morale dello spettatore, e aspirano a togliere gli ostacoli esteriori che ottundono l’esercizio della libera virtù da parte dell’oppresso, e vogliono intraprendere la grandiosa battaglia contro i più radicati errori e i più universali abusi dell’umanità. Solo folli vanagloriosi possono aspirare al rango; sono disposto soltanto a perdonare giovani che traboccano di forza impaziente, o persone avide di dominio che non comprendono se stessi quando, in un eccellente livello di potenza e in una grande quantità di creature a servizio, credono di aver trovato un sicuro mezzo per il vero accrescimento della loro felicità. Ma nella maggior parte degli individui vi è tuttavia un desiderio che ha un contenuto molto simile a questo, e io stesso non posso in alcun modo dichiararmene libero. Io non aspiro a circoli superiori, ma certo aspiro più

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in alto all’interno della mia cerchia: un eccezionale grado di benessere nelle mie condizioni; nelle mie condizioni, un livello di reputazione e onore tra gli uomini che salti agli occhi. Quanto spesso la mia bramosa fantasia mi ha raffigurato ciò come il desiderio preferito! Io non ero dunque consapevole fondamentalmente, per lo meno allora, di una tendenza morale di questo desiderio; esso si riferiva alla mia felicità; ma questo riferimento non era illusorio? Quasi tutti coloro che sembrano orientare le loro azioni secondo una teoria della vita molto articolata hanno il medesimo fine, e persino la filosofia del godimento gli attribuisce anche presso i nostri saggi un notevole valore; essi reputano più che ridicolo voler giocare a fare il Catone per quel che riguarda la ricchezza e a fare l’Aristide per quel che riguarda il potere di influire.24 Che senso ha dunque questa universale aspirazione? Una proporzionale ricchezza assicura in ogni classe la massima soddisfazione, che sola è possibile in essa, della raffinatezza in tutti i tipi di godimenti sensibili. Ma desidero tale soddisfazione per amore del godimento stesso? Ho riconosciuto già prima come mia stabile convinzione che la somma reale e l’eccedenza delle impressioni generali non è incrementata dal godimento. Ma proprio questo raffinamento della sensibilità è uno dei fondamentali punti di vista da cui le persone sono solite apprezzarsi reciprocamente; allora, il mio fine sarebbe forse la soddisfazione della vanità che deve seguire con sicurezza quando le persone notano in me questa raffinatezza e questo “saper vivere”. Ma quanto spesso ho sentito che proprio questa vanità, piuttosto, soffre sotto lo sguardo altrui! Il graduale passaggio da un livello di ricchezza a un altro non giova perciò, nel caso di tale apprezzamento, a tener viva la precisa ripartizione delle persone secondo ciò che si chiama il loro stato, e così accade spesso che non si è annoverati nel proprio stato ma in uno immediatamente superiore e, secondo tale criterio, si è considerati come l’elemento più basso di una categoria. Una intenzione più pura di questo desiderio è orientata alla soddisfazione più libera, e non impedita, del sentimento di eleganza e bellezza in tutte le istituzioni della vita; ma anche in tal caso la mia esperienza si esprime nitidamente contro il mio normale desiderio e a favore del mio attuale sentimento. Quanto sbagliano i ricchi, quando credono di avere il monopolio di queste gioie! La loro ricchezza è piuttosto la causa per cui

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essi ne godono in grado minore di quanto altrimenti accadrebbe. Cos’è l’eleganza se non pulizia e funzionalità accompagnate al gusto? La ricchezza è svantaggiosa per la purezza di quel sentimento e inutile per l’accrescimento del godimento che la sua soddisfazione procura. Quanto più vedo che devo raggiungere questo scopo con un dispiegamento minore di mezzi, tanto più mi sforzerò di rettificare le mie idee di gusto, in modo tale che il grado in cui mi compiaccio della sua soddisfazione e la buona scelta degli oggetti mi ripaghi per la mancanza di una loro celere alternanza. Così il godimento per me aumenterà attraverso l’acquisizione e il possesso di oggetti belli; la stabilità delle mie idee riflesse di gusto lo renderanno durevole, e non dovrò creare nuovi bisogni solo per poter mostrare l’eleganza nel loro soddisfacimento. La permanente disposizione psichica dei ricchi a rimpiazzare ciò che ora piace loro, qualora dovesse smettere di piacere, con qualcosa d’altro è all’origine della futilità del gusto; esso è fatto più di umori che d’idee; il loro amore per l’eleganza e la bellezza si trasforma via via in amore per il lusso e il cambiamento; un reale sentimento del bello in una modificazione della vanagloria. Questo rovina anche il godimento che ne ricevono: già in anticipo, eleggono a fonte del loro compiacimento un oggetto solo per breve tempo, e le gioie che ne appagano il gusto entrano nella classe di quei compiacimenti la cui impressione non poggia sulla soddisfazione di un bisogno, ma su uno stimolo esterno estorto. Se dunque la semplicità e la parsimonia permettono anche soltanto poca varietà e quantità di oggetti, mi è tanto più facile rimpiazzare riccamente attraverso l’intimità e la dignità del godimento quel che in questo ambito può concedere solo un lussuoso eccesso di mezzi. Il ricco in tale ambito riuscirà a pareggiarmi se egli, proprio a sostegno del suo gusto, rinuncia all’utilizzazione della sua ricchezza. Una maggiore libertà per scegliere e allargare le mie gioie attinenti alla sfera sociale è senz’altro la ragione principale della mia aspirazione al benessere. Le persone eleggono volentieri da sé a compagno delle loro gioie colui con cui si può sperare una comunicazione reciproca, e anche in coloro che altrimenti, secondo i comuni pregiudizi, mi guardano dall’alto, una sovrabbondanza di mezzi per godere con essi dei loro piaceri ridurrebbe al silenzio l’idea di questa disuguaglianza. Ma questa maggiore estensione porta con sé sempre una maggiore schiavitù. Le persone vincolano troppo volentieri colui con cui vogliono vivere, e la coercizione convenzionale facilita loro tale crudeltà. Per poter godere di alcuni piaceri, cui io dovrei rinunciare senza la relazione che intrattengo con esse, dovrò aderire a molte delle loro occupazioni che mi rendono tutt’al-

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tro che felice. Sono completamente consapevole che per evitare questo incomodo, e non per semplice vanagloria, aspiro a una grande reputazione. Se tale reputazione producesse davvero quel che la ricchezza non può procurare, una più libera scelta delle gioie sociali e una maggiore capacità di provocarle secondo le proprie idee, allora coloro per cui mancano i mezzi esteriori per questo, avrebbero di che lamentarsi per una grande ingiustizia del destino: ma anche in tale caso non siamo di fronte a null’altro che a un’illusione. È vero che una certa reputazione assoggetta a sé le persone ed effonde sempre sul titolare l’apparenza dell’utilità sociale, seppure la ragione della sua reputazione in sé sia connessa molto poco con ciò; essa procura facilmente il vantaggio di essere in prima linea tra le persone, di orientare i loro piaceri, e di utilizzarli per l’accrescimento della propria felicità. Solo che, d’altro canto, questo potere segreto non presenta meno inconvenienti di quello manifesto. Senza contare la fatica e lo sforzo che l’acquisizione di una tale influenza richiede, anche il suo mantenimento costa sacrifici continui. Le persone si fanno pagare abbondantemente in anticipo ogni pretesa del genere a loro rivolta e retribuiscono in ritardo ogni singolo godimento che segue a pretese già da lungo tempo ammesse. Con astuta cautela dovrei celare il filo con cui li guido, seppure soltanto nei loro piaceri, e dovrei pure rassegnarmi ai loro stravaganti umori e sopportare gli attacchi ai miei diritti regolarmente acquisiti. Farei e sentirei centinaia di cose che non sarebbero per loro, e in cui la loro partecipazione mi altererebbe ogni gioia, e tuttavia intenderei nasconder loro ciò inutilmente essendo essi ormai abituati a osservarmi. Discutono poi di tutto quel che non comprendono, vogliono conversare di tutto ciò che non può essere loro spiegato, o perfino imitano quello di cui non sanno nulla. No! Seppure l’immissione furtiva nel mucchio di coloro cui io anzitutto appartengo mi imponesse di rinunciare a qualche aiuto che essi avrebbero potuto procurarmi per il raggiungimento dei miei desideri e mi frapponesse alcuni ostacoli che avrei evitato attraverso un diverso rapporto con essi è tuttavia molto meglio lavorare da solo e più duramente alla mia felicità, ma goderne in modo più puro e indisturbato, avere meno dalle persone, ma pure dover sacrificar loro di meno. Accade dunque così con tutti quei rapporti della vita che tanto spesso vengono invidiati tra le persone, giacché credono di aver trovato in essi un mezzo sicuro per l’accrescimento della loro felicità. Il loro aspetto abbagliante qualche volta ha adescato anche me, ma una considerazione im-

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parziale mi fornisce per tutti questi esattamente un risultato opposto. Certamente ognuno di tali rapporti ha le sue gioie, però esso priva delle gioie peculiari solo a un altro, e se da qualche parte tuttavia dovesse apparire come un vantaggio, allora il giusto destino sa nuovamente bilanciarlo con un’aggiunta ben soppesata di inseparabili sofferenze e deprivazioni. E comunque ciò non è ancora tutto quello per cui gli uomini si lamentano del destino. Se essi dovessero pure concedermi che tutti questi rapporti, in vista della grandezza della felicità con ciò resa possibile per ciascuno, sono quasi equipollenti, di certo tuttavia si ostineranno nel sostenere che il destino ingiustamente, mediante le circostanze individuali con cui introduce ciascuno nel suo rapporto, rende l’uno abile e in grado assai maggiore dell’altro di cogliere effettivamente il bene e appropriarsi di quel che gli viene offerto. L’abilità, con cui essi attraverso tale sotterfugio sanno assegnare al destino tutti gli errori del loro intelletto e del loro cuore, mostra invero che traggono maggior vantaggio per il proprio autocompiacimento dalla presunta ingiustizia del destino di quanto essa arrechi danno alla loro felicità esteriore; ma, a prescindere da ciò, in quell’opinione può esservi qualcosa di vero. Il destino ha ampiamente in suo potere lo stato del mio corpo; il buon esito delle mie azioni, che tendono al conseguimento della felicità, dipende in larga parte da esso, anzi, secondo il tempo e le circostanze in cui mi pone, esso può ostacolare la mia formazione spirituale: come la mettiamo allora se lo svantaggio che il destino in tal caso arreca a uno rispetto a un altro non porta con sé un peculiare risarcimento? Non scorgo allora il triste dover essere dell’ingiustizia, la necessità della miseria in raffronto a tutti quelli che il destino predilige? Per quel che mi concerne, questo deve assumere molto rilievo per il valore della vita che ancora mi resta, perché dovrei infatti nascondermi ciò che a tal riguardo mi aspetta? Un corpo di debole costituzione, seppure non ancora corrotto in tutte le linfe, soffre al cospetto di ogni piccolo accidente che un fisico più forte sfida; e se voi vi chiudete, voi che foste per me sin dall’infanzia una fonte di dolore e alla cui perdita mi vedo costretto sin dagli anni della prima giovinezza, se intorno a me diventa buio e le gioie della luce per me sono perse per sempre – o se la mia preoccupazione fosse fondata! Se, malgrado il piacere della vita, una costante persistenza e un’intima coscienza di energie presenti mi lusingano con la speranza di poter ancora prevalere in qualche battaglia contro la malattia; se, malgrado ciò, la fonte della vita inizia a esaurirsi dall’interno! Ancora pochi anni di malattia, e mai più la coscienza

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di appartenere agli esseri felici che possono vantare uno stato di salute! Devo pertanto indagare tanto più precisamente e in modo più imparziale la natura dei mali che mi minacciano. Non deve necessariamente essere più povero di felicità colui per cui è interamente chiusa una delle fonti attraverso cui l’uomo è in connessione con gli oggetti esterni? Il sentimento fisico non può mai abbandonare del tutto la persona vivente; l’olfatto e il gusto, quand’anche considerevolmente più deboli, in proporzione provocano solo una perdita esigua. Ma la vista e l’udito! Il mero pensiero della loro perdita causa in coloro che non ne soffrono un’intera serie di lamentele; chi ne è vittima in genere è più contento del suo destino. Ciò dovrebbe dipendere dal fatto che tutti lo hanno saputo sopportare così bene e altrettanto bene hanno tratto da se stessi tranquillità e risarcimento? Ma la perdita di un senso è spesso il destino di persone senza alcuna forza e raffinatezza d’animo. O si tratta forse di un’ottusa insensibilità che non permette loro di capire l’entità della loro perdita? Eppure tra queste persone pazienti, ho scorto alcuni che avevano studiato ogni godimento della vita ed erano attaccati a ognuno con amore sfrenato. L’inconcludente e sterile mestizia con cui l’essere umano si lega al ricordo di quel che è andato perso, trascurando per di più ciò che ancora ha, è anche in questo caso opera sua; ma egli raccoglierebbe la gloria della serena operosità con cui si dedica ad altri tipi di gioia e accrescerebbe il suo amore per quelli che gli sono rimasti, se la vita non gli concedesse essa stessa una compensazione per la sua perdita, e questa felice disposizione fosse conseguita per completa rassegnazione. Tuttavia, ciò che spesso troppo presto ammiriamo come effetto di una forza interna dell’anima, anche in questo caso è in gran parte merito del destino, il quale apre da sé una fonte di godimento, che altrimenti non scorrerebbe, per colui dalla cui sfera ha deviato una fonte di godimento antica. Per colui a cui ne è stato sottratto uno, i sensi rimanenti si ampliano senza fatica da se stessi attraverso la contrazione dell’attenzione, e uno dei rimanenti è sempre interamente nella condizione di assumere le funzioni di quello perso. Ciò che alcuni saggi hanno detto per allargare il nostro sguardo, vale a dire che questo mondo racchiude in sé ancora un insieme di altri mondi di fenomeni e di materia rappresentativa, per cui noi semplicemente non abbiamo organi: proprio di qualcosa di simile si fa esperienza quando si gode del mondo di un organo mediante un altro organo. Il sordo sente tramite la vista; il movimento della bocca e della mano gli comunica chiaramente il tono del discorso; e quanto più egli dipendeva prima dalle impressioni dell’udito, tanto più facilmente impara a riprodurre nel suo senso interno i suoni melodici mediante la mera percezione delle vibrazioni della gola e del punto in cui l’artista tocca lo strumento. Il

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cieco mediante la percezione sensibile25 vede, nel contorno e nelle superficie delle cose, l’immagine compiuta della loro forma e del loro colore; la vibrazione delle palpebre chiuse gli permette di conoscere la posizione e lo splendore del sole; l’impressione dell’aria sulla sua pelle gli rivela il blu o il grigio del cielo sereno o nuvoloso; anche i venti fanno spirare fino a lui, in impressioni a noi precluse, la posizione dei laghi e dei fiumi, delle montagne e delle valli, delle foreste e dei prati. Tramite la prossimità e l’accrescimento dei sensi che così si sviluppano, lo sforzo naturale della fantasia riceve il nutrimento permanente per trattenere le impressioni andate perdute. Attraverso questo processo essa stessa viene involontariamente affinata, e il suo lavorio assembla ovunque da particolari impressioni e descrizioni un mondo dell’occhio più bello di quello reale. Con le sofferenze della cecità, pertanto, mi giungono già anche le gioie di un mondo personale, di un peculiare piacere, di una percezione più raffinata di cui mi approprierò e voglio rendermi capace di ciò per mezzo di alcuni esercizi preparatori. Non dovrebbe forse il destino medesimo ricompensarmi quando la malattia m’impone di giacere, quando il dolore tortura tutti i miei nervi, e l’impotenza per lungo tempo mi distanzia da tutte le gioie della vita? È possibile che gli stessi esseri umani siano spesso colpevoli della perdita del primo e più necessario bene della vita, della salute, e in tal caso essi vivono le conseguenze delle proprie azioni; è possibile anche che essi, nella maggior parte degli altri casi, comportandosi diversamente, avrebbero evitato la perdita della salute o l’avrebbero differita, ma se le regole per far ciò sono per lo più ignote, o quando la loro sicurezza può essere conosciuta solo per il successo conseguito, ciò26 è parte di certo di quegli infortuni che devono essere addebitati sul conto della vita. Pertanto non voglio nemmeno addebitare sul conto del malato, a fronte del dolore che ne segue, l’insieme dei piccoli piaceri che normalmente, come irregolarità nello stile di vita, sono la causa impercettibile della rovina delle forze fisiche; e nemmeno voglio scalare alle gioie di chi con trepidante attenzione è riuscito a conservare la sua salute quella privazione di piaceri; tutte queste sono solo circostanze insignificanti, che si avverano di rado. Non voglio nemmeno suggerire il bel motto della brevità del dolore intenso e della debolezza del dolore prolungato, che mediante una falsa consolazione distoglie l’infermo dal raffronto con il sano per volgersi a qualcuno di altrettanto miserevole o a un’immaginaria infinità, in senso protensivo e intensivo, del male. No! Tu che stai sdraiato lì, oggetto della compassione di tutti, rendi loro indietro la compassione con il cui sentimento essi intendono darti un piccolo sollievo! Tu puoi confrontarti con tutti loro, e se non senti

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il coraggio per questo, la colpa non sta nella tua condizione esteriore, ma in te. È vero, essi ti si parano di fronte con la consapevolezza che nulla minaccia di distruggerli dall’interno, che hanno la forza adeguata ad abbracciare e cogliere quel che sta loro innanzi. In te tale coscienza è sospesa, e il dolore o tutto ciò cui volgi i tuoi occhi, negli intervalli del dolore, impone la tua attenzione su questa carenza; ma possono essi, come te, ascoltare con intima gioia ogni traccia di forza e di vita che si ripresenta? Quel che già concede a te una beatitudine motivata dalla speranza è per loro ancora una mancanza, e l’assenza di dolore, di cui tu assaggi un istante con la più intima coscienza, è per loro un inavvertito nonnulla. Quale nuovo mondo ti dischiuderà la guarigione non appena si avvicina! Quale nuovo valore e fulgore avrà conservato per te la vita con le sue gioie! Come ti rallegrerai di aver resistito parecchie settimane alla malattia solo per la prima vista del sole! Come li lascerai tutti assai dietro di te nella ricchezza, pienezza e intimità del piacere pur con la loro integra salute. La malattia rivestiva con il caritatevole velo del dolore e della confusione la veduta esatta degli innumerevoli stenti per cui soffrivi; in procinto della guarigione, quando ciascuno di tali stenti è via via alleviato, tu ti ridesti dal sogno e te ne accorgi, e ciò conferisce valore infinito alle piccole gioie che sorgono da tale soddisfazione. La malattia somiglia al temporale: sotto gli annunci e le vibrazioni del tuono e del lampo si nasconde all’uomo lo stato misero e inetto del suo elemento; ma poi ogni respiro all’aria depurata e balsamica, ogni sguardo su una parte rinfrescata della natura gli mostra, moltiplicando la gioia, non solo ciò che egli ora ha, ma anche ciò che prima gli mancava. Vi è forse un dispositivo della natura più favorevole che lasciar scorgere con affinata sensibilità la causa e la struttura di una sofferenza solo quando è superata? Puoi pertanto porre anche il lieto sentimento del superamento contro l’orgogliosa coscienza con cui essi, di fronte ai tuoi racconti, guarderanno a se stessi. Tu credi forse che a compensare il patimento del dolore non serva più di ciò, ma ciò tuttavia non sarebbe l’unica cosa: vi è poi la triste e coatta inattività in questi casi raccomandata da tutti, l’oziosa osservazione di tutto ciò che accade e che sarebbe appartenuto in senso proprio alla sfera della tua attività. Ma perché ora vedi, in rapporto alla malattia, come un patimento quel che ti appariva altrimenti solo come un innocuo diversivo o addirittura una fortuna? Innalza piuttosto il tuo capezzale da malato con le medesime idee con cui ogni sera ti consegni nelle braccia

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del sonno e non considerare la distanza del mondo esterno, che qui per te è una licenza, come se lì fosse una punizione. Il sogno della malattia ha ancora ben più valore; tu sei sempre consapevole di te stesso e delle leggi della ragione; tutti gli oggetti della tua partecipazione e della tua occupazione rimangono a te, e dipende solo dal tuo dominio sulla fantasia quali immagini e aspettative essa ti costituirà. Non hai mai desiderato per un periodo di sacrificare le gioie e le preoccupazioni della vita, senza reciproco sovrapprezzo, al fine di vivere solo in te stesso? Su, cogli dunque l’occasione! Sei formalmente sciolto dai maggiori impegni dell’attività esterna: dischiudi il mondo interiore delle tue idee e non dovrai lamentare la più odiata accompagnatrice della malattia, la noia. Un’infermità permanente, che nemmeno stravolge del tutto i nostri rapporti con il mondo, pare comunemente che sia una miseria ancora più grave. Il grado più basso del dolore invero è compensato dalla sua durata, ma è palesemente lenito dall’abitudine; esso certo mi vincolerà per tutta la mia vita a certi livelli e tipi di attività, ma fa lo stesso anche ciascun altro rapporto della vita, benché in modo diverso. La debolezza dei nervi, che abitualmente è causa o conseguenza di ciò, provoca una straordinaria eccitabilità per ogni impressione; ma devo per questo lasciare che prenda la direzione del dispiacere e dell’insoddisfazione? Piuttosto proprio in ciò vi è anche materia per una delicatezza del sentimento, per un’intimità del piacere, per un continuo potenziamento dell’anima, che tanto spesso rimane vuota negli altri, per una percezione delle differenze, che sfuggono agli altri. Tu eccellentissimo tra i saggi tedeschi, sereno e delicato predicatore di pazienza, solo tu mi hai già mostrato a sufficienza quanta vera felicità, non solo quale esito della rassegnazione ma come motivo di godimento, possa essere connessa con una siffatta condizione fisica;27 sarebbe colpa mia se volessi rimpiangere ciò che deve essermi tolto in quella condizione e non volessi usare ciò che, in ragione di quella condizione, mi è più facile cogliere e può procurami un godimento maggiore che ad altri. Ancora più ingiusto mi sembra essere il lamento per la diseguale ripartizione di ciò che è chiamata, schiettamente, sfortuna; questo gioco sfrenato che il destino prepara in molti modi con tutti i progetti e le azioni che si riferiscono all’accrescimento e al mantenimento della nostra felicità. Quanto più l’andamento dei progetti

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umani e il corso naturale delle cose devono necessariamente incrociarsi in molti modi, tanto meno un uomo qualunque sembra essere giustificato nel ritenersi trascurato e negletto rispetto all’altro; e tuttavia credono di poterlo affermare con il maggior diritto e di dimostrarlo manifestamente. A dire il vero è difficile accordarsi in generale su un’idea così complicata, in cui ogni singolo caso richiede una diversa valutazione, ma è anche certo che è questo il posto in cui essi gettano tutto quello che, proprio perché deriva da una loro colpa, sembra appartenere alle cose inesplicabili e prodigiose. In ogni modo, ciò non deve minimamente mutare il mio giudizio sulla vita. Sarebbe un’ostentata insolenza, per la quale mi mancherebbero le ragioni, se dovessi difenderla? Se tutti venissero ad accusarmi di ciò risponderei loro: cari amici, quando sul mio percorso m’imbatto nella sfortuna e ho la tentazione di volgere lo sguardo agli altri attorno a me per raffrontare la loro con la mia, io non voglio soffermarmi a un singolo periodo della vita, dove spesso una ragione che continua a operare causa molti di questi colpi che si susseguono velocemente l’un l’altro, ma voglio trattenere, l’uno al cospetto dell’altro, diversi tempi; voglio valutare la fortuna degli altri non solo secondo la quantità, ma anche secondo l’importanza delle loro imprese riuscite; e se il destino mi rende impossibile raggiungere o mantenere un qualche bene che avevo o cui aspiravo, non voglio mai dimenticare il risultato di ciò che finora ho trovato, è a dire che, a qualsiasi classe questo bene appartenga, una vita intera non ha niente da perdere nella quantità complessiva della sua felicità pur mancandogli il pieno possesso di questa classe. Fate lo stesso e vedrete che non ho tanto torto. Ma se tutto ciò non è per voi sufficiente, rivolgete allora principalmente lo sguardo a voi stessi, e abbiate l’equità di togliere dal conto del destino quel che a voi stessi appartiene. Chi è irragionevole è sempre infelice. Quando falsi concetti vi inducono a un modo d’agire improprio per il perseguimento dei vostri progetti, quando una violenta fantasia vi raffigura le cose come non sono affatto, quando fate conto non tanto sul favore delle persone comuni, ciò sarebbe un errore troppo grande, bensì sull’amore, sull’assiduità, sulla giustizia dei migliori, quando dopo un passo falso sperate nel sostegno e nel ricambio, o vi siete concessi con imprudente bontà anche nei casi in cui avreste dovuto trattenervi, allora sopportate, senza citare in giudizio il destino per ingiustizia, le conseguenze della vostra irragionevolezza. Comunque, tutto ciò in cui finora ho cercato di difendere l’imparzialità del destino non è sufficiente. Il rango sociale, la ricchezza, il credito, la

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salute e la fortuna non sembrano essere tanto differenti in considerazione del loro influsso sulla felicità da quel che è loro opposto quanto lo stato degli individui educati e colti è differente da quello degli individui rozzi e privi di formazione. Dovrei negare anche questa differenza, e considerare nullo l’orgoglio per il mio secolo, per la mia parte del mondo, per la mia formazione, se non in riferimento alla mia destinazione volta a un’educazione della ragione teoretica e pratica, per lo meno in riferimento alla mia felicità? Il raffinato modo di vivere, il gusto, le arti, le scienze e le cognizioni di cui ci onoriamo come dell’unica ragione di un nostro incontestabile merito innanzi alla maggior parte delle persone della nostra specie, non dovrebbero comportare anche un’essenziale accrescimento e innalzamento della nostra felicità? La formazione sistematica professionale delle potenzialità conoscitive, volta a padroneggiare una o più scienze e modi di vivere, non è certo ciò che ci offre quella speciale e superiore felicità; essa equilibra copiosamente la gioia per l’ampliata estensione delle idee con il lungo tempo faticosamente utilizzato per destarle e serbarle nonché interamente perso per il godimento in senso proprio e la pratica attiva della vita, e la equilibra altresì con l’esangue infecondità, avvertita solo in seguito, di molte di queste conoscenze. Ma lo sviluppo generale più libero di queste forze, che nel complesso ha come scopo l’ampliamento dell’anima umana e delle sue sfere, è certo, in modo manifesto e per universale accordo, il vero sapore della vita e il mastice e la vernice che costituisce e plasma tutte le singole impressioni rivolte al piacere e alla felicità. Ed è pertanto molto chiaro che, per la maggior parte di coloro che ne rimangono fuori a causa delle circostanze di vita, le porte di questa felicità restano serrate. Seppure ci sono molti che per pigrizia e indolenza confinano se stessi al di sotto del livello di cultura cui avrebbero avuto l’occasione d’innalzarsi, essi sono comunque nulla a confronto dell’innumerevole quantità di coloro cui ciò è reso impossibile dai rapporti sociali o dalla natura medesima in cui vivono. Nei nostri Stati, un lavoro costante interrotto soltanto da un raro riposo, commisurato all’estremo bisogno, e la premurosa osservazione di regole meccaniche sottraggono alla maggior parte degli individui tutto il tempo e l’attenzione. Come possono essere introdotti nel segreto dell’anima ed essere con ciò resi capaci di un godimento superiore? Ad altri, la natura e il clima determinano già un duro destino della vita. La calura, per dir così, secca la linfa del loro intelletto e li consacra a un’indolenza favorita dalla facile soddisfazione di tutti i bisogni inaggirabili, poi

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pienamente canonizzata dalla costituzione e dall’educazione. Il freddo irrigidisce la loro anima come le loro membra; come potrebbero sentire bisogni ancora più alti, dal momento che la loro intera esistenza trascorre nell’inutile aspirazione di procurare e fissare il sentimento sempre carente e sempre nuovamente fuggente della vita! Un terreno tetro e sterile rende lo spirito delle persone simile a sé; privo di mezzi e oggetti di godimento, non concede loro nemmeno lo slancio che gli stimoli della sensibilità producono. Tale sensibilità in questo caso non sente i maggiori bisogni del benessere, perché non vede davanti a sé come possibile niente di meglio. Come potrebbero, in tutte queste circostanze che riguardano di gran lunga la parte più nutrita degli esseri umani, essere possibili progressi nella formazione e nella cultura dello spirito? Eppure senza di essi non c’è difesa contro la noiosa uniformità della vita; non è possibile alcun riempimento, impiegato per la felicità e accompagnato da qualche successo degno degli uomini, del tempo sempre vuoto. Il mondo esterno, in tutto il suo splendore e nella sua perfezione, per l’uomo incolto è vuoto e deserto. Quando l’essere umano accoglie in sé gli effetti dei suoi oggetti, non accompagna a tale operazione nessun pensiero e senso dell’osservazione; pertanto, gli sfuggono le più fini differenze delle impressioni, mentre solo la loro osservazione porta in ogni godimento vita e varietà. Egli non riflette sul modo e sulla maniera in cui qualcosa opera su di lui; e non sa trattenere sufficientemente nel suo intelletto nessuna impressione né sa paragonarla con quella che le era simile e le si accordava, così da scoprire ipotesi e regole sulla sua essenza e sulle sue conseguenze. Pertanto deve sempre lasciare al caso il loro mutamento e il loro ordine; non è per nulla in grado né di suddividere moderatamente in più godimenti quel che gli appare solo come un’unica cosa, né di unificare con abbondanza le molte impressioni, conformi alla sua natura e al suo stato, in un intero operante. Ogni cosa piacevole è per lui qualcosa di semplice e particolare; egli non conosce alcuna felicità unificata e congiunta. Il suo dominio sulla natura è vincolato dall’inettitudine del suo spirito; escluso per sempre dal cielo sensibile degli infiniti diversivi da sé prodotti, in cui sa fare ingresso solo il fortunato figlio della cultura, egli è confinato nell’angusta cerchia di una monotona ripetizione, che gli rende torpida la gioia di cercare. Il suo godimento non si misura con la ricchezza degli oggetti, ma con la povertà degli organi con cui li coglie. Esattamente lo stesso accade con il godimento del bello. Il grande regalo che la natura ci ha elargito con questo sentimento è solo una beffa se il destino non vi aggiunge il dono della cultura; senza germogliare, il meraviglioso seme si essicca nell’arido terreno dell’ani-

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ma incolta. È già necessaria una certa capacità di osservazione e discernimento, possibile solo attraverso concetti e conoscenze, al fine di separare semplicemente ciò cui tende in noi questa idea del bello dal grande ammasso delle impressioni sensibili in senso proprio; ma per ricercare interamente il fondamento e la costituzione di questo sentimento, per determinare i confini interni del suo ambito e i limiti esterni delle sue diverse applicazioni, e per pervenire all’alta coscienza di avere in sé un’ideale del bello, per questo è necessario uno spirito formato sotto ogni profilo, esercitato nella comprensione e nella distinzione dei concetti più diversi e di quelli più simili, capace di mettere in rapporto e raffrontare le sensazioni, celere e acuto nel giudicare. Se dunque il sentimento del bello si mostra attivo anche nella persona incolta in presenza di oggetti fatti in modo tale che il loro accordo con lo scopo di tale sentimento è fin troppo chiaro, tuttavia tale persona è incapace di ogni applicazione del sentimento del bello a oggetti cui questo marchio non è impresso tanto nitidamente, ed è priva di tutto quello che presuppone un’elaborazione di quest’idea per mezzo dell’intelletto, ovvero di tutto ciò che la rende una ricca e degna fonte di godimento. Nessun’arte fiorirà per lei, nessuna porterà i frutti dell’ispirazione, o almeno nobiliterà le opere del bisogno con l’innesto del germoglio nel tronco selvatico della necessità. Tutte le forme, che essa produce, saranno ruvide e rigide, i suoni della sua musica monotoni e noiosi, e non conoscerà quella magia che dà potere sull’anima al pensiero più lieve, e al più serio conferisce leggerezza e grazia: la bellezza e l’artisticità della lingua. Perfino la natura per lei non ha bellezza, è infatti necessaria la pratica dell’arte e della cognizione per far emergere, riunire e godere da sotto il velo della sapienza finalizzata e della cieca forza, che avvicendandosi si stende su tutte le parti, la materia di quel che è bello e grande. L’uomo incolto gode poco del vero piacere per le forme esterne della natura e altrettanto poco può provare interesse e desiderio di prender parte alla sua intima essenza e azione. Com’è infatti possibile un siffatto compiacimento senza opinioni sui suoi effetti e sulle sue forze, senza il confronto di queste opinioni con le singole esperienze che essa ci pone di fronte, senza l’osservazione sui suoi mezzi, i fini, i salti, i passaggi e i progressi, e senza l’intero grande gioco d’idee che è destato e mantenuto da tutto ciò? Lodavo prima il destino

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per il vantaggio che l’enigmatico di tutto ciò che è in noi e intorno a noi porterebbe alla nostra felicità; ma proprio questa configurazione non rende impossibile alla maggior parte delle persone le gioie della verità e della conoscenza? E non dovrei biasimare una così ingente ingiustizia per il semplice fatto che non può più riguardare me? Questa maggioranza non è ancora in se stessa abbastanza comprensiva anche solo per cercare le chiavi della natura spirituale o corporea. Né la lingua di tale maggioranza né le sue rappresentazioni sono sufficienti a inoltrarsi con lo sguardo nell’aspetto segreto di tali enigmi o quando coglie tale aspetto a distinguerlo dal presagio. Questa maggioranza vede le cose solo nella loro superficie, non nelle loro forze, nelle loro parti costitutive e realizzazioni. Le trasformazioni la interessano solo nella loro esistenza e nei loro effetti esteriori, non nelle loro cause e nella loro connessione interna. Pertanto essa vive senza una scienza o i frammenti di una scienza della natura; la sua conoscenza della natura non è altro che una ricapitolazione erronea in una dimensione generale di ciò che è particolare nell’apparenza esteriore delle cose, incapace di divenire fonte di piacere a causa della sua uniformità e dell’inanità del suo contenuto; il suo interesse per siffatta conoscenza si riduce a un’incurante attesa di casi simili, e un’ottusa superstizione prende il posto di ogni filosofia su ciò che sta a fondamento del sensibile e di tutte le ipotesi ragionevoli e operative su quello che non si lascia spiegare. Cosa rimane, in quanto a gioie sociali, per chi soffre di una tale carenza, dal momento che la comunicazione e la reciproca sollecitazione di quelle gioie della cultura costituiscono incontestabilmente lo sforzo più laborioso, e il loro godimento comune è il migliore mantenimento di tutti i livelli della società? Dove si trova quel rapido scambio di pensieri in velocissimi e straordinari salti e passaggi nel caso di una totale indigenza interiore dell’anima? Dove sono tutte le segrete gioie procurate dall’osservazione degli altri e dalla comunicazione di queste osservazioni per colui che non può ancora entrare in possesso di un’autentica conoscenza umana? Dov’è la squisita profusione di sensazioni raffinate per chi non ha alcun senso per le fini differenze e i sentimenti ricercati? Com’è anche solo possibile senza un alto grado di cultura istituire un qualsivoglia sistema di socialità, le cui molteplici parti in reciproca concatenazione sono certo una condizione tanto essenziale della felicità sociale? I legami civili, come quelli domestici, dell’uomo rozzo o sono una dura e brutale tirannide o un arbitrio privo di legge in cui solo il caso mantiene una quiete e un ordine incerti; la sua amicizia, ammesso che ne sia capace, non è altro che un istintivo legame difensivo e offensivo di forza fisica; il suo amore è confinato solo alla soddisfazione di

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bisogni animali; la sua compagnia è più un acquisto e un consumo comune che una vita in comune, e tutta la sua socialità di fatto s’innalza soltanto poco oltre ciò che possiamo percepire nell’economia degli animali. Se allora tutte le singole fonti della felicità scorrono per la parte di gran lunga maggiore degli uomini con tanta esiguità, cosa dev’essere della totalità che costruiscono insieme? Quando la maggioranza degli esseri umani in tutte le cose deve rimanere al livello in cui la portano i primi bisogni, quando non giunge a fare di qualcosa l’oggetto di un piacere tangibile o di una conoscenza soddisfacente, quando non le riesce di conferire al mondo esterno, attraverso il riflesso di intime idee, un gioco di colori migliore e un’illuminazione più interessante, e di innalzare il servizio degli stessi bisogni fisiologici a un libero sforzo verso una felicità progettata, allora è certo ben giustificata in riferimento a essa l’espressione di un’insopportabile aridità e di un vuoto della vita. E giacché nella natura della maggior parte degli esseri umani sta la stessa possibilità di una migliore fortuna, e solo la loro collocazione nel mondo rende del tutto impossibile per essi entrare in possesso di ciò da cui è favorito esclusivamente un numero relativamente molto modesto di uomini, consiste di sicuro in ciò l’ingiusta parzialità del destino in tutta la sua nudità, almeno con riferimento alla questione di fondo; parzialità che, forse in modo improprio, si stabiliva di aver scorto in differenze ben più trascurabili. E anche in questo caso io dovrei affermare la mia bonaria opinione sulla sua imparzialità? L’intera connessione delle mie abituali idee sostiene di no, ma un presentimento del mio cuore, che ora è forse sin troppo votato a indulgenza verso il destino e asprezza verso l’essere umano, si ricongiunge con un altro sentimento ancora, per presumere che tuttavia sì: vi è un tacito sentimento del fatto che, non solamente, non tutto è oro quel che riluce, ma anche che può essere oro ciò che non riluce, quel di cui ci si sbarazza a prima vista, sebbene il vero conoscitore lo avrebbe volentieri tratto in superficie dalla profondità della terra. Proprio così mi sembra che avvenga con la nostra cultura e il nostro giudizio in proposito. Formazione e cultura devono eliminare l’uniformità della vita, dal momento che tutti gli oggetti che la vita ci offre sono messi in connessione con un mondo d’idee che, solo grazie a esse, può via via essere prodotto nella nostra anima e può essere portato alla luce come un bel parto divino. Ed è certo vero che sono necessari un insieme di sistemi di questa connessione e una grande abilità e varietà di tale azione dall’interno per provocare una vera felicità umana. Semplicemente, ciò non dovrebbe essere possibile in tutte le condizioni sociali e presso tutti i popoli? Dovrebbe solo consentirlo

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proprio il nostro tipo di educazione, e tutto in essa dovrebbe contribuire a raggiungere tale scopo in massimo grado? Nella teoria generale, siamo invero, anche in questo caso, pronti a separare l’universale dal particolare, il necessario dal casuale, ma nella pratica, nel singolo giudizio, ciò accade solo raramente. Ci sono due fonti di queste idee che ordinano, moltiplicano e rendono fruibile il mondo esterno: l’intelletto e la fantasia. Entrambe devono congiungersi sempre per provocare la corrente della cultura spirituale riccamente gravida di componenti in grado di fortificare la felicità. E noi certo facciamo qualcosa di sbagliato quando misconosciamo il valore della fantasia in ciò che in tal caso ci ascrive la nostra cultura spirituale, e stimiamo la quota dei concetti astratti tanto alta da essere giustificati nel negare a tutti gli altri il godimento dovuto alla cultura poiché essi, secondo la nostra misura, ne possiedono una piccola parte; eppure è questo il comune giudizio. Ma noi siamo “uomini della lettera” e abbiamo la frenesia delle teorie e dell’essenza astratta, perché la nostra intera educazione e il nostro modo di vivere ci portano a ciò, e pertanto ora giochiamo agli abitanti del paese degli zoppi.28 Assai poco ci figuriamo l’essenza di una bella espressione scherzosa e vivace senza al contempo collegarvi il pensiero della scrittura alfabetica e di un ricco linguaggio metafisico sebbene, se vi si riflette, essa sia possibile anche senza questi; esattamente con la medesima necessità, e altrettanto a torto, crediamo di dover presupporre le nostre scienze e i nostri sistemi di concetti astratti per un tipo di formazione capace realmente di procurare la felicità. È vero che anche alla fantasia sono necessari concetti generali e regole per ciò che deve realizzare in questo ambito, giacché tutte le sue immagini e le sue opere poetiche possono costituire una totalità solo in relazione a essi e questi stessi devono mostrarle la via in ogni luogo. Ma essa non ne ha bisogno nella forma connessa, sviluppata, perfezionata in cui li esibisce l’intelletto speculativo, ma solo così come li usiamo, quasi senza esserne consapevoli, in ogni istante della vita quotidiana; e ciò di cui essa ha in tal modo necessariamente bisogno viene nelle sue mani spontaneamente, dato che per mezzo delle prime leggi del pensiero anch’essa, in tutte le sue operazioni, si trova sotto l’influenza di queste regole generali. Può esser vero che solo la parte che il freddo intelletto dedito alla ricerca ha nella formazione dell’essere umano sviluppa in lui gli autentici fondamenti e le componenti costitutive, e concede così in suo potere la solidità e i progressi, della cultura, ma è anche certo che da questa apparente assicurazione della permanenza della cultura scaturisce molto danno per il piacere. Quando si separa il godimento che la conoscenza della teoria procura, e che tuttavia è solo un particolare tipo tardivo di godimento, da quello ricavato dagli oggetti a

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cui la teoria si riferisce, mentre ci troviamo presso il secondo, siamo necessitati, se questo non deve quasi del tutto essere distrutto, a separarci violentemente dal primo. Può essere che solo nella misura in cui i concetti astratti e le leggi appaiono egemoni nel tono complessivo della cultura giunga alle idee, in cui essa consiste, una certa verità obiettiva e sicurezza; ma ciò cosa dimostra qui? La felicità non dipende dalla verità conoscibile di queste idee, ma solo dalla verità sentita, dalla forza e vivacità dell’impressione che esse sono capaci di produrre, dalla solerzia con cui impegnano l’anima, dalla facilità con cui essa può trovare ovunque nuovi oggetti e applicazioni. Forse allora il nostro orgoglio sulla peculiarità della nostra cultura può legittimamente rimandare all’aspetto morale, ma non contiene certamente nessun vantaggio esclusivo riguardo alla nostra felicità; e non capisco perché da ogni altro tipo e da ogni altra combinazione, in cui l’intelletto e la fantasia possono pur sempre collegarsi, non debba emergere un tipo di cultura capace in egual misura di perseguire questo scopo. Sarebbe stolto voler misurare il godimento che il sentimento del bello procura ad altre classi di esseri umani e nazioni soltanto in rapporto alla conoscenza che il loro sapere stesso consegue dei fondamenti di tale sentimento. Il popolo da cui ancora adesso traiamo, quasi in ogni aspetto, il modello del bello e le regole del gusto in parte non aveva alcuna teoria, in parte ne beneficiò, come di una tardiva risonanza, allo scopo di una grama rivalsa nei confronti della complessiva caduta di tono durante l’età della decadenza. La sensibilità per la teoria sorse solo quando la sensibilità per il bello stesso aveva abbandonato la grande massa e si era ritratto in pochi uomini riflessivi. Sarebbe ancora meno conforme al vero valutare questo godimento secondo l’accordo che intrattiene con le nostre regole e i nostri concetti astratti su ciò che deve essere bello; ma ciò è tuttavia quel che fanno ininterrottamente i nostri teorici, immemori del fatto che noi stessi non possiamo far a meno di trovare belli una cospicua parte dei rozzi prodotti della fantasia, e non possiamo giustificarci di ciò sulla base delle nostre cognizioni sul bello. Se fossimo in possesso della teoria assoluta del sentimento estetico, che probabilmente è impossibile, una siffatta tracotanza potrebbe allora aver luogo, ma allora conseguiremmo anche necessariamente uno sguardo totalmente diverso su queste cose. Oggi, ogni sistema di un’arte o di una qualsiasi applicazione del sentimento della bellezza è solamente ipotetico e poggia sempre su presupposti e su osservazioni sul piacevole e il decoroso, in cui non è possibile nessuna universalità. Fossi capace solo di pormi nel punto di vista di un altro essere umano giudicante e senziente, scorgerei ovunque esservi alla base presupposti conformi al modo di pensare di ogni classe e di ogni nazione; e ciò

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non solo presso coloro che almeno in questo caso sono meno distanti da noi, ma anche presso coloro che per l’alterazione del loro gusto e per la direzione avventurosa che ha preso il loro sentimento tra noi sono in parte disprezzati, in parte compatiti, o hanno fama d’essere rozzi. Il godimento estetico è pertanto del tutto indipendente dalla struttura e dalla formazione delle idee astratte al riguardo e, a prescindere dalla sua diversa verità e forma, per quel che concerne il suo grado e la sua intima efficacia, può anche essere suddiviso ovunque in parti uguali, e l’essere umano vi può essere educato ovunque in egual misura. Io scopro dappertutto, anche nella forma più singolare e apparentemente più inumana, non solo particolari diletti che hanno il loro fondamento in questo sentimento e, anche senza essere apertamente riconosciuti in quanto tali, conservano tuttavia nella sensazione la sua dimensione peculiare e distintiva rispetto a ciò che è semplicemente piacevole, ma ho anche ovunque il presentimento di un intimo nesso tra queste esternazioni di compiacimento, un gusto e regole di esso più o meno nitide. Quanto più il gusto è fortificato, tanto più delicatamente distingue il sentimento, tanto più cresce il grado di entusiasmo da cui il sentimento può essere affetto grazie a certi oggetti; quanto più invece è lasso e traballante, tanto più superficiali e mutevoli sono le impressioni, ma pure un numero tanto maggiore di oggetti si offrono loro. Se la verità delle idee contribuisce ovunque così poco alla felicità che da ciò deriva, anche il normale orgoglio per la specie particolare del nostro interesse e della nostra gioia per la natura e per gli oggetti della conoscenza può essere in questo caso poco calzante. Le forze conoscitive speculative aspirano a ricercare la totalità dei fenomeni per determinare il tipo e la ragione della loro origine e le regole della loro attività; poche componenti originariamente diverse, poche forze inerti, poche leggi universali devono esaurire tutto e tutto comprendere sotto di sé. Il bisogno di pervenire all’interno del sovrasensibile, che noi pur sempre desideriamo per infondergli vita, connessione e arte, è assegnato alla ragione perché ne riceva soddisfazione. Sorgono così i nostri sistemi fisici e razionali. Sembra che la fantasia serva solo nella loro rappresentazione e per indicare al genio la via per la scoperta, la formazione e la trasformazione di singole parti; ma il miglior godimento che ci dà questo modo di pensare e di giudicare lo dobbiamo ancora a lei: alle domande che essa pone; alle risposte che dà; alle immagini mai completate, sempre indefinite, ma anche sempre infinitamente grandi e sublimi che essa, in modo conforme a quelle leggi trovate dall’intelletto, schizza sul corso e sull’ordinamento dell’universo nel suo complesso o da particolari punti di vista, con cui colma l’anima in singoli istanti fino all’eccesso dell’estasi, e grazie a cui soltanto – ma anche soltanto per il fat-

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to che commette un tradimento dell’intelletto e maschera più o meno una vita indipendente nelle masse inerti e inserisce occultamente un peculiare desiderio nelle forze meccaniche – possono essere sopiti per alcuni istanti il tumulto e la discordia interni, che la totale separazione tra il sensibile e il sovrasensibile nei nostri sistemi ha causato. Lì dove, nell’esecuzione del sistema della natura, la fantasia ha dominato, un danno siffatto non sorge nemmeno; e invece di un insufficiente risarcimento per i mali che ci si è arrecati, essa concede un godimento positivo e invero il più puro e quello preferibile. Per ogni forza ed effetto dello stesso tipo la fantasia arreca un dio che governa, per tutti gli oggetti omogenei un mondo simile di essenze che li animano; il sensibile e sovrasensibile non sono così seccamente distinti; sono anzi intimamente uniti in ogni fenomeno, in ogni avvenimento; il primo ovunque nobilitato dalla vita e dalla volontà, l’altro reso ovunque comprensibile grazie alla forma e all’azione visibile. Così la driade è l’anima dell’albero maestoso, essa respira nel sussurro delle sue foglie, sente l’amore nel seno misterioso dei suoi fiori, ma è comunque umana e comprensibile come ogni vita.29 Ci si lamenta qua e là della perdita che le nostre sensazioni energiche più intime hanno patito con il rifiuto di questi bei sistemi della fantasia; ma con ancora maggior diritto ci si potrebbe lamentare del fatto che in tal modo la possibilità di diventare felici mediante l’interesse e il piacere per la natura venga circoscritta solo a un esiguo numero di esseri umani; le scoperte e i risultati dell’intelletto sul mondo sono comprensibili solo a pochi, il mondo immaginario che la fantasia pone al di sotto del mondo esterno è adeguato alla capacità di comprensione di ciascuno. Ben distanti dunque dal gloriarci del fatto che solo i nostri aridi sistemi intellettuali rendano possibile questo tipo di felicità, dovremmo soltanto cercare di consolarci per la perdita che in tal caso ci hanno innegabilmente causato. Ora, se non possiamo fare a meno di trovare nell’insegnamento delle favole greche un sistema che offra una soddisfazione al desiderio dell’essere umano per la spiegazione della natura, soddisfazione che, malgrado ogni sistema dell’intelletto, ha uno spazio infinito per ogni nuova scoperta nella natura e in ogni applicazione produce un gioco d’idee gradevole e molteplice, questa tendenza a ingenerare felicità non dovrebbe estendersi a ogni sistema magico e mitologico della fantasia? Noi lo neghiamo, con il modo dispotico con cui non riconosciamo tutto quello che ci è ignoto, semplicemente perché non ci siamo addentrati nella conoscenza di ogni fantasia come ci siamo addentrati nell’edificio fatato di quella greca e perché nella serie infinita delle condizioni umane, ciascuna delle quali richiede una diversa combinazione di intelletto e fantasia e dunque anche un diverso sistema di spiegazione della natura da esso emer-

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gente, ci mancano sin troppe componenti per porci anche nell’anima del disprezzato abitante del Nord o dei paesi equatoriali con la stessa facilità con cui ci immedesimiamo nel pensiero dell’adorato greco. Noi siamo perfino estranei a ciò che accade tra noi e non vediamo la felicità e l’impegno che può arrecare al nostro popolo il sistema degli spiriti, della magia e dei santi protettori. Presso ogni nazione e classe sociale, che senta il bisogno della spiegazione della natura, anche fantasia e intelletto erigeranno sempre un edificio su esso; e come possono eseguirlo altrimenti se non a misura delle parti della natura che sono loro note, delle relazioni che esse intrattengono con loro e delle condizioni che trovano già in se stessi? E così, per quanto tale edificio sia pur privo in qualsivoglia grado di concetti astratti e del prestigio della scienza, non può mai essere altro che adeguato, né può essere altro che una ricca fonte di idee e impressioni piacevoli. Ma noi crediamo di trovare il vantaggio di gran lunga più consistente della nostra cultura fatta d’idee astratte nelle perfezioni che tali idee apportano nel godimento della socialità, giacché provare piacere e interesse per gli esseri umani sembra possibile soltanto attraverso di esse, attraverso la conoscenza e l’osservazione degli esseri umani. Senonché, se è possibile un vivo gradimento della bellezza umana e un maturo giudizio su essa, persino un considerevole grado di artisticità nella imitazione di tale bellezza, senza uno studio preciso e scientifico dell’anatomia, non dovrebbe essere altrettanto possibile un intimo godimento sociale per l’essere umano e una sufficiente abilità nel trattare con lui, senza che si sappia interpretare e dimostrare ogni parte con formule psicologiche e spiegare la connessione meccanica di ogni singolo movimento? È certo vero anche qui che il piacere per la conoscenza è di genere molto diverso e del tutto distinto dal piacere per gli oggetti conosciuti, che perfino comunemente la chiara coscienza della teoria reca danno al godimento del piacere per gli oggetti conosciuti; solo nella misura in cui l’occhio acuto della conoscenza umana si socchiude, si è capaci di uno schietto godimento sociale e di una pura devozione per l’essere umano. D’altra parte, la limitata provvista di concetti astratti, davvero necessaria per capire e giudicare, si riscontra ovunque. Anche in questo caso, tali concetti astratti non sono necessari alla forma scientifica sviluppata; questi appaiono innanzi all’anima, per dir così, soltanto in un istante di rassegna che, mediante essi, distingue e ordina le componenti di singole impressioni ricevute e poi, attraverso questo preciso collegamento con singole sensazioni, tramuta i concetti stessi in sentimenti, che essa ora porterà sempre con sé pienamente consapevole. Si costituiscono così impressioni e immagini generali sulle cose

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umane; con queste vengono confrontate le singole impressioni, che singoli individui offrono in un qualsiasi momento d’azione, e da questo confronto è determinato il loro valore e la loro costituzione. La fantasia raccoglie in unità i ricordi delle successive impressioni di ogni singolo soggetto e dei risultati del loro valore, e sorgono così una sensazione e un giudizio pratico su un determinato essere umano; e in egual modo, da ripetuti e combinati confronti dello stesso genere, sorgono sensazioni e giudizi sull’essere umano in generale, su singoli aspetti e forze che gli pertengono, e indicazioni per un calcolo verosimile del risultato di un’unificazione di essi in certe condizioni; ovunque però la sensazione è la cosa fondamentale e la prima; il giudizio pensato lucidamente segue alla sensazione. Queste sono operazioni che devono realizzarsi necessariamente in ogni anima umana, in qualsiasi condizione essa si trovi; e la cui correttezza e celerità è sommamente facilitata dall’identità degli oggetti con ciò che avviene nell’anima umana e con quel che pertanto deve pur sempre, in qualche misura, essere notato; e in tal modo si costituisce necessariamente in ciascun’anima un sistema della conoscenza dell’essere umano e un’attitudine all’osservazione. Si trascuri pure il fatto che questa conoscenza non è sufficiente per analizzare sempre nelle loro singole componenti le ragioni di tutti i giudizi espressi in conseguenza di essa e per renderli chiari in modo che ne sia soddisfatto il più irriducibile dei perplessi, essa è comunque sufficiente per promuovere la felicità della vita sociale in tutti gli aspetti. Tale felicità infatti, nella misura in cui dipende dagli stessi esseri umani, consiste certo nel fatto che essi sappiano distinguere celermente e giustamente quel che ciascuno può essere e deve essere per l’altro sia nel complesso sia in determinate circostanze, e quindi che determinino i gradi di affezione individuo per individuo, e scoprano e utilizzino in ognuno i punti d’accordo, eludendo più che possono il fracasso delle dissonanze al fine di pensare, sentire e agire con ciascuno in modo tanto sereno, ampio, intimo e armonico quanto è possibile. Sono in gioco una fatua unilateralità e un orgoglio infantile, quando intendiamo trovare ciò che la cultura dello spirito deve necessariamente fare al riguardo sempre e soltanto lì dove impera il nostro tipo di cultura: peggio che per i greci, per cui tutto quel che non era greco era barbaro, per noi tutto quello che non ha i nostri modi, la nostra tinta, il nostro colore è incolto, e proprio nella valutazione dell’interiorità dell’essere umano ci lasciamo influenzare dal detto secondo cui l’abito fa il monaco. Anche nell’ultima classe del nostro popolo allignano intrighi che rivelano uno studio delle passioni umane, e osservazioni generali sull’essere umano sono raccolte in sentenze e proverbi, ma quegli intrighi non appaiono come i raggiri di una cor-

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te, di un circolo, o di un giornale erudito, e queste sentenze non suonano come le massime involute di La Rochefoucauld, pertanto si nega loro la conoscenza dell’essere umano.30 Agiamo in egual modo, attribuendo buona fede ai nostri viaggiatori, quasi con tutti i popoli non europei attuali. Come dei calmucchi si afferma che sembrano tutti uguali,31 solo perché la differenza che all’europeo salta all’occhio tra la loro e la sua cultura nazionale è ovunque più forte della peculiarità che caratterizza ciascun di quegli individui, così chiamiamo rozzi tutti i popoli presso cui la totale mancanza di cultura europea ha reso sin troppo invisibile ai nostri viaggiatori quanto è caratteristico della loro. Non del tutto illegittimamente, essi credono che una condizione civile si riveli mediante una certa differenza nell’occupazione e attraverso una considerevole molteplicità degli esseri umani che vi prendono parte, nonché mediante le disposizioni alle arti e al lusso, ma perché in merito a ciò applicano ovunque la nostra misura? In massima parte, sono d’intelletto tanto limitato che per loro tutte le differenze sono troppo raffinate, tanto da non cogliere perfino le somiglianze con la realtà europea; ritengono che un nastro d’onorificenza sia comunque qualcosa di diverso dall’anello di osso dei palawi,32 e innanzi al diritto di arrostire colombi non vengono loro in mente le nostre prerogative, e il lettore scopre spesso dai loro libri cose che essi non hanno per nulla visto sul posto. Il mio orizzonte si amplia quanto più mi rammento che ciò mi è già accaduto spesso e in modo vivido, e quanto più mi si para innanzi agli occhi la maniera in cui si costituiscono i comuni giudizi di questo tipo, la cui conclusione è sempre che il cieco crede di dover ringraziare il cielo per la sua felicità e che egli non è come uno di quelli.33 Ma non è così! Dirada un po’ la nebbia innanzi ai tuoi occhi e scoprirai in tutte le nazioni preziose e benevole tracce di umanità. Certo, soltanto tracce nel grande tragitto verso una meta raggiungibile, equidistante per tutti; ma non è come se tu, nel tuo veloce cammino, li avessi lasciati ampiamente alle tue spalle; il destino semplicemente conduce la loro felicità altrettanto benevolmente per altre vie. Se fossi poi consapevole di altre circostanze tra gli esseri umani, in cui dolore e povertà mi fanno rabbrividire, allora queste singole prospettive non dovrebbero proprio avere la meglio sul mio convincimento generale; anche in questo caso dovrebbero esservi a fondamento inganni che poggiano su un giudizio insufficiente e sono favoriti dalla distanza troppo marcata tra loro e me. Un’altra natura, un altro clima, un altro modo di vivere possono rendere loro del tutto superfluo ciò che a me sembra far parte delle prime necessità; presso di loro, possono conferire a piccolezze che io disprezzo un valore sorprendente; possono rendere, per loro, componente fondamentale della fe-

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licità perfino molto di ciò che io porrei dalla parte del male. Anzi, seppure vi fosse una differenza ancora più grande e più essenziale di questa, seppure l’intera idea della felicità, e dunque ogni sforzo che vi si riferisce, fosse circoscritta per una parte dell’umanità entro una cerchia ben più limitata, se loro fossero ancora semplicemente soddisfatti per la forza e l’estensione temporale di alcune impressioni senza essere in possesso di nessun materiale e nessun sentimento per l’infinita molteplicità del godimento che per noi costituisce l’essenziale della felicità, io non intendo comunque disperare di essi. Semplicemente, non confondo cose diverse, e non riconduco senz’altro anche alla loro felicità il cattivo auspicio che mi fa attribuire questa povertà, questi scarsi progressi, al grado del loro sviluppo morale; semplicemente io non sostituisco il mio sentimento al loro, nemmeno nelle piccolezze. Se la mia complessa idea della felicità non alberga in essi, allora non possono neanche soffrire per il sentimento che il loro stato non vi corrisponda; ma se mai la conseguono, allora inizieranno anche a svilupparsi i mezzi ovunque pronti per la sua soddisfazione. Fino ad allora anche la loro vita non sarà così assolutamente noiosa e vuota come mi appare: manca loro questo costante desiderio del cambiamento e della trasformazione della sensazione, e nella misura in cui è loro negata un’infinita quantità di impressioni, attraverso l’organizzazione e il modo di vivere si è costituita in essi una ferrea perseveranza che, senza tedio, si lega al poco con incrollabile amore. E questo costituisce la loro ricchezza. Allo stesso modo l’eroe della moralità aderisce con l’intera anima all’unica idea e forma della virtù, mantenuta contro tutto il resto; essa è pur sempre semplicemente un’idea, una forma, che tuttavia comprende in sé per lo meno il suo desiderio, tutte le sue ambizioni e la sua intera attività. Di certo, ora ho scalato tutti i trinceramenti innalzati dall’orgoglio di chi crede di essere un prediletto del destino, tutte le sue presunzioni mi sono apparse futili, le sue trincee erano illusioni e le sue armi pregiudizi; io sono fermamente convinto che per quanto possano essere diverse e ineguali le componenti della felicità in diversi stati dell’essere umano, non abbia luogo nessuna ineguaglianza rispetto alla somma suprema della felicità che a ciascuno è dato raggiungere nel suo posto, e alla somma dei mali che la sua situazione necessariamente e inevitabilmente gli impone. La giustizia del destino per me è certa. Ma questa convinzione merita una tale gioia, come accade per un nuovo pensiero, per un merito particolare? Non è questa l’opinione comune degli esseri umani? Quando si sente come essi sono talvolta stoicamente capaci di disprezzare e presentare come futili particolari vantaggi, come sono alla ricerca di motivi per innalzarsi al di sopra di singole disgrazie e costruiscono teorie su singoli rapporti e aspet-

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ti della vita, lo si dovrebbe pensare; ma quando si vede il loro agitarsi e agire, e l’inane e tortuosa forma del loro cuore, allora mi rendo ben conto che questo pensiero, nella sua intera estensione e nella sua piena dignità, non è pervenuto nella loro anima. Nelle rare ore positive di appagamento essi credono senz’altro di possederlo, ma lo presagiscono soltanto senza averne una visione complessiva, e nella loro anima il suo serio rigore diviene imprudente follia. Sono lontani da una salda fede in esso come in un’alta ed eterna verità. Come si tollererebbe tale pensiero anche in rapporto alle loro basse passioni e al loro ancor più meschino orgoglio? Ove rimarrebbero loro altri vantaggi, se ogni uomo nella vita si divertisse come fanno essi? Nel loro cuore questa verità non opera e non è nemmeno radicata nel loro intelletto: come, altrimenti, nei loro giudizi pratici continuerebbero ancora a rimanere aderenti alla loro unilateralità, e in che modo sarebbe per essi necessario sciogliere enigmi che non esistono affatto, redigere vuote teodicee ove non si profila alcuna ragione di recriminazione, e difendere la Divinità per il fatto che renderebbe possibile per l’individuo virtuoso una felicità minore che per gli altri? Con un’estensione siffatta, questa verità non potrebbe mai trovare il plauso della massa; essi urlerebbero che una tale fede offenderebbe la Divinità, ridurrebbe i più nobili sentimenti all’equivalenza con i più bassi piaceri, e conterrebbe in sé un’occulta difesa della sensibilità animale. A me, che di quel che accade al mio interno e mi riguarda do una valutazione diversa dalla sua sola efficacia in vista della mia felicità, tale fede mi suscita il contrario di tutto ciò. Se più raffinate sensazioni e più elevate prospettive mi offrono già un vantaggio riguardo alla mia autentica destinazione rispetto a mille altri, sarebbe certo giusto che esattamente nella stessa misura rendessero maggiore anche la mia felicità, e precisamente in sé, senza che io avessi prodotto questo effetto mediante una speciale elaborazione. Se anche da altre fonti esterne giungesse a me un flusso di felicità più ricco, se sul mio territorio giacessero filoni d’oro e sul suolo degli altri che mi stanno attorno ci si imbattesse soltanto in terra desolata, che diritto avrei a un cieco beneficio del destino? E in caso contrario, perché dovrei cedere a un’adorazione della natura, e per tale ragione rimanere indietro a un altro qualsiasi? Avrei una rimostranza contro la vita che non si lascerebbe frenare da nulla, e seppure le mie lamentele non raggiungessero né il cielo né l’inferno, tuttavia ogni respiro seguente, per quanto ciò possa pur essere sterile, manifesterebbe il mio disappunto più sonoramente di quello precedente. Seppure giungessi a disprezzare il dono che mi sarebbe negato, proprio per il fatto che sarebbe solo l’offerta di un essere ingiusto, ciò non mitigherebbe certo nella mia anima l’amaro sentimento di un’ingiustizia

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estesa all’intero genere umano. Sia ringraziato il cielo! Questo è un mondo in cui alberga la giustizia; io ho attraversato il velo e intuisco la sua segreta economia interna. Da qualche parte dunque esiste questa sacra virtù; quand’anche non è esercitata dagli esseri umani, la scorgo comunque dominare nell’intera disposizione della natura, nell’imparziale suddivisione della parte di eredità soppesata per ognuno perché ne disponga come vuole. Sennonché, dove sono capitato, e come sono arrivato a tale risultato? Era davvero la mia sensazione, le cui pretese volevo ascoltare e giudicare? Questa sensazione, dunque, non ha nessuna più specifica richiesta alla vita a parte la giustizia? Potesse andarmi ovunque come mi è andata qui! L’amore per la moralità e il diritto ha preceduto il sentimento inferiore, e si è appropriato di quel che gli compete; per questo la questione è stata risolta così celermente e urgentemente; rimane però una questione, assai più importante per il sentimento e il desiderio; tuttavia, essa dovrà star da sola, senza che quella sensazione più alta vi s’immischi. Posto ora che il destino sia giusto, a ciò si aggiunge qualcosa: quanto è munifico? Cosa comunica a ciascuno? Esiste un’eccedenza di buona sorte possibile, che supera il male necessario? E quanto è grande? Se a quella domanda il sentimento morale mi mostrava velocemente una risposta, che in seguito si sforzava di difendere e confermare ovunque, qui tacendo si ritrae; nemmeno la più sommessa supposizione, non una sola indicazione per un giudizio provvisorio. Come potrebbe allora arrivare in questo caso a esprimere un verdetto? Si è spesso sollevata la questione ambigua e indefinita se nel mondo vi sia più bene o più male; e assunto che un Essere razionale e capace di ordinare sia in vetta alle cose, il sentimento morale in questo caso, quando il discorso verte soltanto sul bene e sul male morale, può trovare facilmente una soluzione, ma sarà questo il caso anche quando con ciò s’intende il piacevole e lo spiacevole? Forse, è così agli occhi di chi vede la felicità come l’assunto fondamentale della teleologia e la considera il sommo fine dell’Essere che regge il mondo; allora certo quell’eccedenza deve esistere, e la sua grandezza sarebbe contemporaneamente la misura in cui la Divinità è nella condizione di portare a compimento i suoi intenti. Ma la felicità è estranea al mio sentimento morale, e dopo la separazione della felicità dalla virtù, il sentimento morale non può assegnarle tale posizione.34 Se essa è dunque soltanto un mezzo, se essa non è forse nemmeno questo, se essa forse appare solo a noi unificata come un intero, mentre nel piano della Divinità ogni singola componente verrebbe determinata senza riguardo a tale idea, secondo relazioni del tutto diverse, e questa è la supposizione che sta più vicino al mio sentimento morale, in che modo esso dovrebbe allora volere ancora determinare che gli avvenimenti, i quali producono un’impressione di felicità, devono essere più di quelli che procurano una riduzione di essa? Se ciò non può

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più essere oggetto di un fine sommo, allora è come se lo si lasciasse alla discrezione del caso, e il sentimento superiore, orientato a un punto di vista migliore, rimane indifferente, qualsiasi cosa il caso possa cagionare. Non posso dunque rispondere a questa domanda dicendo che vedo che l’Essere, posto al vertice del mondo, deve prospettare qui a se stesso, quale scopo, qualcosa di preciso, e deve averlo imposto a se stesso quale dovere, qualora la natura della cosa dovesse mettermi tra le mani ragioni più sicure per una decisione? In proposito, vedo emergere un risultato apparente da una spiegazione dei primi concetti relativi alla questione, sennonché solo controvoglia troverei ciò vero e ne rimarrei appagato. Si dice che ogni soddisfazione poggi sul superamento di un qualche ostacolo alla vita; se, in conseguenza di ciò, il godimento di ciascun piacere fosse compensato già in anticipo semplicemente in base e mediante un risarcimento del sentimento dell’ostacolo passato, allora tutte le nostre gioie procederebbero di pari passo con una parte dei nostri dolori e tutto l’insieme rimanente di essi, a cui non segue alcun piacere che li annulli, e che dunque poggia sul sentimento lamentoso degli ostacoli che non vengono superati, eserciterebbe una considerevole ed esiziale spinta al ribasso sulla bilancia della vita. Allora, nessuna rappresentazione della vita sarebbe abbastanza tetra; la vita, nella sua destinazione, sarebbe uno stato permanente di dolore, il destino sarebbe un tiranno e solo una compassionevole mano estranea cercherebbe di lenire una parte delle pene da esso provocate. Sennonché, nel significato che sarebbe richiesto per giustificare un tale risultato questa spiegazione del piacere non può trovare posto; l’esperienza mi dice troppo chiaramente che, in rapporto alla massima parte dei miei piaceri, non sono consapevole di alcun corrispettivo ostacolo alla vita sentito in precedenza. Pertanto, o questa spiegazione deve valere solo per singoli tipi di piacere, o deve ammettere la coscienza dell’ostacolo precedente come impercepibile rispetto alla forza e vivacità del sentimento che trasmette il suo superamento, e in entrambi i casi essa non può più servire a trovare sulla sua base il rapporto tra il piacere e il dolore nella vita umana. Solo alcuni piaceri sorgono dalla soddisfazione di un bisogno e solo essi poggiano sulla rimozione di un ostacolo della vita; altri hanno il loro fondamento in uno stimolo, che in senso proprio non è stato preceduto da nessun bisogno, e questi sono avanzamenti casuali, ma positivi, della vita che non presuppongono la percezione di un ostacolo e nemmeno una temuta contrazione del grado della vita. Sembra, dunque, che solo dei primi si possa dire che porterebbero già con sé il proprio contrappeso, anzi in quelli sembra inoltre trovarsi ancora un sopravanzo di appagamento; il sentimento di un ostacolo infatti provoca spesso soltanto un lieve dolore indeterminato se il godi-

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mento che esso ostacolava non si presenta proprio vivo all’occhio del desiderio, e rimanda più a una perdita possibile che a una reale, esprime più un’inabilità indeterminata che un patimento contrassegnato nitidamente; mentre il suo superamento è normalmente connesso al conseguimento trionfante di un godimento, che aspira precisamente a questo, e dunque portatore di un grado di piacere molto più vivido. Inoltre, questo raffronto può ben dimostrare la scorrettezza di quel primo calcolo da ipocondriaco, esso mostra che ogni gioia, a prescindere da altre sofferenze casuali, non giunge affatto quale ricompensa di una sofferenza a essa già necessariamente connessa, ma non può offrirci la rappresentazione della reale eccedenza del piacere sulla sofferenza. Anzi, da questa stessa prospettiva scorgo tipi analoghi di dolore che sono altrettanto indipendenti da un piacere da cui verrebbero risarciti: il dolore proveniente da un bisogno insoddisfatto, per un ostacolo della vita percepito, il quale è spesso presente in modo più consistente precisamente quando il godimento, reso impossibile a causa sua, gioca intorno alla fantasia afflitta da un tormento di Tantalo con i colori più ameni, dolore che inoltre, quando il tempo del godimento è passato, non può essere risarcito mediante il superamento tardivo dell’ostacolo; o il dolore provocato da uno stimolo sensibile, il cui superamento è commisurabile sì poco a un piacere quanto la fine di un piacere analogo è calcolabile come un dolore proporzionato. Niente quindi qui è deciso, e in questa vita dipenderà sempre dalle disposizioni positive del destino se devono avere il sopravvento i due tipi di dolore o i due tipi di piacere. Si lasciasse pure ipotizzare da ambo i lati una piena eguaglianza di quel che diviene possibile e necessario per contingenze esterne, mi rimarrebbero ancora sufficienti tesori interiori da cui potrei assorbire la pienezza di un piacere traboccante. Quand’anche soltanto gli oggetti a cui applico le mie idee e i miei sentimenti esercitino su di essi un effetto per lo meno in egual misura piacevole e spiacevole, mi rimane ancora in grande avanzo la gioia per queste medesime idee e tali sentimenti, nonché la più nobile coscienza di me stesso che essi mi garantiscono. Quand’anche tutti i momenti della mia vita in sé e nel modo in cui erano nel presente, considerati unitamente, danno la stessa somma di gioia e dolore, mi rimarrebbe ancora in eccesso quel che io posso sviluppare da essi quando sono trascorsi. Raramente il destino mi costringerà a sviluppare dalla rappresentazione di un piacere passato una sofferenza successiva, se non escogito da me connessioni fantasiose e vedo come unica causa necessariamente operante qualcosa che tutt’al più era soltanto una ragione fortui­ ta o stava solo in qualche rapporto con tali ragioni; al contrario riposa in me un’infinita potenzialità non solo di ripetere con un alto grado di viva-

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cità gioie passate, ma anche di provocare ancora, da più di una prospettiva, mediante le più varie connessioni, da un dolore passato un dolce piacere rinvigorente. Ma come posso evitare che il destino mi calcoli come suo dono anche queste gioie da me provocate in egual modo di quelle sorte da contingenze esterne? E questo tanto più quanto mi è più facile acquisirle, quanto più in me è durevole la ragione che le provoca, e quanto meno in tal caso è necessaria una celere, e spesso tanto difficile, percezione dell’unico istante favorevole. Esso può bene aver calcolato queste gioie e forse, considerandole parte del conto, può avere valutato per me un’uguale parte di gioia e dolore. Per tutte queste ragioni rimango dunque interamente nell’incertezza in merito a tale questione per me importante, e mi affretto a interrogare l’esperienza, nel caso essa possa fornirmi un mezzo più sicuro per dirimere la cosa. Ma che esperienza voglio interrogare al riguardo? L’esperienza complessiva che potrei ricavare dalle confessioni delle persone attorno a me sarebbe solo un coacervo di contraddizioni, serpeggiante lode nella bocca di uno, satira maligna fra i denti dell’altro, qui orgoglio giubilante, là pusillanimità lamentosa. La struttura del loro giudizio non si basa su quel che sta loro innanzi del tempo passato, ma sul colore degli occhiali da cui si volgono indietro con lo sguardo. Quand’anche rinvengono gli avvenimenti del tempo passato in modo corretto e nella loro vera forma, per loro è andata persa l’impressione che di volta in volta ne avevano tratto; ora si costituiscono una nuova sensazione perché con il criterio da loro ormai acquisito e con lo stato d’animo di questo istante procedono da un avvenimento all’altro. Seppure volessero far meglio, non possono; hanno troppo spesso smarrito il filo con cui la loro anima ha proseguito da uno stadio all’altro, e sono pertanto ancora più fermamente convinti di essere sempre gli stessi e di pensare e sentire ancora allo stesso modo. Così non possono dunque sapere come prima valutavano qualcosa e come l’impressione di un oggetto su di loro era determinata da piccole circostanze e da un punto di vista riposto. La loro vita è analoga alla cascata di un fiume travolgente: tutte le singole parti di essa fluiscono rapide e intrecciate; solo nel singolo istante in cui compiono il grande balzo dall’altezza vertiginosa del futuro sul piano del presente, solo lì ogni goccia si separa dall’altra, ognuna determina un proprio intero che può essere distinto dall’altro ed è illuminata dal sole con una peculiare rifrazione, ma l’istante successivo tutto spumeggia insieme in un roboante vortice e, quando questa veemente eco di una selvaggia fantasia è passata, tutto scorre via placidamente; non è più possibile distinguere la goccia che cadde qui da quella precipitata lì, di tutte le singole parti è rimasta ancora, soltanto,

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un’immagine generale ovunque omogenea che alla fine semplicemente si perde di vista in una lontananza sempre crescente, in un sottile filo d’argento. E tuttavia, secondo questi giudizi, non posso astenermi dal confermare un pensiero in me presente: proprio perché giudicano sempre, semplicemente, secondo la disposizione d’animo, secondo il punto di vista dell’istante, e giacché il colore che la vita passata assume nel loro ricordo dipende solo da ciò, essa non deve certo aver avuto nessun colore in sé; deve allora esser vero che, considerata in modo imparziale secondo verità, la vita non avrebbe prodotto nessuna considerevole preponderanza di gioia o dolore, altrimenti, a prescindere da tutte le illusioni, tale preponderanza avrebbe dovuto certo manifestare un’influenza penetrante. Se traccio la linea mediana tra tutti gli estremi di innalzamento e abbattimento, di lode e biasimo, della vita, anche essa rimanda a un’equivalenza che può essere stata generata soltanto da una uguale incidenza di piacere e dispiacere. Ma no! La mia opinione sugli uomini fornisce alle conclusioni sulla vita, che potrei desumere da essi, un’integrazione correttiva. Seppure quella linea mediana dell’equivalenza contenesse complessivamente il vero giudizio sugli esseri umani, la vita è di certo molto meglio di essa,35 il loro giudizio si riferirebbe soltanto a ciò che hanno accolto dalle mani del destino, non a ciò che il destino offrì loro assai benevolmente. Che grande differenza! Quanta felicità donata essi lasciano senza assaporarla; il materiale della gioia li circonda e per dir così si accalca su di essi, ma i loro occhi sono accecati; è come se uno spirito buono volesse invisibilmente agire su di essi, ma la loro anima non è in possesso di alcuna recettività al riguardo. Quanto spesso credono di essere incappati in inevitabili trappole del destino, mentre quelle in cui erano avvinghiati erano soltanto le loro reti. Ora, quanto in alto posso fissare questa sedimentata inabilità? Qual è la misura della stoltezza umana, che anche nella felicità avanza ininterrottamente a grandi passi? E da nessuna parte si trova uno che non rientri in tale casistica, che possa dire di aver goduto della terra della felicità per quel tanto che gli si prospettava, di aver evitato tutto ciò che è spiacevole se solo gli si parava una qualche possibilità di eluderlo. La filosofia della vita è uno studio ordinario, ciascuno impara da essa e quasi ognuno contribuisce anche a estenderla; chi non ritiene di averla arricchita con qualche nuova osservazione o prospettiva? Ci possono dunque ben essere molte persone che credono di aver raggiunto lo scopo supremo di tale filosofia e di aver conquistato il pieno godimento della vita. Ma in costoro bisogna confidare ancora meno se possibile; non vi è orgo-

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glio più seducente e ingannevole di ciò; niente potrebbe dare di più alla testa dell’autocompiacimento che si riferisce all’intera arte di vivere, e in nessun modo l’essere umano può ignorare nel suo bell’aspetto ogni oggetto che gli dà occasione di ammirare la sua abilità. Quanto diversamente giudicherebbe chi si fosse innalzato veramente a tale altezza, ma non si fosse per questo lasciato ingannare da un presunto sentimento d’amore per il destino, e piuttosto non avesse abbandonato l’umiltà dell’assoggettamento nei suoi confronti: non pretendere un giudizio, direbbe, che posso dare altrettanto poco quanto qualunque altro mortale. Com’è possibile trarre una somma da cose del tutto ineguali, paragonare reciprocamente la soddisfazione tratta da sentimenti del tutto diversi in rapporto al grado in cui sono piacevoli, ponderare tra loro piccole gioie e grandi dolori? Quanto più aspiri alla consapevolezza di raggiungere davvero in ogni istante ciò che il destino benevolo ti offre, tanto meno sentirai il bisogno di intraprendere un raffronto che trascende ogni facoltà umana. Da nessuna parte trovo dunque ragioni sufficienti per prendere una decisione riguardo a questo punto, e per sfinimento devo tornare in patria dal campo di battaglia senza aver concluso la pace. Devo abbandonare tutte le pretese di certezza in una ricerca che effettivamente comprende in sé tutto ciò che la mia sensazione sulla vita aveva brama di sapere. Essa ammetteva che l’incertezza fosse per lei più amara di ogni giudizio; e in questa invincibile incertezza non dovrei ora trovare la ragione per la lagnanza più fragorosa contro l’Essere che regge la mia vita? Ho riempito la mia fantasia con singoli dipinti tratti dalla galleria della vita, ma sono solo tonalità impetuose che si alternano senza armonia, dipinti privi della chiave che è negata alla fantasia. Eppure alla fine non dovrà un giudizio conclusivo della ragione mettere a tacere il tumulto in cui adesso si trova tutto il mio essere e tutto ciò che al suo interno lavora per la felicità della vita? Che mi è rimasto alla fine di tutte quelle belle difese del destino, se non disappunto e insoddisfazione? Immaginavo di essere il suo liberto, attrezzato per uno scambio franco, con una piccola ma sicura e precisa parte di eredità; invece sono solo un bambino che si ammansisce con determinate soddisfazioni, senza che sappia davvero quel che gli si concede o gli si nega. Ma poi, la domanda inevasa è davvero così importante da giustificare questo malumore nei confronti del destino ancora, pur sempre, così intimamente amato? La sensazione ha sempre a che fare soltan-

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to con un singolo momento della mia esistenza, perché non circoscrive a questo le sue innegabili esigenze e la sua insistente curiosità sul modo in cui sono soddisfatte? Essa sporge verso il futuro e vede che proprio in tal modo non smetterà mai di pretendere, e che pertanto le sue richieste proseguono ininterrottamente attraverso tutti i momenti dell’esistenza. Bene; ma è per questo giustificata a concepire l’insieme di tali momenti come un tutto e, pertanto, a pretendere un’unica risposta per tutte queste richieste? Per niente; piuttosto, esse per lei devono sempre rimanere un numero consistente; per la sensazione, infatti, può essere in senso assoluto un tutto solo ciò che conviene in uno e in un solo istante. Devo poi, di conseguenza, domandare: quanta parte di felicità può procurare ogni singolo istante se io stesso non mi sottraggo niente del suo contenuto? Ma non è possibile determinare nemmeno questo in generale: ogni istante, considerato come un’opera del destino, è un aggregato risultante dallo stato ogni volta dato di tutti i miei rapporti e io non posso sapere cosa la loro variabilità e la loro connessione produrrà in ogni singolo momento. Cosa motiva pertanto la mia tranquillità su questo punto, che è certo l’elemento autentico di tutta la ricerca? Mi attengo a ciò che al riguardo è per me incontestabilmente certo dalle mie precedenti ricerche: è possibile che molti dei miei rapporti lascino agire i loro lati negativi nel medesimo istante, è possibile che se li trasmettano l’un l’altro, è possibile che uniscano le loro perfezioni per produrre una parte straordinariamente felice della mia vita; ma in tutta questa mutabilità dei fenomeni del mio destino due cose sono tuttavia per me completamente certe: anzitutto, che posso in ogni istante creare gioia da ciascuno di questi rapporti, si riferisca esso al mio stato sociale, fisico o intellettuale; infatti, ciascuno di essi non solo è ricco di peculiari pregi con cui compensa altri che hanno la stessa relazione, ma può pur sempre essere una causa concomitante di gioie, la cui materia si può trovare solo nel suo accordo con altri rapporti; e se non può esercitare un effetto sugli ultimi grazie al suo carattere comune, deve necessariamente, mediante il suo peculiare carattere, dischiudermi la fonte dei primi. In secondo luogo, è adesso altrettanto sicuro che, proprio per l’equivalenza di ogni condizione esteriore riguardo alla capacità di trarne felicità, per nessuna parte della mia vita, né prima né dopo l’istante in cui era reale, posso determinare i confini del piacere raggiungibile e del dispiacere evitabile. Ovunque, e in relazione a ogni rap-

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porto concepibile, io vedo innanzi a me per dir così un indeterminato “infinito di felicità”, entro cui brancolo con il mio giudizio, e ovunque trovo i confini di quel che ora è divenuto reale soltanto nelle azioni e omissioni della mia libera sagacia e abilità, senza vedere da qualche parte operante una di quelle conclusioni inevitabili del destino. Per quanto le due cose siano diverse, il giudizio sulla felicità, come la verifica morale, ha comunque la sua legge e la sua meticolosa e rigorosa attribuzione. Dove potrei aspettarmi una più esatta realizzazione di quella richiesta secondo cui il destino, mediante la disposizione della vita, deve fornirmi senza ulteriore condizioni materia per essere felice? In ogni istante, il tipo di felicità possibile mi è condizionato dall’esterno, ma il suo grado è condizionato solo dall’interno, dalla mia attività. Se dunque la mia sensazione in merito a questo punto, che unicamente la riguarda, è lasciata così, giacché essa vede bene che per ogni elemento della vita deve volgere le sue richieste solo a me e non a qualcosa al di fuori di me, perché, non notandoli nelle parti, crede di scorgere nel tutto con tale sgomento confini esteriori e vuole venirne esattamente a conoscenza? Perché con tale inquietudine conduce una ricerca in proposito che, seppure fosse possibile, comunque rimarrebbe sempre per essa inutile e senza scopo? Posto adesso che ogni singolo istante abbia un confine esterno della sua felicità, posto che i risultati dei singoli momenti, con ciò determinati come necessari, si possano sommare nelle loro grandezze negative e positive per ricavarne un unico valore del tutto, perché la mia facoltà appetitiva s’interessa a questo valore, qualunque esso sia? Ci sarà mai un tempo, in cui l’istante presente non mi doterà più con oggetti di piacere e dispiacere, ma in cui quel risultato del passato sarà per me l’unico reale, e dovrò vivere di un ente del pensiero, che non solo poi non permane più, ma in generale non è mai stato lì come oggetto della sensazione? Ciò è ancora più illusorio della fede che vi sarà un tempo in cui l’essere umano non agisce più, ma gioisce solo della coscienza della sua moralità in stati precedenti. Se è dunque impossibile che desideri questo risultato come oggetto immediato del desiderio, devo richiederlo solo in rapporto a un giudizio, a una conoscenza; ma seppure lo sapessi, come sarebbe utile per la mia felicità, per la situazione di ogni singolo istante? Posso anche in certa misura vedere l’eccedenza totale di gioia trovata come l’interezza del godimento della vita, che tuttavia è solo qualcosa di immaginato, perché non è in mio arbitrio annien-

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tare con la moneta sonante della gioia il colpevole peso dell’afflizione; così questa interezza esprime comunque solo una sintesi di parti eterogenee, e né nella valutazione né nell’agire può essere usata a misura di una di queste singole parti. Mi sento felice, molto felice in questo istante; qualcosa è forse sottratto a tale sentimento se so anche che la grandezza media del godimento della vita consiste in un grado di godimento molto minore? Vedo brillare in lontananza una gioia verso cui devo remare, la conoscenza di questo calcolo accelererà il movimento delle mie braccia? E seppure l’eccedenza del piacere nella totalità della vita fosse ancora così bassa, ciò non mi fornisce alcuna nuova ragione di movimento? Anche senza ciò, sufficientemente assetato, bramo ogni goccia di gioia; anche senza ciò, l’istante fugge via esattamente tanto veloce con tutte le gioie che danzano sulle sue ali. O ciò deve consolarmi per l’incuria con cui non ho esaurito ogni piacere? Anche le parti che secondo questo calcolo potrebbero sembrare più grandi del tutto, sono comunque necessarie proprio per produrre un siffatto tutto, e se non le utilizzo con cosa intendo compensare l’equivalente del dolore che l’implacabile severità del destino porrà a mio carico a causa loro? Intendo forse al termine della vita, o di una parte di essa tale da poterla assumere identica al tutto, valutare la mia capacità di essere felice secondo la perfezione con cui ho acquisito la somma totale del piacevole supposta giusta? Anche questa sarebbe solo una valutazione complessiva in base a cui non potrei neppure valutare la bontà di una singola azione. Così, a ogni livello, è una vana curiosità voler stilare con unico tratto un calcolo sulla totalità della felicità di questa vita, e ciò non vuol dire proprio nulla. Se volessi calcolare questo tutto secondo la proporzione geometrica tra piacevole e spiacevole, allora forse una minima parte della mia vita potrebbe dare esattamente un risultato uguale al tutto; vorrei dunque per questo lasciar tutto il resto senza che sia vissuto, come fosse privo di valore per la felicità? Se volessi calcolare secondo la grandezza dei numeri, allora il mio primo desiderio rivolto al destino dovrebbe essere un’età da titani, e la bontà della vita si dovrebbe giudicare quasi interamente secondo la sua lunghezza. Meglio pertanto che lasci inevasa l’assurda domanda sulla media del godimento di vita, io so comunque cosa il godimento possa essere per me in ogni singolo momento; in ciascuno, mi sento libero in uno ambito illimitato di felicità; questa è una coscienza in cui è contenuta la massima gratitudine verso un destino

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giusto e comunque indefinitamente buono, la prova più forte della buona opinione che ne ho. Ero libero! Cosa ho fatto, dunque, per me? Di sicuro, la mia domanda in questo modo torna sempre a me stesso, ed è solo tanto meglio. Assolvo il destino; non ho alcun diritto di presentargli una nuova richiesta, o di esprimere un giudizio su tutta la sua economia, prima di essermi giustificato sull’utilizzazione dei suoi doni. Ah! Anche nel mio caso una grande quantità di gioie offerte è rimasta inutilizzata! Ne ho tralasciate alcune perché mi sembrava mio dovere distogliere lo sguardo da esse e resistere alla loro dolce tentazione; non mi soffermo nel ricordo di queste, non stanno in nessun conto, nessuna lacrima e nessun sospiro mi colpisce a causa loro. Ne ho ricusate altre per libera scelta alla luce di un proponimento accuratamente meditato e approvo ancora il fatto d’aver agito così. Immerso in una grande idea, in un sentimento sublime e appagante, non solo è naturale ma è anche saggio lasciar passare senza considerarle gioie minori, che in una tale tensione semplicemente smarrirebbero la loro esigua impressione e causerebbero una deplorevole frammentazione dell’impressione maggiore. Soccombendo sotto la pressione di un dolore opprimente, vedevo serenamente approssimarsi noie di poco conto, e se stimavo subito correttamente l’impressione che potevano produrre, non le respingevo. Sarebbe un cattivo accorgimento per colui che deve trascinare un pesante carico aggirare con fatica la pietra appuntita di una strada lastricata, se ciò gli fa anche male al piede, oppure soffermarsi a osservare un gioco poco importante di bambini e prolungare per un’inutile interruzione il suo peso. Ho trascurato un numero ancor più consistente di gioie, invero anche perché ero colmo di un altro dolore; eppure, causa di ciò non furono la forza e l’autodeterminazione dell’anima, ma la sua debolezza e vanità; pertanto ancora adesso, insoddisfatto di me stesso, guardo a esse con mestizia come a beni perduti. È una virile e nobile tristezza quella che, quando l’anima si trova presso la tomba dell’amico, vi immola con occhio lagrimoso, ma chiaroveggente, alcuni fiori e ciocche di capelli; ma è un’afflizione autopunitiva quella che, posto ovunque il grande velo da lutto davanti agli occhi, guarda tutti gli oggetti senza gioia e con afflizione; e quanto spesso ho sacrificato così il presente al passato. Concediti solo di avere un sentimento senza ricondurlo a un concetto o a un oggetto, così, semplicemente troppo spesso, sensazioni spiacevoli si trasformeranno in cattivo umore, in uno stordimento dell’anima che annebbia la vista aperta. In che modo speri di essere adatto a promuovere la tua felicità? Le forme più amabili ti appaiono mostruose, i colori più splendenti si stemperano in un fosco grigiore, e credendo di scacciare gli

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spettri, spingi via da te gli oggetti della gioia. Quando la nebbia si dissolveva, fino a che punto il carro rullante del tempo mi aveva condotto lontano dal bel paesaggio; mi restava solo uno sguardo contrito e doloroso per ciò che mi ero perso. Il passaggio da una sensazione spiacevole a un’inclinazione generale rende ciechi e passivi; la simile trasformazione di un’impressione piacevole dà le vertigini e rende incoscienti. Come si potrebbe allora calcolare la distanza di un oggetto? Come ponderare i mezzi per raggiungerlo? Tutto danza già, in magico movimento, rasente attorno agli occhi; tutto si avvicina già da sé, e si crede di cingere a braccia aperte e poter stringere al cuore l’intero mondo della gioia; e senza essersi mossi dal posto o aver raggiunto qualcosa, quando il turbine del cervello si è posato, ci si accascia stremati in riposo. Io mi sforzo di essere padrone di me stesso, ma quanto poco ancora mi sono liberato da questa doppia schiavitù, da questa frusta della sfrenata gioventù. E inoltre quanto spesso il cuore, pur sempre ammaliato da vani desideri e brame, è stato causa di dettami sbagliati. È così difficile essere obiettivi e vegliare con un’anima amorevole e benevola. Nelle regole dell’intelletto per la vita, la rassegnazione è ovunque il precetto dominante, e una rassegnazione doppia per colui nella cui anima possono essere trovati ancora resti di un qualche entusiasmo. Non ti ripromettere niente di quello che un tuo sentimento di grande tensione potrebbe richiedere, rinuncia a tutto in anticipo, e poi accetta ogni singola soddisfazione tanto più volentieri quanto più è un dono inaspettato. Lascia intravedere solo l’aspetto facile, comune, apparente delle tue idee e sentimenti; per questi toni puoi trovare l’armonia, ma quel che ti sembra grande ed essenziale tienilo nascosto in te stesso; nega a te stesso per cento volte ogni espressione di ciò prima di concedertela, e quando una buona volta ne hai prodotto un lieve tono, trattieni il secondo finché non ti abbia risposto un pieno accordo. Serra i tuoi ideali, e non aspettare per essi alcun sostentamento; il loro ambito è solo la formazione delle tue azioni; per il resto, lascia che essi siano il lustro del santo dei santi della tua fantasia; rivestito solo dei loro ornamenti da sommo sacerdote, smarrisciti poi ieraticamente di rado nella loro contemplazione, quando il sipario della solitudine ti rapisce al mondo effettivo. Non vi sia nel mondo alcunché a cui ti dedichi interamente sotto un qualsiasi aspetto; chi cerca la sua felicità in questo modo, è destinato a perderla.36 Il tuo intelletto si abbeveri a tutte le fonti della conoscenza, senza trascurarne neanche una, senza inebriarsi attingendo da una sola; il tuo senso morale si soddisfi con singoli appagamenti; con tutto il tuo sentimento sociale, non amare alcun essere umano senza porti già in antici-

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po dei confini riguardo la tua armonia con lui, e ritieniti soddisfatto per singole piccolezze della vita sociale più che per grandi piaceri. Solo un cuore sensibile e affettuoso può evitare quel che è estremo in tali regole, e scoprire in questo percorso tracce effettive di felicità, trovando un gusto sincero in piccole gioie e abbassandosi alle partizioni dell’anima, senza contemporaneamente smarrire, per via della frammentazione, anche la sensibilità per gli oggetti; certo, solo in un’anima siffatta tale abnegazione può essere tollerante e sopportabile, senza degenerare in un orgoglio sprezzante e misantropico; ma se tu avessi realizzato tutto ciò completamente, in quanti errori proprio questo cuore continuerà pur sempre a farti incorrere in singoli casi! Non sono ancora esente dal dipingere l’essere umano e la natura nel loro nobile aspetto, e giacché sopravvaluto il valore dell’istante, non sono immune dal perdere ciò che esso davvero ha potuto darmi. Ho fatto qui e lì vibrare la nota dei misteri del cuore e, illudendomi, ho creduto di udire nei suoni confusi, che gli si facevano incontro, l’armonioso accordo desiderato; io ho risposto, e ho perso l’alto canto a causa di orecchie ordinarie poco avvertite. Uno strimpellare inoffensivo e piacevole nelle tonalità quotidiane mi avrebbe quantomeno indicato, con plauso e gioia attorno a me, l’istante per il cui rimpianto ne ho smarriti anche altri. Quanto spesso ho creduto di essere giustificato in singoli istanti a fare un’eccezione al giudizio che una volta avevo formulato a proposito del mio rapporto con un essere umano. Favorevoli circostanze sembravano aver innalzato la sua anima oltre se stesso; in questa tensione mi sembrava fosse possibile qualcosa di meglio con lui, ma l’aspettativa tradita me ne allontanava ulteriormente. Ho perso in tal modo buona parte della vita per la fretta troppo forte del mio cuore intento alla ricerca del godimento migliore; non trovai quello che cercavo, e non cercavo quello che avrei potuto trovare.

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ÜBER DIE RELIGION REDEN AN DIE GEBILDETEN UNTER IHREN VERÄCHTERN

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SULLA RELIGIONE DISCORSI A QUELLE PERSONE COLTE CHE LA DISPREZZANO

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Frontespizio della prima edizione di Sulla religione. Bereitgestellt von | De Gruyter / TCS

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Primo discorso

Apologia Può essere un’inaspettata impresa, e voi potete legittimamente sorprendervi che proprio uno di coloro che si sono innalzati al di sopra dei più e sono compenetrati dalla sapienza del secolo possa richiedere ascolto per una questione da essi interamente trascurata. Confesso di non sapere offrire nulla che mi pronostichi un risultato felice, neppure quello di ottenere la vostra approvazione per i miei sforzi, e tantomeno quello di comunicarvi il mio animo e il mio entusiasmo. Fin dall’antichità la fede non è stata affare di chiunque,1 della religione han compreso qualcosa sempre soltanto in pochi, benché milioni di persone, in vario modo, abbiano fatto giochi di prestigio con gli involucri di cui essa, per affabilità, si è lasciata volontariamente ricoprire. Ora, in particolare, la vita degli uomini colti è lontana da tutto ciò che anche solo le potrebbe somigliare. So che venerate in sacro silenzio la Divinità molto poco, e altrettanto poco entrate nei templi abbandonati; che nelle vostre case ricche di gusto non vi sono altri dèi domestici che le sentenze dei saggi e i canti dei poeti, e che umanità e patria, arte e scienza, giacché ritenete di poter abbracciare interamente tutto ciò, hanno preso così pienamente possesso dei vostri animi che non è rimasto niente per l’Essere eterno e santo, il quale per voi si trova al di là del mondo, tanto che non provate alcun sentimento per esso e non condividete alcun sentimento con esso. Vi è riuscito di rendere tanto ricca e variegata la vita terrena che non avete più bisogno dell’eternità e, dopo che avete costruito per voi stessi un universo, vi ritenete dispensati dal pensare a ciò che vi ha creati. Siete d’accordo, lo so, che niente di nuovo e di plausibile possa essere più detto su questa questione, che è stata elaborata a sufficienza, sotto ogni aspetto, da filosofi e profeti e, potessi solo non aggiungere, da dileggiatori e preti. Meno che mai – ciò non può sfuggire a nessuno

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– siete inclini ad ascoltare qualcosa al riguardo soprattutto da questi ultimi, che già da molto tempo si sono resi indegni della vostra fiducia, quali persone che abitano preferibilmente solo nelle rovine disfatte del santuario, e persino lì non possono vivere senza deturparlo e danneggiarlo ancor di più. So tutto ciò, e tuttavia sono spinto a discorrere da un’intima e irresistibile necessità, che mi domina divinamente, e non posso ritrarre l’invito che proprio voi mi prestiate ascolto. In merito all’ultimo punto, potrei bene domandarvi: come mai voi, che pure volete essere istruiti su ogni cosa, sia essa rilevante o meno, preferibilmente da coloro che gli hanno dedicato la propria vita e le proprie forze spirituali; voi, il cui desiderio di conoscenza non indietreggia neppure di fronte alle capanne del contadino e alle botteghe dei più umili artigiani, solo in materia di religione ritenete tanto più sospetto tutto ciò che giunga da coloro che affermano di esserne i virtuosi e sono considerati tali dallo Stato e dal popolo? Voi non potete certo dimostrare che non siano tali, e che abbiano e predichino qualcosa di interamente diverso dalla religione. Disprezzando pertanto, com’è opportuno, un tale ingiustificato giudizio, vi confesso che anch’io sono un membro di quest’ordine, e oso farlo a rischio di essere gettato sotto la stessa nomea con la gran schiera di esso, se non mi ascoltate attentamente. Questa è almeno una confessione spontanea, dal momento che il mio linguaggio e le lodi dei miei compagni di consorteria non dovrebbero avermi tradito; ciò che voglio si trova del tutto al di fuori dalla loro sfera, e potrebbe essere poco simile a ciò che a loro piace vedere e ascoltare. Non sono d’accordo con le grida d’aiuto dei più di fronte al declino della religione, giacché non saprei di una qualsiasi epoca che l’abbia accolta meglio della presente, e non ho nulla a che dividere con i tardivi e barbarici lamenti con cui vorrebbero nuovamente erigere le mura crollate della loro Sion ebraica e dei suoi pilastri gotici. Sono consapevole che in tutto ciò che ho da dirvi rinnego interamente il mio rango; perché non dovrei dunque riconoscere quest’ultimo come una qualsiasi altra accidentalità? I pregiudizi a esso graditi non devono ostacolarci, e i confini, ritenuti sacri, da esso imposti a ogni questione e comunicazione, non devono valere tra di noi. Io vi parlo in quanto uomo dei sacri misteri dell’umanità, secondo il mio punto di vista, di ciò che si trovava in me quando ancora con entusiasmo giovanile ero alla ricerca dell’Ignoto, di ciò che, dacché penso e vivo, costituisce il più intimo impulso della mia esistenza, e che per me rimarrà in eterno la re-

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altà suprema, in qualsiasi modo debbano ancora scuotermi le oscillazioni del tempo e dell’umanità. Che io parli non dipende da una decisione razionale, nemmeno da speranza o da timore, e non accade neppure nella prospettiva di un fine ultimo o per una qualsiasi ragione arbitraria o accidentale: a farlo mi spinge l’intima, irresistibile, necessità della mia natura, una vocazione divina, ciò che determina la mia posizione entro l’universo e mi rende l’essenza che sono. Sia pure inconveniente e inopportuno parlare di religione, ebbene ciò che mi spinge soffoca con la sua potenza celeste queste inconsistenti considerazioni. Voi sapete che la Divinità, attraverso una legge immutabile, si è imposta di dividere indefinitamente la sua grande opera, di plasmare ogni particolare esistenza solo con due forze opposte, e di realizzare ciascuno dei suoi eterni pensieri in due forme gemelle tra loro ostili, eppure inseparabili e l’un per l’altra sussistenti. Tutto questo mondo fisico, addentrarsi nella cui intimità è supremo scopo della vostra ricerca, appare ai più istruiti e pensosi tra voi solo come un gioco eternamente avanzante di forze contrapposte. Ogni vita è solo il risultato di una permanente attrazione e repulsione, solo in questo modo ogni cosa ottiene la sua precisa esistenza: unendo e trattenendo in modo peculiare quelle forze originarie della natura, l’avido attrarre a sé e l’espandersi agile e vivace.2 Mi sembra che anche gli spiriti, appena trapiantati in questo mondo, debbano seguire la medesima legge. Ogni anima umana – ci inducono ad affermarlo le sue azioni transitorie come le intime peculiarità della sua esistenza – è solo il prodotto di due impulsi opposti. Il primo è lo sforzo di attrarre a sé, coinvolgere nella propria vita e, ove sia possibile, assorbire interamente nella sua essenza più intima tutto ciò che la circonda. L’altro è l’ispirazione a espandere sempre più, partendo dall’interno, il proprio intimo io, compenetrarne ogni cosa, comunicarlo a tutti, senza mai esaurirsi. Il primo impulso è rivolto al godimento, aspira alle cose particolari che gli si fanno innanzi, s’acquieta ogni volta che si appropria di una di esse, e opera sempre in maniera solo meccanica sulla più prossima. Il secondo disprezza il godimento e aspira solo a un’attività sempre crescente e più alta; trascura le singole cose e i singoli fenomeni, proprio perché li compenetra, e trova ovunque soltanto le forze e le entità contro cui la sua forza si scontra; vuol penetrare tutto, riempire tutto di ragione e di libertà, e pertanto tende direttamente all’Infinito e ovunque cerca e produce libertà e connessione, potenza e legge, di-

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ritto e utilità. Ma, come non una soltanto delle cose fisiche è costituita solo da una delle due forze della natura materiale, così anche ciascun’anima prende parte a entrambe le funzioni originarie della natura spirituale, e la perfezione del mondo intellettuale risiede in ciò: che tutte le possibili connessioni di entrambe queste forze tra i due estremi opposti – dato che qui l’una e lì l’altra è, quasi esclusivamente, tutto, e lascia alla forza opposta solo una parte estremamente piccola – non solo sarebbero davvero presenti nell’umanità, ma un nesso universale della coscienza le legherebbe tutte, così che ciascun individuo, pur non potendo essere altro da ciò che deve essere, tuttavia conosce ogni altro individuo tanto distintamente come se stesso, e capisce perfettamente tutte le singole esibizioni dell’umanità. Coloro che si trovano agli estremi di questa grande serie sono nature impetuose ripiegate interamente su se stesse e isolantesi. Agli uni la mai paga sensibilità comanda di raccogliere attorno a sé una massa sempre crescente di cose terrene, che essa volentieri rescinde dalla connessione della totalità per incorporarle interamente ed esclusivamente in sé; nell’eterno scambio tra desiderio e godimento costoro non s’innalzano mai al di sopra delle percezioni del particolare e, essendo sempre volti a relazioni egoistiche, rimane loro ignota l’essenza della restante umanità. Un entusiasmo incolto e sorvolante sul proprio obiettivo sospinge gli altri senza posa in giro per l’universo; senza plasmare e costruire meglio alcunché di reale, ruotano attorno a vuoti ideali e, disperdendo e consumando inutilmente la loro forza, tornano al punto di partenza esausti e senza aver compiuto azioni rilevanti. Come devono essere congiunte queste estreme lontananze per dare alla lunga serie la forma di quel conchiuso anello che è il simbolo dell’eternità e della perfezione? Esiste di certo un determinato punto in cui un equilibrio quasi perfetto unisce entrambe; e voi avete cura di sopravvalutare tale punto assai più spesso di quanto non sia stato sottovalutato, essendo esso generalmente soltanto opera magica della natura che gioca con gli ideali degli uomini, e solo raramente il risultato di un’autoformazione voluta e compiuta. Se però tutti coloro che non abitano più i limiti estremi si trovassero in questo punto, non sarebbe possibile alcuna connessione degli estremi con questo centro, e il fine ultimo della natura sarebbe interamente evaso. Nei misteri di una tale fusione, portata a quiete, penetra soltanto il pensoso conoscitore; per ogni occhio comune i singoli elementi rimangono interamente nascosti, ed egli non conoscerebbe mai né il proprio elemento né quello che gli è opposto. Pertanto la Divinità in ogni epoca invia qua e là alcune persone,

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in cui i due estremi sono connessi più favorevolmente, le equipaggia di doti meravigliose, ne appiana la via con una parola onnipotente e le rende interpreti della sua volontà e delle sue opere, e mediatrici di ciò che in caso diverso sarebbe rimasto eternamente scisso. Rivolgete lo sguardo a coloro che esprimono nella loro essenza un alto grado di quella forza d’attrazione, che si appropria attivamente delle cose intorno, ma sono al contempo sì tanto in possesso dell’impulso di compenetrazione spirituale, che aspira all’Infinito e in tutto imprime spirito e vita, da estrinsecarlo nelle azioni a cui quello li spinge; a costoro non basta, per dir così, ingurgitare, distruggendola, una rozza massa di elementi terreni, ma devono porre qualcosa davanti a sé, ordinarla e plasmarla in un piccolo mondo, che reca il conio del loro spirito, e in tal modo dominano più razionalmente, godono più stabilmente e umanamente, così divengono eroi, legislatori, inventori, dominatori della natura, demoni buoni che creano e spargono silenziosamente una più alta felicità. Tali persone, con il loro semplice esserci, si manifestano come inviati di Dio e mediatori tra l’uomo limitato e l’umanità infinita. All’idealista inattivo, meramente speculativo, che disperde la sua essenza in vuoti pensieri singoli, esse mostrano attivo ciò che in lui era solamente latente; e, in ciò che fino a quel momento aborriva, mostrano la materia su cui precisamente deve operare; gli interpretano la sconosciuta voce di Dio, lo riconciliano con la terra e con il suo posto in essa. Ma ancor di più le persone meramente terrene e sensuali necessitano di questi mediatori, che insegnino loro a comprendere quella superiore forza fondamentale dell’umanità, dal momento che essi, privi di un’attività e di un agire quale appartiene ai primi, tutto abbracciano, osservandolo e illustrandolo, e non vogliono conoscere altri confini che l’Universo che hanno trovato. Se Dio conferisce a uno che si muove in questa via, per il suo tendere all’espansione e alla compenetrazione, anche quella sensibilità mistica e creativa che aspira a conferire a ogni disposizione interiore pure un’esistenza esterna, allora egli, dopo ogni evasione del suo spirito nell’Infinito, deve esternare l’impressione, che l’Infinito gli ha procurato, come un oggetto comunicabile in immagini o parole, così da goderne di nuovo, una volta che sia stato trasformato in un’altra figura e in una grandezza finita; e deve dunque involontariamente e, per dir così, con entusiasmo – giacché lo farebbe, quand’anche non vi fosse nessuno – rappresentare per altri, come poeta o veggente, oratore o artista, quel che gli è capitato. Una tale persona è un vero sacerdote dell’Altissimo,3 in quanto lo rende più prossimo a coloro che sono abituati a ca-

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pire solo ciò che è finito e poco rilevante; essa esibisce di fronte a loro il celeste e l’eterno come oggetto di godimento e di unione, come l’unica inesauribile sorgente di ciò a cui è diretto il loro intero fantasticare. Essa aspira dunque a risvegliare il germe dormiente di una migliore umanità, ad accendere l’amore per l’Altissimo, a trasformare la vita comune in una vita più nobile, a conciliare nuovamente i figli della terra con il cielo che ad essi appartiene, e a mantenere un contrappeso contro il goffo attaccamento dell’epoca alla materia più greve. Questo è il sacerdozio superiore che annuncia l’intimità di tutti i misteri spirituali e parla dall’alto del regno di Dio; questa è la fonte di tutte le visioni e profezie, di tutte le opere d’arte sacre e dei discorsi animati dallo spirito, che vengono disseminati senza darsi pena che un animo sensibile li trovi e li lasci fruttificare in sé. Possa tuttavia accadere che questa mediazione cessi e che il sacerdozio dell’umanità riceva una più bella destinazione! Possa venire il tempo, che un’antica profezia descrive come quello in cui nessuno avrà bisogno di essere istruito perché tutti lo sono da Dio!4 Se il fuoco sacro ardesse ovunque, non sarebbero necessarie preghiere infuocate per invocarlo dal cielo, ma soltanto il sereno silenzio di sante vergini per mantenerlo, così esso non dovrebbe divampare in fiamme spaventose, ma il suo unico sforzo dovrebbe essere volto a equilibrare in tutti l’intimo e nascosto ardore. Ciascuno allora illuminerebbe sé e gli altri in silenzio, e la comunicazione di pensieri e sentimenti santi consisterebbe soltanto nel facile gioco di unire i vari raggi di questa luce e quindi separarli nuovamente, di dissolverli e quindi concentrarli ancora qui e là su singoli oggetti. La più flebile parola sarebbe compresa, mentre ora le esternazioni più chiare non si sottraggono all’incomprensione. Si potrebbe entrare insieme all’interno del santuario, mentre ora ci si deve solo occupare degli elementi che si trovano nei vestiboli. Quanto è più piacevole scambiare idee perfette con amici e iniziati che doversi provare, nello spazio vuoto, con abbozzi d’idee appena delineati! Ma quanto attualmente sono lontani coloro tra cui una tale comunicazione potrebbe aver luogo; sono divisi nell’umanità con la saggia parsimonia con cui nello spazio cosmico lo sono i punti nascosti dai quali si diffonde in ogni dove l’elastica materia originaria, è a dire in modo che solo gli estremi confini delle loro cerchie d’influenza si tocchino – perché comunque nulla sia del tutto vuoto – senza però che mai l’uno incontri l’altro. Cosa di certo saggia: infatti, l’intero anelito alla comunicazione e alla socievolezza si rivolge esclusivamente a coloro che ne han-

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no maggiore bisogno, e tanto più incessantemente opera per condurre a sé i compagni che le mancano. Io sottostò precisamente a tale forza, proprio questa natura è anche la mia vocazione. Scusatemi se parlo di me stesso: sapete che parlare di religione non può mai essere questione di orgoglio, giacché essa è sempre ricolma di umiltà. La religione è stata il grembo materno, nella cui sacra oscurità la mia giovane vita fu nutrita e preparata per il mondo che le era ancora precluso; in essa il mio spirito ha respirato ancor prima che avesse trovato i suoi oggetti esterni, l’esperienza e la scienza; essa mi ha aiutato quando iniziai a comprendere la fede paterna e a purificare il cuore dalle macerie del passato; mi è rimasta quando Dio e l’immortalità svanirono dal mio sguardo dubbioso;5 mi ha guidato nella vita attiva, mi ha insegnato a considerare sacro me stesso con le mie virtù e i miei errori, nella mia indivisa esistenza, e solo attraverso essa ho imparato l’amicizia e l’amore. Quando si parla di altri pregi e qualità degli uomini, so bene che davanti al vostro tribunale, o saggi e intelligenti del popolo, dimostra poco chi può dire come li possiede; egli infatti può conoscerli da descrizioni, da osservazioni degli altri oppure, come vengono conosciute tutte le virtù, dalla comune antica saga della loro esistenza; ma la realtà della religione è tale e tanto rara, che chi esprime qualcosa al riguardo deve necessariamente averla posseduta, dato che non ne ha sentito parlare da nessuna parte. Di tutto ciò che io apprezzo e stimo quale opera sua si trova ben poco nei libri sacri; e per chi non ne ha fatto esperienza personale, non sarebbe ciò, forse, uno scandalo o una follia?6 Se io, così permeato da essa, sono costretto infine a parlarne e a renderle testimonianza, a chi devo rivolgermi se non a voi? Dove potrei altrimenti trovare uditori per il mio discorso? Ciò che mi spinge a parlare così non è una cieca predilezione per il suolo patrio o per i compagni di costituzione e di lingua, ma l’intima convinzione che voi siate i soli capaci, e dunque anche degni, che venga in essi risvegliato il senso delle cose sacre e divine. Quegli orgogliosi isolani, che molti tra voi venerano sì poco convenientemente, non conoscono altro motto che guadagnare e godere; il loro zelo per le scienze, per la saggezza della vita e per la sacra libertà è soltanto una vuota battaglia. Come i loro più fanatici sostenitori della libertà non fanno altro che difendere con accanimento l’ortodossia nazionale e profilare prodigi al popolo, affinché non vada perduto l’attaccamento superstizioso agli usi antichi,

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così per essi non vi è serietà in tutto ciò che oltrepassa la sfera del sensibile e dell’utilità immediatamente prossima. Pertanto vanno in cerca di conoscenze, pertanto la loro saggezza è rivolta solo a una triviale empiria, e per loro la religione non può essere, quindi, altro che una morta lettera, un pio articolo della costituzione, nella quale non vi è nulla di reale. Per altre ragioni mi distanzio dai francesi, la cui vista è malamente sopportata da un cultore della religione, poiché essi in ogni azione, in ogni parola, quasi ne calpestano con i piedi le leggi più sante. La frivola indifferenza con cui milioni di persone del popolo, la spiritosa noncuranza con cui singoli spiriti brillanti volgono lo sguardo all’atto più sublime dell’Universo, che non procede soltanto sotto i loro occhi, ma li abbraccia tutti e determina ciascun movimento della loro vita, mostrano a sufficienza quanto poco essi siano in grado di un santo timore e di un’autentica adorazione. E cosa la religione disprezza di più della sfrenata tracotanza con cui i signori del popolo sfidano le leggi eterne del mondo? Cosa la inculca di più della ponderata e umile moderazione, di cui sembra che essi non abbiano neanche il minimo sentore? Cos’è per essa più sacro dell’elevata Nemesi, le cui più terribili azioni essi, nella follia dell’accecamento, non comprendono giammai? Dove alterni castighi, che un tempo bastava colpissero solo singole famiglie perché interi popoli fossero riempiti di terrore al cospetto dell’Essere celeste e perché lungo i secoli le opere dei poeti fossero dedicate al destino eterno, dove questi castighi si ripetono inutilmente migliaia di volte, come potrebbe una voce isolata svanire inascoltata e inosservata fino allo scherno? Qui, nella terra patria, regna il clima beato che non rinnega completamente alcun frutto, qui trovate ampiamente diffuso tutto ciò che adorna l’umanità, e tutto ciò che cresce si sviluppa in qualche luogo, per lo meno nell’individuo singolo, fino alla sua forma più bella; qui non vi è carenza né di saggia moderazione né di silenziosa meditazione. Qui la religione deve dunque trovare asilo dalla rozza barbarie e dal freddo senso terreno dell’epoca. Solo non respingetemi, senza avermi prestato ascolto, tra coloro a cui guardate dall’alto come a bruti e incolti, quasi che il senso del sacro, come una moda superata, fosse trascorso nella parte inferiore del popolo, alla quale solo si addirebbe di essere ancora sopraffatta dalla paura e dalla fede nell’Invisibile. Voi siete molto amichevolmente disposti verso questi nostri fratelli, e avete a cuore anche che si parli loro di altri più importanti argomenti, di eticità, diritto e libertà, e che dunque, almeno in momenti particolari, la loro intima aspirazione sia innalzata a quel che è meglio, e in essi venga risvegliata un’impressione della dignità dell’umanità. Si discorra dunque con essi anche della religione, si scavi il loro intero essere fino a giungere al punto in cui si cela questo sacro istinto; li si accenda con singoli lampi tratti da questo istinto; si tracci, dal centro

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più interno della loro angusta limitatezza, una veduta sull’Infinito, e per un istante s’innalzi la loro sensibilità animale all’elevata coscienza di una volontà e di un’esistenza umane, e in questo modo si sarà sempre guadagnato molto. Ma ve ne prego, volgete a essi la vostra attenzione quando volete scoprire l’intrinseco nesso e il fondamento supremo di quelle cose sacre dell’umanità? Quando devono essere rintracciati il concetto e il sentimento, la legge e l’atto, fino alla loro comune scaturigine, e il reale deve essere rappresentato come eterno e necessariamente fondato nell’essenza dell’umanità? Non sarebbe una cosa abbastanza fortunata se i vostri saggi fossero dunque compresi almeno dai migliori tra voi? Ma proprio questo è il mio scopo ultimo in merito alla religione. Non voglio stimolare singole sensazioni, che forse appartengono al suo dominio, né giustificare o obiettare contro singole rappresentazioni; vorrei condurvi nelle più intime profondità dalle quali essa anzitutto si rivolge all’animo; vorrei mostrarvi da quali disposizioni dell’umanità promana, e come appartenga a ciò che per voi è la cosa più elevata e cara; vorrei condurvi sulle torri del tempio,7 affinché possiate contemplare l’intero santuario e scoprirne i più intimi segreti. Potete aspettarvi sul serio che creda che coloro i quali quotidianamente si affannano nel modo più faticoso con le cose terrene siano più adatti di chiunque altro a familiarizzare in questo modo con il Divino? Che coloro che si preoccupano con trepidazione del momento successivo e sono solidamente incatenati alle cose più prossime, possano meglio degli altri volgere lo sguardo all’Universo? E che colui il quale non ha ancora trovato se stesso nell’uniforme succedersi di una morta occupazione, scoprirà con maggiore chiarezza la Divinità vivente? Posso dunque appellarmi solo a voi, che siete capaci di elevarvi al di sopra del comune punto di vista degli uomini, che non temete il faticoso cammino verso l’interiorità dell’essenza umana, per trovare il fondamento del suo agire e pensare. Da quando ho riconosciuto ciò a me stesso, mi sono trovato a lungo nell’esitante condizione psichica di chi, avendo perso un gioiello amato, non osava cercarlo nell’ultimo posto in cui poteva celarsi. Ci furono tempi in cui ancora consideravate prova di particolare coraggio liberarsi in parte della religione, e volentieri leggevate e ascoltavate di singoli argomenti purché si trattasse di estirpare un concetto ereditato; in cui vi piaceva scorgere un’esile religione adornata d’eloquenza, perché volevate mantenere, almeno per il gentil sesso, un certo sentimento del sacro. Tutto ciò non esiste più, non se ne deve più parlare, e le stesse Gra-

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zie pervertono, con asprezza poco femminile, i fiori più delicati della fantasia umana. Non posso dunque rapportare l’interesse che vi domando a null’altro che al vostro medesimo disprezzo; voglio solo esortarvi a essere, in questo disprezzo, ben educati e adeguati. Lasciateci dunque indagare, ve ne prego, donde davvero derivi, dal particolare o dall’intero? Dalle diverse specie e sette della religione, quali sono apparse nel mondo, o dal concetto stesso? Senza dubbio alcuni prenderanno parte per la seconda alternativa, e ciò sono sempre soliti fare i dispregiatori a torto disinvolti, che ne tengono lontana da sé la pratica e non si sono fatti carico della fatica di acquisire un’appropriata conoscenza di come stanno le cose. Il timore al cospetto di un Essere eterno e il far conto su un altro mondo, questi – ritenete – sarebbero i cardini di ogni religione e tutto ciò vi è in generale odioso. Ditemi dunque, o carissimi, donde traete questi concetti della religione che sono oggetto del vostro disprezzo? Ogni manifestazione, ogni opera dello spirito umano può essere guardata e conosciuta da un duplice punto di vista. Se la si considera dal suo centro, secondo la sua intima essenza, essa è allora un prodotto della natura umana, fondato in uno dei suoi necessari modi di agire o impulsi, o come altro voi intendiate definirli, giacché ora non ho di mira il vostro linguaggio specialistico; se la si considera a partire dai suoi confini, secondo il determinato andamento e la determinata forma che ha assunto qua e là, allora essa è un prodotto del tempo e della storia. Ora, da che parte avete voi considerato questo grande fenomeno spirituale per pervenire a quei concetti, che spacciate per il contenuto comune di tutto ciò che da sempre è stato chiamato con il nome di religione? Difficilmente potreste sostenere che questa sia una considerazione del primo tipo; nel qual caso, brava gente, dovreste concedere che in queste idee almeno qualcosa appartenga alla natura umana; e se anche voleste dire che esse, così come vi è dato imbattersi ora, siano nate solo da fraintendimenti o da falsi nessi di uno sforzo necessario dell’umanità, vi converrebbe comunque unirvi a noi per far emergere quel che di esse è vero ed eterno, e per affrancare la natura umana dall’ingiustizia che subisce ogni volta che qualche cosa in essa viene misconosciuto o corrotto. Per tutto ciò che vi è sacro – e in conseguenza di tale confessione deve esserci per voi qualcosa di sacro –, ve ne prego, non tralasciate questo affare affinché l’umanità, che venerate come noi, non sia legittimamente adirata con voi come con coloro che l’hanno abbandonata in una faccenda tanto importante. Se poi ritenete che questo sia già un affare passato, posso allora certo far conto sulla vostra gratitudine e sulla vostra approvazione. – Probabilmente, direte che i vostri concetti sul contenuto della religione non sono altro che

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un aspetto di questo fenomeno spirituale, e che essa è vuota e viene da voi disprezzata appunto perché ciò che sta al centro le è interamente eterogeneo, non può essere detto religione, ed essa pertanto non può in nessun modo essere emersa da lì e, ovunque, non può essere null’altro che una vuota e falsa apparenza che ha circondato, come un’atmosfera torbida e opprimente, una parte della verità. È questa di certo la vostra opinione vera e autentica. Se voi però considerate quei due punti il contenuto della religione in tutte le forme in cui è comparsa nella storia, mi sia comunque permesso di chiedere se avete anche osservato accuratamente quelle apparizioni e compreso adeguatamente il loro comune contenuto. Se è sorto così, dovete giustificare il vostro concetto sulla base del particolare, e se qualcuno vi dice che è sbagliato e inadeguato, rimandando nella religione a qualcosa che non sia vano ma abbia un centro, come ciascun altro fenomeno, dovete anzitutto ascoltare e giudicare prima di poter legittimamente continuare a disprezzare. Non vi spiaccia, dunque, ascoltare ciò che voglio dire di coloro che sin dall’inizio sono partiti, più correttamente ma anche più faticosamente, dal particolare. Siete senza dubbio a conoscenza della storia delle follie umane, e avete attraversato i diversi edifici della religione, dalle insensate favole delle nazioni selvagge fino al deismo più raffinato, dalla rozza superstizione del nostro popolo fino ai raffazzonati frammenti di metafisica e di morale, cui è attribuito il nome di cristianesimo razionale, trovandoli tutti assurdi e irragionevoli. Io sono assai lontano dal volervi contraddire in proposito; piuttosto, se con ciò intendete giustamente che i sistemi religiosi più elaborati portano in sé tali caratteri non meno dei più rozzi, e comprendete che il Divino non può trovarsi in una serie che da entrambe le parti si conchiude in qualcosa di dozzinale e di spregevole, allora vi risparmierò volentieri la fatica di valutare più da presso tutti i sistemi intermedi. Si profilano tutti come passaggi e approssimazioni ai più recenti; ciascuno esce più raffinato dalla mano della propria epoca finché, in ultimo, l’arte si è innalzata a quel perfetto balocco con cui tanto a lungo il nostro secolo ha ingannato il tempo. Ma questo perfezionamento è tutt’altro che approssimazione alla religione. Io non posso parlarne senza indignazione; deve infatti far compassione a chiunque abbia il senso di tutto ciò che promana dall’intimità dello spirito, e abbia a cuore che ogni aspetto dell’uomo sia coltivato ed esibito, quanto il lato elevato e nobile si sia allontanato dalla sua destinazione e abbia perso la sua libertà, per essere tenuto in una spregevole schiavitù dallo spirito scolastico e

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metafisico di tempi barbarici e freddi. Dove quel lato è presente e attivo, deve manifestarsi in modo da sospingere l’animo in modo peculiare, da amalgamare o piuttosto distanziare tutte le funzioni dell’anima umana, e da disciogliere tutte le attività in una mirabolante intuizione dell’Infinito. Vi sembra che le cose stiano così in questi sistemi di teologia, in queste teorie dell’origine e della fine del mondo, in queste analisi della natura di un Essere inconcepibile, dove tutto concorre in un freddo argomentare e nulla può essere preso in considerazione altrimenti che nel tono di una comune disputa di scuola? In tutti questi sistemi che disprezzate, voi non avete dunque trovato e non potete trovare la religione, perché essa non vi è contenuta; e se vi fosse mostrato che si trova da qualche altra parte, sareste sempre ancora capaci di trovarla e di onorarla. Perché non siete però discesi di più nel particolare? Mi stupisco della vostra volontaria ignoranza, o ricercatori provetti, e della vostra troppo tenue tenacia in riferimento a ciò che è, appunto, presente e vi viene lodato. Ciò che non avete trovato in questi sistemi, avreste dovuto cogliere negli elementi, appunto, di questi sistemi, e invero non dell’uno o dell’altro, ma certamente di tutti. In tutti vi è qualcosa di correlato a questa materia spirituale, senza essa infatti non sarebbero potuti punto sorgere; ma chi non è in grado di mettere in risalto una tale materia, per quanto finemente li dissezioni e per quanto esattamente esamini ogni cosa, si trova in mano nient’altro che la morta, fredda massa. L’indicazione a cercare nei primi elementi, apparentemente destrutturati, il vero e il giusto che voi non trovate nella grande massa, non può certo sembrare strana a tutti voi, che più o meno vi occupate di filosofia e avete familiarità con i suoi destini. Ricordatevi però come pochi di coloro che hanno percorso una propria via all’interno della vita umana e del mondo, e hanno concepito e rappresentato in luce propria il loro reciproco rapporto e la loro intima armonia, hanno costruito un sistema autonomo di filosofia, e considerate se non è vero che non tutti hanno comunicato le loro scoperte in una forma più delicata, anche se magari meno solida. Ma abbiamo forse sistemi di tutte le scuole? Ne abbiamo certamente di quelle scuole che non sono altro che la sede e il vivaio della morta lettera,8 giacché lo spirito non si lascia né imbrigliare nelle accademie, né infondere in serie in teste preordinate; in genere lo spirito evapora sulla via che conduce dalla prima bocca al primo orecchio. Non gridereste per ammaestrarlo: «no caro amico!» a chi

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ha confuso i fabbricanti di questi grandi corpi della filosofia con gli stessi filosofi e ha voluto rintracciare in essi lo spirito della scienza? In tutte le faccende, coloro che seguono, compilano e rimangono presso ciò che ha fatto qualcun altro non sono in possesso dello spirito della cosa, il quale risiede solo presso i creatori, e da essi tu devi andare. Dovete però concedere che, per quel che riguarda la religione, la medesima cosa sta ancora di più in questi termini in quanto essa, secondo la sua intera essenza, è tanto lontana da ogni sistematicità quanto la filosofia vi è per natura propensa. Ponderate tuttavia: da chi traggono origine questi costrutti artificiosi, la cui inconsistenza voi motteggiate, la cui cattiva proporzione vi offende, e il cui contrasto con la loro gretta tendenza è per voi tanto risibile? Forse dagli eroi della religione? Ma tra tutti coloro che ci hanno presentato una qualche nuova rivelazione, nominatemene uno solo, a partire da colui che per primo ha ideato la Divinità una e universale – di certo il pensiero più sistematico nell’intero ambito della religione – fino al più recente mistico, in cui forse ancora rifulge un raggio originario di luce interiore (non mi rimprovererete, infatti, che io non menziono i teologi della lettera, che credono di trovare la salvezza del mondo e la luce della saggezza in un nuovo rivestimento delle loro formule o in nuove tesi delle loro appariscenti dimostrazioni), nominatemi tra tutti questi uno solo che abbia ritenuto convenisse misurarsi con tale fatica di Sisifo. Solo singoli pensieri sublimi hanno attraversato la loro anima accesa da un fuoco etereo, e il magico tuono di un discorso incantato ha accompagnato l’alta apparizione, e annunciato al mortale adorante che la Divinità ha parlato. Un atomo gravido di una forza ultraterrena è piombata nel loro animo, assimilando a sé tutto ciò che vi era presente ed estendendolo onnipotentemente, per poi diffondersi, come in virtù di un destino divino, in un mondo la cui atmosfera gli opponeva una resistenza troppo lieve, e ha prodotto ancora, nei suoi ultimi momenti, una di quelle celesti meteore, uno di quegli emblematici segni del tempo, la cui origine nessuno misconosce e che riempiono di timore reverenziale tutti gli abitanti della terra. Dovete cercare queste scintille celesti, che sorgono quando un’anima santa è toccata dall’Universo, dovete spiarle in quell’istante inafferrabile in cui si sono costituite, altrimenti vi accade come a colui che cerca troppo tardi, con la materia infiammabile, il fuoco che la pietra ha estorto all’acciaio, e poi trova soltanto un freddo insignificante granello di un rozzo metallo, con il quale non può più accendere nulla. Ve lo chiedo, dunque, prescindendo da tutto ciò che in genere viene detto religione: orientate la vostra attenzione solo su questi singoli ac-

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cenni e stati d’animo, che troverete in tutte le manifestazioni e i nobili atti degli uomini ispirati da Dio. Se non scoprite infatti in tali particolarità alcunché di nuovo e pertinente, come io, malgrado la vostra istruzione e conoscenza, per buona causa, spero facciate; se non si amplia poi, e non muta, il vostro più ristretto concetto, prodotto solo da un’osservazione superficiale; se potete disprezzare ancora questo riferimento dell’animo all’Eterno; se può ancora apparirvi ridicolo veder considerato anche da questo punto di vista tutto ciò che è importante per l’uomo: allora voglio credere che il vostro disprezzo della religione è conforme alla vostra natura, e non ho null’altro da dirvi. Solo, non abbiate paura che alla fine voglia ricorrere ancora ai soliti mezzi, per mostrarvi come essa sia necessaria per conservare il diritto e l’ordine nel mondo e per venire in aiuto, con il richiamo a un occhio onniveggente e a una potenza infinita, alla miopia della vista umana e ai rigidi limiti del potere umano; o per mostrarvi come sia una fedele amica e un benefico sostegno dell’eticità, in quanto con i suoi santi sentimenti e le sue splendide prospettive faciliterebbe enormemente agli uomini deboli la lotta con se stessi e l’adempimento del bene.9 Certamente si esprimono così coloro che lasciano credere di essere i migliori amici e i difensori più zelanti della religione; io però non voglio decidere contro chi sia rivolto, in questa connessione d’idee, il maggior disprezzo, contro il diritto e l’eticità, che sono rappresentati come bisognosi di un aiuto, o contro la religione, che deve sostenerli, o contro di voi, a cui si parla in questo modo.10 Con quale coraggio potrei pretendere, pur supposto che debba esservi elargito tale saggio consiglio, che cessiate di condurre un gioco misero con voi stessi nella vostra interiorità e che da qualcosa, che altrimenti non avreste alcuna ragione di rispettare e di amare, vi facciate sospingere verso qualcos’altro che comunque già venerate e vi sta a cuore? O se magari, attraverso questi discorsi, deve esservi solo detto all’orecchio quello che dovete fare per amore del popolo, come potreste poi, chiamati a istruire gli altri e a renderli simili a voi, iniziare con l’ingannarli e con lo spacciare come sacro ed effettivo qualcosa che vi è del tutto indifferente e che essi dovrebbero allontanare appena si fossero innalzati al vostro stesso livello? Io non posso sollecitarvi a un simile modo d’agire, che implica la più nociva ipocrisia nei confronti del mondo e di voi stessi; e chi vuol consiglia-

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re così la religione, può soltanto inasprire il disprezzo cui essa già soggiace. Concesso che le nostre istituzioni civili soffrano ancora sotto un alto grado d’imperfezione e abbiano dimostrato ancora poca forza nel prevenire l’ingiustizia o nell’estirparla, quale punibile rinuncia a una cosa importante, quale timida miscredenza nell’approssimazione al meglio sarebbe se, per questo, fosse necessario volgersi alla religione! Vi trovereste, infatti, in una situazione legittima giuridicamente, se la loro esistenza si fondasse sulla pietà? Non appena partite da ciò, non vi si dilegua l’intero concetto che ritenete certo tanto sacro? Contestate direttamente la cosa, se vi pare disposta così male; migliorate le leggi, fate confliggere le costituzioni reciprocamente, conferite allo Stato un braccio di ferro, assegnategli cento occhi se non li ha ancora, ma non assopite con un’ingannevole cantilena quelli che ha. Non innestate un tale ufficio in un altro, altrimenti non l’avrete nemmeno governato e non spiegate, a sfregio dell’umanità, la sua opera d’arte più sublime come una pianta parassitaria che può nutrirsi solo di linfe estranee. Il diritto non deve aver bisogno neppure dell’eticità, che gli è comunque di gran lunga più vicina, per garantirsi il dominio incontrastato nel proprio campo, ma deve starsene interamente per conto proprio. Chi amministra il diritto, deve poterlo applicare ovunque, e chiunque sostenga che ciò può accadere soltanto se viene trasmessa la religione – supposto che si possa trasmettere ad arbitrio quanto esiste solo nella misura in cui promana dall’animo –,11 sostiene al contempo che dovrebbero essere amministratori del diritto solo coloro che sono idonei a riversare nell’anima umana lo spirito della religione: e in quale tetra barbarie di epoche empie ciò ci condurrebbe! Altrettanto poco, però, l’eticità può avere da condividere con la religione; chi opera una differenziazione tra questo e l’altro mondo inganna se stesso; tutti quelli che hanno una religione, per lo meno, credono solo in un mondo. Se dunque l’aspirazione al benessere è qualcosa di allotrio all’eticità, il dopo non può valere più del prima, e il timore dell’eterno non più di quello che si prova al cospetto di un saggio. Se, attraverso ogni aggiunta, l’eticità smarrisce il suo splendore e la sua stabilità, quanto più ne perderebbe attraverso un siffatto incremento che non può mai negare il suo colorito splendido e straniero. Avete comunque ascoltato ciò abbastanza da coloro che difendono l’autonomia e l’onnipotenza delle leggi morali, ma aggiungo che si dimostra il massimo disprezzo

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per la religione volendola trasferire in un altro dominio, affinché vi sia utile e vi presti la sua opera. Né essa vorrebbe comandare in un regno estraneo: non è infatti così avida di conquiste da voler ampliare il proprio regno. Il potere, che le compete e che in ogni istante si guadagna novellamente, le basta, e per essa, che ritiene tutto sacro, è ancor più sacro quel che nella natura umana ha un rango uguale al suo. Ma essa deve pur servire per qualcosa di particolare, come vogliono quelli, deve avere uno scopo e mostrarsi utile. Che mortificazione! E i suoi difensori dovrebbero essere disposti a procurargliela? Ma possano, quelli alla ricerca dell’utile in siffatto modo, e per cui in fondo anche l’eticità e il diritto esistono a vantaggio di altro, rimaner sommersi in questo eterno circolo di un’utilità generale, in cui permettano si consumi ogni bene e del quale nessun uomo, che voglia essere qualcosa per se stesso, avverte come sensata una sola parola, piuttosto che erigersi a difensori della religione, di cui sono i meno adatti a perorare la causa! Una gran gloria per la celeste, se essa potesse supportare in modo così dozzinale le faccende terrene degli uomini! Molto onore per la libera e spensierata, se fosse ora un po’ più vigile e stimolante della coscienza! Ma non discenderà dal cielo, per voi, in favore di qualcosa del genere. Ciò che è amato e apprezzato solo per un vantaggio che gli è estraneo può certamente essere necessario, ma non è necessario in sé, può sempre rimanere un pio desiderio che non giunge mai all’esistenza, e un uomo ragionevole non gli assegna alcun valore straordinario, ma solo il prezzo a esso equipollente. E tale prezzo sarebbe abbastanza basso per la religione, io per lo meno farei un’offerta poco consistente; bisogna infatti che lo confessi, io non credo così grave la situazione delle azioni ingiuste che essa dovrebbe impedire e la situazione delle azioni morali che dovrebbe invece produrre. Se fosse dunque questa l’unica cosa capace di procurarle rispetto, possa io non avere nulla a che fare con quel che la riguarda. Ciò è troppo insignificante, persino per raccomandarla solo di passaggio. Una lode fittizia, che si dissolve quando la si consideri più da presso, non può essere di nessun aiuto a chi muove con pretese più alte. Che essa sgorghi autonomamente dal profondo di ogni anima migliore, che le appartenga una propria provincia nell’animo in cui domina incontrastata, che sia degna di mettere in moto per mezzo della sua più intima forza i più nobili e distinti spiriti, e di esser da loro conosciuta secondo la sua più intima essenza: ecco ciò che affermo e di cui vorrei essere garante di fronte a voi; e sta ora a voi decidere se varrà la pena ascoltarmi prima di arroccarvi ancor più nel vostro disprezzo.

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L’e s s e n z a d e l l a r e l i g i o n e Saprete come l’antico Simonide, attraverso un reiterato e prolungato temporeggiare, ha placato colui che lo aveva assillato con la domanda: che cosa sono gli dèi?12 Con un analogo temporeggiare, io vorrei iniziare a discutere la questione ben più importante e ampia “cos’è la religione?”. Certamente, non con l’intenzione di tacere e di lasciarvi, come quello, nell’imbarazzo, ma affinché voi, liberati da un’ansiosa attesa, possiate per un attimo fissare il vostro sguardo sul punto che cerchiamo e, nel frattempo, allontanare completamente ogni altro pensiero. Tuttavia, la prima richiesta di quanti si occupano di evocare spiriti comuni è che lo spettatore, che vuol vederne le apparizioni ed essere iniziato ai loro misteri, si prepari con l’astinenza da cose terrene e con il sacro silenzio e poi, senza lasciarsi distogliere dall’osservazione di oggetti allotri, guardi, con indivisa sensibilità, lì dove deve mostrarsi l’apparizione. Quanto più dovrei pretendere un’obbedienza simile io, che devo evocare uno spirito raro, il quale non si degna di apparire in uno degli spettri che si vedono di frequente, e che voi dovrete contemplare a lungo con intensa attenzione per conoscerlo e comprenderne i tratti caratteristici. Solo se state di fronte ai circoli sacri, con la più spregiudicata imparzialità del sentimento, che coglie perspicuamente ed esattamente ogni lineamento e, aspirando pienamente a comprendere per se stesso ciò che gli viene mostrato, né è allettato da antichi ricordi né è

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affascinato da previe convinzioni, posso sperare che, benché non conquistati dall’apparizione che vi propongo, sarete nondimeno d’accordo con me sulla sua forma e la conoscerete di natura divina. Vorrei, potrei, rappresentarvela in una qualche ben nota configurazione, cosicché possiate ricordarne subito i tratti, l’andamento e le maniere, e annunciare che l’avete vista in vita, qua e là, in questa forma. Ma vi ingannerei; infatti così spoglia, come si presenta a chi la evoca, non si incontra tra gli uomini, e da lungo tempo non si è certo lasciata vedere nella sua forma peculiare. Come il particolare modo di sentire di diversi popoli civilizzati, da quando attraverso rapporti di tutti i tipi il loro commercio s’è differenziato e i loro elementi comuni accresciuti, non si presenta più in azioni particolari così puro e determinato, ma soltanto l’immaginazione può cogliere l’idea complessiva di questi caratteri, che nel caso singolo non s’incontrano che isolati e commisti con molti elementi allotri, così accade anche con le questioni spirituali e, tra esse, con la religione. Vi è anzi noto come tutto, ora, sia ricolmo di una formazione armonica, e proprio ciò ha istituito una così perfetta ed estesa socievolezza e amicizia nell’anima umana, che ora in noi nessuna delle sue forze, per quanto le riteniamo divise, agisce in effetti separatamente ma, in tutti i casi di deviazione, è subito sostenuta dall’amore preveniente e dall’appoggio benefico delle altre e in certo modo salvata dal suo isolamento, tanto che, in questo mondo istruito, inutilmente si cercherebbe un’azione che possa offrire una fedele espressione di una qualche facoltà dello spirito, sia essa la sensibilità o l’intelletto, l’eticità o la religione. Non indignatevi perciò e non considerate un atto di disprezzo per il presente se, spesso, per ragioni di chiarezza, vi riporto verso quelle età più infantili in cui, in uno stato d’imperfezione, ogni cosa era ancora più isolata e separata; e se io comincio subito, e vi torno sempre accuratamente per un’altra via, con il mettervi apertamente in guardia al cospetto di ogni sostituzione della religione con ciò che qui e lì pare simile a essa e con cui ovunque la troverete frammista. Ponetevi sul supremo piano della metafisica e della morale, troverete allora che entrambe contemplano lo stesso oggetto della religione, ovvero l’Universo e il rapporto dell’uomo con esso. Questa equivalenza è stata da lungo tempo ragione di varî travisamenti; per questo la metafisica e la morale sono penetrate ampiamente nella religione, e molto di ciò

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che appartiene alla religione si è celato, sotto una forma impropria, nella metafisica o nella morale. Ma crederete voi, perciò, che essa sia una cosa sola con una delle due? So che il vostro istinto vi dice il contrario, e ciò si evince anche dalle vostre opinioni; giacché non concedete mai che essa muova con il passo sicuro di cui la metafisica è capace e non dimenticate di sottolineare diligentemente che nella sua storia vi è una molteplicità di rivoltanti macchie immorali. Se la religione deve dunque distinguersi, deve allora in qualche modo essere loro contrapposta, nonostante tratti la stessa materia; deve trattare questa materia in modo del tutto dissimile, deve esprimere o elaborare un diverso rapporto degli uomini con essa, deve avere un altro modo di procedere o un altro scopo: giacché solo in questo modo ciò che per la materia è uguale a qualcos’altro può ottenere una particolare natura e un’esistenza peculiare. Vi domando, dunque: cosa fa la vostra metafisica o – se non volete saperne dell’antico nome, che per voi è troppo datato – la vostra filosofia trascendentale? Essa classifica l’Universo e lo distingue nella tale e tal altra essenza, ricerca i fondamenti di ciò che esiste e deduce la necessità del reale, producendo da se stessa la realtà del mondo e le sue leggi. La religione non può quindi perdersi in questo ambito, non può avere la tendenza a porre l’essenza e determinare nature, a smarrirsi in un’infinità di ragioni e di deduzioni, a ricercare cause ultime e a enunciare verità eterne. E cosa fa la vostra morale? Sviluppa un sistema di doveri a partire dalla natura dell’uomo e dal suo rapporto con l’Universo, comanda e vieta azioni con potere incondizionato. Ma la religione non può osare nemmeno questo, non può servirsi dell’Universo per dedurre doveri, non può contenere alcun codice delle leggi. «Eppure ciò che si chiama religione sembra consistere solo di frammenti di questi diversi domini»: questo è certamente il concetto comune. Vi ho cagionato prima un dubbio nei suoi confronti; è ora giunto il momento di confutarlo interamente. Nell’ambito della religione, i teorici, che prendono le mosse dalla conoscenza della natura dell’Universo e di un Essere supremo di cui esso è opera, sono metafisici, ma abbastanza garbati da non disdegnare un po’ di morale. I pratici, per cui la volontà di Dio è la questione principale, sono moralisti, ma un po’ nello stile della metafisica. Voi prendete l’idea del bene e la portate nella metafisica come legge naturale di un Essere illimitato e senza bisogni; e dalla metafisica prendete l’idea di un Essere originario e la portate nella morale, affinché questa grande opera non rimanga ano-

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nima, ma innanzi a un codice tanto eccellente possa essere incisa l’immagine di un legislatore. Mescolate, tuttavia, e agitate come volete, ciò non si riunisce mai, conducete un gioco vuoto con materie che non si accordano reciprocamente, ritenete sempre soltanto metafisica e morale. Questo miscuglio di opinioni sull’Essere supremo o sul mondo e di precetti per una vita umana (o, meglio, per due) lo chiamate religione! E chiamate religiosità l’istinto che cerca, insieme agli oscuri presagi, quelle opinioni che sono l’ultima autentica sanzione di questi precetti! Come giungete poi a ritenere quale opera in senso proprio, come individuo con origine e forza propria, una mera compilazione, una crestomazia per principianti? Come giungete a menzionarla, seppure accada solo per confutarla? Perché non l’avete già da tempo dissolta nelle sue parti e non avete ancora scoperto il deplorevole plagio? Avrei voglia di sollecitarvi con alcune domande socratiche e indurvi all’ammissione che certamente conoscete bene, nelle cose più comuni, i principî secondo cui deve essere unificato ciò che è simile e secondo cui il particolare va sussunto sotto l’universale, principî, che non volete applicare solo qui per potervi prendere gioco con il mondo di un argomento serio. Dov’è infatti l’unità in questo intero? Dove sta il principio unificante di una tanto eterogenea materia! Se esso è un’autentica forza d’attrazione, dovete allora ammettere che la religione è il vertice della filosofia, e che metafisica e morale sono sezioni a essa subordinate; infatti, ciò in cui due concetti contrapposti si uniscono non può essere altro che il concetto superiore a cui entrambi sono subordinati. Se tale obbligante principio si trova nella metafisica, se voi, per ragioni che le appartengono, avete riconosciuto un Essere supremo quale legislatore morale, distruggete in ogni caso la filosofia pratica e concedete che essa, e la religione con essa, costituisce solo un piccolo capitolo della filosofia teoretica. Se intendete sostenere il contrario, la metafisica e la religione devono essere divorate dalla morale, a cui naturalmente nulla può più riuscire impossibile, dopo che ha imparato a credere e nel tempo della sua vecchiaia si è adagiata a preparare, nel suo più intimo santuario, un posticino quieto per i segreti abbracci di due mondi che si amano. O, per caso, intendete dire che nella religione la dimensione metafisica è indipendente dalla morale, e la morale dalla metafisica; che esiste uno stupefacente parallelismo tra il teoretico e il pratico e che la religione sarebbe proprio un percepire e presentare questo parallelismo? Per quanto riguarda questo parallelismo, naturalmente, la soluzione non può trovarsi né nella filosofia pratica, giacché essa non se ne occupa per nulla, né nella filosofia teoretica, perché questa ten-

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de nel modo più zelante a inseguirlo fin dove è possibile e annientarlo, come, infatti, è suo ufficio. Ma penso che, sospinti da questo bisogno, già da qualche tempo aspirate a una suprema filosofia, in cui queste due specie si uniscono e siete sempre sul punto di trovarla; e la religione le starebbe così vicina! E la filosofia dovrebbe davvero riparare presso di essa, come affermano tanto volentieri i suoi avversari? Badate a ciò che dite! Con tutto ciò o ottenete una religione al di sopra della filosofia, così come questa si trova al momento, o dovete essere così leali da restituire alle due parti della filosofia ciò che appartiene loro e da ammettere che, per quel che riguarda la religione, non ne sapete ancora nulla. Non voglio esortarvi alla prima alternativa, poiché non posso occupare un posto che non potrei pretendere, ma vi accorderete bene con la seconda. Confrontiamoci apertamente. A voi non piace la religione, da ciò abbiamo appena preso le mosse; ma, muovendole guerra in modo corretto, guerra non certo del tutto priva di sforzo, di sicuro non volete aver battagliato contro un’ombra, come questa con cui ci siamo confrontati; essa deve pur essere qualcosa di peculiare che è potuta giungere nel cuore degli uomini, qualcosa di pensabile di cui può essere posto un concetto, di cui si può parlare e disputare, e trovo molto ingiusto che, da elementi così diversi, assembliate qualcosa di insostenibile che chiamate religione, e avanziate poi tanti inutili sforzi. Voi negherete di esservi messi all’opera perfidamente e mi ingiungerete di dichiarare tutti i documenti della religione – dal momento che io ne ho già rigettato i sistemi, i commenti, le apologie – dalle belle poesie dei Greci fino alle Sacre Scritture dei cristiani, per vedere se non troverò in ognuno di essi la natura degli dèi e la loro volontà, e se dappertutto non sia stimato quale santo e beato chi conosce la prima e adempie la seconda. Ma è questo, appunto, che vi ho detto: la religione non appare mai in forma pura, tutte queste sono soltanto le parti allotrie che le si congiungono e deve pertanto essere nostro ufficio affrancarla da esse. Anche il mondo fisico non vi fornisce una materia originaria come puro prodotto della natura – almeno che non consideriate semplici, come vi è successo qui nel mondo intellettuale, realtà molto rozze – ma poter rappresentare una materia siffatta è solo l’obiettivo infinito dell’arte analitica; e, nelle cose spirituali, ciò che è originario può essere costituito da voi solo producendolo al vostro interno per mezzo di una originaria creazione, e solo nel momento in cui lo producete. Ve ne prego, accordatevi su questo punto, che vi sarà ininterrottamente rammemorato. Ma per quel che concerne documenti e testi originali della religione, in essi tale miscuglio di metafisica e morale non è sol-

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tanto un inevitabile destino, bensì una disposizione artificiosa e una nobile intenzione. Quel che è proposto come la realtà prima e ultima, non sempre è anche la cosa vera e suprema. Sapeste, solo, leggere tra le righe! Tutti i libri sacri sono come i modesti libri, usati fino a qualche tempo fa nella nostra piccola patria, che sotto un titolo dimesso trattavano cose importanti. Annunciano di certo soltanto metafisica e morale, e alla fine tornano volentieri a ciò che hanno annunciato, spetta però a voi rompere un tale guscio. Allo stesso modo, il diamante è interamente racchiuso in un detestabile involucro, ma in verità non per rimanervi nascosto, ma proprio per essere ritrovato con maggior sicurezza. Far proseliti tra i non credenti è di certo un tratto radicato profondamente nel carattere della religione; chi comunica la propria religione non può avere altro scopo, per cui in effetti non si tratta di un pio inganno, bensì di un metodo appropriato, iniziare con ciò che è immediatamente comprensibile e sembrarne preoccupati, affinché s’infonda, occasionalmente e inavvertitamente, ciò per cui la comprensione deve essere destata. Dal momento che ogni comunicazione della religione non può essere altro che retorica, introdurla in sì buona compagnia favorisce un’abile conquista di ascoltatori. Ma questo sostegno non solo ha raggiunto il suo scopo, ma lo ha superato, dal momento che anche a voi è rimasta nascosta la sua autentica essenza sotto questo velo. È pertanto il momento di considerare una buona volta la cosa dall’altro aspetto e di iniziare con la decisa opposizione in cui la religione sta con la morale e con la metafisica. Era questo ciò che volevo. Mi avete disturbato con il vostro comune concetto; esso, come spero, è abolito, d’ora in avanti non interrompetemi più. In tal modo, per entrare in possesso di quel che è suo, la religione rinuncia a tutti i diritti su qualunque cosa appartenga alla metafisica e alla morale, e rende loro indietro tutto quello che le è stato indebitamente assegnato. Non desidera determinare e spiegare l’Universo secondo la sua natura, come la metafisica, e nemmeno perfezionarlo e portarlo a compimento attraverso la forza della libertà e del divino arbitrio dell’uomo, come la morale. La sua essenza non è né pensiero né azione, ma intuizione e sentimento.13 Essa vuole intuire l’Universo, vuole scorgerlo devotamente nelle sue esibizioni e azioni, vuole farsi cogliere e riempire dai suoi influssi immediati con infantile passività. Così essa è contrapposta alla metafisica e alla morale in tutto ciò che determina la sua essenza e in tutto ciò che caratterizza le sue azioni. Quelle nell’intero Universo scorgono solo l’uomo come centro di tutte le relazioni, condizione dell’essere e causa originaria di tutto il divenire; essa vuol vedere nell’uomo, non meno che in tut-

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ti gli altri esseri particolari e finiti, l’Infinito, il suo conio, la sua manifestazione. La metafisica prende le mosse dalla natura finita dell’uomo e, a partire dal più elementare concetto dell’uomo, vuol determinare con coscienza, dall’estensione delle forze e della sensibilità umane, ciò che l’Universo può essere per lui e come egli debba necessariamente scrutarlo. Anche la religione vive la sua intera vita nella natura, ma nella natura infinita dell’Intero, dell’Uno e del Tutto;14 quanto valga nella natura tutto ciò che è particolare e, pertanto, anche l’uomo, dove siano spinti e si trovino ogni cosa particolare e l’uomo in questo eterno fermento di singole forme ed essenze, questo essa vuol osservare e presentire nello specifico con silenziosa dedizione. La morale promana dalla coscienza della libertà, il cui regno essa vuole estendere all’infinito, assoggettandole tutto; la religione respira là dove la stessa libertà è diventata di nuovo natura, comprende l’uomo oltre il gioco delle sue forze particolari e della sua personalità e lo scorge dal punto di vista in cui egli deve essere ciò che è, lo voglia oppure no. Essa, pertanto, afferma il proprio dominio e il proprio carattere solo perché si pone interamente al di fuori della speculazione e della praxis, e solo perché si colloca a fianco di entrambe viene perfettamente riempito il campo comune e giunge a compimento la natura umana da questo lato. Essa vi si manifesta come il terzo necessario e irrinunciabile fra entrambe, come il loro corrispettivo naturale, di non minore dignità e maestà di una qualsiasi delle due. Voler essere in possesso di speculazione e praxis senza religione è spudorata arroganza, è impudente avversione agli dèi, è l’empio sentimento di Prometeo che sottrasse codardamente ciò che avrebbe potuto chiedere loro e attendere con tranquilla sicurezza.15 Solo che l’uomo ha rubato il sentimento della sua infinitudine e somiglianza a Dio, e ciò, in quanto bene illegittimamente acquisito, non può servire se egli non diviene altresì consapevole della propria limitatezza, della casualità della sua intera forma, del silenzioso scomparire della sua intera esistenza nell’incommensurabile. Anche gli dèi hanno sempre punito questa arroganza. La praxis è arte, la speculazione è scienza, la religione è sentimento e gusto per l’Infinito. Senza quest’ultima, come può la prima innalzarsi al di sopra della cerchia comune delle forme avventurose e tradizionali? Come può la seconda diventare qualcosa di meglio di uno scheletro rigido e scarno? O perché la vostra praxis, oltre il suo operare all’esterno e sull’Universo, dimentica sempre alla fine proprio di formare l’uomo? Perché voi lo contrapponete all’Universo e non lo ricevete dalla mano della religione come una

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parte di esso e qualcosa di sacro? Come giunge essa alla misera uniformità, che conosce solo un unico ideale e lo attribuisce a ogni cosa? Perché vi manca il sentimento fondamentale della natura infinita e vivente, di cui la diversità e l’individualità sono simbolo. Tutto ciò che è finito esiste solo per mezzo della determinazione dei suoi confini, che devono essere, per dir così, ritagliati dall’Infinito. Solo in tal modo, all’interno dei suoi stessi confini, esso può essere Infinito ed essere formato in modo peculiare, altrimenti perdete tutto nell’uniformità di un concetto universale. Perché la speculazione vi ha per così tanto tempo dato illusioni invece di un sistema, e parole invece di pensieri? Perché essa non fu null’altro di un vuoto gioco di formule, che si ripresentavano sempre in forma diversa e a cui non voleva mai corrispondere alcunché? Perché mancava la religione, perché non l’animava il sentimento dell’Infinito, perché la nostalgia di esso e il timore al suo cospetto non costringevano i suoi sottili, aerei pensieri ad acquisire una più solida consistenza per rimaner salda contro questo potente impulso. Tutto deve promanare dall’intuire, e a chi manca il desiderio di intuire l’Infinito manca ogni pietra di paragone e nemmeno, di certo, ne sente il bisogno per sapere se ha pensato qualcosa di giusto al riguardo. E che ne sarà del trionfo della speculazione, dell’idealismo fatto e finito, se la religione non gli procura un contrappeso e gli fa presentire un realismo superiore a quello che esso si subordina con sì pieno diritto e così audacemente? Esso annienterà l’Universo nell’atto con cui sembra costituirlo, lo degraderà a mera allegoria, a vana, ombrosa immagine della nostra medesima limitatezza.16 In modo deferente, sacrificate con me una ciocca di capelli ai Mani del santo, dello scomunicato Spinoza! Lo compenetrava il nobile spirito del mondo, l’Infinito era per lui principio e fine, l’Universo l’unico ed eterno amore; con santa innocenza e con profonda umiltà si rispecchiava nel mondo eterno, e comprendeva che anch’egli ne era lo specchio più amabile; era ricolmo di religione e di Spirito Santo e, pertanto, anch’egli si trova là, solo e irraggiungibile, maestro nella sua arte, ma elevato al di sopra della congrega profana, privo di discepoli e di cittadinanza.17 Intuizione dell’Universo – ve ne prego, familiarizzate con questo concetto – è il perno di tutto il mio discorso, è la formula più universale e alta della religione, a partire dalla quale potete trovare ogni suo punto, da cui è dato determinare nel modo più preciso la sua essenza e i suoi confini. Ogni intuire promana da un influsso dell’intuito sull’intuente, da un originario e indipendente agire del primo, che poi è recepito, sintetizzato e compreso dal secondo in conformità alla propria natura. Se i

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raggi di luce non entrassero in contatto con il vostro organo – il che accade interamente senza il vostro intervento –, se le più piccole parti dei corpi non stimolassero le punte delle vostre dita meccanicamente o chimicamente, se la pressione del peso non vi manifestasse una resistenza e un limite della vostra forza, voi non intuireste e non percepireste nulla e, pertanto, ciò che intuite e percepite non è la natura delle cose, ma la loro azione su di voi. Ciò che sapete o credete di essa, si trova ben al di là del dominio dell’intuizione. Così è per la religione; l’Universo è in un’attività ininterrotta e ci si rivela in ogni momento. Ogni forma che produce, ogni essere cui conferisce un’esistenza separata in vista della pienezza della vita, ogni avvenimento che esso partorisce dal suo ricco, sempre fecondo, seno, è un’azione compiuta su di noi; e pertanto prendere ogni singola esistenza come una parte dell’intero, tutto ciò che è limitato come una manifestazione dell’Infinito, questo è la religione; ciò però che si vuole innalzare ancora e vuol profondarsi di più nella natura e nella sostanza del tutto non è più religione e, se anche vuol essere considerato tale, ricadrà inevitabilmente nella vuota mitologia. Era dunque religione, quando gli antichi, negando le delimitazioni del tempo e dello spazio, consideravano ogni peculiare tipo di vita, sparso per il mondo intero, quale opera e regno di un Essere onnipresente; avevano colto nella sua unità un peculiare modo di agire dell’Universo e designavano così questa intuizione; era religione quando essi per ogni avvenimento propizio, in cui le eterne leggi del mondo si manifestavano nella contingenza in modo illuminante, dotavano il Dio, a cui apparteneva l’evento, di uno speciale appellativo e gli innalzavano un tempio tutto suo; avevano compreso un atto dell’Universo e designavano così la sua individualità e il suo carattere. Era religione, quando si innalzavano al di sopra della rozza età ferrea del mondo, ricolma di lacerazioni e scabrosità, e cercavano nuovamente l’età dell’oro nell’Olimpo, nella gioiosa vita degli dèi; così osservavano la sempre vivace, vitale e serena attività del mondo e del suo spirito al di là di ogni cambiamento e di ogni apparente male, che scaturisce unicamente dalla lotta delle forme finite. Ma quando tengono una fantasiosa cronaca delle genealogie di questi dèi, o quando una più tarda credenza ci fornisce una lunga serie di emanazioni e generazioni, si tratta di vuota mitologia. Rappresentare tutti gli eventi del mondo come azioni di un Dio è religione, in quanto esprime la loro relazione a un Tutto infinito, ma fantasticare sull’essere di questo Dio prima del mondo e fuori dal mondo può essere opportuno e necessario in metafisica, ma nella

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religione diventa solo vuota mitologia, un’ulteriore elaborazione di ciò che è un mezzo di esposizione, come se ciò stesso fosse l’essenziale, un uscire completamente dal proprio ambito. L’intuizione è e rimane sempre qualcosa di singolare, di distinto, l’immediata percezione, null’altro; collegarla e comporla in un intero, non è già più ufficio del senso, ma del pensiero astratto. Così la religione; essa permane presso le esperienze immediate dell’esistenza e dell’agire dell’Universo, presso le singole intuizioni e i singoli sentimenti, ognuno dei quali è un’opera per sé sussistente, senza connessione o dipendenza da altre; non sa nulla di deduzione e connessione, che, tra tutto quello in cui si può imbattere, sono ciò a cui la sua natura è più riluttante. In essa è immediato e per sé vero non solo un singolo fatto o un singolo atto, che si potrebbe denominare il suo fatto primo e originario, bensì tutto. Un sistema di intuizioni: potreste voi stessi pensare a qualcosa di più sorprendente? Si lasciano raccogliere in sistema delle visioni, e addirittura delle visioni dell’Universo? Potreste dire che si deve vedere questo in siffatto modo, perché così si è dovuto vedere quell’altro? Uno può trovarsi proprio alle vostre spalle, proprio accanto a voi, e tutto può apparirgli in modo diverso. O, forse, i possibili punti di vista, da cui uno spirito può mettersi a considerare l’Universo, sono regolarmente posti a precise distanze affinché voi possiate esaurirli ed enumerarli, e determinare esattamente la caratteristica di ciascuno? Non sono essi moltissimi, e ciascuno non è soltanto un continuo passaggio tra altri due? In tale questione parlo il vostro linguaggio; sarebbe un compito infinito e voi non siete abituati a collegare con l’espressione “sistema” il concetto di qualcosa di infinito, ma quello di qualcosa di limitato e di compiuto nella sua limitazione. Innalzatevi una buona volta – per la maggior parte di voi è certo un innalzarsi – a quell’Infinito dell’intuizione sensibile, all’ammirato e celebrato firmamento. Non vorrete forse denominare un sistema di intuizioni in quanto tali le teorie astronomiche che fanno ruotare migliaia di soli con i loro sistemi cosmici intorno a un sole comune, per il quale cercano ancora un sistema cosmico maggiore, che possa fungere da centro, e così via all’infinito, all’interno e all’esterno? L’unica cosa a cui potreste assegnare questa denominazione sarebbe l’antichissimo lavoro di quegli animi infantili che hanno fissato in immagini determinate, ma misere e poco convenienti, l’infinita quantità di questi fenomeni. Ma voi sapete che in ciò non vi è alcuna apparenza di sistema, che tra queste immagini sono continuamente scoperte nuove stelle, che anche all’interno dei loro confini tutto è indeterminato e infinito, e che esse stesse restano qualcosa di puramente arbitrario e di altamente mutevole. Se avete convinto uno a ritrarre assieme a voi l’immagine del carro sullo sfondo azzurro dei mondi, non resta nondimeno libero di unire i mondi vicini in contorni interamente diversi dai

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vostri? Questo infinito dove, di certo, ogni punto rappresenta un mondo è di fatto, proprio in quanto tale, il più conveniente e nobile simbolo della religione; in essa, come in questo, solo l’individuale è vero e necessario, niente può o deve essere dimostrato prendendo le mosse da altro, e ogni universale sotto cui deve essere posto l’individuale, ogni composizione e connessione o si attua in un territorio estraneo, se la religione deve essere rapportata a ciò che è interiore ed essenziale, o è soltanto un’opera della fantasia giocosa e di un arbitrio senza freni. Se migliaia di voi potessero avere le stesse intuizioni religiose, di certo ognuno traccerebbe contorni diversi per fissare il modo in cui le ha scorte una vicino all’altra o una dopo l’altra; in ciò non sarebbe in gioco, per dir così, il suo animo, ma solo una circostanza casuale, un’inezia. Ognuno può avere la sua personale disposizione e le sue proprie rubriche, ma da ciò l’individuale non può guadagnare né perdere, e chi davvero conosce la sua religione, e l’essenza di questa, subordinerà decisamente all’individuale ogni apparente connessione e alla connessione non sacrificherà il più minuto elemento dell’individuale. Proprio in forza di tale autonoma individualità, il dominio dell’intuizione è così infinito. Collocatevi nel punto più lontano del mondo fisico, da quel punto non solo vedrete gli stessi oggetti in un ordine diverso, e sarete pieni di confusione volendo attenervi alle vostre immagini arbitrarie precedenti che là non ritrovate; ma scoprirete ancora, in nuove regioni, oggetti completamente nuovi. Non potete dire che il vostro orizzonte, anche il più ampio, comprende tutto, e che al di là di esso non sia visibile più niente, o che nulla al suo interno si sottrae al vostro sguardo, anche al più lungimirante: voi non trovate limiti da nessuna parte e non potete neanche immaginarli. Ciò vale per la religione in un senso ancora più alto. A partire da un punto opposto, non solo avreste nuove intuizioni in luoghi nuovi, anche nel vecchio ben noto spazio, i primi elementi si unirebbero in altre configurazioni e tutto sarebbe diverso. Essa è infinita non solo per il fatto che l’agire e il subire, anche tra la stessa limitata materia e l’animo, mutano senza fine – voi sapete che questa è l’unica infinità della speculazione –, o solo perché non può, come la morale, raggiungere la perfezione all’interno, è infinita sotto ogni aspetto, un infinito della materia e della forma, dell’essere, del vedere e del sapere al riguardo. Questo sentimento deve accompagnare chiunque sia dotato davvero di religione. Ciascuno deve essere consapevole che la propria religione è solo una parte del tutto, che sugli stessi oggetti, che lo stimolano in senso religioso, si profilano prospettive che sono altrettanto pie e al contempo completamente diverse dalle sue, e

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che da elementi diversi della religione promanano intuizioni e sentimenti, per cui a lui manca forse del tutto il senso. Voi vedete con quanta immediatezza questa bella modestia, questa amichevole invitante indulgenza, trae origine dal concetto della religione, e quanto intimamente si adatta a esso. Quanto ingiustamente rivolgete dunque alla religione le vostre rampogne che sia persecutrice e piena di odio, che sconvolga la società e lasci scorrere sangue come acqua.18 Lamentatevi di ciò con coloro che pervertono la religione, che l’invadono di filosofia e vogliono costringerla nei ceppi di un sistema. Per che cosa, infatti, nella religione si è combattuto, si sono istituiti partiti e avviate guerre? A volte per la morale e sempre per la metafisica, ed entrambe non le appartengono. La filosofia ambisce bene, come vedete quotidianamente, a dotare di un sapere comune quanti vogliono sapere, la religione invece non ambisce a ricondurre a un unico credo e a un unico sentimento quanti credono e sentono. Essa aspira bene ad aprire gli occhi a coloro che non sono ancora capaci di intuire l’Universo, infatti ogni uomo che vede è un nuovo sacerdote, un nuovo mediatore, un nuovo organo; ma, appunto per questo, rifugge con renitenza la neutra uniformità che distruggerebbe nuovamente questa divina abbondanza. La ricerca del sistema certamente respinge quel che è allotrio, sia esso pure pensabile e vero, perché potrebbe corrompere le ben ordinate serie di ciò che gli pertiene e, esigendo un proprio posto, disturbare la bella connessione; in essa si trova la sede dei contrasti, deve pertanto combattere e perseguitare; infatti, nella misura in cui l’individuale è riferito nuovamente a qualcosa di singolo e finito, di certo, l’uno può distruggere, attraverso la sua esistenza, l’altro. Nell’Infinito, però, ogni individuale è posto, senza provocare disturbo, accanto all’altro, tutto è uno e tutto è vero. I fautori dei sistemi, d’altro canto, hanno provocato tutto ciò. La nuova Roma, miscredente ma conseguente, lancia scomuniche ed espelle eretici; l’antica, davvero pia e religiosa in grande stile, era liberale verso ogni divinità e divenne pertanto piena di dèi. Gli adepti della morta lettera, che la religione respinge, hanno riempito il mondo di grida e di sommosse, i veri contemplatori dell’Eterno sono sempre stati anime quiete, o sole con se stesse e con l’Infinito o, se si guardavano attorno, propense a lasciare volentieri il suo peculiare modo di condursi a chiunque avesse semplicemente compreso la grande parola. Con questo ampio sguardo e con questo sentimento dell’Infinito, tuttavia, la religione osserva anche ciò che si trova al di fuori del suo ambito e ha in sé la disposizione alla più illimitata duttilità di giudizio e di considerazione, che di fatto non si trova da nessun’altra parte. Lasciate che l’uomo sia animato da qualcosa d’altro – io non escludo l’eticità e

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nemmeno la filosofia; per esse mi richiamo alla vostra personale esperienza –, il suo pensiero e la sua aspirazione, a qualsiasi cosa siano orientate, gli abbozzano intorno un cerchio limitato, nel quale è incluso il suo massimo bene, e al cui esterno tutto gli appare comune e indegno. Chi vuol pensare solo sistematicamente e agire secondo principio e fine, per attuare nel mondo l’una o l’altra cosa, circoscrive irrimediabilmente se stesso e si trova sempre contro, quale ripugnante oggetto, ciò che non favorisce i suoi interessi. Solo l’impulso a intuire, purché sia orientato all’Infinito, dispone l’animo in una libertà sconfinata, solo la religione lo salva dalle turpissime catene dell’opinione e della cupidigia. Tutto ciò che è, è per essa necessario, e tutto ciò che può essere, è per essa una vera e irrinunciabile immagine dell’Infinito; purché uno trovi il punto da cui diventa possibile scoprire la sua relazione con esso. Per quanto qualcosa sia deprecabile in altri rapporti o in se stessa, a questo riguardo è sempre degna di esistere e di venire conservata e considerata. Per un animo pio la religione rende tutto santo e degno di valore, perfino la stessa profanità e meschinità, tutto quello che comprende e non comprende, tutto quello che si trova nel sistema dei suoi propri pensieri e si accorda con i suoi modi d’agire oppure no; essa è l’unica e giurata nemica di ogni pedanteria e unilateralità. Infine, per completare l’immagine generale della religione, ricordatevi che ogni intuizione, secondo la sua natura, è collegata con un sentimento. I vostri organi mediano la connessione tra l’oggetto e voi, l’influsso stesso dell’oggetto, che vi rivela la sua esistenza, deve stimolarli in qualche modo e causare un mutamento nella vostra coscienza interna. Questo sentimento, di cui voi certamente spesso non siete nemmeno consapevoli, in altri casi può raggiungere una tale veemenza da indurvi a dimenticare per esso l’oggetto e voi stessi; il vostro intero sistema nervoso può esserne pervaso in modo tale che la sensazione vi domina a lungo da sola ed echeggia a lungo, e oppone resistenza all’effetto di altre impressioni; ma che in voi venga prodotta un’azione e messa in moto la spontaneità del vostro spirito, non lo ascriverete comunque agli influssi degli oggetti esterni? Voi concederete che ciò stia ben al di sopra del potere anche dei sentimenti più forti e debba avere in voi una fonte del tutto diversa. Così la religione; le stesse azioni dell’Universo, attraverso cui vi si rivela nel finito, pongono anche l’Universo in un nesso nuovo con il vostro animo e la vostra condizione; dal momento che lo intuite dovete anche essere afferrati da varî sentimenti. Solo che nella religione ha luogo un diverso e più solido rapporto tra l’intuizione e il sen-

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timento, e quella non sopravanza mai così tanto che questo sia quasi cancellato. Non è ben un miracolo se, al contrario, il mondo eterno opera sugli organi del nostro spirito come il sole sul nostro occhio? Non è ben un miracolo se ci abbaglia in modo tale che non solo in quell’istante sparisce tutto il resto, ma perfino tutte le cose, che per lungo tratto prendiamo in considerazione, sono contrassegnate dalla sua immagine e pervase dal suo splendore? Come il modo particolare in cui l’Universo vi si manifesta nelle vostre intuizioni rende peculiare la vostra religione individuale, così la forza di questi sentimenti determina il grado della religiosità. Quanto più è sano il senso, tanto più acutamente e precisamente coglierà ogni impressione; quanto più è ardente la sete, quanto più è inarrestabile l’impulso ad abbracciare l’Universo, con tanta maggiore varietà l’animo stesso ne sarà commosso ovunque e continuamente, tanto più perfettamente queste impressioni lo attraverseranno e tanto più facilmente si risveglieranno sempre e conserveranno il predominio su tutte le altre. Il campo della religione da questo lato si estende sì tanto che i suoi sentimenti devono possederci, noi li dobbiamo esprimere, fissare, rappresentare; se con essi volete però qualcosa in più, che causino azioni autentiche e sospingano alle gesta, vi trovate allora in un campo straniero; e se ciononostante ritenete questo la religione, siete allora precipitati, per quanto il vostro comportamento paia ragionevole o lodevole, nell’empia superstizione. Ogni autentico agire deve e può anche essere morale, ma i sentimenti religiosi devono accompagnare, come una musica sacra, ogni azione dell’uomo, che deve fare tutto con religione, niente per religione. Se non capite che ogni azione deve essere morale, aggiungo allora che ciò vale anche per tutto il resto. L’uomo deve agire con tranquillità, e ciò che intraprende sia eseguito con ponderazione. Interrogate l’uomo morale, il politico, l’artista, tutti diranno che questa è la loro prima regola; ma la tranquillità e la ponderazione sono perdute se l’uomo si lascia spingere all’azione per mezzo dei forti e sconvolgenti sentimenti della religione. È, altresì, innaturale che questo succeda, i sentimenti religiosi per loro natura ottundono il dinamismo dell’uomo e lo invitano al godimento silenzioso e devoto; pertanto, anche gli uomini più religiosi, cui mancavano altri impulsi all’azione, e che non erano altro che religiosi, hanno abbandonato il mondo e si sono dedicati completamente alla contemplazione inattiva. L’uomo deve avere il controllo di sé e dei suoi devoti sentimenti prima che questi gli carpiscano delle azioni, e io posso solo richiamarmi a voi, dal momento che fa parte delle vostre accuse che, per questa via, siano state compiute così tante azioni insensate e innaturali. Vedete, non vi pongo solo di fronte a queste azioni, ma anche a quelle eccelse e più lodevoli. Che siano praticate usanze insensate o compiute opere buone, che gli uomini vengano sgozzati su altari sangui-

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nanti o innalzati con mano benefica, che la vita sia vissuta in spenta inerzia o in un faticoso avvicendamento d’azioni privo di gusto o, ancora, in un leggero ed esuberante piacere sensuale, queste sono, se si parla di morale o di vita e di relazioni mondane, cose estremamente diverse; ma se devono appartenere alla religione e promanare da essa sono tutte simili, son solo, l’una e l’altra, servile superstizione. Riprovate chi si lascia condizionare nel suo comportamento verso un uomo dall’impressione che gli suscita, non volete neppure che il più giusto sentimento di mutua gratitudine ci debba spingere ad azioni per cui non abbiamo una ragione migliore; allora è anche da riprovare colui le cui azioni, che dovrebbero sempre essere orientate al Tutto, sono determinate soltanto dai sentimenti in lui risvegliati proprio da questo Tutto; questi viene indicato come uno che sacrifica la sua dignità, non solo dal punto di vista morale, in quanto lascia spazio a ragioni esterne, ma anche dal punto di vista della religione stessa, perché smette di essere quel che solo ai suoi occhi gli assegna un valore peculiare, una libera e per forza propria attiva parte del Tutto. Questo totale malinteso, secondo cui la religione dovrebbe agire, non può essere simultaneamente altro che un orribile abuso e, quale che sia l’obiettivo cui pure volge la sua attività, non può che sfociare in sciagura e disgrazia. Ma avere l’anima piena di religione nel calmo agire, che deve scaturire da una propria sorgente, è questo lo scopo dell’uomo pio. Soltanto spiriti malvagi, non buoni, possiedono l’uomo e lo forzano, e la legione degli angeli, di cui il Padre celeste aveva equipaggiato suo Figlio, non era in lui, ma attorno a lui;19 non lo aiutava nelle sue azioni e omissioni, e nemmeno doveva farlo, ma inculcava letizia e quiete nell’anima stanca di agire e di pensare; certamente egli l’ha qualche volta smarrita, negli istanti in cui la sua intera forza era orientata all’azione, ma poi essa gli spirava di nuovo intorno in gioviale mischia e lo serviva.20 Prima, però, che vi introduca nella singolarità di queste intuizioni e sentimenti, che deve comunque essere il mio successivo compito nei vostri confronti, permettetemi di lamentare per un istante il fatto che io non possa parlarvi di entrambi in altro modo che separatamente; per questo, il più fine spirito della religione va perso nel mio discorso, e io posso svelare il suo più intimo mistero solo in modo tentennante e incerto. Ma una necessaria riflessione li separa, e chi può parlare di qualcosa che appartiene alla coscienza senza prima passare per questa via? Non solo, quando comunichiamo un’azione interiore dell’animo, anche quando ne

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facciamo materia di considerazione personale, volendola innalzare a perspicua coscienza, si verifica subito questa inevitabile separazione: il fatto si mischia con la coscienza originaria della nostra duplice attività, quella dominante e operante verso l’esterno e quella designante e raffigurante, che sembra invece porsi a servizio delle cose; e, nel momento in cui si attua questo contatto, la più semplice materia si divide in due elementi contrapposti: gli uni confluiscono nell’immagine di un oggetto, gli altri penetrano fin nel centro della nostra essenza, vi fermentano con i nostri impulsi originari e sviluppano un sentimento effimero. Nemmeno con l’opera più intima del senso religioso possiamo sottrarci a questo destino; in nessun altro modo che in questa forma separata possiamo portarne i prodotti nuovamente alla superficie e comunicarli. Solo non si pensi – è proprio questo infatti uno dei più pericolosi errori – che le intuizioni e i sentimenti religiosi debbano essere anche originariamente, nella prima azione dell’animo, così separati come qui purtroppo dobbiamo ritenerli. L’intuizione senza il sentimento è niente e non può avere né la giusta origine né la giusta forza, anche il sentimento senza l’intuizione è niente: entrambi sono qualcosa solo quando e perché sono originariamente uno e indivisi. Quel primo misterioso istante, che si verifica in ogni percezione sensibile prima ancora che l’intuizione e il sentimento si dividano, in cui il senso e il suo oggetto sono, per dir così, compenetrati l’uno nell’altro, e sono divenuti “uno solo”, prima ancora che entrambi facciano ritorno al loro posto originario – so fino a che punto sia indescrivibile, e quanto velocemente trascorra, ma vorrei che poteste fermarlo e riconoscerlo anche nella somma e divina attività religiosa dell’animo. Ma sapessi e potessi io esprimerlo, almeno alludervi, senza dissacrarlo! Esso è sfuggente e diafano come il primo effluvio di cui la rugiada cinge i fiori appena sbocciati, è pudico e delicato come un bacio verginale, benedetto e prolifico come un abbraccio sponsale; in verità non è come, ma esso stesso è tutto questo. Celermente e in maniera incantevole, un fenomeno, un avvenimento si sviluppa in un’immagine dell’Universo. Non appena si costituisce la figura amata e sempre bramata, la mia anima le si fa incontro, e io l’abbraccio non come un’ombra, ma come lo stesso sacro Essere. Sono disteso sul seno del mondo infinito: in quest’istante sono la sua anima, giacché sento tutte le sue forze e la sua vita infinita come fossero mie; in quest’istante esso è il mio corpo, giacché penetro i suoi muscoli e le sue membra come fossero miei, e i suoi più interni nervi si muovono, come i miei, assecondando il mio senso e il mio presenti-

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mento. La più piccola scossa e il sacro abbraccio è sciolto; adesso, per la prima volta, l’intuizione mi sta di fronte come una forma separata; io la pondero e lei si rispecchia nell’anima aperta come l’immagine dell’amata fuggente si riflette nell’occhio sbarrato del giovane; e solo ora il sentimento s’innalza dall’intimo e si espande come il rossore della vergogna e del piacere sulla sua guancia. Questo momento è il sommo rigoglio della religione. Sapessi crearlo per voi, sarei un Dio – il sacro destino mi perdoni soltanto di aver dovuto svelare cose più importanti dei misteri eleusini. È l’ora di nascita di tutto ciò che è vitale nella religione. Con ciò siamo, però, come al primo stadio della coscienza dell’uomo, che si ritrae nell’oscurità di una creazione originaria ed eterna e lascia all’uomo solo ciò che essa ha prodotto. Io posso presentarvi solo le intuizioni e i sentimenti che si sviluppano da tali momenti. Ma vi sia detto: se anche intendete perfettamente queste intuizioni e questi sentimenti, se anche credete di averli in voi con nitidissima coscienza, ma non sapete e non potete mostrare il fatto che sono nati in voi da tali istanti e originariamente sono stati una cosa sola e indivisa, allora non proseguite a voler persuadere voi stessi e me; le cose non stanno così, dato che la vostra anima ne è stata fecondata, essendo essi solo figli putativi nati da altre anime, che voi avete adottato nel segreto sentimento della vostra debolezza. Quali profani e distanti da ogni vita divina, vi indico coloro che vanno in giro vantandosi in tal maniera della religione. Qui, l’uno è in possesso di intuizioni del mondo e formule che le devono esprimere, l’altro di sentimenti e intime esperienze con cui li documenta. Quello ammucchia le sue formule una sull’altra e questi intesse un ordine di salvezza dalle sue esperienze, e ora la disputa riguarda quanti concetti e spiegazioni, e quante commozioni e sensazioni, si debbano accogliere, al fine di comporne una buona religione che non sia né fredda né fanatica. Voi, pazzi e di cuore accidioso, non sapete che tutte queste cose non sono altro che disgregazioni del sentimento religioso che la vostra personale riflessione ha dovuto eseguire? E se voi ora non siete coscienti di aver avuto qualcosa che quella riflessione poteva disgregare, donde l’avete mai? Avete memoria e imitazione, ma non religione. Non avete prodotto le intuizioni di cui conoscete le formule, ma queste sono apprese e memorizzate, e i vostri sentimenti sono imitati mimicamente come fisionomie estranee, pertanto sono solo caricature. E con queste parti necrotizzate e degenerate volete comporre una religione. Si possono certo scomporre i liquidi di un corpo organico nei loro elementi più prossimi; ma prendete ora que-

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sti elementi separati, li mescolate e li trattate in qualsivoglia proporzione e modo, potrete nuovamente ricavare da ciò il sangue cardiaco? Potrà, ciò che è morto, tornare a muoversi in un corpo vivente e unirsi a esso? Ogni arte umana è impotente a restituire i prodotti della natura vivente dai suoi elementi separati, e ciò non vi riuscirà nemmeno con la religione anche se ne possedete perfettamente dall’esterno i singoli elementi, essa non può che promanare dall’interno. La vita divina è come una pianta delicata, i cui fiori sono fecondati nel bocciolo ancora socchiuso, e le intuizioni e i sentimenti sacri, che voi potete disseccare e serbare, sono i bei calici e le belle corolle, che si aprono subito dopo quella arcana azione ma, pure, si distaccano avvizziti. Dalla pienezza della vita intima però ne germinano sempre nuovi – giacché la pianta divina costituisce attorno a sé un clima paradisiaco a cui nessuna stagione nuoce –, mentre gli antichi fiori, grati, si diffondono e adornano il terreno che copre le radici da cui furono nutriti e profumano ancora, in amabile ricordo, il fusto che li portò. Con questi boccioli e corolle e calici, vi voglio ora intrecciare una santa corona. Alla natura esterna, che da così tanti è ritenuta il primo e sommo tempio della Divinità, il santuario più intimo della religione, vi conduco soltanto come al suo atrio più esterno. Né il timore per le forze materiali, che vedete impiegate su questa terra, né la gioia per le bellezze della natura corporea devono o possono darvi la prima intuizione del mondo e del suo spirito. Né nel tuono del cielo né nelle onde spaventose del mare dovete riconoscere l’Essere onnipotente, né nella lucentezza dei fiori né nello splendore del tramonto rosseggiante dovete riconoscere l’Essere amabile e pieno di bontà. Può capitare che entrambi, il timore e il gioioso piacere, abbiano inizialmente preparato alla religione i rozzi figli della terra, ma queste sensazioni non sono di per sé religione. Tutti i presentimenti dell’invisibile, che sono giunti agli uomini in questo modo, non erano religiosi, ma filosofici, non intuizioni del mondo e del suo spirito – giacché essi sono solo sguardi sull’individuale incomprensibile e incommensurabile –, ma ricerca e indagine della causa originaria e della forza prima. Con questi rudimentali cominciamenti della religione le cose stanno come con tutto ciò che pertiene alla semplicità originaria della natura. Solo fintanto che la semplicità rimane, essi sono in grado di commuovere l’animo in tal modo. Al vertice della perfezione, a cui noi però non siamo ancora, ritornano forse trasformati per mezzo dell’arte e della volontà in una forma superiore; sulla via dell’educazione tuttavia vanno irrimediabilmente e for-

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tunatamente perduti, giacché ne raffrenerebbero soltanto il corso. Noi ci troviamo su questa via e pertanto, attraverso queste commozioni dell’animo, non può giungerci alcuna religione. È questo il grande scopo di tutto l’impegno profuso nella lavorazione della terra, che sia distrutto il dominio delle forze naturali sull’uomo, e abbia termine il terrore che si prova al loro cospetto; come possiamo, dunque, intuire l’Universo in ciò che proviamo a sottomettere e in parte abbiamo già sottomesso? I fulmini di Giove non terrorizzano più da quando Vulcano ci ha forgiato uno scudo contro di essi. Vesta protegge ciò che ha strappato a Nettuno dagli assai rabbiosi fendenti del suo tridente, e i figli di Marte si uniscono con quelli di Esculapio per proteggerci dai celeri e mortali dardi di Apollo. Così, di quegli dèi, creati dal terrore, uno distrugge l’altro e da quando Prometeo ci ha insegnato a ingannare ora l’uno ora l’altro, l’uomo se ne sta in trionfo, sorridendo della loro guerra generale. Amare lo spirito del mondo e con gioia contemplare il suo operare, ecco lo scopo della nostra religione, e non vi è timore nell’amore.21 Non è diversa la situazione con quelle bellezze del globo terrestre, che l’uomo abbraccia nella fanciullezza con così profondo amore. Cos’è quel delicato gioco di colori, che allieta il vostro occhio in tutti i fenomeni del firmamento e per un attimo costringe con sì tanta soddisfazione lo sguardo sui più amabili prodotti della natura vegetale? Cos’è, non nel vostro occhio, ma nell’Universo e per l’Universo? Giacché voi dovete di certo interrogarvi se ciò deve significare qualcosa per la vostra religione. Esso scompare come un’apparenza casuale appena pensate alla materia sparsa ovunque, di cui accompagna le evoluzioni. Riflettete che voi, in una cantina buia, potete derubare la pianta di tutte queste bellezze, senza distruggerne la natura; riflettete che la magnifica apparenza, con cui la vostra intera anima vive in simbiosi, non è nulla di diverso dal fenomeno per cui uguali correnti di luce si limitano a rifrangersi in un più grande mare di vapori terrestri; riflettete che gli stessi raggi meridiani, di cui non sopportate il bagliore, appaiono a quanti sono a oriente come il tramonto fiammeggiante – e dovete aver presente ciò, se volete considerare queste cose nel Tutto –, troverete allora che questi fenomeni, per quanto fortemente vi tocchino, non sono certo adeguati a intuizioni del mondo. Forse un giorno, a un livello superiore, troveremo espanso e dominante nell’intero spazio cosmico ciò a cui qui sulla terra dobbiamo assoggettarci, e allora ci gremirà un sacro brivido per l’unità e l’onnipresenza anche della forza fisica; forse un

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giorno scopriremo con meraviglia anche in questa apparenza il medesimo spirito che anima il Tutto; ma ciò sarà qualcosa di diverso e di superiore rispetto a questo terrore e a questo amore, e ora quelli tra voi che sono eroi della ragione non hanno bisogno di motteggiare sul fatto che li si voglia condurre alla religione mediante la sottomissione alla morta materia e attraverso la vuota poesia, e le anime sensibili non devono credere che sia così facile pervenire a essa. Nella natura fisica vi è qualcosa da intuire che, di certo, è più essenziale di questo. La sua infinità, le immani masse disseminate in quell’incalcolabile spazio, che compiono percorsi incommensurabili, non suscita forse nell’uomo un profondo rispetto al cospetto del pensiero e alla vista del mondo? Solo, vi prego, non ascrivetemi alla religione ciò che percepite qui. Lo spazio e la massa non costituiscono il mondo e non sono la materia della religione; cercare in ciò l’infinità corrisponde a un modo infantile di pensare. Quando la metà di quei mondi non era ancora scoperta, quando anzi non si sapeva ancora che i punti luminosi fossero corpi cosmici, pure l’Universo non era meno meraviglioso da ammirare di ora, e per il dispregiatore della religione non vi era una scusa migliore di quella cha ha ora. A questo riguardo, il più limitato dei corpi non è tanto infinito quanto tutti quei mondi? L’inadeguatezza dei vostri sensi non può essere l’orgoglio del vostro spirito; e che cosa ne fa lo spirito di numeri e grandezze, dal momento che può riassumere in piccole formule la loro intera infinità e può annoverarli con le cose più insignificanti? Ciò che, di fatto, si rivolge al senso religioso nel mondo esterno non sono le sue masse, ma le sue leggi. Innalzatevi allo sguardo in cui le leggi abbracciano ogni cosa, la più grande e la più piccola, i sistemi cosmici e il granello che volteggia instabilmente nell’aria, e dite poi se non intuite l’unità divina e l’invariabilità eterna del mondo. Ciò che, in primo luogo, l’occhio comune percepisce di queste leggi, l’ordine in cui tutti i movimenti si ripetono in cielo e sulla terra, il corso fisso delle stelle e il regolare andirivieni di tutte le forze organiche, la perpetua infallibilità nella regola del meccanismo e l’eterna uniformità nello sforzo della natura plastica; ciò, in questa intuizione dell’Universo, è esattamente la cosa meno importante. Quando voi prendete a considerare solo un singolo elemento di una rilevante opera d’arte e nelle singole parti di questo elemento, considerate nuovamente per sé, percepite lineamenti e rapporti belli, che sono racchiusi in questo elemento e la cui regola si lascia scorgere interamente a partire da esso, non vi parrà allora che il singolo elemento sia, più che una parte, un’opera a sé stante? E non riterrete che al Tutto, se esso è completamente elaborato nel

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medesimo stile, debba mancare slancio e baldanza e tutto ciò che lascia presagire uno spirito grande? Dove dovete presagire una sublime unità, una connessione pensata grandiosamente, lì devono darsi, nel singolo oggetto, vicino alla tendenza generale all’ordine e all’armonia, rapporti che non si lasciano comprendere interamente a partire dall’oggetto stesso. Anche il mondo è un’opera di cui voi scorgete soltanto una parte, e se tale parte fosse perfettamente ordinata e compiuta in se stessa, non potreste formarvi un alto concetto del Tutto. Vedete che ciò che spesso deve servire a ricusare la religione ha piuttosto per essa, nell’intuizione del mondo, un valore più grande dell’ordine che ci si presenta per primo e che si lascia scorgere entro una più piccola parte. Solo divinità inferiori, vergini servienti, nella religione degli antichi avevano in custodia ciò che si ripete regolarmente, il cui ordine era già stato trovato, ma le deviazioni che non si comprendevano, le rivoluzioni per le quali non esistevano leggi erano, appunto, opera del Padre degli dèi. Le perturbazioni nel corso degli astri rimandano a un’unità superiore, a una connessione più audace rispetto a quella di cui ci siamo già accorti per la regolarità dei loro itinerari, e le anomalie, i giochi oziosi della natura plastica, ci costringono a vedere che essa tratta le sue forme più definite con un arbitrio, per dir così, con una fantasia, di cui potremmo scoprire le regole solo da un punto di vista più alto. Quanto siamo ancora distanti da quello che sarebbe il punto di vista supremo e quanto dunque ci rimane imperfetta questa intuizione del mondo! Esaminate la legge, secondo cui nel mondo dappertutto, fin dove giungete a dominarlo con lo sguardo, il vivente si rapporta a ciò che rispetto a esso bisogna considerare morto, e scorgete come tutto si nutra e nella propria vita assimili con forza la morta materia, come ci si accalchi da ogni parte la riserva stipata per tutti i viventi, riserva che non giace lì inerme ma, vivendo anch’essa, si riproduce sempre di nuovo, come, con tutta la varietà delle forme di vita e l’immane quantità di materie che ognuna alternativamente consuma, ciascuna tuttavia ne abbia abbastanza per compiere il ciclo della propria esistenza e soccomba soltanto a un destino interno e non a una scarsità esterna – quale infinita pienezza si esprime in tutto ciò – quale sovrabbondante ricchezza! Come siamo presi dall’impressione della previdenza materna e dalla certezza infantile di condurre una dolce vita priva di preoccupazioni nel mondo pieno e ricco! Guardate i gigli nel campo, che non sono seminati e raccolti, eppure il Padre vostro celeste li nutre;22 non preoccupatevi pertanto. Questa gaia visione, questo giocondo, lieve, sentimento era la cosa suprema, anzi l’unica, che uno dei più grandi eroi della religione ha assunto per i suoi seguaci dall’intuizione della natura;

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quanto, dunque, la natura per lui dev’essere posta soltanto nel vestibolo della religione! – Certamente l’intuizione della natura concede un ricavo maggiore a noi, cui un’epoca più ricca ha concesso di inoltrarsi più a fondo nel suo intimo; le sue forze chimiche, le leggi eterne secondo cui i corpi stessi sono costituiti e disgregati, son queste le cose in cui intuiamo nel modo più nitido e sacro l’Universo. Osservate come attrazione e repulsione determinano tutto e siano ovunque continuamente attive; come ogni differenza e opposizione siano solo apparenti e relative, e ogni individualità solo un nome vuoto; osservate come tutto ciò che è uguale tenda a nascondersi e a suddividersi in migliaia di forme diverse, e come da nessuna parte trovate qualcosa di semplice, ma tutto è composto e intrecciato artisticamente; è questo lo spirito del mondo, che si manifesta nelle cose più piccole esattamente tanto perfettamente e visibilmente come nelle più grandi; questa è un’intuizione dell’Universo, che si sviluppa da ogni cosa e commuove l’animo, e solo colui che la scorge effettivamente in ogni dove, non solo in tutti le trasformazioni, ma anche in ogni esistenza stessa, non trova altro che un’opera di questo spirito e un’esibizione e un compimento di queste leggi; solo per costui tutto ciò che è visibile è anche realmente mondo costituito, plasmato, dalla Divinità, ed è uno. Nella situazione di una completa assenza di tutte le conoscenze, conoscenze che al contrario glorificano il nostro secolo, non mancava certo già ai più antichi savi della Grecia questa visione della natura, a chiara dimostrazione del fatto che tutto ciò che è religione respinge e rinuncia facilmente a ogni aiuto esterno; e se questa visione fosse stata infusa dai saggi al popolo, chi sa quale sublime corso avrebbe preso la sua religione! Ma cosa sono amore e avversione? Cosa sono individualità e unità? Questi concetti, per cui la natura diviene per voi intuizione del mondo in senso proprio, li traete dalla natura? Non provengono in origine dall’interiorità dell’animo e non sono rivolti a esso? Perciò l’animo è anche ciò a cui propriamente guarda la religione e da cui essa trae le intuizioni del mondo; nella vita interiore si riflette l’Universo e soltanto attraverso l’interno diviene comprensibile l’esterno. Ma anche l’animo, quand’esso debba produrre e alimentare la religione, deve essere intuito all’interno di un mondo. Lasciatemi rivelare un segreto, che giace nascosto in uno dei più antichi documenti dell’arte poetica e della religione. Fintanto che il primo uomo era da solo con sé e con la natura, la Divinità lo governava, gli parlava in modi diversi, ma egli non la comprendeva e quindi non le risponde-

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va; il suo paradiso era bello, e da un bel cielo gli risplendevano gli astri, ma non gli si manifestava il senso del mondo, che non si sviluppava nemmeno dall’interiorità della sua anima; piuttosto, il suo animo era mosso dalla nostalgia di un mondo, e così radunò innanzi a sé le creature animali per vedere se poteva formarsene uno. Allora la Divinità riconobbe che il suo mondo non sarebbe stato nulla, fintanto che l’uomo fosse rimasto da solo, per cui gli creò un aiuto, e soltanto ora si svegliarono in lui accenti vivi e arguti, soltanto ora il mondo si manifestò ai suoi occhi. Nella carne della sua carne e nelle ossa delle sue ossa egli scoprì l’umanità e, nell’umanità, scoprì il mondo; da quest’istante in avanti gli riuscì di sentire la voce della Divinità e di risponderle, e la più sacrilega trasgressione delle sue leggi non lo escluse più, d’ora in avanti, dal suo scambio con l’Essere eterno.23 La storia di tutti noi è raccontata in questa sacra leggenda. Tutto esiste inutilmente per chi sta da solo; infatti, per intuire il mondo e avere la religione, l’uomo deve prima di tutto aver trovato l’umanità, e la trova soltanto nell’amore e mediante l’amore. Per questo entrambe sono tanto intimamente e inseparabilmente unite; la nostalgia della religione è ciò che lo aiuta a godere della religione. Ciascuno abbraccia nel modo più affettuoso colui nel quale il mondo si specchia nella maniera più nitida e pura; ognuno ama nel modo più cordiale colui nel quale crede di trovar convogliato tutto quello che manca a lui stesso per portare a compimento l’umanità. Lasciate dunque che ci addentriamo nell’umanità, lì troviamo materia per la religione. Qui anche voi vi trovate nella vostra patria più autentica e amata, qui vi si palesa la vostra vita più intima, qui vedete davanti a voi lo scopo di tutto il vostro aspirare e fare, e contemporaneamente sentite la spinta interna delle vostre forze, che vi conduce continuamente verso questo scopo. L’umanità stessa è per voi propriamente l’Universo, e voi tenete conto di tutto il resto solo nella misura in cui entra in rapporto con questo come con quella e li attornia. Neppure voglio condurvi al di fuori di questo punto di vista; ma mi ha spesso addolorato interiormente che, pur con tutto l’amore e tutta l’abnegazione per l’umanità, siate sempre in contrasto con essa e da essa separati. Voi vi preoccupate di migliorarla e costituirla ciascuno a proprio modo e alla fine, dispiaciuti, lasciate stare ciò che non vuol pervenire ad alcun fine. Posso dire che anche questo deriva dalla vostra mancanza di religione. Voi volete agire sull’umanità e guardate agli uomini, ai singoli. Questi vi spiacciono in sommo grado; e tra le mille cause possibili che ciò può avere, la più bella, che si addice ai migliori, è senz’altro quella che siete, a modo vostro, sin troppo morali. Considerate gli uomini singolarmente e così avete anche un ideale di un individuo, a cui però essi non corrispondono. Tutto questo, nel suo insieme, è un erroneo cominciamento e con la religione vi trovereste molto meglio. Poteste solo cercare di

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cambiare gli oggetti della vostra azione e della vostra intuizione! Agite sugli individui ma, con la vostra riflessione, innalzatevi sulle ali della religione più in alto, fino all’umanità infinita, indivisa; cercatela in ogni individuo, considerate l’esistenza di ciascuno come una rivelazione, a voi, dell’umanità, può allora non restare traccia di tutto quello che ora vi angustia. Anch’io per lo meno mi vanto di una disposizione morale, anch’io so apprezzare l’eccellenza umana, e ciò che è abietto, considerato per sé, può arrivare a riempirmi di uno spiacevole sentimento di disprezzo; ma di tutto ciò la religione mi offre una visione addirittura grande e nobile. Immaginatevi il Genio dell’umanità come il più perfetto e universale artista. Egli non può fare niente che non abbia un’esistenza peculiare. Anche dove sembra solo provare i colori e affinare il pennello, si stagliano vivi e importanti lineamenti. Egli crea così innumerevoli figure e conferisce loro forma. Molte di esse portano il costume del tempo e sono immagini rispondenti dei suoi bisogni e del suo gusto; in altre si manifestano ricordi del mondo trascorso o presagi di un futuro lontano; alcune sono l’impressione più sublime e felice di ciò che è più bello e divino. Altre sono prodotti grotteschi dell’umore più originale e instabile di un virtuoso. È un’opinione irreligiosa quella che egli appresti vasi per un uso onorevole e vasi per un uso indegno;24 voi non dovete considerare nulla singolarmente, ma rallegratevi di ciascuno secondo il posto in cui si trova. Tutto ciò che può essere contemporaneamente percepito e sta, per dir così, su un foglio, appartiene a una grande immagine storica che esibisce un momento dell’Universo. Volete disprezzare ciò che mette in risalto i gruppi principali e dà vita e compiutezza al tutto? Le singole forme celesti non devono essere magnificate per il fatto che mille altre si piegano davanti a esse, e per il fatto che si vede come tutto guardi e si rapporti a esse? Vi è, in effetti, in questa rappresentazione qualcosa di più che un mero raffronto. L’umanità eterna è indefessamente intenta a plasmare se stessa e a presentarsi, nel modo più vario, nella fuggevole apparizione della vita finita. Cosa sarebbe rispetto all’infinita varietà delle manifestazioni umane la ripetizione uniforme di un sommo ideale, in cui di certo gli uomini, prescindendo dal tempo e dalle circostanze, sono veramente una cosa sola, la medesima formula dotata solo di altri coefficienti? Prendete un qualsivoglia elemento dell’umanità, e lo troverete in ogni possibile condizione, a partire quasi dalla sua purezza – dato che questa non può essere trovata da nessuna parte nella sua interezza –, in tutte le fusioni con ogni altro elemento, pressoché fino

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alla più intrinseca saturazione con tutti gli altri – giacché anche questa è un estremo irraggiungibile –, e troverete la fusione compiuta in ogni possibile modo, in ogni varietà e in ogni rara combinazione. E se ancora potete figurarvi connessioni che non vedete, anche questo vuoto è una rivelazione negativa dell’Universo, un’allusione che, nel grado richiesto, questa fusione non è possibile nell’attuale temperatura del mondo, e la vostra fantasia al riguardo è una visione che oltrepassa i confini attuali dell’umanità, una vera ispirazione divina, una profezia non intenzionale e inconsapevole su come sarà il futuro. Ma come ciò che sembra mancare alla infinita molteplicità richiesta non è in realtà troppo poco, così non è neppure troppo quello che tale vi appare dal vostro punto di vista. La religione proclama una vuota apparenza quella sovrabbondanza, tanto spesso deprecata, delle forme più comuni dell’umanità che tornano sempre uguali in migliaia di copie. L’intelletto eterno ordina, e anche l’intelletto finito può capirlo, che quelle forme, in cui è difficilissimo distinguere l’individualità, devono stare più fittamente stipate le une alle altre; ma ciascuna ha qualcosa di peculiare: nessuno è uguale all’altro, e nella vita di ciascuno vi è un qualche momento in cui egli, come il riflesso di un rozzo metallo, sia attraverso l’intima approssimazione di un’essenza superiore o attraverso una qualsiasi scossa elettrica, è innalzato al di sopra di se stesso e posto sulla vetta più alta di ciò che può essere. Egli era fatto per questo istante, in esso raggiunse la sua destinazione e, dopo di ciò, l’esaurita forza vitale torna a inabissarsi. È un singolare godimento procacciare ad anime semplici questo momento o considerarle alla luce di esso, ma a chi ciò non è mai successo, l’intera esistenza deve sembrare inutile e deplorevole. Pertanto, l’esistenza di ciascuno ha un duplice senso in rapporto al tutto. Se io fermo col pensiero il corso di quell’instancabile processo per cui tutte le cose umane sono intrecciate tra loro e sono rese reciprocamente dipendenti, ogni individuo, secondo la sua intima essenza, diventa un elemento integrativo necessario per l’intuizione perfetta dell’umanità. L’Uno mi mostra come ogni piccola parte separata di essa, se solo l’interno impulso di costituzione che anima il tutto vi può continuare a operare tranquillamente, si determini in forme delicate e regolari; l’altro come, per carenza di calore vivificante e unificante, l’asprezza della materia terrestre non possa essere superata, o come, in un’atmosfera sovraccarica, lo spirito più intimo sia perturbato nella sua azione e tutto diventi invisibile e inconoscibile; l’uno appare come la parte rozza e animale dell’umanità, mossa appunto dai primi impulsi impacciati dell’umano; l’altro, come il purissimo spirito distil-

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lato che, separato da tutto ciò che è inferiore e immeritevole, semplicemente ondeggia con piede leggero sulla terra; e tutti esistono per mostrare, con la loro esistenza, come queste differenti parti dell’umana natura operino divise e in piccolo. Non basta che, entro questa innumerevole quantità, vi siano sempre alcuni che, come distinti e superiori rappresentanti dell’umanità, suonano, l’uno questo, l’altro quello, dei melodici accordi che non necessitano di un accompagnamento estraneo e di una successiva armonizzazione ma, mediante la loro armonia interna, entusiasmano e allietano con un solo suono tutta l’anima? Se osservo le ruote eterne dell’umanità nel loro corso, questo concatenarsi a perdita d’occhio, dove nulla di ciò che è mosso è mosso solo da se stesso, e nessun movente muove solo se stesso, deve potentemente acquietarmi in riferimento al vostro lamento che ragione e anima, sensibilità ed eticità, intelletto e cieca forza appaiono in grandezze tanto separate. Perché scorgete isolato tutto ciò che non opera certo isolatamente e per sé? La ragione degli uni e l’anima degli altri si influenzano vicendevolmente in modo così intrinseco come potrebbe accadere in un solo soggetto. L’eticità, che appartiene a quella sensibilità, è posta fuori di essa; ma il suo imperio è forse più limitato, e credete che questa sarebbe retta meglio se quella fosse divisa per ogni individuo in piccole impercettibili parti? La forza cieca, ripartita nella grande massa, non è però, nei suoi effetti sulla totalità dell’umanità, lasciata a se stessa e a una rozza indeterminatezza, ma spesso, senza saperlo, le fa da guida quell’intelletto che trovate concentrato in parte tanto consistente in altri punti, e che essa segue, appunto in modo così inconsapevole, in legami invisibili. Si eclissano, così, dal mio punto di vista, i lineamenti della personalità che a voi sembrano tanto determinati; il circolo magico delle opinioni imperanti e dei sentimenti epidemici cinge e rasenta tutto come un’atmosfera carica di forze dissipantesi e magnetiche, che amalgama e unisce tutto, mette in un contatto attivo, mediante la più vitale espansione, anche le cose più distanti; e porta in giro, affaccendata, gli influssi di coloro in cui luce e verità abitano in maniera indipendente affinché compenetrino alcuni e illuminino superficialmente altri, con lo splendore e con l’inganno. È questa l’armonia dell’Universo, questa è la meravigliosa e grande unità nella sua eterna opera d’arte; ma voi, con le vostre richieste di una miserevole scissione in parti, vi fate beffe di questa magnificenza, perché, soffermandovi nel primo atrio della morale, e anche qui ancora affaccendati con gli elementi, disprezzate la nobile religione. Il vostro bisogno è indicato in maniera abbastanza nitida, possiate solo riconoscerlo e soddisfarlo! Cercate tra tutti gli avvenimenti, in cui si riflette quest’ordine celeste, se non ve ne si schiude uno come un segno divino. Tollerate un vecchio abietto concetto e, tra tutti gli uomini san-

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ti, in cui l’umanità si rivela immediatamente, cercatene uno che possa fungere da mediatore tra il vostro angusto modo di pensare e i confini eterni del mondo; e quando lo avrete trovato, attraversate l’intera umanità e lasciate che tutto quanto finora vi è apparso sotto una diversa luce sia rischiarato dal riflesso di questa nuova. Da tali percorsi attraverso l’intero territorio dell’umanità, la religione fa dunque ritorno nell’io proprio, con senso più affinato e giudizio più addestrato e, alla fine, trova presso se stessa tutto ciò che era cercato altrove, nelle zone più distanti. Trovate in voi stessi non solo i tratti fondamentali di ciò che di più bello e di più basso, di più nobile e di più deplorevole avete percepito negli altri come singole parti dell’umanità. Non soltanto scoprite in voi, in diversi momenti, tutti i varî gradi delle forze umane, ma tutte le innumerevoli commistioni di disposizioni differenti, che avete osservato nei caratteri degli altri, vi si rivelano quali momenti stabili della vostra stessa vita. Ci furono istanti in cui pensavate, sentivate e agivate così; in cui eravate veramente questo o quell’altro uomo, nonostante tutte le differenze di schiatta, di cultura e di circostanze esterne. Avete realmente attraversato, nel vostro ordine, tutte queste diverse forme. Voi stessi siete un compendio dell’umanità, la vostra personalità in un certo senso abbraccia l’intera natura umana e questa, in tutte le sue manifestazioni, non è altro che il vostro proprio io moltiplicato, meglio definito, eternato in tutte le sue variazioni. In chi la religione è nuovamente tornata all’interno, trovando anche lì l’Infinito – da questo punto di vista essa è perfetta – non ha bisogno di alcun mediatore per una certa intuizione dell’umanità, ed egli stesso può fungere da mediatore per molti. Non solo dovete tuttavia intuire l’umanità nel suo “essere”, ma anche nel suo “divenire”; anch’essa ha una via più grande, che non percorre arretrando, ma avanzando, anch’essa viene continuamente educata attraverso le sue variazioni interne ai gradi più elevati e perfetti. La religione non intende, ad esempio, accelerare o reggere tali progressi, essa ammette che il finito possa agire sul finito, ma vuole soltanto osservarli e percepirli come una delle più grandi azioni dell’Universo. Legare l’uno all’altro i diversi momenti dell’umanità e indovinare dal loro corso lo spirito in base al quale è guidato il tutto, è questo il suo più alto ufficio. La storia è, nel senso più

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autentico, l’oggetto supremo della religione, con essa la religione nasce e in essa termina – perché anche la profezia è ai suoi occhi storia ed entrambe non devono essere separate l’una dall’altra – e ogni vera storia ha avuto anzitutto ovunque un fine religioso e ha avuto origine da idee religiose. Nel suo dominio stanno poi, anche, le supreme e più sublimi intuizioni della religione.25 Qui voi scorgete la trasmigrazione degli spiriti e delle anime, che altrimenti sembra soltanto una delicata poesia, e in più d’un senso la scorgete come una meravigliosa disposizione dell’Universo per mettere a confronto i diversi periodi dell’umanità secondo un criterio stabile. Una volta, dopo un lungo periodo, in cui la natura non ha potuto produrre niente di simile, un individuo eccellente torna a essere interamente tale e quale, ma solo i veggenti lo riconoscono e solo essi devono giudicare i segni di tempi diversi dagli effetti che egli adesso produce. Un’altra volta, giunge un singolo momento dell’umanità completamente identico all’immagine che ve ne ha lasciato un passato lontano e voi dovete, dalle diverse cause da cui esso è stato prodotto in questo frangente, riconoscere il corso dell’universo e la formula della sua legge. Un’altra volta ancora, un qualche Genio di una certa disposizione umana, che ha già compiuto il suo corso qui e là innalzandosi e cadendo, si sveglia dal suo torpore, e appare, in un altro luogo e in altre circostanze, a nuova vita, e la sua crescita più veloce, il suo più profondo operare, la sua forma più bella e più vigorosa devono indicare quanto sia migliorato il clima dell’umanità, e il terreno sia diventato più idoneo al nutrimento di piante più nobili. Nella storia vi appaiono popoli e generazioni di mortali come, dal precedente punto di vista, singoli uomini.26 Alcuni, venerabili e geniali, che continuano a operare vigorosamente all’infinito, senza tener conto dello spazio e del tempo. Altri, comuni e di scarso valore, solo destinati a consumare in modo peculiare una singola forma di vita o di associazione, davvero vitali solo in un dato momento, e apprezzabili solo perché capaci di rappresentare un pensiero, produrre un concetto, per poi correre incontro alla distruzione, affinché questo risultato della loro più bella fioritura possa essere inserito in un altro popolo. Come la natura vegetale, dal declino di intere specie e dalla macerie di intere generazioni di piante, ne produce e nutre di nuove, allo stesso modo qui vedete anche la natura spirituale produrre, dalle rovine di un nobile e bel mondo umano, un nuovo mondo, che sugge la sua prima forza vitale dagli elementi disgregati e mirabilmente trasformati di quello vecchio. Quando nella storia, il vostro sguardo, nell’intuizione di

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una connessione universale, viene condotto così spesso, immediatamente, dalle cose più piccole alle più grandi e da queste di nuovo a quelle, e si muove in oscillazioni vitali tra esse, finché, in preda alla vertigine, non può più distinguere né il grande dal piccolo, né la causa dall’effetto, né la conservazione dalla distruzione, vi appare allora la forma di un destino eterno, i cui tratti portano per intero il conio di questo stato, un mirabile miscuglio di rigida ostinazione e di profonda saggezza, di rozzo e crudele impeto e di intimo amore, disposizioni da cui voi, ora da l’una ora dall’altra, siete colti alternativamente, e ora invitati a un’arroganza impotente, ora a una dedizione infantile. Confrontate poi lo sforzo isolato dell’individuo, scaturito da queste prospettive contrastanti, con l’uniforme e quieto corso del tutto, vedete allora come l’alto spirito del mondo sorvoli sorridente su tutto ciò che gli si contrappone chiassosamente; vedete come l’altissima Nemesi, seguendo i suoi passi, percorra inesausta la terra, come assegni castighi e punizioni agli insolenti che si oppongo agli dèi e con mano ferrea falci anche il più coraggioso ed eccellente, che, forse con lodevole e ammirevole tenacia, non si è voluto piegare al lieve soffio del grande spirito.27 Se volete, infine, cogliere il carattere autentico di tutti i mutamenti e di tutti i progressi dell’umanità, la religione vi mostra come gli dèi viventi non odino nulla al di fuori della morte e come null’altro dev’essere perseguitato e abbattuto se non essa, il primo e ultimo nemico dell’umanità. Il rozzo, il barbarico, l’informe devono essere dissolti e trasformati in costituzione organica. Niente dev’essere massa inerme, mossa soltanto da un colpo meccanico e resistente solo per attrito inconsapevole: tutto deve essere una peculiare vita composita, intrecciata in modi molteplici, ed elevata. L’istinto cieco, l’abitudine smemorata, la morta obbedienza, tutto ciò che è inanimato e passivo, sintomi tristi, tutti, dell’asfissia della libertà e dell’umanità devono essere distrutti. A ciò rimanda il compito del momento e del secolo, questa è la grande e continua opera redentrice dell’amore eterno. Ho abbozzato solo con leggeri tratti alcune delle più notevoli intuizioni della religione nel dominio della natura e dell’umanità; eppure qui, vi ho condotto di certo fino al confine estremo del vostro orizzonte. Qui è la fine della religione per coloro per cui umanità e Universo si equivalgono; da qui vi potrei solo condurre nuovamente nel singolare e in ciò che è più piccolo. Ma non crediate che questo sia al contempo il confine della religione. Essa, piuttosto, non può rimanere davvero qui, ma solo dall’altro lato di questo punto volge il suo sguardo nell’Infinito. Se l’umanità stessa è qualcosa di mobile e plasmabile, se essa non solo si presenta diversamente in ciò che è singolare, ma qua e là diviene anche qualcosa di specifico,

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non sentite che è impossibile per essa coincidere con l’Universo? Piuttosto vi si rapporta, come gli uomini singoli si rapportano a essa; ne è soltanto una forma peculiare, manifestazione di un’unica modificazione dei suoi elementi; devono esistere altre forme simili attraverso cui essa è delimitata e a cui, dunque, si contrappone. È solo un anello di congiunzione tra ciò che è singolare e l’Uno, un punto di sosta sulla via verso l’Infinito; dovrebbe ancora essere trovato nell’uomo un tratto più elevato della sua umanità per mettere immediatamente in rapporto lui e la sua apparizione con l’Universo. Ogni religione tende a un tale presentimento di qualcosa che sta al di fuori e al di sopra dell’umanità, per essere afferrata da quel che è comune e più elevato in entrambe; ma questo è anche il punto in cui i suoi lineamenti si dileguano per l’occhio comune, in cui essa si distanzia sempre più dagli oggetti singoli a cui poteva vincolare il suo corso, e in cui la sua aspirazione a ciò che è supremo è considerata per lo più stoltezza. Ma basti questo riferimento a ciò che si trova così infinitamente distante da voi; ogni altra parola in proposito sarebbe un discorso incomprensibile, di cui voi non sapreste donde giunga e dove vada. Ah, se solo aveste anzitutto la religione che potete avere e foste consapevoli solo di quella di cui in realtà siete già in possesso! Giacché, in effetti, se prendete in considerazione anche soltanto le poche intuizioni religiose, che ho ora abbozzato con pochi tratti, troverete che esse non vi sono troppo estranee. Da tempo è ben giunto qualcosa di esse nel vostro animo, ma non so quale sia la maggiore sfortuna: esserne totalmente sprovvisti o non comprenderle; infatti, anche così, esse perdono interamente il loro effetto sul vostro animo, e voi siete in tal modo ingannati perfino da voi stessi. La vendetta, che colpisce tutto ciò che vuol opporsi allo Spirito del Tutto, l’odio ovunque attivo contro ogni baldanza e impudenza, il continuo avanzare di tutte le cose umane verso uno scopo, un progresso che è così sicuro che noi, alla fine, dopo molti tentativi falliti, vediamo riuscire persino ogni pensiero e disegno particolare che avvicini il Tutto a questo scopo; sono, queste, intuizioni che saltano tanto agli occhi da poter valere di più come un’occasione che come un risultato dell’osservazione del mondo. Molti di voi ne sono consapevoli, alcuni le chiamano anche religione, ma vogliono che esclusivamente questo debba essere religione; e con ciò vogliono rimuovere ogni altra cosa che pure sorge dal medesimo modo d’agire dell’animo e interamente alla stessa maniera. Come sono dunque giunti a questi frammenti sconnessi? Voglio dirvelo: essi non ritengono per nulla che ciò sia religione, cosa che loro in ogni caso disprezzano, ma morale, e vogliono solo sostituire il nome per infliggere l’ultimo colpo alla religione stessa – a ciò che ritengono tale. Se

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non vogliono concederlo, chiedete loro perché, con la più mirabile unilateralità, trovano tutto ciò solo nel dominio dell’eticità? La religione non sa nulla di una tale predilezione di parte; il mondo morale non è per lei l’Universo, e ciò che valesse solo per il mondo morale, per la religione non sarebbe un’intuizione dell’Universo. In tutto quello che appartiene all’agire umano, nel serio e nel faceto, in quel che è più piccolo e in ciò che è più grande, la religione sa scoprire e seguire le azioni dello spirito del mondo; quel che deve percepire deve poterlo percepire dappertutto, solo così diviene suo, e così trova anche una Nemesi divina esattamente nel fatto che proprio coloro i quali fanno della religione solo un’insignificante appendice della morale, poiché in essi stessi impera solo ciò che è etico e giusto, e vogliono trarre da essa solo quello che si lascia configurare come qualcosa di morale, proprio con ciò pervertono da sé, irrimediabilmente, la loro morale, per quanto possa esservi in essa di puro, e cospargono il germe di nuovi errori. Suona molto bene: se si muore mentre si agisce moralmente, ciò avviene per volontà dell’Essere eterno, e ciò che non accade per mezzo nostro, si realizzerà un’altra volta; ma neppure questa sublime consolazione appartiene alla moralità; nessuna goccia di religione può essere mescolata con la morale, senza, per così dire, contaminarla e deprivarla della sua purezza. Questa totale ignoranza della religione si rivela nel modo più chiaro nei sentimenti che desta e sono ancora diffusi tra voi nel modo più ampio. Per quanto essi siano anche intimamente connessi con le intuizioni di cui si è detto, per quanto ne scaturiscano con necessità e possano essere spiegati solo a partire da esse, tuttavia possono venire interamente fraintesi. Se lo spirito del mondo ci si è manifestato maestosamente, se abbiamo spiato il suo agire in base a leggi supreme e pensate in modo così grandioso, cosa vi è di più naturale dell’essere compenetrati da un’intima reverenza al cospetto dell’eterno e dell’invisibile? E se abbiamo intuito l’Universo, e da esso torniamo a volgerci al nostro io, a come l’io, in rapporto all’Universo, si dilegui nell’infinitamente piccolo, cosa può importare all’essere mortale più della vera, autentica, umiltà? Se, nell’intuizione del mondo, percepiamo anche i nostri fratelli, e ci è chiaro che ciascuno di essi, senza differenza, in questo senso è proprio uguale a noi, una singola manifestazione dell’umanità, e che noi, senza l’esistenza di ciascuno di essi, dovremmo rinunciare a intuire l’umanità, cosa vi è di più naturale di abbracciarli tutti con intimo amore e affetto, senza distinzione di opinione e di ingegno? E se noi distogliamo lo sguardo dalla loro connessione con il Tutto e lo rivolgiamo alla loro influenza sulle nostre vicende, e in quel momento ci si pre-

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sentano come quelli che, per accogliere il nostro, hanno rinunciato al loro essere contingente e all’aspirazione a espanderlo e isolarlo, come possiamo sottrarci da quel sentimento di una speciale affinità con coloro le cui azioni hanno una volta difeso la nostra esistenza e l’hanno condotta felicemente attraverso i pericoli che le si facevano incontro? Come possiamo difenderci da quel sentimento di riconoscenza che ci spinge a onorarli come coloro che si sono già uniti al Tutto, e sono consapevoli della loro vita al suo interno? Se, al contrario, consideriamo l’abituale impulso degli uomini che non sanno nulla di questa dipendenza, come afferrano e trattengono questo e quello, per cingere e circondare con varie opere esteriori il loro io, così che possano condurre la loro isolata esistenza secondo il proprio estro e così che l’eterna corrente del mondo non sconvolga niente nelle loro opere, e se consideriamo come, in seguito, il destino sfuma necessariamente tutto ciò e in mille modi li ferisce e affligge; cosa vi è allora di più naturale della più cordiale compassione nei confronti di ogni dolore e sofferenza che l’atroce Nemesi infligge d’ogni lato? E quando poi abbiamo scandagliato ciò che nel corso dell’umanità è ovunque giustamente conservato e incrementato, e ciò che inevitabilmente, prima o poi, deve essere sconfitto e distrutto se non si lascia trasformare e adattare, e da questa legge volgiamo poi lo sguardo al nostro agire nel mondo, cosa vi è allora di più naturale del compunto ravvedimento per tutto ciò che in noi è nemico del Genio dell’umanità, dell’umile desiderio di pacificare la Divinità, della sentitissima aspirazione a convertirci e salvarci, con tutto quello che ci appartiene, in quel sacro dominio in cui soltanto vi è sicurezza contro la morte e la distruzione? Tutti questi sentimenti sono religione ed esattamente così tutti gli altri in cui l’Universo è l’uno e, in qualche modo, il vostro proprio io è l’altro dei punti tra i quali l’animo oscilla. Gli antichi lo sapevano bene: chiamavano pietà tutti questi sentimenti, e li mettevano immediatamente in relazione con la religione, della quale erano, per essi, la parte più nobile. Anche voi li conoscete, ma se vi capita qualcosa di simile, volete convincervi che si tratti di qualcosa di etico e volete ascrivere a questi sentimenti il loro posto nella morale; ma essa non li brama e non li sopporta. Alla morale non piacciono l’amore e l’affetto, ma l’attività che proviene interamente dall’interiorità e non è prodotta dalla considerazione del suo oggetto esterno; essa non conosce timore reverenziale al di fuori di quello per la sua legge, condanna come impuro ed egoistico ciò che può accadere per compassione e gratitudine, mortifica, anzi disprezza, l’umiltà e, se voi parlate di rimorso, essa parla di tempo perduto, da voi inutilmente ac-

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cresciuto. Anche il vostro sentimento più intimo deve convenire sul fatto che con tutte queste sensazioni non ci si occupa dell’agire; esse giungono da se stesse e terminano in se stesse come funzioni della vostra vita più intima e più nobile. Perché dunque vi dibattete e chiedete grazia per esse in un luogo che non appartiene loro? Compiacetevi di vedere che sono religione, così non avete bisogno di esigere per esse null’altro che il loro limitato diritto e non vi ingannerete con infondate pretese che siete inclini a fare in loro nome. Troviate ora presso la morale o in qualsiasi altro luogo sentimenti simili, essi sono solo usurpati; riconduceteli alla religione, solo a essa appartiene questo tesoro, e, in quanto sua proprietaria, essa non è a servizio dell’eticità e di ogni altra cosa di pertinenza dell’agire umano, ma ne è indispensabile amica e, a pieno titolo, ambasciatrice e mediatrice presso l’umanità. Questo è il livello in cui si trova la religione e, in particolare, ciò che vi è di spontaneo, i suoi sentimenti. Che essa sola conferisca universalità all’uomo, l’ho già accennato, ora posso spiegarlo più da presso. In ogni agire e operare, sia morale, filosofico o artistico, l’uomo deve aspirare al virtuosismo, e ogni virtuosismo limita e rende freddi, unilaterali e rigidi. A un punto s’indirizza, al principio, l’animo dell’uomo, e questo punto è sempre qualcosa di finito. Può l’uomo davvero utilizzare la sua intera forza infinita in tal modo, progredendo da un’opera limitata all’altra? E non rimarrà piuttosto inutilizzata la parte maggiore di essa, rivolgendosi pertanto contro lui stesso e distruggendolo? Quanti di voi cadono in rovina solo perché sono troppo grandi per se stessi? Una sovrabbondanza di forza e impulso che non li lascia giungere una buona volta a un’opera, giacché nessuna sarebbe adeguata a quella sovrabbondanza, li agita in modo irrequieto ed è la loro rovina. Volete opporvi a questo male costringendo colui per il quale uno degli oggetti della ricerca umana è troppo grande a riunirli tutti e tre, o più ancora, se ne conoscete? Si tratterebbe certo del vostro antico desiderio di avere ovunque l’umanità tutta di un pezzo, che si ripete sempre – se ciò, soltanto, fosse possibile! Se solo quegli oggetti, appena sono presi in considerazione isolatamente, non eccitassero e aspirassero, allo stesso modo, a dominare tanto l’animo! Ognuno di essi vuol compiere opere, ognuno ha un ideale a cui tende e una totalità che vuol raggiungere, e questa rivalità non può finire in altro modo che con la soppressione di uno da parte dell’altro. A che fine, allora, l’uomo deve usare la forza che gli lascia ogni utilizzazione regolata e tecnica del suo impulso

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creatore? Non nel voler ancora formare qualcosa d’altro, e lavorare attivamente a qualcos’altro di finito, ma al fine di lasciarsi stimolare dall’Infinito senza svolgere una precisa attività, e al fine di manifestare, attraverso ogni genere di sentimenti religiosi, la sua reazione a tale azione. Qualsiasi oggetto del vostro agire libero e tecnico abbiate pur scelto, è necessario poco acume per risalire, a partire da esso, all’Universo, e in questo scoprite i rimanenti come suo comando o afflato o manifestazione; osservarli e prenderli in considerazione, così, nel tutto, non come isolati e in sé determinati, è l’unico modo in cui voi, in occasione di una direzione dell’animo già presa, potete appropriarvi anche di ciò che sta al di fuori di essa, non, di nuovo, arbitrariamente, ad arte, ma per istinto dell’Universo, come religione; e dal momento che essi tornano a rivaleggiare anche nella forma religiosa, così anche la religione appare spesso individualizzata come poesia della natura, filosofia della natura o morale della natura, come compiuta nella sua intera forma e unificante il tutto. Così, l’uomo pone accanto al finito, cui lo spinge il suo arbitrio, un Infinito, e, accanto all’aspirazione unificante verso qualcosa di determinato e perfetto, pone l’oscillazione che si estende nell’Indistinto e nell’Inesauribile; così esso produce una via d’uscita infinita per la sua sovrabbondante forza, e stabilisce nuovamente l’equilibrio e l’armonia della sua essenza, che vanno irrimediabilmente perduti se, senza al contempo avere una religione, si adagia in una singola direzione. Il virtuosismo di un uomo è solo, per dir così, la melodia della sua vita, e rimane in singoli suoni, se egli non gli aggiunge la religione. Questa lo accompagna in una variazione infinitamente più ricca di tutti i suoni che, soltanto, non la contraddicono completamente, e muta così il semplice canto della vita in un’armonia poderosa e sontuosa. Se ciò che ho indicato, in modo per tutti voi auspicabilmente abbastanza comprensibile, costituisce davvero l’essenza della religione, non è allora difficile dar risposta alla questione relativa alla reale appartenenza di quei dogmi e di quei teoremi, che sono comunemente contrabbandati quale contenuto della religione. Alcuni sono soltanto espressioni astratte di intuizioni religiose, altri sono una libera riflessione sulle realizzazioni originarie del senso religioso, risultati di una comparazione del punto di vista religioso e di quello comune.28 Assumere il contenuto di una riflessione per l’essenza dell’azione su cui si riflette è un errore tanto comune che non deve meravigliarvi incontrarlo anche qui. Miracoli, ispirazioni, ri-

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velazioni, sensazioni sovrannaturali – si può avere molta religione, senza essersi imbattuti in nessuno di questi concetti; ma chi rifletta in modo comparativo sulla sua religione, li trova inevitabilmente sulla sua strada e non gli è possibile evitarli. In tal senso, tutti questi concetti appartengono di certo all’ambito della religione e, in vero, incondizionatamente, senza che si possano definire minimamente i limiti della loro utilizzazione. Il disputare su quale avvenimento sia davvero un miracolo e in cosa consista propriamente il suo carattere, quanta rivelazione vi si offra, e in che misura e perché bisognerebbe davvero prestarvi fede, nonché, il manifesto sforzarsi, per quanto è possibile far ciò con decoro e con rispetto, di smentirlo e metterlo da parte, nella stolta convinzione di prestare con ciò un servizio alla filosofia e alla ragione, è una delle operazioni più infantili dei metafisici e dei moralisti nella religione; essi stravolgono tutti i punti di vista e attirano sulla religione la diceria secondo cui essa nuocerebbe alla totalità dei giudizi scientifici e fisici. Vi prego non lasciatevi confondere, a svantaggio della religione, dalle loro dispute da sofisti e dal loro ipocrita occultamento di ciò che volentieri vorrebbero render noto. La religione, per quanto evochi tanto sonoramente tutti quei vieti concetti, vi lascia intatte la vostra fisica e, se Dio vuole, la vostra psicologia. Cos’è mai un miracolo! Ditemi dunque in quale lingua – non parlo certo di quelle che sono nate, come la nostra, dopo il tramonto di ogni religione – “miracolo” significa qualcosa di diverso da un segno, da un presagio? E così tutte quelle espressioni non affermano altro che una relazione immediata di un fenomeno con l’Infinito, con l’Universo; ma ciò esclude forse che ve ne sia un’altra esattamente tanto immediata con il finito e con la natura? “Miracolo” è solo il nome religioso che sta per avvenimento; ognuno, anche il più naturale e comune, appena si confaccia a ciò per cui la visione religiosa di esso possa essere la dominante, è un miracolo. Per me è “miracolo” tutto; mentre, nel senso vostro, per me sarebbe un miracolo, è a dire qualcosa di inspiegabile ed estraneo, solo ciò che non è tale nel senso che gli attribuisco io. Quanto più voi foste religiosi, tanto più voi vedreste miracoli in ogni dove, e ogni disputare qua e là sui singoli avvenimenti, se essi meritino di chiamarsi così, mi dà solo la dolorosa impressione di quanto sia povero e insufficiente il senso religioso dei disputanti. Gli uni dimostrano ciò protestando ovunque contro i miracoli, gli altri pervenendo in particolare a questo e a quello, e richiedendo che un fenomeno debba essere formato in modo appunto bizzarro per essere ai loro occhi un miracolo. Cosa significa rivelazione? Ogni nuova e originaria intuizione dell’Universo è tale, e ciascuno saprà certo al meglio cosa per lui sia nuovo e originario, e se qualcosa di ciò che per lui era originario è nuovo ancora per voi, allora la sua rivelazione è tale anche per voi, e voglio consigliarvi di ponderarla bene. Cosa significa ispirazione? Essa è solo il nome

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religioso che sta per libertà. Ogni libera azione, che diventa un atto religioso, ogni riproduzione di un’intuizione religiosa, ogni espressione di un sentimento religioso, che si comunica davvero in modo tale che l’intuizione dell’Universo sia trasmessa anche ad altri, è stata compiuta per ispirazione; era, infatti, un agire dell’Universo trasmesso da una persona alle altre. Ogni anticipazione dell’altra metà di un avvenimento religioso, quando la prima è data, è una profezia; ed era un tratto molto religioso degli antichi ebrei commisurare la divinità di un profeta non in relazione alla portata della profezia, ma esclusivamente in rapporto all’esito;29 dato che non è possibile sapere se uno comprende di religione, finché non si vede se egli ha compreso correttamente la dimensione religiosa proprio di questa cosa determinata che lo ha stimolato. Cosa sono gli effetti della grazia? Tutti i sentimenti religiosi sono sovrannaturali, giacché sono religiosi soltanto nella misura in cui sono messi in opera direttamente dall’Universo; se essi sono religiosi in qualcuno, di certo solo costui può giudicarlo nel migliore dei modi. Tutti questi concetti sono, ammesso che la religione debba mai possedere concetti, i primi e più essenziali; indicano nel modo più peculiare la coscienza che un uomo ha della sua religione, sono tanto più importanti non solo per il fatto che designano qualcosa che può essere universale nella religione, ma proprio per il fatto che designano ciò che in essa deve essere universale. Sì, chi non coglie miracoli in senso proprio dall’interno della prospettiva da cui considera il mondo; colui nel cui intimo non si elevano vere rivelazioni quando la sua anima anela ad assorbire la bellezza del mondo e a essere attraversata dal suo spirito; chi, qui e là, non avverte con vitale convinzione che lo guida uno spirito divino, e che egli parla e agisce per santa ispirazione; chi non è per lo meno consapevole – giacché di fatto questo è il grado minimo – dei suoi sentimenti come effetti immediati dell’Universo e non riconosce in essi qualcosa di proprio che non può essere imitato, ma che costringe a pensare la sua genuina origine dalla parte più intima di esso, costui non ha alcuna religione. Credere, come si chiama comunemente, approvare quanto un altro ha fatto, voler ripensare e risentire ciò che un altro ha pensato e ha sentito è un culto amaro e indegno e piuttosto che essere, come si ritiene, l’elemento supremo nella religione, deve essere abbandonato da chi vuol penetrare nel suo santuario. Voler avere e conservare un simile culto dimostra che si è incapaci di religione; pretenderlo da altri, dimostra che non la si comprende. Voi volete stare ovunque sulle vostre gambe e percorrere la vostra via, ma questa degna volontà non vi faccia indietreggiare, timorosi, dalla religione. Essa

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non è una schiavitù e una prigionia; anche qui voi dovete appartenere a voi stessi, anzi questa è perfino l’unica condizione in cui potete prender parte a voi stessi. Ogni uomo, a eccezione di pochi eletti, ha invero bisogno di un mediatore, di una guida che ne svegli dal primo sonno il senso della religione e gli segnali una prima direzione, ma questa deve essere soltanto una condizione passeggera; ciascuno deve poi vedere con i propri occhi, e da sé arrecare un contributo ai tesori della religione, altrimenti egli non merita alcun posto nel suo regno e non ne ottiene alcuno. Avete ragione di disprezzare i miseri ripetitori di preghiere, che ricavano la loro religione interamente da un altro, o la attaccano a una morta scrittura, sulla quale giurano e a partire dalla quale propongono dimostrazioni. Ogni sacra scrittura è solo un mausoleo della religione, un monumento che vi fu un grande spirito che non c’è più; giacché se egli vivesse e operasse ancora, come potrebbe egli riporre un così grande valore nella morta lettera che può essere soltanto un suo debole calco? Non ha religione colui che crede in una sacra scrittura, ma colui che non ha bisogno di nessuna scrittura, e potrebbe bene farne egli stesso una. E proprio questo vostro disprezzo nei confronti dei meschini e deboli veneratori della religione, in cui essa per mancanza di nutrimento è già morta prima di nascere, proprio questo disprezzo mi dimostra che in voi stessi è presente una disposizione alla religione, e il rispetto che mostrate sempre ai suoi veri eroi, per quanto vi opponiate al modo in cui se ne è abusato e sono stati profanati da un culto idolatrico, mi conferma in questa opinione. Vi ho mostrato cosa in realtà sia religione, vi avete scorto qualcosa che sia indegno della vostra e della più alta cultura umana? Non dovreste, secondo le leggi eterne della natura spirituale, anelare con tanta maggiore angoscia all’Universo e aspirare a una spontanea unione con esso, quanto più siete isolati e separati in ragione della vostra più peculiare cultura e individualità? E non avete spesso avvertito questa santa nostalgia come qualcosa di ignoto? Nondimeno, divenite consapevoli, vi imploro, della vocazione della vostra più intima natura e seguitela. Scacciate il falso pudore al cospetto di un’epoca che non deve plasmarvi, ma deve essere plasmata e fatta da voi! Volgetevi a ciò che a voi, proprio a voi, sta così vicino, mentre la violenta separazione da esso distrugge immancabilmente la parte più bella della vostra esistenza. Mi sembra, però, che molti di voi non credano che io possa voler concludere qui il mio presente impegno, che siate anche dell’opinione che non si possa discutere approfonditamente dell’essenza della religio-

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ne, laddove non si è parlato dell’immortalità e non si è detto quasi nulla della Divinità. Rammentate, però, ve ne prego, come io, sin dall’inizio, contro ciò, ho spiegato che non sono questi i cardini e le parti principali della religione; ricordate che quando ho abbozzato i lineamenti della religione ho anche indicato la via su cui bisogna mettersi per trovare la Divinità; cosa, quindi, perdete ancora? E perché devo tener conto di un tipo di intuizione religiosa più degli altri? Affinché, però, non pensiate che io tema di dire una parola precisa sulla Divinità, perché sarebbe pericoloso parlarne prima che sia portata alla luce e ammessa, nell’impero germanico, una definizione di Dio e dell’esistenza valida per il diritto e per la giustizia;30 o affinché, d’altra parte, non crediate che io giochi un pio inganno e voglia, per essere tutto a tutti,31 degradare, con apparente indifferenza, ciò che per me dev’essere di importanza incomparabilmente maggiore di quel che voglia concedere; allora voglio parlarvi ancora un attimo e cercare di rendervi chiaro che per me la Divinità non può essere altro che un tipo particolare di intuizione religiosa da cui, come da ogni altra, tutte le restanti sono indipendenti e che, dal mio punto di vista e secondo i miei concetti di fede a voi noti, non può aver luogo la credenza “nessun Dio, nessuna religione”; e anche sull’immortalità voglio rendervi nota la mia opinione. Ditemi anzitutto cosa intendete voi per Divinità e che significato le attribuite? Infatti, quella definizione valida giuridicamente non è ancora presente ed è chiaro che in proposito si stagliano le più grandi differenze. Per la maggior parte, Dio è evidentemente null’altro che il Genio dell’umanità. L’uomo è l’immagine originaria del loro Dio e l’umanità il loro tutto, e determinano, costoro, i tratti e l’essenza del loro Dio a seconda di ciò che ritengono vicende e comportamenti tipici dell’umanità. Ma ora vi ho detto in modo sufficientemente chiaro che l’umanità non è il mio tutto, che la mia religione aspira a un Universo di cui essa, con tutto ciò che le appartiene, è solo una parte infinitamente piccola, soltanto una singola forma transeunte: può dunque un Dio, che fosse solo il Genio dell’umanità, essere l’elemento supremo della mia religione? Possono esserci animi più poetici, e ammetto di credere che stiano più in alto coloro per cui Dio è un individuo interamente distinto dall’umanità, un esemplare unico di una specie propria, e quando essi mi mostrano le rivelazioni attraverso cui

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conoscono un tale Dio – uno o più: io, nella religione, non disprezzo nulla così tanto quanto il numero –, Egli deve allora esser per me una scoperta anelata, e di certo da questa rivelazione se ne svilupperanno in me altre; ma io aspiro a più specie, al di fuori e oltre l’umanità, piuttosto che a una sola, e ogni specie, con il suo individuo, è subordinata all’Universo: può dunque Dio, in tal senso, essere per me qualcosa di diverso da una particolare intuizione? Comunque, se questi possono essere concetti imperfetti di Dio, lasciate che giungiamo subito al concetto supremo, a quello di un Essere sommo, di uno Spirito dell’Universo, che regge l’Universo con libertà e intelletto. Ora, la religione non è dipendente nemmeno da questa idea. Avere religione significa intuire l’Universo e sul modo in cui voi lo intuite, sul principio che trovate nelle sue azioni, poggia il valore della vostra religione. Se voi non potete negare che l’idea di Dio poggia su ogni intuizione dell’Universo, dovete anche ammettere che una religione senza Dio può essere migliore di un’altra con Dio. L’Universo, nelle sue azioni, si presenta all’uomo rozzo, che ha solo un’idea confusa del Tutto e dell’Infinito, e solo un oscuro istinto, come un’unità in cui non vi è nulla di molteplice da distinguere, come un caos uniforme nella confusione, senza partizioni, ordine e legge, in cui niente di singolare può essere separato, se non in quanto viene ritagliato arbitrariamente nel tempo e nello spazio. Senza l’impulso ad animarlo, un cieco destino rappresenta per lui il carattere del Tutto; con questo impulso, il suo Dio diventa un’essenza priva di attributi determinati, un idolo, un feticcio, e quando egli ne approva più d’uno, essi non possono essere separati da nulla che non siano i confini arbitrariamente stabiliti del loro dominio. A un altro livello di cultura, l’Universo si presenta come una molteplicità priva di unità, come una varietà indeterminata di elementi e forze eterogenei, la cui lotta eterna e permanente ne determina i fenomeni. Non una sorte cieca ne contrassegna il carattere, ma una motivata necessità in cui si delinea il compito di cercare fondamento e connessione, con la consapevolezza di non poterli trovare. Se l’idea di un Dio è applicata a questo Universo, tale idea si scinde naturalmente in un’infinità di parti, ognuna di queste forze ed elementi in cui non vi è alcuna unità è animata in modo peculiare, gli dèi sorgono in numero infinito, distinguibili in base ai diversi oggetti della loro attività, secondo le diverse inclinazioni e disposizioni. Dovete ammettere che que-

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sta intuizione dell’Universo è infinitamente più degna di quella; non dovrete anche concedere che chi si è innalzato a essa, ma si flette al cospetto della necessità eterna e irraggiungibile senza l’idea degli dèi, ha tuttavia più religione del rozzo adoratore di un feticcio? Solo, lasciate che ci innalziamo più in alto, laddove ogni conflitto si ricompone, dove l’Universo si presenta come totalità, come unità nella molteplicità, come sistema, e merita solo così il suo nome; non dovrebbe colui che lo intuisce così, come uno e tutto, pur senza l’idea di un Dio, avere più religione del più colto politeista? Spinoza non dovrebbe stare esattamente tanto al di sopra di un pio romano, come Lucrezio di un idolatra? Ma è l’antica incoerenza, il nero segno dell’ignoranza, che siano gettati il più lontano possibile coloro che si trovano sullo stesso livello, ma su un altro punto di esso! Quale di queste intuizioni dell’Universo un uomo faccia sua, dipende dal suo senso dell’Universo, che è il criterio autentico della sua religiosità; che egli abbia un Dio per la sua intuizione, dipende dalla direzione della sua fantasia. Nella religione l’Universo è intuito, è posto come originariamente agente sull’uomo. Se, ora, la vostra fantasia si riallaccia alla coscienza della vostra libertà, così da non poter evitare di pensare ciò che deve pensare come originariamente agente se non nella forma di un essere libero, ebbene, essa personificherà così lo spirito dell’Universo e avrete un Dio; se invece essa si riallaccia all’intelletto, in modo tale che vi stia sempre chiaro innanzi che la libertà ha senso solo per il particolare e nel particolare, ebbene, così avrete un mondo e nessun Dio. Spero che voi non considererete una bestemmia che la fede in Dio dipenda dalla direzione della fantasia; voi saprete che la fantasia è la realtà suprema e più originaria nell’uomo e, fuori di essa, tutto è soltanto riflessione su di essa; voi saprete che la vostra fantasia è ciò che produce per voi il mondo e che non potete avere Dio senza mondo. Neppure, Egli, per questo, diventerà più incerto per alcuno, né ci sarà chi si affrancherà tanto meglio dalla quasi irrevocabile necessità di ammetterlo, perché sa donde gli deriva questa necessità. Nella religione, dunque, l’idea di Dio non sta così in alto come credete, né tra gli uomini davvero religiosi vi furono mai zelanti, entusiasti o fanatici dell’esistenza di Dio; con grande tranquillità, essi hanno visto vicino a sé ciò che si chiama ateismo, e c’è sempre stato qualcosa che pareva loro più irreligioso di questo.32 Anche Dio, nella religione, non può presentarsi altrimenti che come agente, e ancora nessuno ha negato una vita e un’attività divina dell’Universo; e con il Dio che esiste e comanda, essa non ha nulla a che fare, così

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come il suo Dio non è congeniale ai fisici e ai moralisti, i cui tristi fraintendimenti sono appunto questo e sempre questo saranno. Il Dio agente della religione non può però garantire la nostra felicità; infatti un essere libero non può voler agire altrimenti su un essere libero che dandogli a conoscere, non importa se mediante il dolore o il piacere. Né può egli incitarci all’eticità, giacché non è considerato altrimenti che come agente, e sulla nostra eticità non è possibile agire, né può essere pensata alcuna azione su di essa. Ma per ciò che riguarda l’immortalità, non posso far mistero del fatto che il modo in cui la maggior parte degli uomini la assume e la nostalgia di essa sono completamente irreligiosi, proprio contrari allo spirito della religione, e che il desiderio di essa non ha alcun’altra ragione dell’inclinazione contro ciò che costituisce il fine della religione. Rammentate che nella religione tutto aspira a far sì che i contorni finemente definiti della nostra personalità si estendano e si dissolvano gradualmente nell’Infinito e che, attraverso l’intuizione dell’Universo, dobbiamo congiungerci, per quanto possibile, a esso; la maggior parte degli uomini invece si oppongono all’Infinito, non vogliono uscire da sé, non desiderano essere null’altro che se stessi e sono angosciosamente preoccupati della loro individualità. Ricordatevi che era scopo supremo della religione scoprire un Universo al di là e al di sopra dell’umanità, e il suo unico lamento era che, in tal modo, ciò non può, in senso proprio, avere buon esito in questo mondo; quelli però non vogliono nemmeno cogliere l’unica opportunità che la morte offre loro di elevarsi al di sopra dell’umanità; sono preoccupati del modo in cui la porteranno con sé al di là di tale mondo e al massimo aspirano ad avere occhi più grandi e membra migliori. Ma l’Universo si rivolge loro, come sta scritto: «Chi perde la sua vita per causa mia, la conserverà, e chi vuole conservarla, la perderà».33 La vita, che vogliono conservare, è miserevole; se, infatti, a essi interessa l’immortalità della loro persona, perché non si preoccupano di ciò che sono stati altrettanto angosciosamente quanto di ciò che saranno? E in che modo li aiuterà ciò che sta avanti, se non possono nulla su ciò che è indietro? Alla ricerca di un’immortalità che non è tale e di cui non sono signori, sacrificano quell’immortalità che potrebbero avere e, con ciò, sacrificano anche la vita mortale con pensieri che li angustiano e tormentano inutilmente. Cercate piuttosto di rinunciare alla vostra vita per amore dell’Universo. Sforzatevi di annientare già qui la vostra individualità e di vivere nell’Uno e nel Tutto, aspirate a esser più di voi stessi, affinché perdiate poco quando perdete voi stessi; e se quin-

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di vi siete fusi con l’Universo, per quanto ne trovate in questo mondo, e in voi è sorta una più grande e più santa nostalgia, allora possiamo discutere ancor di più delle speranze che ci dà la morte e dell’infinità a cui noi, per mezzo di essa, possiamo infallibilmente elevarci. Questo è il mio animo su questi argomenti. Dio non è tutto nella religione, ma solo una parte, e l’Universo è di più; né voi potete credere in lui arbitrariamente o perché volete servirvene come consolazione e aiuto, ma perché dovete. L’immortalità non può essere un desiderio, se non è stata prima un compito che avete adempiuto. Nel mezzo della finitudine, diventare uno solo con l’Infinito, ed essere eterno in un istante, è questa l’immortalità della religione.

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L’e d u c a z i o n e a l l a r e l i g i o n e Ciò che io stesso ho volentieri ammesso, come intimamente giacente nel carattere della religione, l’aspirazione a trasformare i non credenti in proseliti, non è comunque ciò che mi spinge ora a parlarvi anche dell’educazione degli uomini a questa sublime disposizione e delle condizioni di tale educazione. Per quello scopo finale la religione non conosce alcun altro mezzo all’infuori dell’esprimersi e dell’essere comunicata liberamente. Quando si muove con tutta la forza che le è propria, quando, nella corrente di questo movimento, raccoglie a suo servizio tutte le facoltà dell’animo suo, essa si aspetta anche che penetrerà fin nella parte più intima di ciascun individuo che respiri nella sua atmosfera, che ogni particella omogenea ne sia toccata e, presa dalla medesima vibrazione, giungendo alla coscienza della propria esistenza, rallegri attraverso un suono affine di risposta l’orecchio, in ansiosa attesa, di chi l’ha sollecitata. Solo in questo modo, attraverso le esternazioni naturali della propria vita, la religione vuole eccitare ciò che le è simile, e là dove non le riesce, disdegna orgogliosamente ogni stimolo esterno, ogni procedimento autoritario, e riposa nella convinzione che non sia ancora giunta l’ora in cui possa qui agitarsi qualcosa che le è interamente affine. Questo esito fallimentare per me non è nuovo. Quanto spesso ho accordato la musica della mia religione per commuovere i presenti, muovendo da singoli suoni in sordina e progredendo con impeto giovanile, ricolmo di desiderio, fino alla più piena armonia di sentimenti religiosi: ma nulla si agitava in loro e rispondeva! Da quanti, anche queste parole, che affido a una più grande e mobile atmosfera, con tutto ciò che dovrebbero offrire di buono, torneranno a me tristemente senza essere comprese, senza nemmeno aver risvegliato il più lieve presentimento della loro intenzione? E quante volte ancora io e tutti gli annunciatori della religione rinnoveremo questo destino predispostoci sin dall’inizio? Ciò non di meno, esso non ci tormenterà mai, giacché sappiamo che non può compiersi diversamente; e non cercheremo mai di imporre la nostra religione in qualche altro modo né a questa né alla generazione futura. Dal momento che a me stesso manca non poco di quel che ap-

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partiene all’intera umanità, dal momento che molti sono privi di molte cose: quale meraviglia quand’anche sia grande il numero di coloro a cui la religione è preclusa. Ed esso deve necessariamente essere grande: come giungeremmo altrimenti a intuire la stessa religione e i confini che essa traccia da tutte le parti alle restanti disposizioni dell’uomo? Da cosa sapremmo quanto l’uomo, qui è lì, possa andare lontano senza di lei, e in che punto essa lo sostiene e favorisce? Da dove presentiremmo come essa, anche senza che egli lo sappia, è attiva in lui? È particolarmente conforme alla natura delle cose che, in questi tempi di confusione e trasformazione generale, la sua sopita scintilla non attecchisca in molti e, per quanto possiamo preoccuparci di essere benevoli e indulgenti, non sia portata alla luce poiché, in circostanze maggiormente favorevoli, si sarebbe fatta strada in loro superando tutti gli impedimenti. Dove nessuna di tutte le cose umane rimane integra; dove ciascuno, in ogni momento, vede proprio ciò che determina il suo posto nel mondo, e lo tiene saldo all’ordine terreno delle cose, sul punto non solo di sfuggirgli e di lasciarsi afferrare da un altro, ma di inabissarsi in un vortice generale; dove gli uni non risparmiano alcuno sforzo delle loro energie, e invocano inoltre aiuto da tutte le parti per trattenere ciò che considerano i cardini del mondo e della società, dell’arte e della scienza, e che ora, per un destino incomprensibile, s’innalzano, quasi da se stessi, dalle loro fondamenta più interne, e lasciano cadere ciò che per così lungo tempo vi ruotava intorno, e gli altri sono impegnati con indefessa diligenza a sistemare per via le macerie di secoli trascorsi, per essere tra i primi a sedere sul terreno fertile che si forma sotto di loro dalla lava, celermente raffreddantesi, del terribile vulcano; dove ciascuno, anche senza lasciare la sua posizione, è scosso così violentemente dagli irruenti sommovimenti del tutto, da dover esser felice, nella vertigine generale, di fissare con gli occhi in modo sufficientemente fermo un oggetto particolare qualunque, per potersi tenere a esso e convincere gradualmente che vi è pur qualcosa di stabile; in una situazione simile sarebbe stolto aspettarsi che molti possano essere capaci di percepire l’Infinito. Il suo aspetto è certamente, più che mai, maestoso e sublime e in pochi istanti si lasciano scorgere tratti più significativi che in secoli: ma chi può salvarsi dall’agitazione e dalla pressione generale? Chi può sfuggire alla violenza di un interesse più ristretto? Chi ha sufficiente tranquillità e stabilità da rimanere in silenzio e osservare? Ma anche in tempi felicissimi, anche con la migliore volontà di stimolare con la comunicazione la religione non solo là dove esiste, ma anche di instillarla e costituirla per ogni via che potrebbe condurre a ciò: dov’è mai un uomo simile? Ciò che attraver-

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so l’artificio e l’attività esterna può essere compiuto in un uomo consiste solo in questo, nel comunicargli le vostre rappresentazioni e trasformarlo in un deposito delle vostre idee, intrecciandole tanto alle sue, che egli se ne rammenti al tempo dovuto: ma non potrete mai far sì che produca da sé le idee che voi volete. Vedete la contraddizione, che non può essere tolta nemmeno dalle parole. Non potete mai abituare qualcuno a far seguire una precisa reazione a una determinata impressione, per quanto spesso quest’ultima gli si presenti, e ciò ancor meno per il fatto che non potete indurlo a innalzarsi al di sopra di questa connessione e a produrre liberamente, in tale occasione, un’attività interiore. In breve, potete operare sul meccanismo dello spirito, ma non penetrare secondo il vostro arbitrio nell’organizzazione di esso, nella sacra officina dell’Universo; qui non vi è dato trasformare o spostare, recidere o completare qualcosa, potete solo trattenerne lo sviluppo e mutilare con violenza una parte dell’organismo. Tutto ciò che appartiene alla vera vita dell’uomo e in esso deve essere un operoso e attivo impulso deve promanare dalla parte più intima della sua organizzazione. E la religione è una cosa di questo tipo; nell’animo che abita, è continuamente attiva e vitale, trasforma tutto in un oggetto per sé, e ogni pensare e agire in un tema della sua celeste fantasia. Tutto ciò che, come essa, dev’essere un continuum nell’animo umano, sta molto al di fuori dal dominio dell’insegnare e dell’educare. Pertanto, per chiunque concepisce così la religione, in essa, l’impartir lezione è parola insulsa e priva di senso. Le nostre opinioni e dottrine possiamo certo comunicarle ad altri e, per questo, abbiamo bisogno solo di parole, e le parole hanno bisogno della facoltà di comprensione e di imitazione dello spirito: ma sappiamo molto bene che ciò corrisponde soltanto alle ombre delle nostre intuizioni e dei nostri sentimenti, e senza condividere con noi entrambi, gli altri non comprenderebbero ciò che dicono e che credono di pensare. Non possiamo insegnare loro a intuire, non possiamo trasferire da noi in essi la forza e l’abilità di assorbire col nostro organo, da qualsiasi oggetto in cui ci imbattiamo in qualsivoglia luogo, l’originaria luce dell’Universo; possiamo forse stimolare tanto il talento mimetico della loro fantasia che per loro diventi facile, quando di fronte a loro le intuizioni della religione sono dipinte a tinte forti, formare in se stessi alcuni impulsi, che somigliano lontanamente a quello di cui essi scorgono le nostre anime ricolme: ma compenetra ciò la loro essenza, è, questa, religione? Se volete paragonare il senso dell’Universo con quello dell’arte, allora non dovete raccostare questi detentori di una religiosità passiva – se la si vuole ancora chiamare così – con

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coloro che, anche senza produrre da sé opere d’arte, sono comunque toccati e presi da ciò che s’impone alla loro intuizione; giacché le opere artistiche della religione sono esposte sempre e ovunque, l’intero mondo è una galleria di visioni religiose e ognuno vi è posto nel mezzo. Dovete invece paragonare i detentori di una religiosità passiva a quelli il cui animo non è stimolato fintanto che non sono stati sovrapposti alle opere d’arte, come altrettanti rimedi, commenti e fantasticherie, e anche allora non sanno far altro che balbettare, in un malinteso linguaggio tecnico, alcune parole inadeguate, che nemmeno appartengono loro. Questo è il risultato, in cose siffatte, di tutto l’insegnare ed educare intenzionale. Mostratemi qualcuno cui avete insegnato e installato la facoltà di giudizio, lo spirito d’osservazione, il senso dell’arte o l’eticità; e io mi offrirò d’insegnargli anche la religione. In essa vi è certamente un magistero e un discepolato, vi sono individui, a cui si associano migliaia di persone: ma questa adesione non è una cieca imitazione, e i discepoli non sono tali perché tali li ha resi il maestro; ma egli è a essi maestro, perché lo hanno scelto per questo. Chi, mediante le manifestazioni della propria religione, l’ha stimolata in altri, non ha più in suo potere di trattenere quelli presso di sé: anche la loro religione è libera non appena vive e percorre la propria via. Appena la sacra scintilla divampa in un’anima, essa si espande in una fiamma libera e viva, che assorbe il nutrimento dalla sua stessa atmosfera. Più o meno, la fiamma illumina, davanti all’anima, l’estensione intera dell’Universo e, secondo il proprio arbitrio, l’anima può assestarsi anche lontano dal punto in cui ha colto se stessa la prima volta. Spinta soltanto dal sentimento della sua impotenza e della sua finitudine a risiedere in un determinato posto, essa sceglie, senza per questo essere ingrata verso coloro che l’hanno guidata per primi, quel clima che le si addice meglio. Qui cerca per sé un centro, si muove, attraverso una limitazione scelta liberamente, nel suo nuovo percorso, e chiama suo maestro chi per primo ha trovato questo territorio da lei ambito e lo ha rappresentato nel suo splendore; ciò fa l’anima, divenendo sua discepola per propria scelta e libero amore. Non vi parlo come se volessi istruire voi o altri alla religione, o insegnarvi come voi stessi dobbiate istruirvi a ciò intenzionalmente o ad arte: io non voglio uscire dal dominio della religione, cosa che farei se agissi così, voglio invece soffermarmi al suo interno, con voi, ancora a lungo. L’Universo si costituisce da sé i propri osservatori e ammiratori e vogliamo ora vedere, per quanto sia possibile, come ciò accada. Lo sapete: il modo in cui ciascun singolo elemento dell’umanità appare in un individuo dipende da come esso è limitato o lasciato libero dagli altri elementi; solo attraverso questo conflitto generale ciascun elemento consegue in ogni individuo una precisa forma e grandezza, e il conflitto viene ancora mantenuto solo attraverso la comunità degli individui e il movimento del tutto. Così ogni indivi-

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duo, e ogni elemento in ciascun individuo, è un’opera dell’Universo, e solo così la religione può considerare l’uomo. Vorrei ricondurvi a questo fondamento del nostro essere particolare e alla limitazione religiosa dei nostri contemporanei; vorrei rendervi chiaro perché siamo così e non altrimenti, e cosa dovrebbe succedere se ora i nostri limiti dovessero essere ampliati da questa parte; vorrei che poteste divenire consapevoli di come anche voi, attraverso il vostro essere e operare, siate allo stesso tempo strumenti dell’Universo e come il vostro fare, orientato a tutt’altre cose, abbia influenza sulla religione e sulla sua condizione futura. L’uomo viene al mondo con la disposizione religiosa, così come con ogni altra, e soltanto nel caso in cui il suo sentimento non sia violentemente oppresso, solo nel caso in cui ogni relazione tra esso e l’Universo non venga sbarrata e bloccata – questi sono riconosciuti come i due elementi della religione –, essa dovrebbe anche svilupparsi infallibilmente in ciascuno nel modo che gli è proprio; ma quel caso è esattamente ciò che, purtroppo, si verifica nel nostro tempo in così larga misura sin dalla prima infanzia. Con dolore osservo quotidianamente come la furia di comprensione non permette nemmeno al sentimento di emergere e come tutto coopera per vincolare l’uomo al finito e a un punto molto piccolo di esso, cosicché l’Infinito gli sia sospinto quanto più possibile lontano dallo sguardo. Chi ostacola il prosperare della religione? Non gli scettici e i motteggiatori; benché questi comunichino volentieri il proposito di non avere religione, in tal modo non disturbano certo la natura che vuol produrla; nemmeno, come si crede, gli immorali, i loro sforzi e la loro azione sono contrapposti a una forza del tutto diversa da questa; bensì gli intellettuali e gli uomini pratici, sono loro, nell’attuale condizione del mondo, il contrappeso della religione, e la loro grande preponderanza è la ragione fondamentale per cui essa gioca un ruolo così modesto e insignificante. Sin dalla tenera infanzia essi maltrattano l’uomo e reprimono la sua aspirazione a ciò che è più alto. Con grande devozione, io posso osservare la nostalgia dei giovani animi per il meraviglioso e il soprannaturale. Insieme al finito e al determinato essi cercano già qualcosa d’altro da potergli opporre; da tutte le parti cercano di vedere se qualcosa oltrepassi i fenomeni sensibili e le loro leggi; e, per quanto i loro sensi siano riempiti di oggetti terreni, è sempre come se, al di fuori di questi, ne avessero anche altri, che dovrebbero perire senza nutrimento. È questo il primo moto della religione. Un segreto, incompreso, presentimento li spinge al di fuori della ricchezza di questo mondo; per questo, a loro, ogni traccia di un altro mondo è così ben accetta; per questo, sono deliziati dalle poesie su esseri soprannaturali, e tutto ciò che per loro, nel modo più chiaro, non può esistere qui, lo abbracciano con tutto quel geloso amore che si dedica a un oggetto, su cui si ha un manifesto diritto il quale, tuttavia, non può esser fatto valere. È cer-

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tamente un’illusione cercare l’Infinito proprio al di fuori del finito, l’opposto al di fuori di ciò a cui si oppone; ma tale illusione non è del tutto naturale in coloro che non conoscono ancora il finito? E non si tratta dell’illusione di interi popoli e di intere scuole di saggezza? Se vi fossero tutori della religione tra quanti hanno a cuore l’uomo in crescita, come sarebbe facile correggere questo errore provocato dalla natura stessa, e con quanta brama, in tempi più facili, la giovane anima si abbandonerebbe alle impressioni dell’Infinito nella sua onnipresenza! In passato, si lasciava che tale errore imperasse tranquillamente; si pensava che il gusto per le figure grottesche fosse proprio della fantasia ancor giovane sia nella religione sia nell’arte; gli si dava soddisfazione in larga misura, a questi giochi spensierati dell’infanzia si collegava anzi immediatamente, e in maniera abbastanza superficiale, la mitologia alta e seria, ciò che si riteneva perfino religione: Dio, il Salvatore e gli angeli erano soltanto un tipo diverso di fate e silfidi. Così, certamente, per mezzo della poesia, fu stabilito abbastanza presto il presupposto per le usurpazioni della metafisica alla religione: ma l’uomo rimase ancor più abbandonato a se stesso; e con più facilità, un animo retto, incorrotto, capace di mantenersi libero dal gioco del comprendere e del disputare, trovava, negli anni successivi, l’uscita da questo labirinto. Ora, invece, questa tendenza è repressa a forza sin dall’inizio, tutto ciò che è sovrannaturale e meraviglioso è proscritto, la fantasia non deve essere riempita di immagini vuote, frattanto, anzi, vi si possono portare cose leggere e fare i preparativi alla vita. Così, le povere anime, assetate di tutt’altre cose, sono annoiate con storie morali e imparano quanto sia bello e utile esser gentile e intelligente; ricevono concetti di cose comuni e, senza volgersi a ciò che loro manca, si offre loro sempre più di ciò di cui sono già sin troppo in possesso. Per proteggere, in qualche misura, il sentimento contro la tracotanza delle altre facoltà, in ciascun uomo è impiantato un istinto speciale a lasciar riposare, a volte, ogni altra attività, e semplicemente ad aprire tutti gli organi per lasciarsi penetrare da tutti i generi di impressione; e, per mezzo di una segreta e altamente benefica simpatia, questo istinto è massimamente forte quando la vita universale si manifesta nel modo più chiaro nel nostro petto e nel mondo circostante: ma non sia concesso ai fanciulli di seguire questo istinto in quieta e inattiva calma, giacché, dal punto di vista della vita sociale, questa è indolenza e inoperosità. In tutto dev’esservi sempre intenzione e fine, i giovani devono sempre realizzare qualcosa, e quando lo spirito non può compiere il proprio servizio, esercitino il corpo; lavoro e gioco, ma nessuna contemplazione calma e devota. La questione principale, però, è che essi devono comprendere tutto e, attraverso la comprensione, vengono interamente defraudati della loro sensibilità: infatti, per il modo in cui la comprensione viene esercitata, è interamente con-

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trapposta alla sensibilità. Il senso cerca per sé oggetti, gli si fa contro e si offre ai loro abbracci; essi devono portare in sé qualcosa che li caratterizzi in quanto adeguati al senso, in quanto sua opera; esso vuol trovare e lasciarsi trovare; alla loro comprensione non interessa per nulla donde gli oggetti provengono; mio Dio! essi anzi sono là, come un bene ben acquistato ed ereditato, già ben enumerati e definiti da molto tempo; accettateli come la vita li porta, infatti dovete comprendere proprio quelli che essa porta: volerli fare, e cercare da se stessi, è anzi eccentrico, è arrogante, è una vana agitazione; quali frutti porta infatti nella vita umana? Certamente nessuno; ma, senza ciò, non è trovato alcun Universo. Il senso aspira a cogliere l’impressione indivisa di qualcosa di totale; esso vuol guardare “cosa” e “come” qualcosa sia per sé, e vuol conoscere ogni cosa nel suo carattere peculiare: a ciò non attribuisce nessuna importanza la loro comprensione; il “cosa” e il “come” sono troppo lontani da siffatti individui, perché essi ritengono che quel carattere consista solo nel “da-dove” e nel “verso-dove”, attorno a cui gravitano incessantemente. Questo è il loro grande scopo; il posto che un oggetto assume nella serie dei fenomeni, il suo iniziare e cessare è il loro tutto. Neppure si domandano se e come ciò che intendono comprendere sia un tutto – perché ciò li porterebbe certo lontano e, guidati da una siffatta tendenza, non ne uscirebbero del tutto sprovvisti di religione –, anzi vogliono sempre frantumarlo e anatomizzarlo. Si comportano così perfino con ciò che è là al fine di soddisfare il senso alla sua massima potenza, con ciò che, per dir così, a loro dispetto, è un tutto in se stesso, intendo dire con tutto ciò che è arte nella natura e nelle opere dell’uomo: essi lo annientano prima che possa esercitare la sua influenza, e sostengono che deve essere compreso nel particolare e che questo e quello devono essere appresi da frammenti separati. Dovrete concedere che questa è di fatto la praxis delle persone versate per la conoscenza; ammetterete che una ricca e forte sovrabbondanza di senso è necessaria perché anche soltanto qualcosa sia sottratta a questi trattamenti ostili, e che già per questo non può che essere ristretto il numero di coloro che s’innalzano fino alla religione. Ma questo numero si restringe ancor di più per il fatto che si fa tutto il possibile affinché il senso, che ancora rimane, non sia rivolto esclusivamente all’Universo. Gli uomini, con tutto ciò che è in loro, dovrebbero essere trattenuti nei quadri della vita civile. Anzi, ogni agire deve rapportarsi a quest’ultima, e così, ritengono che anche la celebrata, intima, armonia dell’uomo non consiste in null’altro che nel rapportarsi nuovamente, e per intero, al suo agire civile. Credono che egli abbia sufficiente materia per il suo senso e ricchi quadri davanti a sé, quand’anche non abbandoni mai questo punto di vista, che è contemporaneamente il suo punto fermo e il suo centro di rotazione. Pertanto, tutti i

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sentimenti, che non hanno a che fare con ciò, sono, per dir così, inutili esborsi, con i quali ci si consuma e da cui l’animo dev’essere il più possibile rattenuto attraverso un’attività finalizzata. Pertanto, il puro amore per la poesia e per l’arte è una dissolutezza, che si sopporta soltanto perché non è così grave come altre. Così anche il sapere è praticato con saggia e sobria moderazione affinché non superi questi limiti e, mentre la cosa più piccola che abbia incidenza in quest’ambito non è trascurata, queste persone discreditano la più grande, proprio perché tende a qualcosa di più vasto del sensibile. Che vi siano cose, che devono essere sviscerate fino a una certa profondità, è per gli intellettuali un male necessario, e grati agli dèi che ancora, per invincibile inclinazione, alcuni vi si immolino, vedono costoro, con devota compassione, quali vittime volontarie. Che vi siano sentimenti, che non si vogliono lasciar imbrigliare dalla loro imperativa necessità pratica, e che per questa via tante persone diventino infelici e immorali – giacché io annovero tra questi coloro che si elevano un po’ al di sopra dell’industriosità e per cui la parte etica della vita civile è tutto – ciò è l’oggetto del loro più cordiale rammarico e essi lo accolgono come uno dei più profondi danni dell’umanità, a cui vorrebbero veder posto rimedio quanto prima. Il grande male, però, è che le persone per bene credono che la propria attività sia universale ed esaurisca l’umanità, e se si fa ciò che esse fanno, non serva alcun sentimento al di fuori di quello per ciò che si fa. Per questo, tagliano tutto con le loro forbici, e non vorrebbero mai lasciare che si verifichi una manifestazione originale, che possa diventare un fenomeno con un significato religioso; infatti, ciò che può esser visto e compreso dal punto in cui si trovano, vale a dire tutto ciò che vogliono far valere, è una ristretta e improduttiva cerchia, senza scienza, senza etica, senza arte, senza amore, senza spirito, e invero anche senza lettera; in breve, senza tutto ciò per cui il mondo potrebbe essere scoperto, seppure avanzino molte arroganti pretese su tutto questo. Credono certamente di avere il mondo vero e reale e che sarebbero loro a poter davvero cogliere tutto nella giusta connessione. Potessero una buona volta rendersi conto che bisogna necessariamente aver trattato ogni cosa nella sua peculiare natura e nella propria compiuta perfezione, per considerarla come elemento del Tutto. Giacché nell’Universo qualcosa può esservi solo attraverso la totalità dei suoi effetti e delle sue connessioni; tutto tende alla totalità, e per inoltrarvisi bisogna che una cosa sia considerata non tanto da un punto esterno a essa, ma a partire dal suo centro e da tutte le parti che stanno in relazione con il suo centro, vale a dire nella sua esistenza particolare, e nel suo essere proprio. Conoscere un unico punto di vista per tutto è l’esatto contrario d’aver tutti i punti di vista per ciascuna cosa, è il modo per allontanarsi dall’Universo in linea diritta, affondare nella limitatezza più mi-

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serevole e diventare un vero glebae adscriptus del luogo su cui, proprio per caso, ci troviamo. Vi sono, nel rapporto dell’uomo con questo mondo, alcuni passaggi verso l’Infinito, alcune prospettive dischiuse a cui ciascuno è condotto affinché il suo animo trovi la via verso l’Universo, e alla cui vista sono stimolati sentimenti che invero non sono religione ma certo, se così posso esprimermi, uno schematismo di essa. Tali persone ostruiscono prudentemente queste aperture e mettono nella fessura qualcosa con cui si ricopre in altri casi un luogo irrilevante, una brutta immagine, una caricatura filosofica; e quando, come talvolta comunque accade affinché anche a loro si riveli l’onnipotenza dell’Universo, qualche raggio giunge ai loro occhi, e la loro anima non può sottrarsi a un debole stimolo di quei sentimenti, l’Infinito non è comunque il fine a cui essa s’innalza in volo per acquietarsi ma, come il contrassegno al termine di un percorso, è solo il punto attorno a cui, senza toccarlo, ruota alla massima velocità, per poter far ritorno, quanto prima tanto meglio, al suo vecchio luogo. Il nascere e il morire sono tali punti, dalla cui percezione non può sfuggirci che il nostro proprio io è circondato ovunque dall’Infinito, dato che senz’altro stimolano una silenziosa nostalgia e un sacro rispetto; l’incommensurabile dell’intuizione sensibile è pur sempre, a dir poco, un indizio di un’altra e più alta Infinità: ma per tali persone nulla sarebbe più desiderabile di poter utilizzare il più grande diametro del sistema planetario come peso e misura nella vita comune, come ora si utilizza la massima circonferenza della terra.34 E quando l’intuizione della vita e della morte li coglie di colpo, per quanto al suo cospetto possano anche parlare di religione, credetemi, a loro non sta a cuore nulla quanto guadagnare, come in ogni occasione di questo tipo, qualche giovane alla causa di Hufeland.35 Certamente, esse sono punite a sufficienza; infatti, giacché non si trovano in alcuna posizione privilegiata per mettere in pratica personalmente, secondo principî, almeno questa saggezza di vita cui sono attaccate, si muovono servilmente e con deferenza in vecchie forme o si dilettano di lievi miglioramenti, e questa è la vetta dell’utilità verso cui l’epoca è accorsa a rapidi passi dall’inutile sapienza verbale scolastica: una nuova barbarie come degno contrappeso

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dell’antica, è questo il bel risultato della paternalistica politica eudemonistica che ha preso il posto del rude dispotismo. Noi tutti siamo passati di qua e la disposizione alla religione ha sofferto sin dalla nascita di non poter tenere, nel suo sviluppo, lo stesso passo delle altre. Questi uomini non li associo proprio a voi con cui parlo, giacché essi non disprezzano la religione, benché la annientino, e non possono nemmeno essere definiti colti, anche se plasmano l’epoca e illuminano gli uomini, desiderando far ciò fino a un’incresciosa limpidezza – costoro sono tuttora la parte egemone, mentre voi e noi un modesto mucchietto. Intere città e interi paesi sono educati secondo i loro principî, e una volta che l’educazione è sorta, la si ritrova nella società, nelle scienze e nella filosofia: sì, anche in quest’ultima, infatti, non solo la filosofia antica – ora, come saprete, la si suddivide con molto spirito storico solo in antica, moderna e contemporanea – è la loro autentica dimora, ma si sono impossessati anche della moderna. Attraverso la sua energica influenza su ogni interesse mondano e attraverso la falsa apparenza della filantropia, per mezzo della quale abbaglia anche l’inclinazione sociale, questo modo di pensare reprime tuttora, con massima forza, la religione e si oppone a ogni movimento attraverso cui essa vuol manifestare da qualche parte la sua vita. Solo con il più deciso spirito di opposizione contro questa tendenza generale, comunque, la religione può oggi innalzarsi e non può mai apparire in una forma diversa da quella che più ripugna a quelle persone. Infatti, così come tutto segue la legge dell’affinità, anche il senso può ottenere il sopravvento soltanto là dove è entrato in possesso di un oggetto, a cui la comprensione, che gli è nemica, si attacca solo fievolmente, ed esso può dunque appropriarsene nel modo più semplice e con una sovrabbondanza di libera forza. Questo oggetto è però il mondo interiore, non l’esteriore: la psicologia esplicativa, questo capolavoro di quel tipo di comprensione, dopo essersi per mancanza di moderazione esaurita e quasi disonorata, ha nuovamente ceduto il campo all’intuizione. Chi, pertanto, è un uomo religioso, di certo, con il proprio senso, è tornato a se stesso, tutto preso nell’intuizione di sé, e lascia per il momento ancora agli intellettuali, a scopo precipuo delle loro ricerche, tutto ciò che è esterno, tanto della dimensione spirituale quanto della dimensione fisica. Proprio così, secondo la stessa legge trovano più facilmente il passaggio all’Infinito coloro che dalla loro natura sono allontanati di più dal punto in cui si trovano tutti gli avversari dell’Universo. Da ciò deriva che da lungo tempo in qua tutti gli animi veramente religiosi si distinguono

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per una coloritura mistica, e che tutte le nature fantastiche, che non si occupino della realtà delle situazioni mondane, hanno impeti religiosi: è questo il carattere di tutti i fenomeni religiosi della nostra epoca, sono questi i colori da cui sono, seppure nelle combinazioni più diverse, composti. Dico fenomeni; infatti, non c’è da aspettarsi di più nello stato attuale di cose. Alle nature fantastiche manca uno spirito penetrante, la capacità di impadronirsi dell’essenziale. Un facile gioco mutevole di combinazioni belle, spesso entusiasmanti, ma spesso solo casuali e del tutto soggettive, è per loro sufficiente ed è il massimo; inutilmente una profonda e più intima connessione si offre ai loro occhi. Esse in verità cercano solo l’infinitezza e l’universalità della titillante apparenza – che sono molto meno o anche molto più di ciò a cui il senso davvero si estende –, apparenza a cui esse sono abituate a tenersi, e pertanto tutte le loro vedute rimangono frammentate e fugaci. Presto il loro animo si accende, ma solo con una fiamma instabile e, per dir così, volubile: esse hanno solo accessi di religione, come quelli che hanno dell’arte, della filosofia, e di tutto ciò che è grande e bello, la cui apparenza di colpo le attira a sé. A coloro, invece, alla cui intima essenza appartiene la religione, il cui senso tuttavia rimane sempre ripiegato su di sé, perché nell’attuale condizione del mondo non sa impadronirsi di qualcosa in più, manca troppo presto la materia per diventare virtuosi o eroi della religione. C’è una grande, vigorosa mistica, che anche l’uomo più frivolo non può considerare senza venerazione e devozione e che, attraverso la sua eroica semplicità e il suo orgoglioso disprezzo del mondo, costringe all’ammirazione anche il più razionalista. Un tale mistico, non saziato, appunto, e ricolmo di intuizioni esterne dell’Universo, ma sempre, per una misteriosa movenza, risospinto da ogni singola intuizione su se stesso, e scoprentesi compendio e chiave del tutto; convinto da una grandiosa analogia e da un’audace fede che non è necessario abbandonare se stesso, ma che lo spirito ha in sé a sufficienza per rendersi conto anche di tutto ciò che potrebbe dargli l’esterno; un tale mistico chiude per sempre gli occhi, per libera decisione, a tutto ciò che non è lui: ma questo disprezzo non è ignoranza, questa chiusura del senso non è impotenza. Ai nostri mistici accade, invece, così: essi hanno imparato a non vedere nulla fuori di sé perché, nella cattiva maniera della conoscenza comune, ogni cosa è stata per loro più abbozzata che mostrata, dalla loro autocontemplazione ora non rimane loro né sufficiente senso né sufficiente luce per penetrare questa antica tenebra e, irritati con la loro epoca, a cui hanno da rivolgere

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rimostranze, non vogliono avere niente a che fare con ciò che, in essi, è opera sua. Pertanto, l’Universo è in loro informe e modesto, hanno troppo poco da intuire e, trovandosi soli con il loro senso, obbligati a ruotare eternamente in una cerchia troppo ristretta, il loro sentimento religioso perisce, dopo una vita malaticcia, per mancanza di stimolo, per indiretta debolezza.36 Per quelli il cui senso per l’Universo, volgendosi audacemente verso l’esterno con maggiore forza ma anche con minore cultura, cerca anche lì maggiore e nuova materia, si profila una fine differente, che molto apertamente manifesta la loro avversione per l’epoca, una morte stenica, dunque, se volete, un’eutanasia, ma un’eutanasia atroce – il suicidio dello spirito, che, non essendo in grado di capire il mondo, la cui intima essenza, il cui grande senso, gli è rimasto estraneo tra le ristrette prospettive della sua educazione, ingannato da fenomeni confusi, dedito a sfrenate fantasie, cercando l’Universo e le sue tracce lì dove non fu mai, alla fine, in modo indignato, rompe completamente la connessione di interno ed esterno, fuga l’impotente intelletto, e finisce in una sacra follia, la cui fonte quasi nessuno conosce, vittima, sonoramente urlante eppure incompresa, del disprezzo e del maltrattamento generale di ciò che di più intimo vi è nell’uomo. Eppure solo una vittima, non un eroe: chi soggiace banalmente all’ultima prova non può essere annoverato tra quelli che hanno ricevuto i più intimi misteri. Questo lamento, che non vi siano tra noi rappresentanti della religione stabili e riconosciuti dal mondo intero, non deve tuttavia revocare ciò che prima ho affermato, con piena consapevolezza, vale a dire che anche la nostra epoca non sia più sfavorevole alla religione di qualsiasi altra. Di certo, la quantità di religione non è scemata nel mondo, piuttosto si è frantumata e dispersa in parti troppo lontane le une dalle altre; con energica pressione, essa si rivela però solo in manifestazioni piccole e semplici, ma numerose, che pongono in risalto la molteplicità del Tutto e allietano l’occhio dell’osservatore più che poter produrre di per sé un’impressione grande e sublime. Il convincimento che ci siano molti che spirano il più fresco alito della giovane vita in sacra nostalgia e sacro amore per l’Eterno e per l’Imperituro, e solo tardi, o forse mai, sono vinti interamente dal mondo; che non ci sia alcuno al quale l’alto spirito del mondo non sia apparso almeno una volta e non abbia gettato a chi si vergogna di sé, a chi arrossisce della propria indegna limitazione, uno di quegli sguardi penetranti che l’occhio abbassato sente senza vederli – tale convincimento si presenti qui ancora una volta, e che la coscienza di ciascuno di voi

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possa giudicarlo. Questa generazione manca solo, e non può non mancare, di eroi della religione, di anime sante come si vedevano un tempo, per cui la religione è tutto e che sono penetrate completamente da essa. E quando mi fermo a riflettere su cosa deve accadere e su quale direzione deve assumere la nostra formazione affinché riappaiano uomini religiosi in uno stile superiore, come prodotti invero rari ma di certo naturali della loro epoca, trovo che voi, attraverso tutto il vostro sforzo – se anche con la vostra coscienza tocca a voi stessi decidere – venite non poco in aiuto di una palingenesi della religione, e che in parte il vostro agire in generale, in parte le ambizioni di una cerchia più ristretta, in parte le idee sublimi di alcuni spiriti straordinari sono, nel cammino dell’umanità, utilizzati per questo scopo finale. L’estensione e la verità dell’intuizione dipendono dall’acutezza e dell’ampiezza del sentimento, e il più saggio, se privo di sentimento, non è più vicino alla religione del più stolto dotato di uno sguardo adeguato. Tutto pertanto deve cominciare dal fatto che sia posta fine alla schiavitù in cui il sentimento degli uomini funge da obiettivo di quegli esercizi di comprensione per mezzo dei quali non ci si esercita a nulla, di quelle spiegazioni che non chiarificano niente, di quelle scomposizioni che non risolvono niente; e questo è uno scopo in vista del quale tutti voi presto lavorerete unendo le energie. Con i miglioramenti dell’educazione è andata come con tutte le rivoluzioni che non hanno preso avvio dai principî supremi; esse slittano gradualmente nell’antico corso delle cose e solo alcune trasformazioni all’esterno serbano il ricordo dell’avvenimento, in principio ritenuto, per la sua grandezza, un miracolo. L’educazione intellettuale e pratica per il momento si differenzia soltanto poco – e questo “poco” non riguarda né lo spirito né l’attività – dalla vecchia educazione meccanica. Ciò non vi è sfuggito, una tale educazione è già in gran parte, proprio per questo, odiata e si diffonde una idea più pura della santità dell’età infantile e dell’eternità dell’inviolabile arbitrio, le cui manifestazioni si devono attendere e spiare già nell’età della crescita. Presto questi impedimenti saranno rotti, la potenza dell’intuizione assumerà possesso del suo intero regno, ogni organo di senso si schiuderà e gli oggetti potranno entrare in contatto in ogni modo con l’uomo. Può ben coesistere con questa illimitata libertà del sentimento, una limitazione e un solido orientamento dell’attività. Questa è la grande richiesta con cui i migliori tra voi si presentano ora ai contemporanei e ai posteri. Voi siete stanchi di osservare l’infecondo girovagare enciclopedico, voi stessi siete diventati ciò che siete solo sulla via di tale autolimitazione, e sapete che non ve n’è un’altra per istruirsi; insistete pertanto che ognuno deve cercare di diventare qualcosa di determinato e deve

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perseguire qualcosa con costanza e con tutta l’anima. Nessuno può cogliere la verità di questo consiglio meglio di colui che è già pervenuto alla maturità di quella universalità del sentimento, perché egli deve sapere che non si darebbero oggetti se tutto non fosse separato e delimitato. E anch’io mi rallegro di questi sforzi e vorrei che essi fossero già ulteriormente accresciuti. Alla religione saranno di massima utilità. Infatti, proprio questa limitazione della forza spiana tanto più sicuramente al sentimento, se solo non viene limitato, la via verso l’Infinito e riapre la comunanza per tanto tempo sbarrata. Chi ha molto osservato e conosciuto, e può decidersi a fare e a promuovere qualcosa di particolare con grande forza e per se stesso, non può far altro che riconoscere che anche il restante particolare è qualcosa che deve esser fatto ed esistere per se stesso, poiché altrimenti si contraddirebbe, e se poi ha accresciuto quanto può ciò che ha scelto, non gli sfuggirà, proprio alla vetta della perfezione, che esso non è nulla senza quel che resta. Questo riconoscimento dell’estraneo e questa negazione del proprio che si impongono ovunque a un uomo assennato, questo amore e questo disprezzo, richiesti contemporaneamente, per tutto ciò che è finito e delimitato non sono possibili senza un oscuro presentimento dell’Universo, e devono necessariamente causare un desiderio più puro e più determinato all’Infinito, all’Uno nel Tutto. Ciascuno, a partire dalla propria coscienza, conosce tre diversi orientamenti del sentimento: l’uno verso l’interno, verso il proprio io; l’altro verso l’esterno, verso l’indeterminato dell’intuizione del mondo; e il terzo che li collega, in quanto il sentimento, in un continuo oscillare qua e là tra entrambi, trova riposo soltanto nell’assunzione incondizionata della loro più intrinseca unione; è questo l’orientamento verso ciò che è in sé perfetto, verso l’arte e le sue opere. Solo uno di questi orientamenti può essere la tendenza prevalente di un uomo, ma a partire da ognuno di essi si profila una via che conduce alla religione e la religione acquisisce una forma peculiare a seconda della via particolare seguendo la quale è stata trovata. Osservate voi stessi con immutato sforzo, separate tutto ciò che non fa parte del vostro io, avanzate con senso sempre più acuto e, quanto più perderete voi stessi, tanto più chiaramente l’Universo si staglierà di fronte a voi, tanto più magnificamente sarete ripagati dello spavento dell’autoannientamento, attraverso il sentimento dell’Infinito che è in voi. Osservate una qualsiasi parte, un qualsiasi elemento del mondo fuori di voi, e coglietelo nella sua intera essenza, ma cercate anche tutto ciò che è, non solo in sé, ma anche in voi, in questo e in quello e dappertutto, rifate il vostro cammino dalla circonferenza al centro sempre più spesso e a distan-

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ze sempre maggiori: presto perderete il finito e avrete trovato l’Universo. Se non fosse empio desiderare ciò che s’innalza al di sopra di sé, io spererei di poter intuire con chiarezza, appunto, come il senso dell’arte trapassa, da sé solo, nella religione, come, nonostante la tranquillità in cui l’animo è immerso grazie a ogni singolo godimento, esso si senta tuttavia spinto a compiere i passi in avanti che possono condurlo all’Universo. Perché quelli a cui è piaciuto percorrere questa via sono nature tanto silenziose? Io non conosco questa via, questo è il mio peggior limite, questo è il vuoto che avverto profondamente nella mia essenza, ma che, pure, tratto con rispetto. Mi rassegno a non vedere, ma io – credo; la possibilità della cosa sta chiaramente di fronte ai miei occhi, solo che essa deve restare per me un mistero. Se, anzi, è vero che vi sono celeri conversioni, occasioni per le quali all’uomo, che a nient’altro pensava meno che a elevarsi al di sopra del finito, si rivela in un attimo, come per una illuminazione interiore improvvisa, il senso dell’Universo, investendolo del suo splendore; credo allora che, più di ogni altra cosa, può realizzare questo miracolo la visione di grandi e sublimi opere d’arte; solo che io non lo capirò mai: tuttavia questa fede è orientata più al futuro che al passato o al presente. Trovare l’Universo sulla via della più levigata autocontemplazione fu l’occupazione dell’antichissimo misticismo orientale che, con mirabile audacia, collegava subito l’infinitamente grande all’infinitamente piccolo e trovava tutto proprio al confine del nulla. Per quanto ne so, dalla visione del mondo ha tratto origine ogni religione il cui schematismo era il cielo o la natura organica, e l’Egitto politeista fu lungamente il più perfetto cultore di questa maniera di sentire, in cui – ciò si lascia per lo meno intendere – la più pura intuizione dell’Infinito e del Vivente originario era contenta d’aver camminato con umile tolleranza proprio a fianco della più oscura superstizione e della più insensata mitologia; di una religione artistica, che avrebbe dominato popoli ed epoche, non ho mai appreso nulla. So solo questo, che il senso artistico non si è mai avvicinato a quei due modi della religione, senza colmarli di nuova bellezza e sacralità, e senza mitigare amichevolmente la loro originaria limitatezza. Così dai più antichi saggi e poeti dei greci, la religione naturale fu volta in forma più bella e gaia e, in questo modo, il loro divino Platone innalzò la santissima mistica alla vetta più alta della Divinità e dell’umanità. Lasciate che renda omaggio alla dea a me ignota che si è presa cura di lui e della sua religione tanto premurosamente e disinteressatamente. Ammiro il bellissimo oblio di sé in tutto ciò che egli, con santo fervore, dice contro di essa, come un giusto re

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che non risparmia neppure la madre troppo compassionevole, giacché tutto ciò che aveva valore era solo il servizio volontario da essa prestato all’imperfetta religione naturale. Ora, essa non presta servizio a nessuna religione, e tutto è diverso e peggiore. Religione e arte stanno l’un l’altra vicine, come due anime amichevoli la cui intima affinità, sebbene ne abbiano il presentimento, è loro ancora ignota. Amichevoli parole ed effusioni del cuore37 fluttuano sempre sulle loro labbra e tornano sempre indietro perché non possono ancora trovare il giusto modo e il fondamento ultimo del loro sentire e aspirare. Esse attendono una più precisa rivelazione e, soffrendo e sospirando sotto la stessa pressione, si tollerano reciprocamente, con intima inclinazione e profondo sentimento forse, ma certo senza amore. Solo questa comune pressione deve causare il felice momento della loro unificazione? O se vi affretterete ad accordare il vostro favore a quella delle due che stimate di più, essa si affretterà di certo, con sororale fedeltà, a farsi carico dell’altra. Ma, attualmente, non solo entrambi i tipi di religione sono privi del sostegno dell’arte, ma anche la loro condizione è per sé peggiore che mai. Entrambe le sorgenti dell’intuizione dell’Infinito fluivano in modo grandioso e sontuoso in un’epoca in cui un cavillare scientifico privo di veri principî non aveva ancora, con la sua abiezione, pregiudicato la purezza del sentimento, e ciò avveniva benché nessuna delle due fosse per sé sufficientemente ricca da produrre il massimo; adesso, peraltro, esse sono intorbidite dalla perdita della semplicità e dall’infausto influsso di una visione immaginaria e falsa. Come purificarle? Come conferire loro energia e pienezza sufficienti a fecondare il suolo per dare qualcosa di più che prodotti effimeri? Condurle e unirle nel medesimo letto, è questa l’unica cosa che può portare alla perfezione la religione sulla via che stiamo percorrendo, questo sarebbe un avvenimento dal cui seno essa muoverebbe verso tempi migliori in una forma nuova e magnifica. Vedete, lo scopo delle vostre aspirazioni attuali più alte è contemporaneamente la resurrezione della religione! Sono i vostri sforzi a dover provocare questo evento e io vi celebro come i salvatori e i tutori inconsapevoli della religione. Non retrocedete dal vostro posto e dalla vostra opera fin quando non avrete dischiuso le intime profondità della conoscenza e non avrete aperto, con umiltà sacerdotale, il santuario della vera scienza, dove tutti coloro che entrano, e anche i figli della religione, sono ricompensati di tutto ciò che un sapere dimidiato e un’arrogante vanità avevano fatto smarrire. La morale nella sua pudica, bellezza celeste, lontana dalla gelosia e dall’oscurità dispotica, porgerà loro, all’ingresso, la lira celeste e lo specchio magi-

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co per accompagnare con suoni divini il loro serio e silenzioso lavoro formativo e vederlo, in innumerevoli forme, sempre lo stesso per l’eternità. La filosofia, innalzando l’uomo al concetto della sua interazione con il mondo, insegnandogli a conoscersi, non solo come creatura ma, al contempo, come creatore, non sopporterà più che sotto i suoi occhi si strugga in povertà e nel bisogno, incapace di raggiungere il proprio scopo, colui che tiene permanentemente rivolto verso se stesso l’occhio del proprio spirito per cercarvi l’Universo. L’angoscioso muro divisorio è abbattuto, tutto ciò che è fuori di lui si trova, soltanto sotto diversa forma, in lui; tutto è riflesso del suo spirito, come il suo spirito è il calco di ogni cosa; egli può cercarsi in questo riflesso senza smarrirsi o uscire da sé; egli non può mai esaurirsi nell’intuizione di sé, giacché tutto si trova in lui. La fisica pone, a baldanzosi passi, al centro della natura colui che si guarda attorno per osservare l’Universo, e non sopporta più che egli si distrugga in modo infecondo, soffermandosi su singoli, piccoli tratti. Egli segue soltanto il gioco delle forze della natura fin nel loro territorio più misterioso, dall’inaccessibile serbatoio della materia mobile sin alla complicata officina della vita organica, egli misura la potenza della natura dai confini dello spazio generatore di mondi sin al centro del proprio io, e trova ovunque se stesso, in eterno conflitto nell’unione più inscindibile con essa, centro più intimo e confine più esterno della natura. L’apparenza è scomparsa e l’essenza è conquistata; il suo sguardo è fisso e la sua visione è nitida, scorgendo in ogni dove, sotto tutti i travestimenti, la stessa cosa e non acquietandosi in alcun luogo se non nell’Infinito e nell’Uno. Vedo già tornare dal santuario alcune importanti forme iniziate a questi misteri, che ancora si purificano e si adornano solo allo scopo di vestire un abito sacerdotale. Possa ancora la dea dell’arte ritardare a lungo la sua apparizione favorevole, anche per questo il tempo ci porta un risarcimento grande e ricco. La più grande opera d’arte è quella la cui materia è l’umanità che l’Universo forma immediatamente, e il sentimento verso quest’opera deve presto schiudersi per molti. Proprio ora, infatti, l’Universo sta plasmando con arte audace e potente, e voi sarete i neocori quando le nuove creazioni saranno esposte nel tempio del tempo. Intendete l’artista con energia e spirito, spiegate le opere posteriori dalle precedenti, e queste da quelle. Lasciateci intrecciare passato, presente e futuro, un’interminabile galleria di sublimi opere d’ar-

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te, moltiplicata eternamente attraverso migliaia di specchi splendenti.38 Lasciate che la storia, come si addice a colei cui sono soggetti i mondi, ricompensi la religione con generosa gratitudine quale sua prima tutrice, e ridesti veri e santi adoratori dell’eterna potenza e saggezza. Osservate come la pianta celeste cresca nel mezzo delle vostre senza il vostro intervento. Non disturbatela e non estirpatela! È una dimostrazione della benevolenza degli dèi e dell’immortalità del vostro merito, è un ornamento che lo decora, un talismano che lo protegge.

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Quarto discorso

La socievolezza del la religione o la Chiesa e il sacerdozio Quelli tra di voi che sono abituati a considerare la religione solo una malattia dell’animo, sono anche di certo soliti gingillarsi con l’idea che sia un male più facile da sopportare, forse anche da reprimere, fin quando ne siano contagiati qua e là solo individui isolati, ma che il comune pericolo cresca al massimo e tutto vada perso appena tra molti infelici di questo tipo si costituisca una comunità eccessivamente stretta. Nel primo caso, attraverso un trattamento, per dir così, appropriato, una dieta contro l’infiammazione e aria salutare, si potrebbero indebolire i parossismi del male e, lì dove non è possibile vincere la particolare materia affetta, si potrebbe almeno assottigliarla fino a renderla innocua; nel secondo caso invece, bisognerebbe abbandonare ogni speranza di salvezza; il male diventerebbe molto più rovinoso e sarebbe accompagnato da sintomi più pericolosi se l’eccessiva prossimità degli altri lo nutre e lo acutizza in ogni individuo; l’intera atmosfera sarebbe allora presto avvelenata da pochi, anche i corpi sani ne verrebbero contagiati, sarebbero distrutti tutti i canali in cui deve svolgersi il processo della vita, tutti i liquidi andrebbero dispersi e, presi da una stessa febbricitante pazzia, intere generazioni e popoli sarebbero irrimediabilmente perduti. Da ciò la vostra avversione per la chiesa, per ogni istituzione con cui si provvede alla diffusione della religione, è maggiore perfino di quella contro la religione stessa; per questa ragione, i sacerdoti, quali sostenitori e membri attivi di tali istituzioni, sono per voi gli uomini più esecrabili. Ma anche quelli tra di voi che hanno un’opinione un po’ più moderata della religione, e la considerano più una particolarità che uno stravolgimento dell’animo, più una manifestazione insignificante che pericolosa, hanno concetti altrettanto ostili verso tutte le istituzioni sociali volte a promuoverla. Servile sacrificio di ciò che è peculiare e libero, meccanismo inanimato e vuote consuetudini ne sarebbero, ri-

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tengono, le conseguenze inevitabili, e a ciò si ridurrebbe l’opera assai artificiosa di coloro che con incredibile successo si arrogano grandi meriti per cose o che sono nulla o che ogni altro avrebbe potuto realizzare altrettanto bene. Avrei dato sfogo al mio cuore contro di voi, su un oggetto che è per me così importante, solo molto imperfettamente se anche in merito a questo non mi fossi premurato di porvi nel giusto punto di vista. Non devo necessariamente ripetere quanta colpa attribuite alle associazioni religiose per i tentativi sbagliati e i tristi destini dell’umanità, essa è attestata dalla magliaia di esternazioni dei più importanti tra voi; né voglio soffermarmi a contestare queste accuse a una a una e a ricondurre il male ad altre cause: sottoponiamo piuttosto l’intero concetto a una nuova considerazione, e riformuliamolo da capo, a partire dal centro dell’argomento, senza preoccuparci di ciò che è stato finora e di ciò che l’esperienza ci consegna. Una volta che la religione c’è, deve necessariamente essere anche sociale: ciò non solo sta nella natura dell’uomo, ma sta anche, in modo pienamente adeguato, nella natura della religione. Dovete concedere che è cosa del tutto innaturale che l’uomo voglia rinchiudere in sé anche ciò che ha prodotto ed elaborato. Nell’interazione permanente, non soltanto pratica, ma anche intellettuale, in cui si trova con il resto della sua specie, egli deve esternare e comunicare tutto ciò che è in lui, e quanto più vivacemente qualcosa lo commuove, quanto più intimamente penetra il suo essere, tanto più decisamente opera l’impulso a osservare la forza della stessa cosa anche negli altri, al di fuori di sé, per legittimarsi di fronte a se stesso del fatto che in lui non è capitato nulla che non sia umano. Voi comprendete che qui il discorso non verte affatto su quell’aspirazione a rendere gli altri simili a noi, e nemmeno sulla convinzione che quel che è in noi sia per tutti irrinunciabile; ma solo sul rendersi conto del rapporto dei particolari avvenimenti che si compiono in noi con la natura comune agli uomini. L’oggetto più proprio, però, di questo desiderio è incontestabilmente quello per il quale l’uomo si avverte originariamente quale essere che patisce: le intuizioni e i sentimenti; qui il desiderio lo spinge a voler sapere se non vi sia un potere sconosciuto e indegno a cui deve cedere. Pertanto vediamo l’uomo impegnato sin dall’infanzia a comunicare soprattutto queste intuizioni e questi sentimenti, mentre più facilmente lascia riposare in sé i suoi concetti, sulla cui origine del resto non può sorgere in lui alcun dubbio; ma su ciò che riguarda i suoi sensi, su ciò che sollecita i suoi sentimenti vuol testimoni, vuole aver compagni. Come potrebbe conservare per sé proprio gli effetti dell’Universo, che gli appaiono come la cosa più grande e irresistibile? Come potrebbe voler trattenere in sé proprio ciò che con maggiore impeto lo spinge al di fuori di sé, e null’altro imprime in lui più della certezza di non potersi conoscere da solo? Qualora una visione religiosa sia in lui dive-

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nuta perspicua, o un sentimento pio abbia penetrato la sua anima, la sua prima aspirazione è piuttosto di indicare l’oggetto anche ad altri e di trapiantare in essi, là dove sia possibile, i moti del suo animo. Pertanto, quando il religioso, spinto dalla sua natura, non può far altro che parlare, è proprio questa natura che gli procura anche gli ascoltatori. In nessun modo di pensare e di sentire, l’uomo ha un sentimento tanto vivo della sua totale incapacità a esaurirne mai l’oggetto come nella religione. Il suo sentimento per la religione si è appena dischiuso, ed egli ne sente già la sua infinità e i propri limiti; è consapevole di abbracciarne solo una piccola parte, e ciò che non può raggiungere immediatamente vuole per lo meno percepirlo attraverso una mediazione esterna. Ogni manifestazione di essa, pertanto, lo interessa e, cercando il proprio completamento, si dispone ad ascoltare ogni suono che riconosce di provenienza della religione. Così si organizza la comunicazione reciproca, così parlare e ascoltare sono, per ciascuno, allo stesso modo, irrinunciabili. Ma la comunicazione religiosa non è da cercare nei libri come accade forse per altri concetti e conoscenze. Troppo va perso della sua impressione originaria in questo mezzo, in cui è inghiottito tutto ciò che non si adegua ai segni uniformi nei quali deve essere nuovamente espresso, in cui tutto necessiterebbe di una duplice o triplice esposizione, in quanto ciò che è stato originariamente esposto dovrebbe essere esposto nuovamente e, d’altro canto, l’effetto sull’uomo intero non potrebbe essere riprodotto che malamente, nella sua grande unità, da una riflessione ripetuta; solo quando è fugato dalla società dei viventi, tale effetto deve nascondere la sua molteplice vita in morte lettere. Né questo scambio con la parte più intima dell’uomo può avvenire nella conversazione comune. Molti, che hanno un’ottima disposizione per la religione, vi hanno rivolto un rimprovero, chiedendosi perché tra voi la conversazione su tutti gli argomenti importanti avvenga in modo così amichevole e ciò non accada, soltanto, per quel che riguarda Dio e le cose divine. Vorrei prendere le vostre difese, rilevando che ciò non esprime né disprezzo né indifferenza, ma un istinto felice e molto giusto. Dove abitano anche gioia e riso, e la stessa serietà deve congiungersi in modo accomodante con lo scherzo e con il motto di spirito, non può esservi alcuno spazio per ciò che deve essere sempre circondato dalla santa riservatezza e dal timore reverenziale. Visioni religiose, sentimenti pii e riflessioni serie al riguardo non si possono nemmeno lanciare a piccole briciole dall’uno all’altro come i materiali di una discussione superficiale: là dove la discussione verte su argomenti tanto sacri, sarebbe più un sacrilegio che un’abilità aver immediatamente pronta una risposta per ogni domanda e una replica per ogni enunciazione. Le cose divine non si lasciano prendere in considerazione alla maniera di uno scambio facile e veloce

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di argute trovate: la comunicazione della religione deve avvenire in uno stile più alto e deve sorgerne un altro tipo di società, votata precisamente a tale comunicazione. Nei confronti della cosa suprema che il linguaggio può raggiungere conviene usare anche tutta l’accuratezza e magnificenza del discorso umano, non come se vi fosse qualche ornamento a cui la religione non può rinunciare, ma perché sarebbe empio e stolto non mostrare che viene rievocata ogni cosa al fine di rappresentare la religione nella forza e dignità a essa appropriate. È pertanto impossibile esprimere e comunicare la religione altrimenti che in maniera oratoria, con tutto l’impegno e tutta l’arte del linguaggio, disponendosi, per questo, ad assumere a servizio ogni arte capace di sostenere il discorso fluido e mobile. Perciò, la bocca di colui che ha il cuore pieno di religione non si apre se non al cospetto di un’assemblea, in cui può incidere in molti modi ciò che si presenta così sontuosamente equipaggiato. Io vorrei, potrei, farvi un quadro della ricca e fastosa vita in questa città di Dio, quando i suoi cittadini si riuniscono, essendo ognuno pieno di forza propria che vuol defluire in libertà e ricolmo di santo desiderio di accogliere e appropriarsi di tutto ciò che gli altri possono offrirgli. Quando uno compare al cospetto degli altri, non lo legittima un ufficio o un accordo, non lo riempiono di presunzione l’orgoglio o l’alterigia: ma è presente un libero impulso dello spirito, il sentimento della più cordiale unione di ciascuno con il tutto e della più perfetta uguaglianza, il condiviso annientamento di ogni differenza tra primi e ultimi e di ogni ordine terreno. Egli si fa avanti per presentare la propria intuizione quale oggetto per gli altri, per introdurli nella contrada della religione dove egli è di casa, e per infondere loro i propri sentimenti: egli esprime l’Universo, e in sacro silenzio la comunità segue il suo discorso ispirato. Sia solo che discopra un prodigio nascosto o, con visionaria fiducia, leghi il futuro al presente; sia che attraverso nuovi esempi consolidi antiche percezioni o che la sua ardente fantasia lo rapisca in sublimi visioni di altre parti del mondo o di un altro ordine delle cose: l’esercitato senso della comunità segue il suo sentimento ovunque e, quando egli dai suoi percorsi attraverso l’Universo fa ritorno in se stesso, il suo cuore e quello di ogni altro sono soltanto la scena comune del medesimo sentimento. Allora gli giunge in risposta la ferma confessione dell’accordo con quel che è negli altri, e in questo modo sono scoperti, e dunque celebrati, sacri misteri, non solo emblemi ricchi di significato, ma anche indicazioni naturali, opportunamente apprezzate, di una determinata coscienza e di precise sensazioni; quasi un coro più nobile, che risponde in una propria lingua sublime alla voce che lo invita. Ma più di quasi: come un siffatto discorso è musica anche senza canto e suono, così c’è anche una musica tra i santi che diventa discorso senza parole, la più precisa e comprensibile espressione dell’interiorità. La musa dell’armonia,

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il cui rapporto intimo con la religione appartiene ancora ai misteri, da sempre ha offerto sugli altari della religione le opere più magnifiche e perfette dei suoi discepoli più benedetti. In inni e cori sacri, cui le parole dei poeti aderiscono solo in modo lasso e arioso, è esalato ciò che un preciso discorso non può più accogliere, e così i ritmi del pensiero e della sensazione si supportano e si scambiano finché tutto è ricolmo e pieno di santità e infinità. È questo l’effetto che gli uomini religiosi esercitano l’uno sugli altri, questo è il loro naturale ed eterno connubio. Non rimproverateli di assegnare più valore a questo legame celeste – il più compiuto risultato della socievolezza umana, a cui essa può giungere solo se è riconosciuta nella sua più intima essenza dalla prospettiva più elevata – che al vostro mondano legame politico, che di certo è soltanto un’opera coatta, transitoria e provvisoria. Dov’è mai, in tutto ciò, quell’opposizione tra sacerdoti e laici che voi solitamente designate come la fonte di così numerosi mali? Una falsa apparenza vi ha abbagliati: non si tratta di una differenza tra persone, ma solo di una diversità di condizione e di orientamenti. Ognuno è sacerdote, in quanto ha condotto gli altri a sé sul terreno di cui si è appropriato in modo particolare e dove può presentarsi come virtuoso: ognuno è laico, in quanto segue l’arte e la sapienza di un altro, dove egli, in merito alla religione, è incompetente. Non c’è quella tirannica aristocrazia che voi descrivete in termini tanto odiosi: questa comunità è un popolo sacerdotale, una repubblica perfetta, dove ciascuno è a turno guida e popolo, ciascuno segue nell’altro la medesima energia che sente anche in sé e con cui, anche egli, regge gli altri. Dov’è lo spirito di discordia e di separazione che voi considerate come l’inevitabile conseguenza di tutte le associazioni religiose? Io non vedo nulla, se non che tutto è Uno, e che tutte le differenze, che vi sono per davvero nella stessa religione, fluiscono delicatamente l’una nell’altra in ragione del legame sociale. Io stesso ho richiamato la vostra attenzione su diverse gradazioni entro la religiosità, ho rimandato a due diversi tipi di sentimento e a diversi orientamenti in base ai quali la fantasia configura in modo individuale l’oggetto supremo della religione. Ritenete che da ciò debbano necessariamente sorgere sette, e che ciò debba impedire la libera socievolezza nella religione? Nella trattazione ideale vale certo che tutte le cose che sono poste le une al di fuori delle altre, e sono comprese in sezioni diverse, devono anche essere contrapposte e contrastanti; liberatevi però da questo pensiero quando osservate il reale stesso, giacché qui tutto si fonde in altro. Naturalmente coloro che in uno di questi punti sono più simili si attrarran-

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no anche reciprocamente nel modo più deciso, ma non per questo essi possono costituire un intero isolato: infatti, i gradi di tale affinità decrescono e crescono impercettibilmente, e in sì numerose transizioni non c’è, nemmeno tra gli elementi più distanti, nessuna repulsione assoluta, nessuna totale separazione. Prendete quella che volete di queste masse, che si costituiscono chimicamente in modo singolo; se voi non le isolate d’imperio attraverso una qualsiasi operazione meccanica, nessuna sarà un individuo in senso proprio: le loro parti più esterne quasi si connetteranno con le altre, che in verità appartengono già a un’altra massa. Quando coloro che si trovano allo stesso livello inferiore si collegano più strettamente, ve ne sono comunque alcuni che hanno un’intuizione di ciò che è migliore, e chiunque è posto realmente più in alto comprende meglio quelli più in basso di quanto facciano essi stessi; costui è consapevole del punto di unione che per quelli rimane nascosto. Se si uniscono coloro in cui è egemone uno dei tipi di sentimento su richiamati, ve ne sono certo alcuni che comprendono entrambi e appartengono a entrambi e colui, nella cui natura sta l’aspirazione a personificare l’Universo, nell’essenziale non è per nulla da distinguere, in materia di religione, da chi non lo fa, e non mancheranno mai quelli che possono immedesimarsi con facilità anche nella forma opposta. Se la prima e originaria condizione della religione, e dunque anche, com’è naturale, il suo frutto più bello e maturo, è un’illimitata universalità del sentimento, voi vedete bene, e non è possibile altrimenti, che, quanto più avanzate nella religione tanto più l’intero mondo religioso deve apparirvi come un tutto inseparabile: solo nelle più basse contrade può forse essere percepito un certo impulso alla separazione; coloro che stanno più in alto e sono più colti scorgono un’unione universale e proprio per il fatto che la vedono, al contempo, la istituiscono. Poiché ciascuno è in contatto solo con ciò che gli è più vicino ma, pure, ha vicino qualcuno in ogni parte e direzione, è di fatto collegato inseparabilmente con il tutto. All’interno della religione, mistici e fisici, teisti e panteisti, coloro che si sono innalzati alla visione sistematica dell’Universo e coloro che ancora lo scorgono soltanto negli elementi o nell’oscuro caos, tutti devono, comunque, essere un’unica cosa; un solo vincolo li lega tutti insieme e possono essere separati solo violentemente e arbitrariamente; ogni singola unione è soltanto una mobile parte integrante del tutto, che per i contorni indeterminati si dilegua in esso e sente sé soltanto così. Dov’è la malfamata, impetuosa ricerca di conversione a singole, determinate forme di religione, e dov’è lo spaventoso motto: non c’è salvez-

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za fuori di noi?39 Così come ve l’ho esposta, e così come deve essere secondo la propria natura, l’associazione dei religiosi aspira solo alla comunicazione reciproca ed esiste solo tra coloro che hanno già religione, quale che essa sia: come potrebbe, dunque, essere suo ufficio far cambiare opinione a coloro che già professano una determinata religione o condurvi e iniziarvi coloro a cui manca ancora completamente? La religione della società considerata nel suo insieme è l’intera religione, la religione infinita, che nessun individuo può interamente abbracciare, e a cui nessuno, nemmeno, può essere istruito e innalzato. Se qualcuno ha scelto per sé già una parte di essa, quale che essa sia, non sarebbe forse un procedimento insensato se la società volesse sottrargli ciò che è conforme alla sua natura, dal momento che la società deve comunque comprendere in sé anche questa parte, e quindi qualcuno deve possederla necessariamente? E a cosa la società dovrebbe voler educare coloro a cui la religione è in generale ancora estranea? Nemmeno la religione stessa può comunicare loro ciò che le è proprio, l’infinito Tutto: comunicherà, allora, per esempio, il generale, l’indeterminato, che risulterebbe, forse, se si cercasse ciò che grossomodo si può incontrare in tutti i suoi membri? Ma di certo sapete che, in ogni luogo, nulla può essere dato e comunicato realmente come generale e indeterminato, ma solo come qualcosa di singolare e in una forma assolutamente determinata, altrimenti non sarebbe qualcosa ma, in realtà, nulla. In questa impresa alla religione verrebbe a mancare, pertanto, ogni criterio e ogni regola. E come arriverebbe, in generale, a uscire da sé, dal momento che il bisogno da cui è sorta, il principio della socievolezza religiosa, non rimanda per nulla a qualcosa di simile. Pertanto, quando nella religione accade qualcosa di simile, si tratta sempre, soltanto, di un affare privato del singolo per sé. Costretto a tornare dal circolo dell’associazione religiosa, dove l’intuizione dell’Universo gli garantisce il più sublime godimento e dove compenetrato da santi sentimenti il suo spirito ondeggia sulla più alta vetta dell’esistenza, nella bassa contrada della vita, rimane sua consolazione il fatto che, al contempo, può riferire tutto ciò di cui là deve occuparsi a quello che per il suo animo rimane sempre la cosa suprema. Quando da lì discende tra coloro che si occupano di qualche aspirazione o azione mondana, egli crede facilmente, e vogliate perdonarglielo, di essere stato precipitato, dallo scambio con gli dèi e con le muse, in una generazione di rozzi barbari. Si sente come un amministratore della religione tra i non credenti, come un missionario tra i selvaggi; novello Orfeo, spera di conquistare alcuni di loro con suoni celesti, e appare tra di loro come una figura sacerdotale, esprimendo chiaramente e nitidamente il suo superiore sentimento in tutte le azioni e in tutto il suo es-

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sere. Se poi l’impressione del sacro e del divino stimola qualcosa di simile, quanto volentieri egli ha cura dei primi presentimenti di religione in un nuovo animo! Il che è una bella dimostrazione del suo prosperare anche in un clima estraneo e freddo; quanto trionfalmente trae con sé il novizio in alto, al sublime consesso! Questo lavorio alla diffusione della religione è solo la pia nostalgia dell’esule per la sua patria, lo sforzo di condurre con sé il suo paese natale, e di contemplare ovunque le sue leggi e i suoi costumi, la sua vita più nobile e bella, benché la patria, in sé beata e perfettamente adeguata per sé stessa, non conosca neppure un siffatto sforzo. Dopo tutto ciò direte forse che sembro essere interamente d’accordo con voi, ho costruito la Chiesa dal concetto del suo fine, e dato che le ho negato tutte quelle caratteristiche che attualmente la contraddistinguono, ho riprovato, come fate voi, la sua forma attuale. Vi assicuro però che non ho parlato di ciò che deve essere ma di ciò che è, almeno che non vogliate negare che esista già realmente ciò che è ostacolato dal manifestarsi anche allo sguardo più rozzo solo da limitazioni dello spazio. La vera Chiesa di fatto è sempre stata così, ed è ancora così, e se così non la vedete, la colpa di ciò è di certo vostra e sta in un fraintendimento alquanto rilevante. Considerate solo, vi prego, che io, per servirmi di un’espressione antica ma ricca di senso, non ho parlato della Chiesa militante, ma della Chiesa trionfante, non ho parlato di quella che è ancora in lotta contro tutti gli ostacoli alla formazione religiosa che l’epoca e la condizione dell’umanità le pongono per via, ma di quella che ha già superato tutto ciò che le si opponeva e ha costituito se stessa. Vi ho presentato una società di uomini, che sono diventati coscienti della religione e per cui la prospettiva religiosa della vita è diventata una tra quelle dominanti, e poiché spero di avervi convinto che codesti devono essere uomini di una certa istruzione e di molta forza e che dunque, di essi, possono esservene sempre molto pochi, allora non dovete di certo cercare la loro associazione là dove molte centinaia di persone sono riunite in grandi templi e il loro canto scuote il vostro orecchio sin da lontano; sapete bene che uomini siffatti non sono così prossimi gli uni agli altri. Forse solo in singole comunità, per dir così, separate dalla grande Chiesa si può trovare qualcosa di simile, riunito in un determinato spazio: è però sicuro che tutti i veri uomini religiosi, per quanti ne siano esistiti, hanno portato con sé non solo la fede, ma il sentimento vitale di una tale associazione, e hanno vissuto in essa in senso proprio, e che tutti loro sapevano apprezzare molto secondo il suo valore, vale a dire non apprezzavano particolarmente, ciò che si chiama Chiesa nel senso comune.

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Infatti, questa grande associazione, a cui in verità si rivolgono le vostre dure accuse, ben lungi dall’essere una società di uomini religiosi, è solo un’associazione di coloro che sono ancora alla ricerca della religione, e trovo pertanto molto naturale che la religione le si opponga quasi in ogni suo punto. Dovrò purtroppo discendere, per rendervi ciò tanto chiaro quanto lo è per me, in una quantità di cose terrene e mondane, e farmi strada in un labirinto di mirabili errori: il che non accade senza avversione ma, sia anche per questo, dovete convenire con me. Forse, già la forma del tutto diversa di socievolezza, se attiro su ciò la vostra attenzione, vi convince sostanzialmente della mia opinione. Spero che voi, per ciò che è stato detto precedentemente, siate d’accordo con me sul fatto che nella vera socievolezza religiosa ogni comunicazione è reciproca, il principio che ci induce a esternare il nostro animo è intimamente affine con quello che ci rende inclini ad abbracciare ciò che è estraneo, e così effetto e reazione sono l’un l’altro legati nel modo più inestricabile. Qui, al contrario, trovate immediatamente una forma completamente diversa: tutti vogliono ricevere e soltanto uno è quello che deve dare; tutti lasciano, in totale passività, che si operi su di loro allo stesso modo attraverso tutti gli organi, e al massimo contribuiscono a ciò dall’interno, nella misura in cui hanno potere su di sé, senza neppure pensare a una reazione su altri. Non dimostra ciò, in maniera sufficientemente chiara, che anche il principio della socievolezza deve essere completamente diverso? Riguardo a loro, non si può certo dire che hanno voluto solo completare la loro religione attraverso quella degli altri; infatti, se veramente in essi ne abitava una, questa si sarebbe bene, giacché è proprio della sua natura, in qualche modo mostrata attiva anche per altri. Essi non hanno alcuna reazione, perché non ne sono capaci, e possono non esserne capaci solo perché in essi non dimora alcuna religione. Se posso far uso di un’immagine ricavata dalla scienza, da cui prendo molto volentieri in prestito espressioni riguardo a faccende della religione, vorrei dire che sono religiosi in maniera negativa e di conseguenza si spingono in grandi mucchi verso pochi punti dove hanno il presentimento che vi sia il principio positivo della religione, per unirsi a questo. Ma dopo averlo accolto in sé, manca loro nuovamente la capacità di trattenere il nuovo prodotto; la fine materia la quale, per dir così, poteva solo fluttuare attorno alla loro atmosfera, sfugge loro, e ora essi vi rimangono da presso ancora un po’ di tempo con un certo sentimento di vuoto, finché nuovamente ne sono riempiti in senso negativo. Questa, in poche parole, è la storia della loro vita religiosa e il carattere della loro inclinazio-

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ne alla socievolezza che vi è connessa. Non religione, solo un po’ di sentimento di essa, e una faticosa, e miserevolmente inutile, aspirazione a giungervi, questo è tutto ciò che può essere concesso anche ai migliori tra loro, a quelli che si lasciano trascinare con spirito e zelo. Nel corso della loro vita domestica e civile, sulla scena più grande degli eventi di cui sono spettatori, ci si imbatte naturalmente anche in molto di ciò che deve influenzare il loro, pur limitato, senso religioso. Ma rimane solo un oscuro presentimento, una debole impressione su una massa troppo molle, i cui contorni si stemperano subito nell’indeterminato; tutto è subito trascinato via dalle onde della vita pratica nella più desolata contrada del ricordo, e anche là è seppellito presto, interamente, da cose mondane. Tuttavia, dalla frequente ripetizione di questo piccolo stimolo sorge alla fine un bisogno: l’oscura apparizione, che sempre ritorna nell’animo, deve alla fine essere chiarita. Il modo migliore per far questo, come senz’altro si dovrebbe pensare, sarebbe che essi si impegnassero a esaminare con calma e precisione ciò che agisce su di loro: ma ad operare così è l’Universo e in questo vi sono certo, tra le altre, tutte le cose particolari alle quali, negli altri momenti della loro vita, devono pensare e di cui devono occuparsi. A queste, per antica abitudine, si orienterebbe spontaneamente il loro sentimento; e il sublime e l’infinito si ridurrebbero nuovamente ai loro occhi a qualcosa di puramente particolare e infimo. Sentono tutto ciò, e pertanto non confidano in se stessi e cercano aiuto all’esterno: nel riflesso di un discorso fatto da altri, vogliono contemplare ciò che pervertirebbero nella percezione immediata. Così cercano la religione: ma, in fondo, fraintendono tutto questo sforzo. Giacché, se le espressioni di un uomo religioso hanno risvegliato tutti quei ricordi ed essi, riuniti da quelle espressioni, avanzano nel segno di una impressione più forte, s’illudono che il loro bisogno sia appagato, che l’aspirazione della loro natura sia realizzata, e di avere in sé la religione stessa che invero – esattamente come prima, ma solo a un grado più alto – è certamente giunta loro dall’esterno solo come un’apparizione fuggevole. Essi rimangono sempre soggetti a questa illusione, giacché manca loro sia il concetto sia l’intuizione della religione vera e vivente, e ripetono mille volte la stessa operazione, nell’inutile speranza di giungere finalmente alla cosa giusta e, invece, rimangono sempre dove sono stati e ciò che sono stati. Se avanzassero, se la religione fosse trapiantata in loro per questa via in modo autonomo e vivace, abbandonerebbero presto quello stesso percorso, la cui unilateralità e passività non sarebbero più adeguate alla loro condizione e, nemmeno, potrebbero essere tollerate; si cercherebbero quanto meno un’altra cerchia in cui la loro religione possa mostrarsi anche attiva e possa operare al di fuori di sé, e questo dovrebbe diventare presto il loro impegno principale e il loro amore esclusivo. Così, anche nella realtà, la Chiesa diventa

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tanto più indifferente per gli uomini, quanto più essi avanzano nella religione, e i più pii se ne separano con orgoglio e freddezza. Nei fatti, nulla può essere più chiaro: si è in questa associazione solo perché non si ha religione, vi si rimane fintanto che non se ne ha alcuna. E la stessa cosa risulta anche dal modo in cui trattano la religione. Infatti, posto pure che tra gli uomini veramente religiosi siano possibili una comunicazione unilaterale e uno stato di volontaria passività e rinuncia, oltre a ciò, nel loro modo d’agire comunitario predomina comunque la più grande insensatezza e ignoranza della cosa. Se ne capissero, la cosa principale sarebbe per loro, certamente, che colui, che hanno prescelto come organo della religione, comunicasse loro le sue intuizioni e i suoi sentimenti più chiari e individuali; ma non è questo che vogliono, piuttosto pongono limiti da ogni parte alle manifestazioni della sua individualità e desiderano che egli spieghi loro soprattutto concetti, opinioni, dottrine, in breve le astrazioni al posto degli elementi autentici della religione. Se ne capissero, saprebbero allora, dal loro stesso sentimento, che quelle azioni simboliche, che ho detto essenziali alla vera socievolezza religiosa, per loro natura non possono essere altro che segni dell’uguaglianza del risultato prodotto in tutti, allusioni del ritorno al centro comune, nient’altro che il più armonioso coro finale dopo tutto ciò che singoli individui hanno comunicato in maniera pura e artistica: di ciò però non sanno nulla, per loro, piuttosto, quelle azioni sono qualcosa che esiste per sé e occupa tempi precisi. Che cosa risulta da ciò, se non che la loro opera comunitaria non ha in sé nulla di quel carattere di alto e libero entusiasmo senz’altro tipico della religione ed è invece di natura scolastica, meccanica? E a cos’altro, ancora una volta, questo rimanda, se non al fatto che essi vorrebbero che la religione pervenisse solo dall’esterno? È ciò che tentano di realizzare in ogni modo. Per questo sono così legati a morti concetti, ai risultati della riflessione sulla religione, e li assorbono avidamente nella speranza che seguano in loro la via inversa della loro particolare genesi, e si trasformino di nuovo nelle intuizioni e nei sentimenti viventi da cui sono originariamente derivati. Per questo, hanno bisogno di azioni simboliche, che in verità nella comunicazione religiosa sono l’ultima cosa, come strumento di stimolazione per sollecitare ciò che propriamente dovrebbe precederle. Se ho parlato di questa più ampia e diffusa associazione in rapporto a quella più perfetta – che unicamente, secondo la mia idea, è la vera chiesa – con molto disprezzo e come di qualcosa di volgare e di inferiore, ciò è certamente fondato nella natura della cosa e non potevo dissimulare il mio

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sentimento al riguardo: io protesto però solennemente contro ogni supposizione, che potreste ben serbare, che io sia concorde con il desiderio, sempre più diffuso, di distruggere, preferibilmente del tutto, questa istituzione. No, se la vera Chiesa rimarrà sempre aperta a quelli che già sono in possesso della religione, deve allora darsi un qualche mezzo di connessione tra costoro e coloro che ancora cercano la religione, e tale istituzione dev’essere proprio la Chiesa militante; essa, infatti, per sua natura, deve ricavare le sue guide e i suoi sacerdoti sempre da quella. E proprio la religione deve essere l’unica faccenda umana in cui non vi sono istituzioni a vantaggio dei discepoli e degli apprendisti? Di certo, però, l’intero profilo di questa istituzione dovrebbe essere differente, e la sua relazione con la vera Chiesa dovrebbe avere un aspetto completamente diverso. In proposito non mi è permesso di tacere. Questi desideri e tali visioni si adattano troppo esattamente alla natura della socievolezza religiosa, e lo stato migliore delle cose, che mi figuro, reca tanto giovamento alla sua gloria, che non posso trattenere in me i miei presentimenti. Dalla decisiva differenza che abbiamo posto tra le due, abbiamo per lo meno ottenuto di poter riflettere insieme con molta tranquillità e concordia su tutti gli abusi che imperversano nella società ecclesiastica e sulle loro cause; infatti, dovete concedere che la religione, che non ha prodotto una Chiesa siffatta, deve per il momento essere scagionata da ogni colpa per ogni sciagura che possa aver provocato e per la riprovevole condizione in cui può trovarsi; deve essere così interamente prosciolta da non poterle nemmeno rimproverare la possibilità di degenerare in qualcosa di simile: non è, infatti, possibile che discenda dove non è mai stata. Ammetto che in questa società ci sia, e debba necessariamente esserci, un dannoso spirito di setta. Lì dove le opinioni religiose sono utilizzate quasi come metodi per pervenire alla religione, devono certo essere poste entro un determinato tutto, giacché un metodo deve essere assolutamente determinato e anche definitivo; e là dove le opinioni religiose sono accettate, in ragione dell’autorità di chi le elargisce, come qualcosa che può esser concesso solo dall’esterno, chiunque la pensi diversamente deve esser visto come uno che turba il quieto e sicuro avanzare, giacché egli, con la sua sola esistenza e le pretese a essa connesse, indebolisce quest’autorità; ammetto perfino che nell’antico politeismo, in cui la totalità della religione non era concepita unitariamente e si prestava volentieri a ogni partizione e separazione, lo spirito settario era molto più moderato e umano, e che esso, anzitutto nelle epoche per altri versi migliori della religione sistematica, si è organizzato e si è mostrato in tutta la sua forza, giacché, dove ognuno crede di avere un intero sistema e un centro per esso, il valore posto su ciascun elemento particolare deve essere incomparabilmente maggiore. Concedo entrambe queste cose, ma voi mi concederete che quella non torna a rim-

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provero della religione in generale, e che questa non può dimostrare nulla contro il fatto che la visione dell’Universo come sistema non sia il grado più alto della religione. Concedo che in questa società si considerano più importanti la comprensione o la fede, l’azione e l’esecuzione di riti dell’intuizione e del sentimento, e quindi che essa, per quanto la sua dottrina sia illuminata, si avvicina ai confini della superstizione e si attacca a qualche mitologia; ma voi concederete che in tal modo essa, semplicemente, si allontana sempre più dalla vera religione. Ammetto che questa associazione non può sussistere senza una differenza permanente tra sacerdoti e laici; infatti, chi tra i laici pervenisse a essere egli stesso un prete, è a dire ad avere in sé la vera religione, non potrebbe rimanere laico e continuare a condursi come se non ne avesse; egli sarebbe invece libero e avrebbe l’obbligo di lasciare questa società e di cercare la vera Chiesa: ma rimane di certo che la distinzione, con tutto ciò che ha di indegno e con tutte le cattive conseguenze che possono venirne provocate, non scaturisce dalla religione, ma è cosa del tutto irreligiosa. Proprio a questo proposito, tuttavia, vi sento muovere un nuovo appunto critico che sembra far ricadere ancora sulla religione tutti questi rimproveri. Mi rammenterete che io stesso ho sostenuto che la grande società ecclesiale, intendo quella istituzione per gli apprendisti della religione, deve scegliere, secondo la natura della cosa, le sue guide, i sacerdoti, solo tra i membri della vera Chiesa, giacché in se stessa manca del vero principio della religione. Se le cose stanno così, direte, come possono dunque i virtuosi della religione, là dove devono comandare, dove tutto ascolta la loro voce, e dove essi stessi dovrebbero ascoltare soltanto la voce della religione, tollerare così tanto, persino più che tollerare – poiché a chi, se non ai sacerdoti, la Chiesa deve tutte le istituzioni? – quel che deve essere interamente contrario allo spirito della religione? O se non è come dovrebbe essere, se forse hanno lasciato che fosse loro sottratto il governo della società da loro generata, dov’è allora l’alto spirito che cerchiamo legittimamente in essi? Perché hanno amministrato così male la loro importante provincia? Perché hanno tollerato che ignobili passioni rendessero un flagello dell’umanità ciò che nelle mani della religione sarebbe rimasto una benedizione? E ciò hanno fatto proprio essi, per ognuno dei quali, come tu stesso ammetti, l’ufficio più lieto e al contempo più santo deve essere la direzione di coloro che hanno sì tanto bisogno del loro aiuto. Si evince che, purtroppo, non è come ho affermato che dovrebbe essere: chi potrebbe dire che tutti quelli, o anche solo la parte maggiore o, una volta stabilite tali subordinazioni, anche solo i primi e i più eletti tra coloro che hanno governato la grande società ecclesiale,

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sono stati virtuosi della religione o anche soltanto membri della vera Chiesa? Non considerate, ve ne prego, ciò che devo dire per scusarli come una perfida ritorsione. Quando vi esprimete contro la religione, lo fate normalmente in nome della filosofia; quando muovete dei rimproveri alla Chiesa parlate in nome dello Stato: volete difendere gli artisti della politica di tutti i tempi dall’accusa che la loro opera d’arte, per l’ingerenza della Chiesa, abbia ottenuto posizioni così imperfette e malconce. Se adesso io, che parlo in nome dei virtuosi della religione e per essi, attribuisco allo Stato e agli artisti dello Stato la colpa del fatto che essi non hanno potuto svolgere il loro compito con miglior successo, non mi terrete in sospetto dello stesso artificio? Spero, tuttavia, che non potrete negarmi il mio diritto, se mi concedete udienza a proposito dell’autentica origine di tutti questi mali. Ogni nuova dottrina e rivelazione, ogni nuova visione dell’Universo, che stimola il sentimento per esso in riferimento a un lato in cui finora l’Universo non è ancora stato colto, guadagna alla religione anche alcuni spiriti, per i quali proprio questo punto era l’unico attraverso cui potevano essere introdotti nel mondo nuovo e infinito; e, naturalmente, per la maggior parte di loro questa intuizione rimane poi il centro della religione; essi costituiscono attorno al loro maestro una propria scuola, un frammento separato della Chiesa vera e universale, che solo silenziosamente e lentamente volge verso l’unificazione in spirito con questo grande tutto. Ma prima che questa unificazione sia conseguita, non appena i nuovi sentimenti hanno compenetrato e riempito il loro intero spirito, essi, in genere, vengono presi violentemente dal bisogno di esternare ciò che è in loro, affinché l’intimo fuoco non li consumi. Così ciascuno annuncia, dove e come può, la nuova salvezza che gli si è dischiusa; presso ogni oggetto trovano il passaggio all’Infinito che hanno appena scoperto, ogni discorso si converte in un segno della loro particolare visione religiosa, ogni consiglio, ogni desiderio, ogni parola amichevole si converte in un accorato apprezzamento della via a loro nota come l’unica che conduca al tempio della religione. Chi sa in che modo opera la religione trova naturale che tutti costoro parlino come se temessero di esser preceduti dalla pietre.40 E chi sa come opera un nuovo entusiasmo, trova naturale che questo fuoco vivente attecchisca tutto intorno violentemente, consumi alcuni, riscaldi molti, e trasmetta a migliaia l’apparenza falsa e superficiale di un interno ardore. E queste migliaia sono appunto la rovina. Il fuoco giovanile dei nuovi redenti considera anche costoro quali veri fratelli, «che cosa impedisce, dicono troppo presto, che anche questi ricevano lo spirito santo?»;41 essi stessi si considerano tali e si lasciano introdurre, in gioioso trionfo, in seno alla pia società. Ma quando l’ebbrezza del primo entusiasmo è trascorsa, quando l’ardente superficie è bruciata, si mostra allora

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che essi non possono reggere nello stato in cui si trovano gli altri e non possono condividerlo, e questi altri si abbassano con compassione verso di loro, e rinunciano al proprio godimento più nobile e intimo per aiutarli nuovamente, e così tutto assume forma imperfetta. In questo modo, senza cause esterne, attraverso il comune contagio di tutte le cose umane, e conformemente all’ordine eterno secondo il quale questa degenerazione colpisce più velocemente proprio la vita più ardente e attiva, attorno a ogni singolo frammento della vera Chiesa che sorge isolatamente in qualche luogo del mondo si costituisce, non separatamente da esso ma in esso e con esso, una chiesa falsa e degenerata. Così è andata in tutti i tempi, tra tutti i popoli e in ogni particolare religione. Ma se si abbandonasse tranquillamente ogni cosa a se stessa, questo stato non si potrebbe conservare a lungo da nessuna parte. Versate in un recipiente materie di diverso peso e densità, tali che esercitino poca attrazione interna reciproca, mescolate le une con le altre nel modo più deciso, così che tutto sembri essere una cosa sola, e vedrete che tutto, se soltanto lo lasciate in quiete, torna di nuovo gradualmente a separarsi, e solo ciò che è simile si associa a quel che è simile. Anche qui sarebbe accaduto lo stesso, giacché questo è il corso naturale delle cose. La vera Chiesa si sarebbe di nuovo silenziosamente divisa per godere della più intima e alta socievolezza, di cui gli altri non sarebbero stati capaci; il legame degli ultimi tra loro sarebbe quindi stato pressoché sciolto e la loro naturale passività avrebbe dovuto aspettare qualcosa di esterno per determinare ciò che di essi si sarebbe dovuto fare dall’interno. Gli ultimi però non sarebbero stati abbandonati dagli altri: chi, al di fuori di loro, avrebbe avuto il minimo interesse a occuparsene? Quale attrattiva avrebbe offerto il loro stato alle mire di altri uomini? Cosa sarebbe stato ottenuto o quale onore sarebbe stato conseguito attraverso di loro? I membri della vera Chiesa sarebbero rimasti indisturbati in possesso del diritto di esercitare di nuovo il proprio ufficio sacerdotale tra di loro, in forma nuova e meglio disposta. Ognuno avrebbe raccolto attorno a sé quelli che lo comprendevano di più, sui quali si poteva operare al meglio a suo modo e, al posto della smisurata associazione alla cui esistenza voi aspirate adesso, sarebbe sorta una grande quantità di più piccole e indeterminate società, al cui interno gli uomini, ora qui ora lì, si sarebbero messi alla prova della religione in ogni modo e il soggiorno in esse sarebbe stato soltanto uno stato transitorio, preparatorio per colui in cui fosse sorto il sentimento per la religione, decisivo per colui che si fosse trovato inadatto a esserne in qualche modo preso. Oh, età dell’oro della religione, quando le trasformazioni delle cose umane ti arrecheranno ad arte, dacché si è mancato di trovarti sulla via semplice della natura! Salute a coloro che allora saranno chiamati! Benigni sono loro gli dèi, e una ricca benedizione accompagna gli sforzi che comporta la loro missione di aiutare i novizi e di spianare agli im-

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maturi la via che conduce al tempio dell’Eterno; sforzi che oggi, tra le meno favorevoli circostanze, ci portano un frutto tanto amaro. È forse un empio desiderio, ma non posso rinunciarvi. Se a tutti i capi di Stato, se a tutti i virtuosi della politica, fosse sempre rimasto estraneo anche il più lontano presentimento della religione! Se mai uno di essi fosse stato colto dalla violenza di quell’entusiasmo epidemico, dal momento che non seppero separare la loro individualità dalla loro professione e dal loro ufficio pubblico! Ciò è infatti diventato per noi la fonte di ogni sciagura.42 Perché hanno dovuto condurre con loro, nell’assemblea dei santi, la misera vanità e la strana presunzione che i vantaggi che potevano arrecare siano sempre, senza differenze, qualcosa d’importante? Perché hanno dovuto portare con sé, nei loro palazzi e tribunali, il timore reverenziale per i servitori del santuario? Avete ragione di desiderare che l’orlo di un abito sacerdotale non avesse mai sfiorato il pavimento di una camera regia: ma lasciateci solo auspicare che la porpora di re non avesse mai baciato la polvere dell’altare; se questo non fosse accaduto, quello non sarebbe seguito. Ah, se non si fosse mai lasciato entrare un principe in un tempio prima che avesse depositato davanti alla porta il suo più bell’ornamento reale, la ricca cornucopia di tutti i suoi favori e delle sue onorificenze! Ma essi l’hanno portata con sé, hanno immaginato di poter ornare la semplice altezza dell’edificio celeste con parti staccate della loro dignità terrena e hanno lasciato, quali doni votivi per l’Altissimo, offerte mondane piuttosto che un cuore santificato. Ogni volta che un principe ha dichiarato una Chiesa come una corporazione, come una comunità con i propri privilegi, come una rispettabile persona nel mondo civile – e ciò non è accaduto prima che fosse già subentrato quell’infelice stato in cui erano già mescolate la società dei credenti e quella dei superstiziosi, il vero e il falso, che presto si sarebbero separati per sempre, giacché prima non vi fu mai una società religiosa abbastanza grande da stimolare l’attenzione dei regnanti –, ogni volta che un principe, dico, si è lasciato spingere a questa che è la più pericolosa e dannosa di tutte le azioni, la sciagura di questa chiesa è stata irrevocabilmente decisa e avviata. Un tale atto costituzionale di esistenza politica opera sulla società religiosa come la terrificante testa di Medusa: tutto si pietrifica non appena essa appare. Tutti quegli elementi incoerenti, che solo per un istante erano stati reciprocamente intrecciati, sono ora inseparabilmente incatenati gli uni agli altri, tutti quegli elementi casuali di cui ci si poteva facilmente sbarazzare, sono ora consolidati per sempre; il vestito costituisce un pezzo solo con il corpo, e ogni piega sconveniente vi resta im-

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pressa per l’eternità. Ormai la società più grande e spuria non si lascia più separare, come dovrebbe accadere, da quella superiore e più piccola; non si lascia più né dividere né sciogliere; non può più cambiare né la sua forma né i suoi articoli di fede; le sue dottrine, le sue consuetudini, tutto è condannato a rimaner fisso nello stato in cui appunto si trovava. Ma ciò non è ancora tutto; i membri della vera Chiesa, che sono contenuti assieme agli altri in quella più grande, sono d’ora in avanti pressoché esclusi con violenza dal prender pur minimamente parte al suo governo e posti nella condizione di non poter fare per essa il poco che potrebbe ancora esser fatto. Infatti, c’è ora da governare più di quanto essi possano e vogliano governare: ora, bisogna mettere in ordine e occuparsi di cose mondane e, benché essi sappiano bene come trattarle nelle loro faccende domestiche e civili, tuttavia non sono capaci di occuparsene come un oggetto del loro ufficio sacerdotale. Questa è una contraddizione che non intendono e con cui non sono mai in grado di conciliarsi; essa non si accorda con il loro concetto alto e puro di religione e di socievolezza religiosa. Né per la vera Chiesa, di cui fanno parte, né per la grande società, che devono guidare, sono in grado di concepire come debbano condursi adesso con le case e i campi che possono acquistare e con le ricchezze che possono possedere, e in che modo ciò possa aiutarli per il loro scopo. Sono disorientati e confusi per questo innaturale stato di cose; e se ora sono, contemporaneamente, attratti da questo stato di cose tutti coloro che ne sarebbero altrimenti rimasti per sempre fuori, se ora è diventato interesse di tutti gli orgogliosi, gli ambiziosi, gli avidi insinuarsi nella Chiesa, nella cui comunità avrebbero altrimenti percepito la più amara uggia, se ora questi iniziano a simulare partecipazione a cose e cognizioni sante riguardanti tale comunità per trarne un vantaggio economico, come possono quelli non soggiacere a essi? Chi ha dunque la colpa se uomini indegni prendono il posto dei virtuosi della santità e se sotto la loro sovraintendenza può introdursi e instaurarsi ciò che è contrario allo spirito della religione in massimo grado? Chi altro se non lo Stato con la sua malintesa magnanimità? Ma esso è causa, in modo ancor più immediato, del fatto che si sia sciolto il legame tra la Chiesa vera e la società religiosa esteriore. Infatti, dopo averle tributato quello sventurato beneficio, lo Stato ha ritenuto di avere un diritto alla sua attiva gratitudine e le ha affidato tre incarichi assai importanti nei propri affari. Le ha più o meno attribuito la cura e la conduzione dell’educazione; vuole che, sotto gli auspici della religione e nella forma di una comunità, il

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popolo sia istruito ai doveri che le sue leggi non contemplano e sia persuaso a disposizioni etiche; e pretende che, con la forza della religione e gli ammaestramenti ecclesiastici gli renda i suoi cittadini veritieri nelle loro dichiarazioni. E in ricompensa per questi servigi, che brama, la priva – così è certo quasi in tutte le parti del mondo civile dove vi siano uno Stato e una chiesa – della sua libertà, la tratta come un’istituzione da esso istaurata e ideata e, certamente, gli errori e gli abusi in essa presenti sono quasi tutti sua opera, poiché solo esso si arroga il diritto di scegliere chi, in questa società, sia idoneo a presentarsi come esempio e sacerdote della religione. E tuttavia chiedete conto alla religione se non tutti sono anime sante. Ma io non sono ancora giunto alla fine delle mie accuse: lo Stato insinua il suo interesse persino nei più intimi misteri della socievolezza religiosa e li contamina. Quando la Chiesa, in profetica devozione, consacra i nuovi nati alla Divinità e all’aspirazione a raggiungere l’Altissimo, lo Stato, al contempo, vuole riceverli dalle sue mani nella lista dei suoi protetti; quando la Chiesa dà il primo bacio della fraternità agli adolescenti, come a quelli che ora rivolgono il primo sguardo ai santuari della religione, ciò dev’essere anche per lo Stato la testimonianza del primo grado della loro autonomia civile; quando la Chiesa, con pii auspici della comunità, benedice l’unione di due persone, che divengono così strumenti dell’Universo creatore, ciò deve al contempo rappresentare la sanzione statale per il loro legame civile; e lo Stato non vuol nemmeno credere che un uomo sia scomparso dalla scena di questo mondo prima che la Chiesa lo abbia assicurato di aver reso la sua anima all’Infinito e aver sepolto le sue ceneri nel seno della sacra terra. Dimostra rispetto reverenziale nei confronti della religione e sforzo di mantenersi sempre all’interno dei propri limiti il fatto che lo Stato s’inchini alla religione e ai suoi dignitari ogni volta che riceve qualcosa dalle mani dell’Infinito o lo ripone di nuovo in esse: ma è abbastanza chiaro come anche tutto ciò operi solo a danno della società religiosa. In tutte le strutture della Chiesa, ora, non vi è nulla che si riferisca esclusivamente alla religione o in cui essa sia anche soltanto la cosa principale: nei discorsi e negli insegnamenti sacri, così come nelle azioni misteriose e simboliche, tutto è pieno di rapporti morali e politici, tutto è distolto dal suo fine e dal suo concetto originario. Vi sono molti, pertanto, tra i capi della società ecclesiastica che non capiscono nulla di religione e molti tra i suoi membri cui non viene in mente di volerla cercare. Una società, cui può accadere qualcosa di simile, che con umiltà riceve benefici che non le servono a nulla, e con strisciante disponibilità si fa carico di pesi che la danneggiano, che si lascia deturpare da un potere estraneo, che, in cambio di una vuota apparenza, abbandona la li-

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bertà e l’indipendenza a essa innate, che rinuncia al suo nobile e sublime fine per seguire cose del tutto esterne alla sua via, non può essere una società di uomini con un’aspirazione determinata ed esattamente consapevoli di quel che vogliono: credo ciò sia cosa evidente; e questo accenno alla situazione della società ecclesiale è, penso, la migliore dimostrazione del fatto che essa non è l’autentica società degli uomini religiosi ma che, tutt’al più, alcune particelle dell’autentica società erano frammiste con essa, subissate da componenti allotrie, e che il tutto, per accogliere la prima materia di questa enorme corruzione, doveva già essere in uno stato di patologica fermentazione, in cui le poche parti salubri si sono presto, interamente, dileguate. La vera Chiesa, piena di sacro orgoglio, avrebbe ricusato offerte che non poteva nemmeno mettere a frutto, sapendo bene che quanti hanno trovato la Divinità e ne gioiscono in comune nella loro pura socievolezza, ove vogliano soltanto esporre e comunicare la loro più intima esistenza, non condividono in realtà nulla il cui possesso debba essere loro garantito da un potere mondano; sapendo bene che essi sulla terra non hanno bisogno di niente e nemmeno possono aver bisogno d’altro che di una lingua per comprendersi e di uno spazio per stare gli uni vicini agli altri, cose per cui non necessitano di alcun prìncipe né dei suoi favori. Se, comunque, deve esserci un’istituzione mediatrice attraverso cui la vera Chiesa entra in un certo contatto con il mondo profano con il quale non ha nulla a che fare direttamente, se, per dir così, deve esserci un’atmosfera per mezzo della quale essa al contempo si purifica e attrae a sé e costituisce anche nuova materia, quale forma deve allora assumere questa società e come la si potrebbe liberare dalla sciagura che le è toccata? All’ultimo interrogativo bisogna lasciar rispondere il tempo: per tutto ciò che, prima o poi, deve accadere, ci sono migliaia di vie diverse, e per tutte le malattie dell’umanità molteplici cure: ognuna sarà tentata a suo luogo e andrà in porto. Mi sia permesso soltanto di segnalare questo scopo, per mostrarvi tanto più chiaramente che anche in questo caso non è stata la religione e la sua aspirazione ciò cui si è orientata la vostra indignazione. L’autentico e fondamentale concetto di questo scopo è di sicuro che, a coloro i quali hanno in certo grado il sentimento della religione, eppure, dato che non è ancora giunto in loro a maturazione e a coscienza, non sono pronti per essere accolti nella vera Chiesa, la religione sia mostrata intenzionalmente quel tanto che, con ciò, la loro disposizione per essa si trovi nella condizione di dovere essere necessariamente sviluppata. Lasciateci prendere in esame cosa davvero impedisce che questo possa accadere

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nell’attuale stato di cose. Non voglio ricordare ancora una volta che ora lo Stato sceglie, secondo i propri desideri, coloro che in questa società sono guide e insegnanti – mi avvalgo controvoglia, in mancanza di meglio, di questa parola che non si adatta allo scopo –, i quali sono, piuttosto, impegnati a sostenere gli altri affari che lo Stato ha collegato a questa istituzione; che si può essere un pedagogo estremamente competente e un moralista molto puro e preciso senza comprendere minimamente di religione; e che pertanto molti, che lo Stato annovera tra i suoi più degni servitori in questa istituzione, siano facilmente del tutto carenti riguardo alla religione; voglio concedere che tutti coloro che lo Stato nomina siano davvero virtuosi della religione; in tal caso, dovrete certo ammettere che nessun artista può comunicare la sua arte a una scuola con qualche successo se tra i suoi discepoli non ha luogo una certa uguaglianza di previe conoscenze; e quest’uguaglianza è certo meno necessaria in ogni arte, in cui il discente compie i suoi progressi mediante esercizi e il docente contribuisce soprattutto con la critica, che nella religione, in cui il maestro non può fare nient’altro che mostrare ed esporre. Tutto il suo lavoro deve essere vano qui, se la stessa cosa non risulta, non solo, a tutti comprensibile, ma anche commisurata e benefica per tutti. L’oratore sacro non deve ricevere i suoi uditori in fila e a uno a uno, come gli vengono introdotti secondo un’antica partizione, non deve riceverli come sono disposte le loro case le une vicino alle altre, o come vengono contrassegnati nelle liste della polizia, ma secondo una certa somiglianza delle capacità e della disposizione d’animo. Ma lasciate pure che si raccolgano attorno a un unico maestro solo coloro che sono altrettanto vicini alla religione; eppure costoro non lo sono allo stesso modo, ed è del tutto privo di senso volere assegnare un certo discepolo a un preciso maestro, perché nella religione non può esserci un qualche virtuoso in condizione di portare alla luce, con la sua esposizione e il suo discorso, il nocciolo della religione nascosto in ciascuno che gli si presenti. Il dominio della religione è sin troppo esteso. Rammentatevi delle diverse vie per cui l’uomo passa dall’intuizione del finito a quella dell’Infinito, e del fatto che in questo modo la sua religione acquisisce un carattere proprio e determinato; pensate alle molteplici modificazioni sotto cui l’Universo può essere intuito e alle mille singole intuizioni e ai diversi modi in cui queste possono essere combinate per illuminarsi reciprocamente; riflettete sul fatto che ognuno che cerchi la religione deve incontrarla in una determinata forma, adeguata alle sue disposizioni e al suo punto di vista, se la sua religione deve essere con ciò davvero stimolata: vi renderete allora conto che è impossibile per ciascun maestro diventare tut-

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to per tutti e, per ognuno, ciò di cui ha bisogno, perché non è possibile che uno sia contemporaneamente un mistico, un teologo fisico e un artista sacro, al contempo un deista e un panteista, parimenti un maestro nelle profezie, nelle visioni e nelle preghiere, nonché nelle esposizioni ricavate dalla storia e dalla sensazione, e sia ancora molte altre cose, se pur si riuscisse a enumerare tutti i magnifici rami in cui l’albero celeste dell’arte sacerdotale scioglie le sue chiome. Maestro e discepolo devono potersi ricercare e scegliere vicendevolmente in piena libertà, altrimenti l’uno è perduto all’altro; ognuno deve poter cercare ciò che lo innalza e nessuno deve essere costretto a dare di più di ciò che ha e capisce. Ma non è nemmeno possibile che ciascuno insegni solo ciò che capisce se, al contempo, intendo nella medesima azione, deve fare anche qualcos’altro. Non è il caso di domandarsi se un uomo in abiti sacerdotali possa esporre la sua religione con la diligenza e l’arte che le convengono, e al contempo possa adempiere fedelmente e con notevole perfezione un qualche ufficio civile. Perché colui che fa professione di sacerdozio non dovrebbe poter anche essere, se il caso l’ha proprio voluto, contemporaneamente un moralista a servizio dello Stato? Nulla vi si oppone: solo, dev’essere le due cose l’una accanto all’altra, e non l’una nell’altra e attraverso l’altra; egli non deve portare in sé entrambe le nature nello stesso tempo e non deve compiere entrambi gli uffici nella stessa azione. Lo Stato si accontenti, se gli pare, di una morale religiosa: la religione, però, rinnega ogni profeta e sacerdote moralista; chi vuol dar notizia di essa, lo faccia in modo puro. Contraddirebbe tutta l’ambizione di un virtuoso, se un vero sacerdote volesse venire incontro allo Stato a condizioni così indegne e inconseguenti. Quando lo Stato assume altri artisti o per curarne meglio i talenti o per attrarre scolari, li sgrava da tutti gli altri impegni e impone loro il dovere di astenersene, suggerisce loro di dedicarsi eminentemente alla parte speciale della loro arte in cui credono di poter far meglio, e in ciò lascia piena libertà al loro genio; solo con gli artisti della religione, fa esattamente il contrario. Essi devono abbracciare l’intero dominio del loro oggetto e, in più, lo Stato ordina loro la scuola di appartenenza e li carica di altri pesi sconvenienti. Lo Stato dia anche a essi agio di perfezionarsi in modo particolare nella singola parte della religione per cui credono di essere particolarmente inclini, li esenti da tutto il resto o, dopo aver fondato da sé il suo istituto educativo morale, cosa che deve fare anche in quel caso, lasci che sviluppino la loro essenza autonomamente e non si preoccupi per nul-

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la delle opere sacerdotali realizzate nel suo territorio giacché esso non ne ha bisogno né per l’immagine né per l’utilizzazione, come avviene, ad esempio, per altre arti o scienze. Basta, dunque, con un siffatto legame tra Chiesa e Stato! – Rimane questo fino alla fine, o finché io non veda questo legame davvero in frantumi, il mio parere catoniano. Basta con tutto ciò che sembri anche minimamente simile a una chiusa associazione di laici e sacerdoti tra loro o gli uni con gli altri! I novizi non devono, comunque, costituire un corpo, si vede infatti quanto poco giovi nei mestieri meccanici e negli allievi delle Muse; ma nemmeno i sacerdoti in quanto tali, ritengo, devono costituire tra loro una confraternita; non devono dividersi, al modo delle arti, né i loro compiti né i loro clienti; ma, senza preoccuparsi degli altri e senza stringere in questa faccenda legami più forti con uno tra gli altri, ciascuno faccia ciò che gli spetta; e nemmeno vi sia un legame stabile tra insegnante e comunità. Secondo i principî della vera Chiesa, la missione di un sacerdote nel mondo è un affare privato; anche il tempio in cui il suo discorso si leva per annunciare la religione sia una stanza privata; davanti a lui si raccolga un’assemblea, non una comunità; sia egli un oratore per tutti coloro che vogliono ascoltare, ma non un pastore di un particolare gregge. Solo a queste condizioni anime davvero sacerdotali possono farsi carico di coloro che cercano la religione; solo in tal modo questa associazione preparatoria può condurre realmente alla religione e rendersi degna di essere considerata quale componente della vera Chiesa e sua anticamera: solo così, infatti, si perde tutto ciò che nella sua attuale forma è profano e irreligioso. La distinzione eccessivamente netta e marcata tra sacerdoti e laici è mitigata dalla libertà generale di scelta, di riconoscimento e di giudizio, finché i migliori tra i laici arrivino a essere al contempo sacerdoti. Se non c’è più alcun punto d’unificazione di questo tipo, se nessuno offre più un sistema della religione a coloro che cercano, ma ognuno ne offre solo una parte, si disgrega e si dissolve tutto ciò che era tenuto assieme per mezzo del vincolo profano dei simboli, e questo è l’unico modo per interrompere tale scandalo. È solo un cattivo espediente del tempo antico tagliare a pezzi la Chiesa – per usare la parola anche in questo, che è il peggiore di tutti sensi –: essa ha natura di polipo, da ognuno dei suoi pezzi concresce nuovamente un intero e, se il

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concetto si oppone allo spirito della religione, un maggior numero di individui non sono per nulla qualcosa di meglio rispetto a pochi individui. La società religiosa esterna è portata più vicino alla libertà universale e alla maestosa unità della vera Chiesa semplicemente perché diventa una massa fluida, in cui non ci sono contorni, dove ogni parte si trova ora qua ora là e ogni cosa si mescola pacificamente con ogni altra. L’odioso spirito settario e proselitistico, che conduce sempre più lontano dall’essenziale della religione, è negato solo quando nessuno può più sentire di appartenere a una cerchia determinata e chi crede qualcosa di diverso a un’altra cerchia. Voi vedete che riguardo a questa società i nostri desideri sono del tutto uguali: ciò che per voi è indecente ostacola anche la nostra via, solo che – perdonatemi se lo dico sempre – non sarebbe successo se ci avessero lasciati impegnati solo in ciò che, in verità, era opera nostra. Che ci si liberi nuovamente di questo scandalo è nostro comune interesse. Io non so come ciò accadrà tra noi, se solo dopo un grande sconvolgimento come nel paese vicino,43 o se lo Stato scioglierà il suo antico malriuscito legame con la Chiesa attraverso un accordo amichevole e senza che entrambi prima muoiano e risorgano, o se solo sopporterà che appaia una più giovane consorella vicino a quella che una volta gli è stata venduta: ma finché non succede qualcosa del genere, rimangono sotto il peso di un duro destino tutte le anime sante le quali, compenetrate dall’ardore della religione, vorrebbero presentare la cosa per esse più sacra anche nella più grande cerchia del mondo profano e, così, realizzare qualcosa. Io non voglio illudere coloro che sono assunti negli ordini favoriti dello Stato a fare grande affidamento, per l’intimissimo desiderio del loro cuore, su ciò che in proposito potrebbero ottenere, ad esempio, attraverso la parola. Piaccia loro guardarsi sempre, oppure spesso, dal parlare di religione e, quando ne parlano, non vi mescolino altro, eccetto che nelle solenni occasioni, per non divenire infedeli all’ufficio morale a cui sono stati chiamati. Si dovrà però permettere loro che, mediante una vita sacerdotale, possano annunziare lo spirito della religione, e ciò sia la loro consolazione e il loro più bel compenso. In una persona santa tutto è importante, in un vero sacerdote della religione tutto ha un senso canonico. Possano dunque presentare l’essenza della religione in tutti i loro movimenti e nulla vada perduto dell’espressione di un sentimento pio nemmeno nei comuni rapporti della vita; la santa intimità con cui trattano tutto mostri che anche nel-

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le minuzie, su cui un animo profano sorvola incurante, risuona per essi la musica di sentimenti sublimi; la maestosa tranquillità, con cui equiparano ciò che è grande a ciò che è piccolo, mostri che mettono tutto in rapporto all’Immutabile e scorgono la Divinità in ogni cosa allo stesso modo; la sorridente letizia, con cui passano davanti a ogni traccia di caducità, riveli a ciascuno come vivono al di sopra del tempo e al di sopra del mondo; la più pronta abnegazione rimandi a quanto hanno già annientato dei limiti della personalità; e il senso, sempre pronto e aperto, cui non sfugge ciò che è più raro e ciò che è più comune, mostri come essi cercano instancabilmente l’Universo e spiano le sue manifestazioni. Se, in questo modo, tutta la loro vita e ogni movimento della loro forma interna ed esterna sono un’opera d’arte sacerdotale allora, forse, attraverso questo linguaggio silenzioso, ad alcuni si dischiuderà il senso per ciò che abita in loro. Tuttavia, non contenti di esprimere l’essenza della religione, essi devono anche, allo stesso modo, annientarne la falsa apparenza, sorvolando, con infantile disinvoltura e con la nobile semplicità di una totale incoscienza, che non vede alcun pericolo e crede di non aver bisogno di alcun coraggio, su tutto ciò che grossolani pregiudizi e una fine superstizione hanno avvolto con un’impura aureola di santità, e lasciandosi fischiare attorno, senza preoccupazioni, come l’Ercole fanciullo, i serpenti della sacra calunnia, che possono schiacciare in un istante altrettanto silenziosamente e tranquillamente.44 Si dedichino fino a tempi migliori a questo santo ufficio, e credo che voi stessi avrete rispetto di questa dignità priva di pretese e presagirete la positività del suo effetto sugli uomini. Cosa devo dire, però, a coloro a cui voi negate l’abito sacerdotale perché non hanno attraversato, in certo modo, una determinata cerchia di scienze vane?45 Dove devo indirizzarli con l’impulso sociale della loro religione, dal momento che tale impulso non è rivolto solo alla Chiesa più nobile, ma anche, verso l’esterno, al mondo? Giacché manca loro un grande proscenio, in cui poter comparire in modo eccellente, si accontentino di dedicarsi al culto sacerdotale delle loro divinità domestiche. Una famiglia può essere l’elemento più perfetto e l’immagine più fedele dell’Universo; quando tutto procede con calma e con energia, qui operano tutte le forze che animano l’Infinito; quando tutto avanza con leggerezza e sicurezza, l’alto spirito del mondo incede qui come lì; quando i suoni dell’amore accompagnano tutti i movimenti, essa ha in mezzo a sé la musica delle sfere. Costituiscano, ordinino e curino questo santuario, lo erigano in modo chiaro e di-

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stinto nella sua forza etica, lo interpretino con amore e spirito, così qualcuno di essi e tra essi imparerà a intuire l’Universo nell’abitazione piccola e appartata, che sarà la cosa più santa in cui qualcuno riceve la consacrazione della religione. Fu questo il primo sacerdozio nel santo e infantile mondo primitivo, e sarà l’ultimo quando nessun altro sarà più necessario. Sì, noi aspettiamo, alla fine della nostra artificiale civiltà, un tempo in cui, per la religione, non vi sarà bisogno di alcun’altra società preparatoria diversa da una pia vita familiare. Adesso milioni di uomini di ambo i sessi e di tutte le condizioni sospirano sotto la pressione di lavori meccanici e indegni. La vecchia generazione soccombe scoraggiata e, con perdonabile inerzia, abbandona al caso la generazione più giovane quasi in tutte le cose, tranne che per indurla subito a imitare e imparare la stessa degradazione. È questa la ragione per cui essa non ha conseguito lo sguardo libero e aperto con cui soltanto si trova l’Universo. Non vi è impedimento più grande alla religione di quello per cui siamo costretti a essere schiavi di noi stessi, giacché schiavo è chiunque debba eseguire qualcosa che doveva poter essere messa in moto con energie inanimate. Noi speriamo che dal perfezionamento delle scienze e delle arti siano poste a nostro servizio queste forze morte, che scienze e arti trasformino il mondo fisico, e ciò che del mondo spirituale si lascia regolare, in un palazzo di fate, dove il dio della terra ha bisogno di pronunciare solo una parola magica, di premere solo una piuma, affinché accada ciò che ordina. Solo allora ogni uomo sarà nato libero, ogni vita sarà al contempo pratica e contemplativa, su nessuno si leverà più il bastone del guardiano e ognuno avrà quiete e agio sufficiente per contemplare in sé il mondo. Solo per gli infelici cui ciò è mancato, i cui organi sono stati privati delle forze, di quelle che dovevano utilizzare di continuo i loro muscoli a servizio del guardiano, solo per loro era necessario l’arrivo di alcuni fortunati che li riunissero attorno a sé per essere il loro occhio e comunicare loro, in pochi fuggevoli minuti, le intuizioni di una vita. Nell’epoca felice, in cui ognuno può esercitare e utilizzare liberamente il proprio sentimento, chiunque ne sia capace diviene partecipe della religione al primo destarsi delle energie più alte, nella sacra giovinezza, sotto la cura della saggezza paterna; ogni comunicazione unilaterale allora s’interrompe, e il padre ricompensato conduce l’energico figlio, non solo in un mondo più gioioso e in una vita più lieta, ma anche immediatamente nella sacra associazione degli adoratori dell’Eterno, ora più numerosa e attiva. Nel grato sentimento che, quando un giorno arriverà quest’epoca migliore, per quanto essa possa ancora essere lontana, anche gli sforzi cui im-

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molate i vostri giorni contribuiranno in qualche misura a realizzarla, permettetemi di attirare ancora una volta la vostra attenzione sul bel frutto del vostro lavoro; lasciatevi ancora una volta condurre alla sublime comunità degli animi veramente religiosi, che invero è adesso distrutta e quasi invisibile, il cui spirito però domina ovunque siano raccolte in nome della Divinità anche soltanto poche persone.46 Cosa, in ciò, non dovrebbe riempire di ammirazione e di rispetto voi, amici e ammiratori di tutto quel che è bello e buono! Essi sono tra loro un’accademia di sacerdoti. Ognuno considera la religione come arte e studio, quanto, per essi, è la cosa più importante e, per questo, la religione, dalla sua infinita ricchezza, concede a ciascuno di loro una parte speciale di sé. Con sentimento universale per tutto ciò che appartiene al regno santo della religione, ognuno mette in comune, come conviene agli artisti, l’aspirazione a perfezionarsi in una singola parte; regna un nobile agonismo, e il desiderio di presentare qualcosa che sia degno di una tale associazione fa sì che ciascuno assimili con fedeltà e diligenza tutto ciò che appartiene al suo specifico dominio. Ciò viene conservato in un cuore puro, viene ordinato con animo raccolto, è abbellito e perfezionato con arte celestiale, e così, in ogni modo e da ogni fonte, risuonano la lode e la conoscenza dell’Infinito, giacché ognuno apporta con cuore lieve i frutti più maturi del suo riflettere e vedere, del suo comprendere e sentire. Essi sono tra loro un coro di amici. Ognuno sa che anch’egli è una parte e un’opera dell’Universo, che anche in lui si manifesta l’operare e il vivere divino di quello. Si coglie, dunque, come un degno oggetto d’intuizione per gli altri. Ciò che percepisce in sé delle relazioni dell’Universo, ciò che forma in se stesso degli elementi dell’umanità, viene messo in luce con sacra timidezza, ma con pronta franchezza, in modo che ciascuno entri e veda. Per che ragione dovrebbero nascondere qualcosa tra loro? Tutto ciò che è umano è sacro, giacché tutto è divino. Essi stringono tra loro un’alleanza di fratelli, o siete voi in possesso di un’espressione più intrinseca per la totale fusione delle loro nature, non in vista dell’essere e del volere, ma in vista del sentire e del comprendere? Quanto più ognuno si accosta all’Universo, quanto più si comunica all’altro, tanto più perfettamente essi diventano uno solo, nessuno ha una coscienza per sé, ognuno ha al contempo quella dell’altro; non sono più soltanto uomini, ma sono anche l’umanità e, emergendo da se stessi, trionfando su se stessi, si trovano sulla via per la vera immortalità e la vera eternità. Avete trovato qualcosa di più sublime in un altro dominio della vita umana o in un’altra scuola di saggezza? Comunicatemelo allora! Quel che mi appartiene io ve l’ho dato.

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Le religioni È fuori di dubbio che l’uomo assorto nell’intuizione dell’Universo debba essere oggetto d’attenzione e di rispetto per voi tutti; che nessuno, ancora capace di comprendere qualcosa di questo stato, possa, nel prenderlo in considerazione, astenersi da questi sentimenti. Disprezzate pure chi ha l’animo pieno facilmente e interamente di cose futili; ma inutilmente cercherete di considerare poco rilevante chi assimila in sé la cosa più importante e se ne nutre; – amate e odiate qualcuno secondo che si addentri con voi, o in senso contrario al vostro, nel limitato percorso dell’attività pratica e della formazione culturale: ma neppure il sentimento più bello, tra quelli che si fondano sull’uguaglianza, potrà imprimersi in voi come s’imprime in chi s’innalza tanto sopra di voi, al modo dell’ammiratore dell’Universo che si staglia oltre chiunque non si trovi nella stessa condizione; – dovete rispettare anche controvoglia, così dicono i più saggi tra i vostri, il virtuoso che aspira a determinare il finito in conformità a dettami infiniti secondo le leggi della natura etica: ma seppure, in ragione del contrasto delle forze finite con l’impresa infinita, fosse possibile per voi trovare qualcosa di faceto nella stessa virtù, non potreste comunque negare attenzione e rispetto, se lo considerate in questo magnifico momento dell’esistenza umana, a colui i cui organi sono aperti all’Universo e che, distante d’ogni disputa e contrasto, al di sopra di ogni tensione, compenetrato dagli effetti dell’Universo e diventato una sola cosa con esso, vi rimanda, senza alterazioni, il raggio celeste. Non vi chiedo, dunque, se l’idea che vi ho trasmesso sull’intima natura della religione vi abbia imposto quel rispetto che spesso le avete negato in conseguenza di false rappresentazioni e per esservi soffermati su aspetti casuali; se i miei pensieri sulla connessione di questa disposizione, insita in tutti noi, con ciò che di eccellen-

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te e di divino appartiene altrimenti alla nostra natura vi abbiano sollecitato a una contemplazione più intrinseca del nostro essere e divenire; se voi, dal più alto punto di vista che vi ho mostrato in quella sublime comunità di spiriti tanto misconosciuta in cui ciascuno, non avendo alcuna stima della gloria del proprio arbitrio, dell’esclusiva proprietà della sua più intima peculiarità e del suo mistero, si offre intenzionalmente per lasciarsi intuire come un’opera dell’eterno e onniplasmante Spirito del mondo, se voi, dico, restiate ammirati della dimensione più sacra di quella socievolezza, impareggiabilmente più alta di ogni associazione terrena, più santa del più delicato legame di fratellanza di animi etici; se, dunque, l’intera religione, nella sua infinitezza, nella sua divina forza, vi abbia avvinti all’adorazione; non ve lo domando, giacché io sono certo della forza dell’argomento che doveva solo esser liberato per agire su di voi. Ora, però, devo volgermi a un nuovo compito, e a superare una nuova resistenza. Voglio, per dir così, introdurvi al Dio che è diventato carne;47 voglio mostrarvi il modo in cui la religione, privata della sua infinitezza, è apparsa tra gli uomini in forma spesso inadeguata; dovete scoprire la religione nelle religioni; rintracciare i singoli tratti della stessa bellezza celeste, di cui ho cercato di ritrarre la forma, in ciò che di mondano e impuro vi sta innanzi. Se gettate uno sguardo sullo stato presente delle cose in cui, quasi ovunque, chiese e religioni, nella loro molteplicità, concordano e, nella loro separazione, sembrano essere indissolubilmente legate, dove ci sono così tanti sistemi dottrinali e confessioni di fede quante chiese e comunità religiose, potreste allora essere facilmente indotti a credere che nel mio giudizio sulla molteplicità delle chiese sia contemporaneamente espressa anche la mia valutazione della molteplicità delle religioni; voi però, in questo modo, fraintendereste completamente la mia opinione. Ho condannato la molteplicità delle chiese ma appunto perché, a partire dalla natura della cosa, ho mostrato come in questo caso si dileguino tutti i contorni, tutte le sezioni determinate scompaiono e tutto deve costituire un intero indiviso, non solo secondo lo spirito e la partecipazione, ma anche secondo la reale connessione; ho anche presupposto ovunque la molteplicità delle religioni, e la loro più marcata differenza, come qualcosa di necessario e inevitabile. Infatti, perché la Chiesa interiore, vera, dovrebbe essere una sola? Affinché ciascuno possa intuire e farsi comunicare la religione dell’altro, quella che egli non può intuire come propria, e che dunque sembrerebbe del tutto diversa dalla sua. Perché anche la chiesa impropriamente detta, la chiesa esteriore dovrebbe essere una sola? Affinché ciascuno possa cercare la religione nella forma omogena al nucleo assopito in lui, e questo nu-

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cleo dovrebbe pertanto essere di specie particolare, per poter essere messo a frutto e ridestato solo per qualcosa della stessa specie. E tali manifestazioni della religione non possono essere considerate, per dir così, solo parti complementari che, diverse semplicemente per numero e grandezza, una volta riunite, avrebbero costituito una totalità uniforme; in tal caso, infatti, ciascuno giungerebbe da sé, secondo il proprio naturale progresso, a ciò che è dell’altro; la religione, che egli si lascia comunicare, si trasformerebbe nella propria e diventerebbe una cosa sola con essa, e la chiesa, questa comunità di tutti i credenti che si presenta, secondo l’opinione esposta, irrinunciabile per ogni uomo religioso, sarebbe soltanto un’istituzione provvisoria che, attraverso la propria azione, si annullerebbe tanto più velocemente, come io, comunque, non ho inteso in alcun modo pensare e sostenere. Così, ho presupposto la molteplicità delle religioni e, anzi, la trovo fondata nell’essenza della religione. Ognuno, peraltro, vede facilmente che nessuno può possedere la religione per intero; giacché l’uomo è finito e la religione è infinita; ma nemmeno potete ignorare che essa può essere distribuita tra gli uomini non solo in parti, nella misura in cui ciascuno, appunto, è in grado di comprenderla, ma che deve organizzarsi in manifestazioni profondamente diverse tra loro. Ricordatevi solo dei molteplici gradi della religione su cui ho richiamato la vostra attenzione, vale a dire del fatto che la religione di chi considera l’universo come un sistema non può costituire un mero avanzamento rispetto alla visione di chi inizialmente intuisce l’Universo soltanto nei suoi elementi apparentemente contrapposti; ricordatevi, altresì, che dove sta questi non può giungere, seguendo la propria via, colui per il quale l’Universo è ancora una rappresentazione caotica e indistinta. Definite pure queste differenze solo modi o gradi della religione, ma dovrete anche certo concedere che in qualsiasi luogo queste partizioni si presentino, sono solite esservi anche realtà individuali. Ogni forza infinita, che si suddivide e specifica solo nelle sue manifestazioni, si palesa anche in forme peculiari e differenti. Qualcosa di interamente diverso accade, ad esempio, con la molteplicità delle religioni rispetto a ciò che accade con la molteplicità delle chiese. Queste, nella loro pluralità, non sono che frammenti di un’unica realtà individuale, che per l’intelletto è perfettamente determinata come una e solo per la rappresentazione sensibile è irraggiungibile nella sua unità, e ciò che ha indotto questi singoli frammenti a ritenersi individualità particolari è sempre stato soltanto un malinteso, che dove-

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va poggiare sull’influenza di un principio allotrio: invece la religione, secondo il suo concetto e la sua essenza, è, anche per l’intelletto, una realtà infinita e incommensurabile; essa deve allora contenere in sé un principio che le permetta di individualizzarsi, altrimenti non potrebbe nemmeno esistere ed essere percepita; dobbiamo allora postulare e cercare un insieme infinito di forme finite e determinate in cui essa si manifesta e, dove troviamo qualcosa che afferma di essere una di queste forme, come infatti fa ogni religione individuale, dobbiamo valutare se ciò è costruito secondo questo principio, e dobbiamo renderci chiaro il concetto preciso che tale forma deve presentare, quali che siano i rivestimenti che lo ricoprono, e per quanto possa venir deformato dall’azione delle cose mortali in cui l’Imperituro si è abbassato e dalla mano profana degli uomini. Se non volete avere un concetto solo generico della religione, e sarebbe certo indegno se voleste accontentarvi di una conoscenza tanto imperfetta; se volete anche comprenderla nella sua realtà e nelle sue manifestazioni; se volete contemplare religiosamente queste stesse manifestazioni, come un’opera dello Spirito del mondo che procede all’infinito; dovete allora abbandonare il vano e inutile desiderio che possa esservene una sola, mettere da parte la vostra avversione per la loro molteplicità e, tanto spregiudicatamente quanto possibile, dovete inoltrarvi in tutte quelle che, dal seno eternamente ricco dell’Universo, si sono sviluppate in forme cangianti durante il corso, anch’esso avanzante, dell’umanità. Voi chiamate queste determinate manifestazioni religiose esistenti “religioni positive” e, già da lungo tempo, esse sono state, sotto questo nome, l’oggetto di un odio tutto speciale; di contro, nonostante tutta l’avversione per la religione in generale, avete sempre tollerato facilmente qualcosa d’altro che si chiama religione naturale, parlandone finanche con rispetto. Io non esito a permettervi di gettare subito uno sguardo nell’intimo dei miei sentimenti al riguardo, dal momento che, per parte mia, dissento nel modo più fermo contro questa predilezione e, con riguardo per tutti coloro che stabiliscono di avere in generale una religione e di amarla, spiego tale predilezione come la più rozza incoerenza e la più evidente autoconfutazione, per ragioni che voi certo approverete non appena potrò esporle. Rispetto a voi, per cui la religione in generale è sempre stata detestabile, ho trovato sempre molto ovvio fare questa distinzione. La cosiddetta religione naturale è abitualmente tanto levigata e ha maniere così filosofiche e morali che lascia trapelare poco del carattere peculiare della religione, essa sa vivere tanto educatamente, sa limitarsi e adattarsi in tal modo da essere ovunque ben tollerata. Al contrario, ogni religione positi-

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va ha tratti assai pronunciati e una fisionomia molto marcata, tanto che, in ogni movimento che compie e in ogni sguardo che le viene rivolto, ricorda immancabilmente ciò che davvero è. Se questa è la vera e intima ragione della vostra riluttanza, così com’è l’unica che coglie nel segno, dovete liberarvene subito; e, davvero, dovrei interrompere qui la mia disputa. Giacché, se ora voi, come spero, accordate un giudizio più favorevole alla religione, se riconoscete che le sta al fondo una particolare e nobile disposizione dell’uomo che, ogni qualvolta si manifesta, deve essere educata, allora non sarà per voi ripugnante scorgerla nelle forme determinate in cui si è già realmente manifestata, ma apprezzerete queste forme quanto più in esse è stato perfezionato quel che è peculiare e distintivo della religione. Ma senza ammettere questa ragione, rivolgerete forse alle singole religioni tutti i vecchi rimproveri che prima eravate abituati a fare alla religione in generale, e affermerete che proprio in ciò che chiamate l’elemento positivo della religione debba trovarsi quel che sempre di nuovo sollecita e giustifica questi rimproveri; negherete che quelle positive possano essere manifestazioni della vera religione. Richiamerete la mia attenzione sul fatto che tutte, senza esclusione, sono piene di quel che, secondo la mia enunciazione, non è religione, e che pertanto nel profondo della loro costituzione dev’esservi un principio di corruzione; mi ricorderete che ciascuna di loro dichiara di essere l’unica vera religione, e addirittura difende ciò che le è peculiare come la cosa più importante; mi rammenterete che si separano essenzialmente l’una dall’altra proprio mediante ciò che ciascuna dovrebbe rigettare in massimo grado; mi ricorderete che, in modo del tutto contrario alla natura della vera religione, esse dimostrano, confutano e disputano con le armi dell’arte e dell’intelletto o con armi ancora più estranee e indegne; e aggiungerete che, proprio mentre rispettate la religione e la considerate importante, dovrebbe vitalmente interessarvi che le sia serbata ovunque la più grande libertà di formarsi sotto tutti gli aspetti nel modo più vario e che non potreste dunque evitare di odiare tanto più intensamente quelle forme particolari di religione che trattengono entro confini prestabiliti chi le professa, sottraendo loro la libertà di seguire la propria natura e costringendoli entro limiti innaturali; e, in relazione a tutti questi aspetti, rivolgendovi a me, elogerete con decisione i vantaggi della religione naturale rispetto alla positiva. Dichiaro, ancora una volta, di non voler negare queste deformazioni e che non obietto nulla contro la resistenza da voi opposta loro. Sì, riconosco in tutte loro quella deformazione e quella deviazione in un dominio estraneo tanto deplorate e, quanto più la religione è divina, tanto meno voglio edulcorarne le forze deteriori e ammirarne le selvagge aberrazioni.

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Ma, per una volta, dimenticate questa concezione, peraltro unilaterale, e seguitemi in un’altra. Riflettete su quanto di questo deterioramento è da addebitare a coloro che hanno trasferito la religione dall’intimo del cuore al mondo civile; ammettete che molte di queste cose sono ovunque inevitabili non appena l’Infinito assume un rivestimento imperfetto e limitato, e discende nel dominio del tempo e del generale influsso delle cose finite per lasciarsene dominare. Per quanto, tuttavia, questa corruzione possa essere profondamente radicata in quelle forme, e per quanto le religioni possano averne sofferto, riflettete, comunque, che l’autentica visione religiosa di tutte le cose sta nel ricercare, anche in ciò che ci sembra volgare e basso, la traccia del divino, del vero e dell’eterno, e nell’adorarne anche la più lontana; e perché dovrebbe rinunciare al vantaggio di una tale considerazione proprio ciò che ha le più giustificate pretese a essere giudicato come qualcosa di religioso? Tuttavia, vi troverete qualcosa di più che lontane tracce della Divinità. Vi invito a prendere in considerazione ogni fede di cui gli uomini abbiano fatto professione, ogni religione che designate con un determinato nome e carattere, e che ora è forse da lungo tempo deformata in un codice di vuote usanze, in un sistema di concetti e teorie astratte; se la investigate nella sua sorgente e nelle parti costituenti originarie, troverete che tutte le morte scorie furono un tempo ardenti aneliti del fuoco interiore, contenuto in tutte le religioni, più o meno derivanti, come vi ho esposto, dalla sua vera essenza; che ognuna era una forma particolare che l’eterna e infinita religione doveva necessariamente assumere tra esseri finiti e limitati. Affinché, tuttavia, non brancoliate a caso in questo infinito caos – giacché qui devo rinunciare a condurvi in modo metodico e completo, cosa per cui sarebbe necessario lo studio di una vita e non l’ufficio di un discorso – affinché, senza essere adescati da concetti comuni, possiate ponderare secondo una giusta misura il vero contenuto e l’essenza autentica delle singole religioni e, secondo idee determinate e fisse, possiate distinguere l’interno dall’esterno, l’autentico dall’acquisito e dall’allotrio, il sacro dal profano, dimenticate, per prima cosa, ogni singola religione e ciò che è considerato il suo caratteristico contrassegno, e cercate di pervenire, a partire prima dall’interno, a un’idea universale su cosa costituisce in senso proprio l’essenza di una determinata forma di religione, troverete allora che proprio le religioni positive sono queste determinate forme sotto le quali la religione infinita si presenta nel finito, e che la religione naturale non può avanzare proprio alcuna pretesa di essere qual-

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cosa di simile, perché è soltanto un’idea insufficiente, povera e indeterminata, la quale non può mai esistere per sé; troverete che soltanto in quelle è possibile una formazione individuale in senso proprio della disposizione religiosa e che esse, secondo la loro essenza, non inficiano affatto la libertà dei loro seguaci. Perché ho assunto che la religione non può essere data compiutamente altrimenti che in un’infinita quantità di forme assolutamente determinate? Solo per ragioni che sono state argomentate quando ho parlato dell’essenza della religione. Giacché infatti, ogni intuizione dell’Infinito sussiste pienamente per sé, non dipende da nessun’altra e non ne provoca con necessità alcun’altra; giacché vi sono infinite intuizioni siffatte, e in esse non vi è proprio alcuna ragione per cui dovrebbero essere relazionate le une alle altre in un certo modo e non diversamente, e tuttavia ciascuna appare completamente diversa se guardata da un altro punto di vista o riferita a un’altra intuizione, allora la religione intera non può esistere se non quando siano effettivamente date tutte le diverse visioni di ciascuna intuizione che, in tal modo, possono sorgere; e ciò non è possibile altrimenti che in una quantità infinita di forme diverse, ognuna delle quali sia assolutamente determinata dal diverso principio di relazione in essa presente, e in ciascuna delle quali il medesimo oggetto venga modificato in modo del tutto peculiare, le quali, in breve, siano tutte vere realtà individuali. In che modo, ora, queste realtà individuali sono determinate e in che modo si distinguono l’una dall’altra? Cos’è comune nelle loro componenti, cosa le tiene insieme, o qual è il principio di attrazione che seguono? Da cosa si giudica a quale realtà individuale un certo elemento religioso deve appartenere? Una determinata forma di religione non può essere tale per il fatto che, ad esempio, contiene un certo quantum di materia religiosa. – Ciò costituisce, appunto, il totale fraintendimento dell’essenza delle singole religioni, che si è spesso diffuso tra i loro stessi fedeli e che ha posto il fondamento della corruzione. Costoro hanno appunto ritenuto che, nel professare la stessa religione, molte persone debbano anche avere le stesse prospettive e gli stessi sentimenti religiosi, le medesime opinioni e credenze, e proprio questa dimensione comune debba essere l’essenza della loro religione. Quando lo si astrae in questo modo dal particolare, non è sempre possibile trovare con sicurezza l’autentico elemento caratteristico e individuale di una religione; ma nel concetto della materia religiosa, per quanto pure sia comune, quell’elemento caratteristico non può proprio esser trovato; e se voi credete anche, per esempio, che le religioni positive siano avverse alla libertà del singolo di sviluppare la propria, perché richiedono un

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certo numero di intuizioni e sentimenti religiosi e ne escludono altri, siete allora in errore. Gli elementi della religione, come sapete, sono intuizioni e sentimenti singoli, e considerare quegli elementi solo in senso quantitativo, domandandoci quanti e specialmente quali di essi siano presenti, non può condurci al carattere di una realtà individuale della religione. Se una religione deve individualizzarsi, per il fatto che di ciascuna intuizione sono possibili molteplici vedute, secondo il modo in cui è riferita alle altre, non ci sarebbe allora di alcun aiuto ricapitolare alcune di loro escludendone altre, in modo che nessuna di quelle possibili vedute venga determinata; e se le religioni positive si distinguono solo per mezzo di una tale esclusione, allora non sarebbero certo le manifestazioni individuali che cerchiamo. Che questo, tuttavia, non sia in realtà il loro carattere risulta dal fatto che da questo punto di vista è impossibile pervenire a un preciso concetto di esse; e tale concetto deve star loro a fondamento perché altrimenti confluirebbero molto velocemente l’una nell’altra. In merito all’essenza della religione abbiamo stabilito che non vi è alcuna intima connessione tra intuizioni e sentimenti diversi dell’Universo, che ogni singolo elemento di questi sussiste per sé e può condurre, per mezzo di migliaia di combinazioni accidentali, a ogni altro. Pertanto, già nella religione, quale si forma nel corso della vita di ciascun singolo uomo, niente è più casuale della determinata quantità di materia religiosa. Singole prospettive gli possono divenire oscure, altre possono presentarglisi e giungere a chiarezza, e la sua religione è, in rapporto a questo aspetto, sempre mobile e fluida. Questa mobilità non può allora essere l’elemento stabile ed essenziale nella religione comune a molti; infatti, non deve accadere, fosse pure in modo del tutto casuale e raro, che più persone rimangano, anche solo per un certo tempo, nella stessa determinata cerchia di intuizioni e procedano sulla medesima via di sentimenti. Pertanto, anche tra coloro che determinano la loro religione in questa maniera, sorge una permanente disputa su ciò che le appartiene in modo essenziale e ciò che non le appartiene; essi non sanno cosa devono porre nella religione come caratteristico e necessario, cosa isolare come libero e casuale, non trovano il punto da cui possono scorgere il tutto, e non comprendono la manifestazione religiosa in cui loro stessi si immaginano di vivere e per cui si immaginano di disputare, e alla cui distorsione contribuiscono, dato che non sanno dove si trovano e cosa fanno. Ma l’istinto, che non comprendono, li conduce più rettamente del loro intelletto e la natura tiene insieme ciò che le loro false riflessioni e il loro fare e produrre fondato su quelle annienterebbero. Chi pone il carattere di una particolare religione in una determinata quantità di intuizioni e sentimenti deve assumere necessariamente una connessione interna e obiettiva, che colleghi reciprocamente proprio questi ed escluda tutti gli altri, e que-

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sta illusione è, appunto, il principio della sistematicità e del settarismo così interamente contrapposto allo spirito della religione; e il tutto, che si sforzano di formare in questo modo, non sarebbe come noi lo cerchiamo, tale per cui la religione guadagna una forma determinata in tutte le sue parti, ma sarebbe un ritaglio separato con violenza dall’Infinito, non una religione, ma una setta, il concetto più irreligioso che si possa voler realizzare nel dominio della religione. Ma le forme che l’Universo ha prodotto, e che sono realmente presenti, non sono nemmeno complessi di questo tipo. Ogni settarismo, sia esso speculativo, volto a portare singole intuizioni entro una connessione filosofica, o ascetico, capace di spingere verso un sistema e una determinata successione di sentimenti, propugna un’uniformità, possibilmente perfetta, di tutti coloro che vogliono avere una parte nello stesso frammento di religione; e se a coloro che sono contagiati da questo furore, e che di certo non sono carenti nell’attività, non è ancora in qualche modo riuscito di portare una religione positiva fino a questo punto, ammetterete allora che le formazioni religiose positive, dato che sono ormai sorte, e nella misura in cui esistono ancora nonostante quelle aggressioni, devono essere state formate secondo un differente principio e avere un diverso carattere; anzi, se pensate al tempo in cui sono sorte, scorgerete ciò ancora più limpidamente: giacché vi rammenterete che ogni religione positiva, durante la sua formazione e la sua fioritura, quindi nel tempo in cui la sua peculiare forza vitale opera nel modo più giovanile e fresco e può pertanto essere riconosciuta con la massima sicurezza, si muove in una direzione del tutto opposta, vale a dire non concentrandosi su di sé ed escludendo molto da sé, ma espandendosi verso l’esterno, esprimendo sempre nuove ramificazioni, appropriandosi sempre più materia religiosa e costituendola conformemente alla sua speciale natura. Le religioni positive non sono dunque formate secondo quel falso principio, e tale principio non costituisce una cosa sola con la loro natura, ma ne rappresenta una corruzione introdotta dall’esterno e, poiché è esattamente tanto contrario alle religioni positive quanto allo spirito di quella generale, il loro contrasto con esso, che si configura come una guerra perpetua, può dimostrare, e non confutare, l’affermazione che quelle cercate siano le manifestazioni individuali della religione. Tutte le differenze nella religione in generale, su cui ho finora richiamato qui e là la vostra attenzione, sono altrettanto insufficienti a produrre una forma determinata in modo compiuto come una realtà individuale. Quei tre modi, tanto spesso mentovati, di intuire l’Universo quale caos, sistema e nella molteplicità dei suoi elementi, sono parimenti lontani dal costituire religioni singole e determinate. Saprete che, se si divide un concetto quanto si vuole all’infinito, per mezzo di tale suddivisione non si giunge mai agli individui, ma sempre soltanto a concetti meno uni-

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versali, che sono contenuti sotto di quello, a specie e partizioni che possono nuovamente comprendere sotto di sé un insieme di individui molto diversi: ma per trovare il carattere degli esseri individuali stessi si deve partire dal concetto universale e dalle sue note. Quelle tre differenze della religione, tuttavia, in realtà non sono altro che una partizione convenzionale e reiterata del concetto di intuizione. Sono dunque specie della religione, ma non forme determinate, e il bisogno, per il quale cerchiamo queste forme, non può essere appagato nemmeno dal fatto che la religione si presenti in questo triplice modo. Singole intuizioni hanno certo un proprio carattere in ognuna di esse e, pertanto, ogni determinata forma di religione deve attenersi a una di queste specie: ma una relazione e un assetto propri delle diverse intuizioni tra loro non sono per nulla determinati da quelle specie in modo esclusivo; e in tal modo di considerare, secondo questa partizione, tutto rimane ancora esattamente tanto indefinito e così molteplice come prima. Potrebbe forse apparire più plausibile che il personalismo e la concezione panteistica a esso opposta ci mostrino due siffatte forme individuali di religione; ma si tratta, appunto, solo di apparenza. Queste concezioni, anzi, attraversano tutte e tre le specie di religione e già per questo non possono essere realtà individuali, perché una realtà individuale non può riunire in sé tre caratteri speciali differenti. Con una più precisa considerazione, dovete però anche vedere che mediante quelle concezioni non è nemmeno data una determinata relazione di più intuizioni religiose tra loro. Anzi, se l’idea di una Divinità personale fosse un’intuizione religiosa particolare, allora certamente il personalismo, in ciascuna delle tre specie di religione, sarebbe una forma compiutamente determinata, poiché ogni materia religiosa, nel personalismo, è riportata a questa idea: ma forse lo è? È quest’idea una particolare intuizione dell’Universo? Una singola impressione di esso che, ad esempio, qualcosa di determinato e finito produce in me? Allora anche il panteismo, che gli è contrapposto, deve essere un’intuizione? Così, per entrambi, dovrebbero esserci alcune determinate percezioni, da cui essi sono creati; e dove mai sono state mostrate queste percezioni? Allo stesso modo, dovrebbero esserci singole intuizioni della religione tra loro contrapposte, cosa impossibile. E nemmeno queste due concezioni sono intuizioni diverse dell’Universo nel finito, o elementi di religione, ma modi differenti di pensare l’Universo contemporaneamente come una realtà individuale quando esso è intuito nel finito, poiché infatti uno gli attribuisce una peculiare coscienza e l’altro no. Tutti i singoli elementi della religione rimangono, in vista della loro reciproca posizione, altrettanto indeterminati, e nessuna delle molte visioni di essa è realizzata per il fatto che l’uno o l’altro pensiero la accompagnano; come potete scorgere ovunque debba es-

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sere presentato qualcosa in modo religioso, e al contempo puramente deistico, anche in questo caso troverete che tutte le intuizioni e i sentimenti, e nello specifico – e questo è il punto attorno a cui normalmente tutto ruota in questa sfera – le intuizioni dei movimenti dell’umanità nei loro particolari, e quelle dell’unità in ciò che sta al di fuori dell’arbitrio dell’umanità, continuano a oscillare, in relazione al loro rapporto reciproco, nell’indeterminato e nel molteplice. Entrambe queste concezioni sono pertanto soltanto forme più generali, il cui dominio deve essere anzitutto riempito con forme individuali e determinate, e se voi delimitate anche questo dominio per il fatto di collegare individualmente le forme universali con una delle tre determinate specie di intuizione, allora anche queste forme, composte in base a diverse ragioni di partizione del tutto, sono soltanto sottosezioni, ma non sono assolutamente totalità determinate e conchiuse. Dunque né il naturalismo – con questo termine concepisco l’intuizione dell’Universo nella pluralità dei suoi elementi senza la rappresentazione di coscienza e volontà personale dei singoli elementi –, né il panteismo, né il politeismo, né il deismo sono religioni singole e determinate, come noi le cerchiamo, ma solo specie nel cui dominio si sono già sviluppate molte realtà individuali in senso proprio, e se ne svilupperanno ancora di più. – Notate bene che il panteismo e il deismo non sono forme determinate di religione che vi consentano di indicare il posto che spetta alla vostra religione naturale, se per caso si dovesse scoprire che essa non è altro che una forma indeterminata di quel tipo. In sintesi: una realtà individuale della religione, come noi la cerchiamo, non può essere realizzata se non per il fatto che una qualche intuizione singola dell’Universo – ciò, infatti, non può accadere diversamente perché ogni altra intuizione vi avrebbe gli stessi diritti – è divenuta liberamente il punto centrale di tutta la religione e tutto, al suo interno, si rapporti a essa. Finiscono così per entrare nel tutto della religione uno spirito determinato e un carattere comune; tutto ciò che prima era ambivalente e indeterminato viene fissato; dalle diverse innumerevoli visioni e relazioni di singoli elementi, tutte egualmente possibili e tutte parimenti presentabili, attraverso ogni formazione di quel tipo è senz’altro realizzata una sola visione; tutti i singoli elementi appaiono ora dal medesimo lato, da quello rivolto a quel centro, e tutti i sentimenti ottengono proprio per questo un timbro comune e diventano più vitali e più intrecciati reciprocamente. Solo nella totalità di tutte le forme possibili secondo questa costruzione può esser data per davvero tutta la religione, ed essa viene dunque rappresentata soltanto in una successione infinita di forme advenienti e transeunti, e solo ciò che si trova in una di queste forme contribuisce in qualche modo alla sua perfetta rappresentazione. Ogni formazio-

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ne religiosa siffatta, in cui tutto è visto e percepito in rapporto a un’intuizione centrale, in qualsiasi modo sia formata, e qualsiasi sia l’intuizione prescelta, è una religione positiva particolare; in rapporto alla religione nella sua interezza essa è un’eresia – una parola che dovrebbe essere nuovamente rimessa in onore – giacché la causa originaria della sua nascita è qualcosa di altamente libero; in riferimento alla comunità di tutti i partecipanti, e al loro rapporto con colui che per primo ne ha istituito la religione, giacché per primo colse quell’intuizione nel centro della religione, è una particolare scuola e un particolare discepolato. E se la religione è rappresentata soltanto in tali forme determinate e attraverso di loro, allora solo colui che si stabilisce, con i suoi, in una tale forma, guadagna davvero una dimora stabile e, per dir così, un diritto di cittadinanza attivo nel mondo religioso; solo costui può onorarsi di contribuire in qualche misura all’esistenza e al divenire del tutto; solo costui è una vera persona religiosa con un carattere e con tratti stabili e determinati. Deve dunque ciascuno, domanderete voi abbastanza sorpresi, nella cui religione sia dominante un’intuizione, appartenere a una delle presenti forme? Proprio no; ma una intuizione deve essere prevalente nella sua religione, altrimenti sarebbe come se la sua religione non esistesse. Io ho, infatti, parlato di due o tre forme determinate, ma ho detto che devono rimanere le uniche? Innumerevoli se ne devono anzi sviluppare da tutti i punti, e colui che non si adatta in una delle già esistenti, colui, direi, che, se non fosse esistita, non sarebbe stato in grado di farla da sé, costui certamente non apparterrà a nessuna di esse, ma creerà una religione nuova. Egli rimarrà pertanto da solo e senza discepoli, ma ciò non gli nuoce. Sempre e ovunque esistono germi di ciò che non può ancora giungere a un’esistenza più ampia: ma essi, pure, vi sono, e allo stesso modo esiste anche la sua religione, che ha parimenti una determinata forma e una determinata organizzazione, è egualmente una religione positiva in senso proprio, come se questi avesse istituito la più grande scuola. Vedete che queste forme presenti non impediscono ad alcun uomo, con la loro esistenza anteriore, di costituirsi una religione conforme alla sua particolare natura e al suo sentimento. Se egli vivrà in una di esse o ne istituirà una propria dipende soltanto da quale intuizione dell’Universo lo abbia afferrato fin dall’inizio con adeguata vivacità. Oscuri presentimenti che, senza compenetrare la parte intima dell’animo, scompaiono nuovamente dimenticati, e che spesso presto aleggiano attorno a ogni uomo, possono sorgere per sentito dire e rimanere senza rapporti, ma non sono ancora una realtà individuale; quando, però, a uno si palesa per sempre il senso dell’Universo in una coscienza chiara e in un’intuizione determinata, allora egli, in seguito, rapporta tutto a questa, tutto si organizza attorno a essa, da questo momento la sua religione è costituita, e spero che voi non direte che su ciò potreb-

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be avere influenza qualcosa di naturale e di ereditario, e che non crederete nemmeno che la religione di un uomo sia meno peculiare e meno personale se si trova in un contesto in cui più persone sono già riunite. Quand’anche, però, mille prima di lui, assieme a lui e dopo di lui iniziano la loro vita religiosa con la medesima intuizione, tale vita sarà la stessa in tutti, e la religione si costituirà in tutti allo stesso modo? Ricordatevi, comunque, che in ogni determinata forma di religione, per dir così, non deve essere ammesso, in funzione della stessa visione e in relazione a una sola intuizione, un numero soltanto limitato di intuizioni, ma tutto l’insieme infinito di esse. Non si accorda ciò con una sufficiente libertà di azione? Io non saprei se sia già riuscito a persone singole di prendere possesso dell’intero dominio dell’intuizione e di determinare e rappresentare tutto conformemente al proprio spirito: solo a pochi è stato permesso, nel tempo della loro libertà e della loro miglior vita, di formare opportunamente e di perfezionare soltanto la parte più vicina al centro. La messe è grande e gli operai sono pochi.48 Un campo infinito è aperto in ciascuna di queste religioni, in cui migliaia di persone si possono sparpagliare; si presenteranno un numero considerevole di zone incolte all’occhio di chiunque sia capace di fare e di produrre qualcosa di originale, e fiori santi profumano e splendono in tutte le zone in cui non si è ancora spinto nessuno per contemplarli e goderne. Ma il vostro rimprovero, come se all’interno di una religione positiva l’uomo non potesse più costituire la sua in modo peculiare, è sì poco fondato, che le religioni positive non solo, come avete appunto visto, lasciano sufficiente spazio per ognuno ma, proprio nella misura in cui l’uomo fa ingresso in una religione positiva, e in ragione di ciò, la sua religione può essere, in un altro senso, una realtà individuale particolare e può inoltre divenire tale da sé. Considerate ancora una volta l’istante sublime in cui l’uomo entra in generale per la prima volta nel dominio della religione. La prima specifica visione religiosa, penetrante nel suo animo con una tale forza che, attraverso un unico stimolo, vivifica il suo organo dell’Universo e d’ora in avanti lo pone per sempre in attività, determina di certo la sua religione; essa è e rimane la sua intuizione fondamentale in rapporto a cui egli vedrà tutto; e viene determinato in anticipo in quale forma deve apparirgli ogni elemento religioso appena lo percepisce. Tale è il lato oggettivo di questo momento; volgete però lo sguardo anche al lato soggettivo: come, dal punto di vista oggettivo, attraverso questo momento, la sua religione è determinata in quanto appartiene a un individuo interamente compiuto rispetto al Tutto infinito, ma non è altro che un frammento indeterminato del tutto, giacché solo congiunto a molti altri esso può rappresentare il tutto, così, attraverso lo stesso momento la sua religiosità è portata al mondo

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come una realtà individuale completamente peculiare e nuova rispetto alla infinita disposizione religiosa dell’umanità. Questo istante è infatti, al contempo, un determinato punto nella sua vita, un elemento della serie in lui del tutto peculiare di attività spirituali, un accadimento che, come ogni altro, sta in una determinata connessione con un prima, un adesso e un dopo; e poiché questi prima e adesso sono in ogni individuo qualcosa di interamente specifico, lo sarà anche il dopo; giacché tutta la vita religiosa successiva si collega a questo momento, allo stato in cui esso ha sorpreso l’animo, alla connessione di questo stato con la precedente e misera coscienza, e da ciò si sviluppa per dir così geneticamente, allora la vita religiosa ha anche in ogni individuo una personalità assolutamente determinata, come la sua stessa vita umana. Come, quando una parte della coscienza infinita si stacca e, convertita in qualcosa di finito, si lega a un determinato momento della successione delle evoluzioni organiche, sorge un uomo nuovo, un’autentica essenza, la cui distinta esistenza, indipendentemente dalla quantità e dalla costituzione oggettiva dei suoi avvenimenti e delle sue azioni, sussiste nell’unità della coscienza perdurante che si collega a quel primo istante, nella peculiare relazione per cui ognuno di quelli successivi si riallaccia a un preciso momento precedente, e quelli anteriori influiscono sui seguenti, così, in quell’istante in cui si leva una determinata coscienza dell’Universo, sorge anche una vita religiosa particolare; specifica, non in ragione di un’irrevocabile limitazione a un numero definito e a una scelta precisa di intuizioni e sentimenti, non per la qualità della materia religiosa esistente al suo interno, che egli ha in comune con tutti coloro che sono nati spiritualmente insieme a lui nello stesso tempo e nell’orizzonte della stessa religione, ma per ciò che egli non può avere in comune con nessuno, per l’eterna influenza della circostanza in cui il suo animo è stato la prima volta salutato e abbracciato dall’Universo, per il modo proprio in cui egli ne elabora la considerazione e la riflessione, per il carattere e il tono con cui ciò si riflette in tutta la serie seguente delle sue vedute e dei suoi sentimenti religiosi, che non vanno mai persi, per quanto egli avanzi nell’intuizione dell’Universo al di là di ciò che la prima infanzia della sua religione gli ha offerto. Come ogni essere intellettuale finito attesta la sua natura spirituale e la sua individualità riconducendovi a quell’unione dell’Infinito con il finito che ne sta all’origine, a quel fatto non concettualizzabile, oltre il quale voi non potete seguire ulteriormente la serie del finito, e in cui la vostra fantasia vi abbandona se intendete spiegarlo con qualcosa di precedente, sia ciò volontà o natura, così dovete attribuire una

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vita spirituale peculiare a chiunque vi mostri, come documento della sua individualità religiosa, un fatto altrettanto inconcepibile, riguardo al modo in cui una volta, nel mezzo di ciò che è finito e singolo, si è sviluppata in lui la coscienza dell’Infinito e del tutto. Dovete anche considerare chiunque può dichiarare in questo modo l’ora natale della sua vita spirituale e può raccontare una storia meravigliosa sull’origine della sua religione, che appare quale influenza diretta della Divinità e impulso del suo Spirito, come uno che deve essere qualcosa di particolare e con cui deve essere pronunciato un discorso speciale: poiché qualcosa del genere non accade per produrre, nel regno della religione, un mero doppione. E come ogni natura, sorta in siffatto modo, si spiega soltanto da sé e non può essere intesa completamente se non vi rifate quanto più possibile alle prime manifestazioni di volontà dei primissimi tempi, così anche la personalità religiosa di ognuno è una totalità conchiusa e la sua comprensione si basa sul fatto che cercate di esplorarne le prime rivelazioni. In ragione di ciò credo anche che non prenderete sul serio tutte queste accuse contro le religioni positive; si tratta certamente di un concetto soltanto pregiudizievole, perché siete sin troppo spensierati in merito alla questione per poter essere giustificati al riguardo. Non avete mai sentito il richiamo a stringervi ai pochi uomini religiosi che potete forse vedere – benché siano sempre abbastanza attraenti e amabili –, per ricercare più precisamente, quasi attraverso il microscopio dell’amicizia o di una conoscenza più prossima che sembra per lo meno simile all’amicizia, come essi siano organizzati per mezzo dell’Universo. A me, che li ho considerati così diligentemente, che li cerco così faticosamente e li scruto con la santa dedizione che voi dedicate alle rarità della natura, a me, è spesso sovvenuto il pensiero che potreste essere condotti alla religione se solo prestaste attenzione all’onnipotenza con cui la Divinità istituisce e distingue, quale luogo santissimo, la parte dell’anima in cui abita di preferenza, in cui si manifesta e si rivela nei suoi effetti immediati, da ciò che è costruito e formato nell’uomo in modo diverso; e prestaste altresì attenzione al modo in cui la Divinità si glorifica nell’uomo, in tutta la sua ricchezza, per mezzo della più inesauribile pluralità di forme. Io, per lo meno, rimango sempre sorpreso come la prima volta per le numerose, notevoli formazioni sul territorio sì poco popolato della religione e per il fatto che esse si distinguono l’una dall’altra secondo le più diverse gradazioni di sensibilità allo stimolo offerto dal medesimo oggetto, per la grandissima molteplicità di ciò che è messo in opera in esse, per la varietà di tono che il decisivo predominio dell’uno o dell’altro tipo di sentimenti produce, e per tutte le idiosincrasie di eccitabilità e tutte le pecu-

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liarità di stato d’animo, dal momento che ciascuno trova subito la sua personale situazione in cui di preferenza è dominato dalla prospettiva religiosa delle cose. Infatti, da capo, mi stupisce come il carattere religioso dell’uomo sia in lui qualcosa di interamente peculiare, come sia separato da tutto ciò che l’uomo scopre nelle sue restanti disposizioni, come l’animo più quieto e sobrio sia qui capace del più forte affetto, simile alla passione; come il più sordo sentimento per le cose comuni e terrene qui si arricchisca fino alla malinconia e veda nitidamente fino al rapimento estatico e alla profezia, come il coraggio più timido negli affari mondani parli ad alta voce delle cose sacre e a loro favore, davanti al mondo, al proprio tempo e spesso fino al proprio martirio. E quanto spesso questo stesso carattere religioso è formato e composto meravigliosamente, e l’educazione e la brutalità, la capacità e l’angustia, la delicatezza e la durezza sono, in ognuno, mescolate e intrecciate l’un con l’altra in modo peculiare. Dove ho visto tutte queste forme? Nel dominio proprio della religione, nelle sue figure determinate, nelle religioni positive, che voi contrabbandate per il contrario, tra gli eroi e i martiri di una determinata fede, tra gli entusiasti per determinati sentimenti, tra gli adoratori di una determinata luce e di rivelazioni individuali: qui voglio mostrarvele, in tutti i tempi e tra tutti i popoli. Né le cose possono stare diversamente; solo là si possono incontrate. Come nessun uomo, in quanto individuo, può venire all’esistenza senza al contempo essere posto, attraverso lo stesso atto, anche in un mondo, in un determinato ordine di cose e tra singoli oggetti, così un uomo religioso non può giungere alla sua individualità senza porsi anche, attraverso la stessa azione, in una qualche forma determinata di religione. Entrambe le cose sono l’effetto dello stesso momento, e dunque l’una non può essere separata dall’altra. Quando l’intuizione originaria dell’Universo in un uomo non ha abbastanza forza per costituirsi quale centro della sua religione, attorno a cui in essa si muova tutto, allora anche il suo stimolo non opera in modo sufficientemente forte da avviare il processo di una vita religiosa personale e vigorosa. E ora che vi ho presentato questo resoconto, ditemi pure: come stanno le cose, in rapporto a questa formazione e individualizzazione personale nella vostra famosa religione naturale? Mostratemi anche tra i suoi fedeli una sì grande molteplicità di caratteri fortemente distinti! Poiché devo ammettere che io stesso non ho mai potuti trovarne tra di loro, e quando vi vantate che essa conceda ai suoi fedeli maggiore libertà di costituirsi in termini religiosi secondo il proprio sentimento, non posso figurarmi altro che – e infatti la parola è spesso usata così – la libertà di rimanere anche priva d’educazione, la libertà da ogni necessità di essere, vedere, percepire, sia pur in generale, qualcosa di determinato. La religione gioca certo nel loro

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animo un ruolo fin troppo misero. È come se non avesse per sé alcuna pulsazione, nessun sistema sanguigno proprio, nessuna circolazione propria, nessuna temperatura propria, nessuna forza di assimilazione e nessun carattere; essa è ovunque mescolata con la loro eticità e con la loro sensibilità naturale; in rapporto a loro o, ancor meglio, seguendole umilmente, la religione si muove in modo indolente e lento, e solo occasionalmente è separata da quelle, a goccia a goccia, quale segno della sua esistenza. Invero, mi si è presentato qualche carattere religioso rispettabile e forte, che i seguaci delle religioni positive, non senza meravigliarsi del fenomeno, hanno spacciato per un seguace della religione naturale: ma, dopo averlo considerato accuratamente, questi non lo hanno riconosciuto più come loro pari; egli aveva sempre già deviato un po’ dalla purezza originaria della religione razionale e aveva accolto nella sua qualcosa di arbitrario e positivo, che quelli non riconoscevano solo perché era troppo diverso da quanto vi avevano accolto loro. Perché i seguaci della religione naturale diffidano nello stesso modo di colui che porta qualcosa di peculiare nella sua religione? Essi vogliono appunto che tutti siano uguali – estremo semplicemente opposto all’altro, dico al settarismo –, uguali nell’indeterminatezza. Sì poco bisogna pensare a una formazione personale nella religione naturale che, anzi, i loro migliori adepti non vogliono neppure che la religione dell’uomo possa avere una propria storia e debba iniziare con qualcosa di memorabile, per loro ciò è già troppo: poiché la moderazione è ai loro occhi la cosa principale nella religione, e chi può dire di sé qualcosa del genere guadagna subito la cattiva nomea di avere un’inclinazione per il fanatismo nocivo. L’uomo deve diventare religioso un po’ alla volta, come deve diventare saggio e intelligente, e tutto il resto che deve essere; è necessario che tutto gli giunga per mezzo dell’istruzione e dell’educazione; in ciò non deve esistere nulla che possa essere considerato sovrannaturale o anche soltanto fuori dall’ordinario. Non voglio dire che, dacché l’istruzione e l’educazione sono tutto, io mi ponga il dubbio che la religione naturale sia colpita in modo particolarissimo da quel male della mescolanza, o persino della trasformazione in filosofia e in morale; ma è certo chiaro che i suoi seguaci non sono partiti da una qualche intuizione vitale, che non è neanche il loro centro fisso, giacché tra di loro non sanno nulla di ciò da cui l’uomo dovrebbe essere colpito in un modo peculiare. La fede in un Dio personale, ciò loro sanno da sé, non è il risultato di una determinata singola intuizione dell’Universo nel finito; per questo essi non domandano a nessuno che abbia tale fede come vi sia giunto; ma così come la intendono dimostrare, credono anche che debba essere dimostrata a tutti. Oltre a ciò, se avessero un altro e più determinato centro, difficilmente voi potreste provarlo. Il poco, che la loro scarna ed esile religione contiene, vi si trova per sé in un’ambiguità indistinta: han-

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no una provvidenza in generale, una giustizia in generale, un’educazione al divino in generale; tutte queste intuizioni le vedono, nel loro rapporto reciproco, in molteplici prospettive, ora in questo ora in quello scorcio, e per loro valgono una volta l’uno una volta l’altro; o, se per caso capita d’imbattersi in un riferimento comune a un punto, questo si trova allora al di fuori della religione, e si tratta di una relazione a qualcosa di estraneo, all’esigenza di non ostacolare l’eticità e al bisogno che l’impulso alla felicità ne riceva qualche nutrimento, cose a cui uomini veramente religiosi non hanno mai prestato attenzione nella costruzione degli elementi della loro religione; relazioni, con cui il carente patrimonio religioso dei suoi seguaci è ancora più dissolto e disperso. Tale religione naturale non ha dunque, per le loro intuizioni religiose, nessuna unità di una visione determinata, non è nemmeno una determinata forma, non è una rappresentazione individuale in senso proprio della religione, e coloro che si limitano a professarla non hanno nessuna precisa dimora nel suo regno, ma sono stranieri la cui patria, se ne hanno una, e io ne dubito, deve trovarsi da qualche altra parte. Me la figuro come la massa destinata a oscillare, fragile e instabile, tra sistemi planetari, qua attratta un po’ da uno là un po’ dall’altro, ma da nessuno in modo tanto forte da essere risucchiata nella sua orbita. Per quale ragione vi sia, lo sapranno gli dèi; forse per mostrare che anche ciò che è indeterminato può in un certo modo esistere. In verità è però soltanto un’attesa per l’esistenza, cui i seguaci della religione naturale non potrebbero giungere altrimenti che afferrati da una potenza in modo più forte e diverso di come lo siano stati dalle potenze precedenti. Non posso concedere loro più degli oscuri presentimenti che precedono quell’intuizione vitale, che dischiude all’uomo la sua vita religiosa. Ci sono certe torbide agitazioni e rappresentazioni che non sono connesse per nulla con la personalità di un uomo ma, per così dire, riempiono solo i suoi interstizi, e sono uniformemente la stessa cosa in tutti: la loro religione è così. Tutto al più, essa è religione naturale nel senso in cui anche altrove, quando si parla di filosofia naturale e poesia naturale, tale nome si attribuisce forzatamente alle manifestazioni del rozzo istinto per dividerle dall’arte e dalla cultura. Eppure esse non si propongono, ad esempio, il meglio, considerandolo in senso tanto alto da non poterlo raggiungere, ma gli si oppongono con tutte le forze. L’essenza della religione naturale consiste in senso proprio nella negazione di tutto ciò che è positivo e caratteristico nella religione, e nell’acerrima polemica al riguardo. Per questo, essa è anche il prodotto degno dell’epoca, la cui passione è un’abietta universalità e una vuota sobrietà, cose che si contrappongono più di qualsiasi altra cosa alla vera cultura sotto ogni aspetto. Il loro odio si rivolge in modo particolare a due aspetti: non vogliono in nessun luogo ini-

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ziare da ciò che è straordinario e incomprensibile; e qualsiasi cosa essi siano o facciano non deve, in nessun luogo, costituire una scuola. È questo il pervertimento che trovate in tutte le arti e le scienze, che è entrato anche nella religione, e il suo prodotto è questa cosa priva di contenuto e di forma. Nella religione vorrebbero essere autoctoni e autodidatti; ma di questi possiedono solo la rozzezza e l’incultura: non hanno né la forza né la volontà di produrre ciò che è peculiare. Si impuntano contro ogni religione determinata che esista perché è al contempo una scuola; ma se fosse possibile che incontrassero in proprio qualcosa attraverso cui potesse formarsi in loro una religione personale, vi si opporrebbero altrettanto strenuamente, per il fatto che da ciò potrebbe sorgere una scuola. E così il loro opporsi contro quel che è positivo e volontario è, al contempo, una contrapposizione a ciò che è determinato e reale. Se una religione particolare non deve iniziare con un fatto, non può iniziare affatto: poiché un fondamento deve esistere, e non può che essere soggettivo se qualcosa deve emergere ed essere posto al centro; e se una religione non deve essere qualcosa di determinato, allora non è religione, ma solo materia disgregata e priva di connessione. Rammentate cosa dicono i poeti di una condizione delle anime prima della nascita, quando una certa anima voleva difendersi violentemente dal venire al mondo giacché non intendeva essere questo o quell’uomo, ma un uomo in generale; questa polemica contro la vita è la polemica della religione naturale contro le positive, ed è questa la condizione permanente dei suoi seguaci. Indietro allora, se vi interessa prendere in considerazione la religione nelle sue forme determinate, da questa religione illuminata alle disprezzate religioni positive, dove tutto appare reale, forte e determinato; dove ogni singola intuizione ha il suo peculiare contenuto e un proprio rapporto con le altre, ogni sentimento ha la sua cerchia e la sua determinata relazione; dove incontrate, da qualche parte, ogni modificazione della religiosità e ogni stato d’animo in cui solo la religione può porre l’uomo; dove trovate costituita, in qualche luogo, ogni parte di essa e dei suoi effetti; dove tutte le istituzioni comunitarie e tutte le singole esternazioni dimostrano l’alto valore assegnato alla religione fino a dimenticare tutto il resto; dove la santa diligenza, con cui essa è trattata, comunicata e goduta, e l’infantile desiderio, con cui si guarda verso nuove rivelazioni di forze celesti, vi garantiscono che nessuno dei suoi elementi, già percepibile da questo punto di vista, è stato trascurato, e nessuno dei suoi momenti è trascorso senza lasciare traccia. Considerate tutte le molteplici forme in cui ogni

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singola maniera di intuire l’Universo è già apparsa; non lasciatevi spaventare né da un’oscurità misteriosa né da poderosi tratti grotteschi, e non date spazio all’illusione che tutto possa essere fantasia e invenzione poetica: scavate soltanto sempre più a fondo dove la vostra bacchetta magica ha colpito una volta, e porterete di certo alla luce l’elemento celeste. Ma considerate anche l’elemento umano che la Divinità ha dovuto assumere; al fine di distinguere e separare adeguatamente, non trascurate il fatto che la religione trae ovunque con sé le tracce della cultura di ogni epoca, della storia di ogni stirpe umana, che spesso ha dovuto presentarsi in figura servile,49 mettendo in scena nelle sue condizioni e nel suo rivestimento l’insufficienza dei suoi seguaci e della sua dimora; non trascurate che è stata spesso limitata nel suo sviluppo perché non le si lasciò lo spazio di esercitare le sue forze, e che spesso, nella prima infanzia, è perita miserevolmente per maltrattamento e per atrofia. E se volete abbracciare il tutto, non fermatevi soltanto a quelle forme di religione che hanno brillato per secoli e dominato grandi popoli e sono state variamente celebrate da poeti e saggi: ciò che è più importante dal punto di vista storico e religioso è rimasto spesso confinato tra pochi e nascosto allo sguardo comune. Seppure, in questo modo, prendete in considerazione interamente e perfettamente gli oggetti propri delle religioni, sarà tuttavia un compito difficile scoprire il loro spirito e comprenderle a pieno. Vi allerto ancora a non voler astrarre questo spirito da ciò che è comune a tutti quelli che professano una determinata religione: su questa via vi smarrite in migliaia di ricerche inutili, e alla fine giungete sempre, piuttosto che allo spirito della religione, a una certa quantità di materia religiosa; dovete ricordarvi che nessuna religione è mai diventata del tutto reale e che non la conoscete fintanto che, lontani dal cercarla in uno spazio limitato, non vi troviate nella condizione di completarla e di determinare il modo in cui questo e quell’elemento avrebbe potuto svilupparsi in essa se il suo orizzonte si fosse esteso tanto; non potrete mai memorizzare a sufficienza il fatto che tutto sta nel trovare la sua intuizione fondamentale, che ogni conoscenza di aspetti particolari non vi aiuta per nulla fintanto che non entrate in possesso di questa intuizione fondamentale, e che non vi entrate in possesso fintanto che non potete spiegare tutto ciò che è particolare a partire da quell’unico elemento. E anche con questa regola della ricerca, che è soltanto una pietra di paragone, sarete esposti a mille sviamenti: molte cose vi si faranno incontro, quasi intenzionalmente, per adescarvi, molto

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vi si parerà innanzi per orientare il vostro sguardo in una direzione sbagliata. Prima di ogni cosa, vi prego di non trascurare la differenza tra ciò che costituisce l’essenza di una particolare religione, in quanto è una determinata forma e rappresentazione della religione in generale, e ciò che designa la sua unità come scuola e la tiene insieme in quanto tale. Gli uomini religiosi sono assolutamente storici: ciò non costituisce il loro minore vanto, ma è anche la fonte di grandi fraintendimenti. Il momento in cui sono stati sopraffatti dall’intuizione che si è situata al centro della loro religione è per essi sempre sacro; appare loro come un influsso diretto della Divinità, e non parlano mai di quel che per loro è peculiare nella religione e della forma che in loro ha assunto senza far riferimento a tale momento. Potete pertanto capire in che misura deve essere per loro ben più sacro il momento in cui questa intuizione infinita è stata posta generalmente per la prima volta nel mondo come fondamento e centro di una religione particolare, perché l’intero sviluppo di questa religione si collega a esso proprio dal punto di vista storico in tutte le generazioni e in tutti gli individui, eppure questa totalità della religione e l’educazione religiosa di una grande parte dell’umanità sono qualcosa di infinitamente più ampio della loro vita religiosa particolare e del piccolo frammento di questa religione che essi rappresentano personalmente. Celebrano, pertanto, questo fatto in ogni modo, gli accumulano attorno ogni gioiello dell’arte religiosa, lo adorano come il più ricco e benefico effetto miracoloso dell’Altissimo, e non parlano mai della loro religione, non presentano mai uno dei suoi elementi senza metterlo in rapporto con questo fatto e rappresentarlo così. Se, pertanto, la permanente citazione di esso accompagna tutte le manifestazioni della religione e conferisce loro una propria tinta, niente è più naturale che scambiare questo fatto con l’intuizione fondamentale stessa della religione; non solo questo ha ingannato tutti, ma ha alterato la visione di quasi tutte le religioni. Non dimenticate mai dunque che l’intuizione fondamentale di una religione non può essere altro che una qualche intuizione dell’Infinito nel finito, un qualche elemento universale della religione, che può tuttavia anche presentarsi in tutte le altre religioni e che, se esse fossero perfette, dovrebbe trovarvisi, seppure non ponendovisi al centro. Vi prego di non considerare religione tutto ciò che trovate negli eroi della religione o nei documenti sacri, e di non cercare in essi lo spirito distinguente. Non intendo con ciò far riferimento a minuzie, come potete facilmente capire, e nemmeno a cose tali che, secondo la considerazione di tutti, sono interamente estranee alla religione, ma alludo a ciò che spesso con essa vien confuso. Ricordatevi che quelle scritture sono state approntate senza precisa intenzione, sicché non era possibile mirare ad allontanare da esse tutto ciò che non è religione, e riflettete sul fatto che quegli uomini hanno vissuto nel mondo nelle più va-

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rie situazioni e non è possibile che in ogni parola che pronunciarono fossero in grado di dire: questa non è religione. E se, dunque, parlano di saggezza mondana e di morale o di metafisica e di poesia, non significa che queste cose debbano essere anche forzatamente introdotte nella religione, e che in ciò vada anche cercato il suo carattere. La morale deve, per lo meno, essere ovunque una sola e le religioni, le quali non devono essere ovunque una sola, non si possono suddividere secondo le sue differenze che, certo, sono sempre qualcosa che va eliminato. Più di tutto, però, vi prego, non lasciatevi ingannare dai due principî ostili che dappertutto hanno cercato di deformare e nascondere, quasi sin dai primi tempi, lo spirito di ogni religione. Ovunque, sono apparse molto presto persone che hanno voluto delimitare lo spirito della religione entro particolari dogmi e hanno inteso escludere dalla religione ciò che non era ancora costituito in essa secondo quello spirito; e persone che, sia solo per odio contro la polemica, o per rendere accetta la religione ai non religiosi, o per incomprensione e fraintendimento della cosa e carenza di sentimento, screditano quel che è peculiare come lettera morta, così sfociando nell’indeterminato. Guardatevi da entrambi: presso i rigidi sistematici e i fatui indifferentisti non troverete lo spirito di una religione; lo troverete invece presso coloro che vivono in essa come nel loro elemento e continuano sempre a muoversi al suo interno senza nutrire l’illusione di poterla comprendere interamente. Vi riuscirà di scoprire lo spirito della religione attraverso queste regole cautelative? Non lo so, ma temo che anche la religione possa essere compresa soltanto mediante se stessa e che il suo particolare tipo di costruzione e la sua differenza caratteristica non vi saranno chiari finché voi stessi non farete parte di una qualche religione. Mi lascia del tutto indifferente quanto possa piacervi decifrare le rozze e incolte religioni dei popoli lontani o far la cernita dei vari tipi di individui religiosi inviluppati nella bella mitologia dei greci e dei romani; i loro dèi vi guidino pure; ma se vi avvicinate al Santissimo, in cui l’Universo è intuito nella sua unità suprema, se volete trattare le diverse forme della religione sistematica, non le straniere e lontane, ma quelle che sono più o meno presenti tra noi, allora non può essermi indifferente che troviate il giusto punto da cui è necessario osservarle. Invero, dovrei parlare solo di una: poiché il giudaismo è già da molto tempo una religione morta e quelli che ancora oggi portano le sue tinte, siedono veramente lamentosi ai piedi dell’imputrescibile mummia e versano lacrime sul suo commiato e sul suo triste lascito.50 E non ne parlo poiché esso sarebbe, ad esempio, il precursore del cristianesimo: odio nella religione questo tipo di relazioni storiche, la sua è una necessità di gran lunga superiore ed eterna, e ogni inizio, in essa, è originario: eppure il giudaismo ha un carattere infantile tanto bello, ma così interamente se-

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polto, che il tutto risulta un esempio assai notevole di corruzione e di totale scomparsa della religione da una grande massa in cui prima si trovava. Cancellate una buona volta tutto ciò che è politico, e se Dio vuole, morale, mediante il quale è comunemente caratterizzato; dimenticate tutti gli esperimenti fatti per connettere lo Stato alla religione, per non dire alla chiesa; dimenticate che il giudaismo in certa misura era, al contempo, un ordine fondato su un’antica storia familiare e sostenuto dai sacerdoti;51 volgetevi solo a quello che in esso è religioso, cui tutto ciò non appartiene, e ditemi qual è l’idea dell’Universo che balugina da ogni parte? Nessun’altra se non quella di un’immediata retribuzione universale, di una particolare reazione dell’Infinito nei confronti di ogni singolo atto finito prodotto dal libero arbitrio, mediante un altro fatto finito, che non si considera proveniente dal libero arbitrio. In tal modo è preso in considerazione tutto, nascita e morte, felicità e infelicità, e, anche all’interno dell’anima umana, non si alternano altro che una rivelazione della libertà e del libero arbitrio e un immediato intervento della Divinità; tutte le restanti qualità di Dio, intuite oltre ciò, si estrinsecano secondo questa regola, e sono sempre viste in relazione a essa; quell’attività ricompensante, punitiva, correggente il singolo nel singolo: in questo modo è sempre rappresentata la Divinità. Quando i discepoli chiesero una volta a Cristo: chi ha peccato costoro o i loro padri? Egli rispose: pensate voi che costoro abbiano peccato più di altri?52 Era questo lo spirito religioso del giudaismo nella sua forma più caratteristica e questa era la sua polemica in proposito. Da qui il parallelismo ovunque imperante, che non è una forma casuale, e il riguardo per la dimensione dialogica attinente a tutto ciò che è religioso. La storia intera, quale perdurante scambio tra questo stimolo e questa reazione, è rappresentata come una conversazione tra Dio e l’uomo nella parola e nell’azione, e tutto ciò che è unito, lo è solo mediante l’eguaglianza di questo trattamento. Pertanto, la santità della tradizione, in cui la connessione di questa grande conversazione era contenuta, e l’impossibilità di accedere alla religione se non attraverso l’inserimento in questa connessione, nonché, in tempi posteriori, la disputa tra le sette sul possesso di questa progressiva conversazione. Proprio su tale visione poggia il fatto che, nella religione giudaica, il dono della profezia sia formato in modo così perfetto come in nessun’altra; infatti, nella profezia, i cristiani sono certamente solo dei bambini rispetto ai giudei. L’intera idea è, in effetti, senz’altro molto infantile, adeguata solo a una piccola scena senza complicazioni, dove, in una semplice totalità, le conseguenze naturali delle azioni non sono ostacola-

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te o impedite: ma quanto più i fedeli di questa religione si facevano avanti sulla scena del mondo a contatto con molti popoli, tanto più difficile diventava la rappresentazione di questa idea, e la fantasia doveva anticipare la parola che l’Onnipotente avrebbe dovuto pronunciare per primo, rendendosi presente la seconda parte dello stesso momento da una maggiore lontananza, annullando il tempo e lo spazio tra le due parti. Una profezia è proprio questo e lo sforzo per starle dietro doveva essere necessariamente il fenomeno principale fin quando è stato possibile trattenere quell’idea e, con essa, la religione. La fede nel Messia fu il suo ultimo frutto, prodotto con gran fatica: doveva arrivare un nuovo sovrano per erigere nuovamente nella sua gloria il monte di Sion su cui la voce del Signore era ammutolita; e, mediante la sottomissione dei popoli alla Legge antica, doveva diventare nuovamente universale negli avvenimenti del mondo quel corso semplice che era stato interrotto a causa della sua comunità in conflitto, dello scontro delle energie dei popoli e della diversità dei loro costumi. Tale fede si è mantenuta a lungo, come spesso accade a un unico frutto che, quando tutta la forza vitale ha abbandonato il tronco, rimane attaccato fin nella stagione più rigida a un ramo appassito e vi rinsecchisce. Il limitato punto di vista ha garantito a questa religione, in quanto religione, una durata limitata. Essa è morta quando furono terminati i suoi libri sacri, allora fu considerato concluso il dialogo di Jehova con il suo popolo; l’unione politica, legata a questa religione, protrasse ancora a lungo un’esistenza esigua, e solo il suo aspetto esterno si è conservato molto più a lungo, quale spiacevole fenomeno di un movimento meccanico, ormai da tempo abbandonato dalla vita e dallo spirito. L’intuizione originaria del cristianesimo è più gloriosa, più sublime, più degna dell’umanità adulta, atta a penetrare meglio nello spirito della religione sistematica e a espandersi all’intero Universo.53 Essa non è altro che l’intuizione dell’universale contrapposizione di tutto ciò che è finito all’Unità del tutto e del modo in cui la Divinità prende in considerazione questa contrapposizione, come essa media l’inimicizia contro sé e pone dei limiti a un’avanzante distanza da sé mediante singoli punti, disseminati nel tutto, che sono contemporaneamente realtà finite e infinite, umane e divine. La rovina e la soluzione, l’inimicizia e la mediazione sono i due lati inseparabilmente connessi di questa intuizione, e da essi è determinato l’assetto di tutta la materia religiosa del cristianesimo e la sua intera forma. Il mondo fisico è decaduto dalla sua perfezione e intramontabile bellezza a passi sempre più decisi; ma tutto il male, compreso il fatto che la realtà finita deve perire prima di aver percorso compiutamente il circolo della sua

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esistenza, è una conseguenza della volontà, dell’aspirazione egoistica della natura individuale, che si scioglie ovunque dalla connessione con il tutto per essere qualcosa per sé; anche la morte è sopraggiunta a causa del peccato.54 Il mondo morale sta volgendo di male in peggio, incapace di produrre qualcosa in cui lo spirito dell’Universo viva veramente; l’intelletto si è oscurato e separato dalla verità; il cuore si è corrotto e sta privo di ogni gloria davanti a Dio; l’immagine dell’Infinito si è cancellata in ogni parte della natura finita. In relazione a ciò sono anche concepite tutte le manifestazioni della divina provvidenza, non già rivolta nella sua opera a conseguenze immediate per la sensazione, non perché volga lo sguardo alla felicità o al dolore che produce, non più in quanto impedisce o promuove singole azioni, ma giacché mira a contenere la rovina delle grandi masse, a distruggere senza pietà ciò che non si può più ripristinare e a partorire da se stessa nuove creature con nuove energie: così essa compie segni e miracoli che interrompono e sconvolgono il corso delle cose; così invia delegati, nei quali abita in maggiore o minor misura il proprio spirito, per diffondere tra gli uomini energie divine. Proprio così è anche presentato il mondo religioso; anche quando aspira a intuire l’Universo, il finito gli si contrappone, cerca sempre senza trovare e perde ciò che ha trovato, sempre unilaterale, sempre oscillante, sempre fermo al particolare e al casuale, e sempre, volendo più che intuire, manca l’obiettivo cui tende. Ogni rivelazione è inutile. Tutto è divorato dal senso mondano, tutto è travolto dall’immanente principio irreligioso, ma la Divinità incontra sempre nuove disposizioni, rivelazioni sempre più gloriose emergono dal seno delle antiche per mezzo della sua sola forza, istituisce mediatori sempre più sublimi tra sé e gli uomini, congiunge sempre più intimamente la Divinità con l’umanità in ogni successivo messaggero, così che mediante essi e da essi gli uomini possano imparare a conoscere l’Essere eterno e, tuttavia, non è mai tolto l’antico lamento che l’uomo non percepisce ciò che appartiene allo Spirito di Dio.55 Che il cristianesimo nella sua più autentica intuizione fondamentale intuisca soprattutto e preferibilmente l’Universo nella religione e nella sua storia, che elabori la religione stessa come materia per la religione, e in questo modo sia, per dir così, una potenza superiore a questa, ciò determina l’aspetto più distintivo del suo carattere, la sua intera forma. Proprio perché il cristianesimo presuppone un principio irreligioso ovunque diffuso, è poiché quest’ultimo costituisce una parte essenziale dell’intuizione

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cui tutto il resto deve essere relazionato, proprio per questo è interamente polemico.56 Polemico nella sua comunicazione con l’esterno, poiché, per rendere perspicua la sua più intima essenza, deve far luce dappertutto su ogni corruzione, si trovi essa nei costumi o nel modo di pensare, ma soprattutto deve far luce sullo stesso principio irreligioso. Senza riguardo, smaschera pertanto ogni falsa morale, ogni cattiva religione, ogni infausta mescolanza di entrambe con cui deve essere coperta, da ambo i lati, la loro nudità; penetra nei più intimi segreti del cuore in rovina e illumina con la santa fiaccola della propria esperienza ogni male che striscia nell’oscurità.57 In questo modo distrusse – è ciò fu quasi il suo primo moto – l’attesa della fine del mondo dei suoi fratelli più prossimi e dei contemporanei, e considerò irreligioso ed empio desiderare o aspettarsi una restaurazione diversa da quella di una religione migliore, di una superiore visione delle cose e di una vita eterna in Dio. Coraggiosamente, conduce i pagani oltre la separazione da essi compiuta tra la vita e il mondo degli dèi e degli uomini. Chi non vive, non respira e non è nell’Eterno:58 a costui, l’Eterno è del tutto ignoto; nel limitato senso di chi ha perso questo sentimento naturale e questa intima intuizione sotto la massa delle impressioni e dei desideri sensibili, non è ancora sorta nessuna religione. Così spalancarono ovunque i sepolcri intonacati e portarono alla luce le ossa dei morti59 e, se fossero stati filosofi, i primi eroi del cristianesimo avrebbero egualmente polemizzato contro la corruzione della filosofia. Di certo, essi non hanno mai disconosciuto i tratti fondamentali dell’immagine divina, ma in tutte le distorsioni e le degenerazioni hanno senz’altro scorto il celestiale germe della religione; tuttavia, in quanto cristiani, la cosa principale era per loro la lontananza dall’Universo che richiede un mediatore, e solo questo importava loro quando parlavano di cristianesimo. Ma il cristianesimo è anche polemico, e in modo altrettanto aspro e tagliente, entro i suoi propri confini e nella sua più intima comunità di santi. Mai la religione è stata così perfettamente idealizzata come nel cristianesimo e mediante il suo presupposto originario; e, esattamente per questo, al contempo, il suo permanente polemizzare contro tutto ciò che è reale nella religione è presentato come un compito che non può essere mai portato a termine in modo interamente soddisfacente. Appunto perché il principio religioso è presente e agisce ovunque, e perché tutto ciò che è reale appare contemporaneamente come empio, lo scopo del cristianesimo è una santità infinita. Mai contento di ciò che ha raggiunto, esso cerca ancora, anche nelle sue più pure intuizioni, anche nei suoi sentimenti più santi, le tracce dell’irreligiosità e della tendenza di ogni cosa finita contrapposta all’Universo e alienata da esso. Con tono supremamente ispirato, uno dei più antichi scrittori

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sacri critica la situazione religiosa della comunità, i nobili apostoli parlano di se stessi con semplice schiettezza e, così, ciascuno deve entrare nella sacra cerchia, non solo entusiasta e impartendo insegnamenti, ma anche presentando ciò che è suo con umiltà all’esame di tutti, e nulla deve essere risparmiato, nemmeno ciò che è più amato e più caro, niente di quanto portato deve essere messo pigramente da parte, nemmeno ciò che viene approvato nella maniera più universale. Quel che essotericamente è stato celebrato come sacro e presentato innanzi al mondo come l’essenza della religione continua a essere esotericamente rimesso a un severo e perdurante giudizio attraverso cui viene sempre più separato ciò che è impuro, e lo splendore dei colori celestiali appare sempre più nitido a ogni intuizione dell’Infinito. Come in natura vedete che quando le forze chimiche di una massa composta sono state orientate contro ciò che è esterno, quella massa, non appena tale fenomeno sia stato superato e si sia prodotto l’equilibrio, finisce in fermentazione e separa questo e quell’elemento da sé, così accade pure con singoli elementi e con l’intera massa del cristianesimo; esso alla fine rivolge la sua forza polemica contro se stesso, sempre preoccupato di aver inglobato qualcosa di allotrio nella lotta contro l’irreligione esterna, o di avere ancora in sé un qualche principio di corruzione, e non rifugge, per espungerlo, nemmeno i più violenti movimenti interni. È questa la storia del cristianesimo fondata nella sua essenza. Io non sono venuto per portare la pace ma la spada,60 dice il fondatore del cristianesimo, e la sua delicata anima non può mai aver creduto che Egli sia venuto per provocare quei movimenti sanguinosi, che sono così interamente avversi allo spirito della religione, o quelle misere dispute di parole a proposito della morta materia che la religione vivente non accoglie: Egli ha previsto solo queste sante guerre che sorgono con necessità dall’essenza della sua dottrina e, prevedendole, le ha comandate. Ma non solo la costituzione dei singoli elementi del cristianesimo è sottoposta a questo permanente controllo, l’insaziabilità per la religione comporta anche la sua ininterrotta esistenza e vita nello spirito. In ogni momento, in cui il principio religioso non può essere percepito nell’animo, è pensata come dominante l’irreligiosità; infatti, ciò che è può essere eliminato e condotto al nulla solo da quel che gli si contrappone. Ogni interruzione della religione è irreligione; l’animo non può sentirsi un solo istante abbandonato dalle intuizioni e dai sentimenti dell’Universo senza divenire contemporaneamente consapevole della sua inimicizia e distanza da esso. Così il cristianesimo ha sollevato, per primo ed essenzialmente, la richiesta che la religiosità debba essere

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nell’uomo un continuum, e disdegna ancora d’essere appagato dalle più forti manifestazioni di essa, se quest’ultima vuole appartenere e dominare solo certe parti della vita. La religiosità non deve mai riposare e niente deve esserle contrapposto in modo così assoluto da non poter coesistere con essa; da ogni cosa finita dobbiamo guardare all’Infinito, dobbiamo essere nella condizione di associare sentimenti e visioni religiose a tutte le sensazioni dell’animo, in qualsiasi luogo esse siano sorte, a tutte le azioni, a qualsiasi oggetto esse siano pure rivolte. Questo è l’autentico scopo supremo della virtuosità nel cristianesimo. Scoprirete ora facilmente come la sua originaria intuizione, da cui si ricavano tutte queste concezioni, determina il carattere dei suoi sentimenti. Come definite il sentimento di un desiderio insoddisfatto, che è rivolto a un grande oggetto, e della cui infinitezza siete consapevoli? Cosa vi colpisce là dove trovate intimamente commisto il sacro con il profano, il sublime con il basso e l’insignificante? E come definite lo stato d’animo che talvolta vi costringe a presupporre ovunque questa commistione, e a ricercarla in ogni luogo? Esso non coglie i cristiani una volta ogni tanto, ma è il timbro dominante di tutti i sentimenti religiosi; questa sacra mestizia – è questo, infatti, l’unico nome che la lingua mi offre – accompagna ogni gioia e ogni dolore, ogni amore e ogni timore; anzi, nella sua fierezza come nella sua umiltà, è essa il timbro di fondo a cui tutto si rapporta. Se vi accordate in merito al fatto di riprodurre da singoli tratti la parte intima dell’animo, e non vi lasciate turbare dall’eterogeneo che, Dio sa perché, è mescolato insieme a essi, troverete senz’altro questo sentimento assolutamente dominante nel fondatore del cristianesimo; se uno scrittore, che ha lasciato solo pochi fogli in un linguaggio semplice, non vi pare troppo modesto per rivolgergli la vostra attenzione, questo tono vi parlerà da ogni parola che ci è rimasta del suo amico del cuore; e se mai un cristiano vi lasciò guardare nel santuario del suo animo, certo questi è stato tale.61 Così è il cristianesimo. Non voglio edulcorare le sue distorsioni e le sue molteplici corruzioni, giacché la corruttibilità di tutto ciò che è santo non appena diviene umano è parte della sua originaria visione del mondo. Nemmeno voglio condurvi oltre in ciò che è peculiare del cristianesimo: le sue trattazioni vi stanno davanti e credo di avervi suggerito il filo conduttore che vi guiderà attraverso tutte le anomalie e, indipendentemente

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dall’approdo, vi renderà possibile la più precisa considerazione complessiva. Tenete solo a mente questo e, sin dall’inizio, non volgetevi a null’altro che alla chiarezza, alla molteplicità e alla ricchezza con cui quella prima idea fondamentale si è sviluppata. Se prendo in considerazione, nelle mutilate descrizioni della sua vita, la sacra immagine di colui che è il sublime artefice di quel che di più nobile c’è stato finora nella religione, io non ammiro la purezza della sua dottrina etica, la quale ha comunque espresso solo quel che tutti gli uomini, pervenuti alla consapevolezza della propria natura spirituale, hanno in comune con lui, e a cui né la proclamazione né il primato possono attribuire un valore più alto; non ammiro la peculiarità del suo carattere, l’intimo sposalizio di una grande forza con una commovente mitezza; ogni animo sublime e semplice in una situazione particolare deve mostrare un grande carattere con tratti specifici; tutte queste sono solo questioni umane: ma l’elemento veramente divino è la gloriosa chiarezza con cui si è sviluppata nella sua anima la grande idea che egli era venuto a esporre, l’idea che ogni cosa finita ha bisogno di mediazioni superiori per porsi in relazione con la Divinità. È inutile temerarietà voler togliere il velo che ricopre, e deve ricoprire in lui, l’origine di questa idea, giacché ogni inizio nella religione è misterioso. L’insolente sacrilegio, che ha osato farlo, ha potuto soltanto deturpare il carattere divino, come se Egli fosse sorto dall’antica idea del suo popolo, di cui voleva solo esprimere l’annientamento che, in realtà, ha espresso in forma troppo gloriosa, in quanto affermava di essere colui che essi aspettavano.62 Lasciateci trattare la vivente intuizione dell’Universo, che riempì la sua intera anima, solo così come la troviamo formata in lui fino alla perfezione. Se tutto ciò che è finito ha bisogno della mediazione di un essere superiore per non allontanarsi sempre più dall’Universo e disperdersi nel vuoto e nel nulla, per conservare il suo legame con l’Universo e per venirne a coscienza, allora certo non è possibile che il mediatore, il quale non può nuovamente essere bisognoso di mediazione, sia finito; il mediatore deve appartenere a entrambe le nature, deve essere partecipe della natura divina allo stesso modo e nello stesso senso in cui è partecipe della natura finita. Ma cosa Egli ha visto intorno a sé se non cose finite e bisognose di mediazione, e dove era un al-

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tro mediatore a parte se stesso? Nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui a cui il Figlio vuole rivelarlo.63 Questa coscienza dell’unicità della sua religiosità, dell’originarietà della sua visione e della forza che tale visione aveva di comunicarsi e stimolare la religione erano al contempo la coscienza del suo compito di mediazione e della sua divinità. Quando Egli, non voglio dire fu messo di fronte alla rozza violenza dei suoi nemici senza speranza di poter sopravvivere – questa è cosa indicibilmente misera – ma, abbandonato, in procinto di essere ridotto al silenzio, senza vedere davvero eretta una qualche istituzione per la comunità dei suoi, di fronte allo splendore solenne dell’antica religione corrotta che appariva forte e imponente, circondato da tutto ciò che incuteva rispetto e può spingere a sottomissione, da tutto ciò che egli stesso era stato educato a rispettare sin dall’infanzia; quando, solo, sorretto da nient’altro che non fosse questo sentimento, senza esitare, pronunciò quel Sì,64 la più grande parola che mai un mortale abbia detto: fu questa la più gloriosa apoteosi, e nessuna divinità può essere più sicura di quella che si dichiara in tale modo.65 Con questa fede in se stesso, chi può meravigliarsi che Egli fosse certo, non soltanto di essere un mediatore per molti, ma anche di lasciare dietro di sé una grande scuola, che avrebbe derivato la propria religione dalla sua; tanto certo, che innalzava simboli per tale scuola mentre essa non esisteva ancora nella convinzione che sarebbero stati sufficienti per portarla a esistenza; e tanto certo da parlare ancora prima, con profetico entusiasmo, della perpetuità del ricordo da essa serbato dei suoi memorabili avvenimenti personali.66 Ma Egli non ha mai dichiarato di essere l’oggetto unico di applicazione della sua idea, di essere l’unico mediatore, e non ha mai scambiato la sua scuola per la sua religione – Egli poteva sopportare che la sua dignità di mediazione si lasciasse in sospeso, purché non fosse offeso lo spirito, il principio da cui si sviluppò la sua religione – e questa confusione fu anche distante dai suoi discepoli. Essi considerarono senza indugio come cristiani alcuni discepoli di Giovanni,67 che certo condivideva solo molto imperfettamente l’intuizione fondamentale di Cristo, e li accolsero tra i membri attivi della comunità. E ancora adesso le cose dovrebbero essere così: chi pone a base della propria religione la medesima intuizione è un cristiano senza riferimento alla scuola, e storicamente può derivare la sua religione sia da se stesso sia da qualcun altro. Cristo non ha mai dichiarato le intuizioni e i sentimenti, che Egli stesso poteva comunicare, validi per l’intera estensione della religione che doveva derivare dalla sua intuizione fondamentale; ha sempre rimandato alla verità che sarebbe venuta dopo di lui.68 Così anche i suoi discepoli; essi non hanno mai posto confini allo Spirito Santo, la sua illimitata libertà e la comune unità delle sue ri-

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velazioni sono sempre state riconosciute da loro; e se più tardi, appena fu passata la fase della sua fioritura ed Egli sembrò riposare dalle sue opere,69 queste opere, in rapporto a ciò che ne era contenuto nelle Sacre Scritture, vennero spiegate abusivamente come un codice chiuso della religione, ciò accadde solo per coloro che scambiarono il sonno dello spirito per la sua morte, coloro per cui la religione stessa era morta, mentre tutti coloro che avvertivano ancora in sé la sua vita o la percepivano in altri, si sono sempre battuti contro questo modo di procedere non cristiano. Le Sacre Scritture sono diventate Bibbia per propria forza, ma non impediscono a nessun altro libro di essere o di diventare, anch’esso, Bibbia, e volentieri lascerebbero che si affiancasse loro ciò che fosse scritto con eguale forza. Come conseguenza di questa illimitata libertà, di questa essenziale infinità, si è quindi formata in molti modi l’idea principale, propria al cristianesimo, di forze divine mediatrici, e tutte le intuizioni e tutti i sentimenti, relativi alle disposizioni della natura divina nella finita, sono stati portati a perfezione al suo interno. Così molto presto la Sacra Scrittura, in cui la natura divina abitava certo in un modo particolare, è stata considerata uno strumento logico di mediazione per trasmettere la conoscenza della Divinità a vantaggio della natura finita e corrotta dell’intelletto, e lo Spirito Santo – in un tardo significato della parola – è stato considerato un mediatore etico per approssimarvisi dal punto di vista pratico; e una numerosa fazione di cristiani ancora adesso riconosce volentieri una natura mediatrice e divina a chiunque possa dimostrare, mediante una vita divina o una qualche altra impressione di divinità, di essere stato, anche soltanto per una piccola cerchia, il punto di riferimento per l’Infinito. Per alcuni, Cristo è rimasto l’unica cosa e ogni cosa, e altri hanno inteso come mediatori se stessi o questo e quello al loro posto. Benché spesso, in tutto ciò, si sia potuto errare riguardo alla forma o alla materia, il principio è autenticamente cristiano fintanto che rimane libero. Così altre intuizioni e altri sentimenti si sono presentati nel loro rapporto con il punto centrale del cristianesimo, a proposito dei quali nulla vi è in Cristo e nelle Sacre Scritture, e molti altri se ne presenteranno in seguito, perché grandi regioni della religione non sono state ancora esplorate a favore del cristianesimo, e per esso vi sarà ancora una lunga storia, nonostante tutto ciò che si dice del suo prossimo o già avvenuto tramonto. Perché poi dovrebbe tramontare? Il suo spirito vivente si inaridisce spesso e a lungo e, in una condizione di irrigidimento, si ritrae nel morto rivestimento della lettera:70 ma continua a risorgere ogni qualvolta la variabile atmosfera del mondo spirituale è favorevole al suo brulichio e pone in movimento la sua linfa; e ciò accadrà ancora molte volte. L’intuizione fon-

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damentale di ogni religione positiva è in sé eterna, perché è una componente integrante del tutto infinito, in cui ogni cosa deve essere eterna: ma la religione positiva stessa e la sua intera formazione sono transitorie; infatti, il vedere quella intuizione fondamentale proprio al centro della religione non fa solo parte di una determinata disposizione dell’animo, ma anche di una determinata situazione dell’umanità, nella quale soltanto, fino a quel momento, può propriamente essere intuito l’Universo. Se tale situazione ha compiuto il suo corso, se l’umanità è avanzata così tanto nel suo cammino progressivo da non poter più tornare indietro, anche quella intuizione è deposta dalla sua dignità di intuizione fondamentale e la religione non può più esistere in siffatta forma. Questo è già da molto tempo il caso di tutte le religioni infantili provenienti da quel periodo in cui all’umanità mancava la coscienza delle sue forze essenziali: è ora tempo di raccogliere queste religioni come traccia di un mondo trascorso e di riporle nel magazzino della storia; la loro vita è passata e non torna più. Il cristianesimo, al di sopra di tutte e più storico e più umile nella sua magnificenza, ha riconosciuto espressamente questa transitorietà della sua natura: verrà un tempo, esso asserisce, in cui non si parlerà più di alcun mediatore, ma il Padre sarà tutto in tutto.71 Ma quando deve giungere questo tempo? Temo che esso si trovi oltre il tempo. La corruttibilità di tutto ciò che di grande e di divino si trova nelle cose umane e finite è una metà dell’intuizione originaria del cristianesimo; dovrebbe veramente venire un tempo in cui quest’aspetto dell’intuizione cristiana, non voglio dire che non sarà più percepito, ma solo non s’imporrà più? In cui l’umanità procederà così uniformemente e serenamente che quasi non potrà notarsi come talvolta è risospinta un po’ nel grande oceano che attraversa da un vento avverso passeggero, che solo lo scienziato che commisura il suo corso agli astri potrebbe conoscere, mentre per altri non sarebbe mai oggetto di un’intuizione grande e significativa? Lo vorrei, e starei volentieri sulle rovine della religione che adoro. Ma certi punti splendenti e divini sono la sede originaria di ogni miglioramento di questa corruzione e di ogni nuova e più stretta unione del finito con la Divinità, questa è l’altra metà: e potrebbe mai venire un tempo in cui questa forza di attrazione dell’Universo sarebbe così equamente divisa tra la grande massa dell’umanità da smettere di essere mediatrice per sé? Lo vorrei, e volentieri aiuterei ad appianare ogni grandezza che così s’innalza: ma questa uguaglianza è certo meno realizzabile di qualsiasi altra. Tempi di corruzione incombono su tutto ciò che è terreno, fosse anche d’origine divina; nuovi inviati di Dio saranno necessari per trarre a sé, con forza crescente, ciò che si è allontanato, e per purificare le cose corrotte con fuoco celestiale, e ognuna di tali epoche dell’u-

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manità diventa la palingenesi del cristianesimo e desta il suo spirito in una forma nuova e più bella. Ora, seppure ci saranno sempre dei cristiani, il cristianesimo deve, per questa ragione, essere infinito anche nella sua estensione universale e dominare da solo nell’umanità come l’unica forma della religione? Esso disprezza questo dispotismo, onora abbastanza ognuno dei suoi elementi per intuirlo volentieri anche come il centro di un proprio tutto; non vuole solo produrre in sé una varietà tendente all’infinito, ma anche guardarla al di fuori di sé. Non dimenticando mai di avere la migliore prova della sua eternità nella sua corruttibilità, nella propria triste storia, e aspettando sempre una redenzione dalle cose miserevoli, da cui è appunto pressato, vede sorgere volentieri, al di fuori di questa corruzione, altre e più giovani forme di religione, che gli si accostano da tutti i punti, anche da quelle regioni che gli paiono come i confini più esterni e ambigui della religione.72 La religione delle religioni non può accumulare sufficiente materia per il lato più autentico della sua più intima intuizione e, come non vi è niente di più irreligioso della richiesta di uniformità nell’umanità, così nulla è più anticristiano della ricerca di uniformità nella religione. L’Universo sia intuito e adorato in tutti i modi. Sono possibili innumerevoli forme di religione; e se è necessario che ognuna diventi reale in un tempo, bisognerebbe per lo meno desiderare che in ogni tempo possano esserne presagite molte. Pochi dovrebbero essere i grandi momenti in cui tutto concorre per assicurare a una di esse una vita ampiamente estesa e duratura, in cui la stessa visione si sviluppa contemporaneamente e irresistibilmente in molti che sono attraversati dalla stessa impressione del Divino. Quanto non bisogna tuttavia aspettarsi da un’epoca che, evidentemente, è il confine tra due diversi ordini di cose! Quando la violenta crisi sarà passata, essa potrà anche arrecare un siffatto momento, e un’anima preveggente, rivolta al Genio creatore, potrebbe fin d’ora indicare il punto che deve divenire il centro dell’intuizione dell’Universo per le future generazioni. Ma comunque stiano le cose, e per quanto un simile momento sia ancora da venire, devono sorgere, e presto, nuove formazioni della religione, dovessero pure essere percepite per lungo tempo solo in fenomeni singoli e passeggeri. Dal nulla sorge sempre una nuova creazione, e la religione è nulla in quasi tutti i contemporanei quando la sua vita spirituale si schiude in loro con forza e pienezza. In molti essa si svilupperà a partire da una delle innumerevoli occasioni e si costituirà in nuova forma su un nuovo terreno. Purché passi il tempo del riserbo e della pavidità. La religione odia la solitudine e, soprattutto nella sua giovinezza, che è per tutti l’ora dell’amore, si consuma in uno struggente desiderio. Se si sviluppa in

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voi, se diventate consapevoli delle prime tracce della sua vita, entrate subito nell’unica e indivisibile comunità dei santi, che accoglie tutte le religioni e in cui, soltanto, ciascuna può prosperare. Ritenete, giacché questa comunità è distrutta e lontana, di dover parlare anche a orecchi profani? Chiedete quale linguaggio sia sufficientemente segreto: il discorso, la scrittura, l’azione, la silenziosa mimica dello spirito? Ognuno, rispondo io e, vedete, io non ho avuto imbarazzo nel ricorrere a quello di maggiore clamore. In ogni linguaggio il sacro rimane segreto e celato ai profani. Lasciate che essi rosicchino come possono la scorza; ma non impediteci di adorare il Dio che sarà in voi.

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MONOLOGHI UN DONO DI CAPODANNO

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Frontespizio della prima edizione dei Monologhi.

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Presentazione

Un uomo non può offrire a un altro uomo alcun dono più prezioso di ciò che, nell’intimo dell’animo, egli ha conferito con se stesso: esso infatti gli concede quel che di più grande vi sia, uno sguardo aperto e placido rivolto a un’essenza libera. Nessun dono è più duraturo: niente infatti ti distrugge il piacere che una volta tale visione ti ha elargito e l’intima verità le assicura il tuo amore, così che tu torni a riflettervi di buon grado. Nessun dono tu salvaguardi con più sicurezza dalla vaghezza e dalla perfidia altrui: esso infatti non è attorniato da qualche elemento accessorio che possa essere usato e abusato per altro o che attragga il desiderio sensibile. Se qualcuno si tiene in disparte e osserva di sbieco il gioiello, e su esso addensa ridicole increspature che il tuo sguardo schietto non scorge, possa il vuoto dileggio non deprivarti della gioia, sì come esso non mi farà pentire di averti comunicato ciò che avevo. – Accogli il dono, tu che puoi comprendere il pensiero del mio spirito! Accompagni il tuo canto il gioco sonoro dei miei sentimenti, e il tocco, che ti compenetra al contatto del mio animo, diventi anche per la tua forza vitale uno stimolo ritemprante.

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I.

R iflessione

Anche il mondo esterno, con le sue leggi eterne come con le sue più fugaci apparizioni, alla stregua di uno specchio incantato riflette su di noi in mille delicate e sublimi allegorie la parte più nobile e intima della nostra essenza. Per coloro, però, che non ascoltano le decise esortazioni del loro sentimento più profondo, che non percepiscono il flebile sospiro dello spirito offeso, vanno perse anche le immagini caritatevoli, il cui soave stimolo deve acuire e giocosamente istruire il senso ottuso. Essi travisano il vero significato e la più intima intenzione persino di ciò che il proprio estro ha escogitato e deve sempre continuare a produrre. Noi frazioniamo l’infinita linea del tempo in uguali distanze, in riferimento a punti, determinati in modo arbitrario sulla base della più inconsistente apparenza, che sono completamente indifferenti per la vita, a cui non vuol attenersi nulla, né l’edificio delle nostre opere, né il serto delle nostre sensazioni, né il gioco dei nostri destini, giacché ogni cosa disprezza i passi misurati; e tuttavia con queste sezioni noi pensiamo a qualcosa di più che a un aiuto per l’appassionato di cronologia o a una festa per l’amante delle misurazioni; in ciascuno di noi, si collega inevitabilmente a ciò il serio pensiero che sia possibile una divisione della vita. Ma pochi intendono la sacra allegoria e comprendono il senso di questa connessione a cui li richiama la natura.1 L’uomo non conosce nient’altro che la sua esistenza nel tempo e l’irrefrenabile discesa dall’assolata altezza nell’atroce notte dell’annientamento. Un’invisibile mano, pensa l’uomo, alternativamente avviluppando e disciogliendo rappresentazione e sensazione, prosegue nel trarre il filo della sua vita, lo stringe ora più lento ora più stretto e, oltre ciò, altro non c’è. Quanto più veloce la successione di rappresentazione e sensazione, quan-

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to più ricco il loro avvicendamento, quanto più armonica e intrinseca la loro connessione, tanto più superbamente è compiuta la significativa opera d’arte, e qualora gli uomini potessero spiegare in termini meccanici la sua connessione complessiva, si troverebbero allora al vertice dell’umanità e dell’autocomprensione. Così essi scambiano il raggio riflesso della loro attività con il loro agire complessivo, i punti di contatto esterni della loro forza con ciò che non appartiene alla loro natura per la loro più intima essenza, l’atmosfera con il mondo stesso attorno a cui si è costituita. Come potrebbero comprendere l’appello contenuto nell’atto di divisione del tempo a cui rivolgono uno sguardo senza soffermarvisi con il pensiero? Il punto che divide una linea non ne è una parte: esso si riferisce all’Infinito in modo tanto appropriato e ben più direttamente che alla linea, e in qualsiasi parte di essa puoi porre un punto siffatto. Il momento in cui ripartisci e suddividi il corso della vita non deve essere una parte della vita temporale; devi intenderlo in modo diverso, devi divenire consapevole delle tue relazioni immediate con l’Eterno e con l’Infinito; e puoi avere un momento così ovunque tu voglia. Gioisco per te, segno sublime della divinità in me, invito bello a un’esistenza immortale, esterna al dominio del tempo e libera dalle sue dure leggi! Ma coloro che nulla sanno della vocazione a questa vita superiore, immersi nel flusso di sentimenti e pensieri transitori, non la trovano nemmeno quando, senza sapere quel che fanno, misurano il tempo e suddividono in parti la vita terrena. Meglio sarebbe che essi non si accorgessero di ciò che deve essere detto loro, senza che il loro inutile affannarsi colpisca tanto dolorosamente l’animo mio quando aspira a seguire il sacro invito. Certo, vogliono anch’essi avere un punto, che non intendono come fugace presente, ma nemmeno sono in grado di concepire come Eternità. Spesso per un attimo, qualche volta per un’ora, finanche per un giorno, essi si sollevano dall’obbligo di agire così alacremente e di mirare alla felicità e alla conoscenza così diligentemente come anche la più piccola parte della vita pretende da loro, quando rammenta loro che diventerà così presto passato come fu, così brevemente, futuro. Li nausea allora la percezione, o il godimento, l’opera o la produzione del nuovo; siedono alla riva della vita, ma non possono far altro che versare il loro pianto, sorridendo, nell’onda danzante. Come selvaggi barbari che compiono sacrificio della moglie, del figlio o degli schiavi sul sepolcro del padre, essi immolano sulla tomba dell’anno il giorno che trascorre in vuote fantasie, compiendo un inutile sacrificio.2

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Né meditazione né contemplazione possono esservi per chi non conosce l’intima essenza dello spirito; non può mirare a liberarsi dal tempo chi in sé non conosce altro di diverso da ciò che appartiene al tempo: infatti, per quale meta costui dovrebbe sottrarsi alla corrente del tempo, e a cosa potrebbe ambire se non a un’inutile sofferenza e a un sentimento di annientamento? L’uno, confrontandoli, valuta il piacere e l’angustia del passato, e vuol unificare in una singola piccola immagine, nel punto focale del ricordo, la luce che ancora gli torna dalle distanze percorse.3 Un altro contempla la sua opera, riporta volentieri alla mente l’ardua battaglia con il mondo e il destino e, contento di quanto è accaduto, vede levarsi qui e là, sul terreno neutrale della realtà indifferente, un monumento, che egli si è eretto dalla torpida materia, benché tutto sia rimasto molto al di qua del suo proponimento. Un terzo scruta ciò che ha ben imparato e procede orgogliosamente nel magazzino delle conoscenze molto esteso e ben assestato, rallegrandosi che tutto si sia addensato in esso in questo modo.4 O puerile tentativo della fatua immaginazione! Manca il cruccio che la fantasia ha suscitato e la memoria ha timore di conservare; manca il soccorso che hanno prestato il mondo e il destino stessi, i quali ora si vogliono salutare come avversi; non sono tenuti da conto il vecchio, che è stato tolto dal nuovo, i pensieri, scomparsi nel pensiero, le rappresentazioni, perse nell’apprendimento, tanto che il calcolo non è mai corretto. E se lo fosse, quanto profondamente mi meraviglia che gli uomini possano credere che questa sia contemplazione di sé, è a dire “conoscersi”. Come termina miserevolmente l’impresa tanto stimata! La fantasia coglie la fedele immagine del tempo passato; senza risparmiarsi, la dipinge delle più belle fattezze nel vuoto spazio dell’imminente futuro, eppure, sospirando, torna spesso a voltarsi verso l’originale. Così, l’ultimo frutto è solo l’illusoria speranza che qualcosa di meglio avverrà e il vano lamento che non vi sia più quel che era così bello, e che la materia della vita, riducendosi di giorno in giorno più e più mostri la fine imminente della bella fiamma. Così il tempo contrassegna dolorosamente con l’impronta di vuoti desideri e fatui lamenti i suoi schiavi che vorrebbero salvarsi, e rende il peggiore uguale al migliore perché lo riagguanta con la stessa sicurezza. Chi, invece dell’attività dello spirito, che nascostamente si agita nella sua profondità, conosce e vede soltanto la sua esteriore apparenza; chi, invece di contemplare sé, continua a raffazzonarsi un’immagine della vita e del suo alternarsi da punti di vista lontani e vicini, rimane uno schiavo del tempo e della necessità; ciò

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che egli sente e pensa ne porta il marchio, è loro proprietà e mai, nemmeno quando s’immagina di contemplare se stesso, egli può far ingresso nell’ambito sacro della libertà; infatti, nell’immagine che si figura di sé, diviene per se stesso un oggetto esterno come per lui è tutto il resto, e qui tutto è determinato mediante rapporti esterni. Come gli appare ciò che egli vede e sente sulla base di quell’immagine dipende dal contenuto del tempo e da quella condizione che ha vissuto. A chi con animo animale ha solo cercato il godimento, la vita appare povera o ricca, a secondo del maggiore o minore numero di istanti piacevoli contenuti nello stesso tempo, ed egli considera questa immagine con compiacenza o meno, a secondo che il bene vi giunse come prima o ultima cosa. Chi ha voluto plasmare qualcosa di bello e trarvi piacere è dipendente dal giudizio che si ha di lui, dal terreno su cui si trova e dalla materia che il destino offre al suo lavoro. Lo stesso accade a chi si è sforzato di operare il bene. Tutti s’inchinano dinanzi allo scettro della necessità, e sospirano sotto la maledizione del tempo, che non lascia persistere alcuna cosa. Come sono loro nella vita, così è il mio stato d’animo quando un’armonia artistica di vari toni risuona all’orecchio e subito si smorza, quando la fantasia si tortura con eco fievole e l’anima sospira per ciò che non ritorna. In questo modo, però, la vita è solo un’armonia fugace, emersa dal contatto del transitorio con l’eterno: ma l’uomo è un’opera permanente, un oggetto intramontabile della contemplazione.5 Solo il suo più intimo agire, in cui consiste la sua vera essenza, è libero, e quando prendo a considerarlo mi sento entro il sacro dominio della libertà, lontano da tutti i limiti indegni. Il mio occhio deve rivolgersi a me stesso, non solo per non lasciar fuggire ogni momento come una parte del tempo, ma per individuarlo come un elemento dell’eternità e trasfigurarlo in una vita più alta e libera. Libertà e infinitezza vi è solo per chi sa cos’è il mondo e cosa l’uomo, per chi ha disciolto il grande enigma su come siano da dividere e operino l’uno sull’altro; un enigma nelle cui antiche oscurità migliaia ancora soccombono e devono seguire servilmente la più ingannevole apparenza, perché la loro luce propria è smorzata. Ciò che loro chiamano mondo è per me l’uomo, ciò che loro chiamano uomo è per me il mondo. Per essi viene prima il mondo e lo spirito è solo un misero ospite nel mondo, insicuro del proprio posto e delle proprie forze. Per me lo spirito è la prima cosa e l’unica: infatti, quel che io riconosco come mondo è la sua opera più bella, lo specchio suo, lo specchio che si è fatto. Essi si sentono oppressi da riverenza e terrore al cospetto delle infinitamente

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grandi e pesanti masse di materia corporea, tra cui sembrano così piccoli, tanto insignificanti; per me tutto questo è solo il grande corpo comune dell’umanità; come a ogni individuo appartiene il proprio corpo, esso appartiene all’umanità, dall’umanità soltanto è reso possibile e a essa è concesso, affinché lo domini e per suo mezzo si annunci. Il libero agire dell’umanità è diretto su un tale corpo, per sentire tutte le sue pulsioni, per costituirlo e tramutare tutto in organi, per contrassegnare, animare, tutte le sue parti con l’esser presente dello spirito regale. Vi è, infatti, un corpo senza spirito? Il corpo non esiste soltanto perché e nel momento in cui lo spirito ne fa uso e ne è consapevole? Mio libero agire è ogni sentimento che pare provenire dal mondo corporeo, che non ha però alcun effetto su di me; l’operare muove sempre da me verso di esso, che non è qualcosa di diverso da me, qualcosa di contrapposto a me. Per questo, non lo chiamo nemmeno con il nome mondo, con la nobile parola che racchiude in sé l’onnipresenza e l’onnipotenza. Quel che mi degno di chiamare mondo è soltanto l’eterna comunità degli spiriti, il loro vicendevole influsso, il loro reciproco costituirsi, l’alta armonia della libertà. Soltanto l’infinita totalità degli spiriti contrappongo a me quale essere finito e singolo. Solo a questa totalità concedo di trasformare e plasmare la superficie della mia essenza per operare su di me. Qui, e solo qui, sta il dominio della necessità. Il mio agire è libero, ma non lo è il mio operare nel mondo che segue leggi eterne. La libertà urta contro la libertà, e ciò che accade porta i segni della limitazione e della comunità. Sì, sacra libertà, tu sei ovunque la prima cosa! Abiti in me e in tutti; la necessità sta fuori di noi ed è il tono specifico del bel conflitto della libertà, che ne rivela l’esistenza. Io posso concepirmi soltanto come libertà; quel che è necessario, non è il mio agire, è il suo riflesso, è l’intuizione del mondo che contribuisco a creare nella sacra comunità con tutti. A essa appartengono le opere che innalzo con altri su un terreno comune: esse sono il mio contributo alla creazione, che espone i pensieri che sono in noi. A essa appartengono i sentimenti che ora crescono ora scemano; a essa, le immagini che vengono e vanno, e le altre cose che di mutevole il tempo porta nell’animo e toglie: sentimenti e immagini sono segno che mondo e spirito s’incontrano pieni d’amore, sono il loro bacio d’amicizia che si ripete sempre diversamente. Così avanza la danza delle ore, in modo melodico e armonico, secondo il ritmo; certo, la libertà suona la melodia e sceglie la tonalità, e tutte le delicate variazioni sono opera sua. Esse promanano dall’agire interno e dal senso proprio dell’uomo stesso.

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Libertà, così tu sei per me, in tutto, il fattore originario, primo e più intimo. Quando mi ritraggo in me per contemplarti, anche il mio sguardo è trasmigrato dal dominio del tempo ed è libero dai limiti della necessità; ogni sentimento opprimente di schiavitù retrocede, lo spirito diviene consapevole della sua essenza creatrice, la luce della divinità m’inonda e allontana le nebbie in cui quegli schiavi muovono brancolanti. Come devo conoscermi e intuirmi nella contemplazione non dipende più dal destino o dalla fortuna, né da quante ore gaie ho accumulato, né da ciò che ho compiuto e guadagnato stabilmente mediante il mio agire, e neppure dal modo in cui alla volontà è riuscita la manifestazione esterna: tutto ciò è solo il mondo, non l’io. Se l’attività, che prendo in considerazione, mirò a ché l’umanità si appropriasse del suo grande corpo, ad alimentarlo, a rendergli acuti gli organi, o a plasmarlo mimicamente e artisticamente secondo il conio della ragione e dello spirito, il modo in cui trovai già questo corpo a disposizione del mio compito, quanto facilmente la sua greve massa può essere costituita e comandata mediante la potenza dello spirito, tutto ciò è solo un segno della signoria che la libertà di tutti ha già esercitato su di esso, uno sguardo su ciò che ancora rimane da fare, e non un criterio del mio agire; ciò non cambia l’intuizione del mio atto, l’immagine di tutto il mio essere; pertanto non mi sento né migliore né peggiore, io non mi trovo come lo schiavo per cui il mondo, l’inflessibile necessità, dispone quel che può essere. Come, allo spirito forte e sano, il dolore non può facilmente sottrarre la signoria sul proprio corpo, così anch’io mi sento in grado di animare e reggere la greve materia, che ne segua dolore o gioia. Entrambi indicano la vita interiore e la vita interiore è opera dello spirito e atto libero. Se la mia attività fu orientata a determinare l’umanità in me, a presentarla in una qualche forma finita e in stabili tratti, e così, divenendo me stesso, a plasmare simultaneamente il mondo, dal momento che ho offerto alla comunità dei singoli spiriti un agire autentico e libero, rimane allora uguale, per lo sguardo rivolto a queste cose, che sia da ciò disceso immediatamente qualcosa che mi si fa incontro come mondo, e che il mio agire sia oppure no legato a quello di un altro. Il mio agire non è stato certo vuoto, e se io sono divenuto solo in me stesso più determinato e autentico, allora, con il mio divenire, ho plasmato anche il mondo, sia che l’agire di un altro, diversamente e nuovamente, si sia legato al mio prima per dar luogo, in diverso e nuovo modo, a un’azione visibile, sia che questo sia avvenuto dopo. Mai io torno triste dalla considerazione di me stesso, e giammai canto lamenti alla volontà infranta, alla fermezza sopraffatta, come

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fanno coloro che non s’inoltrano nell’intimo e s’immaginano di trovare se stessi solo nel singolare e in ciò che è esterno. Dato che la differenza dell’interno e dell’esterno mi si staglia nitidamente innanzi, io so chi sono e trovo me stesso solo nell’agire interno, in quello esterno trovo solo il mondo, e lo spirito è in grado di distinguere entrambi, senza rimanere incerto, come quelli, a oscillare tra i due in un’oscurità piena di confusione. Così so anche dove sia da cercare la libertà e il sacro sentimento di essa, che si nega sempre a colui il cui sguardo s’intrattiene solo sull’agire e sulla vita esterna degli uomini. Per quanto questi possa addentrarsi nei mille labirinti della meditazione, sentendo e pensando ad aspetti diversi, e possa raggiungere ogni cosa cercata, il suo pensiero gli nega il concetto della libertà. Egli non segue solo il segno della necessità, con saggezza superstiziosa e umiltà servile deve anche cercarla, e crederla, dove non la vede; e la libertà gli pare solo un velo, ingannevolmente deposto sopra una nascosta e incompresa necessità. Così, l’uomo sensibile, con il suo esterno agire e il suo esterno pensare, vede tutto come fosse solo qualcosa di singolare e finito. Egli non può comprendere se stesso in altro modo che quale insieme di fuggevoli apparenze che, sovrastandosi e distruggendosi sempre l’un l’altra, non possono essere pensate insieme; un’immagine compiuta della sua essenza gli si dilegua in mille contraddizioni. Nell’operare esterno, infatti, il particolare si oppone sempre al particolare, l’agire toglie il patire, il pensiero distrugge la sensazione, e la riflessione detta alla volontà un inattivo riposo. Nell’interiorità tutto è uno, ogni azione è solo il completamento dell’altra, in ogni azione è anche contenuta l’altra. Pertanto, la riflessione su me stesso m’innalza molto al di sopra del finito, che si lascia scorgere in una serie determinata ed entro stabili confini. Non vi è agire in me, che io possa propriamente considerare isolato e nessuna azione di cui possa dire che sia un intero. Ciascuna azione mi pone di fronte alla mia intera essenza, niente è diviso e ogni attività accompagna l’altra; la contemplazione non trova alcun limite, deve sempre rimanere incompleta se vuole restare vitale. Io, ancora, non posso percepire la mia intera essenza senza guardare l’umanità e determinare il mio posto e la mia condizione nel suo regno; e l’umanità, chi potrebbe pensarla senza perdersi con il pensiero nel dominio e nell’essenza incommensurabili del puro spirito? È allora la nobile riflessione su di sé, e solo essa, ciò che mi mette nella condizione di ottemperare alla sublime richiesta che l’uomo possa condurre la sua vita non solo quale mortale nel regno del tempo, ma anche quale immortale nel dominio dell’eternità, non solo in modo monda-

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no, ma anche in modo divino. La mia azione mondana scorre nel flusso del tempo, conoscenza e sentimenti si alternano e non posso trattenerne nemmeno uno; vola via il proscenio che mi ero fatto recitando e sull’onda sicura il flusso mi oppone sempre qualcosa di nuovo, ma ogni volta che volgo lo sguardo al mio intimo io, sono al contempo nel regno dell’eternità; io contemplo l’azione dello spirito che nessun mondo può trasformare e nessun tempo può distruggere, essa, che ha fatto per prima mondo e tempo. L’azione dello spirito non ha bisogno, ad esempio, dell’ora, che divide anno da anno, per esortarmi al godimento dell’Eterno e per destare l’occhio dello spirito che può dormire quand’anche il cuore batte e le membra si animano. Vorrebbe sempre condurre la vita divina chi l’ha provata una volta: ogni azione deve essere accompagnata dallo sguardo nei misteri dello spirito, ogni momento l’uomo può vivere al di fuori del tempo, contemporaneamente nel mondo superiore. Invero, gli stessi sapienti dicono che devi, moderatamente, essere soddisfatto con una sola cosa; vivere è una cosa, e altra cosa è smarrirsi nel pensiero originario e supremo;6 mentre, portato dal tempo, sei affaccendato nel mondo, non puoi al contempo riflettere su di te in quiete nella tua più intima profondità. Dicono gli artisti, mentre tu dipingi e componi, l’anima dovrebbe essere interamente persa nell’opera, e non può sapere ciò che compie. Eppure, osa farlo, spirito mio, nonostante il sensato monito! Corri verso il tuo scopo, che è forse diverso dal loro. L’uomo può più di quanto creda; ma anche quando aspira a ciò che è supremo, ne raggiunge solo una parte. Il più sacro e intimo pensiero del saggio può essere al contempo un agire esterno, proteso alla comunicazione e all’insegnamento nel mondo: perché un’azione esterna, nel mondo, qualunque sia, non deve poter essere anche, al contempo, un pensiero interno in merito all’azione? La riflessione dello spirito in se stesso è la fonte divina di ogni immagine e componimento poetico, e solo in sé lo spirito trova quel che rappresenta in opera imperitura: perché allora, in ogni raffigurare e comporre, che è volto sempre a rappresentare soltanto lo spirito stesso, non deve quest’ultimo tornare a guardare in se stesso? Non ripartire quel che è eternamente unito, la tua essenza, che non può rinunciare, senza distruggersi, né all’agire né alla conoscenza dell’azione! Muovi tutto nel mondo, e volgiti a tutto ciò che puoi; concediti al sentimento dei tuoi limiti innati, coltiva ogni mezzo di condivisione spirituale; esprimi la tua peculiarità, e contrassegna con il tuo spirito tutto ciò che ti sta attorno; contribuisci alle sacre opere dell’umanità, attrai a te gli spiriti amici: ma guarda sempre in te stesso, sappi quel che fai e che forma acquista la tua azione. Il pensiero, con cui

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gli uomini credono di comprendere la divinità che non raggiungono mai, ha tuttavia per te la verità di una bella allegoria in merito a ciò che l’uomo deve essere. Mediante il suo mero essere lo spirito si serba il mondo, e mediante la libertà pone l’attività, che produce sempre un solo e lo stesso cangiante agire: ma, stabile, lo spirito riflette al contempo su quella attività, in tale agire sempre nuova e sempre uguale,7 e questa contemplazione è immortalità e vita eterna, giacché lo spirito non ha bisogno di alcunché se non di se stesso, e la riflessione non trascura l’oggetto restante né l’oggetto perisce innanzi alla riflessione che sopravvive. Così gli uomini hanno fantasticato sull’immortalità che, troppo contenti, ricercano primariamente dopo il tempo invece che a fianco del tempo, e le loro favole sono più sagge di loro stessi. All’uomo sensibile, l’azione interiore appare, anzi, soltanto come un’ombra dell’azione esterna, ed essi hanno per sempre situato l’anima nel regno delle ombre, e creduto che laggiù la pallida vita prolunghi solo una manchevole immagine dell’attività precedente; ma più chiaro dell’Olimpo è ciò che il senso insufficiente ha bandito nella tenebra sotterranea, e per me il regno delle ombre sia già qui il modello originario della realtà. La divinità risiede, certo, per loro al di là del mondo temporale e gli uomini devono contemplare e celebrare la divinità dopo la morte, liberati per sempre dai limiti del tempo: ma lo spirito, già ora, volteggia sul mondo temporale e contemplarlo è l’eternità e il godimento celeste di inni immortali. Inizia pertanto già adesso la tua vita eterna nella permanente meditazione su te stesso; non paventare ciò che verrà, non piangere su quel che trascorre, ma preoccupati di non smarrire te stesso, e piangi quando sei avvinto nel flusso del tempo senza portare dentro di te il cielo.

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II.

Verifiche

Gli uomini rifuggono dal guardare in se stessi e molti sussultano servilmente quando alla fine non possono tergiversare più a lungo di fronte alla domanda che li interpella su cosa hanno fatto, cosa sono diventati, chi sono. L’affare è angosciante e la soluzione incerta. Reputano che un uomo possa più facilmente conoscere un altro che se stesso; credono di agire con dignitosa modestia se, dopo la più rigorosa ricerca, si riservano ancora il diritto all’errore nel calcolo. Tuttavia, è soltanto la volontà a celare l’uomo a se stesso; il giudizio non può sbagliare, purché egli rivolga realmente lo sguardo su se stesso. Ma questo è ciò che gli uomini né possono né vogliono fare. La vita e il mondo li tengono interamente legati a sé, e tengono intenzionalmente il loro sguardo limitato, affinché non percepisca null’altro; così gli uomini scorgono nella vita e nel mondo solo l’impreciso e ingannevole riflesso di sé. L’altro uomo posso conoscerlo solo dalle sue azioni, giacché non vedo mai il suo agire interiore. Ciò a cui davvero aspirava, non posso mai saperlo direttamente; io raffronto solo le azioni tra loro e da ciò deduco, con incertezza, a quale scopo, in lui, le azioni erano rivolte e quale spirito lo guidava. Quale onta per chi contempla se stesso solo come un estraneo fa con un altro! Per chi non sa nulla del suo agire interiore, e si spaccia per perspicace se solo intravede l’ultima risoluzione rivolta all’agire esterno associata al sentimento che l’accompagna, con il concetto che la precedette immediatamente e la configura! In che modo vuole egli conoscere l’altro o se stesso? Cosa può reggere l’oscillante supposizione che ricava dall’esterno l’interno, per chi, in nessun caso determinante, non poggia su niente che sia immediatamente certo? Il sicuro presentimento dell’errore produce timore; l’oscuro sospetto della propria colpevolezza comprime il cuore; e senza requie spa-

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ziano i pensieri, per il timore di quella piccola parte di autocoscienza che essi portano con sé, svilita a ruolo di inflessibile censore, e a cui devono spesso dare ascolto malvolentieri. Gli uomini hanno ben ragione di preoccuparsi, quando hanno esaminato davvero l’attività interiore che sta alla base della loro vita, di non poter spesso riconoscere in essa l’umanità e di vedervi gravemente ferita la coscienza morale, è a dire questo essere consapevoli dell’umanità: infatti, chi non ha preso in considerazione le sue azioni passate non può nemmeno dare garanzia che nelle azioni future rammenterà di appartenere all’umanità e si mostrerà degno di essa.8 Ha lacerato una volta il filo dell’autocoscienza, si è almeno una volta arreso alla rappresentazione e al sentimento che condivide con l’animale, come può sapere se non è precipitato nella goffa animalità? Considerare in sé l’umanità e, una volta che la si è trovata, non distogliere lo sguardo da essa, è questo l’unico mezzo sicuro per non smarrirsi mai lontano dal suo suolo sacro. È questo il legame intrinseco e necessario tra l’agire e il contemplare, inspiegabile e pieno di mistero solo per gli stolti e gli uomini di debole senno.9 Un agire veramente umano produce in me la chiara coscienza dell’umanità e questa coscienza non consente alcun altro agire che quello degno dell’umanità. Un oscuro presentimento mena inutilmente chi non può mai innalzarsi a tale chiarezza; inutilmente egli è educato e abituato alle convenzioni, gli sovvengono mille espedienti e prende decisioni per essere a forza introdotto nuovamente nell’umanità: i sacri confini non si aprono, egli rimane su suolo sconsacrato, e non può sfuggire alle conseguenze della divinità sollecitata e al vergognoso sentimento dell’esilio dalla sua patria. È sempre vana follia e vuota impresa dare regole e fare tentativi nel regno della libertà. Un’unica libera decisione è richiesta per essere un uomo: chi una volta l’ha presa, lo rimarrà sempre; chi ha smesso di esserlo, non lo è mai stato. Con inorgoglito piacere ripenso al tempo in cui io trovai l’umanità e seppi che non l’avrei più persa. Dall’interiorità venne l’alta rivelazione, e non venne prodotta da teorie morali e da un sistema di saggezza: la lunga

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ricerca, che non si lasciò soddisfare né dalle une né dall’altro, fu coronata da un istante luminoso; la libertà disperse gli oscuri dubbi mediante l’azione.10 Posso dire che da quell’istante non ho mai abbandonato me stesso. Non conosco più quel che gli uomini chiamano coscienza morale; nessun sentimento mi punisce, nessuno ha bisogno di esortarmi.11 Nemmeno, da allora, aspiro a questa o a quella virtù, né mi rallegro in particolar modo di questa o di quell’azione, come coloro a cui, nella vita fugace, appare, una volta o di tanto in tanto, una dubbia testimonianza della ragione. In silenziosa quiete, in stabile semplicità, conduco ininterrottamente in me la coscienza dell’intera umanità. Volentieri, e senza esitare, guardo spesso il mio agire all’interno di una connessione, e sicuro che non vi troverò nulla che l’umanità debba rifiutare. Fosse questa l’unica cosa che richiedo a me stesso, da quanto tempo potrei darmi pace e, realizzato, potrei cercare la fine! Sta, infatti, salda, senza tentennamenti, la certezza, e mi parrebbe una colpevole ignavia, ignota al mio senso, se attendessi una maggiore conferma anzitutto da una vita più lunga e se, ansioso, volessi dubitare che possa comunque accadere qualcosa capace di mettermi nella condizione di precipitare dall’altezza della ragione all’animalità. E tuttavia sono ancora tormentato dai dubbi: mi si staglia un obiettivo diverso e più alto quando uno è già stato raggiunto, e avendolo colto ora più fortemente ora più debolmente, l’autoriflessione non sempre sa su quale via mi avvicino a esso e in che punto mi trovo, e oscilla nel giudizio. Tuttavia, l’obiettivo diventa maggiormente certo e si conferma sempre più, quanto più spesso mi volgo alla vecchia ricerca. Seppure la certezza fosse ancora così distante, vorrei ancora cercare in silenzio, e non lamentarmi: infatti, più forte del dubbio è la gioia di aver trovato quel che devo cercare e di essere sfuggito alla comune follia che, durante la vita, inganna molti dei migliori e impedisce loro di innalzarsi fino all’autentico vertice dell’umanità. Per lungo tempo, pure, mi è bastato aver trovato soltanto la ragione e, idolatrando come ciò che è unico e supremo l’uguaglianza dell’unica esistenza, ho creduto vi fosse solo un modo giusto per tutti i casi, che in tutti l’agire dovesse essere uguale, e ciascuno si dividesse dall’altro solo perché a ciascuno è assegnata la propria condizione e il proprio posto.12 Solo nella varietà delle azioni esterne l’umanità si rivelerebbe diversa; l’uomo, il singolo, non sarebbe un’essenza costituita in modo peculiare, ma un unico elemento e ovunque il medesimo.

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Così opera l’uomo! Quando, disprezzando l’indegna singolarità della vita sensibile animalesca, consegue la coscienza dell’umanità universale e si piega al dovere, non può subito anche innalzarsi al più alto carattere della formazione e dell’eticità, e contemplare e comprendere la natura che la libertà stessa si sceglie. I più si tengono in sospeso nell’indeterminata medietà e, veramente, rappresentano l’umanità soltanto nel rozzo elemento, perché non hanno inteso il pensiero della propria esistenza superiore. Tale pensiero si è impadronito di me. Non mi appagava il sentimento della libertà da solo; mi apparivano inutili la personalità e l’unità della coscienza fugace che scorreva in me; queste mi sospingevano a cercare qualcosa di più sovranamente morale di cui sarebbero il significato. Non mi bastava contemplare l’umanità in rozze masse incolte, che interiormente sono del tutto uguali e solo esteriormente costituiscono, mediante frizione e contatto, effimeri fenomeni transitori.13 Così è emerso in me quel che ora costituisce la mia suprema intuizione; mi è diventato chiaro che ogni uomo deve rappresentare l’umanità in modo proprio, in una peculiare mescolanza dei suoi elementi, affinché essa si riveli in ogni modo e si possa realizzare, nella pienezza dell’infinitudine, tutto ciò che può effondersi dal suo seno.14 Soltanto il pensiero mi ha innalzato, e separato dal triviale e dall’informe che mi sta attorno, all’altezza di un’opera della divinità che ha da rallegrarsi di una particolare forma e costituzione;15 e il libero atto, che lo accompagna, ha raccolto intorno a sé e legato intrinsecamente in una peculiare esistenza gli elementi della natura umana. Avessi, sin da allora, preso in considerazione l’elemento peculiare insito nel mio agire così assiduamente come ho sempre guardato, al suo interno, l’elemento umano; fossi diventato consapevole di ogni azione e limitazione, i quali sono conseguenza di quel libero atto; irremovibile, avessi osservato rettamente l’ulteriore formazione e ogni esternazione della natura, non avrei potuto avere alcun dubbio circa il dominio dell’umanità che mi appartiene e dove sia da cercare il fondamento comune della mia estensione e della mia limitazione; avrei dovuto misurare esattamente tutto il contenuto della mia essenza, conoscere in ogni punto i miei confini, e sapere profeticamente quel che posso ancora essere e divenire. Ma solo con difficoltà e tardi l’uomo perviene alla piena coscienza della sua peculiarità; non sempre osa volgere lo sguardo a ciò, e preferisce orientare l’occhio al possesso comune dell’umanità, che tiene fermo tanto amo-

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revolmente e grato; egli spesso dubita se si debba distinguere di nuovo, in quanto essenza peculiare, da quel comune possesso, se debba riaffondare per timore nella vecchia colpevole limitatezza, nell’angusta cerchia della personalità esterna, scambiando il sensibile con lo spirituale, e solo più tardi debba imparare a stimare e utilizzare il suo supremo privilegio. Così la coscienza interrotta rimane a lungo oscillante; lo sforzo più autentico della natura spesso non viene colto, e quando i suoi limiti si rivelano nel modo più nitido, l’occhio scivola troppo facilmente sullo spigolo acuto e si sofferma solo sull’universale, nella cui negazione si mostra esattamente ciò che è peculiare. Posso esser contento di come la volontà ha ammansito l’accidia e di come l’esercizio ha acuito lo sguardo, cui ormai sfugge poco. Qualunque cosa io ora faccia assecondando il mio spirito e la mia indole, la fantasia mi prospetta, a prova più chiara della libera scelta, ancora mille modi in cui si può agire diversamente, secondo un diverso spirito e una diversa indole, senza ferire le leggi dell’umanità; io m’immagino in mille forme per scorgere più nitidamente la mia immagine. Ma poiché essa non mi si staglia ancora innanzi perfetta in tutti i suoi tratti, e poiché l’ininterrotta connessione della luminosa autocoscienza non mi assicura ancora la sua verità, nemmeno l’autoriflessione può ancora procedere in un atteggiamento stabile e quieto, più spesso deve intenzionalmente richiamare alla mente l’intero agire e aspirare, e la storia del mio io; essa non può evitare di prestare ascolto all’opinione degli amici, che ho volentieri lasciato guardare nel mio intimo, quando la loro voce si distanzia dal mio giudizio.16 Invero, a me pare di essere ancora quel che sono stato quando iniziò la mia vita migliore, solo più fermo e determinato di allora. Come, infatti, può l’uomo, dopo aver conseguito un’esistenza indipendente e autentica, nel mezzo del percorso e della sua formazione, assumere improvvisamente una natura diversa, darsi a un altro lato dell’umanità, senza aver portato a compimento nel modo supremo il primo? Come potrebbe, anzitutto, volerlo? Come potrebbe accadergli, senza che egli ne divenga consapevole? O non ho mai compreso me stesso, o sono ancora l’io che credevo di essere, e ogni apparente contraddizione, se l’esame ne viene a capo, deve solo mostrarmi con tanta maggior sicurezza dove e come le ultime estremità della mia essenza sono nascoste e connesse. La doppia vocazione dell’uomo sulla terra sembra sempre indicarmi la grande linea di demarcazione delle diverse nature. Sono cose mol-

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to diverse il costituire l’umanità in sé fino a una forma risoluta e rappresentarla in un molteplice agire oppure raffigurarla all’esterno compiendo opere artistiche in modo tale che ognuno debba scorgere ciò che uno voleva mostrare. Solo chi ancora si ferma sul piano più basso, nel vestibolo della personalità, e per timore della limitatezza non intende determinarsi saldamente, può voler unire i due aspetti al fine di operare in piccola misura su entrambi: chi davvero intende raggiungerne uno, deve rinunciare all’altro; solo al termine del corso della vita si prospetta un passaggio tra i due, accessibile soltanto alla perfezione che raramente l’uomo raggiunge. Come potrebbe apparirmi incerto quale dei due comportamenti io sceglierei? Io ho evitato così recisamente di cercare ciò che rende tale l’artista e, agognante, ho intrapreso tutto ciò che giova alla propria formazione e accelera e consolida la sua determinazione.17 L’artista insegue tutto ciò che può diventare segno e simbolo dell’umanità, fruga nel tesoro delle lingue, trasforma in mondo il caos dei suoni, cerca il senso segreto e l’armonia nel bel gioco di colori della natura, in ogni opera, che gli si presenta, scruta l’impressione di tutte le parti, la composizione e la legge dell’intero, e gioisce di più del contenitore artistico che del magnifico contenuto che esso gli porge. In lui, nuovi pensieri si trasformano quindi in nuove opere, che egli ha cura si nutrano segretamente nell’animo e crescano in silenziosa segretezza. L’ardore non ha mai requie, progetto e realizzazione si alternano, l’esercizio, infaticabilmente, migliora continuamente e il più maturo giudizio doma e ammansisce la fantasia: così la natura plasmante si spinge verso il fine della perfezione. Solo il sentimento, però, mi ha fatto intravedere tutto ciò, che è infatti estraneo al mio pensiero. Da ogni opera d’arte s’irradia per me l’umanità, che è raffigurata al suo interno, in modo ben più luminoso che l’arte di colui che crea; io colgo questa solo con fatica in una considerazione successiva e conosco solo una piccola parte della sua essenza. Io lascio libera la libera natura, e quando essa mi offre i suoi bei segni ricchi di senso, essi mettono in moto la percezione e il pensiero, senza che ciò mi sospinga a forza a plasmarli, in modo diverso e maggiormente determinato, in un’opera personale. Non mi sforzo di costringere alla perfezione il materiale a cui ho impresso il mio senso; pertanto rifuggo l’esercizio e una volta che ho esibito in azione ciò che vive in me, non mi interessa che l’atto si rinnovi spesso in qualcosa di sempre più bello e comprensibile. Il libero ozio è la mia amata divinità: lì l’uomo impara a comprendersi e determinarsi, lì il pensiero fonda il suo potere e domina quindi facilmente su tutto, seppu-

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re il mondo gli richieda azioni. Pertanto non posso nemmeno, come l’artista, creare da solo; nella solitudine mi si prosciugano i succhi dell’animo, il corso dei pensieri languisce; al di fuori di me, in varia comunione con gli altri spiriti, io devo vedere cosa sia l’umanità, cosa mi rimane estraneo di essa e cosa possa diventare mio e, devo vedere, per determinare la mia essenza sempre più saldamente mediante il dare e il ricevere. La sete insoddisfatta, volta a continuare a costituire il mio io, non mi consente di dare compimento esterno all’atto, alla comunicazione dell’interno; io pongo l’azione e il discorso nel mondo e non mi preoccupa se anche coloro che osservano penetrano anche con il loro sentimento l’aspra scorza o trovano felicemente, anche nella più imperfetta rappresentazione, il pensiero più interno e lo spirito autentico. Non mi rimane il tempo, il desiderio di chiedere; dalla posizione in cui mi trovavo, devo ancora portare a compimento la mia essenza nella breve vita, dove sia possibile, mediante nuova azione e nuovo pensiero. Odio già, segno d’animo non artistico, ripetere la stessa cosa due volte. Per questo, mi piace far tutto in condivisione: nel pensiero intimo, nella contemplazione, nell’appropriazione di ciò che è esterno, ho bisogno della presenza di un qualche essere amato, in modo tale che all’atto interno segua immediatamente la comunicazione e, mediante il dolce e soave dono dell’amicizia, io mi accordi facilmente con il mondo. Così è stato, così è, e sono ancora così lontano dal mio obiettivo che mi sbaglierei se credessi poterlo raggiungere presto. Ho dunque ragione, dicano anche diversamente gli amici, di escludermi dall’ambito sacro degli artisti.18 Volentieri rinuncio a tutto quel che essi mi hanno concesso in prestito, dal momento che solo nell’ambito in cui mi sono posto mi trovo meno imperfetto di quanto essi immaginano. Rivelati a me ancora una volta, intuizione del vasto dominio dell’umanità, dimora di quanti aspirano solo a plasmare se stessi, senza produrre un’opera permanente, e a rappresentarsi in una multiforme azione! Rivelati ancora una volta e lasciami vedere se mi spetta un mio posto oppure no, se in me vi è congruenza o se una contraddizione interna impedisce che l’immagine si chiuda, o se presto, come un progetto fallito, la mia essenza, invece di raggiungere il compimento, si dissolva in un vuoto nulla. Oh no, io non devo temere, non si staglia alcun triste sentimento nell’intimità della mia coscienza! Io capisco come tutto si compenetra per formare un autentico intero, non sento alcuna componente esterna che mi opprima; per una vita propria, non mi manca alcun organo, nessun nobile membro. A chi vuol costituirsi in una particolare essenza deve essere dischiuso il senso per tutto ciò che egli non è. Anche qui, nel dominio della supre-

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ma eticità, regna esattamente la medesima connessione tra fare e contemplare. Solo se l’uomo è consapevole della propria peculiarità nell’agire presente, può essere sicuro di non offenderla nemmeno nell’azione successiva; e solo se richiede ininterrottamente a se stesso di contemplare tutta l’umanità, opponendo a ogni altra rappresentazione dell’umanità se stesso e la propria, egli può conseguire la coscienza della sua peculiarità: infatti solo mediante la contrapposizione è conosciuto il singolare. La suprema condizione della propria perfezione in un determinato circolo è una sensibilità universale. E come potrebbe questa sussistere senza amore? La tremenda diseguaglianza tra dare e ricevere dovrebbe subito danneggiare l’animo nel suo primo tentativo di costituirsi così, e spingerlo fuori strada, e frantumarlo interamente, oppure precipitare nella volgarità chi in tal modo volesse diventare un essere peculiare. Oh amore, forza d’attrazione del mondo! Nessuna autentica vita e nessuna formazione è possibile a prescindere da te, senza di te tutto dovrebbe stemperarsi in una primitiva massa uniforme! Coloro che non desiderano essere più niente, non hanno bisogno di te; per essi sono sufficienti legge e dovere, agire uniforme e giustizia.19 Un gioiello inutilizzabile sarebbe per essi il sentimento sacro: lasciano pertanto inselvatichire, incolto, anche quel poco loro concesso dall’amore; e disconoscendo ciò che è sacro, lo gettano, senza badarvi, nel patrimonio comune dell’umanità, che deve essere amministrato secondo un’unica legge. Per noi, invece, tu sei la prima e l’ultima cosa:20 non vi è nessuna formazione senza amore; e senza una formazione propria, non vi è nessuna perfezione nell’amore: completandosi l’un l’altra, concrescono inseparabilmente. Sento in me unite le due condizioni supreme dell’eticità! Io mi sono appropriato della sensibilità e dell’amore ed essi crescono sempre di più, come segno sicuro che la vita sia fresca e sana, e che la formazione personale diventerà ancora più salda. Cos’è ciò a cui la mia sensibilità resterebbe chiusa? Quelli che vorrebbero innalzare chiunque a virtuoso ed esperto nell’ambito della scienza, si lamentano abbastanza che nessuna limitazione sarebbe da me conseguita e che io deluda ogni speranza quando sembra che voglia addentrarmi in qualcosa in tutta serietà: infatti, quando ho conquistato una prospettiva, nel modo solito, lo spirito fugace si affretterebbe di nuovo verso altri oggetti. Oh mi lasciassero una buona volta in pace e comprendessero che non ho alcun’altra peculiarità che quella di non poter formare la scienza, perché sono intento a formare me stesso! Mi permettano tuttavia di tenere aperta la mia sensibilità per tutto ciò che essi sono intenti a fare e muovere, e possano stimare ciò che formo in me mediante la contemplazione del loro fare come qualcosa che sarebbe

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degno della loro fatica. Mediante i loro lamenti, essi testimoniano a mio vantaggio: ma all’opposto di essi, altri che, invero di diversa natura, aspirano proprio come me a penetrare nel mezzo dell’umanità, lamentano che la mia sensibilità sarebbe fondamentalmente limitata, che io potrei passare in modo disinteressato davanti a molto di ciò che è sacro e alterare, per fatua polemica, il mio sguardo imparziale e profondo. Sì, io affronto molti argomenti, ma non con indifferenza; sì, io disputo, ma solo per serbare il mio sguardo imparziale. Così, e non in altro modo, devo agire secondo la mia personalità, sforzandomi di riempire ed estendere la sensibilità allo stesso modo. Dove mi si fa avanti il sentimento di qualcosa che mi è ancora ignoto nel dominio dell’umanità, allora la prima cosa è per me domandare non già se esso sia qualcosa, ma se esso non sia tale, e soltanto tale, quale mi si presenta in colui in cui lo scorsi la prima volta. Lo spirito, palesatosi tardi, ricordando quanto a lungo ha sopportato il giogo straniero, paventa sempre di ricader sotto il dominio di un’opinione esterna; e dove un nuovo oggetto gli mostra nuova vita, anzitutto là egli si dispone, armi in mano, a conquistarsi la libertà per non ricadere ogni volta nella schiavitù con cui iniziò la sua prima educazione.21 Appena ho conseguito una visione personale e il tempo della disputa è trascorso, lascio sussistere volentieri ogni opinione vicino alla mia, e l’intelligenza compie pacificamente il compito di attribuire significato a ciascuna e di penetrare nel loro punto di vista. Così, ciò che spesso potrebbe apparire limitatezza dell’intelligenza è in me, soltanto, il suo primo moto. Di certo, tale moto ha dovuto spesso rivelarsi in questo bel periodo della vita, in cui così tante cose nuove mi avevano toccato, in cui me ne sono apparse in limpida luce alcune che fino ad allora avevo soltanto oscuramente presagito e per cui mi ero lasciato soltanto uno spazio vuoto! Spesso tale moto ha dovuto colpire in modo ostile coloro che erano per me la fonte della nuova prospettiva. Io ho guardato a ciò imperturbato, confidando che costoro avrebbero compreso se la loro intelligenza fosse penetrata in me più profondamente. Spesso nemmeno gli amici mi hanno compreso, quando passavo innanzi senza disputare, ma con calma indifferente, a ciò che essi abbracciavano repentinamente con fervore e novello ardore.22 Non tutto l’intelligenza può cogliere in una volta sola, ed è vano voler portare a compimento il suo ufficio in una singola azione; il suo ufficio prosegue all’infinito in duplice direzione, e ciascuno deve avere un suo modo per unirle al fine di realizzare il tutto. A me è negato, quando qualcosa di nuovo entra in contatto con il mio animo, pene-

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trare subito con veemente fuoco nella parte più intima della cosa e conoscerla compiutamente. Un siffatto procedimento non conviene all’equanimità che è il tono di fondo per l’armonia della mia essenza. Mi getterebbe al di fuori del centro della mia vita isolare qualcosa così e, nel profondarmi nell’unica cosa, mi estranierei il resto senza aver davvero in mio possesso la cosa stessa. Io devo anzitutto deporre ogni nuova acquisizione nell’intimo dell’animo, e poi condurre innanzi l’abituale gioco della vita con la sua molteplice attività, affinché, anzitutto, il nuovo si mascoli con il vecchio e guadagni il punto di contatto con tutto ciò che già si trovava in me. Solo in questo modo, mediante tale agire, mi riesce di prepararmi una visione più profonda e intima; lo scambio tra riflessione e utilizzazione deve addirittura ripetersi spesso prima che io possa rallegrarmi di aver interamente penetrato e approfondito qualcosa. Così, e non altrimenti, posso pervenire all’opera se la mia intima essenza non dev’essere lesa, perché in me autoformazione e attività di significazione devono in ogni momento mantenersi in equilibrio. Pertanto, procedo lentamente, e deve essermi garantita lunga vita perché io abbracci tutto nella stessa misura; ma, quale che sia la cosa da me abbracciata, essa porterà il mio conio, e tutto ciò che la mia intelligenza ha colto del campo infinito dell’umanità sarà anche costituito in me in modo appropriato e trapasserà nella mia essenza. Oh com’è divenuta più ricca la mia essenza! Che bella coscienza dell’intimo valore, che alto sentimento di una vita e di un’esistenza autentica si accompagnano alla riflessione su me stesso quando rivolgo lo sguardo all’arricchimento di così tanti bei giorni! Non fu vana la silenziosa attività, che dall’esterno sembra una vita inoperosa e inutile: essa ha ben sostenuto l’intima opera della formazione. Tale opera non sarebbe prosperata così ampiamente in mezzo a un insensato adoprarsi e spendersi, che non si addice alla mia natura, e ancor meno a fronte di un’intelligenza limitata. Com’è miserabile che l’essenza intima dell’uomo possa essere così fraintesa proprio da coloro che certamente sarebbero in grado e meriterebbero di conoscerla bene ovunque! Com’è miserabile che così tanti, anche tra costoro, scambino l’azione interna con l’agire esterno, credano di conoscere questa, come quello, nel particolare a partire da frammenti sparsi, e presagiscano contraddizioni dove tutto concorda! È infatti così difficile da trovare il carattere proprio della mia essenza? Questa difficoltà mi nega per sempre il desiderio del mio cuore, molto anelato, di manifestarsi sempre più a tutti coloro che ne sono degni? Sì, anche ora, mentre guardo profondamente nel mio intimo, mi si conferma nuovamente che questo sia l’istinto che mi muove nel modo più deciso. Così è, per quanto spesso mi sia detto che sa-

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rei introverso e respinga spesso con freddezza il sacro offrirsi dell’amore e dell’amicizia.23 Invero, non mi è mai sembrato necessario parlare di ciò che ho fatto, di ciò che mi è accaduto; considero troppo irrilevante tutto ciò che è, in me, mondo, perché con ciò debba occupare a lungo colui cui lascerei conoscere volentieri il mio intimo. Non parlo nemmeno di ciò che si trova in me ancora oscuro e informe ed è ancora privo della chiarezza, la quale soltanto lo rende mio. Come potrei portare innanzi all’amico proprio ciò che non mi appartiene ancora? Perché nascondergli in questo modo quel che io sono già veramente? Come potrei sperare di comunicare senza fraintendimenti ciò che io stesso ancora non intendo? Questa non è riservatezza e mancanza d’amore: questo è soltanto rispetto reverenziale, senza il quale l’amore è niente; è la delicata premura di non violare e non intricare inutilmente quel che c’è di più alto. Appena mi sono appropriato di qualcosa di nuovo nella sfera della cultura o nell’indipendenza che abbia assimilato qua o là, non corro ad annunciarlo in parole e fatti all’amico, affinché egli condivida con me la gioia e, percependo la crescita della mia vita interiore, ne guadagni in termini personali? Amo l’amico come me stesso; appena riconosco qualcosa come mio, la do subito anche a lui. Così, di certo, non sempre prendo parte in maniera considerevole a ciò che fa e che gli accade, come la maggior parte di coloro che si dicono amici. Il suo agire esterno non mi preoccupa e non mi agita se ho già compreso la parte intima da cui promana e so che esso dev’essere così, perché egli è quel che è. Il suo agire esterno non conferisce al mio amore né nutrimento né sostegno, non ha nulla a che fare con esso. Appartiene al mondo e, con tutto ciò che ne segue, deve condursi secondo la legge della necessità; e ciò che segue, ciò che accade all’amico, egli saprà trattare con libertà degna di lui; il resto non mi preoccupa, osservo serenamente il suo destino come il mio. Chi considera ciò fredda indifferenza? È la chiara coscienza della contrapposizione tra mondo e uomo il fondamento su cui poggiano l’attenzione per me e il sentimento della libertà: devo consacrarla meno all’amico che a me? È ciò di cui mi fregio in sommo grado che amore e amicizia siano sempre di così elevata origine in me, giammai frammiste a un sentimento triviale, giammai opera d’abitudine o d’un debole sentimento, sempre un purissimo atto di libertà, e orientati sempre soltanto all’essere autentico dell’uomo. Sono sempre stato avverso a quei sentimenti triviali: mai un beneficio mi ha allettato all’amicizia, mai la bellezza all’amore, mai la compassione mi ha catturato così da farmi attribuire merito alla sfortuna e rappresentare i sofferenti diversi e migliori. Così fu lasciato libero spazio, nell’animo, al vero amore e alla vera amicizia, e mai s’indebolisce il desiderio di riempirlo più compiutamente e in modo più vario. Dove colgo una disposizione all’individualità, giacché in essa sentimento e amore vi fan-

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no da alti garanti, lì per me si trova anche un oggetto d’amore. Io vorrei abbracciare con amore ogni essere peculiare, dalla disinvolta gioventù, in cui fiorisce la libertà, fino al più maturo compimento dell’umanità; chiunque io scorga così, saluto in me con un saluto d’amore, anche se l’atto rimane solo abbozzato, dato che non ci è accordato più che un fugace incontro. Nemmeno misuro mai l’amicizia per qualcuno secondo un criterio mondano o per l’immagine esterna dell’uomo. Lo sguardo oltrepassa il mondo e il tempo, e si volge alla grandezza interiore dell’uomo. Se la sua intelligenza ha già abbracciato, oppure no, molte cose, quanto sia progredito nella sua formazione, quante opere egli abbia plasmato o compiuto, sono cose che non possono condizionarmi, e posso facilmente consolarmi se mancano. Ciò che cerco è il suo essere peculiare e il rapporto di quest’ultimo con l’umanità: nella misura in cui ritrovo il primo e comprendo il secondo, serbo per lui altrettanto amore; ma a lui posso mostrarlo solo se mi comprende. Quanto spesso, tuttavia, tale amore ha fatto ritorno a me incompreso! La lingua del cuore non venne subito percepita, come se io fossi rimasto muto, ed essi pertanto ritennero che fossi muto. Gli uomini viaggiano spesso su percorsi attigui e tuttavia non giungono gli uni vicino agli altri; inutilmente chi è capace di presagire chiama e chiede un incontro amichevole: l’altro non sente. Spesso gli opposti si avvicinano; e uno pensa bene che sia per sempre, invece è solo un momento; un movimento contrario li allontana nuovamente e nessuno capisce dove sia finito l’altro. Così spesso è successo al mio desiderio d’amore; non sarebbe ignominioso se alla fine esso non si fosse educato e la mia sin troppo facile speranza non fosse fuggita via, sostituita da una presaga saggezza? «Qualcosa uno comprenderà di te, qualcosa d’altro comprenderà un secondo; con quest’amore puoi abbracciare il primo, ma desisti dal concederlo all’altro»: così la moderazione mi si rivolge spesso, e spesso inutilmente. L’intimo istinto del cuore non lascia spazio alla prudenza; molto meno potrei avere la superba presunzione di porre dei limiti agli uomini, e al loro sentimento per me e per il mio amore. Io presuppongo sempre di più, ogni volta tento di nuovo, e sono subito punito per la mia cupidigia, perdendo spesso in quel tentativo ciò che avevo. Certo, non può andare in modo diverso all’uomo che si forma in modo peculiare, e il fatto che mi vada così è soltanto la dimostrazione più sicura che mi determino in modo individuale. Solo un uomo siffatto riunisce in sé a proprio modo elementi differenti dell’umanità; egli fa parte di più di un mondo: come potrebbe camminare sullo stesso percorso con un altro, che pure ha una peculiarità, come potrebbe rimanere sempre vicino a lui? Simile a una co-

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meta, l’uomo colto collega molti sistemi cosmici e si muove attorno a molti soli. Una stella, ora, volge a lui con gioia lo sguardo, aspira a conoscerlo ed egli le ruota amichevolmente attorno, avvicinandosi; lo scorge poi ancora in spazi lontani, la forma le appare mutata, e dubita se sia ancora lo stesso. Ma egli volta di nuovo con passo veloce, e le si fa nuovamente incontro con amore e amicizia. Dov’è il bell’ideale di una unione perfetta? L’amicizia che è parimenti perfetta da entrambe le parti? Solo se per entrambi, sensibilità e amore sono cresciuti nella stessa misura, quasi al di là di ogni misura. Ma, con l’amore, anch’essi sono diventati perfetti e già batte l’ora – per tutti, purtroppo, essa ha risuonato prima! – di concedersi nuovamente all’infinitudine e di far ritorno, fuori dal mondo, nel suo seno.

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III.

Visione del mondo

Gli uomini credono che solo l’afflitta vecchiaia sia legittimata a concedere spazio alle doglianze sul mondo: è scusabile se l’occhio preferisce volgersi al tempo migliore della propria vita, in cui quest’ultima era in piena forza. La gaia giovinezza dovrebbe lietamente sorridere al mondo e, senza badare a quel che manca, usare ciò che vi trova e confidare volentieri nei dolci infingimenti della speranza. E coglie la verità e sa valutare il mondo chi si tiene felicemente nel sicuro punto medio tra le due età, senza rattristarsi inutilmente o sperare illusoriamente. Una tale quiete è solo il passaggio stolto dalla speranza al disprezzo; tale saggezza è solo la cupa eco dei passi volentieri trattenuti, con cui quegli uomini scivolano dalla giovinezza nella vecchiaia; questa soddisfazione è solo un insensato e garbato inganno, che non vuol avere l’aria di vituperare il mondo, che presto lo lascia, e tanto meno vuole dar torto a se stesso; tale lode è vanità che si vergogna dei suoi errori, è dimenticanza che non sa più ciò che desiderava un attimo prima, è ignavia la quale, piuttosto che affrontare la fatica, preferisce la povertà.24 Io non mi sono adulato quando ero giovane, pertanto non penso, né ora né mai, di adulare il mondo. Il mondo non poteva ledere chi non si aspettava niente, così nemmeno io lo ferirò per vendetta. Io ho fatto poco per plasmarlo, così nemmeno ho bisogno di trovarlo più perfetto. Mi disgusta solo la vile lode, a esso intessuta da tutte le parti, affinché l’opera torni a lodare i suoi fattori. Di miglioramento del mondo parla così volentieri la generazione corrotta per tributarsi maggior valore e innalzarsi sopra i suoi padri. Esalasse realmente dalla bella fioritura dell’umanità il primo dolce profumo; i germi della propria formazione si fossero sviluppati, al sicuro da ogni impedimento, su un terreno comune in numero incalcolabile; respirasse e vivesse tutto in sacra libertà; si abbracciasse tutto con

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amore, e miracolosamente unito, tutto desse frutti sempre nuovi e meravigliosi; nemmeno se accadesse tutto ciò, gli uomini della nuova generazione potrebbero stimare più eccellente lo stato dell’umanità. Come se le voci tonanti della loro potente ragione avessero spezzato le catene dell’ignoranza; come se ora avessero finalmente approntato un ritratto artistico della natura umana, che era sin qui raffigurata solo come un’opera oscura e difficilmente conoscibile, un ritratto artistico in cui una luce piena di mistero rischiara meravigliosamente tutto dall’alto, in modo tale che nessun occhio sano potrebbe più mancare l’intero contorno o i singoli tratti; come se la musica della loro saggezza avesse mutato il rozzo e predatorio egoismo nel mite e socievole animale domestico, insegnandogli le arti; in questi termini, gli uomini della nuova generazione parlano del mondo contemporaneo, come se ogni piccolo tratto di tempo del passato dovesse essere stato ricco di un bene originale. Fino a che punto, nella mia interiorità, disprezzo profondamente la generazione che si vanta spudoratamente quanto mai nessuna generazione precedente, che quasi non può tollerare la fede in un futuro migliore, e dileggia vergognosamente ciascuno che la faccia propria solo perché tale fede, che è il vero scopo dell’umanità verso cui essa non ha osato muovere un passo, le rimane ignota in un’oscura lontananza! Sì, a chi basta soltanto che l’uomo domini il mondo materiale; che indaghi tutte le sue forze per utilizzarle a proprio servizio; che lo spazio non impedisca la potenza del suo spirito e il cenno della volontà produca in ogni luogo l’attività che egli richiede; che tutto si conservi, restando sotto il comando del pensiero, e la presenza dello spirito si manifesti ovunque; che ogni rozza materia appaia animata e, nel sentimento di una tale signoria sul proprio corpo, l’umanità sia soddisfatta della propria vita; colui per il quale ciò è scopo ultimo, assecondi questa altisonante lode. L’uomo si fregia a buon diritto di una tale signoria, mentre prima non poteva; e per quanto rimanga ancora molto da fare, già sì tanto è stato fatto che egli deve percepirsi come il signore della terra e deve sentire che non può rimanergli nulla d’intentato nel suo peculiare dominio e che il sempre più ristretto concetto di impossibilità deve dileguarsi. Qui, in ogni momento della vita, sento la comunione che mi unisce con tutti come completamento della mia energia. Ognuno realizza il suo determinato ufficio, compie l’opera di uno che non ha conosciuto e dispone il lavoro preparatorio per un altro, che non sa nulla del servizio che gli ha reso. Così l’opera degli uomini è sostenuta sull’intero pianeta, ognuno avverte come propria vita l’effetto di forze estranee e l’artificiosa macchina di questa comunità guida, come una scintilla elettrica, ogni silenzioso movimento di ciascuno verso lo scopo, rafforzato da una catena di migliaia di uomini, come se questi fossero tutti sue parti e tutto ciò che essi hanno fatto realizzasse in un momento la sua opera. Questo

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sentimento della vita innalzata mediante la comunità dimora in me ben più vivace e bello di quanto lo sia in coloro che lo celebrano in modo così altisonante. Non mi disturba, ingannandomi, la loro torbida immaginazione che sia goduto in modo tanto ineguale quello che tutti hanno aiutato a produrre e conservare: mediante il vuoto pensiero e l’indolenza nella riflessione perdono tutti; l’abitudine richiede il suo tributo a tutti, e dove calcolo comparativamente limiti e forze, m’imbatto ovunque nella medesima formula, espressa soltanto in modo diverso, e una stessa misura di vita si estende a tutti. Ma, anche così, io stimo poco tutto questo sentimento, non auguro al mondo qualcosa di meglio sullo stesso piano; mi tormenta fino all’annientamento che tutta l’opera dell’umanità debba essere questa, su cui si dilegua in modo sacrilego la sua sacra forza. Le mie aspirazioni non si arrestano modestamente a questo miglior rapporto dell’uomo con il mondo esterno, fosse pure quest’ultimo già stato portato alla più alta vetta del compimento! È forse l’uomo soltanto un’essenza sensibile tale per cui il supremo sentimento della vita, della salute e della forza potrebbero essere il suo bene supremo? Basta allo spirito abitare soltanto il corpo, costituirlo facendolo progredire ed estendere, ed essere consapevole di dominarlo? A ciò è volto tutto il loro aspirare, si fonda su ciò il loro spropositato orgoglio. Nella coscienza dell’umanità sono cresciuti solo fino a elevarsi dalla cura per la propria vita corporea e il proprio benessere alla cura per un eguale benessere di tutti. Ciò sono per essi virtù, giustizia e amore; è questo il loro grande grido di vittoria sul basso egoismo; per essi è questo il fine della loro saggezza; solo tali anelli possono distruggere nella catena dell’ignoranza; per tale fine ognuno deve prestare il proprio aiuto e solo per questo è istituita ogni comunità. Oh quale degenerata essenza, che lo spirito debba dedicare tutte le sue forze per altri in merito a ciò che egli, aspirando a un miglior premio, disprezza per sé! Che bizzarra intelligenza, quella cui pare una virtù sacrificare, per una così bassa idolatria, ciò che è supremo! Flettiti, o anima, all’aspro destino d’aver visto la luce solo in quest’epoca cattiva e buia. Per la tua aspirazione, per il tuo intimo operare non vi è nulla da sperare da un mondo siffatto! Non quale innalzamento, ma sempre, solo, come limitazione della tua forza, dovrai percepire la tua comunione con esso. Così accade a tutti quelli che conoscono e vogliono il meglio. Ad amare aspira il cuore di non pochi uomini, avendo nitidamente in mente come dovrebbe essere costituito colui con cui esso possa associarsi, comunicandosi pensiero e sentimento, al fine di una reciproca formazione e di un’elevata coscienza: ma se esso non lo scopre da sé nella limitata cerchia della sua vita esteriore per un caso fortunato, entrambi compiangono inutilmente la breve vita nel medesimo desiderio. Ciò che qui e lì la terra produce, lo descrivono in migliaia; ove sia da trovare una qualsiasi cosa di cui

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ho bisogno, posso saperlo in un attimo e un attimo dopo posso entrarne in possesso: non vi è alcun mezzo, tuttavia, per informarmi del luogo in cui possa essere trovato un tale animo quale nutrimento indispensabile della mia vita interiore; per questo non c’è nessuna comunità nel mondo, e portare vicino gli uomini, che abbisognano gli uni degli altri, non è ufficio di alcuno. E sapesse colui, dal cui cuore scorre da ogni parte, inutilmente, il desiderio d’amore, dove abitano l’amico e l’amata, allora la sua condizione esterna, vale a dire la posizione che egli assume in quell’umile comunità, lo metterebbe ai ceppi; e l’uomo si attacca a questi legami più saldamente di come la pietra e la pianta si attaccano alla terra madre. Lo straziante destino del negro, che è sradicato dalla terra patria dei cuori amati per svolgere un infimo servizio in una ignota lontananza, è quotidianamente imposto dal corso del mondo anche ai migliori che, ostacolati nel raggiungere gli amici sconosciuti nella patria lontana, devono sprecare la loro intima vita attendendo a un cattivo servizio tra prossimi squallidi ed eternamente lontani da loro. Ad alcuni è ben aperto il sentimento per cogliere l’intima essenza dell’umanità, per contemplare consapevolmente le sue diverse forme, e per trovarvi ciò che è comune; ma egli è messo in un luogo selvaggio e deserto o in una opulenza infruttuosa, in cui l’eterna monotonia non dà nutrimento alle richieste dello spirito; la fantasia, ripiegata su se stessa, s’infiacchisce e lo spirito deve consumarsi in un sognante inganno, giacché il mondo non gli offre alcun soccorso; non è compito di nessuno approvvigionare il bisognoso o condurlo amorevolmente in un clima migliore. Certo, l’impulso spinge interiormente qualcuno a creare opere d’arte, ma vagliare il materiale, scartare avvedutamente e senza danno quel che sarebbe inappropriato, oppure, quando il progetto sia fatto in bella unità e ampiezza, dare a ogni parte l’ultimo compimento e levigatura, tutto ciò è negato a costui: uno gli concede ciò che gli manca, l’altro gli offre in libertà il suo consiglio o corona con un suo atto ciò che è incompleto? Ognuno deve star da solo e tentare quel che non gli riesce! Per la rappresentazione dell’umanità, per la costruzione di opere belle manca la comunità dei talenti, già da molto tempo istituita per il servizio esterno dell’umanità! Solo con dolore l’artista percepisce la presenza degli altri, quando il loro giudizio disapprova ciò che era estraneo al suo genio, quando quel che è allotrio e insufficiente impedisce la realizzazione del bello e dell’autentico! Così l’uomo cerca inutilmente, per ciò che per lui è più grande, facilitazione e aiuto nella comunione con gli uomini; anzi, richiedere facilitazione e aiuto è scandalo e stoltezza per gli amati figli di questo tempo, e presagire una più alta e più intima comunità di spiriti, e volerla sostenere a discapito del senso limitato e degli inani pregiudizi, è illusorio fanatismo. Desiderio maldestro, e non povertà, deve essere ciò che lascia sentire i limiti che ci opprimono tanto; colpevole acci-

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dia, e non assenza di una comunità soccorrevole, è quel che rende l’uomo infelice del mondo e permette ai suoi vuoti desideri di aggirarsi nell’ampio dominio della impossibilità. Impossibilità solo per colui il cui sguardo, fisso alla bassa pianura del presente, domina solo un ristretto orizzonte. Quanto tristemente dovrei disperare che mai l’umanità giunga più vicino al suo scopo se, con ottusa fantasia, dovessi solo attaccarmi al reale e alle sue immediate conseguenze. Ciò che appartiene al mondo migliore sospira in torva schiavitù! Quel che c’è di una comunità spirituale è svilito a servizio della comunità mondana; ciò che è abbassato a un tale servizio opera una limitazione dello spirito solo in favore della comunità mondana e pone una sospensione alla vita interiore. Quando l’amico offre la mano all’amico per cementare un legame, dovrebbero seguirne atti più grandi di quelli prodotti singolarmente; ciascuno dovrebbe concedere all’altro la libertà di muovere dove lo spirito lo conduce; e mostrarsi disponibile ad aiutarlo solo dove l’impulso spirituale gli vien meno, senza sostituire i propri pensieri a quelli dell’altro. Così ciascuno troverebbe nell’altro vita e nutrimento, e diverrebbe compiutamente quel che è nelle sue possibilità di divenire.25 Come accadono, invece, le cose nel mondo? C’è sempre uno disposto a prestare un servizio materiale all’altro, pronto a sacrificare il proprio benessere; e la cosa suprema è comunicare la conoscenza, condividere i sentimenti dolorosi e blandirli. Certo, nell’amicizia è sempre presente un’ostilità contro la natura interiore; ma essi vorrebbero cancellare i difetti dalla natura dell’amico, e quel che in essi sarebbe un difetto, appare tale anche in lui. Così ognuno dovrebbe far sacrificio all’altro della propria peculiarità, finché entrambi, in se stessi inautentici, siano solo simili tra loro, a meno che un forte volere non interrompa tale pervertimento e che, a lungo sospesa tra disputa e armonia, l’amicizia languisca o si arresti improvvisamente. Guai se un amico si attacca a chi ha un animo debole! D’una vita nuova e vigorosa sogna lo sventurato e si rallegra delle ore belle che trascorrono in dolce conversazione; e non nota che lo spirito, nel perverso benessere, si corrompe e s’indebolisce, finché, paralizzata e assillata da tutte le parti, la sua vita intima si perde. Così, si aggirano molti dei migliori, quasi senza conoscere il tratto fondamentale della propria essenza, deturpati dalla mano dell’amico e soverchiati da aggiunte estranee. Un dolce amore lega uomo e donna che vanno a costruire il proprio focolare. Come dal seno del loro amore sono generati autentici esseri, così dall’armonia delle loro nature deve prodursi una volontà comune nuova; la silenziosa dimora, con i suoi compiti, i suoi ordinamenti e le sue gioie, deve dare conto dell’esistenza di tale volontà comune quale atto libero. Oh quale sventura, che io debba sempre e ovun-

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que vedere dissacrato il più bel legame dell’umanità! Per loro rimane un mistero ciò che fanno quando stringono quel legame; ognuno continua a mantenere e a realizzare le sue intenzioni come prima, dominano alternativamente ora l’uno e ora l’altra e ciascuno calcola tristemente, in silenzio, se il guadagno equivale realmente a quel che ha sacrificato della propria libertà; alla fine, il destino dell’uno diventa quello dell’altra e in vista della fredda necessità si spegne l’ardore dell’amore. Lo stesso calcolo porta alla fine tutti al medesimo nulla. Ogni casa dovrebbe essere il bel corpo, la bella opera di un’anima autentica, e avere una propria forma e propri tratti, mentre tutte sono, in muta monotonia, lo squallido sepolcro della libertà e della vera vita. Lei lo rende felice, vive interamente per lui? Lui la rende felice, è tutto gentilezza per lei? Nulla rende forse entrambi più felici del fatto che l’uno possa sacrificarsi per l’altra? Oh non mi tormenti l’immagine della miseria, che si cela profondamente dietro la loro gioia, immagine della prossima morte che dipinge davanti a essi questa ultima apparenza di vita, il suo abituale gioco di prestigio! E dove sono, a proposito dello Stato, le vecchie favole dei saggi? Dov’è la forza che questo altissimo grado di esistenza deve dare all’uomo, la coscienza che ognuno deve avere di essere una parte della sua ragione e fantasia e forza? Dov’è l’amore per questa nuova esistenza fattasi da sé, che preferisce sacrificare la propria vecchia coscienza piuttosto che perdere tale esistenza, che preferisce azzardare la vita piuttosto che venga distrutta la patria? Dov’è la previdenza che veglia scrupolosamente che la patria non venga sedotta e il suo animo non sia corrotto? Dov’è il carattere proprio di ogni Stato e dove sono le opere attraverso cui dà notizia di sé? Questa generazione è tanto lontana da ogni presagio di quel che questo lato dell’umanità debba significare da sognare un organismo migliore dello Stato quale ideale umano;26 è tanto lontana che chi vive nello Stato, sia esso uno dei nuovi o dei vecchi, vorrebbe formare tutto secondo il proprio conio, come il saggio nelle sue opere appresta un modello per il futuro e spera che arrivi il momento in cui l’umanità possa onorarlo quale simbolo della propria salvezza; è, ancora, tanto lontana, che tutti credono che lo Stato migliore sia quello che si fa sentire di meno e che, inoltre, lascia che si senta di meno il bisogno che esso debba esserci. Chi considera la più bella opera d’arte dell’uomo, attraverso cui egli deve porre la sua essenza al livello più alto in questo modo, vale a dire solo come un male necessario, come un meccanismo indispensabile per nascondere e rendere innocui i suoi difetti, deve certo sentire solo come una limitazione ciò che è fatto per concedergli il più alto grado di vita.27

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Oh vile fonte di così grandi mali, il fatto che per gli uomini bisogni rintracciare un senso solo per la comunità esterna del mondo sensibile e che essi vogliono misurare e modellare tutto secondo esso. Nella comunità del mondo sensibile deve esservi sempre una limitazione; l’uomo, che vuole far avanzare e ampliare il suo corpo mediante il possesso esterno, deve concedere anche all’altro lo spazio per fare lo stesso; dove si trova uno, là si trova il limite dell’altro, e essi tollerano tranquillamente ciò solo perché non potrebbero certo possedere il mondo singolarmente, perché possono anche aver bisogno del corpo e del possesso dell’altro. A questo è diretta anche ogni altra cosa: aumentare il possesso esterno dei beni e del sapere, protezione e aiuto contro il destino e la sventura, forza rinvigorita nell’alleanza al fine della limitazione degli altri; solo questo cerca e trova nell’amicizia, nel matrimonio, nella patria l’uomo odierno, e non un aiuto e un completamento della forza per la propria formazione, né un guadagno per la propria vita interiore. A ciò lo ostacola ogni comunità in cui l’uomo fa ingresso fin dal primo legame dell’educazione, in cui già il giovane spirito, invece di ottenere un libero spazio d’azione e di scorgere il mondo e l’umanità nella sua intera estensione, è limitato da pensieri estranei e presto abituato alla lunga schiavitù della vita. Oh, in mezzo a tanta ricchezza, quale deplorevole povertà! Oh misera, la lotta del migliore, che cerca eticità e formazione, con questo mondo che conosce solo il diritto, che invece della vita offre soltanto morte formule, invece del libero agire conosce solo regola e abitudine, e si gloria di una nobile saggezza quando, fortunatamente, mette da parte una qualche forma invecchiata e genera qualcosa di nuovo, che sembra vita ma, fin troppo presto, diverrà formula e morta abitudine. Cosa mi potrebbe salvare se proprio tu, divina fantasia, non mi concedessi un presagio sicuro di un futuro migliore! Sì, dalla barbarie si svilupperà cultura e si svilupperà vita dal sonno della morte! Gli elementi di una miglior vita ci sono. Non sempre la loro superiore forza sonnecchierà occultata; lo spirito, che anima l’umanità, prima o poi la risveglia. Come adesso la coltivazione a favore dell’uomo è superiore a quella selvaggia signoria della natura, davanti alla cui esternazione di forze l’uomo fuggiva spaventato, così l’epoca felice della vera comunità degli spiriti non può più essere tenuta lontana da questi anni infantili dell’umanità. Il rozzo schiavo della natura non avrebbe creduto nulla di un siffatto futuro dominio su di essa, né avrebbe compreso ciò che ha innalzato a tale previsione l’anima del veggente che l’aveva profetizzato; gli

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mancava, infatti, finanche la rappresentazione di una siffatta condizione, per la quale non avvertiva alcun desiderio; così, nemmeno l’uomo odierno comprende e coglie, se qualcuno gli fa presenti scopi diversi o parla di altre condizioni e di un altro tipo di comunità, cosa si possa desiderare di meglio e di superiore, né teme che possa mai giungere qualcosa che debba tanto profondamente umiliare il suo orgoglio e la sua indolente contentezza. Se, pure, da quella povertà estrema, che anche allo sguardo acuito dagli effetti positivi mostra i primi germi di una migliore condizione a mala pena, scaturì la fortuna attuale così ampiamente stimata, perché dalla nostra confusa ignoranza, in cui l’occhio, che già la nebbia calante avviluppa sì da presso, scorge i primi elementi di un mondo migliore, non dovrebbe alla fine sorgere il regno sublime della cultura e dell’eticità. Arriva! Perché dovrei timidamente contare le ore che ancora scorrono, le generazioni che ancora si alternano? Che m’importa del tempo che non comprende la mia vita intima? L’uomo appartiene al mondo che ha contribuito a creare e che abbraccia l’interezza della sua volontà e del suo pensiero, e solo oltre il mondo egli è uno straniero. Chi vive in accordo con il presente e non desidera altro è un contemporaneo di quei primitivi semibarbari che hanno posto il primo fondamento di questo mondo; costui vive la prosecuzione della vita loro, si compiace del compimento di ciò che essi hanno voluto e nemmeno personalmente coglie quella condizione migliore che essi non potevano concepire. Così io sono uno straniero rispetto al modo di pensare e alla vita della generazione attuale, un cittadino profetico di un mondo futuro, a esso sospinto per mezzo di una vitale fantasia e di una forte fede, a esso appartenente in ogni atto e pensiero. Mi lascia indifferente ciò che il mondo, l’attuale, fa o patisce; esso, profondamente al di sotto di me, mi appare piccolo, e con sguardo immediato l’occhio abbraccia i grandi circoli confusi del suo percorso. Tornando sempre al medesimo punto, da tutti gli sconvolgimenti nel dominio della vita e della scienza, e conservando sempre la stessa forma, quel mondo mostra nitidamente la sua limitatezza e la modesta estensione della sua aspirazione. Nemmeno ciò che esso stesso ha prodotto può condurlo avanti, ma lo muove sempre e soltanto entro la vecchia orbita; io non posso dunque rallegrarmi della sua opera e non mi lascio illudere dalla vuota aspettazione di una qualsivoglia favorevole apparenza. Certo, dove scorgo una scintilla del fuoco nascosto, che presto o tardi consumerà il vecchio e rinnoverà il mondo, là mi sento attratto in amore e speranza al dolce segno della patria lontana. Anche dove io sto, deve vedersi ardere la sacra fiamma in luce estranea: una testimonianza, per chi comprende, dello spirito che vi domina. Si approssima in amore e speran-

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za al proprio simile colui che, come me, appartiene al futuro, e mediante ogni atto e discorso di ciascuno si stringe più saldamente e si amplia il legame bello e libero dei cospiratori di un tempo migliore. Per quanto può, tuttavia, il mondo aggrava anche questo, impedisce ogni reciproco riconoscimento degli animi affini, e mira a corrompere il seme del futuro migliore. L’atto, sorto dalle più sacre idee, dà spazio a una notevole varietà d’interpretazioni; deve accadere che spesso l’azione più pura, compiuta nello spirito dell’eticità, è scambiata per spirito mondano. Troppi si decorano con la falsa apparenza di una maggiore qualità, perché si possa prestar fede a ciascuno in cui si lascia presagire qualcosa di meglio; con diritto, si rifiuta in modo scettico, alla prima apparenza, colui che cerca fratelli in spirito; così spesso gli spiriti affini passano oltre senza riconoscersi, giacché tempo e mondo opprimono la baldanza della fiducia. Prendi coraggio, dunque, e spera! Non tu soltanto sei radicato nel profondo terreno che solo più tardi diventerà superficie; il seme del futuro germina ovunque! Vai avanti e cercalo dove puoi, tu troverai qualcun altro, conoscerai qualcun altro, che hai a lungo disconosciuto. Allo stesso modo, anche tu sarai conosciuto da alcuni: a dispetto del mondo, alla fine la sfiducia e il sospetto scompaiono quando ritorna il medesimo agire e lo stesso presentimento esorta il cuore puro. Basta soltanto che imprimi con coraggio il conio dello spirito a ogni azione affinché gli spiriti affini ti trovino; basta soltanto che tu annunci con coraggio nel mondo l’opinione del cuore perché i lontani ti odano! Di certo, la magia della lingua non è a nostro servizio, ma solo a servizio del mondo.28 Essa ha segni precisi e bella copia per tutto ciò che è pensato e sentito in senso mondano; è lo specchio più puro del tempo, un’opera d’arte in cui il suo spirito si dà a conoscere. Per noi la lingua è ancora rozza e incolta, un gravoso mezzo di condivisione. Quanto a lungo, all’inizio, essa ostacola lo spirito in modo tale che quest’ultimo non possa pervenire all’intuizione di se stesso! Attraverso la lingua, lo spirito appartiene al mondo ancor prima di trovarsi e deve, prima di tutto, sciogliersi lentamente dai suoi vincoli; e se poi lo spirito, nonostante ogni errore e corruzione introdotti in esso dalla lingua, si è spinto fino alla verità, ecco che la lingua trasforma ingannevolmente la sua strategia e lo tiene angustamente rinchiuso affinché non si comunichi ad alcuno e non possa ricevere alcun nutrimento. A lungo lo spirito cerca, nell’abbondante copia di parole, di trovare un segno al di sopra di ogni sospetto, per esporre sotto la sua egida i pensieri più intimi: i nemici lo colgono subito e gli accordano un diverso significato, per cui chi lo riceve è in dubbio, prudentemente, sulla persona a cui debba essere originariamente attribuito. Di certo, qual-

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che risposta in proposito arriva da lontano alla persona isolata, ma egli deve dubitare se la risposta significhi quel che egli intende, se l’abbia scritta una mano amica o nemica. Qual disgrazia che la lingua sia bene comune dei figli dello spirito e dei figli del mondo! Che gli ultimi si manifestino tanto desiderosi d’imparare secondo l’alta sapienza! No, non deve riuscir loro di confonderci o di contenerci! Questa è la grande battaglia per il sacro vessillo dell’umanità, che noi, appartenenti a un miglior futuro, dobbiamo serbare per le generazioni a venire; la battaglia che decide tutto, ma anche il gioco sicuro, che sarà vinto, al di là del caso e della fortuna, solo mediante la forza dello spirito e la vera arte. I costumi devono essere l’abito e l’involucro dell’individualità interiore che, appoggiandosi delicatamente e significativamente a ogni nobile forma e annunciando le belle proporzioni, accompagnano graziosamente ogni movimento. Solo se questa bella opera d’arte è presa in considerazione con sacro rispetto, solo se essa è tessuta in modo sempre più diafano e fine ed è vestita in maniera sempre più aderente, dovrà finire l’inganno artificioso, e si rivelerà presto se una natura profana e volgare vuole apparire in una nobile ed elevata forma. Il buon conoscitore scorge in ogni movimento il gioco segreto delle membra brutte, l’abito magico sta sciolto attorno al mendace spazio vuoto e svolazza visibilmente a ogni passo veloce, mostrando la difformità che sta al di sotto. Così l’assiduità e la proporzione dei costumi devono diventare e diventeranno un contrassegno veritiero dell’intima essenza dello spirito e il saluto segreto dei migliori. La lingua deve rispecchiare i pensieri più intimi dello spirito e la sua più alta intuizione, deve riferire la più segreta considerazione che esso fa della propria attività, e la sua meravigliosa musica deve conferire significato al valore e ai gradi d’amore propri che esso assegna a ciascuna cosa. Gli altri possono ben abusare dei segni che noi dedichiamo alle cose più importanti e possono introdurre surrettiziamente i loro miseri pensieri e il loro ottuso modo di pensare nella cosa sacra che i segni devono indicare, il tono del profano è comunque differente da quello dell’iniziato; in una diversa melodia i segni del pensiero si dispongo per il saggio e per lo schiavo del tempo; questi innalza a dimensione originaria qualcosa d’altro e ne derivano echi che gli rimangono lontani e ignoti. Ognuno si costituisca una lingua come propria e come un tutto artistico, in modo tale che deduzione e passaggio, connessione e sequenza rispondano esattamente alla struttura del suo spirito e l’armonia del discorso restituisca il tono di fondo del modo di pensare, l’accento del cuore: allora si dà, nella comune, una lingua sacra e segreta, che il profano non può né interpretare né imitare, giacché la chia-

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ve per i suoi caratteri giace nell’intimo della coscienza; solo una breve sequenza dal gioco dei pensieri, solo qualche nota dal suo discorso bastano a rivelare tale chiave. Oh, se i saggi e i buoni si potessero conoscere solo in questo modo, per i loro costumi e discorsi, se solo la confusione fosse dispersa, fosse tolta la separazione e la contesa interna deflagrasse, la vittoria sarebbe allora vicina, sorgerebbe un sole più bello, giacché il libero giudizio e lo spirito spregiudicato delle giovani generazioni dovrebbero orientarsi al lato migliore. Ma il significativo movimento annuncia soltanto l’esistenza dello spirito e i miracoli testimoniano soltanto l’origine di un’immagine divina. Dovrebbe così rivelarsi che manca la coscienza dell’agire interiore là dove manca la bella unità dei costumi o dove vi è solo come fredda rappresentazione, come deformità dissimulata; che non sa nulla della propria cultura, né ha scorto in sé la parte intima dell’umanità, colui per il quale la solida roccia primaria della lingua, venuta a giorno dall’intimo, si è disgregata in piccoli frammenti, per cui la forza del discorso, che deve toccare profondamente l’animo, si dissolve in una vuota assenza di significato e in una superficiale eleganza, e la sua nobile musica degenera in oziosi artifici di suoni inadeguati a rappresentare l’essenza propria dello spirito. Armoniosamente, in semplici e bei costumi, non può vivere alcuno se non colui che, odiando le morte formule, va alla ricerca della propria formazione e, in tal modo, prende parte al mondo futuro; vero artista della lingua non può diventare se non colui che considera se stesso con sguardo franco e si è appropriato dell’intima essenza dell’umanità. Dalla calma onnipotenza di tali sentimenti, non dalla sacrilega violenza di inutili tentativi, alla fine deve promanare il sacro rispetto di ciò che è supremo, l’alba di un’età migliore. Promuovere ciò sia il mio obiettivo nel mondo, così che io ripaghi il mio debito nei suoi confronti e porti a compimento la mia vocazione. La mia energia si unisce così all’opera di tutti gli eletti e il mio libero agire aiuta l’umanità a proseguire sulla diritta via verso il suo fine.

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IV.

Prospettive

È vero che tutti noi ci muoviamo sul suolo terrestre privi d’indipendenza e incerti del futuro? Che un ermetico velo nasconde all’uomo quel che sarà, e che la cieca forza del destino, sia anche l’arbitrio estraneo di una superiore provvidenza – per me valgono entrambi lo stesso –, gioca con le nostre decisioni come con i nostri desideri? Oh, di certo, se le decisioni sono solo desideri, l’uomo è il gioco del caso! Se egli sa trovare se stesso soltanto nel mutamento di sensazioni fugaci e di singoli pensieri prodotti dalla realtà; se egli è per tutta la vita occupato nell’insicuro possesso di oggetti esterni, nella vertiginosa considerazione del turbine eterno in cui, con questo essere e avere, porta anche se stesso, e mai avanza più a fondo nella propria essenza; se egli, condotto da questo o quel particolare sentimento, vede sempre soltanto qualcosa di singolo ed esterno e vuole perseguirlo e possederlo, come impone l’impulso dell’istante, allora il destino può sottrargli sfavorevolmente quel che egli vuole e il modo in cui gioca con le sue decisioni, le quali meritano appunto di essere considerate un gioco; può poi lamentarsi dell’incertezza, giacché nulla rimane saldo per lui; allora la sua cecità gli appare come un denso velo, e deve ben essere oscuro il luogo in cui non splende la luce della libertà; allora per lui la cosa più importante deve essere sapere se il mutamento che lo comanda dipende da una volontà superiore a tutte le altre o se è l’effetto meccanico dell’incontro di molte forze. Infatti, deve terrorizzare l’uomo il fatto di non riuscire mai a comprendere se stesso, che ogni raggio di luce, il quale cade nell’infinita confusione, gli mostri più nitidamente che non è un essere libero, ma appunto solo un dente in quella gran ruota che, girando eternamente, muove se stessa, lui e tutto; e il suo unico sostegno deve essere la speranza, la

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speranza sempre nuovamente rinnovata, a dispetto di ogni esperienza e conoscenza, di una misericordia superiore. Benvenuta, amata coscienza della libertà! In ogni momento in cui vedo gli schiavi fremere, sii tu nuovamente benvenuta! Bella calma della chiara intelligenza con cui, sapendo bene cosa esso sia e cosa porti, saluto serenamente il futuro, mia libera proprietà, non mio signore. Esso non mi nasconde niente e si accosta senza pretese di violenza. Il destino domina solo gli Dèi che non hanno niente da operare in se stessi e i peggiori tra i mortali, che non intendono operare su se stessi; non domina l’uomo che dirige la sua azione su se stesso, com’è suo dovere. Dov’è il limite della mia forza? Dove principia il terrificante dominio esterno? L’impossibilità per me è soltanto relativa alla restrizione della mia natura operata mediante il primo atto della mia libertà; l’unica cosa che non posso fare è ciò a cui ho rinunciato quando decisi chi volevo diventare; nulla è per me impossibile al di fuori di ciò che dovrebbe far retrocedere quella volontà dalla forma in cui fu espressa un tempo. Quello, cui tale restrizione appare come una violenza imposta dall’esterno, questa restrizione dico, che è condizione ed essenza della sua esistenza, della sua libertà, della sua volontà, è ai miei occhi sorprendentemente confuso. E io mi sento forse ristretto entro questi limiti? Sì, se pure nel dominio dell’eticità e della cultura in ogni istante io ambissi solo, nello specifico, a questo e a quello, se mai un qualche singolo atto fosse lo scopo della mia volontà; in tal caso, questo scopo potrebbe allontanarsi dai miei occhi se volessi pervenirvi; mi troverei dunque sotto un dominio straniero; e certo se accusassi di ciò il destino, sbaglierei solo l’autentico oggetto della colpa, me stesso. Ma non può mai accadermi così! Io vivo, certo, nella coscienza della mia intera natura. Divenire sempre più quel che sono, è questa la mia unica volontà; ogni azione è uno sviluppo particolare di quest’unica volontà; se di certo posso sempre agire, posso anche sempre agire in questo modo e nulla che non sia determinato in tal modo entra nella serie dei miei atti. Accada pure ciò che vuole! Fintanto che io rapporto tutto a questo fine complessivo e ogni rapporto esterno, ogni forma esterna di vita, mi lascia indifferente, giacché tutte sono per me equipollenti purché esprimano la natura del mio essere e mi apportino nuova materia per la sua formazione intima e la sua crescita; fintanto che l’occhio dello spirito è fitto in ogni momento a tutto ciò; fintanto che scorgo ogni cosa singola solo entro questa totalità e in questo tutto vedo l’insieme dei particolari, senza mai dimenticare ciò che interrom-

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po, ma sempre continuando a volere quello che non ho fatto ancora e riferendo tutto quel che faccio a quel che voglio; fintanto che tutto ciò accade, la mia volontà domina il mio destino e con libertà volge ai suoi scopi tutto quello che il destino può portare. A una tale volontà non può mai essere sottratto il suo oggetto e il concetto di destino scompare a cospetto del pensiero di una siffatta volontà. Da dove deriva, infatti, quel mutamento dell’umano destino che gli uomini avvertono così opprimente se non, appunto, dalla comunione di una siffatta libertà? Tale mutamento è pertanto opera della libertà e opera mia. Come potrei, attraverso il mio agire, attendere alla preparazione del destino degli altri, se non richiedessi che anche per me il destino sia preparato dall’agire degli altri? Sì, lo richiedo sonoramente! Venga il tempo e mi porti, come può, un variegato materiale per l’azione, la formazione e l’espressione della mia essenza. Io non rifuggo nulla; per me è indifferente l’ordine e ogni condizione esterna. Tutto quello che può derivare dall’azione collettiva degli uomini deve passarmi innanzi, stimolarmi e commuovermi, per venir nuovamente mosso da me, e nel modo in cui lo accolgo ed elaboro voglio sempre riscontrare la mia libertà e, nel dar forma a ciò che è esterno, costituire la mia peculiarità. Questa è forse una vana illusione? Dietro questo sentimento di libertà si nasconde forse l’impotenza? Le anime volgari interpretano così quel che non intendono! Ma il vaniloquio autodenigrante è da lungo tempo spento per me; tra me e loro si frappone, in ogni istante, l’operare. Esse si lamentano sempre quando vedono il tempo che passa e hanno paura quando giunge loro da presso e, al cospetto di ogni cambiamento, rimangano incolte come prima, sempre le stesse nature volgari.29 Dov’è un unico esempio in cui possono negare che avrebbero potuto affrontare diversamente quel che capitava loro? Sarebbe per me facile distruggerle con ira ancor maggiore nel mezzo della loro sofferenza, e strappare al sentimento affranto la confessione che era intima pigrizia quel che lamentano come violenza esterna, o che esse non volevano quanto potrebbe sembrare che abbiano voluto; e mostrando così l’infima delimitazione della loro coscienza e volontà, si potrebbe insegnare loro a credere nella volontà e nella coscienza. Ma, vogliano imparalo oppure no, la fede che nulla di quel che mi capita possa ostacolarmi nella crescita della mia cultura, o possa allontanarmi dal fine del mio agire, è in me viva in ragione del mio operare. Da quando la ragione ha preso possesso della mia essenza, e la libertà e l’autocoscienza abitano in me, io ho attraversato così le fasi mutevoli della vita. Nel

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bel godimento della libertà giovanile, ho compiuto il grande atto di buttare via la falsa maschera, la lunga faticosa opera della sacrilega educazione; ho imparato a compiangere la breve vita della maggioranza degli uomini, che si lasciano ancora legare da nuovi ceppi; ho imparato a disprezzare il vano aspirare delle anime fioche, le quali hanno perduto anche l’ultimo ricordo del breve sogno di libertà, non sanno cosa accade alla gioventù, in cui la libertà si desta, e preferiscono mantenere i giovani fedeli al costume prisco.30 In casa di estranei si schiuse per me il senso della bella esistenza comunitaria, vidi come solo la libertà nobilita e plasma opportunamente i delicati misteri dell’umanità, i quali rimangono sempre oscuri al profano, che li onora solo come vincoli della natura.31 Nella mischia iridescente di tutte le differenze mondane, sprezzando l’apparenza, ho imparato a conoscere la stessa natura sotto ogni spoglia e a tradurre le varie lingue che parla in ogni sfera. Contemplando i vasti fermenti degli uomini, quelli silenziosi e quelli rumorosi, ho imparato a comprenderne il sentimento e come si attacchino sempre, soltanto, al guscio esterno; e nella silenziosa solitudine che ebbi in sorte, ho preso in considerazione la natura interna, tutti i fini assegnati all’umanità dalla sua essenza, e ho osservato tutte le realizzazioni dello spirito nella loro eterna unità; nella vivente intuizione, ho imparato a valutare correttamente la morta parola delle scuole. Ho provato gioia e dolore, conosco ogni afflizione e ogni sorriso, e in tutto ciò che mi è accaduto da quando vivo realmente vi è qualcosa di nuovo, di cui non mi sia appropriato per la mia essenza o da cui non abbia guadagnato energia che nutra la vita interiore? A me sia dunque il passato garanzia del futuro; il futuro è certo uguale al passato, cosa può dunque farmi di diverso se io rimango il medesimo? Determinato e nitido vedo innanzi a me il contenuto della mia vita. So dove la mia essenza è già costituita e definita stabilmente nella sua peculiarità; per mezzo di un agire uniforme in tutte le direzioni, con unità e pienezza della mia energia, mi serberò tale condizione. Come potrei non rallegrarmi del nuovo e del molteplice attraverso cui mi è confermata, in modo originale e sempre diverso, la verità della mia coscienza? Sono tanto sicuro di me stesso da non aver bisogno di tale conferma? da dovermi essere allo stesso modo benvenuti dolore e gioia, e quel che altrimenti il mondo mi indica quale bene e male giacché ogni cosa, a suo modo, realizza tale scopo e mi rivela i rapporti della mia essenza? Se raggiungo solo

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ciò, cosa m’importa di essere felice! Io sono anche consapevole di quanto non mi sono ancora appropriato, conosco le posizioni in cui, oscillando ancora in generalità indeterminate, da lungo tempo avverto con dolore la carenza di un punto di vista personale. Già da molti anni la forza aspira a quanto ho detto e arriverà il momento in cui, con l’attività e la riflessione, lo abbraccerò e lo porrò in intima connessione con tutto ciò che già è in me. Le scienze, senza la cui conoscenza la mia visione del mondo non può mai essere compiuta, sono, per quel mi riguarda, ancora da approfondire. Mi sono ancora estranee molte forme dell’umanità; ci sono epoche e popoli che conosco solo come ogni altro, nella cui essenza e nel cui modo di pensare la fantasia non si colloca in modo personale, che non occupano alcun posto determinato nella mia concezione degli sviluppi del genere umano. Molte delle attività, che non appartengono alla mia essenza, non le comprendo e spesso mi manca un giudizio personale sui loro nessi con tutto ciò che è grande e bello nell’umanità. Io conseguirò queste conoscenze gradatamente e l’una insieme all’altra; la più bella prospettiva si apre innanzi a me. Quante nobili nature, che costituiscono in sé l’umanità in modo del tutto diverso da me, posso considerare da vicino! Da quanti uomini sapienti sono circondato che, per ospitalità o vanità, mi offrono in bei vasi i frutti dorati della loro vita e le piante di tempi e luoghi lontani, trapiantate nella nostra patria dalla loro fedeltà. Può il destino incatenarmi così che io non possa approssimarmi a questo fine? Può rifiutarsi di mettermi a disposizione il mezzo di formazione, può allontanarmi dalla semplice comunione con l’opera dell’attuale generazione e con i monumenti del passato? Può scaraventarmi lontano dal bel mondo in cui vivo, negli squallidi deserti ove è impossibile ottenere informazioni sul resto dell’umanità, in cui la volgare natura mi tiene angustamente accerchiato da ogni parte in eterna monotonia, e nell’aria spessa e stantia, che essa dispone, nulla di bello e distinto colpisce l’occhio? Certo, ciò è accaduto a molti; eppure non può succedere a me: io sfido quel che ha vinto migliaia di persone. L’uomo cade in schiavitù solo facendo commercio di sé, e il destino osa far mercato solo di chi stabilisce un prezzo per se stesso e si mette in vendita. Cosa attira l’uomo incostante lontano dal luogo in cui il suo spirito sta bene? Cosa lo induce a gettar via con ignava follia i suoi più begli acquisti, come il guerriero getta l’armi in fuga? È il vile guadagno esterno, è lo stimolo dei desideri sensibili, che l’antica bevanda ormai evaporata non soddisfa più. Come potrebbe ciò accadere al mio disprezzo per queste ombre? Con diligenza e fatica mi sono aggiudicato il luogo in cui mi trovo, con coscienza e sforzo mi sono costruito un mondo proprio,

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in cui il mio spirito può svilupparsi: come potrebbe un fuggevole stimolo di paura o speranza sciogliere questo solido legame? Come un’inconsistente futilità potrebbe attirarmi al di fuori della patria e della cerchia degli amici amati?32 Comunque, serbarmi questo mondo e continuare ad assicurarmi a esso più strettamente non è l’unica cosa cui aspiro: io desidero un mondo nuovo. Bisogna stringere ancora molti legami nuovi, la nuova legge di amori ancora ignoti deve muovere una volta in più il cuore affinché si evinca il modo in cui ciò si adatta al resto del mio essere. Io ho vissuto in amicizie di ogni tipo; ho gustato con sacre labbra il dolce dono dell’amore, so cosa in entrambi mi si confà e conosco la legge della mia dignità: il vincolo supremo, tuttavia, deve ancora innalzarmi a un nuovo livello di vita, devo rifondermi in una sola essenza con l’anima amata, affinché la mia umanità operi anche sull’umanità nel modo più bello, e io sappia come la vita superiore trasfigurata si costituisce in me dopo il risorgere della libertà, come il vecchio uomo inizia il mondo nuovo. Devo consacrarmi ai diritti e ai doveri del padre, giacché anche la forza suprema, che la libertà esercita sugli esseri liberi, non si plachi in me e io mostri come chi crede nella libertà conservi e protegga la ragione giovane e come lo spirito illuminato sappia risolvere, in questo grande problema, la più bella confusione del proprio e dell’altrui. Il destino non mi prende qui proprio nel più amato desiderio del cuore? Il mondo non si vendicherà qui per l’audacia della libertà, per il tracotante disprezzo del suo potere? Dove può abitare quella con cui mi si confà stringere il legame della vita? Chi può dirmi in che luoghi devo andare in cerca di lei? Giacché per ottenere un sì alto bene nessun sacrificio è troppo caro, nessuno sforzo troppo grande! E se la rintraccio sotto l’egida di una legge estranea, che me la rifiuta, potrò affrancarla?33 E se la dovessi ottenere, dipende poi dalla mia volontà se al mio diritto di sposo si aggiunge il dolce nome di padre? Mi trovo qui al limite del mio arbitrio in ragione di una libertà esterna, del corso del mondo, dei misteri della natura.Io spero; l’uomo può molto, e la forza di volontà e un serio sforzo ottengono molte cose difficili. Ma se ora, la speranza e lo sforzo sono inutili, se tutto mi è rifiutato, sono dunque io sopraffatto dal destino? Esso si è dunque opposto davvero all’innalzamento della mia vita intima e può limitare la mia formazione mediante la sua risolutezza? L’impossibilità dell’atto esterno non impedisce l’agire interno; e io deplorerei il mondo, più che me e la mia sposa; il mondo, che ha dunque perso un esempio bello e

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raro, un’apparizione di un migliore futuro smarritasi nel presente, un futuro per il quale essa potrebbe riscaldare e ravvivare i morti concetti del mondo. Fin quando io e la mia sposa ci apparteniamo, la fantasia ci conduce, seppure sconosciuti, nel nostro bel paradiso. Io non ho visto inutilmente molte forme dell’animo femminile e non invano mi si sono resi manifesti i bei modi della sua vita quieta. Quanto più sono rimasto lontano dai suoi confini, tanto più avvedutamente ho esaminato il sacro territorio del matrimonio: so cosa in esso è giusto e cosa non lo è; e mi sono figurato tutte le possibili forme del decoro, come le rivelerà soltanto un libero e remoto futuro, e so con certezza quale tra esse si addice a me. Così conosco anche l’ignota donna con cui potrei unirmi nel modo più intimo per la vita, e mi sono già addentrato nella bella vita che condurremmo. Seppure ora, rattristandomi in appartata solitudine, devo dispormi e iniziare, tacere, rifiutare e rinchiudere in me molto riguardo alle cose più o meno importanti, mi si para sempre icasticamente innanzi come tutto ciò in quella vita sarebbe diverso e migliore. Così di certo è anche per lei, ovunque sia, lei che è disposta nel modo giusto per amarmi e perché io le possa bastare; un medesimo desiderio, che è più di una brama inconsistente, dispensa lei come me dall’appartata realtà per cui non è fatta, e se un tocco magico improvvisamente ci unisse, nulla sarebbe per noi estraneo, e passeggeremmo nella nuova vita così amenamente e leggiadramente come se fossimo legati da una lunga e dolce consuetudine. Così non ci manca interiormente, anche senza quel magico tocco, la nostra superiore esistenza, siamo fatti per questa vita e mediante essa; e solo la manifestazione esterna sfugge al mondo. Oh, sapessero gli uomini far uso di questa forza divina della fantasia, che sola pone lo spirito in libertà e lo conduce molto al di sopra di ogni violenza e limitatezza, e senza cui la cerchia dell’uomo è così ristretta e angosciosa! Quante cose toccano a ciascuno nel breve corso della vita? In quante parti, l’uomo dovrebbe restare indeterminato e incolto se il suo agire interno muovesse solo verso il poco che lo colpisce davvero dall’esterno? Ma gli uomini, nell’eticità, sono così segnati dai sensi da aver davvero fiducia in se stessi solo lì dove la rappresentazione esterna dell’agire offre loro garanzia in merito alla verità della loro coscienza. Sta inutilmente nella grande comunità degli uomini chi limita se stesso in questo modo! Non lo aiuta la concessione fattagli di osservare l’opera e la vita della comunità; invano deve lamentarsi dell’accidiosa lentezza del mondo e dei suoi fiacchi movimenti. Egli auspica per sé sempre nuovi rapporti, sempre nuove esortazioni all’azione provenienti dall’esterno, e nuovi amici, dopo che i vecchi

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hanno operato ciò che potevano sul suo spirito, e la vita è per lui sempre troppo lenta. E se anche la vita lo volesse guidare, con movimento accelerato, per mille nuove vie, potrebbe l’infinità esaurirsi nel breve giro della vita? Ciò che quelli non possono nemmeno augurarsi, io lo ottengo mediante il gioco intimo della fantasia. Essa mi compensa, infatti, di quel che la realtà mi rifiuta; per suo tramite mi approprio di ogni rapporto in cui vedo un altro; lo spirito è stimolato nell’intimo, plasma secondo la propria natura, e immagina come agirebbe se dovesse giudicare. Senza dubbio, non è possibile aver fiducia nel comune giudizio degli uomini sull’essere e sull’operare degli altri, giacché tale giudizio è formulato con morte lettere e formule vuote, e giacché essi agiscono finanche in modo inconseguente rispetto a come hanno prima giudicato. Ma quando un’intima azione accompagna il dar forma della fantasia, come deve essere dove vi è vera vita, e il giudizio è coscienza nitida dell’intimo agire, allora l’elemento estraneo intuito determina lo spirito, esattamente come se fosse in suo possesso nella realtà, e lo spirito avesse agito esternamente. Così, come è accaduto finora anche in futuro grazie a questo agire interno prenderò possesso del mondo intero, utilizzando ogni cosa nella quieta contemplazione meglio di quanto farei se ogni immagine dovesse accompagnare, in veloce mutamento, l’azione esterna. Ogni rapporto, in questo modo, s’imprime più profondamente, lo spirito lo coglie in modo più determinato e l’impronta dell’essenza personale è più pura nel giudizio libero e spregiudicato. Quel che la vita esterna, poi, porta davvero è solo una conferma e una prova della precedente e più ricca vita intima, e la formazione dello spirito non è ristretta all’insufficiente dimensione della vita esterna. Non mi lamento dell’indolente lentezza del destino più che del suo corso veloce e irregolare. So che mai la mia vita esterna rappresenterà e completerà in tutti gli aspetti l’essenza interna. Non mi offrirà mai di trovarmi in un’importante condizione, in cui la mia azione scelga il bene o il male per migliaia di persone, e possa essere dimostrato apertamente come tutto per me valga nulla al cospetto di uno solo degli alti e sacri ideali della ragione. Forse, mai verrò in aperto conflitto con il mondo, e potrò mostrare quanto poco ciò che è concesso al mondo di dare e prendere disturbi la mia intima pace e la quieta unità della mia essenza. Comunque, so da me come tratterei tutto ciò e come già da molto tempo il mio animo sia pronto e disposto al riguardo. Vivo pertanto in silenzioso ritiro nel grande e attivo proscenio del mondo. Così è già istituito il legame con l’anima amata per il solitario, la bella comunione esiste ed è la parte migliore della vita. Così conserverò anche l’amore degli amici, per me di certo l’unico bene prezioso, qualsiasi cosa possa accadere in futuro a me o a loro.

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Gli uomini, infatti, temono che l’amicizia non duri a lungo, l’animo pare loro mutevole, l’amico potrebbe cambiare, con il vecchio atteggiamento interiore verrebbe meno anche l’antico amore, e la fedeltà è un bene raro. Essi hanno ragione; quand’anche conoscono qualcosa che va al di là dell’utile, l’uno ama dell’altro solo la facile apparenza che circonda l’animo, e non ricercano mai questa o quella virtù, cosa essa sia davvero nella sua parte interiore; e se nelle confusioni della vita ciò per loro svanisce, essi dopo molti anni non si vergognano di confessare che si sono sbagliati sul conto delle persone. A me non è stato conferito un bell’aspetto, né altra cosa che a un primo sguardo catturi il cuore degli uomini: tuttavia, chiunque non ha guardato nel mio intimo si fa un’idea fittizia. Così è amato il buon cuore che io non vorrei, la natura modesta che non ho, o la sagacia che disprezzo di cuore. Anzi, tale amore mi ha già abbandonato spesso e non appartiene nemmeno a quel bene che per me è prezioso. Solo ciò che io stesso ho prodotto e acquisto sempre nuovamente è per me un bene posseduto: come potrei considerare appartenente a me quel che sorge solo dall’apparenza che l’occhio miope degli uomini s’immagina? Io so limpidamente che non li inganno: ma nemmeno, invero, il loro falso amore mi deve incalzare più di quel che io possa sopportare. Ciò mi costa solo una manifestazione della mia natura intima che essi non possono fraintendere; solo una volta li condurrò direttamente a ciò che il mio animo serba di più prezioso e che essi non possono sopportare: così sono affrancato dalla pena che essi mi tengano per uno di loro, che mi amino quanti mi dovrebbero odiare. Volentieri do loro indietro la libertà che rimase prigioniera in una falsa apparenza. Tuttavia sono sicuro di quelli che davvero mi vogliono bene, che amano la mia intima essenza, coloro che l’animo cinge saldamente e non abbandonerà mai. Essi mi hanno conosciuto, scrutano lo spirito, e quanti lo amano una volta com’è, devono continuare ad amarlo ancora e più profondamente, quanto più esso si sviluppa e si forma. Di questo possesso sono sicuro come del mio essere; non ho ancora perduto nessuno che ho davvero amato. Tu, che nella fresca fioritura della giovinezza, nel mezzo della vita pronta e gaia, hai dovuto abbandonare la nostra cerchia – sì, posso rivolgermi all’amata immagine che dimora nel mio cuore, e permane nella vita, nell’amore e nell’afflizione –: il mio cuore non ti ha mai abbandonato; il mio pensiero ha immaginato il tuo sviluppo, come tu l’avresti formato da te stesso se avessi vissuto le nuove fiamme che hanno acceso il mondo; il tuo pensiero si è unito al mio, e la conversazione dell’amore, la reciproca contemplazione degli animi tra noi non cessa mai, e continua a operare su di me come se vivessi vicino a me, come fu.34

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E voi, o amati, che vivete veramente, benché a distanza, e spesso mi inviate una fresca immagine del vostro spirito e della vostra vita, che ci importa dello spazio?35 Siamo stati a lungo vicini, eppure eravamo meno presenti l’un per l’altro di quanto siamo ora: cos’è infatti la presenza se non la comunione degli spiriti? Ciò che non vedo della vostra vita, lo immagino io stesso; mi siete vicini in ogni cosa che sia in me o intorno me possa commuovere in modo vitale il vostro spirito, e poche parole mi confermano tutto o mi conducono sulla giusta traccia nel punto in cui ancora era possibile l’errore. Voi, che adesso mi circondate di dolce amore,36 sapete quanto poco mi affligga il desiderio di viaggiare per il mondo; sto fermo nel mio posto e non abbandonerò la bella occupazione di poter scambiare con voi in ogni istante pensiero e vita; dov’è una siffatta comunione, si trova anche il mio paradiso. Un altro pensiero vi condiziona? Bene: tra noi non vi è comunque distanza – ma la morte? Cos’altro è la morte se non una maggiore distanza? Tetro pensiero, che implacabilmente segue ogni riflessione sulla vita e sul futuro! Posso ben dire che gli amici per me non muoiono; io accolgo in me la loro vita e il loro effetto su di me non trascorre mai: ma mi uccide il loro morire. La vita dell’amicizia è una bella concatenazione di accordi, cui vien meno il comune tono di fondo quando l’amico abbandona il mondo. In verità, una lunga eco continua a risuonarne nel nostro intimo e la musica prosegue; ma è venuta meno l’armonia che l’accompagnava in lui, per cui io ero il tono di fondo; e questa sua armonia era il mio tono di fondo come questa che è in me era il suo. La mia influenza su di lui si è interrotta e una parte della vita è andata perduta. Morendo, ogni creatura che ama uccide e a chi sono morti molti amici alla fine la morte arriva dalla loro mano se, privato da ogni influenza su coloro che sono stati il suo mondo e compresso in sé, lo spirito divora se stesso.37 In duplice modo è necessaria la fine dell’uomo. Deve trapassare colui a cui è stato irrecuperabilmente distrutto l’equilibrio tra vita interna ed esterna. Deve trapassare anche colui a cui esso è distrutto in modo diverso; chi, giunto allo scopo del compimento della sua peculiarità, sebbene circondato dal più ricco dei mondi, non avrebbe null’altro da operare in sé; un’essenza interamente compiuta è un Dio, non potrebbe sopportare il peso della vita e non ha spazio nel mondo degli uomini. È allora necessaria la morte, e sia l’opera della libertà a portarmi più vicino a questa necessità e voler morire possa essere il mio più alto fine! Voglio abbracciare gli amici interamente e intimamente, e assimilare tutto il loro essere in modo tale che ciascuno, quando mi abbandona, mi aiuti a morire con dolci sofferenze, e voglio continuare a formarmi sempre più alacremente in modo tale che, an-

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che così, l’anima si approssimi sempre di più al desiderio del trapasso. La morte dell’uomo è sempre composta da entrambi gli elementi, per cui non tutti gli amici mi abbandoneranno, né io raggiungerò mai interamente l’obiettivo del compimento prima di morire. Da tutti i lati, in bella proporzione, secondo la natura del mio essere, mi avvicinerò a questo obiettivo; questa fortuna mi è concessa dalla mia bella quiete e dalla mia appartata vita di pensiero. La cosa suprema, per un’essenza come la mia, è che la formazione interna trapassi anche nella rappresentazione esterna, mediante il compimento, infatti, ogni essere si avvicina al suo opposto. Il pensiero di perpetuare in un’opera d’arte la mia intima essenza e, con essa, la visione complessiva fornitami dall’umanità è in me il presentimento della morte.38 Quando iniziai a divenire consapevole dell’intera fioritura della vita tale pensiero sbocciò, ora cresce in me quotidianamente e si avvicina a una forma determinata. Prematuramente, lo so, per una libera decisione, lo scioglierò dal mio intimo prima che il fuoco della vita sia spento; se però lo lasciassi maturare e divenire un’opera perfetta, allora appena apparisse nel mondo la sua fedele immagine, la mia essenza stessa dovrebbe trapassare, sarebbe infatti giunta a compimento.

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V.

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Come il rintocco dell’orologio segna per me le ore e il corso del sole conta gli anni, così vivo – lo so – approssimandomi sempre più alla morte. Ma anche alla vecchiaia? Anche alla debole e apatica vecchiaia, di cui tutti si lamentano così amaramente quando, senza che se ne siano accorti, sono scomparsi il desiderio della gaia giovinezza e il baldanzoso sentimento dell’intima salute e pienezza? Perché essi lasciano scomparire l’età dell’oro e sospirando flettono il dorso al volontario giogo? Anch’io una volta ho creduto che i diritti della gioventù non si addicessero all’uomo maturo; volevo avanzare in modo sommesso e prudente e, con la saggia decisione della rinuncia, prepararmi al tempo più torbido. Ma i più stretti confini non potevano soddisfare lo spirito e mi sono presto pentito della sobria e angusta vita. Al primo richiamo, l’amichevole giovinezza fece ritorno e da allora mi ha sempre cinto di un abbraccio protettivo. Se sapessi che essa mi sfugge come corrono i tempi, subito e di mia volontà mi getterei preferibilmente tra le braccia della morte, in modo tale che il terrore di un male sicuro non renda amaro ogni bene, così che alla fine meriti, in ragione di un’esistenza inetta, una morte ancor peggiore. Io però so che ciò non può essere, perché non deve essere. Come? La vita dello spirito, libera, incommensurabile, dovrebbe trascorrere prima della terrena, che sin dal primo battito del cuore contiene i germi della

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morte? La fantasia, per quel che mi riguarda, non dovrebbe sempre essere orientata al bello con tutta la sua abituale forza? La calma intelligenza non dovrebbe sempre essere così spontaneamente e così velocemente orientata al bene, e l’animo così amorevole? Dovrei rimanere in ascolto con trepidazione dei flutti del tempo, e stare a guardare come essi mi erodono e mi scavano, finché alla fine non mi sfaceli? Oh cuore, esprimiti, dunque, quante volte potrò ancora contare il tempo, che ora mi è trascorso con miseri pensieri, prima che tutto ciò sia compiuto? Se potessi contarlo, mille volte o una sola volta sarebbero, allo stesso modo, poche. Saresti un pazzo se volessi presagire dal tempo la forza dello spirito, di cui quello non può giammai esser misura! Gli astri non percorrono certo nel medesimo tempo lo stesso tratto della loro parabola, ma devi cercare una misura superiore per comprenderne il corso: e rispetto agli astri lo spirito dovrebbe seguire leggi più carenti? Nemmeno lo spirito le segue.39 La vecchiaia brontolona, meschina e priva di speranza, coglie alcuni prematuramente e uno spirito avverso blocca loro la fioritura della giovinezza quando essa s’è appena dischiusa; il coraggio ad altri resta a lungo, e il capo canuto si erge ancora, e il fuoco degli occhi dà lustro, e lo stesso fa l’amichevole sorriso della bocca. Perché, con fortunata battaglia, non devo ripararmi dalla morte in agguato per ancor più tempo di colui che più a lungo di tutti è stato nella pienezza della vita? Perché, senza contare gli anni e assistere al deperimento del corpo, mediante la forza di volontà non devo rimaner saldamente attaccato fino all’ultimo respiro all’amata dea? Cosa deve costituire tale differenza, infatti, se non la volontà? Ha lo spirito, ad esempio, una sua quantità e grandezza determinate, così da potersi profondere ed esaurire? La sua forza si consuma mediante l’atto e disperde qualcosa in ogni movimento? Coloro che si dilettano a lungo della vita sono solo gli avari che hanno poco operato? Colpiscano allora vergogna e disprezzo ogni vecchiaia fresca e felice: giacché merita disprezzo chi pratica l’avarizia nella giovinezza. Se il destino e la misura dell’uomo fossero così, preferirei comprimere in uno spazio angusto tutte le possibilità dello spirito: vorrei viver brevemente per esser giovane e fresco finché dura! A che serve effondere in modo tenue i raggi della luce su una superficie ampia? Non si rivela la forza e non si porta a compimento niente. A che serve economizzare ed estendere la nostra azione a lungo, se tu devi indebolire il contenuto intimo e se comunque alla fine non resta niente di quel che hai avuto? Spendi piuttosto in pochi anni la vita in brillante profusione, così da poter gioire del-

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la tua forza e avere una visione complessiva di quel che sei stato. Ma non sono così il nostro destino e la nostra misura; un tale concetto sensibile non può bandire lo spirito dalla sua cerchia. Contro cosa dovrebbe arrestarsi il suo potere? Cosa perde, della sua essenza, quando opera e si comunica? Cosa c’è che lo consumi? Ora, dopo ogni agire mi sento più chiaro e ricco, più forte e sano: infatti, con ogni atto, mi approprio di qualcosa della comune materia di cui si nutre l’umanità e, crescendo, la mia forma si determina più precisamente! Accade così, solo perché ora salgo ancora alla vetta della vita? Bene; ma quando la bella situazione muterà improvvisamente? Quando, attraverso l’atto, inizierò a morire, piuttosto che a divenire? E come mi si annuncerà il grande mutamento? Se viene, devo riconoscerlo e, se lo riconosco, preferisco scegliere la morte piuttosto che, in lunga miseria, scorgere in me stesso l’essenza futile dell’umanità. La scomparsa del coraggio e della forza è un male prodotto in proprio; la vecchiaia è un vuoto pregiudizio, il frutto miserevole della folle illusione che lo spirito dipenda dal corpo! Ma io conosco l’illusione, e il suo cattivo frutto non deve avvelenarmi la sana vita. Lo spirito abita, infatti, le fibre della carne o è una cosa sola con essa, in modo tale da trasformarsi maldestramente in una mummia quando queste avvizziscono? Rimanga al corpo quel che è suo. Se i sensi si ottundono e le impressioni delle immagini del mondo diventano più deboli, allora deve ottundersi anche il ricordo e alcuni piaceri e gradimenti devono diventare più deboli. Ma è questa la vita dello spirito? Questa la giovinezza, la cui eternità adoro? Da quanto tempo sarei già schiavo della vecchiaia se questo potesse indebolire lo spirito! Da quanto tempo avrei dato alla bella giovinezza l’ultimo addio! Ma quel che non mi ha turbato ancora nella vita energica, non può giammai turbarmi! Per che ragione, infatti, altri attorno a me hanno un corpo migliore e sensi più acuti? Non saranno per me sempre presenti per prestarmi un servizio amorevole, come ora? Doversi lamentare della decadenza del corpo sarebbe l’ultimo dei miei pensieri! Per che ragione dovrei preoccuparmene? Infatti, che sfortuna sarà se ora dimentico ciò che è successo ieri? I piccoli avvenimenti di una giornata sono il mio mondo? O le rappresentazioni di ciò che è singolo e reale, ricavate dalla limitata cerchia che circonda la presenza del corpo, sono l’intera sfera della mia vita intima? Chi, con la sua pusillanime sensibilità, misconosce la vocazione superiore, e per chi la giovinezza ha rappresentato un bene amorevole solo in quanto garantisce meglio quanto detto, si lamenti legittimamente della miseria della vecchiaia! Ma chi osa affermare che anche la coscienza dei grandi e sacri pensieri, che lo spirito produce da se stesso, dipenda dal corpo e che il senso per il vero mondo dipenda dall’utilizzazione delle membra esterne?

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Mi serve forse l’occhio per contemplare l’umanità, il cui nervo si indebolisce già a metà della vita? O, affinché possa amare quelli che ne sono degni, il sangue, che già ora fluisce lentamente, deve incalzare con corso più rapido attraverso gli stretti canali? O la forza di volontà, per quel che mi riguarda, dipende dalla forza dei muscoli? O dal midollo delle ossa possenti? O il coraggio dipende dal sentimento di buona salute? Coloro che sono in possesso di tali caratteristiche sono spesso ingannati: la morte si nasconde in angoli angusti, e salta su di essi d’improvviso e li attornia con riso beffardo. In cosa mi danneggia dunque la morte se so dove dimora? O forse può il ripetuto dolore, possono sofferenze molteplici, abbattere lo spirito, così che divenga incapace di orientarsi alla sua più intima e propria azione? Resistere a quelle sofferenze fa parte del suo agire e anche esse evocano nella coscienza grandi pensieri per farvi fronte. Per lo spirito non può essere un male quel che, semplicemente, ne cambia l’attività. Sì, anche negli anni della vecchiaia voglio portare uno spirito illeso, giammai deve cedermi il fresco ardimento vitale; quel che mi rende felice ora deve continuare a farlo; la volontà deve restarmi forte e la fantasia vitale, e nulla deve carpirmi la chiave magica che mi apre le porte ricche di mistero del mondo superiore, e mai mi si deve attenuare il fuoco dell’amore. Io non voglio vedere le paventate debolezze della vecchiaia; per quel che riguarda me, prometto un energico disprezzo contro ogni avversità, che non sia attinente allo scopo della mia esistenza, e giuro un’eterna giovinezza a me stesso.40 Ma non ripudio, insieme al male, anche il bene? La vecchiaia è infatti solo debolezza rispetto alla giovinezza? Cosa venerano, dunque, gli uomini nei capi canuti, anche in quelli che non portano alcuna traccia dell’eterna giovinezza, del più bel frutto della libertà? Ahimè! Spesso ciò non accade per altra ragione se non per il fatto che l’aria, che alcuni uomini hanno respirato, e la vita, che hanno condotto, furono simili a quelle di una cantina in cui un cadavere si serba per molto tempo senza vedere la decomposizione, e poi il popolo onora tali uomini come corpi sacri. Per essi lo spirito è come il prodotto della vite: seppure è di cattiva qualità, diventa comunque migliore ed è valutato meglio quando diventa vecchio. Ma no! Essi discutono addirittura molto delle autentiche virtù degli anni più maturi, della saggezza sobria, della distaccata disposizione al ragionamento, della completezza dell’esperienza e della perfezione pacata ed equilibrata nella conoscenza dell’iridescente mondo. La stimolante giovinezza sarebbe soltanto la passeggera fioritura dell’umanità; ma il suo frutto maturo sarebbe la vecchiaia e quel che essa porta allo spirito. Soltanto in essa

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l’aspetto più intimo dell’umana natura sarebbe completamente depurato mediante l’aria e il sole, portato a compimento in forma bella e significativa e disposto al godimento. Oh, barbari nordici che non conoscete il più bel clima dove frutto e fiore risplendono a un tempo e si riuniscono sempre entrambi in bella competizione! Il mondo è così freddo e ostile che lo spirito non debba innalzarsi a questa superiore bellezza e perfezione? Certo, non è possibile che ognuno abbia tutto ciò che è bello e buono, ma i talenti sono suddivisi tra gli uomini, non tra le età. Ogni uomo è una pianta diversa, ma ciascuno può fiorire e portare frutti di continuo. Ciò che si può riunire nello stesso uomo, tale uomo è in grado di averlo e conservarlo assieme; ciò può fare e ciò, anche, deve fare. In qual modo giungono all’uomo la saggezza meditabonda e l’esperienza matura? Gli sono concesse dall’alto, ed è una deliberazione superiore che egli non possa ottenerle prima di poter dimostrare che la sua giovinezza è sfiorita? Io avverto come le sto acquisendo ora; a produrle è l’azione della giovinezza e la fresca vita dello spirito. Volgere lo sguardo da tutte le parti, accogliere tutto nel senso più intimo, avere la meglio sulla violenza di singoli sentimenti affinché le lacrime, siano di gioia o di dolore, non offuschino l’occhio dello spirito e non oscurino le sue immagini, muoversi celermente da una cosa all’altra, e riprodurre insaziabilmente nell’azione anche l’operare altrui imitandolo interiormente: ecco l’energica vita della giovinezza, ed ecco il processo della saggezza e dell’esperienza. Quanto più mobile la fantasia, quanto più veloce l’attività dello spirito, tanto prima esse crescono e divengono. E quando esse sono divenute tali, l’energica vita che vi ha dato luogo non dovrebbe più adattarsi all’uomo? Le alte virtù non sono mai perfette? E se esse sono divenute tali mediante la giovinezza e nella giovinezza, non abbisognano sempre della medesima forza per svilupparsi e crescere di più? Ma gli uomini imbrogliano se stessi con vuota ipocrisia in merito al loro bene più bello, e l’ipocrisia è istituita sul profondissimo fondamento della più limitata ignoranza. Essi pensano che l’agitarsi della giovinezza sia il moto di colui che ancora cerca, e che il cercare non si adatti più a colui che è alla fine della vita; costui si dovrebbe ornare di greve quiete, venerato simbolo della perfezione, della vuotezza del cuore, segno della pienezza della comprensione; l’uomo dovrebbe addentrarsi nella vecchiaia così affinché, se sembra che continui a cercare, egli non discenda nella morte accompagnato da risa di scherno per la sua vana impresa. Solo per chi cerca quanto è scadente e volgare sia onorevole aver trovato tutto! Ciò che io voglio conoscere e possedere è infinito, e io posso determinare me stesso interamente solo mediante una serie infinita di azioni. Mai devono retrocedere da me lo spirito, che spinge l’uomo in

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avanti, e il desiderio, che non è mai soddisfatto di ciò che è stato, e va sempre verso il nuovo. Gloria dell’uomo è sapere che il suo scopo è infinito e mai fermarsi nel suo corso; sapere che nel suo percorso s’incontra un punto che lo annienta e, quando lo scorge, non mutare nulla in sé e attorno a sé e, comunque, non tardare il passo. Pertanto, si addice all’uomo di camminare sempre con la letizia serena della giovinezza. Io non mi reputerò mai vecchio, finché non raggiungerò la compiutezza; e non sarò mai compiuto perché so e voglio ciò che devo essere. Né può essere che la bellezza della vecchiaia e della giovinezza entrino tra loro in contrasto; infatti, non solo nella giovinezza cresce quello per cui si onora la vecchiaia; anche la vecchiaia, a sua volta, nutre la fresca vita della giovinezza. Certo, come tutti dicono, lo spirito giovane cresce meglio quando la matura vecchiaia se ne prende cura, così l’autentica e intima giovinezza dell’uomo si arricchisce se egli ha già raggiunto ciò che la vecchiaia garantisce allo spirito. Lo sguardo esercitato ha una visione complessiva più celere di quel che vi è; ognuno, che conosca molte cose simili, comprende le nuove più facilmente, e dev’essere più caldo l’amore che promana da un grado più alto della formazione personale. La forza e il piacere giovanile devono pertanto accompagnarmi fino alla fine. Sino alla fine voglio diventare più forte e vitale mediante ogni azione, e più appassionato attraverso ogni tentativo di formare me stesso. Voglio unire la giovinezza alla vecchiaia, affinché anche questa abbia la pienezza e sia attraversata dal calore che tutto vivifica. Di cosa gli uomini si lamentano, infatti, nella vecchiaia? Non delle conseguenze necessarie dell’esperienza, della saggezza e della cultura. Il tesoro dei pensieri custoditi può ottundere l’intelligenza dell’uomo in modo tale che né il nuovo né il vecchio lo stimoli? La saggezza, con la sua solida parola, diviene alla fine dubbio inquieto che impedisce ogni azione? La cultura è un’attività divorante che bruciandolo trasforma lo spirito in una massa morta? Ciò di cui si lamentano è solo che manca loro la giovinezza. E perché manca loro la giovinezza? Perché nella giovinezza è mancata loro la vecchiaia. L’unione sia, dunque, duplice! Già ora, nell’animo forte, vi sia l’energia della vecchiaia, così che essa ti serbi la giovinezza e che, con ciò, più tardi, la giovinezza ti protegga dalla debolezza della vecchiaia. La vita non deve esser punto suddivisa come essi fanno. Degrada se stesso chi prima vuol essere giovane e poi vecchio, chi prima lascia solo dominare ciò che gli uomini chiamano il sentimento della gioventù e poi lascia pervenire solo ciò che a essi sembra lo spirito della vecchiaia; la vita non tollera questa separazione dei suoi elementi. Ciò che in ogni età deve essere unito è una duplice attività dello spirito; e la cultura e la perfezione consistono nel fatto

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che l’uomo diventi sempre più intimamente consapevole di entrambe nella loro diversità e, con chiarezza, assegni a ciascuna il suo ufficio peculiare. La cosa suprema per la pianta è fiorire: il bel compimento della sua peculiare esistenza; la cosa suprema per il mondo è il frutto, l’involucro per il germe della generazione futura, il dono che ogni essere individuale deve offrire affinché la natura estranea lo possa unire a sé.41 Così, per l’uomo, la cosa suprema è la vivace vita della giovinezza, e povero lui quando gli si allontana, ma il mondo vuole che egli debba diventare vecchio perché maturino i frutti, e quanto prima, tanto meglio. Sistema la vita, dunque, una volta per sempre. Ciò che insegna agli uomini troppo tardi la vecchiaia, in cui il tempo li trascina violentemente con i suoi ceppi, sia già ora, per libera scelta del tuo energico volere, il tuo modo di condurti in tutto ciò che appartiene al mondo. Ovunque la fioritura della vita generi, per libero volere, un frutto, possa esso crescere a dolce godimento del mondo e giaccia, nascosto al suo interno, un prolifico germe destinato a svilupparsi un giorno in una nuova vita particolare. Quel che tu offri al mondo sia un frutto. Non sacrificare la più piccola parte del tuo essere in falsa generosità! Non lasciare che ti venga sottratto alcun germoglio, colta alcuna fogliolina che ti porti nutrimento dal mondo circostante! Non produrre nemmeno vuote fronde, informi e non commestibili, in cui, ad esempio, ti punga qualche animaletto nocivo; ma tutto ciò che non ti procura la crescita della tua costituzione o la formazione di nuovi organi sia un vero frutto, prodotto dall’intimo amore dello spirito, quale libero atto, monumento della sua vita giovanile. Quando però il frutto è concepito, fuoriesce dal dominio della vita intima, e viene dunque ulteriormente costituito secondo la legge dell’agire esterno. Se ne occupino, allora, la riflessività, la sobria saggezza e la fredda prudenza, affinché diventi realmente anche un bene del mondo ciò che l’amore ha generosamente apprestato per esso. Soppesa allora prudentemente mezzo e fine, sii cauto e avveduto con saggio timore, tieni in conto forza e lavoro, accorda grande rilievo alla tua fatica, e rimani in attesa pazientemente e assiduamente del momento propizio. Guai, se la giovinezza in me – fresca forza, che demolisce ogni cosa; facile sentimento, che desidera sempre di più – si dovesse mai occupare degli affari della vecchiaia e, per l’insuccesso nell’ambito estraneo dell’agire esterno, dovesse dilapidare la forza, privandone la vita interiore! Possono agonizzare in questo modo solo coloro che non conoscono l’intimo agire e, pertanto, fraintendendo il sacro impulso, aspirano a essere giovani nell’agire esterno. Un frutto, secondo loro, deve maturare in un istante come un fiore si dispiega in una notte; un progetto scaccia l’altro, e nes-

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suno dei due giunge a buon esito; e ogni opera intrapresa si disfa nel celere mutamento di mezzi contrastanti. Una volta che hanno dilapidato così in vani tentativi la metà bella della vita, senza aver prodotto e fatto nulla, perché il loro fine complessivo era operare e fare, allora essi maledicono l’intelligenza pronta e l’agile vita e rimane loro solo la vecchiaia, debole e squallida come dev’essere lì dove la giovinezza è scacciata e bruciata. Affinché la giovinezza non fugga via anche da me, non voglio farne cattivo uso; essa non deve servirmi per un uso improprio; io voglio tenerla entro i limiti del suo regno, così che non vada incontro ad alcun danno. Qui però essa mi deve guidare, ora e sempre, in indisturbata libertà; e nessuna legge, che può vigere solo per l’attività esterna, deve limitare la mia vita interiore. Ogni agire in me e su di me, che non appartiene al mondo, ma riguarda solo il mio proprio sviluppo, porti sempre il colore della giovinezza e prosegua, seguendo solo un impulso interno, in bella e spensierata gioia. Non lasciarti impartire nessun regolamento quando devi osservare o comprendere, quando devi addentrarti in te o fuoriuscirne! Disdegna allegramente la legge esterna e scaccia il pensiero che voglia contrassegnare con lettere morte il libero mutamento della vita. Non permettere che ti dicano che prima deve essere compiuto questo e poi quello! Prosegui, se ti garba, con passo facile: tutto vive comunque in te, e ciò che hai fatto rimane e lo ritrovi quando torni. Quando inizi questo o quello non lasciarti inquietare da quel che potrebbe discenderne! Null’altro continuamente diviene, se non tu stesso; tutto quel che puoi volere fa infatti parte di te. Non volerti limitare nell’azione! Continua sempre a vivere energicamente, non va persa alcuna forza se non quella che, senza utilizzare, reprimi in te. Non volere questo adesso allo scopo di poter ottenere quello dopo! Vergognati, o spirito libero, se qualcosa in te dovesse servire per altro; nulla in te deve essere un mezzo, una cosa ha sì tanto valore come ogni altra; così qualunque cosa diventi, diventala per se stessa. È un folle inganno credere che tu debba volere quel che non vuoi! Non permettere che il mondo ti comandi quando e cosa devi fare per esso! Prenditi gioco, con fierezza, della stolta presunzione, audace giovane, e non tollerare la pressione. Ogni cosa è tuo libero dono: deve infatti derivare dalla tua azione interna la decisione di fare qualcosa per il mondo; e non fare nulla che per te non promani, in libero amore e piacere, dall’intimo dell’animo. Non permettere che ti siano posti limiti nel tuo amore, né misura, sia di specie sia di durata! Se l’amore è tua proprietà, chi può esigerlo? Se la sua legge risiede soltanto in te, chi può comandare qualcosa? Vergognati di seguire l’opinione estranea in ciò che è sommamente sacro! Vergognati del falso pudore che gli uomini possano non comprenderti quando a chi domanda rispondi: «io amo per questa ragione». Non lasciarti turbare, qualunque cosa accada all’esterno, nel-

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la pienezza e nella gioia della vita intima! Chi vorrebbe mischiare quel che appartiene a sfere diverse ed esserne triste? Non affliggerti se non puoi essere questo e non puoi fare quello! Chi vorrebbe volgere lo sguardo, con un’aspirazione vana, verso l’impossibilità e, con occhio desideroso, verso un bene estraneo? Così libera e lieta si svolge la mia vita intima! Quando e come il tempo e il destino dovrebbero insegnarmi una diversa saggezza? Al mondo lascio il suo diritto: nell’agire esterno aspiro all’ordine e alla saggezza, alla prudenza e alla moderazione. Perché devo disdegnare quel che si offre facilmente e volentieri, e discende liberamente dal mio essere e agire interno? Chi osserva il mondo consegue senza fatica tutto ciò in ampia misura; ma, mediante l’osservazione di se stesso, l’uomo ottiene che non gli si possano far avanti scoramento e debolezza: infatti, dalla coscienza della libertà interiore e della sua azione sbocciano eterna giovinezza e gioia. Ho conquistato tutto ciò e non lo lascerò più, e così, sorridendo, vedo scomparire la luce degli occhi e il capello bianco spuntare tra i riccioli biondi.42 Nulla di quel che può accadere è in grado di affliggere il mio cuore; il polso della vita intima rimane vitale fino alla morte.

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DIE WEIHNACHTSFEIER EIN GESPRÄCH

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LA FESTA DI NATALE UN DIALOGO

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Frontespizio della prima edizione de La festa di Natale.

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La sala ospitale era ornata a festa, tutte le finestre della casa vi avevano ceduti i propri fiori, ma le tende non erano lasciate penzolare, tanto che la neve luminescente poteva rammentare la stagione. Le incisioni su rame e i dipinti dedicati alla santa festa ornavano le pareti e alcune belle stampe dello stesso tipo costituivano il regalo della padrona di casa per il suo consorte. Numerose lampade luminose, appese in alto, effondevano una luce di festa, che però allo stesso tempo sollecitava astutamente la curiosità, poiché lasciava scorgere abbastanza distintamente le cose note, ma solo lentamente e a una considerazione più scrupolosa poteva essere percepito con adeguata precisione quel che era ignoto e nuovo. In tal modo, aveva disposto ogni cosa la serena e ragionevole Ernestina1 così che l’impazienza, suscitata un po’ per celia un po’ seriamente, venisse soddisfatta solo gradualmente, e i piccoli doni variopinti rimanessero ancora un attimo cinti da un baluginio accattivante. Questa volta, infatti, tutti coloro che costituivano il gruppo strettamente coeso, uomini e donne, giovani e fanciulle, avevano affidato a lei di disporre assieme ciascuno dei doni con cui volevano dilettarsi a vicenda, e pertanto di ordinare in notevole complesso quel che, isolato, sarebbe apparso modesto. Essa ormai aveva disposto tutto. Come in un giardino invernale, tra i sempreverdi arbusti, bisogna disseppellire dalla neve o dalla coprente coltre di muschio i piccoli fiori del galanto e della viola, così il posto di ogni dono era delimitato da edere, mirti e amaranti; quanto era più delicato giaceva avvolto sotto una coltre bianca o lenzuoli colorati, mentre i doni più grandi dovevano essere cercati in giro o sotto i tavoli. Sugli involucri erano fissati dolcetti a mo’ di contrassegni, e a ognuno toccava ora scoprire l’elargitore di ciascun dono. La compagnia aspettava nelle stanze attigue e l’impazienza sollecitava con lieve pungolo il gioco nel frattempo avviato. Col pretesto d’indovinare o di svelare, ci si figurava doni per cui non sarebbe da nascondere il ricorso a piccoli errori e abitudini, a episodi divertenti, comici fraintendimenti o equivoci; e ciascuno, a

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cui era giocato un piccolo colpo del genere, non esitava a contraccambiare interamente. Solo la piccola Sofia camminava, in sé compresa, avanti e indietro con il più grande dei suoi passettini e, per coloro che si spostavano e parlavano briosamente l’un con l’altro, era quasi altrettanto in moto con la sua inquieta uniformità quanto costoro lo erano per lei. Alla fine Antonio le domandò con apparente stizza se essa per caso non avesse concesso volentieri tutti i suoi doni per un binocolo che le permettesse di vedere attraverso le porte chiuse. – «Quantomeno» – rispose Sofia – «lo farei più facilmente di te. Tu, infatti, sei di certo più egoista che curioso, e credi senz’altro che i raggi della tua prodigiosa sagacia non siano fermati da alcuna porta». Si sedette quindi nel cantuccio più oscuro e cullò la testolina assorta tra le mani. Poco dopo, Ernestina aprì la porta a cui rimase accostata. Senonché, la gaia congrega non accorse cupidamente, come ci si sarebbe aspettati, alle tavole imbandite, ma tutti gli sguardi, al centro della sala da cui si godeva di una visione complessiva, si volsero a lei. La disposizione era tanto bella, e tanto perfetta espressione del suo sentimento, che inconsciamente e inevitabilmente sentimento e occhio furono rivolti a lei. Essa rimaneva a metà nell’oscurità e, dimentica di sé, era intenta a dilettarsi delle amate forme e della lieve gioia; seppure, invero, era lei ciò da cui tutto traeva diletto. Quasi si fosse già gioito del resto, e fosse essa l’elargitrice di tutto, ci si raccoglieva attorno a lei. Il bambino abbracciava le sue ginocchia e la guardava con occhi grandi, senza sorridere ma infinitamente soave; le amiche la cingevano con le braccia; Edoardo baciò il suo bell’occhio socchiuso e, secondo quel che si addiceva a ciascuno, le furono testimoniati da tutti l’amore e la devozione più cordiali. Essa stessa doveva invitare a prender posto. – «Se ho preparato le cose in segno di gratitudine nei vostri confronti, miei cari,» – disse – «non dimenticate, ve ne prego, il quadro soffermandovi sulla cornice e considerate che ho solo onorato il giorno di festa e il vostro gioioso amore, i cui segni mi confidate. Venite orsù e ciascuno veda quel che gli è donato, e chi non è capace di indovinare giudiziosamente, lasci pazientemente che lo deridano» – Tutti presero parte al gioco. Di certo, le donne e le fanciulle associavano con grande fiducia, senza temere quasi di incorrere in errore, il donatore a ciascun dono, ma gli uomini commettevano molti errori e niente era più divertente e seccante del loro avanzare, sulla base di una supposizione, una trovata scherzosa che veniva protestando respinta loro

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come una cambiale scaduta. «Si deve ben convenire,» – disse Leonardo – «malgrado ciò legittimamente continui a infastidirci, che le donne in siffatte amene piccolezze ci superino ampiamente in acume. Come infatti i loro regali, ben più dei nostri, rivelano attraverso il loro significato la più fine attenzione e noi gioiamo di questo bel frutto del loro talento, così dobbiamo provare piacere anche per quell’altro effetto del talento, malgrado in parte ci metta in ombra». – «Troppo buono» – ribatté Federica – «ma non si tratta soltanto di un nostro talento piuttosto, se è consentito dirlo, ci viene non poco in soccorso una certa inettitudine insita in voi uomini». Voi amate molto le vie diritte, come si conviene ai detentori del potere, e i vostri movimenti, quand’anche con essi non intendete lasciar trapelare nulla, sono di una tale perspicuità rivelatrice come, ad esempio, nel gioco degli scacchi le mosse di chi non può evitare di toccare, prendendoli tra le dita, i pezzi sospetti dell’avversario e di sollevare sei volte i propri con acerba risolutezza prima di spostare». – «Sì, sì!» – replicò Ernesto ridendo di cuore e sospirando fintamente – «resta vero quel che dice il vecchio Salomone: Dio ha fatto l’uomo semplice,2 ma le donne cercano molti artifici». – «Siate pertanto consolati» – disse Carolina – «di non averci corrotto con le buone creanze moderne. Forse entrambe le cose possono essere tanto eterne quanto necessarie; e se, ad esempio, la vostra cordiale semplicità è condizione della nostra furbizia, rassicuratevi perché è d’altra parte possibile che la nostra limitatezza si rapporti allo stesso modo con i vostri maggiori talenti». Frattanto, i regali erano stati osservati più da presso, e da tutti loro erano soprattutto esaminati e lodati con sensibilità artistica i lavori propriamente femminili di ricamo e di fine cucito. Sofia aveva prima gettato uno sguardo veloce ai propri tesori, per poi andare in giro ora qua ora là tra tutti gli altri, osservando con curiosità e apprezzando con zelo tutto, ma soprattutto recuperando i frammenti ragguardevoli dei contrassegni distrutti. Lei è infatti insaziabile di dolcetti d’ogni fatta e ama possederne grandi provviste, soprattutto quando può procurarseli in questo modo. Solo dopo aver accresciuto le sue ricchezze con siffatta messe, iniziò a esaminare più accuratamente i suoi regali e, andando nuovamente su è giù, mostrava trionfalmente ognuno di essi, facendone altresì intravedere l’uso, per dimostrare così nel modo più certo la perfezione di quei doni. – «Ma sembra che non ti interessi il migliore», le ricordò la madre. – «Oh sì, cara mamma,» – disse la bambina – «mi manca ancora il coraggio di guardarlo; si tratta infatti di un libro, e non mi serve pren-

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derlo in considerazione qui: devo chiudermi più tardi nella mia cameretta per goderne lì. Ma se qualcuno – giacché non sei stata di certo tu – mi ha giocato uno scherzo serio con modelli e istruzioni per ogni tipo di ricamo, lavoro all’uncinetto e altre magnificenze, ti prometto, per quel che posso, di utilizzarli nel nuovo anno con opportuna diligenza, per il momento però non voglio ancora occuparmene» – «Sei in errore» – disse il padre – «non si tratta di ciò, poiché tu non sei ancora nelle condizioni di possedere qualcosa di simile; ma non è nemmeno un libro con il quale ritirarsi in camera per goderne secondo la sua destinazione». Essa aprì allora il regalo con il massimo interesse, correndo il rischio di far cadere una parte consistente dei suoi pezzi, ed emise un forte grido: «musica!» – sfogliando –: «oh, grande musica! Natale per la vita intera! Dovete cantare, bambini, le cose più belle». Quindi lesse i titoli delle composizioni per lo più religiose, tutte in rapporto all’amata festività, cose altamente eccellenti e in parte anche rare e antiche. Con affettuosa gratitudine, corse subito dal padre per ricoprirlo di baci. Assieme alla già citata avversione per i lavori femminili, la bambina mostra un decisivo talento per la musica; tanto limitato invero quanto grande. Il suo sentimento di certo non è limitato per nulla; prova piuttosto una sentita gioia per tutto ciò che è bello in ogni ambito di quest’arte. Solo che essa non può eseguire facilmente ciò che è difforme dalla musica in grande stile ecclesiastico. Solo raramente, il fatto che a mezza voce canticchia un motivo divertente si può semplicemente considerare segno di una disposizione d’animo gioiosa. Se però si avvicina a uno strumento e mette ordinatamente in moto la sua voce, che prematuramente inclina al basso, si tratta sempre e soltanto di quell’importante genere musicale. Essa qui è capace di render giustizia a ogni suono, ciascuno sgorga dal precedente con amore quasi senza separarsene, rimane quindi là autonomamente con adeguata forza, e poi lascia il suo posto al suono successivo, quasi accomiatandosi con bacio devoto. Quand’anche canti solo per esercitarsi, mostra tanta attenzione per le altre voci, come se fossero sentite anch’esse, ed è così coinvolta che mai qualcosa di simile a un eccesso disturba l’armonia dell’insieme. Tutto ciò non può essere indicato in altro modo, a prescindere interamente dai motivi musicali, se non osservando che essa canta con devozione, rispetta e ha cura di ogni suono con umile amore. Essendo il Natale giustamente la festa dei bambini, che essa vive in modo del tutto peculiare, nessun altro regalo poteva certo sembrarle più gradito di questo. Essa sedette un momento, assorta nella contemplazione delle note, colse i suoni nel libro e li cantò in sé silenziosamente ma con visibile

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moto dei muscoli e con gesti briosi. Saltò poi su all’improvviso, si voltò d’un tratto e disse: «smettete ora di guardare e parlare, e seguitemi di là come ospiti. Ho già acceso tutto, anche il tè è già pronto e quindi questo è il momento più opportuno. Io non ho potuto regalarvi niente, come sapete e avete visto, ma non mi è proibito di invitarvi ad assistere a uno spettacolo». Le era infatti stata posta la condizione che sarebbe stata accolta tra gli elargitori di regali appena avesse potuto offrire come primo dono un delicato lavoro privo d’errori. La cosa non le era ancora riuscita, essa però voleva rifarsi in qualche modo. Sofia possiede uno di quei piccoli teatrini artificiali, originariamente destinati, in virtù di piccole figure mobili intagliate su opportuni sfondi, alla rappresentazione della storia del giorno, la quale viene poi abitualmente sostituita quasi del tutto da una serie di inappropriati e insulsi componenti che vengono collocati per conferire al semplice meccanismo prestazioni quanto più possibili varie; e questo giocattolo essa aveva pulito, preparato, migliorato qua e là; e ora si trovava opportunamente disposto e illuminato nella sua camera. Su uno sfondo abbastanza grande erano rappresentati, con passabile abilità e in libera disposizione, e interrotti da pochi episodi, molti importanti momenti della storia esteriore del cristianesimo. Consecutivamente, si vedevano il battesimo di Cristo, il Golgota e il monte dell’Ascensione, l’effusione dello Spirito, la distruzione del tempio, e i cristiani che combattono contro i saraceni per il Santo Sepolcro, il papa in solenne corteo verso San Pietro, la morte sul rogo di Hus, la bolla papale data alle fiamme da Lutero, il battesimo dei sassoni, i missionari in Groenlandia e tra i neri, il campo di Dio a Herrnhut e l’orfanotrofio di Halle, che la fabbricatrice evidentemente aveva interpretato come l’ultima grande opera dell’amore religioso.3 Con applicazione particolare, la bambina aveva trattato fuoco e acqua e messo ben in risalto gli elementi contrastanti. I flussi scorrevano davvero e il fuoco bruciava, ed essa sapeva con grande attenzione alimentare e custodire la flebile fiamma. Tra tutti questi aspetti, posti in evidenza con nettezza, inutilmente si cercava per un po’ di tempo la Natività; infatti, Sofia aveva sapientemente cercato di nascondere la stella. Era necessario seguire gli angeli e i pastori, che erano anch’essi riuniti attorno a un fuoco; si apriva una porta esattamente sulla parete del teatrino – la casa di cui faceva parte la porta era solo una decorazione – e in una stanza, posta dunque propriamente all’esterno, si vedeva la Sacra Famiglia. Nel misero tugurio rimane tutto nell’oscurità, solo una forte luce, di cui non si scorge la provenienza, illumi-

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na il capo del Bambino e forma un riflesso sul viso reclinato della Madre. Questo mite bagliore si rapportava alle selvagge fiamme dell’esterno davvero come il fuoco celeste al terrestre. Con visibile appagamento, Sofia stimava tutto ciò sua somma creazione artistica, si riteneva pertanto un altro Correggio, e avvolgeva l’allestimento di gran segreto.4 Disse soltanto che era stata intenzionata inutilmente ad aggiungere un arcobaleno; perché Cristo, osservò, è il vero mallevadore del fatto che vita e piacere non scompariranno più dal mondo.5 Si mise poi alcuni istanti in ginocchio – la testolina raggiungeva appena la superficie del tavolo – davanti la sua opera, con lo sguardo fisso sulla piccola stanza della Natività. All’improvviso si accorse che la mamma era proprio dietro di lei; le si rivolse senza cambiare posizione e disse con commozione: «Oh mamma! Tu potresti esser bene la madre beata del bambino divino, e non soffri per il fatto di non esserlo? E non è per questo che le mamme preferiscono i maschi? Ma pensa solo alle sante donne che hanno accompagnato Gesù e a tutto ciò che mi hai raccontato di loro. Anch’io voglio di certo diventare una di loro, come lo sei tu». La madre commossa la trasse a sé e la baciò. Gli altri osservavano frattanto ora questo ora quello. Antonio stava in piedi lì davanti con atteggiamento grave. Aveva accanto suo fratello minore, al quale mostrava, spiegando con la fatuità prolissa e patetica di un cicerone tutto ciò che sapeva. Il piccolo sembrava molto attento ma non capiva niente, e tentava continuamente di afferrare le acque e le fiamme per sincerarsi che fossero vere e non si trattasse di un’illusione. Mentre la maggior parte degli ospiti erano ancora occupati in questo modo, Sofia non smetteva di rivolgersi al padre con riverenti richieste; egli dovette lasciarsi condurre con Federica e Carolina nell’altra stanza, Carolina si sedette al pianoforte e insieme intonarono l’inno: Lasset uns ihn lieben (Amiamolo) e il corale Willkommen in dem Jammerthal (Benvenuti nella valle di lacrime) e ancora qualcosa dall’eccellente cantilena natalizia di Reichardt, dove la gioia, il sentimento della salvezza e l’umile adorazione sono espresse così bene.6 Ebbero presto tutti come ascoltatori devoti e appena ebbero terminato accadde, come sempre, che la musica religiosa causò una tacita soddisfazione e un ripiegamento intimistico. Ci furono alcuni momenti di silenzio, in cui tuttavia ciascuno sapeva che l’animo di ognuno era amorevolmente proteso agli altri e a qualcosa di ancora superiore. L’annuncio del tè indusse velocemente tutti a raccogliersi nuovamente in sala, soltanto Sofia rimase ancora a lungo a esercitarsi alacremente al pianoforte, e giungeva solo ogni tanto per dissetarsi velocemente e senza prender parte alla conversazione.

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Si camminava avanti e indietro e ci si occupava ancora una volta dei regali. Solo ora, dopo che qualcos’altro era stato fatto, sembrava che fossero davvero passati in possesso dei loro nuovi proprietari, e potevano anche essere considerati e lodati imparzialmente come qualcosa di estraneo da coloro che li avevano donati. Alcune cose erano prima state trascurate da molti, soltanto adesso erano riconosciuti in alcuni regali pregi speciali. «Ma noi» – disse Ernesto – «ancora una volta abbiamo un anno particolarmente favorevole per godere dei nostri doni. Si prospetta qualche rilevante mutamento. Il regalo grazioso, con cui Agnese è stata sì riccamente onorata, i bei ninnoli per il nostro futuro arredamento, mia buona Federica, gli strumenti da viaggio per Leonardo, anche i libri scolastici per il tuo Antonio, cara Agnese, tutto rimanda a un progresso e a fausti avvenimenti, e ci anticipa vivamente le gioie del futuro. La festa stessa d’altro canto è l’annuncio di una vita nuova per il mondo, così è per noi naturale, nel modo più penetrante e gioioso, che anche nella nostra vita si risvegli significativamente qualcosa di nuovo. Ti stringo ancora una volta tra le mie braccia, come un dono di questo giorno, o beneamata! Come se tu mi fossi concessa proprio ora, con il Redentore, così mi conquista un mirabile sentimento di grande gioia. Per me può anzi essere doloroso che non tutti qui s’inginocchino devotamente, come noi, di fronte a un nuovo livello di vita; che per voi, adorati amici, non s’imponga niente di ciò che pertiene direttamente al gran tema della giornata; e che io paventi che, come i nostri doni possano sembrare soltanto privi di significato rispetto a quelli offertici da voi, così anche il vostro stato d’animo sia certo lieto e felice, ma pure meno commosso ed elevato, e quasi indifferente, rispetto al nostro». – «Caro amico, tu sei certo molto buono» – disse Edoardo – «per il fatto che dal tuo entusiasmo ti volgi a noi con tanta partecipazione, ma proprio l’entusiasmo ci spinge a troppa distanza da te. Rifletti solo che la nostra serena felicità è proprio ciò verso cui muovi e che ogni vero entusiasmo, anche quello dell’amore, è qualcosa che, non invecchiando mai, può sempre essere ridestato. O puoi forse tu pensare al sentimento di Ernestina dinanzi all’espressione di devozione infantile e profonda interiorità della nostra Sofia come a qualcosa d’indifferente; puoi credere che ciò possa avvenire senza la vitale attività della fantasia, in cui presente, passato e futuro si compenetrano? Guarda solo come è commossa nell’intimo, come s’immerge in un mare di purissima beautitudine». – «Sì, lo concedo volentieri» – disse Ernestina – «prima Sofia mi ha entusiasmato come si deve con le sue poche parole. Ma le faccio torto, le sole parole potrebbero apparire come affettazione a qualcuno che non la conosce; vi si trovava, indivisa, la

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prospettiva complessiva della bambina. Il puro animo angelico si è dischiuso così splendidamente e, se comprendete ciò che intendo dire ma non so esprimere diversamente, nella più grande immediatezza e incoscienza era posta una così profonda e fondamentale intelligenza del sentimento che sono stata subissata dalla profusione di bellezza e amabilità che deve necessariamente provenire da questo fondamento. Sento davvero che essa in un certo senso non ha ecceduto affermando, come ha fatto, che io potrei anche essere la madre dall’adorato Bambino, giacché io posso bene umilmente onorare nella figlia, come Maria nel Figlio, la pura rivelazione del divino, senza che il giusto rapporto del figlio con la madre ne sia guastato». – «Siamo tutti d’accordo» – disse Agnese – «che il cosiddetto viziare e diseducare, che ha a cuore solo se stessi e non i bambini, poiché risparmia a sé qualcosa di spiacevole, non può avere nulla a che fare con quel che tu intendi dire». – «Per quel che riguarda noi donne è certo vero,» – ribatté Ernestina – «ma ciò non si deve talora frenare esplicitamente negli uomini? Per quanto riguarda la loro peculiare occupazione, in particolare con i ragazzi, occorrono coraggio e abilità, il progredire infatti è sempre connesso allo sforzo e alla rinuncia, e spesso può essere necessario contenere il crescente amor proprio che potrebbe conferir loro un’ingiusta prospettiva, se essi non si orientassero diligentemente sul nostro comportamento e sulla nostra sensibilità materna». – «Sì, lo riconosciamo» – disse Edoardo – «che siete costituite e fatte per aver cura e sviluppare i giovani e puri germogli prima ancora che emerga o vi si applichi qualcosa di dannoso. Alle donne che si dedicano al sacro servizio, ovunque si confà di soggiornare all’interno del tempio come vestali che sorvegliano il fuoco sacro. Noi, al contrario, girovaghiamo all’esterno con aspetto austero, pratichiamo la disciplina e predichiamo la penitenza, o costringiamo i pellegrini a portare la croce e li cingiamo con la spada affinché cerchino e riconquistino un santuario perduto». – «Mi riporti» – lo interruppe Leonardo – «a un pensiero che avevo già smarrito nel flusso del vostro discorso. Riguarda la vostra Sofia, e già da un po’ di tempo sono in procinto di esprimerlo, ma ora non posso trattenerlo. La sua religiosità infantile mi tocca di certo, ma spesso al suo cospetto rabbrividisco. Quando il suo sentimento prorompe, me la figuro talvolta come un bocciolo che per un impulso troppo forte si consuma in se stesso prima di sbocciare. Per tutti i santi, cari amici, non date a questo sentimento troppo nutrimento. O non potete figurarvela, tanto vivamente come me, di un pallore esangue, forse in ginocchio davanti a un’immagine sacra, avvolta nel velo e con una sterile corona del rosario, o condurre una vita misera e fiacca, con in capo una

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disgustosa cuffietta e un abito privo di grazia, esclusa dal piacere di una vita libera e gaia, in un seminario femminile herrnhutiano?7 È questo un periodo pericoloso, molti begli animi femminili si avviano in uno di quei terribili smarrimenti che distruggono i legami familiari, e in questo modo in ogni caso vanno perse la bellissima forma e la ricchissima fortuna della natura femminile, per non dire dell’instabilità interiore senza cui una cosa del genere non può sorgere. E temo che la bambina penda molto da questa parte. Sarebbe certo una perdita irreparabile se questo animo e questo spirito fossero presi dalla rovina di un tempo in cui poche donne conservano il loro onore immacolato, se è vero quanto dice Goethe, che sempre resta una macchia a una persona che abbia rotto il suo matrimonio o cambiato religione.8 Una tale preoccupazione deve essere espressa quando riguarda un amico; ma solo una volta, e pertanto non può essere sbagliato che fino a oggi, non so come, non mi sia riuscito». – «Ti sono testimone» – disse Ernestina – «che tu non vi sia riuscito. Ho infatti notato la tua preoccupazione più di una volta; e in una di queste circostanze avrebbe di certo voluto già esprimersi. Ma non te ne domandai perché speravo ti tornasse sospetta quando avessi osservato di più la bambina e la sua interiorità ti si fosse svelata più chiaramente. Vedi, caro, io mi appello a te. Hai di certo ragione nel presupporre che al fondo vi sia sempre una stravaganza se viene compiuto un cammino di vita come quello per cui sei preoccupato. E dove la stravaganza è più facile da riconoscere che in un bambino, su cui si può essere in dubbio assai poco se qualcosa è emerso dall’interiorità o è stato apportato dall’esterno. Potresti ora individuare in lei qualcosa d’instabile, che tracimi rispetto all’età dell’infanzia? O un qualche squilibrio per cui i suoi pii impulsi reprimerebbero qualcosa di buono per lei? Io non so altro, a parte il fatto che essa ha cura di tutto ciò come di ogni altra cosa che ama e ha per lei valore. Così essa si dà a ogni moto; in ogni interesse, anche interamente infantile, la troverai sempre la stessa, ed essa si dedica alla religione con così poca vanità come fa con ogni altra cosa. Per la vanità le manca anche ogni motivo e, per quel che ci concerne, le mancherà sempre. Nessuno infatti nota particolarmente la sua tendenza religiosa; e se essa deve diventare consapevole, come è opportuno, del fatto che noi consideriamo tale disposizione tra le cose di maggior valore, da parte nostra le singole eccitazioni e la loro manifestazione non sono mai tenute in gran conto. Noi la troviamo naturale, e per lei, nei fatti, è naturale anche la

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disposizione religiosa. Quel che si palesa in questo modo, pensiamo, può essere tranquillamente rimesso alla natura».– «E, invero, con tanta maggiore sicurezza» – proseguì Edoardo in parte interrompendo – «quanto più ciò ha a che fare con la dimensione più bella e nobile. Infatti, caro amico, deve certo essere la parte giusta della cosa, l’interno, ciò che la piccola abbraccia in questo modo, infatti non ha alcuna occasione di attaccarsi alla parte puramente esteriore. Questo gioco natalizio tra qualche giorno sarà trascorso, e tu stesso sai bene che non vi è nulla di religioso in senso formale nella nostra cerchia, nessuna preghiera a un orario preciso, nessun momento stabilito per le funzioni religiose, ma tutto accade solo quando vogliamo. Sofia ci ascolta spesso parlare di cose simili, e persino cantare, che è certo quel che di gran lunga preferisce, ma senza aggiungersi a noi; tutto accade esattamente secondo il modo e il comportamento dei bambini. Essa non ha mai un particolare desiderio di andare in chiesa. A suo avviso lì si canta troppo male, e il resto non lo capisce e la annoia. Vi fosse qualcosa di forzato nella sua religiosità, o fosse incline a emulare o a lasciarsi guidare dall’autorità degli altri, non si imporrebbe di trovare bello e degno di partecipazione ciò che noi stimiamo così importante? Se ora considero ciò in armonia con la sua restante formazione, non riesco a capire come, andando avanti così, la devozione romana o anche quella herrnhutiana potrebbero attrarla. Infatti, dovrebbe prima smarrire il suo peculiare gusto, che non ha per nulla questo carattere, e la sua quasi sfrontata tendenza a distinguere, in tutte le cose, l’aspetto fondamentale da quello apparente e marginale». – «Non potrei però tollerare» – disse Carolina, prima che Leonardo riprendesse la parola – «che voi associate in questo modo la religiosità herrnhutiana con quella cattolica. Credo si debba discutere se sia la stessa cosa sotto qualche aspetto, ma non lascio certo che li uniate entrambe sotto il bel titolo della stravaganza. Voi sapete che là ho due amiche che non sono certamente stravaganti, ma dotate tanto di sentimento e retto intelletto quanto di profonda devozione». – «Cara piccola» – rispose sorridendo Edoardo – «quanto a Leonardo, quell’affermazione è da imputare all’ignoranza, in tal modo egli ripete ciò che talvolta si sente, e di certo non è mai stato in una sede herrnhutiana se non per acquistare una bella stella, per osservare una notevole fabbrica o per far visita ai bei bambini della casa delle sorelle. Io avrei invece di certo commesso un errore se avessi affermato qualcosa di tanto generico. Voglio solo benevolmente notare che la discussione non verteva sui meriti o sul carattere delle diverse chiese, ma che noi parliamo solo di Sofia, per cui l’associazione

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delle due forme di religiosità non deve sembrarti in alcun modo sospetta. Proprio perché infatti sai come stanno le cose concederai che, a prescindere dalle tue due amiche, non si possa nemmeno immaginare senza una mirabile confusione di dover richiudere una ragazza, la quale può soddisfare il proprio senso religioso in seno alla famiglia e, avendo conservato l’innocenza e la disinvoltura, non trova il mondo per nulla pericoloso, e peraltro è abituata a condurre una gioiosa attività in una vita libera, in un convento di suore. Per Leonardo, vorrei ancora aggiungere che quel che sostieni potrebbe valere per entrambi i processi allo stesso modo, nel caso in cui particolari circostanze non motivassero la cosa. Questi proseliti infatti, per quanto li conosco, non sono per nulla inclini alla religione sin dall’infanzia nel modo di Sofia. Ma come si dice delle donne civettuole e dei politici imbroglioni, che divengono devoti in età avanzata o dopo alcune sventure, così i suddetti, o almeno la maggior parte di essi, prima di diventare proseliti si occupavano delle cose in cui erano coinvolti, scienza, arte, o matrimonio, con atteggiamento interamente mondano, e trascuravano del tutto la relazione con l’Infinito. Se tale relazione si dischiude ora per loro in qualche forma, essi vi si rapportano come piccoli infanti, e alzano la mano verso la luce, si tratti solo di un fuoco divampante all’esterno o interiormente, che attrae con un potere diverso e con l’oscurità delle sue circostanze. E pertanto si può anche dire che nella loro penitenza rimane sempre qualcosa del peccato, è a dire che essi intendono addossare la colpa del loro precedente distacco e annebbiamento alla chiesa cui appartennero, come se proprio in essa non fosse stato serbato il fuoco sacro, ma fosse praticato solo un freddo formulario di vuote parole e fatue usanze inconsistenti». «Puoi aver ragione» – replicò Leonardo – «che per molti accade proprio così; ma non è certo questa l’unica fonte del male in questione. Sembra che in molti, e anche nei bambini, scaturisca direttamente dall’intimo. È davvero mirabile che io ed altri, che voi considerate privi di fede, dobbiamo mettervi in guardia e predicare di fronte a voi contro la mancanza di fede. Ma certo, la mancanza di fede è connessa alla superstizione e a tutto ciò che ne deriva. Non è necessario che io affermi al tuo cospetto, Edoardo, che io onoro e amo ciò che nella religiosità vi è di bello; ma essa deve essere e rimanere qualcosa di interiore. Quando essa vuole riversarsi all’esterno e determinare particolari rapporti della vita, ne sorge la cosa più detestabile, l’orgoglio spirituale, che alla fine non è altro che la superstizione più bizzarra e folle. Rammenta, Edoardo, che ne abbiamo parlato di recente e tu sei riuscito a trovare a fatica entro il cosiddetto ceto spirituale considerato nel suo insieme, che per ragioni d’ufficio conosci ampia-

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mente, un paio di esempi d’individui che non fossero stati corrotti da ciò. Persino i laici, tra i cattolici, si procurano ora la stessa ebrezza per mezzo delle loro opere pie le quali, appunto, hanno soltanto un valore esterno. E anche la tua piccola, a quanto pare, ha bevuto un sorso dalla stessa coppa, cosa che per un bambino non rappresenta certo un male. Le si conceda pertanto e si abbia cura di mantenere l’ambizione di diventare una santa donna; ma con tale ambizione dove vuol capitare se non in un convento o tra le suore? Noi altri, infatti, non facciamo in modo opportuno cose simili nel mondo. Ora la devozione per il Cristo bambino espressa giocando, l’adorazione dell’aureola, che essa stessa gli ha fatto, non sono forse il germe assolutamente indubitabile della superstizione? Questa non è propriamente idolatria? Vedete, cari amici, è questo che di certo, se non lo ridimensionate, finirà in qualcosa d’irrazionale. Ma vi sono tracce molto evidenti che siete tanto lontani dal ridimensionare la sua ambizione da dare alla bambina persino la Bibbia. Voglio sperare che ciò non sia perché ne faccia liberamente uso, ma sarebbe uguale se voi leggete il libro al suo cospetto o se la mamma le racconta storie tratte da essa. Ciò che è mitico non può che attrarne la fantasia, e non possono che fissarvisi mirabili immagini sensibili, accanto a cui non può prendere posto alcun sano concetto; una lettera consacrata è assisa sul trono, nella quale l’indomito arbitrio, che domina il bambino, introduce ciò che non vi è mai stato; il miracoloso alimenta immediatamente la superstizione; la mancanza di connessione accresce ogni illusione del proprio fanatismo e ogni inganno di un sistema acquisito. In verità, in un periodo in cui i predicatori zelanti si gloriano dal pulpito di farne a meno quanto più possibile, riporre nuovamente la Bibbia nelle mani dei bambini per cui non fu scritta è la cosa peggiore; e per loro sarebbe meglio, per punirli con le loro stesse parole, che una pietra da mulino fosse legata al loro collo e venissero annegati nel punto in cui il mare è più profondo piuttosto che la Bibbia fosse destinata ai piccoli come motivo di scandalo.9 Come la mettiamo se Sofia accoglie in sé, assieme alle altre fiabe, la storia sacra? È altrettanto dannoso, specialmente per l’altro sesso, sia che le fiabe vengano equiparate al valore della Bibbia sia che il valore della Bibbia venga ridotto a quello delle fiabe. Un ragazzo ne viene fuori prima; e nel caso che con lui le cose fossero andate male, basterebbe lasciare che studi teologia per un anno e ciò lo risanerebbe di certo». «Devo soltanto» – disse Edoardo – «dopo aver aspettato che il discorso finisse, difendere il nostro Leonardo di fronte a voi che ancora non lo conoscete, affinché il suo discorso non vi appaia più empio di quanto sia. In verità, egli non è così profondamente immerso nell’incredulità e ha poco in comune con i nostri illuministi di cui si considera parte. Solo che

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al riguardo non ha ancora fatto interamente chiarezza in se stesso, e pertanto continua a mischiare celia e serietà tanto mirabilmente che non tutti sono in grado di distinguerli. Volessimo considerare tutto ciò che ha detto serio, egli si prenderebbe certo gioco di noi non poco. Voglio esclusivamente attenermi alla celia, amico caro. Per le cose serie è sufficiente quanto detto prima. Lascia quindi che ti racconti e non spaventarti troppo. Sì, la bambina coglie davvero alcuni contenuti della Bibbia esattamente come sono esposti. Così Giuseppe è stato presentato anche a lei solo come il padre putativo di Gesù Cristo; è già trascorso un anno e forse più da ciò che racconto; in quell’occasione, la madre rispose alla domanda della bambina su chi allora fosse il vero padre di Gesù dicendo che non ha altro padre che Dio; sostenne allora Sofia che, fosse pure Dio anche il suo di padre, essa non avrebbe potuto rinunciare a me, e che doveva già far bene parte della sofferenza di Cristo non aver un vero padre, essendo meraviglioso averne uno. Poi si mise ad accarezzarmi e a giocare con i miei capelli. Da ciò puoi intendere quanto saldamente essa si attenga già alla dogmatica e quale mirabile inclinazione abbia a diventare martire per la fede nell’immacolata concezione. Ancor più, essa coglie davvero la storia sacra in qualcosa come una fiaba. Infatti, appena se ne è costituita un’idea, se in singoli momenti la fanciulla ha la meglio sulla bambina, dubita talvolta anche sulla peculiarità ed effettività di tale storia e si domanda se ciò sia vero anche in senso letterale. Lo vedi, è sufficientemente profonda e si avvicina alla spiegazione allegorica di alcuni Padri della Chiesa». – «Lo scherzo normalmente mi dà il coraggio di aggiungere qualche parola» – disse Carolina – «vorrei riconoscere che essa ha davvero fatto l’aureola sul Cristo bambino, e presto disegnerà, dipingerà e, se possibile, modellerà il Bambino e la Madre, a dispetto e scandalo di tutti gli artisti irreligiosi. Essa, infatti, già ora scarabocchia spesso questi schizzi in parte spensieratamente mentre scrive e legge, il che palesemente è cattolico in senso ancora peggiore. Seriamente, però, ora torno a ridere di Leonardo e della sua preoccupazione, infatti in questo modo ne viene meno il motivo. Voi, non sostenete forse che i migliori hanno aderito a quella Chiesa perché essa sarebbe concorde con le arti? Ora, Sofia ha già realizzato la concordia con le arti a modo suo, non avvertirà pertanto alcun bisogno di aggregarsi a un altro ordine religioso che spesso si presenta tanto bizzarro e privo di gusto» – «Ah,» – disse Leonardo in modo apparentemente irruento – «se perfino le fanciulle vogliono confondermi, lo sarò di certo del tutto. Per quel che credo, dal momento che applica l’arte alla religione, essa preferisce diventar cattolica, mentre io non vi aspiro affatto. Come cristiano infatti sono mol-

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to avverso all’arte, come artista sono molto avverso all’atteggiamento cristiano. A me non piace la rigida Chiesa da Schlegel descritta nelle sue algide stanze e non mi piacciono nemmeno le povere questuanti e gelide arti, appagate di trovare un impiego.10 Se queste non vivono per sé eternamente giovani ricche e indipendenti, costituendosi il proprio mondo come indiscutibilmente si sono costituite l’antica mitologia, io non reclamo alcuna parte in esse. Esattamente per questo, la religione, comunque la si consideri, mi si presenta debole e sospetta quando voglia sorreggersi principalmente sulle arti». – «Attento Leonardo» – disse Ernesto – «che essa, in un momento inopportuno, non ti rammenti le tue stesse parole. In un recente scambio non ci hai detto che arte e vita sarebbero tanto poco in contrasto come vita e scienza, che una vita colta sarebbe un’opera d’arte in senso proprio, una bella esibizione, l’unione immediata di scultura e musica?11 Ora diranno che tu non vuoi nemmeno che la vita debba essere dedicata alla religione, o debba lasciarsi entusiasmare da essa, e la religione non dovrebbe essere in nessun altro luogo se non nelle parole donde voi talvolta la traete, utilizzandola per cause disparate». – «Non intendiamo dire ciò» – ribatté Ernestina – «da tempo ne abbiamo a sufficienza della disputa inutile, che ci annoia perché non possiamo condividere il piacere della disputa per se stessa». – «E noi» – aggiunse Edoardo – «conveniamo senz’altro con questo bel pensiero che si esprime in modo così significativo in questo preciso momento della vita. Cos’altro è, infatti, la bella usanza dello scambio dei regali se non la nitida esibizione della gioia religiosa che, come sempre fa la gioia, si esplicita nel pensare bene, nel donare e nel servire spontanei e, qui in particolare, riproduce con piccoli doni il grande regalo di cui tutti gioiamo egualmente. Quanto più questo atteggiamento interiore emerge puro in tutto, tanto più il nostro sentimento ne è toccato. E per questo, cara Ernestina, noi eravamo tanto deliziati questa sera dalla disposizione da te scelta, perché con essa hai espresso in modo del tutto adeguato il nostro sentimento natalizio; il ringiovanimento, il ritorno allo stato d’animo dell’infanzia, la lieta gioia per il nuovo mondo, per cui siamo riconoscenti al Bambino celebrato, tutto ciò si stagliava nella luce crepuscolare, nell’ambiente decorato con piante e fiori, nel desiderio contenuto». – «Di certo» – disse Carolina – «ciò che noi sentiamo in questi giorni è in modo così puro la devota gioia per la cosa stessa, che mi dà dispiacere la precedente esternazione di Ernesto secondo cui essa potrebbe essere accresciuta da alcune piacevoli occasioni o dalle aspettative della vita esteriore. Né, a dir la verità, Ernesto diceva sul serio, e ciò che sostenne a proposito del significato dei nostri piccoli doni ha il suo valore non in ciò a cui essi si riferiscono, ma in generale solo nel fatto che si rife-

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riscono a qualcosa, nel fatto che in essi si trova l’intenzione di rallegrare, e pertanto la dimostrazione di quanto portiamo perspicuamente in mente l’immagine di ogni amico caro. Il mio sentimento, per lo meno, distingue in modo molto netto quella gioia superiore e più universale da questa vivacissima partecipazione a ciò che si fa incontro o sta di fronte a tutti voi, cari amici; e vorrei anzi dire che quest’ultima è intensificata dalla prima. Se quel che è bello e dona felicità ci sta di fronte in un tempo in cui noi siamo consapevoli nel modo più intimo di ciò che è grande e bello in sommo grado, quest’ultimo entra in relazione con l’altro e, in rapporto alla grande salvezza del mondo, tutto ciò che è caro e buono acquisisce un significato maggiore. Sì, avverto ancora vividamente, come ho già fatto tempo fa, che anche di fronte al più profondo dolore quella gioia fiorisce in noi senza ostacoli e che essa, anzi, purifica e acqueta quel dolore senza esserne contaminata, tanto è originaria e immediatamente fondata su ciò che è immutabile». – «Anch’io,» – disse Edoardo – «che secondo la precedente valutazione di Ernesto, sarei probabilmente il meno felice tra noi, avverto in me un piacevole eccesso di pura letizia, che di certo si imprimerebbe in tutto. È uno stato d’animo con cui potrei sfidare il destino, o se ciò suona sacrilego, vorrei per lo meno pormi coraggiosamente di fronte a ogni sua richiesta; e un siffatto stato d’animo bisognerebbe augurarlo a ciascuno. Credo tuttavia di dovere la piena coscienza e il giusto godimento di questo stato d’animo in parte anche alla nostra piccola, che prima ci ha introdotto alla musica. Ogni bel sentimento infatti si presenta a buon diritto nella sua compiutezza solo quando abbiamo trovato il suono adeguato a esso; non la parola, che può solo essere un’espressione mediata, un elemento plastico, se posso esprimermi così, ma il suono in senso proprio. E proprio con il sentimento religioso la musica è imparentata nel modo più intimo. Si discute estesamente di come si potrebbe sostenere di nuovo l’espressione comune di quel sentimento; ma quasi nessuno riflette sul fatto che la cosa migliore in tal senso sarebbe se si fosse in grado di porre nuovamente il canto in un rapporto più giusto con la parola. Ciò che la parola ha reso chiaro, il suono deve rendere vivo, trasmettere immediatamente, e mantenere in tutta l’esistenza interiore come armonia». – «Nessuno d’altro canto negherà» – aggiunse Ernesto – «che la musica consegue la propria perfezione solo nell’ambito religioso. Il genere comico, che esiste solo come semplice contrasto, lo conferma più di quanto lo confuti, e quasi non si può dar vita a un’opera senza una base religiosa, e lo stesso potrebbe valere per ogni opera d’arte superiore fatta di suoni; infatti nessuno cercherà lo spirito dell’arte in artifici marginali». – «Questa più intima parentela» –

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disse Edoardo – «consiste nel fatto che soltanto nell’immediata relazione con ciò che è supremo, con la religione, e con una determinata forma di essa, la musica, pur senza essere legata a un singolo fatto, ha sufficiente consistenza da essere comprensibile. Il cristianesimo è un unico tema rappresentato in infinite variazioni, che una legge interiore tuttavia connette, e che cadono sotto determinati caratteri universali. È certo anche vero, come qualcuno ha sostenuto, che la musica ecclesiastica non potrebbe rinunciare al canto, ma ad alcune parole di sicuro.12 In un Miserere, in un Gloria, in un Requiem, a che servono le singole parole? Ciascuno di essi è sufficientemente comprensibile per il proprio carattere; e nessuno sosterrà che gli è sfuggito qualcosa per il fatto di non aver colto le parole in sottofondo. Pertanto, dobbiamo ancorare saldamente entrambi, cristianesimo e musica, l’uno all’altro, perché si trasfigurano e innalzano reciprocamente. Gesù fu accolto dal coro degli angeli, così noi lo accompagniamo con suoni e canti fino al grande Alleluia dell’ascensione.13 – «Sì, di certo,» – disse Federica – «il suono più religioso è quello che penetra il cuore con maggior sicurezza» – «E la religiosità che canta» – aggiunse Carolina – «è ciò che s’innalza al cielo nel modo più magnifico e diretto. Niente di casuale, niente di particolare ferma la religiosità e il canto. Ciò che Edoardo dice mi rammenta qualcosa che ho letto da poco tempo; voi indovinerete presto chi riguarda. La musica non piange e non ride mai, così recitavano le parole, su singoli avvenimenti ma sempre e solo sulla vita stessa». – «Vogliamo aggiungere, nel nome di Jean Paul,» – disse Edoardo – «che i singoli avvenimenti sarebbero per la musica soltanto note transitorie, mentre il suo vero contenuto sarebbe costituito dai grandi accordi dell’animo che meravigliosamente, e mutando nelle più diverse melodie, si risolvono sempre, di certo, nella stessa armonia, in cui bisogna distinguere soltanto tra maggiore e minore, maschile e femminile».14 «Vedete» – interruppe Agnese – «torniamo ancora al mio precedente discorso. Ciò che è singolo e personale, sia esso futuro o presente, esprima gioia o dolore, può dare o togliere sì poco a un animo guidato da sentimenti devoti come le note transitorie, che lasciano solo deboli tracce, affettano il corso dell’armonia». – «Ascolta, Edoardo,» – interruppe frettolosamente Leonardo – «è troppo difficile per me accettare la vostra quiete e rassegnazione e devo lamentarmene con te. Soffri» – proseguì abbassando la voce – «che Agnese, la quale vive nella più bella e beata speranza, possa dire ciò?» – «Perché no?» – rispose Agnese stessa – «l’elemento personale non è passeggero anche qui? Un neonato non è esposto alla maggior parte dei pericoli? La fiamma ancora instabile non è facilmente spenta anche dal più lieve soffio di vento? Ma l’amore materno è l’eterno in noi, l’ac-

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cordo fondamentale della nostra essenza». – «Ti è dunque indifferente» – domandò Leonardo – «se puoi educare tuo figlio secondo ciò in cui credi o se ti viene strappato nel primo difficile periodo della vita?» – «Indifferente?» – ribatté lei – «chi lo dice? Ma la vita intima, il controllo dell’animo non andrà perduto per questo. E credi per caso che l’amore si rivolga a ciò per cui noi possiamo educare i bambini? Cosa possiamo formare noi? No, l’amore si rivolge a ciò che è bello e divino, ciò che noi crediamo già presente in essi, quel che ogni madre ricerca in ogni moto, non appena l’anima del bambino si manifesta». – «Vedete, miei cari,» – disse Ernestina – «in questo senso, ogni madre è Maria. Ognuna ha un bambino divino eterno, e devotamente vi cerca i moti dello spirito superiore. E nessun destino porta in tale amore una distruzione dolorosa, e nemmeno vi sboccia la dannosa erbaccia della vanità materna. Le profetizzi il vegliardo che una spada le trapasserà l’anima,15 essa non farà altro che meditare le parole nel suo cuore. Gioiscano gli angeli e i saggi giungano in adorazione,16 essa non ne trarrà motivo di autocelebrazione, ma rimarrà sempre in umile devoto amore». – «Se tutto ciò non fosse stato espresso in voi in modo così amabile da non poterlo voler ferire,» – disse Leonardo – «ci sarebbe molto da obiettare. Se tutto, in effetti, andasse in questo modo, voi sareste veramente le eroine di questo tempo, le sue care idealiste sognatrici con il vostro disprezzo per ciò che è particolare e reale, e si dovrebbe lamentare che la vostra comunità non sia più forte, e che voi non abbiate figli davvero valenti, abili nelle armi e adatti al servizio militare. Voi dovreste essere le vere spartane cristiane. Ma seppure non fosse così, state bene in guardia, possono essere pronte per voi altre prove che dovete sostenere. I preparativi sono già fatti. Un grande destino si aggira, incerto, nelle nostre vicinanze con passi sotto cui la terra trepida, e noi non sappiamo come ci possa cogliere.17 Speriamo che la realtà non si vendichi con orgoglioso potere del vostro umile disprezzo!» – «Caro amico» – rispose Ernesto – «difficilmente le donne rimarranno indietro a noi riguardo a ciò. E l’intera prova, per quel che mi pare, non è troppo difficile. Quel che ci appare da lontano come una grande immagine di miseria, da vicino si frantuma in molte piccolezze, la grande immagine scompare e, per quanto riguarda i particolari, si tratta sempre di alcune di queste piccolezze, e si è facilitati dalla somiglianza con quel che è intorno. Quel che deve guidarci in queste occasioni non è ciò che dipende dalla vicinanza e dalla lontananza, ma proprio quello che non cade nel territorio delle donne». Sofia era frattanto rimasta la maggior parte del tempo al pianoforte per familiarizzare con i tesori appena ricevuti, di cui ancora ignorava una

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parte, ma anche della parte conosciuta intendeva volentieri salutarne qualcuno come sua proprietà. Proprio a questo punto, la si sentì intonare con voce particolarmente alta un corale da una cantata: “Colui che ci ha donato il figlio per la vita eterna, come potrebbe privarci di tutto il resto?”, a cui si connetteva una magnifica fuga.18 “Poiché ho soltanto te, non domando nulla né al cielo né alla terra”.19 Non appena ebbe finito di cantare, chiuse lo strumento e tornò in sala. – «Guardate!» – disse Leonardo che la vide giungere – «la nostra piccola profetessa! Ma vorrei sentire in che misura essa appartiene già a voi. Dimmi piccola,» – le si rivolse raggiungendola con la mano – «tu sei di certo più allegra che triste». – «Io non sono né l’uno né l’altro» – rispose lei – «Non sei contenta dopo aver ricevuto così tanti bei regali? Questo, di certo, è il servizio reso dalla musica seria! Ma tu non hai ben capito cosa intendevo; chiedevo, sicuramente in modo superfluo, cosa in generale preferissi essere tra i due, allegra o triste?» – «Già, è difficile da dire» – ribatté Sofia – «non mi piace particolarmente essere né l’uno né l’altro, ma preferisco sempre essere ciò che sono ogni volta». – «Torno ancora una volta, piccola sfinge, a non capire, in che modo tu intenda quel che dici?». – «Io» – disse Sofia – «non so altro a parte il fatto che allegria e tristezza talvolta si integrano e si combattono così mirabilmente e io sento molto bene, come mi ha detto anche la mamma, che in ciò vi è qualcosa di assurdo e sbagliato, per cui non mi piace». «Quindi» – chiese ancora – «se tu sei solo uno dei due, allora è uguale per te essere allegra o triste». – «Dio ce ne liberi, io preferisco essere ciò che sono, e ciò che preferisco essere non mi è certo indifferente. Oh, mamma,» – proseguì, rivolta a Ernestina – «aiutami! Egli mi domanda cose molto strane, e io non capisco proprio ciò che davvero intenda. Che chieda agli adulti, i quali lo comprenderanno meglio». – «In effetti,» – disse Ernestina – «io non credo, Leonardo, che con lei procederai molto, giacché essa non è ancora capace di piena coerenza con la sua vita» – «Non lasciare che ti distraggano da questo tentativo;» – lo confortò Ernesto sorridendo – «il catechizzare rimane sempre un’arte bella, di cui si ha bisogno in tribunale come in qualsiasi altro luogo. E di certo, vi si impara anche sempre qualcosa, se non si è iniziato in modo del tutto sbagliato». – «Ma se non dovesse mai sentire» – disse Leonardo evitando il sarcastico Ernesto e rivolto a Ernestina – «se sta meglio in condizioni allegre o tristi?» – «Chi lo sa!» – rispose quella – «cosa ne dici tu, Sofia?» – «A dire il vero, mamma, non lo so proprio, può andarmi molto bene in entrambi i casi e ora sto benissimo senza trovarmi in nessuno dei due. Solo che le sue domande mi spaventano, e io non sono capace di rammentare tutto ciò che è

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passato». E con ciò baciò la mano alla mamma e si avviò nella parte opposta della sala nella semioscurità, dove solo alcune delle lampade erano ancora accese, per i suoi doni di Natale. – «Essa ci ha in ogni caso mostrato nitidamente» – disse Carolina a bassa voce – «quale sia il sentimento dell’infanzia, senza cui non si può accedere al regno di Dio;20 esattamente questo: tenere per sé e voler avere in modo puro e totale ogni stato d’animo e ogni sentimento». – «Bene,» – disse Edoardo – «solo che lei non è una semplice bambina, e questo non è l’unico sentimento dell’infanzia; essa è piuttosto una fanciulla». – «Bene,» – proseguì Carolina – «ciò dovrebbe pur valere anche per noi, e io vorrei solo dire che i lamenti dei giovani e degli anziani che si odono così spesso, soprattutto in questi giorni di gioia infantile, ovvero che essi ora non potrebbero più gioire come nei loro anni d’infanzia, non provengono certo da coloro che hanno avuto una tale infanzia. Ancora ieri dovevo meravigliarmi della sorpresa di alcuni, semplicemente in numero più consistente, con cui avevo affermato che io sono ancora capace di una gioia altrettanto vivace». – «Sì, e la poveretta» – scherzò Leonardo – «è considerata vanitosa proprio da quel tipo di persone, mentre essa non fa altro che gioire davvero infantilmente per qualcosa di fanciullesco. Ma concedi sia pure così, bella bambina; tali avversari sono, per questa ragione, quelli cui la natura ha assegnato una seconda infanzia alla fine della vita, affinché a essi, quando raggiungano questo obiettivo, venga elargito ancora un ultimo sorso dal calice della gioia, a conclusione di un tempo lungo, miserevole e infelice». – «Questo è molto più serio e tragico che scherzoso» – disse Ernesto. – «Io per lo meno non conosco quasi nulla di più terribile del modo in cui una grande massa di esseri umani deve necessariamente perdere i primi oggetti della gioia infantile, e del modo in cui essi, incapaci di raggiungere gli oggetti più elevati, stiano indifferenti di fronte al bello sviluppo della vita e afflitti dalla noia – non so se bisogna dire assistere o partecipare, giacché tutto è troppo per la loro pura inattività – fin quando, giunti alla fine, sorge dal nulla una nuova infanzia, che però si rapporta alla prima come un nano ributtante a un bel fanciullo amabile o come l’instabile vacillare di una fiamma che sta per spegnersi si rapporta al chiarore di una fiamma appena accesa che, attecchendo, muta in modi molteplici». – «Solo nei confronti di una cosa» – disse Agnese – «vorrei sollevare ancora un’obiezione. Devono quindi i primi oggetti infantili della gioia andare persi affinché se ne ottengano di più elevati? Non dovrebbe esserci un modo di ottenere questi senza smarrire quelli? La vita inizia con una pura illusione in cui manca ogni verità e non vi è niente che permanga? Come reputi tu la cosa? Le gioie dell’uomo, che è giunto alla riflessione su se stesso e sul mondo, che ha tro-

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vato Dio, iniziano con la disputa e la guerra, con lo sterminio, non del cattivo, ma dell’innocente? Così, infatti, noi designiamo sempre ciò che è infantile o anche ciò che è puerile, se preferite. O deve il tempo, con non so io quale veleno, avere già in precedenza ucciso le prime, originarie gioie della vita? E il passaggio da uno stato agli altri non avverrebbe ancora attraverso un nonnulla?» – «Non lo si può certo chiamare un nonnulla» – irruppe Ernestina – «ma lo sembra, e loro ammettono anche che gli uomini, si potrebbe ben dire soprattutto i migliori, tra l’infanzia e la loro migliore esistenza conducono una stravagante vita desolata, in modo passionale e intricato. Tale vita sembra come una continuazione della loro infanzia, le cui gioie mostrano anche una natura violenta e distruttiva; ma anche nella loro instabile irrequietudine mostrano come un titubante e sempre mutevole lasciar andare e volere trattenere, di cui non capiamo niente. In noi le due istanze si uniscono impercettibilmente. In quel che, nei giochi dell’infanzia, ci attrae, sta già la nostra intera vita, in ciascuno di quei giochi si manifesta gradualmente il significato superiore; e quand’anche comprendiamo Dio e il mondo a modo nostro, esprimiamo i nostri sommi e dolcissimi sentimenti sempre allo stesso modo anche in amabili piccolezze, in ogni mite apparizione che per prima ci ha fatto familiarizzare con il mondo». – «Così» – disse Edoardo – «uomini e donne avrebbero persino nello sviluppo della dimensione spirituale, che dovrebbe essere in entrambi lo stesso, il loro modo particolare per unirsi, anche in ciò, attraverso la reciproca conoscenza. Sì, può certo essere, e per me è del tutto convincente che il contrasto dell’inconscio e del conscio emerga in noi in modo più forte, e si manifesti durante il passaggio in quella inquieta tensione, in quella battaglia passionale con il mondo e con se stessi. Invece, nel vostro essere sereno e leggiadro vengono in luce la continuità di entrambe le disposizioni e la loro intima unione, e la santa serietà e l’amabile gioco sono ovunque una cosa sola». – «Ma allora,» – ribatté Leonardo, sorridendo scherzosamente – «in modo abbastanza sorprendente, noi uomini saremmo più cristiani delle donne. Il cristianesimo infatti fa ovunque riferimento a una conversione, a una trasformazione del modo di sentire, a un nuovo attraverso cui il vecchio deve essere eradicato.21 Tutto ciò, se il precedente discorso è vero, per voi donne, escluse poche maddalene, non sarebbe punto necessario». – «Ma nemmeno Cristo» – replicò Carolina – «si è convertito. Esattamente per questo egli è sempre stato anche il protettore delle donne e mentre voi siete solo entrati in conflitto per lui, noi lo abbiamo amato e venerato. Ora cosa potresti obiettare se attribuissimo il senso

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vero al logoro detto secondo cui noi rimarremmo sempre bambine? Voi, al contrario, dovreste prima convertirvi, per tornare a essere tali?» – «E per quel che ci riguarda,» – aggiunse Ernesto – «cos’altro è la celebrazione dell’infanzia di Gesù se non il chiaro riconoscimento dell’unione immediata del divino con l’infantile, per cui non è più necessaria alcuna conversione. Anche Agnese ci ha già palesato prima come punto di vista generale di tutte le donne che esse presuppongono e cercano sin dalla nascita il divino nei loro bambini, come la Chiesa fa in Cristo». – «Proprio questa festa» – disse Federica – «è la più nitida e migliore dimostrazione che essa per noi ha il valore prima descritto da Ernestina». – «In che senso?» – domandò Leonardo. «Perché qui» – rispose lei – «in piccoli tratti né ignoti né dimenticati si può tuttavia scrutare la natura della nostra gioia, per vedere se ha subito molte trasformazioni improvvise. Non sarebbe nemmeno necessario domandarci una risposta in coscienza; giacché la cosa parla da sé. È abbastanza noto che donne e fanciulle siano ovunque l’anima di queste piccole feste, quelle che più se ne occupano, ma anche che le apprezzano nel modo più puro e gioiscono in sommo grado. Se fossero lasciate a voi, scomparirebbero presto, solo grazie a noi diventano una tradizione eterna. Ma non potremmo avere anche solo la gioia religiosa? E non l’avremmo se l’avessimo trovata in seguito come qualcosa di nuovo? Ma tutto si riconnette ancora come negli anni precedenti. Già nell’infanzia abbiamo attribuito a questi doni un significato particolare; essi ci importavano di più dei doni di altri momenti. Solo che allora era un misterioso e oscuro presentimento quel che poi è emerso gradualmente in modo più chiaro, ma continua ad apparirci di preferenza nella stessa forma e non vuole rinunciare all’abituale simbolo. Sì, per la precisione con cui i piccoli bei momenti della vita ci rimangono nel ricordo, si potrebbe mostrare gradualmente questa emergenza di ciò che è superiore». – «Veramente,» – disse Leonardo – «eseguito bene e vivacemente come sapete, se voleste descriverci le vostre gioie natalizie con le loro cose degne di considerazione, ciò dovrebbe produrre una bella serie di piccoli quadri, e ne gioirebbe anche chi non prendesse parte in maniera particolare allo scopo immediato». – «Come sa dire educatamente» – esclamò Carolina – «che egli ne sarebbe annoiato!» – «Certamente,» – disse Ernestina – «la cosa così sarebbe troppo meschina anche per chi volesse mettersi ancora più a servizio delle

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donne, e per chi avesse davvero ancora più l’intelligenza della questione. Ma chi sa raccontare qualcosa del genere, particolarmente degno di nota, che sia in rapporto alla nostra conversazione, lo faccia, e si colleghi a un simile tratto della mia prima infanzia che io voglio raccontarvi anche se forse alcuni di voi potrebbero conoscerlo». Federica si alzò e disse: «voi sapete che io non sono solita raccontare così, voglio però fare qualcosa di diverso che vi faccia piacere, andrò al pianoforte e accompagnerò i vostri racconti. Ascolterete così qualcosa anche da parte mia e lo farete con il vostro più fine ed elevato orecchio». Ernestina iniziò. «Molteplici tristi circostanze, a casa, avevano preceduto la gioiosa festa, situazioni che si erano risolte abbastanza bene solo qualche tempo prima. Ci si era pertanto preoccupati meno, e senza l’abituale amore e dedizione, della gioia dei bambini. Era questa l’occasione favorevole per dar soddisfazione a un desiderio che avevo manifestato, ma invano, già un anno prima. Allora, infatti, si tenevano ancora nelle tarde ore della sera le cosiddette messe di Natale, che proseguivano, ora con discorsi ora con canti, di fronte a un’irrequieta e non propriamente devota assemblea, fin quasi a mezzanotte. Dopo alcune esitazioni, io potevo, accompagnata dalla ragazza di camera della mamma, andare in chiesa. Non sarei in grado di ricordare facilmente un clima di questo periodo tanto mite come quello di allora. Il cielo era chiaro e la sera, davvero, quasi tiepida. Nei paraggi del mercato di Natale, ormai quasi dismesso, si aggiravano grandi schiere di ragazzi con gli ultimi pifferi, uccellini e raganelle, venduti a prezzo conveniente, e si spostavano velocemente e rumorosamente sulle vie che conducevano a diverse chiese. Solo in prossimità delle chiese si sentivano l’organo e poche voci di bambini e adulti che lo accompagnavano disordinatamente. Malgrado un consistente dispendio di lampade e candele, gli antichi e iscuriti pilastri e muri non volevano essere rischiarati, e io potevo distinguere solo a fatica singole forme, che non avevano niente di piacevole. Ancor meno poteva sollecitarmi a prender parte alla funzione il sacerdote con la sua voce querula; io, pertanto, del tutto insoddisfatta intendevo pregare la mia accompagnatrice di ricondurmi indietro, ma mi guardai ancora una volta attorno. Scorsi in un punto una

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donna, seduta su una sedia sotto un bel monumento antico, con un piccolo bambino al seno. Sembrava prestare poca attenzione al predicatore, ai canti e a tutto ciò che le stava attorno, e pareva profondamente immersa nei suoi pensieri e i suoi occhi erano fissi sul bambino. Mi attrasse irresistibilmente, e la mia accompagnatrice dovette condurmi da essa. Avevo qui all’improvviso trovato la santità che avevo cercato tanto a lungo inutilmente. Stavo di fronte alla più nobile immagine che avessi mai visto. La donna vestiva abiti semplici, il suo grande elegante decoro trasformava la sedia aperta in una cappella chiusa; nessuno si trovava nelle vicinanze e ciononostante sembrava che essa non avesse notato neanche me che le stavo immediatamente di fronte. Il suo viso mi pareva ora sorridente ora malinconico, il suo respiro ora gioiosamente tremante ora faticosamente alternato a lieti sospiri, ma l’impressione prodotta dal complesso era di amichevole serenità, un’amorevole devozione, nobilmente irradiata dal grande occhio nero rivolto verso il basso, che le ciglia mi avrebbero nascosto interamente se fossi stata un po’ più alta. Allo stesso modo mi apparve anche straordinariamente amabile il bambino; si muoveva vivacemente ma silenziosamente, e mi sembrava assorto in un dialogo, in parte inconsapevole, d’amore e nostalgia con la madre. Ora mi trovavo di fronte a forme viventi quali belle immagini di Maria e del Bambino; e mi sprofondavo così in questa fantasia che trassi quasi senza intenzione a me la veste della donna, e le domandai con voce commossa e trepidante: posso donare qualcosa all’amabile bambino? e riversai sui suoi abiti alcuni pugnetti pieni di leccornie che avevo con me per ogni evenienza. La donna mi guardò fissa un istante, mi attrasse amichevolmente a sé, mi baciò la fronte e disse “Oh sì, piccola cara, oggi ognuno vuol donare e tutto per amore di un Bambino”. Io baciai la sua mano poggiata sul mio collo e una manina del piccolo protesa e intendevo andar via in fretta; ma lei disse “aspetta, voglio regalarti qualcosa anch’io, con ciò forse ti riconoscerò in futuro”. Cercò un po’ e trasse dai suoi capelli una spilla dorata con una pietra verde, che assicurò sul mio cappotto. Le baciai le vesti ancora una volta e lasciai velocemente la Chiesa con un sentimento oltremisura carico di gioia. La nobile tragica figura che ha influito sulla mia vita e sul mio intimo essere più di chiunque altro era la sorella più anziana di Edoardo. Divenne presto l’amica e la guida della mia giovinezza e, benché non avessi nulla da condivide-

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re con lei a parte il dolore, reputo di certo la mia alleanza con lei tra i momenti più belli e importanti della mia vita. Anche Edoardo la seguiva allora come un ragazzo ormai cresciuto, ma senza esser notato da me». – Pareva che Federica conoscesse il contenuto, per il modo appropriato con cui la sua musica accompagnava il piacevole racconto e accordava ogni singolo aspetto all’impressione complessiva del tutto. Quando Ernestina terminò, essa tradusse alcune variazioni fantastiche in una bella melodia ecclesiastica. Sofia, che la riconobbe, corse lì per unirvi la sua voce e cantarono insieme i bei versi di Novalis: Ti vedo raffigurata amabilmente, Maria, in infinite immagini, ma nessuna può mai raffigurarti quale t’immagina l’anima mia. Da allora so che il tumulto del mondo si è dileguato per me come un sogno, e un cielo di dolcezza ineffabile mi sta per sempre nell’anima.22

«Mamma» – disse Sofia, tornatale vicino – «ora ho in mente in modo davvero vivace tutto ciò che mi hai sempre raccontato della zia Cornelia e del bel giovane che ho potuto conoscere, e che è morto tanto eroicamente e inutilmente per la libertà. Lascia che prenda i quadri che lo ritraggono, tutti li conosciamo bene, ma credo che ora dobbiamo guardarli». – La madre fece un cenno di approvazione e la bambina andò a prendere due quadri, non ancora terminati, dipinti da Ernestina. Entrambi rappresentavano la sua amica e il figlio del dolore. Il primo raffigurava come il figlio torna alla madre dalla battaglia, ferito ma ricoperto d’onore; il secondo ritraeva come il figlio si accommiata da lei per morire come una delle ultime vittime di un periodo sanguinario. Leonardo interruppe i ricordi dolorosi, che si esprimevano solo in singole meste parole, e disse ad Agnese: «raccontaci qualcosa di un altro bambino, e liberaci con ciò sia dal dolore pungente che non appartiene punto alla nostra gioia, sia dalla devozione per Maria, in cui le fanciulle ci hanno introdotto con i canti». – «Bene» – rispose Agnese – «vi racconterò qualcosa di meno significativo, ma forse per questo davvero allegro. Sapete che l’anno scorso eravamo tutti divisi per questa festa e io soggiornavo presso mio fratello già da alcune settimane per assistere al primo parto di Luisa. La Notte Santa era trascorsa anche lì, secondo il nostro uso, con

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un’assemblea di amici e amiche. Luisa si era ristabilita del tutto, ma io non volevo lasciarmi sfuggire l’occasione di aiutarla a organizzare la serata, mentre tra i partecipanti regnavano la serenità e l’ardente amore che in questo giorno di gioia universale si instaurano ovunque tra persone buone; e come in tal giorno serenità e amore, tra i doni e le attestazioni di gioia, indossano il brioso vestito dello scherzo e del libero gioco infantile, così fu anche tra noi. All’improvviso apparve in sala la custode con il suo piccolo, andava guardando sui tavoli e domandò più volte di seguito con tono in parte scherzoso in parte lamentevole: “Nessuno ha regalato qualcosa al bambino? Hanno loro dimenticato del tutto il bambino?”. Noi ci riunimmo velocemente attorno alla piccola graziosa creatura e, tra lo scherzoso e il serio, furono dispiegati tutti i discorsi a proposito del fatto che, pur con tutto l’amore, non gli si potesse ancora procurare alcuna gioia, e pertanto sarebbe stato giusto che noi tutti dessimo alla madre quel che sarebbe spettato a lui. Alla custode fu dunque mostrato tutto, e furono anche posti innanzi al bambino berrettini, calzini, vestiti, cucchiaini, ciotoline; ma né lo splendore e il suono del nobile metallo, né l’abbagliante e traslucido bianco degli oggetti sembravano attrarre la sua attenzione. “Sì, i bambini sono così”, dissi agli altri, “egli è ancora interamente legato a sua madre, e nemmeno essa, oggi, può suscitare in lui qualcosa di diverso dal medesimo quotidiano sentimento di soddisfazione. Il suo modo di sentire è ancora unito a quello della madre, egli abita in lei e solo in lei possiamo averne cura e allietarlo”. – “Ma noi siamo stati tutti, certo, davvero limitati”, iniziò a dire un’amabile fanciulla, “perché in tal modo abbiamo solo pensato all’istante presente. Non si dispiega forse innanzi alla madre l’intera vita del figlio?” Pronunciate queste parole, domandò le mie chiavi; molti altri allo stesso modo si dileguarono con la rassicurazione di tornare presto e Ferdinando chiese loro di fare in fretta poiché aveva ancora qualcosa per il piccolo. “Voi di certo non indovinate cosa sia”, disse rivolto a noi, che ci eravamo soffermati. “Voglio battezzarlo subito, giacché non saprei di un istante più bello di questo per farlo, occupatevi pertanto del necessario, voglio essere di nuovo qui al ritorno dei nostri amici”. Il più in fretta possibile vestimmo il bambino con ciò che di più grazioso vi era tra i doni, ma non avevamo ancora finito, quando coloro che se ne erano andati si ripresentarono con ogni tipo di regalo. Nei doni erano mirabilmente mescolati scherzo e serietà, come non può che essere in ogni attualizzazione del futuro. Vi si trovavano non solo capi di vestiario per l’adolescenza, ma persino per il suo matrimonio; uno stuzzicadenti e un cinturino d’orologio con l’augurio che un giorno si sarebbe potuto dire di lui, nel senso migliore, quel che si diceva di Churchill: “quando gioca con il cinturino, quando si

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pulisce i denti, sta per emergere una poesia”;23 carta elegante, su cui avrebbe scritto la prima lettera alla fanciulla amata; libri di testo, per acquisire i rudimenti in tutte le lingue e le scienze; e anche una Bibbia, che avrebbero dovuto consegnargli quando gli fosse stata impartita la prima istruzione cristiana; suo zio, che si diletta con le caricature, portò perfino come primo requisito di un futuro bellimbusto, come si espresse secondo la dizione di Campe,24 un paio di occhiali, e non si tranquillizzò finché non furono posti davanti ai grandi e luminosi occhi azzurri. Si rise e scherzò molto, ma Luisa affermò molto seriamente che, esclusi gli occhiali, – giacché il bambino doveva avere gli occhi valenti di lei e di Ferdinando – essa scorgeva ora di fronte a sé il bambino, in modo certo profetico, molto vivace e con forme e tratti nitidi, in tutti i tempi e i rapporti a cui rimandavano i regali. Inutilmente la si provocò, sostenendo che il bambino probabilmente si sarebbe ridotto a un’immagine antiquata se avesse davvero voluto onorare, utilizzandolo, ogni regalo, e che in particolare sarebbe stato necessario preservare la carta dal processo di ingiallimento. Convenimmo alla fine nel lodare più d’ogni altro chi aveva donato la Bibbia, che il piccolo avrebbe certo potuto utilizzare. Io attirai l’attenzione di Luisa sull’ornamento del bambino, ma nessuno pensò a un’occasione speciale; erano invece solo preoccupati che il bambino volesse ricevere i loro doni nel modo appropriato e degno. Rimasero tutti pertanto non poco sorpresi quando Ferdinando fece ingresso vestito dei paramenti e venne contemporaneamente introdotto il tavolo con l’acqua. “Non stupitevi troppo, cari amici”, esclamò. “Innanzi alla precedente osservazione di Agnese, mi è venuto in mente in modo del tutto naturale di battezzare il bambino oggi stesso. Voi, insieme, sarete i testimoni, e in tal modo garantirete nuovamente d’essere amici partecipi della sua vita. Voi gli avete fatto dei regali”, proseguì dopo essersi soffermato su un singolo aspetto tra molte vivaci osservazioni, “che rimandano a una vita di cui egli non sa ancora nulla, come a Cristo furono fatti doni che rimandavano a una gloria, di cui il Bambino non sapeva ancora nulla.25 Lasciate ora che faccia sua anche la cosa più bella, Cristo stesso; malgrado ciò non possa ancora procurargli alcun godimento e alcuna gioia. Il suo sentimento religioso, che non può ancora trovarsi in lui, ora non abita solo nella madre o in me, ma in noi tutti e da tutti noi un giorno se ne approprierà”. Ci raccolse così intorno a sé, e quasi immediatamente passò dal discorso all’azione sacra. Con sommessa allusione alle parole “Chi può impedire di battezzare costoro”,26 egli si profuse su come il fatto che un bambino cristiano sia accolto e rimanga sempre circondato dall’amore e dalla gioia procuri la garanzia che lo spirito di Dio abiterà in lui; su

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come la festa per la nascita del nuovo mondo debba essere un giorno d’amore e di gioia, e su come entrambe le considerazioni, unite, siano adeguate a consacrare un bambino nato dall’amore anche alla superiore nascita della vita divina. Quando noi tutti, ora, protendemmo le mani verso il bambino, secondo il buon antico costume del luogo, fu come se i raggi dell’amore e della gioia celeste si riunissero sul capo e sul cuore del bambino, quasi su un nuovo fuoco, e di certo fu comune sentire che quei raggi accesero lì una vita nuova, per poi irradiarsi in tutte le direzioni». – «Ancora una volta, dunque, il caso precedente» – interruppe Leonardo – «solo, questa volta, un Cristo Bambino negativo, alla rovescia, in cui l’aureola illumina l’interno, e non promana luce verso l’esterno». – «Hai centrato interamente la questione, caro Leonardo,» – rispose Agnese – «non avrei potuto dirlo altrettanto bene. Solo la madre, il cui amore è capace di scorgere nel bambino l’uomo intero, e quest’amore è proprio quello che acclama il saluto angelico in suo favore,27 vede anche irradiarsi subito da esso lo splendore celeste, e solo sul suo volto profetico si disegna il bel riflesso che Sofia ha rappresentato con inconsapevole sensibilità infantile. E per quale ragione io vi abbia narrato tutto ciò proprio questa sera, tu puoi forse dirlo anche meglio, e in miglior forma, di come io sia capace, anzi sei tu il solo in grado di poterlo dire. Non sono infatti capace di descrivere a parole quanto profondamente e intimamente io avvertì allora che ogni serena gioia è religione, che amore, gioia e devozione sono suoni di un’unica perfetta armonia, che possono susseguirsi e incontrarsi in ogni modo. E se vuoi far ciò davvero bene, prefiggiti solo di motteggiare, perché di certo il vero come prima, ti raggiunge contro la tua volontà». – «Perché dovrei farlo io» – rispose Leonardo – «tu stessa hai dichiarato come vorresti averlo espresso, è a dire non a parole ma in musica. Ma Federica stessa, a quanto pare, ha solo ascoltato, e a noi non ha concesso di ascoltare nulla, neanche il tuo simbolo, di cui ora sei tanto entusiasta, il semplice accordo principale; come può accadere ciò?» – «Sì,» – disse Federica – «è più facile accompagnare direttamente una storia come quella precedente, almeno quando se ne sa qualcosa» – aggiunse sorridendo. – «Credo inoltre che la mia arte vada meno perduta per voi se io, prima, seguo la storia; e se vuoi, essa ti verrà subito tradotta in musica». Propose delle variazioni intrecciando una melodia principale ad alcune serene e chiare melodie ecclesiastiche, le quali tuttavia è ormai difficile ascoltare; e poi cantò, per finire ancora con il suo poeta preferito seguendo alcune delle strofe sparse dell’inno Dove sei tu che il mondo consoli,28 quelle naturalmente che dovevano essere mag-

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giormente comprensibili per la sensibilità femminile. E quando incorse in un’interruzione del canto, la colmò con armonie che esprimevano la serenità interiore, la profonda gioia da cui era presa, e che intendeva rappresentare. «Ora però,» – disse Carolina – «ti spianerai anche un passaggio ai suoni della malinconia, se voi altri non volete terminare con la pura gioia, ma volete avere anche da me un’illustrazione nel quadro di questa bella festa. Mi è pertanto venuto l’animo di raccontarvi come trascorsi la festa l’anno scorso con la mia fedele Carlotta.29 Certamente in proposito non vi è nulla da raccontare, si tratta solo di un contributo a come conoscete Carlotta da altri racconti e dalle sue lettere, e voi dovete ricordarvi tutto ciò che già sapete di lei. Vi è lì, tra gli adulti, la divertente abitudine di scambiarsi regali in incognito. Attraverso i più grandi giri e modi strani, ognuno fa pervenire il suo dono all’altro, possibilmente nascosto sotto qualcosa di meno rilevante, cosicché il destinatario talvolta si rallegra e si meraviglia senza avere ancora trovato il dono vero. Qui dev’essere meditata una grande quantità di cose, e quel che è stato genialmente escogitato spesso è messo in opera, non senza vari e lunghi preparativi. Tuttavia, Carlotta già da molte settimane era afflitta dal dolore per un’inspiegabile, e pertanto ancor più angosciante, malattia del figlio più giovane, il suo preferito. Il medico per lungo tempo non seppe né dare né togliere la speranza. Ma quanto più passava il tempo, tanto più dolore e irrequietudine sottraevano le forze al piccolo angelo e alla fine non rimase altro da aspettarsi che la sua dissoluzione. Dagli amici e le amiche era stato interrotto con intimo rincrescimento ogni tentativo di sorprenderla con trovate intelligenti o scherzi briosi; ecco, nessuno osava, anche solo con un semplice dono, distogliere la sua attenzione dall’oggetto del suo amore e del suo dolore; tutto era rimandato a un tempo più propizio. Portava il bambino in braccio quasi ininterrottamente; nessuna notte si sdraiò a dormire normalmente, solo in certi momenti del giorno, quando il bambino sembrava più sereno e poteva affidarlo a me o a un’altra fidata amica, si concedeva un lieve riposo. Frattanto, non trascurava i preparativi della festa per quanto, spesso, la pregassimo molto di non esaurirsi ancor di più per il contrasto delle sue preoccupazioni. Le era certo impossibile dedicarsi alla preparazione in prima persona, ma meditava e disponeva; e mi sorprendeva quando non di rado, destandosi dal suo profondissimo dolore, domandava se ci si fosse preoccupati di questo e di quello, o si occupava del modo di procurare un piccolo piacere. Di certo, in nessuno alberga-

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vano allegria o entusiasmo, e tantomeno in lei. Mai però mancarono buon senso e misura, la grazia serena che tutte le sue azioni mostravano. Ricordo ancora che quando una volta quasi con disapprovazione le manifestai il mio stupore, essa mi rispose: “Cara ragazza, per un grande dolore non c’è una cornice più bella e più adatta di una catena di piccole gioie che si preparano per gli altri. Tutto si trova allora nella condizione in cui è destinato a rimanere per l’intera vita, perché non si dovrebbe voler essere subito in tale condizione? In tutto ciò che il tempo cancella, ed esso rende senz’altro tale servizio a quel che è violento e unilaterale, vi è anche qualcosa di impuro”. Pochi giorni prima di Natale si poteva notare in lei una battaglia interiore. Quasi essa soltanto continuasse a non essere ancora convinta della situazione disperata del bambino, per quanto ne avesse colto assai bene l’aspetto e la debolezza. L’immagine della morte le si stagliava certo di fronte con grande evidenza. Profondamente raccolta in sé, con tutti i segni della più intima commozione, per un’ora buona camminò con il bambino tra le braccia, poi lo depose. Lo osservò ancora a lungo con un volto malinconicamente gioioso, come per l’ultima volta; si chinò in un lungo bacio sulla sua fronte; rafforzata e incoraggiata, distese poi verso di me la mano e disse: “ora ho superato la prova, cara amica. Ho reso il piccolo angelo al cielo da cui è venuto. Ora assisto serenamente, tranquilla e sicura, al suo disfacimento; posso anzi augurarmi di vederlo presto accomiatarsi, affinché i segni del dolore e della distruzione non mi offuschino l’immagine angelica che si è impressa profondamente e per sempre nel mio animo”. La mattina della vigilia riunì i bambini attorno a sé e chiese loro se volevano celebrare la loro festa quel giorno stesso, giacché tutto era pronto e ciò dipendeva solo da loro, o se volevano aspettare che Edoardo venisse sepolto e il primo silenzio e il primo dolore fossero trascorsi. Essi risposero unanimemente che non potevano gioire di nulla; ma il loro piccolo fratello era ancora vivo e non sarebbe morto. Di pomeriggio, Carlotta mi consegnò il bambino e si distese serena; e, mentre essa dormiva un sonno lungo e ristoratore, da cui mi ero proposta di non svegliarla qualsiasi cosa accadesse, si produsse nel corpo, ormai quasi esanime, con violenti crampi, ai miei occhi esiziali, una crisi, che al medico mandato a chiamare si rivelò come il culmine del male e, a un tempo, la guarigione. Dopo un’ora, il bambino stava incredibilmente meglio e si vedeva chiaramente che era in via di guarigione. In fretta i bambini ornarono a festa la stanza e la culla del piccolo. La mamma fece ingresso, e pensò che noi volessimo soltanto rendere più lieta la vista del cadave-

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re. Quando rivolse lo sguardo alla culla, le scintillò innanzi il primo sorriso del bambino; così, le apparve tra i fiori come un bocciolo già mezzo appassito che dopo una pioggia benefica si rialza e vuol dischiudersi. “Se non siamo al cospetto di una speranza ingannatrice”, disse dopo aver compreso come si erano svolti i fatti abbracciandoci tutti, “si tratta di una rinascita diversa da quella che mi aspettavo. Io avevo sperato e pregato”, proseguì, “che in questi giorni di festività il bambino si potesse separare dalla vita terrena. Ero malinconicamente e dolcemente commossa dall’idea di mandare un angelo in cielo nel tempo in cui celebriamo la discesa sulla terra dell’angelo supremo. Ora, entrambi giungono a me nello stesso momento, direttamente donati da Dio. Durante la festa della rinascita del mondo, il preferito del mio cuore è rigenerato per me a nuova vita. Sì, egli vive, non vi è dubbio,” disse, mentre si chinava a lui e non osava ancora toccarlo e premere sulla sua mano le proprie labbra. “Anche così rimane un angelo”, disse dopo un attimo, “è purificato dal dolore, ha come attraversato la morte ed è consacrato a una vita superiore. È per me un dono speciale della grazia, un bambino celeste, giacché lo avevo ormai consacrato al cielo».30 – Carolina dovette ancora addentrarsi nei particolari di questa storia, così come della nobile e rara donna cui era dedita con particolare e devota venerazione. Leonardo ascoltò con un interesse del tutto speciale e fu quasi infastidito quando Ernesto gli domandò: «non trovi anche qui, ancora una volta, il caso precedente? Ugualmente, una Maria rovesciata, che inizia con la passione materna più profonda, con lo Stabat Mater, e termina con la gioia per il figlio divino?» 31 – «O anche non rovesciata» – disse Ernestina – «giacché il dolore di Maria doveva certo svanire nel sentimento della divina grandezza e gloria di suo figlio; così come sin dall’inizio, d’altra parte, con la sua fede e le sue speranze, doveva sembrarle solo dolore e alienazione tutto ciò in cui si imbatteva all’esterno». A questo punto il prosieguo della conversazione fu interrotto dalla divertente incursione di alcuni conoscenti, che non erano parte di alcuna particolare cerchia d’amici o con instabile sentimento avevano esaurito più velocemente la loro gioia e ora andavano in giro per vedere qui e là come gli altri si divertivano e che regali si erano fatti. Per essere osservatori ben accetti, e trovare anche in ogni luogo un amichevole cicerone, si annunciavano come servitori natalizi e distribuivano tra i bambini e le bambine i dolcetti più delicati al palato. Sofia fu risparmiata dall’abituale cerimoniale, che secondo la sua buona creanza era richiesto, e si dedicò al compito

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con molta agilità e gradevolezza. Rinnovò velocemente l’illuminazione, ed era una castellana tanto eloquente quanto curiosa di domandare tutto ciò che costoro avevano già visto da altre parti. Frattanto fu servito un pasto veloce, i nuovi ospiti intendevano proseguire in fretta e volevano accrescere il proprio gruppo con alcuni della compagnia. Ma Edoardo non lo permise; i convitati dovevano rimanere ancora per lungo tempo e, soprattutto, bisognava di certo ancora aspettare l’arrivo di Giuseppe, a cui era stato promesso che avrebbe trovato tutti lì. Quando si furono tutti nuovamente dileguati, Ernesto disse: «poiché è stabilito che intendiamo trascorrere qui il resto della notte in conversazione e tra i brindisi, credo allora che siamo debitori alle donne di una replica affinché anche loro rimangano tanto più volentieri con noi. In verità, l’arte del racconto non è dono concesso agli uomini, e io sarei in grado di pretenderlo da me stesso meno di tutti. Ma che ne pensate, amici, se al modo degli inglesi, per non dire al modo antico,32 che peraltro non ci è del tutto estraneo, scegliessimo un argomento su cui ciascuno fosse obbligato a esprimersi? E in verità un tema da narrare in modo che non trascuri in alcun senso la presenza delle donne, ma anzi in cui l’esser compresi ed elogiati da esse sia considerato come la cosa più bella». Tutti convennero e le donne si rallegrarono poiché da lungo tempo non sentivano qualcosa di simile. – «Naturalmente,» – disse Leonardo – «se aderite alla proposta con tale partecipazione, dovreste anche suggerire ciò di cui dobbiamo parlare, perché la nostra inettitudine non si orienti verso qualcosa d’indifferente». – «Se le altre sono della stessa opinione,» – disse Federica – «spero non ti arrechi troppo fastidio se propongo come tema di discussione la festa stessa per cui siamo qui riuniti. Essa ha così tanti aspetti, che ciascuno può glorificarla come preferisce». – Nessuno si oppose, ed Ernestina sostenne che ogni altro argomento sarebbe anzi stato inadeguato e, per dir così, di nocumento alla serata. – «Bene» – disse Leonardo – «secondo la nostra abitudine non potrò rifiutarmi, in quanto più giovane, d’essere anche il primo. E lo sarò tanto più volentieri in parte perché il discorso imperfetto è assai facilmente superato da uno migliore, in parte perché in questo modo godo certissimamente del piacere di aver anticipato rispetto agli altri un certo pensiero. Soprattutto,» – aggiunse ridendo – «il vostro ordine accresce il numero dei relatori in un modo invisibile. Infatti, è assai difficile che domani rinunciate a riunirvi nelle chiese, e recherà a noi certo più danno di quanto a quegli uomini piacere, e a voi soprattutto recherà forse noia, se in quei luoghi ascolterete ancora una volta le stesse cose. Voglio pertanto distanziarmi quanto più possibile anche da questo percorso e dare inizio così al mio discorso:

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Si può glorificare e apprezzare ogni cosa in un duplice modo; anzitutto, elogiandola o riconoscendo la bontà del suo carattere e della sua intima natura; poi, lodandola o sottolineandone l’eccellenza e la perfezione all’interno della sua specie. Si potrebbe abbandonare o lasciare ad altri il primo modo, è a dire il lodare una festa in generale nella misura in cui è bene che, attraverso certe azioni che si ripetono in determinati tempi, sia assicurato e mantenuto il ricordo di grandi eventi. Ma delle feste ci devono essere, e bisogna considerare la prima origine del cristianesimo qualcosa di grande e importante, nessuno allora può negare che questa festa di Natale sia degna d’ammirazione, giacché raggiunge il suo scopo in modo così perfetto e in condizioni tanto difficili. Se infatti si intendesse dire che tale rammemorazione è conservata attraverso la Scrittura, e in generale con l’istruzione cristiana, molto più che con la festa, io mi opporrei. Per noi persone istruite infatti, così mi pare, questi aspetti forse sarebbero sufficienti; in alcun modo però ne gioverebbe la massa cospicua del popolo incolto. Infatti, lasciando stare la Chiesa romana, in cui alla gente del popolo incolto la Scrittura viene posta in mano poco o niente e, rivolta l’attenzione solo alla nostra, è molto evidente quanto poco gli appartenenti a essa siano portati a leggere la Bibbia o anche capaci di intenderla nella sua connessione. E, della Bibbia, nella loro memoria vengono impresse nell’insegnamento molto più le dimostrazioni di singoli principi che la storia; così come, per questa via, della storia, sarebbe rammentata la morte del redentore molto più che la sua vita e la sua prima apparizione nel mondo. Quanto più il popolo sperimenta della storia attraverso le cerimonie delle festività piuttosto che con la tradizione scritta è illustrato da quanto segue: quante cose il cattolico comune sa dei santi, di cui non ha mai letto niente, solo perché ne vengono celebrate le feste e perché collega al particolare aiuto che domanda a ciascuno di essi anche un concetto della loro persona; e quante cose della preistoria furono conservate nell’antichità mediante le feste, cose di cui storici e poeti dicono poco o nulla. Sì, quanto è più energica l’azione rispetto alla parola, se da azioni solenni, il cui vero significato è andato perduto, non di rado sono state inventate false storie, ma mai viceversa. Se il popolo si attiene molto più all’azione che alla parola, dobbiamo anche credere che la rammemorazione di Cristo è conservata in maggior misura con la festa che con la Scrittura e in particolare per la gente del popolo che, per esprimersi onestamente e chiaramente, da quest’ultima trae tanto poco piacere quanto poco la intende. Ma credo proprio a ciò che ho detto, questo ricordo è sta-

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to particolarmente difficile da conservare. Quanto più in generale si sa di una cosa, tanto più precisamente e nitidamente essa si lascia anche rappresentare; e quanto più necessariamente una cosa è connessa al presente, tanto più facile diviene ciascuna manifestazione che deve ricordarla. Ma ciò manca, a quanto pare, persino in larga parte, nel caso di Cristo. Io voglio infatti far valere il cristianesimo come una forte ed energica presenza; ma quanto poco Cristo, la persona reale, è presente in tal senso! Infatti, anche ciò che viene insegnato della sua riconciliazione mi sembra poggiare più su una decisione eterna di Dio che su un singolo fatto determinato e, perciò, non doveva essere posto in un momento preciso, ma piuttosto innalzato al di sopra della storia temporale e ritenuto un evento mitico. Come fondatore del cristianesimo, e questo è certo il contenuto della sua vita e l’unico rapporto in cui può essere celebrata la sua prima apparizione nel tempo, Cristo ha solo una scarsa importanza. Quanto poco infatti può essere ricondotto a lui stesso, e quanto invece è di origine diversa e più tarda! Tanto che, se si pensa a Giovanni il precursore, a Cristo, agli apostoli, compreso l’ultimo,33 poi ai primi padri come agli anelli di una catena, si deve concedere che il secondo non sta in mezzo al primo e al terzo, ma Cristo sta molto più vicino a Giovanni che a Paolo. Rimane anzi dubbio se, secondo la sua volontà, dovesse erigersi una Chiesa speciale, senza la quale il nostro cristianesimo e dunque anche la nostra festa, oggetto del mio discorso, non si possono punto concepire. E quanto più indietro nel tempo è ricondotto il cristianesimo, se si presta attenzione all’inesausto sforzo dei suoi biografi di collegarlo con l’antica casa reale del popolo ebraico; il che tuttavia, comunque stiano le cose, è del tutto privo di rilievo per il fondatore di una religione universale.34 È evidente pertanto che la nascita e la reale presenza di Cristo nella storia sono assai poco in rapporto con il cristianesimo stesso. Comunque, è certo che noi non conosciamo quasi nulla di lui. Infatti, già nel tempo in cui vennero trascritte le prime notizie, esistevano opinioni tanto varie che quegli autori sembrano aver prestato attenzione al fatto che entro una certa misura essi stessi erano trasformati da testimoni e narratori in partigiani. Anzi, può dirsi che ogni notizia e ogni affermazione cancelli l’altra. Infatti, la resurrezione annulla l’effettività della morte, e ciò non può significare altro se non che il fatto successivo falsifica l’opinione che ci si era formata dal precedente. D’altro canto, l’ascensione in cielo rende sospet-

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ta la vita. La vita appartiene infatti al pianeta, e ciò che si può separare da esso non può essersi per nulla trovato in una connessione vitale con esso. Altrettanto poco rimane se si accosta l’opinione di coloro che negano a Cristo un vero corpo, o quella di coloro che gli negano una vera anima umana, con l’opinione di quelli che, al contrario, non sono disposti a riconoscergli vera divinità o in generale sovrumanità. Anzi, riflettendo sul fatto che si disputa se egli sia ancora adesso presente sulla terra solo in modo spirituale e divino, o anche in modo fisico e sensibile, si possono allora ricondurre facilmente le due posizioni al loro comune significato segreto, che consisterebbe nell’idea secondo cui Cristo un tempo sia stato e abbia vissuto sulla terra e tra i suoi in modo non diverso e più autentico di come sia e viva sulla terra ancora adesso. In breve, il fondamento storico esperienziale della cosa è tanto debole che la nostra festa ne è tanto più glorificata e prende la sua forza, come detto sopra, dal fatto che talvolta la storia stessa è creata da queste consuetudini. Ma ciò che qui deve essere ammirato di più, è può al contempo esserci utile come esempio e ammonimento per molto altro, è il fatto che notoriamente la festa stessa deve il suo valore in massima parte alla circostanza che è stata introdotta nelle case e tra i bambini. Vale a dire che in essa dovremmo festeggiare molto di ciò che per noi ha valore ed è sacro, e vedere come un rimprovero e un cattivo segno che non lo facciamo. Intendiamo dunque almeno stabilire come ci è stata tramandata; e quanto meno sappiamo in cosa consista la forza miracolosa, tanto meno alteriamo in essa anche i dettagli. Per me, perlomeno, anche la cosa più piccola di essa è ricca di significato. Infatti, come un bambino ne è la cosa fondamentale, così anche qui sono principalmente i bambini che sostengono e innalzano la festa e, attraverso la festa, nuovamente, lo stesso cristianesimo. E come la notte è la culla storica del cristianesimo, così anche la sua festa di nascita è celebrata di notte; e le candele, con cui la festa risplende, rappresentano in certo modo la stella sulla capanna e l’aureola, senza le quali nell’oscurità della stalla, e nella notte altrimenti senza lumi della storia, il bambino non sarebbe trovato. E come è oscuro e dubbio ciò che noi abbiamo ricevuto nella persona di Cristo e da lui, così anche quell’abitudine che ho imparato a conoscere dall’ultimo racconto è il tipo di regalo natalizio più bello e simbolico. Questa è la mia sincera opinione, a cui vi chiedo ora di lasciar risuonare e vuotare i bicchieri e per cui sono così certo della vostra approvazione, che spero con essa di emendare e ripulire quel che nel mio discorso vi è parso empio».

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«Ora intendo» – disse Federica – «perché ha opposto così poca resistenza al compito che abbiamo assegnato, il mattacchione miscredente, perché aveva intenzione di parlare come ha fatto in aperto contrasto con il suo autentico senso. Vorrei insistere affinché fosse degnamente punito, tanto più che ho assegnato l’argomento io, e si può ben dire che egli mi ha reso ridicola con il suo modo di svolgerlo». – «Hai proprio ragione» – disse Edoardo – «ma potrebbe essere difficile convincerlo: si è infatti ben assicurato con la sua spiegazione e per il modo in cui ha intessuto la denigrazione con l’intenzione di sublimare, che tuttavia ha dovuto porre in vetta». «Ben assicurarsi» – disse Leonardo – «non è certo male, e perché non dovrei cogliere ogni occasione per esercitarmi nella parti legittime e rispettabili della mia arte? D’altro canto, non potevo contraddire le donne, le quali non potevano attendersi nulla di meglio o di diverso riguardo al tipo di pensiero che professo apertamente. Non ho, peraltro, proceduto con atteggiamento difensivo, non avendo, nel mio discorso, presentato ai giudici la più piccola richiesta di approvazione». – «Bisogna anche riconoscerti» – disse Ernesto – «che hai lasciato a noi molti argomenti, che sarebbero stati ancora da esporre, che ciò sia accaduto perché non erano per te a portata di mano o che tu li abbia tralasciati per risparmiare tempo e per non parlare davanti alle donne in modo troppo dotto e incomprensibile». – «Da parte mia» – disse Ernestina – «vorrei anche lodarlo, per aver lealmente mantenuto la parola data, restando il più possibile distante da ciò che noi potremmo forse ascoltare domani nei luoghi ufficiali del culto». – «Allora bene» – disse Carolina – «se non è proprio possibile sottoporlo a giudizio, si pervenga almeno a confutarlo. E se non erro, tocca a te, Ernesto, parlare e salvare l’onore del nostro impegno». – «Io ho intenzione» – disse Ernesto – «di adempiere all’ultimo compito, ma non al primo; e, da parte mia, non vorrei nemmeno intrecciare i due aspetti. Ma la confutazione mi sottrarrebbe ad altri argomenti, e io potrei a mia volta incorrere in pena. Per chi inoltre non è abituato a tenere un discorso in forma libera, niente è più difficile che seguire con ciò la concatenazione di pensieri di un altro». «Non sapevo prima che tu parlassi, Leonardo,» – iniziò con il suo discorso – «se quel che intendo dire sarebbe stato un elogio o una sorta di magnificazione. Ora però so che, secondo il modo da te tenuto, si tratta di una magnificazione. Anch’io, infatti, voglio stimare la festa come perfetta nella sua specie. Non voglio però trascurare, come hai fatto tu, ma piuttosto presupporre, la lode secondo cui anche la specie e lo stesso concetto sarebbero qualcosa di buono. Solo che la tua spiegazione di una festa non mi

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ha soddisfatto, essendo unilaterale, poiché è stata soprattutto e prevalentemente istituita in vista del tuo bisogno; ma il mio è un bisogno diverso, e ho bisogno di un altro aspetto. Tu infatti scorgesti solo che ogni festa è in memoria di qualcosa; a me, però, interessa: di cosa? Dico pertanto che una festa è istituita soltanto in memoria di ciò attraverso la cui rappresentazione possono essere stimolati negli uomini uno stato d’animo e una disposizione psichica particolare; e l’eccellenza di una festa qualsiasi dipende proprio dal fatto che ciò avvenga nel complessivo dominio di un tale ordine e in forma vivace. Però lo stato d’animo, che la nostra festa deve produrre, è la gioia; e che essa la diffonda molto, e stimoli così vivacemente, sta innanzi agli occhi tanto nitidamente che non vi sarebbe nulla da dire, se non ciò che ciascuno vede in proprio. Solo una difficoltà devo scongiurare, che si possa dire che un siffatto effetto non sia provocato dalla dimensione peculiare ed essenziale della festa, ma dal contorno casuale, dai regali donati e ricevuti. Bisogna quindi mostrare a questo punto quanto ciò sia sbagliato. Regalate infatti ai bambini la stessa cosa in un diverso momento, e in tal modo non vedrete emergere nemmeno l’ombra di una gioia natalizia, finché non giungete a qualcosa di simile al punto opposto, al punto in cui è celebrata la loro festa personale. Legittimamente, credo, io lo definisco il punto opposto, e certo nessuno negherà che la gioia del compleanno ha un carattere del tutto diverso da quello della gioia natalizia; la prima ha quello di una integrale intimità, che produce il restringimento entro un determinato rapporto, la seconda ha interamente il carattere del fuoco, della rapida mobilità di un sentimento universale largamente diffuso. Segue da ciò, in parte che i regali non sono per nulla la ragione che dà gioia, ma solo l’occasione; in parte anche che la peculiarità della gioia natalizia consiste esattamente in questa totale universalità. In una gran parte della cristianità, fintanto che vige ancora la bella e antica consuetudine, ciascuno attende alla preparazione di un regalo, e questa coscienza è esattamente la magia che si impadronisce di tutti. Un regalo, acquistato occasionalmente in un negozio abituale o costruito in ore di noia senza rimandare ad altro, è poco o niente. Ma una persuasione condivisa, il lavorare in attesa della determinata ora di festa e, all’esterno, il contesto del mercato cristiano che si specchia in ogni regalo, l’illuminazione che riluce ovunque sulla terra nella notte invernale come stella splendente così che il cielo la rifletta, tutto ciò conferisce ai doni il loro valore. Mai può essere escogitato in modo arbitrario tutto ciò che è così universale. Qualcosa di interiore deve starvi a fondamento, altrimenti né potrebbe esercitare un qualche

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effetto e nemmeno potrebbe persistere, come abbiamo visto a sufficienza a proposito di molti nuovi tentativi. Questa dimensione interiore, appunto, non può essere altro che il fondamento di ogni gioia che si muove in questi uomini; questo effetto infatti non potrebbe sorgere da altro. Ed è così anche di fatto. Ti ricordo solo coloro, che io per questo accuso, i quali hanno spostato la gioia universale da questa festa al Capodanno, al punto in cui è rappresentato il mutamento e la contrapposizione entro il tempo. È manifesto infatti che essi sono individui che, mancando di stabilità interiore, vivono solo in questo mutamento, gioiscono solo del rinnovamento di ciò che è transitorio.35 È dunque questa la relazione tra la nascita del Redentore e la festa della gioia universale: che per tutti coloro che, come quelli, non vivono solo nel mutamento del tempo non si dà altro principio di gioia della redenzione; e il primo punto di questa deve essere per noi, di nuovo, la nascita di un bambino divino. Pertanto nessuna festa in particolare ha con l’universalità di questa una tale somiglianza come la festa del battesimo dei bambini, sempre che non si metta in opera quest’ultima dissennatamente. E da qui, lo stimolo speciale di quel piacevole racconto in cui ci sembravano entrambe unite. Sì, Leonardo, possiamo disporci come vogliamo, da qui non si sfugge. La vita e la gioia della natura originaria, dove non si profilano quelle contrapposizioni tra apparenza ed essenza, tra tempo ed eternità, non sono le nostre. E se immaginassimo tutto ciò in una persona, immagineremmo allora costui come il Redentore, che all’inizio dovrebbe rivelarsi a noi come un bambino divino. Noi stessi iniziamo invece in uno stato di scissione e raggiungiamo la conciliazione con la redenzione, che non è nient’altro che il superamento di quei contrasti, e appunto per questo può venire solo da colui per il quale essi non dovettero essere superati in precedenza. Di certo ciò non lo negherà nessuno; l’autentica natura di questa festa è che noi diventiamo consapevoli del più intimo fondamento e dell’inesauribile forza della vita pura, e che noi scorgiamo nel suo primo germe la sua fioritura più bella, la sua suprema perfezione. Per quanto inconsapevole possa essere in molti, il meraviglioso sentimento non può risolversi in qualcosa di diverso che in questa concentrata intuizione di un mondo nuovo. Tale sentimento s’impadronisce di ciascuno, è rappresentato nei modi più diversi in migliaia di immagini, come il sole che sorge e risorge, la primavera dello spirito, il re di un regno migliore, il più fedele messaggero degli dei, il più amabile principe della pace. E pervengo così, Leonardo, a confutarti, proprio perché convengo con te, e raffronto i diversi punti di vista da cui siamo partiti. Se le tracce storiche, vista

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la cosa criticamente in questo modo in un senso inferiore, sono pure tanto deboli, la festa non dipende da ciò, ma dall’idea necessaria di un Redentore; pertanto, finanche quelle erano sufficienti. La massima cristallizzazione ha bisogno di una cristallizzazione piccolissima per collegarvisi; ciò che dirompe internamente da questa gioia ha bisogno solo della più piccola occasione per instaurarsi in una certa forma. Chi dunque, come volevi anche tu, riconosce il cristianesimo come una possente presenza, come la grande forma della vita nuova, santifica questa festa non come non si osa offendere quel che non si comprende, ma in quanto la comprende perfettamente, con tutti i particolari al suo interno, i doni e i bambini, la notte e la luce. E con questo piccolo perfezionamento, che mi auguro possa essere piaciuto anche a te, ripeto il tuo invito, e auguro, o meglio profetizzo alla bella festa in eterno la gaia infanzia con la quale essa ci si ripresenta ogni volta e, a tutti coloro che la festeggiano, la vera gioia per la vita superiore ritrovata, dalla quale soltanto sbocciano tutte le sue soavità». «Devo scusarmi con te, Ernesto,» – disse Agnese – «avevo infatti temuto che non ti avrei proprio inteso; ma con il tuo discorso non è accaduto così, e tu hai già opportunamente confermato che proprio l’elemento religioso è l’essenza della festa. Solo, secondo quanto si è appena affermato, sembra che noi donne dovremmo partecipare a una gioia minore, perché quella confusione si manifesta in noi di meno; ma posso accordarmi anche con ciò». – «In modo molto facile;» – disse Leonardo – «si potrebbe infatti venirne a capo speditamente, giacché è tanto intuibile come possibile che le donne sopportino per sé ogni cosa con facilità, e aspirino poco al godimento, ma che, come il loro dolore più intimo è il soffrire assieme agli altri, così anche la loro gioia più intima sia gioire assieme agli altri. Soltanto, dovete vedere come ve la cavate con la sacra autorità che non volete mai trascurare, la quale presenta le donne tanto chiaramente come le prime artefici di ogni scissione e bisogno di redenzione.36 Ma se io fossi Federica gli farei certo la guerra per aver assegnato al battesimo in modo così imprudente, senza valutazione delle particolari circostanze, il primato rispetto al matrimonio, che tuttavia deve essere un sacramento bello e gioioso, spero». – «Non rispondergli, Ernesto,» – disse Federica – «egli si è già risposto da solo». – «In che modo?» – chiese Leonardo. – «In modo del tutto evidente,» – ribatté Ernestina – «giacché delle particolari circostanze parlasti tu. Ma cose del genere non si notano mai se vi immischiate l’amato “io”. Ernesto lo ha distinto bene, e ti dirà di certo che il battesimo assomiglia di più alla gioia del compleanno che a quella del Natale». – «O se invece vuoi avere qualcosa di cristiano,» – aggiunse

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Ernesto – «che è più Venerdì Santo e Pasqua che Natale. Ma lasciamo ora da parte le cose precedenti e ascoltiamo cosa ci dirà Edoardo». – Questi cominciò a parlare così: Già una persona migliore di me ha osservato, in un’occasione simile, che gli ultimi si trovano nella peggiore situazione quando si discorre in questo modo di un argomento qualunque.37 E forse non solo per il fatto che chi li ha preceduti ha tolto loro quanto c’era da dire, malgrado entrambi voi anche sotto questo profilo vi siate occupati poco di me, dal momento che avete tenuto per voi singoli aspetti della questione e me ne avete lasciati altri, ma soprattutto perché in coloro che ascoltano rimangono alcuni echi di ogni discorso che costituiscono una resistenza sempre crescente, e che l’ultimo interlocutore deve superare con gravissima difficoltà. Devo pertanto guardarmi attorno per un aiuto e legare ciò che intendo dire a qualcosa di noto e amato, affinché trovi spazio più facilmente. Come Leonardo si è riconnesso sempre ai biografi mitici di Cristo e ha cercato in loro l’elemento storico, così io voglio attenermi a quello mistico,38 in cui non compare quasi nulla di storico, esteriormente nemmeno alcun Natale, nel cui animo però regna un’eterna infantile gioia natalizia. Questi ci introduce alla visione spirituale e più alta della nostra festa. Come sapete Egli inizia così: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e Dio era il Verbo. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. E il Verbo si fece carne e dimorò fra noi e abbiamo visto la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre».39 Così io concepisco, di preferenza, l’oggetto di questa festa non quale bambino costituito e manifestantesi in questo e quest’altro modo, generato da questa o quella madre, qui o lì; ma come Verbo divenuto carne, che era Dio ed era presso Dio. La carne però, come sappiamo, non è altro che la natura sensibile limitata e finita; il Verbo, invece, è il pensiero, il conoscere; e il divenire carne del pensiero è dunque il manifestarsi di questa essenza originaria e divina in quella forma. Noi pertanto non celebriamo altro che noi stessi, ciò che noi siamo complessivamente o la natura umana, o come volete definirla altrimenti, vista e conosciuta secondo il principio divino. È da ciò chiarito perché dobbiamo porre una persona, nella quale soltanto la natura umana si può rappresentare così, e perché proprio una tale persona, a cui l’unità di divino e terreno è da assegnare sin dalla nascita e non come frutto tardivo della vita. Cos’altro è l’uomo in sé se non lo stesso spirito della terra, il conoscere della terra nel suo essere eterno e nel suo sempre mutevole divenire.40 In esso pertanto non vi è corruzione e decli-

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no, e nessun bisogno di una redenzione. Il singolo individuo, però, per il modo in cui si collega alle altre formazioni della terra e vi cerca il suo conoscere, poiché il loro conoscere vive esclusivamente in lui, è soltanto il divenire e si trova in uno stato di declino e corruzione, che consiste nella scissione e nella confusione, e trova la sua salvezza solo nell’uomo in sé. Ovvero nel fatto che in esso stesso si svolge proprio quell’identità dell’essere e del divenire eterno dello spirito della terra, nel fatto che egli ama e considera tutto il divenire e anche se stesso solo nell’essere eterno, e nel fatto che egli, malgrado appaia come un divenire, non vuol essere altro che un pensiero dell’essere eterno, e non vuol essere fondato in nessun altro essere eterno se non in quello che è identico con il sempre cangiante e ritornante divenire. Per questo, in vero, nell’umanità si trova eternamente quell’unità di essere e divenire; perché essa, in quanto uomo in sé, eternamente è e diviene; nel singolo individuo però l’umanità, come è presente in lui, deve anche divenire come suo pensiero, è a dire come il pensiero di un agire e vivere comune in cui proprio quel conoscere della terra non solo è, ma anche diviene. Solo quando il singolo intende ed erige l’umanità come una vivente comunità d’individui, ne porta in sé lo spirito e la coscienza e perde e ritrova in essa l’esistenza isolata, solo in tal caso ha in sé la vita più alta e la pace di Dio. Ma questa comunità, attraverso cui l’uomo in sé è rappresentato o nuovamente edificato, è la Chiesa. La Chiesa si rapporta pertanto a tutto ciò che di umano diviene attorno o all’esterno di sé, come l’autocoscienza dell’umanità nei singoli individui si rapporta alla mancanza di coscienza. Ciascuno, in cui sorge tale autocoscienza, giunge quindi alla Chiesa. Nessuno pertanto può avere in sé veramente e vitalmente la scienza se non è parte della Chiesa, benché un tale individuo possa pure rinnegarla, ma solo esteriormente e non interiormente. Di certo nella Chiesa possono esservi alcuni che non hanno in sé la scienza, essi possono infatti possedere quella superiore autocoscienza al livello del sentire, piuttosto che nella conoscenza. E tale è appunto il caso delle donne, e la ragione per cui esse si legano tanto più intimamente ed esclusivamente alla Chiesa. Ora tale comunità così com’è qualcosa in divenire è anche un divenuto, e com’è una comunità di individui è qualcosa di divenuto per mezzo della comunicazione di tali individui, e noi cerchiamo pertanto un punto da cui questa comunicazione ha preso le mosse benché sappiamo che essa deve autonomamente prendere le mosse da ciascuno, e l’uomo in sé deve nascere e prendere forma in ogni singolo individuo. Allo stesso modo in cui la prima comunità del sentire, manifestatasi in libertà e autonomia, è per dir così la nascita della Chiesa, quello che è visto come il punto d’inizio

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della Chiesa, come il suo concepimento, deve essere già nato come uomo in sé, come uomo divino; deve portare in sé la conoscenza di sé, ed essere sin dall’inizio la luce degli uomini. Noi, infatti, siamo sì rigenerati attraverso lo Spirito della Chiesa, ma lo Spirito stesso promana soltanto dal Figlio e questi non ha bisogno di alcuna rigenerazione, ma è originariamente generato da Dio. Egli è il Figlio dell’uomo per eccellenza. Di lui era presagio, a lui era riferito, tutto ciò che l’ha preceduto, e solo attraverso questa relazione era buono e divino; e in lui intendiamo celebrare non solo noi stessi, ma tutti coloro che verranno. In Cristo dunque cogliamo lo spirito della terra formatosi originariamente in autocoscienza nel singolo individuo. Il Padre e i fratelli abitano armonicamente in lui e sono in lui una sola cosa; devozione e amore sono la sua essenza. Pertanto ogni madre, che sente di aver generato un uomo e sa, in virtù di un’ambasciata celeste, che lo Spirito della Chiesa, lo Spirito Santo, abita in lei, e pertanto concede il suo bambino nel cuore della Chiesa, e ciò richiede come un diritto, una tale madre scorge nel suo bambino anche Cristo e appunto questo è quel sentimento materno inesprimibile e meritevole. E proprio così ognuno di noi scorge nella nascita di Cristo la sua nascita superiore, in virtù della quale ora non vive in lui nient’altro che devozione e amore, e anche in lui si presenta l’eterno Figlio di Dio. Per questo, la festa emerge dalla notte come una luce celeste. Per questo essa è un generale pulsare di gioia nell’intero mondo rinato, che solo i membri ammalati o paralizzati per un certo periodo non sentono. E proprio questa è la gloria della festa, che voi volete sentir celebrare anche da me; ma, secondo quel che vedo, io non dovrei essere l’ultimo. Infatti, anche l’amico che abbiamo aspettato a lungo ora è tra noi». Giuseppe41 infatti era arrivato durante il suo discorso e, per quanto avesse fatto ingresso e si fosse messo a sedere silenziosamente, era comunque stato notato da lui. «Certamente no,» – rispose quando Edoardo gli si rivolse così – «l’ultimo sei stato sicuramente tu. Non sono infatti venuto per tenere discorsi, ma per gioire insieme a voi; e per il fatto che vi siete provati in cose del genere mi apparite, sia detto francamente, strampalati e quasi stolti, benché ciò possa essere stato bello. Ma lo vedo già, il vostro cattivo principio è nuovamente tra voi; questo Leonardo, l’uomo oltremodo pensante, riflettente, dialettico, ed estremamente razionale, che voi avete probabilmente tentato di convincere, giacché non avreste di certo adoperato questo principio per voi e non vi sareste affidati a esso; a lui comunque non è d’aiuto. E le povere donne hanno dovuto assistere a tutto ciò. Riflettete solo su quali bei suoni avrebbero potuto cantarvi, note che

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sarebbero state pervase molto più intimamente dei vostri discorsi da tutta la religiosità; o con quale grazia avrebbero conversato con voi, da un cuore ricolmo d’amore e di gioia; cosa che vi avrebbe soddisfatto e ristorato più di quanto questi discorsi celebrativi abbiano fatto con loro. Da parte mia, oggi non posso dare un contributo con discorsi siffatti. Tutte le forme sono per me troppo rigide, e ogni conversazione è troppo noiosa e fredda. L’argomento ineffabile richiede o produce anche in me una gioia inesprimibile, e la mia gioia può solo ridere e giubilare come quella di un bambino. Oggi per me tutti gli uomini sono bambini e proprio per questo mi sono tanto cari. Le rughe profonde sono ora distese, i numeri e le preoccupazioni non sono più iscritti sulle loro fronti, l’occhio finalmente riluce e vive, e in essi si delinea il presentimento di un’esistenza bella e aggraziata. Anch’io, per mia fortuna, sono diventato interamente un bambino. Come un bambino soffoca il dolore infantile e reprime i sospiri e trattiene le lacrime quando gli viene procurata una gioia infantile, così oggi, come mai prima, mi è acquietato il lungo profondo costante dolore. Mi pare di esser nato qui, e come rinato nel mondo migliore in cui dolore e lamento non hanno alcun senso e alcuno spazio. Guardo tutto con occhio gioioso, anche ciò che ferisce profondamente. Come Cristo non ebbe altra sposa che la Chiesa, altri figli che i suoi amici, altra casa che il tempio e il mondo, e tuttavia ebbe il cuore ricolmo d’amore e di gioia celeste, così mi sembra che anch’io sia nato par aspirare a ciò. Per questo sono andato in giro tutta la sera, ovunque mi trovassi prendendo parte nel modo più cordiale a tutte le inezie e i giochi, e ho amato ogni cosa e sorriso a tutto. È stato un lungo carezzevole bacio, che ho dato al mondo, e ora la mia gioia con voi doveva essere l’ultima pressione delle labbra. Sapete che siete per me i più amati di tutti. Venite dunque e, prima d’ogni cosa, venga il bambino, se ancora non dorme, e lasciate che io veda le vostre meraviglie, e che si possa essere allegri e cantare qualcosa di devoto e di gaio».

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È il giorno di Capodanno del 1792. L’autore si rivolge forse ai membri della famiglia Dohna, residente nel castello di Schlobitten, presso cui soggiornò, in veste di precettore e di predicatore, dall’ottobre 1790 al maggio 1793. 3  Personaggio presentato nel terzo libro di Gandalin oder Liebe um Liebe, poema di Christoph Martin Wieland (1733-1813), apparso in prima edizione nel 1776. Cfr. C.M. Wieland, Gandalin oder Liebe um Liebe, in Auserlesene Gedichte. Neue verbesserte Ausgabe, II, Weidmann und Reich, Jena 1784, pp. 203-222 e Id., Sämtliche Werke, IV, Georg Joachim Göschen, Leipzig 1796, pp. 686-697. 4  Altro personaggio del poema succitato, presentato nell’ottavo libro. Cfr. C.M. Wieland, Gandalin oder Liebe um Liebe, in Auserlesene Gedichte. Neue verbesserte Ausgabe, II, cit., pp. 295-322 e Id., Sämtliche Werke, IV, cit., pp. 738-754. 5  Non abbiamo elementi per identificare questo personaggio. 6  Secondo alcuni interpreti l’iniziale rimanda a Carl Gustav von Brinckmann (1764-1847), compagno di Schleiermacher nel Paedagogium della Comunità dei Fratelli di Niesky e poi nel Seminarium di Barby, intrinseco amico e confidente negli anni successivi. Schleiermacher intrattenne con lui una lunga corrispondenza. 7  Non abbiamo sufficienti riscontri per identificare il personaggio. 8  Probabile riferimento al seduttivo personaggio tratto dal romanzo Le diable amoureux (1772) di Jacques Cazotte (1719-1792). 9  Probabile riferimento a L. Frederike J. zu Dohna (1774-1801), figlia del conte Friedrich, verso cui Schleiermacher nutrì un tenero amore. Cfr. lettera a Heinrich Catel del 17/12/1790 (n. 149), KGA V/1, pp. 207-208. 10  Probabile riferimento, ancora una volta, a C.G. Brinkmann, trasferitosi in Svezia tra il 1791 e il 1792, anni in cui non risultano contatti epistolari con Schleiermacher. La corrispondenza, sospesa nel marzo del 1790, riprese nell’agosto del 1793. 11  Probabile riferimento a Louis, Fabian e Friedrich zu Dohna, figli maschi del conte e allievi di Schleiermacher a Schlobitten. 12  Probabile riferimento alla Signora Schumann Beneke, che Schleiermacher aveva conosciuto nell’estate del 1789, durante un soggiorno estivo a Lansberg an der Warthe. 13  L’idea di destinazione dell’uomo (Bestimmung des Menschen), forse coniata da August Friedrich Wilhelm Sack, ebbe larga fortuna nei paesi di lingua tedesca nel corso della seconda metà del Settecento e, più precisamente, da quando apparve (1748) il saggio del teologo riformato Johann Joachim Spalding Betrachtung über die Bestimmung des Menschen, che vantò undici edizioni in meno di un cinquan2 

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tennio, l’ultima pubblicata proprio nel 1794. Kant, Mendelssohn, Herder, Schiller e Fichte, per ricordare solo le personalità più autorevoli, se ne occuparono con interesse. Schleiermacher vi torna più volte nel corso della sua produzione giovanile. Si veda in particolare la recensione del saggio fichtiano del 1800: Rezension von Johann Gottlieb Fichte: Die Bestimmung des Menschen (1800), KGA I/3, pp. 235-248 (tr. it.: Friedrich D.E. Schleiermacher, La destinazione dell’uomo di Fichte, a cura di O. Brino, in Etica mondiale e destinazione dell’uomo, a cura di D. Venturelli, Il Melangolo, Genova 2002, pp. 33-53). 14  Scibbolet. Nel commento alla prima edizione italiana del testo, Sergio Sorrentino ha ricordato che il termine ebraico, che significa “spiga”, ricorre nella Bibbia (Gdc 12, 5-6) ed è utilizzato dal popolo di Galaad «per scoprire gli efraimiti sconfitti e in fuga attraverso un passaggio del Giordano; gli efraimiti infatti non erano capaci di emettere il suono sci, e dunque pronunciavano sibbolet invece di scibbolet». Si veda F.D.E. Schleiermacher, Il valore della vita, a cura di S. Sorrentino, Marietti, Genova 2000, p. 97, nota 8. 15  Riferimento generico alla teoria epicurea del παρέγκλισις, che Lucrezio nel De rerum natura (II, 292) traduce con clinamen. 16  Cfr. Immanuel Kant, Critica della ragion pura, B 356, dove la ragione è definita «facoltà dei principi». 17  Alla categoria della socialità, l’autore dedica molte pagine della sua produzione giovanile. Si vedano in particolare le Anmerkungen an Aristoteles (1788), KGA I/1, pp. 5-7; An Cecilie (1790), KGA I/1, pp. 196-197; il frammento iniziale del terzo capitolo del saggio sulla libertà Über die Freiheit (1790-92), KGA I/1, 355-356; i pensieri 92, 116, 146, 148, 147, 189 dei Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I, 1796-99), KGA I/2, pp. 26, 30, 34 e 43; il Versuch einer Theorie des geselligen Betragens (1799), KGA I/2, pp. 163-184; l’intero quarto discorso di Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (1799), KGA I/2, pp. 266-292; Über das Anständige (1800), KGA I/3, pp. 73-99; i Monologen (1800), KGA I/3, pp. 3-61. 18  Cfr. Gen 4, 15. 19  Sul rapporto tra libertà e destino, cfr. Freiheitgespräch (1789), KGA I/1, pp. 135-164 e Über die Freiheit (1790-92), pp. 219-356, ove è scritto: «mi manca soltanto la capacità di leggere nel libro del destino, in esso vedrei segnato per ogni istante della mia vita lo stato della mia moralità tanto esattamente e indubitabilmente come lo stato del cielo nelle tabelle degli astronomi» (p. 285). 20  La formula, secondo Giovanni Moretto (Etica e storia in Schleiermacher, Bibliopolis, Napoli 1979, p. 135 e nota 109), potrebbe rappresentare un riferimento alla prima parte (1784) delle herderiane Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit: «l’uomo è il primo essere della creazione lasciato libero; egli sta dritto. La bilancia del bene e del male, del falso e del vero, sta nelle sue mani; egli può indagare, egli deve scegliere» (Johann G. Herders Sämmtliche Werke, hrsg. B. Suphan, Berlin, vol XIII, p. 146). La tesi sarà ripresa da Friedrich Schlegel nella sua definizione dell’uomo quale «determinabilità indeterminata», in proposito Heinrich Nuesse, Die Sprachtheorie Friedrich Schlegels, Winter, Heidelberg 1962, pp. 19-21. 21  Cfr. Mt 13, 45-46.

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L’autore allude a Michel de Montaigne, De l’inegualité [sic] qui est entre nous, Essais, I, XLII. 23  Come osserva Sorrentino (F.D.E. Schleiermacher, Il valore della vita, cit., p. 142, nota 3), il concetto di denaro come circulating medium of exchange fu elaborato da Adam Smith e sarà ripreso anche da Kant nel 1797, nel paragrafo Che cos’è il denaro? consegnato alla prima parte de La metafisica dei costumi (ed. Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 106 e sgg.). Il denaro vi è indicato quale «mezzo universale e rappresentativo dello scambio reciproco dei prodotti del lavoro» (p. 109). 24  Marco Porcio Catone (234-149 a. C.), uomo politico, generale e scrittore romano, esempio del rigorismo etico e delle virtù repubblicane; e Aristide (530-467 a. C.), stratega e arconte nell’Atene di Temistocle, cui si oppose contrastando la legge per il finanziamento della flotta ateniese. È considerato la personificazione della giustizia, anche da parte dei contemporanei meritò l’appellativo di “giusto”. 25  Nel testo durch das Gefühl (GS I/1, 1984, p. 441, rigo 1): letteralmente «mediante il sentimento»; ma si allude qui all’effetto della percezione tattile. Il cieco percepisce al tatto i contorni e traduce tale percezione in immagine mentale. 26  La perdita della salute. 27  Riferimento a Christian Garve (1742-1798), che nel 1772 si ritrasse per ragioni di salute dall’insegnamento tenuto nell’Università di Lipsia. Fu uno dei massimi rappresentanti della corrente della Popularphilosophie, assai stimato da Schleiermacher in questo frangente, ma apertamente criticato più tardi: cfr. Garves letzte noch von ihm selbst herausgegebene Schriften, Sammelrezension (1800), KGA I/3, pp. 63-72. 28  Probabile riferimento alla poesia Das Land der Hinkenden di Christian Fürchtegott Gellert (1715-1769), tratta da Fabeln und Erzählungen (1746), Sämmtliche Schriften, I, Weidmann und Reich, Leipzig 1769, p. 22. 29  Probabile allusione alla poesia Die Götter Griechenlandes di Friedrich Schiller (1759-1805), apparsa nel «Teutscher Merkur» di Weimar nel marzo 1788, pp. 250-260. Traduzione italiana: Friedrich Schiller, Poesie filosofiche, a cura di G. Moretti, SE, Milano 1990, pp. 12-19. Nella mitologia greca le Driadi erano le ninfe delle querce. 30  L’autore fa riferimento, traslitterando la “c” nella “k” e la “d” finale nella “t”, a François de La Rochefoucauld (1633-1680), noto per l’opera Reflexions, ou Sentences et maximes morales, Claude Barbin, Paris 1665. 31  Gruppo etnico che discende dal ramo europeo degli Oyrati, insediato nei territori oggi appartenenti al Kazakistan orientale, alla Mongolia occidentale e alla Cina settentrionale. 32  L’autore fa riferimento a un ornamento in uso tra gli abitanti dell’isola di Palawan che oggi fa parte delle Filippine. 33  Cfr. Lc 18, 11. 34  Nell’Analitica della Critica della ragion pratica, Kant aveva separato il principio della felicità da quello della virtù, ma nella dialettica trascendentale aveva conciliato i due principi nell’idea del sommo bene sulla base della Postulatenlehre. Schleierma-

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cher aveva criticato la riconciliazione in uno scritto inedito del 1789: Über das höchste Gut (1789), KGA I/1, pp. 81-125. Cfr. supra, Introduzione, II. 35  Ovvero: è molto meglio di quanto è contenuto nella “linea mediana dell’equivalenza”, vale a dire nel giudizio di una sostanziale equivalenza di piacere e dolore. Ma il significato non è perspicuo. Sorrentino ritiene che als sie sia il soggetto di una proposizione verosimilmente rimasta incompleta e traduce: «la vita è certamente migliore di quanto essi ritengono». Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Il valore della vita, cit., p. 197. 36  Sorrentino ritiene qui sia echeggiato il logion evangelico, in riferimento a Mt 16, 25 e Lc 9, 24. Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Il valore della vita, cit., p. 208, nota 19.

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Cfr. 2 Ts 3, 2. Moretto ritiene, sulla base delle ipotesi di Süskind e di Meckenstock, che queste battute siano ispirate alle Ideen (1797) e alla Weltseele di Schelling. Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Scritti filosofici, cit., p. 88, nota 3; Hermann Süskind, Der Einfluss Schellings auf die Entwicklung von Schleiermachers System, Mohr, Tübingen 1909, pp. 58 e sgg.; G. Meckenstock, Einleitung des Bandherausgebers, KGA I/2, pp. 24 e sgg.. 3  Cfr. Gn 14, 18. L’esposizione precedente può essere posta a confronto con il Pensiero n. 154, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (1796-1799), KGA I/2, p. 36. 4  Cfr. Ger 31, 34; Ebr 8, 11 e Gv 6, 45. 5  Abbiamo molte testimonianze della crisi religiosa di Schleiermacher al Seminarium di Barby. Forse la più significativa si trova nella lettera al padre del 21/1/1787 (n. 53), KGA V/1, p. 50: «non posso credere che il Dio eterno, vero, sia lo stesso che chiamava se stesso solo figlio dell’uomo; io non posso credere che la sua morte sia stata una riconciliazione “sostitutiva”, perché egli stesso non lo ha mai detto espressamente e perché non posso credere che essa fosse necessaria; infatti, è impossibile che Dio voglia punire eternamente l’umanità per il fatto che essa non è divenuta perfetta, dal momento che Egli l’ha creata esplicitamente non per la perfezione, ma per l’aspirazione ad essa». Cui il padre rispondeva con l’apostrofe: «Oh, folle figlio!». Cfr. la lettera dell’8/2/1787 (n. 54), KGA V/1, p. 53. 6  Cfr. Cor 1, 23. 7  Cfr. Mt 4, 5. 8  Cfr. 2 Cor 3, 6. 9  Si veda in proposito il Pensiero n. 88, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (1796-1799), KGA I/2, p. 25. 10  Cfr. il Pensiero n. 89, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), KGA I/2, p. 25. 11  Cfr. il Pensiero n. 153, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), KGA I/2, p. 36. 2 

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Cfr. Marco Tullio Cicerone, De natura deorum, 1, 60. Giovanni Moretto osserva che l’episodio narrato da Cicerone «è ripreso sia da P. Bayle (Dizionario storico-critico, tr. it. di G. Cantelli, Bari 1976, pp. 295-333, voce “Simonide”, opera che si trovava nella biblioteca di Schleiermacher), sia da Hume nei Dialoghi sulla religione naturale (tr. it. di M. Dal Pra, Bari 1963, p. 38). «E potete voi biasimarmi, Cleante, se imito qui la prudente riserva di Simonide, che, secondo il ben noto racconto, interrogato da Ierone su che cosa era Dio, desiderò un giorno per pensarvi, poi ancora due giorni e così di seguito prolungò continuamente il termine, senza mai dare la sua definizione e descrizione?». Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Scritti filosofici, cit., p. 105, nota 10. 13  Nella seconda edizione dei Discorsi (1806), l’autore confina il ruolo dell’intuizione alla conoscenza, e mantiene il termine sentimento. Sulle modifiche apportate al concetto di religione nell’edizione del 1806, cfr. Friedrich W. Graf, Ursprüngliches Gefühl unmittelbarer Koinzidenz des Differenten. Zur Modifikation des Religionsbegriff in den verschiedenen Auflagen von Schleiermachers «Reden über die Religion», «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 75/1978, pp. 147-186. 14  Come il termine “universo”, la formula «uno e tutto» rimanda alla ripresa della dottrina spinoziana nel dibattito tardo-settecentesco (cfr. La Spinoza-Renaissance nella Germania di fine Settecento, a cura di Vittorio Morfino, Unicopli, Milano 1998). Schleiermacher aveva discusso i principi della filosofia di Spinoza, in rapporto a quelli di Kant e di Leibniz, tra il 1793 e il 1794, a commento della seconda edizione (1789) della jacobiana Über die Lehre des Spinoza in Briefen an den Herrn Moses Mendelssohn (la prima edizione era del 1785; la tr. it. è condotta sulla terza, del 1819: cfr. La dottrina di Spinoza. Lettere al signor Moses Mendelssohn, tr. di F. Capra, riveduta da V. Verra, Laterza, Bari 1969). Gli scritti schleiermacheriani sono: Spinozismus (1793/94); Kurze Darstellung des Spinozistischen Systems (1793/94) e Über dasjenige in Jacobis Briefen und Realismus, was den Spinoza nicht betrifft, und besonders über seine eigene Philosophie (1793/94), KGA I/1, pp. 513-558, 561-582 e 585-597. Al riguardo Davide Bondì, Quando «Spinoza uscì dalla sua tomba». Tre scritti di F.D.E. Schleiermacher, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 2/2017, pp. 425-442. 15  Prometeo aveva rubato il fuoco agli dèi per renderlo agli uomini. Oltre al mito greco, narrato nella tragedia di Eschilo nota all’autore (cfr. Hermann Patsch, Alle Menschen sind Künstler. F. Schleiermacher poetische Versuche, W. de Gruyter, Berlin-New York 1986, pp. 207 e sgg.), Moretto rimanda opportunamente al protagonista dell’omonimo inno goethiano composto tra il 1772 e il 1774. Nella lettera a Mendelssohn del 4 nov. 1783, Jacobi riferiva infatti che Lessing, avendo avuto nell’incontro di Wolfenbüttel (1780) occasione di leggere il Prometheus goethiano, aveva affermato: «non ho preso nessuno scandalo», «il punto di vista, da cui la poesia parte, è il mio proprio punto di vista», i «concetti ortodossi della divinità» non «sono più per me e io non li posso gustare. Eν καὶ πᾶν! Non conosco nient’altro» (F. Jacobi, La dottrina di Spinoza. Lettere al signor Moses Mendelssohn, cit, p. 67). L’accezione negativa dell’atteggiamento prometeico rimanda alla polemica con l’idealismo fatto e finito introdotta nel capoverso successivo. Così recita l’inno di Goethe: «Copri di nuvole il tuo cielo, o Giove, e come un ragazzo che scapezza cardi, esercitati contro le querce e le montagne! Devi lasciarmi stare la mia terra, e la mia casupola che non hai fatto tu, e il mio focolare, per la fiamma del quale tu m’invidi! Sotto il sole non cono-

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sco niente di più meschino di voi, o dèi! Voi nutrite a stento di sacrifici e di preghiere la vostra maestà; e manchereste del necessario, se i fanciulli e i mendichi non fossero pazzi pieni di speranza. Quand’ero fanciullo non sapevo che partito prendere, volgevo l’occhio smarrito al sole, come se lassù vi fosse un orecchio che ascoltasse i miei lamenti, un cuore come il mio che compatisse gli afflitti! Chi mi aiutò contro la tracotanza dei Titani, chi mi salvò dalla morte e dalla schiavitù? Non facesti tutto ciò tu stesso, o santo cuore ardente? E ardevi giovane e buono, ingannato, in ringraziamento di salvezza a colui che lassù dormiva? Io onorarti? Perché? Hai tu mai lenito i dolori dell’oppresso? Non mi hanno fatto uomo il tempo onnipotente e il destino eterno, signori miei e tuoi? Credevi forse che io dovessi odiare la vita, fuggire nei deserti, perché non tutti i sogni fioriti sono maturati? Qui io me ne sto, plasmo uomini a mia immagine, una specie che mi somigli nel soffrire, nel piangere, nel godere e nel gioire, e nel non onorarti, come io non t’onoro!». 16  Con l’espressione «idealismo fatto e finito», Schleiermacher allude al costruttivismo speculativo di Fichte che, in linea con le posizioni espresse da Jacobi nella famosa lettera del 1799, taccia di nichilismo. Cfr. Jacobi an Fichte, F. Perthes, Hamburg 1799; tr. it. con il titolo Idealismo e nichilismo. La lettera di Jacobi a Fichte, a cura di G. Sansonetti, Morcelliana, Milano 2001. 17  In questa apoteosi di Spinoza sono stati scorti accenti cristologici (Konrad Cramer, „Anschauung des Universums“. Schleiermacher und Spinoza in Ulrich Barth, Claus-Dieter Osthövener (hrsg.), 200 Jahre ‘Reden über die Religion’. Akten des 1. Internationalen Kongresses der Schleiermacher Gesellschaft, Halle 14-17 März 1999 Part 1, W. de Gruyter, Berlin-New York 2000, pp. 118-141). Di certo, Schleiermacher rovescia l’immagine di Spinoza rispetto all’interpretazione propostane da Jacobi. Nelle lettere a Mendelssohn del 1785 e in quella a Fichte del 1799, il filosofo ebreo olandese è considerato un precursore dell’idealismo, animato dal medesimo spirito prometeico. La dottrina della scienza, di conseguenza, è ridotta a uno «spinozismo rovesciato», al capovolgimento di una metafisica della sostanza in una metafisica del soggetto. Nell’elogio ditirambico qui proposto, Spinoza si staglia invece a immagine del solitario annunciatore dell’unica alternativa possibile all’idealismo, l’irraggiungibile antagonista della congrega profana ripiegata su un genere deteriore di antropocentrismo speculativo, non modello di una particolare religione ma della disposizione religiosa o Frömmigkeit. 18  Cfr. il Pensiero n. 121, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), KGA I/2, p. 31. 19  Cfr. Mt 26, 53. 20  Cfr. Mt 4, 1-11. 21  Cfr. 1 Gv 4, 18. 22  Cfr. Mt 6, 28.26. 23  Cfr. Gn 2, 18-25. 24  Cfr. Rm 9, 21. Qui Schleiermacher considera dunque opinione irreligiosa la dottrina della predestinazione. Moretto ha osservato che questa asserzione fu attenuata nell’edizione del 1806. Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Scritti filosofici, cit., p. 135, nota 22.

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Cfr. il Pensiero n. 85, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), KGA I/2, p. 25. 26  Cfr. il Pensiero n. 140, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), KGA I/2, p. 33. 27  Il riferimento alla Nemesi potrebbe essere stato suggerito dall’herderiano Nemesis. Ein lehrendes Sinnbild (1875), in Zerstreute Blätter, Zweite Sammlung, Ettinger, Gotha 1786, p. 213 e sgg.. 28  Cfr. il Pensiero n. 86, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), KGA I/2, p. 25. 29  Cfr. Dt 18, 22. 30  Evidente riferimento all’Atheisumstreit. Il clima culturale tedesco, animato nella seconda metà del Settecento dal libero dibattito sulla religione, era mutato drasticamente con i provvedimenti promulgati nel 1788 dal ministro dell’educazione Johann Ch. Wöllner. La libertà d’espressione garantita fino a pochi anni prima da Federico il Grande fu fortemente limitata con l’editto del 9 luglio, che ingiungeva: «non si ardisca risuscitare ancora i miseri errori da tempo confutati dei sociniani, dei deisti, dei naturalisti e di altre sette e diffonderli nel popolo con molta audacia e spudoratezza grazie al nome estremamente abusato di illuminismo» (cfr. Marco M. Olivetti, Introduzione a Immanuel Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Roma-Bari 2004, p. VII e sgg.). Seguivano a breve provvedimenti di censura e l’istituzione di commissioni per il controllo delle pubblicazioni periodiche e aperiodiche. Sotto il regno di Federico Guglielmo II vide la luce l’opera kantiana dedicata alla religione entro i limiti della sola ragione (1793), benché l’editore di Königsberg ne avesse prudentemente ordinata la stampa a Jena. Con l’avvento al trono di Federico Guglielmo III (1797), l’editto religioso Wöllner fu abrogato, ma il clima politico negli stati tedeschi non cambiò. Il saggio Sul fondamento della nostra credenza nel governo divino del mondo (1798) procurò a Fichte una pesante accusa di ateismo e l’ingiunzione da parte del governo di Weimar di abbandonare l’università di Jena, presso cui era stato convocato da Goethe che ora, «sia pure a malincuore», nulla obiettava contro l’allontanamento. Gli articoli fichtiani apparsi nel «Giornale filosofico» tra la fine del 1798 e il marzo del 1799 furono tre: quello su citato, l’Appello al pubblico e lo Scritto di giustificazione giuridica degli editori del «Philosophisches Journal» contro l’accusa di ateismo (1799), indirizzato all’autorità accademica di Jena. Rimase incompiuto il quarto, Richiami, risposte, domande, rivolto a chi era intervenuto nella polemica, e pubblicato solo nel 1845, mentre il saggio progettato come quinto, Da una lettera privata, apparve nel gennaio del 1800. Si possono leggere tutti nella traduzione italiana: Johann G. Fichte, La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, Guida, Napoli 1989, pp. 71-239 (cfr. supra, p. xxvii e nota 68 della stessa). Nella disputa intervenne Johann A. Eberhard, già maestro di Schleiermacher nell’università di Halle, con due articoli: Über den Gott des Herrn Professor Fichte und den Götzen seiner Gegner (1799) e Versuch einer genauen Bestimmung des Streitpunktes zwischen Herrn Professor Fichte und seinen Gegnern (1799). L’autonomia del concetto di religione di Schleiermacher non escludeva che i Discorsi potessero essere tacciati di ateismo. Il capo della Chiesa riformata berlinese Friedrich Samuel Gottfried Sack, ad

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esempio, lamentava d’avervi scorto «un’entusiastica apologia del panteismo, un’illustrazione retorica del sistema spinoziano» (cfr. lettera di Friedrich S.G. Sack di fine 1800-inizio 1801 (n. 1005), KGA V/5, p. 4). Lo stesso Eberhard s’indignerà quando, nell’ottobre del 1804, sarà conferita a Schleiermacher la nomina di professore all’università di Halle: «Siamo arrivati al punto che si chiama a Halle come teologo e predicatore un pubblico ateo». Cfr. G. Moretto, Editoriale. Etica e narrazione nella «Festa di Natale» di Schleiermacher in F.D.E. Schleiermacher, La festa di Natale. Un dialogo, Interpretazioni di Friedrich W.J. Schelling e di Karl Barth, a cura di G. Moretto, Queriniana, Brescia 1994, p. 13. 31  Cfr. 1 Cor 9, 22. 32  Moretto, sulla base di un’osservazione di Erwin H.-U. Quapp (cfr. Christus im Leben Schleiermachers. Vom Herrnhuter zum Spinozisten, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1972, 113), ritiene che l’apologia dell’ateismo possa essere stata ispirata a Schleiermacher da Pierre Bayle che, «nelle Pensées diverses, dichiara spesso che l’ateo è più vicino a Dio del cristiano superstizioso». Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Scritti filosofici, cit., p. 155, nota 28. 33  Cfr. Mt 16, 24; Mc 8, 35; Lc 9, 24. 34  Come segnala Günter Meckenstock nell’edizione critica, «il metro fu introdotto il 7 aprile 1795 in Francia quale quarantamilionesima parte della circonferenza della terra». Cfr. Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (1799), KGA I/2, p. 256, nota relativa ai righi 24-25. 35  Si veda Christoph W. Hufeland, Die Kunst, das menschliche Leben zu verlängern, 2 B.de, Akademische Buchhandlung, Jena 1797. L’opera ebbe ampia fortuna, tanto da apparire in seconda edizione nel 1798. Hufeland (1762-1836) fu considerato in Germania promotore della medicina olistica, descrisse i principi fondamentali della teoria macrobiotica e usò cure innovative come l’idroterapia. 36  Cfr. il Pensiero n. 112 a, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (1796-1799), KGA I/2, p. 29. 37  Riferimento all’opera degli scrittori romantici Wilhelm H. Wackenroder (17731798) e Ludwig Tieck (1773-1853) apparsa anonima con il titolo Herzensergießungen eines kunstliebenden Klosterbruders (Effusioni del cuore di un monaco amante delle arti) per le edizioni berlinesi di Unger nel 1797. 38  Allusione al frammento di Friedrich Schlegel sulla poesia romantica: «La poesia romantica è una poesia universale progressiva. Suo fine non è solo riunire nuovamente tutti i distinti generi della poesia e mettere a contatto la poesia con la filosofia e con la retorica. Vuole, e anche deve, ora mescolare ora fondere poesia e prosa, genialità e critica, poesia d’arte e poesia naturale, rendere viva e sociale la poesia e far poetiche la vita e la società, poetizzare lo spirito [Witz] e riempire e saturare le forme dell’arte con il più vario e il più schietto contenuto culturale e animarle con le oscillazioni dello humor. Comprende tutto ciò che soltanto è poetico, dal più grande sistema dell’arte, a sua volta comprensivo di altri, fino al sospiro, al bacio che il fanciullo poeta esala in un canto spontaneo. Così si può perdere nel rappresentato a tal punto da far credere che per essa caratterizzare individualità poetiche di ogni sorta sia l’Uno e il Tutto; pure, non esiste ancora alcuna forma che possa essere siffatta da espri-

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mere completamente lo spirito [Geist] dell’autore: cosicché certi artisti che intendevano semplicemente scrivere un romanzo, in qualche modo hanno rappresentato se stessi. Solo essa può, al pari dell’epica, diventare uno specchio dell’intero mondo circostante, un’immagine dell’epoca. Pure, essa può anche librarsi, più di tutto, nel mezzo, tra il rappresentato e chi lo rappresenta, libera da ogni interesse reale e ideale, sulle ali della riflessione poetica, può potenziare via via questa riflessione e moltiplicarla, come in una fila interminabile di specchi. È funzionale alla formazione più alta e più versatile; non solo dall’interno verso l’esterno, ma anche dall’esterno verso l’interno, in quanto organizza in modo analogo tutte le parti di ciò che nei suoi prodotti deve essere l’Intero, così che le viene aperta la prospettiva su una classicità che cresce senza confini. La poesia romantica è, tra le arti, ciò che lo spirito [Witz] è per la filosofia, e la società, le relazioni, l’amicizia e l’amore sono per la vita. Altri generi poetici sono finiti, e adesso è possibile articolarli completamente. Il genere poetico romantico è ancora in fieri; anzi, questa è la sua propria essenza, che può solo eternamente divenire, mai essere compiuto. Non può essere esaurito da nessuna teoria, e solo una critica divinatoria potrebbe osare caratterizzarne l’ideale. Esso solo è infinito, come è anche il solo a essere libero, e riconosce come sua prima legge, che l’arbitrio del poeta non debba avere a soffrire di alcuna legge che lo sovrasti. Il genere romantico è l’unico ad essere più di un genere e al contempo l’arte stessa della poesia, dal momento che, in un certo senso, tutta la poesia è romantica o deve esserlo» Cfr. il Frammento, n. 116, fasc. 2 luglio 1978 di «Athenæum», ora in Athenaeum. Tutti i fascicoli della rivista di August Wilhelm Schlegel e Friedrich Schelegel, a cura di Giorgio Cusatelli, Elena Agazzi e Donatella Mazza, Bompiani, Milano 2008, pp. 167-168. 39  Allusione alla sentenza del vescovo di Cartagine Cipriano (248-258): «extra ecclesiam nulla salus» (Epistulae 73, 21). 40  Cfr. Lc 19, 40. 41  Cfr. At 10, 47. 42  Giovanni Moretto osserva che la tesi della separazione di Stato e chiesa, assai diffusa tra gli illuministi francesi, era stata sposata anche da Herder nella quarta raccolta dei suoi scritti cristiani: Vom Geist des Christenthums pubblicata nel 1798. Cfr. F.D.E. Schleirmacher, Scritti filosofici, cit., p. 199, nota 37. 43  L’autore allude alla Rivoluzione francese. 44  Ercole era stato generato dall’unione di Zeus, che aveva assunto le sembianza del re Anfitrione, e della regina Alcmena, sua moglie. Quella stessa notte Anfitrione, tornato da una battaglia, desiderava accostarsi alla moglie, ignara dell’inganno appena giocatole da Zeus. Ercole e Ificlo, prole divina e umana, furono pertanto creduti da Anfitrione gemelli. Era, gelosa per il tradimento del marito, mandò due serpenti nella culla dei gemelli ma Ercole, già prodigiosamente forte, li strangolò entrambi. 45  Cfr. il Pensiero n. 155, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), KGA I/2, p. 36. 46  Cfr. Mt 18, 20. 47  «E il verbo si fece carne e dimorò tra noi». Gv 1, 14. Il prologo del Vangelo di Giovanni, come mostrato in più occasioni da Xavier Tilliette e Giovanni Moretto, ha esercitato una grande influenza sulla filosofia idealistica tedesca. Certo, l’interpreta-

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zione schleiermacheriana ha una sua peculiarità irriducibile. Cfr. Xavier Tilliette, Il prologo di San Giovanni e i filosofi, in Id., Filosofi davanti a Cristo, tr. it. di G. Sansonetti, Morcelliana, Brescia 1989, pp. 90-122 e il capitolo Storicismo giovanneo in G. Moretto, Etica e storia in Schleiermacher, Bibliopolis, Napoli 1979, pp. 437-541. 48  Cfr. Lc 10, 2. 49  Cfr. Fil 2, 7. 50  Nelle Lettere in occasione del compito politico-teologico e della Missiva dei padri di famiglia ebrei (1799), l’autore rivendica un illimitato godimento di diritti civili e politici per gli ebrei tedeschi, ma intende scongiurare conversioni al cristianesimo dettate da motivazioni esteriori. La loro conversione – scrive – non è un danno per lo Stato ma lo è per la chiesa e per il cristianesimo. «Sarebbe compito della chiesa scongiurare lo Stato, per il suo attaccamento al cristianesimo, affinché conceda agli ebrei l’illimitato godimento della libertà civile, perché sgomberi in questo modo tutto ciò che possa indurre gli ebrei a convertirsi al cristianesimo per motivi non puri ed esteriori». Briefe bei Gelegenheit der theologisch-politischen Aufgabe und des Sendschreibens jüdischer Hausväter (1799), KGA I/2, pp. 327-371, p. 345. In proposito cfr. Matthias Blum, Ich wäre ein Judenfeind? Zum Antijudaismus in Friedrich Schleiermachers Theologie und Pädagogik, Böhlau Verlag, Köln-Weimar-Wien 2010, pp. 40 e sgg. e Matthias Wolfes, Öffentlichkeit und Bürgergesellschaft. Friedrich Schleiermachers politische Wirksamkeit, de Gruyter, Berlin-New York 2004, pp. 334 e sgg. 51  Cfr. il Pensiero n. 139, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), KGA I/2, p. 33. 52  Cfr. Gv 9, 1 e a Lc 13, 2. 53  Cfr. il Pensiero n. 87, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), KGA I/2, p. 25. 54  Cfr. Rm 5, 12. 55  Cfr. 1 Cor 2, 14. 56  Cfr. il Pensiero n. 141, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), KGA I/2, p. 33. 57  Cfr. Sal 91, 6. 58  Cfr. At 17, 28. 59  Cfr. Mt 23, 27. 60  Cfr. Mt 10, 34. 61  Schleiermacher riteneva il Vangelo giovanneo superiore ai Vangeli sinottici. Benché in esso non compaia quasi niente di storico, la sua ispirazione autentica è indubbia. Cfr. Die Weihnachtsfeier. Ein Gespräch (1806), KGA I/5, p. 94; in questa edizione: La festa di Natale, p. 631. Si è reso con “amico del cuore” l’espressione tedesca Busenfreund, letteralmente “amico del petto”. Bisogna però osservare che nella traduzione data va perso il valore denotativo dell’espressione, con la quale si allude all’episodio dell’ultima cena durante cui Giovanni poggiava la testa sul petto di Gesù (Gv 13, 25). Anche Zinzendorf, fondatore della comunità herrnhutiana, chiamava il discepolo prediletto der Brust-Jünger. 62  Si tratta probabilmente di un’allusione allo scritto Vom dem Zwecke Jesu und

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seiner Jünger (Sullo scopo di Gesù e dei suoi discepoli) apparso nel 1778, con il sottotitolo: «ancora un frammento dell’anonimo di Wolfenbüttel». G. Ephraim Lessing lo aveva pubblicato durante la sua polemica con il pastore capo di Amburgo Johann Melchior Goeze, traendolo dal manoscritto Apologie oder Schutzschrift der vernünftigen Verehrer Gottes (Apologia o scritto in difesa degli adoratori razionali di Dio) di Hermann Samuel Reimarus. Cfr. Sulla religione, a cura di S. Spera, ed. 2017, nota *p. 242. 63  Cfr. Mt 11, 27. 64  Cfr. 2 Cor 1, 18-20. 65  L’allusione alla vita di Gesù fa riferimento a Mt 26, 63 e sgg., Mc 14, 61 e sgg., Lc 22, 70. 66  Cfr. Lc 22, 19. 67  Probabile allusione a At 19, 1-7. 68  Cfr. Gv 16, 13. 69  Cfr. Gn 2, 2 e sgg.. 70  Cfr. 2 Cor 3, 6. 71  Cfr. 1 Cor 15, 28. 72  Rudolf Haym riallacciava questo riferimento alle più giovani forme di religione agli articoli del filosofo e poeta romantico August Ludwig Hülsen (1765-1809) apparsi nel quinto fascicolo (maggio 1800) di «Athenæum» con il titolo Naturbetrachtungen auf einer Reise durch die Schweiz. Questo scritto circolava tra gli amici romantici in forma inedita proprio mentre Schleiermacher era intento alla stesura del quinto discorso. Cfr. Rudolf Haym, La scuola romantica. Contributo alla storia dello spirito tedesco, presentazione e tr. it. E. Pocar, Ricciardi, Milano-Napoli MCMLXV, pp. 497 e sgg.

Monologhi. Un dono di capodanno 1  Giovanni Moretto rammenta al lettore che nella Weihnachtsfeier l’autore critica i cultori delle concezioni allegoriche del Capodanno, in contrasto con i punti di vista offerti nel saggio sul valore della vita e nei Monologhi, e rimanda piuttosto alla gioia universale del giorno di Natale. Cfr. Die Weihnachtsfeier. Ein Gespräch (1806), KGA I/5, p. 91; in questa edizione: La festa di Natale, pp. 625 e sgg. e F.D.E. Schleiermacher, Scritti filosofici, cit., p. 260-261, nota 4. 2  Cfr. il Pensiero n. 3, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), da KGA I/2, p. 4. 3  Cfr. il Pensiero n. 38, Gedanken III (1798-1801), da KGA I/2, p. 127. 4  Le valutazioni illusorie e le idee infantili riconducibili agli interessi pratici dell’esistenza ricordano assai da vicino la galleria di casi individuali presentati nella prima parte del saggio su Il valore della vita (1792-93), cfr. Über den Wert des Lebens (179293), KGA I/1, pp. 397 e sgg.; in questa edizione: Il valore della vita, pp. 21 e sgg. 5  Cfr. il Pensiero n. 36, Gedanken III (1798-1801), KGA I/2, p. 127.

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Secondo Moretto (cfr. F.D.E. Schleiermacher, Scritti filosofici, cit., p. 269, nota 16), Schleiermacher allude a Fichte per cui «filosofia e vita […] sono totalmente separate». Il giudizio è espresso in una lettera a Carl G. v. Brinckmann scritta tra il 23/12/1799 e il 4/1/1800, n. 758, KGA V/3, p. 314. Ma si veda anche la coeva Rezension von Johann Gottlieb Fichte: Die Bestimmung des Menschen (1800), in KGA I/3, pp. 235-248 (tr. it. di Omar Brino in Etica mondiale e destinazione dell’uomo, a cura di D. Venturelli, Il Melangolo, Genova 2002, pp. 33-53). Già in un’annotazione dei Gedanken III, in contrasto con la dottrina fichtiana, Schleiermacher rimandava alla «limitatezza» del pensiero separato dalla vita, giacché «la vita è morte senza riflessione» e «la filosofia è un ritratto esangue» se vuol «raffigurare l’interiorità nell’angusto spazio dell’astrazione», cfr. il Pensiero n. 35, Gedanken III (1798-1801), KGA I/2, p. 127. 7  Cfr. il Pensiero n. 33, Gedanken III (1798-1801), KGA I/2, p. 127. 8  Cfr. il Pensiero n. 32, Gedanken III (1798-1801), KGA I/2, p. 126. 9  Probabile allusione a Lc 24, 25. 10  Probabile riferimento alla decisione di abbandonare l’educazione herrnhutiana impartitagli nel seminario di Barby per iscriversi alla Friedrichs-Universität di Halle nell’aprile 1787. Cfr. supra, Discorsi sulla religione, nota 5. Si veda anche An Cecilie (probabilmente 1790), KGA I/1, in particolare pp. 199-209. 11  Si veda ancora il Pensiero n. 32, Gedanken III (1798-1801), da KGA I/2, p. 126. 12  Riferimento alla fase dell’esistenza in cui Schleiermacher sposava interamente l’idea dell’universalità dei principi morali, accordandovi però la teoria del sentimento morale (con ogni probabilità fino al 1794). Meckenstock ha osservato che negli scritti giovanili, proprio per la rigorosa trascendentalizzazione della ragione pratica, «acquisiva il più grande valore la questione della sua mediazione nelle determinazioni empiriche del volere» (Günter Meckenstock, Deterministische Ethik und kritische Theologie. Die Auseinandersetzung des frühen Schleiermacher mit Kant und Spinoza 17891794, W. de Gruyter, Berlin-New York 1988, p. 33). 13  Schleiermacher allude alla comprensione del principio dell’unità e infinità dell’esistente tratto dagli studi spinoziani e fatto valere contro la ripetizione uniforme di un solo ideale in tutte le diverse manifestazioni dell’umanità. Cfr. Kurze Darstellung des Spinozistichen Systems (probabilmente 1793-94), KGA I/1, pp. 573-574. 14  Cfr. Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (1799), KGA I/1, pp. 229-230; in questa edizione: Discorsi sulla religione, p. 245. 15  Il rilievo dell’individualità per la riflessione morale era stato esplicitamente messo in chiaro da Schleiermacher in una lettera a Brinckmann del 22 marzo 1800: «il principium individui è l’elemento più mistico nell’ambito della filosofia, e dove tutto gli si collega immediatamente, l’intero deve per forza ricevere un aspetto mistico». Lettera a Carl G. v. Brinckmann del 22/3/1800 (n. 817), KGA V/3, p. 434. 16  Allusione alla cerchia romantica raccoltasi attorno a Henriette Herz (17641847) e Dorothea Mendelssohn Veit (1764-1839), in cui primeggiava la figura di Friedrich Schlegel. 17  Cfr. Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (1799), KGA I/1, pp. 262; in questa edizione: Discorsi sulla religione, p. 337.

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Cfr. lettera a Heinriette Herz del 5/7/1799 (n. 672), KGA V/3, p. 143. Allusione polemica contro la filosofia morale di Kant. 20  Cfr. Ap 1, 17. 21  Cfr. supra, Discorsi sulla religione, nota 5. 22  Probabile riferimento alla reazione di Friedrich Schlegel di fronte ai dubbi espressi da Schleiermacher sulla tenuta stilistica e sull’accentuazione dell’elemento sensualistico presenti nel romanzo Lucinde, pubblicato a Berlino nel 1799. Delle perplessità di Schleiermacher abbiamo notizia in una missiva dello stesso Schlegel, cfr. lettera di D. Veit e F. Schlegel del 14/4/1799 (n. 628), KGA V/3, p. 88. E tuttavia l’autore, in risposta alle proteste dell’«alto senato dei conservatori», aveva proposto una discussione critica del libro in due testi che ne rivalutano alcuni aspetti: le Lettere confidenziali, apparse anonime a metà giugno del 1800 nelle edizioni Fromann di Jena, e una recensione pubblicata il mese successivo nel «Berlinisches Archiv der Zeit und ihres Geschmacks». Cfr. Vertraute Briefe über Friedrich Schlegels Lucinde (1800), in KGA I/3, pp. 139-215 e Rezension von Friedrich Schlegel: Lucinde (1800), in KGA I/3, pp. 217-223. In proposito si veda anche il Pensiero n. 60, Gedanken III (17981801), KGA I/2, p. 133-134. 23  Cfr. il Pensiero n. 3, Gedanken II (1798), KGA I/2, p. 107 e il Frammento n. 336, Fragmente (1798), pp. 146-148. 24  Cfr. il Pensiero n. 134, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), KGA I/2, p. 32 e il Pensiero n. 26, Gedanken III (1798-1801), KGA I/2, p. 125. 25  Cfr. il Pensiero n. 170, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), KGA I/2, p. 38. 26  Giovanni Moretto segnala la possibile allusione alle teorie sviluppate da Wilhelm von Humboldt nelle Idee per un saggio sui limiti dell’attività dello Stato (1792). Cfr. F.D.E. Schleiermacher, Scritti filosofici, cit., p. 295, nota 33. 27  Cfr. Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (1799), KGA I/1, pp. 203 e sgg.; in questa edizione: Discorsi sulla religione, p. 185. 28  Cfr. la lettera a Carl G. v. Brinkmann del 9/6/1800 (n. 883), KGA V/4, in particolare p. 80. 29  Cfr. il Pensiero n. 3, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), KGA I/2, p. 4. 30  Cfr. supra, Discorsi sulla religione, nota 5. 31  Cfr. supra, Il valore della vita, nota 2. 32  Gli interpreti concordano nel considerare questa un’allusione al possibile allontanamento dalla cerchia degli amici romantici berlinesi. A Schleiermacher, Friedrich S.G. Sack aveva infatti proposto, nell’estate del 1798, di assumere l’incarico di predicatore nella città di Schwedt sull’Oder (si veda la lettera di Schleiermacher alla sorella Charlotte del 25/7/1798 (n. 496), KGA V/2, p. 367). Lo stesso Sack, nel 1802, preoccupato dello scandalo che poteva seguire alla pubblicazione dei Vertraute Briefe sulla Lucinde di Schlegel (cfr. la lettera scritta tra metà di maggio e inizio di giugno (n. 1065), KGA V/5, p. 130), affidò al giovane predicatore l’incarico della cura delle anime della cittadina di Stolp. Il capo della Chiesa riformata berlinese, d’altro canto, 19 

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come già osservato (cfr. supra, Discorsi sulla religione, nota 30), aveva aspramente criticato i riferimenti a Spinoza contenuti nelle Reden. 33  Probabile allusione a Eleonore C. Krüger (1770-1837), cui Schleiermacher era sentimentalmente legato dal 1798. Dal 1796 Eleonore soffriva per il matrimonio con il pastore luterano August C.W. Grunow (1764-1831). Lo studioso l’accompagnò nel doloroso processo di allontanamento dal marito. 34  Riferimento a Samuel Okely (nato 1766), compagno di studi nel seminario di Barby che aveva lasciato la sede dell’Unione dei Fratelli il 3 dicembre 1786 ed era mancato nell’estate del 1787 per un incidente accaduto nei pressi della sua residenza in Inghilterra. Con l’espressione “le nuove fiamme che hanno acceso il mondo”, Schleiermacher allude probabilmente alla Rivoluzione francese. 35  Allusione a Friedrich Schlegel e Dorothea Veit, trasferitisi da Berlino a Jena nel settembre del 1799. Dal 21 dicembre del 1797, Schlegel aveva abitato con Schleiermacher nella residenza destinatagli presso l’ospedale Charité, ove ricopriva la funzione di predicatore. Prima del trasferimento Dorothea, figlia di Moses Mendelssohn, viveva in città con il commerciante Simon Veit cui era stata legata in matrimonio dal 1783. 36  Allusione a Henriette Herz e Eleonore Grunow, che facevano parte della cerchia romantica berlinese frequentata da Schleiermacher. In proposito si vedano il terzo e il dodicesimo capitolo W. Dilthey, La vita di Schleiermacher, vol. II, a cura di F. D’Alberto, Guida, Napoli 2010, pp. 68-78 e 351-358. 37  Cfr. il Pensiero n. 7, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), KGA I/2, pp. 7-8; il Pensiero n. 1, Gedanken III (1798-1801), da KGA I/2, p. 119; la lettera a Charlotte Schleiermacher del 18/8/1797 (n. 399), KGA V/2, in particolare pp. 158 e sgg.; la lettera a Carl G. v. Brinkmann del 9/6/1800 (n. 883), KGA V/4, in particolare p. 80; la lettera a Charlotte Schleiermacher del 13 febbraio 1801 (n. 1021), KGA V/5, in particolare p. 54. 38  Cfr. il Pensiero n. 187, Vermischte Gedanken und Einfälle (Gedanken I) (17961799), KGA I/2, p. 42. 39  Cfr. la lettera a Henriette Herz del 9/9/1798 (n. 524), KGA V/2, pp. 411 e sgg. 40  Meckenstock e Moretto rilevano che il tema dell’eterna giovinezza è discusso da Schleiermacher in diverse prediche e, a più riprese, nel carteggio con Henriette Herz, Eleonore Grunow e Friedrich Schlegel. Cfr. Monologen. Eine Neujahrsgabe (1800), KGA I/3, nota del curatore, p. 56 e F.D.E. Schleiermacher, Scritti filosofici, cit., p. 321, nota 50. 41  Cfr. il Pensiero n. 39, Gedanken III (1798-1801), da KGA I/2, p. 128. 42  Pensiero n. 40, Gedanken III (1798-1801), da KGA I/2, p. 128.

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Dietro questo personaggio, che compare anche nelle Lettere confidenziali (1800), si cela Charlotte Schlegel, sorella di Friedrich. Lo dichiara l’autore in una lettera a Henriette von Willich del 21 febbraio 1809, riportata in Hermann Patsch, Einleitung des Bandherausgebers, in KGA I/5, p. LIV. 2  Cfr. Qo 7, 29. 3  Jan Hus (1369-1415) è stato un teologo e riformatore religioso boemo, rettore dell’Università di Praga, promotore di un movimento basato sulle idee di John Wycliffe. Scomunicato nel 1411, Hus fu condannato nel corso del Concilio di Costanza e arso al rogo il 6 luglio 1415. Una comunità di Fratelli boemi si stabilì a Herrnhut nel 1727, ponendosi sotto la guida di Nikolaus Ludwig von Zinzendorf. Il riferimento all’opposizione alla Chiesa cattolica da parte di Lutero (la bolla papale fu bruciata il 10 dicembre 1520), alle missioni di evangelizzazione dei Fratelli moravi, al cimitero di Herrnhut e all’orfanotrofio di Halle, ripercorrono idealmente le tappe della biografia e della religiosità di Schleiermacher, formatosi nella Comunità dei Fratelli e approdato all’università di Halle nel 1804 (cfr. supra, Introduzione, I e VI ). 4  Nella Gemäldegalerie di Dresda era esposta l’Adorazione dei Pastori o la Notte (databile tra il 1525-1530) del pittore Antonio Allegri, detto Correggio (1489-1534), cui sembra pensare qui Schleiermacher. Una copia settecentesca della Maddalena del Correggio, giunto nella stessa galleria nel 1746, dà lo spunto a un passaggio, certamente noto all’autore, del famoso dialogo di August W. Schlegel sui dipinti. Die Gemälde. Ein Gespräch, fasc. 3 (marzo 1799) di «Athenæum», ora in Athenaeum [1798-1800]. Tutti i fascicoli della rivista, a cura di G. Cusatelli, E. Agazzi e D. Mazza, Postfazione di Eugenio Lio, Bompiani, Milano 2008, pp. 351-353. 5  Cfr. Gn 9, 12-16. 6  Lasset uns ihn lieben, denn er hat uns zuerst geliebt è una cantilena natalizia del poeta tedesco Matthias Claudius (1740-1815) musicata da Reichardt. Al suo interno vi sono due corali, il primo dei quali è Willkommen in dem Jammerthal. Johann Friedrich Reichardt (1752-1814) fu maestro di cappella e direttore della «Berlinische Musikalische Zeitung» (cfr. supra, Introduzione, VI). Adolph Müller, allievo di Schleiermacher nell’università di Halle, in una lettera al padre del 18 febbraio 1806 sottolineava «i grandi e piccoli riferimenti» agli ospiti di casa Reichardt della Festa di Natale, e «le frecciate e le allusioni contro i dotti del posto» (cfr. Hermann Patsch, Einleitung des Bandherausgebers, in KGA I/5, pp. L-LV). 7  Giovanni Moretto osserva che queste considerazioni si riallacciano alla biografia di Schleiermacher. La sorella Charlotte (1765-1831) visse infatti in una casa herrn­ hutiana per sorelle fino al 1813, anno in cui si trasferì a Berlino. Cfr. F.D.E. Schleiermacher, La festa di Natale. Un dialogo, cit., p. 76, nota 8. 8  Allusione a Winkelmann und sein Jahrhundert. In Briefen und Aufsätzen herausgegeben von Goethe, Cotta, Tübingen 1805, p. 404. È possibile vi sia qui un’allusione al desiderio di Friedrich Schlegel di convertirsi al cattolicesimo, cosa che accadde intorno al 1808. 9  Cfr. Mc 9, 42 e Mt 18, 6.

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Allusione alla poesia Der Bund der Kirche mit den Künsten composta da August Wilhelm Schlegel nel 1800 (cfr. Gedichte, Cotta, Tübingen 1800, pp. 143-156). 11  Benché non si riscontri una citazione letterale, secondo Hermann Patsch è qui presente un’allusione alla formula della vita come opera d’arte discussa da Friedrich Schlegel nel capitolo Anni di apprendistato dell’età virile del romanzo Lucinde (in proposito, cfr. supra, Monologhi, nota 22). In più occasioni Schleiermacher aveva motivato il contrasto tra arte e vita, si vedano, ad esempio, i Monologen. Eine Neujahrsgabe (1800), KGA I/3, pp. 19-21; in questa edizione: Monologhi, pp. 471-473, e la lettera a F. Heinrich Christian Schwarz del 28 marzo 1801 (n. 1033), KGA V/5, pp. 77-78. 12  Cfr. Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (1799), KGA I/1, pp. 269-270; in questa edizione: Discorsi sulla religione, p. 325. 13  Cfr. Lc 2, 13 e sgg. Si colga, peraltro, la probabile allusione a Messiah, un oratorio in lingua inglese composto da Georg Friedrich Händel (1685-1759) nel 1741 e rappresentato a Dublino nel 1742 e ad Amburgo nel 1772. Il coro 42 è appunto titolato Hallelujah. 14  Riferimento al capitolo Musica della musica, contenuto nel romanzo Anni acerbi di Jean Paul (Flegeljahre. Eine Biographie von Jean Paul Richter, Cotta’schen Buchhandlung, Tübingen 1804), in cui il personaggio di Vult è ispirato al flautista Dülon, esecutore del concerto del 3 dicembre 1805 (cfr. nota editoriale e G. Scholtz, Schleiermachers Musikphilosophie, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1981, pp. 34 e sgg.). 15  Cfr. Lc 2, 35. 16  Cfr. Lc 2, 13 e Mt 2, 11. 17  Allusione alla battaglia di Austerlitz, che impegnò la terza coalizione contro le truppe napoleoniche. Combattuta il 2 dicembre 1805, si concluse con la disfatta degli eserciti austriaco e russo. Non furono diffuse notizie ufficiali sul suo esito fino al 14 dicembre. 18  Cfr. Rm 8, 32. Il corale non è stato rintracciato. 19  Cfr. Sal 73, 25. 20  Cfr. Mc 10, 15. 21  Cfr. Mc 1, 15; Mt 4, 17; Lc 15, 7.10. 22  È il XV dei Geistliche Lieder di Novalis. Cfr. Schriften, hrsg. von Friedrich Schlegel und Ludwig Tieck, zweiter Theil, Buchhandlung der Realschule, Berlin 1802, pp. 157 e sgg.; Inni alla notte/Canti spirituali, introduzione di F. Masini, traduzione in versi di G. Bemporad, Milano, Garzanti, 1988, p. 121 (da cui è tratta la traduzione). 23  Riferimento al poeta satirico inglese Charles Churchill (1731-1764). Nella citazione si annida un’allusione personale, per cui l’autore riteneva che Henriette Herz avrebbe riconosciuto la paternità dello scritto. Cfr. la lettera a Henriette Herz del 17/2/1806 (n. 2145), KGA V/8, p. 470. 24  Nel suo Wörterbuch zur Erklärung und Verdeutschung der unserer Sprache ausgedrungenen fremden Ausdrücke (Braunschweig 1801, B. 1, p. 324), il purista Joachim Heinrich Campe (1746-1818) aveva infatti proposto di tedeschizzare la parola di provenienza latina “Elegant” con “Zierling”. Il termine costituisce la prima par-

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te della parola composta “Zierboldes” (“bellimbusto”), utilizzata nel testo schleiermacheriano. 25  Cfr. Mt 2, 11. 26  Cfr. At 10,47 e At 10, 47. 27  Cfr. Lc 1, 28 e sgg.. 28  Si tratta del XII dei Geistliche Lieder di Novalis. Cfr. Schriften, cit., pp. 150153; Inni alla notte/Canti spirituali, cit., pp. 111 e sgg. 29  La protagonista del racconto è figura ispirata alla storia di Charotte von Kathen e del figlio Gottlieb Ferdinand Ehrenfried (nato 22 maggio 1804), come dichiarato dallo stesso autore in una lettera a lei indirizzata. Cfr. lettera a Charlotte von Kathen del 20/6/1806 (n. 2196), KGA V/9, p. 40: «non è un regalo quello che Le offro, ma quel che Lei offre a me, quel che io, confidando in lei, ho preso per me da Lei». 30  Cfr. Gv 5, 24. 31  Cfr. Gv 19, 25. Lo Stabat Mater è una sequenza cattolica del XIII secolo, attribuita a Jacopone da Todi. 32  Allusione a Platone, cfr. Simposio, 176e-177a. 33  Cfr. 1 Cor 15, 8. 34  Cfr. Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern (1799), KGA I/1, pp. 314 e sgg.; in questa edizione: Discorsi sulla religione, p. 413. 35  Cfr. supra, Monologhi, nota 1. 36  Cfr. Gn 3; 1 Tm 2, 14. 37  Socrate in Simposio, 198a-199a. 38  Il vangelo di Giovanni. 39  Gv 1,1.14. 40  Erdgeist è nozione utilizzata da Schelling nelle Lezioni sul metodo dello studio accademico, 1803 (in poposito H. Patsch, Der «Erdgeist» als philosophischer Topos bei Friedrich Schlegel, Schleiermacher, Schelling und Hegel, in Sergio Sorrentino, ed. by, Schleiermacher’s Philosophy and the Philosophical Tradition, Mellen, Lewiston – Queenston – Lampeter 1992, pp. 75-90). Schleiermacher scrisse un’importante recensione dell’opera: Rezension von ‘Vorlesungen über die Methode des akademischen Studiums’ (1804), in KGA I/4, pp. 461-484, che può leggersi nella traduzione italiana di Omar Brino: Friedrich D.E. Schleiermacher, Le ‘Lezioni sul metodo dello studio accademico’ di Schelling, a cura di O. Brino, «Humanitas», 59/2004, pp. 1218-1245. 41  Il nome ricorda quello del vescovo herrnhutiano August Gottlieb Spangenberg (1704-1792), che nella comunità era chiamato “fratello Giuseppe”. Cfr. H. Patsch, Die esoterische Kommunikationsstruktur der «Weihnachtsfeier». Über Anspielungen und Zitate, in Schleiermacher in Context, Papers from the 1988 International Symposium on Schleiermacher at Herrnhut, The German Democratic Republic, ed. by R.D. Richardson, Mellen, Lewiston – Queenston – Lampeter 1991, pp. 145-149.

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Bibliografia* 1. Opere di carattere bibliografico Arndt A., Virmond W., Schleiermachers Briefwechsel (Verzeichnis) nebst einer Liste seiner Vorlesungen, de Gruyter, Berlin-New York 1992. Meding W. von, Bibliographie der Schriften Schleiermachers nebst einer Zusammenstellung und Datierung seiner gedruckten Predigten, de Gruyter, BerlinNew York 1992. Tice T.N., Schleiermacher Bibliography, Princeton University Press, Princeton N.J. 1966; Id., Schleiermacher Bibliography (1784-1984). Updating and Commentary, Princeton University Press, Princeton N.J. 1985; Id., Schleiermacher Bibliography. Update, in «New Athenaeum/Neues Athenaeum», 1, 1989, pp. 280-350; «New Athenaeum/Neues Athenaeum», 2, 1991, pp. 131-163; «New Athenaeum/Neues Athenaeum», 4, 1994, pp. 139-194.

2. Edizioni originali degli scritti principali pubblicati da Schleiermacher Fragmenten e Rezensionen, in «Athenaeum», 1, 1798; 2, 1799 e 3, 1800. Briefe bei Gelegenheit der politisch theologischen Aufgabe und des Sendschreibens jüdischer Hausväter, Berlin 1799. Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern, Berlin 1799, ivi 18062, ivi 18213, ivi 18314. Versuch einer Theorie des geselligen Betragens, in «Berlinisches Archiv der Zeit und ihres Geschmacks», 5, 1799, pp. 48-66 e 111-123. Monologen. Eine Neujahrsgabe, Berlin 1800, ivi 18102, ivi 18223, ivi 18294. Vertraute Briefe über Friedrich Schlegels Lucinde, Lübeck und Leipzig, 1800. Predigten, sette raccolte: I, Berlin 1801, ivi 18062, ivi 18163; II, Berlin 1808; III, Berlin, 1814, ivi 18212; IV, Predigten über den christlichen Hausstand, Berlin 1820, ivi 18262; V, Christliche Festpredigten, Berlin 1826; VI, Predigten in Bezug auf die Feier der Übergabe der Augsburger Confession, Berlin 1831; VII, Christliche Festpredigten, Berlin 1833. Grundlinien einer Kritik der bisherigen Sittenlehre, Berlin 1803, ivi 18342 [la 2a ed. è postuma, ma verosimilmente preparata dall’autore]. * Ringrazio Omar Brino per avermi concesso di utilizzare parte della bibliografia da lui apposta all’Introduzione a Schleiermacher, Laterza, Roma-Bari 2010. Il punto 8, riguardante le opere sugli scritti giovanili e della prima maturità, deve essere integrato con i riferimenti bibliografici in calce all’introduzione del curatore (supra, pp. xlviii-lviii). La bibliografia verte sulle pubblicazioni apparse fino al giugno 2017, data in cui l’opera è stata consegnata alla casa editrice.

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bibliografia

Rezension F.W.J. Schelling, «Vorlesungen über die Methode des akademischen Studiums», in «Jenaische Literaturzeitung», 1, 1804. Platons Werke, vol. I, 2 tomi, Berlin 1804 e 1805, ivi 18172; vol. II, 2 tomi, Berlin 1809 e 1810, ivi 18192; vol. III, Berlin 1828. Die Weihnachtsfeier. Ein Gespräch, Halle 1806, Berlin 18262. Rezension J.G. Fichte, «Die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters», in «Jenaische Literaturzeitung», 4, 1807. Herakleitos der dunkle, von Ephesos, dargestellt aus den Trümmern seines Werkes und den Zeugnissen der Alten, in «Museum der Altertums-Wissenschaft», 1, 1807, pp. 313-533. Über den sogenannten ersten Brief des Paulus an den Timotheus. Ein kritisches Sendschreiben an Gaß, Berlin 1807. Gelegentliche Gedanken über Universitäten in deutschem Sinn. Nebst einem Anhang über eine neu zu errichtende, Berlin 1808. Kurze Darstellung des theologischen Studiums zum Behuf einleitender Vorlesungen, Berlin 1811, ivi 18302. Über Anaximadros, in «Abhandlungen der Königlichen Akademie der Wissenschaften. Aus dem Jahre 1804-1811», Berlin 1815, pp. 97-124. Über die verschiedene Methoden des Übersetzens, in «Abhandlungen der Königlichen Akademie der Wissenschaften. Aus dem Jahre 1812-1813», Berlin 1816, pp. 143-172. Über die für die protestantische Kirche des preußischen Staates einzurichtende Synodalverfassung, Berlin 1817. Über die Schriften des Lucas, ein kritischer Versuch, I parte [unica uscita], Berlin 1817. Über die Begriffe der verschiedenen Staatsformen, in «Abhandlungen der Königlichen Akademie der Wissenschaften. Aus dem Jahre 1814-1815», Berlin 1818, pp. 17-49. Über den Werth des Sokrates als Philosophen, in «Abhandlungen der Königlichen Akademie der Wissenschaften. Aus dem Jahre 1814-1815», Berlin 1818, pp. 50-68. Über die Auswanderungsverbote, in «Abhandlungen der Königlichen Akademie der Wissenschaften. Aus dem Jahre 1816-1817», Berlin 1819, pp. 25-44. Über die Lehre von der Erwählung, besonders in Beziehung auf Herrn Dr. Bretschneiders Aphorismen, in «Theologische Zeitschrift», 1, 1819, pp. 1-119. Über die wissenschaftliche Behandlung des Tugendbegriffs, in «Abhandlungen der Königlichen Akademie der Wissenschaften. Aus dem Jahre 1818-1819», Berlin 1820, pp. 3-24. Der christliche Glaube nach den Grundsätzen der evangelischen Kirche im Zusammenhange dargestellt, 2 voll., Berlin 1821-1822; ivi 1830-18312. Über den Gegensatz zwischen der Sabellianischen und der Athanasianischen Vorstellung von der Trinität, in «Theologische Zeitschrift», 3, 1822, pp. 295-408. Über das liturgische Recht evangelischer Landesfürsten. Ein theologisches Bedenken von Pacificus Sincerus, Göttingen 1824. Versuch über die wissenschaftliche Behandlung des Pflichtbegriffs, in «Abhandlungen der philosophische Klasse der Königlichen Akademie der Wissenschaften. Aus dem Jahre 1824», Berlin 1826, pp. 1-15.

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bibliografia

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Gespräch zweier selbstüberlegender evangelischer Christen über die Schrift: Luther in Beziehung auf die neue preußischen Agende. Ein letztes Wort oder ein erstes, Leipzig 1827. Über den Unterschied zwischen Naturgesetz und Sittengesetz, in «Abhandlungen der philosophische Klasse der Königlichen Akademie der Wissenschaften. Aus dem Jahre 1825», Berlin 1828, pp. 15-31. Über den Begriff des Erlaubten, in «Abhandlungen der philosophische Klasse der Königlichen Akademie der Wissenschaften. Aus dem Jahre 1826», Berlin 1829, pp. 1-23. Über seine Glaubenslehre. Sendschreiben an Dr. Lücke, I e II, in «Theologische Studien und Kritiken», 2, 1829, pp. 255-284 e 481-532. Über den Begriff des höchsten Gutes, I e II, in «Abhandlungen der Königlichen Akademie der Wissenschaften zu Berlin. 1830», Berlin 1832, pp. 1-43. Über die Zeugnisse des Papias von unsern beiden ersten Evangelien, in «Theologische Studien und Kritiken», 5, 1832, pp. 735-768. Über Kolosser 1, 15-20, in «Theologische Studien und Kritiken», 5, 1832, pp. 497-537.

3. Edizioni complessive Sämmtliche Werke, Reimer, Berlin 1835-1864, 31 voll. in tre sezioni: I, Theologie (11 voll.); II, Predigten (10 voll.); III, Philosophie (10 voll.). Werke. Auswahl in vier Bänden, hrsg. von O. Braun e J. Bauer, Meiner, Leipzig 1910-1913, ivi 19272; Scientia, Aalen 1967, 19812 [ristampa anastatica], 4 voll. Kritische Gesamtausgabe, hrsg. von H.-J. Birkner, G. Ebeling, H. Fischer, H. Kimmerle e K.-V. Selge (poi anche U. Barth, K. Cramer e G. Meckenstock), de Gruyter, Berlin-New York 1980 sgg., cinque sezioni: I, Schriften und Entwürfe; II, Vorlesungen; III, Predigten; IV, Übersetzungen; V, Briefwechsel und biographische Dokumente. La prima sezione si è completata nel 2006 con la pubblicazione di 15 volumi (l’ultimo di indici); nella seconda sono stati pubblicati 6 volumi: i Bände 4, 6, 8, 10, 12, 16; la terza sezione in 14 volumi è ormai completa; nella quarta sezione ha visto la luce solo il Band 3; per la quinta sezione è stata pubblicata in 11 volumi la corrispondenza fino al 1810.

4. Lettere (oltre la sezione V della KGA) Aus Schleiermachers Leben. In Briefen, Reimer, Berlin 1858-1863; de Gruyter, Berlin 1974 [ristampa anastatica], 4 voll. Briefwechsel mit August Boeckh und Immanuel Bekker, 1806-1820, hrsg. von H. Meisner, Literaturarchiv-Gesellschaft, Berlin 1916. Schleiermacher als Mensch. Sein Werden und Wirken. Familien und Freundesbriefe, 2 voll., hrsg. von H. Meisner, Klotz, Gotha 1922-1923. Der Brief an Jacobi, hrsg. von M. Cordes, in «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 68, 1971, pp. 208-211.

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5. Traduzioni italiane Monologhi, trad. di C. Dentice d’Accadia, R. Carabba, Lanciano 1919. L’amore romantico. Lettere intime sulla «Lucinde» di Schlegel, trad. di E. De Ferri, intr. di G.V. Amoretti, Laterza, Bari 1928. Lezioni di pedagogia, a cura di L. Volpicelli, Signorelli, Roma 1940. Discorsi sulla religione e Monologhi, a cura di G. Durante, Sansoni, Firenze 1946. La confessione di Augusta, a cura di R. Osculati, Messaggero, Padova 1978. Lo studio della teologia. Breve presentazione, a cura di R. Osculati, Queriniana, Brescia 1978, ivi 20052. La dottrina della fede. Esposta sistematicamente secondo i princìpi fondamentali della chiesa evangelica, 2 voll., a cura di S. Sorrentino, Paideia, Brescia 1981-1985. Etica ed ermeneutica, a cura di G. Moretto, Bibliopolis, Napoli 1985. Estetica, a cura di P. D’Angelo, Aestetica, Palermo 1988. Sul concetto di arte, a cura di P. D’Angelo, Aestetica, Palermo 1988. Sulla religione. Discorsi a quegli intellettuali che la disprezzano, a cura di S. Spera, Queriniana, Brescia 1989, ivi 20052. Introduzione a Platone, a cura di G. Sansonetti, Morcelliana, Brescia 1994. La festa di Natale. Un dialogo, a cura di G. Moretto, Queriniana, Brescia 1994. Sull’università, a cura di L. D’Alessandro, La Città del Sole, Napoli 1995. Ermeneutica, a cura di M. Marassi, Rusconi, Milano 1996; Bompiani, Milano 20002. Scritti filosofici, a cura di G. Moretto, Utet, Torino 1998. Lezioni di pedagogia, a cura di I. Volpicelli, La Nuova Italia, Firenze 1999. Il valore della vita, a cura di S. Sorrentino, Marietti, Genova 2000. Introduzione alla dottrina della fede cristiana, a cura di A. Rizzi, Messaggero, Padova 2000. La destinazione dell’uomo di Fichte, a cura di O. Brino, in Etica mondiale e destinazione dell’uomo, a cura di D. Venturelli, Il Melangolo, Genova 2002, pp. 33-53. Dialettica, a cura di S. Sorrentino, Trauben, Torino 2004. Le «Lezioni sul metodo dello studio accademico» di Schelling, a cura di O. Brino, in «Humanitas», 59, 2004, pp. 1218-1245. Saggio di una teoria del comportamento socievole, trad. di A. Bertinetto, in «La società degli individui», 25, 2006/1, pp. 125-144. L’insegnamento della storia, traduzione di H. Spano, «Persona», 2, 2011, pp. 147155. Monologhi, a cura di F. Andolfi, Diabasis, Reggio Emilia 2011.

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ii.

Indice dei nomi

Abbt Thomas: XXI Albertini Johann B. (von): XII Andolfi Ferruccio: XXXV, XXXVI, LVII, LVIII, LXIII, 664, 665, 668 Aristide: 93, 643 Aristotele: XII, XIII Arndt Andreas: XII, XLVIII, LV, 661, 665, 666, 668 Barth Karl: LXII-XLVI, XLVIII Barth Ulrich: XLVIII, LIII Bayle Pierre: 645, 648 Beethoven Ludwig (van): XXXVII Beiser Frederick: XII, LVIII Beneke Schumann (cugina di Friedrich): 641 Benjamin Walter: XXVIII, XLVIII Beutel Albrecht: XX, XLVIII Blackwell Albert: XIV, XLVIII, 668 Blair Hugh: XXVII Blum Matthias: 650, 668 Boas Franz: XXIII Böckh August: XXIII Bonacina Giovanni: XXXII, XLVIII Bondì Davide: XLVIII, XLIX, 645 Bonito Oliva Rossella: XLVIII, XLIX Brentano Clemens: XL, XLVI Brinckmann Carl G. (von): XXXIV, 642, 652 Brino Omar: XVIII, XIX, XXVI, XXX, XXXIII, XXXVI, XXXVII, XXXVIII, XXXIX, XLIV, XLIX, LI, LVI, 642, 652, 657, 661, 664, 666, 668 Bucci Paolo: XLIX Cafagna Emanuele: XXXI, XXXII, XXXIII, XLIX, L, 668 Campe Johachim H.: 605, 656

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Cassirer Ernst: XXIII Catone Marco Porcio: 93, 643 Cazotte Jaques: 641 Cesa Claudio: XXXVI, XXXIX, L, 668 Churchill Charles: 603, 656 Cicerone Marco Tullio: 645 Cipriano (vescovo di Cartagine): 649 Claudius Matthias: 655 Correggio (Antonio Allegri): 565, 655 Cramer Konrad: 646, 663 Creuzer Christian A.: XVII D’Alberto Francesca: L, 654 Descartes René: 670 Dilthey Wilhelm: XII, XVIII, XX, XXV, XXXIV, XXXVIII, XLII, XLVI, L, LXI, LXII, 654, 666 Dohna Friedrich (padre): LIX Dohna Friedrich (figlio): 641 Dohna Wilhelm: XXIX Dülon Friedrich L.: XXXIX, LXIII, 656 Durante Gaetano: LXII, 664 Eberhard Johann A.: XII-XIII, XVII, XL, L, 647, 648 Ehrenfried G. Ferdinand: 657 Ehrhardt Christiane: XXXIV, L, 668 Fawcett Joseph: XXVII Federico II (re di Prussia): 647 Federico Guglielmo II (re di Prussia): 647 Federico Guglielmo III (re di Prussia): 647 Fichte Johann G.: XX, XXVII, XXVIII, XXXIII, XXXV, XXXVI, XXXVIII, XLIV, LV, LVI, LIX, 642, 646, 647, 652 Fonnesu Luca: LI Frank Manfred: LI, 666

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672 Gadamer Hans-Georg: LI, 667 Garve Christian: XVII, 643 Gaß Joachim C.: XL Gedike Friedrich: XX Gellert Christian F.: 643 Ghia Guido: L, LI Giacca Emanuela: XIV, XV, XXIX, XXXV, XXXVIII, LI, 668 Giovanni Evangelista: 429, 649, 657 Goethe J. Wolfgang (von): XL, 571, 645, 647 Goeze Johann M.: 651 Graf Friedrich W.: 645 Grunow August C.W.: 654 Grunow (Krüger) Eleonore: 654 Gueroult Martial: XX, LI Habermas Jürgen: XXXIII, LI Hamann J. Georg: XXIX Händel G. Friedrich: 656 Haym Rudolf: LI, 65, 669 Hegel Georg W.F.: XXXI, XXXII, XXXIX Herder Johann G.: XX, XXVII, 642, 649 Herms Eilert: XIV, XXIX, LII, LV, 667, 669 Herz Henriette: XXV, LXII, 652, 654, 656 Hinske Norbert: XX, LII Hirsch Emanuel: XXXIX, LII Hufeland Christoph W.: 299, 648 Hülsen A. Ludwig: XXVI, 651 Humboldt Wilhelm (von): 653 Hume David: 645 Hus Jan: 563, 655 Hutcheson Francis: XVII Ivaldo Marco: XXXIX, LII Jacobi Friedrich H.: XXVI, XXVIII, XXIX, 645, 646 Jean Paul (Friedrich Richter): XXXVII, 585, 656 Kant Immanuel: XII, XIII, XIV, XV, XVIII, XX, XXVI, XXXVIII, LII, LIX, 642, 643, 645, 647

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indice dei nomi

Kathen Charlotte (von): XL Kimmerle Heinz: XXXI, LII, 665 Labriola Antonio: XXIII Landolfi Petrone Giuseppe: LVII Lauth Reinhard: XX, L Lawler Edwina: LXI, 665 Lazarus Moritz: XXIII Leibniz G. Wilhelm (von): XII, 645 Lessing G. Ephraim: XIV, XXVII, 645 (Tito) Lucrezio Caro: 277, 642 Macor Laura A.: XX, LII Marassi Massimo: XX, LVII, 664 Meckenstock Günter: XIV, XXIII, XXV, LII, LIV, LV, LXI, LXII, 644, 648, 652, 654, 663, 666, 669 Mendelssohn Moses: XX, 642, 646 Meyer Ernst R.: XI, LII, 67 Montaigne Michel (de): 643 Moretto Giovanni: XIII, XIV, XXII, XXVIII, XXXIII, XXXVI, XL, LI, LIII, LVI, LXII, LXIII, 645, 648, 649, 664 Müller Adolph: XL, 655 Novalis (Georg F.P.F. von Hardenberg): XXVI, 601, 656, 657 Nowak Kurt: X, XXV, LIII, 667, 669 Nuesse Heinrich: 642 Oberdorfer Bernd: XIV, XVI, XVIII, XIX, LIII, 669 Okely Samuel: 654 Olivetti Marco M.: XXX, LIII, 647, 666, 669 Osculati Roberto: IX, X, LIII, 664, 667, 672 Osthövener Claus-Dieter: XLVIII, LVIII, 646, 665 Patsch Hermann: XXVI, XXXIX, XL, XLI, XLV, XLVI, LIII, LIV, LV, LXIII, 645, 655, 656, 657, 669 Pettoello Renato: XXIX, LIV Pistilli Emanuela: XXIX, LIV Platone: XII, LIX, LX, 311, 657

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indice dei nomi

Pozzo Riccardo: LIV

Spener Christian S.: XXXIII, XXXIV, LXII,

Quapp Erwin H.-U.: XLVI, LIV, 648, 669

Spera Salvatore: LXII, 651, 664 Spinoza Baruch: XII, XXVI, XXVIII, XXXIII, LIX, 213, 277, 645, 646, 654 Steinthal Heymann: XXIII Stubenrauch Samuel E.T.: XIII, LXI Süskind Hermann: 644

Ranke Leopold (von): XXXI Reichardt J. Friedrich: XL, 565, 655 Reimarus Hermann S.: 651 Reimer Georg A.: XXXIX, XL, LXIII Reinhold Karl L.: XVII (La) Rochefoucauld François de: 643 Sack August F.W.: XX, 641 Sack Friedrich S.G.: XXV, XXVII, XL, 647, 648, 653 Savigny Friedrich K. (von): XL Schelling Friedrich W.J.: XLIII, XLIV, XLVI, LIV, 644, 648, 657 Schiller Friedrich: XX, 642, 643 Schimmelpfennig Markus: XXXIX, LXIII Schlegel August W.: 581, 656 Schlegel Charlotte: XL, 655 Schlegel Friedrich: XXV, XXVI, XXXIII, XXXIV, XXXVII, XLI, XLVI, LIX, LXII, 642, 648, 652, 653, 654, 656 Schleiermacher Charlotte (sorella di Friedrich): 653, 654 Schleiermacher Johann G.A. (padre di Freidrich): XII Schmid Carl C.E.: XVII Scholtz Gunter: XIX, XXVI, LVII, 656, 667 Schwab Johann C.: XII Schwartz Friedrich H.C.: XXXIV Seibert Dorette X, XIV, XIX, LVII Shaftesbury Anthony A-C.: XVII, XXXIV Simmel Georg: XXIII Smith Adam: 643 Socrate: XVIII, XLI, 657 Sommer Wolfgang: XXVI, LVII, 669 Sorrentino Sergio: XIX, LIII, LVI, LVII, LXI, LXII, 642, 643, 644, 657, 664, 666, 667, 669 Spalding Johann J.: XX, XXI, LVII, 641 Spano Hagar: XX, LVI, 664, 670

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LXIII

Tessitore Fulvio: XX, LVII, 667 Thouard Denis: XI, XIV, XXVI, XXIX, XXXV, LVIII, 670 Tice Terrence N.: LXI, 661, 665, 666 Tieck Ludwig: XLVI, 648, 656 Tilliette Xavier: 649, 650 Ulrich August H.: XVII Unger J. Friedrich: LXII, 648 Uttendörfer Otto: IX, LVIII Valenza Pierluigi: XXXII, LVIII Veit (Mendelssohn) Dorothea: XXV, XXXIV, 652 Verra Valerio: XXIX, LVIII, 645 Virmond Wolfgang: XII, XLVIII, LV, LVII, 661, 665 Voß Leopold: XXXIII Wackenroder Wilhelm H.: 648 Wieland C. Martin: 641 Willich Ehrenfried Th. (von): XL Willich Henriette (von): XXXIV, LX, 655 Wittekind Franz: XXVII, XXVIII, LVIII Wolf F. August: XII Wolfes Matthias: 650, 667 Wolff Christian: XII Wöllner Johann Ch.: 647 Wycliffe John: 655 Zinzendorf Nikolaus L. (von): IX, X, XI, 650, 655

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iii.

Indice generale

Etica e religione nei primi scritti di Schleiermacher

vii

di Davide Bondì

1. L’esperienza pietistica 2. Le rapsodie filosofiche 3. Il valore della vita 4. I discorsi sulla religione 5. I monologhi 6. La festa di Natale

xxxix

Riferimenti bibliografici dell’introduzione

xlviii

ix xiv xix xxv xxxiii

Cronologia della vita e delle opere

lix

Nota editoriale

lxi

SCRITTI DI FILOSOFIA E RELIGIONE

1792-1806 Il valore della vita  [1792-93]

3

Sulla religione Discorsi a quelle persone colte che la disprezzano  [1799]

163

Primo discorso Apologia

167

Secondo discorso L’essenza della religione

199

Terzo discorso L’educazione alla religione

283

Quarto discorso La socievolezza della religione o la Chiesa e il sacerdozio

319

Quinto discorso Le religioni

371

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indice generale

Monologhi. Un dono di Capodanno  [1800]

439

Presentazione i. Riflessione ii. Verifiche iii. Visione del mondo iv. Prospettive v. Giovinezza e vecchiaia

443

La festa di Natale. Un dialogo  [1806]

551

Note ai testi

639

Il valore della vita Sulla religione. Discorsi a quelle persone colte che la disprezzano Monologhi. Un dono di Capodanno La festa di Natale. Un dialogo

641 644 651 655

Apparati

659

i.

661 671 675

Bibliografia Indice dei nomi iii. Indice generale ii.

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445 463 489 511 533

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Finito di stampare nel mese di marzo 2021 presso L.E.G.O. Stabilimento di Lavis (TN)

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