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Italian Pages 896 [889] Year 2017
BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE Collana fondata da
GIOVANNI REALE diretta da
MARIA BETTETINI
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MIGUEL DE UNAMUNO VITA DI DON CHISCIOTTE E SANCIO E ALTRI SCRITTI SUL CHISCIOTTE
Testo spagnolo a fronte
Introduzione, traduzione e apparati di Armando Savignano
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ISBN 978-88-587-7714-5 Realizzazione editoriale: BluLapis S.r.l. – Milano www.giunti.it www.bompiani.eu © 2017 Giunti Editore S.p.A./Bompiani Via Bolognese 165 - 50139 Firenze - Italia Piazza Virgilio 4 - 20123 Milano - Italia Prima edizione: novembre 2017 Bompiani è un marchio di proprietà di Giunti Editore S.p.A.
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SOMMARIO
Saggio introduttivo Don Chisciotte tra idealismo etico e tragi-commedia 7 Cronologia della vita e delle opere
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Nota editoriale
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Il Cavaliere dalla Triste Figura 53 Sulla lettura e l’interpretazione del Chisciotte 97 Vita di Don Chisciotte e Sancio 133 Prima parte 173 Seconda parte 475 Apparati 837
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1. In cammino con Don Chisciotte «Non possiamo dubitare noi spagnoli – afferma María Zambrano – che la figura di Don Chisciotte della Mancia1 rappresenti il nostro più chiaro mito, il più vicino all’immagine sacra»2. L’itinerario intellettuale ed esistenziale di Unamuno può essere scandito nelle seguenti fasi: 1. Un periodo giovanile (1884-97) caratterizzato dal razionalismo umanista e dal misticismo sul piano filosofico-religioso e, a livello politico, da istanze liberal-socialiste umanitarie. In particolare, dopo la fanciullezza e l’adolescenza caratterizzate da un fervente cattolicesimo, Unamuno, durante gli anni universitari a Madrid (1880-84) a seguito degli influssi filosofici e dell’ambiente culturale contrassegnato essenzialmente dal kruaso-positivismo, visse una crisi intellettuale che comportò anche la lenta perdita della fede teologale-dogmatica per far posto, dopo un breve periodo (1884-86) di oscillazione e di lotta interiore in tensione tra la nuova situazione e quella pregressa, ad una credenza secolarizzata contrassegnata da istanze etico-antropologiche che perdurarono per un decennio (1886-96) che può pertanto essere caratterizzato dal “razionalismo umanista”. 2. Dopo la decisiva crisi religiosa ed esistenziale (1897) e quella della Spagna che diede origine alla celebre “Generazione del ’98”, di cui, per il forte contributo alla rigenerazione etico-sociale, è stato considerato l’indiscusso capo 1
Per le citazioni ci riferiamo a M. de Unamuno, Obras completas, Escelicer, Madrid 1966-71, vol. 9. Il numero romano indica il vol., l’arabo la pagina. 2 M. Zambrano, La ambigüedad de Cervantes, in España, sueño y verdad, Madrid 1994, p. 10.
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spirituale pur non appartenendovi formalmente per motivi anagrafici, Unamuno si riavvicina per un breve periodo a un cattolicesimo sentimentale (1897-98) per poi abbracciare, a seguito delle assidue e avide letture dei grandi testi del protestantesimo liberale come emerge specialmente dal Diario intimo, un luteranesimo liberale (1898-1903). 3. L’epoca della maturità (19041913) è caratterizzata dall’idealismo etico, come emerge dal celebre Commento alla Vita di Don Chisciotte (1905) e soprattutto dall’agonismo tra fede-ragione da cui scaturisce il sentimento tragico della vita. 4. Dal 1914 al 1936, Unamuno si concentra sul tema dell’identità personale, preoccupato per i rischi di un possibile annichilimento della personalità, come si evince dai romanzi – fino a culminare nell’opera Cómo se hace una novela (1927) – , dal celebre poema sul Cristo di Velázquez (1913-20) – originale sintesi della sua cristologia poetica – , dall’opera polemica sull’agonia del cristianesimo (1924) e dall’originale scritto, San Manuel Bueno, mártir (1930), compendio del suo pensiero religioso e, per certi versi, della sua attitudine “nichilista”. Come è noto, la crisi spirituale del 1897, che si estese fino a coinvolgere la stessa crisi nazionale, la quale sfociò nella celebre «Generazione del ’98», costituisce un evento decisivo nell’avventura esistenziale e intellettuale di Unamuno, che rinnegò sia il decennio positivista sia la militanza socialista. Con questo drammatico quanto decisivo evento si dissolse quell’instabile equilibrio tra l’umanesimo secolare ed un cristianesimo sui generis. Non è il luogo per soffermarci su questo fondamentale evento nella vita di Unamuno, ma solo di rilevare che, in definitiva, siamo dinanzi ad un autentico uomo religioso che ha vissuto una struggente quanto tragica ansia di eternità, di sete di Dio, pur non avendo abbracciato totalmente nessun credo religioso positivo, giacché ha sempre reagito con veemenza contro ogni tentativo di volerlo incasellare. Unamuno, che dissentiva dal cattolicesimo perché rinnegava appunto parte della dogmatica e l’ancoraggio alla filosofia scolastica, aveva accarezzato il progetto di dedicarsi alla filosofia della religione e a quella che chiamava «una riforma indigena, popolare e laica, non contraffatta da sacrestia, ma una riforma religiosa integrale» (III, 724)
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della Spagna del suo tempo. Tale riforma religiosa iniziò a prefigurare già nella celebre opera sul Chisciotte. Unamuno ha adottato, nelle varie fasi della sua riflessione, un metodo di pensiero indubbiamente “paradossale”, ma in definitiva non incoerente, né contraddittorio. Pur avendo messo in secondo piano il ruolo della ragione – ma nell’accezione razionalistica, positivistica e scientistica, per far posto alle “ragioni del cuore”, tuttavia egli non può essere annoverato tra i vitalisti irrazionalisti e neppure tra i fideisti, avendo adottato un’attitudine agonica. Perciò è frutto di fatali fraintendimenti la leggenda di un Unamuno intento solo a distruggere e non a costruire, giacché egli ha perseguito un disegno profondamente coerente ed unitario alla luce dell’unico problema vitale: l’ansia per il destino della personalità. La fantasia di Cervantes3 concepisce in immagini la vana illusione e il disinganno dell’uomo storico, cioè di Alonso Chisciano, il mitico protagonista che rappresenta lo stesso dramma esistenziale patito dal lettore. Questo primo romanzo moderno è una risposta non solo alla decadenza spagnola vissuta dallo stesso Cervantes, ma anche alla necessità di sottrarsi alla censura dell’Inquisizione, che perseguitò il geniale scrittore. Non è casuale che il libro, intriso di ironia, sovente tende a mostrarci il contrario di ciò che vuole che noi intendiamo. Cervantes non ricorre al discorso razionale e alla riflessione astratta poiché filosofa metaforicamente e fa ricorso all’ironia. In tal modo copre di ridicolo chi, dimenticando il senso dell’esistenza, riduce il molteplice all’identico e pensa aprioristicamente. Nell’unità tra parola e cosa gli umanisti colsero l’elemento comune al linguaggio immaginifico e alla conoscenza ingegnosa, la quale non è sinonimo di follia bensì rappresenta la facoltà che indaga sulla verità delle cose. È superfluo rilevare che per Vico l’ingegno è «l’unico pudore di tutte le invenzioni» e che per B. Gracián rap3 Cervantes morì il 23 aprile 1616: tale data coincide con la scomparsa di Shakespeare, anche se lo scarto fra il calendario gregoriano applicato in Spagna e quello giuliano vigente in Inghilterra fa sì che si crei uno scarto nel computo ufficiale.
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presenta una creazione fantastica esprimente la corrispondenza che si trova tra gli oggetti. Nell’ultimo capitolo del libro, Don Chisciotte si sveglia dal sonno della ragione astratta e, riconoscendo il proprio inganno, ritorna ad essere un uomo storico. Ma quantunque il protagonista muoia pentito delle sue folli azioni, il suo scudiero Sancio, tutti gli altri personaggi e noi, lettori europei, continuiamo a non comprendere che l’idea rappresentata dalla fantasia di Cervantes e la realtà significata nella geniale metafora del Chisciotte-libro e del Don Chisciotte-personaggio costituiscono anche l’illusione e la caduta drammatica della nostra storia quotidiana. L’Europa lesse il Chisciotte senza scoprirne il suo vero significato filosofico. Il fraintendimento dell’umanesimo di Cervantes scaturisce dall’aver dimenticato la funzione rivelatrice e speculativa del linguaggio retorico. Cervantes non parte dall’identificazione razionale della realtà, ma da un capovolgimento dell’identità logica inventando un nuovo genere: il romanzo attraverso cui si espresse con un linguaggio ingegnoso, metaforico, creativo e storico. Occorre tuttavia rilevare che al capolavoro di Cervantes si sono accostati grandi filosofi e letterati: Kant, Schelling, Novalis, Goethe, Marx, E. Block, Heine, Turgenev, T. Mann, Pirandello, G. Green. È noto che Dostoevskij si ispirò al Chisciotte per scrivere l’Idiota, come emerge da alcune lettere. E lo stesso Freud scriveva di essere più interessato al Chisciotte che all’anatomia del cervello. Ortega y Gasset affermò che «Non esiste nessun libro il cui potere di allusioni simboliche al senso universale della vita sia tanto grande e, ciò nonostante, non esiste nessun altro libro in cui troviamo meno anticipazioni, meno indizi per la sua propria interpretazione» (I, 342). Perciò non si sono esaurite le prospettive ermeneutiche al fine di penetrare il senso profondo di questa opera immortale. In occasione del quarto centenario della pubblicazione a Madrid nel 16054 della prima parte del capola4 L’opera di Cervantes era forse già conosciuta nel 1604 (A. Castro, Cervantes y el “Quijote” a nueva luz, in Cervantes y los casticismos españoles, 1966, Madrid 1974, p. 62). Sul Chisciotte, cfr. anche Azorín, La ruta de Don Quijo-
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voro di Cervantes è quanto mai significativo esaminare la rilettura operata in Spagna nel XX secolo e che non casualmente è stata denominata la «terza entrata in scena di Don Chisciotte» (tercera salida de Don Quijote). A tal fine occorre menzionare le prospettive ermeneutiche di: Ortega y Gasset, che fa di Don Chisciotte l’archetipo della volontà di avventura; R. de Maeztu, che ne individua la figura del disincanto spagnolo; A. Castro, che ricostruisce il pensiero e la visione del mondo di Cervantes; S. de Madariaga, che propone una lettura psicologica e politica; M. Zambrano, che pone in luce l’ambiguità di Cervantes e l’enigma chisciottesco5. Qui ci soffermiamo brevemente sulle prospettive filosofiche di Ortega e di Zambrano in quanto più direttamente in dialogo con Unamuno.
2. Ortega: Don Chisciotte e la volontà di avventura Ortega6 è debitore di molte suggestioni, tra gli altri anche ad Unamuno, a tal punto da poter dire che nelle Meditazioni del Chisciotte (1914) il suolo era costituito dalla fenomenologia; il sottosuolo era formato dal connubio tra l’oggettivismo eidetico della nuova scienza della natura e il naturalismo dell’attitudine vitale; l’avversario, che si opponeva alla salvezza della Spagna mediante l’apporto della cultura e della vita, era rappresentato precisamente da Unamuno, il cui libro sul sentimento tragico della vita (1913) fu quanto meno uno stimolo polemico per il giovane Ortega. te, 1905. F. Ayala, Experiencia e invención, Madrid 1960. G.D. García Bacca, Sobre “el Quijote” y Don Quijote de la Mancha. Ejercicios leterario-filosóficos, Barcelona-Pamplona 1991 alla luce delle suggestioni mutuate da Dilthey e da Ortega. 5 Su tutto ciò, ci permettiamo di rinviare a A. Savignano, Don Chisciotte. Illusione e realtà, Soveria Mannelli 2006. 6 Per le citazioni ci riferiamo a J. Ortega y Gasset, Obras completas, Madrid 1963-83, vol. 12. Il numero romano indica il vol., l’arabo la pagina.
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Questi riscontrava, invece, importanti convergenze ideali, politiche, filosofiche nei celebri saggi su En torno al casticismo (1895). Come sempre Ortega tenta di assimilare da Unamuno quanto giudica congeniale con la prima fase della propria (di Ortega) evoluzione intellettuale. Solo in questa prospettiva si può considerare l’affermazione di Abellán secondo cui il primo libro orteghiano rappresenta una «risposta intellettuale alla filosofia di Unamuno e non può essere compreso profondamente se non alla luce di quella»7, a condizione di non passare sotto silenzio, ovviamente, che il pensatore basco rappresenta non l’unico, ma uno degli interlocutori con i quali il filosofo di Madrid si confronta alla ricerca di una via originale e autonoma. Come emerge dalla corrispondenza con Unamuno negli anni marburghesi, Ortega considerava il capolavoro di Cervantes come il romanzo per eccellenza e Don Chisciotte «l’unico filosofo spagnolo»8. Le Meditazioni del Chisciotte evidenziano: a) una critica alla concezione di Unamuno quale emerge nel celebre commento alla vita di Don Chisciotte e Sancio (1905) e nell’opera fondamentale sul sentimento tragico della vita (1913); b) la presenza invece dell’Unamuno dell’opera del 1895; c) una singolare vicinanza e sovente convergenza tra l’Unamuno “purista” e le suggestioni che Ortega mutuava dal versante neo-kantiano marburghese e fenomenologico9. Delle due fasi, nelle quali in genere si scandisce il rapporto Unamuno-Ortega anche in ordine al tema chisciottesco, si può rilevare come in un primo periodo (fino al 1909) Ortega critica le tesi espresse in En torno al casticismo, forse a causa soprattutto dell’influsso di H. Cohen, mentre l’incontro con la fenomenologia sembra indurlo ad una presa di distanza dalle opere del 7 J.L.L. Abellán, Ortega ante la presencia de Unamuno, in Ortega en la filosofía española, Madrid 1966, p. 99. 8 Cfr. M. de Unamuno - J. Ortega y Gasset, Epistolario, «Revista de Occidente» n. 19 (1964), p. 14. 9 N.R. Orringer, El Unamuno casticista en Meditaciones del Quijote de Ortega, «Caudernos Salmantinos de Filosofía» X (1983), pp. 37-54.
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1905 e del 1913 e a ritornare invece agli scritti del 1895. Eppure dal 1902-04, durante il primo viaggio in Germania, Ortega sembra attratto dall’Unamuno purista, dal quale si distacca momentaneamente (cfr. Teoría del clasicismo, 1907) giacché ritiene che il classicismo sia in grado di contribuire meglio del “purismo” in ordine anche ad un più equilibrato sviluppo della cultura europea. Ma, come dicevamo, fu verso il 1912-14 che Ortega, assumendo un’attitudine più critica e meno intellettualistico-culturalista verso l’esperienza marburghese in connessione soprattutto all’apertura alla fenomenologia, ritorna all’Unamuno purista, in opposizione alle opere della maturità del 1905 e del 1913. L’opera En torno al casticismo, secondo quanto ha mostrato Orringer, palesa in effetti una certa consonanza con alcuni istanze fenomenologiche così come furono accolte da Ortega, giacché: A) i fenomenologi preferiscono la calma, la riflessione, ciò che nell’Unamuno purista si configura come istanza di pace e progresso della scienza, mentre nella celebre Vida de Don Quijote (1905) siamo dinanzi ad una visione della conoscenza come guerra tra la fede-ragione. B) I fenomenologi di Gottinga e Monaco sono attenti al dato concreto, al contorno più immediato, ciò che nell’Unamuno del 1895 corrisponde all’intrastorico. C) Fenomenologi come Schapp, ben noto ad Ortega, sostengono l’inseparabilità tra concetto-impressione per la conoscenza a cui corrisponde nel purista Unamuno l’integrazione tra idealismo e materialismo. Il ritorno da parte di Ortega all’opera unamuniana, En torno al casticismo, può essere in connessione con l’intento di quegli anni di equilibrare ed armonizzare l’intellettualismo e il culturalismo marburghesi con l’impressionismo spagnolo. Per tale scopo, Ortega vedeva come un ostacolo la concezione di Unamuno formulata nelle due opere della maturità. La fenomenologia, intesa come “sistema aperto” (I, 316), fu adottata da Ortega dal 1914 al ’16, allorché si cimentò con l’elaborazione dell’originale teoria della vita umana nel fondamentale libro, Meditaciones del Quijote (1914), il cui progetto programmatico si estendeva al primo volume di El espectador
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(1916)10 e proseguiva, come ha osservato Garagorri (XII, 335), nel corso su Investigaciones psicológicas (1915-15)11, come si evince anche dalle critiche a Wundt12, a cui Ortega contrappone le vedute husserliane sulla psicologia, intesa come “scienza di realtà intenzionali”, culminante nella “noologia” (Kant), ovvero in una scienza del senso (XII, 427), ritenuta imprescindibile per il «sistema della ragion vitale» (XII, 392). Con le meditazioni donchisciottesche, il filosofo spagnolo ha conseguito viva consapevolezza della peculiarità unica ed irriducibile della vita umana, anche se il suo modo d’essere gli appare sotto forma di eroismo e tragedia, la cui espressione è affidata al romanzo13. Dei molteplici approcci ermeneutici con cui è stata analizzata quest’opera – unanimemente ritenuta fondamentale nell’evoluzione del pensiero orteghiano14 – prediligiamo il significato 10 Gli stessi termini “meditazione”, “spettatore”, che cerca di «contemplare la vita mentre fluisce dinanzi a lui» (II, 18), risentono dell’influsso della fenomenologia. 11 Di quel corso – a cui forse presenziarono in parte anche M. de Unamuno, La evolución del Ateneo de Madrid, in O. C., VIII, p. 372 – sono state fornite contrastanti letture da Orringer, che sottolinea la coesistenza dinamica di neokantismo e fenomenologia; e da Cerezo Galán, che parla del decisivo ruolo di Husserl connesso al definitivo abbandono della “prigione neokantiana”. Ma infine non sembra impossibile una conciliazione di queste due prospettive ermeneutiche. 12 Esse furono espresse nella pubblicazione, nel 1916 (II, 61-66), di una parte del corso su Investigaciones psicológicas. In quel saggio, Ortega suggerisce inoltre di evitare, contro Natorp, l’espressione “contenuto di coscienza”, da cui deriva «tutta la sterilità della psicologia moderna» (II, 65-66). 13 Cfr. J. Marías, Comentario a “Meditaciones del Quijote”, Madrid 1957, p. 25. Sulle fonti per la teoria del romanzo, cfr. il fondamentale libro di N.R. Orringer, Ortega y sus fuentes germánicas, Madrid 1979, pp. 169-205. 14 Riguardo alle fonti ed agli influssi di questo libro, è solo il caso di menzionare che esso è stato considerato «un miscuglio impreciso di Scheler, Simmel e, soprattutto, Cohen» (C. Morón Arroyo, El sistema de Ortega, Madrid 1968, p. 107, 144 e 153). L’impostazione è stata giudicata «molto simile a ciò che Husserl denomina “mondo vitale”» (P. Silver, Ortega as Phenomenologist. The genesis of Meditations on Quixote, New York 1978, p. 103), trattandosi di una “fenomenologia mondana” sulla base della teoria dell’esecutività
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filosofico con speciale riferimento al tema della vita in rapporto alla circostanza, che dev’essere salvata attraverso un rinnovato rapporto con la cultura, senza eludere la decisiva questione della verità (aletheia), intesa come verità vitale e prospettiva. Benché incompiuto, da questo primo libro è possibile arguire uno schema sufficientemente organico, basato sull’insinuazione di una teoria metafisica del reale (mutuata anche da W. Schapp). Così il Proemio contiene la celebre definizione della vita come l’io interagente con la circostanza con l’imperativo di salvezza di entrambe. La Meditazione preliminare sviluppa una critica alla circostanza personale di Ortega e sulle condizioni della Spagna del suo tempo. Infine, la Meditazione Prima delinea un’originale concezione del romanzo affrontando il delicato tema della verità. Nel primo libro orteghiano, la teoria del romanzo, della circostanza e della vita sono intimamente connesse giacché ruotano intorno ai concetti di eroismo e tragedia impersonati dal Chisciotte sullo sfondo della questione spagnola, che deve aprirsi all’Europa. L’approccio orteghiano al Chisciotte è eminentemente estetico e rappresenta una risposta alla concezione del romanzo formulata da H. Cohen nell’estetica15. Sulla base di suggestioni mutuate da Käte Friedemann16 e da Riehl, Ortega propone una teoria dei generi letterari concepiti più come atti personali che come fatti storici e che oggi conservano una certa attualità nell’ambito della teoria testuale. Per Ortega, che non condivide la concezione della poetica classica, né la teoria di B. Croce, i generi non sono forme astratte, regole in base alle quali riversarvi un contenuto, collocare la realtà artistica, ma modi di dire «am(ivi, p. 107 e 148). N.R. Orringer, Ortega y sus fuentes germánicas, cit., pp. 133168, insiste sulle suggestioni mutuate dall’esperienza marburghese coniugata con le istanze fenomenologiche, ponendo inoltre in evidenza l’apporto, per la teoria della verità e della prospettiva, dell’opera di W. Schapp, Beitraege zur Phaenomenologie der Wahrnehnung, Halle 1910. 15 Cfr. H. Cohen, Aeshetik des reinen Gefühls, Berlin 1912, 2 vol. 16 K. Friedemann, Die Rolle des Erzählers in des Epik, Berlin 1910.
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pie vedute che si assumono sui versanti cardinali dell’umano», oggi diremmo: posizioni discorsive. Seguendo Flaubert, afferma Ortega che fondo e forma sono una medesima cosa giacché la «forma sale dal fondo come il calore dal fuoco», per cui i generi letterari sono funzioni poetiche dove gravita la generazione estetica. I generi non sono, pertanto, “forme della coscienza” (Zambrano), ma “vere categorie estetiche”, “temi radicali e irriducibili”, “interpretazioni dell’umano fatte dall’uomo”. I generi sono le manifestazioni delle dimensioni storiche fondamentali della vita umana e della cultura. Ortega, che nel definire il genere procede etimologicamente, lo intende, in ultima analisi, come “stile”. Di qui il ruolo fondamentale del Chisciotte, che non è solo la prima “opera” del genere, ma costituisce l’apice da cui si sviluppa l’immaginario della modernità. Il Chisciotte, in quanto genere romanzesco, rompe con l’epica, che è distinta dalla tragedia la quale è connessa alla vita umana, la cui struttura si manifesta secondo la specie dell’eroismo. Mentre Cohen vede nell’epica il documento dell’unità politica e il romanzo come la storia dell’amore nell’ambito della cultura moderna, Ortega concepisce l’epica come un processo evolutivo di rielaborazione del mito che il romanzo in qualche modo cerca di distruggere. In contrapposizione a Cohen che vede in Omero un poeta ingenuo, Ortega mutua da Immisch17 la concezione dei rapsodi epici come virtuosi cantori di millenari motivi mitici. In sintonia con Cohen, sostiene Ortega che il romanzo rappresenta una critica dell’epica che tuttavia offre una prospettiva meno ricca sul reale. Ma a differenza di Cohen che a mala pena si sofferma sul gioco dialettico tra la fantasia mitica e la realtà prosaica del romanzo, Ortega fa di tale relazione il nucleo della sua concezione del romanzo perché lo richiede nientemeno che la sua teoria della vita come interazione tra l’io e la circostanza. L’epica è narrazione del passato mentre il romanzo, che non va confuso con quello d’avventura, è arte
17 Cfr. O. Immisch, Die innere Entwicklung des griechischen Epos, Leipzig 1904.
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del presente. Le suggestioni mutuate da Simmel18 sull’avventura permettono ad Ortega di concepire la visione mitica dal punto di vista dell’eroe romanzesco. L’eroe, che scaturisce da un atto reale di volontà, si contrappone all’epica. La volontà, che consiste nel “volere ciò che non si è”, costituisce il tema tragico per eccellenza. Ma ciò che interessava ad Ortega non era la tragedia in quanto forma o genere, bensì il tragico inteso come categoria. Nel prendere le distanze dalla concezione della tragedia, che non consisterebbe nella fatalità del destino, Ortega può dar spazio all’eroismo basato sulla volontà di avventura. Di qui la distinzione tra la tragedia greca e “il tragico” o “qualità tragica”, che si trova in ogni vita autentica, la quale è eroica. Perciò Don Chisciotte è un eroe tragico perché volendo essere se stesso deve vivere in perpetuo confronto-scontro con la circostanza. Ad Ortega, che era interessato al libro, al romanzo, al segreto di Cervantes, non importa di “riscattare il personaggio” ma di accostarsi all’autore per dissipare l’ambiguità poetica tramite la conoscenza razionale. Non a caso si era scagliato contro Unamuno ritenendo «davvero grotteschi gli errori in cui incorreva nel considerare isolatamente Don Chisciotte» senza tener conto dell’autore. Ortega era convinto che solo rompendo il dualismo tradizionale tra il Chisciotte come libro e come personaggio si poteva indagare sul “chisciottismo del libro”, cioè analizzare il libro di Cervantes in quanto oggetto estetico connesso ad ogni opera d’arte e, quindi, concentrarsi sullo “stile” dell’autore, essendo lo stile l’indole delle “cose artistiche”. Sin da questo primo libro, Ortega delinea una teoria sulla specificità dell’oggetto estetico in contrapposizione alla cosa reale, oltre ad una teoria dell’immaginazione in genere e del romanzo in particolare. Insomma ad Ortega interessava indagare sul rapporto tra realtà ed ideale nel primo romanzo moderno: quello dedicato da Cervantes al Chisciotte, che opera, rispetto all’epica, l’intersezione tra due mondi: il passato e il presente, l’immaginario e la realtà, 18 Cfr. i saggi di G. Simmel, Das Abenteuer e Der Begriff und die Tragödie, in Philosophische Kultur, Leipzig 1911.
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il poetico e l’extra-poetico19. Tale teoria estetica si contrappone alla teoria della realtà dell’ente di finzione di Unamuno, che invece è condivisa dalla Zambrano essendo per entrambi la realtà materia di sogni, sogno creatore. Ortega non dissolve l’ambiguità e l’enigma in «giochi di chiarezza» (María Zambrano), in quanto sostiene che il Chisciotte è un equivoco, un segno di domanda, un “guardiano del segreto spagnolo”, poiché Cervantes prescinde esplicitamente dall’ideologia, in sintonia col genere romanzesco. Ortega ricerca il “segreto di uno dei libri più profondi” nello stile cervantino, ovvero nella forma romanzesca, poiché uno «stile poetico implica una filosofia ed una morale, una scienza ed una politica». Analizzare lo stile – la maniera cervantina di accostarsi alle cose – e nel suo ambito la scelta di un genere, costituiscono un modo di apprendere la realtà, ovvero una prospettiva di espressione della verità. Come si evince dal Prologo, Ortega intende indagare sul segreto e l’enigma chisciottesco in modo strategico e attraverso la sorpresa, come avvenne nella presa di Gerico. Don Chisciotte è pura rivelazione poetica; di qui l’intento di scoprire lo sguardo del creatore (Cervantes), il suo stile. Ortega, pertanto, non dissolve l’ambiguità del reale essendo per lui l’ambiguità una categoria estetica che esperimenta il lettore in rapporto alle oscillazioni dei diversi piani della realtà della finzione. L’esperienza dell’ambiguità presuppone un punto di contatto tra i due “continenti spirituali”, contatto rappresentato dal personaggio Don Chisciotte che oscilla dalla finzione del 19 Come emerge dall’edizione delle Meditaciones del Quijote, a cura di P. Garagorri, Madrid 1981, Ortega si era proposto di scrivere una “meditazione” dal titolo: Cómo M. de Cervantes solía ver el mundo. Per la ricostruzione del progetto estetico orteghiano incentrato sulla «maniera spagnola di vedere le cose», cfr. l’introduzione di E. Inman Fox a J. Ortega y Gasset, Meditaciones sobre la literatura y el arte, Madrid 1987. Ulteriori approfondimenti, come è noto, si ritroveranno nel celebre testo di J. Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte (1925) ed anche nel saggio, Sul romanzo (1925). Su Ortega, cfr. A. Savignano, Introduzione a J. Ortega y Gasset, Laterza, Bari 1996. Cfr. inoltre J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte, a cura di A. Savignano, Mimesis, Milano 2014.
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libro alla finzione del “teatrino di Mastro Pedro”, su cui Ortega si sofferma a lungo nel suo libro. La realtà, in quanto oggetto poetico, presuppone un’interpretazione da parte dell’uomo alle prese col dilemma conflittuale tra la materialità delle cose e il loro significato. «Se la “idea” trionfa, la “materialità” viene soppiantata e viviamo allucinati. Se la materialità s’impone, viviamo disillusi». Tale è l’aspetto drammatico della letteratura vissuto per la prima volta nel gesto di Don Chisciotte che interpreta i mulini a vento come giganti. In quanto vicenda culturale, la letteratura può assumere la realtà come oggetto poetico solo in quanto miraggio, interpretazione della materialità delle cose. Il fascino del romanziere consiste proprio nella rappresentazione della realtà trasformandone l’inerzia in elemento dinamico tra materia e senso. La dimensione poetica della realtà, che era in qualche modo presente già nel gioco mimetico della commedia greca giunge fino a Cervantes il cui romanzo vive dell’intenzione comica e dell’elemento critico, che sono fondamentali al genere e ad ogni realismo. Diversamente da Cohen che, riferendosi alla visione del romanzo di Goethe connetteva il genere alla lirica, Ortega, richiamandosi invece a Cervantes faceva risalire il romanzo alla commedia. Basandosi su Bergson20 preferisce Ortega definire il Chisciotte come una tragicommedia, prendendo così le distanze proprio da Cohen che intravedeva tutt’al più degli elementi comici nel capolavoro di Cervantes. Il conflitto tra finzione-realtà, alla luce della scoperta dell’io da parte della modernità, è impersonificato dall’eroe chisciottesco, che vive tra la volontà di avventura, che è reale, e l’avventura, che è irreale. L’eroe si caratterizza non per la pratica del dovere, bensì per la volontà di originalità, per lo spirito di creazione, per la reazione alla morale utilitarista e convenzionale borghese. Don Chisciotte, in quanto eroe tragico, è paradigma dell’ambiguità giacché è pura volontà; il che implica elementi appartenenti a mondi contrari, poiché «la volontà è reale, ma 20 Cfr. H. Bergson, Le rire: essai sur la signification du comique, in Œuvres Complètes, Génève 1945.
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ciò che è voluto è irreale». Del resto l’eroe, che si contrappone agli istinti plebei, vive l’ambiguità in quanto consiste nel voler essere ciò che ancora non è, sicché ha «metà del corpo fuori della realtà». A tale attitudine duale corrisponde quella interpretativa: se si guarda l’eroe direttamente (dalla prospettiva ideale) assurge a figura estetico-tragica; se lo si osserva in modo obliquo, lo si converte in oggetto estetico-comico. Di qui l’originalità di Cervantes, che lungi dal mutare l’indole del personaggio, lo ha modificato dal punto di vista del lettore. «La vis comica si limita ad accentuare il lato dell’eroe che propende alla pura materialità». Ma la volontà dell’eroe appare fragile persino ad attuare i più semplici gesti vitali. Di qui il riso, giacché la commedia vive sulla tragedia come il romanzo sull’epica. Da questo lato il personaggio eroico di Don Chisciotte, che vive in modo tragico-comico, assurge ad esemplare imprescindibile per ogni romanzo, come aveva rilevato Flaubert.
3. Zambrano: l’enigma di Don Chisciotte e l’ambiguità di Cervantes Zambrano segue le orme dei maestri Unamuno ed Ortega nell’accostarsi al Chisciotte, che è un pretesto per esporre il suo pensiero. Le riflessioni sul Chisciotte ricorrono in diversi luoghi dell’opera di Zambrano. Il saggio, La reforma del entendimiento español (1937), contiene la prima riflessione a ridosso della guerra civile. Nel 1965, nel libro España, sueño y verdad, considerato la seconda parte dell’opera, Pensamiento y poesía en la vida española, ritorna sul tema chisciottesco. È fondamentale sottolineare che si tratta di due tappe distinte nella biografia intellettuale e circostanziale di Zambrano, pena gravi fraintendimenti. Nel primo saggio dedicato da Zambrano all’eroe di Cervantes, superando i limiti tra realtà-finzione, tra storia-romanzo, Don Chisciotte incarna simbolicamente il popolo spagnolo nella drammatica circostanza della guerra civile. «Difficilmente
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nessun altro popolo del nostro rango è vissuto con così poche idee, è stato meno a-teorico del nostro»21. La “mancanza di idee chiare”, che ha prodotto attitudini dogmatiche sin dalla Controriforma, dev’essere colmata con un organico rapporto tra vita-pensiero al fine di generare idee in funzione della vita e liberarla dalle zone oscure dell’irrazionale. La mancata “riforma dell’intelletto” ha impedito al popolo spagnolo, nonostante le sue capacità morali e la sua volontà di vivere, di essere protagonista della propria storia e di poterla analizzare criticamente. In effetti, «né la filosofia, né lo Stato sono tanto votati al fallimento quanto il romanzo. Per questo il romanzo dovette essere per gli spagnoli ciò che la filosofia era per l’Europa»22. E tra i romanzi, indubbiamente assurge a ruolo centrale quello donchisciottesco, che è un pretesto per gettar luce sulle circostanze drammatiche della guerra civile ed un archetipo la cui pura volontà urta con la realtà storica rispetto alla quale egli si rifugia nella follia per additare la giustizia e il bene. «Se tutti gli esseri eccezionali giungessero al livello storico, non si produrrebbe il romanzo; ciò che non perviene ad essere storia per mancanza di realtà, di connessione col resto degli eventi, e ciò nonostante esiste – non giunge ad essere elemento della storia, però ha un essere – è protagonista della sua propria vita, è un ente romanzesco»23. Come è noto, Zambrano negli anni di militanza repubblicana assegna valore alla storia intesa come realtà vera, rispetto a quella degli enti di finzione che invece rivaluta negli anni dell’esilio. Don Chisciotte, che simbolizza la volontà pura, è l’incarnazione di un’etica della convivenza specie nel tempo del tragico fallimento degli ideali repubblicani. «Quanto più solo e lontano dagli uomini tanto più è unito e coinvolto con essi mediante la volontà. Un’accusa terribile contro lo Stato che precipitosamente si formò in Spagna e che non seppe nutrirsi di questa ricca sostanza, di quella convivenza pura che vive Don Chisciotte, la 21 M. Zambrano, La reforma del entendimiento español, «Hora de España» 1937, in Senderos, Barcelona 1986, p. 88. 22 Ibid., p. 95. 23 Ibid., p. 96.
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cui possibilità di viverla dipende dal maggiore o minor grado di condivisione col popolo dove si fondano le radici della sua esistenza»24. Per Zambrano, non diversamente da Unamuno, l’ente di finzione è reale non meno dei personaggi di “carne ed ossa”, purché agisca con forte volere. Affermare che Unamuno abbia negato la realtà di Cervantes, sarebbe assurdo25. Zambrano sottolinea nel Don Chisciotte i valori della convivenza, solidarietà e fiducia in un’epoca drammatica per il suo popolo, sulla base della “mistica popolare”, mutuata anche da A. Machado secondo cui il popolo costituisce l’autentica salvezza. Ben diverso sarà l’atteggiamento di Zambrano verso il chisciottismo dal 1939 quando porrà in luce, invece, il ruolo della conoscenza poetica nella cultura ispanica, nonostante permanga, quale elemento comune, il ricorso a Don Chisciotte considerato, non diversamente da altri simboli e miti, come pretesto per esporre la sua metafisica in fieri. Non casualmente, ella afferma: «Una metafisica sperimentale, che senza pretese totalizzanti renda possibile l’esperienza umana, sta nascendo»26. Nei tre saggi dedicati a Don Chisciotte contenuti nel libro del 1965, riferendosi ai celebri testi di Unamuno e di Ortega, Zambrano prospettò un’ermeneutica che additava in un ambito primordiale ed originario, a-razionale, inconscio, anteriore ad ogni concettualizzazione, lo spazio per quel “sogno creatore” che è alla base delle creazioni artistiche e della stessa realtà. Partendo dalla “ambiguità” di Cervantes e dallo “enigma” di Don Chisciotte, Zambrano, che delinea una specie di genealogia della coscienza in dialogo critico col primo libro del maestro Ortega, elabora, in rapporto alla tragedia, una teoria dei generi letterari, attribuendo un ruolo peculiare al romanzo, l’unico ritenuto in grado di esprimere l’ambiguità dell’uomo moderno, preconiz24
Ibid., p. 98. J. Marías, Cervantes clave española, Madrid 1990, p. 41. Sulla stessa linea di Unamuno-Zambrano, cfr. X. Zubiri, Inteligencia y logos, Madrid 1982, pp. 129-131, dove parla degli enti di finzione in relazione alle percezioni ed ai concetti. 26 Ibid., p. 26. 25
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zando nel contempo l’urgenza di un genere nuovo onde poter reintegrare finalmente filosofia e poesia alla luce del metodo della ragione poetica. Mentre, a partire da Cartesio, «i filosofi richiamavano (l’uomo) al risveglio, egli si ostinava nella sua vita sonnambolica tanto simile a quella della caverna materna »27. La filosofia moderna si caratterizza per la sicurezza e la certezza delle idee chiare rispetto alle quali tuttavia l’uomo non cessa di richiamarsi al mondo originario del sacro. Qui risiede il misterioso enigma e “l’ambiguità” dello stesso libro chisciottesco e dell’anima spagnola in costante tensione tra sogno di essere e sete di conoscenza. «Che cosa volle dirci Cervantes? Che cosa significa che la nostra tragedia è un romanzo? Come sarebbe possibile intendere compiutamente questa rivelazione così ambigua? […]. Forse Don Chisciotte risulta ambiguo proprio per essersi rivelato nella forma romanzesca»28. Secondo Zambrano, l’ambiguità di Don Chisciotte, che si manifesta su diversi piani, consiste nell’essere un ente di finzione oscillante tra ragione-sogno, sicurezza-dubbio, essere-non-essere, vaneggiamento-senno. Zambrano, invece, mantiene l’ambiguità Cervantes-Don Chisciotte proprio nel romanzo, che considera un genere moderno in grado di dar vita al conflitto, senza tuttavia eliminarlo, in chi era pervenuto alla coscienza sicura delle idee chiare senza peraltro voler abbandonare il sogno ancestrale. «Illuminato l’uomo moderno dalla coscienza dei suoi limiti, dalla misura inesorabile del suo potere e non potere, e che gli traccia il cerchio in cui è rinchiuso, prosegue col suo sogno ancestrale. Se i filosofi avessero cercato di far accettare a tutti gli uomini ciò che chiamano natura umana, l’uomo si sarebbe convertito in un essere senza storia, e non gli accadrebbe più nulla, né crederebbe che gli potesse accadere alcunché»29. La figura mitica di Don Chisciotte appare nel primo romanzo moderno in opposizione a Cartesio. «Il romanzo è il genere 27 M. Zambrano, La ambigüedad de Cervantes, in España, sueño y verdad, Madrid 1994, p. 22. 28 Ibid., p. 17. 29 Ibid., p. 24.
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dell’ambiguità, perché implica l’ambiguità dell’uomo quando dà a se stesso il proprio essere, sapendolo nella chiarezza della coscienza. Il suo appetito dell’essere e l’ansia di conoscenza si ricongiungono: “Io so chi sono”»30. La suprema ambiguità di Cervantes è consistita nell’aver convertito Don Chisciotte da eroe mitico a personaggio romanzesco che si appella alla follia per poter creare nel sogno il proprio essere esponendosi alla burla, somma penitenza per un eroe. Di qui, non diversamente da Unamuno, il rilievo a Cervantes di incomprensione per Don Chisciotte, che è «giudicato da “questo mondo”, e la sua condanna è di diventare, di veder convertita la sua integrità di eroe tragico in ambiguo personaggio di romanzo con tutte le conseguenze. Il romanziere realizza l’ambigua azione di cogliere il carattere “romanzesco” del suo personaggio, cioè di esprimerla, di farla esistere e, contemporaneamente, di svalutarne l’azione di inventare se stesso, che equivale ad identificarsi col proprio sogno»31. Ma mentre denuncia che nell’epoca moderna, dove predomina la coscienza, «nessun sogno mitico può vivere senza risultare equivoco e senza esporsi alla burla. […] È l’atto della storia in cui la coscienza è più impenetrabile alla pietà, all’ispirazione»32, Zambrano preannuncia un tempo dove «la filosofia – personalismo, ragion vitale, esistenzialismo, – cerca di ampliare l’orizzonte della coscienza e del pensiero per comprendere l’integrità dell’uomo, cioè dell’uomo che sogna e inventa se stesso. Se si consegue tale intento, il romanzo non comporterà la condanna, ma sarà il punto dove coincidono filosofia e poesia. Il tempo creatore dove nasce il sogno personale si aprirà il passo nella chiarezza della coscienza. E se a tale situazione della mente corrisponde una certa situazione della società, allora cesserà nostro signor Don Chisciotte di far penitenza servendo da burla, e noi, 30
Ibid., p. 37. Sul concetto di “ambiguità” e sul romanzo moderno in contrapposizione al razionalismo si riscontrano idee affini alla Zambrano in M. Kundera, L’arte della novella. 31 M. Zambrano, La ambigüedad de Cervantes, cit., pp. 26-27. 32 Ibid., pp. 28-29.
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spagnoli cominceremo ad intenderci reciprocamente. Ma, sono sufficienti filosofia e poesia?»33. Decifrare l’enigma della struttura profonda del pensiero spagnolo equivale ad alludere al realismo e materialismo, che, secondo Zambrano, costituiscono un punto di equilibrio tra la violenza della filosofia classica e la meraviglia della poesia. Si tratta appunto della conoscenza poetica che non scinde la realtà che è un dono di “grazia” ed è in grado di cogliere l’universale umano. La radice essenziale della cultura spagnola è caratterizzata da un realismo sui generis specificato dal materialismo che viene considerato alla luce della teoria della ragion poetica in contrapposizione sia alla visione del mondo greca ed europea sia a quella mediterranea espressa da Ortega proprio nelle Meditazioni del Chisciotte. Il realismo che è, secondo Zambrano, una forma di conoscenza slegato dalla volontà implica un peculiare atteggiamento dinanzi all’arte, alla letteratura, alla poesia, alla musica e persino alla mistica, ed è contrassegnato da una relazione immediata e spontanea con le cose, delle quali si è innamorati e a cui ci si sente legati, incatenati a tal punto da mettere paradossalmente a repentaglio la stessa libertà. Tale realismo è un sapere popolare, mentre il materialismo non è definito in termini ontologici né gnoseologici, ma come esaltazione dell’elemento visivo, tattile della materia, insomma come attaccamento materno al concreto, all’uomo reale, come rinuncia all’astrazione per non distaccarsi dalle viscere umane. Il realismo ed il materialismo si richiamano al celebre testo di Ortega su Don Chisciotte, con speciale riguardo rispettivamente al sensualismo ed all’impressionismo, nonostante Zambrano finisca per assorbirli nel suo pensiero dopo averli opportunamente emendati alla luce della teoria della ragion poetica. In particolare Ortega distingueva tra l’attitudine trascendentale del Nord e il pathos materialista del Sud pur sottolineando l’impellenza di pervenire ad un armonico equilibrio tra l’impressionismo meridionale e l’essenzialismo germanico, 33 Ibid., p. 29. Su Zambrano ci permettiamo di rinviare ad A. Savignano, María Zambrano. La ragione poetica, Marietti, Genova-Milano 2004.
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a differenza della Zambrano che sottolinea l’irriducibile antitesi tra idealismo europeo e realismo spagnolo. Le riflessioni orteghiane riguardano il piano estetico con la predilezione della cultura mediterranea, di cui vede l’esemplare in Cervantes per la “potenza di visualizzazione”. Sulla base di una descrizione fenomenologica Ortega osserva che «per un mediterraneo non è più importante l’essenza di una cosa, bensì la sua presenza, la sua attualità: alla cosa preferiamo la sensazione viva delle cose». Più che realisti, i popoli mediterranei sono impressionisti e hanno rotto l’armonico equilibrio del mondo greco tra vedere-pensiero-ideale; infatti «il mediterraneo è un’ardente e perpetua giustificazione della sensualità dell’apparire, della superficie, delle impressioni fugaci lasciate dalle cose sui nostri nervi commossi». Parimenti la Zambrano individua in Don Chisciotte un esemplare del materialismo spagnolo. «Ma non è la natura l’elemento centrale di questo materialismo, bensì le cose, e alludendo al Chisciotte, l’ho fatto per mostrare che si resta appagati dalla gigantesca figura dell’eroe e che finora, che io sappia, non è stata sottolineata da nessun critico: il magnifico romanzo realista ivi contenuto». Invece, come stiamo mostrando, era stata posta in luce proprio dal primo libro orteghiano rispetto al quale però Zambrano sembra operare una correzione dell’impressionismo nel senso del realismo. Il carattere differenziale dell’arte mediterranea consiste nell’impressione, che tuttavia non può essere denominato «realismo perché non consiste nell’accentuazione delle res, delle cose, ma nelle apparenze delle cose». La posizione della Zambrano, nonostante le ambiguità, non sembra distinguere tra cose (essenza) e presenza (attuale) di una cosa a partire da cui muovono le osservazioni estetiche orteghiane che sulla base della teoria prospettivista non contrappongono sensualità ed ideale, giacché si tratta di due punti di vista complementari. Impressione e pensiero tuttavia sono uniti in Ortega per finalità conoscitive, a differenza della ragione poetica, che disimpegna prevalentemente un compito ermeneutico.
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4. Don Chisciotte e la volontà di utopia Oltre al celebre libro del 1905, Unamuno si è occupato di Don Chisciotte in alcuni articoli e saggi scritti nel corso della sua vita (dal 1895 al 1932) 34. In particolare, in Chisciottismo (1895) insiste sul dualismo tra la follia di Don Chisciotte e Alonso Chisciano: essi rappresentano due aspetti per certi versi contrapposti ma infine complementari tra la ricerca della gloria e la fede ritrovata. A seguito della lettura dei libri cavallereschi, Alonso Chisciano diviene pazzo e si immerge nell’azione urtando comicamente contro gli ostacoli frapposti dalla vita; ma tale follia, infine, non contrasta con la saggezza ritrovata al termine delle sue avventure. Se la saggezza costituisce l’autentica vita, la “follia generosa” ne rappresenta il sogno per la redenzione del mondo; alla luce di tale paradossale prospettiva, non c’è contrasto tra eroismo e santità, in definitiva tra pace-guerra. «Predicare prudenza equivale spesso a predicare la morte, combattere la follia del sogno della vita è affossare l’eroismo. Convinciti del fatto che il mondo sei tu, e sforzati di salvarlo, per salvarti. Il mondo è il tuo mondo, il tuo mondo sei tu, ma non già l’io egoista, bensì l’uomo. All’interno del mondo, del mio mondo, che sono io, io sono uno dei tanti miei prossimi»35. Unamuno scrive un “saggio iconologico” (Il Cavaliere dalla Triste Figura del 1896), nel quale delinea, anzi raffigura, gli aspetti fisici del Cavaliere al fine di farne emergere il valore simbolico nella convinzione che, di contro al culto delle apparenze, occorre puntare sui caratteri essenziali e morali, come emerge anche dalle critiche a Gustave Doré, ritenuto «il genio pittorico meno adeguato a rappresentare il Chisciotte»36. Pur riconoscendo il 34 Cfr. M. de Unamuno, In viaggio con Don Chisciotte, Medusa, Milano 2013, a cura di E. Lodi. 35 M. de Unamuno, Chisciottismo, «La Epoca», Madrid, 15.10.1895, in In viaggio con Don Chisciotte, cit., pp. 63-64. 36 Ibid., p. 135, n. 7. Sull’opera di G. Doré, cfr. A. Savignano, La caduta delle illusioni. Don Chisciotte nel Novecento spagnolo, in G. Doré, Don Chisciotte, Marietti, Genova-Milano 2005, pp. IX-XXI.
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valore universale ed unitario dell’opera di Cervantes, tuttavia Unamuno insiste anche sull’esistenza indipendente di Don Chisciotte, raffigurandolo come l’incarnazione della rassegnazione al destino ma anche dell’impersonificazione dello slancio ideale. Perseguendo l’armonizzazione dei contrari, più che la fedeltà al testo o al ritratto, per Unamuno è fondamentale conseguire la verità interiore. Un ripensamento dell’interpretazione chisciottesca si evince dai saggi del 189837 a seguito dell’esito della crisi spirituale ed esistenziale unamuniana. Ora Don Chisciotte è folle perché superbo ed è considerato, nel conflitto ispano-americano, il simbolo del nazionalismo mentre Alonso Chisciano rinsavito rappresenta l’autentico spirito cristiano aperto al popolo piuttosto che al nazionalismo. Queste attitudini – invero una parentesi – vengono superate già nell’articolo, su L’essenza del chisciottismo38, che è considerato il prototipo dell’ansia dell’immortalità, e nel saggio, La causa del chisciottismo39, dove pone in luce che lo spirito chisciottesco, intriso di ozio, povertà ed ambizione, deriverebbe dal carattere picaresco senza rinnegare – come emerge dalla “leggenda nera” – il culto della morte e soprattutto dell’immortalità, attitudine tipica dell’indole ispanica. Nel 1905, Unamuno pubblica un saggio fondamentale, Sulla lettura ed interpretazione del Chisciotte, di cui la celebre Vita di Don Chisciotte e Sancio rappresenta «l’esecuzione del programma esposta in quel saggio». Unamuno critica con vigore l’erudizione fine a se stessa e la pedanteria accademica che impedisce di intendere appieno il senso e l’attualità di Don Chisciotte, che egli affranca paradossalmente dallo stesso autore Cervantes ri37 Cfr. M. de Unamuno, Muera Don Quijote, «Vida Nueva», Madrid, 25.07.1898. Viva Alonso El Buono!, «El Progreso», Madrid, 01.07.1898. Más sobre Don Quijote, «El Progreso», Madrid, 06.07.1898. 38 Cfr. M. de Unamuno, La esencia del quijotismo, «Los lunes de El Imparcial», 22.12.1902. 39 M. de Unamuno, Glosas al Quijote. La causa del quijotismo, «Los lunes de El Imparcial», 12.01.1903.
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tenendolo una figura autonoma con un’entità indipendente e reale. Addirittura – osserva – occorrerebbe andar oltre, per non dire fare a meno, delle intenzioni dell’autore per aprirsi, con una mentalità quasi dei giorni nostri, alla pluralità di significati più che indulgere alla filologia ed all’erudizione. Degli scritti posteriori su Don Chisciotte è opportuno qui menzionare, Il naufragio di Don Chisciotte (1919), dove critica aspramente la tesi di Renán sull’inconsistenza filosofica della cultura ispanica, giudicata “monolitica” osservando invece che proprio nella filosofia e nella letteratura spagnole sono espresse in modo singolare il senso tragico della vita come accade nel “sorriso tragico” di Don Chisciotte. Le meditazioni chisciottesche costituiscono indubbiamente un momento fondamentale dell’itinerario dì Unamuno, che individuava nel “chisciottismo” l’autentica filosofia spagnola. Tale leit motiv rimane costante nonostante l’evoluzione intellettuale ed esistenziale del pensatore basco dal celebre commento alla Vita di Don Chisciotte e Sancio (1905) all’opera fondamentale sul Sentimento tragico della vita (1913). Il celebre commento unamuniano, che è indubbiamente irriverente quanto paradossale, costituisce una tappa imprescindibile nell’approccio a Cervantes che tuttavia viene di fatto messo in disparte per porre invece in primo piano il personaggio letterario. Non senza estremismi, Unamuno sostiene la «limitatezza dell’ingegno» di Cervantes che soltanto grazie alla miracolosa grandezza di Don Chisciotte «superò di gran lunga se stesso». A un secolo di distanza, questo commento unamuniano mantiene ancora intatta la sua rivoluzionaria attualità specialmente sul piano etico. Il commento alla Vita di Don Chisciotte e Sancio rappresenta una Weltanschauung, imperniata su un originale quanto paradossale approccio ermeneutico in un’epoca caratterizzata, nei confronti del capolavoro di Cervantes, dall’approccio filologico ed estetizzante, secondo le due varianti della poetica e dell’etica decadente del razionalismo e dell’estetismo puro. Al di là delle riserve sulla svalutazione della critica letteraria, ritenuta artificiale rispetto al nesso arte-vita, è tuttavia indubbio che la
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lettura unamuniana abbia contribuito a risvegliare inquietudini spirituali in mezzo alla pedanteria ed all’erudizione della Spagna dell’epoca. In effetti l’approccio unamuniano all’epopea del Cavaliere della Fede inseparabile dal suo scudiero, in una suggestiva ambivalenza tra finzione e realtà, tra sogno e vita reale, è intenzionalmente separata «dal suo tempo, ed anche il libro dal suo autore e perfino dal suo paese, per considerarlo sub specie aeternitatis. Don Chisciotte è la Bibbia ispanica e, come tale, esige un’interpretazione mistica»40, espungendo ogni intenzione umoristica e avvolgendolo in un'atmosfera tragica. Da questo lato il libro di Unamuno rappresenta una «grandiosa violenza al vero Don Chisciotte». Nonostante Unamuno considerasse il suo libro sul Chisciotte come «la sua opera più personale»41, dove aveva posto «più anima, più pensiero e più vita»42, esso inizialmente non ha ricevuto una considerazione ermeneutica adeguata. Pur rilevando con perspicacia che il celebre commento unamuniano costituisce un’opera di “sintesi ideologica” ed un «pretesto per esporre la propria teoria della vita, la concezione dell’uomo e del mondo a cui era pervenuto nel 1905», tuttavia González Caminero lo giudica, non senza fraintendimenti, una filosofia anti-spagnola, in quanto è «in contraddizione stridente con tutta la storia spagnola, con tutti gli ideali per i quali hanno lottato e sono morti gli autentici figli della Spagna»43; e ciò a causa dello “estremo agnosticismo anti-intellettuale” e del “volontarismo ed umanismo assoluti”. Serrano Poncela identifica il Chisciotte unamuniano col simbolo dell’utopia onde poter somministrare determinati «im40 E. R. Curtius, M. de Unamuno, “excitator Hispaniae”, in Kritische Essays zur europäischen Literatur, Bern 1950, p. 254. 41 Cfr. lettera a Múgica di M. de Unamuno, Cartas inéditas, Santiago de Chile 1965, p. 337. 42 Cfr. lettera a Nín y Frías cit. da E. Salcedo, Vida de Don Miguel, Salamanca 1970, p. 133. 43 N. González Caminero, M. de Unamuno, I, Santander 1948, p. 199 e 243. Lo stesso Unamuno sottolinea che il suo commento è una sorta di “meditazione filosofico-religiosa o di rêveries” (Cartas inéditas de Unamuno a Llundain, cit., p. 337).
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perativi: un’attitudine vitale diretta verso certi ideali e un metodo: quello della fede, per giungere ad essi. E una forma pratica di utilizzare la fede tra gli uomini: la follia»44. Da questo punto di vista, le avventure chisciottesche rappresentano «un costante progresso dell’ideale sul reale ed una sottomissione evidente della realtà a quest’utopia dinamica»45. La componente utopica del chisciottismo è invero fondamentale nonostante non sia vista in stretta connessione con la dimensione tragica. Non è agevole classificare quest’opera unamuniana che forse può essere considerata, come rilevò con perspicacia M. Zambrano, una “guida”, una “confessione”, in cui si mostra «la situazione concreta dell’autore in rapporto al lettore»46. L’elemento specifico della guida consiste in un «viaggio, un itinerario tra difficoltà e scogli di vario genere grazie ad un’azione che bisogna portare a termine e che si presenta come l’unica uscita possibile»47. Tuttavia – rileva Zambrano – il limite delle interpretazioni donchisciottesche tanto di Ortega, che si era concentrato prevalentemente sull’enigma dell’autore a scapito dell’eroe, quanto di Unamuno, che aveva risolto l’ambiguità espungendo l’ironia e lo spirito critico di Cervantes, consiste nell’aver cercato di decifrare questo misterioso enigma che proprio il genere romanzesco è in grado di esprimere. A Unamuno, che aveva narrato l’avventura chisciottesca al fine di esprimere una filosofia tragica incentrata sull’ansia di immortalità e l’idealismo etico dell’eroe tragico, Zambrano fa 44
S. Serrano Poncela, El pensamiento de Unamuno, México 1964, p. 249. Ibid., p. 252. J.L.L. Abellán, Unamuno a la luz de la psicología, Madrid 1964, pp. 112-113, interpreta anche il Chisciotte in senso psicologico, che tuttavia risulta insufficiente come metodo ermeneutico. Da parte sua C. Paris, Unamuno. Estructura de su mundo intelectual, Barcelona 1968, p. 223 e 235 vede nel commento unamuniano un momento di evoluzione sul tema della lotta dal versante oggettivo (guerra contro il mondo) a quello soggettivo (guerra interiore, che prefigura l’agonismo). 46 M. Zambrano, Una forma de pensamiento: la guía, in Obras reunidas, Madrid 1971, p. 359. 47 Ibid., p. 362. 45
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rilevare che in tal modo ha dissolto l’ambiguità. «Unamuno riscatta Don Chisciotte dall’ambiguità, dal gioco di specchi e sguardi che si incrociano e lo battezza cristianamente. E così la sua storia è una forma della passione tragica dell’essere, di patire attivamente la libertà sulla terra, che condurrà l’uomo alla vita eterna, secondo questo suo cristianesimo tragico»48. Ciò nonostante, Zambrano condivide la concezione unamuniana – criticata invece nel primo libro orteghiano – secondo cui la realtà è fatta con la materia dei sogni, è “sogno creatore”. In Don Chisciotte il viaggio diviene avventura e l’azione da intraprendere si configura come impresa eroica. Dopo la crisi spirituale ed esistenziale, Unamuno nel cavaliere errante inventa «il suo personaggio, la maschera tragica con la quale si presenta in pubblico»49. La nuova attitudine di Unamuno che si converte a Don Chisciotte è caratterizzata da una volontà di utopia di ispirazione cristiana, come ha cantato A. Machado nel celebre ritratto dell’amico e maestro dedicatogli proprio in occasione della pubblicazione del commento chisciottesco: “Este donquijotesco Don Miguel de Unamuno, fuerte vasco, lleva el arnés grottesco y el irrisorio casco del buen manchego. Don Miguel camina jinete de quimérica montura, metiendo espuela de oro a su locura sin miedo de la lengua que malsina”50. 48 M. Zambrano, La ambigüedad de Cervantes, in España, sueño y verdad, cit. , p. 34. 49 P. Cerezo Galán, Las máscaras de lo trágico, Madrid 1996, p. 313. 50 A. Machado, Poema CLXI, in Obras. Poesía y prosa, Buenos Aires 1973, p. 243. Traduzione: «Questo donchisciottesco/Don Miguel de Unamuno, forte basco/alza l’arnese grottesco e l’irrisorio elmo/del buon mancego. Don Miguel cammina/cavallerizzo dalla chimerica cavalcatura/mettendo sprone d’oro alla sua follia/senza paura della lingua che sfigura». Cfr. inoltre, A. Machado, Divagaciones (En torno al último libro de Unamuno), «La República de las Letras» n. 14, 09.08 (1905). Su ciò, cfr. G.W. Ribbans, Unamuno and A. Machado, «Bulletin of Hispanic Studies» XXXIV (1957), pp. 10-28.
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La missione chisciottesca di Unamuno consisterà nel risvegliare la coscienza della libertà attraverso l’amore per la verità: si tratta ad un tempo di una missione “religiosa” e civile come lo esigevano la conversione a quel protestantesimo liberale di ispirazione ritschliano-cattolica. La forma del commento, che consente di attuare un dialogo interiore51, è opera di uno spirituale piuttosto che di un intellettuale, la cui attitudine è contrassegnata dal pessimismo trascendente e dall’esistenza tragica52. Unamuno confessa che il suo libro contiene «tutto un sistema filosofico»53, sebbene si possa rilevare che costituisca «un mondo personalizzato, il mondo intero fatto uomo, il verbo fatto mondo» (I, 1178). Il pensatore basco intravede nella vicenda chisciottesca le linee maestre dell’autentico spirito spagnolo ed inoltre l’unica possibilità di assurgere alle altezze filosofiche, oltre che un potente incitamento ad abbracciare una vita imperniata sull’ideale etico, sull’eroismo tragico onde conquistare quella gloria e fama individuali e collettive, in ultima analisi l’immortalità, che solo una fede basata sul forte volere può in qualche modo garantire. La fede creatrice è, infatti, la segreta spinta ad agire e, in definitiva, a vivere non di vuota retorica e luoghi comuni, da cui era invasa la Spagna agli inizi del secolo scorso, ma praticando quel “sacramento della parola”, giacché non è autentica la chiacchiera, ma l’azione secondo il cuore e l’eterna saggezza. Don Chisciotte è pervaso da una rassegnazione attiva, da una lotta titanica ed utopica contro il mondo alla ricerca del senso ultimo dell’esistenza e del proprio destino. La crisi unamuniana ha trovato l’approdo nel Cavaliere della Fede, il quale è l’eroe e la maschera, insomma «la figura simbolica, che aiuterà Unamuno a creare il proprio mito e a rispecchiarvisi»54. Fu grazie alla corrispondenza con Ganivet su El porvenir de España, che Unamuno prese coscienza del «carattere im51
F. Schürr, M. de Unamuno, München 1962, p. 76. P. Cerezo Galán, Las máscaras de lo trágico, cit., p. 311. 53 Cfr. Cartas 1903-1933, Madrid 1968, p. 83. 54 F. Schürr, M. de Unamuno, cit., p. 77. 52
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mortale della follia chisciottesca» (III, 643) che lo spinge ad affermare: «opera con efficacia ed impegno solo chi si alimenta dell’eterna illusione consolatrice, e sognare l’azione è la stessa cosa dell’attuazione del sogno» (III, 959). La conversione chisciottesca da parte di Unamuno ha anche risvolti socio-politici con speciale riguardo alla questione spagnola, che in quest’epoca egli affronta più sul piano pedagogico-culturale ed etico-sociale che sul versante eminentemente politico, come aveva fatto nei saggi sul purismo. «Non è un male politico e neppure economico ciò di cui soffre la Spagna; si tratta di una questione morale» (IX, 109). Di qui l’invettiva nel commento al Chisciotte: «Tutto il nostro male è la codardia morale, la mancanza di fermezza per affermare ciascuno la verità, la propria fede e di difenderla» (III, 141). Dell’interpretazione originale ma ad un tempo paradossale della vicenda chisciottesca, che tante dispute ha suscitato tra i cervantisti, si è incaricato, come dicevamo, lo stesso Unamuno (Sobre la lectura e interpretación de Don Quijote, 1905) di suggerire le linee maestre, coinvolgendo addirittura lo stesso concetto di autore, giacché Cervantes è ritenuto solo un mero strumento essendo Don Chisciotte «di tutti coloro che lo leggono e lo sentono. Cervantes trasse Don Chisciotte dall’anima del suo popolo e dall’anima di tutta l’umanità». Perciò più del suo autore, Don Chisciotte è immortale ed universale, giacché esiste realmente per sempre non solo nell’anima spagnola, ma in definitiva in tutta l’umanità. Cervantes sarebbe soltanto, in un certo senso, il ventriloquo di una storia fantastica che sarebbe in un modo o nell’altra venuta alla luce. Perciò non bisogna lasciarsi trarre in inganno dai riferimenti di Cervantes a quelle carte dello storico arabo Cide Hamete Benengeli, rovistando tra le quali sarebbe venuto a conoscenza dell’avventura del Cavaliere dalla Triste Figura. Non si tratta affatto di un espediente letterario, poiché è stato paradossalmente lo stesso Don Chisciotte, celato sotto le spoglie di quello storico arabo, a dettare la sua straordinaria vicenda. Rispetto agli eruditi ed ai filologi, non interessati a vedere al di là dei libri gli uomini, Unamuno assume pertanto il libro di Cervan-
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tes «a testo e pretesto di fantasticherie, di concetti e di precetti facendone l’allegoria di posizioni filosofiche, come sarebbero i rapporti tra reale ed ideale, di immaginazione e storia, di irrazionale e razionale»55. Don Chisciotte, che è il Cavaliere della Fede, l’incarnazione dell’idealismo etico, – ovvero del pessimismo trascendente che lotta per dar finalità umana all’universo – rappresenta l’emblema della religione nazionale. Egli è infatti «il Cristo spagnolo, nel quale si cifra e compendia l’anima immortale di questo mio popolo» (VII, 283) 56. Il Chisciotte storico, quello cervantino, non era altro che «l’ipostasi e come il punto di partenza» (I, 1231) che ciascuno poteva far proprio attraverso il libero esame non diversamente dall’ermeneutica biblica. La religione chisciottesca rappresenta una sintesi tra il cristianesimo evangelico propugnato da Harnack e la mistica della libertà onde poter attuare una riforma interiore della Spagna. Il Cavaliere della Fede è l’emblema dell’eroe57 che è «poeta in azione» (III, 194), poiché incarna la volontà del popolo (Hegel). Ogni eroismo ha caratteristiche agoniche; non casualmente esclama Don Chisciotte: «Io, Sancio, nacqui per vivere morendo» (III, 213). Spesso l’eroe vive nella solitudine ed è disprezzato e deriso dal mondo. «L’eroe non può avere amici, poiché è necessariamente un solitario» (III, 123). Ma il suo eroismo e la sua suprema generosità consistono nell’affrontare il ridicolo, secondo il giudizio del mondo. «Chi è buono non si rassegna a scomparire, perché sente che la sua bontà fa parte di Dio, che è Dio non dei morti, ma dei vivi, perché per Lui vivono tutti» (III, 245). 55 Cfr.
B. Croce, Intorno al Don Chisciotte, in Poesia antica e moderna, Bari 1943, p. 256. M.F., Sciacca, Il chisciottismo tragico di Unamuno, Milano 1971. G. Foresta, Il chisciottismo di Unamuno in Italia, Lecce 1979. 56 Sul parallelo Don Chisciotte-Cristo, cfr. V. Ouimette, Reason Aflane. Unamuno and the heroic will, London 1974, pp. 95-100. Sulle suggestioni mutuate da Dostoevskij, cfr. V. Marrero, El Cristo de Unamuno, Madrid 1960, pp. 163-178. 57 Su tale tema è palese l’influsso di Carlyle, per il quale c’è un nesso tra eroismo ed ispirazione, come ha rilevato C. Clavería, Temas de Unamuno, Madrid 1953, pp. 45-46.
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5. Don Chisciotte, Cavaliere della Fede La missione di Don Chisciotte – al di là delle discusse similitudini con Ignazio di Loyola e Cristo (Unamuno paragona Gesù burlato e ridicolizzato a Don Chisciotte, influenzato da A. Réville e dal narratore inglese Hall Caine) – consiste in una religione non della gloria58, bensì dell’immortalità, basata sulla fede creatrice che vive agonicamente. «Questa è la radice ultima, la radice delle radici della follia chisciottesca. Non morire! Non morire! Ansia di vita, ansia di vita eterna è ciò che ti dette vita immortale, mio signor Don Chisciotte; il sogno della tua vita fu ed è sogno di non morire» (III, 228). Don Chisciotte, che lotta «per un regno spirituale» (III, 79), a riprova di un ritrovato equilibrio dopo la crisi da parte di Unamuno, è pertanto l’eroe cristiano che a suo modo vive una rivelazione consistente «nell’ansia di più vita […] nell’appetito della divinità, nella fame di Dio» (III, 884). Di qui il senso profondo dell’espressione “fede nella fede” che non consiste solo nell’essere agitatore di spiriti ma implica un’attività pratica, un movimento di continuo trascendimento dell’esperienza ed un atteggiamento critico, secondo quanto emerge dal sentimento tragico della vita. «La mia opera – oserei dire la mia missione – è animare la fede degli uni, degli altri e di altri ancora, la fede nell’affermazione, la fede nella negazione e la fede nell’astensione, e ciò mediante la fede nella fede stessa; è combattere tutti coloro che si rassegnano, sia il cattolicesimo che il razionalismo e l’agnosticismo; è far sì che vivano tutti inquieti» (VII, 297-298). 58 Il tema della fama e della gloria non viene sottovalutato, alla luce dell’influsso di Stapfer, come ha mostrato Orringer, che forse interpreta unilateralmente il Commento unamuniano come “un poema teologico-filosofico sulla gloria umana” (N.R. Orringer, La filosofía de la gloria en Unamuno y Stapfer, in AA. VV., Actas del congreso M. de Unamuno, cit., p. 351). Secondo R. García Mateo, Dialektik als Polemik, Frankfurt 1978, p. 196, la fama è espressione «piuttosto della coscienza di aspirazione aperta all’infinito e all’eterno». Tale giudizio è condiviso da P. Cerezo Galán, Las máscaras de lo trágico, cit., p. 328, secondo il quale la religione chisciottesca unamuniana non è imperniata sulla fama, bensì è una religione della parola o coscienza che aspira ad essere eterna.
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Don Chisciotte non fatica a convincere Sancio ad essere suo scudiero, e viene convertito dal Cavaliere a volgere la cupidigia in ambizione, la sete d’oro in sete di gloria. Sancio è il carnale, il Simon Pietro del Cavaliere, per l’attaccamento alla terra, ma, a poco a poco, grazie alla fede che gli infondeva il Cavaliere, scoprì il fascino della vita immortale. Ma Sancio, che in ultima analisi rappresenta l’umanità, lungi dal rivestire le sembianze dell’ingenuo, giacché crede senza pretendere segni nella fede del suo padrone, simboleggia quell’eroica follia nella sapienza della vita. Sancio e Don Chisciotte non rappresentano l’opposizione tra il senso comune e l’ideale, bensì costituiscono un solo essere visto, per così dire, da due lati. Insomma rispetto al Cavaliere dalla Triste Figura, Sancio è il suo doppio, l’artefice del definitivo inveramento di Don Chisciotte. I comportamenti di Don Chisciotte e del suo scudiero sono ispirati da Dulcinea, simbolo dell’amore, ma soprattutto della gloria immortale. È l’ansia di immortalità a spingere Don Chisciotte ad unire in Dulcinea «la donna e la gloria e, giacché non poteva perpetrarsi in lei in un figlio di carne, cercò di eternizzarsi con le imprese dello spirito», generando così figli spirituali duraturi. La fede nell’immortalità, ovvero nel trionfo finale del bene, costituisce il mondo morale, che in Unamuno assume valenze religiose, giacché, in sintonia con l’affermazione paolina, la fede chisciottesca è stoltezza agli occhi del razionalismo e dell’intellettualismo (III, 119) e, non diversamente dall’interpretazione kierkegaardiana di Abramo, è credere nell’assurdo (III, 120) razionale. Al superuomo nietzschiano, Unamuno contrappone in Don Chisciotte il superuomo cristiano ispirato allo spirito del «semplice luminoso ed umano» Vangelo che a suo dire era stato soppiantato dalla concezione teologico-politica della cristianità. «Perché l’uomo del futuro, questo superuomo di cui ho parlato, è diverso dal perfetto cristiano […] quando rompe il bocciolo gnostico dove è rinchiuso ed esce dalle tenebre mistiche per cui detesta il mondo, il mondo di Dio, e rinnega la vita, la vita in comune?» (I, 965). Don Chisciotte è, pertanto, il cavaliere delle virtù, poiché incarna l’idealismo etico compiendo azioni eroi-
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che lasciandosi guidare non dal razionalismo, ma dalla logica del cuore. Lungi dall’essere un illuso, egli è convinto che «la bontà ci rende eterni» (III, 245). La fede non può essere disgiunta dalla speranza che, con enfasi vitalista, Unamuno esalta a partire dalla libera interpretazione della formula paolina (Ebr., XI, 1): «La fede è, pertanto, fede nella speranza: crediamo ciò che speriamo» (VII, 227). O come canta in celebri versi: «Y se construye nuestra fe y estriba sobre esperanza, y es esperanza nuestra fe tan sólo. Tan sólo? La esperanza es nuestro íntimo fundamento, el sustento de la vida; la esperanza es lo que vive; sólo recibe vida lo que espera » (VI, 856)59.
Vi è una certa sintonia tra Unamuno e il principio-speranza di E. Bloch. «Perché la speranza è il fiore dello sforzo del passato per farsi futuro, e tale sforzo costituisce l’essere stesso» (III, 193) 60. Lo stesso Bloch riconosce che «nel sogno dell’incondizionato vive, specialmente in Don Chisciotte, la perfetta coscienza religiosa secondo cui il dato non può essere vero in modo evidente; che al di là della logica presente dei fatti, ha inoltre validità un’evidenza sotterranea, dove si alimenta la verità nella speranza come un mondo per noi»61. Il chisciottismo implica non solo un’etica basata sulla fede creatrice ma anche una logica ed un’epistemologia. «Fondasti questo tuo popolo, il popolo dei tuoi servi, o Don Chisciotte e Sancio, sulla fede nell’immortalità personale; guarda, Signore, 59 «E si costruisce la nostra fede e poggia/sulla speranza/ed è soltanto speranza la nostra fede./Soltanto? La speranza è il nostro intimo/fondamento,/il sostegno della vita;/la speranza è ciò che vive;/solo riceve vita chi spera». 60 Sul ruolo della speranza in Unamuno, cfr. P. Laín Entralgo, La espera y la esperanza, Madrid 1957, pp. 382-419. 61 E. Bloch, Il principio speranza, Milano 1994, p. 258.
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che è questa la nostra ragione di vita ed il nostro destino tra i popoli: far sì che la logica del cuore illumini le menti contro tutte le tenebre della logica e del raziocinio e consoli i cuori dei condannati al sogno della vita» (III, 251). Infatti, non è «l’intelligenza, ma la volontà a costruire per noi il mondo» (III, 252); è quindi mero gioco linguistico una logica non fondata sulla fede creatrice e cordiale. Perciò il tipo donchisciottesco è buono simpliciter. Se esiste una filosofia spagnola, è quella chisciottesca, «quella di non voler morire, quella di credere, quella di creare la verità. Ma tale filosofia non si apprende nelle scuole, né si può esporre secondo la logica deduttiva e induttiva, né deriva dai sillogismi: sgorga direttamente dal cuore» (III, 258). Unamuno rovescia, pertanto, l’attitudine positivista affermando che «esiste soltanto ciò che opera ed esistere è operare. E se Don Chisciotte attua, in quanti lo conoscono, opere di vita, Don Chisciotte è più storico e reale di tanti uomini, puri nomi» (III, 132). All’adagio scolastico, operari sequitur esse, Unamuno sostituisce il seguente: agire è essere, potere e volere. Don Chisciotte, infatti, «discorreva con la volontà e dicendo “so io chi sono” intendeva dire “io so chi voglio essere”. Il quid della vita umana è che l’uomo sappia che cosa vuol essere» (III, 82). Trattandosi di autocreazione originaria – non di autocoscienza – Don Chisciotte può in tal modo far proprio quanto si attribuiva Dulcinea: «Io forgio con la mia fede e contro tutti la mia verità; ma, dopo averla così forgiata, essa varrà e si sostenterà da sola, mi sopravviverà ed io vivrò in essa» (III, 223). Come ha rilevato Cerezo Galán, siamo dinanzi ad un’attitudine archetipica, in quanto l’esistenza è «la divina idea di cui sei manifestazione nel tempo e nello spazio» (III, 82); non si tratta, quindi di una concezione nietzschiana – perché manca il nesso tra volontà di potenza e morte di Dio – ; né esistenzialistica – rispetto alla quale Unamuno riconosce che nell’ordine temporale l’esistenza precede l’essenza ma si verifica l’inverso sub specie aeternitatis, che ai suoi occhi è infine ciò che conta – ; né teistica, giacché il Dio unamuniano, più in sintonia con Spinoza, è forza e coscienza. Don Chisciotte giunse in fondo all’abisso della sapienza che consiste nel «prendere per invisibili e fantastiche le cose
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di questo mondo». Egli dovette abbandonare l’intelletto – nel cui uso era considerato un uomo prudente e saggio – per aprirsi all’immaginazione, mediante la quale faceva meravigliare tutti per la sua follia. In tal modo perdette il giudizio, ovvero rigettò l’intellettualismo, ma in cambio di tale sacrificio lasciò un grande esempio di generosità spirituale, poiché «credette con fede talmente viva, con fede generatrice di opere a tal punto che decise di mettere in pratica quello che la sua follia gli mostrava, e solamente col crederlo lo trasformava in realtà» (III, 263). Richiamandosi a Kant e a Fichte, ribadisce Unamuno che esistere è operare nel mondo che è la mia creazione. «L’angoscia dello spirito è la parte della verità sostanziale. Soffri per credere e credendo vivrai. Di fronte a tutte le creazioni della logica, che governa le relazioni apparenti tra le cose, si deve affermare la logica del cuore, che ne regge invece le manifestazioni sostanziali» (III, 210). Per la sicurezza della coscienza è sufficiente la verità, che non è «la relazione del mondo dell’apparire con la ragione, anch’essa apparente, ma è la penetrazione intima del mondo sostanziale nella coscienza, anch’essa sostanziale» (III, 146). Sulla base di un doppio mondo, – come avevano rilevato sia Kant che James – l’uno fenomenico conoscibile mediante la ragione scientifica, l’altro noumenico creato poeticamente e liberamente, Unamuno afferma con vigore che più che aver ragione sulla base dell’adaequatio rei et intellectus è decisivo vivere la verità il cui «effetto pratico è l’unico valido» (III, 172), secondo quanto aveva rilevato anche James. Questi si era riferito ad Eucken per sostenere che compito del pensiero è di incrementare ed elevare l’esistenza. Parimenti Unamuno sostiene che «ogni credenza che porta a opere di vita è credenza vera ed è menzognera quando porta a opere di morte. La vita è il criterio della verità, e non la concordanza logica, che è solo della ragione. Se la mia fede non mi porta a creare o accrescere la vita, perché chiedi più prove alla mia fede?» (III, 130). La verità esistenzialmente vissuta è volontà di verità morale, che è possibile distinguere dall’illusione. «Da quanto ho detto – afferma Don Chisciotte – io sono la verità». Al che Unamuno commenta: pertanto «tale illusione è la verità più
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vera e non esiste altra logica di quella morale» (III, 212). La morale chisciottesca è antilegalistica essendo fondata sulla legge evangelica dell’amore (III, 98) e sulla «sana intenzione nel mondo della libertà, nel mondo essenziale degli aneliti intimi» (III, 218). Di qui la riformulazione dell’imperativo categorico: «vivi in modo da meritare di essere immortale e di immortalizzare con te l’universo. Non si tratta solo di un imperativo di gloria, ma di fecondità, radice di essa, poiché solo l’amore è fecondo e si espande come un dono» (III, 245). Unamuno ritiene di poter risolvere il problema riguardante le questioni ultime romanticamente, cioè dotando la volontà dell’elemento conoscitivo. Di qui il primato della ragion pratica esemplificata in Don Chisciotte. Unamuno, che appare come il cavaliere della volontà, prospetta un’etica della vocazione nella quale la parola è fatta carne. Si tratta, a suo modo, di un nuovo Discorso sul metodo imperniato sul “discorrere della volontà”, che sfocia in una morale tragica. Non si può volere la vita eterna senza porsi l’interrogativo della morte, «posto che il coronamento e compimento della vita avviene solo nella morte e alla luce della morte bisogna considerare la vita» (III, 242). Ora, nella morte di Don Chisciotte si rivela il mistero della vita chisciottesca, la cui verità ultima non consiste nella fame di gloria, bensì nella bontà del cuore. «La radice della tua follia di immortalità, la radice del tuo anelito di vivere nei secoli, la radice della tua ansia di non morire fu la tua bontà, o Don Chisciotte» (III, 245). Non casualmente Calderón de la Barca aveva sentenziato che il bene compiuto non si perde neppure in sogno: «E se la bontà è eterna, quale maggior saggezza della morte?» (III, 245). Tale eroica fede è l’eredità che Sancio si incarica di trasmettere e perpetuare, giacché chi come lui è buono «non si rassegna a dissolversi, perché sente che la sua bontà fa parte di Dio, del Dio dei vivi e non dei morti… L’importante è essere buoni, qualunque sia il sogno della vita» (III, 249). La fede di Don Chisciotte è trasmessa all’erede Sancio che si incarica di farla trionfare sulla terra e così Dulcinea, simbolo della gloria, «li stringerà al petto in un abbraccio facendone una sola persona». Purtroppo non regnò nella Spagna
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di Unamuno quell’erede, bensì la nipote di Don Chisciotte, ovvero lo spirito temerario, rinunciatario, sconfitto e senza ideali, pervaso dalla “peste del buon senso”. Per questo Unamuno ha proclamato l’ideale donchisciottesco onde incitare il popolo al risveglio spirituale imboccando la via della follia salvatrice. Dopo la volontà di vita di Schopenhauer, la volontà di potenza di Nietzsche62, la volontà di credere di James, la volontà di immortalità costituisce l’attitudine originale di Unamuno che a buon diritto può affermare di essere nato per commentare la vita di Don Chisciotte, poiché può far ciò solo chi è stato contagiato «dalla stessa follia di non voler morire» e di poter chiedere di essere anche lui condotto, tramite l’intercessione dell’eroico Cavaliere e del suo fedele scudiero, per mano all’immortalità del nome e della fama. E se la vita è sogno, lascia che io la sogni imperitura!». L'emblema del sentimento tragico della vita è Don Chisciotte, rispetto alla cui interpretazione si assiste ad un'evoluzione, in quanto egli assurge nell'opera del 1913, come si evince dall’emblematico titolo: “Don Chisciotte nella tragicommedia europea contemporanea”, ad «esemplare vitalista, la cui fede si basa sull'incertezza» (VII, 181). Che cosa ci ha lasciato Don Chisciotte? «Il donchisciottismo, e non è poco! Tutto un metodo, un’epistemologia, un’estetica, una logica, un’etica e, soprattutto, una religione, vale a dire un’economia dell’eterno e del divino, una speranza nell’assurdo razionale» (VII, 299). A Don Chisciotte-Dulcinea – simboli rispettivamente dell'agonismo e della gloria immortale – vengono contrapposti Elena che ruba l'anima a Faust, barattando la religione con la cultura e la felicità umanistico-mondane. Unamuno, alludendo specialmente ad Ortega, si scaglia con paradossale veemenza contro la cultura secolare, il progresso, la scienza, l'europeizzazione richiaman62 Sull’influsso di Nietzsche nell’opera unamuniana sul Chisciotte, cfr. G. Sobejano, Nietzsche en España, Madrid 1967, p. 282. Su Unamuno, ci permettiamo di rinviare ad A. Savignano, Introduzione a M. de Unamuno, Laterza, Bari 2001; e Id., La filosofia della religione, in M. de Unamuno, Filosofia e religione, a cura di A. Savignano, Bompiani, Milano 2013, pp. IX-XCI.
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dosi alla “malattia del secolo” che «si annuncia con Rousseau ed emerge con maggior chiarezza nell’Obermann di Sénancour» (VII, 284) e che identifica, sulle orme di Sabatier63, nel divorzio tra scienza oggettiva e finalità morale (VII, 285), in definitiva, nella perdita del senso escatologico-religioso. Secondo Unamuno che in ciò dissentiva da Ortega e dalla Generazione del 1914, né il progresso, né la scienza sono in grado di affrontare il problema del senso e del valore della vita. Perciò l'uomo, che si mostra ormai insoddisfatto del Kulturkampf, intende vivere agonicamente, senza cadere però nell’integrismo, rispetto alle cui tentazioni Unamuno aveva da sempre preso le distanze, da uomo troppo libero e moderno qual era, pur rimproverando all'umanesimo di averne tradito l'autentico carattere, che non è «quello delle cose dell'uomo, ma quello dell'uomo» (VII, 116), insomma di aver preferito ad un'economia trascendente quella esclusivamente immanente. Insomma Unamuno è contro l’umanismo nella misura in cui persegue solo i valori immanenti rispetto a quelli trascendenti e religiosi. Non casualmente, alla fine dell’opera, Unamuno può esclamare, rivolto al lettore: «Che Dio non ti dia pace, ma gloria». Alla fine, con allusioni al disagio linguistico quasi tipico della condizione post-moderna Unamuno, rivolgendosi al lettore, osserva: «Se non sono riuscito a smuoverti con questo mio Don Chisciotte, credimi pure, è stato […] perché il linguaggio non è stato creato affinché tu ed io ci possiamo intendere»64. Tuttavia – giova precisare – Unamuno continua a credere in Don Chisciotte quale simbolo per la conquista di fama eterna e come antitodo alle minacce del relativismo dei discorsi e dell’assolutismo del reale. 63 Cfr. A. Savignano, Unamuno y la nostalgía de lo eterno. El diálogo con A. Sabatier, in AA. VV., Tu mano es mi destino, a cura di C. Flórez Miguel, Salamanca 2000, pp. 443-454. 64 Ad una “post-modernità ante litteram” della scrittura unamuniana allude F. Savater nella Presentazione a M. de Unamuno, Il sentimento tragico della vita, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1999, con introduzione di A. Savignano. Cfr. anche il Prologo di F. Savater a M. de Unamuno, El sentimiento trágico de la vida, Alianza Editorial, Madrid 2008.
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CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE 1864
Unamuno nasce a Bilbao il 29 settembre.
1869-74 Frequenta le scuole elementari al Collegio “San Nicolas” di Bilbao. 1874
Assiste, durante l’ultima guerra carlista, al bombardamento della città di Bilbao.
1875-79 Compie gli studi secondari allo “Instituto Vizcaino” della sua città natale. Inizia l’attività pubblicistica collaborando prima con giornali locali quali: “El noticiario bilbaino”, “El Norte”, “La lucha de clase”, “El Nervión”, e poi con quelli nazionali, quali: “El diario de Salamanca”, “El Adelanto” di Salamanca, “La Publicidad” di Barcellona, “El Sol” di Madrid diretto da Ortega, “Ahora”, “Revista Nueva”, “La Nación” di Buenos Aires. Durante la prima guerra mondiale, collaborò anche a “Il Nuovo Giornale” di Firenze. Il che mostra i molteplici interessi di Unamuno sia per la letteratura e la filosofia, ma anche per i problemi socio-politici. 1880-84 Si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Madrid, dove consegue il dottorato in Filosofia e Lingue classiche con una dissertazione su Crítica del problema sobre el origen y la prehistoria de la raza vasca. L’esperienza madrilena lasciò insoddisfatto Unamuno sia sul piano culturale che delle relazioni intellettuali ed umane. Fu in questo periodo che la sua fede cat-
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tolica vacillò a seguito di influssi razionalistici e krauso-positivistici. 1885-91 Ritorno a Bilbao, dove esercita l’insegnamento privato e nel frattempo si prepara a vari concorsi universitari. Compie il primo viaggio all’estero visitando la Svizzera, la Francia e l’Italia. Vince il concorso a cattedra di Lingua e letteratura greca e viene chiamato all’Università di Salamanca, che sarà la città di adozione per tutta la vita. 1891
Sposa Concepción Lizárraga, dalla quale avrà numerosi figli e che sarà denominata la diletta “Concha”.
1894-96 Adesione per due anni al Partito socialista e attività di pubblicista in difesa del movimento operaio. En torno al casticismo. Epoca della crisi spirituale ed esistenziale di Unamuno, che si riaccosta al cristianesimo. 1897
Paz en la guerra.
1898
La Spagna attraversa una crisi socio-politica da cui prese origine la celebre “Generazione del ’98”, di cui Unamuno è riconosciuto come capo spirituale. Viene nominato Rettore dell’Università di Salamanca. Istituisce la cattedra di filologia comparata di latino e di castigliano, denominata, poi, cattedra di storia della lingua spagnola, di cui egli stesso assume l’incarico. Amor y pedagogía.
1904
Discorso alla presenza del re Alfonso XII a Salamanca. Vida de Don Quijote y Sancho.
1907
Poesías. Recuerdos de niñez y mocedad. La Esfinge. Prima rappresentazione teatrale a Las Palmas (Gran Canarie). Mi religión. Rosario de sonetos líricos. Contra esto y aquello.
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1913
Del sentimiento trágico de la vida en los hombres y los pueblos.
1914
Niebla. Legge nell’Ateneo di Madrid El Cristo de Velázquez. È destituito dalla carica di Rettore per i suoi interventi critici contro la politica governativa e per i frequenti attacchi alla monarchia. Ensayos, vol. 1-3.
1917
1921
Ensayos, vol 4-5. Abel Sánchez. Compie un secondo viaggio in Italia, nella seconda decade di settembre per visitare il fronte di guerra italo-austriaco assieme a Amerigo Castro, celebre scrittore e storico; Santiago Busiñol, pittore; Manuel Azaña, futuro uomo politico; Luis Bello, giornalista. È candidato alle elezioni alle “Cortes” dai repubblicani, per il collegio di Bilbao, e dai socialisti, per il collegio di Madrid; ma senza successo. Campagna anti-monarchica. El Cristo de Velázquez. La tía Tula. Mi visita a palacio; in questa circostanza, Unamuno formula aspre critiche alla monarchia per le quali viene processato con l’accusa di lesa maestà. Andazas y visiones españolas.
1923
Rimas de dentro. Teresa: rimas de un poeta desconocido. A seguito del colpo di Stato del 1923 e dell’instaurazione della dittatura del generale Primo de Rivera, viene esiliato, per la sua opposizione al regime, a Fuerteventura, un’isoletta delle Canarie.
1925
De Fuerteventura a Paris. L’agonie du christianisme, in spagnolo nel 1931.
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1924-30 Fuggito in Francia, nel giugno del 1924, vi rimase in volontario esilio, fermandosi, prima a Parigi, e poi ad Hendaya, sul golfo di Biscaglia, da dove sentiva meno nostalgia per la madre patria. 1927
Cóme se hace una novela.
1928
Romanecero del destierro. Caduta la dittatura, il 9 febbraio Unamuno rientra in patria, accolto trionfalmente e viene reintegrato nella carica di Rettore dell’Università di Salamanca. San Manuel Bueno, mártir.
1930-33 Proclamata la Seconda Repubblica, è nominato deputato alle Cortes in rappresentanza del raggruppamento repubblicano (cioè repubblicani e socialisti) e gli viene affidata la Presidenza del Consiglio Superiore di Istruzione pubblica. Lascia l’insegnamento universitario ed è proclamato rettore a vita dell’Università di Salamanca. Morte della diletta moglie. Laurea Honoris causa dell’Università di Grenoble. 1935
1936
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Celebre intervista con José Antonio Primo de Rivera. È nominato cittadino d’onore della Repubblica spagnola. In occasione dei tragici fatti della guerra civile, Unamuno si proclama dapprima favorevole ai nazionalisti, perché riteneva salutare una rivoluzione onde risolvere il “marasma” spagnolo. Viene nominato “Sindaco onorario” della città di Salamanca. In seguito, però, avendo in un discorso ufficiale accusato le forze militari falangiste di aver tradito certi ideali, viene destituito dalla carica di Rettore perpetuo. Il 12 ottobre 1936 vi fu l’incidente col generale Millán Astray nel Paraninfo dell’Università di Salamanca. Muore il 31 dicembre, secondo alcuni di crepacuore, quando vide la sua patria travolta dalla tragica guerra civile.
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NOTA EDITORIALE I testi di Unamuno tradotti in questo volume sono i seguenti: El caballero de la triste figura. Ensayo iconológico, in M. de Unamuno, Obras Completas, Ed. R. Senabre Sempere, Turner, Madrid 1994-2009, t. VIII, pp. 257-277. Sobre la lectura e interpretación del Quijote, in M. de Unamuno, Obras Completas, cit., t. VIII, pp. 741-758. Vida de Don Quijote y Sancho, in M. de Unamuno, Obras Completas, cit., t. X, pp. 1-270.
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EL CABALLERO DE LA TRISTE FIGURA ENSAYO ICONOLÓGICO
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IL CAVALIERE DALLA TRISTE FIGURA SAGGIO ICONOLOGICO
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Yo apostaré, dijo Sancho, que antes de mucho riempo no ha de haber bodegón, venta, ni mesón o tienda de barbero, donde no ande pintada la historia de nuestras hazañas; pero quería yo que la pintasen manos de otro mejor pintor que el que ha pintado a éstas. Tienes razón, Sancho, dijo Don Quijote; porque este pintor es como Orbaneja, un pintor que estaba en Úbeda, que cuando le preguntaban que pintaba, respondia: lo que saliere: y si por ventura pintaba un gallo, escribía debajo: este es gallo; porque no pensasen que era zorra. (Del cap. LXXI de la segunda parte de El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha)
Tarea es la de pintar a Don Quijote hasta más difícil que la de hinchar un perro, y empresa de las más dignas de pintor español. No es de ilustrar la obra imperecedera de Cervantes, sino de vestir de carne visible y concreta un espiritu individual y vivo, no mera idea abstracta; empeño nunca tan oportuno como ahora en que anda por esos mundos de Dios revolviéndose y buscando postura el simbolismo pictórico. Tiene éste en España un simbolo que ni pintado, y es Don Quijote, simbolo verdadero y profundo, simbolo en toda la fuerza etimológica y tradicional del vocablo, concreción y resumen vivo de realidades, cuanto más ideales mas reales, no mero abstracto engendrado por exclusiones. Invito al lector a que divaguemos un poco acerca de la expresión pictórica de este símbolo vivo.
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Scommetto – dice Sancio – che non passerà molto tempo e non ci sarà trattoria, osteria o locanda, e nemmeno bottega di barbiere, in cui non ci sarà dipinta la storia delle nostre imprese. Ma preferirei che fosse dipinta per mano di un pittore un po’ più bravo di quello che ha dipinto questa. Hai ragione, Sancio – disse Don Chisciotte –, perché questo pittore è come Orbaneja, un pittore che stava a Ubeda, il quale, quando gli chiedevano che cosa stava dipingendo, rispondeva: «quello che ne verrà fuori; e se per caso dipingeva un gallo, ci scriveva sotto: “questo è un gallo”, perché non pensassero che era una volpe». (Dal cap. LXXI della seconda parte de L’ingegnoso hidalgo Don Chisciotte della Mancia)
Dipingere Don Chisciotte è un compito ben più difficile che gonfiare un cane, ed è impresa tra le più degne per un pittore spagnolo. Infatti, non si tratta solo di illustrare l’immortale opera di Cervantes, ma anche e soprattutto di rivestire con carne visibile e concreta uno spirito individuale e vivo, tutt’altro che una mera idea astratta;impegno mai opportuno come oggi, quando la pittura simbolista vaga per queste terre del Signore rivoltandosi e cercando una sua adeguata collocazione. E c’è un simbolo in Spagna come non ve ne sono d’altri, e questo è Don Chisciotte, simbolo vero e profondo, simbolo in tutta la forza etimologica e tradizionale del termine, concrezione e riassunto vivo di realtà tanto più reali quanto più ideali, non mera astrazione generata per esclusioni. Invito il lettore a divagare un po’ con me sulla rappresentazione pittorica di questo simbolo vivo.
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Los datos para pintar a Don Quijote hay que ir a buscarlos en la obra de Cide Hamete Benengeli, dentro de ella y filerá de ella también; en la obra de Cide Hamete, por haber éste sido su biógrafo; dentro de ella se descubren honduras que el buen biógrafo no caló siquiera; y filerá de ella, porque filerá de ella vivió y vive el ingenioso hidalgo. Con escrupuloso cuidado me he entretenido en entresacar de las páginas vivas de El Ingenioso Hidalgo, cuantos pasajes se refieren mas o menos directamente a los caracteres fisicos de Don Quijote. Helos aquí numerados, advirtiendo que el lector poco paciente puede muy bien pasarlos por alto: I. Frisaba la edad de nuestro hidalgo con los cincuenta años; era de complexión recia, seco de carnes, enjuto de rostro, gran madrugador y amigo de la caza. Parte I, cap. I II. Por otro nombre se llama El caballero de la triste figura… verdaderamente tiene vuestra merced la más mala figura de poco acá que jamás he visto. Parte I, cap. XIX III. … viendo su rostro de media legna de andadura, seco y amarillo, la desígualdad de sus armas y su mesurado continente. Parte I, cap. XXXVII IV. Tomad, señora, esa mano… No os la doy para que la beséis, sino para que miréis la contextura de sus nervios, la trabazón de sus músculos, la anchura y espaciosidad de sus venas, de donde sacaréis qué tal debe ser la fuerza del brazo que tal mano tiene. Parte I, cap. XLIII V. … tan seco y amojamado, que no parecía sino hecho de carne momia. Parte II, cap. I
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I dati per dipingere Don Chisciotte bisogna andare a cercarli nell’opera di Cide Hamete Benengeli, al suo interno ed anche al suo esterno, poiché questi è stato il suo biografo; al suo interno, poiché qui si celano profondità che il buon biografo non aveva nemmeno intuito, e all’esterno, perché l’ingegnoso hidalgo ha vissuto e vive anche fuori dal libro. Con scrupolo ed attenzione, mi sono dilettato a cercare nelle pagine vive de L’ingegnoso hidalgo i passi che si riferiscono più o meno direttamente ai tratti fisici di Don Chisciotte. Eccoli qui, numerati, e si premette che il lettore con poca pazienza può anche ignorarli: I. L’età del nostro Cavaliere sfiorava i cinquant’anni; era di corporatura vigorosa, secco, col viso asciutto, amante di alzarsi presto al mattino e appassionato alla caccia Parte I, cap. I II. Con altro nome è chiamato Il Cavaliere dalla Triste Figura…, veramente ha la signoria vostra, da un po’ di tempo a questa parte, la più brutta cera che io abbia mai visto. Parte I, cap. XIX III. … vedendo la sua faccia lunga un chilometro, gialla e smunta, le sue armi spaiate e la sua aria dignitosissima. Parte I, cap. XXXVII IV. Prendete, signora, questa mano… Non ve la do perché la baciate, ma perché osserviate la contestura dei nervi, l’articolazione dei suoi muscoli, l’ampiezza e lo spessore delle sue vene; dal che dedurrete che dev’essere la forza del braccio che ha una simile mano. Parte I, cap. XLIII V. … così magro e incartapecorito, da sembrare diventato carne di mummia. Parte II, cap. I
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VI. … es un hombre alto de cuerpo, seco de rostro, estirado y avellanado de miembros, entrecano, la nariz aguileña y algo corva, los bigotes grandes, negros y caidos. Parte II, cap. XIV VII. Admirole [al caballero del Verde Gabán]… la grandeza de su cuerpo, la flaqueza y amarillez de su rostro. Parte II, cap. XVI VIII. Comenzó a correr el suero por todo el rostro y barbas de Don Quijote... Después de haberse limpiado Don Quijote cabeza, rostro y barbas y celada. Parte II, cap. XVII IX. Quedó Don Quijote después de desarmado en sus estrechos gregüescos y en su jubón de gamuza, seco, alto, tendido, con las quijadas que por dentro se besaban la una con la atra, figura que, a no tener cuenta las doncellas que le servían, en disimular la risa, reventaran riendo. Parte II, cap. XXXI X. Púsose Don Quijote de mil colores, que sobre lo moreno le jaspeaba. Parte II, cap. XXXI XI. Llegó la de la fuente, y con gentil donaire y desenvoltura encajó la fuente debajo de la barba de Don Quijote; el cual, sin hablar ni una palabra, admirado de semejante ceremonia, creyó que debia ser usanza de aquella tierra en lugar de las manos lavar las barbas; y asi, tendió la suya cuanto pudo, y al mismo punto comenzó a llover el aguamanil, y la doncella del jabón le manoseó las barbas con mucha priesa, levantando copos de nieve, que no eran menos blancas las jabonaduras, no sólo por las barbas, más por todo el rostro, etc. Parte II, cap. XXXII
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VI. … è un uomo alto di statura, dal viso segaligno, scarno, il corpo smilzo e allampanato, brizzolato, con il naso aquilino e un po’ ricurvo, e con grandi baffi neri e spioventi. Parte II, cap. XIV VII. Lo meravigliò [al Cavaliere dal Verde Gabbano]… la lunghezza del suo collo, l’alta statura, la magrezza del suo viso giallognolo. Parte II, cap. XVI VIII. E cominciò a scorrere il siero per tutto il viso e la barba di Don Chisciotte… Dopo essersi asciugato capo, faccia, barba e celata. Parte I, cap. XVII IX. Toltagli l’armatura, Don Chisciotte restò nei suoi pantaloni stretti e in giubbetto di camoscio, alto, secco, stirato con le mascelle che di dentro si toccavano l’una con l’altra, insomma una figura, che, se le donzelle che lo servivano non fossero state attente a dissimulare il loro riso, sarebbero scoppiate. Parte II, cap. XXXI X. Don Chisciotte si fece di mille colori, che si riflettevano ben visibili, sul bruno viso. Parte II, cap. XXXI XI. Si avvicinò quella col catino e con garbo disinvolto fissò il catino sotto il mento di Don Chisciotte, e questi, un po’ sorpreso da quella cerimonia, credette fosse usanza di quel paese quella di lavarsi la barba anziché le mani; e così protese la faccia quanto più poté, e in quel preciso momento piovve l’acqua dall’anfora e la donzella col sapone gli strofinò la barba con grande sveltezza, alzando fiocchi di schiuma non meno bianchi della neve, e non solo sulla barba ma per tutto il viso, ecc.. Parte II, cap. XXXII
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XII. Como no tenía estribos [subido en Clavileño], y le colgaban las piernas, no parecía sino figura de tapiz flamenco, pintada o tejida en algún romano triunfo. Parte II, cap. XLI XIII. Y si por el señor Don Quijote no somos remediadas con barbas, nos llevarán a la sepultura. Yo me pelearia las mías, dijo Don Quijote, en tierra de moros, si no remediase las vuestras. Parte II, cap. XL XIV. Le saltó [uno de los gatos] al rostro, y le asió de las narices con las uñas y los dientes. Parte II, cap. XLVI XV. Así como le vio [doña Rodríguez] tan alto y tan amarillo. Parte II, cap. XLVIII XVI. Vio Roque Guinart a Don Quijote armado y pensativo, con la más triste y melancólica figura que pudiera formar la misma tristeza. Parte II, cap. LX XVII. Era de ver la figura de Don Quijote: largo, tendido, fioco, amarillo, estrecho en el vestido, desairado, y sabre todo, no nada ligero. Parte II, cap. LXII Con estos diecisiete pasajes a la vista puede ya componer cualquier Orbaneja un Don Quijote para salir del paso. El sexto de ellos, que es la descripción que del hidalgo manchego dio el socarrón del bachiller Carrasco cuando la aventura del caballero del bosque, ha servido de pasaporte clásico para todas las pinturas que de él se han hecho. Y ni aun la tal cédula se ha respetado siempre, pues a menudo le retratan con bigotes de retorcidas y apuntadas guías y no «caídos».
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XII. E siccome non aveva staffe [salito sopra Clavilegno] e teneva ciondolone le gambe, sembrava una figura da arazzo fiammingo, dipinta o tessuta con qualche scena da trionfo romano. Parte II, cap. XLI XIII. E se il signor Don Chisciotte non ci dà rimedio, ci porteranno alla tomba con le barbe. Mi strapperei la mia, disse Don Chisciotte, in terra di mori, se non trovassi rimedio alle vostre. Parte II, cap. XL XIV. [Uno dei gatti] gli saltò al viso e gli si abbarbicò al naso con le unghie e coi denti. Parte II, cap. XLVI XV. Appena [la signora Rodríguez] lo vide così alto e pallido. Parte II, cap. XLVIII XVI. Rocco Guinart vide Don Chisciotte con l’armatura, e pensoso, con l’aria più triste e più malinconica che avrebbe potuto assumere la tristezza in persona. Parte II, cap. LX XVII. Era proprio da vedere la figura di Don Chisciotte, lungo, impalato, magro magro, pallido, col vestito stretto, sgraziato e, soprattutto, totalmente privo di agilità. Parte II, cap. LXII Avendo a disposizione questi diciassette passi, un Orbaneja qualsiasi potrebbe già ricavarne un Don Chisciotte. La sesta citazione, che è la descrizione dell’hidalgo fatta dal beffardo baccelliere Carrasco durante l’avventura del Cavaliere del Bosco, è servita come passaporto classico per tutti i dipinti che di lui sono stato realizzati. E neppure questo documento è stato sempre rispettato, giacché spesso lo ritraggono con baffi arrotolati e appuntiti invece che “spioventi”.
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El más exigente documentista espero haya de darse por contento con tan minuciosa documentación como la de los diecisiete pasajes preinsertos. De seguro no la llevaban más cumplida los cuadrilleros de la Santa Hermandad que habían tornado sus señas para prender a aquel «salteador de caminos», y cuidado si es escrupulosa la justicia oficial en todo esto del documento humano y el realismo de rastro. Datos hay en los expuestos que a primera vista parecerán impertinentes, como el del pasaje XIV; mas pronto echará de ver por él el discreto lector qué tal debían de andar de tamano las narices de Don Quijote cuando se las pudo asir un gato con las uñas y los dientes a la vez. No hay hecho insignificante, y bien lo prueba el registro antropométrico recién instalado en la Cárcel Modelo1. Datos también de excepcional interés, aunque no constan en la preinserta documentación, son los de que fuera «opinión» que Don Quijote «muchos años fue enfermo de los rinones» (cap. XVIII, de la segunda parte); a lo que anado que su color amarillo y sus actos le acreditan de bilioso, y el de que tenía el sentido del olfato tan vivo como el de los oídos (Parte I, cap. XX), porque venteando bien estos rastros podría tal vez un buen sabueso mental poner en claro el temperamento y la idiosincrasia quijotesca. ¡Lástima que no haya emprendido aún algún ducho cervantista la tarea de un estudio fisiológico acerca de Don Quijote! Creo, por mi parte, sin haber ahondado el punto, que debió de ser su temperamento caliente y seco, y que con esto y el «Examen de ingenios» del doctor Huarte se podria ir muy lejos.
1 En él queda la fórmula analítica del criminal, y con ella se le reconstruye en un momento dado. Sería una lástima que el entusiasmo por la antropometria nos llevara a desdeñar aquellos datos inmensurables, indefínidos, no reductibles a muertas fórmulas analiticas, pero llenos de vigorosa realidad, como son: v. gr., el aire y la producción de una persona, datos que hace poco se pedía en impresos oficiales dieran acerca de los mozos que hablan de entrar en quinta, sus padres o interesados.
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Spero che anche il filologo più esigente sia contento di una documentazione minuziosa come questa dei diciassette paragrafi appena trascritti. Di certo non erano più informati i capi della Santa Confraternita che avevano preso le sue generalità per fermare quel “brigante di strada”, e notare che la Giustizia Ufficiale è scrupolosa in queste faccende dei documenti e delle descrizioni realistiche del volto. Tra quelli esposti, ci sono dati che a prima vista potrebbero apparire inappropriati, come ad esempio il passo XIV; presto però il discreto lettore vedrà che dimensione doveva avere il naso di Don Chisciotte se vi si poté abbarbicare un gatto con gli artigli e i denti allo stesso tempo. Non ci sono elementi privi di valore, e lo dimostra bene la recente adozione del registro antropometrico da parte della Prigione Modello1. Altri dati che sono a loro volta di eccezionale interesse, sebbene non appaiano nella documentazione riportata, sono quelli che riportano “l’opinione” secondo la quale Don Chisciotte «per molti anni fu malato ai reni» (Parte II, cap. XVIII); a cui aggiungo che il suo colore giallognolo e le sue azioni lo accreditano quale bilioso, come del resto il dato che gli attribuisce un senso dell’olfatto vivo quanto l’udito (Parte I, cap. XX) perché, fiutando bene questi aspetti, il buon segugio mentale potrebbe forse far luce sul temperamento e l’idiosincrasia chisciottesca. Peccato che nessun esperto abbia mai intrapreso uno studio fisiologico su Don Chisciotte! Pur non avendolo approfondito, credo comunque che il suo temperamento dovesse essere caldo e secco, e che associando a questo l’opera Examen de ingenios, del dottor Huarte, si potrebbe fare molta strada.
1 In esso si trova la formula analitica del criminale, formula impiegata per ricomporlo in un dato momento. Sarebbe un peccato che l’entusiasmo per l’antropometria ci portasse a disdegnare quei dati non misurabili, indefiniti, irriducibili a formule analitiche morte, eppure colmi di vigorose realtà, come lo sono, ad esempio, l’umore e la produzione di una persona, dati che sino a poco tempo fa erano richiesti nei certificati ufficiali ai padri o ai tutori dei ragazzi che dovevano fare la leva.
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Cide Hamete Benengeli debió de ser biógrafo puntualísimo y documentista de los más nimios, como buen árabe; pero su traductor el bueno de Cervantes, al Ilegar al pasaje aquel en que Don Quijote llega a la casa de don Diego Miranda, el caballero del Verde Gabán (cap. XVIII de la segunda parte), nos dice: Aquí pinta el autor todas las circunstancias de la casa de don Diego, pintándonos en ella lo que contiene una casa de un caballero labrador y rico; pero al traductor de esta historia le pareció pasar estos y otras menudencias en silencio, porque no venía bien con el propósito principal de la historia, la cual más tiene su fuerza en la verdad que en las frías digresiones. La verdad con su fuerza a un lado; a otro las menudencias y frías digresiones, las circunstancias que pintan con tan escribanesca fídelidad en sus estudios literarios los documentistas de todos tiempos. ¿Y qué es la verdad? ¿Qué es aquí la verdad y su fuerza? La verdad es el hecho, pero el hecho total y vivo, el hecho maravilloso de la vida universal, arraigada en misterios. Los hechos2, las menudencias, reducense con el análisis y la anatomía a polvo de hechos, desapareciendo su realidad viva. La fuerza de la verdad de Don Quijote está en su alma, en su alma castellana y humana, y la verdad de su figura en que refleje esta tal alma. Pero ¿hemos de sacar de su alma su sembiante o de su sembiante su alma? preguntará alguien, añadiendo que de los rasgos de su fisonomia y caracteres físicos podremos, mediante su temperamento, vislumbrar algo más de la verdad de su alma.
2 Opongo los hechos al hecho, porque son muchas las cosas que en cuanto se pluralizan cambian de naturaleza: así sucede al trabajo con los trabajos.
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Cide Hamete Benengeli dovette essere un biografo puntualissimo ed un filologo tra i più scrupolosi, da buon arabo qual era. Eppure il suo traduttore, il buon Cervantes, arrivato al punto in cui Don Chisciotte giunge alla casa di Don Diego Miranda, Cavaliere dal Verde Gabbano (Parte II, cap. XVIII), ci dice: Qui l’autore descrive tutti i particolari della casa di Don Diego, ritraendo in essa tutto quello che ci può essere nella casa di un nobile e ricco campagnolo; ma il traduttore di questa storia credette opportuno di passare sotto silenzio questo e altre minuzie, perché non rientravano nel fine principale della storia, la cui forza consiste assai più nella sua verità che in fredde digressioni. La verità con la sua forza, da una parte; dall’altra, le minuzie e le fredde digressioni che i documentaristi di tutti i tempi dipingono con fedeltà da scrivani nei loro studi letterari. Ma che cos’è la verità. Cosa sono, qui, la verità e la forza? La verità è il fatto, il fatto globale e vivo però, il fatto meraviglioso della vita universale, radicata nei misteri. Invece gli avvenimenti2, le minuzie, si riducono a polvere di fatti con l’analisi e l’anatomia, e così scompare la loro realtà viva. In Don Chisciotte la forza della verità risiede nella sua anima, nella sua anima castigliana ed umana, e la verità della sua figura risiede nel fatto che questa rifletta una simile anima: «Ma allora – chiederà qualcuno –, cosa dobbiamo fare? Dobbiamo ricavare l’anima dall’aspetto esteriore o ricavare l’aspetto esteriore dall’anima?». E si aggiungerà che dai tratti della sua fisionomia e dai caratteri fisici potremmo, attraverso il suo temperamento, scorgere qualcosa di più della verità della sua anima.
2 Contrappongo gli avvenimenti al fatto, giacché sono molte le cose che al plurale cambiano natura: succede così al lavoro che al plurale diventa travagli.
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A lo cual contesta el mismo Don Quijote al describir (en el capítulo primero de la segunda parte) las facciones de Amadis, Reinaldos y Roldán, que «por las hazañas que hicieron y condiciones que tuvieron se pueden sacar en buena filosofía sus facciones, sus colores y estaturas». ¡En buena filosofía! No peor por lo menos que la de querer sacar de las facciones, del color y de la estatura las hazañas que se han cumplido y la condición que se tiene; que si de aquéllas se deducen éstas, de éstas se deducirán aquéllas. Convertibilidad es esta que escapa a los que a nombre ya del idealismo, ya del realismo, convertibles también, pelean por una y otra doctrina como lo hicieran dos caballeros por el color de un escudo de que sólo vio cada cual un lado, segun profunda parábola de Carpenter. Para Don Quijote la buena filosofía era, como es natural, la suya, la castellana, el realismo que saca de las hazañas las facciones, que procede de dentro a fuera, centrífugo, volitivo, el que convierte los molinos en gigantes, no más insano que el que hace de los gigantes molinos, ni menos realismo que él, ni menos que él idealista. En fin de cuenta, ni las facciones hacen hazañas ni éstas a aquéllas, como no precede el órgano a la función ni la función al órgano, sino que todo hace a todo; fluyendo incesante de la gran causa total, causa y efecto a la vez, causa-efecto o ni causa ni efecto, como se quiera, que en llegando acá todo es uno y lo mismo. Y basta de libros de caballerias metafísicas, que al buen Alonso Quijano «del poco dormir y del mucho leer se le secó el celebro de manera que vino a perder el juicio». El pintor que quiera, pues, pintar a Don Quijote en buena filosofía quijotesca, ha de sacar de sus hazañas y condición sus facciones, su color y su estatura, sirviéndose de los datos empíricos que Cide Hamete nos proporciona como de comprobantes a lo sumo. Para conseguirlo ha de descubrir el pintor su alma, siendo el medio el que inspirado por aquéllas estupendas hazañas y sublime condición, desentierren de su propia alma el alma quijotesca, y si por acaso no la llevara dentro, renuncie
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A ciò risponde lo stesso Don Chisciotte quando descrive (nel primo capitolo della seconda parte) le fattezze di Amadigi di Gaula, Rinaldo e Roldano, di cui, «per le imprese che compirono e l’indole che ebbero, si possono dedurre con buona filosofia statura, colori e lineamenti». Con buona filosofia! Almeno non peggiore di quella che pretende di trarre dall’aspetto esteriore, dal colore e dalla statura, i fatti che si sono compiuti e la condizione che si ha; che se dalle prime cose si deducono le seconde, dalle seconde si dovranno pure dedurre le prime. Questo principio commutativo sfugge a coloro che, ora nel nome dell’idealismo, ora del realismo, anch’essi commutabili, combattono per l’una o per l’altra dottrina come lo fecero i cavalieri per il colore dello scudo del quale ciascuno vedeva solo un lato, come dice la profonda parabola di Carpenter. Per Don Chisciotte, la buona filosofia era, ovviamente, la sua, quella castigliana, il realismo che ricava i tratti fisici dalle azioni, che avanza dall’interno all’esterno, centrifugo, volitivo, quello che trasforma i mulini in giganti: niente di più realistico, né di più idealistico. Ma, in fin dei conti, l’esteriorità non determina le azioni né viceversa, così come l’organo non precede la funzione né la funzione precede l’organo. E’ tutto un processo;tutto fluisce incessante dalla grande causa totale, causa ed effetto al contempo, causa-effetto o né causa né effetto, è lo stesso, perché nel manifestarsi qui è un tutt’uno. E basta con i libri di cavalleria metafisica, che al buon Alonso Quijano «dal poco dormire e il molto leggere gli si inaridì il cervello in maniera che finì per perdere il giudizio». Il pittore che, quindi, volesse dipingere Don Chisciotte con buona filosofia donchisciottesca dovrà ricavarne le fattezze, il colore e la statura dalle sue imprese e dalla sua condizione, servendosi dei dati empirici che Cide Hamete ci fornisce come massime prove. Per riuscirci, il pittore dovrà mettere a nudo la propria anima, essendo questa il tramite affinché, ispirato da quelle imprese stupende e da quella sublime condizione, dissotterri dalla sua stessa anima l’anima chisciottesca e, se per caso non la serbasse dentro di sé, che rinunci subito all’im-
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desde luego a la empresa, guardada para otro, teniendo en cuenta aquello que dijo el mismo Don Quijote: Retráteme el que quisiere pero no me maltrate, que muchas veces suele caerse la paciencia cuando la cargan de injurias. (Parte II, cap. LIX) Retratar a Don Quijote sin maltratarle es vestir su alma con cuerpo individual trasparente, es hacer simbolismo pictórico en el grado de mayor concentración y fuerza, en un hombre simbolo. Y para hacer esto hase de buscar el alma del hidalgo manchego en las eternas páginas de Cide Hamete, pero también fuera de ellas. Don Quijote vivió y vive fuera de ellas, y el pintor español digno de retratarlo puede sorprenderle vivo en las profundas honduras de su propio espíritu, si busca en él con amor y lo ahonda y escarba con contemplación persistente. Cide Hamete no hizo otra cosa que trazar la biografía de un ser vivo real; y como hay no pocos que viven en el error de que jamás hubo tal Don Quijote, hay que tomarse el trabajo que se tomaba él en persuadir a las gentes de que hubo caballeros andantes en el mundo. Tan luego como una ciencia analítica y anatomizadora hunde el escalpelo en la trama viva en que se entretejen y confunden la leyenda y la historia, o trata de señalar confines entre ellas y la novela y la fábula y el mito, con la vida se disipa la verdad, quedando sólo la verosimilitud, tan útil a documentistas y cuadrilleros de toda laya. Sólo matando la vida, y la verdad verdadera con ella, se puede separar al héroe histórico del novelesco, del mítico, del fabuloso o del leyendario, y sostener que el uno existió del todo o casi del todo; el otro a medias, y el de más allá de ninguna manera; porque existir es vivir, y quien obra existe.
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presa, più consona ad altri, tenendo a mente quel che disse lo stesso Don Chisciotte: Mi ritratti chi vuole, ma non mi maltratti, perché spesso la pazienza viene meno se la si carica troppo di ingiurie (Parte II, cap. LIX) Ritrarre Don Chisciotte senza maltrattarlo equivale a vestire la sua anima con un corpo individuale trasparente, è fare simbolismo pittorico al livello più alto di concentrazione e forza, al livello di un uomo-simbolo. E per fare questo si deve cercare l’anima dell’hidalgo della Mancia nelle pagine eterne di Cide Hamete, ma anche al di fuori di esse. Don Chisciotte visse e vive fuori di esse, e il pittore spagnolo degno di ritrarlo può scorgerlo vivo nelle grandi profondità del suo stesso spirito, se cerca in esso con amore e se sprofonda e scava con tenace contemplazione. Cide Hamete non fece altro che tracciare la biografia di un essere vivo e reale; e dal momento che non pochi vivono nell’errore di credere che Don Chisciotte non sia mai esistito, bisogna farsi carico dello sforzo di persuadere la gente che i cavalieri erranti sono veramente esistiti. Le dottrine analitiche ed anatomizzanti affondano lo scalpello nella trama viva in cui storia e leggenda si intessono e si confondono. Esse provano a segnalare i confini tra la storia stessa e il romanzo, la favola o il mito. Quando ciò si applica alla vita, la verità si dissolve, e resta solo la verosimiglianza, così cara a documentalisti ed inquisitori di ogni sorta. Solo uccidendo la vita, e con essa la vera verità, si può separare l’eroe storico da quello romanzesco, da quello mitico, favolistico o leggendario. Solo così si può sostenere che un individuo è esistito del tutto o quasi del tutto; l’altro in parte, e quell’altro ancora per niente; perché esistere è vivere, e chi agisce esiste.
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Existir es obrar, y Don Quijote ¿no ha obrado y obra en los espíritus tan activa y vivamente como en el suyo obraron los caballeros andantes que le habían precedido, tan activa y vivamente como tantos otros héroes, de cuya realidad histórica no falta algún don Álvaro Tarfe que atestigüe?3 El alma de un pueblo se empreña del héroe venidero antes que éste brote a luz de vida, le presiente como condensación de un espíritu difuso en ella, y espera su advenimiento. En cada época, se dice, surge el héroe que hace falta. Claro está; como que en cada época respira el héroe las grandes ideas de entonces, las únicas entonces grandes; siente las necesidades de su tiempo, únicas en su riempo necesarias, y en unas y otras se empapa. Y todo otro héroe que el que hace falta, acabaría en la miseria o el desprecio, en la galera o la casa de orates, en el cadalso tal vez. No es el héroe otra cosa que el alma colectiva individualizada, el que por sentir más al unísono con el pueblo, siente de un modo más personal; el prototipo y resultante, el nodo espiritual del pueblo. Y no puede decirse que guien a éste, sino que son su conciencia y el verbo de sus aspiraciones. El héroe, presentido en preñez augusta, es muchas veces harto sublime para vestir carne mortal, o sobrado estrecho el ámbito que haya de recibirle, brota entonces ideal, leyendario o novelesco, no de vientre de mujer, sino de fantasía de varón. Héroes son éstos que viven y pelean y guían a los pueblos a la lucha, y en ella los sostienen, no menos reales y vivos que los de carne y hueso, tangibles y perecederos.
3 El lector desmemoriado recordará que don Álvaro Tarfe fue aquel caballero que declaró en un mesón ante el alcalde de un pueblo y el escribano cómo don Quijote de la Mancha, el que tenía presente, no era el que andaba impreso en el libro de Avellaneda (Véase Parte II, cap. LXII)
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Esistere è agire, e Don Chisciotte non ha forse agito e non influisce forse sugli spiriti in modo così attivo e vitale così come tanti altri cavalieri erranti che lo avevano preceduto? Non ha operato in modo attivo e vitale così come tanti altri eroi, sulla cui realtà storica non manca qualche don Alvaro Tarfe che sia pronto a testimoniare?3 L’anima di un popolo si impregna dell’eroe venturo prima ancora che questi venga alla luce della vita, lo pre-sente come condensazione di uno spirito in esso diffuso e aspetta la sua venuta. In ogni epoca, si dice, sorge l’eroe di cui c’è bisogno. Ovvio; così come in ogni epoca l’eroe respira le grandi idee di quel tempo, le sole che in quel tempo sono grandi; egli sente le necessità del suo tempo, uniche in quel momento necessarie, e si imbeve delle une e delle altre. E qualsiasi altro eroe diverso da quello di cui c’è bisogno, cadrebbe nella miseria o nel disprezzo, finirebbe in galera o al manicomio, o forse persino sul patibolo. L’eroe non è altro che l’anima collettiva individualizzata, colui che, sentendo più all’unisono con il popolo, sente in un modo più personale; è il prototipo e la risultante, il nodo spirituale del popolo. E non si può dire che si tratti di una guida, bensì della coscienza e del verbo delle sue aspirazioni. L’eroe, pre-sentito nella sua pregnanza augusta, è spesso troppo sublime per vestire panni mortali e, quando è troppo ristretto l’ambito che lo deve accogliere, egli sboccia allora ideale, leggendario o romanzesco, non più dal ventre di una donna, ma dalla fantasia di un uomo. Questi sono eroi che vivono, combattono e guidano i popoli in lotta, e in essa li sostengono; non meno reali e vivi di quelli in carne ed ossa, essi sono tangibili e mortali.
3 Il lettore smemorato ricorderà che don Alvaro Tarfe fu quel cavaliere che dichiarò in uno stabilimento con di fronte il sindaco di un villaggio e lo scrivano, che Don Chisciotte della Mancia, quello che aveva presente, non era quello che si trovava stampato sul libro di Avellaneda (cfr. Parte II, cap. LXII).
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El gran Capitán, o Francisco Pizarro o Hernán Cortés, llevaron a sus soldados a la victoria, pero no es menos cierto que Don Quijote ha sostenido los ánimos de esforzados luchadores, infundiéndoles brio y fe, consuelo en la derrota, moderación en el triunfo. Con nosotros vive y en nosotros alienta; momentos hay en la vida en que se le ve surgir caballero en su Rocinante, viniendo a ayudar, como Santiago, a los que le invocan. Obrar es existir y cuántos vivientes carnales, aprisionados en el estrecho hoy, obran menos que el sublime loco en que renació glorioso Alonso Quijano al perder, secandosele el cerebro, el juicio! Cuando volvamos a la tierra, de que salimos, ¿quedará de nosotros mucho más que de Don Quijote queda? ¿Qué queda de Cide Hamete su biógrafo? El mundo pasajero y contingente va produciendo el permanente y necesario de nuestro espiritu, es su mayor realidad ésta; la historia toda es la idealización de lo real por la realización del ideal. ¿Hizo Homero a Aquiles, o éste a aquél? Porque querer dar a entender a nadie que Amadís no fue en el mundo, ni todos los otros caballeros aventureros de que están colmadas las historias, será querer persuadir que el sol no aiumbra ni el Melo enfria, ni la tierra sustenta: porque, ¿qué ingenio puede haber en el mundo que pueda persuadir a otro que no fue verdad lo de la Infanta Floripes y Güi de Borgoña, y lo de Fierabrás con la puente de Mantible, que sucedió en el tiempo de Carlomagno? que voto a tal que es tanta verdad como es ahora de día; y si es mentira, también lo debe de ser que no hubo Héctor, ni Aquiles, ni la guerra de Troya, ni los Doces Pares de Francia, ni el rey Artus de Inglaterra… (Parte I, cap. XLIX)
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Il Gran Capitano, o Francisco Pizarro, o Hernán Cortés, condussero i loro soldati alla vittoria, però non è meno vero che Don Chisciotte ha sostenuto gli animi di valorosi combattenti, infondendo loro il brio e la fede, la consolazione nella sconfitta, la moderazione nel trionfo. Con noi vive e in noi prende respiro; ci sono momenti nelle vita in cui lo vediamo ergersi cavaliere sul suo Ronzinante, venendo in soccorso, come Santiago, di quelli che lo invocano. Agire significa esistere, e quanti viventi carnali, imprigionati nelle ristrettezze dell’oggi, agiscono meno rispetto al sublime folle in cui rinacque glorioso Alonso Quijano, dopo aver perso il giudizio per via del cervello inaridito? Quando dovremo ritornare alla terra da cui siamo venuti, resterà forse di noi molto più di ciò che resta di Don Chisciotte? Cosa resta di Cide Hamete, il suo biografo? Il mondo passeggero e contingente va producendo gli accidenti e le necessità del nostro spirito, e questa è la sua maggiore realtà; tutta la storia è l’idealizzazione del reale attraverso la realizzazione dell’ideale. Fu Omero a creare Achille, o viceversa? Perché, voler dar a intendere a chicchessia che non esistette Amadigi e non esisterono tutti gli altri cavalieri di cui sono piene le storie, sarebbe lo stesso che voler persuadere che il sole non illumina, che il gelo non raffredda e che la terra non sostiene. Ci può essere infatti uomo al mondo, per quanto sia intelligente, che riesca a persuadere un altro che non fu vero l’episodio della principessa di Floripes o di Guido di Borgogna, o quello di Fierobraccio e del ponte di Mantible, che accadde al tempo di Carlomagno, quando tutto ciò è così vero come la luce del giorno? Che se poi è menzogna, allora lo è anche che vi sia stato Ettore, Achille e la guerra di Troia, i dodici pari della Francia e persino re Artù di Inghilterra… (Parte I, cap. XLIX)
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Tenía razón en esto Don Quijote, y los que motejándole de loco de remate le apedrean al verle enjaulado, pecan de quijotismo más de siete veces al día; porque, ¿quién de esos censores no aplica a cada paso la máxima oculta del quijotismo: es hermoso, luego es verdad?4 Personajes novelescos hay que no pasan de homúnculos, por brotar de la fantasía virgen de su autor; pero otros son hijos de verdadera generación sexuada, de una fantasía fecundada y hecha madre por el alma de un pueblo. El héroe leyendario y novelesco, son, como el histórico, individualización del alma de un pueblo, y como quiera que obran, existen. Del alma castellana brotó Don Quijote, vivo como ella. Sumergiéndose con recogido espíritu en el alma quijotesca, es como mejor el pintor llegará a la visión del sublime hidalgo, sacando en buena Filosofía, de la condición de aquélla, las facciones, el color y la estatura del cuerpo en que se encarnó. Mas también vio Cide Hamete, por su parte, a su héroe, en tejido visible, con facciones, color y estatura, y lo vio con visión prodigiosa, que es lo que da singular importancia a los pasajes que van a la cabeza de este ensayo. Porque sucede a las veces que un revelador de un héroe no ve bien la figura de éste, por falta tal vez de genialidad visiva. Así, Shakespeare, en la escena II del acto V del Hamlet, cuando luchan éste y Laertes, hace decir a la reina que está aquél gordo y es escaso de aliento, ofreciéndole el panuelo para que se enjugue la frente: He’s fat, and scant of breath here, Hamlet, take napkin, rub thy brows.
4 Apenas hay Sancho Panza, de esos que están, aunque a medias, en el secreto de la locura de su amo, que no infiera quijotescamente de lo que se le antoja funestas consecuencias de una doctrina, la falsedad de ésta, presuponiendo que sólo lo no funesto es verdadero.
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Su ciò aveva ragione Don Chisciotte; e quelli che lo prendono a sassate quando lo vedono ingabbiato e lo chiamano pazzo, peccano di chisciottismo più di sette volte al giorno. Perché, infatti, quale di quei censori non applica ad ogni passo la massima occulta del chisciottismo: è bello quindi è vero4? Ci sono personaggi romanzeschi che sono solo omuncoli, perché sono nati dalla fantasia immacolata del loro autore; ma altri sono figli di una vera generazione sessuata, di una fantasia fecondata e resa madre attraverso l’anima del popolo. L’eroe leggendario e quello romanzesco sono, come quello storico, individualizzazione dell’anima di un popolo e, agendo, esistono. Vivo come l’anima castigliana, Don Chisciotte nacque da essa. Ecco come il pittore arriverà meglio alla visione del sublime hidalgo: immergendosi con spirito di raccoglimento nell’anima chisciottesca, traendo, con buona Filosofia, dalle sue condizioni, le fattezze, il colore e la statura del corpo in cui essa si incarnò. Ma anche lo stesso Cide Hamete aveva visto il suo eroe in forma visibile, con fattezze, colori e statura; e lo aveva visto con una visione prodigiosa, che è ciò che dà un’importanza speciale ai passi riportati all’inizio di questo saggio. Perché, invece, a volte succede che chi rivela un eroe non tratteggi bene la sua figura, per mancanza, forse, di genialità visionaria. Così ad esempio Shakespeare, nella scena II dell’atto V dell’Amleto, quando lui e Laerte combattono, fa dire alla regina che egli è grasso e con poco fiato, offrendogli il fazzoletto affinché si asciughi la fronte: Egli è grasso, e il fiato gli manca prendi, Amleto, il mio fazzoletto, asciugati la fronte.
4 Dei pochi Sancio Panza che condividono, anche se solo in parte, il segreto della follia del loro padrone, quasi tutti deducono chisciottescamente che una dottrina sia falsa quando da essa ricaverebbero conseguenze disastrose. Essi presuppongono che sia vero ciò che non è a loro dannoso.
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¿Y quién se representa ni pinta a Hamlet gordo?5 ¿Qué más? ¿Quién reconoceria a Sancho si se le pintase con largas zancas? Y sin embargo, cuenta Cervantes que entre las pinturas que adornaban el manuscrito de Cide Hamete Benengeli retrataba una la batalla de Don Quijote con el vizcaíno, y a los pies de Panza decía: Sancho Zancas, porque … debía de ser que tenía, a lo que mostraba la pintura, la barriga grande, el talle corto y las zancas largas, y por esto se le debió de poner nombre de Panza y de Zancas, que con estos dos sobrenombres le llama algunas veces la historia. (Parte I, cap. IX) Mas Cide Hamete debió de ver bien a Don Quijote, por una parte, y por otra debió de ser la figura de éste no borrosa ni ambigua, sino la única posible para su alma, porque tan compenetrado estaba con su espíritu su sembiante, que no fuera menester, si hoy resurgiera a vida, que ningún don Antonio Moreno le pusiera rótulo a las espaldas. Todos, al ver ciertos rostros, decimos: ¡Cómo se parece a Don Quijote! Y por apodo llevan este nombre no pocos, tan sólo por su continente corporal, no por su contenido espiritual. La figura de Don Quijote debió de ser de las que una vez vistas no se despintan jamás, y su biógrafo la vio con toda realidad.
5 Cierto
es que la buena filosofía no era para Shakespeare la de Don Quijote, pues en Macbeth hace decir al Rey que no hay modo de descubrir la condición del espíritu por el rostro: There’s no art To find the mind’s construction in the face (Macbeth, act. I, escena IV)
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E chi mai rappresenta o dipinge Amleto grasso?5 Che altro? Chi riconoscerebbe Sancio se lo dipingesse con le gambe lunghe? Eppure Cervantes racconta che tra le pitture che adornavano il manoscritto di Cide Hamete Benengeli, una raffigurava la battaglia di Don Chisciotte con il Biscaglino e ai piedi di Panza diceva: Sancio Cianca perché: … a quanto mostra il disegno, aveva una pancia grande, in un corpo piccolo, e le cianche lunghe, perciò sarà stato chiamato o Pancia o Ciancia; infatti la storia lo indica a volte con l’uno, a volte con l’altro di questi due soprannomi. (Parte I, cap. IX) Nondimeno, Cide Hamete doveva aver visto bene Don Chisciotte: la sua figura non dovette essere affatto imprecisa né ambigua sotto alcun aspetto; al contrario, essa fu l’unica possibile per la sua anima, perché il suo spirito era così compenetrato nelle sue sembianze che, se oggi ritornasse in vita, non ci sarebbe bisogno che alcun Don Antonio Moreno gli mettesse la pergamena col suo nome sulla schiena. Noi tutti, quando osserviamo certi tratti in una persona, diciamo: «Come assomiglia a Don Chisciotte!». E in diversi portano questo soprannome solo per il loro aspetto fisico; non per quello spirituale. La figura di Don Chisciotte è una di quelle che, viste una volta, non svaniscono più. E il suo biografo la vide con ogni attributo di realtà.
5 Vero
è che la buona filosofia per Shakespeare non era quella di Don Chisciotte, visto che nel Macbeth fa dire al re che non c’è modo di scoprire la condizione dello spirito attraverso il volto: There’s no art To find the mind’s construction in the face (Macbeth, atto I, scena IV)
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Lo que más impresionó a Cide Hamete en la figura de Don Quijote fue su tristeza, revelación y signo, sin duda, de la honda tristeza de su alma seria, abismáticamente seria, triste y escueta como los pelados páramos manchegos, también de tristísima y augusta solemnidad, tristeza reposada y de severo continente. Sancho le bautizó con el nombre de «Caballero de la Triste Figura» (pasaje II). Roque Guinart le halló «con la más triste y melancólica figura que pudiera formar la tristeza» (pasaje XVI), y cuantos con él topaban admirábanse y se espantaban de lo triste de su extraña catadura, bien así como vislumbrando a su través aquel espíritu inmenso empeñado en moldear a sí el mundo. Aquel Cristo castellano fue triste hasta su muerte hermosísima. Los rasgos mismos de su fisonomía son melancólicos; caídos los bigotes, la nariz aguileña, seco y avellanado el rostro. Mas no era la suya tristeza quejumbrona y plañidera, de las de rostro pálido y melenas en ordenado desorden, tristeza, tísica de egoísmo sentimental, sino que era tristeza de luchador resignado a su suerte, de los que buscan quebrar el azote del Señor besándole la mano; era una seriedad levantada sobre lo alegre y lo triste, que en ella se confunden, no infantil optimismo ni pesimismo senil, sino tristeza henchida de robusta resignación y simplicidad de vida. Tristísimo era el aspecto del Caballero de la Triste Figura, hasta tal punto que Sancho llamó a ésta mala (pasaje II), y que la desenvuelta doncella Altisidora, al desahogar su despecho tratándole de malandrín mostrenco, quería no ver delante de sus ojos, «no ya su triste figura, sino su fea y abominable catadura» (cap. LXX de la segunda parte). Lo cual nos lleva como de la mano a preguntar; ¿era el Caballero de la Triste Figura feo?
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Quel che più impressionò Cide Hamete nella figura di Don Chisciotte fu la tristezza, rivelazione e segno, senza dubbio, della profonda tristezza del suo animo serio, abissalmente serio, triste e secco come le terre spoglie della Mancia, anch’esse di una solennità tristissima e augusta, tristezza quieta e severamente composta. Sancio lo battezzò col nome di «Cavaliere dalla Triste Figura» (passo II). Rocco Guinart lo notò «con l’aria più triste e più malinconica che avrebbe potuto assumere la tristezza in persona» (passo XVI), e quanti s’imbattevano in lui ammiravano la tristezza della sua espressione e ne restavano spaventati, intuendo così l’immensità di quello spirito impegnato a modellare il mondo a sua immagine. Quel Cristo castigliano fu triste fino alla sua bellissima morte. I tratti stessi della sua fisionomia sono malinconici: i baffi spioventi, il naso aquilino, il volto secco e giallastro. Ma la sua tristezza non era acida e lamentosa, di quelle dal volto pallido e dai capelli in ordinato disordine. Non era una tristezza tisica da egoismo sentimentale; al contrario: era la tristezza del combattente disposto alla propria sorte, di quelli che cercano di vincere l’ira del Signore con la rassegnazione; era una serietà innalzata sulle cose allegre e su quelle tristi, che in essa si confondo. Non un ottimismo infantile, né un pessimismo senile. Era piuttosto una tristezza colma di robusta rassegnazione e di semplicità di vita. Era tristissimo l’aspetto del Cavaliere dalla Triste Figura, triste fino a tal punto che Sancio questa figura la chiamò sgradevole (passo II) e che la disinvolta Altisidora, quando sfogava il suo disprezzo trattandolo come un malandrino straccione, diceva di non voler vedere davanti ai suoi occhi «non la sua triste figura, ma la sua brutta faccia antipatica» (Parte II, cap. LXX). Cosa che ci conduce, quasi per mano, a chiederci: Il Cavaliere dalla Triste Figura era brutto?
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… No puedo pensar – le decía Sancho – qué es lo que vio esta doncella en vuestra merced, que así le rindiese y avasallase. ¿Qué gala, qué brío, qué donaire, qué rostro, qué cada cosa por sí destas o todas juntas le enamoraron? Que en verdad, en verdad, que muchas veces me paro a mirar a vuestra merced desde la punta del pie hasta el ultimo cabello de la cabeza, y que veo más cosas para espantar que para enamorar: y habiendo yo también oido decír que la hermosura es la primera y principal parte que enamora, no teniendo vuesa merced ninguna, no sé yo de qué se enamoró la pobre. Advierte, Sancho – respondió Don Quijote –, que hay dos maneras de hermosura, una del alma y otra del cuerpo: la del alma campea y se maestra en el entendimiento, en la honestidad, en el buen proceder, en la liberalidad y en la buena crianza, y todas estas partes caben y pueden estar en un hombre feo; y cuando se pone la mira en esta hermosura, y no en la del cuerpo, suele nacer el amor con impetu y con ventajas. Yo, Sancho, bien veo que no soy hermoso, pero también conozco que no soy disforme; y bástale a un hombre de bien no ser un monstruo para ser bien querido, como tenga las dotes del alma que te he dicho. (Parte II, cap. LVIII) A ser Don Quijote más escudriñador de reconditeces, habría aducido aquello de que la belleza es el resplandor de la bondad, y habría podido alegar en su abono mucho más, algo de lo que late bajo el aforismo femenino de que «el hombre y el oso, cuanto más feo, más hermoso». Todo el mundo distingue entre una belleza de corrección y otra de expresión; todo el mundo habla de la insulsez de caras hermosas, y de la gracia de rostros feos. Y sucede que en el gusto de todos lucha un concepto tradicional de la belleza humana con otro que está en vías de formación. Porque siendo lo bello expresión inmediata y fior de la bondad, varia con ésta.
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… Quello che non riesco proprio a capire – gli disse Sancio – è che cosa abbia visto nella signoria vostra quella donna da esserne così avvinta e resa schiava; che eleganza, che garbo, che spirito, che viso, quale di ciascuna di queste cose, o tutte assieme, le abbiano potuto far innamorare? Molte volte mi fermo proprio a guardare la signoria vostra dalla punta dei piedi all’ultimo capello della testa, e ci vedo più cosa da far prendere paura che da far innamorare; e siccome ho sentito dire che la bellezza è la qualità prima ed essenziale che fa innamorare, e la signoria vostra non ce n’ha affatto, non so proprio di che si sia innamorata quella poverina. Considera, Sancio – rispose Don Chisciotte –, che vi sono due specie di bellezze: quella dell’anima e quella del corpo; quella dell’anima trionfa e si manifesta nell’intelligenza, nell’onestà, nel retto procedere, nella generosità e nella buona creanza, e tutte queste qualità possono benissimo esserci e trovarsi in un uomo brutto; e quando si pone la mira a questa bellezza, e non a quella del corpo, allora l’amore suole nascere impetuoso, e in condizioni di vantaggio. Lo vedo bene, Sancio, che non sono bello; ma riconosco anche che non sono mostruoso; e a un uomo per bene gli basta non essere un mostro per essere amato, purché abbia quelle qualità d’animo che ti ho detto. (Parte II, cap. LVIII) Se Don Chisciotte fosse stato più puntiglioso su questo argomento, egli avrebbe anche addotto che la bellezza è il riflesso della bontà, e avrebbe potuto aggiungere anche molto altro a suo vantaggio, rifacendosi magari al principio del proverbio femminile spagnolo: «l’uomo è come l’orso, quanto più è brutto, tanto più è meraviglioso». Tutti sanno distinguere tra una bellezza superficiale ed una bellezza espressiva; tutti parlano di quanto siano insulsi i visi belli, e della simpatia suscitata invece da quelli brutti. Il fatto è che, oggi, nel gusto di tutti, è in corso il conflitto tra il concetto tradizionale di bellezza ed un altro che invece è in via di formazione. Perché, se il bello è un’espressione immediata ed una forma della bontà, varia con questa.
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Hay una belleza humana tradicional, más o menos atlética, expresiva de la bondad del animal humano, del bárbaro luchador por la vida, del apenas disffazado salvaje, belleza de equilibrio muscular; y va por otra parte formándose el concepto de otra belleza humana, reveladora de la bondad del hombre racional y social, resplandor de la inteligencia. Un spenceriano diria que así como las sociedades militantes, basadas en la concurrencia y la ley, produjeron su tipo de belleza humana, lo habrán de producir las sociedades industriales, basadas en la cooperación y la justicia. Toda la historia humana no es otra cosa que una larga y triste lucha de adaptación entre la Humanidad y la Naturaleza, como la historia de cada hombre se reduce a las vicisitudes del combate que en su cuerpo, sanguinoso campo de batalla, riñen su espíritu y el mundo que le rodea; y a medida que el espíritu, penetrando en el mundo, lo penetre en sí, y van acordándose y organizándose uno en otro, va el cuerpo haciéndose cada vez más trasparente vestidura carnal y letra del espíritu. Llegará tal vez día en que el cuerpo más hermoso sea el del alma más hermosa. La fisiognomía es la ciencia única, base de las demás, pues sólo conocemos la fisonomía de las cosas – enseñaba Lavater –. Es no, tal vez será, pues como quiera que es el hombre tejido de contradicciones y parto de la lucha, su fisonomía, sólo en parte cuán mínima a menudo! le pertenece, y no es dable conocer por su cara su alma. Hay semblantes hipócritas, ¡y qué tremendas tragedias, verdaderamente esquilianas, las que engendra el engaño de las caras que mienten! Como aún no es el cuerpo trasparente vestido del alma, no ha acabado de formarse la futura belleza humana, y sigue dominando la del bípedo implume.
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C’è una bellezza umana tradizionale, più o meno atletica, espressione della bontà dell’animale umano, del barbaro che lotta per la vita, del selvaggio appena dissimulato, bellezza dall’equilibrio muscolare; accanto ad essa, però, si sta formando il concetto di un altro tipo di bellezza umana, rivelatrice della bontà dell’uomo razionale e sociale, splendore dell’intelligenza. Uno spenceriano direbbe che, così come le società militari, basate sulla concorrenza e la legge, hanno prodotto il loro tipo di bellezza umana, allo stesso modo dovranno produrne uno anche le società industriali, basate sulla cooperazione e la giustizia. Tutta la storia umana altro non è che una lunga e triste lotta di adattamento tra l’Umanità e la Natura. Analogamente, la storia di ogni uomo si riduce alle vicissitudini del combattimento che, nel sanguinoso campo di battaglia del suo corpo, librano il suo spirito ed il mondo che lo circonda; e man mano che lo spirito, penetrando nel mondo, lo introietta dentro di sé, e che l’un l’altro vanno accordandosi ed organizzandosi a vicenda, il corpo diventa un vestito carnale sempre più trasparente, si fa lettera dello spirito. Forse arriverà il giorno in cui il corpo più bello sarà quello dell’anima più meravigliosa. La fisiognomica è la scienza unica, alla base delle altre, giacché, delle cose, noi possiamo conoscere solo la fisionomia; così insegnava Lavater. Noi, invece, diciamo che forse lo sarà, ma che oggi essa non è ancora la scienza unica, perché, quali che siano gli struggimenti ed il tessuto di contraddizioni che appartengono ad un uomo, la sua fisionomia solo in parte (e spesso minima!) li rispecchia, e non è possibile conoscere l’anima attraverso la faccia. Esistono sembianti ipocriti e… che tragedie tremende, davvero eschiliane, quelle generate dall’inganno dei volti ingannevoli! Quindi, visto che il corpo non è ancora il vestito trasparente dell’anima, il processo di formazione della bellezza umana futura non è ancora compiuto, e così continua ancora a dominare il modello del bipede implume.
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Mas hay que creer con fe artística, como en dogma estético, que todo carácter profundo e íntimo, asentado en sus cimientos, puro, viva en adecuación perfecta con la túnica carnal que le revista, ajustándola a sus contornos. Un rasgo fisonómico es un gesto petrificado y trasmitido tal vez por herencia; el dolor persistente deja huella, la virtud embellece y el vicio afea. En España decimos que la cara es el espejo del alma, que genio y figura hasta la sepultura y que el hábito no hace al monje. A medida que se hace el hombre más armónico, más perfecto, esto es, más acabado; a medida que va adecuándose más y mejor al ámbito en que vive y más íntimamente comulga en él, más espejo es del alma la cara. Porque reflejando ésta el resultado secular de la acción y reacción mutuas entre el sujeto y el ambiente, siendo sus rasgos ya heredados de diferentes y aun contrapuestos antepasados, ya adquiridos, se plegará la cara al alma, y sera su expresión verdadera cuando se plieguen uno a otro y concuerden en uno el sujeto y el ámbito que le recibe. El hombre que se parezca más y menos a sí mismo – decta Lavater –, aquel cuyo carácter sea más simple y más variado a la vez, más constante y más designal, aquel que a pesar de su viveza y gran actividad esté siempre concorde consigo mismo, cuyos rasgos más móviles no pierdan jamás el carácter de firmeza que distingue a su conjunto, tal hombre sea sagrado para vosotros. En un carácter como el de Don Quijote, tan puro, tan de una pieza, tan definido frente al ámbito en que vivía, hay que admitir como axioma estético que la cara fuese limpísimo espejo de su alma hermosa. Y esta hermosura de su alma es la que debe penetrar el pintor que quiera retratar cara que le espejaba. Mas no es sólo el cuerpo la letra del espíritu en el hombre social, en el hombre vestido; lo es también la indumentaria. «¡El desnudo es el arte!», exclaman muchos.
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Eppure bisogna credere con fede artistica, quasi si trattasse di un dogma estetico, che ogni carattere profondo ed intimo che sia ben saldo sui propri presupposti e puro, viva in perfetta armonia con la tunica carnale che lo riveste, e che la renda idonea ai suoi contorni. Un tratto fisiognomico è un gesto pietrificato e trasmesso talora per via ereditaria; il dolore persistente lascia il segno, la virtù abbellisce ed il vizio imbruttisce. In Spagna diciamo che il volto è lo specchio dell’anima, genio e figura fino alla sepoltura e l’abito non fa il monaco. A misura che l’uomo diventa più armonico, più perfetto, ossia, più completo, a misura che si adegua più e meglio all’ambito nel quale vive e che più intimamente si trova in comunione con lui, più il volto si fa specchio dell’anima. Poiché, riflettendo questa l’esito secolare dell’azione e della reazione reciproche tra il soggetto e l’ambiente, essendo i suoi tratti già ereditati da antenati diversi ed anche contrapposti, ormai acquisiti, la faccia aderirà all’anima, e la sua espressione sarà veritiera quando si pieghino a vicenda i due elementi e divengano tutt’uno il soggetto ed il contesto che lo accoglie. L’uomo che assomiglia più o meno a se stesso – diceva Lavater –, quello il cui carattere è al tempo stesso più semplice e variegato, più costante e diseguale, quello che, nonostante la vivacità e la grande attività, è sempre in accordo con se stesso, quello i cui tratti più mobili non perdono mai l’attributo della fermezza che distingue il suo insieme, ebbene che quell’uomo sia per voi sacro. In un carattere come quello di Don Chisciotte, così puro, così tutto d’un pezzo e definito di fronte al contesto in cui viveva, bisogna ammettere come assioma estetico che il volto fosse uno specchio limpidissimo della sua bellissima anima. E questa sua bellezza dell’anima è quella che deve penetrare nel pittore che volesse ritrarre la sua faccia che la rifletteva. Ma non è solo il corpo a farsi lettera dello spirito nell’uomo sociale e vestito: lo sono anche gli indumenti. «Il nudo è l’arte», esclamano in molti.
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Sí, el arte de representar el bípedo implume, no al homo politicus, al hombre social o vestido.6 El desnudo de la estatuaria griega refleja en parte el alma helénica; pero la moderna, la que va surgiendo lenta y trabajosamente entre dolores y agonías, se expresa mejor con la riquísima complejidad de las plegaduras del traje, que es el ambiente adaptado a sí por el sujeto. El traje no es el uniforme del snobismo y de la elegancia del día, no es el saco de corte irreprochable; lo vivo de él es la rodillera, el pliegue. Es difícil se comprenda lo profundo de él mientras se cierren puertas a quien no lleve sombrero de copa alta, estigma de esclavitud, símbolo y resto triunfante de todas las deformidades que imprimen ciertos salvajes a la cabeza. Enseña Ruskin, en sus Mañanas florentinas, que el cuidado en la pleguería y la minucia en su expresión, son signos de idealismo y misticismo, citando los pliegues de las canéforas del Partenón y las sobrepellices de nuestros sacerdotes; mientras el amplio ropaje, por grandes masas, el del Tiziano, verbi gracia, revela artistas menos preocupados del alma que del cuerpo. Se ha dicho que al pasar los pueblos del paganismo al cristianismo, vistieron imágenes de diosas desnudas, haciendo de ellas vírgenes. Las vistieron, he aquí todo, y este todo es mucho más de lo que creen los que citan con malicia el hecho. Aquí vendrían a cuento los pasajes de El Ingenioso Hidalgo en que se hace referencia al traje de Don Quijote; mas dejemos que los recorra y estudie el pintor que intente retratarle. Y con el traje el ámbito todo en que vivió. Por este camino iríamos demasiado lejos.
6 El desnudo es excelente para estudiar el dibujo, lo cual no significa que sea más artístico. Y téngase en cuenta que hay un desnudo literario útil para estudiar, el que en los llamados estudios, nos lo dan como lo más propio del arte.
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Già, l’arte di rappresentare il bipede implume, non l’homo politicus, l’uomo sociale o vestito.6 Il nudo delle statue greche riflette in parte l’anima ellenica; ma quella moderna, quella che sorge in modo lento e faticoso tra dolori ed agonie, si esprime meglio con la ricchissima complessità delle pieghe del vestito, che è l’ambiente adattato a sé dal soggetto. Il vestito non è l’uniforme dello snobismo e dell’eleganza del giorno, non è il sacco dal taglio impeccabile, la sua parte viva è la toppa sulle ginocchia, la piega. È difficile che si comprenda la verità profonda di questo, fintanto che si continuino a chiudere le porte in faccia a chi non porti un cilindro, emblema di schiavitù, simbolo e residuo trionfante di tutte le deformità che certi selvaggi si schiacciano sulla testa. Nelle sue Mattinate fiorentine, Ruskin cita le pieghe delle canefore del Partenone e le cotte dei nostri sacerdoti e insegna che l’attenzione all’insieme delle pieghe e la minuzia nel raffigurarle sono segni di idealismo e di misticismo; al contrario, secondo lui, le ampie vesti, le grandi masse, ad esempio quelle raffigurate da Tiziano, rappresentano artisti più preoccupati del corpo che dell’anima. E’ stato detto che, col passaggio dei popoli dal paganesimo al cristianesimo, le immagini di divinità nude sono state coperte e che di esse si sono fatte delle vergini. Le hanno vestite, tutto qua, e questo tutto è molto più di quello che crede chi cita maliziosamente il fatto. Qui cadrebbero a fagiolo i passi de L’ingegnoso hidalgo in cui si fa riferimento al vestito di Don Chisciotte; ma lasciamo che li riprenda e che li studi il pittore che volesse dipingerlo. E, assieme al vestito, saltiamo anche il contesto in cui visse, giacché questo cammino ci porterebbe troppo lontano.
6 Il nudo è eccellente per studiare il disegno, ma questo non significa che sia più artistico. E si consideri che c’è un nudo letterario utile per studiare, quello che nei cosiddetti studi ci viene proposto come il più proprio all’arte.
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En resolución, hay que pintar a Don Quijote con la fuerza de su verdad y en buena filosofía quijotesca, con fe, creyendo en su inconcusa existencia real, heroica y efectiva, descubriendo por su alma su vestidura carnal, y ayudándose de los datos que nos proporciona su biógrafo Cide Hamete, varón de prodigiosa facultad visiva. Sería curiosa tarea la de ir analizando cómo se le ha pintado y se le pinta en los diversos tiempos y países, estudio que formaria parte de una indagación acerca de las trasformaciones del quijotismo. Porque hay un tipo diverso de Don Quijote para los diversos pueblos que más o menos le han comprendido. Hay el francés, apuesto, de retorcidas y tiesas guías de bigote, no caído éste, sin mucho asomo de tristeza, más parecido al aragonés de Avellaneda que al castellano de Cervantes7; hay el inglés que se acerca mucho más al español, y al verdadero por lo tanto.
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Iconografía de Don Quijote. Reproducción heliográfica y foto-tipográfica de 101 láminas elegidas entre las 60 ediciones, diversamente ilustradas, que se han publicado durante 257 años, etc., por el coronel don Francisco López Fabra, Barcelona, 1870. Véase en esta obra las ilustraciones de ediciones francesas. En las traducciones francesas de 1836-37, 1862 (París), por Luis Viardot, tiene los bigotes archirretorcidos; parece un brave gaulois en las de Berteli y de De Moraine a las ediciones francesas respectivas de 1868 y 1844 (París), y se le tomaría por Roldán en las de C. Stael a la castellana hecha en París en 1864. Hay alguna en que aparece con látigo (traducción fr., Paris, 1622), con pluma en otras (1799 y 1825, por Lefebvre), y con botas de gran vuelo (por H. Bouchon, traducción fr., Paris, 1821-22). En la ilustrada por Telory (trad. francesa, París, 1863), parece un Mefistófeles. De las de Gustavo Doré no hay que hablar: su genio pictórico era el menos a propósito para ilustrar el Quijote. Son Quijotes enteramente franceses el de la traducción danesa de Copenhague, 1865-69, ilustrada por W. Marstrand, en que aparece con guantes, y el de la holandesa de La Haya, 1746, con pluma, ilustrada por C. Coypel, y en que parece un personaje de Wateau.
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Insomma, Don Chisciotte dev’essere dipinto con la forza della sua verità e con buona logica chisciottesca, con fede. Si deve credere alla sua solida esistenza reale, eroica ed effettiva, scoprire attraverso la sua anima il suo rivestimento carnale, e ci si deve avvalere dei dati che ci offre il suo biografo Cide Hamete, uomo dalla prodigiosa facoltà visionaria. Sarebbe un compito curioso quello di analizzare com’è stato dipinto Don Chisciotte e come lo si dipinge nelle diverse epoche e paesi, uno studio che andrebbe a far parte di un’indagine sulle trasformazioni del chisciottismo. Perché c’è un tipo diverso di Don Chisciotte per i diversi popoli che, in maniera diversa, l’hanno compreso. C’è quello francese, bello, dai baffi tesi ed arrotolati, non spioventi, senza molti tratti che richiamano la tristezza, egli è più simile quindi all’aragonese di Avellaneda che non a quello castigliano di Cervantes7; poi c’è quello inglese, che si avvicina maggiormente a quello spagnolo, e a quello vero, pertanto.
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Iconografia di Don Chisciotte, riproduzione eliografica e foto-tipografica di 101 lamine scelte tra le 60 edizioni, diversamente illustrate, che sono state pubblicate in 257 anni, ecc., dal colonnello Francisco López Fabra, Barcellona 1870. Cfr. in quest’opera le illustrazioni di edizioni francesi. Nelle traduzioni francesi di Luis Viardot, del 1836-37 e del 1862 (Parigi), Don Chisciotte ha i baffi super-ritorti; sembra un brave gaulois in quelle di Bertell e di De Moraine (nelle edizioni francesi rispettivamente del 1868 e del 1844, Parigi), e potrebbe essere scambiato per Roldano in quelle di C. Stael per quella in spagnolo fatta a Parigi nel 1864. Ce n’è qualcuna in cui appare con la frusta (tr.fr., Parigi 1622), con la piuma in altre (1799 e 1825, Lefebvre), e con grandi stivali (Bouchon, tr.fr., Parigi 1821-22). In quella illustrata da Telory (tr.fr., Parigi 1863) sembra un Mefistofele. Di quelle di Gustave Doré non occorre parlare: il suo genio pittorico era il meno adeguato a rappresentare il Chisciotte. Sono Chisciotti totalmente francesi quello della traduzione danese di Copenaghen, del 1865-69, illustrata da W. Marstrand, dove appare con i guanti, e quella olandese di La Haya, del 1746, con una piuma, illustrata da C. Coypel, e in cui sembra un personaggio di Wateau.
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Los más verdaderos son los españoles, como es natural8, y si se cojieran todos ellos y se fundiesen en uno, como se hace con las fotografías coñpuestas, de manera tal que los rasgos comunes se reforzaran dejando en penumbra a los diferenciales, neutralizados unos con otros, obtendríase un arquetipo empírico, como tal nebuloso y gráficamente abstracto, de donde poder sacar el pintor la verdadera figura de Don Quijote. Tal arquetipo es la imagen que han sentido confusamente en su retina mental nuestros pintores y dibujantes, y aun los que no lo son; la que hace exclamar: cómo se parece ese a Don Quijote! A tal arquetipo, confusamente vislumbrado, daría un pintor de genio expresión individual y viva, pintándole con la nimia escrupulosidad con que ciertos pintores ingleses pintan ángeles y seres ideales, con aquella encarnizada minucia con que Hunt perseguía sus modelos, con la vigorosa realidad castellana que dio Velázquez9 a los héroes mitológicos. Hay que pintarlo con fe, sobre todo, 8
Véase en la Iconografía citada las ilustraciones de Urrabieta a la edición de Madrid en 1847, las de don Luis de Madrazo a la de Barcelona de 1859-62, las de Zarza a la de Barcelona de 1863. Las de don L. Ferrant a la de Barcelona 1859-62 son más afrancesadas. En las citadas ilustraciones que don Luis de Madrazo hizo para la 48 edición española (Barcelona, 1859-62), y sobre todo en la que representa al Ingenioso Hidalgo recibiendo a la gran princesa Micomicona, presenta Don Quijote gran parecido con San Ignacio de Loyola, tal cual se nos muestra éste en el retrato que de él hizo Sánchez Coello, parecido en que me he fíjado más de una vez. Cuando empezó a correr sus aventuras Don Quijote, frisando en los cincuenta años, y poco antes de darse a luz la historia de sus hazañas, hacía cuarenta y tantos años, que había muerto el Caballero de la Milicia de Cristo. Guiado por ese parecido he pensado mil veces en el quijotismo de Íñigo de Loyola releyendo uno de los primeros capítulos de la vida que de él trazó el padre Rivadeneira. Y hoy ¡cuán anacrónico e incongruente resultaría al común sentir, hablar del quijotismo jesuítico o jesuitismo quijotesco! Por lo demás, los rostros quijotescos abundan en nuestra pintura tanto como las almas en nuestra literatura. 9 Notable y profunda es la hermandad de genio entre Velázquez y Cervantes. Uno y otro pintaron caballeros hermanos (compárese Don Quijote y el marqués de Spínola), uno y otro pícaros, monstruos y maleantes: el bobo de Coria, Esopo, Menipo, las Meninas, etc.; Sancho, Maritornes, Rinconete y Cortadillo, etc. Para pintar a Don Quijote hay que estudiar tanto como a Cervantes, a Velázquez.
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Com’è logico8, i più veritieri sono proprio quelli spagnoli, e se li si prendesse tutti e li si fondesse assieme, come si fa con le fotografie composte, in modo tale che i tratti comuni si rafforzino lasciando nella penombra quelli differenziali, che si annullano a vicenda, si otterrebbe un archetipo empirico, per forza nebuloso e graficamente astratto, da cui il pittore potrebbe trarre la figura di Don Chisciotte. Questo archetipo è l’immagine che hanno percepito in modo confuso sulla retina mentale i nostri pittori e disegnatori, e anche quelli che non lo sono. E’ l’immagine che fa esclamare: quanto assomiglia a Don Chisciotte quel tipo! Ad un simile archetipo confusamente intuito, un pittore geniale darebbe espressione individuale e viva, dipingendolo con l’attenzione meticolosa con cui certi pittori inglesi dipingono angeli ed esseri ideali;con quell’assoluta minuzia con cui Hunt perseguiva i suoi modelli, con la vigorosa realtà spagnola che dava Velázquez9 agli eroi mitologici. Bisogna dipingerlo con 8 Cfr.,
nell’Iconografia citata, le illustrazioni di Urrabieta all’edizione di Madrid nel 1847; quelle di Luis de Madrazo all’edizione di Barcellona (1859-62); quelle di Zarra all’edizione di Barcellona del 1863. Quelle di D. L. Ferrant a quella di Barcellona del 1859-62 sono più francesizzanti. Nelle illustrazioni citate che Luis de Madrazo realizzò per la 48ª edizione spagnola (Barcellona 1859-62) e, soprattutto, in quella che rappresenta l’ingegnoso hidalgo mentre riceve la grande principessa Micomicona, Don Chisciotte somiglia molto a Sant’Ignazio di Loyola, così come questi ci viene presentato nel ritratto che di lui fece Sánchez Coello, somiglianza sulla quale ho riflettuto più di una volta. Quando, intorno ai cinquant’anni e poco prima di dare alla luce la storia delle sue imprese, Don Chisciotte iniziò ad intraprendere le sue avventure, il Cavaliere della Milizia di Cristo era morto da poco più di quarant’anni. Guidato da questa somiglianza, ho pensato mille volte al chisciottismo di Ignazio di Loyola rileggendo uno dei primi capitoli della vita che di lui tracciò Padre Rivadeneira. E come risulterebbe anacronistico oggi parlare al senso comune del chisciottismo gesuitico o del gesuitismo chisciottesco! Per il resto, i volti chisciotteschi abbondano nella nostra pittura così come le anime di quel tipo nella nostra letteratura. 9 Notevole e profonda è la consonanza di genio tra Velázquez e Cervantes. Entrambi dipinsero cavalieri fraterni (si confrontino Don Chisciotte ed il marchese di Spínola), entrambi picari, mostri e malfattori: El bobo de Coria, Esopo, Menippo, Las Meninas, ecc.; Sancho, Maritornes, Rinconetto e Cortadiglio ecc. Per dipingere Don Chisciotte bisogna studiare Velázquez tanto quanto Cervantes.
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con la fe que da un quijotesco idealismo, fuente de toda obra verdaderamente real, el idealismo que acaba por arrastrar tras de sí, mal que les pese, a los Sanchos todos; hay que pintarlo con la fe que crea lo que no vemos, creyendo firmemente que Don Quijote existe y vive y obra, como creían en la vida de los santos y ángeles que pintaban aquellos maravillosos primitivos. Mas ni aun la letra suele respetarse. Cuando más se tiene en cuenta el pasaje VI, y a las veces ni aun éste, pues es corriente pintarlo inspirándose en otras pinturas, de segunda o tercera o enésima mano, como se hacen las caricaturas de nuestros hombres publicos10. Así vemos que de ordinario le representan sin barbas, a pesar de los pasajes VIII, XI y XIII, que he aducido al propósito de demostrar que las tenia, y sin atender a que no cuenta Cide Hamete que se las afeitara siendo natural le crecieran11.
10 Se hacen caricaturas de caricaturas de ellos, hasta que de tal modo se borra el modelo, que no queda parecido alguno; se forma el tipo tradicional y nadie vuelve a estudiarlo del natural. Y en lo moral pasa lo mismo: el mito alhoga al personaje mortal, y aun obra sobre este mismo compeliéndole a hacer esto o lo otro. 11 A tal punto llega la incuria en desatender la letra, que en los grabados con que don J. Rivelles ilustró la edición de la Academia de 1819, donde dice el texto que Sancho y Cardenio se asieron de las barbas (Parte I, cap. XXIV), pinta a uno y otro sin ellas. Error gravisimo y tanto más funesto al arte cuanto más extendido está, es el de pintar sin barbas a Sancho. Prueba evidente del error es que su amo le encargaba se las rapara por tenerlas «espesas, aborrascadas y mal puestas», advirtiéndole que si no se rapaba a navaja cada dos días por lo menos, a tiro de escopeta se le echaria de ver lo que era (Parte I, cap. XXI), y recias debian de ser cuando a los tres días de haber salido de la aldea, que, en buena filosofía, es de suponer saliese afeitado al encontrarse con las labradoras del Toboso y porfiar que era Dulcinea, dijo: «Vive el Señor que me pele estas barbas si tal fuere verdad» (Parte II, cap. X). Que no obedeció a su amo en lo de raparse cada dos días lo prueban los varios pasajes que podría señalar uno por uno a los curiosos documentistas aficionados a la hechología.
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fede, soprattutto con la fede che dà un idealismo chisciottesco, fonte di ogni opera veramente reale; con l’idealismo che finisce per trascinare con sé, loro malgrado, tutti i Sancio Panza. Bisogna dipingerlo con la fede che crea ciò che non vediamo, credendo fermamente che Don Chisciotte esiste, vive ed agisce, così come quei meravigliosi primitivi credevano nella vita dei santi e degli angeli che raffiguravano. E, invece, si tende a non rispettare nemmeno la lettera. Tutt’al più si fa riferimento al passo VI, e talvolta nemmeno a questo, dal momento che è considerato normale dipingerlo ispirandosi ad altri ritratti, di seconda, terza o ennesima mano, come si fa con le caricature dei nostri uomini pubblici10. E così vediamo che di norma lo rappresentano senza barba, nonostante quanto si dica nei passi VIII, XI e XIII, che ho addotto per dimostrare che ce l’aveva, e senza nemmeno considerare che Cide Hamete non racconta che se la tagliasse, essendo così naturale che gli crescesse11. 10 Di
essi si fanno caricature delle caricature, fino al punto che il modello risulta del tutto irriconoscibile e privo di somiglianza; viene creato il tipo tradizionale e nessuno si prende la briga di risalire a quello naturale. E nell’ambito della morale accade la stessa cosa: il mito soffoca il personaggio mortale, e giunge ad influire persino su di esso spingendolo a compiere questa o quest’altra azione. 11 L’incuria di chi non bada al testo giunge a tal punto che nelle incisioni con cui J. Rivelles illustrò l’edizione dell’Accademia del 1819, laddove si dice che Sancio e Cardenio si afferrarono l’uno alla barba dell’altro (Parte I, cap. XXIV), egli dipinge entrambi sbarbati. Errore gravissimo tanto più funesto all’arte quanto più è diffuso, consiste proprio nel rappresentare Sancio senza barba. Prova evidente dell’errore è che il suo signore gli raccomandava che se la radesse poiché l’aveva “folta, arruffata ed irregolare”, avvertendolo che se non si radeva a fil di lama almeno ogni due giorni, non sarebbe bastato avvicinarsi a un tiro di schioppo per capire chi o cosa fosse (Parte I, cap. XXI), e folta doveva ben essere quando, tre giorni dopo che aveva lasciato il villaggio (da cui, con buona logica, bisogna supporre che fosse partito rasato), si imbatté nelle contadine del Toboso e, per giurare che si trattasse di Dulcinea, disse: «Se fosse vero, quant’è vero Iddio mi strapperei la barba» (Parte II, cap. X). Che non ubbidì al suo padrone sul fatto di radersi ogni due giorni lo provano diversi passi che potrei indicare uno ad uno ai curiosi documentalisti amanti dei dati empirici.
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Para rellenar un poco más este ensayo no vendría mal un estudio analítico de la fisonomía de Don Quijote, tal cual aparece en el texto cidehametesco. Se vería, entre otras curiosidades, cómo Don Quijote concuerda con Lavater en cuanto al significado de la mano, y cómo este tierno y candoroso fisonomista halló que las narices quijotescas revelan naturalezas impetuosas y aferradas a sus ideas. Mas espero que el más descontentadizo documentista quede satisfecho de mi diligencia y de la escrupulosidad de mis investigaciones hechológicas, sin tal análisis de añadidura. No es menester menos cuando se trata de sugerir verdad tan verdadera, pero al parecer tan desatinada y absurda, como la de la existencia real y efectiva, real por ser ideal, efectiva por operativa, del Caballero de la Triste Figura, ni es menester menos cuando se cree que, a pesar de la hechología toda, no hay hecho insignificante, sino que todos son misteriosos y milagrosos. Aún queda una última cuestión, la de mayor oportunidad, y es ésta: el pintar a Don Quijote quijotescamente, en buena filosofía, como símbolo vivo de lo superior del alma castellana, ¿es empresa de pintor español actual? Dejo este problema al lector. 1° de noviembre de 1896.
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Per estendere ancora un po’ questo saggio, sarebbe coerente svolgere uno studio analitico della fisionomia di Don Chisciotte così come appare nel testo cidehametiano. Si vedrebbe, tra le altre curiosità, che Don Chisciotte concorderebbe con Lavater sul significato della mano, e come questo tenero e candido fisionomista ritenesse che il naso chisciottesco riveli nature impetuose molto coerenti con le idee del suo portatore. Ma spero che, anche senza una simile analisi aggiuntiva, il documentalista più incontentabile sia rimasto comunque soddisfatto della mia diligenza e della scrupolosità di queste mie ricerche empiriche. Questo basta quando si tratta di suggerire una verità così veritiera, sebbene in apparenza così folle ed assurda, come quella dell’esistenza effettiva e reale, reale in quanto ideale ed effettiva in quanto operativa, del Cavaliere dalla Triste Figura; ed è quanto basta quando si crede che, nonostante la grande quantità di dati, nessuno di essi è insignificante, perché sono tutti misteriosi e miracolosi. Resta ancora un’ultima questione, quella che più ci preme, ed è la seguente: c’è qualcuno, tra i pittori spagnoli di oggi, adatto a dipingere Don Chisciotte chisciottescamente, con buona logica, come simbolo vivo degli aspetti supremi dell’anima castigliana? Lascio al lettore questo interrogativo. 1 novembre 1896
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SOBRE LA LECTURA E INTERPRETACIÓN DEL QUIJOTE
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SULLA LETTURA E L’INTERPRETAZIONE DEL CHISCIOTTE
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En pocas cosas se muestra más de relieve que en lo que con el Quijote ocurre en España, la tristísima decadencia de nuestro espíritu nacional. Se ha podido decir, con toda justicia, que no es España la nación en que más se conoce el Quijote, y puede añadirse que no es aquella en que mejor se le conoce. Todo el mundo se harta aquí de repetir que el Quijote es la primera obra literaria española, acaso la única que tenga asegurado su puesto en el caudal escaso de las obras verdaderamente universales. Hay quien recuerda que Brandes, el prestigioso critico danés, no pone más que tres nombres a la cabeza de las literaturas cristianas, y esos nombres son los de Shakespeare, el Dante y Cervantes. Y por lo que hace a este último, no cabe duda de que es al Quijote, y sólo al Quijote, al que debe su gloria toda. Mas con todo y con esto, puede asegurarse que es España una de las naciones en que menos se lee el Quijote, y desde luego es aquella en que peor se le lee. Estoy harto de oír a españoles que no han podido resistir la lectura de nuestro libro, del que debería ser una a modo de Biblia nacional; son muchos los que me han asegurado no haber podido nunca dar remate a su lectura, habiéndolo empezado varias veces, y más de uno me ha confesado que sólo lo conoce a trozos y salteado. Y esto ocurre con españoles que pasan por cultos y hasta aficionados a la lectura. Pero no es esto lo peor, sino que los que lo leen, y aun algunos que se lo saben casi de memoria, están a su respecto en situación inferior a la de los que no lo han leído, y habría valido más que nunca hubieran echado su vista sobre él.
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Ciò che sta accadendo in Spagna al Chisciotte dimostra come poche altre cose la tristissima decadenza del nostro spirito nazionale. C’è chi ha sostenuto, e a ragione, che la Spagna non è la nazione in cui più si conosce il Chisciotte, e si potrebbe anche aggiungere che non è nemmeno quella in cui lo si conosce meglio. Qui tutti si affannano a ripetere che il Chisciotte è la prima opera letteraria spagnola, forse l’unica che abbia un posto assicurato nel breve elenco delle opere davvero universali. C’è chi ricorda che Brandes, il prestigioso critico danese, indica alla testa delle letterature cristiane solo tre nomi, che sono: Shakespeare, Dante e Cervantes. E per quanto riguarda quest’ultimo, non c’è dubbio che tutta la sua gloria si debba al Chisciotte e solo al Chisciotte. Ebbene, nonostante tutto questo, si può star certi che la Spagna è una delle nazioni in cui il Chisciotte è letto di meno, e sicuramente è anche quella dove lo si legge nel modo peggiore. Sono stanco di sentire spagnoli che non sono riusciti a reggere la lettura del nostro libro, che invece dovrebbe essere una sorta di Bibbia nazionale. Eppure sono tanti quelli che, pur avendolo iniziato molte volte, mi hanno assicurato di non essere riusciti a finirlo, e più di uno mi ha confessato che lo conosce solo a frammenti sparsi. E si noti che questo riguarda spagnoli che passano per colti e persino per lettori appassionati. Ma non è questo il peggio, bensì il fatto che chi lo legge, e persino chi lo conosce quasi a memoria, si trova su questo tema in una condizione peggiore rispetto a chi non l’ha letto, e sarebbe stato meglio che mai si fosse dedicato alla sua lettura.
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Hay, en efecto, quienes lo leen como por obligación o movidos por lo que de él se dice, más sin maldito el entusiasmo, y a lo sumo empeñándose en que les ha de gustar. Lo leen como leen muchos curas el Evangelio durante la misa: completamente distraídos, mascullando el latín y sin enterarse de lo que están leyendo. La culpa de esto la tienen, en primer lugar, los críticos y comentadores que como nube de langostas han caído sobre nuestro desgraciado libro, dispuestos a tronchar y estropear las espigas y a no dejar más que la paja. La historia de los comentarios y trabajos criticos sobre el Quijote en España sería la historia de la incapacidad de una casta para penetrar en la eterna sustancia poética de una obra, y del ensañamiento en matar el tiempo con labores de erudición que mantienen y fomentan la pereza espiritual. La erudición, o lo que aquí, en nuestra patria, suele llamarse erudición, no es de ordinario, en efecto, más que una forma mal disfrazada de pereza espiritual. Florece, que es una pena, en aquellas ciudades o aquellos centros en que se huye más de las intimas inquietudes espirituales. La erudición suele encubrir en España la hedionda llaga de la cobardía moral, que nos tiene emponzoñada el alma colectiva. Suele ser en muchos una especie de opio para aplacar y apagar anhelos y ansias; suele ser en otros un medio de esquivar el tener que pensar por cuenta propia, limitándose a exponer lo que otros han pensado. Cojo aquí un libro, allí otro, más allá aquél, y de varios de ellos voy entresacando sentencias y doctrinas que combino y concino, o bien me paso un año o dos o veinte revolviendo legajos y papelotes en cualquier archivo para dar luego esta o la otra noticia. Lo que se busca es no tener que escarbar y zahondar en el propio corazón, no tener que pensar y menos aún que sentir.
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Vi sono, infatti, persone che lo leggono quasi per obbligo o perché mosse dalla sua fama, ma senza un briciolo di entusiasmo e convincendosi che dovranno trovarlo piacevole per forza. Lo leggono come molti preti leggono il Vangelo durante la messa, completamente distratti, masticando il latino senza comprendere quello che stanno ripetendo. La colpa di questa situazione l’hanno anzitutto i critici ed i commentatori che, come sciami di cavallette, si sono abbattuti sul nostro disgraziato libro disposti a spezzare e guastare le spighe, lasciando solo la paglia. Una storia dei commenti e degli studi critici sul Chisciotte in Spagna sarebbe la storia dell’incapacità di un popolo a penetrare nell’eterna sostanza poetica di un’opera ed un esempio di come ammazzare il tempo con lavori di erudizione che mantengono e fomentano la pigrizia spirituale. In effetti, l’erudizione, o ciò che qui, nella nostra patria, si è soliti chiamare erudizione, non è abitualmente altro che una forma malcelata di pigrizia spirituale. Essa fiorisce in modo penoso in quelle città e in quei centri in cui più si sfugge alle intime inquietudini spirituali. L’erudizione, in Spagna, copre di solito la fetida piaga della vigliaccheria morale, che ci avvelena l’anima. Per molti, essa è una specie di oppio che placa e spegne ansietà ed aneliti; per altri, invece, è un espediente per evitare di dover pensare autonomamente, limitandosi così ad esporre ciò che altri hanno pensato. Prendo un libro qui, un altro là, laggiù un altro ancora, e da tutti questi ricavo citazioni ed idee che mescolo e combino oppure trascorro un anno o due, o venti, tra carte di ogni tipo in un qualsiasi archivio per poi diffondere questa o quest’altra notizia. Quel che si vuole, insomma, è evitare di scavare e scandagliare dentro il proprio cuore, evitare di pensare e, ancor di più, di sentire.
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Y así resulta que apenas habrá hoy literatura alguna que dé obras menos personales y más insípidas que las nuestras, y apenas habrá hoy pueblo culto – o que por tal pase – en que se advierta una tan grande incapacidad para la filosofía. Siempre creí que en España no ha habido verdadera filosofía; más desde que leí los trabajos del señor Menéndez y Pelayo enderezados a probarnos que había habido tal filosofía española, se me disiparon las últimas dudas y quedé completamente convencido de que hasta ahora el pueblo español se ha mostrado retuso a toda comprensión verdaderamente filosófica. Me convenció de ello el ver que se llame filósofos a comentadores o expositores de filosofías ajenas, a eruditos y estudiosos de filosofía. Y acabé de confirmarme, corroborarme y remacharme en ello cuando vi que se daba el nombre de filósofos a escritores como Balmes, el padre Zeferino González, Sanz del Río y otros más. Y hoy sigue la esterilidad, si es que no se ha agravado. De un lado esas miserables obrillas de texto, en que se da vueltas y más vueltas al más ramplón y manido escolasticismo, y de otro esos libros en que se nos cuenta por milésima oncena vez lo que alguien llamaría la corriente central del pensamiento europeo moderno, los lugares comunes de la Bibliothèque de philosophie contemporaine que edita en París F. Alcan. No salimos de Taparelli, Liberatore, Prisco, Urráburu y otros por el estilo, sino para entrar en Sergi, Novicow, Ferri, Max Nordau y compañeros. Cuando he oído sostener a alguien el disparate histórico de que al pensamiento español le perdió en pasados siglos el consagrarse demasiado a la teología, y agregar que nos han faltado físicos, químicos, matemáticos o fisiólogos porque nos han sobrado teólogos, he dicho siempre lo mismo: y es que en España, así como no ha habido filósofos, y precisamente por no haberlos habido, no ha habido tampoco teólogos, sino tan sólo expositores, comentadores, vulgarizadores y eruditos de teología. Y la prueba de que aquí no han florecido nunca de veras los estudios teológicos y que nunca se ha llegado con intensidad y alguna persistencia al fondo de los gravísimos problemas metafísicos y éticos que ellos suscitan, es que no ha habido aquí grandes heresiarcas.
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E così si finisce col risultato che oggi troviamo a stento una letteratura con opere meno personali e più insipide delle nostre, e difficilmente ci sarà un popolo colto – o che almeno passa per tale – in cui si avverta una così grande incapacità filosofica. Ho sempre creduto che in Spagna non ci sia mai stata una vera filosofia; ma, dopo aver letto gli scritti del signor Menéndez Pelayo volti a dimostrare l’esistenza di una filosofia spagnola, ho fugato gli ultimi dubbi e mi sono completamente convinto del fatto che finora il popolo spagnolo si è mostrato refrattario a qualsiasi tipo di comprensione davvero filosofica. Me ne sono convinto vedendo che egli chiama “filosofi” i commentatori o gli espositori di filosofie altrui, gli eruditi e gli studiosi di filosofia. E la mia convinzione è stata confermata e corroborata quando ho visto che era attribuito il titolo di filosofo a scrittori come Balmes, il padre Zeferino González, Sánz del Rio e altri ancora. E oggi la sterilità persiste, o forse si è addirittura aggravata. Da una parte abbiamo queste miserabili operette testualistiche, in cui si trita e si ritrita lo scolasticismo più grossolano e stantio e, dall’altra, quei libri dove ci viene riproposta per la milionesima volta quella che qualcuno definisce la corrente centrale del pensiero europeo moderno, i luoghi comuni della Biblioteca di Filosofia contemporanea pubblicati a Parigi da F. Alcan. Se ci sbarazziamo dei vari Taparelli, Liberatore, Prisco, Urrábaru ed altri di quella sorta è solo per ricadere su Sergi, Novicow, Ferri, Max Nordau e compagnia. Quando ho sentito sostenere da qualcuno la corbelleria storica per cui il pensiero spagnolo si sarebbe smarrito nei secoli passati per la sua eccessiva consacrazione alla teologia e aggiungere che ci sono mancati fisici, chimici, matematici o fisiologi perché abbiamo avuto troppi teologi, io ho risposto sempre la stessa cosa: che in Spagna, proprio e precisamente perché non ci sono stati filosofi, non abbiamo avuto nemmeno dei veri teologi, bensì soltanto divulgatori ed eruditi di teologia. E la prova del fatto che qui non siano mai fioriti davvero gli studi teologici e che mai si sia arrivati con intensità e persistenza alcuna al fondo dei gravissimi problemi metafisici ed etici che essi sollevano, è che qui non ci sono mai stati dei grandi eresiarchi.
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Donde no florecen las herejías, es que los estudios teológicos son una pura rutina de oficio y un modo de matar el tiempo y ocupar la pereza espiritual con una falsificación de trabajo. Aquí no hemos tenido ni grandes herejes de la Teología, ni grandes herejes de la Filosofía. Pues así como hay una dogmática ortodoxa católica de la que ningún fiel puede apartarse, so pena de incurrir en pecado y poner en peligro su salvación eterna, imposible fuera del seno de la Iglesia, así también hay una dogmática científica moderna, aunque al parecer más amplia que aquélla, de la que ningún hombre culto puede apartarse, so pena de incurrir en extravagancia, prurito de originalidad o monomania por las paradojas, y poner en peligro su crédito entre los sabios – esta insoportable clase de hombres – y hasta su respetabilidad entre las gentes. Para muchos Haeckel, póngo por caso de sabio de la corriente central y por sabio para quien está cerrado lo más y lo más precioso del espíritu; Haeckel, digo, es para muchos algo así como un santo padre de la iglesia científica moderna. Sobre todo cuanto Haeckel suelta ramplonerías o groserías insípidas, lo cual sucede muy a menudo. Digo, pues, que esta incapacidad filosófica que nuestro pueblo ha mostrado siempre y cierta incapacidad poética – no es lo mismo poesía que literatura – ha hecho que caigan sobre el Quijote muchedumbre de eruditos y perezosos espirituales, que constituye lo que se podría llamar la escuela de la Masora cervantista. Era la Masora, como el lector sin duda sabe, una obra judía, crítica del texto hebreo de las Sagradas Escrituras, obra compuesta por varios doctos rabinos de la escuela de Tiberiades durante los siglos octavo y noveno. Los masoretas, que es como se llama a estos rabinos, contaron las letras todas de que se compone el texto bíblico, y cuántas veces está cada letra y cuántas veces cada una de éstas va precediendo a cada una de las demás, con otra porción de curiosidades del mismo jaez.
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Laddove non fioriscono le eresie, gli studi teologici sono pura routine, un modo per ammazzare il tempo ed occupare la pigrizia spirituale con una falsa idea di lavoro. Qui non abbiamo mai avuto né grandi eretici della Teologia, né grandi eretici della Filosofia. Perché, così come esiste una dogmatica ortodossa cattolica dalla quale nessun fedele può scostarsi, pena l’incorrere nel peccato e mettere a repentaglio la propria eterna salvezza, impossibile fuori dal seno della Chiesa, così esiste anche una dogmatica scientifica moderna che, sebbene appaia più vaga della prima, tuttavia impedisce a qualsiasi uomo colto di prendere le distanze, pena il rischio di sembrare stravagante, pruriginosamente originale o fanatico dei paradossi, e di mettere così in pericolo il suo credito tra i saggi – questa insopportabile casta – e persino la sua rispettabilità tra la gente. Per molti Haeckel, faccio il caso di un saggio della corrente centrale, uno di quelli che trascurano la parte più preziosa dello spirito, per molti, dicevo, Haeckel è qualcosa di simile ad un santo padre della chiesa scientifica moderna. Soprattutto quando sciorina perle di sapere grossolane ed insipide, cosa che avviene molto spesso. Dico, quindi, che quest’incapacità filosofica, che il nostro popolo ha sempre mostrato assieme ad una certa incapacità poetica – poesia e letteratura non sono la stessa cosa –, ha fatto sì che una moltitudine di eruditi si avventasse sul Chisciotte. Questa moltitudine costituisce ciò che potremmo definire la scuola della Masora cervantista. La Masora, come certamente il lettore saprà, era un’opera ebraica composta tra i secoli VIII e IX dai vari dotti rabbini della scuola di Tiberiade, i quali criticavano il testo ebraico delle Sacre Scritture. I masoreti – così si chiamavano questi rabbini – contarono tutte le lettere di cui si compone il testo biblico, il numero di volte in cui appare una singola lettera e in quante occorrenze ogni lettera precede ciascuna delle altre, assieme a tutto un insieme di stranezze simili.
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No han llegado todavía a tales excesos los masoretas cervantistas por lo que al Quijote se refiere, pero no le andan lejos. Se han registrado por lo que respecta a nuestro libro todo género de minucias sin importancia y toda clase de insignificancias. Le han dado vueltas y más vueltas considerándolo como obra literaria, y apenas si ha habido quien se haya metido en sus entrañas. Pero hay más todavía: y es que cuando alguien ha intentado meterse en las tales entrañas y dar a nuestro libro sentido simbólico o tropológico, han caído sobre él los masoretas y sus aliados los puros literatos y toda frasca de espíritus cobardes y le han puesto como no digan dueñas o se han burlado de él. Y de cuando en cuando nos sale algún santón de la critica sesuda y de cortos vuelos diciéndonos que Cervantes ni quiso ni pudo querer decir lo que tal o cual simbolista le atribuye, sino que su proposito fue tan sólo el de desterrar la lectura de los libros de caballerías. Convenido que así fuese; pero ¿qué tiene que ver lo que Cervantes quisiera decir en su Quijote, si es que quiso decir algo, con lo que a los demás se nos ocurra ver en él? ¿De cuándo acá es el autor de un libro el que ha de entenderlo mejor? Desde que el Quijote apareció impreso y a la disposición de quien lo tomara en mano y lo leyese, el Quijote no es de Cervantes, sino de todos los que lo lean y lo sientan. Cervantes sacó a Don Quijote del alma de su pueblo y del alma de la humanidad toda, y en su inmortal libro se lo devolvió a su pueblo y a toda la humanidad. Y desde entonces Don Quijote y Sancho han seguido viviendo en las almas de los lectores del libro de Cervantes y aun en la de aquellos que nunca lo han leido. Apenas hay persona medianamente instruida que no tenga una idea de Don Quijote y Sancho. No ha mucho que un docto alemán A. Kalkhoff, en un libro interesante (Das Christus Problem) ha vuelto a la ya antigua tesis, nunca del todo abandonada por todos, de la no existencia histórica de Jesús de Nazaret, sosteniendo, con argumentos más o menos fundados o infundados, que los Evangelios son novelas apocalípticas compuestas en Roma por judíos cristianos, y que el
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Per quanto riguarda il Chisciotte, i masoreti cervantisti non sono ancora arrivati a questi eccessi, ma poco ci manca. Essi hanno annotato ogni tipo di minuzie insignificanti ed ogni tipo di dato senza importanza contenuto nel nostro libro. L’hanno girato e rigirato, considerandolo quale opera letteraria, e quasi nessuno invece si è addentrato nel suo senso profondo. Ma c’è ancora dell’altro: quando qualcuno ha cercato di approfondire e di dare al nostro libro un senso simbolico o tropologico, si sono avventati su di lui i masoreti ed i loro alleati, i letterati puri ed ogni sorta di spirito codardo, e l’hanno deriso e disonorato. E, di tanto in tanto, se ne viene fuori qualche santone dalle corte vedute e dalla critica prudente per dirci che Cervantes non voleva né poteva voler dire quello che qualche simbolista gli attribuisce, bensì che il suo proposito era soltanto quello di debellare la lettura dei libri di cavalleria. Anche ammesso che fosse così, cosa c’entra quel che voleva dire Cervantes nel suo Chisciotte, sempre che abbia voluto dire qualcosa, con quello che noialtri possiamo vedere in esso? Da quando in qua è l’autore di un libro la persona deputata a comprenderlo meglio? Da quando il Chisciotte è stato stampato e messo a disposizione di chiunque volesse prenderselo in mano e leggerselo, il Chisciotte non è di Cervantes ma di tutti quelli che lo leggono e che lo sentono. Cervantes ha tratto Don Chisciotte dall’anima del suo popolo e dall’anima dell’umanità intera e, nel suo libro immortale, l’ha restituito al suo popolo ed a tutta l’umanità. E da quel momento Don Chisciotte e Sancio hanno continuato a vivere nell’anima dei lettori del libro di Cervantes e finanche in quella di coloro che non l’hanno letto. Non esiste quasi persona mediamente istruita che non abbia un’idea di chi siano Don Chisciotte e Sancio. Non molto tempo fa, un dotto tedesco, A. Kalkhoff, in un libro interessante (Das Christus Problem) ritornava all’antica tesi, mai del tutto abbandonata, dell’inesistenza storica di Gesù di Nazareth, sostenendo, con argomenti più o meno fondati o infondati, che i Vangeli sono romanzi apocalittici composti a Roma da giudei cristiani, e che Cristo non è altro che un
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Cristo no es más que un símbolo de la Iglesia cristiana, que nació en las comunidades judías en virtud del movimiento económico-social. Y agrega Kalkhoff que eso debe importar poco a los cristianos, pues que Cristo no es el Jesús histórico que pretende restablecer en toda su pureza y exactitud históricas la escuela protestante liberal, la que el autor llama teología de la vida de Jesús (Leben Jesu Theologie), sino la entidad ética y religiosa que ha venido viviendo, trasformándose, acrecentándose y adaptándose a las diversas necesidades de los tiempos en el seno de la conciencia colectiva de los pueblos cristianos. No traigo esto aquí a colación por hallarme de acuerdo con la doctrina de Kalkhoff, ni tampoco para rebatirla – odio las refutaciones, que suelen ser modelo de mala literatura y de peor filosofía –, sino tan sólo para poner más en claro lo que pienso respecto al Quijote. A nadie se le ocurrirá sostener en serio, no siendo acaso a mi, que Don Quijote existió real y verdaderamente e hizo todo lo que de él nos cuenta Cervantes, como la casi totalidad de los cristianos creen que el Cristo existió e hizo y dijo lo que de él nos cuentan los Evangelios; pero puede y debe sostenerse que Don Quijote existió y sigue existiendo, vivió y sigue viviendo con una existencia y una vida acaso más intensas y más eficaces que si hubiera existido y vivido al modo vulgar y corriente. Y cada generación que se ha sucedido ha ido añadiendo algo a este Don Quijote, y ha ido él transformándose y agrandándose. Mucho más interesante que todas las menudencias y pequeñeces que han ido acopiando respecto al Quijote los masoretas cervantistas y sus congéneres, sería recojer las distintas maneras como han entendido la figura del hidalgo manchego los distintos escritores que sobre él han escrito. En cientos de obras se ha sacado a Don Quijote y se le ha hecho decir y hacer lo que ni hizo ni dijo en el texto cervantino, y con todo esto podría formarse la figura de Don Quijote fuera del Quijote.
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simbolo della Chiesa cristiana, nato dalle comunità ebraiche a seguito dei cambiamenti economico-sociali. Kalkhoff aggiunge che ciò deve importare poco ai cristiani, dal momento che Cristo non è il Gesù storico che pretende di ristabilire in tutta la sua purezza e precisione storica la scuola protestante liberale, quella che l’autore chiama teologia della vita di Gesù (Leben Jesu Theologie), bensì l’entità etica e religiosa che è vissuta, si è trasformata, accresciuta ed adattata alle diverse necessità dei tempi in seno alla coscienza collettiva dei popoli cristiani. Non porto quest’esempio perché voglio trovarmi d’accordo con la dottrina di Kalkhoff, né perché voglio confutarla – odio le confutazioni che, di solito, sono un modello di cattiva letteratura e di peggiore filosofia –, bensì solo per porre maggiormente in chiaro come la penso sul Chisciotte. A nessuno, se non forse a me, passerebbe per la testa di sostenere seriamente che Don Chisciotte sia esistito realmente e veramente e che abbia fatto tutto ciò che ci racconta Cervantes, come invece la quasi totalità dei cristiani credono che Cristo sia esistito e che abbia fatto e detto tutto quello che di lui ci raccontano i Vangeli; ma si può e si deve comunque sostenere che Don Chisciotte è esistito e che continua ad esistere, visse e continua a vivere con un’esistenza ed una vita forse più intense ed effettive che se fosse esistito ed avesse vissuto nel senso normale e corrente. Ogni generazione che si è susseguita ha aggiunto via via qualcosa a questo Don Chisciotte, e così egli si è progressivamente trasformato e ingigantito. Piuttosto che tutti quegli aspetti minori e marginali che i masoreti cervantisti e i loro simili hanno accumulato sul Chisciotte, sarebbe molto più interessante considerare i diversi modi in cui è stata intesa la figura dell’hidalgo della Mancia dai vari scrittori che hanno scritto su di lui. Don Chisciotte è stato evocato in centinaia di opere, e gli si è fatto dire e fare quel che nel testo cervantino non disse né fece, e con tutto questo materiale si potrebbe costruire la figura di Don Chisciotte fuori dal Chisciotte.
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Y si Cervantes resucitara y volviese al mundo, no tendría derecho alguno para reclamar contra este Quijote, de que el suyo no es sino la hipóstasis y como el punto de partida; pues tanto valdria que una madre, al ver que su hijo llegaba a destinos en que ella ni soñó siquiera o que a ella le desplacen, pretendiera volverlo a su infancia y arrimárselo a los pechos de nuevo para darle de marnar, ya que no volverlo a su seno. Cervantes puso a Don Quijote en el mundo, y luego el mismo Don Quijote se ha encargado de vivir en él; y aunque el bueno de don Miguel creyó matarlo y enterrarlo e hizo levantar testimonio notarial de su muerte para que nadie ose resucitarlo y hacerle hacer nueva salida, el mismo don Quijote se ha resucitado a sí mismo, por sí y ante sí, y anda por el mundo haciendo de las suyas. Cervantes escribió su libro en la España de principios del siglo XVII y para la España de principios del siglo XVII, pero Don Quijote ha viajado por todos los pueblos de la tierra y durante los tres siglos que desde entonces van trascurridos. Y como Don Quijote no podía ser en la Inglaterra del siglo XIX, pongo por caso, lo mismo que en la España del siglo XVII, se ha modificado y trasformado en ella, probando así su poderosa vitalidad y lo realísimo de su realidad ideal. No es, pues, más que mezquindad de espíritu, por no decir algo peor, lo que mueve a ciertos críticos nacionales a empeñarse en que reduzcamos el Quijote a una mera obra literaria, por grande que su valor sea, y a pretender ahogar con desdenes, burlas o invectivas a cuantos buscan en el libro sentidos más íntimos que el literal. Si la Biblia tiene un valor inapreciable, es por lo que en ella han puesto generaciones de hombres que con su lectura han apacentado sus espíritus; y sabido es que apenas hay en ella pasaje que no haya sido interpretado de cientos de maneras, según el intérprete. Y esto es un bien grandísimo. Lo de menos es que los autores de los distintos libros de que la Biblia se compone quisieran decir lo que los teólogos, místicos y comentadores ven en ellos; lo importante es que, gracias a esta inmensa labor de las
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E se Cervantes risuscitasse e ritornasse al mondo, egli non avrebbe alcun diritto di protestare contro questo Chisciotte, di cui il suo è l’ipostasi e come il punto di partenza; giacché sarebbe la stessa cosa se una madre, vedendo che suo figlio arriva a traguardi che lei non aveva immaginato o le provocano dispiacere, pretendesse di farlo ritornare alla sua infanzia e di stringerlo al seno nuovamente per allattarlo, se non addirittura di riaccoglierlo in grembo. Cervantes ha messo al mondo Don Chisciotte, e poi lo stesso Don Chisciotte si è impegnato a vivere in esso; e sebbene il bravo Don Miguel abbia voluto ucciderlo e seppellirlo e abbia fatto produrre il suo certificato di morte affinché nessuno osasse risuscitarlo, lo stesso Don Chisciotte si è auto-risuscitato, per sé e dinanzi a sé, ed ora se ne va per il mondo a compiere le sue imprese. Cervantes scrisse il suo libro nella Spagna degli inizi del XVII secolo e lo scrisse per la Spagna di quel tempo, ma Don Chisciotte ha viaggiato attraverso tutti i popoli della terra e lungo i tre secoli che da allora sono trascorsi. E dal momento che Don Chisciotte non poteva essere, nell’Inghilterra del XIX secolo, dico per esempio, lo stesso della Spagna del XVII secolo, là è stato modificato e trasformato, dimostrando così la sua poderosa vitalità e l’aspetto realissimo della sua realtà ideale. Non è, quindi, altro che meschinità di spirito, per non dire qualcosa di peggio, quella che muove certi nostri critici nazionali a volerci far ridurre il Chisciotte ad una mera opera letteraria, per quanto grande sia il suo valore, e a pretendere di soffocare con indignazione, burle o invettive quanti cercano nel libro significati più intimi di quello letterale. Se la Bibbia ha un valore inestimabile, ciò ci deve a quello che su di essa hanno costruito generazioni di uomini che, leggendola, hanno trovato pace per il loro spirito; e si sa che quasi non c’è un suo passo che non sia stato interpretato in centinaia di modi diversi a seconda dell’interprete. E ciò è un bene grandissimo. La cosa meno importante è che gli autori dei diversi libri di cui si compone la Bibbia volessero dire quello che i teologi, i mistici ed i commentatori vedono in essi; l’importante, al contrario, è che, grazie a quell’immenso lavoro condotto per
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generaciones durante siglos enteros, es la Biblia fuente perenne de consuelos, de esperanzas y de inspiraciones del corazón. Y lo que se ha hecho con las Sagradas Escrituras del cristianismo, ¿por qué no se ha de hacer con el Quijote, que debería ser la Biblia nacional de la religión patriótica de España? Acaso no sería difícil relacionar lo endeble, fofo y huero de nuestro patriotismo con la estrechez de miras, la mezquindad de espíritu y la abrumadora ramplonería del masoretismo cervantista y de los críticos y literatos que han examinado aquí nuestro libro. Tengo observado que de cuantas veces se cita en España el Quijote con elogio, las más de ellas es para citar los pasajes menos intensos y menos profundos, los más literatos y menos poéticos, los que menos se prestan a servir de punto de apoyo para vuelos filosóficos o elevaciones del corazón. Los pasajes de nuestro libro que fíguran en las antologías, en los tratados de retórica – debía quemarse todos – o en las colecciones de trozos escojidos para lectura en las escuelas, parecen entresacados adrede por algún escriba o masoreta que tenga declarada guerra al espíritu del Don Quijote inmortal, del que sigue viviendo después que resucitó del sepulcro sellado por don Miguel de Cervantes Saavedra, luego que le hubo en él enterrado e hizo levantar fe de su muerte. En vez de llegar a la poesía del Quijote, a lo verdaderamente eterno y universal de él, solemos quedarnos en su literatura, en lo que tiene de temporal y de particular. Y en este respecto, nada más mezquino ni más pobre que el considerar al Quijote como un texto de lengua castellana. Lo cual tampoco puede hacerse, pues en punto a lengua hay muchos libros castellanos que nos la presentan más pura y más castiza; y por lo que al estilo hace, no deja de ofrecer el del Quijote cierta artificiosidad y afectación. He de decir más: y es que creo que el Quijote no es ningún buen modelo de lenguaje y estilo literarios castellanos, y que ha producido estragos en aquellos que han querido imitarlos, acudiendo, entre otras triquinuelas de oficio, al fácil y cómodo artificio de echar el verbo al fin de la oración. Pocas cosas conozco
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secoli e generazioni, la Bibbia sia fonte perenne di consolazione, di speranze e di ispirazioni per il cuore. E allora, perché ciò che è stato fatto con le Sacre Scritture del cristianesimo non si può fare anche col Chisciotte, che dovrebbe essere la Bibbia nazionale della religione patriottica della Spagna? Forse non sarebbe così difficile mettere in relazione la debolezza, la fiacchezza e la vacuità del nostro patriottismo con la ristrettezza di vedute, la meschinità di spirito e la pesante volgarità del masoretismo cervantista e dei critici e letterati che hanno esaminato il nostro libro. Ho notato che, per quante volte in Spagna si citi entusiasticamente il Chisciotte, il più delle volte è per richiamare i passi meno intensi e profondi, i più letterari ed i meno poetici, quelli che meno si prestano a fungere da punto di appoggio per voli filosofici o elevazioni del cuore. I passaggi del nostro libro che figurano nelle antologie, nei trattati di retorica – che dovrebbero essere tutti bruciati – o nelle antologie scolastiche di brani selezionati, sembrano scelti deliberatamente da qualche scrivano o masoreta che ha dichiarato guerra allo spirito di Don Chisciotte immortale, di quello che continua a vivere dopo essere risuscitato dal sepolcro sigillato da Don Miguel de Cervantes Saavedra, dopo che ce lo aveva seppellito e che si era procurato il certificato di morte. Invece di innalzarsi al livello della poesia del Chisciotte, a quello che di lui è veramente eterno ed universale, siamo soliti fermaci alla sua letteratura, a ciò che ha di temporaneo e contingente. E, a tal proposito, nulla di più meschino e di povero del considerare il Chisciotte come un testo di lingua spagnola. Ciò, peraltro, non andrebbe nemmeno proposto, visto che ci sono molti libri spagnoli che, sul piano della lingua, offrono un esempio più puro ed autentico e che, per quanto riguarda lo stile, il Chisciotte serba una certa artificiosità e affettazione. Devo dire di più: e cioè che credo che il Chisciotte non sia affatto un buon modello di lingua e di stile letterario spagnoli, e che abbia fatto danni tra quelli che lo hanno voluto imitare ricorrendo, tra le altre furbizie del mestiere, al facile e comodo artificio di mettere il verbo alla fine della frase. Conosco poche
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más desgraciadas que las producciones de los imitadores de la hechura literaria del Quijote, como no sean las de aquellos otros que pretenden escribir en estilo bíblico haciéndolo en frases cortas, con muchos puntos finales y muchas ys y repitiendo mucho las cosas. Y así como puede haber soplo verdaderamente bíblico e inspiración profética en lenguaje y estilo completamente distinto de los libros sagrados de los judíos, puede haber inspiración y soplo quijotescos en un estilo y lenguaje que se aparten de los empleados por Cervantes en su libro imperecedero. Cuéntase de uno de los reyes ingleses del siglo XVII, que preguntaba a uno de sus cortesanos si sabía castellano, y al contestarle que no, le dijo:¡pues es lástima! Creyendo el cortesano que había pensado en darle alguna embajada en España o cosa parecida, se aplicó a aprender castellano; y cuando ya lo supo, se fue al rey a decírselo, y éste le dijo entonces: me alegro, porque así podréis leer el Quijote en su propia lengua. En lo cual demostró el soberano conocer muy poco el valor del Quijote, que depende en gran parte de que es un libro traductible, perfectamente traductible, y de que su fuerza y poesía toda queda en él, viértasele al idioma a que se le vierta. Nunca he podido pasar con eso de que el Quijote sea intraductible; y aun hay más: y es que llego a creer que hasta gana traduciéndolo, y que si ha sido mejor sentido fuera de España que en ella misma, se debe en buena parte a que no ha podido empañar su belleza la preocupación del lenguaje. O, mejor dicho, por no sentirse aquí su íntima grandeza hay tantos que se agarran a lo de su estilo y forma externa. Que, lo repito, me parecen no muy recomendables. Todo consiste en separar a Cervantes del Quijote y hacer que a la plaga de los cervantófilos o cervantistas sustituya la legión sagrada de los quijotistas. Nos falta quijotismo tanto cuanto nos sobra cervantismo. Sucede en la historia literaria que unas veces es el hombre superior al autor; y así a tal o cual escritor, que produjo enorme sensación en sus contemporáneos, no podemos juzgarlo y nos
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cose più sciagurate di uno scrittore che imiti la fattura letteraria del Chisciotte, tranne forse il caso di quelli che cercano di scrivere in stile biblico, facendolo con frasi corte, con tanti punti finali tante ‘e’ e ripetendosi spesso. E così come ci può essere un respiro veramente biblico e un’ispirazione profetica in un linguaggio ed uno stile completamente diversi dai libri sacri degli ebrei, possono esserci anche ispirazione e respiro chisciotteschi in uno stile ed in un linguaggio lontani da quelli usati da Cervantes per il suo libro immortale. Si racconta di un re inglese del XVII secolo, che chiese ad uno dei suoi cortigiani se sapesse lo spagnolo; quando questi gli rispose di no, gli disse: «Beh, è un peccato». Il cortigiano credette che il re avesse pensato di dargli qualche ambasciata per la Spagna o qualcosa di simile e quindi si mise ad imparare lo spagnolo. Quando lo ebbe appreso, si presentò al re per dirglielo, e questi allora replicò: «Ne sono lieto, così potrete leggere il Chisciotte nella lingua originale». Così dicendo, il sovrano dimostrò di conoscere assai poco il valore del Chisciotte, che dipende in gran parte dal fatto che è un libro traducibile, perfettamente traducibile, e dal fatto che, qualunque sia la lingua in cui lo si traduce, conserva sempre tutta la sua forza e la sua poesia. Non ho mai potuto accettare l’idea che il Chisciotte sia intraducibile. Non solo: penso persino che esso ci guadagni ad essere tradotto, e che se è stato recepito meglio all’estero che in patria, in buona parte ciò si debba al fatto che la preoccupazione del linguaggio non ha potuto offuscare la sua bellezza. O, per meglio dire, dal momento che qui non viene vissuta la sua intima grandezza, molti si appigliano al suo stile ed alla sua forma esteriore. Che, ripeto, mi sembrano poco raccomandabili. Tutto consiste nel separare Cervantes dal Chisciotte e nel far sì che la piaga dei cervantofili o cervantisti sia sostituita dalla sacra legione dei chisciottisti. Abbiamo bisogno di chisciottismo nella stessa misura in cui dobbiamo sbarazzarci del cervantismo. Nella storia letteraria, talvolta succede che l’uomo sia superiore all’autore, e così un determinato scrittore, che aveva suscitato enorme sensazione tra i suoi contemporanei, ora non
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sorprende el prestigio de que gozó y la influencia que ejerció, mientras otras veces es el autor superior al hombre y las obras al que las escribió. Hay hombres muy superiores a sus obras, y hay obras muy superiores a los hombres que las llevaron a cabo. Hay quien se muere sin haber agotado su espíritu en sus escritos y habiéndolo derramado en conversaciones, en dichos y en hechos. Sorprende encontrarnos en antiguos escritores con elogios subidísimos de alguno de sus contemporáneos, cuyas obras nos dejan hoy fríos, y en tal caso debemos suponer que el hombre era muy superior a sus obras. Y en otros casos ocurre lo contrario. Y no me cabe duda de que Cervantes es un caso típico de un escritor enormemente inferior a su obra, a su Quijote. Si Cervantes no hubiera escrito el Quijote, cuya luz resplandeciente baña a sus demás obras, apenas figuraría en nuestra historia literaria sino como ingenio de quinta, sexta o decimatercia fila. Nadie leeria sus insípidas Novelas Ejemplares, así como nadie lee su insoportable Viaje al Parnaso, o su Teatro. Las novelas y disgresiones mismas que figuran en el Quijote, como aquella impertinentisima novela de El Curioso Impertinente, no merecería la atención de las gentes. Aunque Don Quijote saliese del ingenio de Cervantes, Don Quijote es inmensamente superior a Cervantes. Y es que, en rigor, no puede decirse que Don Quijote fuese hijo de Cervantes; pues si éste fue su padre, fue su madre el pueblo en que vivió y de que vivió Cervantes, y Don Quijote tiene mucho más de su madre que no de su padre. Voy más lejos aún: y es que llego a sospechar que Cervantes se murió sin haber calado todo el alcance de su Quijote, y acaso sin haberlo entendido a derechas. Me parece que si Cervantes resucitara y leyese de nuevo su Quijote, lo entendería tan mal como lo entienden los masoretas cervantistas y se pondría del lado de éstos. No nos quepa duda sino de que, en caso de volver Cervantes al mundo, se haría cervantista y no quijotista. Pues basta leer atentamente el Quijote para observar que cada vez
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riusciamo a giudicarlo, e ci sorprende il prestigio di cui ha goduto e l’influenza che ha esercitato. Altre volte è l’autore ad essere superiore all’uomo, e sono le opere ad essere migliori di chi le ha scritte. Ci sono uomini molto superiori alle loro opere e opere molto superiori agli uomini che le hanno compiute. C’è chi muore senza aver profuso il proprio spirito nei suoi scritti, perché invece l’ha disperso nelle conversazioni, in parole e fatti. Sorprende di trovarsi di fronte ad antichi scrittori, molto elogiati dai loro contemporanei, e vedere che le loro opere oggi ci lasciano indifferenti. In questi casi dobbiamo presumere che l’uomo fosse di molto superiore alla sua opera. In altri casi, invece, accade il contrario. E non c’è dubbio che Cervantes sia un caso tipico di scrittore enormemente inferiore alla propria opera, al suo Chisciotte. Se Cervantes non avesse scritto il Chisciotte, la cui luce risplende ed irradia le altre sue opere, egli sarebbe a mala pena presente nella nostra storia letteraria, magari solo come ingegno di quinto, sesto o tredicesimo livello. Nessuno leggerebbe le sue insipide Novelle esemplari, così come nessuno legge il suo insopportabile Viaggio nel Parnaso o il suo Teatro. Le novelle e le stesse digressioni che appaiono nel Chisciotte, come quell’impertinentissimo racconto Il Curioso Impertinente, non meriterebbero l’attenzione dei lettori. Che Don Chisciotte sia nato o meno dall’ingegno di Cervantes, Don Chisciotte è immensamente superiore a Cervantes. Il fatto si è che, a rigore di termini, non si può dire che Don Chisciotte fosse figlio di Cervantes; perché, se questi è suo padre, sua madre è il popolo in cui ha vissuto e di cui è vissuto lo stesso Cervantes, e Don Chisciotte assomiglia molto più alla madre che non al padre. E dirò di più: sospetto persino che Cervantes sia morto senza aver assimilato tutta la portata del Chisciotte, e forse senza nemmeno averlo compreso correttamente. Credo che se Cervantes risuscitasse e leggesse di nuovo il Chisciotte, lo comprenderebbe male come i masoreti cervantisti; e si alleerebbe con loro. Non c’è dubbio che se mai Cervantes ritornasse al mondo si schiererebbe con i cervantisti e non con i chisciottisti. Basta, infatti, leggere attentamente il Chisciotte per osservare che ogni
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que el bueno de Cervantes se introduce en el relato y se mete a hacer consideraciones por su parte, es para decir alguna impertinencia o juzgar malévola y maliciosamente a su héroe. Así sucede, por ejemplo, cuando al contarnos la hermosísima proeza de Don Quijote de enderezar aquel su discurso sobre la edad de oro a unos cabreros que no habrían de entendérselo en su sentido material – y en esto consiste lo heroico de la arenga – llama a ésta inútil razonamiento. Y a seguida se ve obligado a mostrarnos que no fue inutil, pues los cabreros lo oyeron embobados y suspensos, y en pago de él regalaron a Don Quijote con pastoriles cantares. El pobre de Cervantes no alcanzaba a la robusta fe del hidalgo manchego, fe que le hacía dirigirse con elevadas pláticas a los cabreros, seguro de que, si no entendían su letra, se edificaban con su música. Y como con este pasaje, le ocurre a Cervantes con muchos otros. Y nada debe de extrañarnos esto; pues, como ya he dicho, si Cervantes fue el padre de Don Quijote, su madre fue el pueblo de que Cervantes formaba parte. Cervantes no fue más que un mero instrumento para que la España del siglo XVII pariese a Don Quijote; Cervantes hizo en su Quijote la obra más impersonal que puede hacerse y, por lo tanto, la más profondamente personal en cierto sentido. Cervantes, como autor del Quijote, no es más que ministro y representante de su pueblo, ministro y representante de la humanidad. Y por esto hizo una obra grande. El genio es, en efecto, el que en puro personalidad se impersonaliza, el que bega a ser voz de un pueblo, el que acierta a decir lo que piensan todos sin haber acertado a decir los que lo piensan. El genio es un pueblo individualizado. Y así como ha dicho un literato, me parece que fue Flaubert, que la perfección del estilo consiste en no tenerlo, y es indudable que el estilo, como el agua, es mejor cuanto a menos sepa, así la perfección del pensamiento y del sentimiento es no tenerlos, sino pensar y sentir lo que piensa y siente por dentro el pueblo que nos rodea y del que formamos parte. Y he añadido por dentro, porque al
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volta che il buon Cervantes si introduce nel racconto e si mette a fare considerazioni personali, è per dire qualche impertinenza o per giudicare in modo malevolo e malizioso il suo eroe. Questo accade, ad esempio, quando, nel narrarci la bellissima prodezza di Don Chisciotte che rivolge quel discorso sull’Età dell’Oro ad alcuni pastori di pecore che non potevano capirlo nel suo senso reale – e in ciò sta l’eroismo dell’arringa –, Cervantes chiama quest’ultima un inutile ragionamento. E subito invece si vede costretto a mostrarci che in realtà non era stato inutile, ma che anzi i pastori lo avevano ascoltato attenti e meravigliati e che poi avevano ricompensato Don Chisciotte con canti pastorali. Il povero Cervantes non arriva a capire la robusta fede dell’hidalgo della Mancia, fede che lo portava a rivolgere elevati discorsi ai pastori, sicuro del fatto che, se anche non ne avessero compreso il significato, si sarebbero comunque edificati con la sua musica. E quanto accade in questa occasione, si ripete in molte altre. E non ci si deve affatto meravigliare, dal momento che, come ho detto, se Cervantes è stato il padre di Don Chisciotte, sua madre è stato il popolo di cui Cervantes faceva parte. Cervantes non fu altro che un semplice strumento affinché la Spagna del secolo XVII generasse Don Chisciotte; Cervantes ha realizzato nel suo Chisciotte l’opera più impersonale che si possa fare e, pertanto, quella che in un certo senso è la più personale. Cervantes, come autore del Chisciotte, non è altro che il ministro e il rappresentante del suo popolo, il ministro e il rappresentante dell’umanità. E per questo ha fatto una grande opera. Il genio è, infatti, quella pura personalità che diviene impersonale, che giunge ad essere voce di ogni popolo, che indovina e dice quello che tutti pensano senza sapere il nome di chi effettivamente lo sta pensando. Il genio è un popolo fatto individuo. E così, come ha detto un letterato, forse Flaubert, la perfezione dello stile consiste nel non averlo, ed è indubbio che il miglior stile, così come l’acqua, sia quello dal sapore più neutro, e così la perfezione del pensiero e del sentimento consiste nel non averne, cioè, al contrario, nel pensare e sentire ciò che sente e pensa profondamente il popolo che ci circonda e di cui facciamo parte. Ed ho aggiunto profondamente, perché al popolo hanno fatto
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pueblo le han hecho creer que piensa y siente lo que ni piensa ni siente y cree lo que no cree; y cuando alguien viene y le descubre lo que en realidad piensa, siente y cree, se queda embobado y suspenso, aunque a primeras apenas le entienda, como se quedaron los cabreros embobados y suspensos al oír hablar a Don Quijote del siglo del oro. Y así como hay genios vitalicios, genios que lo son durante toda su vida, y que durante toda ella aciertan a ser ministros y voceros espirituales de su pueblo, así hay también genios temporeros, genios que no lo son más que en alguna ocasión de su vida. Ahora, que esta ocasión puede ser más o menos duradera y de mayor o menor alcance. Y esto debe servimos de consueto a los mortales de loza más basta cuando consideremos a los de porcelana finísima, pues ¿quién no ha sido alguna vez, y siquiera por un cuarto de hora, genio de su pueblo, aunque su pueblo sea de trescientos vecinos? ¿Quién no ha sido héroe de un día o siquiera de cinco minutos? Y gracias a esto, a que todos podemos llegar a ser genios temporeros, siquiera de temporada de unos minutos, gracias a esto podemos comprender a los genios vitalicios y enamorarnos de ellos. Cervantes fue, pues, un genio temporero; y si se nos aparece como genio absoluto y duradero, como mayor que los más de los genios vitalicios, es porque la obra que escribió durante la temporada de su genialidad es una obra no ya vitalicia sino eterna. Al héroe de un día, al que en el día de su heroicidad le sea dado derrocar un inmenso imperio y cambiar así el curso de la historia, le está reservado en la memoria de las gentes un lugar más alto que el de muchos genios vitalicios que no derrocaron imperio alguno material. Ahí tenéis a Colón. ¿Qué es Colón sino un héroe de temporada? Durante la temporada en que estuvo Cervantes bajo las alas espirituales de su patria, recibiendo la incubación de ésta, engendrose en su alma Don Quijote, es decir, engendró su pueblo en él a Don Quijote, y así que éste salió al mundo abandonó a Cervantes su pueblo, y Cervantes volvió a ser el pobre escritor andariego, presa de todas las preocupaciones literarias de su
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credere che pensi e senta quel che non pensa né sente, e che creda a quel che non crede; e quando arriva qualcuno e scopre quel che in realtà pensa, sente e crede, allora esso rimane attonito e meravigliato, anche se dapprima non capisce quasi nulla, e resta come i pastori attoniti e meravigliati nel sentire Don Chisciotte che parlava del Secolo d’Oro. E così come vi sono geni immortali, geni che lo sono per tutta la loro vita, e che per la loro intera durata restano davvero ministri e voci spirituali del loro popolo, allo stesso modo vi sono anche geni temporanei, geni che lo sono soltanto in qualche momento della loro vita. Questo momento può essere più o meno duraturo e di minore o maggiore portata. E questo deve servire da consolazione a noi mortali di fattura più modesta quando consideriamo quelli di porcellana finissima. Perché, dopo tutto, chi non è stato, almeno per un quarto d’ora, genio del proprio popolo, nonostante il suo popolo si riduca a trecento compaesani? Chi non è stato eroe per un giorno, o anche solo per cinque minuti? E, grazie a ciò, grazie al fatto che tutti possiamo diventare geni temporanei, anche se per il tempo di qualche minuto, grazie a questo, dicevo, noi possiamo comprendere i geni immortali e innamorarci di essi. Cervantes fu, quindi, un genio temporaneo; e se ci appare come un genio assoluto e duraturo, come grande tra i grandi geni immortali, è perché l’opera che scrisse durante la sua stagione di genialità è un’opera non già vitalizia, ma eterna. All’eroe per un giorno, a quello a cui nel suo giorno di eroismo sia concesso di sconfiggere un immenso impero e cambiare così il corso della storia, è riservata nella memoria delle genti un posto più alto di quello di molti geni immortali che non sconfissero alcun impero reale. Ecco, per esempio, il caso di Colombo. Che cos’è Colombo, se non l’eroe di una stagione? Durante la stagione in cui Cervantes stette sotto le ali spirituali della sua patria, e fu da essa incubato, nella sua anima si formò Don Chisciotte, ovvero il suo popolo creò in lui Don Chisciotte, e così questi venne al mondo, abbandonò Cervantes al suo popolo, e Cervantes ritornò ad essere il giovane scrittore girovago, preda di tutte le preoccupazioni letterarie del suo tem-
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tiempo. Y así se explican muchas cosas, y entre otras, la endeblez del sentido critico de Cervantes y la pobreza de sus juicios literarios, como lo hizo ya notar Macaulay. Todo lo que en el Quijote es crítica literaria, es de lo más ramplón y más pobre que puede darse y delata una verdadera opilación de sentido común. Y observad cómo un hombre tan cuerdo y tan tupido de sentido común, y del más basto que se conoce, como era Cervantes, pudo engendrar a un caballero tan loco y tan henchido de sentido propio. Cervantes no tuvo otro remedio sino darnos un loco para poder encarnar en él lo eterno y grande de su pueblo. Y es que muchas veces, cuando lo más íntimo de lo íntimo de nuestras entrañas, cuando la humanidad eterna que duerme en lo hondo de nuestro seno espiritual se nos sube a fior de alma gritando sus anhelos, o aparecemos locos o fíngimos estarlo para que se nos disculpe nuestro heroísmo. Miles de veces acude un escritor al artificio de fingir decir en broma lo que siente muy en serio, o saca a escena un loco para hacerle decir o hacer lo que haría o diria él de muy buena gana y muy en acuerdo, si la miserable condición rebañega de los hombres no les llevara a querer ahogar al que se salga del redil de que están deseando salirse todos, y sin valor ni coraje para hacerlo, por miedo de morirse de hambre, sed y frío en el campo raso y sin pastor ni perro. Ved todo lo que hay de genial en Cervantes, y cuál es la relación íntima que media entre él y su Don Quijote. Y todo esto debería movemos a dejar él cervantismo por el quijotismo, y a cuidar más de Don Quijote que de Cervantes. Dios no mandó a Cervantes al mundo más que para que escribiese el Quijote, y me parece que hubiera sido una ventaja el que no conociéramos siquiera el nombre del autor, siendo nuestro libro una obra anónima, como lo es el Romancero y creemos muchos que lo es la Iliada. Y me atrevo a más: y es a escribir un ensayo en que sostenga que no existió Cervantes y sí Don Quijote. Y visto que por lo menos Cervantes no existe ya, y sigue viviendo en cambio Don Quijote, deberiamos todos dejar al muerto e irnos con el vivo, abandonar a Cervantes y acompañar a Don Quijote.
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po. E così si spiegano molte cose e, tra le altre, la debolezza del senso critico di Cervantes e la povertà dei suoi giudizi letterari, come già ha fatto notare Macaulay. Tutto ciò che nel Chisciotte è critica letteraria è quanto di più povero e grossolano possa darsi e tradisce una vera e propria saturazione di senso comune. Incredibile come un uomo così assennato e pieno di luoghi comuni, e della più grande grossolanità immaginabile, com’era Cervantes, abbia potuto generare un cavaliere così folle e così colmo di senso proprio. Cervantes non ebbe altra scelta che consegnarci un folle per poter incarnare in lui l’eternità e la grandezza del suo popolo. E il fatto è che molte volte, quando l’intimo dell’intimo della nostre viscere, quando l’umanità eterna che dorme nel profondo del nostro seno spirituale ci affiora nell’anima gridando i propri aneliti, allora o sembriamo pazzi o fingiamo di esserlo affinché ci venga perdonato il nostro eroismo. Migliaia di volte lo scrittore ricorre all’espediente di dire in tono scherzoso ciò che sente molto seriamente, o mette in scena un pazzo per fargli dire o fare quello che lui direbbe o farebbe molto volentieri e convinto, se solo la miserevole condizione di gregge degli uomini non li portasse a voler annullare chi esce dal recinto da cui vorrebbero uscire tutti, se solo avessero il valore e il coraggio per farlo, e se non temessero di morire di fame, sete o freddo nella campagna libera senza pastore né cane. Vedete quindi cosa c’è di geniale in Cervantes, e qual è la relazione intima che intercorre tra lui e il suo Don Chisciotte. E tutto ciò dovrebbe spingerci ad abbandonare il cervantismo in favore del chisciottismo, ed a curarci più di Don Chisciotte che non di Cervantes. Dio non ci ha dato Cervantes se non perché scrivesse il Chisciotte, e mi sembra che sarebbe stato un vantaggio non conoscere nemmeno il nome dell’autore, essendo il nostro libro un’opera anonima come lo sono il Romancero e, lo pensiamo in molti, l’Iliade. E oso dire di più: scriverò un saggio in cui sostengo che non sia esistito Cervantes e sì, invece, Don Chisciotte. E visto che Cervantes non esiste più e che, al contrario, continua a vivere Don Chisciotte, dovremmo tutti lasciare il morto per seguire il vivo, abbandonare Cervantes e accompagnare Don Chisciotte.
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Considero que una de las mayores desgracias que al quijotismo pudiera ocurrirle es que se descubriese el manuscrito origial del Quijote, trazado de puño y letra de Cervantes. Es de creer que semejante manuscrito se destruyó, afortunadamente, ya que en tiempos de Cervantes no había el fetichismo que hoy hay para por los autógrafos, ni se sabe que se fuese tanto como hoy se va a los escritores famosos a que pusieran pensamientos en álbums y tarjetas postales. Caso de no haberse destruido aquel manuscrito y de haberlo conservado algún curioso y enterrado luego en un arca y que hoy apareciese, de lo menos de que nos veríamos amenazados sería de una reproducción fototípica del tal manuscrito, y luego de una porción de monografías de grafólogos distinguidos. Y ¡qué de curiosas investigaciones se harían sobre qué pasajes escribió Cervantes con más seguro pulso, y en cuáles corrió más su pluma, y en cuáles se detuvo, y dónde había más tachaduras y enmiendas y dónde menos! Teniendo lo cual en cuenta, considero a la máquina de escribir como una maravillosa y beneficiosísima invención, y creo que deberíamos adoptarla los escritores todos para no tener letra, y de paso ganarían no poco los cajistas y regentes de las imprentas, pues abundan los escritores que no se avergüenzan de escribir mal. Digo que considero sería una desgracia para el quijotismo el que se descubriese el manuscrito original del Quijote; pues si habiéndose éste perdido se hacen las cosas que se hacen con la primera edición, ¿qué no se haría entonces? Yo he sentido siempre no haber encontrado algún ejemplar de esa primera edición perdido en cualquier venta o alquería de estos campos, porque hubiera procurado comprarlo al precio más bajo posible y lo habría vendido en seguida al más alto precio que por él me dieran, para comprar con el producto de esta operación mercantil una porción de obras quijotescas que me hacen mucha falta, y entre las cuáles, excuso decirlo, no habría ni un solo libro de cervantista alguno. Aseguro que con el
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Ritengo che una delle più grandi disgrazie che potrebbero capitare al chisciottismo sarebbe che venisse scoperto il manoscritto originale del Chisciotte, quello scritto di pugno da Cervantes. Fortunatamente, è ragionevole supporre che un simile manoscritto sia andato distrutto perché, al tempo di Cervantes, non c’era l’attuale feticismo per gli autografi, né risulta che come oggi si andasse a caccia di scrittori famosi per metterne i pensieri in album e cartoline postali. Al contrario, nel caso in cui questo manoscritto non sia andato distrutto e sia stato invece conservato da qualche curioso che lo sotterrò in un’arca oggi riemersa, la più piccola minaccia che ci dovremmo aspettare oggi sarebbe una riproduzione fototipica del manoscritto, e quindi una bella porzione di monografia da parte di famosi grafologi. E quante ridicole ricerche si farebbero su quale passo Cervantes abbia scritto col polso più fermo, e su dove la sua penna sia stata più veloce, e su dove al contrario si sia soffermata e su dove c’erano più o meno cancellature e revisioni! Pensando a queste cose, considero la macchina da scrivere un’invenzione meravigliosa e sommamente benefica, e credo che tutti gli scrittori dovrebbero adottarla per non scrivere a mano, e in modo collaterale ci guadagnerebbero anche i compositori e gli stampatori, visto che ci sono un sacco di scrittori che non si vergognano di scrivere male. Dichiaro di considerare il possibile ritrovamento del manoscritto originale del Chisciotte come una disgrazia per il chisciottismo; perché se ora che questo è irreperibile si fanno le stesse cose che si fanno con la prima edizione, cosa non si farebbe se esso venisse alla luce? Mi è sempre spiaciuto di non aver trovato qualche esemplare di quella prima edizione disperso in qualche locanda o casa colonica di campagna. Se fosse successo, avrei cercato di comprarlo al prezzo più basso possibile e poi lo avrei subito rivenduto per la somma più alta che mi venisse offerta, per comprare con i proventi di quell’operazione un bel po’ di opere chisciottesche di cui ho molto bisogno e tra le quali, mi spiace dirlo, non rientrerebbe alcuna opera di cervantisti. Sono certo che, col ricavato
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producto de mi reventa no compraría ni los trabajos de Pellicer ni los de Clemencín. Es una cosa triste el de que del libro mismo, del libro material en que se cuenta la historia del ingenioso hidalgo, se haya hecho por muchos un fetiche, agotándose a su respecto todos los más insulsos pasatiempos que pueden ocurrírseles a esos bípedos implumes, llamados por mejor nombre bibliófilos. Y entretanto, está haciendo falta en España una edición del Quijote que a la mayor manuabilidad, a la mayor limpieza y claridad de tipos y consistencia de papel, a la más esmerada corrección tipográfica, una el precio más módico que sea dable; una edición sencilla, limpia, modesta, clara, manuable y barata. Y esto no se conseguirá mientras no aumentemos el número de los quijotistas concientes y reduzcamos a la inacción y al silencio a los cervantistas. Se dice y se repite hasta la saciedad que el quijotismo nos ha perdido; y aun ciutando son ya muchos los que han protestado contra esta falsísima especie, conviene protestar una vez más y decir muy alto que aun no ha empezado el reinado de Don Quijote en España. El pobre hidalgo manchego, después de haber resucitado del sepulcro en que le depositó Cervantes, ha corrido el mundo todo, siendo aclamado y comprendido en muchas partes de él – en Inglaterra y en Rusia muy especialmente –, y al volverse a su tierra se encuentra con que es donde peor le comprenden y donde más le calumnian. Puede reperir lo que dijo su Maestro Jesus, de quien Don Quijote fue, a su modo, fiel discípulo: nadie es profeta en su tierra. ¿Lucirán en España mejores días para Don Quijote y Sancho? ¿Serán mejor comprendidos? Es de esperarlo, sobre todo si los quijotistas nos proponemos quijotescamente derrotar a los cervantistas. Antes de terminar tengo que hacer una declaración: y es que todo cuanto aquí he dicho de Don Quijote se aplica a su fiel y nobilísimo escudero Sancho Panza, aun peor conocido y más calumniado que su amo y señor. Y esta desgracia que sobre la memoria del buen Sancho pesa, le viene ya desde Cervantes,
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della mia compravendita, non acquisterei né gli studi di Pellicer, né quelli di Clemencín. È una cosa molto triste che il libro stesso, il libro materiale in cui si narra la storia dell’ingegnoso hidalgo, si sia trasformato per molti in un feticcio; che su di esso si siano esercitati i più insulsi passatempi che potessero venire in mente a quei bipedi implumi chiamati anche bibliofili. E, frattanto, in Spagna continua a mancare un’edizione del Chisciotte che alla maggiore maneggevolezza, alla maggiore limpidezza e nitore della stampa e alla consistenza della carta, aggiunga il prezzo più modico possibile; un’edizione semplice, pulita, modesta, chiara, maneggevole ed economica. Questo non accadrà finché non aumenti il numero dei chisciottisti consapevoli e non si riduca all’inazione e al silenzio quello dei cervantisti. Si dice e si ripete fino alla nausea che il chisciottismo ci ha fatto smarrire, e nonostante siano ormai molti coloro che hanno protestato contro questa falsissima idea, è opportuno farlo ancora una volta e dire con chiarezza che in Spagna il regno di Don Chisciotte ancora non è neppure iniziato. Il povero hidalgo della Mancia, dopo essere risuscitato dal sepolcro dove l’aveva deposto Cervantes, ha girato il mondo ed è stato acclamato e compreso in molte parti – in Inghilterra e in Russia, in particolare – e quando torna alla sua terra si accorge che qui è dove meno lo comprendono e più lo calunniano. Potrebbe far suo quel che disse il suo maestro Gesù, di cui Don Chisciotte fu, a suo modo, fedele discepolo: nessuno è profeta in patria. Ci saranno in Spagna giorni migliori per Don Chisciotte e per Sancio? Saranno maggiormente compresi? C’è da sperarlo, soprattutto se noi chisciottisti ci impegniamo chisciottescamente a sconfiggere i cervantisti. Prima di concludere devo fare una dichiarazione, cioè che tutto ciò che ho detto di Don Chisciotte si applica anche al suo fedele e nobilissimo scudiero Sancio Panza, ancor meno conosciuto e più calunniato del suo padrone e signore. E questa disgrazia che grava sulla memoria del buon Sancio proviene già da Cervantes
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que si no acabó de comprender a derechas a su Don Quijote, no empezó siquiera a comprender a su Sancho, y si fue con aquél malicioso algunas veces, fue con éste casi siempre injusto. Una de las cosas, en efecto, que más saltan a los ojos cuando se lee el Quijote, es la incomprensión por parte de Cervantes del carácter y alma de Sancho, cuya excelsa heroicidad no concibió nunca su padre literario. A Sancho le calunnia y le maltrata sin razón ni motivo, se empeña en no ver claro los móviles de sus actos, y hay ocasiones en que se siente uno tentado a creer que, movido por esa incomprensión, altera la verdad de los hechos y le hace decir y hacer al buen escudero cosas que nunca pudo haber dicho y hecho, y que, por lo tanto, ni las dijo ni las hizo. Y tal maña se dio el malicioso Cervantes para torcer las intenciones de Sancho y tergiversar sus propósitos, que ha caido sobre el noble escudero una fama inmerecida, de la que espero conseguiremos redimirle los quijotistas, que somos y debemos ser sanchopancistas a la vez. Afortunadamente, como Cervantes no fue, según dije, sino en parte, y muy en parte, autor del Quijote, quedan en este libro inmortal todos los elementos necesarios para restablecer el verdadero Sancho y darle la fama que merece. Pues si Don Quijote estuvo enamorado de Dulcinea, no menos lo estuvo Sancho, con la circunstancia de que aquél salió de casa movido por el amor a la gloria, y Sancho por el amor a la paga; pero fue éste gustando la gloria, y acabó por ser, en el fondo, y aunque él mismo no lo creyera, uno de los hombres mas desinteresados que haya conocido el mundo. Y cuando Don Quijote se moría cuerdo, curado de su locura de gloria, Sancho se había vuelto loco, loco de remate, loco por la gloria; y mientras aquél abominaba de los libros de caballerías, el buen escudero le pedía, con lágrimas en los ojos, que no se muriese, sino viviera para volver a salir a buscar aventuras por los caminos. Y como Cervantes no se atrevió a matar a Sancho, ni menos a enterrarlo, suponen muchos que Sancho no murió, y hasta que
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che, se non aveva compreso del tutto il suo Don Chisciotte, figuriamoci il suo Sancio, e se fu talvolta malevolo con il primo, col secondo fu quasi sempre ingiusto. Una delle cose che, infatti, balzano all’occhio quando si legge il Chisciotte è l’incomprensione da parte di Cervantes del carattere e dell’animo di Sancio, il cui eccelso eroismo non è mai stato capito dal suo padre letterario. Egli calunnia a maltratta Sancio senza ragione né motivo, si sforza di non far luce sui moventi delle sue azioni, e talvolta si sarebbe tentati di credere che, mosso da quell’incomprensione, Cervantes alteri la realtà dei fatti e che faccia dire e fare al bravo scudiero cose che non avrebbe mai potuto dire o fare e che, pertanto, né disse né fece. E tanto si accanì il malizioso Cervantes nel distorcere le intenzioni di Sancio e nel tergiversare i suoi propositi, che è poi ricaduta sullo scudiero una fama immeritata, dalla quale spero che noi chisciottisti, che dobbiamo al contempo essere sanciopanzisti, riusciremo a redimerlo. Fortunatamente, dal momento che, come dissi, Cervantes non fu, se non in piccola parte, autore del Chisciotte, in questo libro immortale restano vivi tutti gli elementi necessari a riabilitare il vero Sancio, e a attribuirgli la fama che merita. Perché se Don Chisciotte fu innamorato di Dulcinea, Sancio non lo fu meno, con la sola differenza che se il primo lasciò casa sua mosso dall’amore per la gloria, il secondo fu motivato dall’amore per la paga; e però anche Sancio andò assaporando la gloria e finì per essere, in fondo, e nonostante lui stesso stentasse a crederlo, uno degli uomini più disinteressati che il mondo abbia visto. E quando Don Chisciotte moriva saggio, curato dal suo folle anelito di gloria, Sancio, al contrario, era ormai impazzito. Pazzo di riflesso, pazzo per la gloria, e mentre il primo rinnegava i libri di cavalleria, il bravo scudiero gli chiedeva, con le lacrime agli occhi, che non morisse, e che invece vivesse per andarsene di nuovo insieme in cerca di avventure. E dal momento che Cervantes non osò uccidere né seppellire Sancio, molti ritengono che Sancio non sia morto, e che sia
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es inmortal. Y el día menos pensado nos vamos a encontrar con la salida de Sancho, el cual, montado en Rocinante, que tampoco murió, y revestido con las armas de su amo, que para el caso se las arreglará el herrero del Toboso, se echará a los caminos a continuar las glorias de Don Quijote y a hacer triunfar de una vez el quijotismo sobre la tierra. Porque no nos quepa duda de que es Sancho, Sancho el bueno, Sancho el discreto, Sancho el sencillo; que es Sancho, el que se volvió loco junto al lecho en que su amo se moría cuerdo; que es Sancho, digo, el encargado por Dios para asentar definitivamente el quijotismo sobre la tierra. Así lo espero y deseo, y en ello y en Dios confío. Y si algún lector de este ensayo dijera que todo esto no son sino ingeniosidades y paradojas, le diré que no entiende jota en achaques de quijotismo, y le repetiré lo que en cierta ocasión dijo Don Quijote a su escudero: como te conozco, Sancho, no hago caso de lo que dices. Abril de 1905
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persino immortale. E un giorno inaspettato, assisteremo al ritorno di Sancio che, in sella a Ronzinante, anche lui vivo, e con indosso le armi del suo padrone, riparate all’uopo dal fabbro del Toboso, si inoltrerà lungo i sentieri per continuare le glorie di Don Chisciotte e per far trionfare una volta per tutte il chisciottismo sulla terra. Perché non dobbiamo dubitare che sia Sancio, Sancio il buono, Sancio il discreto, Sancio il semplice; che sia Sancio quello che divenne pazzo accanto al letto dove il suo signore moriva saggio; che sia Sancio, dicevo, l’incaricato da Dio di stabilire definitivamente il chisciottismo sulla terra. Così spero e desidero, e in ciò e in Dio confido. E se qualche lettore del presente saggio dicesse che tutte queste idee non sono che ingenuità e paradossi, gli risponderei che lui non capisce un accidente del chisciottismo, e gli ripeterei quello che in certe occasioni aveva detto Don Chisciotte al suo scudiero: «Visto che ti conosco, Sancio, non faccio caso a quello che dici». Aprile 1905
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VIDA DE DON QUIJOTE Y SANCHO SEGÚN MIGUEL DE CERVANTES SAAVEDRA EXPLICADA Y COMENTADA POR MIGUEL DE UNAMUNO
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VITA DI DON CHISCIOTTE E SANCIO SECONDO MIGUEL DE CERVANTES SAAVEDRA SPIEGATA E COMMENTATA DA MIGUEL DE UNAMUNO
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PRÓLOGOS DEL AUTOR A LA SEGÚNDA EDICIÓN Apareció en primera edición esta obra en el año 1905, coincidiendo por acaso, que no de propósito, con la celebración del tercer centenario de haberse por primera vez publicado el Quijote. No fue, pues, una obra de centenario. Salió, por mi culpa, plagada, no ya solo de erratas tipográficas, sino de errores y descuidos del original manuscrito, todo lo que he procurado corregir en esta segunda edición. Pensé un momento si hacerla preceder del ensayo que «Sobre la lectura e interpretación del Quijote» publiqué el mismo año de 1905 en el número de abril de La España Moderna, mas he desistido de ello en atención a que esta obra toda no es sino una ejecución del programa en aquel ensayo expuesto. Lo que se reduce a asentar que dejando a eruditos, críticos e historiadores la meritoria y utilísima tarea de investigar lo que el Quijote pudo significar en su tiempo y en el ámbito en que se produjo y lo que Cervantes quiso en él expresar y expresó, debe quedarnos a otros libre al tomar su obra inmortal como algo eterno, fuera de época y aun de país, y exponer lo que su lectura nos sugiere. Y sostuve que hoy ya es el Quijote de todos y cada uno de sus lectores, y que puede y debe cada cual darle una interpretación, por así decirlo, mística, como las que a la Biblia suele darse.
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PROLOGHI DELL’AUTORE ALLA SECONDA EDIZIONE La prima edizione di quest’opera apparve nel 1905, in coincidenza casuale, sicuramente non intenzionale, con la celebrazione del terzo centenario della pubblicazione del Chisciotte. Non è stata, certamente, un’opera scritta per quel centenario. Uscì, per colpa mia, piena non di errori di stampa, ma di sviste e distrazioni presenti nel manoscritto originale, e che ho corretto in questa seconda edizione. Per un momento ho pensato all’opportunità di inserire il saggio Sulla lettura ed interpretazione del Chisciotte, pubblicato nel medesimo anno 1905 nel numero di aprile di «La Spagna moderna», ma poi ho desistito dal farlo in considerazione del fatto che quest’opera non è altro che un’attuazione del programma esposto in quel saggio. Ciò mi induce a sostenere che, lasciando ad eruditi, critici e storici il meritorio ed utilissimo compito di indagare che cosa il Chisciotte abbia potuto significare nel suo tempo e nell’ambito in cui si verificò e ciò che Cervantes abbia voluto in esso esprimere ed in effetti espresse, dobbiamo lasciare ad altri libri di considerare la sua opera immortale come qualcosa di eterno, al di fuori di un’epoca e persino di un paese, ed esporre ciò che la sua lettura ci suggerisce. Ho sostenuto che oggi il Chisciotte è già di tutti e di ciascuno dei suoi lettori, e che ognuno può e deve dargli un’interpretazione per così dire, mistica non diversamente da quanto avviene per la Bibbia.
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Mas si renuncié a insertar al frente de esta segunda edición de mi obra aquel citado ensayo, no así con otro que con el titulo de El sepulcro de Don Quijote publiqué en el número de febrero de 1906 de la misma susomentada revista «La España Moderna». Esta obra es de las mías la que hasta hoy ha alcanzado más favor del público que me lee, como lo prueba esta segunda edición y el haber aparecido hace poco una traducción italiana bajo el título de Commento al Don Chisciotte, hecha por G. Beccari y publicada en la colección “Cultura dell’anima”, dirigida por G. Papini y que edita R. Carabba en Lanciano. A la vez que se prepara una traducción francesa. Y me complazco en creer que a esta mayor fortuna de esta entre mis obras habrá contribuido el que es una libre y personal exégesis del Quijote, en que el autor no pretende descubrir el sentido que Cervantes le diere, sino el que le da él, ni es tampoco un erudito estudio histórico. No creo deber reperir que me siento más quijotista que cervantista y que pretendo libertar al Quijote del mismo Cervantes, permitiéndome alguna vez hasta discrepar de la manera como Cervantes entendió y trató a sus dos héroes, sobre todo a Sancho. Sancho se le imponía a Cervantes, a pesar suyo. Es que creo que los personajes de ficción tienen dentro de la mente del autor que los finge una vida propia, con cierta autonomía, y obedecen a una íntima lógica de que no es del todo conciente ni dicho autor mismo. Y el que desee más aclaraciones a este respecto, y no se escandalice de la proposición de que nosotros podemos comprender a Don Quijote y Sancho mejor que Cervantes que los creó – o mejor, los sacó de la entraña espíritual de su pueblo – acuda al ensayo que cité primero. Salamanca, enero de 1913
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prologhi dell’autore alla seconda edizione
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Sebbene abbia rinunciato ad inserire in questa seconda edizione quel predetto saggio, tuttavia non mi sono regolato allo stesso modo per quanto riguarda un altro saggio dal titolo Il sepolcro di Don Chisciotte, pubblicato nel numero di febbraio della predetta rivista «La Spagna moderna». Tra le mie opere è indubbiamente questa ad aver ottenuto il maggior favore dal pubblico di lettori, come dimostra questa seconda edizione e la sua recente traduzione in italiano col titolo, Commento al Don Chisciotte, fatta da G. Beccari e pubblicata nella collana “Cultura dell’anima”, diretta da G. Papini ed edita da Carabba (Lanciano). Si sta inoltre preparando una traduzione in francese. E mi compiaccio nel credere che alla maggior fortuna di quest’opera rispetto alle altre abbia contribuito il fatto che è una libera e personale esegesi del Chisciotte, nel quale l’autore non pretende di decifrare il senso attribuitogli da Cervantes, bensì quello dato da lui, né si tratta di uno studio storico erudito. Non credo di dover ripetere che mi sento più chisciottista che cerventista e che pretendo di liberare il Chisciotte dallo stesso Cervantes, permettendomi alcune volte di dissentire dal modo in cui Cervantes intese e trattò i suoi due eroi, soprattutto Sancio. Sancio si imponeva a Cervantes, suo malgrado. Credo infatti che i personaggi di finzione hanno nella mente dell’autore che li crea una vita propria, con una certa autonomia, ed obbediscono ad un’intima logica che non è del tutto cosciente allo stesso autore. E chi volesse maggiori chiarimenti a tal proposito e non si scandalizzasse dell’affermazione che noi possiamo comprendere Don Chisciotte e Sancio meglio di Cervantes che lo creò – o meglio, lo trasse dalle profondità spirituali del suo popolo –, si riferisca al primo saggio da me citato. Salamanca, gennaio 1913
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A LA TERCERA EDICIÓN Esta edición – la tercera – de mi Vida de Don Quijote y Sancho, que forma parte de la de mis Obras Completas, no difiere nada de la segúnda, en que se corrigieron, no solo las muchas erratas tipográficas, sino los errores del original, hijos de mis precipitaciones de improvisador, que infestaban la primera, publicada en 1905 – hace veintitrés años –, coincidiendo, por acaso, no de propósito, con la celebración del tercer centenario de la primera publicación del Quijote, ya que no me propuse hacer obra de centenario. Al corregir ahora aquí, en el destierro fronterizo, las pruebas de esta nueva edición, he sentido más de una vez tentaciones de añadir algo a su texto o modificarlo, más me he abstenido pensando que cualquier añadido o modificación hallará mejor lugar en otra obra. Añadidos y modificaciones que me inspira mi experiencia quijotesca de cuatro años de expatriación de mi pobre España esclavizada. Al repasar, sobre todo, mi comentario a la aventura de la liberación de los galeotes pensé añadir unos párrafos explicando cómo los galeotes apedrearon a Don Quijote porque lo que querían no era que les quitase sus cadenas, sino que les echase otras haciéndoles cuadrilleros de la Santa Hermandad, lo que me enseñaron en el Ateneo de Madrid ciertos mocitos que se dicen intelectuales de minoría selecta.
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ALLA TERZA EDIZIONE Questa edizione – la terza – della mia Vita di Don Chisciotte e Sancio, che costituisce un volume delle mie Opere Complete, non differisce in nulla dalla seconda nella quale furono corretti non soltanto i numerosi errori di stampa, ma anche le sviste dell’originale, figlie della mia precipitazione d’improvvisatore, che infestavano la prima, pubblicata nel 1905 – ventitré anni orsono –, in coincidenza casuale e non voluta con la celebrazione del terzo centenario della prima pubblicazione del Don Chisciotte, perché posso garantire che non mi ero proposto di scrivere un’opera per quel centenario. Nel correggere ora, qui, nel mio esilio sulla frontiera, le bozze di stampa di questa nuova edizione, ho provato più d’una volta la tentazione di aggiungere qualcosa al testo o di modificarlo, ma poi me ne sono astenuto, pensando che qualunque aggiunta o modifica troverà luogo più appropriato in un’altra opera. Si tratta di aggiunte e modifiche ispiratemi da un’esperienza chisciottesca di quattro anni di espatrio fuori della mia povera Spagna ridotta in schiavitù. Soprattutto nel rivedere il mio commento all’avventura della liberazione dei galeotti, pensai di aggiungere alcuni paragrafi per spiegare come mai i galeotti presero a sassate Don Chisciotte; e ciò avvenne perché quel che essi volevano non era che venissero tolte loro le catene, ma che il cavaliere errante gliene mettesse altre diverse, facendoli diventare membri della Santa Fratellanza. E questo me lo insegnarono all’Ateneo di Madrid certi sbarbatelli che si autodefiniscono intellettuali di una minoranza scelta.
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En este riempo se han publicado ya cuatro traducciones de esta mi obra: dos en italiano, una en alemán y otra en inglés. Y por cierto el autor de esta última y excelente traducción, el profesor Homer P. Earle, de la Universidad de California, tuvo la delicada atención de llamármela sobre que en cierto pasaje pongo en boca de Sancho palabras que en el texto cervantino figuran en la de Sansón Carrasco y de preguntarme si modificaba o suprimía el pasaje o le añadía alguna nota en defensa preventiva de reparos de la critica eruditesca. Pude haberle remitido a mi ensayo Sobre la lectura e interpretación del Quijote, publicado por primera vez en el número de abril de 1905 de la revista «La España Moderna», donde establecí bien claramente mi propósito y espíritu comentariales – los místicos han comentado en pareja forma las Sagradas Escrituras cristianas – y decirle que dejo a eruditos, criticos literaríos e investigadores históricos la meritoria y utilísima tarea de escudriñar lo que el Quijote pudo significar en su tiempo y en el ámbito en que se produjo y lo que Cervantes quiso en él expresar y expresó. Pero preferí darle otra explicación, y es esta: En el prólogo del Quijote – que, como casi todos los prólogos (incluso este) no son apenas sino mera literatura –, Cervantes nos revela que encontró el relato de la hazañosa vida del Caballero de la Triste Figura en unos papeles arábigos de un Cide Hamete Benengeli, profunda revelación con la que el bueno – ¡y tan bueno! – de Cervantes nos revela lo que podríamos llarnar la objetividad, la existencia – ex-istere quiere decir estar fuera – de Don Quijote y Sancho y su coro entero fuera de la ficción del novelista y sobre ella. Por mi parte, creo que
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In questo lasso di tempo sono già state pubblicate quattro traduzioni di questa mia opera: due in italiano, una in tedesco ed una in inglese. E invero l’autore di quest’ultima eccellente traduzione, il professor Homer P. Earle, dell’Università della California, ebbe la cortesia di richiamare la mia attenzione sul fatto che in un certo passo metto in bocca a Sancio parole che nel testo cervantino figurano sulla labbra di Sansone Carrasco, e di chiedermi se intendevo modificare o sopprimere il passo o addirittura aggiungervi una nota per difendermi preventivamente dai rilievi della critica erudita. Avrei potuto inviargli il mio saggio, Sulla lettura ed interpretazione del Chisciotte, pubblicato per la prima volta nel numero di aprile 1905 dalla rivista «La Spagna Moderna», nel quale definivo con chiarezza i miei intendimenti ed il mio spirito di commentatore – i mistici hanno commentato in maniera assai simile le Sacre Scritture cristiane – e dirgli che lascio agli eruditi, ai critici letterari ed ai ricercatori di cose storiche il meritorio ed utilissimo compito di indagare su quel che il Chisciotte poté significare ai suoi tempi e nell’ambito in cui fu scritto, ed anche quel che Cervantes volle in esse esprimere. Ma ho preferito, invece, offrigli un’altra spiegazione che è questa: Nella prefazione del Chisciotte – che, come quasi tutte le prefazioni (inclusa perciò anche questa), non è in fondo altro che mera letteratura – Cervantes ci rivela di aver trovato il racconto della vita avventurosa del Cavaliere dalla Triste Figura in certe carte arabe di un tale Cide Hamete Benengeli, profonda rivelazione con la quale il buon Cervantes – e potremmo dire «buonissimo»! – ci rivela ciò che potremmo chiamare l’oggettività, l’esistenza – existere significa star fuori – di Don Chisciotte e di Sancio e di tutto il coro dei personaggi minori al di fuori della finzione del romanziere e al di sopra di essa. Da parte mia, ritengo
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el tal Cide Hamete Benengeli no era árabe, sino judío y judío marroqui, y que tampoco fingió la historia. En todo caso, ese texto arábigo del Cide Hamete Benengeli le tengo yo y aúnque he olvidado todo el poquisimo árabe que me ensenó el señor Codera en la Universidad de Madrid – ¡y me dio el premio en la asignatura! –, lo leo de corrido y en él he visto que en el pasaje a que aludía el profesor Earle fue Cervantes el que leyó mal y que mi interpretación, y no la suya, es la fiel. Con lo cual me creo defendido de todo posible reparo de una critica profesional o profesoral. Ni creo deber alargarme más aquí, en este sencillo prólogo a exponer una doctrina, que tantas veces he expuesto respecto a la realidad histórica, tanto más que preparo una obra sobre el quijotismo, en que me esforzaré por esclarecer la diferencia entre estar, ser y existir. Y cómo Don Quijote y Sancho son – no es solo que lo fueron – tan independientes de la ficción poética de Cervantes como lo es de la mia aquel Augusto Pérez de mi novela Niebla, al que creí haber dado vida para darle después muerte, contra lo que él, y con razón, protestaba. Y ahora, atento lector, hasta que volvamos a encontrarnos. Miguel de Unamuno En el destierro de Hendaya, en mi nativo país vasco y en la frontera misma de mi España, mayo de 1928
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che il famoso Cide Hamete Benengeli non fosse arabo, ma ebreo ed ebreo marocchino per giunta, e che neanche lui si sia inventato la storia. In ogni caso, questo testo arabo di Cide Hamete Benengeli io lo posseggo e, sebbene mi sia ormai dimenticato tutto il pochissimo arabo che mi insegnò il professor Codera all’Università di Madrid – e mi diede perfino la lode all’esame! – tuttavia lo leggo correttamente e proprio in quel testo ho visto che, nel passo al quale alludeva il professor Earle, fu proprio Cervantes a leggere male, di modo che è fedele la mia interpretazione e non la sua. E con ciò ritengo d’essermi definitivamente messo al riparo da ogni possibile osservazione della critica professionale o professorale. E non ritengo di dover indugiare di più su questo punto, in una semplice prefazione, ad esporre una dottrina che già tante volte ho avuto occasione di esporre intorno alla realtà storica, anche perché sto preparando un’opera sul chisciottismo, dove farò il possibile per chiarire la differenza che intercorre fra stare, essere ed esistere. E infatti Don Chisciotte e Sancio sono – e non soltanto furono – così assolutamente indipendenti dalla finzione poetica di Cervantes, quanto lo è dalla mia quel tale Augusto Pérez del mio romanzo, Nebbia, al quale credevo d’aver dato la vita per potergli poi dare la morte, contro la qual cosa egli, e giustamente, in fondo, protestava. Ed ora, mio gentile lettore, arrivederci al prossimo incontro. Miguel de Unamuno Nell’esilio di Hendaya, nella mia nativa regione basca e alla frontiera spagnola, nel maggio del 1928
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EL SEPULCRO DE DON QUIJOTE
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IL SEPOLCRO DI DON CHISCIOTTE
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Me preguntas, mi buen amigo, si sé la manera de desencadenar un delirio, un vértigo, una locura cualquiera sobre estás pobres muchedumbres ordenadas y tranquilas que nacen, comen, duermen, se reproducen y mueren. ¿No habrá un medio, me dices, de reproducir la epidemia de los flagelantes o la de los convulsionarios? Y me hablas del milenario. Como tú siento yo con frecuencia la nostalgia de la Edad Medía; como tu quisiera vivir entre los espasmos del milenario. Si consiguiéramos hacer creer que en un día dado, sea el 2 de mayo de 1908, el centenario del grito de la independencia, se acababa para siempre España; que en ese día nos repartían como a borregos, creo que el día 3 de mayo de 1908 seria el más grande de nuestra historia, el amanecer de una nueva vida. Esto es una miseria, una completa miseria. A nadie le importa nada de nada. Y cuando alguno trata de agitar aisladamente este o aquel problema, una u otra cuestión, se lo atribuyen o a negocio o a afán de notoriedad y ansia de singularizarse. No se comprende aquí ya ni la locura. Hasta el loco creen y dicen que lo será por tenerle su cuenta y razón. Lo de la razón de la sinrazón es ya un hecho para todos estos miserables. Si nuestro señor Don Quijote resucitara y volviese a esta su España andarían buscándole una segunda intención a sus nobles desvaríos. Si uno denuncia un abuso, persigue la injusticia, fustiga la ramplonería, se preguntan los esclavos: ¿qué irá buscando en eso? ¿A qué aspira? Unas veces creen y dicen que lo hace
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Mi domandi, mio buon amico, se conosco il modo di scatenare un delirio, una vertigine, una qualsiasi follia su queste povere folle ordinarie e tranquille che nascono, mangiano, dormono, si riproducono e muoiono. «Non ci sarà un mezzo», mi dici, «di riprodurre l’epidemia dei flagellanti o quella dei convulsionari?». E mi parli poi del millennio. Anch’io, come te, provo spesso la nostalgia del Medio Evo; come te, anch’io vorrei vivere tra gli spasimi dell’anno Mille. Se riuscissimo a far credere che in un determinato giorno, ad esempio il 2 maggio 1908, nel centenario del grido dell’indipendenza, la Spagna deve finire per sempre, che in quel giorno saremo scomparsi come agnelli, penso che il 3 maggio 1908 sarebbe il più grande di tutta la nostra storia, l’alba di una nuova vita. Quella che adesso viviamo è una miseria, una completa miseria. A nessuno importa più niente di niente. E quando qualcuno cerca di dibattere isolatamente questo o quel problema, questa o quella questione, subito si pensa che ci sia sotto un qualche affare di denaro, o una smania di mettersi in mostra e un desiderio di distinguersi dagli altri. Qui da noi non si capisce nemmeno più la follia. Persino del pazzo dicono che, se lo fa, deve pur esserci un motivo e un tornaconto. Il motivo occulto della pazzia è ormai un fatto assodato, per tutti questi miserabili. Se nostro signor Don Chisciotte risuscitasse e ritornasse in questa sua Spagna, certamente si affannerebbero a cercare una riposta intenzione ai suoi nobili vaneggiamenti. Se uno denuncia un abuso, se combatte l’ingiustizia, se sferza la villania, gli schiavi si chiedono: «Che cosa mai andrà cercando costui? A che cosa aspira?» Talvolta credono e
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para que le tapen la boca con oro; otras que es por ruines sentimientos y bajas pasiones de vengativo o envidioso; otras que lo hace no más sino por meter ruido y que de él se hable, por vanagloria; otras que lo hace por divertirse y pasar el tiempo, por deporte. ¡Lástima grande que a tan pocos les dé por deportes semejantes! Fíjate y observa. Ante un acto cualquiera de generosidad, de heroismo, de locura, a todos esos estupidos bachilleres, curas y barberos de hoy no se les ocurre sino preguntarse: ¿por qué lo hará? Y en cuanto creen haber descubierto la razón del acto – sea o no la que ellos suponen – se dicen: ¡bah!, lo ha hecho por esto o por lo otro. En cuanto una cosa tiene razón de ser y ellos la conocen perdió todo su valor la cosa. Para eso les sirve la lógica, la cochina lógica. Comprender es perdonar, se ha dicho. Y esos miserables necesitan comprender para perdonar el que se les humille, el que con hechos o palabras se les eche en cara su miseria, sin hablarles de ella. Han llegado a preguntarse estupidamente para qué hizo Dios el mundo, y se han contestado a si mismos: ¡para su gloria!, y se han quedado tan orondos y satisfechos, como si los muy majaderos supieran qué es eso de la gloria de Dios. Las cosas se hicieron primero, su para qué después. Que me den una idea nueva, cualquiera, sobre cualquier cosa, y ella me dirá después para qué sirve. Alguna vez, cuando expongo algún proyecto, algo que me parece debia hacerse, no falta quien me pregunte: ¿y después? A estás preguntas no cabe otra respuesta que una pregunta. Y al «¿después?» no hay sino dar de rebote un «¿y antes?». No hay porvenir; nunca hay porvenir. Eso que llaman el porvenir es una de las más grandes mentiras. El verdadero porvenir es hoy. ¿Qué será de nosotros mañana? ¡No hay mañana! ¿Qué es de nosotros hoy, ahora? Esta es la única cuestión.
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dicono che lo fa perché gli tappano la bocca riempendogliela d’oro; altre volte che è per i vili sentimenti e le basse passioni di un invidioso vendicativo; altre ancora che lo fa unicamente per far parlare la gente e andare sulla bocca di tutti, soddisfacendo la propria vanagloria; altre ancora che lo fa per divertirsi o per passare il tempo, per sport. Peccato però che siano così pochi quelli che si dilettano di simili sport! Guarda e osserva. Di fronte ad un atto qualsiasi di generosità, d’eroismo, di follia, a tutti questi sciocchi baccellieri , parroci e barbieri dei nostri giorni non viene in mente altro che una domanda: «Perché mai lo farà?». E non appena ritengono di aver scoperto il motivo di quell’atto – sia o no il motivo che essi suppongono –, si dicono: «Be’! L’ha fatto per questo o per quest’altra ragione». Per il fatto stesso che un’azione ha una ragione d’essere ed essi la conoscono, la cosa ha perduto ogni valore. A questo scopo serve loro la logica, la sporca logica! Comprendere è perdonare, è stato detto. E questi miserabili hanno bisogno di comprendere per perdonare il fatto che li abbiamo umiliati , che con fatti e con parole si sia rinfacciato loro la miseria di cui vivono, anche senza nominarla. Sono giunti a chiedersi stupidamente perché Dio abbia creato il mondo, e si sono risposti da soli: «Per la sua gloria!», e di ciò sono rimasti così contenti e soddisfatti , come se i grandissimi sciocchi sapessero che cos’è la gloria di Dio. Prima furono fatte le cose, e solo dopo se n’è individuato lo scopo. Mi si dia un’idea nuova, qualunque essa sia, intorno a qualunque cosa, ed essa stessa mi dirà a che serve. Qualche volta, quando espongo un progetto, quando parlo di una cosa che ritengo si dovrebbe fare, c’è sempre qualcuno che mi chiede: «E poi?». A simili domande non si può rispondere che con un’ulteriore domanda: al «E poi?», non si può far altro che rispondere di colpo con un: «E prima?». Non esiste futuro; non c’è mai un avvenire. Ciò che si vuol chiamare futuro è una delle grosse menzogne che siano state dette. Il vero futuro è oggi. Che sarà di noi, domani? Non esiste un domani! Che è di noi oggi, adesso? Questa è l’unica domanda possibile.
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Y en cuanto a hoy, todos esos miserables están muy satisfechos porque hoy existen, y con existir les basta. La existencia, la pura y nuda existencia, llena su alma toda. No sienten que haya más que existir. ¿Pero existen? ¿Existen en verdad? Yo creo que no; pues si existieran, si existieran de verdad, sufrirían de existir y no se contentarian con ello. Si real y verdaderamente existieran en el tiempo y el espacio sufrirían de no ser en lo eterno y lo infinito. Y este sufrimiento, esta pasión, que no es sino la pasión de Dios en nosotros, Dios que en nosotros sufre por sentirse preso en nuestra finitud y nuestra temporalidad, este divino sufrimiento les harfa romper todos esos menguados eslabones lógicos con que tratan de atar sus menguados recuerdos a sus menguadas esperanzas, la ilusión de su pasado a la ilusión de su porvenir. ¿Por qué hace eso? ¿Preguntó acaso nunca Sancho por qué hacía Don Quijote las cosas que hacía? Y vuelta a lo mismo, a tu pregunta, a tu preocupación: que locura colectiva podríamos imbuir en estas pobres muchedumbres? ¿Qué delirio? Tú mismo te has acercado a la solución en una de esas cartas con que me asaltas a preguntas. En ella me decías: ¿no crees que se podría intentar alguna nueva cruzada? Pues bien, sí; creo que se puede intentar la santa cruzada de ir a rescatar el sepulcro de Don Quijote del poder de los bachilleres, curas, barberos, duques y canónigos que lo tienen ocupado. Creo que se puede intentar la santa cruzada de ir a rescatar el sepulcro del Caballero de la Locura del poder de los hidalgos de la Razón. Defenderán, es natural, su usurpación y tratarán de probar con muchas y muy estudíadas razones que la guardía y custodía del sepulcro les corresponde. Lo guardan para que el Caballero no resucite.
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Ma, quanto all’oggi, tutti questi miserabili sono più che soddisfatti per il fatto stesso di esistere oggi, e si accontentano di esistere. L’esistenza, la pura e semplice esistenza, riempie tutta la loro anima. Non s’accorgono neppure che c’è qualcosa di più del semplice esistere. Ma esistono, poi? Esistono davvero? Credo di no, perché se esistessero, se esistessero davvero, soffrirebbero di esistere, e non se ne accontenterebbero. Se esistessero realmente e veramente nel tempo e nello spazio, soffrirebbero di non essere nell’eternità e nell’infinito. E questa sofferenza, questa passione che non è in fondo se non la passione di Dio in noi, Dio stesso che in noi soffre perché si sente imprigionato nello nostra finitezza e nella nostra temporalità, questa divina sofferenza li costringerebbe a spezzare tutti i fragili anelli della logica con cui tentano di collegare i loro deboli ricordi alle loro altrettante deboli speranze, l’illusione del passato all’illusione del futuro. «Perché lo fa?». Forse che Sancio chiese mai perché Don Chisciotte faceva le cose che faceva? Ma torniamo al dunque, alla tua domanda, alla tua preoccupazione: che sorta di follia collettiva potremmo inculcare in queste povere moltitudini? Che sorta di delirio?. Ti sei avvicinato tu stesso alla soluzione, in una delle lettere in cui mi assali con le domande. Mi scrivevi: «Non credi che si potrebbe tentare una nuova crociata?». Ebbene, sì. Credo che si possa tentare la santa crociata di andare a riscattare il sepolcro di Don Chisciotte dalle mani dei baccellieri, dei preti e dei barbieri, dei duchi e dei canonici che se ne sono impossessati. Credo che si possa tentare la santa crociata di andare a riscattare il sepolcro del Cavaliere della Follia dal potere dei gentiluomini della Ragione. Difenderanno, ovviamente, quel che hanno usurpato, e cercheranno di provare con molte e argomentate ragioni che proprio ad essi spettano la custodia e la difesa di quel sepolcro. E lo custodiscono, infatti, ma soltanto perché il Cavaliere non resusciti.
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A estas razones hay que contestar con insultos, con pedradas, con gritos de pasión, con botes de lanza. No hay que razonar con ellos. Si tratas de razonar frente a sus razones estás perdido. Si te preguntan, como acostumbran, ¿con qué derecho reclamas el sepulcro?, no les contestes nada, que ya lo verán luego. Luego… tal vez cuando ni tu ni ellos existáis ya, por lo menos en este mundo de las apariencias. Y allí donde está el sepulcro, allí está la cuna, allí está el nido. Y de allí volverá a surgir la estrella refulgente y sonora, camino del cielo. Y no me preguntes más, querido amigo. Cuando me haces hablar de estás cosas me haces que saque del fondo de mi alma, dolorida por la ramploneria ambiente que por todas partes me acosa y aprieta, dolorida por las salpicaduras del fango de mentira en que chapoteamos, dolorida por los aranazos de la cobardía que nos envuelve, me haces que saque del fondo de mi alma dolorida las visiones sin razón, los conceptos sin lógica, las cosas que ni yo sé lo que quieren decir, ni menos quiero ponerme a averiguarlo. ¿Qué quieres decir con esto? – me preguntas más de una vez –. Y yo te respondo: ¿lo sé yo acaso? ¡No, mi buen amigo, no! Muchas de estas ocurrencias de mi espíritu que te confio ni yo sé lo que quieren decir, o, por lo menos, soy yo quien no lo sé. Hay alguien dentro de mi que me las dieta, que me las dice. Le obedezeo y no me adentro a verle la cara ni a preguntarle por su nombre. Solo sé que si le viese la cara y si me dijese su nombre me moriría yo para que viviese él. Estoy avergonzado de haber alguna vez fingido entes de ficción, personajes novelescos, para poner en sus labios lo que no me atrevla a poner en los míos y hacerles decir como en broma lo que yo siento muy en serio.
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A queste ragioni bisogna rispondere con insulti, sassate, grida di passione, colpi di lancia. Non bisogna mettersi a discutere con loro. Se tenti di ragionare contrapponendoti ai loro ragionamenti sei perduto. Se, come fanno di solito, ti chiedono con che diritto reclami il sepolcro, non rispondere nulla; lo vedranno poi da soli. Poi… forse quando né tu né loro esisterete più, per lo meno in questo mondo di apparenze. E là dov’è il sepolcro, là è la culla, là è il nido. E di là tornerà a spuntare la stella fulgente e sonora, sulla via del cielo. Non chiedermi altro, mio caro amico. Quando mi costringi a parlare di queste cose, fa che tragga dalla mia anima, addolorata dalle meschinità dell’ambiente che da ogni parte mi incalza e mi circonda, addolorata per gli spruzzi del fango di menzogna in cui si invischiamo, addolorata dalle unghie della viltà che ci avvolge; fa che tragga dal fondo della mia anima addolorata le visioni prive di ragione, i concetti privi di logica, le cose di cui io stesso ignoro il senso, e che non intendo neppure indagare. «Che intendi dire con questo?», mi chiedi più d’una volta. Ed io ti rispondo: «Forse che lo so io stesso?». No, mio buon amico, no! Molte di queste creature del mio spirito che ti confido, non so nemmeno io che cosa vogliono dire o, per lo meno, sono io che non lo so. C’è qualcuno dentro di me che me le detta, che me le dice. Gli obbedisco e non cerco nemmeno di vederlo in faccia, né di chiedergli il nome. So soltanto che, se lo vedessi in faccia e mi dicesse il nome, morirei affinché egli vivesse. Mi vergogno di aver immaginato qualche volta esseri fittizi, personaggi di romanzo, per mettere sulle loro labbra quel che non osavo mettere sulle mie, per far dire loro come per scherzo quello che sento profondamente e seriamente.
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Tú me conoces, tú, y sabes bien cuán lejos estoy de rebuscar adrede paradojas, extravagancias y singularidades, piensen lo que pensaren algunos majaderos. tu y yo, mi buen amigo, mi unico amigo absoluto, hemos hablado muchas veces, a solas, de lo que sea la locura, y hemos comentado aquello del Brand ibseniano, hijo de Kierkegaard, de que está loco el que está solo. Y hemos concordado en que una locura cualquiera deja de serlo en cuanto se hace colectiva, en cuanto es locura de todo un pueblo, de todo el género humano acaso. En cuanto una alucinación se hace colectiva, se hace popular, se hace social, deja de ser alucinación para convertírse en una realidad, en algo que está fuera de cada uno de los que la comparten. Y tu y yo estamos de acuerdo en que hace falta llevar a las muchedumbres, llevar al pueblo, llevar a nuestro pueblo español una locura cualquiera, la locura de uno cualquiera de sus miembros que esté loco, pero loco de verdad y no de mentirijillas. Loco, y no tonto. Tú y yo, mi buen amigo, nos hemos escandalizado ante eso que llaman aquí fanatismo, y que, por nuestra desgracia, no lo es. No; no es fanatismo nada que esté reglamentado y contenido y encauzado y dirigido por bachilleres, curas, barberos, canónigos y duques; no es fanatismo nada que lleve un pendón con fórmulas lógicas, nada que tenga programa, nada que se proponga para mañana un propósito que puede un orador desarrollar en un metódico discurso. Una vez, ¿te acuerdas?, vimos a ocho o diez mozos reunirse y seguir a uno que les decía: ¡Vamos a hacer una barbaridad! Y eso es lo que tu y yo anhelamos: que el pueblo se apiñe y gritando ivamos a hacer una barbaridad! se ponga en marcha. Y si algún bachiller, algún barbero, algún cura, algún canónigo o algún duque les detuviese para decirles: «¡Hijos míos!, está bien, os veo henchidos de heroísmo, llenos de santa indignación; también yo voy con vosotros; pero antes de ir todos, y yo con vosotros, a hacer esa barbaridad, ¿no os parece que debíamos ponernos de acuerdo respecto a la barbaridad, que vamos a hacer?
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Tu mi conosci, tu, e sai bene quanto mi ripugni indugiare nella ricerca di paradossi, di stravaganze e di eccentricità, malgrado quello che ne possono pensare certi sciocchi. Tu ed io, mio buon amico, mio unico amico assoluto, abbiamo parlato spesso, tra noi, dell’essenza stessa della follia, ed abbiamo commentato quella frase del Brand ibseniano, figlio di Kierkegaard, il quale dice che è folle chi è solo. Ed abbiamo concordato nel concludere che qualsiasi follia cessa di essere tale non appena diventa collettiva, non appena diviene follia di un popolo intero, forse addirittura di tutto il genere umano. Non appena un’allucinazione diventa collettiva, diviene popolare, sociale, cessa di essere allucinazione per convertirsi in realtà, in qualcosa che esiste, al di fuori di ognuno di coloro che vi partecipano. E tu ed io siamo d’accordo che bisogna dare alle folle, al popolo, al nostro popolo spagnolo, una follia qualunque, la follia di uno qualunque dei suoi membri che sia veramente folle, ma folle realmente e non folle per un giochetto di piccole menzogne. Folle, ma non sciocco. Tu ed io, mio buon amico, ci siamo scandalizzati dinanzi a ciò che qui la gente chiama fanatismo, ma che, per nostra disgrazia, non lo è. No; non è fanatismo niente di ciò che è regolamentato, contenuto, indirizzato e governato da baccellieri, preti e barbieri, canonici e duchi; non è fanatismo nessuna cosa che inalberi uno stendardo di formule logiche, nessuna cosa che abbia un programma, nessuna cosa che si proponga per domani uno scopo che un oratore possa sviluppare in un metodico discorso. Una volta – ricordi? – ci capitò di vedere otto o dieci giovani riunirsi e seguire un altro che diceva loro: «Andiamo a fare una bestialità!». Ed è proprio questo che tu ed io desideriamo: che il popolo si raduni e si accalchi e gridando: «Andiamo a fare una bestialità!», si metta in marcia. E se un baccelliere, un prete, un barbiere, un canonico o un duca volesse arrestarlo per dire: «Figlioli miei, d’accordo, vi vedo gonfi di eroismo, pieni di santa indignazione; anch’io sto con voi; ma prima di andare tutti, ed io con voi, a fare questa bestialità, non vi pare che ci si dovrebbe mettere d’accordo prima sulla bestialità che vogliamo fare?
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¿Qué barbaridad va a ser esa?»; si alguno de esos malandrines que he dicho les detuviese para decirles tal cosa, deberían derribarle al punto y pasar todos sobre él, pisoteándole, y ya empezaba la heroica barbaridad. ¿No crees, mi amigo, que hay por ahí muchas almas solitarias a las que el corazón les pide alguna barbaridad, algo de que revienten? Ve, pues, a ver si logras juntarlas y formar escuadrón con ellas y ponernos todos en marcha – porque yo iré con ellos y tras de ti – a rescatar el sepulcro de Don Quijote, que, gracias a Dios, no sabemos dónde está. Ya nos lo dirá la estrella refulgente y sonora. Y ¿no será – me dices en tus horas de desaliento, cuando te vas de ti mismo –, no será que creyendo al ponernos en marcha caminar por campos y tierras, estemos dando vueltas en torno al mismo sitio? Entonces la estrella estará fija, quieta sobre nuestras cabezas y el sepulcro en nosotros. Y entonces la estrella caerá, pero caerá para venir a enterrarse en nuestras almas. Y nuestras almas se convertirán en luz, y fundidas todas en la estrella refulgente y sonora subirá esta, más refulgente aún, convertida en un sol, en un sol de eterna melodía, a alumbrar el cielo de la patria redimida. En marcha, pues. Y ten cuenta no se te metan en el sagrado escuadrón de los cruzados bachilleres, barberos, curas, canónigos o duques disfrazados de Sanchos. No importa que te pidan ínsulas; lo que debes hacer es expulsarlos en cuanto te pidan el itinerario de la marcha, en cuanto te hablen del programa, en cuanto te pregunten al oido, maliciosamente, que les digas hacia dónde cae el sepulcro. Sigue a la estrella. Y haz como el Caballero: endereza el entuerto que se te ponga delante. Ahora lo de ahora y aquí lo de aquí. ¡Poneos en marcha! ¿Que adónde vais? La estrella os lo dirá: al sepulcro! ¿Qué vamos a hacer en el camino, mientras marchamos? ¿Qué? ¡Luchar! Luchar, y ¿cómo?
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Che bestialità faremo dunque?»; se uno di quei malandrini che ho nominato volesse arrestarli per fare loro un simile discorso, dovrebbero atterrarlo subito e passargli tutti sul corpo, calpestandolo; e l’eroica bestialità sarebbe già cominciata. Non credi, amico mio, che vi siano qua intorno molto anime solitarie alle quali il cuore chiede che facciano qualche bestialità, qualcosa che le faccia scoppiare? Va’ dunque a vedere se riesci a metterle assieme, a formarne uno squadrone e a metterci in marcia tutti quanti – perché anch’io andrò con loro seguendoti – per riscattare il sepolcro di Don Chisciotte che, grazie a Dio, non sappiamo dove si trovi. Ma ce lo dirà la stella fulgente e sonora. «Ma non avverrà», mi dici nei tuoi momenti di sconforto, quando ti allontani dal tuo vero essere, «non avverrà che, mentre crediamo, avviandoci, di andare attraverso terre e campagne, ci limitiamo invece a girare sempre intorno al medesimo punto?». Allora la stella rimarrà ferma, immobile sulle nostre teste, e il sepolcro sarà dentro di noi. E allora la stella cadrà, ma cadrà soltanto per venirsi a seppellire in fondo alle nostre anime. E le nostre anime si muteranno in luce e, fuse tutte insieme nella stella fulgente e sonora, essa salirà, ancora più fulgida, trasformata in un sole, in un sole di melodia eterna, a illuminare il cielo della patria redenta. In cammino, dunque. E bada bene che non ti entrino nello squadrone sacro dei crociati, né baccellieri, né barbieri, né preti, né canonici, né duchi travestiti come tanti Sanci. Non importa se ti chiedano o no isole; è tuo dovere cacciarli via quando ti verranno a chiedere qual è l’itinerario della marcia, quando ti parleranno del programma, quando ti mormoreranno all’orecchio, maliziosamente, pregandoti di dire loro da che parte rimane il sepolcro. Segui la stella. E fa come il Cavaliere; raddrizza il torto che trovi sulla tua strada. Adesso, quello che incontri adesso; qui, quel che si trova qui. Mettetevi in cammino. Mi chiedi dove andate? Ve lo dirà la stella: «Al sepolcro!». «Che cosa faremo lungo la via mentre marciamo?». Che cosa? Lottare! Lottare, e come?
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¿Cómo? ¿Tropezáis con uno que miente?, gritarle a la cara: ¿Mentira!, y ¡adelante! ¿Tropezáis con uno que roba?, gritarle: ladrón!, y ¡adelante! ¿Tropezáis con uno que dice tonterías, a quien oye toda una muchedumbre con la boca abierta?, gritarles: estupidos!, y ¡adelante! ¡Adelante siempre! ¿Es que con eso – me dice uno a quien tu conoces y que ansía ser cruzado –, es que con eso se borra la mentira, ni el ladronicio, ni la tontería del mundo? ¿Quién ha dicho que no? La más miserable de todas las miserias, la más repugnante y apestosa argucia de la cobardía es esa de decir que nada se adelanta con denunciar a un ladrón porque otros seguirán robando, que nada se adelanta con decirle en su cara majadero al majadero, porque no por eso la majaderia disminuirá en el mundo. Sí, hay que repetirlo una y mil veces: con que una vez, una sola vez, acabases del todo y para siempre con un solo embustero, habríase acabado el embuste de una vez para siempre. ¡En marcha, pues! Y echa del sagrado escuadrón a todos los que empiecen a estudiar el paso que habrá de llevarse en la marcha y su compás y su ritmo. Sobre todo, ¡fuera con los que a todas horas andan con eso del ritmo! Te convertirian el escuadrón en una cuadrilla de baile, y la marcha en danza. ¡Fuera con ellos! Que se vayan a otra parte a cantar a la carne. Esos que tratarían de convertirte el escuadrón de marcha en cuadrilla de baile se llaman a si mismos, y los unos a los otros entre si, poetas. No lo son. Son cualquier otra cosa. Esos no van al sepulcro sino por curíosidad, por ver cómo sea, en busca acaso de una sensación nueva, y por divertirse en el camino. ¡Fuera con ellos! Esos son los que con su indulgencia de bohemios contribuyen a mantener la cobardía y la mentira y las miserias todas que nos anonadan. Cuando predican libertad no piensan más que en una: en la de disponer de la mujer del prójimo. Todo es en ellos sensualidad, y hasta de las ideas, de las grandes ideas, se enamoran sensualmente. Son incapaces de casarse con una
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Come? Vi imbattete in uno che mente?, gridagli in faccia: menzogna, e avanti! Vi imbattete in uno che ruba?, gridagli: ladro, e avanti! Vi imbattete in uno che dice sciocchezze, ma che un’immensa folla ascolta a bocca aperta? Gridate alle folla: Stupidi!, e avanti! Avanti, avanti sempre! «Forse che con questo», mi dice uno che conosci anche tu e anela a diventare crociato, «forse che con questo si riesce a cancellare la menzogna, il ladrocinio, la stupidaggine del mondo?». E chi dice di no! La più miserabile tra tutte le miserie, la più ripugnante e contagiosa arguzia della vigliaccheria è questa, di dire che non si guadagna nulla denunciando un ladro, perché tanti altri seguiteranno a rubare, che non si guadagna nulla dicendo idiota in faccia all’idiota, perché non per questo l’idiozia diminuirà nel mondo. Sì, non mi stancherò di ripeterlo una e mille volte: basterebbe che una volta, una sola volta, tu riuscissi a distruggere completamente e per sempre un solo bugiardo, e la bugia stessa sarebbe finita una volta per sempre. In cammino, dunque! E caccia dallo squadrone sacro tutti coloro che si metteranno a studiare e a discutere del passo che si dovrà tenere durante la marcia, della cadenza e del ritmo. Soprattutto, via quelli che non pensano ad altro che al ritmo! Ti trasformeranno lo squadrone in un corpo di ballo e la marcia in danza. Buttali fuori! Vadano altrove ad inneggiare alla carne. Quelli che cercherebbero di trasformarti lo squadrone in marcia in un corpo di ballo, si compiacciono di chiamarsi da sé, ed anche gli uni con gli altri, poeti. Ma non lo sono. Sono una cosa ben diversa. Questi vanno al sepolcro solo per curiosità, per vedere come è fatto, alla ricerca forse di una sensazione nuova, e per divertirsi lungo la strada. Buttali fuori! Sono questi che con la loro indulgenza da bohémiens contribuiscono a tener viva la vigliaccheria e la menzogna e tutte le miserie che ci avviliscono. Quando vanno predicando libertà, non pensano che ad una: quella di disporre della moglie del prossimo. In loro tutto è sensualità e persino delle idee, delle grandi idee, si innamorano sensualmente. Sono incapaci di sposare una
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grande y pura idea y criar familia de ella; no hacen sino amontonarse con las ideas. Las toman de queridas, menos aún, tal vez de compañeras de una noche. ¡Fuera con ellos! Si alguien quiere cojer en el camino tal o cual florecilla que a su vera sonríe, cójala, pero de paso, sin detenerse, y siga al escuadrón, cuyo alférez no habrá de quitar ojo de la estrella refulgente y sonora. Y si se pone la florecilla en el peto sobre la coraza no para verla él, sino para que se la vean, ¡fuera con él! Que se vaya, con su fior en el ojal, a badar a otra parte. Mira, amigo, si quieres cumplir tu misión y servir a tu patria, es preciso que te hagas odioso a los muchachos sensibles que no ven el universo sino a través de los ojos de su novia. O algo peor aún. Que tus palabras sean estridentes y agrias a sus oídos. El escuadrón no ha de detenerse sino de noche, junto al bosque o al abrigo de la montaña. Levantará allí sus tiendas, se lavarán los cruzados sus pies, cenarán lo que sus mujeres les hayan preparado, engendrarán luego un hijo en ellas, les darán un beso y se dormirán para recomenzar la marcha al siguiente día. Y cuando alguno se muera le dejarán a la vera del camino, amortajado en su armadura, a merced de los cuervos. Quede para los muertos el cuidado de enterrar a sus muertos. Si alguno intenta durante la marcha tocar pífano o dulzaina o caramillo o vihuela o lo que fuere, rómpele el instrumento y échale de filas, porque estorba a los demás oír el canto de la estrella. Y es, además, que él no la oye. Y quien no oiga el canto del cielo no debe ir en busca del sepulcro del Caballero.
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grande e pura idea e di formare con essa una famiglia; non sanno far altro che mescolarsi carnalmente con le idee. Se le prendono come amanti; meno ancora: forse soltanto come compagne di una sola notte. Buttali fuori! Se qualcuno vuol cogliere lungo la via un fiorellino che sorride sul ciglio della strada, lo colga pure, ma mentre passa, senza fermarsi, e continui a marciare con lo squadrone, il cui alfiere non dovrà mai staccare lo sguardo dalla stella fulgente e sonora. E se si mette il fiorellino sul piastrone della corazza, non per guardarlo, ma perché gli altri glielo possano vedere, butta fuori anche lui! Se ne vada pure, col suo fiorellino all’occhiello a ballare da un’altra parte. Stai ben attento, amico mio: se vuoi portare a termine la tua missione e servire la patria, devi renderti odioso ai giovani sensibili che non vedono l’universo che attraverso gli occhi della loro innamorata. O magari peggio! Bisogna che le tue parole suonino stridenti ed aspre alle loro orecchie. Lo squadrone non dovrà arrestarsi che di notte, al limitare del bosco o al riparo della montagna. Lì alzerà le sue tende , lì i crociati si laveranno i piedi stanchi, mangeranno per cena quel che le loro mogli avranno preparato, e poi genereranno con esse un figlio, le baceranno e chiuderanno gli occhi per dormire e riprendere la marcia il giorno successivo. E quando uno di loro morrà, lo lasceranno sul ciglio della strada, avvolto nell’armatura come in un sudario, alla mercé dei corvi. Rimanga ai morti il compito di seppellire i loro morti. Se qualcuno durante la marcia tenterà di suonare un piffero o una zampogna o uno zufolo o una viola o un qualsiasi altro strumento, rompiglielo e scaccialo dalle tue file, perché impedirebbe agli altri di ascoltare il canto della stella. Si vede, del resto, che egli non lo ode. E chi non ode il canto del cielo, non ha il diritto di andare in cerca del sepolcro del Cavaliere.
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Te hablarán esos danzantes de poesía. No les hagas caso. El que se pone a tocar su jeringa – que no es otra cosa la «syringa» – debajo del cielo, sin oír la música de las esferas, no merece que se le oiga. No conoce la abismática poesía del fanatismo, no conoce la inmensa poesía de los templos vacíos, sin luces, sin dorados, sin imágenes, sin pompas, sin armas, sin nada de eso que llaman arte. Cuatro paredes lisas y un techo de tablas: un corralón cualquiera. Echa del escuadrón a todos los danzantes de la jeringa. Échalos antes de que se te vayan por un plato de alubias. Son filósofos cínicos, indulgentes buenos muchachos, de los que todo lo comprenden y todo lo perdonan. Y el que todo lo comprende no comprende nada, y el que todo lo perdona nada perdona. No tienen escrupulo en venderse. Como viven en dos mundos pueden guardar su libertad en el otro y esclavizarse en este. Son a la vez estetas y perezistas o lopezistas o rodriguezistas. Hace tiempo que se dijo que el hambre y el amor son los dos resortes de la vida humana. De la baja vida humana, de la vida de tierra. Los danzantes no bailan sino por hambre o por amor; hambre de carne, amor de carne también. Échalos de tu escuadrón, y que allí, en un prado, se harten de bailar mientras uno toca la jeringa, otro da palmaditas y otro canta a un plato de alubias o a los muslos de su querida de temporada. Y que allí inventen nuevas piruetas, nuevos trenzados de pies, nuevas figuras de rigodón. Y si alguno te viniera diciendo que él sabe tender puentes y que acaso llegue ocasión en que se deba aprovechar sus conocimientos para pasar un río, ¡fuera con él! ¡Fuera el ingeniero! Los ríos se pasarán vadeándolos, o a nado, aunque se ahogue la mitad de los cruzados. Que se vaya el ingeniero a hacer puentes a otra parte, donde hacen mucha falta. Para ir en busca del sepulcro basta la fe como puente. ***
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Questi saltimbanchi ti parleranno di poesia. Non badare loro! Chi si mette a suonare il suo flauto – che altro non è se non la «siringa» – sotto il cielo, senza udire la musica delle sfere celesti, non merita che gli altri lo ascoltino. Non conosce l’abissale poesia del fanatismo, non conosce l’immensa poesia dei templi vuoti, senza lumi, senza dorature, senza immagini, senza pompe, senza armi, senza nulla di ciò che essi chiamano arte. Quattro nude pareti ed un tetto di tavole: una capanna qualunque. Scaccia dal tuo squadrone tutti i saltimbanchi del flauto. Scacciali prima che ti abbandonino per un piatto di fagioli. Sono filosofi cinici, bonaccioni e indulgenti, di quelli che tutto sanno comprendere e tutto sanno perdonare. Ma chi comprende tutto, non comprende nulla; e chi perdona tutto, non perdona nulla. Non hanno nessuno scrupolo di vendersi. Siccome vivono in due mondi, possono conservare la loro libertà in uno e farsi schiavi nell’altro. Sono ad un tempo esteti e seguaci di un Pérez o di un López o di un Rodríguez qualunque. È stato già detto che la fame e l’amore sono le due molle della vita umana. Della bassa vita umana, della vita fatta di terra. I saltimbanchi non danzano se non per fame o per amore: fame di carne ed amore anch’esso di carne. Scacciali dal tuo squadrone, e lascia che lì, in un prato, si sfoghino a ballare mentre uno suona la zampogna, un altro batte a tempo le mani, un altro ancora canta un piatto di fagioli o le belle gambe della sua amante di turno. E lascia pure che inventino nuove piroette, nuovi intrecci di passi, nuove figure di danza. E se qualcuno ti verrà a dire che sa costruire ponti e che forse capiterà l’occasione in cui converrà ricorrere alle sue conoscenze per passare un fiume, buttalo fuori! Fuori l’ingegnere! I fiumi li passerete a guado o a nuoto, anche se metà dei crociati annegherà. Vada a costruire ponti da un’altra parte, l’ingegnere! Ce ne sarà bisogno. Ma per andare alla ricerca del sepolcro, basta la fede a far da ponte. ***
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Si quieres, mi buen amigo, llenar tu vocación debidamente, desconfía del arte, desconfía de la ciencia, por lo menos de eso que llaman arte y ciencia y no son sino mezquinos remedos del arte y de la ciencia verdaderos. Que te baste tu fe. Tu fe será tu arte, tu fe será tu ciencia. He dudado más de una vez de que puedas cumplir tu obra al notar el cuidado que pones en escribir las cartas que escribes. Hay en ellas, no pocas veces, tachaduras, enmiendas, correcciones, jeringazos. No es un chorro que brota violento, expulsando el tapón. Más de una vez tus cartas degeneran en literatura, en esa cochina literatura aliada natural de todas las esclavitudes y de todas las miserias. Los esclavizadores saben bien que mientras está el esclavo cantando a la libertad se consuela de su esclavitud y no piensa en romper sus cadenas. Pero otras veces recobro fe y esperanza en ti cuando siento bajo tus palabras atropelladas, improvisadas, cacofónicas, el temblar de tu voz dominada por la fiebre. Hay ocasíones en que puede decirse que ni están en un lenguaje determinado. Que cada cual lo traduzca al suyo. Procura vivir en continuo vértigo pasíonal, dominado por una pasión cualquiera. Solo los apasíonados llevan a cabo obras verdaderamente duraderas y fecundas. Cuando oigas de alguien que es impecable, en cualquiera de los sentidos de esta estupida palabra, huye de él; sobre todo si es artista. Así como el hombre más tonto es el que en su vida ha hecho ni dicho una tonteria, así el artista menos poeta, el más antipoético – y entre los artistas abundan las naturalezas antipoéticas – es el artista impecable, el artista a quien decoran con la corona de laurel, de cartulina, de la impecabilidad, los danzantes de la jeringa.
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Se tu, mio buon amico, vuoi adempiere pienamente alla tua missione, diffida della scienza, diffida dell’arte, o almeno di quelle che si sogliono chiamare arte e scienza, ma che sono solo pallide scimmiottature dell’arte e della scienza autentiche. Deve bastarti la tua fede. La tua fede sarà la tua arte, la tua fede sarà la tua scienza. Più d’una volta ho dubitato se avresti mai potuto portare a termine la tua opera, nel vedere quanta cura metti nelle scrivere le lettere che scrivi. In esse vedo, non di rado, cancellature, correzioni, rifacimenti, sgorbi. Non è un fiotto che sgorga con violenza, come da una bottiglia il cui tappo sia saltato. Più d’una volta le tue lettere degenerano in letteratura. In quella schifosa letteratura, che è l’alleata naturale di tutte le schiavitù e di tutte le miserie. I padroni sanno benissimo che fino a quando lo schiavo intona canti alla libertà, si consola della schiavitù e non pensa a spezzare le catene. Ma altre volte riprendo a sperare e ad aver fede in te, quando avverto sotto le tue parole incalzanti, improvvisate, cacofoniche, il tremito della tua voce dominato dalla febbre. In certi casi, si direbbe che non appartengono neppure ad una determinata lingua. E ciascuno le traduca nella propria. Cerca di vivere in un perpetuo vortice di passione, dominato da una qualsiasi passione. Soltanto gli spiriti appassionati riescono a portare a termine opere davvero durature e feconde. Quando sentirai dire di qualcuno che è impeccabile, in qualsiasi significato che si dà a tale parola, fuggi da lui, soprattutto se è un artista. Così come l’uomo più sciocco è colui che nella sua vita non ha mai detto né fatto una sciocchezza, l’artista meno poeta, anzi il più antipoetico – e bada che tra gli artisti le nature antipoetiche abbondano –, è l’artista impeccabile, l’artista che viene ornato da una corona di falso alloro di cartoncino dell’impeccabilità, dal saltimbanco della zampogna.
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Te consume, mi pobre amigo, una fiebre incesante, una sed de océanos insondables y sin riberas, un hambre de universos y la morriña de la eternidad. Suffes de la razón. Y no sabes lo que quieres. Y ahora, ahora quieres ir al sepulcro del Caballero de la Locura y deshacerte allí en lágrimas, consumirte en fiebre, morir de sed de océanos, de hambre de universos, de morrina de eternidad. Ponte en marcha, solo. Todos los demás solitarios irán a tu lado, aunque no los veas. Cada cual creerá ir solo, pero formaréis batallón sagrado: el batallón de la santa e inacabable cruzada. Tú no sabes bien, mi buen amigo, cómo los solitarios todos, sin conocerse, sin mirarse a las caras, sin saber los unos los nombres de los otros, caminan juntos y prestándose mutua ayuda. Los otros hablan unos de otros, se dan las manos, se felicitan mutuamente, se bombean y se denigran, murmuran entre sí y va cada cual por su lado. Y huyen del sepulcro. Tú no perteneces al cotarro, sino al batallón de los libres cruzados. ¿Por qué te asomas a las tapias del cotarro a oír lo que en él se cacarea? ¡No, amigo mío, no! Cuando pases junto a un cotarro tápate los oídos, lanza tu palabra y sigue adelante, camino del sepulcro. Y que en esa palabra vibren toda tu sed, toda tu hambre, toda tu morrina, todo tu amor. Si quieres vivir de ellos, vive para ellos. Pero entonces, mi pobre amigo, te habrás muerto. Me acuerdo de aquella dolorosa carta que me escribiste cuando estabas a punto de sucumbir, de derogar, de entrar en la cofradía. Vi entonces cómo te pesaba tu soledad, esa soledad que debe ser tu consuelo y tu fortaleza.
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Tu sei consunto, povero amico mio, da una febbre incessante, da una sete di oceani insondabili e senza confini, da una fame di universi e da una nostalgia di eternità. Tu soffri della ragione. E non sai quel che vuoi. Ma adesso, adesso vuoi andare al sepolcro del Cavaliere della Follia e là scioglierti in lacrime, consumarti di febbre, morire di sete d’oceani, di fame d’universi, di nostalgie di eternità. Mettiti, dunque, in cammino, da solo. Tutti gli altri solitari verranno al tuo fianco, anche se non li vedrai. Ciascuno crederà di camminare da solo, ma formerete ugualmente il battaglione della santa, interminabile crociata. Tu ignori ancora, mio buon amico, che tutti i solitari, senza conoscersi, senza guardarsi in faccia, senza sapere il nome l’uno dell’altro si prestano aiuto a vicenda e procedono insieme. Gli altri, invece, si stringono la mano, si congratulano vicendevolmente, si esaltano e si denigrano, mormorano tra loro e vanno ognuno per proprio conto. E fuggono lontano dal sepolcro. Tu non appartieni al volgo, ma al battaglione dei liberi crociati. Perché allora ti affacci al muro che chiude il cortile per ascoltare quel che vi si sussurra? No, amico mio, no! Quando passi accanto ad un cortile, chiuditi le orecchie, proclama la tua parola e prosegui, diretto al sepolcro. E fa che in quella parola vibrino tutta la tua sete, tutta la tua fame, tutta la tua nostalgia, tutto il tuo amore. Se vuoi vivere di quella gente, vivi per essa. Ma allora, povero amico mio, sarai morto. Ricordo la sofferta lettera che mi scrivesti sul punto di soccombere, di derogare dai tuoi principi, di entrare nella confraternita. Vidi allora quanto ti pesava la tua solitudine, che dovrebbe essere invece il tuo conforto, la tua forza.
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Llegaste a lo más terrible, a lo más desolador; llegaste al borde del precipicio de tu perdición: llegaste a dudar de tu soledad, llegaste a creerte en compañía. «¿No será – me decías – una mera cavilación, un fruto de soberbia, de petulancia, tal vez de locura esto de creerme solo? Porque yo, cuando me sereno, me veo acompañado y recibo cordíales apretones de manos, voces de aliento, palabras de simpatía, todo género de muestras de no encontrarme solo, ni mucho menos». Y por aquí seguías. Y te vi engañado y perdido, te vi huyendo del sepulcro. No, no te engañas en los accesos de tu fiebre, en las agonías de tu sed, en las congojas de tu hambre; estás solo, eternamente solo. No solo son mordiscos los mordiscos que como tales sientes; lo son también los que como besos. Te silban los que aplauden, te quieren detener en tu marcha al sepulcro los que gritan: ¡adelante! Tápate los oídos. Y ante todo cúrate de una afección terrible que, por mucho que te la sacudas, vuelve a ti con terquedad de mosca: cúrate de la afección de preocuparte cómo aparezcas a los demás. Cuídate solo de cómo aparezcas ante Dios, cuídate de la idea que de ti Dios tenga. Estás solo, mucho más solo de lo que te figuras, y aun así no estás sino en camino de la absoluta, de la completa, de la verdadera soledad. La absoluta, la completa, la verdadera soledad consiste en no estar ni aún consigo mismo. Y no estarás de veras completa y absolutamente solo hasta que no te despojes de ti mismo, al borde del sepulcro. ¡Santa Soledad! ***
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Giungesti sulla soglia dell’evento più terribile, più desolante; giungesti sull’orlo del precipizio della tua perdizione; giungesti a dubitare della tua solitudine, arrivasti a credere d’essere in compagnia. «Non sarà», mi dicevi, «una pura ipotesi, un frutto della superbia, della petulanza, della follia, fors’anche, questo mio credermi solo? Perché io, quando mi rassereno, mi vedo accompagnato, e ricevo cordiali strette di mano, e odo parole di incoraggiamento, frasi di simpatia; ogni sorta di segni che non mi trovo per nulla solo». E per questa via seguitavi. E m’accorsi che ti ingannavi e stavi per perderti, e ti vidi che stavi per fuggire lontano dal sepolcro. No, non ti inganni negli accessi della febbre, nelle agonie della sete, nelle angosce della fame; sei solo, eternamente solo. Non sono morsi solo quelli che tu avverti come tali; sono morsi anche quelli che scambi per baci. Ti fischiano quelli che ti applaudono; cercano di arrestare la tua marcia coloro che ti gridano: «Avanti». Tappati le orecchie. E anzitutto guarisci da una malattia terribile che, per quanto la scacci, ritorna con l’ostinazione di una mosca: guarisci dalla malattia di preoccuparti di come appari agli altri. Preoccupati unicamente di come comparirai al cospetto di Dio, preoccupati dell’idea che Dio ha di te. Sei solo, molto più solo di quanto non pensi; e anche così sei soltanto sulla via dell’assoluta, completa, autentica solitudine. L’assoluta, completa, autentica solitudine consiste nel non essere neppure con se stessi. E non sarai davvero completamente ed assolutamente solo finché non ti sarai spogliato di te stesso, sull’orlo del sepolcro. Santa solitudine! ***
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Todo esto dije a mi amigo y él me contestó en una larga carta, llena de un furíoso desaliento, estás palabras: «Todo eso que me dices está muy bien, está bien, no está mal; pero, ¿no te parece que en vez de ir a buscar el sepulcro de Don Quijote y rescatarlo de bachilleres, curas, barberos, canónigos y duques, debíamos ir a buscar el sepulcro de Dios y rescatarlo de creyentes e incrédulos, de ateos y deístas, que lo ocupan, y esperar allí dando voces de suprema desesperación, derritiendo el corazón en lágrimas, a que Dios resucite y nos salve de la nada?».
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Tutto questo dissi al mio amico, ed egli mi rispose in una lunga lettera, piena di un infinito scoramento, con queste parole: «Tutto quello che mi dici va benissimo, va bene, non va male; ma non ti pare che, invece di andare a cercare il sepolcro di Don Chisciotte e a riscattarlo da baccellieri, preti, barbieri, canonici e duchi, ci converrebbe andare a cercare il sepolcro di Dio e a riscattarlo da credenti e da increduli, da atei e da deisti che lo occupano, e aspettar lì, lanciando grida di suprema disperazione, sciogliendo il nostro cuore in lacrime, affinché Dio risusciti e ci salvi dal nulla?».
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PRIMERA PARTE
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capítulo i
que trata de la condición y ejercicio del famoso hidalgo Don Quijote de la Mancha Nada habemos del nacimiento de Don Quijote, nada de su infancia y juventud, ni de cómo se fraguara el ánimo del Caballero de la Fe, del que nos hace con su locura cuerdos. Nada sabemos de sus padres, linaje y abolengo, ni de cómo hubieran ido asentándosele en el espíritu las visiones de la asentada llanura manchega en que solía cazar; nada sabemos de la obra que hiciese en su alma la contemplación de los trigales salpicados de amapolas y clavellinas; nada sabemos de sus mocedades. Se ha perdido toda memoria de su linaje, nacimiento, niñez y mocedad; no nos la ha conservado ni la tradición oral ni testimonio alguno escrito, y si alguno de estos hubo, hase perdido o yace en polvo secular. No sabemos si dio o no muestras de su ánimo denodado y heroico ya desde tierno infante, al modo de esos santos de nacimiento que ya desde mamoncillos no maman los viernes y días de ayuno, por mortificación y dar buen ejemplo.
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- capitolo i
capitolo i
che tratta della condizione e delle abitudini del famoso hidalgo Don Chisciotte della Mancia Non sappiamo nulla della nascita di Don Chisciotte, né della sua infanzia e giovinezza; né sappiamo come si sia plasmato l’animo del Cavaliere della Fede, di colui che con la sua follia ci rende saggi. Nulla sappiamo dei suoi genitori, della sua stirpe e della sua ascendenza; né sappiamo in che modo gli si fossero annidate nello spirito le visioni della serena pianura della Mancia, in cui soleva andare a caccia; nulla sappiamo dell’effetto che aveva prodotto sul suo animo la contemplazione dei campi di frumento spruzzati qua e là di papaveri e di garofani selvatici; nulla sappiamo infine delle sue imprese giovanili. Si è perduta ogni memoria della sua stirpe, né la tradizione orale o qualche testimonianza scritta ci ha conservato il ricordo della nascita, dell’infanzia e della sua giovinezza. Se mai ve ne furono, le leggende sono andate perdute e i documenti giacciono nella polvere dei secoli. Non sappiamo se avesse dato qualche segno del suo animo prode ed eroico fin da quando era un tenero fanciullo, proprio come avviene per quei santi fin dalla nascita, che già da lattanti rifiutano di attaccarsi alle mammelle materne il venerdì ed i giorni di digiuno per infliggersi una mortificazione e dare il buon esempio.
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Respecto a su linaje, declaró él mismo a Sancho, departiendo con este después de la conquista del yelmo de Mambrino, que si bien era «hijodalgo de solar conocido, de posesión y propiedad y de devengar quinientos sueldos» no descendía de reyes, aúnque, no obstante ello, el sabio que escribiese su historia podría deslindar de tal modo su parentela y descendencia que le hallase ser quinto o sexto nieto de rey. Y de hecho no hay quien, a la larga, no descienda de reyes, y de reyes destronados. Más él era de los linajes que son y no fueron. Su linaje empieza en él. Es extraño, sin embargo, cómo los diligentes rebuscadores que se han dado con tanto ahínco a escudriñar la vida y milagros de nuestro Caballero no han llegado aún a pesquisar huellas de tal linaje, y más ahora en que tanto peso se atribuye en el destino de un hombre a eso de su herencia. Que Cervantes no lo hiciera, no nos ha de sorprender, pues al fin creía que es cada cual hijo de sus obras y que se va haciendo según vive y obra; pero que no lo hagan estos inquiridores que para explicar el ingenio de un héroe husmean si fue su padre gotoso, catarroso o tuerto, me choca mucho, y solo me lo explico suponiendo que viven en la tan esparcida cuanto nefanda creencia de que Don Quijote no es sino ente ficticio y fantástico, como si fuera hacedero a humana fantasía el parir tan estupenda figura.
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Per quanto riguarda la stirpe, egli stesso dichiarò a Sancio, nella conversazione che ebbe con lui subito dopo la conquista dell’elmo di Mambrino, che, sebbene fosse «hidalgo di una antica e notissima casta, possidente e proprietario, con diritto alla riparazione di cinquecento denari per offese», non era però discendente di re, per quanto, malgrado ciò, il sapiente che si fosse messo a scrivere la sua storia, avrebbe potuto estendere le ricerche sulla sua parentela e ascendenza a tal punto da dimostrare che era pronipote di re di quinto e sesto grado. Del resto, non c’è alcuno che, alla larga, non discenda da sovrani o da re detronizzati. Ma egli apparteneva ad una di quelle stirpi che sono e non furono. La sua stirpe comincia da lui. È tuttavia strano che i diligenti ricercatori che con tanto impegno si sono dedicati ad indagare vita, morte e miracoli del nostro Cavaliere, non siano ancora pervenuti ad individuare le tracce di tale stirpe, tanto più ora che tanto peso si attribuisce al destino di uno uomo per via dell’ereditarietà. Che non lo avesse fatto Cervantes, non deve sorprenderci, perché in fin dei conti egli riteneva che ciascuno di noi fosse figlio delle proprie opere che si andassero formando nella misura in cui viveva ed operava; ma che non lo facciano questi inquisitori che, per spiegare il carattere di un eroe, vanno in giro annusando in tutti i cantoni per sapere se suo padre fu gottoso, catarroso o guercio, mi stupisce molto, e non posso spiegarmelo altrimenti che supponendo che essi vivano nella tanto diffusa quanto nefasta opinione che Don Chisciotte sia soltanto un essere fittizio e fantastico, quasi che fosse possibile ad un fantasia umana creare una figura così stupenda.
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Aparécesenos el hidalgo cuando frisaba en los cincuenta años, en un lugar de La Mancha, pasándolo pobremente con una «olla de algo más vaca que carnero, salpicón las más noches, duelos y quebrantos los sábados, lentejas los viernes y algún palomino de anadidura los domingos», lo cual todo consumía «las tres partes de su hacienda», acabando de concluirla «sayo de velarte, calzas de velludo para las fiestas con sus pantuflos de lo mismo y los días de entre semana… vellorí de lo más fino». En un parco comer se le iban las tres partes de sus rentas, en un modesto vestir la otra cuarta. Era, pues, un hidalgo pobre, un hidalgo de gotera acaso, pero de los de lanza en astillero. Era hidalgo pobre, más a pesar de ello, hijo de bienes, porque como decía su contemporáneo el Dr. don Juan Huarte en el capítulo XVI de su Examen de ingenios para las ciencias, «la ley de la Partida dice que hijodalgo quiere decir hijo de bienes; y si se entiende de bienes temporales, no tiene razón, porque hay infinitos hijosdalgo; pero si se quiere decir hijo de bienes que llamamos virtud, tiene la misma significación que dijimos». Y Alonso Quijano era hijo de bondad. En esto de la pobreza de nuestro hidalgo estriba lo más de su vida, como de la pobreza de su pueblo brota el manantial de sus vicios y a la par de sus virtudes. La tierra que alimentaba a Don Quijote es una tierra pobre, tan desollada por seculares chaparrones, que por dondequiera afloran a ras de ella sus entrañas berroqueñas. Basta ver cómo van por los inviernos sus ríos, apretados a largos trechos entre tajos, hoces y congostos y llevándose al mar en sus aguas fangosas el rico mandilo que habría de dar a la tierra su verdura. Y esta pobreza del suelo hizo
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Il nostro hidalgo ci si presenta quando era sulla soglia dei cinquant’anni, in un luogo della Mancia, vivacchiando poveramente con «un piatto di qualcosa, più mucca che montone, brandelli di carne il più delle sere, frittata coi ciccioli il sabato, lenticchie il venerdì, un po’ di piccioncino in sovrappiù la domenica»; tutto ciò «bastava a dar fondo ai tre quarti dei suoi averi», che si esaurivano del tutto con «la zimarra di castorino, i pantaloni di velluto la domenica con le corrispondenti controscarpe anch’esse di velluto e negli altri giorni della settimana… orbace di qualità». Per un parco nutrimento se ne andavano i tre quarti delle sue rendite e l’altro quarto bastava a procurargli un modo di vestire modesto. Era, dunque, un hidalgo povero, un hidalgo di paese, forse, ma di quelli che tengono la lancia nella rastrelliera. Era un hidalgo povero, ma, ciò nonostante, erede di beni, perché, come diceva il dottor don Giovanni Huarte, suo contemporaneo, nel capitolo XVI del suo Esame d’ingegni per le scienze, «la legge della Partida1 dice che hidalgo significa erede di beni; e tuttavia, se si vuole intendere di beni temporali, ha torto perché i gentiluomini sarebbero in numero indefinito; se invece intende dire erede di quei beni che chiamiamo virtù, il significato è proprio quello che abbiamo detto». E Alonso Chisciano era erede di bontà. Nella povertà del nostro hidalgo risiede l’essenza della sua vita, come dalla povertà del suo popolo sgorga la sorgente dei suoi vizi ma ad un tempo delle sue virtù. La terra che dava alimento a Don Chisciotte è una terra povera, talmente scortecciata dagli acquazzoni di interi secoli che da ogni parte spuntano alla superficie le sue ossa granitiche. Basta osservare durante l’inverno come i suoi fiumi scorrono stretti per lunghi tratti fra gole, forre e burroni trascinandosi al mare con le onde fangose il fertile terriccio che dovrebbe dar vita alla verzura. E questa 1 “Partidas” erano le sezioni nelle quali è suddiviso il codice che Alfonso X il Savio, re di Castiglia, tra il 1252 e il 1284 fece compilare per raccogliere le norme giuridiche. Tutto il codice è denominato Siete Partidas. (N.d.T.)
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a sus moradores andariegos, pues o tenían que ir a buscarse el pan a luengas tierras, o bien tenían que ir guiando a las ovejas de que vivían, de paso en pasto. Nuestro hidalgo hubo de ver, año tras año, pasar a los pastores pastoreando sus merinas, sin hogar asentado, a la de Dios nos valga, y acaso viéndolos así soñó alguna vez con ver tierras nuevas y correr mundo. Era pobre, «de complexión recia, seco de carnes, enjuto de rostro, gran madrugador y amigo de la caza». De lo cual se saca que era de temperamento colérico, en el que predominan calor y sequedad, y quien lea el ya citado Examen de ingenios que compuso el Dr. don Juan Huarte, dedicandoselo a S. M. el rey don Felipe II, verá cuán bien cuadra a Don Quijote lo que de los temperamentos calientes y secos dice el ingenioso fisico. De este mismo temperamento era también aquel caballero de Cristo, Íñigo de Loyola, de quien tendremos mucho que decir aquí y de quien el P. Pedro de Rivadeneira en la vida que de él compuso, y en el capítulo V del libro V de ella nos dice que era muy cálido de complexión y muy colérico, aúnque venció luego la colera, quedándose «con el vigor y brío que ella suele dar, y que era menester para la ejecución de las cosas que trataba». Y es natural que Loyola fuese del mismo temperamento que Don Quijote, porque había de ser capitan de una milicia, y su arte, arte militar. Y hasta en los más pequeños pormenores se anunciaba lo que había de ser, pues al descubrirnos la estatura y disposición de su cuerpo en el capítulo XVIII del libro IV nos dice el citado padre, su historiador, que tenía la frente ancha y desarrugada y una calva de muy venerable aspecto. La que consuena con la cuarta señal que pone el Dr. Huarte para conocer
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povertà del suolo fece sì che i suoi abitanti diventassero nomadi, poiché o dovevano andare a conquistarsi il pane in terre lontane, oppure erano costretti a guidare le pecore, dalle quali traevano sostentamento, da un pascolo all’altro. Il nostro Cavaliere dovette vedere, un anno dopo l’altro, i pastori che passavano conducendo al pascolo le loro greggi, senza un focolare stabile, alla buona di Dio; e forse nel vederli così, sognò qualche volta anche lui di veder terre nuove e di girare il mondo. Era povero, «robusto, segalino, di viso asciutto, molto mattiniero e amante della caccia». E di qui si deduce che era di temperamento collerico, in cui predominano calore e asciuttezza; e chi legga il già citato Esami d’ingegni che il dottor Giovanni Huarte compose dedicandolo a sua Maestà il re don Filippo II, s’accorgerà come si addica a Don Chisciotte quel che l’ingegnoso medico dice a proposito dei temperamenti caldi e asciutti. Condivideva tale temperamento anche quel Cavaliere di Cristo, Ignazio di Loyola, del quale più d’una volta avremo occasione di riparlare, e del quale il Padre Pietro de Rivadeneira2, nelle biografia che ne scrisse, e precisamente nel capitolo V del V libro, ci dice che era molto caldo di complessione e molto collerico, per quanto in seguito riuscisse a domare la propria collera, conservando solo «il vigore e lo slancio che essa suole dare e che gli erano necessari per condurre a temine l’impresa che aveva iniziato». Ed è naturale che Loyola avesse lo stesso temperamento di Don Chisciotte, poiché doveva diventare il capitano di una milizia, e la sua arte doveva assumere il carattere di vera e propria arte militare. Persino nei più piccoli particolari si preannunciava quello che sarebbe poi stato, cioè, quando ci intrattiene sull’aspetto fisico e sulla statura di lui nel capitolo XVIII del libro IV, il citato Padre, suo biografo, ci dice che aveva la fronte ampia e senza rughe e un cranio pelato di aspetto venerabilissimo, Il che coincide col quarto segno che indica il dottor Huarte per riconoscere coloro 2 Lo chiamo P., cioè Padre, per adattarmi alle consuetudini o, meglio, all’abuso invalso in simili casi, nonostante Gesù Cristo abbia detto: «Non chiamate Padre sulla terra, poiché uno solo è il Padre vostro che sta nei cieli» (Mt., XXIII, 9).
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al que tenga ingenio militar, y es tener la cabeza calva, y «está la razón muy clara», dice, añadiendo: «Porque esta diferencia de imaginativa reside en la parte delantera de la cabeza, como todas las demás, y el demasíado calor quema el cuero de la cabeza y cierra los caminos por donde han de pasar los cabellos; allende que la materia de que se engendra, dicen los médicos que son los excrementos que hace el cerebro al tiempo de su nutrición, y con el gran fuego que allí hay, todos se gastan y consumen y así falta materia de que poderse engendrar». De donde yo deduzco, aúnque el puntualísimo historiador de Don Quijote no nos lo diga, que este era también de frente ancha, espaciosa y desarrugada, y además calvo. Era Don Quijote amigo de la caza, en cuyo ejercicio se aprenden astucias y engaños de guerra, y así es como tras las liebres y perdices corrió y recorrió los aledaños de su lugar, y debió de recorrerlos solitario y escotero bajo la tersura sin mancha de su cielo manchego. Era pobre y ocioso; ocioso estaba los más ratos del año. Y nada hay en el mundo más ingenioso que la pobreza en la ociosidad. La pobreza le hacía amar la vida, apartándole de todo hartazgo y nutriéndole de esperanzas, y la ociosidad debió de hacerle pensar en la vida inacabable, en la vida perpetuadora. ¡Cuántas veces no soñó en sus mananeras cacerías con que su nombre se desparramara en redondo por aquellas abiertas llanuras y rodeara emendo a los hogares todos y resonase en la anchura de la tierra y de los siglos! De sueños de ambición apacentó su ociosidad y su pobreza, y despegado del regalo de la vida, anheló inmortalidad no acabadera. En aquellos cuarenta y tantos años de su oscura vida, pues frisaba esta en los cincuenta cuando entró en obra de inmortalidad nuestro hidalgo, en aquellos cuarenta y tantos años, ¿qué había hecho fuera de cazar y administrar su hacienda? En las largas horas de su lenta vida, ¿de qué contemplaciones nutrió su alma? Porque era un contemplativo, ya que solo los contemplativos se aprestan a una obra como la suya.
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che posseggono un ingegno militare, che consiste nell’avere la testa calva; e aggiunge che «ne è molto chiara la ragione», proseguendo «perché questa diversità nell’immaginazione ha sede nella parte anteriore del capo, come tutte le altre, e l’eccessivo suo calore arde la pelle del capo e chiude i pori attraverso i quali dovrebbero passare i capelli; senza contare poi che la materia di cui sono formati i capelli, dicono i medici che è costituita dagli escrementi prodotti dal cervello a misura che si nutre, e che per il grande calore che vi si trova si perdono e si consumano tutti, sicché viene a mancare la materia con cui si possono generare i capelli». E da questo deduco che, sebbene il fedelissimo storico di Don Chisciotte non lo dica, anch’egli doveva essere di fronte ampia, spaziosa e priva di rughe, e per giunta calvo. Don Chisciotte era amante della caccia, nel cui esercizio si apprendono astuzia ed inganni di guerra, ed è così che, inseguendo lepri e pernici, egli percorse e ripercorse i dintorni del suo paese; e dovette percorrerli solitario e libero da ogni impedimento sotto lo splendore immacolato del cielo della Mancia. Era povero e ozioso; viveva in ozio per la gran parte dell’anno. E nulla c’è di più ingegnoso al mondo della povertà nell’ozio. La povertà gli faceva amare la vita, tenendolo lontano da ogni forma di sazietà e nutrendolo di speranze, e l’ozio dovette farlo riflettere sulla vita che non ha fine, sulla vita eterna. Quante volte sognò, durante le mattinate di caccia, che il suo nome si sarebbe diffuso per quelle pianure aperte e avrebbe avvolto col suo suono tutti quei borghi e avrebbe risuonato per le ampie distese della terra e dei secoli! Di sogni d’ambizione dovette pascere l’ozio e la povertà in cui viveva e, indifferente alle gioie della vita, anelò ad un’immortalità imperitura. In quei quaranta e più anni della sua vita oscura, dato che toccava ormai i cinquanta quando fece il suo ingresso nel tempio dell’immortalità, in quei quaranta e più anni il nostro hidalgo che cosa aveva fatto, oltre ad andare a caccia e ad amministrare i propri beni? Nelle lunghe ore della sua lenta vita, di quali contemplazioni aveva nutrito la sua anima? Poiché era un contemplativo, poiché soltanto i contemplativi possono intraprendere un’opera come la sua.
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Adviértase que no se dio al mundo y a su obra redentora hasta frisar en los cincuenta, en bien sazonada madurez de vida. No floreció, pues, su locura hasta que su cordura y su bondad hubieron sazonado bien. No fue un muchacho que se lanzara a tontas y a locas a una carrera mal conocida, sino un hombre sesudo y cuerdo que enloquece de pura madurez de espíritu. La ociosidad y un amor desgraciado de que hablaré más adelante, le llevaron a darse a leer libros de caballerías «con tanta afición y gusto, que olvidó casí de todo punto el ejercicio de la caza y aún la administración de su hacienda» y hasta «vendió muchas fanegas de tierra de sembradura para comprar libros de caballerías», pues no solo de pan vive el hombre. Y apacentó su corazón con las hazañas y proezas de aquellos esforzados caballeros que, desprendidos de la vida que pasa, aspiraron a la gloria que queda. El deseo de la gloria fue su resorte de acción. «Y así del poco dormir y del mucho leer se le secó el cerebro de manera que vino a perder el juicio». En cuanto a lo de secársele el cerebro, el Dr. Huarte, de quien dije, nos dice en el capítulo I de su obra que el entendimiento pide «que el cerebro sea seco y compuesto de partes sutiles y muy delicadas», y por lo que hace a la pérdida del juicio, nos habla de Democrito Abderita, «el cual vino a tanta pujanza de entendimiento, allá en la vejez, que se le perdió la imaginativa, por la cual razón comenzó a hacer y decir dichos y sentencias tan fuera de término, que toda la ciudad de Abdera le tuvo por loco», más al ir a verle y curarle Hipócrates se encontró con que era «el hombre más sabio que había en el mundo», y los locos y desatinados los que le hicieron ir a curarle. Y fue la ventura de Democrito – agrega el Dr. Huarte – que todo cuanto razonó con Hipócrates «en aquel breve tiempo fueron discursos de entendimiento, y no de la imaginativa, donde tenía la lesión». Y así se ve también en la vida de Don Quijote que en oyéndole discursos de entendimiento, teníanle todos por hombre dis-
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Si noti che non si dedicò al mondo ed alla sua opera redentrice finché non arrivò alla soglia dei cinquant’anni, in perfetta maturità di vita. La sua follia non fiorì dunque finché la sua saggezza e la sua bontà non ebbero raggiunto la piena maturità. Non fu un ragazzo che si lancia senza riflettere e abbraccia una carriera ignota, ma un uomo assennato e saggio che diventa folle unicamente per maturità di spirito. L’ozio ed un amore sfortunato, di cui avrò modo di parlare in seguito, lo spinsero a dedicarsi alla lettura di libri di cavalleria, «con tanta passione e diletto da dimenticare quasi del tutto lo svago della caccia ed anche l’amministrazione del suo patrimonio», e addirittura «vendette molte staia di terreno da semina per comprare libri di cavalleria», giacché non di solo pane vive l’uomo. E alimentò il suo cuore con le imprese e le prodezze di quei prodi cavalieri che, distaccandosi dalla vita che passa, aspirarono alla gloria che rimane. Il desiderio di gloria fu la molla che lo spinse ad agire. «Cosicché, per il poco dormire e per il molto leggere, gli si prosciugò il cervello in modo da perdere il giudizio». Quanto al fatto del cervello che gli si seccò, il dottor Huarte, del quale ho già parlato, ci dice nel capitolo I della sua opera che l’intelletto richiede «che il cervello sia secco e composto da parti sottili e assai delicate»; e, per quanto riguarda la perdita del giudizio, ci parla di Democrito di Abdera, «il quale pervenne a tale acutezza di intelletto, in vecchiaia, che perdette del tutto l’immaginazione, per la qual cosa incominciò a pronunciare e a dire motti e sentenze talmente stravaganti che tutta la città di Abdera lo considerò pazzo»; ma quando Ippocrate andò poi a visitarlo ed a curarlo, trovò che era «l’uomo più saggio che ci fosse al mondo» e che pazzi e sciagurati erano coloro che lo avevano chiamato perché lo curasse. E la fortuna di Democrito – aggiunge il dottor Huarte – fu che tutti i ragionamenti che fece con Ippocrate «in quel breve tempo, furono discorsi dell’intelletto e non dell’immaginazione, che era il punto in cui aveva la lesione». E la stessa identica cosa si verifica nella vita di Don Chisciotte, il quale, quando lo ascoltavano fare discorsi con l’intelletto, era
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cretísimo y muy cuerdo, más en llegando a los de imaginativa, donde tenía la lesión, admirábanse todos de su locura, locura verdaderamente admirable. «Vino a perder el juicio». Por nuestro bien lo perdió para dejarnos eterno ejemplo de generosidad espíritual. Con juicio, ¿hubiera sido tan heroico? Hizo en aras de su pueblo el más grande sacrificio: el de su juicio. Llenósele la fantasía de hermosos desatinos, y creyó ser verdad lo que es solo hermosura. Y lo creyó con fe tan viva, con fe engendradora de obras, que acordó poner en hecho lo que su desatino le mostraba, y en puro creerlo hízolo verdad. «En efecto, rematado ya su juicio, vino a dar en el más extraño pensamiento que jamás dio loco en el mundo, y fue que le pareció convenible y necesario, así para el aumento de su honra como para el servicio de su república, hacerse caballero andante y irse por el mundo con sus armas y caballo a buscar las aventuras y a ejercitarse en todo aquello que él había leído que los caballeros andantes se ejercitaban, deshaciendo todo género de agravio y poniéndose en ocasíones y peligros, donde acabándolos cobrase eterno nombre y fama». En esto de cobrar eterno nombre y fama estribaba lo más de su negocio; en ello el aumento de su honra primero y el servicio de su república después. Y su honra, ¿qué era? ¿Qué era eso de la honra de que andaba entonces tan llena nuestra España? ¿Qué es sino un ensancharse en espacio y prolongarse en tiempo de personalidad? ¿Qué es sino darnos a la tradición para vivir en ella y así no morir del todo? Podrá ello parecer egoista, y más noble y puro buscar el servicio de la república primero, si no únicamente, por lo de buscad el reino de Dios y su justicia, buscarlo por amor al bien mismo, pero ni los cuerpos pueden menos de caer a la tierra, pues tal es su ley, ni las almas menos de obrar por ley de gravitación espíritual, por ley de amor propio y deseo de honra. Dicen los físicos que la ley de la caída es ley de atracción mutua,
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considerato da tutti un uomo prudente e saggio, ma poi, quando arrivava ai discorsi immaginari, dove aveva anch’egli la lesione, faceva meravigliare tutti con la sua follia, davvero mirabile. «Finì per perdere il giudizio». Per il nostro bene lo perdette; per lasciarci un eterno esempio di generosità spirituale. Con il giudizio a posto, sarebbe mai stato così eroico? Celebrò sulle are del suo popolo il sacrificio più grande, quello del proprio giudizio. Gli si riempì la fantasia di belle stravaganze, e credette che fosse verità ciò che era solamente bellezza. E lo credette con fede talmente viva, con fede generatrice di opere a tal punto da mettere in pratica quello che la sua follia gli mostrava, e soltanto col crederlo lo trasformò in realtà. «Col senno ormai spacciato, gli venne in mente pertanto il pensiero più stravagante che mai venisse a un pazzo del mondo; e fu che gli parve opportuno e necessario, sia per maggior suo onore che per servire la sua repubblica, farsi cavaliere errante ed andarsene armato, a cavallo, per tutto il mondo in cerca di avventure ed a cimentarsi con tutto ciò che aveva letto aver sperimentato i cavalieri erranti, spazzando via ogni specie di sopruso, e cacciandosi in circostanze ed in pericoli da cui, superandoli, riscuotesse risonanza e fama immortali». Proprio nel riscuotere risonanza e fama immortale consisteva il carattere principale della sua decisione; in essa consisteva anzitutto il suo più grande onore, e poi i servizi da rendere alla sua patria. E che cos’era il suo onore? Che cos’era questo famoso onore, di cui in quel tempo era così piena la nostra Spagna? Che cos’è, se non l’ampliare nello spazio la propria personalità e prolungarla nel tempo? Che cos’è se non affidarci alla tradizione per vivere in essa e così non morire del tutto? Potrà forse sembrare una forma di egoismo; potrà sembrare più nobile e puro ricercare di rendere anzitutto servizi alla patria, se anche non unicamente per conquistare il regno di Dio e la sua giustizia, almeno per amore dello stesso bene. Ma neppure i corpi possono fare a meno di ricadere sulla terra, poiché questa è la legge che li governa, né le anime possono fare a meno di operare per una legge di gravità spirituale, per una legge di amore proprio e per desiderio d’onore. I fisici sostengono che la legge della caduta dei gravi è una legge di mutua attrazione,
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atrayéndose una a otra la piedra que cae sobre la tierra y la tierra que sobre aquella cae, en razón inversa a su masa, y así entre Dios y el hombre es también mutua la atracción. Y si Él nos tira a Sí con infinito tirón, también nosotros tiramos de Él. Su cielo padece fuerza. Y es Él para nosotros, ante todo y sobre todo, el eterno productor de inmortalidad. El pobre e ingenioso hidalgo no buscó provecho pasajero ni regalo de cuerpo, sino eterno nombre y fama, poniendo así su nombre sobre sí mismo. Sometiose a su propia idea, al Don Quijote eterno, a la memoria que de él quedase. «Quien pierda su alma la ganará», dijo Jesús; es decir, ganará su alma perdida y no otra cosa. Perdió Alonso Quijano el juicio, para ganarlo en Don Quijote: un juicio glorificado. «Imaginábase el pobre ya coronado por el valor de su brazo, por lo menos del imperio de Trapisonda, y se dio priesa a poner en efecto lo que deseaba». No fue un contemplativo tan solo, sino que pasó del sonar a poner por obra lo soñado. «Y lo primero que hizo fue limpiar unas armas que habían sido de sus bisagüelos», pues salía a luchar a un mundo para él desconocido, con armas heredadas que «luengos siglos había que estaban puestas y olvidadas en un rincón». Más antes limpió las armas que el orín de la paz gastado habia (Camões, Os Lusiadas, VI, 22).
y se arregló una celada de encaje con cartones, y todo lo demás que sabéis de cómo lo probó sin querer repetir la probatura, en lo que mostró lo cuerda que su locura era. «Y fue luego a ver a su rocín» y engrandeciolo con los ojos de la fe y le puso nombre. Y luego se lo puso a si mismo, nombre nuevo, que convenía a su renovación interior, y se llamó Don Quijote y con este
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poiché si attraggono reciprocamente la pietra che cade sulla terra e la terra su cui essa cade, in ragione inversa della loro massa; e così è pure mutua l’attrazione che si esercita tra Dio e l’uomo. Se Egli ci attira a Sé con una forza infinita, anche noi attiriamo Lui. Anche il cielo subisce questa forza, ed Egli è per noi anzitutto e soprattutto, l’eterno produttore di immortalità. Il povero e ingegnoso hidalgo non cercò un profitto passeggero, né qualcosa per il suo corpo, ma eterna rinomanza e fama, ponendo in tal modo il proprio nome al di sopra di se stesso. Si sottomise alla propria idea, al Don Chisciotte eterno, alla memoria che sarebbe rimasta di lui. «Chi perderà la propria anima la salverà», disse Gesù; e intese dire: guadagnerà la propria anima perduta, e non altro. Alonso Chisciano perdette il giudizio per guadagnarlo in Don Chisciotte: un giudizio glorificato. «Già si vedeva il poveretto coronato dal valore del suo braccio, imperatore di Trebisonda per lo meno, e… si affrettò a porre in opera il suo desiderio». Non fu, quindi, soltanto un contemplativo, ma passò dal sogno ad attuare quello che aveva sognato. «E la prima cosa che fece fu ripulire certe armi appartenenti ai suoi bisavoli», poiché si lanciava a combattere in un mondo a lui ignoto, con armi avute in eredità che «da secoli e secoli erano state messe in un cantuccio e dimenticate». Ma per prima cosa ripulì le armi che di pace la ruggine aveva guaste (Camões3, I Lusiadi, VI, 22)
e si aggiustò una celata ad incastro con dei pezzi di cartone e tutte le altre cose che sapete, limitandosi a provarsele una volta senza voler poi ripetere la prova; ed anche in questo dimostrò quanto saggia fosse la sua follia. «Andò poi a vedere il suo ronzino» e lo ingrandì con gli occhi della fede e gli diede un nome. E poi ribattezzò anche se stesso con un nome nuovo, come si addiceva al suo rinnovamento interiore, e si chiamò Don Chi3 Camões, Luís Vaz de, scrittore portoghese (n. forse 1525 - m. 1580). (N.d.T.)
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nombre ha cobrado eternidad de fama. E hizo bien en mudar de nombre, pues con el nuevo llegó a ser de veras hidalgo, si nos atenemos a la doctrina del dicho Dr. Huarte, que en la ya citada obra nos dice así: «El español que inventó este nombre, hijodalgo, dio bien a entender… que tienen los hombres dos géneros de nacimiento. El uno es natural, en el cual todos son iguales, y el otro espíritual. Cuando el hombre hace algún hecho heroico o alguna extraña virtud y hazaña, entonces nace de nuevo y cobra otros mejores padres, y pierde el ser que antes tenía. Ayer se llamaba hijo de Pedro y nieto de Sancho; ahora se llama hijo de sus obras. De donde tuvo origen el refrán castellano que dice: cada uno es hijo de sus obras, y porque las buenas y virtuosas llama la Divina Escritura algo, y los vicios y pecados nada, compuso este nombre, hijodalgo, que quiere decir ahora descendiente del que hizo alguna extraña virtud…». Y así Don Quijote, descendiente de si mismo, nació en espíritu al decidirse a salir en busca de aventuras, y se puso nuevo nombre a cuenta de las hazañas que pensaba llevar a cabo. Y después de esto buscó dama de quien enamorarse. Y en la imagen de Aldonza Lorenzo, «moza labradora de muy buen parecer de quien él un tiempo anduvo enamorado, aúnque según se entiende ella jamás lo supo ni se dio cata de ello», encarnó la Gloria y la llamó Dulcinea del Toboso.
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sciotte, e con questo nome ha conquistato la fama eterna. E fece benissimo a cambiare nome, poiché con quello nuovo divenne veramente hidalgo se ci atteniamo alla dottrina del sunnominato dottor Huarte, che nell’opera citata ci dice: «Lo spagnolo che inventò questo nome di hidalgo, ci fece intendere… che gli uomini hanno due specie di nascita. La prima è naturale, ed in essa tutti sono uguali; la seconda è spirituale. Quando l’uomo compie qualche impresa eroica o mostra una virtù straordinaria e coraggio, allora nasce di nuovo ed acquisisce genitori più degni, e perde l’essere che aveva prima. Ieri si chiamava figlio di Pietro e nipote di Sancio; adesso si chiama figlio delle proprie opere. Di qui l’origine del proverbio spagnolo che dice: ciascuno è figlio delle sue opere, e poiché la Divina Scrittura chiama queste opere qualcosa, e chiama invece nulla i vizi ed i peccati, si coniò questo nome di hijodalgo, che ai nostri tempi serve ad indicare il discendente di uno che mostrò singolare virtù…». E così Don Chisciotte, discendente di se stesso, nacque in spirito quando si decise a partire in cerca d’avventure e si mise un nome nuovo in previsione delle imprese che si riprometteva di compiere. E finalmente, dopo tutte queste cose, cercò una dama di cui dichiararsi innamorato. E nell’immagine di Aldonza Lorenzo, «giovane contadina di bellissima presenza, della quale egli era stato, un tempo, innamorato: ma, a quanto si dice, ella non lo seppe mai, né ci fece mai caso», incarnò la Gloria e la chiamò Dulcinea del Toboso.
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que trata de la primera salida que de su tierra hizo Don Quijote «Y así, sin dar parte a persona alguna de su intención, y sin que nadie le viese, una mañana antes del día se armó de todas sus armas, subió sobre su Rocinante… y por la puerta falsa de un corral salió al campo con grandísimo contento y alborozo de ver con cuánta facilidad había dado el principio a su buen deseo». Así, solo, sin ser visto, por puerta falsa de corral, como quien va a hacer algo vedado, se echó al mundo. ¡Singular ejemplo de humildad! El caso es que por cualquier puerta se sale al mundo, y cuando uno se apresta a una hazaña no debe pararse en por qué puerta ha de salir. Mas pronto cayó en la cuenta de que no era armado caballero, y él, sumiso a la tradición siempre, «propuso de hacerse armar caballero del primero que topase». Porque no iba al mundo a derogar ley alguna, sino a hacer que se cumplieran las de la caballerosidad y la justicia. ¡No os recuerda esta salida la de aquel otro caballero, de la Milicia de Cristo, Íñigo de Loyola, que después de haber procurado en sus mocedades «de aventajarse sobre todos sus iguales y de alcanzar fama de hombre valeroso, y honra y gloria militar», y aún en los comienzos de su conversión, cuando se disponía a ir a Italia, siendo «muy atormentado de la tentación de la vanagloria», y habiendo sido, antes de convertirse, «muy curioso y amigo de leer libros profanos de caballerías», cuando después de herido en Pamplona leyó la vida de Cristo, y las de
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che tratta della prima uscita di Don Chisciotte dalla sua terra «E così, senza comunicare ad alcuno la sua intenzione e senza essere visto da nessuno, una mattina, all’alba si armò di tutte le armi, montò su Ronzinante… e, per la porta segreta di un cortile della casa, uscì alla campagna, pieno di gioia e di giubilo, vedendo con quanta facilità aveva dato inizio al suo buon desiderio». Così, solo, senza essere visto, per una porta segreta del cortile, come chi sta per fare qualcosa di proibito, si slanciò nel mondo. Singolare esempio di umiltà! Il fatto si è che per qualunque porta si esca al mondo, e quando uno si prepara ad affrontare un’impresa, non deve soffermarsi a considerare da che porta gli convenga uscire. Ma ben presto si rese conto che non era stato armato cavaliere; e perciò, sempre ligio alla tradizione, «stabilì di farsi armare cavaliere dal primo che avesse incontrato». Giacché egli non andava nel mondo col proposito di derogare ad alcuna legge, ma per far sì che venissero osservate quelle della cavalleria e della giustizia. Non vi ricorda, questa sua uscita, quella dell’altro Cavaliere della Milizia di Cristo, Ignazio di Loyola, che, dopo essersi sforzato in gioventù «di avvantaggiarsi su tutti i suoi pari e di conseguire fama di uomo valoroso, ed insieme onore e gloria militare», e che ancora all’inizio della sua conversione, quando si accingeva a recarsi in Italia ed era «assai tormentato dalla tentazione della vanagloria», pur essendo stato, prima di convertirsi, «curiosissimo ed amante di leggere libri profani di cavalleria», quando, dopo essere stato ferito a Pamplona, lesse la vita
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los Santos, comenzó a «trocársele el corazón y a querer imitar y obrar lo que leía»? Y así, una mañana, sin hacer caso de los consejos de sus hermanos, «Púsose en camino acompañado de dos criados» y emprendió su vida de aventuras en Cristo, poniendo en un principio «todo su cuidado y conato en hacer cosas grandes y muy dificultosas… y esto no por otra razón sino porque los Santos que él había tornado por su dechado y ejemplo, habían echado por este camino». Así nos lo cuenta el P. Pedro de Rivadeneira en los capítulos I, III y X del libro I de su Vida del bienaventurado Padre Ignacio de Loyola, obra que apareció en romance castellano el año 1583, y era una de las que figuraban en la librería de Don Quijote, que la leyó, y una de las que en el escrutinio que de la tal librería hicieron el cura y el barbero, fue indebidamente al fuego del corral, por no haber ellos reparado en ella, que a haberla descubierto habriala el cura respetado y puesto sobre su cabeza. Y de que no reparó en ella, es buena prueba el que Cervantes no la cita. Resuelto Don Quijote a hacerse armar caballero del primero que topase, «se quietó y prosiguió su camino sin llevar otro que aquel que su caballo queria, creyendo que en aquello consistita la fuerza de las aventuras». Y creyendo muy bien al creer así. Su heroico espíritu igual habría de ejercerse en una que otra aventura; en la que Dios tuviese a bien depararle. Como Cristo Jesús, de quien fue siempre Don Quijote un fiel discipulo, estaba a lo que la ventura de los caminos le trajese. El divino Maestro, yendo a despertar de su mortal sueño a la hija de Jairo, se detuvo con la mujer de la hemorragia. Lo más urgente es lo de ahora y lo de aquí; en el momento que pasa y en el reducido lugar que ocupamos estan nuestra eternidad y nuestra infinitud.
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di Cristo e quella dei Santi, incominciò «a mutarglisi il cuore e a voler imitare e mettere in pratica quello che leggeva?». E così, un mattino, senza badare ai consigli dei fratelli, «si mise in cammino accompagnato da due domestici» e diede inizio alla sua vita in Cristo mettendo innanzitutto «ogni sua cura e sforzo nel compiere cose grandi ed estremamente difficili… e ciò non per altra ragione che questa: che i santi da lui assunti ad esempio e modello, si erano anch’essi incamminati per quella via». Questo ci narra il Padre Pietro de Rivadeneira nei capitoli I, III e X del libro I della sua Vita del beato Padre Ignazio di Loyola, opera che fu pubblicata in volgare castigliano nell’anno 1583 ed era una di quelle che figuravano nella biblioteca di Don Chisciotte, che l’aveva letta; e fu una di quelle che nello spoglio fatto dal curato e dal barbiere nella libreria, venne gettata sul falò acceso nel cortile, per la semplice ragione che nessuno dei due l’aveva notata, poiché, se l’avessero vista, il prete non solo l’avrebbe rispettata, ma addirittura l’avrebbe portata in palma di mano. E la miglior prova che non la notarono sta nel fatto che Cervantes non la cita nemmeno. Don Chisciotte, ormai deciso a farsi armare cavaliere dal primo che avesse incontrato, «si calmò e continuò ad andare avanti senza prendere altra via che quella voluta dal cavallo, credendo che in ciò consistesse la forza delle avventure». E, nel crederlo, era nel giusto. Il suo spirito eroico avrebbe potuto esercitarsi ugualmente in qualsiasi avventura: in quella che Dio avesse voluto prospettargli. Come Cristo Gesù, del quale Don Chisciotte fu sempre fedele discepolo, si adeguava a ciò che l’avventura delle strade gli offriva. Il Divino Maestro, mentre si recava a ridestare dal sonno mortale la figlia di Giaio, si fermò presso la donna afflitta da emorragia. La cosa più urgente è quella di adesso, qui ed ora; nel momento che passa e nel limitato spazio che occupiamo, stanno la nostra eternità ed infinità.
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Se deja llevar de su caballo el caballero, al azar de los senderos de la vida. ¿Qué menos daba esto si era siempre la misma y siempre fija su alma heroica? Salía al mundo a enderezar los entuertos que al encuentro le salieran, más sin pian previo, sin programa alguno reformatorio. No salía a él a aplicar ordenamientos de antemaño trazados, sino a vivir conforme a como los caballeros andantes habian vivido; su dechado eran vidas creadas y narradas por el arte, no sistemas armados y explicados por ciencia alguna. A lo que conviene añadir, además, que por entonces no había aún esta cosa que llamamos ahora sociologia por llamarla de algún modo. Y conviene veamos también en esto de dejarse llevar del caballo uno de los actos de más profunda humildad y obediencia a los designios de Dios. No escojía, como soberbio, las aventuras, ni iba a hacer esto o lo otro, sino lo que el azar de los caminos le deparase, y como el instinto de las bestias depende de la voluntad divina más directamente que nuestro libre albedrio, de su caballo se dejaba guiar. También Íñigo de Loyola, en famosa aventura, de que hablaremos, se dejó guiar de la inspiración de su cabalgadura. Esto de la obediencia de Don Quijote a los designios de Dios es una de las cosas que más debemos observar y admirar en su vida. Su obediencia fue de la perfecta, de la que es ciega, pues jamás se le ocurrió pararse a pensar si era o no acomodada a él la aventura que se le presentase; se dejó llevar, como según Loyola debe dejarse llevar el perfecto obediente, como un báculo en mano de un viejo, o «como un pequeño crucifijo que se deja volver de una parte a otra sin dificultad alguna». «Yendo, pues, caminando nuestro flamante aventurero, iba hablando consigo mesmo y diciendo: quién duda sino que en los venideros tiempos, cuando salga a luz la verdadera historia de mis famosos hechos…» y todo lo demás que, según nos cuenta Cervantes, iba diciéndose Don Quijote.
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Il Cavaliere si lascia condurre dal suo cavallo alla ventura per i sentieri della vita. Che cosa gli poteva importare di questo, se la sua anima eroica era sempre la stessa e sempre ugualmente salda? Andava nel mondo per raddrizzare i torti che gli si presentavano, ma senza alcun piano prestabilito, senza alcun programma di riforma. Non andava per il mondo ad applicare ordinamenti tracciati in anticipo, ma a vivere come erano vissuti i cavalieri erranti: il suo modello erano vite create e narrate dall’arte, non già sistemi configurati e spiegati da una qualsiasi scienza. E a ciò conviene anche aggiungere, inoltre, che a quei tempi non esisteva ancora ciò che si suole chiamare sociologia, tanto per chiamarla con un qualche nome. Ed è opportuno vedere anche in questo fatto di lasciarsi guidare dal cavallo uno degli atti di più profonda umiltà ed obbedienza ai disegni di Dio. Non sceglieva lui, da superbo, le avventure, né si accingeva a fare questo o quello, ma solo ad affrontare quel che gli presentava la sorte delle strade; e poiché l’istinto degli animali dipende dalla volontà divina in maniera più diretta del nostro libero arbitrio, si lasciava guidare dal cavallo. Anche Ignazio di Loyola, in una famosa avventura della quale parleremo, si lasciò guidare dall’ispirazione della propria cavalcatura. Questo aspetto dell’obbedienza di Don Chisciotte ai disegni di Dio è una delle cose che più dobbiamo notare ed ammirare nella sua vita. La sua obbedienza fu perfetta, cieca, perché non gli capitò mai di fermarsi a riflettere se l’avventura che si presentava era o meno adatta a lui ed alle sue possibilità; si lasciò condurre proprio come, secondo Loyola, deve lasciarsi guidare chi esercita la perfetta obbedienza come un bastone nelle mani di un vecchio o «come un piccolo crocefisso che si lascia girare da una parte all’altra senza alcuna difficoltà». «Strada facendo, quindi, passo passo, il nostro nuovo sfolgorante Cavaliere di ventura andava parlando fra sé e diceva: “Chi dubita che nelle epoche future, quando venga alla luce la vera storia delle mie famose gesta…?”» e tutto il resto che, stando a quanto ci narra Cervantes, andava dicendo tra sé e sé Don Chisciotte.
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Cuya locura tira siempre a su centro, a buscar eterno nombre y fama, a que se escriba su historia en los venideros tiempos. Fue el fondo de pecado, es decir, la raíz hondamente humana, de su generosa empresa, la de buscar nombre y fama en ella, la de emprenderla por la gloria. Pero ese mismo fondo de pecado la hizo, ¡es natural!, entranadamente humana. Toda la vida heroica o santa corrió siempre en pos de la gloria, temporal o eterna, terrena o celestial. No creáis a quienes os digan que buscan el bien por el bien mismo, sin esperanza de recompensa; de ser ello verdad, serían sus almas como cuerpos sin peso, puramente aparenciales. Para conservar y acrecentar la especie humana se nos dio el instinto y sentimiento del amor entre mujer y hombre; para enriquecerla con grandes obras se nos dio la ambición de gloria. Lo sobrehumaño de la perfección toca en lo inhumaño, y en ello se hunde. Y entre los disparates que en este acto de su primer salida iba nuestro caballero ensartando, fue de lo primero acordarse de la princesa Dulcinea, de la Gloria, que le hizo el agravio de despedirle y reprocharle con el riguroso afíncamiento de mandarle no parecer ante la su fermosura. La gloria es conquistadera, más con harto trabajo, y el buen hidalgo, impaciente como novicio, se desesperaba de haber caminado todo aquel día «sin acontecerle cosa que de contar fuese». No te desespere eso, buen caballero: lo heroico es abrirse a la gracia de los sucesos que nos sobrevengan, sin pretender forzarlos a venir. Mas al caer de este primer día de su carrera de gloria «vio no lejos del camino por donde iba, una venta», llegando a ella «a tiempo que anochecía». Y las primeras personas con que topó en el mundo fueron «dos mujeres mozas, destas que llaman del partido»; el encuentro con dos pobres rameras fue su primer encuentro en su ministerio heroico. Más a él le parecieron «dos hermosas doncellas o dos graciosas damas, que delante de la puerta del castillo» – pues por tal tuvo a la venta – «se estaban solazando». ¡Oh poder redentor de la locura! A los ojos del
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La cui follia ritorna sempre allo stesso punto, a ricercare eterna rinomanza e fama, a far sì che nei tempi futuri qualcuno scriva la sua storia. Fu questo il fondo peccaminoso, cioè la radice profondamente umana della sua impresa generosa: quella di ricercarvi fama e rinomanza, quella di intraprenderla per la gloria. Ma questo stesso fondo peccaminoso la rese, come è naturale, intimamente umana. Ogni vita eroica o santa, non ha fatto che correre alla ricerca della gloria, temporale o eterna, terrena o celeste. Non credete a quelli che vi dicono che cercano il bene per il bene stesso senza alcuna speranza di ricompensa; se una cosa simile fosse vera, le loro anime sarebbero come corpi senza peso, fatti di pura apparenza. Per conservare ed accrescere la specie umana ci è stato dato l’istinto e il sentimento dell’amore tra uomo e donna; per arricchirla di grandi opere ci è stata data l’ambizione della gloria. Nella perfezione, ciò che vi è di sovrumano giunge alla soglia dell’inumano e vi sprofonda. E tra le enormità che il nostro Cavaliere andava snocciolando in quest’atto della sua prima uscita, vi fu quella di ricordarsi della principessa Dulcinea, della Gloria, che gli aveva fatto l’affronto di mandarlo a spasso e di rimbrottarlo col duro ammonimento ed ordine di non ricomparire al cospetto della sua bellezza. La gloria si può conquistare, ma solo con grande lavoro, e il buon hidalgo, impaziente come tutti i novizi, si disperava di aver camminato tutto il giorno, «senza che gli accadesse cosa degna d’essere raccontata». Non disperarti per questo, buon Cavaliere: eroismo è aprirsi alla grazia degli avvenimenti che ci capitano, senza avere la pretesa di obbligarli a venire. Ma sul finire di quella prima giornata della sua gloriosa carriera, «vide, non lontano dalla strada per la quale camminava, un’osteria» e vi giunse «mentre imbruniva». E le prime persone in cui s’imbatté nel mondo furono «due giovani donne, di quelle che chiamano da partito»; l’incontro con due povere sgualdrine fu il suo incontro nella sua eroica missione. Ma a lui parvero «due vaghe donzelle o due graziose dame che davanti alla porta del castello» – giacché aveva scambiato l’osteria per un maniero – «si stessero sollazzando». Oh, potenza redentrice
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héroe las mozas del partido aparecieron como hermosas doncellas; su castidad se proyecta a ellas y las castiga y depura. La limpieza de Dulcinea las cubre y limpia a los ojos de Don Quijote. Y en esto un porquero tocó un cuerno para recojer sus puercos, y lo tomó Don Quijote por señal de algún enano, y se llegó a la venta y a las trasfiguradas mozas. Llenas estás de miedo – ¿y qué sino miedo ha de criar en ellas su desventurado oficio? – se iban a entrar en la venta, cuando el Caballero, alzada la visera de papelón y descubierto el seco y polvoroso rostro, les habló «con gentil talante y voz reposada» llamándolas doncellas. ¡Doncellas! ¡Santa limosna de la palabra! Pero ellas, a oírse llamar cosa «tan fuera de su profesión, no pudieron tener la risa, y fue de manera que Don Quijote vino a correrse». He aquí la primera aventura del hidalgo, cuando responde la risa a su cándida inocencia, cuando al verter sobre el mundo su corazón la pureza de que estaba henchido, recibe de rechazo la risa, matadora de todo generoso anhelo. Y ved que las desgraciadas se ríen precisamente del mayor honor que pudiera hacérseles. Y él, corrido, les reprendió su sandez, y arreciaron a reír ellas, y él a enojarse, y salió el ventero, «hombre que por ser muy gordo era muy pacífico», y le ofreció posada. Y ante la humildad del ventero humillose Don Quijote y se apeó. Y las mozas, reconciliadas con él, pusiéronse a desarmarle. Dos mozas del partido hechas por Don Quijote doncellas, oh poder de su locura redentora!, fueron las primeras en servirle con desinteresado cariño. Nunca fuera caballero de damas tan bien servido.
Recordad a María de Magdalena lavando y ungiendo los pies del Señor y enjugándoselos con su cabellera acariciada tantas veces en el pecado; a aquella gloriosa Magdalena de que tan
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della follia! Agli occhi dell’eroe, le ragazze da partito apparvero come leggiadre donzelle; la sua castità si proietta verso di loro e le ammonisce e purifica. La purezza di Dulcinea le ammanta e redime agli occhi di Don Chisciotte. Ma in quel (momento) un porcaro suonò il corno per radunare i suoi maiali e Don Chisciotte lo scambiò per il segnale d’un qualche nano e si avviò all’osteria e verso le ragazze trasfigurate da lui stesso. Piene di timore – e che altro, se non timore può far sorgere in esse lo sciagurato lavoro che fanno? –, stavano per rifugiarsi nell’osteria, quando il Cavaliere, rialzata la visiera di cartone e scoperto così il viso risecchito e polveroso, si rivolse loro «con bel garbo e voce pacata», chiamandole donzelle. Donzelle! Santa elemosina di una parola! Ma, sentendosi affibbiare un nome «tanto poco appropriato al loro mestiere, non poterono trattenersi dal ridere, e così sguaiatamente che Don Chisciotte se ne risentì». Ecco, dunque, la prima avventura dell’hidalgo, in cui il riso risponde alla sua candida innocenza quando, mentre il suo cuore riversa sul mondo la purezza di cui trabocca, ne riceve come ricompensa una sghignazzata, che basta ad uccidere ogni generoso slancio. E notate che le due disgraziate ridono proprio dell’onore più grande che le si potesse rendere. Ed egli, risentito, le sgridò per quella balordaggine, ma esse sghignazzarono ancora più forte; e, mentre il Cavaliere cominciava ad irritarsi, venne fuori l’oste, «uomo che, pingue com’era, era tutto pace» e gli offrì alloggio. Così, dinanzi all’umiltà dell’oste, anche Don Chisciotte si umiliò e smontò da cavallo. E le ragazze, riconciliate con lui, iniziarono a disarmarlo. Due ragazze da partito rifatte donzelle da Don Chisciotte – oh, potenza della sua follia redentrice! – furono le prime a servirlo con affetto disinteressato. Cavalier mai non vi fu da donzelle sì servito…
Ricordatevi di Maria di Magdala che lava e unge di balsami i piedi del Signore e glieli asciuga coi suoi capelli, tante volte accarezzati nel peccato; di quella gloriosa Maddalena, della quale
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devota era Teresa de Jesús, según ella misma nos lo cuenta en el capítulo IX de su Vida, y a la que se encomendaba para que le alcanzase perdón. El Caballero manifestó sus deseos de cumplir hazañas en servicio de aquellas pobres mozas, que aún aguardan el Don Quijote que enderece su entuerto. «Pero tiempo vendrá – les dijo – en que las vuestras señorías me manden y yo obedezca». Y las mozas, que no estaban hechas a oír semejantes retóricas, y sí soeces groserías, «no respondían palabra»; solo le preguntaron «si quería comer alguna cosa». Cesó la risa; sintiéronse mujeres las adoncelladas mozas del partido, y le preguntaron si quería comer. «Si quería comer…». Hay todo un misterio de la más sencilla ternura en este rasgo que Cervantes nos ha transmitido. Las pobres mozas comprendieron al Caballero calando hasta el fondo su niñez de espíritu, su inocencia heroica, y le preguntaron si quería comer. Fueron dos pobres pecadoras de por fuerza las primeras que se cuidaron de mantener la vida del heroico loco. Las adoncelladas mozas, al ver a tan extraño Caballero, debieron de sentirse conmovidas en lo más hondo de sus injuriadas entrañas, en sus entrañas de maternidad, y al sentirse madres, viendo en Don Quijote al niño, como las madres a sus hijos le preguntaron maternalmente si quería comer. Toda caridad de mujer, todo beneficio, toda limosna que rinde, lo hace por sentirse madre. Con alma de madres preguntaron las mozas del partido a Don Quijote si quería comer. Ved, pues, si las adoncelló con su locura, pues que toda mujer, cuando se siente madre, se adoncella. Si quería comer… «A lo que entiendo me haría mucho al caso – respondió Don Quijote –, pues el trabajo y peso de las armas no se puede llevar sin el gobierno de las tripas». Y comió, y al oír, mientras comía, el silbato de cañas de un castrador de puercos, acabose de confirmar «que estaba en algún famoso castillo y que le servían con música, y que el abadejo eran truchas, el pan candeal y las rameras damas, y el ventero castellano del castillo, y con esto daba por bien empleada su determina-
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era tanto devota Santa Teresa di Gesù, stando a quello che ella stessa ci narra nel capitolo IX della sua Vita, ed alla quale si raccomandava perché le ottenesse il perdono. Il Cavaliere manifestò il desiderio di compiere qualche impresa al servizio di quelle povere ragazze, che ancora attendono un Don Chisciotte che raddrizzi il torto che hanno ricevuto. «Ma verrà un tempo, disse loro, in cui le signorie vostre mi comandano ed io obbedisco». E le ragazze, che non erano abituate ad udire simili complimenti, ma solo balorde villanie, «non proferivano parola»; gli chiesero soltanto «se volesse mangiare qualcosa». Le risate cessarono; le ragazze da partito, ridivenute donzelle, si sentirono donne, e gli chiesero se volesse mangiare. «Se voleva mangiare…». Vi è un grande mistero della tenerezza più ingenua, in questa scena che Cervantes ci ha trasmesso. Le povere ragazze avevano capito il Cavaliere, penetrando fino in fondo al suo spirito fanciullesco, alla sua eroica innocenza, e gli chiesero se volesse mangiare. Furono due povere peccatrici per forza, le prime che si preoccuparono di mantenere in vita l’eroico folle. Le ragazze, ridivenute donzelle, nel vedere un così strano Cavaliere, dovettero sentirsi commosse fin nel profondo delle oltraggiate viscere, nelle loro viscere materne; e nel sentirsi madri, nel vedere in Don Chisciotte, il bambino, gli chiesero maternamente, come fanno le madri coi loro figli, se voleva mangiare. La donna fa ogni carità, ogni beneficio, ogni elemosina, perché si sente madre. Con animo materno le ragazze da partito chiesero a Don Chisciotte se volesse mangiare. Vedete, dunque, se non le fece ridiventare donzelle, con la sua follia, dal momento che ogni donna, quando si sente madre, ritorna donzella. Se voleva mangiare… «A quel che sento, molto farebbe al caso mio – rispose Don Chisciotte –, perché la fatica di portare armi non si sostiene senza rifocillare le budella». E così mangiò; e nell’udire, mentre mangiava, il fischietto di canna di un castratore di maiali, finì per persuadersi «di essere in qualche famoso castello, e che lo trattavano a suon di musica, che il merluzzo era trote e il pane era buffetto e dame le bagasce e castellano del castello l’oste; riteneva quindi di aver impiegato bene la sua
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ción y salida». Con razón se dijo que nada hay imposible para el creyente, ni nada como la fe sazona y ablanda el pan más áspero y duro. «Mas lo que más le fatigaba era el no verse armado caballero, por parecerle que no se podría poner legítimamente en aventura alguna sin recibir la orden de caballería». Y decidió hacerlo.
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determinazione e la sua uscita dal borgo». Si è detto, e con ragione, che non vi è nulla di impossibile per un vero credente e che nulla come la fede condisce e rende soffice il pane più aspro e duro. «Ma quello che più l’angustiava era il non vedersi armato cavaliere, sembrandogli che non avrebbe potuto legittimamente cacciarsi in nessuna avventura senza l’ordinazione a cavaliere». E decise di procurarsela.
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donde se comenta la graciosa manera que tuvo Don Quijote en armarse caballero Va Alonso Quijano a recibir su caballeresco bautismo como Don Quijote. Y así, ahincó ambos hinojos ante el ventero pidiéndole un don, que le fue otorgado, cual fue el de que le armara caballero, y prometiendo velar aquella noche las armas en la capilla del castillo. Y el ventero «por tener que reír aquella noche, determinó de seguirle el humor», por donde se ve que era uno de estos que toman al mundo en espectáculo, cosa natural en quien estaba hecho a tanto trajín y trasíego de yentes y vinientes. ¿Cómo no tomar en espectáculo el mundo que vive en el de una posada en donde nadie posa de veras? El tener que separarse de uno apenas conocido y tratado nos lleva a buscar que reír. Era el ventero un hombre que había corrido mundo sembrando fechorías y cosechando prudencia. Y tan claveteada esta, que al responder Don Quijote a una pregunta suya «que no traía blanca porque él nunca había leído en las historias de los caballeros andantes que ninguno las hubiese traído», le dijo se engañaba, que puesto caso «que en las historias no se escribía, por haberles parecido a los autores dellas que no era menester escribir una cosa tan clara y tan necesaria de traerse, como eran dineros y camisas limpias, no por eso se había de creer que no los trujeron; y así tuviese por cierto y averiguado que todos los caballeros andantes llevaban herradas las bolsas por lo que pudiese sucederles». A lo cual «prometió Don Qui-
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nel quale si racconta il piacevole modo in cui Don Chisciotte fu armato cavaliere Alonso Chisciano sta per ricevere il suo battesimo cavalleresco come Don Chisciotte. E così piega le ginocchia al cospetto dell’oste chiedendogli un dono che gli viene concesso: quello di essere armato cavaliere; e promette di fare quella stessa notte la sua veglia d’armi nella cappella del castello. E l’oste «stabilì di assecondarne l’umore per aver di che ridere quella notte»; dal che si vede che era uno di quei tali che prendono il mondo come spettacolo, cosa naturale del resto in uno come lui, assuefatto a tanto andirivieni di chi parte e chi arriva. Come potrebbe non considerare il mondo come uno spettacolo chi vive nel microcosmo di una osteria, dove nessuno vive veramente? Doverci separare da uno non appena lo si è conosciuto, ci porta a cercare di divertirci ridendo alle sue spalle. L’oste era un uomo che aveva girato il mondo seminando cattive azioni e raccogliendo prudenza. L’aveva talmente introiettata che quando Don Chisciotte rispose a una sua domanda «che non aveva un quattrino, non avendo mai letto nelle storie dei cavalieri erranti che qualcuno ne avesse mai portato», gli disse che era in errore, poiché, anche ammesso che «non se ne scriveva nelle storie, giacché agli autori di esse era parso opportuno che non occorresse rammentare, ovviamente, una cosa tanto necessaria da portare con sé, come soldi e camicie pulite, non si doveva credere per questo che non se ne portassero: ritenesse quindi dimostrato con certezza che tutti i cavalieri erranti portavano le borse ben fornite per quel che dovesse succedere loro». Al che
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jote de hacer lo que se le aconsejaba», pues era un loco muy razonable y ante la intimación de los dineros no hay locura que no se quiebre. Pero, ¿no vive el sacerdote del altar?, se dirá. Y, ¿no es bien que de sus hazañas viva el hazañoso? ¡Dineros y camisas limpias! ilmpurezas de la realidad! Impurezas de la realidad, si, pero a las que tienen que acomodarse los héroes. También Íñigo de Loyola se esforzaba por vivir en verdadero caballero andante a lo divino, tornando, apenas salía de enfermedades, a sus acostumbradas asperezas de vida, «pero al fin la larga experiencia y un grave dolor de estómago que a menudo le saltaba – nos cuenta su historiador, lib. I, cap. IX – y la aspereza del tiempo, que era en medio del invierno, le ablandaron un poco para que obedeciese a los consejos de sus devotos y amigos; los cuales le hicieron tomar dos ropillas cortas, de un paño grosero y pardillo, para abrigar su cuerpo y del rnismo paño una medía caperuza para cubrir la cabeza». Púsose luego Don Quijote a velar las armas en el patio de la venta, a la luz de la luna y espiado por los curíosos. Y entró un arriero a dar agua a su recua y quitó las armas que estaban sobre la pila, pues cuando hay que dar de beber a nuestra hacienda arrancamos cuanto nos estorbe llegar al manantial. Más recibió su pago en un fuerte astazo de lanza que le derribó aturdido. Y a otro, que iba a lo mismo, acaeciole igual. Y a poco empezaron los demás arrieros a apedrear al Caballero, y él a dar voces llamándoles «soez y baja canalla» y los llamó «con tanto brío y denuedo», que logró atemorizarlos. Poned, pues, alma en vuestras voces, llamad con denuedo y brío canalla a los arrieros que arrancan de su reposadero las armas del ideal para poder abrevar sus recuas, y conseguiréis atemorizarlos.
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Don Chisciotte promise «di fare quello che gli veniva consigliato», poiché era in fondo un pazzo abbastanza ragionevole, e di fronte alla potenza del denaro non vi è follia che non s’incrini. Ma, si dirà, non vive il sacerdote dei proventi dell’altare? E non è giusto che chi affronta imprese viva delle sue imprese? Quattrini e camicie pulite! Impurità della realtà! Impurità della realtà, sissignori, ma tali che persino l’eroe deve adattarvisi. Anche Ignazio di Loyola faceva di tutto per vivere da autentico cavaliere errante di Dio, tornando, non appena si liberava dai suoi malanni, alla solita asprezza di vita, «ma alla fine la lunga esperienza ed un forte dolore di stomaco che spesso lo coglieva», ci narra il suo biografo nel libro I, cap. IX, «e la crudezza della stagione, giacché si era nel bel mezzo dell’inverno, lo spinsero a cedere un po’ ai consigli dei suoi amici e devoti, i quali lo indussero ad accettare due tonache corte di stoffa grossolana e grigiastra, per ripararsi il corpo e, sempre della stessa stoffa, una sorta di cappuccio per proteggersi il capo». Quindi Don Chisciotte si dispose alla veglia d’armi nel cortile dell’osteria, alla luce della luna e spiato dai curiosi. Ed entrò un mulattiere per abbeverare le bestie e tolse le armi che erano poste sulla fontana, perché quando si tratta di dar da bere alle nostre bestie, siamo pronti ad eliminare tutto quello che ci impedisce di giungere alla sorgente. Ma ebbe il compenso che gli spettava: una legnata col fusto della lancia che lo fece ruzzolare per terra tutto stordito. E ad un altro che era venuto con le medesime intenzioni successe la stessa cosa. Ma di lì a poco, gli altri mulattieri cominciarono la sassaiola contro il Cavaliere mentre egli gridava forte chiamandoli «lurida e vile marmaglia» e gridava «con tanta forza ed ardore» da riuscire perfino a spaventarli. Mettete dunque forza nelle vostre grida, chiamate con vigore ed ardore «marmaglia» i mulattieri che strappano dal loro posto le armi dell’ideale per poter abbeverare le loro bestie, e riuscirete a spaventarli.
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El ventero, temeroso de otros males, abrevió la ceremonia, llevó un libro «donde asentaba la paja y cebada que daba a los arrieros, y con un cabo de vela que traía un muchacho y con las dos ya dichas doncellas», hizo ponerse de rodillas a Don Quijote y leyendo una devota oración le dio un golpe y el espaldarazo. El libro en que asentaba la paja y cebada sirvió de Evangello ritual, y cuando el Evangello se convierte en puro rito es lo mismo. Una de las mozas, la Tolosa, toledana, le ciñó la espada deseándole venturas en lides y él le rogó se pusiese Don y se llamase Dona Tolosa, y la otra moza, la Molinera, antequerana, le calzó la espuela «y le pasó casí el mismo coloquio» con ella. Y luego se salió sin que le pidieran la costa. Ya le tenemos armado caballero por un bellaco, que harto de hurtar la vida a salto de mata, la asegura desvalijando a mansalva a los viandantes, y por dos rameras adoncelladas. Tales le entraron en el mundo de la inmortalidad, en que habían de reprenderle canónigos y graves eclesiásticos. Ellas, la Tolosa y la Molinera, le dieron de comer; ellas le ciñeron espada y le calzaron espuela, mostrándose con él serviciales y humildes. Humilladas de continuo en su fatal profesión, penetradas de su propia miseria y sin siquiera el orgullo hediondo de la degradación, fueron adoncelladas por Don Quijote y elevadas por él a la dignidad de doñas. Fue el primer entuerto del mundo enderezado por nuestro Caballero, y como todos los demás que enderezó, torcido queda. ¡Pobres mujeres que sencillamente, sin ostentación, doblan la cerviz a la necesidad del vicio y a la brutalidad del hombre, y para ganarse el pan se resignan a la infamia! ¡Pobres guardadoras de la virtud ajena, hechas sumideros de lujuria, que estancándose mancharía a las otras! Fueron las primeras en acojer al loco sublime; ellas le ciñeron espada, ellas le calzaron espuela, y de sus manos entró en el camino de la gloria.
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L’oste, per paura di altri guai, abbreviò la cerimonia: prese un libro «dove registrava la paglia e l’orzo che dava ai mulattieri e, con un mozzicone di candela che gli teneva il ragazzo e in compagnia delle predette donzelle», fece inginocchiare Don Chisciotte e, leggendo una devota orazione, gli dette una botta e l’accollata. Il libro dove segnava la paglia e l’orzo gli servì da Vangelo rituale e, quando il Vangelo si converte in puro rito, succede lo stesso. Una delle ragazze, la Tolosa, che era di Toledo, gli cinse la spada augurandogli buona fortuna in battaglia ed egli la pregò di adottare il titolo nobiliare e di chiamarsi d’ora in poi Donna Tolosa; l’altra ragazza, la Mugnaia, che era di Antequera, gli calzò gli «sproni ed egli tenne quasi lo stesso discorso» che con quella. Poi se ne partì senza che nessuno pensasse di presentargli il conto. Ecco dunque il nostro eroe armato cavaliere da un birbaccione che, stanco ormai di guadagnarsi la vita facendo il brigante di strada maestra, si dispone a svaligiare i viandanti, e da due sgualdrine ridiventate donzelle. Siffatta gente lo introdusse nel mondo dell’immortalità, nel quale avrebbe però trovato canonici e solenni ecclesiastici che lo rimproverassero. Quelle due, la Tolosa e la Mugnaia, gli dettero da mangiare; furono esse a cingergli la spada ed a calzargli gli sproni mostrandosi servizievoli ed umili con lui. Umiliate continuamente nella loro sciagurata professione compenetrate della propria miseria e prive perfino dell’orgoglio pestilenziale della degradazione, furono rifatte donzelle da Don Chisciotte ed elevate alla dignità di donne. Fu il primo torto nel mondo ad essere rimediato dal nostro Cavaliere e, come tutti gli altri che ebbe poi a rimediare, rimase torto come prima. Povere donne che ingenuamente, senza cinica ostentazione, piegano il collo alla necessità del vizio ed alla brutalità dell’uomo, e che per guadagnarsi il pane si rassegnano all’infamia! Povere custodi della virtù altrui, divenute smaltitoio di lussuria, di quella lussuria che, ristagnando, macchierebbe anche le altre! Furono esse ad accogliere il sublime folle, furono esse che gli chiesero la spada, gli calzarono gli sproni, e per loro mano entrò nella gloria.
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Y aquella vela de armas, ¿no os recuerda la del caballero andante de Cristo, la de Íñigo de Loyola? También Íñigo, la víspera de la Navidad de 1522, veló sus armas ante el altar de Nuestra señora de Monserrate. Oigámoslo al P. Rivadeneira (lib. I, cap. IV): «Como hubiese leído en sus libros de caballerías que los caballeros noveles solían velar sus armas, por imitar él, como caballero novel de Cristo, con espíritual representación, aquel hecho caballeroso y velar sus nuevas y al parecer pobres y flacas armas, más en hecho de verdad muy ricas y fuertes, que contra el enemigo de nuestra naturaleza se había vestido, toda aquella noche, parte en pie, parte de rodillas, estuvo velando delante de la imagen de Nuestra Señora, encomendándose de todo corazón a ella, dorando amargamente sus pecados y proponiendo la enmienda de la vida para en adelante».
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E questa veglia d’armi, non vi fa ricordare quella del cavaliere errante di Cristo, quella di Ignazio di Loyola? Anche Ignazio, la vigilia di Natale del 1522, vegliò le sue armi dinanzi all’altare della Madonna di Monserrato. Ascoltiamo il Padre Rivadeneira (lib. I, cap. IV): «Siccome aveva letto nei suoi libri di cavalleria che i cavalieri novizi solevano fare la veglia d’armi, anch’egli, da novizio cavaliere di Cristo, per imitare con intenzione spirituale quella cavalleresca impresa e vegliare le sue nuove ed in apparenza povere e deboli armi, che aveva indossato per combattere il nemico della nostra schiatta, per tutta quella notte, parte in piedi e parte in ginocchio, rimase a vegliare dinanzi all’immagine di Nostra Signora, raccomandandosi a Lei con tutto il cuore, piangendo amaramente i propri peccati e proponendosi di emendarsi da quel momento in poi».
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de lo que sucedió a nuestro Caballero cuando salió de la venta Salió de la venta Don Quijote y, acordándose de los consejos del sesudo ventero, determinó volverse a casa a proveerse de lo necesario y a tomar escudero. No era un necio que fuese a tiro hecho, sino un loco que admitía las lecciones de la realidad. Y al volver a casa, «a acomodarse de todo», oyó voces salientes de la espesura de un bosque, y se entró por él y vio a un labrador que azotaba a un muchacho «desnudo de medio cuerpo arriba», reprendiéndole a cada golpe. Y al ver un castigo se sublevó el espíritu de justicia del Caballero e increpó al labrador que se tomaba con quien no podía defenderse, e invitole a luchar con él, por ser de cobardes lo que hacía. «Es un mi criado», respondió con buenas palabras el castigador, contando después cómo le perdía ovejas de la manada, y que al castigarle decía el criado lo haría su amo por miserable, en lo que mentía, según el amo. «¿Miente delante de mi, ruin villano? – dijo Don Quijote –; por el sol que nos alumbra que estoy por pasaros de parte a parte con esta lanza; pagadle luego sin más réplica; si no, por el Dios que nos rige, que os concluya y aniquile en este punto; desatadlo luego».
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ciò che successe al nostro Cavaliere quando uscì dall’osteria Don Chisciotte uscì dall’osteria e, ricordandosi dei consigli del saggio oste, decise di tornarsene a casa sua per rifornirsi del necessario e per prendersi uno scudiero. Non era più uno sciocco che andasse avanti senza badare a nulla, ma un pazzo che accettava le lezioni della realtà. E quando stava ritornando a casa, «a fornirsi di tutto», udì certe grida che uscivano dal folto di un bosco, vi entrò e vide un villano che frustava un ragazzo «denudato dalla vita in su», rivolgendogli ad ogni colpo aspri rimbrotti. E, vedendo quel castigo, lo spirito di giustizia che animava il Cavaliere si ribellò e lo spinse a rimproverare il villano che se la prendeva con chi non poteva difendersi e lo invitò a combattere con lui, perché quello che stava facendo era un’impresa da codardo. «È un mio servo», rispose bonariamente il fustigatore, narrando poi come quel ragazzo gli smarriva le pecore del branco e aggiungendo che il servo, mentre egli lo puniva, diceva che il suo padrone lo faceva per avarizia, mentendo almeno a sentir lui. «Mente in mia presenza, brutto villano? – disse Don Chisciotte –; per il sole che ci illumina giuro che sono tentato di passarvi da parte a parte con questa lancia. Pagatelo subito senza replicare; altrimenti, per il Dio che ci governa, giuro di spacciarvi ed annientarvi all’istante. Slegatelo immediatamente».
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¿Mentir? ¿Mentir delante de Don Quijote? Ante él solo miente quien reprocha de mentira a otro, siempre que el reprochador sea el más fuerte. En el bajo y triste mundo no les queda de ordinario a los débiles otra defensa que la mentira contra la fortaleza de los fuertes, y así estos, los leones, han declarado nobles sus armas, las recias quijadas y las robustas garras y viles el veneno de la víbora, las patas veloces de la liebre, la astucia del zorro y la tinta del calamar, y vilísima la mentira, arma de quien no tiene otra a que acojerse. Pero, ¿mentir ante Don Quijote, o mejor dicho, mentir a solas con quien sabe la verdad? Quien miente es el fuerte, que temendo atado y azotando al débil, le echa en cara su mentira. ¿Miente? ¿Y por qué él, Juan Haldudo el rico, al ser cojido en flagrante delito, va a aumentarlo ejerciendo de acusador, de díablo? Todo amo que se toma la justicia por su mano, tiene que hacer de diablo para poder tomarsela e inventar imputaciones. Siempre el fuerte busca razones con que cohonestar sus violencias, cuando en rigor basta la violencia, que es razón de sí misma, y sobran las razones. Es preferible un pisotón a secas, cuando nos lo dan adrede, que no con un «usted dispense» de añadidura. Bajó el rico labrador la cabeza – ¿y qué iba a hacer ante la verdad que, armada de lanzón, le hablaba amenazadora? –, bajó la cabeza sin responder, desató al criado y ofreció, so pena de muerte, pagarle sesenta y tres reales cuando llegaran a casa, pues no tenía allí dinero. Resistiose el mozo a ir, por miedo a nueva paliza, mas Don Quijote replicó: «no hará tal, basta que yo se lo mande para que me tenga respeto, y con que él me lo jure por la ley de caballería que ha recibido, le dejaré ir libre y aseguraré la paga». Protestó el criado, diciendo no ser caballero su amo, sino Juan Haldudo el rico, vecino del Quintanar, a lo que respondió Don Quijote que puede haber Haldudos caballeros «y cada uno es hijo de sus obras». Lo de haberle tornado por caballero Don
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Mentire? Mentire al cospetto di Don Chisciotte? Dinanzi a lui mente soltanto chi accusa di menzogna un altro, sempre che chi rimbrotta sia il più forte. In questo basso e triste mondo, ai deboli non rimane altra difesa che la menzogna contro la prepotenza dei forti; e perciò questi, che sono i leoni, hanno proclamato la nobiltà delle loro armi, le robuste zanne ed i formidabili artigli, e la viltà del veleno della vipera, delle veloci zampe della lepre, dell’astuzia della volpe e del nero dei calamari, dichiarando poi molto vile la menzogna, unica arma di chi non ne ha altre con cui proteggersi. Ma mentire al cospetto di Don Chisciotte o, per meglio dire, mentire a quattr’occhi con chi conosce la verità? Chi mente è il forte che, mentre tiene avvinto il debole e lo frusta, gli rinfaccia la sua menzogna. Mente? E perché lui, Gianni Gonnella il ricco, quando viene colto in flagrante delitto, accresce le sue colpe facendosi accusatore e diavolo? Ogni padrone che si fa giustizia di sua mano deve praticarla anche da diavolo per potersela fare ed inventare accuse. Il forte va sempre in cerca di ragioni per le proprie violenze, mentre a rigore è sufficiente la violenza che si giustifica da sola, e le ragioni non servono. È preferibile una violenta pestata senza attenuanti, quando ce la danno a bella posta, a una che si faccia accompagnare da un bel «mi scusi». Il ricco contadino chinò la testa – e che altro poteva fare di fronte alla verità che, armata di una lancia, gli parlava minacciosamente? – chinò la testa senza rispondere, slegò il servo e promise, pena la morte, di sborsargli sessantatré reali appena arrivati a casa, poiché non aveva quattrini con sé. Il ragazzo non voleva saperne di andare con lui per timore di una nuova bastonatura, ma Don Chisciotte ribatté: «Non lo farà. Basta che glielo ordini io perché mi porti rispetto. Purché me lo giuri per la legge della cavalleria che ha ricevuto, lo lascerò andare via libero e mi farò garante del pagamento». Il servo protestò dicendo che il suo padrone non era affatto cavaliere ma soltanto Gianni Gonnella il ricco, abitante a Quintanar; e a ciò rispose Don Chisciotte che vi possono essere benissimo dei Gonnella cavalieri e «ciascuno è figlio delle sue azioni». La ragione per cui Don Chisciotte lo
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Quijote vino de que vio «tenía una lanza arrimada a la encina adonde estaba arrendada la yegua»; ¿quiénes sino los caballeros usan lanza, ni cómo sino por ella va a conocérseles? Notemos aquel «no hará tal, basta que yo se lo mande para que me tenga respeto», sentencia probadora de la honda fe del caballero en sí mismo, fe en que se ensalzaba, pues no teniendo aún obras, creiase hijo de las que pensaba acometer y por las que cobraria eterno renombre y fama. Poco cristiano a primera vista lo de tener a un hijo de Dios por hijo de sus obras, más es que el cristianismo de Don Quijote estaba más adentro, mucho más adentro, por debajo de gracia de fe y de mérito de obras, en la raíz común a la naturaleza y a la gracia. Prometido, pues, por Juan Haldudo el rico, el pagar a su criado un real sobre otro y aun sahumados, sahumerio del que le hizo gracia Don Quijote, encomendándole cumpliera como juró, pues de otro modo juraba él volver a buscarlo y castigarle, pues tendría que hallarlo aunque se escondiese más que una lagartija; prometido así por Juan Haldudo, se apartó Don Quijote. Y cuando hubo traspuesto el bosque y ya no parecía, volviose el rico Haldudo a su criado, tornó a atarle a la encina y le hizo pagar cara la justicia de Don Quijote. Y con esto el criado «se partió llorando y su amo se quedó riendo; y de esta manera deshizo el agravio el valeroso Don Quijote» – agrega Cervantes maliciosamente –. Y con él maliciarán cuantos hablan de lo contraproducente del ideal. Mas ahora, ¿ahora quién rie y quién llora ahora? El caballero se fue su camino, lleno de fe, ponderando su hazaña y cómo quitó el látigo de la mano
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aveva preso per cavaliere era di aver visto che «aveva anche una lancia appoggiata alla quercia dove era legata per le briglie la cavalla»; e chi, se non i cavalieri, usa la lancia? E come si farebbe a riconoscerli se non fosse, appunto, per la lancia? Notiamo quel «non lo farà; basta che glielo ordini io perché mi rispetti», sentenza che prova la profonda fede del cavaliere in se stesso, fede che gli teneva alto lo spirito poiché, non avendo ancora opere al suo attivo, si riteneva figlio di quelle che si proponeva di compiere e che gli avrebbero dato eterna rinomanza e fama. È poco cristiano, a prima vista, considerare un figlio di Dio figlio delle proprie opere, ma bisogna pensare che il cristianesimo di Don Chisciotte andava più a fondo, assai più in profondità, al di sotto della grazia della fede e del merito delle buone opere, in quella radice che hanno in comune la natura e la grazia. Quando Gianni Gonnella il ricco ebbe fatto solenne promessa di pagare al suo servo un reale sull’altro, ed anche profumati, profumo del quale gli fece grazia Don Chisciotte mentre gli raccomandava di adempiere al giuramento fatto, altrimenti giurava lui di ritornare a cercarlo ed a punirlo, – e l’avrebbe ritrovato in ogni modo, nonostante si fosse nascosto meglio di una lucertola –; fatta dunque la solenne promessa da parte di Gianni Gonnella, Don Chisciotte si allontanò. Ma non appena ebbe superato il bosco e non lo si vide più, ecco che il ricco Gianni Gonnella torna a scagliarsi sul suo povero servo, lo lega per la seconda volta alla quercia e gli fa pagare cara la giustizia di Don Chisciotte. E così il servo «se ne andò piangendo e il suo padrone rimase a ridersela. E così risolse quell’ingiuria il valoroso Don Chisciotte», soggiunge maliziosamente Cervantes. E con lui se la rideranno tutti coloro che parlano degli effetti controproducenti dell’ideale. Ma adesso, adesso chi è che ride, chi è che piange? Il Cavaliere riprese la sua strada pieno di fede, orgoglioso della sua impresa per la maniera in cui aveva strappato la frusta di
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«a aquel despiadado enemigo que tan sin ocasión vapuleaba a aquel delicado infante». Al cual le fue sin duda de mayor premio la segunda tanda de azotes con que le dejó por muerto su amo, que no la primera y sin duda muy merecida en justicia humana. Más le valieron y más le enseñaron aquellos segundos furíosos azotes, que le hubieran valido y enseñado los sesenta y tres reales sahumados. Aparte de lo cual, tienen las aventuras todas de nuestro Caballero su fior en el tiempo y en la tierra, pero sus raíces en la eternidad, y en la eternidad y en los profundos, el entuerto del criado de Juan Haldudo el rico, quedó muy bien y para siempre enderezado. Siguió Don Quijote el camino que a Rocinante le placía, pues todos ellos llevan a la eternidad de la fama cuando el pecho alberga esforzado empeno. También Íñigo de Loyola, cuando, camino de Monserrate, se separó del moro con quien había disputado, determinó dejar a la cabalgadura en que iba la elección de camino y de porvenir. Y yendo así Don Quijote, es cuando dio con aquel tropel de mercaderes toledanos que iban a comprar seda a Murcia. Y vio nueva aventura y se plantó ante ellos como Cervantes nos lo cuenta, y quiso hacerlos confesar, a los mercaderes!, que «no hay en el mundo todo doncella más hermosa que la emperatriz de La Mancha, la sin par Dulcinea del Toboso». Los corazones mezquinos que solo miden la grandeza de las acciones humanas por el bajo provecho de la carne o el sosiego de la vida externa, alaban el intento de Don Quijote al querer hacer pagar a Haldudo el rico o al socorrer a menesterosos, pero no ven sino mera locura en esto de querer que los mercaderes confesasen, sin haberla nunca visto, la sin par hermosura de Dulcinea del Toboso. Y esta es, sin embargo, una de las más quijotescas aventuras de Don Quijote; es decir, una de las que más levantan el corazón de los redimidos por su locura. Aquí Don Quijote no se dispone a pelear por favorecer a menesterosos, ni por enderezar entuertos, ni por reparar injusticias, sino por la conquista del reino espíritual de la fe. Quería ha-
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mano «a quello spietato avversario che senza alcun motivo sferzava quel debole ragazzo». Al quale indubbiamente giovò di più la seconda razione di frustate con la quale il suo padrone lo lasciò lì tramortito, che non la prima, che indubbiamente aveva più che meritato secondo l’umana giustizia. Gli servirono di più e l’ammaestrarono meglio quelle furibonde frustate della seconda volta, di quanto gli sarebbero serviti e l’avrebbero ammaestrato i sessantatré reali profumati. Senza contare che tutte le avventure del nostro Cavaliere recano il loro fiore nel tempo e sulla terra, ma hanno la loro radice nell’eternità; e nell’eternità e nel profondo dell’inferno il torto subito dal servo di Gianni Gonnella il ricco rimase raddrizzato benissimo e per sempre. Don Chisciotte seguì la strada che piaceva maggiormente a Ronzinante, poiché tutte le strade conducono all’eternità della fama quando nel petto alberga un coraggioso proposito. Anche Ignazio di Loyola quando, avviandosi a Monserrato, si separò dal moro col quale aveva avuto una disputa, si decise a lasciare alla sua cavalcatura la scelta della via e dell’avvenire. E proprio mentre così procedeva, a Don Chisciotte capitò di imbattersi in quel gruppo di mercanti toledani che andavano a Murcia a comperare della seta. E vide in ciò una nuova avventura per cui si piantò dinanzi a loro, come ci narra Cervantes, pretendendo che confessassero – proprio i mercanti! – «che non c’è in tutto il mondo una donzella più bella dell’imperatrice della Mancia, la impareggiabile Dulcinea del Toboso». I cuori meschini che misurano la grandezza delle azioni umane soltanto attraverso il vile profitto della carne o la pace della vita eterna, lodano l’intento di Don Chisciotte quando pretende di far pagare Gonnella il ricco o quando soccorre i bisognosi, ma non intravvedono che pura follia nell’esigere che i mercanti confessassero, pur senza averla mai vista, l’impareggiabile bellezza di Dulcinea del Toboso. E tuttavia questa è una delle più chisciottesche avventure di Don Chisciotte; cioè una di quelle che risollevano più in alto i cuori di coloro che ha redento con la sua follia. Qui Don Chisciotte non si dispone a combattere per soccorrere i bisognosi, né per raddrizzare torti, né per ristabilire la giustizia, ma solo per la conquista del regno spirituale della
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cer confesar a aquellos hombres, cuyos corazones amonedados solo veían el reino material de las riquezas, que hay un reino espíritual y redimirlos así, a pesar de ellos mismos. Los mercaderes no se rindieron a primeras, y duros de pelar, acostumbrados a la risa y al regateo, regatearon la confesión, disculpándose con no conocer a Dulcinea. Y aquí Don Quijote monta en quijotería y exclama: «Si os la mostrara, ¿qué hiciérades vosotros en confesar una verdad tan notoria? La importancia está en que sin verla lo habéis de creer, confesar, afirmar, jurar y defender». ¡Admirable Caballero de la Fe! ¡Y cuán hondo su sentido de esta! Era de su pueblo, que fue también tizona en la diestra y en la siniestra el Cristo, a hacer confesar a remotas gentes un credo que no conocían. Solo que alguna vez cambió de manos y erigió en alto la espada y golpeó con el crucifijo. «Gente descomunal y soberbia» llamó con razón Don Quijote a los mercaderes toledanos, pues ¿cuál mayor soberbia que negarse a confesar, afirmar, jurar y defender la hermosura de Dulcinea, sin haberla visto? Mas ellos, retusos en la fe, insistieron, y como los contumaces judíos, que pedían al Señor senales, pidieron al Caballero les mostrase algún retrato de aquella señora, aúnque fuera «tamaño como un grano de trigo», y añadiendo a la contumacia protervia, blasfemaron. Blasfemaron, suponiendo a la sin par Dulcinea, lucero de nuestras andanzas por sobre los senderos de esta baja vida, consuelo en las adversidades, manadero de acometedores bríos,
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fede. Voleva far confessare a quegli uomini che con i loro cuori coniati in moneta scorgevano soltanto il regno materiale delle ricchezze, mentre esiste anche un regno spirituale, e redimerli così, malgrado loro stessi. I mercanti non cedettero sulle prime e, duri com’erano da scorticare e abituati a tirare sui prezzi e alla contrattazione, cercarono di esimersi dalla confessione scusandosi col dire che non conoscevano Dulcinea. Ed è qui che Don Chisciotte si esibisce nella più bella chisciottata ed esclama: «Se ve la mostrassi, che cosa mai varrebbe la confessione di una verità così evidente? L’importante sta nel dovere, senza vederla, credere a quel che dico, confessarlo, giurarlo e sostenerlo». Meraviglioso Cavaliere della Fede! E quanto è profondo il suo senso della fede! Era degno del suo popolo che andò, con la spada nella mano destra e il Cristo nella sinistra, a far confessare a genti lontane un credo che non conoscevano. Solo che, qualche volta, quel popolo cambiò mano e levò in alto la spada e colpì forte col Crocefisso. Don Chisciotte chiamò con piena ragione i mercanti toledani. «Gente malvagia e superba», poiché infatti qual maggior superbia che rifiutarsi di confessare, giurare e sostenere la bellezza di Dulcinea senza averla vista? Ma essi, recalcitrando alla fede, insistettero e, come gli ostinati Giudei che chiedevano al Signore un segno, domandarono al Cavaliere che mostrasse loro un qualche ritratto di quella signora, anche «della grandezza di un chicco di grano»; e in tal modo, aggiungendo protervia all’ostinazione, bestemmiarono. Bestemmiarono supponendo che l’impareggiabile Dulcinea, stella che vigila sul nostro errare per i sentieri di questa bassa vita, consolatrice nelle avversità, sorgente di ardimentose im-
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doncella engendradora de altas empresas, por quien es llevadera la vida y vividora la muerte; supusieron a la sin par Dulcinea «tuerta de un ojo y que del otro le mana bermellón y piedra azufre. No le mana, canalla infame – respondió Don Quijote encendido en cólera –, no le mana eso que decís, sino ámbar y algalia entre algodones, y no es tuerta ni corcovada, sino más derecha que un huso de Guadarrama». ¡No le mana!, ¡no le mana! – repitamos nosotros todos –, ¡no le mana!, ¡no le mana!, infames mercaderes; ¡no le mana sino ámbar y algalia entre algodones! Ámbar mana de los ojos de la Gloria que con ellos nos mira, infames mercaderes. Y para hacerles pagar, y cara, tan gran blasfemia, arremetió Don Quijote con la lanza baja contra el que lo había dicho «con tanta furia y enojo, que si la buena suerte no hiciera que en la mitad del camino tropezara y cayera Rocinante, lo pasara mal el atrevido mercader». Ya está en el suelo Don Quijote, gustando con sus cestillas la dureza de la madre tierra; es su primer caída. Parémonos a considerarla. Cayó Rocinante, y fue rodando su amo una buena pieza por el campo, y queriéndose «levantar, jamás pudo: tal embarazo le causaban la lanza, adarga, espuelas y celada con el peso de las antiguas armas». Ya diste en tierra, mi señor Don Quijote, por fiar en tu propia fortaleza y en la fortaleza de aquel rocín a cuyo instinto fiabas tu camino. Tu presunción te ha perdido: el creerte hijo de tus obras. Ya diste en tierra, mi pobre hidalgo, y en ella tus armas antes te sirven de embarazo que de ayuda. Mas no te importe, pues tu triunfo fue siempre el de osar y no el de cobrar suceso. La que llaman victoria los mercaderes era indigna de ti; tu grandeza estribó en no reconocer nunca tu vencimiento. Sabiduría del corazón y no ciencia de la cabeza es la de saber ser derrotado y usar de la derrata. Hoy son los mercaderes toledanos los que están en derrata y en gloria tú, noble Caballero.
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prese, donzella incitatrice alle più alte cose, per merito della quale è accettabile la vita e sopportabile la morte; supposero, dicevamo, che l’impareggiabile Dulcinea fosse «guercia da un occhio e che dall’altro le colasse cinabro e giallo di zolfo…Non le cola, canaglia infame, – rispose Don Chisciotte infiammato d’ira – non le cola, dico, questo che voi dite, bensì ambra e zibetto sopraffini; e non è guercia, né gobba, ma più dritta di un fuso del Guadarrama». Non le cola! Non le cola! ripetiamo anche noi, tutti assieme; non le cola! non le cola, infami mercanti! Non le cola che ambra e zibetto sopraffini! Cola ambra dagli occhi della Gloria e con essi ci guarda, infami mercanti! E per far pagare loro, e ben cara, una così grande bestemmia, Don Chisciotte si lanciò, lancia in resta, contro colui che aveva parlato «con tanta furia e rabbia che se per buona fortuna Ronzinante non fosse inciampato e caduto in mezzo alla strada, il baldanzoso mercante l’avrebbe passata brutta». Ecco dunque Don Chisciotte sbalzato a terra, che assaggia con le costole la durezza della madre terra; è la sua prima caduta. Soffermiamoci a considerarla. Ronzinante cadde e per un buon tratto trascinò per il campo il suo padrone che, cercando di rialzarsi da terra, «non ci riuscì, poiché erano di impaccio la lancia, lo scudo, gli speroni e la celata, insieme alla pesantezza di quelle vecchie armi». Sei bell’e caduto per terra, mio signor Don Chisciotte, per troppa fiducia nella tua forza e nella forza del ronzino al cui istinto affidavi la scelta della strada. La tua presunzione ti ha perduto: quella di ritenerti figlio delle tue azioni. Sei bell’e caduto per terra, mio povero hidalgo, e, una volta steso al suolo, le armi sono più d’impaccio che d’aiuto. Ma non te la prendere, poiché i tuoi trionfi consistettero sempre nell’osare, non già nel conseguire il successo. Quella che i mercanti chiamano vittoria non era degna di te; la tua grandezza scaturì sempre dal fatto che mai volesti ammettere la sconfitta. Sapienza del cuore e non scienza del cervello è quella di saper essere sconfitto e di servirsi anche della sconfitta. Oggi sono i mercanti toledani gli sconfitti, e tu vivi nella gloria, nobile Cavaliere.
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Y desde el suelo, tendido en él y pugnando por levantarte, aún los denostabas llamándolos «gente cobarde, gente cautiva», y haciéndoles ver que no por tu culpa, sino por la de tu caballo, estabas allí tendido. Tal nos sucede a nosotros, tus creyentes: no por nuestra culpa, sino por la culpa de los rocines que nos llevan por los senderos de la vida, estamos tendidos y sin poder levantarnos, pues nos embaraza para hacerlo el peso de la antigua armadura que nos cubre. ¿Quién nos desnudará de ella? Y llegó un mozo de mulas, «que no debía de ser muy bienintencionado», según Cervantes, «y oyendo decir al pobre caído tantas arrogancias no lo pudo sufrir sin darle la respuesta en las costillas» y le molió a palos «hasta envidar todo el resto de su cólera» y sin hacer caso a las voces de sus amos de que le dejase. Ahora, ahora que estás tendido y sin poder levantarte, mi señor Don Quijote, ahora viene el mozo de mulas, peor intencionado que los mercaderes a que sirve, y te da de palos. Pero tú, sin par Caballero, molido y casí deshecho, tiéneste por dichoso, pareciéndote ser esa «propia desgracia de caballeros andantes», y con este tu parecer encumbras tu derrota, trasmudándola en victoria. ¡Ah, si nosotros, tus fieles, nos tuviésemos por dichosos de haber sido molidos a palos, desgracia propia de caballeros andantes! Más vale ser león muerto que no perro vivo. Esta aventura de los mercaderes trae a mi memoria aquella otra del caballero Íñigo de Loyola, que nos cuenta el P. Rivadeneira en el capítulo III del libro I de su Vida, cuando yendo Ignacio camino de Monserrate «topó acaso con un moro de los que en aquel tiempo quedaban en España en los reinos de Valencia y Aragón» y «comenzaron a andar juntos, y a trabar plática, y de una en otra vinieron a tratar de la virginidad y pureza de la gloríosisima Virgen Nuestra Señora» Y tal se puso la cosa, que Íñigo, al separarse del moro, quedó «muy dudoso y perplejo en lo que había de hacer; porque no sabía si la fe que profesaba y la piedad cristiana le obligaba a darse priesa tras el moro, y alcanzarle y darle de puñaladas por el atrevimiento y osadía que
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E lì per terra, lungo disteso, facendo di tutto per tirarti su, li sfidavi ancora, chiamandoli «gente codarda, gente miserabile», e dimostrando loro che non per colpa tua ma per difetto del cavallo giacevi là disteso. Lo stesso accade a noi, tuoi credenti: non per colpa nostra ma per difetto dei ronzini che ci portano per i sentieri della vita, giaciamo distesi senza poterci rialzare, poiché ci impedisce di farlo il peso dell’antica armatura che ci copre. Chi potrà mai spogliarcene? E arrivò un mulattiere, «che non doveva essere molto ben intenzionato», a quel che dice Cervantes e, «sentendo dire al povero caduto tante insolenze, non le poté sopportare senza rispondergli facendogli provare fino alle costole il suo risentimento» e lo macinò per bene a legnate «fino a far tacere tutto il resto della sua collera» e senza badare alle grida dei suoi padroni che lo lasciasse stare. Adesso, adesso che sei lì disteso senza poterti rialzare mio signor Don Chisciotte, adesso arriva il mulattiere peggio intenzionato dei mercanti che serve, e ti prende a legnate. Ma tu, impareggiabile Cavaliere, macinato dalle botte e quasi disfatto, ti consideri fortunato, poiché ti pare che questa sia «una disavventura tipica dei cavalieri erranti»; e con questa considerazione esalti la tua sconfitta tramutandola in vittoria. Ah, se noi, tuoi fedeli ci considerassimo fortunati di essere stati macinati a suon di botte, disavventura tipica dei cavalieri erranti! È meglio essere leone morto che cane vivo. Quest’avventura dei mercanti mi richiama alla mente l’altra, del cavaliere Ignazio di Loyola, che il Padre Rivadeneira ci narra nel capitolo III del I libro della sua Vita, quando mentre Ignazio procedeva lungo la strada di Monserrato, «s’imbatté casualmente in un moro, di quei pochi che restavano ancora in Spagna, nei regni di Valencia e d’Aragona» e «cominciarono ad andare di pari passo chiacchierando e da un discorso all’altro cominciarono a discutere sulla verginità e la purezza della gloriosissima Vergine Nostra Signora». E le cose arrivarono a tal punto che Ignazio, separatosi dal moro, rimase «assai dubbioso e perplesso sul da farsi; perché non sapeva se la fede che professava e la pietà cristiana lo obbligavano ad affrettarsi alle calcagna del moro per raggiungerlo e trafiggerlo a pugnalate per la temera-
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había tenido de hablar tan desvergonzadamente en desacato de la bienaventurada siempre Virgen sin mancilla». Y al llegar a una encrucijada, se le dejó a la cabalgadura, según el camino que tomase, o para buscar al moro y matarle a puñaladas o para no hacerle caso. Y Dios quiso iluminar a la cabalgadura, y «dejando el camino ancho y llano por do había ido el moro, se fue por el que era más a propósito para Ignacio». Y ved cómo se debe la Compañia de Jesús a la inspiración de una caballería.
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rietà e l’ardire che aveva mostrato nel parlare tanto spudoratamente offendendo la beata sempre Vergine senza macchia». E, arrivando ad un incrocio, lasciò fare al suo cavallo per decidere, secondo la direzione che avesse preso, se gli convenisse andare in cerca del moro e ammazzarlo a pugnalate, o non pensarci più. E Dio volle illuminare il cavallo, sicché «lasciando da parte la strada larga e comoda per la quale si era allontanato il moro, s’avviò per quella che più conveniva ad Ignazio». Potete così vedere come la Compagnia di Gesù sia dovuta all’ispirazione di un cavallo.
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donde se prosigue la narración de la desgracia de nuestro Caballero Tendido Don Quijote en tierra se acojió a uno de los pasos de sus libros, como a pasos de los nuestros nos acojemos en nuestra derrata, y comenzó a revolcarse por tierra y a recitar coplas. En lo cual debemos ver algo así como cierta deleitación en la derrota y un convertir a esta en sustancia caballeresca. ¡No nos está pasando lo mismo en España? ¿No nos deleitamos en nuestra derrota y sentimos cierto gusto, como el de los convalecientes, en la propia enfermedad? Y acertó a pasar Pedro Alonso, un labrador vecino suyo, que le levantó del suelo, le reconoció, le recojió y le llevó a su casa. Y no se entendieron en el camino, en la plática que hubieron entre ambos, pládca de que sin duda tuvo noticia Cervantes por el mismo Pedro Alonso, varón sencillo y de escasas comprendederas. Y en esta plática es cuando Don Quijote pronunció aquella sentencia tan preñada de sustancia, que dice: «¡Yo sé quién soy!». Sí, él sabe quién es y no lo saben ni pueden saberlo los piadosos Pedros Alonsos. «¡Yo sé quién soy!», dice el héroe, porque su heroísmo le hace conocerse a sí propio. Puede el héroe decir: «yo sé quién soy», y en esto estriba su fuerza y su desgracia a la vez. Su fuerza, porque como sabe quién es, no tiene por qué
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dove prosegue il racconto della disgrazia del nostro Cavaliere Steso a terra, Don Chisciotte si rifece a un passo dei suoi libri, come a passi dei nostri ci rifaremo noi nelle nostre sconfitte, e cominciò a rotolarsi a terra ed a recitare poesie. E in ciò dobbiamo vedere una specie di diletto scaturito dalla sconfitta e un modo di ridurla a sostanza cavalleresca. E non succede lo stesso a noi, qui in Spagna? Non ci dilettiamo della nostra sconfitta4 e non proviamo un certo piacere, simile a quello che provano i convalescenti nella malattia? E passò casualmente di lì Pietro Alonso, un agricoltore suo vicino, che lo rialzò da terra, lo riconobbe, lo aiutò e lo ricondusse a casa sua. Ma non riuscirono a intendersi lungo la strada nella conversazione che ebbero e della quale indubbiamente Cervantes ebbe notizia dallo stesso Pietro Alonso, che era un sempliciotto di scarso comprendonio. Ed è proprio in questa conversazione che Don Chisciotte pronunziò la famosa sentenza, tanto pregna di sostanza che dice: «So io chi sono!». Sì, egli sa chi è, non lo sanno però, né possono saperlo, i pietosi Pietro Alonso. «So io chi sono!»!, dice l’eroe, perché il suo eroismo fa sì che conosca se stesso. L’eroe può dire: «So io chi sono!», e proprio in questo consistono ad un tempo la sua forza e la sua sventura. La sua forza, perché, siccome sa chi è, non ha 4 Unamuno allude alla sconfitta della Spagna nella guerra con gli Stati Uniti (1898) con la perdita delle ultime colonie: Cuba, Portorico e le Filippine. Tutto ciò diede origine alla celebre “Generazione del 1898”, che ha rinnovato il pensiero spagnolo sia dal punto di vista letterario-artistico che filosofico. (N.d.T.)
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temer a nadie, sino a Dios, que le hizo ser quien es; y su desgracia, porque solo él sabe, aquí en la tierra, quién es él, y como los demás no lo saben, cuanto él haga o diga se les aparecerá como hecho o dicho por quien no se conoce, por un loco. Cosa tan grande como terrible la de tener una misión de que solo es sabedor el que la tiene y no puede a los demás hacerles creer en ella: la de haber oído en las reconditeces del alma la voz silenciosa de Dios, que dice: «tienes que hacer esto», mientras no les dice a los demás: «este mi hijo que aquí veis, tiene esto que hacer». Cosa terrible haber oído: «haz eso; haz eso que tus hermanos, juzgando por la ley general que os rijo, estimarán desvarío o quebrantamiento de la ley misma; hazlo, porque la ley suprema soy Yo, que te lo ordeno». Y como el héroe es el único que lo oye y lo sabe, y como la obediencia a ese mandato y la fe en él es lo que le hace, siendo por ello héroe, ser quien es, puede muy bien decir: «yo sé quién soy, y mi Dios y yo solo lo sabemos y no lo saben los demás». Entre mi Dios y yo – puede añadir – no hay ley alguna medíanera; nos entendemos directa y personalmente, y por eso sé quién soy. ¿No recordáis al héroe de la fe, a Abraham, en el monte Moria? Grande y terrible cosa el que sea el héroe el único que vea su heroicidad por dentro, en sus entrañas mismas, y que los demás no la vean sino por fuera, en sus extrañas. Es lo que hace que el héroe viva solo en medio de los hombres y que esta su soledad le sirva de una compañía confortadora; y si me dijerais que alegando semejante revelación íntima podría cualquiera, con achaque de sentirse héroe suscitado por Dios, levantarse a su capricho, os diré que no basta decirlo y alegarlo, sino es menester creerlo. No basta exclamar «yo sé quién soy!», sino es menester saberlo, y pronto se ve el engaño del que lo dice y no lo sabe y acaso ni lo cree. Y si lo dice y lo cree, soportará resignadamente la adversidad de los prójimos que le juzgan con la ley general, y no con Dios.
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motivo di temere alcuno tranne Dio, che ha fatto di lui ciò che è; e la sua sventura, perché soltanto egli sa, su questa terra, chi è; e siccome gli altri non lo sanno, tutto ciò che egli farà o dirà, sembrerà loro fatto e detto da uno che non si conosce, da un pazzo. È cosa grande non meno che terribile, l’avere una missione della quale è consapevole soltanto colui che la possiede e che non riesce a far credere in essa tutti gli altri; l’aver udito nel più recondito dell’anima la voce silenziosa di Dio che dice: «Devi fare questo», mentre non dice agli altri: «questo mio figlio che vedete qui, deve fare questo». È terribile l’aver udito dire: «Fa’ questo; fa’ questo che i tuoi fratelli, giudicando secondo la legge generale con cui li governo, considerarono follia o infrazione della stessa legge; fallo, perché la legge suprema sono Io che te lo ordino». E, siccome l’eroe è l’unico che ode e sa tutto ciò, e siccome l’ubbidienza a questo comando e la fede in essa sono ciò che lo fanno – ed è perciò eroe – essere chi è, può a buon diritto dire: «So io chi sono, e il mio Dio ed io soltanto lo sappiamo, ma non lo sanno gli altri». Tra il mio Dio ed io – può aggiungere – non c’è alcuna mediazione; ci intendiamo direttamente e personalmente, ed è per questo appunto che io sono chi sono. Non ricordate l’eroe della fede, Abramo, sul monte Moria? Grande e terribile cosa è che sia l’eroe l’unico a poter vedere la sua eroicità dal di dentro, nelle sue stesse viscere, mentre gli altri non la vedono che dal di fuori, nelle viscere di lui. È ciò che fa sì che l’eroe viva solo in mezzo agli uomini e che questa sua solitudine gli serva da confortante compagnia; e se mi veniste a dire che, col pretesto di una simile rivelazione intima, uno qualunque potrebbe, assumendo di sentirsi eroe suscitato da Dio, sollevarsi a suo capriccio, vi dirò che non basta dirlo ed assumerlo di esserlo, ma bisogna credervi. Non basta esclamare: «So io chi sono!», bisogna saperlo davvero e si scopre ben presto l’inganno di chi lo dice, ma non lo sa e forse nemmeno vi crede. E se lo dice e vi crede, sopporterà con rassegnazione l’avversione del prossimo che continuerà a giudicarlo secondo la legge generale, e non secondo Dio.
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«¡Yo sé quién soy!». Al oír esta arrogante afirmación del Caballero, no faltará quien exclame: «¡Vaya con la presunción del hidalgo!… Llevamos siglos diciendo y repitiendo que el ahínco mayor del hombre debe ser el de buscar conocerse a si mismo, y que del propio conocimiento arranca toda salud, y se nos viene el muy presuntuoso con un redondo: “¡yo sé quién soy!”. Esto solo basta para medir lo hondo de su locura». Pues bien, te equivocas tú, el que dices eso; Don Quijote discurría con la voluntad, y al decir «yo sé quién soy!» no dijo sino «yo sé quién quiero ser!». Y es el quicio de la vida humana toda: saber el hombre lo que quiere ser. Te debe importar poco lo que eres; lo Cardinal para ti es lo que quieras ser. El ser que eres no es más que un ser caduco y perecedero, que come de la tierra y al que la tierra se lo comerá un día; el qué quieres ser es tu idea en Dios, Conciencia y Universo: es la divina idea de que eres manifestación en el tiempo y el espacio. Y tu impulso querencioso hacia ese que quieres ser no es sino la morriña que te arrastra a tu hogar divino. Solo es hombre hecho y derecho el hombre cuando quiere ser más que hombre. Y si tu, que así reprochas su arrogancia a Don Quijote, no quieres ser sino lo que eres, estás perdido, irremisiblemente perdido. Estás perdido si no despiertas en tus entrañas a Adán y su feliz culpa, la culpa que nos ha merecido redención. Porque Adán quiso ser como un dios, sabedor del bien y del mal, y para llegar a serlo comió del prohibido fruto del árbol de la ciencia, y se le abrieron los ojos y se vio sujeto al trabajo y al progreso. Y desde entonces empezó a ser más que hombre, tornando fuerzas de su flaqueza y haciendo de su degradación su gloria y del pecado cimiento de su redención. Y hasta los ángeles le envidíaron, pues nos dice el P. Gaspar de la Figuera, jesuita, en su Suma Espíritual, y cuando él nos lo asegura lo sabrá de buena tinta, que Lucifer y sus compañeros se agradaron a si mismos, pareciéndoles bien, y que «cuando llegó el mandato de Dios que adorasen a Cristo to-
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«So io chi sono!». Nell’udire quest’arrogante dichiarazione del Cavaliere, non mancherà chi esclami: «Che razza di presunzione, quell’hidalgo!… Sono ormai secoli che diciamo che l’impegno maggiore dell’uomo dev’essere quello di conoscere se stesso e che dalla conoscenza di se stessi deriva ogni salvezza; e quel presuntuoso se ne viene a spiattellarci un: ‘So io chi sono!’. Basterebbe soltanto questo per darci la misura della sua follia». Ebbene, chi sbaglia sei proprio tu; tu che parli così; Don Chisciotte ragionava con la volontà e quando diceva: «So io chi sono!», intendeva dire soltanto: «So io chi voglio essere!». E questo è il cardine di tutta la vita umana: che l’uomo sappia chi vuol essere. Ti deve importare poco ciò che sei; la cosa fondamentale per te è ciò che vuoi essere. L’essere che sei, non è altro che un essere caduco e perituro, che mangia di ciò che gli dà la terra e che un giorno la terra si mangerà; ciò che invece vuoi essere è l’idea di te in Dio, Coscienza e Universo: è la divina idea di cui tu sei una manifestazione nel tempo e nello spazio. E il tuo impulso volitivo verso quello che vuoi essere, non è altro che la nostalgia che ti trascina verso il tuo divino focolare. L’uomo è uomo in tutto e per tutto soltanto quando vuol essere più che uomo. E se tu, che rimproveri così Don Chisciotte per la sua arroganza, non vuoi essere altro rispetto a ciò che sei, sei perduto, irrimediabilmente perduto. Sei perduto se non ridesti nelle tue stesse viscere Adamo e la sua felice colpa, la colpa che ci ha reso meritevoli della redenzione. Perché Adamo volle essere simile a Dio, volle conoscere il bene e il male; e per giungervi assaggiò il frutto proibito dell’albero della scienza, e gli si aprirono gli occhi e si trovò soggetto al lavoro ed al progresso. E da quel momento incominciò ad essere più che uomo, facendo di necessità virtù, e traendo dalla propria degradazione la sua gloria e dal peccato le fondamenta della propria redenzione. E perfino gli angeli lo invidiarono poiché, ci dice P. Gaspare de la Figuera, gesuita, nella sua Somma spirituale – e dal momento che ce lo assicura lui, significa che lo sa da buona fonte – che Lucifero ed i suoi compagni si compiacquero di se stessi perché le cose andavano bene, e che «quando giunse il comando di Dio che tutti i suoi angeli adorassero Cristo,
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dos sus ángeles, revelándoles que había Dios de hacerse hombre y ser niño y morir, tuviéronle a gran mengua de su naturaleza espíritual, y se afrentaron de ello; de manera que quisieron más privarse de la gracia de Dios y de la gloria que les podía dar, que venir a tal desprecio». Y así se comprende que el ángel caído, porque aquel cayó por agradarse a si mismo y de sí mismo contentarse, por soberbia, y el hombre por querer ser más que es, por ambición. Cayó el ángel por soberbio y caído queda; cayó el hombre por ambicioso y se levanta a más alto asíento que de donde cayera. Solo el héroe puede decir «¡yo sé quién soy!», porque para él ser es querer ser; el héroe sabe quién es, quién quiere ser, y solo él y Dios lo saben, y los demás hombres apenas saben ni quién son ellos mismos, porque no quieren de veras ser nada, ni menos saben quién es el héroe; no lo saben los piadosos Pedros Alonsos que le levantan del suelo. Conténtanse con levantarle del suelo y recojerle a su hogar, sin ver en Don Quijote más que a su vecino Alonso Quijano, y aguardar a que sea de noche para que al entrarlo al pueblo no vean «al molido hidalgo tan mal caballero». Entretanto, estaban el cura y el barbero del lugar con el ama y la sobrina de Don Quijote comentando su ausencia y ensartando muchos más disparates que ensartara el Caballero. Llegó este, y sin hacerles gran caso, comió y acostose.
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rivelando loro che Dio doveva farsi uomo ed essere bambino e morire, considerarono tutto questo come incalcolabile discapito della propria natura spirituale, e ne rimasero offesi; di modo che preferirono privarsi della grazia di Dio e della gloria che potevano ricevere da lui, piuttosto che piegarsi ad un simile oltraggio». Così si comprende l’angelo caduto – dal momento che cadde per compiacenza di se stesso – cadde per superbia, mentre l’uomo cadde per ambizione, perché volle essere più di quello che è. L’angelo cadde, dunque, per superbia, e resta caduto; l’uomo cadde per ambizione ma si innalza su un seggio più in alto di quello da cui cadde. Soltanto l’eroe può dire: «So io chi sono!», poiché per lui «essere» significa «voler essere»; l’eroe sa chi è, sa chi vuole essere; e soltanto Dio e lui lo sanno, mentre gli altri uomini non sanno neppure chi sono essi stessi, perché in realtà non «vogliono» essere nulla, e tanto meno sanno chi è l’eroe; non lo sanno nemmeno i pii Pietro Alonso che lo rialzarono da terra. Si accontentano di rialzarlo dal suolo e di accoglierlo presso il proprio focolare, senza sapere vedere in Don Chisciotte altri che il loro vicino Alonso Chisciano, e senza far altro che aspettare che si faccia buio perché nell’entrare in paese «non si vedesse cavalcare così malamente quell’hidalgo pestato». Intanto, il curato ed il barbiere del paese, insieme con la governante e la nipote di Don Chisciotte, stavano commentando la sua scomparsa e infilando l’una dopo l’altra assai più sciocchezze di quante non ne avesse infilate il Cavaliere. Questi arrivò, infine, e senza badar loro più di tanto, cenò e se ne andò a letto.
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capítulo vi
Aquí inserta Cervantes aquel capítulo VI en que nos cuenta «el donoso y grande escrutinio que el cura y el barbero hicieron en la librería de nuestro ingenioso hidalgo», todo lo cual es critica literaria que debe importarnos muy poco. Trata de libros y no de vida. Pasémoslo por alto.
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A questo punto Cervantes inserisce quel capitolo VI, dove narra «la graziosa e generale disamina che fecero il curato ed il barbiere nella libreria del nostro ingegnoso hidalgo»; ma tutto ciò è pura critica letteraria che non deve importarci più di tanto. Tratta di libri e non di vita. Andiamo, quindi, avanti per conto nostro.
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capítulo vii
de la segúnda salida de nuestro buen Caballero Don Quijote de la Mancha Sus anhelos interrumpiéronle el sueño a Don Quijote, pues hasta en sueños quijoteaba, pero volvió a dormirse para encontrarse al despertar con que Frestón, el encantador, se le había llevado los libros, creyendo el incauto que con ellos le llevaba el generoso aliento. Y en apoyo de Frestón acudió la sobrina, rogando a su tio se dejase de pendencias y de ir por el mundo «a buscar pan de trastrigo», sin percatarse de que es el pan de trastrigo el que hace al hombre tras-hombre, o como dicen hoy, sobre-hombre. También para disuadir a Íñigo de Loyola de que saliese a buscar aventuras en Cristo, acudió su hermano mayor Martin Garda de Loyola, para que no se arrojase a cosa «que no solo nos quite lo que de vos esperamos – le dijo, según el P. Rivadeneira, libro I, cap. III –, sino también mancille nuestro linaje con perpetua infamia y deshonra». Pero Íñigo le respondió con pocas palabras, que él miraría por si y se acordaría que había nacido de buenos, y salió de caballero andante.
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della seconda uscita del nostro valoroso Cavaliere Don Chisciotte della Mancia Le sue stesse ansie interruppero il sonno a Don Chisciotte che «chisciottava» persino in sogno; ma si riaddormentò per apprendere al suo risveglio che Frestone, l’incantatore, s’era portato via i suoi cari libri credendo – l’incauto! – di togliergli con essi il generoso slancio. E in soccorso di Frestone intervenne anche la nipote pregando lo zio di lasciar da parte il prurito di cercarsi guai e di andare per il mondo «a cercare cinque ruote in un carro» senza tener conto che è proprio la quinta ruota quella che fa diventare l’uomo più che uomo o, come si dice ai giorni nostri, «superuomo». Anche per dissuadere Ignazio di Loyola dal proposito di partire in cerca d’avventure in Cristo, intervenne il suo fratello maggiore, Martín García di Loyola, affinché non si impegnasse in cosa «che non soltanto ci privi di quel che da voi attendiamo» – sono queste le parole che gli attribuisce il Padre Rivadeneira, nel libro I, capitolo III, – «ma addirittura macchi il nostro lignaggio con perpetua infamia e disonore». Ma Ignazio gli rispose in breve che a se stesso avrebbe badato lui e che si sarebbe ricordato che era nato da gente di buon sangue; e poi se ne andò come cavaliere errante.
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Quince días se estuvo sosegado en casa nuestro Caballero, y en este tiempo solicitó «a un labrador vecino suyo, hombre de bien, pero de muy poca sal en la mollera», gratuita afirmación de Cervantes, desmentida luego por el relato de sus donaires y agudezas. En rigor no cabe hombría de bien, verdadera hombría de bien, no habiendo sal en la mollera, visto que en realidad ningún majadero es bueno. Solicitó Don Quijote a Sancho y le persuadió a que fuese su escudero. Ya tenemos en campaña a Sancho el bueno, que dejando mujer e hijos, como pedía el Cristo a los que quisieran seguirle, «se asentó por escudero de su vecino». Ya está completado Don Quijote. Necesitaba a Sancho. Necesitábalo para hablar, esto es, para pensar en voz alta sin rebozo, para oírse a sí mismo y para oír el rechazo vivo de su voz en el mundo. Sancho fue su coro, la Humanidad toda para él. Y en cabeza de Sancho ama a la Humanidad toda. «Ama a tu prójimo como a ti mismo», se nos dijo, y no «ama a la Humanidad», porque esta es un abstracto que cada cual concreta en si mismo, y predicar amor a la Humanidad vale, por consiguiente, tanto como predicar el amor propio. Del cual estaba, por pecado original, lleno Don Quijote, no siendo su carrera toda sino una depuración de él. Aprendió a amar a todos sus prójimos amándolos en Sancho, pues es en cabeza de un prójimo y no en la comunidad donde se ama a todos los demás; amor que no cuaja sobre individuo, no es amor de verdad. Y quien de veras ama a otro, ¡cómo podía odíar a nadie? Y quien a alguien odie, ¿no le emponzoñará este odio los amores que tuviese? O más bien le emponzoñará el amor, no los amores, porque es uno y solo, aúnque se vierta sobre muchos términos.
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Il nostro Cavaliere se ne stette quieto in casa per quindici giorni, e durante quel tempo «istigò un contadino suo compaesano, uomo per bene, ma di ben poco sale in zucca»: è un’affermazione gratuita di Cervantes, smentita subito dopo dalla narrazione delle sue ingegnose gesta. A rigore, non si può essere uomini per bene, ma proprio per bene, se non si ha sale in zucca, visto che in realtà non c’è scemo che possa essere buono. Don Chisciotte istigò, dunque, Sancio e lo persuase ad accompagnarlo come scudiero. Ormai anche il buon Sancio scende in campo; e, lasciando moglie e figli come Cristo esigeva da coloro che volevano seguirlo, «decise di andar con lui a fargli da scudiero». Adesso sì che Don Chisciotte è completo. Aveva assoluto bisogno di un Sancio. Ne aveva bisogno per parlare, cioè per pensare ad alta voce senza infingimenti, per udire se stesso e per udire la viva eco della propria voce nel mondo. Sancio fu per lui il suo coro, fu tutta l’umanità. E nella persona di Sancio egli amò l’intera umanità. «Ama il tuo prossimo come te stesso», ci è stato detto; e non: «ama l’Umanità», poiché questa è un’astrazione che ognuno concretizza in se stesso, e predicare l’amore per l’Umanità equivale perciò a predicare l’amor proprio. E di amor proprio era pieno, per il peccato originale, Don Chisciotte, sicché tutta la sua carriera non era che un tentativo di liberarsene. Apprese ad amare tutto il suo prossimo in Sancio, poiché è nella persona di un singolo «prossimo» e non nella comunità che si amano tutti gli altri; un amore che non si condensa su un individuo, non è vero amore. E chi veramente ama un altro, come potrà odiare qualcuno? E chi odierà qualcuno, non vedrà avvelenato da questo odio qualunque amore che possa avere in sé? O, per essere più precisi, gli avvelenerà l’amore e non qualunque amore, giacché l’amore è uno ed uno solo, anche se si estende a più persone.
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De la parte de Sancho empecemos a admirar su fe, la fe que por el camino de creer sin haber visto le lleva a la inmortalidad de la fama, antes ni aún soñada por él siquiera, y al esplendor de su vida. Por toda la eternidad puede decir: «Soy Sancho Panza, el escudero de Don Quijote». Y esta es y será su gloria por los siglos de los siglos. Se dirá que a Sancho le sacó de su casa la codicia, así como la ambición de gloria a Don Quijote, y que así tenemos en amo y escudero, por separado, los dos resortes que juntos en uno han sacado de sus casas a los españoles. Pero aquí lo maravilloso es que en Don Quijote no hubo ni sombra de codicia que le moviese a salir, y que la de Sancho no dejaba de tener, aún sin él saberlo, su fondo de ambición, ambición que creciendo en el escudero a costa de la codicia, hizo que la sed de oro se le transformase al cabo en sed de fama. Tal es el poder milagroso del ansia pura de renombre y fama. ¿Y quién se esquiva de la codicia y quién de la ambición? Temíalas Íñigo de Loyola, y tanto las temía, que cuando don Fernando de Austria, rey de Hungría, nombró al P. Claudio Jayo obispo de Trieste y lo aprobó el Papa, acudió a este Íñigo para estorbarlo, pues no quería que sus hijos espírituales, «deslumbrados y ciegos con el engañoso y aparente esplendor de las mitras y dignidades, viniesen a la Compañía no por huir de la vanidad del mundo, sino por buscar en ella al mismo mundo» (Rivadeneira, lib. III, cap. XV). ¿Y lo consiguió? Ese huir de las dignidades y prelacías de la Iglesia, ¿no puede envolver más refínada soberbia que el aceptarlas y aún que el buscarlas acaso? Porque, «¿qué mayor engaño que buscar por medio de la humildad ser honrado y estimado de los hombres?, y ¿qué mayor soberbia que pretender ser tenido por humilde?», dice un hijo espíritual de Loyola, el P. Alonso Rodríguez, en el capítulo XIII del tratado tercero de su libro Ejercicio de perfección y virtudes cristianas. Y la soberbia, ¿no se pasaria de los individuos a la Compañía misma, haciéndose colectiva? ¿Qué, sino soberbia
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Dell’indole di Sancio, inizieremo ad ammirare la fede, fede che, seguendo la via di credere senza aver visto, lo conduce all’immortalità della fama, che prima neppure lui aveva mai sognato, e al pieno splendore della vita. Per tutta l’eternità egli ormai potrà dire: «Sono Sancio Panza, lo scudiero di Don Chisciotte». E questa è e sarà la sua gloria per i secoli dei secoli. Si dirà che fu la cupidigia a spingere Sancio ad uscire dalla sua casa, così come l’ambizione di gloria aveva condotto Don Chisciotte fuori dalla sua; e si potrà concludere che in questo modo abbiamo separatamente, nel padrone e nello scudiero, le molle che, fondendosi in una sola, hanno fatto uscire dalla loro casa gli spagnoli. Ma qui l’aspetto meraviglioso è che in Don Chisciotte non vi fu nemmeno l’ombra di cupidigia che lo spinse a partire, e che la stessa cupidigia di Sancio non era priva, a sua insaputa, di un fondo di ambizione che, crescendo nello scudiero a scapito della cupidigia, fece sì che la sete d’oro si trasformasse alla fine in sete di fama. Tale è il miracoloso potere dell’ansia pura di rinomanza e di fama. E chi mai può sottrarsi alla cupidigia? E chi mai a quella dell’ambizione? Ne aveva paura persino Ignazio di Loyola e le temeva tanto che, quando don Fernando d’Austria, re d’Ungheria, nominò il Padre Claudio Jayo vescovo di Trieste e il Papa approvò la nomina, Ignazio si rivolse direttamente al Padre per impedirla, poiché non voleva che i suoi figli spirituali, «abbagliati ed accecati dall’ingannevole ed apparente splendore delle mitre e delle dignità, entrassero nella Compagnia non già per fuggire le vanità del mondo, ma per cercare in essa il mondo stesso» (Rivadeneira, lib., III, cap. XV). Ma vi riuscì? Rifuggire dalle dignità e dalla cariche della Chiesa, non può forse contenere in sé più raffinata superbia che accettarle e perfino ricercarle? Perché «quale maggiore inganno che cercare per mezzo dell’umiltà di essere onorato e stimato dagli uomini? E quale maggiore superbia che voler essere considerato umile?», dice un figlio spirituale di Ignazio, il Padre Alonso Rodríguez nel capitolo XIII del trattato III del suo libro, Esercizio di perfezione e virtù cristiane. E non poteva poi la superbia andare al di là dei singoli membri della stessa Compagnia e diventare collettiva? Che altro è, se non
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refinada, es pretender, como pretenden los hijos de Loyola, que se salva todo el que muere dentro de la Compañía, y de los que no entraron en ella no se salvan todos? La soberbia, la refínada soberbia, es la de abstenerse de obrar por no exponerse a la crítica. El acto más grande de humildad es el de un Dios que crea un mundo que no añade un adarme a su gloria, y luego un linaje humano para que se lo critiquen, y si deja cabos que presten apoyo, siquiera aparente, a esa crítica, tanta mayor humildad. Y pues Don Quijote se lanzó a obrar y se expuso a que los hombres se burlasen de su obra, fue uno de los más puros dechados de verdadera humildad, aunque otra cosa nos finjan las engañosas apariencias. Y con esa humildad arrastró tras de sí a Sancho, convirtiéndole la codicia en ambición y la sed de oro en sed de gloria, único medio eficaz de curar la codicia y sed de oro. Reunió luego Don Quijote dineros «vendiendo una cosa y empeñando otra y malbaratándolas todas», en obediencia al consejo del ventero gordo. Era nuestro Caballero un loco razonable y no ente de ficción, como creen los mundanos, sino de los hombres que han comido y bebido y dormido y muerto. Proveyose Sancho de asno y alforjas, de camisas y otras prendas Don Quijote, y sin «despedirse Panza de sus hijos y mujer, ni Don Quijote de su ama y sobrina», rompiendo así varonilmente las amarras de la carne pecadora, «una noche salieron del lugar sin que persona los viese». Segunda vez que sale el Caballero al mundo sin que se le vea y al amparo de la oscuridad. Más ahora no va solo; lleva a la Humanidad consigo. Y salieron platicando; recordando Panza a su amo lo de la ínsula. En lo cual quieren ver los maliciosos una vez más su codiciosidad y que por ella servía a su amo, sin caer en la cuenta de que prueba más quijotismo seguir a un loco un cuerdo que seguir el loco sus propias locuras. La fe se pega, y es tan robusta y ardorosa la de
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raffinata superbia, sostenere, come fanno i figli di Loyola, che chiunque muore all’interno della Compagnia si salva, mentre di coloro che non vi sono entrati non tutti si salvano? La superbia, la raffinata superbia è quella di astenersi dall’agire per non esporsi alle critiche. Il più grande atto di umiltà è quello di un Dio che crea un mondo che non aggiunge assolutamente nulla alla sua gloria e poi crea una stirpe umana che possa muovergli critiche; perché poi, se lascia qualche spiraglio che dia adito, sia pure soltanto apparente, a tali critiche, mostra un’umiltà ancora maggiore. E poiché Don Chisciotte si lanciò nel mondo ad agire e si espose al pericolo che gli uomini si burlassero della sua opera, fu uno dei più puri modelli di autentica umiltà, anche se le ingannevoli apparenze sembrano dimostrare tutt’altro. E con quell’umiltà si trascinò Sancio, convertendo in lui la cupidigia in ambizione e la sete d’oro in sete di gloria, unico mezzo per curare efficacemente la cupidigia e la sete d’oro. Poi Don Chisciotte racimolò un po’ di quattrini «vendendo una casa ed impegnandone un’altra, e svendendole tutte» in obbedienza al consiglio del corpulento oste. Il nostro Cavaliere era un pazzo ragionevole, non già un personaggio fittizio, come crede la gente; era un uomo di quelli che hanno mangiato, bevuto e dormito, e che sono poi morti. Sancio fece provvista d’asino e di bisacce, e Don Chisciotte di camicie e di altri oggetti necessari, e senza «congedarsi Panza dai figli e dalla moglie, né Don Chisciotte dalla governante e dalla nipote», spezzando in tal modo i legami della carne peccatrice, «una notte se ne uscirono dal paese senza essere visti da nessuno». È la seconda volta che il Cavaliere esce a correre per il mondo senza che alcuno lo veda e sotto la protezione dell’oscurità. Ma questa volta non parte da solo; conduce con sé l’Umanità. E partirono parlando affabilmente; e Panza ricordava al suo padrone la faccenda dell’isola. In ciò i maligni vogliono vedere una volta di più la sua cupidigia e deducono che solo grazie ad essa serviva il suo padrone, senza rendersi conto che è maggior prova di chisciottismo il fatto che un saggio vada dietro ad un pazzo, che non quello che un pazzo corra dietro alle proprie follie. La fede è contagiosa, e quella di Don
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Don Quijote, que rebasa a los que le quieren, y quedan llenos de ella sin que a él se le amengue, sino más bien le crezca. Pues tal es la condición de la fe viva: crece vertiéndose y repartiéndose se aumenta. ¡Como que es, si verdadera y viva, amor! ¡Maravillas de la fe! No bien ha salido con su amo, y ya el buen Sancho sueña con ser rey y reina Juana Gutiérrez, su oíslo, y sus hijos infantes. ¡Todo para la casa! Mas por causa de su mujer – siempre la mujer es causa de tropiezo – duda de ello; no hay reino que a ella le siente bien. «Encomiéndalo tú a Dios, que Él le dará lo que más le convenga», le respondió el piadoso Don Quijote. Y tocado de piedad, dijo Sancho que su amo sabría darle todo aquello que le estuviera bien y él pudiese llevar. ¡Oh Sancho bueno, Sancho sencillo, Sancho piadoso! No pides ya ínsula, ni reino, ni condado, sino lo que el amor de tu amo sepa darte. Este es el más sano pedir. Lo aprendiste en lo de «hágase tu voluntad así en la tierra como en el cielo». Pidamos todos tomar a bien lo que por mal nos dieren, y habremos pedido cuanto hay que pedir.
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Chisciotte è talmente robusta e ardente, che sommerge coloro che gli vogliono bene, e li riempie senza che a lui ne venga a mancare neppure un’oncia; perché, al contrario, gli si accresce. È questa, infatti, l’indole della fede viva: cresce a misura che si diffonde e suddividendosi aumenta. E ciò perché, se è viva e vera, non è che amore! Meraviglie della fede! È appena partito col suo padrone e già il buon Sancio sogna di diventare re, di vedere Giovanna Gutiérrez, sua moglie, regina, e infanti i suoi figli. Tutto per la famiglia! Ma a causa della moglie – sempre le donne sono motivo di intoppi – nutre qualche dubbio; non c’è regno che gli si addica perfettamente. «Raccomanda ciò a Dio perché gli darà quel che è più consono», gli rispose il pio Don Chisciotte. E, toccato da quella pietà, Sancio disse che il suo padrone avrebbe saputo dargli tutto ciò che poteva andar bene per lui e che potesse addirsi. O Sancio buono, Sancio semplice, Sancio pio! Non chiedi più né isola, né regno, né contea, ma soltanto ciò che saprà darti l’amore del tuo padrone. È questa la richiesta più saggia. L’apprendesti dalle eccelse parole: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra». Chiediamo tutti di considerare come bene quel che ci daranno come male ed avremo chiesto tutto quello che c’è da chiedere.
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del buen suceso que el valeroso Don Quijote tuvo en la espantable y jamás imaginada aventura de los molinos de viento con otros sucesos de feliz recordación En tales pláticas iban cuando «descubrieron treinta o cuarenta molinos que hay en aquel campo». Y Don Quijote los tomó por desaforados gigantes, y sin hacer caso de Sancho, encomendose de todo corazón a su señora Dulcinea y arremetió a ellos, dando otra vez con su cuerpo en tierra. Tenía razón el Caballero: el miedo y solo el miedo le hacía a Sancho y nos hace a los demás simples mortales ver molinos de viento en los desaforados gigantes que siembran mal por la tierra. Aquellos molinos molían pan, y de ese pan comían hombres endurecidos en la ceguera. Hoy no se nos aparecen ya como molinos, sino como locomotoras, dínamos, turbinas, buques de vapor, automóviles, telégrafos con hilos o sin ellos, ametralladoras y herramientas de ovariotomía, pero conspiran al mismo daño. El miedo y solo el miedo sanchopancesco nos inspira el culto y veneración al vapor y a la electricidad; el miedo y solo el miedo sanchopancesco nos hace caer de hinojos ante los desaforados gigantes de la mecánica y la química, implorando de ellos misericordía. Y al fin rendirá el género humano su espíritu agotado de cansancio y de hastío al pie de una colosal fábrica de elixir de larga vida. Y el molido Don Quijote vivirá, porque buscó la salud dentro de sí y se atrevió a arremeter a los molinos.
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del buon successo che il valoroso Don Chisciotte ebbe nella spaventosa e inimmaginabile avventura dei mulini a vento e di altri eventi degni di felice ricordo Procedevano immersi in tale conversazione quando «scorsero trenta o quaranta mulini a vento che sono in quella pianura». E Don Chisciotte li scambiò per enormi giganti e, senza badare a Sancio, si raccomandò di tutto cuore alla sua dama Dulcinea e si lanciò contro di essi, andando un’altra volta a finire disteso per terra. Aveva ragione il Cavaliere: la paura e soltanto la paura faceva vedere a Sancio e fa vedere a tutti noi semplici mortali, dei mulini a vento negli smisurati giganti che vanno seminando il male sulla terra. Quei mulini macinavano grano per farne farina e poi pane; e di quel pane mangiavano uomini caparbi nella loro cecità. Oggi questi non ci appaiono più come mulini, ma come locomotive, dinamo, turbine, navi a vapore, automobili, telegrafi con o senza fili, mitragliatrici e strumenti per l’ovariotomia; ma cospirano sempre ai nostri danni. La paura e soltanto la paura sanciopanzesca ci ispira il culto e la venerazione per il vapore e per l’elettricità; la paura sanciopanzesca ci fa cadere le ginocchia dinanzi agli enormi giganti della meccanica e della chimica ispirandoci misericordia. E quando saremo alla fine, il genere umano abbatterà il proprio spirito esausto di stanchezza e di tedio ai piedi di una colossale fabbrica di elisir di lunga vita. E il percosso Don Chisciotte vivrà, perché cercò la salvezza dentro di sé ed osò attaccare i mulini.
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Llegose Sancho a su amo y le recordó sus advertencias, que «no eran sino molinos de viento y no lo podía ignorar sino quien llevase otros tales en la cabeza». Claro está, amigo Sancho, claro está; solo quien lleve en la cabeza molinos, de los que muelen y hacen con el brazo trigo que por los sentidos nos entra, harina de pan espíritual, solo quien lleve molinos molederos puede arremeter a los otros, a los aparenciales, a los desaforados gigantes disfrazados de ellos. Es en la cabeza, amigo Sancho, es en la cabeza en donde hay que llevar la mecánica y la dinámica y la química y el vapor y la electricidad, y luego… arremeter a los artefactos y armatostes en que los encierran. Solo el que lleva en su cabeza la esencia eterna de la química, quien sepa sentir en la ley de sus afectos la ley universal de los afectos de las partículas materiales, quien sienta que el ritmo del universo es el ritmo de su corazón, solo ese no tiene miedo al arte de formar y transformar drogas o al de armar aparatos de maquinaria. Lo peor fue que en esta acometida se le rompió la lanza a Don Quijote. Es lo que pueden esos gigantes: rompernos las armas, pero no el corazón. Mas sobran encinas y robles con que reponerlas. Y siguieron su camino, sin quejarse Don Quijote, pues no les es dado a los caballeros andantes, y sin haber querido comer cuando Sancho se acomodó a ello. Y de camino comía Sancho y caminaba, y menudeaba tragos que le hacían olvidar las promesas de su amo y tener por mucho descanso el andar a busca de aventuras. Nefasto poder de las tripas, que oscurece la memoria, enturbia la fe, atándonos al momento pasajero. Mientras se come y se bebe se es de la comida y de la bebida. Y llegó la noche y se la pasó Don Quijote pensando en su señora Dulcinea, y Sancho durmiendo el bendito, sin soñar. Y fue entonces cuando recomendó Don Quijote a Sancho que no pusiese mano a la espada para defenderle, no siendo de canalla y gente baja. Al hombre esforzado antes le estorban que le ayudan las defensas de sus secuaces.
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Sancio si avvicinò al suo padrone ricordandogli gli avvertimenti che gli aveva dato, «che erano solo mulini a vento e che soltanto chi ne avesse nella testa degli altri simili a questi poteva non saperlo». Si capisce, amico Sancio, si capisce; soltanto chi ha in testa mulini di quelli che macinano e fanno del frumento che introiettiamo attraverso i sensi, farina di pane spirituale, solo chi ha in testa mulini che macinano davvero, può assalire gli altri, quelli che sono pura apparenza, che sono gli enormi giganti così travestiti. È nella testa, amico Sancio, è nella testa che bisogna portarsi dietro la meccanica, la dinamica, la chimica, il vapore, l’elettricità e poi… scagliarsi contro i manufatti e i catafalchi in cui li rinchiudono. Soltanto chi si porta dentro la testa l’eterna essenza della chimica, chi sa sentire nella legge dei propri affetti la legge universale degli affetti delle particelle di materia, chi sente che il ritmo dell’universo è il ritmo del suo stesso cuore, solo questi non avrà paura di fabbricare o di trasformare droghe, né di mettere su apparati meccanici. La cosa peggiore fu che in quello scontro a Don Chisciotte si ruppe la lancia. Ecco che cosa possono fare siffatti giganti: spezzarci le armi, ma non il cuore. Ma ci sono per fortuna rovere e querce più che sufficienti a sostituire le armi spezzate. E ripresero il cammino senza che Don Chisciotte si lagnasse, poiché ciò non è concesso ai cavalieri erranti, e senza che avesse voluto mangiare quando Sancio si dispose a farlo. E mentre camminavano Sancio andava mangiando passo passo e tirava giù sorsate che gli facevano dimenticare le promesse del suo padrone e considerare molto divertente andare in cerca d’avventure. Nefasto potere delle budella, che oscura la memoria, intorbida la fede e ci lega all’istante fugace. Mentre si mangia e si beve, apparteniamo al cibo ed alla bevanda. E giunse la notte che Don Chisciotte trascorse pensando alla sua dama Dulcinea. Ma Sancio, beato lui, la passò invece dormendo e senza nemmeno sognare. Fu allora appunto che Don Chisciotte raccomandò a Sancio di non mettere mai mano alla spada per difenderlo, a meno che non si trattasse di gente dappoco e di canaglia. L’uomo valoroso è piuttosto disturbato che aiutato dalla difesa dei suoi seguaci.
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Y fue también, estando en esta plática, cuando les ocurrió la aventura del vizcaíno, cuando salió Don Quijote a libertar a la princesa que se llevaban encantada dos frailes de San Benito. Los cuales intentaron amansar al Caballero, pero le hizo saber a aquella fementida canalla que los conocía y no había con él palabras blandas. Y dicho esto, les puso en huida. Y al ver al uno de ellos en el suelo, arremetió Sancho a desnudarlo, atento sin duda a lo de que el hábito no hace al monje. ¡Ah, Sancho, Sancho, y cuán de tierra eres! ¡Desnudar frailes! ¿Y qué ganas con eso? Así te fue, que los mozos te molieron a coces por ello. Obsérvese cómo Sancho, apenas se encuentra en una aventura, cuando acude al punto al botín, mostrando en ello cuán de su casta era. Y pocas cosas elevan más a Don Quijote que su desprecio de las riquezas del mundo. Tenía el Caballero lo mejor de su casta y de su pueblo. No salió a campaña como el Cid «al sabor de la ganancia» y para «perder cuenta y venir a rictad» (Poema del Cid, v. 1689), ni habría dicho nunca lo que dicen que dijo Francisco Pizarro en la isla del Gallo cuando haciendo con la espada una raya en el suelo, de naciente a poniente, y señalando al mediodía como su derrotero, exclamó: «Por aquí se va al Perú a ser ricos; por acá se va a Panamá a ser pobres; escoja el que sea buen castellano lo que mejor le estuviere». De otro tempie era Don Quijote; nunca buscó oro. Y al mismo Sancho, que empezó buscándolo, lo veremos ir cobrando poco a poco afición y amor a la gloria, y fe en ella, fe a que le llevaba Don Quijote, y hay que convenir en que nuestros mismos conquistadores de América unieron siempre a su sed de oro sed de gloria, sin que se logre en cada caso separar la una de la otra. De gloria y de riqueza a la vez dicen que habló a sus compañeros Vasco Núñez de Balboa en aquel glorioso 25 de septiembre de 1513, en que de rodillas y anegados por el gozo, en lágrimas sus ojos, descubrió desde la cima de los Andes, en el Darién, el mar nuevo.
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E fu durante quella conversazione che capitò anche l’avventura del biscaglino, quando Don Chisciotte si fece avanti per liberare la principessa che due frati di San Benedetto portavano con loro incantata. Quei frati tentarono anzitutto di ammansire il nostro Cavaliere; ma questi fece sapere a quella canaglia mentitrice che li conosceva, né servivano a nulla con lui le parole dolci. E detto ciò, li mise in fuga. Fu allora che, nel vederne uno caduto a terra, Sancio si lanciò per spogliarlo, rammentandosi indubbiamente del proverbio che dice: l’abito non fa il monaco. Oh, Sancio, Sancio! Sei proprio attaccato alla terra! Spogliare dei frati! Che ci guadagni? Così ti è accaduto che i mulattieri ti hanno macinato a suon di pedate, proprio per questo. Si noti come Sancio, non appena s’imbatte in un’avventura, corre subito al bottino, mostrando in tal modo che razza d’uomo sia. E poche cose innalzano Don Chisciotte più del suo disprezzo per le ricchezze del mondo. Il Cavaliere possedeva quanto di meglio avesse la sua casta e nel suo paese. Non era uscito in campagna come il Cid: «al sapore del guadagno» e per «perdere la povertà e giungere alla ricchezza» (Poema del mio Cid, verso 1689), né avrà mai detto quel che si narra affermasse Francisco Pizarro nell’isola di Gallo, quando, tracciando per terra una linea con la punta della spada, da levante a ponente, e additando il Sud come meta, esclamò; «Da questa parte si va al Perù per arricchirci; dall’altra si va a Panama per impoverirsi; chi è buon castigliano scelga dunque quel che gli conviene». Di ben altra tempra era Don Chisciotte: non andò mai in cerca d’oro. E lo stesso Sancio, che pur cominciò a cercarne, lo vedremo affezionarsi a poco a poco alla gloria e desiderarla ed aver fede in essa; era la fede alla quale lo conduceva Don Chisciotte e bisogna del resto convenire che i nostri stessi conquistatori dell’America unirono sempre alla sete dell’oro la sete della gloria, senza che sia possibile discernere in ogni caso l’una dall’altra. Di gloria e di ricchezza si dice che parlasse anche Vasco Nuñez di Balboa in quel glorioso 25 settembre 1513, in cui, inginocchiato e con gli occhi colmi di lacrime di gioia, scorse dalla cima delle Ande, nel Darién, il nuovo mare.
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Lo triste es que la gloria fue de ordinario una alcahueta de la codicia. Y la codicia, la innoble codicia, nos perdió. Nuestro pueblo puede decir lo que dice en el grandioso poema Patria, de Guerra Junqueiro, el pueblo portugués: Novos mundos eu vi, novos espaços, nâo para mais saber, mais adorar: a cubiça feroz guiou meus passos, o orgulho vingador moveu meus braços e iluminou a raiva o meu olhar! Nâo te lavava, náo sangue homicida, nem em mil milhóes d’annos a chorar!… Cruz do Golgota em ferro traduzida, minha espada de berne, o cruz de morte, cruz a que Deos baixou por nos dar vida; vidas ceifando, deshumana e forte, ergueste imperíos, subjugando a Oriente, mas Deos soprou… eil – os em nada…
Luego de la aventura de Sancho, acudió el generoso Caballero a la princesa, a darle la buena nueva de su liberación, pues los frailes que la llevaban seducida habían huido, sin advertir, ¡oh ceguera de la nobleza!, que acaso llevaba ella la frailería dentro. Y le pidió en pago del beneficio de haberla libertado que se volviera al Toboso a presentarse a Dulcinea. No contaba el vizcaino, que le habló en «mala lengua castellana y peor vizcaína», lo cual es muy cierto, pues cabe dudar que don Sancho de Azpeitia hablase puntualmente como Cervantes le hace hablar.
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È triste rilevare che la gloria è di solito mezzana della cupidigia. E la cupidigia, l’ignobile cupidigia ci portò alla rovina. Il nostro popolo potrebbe dire ciò che nel grandioso poema Patria di Guerra Junqueiro dice il popolo portoghese: Novelli mondi io vidi, nuovi spazi, non per saper di più, per adorare; feroce cupidigia guidò i passi, le braccia mosse sconfinato orgoglio e illuminò la rabbia il mio guardare! Non ti potrei lavar, sangue omicida, nemmeno piangendo per milioni d’anni!… Del Golgota la Croce, tramutata in ferro, la mia eroica spada, o croce di morte; croce sulla quale Iddio discese a darci vita; e tu, mia spada, troncando vite, disumana e forte, innalzasti un impero, soggiogando l’Oriente… Dio soffiò, ed a quel soffio ecco gli imperi tuoi ridotti a nulla!
Dopo la disavventura di Sancio, il generoso Cavaliere accorse al fianco della principessa per comunicarle la buona notizia della sua liberazione giacché i frati che l’avevano soggiogata portandola con loro erano fuggiti; e non s’ accorgeva – cecità della sua nobile anima! – che era forse lei stessa a portare dentro di sé la frateria. E come ricompensa del beneficio di averla liberata le chiese che tornasse al Toboso per presentarsi al cospetto di Dulcinea. Non aveva fatto i conti col biscaglino, che gli si rivolse «in cattivo castigliano e peggior biscaglino», il che dovette essere perfettamente vero, poiché è assai dubbio che don Sancio de Azpeitia parlasse proprio come lo fa parlare Cervantes.
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Con frecuencia se citan las palabras de don Sancho de Azpeitia no más que para hacer chacota, aúnque respetuosa y cannosa a las veces, del modo de hablar de nosotros los vizcaínos. Cierto es que hemos tardado en aprender la lengua de Don Quijote y tardaremos aún en llegar a manejarla a nuestra guisa, más ahora que empezamos a dar en ella nuestro espíritu, que fue hasta ahora casí mudo, habéis de oir. Pudo decir Tirso de Molina aquello de Vizcaíno es el hierro que os encargo, corto en palabras, pero en obras largo;
mas habrá que oírnos cuando alarguemos nuestras palabras a la medida de nuestras largas obras. Don Quijote, tan pronto a llamar caballero a quien se le pusiera delante, negole al vizcaíno tal cualidad, olvidando que a la gente vasca – entre los que me cuento –, según Tirso de Molina, Un nieto de Noè la dio nobleza, que su hidalguía no es de ejecutoria ni mezcla con su sangre, lengua o traje mosaica infamia que la suya ultraje.
¿No conocía Don Quijote las palabras de don Diego López de Haro, tal cual le hace hablar Tirso de Molina en la escena primera del acto primero de La Prudencia en la mujer, cuando empieza diciendo: Cuatro bárbaros tengo por vasallos a quien Roma jamás conquistar pudo, que sin armas, sin muros, sin caballos libres conservan su valor desnudo?
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Le parole di don Sancio de Azpeitia si citano di frequente soltanto per prendersi gioco, sia pure in modo rispettoso e talvolta addirittura affettuoso, della maniera di parlare di noi biscaglini. È un fatto che abbiamo tardato ad imparare la lingua di Don Chisciotte e che impiegheremo un tempo ancora più lungo per giungere a maneggiarla adeguatamente; ma adesso che incominciamo ad esprimere in essa il nostro spirito che finora era rimasto pressoché muto, vale la pena di ascoltarci. Ben poté dire Tirso de Molina quella famosa frase: È biscaglino il ferro che v’ho a dare Corto in parole e lungo in operare;
ma bisognerà sentirci, quando allungheremo le nostre parole fino alla misura delle nostre lunghe opere. Don Chisciotte, così incline a chiamare «cavaliere» chiunque gli si presentasse, rifiutò tale riconoscimento al biscaglino, dimenticando che alla gente basca – alla quale mi onoro di appartenere –, stando a quel che scrive ancora Tirso de Molina: la nobiltà fu data da un nipote dello stesso Noè; non fu concessa da alcun sovrano con una patente né col suo sangue, né coi suoi costumi, né con l’idioma suo s’è mescolata mosaica infamia che le rechi oltraggio.
Non conosceva, dunque, Don Chisciotte le parole di don Diego López de Haro, messegli in bocca da Tirso de Molina nella prima scena dell’atto secondo de La prudenza in una donna, quando incomincia così: Quattro barbari ho per miei vassalli, che Roma non poté giammai domare, che senz’armi, né mura, né cavalli lor salda libertà san conservare?
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¿Ni sabía aquello que había dicho Camões en la estrofa oncena del cuarto canto de sus Lusiadas de A gente biscainha que carece de polidas razôes, e que as injurias muito mal dos estranhos compadece?
Por lo menos, ya que La Araucana, de don Alonso de Ercilla y Zúñiga, caballero vizcaíno, era uno de los libros que se hallaban en su librería, y de los respetados en el escrutinio, tuvo que haber leído aquello de su canto XXVII, en que habla de la aspereza de la antigua Vizcaya, de do es cierto que procede y se extiende la nobleza por todo lo que vemos descubierto.
«¿Yo no caballero?», replicó justamente ofendido el vizcaíno, y encontráronse frente a frente dos Quijotes. Por esto es tan prolijo Cervantes al narrarnos este suceso. Requerido por el vizcaíno, arrojó el manchego la lanza, sacó la espada, embrazó la rodela y arremetiole.
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E non sapeva nemmeno quello che aveva detto Camões nella strofa undicesima del quarto canto dei suoi Lusiadi: La gente biscaglina, che non tiene alle pulite frasi, che le ingiurie assai male sopporta degli estranei?
Almeno, giacché La Araucana di don Alonso de Ercilla y Zúñiga, anch’egli cavaliere biscaglino, era uno dei libri che aveva nella sua biblioteca e si trovava anzi tra quelli che furono salvati dal «repulisti», doveva aver letto quel brano del canto XXVII in cui parla de l’asprezza dell’antica Biscaglia, donde è vero che deriva e s’estende al mondo intero oggi scoperto nobiltà e grandezza.
«Io non cavaliere?», ribatté giustamente offeso il biscaglino; e si trovarono l’uno di fronte all’altro due Don Chisciotte. È proprio per questo che Cervantes si diffonde a lungo a raccontarci la storia. Sfidato dal biscaglino, l’eroe della Mancia gettò la lancia, trasse fuori la spada, imbracciò la rotella e lo assalì.
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capítulo ix
donde se concluye y da fin a la estupenda batalla que el gallardo vizcaíno y el valiente manchego tuvieron Y se trabó el singular combate o «estupenda batalla que el gallardo vizcaíno y el valiente manchego tuvieron», como la llama Cervantes en el título del capítulo IX, concediéndole toda la importancia que se merece. Ahora va de igual a igual, de loco a loco; y parecen amenazar al cielo, a la tierra y al abismo. ¡Oh espectáculo de largos en largos siglos solo visto, el de la lucha de dos Quijotes: el manchego y el vizcaíno, el del páramo y el de las verdes montañas! Hay que releerlo como nos lo relata Cervantes. «¿Yo no caballero?». ¿Yo no caballero? ¿Oír esto a un vizcaíno y oírlo de boca de Don Quijote? No, no puede sufrirse eso. Deja, Don Quijote, que hable de mi sangre, de mi casta, de mi raza, pues a ella debo cuanto soy y valgo, y a ella también debo el poder sentir tu vida y tu obra.
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capitolo ix
dove si conclude e termina la mirabile battaglia tra il prode biscaglino ed il valente mancego E si innescò la singolare tenzone o «mirabile battaglia tra il prode biscaglino ed il valente mancego», come la definisce Cervantes nel titolo del capitolo IX, dandole tutta l’importanza che merita. Adesso stanno di fronte da pari a pari, un pazzo contro un pazzo, e paiono minacciare il cielo, la terra e gli abissi. Oh, spettacolo visto solo ad intervalli di secoli, quello della lotta tra i due Don Chisciotte! Sono di fronte il mancego e il biscaglino, l’uomo dell’altopiano desolato e quello delle verdi montagne! Bisogna proprio leggere il brano come ce lo racconta Cervantes. «Non cavaliere io?». Io non cavaliere? Che un biscaglino ascolti una siffatta enormità e l’ascolti per giunta dalla stessa bocca di Don Chisciotte? No, è una cosa che non si può tollerare. Lascia, Don Chisciotte, che io parli del mio sangue, della mia casta, della mia razza, poiché ad esso devo tutto quello che oggi sono, tutto quello che valgo; e ad esse appunto debbo persino la possibilità di valutare la tua vita ed opera.
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¡Oh tierra de mi cuna, de mis padres, de mis abuelos y trasabuelos todos, tierra de mi infancia y de mis mocedades, tierra en que tomé a la compañera de mi vida, tierra de mis amores, tu eres el corazón de mi alma! tu mar y tus montañas, Vizcaya mia, me hicieron lo que soy; de la tierra de que se amasan tus robles, tus hayas, tus nogales y tus castaños, de esa tierra ha sido mi corazón amasado, Vizcaya mía. Discutía un Montmorency con un vasco, e irritado aquel hubo de decirle a mi paisano que ellos, los Montmorencys, databan no sé si del siglo VIII, X o XII, y mi vasco le respondió: «¿Sí? ¡Pues nosotros los vascos no datamos!». Y no, no datamos los vascos. Los vascos sabemos quiénes somos y quiénes queremos ser. Ya ves, Don Quijote, que es un vasco el que ha ido a buscarte en tu Mancha y te arremete porque le regateaste lo de ser caballero. Y ¡cómo, contemplando a un vasco, y de Azpeitia, no recordar una vez más a aquel otro caballero andante, vasco, y de Azpeitia también, Íñigo Yáñez de Oñaz y Sáez de Balda, del solar de Loyola, fundador de la Milicia de Cristo? ¿No culmina en él nuestra casta toda? ¿No es nuestro héroe? ¿No lo hemos de reclamar los vascos por nuestro? Sí, nuestro, muy nuestro, muy más nuestro que de los jesuitas. Del Íñigo de Loyola han hecho ellos un Ignacio de Roma, del héroe vasco un santón jesuítico. ¡Lástima de mula que montaba el héroe! La de don Sancho de Azpeitia, con sus corcovos, dio en tierra con el vizcaíno, lo que debe enseñarnos a pelear apeados. Y así fue vencido el vizcaíno, pero no por mayor flaqueza de su brazo ni menor coraje, sino por culpa de su mula, que no era, de cierto, vizcaína. Si no es por la condenada mula lo habría pasado mal Don Quijote, estad seguros de ello, y habría aprendido a reportarse ante el hierro vizcaíno, corto en palabras, pero en obras largo.
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Oh, terra della mia culla, dei miei genitori, di tutti i miei avi ed antenati, terra della mia infanzia e della mia giovinezza, terra in cui mi scelsi la compagna di tutta la vita, terra dei miei amori, tu sei il cuore dell’anima mia! Il tuo mare e le tue montagne, Biscaglia mia, mi fecero come sono; della stessa terra di cui sono impastate le tue querce, i tuoi faggi, i tuoi noci e i tuoi castagni, di quella stessa terra è stato impastato il mio cuore, Biscaglia mia. Un certo Montmorency discuteva con un basco e, irritato, si spinse a dire ad un mio compaesano che i Montmorency risalivano non so più se al secolo VIII, o al X, o al XII; e il mio basco gli rispose: «Ah! Sì? Ebbene, noi baschi non risaliamo». Ed è vero; noi baschi non risaliamo a nessuno. Noi baschi sappiamo chi siamo e chi vogliamo essere. Vedi bene, Don Chisciotte, che è stato un basco a venirti a cercare fin nella tua stessa Mancia e ti si scaglia addosso perché hai rifiutato di riconoscerlo come cavaliere. E come, ricordando un basco, e per giunta di Azpeitia, non ripensare ancora una volta a quell’altro cavaliere errante, basco e di Azpeitia anche lui, Ignazio Yáñez di Oñaz e Sáez de Balda, delle terre di Loyola, fondatore della Milizia di Cristo? La nostra razza non ha forse in lui il proprio vertice? Non è il nostro eroe? Non dobbiamo reclamarlo come appartenente a noi baschi? Sì, è nostro, assolutamente nostro, assai più nostro che non dei gesuiti. Di Ignazio di Loyola essi hanno fatto un Ignazio di Roma; dell’eroe basco hanno fatto un santone gesuitico. Peccato che l’eroe montasse una mula e non un cavallo da guerra! La mula di don Sancio di Azpeitia con le sue sgroppate buttò di sella il biscaglino; e questo dovrebbe insegnarci a combattere a piedi. Così fu sconfitto il biscaglino, ma non perché fosse più debole il suo braccio o minore il suo valore, ma unicamente per quella mula che non era sicuramente biscaglina. Se non fosse stato per quella dannata mula, Don Chisciotte se la sarebbe vista brutta, siatene certi, ed avrebbe imparato a sue spese a dominarsi di fronte al ferro biscaglino, corto in parole, ma lungo in operare.
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Aprended, hermanos míos de sangre, a pelear apeados. Apeaos de la mula rabiosa y terca que os lleva a su paso de andadura por sus caminos de ella, no por los vuestros y míos, no por los de nuestro espíritu y que, con sus corcovos, dará con vosotros en tierra, si Dios no lo remedía. Apeaos de esa mula, que no nació ahí ni ahí pasta, y vamos todos a la conquista del reino del espíritu. Aún no se sabe lo que podemos hacer en este mundo de Dios. Aprended, a la vez, a encarnar vuestro pensamiento en una lengua de cultura, dejando la milenaria de nuestros padres; apeaos de la mula luego y nuestro espíritu, el espíritu de nuestra casta, circundará en esa lengua, en la de Don Quijote, los mundos todos, como circundó por primera vez al orbe la carabela de nuestro Sebastián Elcano, el fuerte hijo de Guetaria, hija de nuestro mar de Vizcaya. Y fue por la intervención de las damas afrailadas por la que perdonó Don Quijote la vida a don Sancho de Azpeitia, a promesa de ir a visitar a Dulcinea. Y fueron las damas prometedoras, que a haberlo sido don Sancho habriala visitado, de seguro, y hasta es muy de creer que se habría enamorado perdidamente de ella y ella de él.
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Imparate, miei fratelli di sangue, a combattere a piedi. Smontate dalla mula rabbiosa e caparbia che vi porta col suo passo misurato per le strade che sceglie essa stessa e non voi; non per le vie vostre e mie, non per le vie del nostro spirito. Sarà essa che con le sue sgroppate vi butterà giù di sella, se Dio non ci mette la sua santa mano. Smontate da questa mula, che non è nata tra noi né vi pascola, e andiamo tutti assieme alla conquista del regno dello spirito. Non si sa ancora che cosa potremo giungere a fare in questo mondo creato da Dio. E imparate contemporaneamente ad incarnare il vostro pensiero in una lingua colta, lasciando da parte quella, pur millenaria, dei nostri padri; smontate subito dalla mula e il vostro spirito, lo spirito della nostra razza, circolerà, rivestito di questa nuova lingua, che è quella di Don Chisciotte, per tutti i mondi, come fece per la prima volta il giro del globo la caravella del nostro Sebastián Elcano, il forte figlio di Guetaria, figlia a sua volta del nostro mare di Biscaglia. E fu per l’intervento delle dame dall’aspetto di frate che Don Chisciotte risparmiò la vita di don Sancio Azpeitia, considerandosi soddisfatto della promessa che sarebbe andato a presentarsi a Dulcinea. Ma furono le dame a fare la promessa, perché se l’avesse fatta invece don Sancio, sarebbe poi andato davvero a rendere omaggio; anzi ci sarebbe addirittura da credere che avrebbe finito per innamorarsi perdutamente di lei, e lei di lui.
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capítulo x
de los graciosos razonamientos que pasaron entre Don Quijote y Sancho Panza su escudero Y viene Sancho, el carnal Sancho, el Simón Pedro de nuestro Caballero y le pide la ínsula, a lo cual responde Don Quijote: «Advertid, hermano Sancho, que esta aventura y las a esta semejantes no son aventuras de ínsulas, sino de encrucijadas, en las que no se gana otra cosa que sacar rota la cabeza o una oreja menos». ¡Ay, Pedro, Pedro, o digo, Sancho, Sancho!, y ¿cuándo comprenderás que no es la ínsula, no es el poder temporal, sino la gloria de tu señor, el querer eterno, tu recompensa ? Más el carnal Sancho volvió a la carga y a pedir a su amo se retrajesen a alguna iglesia por miedo a la Santa Hermandad. Más «idónde has visto tu o leido – le diremos con Don Quijote – que caballero andante haya sido puesto ante la justicia por más homicidios que hubiese cometido?». Quien abriga en su corazón la ley, está sobre la dictada por los hombres; para el que ama no hay otra ley sino su amor, y si por amor mata, ¿quién se lo imputará a culpa? Tiene, además, Don Quijote poder sobrado para sacar a los Sanchos «de las manos de los caldeos, cuanto más de la Hermandad». Ocurrió luego Io de explicar Don Quijote a Sancho el bálsamo de Fierabrás, y lo de pedir Sancho a Don Quijote la receta del bálsamo como ùnico pago de sus servicios, pues así son los servidores carnales, por muy grande que su fe sea: piden recetas para venderlas y negociar con ellas. Y entonces juró el Caballero
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dei piacevoli ragionamenti intercorsi tra Don Chisciotte e Sancio Panza suo scudiero E viene Sancio, il carnale Sancio, il Simon Pietro del nostro Cavaliere, a chiedergli l’isola; a quella richiesta Don Chisciotte risponde: «Badate, fratello Sancio, che quest’avventura e quelle simili a questa non sono avventure di isole ma di scontri, nei quali altro non si guadagna che riportarne la testa rotta o un orecchio di meno». Ah, Pietro, Pietro o, per meglio dire, Sancio, Sancio, quando comprenderai che non è l’isola, non è il potere temporale, ma la gloria del tuo signore, il volere eterno, la tua vera ricompensa? Ma il carnale Sancio ritornò alla carica e pregò il suo padrone di rifugiarsi con lui in un sagrato di qualche chiesa per paura della Santa Fratellanza. Ma «dove hai mai visto o letto che un cavaliere errante sia stato condotto dinanzi alla giustizia – gli diremmo con Don Chisciotte – per quanti omicidi avesse commesso? Chi custodisce nel proprio cuore la legge, sta al di sopra di quella dettata dagli uomini; per chi ama, non c’è altra legge al di fuori di quella del suo amore; e se uccide per amore, chi potrà fargliene una colpa? Don Chisciotte ha potere da vendere per strappare i Sanci «dalle mani dei Caldei, nonché da quelle della Fratellanza». Seguirono le spiegazioni che Don Chisciotte diede a Sancio sul balsamo di Fierabrás e la richiesta di Sancio a Don Chisciotte perché gli insegnasse la ricetta del balsamo come unica paga per i suoi servigi. Così sono infatti i servitori carnali, per quanto grande sia la loro fede: chiedono ricette per venderle e trafficare con esse. E fu allora che il Cavaliere giurò di con-
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conquistar el yelmo de Mambrino a trueque de la celada rota por don Sancho de Azpeitia, y a seguida le llamó a razón el bandullo y pidió de comer. Una cebolla y un poco de queso no más traía Sancho, pareciéndole manjares no pertenecientes a tan valiente Caballero, más este le hizo saber que tenía a honra «no comer en un mes, y de hacerlo lo que hallare más a mano». «Y esto se te hiciera cierto si hubieras leído tantas historias como yo, que aúnque han sido muchas, en todas ellas no he hallado hecha relación de que los caballeros andantes comiesen, si no era acaso, y en algunos suntuosos banquetes que les hacían, y los demás días se los pasaban en flores». Y ¡qué dicha, mi señor Don Quijote, si nos pudiésemos pasar en flores la vida toda! Del comer viene, con la fuerza toda, también toda la flaqueza del heroísmo. Y entonces, al explicar Don Quijote a Sancho que los caballeros andantes «no podían pasar sin comer y sin hacer todos los otros menesteres naturales», le reveló, y nos reveló, una verdad cimental y de grandísimo consuelo para los que no saben cómo vivir su locura, y es la de que los caballeros andantes «eran hombres como nosotros». De donde se saca que podemos llegar a ser nosotros caballeros andantes, y no es ello poco. «Así que, Sancho amigo, no te congoje lo que a mi me da gusto, ni quieras tu hacer mundo nuevo, ni sacar la caballería andante de sus quicios». No quieras, no, pobre Sancho, hacer mundo nuevo curando de su locura a los generosos, ni quieras sacar a la locura de su quicio, que le tiene tan bien hincado y tan derecho como la cordura misma, como ese llamado sentido común. Sancho, como no sabe leer ni escribir, no sabe ni ha caído en las reglas de la profesión caballeresca, como él dice. Y es cierto lo que dices, Sancho: por el leer y escribir entró la locura en el mundo.
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quistare l’elmo di Mambrino per sostituire la celata spezzata da don Sancio de Azpeitia; ma subito la pancia lo richiamò alla ragione e chiese di mangiare. Una cipolla ed un po’ di formaggio erano tutto quello che Sancio portava con sé e gli pareva che non fossero vivande adatte ad un così prode Cavaliere. Ma questi gli fece sapere che «è virtù dei cavalieri erranti non mangiare per un mese e, anche se mangiano, è di quel che possono trovare più a portata di mano. E di ciò saresti sicuro se avessi letto tante storie quanto me; e, sebbene siano state molte, in nessuna ho trovato riferito che i cavalieri erranti mangiassero se non accidentalmente ed in alcuni splendidi banchetti che si davano: gli altri giorni era magra». Che sorte, mio signor Don Chisciotte, se potessimo passarla magra per tutta la vita! Dal mangiare deriva, con tutta la nostra forza, anche tutta la debolezza dell’eroismo. E allora, mentre Don Chisciotte spiegava a Sancio che i cavalieri erranti «non potevano vivere senza mangiare e senza soddisfare tutte le altre necessità naturali», rivelò a lui ed anche a noi una verità fondamentale e di grandissima consolazione per coloro che non sanno come far vivere la propria follia, ed è quella che i cavalieri erranti «erano uomini come noi». Dal che si deduce che anche noi possiamo benissimo diventare cavalieri erranti; e questo non è poco. «Cosicché, amico Sancio, non dolerti di quel che piace a me, né voler rinnovare il mondo, né scombussolare la cavalleria errante». Non voler, dunque, povero Sancio, fare un mondo nuovo guarendo i generosi dalla loro follia, e non cercare nemmeno di scombussolare la follia, che è posta su cardini ben piantati e dritti quanto quelli della saggezza stessa, quanto quelli del così detto senso comune. Sancio, siccome non sa né leggere, né scrivere, non conosce, né sa le regole della professione cavalleresca, come dice egli stesso. Ed è proprio vero quello che dici, Sancio: attraverso il leggere e lo scrivere è entrata nel mondo la follia!
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de lo que sucedió a Don Quijote con unos cabreros Echaron a andar y fueron recojidos con buen ánimo por unos piadosos cabreros. Dios se lo habrá pagado, que les convidaron. Lo aceptó Don Quijote, sentose sobre un dornajo vuelto del revés, hizo hermanalmente sentar a su lado a Sancho, y fue entonces, después de bien satisfecho el estómago, cuando tomó en la mano un puñado de bellotas y enderezó a los cabreros aquel discurso de la edad de oro, que en tantos muestrarios de retórica se reproduce. Mas nosotros no estamos haciendo aquí literatura, ni nos importa la letra sonora, sino el espíritu fecundo aúnque silencioso. Es el tal discurso uno de tantos vulgares discursos como se pronuncian, y ese pasado siglo de oro, apagado relumbre del futuro siglo en que morará el lobo con el cordero y el león comerá, como el buey, paja, según nos cuenta el profeta Isaías (capítulo XI). La arenga en sí tiene poco que desentrañar. «Dichosa edad y siglos dichosos aquellos a quien los antiguos pusieron nombre de dorados…» y lo que sigue. No nos sorprenda oír a Don Quijote cantar los tiempos que fueron. Es visión del pasado lo que nos empuja a la conquista del porvenir; con madera de recuerdos armamos las esperanzas. Solo lo pasado es hermoso; la muerte lo hermosea todo. ¿Creéis que cuando el arroyo llega al mar, al enfrentarse con el abismo que va a tragarle, no sueña con la escondida fuente de que brotó y no querría, si pudiera, remontar su curso? De ir a perderse, perderse más bien en las entrañas de la madre tierra.
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di quel che successe a Don Chisciotte con alcuni caprai Si misero in cammino e furono accolti di buon animo da certi pietosi caprai che li invitarono – e Dio li abbia ricompensati. Don Chisciotte accettò, si mise a sedere sul fondo di un trogolo capovolto, fece fraternamente accomodare Sancio al suo fianco e fu allora, dopo che lo stomaco era sazio, che prese in mano un pugno di ghiande e rivolse ai caprai quel famoso discorso sull’età dell’oro che viene riprodotto in tanti trattati di retorica come esempio. Ma noi, qui, non stiamo facendo della letteratura, né ci importa la sonorità della lettera, bensì la fecondità dello spirito, anche se è silenzioso. Quel discorso è uno dei tanti volgari discorsi che si pronunciano, e quel tramontato secolo d’oro, una pallida ombra del secolo futuro in cui il lupo vivrà accanto all’agnello ed il leone mangerà paglia come il bue, stando a quanto ci dice il profeta Isaia (capitolo XI). C’è ben poco da scavare nell’arringa in sé. «Avventurosa età e secoli avventurosi quelli che gli antichi denominavano aurei…», con tutto quel che segue. Non ci sorprende udire Don Chisciotte che canta i tempi che furono. È la visione del passato a spingerci alla conquista del futuro; col legame dei ricordi armiamo le speranze. Solo il passato è bello; la morte abbellisce ogni cosa. Credete forse che, quando il ruscelletto giunge al mare, nell’affrontare l’abisso che sta per inghiottirlo, non sogni ancora la nascosta sorgente dalla quale sgorgò, e pensate che non vorrebbe, se appena potesse, risalire a ritroso il proprio corso? Perdersi per perdersi, meglio perdersi tra le viscere della madre terra.
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No es el discurso de Don Quijote lo que hemos de desentrañar. No valen ni aprovechan las palabras del Caballero sino en cuanto son comentarios a sus obras y repercusión de ellas. Como hablar, hablaba conforme a sus lecturas y al saber del siglo que tuvo a dicha albergarle; pero como obrar, obraba conforme a su corazón y al saber eterno. Y así en esa arenga no es la arenga misma, en sí no poco trillada, sino el hecho de dirigírsela a unos rusticos cabreros que no habrían de entendérsela, lo que hemos de considerar, pues en esto estriba lo heroico de esta aventura. Aventura es, en efecto, y de las más heroicas. Porque todo hablar es una suerte, y las más de las veces la más apretada suerte de obrar, y hazañosa aventura la de administrar el sacramento de la palabra a los que no han de entendérnosla según el sentido material. Robusta fe en el espíritu hace falta para hablar así a los de torpes entendederas, seguros de que sin entendernos nos entienden y de que la semilla va a meterse en las cárcavas de sus espíritus sin ellos percatarse de tal cosa. Habla tú que conmigo consideras, lleno de fe en ella, la vida de Don Quijote; habla aúnque no te entiendan, que ya te entenderán al cabo. Y con que solo vean que les hablas sin pedirles nada o porque de gracia te lo dieron antes, basta ya. habla a los cabreros como hablas a tu Dios, del hondo del corazón y en la lengua en que te hablas a ti mismo a solas y en silencio. Cuanto más hundidos vivan en la vida de la carne, tanto más limpias de brumas estarán sus mentes, y la música de tus palabras resonará en ellas mucho mejor que en la mente de los bachilleres al arte de Sansón Carrasco. Porque no fueron las rebuscadas retóricas de Don Quijote lo que alumbró la mente a los cabreros, sino fue el verle armado de punta en blanco, con su lanzón a la vera, las bellotas en la mano, y sentado sobre el dornajo; dando al aire de que respiraban todos reposadas palabras vibrantes de una voz llena de amor y de esperanza.
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Perciò, non è il discorso di Don Chisciotte che dobbiamo sviscerare. Le parole del Cavaliere non valgono, né giovano se non in quanto sono un commento delle sue opere e come una eco di esse. Quanto a parlare, parlava conformemente alle sue letture e alla sapienza del secolo che ebbe la sorte di accoglierlo; ma, quanto a operare agiva in conformità al proprio cuore ed all’eterno sapere. E così, in quell’arringa, non è l’arringa stessa, in sé non poco trita e ritrita, che dobbiamo considerare, ma il fatto che la rivolge a rustici caprai che non potevano in alcun modo intenderla; ed è proprio in ciò che consiste l’eroicità di tale avventura. Perché, in effetti, è un’avventura e tra le più eroiche. Perché ogni discorso è un modo, e il più delle volte il modo più difficile, di operare; e somministrare il sacramento della parola a coloro che forse non sono nemmeno capaci di intenderne il senso materiale è un’ardua avventura. Occorre una fede molto robusta nello spirito per parlare così a gente dall’intelletto torbido con la sicurezza che senza intenderci ci intenderanno, e che i semi della nostra parola penetreranno nei meandri dei loro spiriti senza che essi nemmeno se ne accorgano. Parla, tu che insieme a me consideri, pieno di fede in essa, la vita di Don Chisciotte; parla anche se non ti intendono, poiché alla fine ti intenderanno. È sarà sufficiente vedere che ti rivolgi a loro parlando senza chiedere nulla o perché ti hanno dato qualcosa di buona grazia già prima. Parla ai caprai come parli al tuo Dio, dal profondo del cuore e nella lingua in cui parli a te stesso, quando sei solo e in silenzio. Quando più sprofondati vivono nella vita della carne, tanto più sgombre di brume saranno le loro menti, e la musica delle tue parole vi risuonerà assai meglio che nella mente dei baccellieri fatti ad immagine e somiglianza di Sansone Carrasco. Perché non furono le ricercate arti retoriche di Don Chisciotte ad illuminare le menti dei caprai, bensì il vederlo armato da capo a piedi con la grande lancia appoggiata lì accanto, con un pugno di ghiande in mano e seduto sul trogolo, intento a lanciare nell’aria che tutti respiravano soavi parole vibranti con una voce piena d’amore e di speranza.
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No faltará quien crea que Don Quijote debió atemperarse al publico que le escuchaba y hablar a los cabreros de la cuestión cabreril y del modo de redimirlos de su baja condición de pastores de cabras. Eso hubiera hecho Sancho a tener saber y arrestos para ello; pero el Caballero no. Don Quijote sabía bien que no hay más que una sola cuestión, para todos la misma, y que lo que redima de su pobreza al pobre, redimirá, a la vez, de su riqueza al rico. ¡Mal hayan los remedios de ocasíón! A cuantos van y vienen y se asenderean llevando y trayendo remedios específicos para los males de estos o de aquellos, cabe encajarles lo que decía el gaucho Martín Fierro: De los males que sufrimos hablan mucho los puebleros, pero hacen como los teros para esconder sus niditos, que en un lao pegan los gritos y en otro tienen los güevos.
Cuando os hablen, cándidos cabreros, de la cuestión cabreril, es que están pegando gritos para alejaros del sitio en que guardan sus huevos. Y además, ¿ha de hablarse tan solo en vista del porvenir inmedíato, del fruto que nuestros oyentes saquen de lo que decimos? Tratando de esto el maestro de espíritu P. Alonso Rodríguez, en el capítulo XVII del tratado primero de la tercera parte de su Ejercicio de Perfección, nos dice que «no depende nuestro merecimiento, ni la perfección de nuestra obra, de que el otro se aproveche o no; antes podemos añadir aquí otra cosa para nuestro consuelo, o para mejor decir, para consuélo de nuestro desconsuelo, y es que no solamente no depende nuestro merecimiento y nuestro premio y galardón de que los otros se conviertan y de que se haga mucho fruto, sino que en cierta manera
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Non mancheranno coloro che ritengono che Don Chisciotte avrebbe dovuto adattarsi al pubblico che lo ascoltava e parlare ai caprai delle questioni sociali dei caprai e della maniera migliore per redimerli dalla loro umile condizione di pastori di capre. Ma questo avrebbe potuto farlo Sancio se avesse avuto sapienza ed audacia per siffatte cose; ma il Cavaliere, no. Don Chisciotte sapeva benissimo che esiste una sola questione, uguale per tutti, e che ciò che vale a redimere il povero dalla sua povertà, varrà in pari tempo a redimere il ricco dalla sua ricchezza. Maledetti i rimedi d’occasione! A tutti coloro che vanno e vengono e si smarriscono nel portare avanti e indietro rimedi specifici per i malanni di questo e di quello, calzano a pennello le parole che diceva il gaucho Martín Fierro: Dei mali di cui soffriamo assai parlano i paesani ma fanno come gli uccelli che, per nascondere il nido, gridan forte da una parte e dall’altra tengon le uova.
Quando verranno a parlarvi, candidi caprai, della questione che vi riguarda, siate sicuri che lo faranno solo per distrarvi, gridando forte per allontanarvi dal luogo in cui hanno nascosto le uova. E poi, si deve forse parlare unicamente in vista di un avvenire immediato, del frutto che i nostri ascoltatori possono ricavare da ciò che diciamo? Il maestro spirituale P. Alonso Rodríguez, trattando di ciò nel capitolo XVII del trattato primo della terza parte del suo Esercizio di perfezione, ci dice che: «il nostro merito e la perfezione del nostro operare non dipendono dal fatto che un altro se ne giovi o no; anzi potremmo aggiungere a questo punto un’altra cosa, per nostra consolazione o, per meglio dire, per consolarci del nostro sconforto, ed è che non soltanto il nostro merito ed il nostro premio e la nostra remunerazione non dipendono dalla conversione degli altri o che se ne tragga gran frutto, ma anzi in certo modo possiamo dire che facciamo
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podemos decir que hacemos y merecemos más cuando no hay nada de eso que cuando se ve el fruto al ojo». Y este discurso de Don Quijote a los cabreros, ¿fue acaso menos heroico y más inútil que aquel otro que cerca de Santa Cruz, y en casa de la indía Capillana, enderezó a los indios Francisco Pizarro para explicarles los fundamentos de la religión cristiana y el poderío del rey de Castilla? Algo consiguió, pues los indios, por darle gusto, alzaron por tres veces la bandera española. No fue del todo inutil el razonamiento de Pizarro; no lo fue el de Don Quijote. El malicioso Cervantes llama, en efecto, al discurso de este «inutil razonamiento», para añadir que se lo escucharon los cabreros «embobados y suspensos». La verdad de la historia se le impone aquí, puesto que si los embobó y suspendió Don Quijote con su razonamiento, no fue este ya inútil. Y que no lo fue lo prueba el agasajo que le rindieron dandole solaz y contento con hacer que cantara un zagal enamorado. El espíritu produce espíritu, como la letra letra, y la carne carne, y así la arenga de Don Quijote produjo, a vuelta, cantares al son de cabreril rabel. No fue, pues, inútil ni lo es nunca la palabra pura. Si el pueblo no la entiende, siente, empero, comezón de entenderla, y al oírla, rompe a cantar. Y mientras Don Quijote, inspirado a la vista de las bellotas, regaló a los cabreros con aquella arenga, ¿qué hizo Sancho? «Sancho… callaba y comía bellotas y visitaba muy a menudo el segúndo zaque, que por que se enfriase el vino le tenían colgado de un alcomoque». Y pensaría para sí: ¡así me las den todas! Qué pensara Sancho de la arenga de su amo no lo sé, pero sí sé que pensarán de ella nuestros Sanchos de hoy. Los cuales buscan ante todo eso que llaman soluciones concretas, y en cuanto se ponen a escuchar a alguien van a oír qué remedios ofrece para los males de la patria o para otros cualesquiera males. Se han hecho los oídos oyendo a los charlatanes que, subi-
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di più e ci acquistiamo più merito quando non succede nulla di tutto questo, che non quando se ne vede il frutto a prima vista». E questo discorso di Don Chisciotte ai caprai fu forse meno eroico e più inutile di quello che, stando presso Santa Cruz, nella casa dell’indigena Capillano, Francesco Pizarro rivolse agli indios per spiegare loro i fondamenti della religione cristiana e l’immenso potere del re di Castiglia? Eppure qualcosa ottenne, giacché gli indios, per fargli piacere, innalzarono per tre volte la bandiera spagnola. Non fu dunque del tutto inutile il discorso di Pizarro; e così non lo fu quello di Don Chisciotte. Il malizioso Cervantes chiama infatti «inutile ragionamento» il discorso del Cavaliere, per aggiungere poi che i caprai lo stettero a sentire «intontiti ed estatici». E a questo punto la verità della storia gli si impone, poiché, se Don Chisciotte li intontì ed estasiò con i suoi ragionamenti, il discorso non riuscì inutile. Che non lo fosse, lo prova del resto il trattamento che gli usarono, sollazzandolo e rallegrandolo col canto di un pastorello innamorato. Lo spirito genera spirito, come la lettera genera lettera e la carne genera carne; e così l’arringa di Don Chisciotte produsse, di rimbalzo, canzoni accompagnate dal suono di una pastorale ribeca. Non fu dunque inutile, come non lo è mai la parola pura. Se anche il popolo non l’afferra del tutto, prova tuttavia il desiderio di intenderla, e quando la ode, sbotta a cantare. E mentre Don Chisciotte, ispirato alla vista delle ghiande, lusingava i pastori con quella sua arringa, che cosa faceva Sancio? «Sancio… taceva e badava a mangiare ghiande e faceva ogni tanto una visita al secondo otre che, affinché il vino rimanesse fresco, era stato appeso ad una pianta di sughero». E pensava forse tra sé e sé: «Potesse durare la pacchia!». Che cosa poi pensasse Sancio dell’arringa del suo padrone, non lo so; so però quello che ne pensarono i nostri Sanci di oggi. I quali cercano prima di tutto quelle che essi chiamano le soluzioni concrete e, non appena vanno ad ascoltare qualcuno, subito tendono le orecchie per udire quali rimedi offra per i mali della patria o per qualsiasi altro male. Si sono fatti l’orecchio a forza di sentire i ciarlatani che, in piedi su un carro, in
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dos en un coche, en la plaza del mercado, venden frascos de cualquier droga, y así, apenas alguien les habla, esperan saque la droga enfrascada. Mientras se les habla, callan y comen bellotas, y se preguntan luego: bien, y en concreto, ¿qué? Todo eso del siglo de oro les entra por un oído y por el otro les sale; lo que ellos buscan es el elixir para curar el mal de muelas o el reúma, o para quitar manchas de la ropa: el cocimiento regenerativo, el bálsamo católico, el revulsivo anticlerical, el emplasto aduanero o el vejigatorio hidráulico. A esto llaman soluciones concretas. Estiman que el habla no se hizo sino para pedir o para ofrecer algo, y no hay manera de que sientan lo que tiene de revelación la música interior del espíritu. Porque la otra música, la exterior, la que les recrea los oídos carnales, esa no dejan de entenderla y apreciarla, y hasta es el único regalo que se permiten. Si se les habla, o ha de ser para acariciarles los oídos con párrafos acompasados a compás tamborilero, o para enseñarles alguna receta de uso doméstico o político. ¡Soluciones concretas! ¡Oh Sanchos prácticos, Sanchos positivos, Sanchos materiales! ¿Cuándo oiréis la silenciosa música de las esferas espírituales? Dificil es hablar a los Sanchos, nacidos y criados en lugarejos donde solo se oyen comadrerías de solana y sermones, pero más dificil aùn es hablar a bachilleres. Lo mejor es tener por oyentes a cabreros, hechos y acostumbrados a oír las voces de los campos y de los montes. Los otros os saldrán con que no os entienden o entenderán a tuertas lo que les digáis, porque no reciben vuestras palabras en silencio interior ni en atención virgen, y por mucho que agucéis vuestras explicaderas no aguzarán sus entendederas ellos. Es fuerte cosa que por dondequiera que uno vaya en nuestra España, derramando verdades del corazón, le salgan al paso diciéndole que no lo entienden o entendiéndolo al revés de como se explica. Y ello tiene su raíz, y es que van las gentes a oír esto o lo otro o lo de más allá, algo que se les ha dicho ya, y no a oir lo
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mezzo alla piazza del mercato, vendono bottiglie e bottigliette di una qualche droga; e se appena qualcuno parla con loro si aspettano che tiri fuori la droga imbottigliata. Finché si parla ad essi, tacciono e mangiano ghiande; ma poi si domandano: «Benissimo; ma, venendo al sodo, che cosa ci raccontano?». Tutta la faccenda del secolo d’oro entra loro da un orecchio ed esce dall’altro; non cercano altro che l’elisir per guarire il mal di denti o i reumatismi o per smacchiare i vestiti; il decotto rigenerante, il balsamo cattolico, il revulsivo anti-clericale, l’impiastro dei dazi doganali o il vescicante dell’irrigazione. E chiamano tutto ciò soluzioni concrete. Ritengono che la parola sia fatta solo per chiedere o per offrire qualcosa e non c’è verso che sentano quello che la musica interiore dello spirito ha in sé di rivelazione. Perché l’altra musica, quella esterna, quella che rallegra le loro orecchie carnali, quella riescono benissimo ad apprezzarla, ed anzi è l’unico divertimento che si permettono. Se gli si parla, o dev’essere per accarezzar loro le orecchie con i periodi ritmati sul rullo del tamburo, o per insegnar loro qualche ricetta miracolosa ad uso domestico o politico. Soluzioni concrete! Oh, Sanci pratici, Sanci positivi, Sanci materiali! Quando riuscirete ad udire la silenziosa musica delle sfere spirituali? È difficile parlare ai Sanci, nati e cresciuti in luoghi dove si odono solo pettegolezzi di cortile o prediche; ma è ancora più difficile parlare ai baccellieri. È meglio avere per ascoltatori dei caprai, assuefatti ad udire le voci dei campi e delle montagne. Gli altri verranno fuori a dirvi che non vi capiscono, o comprenderanno a rovescio quel che direte loro, perché non accolgono le vostre parole nel silenzio interiore e con pura attenzione; e per quanto aguzziate le vostre facoltà esplicative, essi non aguzzeranno mai le loro facoltà intellettive. È davvero un peccato che, in qualsiasi luogo della nostra Spagna, uno vada spargendo e diffondendo le verità del suo cuore, venga fuori la gente a dirgli che non lo capisce o capisce proprio l’opposto di quello che dice. E questo inconveniente ha la sua radice nel fatto che la gente va ad ascoltare questa o quell’altra cosa o magari quell’altra ancora – sempre qualcosa
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que se les diga. Los unos son clericales, anticlericales los otros, estos unitaríos o centralistas, aquellos federales o regionalistas, los de aquí tradicionalistas, progresistas los de allá, y quieren que se les hable en uno de esos lenguajes. Ellos luchan unos con otros, pero luchan como es forzoso lo hagan los luchadores terrestres: sobre un mismo suelo, en un mismo plano y dándose cara, y si te pones a darles voces desde otro plano, por encima o por debajo del que ocupan, les distraes de su pelea y no comprenden a qué vas allá. Si estamos peleando – se dicen –, bien venido sea quien venga a animarnos con voces de a ellos!, ¡adelante!, o bien a advertirnos de un peligro gritándonos: ¡ojo!, ¡atrás!; pero, ¿quién es ese que desde las nubes o desde dentro de la tierra nos grita que levantemos la vista o que la hundamos en el suelo? ¿No ve que entretanto nos degollarán los enemigos? Cuando se lucha no se puede mirar al cielo ni tratar de penetrar con la vista el seno de la tierra. Dicen así; no ven que les proponéis paz, y cada uno de los bandos os cuenta en el contrario. Y no os queda sino ir a hablar a los sencillos, y hablarles sin intentar siquiera poneros a su alcance; hablarles en el tono más elevado, seguros de que sin entenderos os entienden. Solo Sancho, el carnal Sancho, estaba más para dormir que para oír canciones, sin conocer la virtud ensoñadora de estas.
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che gli è già stata detta –, ma non va ad ascoltare quello che le si dice. Gli uni sono clericali, gli altri anti-clericali; questi sono unitari o centralisti, quelli federali o regionalisti; tradizionalisti questi, e progressisti quelli; e tutti vogliono che chi parla loro usi uno di questi linguaggi. Gli uni combattono contro gli altri, ma combattono come possono farlo dei combattenti terreni; sullo stesso suolo, sullo stesso piano, a faccia a faccia; ma se ti metti a gridare da un altro piano, al di sopra o al di sotto di quello su cui poggiano i loro piedi, non fai che distrarli dalla loro lotta e non capiscono che cosa tu ci vada a fare. Se stiamo combattendo – si dicono –, sia il benvenuto chi viene ad incoraggiarci gridando: «forza!» o «avanti!», oppure ad avvertirci di un pericolo urlando: «attenzione!» o «indietro»; ma chi è questo tizio che dall’alto delle nuvole oppure di sotto terra ci grida di alzare gli occhi oppure di abbassarli a guardare giù? Non s’accorge che intanto, se ci distraiamo, i nemici ci sgozzeranno? Quando si combatte, non si può guardare il cielo e tanto meno tentare di penetrare con lo sguardo nel seno della terra. Dicono così; e non s’accorgono che proponete loro la pace, e ognuno dei due partiti vi mette tra i suoi avversari. Così non vi resta che andare a parlare ai sempliciotti e parlar loro senza neppure tentare di mettervi al loro livello; parlare nel tono più elevato, con la sicurezza che, pur senza capirvi, vi capiscono. Soltanto Sancio, il carnale Sancio, era più disposto a dormire che ad ascoltare canzoni senza apprezzarne le virtù ammaliatrici.
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de lo que contó un cabrero a los que estaban con Don Quijote y donde se da fin al cuento de la pastora Marcela, con otros sucesos Entonces fue cuando Pedro el cabrero contó a Don Quijote la historia de Crisóstomo y Marcela, después de aquellos tiquismiquis con que el leído Caballero corrigió sus vocablos al pastor. Era, no hemos de negarlo, impertinente Don Quijote cuando se picaba de letrado. Fue el Caballero a ver cómo enterraban a Crisóstomo, muerto de amores por Marcela, y al ir a ello encontró a Vivaldo y platicó con él acerca de la caballería andante, profesión, si no tan estrecha como la de los frailes cartujos, tan necesaria como ella en el mundo, donde solo el ejemplo de lo inasequible a los más puede enseñar a estos a poner su meta más allá de donde alcancen. Así las carreras de caballos, que solo para criar caballos de carrera sirven, mantienen la pureza de la casta caballar, impidiendo que el tiro y la noria y el vil oficio encanijen al noble bruto. Y entre ambas profesiones, la de pedir al cielo el bien de la tierra, y la de poner en ejecución lo pedido, creando, lanza en mano, el reino de Dios, cuyo advenimiento se pide en oración, no cabe primero ni segundo. «Así que somos ministros de Dios en la tierra y brazos por quien se ejecuta en la tierra su justicia», añadió Don Quijote.
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di ciò che raccontò un capraio a quelli che erano con Don Chisciotte e dove si conclude il racconto della pastora Marcella, e si narrano altri avvenimenti Fu allora che Pietro il capraio raccontò a Don Chisciotte la storia di Grisostomo e di Marcella, dopo che il colto Cavaliere ebbe corretto con garbate sottigliezze gli errori linguistici del pastore. E Don Chisciotte, quando si piccava di letteratura, era davvero impertinente; non possiamo negarlo. Il Cavaliere andò ad assistere alla sepoltura di Grisostomo, morto d’amore per Marcella; e, mentre vi andava, s’imbatté in Vivaldo con cui si mise a discutere sulla cavalleria errante, professione, sebbene da non intendersi in senso stretto come quella dei frati certosini, tuttavia era altrettanto necessaria nel mondo dove soltanto l’esempio di ciò che resta inaccessibile ai più può insegnare loro a porre la propria meta al di là del punto cui possono giungere. Allo stesso modo le corse dei cavalli, che servono unicamente ad allevare cavalli da corsa, giovano a conservare la purezza della razza dei cavalli, impedendo che il nobile animale venga avvilito con gli umilianti lavori del tiro o della noria. E tra le due professioni, quella che chiede al cielo il bene della terra, e l’altra che mette in opera quello che si è chiesto, creando, con la lancia in pugno, il regno di Dio, il cui avvento è invocato dalla preghiera, non c’è differenza tra l’una e l’altra. «Siamo perciò veri ministri di Dio sulla terra e strumenti per mezzo dei quali vi si esercita la giustizia», soggiunse Don Chisciotte.
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¿No es acaso, desgraciado Caballero, la raíz de tus proezas y de tus desgracias a la par el noble pecado a través de cuya depuración te llevó a la gloria de tu Dulcinea, esto de creerte ministro de Dios en la tierra y brazo por quien se ejecuta en ella su justicia? Fue tu pecado original y el pecado de tu pueblo: el pecado colectivo de cuya mancha y maleficio participabas. tu pueblo también, arrogante Caballero, se creyó ministro de Dios en la tierra y brazo por quien se ejecuta en ella su justicia, y pagó muy cara su presunción y sigue pagándola. Creyose escojido de Dios y esto le ensoberbeció. ¿Pero es que no estaba en lo seguro? ¿No somos, acaso, todos ministros de Dios en la tierra y brazos por quien se ejecuta en ella la justicia? Y el persuadirnos de esta verdad, ¿no es tal vez el verdadero remedio para purificar y ennoblecer nuestras acciones? En vez de buscar hacer otras cosas que las que haces, luchando contra tu costumbre, persuádete de que en todo cuanto hagas, bueno o malo a tu parecer, eres ministro de Dios en la tierra y brazo por quien se ejecuta en ella su justicia, y sucederá que tus actos acabarán por ser buenos. Estímalos como viniendo de Dios y los divinizarás. Hay desgraciado a quien eso que en el lenguaje de los hombres llamamos natural perverso o mala índole le lleva a ser azote de sus prójimos, y si ese desgraciado se penetrase de que ese azote de castigo lo puso en sus manos Dios, la que llamamos mala índole le daría frutos de bondad. No os apeguéis al miserable criterio jurídico de juzgar de un acto humano por sus consecuencias externas y el daño temporal que recibe quien lo sufre; llegad al sentido íntimo y comprended cuánta profundidad de sentir, de pensar y de querer se encierra en la verdad de que vale más daño infligido con santa intención que no beneficio rendido con intención perversa.
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Non è forse, sventurato Cavaliere, la radice delle tue prodezze ed in pari tempo delle tue disgrazie, il nobile peccato attraverso la cui purificazione la tua Dulcinea ti condusse alla gloria, questa faccenda di crederti ministro di Dio sulla terra e strumento per mezzo del quale vi si esercita la giustizia? Fu questo il tuo peccato originale e il peccato del tuo popolo: il peccato collettivo, della cui macchia e del cui maleficio tu partecipavi. Anche il tuo popolo, prode Cavaliere, si credette ministro di Dio sulla terra e strumento per mezzo del quale vi si esercita la sua giustizia, e pagò assai cara la propria presunzione, e continua a pagarla. Si credette l’eletto da Dio, e questo lo fece insuperbire. Ma non era forse nel vero? Non siamo forse tutti ministri di Dio sulla terra e strumento per mezzo del quale vi si esercita la giustizia? E l’essere persuasi di questa verità, non è forse l’autentico rimedio per purificare e nobilitare le nostre azioni? Invece di andare in cerca di cose diverse da quelle che fai, combattendo contro le tue abitudini, persuaditi che in tutto ciò che fai, ti appaia bene o male, sei ministro di Dio sulla terra e strumento per mezzo del quale vi si esercita la sua giustizia, ed avverrà che i tuoi atti finiranno con l’essere buoni. Considerali come derivanti da Dio, e li divinizzerai. Vi sono degli sventurati che, ciò che nel linguaggio degli uomini noi chiamiamo indole perversa o cattivo carattere, conduce ad essere flagello del loro prossimo; ma se questi sventurati si compenetrassero del fatto che questa sorta di castigo è stato posto nelle loro mani da Dio stesso, ricaverebbero frutti di bontà da quel che noi chiamiamo indole malvagia. Non accettare il miserabile criterio giuridico di giudicare un atto umano dalle sue conseguenze esteriori e dal danno temporale che riceve chi lo subisce; ricercatene il significato intimo e comprendete quanta profondità di sentimenti, di comprensione e d’amore sia racchiusa nella verità che val meglio un danno inflitto con santa intenzione, che non un beneficio concesso con intenzione perversa.
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Te denuestan, pueblo mío, porque dicen que fuiste a imponer tu fe a tajo y mandoble, y lo triste es que no fue del todo así, sino que ibas también, y muy principalmente, a arrancar oro a los que lo acumularon; ibas a robar. Si solo hubieras ido a imponer tu fe… Me revuelvo contra el que viene, tizona en la diestra y en la otra libro, a querer salvarme el alma a pesar mío, pero al cabo se cuida de mi y soy para él un hombre; más para aquel que no viene sino a sacarme los ochavos engañándome con baratijas y chucherías, para este no paso de ser un cliente, un parroquiano o vecero. Hoy se da en ponderar esto y pedir una sociedad en que en puro policía no pueda hacerse daño, y acabemos porque nadie obre mal, aunque nadie sienta bien tampoco. ¡Qué horrible condición de vida! ¡Qué pesadumbre bajo la verdura sosegada! ¡Qué quieto lago de ponzoñosas aguas! ¡No, no, y mil veces no! Dios nos dé antes un mundo en que todos sientan bien, aunque todos sientan daño; en que los hombres se golpeen en la ceguera del cariño, y en que suframos todos en silencio por el mal que nos vemos arrastrados a infligir a los demás. Sé generoso y arremete a tu hermano; dale de tu espíritu, aunque sea golpes. Hay algo más íntimo que eso que llamamos moral, y no es sino la jurisprudencia que escapa a la policía; hay algo más hondo que el Decálogo, que es una tabla de la ley, ¡tabla, tabla, y de ley!: hay un espíritu de amor. Me diréis que no cabe sentir bien sin obrar bien, y que las buenas acciones brotan, como de su fuente, de los buenos sentimientos, y solo de ellos. Pero yo os contestaré, con Pablo de Tarso, que no hago el bien que quiero, sino el mal que no quiero hago, y os añadiré que el ángel que en nosotros duerme suele despertar cuando la bestia le arrastra, y al despertar llora su esclavitud y su desgracia. ¡Cuántos buenos sentimientos brotan de malas acciones a que la bestia nos precipita!
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Ti vituperano, popolo mio, perché dicono che sei andato ad imporre la tua fede a colpi di punta e di taglio; ma è triste rilevare che i fatti non si svolsero proprio così. Tu andavi anche, e soprattutto, a strappare l’oro a coloro che lo avevano accumulato; andavi a rubare. Se almeno fossi andato ad imporre la tua fede… Mi ribello contro chi viene, con la spada in una mano ed il libro nell’altra, a volermi salvare l’anima mio malgrado, anche se in fin dei conti si occupa di me e mi considera uomo come lui; ma per chi viene soltanto per togliermi i quattrini ingannandomi dandomi in cambio bagatelle e cianfrusaglie, per costui non sono altro che un cliente, un avventore o una testa di turco. Ci si impunta oggi a mettere in rilievo questa considerazione e a chiedere una società dove per merito esclusivo della polizia nessuno possa far danno agli altri, e nessuno in conclusione operi male, anche a costo che nessuno abbia il concetto di bene. Che vita tremenda, questa! Che putredine sotto il verde placido manto di verzura! Che quieto stagno di acque velenose! No, no, mille volte no! Piuttosto Dio ci conceda un mondo dove tutti si sentano a loro agio, anche se tutti faranno danno; in cui tutti gli uomini si battano accecati dall’affetto; in cui tutti soffriamo in silenzio per il male che ci vediamo trascinati ad infliggere agli altri. Sii generoso, e assali pure tuo fratello; comunicagli il tuo spirito, sia pure a suon di botte. Esiste qualcosa di più intimo di ciò che siamo soliti chiamare morale, e si tratta solo di una sorta di giurisprudenza che sfugge alla polizia; c’è qualcosa di più profondo del Decalogo stesso, che è una tavola della legge – una tavola, una tavola, e per giunta della legge! –: c’è uno spirito d’amore. Mi direte che non serve avere il senso del bene senza operare bene e che le buone azioni scaturiscono, come dalla loro fonte, dai buoni sentimenti, e soltanto da essi. Ma io vi risponderò, con Paolo di Tarso, che non faccio il bene che voglio, ma il male che non voglio, e vi aggiungerò che l’angelo sopito dentro di noi suole destarsi quando la bestia lo trascina, e che quando si ridesta piange sulla sua schiavitù e sulla sua sventura. Quanti buoni sentimenti nascono da cattive azioni alla quali ci spinge la bestia!
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Siguió discurriendo Don Quijote con Vivaldo sobre lo de encomendarse los caballeros andantes a su dama antes que a Dios, y dando las razones que había leído llegó a lo de no poder ser caballero andante sin dama, «porque tan propio y tan natural les es a los tales ser enamorados como al cielo tener estrellas, y a buen seguro que no se haya visto historia donde se halle caballero andante sin amores, y por el mismo caso que estuviese sin ellos no será tenido por legítimo caballero, sino por bastardo, y que entró en la fortaleza de la caballería dicha, no por la puerta, sino por las bardas, como salteador y ladrón». Ved aquí cómo del amor a mujer brota todo heroísmo. Del amor a mujer han brotado los más fecundos y nobles ideales, del amor a mujer las más soberbias fábricas filosóficas. En el amor a mujer arraiga el ansia de inmortalidad, pues es en él donde el instinto de perpetuación vence y soyuga al de conservación, sobreponiéndose así lo sustancial a lo meramente aparencial. Ansia de inmortalidad nos lleva a amar a la mujer, y así fue como Don Quijote juntó en Dulcinea a la mujer y a la Gloria, y ya que no pudiera perpetuarse por ella en hazañas de espíritu. Fue enamorado, pero de los castos y continentes, como dijo en otra ocasión él mismo. ¡Faltó con su castidad y continencia al fin del amor? No, pues engendró en Dulcinea hijos espírituales duraderos. Casado no habría podido ser tan loco; los hijos de carne le hubieran arrebatado de sus hazañosas empresas. No le embarazó nunca cuidado de mujer que ata las alas a otros héroes, porque como dice el Apóstol (I Cor., VII, 33), «el casado se cuida de lo del mundo, de cómo ha de agradar a la mujer, y queda dividido». Hasta en el más puro orden espíritual, y sin sombra de malicia alguna, suele buscar el hombre apoyo en mujer, como Francisco de Asís en Clara; pero Don Quijote buscole en dama de sus pensamientos.
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Don Chisciotte continuò a discutere con Vivaldo sulla consuetudine dei cavalieri erranti di raccomandarsi alla propria dama anziché a Dio; e, ricavandone i motivi da ciò che aveva letto, pervenne alla conclusione che non ci poteva essere cavaliere errante senza dama, «perché per essi è altrettanto proprio e naturale essere innamorati quanto per il cielo essere stellato; ed è certo che non si è ancora vista nessuna storia dove si trovi un cavaliere errante senza amori; e se anche ve ne fosse uno, non sarebbe ritenuto legittimamente un cavaliere bensì un bastardo, per uno che entrò nella cittadella della predetta cavalleria, non per la porta, ma scavalcando il recinto, come un ladrone assaltatore». Osservate a questo punto come ogni eroismo derivi dall’amore per una donna. Dall’amore per una donna sono nati i più fecondi e nobili ideali; dall’amore per una donna, le più superbe costruzioni filosofiche. Nell’amore per una donna affonda le radici l’ansia di immortalità, poiché è in esso che l’istinto di perpetuazione vince e soggioga quella della mera conservazione, in modo che la sostanza si sovrappone alla semplice apparenza. È l’ansia di immortalità che ci porta ad amare la donna; e fu così che Don Chisciotte giunse ad assumere in Dulcinea la donna e la Gloria, e giacché non poteva perpetuarsi in lei con un figlio di carne, cercò di rendersi eterno in lei con le imprese dello spirito. Anch’egli fu innamorato, ma tra i più casti e continenti, come ebbe a dire una volta lui stesso. Venne meno con la sua castità e continenza al fine ultimo dell’amore? No, poiché generò in Dulcinea figli spirituali duraturi. Se si fosse sposato, non avrebbe potuto essere così folle; i figli di carne lo avrebbero sottratto alle sue imprese temerarie. Non fu mai ostacolato da un pensiero di donna che tarpa le ali ad altri eroi, perché, come dice l’Apostolo (I Cor., VII, 33), «chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, e rimane così diviso». Perfino nel più puro ordine spirituale, e senza alcuna ombra di malizia, l’uomo è solito cercare sostegno nella donna, come Francesco d’Assisi in Chiara; ma Don Chisciotte lo cercò nella dama dei suoi pensieri.
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¡Y cómo embaraza la mujer! Íñigo de Loyola no quiso que su Compañía tuviese nunca cargo de mujeres debajo de su obediencia (Rivadeneira, lib. III, cap. XIV), y cuando Doña Isabel de Rosell pretendió formar comunidad de mujeres bajo la obediencia de la Compañía, logró Loyola que el papa Pablo III, en letras apostólicas de 20 de mayo de 1547, la eximiera de tal carga, pues «a esta mínima Compañía – decíale Íñigo – no conviene tener cargo especial de dueñas con voto de obediencia». Y no es que despreciara a la mujer, pues la honró en lo que es tenido por más bajo y más vil de ella, porque si Don Quijote se hizo armar caballero ciñéndole espada y calzándole espuela dos mozas del partido, Íñigo de Loyola acompañaba él mismo en persona, por medio de la ciudad de Roma, a las «mujercillas públicas perdidas» para ir a colocarlas «en el monasterio de Santa María o en casa de alguna señora honesta y honrada, donde fuesen instruidas en toda virtud» (Rivadeneira, lib. III, cap. IX). Don Quijote fue enamorado, pero de los castos y continentes, y no sino por ser fuerza que los caballeros andantes tengan dama a quien rendir su amor – según decía, aunque veremos le quedaba otra dentro – por cumplir el rito. Y acaso no falte joven atolondrado que vea en esto un motivo para tener en menos a Don Quijote, pues los hay que cifran toda la calidad de un hombre en cómo se las ha en lances de amor; es decir, de eso que se llama amor a cierta edad de la vida. No recuerdo quién dijo, pero dijo muy bien quienquiera que lo dijese, que para los que aman mucho, es el amor – amor a mujer, se entiende – algo subordinado y secundario en su vida, y es lo principal de esta para los que aman poco. Hay quienes no juzgan de la libertad de un espíritu sino según sienta en punto al amor; hay mozos para los cuales todo el valor de un poeta se cifra en cómo sienta el amor.
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E come impaccia, la donna! Ignazio di Loyola non volle mai che la sua Compagnia si sobbarcasse il peso di donne legate alla stessa regola (Rivadeneira, lib. III, cap. XIV), e quando donna Isabella di Rosell avanzò la pretesa di creare una comunità di donne secondo la regola della Compagnia, il Loyola ottenne che il Papa Paolo III, in una lettera apostolica del 20 maggio 1547, lo esimesse da tale peso, poiché «a questa minima Compagnia – diceva Ignazio – non conviene sobbarcarsi il particolare peso di donne legate al voto di obbedienza». Non già che disprezzasse la donna, perché anzi la onorò nello stato che è considerato più basso e vile, perché se Don Chisciotte si fece armare cavaliere da due ragazze allegre che gli cinsero la spada e gli calzarono gli sproni, Ignazio di Loyola accompagna egli stesso attraverso la città di Roma le «donnette pubbliche perdute» per andare a sistemarle «nel monastero di Santa Maria o in casa di qualche onesta ed onorata dama dove potessero essere istruite in ogni sorta di virtù» (Rivadeneira, lib. III, cap. IX). Anche Don Chisciotte fu innamorato, ma tra i più casti e continenti, e non già perché era indispensabile che i cavalieri avessero una dama ai cui offrire il proprio amore – così egli diceva, per quanto si potrà vedere in seguito, che serbava dentro di sé anche un altro motivo – ma per compiere un rito. E forse c’è qualche giovane sciocco che vede in ciò una buona ragione per tenere in poca considerazione Don Chisciotte, dal momento che ne esistono di quelli che fanno consistere tutta la rispettabilità di un uomo nella maniera in cui se la sbriga nelle avventure amorose; o, per essere più precisi, nelle avventure di ciò che si suole chiamare amore in una certa età della vita. Non ricordo chi lo disse, ma chiunque l’abbia detto ha perfettamente ragione, che per coloro che amano molto, l’amore – ovviamente, l’amore per una dama – è qualcosa di secondario e subordinato nella loro vita, mentre ne è la causa principale per coloro che amano poco. C’è chi giudica della libertà di uno spirito a seconda di ciò che prova riguardo all’amore; e vi sono giovani per i quali tutto il valore di un poeta consiste nel modo in cui considera l’amore.
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¿Qué diría el casto y continente Don Quijote si, volviendo al mundo, viese el chaparrón de incentivos al deseo carnal con que se trata de desviar el amor? ¿Qué diría de todos esos retratos de mujerzuelas en actitudes provocativas? De seguro que, movido por su amor a Dulcinea, por su noble y puro amor, emprendería a tajo y mandoble con todos los tenderetes en que esas porquerías se nos muestran, como la emprendió con el retablo de maese Pedro. Elias nos apartan del amor a Dulcinea, del amor de la Gloria. Siendo incentivos a que nos perpetuemos, nos apartan de la verdadera perpetuación. Acaso sea nuestro sino que haya de renunciar la carne a perpetuarse si ha de perpetuar el espíritu. Don Quijote amó a Dulcinea con amor acabado y perfecto, con amor que no corre tras deleite egoísta y propio; entregose a ella sin pretender que ella se le entregara. Se lanzó al mundo a conquistar gloria y laureles para ir luego a depositarlos a los pies de su amada. Don Juan Tenorio habriase dedicado a rendirla con la mira de poseerla y de saciar en ella su apetito, no más que por amor de gozarla y pregonarlo; Don Quijote, no. Don Quijote no se fue de galán al Toboso a enamorarla, sino que se echó al mundo a conquistarlo para ella. ¿Qué suele ser ese que llaman amor sino un miserable egoismo mutuo en que busca su propio contento cada uno de los dos amantes? ¿Y no es acaso el acto de suprema unión lo que más supremamente los separa? Don Quijote amó a Dulcinea con amor acabado, sin exigir ser correspondido; dándose todo él y por entero a ella. Amó Don Quijote a la Gloria encarnada en mujer. Y la Gloria le corresponde. «Dio un gran suspiro Don Quijote y dijo: yo no podré afirmar si la dulce mi enemiga gusta o no de que el mundo sepa que yo la sirvo», y luego todo lo que sigue. Sí, Don Quijote mío, sí; la tu dulce enemiga, Dulcinea, lleva de comarca en comarca y de siglo en siglo la gloria de tu locura de amor. Su linaje, prosapia y alcurnia «no es de los an-
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Che mai direbbe il casto e continente Don Chisciotte se, tornando in questo mondo, vedesse il profluvio di stimoli che si presentano al desiderio carnale col quale si cerca di sviare il vero amore? Che direbbe di tutti quei ritratti di donnette in atteggiamenti provocatori? È certo che, mosso dal suo amore per Dulcinea, dal suo nobile e puro amore, si scaglierebbe con lo spadone in pugno contro tutte le botteghe dove si offrono allo sguardo queste porcherie, allo stesso modo che si scagliò contro i burattini di Mastro Pietro. Sono queste cose che ci allontanano dall’amore per Dulcinea, dall’amore della Gloria. Essendo stimoli alla perpetuazione della stirpe, ci allontanano dalla vera perpetuazione. Forse è nostro destino che la carne debba rinunciare a perpetuarsi se si deve perpetuare lo spirito! Don Chisciotte amò Dulcinea con un amore totale e perfetto, con un amore che non correva dietro un piacere individuale ed egoistico; si diede a lei senza pretendere in cambio che ella gli si offrisse. Si lanciò nel mondo a conquistare gloria ed allori per andar poi a deporli ai piedi della sua amata. Don Giovanni Tenorio si sarebbe adoperato per sedurla al solo scopo di possederla e saziare in lei i propri appetiti, e unicamente per il desiderio di farla sua e di andarlo a gridare ai quattro venti; Don Chisciotte, no. Don Chisciotte non si recò al Toboso in veste di spasimante per farla innamorare: si lanciò invece nel mondo per conquistarlo per lei. Che cos’è di solito ciò che viene chiamato amore, se non un misero egoismo mutuo in cui ognuno degli amanti cerca la propria soddisfazione? E non è forse l’atto dell’unione suprema, quello che sommamente li separa? Don Chisciotte amò Dulcinea con un amore perfetto, senza esigere di esserne ricambiato; e l’amò dandosi a lei completamente ed interamente. Don Chisciotte amò la Gloria incarnata in una donna; e la Gloria gli corrisponde. «Don Chisciotte emise un grande sospiro e disse: Io non potrei assicurare se la dolce mia nemica è o no contenta che tutto il mondo sappia che io la servo», con tutto quel che segue. Sì, mio Don Chisciotte, sì; la dolce tua nemica, Dulcinea, porta di terra in terra e di secolo in secolo la gloria della tua follia amorosa. Il suo lignaggio, la sua prosapia, la sua
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tiguos Curcios, Gayos y Cipiones romanos, ni de los modernos Colonas y Ursinos», ni de ninguna de las famosas familias de distintos países que Don Quijote nombró a Vivaldo; «pero es de los del Toboso de La Mancha, linaje aunque moderno tal, que puede dar generoso principio a las más ilustres familias de los venideros siglos». Con lo que nos enseñó el ingenioso hidalgo que la raíz de la gloria está en el propio lugarejo y en la propia edad en que se vive. Solo es duradera en siglos y en vastas tierras la gloria que rebasa de los propios lugar y tiempo por haberlos perinchido y cogolmado. Lo universal riñe con lo cosmopolita; cuanto más de su país y más de su época sea un hombre es más de los países y de las épocas todas. Dulcinea es del Toboso. Y ahora. Don Quijote mio, llévame a solas contigo, porque quiero que hablemos corazón a corazón y lo que ni a sí mismos osan decirse muchos. ¿Fue de veras tu amor a la gloria lo que te llevó a encarnar en la imagen de Dulcinea a Aldonza Lorenzo, de la que un tiempo anduviste enamorado, o fue tu desgraciado amor a la bien parecida moza labradora, aquel amor que ella «jamás lo supo ni se dio cata de ello» el que se te convirtió en amor de inmortalidad? Mira, mi buen amigo hidalgo, que yo sé cómo es la timidez dueña del corazón de los héroes, y bien se ve en ver cuando ardías en deseo de Aldonza Lorenzo cómo no te atreviste nunca a requerirla de amores. No pudiste romper la vergüenza que te sellaba, con sello de bronce, los labios. Tú mismo se lo declaraste a Sancho, tornandole por confidente, cuando al quedarte de penitencia en Sierra Morena (cap. XXV) le dijiste: «mis amores y los suyos han sido siempre platónicos, sin extenderse a más que a un honesto mirar, y aún esto tan de cuando en cuando que osaré jurar con verdad que, en doce años que ha que la quiero más que a la lumbre de estos ojos que ha de comer la tierra, no la he visto cuatro veces, y aún podrá ser que destas cuatro veces no hubiese ella echado de ver
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stirpe «non è degli antichi Curci, Gai e Scipioni romani, né dei moderni Colonna e Orsini», né di alcune delle famose famiglie di diversi paesi che Don Chisciotte enumerò a Vivaldo; «ma è dei Del Toboso della Mancia, prosapia, sebbene moderna, tale che può dare nobile principio alle più illustri famiglie dei secoli venturi». E con queste parole l’ingegnoso hidalgo ci insegnò che il fondamento e la radice della gloria si trovano nel proprio piccolo borgo e nell’età in cui si vive. È duratura nei secoli ed in vaste regioni soltanto quella gloria che trabocca al di fuori del suo paese e del suo tempo, dopo averli ricolmati oltre misura e stipati. Ciò che è universale contrasta con ciò che è cosmopolita; quanto più un uomo appartiene al suo tempo ed alla sua terra, tanto più la sua fama si diffonde per tutti i paesi e in tutte le età. Dulcinea è del Toboso. Ma adesso, mio Don Chisciotte, conducimi in disparte, da solo a solo, perché voglio che parliamo a cuore aperto, dicendoci l’un l’altro ciò che molti non osano dire neppure a se stessi. Fu veramente amore di gloria quello che ti spinse ad incarnare nell’immagine di Dulcinea Aldonza Lorenzo, della quale in altri tempi ti eri un po’ innamorato, o fu il tuo sfortunato amore per la ben piantata contadina, quell’amore di cui ella «mai venne a conoscenza e mai si accorse», e che si tramutò per te in amore di immortalità? Bada, mio buon amico hidalgo, che io so bene come la timidezza sia padrona del cuore degli eroi; e ciò ben si vede osservando che, quando ardevi di desiderio per Aldonza Lorenzo, non avesti mai il coraggio di chiederle amore. Non potesti infrangere il pudore che ti sigillava, con un suggello di bronzo, le labbra. Tu stesso lo dichiarasti a Sancio, considerandolo come confidente, nel momento in cui volesti restare a fare penitenza sulla Sierra Morena (cap. XXV), dicendogli: «Sono sempre stati platonici i nostri amori, senza andar oltre degli onesti sguardi. E anche questi tanto rari che oserei giurare con tutta verità che in dodici anni che l’amo più della luce di questi miei occhi che la terra ha da consumare, l’ho vista solo quattro volte. E potreb-
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la una que la miraba; tal es el recato y encerramiento en que sus padres, Lorenzo Corchuelo y su madre Aldonza Nogales, la han criado». ¡Cuatro veces tan solo y en doce años! ¡Y qué fuego debia de ser el que ella despidiese para calentarle doce años el corazón con solo cuatro lejanos toques y de soslayo! Doce años, mi amado Don Quijote, y cuando frisabas en los cincuenta. Te enamoraste, pues, al acercarte a tus cuarenta. ¿Qué saben los mozos lo que es la llama que se enciende en toda sazón de madurez? ¡Y tu timidez, tu insuperate timidez de hidalgo entrado ya en años! Miradas desde lo más adentro, suspiros ahogados de que ella no se dio cata siquiera, redoblar el golpeteo de tu corazón preso de su hechizo cada una de esas cuatro veces que gozaste a hurtadillas de su vista. Y este amor contenido, este amor roto en su coniente, pues no hallabas en ti brío ni arrojo para enderezarlo a su natural término, este pobre amor te labro acaso el alma y fue el manantial de tu heroica locura. ¿No es así, buen caballero? Acaso ni tú lo sospechabas. Adéntrate en ti mismo y escudrina y ahonda. Hay amores que no pueden romper el vaso que los contiene y se derraman haeia adentro, y los hay inconfesables, a los que el destino formidable oprime y constrine en el nido en que brotaron; el exceso mismo de aquellos los cuaja y los encierra, la tremenda fatalidad de estos los sublima y engrandece. Y presos allí, avergonzándose y ocultándose de sí mismos, empeñándose por anonadarse, bregando por morir, pues no pueden florecer a la luz del día y a la vista de todos, y menos fructificar, se hacen pasión de gloria y de inmortalidad y de heroísmo. Dímelo a mí a solas, Don Quijote mio; dime: el intrépido arrojo que te llevó a tus proezas, ¿no era acaso el estallido de aquellas ansias de amor que no te atreviste a confesar a Aldonza Lorenzo? Si eras tan valiente ante todos, ¿no es porque fuiste cobarde ante el blanco de tus anhelos? De las intímas entrañas
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be anche darsi che ella di queste poche volte non se ne fosse accorta che una volta mentre la guardavo; tale era il riserbo e l’isolamento in cui suo padre Lorenzo Corciuelo e sua madre Aldonza Nogales l’hanno allevata». Soltanto quattro volte in dodici anni? Che razza di fuoco doveva essere quello che da lei si diffondeva, se poté riscaldarti per dodici anni il cuore con quattro tocchi appena, e per giunta di sottecchi! Dodici anni, mio amato Don Chisciotte, e quando eri già sulla soglia dei cinquanta. Ti innamorasti dunque quando eri prossimo ai quaranta. Che ne sanno i giovani della fiamma che s’accende nel pieno fulgore della maturità. E quella tua timidezza, quella tua insuperabile timidezza di hidalgo già avanti negli anni! Sguardi che vengono dal profondo, sospiri soffocati dei quali ella nemmeno si accorgeva e il raddoppiarsi dei palpiti del tuo cuore reso schiavo dai suoi incanti, ognuna di quelle quattro volte di cui furtivamente godesti nel vederla! E questo amore contenuto questo amore spezzato nella sua fluida corrente, poiché non trovavi in te né audacia né slancio per indirizzarlo al suo fine naturale, questo povero amore ti fucinò forse l’anima e fu poi la sorgente della tua eroica follia. Non è forse così, buon Cavaliere? Forse non lo sospettavi nemmeno. Penetra in te stesso, e scruta e scava. Vi sono amori che non riescono a spezzare il vaso che li contiene e ne traboccano spargendosi al suo interno; e ve ne sono altri inconfessabili che il destino formidabile opprime e schiaccia nel nido dove sono sbocciati; l’eccesso stesso di quelli li condensa e li rinserra; la tremenda fatalità di questi li sublima e li accresce. E imprigionati lì dentro, vergognandosi e nascondendosi a se stessi, ostinandosi ad annullarsi, lottando per morire poiché non possono fiorire alla luce del giorno e alla vista di tutti, diventano passione di gloria, di immortalità e di eroismo. Dimmelo adesso, da solo a solo, mio Don Chisciotte; dimmi: l’intrepido slancio che ti trascinò alle tue prodezze, non era forse l’esplosione di quelle ansie di amore che non avevi osato confessare ad Aldonza Lorenzo? Se eri tanto prode al cospetto di tutti, non era forse perché eri stato codardo nei confronti dei tuoi desideri? Dalle intime viscere della carne ti incalzava l’an-
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de la carne te acosaba el ansia de perpetuane, de dejar simiente tuya en la tierra; la vida de tu vida, como la vida de la vida de los hombres todos, fu e eternizar la vida. Y como no lograste vencerte para dar tu vida perdiéndola en el amor, anhelaste perpetuane en la memoria de las gentes. Mira, Caballero, que el ansia de inmortalidad no es sino la flor del ansia de linaje. ¿No te llevó acaso a llenar tus ratos ociosos con la lectura de los libros de caballerías el no haber podido romper tu medrosa vergüenza para llenarlos con el amor y las caricias de aquella moza labradora del Toboso? ¿No es que buscaste en esas ahincadas lecturas lenitivo, a la vez que alimento, a la llama que te consuona? Solo los amores desgraciados son fecundos en frutos del espíritu; solo cuando se le cierra al amor su curso natural y coniente es cuando salta en surtidor al cielo; solo la esterilidad temporal da fecundidad eterna. Y tu amor fue, Don Quijote mio, desgraciado por causa de tu insuperable y heroico encojimiento. Temiste acaso profanarlo confesándolo a la misma que te lo encendía; temiste tal vez mancharlo primero y después malgastarlo y perderlo si lo llevabas a su cumplimiento vulgar y usado. Temblaste de matar en tus brazos la pureza de tu Aldonza, criada por sus padres en grandisimo recato y encerramiento. Y dime, ¿supo Aldonza Lorenzo de tus hazañas y proezas? De seguro que si de ellas supo algo le sirvió de solaz y de comidilla y palique en los seranos y en las solanas. ¿Sería de haber oído a Aldonza Lorenzo cuando en sus inviernos añosos, al amor de la lumbre del hogar, en el rolde de sus nietos, o en el serano de las comadres, contara las andanzas y aventuras de aquel pobre Alonso Quijano el Bueno, que salió lanza en ristre a enderezar entuertos, invocando a una tal Dulcinea del Toboso! ¿Recordaría entonces tus miradas a hurtadillas, heroico Caballero? ¡No se diria acaso, a solas y callandito, y en lo más adentro de sus adentros: «yo fui, yo fui la que le volví loco»?
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sia di perpetuarti, di lasciare sulla terra la tua semente; la vita della tua vita, come la vita della vita degli uomini, era questo desiderio di eternare la vita. E poiché non riuscisti a vincerti per dare la tua vita perdendola nell’amore, anelasti di perpetuarti nella memoria delle genti. Bada, Cavaliere, che l’ansia di immortalità non è che il fiore dell’ansia della discendenza. Non ti spinse forse a colmare i tuoi momenti di ozio con la lettura dei libri di cavalleria il non aver potuto abbattere il muro del tuo pauroso pudore per riempirli con l’amore e le carezze di quella giovane contadina del Toboso? Non cercasti in quelle insaziabili letture un lenitivo e ad un tempo un alimento per la fiamma che ti consumava? Soltanto gli amori sfortunati sono fecondi di frutti dello spirito; solo quando si sbarra all’amore il suo corso naturale e consueto, esso balza come uno zampillo verso il cielo; solo la sterilità temporale dà la fecondità eterna. E il tuo amore fu, mio Don Chisciotte, sfortunato a causa del tuo insormontabile ed eroico riserbo. Forse temevi di profanarlo confessandolo a quella stessa che l’aveva acceso in te; temevi forse di macchiarlo prima, e poi di sciuparlo e di perderlo, se lo portavi fino al compimento volgare e consueto. Tremavi per il timore di uccidere fra le tue braccia la purezza della tua Aldonza, allevata dai suoi genitori con il maggior pudore e ritegno. E dimmi: seppe mai Aldonza Lorenzo delle tue imprese e prodezze? Certo è che, se qualcosa ne apprese, dovette servirle da stuzzichino nelle veglie la sera e nelle riunioni in terrazza al sole. Sarebbe stato bello ascoltare Aldonza Lorenzo quando nei suoi annosi inverni, al calduccio della brace del focolare, in mezzo al cerchio dei nipotini, o a veglia con le comari, raccontava i vagabondaggi e le avventure di quel povero Alonso Chisciano il Buono che se n’era andato, lancia in resta, a raddrizzare torti, invocando una certa Dulcinea del Toboso! Si sarà ricordata allora dei suoi sguardi furtivi, eroico Cavaliere? Non si sarà mai detta, sola sola e zitta zitta, nel segreto più riposto del suo cuore: «Fui io, fui io che lo feci impazzire (d’amore)?».
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No necesitas decírmelo, Don Quijote mío, porque comprendo lo que debe ser sacrificar ante un aitar, sin que el dios que sobre él se yergue se entere siquiera del sacrificio. Te lo creo sin que me lo jures, te lo creo a pies juntillas, sí; te creo que cruzan el mundo Aldonzas Lorenzos que lanzan a inauditos heroísmos a Alonsos Quijanos y se mueren tranquilamente y en paz de conciencia sin haber conocido la maternidad que les cupo en los heroísmos tales. Grande es una pasión que rompe por todo y quebranta leyes y arrolla preceptos y desencadena torrencialmente su caudal perinchido, pero es más grande aún, cuando temerosa de enfangarse con las tierras que ha de arrastrar en su furiosa arremetida, se arremolina en sí y se condensa y se mete en sí misma, como queriendo tragarse a sí propia, luchando por deshacerse en su imposibilidad misma, y revienta hacia adentro y convierte en inmenso piélago el corazón. ¿No te sucedió esto? Y luego, ven más junto a mí, mi Don Quijote, y dímelo al oído del corazón; y luego, cuando la Gloria te ensalzaba, ¿no suspiraste en tus entrañas por aquel inconfesado amor de tu madurez? ¡No la hubieras dado toda ella, a la Gloria, por una mirada, no más que por una mirada de cariño de tu Aldonza Lorenzo? Si ella, pobre hidalgo, si ella se hubiese dado cata de tu amor, y compadecida te hubiese ido un día y te hubiese abierto los brazos y entreabierto la boca, llamándote con los ojos, si ella se te hubiese rendido, venciendo tu contención grandiosa y diciéndote: «te he adivinado, ven y no sufras», ¿hubieras buscado la inmortalidad del nombre y de la fama? Mas entonces, ¿no se te habría disipado el encanto luego? Yo creo que ahora mismo, mientras te tiene apretado a su pecho tu Dulcinea y lleva tu memoria de siglo en siglo, yo creo que ahora todavía te envuelve cierta melancólica pesadumbre al pensar que ya no puedes recibir en tu pecho el abrazo ni en tus labios el beso de Aldonza, ese beso que murió sin haber nacido, ese abrazo que se fue para siempre y sin haber nunca llegado, ese recuerdo de una esperanza en todo secreto y tan a solas y a calladas acariciada.
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Non hai bisogno di dirmelo, mio Don Chisciotte, perché capisco benissimo che cosa voglia dire fare sacrifici dinanzi ad un altare senza che il dio che si erge su di esso abbia nemmeno coscienza del sacrificio. Ti credo anche senza che me lo giuri, ti credo ad occhi chiusi, sì; ti credo se mi dici che vagano per il mondo molte Aldonze Lorenzo che spingono a inauditi sacrifici gli Alonso Chisciano, e muoiono serenamente e in pace senza aver mai conosciuto la maternità che pure ebbero in siffatti eroismi. È grande una passione che travolge tutto e infrange leggi e calpesta precetti e scatena torrenzialmente la gonfia sua corrente; ma è ancora più grande quando, timorosa di infrangersi col terriccio che deve trascinare con sé nel suo furioso precipitare, fa mulinello e si condensa chiudendosi in se stessa, lottando per disfarsi della sua stessa impossibilità, ed esplode dentro e converte il cuore in pelago immenso. Non ti accadde questo? E poi, accostati a me un po’ di più, mio Don Chisciotte, e dimmi all’orecchio del cuore: più tardi, quando la Gloria ti esaltava, non sospirasti nel profondo del cuore per quell’inconfessato amore dei tuoi anni già maturi? Non avresti volentieri dato in cambio tutta la Gloria per uno sguardo, nient’altro che per uno sguardo affettuoso della tua Aldonza Lorenzo? Se lei, mio povero hidalgo, se lei si fosse accorta del tuo amore e impietosita ti fosse venuta incontro un giorno e ti avesse aperto le braccia e avesse socchiuso le labbra, chiamandoti a sé con gli occhi; se lei ti si fosse abbandonata vincendo il suo sublime ritegno e dicendoti: «Ti ho letto nel cuore, vieni e non soffrire più», avresti ancora cercato l’immortalità del nome e della fama? Ma allora non ti si sarebbe immediatamente dissipato l’incanto? Credo che anche adesso che la tua Dulcinea ti tiene stretto al suo seno e reca il ricordo di te di secolo in secolo; credo che ancora adesso ti avvolga in un alone una certa malinconica tristezza al pensiero che non puoi più ricevere sul petto l’abbraccio né sulle labbra mortali il bacio di Aldonza, quel bacio che morì senza mai essere nato, quell’abbraccio che svanì per sempre senza essersi avverato mai, quel ricordo di una speranza accarezzata così segretamente, in solitudine ed in silenzio.
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¡Cuántos pobres mortales inmortales, cuyo recuerdo florece en la memoria de las gentes, darían esa inmortalidad del nombre y de la fama por un beso de toda la boca, no más que por un beso en que sonaron durante su vida mortal toda! ¡Volver a la vida aparendal y terrena, encontrarse de nuevo en el augusto instante que una vez ido ya no vuelve, quebrar el vergonzante miedo, trizar el tupido respeto o romper la ley y luego deshacerse para siempre en los brazos de la deseada!… Mientras Don Quijote hablaba a Vivaldo de Dulcinea del Toboso, entró Sancho, el buen Sancho, con la más maravillosa profesión de fe. Como Simón Pedro, que aún deseando piantar tiendas en lo alto del Tabor para pasarlo allí bien y sin penalidades, y aún negando al Maestro, fue quien con más ardor le creyó y le quiso, así Sancho a Don Quijote. Pues mientras todos los que oían la plática entre Vivaldo y el Caballero «y aún hasta los mismos pastores y cabreros conocieron la demasíada falta de juicio de nuestro Don Quijote, solo Sancho Panza pensaba – nos dice Cervantes – que cuanto su amo decía era verdad, sabiendo él quién era y habiéndole conocido desde su nacimiento». ¡Oh Sancho bueno, Sancho heroico, Sancho quijotesco! tu fe te salvará. Pues mientras los menguados mercaderes toledanos pedían a Don Quijote, como los judios a Jesús, señales para creer, un retrato de aquella señora, aúnque fuera «tamaño como un grano de trigo», Sancho el heroico pensaba que era verdad cuanto su amo decía, sabiendo quién era Don Quijote y habiéndole conocido desde su nacimiento. Y las gentes lijeras no quieren ver, Sancho heroico, la grandeza de tu fe y la fortaleza de tu ánimo y han dado en menospreciarte y calumniarte haciéndote padrón de lo que nunca fuiste. No quieren conocer que tu simpleza fue tan loca, tan heroica como la locura de tu amo, pues que creíste en esta. Y a lo más que llegan es a reprocharte de simple porque creías esas cosas. Más que no lo eras, ni tu sublime fe una ceguera de embaucado, lo prueba el que, dudando
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Quanti poveri mortali immortali, il cui ricordo fiorisce ancora nella memoria della gente, darebbero l’immortalità del nome e della fama in cambio di un bacio a bocca piena, nient’altro che un bacio sognato per tutta la loro vita mortale! Tornare ancora una volta alla vita apparente e terrena, ritrovarsi ancora una volta in quell’istante augusto che una volta sparito non ritorna mai più, spezzare il suggello del pudico timore, calpestare l’impettito rispetto o infrangere la legge, a patto di svanire per sempre tra le braccia della donna desiderata!… Mentre Don Chisciotte parlava a Vivaldo di Dulcinea del Toboso, entrò Sancio, a fare la più stupefacente professione di fede. Come Simon Pietro che, desiderando piantare le tende sull’alto del Tabor per vivervi in pace e senza pene, e pur rinnegando il Maestro, fu colui che più ardentemente credette in lui e lo amò, così avvenne a Sancio con Don Chisciotte. Poiché, mentre tutti coloro che udivano la conversazione tra Vivaldo e il Cavaliere «e perfino gli stessi caprai e pastori appresero la straordinaria follia del nostro Don Chisciotte, solo Sancio Panza pensava – ci dice Cervantes – che quanto il suo padrone diceva era vero, sapendo egli chi era ed avendolo conosciuto da che era nato». O, buon Sancio, eroico Sancio, chisciottesco Sancio! La tua fede ti salverà. Infatti, mentre gli sprovveduti mercanti toledani chiedevano a Don Chisciotte, come i giudei a Gesù, un segno per poter credere, un ritratto di quella signora, nonostante fosse «grande quanto un chicco di frumento», l’eroico Sancio pensava che tutto quello che diceva il suo padrone fosse sacrosanta verità, sapendo chi era Don Chisciotte e avendolo conosciuto da che era nato. Ma la gente superficiale non vuol vedere, eroico Sancio, la grandezza della tua fede, la fortezza del tuo animo, e si è ostinata a disprezzarti ed a calunniarti, riducendoti a modello ed esempio di ciò che mai tu non fosti. Non volle mai riconoscere che la tua ingenuità non fu meno folle né meno eroica della follia del tuo padrone, giacché tu vi credevi. Anzi, tutt’al più giunse fino a tacciarti di sempliciotto, appunto perché vi credevi. Ma che tu non lo fossi e che la tua fede sublime non fosse cecità di stordito, lo prova il fatto che rimanesti alquanto
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algo «en creer aquello de la linda Dulcinea del Toboso, porque nunca tal nombre ni tal princesa había llegado jamás a tu noticia aunque» vivías «tan cerca del Toboso». La fe es algo que se conquista palmo a palmo y golpe tras golpe. Y tú, Sancho heroico, pues crees en tu amo y señor Don Quijote, llegarás a creer en su señora Dulcinea del Toboso, y ella te cojerá de la mano y te llevará por los campos perdurables.
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esitante prima di credere alla faccenda della leggiadra Dulcinea del Toboso, giacché di questo nome, né di questa principessa mai si era saputo nulla, sebbene abitasse «tanto vicino al Toboso». La fede è qualcosa che si conquista palmo a palmo, e un colpo dopo l’altro. E tu, eroico Sancio, poiché credi nel tuo padrone e signore Don Chisciotte, arriverai a credere nella sua signora Dulcinea del Toboso, ed ella ti prenderà per mano e ti condurrà attraverso i campi eterni.
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capítulo xv
donde se cuenta la desgraciada aventura que se topó Don Quijote con topar con unos desalmados yangüeses Terminado el episodio de Marcela, volvió Don Quijote a quedar solo con Sancho en los caminos del mundo. Determinado a ir en busca de la pastora Marcela y ofrecérsele se entró en el bosque donde ella entrara, y a las dos horas de andar buscandola dio en un apacible prado, donde comieron y descansaron los dos, amo y escudero. Suelto Rocinante, fuese a refocilar con unas jacas gallegas de unos arrieros yangüeses, jacas que le recibieron a coces y mordiscos y los arrieros remataron la suerte moliéndole a palos. Visto lo cual por Don Quijote y que no eran caballeros, sino «gente soez y de baja ralea» – el encontrarse apeado le curó de la ceguera de su locura –, demandó ayuda de Sancho, quien le hizo ver que no podían vengarse de más de veinte tan solo dos y aún quizá uno y medio. «Yo valgo por ciento – replicó Don Quijote –, y sin hacer más discursos echó mano a su espada y arremetió a los yangüeses, y lo mismo hizo Sancho incitado y movido del ejemplo de su amo». En lo que no se sabe qué admirar más, si el heroísmo quijotesco bajo la fe de «yo valgo por ciento» o el heroísmo sanchopancesco bajo la fe de que su amo valía por cien. La fe de Sancho en Don Quijote es aún más grande, si cabe, que la de su amo en sí mismo. «Yo valgo por ciento, y sin hacer más discur-
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dove si narra la sfortunata avventura in cui incorse Don Chisciotte scontrandosi con certi disumani janguesi Finito l’episodio di Marcella, Don Chisciotte si ritrovò solo con Sancio per le strade di questo mondo. Ben deciso ad andare alla ricerca della pastora Marcella e ad offrire i suoi servigi, si diresse nel bosco in cui era entrata anche lei e, in capo a due ore di affannose ricerche, sboccò in un tranquillo prato, deve mangiarono e riposarono entrambi, padrone e scudiero. Ronzinante, lasciato libero, andò a strofinarsi un po’ con certe giumente di alcuni mulattieri janguesi, giumente che l’accolsero a calci ed a morsi, dopo di che due mulattieri coronarono l’impresa fiaccandogli le ossa a legnate. Don Chisciotte, avendo visto ciò e constatato che non erano cavalieri, bensì «gentaglia di bassa estrazione«» – il fatto di trovarsi appiedato lo guarì improvvisamente dalla cecità della sua follia – chiese aiuto a Sancio, che gli fece capire come non potevano vendicarsi di più di venti, essendo solamente in due, o magari in uno e mezzo. «Valgo per cento io – replicò Don Chisciotte –, e senza più dire nulla, pose mano alla spada ed assalì gli janguesi. Lo stesso fece Sancio Panza, incitato e spinto dall’esempio del padrone». Nel qual caso non si sa se si debba ammirare di più l’eroismo chisciottesco rispetto alla fede di quel «valgo per cento io», o l’eroismo sanciopanzesco rispetto alla fede che il suo padrone valesse davvero per cento. La fede di Sancio in Don Chisciotte è ancora più grande, se così possiamo dire, di quella del suo padrone in se stesso. «Valgo per cento io, e senza più dire nulla pose mano
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sos echó mano a su espada y arremetió». Si crees que vales por ciento, ¿para qué discursos? La fe verdadera no razona ni aun consigo misma. Los yangüeses, al verse tantos contra dos, dieron con ellos en tierra a estacazos, y así se acabó la aventura. Vinieron los sarracenos y nos molieron a palos, que Dios ayuda a los malos cuando son más que los buenos.
Y entonces pidió Sancho a su amo el bálsamo de Fierabrás y entonces pronunció Don Quijote aquellas tan profondas palabras de que él se tenía la culpa del percance y molimiento, por haber puesto mano a la espada contra hombres no armados caballeros como él y excitó a Sancho a que se tomase en casos tales la justicia por su mano. Con hombres no armados caballeros, con los que no lleven como tu encendida la lumbre del seso, sino que reciben la luz de reflejo, con esos no discutas jamás, lector. Di tu palabra y sigue tu camino dejando que la roan hasta el hueso. Y más profundo aún que su amo y señor estuvo Sancho al decir que era él hombre pacífico, manso y sosegado y sabía disimular cualquiera injuria, «porque tengo mujer e hijos que sustentar y criar», dijo. ¡Oh sesudo y discretísimo Sancho! Y si supieras cuántos quedan aún que, teniendo mujer e hijos que sustentar y criar, se nos vienen con requilorios de honor y dignidad, que deben ser un lujo permitido a los ricos tan solo, a aquellos que tienen quienes sustenten y críen a su mujer e hijos y que acaso les hacen una merced con dejarlos huérfanos y viuda, pues que las gentes no menguan por ello. Tal fue, Sancho amigo, según dicen, que yo en esto me callo, el error de tu pueblo, y es que no quiso comprender que el honor dura tanto cuanto dura el bolso lleno. En ese sublime y noble error estaba y sigue estando tu amo, que quiso entonces y allí, molido en tierra, sacarte de
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alla spada e assalì». Se tu credi di valere per cento, a che pro altri discorsi? La fede vera non ragiona nemmeno con se stessa. Gli janguesi, vedendosi in tanti contro due soli, li abbatterono al suolo a forza di bastonate, e così ebbe termine l’avventura. Son venuti i saraceni e a legnate ci han battuti, par che Dio i malvagi aiuti quando sono più dei buoni.
E allora Sancio chiese al padrone il balsamo di Fierabraccio, e fu allora che Don Chisciotte pronunciò quelle profondissime parole: che a lui andava la colpa del guaio e delle legnate, poiché aveva posto mano alla spada contro uomini che non erano stati armati cavalieri come lui, e invitò Sancio, per siffatti casi, a farsi giustizia con le sue mani. Con uomini non armati cavalieri, con coloro che non hanno come te la luce dell’intelletto accesa, ma la ricevono soltanto di riflesso, non metterti giammai a discutere, mio buon lettore. Di’ la tua parola e prosegui per la tua strada lasciando che essi la rimuginino fino a ridurla all’osso. E ancora più profondo del suo padrone e signore fu Sancio, nel dire che egli era uomo pacifico, mansueto e mite e che sapeva ignorare qualsiasi ingiuria, «perché ho moglie e figli da mantenere», disse. Oh, saggio e prudentissismo Sancio! Se tu sapessi quanta gente c’è ancora al mondo che, pur avendo mogli e figli da mantenere ed allevare, se ne viene fuori con mille chiacchiere di onore e di dignità, che dovrebbero invece costituire un lusso consentito unicamente ai ricchi, a coloro che hanno chi mantenga e allevi la loro moglie e i loro figli, e che forse farebbero una grazia a tutti se lasciassero orfani gli uni e vedova l’altra, poiché sono cose, queste, che non mandano in rovina la gente. Tale fu, amico Sancio, – a quel che si dice, perché non voglio metterci becco –, l’errore del tuo popolo; e fu che non volle mai capire che l’onore dura finché dura la borsa piena. In questo sublime e nobile errore era ed è ancora il tuo padrone, che volle in quel momento, steso per terra e ammaccato com’era, snebbiarti gli
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él y mostrarte que necesitabas valor para ofender y defenderte, puesto que el día menos pensado te verías señor de una ínsula. La de Marruecos te ofrecen ahora, y te dan las razones que te daba tu amo. Entre las cuales las había de oro, como aquella de las mudanzas de la fortuna. No hagas caso, pues, Sancho amigo, de eso de pueblos fuertes y pueblos moribundos, que el mundo da muchas vueltas y lo que te hace impropio para la manera de triunfar en privanza hoy, eso mismo te hará acaso mañana propísimo para el modo venidero de triunfar. Tú eres paciente y de la paciencia es al cabo la victoria. Vale más tu paciencia que todo aquello que te decía tu amo de que salisteis de la pendencia con los yangüeses molidos, pero no affentados, «porque las armas que aquellos hombres traían y con que os machacaron no eran otras que sus estacas». Dicen que dijo Felipe II, al saber el vencimiento de su Armada invencible, que no la había mandado a luchar con los elementos, y la última vez que nos han molido a cañonazos una Armada te dijeron también, Sancho amigo, que nos venció, no el valor, sino la ciencia y la riqueza. Pero tu te ríes de cuentos, oyes, callas y aguardas. Sigue aguardando, que en aguardar siempre está tu fortaleza. A ti no te dio pena el pensar si fue o no afrenta lo de los estacazos, sino el dolor de los golpes, y en eso ibas muy bien encaminado, porque el dolor de los golpes se pasa, pero el de la afrenta no, y quien hace pasajeros los dolores los ha vencido ya con hacerlos tales. Si bien, como te dijo tu amo, «no hay memoria a quien el tiempo no acabe, ni dolor que la muerte no consuma», Y esta es fuente de fortaleza, por serio de paciencia y de consuelo. Tras estas y otras pláticas acomodó a Don Quijote sobre el asno y reanudaron camino, hasta llegar a una venta.
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occhi e dimostrarti che ci voleva coraggio per difenderti e per offendere, poiché un giorno, quando meno te lo saresti aspettato, ti saresti visto signore di un’isola. Ti offrono adesso quella del Marocco e ti snocciolano gli stessi ragionamenti che ti dava il tuo padrone. Ce n’erano, tra gli altri, alcuni d’oro colato, come quello intorno ai cambiamenti di fortuna. Non badare, dunque, amico Sancio, alla storia dei popoli forti e dei popoli moribondi, poiché il mondo seguita a girare, e ciò che ti rende oggi inadatto al modo di trionfare immediatamente col favore, potrà forse renderti adattissimo domani a trionfare nella maniera che verrà di moda. Tu sei paziente, e la vittoria appartiene in ultima analisi ai pazienti. Vale di più la tua pazienza di tutto ciò che ti diceva il tuo padrone per persuaderti che dalla lite con i janguesi eravate usciti bastonati sì, ma non oltraggiati, «perché le armi che quelli avevano e con le quali vi hanno pestati, non erano che le loro mazze». Si racconta che Filippo II, nell’apprendere la sconfitta dell’invincibile Armata, disse che non l’aveva mandata a combattere contro gli elementi; e anche l’ultima volta che ci demolirono a cannonate un’Armata, ti dissero, amico Sancio, che fummo vinti non già dal valore, ma dalla scienza e dalla ricchezza. Ma tu ridi di simili storielle; ascolti, taci ed aspetti. Continua ad aspettare, poiché proprio nell’attendere consiste sempre la tua forza. Non ti affliggesti, infatti, pensando se era o no un oltraggio la faccenda delle legnate, ma solo per il dolore delle botte; e in ciò vedevi giusto, perché il dolore delle botte passa, ma non quello dell’oltraggio; e chi sa persuadersi che i dolori sono passeggeri, li ha già vinti riconoscendoli tali. È ben vero tuttavia, come ebbe a dirti il tuo padrone, che «non c’è ricordo che il tempo non cancelli, né dolore a cui la morte non mette fine»; ed è proprio questa la fonte della forza, perché è sorgente di pazienza e di conforto. Dopo questi ed altri discorsi, Sancio sistemò Don Chisciotte in groppa al somaro e ripresero insieme la strada finché non giunsero ad un’osteria.
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capítulo xvi
de lo que sucedió al ingenioso hidalgo en la venta que él imaginaba ser castillo Volvió a encontrar Don Quijote mujeres que hicieron con él oficio de mujer, mujeres compasívas y piadosas, pues entre la ventera, su hija y Maritornes le hicieron una muy mala cama en que se acostó luego que le hubieron emplastado de arriba abajo. Agradeciolo Don Quijote haciendo a la ventera «fermosa señora» y a la venta castillo, con lo que las mujeres se maravillaron pareciéndoles otro hombre que los que se usan, y no les faltaba razón en parecerles así. Entonces es cuando dio Don Quijote en esperar a la hija del señor del castillo, repentinamente enamorada de él, y fue cuando al acudir Maritornes a saciar la carne al carnal arriero se encontró con el espíritual Caballero, que le endilgó un ingenioso discurso de disculpa, mostrandole ante todo que estaba tan molido y quebrantado que aúnque de su voluntad quisiera satisfacer a la de ella le seria imposible, y luego la fe prometida a la sin par Dulcinea del Toboso, que si esas dos cosas no hubiera de por medio, el no poder contentarla y lo otro, no fuera tan sandio caballero que dejara pasar tan venturosa ocasión en blanco.
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di quel che avvenne all’ingegnoso hidalgo nell’osteria che immaginava fosse un castello Ancora una volta Don Chisciotte si imbatté in donne che si comportarono con lui come vere donne, compassionevoli e pietose, poiché tra l’ostessa, sua figlia e Maritornes, gli prepararono un pessimo letto dove si coricò non appena ebbero finito di coprirlo di impiastri dalla testa ai piedi. Don Chisciotte mostrò la sua gratitudine facendo dell’ostessa una «bella signora», e dell’osteria un castello, del che le donne si stupirono non poco, stimandolo uomo diverso dai soliti: e non mancavano loro ragioni di pensarla così. Fu allora che Don Chisciotte si intestardì nell’aspettare la figlia del signore del castello che repentinamente si era invaghita di lui, e fu allora che, quando Maritornes venne per saziare la carne del carnale mulattiere, si imbatté invece nello spirituale Cavaliere, che le imbastì un ingegnoso discorso di scusa, dimostrandole anzitutto che era talmente ammaccato a mal ridotto che, se anche per sua volontà non sarebbe stato alieno dal corrispondere alla volontà di lei, ciò gli sarebbe riuscito impossibile; e, in secondo luogo, che lo legava la fede promessa all’impareggiabile Dulcinea del Toboso; perché se poi non ci fossero state di mezzo queste due cose, e cioè il non poterla accontentare e l’altra faccenda, non sarebbe stato cavaliere tanto scortese da lasciarsi sfuggire siffatta occasione.
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Esto es fina virtud y continencia de mérito, y lo demás tontería. Y tuvo esa virtud, como es natural, su recompensa, cual fue los punetazos y pisotones que arreó a Don Quijote el bruto del arriero, que de puro rijoso ardía en chispas. Y acudió el ventero al ruido y se armó aquella tremolina de puñetazos que Cervantes cuenta.
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Tutto questo è virtù raffinata e meritevole continenza; tutto il resto è sciocchezza. E tale virtù, come è naturale, ebbe la propria ricompensa, vale a dire i cazzotti e le pedate che assestò a Don Chisciotte quel brutto mulattiere, che aveva un carattere così cattivo da mandar faville per la rabbia. E accorse l’oste al frastuono e ne scaturì quella grandinata di botte che ci narra Cervantes.
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donde se prosiguen los innumerables trabajos que el bravo Don Quijote y su buen escudero Sancho Panza pasaron en la venta, que por su mal pensó que era castillo Cosas de encantamiento, de las que no hay para qué tomar cólera ni enojo, «que como son invisibles y fantásticas no hallaremos de quién vengarnos aunque más lo procuremos». ¡Y cómo llegaste, oh maravilloso Caballero, al hondón de la sabiduría, que consiste en tomar por invisibles y fantásticas las cosas de este mundo, y así, en virtud de tal tomadura, no enojarse por ellas! Porque, ¿qué sino «mano pegada a algún brazo de algún descomunal gigante» pudo ser aquello que a deshora y cuando más en tu coloquio estabas vino a asentarte una puñada en las quijadas? Cosas son de otro mundo, y recuerda si no como estando durmiendo una noche Íñigo de Loyola «le quiso el demonio ahogar el año 1541 – como en el capítulo IX del libro V de su Vida se nos cuenta –, y fue así que sintió como una mano de hombre que le apretaba la garganta y que no le dejaba resollar ni invocar el Nombre Santisimo de Jesús», y aquello otro que contó el hermano Juan Paulo al P. Rivadeneira, según este en el mismo capítulo nos lo cuenta, de cuando «durmiendo una noche como solía junto al aposento de Loyola, y habiéndose despertado a deshora, oyó un ruido como de azotes y golpes que le daban al Padre, y al mismo Padre como quien gemía y suspiraba. Levantose luego y fuese a él, hallole sentado en la
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dove si continuano a narrare le infinite tribolazioni che il valoroso Don Chisciotte e il suo buono scudiero Sancio Panza soffrirono nell’osteria che, per sua disgrazia, Don Chisciotte credette fosse un castello Cose magiche, delle quali non c’è da curarsi né d’arrabbiarsi, perché «essendo delle cose invisibili e fantastiche non si trova contro chi vendicarsi per quanto si cerchi». In che modo giungesti, o meraviglioso Cavaliere, in fondo all’abisso della saggezza che consiste nel prendere per invisibili e fantastiche le cose di questo mondo, e così, grazie a tale considerazione, non arrabbiarsi per esse! Perché, che altro se non «mano saldata al braccio di qualche smisurato gigante» poteva essere quell’affare che all’improvviso e proprio mentre eri già assorto nel tuo colloquio, venne a sganciarti un gran pugno nelle ganasce? Sono cose dell’altro mondo, e a tal proposito puoi ricordarti come una notte, mentre Ignazio di Loyola stava dormendo, «il demonio volle strozzarlo nell’anno 1541», ci viene narrato nel capitolo IX del libro V della sua Vita, «e avvenne infatti che egli sentì come una mano d’uomo che gli stringeva la gola e non lo lasciava né respirare né invocare il Nome Santissimo di Gesù»; oppure l’altra storia che fu raccontata dal fratel Gian Paolo al Padre Rivadeneira, stando a quanto quest’ultimo ci narra nello stesso capitolo, quando «dormendo una notte come soleva accanto alla camera di Loyola ed essendosi svegliato di soprassalto, udì come un rumore di sferzate e di botte che venissero date al Padre e come se il Padre stesso gemesse e sospirasse. Si alzò in fretta e andò da lui e lo
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cama, abrazado con la manta, y dijole: ¿Qué es esto, Padre, que veo y oigo? Al cual respondió: ¿Y qué es lo que habéis oído? Y como se lo dijese, díjole el Padre: Andad, idos a dormir». Cosas son de otro mundo, y para curar sus efectos basta el bálsamo de Fierabrás. Solo que no obra maravillosamente sino en los caballeros, y bien se vio en lo que le ocurrió con él a Sancho. A poco de esto aconteció lo de convencerse Don Quijote de que estaba en venta y no en castillo, a una sola palabra del ventero, en que vuelve a verse una vez más cuán cuerdo era en su locura. Más aún así, negose muy caballerescamente a pagar, lo cual le valió a Sancho un manteamiento. Acabado el cual le dio de beber vino la piadosa Maritornes, Dios se lo pague, pues era la generosidad y el desprendimiento mismos. Ella amó mucho, si bien a su manera, como todos, y por eso le serán perdonados sus refocilamientos con arrieros, ya que lo hacía de puro blanda de corazón. Creed que la dadivosa moza asturiana más buscaba dar piacer que no recibirlo, y si se entregaba era, como no a pocas Maritornes les sucede, por no ver penar y consumirse a los hombres. Quería purificar a los arrieros de los torpes deseos que les emporcaban la imaginación y dejarlos limpios para el trabajo. «Presumía muy de hidalga» – dice Cervantes – y por hidalguía concertó ir a refocilarse con el arriero «y satisfacerle el gusto en cuanto mandase», no tomarlo. Ella dar quería o que deu para darse a natureza
aunque no hubiese leido a Camões, de cuyas Lusiadas es esta filosófica sentencia (IX, 76). Y por este senciilo desprendimiento, tan sin rebuscos de vicio como sin melindres de inocencia,
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trovò seduto sul letto, abbracciato stretto alla coperta e gli disse: “Che cos’è, Padre, quel che vedo e odo?”. E, non appena glielo ebbe detto, il Padre subito gli rispose: “Andate pure, ritornatevene a dormire”». Sono cose che vengono da un altro mondo e, per curarsi dai loro effetti, basta ricorrere al balsamo di Fierabraccio. Purtroppo esso agisce solo sui cavalieri e ben lo si vide da quel che accadde a Sancio dopo che l’ebbe ingoiato. Poco più tardi avvenne il fatto che Don Chisciotte si persuase di essere ospite di un castello e non già di un’osteria; e a ciò fu sufficiente una sola parola dell’oste, dal che si torna a vedere ancora una volta come egli fosse saggio nella sua follia. Ma anche così, si rifiutò, da buon cavaliere qual era, di pagar lo scotto, cosa che a Sancio costò di essere sballottato su d’una coperta. Dopo di ciò, la pietosa Maritornes gli dette da bere un po’ di vino. E Dio gliene renda merito, poiché era la generosità ed il disinteresse fatti persona. Ella amò molto, per quanto a suo modo, come tanti altri, e perciò le saranno perdonati i suoi divertimenti con i mulattieri, giacché lo faceva per pura tenerezza di cuore. Siate persuasi che la generosa ragazza asturiana cercava più di procurare piacere che non di riceverlo, e se si concedeva era, così come capita a non poche Maritornes, per non vedere gli uomini penare e consumarsi. Voleva purificare i mulattieri dei turpi desideri che insozzavano la loro fantasia, e lasciarli così puliti per il proprio lavoro. «Pretendeva molto la gentildonna», dice Cervantes, e proprio per la sua nobiltà di cuore si accordò col mulattiere per andare a sollazzarsi con lui e ad «esaudire ogni suo desiderio», non già a farsi accontentare da lui. Ella dar voleva ciò che natura diede perché si desse
sebbene non avesse mai letto Camões, ai cui Lusiadi appartiene questa sentenza filosofica (Canto IX, strofa 76). E per questo ingenuo distacco, privo d’ogni ombra di vizio non meno che
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se ha inmortalizado la moza asturiana. Vivia ella allende la inocencia y la malicia que de la pérdida de ella nace. Creed que hay pocos pasajes más castos. Maritornes no es una moza del partido que por no trabajar o por ajenas culpas comercia con su cuerpo, ni es una pervertidora que embruja a los hombres encendiéndoles los deseos para apartarles de su ruta y distraerles de su labor; es pura y sencillamente la criada de un mesón, que trabaja y sirve, y alivia las gravezas y remedía los aprietos de los viandantes, quitándoles un peso de encima para que puedan reanudar, más desembarazados, su camino. No enciende deseos, sino que apaga los que otras, menos desprendidas, o el sobrante de la vida carnal habían encendido. Y creed que, siendo pecaminoso esto, lo es mucho más encender deseos adrede, con ánimo de encenderlos, como hace la coqueta, para no apagarlos, por apagar los que encendió otra. No peca Maritornes ni por ociosidad y codicia, ni por lujuria; es decir, apenas peca. Ni trata de vivir sin trabajar ni trata de seducir a los hombres. Hay un fondo de pureza en su grosera impureza. Fue buena con Sancho, que salió de la venta muy contento por no haber pagado.
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di sdolcinature d’innocenza, la ragazza asturiana è stata immortalata. Ella viveva oltre i confini dell’innocenza e della malizia che nasce dalla perdita di quella. Siate certi che ben pochi passi del romanzo siano più casti di questo: Maritornes non è una ragazza di strada che, tanto per non lavorare o per colpa di altri, commercia il proprio corpo, né è una pervertitrice che strega gli uomini accendendone i desideri per allontanarli dal loro cammino e distoglierli dal lavoro; è puramente e semplicemente una serva di osteria che lavora e sgobba e allevia i travagli ed offre rimedio alle difficoltà dei viandanti, liberandoli da un peso che li opprime, in modo che, così sgravati, possano riprendere il loro viaggio. Non accende desideri, perché anzi spegne quelli che altre meno disinteressate di lei, o le sovrabbondanze della vita carnale avevano acceso. E state sicuri che pur essendo tutto questo peccaminoso, lo è assai di più accendere desideri a bella posta, come fa la civetta per poi non spegnerli, che non spegnere quelli che un’altra ha acceso. Non pecca Maritornes per obbedire all’ozio ed alla cupidigia, né per lussuria; e perciò si può dire a stento che pecchi. Né tenta di vivere senza lavorare, né tenta di sedurre gli uomini. Nella sua grossolana impurità c’è quindi un fondo di purezza. Fu buona persino con Sancio, che se ne uscì dall’osteria ben contento di non aver pagato nulla.
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capítulo xviii
donde se cuentan las razones que pasó Sancho Panza con su señor Don Quijote, con otras aventuras dignas de ser contadas Yvolvió Don Quijote al manadero de toda fortaleza, cual es el de tomar a los hombres que mantean y aporrean por «fantasmas y gente del otro mundo». No te enojes por lo que pueda acaecerte en este mundo aparencial; espera al sustancial o acógete a él, en el hondón de tu locura. Esa es la fe honda y verdadera. La cual flaqueó en Sancho, que por haber oído nombrar con nombres a los manteadores, los tomó por hombres de carne y hueso, y esto le bastó para pedir a su amo volverse al lugar entonces que era tiempo de la siega. Acudió su amo a confortarle en la fe, a lo que él oponía lo que por sus ojos había visto y en sus costillas sentido, pero le habló Don Quijote de Amadís y el escudero se aquietó. E hiciste bien, Sancho, pues te has de convencer de que cuando nos injurian o escarnecen o mantean, con solo pensar que no son sino fantasmas los manteadores, se nos derrite el rencor y estamos al cabo de cura. Acuérdate de que tus enemigos se han de morir. Y entonces dieron con la aventura de las dos manadas de ovejas, que tomó Don Quijote por dos ejércitos, y los descubrió tan puntualmente como quien lleva dentro de sí un mundo verdadero. Y el bueno de Sancho, sumergido en el otro mundo, en el aparencial, en el de los manteadores de carne y hueso, nada
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dove si racconta dei ragionamenti di Sancio Panza col suo signor Don Chisciotte, nonché di altre avventure degne di essere narrate Don Chisciotte tornò dunque alla fonte di ogni fortezza, cioè all’espediente di scambiare gli uomini che sballottano nelle coperte e che appioppano legnate per «fantasmi e gente dell’altro mondo». Non te la prendere per ciò che possa accaderti in questo mondo fatto di pura apparenza; aspetta che venga per te quello sostanziale e rifugiati in esso, nell’abisso della tua follia. È questa, la fede profonda e vera. E fu quella che vacillò in Sancio che, per aver udito chiamare per nome coloro che lo sballottavano, li scambiò per uomini di carne ed ossa; e questo gli bastò per fargli chiedere al padrone di ritornare al paese, perché era ormai giunto il momento della mietitura. Provvide il suo padrone a confortarlo nella fede, al che egli obiettava ciò che aveva visto coi propri occhi ed aveva sentito nelle proprie costole. Ma Don Chisciotte prese a parlargli di Amadigi e lo scudiero si tranquillizzò. E facesti bene, Sancio, perché ti devi convincere che, quando ci ingiuriano e ci scherniscono o ci sballottano nella coperta, se appena pensiamo che gli sballottatori non sono che fantasmi, il rancore ci sbollisce e siamo guariti del tutto. Ricorda sempre che anche i tuoi nemici devono morire. Ed allora si imbatterono nell’avventura delle due mandrie di pecore che Don Chisciotte scambiò per eserciti, e li descrisse con tanta esattezza quanto ne può usare colui che porta dentro di sé un mondo vero. Ma quel buon uomo di Sancio, immerso nell’altro mondo, quello delle apparenze, quello degli sballot-
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vio, «quizá» por encantamiento. ¡Oh Sancho admirable, y qué caudal de fe encierra ese tu «quizá»! Por un quizá empieza la fe que salva; quien duda de lo que ve, una miajica tan solo que sea, acaba por creer lo que no ve ni vio jamás. Tú, Sancho, no oías sino balidos de ovejas y carneros, pero bien te dijo tu amo: «El miedo que tienes te hace, Sancho, que ni veas ni oyas a derechas». El miedo, sí, y solo el miedo a la muerte y a la vida nos hace no ver ni oír a derechas; esto es, no ver ni oír hacia dentro en el mundo sustancial de la fe. El miedo nos tapa la verdad, y el miedo mismo, cuando se adensa en congoja, nos la revela. Mandó Don Quijote a Sancho que se retirase, pues el que solo ve con los ojos de la carne antes estorba que sirve en aventuras, y sin hacer caso de las voces del sentido terrenal acometió al ejército de Alifanfarón de Trapobana. Y allí alanceó a su sabor corderos como Pizarro y los suyos alancearon en el corral de Cajamarca a los servidores del inca Atahualpa, que ni siquiera se defendían. Más no así los pastores de los trapobanenses, que molieron a Don Quijote a pedradas, derribándole del caballo. Con ello volvió a tocar tierra con su cuerpo todo el Caballero, para recobrar, como Anteo, fuerzas a su toque. Y estando en tierra llegó la voz del sentido común, por boca de Sancho, a reprenderle, pues eran ovejas, más él supo oponer su fe a los encantamientos del maligno que le perseguía. Y consoló a Sancho, cuya fe flaqueaba de nuevo, con palabras evangélicas. Y luego les avino la aventura del cuerpo muerto, cuyo mérito consistió en que, habiendo la fantástica visión empezado por erizarle los cabellos de la cabeza a Don Quijote supo este vencer su miedo a lo fantástico, él que no lo tenía a lo real, y en premio de tal victoria puso en fuga a los encamisados, que tomaron a Don Quijote por diablo del infierno. A los fantásticos con lo
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tatori in carne ed ossa, non vide nulla (di ciò che il padrone gli diceva), «forse» per incantesimo. Oh, meraviglioso Sancio, che tesori di fede contiene quel tuo «forse»! Da un forse trae inizio la fede che salva; chi dubita di ciò che vede, e sia pura d’una sola briciolina, finisce per credere a ciò che non vede, né mai vide. Tu, Sancio, non udivi che belati di pecore e montoni ma ebbe ragione il tuo padrone a dirti: «la paura che hai fa sì che non veda né oda correttamente». La paura, sì, la paura della morte e della vita, e soltanto essa, non ci fa né udire né vedere correttamente, vale a dire vedere e udire nell’interiorità, nel mondo sostanziale della fede. La paura ci nasconde la verità e la paura stessa, allorquando poi si addensa in angoscia, ce la rivela. Don Chisciotte ordinò a Sancio di ritirarsi, poiché colui che vede soltanto con gli occhi della carne, è più d’impaccio che di aiuto in occasione di avventure, e senza far caso alle grida del senso comune terreno, assalì l’esercito di Alifanfarone di Trapobana. E lì trafisse a colpi di lancia quanti agnelli gli piacque, come Pizarro e i suoi trafissero nel cortile di Cajamarca i servitori dell’inca Atahualpa che neppure tentavano di difendersi. Non così si comportarono però i pastori dei trapobanesi, che macinarono per benino Don Chisciotte a sassate, buttandolo giù da cavallo. Così il Cavaliere tornò a toccare terra con l’intero suo corpo, per recuperare, come Anteo, le proprie forze a quel solo contatto. E mentre così giaceva, arrivò la voce del senso comune, per bocca di Sancio, ad ammonirlo, ripetendo che erano pecore; ma egli seppe opporre la propria fede agli incantesimi del Maligno che lo perseguitava. E consolò Sancio, la cui fede vacillava nuovamente, con parole evangeliche. Quindi toccò loro l’avventura del corpo morto, dove tutto il merito consistette nel fatto che, pur avendo quella fantastica visione iniziato a far rizzare i capelli in testa a Don Chisciotte, questi seppe vincere la paura delle cose fantastiche – lui che non aveva alcun timore di quelle reali – e come premio di tale vittoria mise in fuga gli scamiciati che scambiarono Don Chisciotte per un diavolo dell’inferno. Gli esseri fantastici si vincono con
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fantástico se les vence; con el miedo a los amedrentadores. Y el miedo mismo llega a un punto en que si no mata a su presa, se realza y se convierte, pasando por congoja, en valor. Fue entonces, en medio de la fantástica aventura, cuando puso Sancho a Don Quijote el titulo de «El Caballero de la triste figura». Y después se entraron por un valle donde les ocurrió la aventura de los batanes, intentada por Don Quijote para morir haciéndose digno de poder llamarse de su señora Dulcinea, de la Gloria. Y a Sancho, su quebradiza fe le puso en la boca palabras conmovedoras para apartar de su empeño a su amo, y como no bastasen las palabras acudió a la industria de trabar las patas a Rocinante. Y pasó todo lo demás que Cervantes nos cuenta, hasta que amaneció y vieron la causa de los temerosos ruidos, y Sancho se burló de su amo, que le asestó por ello dos palos, acompañándolos de las profundas palabras de «porque os burláis no me burlo yo». «Venid acá, señor alegre; ¡paréceos a vos que si como estos fueron mazos de batán fueran otra peligrosa aventura, no habría yo mostrado el ánimo que convenía para emprendella y acaballa? ¿Estoy yo obligado a dicha, siendo como soy caballero, a conocer y distinguir los sones, y saber cuáles son de batanes o no?». La cosa está bien clara. Para enderezar entuertos y resucitar la caballería y asentar el bien en la tierra, no es menester distinguir de sones y saber cuáles son de batanes o no. Tal distinción no es cosa que toque al heroísmo, ni los demás de los conocimientos que por ahí se enseñan añaden un ardite a la suma de bien que haya en el mundo. El caballero harto tiene con atender y oír a su corazón y distinguir los sones de este.
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ciò che è fantastico, e con la paura si vincono gli spaventatori. E la paura stessa giunge a tal punto che, se non uccide la propria preda, si eleva e si converte, attraverso l’angoscia, in valore. Fu allora, nel bel mezzo della fantastica avventura, che Sancio ribattezzò Don Chisciotte conferendogli il titolo di «Cavaliere dalla Triste Figura». Si spinsero poi in una valle dove accadde loro l’avventura delle gualchiere, affrontata da Don Chisciotte con l’animo disposto a morire, rendendosi degno di potersi dichiarare vassallo della sua signora Dulcinea, della Gloria. A Sancio, invece la sua fragile fede gli mise in bocca parole commoventi allo scopo di dissuadere il suo padrone da quella sorta di ostinazione e, poiché le parole non bastavano, ricorse all’astuzia di impastoiare le zampe di Ronzinante. E avvennero anche tutte le altre cose che ci racconta Cervantes fino a che non fece giorno e videro con chiarezza la causa degli spaventosi rumori, e Sancio si fece beffa del suo padrone che per questo motivo gli appioppò due legnate, accompagnandole con la famosa frase: «Se scherzate voi, non scherzo io». «Venite qui, signor spiritoso; vi pare che se questi, invece di essere magli di gualchiera fossero stati altra pericolosa avventura, io non avrei mostrato il coraggio che si richiedeva per intraprenderla e portarla a termine? Sono io obbligato, per caso, essendo, come sono, cavaliere, a conoscere a distinguere i suoni, e a sapere quali sono di gualchiera e quali no?». La cosa è chiarissima. Per raddrizzare torti e resuscitare la cavalleria e riportare il bene sulla terra, non è necessario saper distinguere i suoni e sapere quali sono di gualchiera e quali no. Siffatta distinzione non può in alcun modo riguardare l’eroismo. Né tutte le altre conoscenze e nozioni che si vanno insegnando in giro per il mondo aggiungono granché alla somma del bene che può esserci al mondo. Il cavaliere ha già il suo bel da fare nel badare al proprio cuore e nell’ascoltarlo e nel distinguerne i suoni.
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Esta doctrina quijotesca hay que predicarla ahora en que el sanchopancismo no hace sino repetirnos que lo esencial es aprender a distinguir los sones y saber cuáles son de batanes o no, sin advertir que mientras es de noche y le dura el miedo, tampoco Sancho los distingue, y eso que los oye y no hace falta verlos. Sancho necesita, para tener serenidad y atreverse a burlas, ver la causa que produce los sones, verla; Sancho, que de noche no se atreve a apartarse de su amo por miedo a los temerosos sones y por miedo no los distingue, burlase de él cuando ve el artefacto que los produce. Así es con el sanchopancismo que llaman ya positivismo, ya naturalismo, ya empirismo, y es que ha sido que, pasado el miedo, se burla del idealismo quijotesco. ¿Por qué había de conocer Don Quijote, siendo como era caballero, los sones? «Y más que podría ser, como es verdad – añadió –, que no los he visto en mi vida, como vos los habréis visto, como villano ruin que sois, criado y nacido entre ellos; si no, haced vos que estos seis mazos se vuelvan en seis jayanes, y echádmelos a las barbas uno a uno, o todos juntos, y cuando yo no diere con todos patas arriba, haced de mi la burla que quisiéredes». ¡Admirables razones! En lo esforzado del propósito y no en lo puntual del conocimiento está el héroe. Mas la verdad es que conviene acompañe Sancho a Don Quijote y no se aparte de él. Sancho, como villaño ruin que es, criado y nacido entre batanes, en cuanto llega la noche y no los ve y oye sus temerosos sones, tiembla de miedo como un azogado y se arrima a Don Quijote, y para que no se le vaya traba las patas a Rocinante, con lo que el Caballero no se puede mover y se libra acaso de una muerte cierta entre los batanes, pero luego que se hace de día, ¿ por qué ha de buriarse del que le amparó en su congoja, y le dejó llegar a la luz del día, pues acaso sin él habriase muerto de miedo, o el miedo le habría arrojado en los batanes, más que su valor a su amo?
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Bisogna predicare più che mai adesso questa dottrina chisciottesca, quando il sanciopanzismo non fa che ripeterci che l’essenziale è imparare a distinguere i suoni e sapere quali sono di gualchiera e quali no, senza tener conto del fatto che, finché è notte e perdura lo spavento, nemmeno Sancio li distingue, con tutto che li ascolti e non ci sia nessun bisogno di vederli. Per avere serenità e per osare scherzare Sancio ha bisogno di vedere la causa che produce i suoni, di vederla, dico; Sancio che di notte non s’arrischia ad allontanarsi dal suo padrone per paura degli spaventosi suoni e, sempre per paura, non sa distinguerli, si fa beffa di lui non appena ha visto il dispositivo che li produce. Così avviene appunto col sanciopanzismo che la gente chiama alcune volte positivismo, altre naturalismo e altre ancora empirismo, e la faccenda consiste nel fatto che, passata la paura, ci si può benissimo fare beffa dell’idealismo chisciottesco. Perché mai avrebbe dovuto Don Chisciotte, essendo, come era, cavaliere, distinguere i suoni? «Tanto più che potrebbe essere, come è infatti, che io non li abbia visti in vita mia, come invece li avete visti voi, da quel contadino che siete e che ci siete nato e cresciuto in mezzo; altrimenti, fate sì che questi sei magli mutino in sei giganti, fatemeli venire avanti uno per uno o anche tutti insieme, e, qualora non li mandassi tutti a gambe levate beffatevi di me come vorrete». Mirabili discorsi! Nel vigore del proposito e non nell’esattezza della conoscenza sta l’eroe. Ma la verità è che conviene che Sancio accompagni Don Chisciotte e non s’allontani da lui. Sancio, da quel contadinaccio che è, nato e cresciuto tra le gualchiere, non appena sopraggiunge la notte e ne ode gli spaventosi rumori, trema di paura come chi scava il mercurio nelle miniere e s’avvicina a Don Chisciotte e affinché non gli scappi via lega e impastoia le zampe di Ronzinante; e così il Cavaliere non si può muovere e si salva per siffatta via da una sicura morte tra i magli delle gualchiere. Ma, quando poi fa giorno, perché dovrebbe burlarsi di chi gli fece scudo nel momento più angoscioso e gli permise di giungere fino al giorno chiaro, giacché probabilmente senza di lui sarebbe morto di paura o la paura stessa lo avrebbe spinto tra i magli assai più facilmente di quanto il valore potesse spingervi il suo padrone?
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Sin inspiraciones del corazón y fe en lo eterno nos sacaron de las congojas de la noche de la superstición y del miedo a lo desconocido; ¿por qué cuando la luz de la experiencia luce hemos de burlarnos de aquellas inspiraciones y de aquella fé? Y tanto más cuanto que volveremos a necesitarlas, pues si la noche se sucede el día, vuelve nueva noche tras este nuevo día, y así entre luz y tinieblas vamos viviendo y marchando a un término que no es ni tinieblas ni luz, sino algo en que ambas se aúnan y confunden, algo en que se funden corazón y cabeza y en que se hacen uno Don Quijote y Sancho. Hoy Sancho distingue de sones y sabe cuáles son de batanes y cuáles no, siempre que sea de día y vea los mazos que los producen; pero de noche tiembla de miedo y nunca se atreve con seis jayanes, ni uno a uno ni con todos juntos, y hoy Don Quijote se atreve con los jayanes y no tiembla ni de noche ni de día, pero no distingue de sones y cuáles son batanes y cuáles no. Día llegará en que fundidos en uno, o mejor, quijotizado Sancho antes que sanchizado Don Quijote, no tenga aquel miedo y distinga de sones lo mismo de noche que de día y se atreva con batanes y con jayanes. Pero es mal camino para llegar a ello buriarse del Caballero y creer que todo estriba en distinguir de sones. No, no es la ciencia sola, por alta y honda, la redentora de la vida.
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Se l’ispirazione del cuore e la fede in ciò che è eterno ci trassero fuori dalla angosce della notte della superstizione e della paura dell’ignoto, perché, quando brilla per noi la luce dell’esperienza, dobbiamo burlarci di quell’ispirazione e di quella fede? Tanto più che torneremo ad averne bisogno, giacché se il giorno succede alla notte, dopo questo nuovo giorno verrà poi una nuova notte, e così, tra luce e tenebre, andiamo vivendo e avanzando verso una meta che non è fatta solo di tenebre né solo di luce, ma consiste in qualche cosa in cui l’una e le altre si uniscono e si confondono, qualche cosa in cui si fondono cuore e cervello e in cui Don Chisciotte e Sancio divengono tutt’uno. Oggi Sancio fa distinzione tra suoni e suoni, e sa quali sono di gualchiere e quali no, a patto però che sia giorno chiaro e che egli possa vedere i magli che li producono; ma di notte trema di paura e mai oserebbe scagliarsi contro sei giganti, né ad uno ad uno, né tutti assieme; e invece Don Chisciotte osa assalire i giganti e non trema né di notte né di giorno, ma non sa distinguere i suoni, né capisce quali sono di gualchiere e quali no. Verrà un giorno in cui, fusi in uno solo o, per meglio dire, chisciottizzato Sancio più che non sancizzato Don Chisciotte, (questo nuovo essere) non avrà paura e distinguerà i suoni tanto di giorno quanto di notte e oserà assalire gualchiere e giganti. Ma non è la strada migliore per giungere a tanto, quella di farsi beffe del Cavaliere e credere che tutto consiste nel distinguere i suoni. No, non è la scienza sola, per alta e profonda che sia, la redentrice della vita.
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que trata de la alta aventura y rica ganancia del yelmo de Mambrino, con otras cosas sucedidas a nuestro invencible Caballero Tras esto cobró Don Quijote el yelmo de Mambrino, y Sancho, como despojo de la victoria, trocó los aparejos de su amo por los del asno del barbero, mejor repuesto que el suyo, «y almorzaron de las sobras del real que del acémila despojaron». Y luego «se pusieron a caminar por donde la voluntad de Rocinante quiso, que se llevaba tras sí la de su amo y aun la del asno», y de camino se quejó Sancho de cuán poco se ganaba con aquellas aventuras. Y departiendo mostró haber calado la raíz del heroísmo de su amo cuando le pidió salieran de aquellas aventuras, «donde ya que se venzan y acaben las más peligrosas, no hay quien las vea ni las sepa, y así se han de quedar en perpetuo silencio y en perjuicio de la intención de vuestra merced» – dijo –, y se pusieran a servicio de algún emperador donde no faltaría quien pusiera «en escrito las hazañas» de Don Quijote, «para perpetua memoria». Y añadió, tocado ya de la locura de su amo: «De las mías no digo nada, pues no han de salir de los límites escuderiles; aúnque sé decir que si se usa en la caballería escribir hazañas de escuderos, que no pienso que se han de quedar las mías entre renglones».
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che tratta dell’eccelsa avventura e della preziosa conquista dell’elmo di Mambrino, nonché di altre cose successe al nostro invincibile Cavaliere Dopo quest’avventura, Don Chisciotte conquistò l’elmo di Mambrino, e Sancio, come bottino della vittoria, cambiò la bardatura del proprio asino con quella dell’asino del barbiere, assai meglio bardato del suo, «e fecero colazione con gli avanzi delle vettovaglie dell’accampamento, delle quali avevano spogliato la mula. E poi «si misero ad andare per dove li portava la volontà di Ronzinante, che si traeva dietro quella del suo padrone, nonché quella dell’asino», e lungo la strada Sancio si lagnò del poco che si guadagnava con quel genere d’avventure. E nel discorrere di ciò, mostrò d’aver perfettamente individuato la radice dell’eroismo del suo padrone, quando gli chiese di tirarsi fuori da quelle avventure «dove, anche a condurre a termine le più rischiose, non c’è chi le veda e le sappia; così che debbano restare in perpetuo silenzio, pregiudicando l’intenzione di vossignoria» – disse – e supplicandolo di volersi mettere al servizio di qualche imperatore, dove non sarebbe mancato chi «mettesse per iscritto le imprese» di Don Chisciotte, «a perpetua memoria». E aggiunse, contagiato ormai dalla follia del suo padrone: «Delle mie non dico nulla, dal momento che non devono uscire dai limiti scudiereschi, sebbene io sappia dire che se si usa in cavalleria scrivere di imprese di scudieri, non credo che le mie debbano rimanere tra le righe».
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¿Qué es eso, Sancho? ¿Estás pensando también tu en dejar eterno nombre y fama? ¿Andas también enamorado, aúnque sin saberlo, de Dulcinea? Tú no has tenido Aldonza Lorenzo que te encendiera el amor a la inmortalidad; tú no has tenido amores de los que se confíesan o no pueden confesarse; tú, al llegar a edad, y considerando que no está bien que el hombre esté solo, tornaste de mano del cura a Juana Gutiérrez por compañera de tus faenas y para madre de tus hijos; pero andas con Don Quijote, dejaste por él mujer e hijos y te estás enquijotando ya. En está plática, y al explicar Don Quijote cómo podría llegar a casarse con hija de rey, dijo: «solo falta ahora mirar qué rey de los cristianos o de los paganos tenga guerra y tenga hija hermosa; pero tiempo habrá para pensar esto, pues como te tengo dicho, primero se ha de cobrar fama por todas partes, que se acuda a la corte», en que parece que la fama no la quiere para fin, sino como medio, a pesar de lo cual puede y debe asegurarse que no habría dejado Don Quijote a Dulcinea por ninguna hija de rey, por hermosa que ella fuese y poderoso y rico su padre. Y continuando el hidalgo mostró dudas de que el rey le quisiese tomar por yerno, visto que no era de linaje de reyes o «por lo menos primo segundo de emperador», temiendo perder por semejante falta lo que su brazo tendría bien merecido. «Bien es verdad – añadió – que yo soy hijodalgo de solar conocido, de posesión y propiedad, y de devengar quinientos sueldos; y podría ser que el sabio que escribiese mi historia deslindase de tal manera mi parentela y descendencia que me hallase quinto o sexto nieto de rey», y a seguida de esto explicó a Sancho lo de las dos maneras de linajes que hay en el mundo: los que fueron y ya no son y los que son ya y no fueron.
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Che significa questo, Sancio? Stai pensando anche tu a lasciar di te eterno nome e fama? Sei anche tu innamorato, pur senza saperlo, di Dulcinea? Tu non hai avuto un’Aldonza Lorenzo che t’accendesse l’amore dell’immortalità; tu non hai avuto amori, né di quelli che si confessano, né di quelli che non si possono confessare, tu, giunto all’età adeguata, considerando che non è bene per l’uomo restar solo, ricevesti per mano del curato Giovanna Gutiérrez per compagnia del tuo lavoro e per madre dei tuoi figli; e ciò nonostante te ne vai per il mondo con Don Chisciotte, hai abbandonato per lui moglie e figli, e ti stai ormai inchisciottendo anche tu. Durante la conversazione, mentre Don Chisciotte gli spiegava in che modo avrebbe potuto arrivare a sposare una figlia di re, disse: «Adesso manca soltanto di vedere un po’ quale re dei cristiani o dei pagani sia in guerra ed abbia una bella figlia; ma ci sarà tempo di pensare a ciò giacché, come ti ho detto, si deve, prima di giungere alla corte, conquistare fama in altri luoghi». E in queste parole sembra che non desideri la fama come fine ultimo, ma solo come mezzo; tuttavia, malgrado ciò, si può e si deve essere certi che Don Chisciotte non avrebbe lasciato Dulcinea per alcuna figlia di re, per quanto fosse bella e fosse ricco e potente suo padre. E proseguendo, l’hidalgo mostrò di dubitare alquanto che il re volesse accettarlo come genero, visto che non apparteneva ad una stirpe reale né era, «almeno, biscugino d’imperatore», temendo di perdere così, per una mancanza non sua, ciò che il suo braccio ben avrebbe meritato. «È ben vero – soggiunse – che sono hidalgo di antica e ben nota casta, possidente e proprietario con diritto alla riparazione di 500 soldi per offese, e potrebbe essere che quel saggio che scrivesse la mia storia districasse a modo la mia parentela e discendenza da risultare quinto o sesto pronipote di un re», e subito dopo spiegò a Sancio la storia delle due specie di lignaggi che vi sono al mondo: quelli che furono e non sono più, e quelli che sono ora e non furono prima.
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Y aquí encaja lo que dijo aquel capitán de que habla el Dr. Huarte, en el cap. XVI de su Examen de Ingenios, y decía: «Señor, bien sé que vuestra señoria es muy buen Caballero y que vuestros padres fueron también; pero yo y mi brazo derecho, a quien ahora reconozco por padre, somos mejores que vos y todo vuestro linaje». Razón que hace alguna vez suya Don Quijote, declarándose hijo de sus obras. Y así es que mi humanidad empieza en mí y debe cada uno de nosotros, más que pensar en que es descendiente de sus abuelos y estanque a que han venido acaso a juntarse tantas y tan diversas aguas, en que es ascendiente de sus nietos y fuente de los arroyos y ríos que de él han de brotar al porvenir. Miremos más que somos padres de nuestro porvenir que no hijos de nuestro pasado, y en todo caso nodos en que se recojen las fuerzas todas de lo que fue para irradiar a lo que será, y en cuanto al linaje, todos nietos de reyes destronados.
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E qui è opportuno richiamare quel che disse il capitano di cui parla il dottor Huarte nel capitolo XVI del suo Esame d’ingegni, che diceva: «Signore, so bene che vostra signoria è buon cavaliere e che i suoi genitori lo furono altrettanto; ma io e il mio braccio destro che in questo momento riconosco per padre, siamo migliori di voi e di tutto il vostro lignaggio». Ragionamento questo, che talvolta Don Chisciotte si appropria, dichiarandosi figlio delle proprie opere. E così avviene che la mia umanità incomincia da me, e che ognuno di noi, piuttosto di pensare che è discendente dei propri avi e stagno in cui casualmente sono venute a confluire tante e così diverse acque, deve riflettere che è egli stesso l’ascendente dei propri nipoti e fonte dei ruscelli e fiumi che da lui devono sgorgare verso l’avvenire. Ricordiamoci che siamo padri del nostro futuro più che figli del nostro passato, e in ogni caso, nodi in cui si raggruppano tutte le forze di ciò che è già avvenuto per irradiarle verso ciò che avverrà; quanto poi al lignaggio, ricordiamoci che siamo tutti nipoti di sovrani detronizzati.
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de la libertad que dio Don Quijote a muchos desdichados que, mal de su agrado, los llevaban donde no querian ir Iban en estas y otras pláticas, cuando se le presentó a Don Quijote una de sus más grandes aventuras, si es que no la mayor de todas ellas, cual fue la de libertar a los galeotes. Que iban presos «de por fuerza y no de su voluntad», y esto le bastó a Don Quijote. Inquirió sus delitos, y de todo cuanto le dijeron sacó en limpio que, aúnque les habían castigado por sus culpas, las penas que iban a padecer no les daban mucho gusto, y que iban a ellas muy de mala gana, muy contra su voluntad y acaso injustamente. Por lo cual decidió favorecerles, como a menesterosos y opresos de los mayores, pues «parece duro caso hacer esclavos a los que Dios y la naturaleza hizo libres; cuanto más, señores guardas – añadió Don Quijote –, que estos pobres no han cometido nada contra vosotros; allá se lo haya cada uno con su pecado; Dios hay en el cielo, que no se descuida de castigar al malo ni de premiar al bueno, y no es bien que los hombres honrados sean verdugos de los otros hombres no yéndoles nada en ello», y así pidió con mansedumbre que los soltaran. No lo quisieron hacer a buenas y arremetió contra ellos Don Quijote, quien ayudado por Sancho y los galeotes mismos, logró librarlos. Hay que pararse a considerar el ánimo esforzado y justiciero que en esta aventura mostró el hidalgo. Mi infortunado amigo Ángel Ganivet, gran quijotista – lo cual es decir una cosa muy
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della libertà che dette Don Chisciotte a molti sventurati che, loro malgrado, erano condotti dove non avrebbero voluto andare Erano immersi in questi ed altri simili ragionamenti, quando si presentò a Don Chisciotte una delle sue avventure più grandiose, anche se non la maggiore di tutte; e fu quella della liberazione dei galeotti. Andavano incatenati «per forza, e non di loro volontà», e ciò fu più che sufficiente per Don Chisciotte. Li interrogò sui loro delitti e da tutto ciò che gli dissero dedusse chiaramente che, sebbene fossero puniti per loro colpe, tuttavia le pene che si recavano a scontare non erano troppo gradite e che anzi vi andavano assai controvoglia, e forse ingiustamente. Decise perciò di soccorrerli, in quanto bisognosi e oppressi dai più potenti, poiché gli pareva «una crudeltà rendere schiavi quelli che Dio e la natura crearono liberi; tanto più, signori guardie – aggiunse Don Chisciotte – che questa povera gente non ha commesso nulla contro di voi; là ciascuno se la veda col suo peccato; c’è un Dio in cielo che non si dimentica di punire il cattivo e di premiare il buono, e non va bene che gli uomini dabbene siano carnefici degli altri uomini, non avendovi nessun interesse», e così chiese pacatamente che li mettessero in libertà. Ma non vollero obbedirgli con le buone, e allora Don Chisciotte si scagliò contro di essi e, aiutato da Sancio e dagli stessi galeotti, riuscì a liberarli. È necessario a questo punto soffermarsi a considerare l’animo prode e lo spirito di giustizia che in quest’avventura dimostrò il nostro hidalgo. Il mio sventurato amico Angelo Ganivet, grande chisciottista – il che significa cosa ben diversa, se non
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diferente y hasta opuesta a eso que suele llamarse cervantista –, el infortunado Ganivet, en su Idearium español, atañedero a esto, dice: «El entendimiento que más hondo ha penetrado en el alma de nuestra nación, Cervantes…, en su libro inmortal, separó en absoluto la justicia española de la justicia vulgar de los Códigos y Tribunales: la primera la encarnó en Don Quijote y la segunda en Sancho Panza. Los únicos fallos judiciales moderados, prudentes y equilibrados que en el Quijote se contienen son los que Sancho dictó durante el gobierno de su insula; en cambio los de Don Quijote son aparentemente absurdos, por lo mismo que son de justicia transcendental; unas veces peca por carta de más y otras por carta de menos; todas sus aventuras se enderezan a mantener la justicia ideal en el mundo, y en cuanto topa con la cuerda de galeotes y ve que alli hay criminales efectivos, se apresura a ponerlos en libertad. Las razones que Don Quijote da para libertar a los condenados a galeras son un compendio de las que alimentan la rebelión del espíritu español contra la justicia positiva. Hay, sí, que luchar por que la justicia impere en el mundo; pero no hay derecho estricto a castigar a un culpable mientras otros se escapan por las rendijas de la ley; que al fin la impunidad general se conforma con aspiraciones nobles y generosas, aunque contrarias a la vida regular de las sociedades, en tanto que el castigo de los unos y la impunidad de los otros son un escarnio de los principios de justicia y de los sentimientos de humanidad a la vez». Hasta aquí Ganivet. De deplorar es el que espíritu tan inventivo como el de nuestro granadino creyera, conforme al común sentir, que Cervantes encarnó cosa alguna en Don Quijote, y no llegara a la fe, fe salvadora, de que la historia del ingenioso hidalgo fue, como en realidad lo fue, una historia real y verdadera, y además eterna, pues se está realizando de continuo en cada uno de sus creyentes. No es que Cervantes quisiera encarnar en Don Quijote la justicia española, sino que lo encontró así en la vida del Caballero y no tuvo otro remedio sino narrárnoslo cual y como sucedió,
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addirittura opposta, a ciò che si suole chiamare “cervantista” –, lo sventurato Ganivet, nel suo Idearium spagnolo, scrive a questo riguardo: «L’intelletto che più profondamente ha saputo penetrare nell’anima della nostra nazione, Cervantes… nel suo libro immortale separa nettamente la giustizia spagnola dalla volgare giustizia dei Codici e Tribunali; la prima la incarnò in Don Chisciotte, e la seconda in Sancio Panza. Le uniche sentenze giudiziarie moderate, prudenti ed equilibrate che il Chisciotte contiene, sono quelle che Sancio dettò durante il suo governo nell’isola; invece quelle di Don Chisciotte sono apparentemente assurde, proprio perché appartengono ad una giustizia trascendentale; egli pecca alcune volte per eccesso ed altre volte per difetto; tutte le sue avventure non hanno altro scopo che quello di mantenere una giustizia ideale nel mondo, e quando s’imbatte nelle fila dei galeotti incatenati e vede che vi sono tra loro autentici delinquenti, si affretta ugualmente a rimetterli in libertà. Le ragioni che Don Chisciotte adduce per liberare i condannati alle galere sono un compendio di quelle che alimentano la ribellione dello spirito spagnolo contro la giustizia positiva. Bisogna, sì, combattere affinché la giustizia regni nel mondo; ma non c’è diritto alcuno, in senso stretto, di punire un colpevole, mentre tanti altri sfuggono attraverso le fessure che la legge offre; e in fondo l’impunità generale s’accorda con aspirazioni nobili e generose, anche se contrarie al normale andamento della vita sociale, in quanto il castigo degli uni e l’impunità degli altri costituiscono una beffa tanto del principio della giustizia, quanto dei sentimenti d’umanità». Fin qui Ganivet. È da deplorare che uno spirito dotato di tanta inventiva come quella del nostro granadino potesse credere, conformemente all’opinione comune, che Cervantes abbia giammai voluto incarnare qualche cosa in Don Chisciotte, e non approdasse invece alla fede, alla fede salvatrice, che la storia dell’ingegnoso hidalgo fu, come fu in realtà, una storia autentica e veridica, e per giunta eterna, poiché continua a realizzarsi perpetuamente in ciascuno dei suoi credenti. Non già che Cervantes intendesse incarnare in Don Chisciotte la giustizia spagnola: trovò che le cose stavano così nella vita del Cavaliere e non poté far altro che narrarcele tali
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aún sin alcanzársele todo su alcance. Ni aun vio siquiera el íntimo contraste que surge del hecho de que fuese Don Quijote el castigador de los mercaderes toledanos, del vizcaíno y de tantos otros más, el mismo que negaba a otros derecho a castigar. Quédase Ganivet en los umbrales del quijotismo al suponer que la justicia hecha por Don Quijote en los galeotes se fundara en que «no hay derecho estricto a castigar a un culpable mientras otros se escapan por las rendijas de la ley», y que es preferible la impunidad de todos a la ley del embudo. Podría, en efecto, sostenerse que por tal razón se movió Don Quijote a libertar a los galeotes sobre el fundamento de haber dicho el mismo Caballero, en la arenga enderezada a los cabreros, y al hablar del siglo de oro, que «la ley del encaje aún no se había sentado en el entendimiento del juez, porque entonces no había qué juzgar ni quién fuese juzgado». Mas aunque el mismo Don Quijote se engañara creyendo que fue esta la razón de haber él dado libertad a aquellos desgraciados, es lo cierto que en lo más hondo de su corazón arraigaba tal hazaña. Y no os debe sorprender esto, lectores, ni debéis caer en la simpleza de tomarlo a paradoja, porque no es quien lleva a cabo una hazaña el que mejor conoce los motivos por que la cumplió, ni suelen ser las razones que en abono y justificación de nuestra conducta damos, sino razones «a posteriori», o, para hablar en romance, de trasmano, manera que buscamos para explicarnos a nosotros mismos y explicar a los demás el porqué de nuestros actos, quedándosenos de ordinario desconocido el verdadero porqué. No niego que Don Quijote creyera, con Ganivet y acaso con Cervantes, que libertó a los galeotes por horror a la ley del encaje y por parecerle injusto castigar a unos mientras se escapan otros por las rendijas de la ley, pero niego que les libertara movido en realidad, y alla en sus adentros, por semejante consideración. Y si así no fuera, ¿con qué razón y derecho castigaba él, Don Qui-
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e quali come successero, anche senza rendersi conto della portata che potevano assumere. Non scorse neppure l’intimo contrasto che nasce dal fatto che Don Chisciotte fosse il punitore dei mercanti toledani, del biscaglino e di tanti altri, e che poi fosse proprio lui a negare ad altri il diritto di punire. Ganivet si arresta sulla soglia del chisciottismo quando suppone che la giustizia esercitata da Don Chisciotte verso i galeotti trovi il suo fondamento nel fatto che «non c’è diritto, in senso stretto, a punire un colpevole, mentre tanti altri sfuggono attraverso le fessure che la legge offre», e che è preferibile l’impunità di tutti alla legge del favoritismo. Si potrebbe infatti sostenere che per siffatta ragione Don Chisciotte si accinse a liberare i galeotti fondandosi sul fatto che egli in persona, il Cavaliere, aveva detto nell’arringa indirizzata ai caprai, mentre parlava del secolo d’oro, che «la legge dell’arbitrarietà non si era ancora fissata nella mente del giudice, perché allora non c’era di che giudicare, né chi fosse giudicato». Ma, quand’anche lo stesso Don Chisciotte si fosse ingannato, ritenendo che fosse questa la ragione per cui aveva ridato la libertà a quegli sventurati, la verità è che una simile impresa aveva radici nel più profondo del suo cuore. E non vi deve sorprendere, lettori, quest’affermazione; non dovete cadere nell’ingenuità di considerarla un paradosso, poiché chi conosce meglio i motivi per i quali un’impresa venne condotta a termine, non è già chi l’ha compiuta; e le ragioni che adduciamo per giustificarla e a sostegno del nostro operato non sogliono essere che ragioni a posteriori o, per dirla con parole più semplici, di seconda mano; ed è questo il modo di cui andiamo in cerca per spiegare a noi stessi e per spiegare agli altri il perché delle nostre azioni, mentre per lo più ci rimane del tutto ignoto il loro vero perché. Non starò a negare che Don Chisciotte ritenesse, con Ganivet e forse con lo stesso Cervantes di aver liberato i galeotti per istintivo orrore verso le leggi dell’arbitrio e perché gli sembrava sommamente ingiusto punire alcuni mentre altri sfuggono attraverso le maglie della legge; ma nego risolutamente che li abbia liberati spinto in realtà, e proprio in fondo al cuore, da siffatte considerazioni. E se così non fosse, con quale ragione e con quale diritto poteva castigare egli stesso, Don Chisciotte,
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jote, como castigaba, sabiendo que escaparían los más del rigor de su brazo? ¿Por qué castigaba Don Quijote, si no hay castigo humano que sea absolutamente justo? Don Quijote castigaba, es cierto, pero castigaba como castigan Dios y la naturaleza, inmedíatamente, cual en naturalísima consecuencia del pecado. Así castigó a los arrieros que fueron a tocar sus armas cuando las velaba, alzando la lanza a dos manos, dándoles con ella en la cabeza y derribándolos para tomar a pasearse con el mismo reposo que primero, sin cuidarse más de ello; así amenazó a Juan Haldudo el rico, pero soltándole bajo su palabra de pagar a Andrés; así arremetió a los mercaderes toledanos, no bien los oyó blasfemar contra Dulcinea; así venció a don Sancho de Azpeitia, soltándole bajo promesa de las damas de que iría a presentarse a Dulcinea; así arremetió a los yangüeses, al ver cómo maltrataban a Rocinante. Su justicia era rápida y ejecutiva; sentencia y castigo eran para él una misma cosa; conseguido enderezar el entuerto, no se ensañaba con el culpable. Y a nadie intentó esclavizar nunca. Bien habría estado que al prender a cada uno de aquellos galeotes se les hubiera dado una tanda de palos, pero… ¿llevarlos a galeras? «Parece duro caso – como dijo el Caballero – hacer esclavos a los que Dios y la naturaleza hizo libres». Y añadió más adelante: «allá se lo haya cada uno con su pecado; Dios hay en el cielo, que no se descuida de castigar al malo y de premiar al bueno, y no es bien que los hombres honrados sean verdugos de los otros hombres no yéndoles nada en ello». Los guardias que llevaban a los galeotes los llevaban fríamente, por oficio, en virtud de mandamiento de quien acaso no conociera a los culpables, y los llevaban a cautiverio. Y el castigo, cuando de natural respuesta a la culpa, de rápido reflejo a la ofensa recibida, se convierte en aplicación de justicia abstracta, se hace algo odioso a todo corazón bien nacido. Nos hablan las
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come in effetti castigava, sapendo che i più si sarebbero sottratti al rigore del suo braccio? Perché allora castigava Don Chisciotte, se non c’è castigo umano che sia assolutamente giusto? Don Chisciotte castigava, è verissimo; ma castigava come castigano Dio e la natura, immediatamente, come per naturalissima conseguenza del peccato. Così castigò i mulattieri che andarono a toccare le sue armi mentre le vegliava, levando a due mani la lancia, picchiandoli sulla testa e stendendoli al suolo per tornare subito a passeggiare avanti e indietro con la stessa flemma di prima, senza pensar più all’accaduto; così minacciò Gianni Gonnella il ricco, pur condonandogli l’esecuzione della pena dopo che gli ebbe dato parola di pagare Andrea; così assaltò i mercanti toledani, non appena l’ebbe uditi bestemmiare contro Dulcinea; così vinse don Sancio de Azpeitia e lo lasciò libero dietro la promessa fattagli dalle dame che sarebbe andato a presentarsi al cospetto di Dulcinea; così assalì gli janguesi nel vedere che maltrattavano Ronzinante. La sua era una giustizia rapida e spicciola; sentenza e castigo erano per lui la stessa cosa; una volta che era riuscito a raddrizzare un torto non si accaniva contro il colpevole. E soprattutto non tentò giammai di fare schiavo qualcuno. Sarebbe stata una bellissima cosa se, acciuffando ognuno di quei galeotti, gli si fosse affibbiata una buona razione di legnate, ma… portarli in galera? «Sembra una crudeltà – come disse il Cavaliere – fare schiavi quelli che Dio e la natura crearono liberi». E aggiunse più avanti: «Che ciascuno se la veda con le sue proprie colpe: c’è un Dio in cielo che non si dimentica di punire il cattivo e di premiare il buono, e non è giusto che gli uomini dabbene siano carnefici degli altri uomini non avendovi nessun interesse». Le guardie che scortavano i galeotti li scortavano a sangue freddo, per dovere d’ufficio, in virtù del comando di uno che forse nemmeno conosceva i colpevoli, e li conducevano a una sorta di schiavitù. E il castigo, da naturale risposta alla colpa, da rapido riflesso dell’offesa ricevuta, si converte in un’applicazione di una giustizia astratta, diventa qualcosa di odioso per ogni cuore ben nato. Le Sacre Scritture ci parlano della collera di
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Escrituras de la cólera de Dios y de los castigos inmedíatos y terribles que fulminaba sobre los quebrantadores de su pacto, pero un cautiverio eterno, un penar sin fin basado en fríos argumentos teológicos sobre la infinitud de la ofensa y la necesidad de satisfacción inacabable, es un principio que repugna al cristianismo quijotesco. Bien está hacer seguir a la culpa su natural consecuencia, el golpe de la cólera de Dios o de la cólera de la naturaleza, pero la última y definitiva justicia es el perdón. Dios, la naturaleza y Don Quijote castigan para perdonar. Castigo que no va seguido de perdón, ni se endereza a otorgarlo al cabo, no es castigo, sino odioso ensañamiento. Mas se dirá: pues si se ha de perdonar, ¿para qué el castigo? ¿Para qué, preguntas? Para que el perdón no sea gratuito y pierda así todo mérito; para que gane valor costando adquirirlo, temendo que comprarlo con sufrir castigo; para que el delincuente se ponga en estado de recibir el fruto, el beneficio del perdón, borrado por el castigo el remordimiento que se lo impediría. El castigo satisface al ofensor, no al ofendido, y hasta le repugna a aquel el perdón gratuito, apareciéndosele como la más quintaesenciada forma de la venganza, como fior de desdén. El perdón gratuito es un perdón que se echa como de limosna. Los débiles se vengan perdonando, sin haber castigado. Agradecemos más el abrazo, si es cordial, después de la bofetada con que a nuestra provocación se responde. Cuando el hombre se siente ofendido, vese empujado a venganza; pero luego que se vengó, si es bien nacido y noble, perdona. De ese sentimiento de venganza brotó la llamada justicia, intelectualizándolo, y muy lejos de ennoblecerse con ello, se envileció. El bofetón que suelta uno al que le insulta es más humano, y por ser más humano, más noble y más puro que la aplicación de cualquier artículo del Código penal.
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Dio e delle punizioni immediate e terribili che scagliava contro i violatori di un patto; ma una schiavitù eterna, una sofferenza senza fine basata su fredde argomentazioni teologiche sull’infinità dell’offesa e sulla necessità di un interminabile risarcimento, è un principio che ripugna al cristianesimo chisciottesco. È giusto far seguire alla colpa la sua conseguenza naturale, il colpo della collera di Dio o della collera della natura, ma l’ultima e definitiva giustizia è il perdono. Dio, la natura e Don Chisciotte castigano per perdonare. Un castigo che non sia seguito dal perdono e che non ha alcuna intenzione di concederlo alla fine, non è più castigo, ma odioso accanimento. Mi si potrà obiettare: ma, dal momento che si deve perdonare, a che serve il castigo? A che serve, mi chiedi? Serve affinché il perdono non sia gratuito e perda ogni merito; affinché acquisti valore proprio perché l’ottenerlo costa, se si deve conquistarlo subendo un castigo; affinché il delinquente si renda degno di ricevere il frutto, il beneficio del perdono, quando sia cancellato dal castigo il rimorso che gli impedirebbe di fruirne. Il castigo soddisfa l’offensore, non l’offeso; ed anzi al primo ripugna addirittura il perdono gratuito, che gli appare come la quintessenza della forma della vendetta, come il colmo del disprezzo. Il perdono gratuito è un perdono che si butta là come un’elemosina. I deboli si vendicano perdonando senza aver castigato. Siamo più grati di un abbraccio, se è cordiale, dopo il ceffone col quale si è risposto alla nostra provocazione. Quando un uomo si sente offeso, si vede spronato alla vendetta; ma, una volta che si è vendicato, se è ben nato e nobile, perdona. Da questo sentimento di vendetta nacque ciò che si suole chiamare giustizia, quando gli uomini lo intellettualizzarono; ma, invece di abilitarsi con ciò, si avvilì. Lo schiaffo che uno appioppa a colui che lo insulta è più umano e, essendo più umano, è più nobile e puro di qualsiasi applicazione di un qualunque articolo del Codice Penale.
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El fin de la justicia es el perdón, y en nuestro tránsito a la vida venidera, en las ansias de la agonía, a solas con nuestro Dios, se cumple el misterio del perdón para los hombres todos. Con la pena de vivir y las penas a ella consiguientes se pagan las fechorías todas que en la vida se hubiesen cometido; con la angustia de tener que morirse se acaba de satisfacer por ellas. Y Dios, que hizo al hombre libre, no puede condenarle a perpetuo cautiverio. «Allá se lo haya cada uno con su pecado; Dios hay en el cielo, que no se descuida de castigar al malo ni de premiar al bueno». Aquí Don Quijote remite el castigo a Dios, sin decirnos cómo creía él que Dios castiga, pero no pudo creer, por mucha que su ortodoxia fuere, en castigos inacabables, y no creyó en ellos. Hay que remitir, sí, a Dios el castigar, pero no haciéndole ministro de nuestras justicias, como tanto se acostumbra, cuando somos nosotros los que deberíamos ser ministros de la suya. ¿Quién es el mortal que osa pronunciar en nombre de Dios sentencias, dejando a Dios el ejecutarlas? ¿Quién es el que así hace a Dios ministro suyo? El que cree estar diciendo: «en nombre de Dios te condeno», lo que en realidad está queriendo decir es esto otro: «Dios, en mi nombre, te condena». Mirad bien que los que se arrogan ministerio especial de Dios es en el fondo que pretenden que Dios les ministre a ellos. Don Quijote, no; Don Quijote, que se creía ministro de Dios en la tierra y brazo por quien se ejecuta en ella su justicia, pero como lo somos todos, Don Quijote le dejaba a Dios el juzgar de quién fuera bueno y quién malo y merced a qué castigo habría que perdonar a este. Mi fe en Don Quijote me enseña que tal fue su íntimo sentimiento, y si no nos lo revela Cervantes es porque no estaba capacitado para penetrar en él. No por haber sido su evangelista hemos de suponer fuera quien más adentró en su espíritu. Baste que hoy nos haya conservado el relato de su vida y hazañas.
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Il fine ultimo della giustizia è il perdono, e nel nostro transito alla vita futura, tra le angosce dell’agonia, quando siamo soli di fronte al nostro Dio, si compie il mistero del perdono per tutti gli uomini. Con la pena di vivere e con le pene che ne conseguono, si pagano tutte le cattive azioni che possiamo aver commesso nell’intera vita; con l’angoscia di dover morire si finisce di scontarle. E Dio, che ha creato libero l’uomo, non può condannarlo ad un’eterna schiavitù. «Che ciascuno se la veda da solo col suo peccato; c’è un Dio in cielo che non si dimentica di punire il malvagio e di premiare il buono». Qui Don Chisciotte rimette a Dio il castigo, senza dirci in che modo egli crede che Dio castighi; ma non poté certo credere, per quanto grande fosse la sua ortodossia, a castighi eterni, e infatti non vi credette. Bisogna, sì, rimettere a Dio il castigo, ma non già facendo di Lui il ministro delle nostre giustizie, come troppo spesso si è soliti fare, quando siamo noi che dovremmo essere ministri della sua. Chi è il mortale che osa pronunziare sentenze in nome di Dio, lasciando poi a Dio il compito di eseguirle? Chi è che in tal modo fa di Dio il proprio ministro? Colui che crede di star dicendo: «In nome di Dio ti condanno», in realtà intende dire ben altro: «Dio, in mio nome, ti condanna». Badate bene che coloro che si arrogano un particolare ministero da parte di Dio, pretendono, in fondo, che Dio amministri in nome loro. Non così Don Chisciotte, che si riteneva ministro di Dio sulla terra e braccio per mezzo del quale si eseguiva sulla terra la sua giustizia; ma al pari di tutti noi uomini, Don Chisciotte lasciava a Dio il compito di giudicare chi era buono e chi era cattivo, e di determinare grazie a quale castigo avrebbe potuto perdonare al malvagio. La mia fede in Don Chisciotte mi insegna che fu proprio questo il suo sentimento più intimo, e se Cervantes non ce lo rivela è perché non era autorizzato a penetrare nel profondo del suo spirito. Non perché ne fu l’evangelista dobbiamo credere che fosse Cervantes colui che più profondamente si addentrò nell’animo di lui. Accontentiamoci di vedere, per merito suo, tramandato fino ad oggi il racconto della sua vita e delle sue imprese.
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«No es bien que los hombres honrados sean verdugos de los otros hombres, no yéndoles en ello nada». Don Quijote, como el pueblo de que es la fior, mira con malos ojos al verdugo y a todo ministro y ejecutor de justicia. Santo y bueno que se tome uno la justicia por su mano, pues le abona un natural instinto, pero ser verdugo de otros hombres para ganarse así el pan sirviendo a la odiosa justicia abstracta, no es bien. Pues la justicia es impersonal y abstracta, castigue impersonal y abstractamente. Ya os veo aquí, lectores timoratos, llevaros las manos a la cabeza y os oigo exclamar: ¡qué atrocidades! Y luego habláis de orden social y de seguridad y de otras monsergas por el estilo. Y yo os digo que si se soltase a los galeotes todos no por eso andana más revuelto el mundo, y si los hombres todos cobraran robusta fe en su última salvación, en que al cabo todos hemos de ser perdonados y admitidos al goce del Señor, que para ello nos crió libres, seríamos todos mejores. Bien sé que en contra de esto me argüiréis con el ejemplo mismo de los galeotes y de cómo le pagaron a Don Quijote la libertad que les había devuelto. Pues no bien los vio sueltos los llamó, y diciéndoles que «de gente bien nacida es agradecer los beneficios que reciben, y uno de los pecados que más a Dios ofenden es la ingratitud», les mandó fuesen cargados de la cadena a presentarse ante la señora Dulcinea del Toboso. Los desdichados, llenos de miedo no fuese les prendiera de nuevo la Santa Hermandad, respondieron por boca de Ginés de Pasamonte que no podían cumplir lo que Don Quijote les pedía, y se lo mudase en alguna cantidad de avemarías y credos. Irritó al Caballero, que era pronto a la cólera, el desenfado de Pasamonte, y le reprendió. Y entonces hizo este del ojo a
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«Non è giusto che gli uomini debbano essere carnefici degli altri uomini, non avendovi nessun interesse». Don Chisciotte, come del resto il popolo di cui egli è il fiore, vede di malocchio il carnefice ed ogni altro ministro o esecutore di giustizia. Sta bene che non possa farsi giustizia da solo poiché a ciò lo spinge un istinto naturale; ma diventare carnefice di altri uomini per guadagnarsi in tal modo il pane servendo l’odiosa giustizia astratta, questo è cosa che non va bene. Dal momento che la giustizia è impersonale ed astratta, castiga impersonalmente e astrattamente. Mi par già di vedervi, miei timorati lettori, che vi mettete le mani tra i capelli ed esclamate: «Che orrore!». E poi parlate di ordine sociale e di sicurezza e di altre frottole dello stesso genere. Eppure, io vi dico che se anche si lasciassero andare tutti i galeotti, non per questo il mondo andrebbe sottosopra; anzi, se tutti gli uomini acquisissero una solida fede nella loro salvezza finale, persuadendosi che alla fine tutti dobbiamo essere perdonati e ammessi a godere della visione del Signore, che a tal fine ci creò liberi, saremmo tutti migliori. So benissimo che vi schierereste contro questa mia opinione adducendo l’esempio degli stessi galeotti e del modo in cui ripagarono Don Chisciotte della libertà che aveva reso loro. Infatti, non appena li vide sciolti dalle catene, li chiamò e dicendo loro che «è proprio di gente per bene l’essere riconoscente dei benefici ricevuti ed uno dei peccati che più offende Dio è l’ingratitudine», comandò loro che si recassero, con le catene al collo, a presentarsi al cospetto della signora Dulcinea del Toboso. Quei disgraziati, pieni di paura che la Santa Fratellanza potesse acciuffarli di nuovo, risposero per bocca di Ginesio il Passamonte che non potevano fare ciò che Don Chisciotte esigeva, e chiesero che mutasse quell’ordine in una certa quantità di Ave Maria e di Credo. La sfacciataggine di Passamonte irritò il Cavaliere che era di per sé facile alla collera, e li rimbrottò. E allora il mani-
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sus compañeros, y «apartandose aparte comenzaron a llover tantas y tantas piedras sobre Don Quijote… que dieron con él en el suelo». Y una vez en tierra, le golpeó uno y le quitaron la ropilla y a Sancho el gabán. Lo cual debe enseñarnos a libertar galeotes precisamente porque no nos lo han de agradecer, que de contar de antemano con su agradecimiento, nuestra hazaña carecería de valor. Si no hiciéramos beneficios sino por las gratitudes que de ellos habriamos de recojer, ¿para qué nos servirian en la eternidad? Debe hacerse el bien, no solo a pesar de que no nos han de corresponder en el mundo, sino precisamente porque no han de correspondérnoslo. El valor infinito de las buenas obras estriba en que no tienen pago adecuado en la vida, y así rebosan de ella. La vida es un bien muy pobre para los bienes que en ella cabe ejercer. Pero viene aquí un pasaje tan triste como hermoso, pues mostrándonos una carnal flaqueza del Caballero nos muestra que era de carne y hueso como nosotros y como nosotros sujeto a las miserias humanas.
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goldo strizzò l’occhio ai suoi compagni e, «facendosi tutti indietro, iniziarono a rovesciare una tale tempesta di pietre su Don Chisciotte… che fu gettato a terra». E una volta steso al suolo, uno lo picchiò e gli tolsero il giubbino e a Sancio portarono via il gabbano. Il che dovrebbe insegnarci a liberare i galeotti proprio perché non ce ne saranno grati; poiché, se si potesse far conto in anticipo sulla loro riconoscenza, la nostra impresa sarebbe priva di ogni valore. Se facessimo del bene solo per la gratitudine che dovremmo ricavarne, a che mai ci servirebbe questo per l’eternità? Il bene si deve fare non soltanto ad onta che non ce ne dovranno ricambiare in questo mondo, ma anzi proprio perché non ce ne dovranno ricambiare. Il valore infinito delle buone azioni consiste nel fatto che non ricevono adeguata ricompensa in questa vita, e che proprio per questa ragione traboccano di vita. La vita è un bene molto modesto in confronto ai beni che in essa ci è dato fare. Ma viene a questo punto un brano tanto triste quanto bello, perché, mettendoci davanti ad una carnale debolezza del Cavaliere, ci dimostra che era di carne ed ossa come tutti noi, e come tutti noi soggetto alle miserie umane.
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de lo que aconteció al famoso Don Quijote en Sierra Morena, que fue una de las más raras aventuras que en está verdadera historia se cuentan Y fue cuando, viéndose malparado, dijo a su escudero: «Siempre Sancho, lo he oído decir, que el hacer bien a villanos es echar agua en la mar: si yo hubiera creído lo que me dijiste, yo hubiera excusado esta pesadumbre; pero ya está hecho, paciencia y a escarmentar para desde aquí adelante». El pobre Caballero, tendido en tierra, siente flaquear su fe. Más ved que acude en su ayuda Sancho, el heroico Sancho, y lleno de su fe quijotesca, responde a su amo: «Así escarmentará su merced como yo soy turco». Y ¡qué bien calaste, Sancho heroico, Sancho quijotesco, que tu amo no podía escarmentar de hacer el bien y cumplir la justicia venidera! Y porque apedrearon a Don Quijote y le robaron la ropilla, ¿hemos de creer que no le iban agradecidos los galeotes y que la libertad no les mejoró el ánimo? Cuando le robaron las ropillas es que las necesitaban, y esto no excluía agradecimiento, pues una cosa es la gratitud y otra el oficio, y el de los más de ellos era el de ladrones. Y además, ¿quién sabe si no es que querian llevarse una prenda suya como de recuerdo? ¿Y que le apedrearon? Sí, por agradecimiento también. Peor habría sido que le hubiesen vuelto la espalda.
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di ciò che accadde al famoso Don Chisciotte in Sierra Morena e che fu una delle più strane avventure di quante se ne raccontano in questa veridica storia E fu quando, vedendosi così malconcio, disse al suo scudiero: «L’ho sempre sentito dire, Sancio, che far del bene alle carogne è come gettar acqua in mare. Se io avessi creduto a quello che mi dicesti avrei evitato questo dispiacere; ma ormai è fatta; pazienza, si impari per un’altra volta». Il povero Cavaliere, stramazzato a terra, sente vacillare la propria fede. Ma ecco che accorre Sancio in suo aiuto, l’eroico Sancio che, pieno di fede chiosciottesca, così risponde al suo padrone: «Così imparerà, vossignoria, come è vero che io sono turco». Come ben t’avvedesti, Sancio eroico, Sancio chisciottesco, che il tuo padrone non poteva guarire dal malanno di fare il bene e di compiere la vera giustizia! E perché presero a sassate Don Chisciotte e gli rubarono il giubbino, dovremmo credere che i galeotti non gli erano grati e che la libertà non ne migliorò l’animo? Se gli rubarono il giubbino, è perché ne avevano bisogno, e questo non escludeva la gratitudine, poiché una cosa è la riconoscenza e un’altra il mestiere, e il mestiere della maggior parte dei galeotti era quello del ladro. E poi, chissà, può anche darsi che volessero portarsi via qualcosa di suo per ricordo! E il fatto che lo presero a sassate? Ebbene, anche questo avvenne per riconoscenza. Sarebbe stato peggio se gli avessero voltato le spalle.
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Encimada la aventura de los galeotes y obedeciendo Don Quijote a los ruegos de Sancho, que le pedía se apartaran de la furia de la Santa Hermandad, más no por miedo a ella, se entraron en Sierra Morena, haciendo noche «entre dos peñas y entre muchos alcomoques». Y aquella noche fue cuando robó su jumento a Sancho Ginés de Pasamonte, el desgraciado galeote. Y a poco hallaron la maleta de Cardenio y el montoncillo de escudos de oro que hizo exclamar a Sancho: «bendito sea todo el cielo que nos ha deparado una aventura que sea de provecho». ¡Ah Sancho veleta, vuelve a vencerte la carne y llamas aventura a eso de topar con un montoncillo de escudos de oro! Eres del país de la lotería. Se lo regaló su amo, que no iba a la busca de tales aventuras de dinero hallado. Interesose más en los lamentos amorosos que en la maleta se contenían, y al ver pasar saltando de risco en risco a un solitario, decidido a buscarlo, mandó a Sancho lo atajase. Y entonces respondió este aquellas nobilísimas palabras de: «No podré hacer eso porque en apartándome de vuestra merced, luego es conmigo el miedo, que me asalta con mil géneros de sobresaltos y visiones». ¿Y cómo no, Sancho amigo, cómo no? Tu amo será, si quieres, loco de remate, pero ni supiste, ni sabes, ni sabrás ya vivir sin él: renegarás de su locura y de los manteamientos en que con ella te mete, pero si te deja, te acometerá el miedo al verte solo. Tú sin tu amo estás tan solo que estás sin ti. Gustaste el amparo de Don Quijote, cobraste fe en él; si el mantenimiento de tu fe te falta, ¿quién te librará del miedo? ¿Es acaso el miedo otra cosa que la pérdida de la fe?; y ¿no se recobra esta en fuerza de miedo? Y la fe, amigo Sancho, es adhesión, no a una teoría, no a una idea, sino a algo vivo, a un hombre real o ideal, es facultad de admirar y de confiar. Y tú, Sancho fiel, crees en un loco y en
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Una volta condotta a termine l’avventura dei galeotti, Don Chisciotte, cedendo alle vive preghiere di Sancio che lo supplicava di appartarsi per sfuggire alla furia della Santa Fratellanza – non però perché ne avesse timore – si internò con lui nella Sierra Morena e all’imbrunire si ritrovarono «fra due rocce, in un folto sughereto». E fu proprio quella notte che Ginesio di Passamonte, lo sventurato galeotto, rubò a Sancio il suo asino. E di lì a poco trovarono la valigia di Cardenio e il mucchietto di scudi d’oro che fece esclamare a Sancio: «Sia benedetto tutto il cielo che ci ha presentato un’avventura che serva a qualcosa!». Oh, Sancio incostante, Sancio banderuola, ecco che torna a vincerti la carne e chiami avventura questa d’esserti imbattuto in un gruzzolo di scudi d’oro! Si vede che sei proprio del paese delle lotterie! Gliene fece dono il suo padrone, che non andava in cerca di siffatte avventure, di quattrini trovati. Lo interessarono di più i lamenti amorosi provenienti dalla valigia; e, vedendo sbalzare di roccia in roccia un uomo tutto solo deciso a sbarrargli il passo, diede ordine a Sancio di rincorrerlo. E allora lo scudiero gli rispose con quelle nobilissime parole: «Ma questo non potrò farlo, perché, una volta allontanatomi da vossignoria, ecco che mi prende la paura con mille generi di sussulti e visioni». E, come no, amico Sancio, come no! Il tuo padrone sarà, se vuoi, pazzo da legare, ma non hai saputo, né sai, né saprai più vivere senza di lui, ormai; maledirai la sua follia e gli sballottamenti che con essa ti procura, ma, se ti lascia, ti assalirà la paura, vedendoti solo. Tu, senza il tuo padrone, sei talmente solo da essere addirittura senza di te. Ti sei compiaciuto della protezione di Don Chisciotte, hai avuto fede in essa; e ora, se ti viene a mancare il sostegno della tua fede, chi mai potrà liberarti dalla paura? La paura è forse altra cosa che la perdita della fede? E la fede non si riacquista in virtù della paura stessa? La fede, amico Sancio, è adesione, non già ad una teoria, non già ad un’idea, ma a qualcosa di vivo, a un uomo reale o ideale, è la facoltà di ammirare e di fidarsi. E tu, fedele Sancio, credi in un pazzo e
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su locura, y si te quedas a solas con tu cordura de antes, ¿quién te librará del miedo que te ha de acometer al verte solo con ella, ahora que gustaste de la locura quijotesca? Por eso pides a tu amo y señor que no se aparte de ti. Y tu Don Quijote, magnánimo y fuerte, te responde: «Así será, y yo estoy muy contento de que te quieras valer de mi ánimo, el cual no te faltará aunque te falte el ánima del cuerpo». Ten fe, pues, Sancho; ten fe, aunque te falte el ánimo de Don Quijote. La fe cumplió en ti su milagro; el ánimo de Don Quijote es ya tu ánimo y ya no vives tu en ti mismo, sino que es él, tu amo, quien en ti vive. estás quijotizado. Entonces encontró Don Quijote a Cardenio, y apenas vio al otro loco, loco de amor, «le tuvo un buen espacio estrechamente entre sus brazos, como si de luengos tiempos le hubiera conocido». Y así era en verdad. Saludáronse y manifestó Don Quijote su propósito de servirle, y si no hallaba remedio a su dolor ayudarle a llorar su desventura y «a plañirla como mejor pudiere». Y al llorar y plañir la desventura de Cardenio, ¿no llorarías y plañirías la tuya, buen Caballero? Al llorar los desdenes de Lucinda, ¿no llorarías aquella contención que te impidió abrir el corazón a Aldonza? Hay, sin embargo, maliciosos en creer que todo ello era solo para mover a Cardenio a que contase su historia, pues era Don Quijote curioso en extremo y amigo de enterarse de vidas ajenas.
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nella sua follia e, se rimani solo con la tua saggezza di una volta, chi ti potrà liberare dalla paura che ti assalirà non appena ti vedrà solo con essa, adesso che hai gustato la follia chisciottesca? È per questo che supplichi il tuo padrone e signore di non allontanarsi da te. E il tuo Don Chisciotte, magnanimo e forte, ti risponde: «Va bene; sono anzi arcicontento che tu voglia farti forte del mio coraggio, che non ti abbandonerà anche se l’anima lascerà il tuo corpo». Abbi dunque fede, Sancio; abbi fede, anche se ti manca il valore di Don Chisciotte. La fede ha compiuto in te il suo miracolo; il valore di Don Chisciotte è ormai il tuo stesso valore, e ormai non vivi più in te stesso, ma è lui, il tuo padrone, che vive in te. Sei chisciottizzato. Allora Don Chisciotte si incontrò con Cardenio e, non appena ebbe visto l’altro pazzo, pazzo d’amore, «lo tenne per un bel po’ stretto al petto, come se lo avesse conosciuto da lungo tempo». Ed era proprio vero. Si salutarono e Don Chisciotte gli manifestò il suo proposito di servirlo e, se non avesse trovato rimedio al suo dolore, di aiutarlo a piangere la sua sventura e a «lamentarsene come meglio avesse potuto». E nel compiangere e lamentarsi della sventura di Cardenio non avresti pianto e lamentato la tua, buon Cavaliere? Nel piangere i disdegni di Luscinda, non avresti compianto quel ritegno che ti aveva impedito di aprire il tuo cuore ad Aldonza? Eppure vi sono dei maligni che credono che egli dicesse tutto ciò soltanto per indurre Cardenio a narrargli la propria storia, poiché pensano che Don Chisciotte fosse curioso quant’altri mai e propenso a ficcare il naso nelle faccende altrui.
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donde se prosigue la aventura de Sierra Morena y que trata de las extrañas cosas que en Sierra Morena sucedieron al valiente Caballero de la Mancha y de la imitación que hizo a la penitencia de Beltenebros Aquí Cervantes, no fiando demasiado en la virtualidad de la historia de su héroe, intercala la de Cardenio. Mas aun así nos contó la interrupción de Don Quijote a Cardenio y cómo salió a la defensa de la reina Maldasina, ofendida por este. Con lo cual quiso enseñarnos a que no toleremos se le ofenda a él por los que se obstinan en tratarle como a mero ente de razón, sin consistencia real. Y no es razón que los tales no estén en su cabal juicio, pues «contra cuerdos y contra locos», como dijo en aquella ocasión Don Quijote, debe volver uno por la verdad radical. Como por ella volvió el hidalgo. El cual si pecaba era de jactancioso, pues aun entonces afirmó que él se sabía las reglas de caballería «mejor que cuantos caballeros las profesaron en el mundo». Yendo después por aquellas soledades de Sierra Morena volvió a dar Don Quijote en su verdadero tema, y fue al decir a Sancho que le llevaba por aquellas partes el deseo «de hacer en ellas una hazaña con que he de ganar – dijo – perpetuo nombre y fama en todo lo descubierto de la tierra». Y para lograrlo se propone imitar a su modelo, Amadís de Gaula. Sabía bien que a
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dove continua l’avventura della Sierra Morena e che tratta delle cose meravigliose accadute nella Sierra Morena al valoroso Cavaliere della Mancia e della penitenza fatta per imitare Beltenebros A questo punto Cervantes, non fidandosi troppo dell’interesse suscitato dalla storia del suo eroe, vi intercala quella di Cardenio. Ma anche così ci tramandò l’interruzione di Don Chisciotte a Cardenio e il modo in cui prese le difese della regina Madàs sima, offesa dal suo interlocutore. Con ciò volle insegnarci a non tollerare che egli venga offeso da coloro che si ostinano a trattarlo come un puro essere fantastico, privo di reale consistenza. E non vale dire che costoro non sono del tutto sani di mente, giacché «contro saggi e pazzi», come disse in quell’occasione Don Chisciotte, si è obbligati a rivendicare la verità radicale. Che fu poi quella che il nostro hidalgo intese rivendicare. Se zoppicava da un piede, era quello di essere alquanto in cerca di vana gloria, giacché, anche in quell’occasione, affermò di conoscere le regole della cavalleria «meglio di quanti mai le professarono al mondo». Continuando poi a camminare per quelle solitudini della Sierra Morena, Don Chisciotte tornò ancora a battere sul suo autentico proposito, e fu quando comunicò a Sancio che lo conduceva in quei luoghi il desiderio di «compiervi un’avventura – disse – per la quale mi guadagnerò una immortale risonanza e gloria su tutta la faccia della terra». E per riuscirvi si propose di imitare il suo modello, Amadigi di Gaula. Sapeva benissimo,
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la perfección se llega imitando a hombres y no tratando de poner en práctica teorías. Y para imitarle en la penitencia que hizo en la Peña Pobre, mudando su nombre en el de Beltenebros, decidió Don Quijote hacer en Sierra Morena «del desesperado, del sandio y del furíoso», aventura más fácil que la de «hender gigantes, descabezar serpientes, matar endriagos, desbaratar ejércitos, fracasar armadas y deshacer encantamientos». Y como el heroico loco era muy cuerdo, no quiso imitar a don Roldán en lo de arrancar árboles, enturbiar las aguas de las claras fuentes, matar pastores, destruir ganados, abrasar chozas, derribar casas, arrastrar yeguas y «otras cien mil insolencias dignas de eterno nombre y escritura», sino solo en lo esencial, y aun venir a contentarse con la sola imitación de Amadís, «que sin hacer locuras de daño, sino de lloros y sentimientos, alcanzó tanta fama como el que más». El punto estaba en alcanzar fama y renombre, y si las locuras de daño no eran para ellos necesarias, eran ya locuras de locura. Y requerido por Sancho de que por qué razón habría de volverse loco sin que Dulcinea le hubiese faltado, contestó con aquella prenadisima sentencia que dice: «Ahí está el punto y esa es la fuerza de mi negocio, que volverse loco un caballero andante con causa, ni grado ni gracias; el toque está en desatinar sin ocasión y dar a entender a mi dama que si en seco hago esto, qué hiciera en mojado». Sí, Don Quijote mío, el toque está en desatinar sin ocasión, en generosa rebelión contra la lógica, durísima tirana del espíritu. Los más de los que en esta tu patria son tenidos por locos, desatinan con ocasión y con motivo y en mojado, y no son locos, sino majaderos forrados de lo mismo, cuando no bellacos de lo fino. La locura, la verdadera locura
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infatti, che alla perfezione si perviene imitando uomini, e non cercando di mettere in pratica teorie. E per imitarlo nella penitenza che compì sulla Peña Pobre, cambiando il proprio nome per assumere quello di Beltenebros, decise Don Chisciotte di fare sulla Sierra Morena «il disperato, il dissennato, il furioso», avventura più facile di quella di «spaccare giganti, scapezzare serpenti, ammazzare draghi, sbaragliare eserciti, infrangere navigli e disfare incantesimi». E siccome l’eroico folle era molto saggio, non volle imitare Orlando nell’impresa di sradicare alberi, intorbidare le acque delle chiare fonti, ammazzare pastori, distruggere greggi, incendiare capanne, diroccare case, trascinare giumente e «centomila cose straordinarie, degne di eterna fama e di storia»; ma solamente nell’essenziale. O magari si adattò a limitarsi alla semplice imitazione di Amadigi, «il quale, senza commettere pazzie di danno per nessuno, ma solo di lacrime e d’affanno, conseguì una fama così grande quant’altri mai», L’importante stava nel conseguire fama e risonanza, e se le pazzie di danno non erano necessarie a tale scopo, sarebbero state addirittura pazzie della pazzia. E richiesto da Sancio del perché avrebbe dovuto diventare pazzo senza che Dulcinea gli avesse fatto il minimo torto, rispose con quell’eloquentissima sentenza che dice: «Qui sta il punto, e questa è la forza della mia attività; che un cavaliere errante diventi matto avendone motivo, non c’è merito né grazia da rendere; il nocciolo della questione sta nel perdere il senno senza un perché e nel far comprendere alla mia donna che se a freddo faccio questo, cosa sarei capace a caldo?». Sì, mio Don Chisciotte; il nocciolo della questione sta nel commettere stravaganze senza un motivo, in una generosa ribellione contro la logica, durissima tiranna dello spirito. La maggior parte di coloro che nella tua patria sono ritenuti pazzi, commettono stravaganze per un motivo, per una ragione e a caldo, e non sono veri pazzi, ma soltanto sciocconi di più grande calibro, quando non addirittura birbanti da strapazzo. La pazzia, l’autentica pazzia ci manca sempre più, e
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nos está haciendo mucha falta, a ver si nos cura de esta peste del sentido común que nos tiene a cada uno ahogado el propio. Ahogado se lo tenía a Sancho, pues dudó de ti, heroico Caballero, cuando le hablaste de nuevo del yelmo de Mambrino y estuvo a punto de creer patraña tus promesas todas porque sus ojos carnales le hacían ver el yelmo como si fuese bacía de barbero. Pero bien le respondiste: «Eso que a ti te parece bada de barbero me parece a mí el yelmo de Mambrino y a otro le parecerá otra cosa». Esta es la verdad pura: el mundo es lo que a cada cual le parece, y la sabiduria estriba en hacérnoslo a nuestra voluntad, desatinados sin ocasión y henchidos de fe en lo absurdo. El carnal Sancho creyó, al ver empezar a Don Quijote la penitencia, que iba de burlas y no de veras, más desengañole su amo. No, Sancho amigo, no; la verdadera locura va de veras siempre; son los cuerdos los que van de burlas. Y ¡qué locura! Entonces fue cuando Don Quijote declaró a Sancho lo de ser Dulcinea Aldonza Lorenzo, la hija de Lorenzo Corchuelo y de Aldonza Nogales, y Sancho nos declaró las prendas terrenales de ella, «moza de chapa, hecha y derecha y de pelo en pecho», que tiraba la barra como «el más forzudo zagal de todo el pueblo». Se puso un día «encima del campanario de la aldea a llamar a unos zagales suyos que andaban en un barbecho de su padre, y aúnque estaban de allí a media legua, así la oyeron como si estuvieran al pie de la torre». Y se le oye ahora, que convertida en Dulcinea, pregona tu nombre, Sancho socarrón. «Tiene mucho de cortesana – añadió –; con todos se burla y de todo hace mueca y donaire…». Sí, de todos sus favoritos se burla la Gloria. Dejó de hablar Sancho, juzgando a Dulcinea, o mejor a Aldonza, según sus groseros ojazos, y su amo le contó el cuento de la viuda hermosa, libre y rica que se enamoró del mozo rollizo e idiota. Para lo que le quería… Sí, para el que quiere estrujar
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ne sentiamo il bisogno per vedere se ci guarisce una buona volta da questa peste del buon senso che ci tiene tutti soffocati. E infatti aveva soffocato Sancio, dato che poté dubitare di te, eroico Cavaliere, quando tornasti a parlargli dell’elmo di Mambrino, e fu sul punto di considerare frottole tutte le tue promesse, perché i suoi occhi carnali gli facevano guardare l’elmo come se fosse una bacinella da barbiere. Ma tu ben gli rispondesti: «Quella che a te pare bacinella da barbiere, a me pare l’elmo di Mambrino, e ad un altro sembrerà un’altra cosa». Questa è la pura verità: il mondo è ciò che appare a ciascuno, e la saggezza consiste nel costruircelo a nostro modo, compiendo stravaganze senza motivo e pieni di fede nell’assurdo. Il Carnale Sancio credette, quando vide Don Chisciotte che iniziava la penitenza, che facesse per burla e non sul serio, ma il suo padrone lo disingannò ben presto. No, amico Sancio, no; la vera pazzia fa sempre sul serio; sono i saggi che fanno per burla. E che razza di pazzia! Fu allora che Don Chisciotte dichiarò a Sancio che Dulcinea era Aldonza Lorenzo, la figlia di Lorenzo Corciuelo e di Aldonza Nogales, e che Sancio ci dichiarò le terrene qualità di lei, « ragazza di merito, grande e ben messa, con un gran fegato», che scagliava la barra di ferro «altrettanto bene quanto il più vigoroso giovanotto di tutto il villaggio». S’era messa un giorno «sulla cima del campanile del villaggio a chiamare certi suoi garzoni che erano in un maggese di suo padre e, sebbene fossero distanti più di mezza lega, la sentirono come se si trovassero ai piedi della torre». E la si ode ancora adesso, quando, convertita in Dulcinea, va gridando alto il tuo nome, Sancio furbacchione. «È di modi molto sciolti – aggiunse –, scherza con tutti e di tutto sogghigna e si burla…». Sì, è vero, la Gloria si burla di tutti i suoi favoriti. Sancio smise di parlare, dopo aver giudicato Dulcinea o, per meglio dire, Aldonza, secondo come la vedevano i suoi occhi grossolani e il suo padrone iniziò a narrargli la storia della bella vedova, libera e ricca che si era innamorata del giovanotto tarchiato e idiota. Per quel che pensava di farsene… Sì, per chi ha da
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idealidad del mundo nada hay en él de bajo ni de grosero, y muy bien puede Aldonza Lorenzo encarnar a Dulcinea. Pero hay aquí algo más íntimo. Alonso Quijano el Bueno, que había recatado en los más recónditos recovecos de su corazón durante doce años aquel amor que fue acaso lo que llevándole a engolfarse en libros de caballería le llevó a hacerse Don Quijote, Alonso Quijano, roto ahora, merced a la locura caballeresca, su vergonzante recato, confíesa a Sancho su amor. ¡A Sancho! Y al confesarlo, lo profana. El muy bellaco del escudero no se percata de lo que se le abre al conocimiento y a la confianza y habla de Aldonza como de una garrida moza cualquiera de lugar. Y entonces Don Quijote, apesadumbrado al ver cuán a lo burdo entendió Sancho sus amores, sin conocer que para todo buen enamorado es su amor único y como no lo ha habido en la tierra antes, le cuenta la sustanciosa historia de la viuda y el idiota, para concluir en lo de «por lo que yo quiero a Dulcinea del Toboso, tanto vale como la más alta princesa de la tierra». ¡Pobre Caballero, y cómo tu viste que callar y sepultar en lo más escondido de tu seno, que a no haberte atado la vergiienza del demasíado amor que se te prendió en el otoño de tus años, para otra cosa que para invocarla por los caminos bajo el nombre de Dulcinea habrías querido a la hermosa hija de Lorenzo Corchuelo y de Aldonza Nogales! Di, ¿no hubieras dado por ella la gloria, esa gloria que por ella ibas a buscar? Acabado el coloquio, escribió Don Quijote la carta a Dulcinea, aun no sabiendo leer Aldonza Nogales, y la cédula de los tres pollinos que se entregarían a Sancho. ¡Ah, Sancho, Sancho, llevas
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sprecare idealità a questo mondo, non vi è in esso nulla di basso, né di grossolano, e Aldonza Lorenzo può benissimo incarnare Dulcinea. Ma qui c’è qualcosa di più intimo. Alonso Chisciano il Buono, che per ben dodici anni aveva celato nei più reconditi meandri del suo cuore quell’amore che era probabilmente stato ciò che, spingendolo ad immergersi nella lettura dei libri di cavalleria, l’aveva condotto a trasformarsi in Don Chisciotte; Alonso Chisciano, dicevo, infranto ora, grazie alla cavalleresca sua follia, il proprio pudico ritegno, confessa a Sancio il suo amore. A Sancio, pensate! E nel confessarlo, lo profana. Quell’ignorante dello scudiero non s’accorge di ciò che si apre dinanzi al suo intelletto e alla sua fiducia, e parla di Aldonza come di una qualsiasi contadinotta ben piantata e paesana. E allora Don Chisciotte, rattristato nel vedere come Sancio avesse interpretato rusticamente i suoi amori, senza rendersi conto che per ogni buon innamorato il proprio amore è unico e uno simile ad esso non c’è mai stato sulla faccia della terra, gli narra la sostanziosa storia della vedova e dell’idiota per concludere con le immortali parole: «Dulcinea del Toboso, per quello che voglio da lei, vale quanto la più alta principessa della terra». Povero Cavaliere! Come avevi dovuto tacere e seppellire nella parte più riposta del tuo petto il fatto che, se non t’avesse impedito il pudore dell’eccessivo amore che ti aveva colto nell’autunno dei tuoi anni, per ben altro che per invocarla lungo le strade sotto il nome di Dulcinea del Toboso, avresti voluto la bella figlia di Lorenzo Corciuelo e di Aldonza Nogales! Dimmi, non avresti dato per lei la gloria, quella stessa gloria che per lei andavi a cercare? Finito il colloquio, Don Chisciotte scrisse la lettera per Dulcinea, benché Aldonza Nogales non sapesse leggere, e il documento per i tre somarelli che si dovevano consegnare a Sancio. Ah, Sancio, Sancio! Porti con te la più alta delle mis-
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el más grande de los cometidos, una misiva de amor a Dulcinea, y necesitas llevar con ella una cédula de tres pollinos! Siguiose nuevo coloquio y en él dijo Don Quijote aquello de: «A fe, Sancho, que a lo que parece no estás tú más cuerdo que yo». Cierto es ello, pues le contagiaste, noble Caballero. Al ir a partir Sancho, desnudose su amo con toda priesa los calzones, «quedó en carnes y en pañales y luego sin más ni más dio dos zapatetas en el aire y dos tumbos de cabeza abajo y los pies en alto, descubriendo cosas que por no verlas otra vez volvió Sancho la rienda a Rocinante y se dio por satisfecho de que podía jurar que su amo quedaba loco».
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sioni, la missiva d’amore per Dulcinea, ed hai bisogno di unire un documento per la consegna di tre somarelli! Ci fu poi un altro colloquio, nel quale Don Chisciotte pronunciò la mirabile frase: «Davvero, Sancio, a quanto pare, tu non sei più con la testa di me». Ed era verissimo, poiché l’avevi ormai contagiato, nobile Cavaliere. Quando Sancio stava per partire, il suo padrone gli sfilò in gran fretta i calzoni, «rimase nudo in camicia; quindi, senz’altro spiccò due salti in aria e due capriole, col capo all’ingiù ed i piedi in alto, mettendo allo scoperto certe cose che Sancio, per non vederle una seconda volta, voltò le redini a Ronzinante, dichiarandosi contento e soddisfatto di poter giurare che il suo padrone era diventato matto».
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donde se prosiguen las finezas que de enamorado hizo Don Quijote en Sierra Morena Y quedose Don Quijote rezando en un rosario de agallas grandes de alcomoque, paseándose por un pradecillo, escribiendo y grabando en las cortezas de los árboles y por la menuda arena muchos versos, suspirando y llamando a los faúnos, silvanes y ninfas de aquellos contornos. ¡Admirable aventura! ¡Aventura del género contemplativo más bien que del activo! Hay gentes, Don Quijote mío, ciegas al valor de estas aventuras de suspirar y dar sin más zapatetas al aire. Solo el que se las dio o es capaz de darlas, puede dar cima a grandes empresas. Desgraciado del que a solas consigo mismo es cuerdo y cuida que los demás le miran. Esta penitencia de Don Quijote en Sierra Morena nos trae a la memoria aquella otra de Íñigo de Loyola en la cueva de Manresa y sobre todo cuando en el mismo Manresa y en el monasterio de Santo Domingo «vinole al pensamiento – como nos dice el P. Rivadeneira, libro I, capítulo IV – un ejemplo de un santo que para alcanzar de Dios una cosa que le pedía, determinó de no desayunarse hasta alcanzarla. A cuya imitación – añade – propuso él también de no comer ni beber hasta hallar la paz tan deseada de su alma, si ya no se viese por ello a peligro de morir».
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dove sono contenute le galanterie che, da innamorato, Don Chisciotte fece nella Sierra Morena E Don Chisciotte se ne restò lì a pregare con un rosario fatto di grosse ghiande di quercia, passeggiando per un praticello, scrivendo e incidendo sulle cortecce degli alberi o nell’arena sottile molti versi, sospirando e invocando i fauni, i silvani e le ninfe di quei dintorni. Meravigliosa avventura! Avventura di genere contemplativo piuttosto che attivo! C’è gente, mio Don Chisciotte, che è cieca e non sa apprezzare il valore di queste avventure che consistono nel sospirare e nel fare semplicemente sgambetti per aria. Solo chi ne ha fatto o è capace di farne, può condurre a buon fine grandi imprese. Sventurato colui che è sempre saggio anche quando è solo con se stesso, perché pensa che altri lo possa vedere. Questa penitenza di Don Chisciotte in Sierra Morena ci riporta alla memoria l’altra, quella di Ignazio di Loyola nella grotta di Manresa, e soprattutto l’episodio avvenuto quando, a Manresa stessa e nel monastero di San Domenico, «gli venne in mente», come ci dice il P. Rivadeneira, nel libro I, capitolo IV, «l’esempio di un santo che, per ottenere da Dio una certa cosa che gli aveva chiesto, decise di non mangiare finché non l’avesse ottenuta. E, per imitarlo, aggiunse, «si propose anch’egli di non mangiare né bere finché non avesse trovato quella pace che la sua anima tanto desiderava, a meno che per tale motivo non si vedesse in pericolo di morte».
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Al terminar un piadoso autor la vida de San Simeón Estilita, añade: «está vida es más para admirada que para imitada», y Teresa de Jesús, en el párrafo tercero del capítulo XIII de su Vida, nos dice que el demonio «nos dice o hace entender que las cosas de los Santos son para admiradas, mas no para hacerlas los que somos pecadores», y eso dice ella también, mas que «hemos de mirar cuál es de espantar y cuál es de imitar». Y así podría creerse que la penitencia de Don Quijote en Sierra Morena es más para admirada que para imitada. Pero yo os digo que de la misma diente de que brotaron sus más hazañosas proezas, de esa misma diente brotó también lo de las zapatetas en el aire, siendo inseparable lo uno de lo otro. Aquellas locuras encendieron su amor a Dulcinea, y ese amor fue su brújula y su resorte de acción. Lo bello es lo superfluo, lo que tiene su fin en sí: la flor de la vida. Y esas zapatetas en el aire son bellísimas, porque no tienen otro fln que el de darlas. Aunque sí, otro fln tuvieron, fin de propia educación. Oídme una parábola: Llegaron a segar un campo dos segadores. El uno, ansioso de segar mucho, empezó a cortar sin cuidarse de afilar la guadaña, y al poco rato, mellada y embotado el filo, derribaba la yerba, más sin cortarla. El otro, deseoso de segar bien, se pasó casi toda la mañana en afilar su instrumento, y al caer de la tarde ni este ni aquel habían ganado su jornal. Así hay quien solo se cuida de obrar sin afilar ni pulir su voluntad y su arrojo, y quien se pasa la vida en afile y pulimento, y en prepararse a vivir, le llega la muerte. Hay, pues, que segar y pulir la guadarla, obrar y prepararse para la obra. Sin vida interior no la hay exterior. Y esas zapatetas sin más ni más en el aire, y esos rezos, esos grabados en las cortezas de los árboles, suspiros e invocaciones, son ejercicio espiritual para arremeter molinos, alancear corderos, vencer vizcaínos, libertar galeotes y ser por ellos apedreados. Allí, en aquel retiro, y con aquellas zapatetas, se curaba de
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Un pio autore, nel concludere la narrazione della vita di San Simeone Stilita, scrive: «Questa vita è più degna d’ammirazione che di imitazione», e Teresa di Gesù, nel paragrafo III del capitolo XIII della sua Vita, scrive che: «il demonio ci dice o ci fa capire che le cose dei santi sono da ammirare, ma non tali che possiamo farle anche noi peccatori», ad anche lei lo ripete, ma aggiunge che: «dobbiamo distinguere quali sono da suscitare stupore e quali da spingere all’imitazione». E così si potrebbe credere che la penitenza di Don Chisciotte nella Sierra Morena sia più degna di ammirazione che di imitazione. Ma vi dico che dalla stessa fonte da cui scaturiscono le sue più grandi imprese, emerge anche quella degli sgambetti per aria, dato che sono inseparabili le une dalle altre. Quelle follie accesero il suo amore per Dulcinea, e quell’amore fu per lui la bussola e la molla per l’azione. Il bello è il superfluo, ciò che ha in se stesso il proprio fine: il fiore della vita. E quegli sgambetti in aria sono bellissimi, perché non hanno altro fine che quelli di essere fatti, per quanto, in fondo, un altro fine lo avessero: un fine di auto-educazione. Statemi a sentire; vi voglio narrare una parabola. Vennero due mietitori per mietere l’erba in un campo. L’uno, avido di mietere molto, cominciò a tagliare senza preoccuparsi di affilarne la lama e, poco dopo, sbreccata la lama e smussato il filo, piegava sì l’erba, ma senza tagliarla. L’altro, invece, desideroso di falciare bene, trascorse quasi tutta la mattinata ad affilare il suo arnese, così che, al calar della sera né l’uno, né l’altro avevano guadagnato la propria giornata. Così c’è chi si preoccupa di agire senza affilare, né levigare la propria volontà e il proprio slancio, e chi passa la vita in affilature e levigature, preparandosi a vivere, e così lo coglie la morte. È dunque necessario falciare e affilare la falce, agire e prepararsi all’azione. Senza una vita interiore non ve ne può essere una esteriore. E quegli sgambetti semplicemente in aria, e quelle preghiere e quelle incisioni sulle cortecce degli alberi, i sospiri e le invocazioni sono un esercizio spirituale per assaltare mulini, infilzare agnelli, sconfiggere biscaglini, liberare galeotti ed esserne lapidati. Lassù, in quella solitudine e con quegli sgambetti, Don
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las burlas del mundo, burlándose de él, y desahogaba su amor; allí cultivaba su locura heroica con desatinos en seco. En tanto tomó Sancho el camino del Toboso, y al llegar a la venta en que lo mantearon topó con el cura y el barbero de su lugar. Los cuales, no bien le vieron, preguntáronle por Don Quijote y dónde quedaba, y Sancho, guiado por un certero instinto, intentó ocultarlo. Y ¡qué bien comprendías, fiel escudero, que los mayores enemigos del héroe son sus propios deudos y parientes, los que le quieren con el cariño de la carne! No le quieren por él ni por su obra, sino quiérenle para ellos. No le quieren por su obra, que es su alma y su razón de ser; no le quieren en la eternidad, sino en el tiempo. Cuenta Marcos el evangelista, en el capítulo III de su Evangelio, que cuando Jesús había elegido sus apóstoles estaba rodeado de mucha gente, que ni aún podían comer pan (ver. 20), y al oirlo los suyos, los de su familia, su madre y hermanos, fueron a prenderle diciendo: «está fuera de si»; esto es, está loco (ver. 21), y al decirle al Maestro: «He ahí tu madre y tus hermanos que te buscan fuera», respondió diciendo: «¿Quién, mi madre y mis hermanos? He aquí mi madre y hermanos – y miró a los que le rodeaban –: quien hiciere la voluntad de Dios, ese es mi hermano y mi hermana y mi madre» (vers. 31 a 35). Para nadie es más loco el héroe, el santo, el redentor, que para su propia familia, para sus padres y hermanos. El cura y el barbero obraban, al querer reducir a Don Quijote a su casa, conforme al corazón del ama y la sobrina del hidalgo, que le creian fuera de sí. Pero los sobrinos de Don Quijote son quienes se encienden en su hidalga caballerosidad, son sus parientes en espíritu. El héroe acaba por no poder tener amigos; por ser a la fuerza un solitario. Bien hizo, pues, Sancho, en querer ocultar al cura y al barbero dónde paraba su amo, pero no le valió la treta, porque como estaba solo, sin el amparo de su señor, le atacaron por el miedo y le hicieron cantar de plano. Y lo cantó todo, asombrando a los veci-
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Chisciotte si curava le beffe del mondo, burlandosene a sua volta, e sfogava il suo amore; lassù coltivava la sua eroica follia con stravaganze a freddo. Intanto Sancio aveva preso la via del Toboso e, quando arrivò all’osteria dove l’avevano sballottato sulla coperta, si imbatté nel prete e nel barbiere del suo paese. I quali, non appena l’ebbero visto, gli chiesero notizie di Don Chisciotte e dove fosse; ma Sancio, guidato da un sicuro istinto, tentò di nasconderglielo. Come capivi bene, fedele scudiero, che i maggiori nemici degli eroi sono i suoi stessi parenti e conoscenti, coloro che lo amano con l’affetto della carne! Non lo amano né per lui stesso, né per le sua azioni, lo amano per se stessi. Non l’amano per le sue azioni, che sono la sua anima e la sua ragion d’essere; non lo amano nell’eternità ma nel tempo. Racconta l’evangelista Marco nel capitolo III del suo Vangelo che, quando Gesù aveva scelto i suoi apostoli, era circondato da tanta gente che nemmeno potevano mangiare pane (versetto 20); e che, quando lo seppero i suoi, quelli della sua famiglia, la madre e i fratelli, andarono a prenderlo, dicendo: «È fuori di sé», intendendo: è folle (versetto 21); e quando dissero al Maestro: «Ecco tua madre e i tuoi fratelli che ti cercano», rispose dicendo: «Chi, mia madre e i miei fratelli? Ecco mia madre e i miei fratelli», e guardò coloro che lo circondavano: «chi avrà fatto la volontà di Dio, colui è mio fratello, e mia sorella e mia madre» (versetti 31-35). Per nessuno l’eroe, il santo, il redentore è più pazzo che per la sua stessa famiglia, per i suoi genitori ed i suoi fratelli. Il prete e il barbiere si adoperavano, nel voler ricondurre Don Chisciotte a casa sua, secondo il cuore della nipote e della governante che lo ritenevano fuori di sé. Ma i nipoti di Don Chisciotte sono coloro che si entusiasmano per la sua generosa e nobile cavalleria, sono suoi parenti in spirito. L’eroe finisce per non poter avere amici; per essere per forza un solitario. Fece bene, dunque, Sancio a cercar di nascondere al prete e al barbiere dove si trovava il suo padrone; ma non gli giovò l’astuzia, perché, siccome era solo, senza la protezione del suo padrone, lo assalirono con la paura e lo fecero cantare facilmente. E cantò e snocciolò tutto, facendo strabiliare i vicini che
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nos, que «se admiraron de nuevo considerando cuán vehemente había sido la locura de Don Quijote, pues había llevado tras si el juicio de aquel hombre». ¿Vehemente? Más que vehemente: contagiosa con el contagio del heroísmo. Y no puede ni debe llamarse pobre hombre a quien tan rico de espíritu se iba haciendo con solo haber entrado a servir a tal caballero. «No quisieron cansarse en sacarle del error en que estaba – agrega el historiador –, pareciéndoles que, pues que no le dañaba nada la conciencia, mejor era dejarle en él y a ellos les sería de más gusto oír sus necedades». Ved cómo toman estos dos mundanos cura y barbero las cosas de Sancho; le dejan en lo que creen su error y era su fe en el heroísmo, para sacar gusto de oír las que reputan sus necedades. Haced luego nada heroico o decid nada sutil o nuevo para dar gusto a los que os lo tomarán como meras ingeniosidades. Presumo que leerán estos mis comentaríos no pocos curas y barberos manchegos, o que me parecían serio, y hasta llego a sospechar que los más de los que me los lean andarán más cerca que de otra cosa de aquellos cura y barbero y creerán bueno dejarme en los que juzguen mis errores para sacar gusto de mis necedades. Dirán, como si lo oyera, que solo busco y rebusco ingeniosas paradojas para hacerme pasar por original, pero yo solo les digo que, si no ven ni sienten todo lo que de pasión y encendimiento de ánimo y hondas inquietudes y ardorosos anhelos pongo en estos comentaríos a la vida de mi señor Don Quijote y de su escudero Sancho y he puesto en otras de mis obras, si no ven ni sienten eso, digo, los compadezco con toda la fuerza de mi corazón y los tengo por unos miserables esclavos del sentido común y unos espíritus aparenciales que se pasean entre sombras recitando de coro las viejas coplas de Calaínos.
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«si meravigliarono nuovamente considerando quanto veemente aveva dovuto essere la pazzia di Don Chisciotte per aver potuto contagiare il senno di quel povero uomo». Veemente? Più che veemente; contagiosa, del contagio dell’eroismo. E non si può e non si deve chiamare «povero uomo» colui che stava diventando così ricco nello spirito soltanto per essersi messo al servizio di un simile cavaliere. «Non vollero darsi la briga – prosegue il narratore – di toglierlo dall’errore in cui era, sembrando loro che, dal momento che la sua coscienza non ne aveva alcun danno fosse meglio lasciarcelo, e per loro sarebbe stato più piacevole sentire le sue scempiaggini». Osservato con quanta leggerezza considerano le cose di Sancio quei due uomini di mondo, il prete ed il barbiere; lo lasciano in quello che ritenevano il suo errore ed era invece la sua fede nell’eroismo, per sollazzarsi ascoltando quelle che reputavano le sue scempiaggini. Mettetevi dunque a fare qualcosa di eroico e a dire qualcosa di sottile o di nuovo per compiacere coloro che prenderanno l’una e l’altra cosa per mera ingegnosità e spiritosaggine! Presumo che leggeranno questi miei commenti non pochi preti e barbieri manceghi o che tali meriterebbero di essere, e giungo perfino a sospettare che la maggior parte di coloro che me li leggeranno somiglieranno più che a chiunque altro a quel prete e a quel barbiere, e riterranno opportuno lasciarmi in quelli che stimeranno i miei errori per sollazzarsi con le mie scempiaggini. Diranno – mi sembra quasi di sentirli – che mi affanno a cercare soltanto ingegnosi paradossi, tanto per spacciarmi per originale; ma io ho una sola cosa da dire loro, ed è che, se non vedono e non sentono quanta passione e quanto ardore d’animo e che profonde inquietudini e che ardenti ansie metto in questi commenti alla vita del mio signor Don Chisciotte e del suo scudiero Sancio – e altrettanti ne ho messi in altre opere –, se non vedono e sentono tutto ciò, li compatisco con tutte le forze del mio cuore e li considero miserabili schiavi del senso comune, e spiriti attenti solo alle apparenze, che si aggirano tra ombre recitando in coro le vetuste strofe di Calaínos.
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Y me encomiendo a nuestra señora Dulcinea, que dará al cabo cuenta de ellos y de mí. En acabando de leer esto se sonreirán también murmurando: ¡Paradojas! iNuevas paradojas! ¡Siempre paradojas! Pero venid acá, espíritus alcomoquenos, hombres de dura cerviz, venid y decidme, ¿qué entendéis por paradoja y queréis decir con eso? Sospecho que os queda otra dentro, desgraciados rutineros del sentido común. Lo que no queréis es remejer el poso de vuestro espíritu ni que os lo remejan; lo que rehusáis es zahondar en los hondones del alma. Buscáis la estéril tranquilidad de quien descansa en instintos externos, depositaríos de dogmas; os divertis con las necedades de Sancho. Y llamáis paradoja a lo que os cosquillea el ánimo. Estais perdidos, irremisiblemente perdidos; la haraganería espíritual es vuestra perdición.
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E mi raccomando alla nostra signora Dulcinea che alla fine potrà far vedere a tutti chi sono essi e chi sono io. Quando avranno finito di leggere queste frasi, sorrideranno ancora, mormorando: «Paradossi! Ancora paradossi! Sempre paradossi!». Ma venite qui, spiriti fatti di sughero, uomini di dura cervice; venite e ditemi; che cosa intendete con “paradosso” e che cosa volete dire con le vostre parole? Sospetto che ve ne rimanga qualcuna nel gozzo, di questi paradossi, sventurati pappagalli del senso comune! Quel che volete è che lascino stagnare il pozzo del vostro spirito, senza smuoverlo; quel che non volete è che si scenda nel profondo della vostra anima. Cercate la sterile tranquillità di chi si adagia in istinti esteriori, depositari di dogmi; vi distraete con le scempiaggini di Sancio. E chiamate paradosso ciò che vi solletica l’animo. Siete perduti, irrimediabilmente perduti; la pigrizia spirituale è la vostra perdizione.
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de cómo salieron con su intención el cura y el barbero, con otras cosas dignas de que se cuenten en esta grande historia Yvolviendo a nuestra historia os recordaré, pues cuantos me leéis la conocéis ya, lo ideado por el cura y el barbero para sacar a Don Quijote de aquella penitencia, que juzgando curi-barberilmente estimaban inútil, visdéndose el cura en hábito de doncella andante, ya que los curas acostumbran a vestirse, como las doncellas y las que lo fueron, por la cabeza, y de escudero el rapa-barbas, e irse así «adonde Don Quijote estaba, fingiendo ser ella una doncella afligida y menesterosa» y todo lo demás que se nos cuenta al respecto, para sacar a Don Quijote de Sierra Morena y llevarle a su casa. Y así, disfrazado de doncella el cura, montado en una mula a mujeriegas y con el barbero, con su cola de buey por barba, fueron a seducir al Caballero. Y al poco cayó el cura en la cuenta de lo indecente que para su carácter era tal mojiganga y cambiaron los papeles. Le caia mejor barba de cola de buey que no vestido de doncella. Y engañaron a Sancho, al sencillo y fiel Sancho, para que no vendiese a su amo dandole barbero por doncella andante.
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come il curato ed il barbiere riuscirono nel loro intento ed anche di altre cose degne di essere narrate in questa grande storia Ma, tornando alla nostra storia, vi ricorderò, giacché tutti coloro che mi leggono già lo sanno, ciò che idearono il curato ed il barbiere per strappare Don Chisciotte a quella penitenza che, a giudizio di un prete e di un barbiere, ritenevano inutile, travestendosi il curato da donzella errante, giacché i preti sogliono abbigliarsi – come le donzelle e gli altri che già lo erano stati – cominciando dalla testa, e il barbiere da scudiero per andarsene così conciati là «dove era Don Chisciotte, fingendo lei di essere una donzella bisognosa di soccorso», con tutto il resto che ci viene raccontato a tal proposito, con l’intento di portar via Don Chisciotte dalla Sierra Morena e ricondurlo a casa sua. E così il curato travestito da donzella ed in sella ad una mula, seduto di traverso come le donne, e il barbiere con la sua coda di bue per barba, partirono per andare a sedurre il Cavaliere. Ma in breve il curato si rese conto che qualsiasi travestimento era indecente per il suo ruolo, e si scambiarono le parti. Gli stava meglio la coda di bue che non l’abito di donzella. E trassero in inganno Sancio, l’ingenuo e fedele Sancio, affinché tradisse il padrone offrendogli un barbiere in cambio di una donzella errante.
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que trata de la nueva y agradable aventura que al cura y al barbero sucedió en la misma Sierra Mas ni aun esto fue menester, porque la suerte les deparó a la hermosa Dorotea – casi todas las damas que figuran en esta historia son hermosas –, que se prestó a hacer el papel de doncella menesterosa, princesa Micomicona, y tan al vivo se atavió para ello que cayó en el lazo el incauto Sancho. Estaba a todo esto Don Quijote en camisa, flaco, amarillo, muerto de hambre y suspirando por su señora Dulcinea. Ya vestido le encontró la princesa Micomicona; hincose de hinojos ante él; pidiole Don Quijote que se levantara, rehusó ella hacerlo hasta que se le otorgara el don que pediría, siéndole de antemano otorgado por el Caballero, como no hubiera de cumplirse en daño o mengua de su rey, de su patria y de aquello que de su corazón y libertad tenía la llave. Esto es prometer con cautela y sin comprometerse. Pidiole entonces la princesa se fuera con ella sin entrometerse en otra aventura hasta vengarla de un traidor que le tenía usurpado el reino, ¿Don Quijote le aseguró podía desechar toda melancolía, pues con la ayuda de Dios y la de su brazo veríase ella presto restituida a su reino. Si Dios movía el brazo del Caballero, sobraba la segunda ayuda.
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che tratta della nuova e piacevole avventura capitata al curato e al barbiere nella Sierra Morena Ma neanche di questo ci fu bisogno, perché la sorte volle farli imbattere nella bella Dorotea – quasi tutte le donne che figurano in questa storia sono belle – che si prestò a fare la parte di donzella bisognosa d’aiuto, della principessa Micomicona, e con tanta verosimiglianza si abbigliò a tale scopo, che l’incauto Sancio cadde nella trappola. Mentre accadevano tutte queste cose, Don Chisciotte se ne stava in camicia, magro, giallognolo e morto di fame, a sospirare per la sua signora Dulcinea. Si era però già rivestito, quando lo incontrò la principessa Micomicona; gli si inginocchiò davanti; Don Chisciotte la supplicò di rialzarsi; e lei si rifiutò di farlo fino a quando non le avesse promesso di concederle ciò che gli avrebbe richiesto. Il Cavaliere glielo concesse in anticipo, a patto tuttavia che ciò non arrecasse danno o pregiudizio al suo re, alla sua patria o a colei che aveva le chiavi del suo cuore e della sua libertà. Questo si chiama promettere con cautela e senza sbilanciarsi. Allora la principessa gli chiese di andare con lei senza impegolarsi in nessun’altra avventura prima di averla vendicata di un traditore che le aveva usurpato il regno; e Don Chisciotte le garantì che poteva fin da allora mettere al bando ogni malinconia, poiché con l’aiuto di Dio e del suo braccio si sarebbe ben presto vista riposta sul trono. Se Dio non guidava il braccio del prode Cavaliere, il secondo
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Quiso la princesa besarle las manos, no lo consintió él, que «en todo era comedido y cortés caballero», y se aprestó a seguirla. Aquí hay que admirar cómo unía y juntaba en uno Don Quijote su fe en Dios y su fe en sí mismo al decir a la princesa lo que le dijo de cómo se vería presto restituida a su reino y sentada en la silla de su antiguo y grande estado, a pesar y a despecho de los follones que contradecirlo quisieren. Y es que no hay fe en sí mismo como la del servidor de Dios, pues este ve a Dios en sí; como la fe del que, cual Don Quijote, si bien llevado del cebo de la fama, busca ante todo el reino de Dios y su justicia. Dásele todo lo demás por añadidura y a la cabeza de todo lo demás fe en sí mismo, necesaria para obrar. Encontrándose los PP. Laínez y Salmerón con grandes dificultades de parte de la Señoría de Venecia para fundar el Colegio de Padua, y temiendo por desahuciado el negocio, escribió Laínez a Íñigo de Loyola «en qué términos estaba, pidiéndole que para que Nuestro Señor le diese buen suceso, dijese una misa por aquel negocio, porque él no hallaba otro remedio. Dijo el Padre la misa, como se le pedía, el mismo día de la Natividad de Nuestra Señora, y acabada, escribió a Laínez: “Ya hice lo que me pedistes; tened buen ánimo y no os dé pena este negocio, que bien lo podéis tener por acabado como deseáis”. Y así fue». (Rivadeneira, libro III, cap. VI). Y viene lo triste de la aventura de Don Quijote, y es que entretanto «estábase el barbero aún de rodillas teniendo gran cuenta de disimular la risa y de que no se le cayese la barba, con cuya caída quizá quedaron todos sin conseguir su buena – según Cervantes – intención». Hasta aquí todas han sido aventuras de las que la suerte le procuraba al hidalgo al azar de los caminos y veredas, aventuras naturales y ordenadas por Dios para su gloria; más ahora empiezan las que le armaron los hombres y con ellas lo más recio de su carrera. Ya tenemos al héroe siendo, en cuanto héroe, juguete de los hombres y motivo
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aiuto sarebbe stato superfluo. La principessa cercò di baciargli la mano, ma il nostro hidalgo che «in ogni cosa era gentile e cortese cavaliere», non lo consentì e s’apprestò a seguirla. Sarà qui opportuno ammirare il modo in cui Don Chisciotte univa la sua fede in Dio e la sua fede in se stesso, quando diceva alla principessa come ben presto si sarebbe rivista insediata di nuovo nel suo regno e assisa sul trono del suo grande e antico stato, malgrado e a dispetto degli sciocchi che avessero avuto intenzione di impedirlo. E ciò perché non c’è fede in se stesso più forte di quella del servo di Dio, poiché questi vede Dio in se stesso; più forte della fede di chi, come Don Chisciotte, pur attratto dall’esca della fama, ricerca anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia. Tutto il resto è in sovrappiù; ma prima di ogni cosa c’è la fede in se stesso che è necessaria per agire. I Padri Laínez e Salmerón, incontrando grandi difficoltà da parte della Signoria di Venezia per fondare il Collegio di Padova, e ritenendo ormai vano ogni sforzo per portare a compimento tale opera, Laínez scrisse a Ignazio di Loyola: «a che punto stavano le cose, pregandolo di dire una messa al fine di ottenere da Dio che gli concedesse il successo, poiché egli non vi trovava altro rimedio». Il Padre disse la messa, secondo quanto gli era stato chiesto, proprio il giorno della Natività della Madonna; e, una volta che ebbe finito di celebrarla, scrisse a Laínez: «Ho già fatto quello che mi avete chiesto; state di buon animo e non vi affliggete per questa faccenda, poiché potete ormai considerarla condotta a termine secondo i vostri desideri. E così avvenne» (Rivadeneira, libro III, capitolo VI). Ma ora viene la parte più triste dell’avventura di Don Chisciotte, ed è che mentre «il barbiere era ancora in ginocchio, facendo attenzione a non dissimulare le risa e a non farsi cadere la barba, perché se fosse caduta, forse non avrebbero raggiunto il loro buon intento», secondo Cervantes. Finora si è trattato di avventure accadute per caso al nostro hidalgo, quasi a casaccio, per strade e sentieri, avventure naturali e predisposte da Dio per la sua gloria; ma ora incominciano quelle che gli preparano gli uomini, e con ciò la parte più dura della sua carriera. Ormai vediamo l’eroe divenuto, proprio in quanto eroe, zimbello degli
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de risa; ya está la compañía de los hombres en campaña contra él. El barbero disimula la risa para no ser conocido. Sabe que la risa, arrancándonos la máscara de la seriedad, barba tan quitadiza como postiza es, nos pone al descubierto. Empieza ahora, digo, lo triste de la carrera quijotesca. Sus más hermosas y más espontáneas aventuras quedan ya cumplidas; en adelante las más de ellas lo serán ya de tramoya y armadas por hombres maliciosos. Hasta aquí desconocía el mundo al héroe, y este, a su vez, trataba de hacérselo a su antojo; ahora el mundo le conoce y le acepta, más para buriarse de él, y siguiéndole el humor, fraguarle a su antojo. Ya estás, mi pobre Don Quijote, hecho regocijo y perindola de barberos, curas, bachilleres, duques y desocupados de toda laya. Empieza tu pasión, y la más amarga: la pasión por la burla. Mas por esto mismo ganan tus aventuras en profundidad lo que en arrojo pierden, porque concurre a ellas, sea como fuere, y de un modo o de otro, el mundo. Quisiste hacer del mundo tu mundo, enderezando entuertos y asentando la justicia en él; ahora el mundo recibe a tu mundo como a parte suya, y vas a entrar en la vida común. Te desquijotizas algo, pero es quijotizando a cuantos de ti se burlen. Con la risa los llevas tras de ti, te admiran y te quieren. Tú harás que el bachiller Sansón Carrasco acabe por tomar en veras sus burlas y pase de pelear por juego a pelear por honra. Déjale, pues, al barbero que se sotorría bajo sus barbas postizas. «He aquí el hombre», dijeron en burla a Cristo Nuestro Señor; «he aquí el loco», dirán de ti, mi señor Don Quijote, y serás el loco, el único, el Loco. Y Sancho, el pobre Sancho, sabedor en gran parte de la farsa, pues vio tras bastidores y entre bambalinas preparar la
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uomini e oggetto di risa; ormai l’esercito degli uomini è sceso in campo contro di lui. Il barbiere dissimula le risa per non essere riconosciuto. Sa che le risa, strappandoci la maschera della serietà, che è una barba posticcia e facilmente rimovibile, ci lasciano allo scoperto. Incomincia a questo punto, dicevo, la parte più triste della carriera chisciottesca. Le sue più belle e più spontanee avventure sono ormai giunte a compimento; d’ora in poi la maggior parte di esse celeranno un trucco e saranno messe in piedi da uomini maligni. Fino a questo momento il mondo non conosceva l’eroe, e questi, a sua volta, tentava di forgiarsene uno a modo suo; ora invece il mondo lo conosce e l’accetta, ma solo per burlarsi di lui e, seguendone l’umore, per plasmarlo a suo piacimento. Ormai, mio povero Don Chisciotte, sei diventato passatempo e zimbello di barbieri, curati, baccellieri, duchi e sfaccendati d’ogni genere. È la tua passione che inizia, la più amara: la passione delle beffe. Ma proprio per questo le tue avventure acquistano in profondità tanto quanto perdono in slancio, perché vi concorre ora, comunque sia e in un modo o nell’altro, il mondo. Hai voluto fare del mondo il tuo mondo, raddrizzando torti e ristabilendo in esso la giustizia; ora è il mondo che accoglie il tuo mondo come una sua parte, e così ti toccherà entrare nella vita comune. Ti schisciottizzi alquanto, ma lo fai chisciottizzando a tua volta tutti coloro che si fanno burla di te. Con le risa te li trascini dietro; ti ammirano e ti amano. Tu farai sì che il baccelliere Sansone Carrasco finisca col prendere sul serio le sue burle e, dopo aver combattuto con te per gioco, venga a combatterti per il proprio onore. Lascia dunque che il barbiere sogghigni dietro la sua barba posticcia: «Ecco l’uomo», dissero in tono di burla a Cristo Nostro Signore; «Ecco il pazzo», diranno di te, mio signor Don Chisciotte, e sarai davvero il pazzo, l’unico, il Folle. E Sancio, il povero Sancio, che in gran parte era consapevole della beffa, poiché aveva visto, dietro le quinte e col sipario
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comedía, creía, sin embargo, con fe heroica, en el reino de Micomicón, y aún soñaba con traer de él negros y venderlos para enriquecerse. ¡Oh fe robusta! Y no se nos diga que se la atizaba la codicia, no; sino que era, por el contrario, su fe la que le despertaba la codicia. Hízose entonces el cura el encontradizo, saludó a su vecino Alonso Quijano como a su buen compatriota Don Quijote de la Mancha, «la flor y nata de la gentileza…, la quintaesencia de los caballeros andantes», consagrándole así juguete de sus convecinos, y el ingenioso hidalgo, así que le hubo conocido, intentó apearse, ya que el cura estaba en pie. Rendía parias al burlador, pues era este, al fin y al cabo, el cura de almas de su pueblo. Un contratiempo hizo que se le cayeran las postizas barbas al barbero, y el cura acudió a pegárselas con un ensalmo «de que se admira Don Quijote sobremanera y rogó al cura que cuando tuviese lugar le enseñase aquel ensalmo». ¡Ay, mi pobre Caballero, y cómo empieza a obrar en ti la tramoya en que los burladores te envuelven! Ya no inventas tu las maravillas, te las inventan. Mas no contento el cura con su papel de burlador, quiso tomar el de reprensor también y enderezó una agria reprimenda al hombre valiente que libertó a los galeotes, fingiendo no conocerlo. Y el Caballero, «al cual se le mudaba la color a cada palabra», callaba, sin darse por aludido, pues era al fin su cura, su confesor el que hablaba.
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calato, preparare tutta la commedia, credeva tuttavia con eroica fede nel regno di Micomicona, e sognava perfino di portarvi dei neri e di venderli per arricchirsi. O fede incrollabile! E non ci si venga a dire che la cupidigia lo spronava, niente affatto; era invece, proprio al contrario, la sua fede che ridestava in lui la cupidigia. Allora si fece avanti il curato, e salutò il suo vicino Alonso Chisciano come il suo buon compatriota Don Chisciotte della Mancia, «il fior fiore della signoria…la quintessenza dei cavalieri erranti», consacrandolo così a zimbello dei suoi vicini; e l’ingegnoso hidalgo, non appena l’ebbe riconosciuto, volle smontare da cavallo, visto che il curato era a piedi. Rendeva omaggio al beffeggiatore, perché questi era, in definitiva, il pastore delle anime del suo villaggio. Un contrattempo fece sì che al barbiere cadesse la barba posticcia, e il curato corse a riappiccicargliela con un certo incantesimo speciale, «del che si meravigliò oltremodo Don Chisciotte e pregò il curato che, a suo comodo, glielo insegnasse». Oh, mio povero Cavaliere, come incomincia ad agire anche su di te la rete di inganni in cui ti avvolgono gli schernitori! Ormai non sei più tu ad inventare le meraviglie; sono gli altri che te le inventano. Ma, non contento il curato della parte che aveva assunto di beffeggiatore, volle addossarsi anche quella di rigido censore, e rivolse un’aspra reprimenda al prode uomo che aveva liberato i galeotti, fingendo di ignorare chi fosse stato. E il Cavaliere, «che cambiava colore ad ogni parola», se ne stava zitto, come se non si parlasse di lui, poiché in fin dei conti, era sempre il suo curato, il suo confessore che parlava.
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que trata de la discreción de la hermosa Dorotea, con otras cosas de mucho gusto y pasatiempo Y hubiera callado del todo si Sancho no lo delata y dice que fue su amo quien dio la libertad a aquellos grandísimos bellacos. Había hablado su hombre, el que para él era su mundo. «Majadero – dijo a esta sazón Don Quijote –, a los caballeros andantes no les toca ni atañe averiguar si los afligidos, encadenados y opresos que se encuentran por los caminos van de aquella manera o están en aquella angustia por sus culpas o por sus gracias; solo les toca ayudarles como a menesterosos, poniendo los ojos en sus penas y no en sus bellaquerías», con todo lo demás que añadió retando a quien le pareciese mal lo que había hecho, salva la santa dignidad del señor licenciado. Admirable respuesta, y digna corona a las razones que expuso al libertar a los galeotes. Natural era que el cura, como los demás curas con que en el curso de su obra topó el hidalgo, discurriera por lo mundano y terrestre, que al fin los mundanos y terrestres le pagaban para que hiciese de cura, mas a Don Quijote cumplíale sentir por lo divino y celestial. ¡Oh, mi señor Don Quijote, y cuándo llegaremos a ver en cada galeote, ante todo y sobre todo, un menesteroso, poniendo los ojos en la pena de su maldad y no en otra alguna cosa! Hasta que a la vista del más horrendo crimen no sea la exclamación que nos brote: pobre hermano! por
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che tratta della discrezione della bella Dorotea, nonché di altre cose molto piacevoli e divertenti E avrebbe continuato a tacere se Sancio non avesse svelato ogni cosa e non avesse detto che era stato il suo padrone a concedere la libertà a quei grandissimi masnadieri. Aveva parlato il suo uomo, quello che per lui era tutto il suo mondo. «Zuccone! – disse a questo punto Don Chisciotte –. Ai cavalieri erranti non tocca né spetta indagare se i miseri che, incatenati e oppressi, incontrano per le vie maestre, viaggino in tal modo o si trovino in quella determinata pena per loro colpe o per loro meriti; quello che li riguarda è soltanto di soccorrerli in quanto bisognosi, badando alle loro sofferenze e non alle loro furfanterie», con tutto quel che segue, detto con l’intenzione di sfidare chi ritenesse sbagliato ciò che aveva compiuto, salva, ovviamente, la santa dignità del signor licenziato. Mirabile risposta e degno commento dei discorsi che aveva tenuto nell’atto di liberare i galeotti. Era naturale che il curato, come tutti gli altri preti in cui si imbatté il nostro hidalgo nel corso della sua attività, ragionasse secondo i concetti mondani e terreni, perché dopo tutto era la gente mondana e terrena che lo pagava perché facesse il prete; ma Don Chisciotte doveva ragionare secondo prospettive divine e celesti. Oh, mio signor Don Chisciotte! Quando riusciremo a vedere in ciascun galeotto prima di tutto e soprattutto un bisognoso, posando lo sguardo sulla pena della sua malvagità e non su altro? Finché, alla vista anche del più orrendo delitto, l’esclamazione che ci viene spontanea alla labbra non sarà: «Povero fratello!», rivolta al criminale, signifi-
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el criminal, es que el cristianismo no nos ha calado más adentro que el pellejo del alma. Prosiguiendo en sus burlas, a seguida de esto endilgó la princesa Micomicona a Don Quijote la sarta de disparates que había urdido para justificarse. Y diose el triste caso de creérselas Don Quijote y Sancho, pues siempre el heroísmo es crédulo. Y allí fue el reír de los burladores. Don Quijote renovó sus promesas, mas no aceptó lo de casarse con la princesa, cosa que disgustó a Sancho, y tales cosas dijo este poniendo a la Micomicona sobre Dulcinea, que su amo «no lo pudo sufrir, y alzando el lanzón, sin hablarle palabra a Sancho y sin decirle esta boca es mía, le dio tales dos palos que dio con él en tierra». Este silencioso castigo, lo único serio entre tan torpes burlas, nos levanta el ánimo, y serias y muy serias fueron las razones con que Don Quijote justificó su castigo, haciendo ver que si no fuese por el valor que infundía Dulcinea en su pecho, no le tendría que matar una pulga, pues no era el valor suyo, sino el de Dulcinea, el que tornando a su brazo por instrumento de sus hazañas, llevaba estas a feliz término. Y así es en verdad que cuando vencemos es la Gloria la que por nosotros vence. «Ella pelea en mi y vence en mí, y yo vivo y respiro en ella y tengo vida y ser». ¡Heroicas palabras, que debemos llevar grabadas en el corazón! Palabras que son al quijotismo lo que al cristianismo es aquella sentencia de Pablo de Tarso: «Con Cristo estoy juntamente crucificado, y vivo; no ya yo, mas vive Cristo en mí» (Gal., II, 20). Y así es siempre en toda obra grande entre los hombres, y es que la tal obra, si ha de ser de veras grande, ha de hacerse en obsequio de hombre; de hombre o de mujer, mejor de mujer que de hombre. El fin del hombre es la humanidad, y la humanidad personalizada, hecha individuo, y cuando toma por fin a la naturaleza es humanizándola antes. Dios es el ideal de la humanidad, el hombre proyectado al infinito y eternizado en él. Y así tiene que ser. ¿Por qué habláis de error antropocéntrico? ¿No
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cherà che il cristianesimo non è penetrato in noi più in là della superficie dell’anima. Proseguendo nella beffa, subito dopo la principessa Micomicona snocciolò a Don Chisciotte l’elenco di balordaggini che aveva ordito per giustificare il suo modo d’agire. E si diede il deplorevole caso che Don Chisciotte e Sancio credettero a tutto, perché l’eroismo è sempre credulo. Allora sì, che gli schernitori ebbero da ridere! Don Chisciotte rinnovò le sue promesse, ma non volle saperne di sposare la principessa, il che infastidì Sancio; e quest’ultimo arrivò a dire tante cose per porre Micomicona al di sopra di Dulcinea, che il suo padrone «non poté tollerare e levando alta la gran lancia, senza dire a Sancio una parola, gli assestò due colpi da farlo stramazzare a terra». Questo silenzioso castigo, l’unica cosa seria tra tante sconce burle, ci solleva lo spirito; e serie, serissime furono le ragioni che Don Chisciotte portò per giustificare quel castigo, mostrando chiaramente che, se non fosse stato per il valore che Dulcinea gli infondeva nel petto, non ne avrebbe avuto tanto da ammazzare una pulce; poiché non era il suo valore, bensì quello di Dulcinea che, prendendo il suo braccio come strumento delle varie imprese, le portava a buon esito. E così è veramente: quando vinciamo, è la Gloria che vince per noi. «Essa combatte in me e vince in me; io vivo e respiro in essa e ne ricevo vita ed essere». Eroiche parole, che dovremmo portare eternamente scolpite nel cuore! Parole che stanno al chisciottismo come sta al cristianesimo la sentenza di Paolo di Tarso: «Insieme con Cristo io sono crocifisso e vivo; ma non sono io che vivo, bensì è Cristo che vive in me» (Gal., II, 20). E così avviene sempre in ogni grande opera tra gli uomini; ed è perché quell’opera, se dev’essere realmente grande, dev’essere fatta a beneficio di un uomo; di un uomo o di una donna, e magari piuttosto di una donna che di un uomo. Il fine dell’uomo è l’umanità, è l’umanità, personificata, fatta individuo; e quando sceglie come fine la natura, lo fa dopo averla umanizzata. Dio è l’ideale dell’umanità, è l’uomo proiettato all’infinito e reso eterno in Lui. E così dev’essere. Perché ritenete falso l’antropocen-
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decís que una esfera infinita tiene el centro en todas partes, en cualquiera de ellas? Para cada uno de nosotros el centro está en sí mismo. Pero no puede obrar si no lo polariza; no puede vivir si no se descentra. Y ¿adónde ha de descentrarse sino tendiendo a otro como él? El amor de hombre a hombre, de hombre a mujer quiero decir, ha producido las maravillas todas. «Yo vivo y respiro en ella y tengo vida y ser». Al decir esto de tu Dulcinea, mi Don Quijote, ¿no se acordaba tu Alonso el Bueno de aquella Aldonza Lorenzo por la que suspiró doce años sin atreverse a confesarle su inmenso amor? «¡Vivo y respiro en ella!». En ella vivió y respiró y tuvo vida y ser tu Alonso el Bueno, el que llevas dentro, metido en tu locura, en ella vivió y respiró doce largos años de cruel atormentadora cordura. Con ella amasó sus recatados ensueños; de su dulce imagen, entrevista tan solo cuatro veces, bebió sus esperanzas, pues que jamás habría de sazonarse en recuerdos. En ella tuvo vida y ser, una vida oculta y silenciosa, una vida que corría bajo su espíritu como las aguas del Guadíana corren un buen trecho bajo tierra, pero regando allí, en aquellos soterraños, las raíces de las futuras hazañas de su carrera. ¡Oh mi Alonso el Bueno, vivir y respirar en Aldonza, sin que ella lo sepa ni se dé cata de ello, tener la vida y el ser en la dulce imagen que alimenta el alma! Mas no se dio por vencido el carnal Sancho, sino que insistió en lo de que su amo se casase con la princesa, quedándole libre el amancebarse luego con Dulcinea. ¿Qué has dicho, Sancho, qué has dicho? ¡No sabes cómo atravesando el alma de Don Quijote has llegado a herir la hebra más sensible del corazón de Alonso Quijano! Además, Dulcinea no admite partijas ni aparcerías, y quien la quiera toda entera ha de entregarse todo y entero a ella. Muchos hay que pretenden casarse con la Fortuna y amancebarse con la Gloria, pero así les va, pues aquella les araña de celos y esta se burla de ellos, hurtándoseles.
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trismo? Non dite che una sfera infinita ha il suo centro in ogni punto, qualunque esso sia? Per ognuno di noi, il centro si trova in se stesso. Ma non può agire se non lo polarizza; non può vivere se non si decentra. E in che direzione dovrebbe decentrarsi se non tendendo verso un altro come lui? L’amore da uomo ad uomo o, per meglio dire, da uomo a donna, ha prodotto tutte le cose meravigliose del mondo. «Io vivo e respiro in lei e da lei ho vita ed essere». Quando dici questo della tua Dulcinea, mio Don Chisciotte, non ripensava forse il tuo Alonso il Buono a quella Aldonza Lorenzo per la quale aveva sospirato per dodici anni senza mai osare rivelarle il suo immenso amore? «Vivo e respiro in lei!». In lei visse, respirò ed ebbe vita ed essere il tuo Alonso il Buono, che porti dentro di te, incarnato nella tua follia; in lei visse e respirò dodici lunghi anni di crudele e tormentata saggezza. Di lei impastò i suoi reconditi sogni; dalla sua dolce immagine, intravvista soltanto quattro volte, alimentò le proprie speranze, poiché non si sarebbero giammai maturate in ricordi. In lei ebbe vita ed essere, una vita che fluiva nascosta sotto il suo spirito come le acque del Guadiana scorrono per un buon tratto sotto terra, ma tuttavia abbeverando nel loro corso sotterraneo, le radici delle future imprese della sua carriera. Oh, mio Alonso il Buono, vivere e respirare in Aldonza senza che lo sappia, né s’avveda di nulla; avere la vita e l’essere nella dolce immagine che alimenta l’anima! Ma non si dette per vinto il carnale Sancio; perché anzi insistette nell’idea che il suo padrone si sposasse con la principessa, restando poi libero di prendersi Dulcinea come amante. Che cosa hai detto, Sancio, cosa hai detto? Non sai che, trafiggendo l’anima di Don Chisciotte, sei arrivato a ferire le fibre più sensibili del cuore di Alonso Chisciano! E poi Dulcinea non ammette compromessi, né mezzadrie; e chi l’ama tutta intera, deve abbandonarsi interamente a lei. Vi sono molti che pretendono di accasarsi con la Fortuna e di tenersi per amante la Gloria, ma non raggiungono lo scopo, perché quella li graffia per gelosia e questa si fa beffe di loro e li sfugge.
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Y siguiendo en su plática amo y escudero, acabó aquel por pedirle perdón de los palos que le diera, sabido que Sancho no vio a Dulcinea tan despacio que hubiera podido notar «su hermosura y sus buenas partes punto por punto. Pero así a bulto – añadió – me parece bien». Es la concesión que los Sanchos, cuando se les ha pegado, hacen, mintiendo, en pro de Dulcinea, a la que no han visto ni conocen. Y luego fue Sancho, instado por la princesa, a besar la mano a Don Quijote, pidiéndole perdón, y el generoso hidalgo se lo otorgó, bendiciéndole. iBenditos los palos del lanzón, Sancho amigo, que te han valido ser bendecido por tu amo! De seguro que al recibir el perdón tan redundante, diste por bueno el castigo que hizo lo merecieras. Apartáronse después amo y escudero a departir de sus cosas, y entonces recobró Sancho su asno, encontrándose lo traía Ginés de Pasamonte, disfrazado de gitano, el cual al ver a don Quijote y su escudero, puso pies en polvorosa.
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Ma poi, continuando a chiacchierare il padrone e lo scudiero, Don Chisciotte finì per chiedergli perdono delle botte che gli aveva dato, considerando che Sancio non aveva visto Dulcinea tanto tranquillamente da poter notare «in modo particolare la sua bellezza e i suoi pregi ad uno ad uno. Però – aggiunse – mi piace tutto di lei». È questa la concessione che fanno i Sanci, quando ne hanno buscato per bene, mentendo a favore di Dulcinea che non hanno mai visto né conosciuto. Quindi Sancio, spinto dalla principessa, andò a baciare la mano a Don Chisciotte, chiedendogli perdono, e il generoso hidalgo glielo concesse, dandogli per giunta la sua benedizione. Siano benedette, dunque, amico Sancio, le due botte che prendesti dalla lancia del Cavaliere, giacché ti valsero la benedizione del tuo padrone! È certo che nel ricevere quel perdono così generoso, provasti gratitudine per il castigo che ti aveva reso degno di meritarlo. Poi padrone e scudiero si appartarono per trattare delle loro faccende, e allora Sancio recuperò il suo asino; se lo tirava dietro Ginesio di Passamonte travestito da zingaro che, scorgendo Don Chisciotte e il suo scudiero, se la dette a gambe.
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de los sabrosos razonamientos que pasaron entre Don Quijote y Sancho Panza su escudero, con otros sucesos Ya seguida pasaron aquellos sabrosos razonamientos entre Don Quijote y Sancho acerca del encuentro de este con Dulcinea. Cuando Sancho dijo haberla encontrado «aechando dos hanegas de trigo en un corral de su casa», respondió Don Quijote: «Pues haz cuenta que los granos de aquel trigo eran granos de perlas tocados de sus manos», y al decir Sancho que el trigo era rubión, «pues yo te aseguro – dijo Don Quijote – que aechado por sus manos hizo pan candeal, sin duda alguna». Agregó el escudero que al recibir la carta mandó la aechadora la pusiese sobre un costal, que no la podía leer hasta que acabara de acribar lo que allí tenía, a lo cual dijo Don Quijote: «Discreta señora; eso debió de ser por leella despacio y recrearse en ella». Añadió Sancho que olía Dulcinea a hombruno, «y no sería eso – respondió Don Quijote –, sino que tú debías de estar romadizado, o te debiste de oler a ti mismo, porque yo sé bien lo que huele aquella rosa entre espinas, aquel lirio del campo, aquel ámbar desleido». Dijo luego Sancho que Dulcinea, no sabiendo leer ni escribir, rasgó y desmenuzó la carta en piezas, por que «no se supiese en el lugar sus secretos», bastandole lo oído al escudero sobre las penitencias de su amo, y diciéndole quería ver a este y se pusiese camino del Toboso. Cuando Sancho res-
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dove si parla dei gustosi ragionamenti tra Don Chisciotte e Sancio Panza, suo scudiero, e di altri avvenimenti Subito dopo si svolse tra Don Chisciotte e Sancio questa gustosa conversazione intorno all’incontro dello scudiero con Dulcinea. Quando Sancio disse che l’aveva incontrata intenta a « vagliare due staia di grano in un cortile di casa sua», gli replicò Don Chisciotte: «Ora immagina che i chicchi di quel grano fossero chicchi di perle, toccati dalle sue mani»; e dicendogli Sancio che il frumento era «biondiccio; ebbene io ti assicuro – rispose Don Chisciotte – che, vagliato dalle sue mani, dette pane bianco, non c’è alcun dubbio». Soggiunse lo scudiero che, nel ricevere dalle sue mani la lettera, la vagliatrice gli aveva detto di posarla su un sacco, poiché non l’avrebbe potuta leggere finché non avesse finito di stacciare quello che aveva tra le mani; e a ciò rispose Don Chisciotte: «Che saggia dama! Fece ciò per leggerla con tranquillità e ricavarne diletto». Riprese Sancio a dire che Dulcinea aveva un certo odore simile al maschio; ma Don Chisciotte ribatté: «Ciò non poteva essere; ma tu piuttosto dovevi essere reumatizzato, oppure dovesti fiutare te stesso; perché so bene di che odora quella rosa fra le spine, quel giglio del campo, quell’ambra dissolta». Sancio riprese ancora a dire che Dulcinea, non sapendo né leggere né scrivere, aveva strappato e ridotto a pezzettini la lettera affinché «nel paese non si sapessero i suoi segreti», tanto più che le bastava quanto aveva appreso dallo scudiero sulle penitenze del suo padrone, dicendogli infine che desiderava rivederlo e che perciò riprendesse la strada del Toboso. Quando poi Sancio riferì al suo padrone che
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pondió a su amo no haberle dado Dulcinea, al despedirse, joya alguna, sino un pedazo de pan y queso por las bardas del corral, «es liberal en extremo – dijo Don Quijote –, y si no te dio joya de oro sin duda debió de ser porque no la tendría allí a la mano para dartela; pero buenas son mangas después de Pascua; yo la veré y te satisfará todo». Ruego al lector relea todo este admirable diálogo, por cifrarse en él la íntima esencia del quijotismo en cuanto doctrina de conocimiento. A las mentiras de Sancho fingiendo sucesos segùn la conformidad de la vida vulgar y aparencial, respondían las altas verdades de la fe de Don Quijote, basadas en vida fundamental y honda. No es la inteligencia, sino la voluntad, la que nos hace el mundo, y al viejo aforismo escolástico de «nihil volitum quin praecognitum», nada se quiere sin haberlo antes conocido, hay que corregirlo con un «nihil cognitum quin praevolitum», nada se conoce sin haberlo antes querido. Que en este mundo traidor nada es verdad ni es mentira; todo es según el color del cristal con que se mira,
como dijo nuestro Campoamor. Lo cual ha de corregirse también diciendo que en este mundo todo es verdad y es mentira todo. Todo es verdad, en cuanto alimenta generosos anhelos y pare obras fecundas; todo es mentira mientras ahogue los impulsos nobles y aborte monstruos estériles. Por sus frutos conoceréis a los hombres y a las cosas. Toda creencia que lieve a obras de vida es creencia de verdad, y lo es de mentira la que lleve a obras de muerte. La vida es el criterio de la verdad y no la concordía lógica, que lo es solo de la razón. Si mi fe me lleva a crear o aumentar vida, ¿para qué queréis más prueba de mi fe?
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Dulcinea nel congedarlo non gli aveva dato nessun gioiello, ma soltanto un pezzo di pane e del formaggio, porgendoglielo sul muretto del cortile, «è quanto mai generosa – gli rispose Don Chisciotte –; e se non ti ha dato un gioiello d’oro dovette senza dubbio dipendere dal non averlo avuto lì pronto per regalartelo; ma l’agnello è buono anche dopo Pasqua: la vedrò io e tutto sarà riparato». Invito il lettore a rileggersi tutto questo meraviglioso dialogo, perché vi è distillato l’intima essenza del chisciottismo, in quanto dottrina della conoscenza. Alle menzogne di Sancio che si inventava i fatti seguendo i dettami della vita volgare ed apparente, rispondevano le alte verità della fede di Don Chisciotte, fondate sui principi di una vita sostanziale e profonda. Non è l’intelligenza, ma la volontà quella che costruisce per noi il mondo, e al vecchio aforisma scolastico «nihil volitum quin praecognitum», cioè «non si vuole nulla che non sia prima conosciuto», bisogna apportare una correzione, nei seguenti termini: «nihili cognitum quin praevolitum», ossia: «nulla si conosce se prima non lo si è voluto». In questo mondo fallace, nulla è falso e nulla è vero; tutto sta nell’osservare con un vetro bianco o nero
come disse il nostro Campoamor. E anche questo merita una correzione, dicendo che in questo mondo tutto è verità e tutto è menzogna. Ogni cosa è verità, in quanto alimenta generose aspirazioni e genera opere feconde; tutto è invece menzogna, finché soffoca i nostri impulsi ed abortisce sterili mostri. Gli uomini e le cose li riconoscerete dai loro frutti. Qualunque credenza che ci spinga ad opere di vita, è credenza in una verità; e allo stesso modo è credenza in una menzogna quella che ci sollecita ad opere di morte. È la vita il criterio per giudicare la verità, non già la concordanza logica, che è solo criterio di ragione. Se la mia fede mi porta a creare o ad accrescere la vita, a che scopo pretendere un’altra prova della mia fede?
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Cuando las matemáticas matan, son mentira las matemáticas. Si caminando moribundo de sed ves una visión de eso que llamamos agua y te abalanzas a ella y bebes y aplacándote la sed te resucita, aquella visión lo era verdadera y el agua de verdad. Verdad es lo que moviéndonos a obrar de un modo o de otro hacía que cubriese nuestro resultado a nuestro propósito. Uno de esos que se dedican a la llamada filosofía dirá que Don Quijote estableció en esa plática con Sancho la doctrina, ya famosa, de la relatividad del conocimiento. Claro está que todo es relativo; pero, ¿no es relativa también la relatividad misma? Y jugando con los conceptos, o no sé si con los vocablos, podría decirse que todo es absoluto, absoluto en sí, relativo en relación a lo demás. En esto, en juego de palabras, cae toda la lógica que no se basa en la fe y no busca en la voluntad su último sustento. La lógica de Sancho era una lógica como la escolástica, puramente verbal; partía del supuesto de que todos queremos decir lo mismo cuando expresamos las mismas palabras, y Don Quijote sabía que con las mismas palabras solemos decir cosas opuestas, y con opuestas palabras la misma cosa. Gracias a lo cual podemos conversar y entendernos. Si mi prójimo entendiese por lo que dice lo mismo que entiendo yo, ni sus palabras me enriquecerían el espiritu ni las mías enriquecerían el suyo. Si mi prójimo es otro yo mismo, para qué le quiero? Para yo, me basto y aún me sobro yo. Los granos de trigo son de rubión o de candeal según las manos que los tocan, y aquellas manos, mi Don Quijote, no han de posarse en las tuyas. Y en lo que el Caballero estuvo profundísimo fue en afirmar que si Dulcinea huele a hombruno a los Sanchos es porque están romadizados y se huelen a sí mismos. Aquellos a quienes el mundo solo les huele a materia es que se huelen a sí mismos; los que solo ven pasajeros fenómenos es que
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Quando le matematiche servono solo ad uccidere, anche le matematiche diventano menzogna. Se mentre camminate morendo di sete, vedete un miraggio che rappresenta dal vivo quello che chiamano acqua, e vi lanciate a bere e vi sentite rinati perché la sete si è placata, quel miraggio era verità ed anche quell’acqua era verità. Verità è tutto ciò che, spingendoci ad agire in un modo o nell’altro, fa sì che il risultato della nostra azione risulti conforme al nostro proposito. Uno di coloro che si dedicano alla così detta filosofia, potrà venirci a dire che Don Chisciotte, nel suo colloquio con Sancio, non fece che ribadire la dottrina, ormai famosa, della relatività della conoscenza. È evidente che tutto è relativo; ma non sarà relativa anche la stessa relatività? E giocando con i concetti o piuttosto con le parole, si potrebbe dire che ogni cosa è assoluta, assoluta in sé, e relativa in rapporto con tutto il resto. A questo, al puro gioco di parole, si riduce ogni logica che non si fondi sulla fede e non cerchi nella volontà il suo più efficace fondamento. La logica di Sancio era simile a quella degli scolastici, puramente verbale; partiva dal presupposto che tutti intendiamo dire la stessa cosa quando usiamo le stesse parole; ma Don Chisciotte sapeva invece che con le stesse parole siamo soliti dire cose opposte, e con parole opposte, la stessa cosa. E grazie a questo ci è possibile conversare ed intenderci. Se il mio prossimo intendesse con le sue parole quello stesso che intendo io, né le sue parole arricchirebbero il mio spirito, né le mie arricchirebbero il suo. Se il mio prossimo fosse un altro me stresso, a che scopo lo amerei? Come io, ne ho abbastanza e direi me ne avanza, del mio stesso io. I chicchi di frumento sono di grano restone o di grano bianco, a seconda delle mani che li toccano; e quelle mani, mio Don Chisciotte, non sono destinate a posarsi tra le tue. Ma il punto in cui il Cavaliere si mostrò molto profondo, fu allorquando affermò che se Dulcinea ha odore di maschio per i Sanci, ciò avviene perché essi sono reumatizzati o perché fiutano se stessi. Coloro per i quali il mondo non tramanda altro odore che quello della materia, la pensano così perché fiutano se stessi; coloro che nel mondo scorgono solo fenomeni passeggeri, sono
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se miran a sí mismos y no se ven en lo hondo. No es contemplando el rodar de los astros por el firmamento como te hemos de descubrir, Dios y Señor nuestro que regalaste con la locura a Don Quijote; es contemplando el rodar de los anhelos amorosos por el cimiento de nuestros corazones. El pan y el queso que por las bardas del corral te dio Dulcinea, se te ha convertido, Sancho amigo, en joya de eternidad. Por ese pan y ese queso vives y vivirás mientras quede en hombres memoria de hombres, y aún mucho más allá; por ese pan y ese queso con que tu creías mentir, gozas de verdad duradera. Queriendo mentir decías la verdad. Siguieron departiendo amo y escudero, y en el curso de la plática volvió Sancho a sus trece de que se casase Don Quijote con la princesa, y por rehusarlo le dijo: «Y ¡cómo está vuestra merced lastimado de esos cascos!». Para Sancho la locura de su amo cifrábase tan solo en dejar la fortuna por la gloria, y así son los Sanchos todos; tienen por cuerdo al loco que con su locura prosperó en bienestar y suerte y estiman loco al cuerdo a quien su cordura le impidió cobrar fortuna. Sancho quería amar y servir a Dios «por lo que pudiese»; el puro amor no cupo en él.
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quelli che guardano se stessi, senza neppure scrutarsi bene a fondo. Non è già contemplando gli astri che si muovono nel firmamento, che scopriamo Te, Signore Nostro e nostro Dio, che concedesti a Don Chisciotte il dono della follia; ti scopriremo osservando il movimento delle ansie amorose sulle fondamenta dei nostri cuori. Il pane ed il formaggio che ti furono dati sul muretto del cortile dalle mani di Dulcinea, si sono convertiti per te, amico Sancio, in un gioiello d’eternità. Grazie a quel pane, grazie a quel formaggio, tu vivi e vivrai finché rimarrà negli uomini memoria d’uomini, ed anche oltre; grazie a quel pane e a quel formaggio con i quali credevi di mentire, tu godi adesso di una verità duratura. Volendo mentire, dicevi il vero. Padrone e scudiero seguitarono a ragionare tra loro, e durante la conversazione Sancio ritornò a battere sul solito chiodo: che Don Chisciotte dovesse accasarsi con la principessa. E quando Don Chisciotte si rifiutò ancora, gli disse: «Ah, il suo povero cervello!». Per Sancio la follia del suo padrone consisteva unicamente nel lasciare la fortuna per la gloria, e come lui la pensano tutti gli altri Sanci: considerano saggio il folle che con la sua follia ha prosperato in fortuna e benessere, e stimano folle il saggio al quale la sua saggezza ha impedito di far fortuna. Sancio voleva amare e servire Iddio «per quello che egli potrebbe fare»; il puro amore non trovava posto in lui.
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capítulo xxxii
que trata de lo que sucedió en la venta atoda la cuadrilla de Don Quijote Después de estas pláticas, y del encuentro con Andrés el criado de Juan Haldudo el rico, de quien dijimos llegaron a la venta, y mientras dormía Don Quijote enzarzose el cura con el ventero y su familia a hablar de libros de caballerias, y soltó lo de que los libros en donde se narran las aventuras de don Cirongilio y de Félix Marte son mentirosos Y están llenos de disparates y devaneos, y el del Gran Capitán lo es de historia verdadera, así como el de Diego García de Paredes. Pero véngase acá, señor Licenciado, y dígame: ahora, al presente, y en el momento en que vuestra merced había así, ¿dónde estaban y están en la tierra el Gran Capitán y Diego García de Paredes? Luego que un hombre se murió y pasó acaso a memoria de otros hombres, ¿en qué es más que una de esas ficciones poéticas de que abomináis? Vuestra merced debe saber por sus estudios lo que «operari sequitur esse», el obrar se sigue al ser, y yo le añado que solo existe lo que obra y existir es obrar, y si Don Quijote obra, en cuantos le conocen, obras de vida, es Don Quijote mucho más histórico y real que tantos hombres, puros nombres que andan por esas crónicas que vos, señor Licenciado, tenéis por verdaderas. Solo existe lo que obra. Ese investigar si un sujeto existió o no existió proviene de que nos empeñamos
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che tratta di quel che successe all’osteria a tutta la comitiva di Don Chisciotte Dopo tutti questi discorsi e dopo l’incontro con Andrea, il servitore di quel Gianni Gonnella il Ricco del quale abbiamo già parlato, giunse all’osteria; e mentre Don Chisciotte dormiva, il curato si trattenne a parlare con l’oste e con i suoi familiari dei libri di cavalleria, e sbottò a dire, nientemeno, che i libri dove si narrano le avventure di don Cirongilio e di Felice Marte sono bugiardi e tutti pieni di scempiaggini e di stravaganze, mentre quello che parla del Gran Capitano è storia autentica, così come lo è l’altro che tratta di Diego García de Paredes. Ma venga un po’ qui, signor Licenziato e mi dica: adesso, al presente e nel momento stesso in cui vossignoria parla in questo modo, dove sono o dov’erano sulla terra il Gran Capitano e Diego García de Paredes? Una volta che un uomo è morto e casualmente è passato nella memoria di altri uomini, in che cosa si trova ad essere di più che una delle tante finzioni poetiche che aborrite? Vossignoria deve ben conoscere, attraverso i suoi studi, la sentenza che dice: «operari sequitur esse», ossia «dall’agire si conosce l’essere»; ma io aggiungo che esiste solamente ciò che agisce, e che esistere è agire, e che se Don Chisciotte agisce su quanti lo conoscono con opere di vita, ciò significa che Don Chisciotte è molto più storico e molto più reale di tanti uomini ridotti a puri nomi che si muovono in quelle cronache che voi, signor Licenziato, reputate veridiche. Esiste solamente ciò che agisce. Stare ad indagare se un tale sia esistito o no, deriva dal fatto che noi ci ostiniamo a chiudere
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en cerrar los ojos al misterio del tiempo. Lo que fue y ya no es, no es más que lo que no es, pero será algún día; el pasado no existe más que el porvenir ni obra más que él sobre el presente. ¿Qué diríamos de un caminante empeñado en negar el camino que le resta por recorrer y no teniendo por verdadero y cierto sino el recorrido ya? Y ¿quién os dice que esos sujetos cuya existencia real negáis no han de existir un día, y por lo tanto existen ya en la eternidad, y hasta que no hay nada concebido, Io cual en la eternidad no sea real y efectivo? Tenía razón el ventero, quijotizado ya – pues no en vano recibió bajo el techo de su casa al héroe –, tenía razón al deciros, señor Licenciado: «Callad, señor, que si oyese esto (las hazañas de don Cirongilio de Tracia) se volvería loco de placer: dos higas para el Gran Capitán y para ese Diego García que dice». En lo eterno son más verdaderas las leyendas y ficciones que no la historia. Y en la disputa entre vos, señor cura racionalista, y el ventero lleno de fe, llevaba este la mejor parte. Lograsteis, sí, señor Licenciado, tentar la fe de Sancho, que oía la disputa, pero fe no conquistada entre tentaciones de duda no es fe fecunda en obras duraderas. Antes de proseguir conviene digamos aquí algo, aunque sea de refilón, pues otra cosa no merecen, de esos sujetos vanos y petulantes que se atreven a sostener que Don Quijote y Sancho mismos no han existido nunca, ni pasan de ser meros entes de ficción. Sus razones, aparatosas e hinchadas, no merecen siquiera refutación: tan ridículas y absurdas son. Da bascas y grima el oírlas. Pero como hay personas sencillas que, seducidas por la aparente autoridad de los que vierten tan apestosa doctrina, les prestan oído atento, conviene llamarles la atención sobre ello y que no se atengan a lo que viene ya recibido desde tanto tiempo, con asenso de los más doctos y más graves. Para consuelo y corroboración de las gentes sencillas y de buena
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gli occhi sul mistero del tempo. Ciò che fu ed ora non è più, non vale assolutamente di più di ciò che ancora non è, ma che un giorno o l’altro sarà; il passato non ha esistenza più reale del futuro e non agisce sul presente più di quanto vi agisca il futuro. Che diremmo di un viandante che si ostinasse a negare il cammino che gli resta da percorrere e considerasse vero e certo solo quello già percorso? E chi vi dice che quei tali dei quali negate l’esistenza reale, non debbano esistere un giorno o l’altro, e che pertanto esistono già nell’eternità; o addirittura che non vi è nulla di concepito che nell’eternità non sia già reale ed effettivo? Aveva perfettamente ragione l’oste, anche lui chisciottizzato – e non invano aveva accolto sotto il suo tetto l’eroe –, aveva ragione quando vi diceva, signor Licenziato: «Non dica, signor mio; se sentisse (le imprese di don Ciringilio di Tracia), impazzirebbe dal piacere. Niente affatto, il Gran Capitano e questo Diego García che dice?». Secondo il metro dell’eternità, sono assai più vere le leggende e le finzioni poetiche che non la storia. E nella disputa tra voi, signor curato razionalista, e l’oste pieno di ingenua fede, la ragione era sua. Riuscite, sì, signor Licenziato, a far tentennare la fede di Sancio che stava ad ascoltare la discussione, ma una fede che non si è conquistata tra le tentazioni del dubbio non è una fede feconda di opere durature. Prima di proseguire, converrà dire a questo punto una cosa, anche se sarà soltanto di sfuggita perché di più non meritano, a proposito di quei soggetti superficiali e petulanti che osano sostenere che Don Chisciotte stesso e Sancio in persona non sono mai esistiti e anzi non sono altro che puri esseri fittizi. I loro ragionamenti, gonfi e tronfi, non meriterebbero nemmeno una confutazione tanto sono ridicoli ed assurdi. Al solo ascoltarli fanno venire il vomito e la nausea. Ma siccome esistono persone sempliciotte che, sedotte dall’apparente autorità di coloro che propinano dottrine così pestifere, prestano loro orecchio con ogni attenzione, è necessario metterle in guardia affinché non s’attengono all’opinione generalmente condivisa da non so quanto tempo e che riceve l’assenso dei più dotti e più seri. A consolazione e conforto della gente ingenua e in buona fede,
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fe, espero, con la ayuda de Dios, escribir un libro en que se pruebe con buenas razones y con mejores y muy numerosas autoridades – que es lo que en esto vale – cómo Don Quijote y Sancho existieron real y verdaderamente, y pasó todo cuanto se nos cuenta de ellos, tal y como se nos cuenta. Y allí probaré que, aparte de que el regocijo, consuelo y provecho que de esta historia se saca es razón más que bastante en abono de su verdad, allende esto, si se le niega, hay que negar otras muchas cosas también y así vendríamos a zapar y socavar el orden en que se asienta hoy nuestra sociedad, orden que, como es sabido, es hoy el criterio supremo de la verdad de toda doctrina.
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spero, se Dio mi aiuta, di scrivere un libro dove venga provato con solidi ragionamenti e con l’appoggio di autorità ancora migliori e più numerose – ed è ciò che conta, in simili casi –, che Don Chisciotte e Sancio esistettero veramente in carne ed ossa, e che tutto ciò che ci viene narrato di essi accadde così come ci viene raccontato. E in quel libro dimostrerò che, pur non considerando il diletto, il conforto il profitto che si ricavano da questa storia, vi sono ragioni sufficienti per garantirne l’autenticità; oltre a ciò, dico, se pur la si voglia rifiutare, bisognerebbe allora rifiutare anche moltissime altre cose; e così si giungerebbe a scardinare l’ordine su cui poggia oggi la nostra società, ordine che, come è noto, costituisce oggi il supremo criterio per giudicare la verità di ogni dottrina.
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capítulos xxxiii y xxxiv
Estos dos capítulos se ocupan con la novela de «El curíoso impertinente», novela por entero impertinente a la acción de la historia.
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capitoli xxxiii e xxxiv
Questi due capitoli contengono la novella del «Curioso impertinente», novella assolutamente non pertinente all’azione della nostra storia.
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capítulos xxxvi
que trata de la brava y descomunal batalla que Don Quijote tuvo con unos cueros de vino tinto, y se da fin a la novela de «El curíoso impertinente» Tras la disputa entre el cura y el ventero, y estando leyendo la impertinente novela de «El curíoso impertinente», ocurrió la triste aventura del acuchillamiento de los pellejos de vino por Don Quijote, en sueños y mientras dormía. Debió Cervantes habernos callado esta aventura, aunque Don Quijote se ensayase en sueños para sus hazañas de despierto. Y menos mal que no fue sino vino lo que se perdió, y así se perdiese todo él, por la falta que hace. Para poder juzgar con justicia de esta aventura sería menester conocer lo qué no conocemos, y es qué soñaba entonces Don Quijote. Juzgarla de otro modo sería un juicio como el que habría hecho uno de nuestros petulantes sabios si hubiese oído a Íñigo de Loyola cuando en el hospital de Luis de Antezana, en Alcalá de Henares, hospital «infamado en aquella sazón de andar en él de noche muchos duendes y trasgos», al encontrarse una vez «a boca de noche» con que se estremeció todo el aposento, «se le espeluznaron los cabellos, como que viese alguna espantable y temerosa figura; mas luego tornó en sí, y viendo que no había que temer, hincose de rodillas y con grande ánimo comenzó a voces a llamar, y como a desafiar a los demonios, diciendo – según el P. Rivadeneira, en el capítulo IX
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capitolo xxxvi
dove si tratta dell’eroico e straordinario combattimento di Don Chisciotte con alcuni otri di vino rosso, e dove si conclude la novella del «Curioso impertinente» Dopo la discussione tra il curato e l’oste, e mentre si stava leggendo la novella interpolata del «Curioso impertinente», si verificò la triste avventura dove Don Chisciotte, mentre dormiva e sognava, trafisse a colpi di spada gli otri di vino. Sarebbe stato meglio che Cervantes avesse taciuto su quest’avventura, per quanto si possa dire a sua giustificazione che Don Chisciotte in sogno faceva le prove dell’impresa che avrebbe compiuto poi da sveglio. E meno male che fu soltanto vino quello che andò sprecato; e potesse pure andar sprecato tutto, perché davvero non se ne se sente il bisogno. Per poter giudicare con giustizia tale avventura, sarebbe necessario conoscere quello che ignoriamo, ed è che cosa stesse sognando in quel momento Don Chisciotte. Giudicarne altrimenti, vorrebbe dire formulare un giudizio simile a quello che avrebbe emesso uno dei nostri dotti petulanti se avesse sentito Ignazio di Loyola quando, nell’ospedale di Luis de Antezana a Alacalá de Henares, ospedale «del quale si diceva a quei tempi che era frequentato di notte da molti folletti e gnomi», gli capitò una volta «di prima notte» che tutta la camera tremò e «gli si rizzarono i capelli come se avesse visto una figura paurosa e spaventosa»; ma ritornò subito in sé e, vedendo che non c’era nulla di cui temere, si buttò in ginocchio e con animo vibrante incominciò a gridare fortemente e quasi a sfidare i demoni, dicendo – secondo il Padre Rivadeneira, che ce lo narra nel ca-
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del libro V de la Vida nos cuenta –: “Si Dios os ha dado algún poder sobre mi, infernales espíritus, heme aquí; ejecutadle en mí, que yo ni quiero resistir ni rehuso cualquiera cosa que por este camino venga; mas si no os ha dado poder ninguno, ¿qué sirven, desventurados y condenados espíritus, estos miedos que me ponéis? ¿Para qué andáis espantando con vuestros cocos y vanos temores los ánimos de los niños y hombres medrosos tan vanamente? Bien os entiendo; porque no podéis danarnos con las obras, nos queréis atemorizar con esas falsas presentaciones”». Y añade el buen Padre historiador que «con este acto tan valeroso no solo venció el miedo presente, mas quedó para adelante muy osado contra las opresiones díabólicas y espantos de Satanás». Al narrar está aventura de los pellejos el puntualísimo historiador nos descubre un pormenor secreto, y es que tenía Don Quijote las piernas «no nada limpias». Pudo habérselo callado. Pero en ello nos mostró que al fin el Caballero era de su casta, casta que nunca hizo entrar el aseo entre los deberes caballerescos. Y tanto es así que, aúnque se nos diga de un caballero español que era limpio, luego se ve que no estrema la virtud de la limpieza. Y así, aunque en el capítulo XVIII del libro IV de la Vida del bienaventurado Padre Ignacio de Loyola nos diga de él Rivadeneira que «aunque amaba la pobreza nunca le agradó la poca limpieza», en el capítulo VII del libro V de la misma nos cuenta que «a un novicio dio penitencia rigurosa porque se lavaba las manos algunas veces con jabón, pareciéndole mucha curiosidad para novicio». Bien es verdad que entre las propiedades en que se distingue el que tiene habilidad perteneciente al arte militar, que era el profesado por Don Quijote y por Loyola, señala el Dr. Huarte, en el capítulo XVI de su ya citado Examen, como la tercera de ellas el «ser descuidados del ornamento de su persona; son casí todos desaliñados, sucios, las calzas caí-
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pitolo IX del libro V della Vita –: «Se Dio vi ha concesso un qualche potere su di me, spiriti infernali, eccomi qua; esercitate su di me tale potere, perché né voglio resistervi, né mi ribello a qualunque cosa mi accada; ma, se non vi ha concesso alcun potere, a che giovano, spiriti dannati e sventurati, i timori che pretendete di infondermi? A che scopo andate spaventando con i vostri fantasmi e con vani timori l’animo dei bambini e degli uomini paurosi, senza alcun vantaggio? Ma vi capisco; poiché se non potete farci del male con le azioni, volete almeno spaventarci con queste false ed inutili visioni». E aggiunge il buon Padre cronista che «con questa così valorosa azione, non soltanto vinse lo spavento di quel momento ma divenne d’ora in poi addirittura temerario contro le oppressioni diaboliche e contro le paure suscitate da Satanasso». Nel raccontarci quest’avventura degli otri, il nostro attentissimo storico ci rivela un segreto particolare, e cioè che Don Chisciotte aveva le gambe «non proprio pulite». Avrebbe potuto tacerlo. Ma così ci dimostrò che in ultima analisi il Cavaliere era della sua stessa razza, che non arrivò mai ad includere la cura della persona tra i doveri cavallereschi. Tant’è vero che, per quanto ci si venga a dire di un hidalgo spagnolo che era pulito, si vede subito che non esaltava la virtù della pulizia. E così, sebbene nel capitolo XVIII del libro IV della Vita del beato Padre Ignazio di Loyola Rivadeneira ci dica che «sebbene amasse la povertà, non gli garbò mai la scarsa pulizia», nel capitolo VII del libro V della stessa opera ci narra che «ad un novizio impose una rigorosa penitenza perché ogni tanto si lavava le mani col sapone, il che gli pareva eccessiva ricercatezza in un novizio». È vero che tra le qualità per le quali si distingue colui che possiede abilità appartenenti all’arte della milizia, che era poi l’arte professata tanto da Don Chisciotte quanto da Loyola, il dottor Huarte enumera come terza, nel capitolo XVI del suo già citato Esame, quello di essere trascurato nella cura della persona. «Sono quasi tutti trasandati – dice – sudici, con le calze
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das, llenas de arrugas, la capa mal puesta, amigos del sayo viejo y de nunca mudar el vestido» y da la razón de ello diciendo que «el grande entendimiento y la mucha imaginativa hacen burla de todas las cosas del mundo, porque en ninguna de ellas hallan valor ni sustancia», añadiendo que «solas las contemplaciones divinas les dan gusto y contento, y en estas ponen la diligencia y cuidado, y desechan las demás». Verdad es que en riempo de Don Quijote, Íñigo de Loyola y el Dr. Huarte no se había aún inventado esto de los microbios y de la asepsia y antisepsia, ni andaban las gentes tan embrujadas en pensar que en acabando con esos bichillos acabaríamos o poco menos con la muerte, y que la felicidad depende de la higiene, género de superstición no menos dañoso ni menos ridículo que el de creer y pensar que abrazándose uno a la porquería gana el cielo. Un hombre sucio será siempre algo más que un cerdo limpio, aunque es mejor aún que se limpie el hombre. Y volviendo a la aventura, hay que notar cómo Sancho, el buen Sancho, creía en el descabezamiento del gigante, y que el vino era sangre, y «todos reían». Todos reían, la ventera se quejaba por la pérdida de sus cueros, ayudándola Maritornes, y «la hija callaba y de cuando en cuando se sonreía». ¡Poético rasgo! La hija, enamorada de los libros de caballerias, se sonreía. ¡Dulce rocío sobre la pasión de risas que padecía Don Quijote! En aquel tormento de risotadas, la sonrisa de la hija del ventero era un hálito de piedad.
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cadenti e piene di grinze, col mantello buttato addosso in qualche modo, amici del saio vecchio e poco propensi a cambiarsi d’abito», e giustifica ciò dicendo che «il grande intelletto e la prolifica immaginazione si burlano di tutte le cose mondane, perché in nessuna vi riscontrano valore o costanza», aggiungendo che «solo le contemplazioni divine danno loro diletto e appagamento, sicché ripongono in esse ogni diligente cura, trascurando tutte le altre occupazioni». È vero che al tempo di Don Chisciotte, di Ignazio di Loyola e del dottor Huarte non era stata ancora scoperta la storia dei microbi, dell’asepsi e dell’antisepsi, né la gente s’era ancora lasciata abbindolare al punto da credere che con la scomparsa di quei brutti vermiciattoli sarebbe scomparsa anche la morte o poco meno, e che la felicità dipende dall’igiene; un genere di superstizione, questo, non meno malefico, né meno ridicolo di quello consistente nel credere e nel pensare che il cielo si acquisti rivoltandosi nella sporcizia. Un uomo sporco sarà sempre qualcosa di più che un maiale pulito, per quanto si debba riconoscere che la cosa migliore sarà sempre che l’uomo si mantenga pulito. Ma, tornando all’avventura, sarà necessario notare che Sancio, il buon Sancio, credeva fermamente nella decapitazione del gigante e giurava e spergiurava che il vino era sangue, e «ridevano tutti». Ridevano tutti, l’ostessa si disperava per la rovina dei suoi otri, e Maritornes l’assecondava, «mentre la figlia taceva, sorridendo ogni tanto». Poetica osservazione! La figlia, innamorata dei libri di cavalleria, sorrideva. Dolce rugiada sulla passione che Don Chisciotte subiva sotto la grandine delle risate! In quel profluvio di sghignazzate, il sorriso di quella figlia dell’oste è come un soffio di pietà.
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capítulo xxxvii
que trata de otros raros sucesos que en la venta sucedieron Tras esto se enredaron los sucesos de la venta con la llegada de nuevos comparsas y el desencanto de Sancho al encontrarse con que la princesa Micomicona era Dorotea, la de Fernando, lo cual bastó para persuadirle de que la cabeza del gigante había sido un odre de vino. ¡Oh, pobre Sancho, y cuán bravamente peleas por tu fe y cómo vas conquistandola entre tumbos y desalientos, perdiendo hoy terreno en ella para recobrarlo mañana! ¡Tu carrera fue una carrara de lucha interior, entre tu tosco sentido común, azuzado por la codicia, y tu noble aspiración al ideal, atraída por Dulcinea y por tu amo! Pocos ven cuán de combate fue tu carrera escuderil; pocos ven el purgatorio en que viviste; pocos ven cómo fuiste subiendo hasta aquel grado de sublime y sencilla fe que llegarás a mostrar cuando tu amo muera. De encantamientos en encantamientos llegaste a la cumbre de la fe salvadora.
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capitolo xxxvii
che tratta di altri singolari avvenimenti svoltisi nell’osteria Dopo questi fatti, gli avvenimenti dell’osteria si complicano per l’arrivo di altre comparse e per il disinganno amarissimo di Sancio nell’accorgersi che la principessa Micomicona altri non era che Dorotea, la bella di Fernando; e ciò fu sufficiente a persuaderlo che la testa del gigante era in realtà un otre di vino. Povero Sancio, con quanto coraggio combatti in difesa della tua fede, e come la vai conquistando tra cadute e scoramenti, perdendo terreno oggi in tale battaglia per riconquistarlo domani! La tua carriera fu una carriera fatta di lotte intime tra il tuo rozzo buon senso aguzzato dall’ingordigia e la tua nobile aspirazione verso un ideale, suscitata in te da Dulcinea e dal tuo padrone! Pochi notano quanto sia stata densa di combattimenti la tua carriera da scudiero; pochi sanno vedere il purgatorio in cui sei vissuto; pochi scorgono come ti elevasti fino a quel grado di sublime e ingenua fede che potrai mostrare quando il tuo padrone morirà. Passando da un incantesimo all’altro raggiungesti la vetta della fede salvatrice.
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capítulo xxxviii
que trata del curioso discurso que hizo Don Quijote de las armas y de las letras Con el buen suceso de los encuentros de la venta aumentaron los burladores de Don Quijote, a los que enderezó este su discurso de las letras y las armas. Y como no lo dirigió a cabreros, lo pasaremos por alto.
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capitolo xxxviii
che tratta del singolare ragionamento di Don Chisciotte sulle armi e le lettere Con il favorevole succedersi degli incontri all’osteria, s’accrebbe il numero degli schernitori di Don Chisciotte, ai quali il Cavaliere indirizzò il suo ragionamento sulle lettere e le armi. E siccome non lo rivolse ai caprai, lo passeremo sotto silenzio.
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capítulos xxxix, xl, xli y xlii
Están llenos con la historia del cautivo y el relato de cómo encontró el oidor a su hermano
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capitoli xxxix, xl, xli e xlii
Parlano della storia della schiavitù e narrano poi come il giudice incontrò suo fratello
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capítulo xliii
donde se cuenta la agradable historia del mozo de mulas, con otros extraños acontecimientos en la venta sucedidos Dejemos lo del mozo de mulas, que no nos importa. Reunida toda aquella gente, quedose Don Quijote a hacer la guardía del castillo. Y el demonio, que no descansa, insinuó a la hija de la ventera, la de la sonrisa, y a Maritornes, que hiciesen una burla a Don Quijote, en pago de su guardía. A solas, y mientras hacía su guardia, recordaba en voz alta Don Quijote a su señora Dulcinea, cuando la hija de la ventera «le comenzó a cecear y a decirle: señor mío, lléguese acá la vuestra merced si es servido». Y el frágil Caballero ablandose y cedió, y en vez de hacer oídos sordos a los reclamos de la retozona semidoncella, se metió a exponerle la imposibilidad en que estaba de satisfacerla, sin advertir el cuitado que discutir con la tentación, reconociéndola sin beligerancia, es ya camino para ser vencido por ella. Y así fue que le pidieron una de sus manos, llamándolas hermosas. Y el cuitado hidalgo, rendido al requiebro, le dio la mano a que no había tocado otra mujer alguna, y no para que la besara, sino para que por ella admirasen la fuerza del brazo que tal mano tenía. ¿Admirar? ¿No ves, sencillo Caballero, el peligroso juego en que te metes al dar tu mano a la admiración de unas damas? ¿No sabes acaso que la admiración de una mujer hacia un hombre no es sino forma de algo más íntimo que la admiración misma? No se admira sino lo que se ama, y en la mujer no hay más que un modo de admirar al hombre. Y admirar no tus pro-
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dove si narra la piacevole storia del mulattiere, insieme ad altri strani casi accaduti nell’osteria Tralasciamo la storia del mulattiere che non ci interessa. Radunatasi tutta quella gente, Don Chisciotte rimase di guardia al castello. E il demonio, che giammai riposa, suggerì alla figlia dell’ostessa, la ragazza del sorriso, e a Maritornes, di burlarsi di Don Chisciotte come ricompensa della guardia che stava montando. Solo soletto, mentre faceva la sua guardia, Don Chisciotte ricordava ad alta voce la sua signora Dulcinea, quando la figlia dell’ostessa «cominciò a scalciarlo dicendogli: Di grazia, signor mio, si avvicini qui». E il debole Cavaliere si addolcì e cedette e, invece di fare orecchi da mercante agli inviti della semidonzella giocherellona, si mise ad esporle puntualmente l’impossibilità in cui si trovava di compiacerla, senza avvedersi, poveretto, che discutere con la tentazione, riconoscendole in tal modo i diritti di belligeranza, è già di per sé esporsi ad essere vinto. E così avvenne che gli chiesero una delle sue mani, definendole belle. E il povero hidalgo, sedotto da quell’adulazione, porse quella mano che non aveva mai toccato altra donna, e non per farsela baciare, bensì perché ne potessero ammirare la forza del braccio. Ammirare? Non vedi, ingenuo Cavaliere, il gioco pericoloso a cui ti esponi nell’offrire la tua mano all’ammirazione delle dame? Non sai forse che l’ammirazione di una donna per un uomo altro non è che l’aspetto formale di qualcosa di più intimo della stessa ammirazione? Non si ammira che quel che si ama, e
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pósitos, no una obra o hazaña tuya, no tus pensamientos, sino admirar tu mano. ¡Oh, si hubieras logrado que la admirase Aldonza Lorenzo; que te la hubiese cojido entre las suyas para que por «la contextura de sus nervios, la trabazón de sus musculos, la anchura y espaciosidad de sus venas» sacase qué tal debía ser la fuerza del brazo que tal mano tenía, y sobre todo la fuerza del corazón que regaba de sangre aquellas venas! Cometiste, buen Caballero, una imperdonable lijereza al dar a admirar tu mano a damas que te la pedían para buriarse de ti y lo pagaste caro. Lo pagó caro, porque se quedó preso de la mano por un cabestro. Maritornes y la hija del ventero se fueron muertas de risa y le dejaron asído de manera que fue imposible soltarse. Fíate luego de mujeres retozonas y regocijadas. Creyolo encantamiento Don Quijote y no era sino castigo a su blandura y petulancia. El héroe no debe dar a admirar sus manos, así sin más ni más y al primero o a la primera que las pida, sino guardarlas más bien de miradas curíosas y lijeras. ¿Qué importa a los demás las manos con que se hacen las cosas? Fea costumbre es esa de meterse en casa del combatiente generoso y revisar sus armas, inquirir cómo trabaja y vive y examinarle las manos. Si escribes, que nadie sepa cómo escribes, ni a qué horas, ni de qué modo.
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nella donna non c’è che un modo d’ammirare un uomo. E, per giunta, ammirare non già i tuoi propositi, non già una tua opera o impresa, non già i tuoi pensieri ma la tua mano! Oh, se fossi riuscito a far sì che te l’ammirasse Aldonza Lorenzo; che te la prendesse tra le sue affinché attraverso «la struttura dei nervi, la compagine dei muscoli, la larghezza e lo spessore delle vene», deducesse quale doveva essere la forza del braccio che aveva una siffatta mano e, soprattutto, la forza del cuore che faceva scorrere il sangue in quelle vene! Commettesti un’imperdonabile leggerezza, buon Cavaliere, nel concedere all’ammirazione la tua mano a dame che te la chiedevano per burlarsi di te; e ti costò molto caro. Ti costò caro, perché rimanesti imprigionato con la mano in una cavezza. «Maritornes e la figlia dell’oste se ne andarono, ridendo a squarciagola e lasciando lui talmente abbarbicato che gli fu impossibile divincolarsi». E vatti poi a fidare di donne giocherellone ed allegre. Don Chisciotte credette che si trattasse di un incantesimo, e invece era solo un castigo per la sua accondiscendenza e la petulanza che aveva mostrato. L’eroe non deve porgere le sue mani per farle ammirare, così senza difficoltà, al primo e alla prima che gliele chiede, ma piuttosto deve tenerle ben riguardate dagli sguardi curiosi e leggeri. Che interessano agli altri le mani con cui si fanno le cose? È una pessima usanza, quella di ficcarsi in casa del combattente generoso e prode per esaminarne le armi, per indagare come vive e lavora, e per esaminargli le mani. Se scrivi, fa che nessuno sappia come scrivi, né in quali ore, né in che modo.
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En tanto Don Quijote «maldecía ante sí su poca discreción y discurso» al no estar alerta frente a los encantamientos y «allí fue el maldecir de su fortuna y el exagerar la falta que haría en el mundo su presencia y el acordarse de nuevo de Dulcinea y el llarnar a Sancho Panza» y a los sabios Lirgandeo y Alquife, y a su buena amiga Urganda, y «allí le tornó la mañana tan desesperado y confuso que bramaba como un toro». Y aun así, preso de la mano, increpó a cuatro hombres de a caballo, que llamaron a la venta al amanecer, mostrando en ello su indomable fortaleza.
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Intanto Don Chisciotte «malediceva fra sé la sua scarsa accortezza e il poco giudizio» dimostrato nel non essere continuamente all’erta contro gli adulatori, e «allora imprecava sulla sua sorte ed esagerava il bisogno che il mondo avrebbe avuto della sua presenza, e tornava a ricordarsi della sua amata Dulcinea del Toboso, e chiamava il suo bravo scudiero Sancio Panza» e i dottissimi Lirgandeo e Alchife, e la sua buona amica Urganda, e lì «lo colse il mattino, con tanta disperazione e confusione da muggire come un toro». Eppure, anche così appeso per una mano, fu capace di rimbrottare quattro uomini a cavallo che bussarono all’osteria alla prima alba, dimostrando in tal modo la sua incrollabile fortezza.
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donde se prosiguen los inauditos sucesos de la venta Y luego que Maritornes le soltó, temerosa de lo que sucediese, Don Quijote «subió sobre Rocinante, embrazó adarga, enristró su lanza» y retó a quien dijese que había sido con justo título encantado. ¡Bravo, mi buen hidalgo! Procure siempre acertalla el honrado y principal; pero si la acierta mal, defendella, y no enmendalla,
como dice el conde Lozano a Peranzules en Las mocedades del Cid. Los de a caballo fueron a su asunto, y Don Quijote, «que vio que ninguno de los cuatro caminantes hacían caso de él», ni le respondían a su demanda, moría y rabiaba de despecho y sana… Sí, mi pobre Don Quijote, sí; gustamos más de que se rían de nosotros que no de que no nos hagan caso. Comprendo tu despecho y saña. Entre aquel corro de burladores, lo peor para ti es que no hiciesen, ni aun de burlas, caso de tus retos ni bravatas. Poco después de esto trabose el ventero a punetazos con dos huéspedes que buscaban escurrírsele sin pagar, y acudieron la ventera y su hija a Don Quijote, como más desocupado, para que socorriese al marido y padre, a lo cual respondió «muy des-
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dove continuano gli inauditi eventi dell’osteria E come Maritornes l’ebbe liberato, intimorita per quello che avrebbe potuto accadere, Don Chisciotte «montò su Ronzinante, imbracciò la targa, mise in resta la gran lancia» e sfidò chiunque dicesse che a buon diritto egli era stato incantato. Bravissimo, mio prode hidalgo! Cerchi sempre d’imbroccarla l’uomo nobile e onorato; e quand’anche abbia sbagliato, sostenerla e non negarla,
come dice il Conte Lozano e Peranzules in Le imprese giovanili del Cid. Gli uomini a cavallo se ne andarono per attendere alle loro faccende, e Don Chisciotte, «visto che nessuno dei quattro viandanti si curavano di lui e non rispondevano alle sua domande, moriva dall’irritazione e si rodeva dalla rabbia…». Sì, mio povero Don Chisciotte, sì; preferiamo farci ridere dietro nel vedere che non si curano di noi. Capisco benissimo la tua irritazione e la tua rabbia. In mezzo a quel coro di schernitori, la cosa peggiore era per te che non si curassero, nemmeno per scherzo, delle tue sfide e delle tue bravate. Poco dopo, l’oste si prese a pugni con due clienti che cercavano di filarsela senza pagare il conto, e l’ostessa e sua figlia ricorsero a Don Chisciotte che era quello che aveva meno da fare, perché soccorresse il rispettivo marito e padre; e a tale richiesta
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pacio y con mucha flema: fermosa doncella, no ha lugar por ahora vuestra petición, porque estoy impedido de entremeterme en otra aventura en tanto no diere cima a una en que mi palabra me ha puesto», añadiendo que corriese a decir a su padre entretuviera la batalla mientras él obtenía licencia de la princesa Micomicona. Obtúvola, más ni aun así puso mano a su espada Don Quijote, al ver que eran gente escuderil. E hizo bien. Pues qué, ¿no hay sino acudir al Caballero cuando se nos antoja, y ahora burlarnos de él y colgarle de la maño y querer luego que nos sirva y acorra en nuestros aprietos con aquella misma mano injuriada antes? Está muy bien burlarse del loco, más luego, cuando lo necesitamos, acudimos a él. ¡Desgraciado del héroe que pone su heroísmo al servicio de los que le vienen delante, y así lo rebajan! Si tu prójimo anda a punetazos con bellacos como él, déjale y allá se las haya, sobre todo si es porque quieren escurrírsele sin pagar; tu entremetimiento será dañoso. No cuando él crea deber ser socorrido, sino cuando crea yo deber socorrerle. No des a nadie lo que te pida, sino lo que entiendas que necesita, y soporta luego su ingratitud. A poco de esto entró en la venta el barbero del yelmo de Mambrino y la tramó con Sancho, llamándole ladrón al ver los aparejos del suyo en el asno de este, y Sancho se defendió bravamente contentando a su amo, que propuso en su corazón armarle caballero. Mentó el barbero la bacía y entonces se interpuso Don Quijote y mandó traerla y juró que era el yelmo y lo puso a la consideración de los allí presentes. ¡Sublime fe que afirmó en voz alta, bacía en la mano, y a la vista de todos, que era yelmo!
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egli rispose «molto ponderatamente e con molta pacatezza: leggiadra damigella, è fuori luogo per ora la vostra richiesta, perché mi è fatto divieto di intrattenermi in altra avventura finché non abbia portato a compimento una dove avevo impegnato la mia parola», aggiungendo di correre a dire a suo padre di prendere tempo nella battaglia finché non avesse ottenuto l’autorizzazione della principessa Micomicona. L’ottenne, ma non per questo Don Chisciotte mise mano alla spada, vedendo che si trattava di gente della condizione di scudiero. E fece bene. E che? Ci si potrà rivolgere al Cavaliere quando se ne ha voglia, e una volta beffarci di lui tenendolo appeso per una mano, e un’altra volta pretendere che sia al nostro servizio e ci soccorra nei nostri guai con quella stessa mano che poco prima abbiamo oltraggiato? Sta bene che ci si possa far beffa del pazzo, ma poi, quando abbiamo bisogno di lui, dovremmo astenerci dal chiedergli aiuto. Sventurato l’eroe che mette il proprio eroismo al servizio del primo che capita, e in tal modo lo degrada! Se il tuo prossimo fa a pugni con gente della tua stessa condizione, lascia perdere, lascia che se la veda lui, soprattutto quando si tratta di gente che vuole filarsela senza pagare il conto; se ti metti in mezzo, farai più male che bene. Non tocca a te soccorrerlo quando vuole lui, ma solo quando ti pare di doverlo aiutare. Non dare a nessuno ciò che ti chiede; dagli quello di cui, secondo te, ha necessità e sopporta poi la sua ingratitudine. Il demonio fece sì che entrasse poi nell’osteria il barbiere a cui Don Chisciotte aveva dato l’elmo di Mambrino, il quale se la prese con Sancio, chiamandolo brigante nel vedere le bardature del suo asino sulla groppa di quello di lui, ma Sancio si difese vigorosamente soddisfacendo appieno il suo padrone che si propose in cuor suo di armarlo cavaliere. Ma poi il barbiere menzionò la catinella e allora si intromise Don Chisciotte che mandò a prenderla e giurò che si trattava dell’elmo e lasciò considerare la cosa a tutti coloro che erano lì presenti. Sublime fede che affermò a voce alta catinella alla mano e al cospetto di tutti, che si trattava dell’elmo!
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donde se acaba de averiguar la duda del yelmo de Mambrino y de la albarda, y otras aventuras sucedidas, con toda verdad «¿Qué les parece a vuestras mercedes, señores – dijo el barbero –, de lo que afirman estos gentiles hombres, pues aún afirman que esta no es bacía, sino yelmo? Y quien lo contrario dijere – dijo Don Quijote – le haré yo conocer que miente si fuere caballero, y si escudero que remiente mil veces». Así, así, mi señor Don Quijote; así es el valor descarado de afirmar en voz alta y a la vista de todos y de defender con la propia vida la afírmación, lo que crea las verdades todas. Las cosas son tanto más verdaderas cuanto más creídas, y no es la inteligencia, sino la voluntad, la que las impone. Bien hubo de verlo el pobre barbero de quien la bacía fue cuando no era aún yelmo. Primero fue Sancho, cuando Don Quijote dijo «juro por la orden de caballería que profeso que este yelmo fue el mismo que yo le quité, sin haber añadido en él ni quitado cosa alguna», quien agregó en tímido apoyo de su amo: «En eso no hay duda, porque desde que mi señor le ganó hasta ahora no ha hecho con él más de una batalla, cuando libró a los sin ventura encadenados; y si no fuera por este baciyelmo, no lo pasara entonces muy bien, porque hubo asaz de pedradas en aquel trance».
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dove è pienamente chiarito il dubbio sull’elmo di Mambrino e dell’alabarda, e si leggono altre avventure assolutamente vere «Che ne pensano le signorie vostre – disse il barbiere – di quel che affermano questi egregi signori, in quanto si ostinano ancora a dire che questa non è una bacinella, ma un elmo? E a chi, caso mai, affermerà il contrario – disse Don Chisciotte – gli mostrerò che mente, se è cavaliere; che mente mille volte di più, se scudiero». Così, va bene così, mio signor Don Chisciotte; così dev’essere l’impavido coraggio di affermare a gran voce ed al cospetto di tutti e di sostenere poi a costo della vita la propria affermazione, ed è questo coraggio a creare tutte le verità. Le cose sono tanto più vere quanto più sono credute, e non è l’intelligenza che le può imporre, ma la volontà. Dovette persuadersene il povero barbiere al quale la bacinella era appartenuta prima che diventasse elmo. Il primo fu Sancio, quando Don Chisciotte disse: «Giuro per l’ordine della cavalleria che professo che quest’elmo fu il medesimo che io gli tolsi senza avervi aggiunto né tolto nulla», ad aggiungere, in timido sostegno del suo padrone: «Non c’è dubbio su questo, poiché da quando il mio padrone lo conquistò, fino ad ora non ha fatto con esso più di una battaglia, quando, cioè, liberò gli sventurati incatenati. Che se non fosse stato per questo bacilelmo, non gli sarebbe allora andato molto bene, poiché vi furono delle grandi sassate in quel frangente».
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¿Baciyelmo? ¿Baciyelmo, Sancho? ¡No hemos de ofenderte creyendo que esto de llamarle baciyelmo fue una de tus socarronerías, no!; es la marcha de tu fe. No podías pasar de lo que tus ojos te enseñaban, mostrándote como bacía la prenda de la disputa, a lo que la fe en tu amo te enseñaba, mostrandotela como yelmo, sin agarrarte a eso del baciyelmo. En esto sois muchos los Sanchos, y habéis inventado lo de que en el medio está la virtud. No, amigo Sancho, no; no hay baciyelmo que valga. Es yelmo o es bacía, según quien de él se sirva, o mejor dicho, es bacía y es yelmo a la vez porque hace a los dos trances. Sin quitarle ni añadirle nada puede y debe ser yelmo y bacía, todo él yelmo y toda ella bacía; pero lo que no puede ni debe ser, por mucho que se le quite o se le añada, es baciyelmo. Más resueltos encontró el barbero de la bacía al otro barbero maese Nicolás, y a don Fernando, el de Dorotea, y al cura y a Cardenio y al oidor, que con grande asombro de otros de los presentes lo diputaron por yelmo. Como burla pesada quiso tomarlo uno de los cuatro cuadrilleros allí presentes, incomodose, trató de borrachos a los que afirmaban lo contrario, lanzó un mentis Don Quijote y fuese sobre él y armose la de San Quintin, dándose de golpes los unos a los otros. Y fue Don Quijote quien, con sus voces, y recordando la discordía del campo de Agramante, apaciguó el cotarro. ¿Qué? ¿Os extraña la general pendencia por si era bacía o si era yelmo? Otras más entreveradas y más furíosas se han armado en el mundo por otras bacías, y no de Mambrino. Por si el pan es pan y el vino es vino, y por cosas parecidas. En torno a caballeros de la fe se arredilan carneros humanos, y por llevarles el humor o por cualquiera otra cosa sostienen que la bacia es yelmo, como aquellos dicen, y se vienen a las manos por sostenerlo, y es lo fuerte del caso que los más de cuantos pelean sosteniendo que es yelmo, tienen para si que es bacia. El heroismo de Don Quijote se comunicó a sus burladores, queda-
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Bacilelmo? Bacilelmo, Sancio? Non tocca a noi offenderti nel credere che questa idea di chiamarlo bacilelmo sia stata una delle tue furberie, no; è una tappa della tua fede. Non potevi ignorare quello che ti mostravano i tuoi stessi occhi facendoti vedere come bacinella l’oggetto in discussione, passando senz’altro a quel che ti mostrava in esso la fede del tuo padrone che te lo faceva vedere come elmo, senza soffermarti un po’ sulla via di mezzo del bacilelmo. Siete tanti nella stessa situazione di Sancio e avete inventato il motto che la virtù sta nel mezzo. No, amico Sancio, qui non c’è bacinella che valga! È bacinella o elmo, a seconda di chi se ne serve o, per meglio dire, è bacinella ed è elmo tutto in una volta, perché serve ugualmente per le due cose. Senza aggiungervi né togliervi nulla, può e dev’essere elmo e bacinella; ma bacilelmo, no; non può e non deve esserlo, per quanto vi si tolga o vi si aggiunga! Ancora più decisi sull’argomento trovò il barbiere della bacinella, l’altro barbiere, mastro Nicola, e don Fernando, l’innamorato di Dorotea, il curato, Cardenio e il giudice, i quali tutti, tra la grande meraviglia di altri presenti, lo definirono elmo. Uno dei quattro mulattieri che assistevano alla scena fu contrariato da tutto ciò, si infuriò, trattò da ubriaconi coloro che affermavano il contrario, ma Don Chisciotte lo smentì con veemenza, gli si scagliò contro, e ne scaturì una baraonda come quella di San Quintino mentre si pestavano a vicenda. Ma fu ancora Don Chisciotte che a gran voce, rievocando la discordia del campo d’Agramante, mise pace in quel pandemonio. E che? Vi stupite della lite generale per stabilire se era elmo o bacinella? Ve ne sono state di più intricate e furibonde a questo mondo per altre bacinelle, che non erano nemmeno di Mambrino! Si è litigato per stabilire se il pane era pane o il vino, vino, e per cose simili. Attorno ai cavalieri della fede si intruppano i montoni umani e, per assecondarne gli umori o per altri motivi, sostengono che la bacinella è elmo come affermano quelli, e vengono alle mani per sostenere le loro tesi; e la cosa più ridicola è che la maggior parte di coloro che combattono strepitando che è elmo, dentro di sé ritengono che è invece bacinella. L’eroismo di Don Chisciotte si comunicò ai suoi schernitori che loro
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ron quijotizados a su pesar, y don Fernando medía con sus pies a un cuadrillero por haber este osado sostener que la bacía no era yelmo, sino bacía. ¡Heroico don Fernando! Ved, pues, a los burladores de Don Quijote burlados por él, quijotizados a su despecho mismo, y metidos en pendencia y luchando a brazo partido por defender la fe del Caballero, aun sin compartirla. Seguro estoy, aúnque Cervantes no nos lo cuenta, seguro estoy de que después de la tunda dada y recibida empezaron los partidaríos del Caballero, los quijotaños o yelmistas, a dudar de que la bacia lo fuera y a empezar a creer que fuese el yelmo de Mambrino, pues con sus costillas habían sostenido tal credo. Cumple afirmar aquí una vez más que son los mártires los que hacen la fe más bien que la fe a los mártires. En pocas aventuras se nos aparece Don Quijote más grande que en esta en que se impone su fe a los que se burlan de ella y los lleva a defenderla a punetazos y a coces y a sufrir por ella. ¿Y a qué se debió ello? No a otra cosa sino a su valor de afirmar delante de todos que aquella bacia, que como tal la veía él, lo mismo que los demás, con los ojos de la cara, era el yelmo de Mambrino, pues le hacia oficio de semejante yelmo. No le faltó «ese descarado heroismo d’afirmar que, batendo na terra com pé forte, ou pallidamente elevando os olhos ao Geo cria a traves da universal illusão Sciencias e Religioes», como dice Eça de Queirós al final de su A Reliquia. Es el valor de más quilates el que afronta no daño del cuerpo, ni mengua de la fortuna ni menoscabo de la honra, sino el que le tomen a uno por loco o por sandio. Este valor es el que necesitamos en España, y cuya falta nos tiene perlesiada el alma. Por falta de él no somos fuertes, ni ricos, ni cultos; por falta de él no hay canales de riego, ni pantaños, ni buenas cosechas; por falta de él no llueve más sobre
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malgrado erano rimasti chisciottizzati, e don Fernando si era messo sotto i piedi e pestava un mulattiere, solo perché questi aveva osato sostenere che la bacinella non era elmo, ma bacinella. Ah, l’eroico don Fernando! Eccovi dunque i beffeggiatori di Don Chisciotte beffati da lui, chisciottizzati a loro totale dispetto, e coinvolti nella lite, intenti a battersi a più non posso per difendere la fede del Cavaliere anche senza condividerla. E sono sicuro, sebbene Cervantes non ne parli, sono sicuro, dico, che, dopo le grandi botte date e ricevute, incominciarono i partigiani del Cavaliere, chisciottizzati o elmisti che dir si voglia, a dubitare che la bacinella fosse bacinella e a disporsi a credere che fosse veramente l’elmo di Mambrino, dal momento che a spese delle proprie costole avevano sostenuto quest’opinione. E bisogna a questo punto affermare ancora una volta che sono i martiri a fare la fede, assai più che la fede a fare i martiri. In poche avventure Don Chisciotte ci appare più grande che in questa, nella quale la sua fede si impone a quegli stessi che se ne facevano beffe, e li spinge a difenderla a cazzotti e a pedate ed a soffrire per essa. A che cosa si dovette tutto ciò? Semplicemente al coraggio che egli ebbe di affermare al cospetto di tutti che quella bacinella, che egli stesso vedeva come tale al pari di tutti gli altri, con gli occhi della carne, era invece l’elmo di Mambrino, visto che a lui sembrava proprio come tale. Non gli mancò «quello sfrontato eroismo di affermare che, battendo forte i piedi in terra, o pallidamente levando gli occhi al cielo, crea Scienze e Religioni attraverso l’universale illusione», come dice Eça de Queirós alla fine della sua Reliquia. È il coraggio più puro, quello che affronta non già i danni corporali, la perdita delle fortune o il venir meno dell’onore, ma il pericolo che lo prendano per pazzo o per sciocco. Ed è proprio questo genere di coraggio che occorre a noi spagnoli e la cui mancanza ci tiene paralizzata l’anima. Poiché ci manca questo valore, non siamo forti, né ricchi, né colti; per mancanza di questo coraggio non ci sono in Spagna né canali d’irrigazione, né laghi artificiali, né buoni raccolti; per mancan-
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nuestros secos campos, resquebrajados de sed, o cae a chaparrones el agua, arrastrando el mantillo y arrasando a las veces las viviendas. Qué, ¿también os parece paradoja? Id por esos campos y proponed a un labrador una mejora de cultivo o la introducción de una nueva planta o una novedad agricola y os dirá: «Eso no pinta aquí». «¿Lo habéis probado?», preguntaréis, y se limitará a repetiros: «Eso no pinta aquí». Y no sabe si pinta o no pinta, porque no lo ha probado, ni lo ensayará nunca. Lo probaría estando de antemano seguro del buen éxito, pero ante la perspectiva de un fracaso y tras él la burla y chacota de sus convecinos, tal vez el que le tengan por loco o por iluso o por mentecato, ante esto se arredra y no ensaya. Y luego se sorprende del triunfo de los valientes, de los que arrostran motajos, de los que no se atienen al «en donde fueres haz lo que vieres» y el «¿adónde vas, Vicente?, adonde va la gente!», de los que se sacuden del instinto rebañego. Hubo en esta provincia de Salamanca un hombre singular, que surgido de la mayor indigencia amasó unos cuantos millones. Estos charros del rebaño no se explicaban tal fortuna sino suponiendo que había robado en sus mocedades, porque estos desgraciados, tupidos de sentido comun y enteramente faltos de valor moral, no creen sino en el robo y en la loteria. Más un día me contaron una proeza quijotesca de ese ganadero, el Mosco. Y fue que trajo de las costas del Cantábrico hueva de besugo para echarla en una charca de una de sus fíncas. Y al oírlo me lo expliqué todo. El que tiene valor de arrostrar la rechifla que ha de atraerle forzosamente el traer hueva de besugo para echarla en una charca de Castilla, el que hace esto, merece la fortuna. ¿Que es ello absurdo, decís? ¿Y quién sabe qué es lo absurdo? ¡Y aúnque lo filerá! Solo el que ensaya lo absurdo es
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za di questo coraggio non piove di più sui nostri aridi campi, screpolati dall’arsura, e l’acqua viene giù a rovesci, trascinandosi la terra fertile e, a volte, addirittura le case. Vi pare un paradosso anche questo? Andate, andate in giro per quei campi e proponete ad un contadino una miglioria nella coltivazione o l’introduzione di una nuova pianta o una qualsiasi novità agricola; vi dirà: «Qui non si può». «Avete provato?», domanderete, quello si limiterà a ripetere: «Qui non si può». E non sa se si può o non si può, perché non ha provato e non proverà mai. Farebbe la prova se sapesse in anticipo della buona riuscita; ma, messo di fronte alla prospettiva di un fallimento e, come conseguenza di ciò, delle beffe e delle burlette dei vicini, capacissimi di prenderlo per illuso, per pazzo o per mentecatto, di fronte a tutto questo, dicevo, si tira indietro e non prova. E poi si stupisce del trionfo dei più coraggiosi, di coloro che affrontano sereni anche lo scherno, di quelli che non si attengono ai detti popolari: «paese che vai, usanza che trovi», o «dove vai, Vincenzo? Dove va la gente», di coloro insomma che si scrollano di dosso l’istinto del gregge. Nella provincia di Salamanca vi fu una volta un uomo straordinario che, cresciuto nella più penosa indigenza, riuscì a mettere assieme parecchi milioni. I contadini del gregge non sapevano spiegarsi la sua fortuna se non supponendo che da giovane avesse rubato, perché questi disgraziati, gonfi di senso comune ma completamente privi di coraggio morale, non credono che nel furto o nella vincita al lotto. Ma un giorno mi fu raccontata una prodezza di questo allevatore di bestiame, il Mosco. E consisteva nel fatto che si era fatto venire dalle coste del mar Cantabrico delle uova di pagello per immetterle nello stagno di una delle sue fattorie. Quando sentii questa storia, mi spiegai ogni cosa. Chi ha il coraggio di affrontare gli scherni che devono necessariamente scaturire per essersi procurato uova di pagello da immettere in uno stagno della Castiglia, chi fa una cosa simile, si merita la sua fortuna. Dite che si tratta di una cosa assurda? Ma chi può dire veramente che cosa è assurdo e che cosa non lo è? E poi, ammettiamolo pure! Soltanto chi mette alla prova l’assurdo può
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capaz de conquistar lo imposible. No hay más que un modo de dar una vez en el davo, y es dar ciento en la herradura. Y sobre todo, no hay más que un modo de triunfar de veras: arrostrar el ridículo. Y por no tener valor para arrostrarlo tiene esta gente su agricultura en la postración en que yace. Sí, todo nuestro mal es la cobardía moral, la falta de arranque para afirmar cada uno su verdad, su fe, y defenderla. La mentira envuelve y agarrota las almas de esta casta de borregos modorros, estupidos por opilación de sensatez. Se proclama que hay principios indiscutibles, y cuando se trata de ponerlos en tela de juicio no falta quien ponga el grito en el cielo. No ha mucho pedí que se pidiera la derogación de ciertos artículos de nuestra Ley de Instrucción Pública, y una mazorca de mandrias se pusieron a berrear que era inoportuno e impertinente, y otras palabrotas más fuertes y más groseras. ¡Inoportuno! Estoy harto de oír llamar inoportunas a las cosas más oportunas, a todo lo que corta la digestión de los hartos y enfurece a los tontos. ¿Qué se teme? cQue se trabe y se encienda la guerra civil de nuevo? ¡Mejor que mejor! Es lo que necesitamos. Sí, es lo que necesitamos: una guerra civil. Es menester afirmar que deben ser y son yelmos las bacías y que se arme sobre ello pendencia como la que se armó en la venta. Una nueva guerra civil, con unas o con otras armas. ¿No oís a esos desgraciados de corazón engurrunido y seco que dicen y repiten que estás o las otras disputas a nada práctico conducen? ¿Qué entienden por práctica esas pobres gentes? ¡No oís a los que repiten que hay discusiones que deben evitarse? No faltan menguados que nos estén cantando de continuo el estribillo de que deben dejarse a un lado las cuestiones religiosas; que lo primero es hacerse fuertes y ricos. Y los muy mandrias no ven que por no resolver nuestro íntimo negocio
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conquistare l’impossibile. Non c’è che una maniera di battere almeno una volta sulla testa del chiodo, e consiste nel battere almeno cento volte sul ferro del cavallo. Ma, soprattutto, non c’è che un modo di trionfare davvero: affrontare il ridicolo. E proprio perché non ha il coraggio di affrontarlo, questa nostra gente ha un’agricoltura così in rovina. Sì, il nostro male è la vigliaccheria morale, la mancanza di slancio per affermare ognuno la propria verità, la propria fede e per poi difenderla. La menzogna avvolge e imbavaglia le anime di questa razza di pecoroni immusoniti, stupidi per indigestione di buon senso. Si proclama che vi sono principi indiscutibili e quando si tenta di sottoporli ad un giudizio critico, non manca chi levi altissime grida. Non molto tempo fa, chiesi che si proponesse la deroga a certi articoli della nostra Legge sulla Pubblica Istruzione e una caterva di queste bestie da gregge si mise a gridare che era inopportuna e superflua aggiungendovi parole ancora più forti e grossolane. Inopportuna! Sono stufo di sentire chiamare inopportune le cose più opportune nonché tutto ciò che disturba la digestione di chi è sazio e fa imbestialire gli sciocchi. Di che si ha paura? Che scoppi e si inneschi un’altra volta la guerra civile? Niente di meglio! È la cosa di cui più abbiamo bisogno. Sì, è quello che ci occorre: una guerra civile. Bisogna affermare che devono essere e sono elmi le bacinelle e che in proposito ci si metta a litigare come si litigò all’osteria. Una nuova guerra civile, con armi di qualsiasi genere. Non sentite quei disgraziati dal cuore raggrinzito ed arido che dicono e ripetono che queste ed altre discussioni non portano a nessun risultato utile? Ma che cosa vogliono dire con la parola “utile” questi poveracci! Non sentite quelli che vanno ripetendo che bisogna evitare certe discussioni? Non mancano i pusillanimi che continuano a cantarci il ritornello che è necessario mettere da parte le discussioni religiose; che la prima cosa è di diventare forti e ricchi. E quei bestioni non si accorgono che, se non risolviamo prima il nostro proble-
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no somos ni seremos fuertes ni ricos. Lo repito: nuestra patria no tendrá agricultura, ni industria, ni comercio, ni habrá aquí caminos que lleven a parte adonde merezca irse mientras no descubramos nuestro cristianismo, el quijotesco. No tendremos vida exterior, poderosa y espléndida y gloríosa y fuerte mientras no encendamos en el corazón de nuestro pueblo el fuego de las eternas inquietudes. No se puede ser rico viviendo de mentira, y la mentira es el pan nuestro de cada día para nuestro espíritu. ¿No oís a ese burro grave que abre la boca y dice: «¡Eso no puede decirse aquí!»? ¿No oís hablar de paz, de una paz más mortal que la muerte misma, a todos los miserables que viven presos de la mentira? ¿No os dice nada ese terrible artículo, padrón de ignominia para nuestro pueblo, que figura en los reglamentos de casí todas las sociedades de recreo de España, y que dice: «se prohiben discusiones políticas y religiosas»? ¡Paz!, ¡paz!, ¡paz! Croan a coro todas las ranas y los renacuajos todos de nuestro charco. ¡Paz!, ¡paz!, ¡paz! Sí, sea, paz, pero sobre el triunfo de la sinceridad, sobre la derrota de la mentira. Paz, pero no una paz de compromiso, no un miserable convenio como el que negocian los políticos, sino paz de comprensión. Paz, sí, pero después que los cuadrilleros reconozcan a Don Quijote su derecho a afirmar que la bacía es yelmo; más aún: después que los cuadrilleros confiesen y afirmen que en manos de Don Quijote es yelmo la bacía. Y esos desdichados que gritan «¡paz!, ¡paz!» se atreven a tomar en labios el nombre de Cristo. Y olvidan que el Cristo dijo que Él no venía a traer paz, sino guerra, y que por Él estarían divididos los de cada casa, los padres contra los hijos, los hermanos contra los hermanos. Y por Él, por el Cristo, para establecer su reinado, el reinado social de Jesús – que es todo lo contrario de lo que llaman los jesuitas el reinado social de Jesucristo –, el reinado de la sinceridad y de la verdad y del amor y de la paz verdaderas; para establecer el reinado de Jesús tiene que haber guerra.
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ma più intimo, non siamo e non saremo mai né forti, né ricchi. Lo ripeto: la nostra patria non avrà agricoltura, né commercio, né strade che portino in qualche luogo dove meriti di andare, finché non avremo scoperto il nostro cristianesimo, quello chisciottesco. Non avremo una vita esteriore potente, splendida, gloriosa e forte finché non avremo acceso nel cuore del nostro popolo il fuoco delle eterne inquietudini. Non si può essere ricchi finché si vive di menzogna, e la menzogna è il pane quotidiano che offriamo al nostro spirito. Non sentite» quel serioso somaro che apre la bocca e dice: «Qui non si possono dire certe cose!». Non sentite parlare di pace, di una pace ancora più mortale della stessa morte, da tutti quei miserabili che vivono prigionieri della menzogna? Non vi dice nulla quel terribile articolo segno di ignominia per il nostro popolo, che figura nei regolamenti di quasi tutte le associazioni ricreative spagnole e che dice; «Le discussioni politiche e religiose sono vietate». Pace! Pace! Pace! Così gracidano in coro tutte le rane e i ranocchi della nostra palude. Pace! Pace! Pace! Sì, venga pure la pace, ma solo dopo il trionfo della sincerità, dopo la sconfitta della menzogna. Pace, sì; ma non una pace di compromesso, non un misero accordo simile a quelli che negoziano tra loro gli uomini politici, bensì una pace di mutua comprensione. Pace, sì; ma dopo che i mulattieri abbiano riconosciuto a Don Chisciotte il suo diritto di affermare che la bacinella è un elmo; inoltre: dopo che gli stessi mulattieri abbiano confessato ed affermato che in mano a Don Chisciotte la bacinella è elmo. E quei disgraziati che gridano: « Pace! Pace!» hanno il coraggio di parlare col nome di Cristo sulle labbra! E dimenticano che Cristo stesso disse che veniva non a portare la pace, ma la guerra, e che per Lui sarebbero stati nemici quelli di una stessa casa, i padri contro i figli, i fratelli contro i fratelli. E per Lui, per il Cristo, per fondare il suo regno, il regno sociale di Gesù – che è perfettamente l’opposto di quello che i Gesuiti chiamano regno sociale di Gesù Cristo –, il regno della sincerità, della verità, dell’amore e della vera pace; per stabilire il regno di Gesù, dicevo, bisogna che venga la guerra.
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¡Raza de víboras la de esos que piden paz! Piden paz para poder morder y roer y emponzonar más a sus anchas. De ellos dijo el Maestro que «ensanchan sus filacterias y estienden los flecos de sus mantos» (Mt., XXIII, 5). ¿Sabéis qué es esto? Eran las filacterias unas cajitas que contenían pasajes de la Escritura y que llevaban los judios en la cabeza y el brazo izquierdo en ciertas ocasíones. Eran como esos amuletos que se cuelga al cuello de los niños para preservarles de no sé qué mal y consisten en unas bolsitas, bordadas muy cucamente, con lentejuelas, por alguna monja que, bordándolas, mató el aburrimiento, y dentro de las cuales bolsas se mete unos papelitos en que van impresos pasajes del Evangelio que jamás habrá de leer el niño que lleva al cuello el amuleto, y en latín dichos pasajes, para mayor claridad. Eso eran las filacterias, y llevaban además los fariseos en los flecos o randas de los mantos pasajes también de las Escrituras. Era como eso que hoy llevan muchos sobre la solapa de la levita o de la chaqueta: un corazón pintado en un disco de seco y duro barro. Y estos del amuleto, de la filacteria moderna, estos y sus congéneres son los que osan hablar de paz y de oportunidad y de pertinencia. No, ellos mismos nos han enseñado la fórmula: no caben nefandos contubernios entre los hijos de la luz y de las tinieblas. Y ellos, los cobardes servidores de la mentira, son los hijos de las tinieblas, y nosotros, los fieles de Don Quijote, somos los hijos de la luz. Y volviendo a la historia vemos que se sosegaron todos, pero uno de los cuadrilleros empezó a examinar a Don Quijote, contra quien llevaba mandamiento de prisión por haber libertado a los galeotes, y asíole del cuello y pidió ayuda a la Santa Hermandad, pero revolviose el Caballero contra él y por poco lo ahoga. Separáronlos, pero los cuadrilleros pedían su presa, «aquel robador y salteador de sendas y de carreras». «Reíase de oir decir estas razones Don Quijote», reíase y hacía bien en reírse, él, de quien los otros se reían; reíase con risa heroica y caballeresca, no burlona, y con mucho sosiego les reprendió por llamar saltear caminos a «acorrer a los mi-
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Che razza di vipere sono coloro che chiedono la pace! Chiedono pace per poter mordere, rodere e avvelenare più comodamente. Di loro disse il Maestro che «allargano i loro filattèri e allungano le frange dei loro mantelli» (Mt., XXIII, 5). Sapete di che si tratta? I filattèri erano certe scatolette contenenti passi delle Sacre Scritture, che i Giudei portavano sul capo o al braccio sinistro in determinate occasioni. Erano simili agli amuleti che si appendono al collo dei bambini per preservarli da non so quali malanni, e che consistono in certe borsette, ricamate con molta eleganza e tanti lustrini da qualche monaca che lavorandoci ammazzò il tempo e la noia, e nei quali si mettono dei foglietti con stampati brani del Vangelo che il bambino che porta al collo l’amuleto forse non leggerà mai. E i versetti, per risultare più chiari, sono scritti addirittura in latino! Erano dunque questi i filattèri, che ancora oggi molti portano all’occhiello della velada o della giacca: un cuore dipinto su un disco di terracotta arida e dura. E questa gente che porta l’amuleto, questa gente che s’adorna con i moderni filattèri, questa gente e i suoi congeneri sono quelli che osano parlare di pace, di opportunità e di penitenza. No, sono proprio essi ad averci insegnato la formula: non si ammettono nefandi intrighi tra i figli della luce e quelli delle tenebre. Sono essi, i codardi schiavi della menzogna, i figli delle tenebre; ma noi, i fedeli di Don Chisciotte, siamo i figli della luce. Ma, tornando alla nostra storia, apprendiamo che tutti si calmarono, ma uno degli sbirri cominciò a squadrare dalla testa ai piedi Don Chisciotte, contro il quale portava un mandato di cattura perché aveva liberato i galeotti; l’afferrò per il collo e chiese aiuto alla Santa Fratellanza. Ma il Cavaliere gli si rivoltò e per poco non lo strozzava. Li divisero, ma gli sbirri esigevano la loro preda, «quel masnadiero e brigante di strade maestre e di sentieri. «Don Chisciotte, sentendosi dare simili titoli, se la rideva»; se la rideva e faceva benissimo a ridersela, lui, alle spalle del quale se la ridevano gli altri, e rideva di un riso eroico e cavalleresco, non di un riso beffardo, e con molta pacatezza li rimbrottò, perché osavano definire rapinare sulle strade maestre «il
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serables, alzar los caídos, remedíar los menesterosos». Y allí, arrogante y noble, invocó su fuero de caballero andante, cuya «ley es su espada, sus fueros sus bríos, sus premáticas su voluntad». ¡Bravo, mi señor Don Quijote, bravo! La ley no se hizo para ti, ni para nosotros tus creyentes; nuestras premáticas son nuestra voluntad. Dijiste bien; tenías bríos para dar tu solo cuatrocientos palos a cuatrocientos cuadrilleros que se te pusieran delante, o por lo menos para intentarlo, que en el intento está el valor.
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soccorrere i miseri, sollevare i caduti, provvedere ai bisognosi». E a questo punto, altezzoso e nobile, invocò il suo buon diritto di cavaliere errante, la cui «legge è la spada, tribunali il loro valore, cerimonie la loro volontà». Bravo, mio signor Don Chisciotte, bravissimo! La legge non fu fatta per te, né per noi che crediamo in te; le nostre cerimonie sono la nostra volontà. Hai detto bene; avevi il coraggio sufficiente per dare, da solo, quattrocento legnate a quattrocento sbirri, se tanti te ne fossero venuti tra i piedi o, almeno, per tentare di farlo, giacché nel tentare sta il volere.
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de la notable aventura de los cuadrilleros y la gran ferocidad de nuestro buen Caballero Don Quijote Y así los cuadrilleros hubieron de resignarse a pretexto de estar Don Quijote loco, y el barbero hubo de avenirse a que la bacía era yelmo merced a ocho reales que por ella le dio el cura a socapa, que si por aquí hubiesen empezado habríase evitado la pendencia, pues no hay barbero antiquijotano o baciísta que por ocho reales no declare que son yelmos las bacías todas habidas y por haber, y más si antes le han carmenado las costillas por sostener lo contrario. Y ¡qué bien conocía el cura la manera de hacer confesar la fe a los barberos, que andan muy cerca de los carboneros! No sé cómo no se ha hecho la fe del barbero tan proverbial como la del carbonero. Lo merece. Y no bien había llevado Don Quijote a sus burladores a pelear por fe que no compartían y lo sosegó luego todo, cuando trataron de enjaularle y Io pusieron por obra, disfrazándose para ello. Solo disfrazados pueden los burladores enjaular al Caballero. Encerráronle en una jaula, clavaron los maderos y le sacaron en hombros con unas ridículas palabras que declaró maese Nicolás para hacer creer a Don Quijote que iba encantado, como lo creyó. Y luego acomodaron la jaula en un carro de bueyes.
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della memorabile avventura dei quadriglieri e del fiero coraggio del nostro prode Cavaliere Don Chisciotte Così gli sbirri dovettero rassegnarsi dinanzi al pretesto che Don Chisciotte era pazzo e il barbiere dovette convenire che la bacinella era elmo, grazie anche a otto reali che il curato gli passò di sottobanco per compensarlo della perdita. E se l’avesse fatto fin da principio, si sarebbe evitata la baruffa, poiché non c’è barbiere anti-chisciottesco o bacilista che per otto reali non sia pronto a dichiarare che sono elmi tutte le bacinelle esistite o che esisteranno, tanto più se prima gli hanno pestato per bene le costole per aver sostenuto l’opinione opposta. Come la conosceva bene, il curato, l’arte di far confessare la vera fede ai barbieri, che sono poi parenti stretti dei carbonai. Non so come mai non sia diventata proverbiale la fede del barbiere, così come lo è diventata quella del carbonaio. Eppure lo meriterebbe. Don Chisciotte aveva appena finito di costringere, prima, i suoi beffeggiatori a battersi per una fede che non condividevano, e poi di riportare la pace in quella confusione, che quelli pensarono di metterlo in gabbia e vi riuscirono travestendosi a tal fine. Solo travestendosi, i beffatori possono riuscire a mettere in gabbia il Cavaliere. Lo rinchiusero, dunque, in una gabbia, ne inchiodarono le sbarre e se lo caricarono sulla spalle con certe ridicole frasi che mastro Nicola recitò per far credere a Don Chisciotte che era vittima di un incantesimo, a cui il nostro hidalgo credette veramente. Poi deposero la gabbia su di un carro di buoi.
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del extraño modo con que fue encantado Don Quijote de la Mancha, con otros famosos sucesos ¡Encerrado en una jaula de madera drada en carro de bueyes! Muchas y muy graves historias de caballeros andantes había leído Don Quijote, pero jamás vio ni oyó que les llevasen de tal manera a los caballeros andantes, sino siempre por los aires «con extraña ligereza, encerrados en alguna parda y oscura nube o en algún carro de fuego». Pero es que la caballeria y los encantos de su tiempo seguían otro camino distinto del seguido por los antiguos, y así cumplía para que se consumase la burlesca pasión de nuestro Caballero. El mundo obliga a los caballeros a ir encerrados en jaula y a paso de buey. Y aun finge que fiora al verlos ir así, como lo fingieron la ventera, su hija y Maritornes. Y emprendió su camino la carreta, entre los cuadrilleros, llevando Sancho de la rienda a Rocinante. «Don Quijote iba sentado en la jaula, las manos atadas, tendidos los pies y arrimado a las verjas con tanto silencio y tanta paciencia como si no filerá hombre de carne…». Y claro que no lo era, sino hombre de espíritu. Admiremos una vez más a Don Quijote en esta aventura, en su silencio y en su paciencia. Y no paró aquí su pasión, sino que yendo así hubo de topar con un canónigo, hombre de sobrado sentido común. Y a las primeras de cambio, enterándole Don Quijote de quién era, le mostró ingenuamente el fondo de su heroismo al decirle que
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del curioso modo in cui Don Chisciotte della Mancia fu incantato, nonché di altri celebri avvenimenti Rinchiuso in una gabbia di legno tirata da un carro di buoi! Don Chisciotte aveva letto molte e celeberrime storie di cavalieri erranti, ma non aveva mai visto né udito che si trasportassero in tal modo i cavalieri erranti; sapeva invece che venivano sempre trasportati per aria «con mirabile rapidità, racchiusi in una grigia ed opaca nube o su qualche carro di fuoco». Ma la verità è che la cavalleria e gli incantesimi del suo tempo seguivano una strada totalmente diversa rispetto a quella seguita dagli antichi; e ciò affinché si consumasse la passione burlesca del nostro Cavaliere. Il mondo obbliga i Cavalieri a procedere rinchiusi in una gabbia e al lento passo dei buoi. Ed ha ancora il coraggio di fingere di piangere nel vederli procedere in questo modo, proprio come finsero l’ostessa, sua figlia e Maritornes. Così il carro si avviò, circondato dagli sbirri e seguito da Sancio che conduceva per le briglia Ronzinante. «Don Chisciotte stava seduto nella gabbia, con le mani legate, con i piedi distesi, appoggiato alle sbarre, così silenzioso e paziente come se non fosse di carne…». E di carne non era davvero, bensì di spirito. Ammiriamo ancora una volta Don Chisciotte in quest’avventura per il suo silenzio e la sua pazienza. Ma non finì qui la sua passione, perché mentre procedevano così toccò loro di imbattersi in un canonico, uomo dotato di un eccesso di senso comune. E alla prima occasione, Don Chisciotte, nell’informarlo su chi fosse, gli mostrò ingenuamente il fondo del suo eroismo, dicendogli che era un cavaliere errante,
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era caballero andante, pero no de los olvidados de la fama, sino de aquellos que ha de poner esta «su nombre en el tempio de la inmortalidad, para que sirva de ejemplo y dechado de los venideros siglos». ¡Oh, mi heroico Caballero, que encerrado en jaula y a paso de bueyes llevado aún crees, y crees bien, que tu nombre será puesto para los venideros siglos en el templo de la inmortalidad! Se admiró el canónigo al oír a Don Quijote y aún más de oír al cura confirmar lo dicho por él, cuando vele aquí que Sancho metió su malicioso juicio, dudando fuese encantado su amo, pues comía, bebía, hablaba y hacía sus necesidades, y encarándose con el cura le echó en rostro la su envidía. Acertaste, fiel escudero, acertaste; la envidía y solo la envidía enjauló a tu amo; la envidía disfrazada de caridad, la envidía de los hombres cuerdos que no pueden sufrir locura heroica, la envidía, que ha erigido al sentido comun en tirano nivelador. Esclavos de él eran el canónigo y el cura, es natural!, y se pusieron a departir aparte, ensartando el primero un sin fin de ramplonadas y oquedades a cuenta de literatura. ¡Y cuán profundamente castellana fue aquella plática entre canónigo y cura! En el contacto y trato de estos espíritus alcomoquenos, lejos de gastárseles el corcho de que están recubiertos se les acrecienta, como con el roce crece, en vez de menguar, el callo. ¡Qué alegría hubieron de sentir al encontrarse tan razonables el uno para el otro! Está visto que esta casta solo llega a lo eterno humano, a lo divino más bien, o cuando rompe, gracias a la locura, la corteza que le aprisiona el alma, o cuando con la simplicidad lugarena le rezuma el alma de ella. No le falta inteligencia, sino le falta espíritu. Es brutalmente sensata, y el supuesto espiritualismo cristiano que dice profesar no es, en el fondo, sino el más crudo materialismo que puede concebirse. No le basta sentir a Dios, quiere que le demuestren matemáticamente su existencia, y aún más, necesita tragárselo.
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ma non di quelli che dimentica la fama, bensì di quegli altri che «scriveranno il loro nome nel tempio dell’immortalità per servire da esempio per i secoli venturi». Oh, mio eroico Cavaliere che, sebbene rinchiuso in gabbia e condotto al lento passo dei buoi, tuttavia credi ancora, e fai bene a crederlo, che il tuo nome sarà posto nel tempio dell’Immortalità per i secoli futuri! Il canonico si stupì nell’ascoltare Don Chisciotte ed ancora di più nell’udire il curato confermare tutto ciò che aveva detto lui; ma ecco che Sancio volle intromettersi col suo malizioso giudizio, dubitando che il suo padrone avesse subito davvero un incantesimo, poiché mangiava, beveva, parlava e provvedeva alle sue necessità corporali e, rivolto al curato, gli rinfacciò l’invidia che lo rodeva. Eri nel vero, fedele scudiero, eri nel vero; l’invidia, soltanto l’invidia aveva chiuso in gabbia il tuo padrone; l’invidia travestita da carità, l’invidia degli uomini saggi che non possono sopportare l’eroica follia, l’invidia che ha innalzato il senso comune a tiranno livellatore. Ne erano schiavi – è naturale – il canonico e il curato e si misero a sussurrare in disparte, mentre il primo infilava una sequenza infinita di bestialità e di volgarità intorno alla letteratura. Come fu profondamente spagnola e castigliana quella conversazione tra canonico e curato! Quando simili spiriti duri si toccano ed entrano in contatto, lungi dal consumarsi, il sughero di cui sono ricoperti va crescendo a misura che si strofinano a vicenda, proprio come fa il callo. Che soddisfazione dovettero provare nel vedersi così ragionevoli! È chiaro che questa casta può giungere all’eternità umana, forse, meglio sarebbe dire “divina”, o quando, grazie alla follia, spezza la corteccia che ne imprigiona l’anima, o quando l’anima stessa emerge con l’ingenuità paesana. Non sono privi d’intelligenza: è lo spirito che manca loro. È una casta brutalmente sensata, e il supposto spiritualismo cristiano che dice di professare altro non è, in fondo, che il più crudo materialismo che sia dato concepire. Non le basta sentire Dio; questa gente vuole che le dimostrino matematicamente la sua esistenza; inoltre, lo vuole addirittura inghiottire.
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donde prosigue el canónigo la materia de los libros de caballerías, con otras cosas dignas de su ingenio Mientras cura y canónigo se satisfacían con vulgaridades, llegose Sancho a su amo y le reveló lo de ir allí el cura y el barbero del lugar, replicándole Don Quijote que bien podrían parecerle ellos mismos, pero no por eso debía creer que lo fuesen realmente, sino cosa de encantamiento para dar ocasión al pobre escudero a ponerse en un laberinto de imaginaciones. Y así es en verdad, que ni los curas ni los barberos son lo que parecen, sino figuras de encantamiento para meternos en un laberinto de imaginaciones. Y agregó el Caballero: «Yo me veo enjaulado y sé de mi que fuerzas humanas, como no fueran sobrenaturales, no fueran bastantes a enjaularme; ¿qué quieres que diga o piense sino que la manera de mi encantamiento excede a cuantas yo he leído?». ¡Oh fe robusta y maravillosa! No hay, en efecto, fuerza humana que pueda esclavizar y enjaular de veras a otro hombre, pues cargado de grilletes y esposas y cadenas será siempre libre el libre, y si alguien se ve sin movimiento es que se halla encantado. Habláis de libertad y buscáis la de fuera; pedís libertad de pensamiento en vez de ejercitaros en pensar. Desea con ansia volar, aunque llevado en el encierro de una jaula y a paso de buey, y tu deseo hará que te broten alas, y la jaula se te ensanchará convirtiéndosete en Universo y volarás por su firmamento. Todo contratiempo que te ocurra ten por seguro
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dove il canonico continua l’argomento dei libri cavallereschi e tratta altre cose degne del suo ingegno Mentre curato e canonico si saziavano di volgarità, Sancio si avvicinò al suo padrone e gli svelò che c’erano con loro il curato e il barbiere del paese; e Don Chisciotte gli rispose che poteva darsi benissimo che gli paressero proprio loro, ma che non per questo doveva credere che lo fossero realmente; si trattava senza dubbio di un incantesimo destinato a dar adito al povero scudiero a perdersi in un labirinto di fantasie. E così stanno realmente le cose, poiché né i curati né i barbieri sono ciò che sembrano, ma sono invece figure magiche fatte appositamente per farci smarrire in un labirinto di fantasie. E soggiunse il Cavaliere: «Mi vedo ingabbiato mentre so che nessun potere umano, pur non essendo soprannaturale, sarebbe sufficiente ad ingabbiarmi; che vuoi che dica o creda se non che la forma del mio incantesimo supera quanto ne ho lette?». Oh, fede robusta e mirabile! Non c’è infatti forza umana che possa rendere schiavo e ingabbiare veramente un altro uomo, poiché, anche carico di ceppi, manette e catene, chi è libero, sarà sempre libero; e se mai qualcuno si trova impedito coi movimenti e perché si ritrova stregato. Parlate di libertà, ma cercate solo quella esteriore; e chiedete libertà di pensiero, invece di esercitarvi a pensare. Prova a desiderare con impegno di volare, anche se sei portato in giro nel chiuso di una gabbia e al lento passo dei buoi, il tuo desiderio farà sì che ti spuntino le ali, e la tua gabbia si allargherà fino a diventare Universo e potrai volare per il suo firmamento. Ogni contrarietà che possa arrestarti, sii
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que proviene de encantamientos, pues no hay hombre capaz de enjaular a hombre. Pero Sancho no cejaba en su propósito; para probarle a su amo que no iba encantado, como creía, le preguntó si le había venido gana de hacer lo que no se excusa, a lo que respondió Don Quijote: «Ya, ya te entiendo, Sancho; y muchas veces, y aún ahora la tengo; sácame deste peligro, que no anda todo limpio».
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certo che deriva da un incantesimo poiché non c’è uomo che possa ingabbiare un altro uomo. Ma Sancio non cedeva; per provare al suo padrone che non era sotto l’influsso di un incantesimo, come riteneva, gli domandò se non gli fosse venuta voglia di fare ciò che nessuno può fare a meno di fare; al che Don Chisciotte rispose: «Ah, sì, sì, ora ti capisco, Sancio! Eh, sì, più d’una volta mi è venuta, anzi!; ce l’ho anche ora. Liberami da questo pericolo, perché è un affare un po’ sporco!».
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capítulo xlix
donde se trata del discreto coloquio que Sancho Panza tuvo con su señor Don Quijote Y entonces Sancho, triunfante, exclamó: «¡cogido le tengo!», queriendo por ello probarle que no iba, en verdad, como en verdad iba, encantado. A lo que respondió el Caballero: «Verdad dices, Sancho, pero ya te he dicho que hay muchas maneras de encantamientos». Claro está, tantas como personas. Y de que sea uno esclavo de su cuerpo, jaula estrecha y pobre y más a paso de buey llevada que aquella en donde iba encantado nuestro hidalgo, de que sea uno esclavo de su cuerpo no se ha de sacar que no es toda la vida de este bajo mundo sino puro encantamiento. así discurren los Sanchos materialistas, que deducen no hay sino lo aparencial y lo que se ve y se toca y se huele de que tengamos todos, héroes y no héroes, que hacer aguas menores y mayores. La necesidad de tener que hacer lo que no se excusa es el argumento Aquiles del sanchopancismo filosófico, disfrácese como se disfrazare. Pero bien dijo Don Quijote: «Yo sé y tengo para mi que voy encantado, y esto me basta para la seguridad de mi conciencia». ¡Admirable respuesta que pone la seguridad de la conciencia por encima de los engaños de los sentidos! ¡Admirable respuesta que pone a las necesidades de limpiarse el cuerpo la necesidad de asegurarse la conciencia! Rara vez se ha dado una más robusta fórmula de la fe. Lo que basta para la seguridad de la conciencia, eso es la verdad y solo eso. La verdad no es relación lógica del mundo aparencial a la
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dove si tratta del saggio discorso che Sancio Panza ebbe col suo signore Don Chisciotte Allora Sancio esclamò trionfante: «Ho visto giusto!» intendendo provargli che non era davvero così, come invece era in realtà, stregato. Al che il Cavaliere rispose: «È vero, Sancio; però ti ho detto che vi sono molte forme di incantesimo». E si capisce: sono tanti quante sono le persone. Ma dal fatto che uno sia schiavo del proprio corpo, gabbia angusta, meschina e condotta a passi lenti di buoi, più che non quella in cui giaceva stregato il nostro hidalgo; che uno sia schiavo del proprio corpo, dico, non si deve dedurre che tutta la vita di questo infimo mondo non sia altro che puro incantesimo. Così ragionano i Sanci materialisti che deducono che esiste solo ciò che è apparenza, si vede, si tocca e si fiuta; che tutti, eroi e non eroi, siamo obbligati a sbrigare le nostre necessità corporali grandi e piccole. La necessità di fare ciò di cui non si può fare a meno di fare, è l’argomento d’Achille del sanciopanzismo filosofico, si travesta pure come vuole. Ma diceva benissimo Don Chisciotte: «Io so e credo di essere stregato: il che mi basta per la certezza della mia coscienza». Mirabile risposta, che colloca la certezza della coscienza al di sopra degli inganni dei sensi! Mirabile risposta che oppone alla necessità di ripulirsi il corpo, la necessità di aver pulita la coscienza! Rare volte è stata pronunciata una più salda formula per definire la fede. Ciò che è sufficiente a garantire la certezza della coscienza è il vero, e soltanto ciò lo è. La verità non è una relazione logica del mondo apparente con la
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razón, aparencial también, sino que es penetración íntima del mundo sustancial en la conciencia, sustancial también. Sacáronle a Don Quijote de la jaula para que hiciese lo que no se excusa, y limpio ya su cuerpo pasó por otra más dura prueba, y fue tener que oír las hueras sensateces del canónigo, empeñado en demostrarle que ni iba encantado ni había caballeros andantes en el mundo. Y a ello respondió muy bien Don Quijote que si no era cierto lo de Amadis y Fierabrás no lo seria más lo de Héctor y los Doce Pares y Roldán y el Cid. Y así es, como ya he dicho, pues hoy hay más realidad en el Cid que en Amadis o en Don Quijote mismo? Más el canónigo, hombre de dura cerviz y tupido de bastísimo sentido comùn, se salió, como todos los ergotistas más o menos canónigos, con simplezas como la de no haber duda de que hubo Cid, ni menos Bernardo del Carpio, pero si de que hicieran las hazañas que de ellos se cuentan. Era, al parecer, el tal canónigo uno de esos pobres hombres que manejan la crítica o cedazo y se ponen a puntualizar, papelotes en mano, si tal cosa fue o no como se cuenta, sin advertir que lo pasado no es ya y que solo existe de verdad lo que obra, y que una de esas llamadas leyendas, cuando mueve a obrar a los hombres, encendiéndoles los corazones, o les consuela de la vida, es mil veces más real que el relato de cualquier acta que se pudra en su archivo.
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ragione, che è anch’essa apparente, ma è piuttosto penetrazione intima del mondo sostanziale nella coscienza che è anch’essa sostanziale. Fecero uscire Don Chisciotte dalla gabbia per fare quello che non poteva fare a meno di fare; e dopo, ripulitosi così il corpo, dovette affrontare una prova ancora più dura, e fu quella di essere costretto ad ascoltare le vuote sensatezze del canonico, impegnato a dimostrargli che né lui era stregato, né esistevano al mondo cavalieri erranti. E a tutto ciò Don Chisciotte rispose ottimamente, dicendo che se non erano vere le storie di Amadigi e di Fierabraccio, non potevano esserlo di più quelle di Ettore, dei Dodici Pari, di Orlando e del Cid. Ed è proprio così, come del resto ho già avuto occasione di dire: è forse più reale, oggi, il Cid che Amadigi o lo stesso Don Chisciotte? Ma il canonico, uomo di dura cervice e gonfio di rozzissimo buon senso, se la cavò, come tutti i cavillosi più o meno canonici, con certe scempiaggini del tipo di quella che, pur non essendoci dubbio sull’esistenza del Cid e di Bernardo del Carpio, tuttavia si può dubitare che abbiano compiuto le imprese che di loro si narrano. A quanto pare, quel bravo canonico era uno di quei poveri uomini che maneggiano la critica come fosse un setaccio e si mettono a sofisticare, scartoffie alla mano, se la tale o la tal altra cosa siano avvenute o no come si racconta, senza rendersi conto che il passato non esiste più e che esiste realmente soltanto ciò che agisce e che una di quelle che si sogliono chiamare leggende, quando spinge gli uomini ad agir accendendone i cuori, o li consola dei mali della vita, è mille volte più reale che non il racconto di un qualsiasi scartafaccio che imputridisce negli archivi.
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capítulo l
de las discretas altergaciones que Don Quijote y el canónigo tuvieron, con otros sucesos ¿Que no son ciertos los libros de caballerías? «Léalos y verá el gusto que recibe de su leyenda», retrucó triunfadoramente Don Quijote. ¡Válgame Dios, y que no comprendiese el canónigo la fuerza incontrastable de este argumento, cuando había otras tantas cosas tenidas por él como las más verdaderas de todas, más verdaderas aún que las percibidas por el sentido, y cosas cuya verdad se saca del consuelo y provecho que se recibe de ellas y de que bastan para la seguridad de la conciencia! Que todo un canónigo de la Santa Iglesia Católica Apostólica Romana no comprendiese cómo el consuelo, por ser consuelo, ha de ser verdad, y no hayamos de buscar en la verdad lógica consuelo. ¡Oh, y si aplicándolo a los libros de caballería celestial o de ultratumba le hubiesen retrucado al canónigo el argumento! ¿Qué habría dicho entonces? Si los argumentos que él enderezaba contra la locura caballeresca se los hubiesen rebotado enderezados contra la locura de la cruz? Don Quijote esgrimió el tan socorrido argumento del consentimiento de las gentes; ¿por qué no había de tener valor en su boca? Y sobre todo, «de mi sé decir – añadió – que después que soy caballero andante soy valiente, comedido, liberal, bien criado, generoso, cortés, atrevido, blando, sufridor de trabajos…». ¡Suprema razón! Suprema razón que no podía rechazar el canónigo, pues sabía bien
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delle sapienti dispute tra Don Chisciotte e il canonico, e di altri eventi Non sono veri i libri di cavalleria? «Li legga e vedrà il diletto che gliene verrà», ribatte trionfalmente Don Chisciotte. Santo cielo, è mai possibile che il canonico non capisse la forza irrefutabile di questo argomento, quando c’erano tante altre cose da lui considerate come le più vere di tutte, ancora più vere di quelle percepite attraverso i sensi, e cose la cui verità si deduce dal conforto e dal giovamento che se ne riceve e che sono sufficienti ad assicurare la sicurezza della coscienza! Che addirittura un canonico della Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana non capisse che il conforto, proprio perché è conforto, dev’essere vero e che non possiamo andarlo a cercare nella verità logica! Oh, se avessero ribattuto l’argomento del canonico applicandolo ai libri di cavalleria celeste o d’oltretomba! Che avrebbe detto allora? Se gli argomenti che egli brandiva contro la follia cavalleresca glieli avessero ribattuti rivolgendoli contro la follia della Croce? Don Chisciotte si giovò del consueto argomento del consenso generale; giusto! Ma perché non avrebbe dovuto aver valore, sulle sue labbra? E soprattutto, «per parte mia le so dire, aggiunse, che da quando sono cavaliere errante sono valoroso, garbato, liberale, magnanimo, cortese, mite, paziente, tollerante alle fatiche…». Ragione suprema! Ragione suprema che il canonico non poteva respingere, poiché sapeva bene che
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que de haber hecho a los hombres humildes, mansos, caritativos y prontos a sufrir hasta la muerte, se deduce la verdad de las leyendas que los hacen tales. Y si no los hacen así, entonces son mentira y no verdad las leyendas. Pero con qué canónigos se topa uno, Dios mío, por esos andurriales de la vida! A este con que topó Don Quijote, y que era la sesudez en pasta, ¿no podría habérsele desentrañado un añico siquiera de locura? Es muy de dudarlo; el seso le había carcomido las entranas. Estos hombres tan razonables no suelen tener sino razón; piensan con la cabeza tan solo, cuando se debe pensar con todo el cuerpo y con toda el alma. No consiguió el canónigo convencer a Don Quijote, ni era posible le convenciese. ¿Y por qué? Por la razón misma que decía Teresa de Jesús (Vida, XVI, 5) que no logran los predicadores que dejen los pecadores sus vicios públicos: «porque tienen mucho seso los que los predican» y «no están sin él con el gran fuego del amor de Dios como lo estaban los apóstoles y ansí calienta poco esta llama». Y así Don Quijote había movido a sus burladores a que sostuvieran y defendieran, a costa de sus costillas, que la bacía no era bacía, sino yelmo, y el sesudo canónigo no logró convencerle a él de que no hubiese habido caballeros andantes en el mundo, porque Don Quijote, con el gran fuego del amor de Dulcinea, encendido y atizado secretamente por aquellas cuatro furtivas visitas a Aldonza en doce años de pesar, estaba sin seso y calentaba su llama a cuantos de buena fe se le acercaban. No hay sino ver a Sancho, que gracias a ello sintió que hasta conocer a su amo había vivido, aun sin saberlo, en arrecidísima vida.
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dall’aver fatto gli uomini umili, mansueti, caritatevoli e pronti a soffrire fino alla morte, si deduce la verità della leggenda che tali li hanno fatti. Cioè, se non li facessero così, allora le leggende sarebbero menzogne e non verità. Ma con che razza di canonici ci si imbatte, mio Dio, per i sentieri della vita! A questo, nel quale s’imbatté Don Chisciotte e che era l’assennatezza in persona, non poteva essergli spuntato non foss’altro che un briciolo di follia? C’è poco da crederci, il cervello gli aveva distrutto le viscere. Questi uomini, che sono così ragionevoli, non sogliono aver altro che la ragione; pensano soltanto con la testa mentre si dovrebbe pensare con tutto il corpo e con tutta l’anima. Il canonico non riuscì a convincere Don Chisciotte, ed era del resto impossibile che lo convincesse. E perché? Per la stessa ragione per la quale Teresa di Gesù diceva (Vita, XVI, 5) che i predicatori non riescono a fare abbandonare dai peccatori le loro pubbliche colpe, «perché quelli che predicano lo fanno in modo troppo cerebrale» e «non hanno il gran fuoco dell’amore di Dio come gli apostoli e perciò la loro fiamma scalda poco». E così Don Chisciotte aveva spinto i suoi beffeggiatori a sostenere a spada tratta, anche se ci andavano di mezzo le costole, che la bacinella era elmo e non bacinella e il saggio canonico non riuscì a convincere lui che non c’erano mai stati al mondo cavalieri erranti, poiché Don Chisciotte per il gran fuoco d’amore di Dulcinea, infiammato e fomentato segretamente da quelle quattro furtive visite fatte alla sua Aldonza in dodici anni di meditazione, era privo di senno, ma la sua fiamma riscaldava quanti gli si accostavano in buona fede. E basti osservare Sancio che, grazie a questo, sentì che, prima di conoscere il suo padrone, aveva vissuto sempre, senza rendersene conto, una vita gelida.
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que trata de lo que contó el cabrero a todos los que llevaban a Don Quijote y de la pendencia que Don Quijote tuvo con el cabrero, con la rara aventura de los disciplinantes, a quien dio felice fin a costa de su sudor O currió luego el lance del cabrero y la aventura de los disciplinantes, y a los pocos días entraron al enjaulado Caballero en su aldea, al mediodía de un domingo, para mayor burla y chacota. Y volvió Sancho lleno de fe en las caballerías, como se lo mostró a su mujer, pues «es linda cosa esperar los sucesos atravesando montes, escudriñando selvas, pisando peñas, visitando castillos, alojando en ventas a toda discreción sin pagar ofrecido sea al díablo el maravedí». Y así acabó la segunda salida del ingenioso hidalgo y la primera parte de su historia.
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capitoli li e lii
che trattano di ciò che raccontò il capraio a tutti coloro che conducevano Don Chisciotte, e della disputa che Don Chisciotte ebbe col capraio, nonché della singolare avventura dei disciplinati che egli portò felicemente a termine a prezzo del suo sudore Capitarono poi l’episodio del capraio e l’avventura dei disciplinati, e pochi giorni più tardi l’ingabbiato Cavaliere fu fatto entrare nel suo villaggio, una domenica a mezzogiorno affinché lo scherno e le beffe fossero maggiori. E Sancio tornò a casa pieno di fede nelle cavallerie, come dimostrò subito a sua moglie, giacché è «una gran bella cosa attendere gli eventi valicando mondi esplorando selve, scalando picchi rocciosi, visitando castelli, alloggiando in osterie a tua completa discrezione, senza pagare – che vada al diavolo – un quattrino». E così ebbe termine la seconda uscita dell’ingegnoso hidalgo e la prima parte della sua storia.
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SEGUNDA PARTE
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SECONDA PARTE
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capítulo i
de lo que el cura y el barbero pasaron con Don Quijote acerca de su enfermedad Cuando llevaba muy sosegado Don Quijote un mes ya en su casa, nutriéndose de cosas confortativas para el corazón y el cerebro, creyéronle los suyos curado de su heroismo caballeresco. Fueron a tentarle y probarle y entonces ocurrió entre él y el cura y el barbero la plática aquella que nos ha conservado Cervantes y lo de «¡caballero andante he de morir!», que dijo Don Quijote a su sobrina. Y a seguida el cuento del loco de Sevilla, por el barbero, y la melancólica respuesta del hidalgo: «Ah, señor rapista, señor rapista, y cuán ciego es aquel que no ve por tela de cedazo», y todo lo que a esto se sigue. En cierto tiempo en que yo corría una revuelta galerna del espíritu, recibí una carta de un amigo en que a vuelta de mil elogios para dorar la píldora me daba a entender que me tenía por loco, pues me desasosegaban cuidados que a él nunca le quitaron el sueño. Y al leerlo me dije: ¡Válgame Dios y cómo confunden las gentes la locura con la mentecateria, pues este mi pobre amigo, por creerme loco, me juzga tan ciego que no he de ver por tela de cedazo!; ¡me tiene por tan tonto que no he de entenderle! Pero me consolé pronto de la amistad de mi amigo. ¿No ves que ese tan solícito amigo te toma por loco al colmarte de atenciones?
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capitolo i
della conversazione che il barbiere e il curato ebbero con Don Chisciotte sulla sua malattia Ormai da un mese Don Chisciotte se ne stava quieto in casa sua nutrendosi di cose adatte al cuore e al cervello, quando i suoi lo ritennero completamente guarito dal suo eroismo cavalleresco e andarono a tastare il terreno e a metterlo alla prova. Si svolse allora tra lui, il barbiere e il curato quella conversazione che ci ha tramandato Cervantes e fu pronunciata la famosa frase «Devo morire da cavaliere errante», che Don Chisciotte disse rivolgendosi alla nipote. Seguirono il racconto della storia del pazzo di Siviglia fatta dal barbiere la malinconica risposta dell’hidalgo: «Ah, signor barbiere, signor barbiere, cieco davvero chi non vede attraversare l’ordito del setaccio!», con tutto quel che segue. Una certa volta, mentre attraversavo una tremenda burrasca dello spirito, ricevetti la lettera di un amico, nella quale, dopo mille elogi che dovevano servire ad indorarmi la pillola mi faceva capire con chiarezza che mi considerava pazzo, dal momento che mi sconvolgevano certe preoccupazioni che giammai gli avevano turbato il sonno. Nel leggere quella lettera, mi dissi: Che Dio mi aiuti! Come è pronta la gente a confondere la follia con l’assoluta insipienza, se questo mio povero amico, ritenendomi pazzo, mi giudica talmente cieco da non poter vedere attraverso l’ordito del setaccio; crede proprio che sia tanto sciocco da non capirlo! Ma ben presto mi consolai dell’amicizia del mio amico. Non vedi che un simile amico, mentre ti ricolma d’attenzioni, ti considera matto da legare?
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capítulo ii
que trata de la notable pendencia que Sancho Panza tuvo con la sobrina y ama de Don Quijote, con otros sucesos graciosos Mientras estaban en esas pláticas Don Quijote, el cura y el barbero, se armó en el patio una más que regular pelotera entre Sancho de un lado y del otro el ama y la sobrina, pues no querían estas dejarle entrar, reprochándole de haber sido él quien distraía y sonsacaba a su señor y le llevaba por aquellos andurriales, y replicándoles Sancho que él era el sonsacado y el distraido con engañifas. Mas cabe aquí hacer notar que acaso el ama y la sobrina no andaban muy lejos de la verdad, pues ambos a la par, Don Quijote y Sancho, se sonsacaban y distraían y se llevaban mutuamente por los andurriales del mundo. El que cree dirigir suele a veces ser en mucha parte el dirigido, y la fe del héroe se alimenta de la que alcanza a infundir en sus seguidores. Sancho era la humanidad para Don Quijote, y Sancho, desfallecido y enardeciéndose a veces en su fe, alimentaba la de su señor y amo. Solemos necesitar de que nos crean para creernos, y si no fuera monstruosa herejía y hasta impiedad manifesta sostendría que Dios se alimenta de la fe que en Él tenemos los hombres. Pensamiento que, disfrazándolo con los dioses paganos, expresó profundísima y egregiamente Góngora en aquellos dos diamantinos – por la dureza y por el esplendor – versos que dicen:
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che tratta della memorabile contesa tra Sancio Panza, la nipote e la governante di Don Chisciotte, nonché di altri piacevoli eventi Mentre stavano così discorrendo Don Chisciotte, il curato e il barbiere, scoppiò in cortile una più che normale zuffa tra Sancio da una parte e la governante e la nipote dall’altra, poiché queste ultime non volevano lasciarlo entrare, rinfacciandogli di essere stato lui a sviare e a stuzzicare il suo padrone e a trascinarlo in giro per sentieri non battuti, mentre Sancio ribatteva che era lui caso mai, lo sviato e lo stuzzicato con falsi miraggi. È opportuno però far notare a questo punto che probabilmente la governante e la nipote non erano del tutto fuori strada, giacché l’uno e l’altro in egual misura, Don Chisciotte e Sancio, si sviavano, si stuzzicavano e si trascinavano a vicenda per i sentieri non battuti di questo mondo. Colui che crede di far da guida, suole essere molto spesso e in buona parte il guidato, e la fede dell’eroe trae alimento da quella che riesce ad infondere nei suoi seguaci. Sancio, per Don Chisciotte, rappresenta l’umanità; a volta scorato o ardente di fede, alimentava la fede del suo signore e padrone. Di solito, abbiamo bisogno di essere creduti dagli altri per credere a noi stessi; e se non fosse un’eresia o addirittura una palese empietà, arriverei a sostenere che Dio trae alimento dalla fede che noi uomini abbiamo in Lui. Pensiero questo che, travestito da pagano e applicato agli dèi pagani, Góngora espresse egregiamente e con estrema profondità in quei due versi adamantini – per la durezza e per lo splendore – che dicono:
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Ídolos a los troncos la escultura, a los ídolos dioses hizo el ruego.
En una misma turquesa fojaron a Caballero y escudero, como suponía el cura. Lo más grande y más consolador de la vida que en común hicieron, es el no poderse concebir al uno sin el otro, y que muy lejos de ser dos cabos opuestos, como hay quien mal supone, fueron y son, no ya las dos mitades de una naranja, sino un mismo ser visto por dos lados. Sancho mantenía vivo el sanchopancismo de Don Quijote y este quijotizaba a Sancho, sacándole a flor de alma su entraña quijotesca. Que aunque él dijera «Sancho nací y Sancho pienso morir», lo cierto es que hay dentro de Sancho mucho Don Quijote. Y así cuando se quedaron solos, dijo el hidalgo a su escudero lo de «juntos salimos, juntos fuimos y juntos peregrinamos; una misma fortuna y una misma suerte ha corrido por los dos», y lo otro de «soy tu cabeza y tú mi parte… y por esta razón el mal que a mí me toca o tocare a ti te ha de doler y a mi el tuyo», preñadisimas palabras en que mostró el Caballero cuán a lo hondo sentía lo uno y mismo que con su escudero era.
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Dei tronchi idoli fece la scrittura E degli idoli iddii fece la preghiera.
Nello stesso conio erano stati foggiati Cavaliere e scudiero, come giustamente supponeva il curato. La cosa più grande e più consolatrice della vita che avevano portato in comune era il non potersi concepire l’uno senza l’altro, e il fatto che, lungi dall’essere due estremi opposti, come qualcuno ha erroneamente supposto, furono e sono, non già le due metà di un’arancia, ma un solo e medesimo essere visto da due lati. Sancio manteneva vivo il sanciopanzismo di Don Chisciotte, e questi chisciottizzava Sancio facendogli risalire a fior d’anima le sue viscere chisciottesche. Perché, quand’anche egli avesse detto: «Sancio nacqui e Sancio voglio morire» la verità è che in Sancio c’è molto Don Chisciotte. E così, quando furono rimasti soli, l’hidalgo disse al suo scudiero: «Insieme ce ne partiamo, insieme siano stati, insieme abbiamo peregrinato; abbiamo rincorso una stessa fortuna e una stessa sorte»: e poi l’altra: «io sono il tuo capo e tu una parte di me… e perciò il male che tocca o toccherà a me deve addolorare te come il tuo addolorare me». Parole intrise di notevole significato, dove il Cavaliere dimostrò quanto sentisse profondamente che era un solo e identico essere col suo scudiero.
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capítulos iii y iv
del ridiculo razonamiento que pasó entre Don Quijote, Sancho y el bachiller Sansón Carrasco y donde Sancho Panza satisface al bachiller Sansón Carrasco de las dudas y preguntas, con otros sucesos dignos de saberse y de contarse Sigueron hablando de lo que de ellos se decía por el mundo, radical cuidado de Don Quijote, y luego hizo Sancho venir al bachiller Sansón Carrasco, bachiller por esta Salamanca de mis pecados, típico personaje que entra aquí en tablado. Es este bachiller por Salamanca el hombre mas representativo, después de nuestros dos héroes, que en la historia de estos juega papel; es el cogollo y cifra del sentído comun, amigo de burlas y regocijos, el cabecilla de los que traían y llevaban, dejándola uno para tornarla otro, la Vida del ingenioso hidalgo. Quedose a comer con Don Quijote, y de refilón a burlarse de él para hacer honor a su mesa. Y el cándido Don Quijote – siempre lo fueron los héroes –, al oir hablar de la historia que de sus hazañas andaba compuesta, se encendió en sed de renombre, pues «una de las cosas que más debe de dar contento a un hombre virtuoso y eminente es verse – dijo – viviendo andar con buen nombre por las lenguas de las gentes, impreso y en estampa», y así por ello decidió volver a salir y declaró al bachiller su intento y cayó en la simplicidad de pedirle consejo de «por qué parte comenzaría su jornada».
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del divertente discorso tra Don Chisciotte, Sancio e il baccelliere Sansone Carrasco, e dove Sancio Panza risponde ai dubbi e alle domande del baccelliere Sansone Carrasco e si narrano altri fatti degni di essere conosciuti Continuarono a parlare su ciò che di loro si andava dicendo per il mondo, preoccupazione, questa, costante e fondamentale per Don Chisciotte, e poi Sancio andò a chiamare il baccelliere Sansone Carrasco, baccelliere di questa Salamanca dei miei peccati, tipico personaggio che entra in scena a questo punto. Questi è baccelliere approvato a Salamanca ed è l’uomo più rappresentativo, ovviamente dopo i nostri due eroi, che abbia una parte di rilievo nella storia dei due; è il centro ed il condensato del senso comune, amico di burlette e divertimenti e caporione di coloro che tiravano le fila, lasciando ogni tanto l’una per prendere l’altra, della Vita dell’ingegnoso hidalgo. Rimase a pranzo con Don Chisciotte con la segreta intenzione di prendersi gioco di lui tanto per far onore alla sua mensa. E il candido Don Chisciotte – sempre tali furono gli eroi – ascoltandolo parlare della storia delle sue imprese che era stata da poco pubblicata, si infiammò di sete di rinomanza, poiché «una delle cose – disse – che più deve far piacere ad un uomo virtuoso ed eminente è vedersi, mentre vive, che va con un buon nome per le lingue dei popoli, riprodotto in stampa». E così, proprio per questo, decise di partire ancora una volta e dichiarò al baccelliere le proprie intenzioni e cadde nell’ingenuità di chiedergli consiglio «da che parte avrebbe potuto cominciare la giornata e a mettersi in cammino».
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capítulo v
de la discreta y graciosa plática que pasó entre Sancho Panza y su mujer Teresa Panza, y otros sucesos dignos de felice recordación De esta plática se saca muy en claro cómo había Don Quijote infundido en su escudero soplo de ambición y el del «Sancho nací, Sancho he de morir», queria morir don Sancho y señoría y abuelo de condes y marqueses.
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seconda parte
- capitolo v
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dell’accorta e piacevole disputa tra Sancio Panza e sua moglie Teresa Panza, nonché di altri fatti degni di buon ricordo Da questa disputa si ricava con chiarezza fino a che punto Don Chisciotte avesse infuso nel suo scudiero il soffio dell’ambizione e come quel tale che avrebbe detto una volta «nacqui Sancio e Sancio devo morire» volesse ora morire don Sancio, nonché signoria e nonno di conti e marchesi.
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capítulo vi
de lo que pasó a Don Quijote con su sobrina y con su ama; y es uno de los más importantes capítulos de toda la historia ¡Y tan importante como es! Pues mientras Sancho altercaba con su mujer, disputaban Don Quijote, su ama y su sobrina, caseros estorbos de su heroísmo. Y hubo de oír el buen Caballero que una rapaza como su sobrina, que apenas si sabía menear doce palillos de randas, se atreviera a negar que haya habido caballeros andantes en el mundo. Triste cosa es venir a oír en la propia casa, y de labios de una rapazuela, que las repite de coro, las simplezas del vulgo. ¡Y pensar que esta rapaza de Antonia Quijana es la que domeña y lleva hoy a los hombres en España! Sí, es esta atrevida rapaza, esta gallinita de corral, alicorta y picoteadora, es esta la que apaga todo heroísmo naciente. Es la que decía a su señor tío aquello de «y que con todo esto dé en una ceguera tan grande y en una sandez tan conocida, que se dé a entender que es valiente siendo viejo, que tiene fuerzas estando enfermo, y que endereza tuertos estando por la edad agobiado, y sobre todo que es caballero no lo siendo, porque aunque lo puedan ser los hidalgos, no lo son los pobres». Y hasta el esforzado Caballero de la Fe, vencido por la modesta entereza de aquella humilde rapazuela, se ablandó a contestarla: «Tienes mucha razón, sobrina, en lo que dices».
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di ciò che accadde a Don Chisciotte con la nipote e la governante: uno dei più importanti capitoli di tutta la storia Altroché, se è importante! Mentre dunque Sancio litigava con la moglie, discutevano tra loro anche Don Chisciotte, la governante e la nipote, le quali ostacolavano il suo eroismo. E il buon Cavaliere fu costretto ad udire che una ragazzina come sua nipote, che a stento sapeva maneggiare dodici fuselli di merletto a tombolo, osava negare che mai vi fossero stati cavalieri erranti in questo mondo! Triste cosa è questa, di arrivare a sentire in casa propria e per bocca di una ragazzina, che non fa che ripetere a memoria, le scempiaggini del volgo. E pensare che Antonia Chisciana, la ragazzina, è quella che domina e guida, oggi, gli uomini qui in Spagna! Sì, è proprio questa temeraria ragazzina, questa gallinella di cortile, corta di ali e svelta di becco, quella che spegne e soffoca ogni nascente eroismo. È colei che diceva al suo signor zio la nota frase: «E, ciò nonostante, è diventato così cieco ed è caduto in una stupidaggine così evidente da credere di essere ardito, quando è vecchio, di essere forte, quando è malato, di raddrizzare torti, quando l’età lo tiene tutto curvo e, soprattutto, di essere un cavaliere, quando non lo è, anche se gli hidalgo possono esserlo, ma non lo possono gli hidalgo poveri». E persino il prode Cavaliere della Fede, vinto dalla modesta serietà di quell’umile ragazzina, si lasciò andare a risponderle: «Hai ragione, nipote, a dire così».
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Y si tú mismo, denodado Don Quijote, te dejaste convencer, aunque solo fue de palabra y pasajeramente, por aquella gatita casera, ¿qué mucho el que rindan a su sabiduria de cocina los que la buscan para perpetuar en ella su linaje? Ella, la muy simplona, no comprende que pueda un viejo ser valiente y tener fuerzas un enfermo y enderezar tuertos el agobiado por la edad, y sobre todo no comprende que pueda un pobre ser Caballero. Y aunque simplona y casera y de tan corto alcance de corazón como de cabeza, si se atreve contigo, su tío, ¿no se ha de atrever con los que la solicitan para novia o la poseen como maridos? Le han enseñado que el matrimonio se instituyó «para casar, dar gracia a los casados y criar hijos para el cielo», y de tal modo lo entiende y lo practica, que aparta a su marido de que nos conquiste ese cielo mismo para el que ha de criar sus hijos. Hay un sentido común, y junto a él un sentimiento común también; junto a la ramplonería de la cabeza nos embarga y embota la ramplonería del corazón. Y de esta ramplonería eres tu, Antonia Quijana, lectora mía, la guardiana y celadora. La alimentas en tu corazoncito mientras espumas la olla de tu tío o mientras meneas los palillos de randas. ¿Correr tu marido tras la gloria? ¿La gloria? Y eso, con qué se come? El laurel es bueno para asaborar las patatas cocidas; es un excelente condimento de la cocina casera. Y tienes de él bastante con el que cojes en la iglesia el Domingo de Ramos. Además, sientes unos furiosos celos de Dulcinea. No sé si caerán bajo los lindos ojos de alguna Antonia Quijana estos mis comentarios a la vida de su señor tío; hasta lo dudo, porque nuestras sobrinas de Don Quijote no gustan de leer cosa para la que tengan que fruncir la atención y rumiar algo lo leído; les basta noveluchas de diálogo muy cortado o de argumento que suspenda el ánimo por lo terrible, o ya libricos devotos tupidos de superlativos acaramelados y de desaboridas jaculatorias.
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E se tu stesso, valoroso Don Chisciotte, ti lasciasti allora convincere, anche se ciò avvenne soltanto a parole e in modo passeggero, da quella gatta casalinga, che meraviglia può fare che cedano alla sua saggezza da focolare coloro che la vanno cercando per perpetuare in lei il proprio lignaggio? Ella, la sempliciotta, non capisce come un vecchio possa essere prode, un infermo abbia forze e un uomo curvo sotto il peso dell’età possa raddrizzare torti; ma soprattutto non comprende come un povero possa essere Cavaliere. E per quanto sempliciotta, casalinga e di vedute corte tanto per il cuore quanto per il cervello, se ha il coraggio di mettersi contro di te che sei suo zio, vuoi che non alzi la cresta con coloro che la chiedono in sposa o già l’hanno in loro possesso in qualità di mariti? Le hanno insegnato che il matrimonio fu istituito «per accasarsi, concedere agli sposi la grazia ed allevare figli per il cielo»; e proprio così lo intende e lo pratica e cerca di allontanare il marito dall’idea di conquistare quello stesso cielo per il quale deve allevare i figli. Esiste un senso comune e accanto ad esso un sentimento, anch’esso comune; oltre alla rozzezza del cervello, ci infastidisce e ci inibisce la rozzezza del cuore. E di tale rozzezza sei tu, Antonia Chisciana, mia lettrice, la zelante custode. La alimenti nel tuo cuore mentre schiumi la pentola dello zio o mentre muovi i fuselli del merletto a tombolo. E tuo marito dovrebbe rincorrere la gloria. La gloria? Come si mangia, questa roba? L’alloro è buono per dar sapore alle patate bollite; è un eccellente condimento della gastronomia casalinga. Ma ne hai abbastanza di quello che vai a prendere in chiesa la Domenica delle Palme. E poi, senti delle furiose gelosie di Dulcinea. Non so se cadranno sotto gli occhi di qualche Antonia Chisciana questi miei commenti alla vita del suo signor zio; ne dubito, perché le nostre nipoti di Don Chisciotte non gradiscono leggere cose per le quali siano costrette ad aguzzare l’attenzione e a ruminare poi quello che hanno letto; si accontentano di romanzetti e dialoghi dalle brevi frasi o di argomento terribile da mozzare il respiro, oppure libretti devoti traboccanti di superlativi zuccherati o di insipide giaculatorie.
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Además, presumo que los directores de vuestros espirituelos os prevendrían contra mis peligrosos extravíos de pluma si vuestra propia insustancialidad no os sirviera de fortísimo escudo. Estoy, pues, casi seguro de que no hojearéis con vuestras ociosas manos, hechas a menear palillos de randas, estas empecatadas páginas; pero si por un azar os cayesen bajo la mirada, os digo que no espero surja de entre vosotras ni una nueva Dulcinea que lance a un nuevo Don Quijote a la conquista de la fama, ni otra Teresa de Jesús, dama andante del amor que de tan hondamente humano se sale de lo humano todo. No encenderéis un amor como el que Aldonza Lorenzo, sin de ello percatarse, encendió en el corazón de Alonso el Bueno, ni lo encenderéis en el vuestro como aquel amor de Teresa de Jesús que hizo le atravesase el corazón un serafín con un dardo. También ella, Teresa, como Alonso Quijano anduvo doce años enamorado de Aldonza, así tuvo ella trato con quien por vía de casamiento le pareció podía acabar en bien, y aquel con quien confesaba le dijo que no iba contra Dios (Vida, cap. II), pero comprendió el premio que da el Señor a los que todo lo dejan por Él y que el hombre no aplaca la sed de amor infinito, y aquellos libros de caballerías a que fue aficionada le llevaron a través de lo terreno del amor, al amor sustancial, y anheló gloria eterna y engolfarse en Jesús, ideal del hombre. Y dio en heroica locura y llegó a decir a su confesor: «suplico a vuestra merced seamos todos locos, por amor de quien por nosotros se lo llamaron» (Vida, cap. XVI). Pero ¿tú, mi Antonia Quijana, tú? Tú no enloqueces ni en lo humano ni en lo divino; tendrás poco seso tal vez, pero por poco que sea te llena y tupe la cabecita toda, que es más pequeña aún que él y no te queda sitio para el cogüelmo del corazón.
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Presumo inoltre che i direttori dei vostri spiriti vi metterebbero in guardia contro i miei pericolosi sdruccioloni di scrittore, se la vostra stessa inconsistenza non vi facesse da solidissimo scudo. Mi sento dunque quasi sicuro che non sfoglierete con le vostre oziose manine, avvezze tutt’al più a maneggiare fuselli da trina, queste detestabili pagine; ma se per puro caso vi cadessero sotto gli occhi, vi confesso che non spero di veder sorgere tra voi una novella Dulcinea che lanci un novello Don Chisciotte alla conquista della fama, né una seconda Teresa di Gesù, dama errante dell’amore che è in lei così profondamente umano da varcare i limiti di ogni cosa umana. Non infiammerete un amore come quello che Aldonza Lorenzo, senza neppure accorgersene, accese nel cuore di Alonso il Buono, né lo infiammerete nel nostro, uguale a quell’amore di Teresa per Gesù che le ottenne di avere il cuore trafitto dal dardo di un serafino. Anche lei, Teresa, come Alonso Chisciano fu per dodici anni innamorato di Aldonza, fu in relazione amorosa con uno che le parve potesse riuscire bene nel matrimonio, e a proposito del quale il professore le disse che non avrebbe fatto torto a Dio sposandolo (Vita, capitolo II); ma ben presto seppe apprezzare il valore del premio che Dio concede a coloro che abbandonano tutto per lui, si rese conto che l’uomo non può placare la sete d’amore infinito, e quei libri di cavalleria che tanto le piacevano la condussero, attraverso l’elemento terreno dell’amore, all’amore sostanziale, e prese ad anelare alla gloria eterna e a perdersi in Gesù, ideale di perfezione dell’uomo. Fu colta da eroica follia e giunse a dire al proprio confessore: «Supplico vossignoria che siamo tutti pazzi per amor di Colui che per amor nostro così fu chiamato» (Vita, capitolo XVI). Ma tu, mia Antonia Chisciana, che farai tu? Tu non impazzisci né umanamente, né divinamente: avrai forse poco senno, ma per poco che esso sia, ti riempie e ti occupa tutta la testolina, che è ancora più piccola del tuo senno, sicché non ti resta spazio per la pienezza del cuore.
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Tienes muy buen sentido, discreta Antonia, sabes contar los garbanzos y remendar los calzones a tu marido, sabes cuidar la olla de tu tío y menear los palillos de randas, y para pasto de lo supremo de tu espíritu tienes tus funciones de celadora de este o del otro coro y la obligación de recitar a tal hora del día estas o las otras untuosas palabras que te dan por escrito. No dijo para ti Teresa lo de «no haga caso del entendimiento, que es un moledor» (Vida, cap. XV), porque te da poca molienda tu entendimientillo enroderado por tu director de espíritu y menoscabado y engurrunido desde que te lo descubrieron. Ese tu espíritu, tu almita que acaso fue soñadora otraño, te la alicortaron y encanijaron en un terrible potro, te la han brezado desde que lanzó su primer medroso vagido, te la han brezado con el viejo estribillo de duerme, niño chiquito, que viene el Coco a llevarse a los niños que duermen poco,
te la han brezado con la gangosa canción con que tu misma, mi pobre Antonia, brezas a tus hijos, cuando eres madre, para que se duerman. Y mira, Antonia, no hagas por un momento caso alguno de los que te quieren gallinita de corral, no les hagas caso y medita en ese planidero estribillo con que aduermes a tus hijos. Medita en eso de que venga el Coco y se lieve a los niños que duermen poco; medita, mi querida Antonia, en eso de que sea el mucho dormir lo que haya de librarnos de Ias garras del Coco. Mira, mi Antonia, que el Coco viene y se lleva y se traga a los dormidos, no a los despiertos. Y ahora, si por un momento logré distraerte de tus faenas y quehaceres, de las que llaman faenas de tu sexo, perdonamelo o no me lo perdones. Yo soy quien no me perdonaría nunca el no
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Hai molto buon senso, mia saggia Antonia; sai contare i ceci e rappezzare i pantaloni a tuo marito; sai badare alle pignatte di tuo zio e maneggiare i fuselli del tombolo; e per pasto della parte più elevata del tuo spirito hai le tue funzioni di zelatrice di questo o di quel coro, e l’obbligo di recitare a determinate ore del giorno queste o quelle untose parole che ti hanno date bell’e scritte. Non per te disse Teresa la frase: «Non badi troppo all’intelletto, che non fa che macinare» (Vita, cap. XV), perché ben poco ti dà da macinare il tuo piccolo intelletto, messo sulle rotaie di un binario dal tuo direttore di coscienza e guasto ed appassito fin dal giorno in cui scoprirono che l’avevi. Questo tuo spirito, questa piccola anima, che pure forse un tempo è stata sognatrice, ebbe le ali tarpate ed intristì su un terribile letto di tortura; te l’hanno cullata fin da quando emise il suo primo vagito, te l’hanno cullata col vecchio ritornello che dice: Dormi, mio bambinello; altrimenti viene l’orco a prendersi i bambini che dormono poco;
te l’hanno cullata con la nasale cantilena con la quale tu stessa, mia povera Antonia, culli i tuoi figli, quando sei madre, affinché si addormentino. Ma bada, Antonia: per un momento non porgere l’orecchio a coloro che vogliono fare di te una gallinella di cortile; non badare loro, e medita sul piagnucoloso ritornello che ti serve a far dormire i tuoi bambini. Medita su quella faccenda della venuta dell’orco a prendersi i bambini che dormono poco; rifletti, mia cara Antonia, su questo particolare, che debba essere proprio il molto dormire il mezzo che ci libererà dagli artigli dell’orco! Bada, Antonia mia, che l’orco viene e si porta via e si divora quelli che dormono, non quelli che vegliano. E adesso, se per un momento sono riuscito a distrarti dai tuoi lavori e dalle tue faccende, da tutto quello che la gente suole chiamare “lavori domestici”, perdonami, o non mi perdonare, come vuoi. Sono io che non mi perdonerei mai di non averti
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haberte dicho que solo te queremos de veras, te queremos mujer fuerte, los que te hablamos recio y duro, no los que te amarran, como ídolo, a un aitar y te tienen allí presa atufándote con el incienso de fáciles requiebros, ni los que te aduermen el espíritu brezándotelo con nonas canciones de una piedad de alfeñique. Y tú, mi Don Quijote, triste cosa es que cuando te retraes a tu casa, al amor de tu hogar, como a castillo roquero que te mantenga lejos de las flechas envenenadas del mundo, y no te deje oír las voces de los que hablan por no caliarse, triste cosa es que te muelan entonces todavía los oídos con ecos de esas mismas voces importunas. Triste cosa es que en vez de ser tu hogar expansión de tu espíritu y ámbito que de él te hizo, sea trasunto de lo de fuera. No te habria dicho eso Aldonza, de seguro, no te lo habría dicho.
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detto che ti amiamo davvero, che ti amiamo come donna forte, soltanto noi che ti parliamo secco e stringato, e non quelli che ti incatenano come un idolo ad un altare, e ti tengono lì prigioniera, soffocandoti con l’incenso di facili galanterie, né coloro che ti addormentano lo spirito cullandotelo con fiacche canzoncine piene di una pietà di pasta di mandorle. Quanto a te, mio Don Chisciotte, è ben triste cosa che quando ti ritiri in casa tua, al calduccio del focolare come in un castello montano che ti liberi e ti difenda dalle frecce avvelenate del mondo, e non ti lasci udire le voci di coloro che parlano solo perché non sanno tacere, triste cosa è che anche allora ti assordano le orecchie con gli echi di quelle tristi cose inopportune. Triste cosa è che il tuo focolare, invece di essere emanazione del tuo spirito ed ambito propizio ad accoglierti, sia semplicemente una trasposizione del mondo esterno. Queste cose non te le avrebbe dette Aldonza, sicuramente; no, non te le avrebbe dette.
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de lo que pasó Don Quijote con su escudero, con otros sucesos famosísimos Ya la pena de tener que oír tales cosas en su propia casa uniósele la de ver cómo vacilaba la fe de Sancho, el cual pedía salario fijo, cosa no conocida entre los caballeros andantes, a quienes siempre sirvieron a merced sus escuderos. La fe de Sancho, en continua conquista de sí misma, no le había aún dado esperanza, y quería salario. No estaba para entender la profundísima sentencia entonces pronunciada por su amo, y fue la de «vale más buena esperanza que ruin posesión». ¿Y es que la entendemos en todo su alcance yo y tú, lector mío? ¿No nos atenemos más bien, como buenos Sanchos, a lo de «más vale pájaro en mano que ciento volando»? ¿No olvidamos hoy y siempre que la esperanza crea lo que la posesión mata? Lo que hemos de acaudalar para nuestra última hora es riqueza de esperanzas, que con ellas, mejor que con recuerdos, se entra en la eternidad. Que nuestra vida sea un perduradero Sábado Santo. Con justa razón, enojado Don Quijote al ver que Sancho, movido de su carnalidad, le pedía salario, como si le hubiera mayor que el de seguirle y servirle en su carrera de gloria, le rechazó de escudero entonces. Y ante el rechazo encendiose la fe del pobre Sancho, «se le anubló el cielo y se le cayeron las alas
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di quel che avvenne tra Don Chisciotte e il suo scudiero, nonché di altri celebri avvenimenti E alla pena di essere costretto ad ascoltare simili cose proprio in casa sua, si aggiunse quella di vedere che anche la fede di Sancio vacillava; anche lui venne a chiederti un salario fisso, cosa del tutto ignota tra cavalieri erranti che erano stati serviti sempre per amore dai loro scudieri. La fede di Sancio, in perpetua conquista di se stessa, non gli aveva ancora dato speranze, ed egli chiedeva un salario. Non era in disposizione d’animo tale da poter capire la profondissima sentenza pronunciata in quel momento dal suo padrone che «val più una buona speranza che un cattivo possesso». E del resto, la comprendiamo in tutta la sua portata tu ed io, lettore mio? Non preferiamo piuttosto anche noi, come due buoni Sanci, il proverbio che dice: «meglio un uovo oggi che una gallina domani» ? Non dimentichiamo, oggi e sempre, che la speranza crea ciò che il possesso uccide? Quel che dovremmo mettere da parte per l’ultima nostra ora, è ricchezza di speranze, poiché con esse, assai più che con ricordi, si entra nell’eternità. Facciamo sì che la nostra vita sia un duraturo Sabato Santo. Con giusta ragione Don Chisciotte, indignato nel vedere che Sancio, spinto dall’avidità carnale, gli chiedeva un salario, come se potesse essercene uno più grande di quello di seguirlo e servirlo fedelmente nella sua carriera di gloria, lo licenziò allora dal posto di scudiero. E di fronte a quel licenziamento, si riaccese la fede del povero Sancio, «gli si annuvolò il cielo e si sentì cascare
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del corazón, porque tenía creído que su señor no se iría sin él por todos los haberes del mundo». Rompió está plática el bachiller Carrasco, que acudió a felicitar a Don Quijote y a ofrecérsele por escudero… ¡impía oferta! Y al oírlo Sancho enterneciose, se le llenaron de lágrimas los ojos y entregose a su amo. Pero, ¿creías acaso, pobre Sancho, que te iba a ser vividera la vida sin tu amo? No, ya no eres tuyo; eres de él. También tu andas, aunque no lo sepas ni lo creas, enamorado de Dulcinea del Toboso. No faltará quien reproche a Don Quijote el haber arrancado de nuevo a Sancho del sosiego de su vida y de la tranquilidad de su trabajo, haciéndole dejar mujer e hijos por correr tras engañosas aventuras; no faltan corazones tan apocados como para sentir así. Pero nosotros consideramos que, una vez que Sancho hubo encentado la sabrosidad de su nueva vida, no quiso volver a otra, y a despecho de los arredros y trompicones de su fe, se le nublaba el cielo y se le caían las alas del corazón al ocurrirle el recelo de que su amo y señor fuera a dejarle. Hay espíritus menguados que sostienen ser mejor cerdo satisfecho que no hombre desgraciado, y los hay también para endechar a la que llaman santa ignorancia. Pero quien haya gustado la humanidad la prefiere, aun en lo hondo de la desgracia, a la hartura del cerdo. Hay, pues, que desasosegar a los prójimos los espíritus, hurgándoselos en el meollo, y cumplir la obra de misericordia de despertar al dormido cuando se acerca un peligro o cuando se presenta a la contemplación alguna hermosura. Hay que inquietar los espíritus y enfusar en ellos fuertes anhelos, aun a sabiendas de que no han de alcanzar nunca lo anhelado. Hay que sacarle a Sancho de su casa, desarrimándole de mujer e hijos, y hacer que corra en busca de aventuras; hay que hacerle hombre. Hay un sosiego hondo, entranado, intimo, y este sosiego solo se alcanza sacudiéndose del aparencial sosiego de la vida casera y aldeana; las inquietudes del ángel son
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le braccia, perché aveva la convinzione che il suo signore non sarebbe partito senza di lui per tutto l’oro del mondo». Interruppe la conversazione il baccelliere Carrasco, che si affrettò a felicitarsi con Don Chisciotte e ad offrirglisi in qualità di scudiero… Empia offerta! E nell’udirlo, Sancio si intenerì, gli si riempirono gli occhi di lacrime e si affidò in tutto e per tutto al padrone. Credevi forse, povero Sancio, che avresti potuto seguitare a vivere senza il tuo padrone? No, ormai non ti appartenevi più: appartenevi a lui. Anche tu eri, sebbene non lo sapessi e nemmeno lo credessi, innamorato di Dulcinea del Toboso. Non mancherà sicuramente qualcuno che rimproveri a Don Chisciotte di aver strappato nuovamente Sancio alla serenità della sua vita e alla tranquillità del suo lavoro, spingendolo ad abbandonare moglie e figli per correre dietro a fantastiche avventure; non mancano i cuori meschini che possono nutrire simili sentimenti. Ma noi siamo convinti che, una volta assaggiato il sapore di quella nuova vita, Sancio non volle ritornare a quell’altra e a dispetto delle esitazioni e dei tentennamenti della sua fede, gli si annuvolava il cielo e gli cascavano le braccia al sospetto che il suo padrone e signore stesse per lasciarlo. Vi sono spiriti gretti i quali sostengono che è meglio essere maiale soddisfatto che un uomo sventurato; e ve ne sono anche di quelli che inneggiano a quella che chiamano santa ignoranza. Ma chi una volta abbia gustato l’umanità, la preferisce anche se si trova nell’abisso delle disgrazie, alla sazietà del maiale. Occorre, dunque, turbare gli spiriti del prossimo frugandoli fin dentro le midolla e compiere l’opera di carità di destare chi dorme quando si avvicina un pericolo o si presenta per essere contemplata una rara bellezza. Bisogna rendere inquieti gli spiriti innescando in essi forti aneliti, anche quando si sa benissimo che non raggiungeranno mai ciò che anelano. Si deve strappare Sancio alla sua casa, privandolo dell’appoggio della moglie e dei figli e far sì che corra in cerca d’avventure; bisogna fare di lui un uomo. Esiste una pace profonda, sviscerata, intima e questa pace si consegue soltanto se ci si scuote dall’apparente pace della vita domestica e paesana; le inquietudini dell’angelo sono
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mil veces mas sabrosas que no el reposo de la bestia. Y no ya solo las inquietudes, sino hasta las penas, aquel «recio martirio sabroso» de que nos habla en su Vida (XX, 8) Teresa de Jesús. ¿Qué es eso de la santa ignorancia? La ignorancia, ni es ni puede ser santa. ¿Qué es eso de envidiar el sosiego de quien nunca vislumbró el supremo misterio ni miró más alla de la vida y de la muerte? Sí, sé la canción, sé lo de «qué buena almohada es el catecismo! Hijo mío, duerme y cree; por acá se gana el cielo en la cama». ¡Raza cobarde, y cobarde con la más desastrosa cobardía, con la cobardía moral que tiembla y se arredra de encarar las supremas tinieblas! Mira, Sancho: si todos esos que envidian, de pico al menos, la tranquilidad de que gozabas antes de haberte sacado de tus casillas tu amo, supieran lo que es la lucha por la fe, créeme, no te ponderarian tanto lo del carbonero. Mi cuerpo vive gracias a luchar momento a momento contra la muerte, y vive mi alma porque lucha también contra la muerte, momento a momento. Y así vamos a la toma de una nueva afírmación sobre los escombros de la que nos desmoronó la lógica, y se van amontonando los escombros de todas ellas, y un día, vencedores, sobre la pingorota de este inmenso montón de afirmaciones desmoronadas, proclamarán los nietos de nuestros nietos la afírmación última y crearán así la inmortalidad del hombre. Por bien empleados hubo de dar Sancho todos sus trabajos y miserias y escaseces, incluso lo del manteamiento, a trueque de haberse renovado y quijotizado junto a Don Quijote; con tal de haberse trasformado del zafio y oscuro Sancho Panza que era en el inmortal escudero del inmortal Don Quijote de la Mancha, que es para siempre jamás. Henchidos, pues, de lágrimas los ojos entregose a su amo. Y en consecuencia, a los pocos días, y al anochecer, «sin que nadie lo viese sino el bachiller, que quiso acompañarles media legua del lugar, se pusieron camino del Toboso».
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mille volte più dolci del riposo della bestia. Anzi, non solo le inquietudini, ma persino le pene, quel «forte martirio saporoso» di cui ci parla nella sua Vita (XX, 8) Teresa di Gesù. Che significa l’espressione “santa ignoranza”? L’ignoranza non è santa, né può esserlo mai. Che significa quest’invidia per la pace di chi non intravide mai il supremo mistero, né guardò mai oltre la vita e la morte? Sì, so anch’io a memoria la canzone: «Che magnifico cuscino è il catechismo! Dormi, figlio mio, e credi; per questa via si acquista il cielo anche stando tra le coperte». Razza di gente codarda, ma codarda della peggiore codardia, della codardia morale che trema e si ritrae piuttosto di affrontare le tenebre supreme! Bada, Sancio: se tutti coloro che invidiano, almeno con la bocca, la tranquillità di cui godevi prima che il tuo padrone ti avesse fatto girare la testa, sapessero che cosa significa lottare per la fede, credimi, non esalterebbero tanto quella del carbonaio. Il mio corpo vive solo perché lotta istante per istante contro la morte, e la mia anima vive perché anch’essa combatte contro la morte un momento dopo l’altro. E in questo modo andiamo alla conquista di una nuova affermazione sulle macerie di quella che la logica ci ha smantellato; e le macerie di tutte le affermazioni si ammucchiano e, un giorno, vincitori, sul culmine di questo ammasso di affermazioni smantellate, i nipoti dei nostri nipoti proclameranno l’affermazione ultima e creeranno così l’immortalità dell’uomo. Sancio dovette considerare ben spese tutte le sue fatiche, le sue miserie e le sue ristrettezze, comprese le ammaccature dello sballottamento in cambio d’essersi rinnovato e chisciottizzato a fianco di Don Chisciotte; in cambio di essersi trasformato, da quel rustico ed oscuro Sancio Panza che era, in immortale scudiero dell’immortale Don Chisciotte della Mancia che vivrà in eterno. Con gli occhi pieni di lacrime, si affidò in tutto e per tutto al suo padrone. E di conseguenza, pochi giorni dopo, al calar della sera, «senza che li vedesse nessuno all’infuori del baccelliere, che volle accompagnarli per una mezza lega del paese, si avviarono verso il Toboso».
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capítulo viii
donde se cuenta lo que le sucedió a Don Quijote yendo a ver a su señora Dulcinea del Toboso Y de camino disertó Don Quijote sobre Eróstrato y el deseo de alcanzar fama, raigambre de su heroísmo. Y no dejó de abismarse entonces Don Quijote en los abismos de la cordura de Alonso el Bueno, observando la vanidad de la fama que «en este presente y acabable siglo se alcanza, la cual fama, por mucho que dure, se ha de acabar con el mismo mundo, que tiene su fin señalado». Eu son a gloria, genio jocundo De radioso paiz solar; Seras o poeta maior do mando… .......................................................... Dizem que o mando debe acavar,
dice «Sagramor» en el poema de Eugenio de Castro. En esta tercera y última salida de Don Quijote hemos de ver cómo se hunde en las simas de su cordura, hasta llegar a la inmersión en ellas con su muerte ejemplar. Movido por las palabras de su amo, y viendo Sancho cuán mas grande es la fama de los santos que no la de los héroes, dijo a Don Quijote aquello de que se dieran a ser santos y alcanzarían más brevemente la buena fama que pretendían, poniéndole el ejemplo de San Diego de Alcalá y San Pedro de Alcántara, canonizados por aquellos días.
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dove si narra quel che accadde a Don Chisciotte mentre andava a trovare la sua signora Dulcinea del Toboso E lungo la strada, Don Chisciotte dissertò intorno ad Eróstrato e al desiderio di acquisire fama, radice profonda del suo eroismo. E non mancò allora Don Chisciotte di sprofondarsi negli abissi della saggezza di Alonso il Buono, sottolineando la vanità della fama che «si consegue in questo presente secolo caduco; la qual fama, per molto che duri, infine deve terminare col mondo stesso a cui è assegnata la fine». Io son la gloria, genio giocondo di radiosa terra solare; sarai il poeta maggior del mondo… .......................................................... Dicon che il mondo ha da cessare,
afferma «Sagramor» nel poema di Eugenio de Castro. In questa terza ed ultima uscita di Don Chisciotte lo vedremo sprofondarsi negli abissi della sua saggezza, tanto che giungerà a scomparire in essi con la propria morte esemplare. Spinto dalle parole del suo padrone e vedendo di quanto sia più grande la fama dei santi rispetto a quella degli eroi, Sancio suggerì a Don Chisciotte di scegliere la via della santità, giacché così avrebbe conquistato più rapidamente la buona fama che ricercava proponendogli l’esempio di San Diego di Alcalá e di San Pietro d’Alcántara, canonizzato proprio in quei giorni.
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«Veréis que un dia seré adorado por el mundo entero», solía decir el pobrecito de Asís, según nos cuentan los Tres Compañeros (cap. IV) y Tomás de Celano (II Cel., 1. 1), y los mismos móviles que empujaron a unos al heroísmo empujaron a otros a la santidad. Así como Don Quijote, enardecido por la lectura de los libros de caballerías se lanzó al mundo, así Teresa de Cepeda, siendo aún niña y encendida por la lectura de las vidas de santos, que le parecía «compraban muy barato el ir a gozar a Dios», concertó con su hermano irse a tierra de moros, pidiendo por amor de Dios, para que alla los descabezasen, y visto lo imposible de ello, ordenaron hacerse ermitaños, y en una huerta que había en casa procuraban, como podían, hacer ermitas (Vida, 1, 2). De Íñigo de Loyola hemos dicho ya lo que nos cuenta al respecto su secretario que fue, el P. Pedro de Rivadeneira. ¿Qué es todo esto sino caballería andante a lo divino o religioso? Y en cabo de cuenta, ¿qué buscaban unos y otros, héroes y santos, sino sobrevivir? Los unos en la memoria de los hombres, en el seno de Dios los otros. ¿Y cuál ha sido el más entrañado resorte de la vida de nuestro pueblo español sino el ansia de sobrevivir, que no a otra cosa viene a reducirse lo que dicen ser nuestro culto a la muerte? No, culto a la muerte, no; sino culto a la inmortalidad. El mismo Sancho, que tan apegado aparece a la vida que pasa y no queda, declaraba que «más vale ser humilde frailecito de cualquier orden que sea, que valiente y andante caballero», a lo que le contestó muy sesudamente Don Quijote que «no todos podemos ser frailes y muchos son los caminos por donde lleva Dios a los suyos al cielo». Y si no todos podemos ser frailes, no
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«Vedrete che un giorno sarò venerato dal mondo intero», soleva dire il poverello d’Assisi, secondo quello che narrano i Tre compagni (cap. IV) e Tommaso da Celano (Vita seconda, 1, 1) e gli stessi movimenti che spinsero all’eroismo gli uni, spinsero gli altri alla santità. Come Don Chisciotte, infiammato dalla lettura dei libri di cavalleria, si slanciò nel mondo, così anche Teresa di Cepeda, ancora bambina e infiammata dalla lettura delle vite dei santi, che le pareva «acquistassero a buon mercato la gioia di ascendere a godere della vista di Dio», si accordò col fratello per andarsene nella terra dei mori implorando per amore di Dio che li decapitassero laggiù; ma poi, visto che ciò era impossibile, decisero di diventare eremiti e in un giardino accanto alla loro casa cercarono di farsi un romitorio come meglio potevano (Vita, 1, 2). Di Ignazio di Loyola abbiamo già riferito quello che narra colui che fu il suo segretario, il Padre Pietro de Rivadeneira, a tal proposito. E che cos’è tutto questo se non cavalleria errante, sia pure rivolta a cose divine o religiose? E in ultima analisi che cosa cercavano gli uni e gli altri, gli eroi e i santi, se non di sopravvivere oltre la tomba? Gli uni nella memoria degli uomini, e gli altri nel seno di Dio. E quale è stata la più intima molla della vita del nostro popolo spagnolo se non l’anelito alla sopravvivenza? A questo in sostanza si riduce quello che si suol chiamare il nostro culto per la morte. E non è culto per la morte, si badi bene; è culto per l’immortalità. Lo stesso Sancio che ci appare così attaccato alla vita che passa e non permane, dichiarava che, «vale più essere un umile fraticello di qualsiasi ordine che un valoroso ed errante cavaliere»; al che ribatté molto saggiamente Don Chisciotte che «non tutti possiamo essere frati, e sono molte le vie per le quali Dio conduce i suoi al cielo». E se non tutti possiamo essere frati, non
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puede ser que sea el estado de frailería o monacato más perfecto en sí que otro cualquiera, pues no cabe que el estado de mayor perfección cristiana no sea igualmente asequible en cualquier estado, sino se reserve, por fuerza de ley natural, a un numero de personas, ya que de aspirar a él todos el linaje se acabaría. Y dijo muy bien Don Quijote, respondiendo a Sancho, que si han en el cielo más frailes que caballeros andantes es por ser mayor el número de religiosos que el de caballeros merecedores de tal nombre. ¿Y cuando el religioso sea a la vez caballero?, se preguntará. Ya nos hablará de ellos Don Quijote.
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può essere che lo stato monacale o comunque la frateria sia in sé uno stato più perfetto di qualunque altro, poiché non è concepibile che lo stato di maggiore perfezione cristiana non possa essere raggiunto in qualsiasi condizione di vita, ma che venga riservato, in forza di una legge naturale, ad un ristretto numero di persone; perché infatti, se tutti vi aspirassero, il genere umano finirebbe. Don Chisciotte disse benissimo, rispondendo a Sancio, che se in cielo vi sono più frati che cavalieri erranti, ciò dipende dal fatto che è maggiore il numero dei religiosi di quello dei cavalieri degni di tal nome. E quando il religioso sia contemporaneamente cavaliere?, mi si chiederà. Ma a questa domanda risponderà lo stesso Don Chisciotte.
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donde se cuenta lo que en él se verá Y ¿cuándo disertó así Don Quijote acerca de la gloria y de su vanidad última y de cómo acaba al acabarse el mundo? Cuando iba al Toboso a ver a Dulcinea, e iba dentro de él Alonso el Bueno a ver a Aldonza Lorenzo, por la que suspiró doce años. Gracias a la locura ha vencido el vergonzoso hidalgo su vergonzosidad sublime, y vestido de Don Quijote y arrebujado en él va a ver el blanco de sus ansias, a curarse de su locura al verla y al abrazarla. Nos acercamos al momento crítico de la vida del Caballero. Y así, en tales pláticas, llegaron amo y escudero al Toboso, patria de la sin par Dulcinea. Llegaron a ella y dijo Don Quijote a su escudero: «Sancho, hijo, guía al palacio de Dulcinea; quizá podrá ser que la hallemos despierta». Observemos que al pedirle tan elevado ministerio y favor tan señalado se adulcigua el Caballero y le llama a Sancho “hijo”, y observemos además cómo son los Sanchos, la baja humanidad, los que guían a los héroes al palacio de la Gloria. Y allí fueron los aprietos de Sancho el embustero, buscando escapatorias a su sandez, hasta que declaró no haber visto jamás a Dulcinea, al modo que su amo decía no haberla visto, sino estar enamorado de ella de oídas. De oídas estamos enamorados de la Gloria los que lo estamos, sin que jamás la hayamos visto ni oído. Pero por dentro anda Aldonza, vista y bien vista,
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nel quale si racconta ciò che in esso si vedrà In quale occasione dissertò così Don Chisciotte sulla gloria, sull’ultima vanità e sul fatto che terminerà quando finirà il mondo? Fu mentre andava al Toboso per vedere Dulcinea e dentro di lui vi andava Alonso il Buono per vedere quella Aldonza Lorenzo per la quale aveva sospirato per dodici anni. Grazie alla follia il pudico hidalgo ha vinto il suo sublime pudore e, vestito da Don Chisciotte e ben nascosto sotto quel travestimento, va a vedere la meta delle sue ansie, a guarire della sua follia, vedendola e abbracciandola. Ci avviciniamo ormai al momento critico della vita di Don Chisciotte. E così, discorrendo tra loro di queste cose, padrone e scudiero giunsero al Toboso, patria dell’impareggiabile Dulcinea. Vi giunsero dunque e Don Chisciotte disse allo scudiero: «Sancio, figlio mio, portami alla casa di Dulcinea; è possibile che la troviamo sveglia». Notiamo che chiedendogli un favore così grande e offrendogli un compito così elevato, il Cavaliere s’intenerisce e chiama Sancio “figlio”; e osserviamo anche che sono i Sanci, ossia la bassa umanità, coloro che guidano gli eroi alla casa della Gloria. E qui iniziarono i tormenti del bugiardo Sancio, costretto a cercare scappatoie per rimediare alle sue precedenti scempiaggini; finché non si decise a dichiarare di non aver mai visto Dulcinea allo stesso modo che il suo padrone diceva di non averla mai vista, ma di essersene invaghito per sentito dire. Per sentito dire siamo innamorati della Gloria, noi che lo siamo, pur senza averla mai vista né udita. Ma dentro di noi c’è Aldonza, vista,
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aunque solo sea cuatro veces en doce años. Y al cabo el malicioso Sancho consiguió que el cándido de su amo se saliese del Toboso a esperar emboscado en alguna floresta a que diese el socarrón con Dulcinea.
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e come vista, anche se non più di quattro volte in dodici anni. Alla fine il malizioso Sancio ottenne che il candido suo padrone uscisse dal Toboso per attendere, imboscato in qualche foresta, che quel furbacchione del suo scudiero trovasse Dulcinea.
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donde se cuenta la industria que Sancho tuvo para encantar a la señora Dulcinea, y de otros sucesos tan ridiculos como verdaderos Y aquí fue el soliloquio de Sancho al pie de un árbol y el declararse que su amo era un loco de atar y él no le quedaba en zaga, siendo más mentecato que aquel, pues le seguía y servía, y aquí fue el decidir engañarle haciéndole creer «que una labradora, la primera que me topare por aquí – pensó – es la señora Dulcinea; y cuando él no lo crea lo juraré yo». Y ya tenemos con esto al fíel Sancho decidido a jugársela a su amo y a venir a ser así uno más entre sus burladores, ¡caso de triste meditación! Y hemos de considerar también en él cómo teniendo Sancho a su amo por loco de atar y capaz de ser por él engañado, y que tomaba unas cosas por otras y juzgaba lo blanco por negro y lo negro por blanco, con todo y con esto se dejaba engañar o más bien arrastrar de la fe en Don Quijote y sin creerlo creía en él, y viendo que eran molinos de viento los gigantes y manadas de carneros los ejércitos de enemigos, creía en la ínsula tantas veces prometida. ¡Oh poder maravilloso de la fe, retuso a todo empuje de desengaños! ¡Oh misterios de la fe sanchopancesca, que sin creer cree y viendo y entendiendo y declarando que es negro, hace al que le acaudata sentir y obrar y esperar como si fuese blanco!
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nel quale si narra l’astuzia che Sancio usò per incantare la signora Dulcinea, nonché di altri avvenimenti ridicoli quanto veri A questo punto incontriamo il soliloquio di Sancio ai piedi di un albero e la sua dichiarazione che il padrone era matto da legare e che lui, da parte sua, non era da meno ed anzi era più mentecatto dell’altro, visto che lo seguiva e lo serviva; e fu a questo punto che decise di imbrogliarlo facendogli credere che «una contadina, la prima in cui s’imbatta da queste parti – pensò – è la signora Dulcinea». Ed ecco che così ci troviamo davanti al fedele Sancio deciso a prendersi gioco del suo padrone e a diventare in tal modo uno in più nel novero dei suoi beffeggiatori. È una cosa che induce a tristi riflessioni! E dobbiamo anche soffermarci a notare come Sancio, pur considerando che il suo padrone era matto da legare e ritenendo che era in condizione da essere ingannato da lui e che prendeva una cosa per l’altra e giurava che il bianco era nero e il nero bianco, tuttavia, e forse anche proprio per questo, si lasciava a sua volta ingannare o piuttosto trascinare dalla fede riposta in Don Chisciotte; e senza credervi, credeva in lui. E, pur vedendo che i giganti erano mulini a vento e gli eserciti dei nemici erano branchi di montone, seguitava ad aver fede nell’isola promessagli tante volte. Oh, meraviglioso potere della fede, ribelle ad ogni urto del disinganno e della delusione! Oh, misteri della fede sanciopanzesca, che senza credere crede e, pur vedendo, comprendendo e dichiarando che è nero, fa sì che chi l’ha in cuore senta ed agisca e speri come se fosse bianco! Da tutto ciò pos-
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De todo ello hemos de concluir que Sancho vivía, sentía, obraba y esperaba bajo el encanto de un poder extrano que le dirigía y llevaba contra lo que veía y entendía, y que su vida toda fue una lenta entrega de sí mismo a ese poder de la fe quijotesca y quijotizante. Y así, cuando él creyó engañar a su amo resultó el engañado él y fue el instrumento para encantar real y verdaderamente a Dulcinea. La fe de Sancho en Don Quijote no fue una fe muerta, es decir, engañosa, de esas que descansan en ignorancia; no fue una fe de carbonero, ni menos fe de barbero, descansadora en ocho reales. Era, por el contrario, fe verdadera y viva, fe que se alimenta de dudas. Porque solo los que dudan creen de verdad, y los que no dudan, ni sienten tentaciones contra su fe, no creen en verdad. La verdadera fe se mantiene de la duda; de dudas, que son su pábulo, se nutre y se conquista instante a instante, lo mismo que la verdadera vida se mantiene de la muerte y se renueva segundo a segundo, siendo una creación continua. Una vida sin muerte alguna en ella, sin deshacimiento en su hacimiento incesante, no sería más que perpetua muerte, reposo de piedra. Los que no mueren, no viven; no viven los que no mueren a cada instante para resucitar al punto, y los que no dudan, no creen. La fe se mantiene resolviendo dudas y volviendo a resolver las que de la resolución de las anteriores hubieren surgido. Sancho veía las locuras de su amo y que los molinos eran molinos y no gigantes, y sabía bien que la zafia labradora a la que iba a encontrar a la salida del Toboso no era, no ya Dulcinea del Toboso, mas ni aun Aldonza Lorenzo y con todo ello creía a su amo y tenía fe en él y creía en Dulcinea del Toboso y hasta en su encantamiento acabó por creer, como veremos. Esta la tuya es fe, Sancho, y no la de esos que dicen creer
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siamo dedurre che Sancio viveva, agiva e sperava sotto l’incantesimo di uno strano potere che lo dirigeva e lo conduceva contro ciò che vedeva e comprendeva, e che tutta la sua vita fu un lento e progressivo affidarsi al potere della fede chisciottesca e chisciottizzante. E così, quando credeva di ingannare il suo padrone, emerse che l’ingannato fu lui, non solo, ma fu addirittura lo strumento per incantare realmente e veramente Dulcinea. La fede di Sancio in Don Chisciotte non fu una fede morta, cioè ingannatrice, di quelle che si fondano pacificamente sull’ignoranza; non fu fede di carbonaio e tanto meno di barbiere, di quelle che si fondano su otto reali. Era invece fede vera e viva, fede che si alimentava di dubbi. Poiché solo coloro che dubitano credono davvero, mentre quelli che non dubitano mai e non sono soggetti a tentazioni contro la propria fede, non credono realmente. La vera fede si nutre di dubbio; anzi, di dubbi che costituiscono il suo pascolo; e se ne alimenta e si conquista momento per momento, proprio come la vera vita si alimenta della morte e ci rinnova di istante in istante, ed è una continua creazione. Una vita in cui non vi fosse un po’ di morte, senza alcun disfacimento nel suo continuo farsi, non sarebbe che una continua morte, una quiete di pietra. Coloro che non mutano, non vivono; non vivono coloro che non muoiono ad ogni istante per resuscitare immediatamente; e coloro che non dubitano, non credono. La fede si conserva sciogliendo e chiarendo dubbi, e tornando a sciogliere ed a chiarire quelli che sorgono dalla soluzione dei precedenti. Sancio vedeva benissimo le pazzie del suo padrone; vedeva che i mulini erano mulini e non giganti, e sapeva perfettamente che la rustica contadina che avrebbe incontrato all’uscita del Toboso non era affatto, non diciamo Dulcinea, ma nemmeno Aldonza Lorenzo; ma con tutto ciò credeva ugualmente nel suo padrone ed aveva fede in lui, e credeva in Dulcinea del Toboso e finì per credere addirittura nel suo incantesimo, come vedremo a suo tempo. Questa tua, sì, che è fede, Sancio; non già quella
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un dogma sin entender, ni aun a la letra, siquiera su sentido inmediato, y tal vez sin conocerlo; esta es fe y no la del carbonero, que afirma ser verdad lo que dice un libro que no ha leído porque no sabe leer ni tampoco sabe lo que el libro dice. Tú, Sancho, entendías muy bien a tu amo, pues todo lo que te decía eran dichos muy claros y muy entendederos, y veías, sin embargo, que tus ojos te mostraban otra cosa y sospechabas que tu amo desvariaba por loco y dudabas de lo que veías, y a pesar de ello le creías, pues ibas tras de sus pasos. Y mientras tu cabeza te decía que no, decíate tu corazón que sí, y tu voluntad te llevaba en contra de tu entendimiento y a favor de tu fe. En mantener esa lucha entre el corazón y la cabeza, entre el sentimiento y la inteligencia, y en que aquel diga ¡sí! mientras esta dice ino! y ¡no! cuando la otra ¡sí!, en esto y no en ponerlos de acuerdo consiste la fe fecunda y salvadora; para los Sanchos, por lo menos. Y aun para los Quijotes, porque veremos dudar a Don Quijote mismo. Y no nos quepa duda de que con los ojos de la carne Don Quijote vio los molinos como tales molinos y las ventas como ventas y de que allá, en su fuero interno, reconocía la realidad del mundo aparencial – aunque una realidad aparencial también – en que ponía el mundo sustancial de su fe. Y buena prueba de ello es aquel maravilloso diálogo que sostuvo con Sancho cuando este volvió a Sierra Morena a darle cuenta de su visita a Dulcinea. El loco suele ser un comediante profundo, que toma en serio la comedia, pero que no se engaña, y mientras hace en serio el papel de Dios o de rey o de bestia, sabe bien que ni es Dios, ni rey, ni bestia. ¿Y no es loco todo el que toma en serio el mundo? ¿Y no deberíamos ser locos todos? Y ahora llegamos al momento tristísimo de la carrera de Don Quijote: a la derrota de Alonso Quijano el Bueno dentro de él. Aconteció, pues, que al volverse Sancho a su amo salían del Toboso tres labradoras sobre tres pollinos o pollinas, y se las presentó a Don Quijote como Dulcinea y dos doncellas, di-
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di chi dice di credere in un dogma anche senza comprenderlo, sia pure letteralmente o nel suo significato immediato: questa sì, che è fede, e non quella del carbonaio che afferma di essere verità quanto dice un libro che non ha mai letto perché non sa leggere e perché tanto meno sa quello che il libro dice. Tu, Sancio, comprendevi benissimo il tuo padrone, poiché tutto quello che ti diceva era detto con parole chiarissime e comprensibilissime; eppure vedevi che i tuoi occhi ti mostravano una cosa diversa e sospettavi che il tuo padrone vaneggiasse come un pazzo e dubitavi di ciò che vedevi; ciò nonostante credevi in lui, poiché ne seguivi i passi. E mentre la tua testa ti diceva di no, il tuo cuore ti diceva di sì, e la volontà ti metteva contro il tuo stesso intelletto e si schierava in favore della tua fede. Nel tener viva questa lotta tra il cuore e la testa, tra il sentimento e l’intelligenza; nel fatto che l’uno dica sì mentre l’altro dice no, e no quando l’altra dice sì; in questo e non già nel metterli d’accordo consiste la fede feconda e salvatrice; per i Sanci, almeno. Ed anche per i Chisciotti, poiché vedremo qualche volta dubitare lo stesso Don Chisciotte. Poiché non c’è alcun dubbio che Don Chisciotte con gli occhi della carne vide distintamente i mulini come mulini e le osterie come osterie; e che in fondo in fondo, proprio nell’intimo, riconosceva la realtà del mondo apparente – per quanto realtà apparente anche quella –; ma dentro di essa collocava il mondo sostanziale della sua fede. E ne è una prova il mirabile dialogo che ebbe con Sancio quando questi ritornò dalla Sierra Morena per dargli notizie della visita a Dulcinea. Il pazzo suole essere un consumato attore che prende sul serio la commedia, ma non se ne lascia ingannare e, mentre fa la parte di Dio, di re o di bestia, sa benissimo di non essere né Dio, né re, né bestia. E non è pazzo, del resto, chiunque prende sul serio il mondo? E non dovremmo essere pazzi tutti? Giungiamo adesso al momento più triste della carriera di Don Chisciotte: alla sconfitta di Alonso Chisciano il Buono nel suo intimo. Accadde dunque che, mentre Sancio se ne stava tornando dal suo padrone, uscivano dal Toboso tre villane che cavalcavano tre somari o somare, ed egli le presentò a Don Chisciotte
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ciendo que venia a verle. «¡Santo Dios! ¿Qué es lo que dices, Sancho amigo? – dijo Don Quijote –. Mira, no me engañes ni quieras con falsas alegrías alegrar mis verdaderas tristezas». «Y ¿qué sacaría yo de engañar a vuesa merced?», respondió Sancho. Salieron al camino, no columbró en él Don Quijote sino a las tres labradoras, porfió Sancho que eran Dulcinea y sus doncellas, atúvose a sus sentidos, contra su costumbre, el amo, y trocáronse los papeles, siquiera en apariencia. El paso este del encantamiento de Dulcinea es grandemente melancólico. Sancho hizo su comedia, teniendo del cabestro al jumento de una de las tres labradoras, hincándose de rodillas y enderezándole aquel saludo que nos ha conservado la historia. Don Quijote miraba con ojos desencajados y vista turbada a la que Sancho Ilamaba reina y señora, y en que él, Don Quijote, espera ver a Dulcinea, y debajo de él, Alonso Quijano, esperaba a Aldonza Lorenzo, suspirada en silencio doce años por solo cuatro goces de su vista. Don Quijote se puso de hinojos y «miraba con ojos desencajados y vista turbada a la que Sancho Ilamaba reina y señora», sin descubrir en ella «sino una moza aldeana y de no buen rostro, porque era carirredonda y chata». Ve aquí, Caballero, que tu Sancho, la humanidad que te acompaña y guía, te presenta a la Gloria, por la que tanto suspiraste, y no ves en ella sino una moza aldeana y no de muy buen rostro. Pero es aún más triste el paso, pues si Don Quijote no veía a Dulcinea, tampoco el pobre Alonso Quijano el Bueno veía a su Aldonza. Doce años de solitario sufrir, doce años de no haber podido vencer su encojimiento soberano, doce años de esperar lo imposible, y por imposible con más ahinco esperado, a que ella, Aldonza, su Aldonza, por un inaudito milagro se percatara del amor de su Alonso y se fuera a él; doce años de soñar en el
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come se fossero Dulcinea e due delle sue damigelle, che venivano ad incontrarlo. «Santo Dio! Cosa dici mai, mio caro Sancio? – disse Don Chisciotte –. Guarda di non ingannarmi, né di consolare con falsa gioia la mia vera tristezza. «Che ne ricaverei dall’ingannare vossignoria?», rispose Sancio. Ritornarono sullo stradone, Don Chisciotte non vi scorse altri che le tre villane; Sancio s’impuntò a dire che erano Dulcinea con le sue damigelle, mentre il padrone, contro ogni sua abitudine, si atteneva a ciò che gli suggerivano i suoi sensi; e così le parti furono invertite, almeno in apparenza. Questo brano dell’incantesimo di Dulcinea è profondamente malinconico. Sancio proseguì con la sua commedia afferrando per la cavezza il giumento di una delle tre villane buttandosi ginocchioni davanti e snocciolandole il saluto che ci ha tramandato la storia. Don Chisciotte osservava con gli occhi sbarrati e lo sguardo incerto colei che Sancio chiamava regina e signora e nella quale Don Chisciotte aveva sperato di vedere Dulcinea mentre sotto sotto Alonso Chisciano sperava di vedere Aldonza Lorenzo, sospirata in silenzio per dodici anni nei quali soltanto quattro volte aveva goduto della sua vista. Anche Don Chisciotte si mise in ginocchio e «guardava con gli occhi stralunati e confusi colei che Sancio chiamava regina e signora» senza scorgere in lei che «una ragazza del contado e neanche bella, perché dalla faccia tonda e rincagnata». Ecco che adesso, Cavaliere, il tuo Sancio, ossia l’umanità che ti accompagna e ti guida, ti presenta la Gloria, quella gloria per la quale hai tanto sospirato e tu vedi in essa solo una ragazza del contato e neanche bella. Ma tanto più triste è il brano in quanto, se Don Chisciotte non vedeva Dulcinea, nemmeno il povero Alonso Chisciano il Buono vedeva la sua Aldonza. Dodici anni di solitarie sofferenze, dodici anni trascorsi senza riuscire ad infrangere il suo sovrano riserbo, dodici anni durante i quali aveva sperato l’impossibile – e proprio perché impossibile sperato più intensamente – che Aldonza, la sua Aldonza, si accorgesse per un inaudito miracolo dell’amore del suo Alonso e andasse da lui;
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imposible procurando acallar con la lectura de los libros de caballerias el todopoderoso amor, y ahora en que, gracias a Dios, ya loco, rota la vergüenza, se cumple lo imposible y va a recibir el premio de su locura, ahora… ahora esto! ¡Qué santa, qué dulce, qué redentora suele ser la locura! Loco Alonso Quijano, por merced del Señor, que se compadece de los buenos, rompió aquella tremenda costra de la timidez del hidalgo lugareño, y se atrevió a escribir a su Aldonza, aunque fuese bajo la advocación de Dulcinea, y ahora, en premio, Aldonza misma viene desde el Toboso a verle. Se cumplió lo imposible, merced a su locura. ¡Al cabo de doce años! ¡Oh momento supremo tanto tiempo suspirado! «¡Santo Dios!». «¿Qué es lo que dices, Sancho amigo?». ¡Ahora, ahora va a redimirse su locura, ahora va a lavarsela en el torrente de las lágrimas de la dicha; ahora va a cobrar el premio de su esperanza en lo imposible! ¡Oh, y cuántas tinieblas de locura se disiparían bajo una mirada de amor! «No quieras con falsas alegrías alegrar mis verdaderas tristezas». Pensemos en esto de alegrársele las tristezas a Don Quijote: las tristezas de doce años, las tristezas de su locura. Pues qué, ¿creéis que Alonso el Bueno no se daba cuenta de que estaba loco y no aceptaba su locura como único remedio de su amor, como regalo de su piedad divina? Al saber que su locura daba fruto, alborotose el corazón del hidalgo, y mandó a Sancho, en albricias de aquellas no esperadas nuevas, el mejor despojo de la primera aventura que tuviese, y «si esto no te contenta, te mando – le dijo – las crías que este año me dieren las tres yeguas mías, que tu sabes que quedaban para parir en el prado concejil de nuestro pueblo». Primero le ofrece Don Quijote del caudal del caballero andante, despojo de aventura, en albricias de anunciarle la venida de Dulcinea, mas luego asoma Alonso Quijano, y con el corazón anegado en gozo porque viene a verle Aldonza, ofrece el hidalgo de su caudal, no ya despojo de aventura, sino crías de las yeguas. ¿No veis aquí cómo el amor saca a fior de la locura quijotesca la locura de Quijano?
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dodici anni durante i quali aveva sperato l’impossibile cercando di mettere a tacere con la lettura dei libri di cavalleria l’amore onnipresente! E adesso che, ormai pazzo grazie a Dio, vede avverarsi l’impossibile e sta per ricevere il premio della sua follia, adesso… adesso questo! Come suole essere santa, dolce e redentrice la follia! Alonso Chisciano, ormai pazzo per grazia del Signore che ha pietà dei buoni, spezzò la tremenda crosta della timidezza dell’hidalgo di paese e osò scrivere alla sua Aldonza, sia pure per invocazione di Dulcinea; e adesso, in premio di ciò, Aldonza in persona viene dal Toboso ad incontrarlo. L’impossibile si è avverato, grazie alla sua follia! E in capo a dodici anni! Momento supremo così a lungo sospirato! «Santo Dio! Cosa dici mai, mio caro Sancio?». Adesso, adesso la sua follia sta per raggiungere la redenzione; adesso sta per lavarla nel torrente delle lacrime di gioia; adesso sta per riscuotere il premio della lunga speranza nell’impossibile. Queste tenebre di follia non si dissiperanno sotto un solo sguardo d’amore? «Non volere consolare con falsa gioia la mia vera tristezza». Soffermiamoci su questo punto: consolare la tristezza di Don Chisciotte, la tristezza di dodici anni, la tristezza della follia. Credete forse che Alonso il Buono non si accorgesse di essere pazzo e non accettasse la follia come unico rimedio al suo amore, come dono della pietà divina? Nel vedere che la sua follia gli portava finalmente qualche frutto, il cuore dell’hidalgo sobbalzò; e concesse a Sancio, come ricompensa di quella notizia inattesa, la migliore spoglia conquistata nella prima avventura che avesse affrontato, e «se questa non ti soddisfa, ti prometto – gli disse – la figliata che mi daranno quest’anno le mie tre cavalle, che tu sai che stanno per partorire nel prato comunale del nostro villaggio». Don Chisciotte prende la prima offerta dal tesoro del cavaliere errante, dal bottino della avventure, quale ricompensa dell’annuncio dell’arrivo di Dulcinea; ma s’affaccia poi Alonso Chisciano, e col cuore traboccante di gioia perché Aldonza viene a lui, offre dal suo patrimonio di hidalgo, non già le spoglie d’avventura, ma la figliata delle cavalle. Non vi accorgete che l’amore fa sbocciare dalla follia chisciottesca la follia di Chisciano?
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Ya te dan fruto tus locuras, buen Caballero, pues merced a ellas sale a verte Aldonza, sacando del exceso de tu desvarío cuán grande debe ser tu amor. Y vino en seguida el tremendo golpe, el golpe que hundió en su locura al pobre Alonso el Bueno, hasta su muerte. Ahora, ahora es cuando se remacha la suerte de Alonso. Esperaba a Aldonza y lo vehemente de la esperanza no le dejaba dudar, y puesto de hinojos, como mejor decía a aquel callado culto de doce años, «miraba con ojos desencajados y vista turbada a la que Sancho llamaba reina y señora, y como no descubría en ella sino una moza aldeana y no de muy buen rostro, porque era carirredonda y chata, estaba suspenso y admirado, sin osar despiegar los labios». ¡Ni la locura te valió, buen Caballero! Cuando al cabo de doce años vas a tocar el precio de ella, la brutal realidad te da en el rostro. ¿No es acaso así con todo amor? Mas no te pese, Don Quijote, y sigue con tu locura solitaria; no te pese de no llegar a comprometerte con la dicha; no te pese de no votarte a la felicidad; no te pese de que no se haya llenado tu anhelo de doce años, en brazos de tu Aldonza. «Y tú, oh extremo del valor que puede desearse, término de la humana gentileza, único remedio deste afligido corazón que te adora, ya que el maligno encantador me persigue y ha puesto nubes y cataratas en mis ojos, y para ellos solos y no para otros ha mudado y trasformado tu sin igual hermosura y rostro en el de una labradora pobre, si ya también el mío no lo ha cambiado en el de algún vestiglo para hacerle aborrecible a tus ojos, no dejes de mirarme blanda y amorosamente, echando ver en esta sumisión y arrodillamiento que a tu contrahecha hermosura hago, la humildad con que mi alma te adora». ¿No os entran ganas de llorar oyendo este planidero ruego? ¿No oís cómo suena en sus entrañas, bajo la retórica caballeresca de Don Quijote, el lamento infinito de Alonso el Bueno, el más desgarrador
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Ecco che ti danno qualche frutto le tue follie, mio buon Cavaliere, perché è grazie ad esse che viene ad incontrarti appositamente Aldonza che dagli eccessi della tua stravaganza ha arguito quanto grande debba essere il tuo amore. Egli assestò poi il colpo tremendo, che fece sprofondare nelle tenebre della sua follia il povero Alonso il Buono fino alla morte. È adesso che si ribadisce la sorte di Alonso! Aspettava Aldonza e la veemenza della speranza non gli consentiva di dubitare sicché, ginocchioni come ben s’addice a quel suo tacito culto di dodici anni, «guardava con gli occhi stralunati e confusi colei che Sancio chiamava regina e signora; e poiché non vedeva in lei altro che una ragazza del contado e neanche bella, perché dalla faccia tonda e rincagnata, restava interdetto e smarrito senza osare schiudere le labbra». Nemmeno la follia ti valse a nulla, mio buon Cavaliere! Quando in capo a dodici anni stai per coglierne il frutto, ecco che la brutale realtà ti colpisce sul viso. Non avviene forse così con tutti gli amori? Ma non dolertene, mio Don Chisciotte, e prosegui con la tua follia solitaria; non affliggerti se non puoi giungere ad un compromesso con la felicità; non amareggiarti se non ti puoi votare alla buona sorte; non avvilirti se non si è potuto coronare l’anelito di dodici anni tra le braccia della tua Aldonza. «E tu, o ultima perfezione che possa desiderarsi del valore, o termine estremo della gentilezza sulla terra, o rimedio unico di questo cuore afflitto che ti adora! Giacché mi perseguita il maligno incantatore e ha posto una nube ed un velo dinanzi ai miei occhi, per i quali soli e non già per altri occhi ho mutato e trasformato il tuo viso e la tue bellezza incomparabile in quello di una povera contadina – se pure non abbia mutato anche il mio in quello di qualche mostro per renderlo orrendo ai tuoi occhi – voglia tu darmi uno sguardo carezzevole ed amoroso, così da osservare in questa sottomissione e in questo mio stare genuflesso dinanzi alla tua svisata bellezza, l’umiltà, con cui ti adora l’anima mia». Non vi viene voglia di piangere udendo questa preghiera piena di lacrime? Non sentire come risuona nel profondo delle viscere, sotto la retorica cavalleresca di Don Chisciotte, il lamento infinito di Alonso il Buono, il più straziato
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quejido que haya jamás brotado del corazón del hombre? ¿No oís la voz agorera y eterna del eterno desengaño humano? Por primera vez, por última, por única vez habla Don Quijote de su propio rostro, de aquel rostro de Alonso que se encendía en rubor al pensar en Aldonza… «La humildad con que mi alma te adora…». Humildad de doce años, humildad alimentada en largas noches de soledad y de absurdas esperanzas, humildad nutrida con el más grandioso temor y encojimiento que jamás se viera. Lo inmenso de su amor le había hecho humilde, y jamás se osó dirigirla una palabra solo. Seguid leyendo la historia de este encuentro, y sacándola por vosotros mismos, lectores míos, el jugo que tenga; a mi me apesadumbra tanto que me priva de imaginación para rehacerla, y voy a pasar a otra cosa. Leed vosotros la respuesta grosera que la moza dio a Don Quijote, y cómo dio con ella en tierra a corcovos su borrica, y cómo Don Quijote acudió a levantarla, cosa que evitó ella subiéndose de un salto sobre la borrica y dandole un olor a ajos crudos que le encalabrinó y atosigó el alma. No puede leerse sin angustia este martirio del pobre Alonso.
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gemito che sia mai sgorgato da un cuore d’uomo? Non udite la voce fatidica ed eterna dell’eterno disinganno umano? Per la prima, per l’ultima, per l’unica volta Don Chisciotte parla del suo stesso viso, di quel viso di Alonso che si infiammava di rossore al solo pensiero di Aldonza. «L’umiltà con cui ti adora l’anima mia…». Umiltà di dodici anni, umiltà alimentata in lunghe notti di solitudine e di assurde speranze, umiltà nutrita dal più grandioso pudore e riserbo che mai si sia visto. L’immensità del suo amore l’aveva reso umile e giammai aveva osato rivolgerle sia pure una sola parola. Continuate a leggere la storia di questo incontro e ricavatene voi stessi, miei lettori, il significato che può avere per ognuno; a me mette in cuore tanta malinconia da togliermi ogni forza d’immaginazione che mi consenta di ricostruirla; passo perciò ad un altro argomento. Leggete voi stessi la rustica risposta data dalla ragazza a Don Chisciotte e come cadde lunga distesa per terra per le sgroppate della somara e come Don Chisciotte accorse a rialzarla, cosa che ella evitò rimontando d’un balzo sulla somara e alitandogli in faccia un tale odore d’aglio crudo da sconvolgerlo ed avvelenargli l’anima. Non si può leggere senza stringersi il cuore questo martirio del povero Alonso.
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de la extraña aventura que le sucedió al valeroso Don Quijote con el carro o carreta de las Cortes de la Muerte Reanudaron amo y escudero su camino, burlándose el socarrón Sancho de la candidez de su amo. Y entonces fue cuando toparon con la carreta de la muerte o de la compañia de Angulo el Malo, que Don Quijote, aleccionado y entristecido por lo que acababa de pasarle, tornó por lo que realmente era. Y entonces fue también cuando Rocinante, alborotado por el cascabeleo del moharracho, dio con su amo en tierra y todo lo que sigue. Y cómo quiso castigar el Caballero a los farsantes, y le esperaron estos en ala y armados de guijarros, y convenció Sancho a su amo, hombre cuerdo y sesudo al fin, de que no debía meterse con semejante tropa, pues entre todos los que allí estaban, aunque paredan reyes, principes y emperadores, no había ningun caballero andante. Y así Don Quijote mudó ya de su determinado intento. Y al ver que Sancho, por su parte, no quería vengarse, fue cuando le dijo lo de: «Pues esa es tu determinación, Sancho bueno, Sancho discreto, Sancho cristiano y Sancho sincero, dejemos estas fantasmas y volvamos a buscar mejores y más calificadas aventuras». La del carro de la muerte parece una de las más heroicas que llevó a feliz término nuestro hidalgo, pues en ella se nos muestra venciéndose a sí mismo con su cordura. ¡Es que le pesaba sobre el corazón el encantamiento de su dama! El mundo comedia es,
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della strana avventura capitata al valoroso Don Chisciotte col carro o carretta della Corte della Morte Ripresero la loro strada padrone e scudiero; e intanto quel sornione di Sancio se la rideva tra sé del candore del suo padrone. Fu allora che si imbatterono nella carretta della morte, ossia della compagnia di Angelo il Cattivo che Don Chisciotte, ammaestrato e rattristato da quel che poco prima gli era accaduto, prese per quel che era in realtà. E fu pure allora che Ronzinante, eccitato dal tintinnio dei sonagli del buffone, buttò giù di sella il suo padrone, con tutto quel che segue. E cioè che il Cavaliere si mosse per punire i commedianti di quell’affronto, che essi l’attesero di piè fermo, in schiera serrata ed armati di ciottoli, che Sancio riuscì a convincere il suo padrone, uomo dopo tutto saggio e posato, che non era il caso di prendersela con una truppa come quella, poiché tra tutti i presenti, per quanto sembrassero re, principi ed imperatori, non c’era neppure un cavaliere errante. Così Don Chisciotte rinunciò alla decisione già presa. E quando vide che Sancio, per suo conto, non intendeva vendicarsi, gli disse la famosa frase: «Poiché è questa la tua decisione, o buon Sancio avveduto, Sancio cristiano, Sancio sincero, lasciamo queste fantasie e torniamo in cerca delle migliori e più degne avventure». Quella del carro della morte ci pare una delle più eroiche condotte a termine dal nostro hidalgo, poiché in essa ci si mostra capace di vincere se stesso con la propria saggezza. Ancora gli pesava sul cuore l’incantesimo della sua dama! Il mondo
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y gran locura querer luchar con gentes que no son lo que parecen, sino míseros farsantes que representan su papel y entre los cuales apenas si se halla de higos a brevas un caballero andante. En el tablado del mundo es novedad sorprendente ver entrar un caballero de verdad, de los que matan y hacen en serio la escena del desafío cuando los otros hacen que la hacen y por hacer el papel no más. Tal es el héroe. Y al héroe le esperaban los comediantes todos en ala y armados de piedras. Dejad, pues, a los farsantes y recordad la profunda sentencia de Sancho: «Nunca los cetros y coronas de los emperadores farsantes fueron de oro puro, sino de oropel o hoja de lata». Recordadla y tened en cuenta que la creencia de los que en la comedia del mundo hacen el papel de maestros, cobrando por ello su salario, es ciencia de oropel u hoja de lata.
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è commedia, e sarebbe una grande pazzia combattere contro gente che non è quel che pare, bensì un pugno di miseri guitti che rappresentano la loro parte, e tra i quali ben difficilmente si può trovare un cavaliere errante. Sul palcoscenico del mondo è una novità sorprendente vedere entrare un autentico cavaliere, di quelli che ammazzano e recitano sul serio la scena della disfida, mentre gli altri fingono di recitarla e si limitano a seguire il copione. Di questa stoffa è fatto l’eroe. E i guitti, tutti schierati ed armati di pietre, aspettavano l’eroe. Lasciate dunque da parte i commedianti e ricordatevi della profonda sentenza di Sancio: «Gli scettri e le corone degli imperatori da commedia non sono mai stati d’oro, ma d’orpello e di latta». Rammentatevene e tenete conto che la scienza di coloro che nella commedia del mondo fanno la parte di maestri, riscuotendo perciò un salario, è scienza d’orpello e di latta.
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de la extraña aventura que le sucedió al valeroso Don Quijote con el bravo Caballero de los Espejos Conversando sobre lo que es la comedia del mundo se quedaron amo y escudero bajo de unos aítos y sombríos árboles, cuando les rompió el sueño la llegada del Caballero de los Espejos. Y allí fue la plática de los escuderos de un lado y de los caballeros por el otro, y el declarar Sancho que a su amo un niño le haría entender que era de noche en la mitad del día, sencillez por la que le quería como a las telas de su corazón y no se amanaba a dejarle por más disparates que hiciera. Aquí se nos declara la razón del amor que Sancho profesaba a su amo, mas no la de la admiración. ¿Pues qué creíais, Sancho? El héroe es siempre por dentro un niño, su corazón es infantil siempre; el héroe no es más que un niño grande. Tu Don Quijote no fue sino un niño, un niño durante los doce largos años en que no logró romper la verguenza que le ataba, un niño al engolfarse en los libros de caballerías, un niño al lanzarse en busca de aventuras. ¡Y Dios nos conserve siempre niños, Sancho amigo!
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capitolo xii
della singolare avventura che capitò al prode Don Chisciotte col bravo Cavaliere degli Specchi Conversando sulla commedia del mondo, padrone e scudiero sostarono sotto un gruppo di alti ed ombrosi alberi finché non venne ad interrompere il loro sonno l’arrivo del Cavaliere degli Specchi. Fu allora che si svolse la conversazione tra i due scudieri da una parte e tra i due cavalieri dall’altra, e che Sancio dichiarò che al suo padrone anche un bambino riusciva a far credere che era notte a mezzogiorno e che proprio per questa sua ingenuità gli voleva bene come alla pupilla dei suoi occhi e non si decideva a lasciarlo per quante balordaggini commettesse. In questo passo ci viene chiarita la ragione dell’amore di Sancio verso il suo padrone, ma non quella dell’ammirazione che nutriva. Che ti credevi, Sancio? L’eroe, nell’intimo, è sempre un bambino; il suo cuore è sempre infantile: l’eroe non è altro che un bambino grande. Il tuo Don Chisciotte non fu che un bambino, un bambino durante i dodici lunghi anni in cui non osò infrangere il pudore che lo imprigionava, un bambino quando si immerse nella lettura dei libri di cavalleria, un bambino, infine, quando si lanciò in cerca d’avventure. E Dio voglia conservarci sempre bambini, amico Sancio!
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capítulos xiii y xiv
donde se prosigue la aventura del caballero del bosque con el discreto, nuevo y suave coloquio que paso entre los dos escuderos Mientras platicaban los escuderos entre sí también platicaban los caballeros, y de esta plática, y de haber afirmado el de los Espejos ser vencedor de Don Quijote, surgió el que concertasen un duelo bajo condiciones de que el vencido quedase sujeto a obedecer al vencedor. Y así que fue de día fue el lance, derribando Don Quijote al de los Espejos, el bachiller Sansón Carrasco, pues no era otro, que habiendo ido por lana y a llevarse al hidalgo a su casa, salió para la suya trasquilado. Al descubrirle la visera y ver al bachiller atribuyó Don Quijote a magia, mas Sancho, que se había encaramado a un árbol para ver la pelea, le pidió metiese la espada por la boca al que parecía el bachiller Sansón Carrasco. ¡Ah, Sancho, Sancho, y cuán bien se aviene tu impiadosa crueldad de ahora con tu cobardía de antes! Volvió al cabo en sí el bachiller, confesó aventajar Dulcinea del Toboso en hermosura a Casilda de Vandalia y prometió ir a presentarse a ella. «Todo lo confieso, juzgo y siento como vos lo creéis, juzgáis y sentís», respondió el derrengado caballero, el burlador burlado, el vencido bachiller. Así, mal que les pese, tienen que declarar los bachilleres ser verdad lo que por tal
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capitoli xiii e xiv
dove continua l’avventura del Cavaliere del Bosco con l’assennata, originale e pacifica conversazione che avvenne tra i due scudieri Mentre gli scudieri chiacchieravano tra loro, anche i cavalieri conversavano; e da questa conversazione e dal fatto che il Cavaliere degli Specchi affermò d’aver vinto Don Chisciotte derivò che si accordarono di misurarsi in duello con l’espressa condizione che il vinto si impegnasse ad obbedire al vincitore. E non appena fece giorno si svolse il combattimento, nel quale Don Chisciotte abbatté quello degli Specchi, ossia il baccelliere Sansone Carrasco, dato che si trattava proprio di lui: era andato per suonare con il piffero e per ricondurre a casa sua l’hidalgo, e dovette ritornarsene suonato al paese. Quando corse a sollevargli la visiera e vide il baccelliere, Don Chisciotte attribuì il fatto ad una magia, ma Sancio, che si era arrampicato su un albero per vedere meglio il combattimento, gli suggerì di piantare la spada in bocca a colui che sembrava il baccelliere Sansone Carrasco. Oh, Sancio, Sancio come si accorda bene la tua spietata crudeltà di adesso con la tua codardia di poco fa! Finalmente il baccelliere riprese i sensi, confessò che Dulcinea del Toboso si avvantaggiava per la bellezza rispetto a Casildea di Vandalia e promise di andarsi a presentare da lei. «Confesso, ritengo e penso in tutto e per tutto come voi credete, ritenete e pensate», rispose il malconcio cavaliere, il beffatore beffato, il vinto baccelliere. Così, sebbene a denti stretti, i baccellieri devono dichiarare che è vero ciò che come tale procla-
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proclaman los hidalgos; así los burladores son burlados; así el sentido común debe andar por los suelos a botes de la lanza del heroísmo. Pues qué, no hay sino hacerse el loco para reducir a cordura a los que lo son de veras?
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mano gli hidalgo; così gli schernitori sono scherniti; così il senso comune deve piombare a terra sotto i colpi di lancia dell’eroismo. E che? Dovrebbe dunque bastare fingersi pazzo per ricondurre alla saggezza coloro che sono pazzi davvero?
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capítulo xv
donde se cuenta y da noticia de quién era el Caballero de los Espejos y su escudero En este capítulo de la historia se nos cuenta cómo el caballero de los Espejos no era otro que Sansón Carrasco, bachiller por Salamanca, que de acuerdo con el cura y el barbero ideó aquella traza para obligar a Don Quijote a que se redujese a su casa. Y el maligno Carrasco juró vengarse de Don Quijote, moliéndole a palos las costillas, locura mil veces más desatinada y más de verdad locura que la del hidalgo; locura, en fin, de pasión de hombre sensato, que son las peores y las más ponzoñosas de las locuras todas. El loco «que lo es por fuerza lo será siempre, y el que lo es de grado lo dejará de ser cuando quisiera», decía el bachiller. Pero venid acá, señor bachiller por Salamanca, venid y decidime, ¿cuál es peor desvarío, el que arranca de la cabeza o el que del corazón brota, la enfermedad del imaginar o la del querer? Y el que de grado o por voluntad se hace el loco, es que tiene la voluntad enferma o torcida, y para esto hay peor remedio que para las enfermedades del entendimiento. Y los que, como su merced, tienen el entendimiento tupido de cordura socarrona, y allende esto se lo han atiborrado de lugares comunes escolásticos en las aulas de Salamanca, suelen tener la voluntad loca de malas pasiones, de rencor, de soberbia, de envidia. ¿Pues qué razón había para ir a pelear Sansón Carrasco contra Don Quijote?
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dove si narra e si comunica chi erano il Cavaliere degli Specchi ed il suo scudiero In questo capitolo della storia ci viene narrato come il Cavaliere degli Specchi altro non fosse che Sansone Carrasco, diplomato baccelliere a Salamanca il quale, d’accordo col curato ed il barbiere, aveva ideato quella trappola per costringere Don Chisciotte a ritornarsene a casa. E il malvagio Carrasco aveva giurato di vendicarsi di Don Chisciotte macinandogli per bene le costole a suon di legnate, pazzia, questa, mille volte più furiosa e più autentica pazzia di quella dell’hidalgo; pazzia, insomma, derivata dalla passione di un uomo sensato, che è la peggiore e più velenosa di tutte le pazzie. Il pazzo, «che è tale per forza, sarà sempre tale, mentre chi è matto per sua scelta cesserà di esserlo quando vorrà», diceva il baccelliere. Ma venite un po’ qui, signor baccelliere diplomato a Salamanca; venite qui e ditemi: è peggior delirio quello che proviene dalla testa o quello che sgorga dal cuore? L’infermità dell’immaginazione o quella della volontà? E chi per sua scelta o di sua volontà fa il matto, significa che ha il volere infermo o contorto, e perciò il rimedio è più difficile rispetto alle infermità dell’intelletto; e coloro che, come vossignoria, hanno l’intelletto gonfio di sorniona saggezza, e per giunta se lo sono imbottiti di luoghi comuni scolastici nelle aule di Salamanca, sogliono avere la volontà ammattita di perfide passioni, di rancore, di superbia, di invidia. E infatti, che ragione c’era perché Sansone Carrasco andasse a combattere contro Don Chisciotte?
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«¿He sido yo su enemigo por ventura? ¿Hele dado yo jamás ocasión de tenerme ojeriza? ¿Soy yo un rival o hace él profesión de armas para tener envidia a la fama que yo por ellas he ganado?», decía Don Quijote. Sí, generoso Caballero, sí; fuiste y eres su enemigo, como lo es todo hidalgo heroico y generoso de todo bachiller socarrón y rutinero; le diste ocasión de ojeriza, pues cobraste con tus locas hazañas una fama que él nunca alcanzó con sus cuerdos estudios y bachillerías salamanquesas, y era tu rival y te tenía envidia. Y aunque declaró, y acaso así lo creyese él mismo, que salió al campo con la mira de reducirte a cordura, la verdad es que le movió a ello, tal vez sin él percatarse del motivo, su deseo de unir su nombre al tuyo y de andar junto contigo en lengua de la fama, como lo consiguió. ¿Y no sería acaso que buscaba llegase a oídos de aquella andaluza Casilda, con la que se pasó en claro las noches a la reja, allá en las calles de Salamanca, y a la que envolvió en su Casilda de Vandalia, su hazañosa proeza y su locura? ¿No oiría acaso hablar de ti con admiración a esa Casilda, que habría leído la primera parte de tu historia? Todo podría ser. Pero tu le venciste, para que se vea que la locura generosa da más arrestos y más bríos que la cordura menguada y socarrona, y sobre todo para que el bueno del bachiller por Salamanca aprendiese aquello de «quod natura non dat, Salmantica non praestat», vieja verdad a pesar de aquel arrogante lema del escudo de la vieja Escuela, que dice: «Omnium scientiarum princeps, Salmantica docet».
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«Forse che sono stato suo nemico? Gli ho mai dato motivo di avercela con me? Sono io suo rivale o fa egli professione delle armi da poter invidiare la fama che con esse ho conquistato?», diceva Don Chisciotte. Sì, generoso Cavaliere; sì. Sei stato e sei suo nemico come ogni hidalgo eroico e generoso lo è di ogni baccelliere sornione e consuetudinario; gli desti occasione di avercela con te, poiché con le tue folli imprese acquisisti una fama che egli non riuscì mai a raggiungere con i suoi sapienti studi e le sue baccellierie salmantine; ed era tuo rivale e ti invidiava. E per quanto dichiarasse – e forse ci credeva lui stesso – che era sceso in campo con l’unico scopo di ricondurti alla saggezza, la verità è che l’aveva spinto a farlo, forse anche senza accorgersene, il desiderio di legare il suo nome al tuo e di correre con te sulle ali della fama, desiderio che in realtà fu soddisfatto. O forse cercava di far giungere all’orecchio di quell’andalusa Casildea, con la quale aveva trascorso notti intere all’inferriata, là nelle vie di Salamanca, e che aveva celato sotto i panni della sua Casildea di Vandalia, la fama della sua ardimentosa prodezza e della sua follia? Non poteva aver udito parlare di te con ammirazione quella stessa Casildea che aveva letto probabilmente la prima parte della tua storia? Tutto è possibile. Ma tu lo sconfiggesti in modo da dimostrare che la follia generosa infonde più forza e più valore della follia sorniona e meschina, e soprattutto per far sì che quel buon uomo del baccelliere diplomato a Salamanca imparasse la massima «quod natura non dat, Salmantica non praestat», ciò che la natura non ha dato, non può rimpiazzarlo Salamanca, vecchia realtà provata a dispetto del superbo motto dell’antica Scuola: «Omnium scientiarum princeps, Salmantica docet», cioè: regina di tutte le scienze, Salamanca ammaestra.
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capítulos xvi y xvii
de lo que sucedió a Don Quijote con un discreto caballero de la Mancha y donde se declara el último punto y extremo adonde llegó y pudo llegar el inaudito ánimo de Don Quijote, con la felicemente acabada aventura de los leones Acabado este lance se encontró Don Quijote con el discretísimo don Diego de Miranda, yendo con el cual toparon con los carros de leones. Y alli fue la estupenda y nunca bien ponderada aventura, y cuando Don Quijote exclamó el inmortal: «Leoncitos a mi?, da mi leoncitos, y a tales horas? Pues por Dios han de ver esos señores que acá los envian si soy hombre que se espanta de leones». Quiso convencerle don Diego con que los leones no iban contra él, mas despacholo Don Quijote con que él sabia si iban o no a él aquellos señores leones y amenazó al leonero si no les abría la jaula. Pidió el leonero desuncir las mulas y ponerse en salvo, y «oh hombre de poca fe – respondió Don Quijote –, apéate y desunce y haz lo que quisieres». ¡Maravillosa proeza!, nunca visto valor de Don Quijote, y valor en seco, sin motivo ni objetivo, valor puro, valor acendrado! ¿No seria tal vez que mientras Don Quijote mostraba ostentar asi su valentia, por debajo de él el pobre Alonso el Bueno, agobiado por el desencanto sufrido al no encontrarse con la suspirada Aldonza, buscaba morir en las garras y quijadas del león con
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di ciò che avvenne tra il nostro Don Chisciotte e un saggio cavaliere della Mancia, e dove si dimostra a quale altissimo segno e punto estremo giunse e poté giungere il coraggio inaudito di Don Chisciotte, nonché dell’avventura dei leoni felicemente compiuta Terminato questo episodio, Don Chisciotte si imbatté nel prudentissimo don Diego de Miranda e mentre era con lui incontrarono i carri dei leoni. Ebbe luogo allora la stupenda e non mai abbastanza esaltata avventura quando Don Chisciotte esclamò con frasi immortali: «Dei leoncini a me? A me dei leoncini? E proprio adesso? Ebbene, per Dio, che quelli che li inviano qui vedranno se sono un uomo che ha paura dei leoni». Don Diego cercò di convincerlo che i leoni non erano mandati contro di lui, ma Don Chisciotte lo rintuzzò subito dicendogli che lo sapeva lui se quei signori leoni venivano o no contro di lui e minacciò il custode delle belve se non gli avesse aperto la gabbia. Il guardiano chiese il permesso di staccare le mule e di mettersi in salvo e: «Oh, uomo di poca fede! – rispose Don Chisciotte – Scendi, stacca e fa quello che vuoi». Mirabile prodezza! Coraggio mai visto, quello di Don Chisciotte! Semplicemente coraggio, senza motivo né obiettivo, valore puro, valore raffinato! Ma non potrebbe darsi che mentre Don Chisciotte mostrava di voler ostentare in tal modo il suo valore, sotto sotto il povero Alonso il Buono, disperato per la delusione sofferta nell’incontro con la disperata Aldonza, cercasse di morire tra gli artigli e le fauci del leone, di una morte
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muerte no tan torturadora como la que de continuo le estaba dando su amor desventurado? Ello fue que no sirvieron ruegos ni razones, sino que Don Quijote se apeó «temiendo que Rocinante se espantaria con la vista de los leones…, arrojó la lanza y embrazó el escudo, y desenvainando la espada, paso ante paso, con maravilloso denuedo y corazón valiente se fue a poner delante del carro, encomendándose a Dios de todo corazón y luego a su señora Dulcinea». Al mismo historiador le arranca expresiones de admiración esta intrepidez singular. Abierta la jaula, «lo primero que» (el león) «hizo fue revolverse» (en ella), «donde venia echado y tender la garra y desperezarse todo; abrió luego la boca y bostezó muy despacio, y con casi dos palmos de lengua que sacó fuera se despolvoreó los ojos y se lavó el rostro; hecho esto sacó la cabeza fuera de la jaula y miró a todas partes con los ojos hechos brasas, vista y ademán para poner espanto a la misma temeridad. Solo Don Quijote lo miraba atentamente, deseando que saltase del carro y viniese con él a las manos, entre las cuales pensaba hacerle pedazos», mientras acaso esperase en tanto el pobre Alonso el Bueno que entre las garras de la bestia acabase de sufrir su pobre y llagado corazón y se deshiciese en él la imagen de aquella Aldonza, suspirada doce años. «Pero el generoso león, mas comedido que arrogante, no haciendo caso de niñerías ni de bravatas, después de haber mirado a una y otra parte, como se ha dicho, volvió las espaldas y enseñó sus partes traseras a Don Quijote, y con gran flema y remanso se volvió a echar en la jaula». ¡Ah, condenado Cide Hamete Benengeli, o quienquiera que fuese el que escribió tal hazaña, y cuán menguadamente la entendiste! No parece sino que al narrarla te soplaba al oído el envidioso bachiller Sansón Carrasco. No, no fue así, sino lo que en verdad pasó es que el león se espantó o se avergonzó más bien al ver la fiereza de nuestro Caballero, pues Dios permite que las fieras sientan más al vivo que los hombres la presencia del poder incontrastable de la fe. O no seria acaso que el león, soñando entonces en la leona recostada, allá, en las arenas del desierto, bajo
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assai meno tormentata di quella che senza posa gli stava infliggendo il suo sventurato amore? Sta di fatto che a nulla valsero ragioni né preghiere e Don Chisciotte smontò da cavallo «temendo che Ronzinante si spaventasse alla vista dei leoni…, gettò via la lancia, imbracciò lo scudo e sguainando la spada con meravigliosa rapidità e con animo intrepido andò a mettersi davanti al carro, raccomandandosi di tutto cuore a Dio e poi alla sua signora Dulcinea». Perfino allo storiografo questa singolare intrepidezza strappa espressioni di ammirazione. Aperta la gabbia, «la prima cosa che (il leone) fece fu di rivoltarsi (in essa), dove giaceva, di distendere le zampe e stirarsi tutto; aprì quindi la bocca, sbadigliò totalmente a suo agio e con quasi due palmi di lingua che tirò fuori si ripulì gli occhi dalla polvere e si leccò il muso. Ciò fatto, mise la testa fuori dalla gabbia e guardò tutt’intorno con occhi di brace, con cipiglio e atteggiamento tale da incutere terrore alla stessa temerarietà. Soltanto Don Chisciotte lo guardava fisso, smanioso che si lanciasse fuori dal carro e venisse corpo a corpo con lui, pensando che lo avrebbe fatto a pezzi», mentre forse intanto il povero Alonso il Buono s’aspettava che tra gli artigli della belva finisse di soffrire il suo povero cuore piagato e svanisse in esso l’immagine di quella sua Aldonza che aveva sospirato per dodici anni. «Il generoso leone, però, più circospetto che altezzoso, senza curarsi di ragazzate né di bravate, dopo aver guardato tutt’intorno, come si è detto, voltò le spalle e mostrò il deretano a Don Chisciotte; poi con grande indifferenza e pacatezza tornò a sdraiarsi nella gabbia». Dannato d’un Cide Hamete Benengeli, o chiunque sia stato a scrivere una simile impresa, quanto meschinamente l’hai intesa! Parrebbe che mentre la narravi ti soffiasse all’orecchio l’invidioso baccelliere Sansone Carrasco. No, non fu così! Quello che in realtà avvenne fu che il leone si spaventò o piuttosto si vergognò nel vedere la fierezza del nostro Cavaliere, poiché Dio permette che le fiere sentano più immediatamente che non gli uomini la presenza dell’incontestabile potere della fede. O non sarà stato invece che il leone, sognando in quel momento la leonessa distesa, laggiù nel deserto sabbioso, sotto una palma, scorgesse
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una palmera, vio a Aldonza Lorenzo en el corazón del Caballero? No fue su amor lo que le hizo a la bestia comprender el amor del hombre y respetarle y avergonzarse ante él? No, el león no podía ni debía burlarse de Don Quijote, pues no era hombre, sino león, y las fieras naturales, como no tienen estragada la voluntad por pecado originai alguno, jamás se burlan. Los animales son enteramente serios y enteramente sinceros, sin que en ellos quepa socarronería ni malicia. Los animales no son bachilleres, ni por Salamanca ni por ninguna otra parte, porque les basta lo que la naturaleza les da. Lo que le pasó al león, enjaulado entonces como en un tiempo lo estuvo Don Quijote, es que al ver a este se avergonzó, y que esto debió ser así nos lo prueba y corrobora el que ya en otra ocasión, siglos antes, se había otro león avergonzado ante otro hazañoso caballero, el Cid Ruy Díaz de Vivar, según nos lo cuenta su viejo romance (Poema del Cid, versos 2.278 a 2.301). El cual dice que estando el Cid en Valencia con todos sus vasallos y sus yernos los infantes de Carrión, y durmiendo el Campeador en un escano, saliose de la red y se desató el león, sembrando miedo en la corte. Despertó el que en buen hora nació, y al ver lo que acontecía Mio Cid fincó el cobdo, en pie se levantó; el manto trae al cuello e adelinó pora leon; el leon quando lo vió assi, envergonçó: ante mió Cid la cabeça premió e el rostro fincó. Mió Cid don Rodrigo al cuello lo tomó, e lieva lo adestrando, en la red lo metió. (2.296-2.301)
Así ante Don Quijote, nuevo Cid Campeador, «envergonzó» el león, que acaso fuera uno de los dos que hoy figuran en maestro escudo de armas, y el avergonzado ante el Cid el otro.
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Aldonza Lorenzo nel cuore del Cavaliere? Non fu il suo amore che fece comprendere alla bestia l’amore dell’uomo e l’indusse a rispettarlo e a vergognarsi dinanzi a lui? No, il leone non poteva, né doveva beffarsi di Don Chisciotte, poiché non era uomo ma leone, e le fiere allo stato naturale, non essendo la loro volontà turbata da alcun peccato originale, non si beffano mai di nessuno. Gli animali sono assolutamente seri e assolutamente sinceri e in essi non c’è malizia o furbizia. Gli animali non sono baccellieri, né hanno diplomi rilasciati a Salamanca o in qualsiasi altro posto, perché ne hanno abbastanza delle qualità che la natura ha dato loro. Quel che accadde al leone, ingabbiato in quell’occasione così come in altri tempi lo era stato Don Chisciotte, fu che guardandolo si vergognò. E che così dovettero andare le cose, ce lo prova e convalida il fatto che già in un altro caso, qualche secolo prima, un altro leone si era vergognato al cospetto di un altro glorioso cavaliere, il Cid Ruy Díaz de Bivar, secondo quanto ci narra la sua antichissima storia (Poema del mio Cid, versi 2.278-2.301). Quella storia ci dice che, stando il Cid a Valenzia con tutti i suoi vassalli e con gli Infanti di Carrión suoi generi, mentre il Campeador dormiva assiso su uno scanno, il leone uscì dalla rete e si liberò seminando il terrore in tutta la corte. Si ridestò colui che in buon’ora nacque, e nel vedere quello che stava accadendo mio Cid s’appoggiò sul gomito e in piedi si levò s’era avvolto nel manto e al leone s’accostò. Il leone, al vederlo, così si vergognò, dinanzi al Cid chinò la testa ed il muso abbassò. Mio Cid don Rodrigo allora pel collo lo agguantò, conducendolo andava e alla rete lo menò. (vv. 2.296-2.301)
Così, al cospetto di Don Chisciotte, novello Cid Campeador, «si vergognò» il leone, che forse era uno di quelli che figurano oggi nello stemma della Spagna; e siccome sono due, dev’essere quello che si vergognò al cospetto del Cid.
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Aún insistió Don Quijote en que se irritase al león; mas el leonero le convenció de que no debía hacerse. Y fue entonces cuando el Caballero pronunció aquellas profundísimas palabras de «bien podrán los encantadores quitarme la ventura, pero el esfuerzo y el ánimo será imposible». Y ¿qué má hace falta? Y no se me venga ahora aquí diciendo que me aparto del puntualísimo texto del historiador, porque es preciso entender bien en qué no puede uno apartarse de él sin muy grave temeridad y aun peligro de su conciencia, y en qué somos libres de interpretarlo a nuestro sabor y consejo. En cuanto se refiere a hechos, y aparte los evidentes errores de copista – rectificables todos – no hay sino acatar la infalible autoridad del texto cervantino. Y así debemos creer y confesar que el león volvió las espaldas a Don Quijote y se volvió a echar en la jaula. Pero que fue por comedimiento y que considerase niñerías y bravatas las de Don Quijote y que no lo hiciese por vergüenza al ver su valor, o ya compadecido de su amor desgraciado, es una libre interpretación del historiador, que no vale sino por la autoridad personal y puramente humana del historiador mismo. Sucede con esto como con el comentario que pone al discurso de los cabreros, Ramandolo «inutil razonamiento», y que es una glosa desdichada que se ha interpolado en el texto. Hago estas prevenciones porque no quiero, he de repetirlo una vez más, que se me confunda con la perniciosa y pestilente secta de los hombres vanos e hinchados de huera ciencia histórica, que se atreven a sostener que no hubo tales Don Quijote y Sancho en el mundo, y otras atroces osadías semejantes a que les lleva su desmedido afán de lograr notoriedad sosteniendo novedades y singularidades. Y ved aquí cómo el mismo noble impulso de dejar nombre y fama que movió a Don Quijote a llevar a cabo sus hazañas, les mueve a otros a negarlas. ¡Qué abismo de contradicciones es el hombre!
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Don Chisciotte insistette ancora affinché si stuzzicasse il leone, ma il guardiano lo convinse che non conveniva farlo. E fu allora che Cervantes pronunziò profondissime parole: «Gli incantatori potranno togliermi la buona ventura, ma il valore ed il coraggio sarà impossibile». C’è bisogno d’altro a questo mondo. E non mi si venga adesso a dire, a questo proposito, che mi allontano dal fedelissimo testo dello storico, giacché bisogna intendersi su questo che non ce se ne può allontanare senza grandissima temerarietà e senza grave pericolo di coscienza, ma che tuttavia siamo liberi di interpretare il testo a nostro piacere e secondo il nostro ingegno. Per quanto poi si riferisce ai fatti, e lasciando da parte gli evidenti errori del copista – tutti rettificabili – non si può far altro che accettare e rispettare l’infallibile autorità del testo cervantino. E così dobbiamo credere e confessare che il leone volse le spalle a Don Chisciotte e ritornò nella sua gabbia. Ma che poi lo facesse per pura cortesia considerando ragazzate e bravate quelle di Don Chisciotte, e non già per vergogna di fronte al valore di lui o magari per compassione del suo amore sfortunato, questa è libera interpretazione dello storico, che ha valore unicamente per l’autorità personale e puramente umana dello storiografo stesso. Succede qui, insomma, quello che è già avvenuto per il commento che appone al discorso dei caprai, là dove lo chiama «inutile ragionamento», espressione che può essere solo una sgraziata glossa interpolata successivamente nel testo. Faccio quest’avvertenza perché non voglio – torno a ripeterlo – che mi si confonda con la perniciosa e pestifera setta degli uomini vanitosi e rigonfi di vuota scienza storica, i quali osano sostenere che non esistettero mai Don Chisciotte e Sancio, e altre siffatte eresie alla quali li porta la loro smisurata ambizione di conquistarsi la notorietà avanzando opinioni nuove e singolari. Notate, a questo punto, come quello stesso nobile impulso di lasciare di sé nome e fama che spinse Don Chisciotte a compiere le sue imprese, sprona altri a negarle. L’uomo è proprio un abisso di contraddizioni!
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Y volviendo a nuestra historia, hemos de añadir que luego de avergonzado el león, y al explicar Don Quijote a don Diego de Miranda su aparente locura en tal proeza, descubrió una vez más la raíz de ella al declarar que andaba a la busca de tan arriesgadas aventuras «solo por alcanzar gloriosa fama y duradera», y explicó, con atinadísimas razones, cómo debe el caballero dar en temerario – pues reconoció ser «temeridad exorbitante» lo del león –, ya que «es mas fácil dar el temerario en verdadero valiente que no el cobarde subir a la verdadera valentia, y en esto de acometer aventuras… antes se ha de pecar por carta de más que de menos». ¡Concertadísimas y muy cuerdas razones con las que se justifica todo exceso ascético o heroico! Conviene también pararse a considerar cómo esta aventura del león fue una aventura, por parte de Don Quijote, de acabada obediencia y de perfecta fe. Cuando el Caballero topó al azar de los caminos con el león aquel fue, sin duda alguna, porque Dios se lo enviaba a él; y su fortísima fe le hizo decir que él sabía si iban o no a él aquellos señores leones. Y con solo verlos entendió la voluntad del Señor y obedeció según la tercera y más perfecta manera de obedecer que hay, según Íñigo de Loyola – véase el cuarto aviso que dictó sobre esto, según lo trae el P. Rivadeneira en el capítulo IV del libro V de la Vida – y es «cuando hago esto o aquello sintiendo alguna señal del Superior, aunque no me lo mande ni ordene». Y así Don Quijote, en cuanto vio al león, sintió la señal de Dios, y arremetió sin prudencia alguna, pues como decía el mismo Loyola – véase el mismo capítulo antedicho – «la prudencia no se ha de pedir tanto al que obedece y ejecuta cuanto al que manda y ordena». Y Dios quiso, sin duda, probar la fe y obediencia de Don Quijote como había probado las de Abraham mandandole subir al monte Moria a sacrificar a su hijo (Gen., XXII).
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Ma, tornando alla nostra storia, dobbiamo aggiungere che Don Chisciotte, dopo aver fatto vergognare il leone, nello spiegare a don Diego de Miranda la sua apparente follia in quell’impresa, ne svelò ancora una volta la profonda radice, dichiarando che andava alla ricerca di così temerarie avventure «unicamente per conseguire fama duratura di gloria», e proseguì spiegando con un azzeccatissimo ragionamento che il cavaliere deve per forza innalzarsi fino ad essere temerario – riconosceva infatti che era stata «cosa eccessivamente temeraria» la faccenda del leone –, giacché è «più facile che il temerario si dimostri veramente valoroso, anziché il vile si innalzi al vero valore; e per quel che riguarda l’affrontare avventure… è meglio perdere per una carta di più o per una carta di meno che si abbia al gioco» Ragionamento impeccabile e pieno di saggezza col quale si giustifica ogni eccesso ascetico o eroico! Sarà anche opportuno soffermarci a considerare che quest’avventura del leone fu un’avventura, da parte di Don Chisciotte, di assoluta obbedienza e di perfetta fede. Quando il Cavaliere, seguendo a caso la strada, s’imbatté nel leone, ciò avvenne, senza ombra di dubbio, perché Dio glielo mandava incontro; e la sua saldissima fede gli fece dire che lo sapeva lui se quei signori leoni gli venivano contro oppure no. Poiché, alla sola vista, aveva compreso quale fosse la volontà del Signore e aveva obbedito secondo il terzo e più perfetto modo d’obbedienza che vi sia, secondo Ignazio di Loyola – si veda la quarta avvertenza che dettò a questo proposito, riportata dal Padre Rivadeneira nel capitolo IV del libro V della Vita –, allorché dice: «Quando faccio questa o quella cosa avvertendo un cenno del Superiore, anche se non me lo comanda o prescrive». Così Don Chisciotte: quando vide il leone avvertì il cenno di Dio e assalì senza usare alcuna prudenza, poiché, come diceva lo stesso Loyola, – si veda il medesimo capitolo prima citato –, «la prudenza non si deve richiedere tanto a colui che obbedisce ed esegue, quanto a colui che comanda e prescrive». E Dio volle indubbiamente mettere alla prova la fede e l’obbedienza di Don Chisciotte come aveva messo alla prova la fede di Abramo, ordinandogli di salire sul monte Moria per sacrificarvi suo figlio (Gen., XXII).
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que tratan de lo que sucedió a Don Quijote en casa del caballero del verde gabán, de la aventura del pastor enamorado, de las bodas de Camacho, y en los dos últimos de la aventura de la cueva de Montesinos, que está en el corazón de la Mancha, y de las admirables cosas que el extenuado Don Quijote contó que había visto «en ella» Llegaron a casa de don Diego, conoció alli Don Quijote al hijo de aquel, don Lorenzo, y al oírle negar que hubiese habido caballeros andantes no trató ya de sacarle de su engaño, sino que propuso rogar al cielo le sacase de él. Ah, mi pobre Caballero, y cómo te ha dejado el encantamiento de tu Dulcinea! Tras esto ocurrió lo de las bodas de Camacho, en que nada hay que notar, y después se dirigió Don Quijote a la cueva de Montesinos, que está en el corazón de La Mancha. Antes de hundirse en ella «hizo una oración en voz baja pidiendo a Dios le ayudase y le diese buen suceso en aquella al parecer peligrosa y nueva aventura, y en voz alta dijo luego: “¡Oh, señora de mis acciones y movimientos, clarísima y sin par Dulcinea del Toboso, si es posible que lleguen a tus oídos las plegarias y rogaciones deste tu venturoso amante, por tu belleza te ruego las escuches, que no son otras que rogarte no me niegues tu favor y amparo ahora que tanto lo he menester!”». Ved
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che trattano di ciò che accadde a Don Chisciotte in casa del cavaliere dal verde gabbano, dell’avventura del pastore innamorato, delle nozze di Camaccio, e nei due ultimi dell’avventura della grotta di Montesinos, che è posta proprio nel cuore della Mancia e delle mirabili cose che l’esausto Don Chisciotte raccontò di aver visto Giunsero a casa di don Diego e lì Don Chisciotte fece conoscenza col figlio di lui, don Lorenzo, ma quando lo udì negare che vi fossero stati mai cavalieri erranti, non tentò più di distoglierlo da quell’ingannevole opinione ma si propose di pregare il cielo affinché gliela dissipasse. Oh, mio povero Cavaliere, in che stato ti ha ridotto l’incantesimo di Dulcinea! Successivamente ci fu la storia delle nozze di Camaccio, nella quale nulla c’è da osservare; e infine Don Chisciotte si diresse alla grotta di Montesinos, che è situata nel cuore stesso della Mancia. Prima di calarvisi, «sottovoce levò al cielo una preghiera chiedendo a Dio che lo aiutasse e gli facesse riuscire bene quella, secondo ogni apparenza, pericolosa e mai tentata avventura. Poi disse a voce alta: “O signora di ogni mia azione, o signora di ogni mio movimento, chiarissima e senza pari Dulcinea del Toboso! Se è possibile che giungano alle tue orecchie le suppliche e le preghiere di questo tuo fortunato amante, per la tua inaudita bellezza ti scongiuro di ascoltarle: ti chiedono solo di non negarmi il tuo aiuto e la tua protezione, ora che ne ho tan-
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cómo a canto de meterse en tan inaudito empeño ruega primero a Dios y a Dulcinea luego, a Dios en voz baja y a Dulcinea en alta voz. Con Dios primero, sí, pero a solas, que no necesita de que nos desgañitemos para oírnos, pues oye hasta el resollar de nuestro silencio; mas con Dulcinea nos es menester dar grandes voces e invocarla a pecho henchido y boca llena, entre los hombres. Y prosiguió diciendo Don Quijote: «Yo voy a despeñarme, a empozarme y a hundirme en el abismo que aquí se me representa, solo por que conozca el mundo que si tú me favoreces no habrá imposible a quien yo no acometa y acabe». Amad a Dulcinea y no habrá imposible que se os resista y tese. ¡Ahí está el abismo: dentro de él! «Y en diciendo esto se acercó a la sima, vio no ser posible descolgarse ni hacer lugar a la entrada si no era a fuerza de brazo o a cuchilladas, y así, poniendo mano a la espada comenzó a derribar y a cortar de aquellas malezas que a la boca de la cueva estaban, por cuyo ruido y estruendo salieron por ella una infinidad de grandísimos cuervos y grajos, tan espesos y con tanta priesa que dieron con Don Quijote en el suelo; y si fuera tan agorero como católico cristiano lo tuviera a mala señal y excusara de encerrarse en lugar semejante». Parémonos a considerarlo. Si te empeñas en empozarte y hundirte en la sima de la tradición de tu pueblo para escudrinarla y desentrañar sus entrañas, escarbándola y zahondándola hasta dar con su hondón, se te echarán al rostro los grandísimos cuervos y grajos que anidan en su boca y buscan entre las brenas de ella abrigo. Tendrás primero que derribar y cortar las malezas que encubren a la cueva encantada, o más bien tendrás que desescombrar su entrada, obstruida por escombros. Lo que llaman tradición los tradicionalistas no son sino rastrojos y escurrajas de ella. Los grandísimos cuervos y grajos que guardaban la boca de esa sima encantada, y en la que fraguaron sus escondrijos, jamás se empozaron ni hundieron en las entrañas de la sima, y se atreven, no embargante, a graznar diciéndose moradores de su interior.
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to bisogno!”». Osservate come, sul punto di affrontare un così inaudito rischio, prega prima Dio e poi Dulcinea; Dio a bassa voce e Dulcinea ad alta voce. Prima con Dio, sì, ma da solo a solo, perché non ha bisogno che ci sgoliamo per ascoltarci, giacché ode perfino l’alito del nostro silenzio; ma con Dulcinea ci è indispensabile gridar forte ed invocarla con tutto il fiato che si ha in corpo e a bocca spalancata, tra gli uomini. E Don Chisciotte proseguì dicendo: «Sto per precipitare, immergermi, sprofondare nel baratro che mi sta qui dinanzi, solo perché il mondo sappia che se tu mi soccorri, non ci sarà cosa impossibile a cui non mi accinga e che non compia». Amate Dulcinea e non ci sarà cosa impossibile che vi risulti insuperabile e pericolosa. Ecco dov’è l’abisso: dentro di lui! «E ciò detto, si avvicinò all’antro e vide che non avrebbe potuto calarsi né aprirsi il varco all’imboccatura se non a forza di braccia o di fendenti. Perciò, mettendo mano alla spada, cominciò ad abbattere, a tagliare quelle erbacce che erano all’imboccatura della spelonca; a tale rumore e fracasso vennero fuori una tale infinità di corvi e di gracchi così grossi, in grande quantità e con tanta furia da rovesciare a terra Don Chisciotte, il quale se fosse stato altrettanto infausto quanto era cristiano e cattolico, avrebbe considerato tutto ciò come un pessimo segno ed avrebbe evitato di entrare in un luogo simile». Soffermiamoci a meditare su ciò. Se ti ostini a calarti e ad immergerti nell’abisso della tradizione del tuo popolo per scrutarne ed esaminarne le viscere, scavandovi e grattandovi finché non giungi proprio al fondo, ti si precipiteranno in viso i grossissimi corvi e gracchi che fanno il nido all’imboccatura e cercano riparo tra la sterpaglia che vi si abbarbica. Dovrai prima abbattere e tagliare l’erbaccia che nasconde la grotta incantata o, per meglio dire, dovrai sgomberare l’ingresso ostruito dalle macerie. Ciò che i tradizionalisti chiamano tradizione non è che un cumulo di sterpi e di rimasugli di essa. I grossissimi corvi e gracchi che custodiscono l’imboccatura di questa grotta incantata, e dove si sono costruiti i loro nascondigli, non si sono mai calati né sprofondati nelle viscere del baratro, e osano tuttavia gracchiare dichiarandosi abitanti del suo interno.
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La tradición por ellos invocada no lo es de verdad; se dicen voceros del pueblo y nada hay de esto. Con el machaqueo de sus graznidos han hecho creer al pueblo que cree lo que no cree, y es menester empozarse en las entrañas de la sima para sacar de allí el alma viva de las creencias del pueblo. Y antes de hundirse y empozarse uno en esa sima de las verdaderas creencias y tradiciones del pueblo, no las del carbonero de la fe, tiene que derribar y cortar las malezas que cubren su entrada. Cuando lo hagáis os dirán que queréis cegar la cueva y taparla a los moradores de ella; os llamarán malos hijos y descastados y todo cuanto se les ocurra. Haced oídos sordos a graznidos tales. Y allí, en la cueva, gozó Don Quijote de visiones que se dejan muy a la zaga a las más maravillosas de que otros hayan gozado, sin que sea menester repetir aquí lo de que, si a uno se le aparece un ángel en sueños, es que soñó que se le aparecía un ángel. Invito al lector a que relea, en el capítulo XXIII de la segunda parte, el relato de las asombrosas visiones de Don Quijote y juzgando, como debe juzgarse, por el contento y deleite que de su lectura reciba, me diga luego si no son más fídedignas que otras no menos asombrosas con que dicen que Dios regaló a siervos suyos, soñadores en la profunda cueva encantada del éxtasis. Y no sirve sino creer a Don Quijote, que siendo hombre incapaz de mentir, afirmó que lo por él contado lo vio por sus propios ojos y lo tocó con sus mismas manos, y esto baste y aun sobre. Sancho quiso negar la verdad de tales visiones, y más cuando oyó decir a su amo que vio a Dulcinea encantada en la moza labradora que aquel le había mostrado, mas Don Quijote respondió sesudamente: «Como te conozco, Sancho, no hago caso de tus palabras». Ni debemos nosotros tampoco hacer caso de palabras Sanchopancescas cuando de rendir fe a visiones se trate.
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La tradizione, che essi invocano, non è tale in realtà; si dicono portavoce del popolo, ma non lo sono affatto. A forza di gracchiare hanno fatto credere al popolo di credere quello che non crede, mentre bisogna discendere fin nelle viscere dell’antro per cavarne l’anima viva delle credenze del popolo. E, perciò, prima di calarsi e immergersi in quell’abisso delle vere credenze e tradizioni del popolo, e non di quelle della fede del carbonaio, è giocoforza abbattere e tagliare le erbacce che ne ricoprono l’ingresso. Ma se vi accingete a farlo, vi diranno che volete accecare la grotta e chiuderla ai suoi legittimi abitanti; vi chiameranno figli malvagi e degeneri, o come verrà loro in mente di chiamarvi. Fate orecchi da mercante a siffatto gracchiare. E laggiù nella grotta Don Chisciotte poté godere di visioni che si lasciavano molto indietro quelle più mirabili giammai godute da altri; e non c’è bisogno di ripetere, a questo punto, che se ad un tale appaiono angeli in sogno, è perché sognava che gli apparivano gli angeli. Invito il lettore a rileggere, nel capitolo XXIII della parte seconda, il racconto delle stupefacenti visioni di Don Chisciotte e, giudicandone come è giusto che ne giudichi, attraverso la soddisfazione e il diletto che ricaverà da quella lettura, a dirmi poi se non sono più degne di fede di tante altre non meno stupefacenti che Dio si compiacque di mostrare a tanti suoi servi, sognatori anch’essi nella profonda grotta incantata dell’estasi. E non c’è rimedio: bisogna credere a Don Chisciotte che, essendo uomo assolutamente incapace di mentire, affermò che le cose da lui narrate le aveva viste con i propri occhi e le aveva toccate con le proprie mani. Questo deve bastare; anzi, ce n’è d’avanzo. Sancio ebbe la pretesa di smentire quelle visioni, tanto più quando sentì dire dal suo padrone che aveva visto Dulcinea, trasformata per incantesimo in quella stessa villana che gli era stata mostrata da lui; ma Don Chisciotte rispose saggiamente: «Siccome ti conosco, Sancio, non faccio caso alle tue parole». E così neppure noi dobbiamo far caso alle parole sanciopanzesche, quando si tratterà di prestar fede a una visione.
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capítulo xxiv
donde se cuentan mil zarandajas tan impertinentes como necesarias al verdadero entendimiento desta grande historia Al llegar a esta aventura de visión se cree el historiador obligado a dudar de su autenticidad, mostrando en ello su poca fe, y hasta se propasa a suponer que al tiempo de morir se retractó de ella Don Quijote y dijo que «la había inventado por parecerle que convenía y cuadraba bien con las aventuras que había en su historia». ¡Oh, menguado historiador, cuán poco se te alcanza de achaque de visiones! Sin duda no leíste, o si lo leíste, pues se publicó veinte años antes que tu publicases la historia de Don Quijote, no meditaste bien el libro de la Vida del bienaventurado P. Ignacio de Loyola, del P. Pedro de Rivadeneira, quien en el cap. VII del libro I nos cuenta las visiones del caballero andante de Cristo y cómo «se le representó la manera que tuvo Dios en hacer el mundo» y «vio la sagrada humanidad de Nuestro Redentor Jesucristo, alguna vez también a la gloriosísima Virgen» y otras maravillosas visiones, entre ellas la del Demonio, que se le apareció muchas veces, «no solo en Manresa y en los caminos, sino en París también y en Roma; pero su sembiante y aspecto… era tan apocado y feo, que no haciendo caso dél, con el báculo que traía en la mano fácilmente le echaba de sí».
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capitolo xxiv
dove si narrano mille inezie tanto inutili quanto necessarie per intendere veramente questa grande storia Giunto a quest’avventura che tratta di visioni, il nostro storico si ritiene obbligato a dubitare dell’autenticità, dimostrando così la sua poca fede; anzi, si spinge fino a supporre che in punto di morte Don Chisciotte ne abbia ritrattato e abbia detto di «averla inventata sembrandogli che si accompagnasse e ben s’addicesse con le avventure che aveva letto nei suoi (libri) di storie». Storico meschino, quanto poco ti intendi di visioni! Si vede che non hai letto – o, se l’hai letto, perché fu pubblicato venti anni prima che tu stampassi la storia di Don Chisciotte, non lo hai meditato bene – il libro della Vita del beato Padre Ignazio di Loyola, del Padre Pietro di Rivadeneira, il quale, nel capitolo VII del libro I, ci narra le visioni del cavaliere errante di Cristo e come «gli fu chiarito il modo usato da Dio nel fare il mondo» e «vide la sacra umanità del Nostro Redentore Gesù Cristo e alcune volte anche la gloriosissima Vergine», oltre ad altre mirabili visioni, tra le quali quella del Demonio che gli apparve molte volte, «non soltanto a Manresa e lungo le strade, ma persino a Parigi e a Roma; però le sembianze e l’aspetto del demonio… erano talmente meschini e brutti che, senza badargli più di tanto, facilmente lo allontanava da sé col piccolo bastone che aveva in mano».
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De los que nieguen tales visiones y digan que son imposibles, digamos lo que de ellos dice el piadosisimo P. Rivadeneira, y es que «serán comunmente hombres que no saben, ni entienden, ni han oído decir qué cosa sea espíritu, ni gozo, ni fruto espiritual… ni piensan que hay otros pasatiempos y gustos, ni recreaciones sino las que ellos, de noche y de día, por mar y por tierra, con tanto cuidado y solicitud y artificio buscan para cumplir con sus apetitos y dar contento a su sensualidad. Y así, no hay que hacer caso de ellos». ¡Prudentísimas palabras que debia conocer y haber leído Don Quijote, pues contestó a Sancho lo de: «¡Como te conozco, Sancho, no hago caso de tus palabras!». Con gran acierto trae a colación aquí el P. Rivadeneira lo del Apóstol (Cor., I, II), de que los hombres carnales no son quién para juzgar de las cosas y visiones de los espirituales y se consuela el buen padre con que habia también «cristianos y cuerdos, y leidos en historias y vidas de Santos», que aunque entienden que en cosas de visiones «es menester mucho tiento, porque puede haber engaño y muchas veces le hay», no por eso ha de dejarse de darlas crédito. Conviene que el lector lea las razones todas que aduce el piadoso Padre historiador de Íñigo de Loyola para convencernos de la verdad de las visiones de este, pues quien tan grandes obras llevó a cabo bien pudo ver lo que vio, y «necesariamente habemos de conceder lo que es más, concedamos lo que es menos, y entendamos que todos los rayos y resplandores que vemos en las obras que hizo, salieron destas luces y visitaciones divinas». ¡Cómo, en efecto, negaremos que vio lo que vio Don Quijote en la cueva de Montesinos siendo Caballero incapaz de mentir, y habiendo arremetido a molinos y yangüeses, enzarzado a sus burladores en defender lo del yelmo, vencido al Caballero de los Espejos y avergonzado al león?
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Di coloro che vogliono negare tali visioni dicendo che si tratta di cose impossibili, diremo quel che dice il piissimo Padre Rivadeneira, e cioè che «saranno generalmente uomini che non sanno, né intendono, né hanno mai sentito dire che cosa sia lo spirito, o il diletto o il frutto spirituale…, né pensano che esistano altri passatempi, piaceri e ricreazioni al di fuori di quella che essi, di notte e di giorno, per mare e per terra, con tanta cura, sollecitudine e artificio vanno cercando per soddisfare i propri appetiti e acquietare la propria sensualità. Per tutte queste ragioni non bisogna farci caso». Prudentissime parole che Don Chisciotte doveva conoscere per averle lette, giacché diede a Sancio quella risposta: «Siccome ti conosco, Sancio, non faccio caso alle tue parole». A ragion veduta il Padre Rivadeneira porta a questo punto a sostegno della sua tesi la parola dell’apostolo (Cor., I, II) quando dice che gli uomini carnali non hanno titolo per giudicare delle cose e delle visioni di quelli spirituali; e il buon Padre si consola dicendo che vi erano anche «uomini cristiani e saggi, assidui lettori di storie e vite di Santi», i quali, pur intendendosi di visioni, «devono procedere con grande cautela, perché in tale materia vi possono benissimo essere degli inganni, ed anzi spesso vi sono», ma non per questo si deve rinunciare a dare loro credito. Sarà opportuno che il lettore legga tutte le ragioni addotte dal pio Padre, biografo di Ignazio di Loyola, per convincerci della veridicità delle visioni di lui, poiché chi ebbe potere di condurre a buon fine così grandi opere, poté benissimo vedere ciò che vide, e se «necessariamente dobbiamo concedere il più, concediamo anche il meno, e rendiamoci conto che tutti i raggi fulgenti che vediamo nelle opere da lui compiute, derivano da queste illuminazioni e visioni divine». E infatti, come potremo negare che Don Chisciotte vide quello che vide nella grotta di Montesinos, se era un cavaliere incapace di mentire e aveva assalito mulini a vento e janguesi, se aveva messo nel sacco i suoi beffeggiatori sostenendo la faccenda dell’elmo, se aveva infine sconfitto il Cavaliere degli Specchi e fatto vergognare il
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El que estas y otras no menos asombrosas hazañas llevó a cabo, bien pudo ver en la cueva de Montesinos cuanto se le antojara ver en ella. Y si lo vio, de lo cual no debe cabernos duda, ¿qué diremos de la realidad de sus visiones? Si la vida es sueño, ¿por qué hemos de obstinarnos en negar que los sueños sean vida? Y todo cuanto es vida es verdad. Lo que llamamos realidad, ¿es algo más que una ilusión que nos lleva a obrar y produce obras? El efecto práctico es el único criterio valedero de la verdad de una visión cualquiera.
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leone? Colui che aveva condotto a buon fine queste e altre non meno mirabili imprese, poté benissimo vedere nella grotta di Montesinos tutto ciò che avesse avuto voglia di vedere. E se lo vide – e su ciò non può esserci alcun dubbio per noi – che cosa potremmo dire sulla realtà delle sue visioni? Se la vita è sogno, perché dovremmo ostinarci a negare che i sogni sono vita? E tutto ciò che è vita è verità. Ciò che noi chiamiamo realtà, è forse qualcosa di più che un’illusione che ci spinge ad operare e produce per mezzo nostro azioni? L’effetto pratico è l’unico criterio valido sulla verità di una qualsiasi visione.
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capítulo xxv
donde se apunta la aventura del rebuzno y la graciosa del titerero, con las memorables adivinanzas del mono adivino De allí continuaron su camino, ardiendo Don Quijote en deseos de saber para qué llevaba armas un hombre que se les adelantó, y como rehusara este darle cuenta de ello hasta que acabase de dar recado a su bestia, ayudole a ello Don Quijote, aechándole la cebada y limpiando el pesebre, maravilloso ejemplo de humildad que no suele ser lo mentado que merece serio. Y esta es, sin duda, una de las grandes aventuras de nuestro Caballero: la de haber echado cebada y limpiado el pesebre, no más, al parecer, que por oír pronto un relato deleitoso, el relato de los regidores rebuznantes. Y como no nos está bien el creer que solo por oír tal cosa se redujera Don Quijote a ejercer menesteres tan impropios de su oficio de caballero andante, hemos, por fuerza, de suponer lo hizo para ejercitar su humildad y ejercitarla sencillamente y buscando un pretexto, con lo que evitó la soberbia del humilde. No se las echó de tal, ni hizo ostentación de humildad, sino que pura y sencillamente, como quien hace la cosa mas natural y corriente del mundo, y sin concederle importancia al acto, con aquellas manos que alancearon molinos, libertaron galeotes,
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capitolo xxv
dove si espone l’avventura del raglio e quella burlesca del burattinaio, nonché i memorabili presagi della scimmia indovina Di lì ripresero la loro strada e Don Chisciotte ardeva dal desiderio di sapere a che scopo portasse le armi un tale che li aveva sorpassati; e siccome questi si rifiutava di dargliene conto e ragione finché non avesse finito di governare la sua cavalcatura, Don Chisciotte lo aiutò in quel compito, vagliandogli la biada e ripulendo la greppia, meraviglioso esempio di umiltà che di solito non viene messo in rilievo quanto meriterebbe. E invece è questa indubbiamente una delle grandi avventure del nostro Cavaliere; quella d’aver vagliato la biada e ripulito la greppia con l’unico scopo, a prima vista di ascoltare più presto una piacevole narrazione, ossia il racconto dei consiglieri raglianti. E siccome sarebbe fuori luogo credere che Don Chisciotte si fosse ridotto ad esercitare un compito tanto poco confacente alla sua missione di cavaliere errante unicamente per udir raccontare tali cose, dobbiamo necessariamente supporre che si comportò così per esercitare la sua umiltà, ed inoltre per esercitarla con totale semplicità e mascherando la cosa con un pretesto in modo da evitare la superbia dell’umile. Né tale si stimò, né ostentò umiltà, ma puramente e semplicemente, come chi fa la cosa più naturale e normale di questo mondo, e senza dare alcuna importanza al suo atto, con quelle sue mani che avevano preso a colpi di lancia i mulini, avevano liberato i gale-
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vencieron al vizcaíno y al Caballero de los Espejos y esperaron, sin temblar, al leoncito; con aquellas mismas manos aechó cebada y limpió el pesebre, dando por razón aquellas sencillísimas palabras de: «no quede por eso, que yo os ayudaré a todo». Lo hizo mas sencillamente aún que Íñigo de Loyola después de haber recibido el cargo de prepósito general de la Compañía que formó cuando «se entró en la cocina y en ella por muchos días sirvió de cocinero y hizo otros oficios bajos de casa», porque Íñigo lo hacía con intención de enseñar, «para provocar a todos con su ejemplo al deseo de la verdadera humildad» – dice el P. Rivadeneira, lib. III, cap. II –, y en Don Quijote no hubo ni esa segunda intención de aleccionar a otros, sino pura y simplemente aechó la cebada y limpió el pesebre como si fuera cosa suya, como la violeta perfuma y el ruiseñor canta. «No quede por eso, que yo os ayudaré a todo». «Yo os ayudaré a todo», es lo que dice Don Quijote a todo hombre sencillo y limpio de segundas intenciones. En esta aventura se ve acaso más que en otra alguna cómo era el espíritu de Alonso Quijano, a quien sus virtudes le valieron el sobrenombre de Bueno, el espíritu que guiaba al de Don Quijote, y cómo en la bondad del hombre está la raíz del heroísmo del Caballero. ¡Oh, mi señor Don Quijote, y cuán grande te me apareces aechando cebada y limpiando el pesebre, sin ostentación alguna de humildad y cómo si tal cosa hicieras! A bueno es a lo que nadie te ha ganado, a sencillamente bueno. Y por eso tienes un altar en el corazón de todos los buenos que no en tu locura, sino en tu bondad paran su vista. Tu mismo, mi señor, cuando quisiste alabar a tu escudero le llamaste por de pronto y ante todo Sancho bueno, y luego discreto, cristiano y sincero. Es lo que hay que ser en el mundo, señor mío, sencillamente bueno, bueno a secas, bueno sin adjetivo ni teologías ni aditamento alguno, bueno y no más que bueno. Y si tan noble dictado se con-
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otti, avevano sconfitto il biscaglino e il Cavaliere degli Specchi e avevano atteso senza tremare il leone, con quelle stesse mani, dicevamo, vagliò la biada e ripulì la greppia, dando per tutta spiegazione quelle semplicissime parole: «Non si disturbi per questo, poiché vi aiuterò io a fare tutto». Agì con semplicità ancora maggiore di Ignazio di Loyola quando, dopo aver ricevuto la carica di Preposito generale della Compagnia che aveva fondato, «se ne entrò in cucina e li servì per molti giorni come cuoco e svolse altri umili lavori domestici», poiché Ignazio lo faceva con l’intento di insegnare, «per spronare tutti col suo esempio al desiderio della vera umiltà» – dice il Padre Rivadeneira nel lib. III, cap. II – mentre in Don Chisciotte non vi fu nemmeno questo riposto nascosto desiderio di ammaestrare gli altri, ma puramente e semplicemente vagliò la biada e ripulì la greppia come se fosse compito suo, come la violetta olezza e l’usignolo canta. «Non si disturbi per questo, poiché vi aiuterò io a fare tutto». «Vi aiuterò io a fare tutto»: ecco le parole che dice Don Chisciotte ad ogni uomo semplice e privo di ogni secondo fine. In quest’avventura, forse più ancora di qualunque altra, si vede quale fosse lo spirito di Alonso Chisciano, al quale le molte virtù avevano procurato il soprannome di Buono, lo spirito che guidava quello di Don Chisciotte; e si vede soprattutto che nella bontà dell’uomo è radicato l’eroismo del Cavaliere. Oh, mio signor Don Chisciotte, come mi ti mostri grande mentre vagli la biada e ripulisci la greppia senza alcuna ostentazione di umiltà e come se non facessi nulla di speciale! È in bontà che nessuno ti ha superato, in pura e semplice bontà. Tu stesso, signor mio, quando volesti lodare il tuo scudiero, lo chiamasti subito e anzitutto Sancio buono; e soltanto dopo aggiungesti saggio, cristiano e sincero. È così che bisogna essere nel mondo, signor mio: semplicemente buoni, senza inutili fronzoli, buoni senza correttivi e senza teologie, né aggiunte d’alcun genere: buoni e nient’altro che buoni. E se un così nobile appellativo viene spes-
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funde con el de tonto, tú llegaste, en tu bondad, hasta la locura entre tantos cuerdos burladores; es decir, malos. Porque en nada como en la burla se conoce la maldad humana, y el demonio es el gran burlador, el emperador y padre de los burladores todos. Y si la risa puede llegar a ser santa y libertadora, y, en fin, buena, no es ella risa de burla, sino risa de contento.
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so confuso con quello di sciocco, tu giungesti, nella tua bontà, fino alla follia in mezzo a tanti saggi schernitori; cioè tra tanti malvagi. Perché la malvagità umana si riconosce in nient’altro quanto nello scherno e il demonio in persona è il grande schernitore, l’imperatore e padre di tutti gli schernitori. E se il riso può giungere ad essere santo e liberatore, e quindi, in sostanza, buono, non si tratta del riso di scherno, ma del riso di gioia.
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capítulo xxvi
donde se prosigue la graciosa aventura del titerero, con otras cosas en verdad harto buenas Encontrándose Don Quijote en la venta, y después de haber oído el relato de los alcaldes rebuznantes, fue curando llegó maese Pedro con el mono adivino y el retablo de la libertad de Melisendra. Pasmado Don Quijote al ver que maese Pedro, luego que oyó al mono, le conoció, lo tuvo por cosa demoníaca y pasó después a ver el retablo y asistir a la representación de la libertad que a Melisendra dio su esposo don Gaiferos. Salieron allí entonces Carlo Magno y Roldán, el alcázar de Zaragoza, moros, Marsilio de Sansueña, don Gaiferos… Y orando llevándose este a su esposa Melisendra partió en su seguimiento lucida caballería, púsose en pie Don Quijote, acudió en ayuda de don Gaiferos después de pronunciado su discurso a los perseguidores, a estilo homérico, «y comenzó a llover cuchilladas sobre la titerera morisma, derribando a unos, descabezando a otros, estropeando a este, destrozando a aquel, y entre otros muchos tiró un altibajo tal, que si maese Pedro no se abaja, se encoge y agazapa, le cercenara la cabeza con mas facilidad que si fuera hecha de masa de mazapán». ¡Brava y ejemplarrsima pelea! ¡Provechosa lección! Y no servía que maese Pedro advirtiese a Don Quijote que aquellos que derribaba, destrozaba y mataba no eran verdaderos moros,
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capitolo xxvi
dove continua la burlesca avventura del burattinaio con altre cose davvero bellissime Don Chisciotte si trovava dunque nell’osteria; e, quando ebbe udito i racconti dei consiglieri raglianti, arrivò mastro Pietro con la sua scimmia indovina e il teatrino con la liberazione di Melisendra. Don Chisciotte, stupito nel vedere che mastro Pietro lo aveva riconosciuto dopo aver borbottato qualcosa con la sua scimmia, ritenne che si trattasse di un artificio demoniaco, ma andò ugualmente a vedere il teatrino e assistette alla rappresentazione della liberazione di Melisendra ad opera del suo sposo don Gaiferos. Comparvero sulla scena Carlo Magno e Orlando, la reggia di Saragozza, uno stuolo di mori, Marsilio di Sansuegna, don Gaiferos… E quando quest’ultimo si portò via la sua sposa Melisendra e gli corse dietro uno squadrone di scintillanti cavalieri, Don Chisciotte balzò in piedi, si precipitò a soccorrere don Gaiferos dopo aver rivolto agli inseguitori un discorso in stile omerico, «e cominciò a tempestare di colpi quella burattinaia moresca, abbattendo gli uni, scapezzando gli altri, storpiando questo, riducendo in pezzi quello, e assestò, fra molti altri, un bel fendente che, se mastro Pietro non si abbassava, non si raggomitolava e accovacciava, gli avrebbe troncato la testa con più facilità che se fosse stata di marzapane». Ardito ed esemplarissimo combattimento! Lezione proficua! E non giovava a nulla che mastro Pietro avvertisse Don Chisciotte che coloro che abbatteva, scapezzava e storpiava non
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sino unas figurillas de pasta, pues no por eso dejaba de menudear aquel cuchilladas. Y hacía bien, muy requetebién. Arman los maeses Pedros sus retablos de farándula y pretenden que por ser las de ellos figurillas de pasta, declaradas tales, se les respete. Y lo que el caballero andante debe derribar, descabezar y estropear es lo que, a título de ficción, hace más daño que el error mismo. Porque es más respetable el error creído que no la verdad en que no se cree. Mire, señor, que no haga el ridículo ni se meta a perseguir figurillas de retablo; que estamos todos en el secreto y es este un juego de compadres en que a nadie engaña; mire que aquí no se trata sino de pasar el tiempo y hacer que hacemos, y ni Carlo Magno es Carlo Magno, ni Roldán Roldán, ni don Gaiferos es tal don Gaiferos, y aquí a nadie se embauca, sino que se deleita y regocija a la galería, que aunque finge creer la comedia tampoco la cree en verdad; mire, señor, no malgaste sus energías en pelear con figurillas de pasta… Pues porque son de pasta las figurillas y estamos en ello todos – respondo – es por lo que hay que descabezarlas y destrozarlas, pues nada más pernicioso que la mentira por todos consentida. Todos estamos en el secreto, secreto a voces; todos sabemos y nos lo decimos al oído los unos a los otros, que el tal don Gaiferos no es don Gaiferos, ni hay tal libertad de Melisendra, y si es así, ¿por qué duele e irrita que se encarame uno a la pingorota de la torre más alta del pueblo y grite desde ella a voces, como vocero de la sinceridad, lo que todos se dicen al oído, derribando, descabezando y estropeando así al embuste? Hay que limpiar el mundo de comedias y de retablos. Y acude maese Pedro cariacontecido y exclama: «Mire, pecador de mí, que me destruye y echa a perder toda mi hacienda». Pues no vivas de eso, Ginesillo de Pasamonte: es lo que le
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erano autentici mori, ma soltanto figurine di cartapesta, perché non per questo l’altro smetteva di menare botte. E faceva bene, anzi benissimo. I mastri Pietro montano i loro teatrini da fiera e pretendono che, essendo le loro figurine di cartapesta e dichiarate tali, siano rispettate. Ma ciò che il cavaliere errante deve abbattere, scapezzare e storpiare è ciò che, sotto il comodo pretesto della finzione, fa maggior danno dello stesso errore. Perché è più degno di rispetto l’errore creduto che la verità nella quale non si ha fede. Guardi, signore, di non fare il ridicolo mettendosi a perseguitare figurine di teatrino; siamo tutti gente navigata, e questo è un giochetto di compari che non inganna nessuno; guardi che qui si tratta solo di passare il tempo e di fare qualcosa, poiché né Carlo Magno è Carlo Magno, né Orlando è Orlando, né don Gaiferos è l’autentico don Gaiferos; e qui non si fanno imbrogli ma si diletta e si rallegra la galleria che, se anche finge di credere alla commedia, neanch’essa vi crede seriamente; ascolti noi, signore: non sciupi le sue energie nel combattere con pupi di cartapesta… Ebbene, proprio perché le figurine sono di cartapesta e lo sappiamo tutti – rispondo io –, bisogna scapezzarle e storpiarle, poiché non c’è nulla di più pericoloso della menzogna accettata da tutti. Conosciamo tutti il segreto, che è poi un segreto di Pulcinella; lo sappiamo tutti, e se lo andiamo dicendo l’un l’altro all’orecchio, che don Gaiferos non è il vero don Gaiferos e che è tutta una favola la liberazione di Melisendra; ma, se è così, perché dà fastidio ed irrita il fatto che uno si arrampichi sulla guglia della torre più alta del paese e si metta a gridare a gran voce di lassù, facendosi banditore della sincerità, ciò che tutti si sussurrano all’orecchio, abbattendo, scapezzando e storpiando così la menzogna? Bisogna far piazza pulita, nel mondo di commedie e teatrini. Ma accorre mastro Pietro arrabbiato ed esclama: «Badi, povero me! Che mi distrugge e manda in rovina tutta la mia ricchezza!». Che gli dobbiamo rispondere? Guadagnati da vivere diversamente, Ginesio di Passamonte! Oppure, che è lo
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debemos responder. Trabaja y no armes retablos. Y en resolución, digamos con Don Quijote: «¡Viva la andante caballería sobre cuantas cosas hoy viven en la tierra!». ¡Viva la andante caballería y muera la farándula! ¡Muera la farándula! Hay que acabar con los retablos todos, con las ficciones sancionadas. Don Quijote, tornando en serio la comedia, solo puede parecer ridículo a los que toman en cómico la seriedad y hacen de la vida teatro. Y en último caso, ¿por qué no ha de entrar en la representación y formar parte en ella el descabezamiento, estropicio y destrozo de los comediantes de pasta? Es fuerte cosa que se quejen de quien toma en serio la comedia los que representan esta lo más seriamente del mundo, y ponen todo su cuidado en que no se falte una tilde a las reglas del arte cómico. Porque habréis observado, buenos lectores, que nada hay más insoportable que la exigencia de que se guarden estrechamente los ritos, etiquetas y rúbricas de las cosas de pura representación, y que sean los que se dan de maestros de ceremonias los que menos respeten la verdadera seriedad de la vida. Sabrá muy bien cuándo se debe llevar corbata negra y cuándo blanca, hasta qué hora levita y desde qué hora fraque, y qué tratamiento debe darsele, pero este mismo no sabrá por dónde buscar a su Dios, ni cuál es su destino último. Y no hablemos de los que, rebelándose contra la ética, quieren imponernos la tiranía de la estética y sustituir a la conciencia moral con esa quisicosa que llaman el buen gusto. Cuándo empiezan a prevalecer tales doctrinas, los obreros tienen que declararse cursis. Tratando Teresa de Jesús, en el capítulo XXXVII de su Vida, de cómo «no cumple perder punto en puntos de mundo» por no dar «ocasión a que se sientan los que tienen su honra puesta en estos puntos» y de los que dicen que «los monasterios han de ser corte de crianza», dice que no puede entender esto. Agrega que ni aun tiempo hay para aprender tales cosas, pues solo
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stesso, diciamo con Don Chisciotte: «Viva la cavalleria errante su quanto oggi ha vita sulla terra!». Viva la cavalleria errante e morte alla farsa. Morte alla farsa! Bisogna smetterla con i teatrini di ogni genere, con le finzioni sanzionate. Don Chisciotte, prendendo sul serio la commedia, può apparire ridicolo soltanto a coloro che si burlano della serietà e fanno teatro della vita. E infine, perché mai non dovrebbe entrare anche lui nella commedia e farci entrare la decapitazione, la distruzione e la rovina dei commedianti di cartapesta? È un po’ strano che si lamentino di chi prende sul serio la commedia proprio coloro che la rappresentano nel modo più serio di questo mondo e ripongono ogni cura nel far sì che venga meno alle regole dell’arte comica, sia pure in una virgola. Giacché avrete osservato, miei buoni lettori, che non c’è nulla di più insopportabile di quest’esigenza che siano rigorosamente osservati i riti, l’etichetta e le consuetudini nelle cose di pura rappresentazione, e che si diano l’aria di maestri di cerimonia coloro che meno rispettano l’autentica serietà della vita. Un tale saprà benissimo quando la cravatta si deve mettere nera e quando bianca, fino a che ora si porta la giubba a falde e da che ora in poi il frac e come si deve trattare l’interlocutore; ma la stessa persona non saprà dove andare a cercare il suo Dio, né quale sia il suo destino ultimo. Non parliamo poi di quelli che, ribellandosi contro l’etica, hanno la pretesa poi di imporci la tirannia dell’estetica e di sostituire la coscienza morale con quella strana cosa che chiamano buon gusto. Quando incominciano a prevalere tali dottrine, bisogna che gli operai si dichiarino apertamente volgari. Teresa di Gesù, trattando nel capitolo XXXVII della sua Vita del fatto che «non conviene perdere un solo istante in aspetti mondani» per non dare «occasione che si risentano coloro che in siffatti aspetti ripongono il proprio onore», e di coloro che vanno dicendo che «i monasteri dovrebbero essere centri della buona educazione», sostiene che non riesce a capire tutto ciò. E aggiunge che non c’è neppure il tempo di imparare queste cose,
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«para titulos de cartas es ya menester haya cátedra adonde se lea cómo se ha de hacer, a manera de decir, porque ya deja papel de una parte, ya de otra, y a quien no se solía poner magnífico hase de poner ilustre». La animosa monja no sabia en qué ha de parar esto, porque no teniendo aun cincuenta años cuando escribia lo trascrito, decía: «en lo que he vivido he visto tantas mudanzas que no sé vivir». Y añadía así: «Por cierto yo he lástima a gente espiritual que está obligada a estar en el mundo por algunos santos fmes, que es terrible la cruz que en esto llevan. Si se pudieran concertar todos y hacerse ignorantes, y querer que los tengan por tales en estas ciencias, de mucho trabajo se quitarían». ¡Y de tanto! Los espirituales deben concentrarse, en efecto, y hacerse ignorantes en puntos de mundo y querer que los tengan por tales. Cuantos amamos a la verdad sobre todas las cosas debemos concertarnos para ignorar las premáticas y mandamientos de ese dichoso buen gusto con que se la disfraza, y para pisotear las buenas formas y dejar que nos llamen cursis y querer que nos tengan por tales. Hay una gavilla suelta de faranduleros que llevan prendido de la boca el amomiado credo, herencia de sus bisabuelos, como llevan el escudo de la casa grabado en la sortija o en el puño del bastón, y respetan esas veneradas tradiciones de nuestros mayores como respetan cualquier otra antigualla: por bien parecer y hacerse pasar por distinguidos. Es de buen tono y viste muy bien eso que llaman ser conservador. Y esa gavilla de farsantes ha declarado cursilería todo lo que es pasión y arranque y brío y de mal gusto los tajos y mandobles a las titereras y los guiñoles todos que tienen armados. Y cuando esos mamarrachos, alcornoques secos y vacíos, digan y repitan la gran sandez de «lo cortés no quita a lo valiente», salgámosles a la cara y digámosles en ella y en sus barbas, si las tuvieran, que lo cortés quita a lo valiente, y que el verdadero valor quijotesco puede, suele y debe
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giacché soltanto «per l’intestazione delle lettere già sarebbe necessario che vi fosse una cattedra apposita, dove si insegnasse come si deve fare e il modo in cui scrivere, perché il margine va tenuto ora da un lato e ora dall’altro, e si deve dare dell’illustre a chi prima non riceveva il titolo di magnifico». La coraggiosa monaca non sapeva neppure lei dove si sarebbe andati a finire, perché, pur non avendo ancora compiuto cinquant’anni quando scriveva le frasi riportate, era costretta a dire: «Nella mia vita trascorsa ho visto tanti cambiamenti che non ho ancora imparato a vivere». E aggiungeva: «In verità mi fa pena tanta gente spirituale che è costretta a stare nel mondo per qualche santo scopo; ed è terribile la croce che ne viene loro. Se potessero mettersi tutti d’accordo e diventare ignoranti ed ottenere che gli altri li ritenessero tali, almeno in questo genere di scienza, si scrollerebbero di dosso una bella fatica». Eccome! Gli spirituali devono infatti mettersi d’accordo e diventare ignoranti in certi aspetti del mondo e pretendere d’essere tenuti per tali. Quando amiamo la verità al di sopra di ogni altra cosa, dobbiamo accordarci per ignorare le prassi e le prescrizioni del benedetto buon gusto sotto il quale la si traveste, e per calpestare le belle maniere e lasciare che ci chiamino volgarotti e pretendere che ci considerino tali. C’è una caterva di piccoli buffoni in libertà che portano incartapecorito sulla labbra un credo ereditato dai loro bisavoli come portano lo stemma di famiglia inciso sull’anello o sull’impugnatura del bastone, e rispettano le venerate tradizioni dei nostri avi come rispettano tante altre cose antiche: per far bella figura ed essere considerate persone distinte. È chic e conferisce una certa eleganza quel modo di comportarsi che si definisce conservatore. E quello stesso stuolo di commedianti ha definito volgarità tutto ciò che è passione, slancio, impeto e cose di pessimo gusto le botte e i fendenti assestati alle baracche di burattini ed ai teatrini che hanno fatto. E quando questi pagliacci, sugheri secchi e vuoti, andranno dicendo e ripetendo la grossa scempiaggine che «la cortesia non ostacola il valore», leviamoci e gridiamo forte sul muso e sulla barba, se l’hanno, che la cortesia impaccia il valore e che il vero valore chisciottesco può, suole e deve consistere
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consistir muchas veces en atropellar toda cortesía y aparecer, hasta si preciso fuere, grosero. Sobre todo con los maeses Pedros que viven de retablos. ¿Conocéis cosa más terrible que oír la misa de un cura ateo, que la celebra por cobrar el pie de altar? ¡Muera toda farándula, toda ficción sancionada! Pasando por León fui a ver y contemplar su primorosa catedral gótica, aquella gran lampara de piedra, en cuyo seno canturrean los canónigos al son pastoso del órgano. Y contemplando sus mimbreñas columnas, sus altos ventanales de pintadas vidrieras por donde la luz al entrar se destrenza y desparrama en colores varios, y la enramada de nervios que sostiene la bóveda, pensé así: ¡cuántos deseos silenciosos, cuántos anhelos callados, cuántos pensares recónditos no habrá recibido esta pedernosa fábrica, junto con oraciones cuchicheadas o tan solo pensadas con ruegos, con imprecaciones, con requiebros de amor al oído de la amada, con quejas, con reconvenciones! ¡Cuántos secretos vertidos en el confesionario! ¿Y si todos estos deseos, anhelos, pensares, oraciones, cuchicheos, ruegos, imprecaciones, requiebros, quejas y secretos, si todo esto empezase a cantar por debajo de la rutinera salmodia litúrgica del coro canónico? En la caja de una vihuela, en sus entrañas, duermen las notas todas que se le arrancaron a ella, así como las notas todas que pasaron junto a ella, rozándola, al pasar en vuelo, con sus alas sonoras; y si todas esas notas, propias y ajenas, que allí duermen, despertaran, estallaria la caja de la vihuela por el empuje de la tempestad sonora. Y así, si despertase todo eso que duerme en el seno de la catedral, vihuela de piedra, y rompiera a cantar todo ello, derrumbariase la catedral rota por el empuje del clamor inmenso. Las voces, libertadas, buscarían el cielo. Derrumbaríase la catedral de piedra, vencida y agobiada por la violencia del propio esfuerzo, al ponerse a cantar, pero de entre sus escombros, que seguirían cantando, resurgiría una catedral de espíritu, mas aérea, mas luminosa y a la vez mas sólida, una inmensa seo que elevaría al cielo columnas de sentimiento que se ramifícaran bajo la bóveda de Dios, echando a tierra su peso
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spesso nel mettersi sotto i piedi ogni forma di cortesia e mostrarsi addirittura grossolano, se sarà necessario. E questo soprattutto con i mastri Pietro che vivono dei loro teatrini. Conoscete qualcosa di più tremendo di una messa detta da un prete ateo, che la celebra per guadagnarsi quattro soldi? A morte ogni farsa, ogni finzione consacrata! Passando da León, andai a vedere e a contemplare la sua bella cattedrale gotica, quella grande lanterna di pietra, nel cui seno canticchiano i canonici al dolce ritmo dell’organo. E, contemplando le sue colonne che sembrano fatte di giunco, gli alti finestroni delle vetrate dipinte, attraverso le quali la luce si sfilaccia e si dissolve in vari colori, e l’intreccio di nervature che sostiene la volta, mi capitò di pensare: quanti silenziosi desideri, quanti taciti aneliti, quanti pensieri reconditi avrà accolto quest’edificio di pietre, insieme ad orazioni sussurrate e forse anche soltanto pensate, a invocazioni, a imprecazioni, a dichiarazioni d’amore mormorate all’orecchio dell’amata, a lamenti, a rimbrotti! Quanti segreti rivelati in quei confessionali. E se tutti questi desideri, questi aneliti, questi pensieri, le orazioni, i sussurri, le invocazioni, le imprecazioni, i lamenti, i segreti, se tutte queste cose in coro incominciassero a cantare, mettendo da parte la consueta salmodia liturgica del coro canonico? Nella cassa armonica di un liuto, tra le sue viscere, dormono tutte le note che le sono passate accanto, sfiorandola nel trascorrere volando, con le ali sonore; e se tutte quelle note, proprie ed altrui, che vi dormono, si destassero, la cassa del liuto scoppierebbe sotto la spinta di quella tempesta sonora. E allo stesso modo, se si ridestasse tutto ciò che dorme nel seno della cattedrale, liuto di pietra, ed esplodesse in un immenso canto corale, la cattedrale stessa crollerebbe, vinta e sommersa dal grandioso clamore. Le voci, liberate, cercherebbero il cielo. La cattedrale di pietra crollerebbe, vinta e sommersa dalla violenza dello stesso sforzo del canto; ma dalle sue macerie che continuerebbero a cantare, risorgerebbe una cattedrale fatta di spirito, più aerea, più luminosa ed in pari tempo più solida; un’immensa chiesa che innalzerebbe al cielo colonne di sentimento che si ramificherebbero sotto la volta di Dio sciogliendosi dal loro peso morto per
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muerto por arbotantes y contrafuertes de ideas. Y esto no sería comedia litúrgica. ¡Oh y quién pudiese hacer cantar a nuestras catedrales toda oración, toda palabra, todo pensar y todo sentir que en su seno han acojido! ¡Quién pudiese animarles las entrañas, las entrañas mismas de la encantada cueva de Montesinos! Volvamos al retablo. Un retablo hay en la capital de mi patria y la de Don Quijote, donde se representa la libertad de Melisendra o la regeneración de España o la revolución desde arriba, y se mueven allí, en el Parlamento, las figurillas de pasta según les tira de los hilos maese Pedro. Y hace falta que entre en él un loco caballero andante, y sin hacer caso de voces, derribe, descabece y estropee a cuantos allí manotean, y destruya y eche a perder la hacienda de maese Pedro. El cual volvió a la carga, y el pobre Don Quijote, como llevaba en sí al bueno de Alonso el Bueno, convenciose de que todo había sido cosa de encantamiento y ofreció pagar el destrozo. Y harto hizo con pagarlo. Aunque si bien se mira justo es que al que vive de mentiras, cuando se le han quebrado estas se le remedie en lo posible el daño hasta que aprenda a vivir de la verdad. Porque es lo que se dice: si quitáis a los faranduleros la farándula, de la cual tan solo han aprendido a vivir, cómo vivirán? Y cierto es también que Dios no quiere la muerte del pecador, sino que se convierta y viva, y para que pueda convertirse ha de vivir, y para que viva es menester sostentarle. ¡Oh Don Quijote el Bueno, y cuán magnánimamente, después de haber derribado, descabezado y estropeado la mentira pagaste lo que ella valía, dando cuatro reales y medio por el rey Marsilio de Zaragoza, cinco y cuartillo por Carlo Magno, y así por los otros, hasta cuarenta y dos reales y tres cuartillos! ¡Si no costara más hacer añicos el retablo parlamentario y el otro!
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mezzo di contrafforti e di arcate fatte di idee. E questa non sarebbe una commedia liturgica. Oh, chi potesse far cantare alle nostre cattedrali ogni preghiera, ogni parola, ogni pensiero ed ogni sentimento accolto nelle loro viscere! Chi potesse dar vita alle loro viscere che sono le viscere stesse dell’incantata grotta di Montesinos! Ma torniamo al teatrino. Un teatrino esiste nella capitale della mia patria che è anche quella di Don Chisciotte, nel quale si rappresenta la liberazione di Melisendra o la rigenerazione della Spagna o la rivoluzione venuta dall’alto; e vi si muovono, là nel Parlamento, le figurine di cartapesta obbedendo ai fili mossi da mastro Pietro. Ci sarebbe bisogno che vi entrasse un folle cavaliere errante che, senza lasciarsi commuovere dalle alte grida, abbattesse, scapezzasse e storpiasse tutti coloro che vi si agitano, e distruggesse e mandasse in rovina la baracca di mastro Pietro. Questi tornò alla carica e quel poveretto di Don Chisciotte, che portava dentro di sé quel buon uomo di Alonso il Buono, si convinse che si era trattato di incantesimi e si offrì di risarcire i danni. E fece fin troppo, pagando. Per quanto, a guardar bene, è giusto che chi vive di menzogne, una volta che queste gli si siano frantumate, veda risarcito nei limiti del possibile il danno e impari a vivere di verità. Giacché spesso si dice: se togliete la farsa ai commedianti, che hanno imparato a vivere soltanto di essa, poi come vivranno? Ed è anche vero, d’altra parte, che Dio non vuole la morte del peccatore, ma solo che si converta e viva; e deve vivere proprio perché si deve convertire, e affinché viva bisogna che si mantenga. Oh, Don Chisciotte il Buono, con quanta magnanimità, dopo aver abbattuto, scapezzato e storpiato la menzogna, hai pagato quello che essa valeva dando quattro reali e mezzo per il re Marsilio di Saragozza, cinque reali e un soldo per Carlo Magno, e così via per tutti gli altri, fino alla somma di quarantadue reali e tre soldi! Se non costasse di più fare a pezzi il teatrino parlamentare e anche l’altro!
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donde se da cuenta de quiénes eran maese Pedro y su mono, con el mal suceso que Don Quijote tuvo en la aventura del rebuzno, que no la acabó como él quisiera y lo tenía pensado Luego de eso de maese Pedro, el cual ya sabemos qué pícaro era, fue cuando Don Quijote se halló entre la gente armada del pueblo de los rebuznadores e intentó persuadirlos a que no peleasen por tal ninería, y corroborandole Sancho, dio en la mala ocurrencia de rebuznar, por donde se armó la pedrea de que a todo galope salió Don Quijote, encomendándose de todo corazón a Dios, que de aquel peligro le librase. Y he aquí, al contar esta la primera vez que huye el denodado vencedor del vizcaíno, del Caballero de los Espejos y del león, del que tantas veces afrontó a tropas de hombres, dice el historiador: «cuando el valiente huye la superchería está descubierta, y es de varones prudentes guardarse para mejor ocasión». Y ¿cómo iba a hacer frente Don Quijote a un pueblo que tiene a gala rebuznar? La manera de expresarse colectivamente un pueblo es un a modo de rebuzno, aunque cada uno de los que lo componen use de lenguaje articulado para sus menesteres individuales, pues sabido es cuán a menudo ocurre que al juntarse hombres racionales o semi-racionales siquiera, formen un pueblo asno.
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dove si dice chi erano mastro Pietro e la sua scimmia, nonché l’infausto esito che Don Chisciotte ebbe nell’avventura del raglio. La quale non portò a termine come avrebbe voluto e come già si era creduto Dopo la faccenda di mastro Pietro, del quale già sappiamo che razza di birbante fosse, successe che Don Chisciotte venne a trovarsi tra la gente armata del villaggio dei ragliatori e cercò di persuaderli a non azzuffarsi con una simile bambinata; senonché Sancio, per dargli conforto, ebbe la cattiva idea di mettersi a ragliare anche lui, dal che venne fuori la sassaiola alla quale Don Chisciotte si sottrasse fuggendo al galoppo e raccomandandosi a Dio di tutto cuore affinché lo liberasse da quel pericolo. Ed ecco che nel narrare, per la prima volta, che fugge il prode vincitore del biscaglino, del Cavaliere degli Specchi e del leone, colui che tante volte aveva affrontato intere truppe di uomini, lo storico ci dice: «Quando il valoroso fugge, è evidente che è stato raggirato, ed è proprio degli uomini saggi conservarsi per migliore occasione». Ma come avrebbe fatto Don Chisciotte a tener testa ad un paese che si vanta di ragliare? Il modo di esprimersi collettivamente di un paese è una specie di raglio anche se ognuno dei suoi componenti si serve di un linguaggio articolato per i suoi bisogni individuali; è infatti risaputo quanto spesso avviene che, quando si radunano uomini ragionevoli o magari solo semiragionevoli, tutti assieme formano un popolo asino.
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Antes de dictar ordenamientos para regir al pueblo, oigamos su parecer – se dice –, consultémosle. Y es ello algo así como si un albéitar, en vez de escudrinar a un asno y tantearle y pulsarle y registrarle para descubrir de qué padece y dónde le duele y de qué remedio ha menester, le consulta y espera a que rebuzne para recetarle, arrogándose el papel de truchimán de rebuznos. No, sino cuando no se logra convencer al pueblo rebuznador, huir de él como prudente y no temerario caballero. Y no hacer caso de los Sanchos egoístas que se quejan porque no los defendimos cuando tuvieron el mal acuerdo de rebuznar ante rebuznadores. Y volvió después de esto Sancho a lo del salario, y Don Quijote quiso saldar cuentas y despedirle, y entonces es cuando le dijo aquellas durísimas palabras de «asno eres y asno has de ser y en asno has de parar cuando se te acabe el curso de la vida», al oír lo cual rompió a llorar el pobre escudero y confesó que para ser asno del todo no le faltaba sino la cola. Y le perdonó el magnánimo Caballero, mandandole procurara ensanchar el corazón. Y fue y es uno de los más señalados beneficios que Sancho debió y debe a Don Quijote el de que este le convenciera y le convenza de que para ser asno del todo no le faltaba sino la cola. Cola que no le brotará ni crecerá mientras siga y sirva a Don Quijote.
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Prima di dettare costituzioni per governare un popolo, ascoltiamone il parere – si dice – consultiamolo. E ciò mi fa pensare che sarebbe lo stesso se un veterinario, invece di esaminare un somaro o testarlo, sentirgli il polso, guardarlo per dritto e per traverso alfine di scoprire di che male soffre, dove gli duole e di che cosa ha bisogno, lo consultasse ed aspettasse di udirlo ragliare per ordinargli una medicina arrogandosi in certo modo la parte di interprete di ragli. No, signori miei: quando non si riesce a convincere il popolo ragliante, l’unica cosa che resta da fare è scappar via, da cavaliere prudente e non temerario. E soprattutto non far caso ai Sanci egoisti che si lamentano se non li difendiamo quando hanno avuto la cattiva idea di mettersi a ragliare al cospetto di altri ragliatori. E poi Sancio tornò a battere il chiodo del salario, e Don Chisciotte decise di saldargli il conto e di licenziarlo; fu proprio allora che gli disse quelle durissime parole: «Asino sei, asino sarai ed asino finirai quando si compirà il corso della tua vita». E udendo ciò, il povero scudiero scoppiò in lacrime e confessò che per essere asino del tutto gli mancava solo la coda. E il magnanimo Cavaliere lo perdonò raccomandandogli di cercare di farsi un po’ coraggio. Fu ed è, questo, uno dei più notevoli benefici di cui Sancio andò ed è debitore a Don Chisciotte: fu il nostro hidalgo a convincerlo che per essere asino del tutto gli mancava solo la coda. Coda che non gli spunterà e non gli crescerà finché seguirà e servirà Don Chisciotte.
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de la famosa aventura del barco encantado Y en esto llegaron a orillas del río Ebro y se encontraron allí con «un pequeño barco sin remos ni otras jarcias algunas», y ¡es claro!, barco sin remos ni otras jarcias, y atado a la orilla, ¡aventura al canto! Donde veas algo en facha de espera, es que te espera a ti, no lo dudes. Y si es barco, métete en él, desátale y que te lleve a la buena de Dios. Así hizo Don Quijote, y no bien se habían apartado obra de dos varas de la orilla, cuando Sancho, que como buen manchego debía de ser hidrófobo, rompió a llorar. Y tan hidrófobo, pues al tentarse para comprobar si habían pasado la línea equinoccial, en pasando la cual mueren los piojos, topó, no ya con algo, sino con algos. Y el barco fue a dar a una aceña, en que se hizo trizas, no sin antes haberse ido al agua Don Quijote y Sancho. Y este sí que es típico dechado de aventuras de obediencia, más aún que la del león. Recuerda lo que, siendo general de la Compañía de Jesús, «dijo diversas veces» Íñigo de Loyola, y es que «si el Papa le mandase que en el puerto de Ostia entrase en la primera barca que hallase y que sin mástil, ni gobernalle, sin vela, sin remos, sin las otras cosas necesarias para la navegación y para su mantenimiento, atravesase la mar, que lo haría y obedecería, no solo con paz, mas aun con contentamiento y alegría de su ánimo» (Riv., lib. V, cap. IV).
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la famosa avventura della barca incantata Giunsero alle sponde del fiume Ebro e vi trovarono una «piccola barca senza remi, senza nessun altro attrezzo»; e ovviamente, una barca senza remi e nessun altro attrezzo e per giunta ormeggiata alla sponda, è una pacchia per chi cerca avventure! Dove t’imbatti in qualcosa che ha l’aria di starsene lì in attesa, significa che aspetta te, puoi esserne certo. E se si tratta di una barca, sali, sciogli l’ormeggio e lasciati trasportare dove Dio vuole. Così fece Don Chisciotte; ma non si erano allontanati dalla sponda un paio di braccia quando Sancio, che da buon mancego doveva essere idrofobo, si mise a piangere. E idrofobo al punto che, quando si toccò per assicurarsi di aver passato la linea equinoziale, attraversando la quale muoiono i pidocchi, ne trovò non uno, ma parecchi. Poi la barca andò a finire in una gora e si sconquassò, non senza che prima Don Chisciotte e Sancio fossero caduti in acqua. Ora questo sì che è un tipico esempio di avventure per obbedienza, ancor più di quella del leone. Fa venire alla mente l’episodio in cui, essendo Generale delle Compagnia di Gesù, «disse parecchie volte» Ignazio di Loyola che «se il Papa avesse ordinato che nel porto di Ostia salisse sulla prima barca che trovava e che, senz’albero, né timone, né vela, né remi, né alcuna delle altre cose necessarie alla navigazione, attraversasse il mare, lo avrebbe fatto e avrebbe obbedito, non solo silenziosamente e senza protestare, ma addirittura con l’animo pieno di gioia e di allegria» (Rivadeneira, lib. V, cap. IV).
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¿Y para qué había puesto Dios alli aquel barquichuelo sino para que, obedeciéndole, embarcase en él Don Quijote a busca de una aventura desconocida? Nadie sabe para qué le es más propio ni cuál la hazaña5 que le está reservada. Tu hazaña, tu verdadera hazaña, la que hará valer tu vida, no será acaso la que vayas tú a buscar, sino la que venga a buscarte, y ay de los que van en busca de la dicha mientras está llamando a las puertas de su casa! Por algo se dijo lo de que las más grandes obras son obras de circunstancias.
5 Sentí por un momento la tentación de anadir «ni la acena» diciendo «ni cuál la hazana ni la aceña que le está reservada», pero he vencido pronto la tentación esa. Odio los calambures yjuegos de palabras, que revelan el más menguado y más despreciable ingenio.
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E a che scopo Dio poteva aver messo quella piccola barca proprio lì, se non perché, obbedendo a Lui, Don Chisciotte vi si imbarcasse alla ricerca di un’ignota avventura? Nessuno sa che cosa più gli si addica, né quale sia l’impresa5 che gli è riservata. La tua impresa, la tua vera impresa, quella che darà un valore alla tua vita, può anche non essere quella di cui vai in cerca, ma quella che verrà da sola a cercarti; e guai a coloro che vanno in cerca della felicità, mentre essa bussa alle porte della loro casa! Non per nulla è stato detto che le opere più grandi sono opere di circostanze.
5 Sentii per un momento la tentazione di aggiungere «né il mulino d’acqua», dicendo «né quale impresa né il mulino d’acqua che gli è riservato», ma ho vinto subito la tentazione. Odio i bisticci e i giochi di parole, che rivelano il più vile e spregevole ingegno.
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de lo que le avino a Don Quijote con una bella cazadora Ahora empiezan las tristes aventuras de Don Quijote en casa de los Duques; ahora es cuando topó con la bella cazadora, la Duquesa, que le llevó a su morada a regocijarse con él y buriarse de su heroísmo; ahora empieza la pasión del Caballero en poder de sus burladores. Aquí es donde la historia de nuestro Ingenioso Hidalgo se hunde en despeñaderos de lamentable miseria; aquí es donde a su magnanimidad y discreción responden la bellaquería y sandez de aquellos próceres que creían, sin duda, nacidos los héroes para divertirlos y servirles de juguete y zarandillos. ¡Oh desdichado, que caminas al templo de la fama y corres tras la inmortalidad de la gloria, mira que, si los grandes de la tierra te agasajan y miman y regalan, es para que adornes sus mansiones o para divertirse contigo como con un juguete! Tu presencia no es sino ornato de su mesa y figuras en ella como figuraría una fruta rara o el último ejemplar de un pajarraco que se extingue. Cuando más parecen reverenciarte más se burlan de ti. Mira que en el fondo no hay soberbia como la soberbia de aquellos que no pueden atribuir a propio mérito, sino al azar del nacimiento, las preeminencias de que gozan. No seas juguete de los grandes. Recorre la historia y ve en lo que vinieron a dar los héroes que se redujeron a ser ornamento de los salones.
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di ciò che accadde a Don Chisciotte con una bella cacciatrice Iniziano a questo punto le tristi avventure di Don Chisciotte in casa dei duchi; è adesso che si imbatte nella bella cacciatrice, che era poi la duchessa, la quale lo porta alla propria dimora per divertirsi alle sue spalle e farsi beffa del suo eroismo; adesso inizia la passione del Cavaliere caduto nelle mani dei suoi schernitori. È a questo punto che la storia del nostro ingegnoso hidalgo sprofonda in un abisso di deplorevoli miserie; è qui che alla sua magnanimità e alla sua saggezza si risponde con la vigliaccheria e la scempiaggine di quei signori che credevano, senza ombra di dubbio, che gli eroi fossero nati per divertirli e per servire loro da balocchi e trastulli. Oh sventurato, che ti incammini verso il tempio della fama e corri sulle orme dell’immortalità della gloria; guarda che, se i grandi della terra ti accolgono bene, ti accarezzano e ti usano mille riguardi, è solo perché adorni le loro dimore o perché vogliono divertirsi con te come un giocattolo! La tua presenza è solo un ornamento per le loro mense; fai bella mostra di te come vi farebbe bella mostra un frutto raro o l’ultimo esemplare di un uccellaccio che si sta estinguendo. Quando sembra che ti usino maggiori riguardi, più bellamente si prendono gioco di te. Bada che, in fondo, non c’è superbia che eguagli la superbia di coloro che non possono attribuire ai propri meriti, ma solo al caso che li ha fatti nascere così, i privilegi di cui godono. Non farti zimbello dei grandi. Ripassa la storia e vedi come finirono gli eroi che si ridussero ad essere ornamento da salotto.
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que trata de muchas y muy grandes cosas Recibieron de solemne burla a Don Quijote en casa de los Duques, vistiéronle a usanza caballeresca y le llevaron a comer. Y allí fue donde se encontró, en la mesa, con aquel «grave eclesiástico destos que gobiernan las casas de los príncipes; destos que, como no nacen príncipes, no aciertan a enseñar cómo lo han de ser los que lo son; destos que quieren que la grandeza de los grandes se mida con la estrechez de sus ánimos», y el cual enderezó a Don Quijote, llamándole don Tonto, aquella reprensión áspera y desabrida recomendándole se volviese a su casa a criar a sus hijos si los tenía, y a curar de su hacienda, dejando de andar vagando por el mundo y dando que reír a cuantos le conocian y no conocían. ¡Oh, y cómo dura y persiste y no acaba en nuestra España la ralea de estos graves y sesudos eclesiásticos que quieren que la grandeza de los grandes se mida con la estrechez de sus ánimos! ¡Don Tonto! ¡Don Tonto! ¡Y cómo te viste tratar, mi loco sublime, por aquel grave varón, cifra y compendio de la verdadera tontería humana! El grave eclesiástico no debía de haber leído los Evangelios ni debía de conocer aquel sermón de Jesús desde la montaña, en que dijo: «Cualquiera que dijere a su hermano “raca” sera culpado del concejo, y cualquiera que le dijere tonto será reo del infierno del fuego» (Mt., V, 22). Reo se hizo, pues, del infierno del fuego, por haber llamado a Don Quijote tonto.
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che tratta di molte e grandi cose Nella casa dei duchi accolsero Don Chisciotte con burlesca solennità, lo rivestirono secondo l’uso cavalleresco e lo condussero a tavola. E fu lì, a mensa, che si incontrò con quel «sacerdote pieno di gravità, di quelli che governano nelle case dei principi; di quelli che, non essendo nati nobili non sono fatti per insegnare ad essere tali a coloro che non lo sono; di quelli che pretendono che la grandezza dei grandi si commisuri alla piccolezza del loro animo»; il quale rivolse a Don Chisciotte chiamandolo don Sciocco, un rimprovero aspro e ruvido raccomandandogli di ritornarsene a casa sua per tirar su i suoi figli, se ne aveva, e ad occuparsi delle sue sostanze, smettendo di andare in giro per il mondo a far ridere tanto quelli che lo conoscevano che gli altri. Oh, come perdura e resiste e non si estingue mai la razza di questi seriosi e saggi ecclesiastici che pretendono che la grandezza dei grandi sia commisurata alla meschinità dei loro animi! Don Sciocco! Don Sciocco! In che modo ti sei visto trattare, mio sublime folle, da quel serioso uomo, compendio e simbolo dell’autentica citrullaggine umana! Il serioso ecclesiastico non doveva aver letto i Vangeli, e non doveva neanche conoscere il Discorso della montagna di Gesù, dove disse: «Chiunque avrà detto al suo fratello “stupido”, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli avrà detto pazzo, sarà sottoposto al fuoco dell’inferno» (Mt., V, 22). Reo, dunque, divenne del fuoco dell’inferno per aver chiamato sciocco Don Chisciotte.
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Ya estás, señor mío, frente a la encarnación del sentido común. Y no nos quepa duda de que, si Cristo Nuestro Señor hubiese en tiempo de Don Quijote vuelto al mundo, o si hoy volviese a él, formaría aquel grave eclesiástico entonces o formarían hoy sus sucesores entre los fariseos, que le reputarían por loco o dañino agitador y le buscarían nueva muerte afrentosa.
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Eccoti, signor mio, faccia a faccia con l’incarnazione del senso comune. E non ci è lecito dubitare che, se Cristo Nostro Signore fosse ritornato al mondo ai tempi di Don Chisciotte o se vi tornasse oggi, quel grave ecclesiastico di allora o i suoi successori di oggi si troverebbero nelle schiere dei farisei che lo riterrebbero pazzo o malvagio e pericoloso agitatore e cercherebbero per Lui una nuova morte oltraggiosa.
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de la respuesta que dio Don Quijote a su reprensor, con otros graves y graciosos sucesos Pero a fe que si fue desabrida la reprimenda, también fue estupenda la réplica de Don Quijote a ella, tal cual en este capítulo se contiene. No hay sino releerla. No hay sino leer la soberana lección a los que «sin haber visto más mundo que el que puede contenerse en veinte o treinta leguas de distrito» se meten de rondón a dar leyes a la caballería y a juzgar de los caballeros andantes. «Mis intenciones siempre las enderezo a buenos fines, que son de hacer bien a todos y mal a ninguno; si el que esto entiende, si el que esto obra, si el que desto trata merece ser llamado bobo, díganlo vuestras grandezas», exclamó Don Quijote. Pero es que se las había con uno de esos hombres de voluntad mezquina y de corazón estrecho que han inventado lo de que hay ideas buenas e ideas malas, y se empeñan en ser definidores de la verdad y del error, y en que se siguen al mundo grandes males de que los hombres crean las visiones de la cueva de Montesinos y no otras visiones no menos visionarias que ellas. Los tales, locos, o mejor, menguados de corazón, no de cabeza, no hacen sino perseguir a los que tienen por locos de la cabeza y entercarse en hacernos creer que traen perdido al mundo los caballeros andantes que enderezan sus intenciones a buenos fines, crean lo que creyeren, y no los graves eclesiásticos que miden la grandeza de los grandes con la estrechez de sus ánimos. Como sus seseras resecas y amojamadas son incapaces de parir imagi-
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della risposta data da Don Chisciotte al suo ammonitore e di altre cose serie e facete Ma, in fede mia, se fu rude il rimbrotto, non meno stupenda fu la risposta di Don Chisciotte, che è puntualmente riferita in questo capitolo. Non c’è che da rileggerla. C’è solo da leggere la superba lezione impartita a coloro che, «senza che abbiano visto mai altro mondo se non quello che può essere compreso in venti o trenta leghe di distanza», si mettono presuntuosamente a dettar leggi alla cavalleria e a giudicare i cavalieri erranti. «Sempre rivolgo le mie intenzioni a degni scopi, cioè di far bene a tutti e male a nessuno. Se colui che si propone ciò, che fa questo, se colui che di questo ha fatto la sua missione, merita di essere chiamato sciocco, lo dicano le vostre altezze», esclamò Don Chisciotte. Ma il fatto è che aveva a che fare con uno di quegli uomini dalla volontà meschina e dal cuore stretto che hanno inventato la distinzione tra idee buone e idee cattive, e si ritengono i custodi della verità e dell’errore e osano dire che al mondo derivano grandi mali dal fatto che gli uomini prestino fede alle visioni delle grotte di Montesinos e non ad altre visioni non meno visionarie di quelle. Questi tali, pazzi o, per meglio dire, scarsamente provvisti di cuore se non di cervello, non fanno che perseguitare coloro che ritengono matti nella testa e ostinarsi a farci credere che stanno mandando in rovina il mondo i cavalieri erranti i quali rivolgono le loro intenzioni a buoni fini, in qualunque cosa credano, e non i seriosi ecclesiastici che commisurano la grandezza dei grandi alla meschinità dei loro animi. Siccome i loro crani rinsecchiti e incartapecoriti sono
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nación alguna, atiénense como a inmovible norma de conducta, a las empedernidas y encostradas imágenes que en depósito recibieron, y como no saben abrirse sendero a campo traviesa y por la espesura de la selva, fija en la estrella norte la mirada, obstinanse en que vayamos los demás en su desvencijado carro por las roderas del camino de servidumbre publica. Esas gentes no hacen sino censurar a los que de veras hacen algo. Cuando alguien tiene cuita, acude a los caballeros andantes y no a ellos, ni «al perezoso cortesano que antes busca nuevas para referirlas y contarlas que procura hacer obras y hazañas para que otros las cuenten y las escriban», como dirá más addante el mismo Don Quijote cuando se le presente Trifaldín, el heraldo de la Dueña Dolorida. Dijo muy bien Don Quijote: «Si me tuvieran por tonto los caballeros, los magmfícos, los generosos, los altamente nacidos, tuviéralo por afrenta irreparable; pero de que me tengan por sandio los estudiantes que nunca entraron ni pisaron las sendas de la caballería, no se me da un ardite». Razones dignas del Cid, quien, según el sabio romance, cuando aquel monje bernardo se atrevió a hablarle en lugar del rey Alfonso, platicando en el claustro de San Pedro de Cardeña: ¿Quién vos mete, dijo el Cid, en el consejo de guerra fraile honrado, a vos agora, la vuesa cogulla puesta? Subid vos a la tribuna, y rogad a Dios que venzan, que non venciera Josué si Moisén non lo ficiera. Llevad vos la capa al coro, yo el pendón a la frontera. .................................................................................... que más de aceite que sangre, manchado el hábito muestra,
reprimenda que hizo exclamar al rey lo de: Cosas tenedes, el Cid, que farán fablar las piedras, pues por cualquier niñería facéis campaña la iglesia.
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incapaci di partorire una sola immagine nuova e si attengono, come a immutabile norma di condotta, a quelle abusate e ritrite immagini che hanno ricevuto come in deposito, e siccome non sanno aprirsi un varco attraverso i campi o il folto della selva, tenendo lo sguardo fisso alla stella polare, si ostinano a pretendere che tutti noi andiamo sul loro sconquassato carro lungo le rotaie scavate nella strada della pubblica servitù. Questa gente non fa che censurare coloro che davvero fanno qualcosa. Se uno ha una pena, si rivolge ai cavalieri erranti e non a loro, né al «cortigiano infingardo che va piuttosto in cerca di notizie da riportare e raccontare invece di adoperarsi a compiere azioni e imprese perché altri le racconti e le scrive», come dirà in seguito lo stesso Don Chisciotte quando gli si presenterà Triffaldino, l’araldo della Matrona Desolata. Diceva benissimo Don Chisciotte: «Se mi avessero ritenuto uno sciocco i cavalieri, i magnifici signori, i nobili, le persone di alti natali, lo avrei reputato un oltraggio irreparabile; ma che mi ritenga uno scemo gente letterata, che non ha mai intrapreso le vie della cavalleria, non me ne importa nulla». Parole degne del Cid che, secondo il notissimo poema, quando il monaco osò rivolgergli la parola al posto di re Alfonso, mentre stavano discorrendo nel chiostro di San Pietro di Cardeña: Chi v’immischia, disse il Cid, in un consiglio di guerra, degno frate, ora che avete indossato la cocolla? Al pergamo ora salite, e pregate Dio che si vinca: ché se Mosé non pregava, neanche Giosué vinceva. Portate la cappa in coro; io il pennone alla frontiera .................................................................................... che più d’olio che di sangue la tonaca macchia reca,
rimbrotto che indusse il re ad esclamare: Dite, Cid, siffatte cose da far parlare una pietra, perché per ogni sciocchezzuola fate rimbombar la chiesa.
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Y cuando los graves eclesiásticos no pueden con los caballeros andantes, vuélvense a sus escuderos. Pero también Sancho sabe responder: «soy quien júntate a los buenos, y serás uno de ellos… yo me he arrimado a buen señor y ha muchos meses que andó en su compañía y he de ser otro como él, Dios queriendo». Y lo querrá Dios, Sancho bueno, Sancho discreto, Sancho cristiano, Sancho sincero, lo querrá Dios. ¡Tú lo dijiste: júntate a los buenos! Porque tu amo fue y es y será bueno, ante todo y sobre todo, bueno, y en pura fuerza de bondad loco, y su locura le ha merecido gloria en el mundo mientras este dure y gloria también en la eternidad. ¡Oh, Don Quijote, mi San Quijote! Si, los cuerdos canonizamos tus locuras, y que los graves eclesiásticos de ánimo estrecho se excusen de reprender lo que no pueden remediar. «Y sin decir más ni corner más se file», dice el historiador refiriéndose al grave eclesiástico. ¡Se fue!… ¡Oh, si pudiéramos decir siempre lo mismo!… Recordemos aquí, lector, que esta reprimenda del grave eclesiástico a Don Quijote no deja de tener parentesco con la reprimenda que el vicario del convento de dominicos de San Esteban, de Salamanca, de esta Salamanca en que escribo y en que se graduó el bachiller Sansón Carrasco, enderezó a Íñigo de Loyola según nos cuenta su historiador en el capítulo XV del libro I de su Vida. Cuando le invitaron a que fuese a aquella casa, pues los frailes tenían gran deseo de oírle y de hablarle, y fue, y después de haber comido lo llevaron a una capilla y preguntó el vicario a Ignacio en qué estudios se habia criado y qué género de letras habia profesado, y dijo luego: «Vosotros sois unos simples idiotas, y hombres sin letras, como vos mismo confesáis; pues cómo podéis hablar seguramente de las virtudes y de los vicios?». Y luego encerraron a Ignacio y sus compañeros, y de allí los llevaron a la cárcel. Loyola, por su parte, «en más de treinta años nunca llamó a nadie bobo, ni dijo otra palabra de que se pudiese agraviar», según su biógrafo, en el capitulo VI del libro V de su Vida.
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Ma quando i poveri ecclesiastici non ce la fanno con i cavalieri erranti, cercano di rifarsi con gli scudieri. Ma anche Sancio gli seppe rispondere: «Sono uno che “accompagnati con i buoni e sarai uno di loro”…, io mi sono appoggiato ad un buon padrone, da molti mesi lo accompagno e diventerò un altro come lui, a Dio piacendo». E Dio lo vorrà sicuramente, Sancio buono, Sancio prudente, Sancio cristiano, Sancio sincero; Dio lo vorrà. Tu l’hai detto: accompagnati ai buoni! Perché il tuo padrone fu ed è e sarà buono, anzitutto e soprattutto buono, e per la sola forza della bontà, matto, e la sua follia gli ha meritato la gloria nel mondo finché il mondo durerà, e gloria anche per l’eternità. Oh, Don Chisciotte, mio San Chisciotte! Sì, noi saggi canonizziamo le tue follie; e i seriosi canonici dall’animo meschino si risparmino la fatica di muovere rimproveri a ciò cui non poterono rimediare. «E senza dir altro, né mangiare altro, se ne andò», dice lo storico, riferendosi al serioso ecclesiastico. Se ne andò!… Oh, se potessimo dire sempre così!… Ricordiamo a questo punto, lettore, che la reprimenda del serioso ecclesiastico a Don Chisciotte ha una certa parentela con la reprimenda che il vicario del convento domenicano di Santo Stefano in Salamanca, in quella Salamanca ove scrivo e dove ottenne il diploma di baccelliere Sansone Carrasco, rivolse a Ignazio di Loyola, secondo quanto ci narra il suo biografo al capitolo XV del libro I della sua Vita. Quando lo invitarono a recarsi in quel monastero poiché i frati avevano un grande desiderio di ascoltarlo e di parlare con lui, ed egli vi andò, dopo pranzo lo condussero ad una cappella ed il vicario domandò ad Ignazio presso quali scuole avesse studiato e che sorta di studi avesse fatto, e infine gli disse: «Voi siete semplici idioti ed uomini illetterati, come voi stesso confessate; e allora, come potete parlare con sicurezza delle virtù e dei vizi?». Poi rinchiusero Ignazio e i suoi compagni, e di lì li condussero in carcere. Loyola, da parte sua, «in più di trent’anni non chiamò mai sciocco nessuno, né disse mai altra parola che potesse offendere», secondo il suo biografo nel capitolo VI del libro V della Vita.
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¿Cómo, sin licencia ni título, ni grados conferidos por tribunal ordinario, cómo se atrevía así Ignacio a hablar de la virtud y del vicio? Y a Don Quijote, ¿quién le dio licencia para meterse a caballero andante, o con qué derecho se entremetía a enderezar tuertos y corregir abusos, aunque no lo hicieren los graves eclesiásticos que para hacerlo cobraban su salario? Ni el vicario del monasterio de San Esteban de Salamanca, ni el grave eclesiástico que gobernaba la casa de los Duques sufrían que se saliese nadie del oficio que la sociedad les tuviera asignado. ¿Qué orden puede haber, en efecto, si no se atiene y atempera cada uno a lo que se le pide y no más allá que a elio? Cierto que no cabría así progreso, pero el progreso es fuente y raiz de muchos males. Bien se dijo lo de ¡zapatero, a tus zapatos! Ignacio habria hecho mejor en seguir la carrera a que sus padres le dedicaron, o por lo menos no meterse a predicar hasta haberse graduado de teólogo, y Don Quijote debía haberse casado con Aldonza Lorenzo para criar a sus hijos y cuidar de su hacienda. Ambos graves eclesiásticos, el de casa de los Duques y el del convento de San Esteban de Salamanca, fueron predecesores de aquel que escribió en el catecismo: «eso no me lo preguntéis a mí, que soy ignorante; doctores tiene la Santa Madre Iglesia que os sabrán responder». «Buenos estamos – corno dijo el vicario de Salamanca –; tenemos el mundo lleno de errores, y brotan cada día nuevas herejias y doctrinas ponzoñosas; y vos no queréis declararnos lo que andáis enseñando…». Medrados estamos, en efecto, si ha de salir por ahí cada uno a su antojo, este enderezando entuertos y aquel predicando, el uno alanceando molinos y el otro fondando compañías. ¡Al carril, al carril todos! ¡Solo en el carril hay orden! Y lo estupendo es que sea esta hoy la doctrina de los que se dicen hijos del reprendido en el convento de San Esteban y herederos de su espíritu.
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Come, senza alcun permesso, senza titoli né gradi accademici conferiti da una normale commissione, come osava Ignazio parlare della virtù e del vizio? E a Don Chisciotte chi mai aveva concesso il permesso di fare il cavaliere errante, e con che diritto si intrometteva a raddrizzare torti e a correggere abusi, se non lo facevano neppure i seriosi ecclesiastici che pure ricevevano un apposito salario per farlo? Né il vicario del convento di Santo Stefano a Salamanca, né il serioso ecclesiastico che governava la casa dei Duchi potevano sopportare che uno qualsiasi esorbitasse dal compito che la società gli aveva assegnato. Che ordine ci potrebbe essere, infatti, se ognuno non si attenesse e non ottemperasse a ciò che gli si richiede, senza spingersi oltre? È pur vero che così non ci sarebbe alcun progresso, ma il progresso è fonte e radice di molti mali. Non per nulla il proverbio dice: chi vuol fare l’altrui mestiere, fa la zuppa nel paniere. Ignazio avrebbe fatto meglio a seguire la carriera che i suoi genitori avevano scelto per lui, o almeno ad astenersi dal predicare finché non avesse conseguito il titolo di teologo; e Don Chisciotte avrebbe dovuto accasarsi con Aldonza Lorenzo per allevare i figli e badare ai propri interessi. Entrambi quei seriosi ecclesiastici, quello che stava in casa dei Duchi e quello del monastero di Santo Stefano a Salamanca, meritavano di essere i predecessori di quell’altro che scrisse sul Catechismo: «Queste cose non chiedetele a me che sono ignorante; la Santa Madre Chiesa ha dei dottori che potranno rispondervi». «Stiamo freschi», come disse il vicario di Salamanca; «abbiamo un mondo pieno di errori e ogni giorno spuntano come funghi eresie e velenose dottrine e voi non ci volete chiarire quello che andate insegnando!»… Staremmo freschi davvero, se ogni giorno se ne venisse fuori uno a fare quello che gli salta in mente; questo a raddrizzare torti e quell’altro a predicare; uno ad assalire a colpi di lancia i mulini a vento, e l’altro a fondare Compagnie! Sul binario! Tutti sul binario! Solo sul binario c’è ordine. E la cosa che più stupisce è che sia questa, oggi la dottrina di coloro che si dicono figli di chi fu rimbrottato nel convento di Santo Stefano ed eredi dello spirito di lui.
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Acabada la comida en casa de los Duques siguió la burla, no tan amarga ni burlesca como la gravedad del grave eclesiástico, y fue lo triste que fueron ya las doncellas las que, sin contar con sus amos los Duques, se propasaron a anadir burlas de su propia cuenta a las burlas tramadas por aquellos. «Ni él ni yo sabemos de achaques de burlas», dijo Don Quijote refiriéndose a Sancho. Y era verdad, pues jamás se vio loco más serio que Don Quijote. Y cuando la locura se acompaña a la seriedad, reálzase y se eleva mil codos sobre la cordura retozona y burladora.
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Terminato il pranzo in casa dei Duchi, la beffa continuò, anche se non amara e schernitrice come la gravità del serioso ecclesiastico; ma la cosa davvero triste fu che, senza tenere in alcuna considerazione l’ordine dei Duchi loro padroni, furono proprio le donne che si permisero di aggiungere nuove beffe a quelle organizzate dai nobili signori. «Né lui né io ci intendiamo di burlette», disse Don Chisciotte riferendosi a Sancio. Ed era verissimo, giacché non si vide mai pazzo più serio di Don Chisciotte. E quando la follia va a braccetto con la serietà, si innalza e si sublima a mille cubiti sulla saggezza divertente e burlona.
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de la sabrosa plática que la duquesa y sus doncellas pasaron con Sancho Panza, digna de que se lea y de que se note Entre burlas y regocijo confesó Sancho a la Duquesa que tenía a Don Quijote por loco rematado, y él, pues con todo y con eso le seguía y servía e iba atenido a las vanas promesas suyas, sin duda alguna debía de ser más loco y tonto que su amo. Pero ven acá, pobre Sancho; ven y dinos: ¿lo crees de veras así? Y aun creyéndolo, ¿no sientes que es mejor para tu fama y tu salud eterna seguir al loco generoso que no a un cuerdo mezquino? ¿No dijiste hace poco al grave eclesiástico, cuerdo hasta reventar de cordura, que hay que juntarse a los buenos, por locos que sean, y que habias de ser otro como él, como tu amo, Dios queriendo? ¡Ah, Sancho, Sancho, y cómo bamboleas en tu fe y perinoleas y te revuelves como veleta a todos vientos y al son que te tocan bailas! Pero sabemos bien que crees creer una cosa y crees otra, y que mientras te figuras sentir de un modo estás, en tu interior, sintiendo de otro modo muy diverso. Bien dijiste lo de: «esta fue mi suerte y mi malandanza; no puedo más, seguirle tengo; somos de un mismo lugar; he comido su pan; quiérolo bien; es agradecido; diome sus pollinos, y, sobre todo, soy fiel…». Sí, y tu fidelidad te salvará, Sancho bueno, Sancho cristiano. Estabas y estás quijotizado, y en prueba de
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della gustosa conversazione che la duchessa e le sue damigelle ebbero con Sancio Panza, degna di essere letta e notata Tra le burlette e l’allegria generale, Sancio confessò alla Duchessa che considerava Don Chisciotte matto dal legare, e che lui, visto che, malgrado tutto lo seguiva e lo serviva e credeva fermamente alle sue vane promesse, doveva indubbiamente essere ancora più pazzo e scemo dei suoi padroni. Ma vieni un po’ qui, mio povero Sancio; vieni qui e dicci: credi davvero che sia così? E, quand’anche lo creda, non senti istintivamente che è preferibile per la tua fama e per la tua eterna salvezza seguire un pazzo generoso che non un saggio meschino? Non dicesti, poc’anzi al serioso ecclesiastico, tanto saggio da scoppiare di saggezza, che bisogna accostarsi ai buoni, per pazzi che siano, e che, a Dio piacendo, saresti diventato come lui, come il tuo padrone? Oh, Sancio, Sancio, come traballi nella tua fede e giri e ti rigiri come una banderuola a tutti i venti e balli al ritmo del primo strumento che ti suonano! Ma sappiamo bene che tu credi di credere ad una cosa e invece credi ad un’altra, e che mentre immagini di sentire in un modo nel tuo intimo stai sentendo in un altro totalmente diverso. Hai detto bene: «Questa è stata la mia sorte, questa la mia sventura; non posso far altro, devo seguirlo, siamo dello stesso paese, ho mangiato il suo pane, gli voglio bene; è riconoscente, mi ha dato i suoi somarelli, soprattutto poi, io sono fedele…». Sì e la tua fedeltà ti salverà, Sancio buono, Sancio cristiano. Eri e sei chisciottizzato
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ello pronto te hizo dudar la Duquesa de que hubieras inventado lo del encanto de Dulcinea, y acabaste por confesar que de tu ruin ingenio no se puede ni se debe presumir que fabricases en un instante tan agudo embuste. Sí, Sancho, sí; cuando creemos ser burladores solemos muchas veces ser burlados, y cuando se nos figura hacer algo en chanza es que el Supremo Poder, que de nosotros se sirve para sus ocultos e inescudrinables fines, nos lo hace hacer de veras. Cuando creemos ir por un camino nos están llevando por otro, y así no hay sino dejarse guiar de las buenas intenciones del corazón y que Dios las haga fructificar, pues si nosotros sembramos la semilla, arando antes la tierra que la recibe, es el cielo el que la riega y airea y da lumbre. Debo aquí, antes de pasar addante, protestar contra la malicia del historiador, que al fin de este capítulo XXXIII que vengo explicando y contentando dice que las burlas que hicieron los Duques al Caballero fueron «tan propias y discretas que son las mejores aventuras que en esta grande historia se contienen». ¡No, no, y mil veces no! Las tales burlas no fueron ni propias, ni menos discretas, sino torpisimas, y si ellas sirvieron para poner a mayor luz el insondable espíritu de nuestro hidalgo y alumbrar el abismo de la bondad de su locura, débese tan solo a que la grandeza de Don Quijote y su heroismo eran tales que convertian en veras las más bajas y torpes burlas.
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e ne è la prova il fatto che ci volle poco, alla Duchessa, per farti dubitare di aver realmente inventato l’incantesimo di Dulcinea e finisti per confessare che del tuo rustico ingegno non si può né si deve presumere che fosse stato capace di costruire, in un istante, un così ingegnoso imbroglio. Sì, Sancio, sì; quando crediamo di beffare, spesso siamo noi i beffati; e quando immaginiamo di far qualcosa per burla, la verità è che il Sommo Potere che si serve di noi per i suoi occulti ed imperscrutabili fini, ce lo fa fare sul serio. Quando crediamo di camminare per una strada, ci stanno invece conducendo per un’altra, e così l’unica soluzione è quella di lasciarci guidare dalle buone intenzioni del cuore, sperando che Dio le faccia giungere a buon frutto, poiché, se noi gettiamo il seme dopo aver arato la terra che lo accoglie, è poi il cielo che lo irriga, l’arieggia e dà calore. A questo punto, prima di proseguire, mi sento in obbligo di protestare contro la malignità dello storico che, verso la fine di questo XXXIII capitolo che sto spiegando e commentando, dice che le beffe fatte dai Duchi al Cavaliere furono «così appropriate ed ingegnose da essere le migliori avventure di quante se ne narrano in questa grande storia». No, no; mille volte no! Quelle beffe non furono né indovinate, né tanto meno ingegnose, bensì assai maldestre; e se servirono a mettere meglio in luce l’insondabile spirito del nostro hidalgo e a illuminare l’abisso della bontà della sua follia, ciò si deve unicamente al fatto che la grandezza di Don Chisciotte e il suo eroismo erano tali da convertire in verità le burlette più infime e goffe.
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que da cuenta de la noticia que tuvo de cómo se había de desencantar la sin par Dulcinea del Toboso, que es una de las aventuras mas famosas deste libro Entre esas burlas que el historiador estima propias y discretas, no lo siendo ni de lejos, estuvo la del modo como se había de desencantar a Dulcinea, dándose Sancho tres mil trescientos azotes en ambas sus valientes posaderas al aire descubiertas, de tal modo que le escuezan, le amarguen y le enfaden.
Y los azotes había de dárselos de propia voluntad, sin que valiesen los que por fuerza queria propinarle Don Quijote. Negose Sancho a dárselos, porfiaron, negándole el gobierno de la ínsula si no prometía vapulearse, y al fin, vencido de razones y de codicia, lo prometió. Y «Don Quijote se colgó del cuello de Sancho, dandole mil besos en la frente y en las mejillas», recompensa más que colmada a su final resignación. Y ¿por qué no te has de azotar por amor de Dulcinea, Sancho amigo, si es a ella a quien debes la perpetuidad de tu fama? Vale más que te azotes por Dulcinea que no por lo que sueles azotarte de ordinario; vale más Dulcinea que no gobierno de insula alguna. Si al azotarte, si al trabajar pusieses siempre tu mira en Dulcinea, sería siempre santo tu trabajo. Cuando trabajes de
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che narra come fu conosciuto il mezzo da usare per disincantare l’ineguagliabile Dulcinea del Toboso, e che è una delle più celebri avventure di questo libro Tra le tante burle che lo storico definisce appropriate e ingegnose, benché non lo siano neanche lontanamente, va annoverata quella del modo che fu adoperato per disincantare Dulcinea, con le tremila sferzate che avrebbe dovuto darsi Sancio Su entrambe le sue natiche pesanti all’aria nude, in modo che gli dolgano e irritandolo, la vita gli amareggino.
E le sferzate se le doveva dare volontariamente, poiché a nulla sarebbero valse quelle che di prepotenza voleva appioppargli Don Chisciotte. Sancio si rifiutò di darsele; ma gli altri insistettero minacciandolo di privarlo del governo dell’isola se non si fosse bacchettato per bene, sicché infine, vinto dalla cupidigia e dai ragionamenti, promise di farlo. E «Don Chisciotte si attaccò al collo di Sancio, dandogli mille baci sulla fronte e sulle guance», ricompensa più che adeguata alla sua definitiva rassegnazione. E perché non dovresti frustarti per amore di Dulcinea, amico Sancio, se è proprio a lei che devi la perpetuità della tua fama? È meglio che ti frusti per Dulcinea piuttosto che per le cose per le quali suoli frustarti di frequente; vale più Dulcinea del governo di una qualsiasi isola. Se quando ti frusti, quando
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zapatero pon tu hito en hacerlo mejor que ningún otro y aspira a la gloria de que tus parroquiaños no padezcan callos en los pies. Hay una forma la más elevada de trabajo, cual es la de convertirlo en oración, y aserrar madera, colocar mampuesto, coser zapatos, cortar calzones y componer relojes a la mayor honra de Dios, pero hay otra forma, por menos encumbrada más humana y más conseguidera, y es hacerlo por Dulcinea, por la Gloria. ¡Cuántos pobres Sanchos que se desesperan y reniegan bajo el yugo del trabajo se sentirian alijerados de él y henchidos de alegria en su labor si al trabajar, es decir, al azotarse, pusieran su mira en desencantar a Dulcinea, en cobrar nombre y fama con su trabajo! Esfuérzate, Sancho, por ser en tu pueblo el primero de tu oficio, y toda la pesadumbre y graveza de tu trabajo se disipará ante tan hondo propósito. El pundonor dignifica al artesano. Cuenta el Génesis, no que Dios condenara al hombre al trabajo, pues dice que le puso en el paraíso para que lo cuidara y trabajase (II, 15), sino que le condenó, luego de haber Adán pecado, a la penosidad del trabajo, a que le fuese este penoso y molesto, a que con dolor comiera de la tierra, que no le produciria sino espinas y cardos; a comer su pan amasado con sudor (III, 17-19). Y el amor a la gloria, el ansia de desencantar a Dulcinea, conviene en rosas los cardos y en suaves pétalos las pinchosas espinas. Y ¿cómo quieres, Sancho, que fuese a vivir Adán en el paraíso sin trabajar? ¿Qué paraíso podía ser ese en que no se trabaja? No, no puede haber verdadero paraíso alguno sin algún trabajo en él. Ya sé que hay Sanchos que cantan esta copla:
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lavori, volgessi sempre lo sguardo a Dulcinea, il tuo lavoro sarebbe sempre santo. Se fai il ciabattino, metti tutto l’impegno nel farlo meglio di chiunque altro, e aspira alla gloria di vedere i tuoi clienti che non patiscano per i calli ai piedi. Esiste una forma più elevata di lavoro, cioè quella di tradurlo in preghiera, e segar legna, cementare pietre, cucire scarpe, tagliare calzoni o riparare orologi per la maggiore gloria di Dio; ma esiste anche un’altra forma, più umana e più facilmente raggiungibile appunto perché è meno eccelsa; ed è fare tutto ciò per Dulcinea, per la Gloria. Quanti poveri Sanci che si disperano e bestemmiano sotto il giogo del lavoro, lo sentirebbero più lieve e affronterebbero con gioia i loro compiti, se nel lavorare, che è quanto dire nel frustarsi, avessero per fine quello di disincantare Dulcinea, di conseguire gloria e fama con la propria opera! Sforzati, Sancio, pensando che sei il primo a farlo tra tutto il tuo popolo, e tutto il paese e tutta la fatica e pesantezza del tuo lavoro si attenuerà di fronte alle sublimità dell’intento. La dignità nobilita l’artefice. Narra la Genesi, non già che Dio condannerà l’uomo al lavoro, giacché prima aveva detto che lo aveva posto nel paradiso affinché ne avesse cura e lo coltivasse (II, 15); lo condannò, invece, dopo che Adamo ebbe peccato, alla fatica del lavoro, facendo sì che esso fosse faticoso e molesto, che si nutrisse con dolore dei frutti della terra, che la terra non gli fornisse cibo spontaneamente, ma spine e cardi; lo condannò a mangiare il proprio pane impastato col sudore della fronte (III, 17-19). Ma l’amore per la gloria, l’anelito a disincantare Dulcinea, convertono in rose i cardi e in soavi petali le spine pungenti. E come vuoi tu, Sancio, che Adamo potesse vivere nel paradiso terrestre senza lavorare? Che paradiso poteva essere un luogo dove non si lavorava? No, non può esserci alcun vero paradiso senza che vi sia il lavoro. So fin troppo bene che esistono Sanci che cantano una famosa strofa:
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Cada vez que considero que me tengo de morir tiendo la capa en el sueldo y no me harto de dormir.
Ya sé que hay Sanchos que se representan la gloria eterna como un eterno nada hacer, como un campo celeste en que, tendidos a la bartola, se está viendo lucir el sol increado, pero para ellos la suprema recompensa debe ser la nada, el sueño inacabable sin ensueños ni despertar. Nacieron cansados y con la pesadumbre de los trabajos y penas de sus abuelos y tatarabuelos a cuestas; ¡descansen sobre sus nietos y tataranietos, durmiendo en las honduras de estos! Y esperen así que Dios los despierte al trabajo divino. Ten por seguro, Sancho, que si al fin y a la postre se nos da, como te tienen prometido, una visión beatífica de Dios, esa vision habrá de ser un trabajo, una continua y nunca acabadera conquista de la Verdad Suprema e Infinita, un hundirse y chapuzarse cada vez más en los abismos sin fondo de la Vida Eterna. Unos irán en ese glorioso hundimiento más de prisa que otros y ganando más hondura y más gozos que ellos, pero todos irán hundiéndose sin fin ni acabamiento. Si todos vamos al infinito, si todos vamos «infinitándonos», nuestra diferencia estribará en marchar unos más de prisa y otros más despacio, en creer estos en mayor medida que aquellos, pero todos avanzando y creciendo siempre y acercándonos todos al término inasequible, al que ninguno ha de llegar jamás. Y es el consuelo y la dicha de cada uno el saber que llegará alguna vez adonde llegó otro cualquiera, y ninguno a parada de última queda. Y es mejor no llegar a ella, a quietud, pues si el que ve a Dios, según las Escrituras, se muere, el que alcanza por entero la Verdad Suprema queda absorbido en ella y deja de ser.
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Ogni volta che m’afferra l’idea che devo morire stendo il mantello per terra e non faccio che dormire.
So benissimo che esistono dei Sanci che immaginano l’eterno gloria come un eterno far nulla, come una celeste distesa di campi dove, stesi a pancia all’aria, si sta a guardare risplendere il sole increato; ma per costoro la suprema ricompensa dev’essere il nulla, l’interminabile sonno che non ha né sogni né risveglio. Sono nati già stanchi e col peso dei travagli e delle pene dei loro antenati e bisavoli; riposino dunque sui propri nipoti e pronipoti, dormendo nella profondità della coscienza di questi! E attendano così che Dio li ridesti al lavoro divino. Sii certo, Sancio, che se alla fine ci sarà concesso secondo quello che ci promisero, una visione beatifica di Dio, questa visione dovrà essere un lavoro, una continua e mai compiuta conquista della Verità Suprema e Infinita, una sempre rinnovata e più profonda immersione negli abissi senza fondo della Vita Eterna. In questa gloriosa immersione ci sarà chi procederà più in fretta degli altri, conquistando gioia e raggiungendo profondità maggiori; ma tutti, comunque, andranno sprofondandosi in quell’abisso senza fondo e senza fine. Se tutti tendiamo all’infinito, se tutti aspiriamo ad «essere infiniti», la differenza tra gli uni e gli altri consisterà esclusivamente nel fatto che alcuni procederanno più in fretta e altri meno, nel fatto che alcuni cresceranno in misura maggiore degli altri; ma tutti cresceranno sempre più e si avvicineranno all’irraggiungibile termine, al quale nessuno potrà arrivare mai. E la consolazione e la felicità di ciascuno consistono nel sapere che un giorno arriverà là dove altri sono giunti e che nessuno si arresterà al termine ultimo. D’altra parte, è meglio non giungervi, per il nostro bene, giacché, se colui che vede Dio, stando alla Sacre Scritture, muore, colui che raggiunge interamente la Verità Suprema, resta assorbito in essa e cessa di esistere.
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Trabajo, Señor, da a Sancho, y daños a todos los pobres mortales trabajo siempre; procúranos azotes, y que siempre nos cueste esfuerzo conquistarte y que jamás descanse en Ti nuestro espíritu, no sea que nos anegues y derritas en Tu Seno. Danos Tu paraíso, Señor, pero para que lo guardemos y trabajemos, no para dormir en él; dánoslo para que empleemos la eternidad en conquistar palmo a palmo y eternamente los insondables abismos de Tu infinito seno.
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Signore, dà lavoro a Sancio e dà sempre lavoro a tutti noi poveri mortali; procuraci sferzate e fa che ci costi sempre uno sforzo conquistarti e che giammai il nostro spirito trovi riposo in Te, affinché Tu non ci annulli e dissolvi nel Tuo seno. Dacci il Tuo paradiso, O Signore, ma affinché lo custodiamo e coltiviamo, non già per dormirvi; daccelo affinché impieghiamo l’eternità nel conquistare palmo a palmo ed eternamente gli insondabili abissi del Tuo seno infinito.
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capítulos xl, xli, xlii y xliii
de la venida de Clavileño y de otras cosas Viene luego en nuestra historia el relato de la Dueña Dolorida, que al historiador le parece de perlas, según lo declara al principio del capítulo XL, y a mí me parece de lo más burdo y más torpemente tramado que puede darse. Todo el valor de esta grosera burla consiste en preparar la del caballo Clavileño, en el cual habrían de ir Don Quijote y su escudero por los aires al reino de Gandaya, vendados los ojos antes ambos. Resistiose Sancho a subirse en Clavileño, pues no era brujo «para gustar de andar por los aires», ni era cosa que sus insulanos dijeran que su gobernador se andaba «paseando por los vientos», mas el Duque le dijo: «Sancho amigo, la ínsula que yo os he prometido no es movible ni fugitiva… y pues vos sabéis que sé yo que no hay ningún género de oficios destos de mayor cuantía que no se granjee con alguna suerte de cohecho, cuál más, cuál menos, el que yo quiero llevar por este gobierno es que vais con vuestro señor Don Quijote a dar cima y cabo a esta memorable aventura», con otras razones que añadió. A lo cual «no más señor – dijo Sancho –, yo soy un pobre escudero y no puedo llevar a cuestas tantas cortesias; suba mi amo, tápenme los ojos y encomiéndenme a Dios, y avísenme si cuando vamos por esas alturas podré encomendarme a Nuestro Señor o invocar los ángeles que me favorezcan». Entonces declaró Don Quijote que desde la memorable aventura de los batanes nunca
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dell’arrivo di Clavilegno e di altre cose Prosegue poi la nostra storia con l’avventura della Matrona Desolata, che allo storico sembra stupenda secondo quanto dichiara all’inizio del capitolo XL, ma che a me sembra una delle cose più volgari e peggio ideate che si possono trovare. Tutto il valore di questa burla grossolana consiste nel preparare quella del cavallo di Clavilegno sul quale Don Chisciotte e il suo scudiero avrebbero dovuto andare per aria fino al regno di Gandaya con gli occhi preventivamente bendati. Sancio si rifiutò di montare in groppa a Clavilegno sostenendo di non essere uno stregone da «piacergli di cavalcare per l’aria» né gli parve conveniente che i suoi isolani potessero dire che il loro governatore se ne andava «girovagando per le vie dei venti»; ma il Duca gli disse: «Amico Sancio, l’isola che ti ho promesso non si muove, né scappa… e voi inoltre sapete che non c’è nessuna specie di cariche fra quelle di maggiore importanza che non bisogna guadagnarsela con qualche tipo di contropartita, grande o piccolo; orbene, quello che esigo in compenso di questo governatorato è che andiate col vostro signor Don Chisciotte a intraprendere questa memorabile avventura», con tutto quel che segue. Al che Sancio disse: «Basta, signore; sono un povero scudiero e cedo al peso di tante cortesie. Salga il mio padrone, mi si tappino gli occhi, mi si raccomandi a Dio e mi si dica se quando ci troveremo a volare a così grandi altezze potrò raccomandarmi io stesso a nostro Signore o invocare gli angeli affinché mi assistano». Allora Don Chisciotte dichiarò che dalla memorabile avventura delle gualchiere in poi, non
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habia visto a Sancho con tanto temor. A pesar de lo cual montó el escudero en Clavileño, detrás de su amo, y pidió, con lágrimas en los ojos, que rezasen por él. Y luego, cuando iban por los aires imaginarios, se ceñia y apretaba a su amo, lleno de miedo cerval. El resto de la aventura es cosa tristísima si la hemos de juzgar a lo mundano, pero ¡cuántos se remontan en Clavileño sin moverse del lugar en que montaron y atraviesan asi la región del aire y la del fuego! Es tan triste la aventura que quiero llegar a cuando al acabarla, y después de haberse visto Don Quijote y Sancho sin más daño que un revolcón y chamuscamiento, libre ya el escudero de su miedo dio en inventar mentiras, y al oírlas Don Quijote se acercó a Sancho y le dijo estas preñadas palabras: «Sancho, pues vos queréis que se os crea lo que habéis visto en el cielo, yo quiero que me creáis a mí lo que vi en la cueva de Montesinos, y no digo más». Vele aquí la fórmula más comprensiva y a la vez más vasta de la tolerancia: si quieres que te crea, créeme tu. Sobre el crédito mutuo se cimenta la sociedad de los hombres. La visión del prójimo es para él tan verdadera como para ti lo es tu propia visión. Siempre, sin embargo, que sea verdadera visión y no embuste y patraña. Y en esto estriba la diferencia entre Don Quijote y Sancho, y es que Don Quijote vio de veras lo que dijo había visto en la cueva de Montesinos – a pesar de las maliciosas insinuaciones de Cervantes en contrario – y Sancho no vio lo que dijo haber visto en las esferas celestes yendo en lomos de Clavileño, sino que lo inventó minuendo, por imitar a su amo o desahogar su miedo. No nos es dado a todos gozar de visiones, y menos aun el creer en ellas y creyéndolas hacerlas verdaderas. Poneos en guardia contra los Sanchos que, apareciendo defensores y sustentadores de la ilusión y de las visiones, en realidad no defienden sino la mentira y la farándula. Cuando os
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aveva più visto Sancio con tanta paura in corpo. Malgrado ciò, lo scudiero montò su Clavilegno, dietro al suo padrone e chiese con le lacrime agli occhi che pregassero per lui. E poi, mentre volavano per l’immaginarie terre, s’aggrappava e si stringeva al padrone, pieno di una paura animalesca. Il resto dell’avventura, a volerla giudicare con occhi mondani, è una tristissima cosa; ma quanta gente c’è che monta in groppa a Clavilegno senza muoversi dal punto dove è montata, e attraversa così la regione dell’aria e quella del fuoco! È talmente rattristante tutta l’avventura, che voglio arrivare senz’altro al punto in cui, alla fine, dopo che Don Chisciotte e Sancio si ritrovarono senz’altro danno che un ruzzolone e qualche striatura, e lo scudiero fu finalmente liberato da ogni timore, quest’ultimo si mise a snocciolare fandonie e Don Chisciotte, udendolo, gli si avvicinò e gli disse queste significative parole: «Sancio, poiché non volete che si creda a ciò che dite di aver visto in cielo, voglio che mi crediate su quello che dissi di aver visto nella grotta di Montesinos. E non vi dico altro». Vedete qui la formula più comprensiva e al tempo stesso più ampia della tolleranza: se vuoi che ti creda, credimi! La società degli uomini si fonda sul mutuo credito. La visione del tuo prossimo per lui è altrettanto vera della tua stessa visione per te. Sempre, ovviamente, che si tratti di visione autentica e non di una frottola o di una menzogna. E proprio in questo consiste la differenza tra Don Chisciotte e Sancio; ed è che Don Chisciotte vide davvero quello che disse di aver visto nella grotta di Montesinos – nonostante tutte le maligne insinuazioni di Cervantes per sostenere l’opinione contraria –, mentre Sancio non vide quello che disse di aver visto nelle sfere celesti mentre stava in groppa a Clavilegno, ma lo inventò mentendo, sia per imitare il suo padrone sia per dar sfogo alla paura provata. Non a tutti noi è concesso di vedere delle visioni, e tanto meno di credervi e di renderle veridiche credendovi. State in guardia contro i Sanci che, facendosi passare per sostenitori e difensori delle illusioni e delle visioni, in realtà difendono solo la menzogna e la farsa. Quando di un bugiardo vi
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digan de un embustero que acaba por creer los embustes que urde, contestad redondamente que no. El arte no puede ni debe ser alcahuete de la mentira; el arte es la suprema verdad, la que se crea en fuerza de fe. Ningún embustero puede ser poeta. La poesía es eterna y fecunda, como la visión; la mentira es estéril como una mula y dura menos que la nieve marcera. Y admiremos la suprema generosidad de Don Quijote, que estando seguro de que él vio lo que dijo haber visto en la cueva de Montesinos, y más seguro aun, si cabe, de que Sancho no vio lo que decía haber visto en las celestes esferas, se limitó a decirle: «si vos queréis que os crea… yo quiero que vos me creáis». ¡Cristianísima manera de salir del paso y cerrárselo a los embusteros que, juzgando a los demás por sus propias mañas, toman por embustes las visiones quijotescas! Y hay, no obstante, una vara infalible para deslindar de la mentira la visión. Don Quijote se hundió y empozó en la cueva de Montesinos lleno de coraje y denuedo, sin hacer caso de Sancho, que quería disuadirle de ello, a cuyas amonestaciones contestó lo de «ata y calla!», y haciendo oídos sordos al gufa, bajó lleno de valor, y Sancho montó en Clavileño aterido de miedo y con lágrimas en los ojos y no muy de su voluntad. Y así como el valor es el padre de las visiones, así la cobardía es la madre de los embustes. El que acomete una empresa henchido de bravura y fiado en el triunfo o sin importársele de la derrata, llega a ver visiones, pero no trama mentiras, y el que teme un desenlace adverso, el que no sabe afrontar serenamente el fracaso, el que empeña en su intento esa mezquina pasión del amor propio, que se arredra ante el no salirse con la suya, este trama mentiras para precaverse de la derrata y no sabe ver visiones. Así en nuestra patria y patria de Don Quijote y Sancho, como es la cobardía moral lo que tiene presas a las almas, y los hombres reculan ante un probable fracaso y tiemblan de haber de caer en ridículo, verbenean que es una lástima las mentiras y
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dicono che finisce per credere egli stesso alle frottole che imbastisce, rispondete seccamente che non è vero. L’arte non può e non dev’essere menzogna della menzogna; l’arte è la verità suprema, e si crea in forza della fede. Nessun bugiardo può essere poeta. La poesia è eterna e feconda, come la visione; la menzogna è invece sterile come una mula e dura meno della neve di marzo. E ammiriamo la somma generosità di Don Chisciotte che, pur essendo sicuro di aver visto quello che aveva detto di aver visto nella grotta di Montesinos, e ancor più certo, se possibile, che Sancio non aveva visto quello che diceva di aver visto nelle sfere celesti, tuttavia si limitò a dirgli: «Se volete che vi si creda… voglio che mi crediate». Cristianissima maniera di cavarsela, sbarrando in pari tempo il passo ai bugiardi che, giudicando tutti gli altri col loro metro, considerano menzogne le visioni chisciottesche! Eppure esiste un metro infallibile per separare nettamente la visione dalla menzogna. Don Chisciotte si era calato e immerso nella grotta di Montesinos pieno di coraggio e di valore, senza far caso a Sancio che tentava di dissuaderlo da quell’impresa, e ai suoi avvertimenti non aveva risposto altro che: «Lega e taci!» e, facendo orecchie da mercante alle parole della guida, era sceso impavidamente. Sancio invece era montato in groppa a Clavilegno paralizzato dallo spavento, con le lacrime agli occhi e tutt’altro di propria volontà. E così come il valore è padre delle visioni, la codardia è madre delle menzogne. Chi affronta un’impresa pieno di bravura e di fiducia nel trionfo senza dar peso ad un’eventuale sconfitta, arriva a vedere visioni, ma non imbastisce menzogne; ma chi trema per timore di una cattiva riuscita, chi non sa affrontare con serenità l’eventuale fallimento, chi mette nei propri intenti la meschina passione dell’amor proprio, chi indietreggia di fronte alla possibilità di non trionfare, costui imbastisce menzogne per prevenire la sconfitta e non sa vedere le visioni. Così nella nostra patria, patria di Don Chisciotte e di Sancio, siccome è la codardia morale a tenere prigioniere le anime, e gli uomini rinunciano, messi di fronte ad un eventuale fallimento e tremano per il timore di cadere nel ridicolo, fioriscono in modo così rigoglioso da far pena le menzogne e scarseggiano
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escasean que da pena las visiones. Los embusteros ahogan a los visionarios. Y no sabremos ver visiones reconfortantes y encorazonadoras y gozar de ellas mientras no aprendamos a affontar el ridículo y a arrostrar el que los tontos y los menguados de corazón nos tomen por locos o caprichudos o soberbios, y a saber que el quedarse solo no es quedar derrotado, como dicen los mentecatos, y a no andarnos siempre calculando de antemano el llamado triunfo. Don Quijote no pensó, al meterse en la cueva, en cómo saldría de ella ni en si saldría siquiera, y por eso vio allí dentro visiones. Y Sancho, como mientras iba, a su pesar y con los ojos vendados, sobre Clavileño, no pensaba sino en cómo habría de salir de aquella aventura en que por quiebras de su ofício escuderil se veía metido, así que se vio sano y libre rompió a ensartar embustes. Y esta otra diferencia hay al respecto entre Don Quijote y Sancho, y es que Don Quijote se metió en la cueva por sí y ante sí, sin que nadie le forzase a ello ni le mandase hacerlo, pudiendo muy bien haberse ahorrado tal proeza, para cuyo cumplimiento hubo de desviarse de su camino, y Sancho montó en Clavileño porque el Duque se lo impuso como condición para darle el gobierno de la ínsula. Don Quijote se despenó, empozó y hundió en la cueva solo porque conociera el mundo que si su Dulcinea le favorecía no habría imposible que él no acometiera y acabase, y Sancho montó en Clavileño por amor al gobierno de la ínsula. Y de lo encumbrado y desinteresado del propósito del Caballero nació su valor, y de su valor las visiones de que gozó, y de lo interesado y pobre del propósito del escudero nació su miedo, y de su miedo los embustes que urdió. Ni Don Quijote buscaba gobierno alguno, sino solo mostrar la fortaleza
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tanto da far pena le visioni. I bugiardi soffocano i visionari. E non sapremo vedere visioni confortanti e rincuoranti e, quel che più importa, goderne, finché non apprenderemo ad affrontare il ridicolo e ad infischiarci che gli sciocchi e gli incapaci ci considerino matti, lunatici o superbi, e a sapere che restar solo non significa essere sconfitto, come dicono i mentecatti, e a non fare continuamente i conti preventivamente sul così detto trionfo. Don Chisciotte non aveva pensato, entrando nella grotta, a come ne sarebbe venuto fuori e nemmeno se ne sarebbe uscito; e proprio per questo là vide delle visioni. Ma Sancio, mentre si trovava ad occhi bendati e controvoglia in groppa a Clavilegno, poiché pensava soltanto al come sarebbe uscito da quell’avventura in cui si era visto irretito a forza a causa del debito della sua professione di scudiero, non appena si trovò sano e libero, si scatenò infilando una bugia dietro l’altra. E c’è ancora un’altra differenza, sempre a questo riguardo, tra Don Chisciotte e Sancio, ed è che Don Chisciotte si introdusse nella grotta di sua volontà e a ragion veduta, senza che nessuno ve lo costringesse né gli ordinasse di farlo, mentre avrebbe potuto benissimo risparmiarsi una simile prodezza per compiere la quale, oltretutto, dovette fare una inutile deviazione del suo cammino; Sancio invece montò in groppa a Clavilegno solo perché il Duca glielo impose come condizione per concedergli il governo dell’isola. Don Chisciotte si inabissò, si immerse e si calò nella grotta soltanto perché il mondo sapesse che con la protezione della sua Dulcinea non esisteva impresa impossibile che egli non affrontasse e compisse; mentre Sancio montò in groppa a Clavilegno per amore del governo dell’isola. E dalla sublimità e dal disinteresse che caratterizzavano il proposito del Cavaliere nacque il suo valore, e dal suo valore derivarono le visioni di cui godette, mentre dall’avidità e dalla meschinità che spronavano lo scudiero nacque la sua paura, e dalla paura scaturirono le menzogne che ordì. Né Don Chisciotte andava in cerca di un qualche governo, perché intendeva unicamente mostrare la fortezza che Dulcinea gli poneva
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con que le animaba Dulcinea y hacer que los hombres declararan así la grandeza de esta, ni Sancho buscaba gloria alguna, sino solo el gobierno de la ínsula. Y por esto Don Quijote vio visiones valerosamente, y Sancho fraguó embustes cobardemente. El interés, sea del género que fuese y aunque se disfrace de amor a la gloria, la rebusca de fortuna, de posición, de honores, de distinciones mundanas, de aplausos del momento, de cargos o preeminencias de aparato, de lo que nos dan los otros a cambio de servicios reales o ilusorios o a trueque de promesas y halagos, todo esto engendra cobardía moral, y la cobardía moral pare mentiras conejilmente, y el desinterés de no buscar sino a Dulcinea y saber esperar a que los hombres nos reconocerán al cabo fieles servidores y favoritos de ella, infunde valor y el valor nos regala visiones. Armémonos, pues, de visiones quijotescas y desbaratemos con ellas los embustes sanchopancescos.
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nell’animo e far sì che gli uomini ne confessassero la grandezza; invece Sancio non andava alla ricerca di una gloria qualsiasi, ma aspirava unicamente al governo dell’isola. Perciò Don Chisciotte vide valorosamente delle visioni, mentre Sancio confezionò codardamente delle menzogne. L’interesse, qualunque esso sia e quand’anche si travesta di amore per la gloria; la ricerca della fortuna, della posizione sociale, degli onori, delle distinzioni mondane, degli applausi immediati, delle cariche o privilegi vistosi, di quello, insomma, che gli altri ci danno in cambio di servizi reali o illusori, o contro promesse e lusinghe, tutto ciò genera codardia morale, e la codardia morale genera menzogne con la prolificità di una coniglia, mentre il disinteresse di non cercar altro che Dulcinea e di sapere attendere che gli uomini ci riconoscano infine come fedeli servitori e prediletti da lei, infonde valore, e il valore ci dona visioni. Armiamoci dunque di visioni chisciottesche e, servendoci di esse, sbarazziamoci delle frottole sanciopanzesche.
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cómo Sancho Panza fue llevado al gobierno y de la soledad y pobreza de Don Quijote Partiose luego de esto Sancho para el gobierno de su ínsula, después de recibidos los consejos de su amo, «y apenas se hubo partido Sancho cuando Don Quijote sintió su soledad»; tristísimo rasgo que nos ha conservado la historia. Y cómo no había de sentir su soledad, si Sancho era el linaje humano para él y en cabeza de Sancho amaba a los hombres todos? ¿Cómo no, si había Sancho sido su confidente y el único que le oyó aquello de los doce años en que había querido en silencio a Aldonza Lorenzo más que a la lumbre de sus ojos, que la tierra comería un día? ¿No estaba entre ellos dos solos el secreto misterioso de su vida? Sin Sancho Don Quijote no es Don Quijote, y necesita el amo más del escudero que el escudero del amo. ¡Cosa triste la soledad del héroe! Porque los vulgares, los rutineros, los Sanchos, pueden vivir sin caballeros andantes, pero el caballero andante, ¿cómo vivirá sin pueblo? Y es lo triste que necesita de él, y ha de vivir, sin embargo, solo. ¡Oh soledad, oh triste soledad! Encerrose Don Quijote a solas, sin consentir le sirvieran doncellas, y «a la luz de dos velas de cera se desnudó, y al descalzarse, ¡oh desgracia indigna de tal persona!, se le soltaron, no suspiros ni otra cosa que desacreditase la limpieza de su poli-
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Come Sancio Panza fu insediato al governo e della solitudine e povertà di Don Chisciotte Subito dopo questi avvenimenti, Sancio ripartì per andare a governare la sua isola dopo aver ricevuto i consigli del suo padrone, e «appena Sancio fu partito, Don Chsciotte si sentì solo»: è un malinconico particolare che la storia ci ha tramandato. Come avrebbe potuto non sentire la sua solitudine se Sancio era per lui il genere umano e se nella persona di Sancio amava tutti gli uomini? Come avrebbe potuto essere diversamente se Sancio era stato il suo confidente, l’unico ad aver appreso dalle sue labbra la storia dei dodici anni durante i quali aveva amato in silenzio Aldonza Lorenzo più della luce dei suoi stessi occhi che la terra avrebbe divorato un giorno? Non era rimasto tra loro due il misterioso segreto della sua vita? Senza Sancio, Don Chisciotte non è Don Chisciotte, perché ha più bisogno il padrone dello scudiero che lo scudiero del padrone. Che triste cosa, la solitudine dell’eroe! Perché la gente volgare, la gente votata alle consuetudini, i Sanci, insomma, possono vivere senza cavalieri erranti; ma il cavaliere errante come potrà vivere senza un popolo? E la cosa triste è che ne ha bisogno, e tuttavia è costretto a vivere da solo! Oh, solitudine! Oh, triste solitudine! Don Chisciotte si ritirò e si rinchiuse nella sua stanza senza permettere che le donzelle venissero a servirlo, e «alla luce di due candele di cera si svestì, quand’ecco che nel togliersi le calze – oh, indegna disgrazia di una persona! – gli scapparono non già dei… sospiri o qualcos’altro da screditare la sua squisita
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cía, sino hasta dos docenas de puntos de una media, que quedó hecha celosía. Afligiose en extremo el buen señor – añade la historia –, y diera él por tener allí un adarme de seda verde una onza de piata». Y a seguida diserta el historiador sobre la pobreza, y entre otras cosas dice: «¿por qué quieres estrellarte con los hidalgos y bien nacidos más que con la otra gente?». Agradezcamos al puntualísimo historiador de Don Quijote el que nos haya conservado este suceso íntimo del habérsele suelto al Caballero las dos docenas de puntos de la media y de su aflicción por ello. Es algo de una profundísima melancolía. Quédase el héroe a solas y encerrado en su aposento, lejos de los hombres, y cuando estos le creen acaso con la mente ocupada en sus futuras empresas o encendiéndose en nuevos anhelos de perdurable gloria, está el «buen señor» – ¡y qué bien cae lo de llamarle «buen señor» en este caso! – afligido por el soltamiento de los puntos de la media. ¡Oh pobreza, pobreza! – digo yo también –, y ¡cómo ocupas las soledades de los caballeros andantes y de los hombres todos! Por no confesarse pobre se deslustra el héroe, y sus desmayos y aflicciones y tristezas es porque se le deshicieron las medias y no tiene con qué sustituirlas. Le veis triste, le veis abatido, juzgáis que el desaliento le gana o que el caballeresco ánimo se le amengua, y no es sino que piensa en lo mucho que rompen botas sus hijitos.¡Oh pobreza, pobreza, y cuándo te llevaremos de bracete con la vista alta y el corazón sereno! El más terrible enemigo del heroísmo es la vergüenza de aparecer pobre. Pobre era Don Quijote, y al verse con las medias sueltas de puntos se afligía. Arremetió a molinos, embistió a yangüeses, venció al vizcaíno y a Carrasco, esperó a pie firme y sin temblar al león, para venir a afligirse luego de tener que presentarse ante los Duques con la media deshecha, mostrando su pobreza. ¡Tener que hacer un papel en el mundo siendo pobre!
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buona educazione, ma un paio di dozzine di smagliature in una calza per cui rimase con dei buchi. Il buon cavaliere se ne afflisse tanto – aggiunge la storia – che, pur di avere una po’ di seta verde, avrebbe dato un’oncia d’argento» E subito dopo lo storico disserta intorno alla povertà e dice tra l’altro: «Perché vuoi prendertela con gli hidalgo e con le persone di buona famiglia piuttosto che con gli altri?». Dobbiamo essere grati al diligentissimo storico per averci tramandato questo particolare intimo delle due dozzine di smagliature della calza del Cavaliere e del dolore che ne provò. È un fatto che ci infonde una profondissima malinconia. L’eroe è rimasto solo e si è rinchiuso nella sua stanza, lontano dagli occhi degli uomini e, mentre essi lo credono forse con la mente occupata nelle sue future imprese o infiammato da nuovi aneliti di gloria eterna, «il buon signore!» – viene a proposito quest’appellativo di «buon signore!» in questo caso – è tanto afflitto per la smagliatura della calza! Oh, povertà, povertà!, – dico anch’io – come approfitti della solitudine dei cavalieri erranti e di tutti gli uomini in genere! Per non confessare di essere povero, l’eroe si offusca, e le sue demoralizzazioni, afflizioni e tristezze sono causate dalla smagliatura delle calze che non sa come sostituire. Lo vedete triste, abbattuto, sospettate che lo abbia preso lo scoraggiamento o che il suo amino cavalleresco stia cedendo, e invece pensa solo alla quantità di scarpe che rompono i suoi figli. Oh, povertà, povertà! Quando diventeremo tanto forti da portarti a spasso sottobraccio, a testa alta e col cuore sereno? Il nemico più terribile è la vergogna di sembrare poveri. Don Chisciotte era povero e si affliggeva tanto al pensiero delle smagliature delle calze. Aveva assalito mulini a vento, aveva investito gli janguesi, aveva sconfitto il biscaglino e Sansone Carrasco, aveva atteso con piede sicuro e senza tremare perfino il leone per giungere poi a rattristarsi di doversi presentare dinanzi ai Duchi con la smagliatura delle calze mostrando così tutta la sua povertà. Dover svolgere un compito nel mondo essendo povero!
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¿Y si los pobres mundanos supiéramos el descanso que da el hacer voto de pobreza y no avergonzarse de ella? Íñigo de Loyola, a imitación de otros fundadores, instituyó voto de pobreza en la Compañía por él fundada, y de cuán bien les va a sus hijos con ella nos certifica el P. Alonso Rodríguez en el capítulo III del Tratado III de la tercera parte de su Ejercicio de perfección. En que nos dice que si deja uno criados en el mundo, halla en la Compañía muchos que le sirvan, y que «si vais a Castilla, a Portugal, a Francia, a Italia, a Alemania, a las Indias y a cualquier parte del mundo, hallaréis que nos tienen ya puesta allá casa con otros tantos oficiales de asiento», por manera que, dejando las riquezas del mundo «más señor sois vos de las cosas y riquezas del mundo que los mismos ricos; que no son ellos los señores de sus haciendas y riquezas, sino vos», y así, en efecto, entienden muchos de los jesuitas. Y agrega con mucho tino el buen padre que mientras el rico está dando vuelcos de noche porque su hacienda y riquezas le quitan el sueño, el religioso «¡cuán sin cuidado y sin tener cuenta si vale caro o barato, o si es buen año o malo, lo tiene todo!». También el pobre Don Quijote hizo algo así como voto de pobreza al principio de su carrera y salió de su casa sin blanca y se negaba a pagar, creyéndose libre de ello por fuero de caballaría, mas el ventero que le armó caballero le persuadió a que Ilevara dineros y camisas limpias, y le obedeció, «vendiendo una cosa y empeñando otra y malbaratándolas todas». Y por haber así quebrantado su voto de pobreza, la pobreza le persigue y le acuita, y se acongoja al soltarsele los puntos de las medias. ¡Oh pobreza, pobreza!, antes que confesarte preferimos pasar por bellacos, por duros de corazón, por falsos, por malos amigos y hasta por viles. Inventamos miserables embustes para rehusar lo que no podemos dar por carecer nosotros de ello. La
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E se tutti noi poveri di questo mondo ci rendessimo conto della pace che infonde il voto di povertà e cessassimo di vergognarci? Ignazio di Loyola, imitando altri fondatori di ordini, istituì il voto di povertà nella Compagnia che aveva fondato; e quanto tale voto si addica ai suoi figli spirituali, ce lo dice il Padre Alonso Rodríguez nel capitolo III del Trattato III della terza parte del suo Esercizio di perfezione. Ci dice, infatti, che, se uno lascia nel mondo qualche servitore, trova nella Compagnia molti pronti a servirlo, e che «se andate in Castiglia, in Portogallo, in Francia, in Italia, in Germania, nelle Indie o in qualsiasi parte del mondo, troverete che la Compagnia ha già preparato dovunque una casa con tutti i domestici necessari», di modo che, una volta lasciate le ricchezze del mondo, «siete più padroni delle cose e delle ricchezze del mondo che non gli stessi ricchi; poiché i padroni dei loro patrimoni e dei loro tesori siete voi, e non loro»; e così in realtà l’intendono molti gesuiti. E aggiunge poi con molta acutezza il buon Padre che mentre il ricco si rivolta continuamente nel letto la notte perché il pensiero del suo patrimonio e delle sue ricchezze gli toglie il sonno, come se la dorme il religioso «senza alcuna preoccupazione e senza star lì a cavillare se una cosa costa cara o è a buon mercato, o se l’annata è buona o cattiva, ed è padrone di tutto!». Anche il povero Don Chisciotte aveva fatto una specie di voto di povertà, all’inizio della sua carriera; infatti se ne era uscito di casa senza quattrini e non voleva saperne di pagare ritenendosi dispensato da ciò per diritto di cavalleria; ma poi l’oste che lo armò cavaliere lo persuase a portarsi con sé denari e camicie pulite, ed egli obbedì «vendendo una casa e impegnandone un’altra e dissipandole tutte». E per aver rotto il voto di povertà che aveva fatto, la povertà lo perseguita, lo preoccupa e lo affligge perché gli sono caduti i punti del calzone. Oh, povertà, povertà! Piuttosto che confessarti, preferiamo passare per birbanti, per duri di cuore, per falsi, per cattivi amici e perfino per vili. Escogitiamo miseri imbrogli per rifiutare ciò che non possiamo dare perché noi stessi ne siamo privi. La
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pobreza no es la escasez de recursos pecuniarios para la vida, sino el estado de ánimo que tal escasez engendra; la pobreza es algo íntimo, y de aquí su fuerza. ¡Oh necesidad infame, a cuántos honrados fuerzas a que por salir de ti, hagan mil cosas mal hechas!
Como dice el tan sabido romance refiriéndose al engaño con que el Cid sacó dinero a los judios, dándoles un arca llena de arena. Mira a ese; no sale de casa sino a favor de las espesas sombras de la noche, porque entonces no se ve cómo su traje reiumbra de puro roce; tiene verguenza de aparecer pobre, más aún que de serlo. Mira ese otro; es un Catón, un hombre rígido e incorruptible; repite cada día que hay que predicar con el ejemplo y la pureza de la vida, mas en cuanto se mete a murmurar no inquiere sino cuanto gana este o cuanto tiene aquel y no hace sino pensar en lo cara que es la vida. ¡Oh pobreza, pobreza!, tu has hecho el hediondo orgullo de nuestra España. ¿No conocéis acaso el orgullo de la pobreza, y de la más baja y declarada, de la pobreza del mendigo? Es cosa maravillosa que sea la pobreza, lo que más nos afrenta y aflige, una de las cosas que nos dé más orgullo. Aunque no sea sino orgullo fingido y un modo de encubrir aquella; es una verguenza disfrazada de orgullo para defenderse, como el miedo a esos inofensivos animalitos que lo disfrazan de terribilidad y se ponen amedrentadores, hinchándoseles la gola cuando más muertos de miedo se sienten. Sucede con esto como con aquello de que muchos se ensoberbezcan de su humildad. Es menester que os fijéis en la gravedad y aun altanería con que pordiosean muchos pordioseros. Os contaré un caso al propósito, y es de un mendigo que acostumbraba a pedir a un señor los sábados y una vez le pidió no siendo sábado y aquel le dio una
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povertà non consiste nella scarsezza di risorse finanziarie per vivere, ma è lo stato d’animo che genera una simile scarsezza; la povertà è qualcosa di intimo e da ciò trae la sua forza. Oh, infame bisogno, quanti onesti uomini forzi ad agire male per liberarsi di te!
Come dice il notissimo poema che si riferisce all’inganno ordito dal Cid per sottrarre denaro ai due ebrei affidando loro un forziere pieno di sabbia. Guarda quel tale: non esce di casa se non quando la tenebre è fitta, poiché allora nessuno vede che il suo vestito è tanto liso da luccicare; si vergogna di sembrare povero ancora più che di esserlo. Guarda l’altro: è un Catone, un uomo rigido e incorruttibile; va ripetendo giorno per giorno che bisogna predicare con l’esempio e la purezza di vita; ma quando si mette a mormorare, gli preme soltanto di sapere quanto guadagna l’uno o quanto possiede l’altro; e pensa soltanto al costo eccessivo della vita. Oh, povertà, povertà! Sei tu che hai dato origine allo spregevole orgoglio della nostra Spagna. Non conoscete forse l’orgoglio della povertà, della più infima e dichiarata povertà, della povertà del mendicante? È una cosa stupefacente che sia proprio la povertà, il male che più ci umilia e ci affligge, una delle cose che ci ispirano maggior orgoglio. Anche se si tratta solo di finto orgoglio e di un modo come un altro di nascondere la povertà; è una vergogna travestita da orgoglio per difendersi, simile alla paura di certi animaletti inoffensivi che la travestono in modo terribile e si mostrano impauriti e gonfiano la gola quanto più si sentono morire di paura. Allo stesso modo vanno le cose con molti che si insuperbiscono della loro umiltà. Basterà che osserviate la gravità o addirittura l’alterigia con cui molti mendicanti vanno elemosinando. A tal proposito vi voglio narrare un caso: un povero aveva l’abitudine di chiedere l’elemosina a un signore tutti i sabati; ma una volta – e non era un sabato – gliela chiese lo stesso e l’altro gli diede un soldo. Ma
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perra chica, mas percatándose luego de habérsela dado en dia no sábado, le llamó al mendigo la atención sobre elio, rogándole no se saliese de la costumbre. Y al oír esto el mendigo le alargó la limosna, devolviéndosela, y le dijo: «¡Ah, ¿pero ahora salimos con esas? Tome, tome su perra chica y busque otro pobre». Que es como si dijera: ¿Conque vengo a hacerle la merced de ponerle en ocasión de que ejercite la virtud de la caridad y gane así méritos para el cielo, y me viene con condiciones y reparos? Tome, tome su limosna y busque quien le favorezca en tornarsela. Y ¡oh pobreza, la más triste y miserable de todas, la de tener que presentarse con las medias enterizas, la de tener que conservar el traje del papel que en la comedia del mundo representamos! Triste caso es el del pobre cómico que no puede mudarse de camisa y tiene que guardar y limpiar y conservar enteros los disfraces con que se gana la vida en su tablado; triste caso es no tener en las crudas noches del invierno una pobre capa con que guardarse del frío y tener que guardar el vistoso manto con que se hace el papel de rey en la comedia. Y más triste aún que no pueda uno en esas noches abrigarse con el manto teatral. Don Quijote se afligía y avergonzaba de tener que aparecer pobre. Era, al fin, hijo de Adán. Y Adán mismo, nos cuenta el Génesis (cap. III, versículos 7 a 10), que después que hubo pecado conoció estar desnudo, es decir, que era pobre, y al llamarle Dios se escondió, y es que tenía miedo por verse desnudo. Y el miedo a la desnudez, a la pobreza, ha sido siempre y sigue siendo el primer resorte de acción de los pobres mortales. Terribles fiieron aquellos tenebrosos tiempos medievales, hacia el milenio, cuando empujaba a los espiritus, más que el ansia de la gloria celestial, el temor al infierno; no veis que en nuestra sociedad es más el horror a la pobreza que no la sed de riquezas lo que lanza a los más de los hombres a sus más locas empresas? Es más avariciosidad que ambición lo que nos mueve, y si examinamos a los que pasan por más ambiciosos encontraremos
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poi, accortosi di avergli fatto l’elemosina in un giorno diverso dal sabato, riprese il mendicante raccomandandogli di attenersi alla solita usanza. Quando il povero l’ebbe ascoltato, gli restituì l’elemosina dicendogli: «Ah! Adesso se ne viene fuori con queste storie? Ecco, ecco il suo soldo, e d’ora in poi si cerchi un altro povero!». Il che voleva dire: Ma come? Vengo a farle il favore di metterla in grado di esercitare la virtù della carità e di acquistarsi così meriti per il cielo e mi viene fuori adesso con condizioni e difficoltà? Si riprenda, dunque, la sua elemosina e si cerchi uno che le faccia il favore di accettarla! E non parliamo della povertà più triste e miserabile di tutte: quella di doversi presentare con le calze integre, quella di dover conservare il ruolo che rappresentiamo nella commedia del mondo! Triste situazione, quella del povero guitto che non può cambiarsi la camicia ed è costretto, invece, a custodire, a tenere pulito ed in ordine il travestimento con cui si guadagna la vita sul palcoscenico; triste situazione è quella di non avere nelle rigide notti invernali un misero mantello con cui ripararsi dal freddo, e dover tenere con ogni cura il fastoso manto che serve a fare la parte di re della commedia. E più triste ancora è il fatto che in quelle tremende notti uno non si possa imbacuccare nel mantello teatrale. Don Chisciotte si affliggeva e si vergognava di dover fare la figura del povero. Era anch’egli, in ultima analisi, un figlio di Adamo! E Adamo stesso – come narra la Genesi, al capitolo III, versetti 7-10 – dopo aver peccato, si accorse di essere nudo, che è quanto dire povero e, quando Dio lo chiamò si nascose, perché aveva paura di vedersi nudo. E la paura della nudità, della povertà è stata sempre e continua ad essere la prima molla delle azioni dei poveri mortali. Terribili furono i tenebrosi tempi medievali, intorno all’anno Mille, quando gli spiriti erano mossi, più che dall’ansia di gloria celeste, dal terrore dell’inferno; e non vi accorgete che anche nella nostra società è più potente l’orrore per la povertà che la sete di ricchezza, e che è proprio il motivo che spinge la maggior parte degli uomini alle più folli imprese? È più l’avarizia che l’ambizione ciò che ci sospinge e, se scrutiamo bene coloro che passano per più ambiziosi, trove-
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un avaro dentro de ellos. Toda garantía nos parece poca para preservarnos y preservar a los nuestros de la tan aborrecida y tan temida pobreza, y amontonamos riquezas para taparle todo agujero por donde se nos meta en casa. El delito hoy, el verdadero delito, es ser pobre; aquellas de nuestras sociedades que se dicen más adelantadas y cultas distínguense por su odio a la pobreza y a los pobres; nada hay más triste que el ejercicio de la beneficencia. Diríase que se quiere suprimir los pobres, no la pobreza; exterminarlos, como si se tratase de exterminar una plaga de animales daniños. Se trata de acabar con la pobreza, no por amor al pobre, sino para que su presencia no nos recuerde el terrible término. Y ¿qué de extraño tiene que se buscase el cielo no más que por huir de la indigencia? El ansia de renombre y fama, la sed de gloria que movía a nuestro Don Quijote, ¿no era acaso en el fondo el miedo a oscurecerse, a desaparecer, a dejar de ser? La vanagloria es, en el fondo, el terror a la nada, mil veces mas terrible que el infierno mismo. Porque al fin en un infierno se es, se vive, y nunca, diga lo que dijere el Dante, puede, mientras se es, perderse la esperanza, esencia misma del ser. Porque la esperanza es la fior del esfuerzo del pasado por hacerse porvenir, y ese esfuerzo constituye el ser mismo. Y ven ahora acá, mi Don Quijote, y llama a tu Alonso el Bueno, y dime: esa tu vergüenza de ser pobre, ¿no entró, en parte, al menos, en la grandiosa vergüenza que te impidió declararte a Aldonza Lorenzo? Tú conocías lo de «contigo pan y cebolla», y algo mas que pan y cebolla podías ofrecerla, como era «una olla de algo más vaca que ternera, salpicón las más noches, lentejas los viernes… y algún palomino de añadidura los domingos»: pero, era eso bastante para ella? Y aun siéndolo, ¿lo sería para los frutos que de vuestro amor pudiesen nacer?… Pero dejo esto, pues sé bien cuán profundamente te conmueves y ruborizas si se te habla de ello.
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remo che dentro ognuno di essi c’è un avaro. Ogni garanzia ci pare insufficiente a preservarci ed a preservare i nostri dalla tanto odiata e tanto temuta povertà, e accumuliamo ricchezze per chiudere ogni fessura attraverso cui potrebbe entrare in casa. Oggi il delitto, il vero delitto è quello di essere poveri; tra le varie società umane, quelle che si professano più progredite e colte, si distinguono per l’odio verso la povertà e i poveri: nulla c’è infatti di più triste che l’esercizio della beneficenza. Staremmo per dire che si vogliono sopprimere i poveri, e non la povertà; sterminarli, come se si trattasse di sterminare uno sciame di insetti nocivi. Si tenta di abolire la povertà, non già per amore del povero, ma solo perché la sua presenza non ci ricordi quella terribile piaga. Che c’è dunque di strano se si cercasse il cielo unicamente per sottrarsi all’indigenza? L’ansia di rinomanza e di fama, la sete di gloria che spingevano ad agire il nostro Don Chisciotte, non erano forse, in definitiva, la paura di restare oscuro, di scomparire, di cessare di esistere? La vanagloria è in sostanza il terrore del nulla, mille volte più terribile dello stesso inferno. Perché, in fin dei conti, nell’inferno si esiste, si vive e, qualunque cosa dica in proposito Dante, finché si vive non si può perdere la speranza, che è l’essenza stessa dell’essere. Perché la speranza è il fior fiore dello sforzo del passato che vuol diventare futuro, e questo sforzo costituisce l’essere stesso. Ma vieni un po’ qui, mio Don Chisciotte, e chiama il tuo Alonso il Buono, e dimmi: questa tua vergogna di essere povero non entrò, almeno in parte, nel grandioso pudore che ti impedì di dichiarare il tuo amore per Aldonza Lorenzo? Conoscevi certo il detto: «con te, pane e cipolla», e tu eri in grado di offrirle qualcosa in più di pane e cipolla, ad esempio «una pentola di carne di mucca più che di vitello, tritato di carne in insalata il più delle sere, lenticchie il venerdì… e un po’ di piccioncino in sovrappiù la domenica»; e quand’anche lo fosse stato, sarebbe poi bastato per il frutto che poteva nascere dal vostro amore?… Ma è meglio lasciar perdere queste cose, poiché so bene che ti commuovi profondamente e arrossisci quando te se ne parla.
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No nos extrañe, pues, que Don Quijote se recostase, «pensativo y pesaroso», así de la falta que Sancho le hacía como de la irreparable desgracia de sus medias, a quien tomara los puntos, aunque fuera con seda de otro color, que es una de las mayores señales de miseria que un hidalgo puede dar en el discurso de su prolija estrecheza. ¡Y qué maravillosa conjunción la que el historiador establece aquí entre la soledad y la pobreza de Don Quijote! ¡Pobre y solo! Aún se puede soportar la pobreza en compañía o la soledad en riqueza, pero ¡pobre y solo! ¿De qué le servían, estando pobre y solo, los requiebros de Altisidora? Hizo bien en cerrar la ventana al oírlos.
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Non vi meravigli che Don Chisciotte se ne andasse a letto «tutto pensieroso e dispiaciuto», tanto per la mancanza di Sancio, quanto per l’irreparabile sventura delle sue calze, delle quali ben volentieri avrebbe ripreso le smagliature, magari con seta di un altro colore, il che costituisce uno dei maggior indizi di miseria che un hidalgo possa dare durante il corso delle sue interminabili stranezze. Che mirabile parallelo istituisce a questo punto lo storico tra la solitudine e la povertà di Don Chisciotte! Povero e solo! È ancora possibile sopportare la povertà in compagnia o la solitudine tra le ricchezze; ma povero e solo! A che gli servivano, povero e solo com’era, i corteggiamenti di Altisidora? Fece benissimo a chiudere la finestra, quando la udì.
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del temeroso espanto cencerril y gatuno que recibió Don Quijote en el discurso de los amores de la enamorada Altisidora Mas luego, apiadado de la dolencia de amor de la desenvuelta moza, mandó le pusiesen un laúd por la noche en el aposento, «que yo consolaré lo mejor que pudiere a esta lastimada doncella», dijo. Y llegadas las once horas de la noche halló Don Quijote una vihuela en su aposento; templola, abrió la reja, y sintió que andaba gente en el jardín, y habiendo recorrido los trastes de la vihuela, y afinándola lo mejor que supo, escupió y remondose el pecho, y luego, con voz ronquilla, aunque entonada, cantó un romance que trae el historiador y que el mismo Don Quijote «aquel día había compuesto». El verdadero héroe es, sépalo o no, poeta, porque, ¿qué sino poesía es el heroísmo? La misma es la raíz de la una y del otro, y si el héroe es poeta en acción es el poeta héroe en imaginativa. El caballero andante, que hace profesión de las armas, necesita raíces de poeta, porque su arte es arte militar, del cual no dudaba el Dr. Huarte, como en el capítulo XVI de su Examen nos dice, sino que «pertenece a la imaginativa, porque todo lo que el buen capitán ha de hacer dice consonancia, figura y correspondencia… para todo lo cual es tan impertinente el entendimiento como los oídos para ver». Y todo ello no es sino redundancia de la vida, esfuerzo que en redondearse y cumplirse se perfecciona y acaba, obra cuyo fin es la obra misma. Llega a un punto la savia en que ha de volverse por donde fue, y al llegar allá, al punto
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del terribile spavento che campanacci e gatti provocarono a Don Chisciotte quando lo corteggiava l’innamorata Altisidora Ma poi, provando compassione per le pene d’amore dell’ardita ragazza, diede ordine che la sera gli mettessero in camera un liuto. «Voglio confortare nel miglior modo possibile – disse – questa povera fanciulla». E alle undici di notte, Don Chisciotte trovò, infatti, una viola nella sua stanza; la accordò, aprì la finestra e sentì che c’era gente in giardino; e, dopo averne fatto qualche arpeggio scorrendo con le dita sulla tastiera, l’accordò meglio che poté; poi sputò, scatarrò e infine, con voce ben intonata ma un po’ roca, cantò un romance che lo storico ci riferisce e che lo stesso Don Chisciotte «aveva composto quel giorno». Il vero eroe, coscientemente o no, è poeta; infatti, che cos’è l’eroismo se non poesia? Unica è la radice dell’uno e dell’altra; e se l’eroe è poeta dell’azione, il poeta è eroe della fantasia. Il cavaliere errante, che fa professione delle armi, deve avere radici di poeta, perché la sua arte è arte militare; affermazione questa, della quale non dubita affatto il Dr. Huarte, secondo quanto ci dice nel capitolo XVI del suo Esame; perché anzi, per lui, «appartiene all’immaginazione, perché tutto quello che il buon capitano deve fare è concordanza, figura e corrispondenza… tutte cose per le quali l’intelletto è fuori causa, così come lo sono le orecchie per vedere». E tutto ciò è solo ridondanza di vita, sforzo che si perfeziona e si conclude nel compiersi pienamente; opera che ha il suo fine in se stessa. La linfa giunge a un punto in cui deve tornare indietro per la stessa strada già percorsa; e, quando raggiunge quel punto, che non è via per
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que no es camino para otro, sino término, se vuelve sobre sí y da sobre el brote que así forma, la flor, y la flor lo es de belleza. Don Quijote canta, Don Quijote es poeta, cosa que ya temía la gatita muerta de su sobrina cuando en el escrutinio que el cura y el barbero hicieron en la librería, al querer perdonar La Diana, de Jorge de Montemayor, manifestó temores de que su tío diera en poeta, «que según dicen es enfermedad incurable y pegadiza», añadió. ¡Ay Antonia, Antonia, y qué ojeriza tienes a la poesía y qué rencor le guardas! Pero tu tío es poeta, y si no hubiera nunca cantado no habría sido el héroe que fue. No que el ser cantor le hiciera ser héroe, sino que de la plenitud del heroísmo le brotó el canto. No apruebo, pues, las razones que el P. Rivadeneira, en el capítulo XXII del libro III de su Vida de San Ignacio nos da para justificar el que la Compañía de Jesús no tenga coro. Dícenos que «no es de esencia de la Religión el tener coro», y, en efecto, puede haber ruiseñor mudo, pero sera ruiseñor enfermo, y añade, con Santo Tomás, que los que tienen por oficio enseñar al pueblo y apacentarle con el pan de la doctrina «no deben ocuparse en cantar, porque, ocupados con el canto, no dejen lo que tanto importa». Pero, ¿es que hay doctrina más íntima ni más profunda que la que se da cantando? En los consejos mismos que se dan al hombre, no es la letra, sino la música de ellos, lo que aprovecha y edifica. Música es el espíritu, y la carne es letra, y toda doctrina del corazón es canto. Curioso es, en efecto, que siendo tales y tan grandes las semejanzas entre Don Quijote e Íñigo de Loyola, y recreándose este y enterneciéndose el ánima y hallando a Dios con el canto, al que era muy inclinado, según en el capítulo V del libro V de su Vida nos cuenta su biógrafo, no pusiera coro en la Compañía,
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raggiungerne un altro, ma solo termine, ritorna indietro e sul germoglio che in tal modo forma fa sbocciare il fiore, e quel fiore è fiore di bellezza. Don Chisciotte canta, Don Chisciotte è poeta, la qual cosa già aveva quella piccola gatta morta di sua nipote quando nella ricognizione della libreria fatta dal curato e dal barbiere, nel voler salvare La Diana, di Jorge de Montemayor, manifestò dubbi che suo zio fosse un poeta, «che, a quanto si dice, è una malattia incurabile e trasmissibile», aggiunse. Ah, Antonia, Antonia, quanta ruggine hai verso la poesia e quanto rancore nutri verso di essa! Ma tuo zio è stato poeta e se non avesse mai cantato non sarebbe mai diventato quell’eroe che è stato. Non che l’essere cantante lo avesse fatto diventare eroe, ma la pienezza dell’eroismo scaturì anche dal canto. Non approvo, perciò, i motivi che il Padre Rivadeneira, nel capitolo XXII del libro III della sua Vita di Sant’Ignazio, ci dà per giustificare che la Compagnia di Gesù non ha coro. Ci dice che «non è essenziale elemento della religione l’avere un coro»; e in effetti può esserci benissimo un usignolo muto, ma si tratterà pur sempre di un usignolo malato; e aggiunge poi, con San Tommaso, che coloro il cui ufficio consiste nell’ammaestrare il popolo e pascerlo del pane della dottrina «non devono occuparsi di cantare affinché, tutti presi dal canto, non trascurino cosa di tanta importanza». Ma può esserci dottrina più intima o più profonda di quella che si impartisce cantando? Perfino nei consigli che si danno all’uomo, non sono le parole, ma la musica ciò che più giova e riesce edificante. Musica è lo spirito mentre la carne non è che parola, e ogni dottrina del cuore è canto. Risulta infatti strano che, pur essendo tali e tanto grandi le somiglianze tra Don Chisciotte e Ignazio di Loyola, e premesso che quest’ultimo si ricreava e si inteneriva nel profondo dell’anima e ritrovava Dio proprio nel canto, per il quale aveva molta inclinazione, stando almeno a quanto ci narra il suo biografo nel capitolo V del libro V della Vita, non abbia introdotto il coro
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y de esta no tenerlo hemos de deducir las imperfecciones que la acompañan y la esterilidad poética que sobre ella pesa. Jamás pudo albergarse a sus anchas cigarra en ese hormiguero de clérigos regulares. Y no se diga que no nacimos todos para cantar, que no se trata aquí de «para» alguno, sino que todo el que de veras ha nacido en espíritu y no solo en carne, solo por ello canta, canta porque ha nacido, y si no canta es que no nació sino en carne. Y si fundamos la Compañía de Dulcinea del Toboso, no nos olvidemos del coro, y sea el canto en ella florecimiento de afectos heroicos y de encumbrados anhelos. Cantando estaba Don Quijote cuando echaron sobre él, en torpísima burla, un saco de gatos, y al defenderse de ellos le saltó uno al rostro y le «asió de las narices con las uñas y los dientes, por cuyo dolor Don Quijote comenzó a dar los mayores gritos que pudo», y costó quitársele. ¡Pobre mi señor! Se avergüenzan ante ti leones y se te agarran a las narices gatos. De gatos que huyen, y no de leones que se ven libres, es de lo que debe apartarse el héroe. «Con pulgas y con mosquitos puede Dios hacer guerra a todos los emperadores y monarcas del mundo», dice el P. Alonso Rodríguez (Ejercicio de perfección, parte tercera, tratado primero, capítulo XV). ¡Líbrenos Dios de pulgas, de mosquitos y de gatos en huida y mándenos en cambio leones a los que se abre la jaula! Mas aun así y con todo y con ser temibles enemigos las pulgas y los mosquitos, no debe dejarse de hacerles la guerra, y para que se la hagamos nos los manda Dios. Podía alguno haberle dicho a Don Quijote, para disuadirle de perseguir a pulgas y mosquitos humanos, lo de que el águila no caza moscas – «aquila non capit muscas» –, pero le diría mal. Las moscas, y sobre todo las ponzoñosas, son un excelente digestivo para el águila, un activísimo fermento para la cocción de sus alimentos.
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nella Compagnia fondata da lui. Anzi, dal fatto che mancasse il coro, ci sentiamo autorizzati a far derivare le imperfezioni di cui soffre e la sterilità poetica che grava su di essa. Giammai cicala poté trovare agevole dimora in quel formicaio di chierici regolari. E non mi si venga a dire che non tutti siamo nati per cantare, perché qui non si fa questione di “scopo”; ma si intende soltanto dire che chi è nato in spirito, e non solo in carne e ossa, canta per un unico motivo, solo perché è nato; e se non canta, significa che è nato solo secondo la carne. E se avverrà di fondare la Compagnia di Dulcinea del Toboso, non dimentichiamoci, per carità, del coro; e adoperiamoci affinché in essa il canto sia tutta una fioritura di sentimenti eroici e di aneliti sublimi. Don Chisciotte, stava, dunque, cantando quando gli vuotarono addosso, con uno scherzo quanto mai odioso, un sacco di gatti; e, mentre cercava di difendersene, uno gli saltò in faccia e «con le unghie e con i denti gli afferrò il naso, sicché dal dolore Don Chisciotte cominciò a levare le più alte grida», e gli costò fatica scrollarselo di dosso. Povero il mio signore! Al tuo cospetto si vergognano i leoni, ma ti si aggrappano al naso i gatti. È dai gatti che scappano, non dai leoni che si vedono liberi, che deve tenersi lontano l’eroe. «Con pulci e zanzare, Dio può fare guerra a tutti gli imperatori e monarchi del mondo», dice il Padre Alonso Rodríguez (Esercizio di perfezione, parte III, trattato I, capitolo XV). E Dio ci liberi da pulci, zanzare e gatti e ci mandi contro, invece, leoni ai quali venga aperta la gabbia! Ma anche con tutto ciò e, pur essendo le pulci e zanzare temibili nemici, non si deve tralasciare di combatterle, perché anzi Dio stesso ci ordina di farlo. Avrebbe ben potuto qualcuno dire a Don Chisciotte, per dissuaderlo dal muovere guerra a pulci e zanzare, la sentenza che l’aquila non va a caccia di mosche – «aquila non capit muscas» – ma avrebbe sbagliato. Le mosche, e soprattutto quelle velenose, costituiscono un eccellente digestivo per l’aquila, un attivissimo fermento per l’assimilazione del cibo.
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Y es que, en efecto, el veneno mismo que inyectado con aguijón en los canalillos del torrente circulatorio de la sangre nos escuece, molesta y daña o nos levanta un bubón y acaso puede llegar a matarnos, ese mismo veneno, tomado por la boca, no solo es inofensivo, sino que puede ayudarnos a hacer una pronta y acabada digestión. Y es gracias a lo digestivo de la ponzoña de esas moscas venenosas que con aguijón y todo traga, luego de cazadas, el águila, como puede esta, una vez descansado su estómago, mirar cara a cara al sol. ¿Creéis acaso que puede ponerse alma y vida en un trabajo que se emprende por amor a Dulcinea y para que nos haga famosos, no solo en los presentes, sino en los venideros siglos, si no nos espolean a él las miseriucas del lugarejo o lugarón en que comemos, dormimos y vivimos? El mejor libro de Historia Universal, el más duradero y extendido y el de historia más verdaderamente universal seria el de quien acertase a contar con toda su vida y su hondura las rencillas, los chismes, las intrigas y los cabildeos que se traen en Carbajosa de la Sierra, lugar de trescientos vecinos, el alcalde y la alcaldesa, el maestro y la maestra, el secretario y su novia, de una parte, y de la otra el cura y su ama, el tío Roque y la tía Mezuca, asistidos unos y otros por coro de ambos sexos. ¿Qué fue la guerra de Troya a que debemos la Ilíada? Y las moscas, pulgas y mosquitos deben quedar muy satisfechos, porque, vamos a ver: a algun sujeto que intrigue, cabildee y se revuelva en esta ciudad en que escribo, qué otra probabilidad puede quedarle de pasar, de un modo o de otro y bajo uno u otro nombre, a la posteridad, sino el que acierte yo, o acierte otro que como yo ame a Dulcinea, a pintarle con sus rasgos universales y eternos? Miles de veces se ha dicho y repetido que lo más grande y más duradero en arte y literatura se construyó con reducidos materiales, y todo el mundo sabe que cuanto se pierde en extensión se gana en intensidad. Pero es que al ganarse en intensidad se gana en extensión también, por paradójico que os parezca; y se gana en duración. El átomo es eterno, si existe el átomo.
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Ed avviene infatti che lo stesso veleno che, iniettato dal pungiglione nei canaletti del flusso circolatorio del sangue, ci brucia, ci tormenta e ci fa male o ci fa venire un gonfiore e magari ci uccide, questo stesso veleno, dicevo, assunto per bocca, non solo diviene innocuo, ma può persino aiutarci a fare una rapida e completa digestione. Ed è proprio grazie alle caratteristiche digestive del veleno di queste mosche velenose, che essa inghiotte col pungiglione e dopo averle prese, che l’aquila può, una volta riposato lo stomaco, guardare il sole faccia a faccia. Credete forse che si possa mettere anima e vita in un’impresa che si affronta per amore di Dulcinea e per diventare famosi non solo nei tempi presenti, ma anche nei futuri, se non ci spronano a farlo le piccole miserie del paesino o del paesone dove viviamo, mangiamo e dormiamo? Il miglior libro di Storia Universale, anzi il più duraturo ed ampio e comprendente la storia più autenticamente universale, sarebbe quello che riuscisse a raccontarci, in tutta la loro vitalità e con tutta la loro profondità, i dispetti, le chiacchiere, gli intrighi e le congiure che si intrecciano a Carbajosa de la Sierra, una piccola borgata forse di trecento abitanti, tra il sindaco e la sindachessa, il maestro e la maestra, il segretario e la sua fidanzata da una parte, e dall’altro il curato e la perpetua, zio Rocco e zia Mezuca, contornati gli uni e gli altri da cori di entrambi i sessi. Che cosa fu in sostanza la guerra di Troia, alla quale pare siamo debitori dell’Iliade? E le mosche, le pulci e le zanzare devono esserne molto soddisfatte. Infatti, vediamo un po’: a un individuo che intrighi, congiuri e si agiti in questa città dove sto scrivendo, che altra probabilità può restare di essere tramandato alla posterità, in un modo o nell’altro, sotto questo o quel nome, se non quello che io riesca, o riesca un altro, a patto che come me ami Dulcinea, a dipingerlo con tocchi universali ed eterni? Si è detto e ripetuto migliaia di volte che le cose più grandi e più durature in arte e in letteratura furono costruite con poco materiale e tutti sanno che quanto si perde in estensione si guadagna in intensità. Ma mentre si guadagna in intensità si guadagna anche in estensione, per quanto paradossale ciò possa sembrare; e si guadagna anche in durata. L’atomo, se esiste, è
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Lo que es de cada uno de los hombres, lo es de todos; lo más individual es lo más general. Y por mi parte prefiero ser átomo eterno a ser momento fugitivo de todo el Universo. Lo absolutamente individual es lo absolutamente universal, pues hasta en la lógica se identifica a las proposiciones individuales con las universales. Por via de remoción se llega en el hombre, al contratante social de Juan Jacobo, al bipedo implume de Platón, al homo sapiens de Linneo o al marmíero vertical de la ciencia moderna, al hombre por definición, que como no es de aquí ni de allí, ni de ahora ni de antes, no es de ninguna parte ni de tiempo alguno, resultando ser, por lo tanto, un homo insipidus. Y asi, cuanto más se estrecha y constriñe la acción a lugar y tiempo limitados, tanto más universal y más secular se hace, siempre que se ponga alma de eternidad y de infinitud, soplo divino en ella. La mentira más grande en historia es la llamada historia universal. Ved a Don Quijote; Don Quijote no fue a Flandes, ni se embarcó para América, ni intentó tomar parte en ninguna de las grandes empresas históricas de su tiempo, sino que anduvo por los polvorientos caminos de su Mancha a socorrer a los menesterosos que en ellos topase y a enderezar los tuertos de allí y de entonces. Su corazón le decía que, vencidos los molinos de viento de La Mancha quedaban vencidos en ellos todos los demás molinos y castigado Juan Haldudo el rico, quedaban castigados todos los amos ricos despiadados y avariciosos. Porque no os quepa duda de que el día en que sea vencido del todo y por entero un malicioso, la malicia empezará a desaparecer de la tierra y desaparecerá pronto de ella. Don Quijote fue, queda ya dicho, fíel discípulo del Cristo, y Jesús de Nazaret hizo de su vida enseñanza eterna en los campos y caminos de la pequeña Galilea. Ni subió a más ciudad que a Jerusalén, ni Don Quijote a otra que a Barcelona, la Jerusalén de nuestro Caballero.
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eterno. Ciò che appartiene ad ogni uomo, appartiene anche al genere umano; le cose più individuali sono le più generali. E per conto mio preferisco essere atomo eterno all’essere istante fugace dell’intero Universo! Ciò che è assolutamente individuale è anche assolutamente universale, giacché perfino nella logica le proposizioni individuali si identificano con le universali. A forza di esclusioni si giunge, nell’uomo, a quello del contratto sociale di Giangiacomo, al bipede implume di Platone, all’homo sapiens di Linneo o al mammifero verticale della scienza moderna, all’uomo per definizione, che, siccome non è né carne né pesce, né attuale né antiquato, non appartiene a nessun luogo e a nessun tempo e risulta pertanto un homo insipidus. E così, quanto più si limita e si costringe l’azione a un luogo e a un tempo limitati, tanto più essa diventa universale e duratura, sempre che vi si metta un’anima di eternità, di infinito e un soffio divino. La menzogna più grande che esista nella storia è quella che si chiama storia universale. Guardate Don Chisciotte: Don Chisciotte non se ne andò nelle Fiandre, né si imbarcò per l’America, né tentò di prendere parte a nessuna delle grandi imprese storiche dei suoi tempi; si limitò a peregrinare per le polverose strade della Mancia per soccorrere i bisognosi che avesse incontrato e per raddrizzare i torti di quei luoghi e di quei tempi. Il suo cuore gli diceva che, sconfitti i mulini a vento della Mancia, erano anche sconfitti in essi tutti gli altri mulini e che, castigato Gianni Gonnella il ricco, erano castigati in lui tutti i padroni spietati e avari. Perché non deve restarvi alcun dubbio che il giorno in cui sia sconfitto del tutto e per intero un malizioso, la malizia inizierà a scomparire dalla faccia della terra e ben presto scomparirà del tutto. Don Chisciotte fu – lo abbiamo già detto – fedele discepolo di Cristo, e Gesù di Nazaret fece della propria vita un eterno insegnamento nei campi e lungo le strade della piccola Galilea. Né salì ad altra città che a Gerusalemme, come Don Chisciotte non si spinse ad altra che a Barcellona, la Gerusalemme del nostro Cavaliere.
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Nada hay menos universal que lo llamado cosmopolita, o mundial, como ahora han dado en decir; nada menos eterno que lo que pretendemos poner fuera de tiempo. En las entrañas de las cosas, y no fuera de ellas, están lo eterno y lo infinito. La eternidad es la sustancia del momento que pasa, y no la envolvente del pasado, el presente y el futuro de las duraciones todas; la infinitud es la sustancia del punto que miro, y no la envolvente de la anchura, largura y altura de las extensiones todas. La eternidad y la infinitud son las sustancias del tiempo y del espacio, respectivamente, y estos sus formas, estando aquellas virtualmente todas enteras, en cada momento de una duración la una, en cada punto de una extensión la otra. Cacemos, pues, y traguémonos a las moscas ponzoñosas que, zumbando y esgrimiendo su aguijón, revolotean en torno nuestro, y Dulcinea nos dé el poder convertir esta caza en combate épico que se cante en la duración de los siglos por el ámbito de la tierra toda.
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Nulla vi è di meno universale di quello che si suol chiamare cosmopolita o mondiale, come si usa dire adesso; niente di meno eterno di ciò che abbiamo la pretesa di collocare fuori del tempo. Nelle viscere stesse delle cose, non già fuori di esse, stanno l’eternità e l’infinito. L’eternità è la sostanza del momento che passa e non quella che abbraccia il passato, il presente e il futuro di ogni durata; l’infinito è la sostanza del punto che guardo, e non quello che abbraccia l’ampiezza, la lunghezza e l’altezza di ogni estensione. L’eternità e l’infinito sono la sostanza del tempo e dello spazio rispettivamente, e questi non ne sono che la forma, mentre eternità e infinito esistono virtualmente nella loro interezza in ogni istante di una durata la prima, e in ogni punto di un’estensione il secondo. Andiamo dunque a caccia di mosche velenose e inghiottiamocele: esse, ronzando e brandendo i loro pungiglioni ci svolazzano attorno. E ci dia Dulcinea il potere di convertire questa caccia in un epico combattimento che si canti nei secoli dei secoli e riempia tutti i confini della terra.
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del fatigado fin y remate que tuvo el gobierno de Sancho Panza Deja aquí el historiador a Don Quijote, y salteando los capítulos entre las cosas de este y las de su escudero, pasa a contarnos cómo gobernó Sancho su ínsula, gobernamiento a que solo cabe poner de comentario aquellas palabras de Pablo de Tarso en el versillo 18 del capítulo III de su primera Epístola a los Corintios, donde dice: «Nadie se engañe a sí mismo; si alguno entre vosotros parece ser sabio en este siglo, hágase simple para ser de veras sabio». Con razón dijo el mayordomo oyendo a Sancho: «Cada día se ven cosas nuevas en el mundo; las burlas se vuelven en veras, y los burladores se hallan burlados». ¿Y cómo no? Sancho, el gobernador por burlas, «ordenó cosas tan buenas, que hasta hoy se guardan en aquel lugar y se nombran las Constituciones del Gran Gobernador Sancho Panza. Y no nos extrañe esto, pues los más de los grandes legisladores no pasan de Sancho Panzas, que al no serlo mal podrían legislar. Y llegó, por fin, el fin del gobierno de Sancho, y con este fin se sumergió Panza en las honduras de su heroísmo. Dejando el gobierno de la ínsula, por el que tanto había suspirado, acabó de conocerse Sancho, y pudiera haber dicho a sus burladores lo que Don Quijote dijo a Pedro Alonso cuando este le recojió en su primera salida, y es aquello de: «Yo sé quién soy». Dije que
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della travagliata fine e conclusione del governo di Sancio Panza A questo punto, lo storico abbandona Don Chisciotte e, distribuendo i capitoli tra le faccende di Don Chisciotte e quelle del suo scudiero, passa a narrarci in che modo Sancio governò la sua isola, governo al quale si può apporre come commento adeguato l’espressione di Paolo di Tarso contenuta nel versetto 18 del capitolo III della sua prima Lettera ai Corinzi, là dove afferma: «Nessuno inganni se stesso; se qualcuno tra voi mostra d’essere saggio in questo mondo, si faccia semplice per essere veramente saggio». Aveva pienamente ragione il maggiordomo quando disse nell’ascoltare Sancio: «Ogni giorno si vedono cose nuove al mondo; le burle diventano realtà e i burlatori si trovano burlati». E come no? Sancio, il governatore che burla, dettò disposizioni così sagge che ancora oggi vengono osservate in quel paese che tutti le chiamano le Costituzioni del Gran Governatore Sancio Panza. E questo non ci deve destar meraviglia, poiché la maggior parte dei legislatori ha statura non superiore a quella di Sancio Panza; anzi, se così non fosse, difficilmente potrebbero dettar leggi. Giunse finalmente alla conclusione il governo di Sancio e così Sancio sprofondò definitivamente nelle profondità del proprio eroismo. Lasciando il governo dell’isola che aveva sospirato tanto, Sancio arrivò finalmente a conoscersi perfettamente e avrebbe potuto benissimo dire ai suoi schernitori quello che Don Chisciotte aveva detto a Pedro Alonso quando questi lo accolse nella prima uscita che aveva fatto, e fu il detto: «So io chi sono». Ho
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solo el héroe puede decir «yo sé quién soy», y ahora añado que todo el que pueda decir «yo sé quién soy» es héroe, por humilde y oscura que su vida nos aparezca. Y Sancho, al dejar la ínsula, supo quién era. Luego que le molieron y quebrantaron en el burlesco asalto a la ínsula, vuelto en sí del desmayo que el temor y el sobresalto le produjeron, preguntó qué hora era, calló, vistiose, se fue a la caballeriza, «siguiéndole todos los que allí se hallaban, y llegándose al rucio le abrazó y le dio un beso de paz en la frente, y no sin lágrimas en los ojos le dijo: “Venid vos acá, compañero mío y amigo mío y conllevador de mis trabajos y miserias; cuando yo me avenía con vos, y no tenía otros pensamientos que los que me daban los cuidados de remendar vuestros aparejos y de sustentar vuestro corpezuelo, dichosas eran mis horas, mis días, mis años; pero después que os dejé y me subí sobre las torres de la ambición y de la soberbia, se me han entrado por el alma adentro mil miserias, mil trabajos y cuatro mil desasosiegos”». Y luego de enalbardar al rucio, añadió otras no menos bien concertadas razones, pidiendo le dejaran volver a su «antigua libertad». «Yo no nací – dijo – para ser gobernador ni para defender ínsulas ni ciudades de los enemigos que quisieran acometerlas. Mejor se me entiende a mi de arar y cavar, podar y ensarmentar las viñas que de dar leyes ni de defender provincias ni reinos. Bien se está San Pedro en Roma: quiero decir, que bien se está cada uno usando el oficio para que fue nacido». Y tu, Sancho, no naciste para mandar, sino para ser mandado, y el que para ser mandado nació halla su libertad en que le manden y su esclavitud en mandar; naciste, no para guiar a otros, sino para seguir a tu amo Don Quijote, y en seguirle está tu ínsula. ¡Ser señor! ¡Y qué de congojas y miserias trae consigo! Bien decía Teresa de Jesús, cuando en el capítulo XXXIV de su Vida nos habla de aquella señora que había de ayudarle en fundar el monasterio de San José, que viéndola vivir aborreció del todo el desear ser señora, porque «ello es una sujeción, que una de
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detto che solo l’eroe può pronunciare una simile frase: «So io chi sono», e aggiungo ora che chiunque sia in grado di dire «So io chi sono», è eroe per quanto umile e oscura possa sembrarci la sua esistenza. E Sancio, al momento di lasciare l’isola, seppe finalmente chi era. Dopo che l’ebbero macinato e fracassato per bene nel burlesco assalto all’isola, come ritornò in sé dallo svenimento procuratogli dal timore e dal soprassalto, chiese che ora fosse, tacque, si vestì, scese nella stalla «seguito da quanti si trovavano lì e, avvicinatosi all’asino, l’abbracciò e gli dette un bacio sulla fronte. Quindi, non senza lacrime agli occhi, gli disse: “Venite qui, mio compagno, mio amico, che avete sofferto con me pene e miserie: quando io me la facevo con voi e non avevo altre preoccupazioni se non quelle che mi dava la cura di acconciare le vostre attrezzature e di sostenere il vostro piccolo corpo, le mie ore, i miei giorni, i miei anni erano felici; ma da quando vi ho lasciato e sono asceso alle altezze dell’ambizione e della superbia mi si sono infiltrate nell’animo mille miserie, mille affanni, migliaia di afflizioni”». E dopo aver bardato la bestia, aggiunse altri ragionamenti non meno logici supplicando che lo lasciassero ritornare alla sua «antica libertà». «Io non sono nato – disse – per essere governatore, né per difendere isole e città dai nemici che vogliono assediarle. Mi intendo meglio di arare e vangare, di potare e di propagginare le viti che di promulgare leggi e difendere provincie e regni. San Pietro sta bene a Roma: voglio dire che ognuno sta bene esercitando il mestiere per il quale è nato». E tu Sancio, non eri nato per comandare, ma per essere comandato; e colui che è nato per essere comandato trova la sua libertà nell’essere comandato e la schiavitù nel comandare; eri nato non per guidare gli altri, ma per seguire il tuo padrone Don Chisciotte; e nel seguirlo sta la tua isola. Essere signore! Va bene; ma quante angosce e quante miserie reca con sé! Diceva bene Teresa di Gesù quando, nel capitolo XXXIV della sua Vita, ci parla della famosa signora che avrebbe dovuta aiutarla nella fondazione del monastero di San Giuseppe e che, vedendo come ella viveva, incominciò addirittura ad odiare il desiderio di essere signora, perché «è una tale soggezione, che una
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las mentiras que dice el mundo es llamar señores a las personas semejantes, que no me parece son sino esclavos de mil cosas». Creíste, Sancho, salir de casa de tu mujer y tus hijos y los dejaste por buscar para ti y para ellos el gobierno de la ínsula, pero en realidad saliste llevado del heroico espíritu de tu amo y fuiste conocido, aunque sin darte de ello clara cuenta, que el seguirle y servirle y vivir con él era tu ínsula. ¿Qué vas a hacer sin tu amo y señor? ¿De qué te ha servido el gobierno de tu ínsula si no tenías allí a tu Don Quijote y no podías mirarte en él y servirle y admirarle y quererle? Porque ojos que no ven, corazón que no siente. «Quédense en está caballeriza – añadió Sancho – las alas de la hormiga, que me levantaron en el aire para que me comiesen vencejos y otros pájaros, y volvamos a andar por el mundo con pie llano…». Habrás oído muchas veces, buen Sancho, que hay que ser ambicioso y esforzarse por volar para que nos broten alas, y yo te lo he dicho muchas veces y te lo repito, pero tu ambición debe cifrarse en buscar a Don Quijote; la ambición del que nació para ser mandado debe ser buscar quien bien le mande y que pueda de él decirse lo que del Cid decían los burgaleses, según el viejo Romance de mio Cid: ¡Dios, qué buen vassallo si oviesse buen señor!
Al dejar ese gobierno por el que tanto tiempo suspiraste y que te parecía ser la razón y el fin de todos tus andantes trabajos, al dejarlo y volverte a tu amo, llegas al meollo de ti mismo y puedes hombrearte con Don Quijote y decir como él y con él: «yo sé quién soy!». Eres héroe como él, tan héroe como él. Y es, Sancho, que el heroísmo se pega cuando nos acercamos al héroe con el corazón puro. Admirar y querer al héroe con desinterés
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delle menzogne che il mondo dice consiste nel chiamare signori le persone di tale condizione, che invece a me paiono schiavi di mille cose». Avevi creduto, Sancio, di essere uscito dalla casa di tua moglie e dei tuoi figli e di averli lasciati per andare in cerca, a loro vantaggio e tuo, del governo dell’isola; ma in realtà eri partito trascinato dall’eroico spirito del tuo padrone e ti convincesti poi, anche senza rendertene pienamente conto, che seguirlo, servirlo e vivere con lui erano la tua isola. Che cosa potevi fare senza il tuo padrone e signore? A che cosa ti servì il governo dell’isola se non avevi presso di te il tuo Don Chisciotte e non potevi specchiarti in lui e servirlo, ammirarlo e volergli bene? Perché, si suol dire, «occhio non vede, cuore non duole». «Restino in questa stalla – soggiunse Sancio – le ali della formica, che mi sollevarono in aria perché mi potessero mangiare i rondoni e altri uccelli; ma ora torniamo a camminare sulla terra con i miei piedi…». Chissà quante volte avrai sentito dire, mio buon Sancio, che bisogna essere ambiziosi e sforzarsi di volare affinché ci spuntino le ali, e io stesso te l’ho detto tante volte e te lo ripeto, ma la tua ambizione deve consistere nel cercare Don Chisciotte: l’ambizione di chi è nato per essere comandato deve consistere nel cercare chi ben lo comandi, sicché si possa dire di lui quello che i buoni abitanti di Burgos dicevano del Cid, secondo l’antico Poema del mio Cid: Mio Dio, che buon vassallo, se avesse un buon signore!
Nel lasciare il governo che per tanto tempo avevi sospirato e che ti pareva fosse la ragione e lo scopo di tutti i tuoi erranti travagli, nel lasciarlo, dicevo, e nel tornare dal tuo padrone, arrivi finalmente alle midolla di te stesso e puoi inorgoglirti con Don Chisciotte e dire come lui e con lui: «So io chi sono!». Sei eroe come lui, non meno eroe di lui. E l’eroismo, Sancio, ci contagia quando cerchiamo di accostarci con cuore puro all’eroe. Ammirare ed amare l’eroe con disinteresse e senza malizia è
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y sin malicia es ya participar de su heroismo; es como el que sabe gozar de la obra del poeta, que es a su vez poeta por saber gozarla. Teníate por interesado y codicioso, Sancho, y al salir de tu ínsula pudiste exclamar: «Saliendo yo desnudo como salgo, no es menester otra señal para dar a entender que he gobernado como un ángel». Y así era la verdad, y así lo reconoció el Dr. Recio. Ofreciéronle compañía para el camino y «todo aquello que quisiese para el regalo de su persona y para la comodidad de su viaje». Pero «Sancho dijo que no quería más que un poco de cebada para el rucio y medio queso y medio pan para él». No se olvidaba de su amigo y compañero el rucio, del sufrido y noble animai que le ligaba a la tierra. «Abrazáronle todos y él, llorando, abrazó a todos y los dejó admirados así de sus razones como de su determinación tan resoluta y discreta». Y quedose solo en los caminos del mundo, lejos de su casa, sin la ínsula y sin Don Quijote, abandonado a sí mismo, dueño de sí. ¿Dueño? «Le tomó la noche algo escura y cerrada» y solo, sin su amo, fuera de su lugar, ¿qué iba a sucederle? «Cayeron él y el rucio en una honda y oscurísima sima». Mira, Sancho, es lo que tiene que sucederte en cuanto te encuentres lejos de tu lugar, del lugar de los tuyos, sin ínsula y sin amo: caerte en sima. Pero no te vino mal esa caída, porque allí, en lo hondo de la sima, pudiste ver mejor lo hondo de la sima de tu vida y cómo el que se vio ayer gobernador de una ínsula, «mandando a sus sirvientes y sus vasallos, hoy se había de ver sepultado en una sima sin haber persona alguna que le remediase, ni criado ni vasallo que acuda a su socorro». Y allí, en el fondo de la sima, comprendiste que no habrías de tener en ella la ventura que tu amo Don Quijote tuvo en la cueva de Montesinos, pues «allí vio él visiones hermosas y apacibles» – te decías – «y yo veré aquí, a lo que creo, sapos y culebras». Sí, hermano Sancho; no son las visiones para todos ni es el mundo de las simas
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già partecipare al suo eroismo; è la stessa cosa che accade a chi sa godere dell’opera del poeta, che è poeta a sua volta proprio perché sa goderla. Ti consideravi interessato e avido, Sancio; ma quando partisti dalla tua isola potesti esclamare: «Uscendo di qui, come ne esco, nudo, non occorre altra prova per far capire che ho governato come un angelo». Ed era la pura verità, tanto che lo riconobbe anche lo stesso Dr. Recio. Gli offrirono una scorta per il viaggio e «quanto desiderasse per il dono della sua persona e per viaggiare con comodo. Ma Sancio disse di non voler altro che un po’ d’avena per l’asino e mezzo formaggio con mezzo pane per sé». Non si dimenticava dell’asino, suo amico e compagno, del paziente e nobile animale che lo legava alla terra. «Lo abbracciarono tutti ed egli, piangendo, abbracciò tutti lasciandoli ammirati sia dei suoi discorsi che della sua decisione tanto ferma e saggia». E rimase solo per le vie di questo mondo, lontano da casa sua, senza più l’isola e senza Don Chisciotte, abbandonato a se stesso e padrone di sé. Padrone di sé? «Lo colse la notte, piuttosto buia e nuvolosa»; e solo, senza il suo padrone, lontano dal sua paese, che cosa gli sarebbe successo? «Caddero lui e l’asino in una profonda e quanto mai oscura caverna». Vedi, Sancio? È quello che deve succederti non appena ti trovi lontano dal tuo villaggio, dal villaggio dei tuoi, senza isola e senza padrone: cadere in una caverna. Ma non ti fu inutile quella caduta; perché, laggiù, nel profondo della caverna, potesti scrutare meglio la profondità della caverna della tua vita e capire come colui che fino a ieri si era visto governatore di un’isola, che «comandava a servitori e vassalli, oggi si dovesse vedere sepolto in una caverna, senza nessuno che lo soccorresse, senza un servo né un vassallo che accorresse in suo aiuto». E laggiù, in fondo alla grotta, ti rendesti conto che non avresti potuto avere la sorte che il tuo padrone Don Chisciotte aveva avuto nella grotta di Montesinos, poiché «là egli ebbe delle belle e piacevoli visioni – ti dicevi – mentre io qui vedrò, secondo quanto immagino, rospi e bisce». Sì, mio fratello Sancio; le visioni non sono da tutti, né il mondo della grotta è altro che la
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más que una proyección del mundo de la sima de nuestro espíritu; tu hubieras visto en la cueva de Montesinos sapos y culebras como en esa cueva en que caíste los viste; y tú amo hubiera visto en esa tú sima visiones hermosas y apacibles como las vio en la cueva de Montesinos. Para ti no ha de haber más visiones que las de tu amo; él ve el mundo de las visiones y tu lo ves en él; él lo ve por su fe en Dios y en sí mismo, y tu lo ves por tu fe en Dios y en tu amo. Y no es menos grande tu fe que la fe de Don Quijote, ni son menos propias de ti las visiones que ves por tu amo, que son propias de él las que él ve por sí mismo. El mismo Dios se las suscita, a él en él mismo y a ti en él. No es menos héroe el que cree en el héroe que el héroe mismo creído por él. Mas el propio Sancho dio en lamentarse en el fondo de la sima y en llorar su desgracia, viendo ya que sacaría de allí sus huesos «mondos, blancos y raídos» y los de su buen rucio con ellos; viéndose morir lejos de su patria y de los suyos, sin que nadie le cierre los ojos ni se duela de su muerte al tiempo de morir, que es morir dos veces y quedarse solo con la muerte. Y así le llegó el día; y ¿qué iba a hacer el pobre Sancho, solo con su rucio, sino dar voces y pedir socorro? Y explorar su sima, pues para algo había servido a Don Quijote. Y entonces es cuando exclamó aquellas tan preñadas sentencias: «¡Válame Dios Todopoderoso! Esta que para mi es desventura, mejor fuera para aventura de mi amo Don Quijote. El sí que tuviera estas profundidades y mazmorras por jardines floridos y por palacios de Galiana, y esperara salir desta escuridad y estrecheza a algún florido prado; pero yo, sin ventura, falto de consejo y menoscabado de ánimo, a cada paso pienso que debajo de los pies de improviso se ha de abrir otra sima más profunda que la otra, que acabe de tragarme». Sí, hermano Sancho, sí; el menoscabo de tu ánimo te impide y te impedirá encontrar jardines floridos y palacios de Galiana
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proiezione del nostro spirito; nella grotta di Montesinos, avresti visto rospi e e bisce simili a quelli che hai visto in questa grotta dove sei precipitato; mentre il tuo padrone avrebbe visto, anche in questa tua grotta, visioni belle e piacevoli come le vide nella grotta di Montesinos. Per te non ci devono essere altre visioni che quelle del tuo padrone; a lui tocca vedere il mondo delle visioni, e a te rivederle attraverso di lui; egli le vede per la sua fede che ha in Dio e in se stesso, e tu le vedi per la fede che riponi in Don Chisciotte; ma tuttavia non ti appartengono meno le visioni che vedi attraverso il tuo padrone di quelle che appartengono a lui e che vede da solo. È Dio stesso che gliele mette e te le mette davanti agli occhi: a lui in se stesso e a te in lui. Non è meno eroe colui che crede nell’eroe che lo stesso eroe in cui crede. Ma lo stesso Sancio nel fondo della grotta si lamentò e pianse sulla sua disgrazia parendogli ormai che avrebbe tratto fuori di lì le proprie ossa «monde, bianche e corrotte» e, insieme alle sue, quelle del suo buon leardo; già gli sembrava di vedersi morire lontano dalla patria e dai suoi, senza nessuno che gli chiudesse gli occhi o si dolesse della sua morte mentre egli moriva. Che è come morire due volte e rimanere da solo al cospetto della morte. Così gli sopraggiunse il giorno; e che altro poteva fare il povero Sancio, solo col suo asino, se non mettersi a gridare per chiedere aiuto? Oltre, ovviamente, a esplorare la sua grotta, perché non per niente aveva servito Don Chisciotte. E fu proprio allora che pronunciò le significative frasi: «Che Dio onnipotente mi aiuti! Questa che per me è una sventura sarebbe piuttosto un’avventura per il mio padrone Don Chisciotte. Lui sì che riterrebbe per giardini fioriti e per palazzi di Galiana queste profondità e questi anfratti e si aspetterebbe di uscire da questi luoghi oscuri e angusti in qualche prato fiorito; ma io sventurato, privo di ogni consiglio e col coraggio che mi viene meno, a ogni passo penso che, sotto i piedi, all’improvviso, mi si debba aprire un nuovo precipizio ancora più profondo che finisca di inghiottirmi». Sì, mio fratello Sancio, sì; la debolezza del tuo animo ti impedisce e ti impedirà di trovare giardini fioriti e palazzi di Galiana
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en las profundas simas a que caigas. Pero mira, ahora en que en el fondo de la sima de tu desgracia reconoces lo mucho que de tu amo te separa, ahora es cuando estás más cerca de él, pues cuanto más sientas tu distancia de él más a él te acercas. Te pasa con tu amo, aunque en finito y relativo, lo que infinito y absoluto nos pasa a tu amo, a ti, a mi y a todos los mortales con Dios, y es que cuanto más sentimos el infinito que de Él nos separa más cerca de Él estamos, y cuanto menos acertamos a definirle y representárnoslo mejor le conocemos y queremos más. Y yendo así con el rucio y con sus pensamientos por aquellas profundidades Sancho, dando voces, las oyó… ¿quién había de oirlas?, ¿quién otro sino el mismísimo Don Quijote? El cual, habiendo salido una mañana a imponerse y ensayarse en lo que habia de hacer en el trance de la honra de la hija de doña Rodríguez, fue llevado por Dios a la boca de la sima, donde oyó las voces que Sancho daba. Y Don Quijote le creía alma en pena, y le ofrecía sufragios para sacarle del purgatorio, que pues su profesión era de favorecer y acorrer a los necesitados de este mundo, también lo seria para acorrer y ayudar a los menesterosos del otro. Mira, Sancho, cómo tu amo, al oirte en la sima y en la sima no verte, tiénete por muerto y te ofrece sus sufragios. Y entonces, al oír tú la voz de tu amo, exclamaste lleno de júbilo: «¡Nunca me he muerto en todos los días de mi vida!». Ya no piensas en que recojan tus huesos mondos, blancos y roídos, ni en que has de morir solo con la muerte; oíste a tu amo, y olvidando que has de morir, recuerdas tan solo que no te has muerto nunca todavía. Y rebuznó el rucio, y al oírlo comprendió Don Quijote que no se trataba de alma en pena, sino de su escudero, que le acompañaba. Y es la señal muy cierta, pues cuando de las cosas que nos parecen del otro mundo salen rebuznos, es que no se
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nei profondi precipizi in cui potrai cadere. Ma bada: adesso che nelle profondità dell’abisso della tua sventura ti accorgi della distanza che ti separa dal tuo padrone adesso, dico, sei più vicino a lui di quanto tu lo sia mai stato, poiché, quanto più avverti la distanza che ti separa da lui, tanto più ti avvicini a lui. Col tuo padrone, sebbene in un campo limitato e relativo, ti succede quello che in assoluto e nell’infinito capita a tutti noi: al tuo padrone, a te, a me e a tutti i mortali con Dio; ed è che quanto più avvertiamo l’infinito che ci separa da Lui, tanto più gli siamo vicini; e quanto meno riusciamo a definirlo e a rappresentarceLo, tanto meglio Lo conosciamo e l’amiamo di più. E mentre in tal modo Sancio si aggirava col suo asino e i suoi pensieri in quelle profondità, gridando forte, l’udì… Chi mai doveva udirlo? Chi altri, se non Don Chisciotte in persona. Il quale, essendo uscito una mattina con l’intenzione di riflettere e di provare quello che avrebbe dovuto fare nella delicata questione dell’onore della figlia di donna Rodríguez, fu guidato da Dio fino all’imbocco della grotta, dove udì le grida che emetteva Sancio. E Don Chisciotte le scambiò a prima vista per i lamenti di un’anima in pena e le prometteva suffragi per tirarla fuori dal purgatorio, giacché, dal momento che la sua professione era quella di aiutare e soccorrere i bisognosi di questo mondo, poteva anche valere a soccorrere e aiutare i bisognosi dell’altro. Nota, Sancio, che il tuo padrone, udendo la tua voce uscire dalla grotta e non vedendoti in essa, ti considera già morto e ti offre i suoi suffragi. E allora, quando ascoltasti la voce del tuo padrone, esclamasti pieno di giubilo: «Mai una volta sono morto in tutta la mia vita!». Adesso non pensi più che qualcuno raccoglierà le tue ossa monde, bianche e corrotte, né pensi che dovrai morire al solo cospetto della morte; hai udito il tuo padrone e, dimenticando che devi morire, ti ricordi unicamente che non sei ancora mai morto! Ma poi l’asino ragliò e, nell’udirlo, Don Chisciotte capì che non si trattava di un’anima in pena, ma del suo scudiero, di colui che gli era compagno. E il segno non poteva essere più certo, poiché, quando dalle cose che ci paiono venire dall’altro mondo vengono fuori ragli, significa
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trata sino de cosas del mundo este. Y Don Quijote hizo que le sacaran de la sima. Y así fue sacado Sancho de la sima en que cayera al salir del gobierno de su ínsula y encontrarse solo, de aquella sima por la que caminó llevando tras de sí y guiando a su rucio. Que esta diferencia entre otras había entre amo y escudero, y es que aquel se dejaba guiar de su caballo y el escudero guiaba a su rucio. Y así sucede que en la marcha por el bajo mundo se deja el Quijote llevar por su animal, y el Sancho lo lleva.
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che si tratta semplicemente di cose di questo mondo. E Don Chisciotte lo fece tirar fuori dalla grotta. Così Sancio fu estratto dalla grotta dove era caduto subito dopo aver lasciato il governo della sua isola e non appena si era ritrovato solo; dalla grotta nella quale era andato errando tirandosi dietro e guidando il suo asino. Poiché, tra le altre cose, c’era questa differenza tra padrone e scudiero: che quello si lasciava guidare dal proprio cavallo, mentre lo scudiero guidava il suo somaro. E così avviene che nel viaggio attraverso questo basso mondo il Chisciotte si lascia guidare dal proprio animale, mentre il Sancio lo guida lui.
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de lo que sucedió a Don Quijote con doña Rodríguez, la dueña de la duquesa, con otros acontecimientos dignos de escritura y de memoria eterna En la melancólica aventura de la dueña doña Rodríguez solo hay que advertir la encantadora simplicidad de esta buena mujer, que entre tantos burladores acudió en veras a Don Quijote. Y entonces se preparó el singular duelo del Caballero con Tosilos para obligar al seductor de la hija de doña Rodríguez a que tomase a esta por suegra, y el inesperado desenlace de él, merced al súbito enamorarse Tosilos de la ex doncella y declarar cómo la quería por mujer. Y he aquí cómo entre tantos burladores la simple, la boba, la sincera doña Rodríguez logró poner a su desdoncellada hija a punto de casarse, gracias a Don Quijote. Pues siempre ocurre que quien con pureza de intención y de veras y no en burlas acude a Don Quijote, sin buriarse de él, consigue su propósito. Difícil es esta fe en un mundo de burladores, pero, ¿no creéis que quien tomase a Don Quijote tan en serio como doña Rodríguez y su hija le tomaron lograría sus propósitos, a no atravesársele aviesos burladores, como se les atravesaron a ellas? Cierto es que, al descubrirse que el caballero que se dio por vencido no era el seductor, sino Tosilos, se llamaron a engaño la seducida y su señora madre, pero bien dijo Don Quijote a la ex doncella al encontrarse con aquel nuevo caso de encantamiento: «tomad mi consejo, y a pesar de la malicia de mis enemigos,
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di ciò che successe a Don Chisciotte con donna Rodríguez, la maggiordoma della Duchessa, nonché di altri casi meritevoli di essere trascritti e di eterno ricordo Nella malinconica avventura della dama donna Rodríguez c’è da notare solo l’incantevole semplicità di questa buona donna che, tra tanti schernitori, fu l’unica a rivolgersi sul serio per un aiuto a Don Chisciotte. E allora si preparò la singolare tenzone del Cavaliere con Tosillo per costringere il seduttore della figlia di donna Rodríguez a prendersi quest’ultima come suocera, e l’inattesa soluzione dell’avventura, grazie all’improvviso amore di Tosillo per la ex damigella e alla sua decisione di chiederla in moglie. Ecco dunque che, tra tanti schernitori, l’ingenua, la sciocca, la sincera donna Rodríguez riuscì ad ottenere per sua figlia le tante sospirate nozze, grazie a Don Chisciotte. E del resto accade sempre che chi con purezza di intenzioni e seriamente e non per burla si rivolge a Don Chisciotte per un aiuto, senza prendersi gioco di lui, ottiene il suo scopo. È una fede difficile, questa, in un mondo di schernitori; ma non credete anche voi che se uno prendesse sul serio Don Chisciotte, come fecero donna Rodríguez e sua figlia, raggiungerebbe il suo scopo, senza che non si interponessero malvagi schernitori, come accadde a loro due? È certo che, dopo aver scoperto che il cavaliere dichiaratosi sconfitto non era il vero seduttore, ma Tosillo, la sedotta e la sua signora madre gridarono all’inganno; ma Don Chisciotte, di fronte a quel nuovo caso di incantesimo, disse saggiamente all’ex damigella: «Accettate il mio consiglio e, a dispetto della malva-
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casaos con él, que sin duda es el mismo que vos deseáis alcanzar por esposo». ¡Y tan el mismo! Como que lo aceptó, pues más quería ser mujer legítima de un lacayo que no amiga y burlada de un caballero. De mano de Don Quijote tomó inesperado esposo, y esta es la aventura a que, por el pronto, dio más feliz remate nuestro Caballero. Y le dio tal por haberse encontrado con gentes sencillas y humildes, de las que toman el mundo en serio y acuden en serio a Don Quijote; por haberse encontrado con burlada moza que anhelaba esposo, contentándose con el que Don Quijote le diera. ¡Hermosa conformidad! Y tal es la condición para que pueda el héroe hacer en nosotros su beneficio, y es que nos hallemos dispuestos a recibir de su mano lo que nos diere, siempre que remedie nuestra necesidad. ¿Eres, lectora, una burlada doncella y quieres remediar tu desgracia? ¿Necesitas marido que cubra tu vergüenza? Pues no pretendas que haya él de ser este o aquel, y menos tu burlador; conténtate con el que te depare Don Quijote, que es buen casamentero. Y al concluir de contar esta tan afortunada aventura, añade el historiador estas terribles palabras: «Aclamaron todos la victoria por Don Quijote, y los más quedaron tristes y melancólicos de ver que no se habían hecho pedazos los tan esperados combatientes». ¡Oh, y qué terrible es en sus burlas el hombre! Más de temer es la burla del hombre que no la seria acometividad de una fiera salvaje, que os ataca por hambre. Puestos los hombres en el despeñadero de las burlas no paran hasta bajar a crímenes y villanías; por burlas comenzaron muchos de los más horrendos delitos; por buscar deleite y regocijo se ha llevado a muchos a trabarse de manos homicidas. ¡Cosa terrible la burla! Dicen que por burla, señor mio Don Quijote, se escribió tu historia para curarnos de la locura del heroísmo y añaden que el burlador logró su objeto. Tu nombre
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gità dei miei nemici, sposatevi con lui, poiché indubbiamente è proprio quello che voi desideravate ottenere per marito». Eccome se era quello! E infatti lo accettò, poiché preferiva essere moglie legittima di un lacchè piuttosto che amante ingannata di un cavaliere. Ricevette dalla mano di Don Chisciotte un marito inatteso; e questa è l’avventura alla quale, per il momento, il nostro Cavaliere diede un esito felice. E glielo diede poiché ebbe la sorte di aver incontrato gente ingenua ed umile, quella che prende il mondo sul serio e si rivolge seriamente per un aiuto a Don Chisciotte; perché si trovò di fronte ad una ragazza ingabbiata che anelava ad avere un marito e si accontentava di quello che le offriva Don Chisciotte. Encomiabile rassegnazione! È questa la condizione che permette all’eroe di farci del bene: che siamo disposti a ricevere dalle sue mani quello che ci darà, sempre che con ciò siano soddisfatti i nostri bisogni. Sei tu, lettrice, una donzella ingannata e vuoi rimediare alla tua disgrazia? Ti occorre un marito che copra la tua vergogna? Non avere la pretesa che sia questo o quello, e tanto meno il tuo stesso seduttore; accontentati di quello che ti offrirà Don Chisciotte che d’altra parte è un buon paraninfo. Quando finisce di narrare questa così felice avventura, lo storico aggiunge queste terribili parole: «Tutti acclamarono vincitore Don Chisciotte, ma la maggior parte rimasero male e dispiaciuti nel vedere che i tanto attesi combattenti non si erano fatti a pezzi». Oh, l’uomo è davvero tremendo nelle sue beffe! È più temibile lo scherno dell’uomo che non l’autentica aggressività di una bestia selvaggia che vi attacca perché ha fame. Una volta che gli uomini si sono spinti sulla precipitosa china delle burle, non si arrestano finché non hanno commesso delitti e cattive azioni; molti dei più orrendi crimini sono iniziati con la beffa; dalla ricerca del divertimento e dello svago molti sono stati condotti a sporcarsi le mani di sangue. Tremenda cosa, la beffa! Dicono, mio signor Don Chisciotte, che la tua storia fu scritta con intenti beffardi, per guarirci della follia dell’eroismo e aggiunsero che il burlone ha raggiunto
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ha llegado a ser para muchos cifra y resumen de burlas y sirve de conjuro para exorcizar heroísmos y achicar grandezas. Y no recobraremos más nuestro aliento de antaño mientras no volvamos la burla en veras y hagamos el Quijote muy en serio y no por compromiso y sin creer en ti. Ríense los más de los que leen tu historia, loco sublime, y no pueden aprovecharse de su meollo espiritual mientras no la lloren. ¡Pobre de aquel a quien tu historia, Ingenioso Hidalgo, no arranque lágrimas, lágrimas del corazón, no ya de los ojos! En una obra de burlas se condensó el fruto de nuestro heroísmo; en una obra de burlas se eternizó la pasajera grandeza de nuestra España; en una obra de burlas se cifra y compendia nuestra filosofía española, la única verdadera y hondamente tal; con una obra de burlas llegó el alma de nuestro pueblo, encarnada en hombre, a los abismos del misterio de la vida. Y esa obra de burlas es la más triste historia que jamás se ha escrito; la más triste, sí, pero también la más consoladora para cuantos saben gustar en las lágrimas de la risa la redención de la miserable cordura a que la esclavitud de la vida presente nos condena. Yo no sé si esa obra, mal entendida y peor sentida, puede tener en ello parte, mas es el caso que se cierne sobre nuestra pobre patria una atmósfera abochornada de gravedad abrumadora. Por dondequiera, hombres graves enormemente graves, graves hasta la estupidez. Enseñan con gravedad, predican con gravedad, mienten con gravedad, engañan con gravedad, disputan con gravedad, juegan y ríen con gravedad, faltan con gravedad a su palabra, y hasta eso que llaman informalidad y lijereza son la lijereza e informalidad más graves que se conocen. Ni aun a solas dan unos tumbos y zapatetas en el aire, en seco y sin motivo alguno, y de tal modo pareció agotarse en la historia de Don Quijote el repuesto todo de heroísmo que en España hubiera, que no es fácil se encuentre hoy en el mundo pueblo más incapaz que el español de comprender y sentir el humor. Aquí se toman por donaires y se rie las más chocarreras
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il suo scopo. Il tuo nome è diventato per molti simbolo ed esempio di scherno, e serve come scongiuro per esorcizzare eroismi e rimpicciolire grandezze. Ma non riusciremo a riprendere il nostro primitivo slancio se prima non trasformiamo la beffa in autentica verità facendo i Chisciotte con tutta la serietà e non tanto per fare e senza aver fede in te. Ridano pure la maggior parte di coloro che leggono la tua storia, folle sublime, ma non potranno mettere a profitto il nucleo spirituale finché non impareranno a piangerne. Sventurato colui, ingegnoso hidalgo, al quale la tua storia non strappa le lacrime, e lacrime del cuore, non soltanto degli occhi! In un’opera di burle si è condensato il frutto del nostro eroismo; in un’impresa da burla si è resa eterna la fugace grandezza della nostra Spagna; in un’opera da burla si condensa e si compendia la nostra filosofia spagnola, l’unica che sia profondamente e veramente tale; con un’opera da burla, l’anima del nostro popolo, incarnata in un uomo, è discesa nei più profondi abissi della vita. E quest’opera da burla è la più triste storia che giammai sia stata scritta; la più triste, sì, ma anche la più ricca di conforto per quanti sanno gustare nelle lacrime che strappa il riso la redenzione dalla meschina saggezza alla quale ci ha condannato la schiavitù della vita presente. Io non so se quest’opera, malamente intesa e peggio ancora sofferta, può giovare in qualche modo allo scopo; ma sta di fatto che sulla nostra povera patria si libra un’atmosfera pesante di una gravità opprimente. Dovunque si guardi, non si vedono che uomini gravi, enormemente gravi, gravi fino all’imbecillità. Insegnano con gravità, predicano con gravità, giocano e ridono con gravità, vengono meno con gravità alla loro parola e persino ciò che chiamano leggerezza e mancanza di serietà sono la leggerezza e la mancanza di serietà più gravi che si conoscono. Nemmeno quando sono soli fanno quattro capriole e quattro piroette in aria, a freddo e senza alcun motivo, cosicché è parso che nella storia di Don Chisciotte si sia esaurita ogni riserva di eroismo che esisteva in Spagna, tanto che non è facile trovare nel mondo un popolo più incapace di capire e sentire l’umorismo che quello spagnolo. Qui da noi si scambiano per facezie e si accolgono
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torpezas de cualquier ingenio afrailado; hay asnos en figura humana que celebran como agudo chiste el que se le diga a alguien que se le ven las orejas de burro. Después que tú, Don Quijote, te fuiste de este mundo, se ha llegado a reír como gracias las insípidas sandeces de un tal fray Gerundio de Campazas, y luego que Sancho dejó de luchar en la conquista de su fe, se nos vino un Bertoldo italiano y está bertoldizando a nuestro pueblo. Mentira parece que en el pueblo en que Don Quijote elevó a heroicas hazañas las más miserables burlas se rieran los retorcidos chistes de aquel fúnebre Quevedo, hombre grave y tieso, si los ha habido, y fuesen reídas las pretendidas gracias, puramente de corteza, cuando no de pellejo de corteza, es decir de vocablo, de su Gran Tacaño.
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ridendo le più goffe scempiaggini di un qualsiasi ingegno di fratacchione; esistono asini sotto la specie d’uomini che salutano come un’arguzia piacevole il fatto che a qualcuno si dica che gli si vedano le orecchie d’asino. Da quando tu, Don Chisciotte, te ne sei andato da questo mondo, si è giunti a ridere come di detti ingegnosi delle insipide scemenze di un certo fra Gerundio di Campazas6 ; e dopo che Sancio smise di combattere per la conquista della propria fede, ci è arrivato un Bertoldo italiano che sta bertoldizzando il nostro popolo. Sembra una bugia che, tra il popolo che vide Don Chisciotte elevare ad eroiche imprese le più miserabili beffe, si sia potuto ridere delle contorte arguzie di quel funereo Quevedo, uomo serio e tutto d’un pezzo, e si siano potute accogliere con un sorriso spiritosaggini, che non vanno oltre la scorza e forse oltre la pellicola superficiale della scorza, vale a dire del puro e semplice vocabolo, del suo Pitocco.
6 Fra Gerundio di Campazas, alias Zote, è il titolo di un romanzo satirico scritto dal gesuita J.F. Isla de la Torre y Rojo, che criticava la vuota retorica dei predicatori del suo tempo. (N.d.T.)
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capítulo lvii
que trata de cómo Don Quijote se despidió del Duque, y de lo que le sucedió con la discreta y desenvuelta Altisidora, doncella de la Duquesa Harto Don Quijote de su ociosidad en casa de los Duques, y dolido ya, por muy dentro de sí, aunque su historiador no nos lo apunte, de las burlas que se le hacían, decidió marcharse. Y no nos quepa duda de que las tales burlas ni se le pasaban inadvertidas ni dejaban de dolerle, pues aunque su locura las tomara por buenas y las aprovechase en heroísmo, no dejaba de trabajar por debajo de ella su cordura, a oscuras, y tal vez sin que él mismo se percatara de ello. Y así, «pidió un día licencia a los Duques para partirse», y se la dieron «con muestras de que en gran manera les pesaba de que los dejase». A Sancho le dieron, a escondidas de su amo, «un bolsillo de doscientos escudos de oro», el triste precio de las burlas, el salario de los juglares. Y después de subir una vez más los burlescos requiebros de Altisidora, se salió Don Quijote del castillo, «enderezando su camino a Zaragoza». Toma ya libre huelgo el Caballero de la Fe; respiremos con él.
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che tratta di come Don Chisciotte si congedò dal Duca e di ciò che gli successe con l’astuta e sfacciata Altisidora, damigella della Duchessa Don Chisciotte, oramai stanco della sua oziosità in casa dei Duchi e alquanto addolorato nell’intimo, nonostante il suo storico non lo evidenzi, per le beffe che gli si preparavano, decise di partire. E state pur certi che quelle burla non gli passavano inosservate, né potevano non addolorarlo giacché, se anche la sua follia le lasciava passare per buone e se ne giovava per esercitare il suo eroismo, non cessava un solo istante, sia pure sotto la follia e oscuramente, di esercitare il suo giudizio, senza che forse egli stesso ne fosse consapevole. E così «chiese ai Duchi il permesso di partirsene»; ed essi glielo concessero, «pur mostrando che li rincresceva molto che egli li lasciasse». A Sancio, di nascosto dal padrone, diedero «un borsellino con duecento scudi d’oro», triste salario della burla, compenso dovuto ai giullari. E, dopo aver subito ancora una volta i burleschi corteggiamenti di Altisidora, Don Chisciotte se ne uscì dal castello, «prendendo la via di Saragozza». Finalmente, il Cavaliere della Fede ha ritrovato il libero respiro; respiriamo dunque con lui.
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que trata de cómo menudearon sobre Don Quijote aventuras tantas que no se daban a vagar unas a otras «Cuando Don Quijote se vio en la campaña rasa, libre y vi desembarazado de los requiebros de Altisidora, le pareció que estaba en su centro y que los espíritus se le renovaban para proseguir de nuevo el asunto de sus caballerías, y volviéndose a Sancho, le dijo: la libertad, Sancho, es uno de los más preciados dones que a los hombres dieron los siglos…», con todo lo que se sigue. Sí, ya estás libre de burlas y chacotas, ya estás libre de duques y doncellas y lacayos, ya estás libre de la vergüenza de aparecer pobre. Se comprende bien que «en metad de aquellos banquetes sazonados y de aquellas bebidas de nieve» te pareciera «estar metido entre las estrecheces de la hambre». Bien decías: «Venturoso aquel a quien el cielo dio un pedazo de pan, sin que le quede obligación de agradecerlo a otro que al mismo cielo». ¿Y quién es ese? «En estos y otros razonamientos iban los andantes Caballero y escudero», y ocupado el corazón de Don Quijote por los dejos de su esclavitud en casa de los Duques y el recuerdo de su soledad y su pobreza, cuando se encontró con una docena de labradores que llevaban, cubiertas con unos lienzos, unas imágenes de relieve y entalladura para el retablo de su aidea. Pidió Don Quijote cortésmente que se las mostrasen y le enseñaron las de San Jorge, San Martin, San Diego Matamoros y San Pablo, caballeros andantes del cristianismo los cuatro, y que pelearon a
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che tratta di come fioccarono su Don Chisciotte tante avventure da non dar respiro l’una all’altra «Quando Don Chisciotte si vide in aperta campagna, libero e al riparo dalle galanterie amorose di Altisidora, gli parve di trovarsi nel suo centro e che gli si rinnovasse la lena per riprendere le occupazioni della sua vita cavalleresca. Rivolgendosi a Sancio, gli disse: la libertà, Sancio, è uno dei più preziosi doni che i cieli abbiano mai dato agli uomini…», con tutto quel che segue. Sì, ormai ti sei liberato dei brutti scherzi e delle burle; sei ormai libero da duchi e damigelle e lacchè: sei ormai rinfrancato dalla vergogna di apparire povero. Si comprende bene che «fra tanti squisiti banchetti, pur con tutte quelle bevande ghiacciate come neve, ti sembrasse di trovarti tra le strette della fame». E dicevi benissimo: «Beato colui al quale il cielo dette un tozzo di pane senza che gli resti l’obbligo di esserne grato ad altro che al cielo stesso!». Ma chi mai può essere costui? «Fra questi ed altri ragionamenti seguivano il cammino i due erranti, Cavaliere e scudiero» e il cuore di Don Chisciotte era ancora tutto pieno delle amare tracce della schiavitù subita in casa dei Duchi e del ricordo della solitudine e della povertà che l’avevano afflitto, quando s’imbatté in una dozzina di contadini che recavano, ricoperte con teloni, delle figure a rilievo e ad intaglio destinate all’altare del loro paese. Don Chisciotte chiese cortesemente che gliele lasciassero vedere, e gli mostrarono le immagini di San Giorgio, di San Martino, di San Diego Ammazzamori e di San Paolo, tutte e quattro cavalieri erranti del cristianesimo e combattenti per il trionfo di Dio. E Don
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lo divino. Y Don Quijote, al verlos, dijo: «Por buen agüero he tenido, hermanos, haber visto lo que he visto, porque estos santos y caballeros profesaron lo que yo profeso, que es el ejercicio de las armas; sino que la diferencia que hay entre mi y ellos es que ellos fueron santos y pelearon a lo divino y yo soy pecador y peleo a lo humano. Ellos conquistaron el cielo a fuerza de brazos, porque el cielo padece fuerza, y yo, hasta ahora, no sé lo que conquisto a fuerza de mis trabajos; pero si mi Dulcinea del Toboso saliese de los que padece, mejorándose mi ventura y adobándoseme el juicio, podría ser que encaminase mis pasos por mejor camino del que llevo». ¡Hondísimo pasaje! Aquí la temporal locura del Caballero Don Quijote se derrite en la eterna bondad de la cordura del hidalgo Alonso el Bueno, y no hay acaso en toda la tristísima epopeya de su vida pasaje que nos labre mas honda pesadumbre en el corazón. Aquí Don Quijote se adentra y entraña en la cordura de Alonso Quijano el Bueno, zahonda en sí mismo, torna a ser niño y a marnar, segun aquello de Teresa de Jesus (Vida, XIII, 11) de que lo «del conoscimiento propio jamás se ha de dejar ni hay alma en este camino tan gigante que no haya menester muchas veces tornar a ser niño y a mamar». Sí, Don Quijote se vuelve aquí a su niñez espiritual, a la ninez cuyo recuerdo es el alivio de nuestra alma, pues es el niño que llevamos todos dentro quien ha de justifícarnos algún día. Hay que hacerse como niños para entrar en el reino de los cielos. Aquí se le agolpaban en la cabeza y en el corazón a Don Quijote aquellos años de sus remotas mocedades, de que nada nos dice su historia; todos aquellos misteriosos años en que, libre todavía del encanto de los libros de caballerias, había contemplado con paz, en serenas tardes, la mansedumbre de la reposada Mancha. ¿Y no había, pobre Caballero, en el poso de este tu desencanto, un recuerdo de aquella garrida Aldonza, por la que suspirabas doce años ya sin más que haberla visto cuatro veces? «Si mi Dulcinea del Toboso saliese de los (trabajos) que padece…», decías,
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Chisciotte, nel vederle, disse: «Considero di buon augurio, fratelli, l’aver visto ciò che ho visto, poiché questi santi e cavalieri eserciteranno quello che io esercito, cioè la professione delle armi; senonché la differenza tra me e loro è che essi furono santi e combatterono da gente di Dio mentre io sono peccatore e combatto secondo il mondo. Essi conquistarono il cielo a forza di braccia, giacché il cielo vuole essere forzato, ed io finora non so cosa conquisto a forza di travagli; tuttavia, se la mia Dulcinea del Toboso fosse alleviata dalla proprie sofferenze, migliorando la mia sorte e con più giudizio forse potrei dirigere i miei passi verso un migliore cammino di quello che ho intrapreso». Brano profondissimo! Qui la temporale follia del Cavaliere Don Chisciotte si dissolve nell’eterna bontà della saggezza dell’hidalgo Alonso il Buono; e forse in tutta la tristissima epopea della sua vita non c’è un passo che ci infligga nel cuore una pena più opprimente. A questo punto Don Chisciotte si immerge e si immedesima nella saggezza di Alonso Chisciano il Buono, scava dentro di sé, ritorna a essere bambino e a succhiare il latte materno, secondo l’espressione di Teresa di Gesù (Vita, XIII, 11): «la ricerca della conoscenza di se stessi non si deve mai tralasciare, né c’è, su questa via, anima tanto grande che non abbia spesso bisogno di ritornare a essere bambino e a succhiare il latte materno». Sì, Don Chisciotte torna ora alla sua infanzia spirituale, all’infanzia, il cui ricordo è sollievo per la nostra anima, giacché è il bambino che tutti noi ci portiamo dentro che un giorno dovrà discolparci. Bisogna che ci facciamo piccoli come bambini per poter entrare nel regno dei cieli. Adesso si affollavano nella mente e nel cuore di Don Chisciotte gli anni della sua remota adolescenza, della quale la sua storia non ci dice nulla: tutti quegli anni misteriosi in cui, libero ancora dall’incantesimo dei libri di cavalleria, aveva contemplato in piena pace, nei pomeriggi sereni, la mansuetudine della quieta Mancia. Ma non c’era forse, mio povero Cavaliere, proprio nel fondo di questo tuo disinganno, un ricordo di quella ben piantata Aldonza per la quale avevi sospirato per dodici anni senza averla vista che quattro volte? «Se la mia Dulcinea del Toboso fosse alleviata da quei (travagli) che soffre…», dicevi mio povero Don
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mi pobre Don Quijote, y en tanto pensaba dentro de ti Alonso Quijano: ¡oh, si el imposible, por ser imposible, se cumpliese merced a mi locura, si Aldonza, movida a compasión y encantada por la locura de mis proezas, viniese a romper mi vergüenza, esta vergüenza de pobre hidalgo entrado en años y henchido de amor, oh, entonces, «mejorándose mi ventura y adobándoseme el juicio», encaminaría mis pasos a una vida de amor dichoso! ¡Oh, mi Aldonza, mi Aldonza, tu pudiste llevarme por mejor camino del que llevo!, pero… es ya tarde! ¡Te encontré muy tarde en mi vida! ¡Oh misterios del tiempo! ¡Contigo habría yo sido héroe, pero un héroe sin locura; contigo, este mi esfuerzo heroico habriase enderezado a hazañas de otra laya y a otro alcance; contigo, en vez de estas burlas, habría derramado fecundas veras por los campos de mi patria! Y ahora, dejando a Alonso el Bueno, volvamos a Don Quijote para oír al Caballero empeñado en la hazañosa empresa de enderezar los tuertos del mundo a fin de alcanzar, merced a ello, eternidad de nombre y fama, oírle cómo confiesa no saber lo que conquista a fuerza de sus trabajos, y verle volver su mirada a la salvación de su alma y a la conquista del cielo, que padece fuerza. «¿De qué aprovecha al hombre si ganare todo el mundo y perdiere su alma? O ¿qué recompensa dará el hombre por su alma?», dice el Evangelio (Mt., XVI, 26). Estas palabras de descorazonamiento en su obra de Don Quijote, esa su bajada a la cordura de Alonso el Bueno, es lo que más a las claras pone su hermandad espiritual con los místicos de su propia tierra castellana, con aquellas almas llenas de sed de los secos parameros sobre que moraban y de la serena limpieza del terso cielo bajo el cual penaban. Son a la vez la queja del alma al encontrarse sola. ¿Por qué afanarse? ¿Para qué todo? Bástale a cada día su malicia. ¿Para qué ir a enderezar los tuertos del mundo? El mundo lo llevamos dentro de nosotros, es nuestro sueño, como lo es la vida; purifiquémonos y lo purificaremos. La mirada lim-
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Chisciotte; e intanto, dentro di te, Alonso Chisciano pensava: oh, se l’impossibile, proprio perché è impossibile si avverasse grazie alla mia follia, se Aldonza, mossa a pietà e incantata dalla follia delle mie prodezze, venisse da me e infrangesse il mio pudore, questo pudore di povero hidalgo già avanti con gli anni e traboccante d’amore, oh, allora «migliorando la mia sorte e con più giudizio» indirizzerei i miei passi verso una vita di amore felice! Oh, Aldonza, mia Aldonza, tu avresti potuto guidarmi per una via migliore di quella che seguo, ma… ormai è tardi! Ti ho incontrata troppo tardi nella mia vita! Oh, misteri del tempo! Con te sarei stato eroe, ma eroe senza follia; con te, questo mio eroico slancio si sarebbe rivolto a imprese di ben altro spessore e a ben altro scopo; con te, invece di queste burle, avrei seminato feconde verità per i campi della mia patria! Ma adesso, lasciando da parte Alonso il Buono, torniamo a Don Chisciotte per ascoltare il Cavaliere tutto preso dalla difficile impresa di raddrizzare i torti del mondo per ottenere, grazie a tale impegno, eternità di risonanza e fama; per ascoltarlo mentre confessa di non sapere che cosa sta conquistando mediante le sue fatiche, e vedere rivolgere lo sguardo alla salvezza della propria anima e alla conquista del cielo, che si piega alla violenza. «Che gioverà all’uomo, se acquisterà tutto il mondo e perderà la sua anima? O quale ricompensa pagherà l’uomo in cambio della sua anima?», dice il Vangelo (Mt., XVI, 26), Queste parole di Don Chisciotte che suonano sfiducia nella propria opera, questa sua discesa nel profondo della saggezza di Alonso il Buono, sono l’elemento che più chiaramente afferma la sua fratellanza spirituale con i mistici della sua stessa terra castigliana, con quelle anime piene di sete dei riarsi altipiani su cui dimoravano e della serena limpidezza del terso cielo sotto la cui volta penavano. Sono a volte il gemito dell’anima che si ritrova tutta sola. A che scopo affannarsi? A che scopo tutte le nostre azioni? A ciascun giorno basta la sua malizia, a che scopo andare a raddrizzare i torti del mondo? Il mondo lo portiamo dentro di noi: è il nostro sogno come lo è la vita; purifichiamoci e purificheremo anch’esso. Lo sguardo limpido rende limpido tutto ciò che
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pia limpia cuanto mira; los oídos castos castigan cuanto oyen. La mala intención de un acto, está en quien lo comete o en quien lo juzga? La horrible maldad de un Caín o de un Judas, ¿no será acaso condensación y símbolo de la maldad de los que han fomentado sus leyendas? ¿No es la maldad nuestra lo que nos hace descubrir cuanto hay de malo en nuestro hermano? ¿No es la paja que te anubla el ojo lo que te permite ver la viga del mío? Tal vez el demonio carga con las culpas de los que le temen… Santifiquemos nuestra intención y quedará santificado el mundo; purifíquemos nuestra conciencia y puro saldrá el ambiente. «La caridad cubre multitud de pecados», dice la primera de las epístolas atribuidas al apóstol Pedro (IV, 8). Los limpios de corazón ven a Dios en todo, y todo lo perdonan en su nombre. Las ajenas intenciones caen fuera de nuestro influjo, y solo en la intención está el mal. Y sobre todo, en esos tus actos heroicos, qué buscas? Enderezar entuertos por amor a la justicia, o cobrar eterno nombre y fama por enderezarlos? La verdad es, pobres mortales, que no sabemos lo que conquistamos a fuerza de trabajos. Mejóresenos la aventura, adóbesenos el juicio y enderezaremos nuestros pasos por mejor camino del que llevamos, por otro camino que no el de la vanagloria. ¡Buscar renombre y fama! Ya lo dijo Segismundo, hermano de Don Quijote: ¿Quién por vanagloria humana pierde una divina gloria? ¿Qué pasado bien no es sueño? ¿Quién tuvo dichas heroicas que entre sí no diga, cuando las revuelve en su memoria: sin duda que fue soñado cuanto vi? Pues si esto toca
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guarda; le orecchie caste rendono casto tutto ciò che odono. La cattiva intenzione di un atto è in chi lo commette o in chi lo giudica? L’orrenda malvagità di un Caino o di un Giuda non sarà forse la condensazione e il simbolo della malvagità di coloro che ne hanno fomentato le leggende? Non è la nostra malvagità che ci fa scoprire ciò che di malvagio c’è nel nostro fratello? Non è la pagliuzza che ti fa velo all’occhio che ti permette di vedere la trave del mio? Forse il demonio si addossa le colpe di coloro che lo temono… Santifichiamo la nostra intenzione e il mondo ne risulterà santificato; purifichiamo la nostra coscienza e l’ambiente in cui viviamo diverrà puro. «La carità copre una quantità di peccati», dice la prima delle lettere attribuite a San Pietro (IV, 8). I puri di cuore vedono Dio in ogni cosa, e ogni cosa perdonano in suo nome. Le intenzioni altrui cadono al di fuori della nostra influenza e il male sta soltanto nell’intenzione. Ma soprattutto, che cosa vai cercando con queste tue azioni eroiche? Raddrizzare torti per amore di giustizia o acquistare eterna rinomanza e fama proprio per averli raddrizzati? La verità è, poveri mortali, che non sappiano che cosa conquisteremo mediante le nostre fatiche. Ci si migliori la sorte, mettiamoci più giudizio, e indirizzeremo i nostri passi per una via migliore di quella che seguiamo, per una via diversa da quella della vana gloria. Cercare rinomanza e fama! Lo disse anche Sigismondo7, fratello di Don Chisciotte: Chi per vanagloria umana perde una divina gloria? Non è sogno il bene perso? Chi già ebbe eroica sorte non dirà a se stesso, quando la richiami alla memoria: fu senz’altro sogno tutto ciò che vedi? E se l’adatto
7 È il protagonista del dramma, La vita è sogno di P. Calderón de la Barca (1600-1681). (N.d.T.)
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mi desengaño, si sé que es el gusto llama hermosa que la conviene en cenizas cualquiera viento que sopla, acudamos a lo eterno, que es la fama vividora donde ni duermen las dichas ni las grandezas reposan.
(La vida es sueño, III, 10).
Acudamos a lo eterno, sí, y así mejorada nuestra ventura y adobado nuestro juicio, encaminemos nuestros pasos por mejor camino del que llevamos, encaminémonos a conquistar el cielo, que padece fuerza, la fama vividora donde ni duermen las dichas ni las grandezas reposan.
Ya antes, mucho antes que el Segismundo calderoniano, el grave Jorge Manrique, al cantar la muerte de su padre, don Rodrigo, Maestre de Santiago, nos dijo de las tres vidas: la vida de la carne, la vida del hombre y la vida del alma. Cuando después de tanta hazaña descansaba don Rodrigo en la su villa de Ocaña, vino la muerte a llamar a su puerta, diciendo: buen Caballero, dexad el mundo engañoso, y su halago, muestre su esfuerzo famoso vuestro corazón de acero en este trago. Y pues de vida y salud hicisteis tan poca cuenta por la fama esfuércese la virtud para sufrir esta afrenta
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al mio disinganno, se so che è solo fiamma bella il piacere, e lo converte in cenere il primo vento, ricorriamo a ciò che è eterno, alla fama duratura ove non dorme la sorte, né la grandezza riposa.
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(La vita è sogno, III, 10)
Ricorriamo a ciò che è eterno; sì, e così migliorata la sorte e messo più senno, rivolgiamo i nostri passi ad una vita migliore di quella che seguiamo, avviamoci a conquistare il cielo che si piega alla violenza, alla fama duratura ove non dormon i piaceri, né le fortune riposan.
Già prima, assai prima del Sigismondo calderoniano, il severo Jorge Manrique, nel cantare la morte di suo padre, don Rodrigo, Maestro di Santiago, ci aveva parlato delle tre vite: la vita della carne, la vita del nome e la vita dell’anima. Quando ormai, dopo tante imprese, don Rodrigo riposava Nella sua città di Ocaña, venne la morte a bussare alla porta, dicendo: buon Cavaliere, lasciate il mondo fallace e i suoi beni, mostri l’indomita forza il vostro cuore d’acciaio nel trapasso. E poiché vita e salute in sì poco conto aveste per la fama, appellatevi alla virtù per subire quest’oltraggio
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que os llama. No se os haga tan amarga la batalla temerosa que esperáis, pues otra vida más larga de fama tan gloriosa acá dexáis. Aunque esta vida de honor tampoco no es eternal, ni verdadera; mas con todo muy mejor que la otra temporal perecedera ………………………………… Y con esta confianza y con la fe tan entera que tenéis partid con buena esperanza, que está otra vida tercera ganaréis.
¿No es acaso la mayor locura dejar perder la gloria inacabable por la gloria pasajera, la eternidad de espíritu por que dure nuestro nombre tanto como dure el mundo, un instante de eternidad? Mayormente, cuanto que buscando la gloria celestial se conquista, por añadidura, la terrena. Bien lo decía Fernando del Pulgar, consejero, secretario y cronista de los Reyes Católicos, quien en su libro de los Claros varones de Castilla, al hablar del conde de Haro, don Pedro Fernández de Velasco, nos dice que «este noble Conde, no señoreado de ambición por aver fama en esta vida, mas señoreando la tentación por aver gloria en la otra, gobernó la república tan rectamente que ovo el premio que suele dar la verdadera virtud: la qual conoscida en él, alcançó tener tanto crédito e autoridad, que si alguna grande y señalada confianza se avía de fazer en el Reyno, quier de personas, quier de fortalezas o de otra cosa de qualquier qualidad siempre se confiaban en él». Quiere decirse que, buscando el reino de Dios y su justicia, haber gloria en la otra vida,
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che vi chiama. Non vi paia troppo amara la battaglia paurosa che attendete, perché una vita assai più lunga per la fama sì gloriosa qua lasciate. Se la vita dell’onore neppur essa è eterna e vera, sarà sempre, ciò malgrado, assai migliore di quell’altra temporale peritura ………………………………… E confidando solo in questo e con quella salda fede che nutrite, nel trapasso siate certo che quell’altra terza vita voi godrete.
Non è forse la più grande follia perdere la vita imperitura per conquistare la gloria transitoria; perdere l’eternità dello spirito per far sì che il nostro nome duri quanto durerà il mondo, vale a dire per un istante di eternità? Tanto più che, cercando la gloria celeste, si conquista per sovrappiù, anche quella terrena. Lo diceva con chiarezza Fernando del Pulgar, consigliere, segretario e cronista dei Re Cattolici; nel suo libro, Illustri uomini di Castiglia, infatti, parlando del conte di Haro, don Pedro Fernández de Velasco, ci dice che «questo nobile Conte, non dominato dall’ambizione di aver fama in questa vita, ma vincendo la tentazione per ottenere gloria nell’altra, governò la Repubblica così rettamente da raggiungere il premio che suol dare la vera virtù: la quale, ben radicata in lui, giunse a godere di tanto credito e di tanta autorità che, se si doveva nel Regno dimostrare grande ed evidente fiducia in qualcuno, sia per affidare persone, sia fortezze, sia qualunque altra cosa, sempre la si dimostrava scegliendo lui». Il che significa che, cercando il regno di Dio e la sua giustizia per ottenere gloria nell’altra vita,
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consiguió de añadidura fama en esta, por donde se ve una vez más cómo el mejor negocio es la virtud y la carrera más lucrativa y provechosa la de santo. La carrera más provechosa y lucrativa es la de santo, en efecto. También Íñigo de Loyola fue en sus mocedades, según dije que el P. Rivadeneira nos lo cuenta, amigo de leer libros de caballerías y buscó «alcanzar nombre de hombre valeroso, y honra y gloria militar» (Vida, lib. II, cap. II). Pero leyó otros y «trató muy de veras consigo mismo de mudar la vida y enderezar la proa de sus pensamientos a otro puerto más cierto y más seguro que hasta allí, y destejer la tela que había tejido, y desmarañar los embustes y enredos de su vanidad» (lib. II, cap. II). Y este Íñigo, ¿no tuvo alguna Aldonza por la que suspiró años y más años y que le llevó a su vida de santidad, luego de rompérsele la pierna? ¡Abismático pasaje, henchido de suprema melancolía, el del encuentro de Don Quijote con las cuatro imágenes de los caballeros andantes a lo divino! Por buen agüero lo tuvo el Caballero, y era, en efecto, el agüero de sus próximas conversión y muerte. Pronto, mejorada su aventura y adobado su juicio, enderezará sus pasos por mejor camino, por camino de la muerte. ¡Abismático pasaje! ¿Y a quién de nosotros, los que seguimos o queremos seguir en algo a Don Quijote, no nos ha ocurrido cosa parecida? El triste dejo del triunfo es el desencanto. No, no era aquello. Lo que hiciste o dijiste no merecía los aplausos con que te lo premiaron. Y llegas a casa y te encuentras en ella solo, y entonces, vestido como estás, te echas sobre la cama y dejas volar tu imaginación por el vado. En nada te fijas, en nada concretas tu imaginación; te invade un gran desaliento. No, no era aquello. No quisiste hacer lo hecho, no quisiste decir lo dicho; te aplaudieron lo que no era tuyo. Y llega tu mujer, rebosante de cariño, y al verte así, tendido, te pregunta qué tienes, qué te pasa, por qué te preocupas, y la despides, acaso desabri-
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ottenne in sovrappiù fama e risonanza in questa; e da ciò si deduce ancora una volta come il migliore affare sia la virtù e che la carriera più utile e più ricca di guadagni è quella del santo. E invero la carriera più utile e più ricca di guadagni è quella del santo. Anche Ignazio di Loyola, da giovane, fu, come ho già detto che ci viene narrato dal Padre Rivadeneira, appassionato lettore dei libri di cavalleria e cercò «di conquistarsi rinomanza di uomo valoroso e onore e gloria militare» (Vita, lib. II, cap. II). Ma lesse anche altri libri e «cercò con molto impegno con se stesso di mutare vita e di rivolgere la prua dei suoi pensieri ad altro porto più sicuro e più salutare di quanti non ne avesse ricercato fino ad allora, e di disfare la tela fin lì tessuta e di sbrogliare gli intrighi e le menzogne della sua vanità» (lib. II, cap. II). Ma questo Ignazio non aveva avuto anche lui un’Aldonza per la quale aveva sospirato per anni e anni e che aveva finito per spingerlo alla sua nuova vita di santità dopo che gli era successo di rompersi la gamba? Brano profondissimo, pieno di suprema malinconia, quello dell’incontro di Don Chisciotte con le quattro immagini dei cavalieri erranti per amore di Dio! Lo tenne per buon auspicio il Cavaliere ed era infatti il presagio della conversione e della morte ormai prossime. Ben presto, migliorata per lui la sorte e messo più senno, indirizzerà i propri passi per una via migliore, la via della morte. Brano abissale! Ma a chi di noi, che seguiamo o tentiamo di seguire in qualche modo Don Chisciotte, non è accaduto qualcosa di simile? La triste scia che si lascia dietro il trionfo è il disinganno. No, non era quello che credevi. Ciò che facevi o dicevi non meritava gli applausi che ti venivano fatti. E giungi infine a casa e ti ritrovi solo; e allora, tutto vestito come sei, ti getti disteso sul letto e lasci volare la tua fantasia nel vuoto. Non ti soffermi su nulla, su nulla concentri le tue fantasie; e ti senti invaso da un immenso scoramento. No, non era quello che credevi. Non volevi fare ciò che hai fatto, non volevi dire ciò che hai detto; ti applaudirono per qualcosa che non ti apparteneva. E sopraggiunge la tua donna, riboccante d’affetto e, nel vederti così disteso ti domanda che cos’hai, che ti succede, che cosa ti preoccupa; ma tu
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damente, con un áspero y seco: déjame en paz! Y quedas en guerra. Y en tanto creen los que te censuran que estás embriagado con el triunfo, cuando en verdad estás triste, muy triste, abatido, enteramente abatido. Te has cobrado asco a ti mismo; no puedes volver atrás, no puedes retrotraer el tiempo y decir a los que iban a escucharte: «todo esto es mentira; yo ni aun sé lo que voy a decir; aqui venimos a engañarnos; voy a ponerme en espectáculo; vámonos, pues, cada uno a su casa, a ver si se nos mejora la ventura y adobamos nuestro juicio». El lector echará de ver, de seguro, que escribo estas lineas bajo un apretón de desaliento. Y así es. Es ya de noche, he hablado esta tarde en público y aún se me revuelven en el oído tristemente los aplausos. Y oigo también los reproches, y me digo: tienen razón! Tienen razón: fue un número de feria; tienen razón: me estoy convirtiendo en un cómico, en un histrión, en un profesional de la palabra. Y ya hasta mi sinceridad, esta sinceridad de que he alardeado tanto, se me va convirtiendo en tópico de retórica. ¿No sería mejor que me recojiese en casa una temporada y callase y esperara? Pero, es esto hacedero?, ¿podré resistir mañana?, ¿no es acaso una cobardía desertar?, ¿no hago algún bien a alguien con mi palabra, aunque ella me desaliente y apesadumbre? Esta voz que me dice: calla, histrión!, es voz de un ángel de Dios o es la voz del demonio tentador? ¡Oh Dios mío. Tú sabes que te ofrezco los aplausos lo mismo que las censuras; Tú sabes que no sé por dónde ni adónde me llevas; Tú sabes que, si hay quienes me juzguen mal, me juzgo yo peor que ellos; Tú, Señor, sabes la verdad, Tú solo; mejórame la ventura y adóbame el juicio, a ver si enderezo mis pasos por mejor camino del que llevo! «No sé lo que conquisto a fuerza de mis trabajos», digo con Don Quijote. Y Don Quijote tuvo que decirlo en uno de esos momentos en que sacude el alma el soplo del aletazo del ángel del misterio; en un momento de angustia. Porque hay veces que, sin saber cómo y de dónde, nos sobrecoje de pronto, y al menos esperarlo, atrapándonos desprevenidos y en descuido,
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la mandi via, magari bruscamente, con un aspro e secco “lasciami in pace”! E rimani invece in mezzo alla guerra. E intanto coloro che ti censurano credono che ti abbia inebriato il trionfo, mentre in realtà sei triste, tristissimo, abbattuto, profondamente abbattuto. Hai schifo di te stesso; non puoi tornare indietro, non puoi muoverti a ritroso nel tempo e dire a coloro che si disponevano ad ascoltarti: «È tutta una menzogna; non so neppure io che cosa stavo per dire; siamo venuti qui per ingannarci reciprocamente; sono sul punto di dare spettacolo; andiamocene dunque ognuno a casa sua per vedere se ci si migliora la sorte e mettiamo più senno». Sicuramente il lettore si sarà già accorto che scrivo queste righe sotto un’ondata di scoramento. Ed è proprio così. È ormai notte; stasera ho parlato in pubblico e ancora mi echeggiano tristemente all’orecchio gli applausi. Ma odo anche i rimbrotti e mi dico: hanno ragione! Mi sono trasformando in un buffone, in un istrione, in un professionista della parola. E ormai persino la mia sincerità, quella sincerità della quale mi sono tanto vantato, mi si sta tramutando in un luogo comune retorico. Non sarebbe meglio che mi rinchiudessi in casa per un po’ di tempo e tacessi e aspettassi? Non potrei farlo? Potrei resistere alla tentazione, domani? Non è forse da codardi disertare? Non faccio un po’ di bene a qualcuno con le mie parole anche se poi mi provocano scoramento e pena? Questa voce che mi dice: «taci, istrione!», è la voce di un angelo di Dio o quella del demonio tentatore? Mio Dio, sai che offro a Te gli applausi così come ti offro le censure che ricevo; sai che ignoro per quali vie e a quale fine mi conduci; sai che, se ci sono di quelli che mi giudicano male, io mi giudico assai peggio; Tu, Signore, conosci la verità. Tu solo; migliorami la sorte e fa che metta più giudizio per vedere se indirizzo i miei passi per una via migliore di quella che seguo! «Non so che cosa conquisto a prezzo dei miei travagli», dico con Don Chisciotte. E Don Chisciotte dovette dirlo in uno di quei momenti in cui l’anima è scossa dal soffio del colpo d’ala dell’angelo del mistero; in un momento di angoscia. Perché vi sono delle volte nelle quali, senza sapere come e da dove, ci sorprende improvvisamente e quando meno ce l’aspettiamo, co-
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el sentimiento de nuestra mortalidad. Cuando más entoñado me encuentro en el tráfago de los cuidados y menesteres de la vida, estando distraído en fiesta o en agradable diaria, de repente parece como si la muerte aleteara sobre mí. No la muerte, sino algo peor, una sensación de anonadamiento, una suprema angustia. Y esta angustia, arrancándonos del conocimiento aparencial, nos lleva de golpe y porrazo al conocimiento sustancial de las cosas. La creación toda es algo que hemos de perder un dia o que un día ha de perdernos, pues qué otra cosa es desvanecernos del mundo sino desvanecerse el mundo de nosotros? ¿Te puedes concebir como no existiendo? Inténtalo; concentra tu imaginación en ello y figurate a ti mismo sin ver, ni oír, ni tocar, ni recordar nada; inténtalo, y acaso llames y traigas a ti esa angustia que nos visita cuando menos la esperamos, y sientas el nudo que te aprieta el gaznate del alma, por donde resuella tu espíritu. Como el arrendajo al roble, así la cuita imperecedera nos labra a picotazos el corazón para ahoyar en él su nido. Y en esa angustia, en esa suprema congoja del ahogo espiritual, cuando se te escurran las ideas, te alzarás de un vuelo congojoso para recobrarlas al conocimiento sustancial. Y verás que el mundo es tu creación, no tu representación, como decía el tudesco. A fuerza de ese supremo trabajo de congoja conquistarás la verdad, que no es, no, el reflejo del Universo en la mente, sino su asiento en el corazón. La congoja del espíritu es la puerta de la verdad sustancial. Sufre, para que creas y creyendo vivas. Frente a todas las negaciones de la “lógica” que rige las relaciones aparenciales de las cosas, se alza la afirmación de la “cardíaca”, que rige los toques sustanciales de ellas. Aunque tu cabeza diga que se te ha de derretir la conciencia un día, tu corazón, despertado y alumbrado por la congoja infinita, te enseñará que hay un mundo en que la razón no es guía. La verdad es lo que hace vivir, no lo que hace pensar.
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gliendoci impreparati e sprovveduti, il sentimento della nostra mortalità. Quando più mi trovo immerso nel traffico delle preoccupazioni e delle faccende della vita, distratto dal fervore di una festa o da una gradevole conversazione, mi pare che all’improvviso la morte aleggi su di me. Anzi, non la morte: una cosa peggiore, una sensazione di annichilimento, una suprema angoscia. E quest’angoscia, strappandoci alla conoscenza del mondo delle pure apparenze, ci trasporta di colpo e all’improvviso, alla conoscenza sostanziale delle cose. Tutto il creato è qualcosa che un giorno dovremo perdere, o che un giorno dovrà perdere noi; la scomparsa del mondo ai nostri occhi non è lo stesso, infatti, che il nostro svanire agli occhi del mondo? Riesci a concepirti come non esistente? Provaci; concentra su questo punto tutta la tua immaginazione e immagina te stesso senza vedere, né udire, né toccare, né ricordare nulla; provaci e, forse, chiamerai a attirerai verso di te quell’angoscia che viene a visitarci quando meno ce l’aspettiamo e sentirai il nodo che ti stringerà la strozza dell’anima attraverso la quale respira il tuo spirito. Come il corvo fa con la quercia, così la pena che non ha fine ci scolpisce a colpi di becco il cuore per scavarvi il suo nido. E in quell’angoscia, in quel supremo tormento del soffocamento spirituale, quando le idee ti sfuggiranno, ti leverai in un volo angoscioso per recuperarle, verso la conoscenza sostanziale. E ti accorgerai che il mondo è una tua rappresentazione, come diceva il tedesco. Mediante questo supremo angoscioso travaglio conquisterai la verità, che non è, no, il riflesso dell’Universo nella tua mente, ma il suo porsi nel cuore. L’angoscia dello spirito è la porta della verità sostanziale. Soffri per credere e credendo vivrai. Di fronte a tutte le negazioni della “ragione” che governa i rapporti apparenti delle cose, si leva l’affermazione del “cuore” che ne regge invece le manifestazioni sostanziali. Anche se la testa ti dice che un giorno la coscienza ti si dissolverà, il tuo cuore, ridestato e illuminato dall’angoscia infinita, ti insegnerà che esiste un mondo in cui non ci guida la ragione. La verità è ciò che fa vivere, non già ciò che fa pensare.
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A la vista de las imágenes padeció un relámpago de desmayo Don Quijote. De no haberlo nunca padecido sería, en puro sobrehumano, inhumano, y como tal, modelo imposible para los hombres de cada día. Y ¿qué mucho lo padeciera, si el mismo Cristo, abrumado por la tristeza en el olivar, pidió a su Padre si podía ahorrarle las heces del cáliz de la amargura? Don Quijote dudó por un momento de la Gloria, pero esta, su amada, le amaba a su vez ya y era, por tanto, su madre, como lo es del amado toda su amante verdadera. Hay quien no descubre la hondura toda del cariño que su mujer le guarda sino al oírla, en momento de congoja, un desgarrador ¡hijo mío!, yendo a estrecharle maternalmente en sus brazos. Todo amor de mujer es, si verdadero y entrañable, amor de madre; la mujer prohija a quien ama. Y asi Dulcinea es ya madre espiritual, no tan solo señora de los pensamientos, de Don Quijote, y aunque se le hubiese a este pasado por las mientes desahijarse de ella, veréis que ella le recobra con amoroso reclamo, como al ternerillo recental que corre a triscar suelto le requerencia la vaca al sentirse con las ubres perinchidas, rompiendo con dulce abrullo el aire que los separa. Veréis cómo le detiene con verdes lazos. Y fue que iban, después de lo narrado, entretenidos amo y escudero en razones y pláticas, entrando por una selva que fuera del camino estaba, cuando «a deshora, y sin pensar en ello, se hallo Don Quijote enredado entre unas redes de hilo verde, que desde unos árboles a otros estaban tendidas» y que resultaron estarlo por unas hermosísimas doncellas y unos mozos principales que, disfrazados de pastores y zagalas, querian, formando una nueva y pastoril Arcadia, pasarlo en recitar églogas de Garcilaso y de Camões. Conocieron a Don Quijote y le rogaron se detuviese con ellos, como así lo hizo, y en su compañía de ellos
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Alla vista della statua, Don Chisciotte ebbe come una accenno di svenimento. Se non ne avesse mai sofferto, ci apparirebbe inumano proprio perché sarebbe del tutto sovrumano e, pertanto, un impossibile modello per gli uomini di ogni giorno. E, del resto, che c’è di strano che svenisse, se Cristo stesso, schiacciato dalla tristezza là nell’uliveto del Getsemani, chiese al Padre se non poteva risparmiargli almeno i residui del calice amaro? Don Chisciotte dubitò per un istante della Gloria; ma questa, la sua innamorata, già l’amava a sua volta ed era perciò sua madre, così come lo è per l’amato ogni vera amante. C’è chi non sa misurare tutta la profondità dell’affetto che la sua donna gli porta, se non quando le ode uscire di bocca, in un momento d’angoscia, uno straziante “figlio mio!” mentre lo stringe maternamente tra le braccia. Ogni amore di donna, se è sincero e sviscerato, è amore di madre; la donna dà vita a colui che ama, ne diviene madre. E così Dulcinea è ormai madre spirituale, e non più soltanto signora dei pensieri, di Don Chisciotte; e anche se a lui fosse balenata la tentazione di ripudiarla come tale, avreste visto che ella lo avrebbe riconquistato con un affettuoso richiamo, come la mucca che si sente le mammelle rigonfie di latte richiama a sé il vitellino che corre a sgambettare lontano da essa ferendo con un dolce muggito l’aria che li separa. Vedrete che lo avvinghierà con verdi lacci. Ed infatti mentre, dopo le cose già narrate, padrone e scudiero se ne andavano intenti a discutere e a chiacchierare e penetravano in una selva che si innalzava un po’ fuori della strada «ecco che ad un tratto, senza volerlo, Don Chisciotte si trovò avviluppato in una rete di corda verde tesa da albero ad albero», che risultò essere stata tesa da certe bellissime damigelle e da certi giovani signori che, travestiti da pastori e pastorelle, volevano, creando una nuova Arcadia pastorale, passare il tempo recitando le ecloghe di Garcilaso8 e di Camões. Riconobbero Don Chisciotte e lo pregarono di intrattenersi con loro; egli accettò 8 Garcilaso de la Vega (1503-1536), che fu tra i primi ad introdurre in Spagna la poesia petrarchesca, influì profondamente sulla lirica spagnola. (N.d.T.)
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comió. Y a fuer de agradecido, y para pagar el agasajo, ofreció lo que podía y tenía de su cosecha, cual fue sustentar durante dos días naturales en mitad de aquel camino real que va a Zaragoza, que aquellas señoras contrahechas en pastoras que allí estaban, eran las más hermosas doncellas y más corteses que había en el mundo, exceptuando tan solo a la sin par Dulcinea del Toboso, única señora de sus pensamientos. ¡Vele aquí cómo vuelve ya a su locura nuestro admirable Caballero! Cuando más ensimismado iba en meditar la vanidad y locura del esfuerzo de sus trabajos, le prenden y vuelven verdes redes al fresco sueño de la locura y de la vida. Volvió el Caballero al sueño de la vida, a su generosa locura, resurgiendo reconfortado de la egoista cordura de Alonso el Bueno. Y entonces, al retornar a su sublime locura, entonces es cuando vuelve a su magnánima intención y ofrece lo que ofreció sostener en honra y prez de sus agasajadoras. De aquella sumersión en los abismos de la oquedad del esfuerzo humano tomó huelgos y recobró nuevo cuajo la energía creadora del Caballero de la Fe, al modo como Anteo al toque de la Tierra, su madre; y se lanzó a la santa resignación de la acción, que nunca vuelve, como la mujer de Lot, la cara al pasado, sino que siempre se orienta al porvenir, único reino del ideal. Se echó Don Quijote al camino, plantose en él y lanzó su reto. Y aquí dirá el lector lo que ya varias veces se habría dicho en el curso de esta peregrina historia, y es: ¿qué tiene que ver la verdad de una proposición con el valor de quien la sustenta y la fortaleza de su brazo? Porque venza en lid de armas el sustentador de esto o de aquello, ha de tenerse lo que él sustentaba por más verdadero que lo sustentado por el vencido? Ya te he dicho, lector, que son los mártires los que hacen la fe más bien que ser la fe la que hace mártires. Y la fe hace la verdad. Verdad entre burla y juego, como es hija de la fe, es peña que al agua y viento para siempre está en un ser,
como según el conocido romance dijo Rodrigo Diaz de Vivar:
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l’invito e mangiò in loro compagnia. E, per mostrarsi grato e per ripagare in certo modo l’invito, offrì quello che poteva offrire e possedeva di suo: di sostenere, in mezzo alla strada maestra che porta a Saragozza per due intere giornate, che quelle signore travestite da pastorelle che stavano lì, erano le damigelle più belle e cortesi esistenti al mondo, con la sola eccezione dell’ineguagliabile Dulcinea del Toboso, unica signora dei suoi pensieri. Ecco che il nostro mirabile Cavaliere ritorna alla sua follia! Quando era più intento a meditare sulla vanità e follia dei suoi travagli, ecco che l’afferrano e lo portano al fresco sogno della follia e della vita le verdi reti. Il Cavaliere fu restituito al sogno della vita, alla sua generosa follia, risorgendo confortato dall’egoistica saggezza di Alonso il Buono. Ed è allora, quando ritorna alla sua sublime follia, che torna anche alle sue magnanime intenzioni e si offre di sostenere quello che offrì in onore e premio dei suoi anfitrioni. Da quell’immersione negli ultimi abissi della vanità degli sforzi umani, riprese animo ed ebbe nuovo slancio l’energia creatrice del Cavaliere della Fede, così come accadde ad Anteo quand’ebbe toccato la Terra, sua madre; e si precipitò nella santa rassegnazione dell’azione che non volge mai, come la moglie di Lot, il viso al passato, ma si rivolge sempre al futuro, unico regno dell’ideale. Don Chisciotte corse sulla strada, ci si collocò nel mezzo e lanciò la sua sfida. E a questo punto il lettore ripeterà quello che già più volte avrà detto nel corso di questa peregrina storia, e cioè: che ha a che vedere la verità di un’affermazione col valore di chi la sostiene e con la forza del suo braccio? Solo perché il sostenitore di questa o quella cosa vince in un duello d’armi, si dovrà ritenere ciò che sostiene per più vero di ciò che sosteneva il vinto? Ti ho già detto, lettore, che sono i martiri a fare la fede, assai più che la fede non faccia i martiri. E la fede fa anche la verità. Perché il vero, tra burla e gioco, poiché è figlio della fede, è tal roccia che acqua e vento tal lo lasciano qual è
come, stando al celebre poema, avrebbe detto Rodrigo di Bivar:
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ahinojado ante el Rey, delante los que juzgaba, antes de los años diez.
Es verdadero, te lo repito, cuanto moviéndonos a obrar hace que cubra el resultado a nuestro propósito, y es, por lo tanto, la acción la que hace la verdad. Déjate, pues, de lógicas. Y cómo se hace que los hombres crean las cosas y les lleven a llenar sus propósitos si no es manteniéndolas con valor? Las gentes creen verdadera la empresa que venció por el esfuerzo del ánimo y del brazo de quien la sustentaba, y al creerla verdadera la hacen tal si les lleva a obrar con buen éxito. Las manos, pues, abonan a la lengua, y con hondo sentido dijo Pero Vermúdez a Fernando, el infante de Carrión, en aquellas famosas Cortes, lo de Delant myo Cid e delant todos oviste te de alabar que mataras el moro e que fizieras barnax; crovierontelo todos, ma non saben la verdad. E eres fermoso, mas mal barragán. Lengua sin maños, ¿cuemo osas fablar? (Poema del Cid, 3.324-3.328)
Y continúa echándole en cara que huyó del león al que avergonzó el Cid, por lo cual valía menos entonces – «poró menos vales oy» (3.334) – y luego abandonó a su mujer, la hija del Cid, y por cuanto las dexastes menos valedes vos;
(3.346)
Y acaba exclamando: De cuanto he dicho verdadero seré yo.
(3.351)
Todos creyeron a Fernando, mas era por ignorar la verdad; que era hermoso, pero «mal barragán». Lengua sin maños, ¿cómo osas hablar?
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in ginocchio innanzi al re ed a quel che giudicava, i dieci anni pria d’aver.
È vero, te lo ripeto, tutto ciò che, spingendoci all’azione, fa sì che il risultato giustifichi i nostri propositi; ed è pertanto l’azione quella che fa la verità. Lascia stare, dunque, le speculazioni logiche. Ma come avviene che gli uomini credono alle cose e le spingano a giustificare i loro propositi, se non sostenendole con valore? La gente crede alla verità dell’impresa che ha trionfato grazie al valore dell’animo o del braccio di chi la sosteneva e, per il fatto stesso che la credono vera, la fanno tale, se li stimola ad operare con buon esito. Le mani, dunque, accreditano la lingua e con profondo senso di verità Pero Bermúdez disse a Fernando, l’infante di Carrión, durante la celebre seduta delle Cortes, le notissime parole: Dinanzi al Cid e a tutti hai voluto vantarti di aver ucciso il moro, d’aver fatto bottino; tutti ti han creduto, non san la verità. Bello sei tu di certo, ma poco valoroso. Lingua che è senza mani, come oserà parlar? (Poema del mio Cid, 3.324-3.328)
E prosegue rinfacciandogli di essere fuggito dinanzi al leone che fu poi svergognato dal Cid, colpa per la quale valeva ormai meno – «e perciò oggi vali meno» (3.334) –, e di aver poi abbandonato la sua sposa, la figlia del Cid e per averla lasciata, meno valete voi;
(3.346)
E termina l’allocuzione esclamando: E tutto quel che ho detto, io qua lo sosterrò.
(3.351)
Tutti avevano prestato fede a Fernando, ma solo perché ignoravano la verità: che era certamente bello, ma «poco valoroso». «Lingua che è senza mani, come oserà parlar?».
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No faltará todavía chinche escolástico como para venirme con que confondo la verdad lógica con la verdad moral y el error con la mentira, y que puede haber quien se mueva a obrar por manifiesta ilusión y logre, sin embargo, su propósito. A lo que digo que entonces la tal ilusión es la verdad más verdadera, y que no hay más lógica que la moral. Y de cuanto digo verdadero seré yo. Y basta. Salió Don Quijote al camino, plantose en él, lanzó su reto y entonces fue cuando una manada de toros y cabestros le derribaron y pisotearon. Así sucede que, cuando retáis a caballeros a defender una verdad, vienen toros y cabestros y hasta bueyes, y os pisotean.
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Sicuramente ci sarà qualche cimice scolastica che verrà a dirmi che confondo la verità logica con la verità morale, e l’errore con la menzogna, e che può esserci chi si accinge ad agire obbedendo a una manifesta illusione e, malgrado ciò, raggiunge il suo scopo. A quest’obiezione rispondo che in quel caso l’illusione è la verità più vera e che non esiste altra logica che quella morale. E tutto quel che dico, lo sosterrò qui. E basta!| Don Chisciotte si spinse, dunque, fino in mezzo alla strada, vi si piantò, lanciò la sua sfida, e fu proprio allora che un branco di tori e di buoi lo buttò a terra e lo calpestò. Così succede che, quando sfidate un cavaliere per sostenere una verità e vi assalgono tori e mucche e magari addirittura buoi, finiscono col calpestarvi.
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donde se cuenta el extraordinario suceso, que se puede tener por aventura, que le sucedió a Don Quijote Levantose Don Quijote, montó, y sin despedirse de la Arcadia fúlgida reanudó, mas entristecido aun, su camino. Porque venia ya triste desde casa de los Duques. Y viendo corner a Sancho: «Come, Sancho amigo – dijo Don Quijote –, sustenta la vida, que mas que a mi te importa, y déjame morir a maños de mis pensamientos y a fuerza de mis desgracias». ¡Déjame morir! ¡Déjame morir a maños de mis pensamientos y a fuerza de mis desgracias! ¿Pensabas acaso, pobre Caballero, en el encantamiento de Dulcinea y pensaba tu Alonso en el encanto de Aldonza? «Yo, Sancho – prosiguió Don Quijote –, nací para vivir munendo, y tu para morir condendo». ¡Preñadísima sentencia! Sí, para vivir muriendo nació todo gènero de heroísmo. Al verse el Caballero «pisado y acoceado y molido de los pies de animales inmundos y soeces pensó» dejarse morir de hambre. La cercama de la muerte, que se le venia encima a muy raudos pasos, iba alumbrando su mente y disipando de ella la cerrazón de la locura. Comprendía ya que eran animales inmundos y soeces los que le acocearon y molieron y no los tuvo por cosa de encantamiento y magia. ¡Pobre mi señor! La fortuna se te ha vuelto de espaldas y te desdena. Mas no por eso la esperas menos, y tu esperanza es tu verdadera fortuna; tu dicha el esperarla. ¿No esperaste durante doce arrastrados años y no esperabas todavía lo impo-
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dove si narra lo straordinario caso, che può ritenersi un’avventura cavalleresca, capitato a Don Chisciotte Don Chisciotte si rialzò, montò in sella e senza congedarsi da quella finta Arcadia, riprese, ancora più rattristato, il suo cammino. Perché era rattristato fin da quando aveva lasciato la casa dei Duchi. E vedendo che Sancio mangiava: «Mangia, caro Sancio – disse Don Chisciotte –; sostentati, perché a te più che a me interessa la vita, e lasciami morire, oppresso dai miei pensieri e dalle mie disgrazie». Lasciami morire! Lasciami morire, oppresso dai miei pensieri e dalle mie disgrazie! Ripensavi, forse, mio povero Cavaliere, all’incantesimo di Dulcinea mentre il tuo Alonso pensava all’incantesimo di Aldonza? «Io Sancio – proseguì Don Chisciotte – nacqui per vivere morendo, e tu per morire mangiando». Sentenza pregna di significato quant’altra mai! Il Cavaliere, vedendosi «calpestato, assalito a calci, pestato dai piedi di animali immondi e sporchi», pensava di lasciarsi morire di fame. La prossimità della morte, che gli veniva incontro a rapidissimi passi, gli andava rischiarando la mente e dissipandone le fitte tenebre della follia. Capiva ormai che erano animali immondi e sporchi quelli che lo avevano assalito a calci e pestato, ma non lo attribuiva più a incantesimo e magia. Povero il mio signore! La fortuna ti ha voltato le spalle e ti disdegna. Ma non per questo tu smetti di aspettarla, e questa attesa piena di speranza è la tua vera fortuna: è la tua felicità, l’attesa. Non hai forse sperato, durante dodici penosissimi anni, e non
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sible, con tanto más grande esperanza cuanto mas es lo esperado imposible? Bien se ve que no hablas olvidado aquello que leíste en el canto segundo de la áspera Araucana de mi paisano Ercilla, y es que el más seguro bien de la fortuna es no haberla tenido vez alguna.
Descansaron un rato amo y escudero, reanudaron camino y llegaron a una venta, que por tal venta la tomó Don Quijote, pues salió, como vemos, de casa de los Duques en vía de curación de su locura y desempanada la vista. Las burlas se la iban aclarando. Las burlas le abrieron los ojos para conocer a los animales inmundos y soeces. Y aún tuvo que apurar en la venta otro tormento, y fue el de conocer las patrañas que acerca de él había propalado la falsa segunda parte de su historia.
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speravi ancora l’impossibile, con una speranza tanto più grande quanto più era impossibile ciò che speravi? Si vede chiaramente che non avevi ancora dimenticato quello che avevi letto nel secondo canto dell’aspra Araucana del mio compaesano Ercilla, e cioè che: il più sicuro bene di fortuna è il non averne mai goduta alcuna.
Padrone e scudiero si riposarono un po’, si rimisero in cammino e giunsero a un’osteria, che Don Chisciotte questa volta prese per quell’osteria che era, poiché, come abbiamo visto, era partito dalla casa dei Duchi già in via di guarigione dalla sua follia e con la vista schiarita. Le beffe e gli scherni gliela andavano schiarendo. Le burle e gli scherni gli avevano aperto gli occhi e così aveva riconosciuto gli animali immondi e sporchi. Ma nell’osteria gli toccò di inghiottire un altro boccone amaro, quello di apprendere tutte le fandonie che sul suo conto aveva messo in giro la falsa seconda parte della sua storia.
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de lo que le sucedió a Don Quijote yendo a Barcelona Continuaron camino de Barcelona, y en él, sesteando entre unas espesas encinas y alcornoques, sucedió el más triste suceso de tantos tan tristísimos como la historia de nuestro Don Quijote encierra. Y fue que, desesperado Don Quijote de la flojedad y caridad poca de Sancho su escudero, «pues a lo que creía solos cinco azotes se había dado, número desigual y pequeño para los infinitos que le faltaban» por darse si había de desencantar a Dulcinea, determinó azotarle a pesar suyo. Intentó hacerlo, resistiose el escudero, forcejeó Don Quijote, y viéndolo Sancho Panza «se puso en pie, y arremetiendo a su amo, se abrazó con él a brazo partido, y echándole una zancadilla dio con él en el suelo boca arriba; púsole la rodilla derecha sobre el pecho y con las manos le tenía las manos de tal modo que ni le dejaba rodear ni alentar». Basta ya, que oprime al ánimo más recio la lectura de este tristísimo paso. Tras las burlas de los Duques, la aflicción por la pobreza, del desmayo del heroísmo ante las imágenes de los cuatro caballeros y el molimiento por pies de animales inmundos y soeces, solo faltaba, como suprema tortura, la rebeldía de su escudero. Sancho se había visto gobernador y a su amo a las patas de los cabestros. El paso es de hondísima tristeza.
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di quel che successe a Don Chisciotte andando a Barcellona Si rimisero in viaggio diretti a Barcellona e lungo la strada, mentre facevano la siesta tra il folto di querce e sugheri, accadde l’avvenimento più triste tra i tanti tristissimi che contiene la storia del nostro Don Chisciotte. Avvenne che Don Chisciotte, spinto alla disperazione dalla debolezza e dalla poca carità di Sancio suo scudiero, perché «a suo parere, si era dato soltanto cinque staffilate, un numero sproporzionato e piccolo rispetto alle tantissime che ancora gli mancavano», prima di giungere a disincantare Dulcinea, decise di staffilarlo suo malgrado. Tentò di farlo, lo scudiero non ne volle sapere, Don Chisciotte cercò di costringerlo con la forza; ma quando Sancio Panza lo vide avvicinarsi «si levò in piedi e, dando addosso al padrone, venne con lui alle mani, finché, facendogli uno sgambetto, lo fece cadere a terra supino, gli mise il ginocchio destro sul petto tenendogli le mani con le sue mani in modo da non farlo né rigirare, né respirare». Ma ora basta, poiché opprime anche l’animo più saldo la lettura di questo tristissimo brano. Dopo le beffe dei Duchi, l’afflizione della povertà, il vacillare dell’eroismo dinanzi alle statue dei quattro cavalieri e la pestata subita dai piedi di animali immondi e sporchi, non mancava, come colmo di tortura, che la ribellione dello scudiero. Sancio si era visto governatore e aveva visto il suo padrone sotto le zampe dei buoi. Tutto il brano trabocca di una profondissima tristezza.
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Don Quijote le decía: «¿Cómo, traidor, contra tu amo y señor natural te desmandas? ¿Con quien te da su pan te atreves?». ¿El pan? No solo el pan, sino la gloria y la vida misma perduraderas. «Ni quito rey ni pongo rey – respondió Sancho –, sino ayúdome a mi, que soy mi señor». ¡Oh, pobre Sancho, y a qué desfalladero de torpeza te arroja la carne pecadora! Te desmandas contra tu amo y señor natural, contra el que te da el eterno pan de tu vida eterna, creyéndote señor de ti mismo. No, pobre Sancho, no; los Sanchos no son señores de si mismos. Esa proterva razón que para rebelarte aduces de «¡soy mi señor!» no es más que un eco del «¡no serviré!» de Lucifer, el principe de las tinieblas. No, Sancho, no; tu no eres ni puedes ser señor de ti mismo, y si mataras a tu amo, en aquel mismo instante te matarías para siempre a ti mismo. Pero bien mirado, tampoco está del todo mal que Sancho se rebele así, pues de no haberse nunca rebelado no sería hombre, hombre de verdad, entero y verdadero. Y esa rebelión, si bien se mira, fue un acto de cariño, de hondo cariño a su amo, que se desmandaba y salía, en la tristeza de su locura agonizante, de las buenas prácticas caballerescas. Después de aquello, después de haberle tenido sujeto bajo su rodilla, después de haberle vencido, es seguro que Sancho quiso y respetó y admiró más a su amo. Así es el hombre. Y Don Quijote prometió no tocarle en el pelo de la ropa, dejándose vencer de su escudero. Es la primera vez en su vida toda en que el Caballero de los Leones se deja vencer humildemente y sin defenderse siquiera; se deja vencer de su escudero. Y este mismo Sancho, que arremete a su amo y le pone la rodilla sobre el pecho, al sentir sobre su cabeza y pendientes de un árbol dos pies de persona con zapatos y calzas, tiembla de miedo y da voces llamando a Don Quijote que le acorra y favorezca.
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Don Chisciotte gli diceva: «Come, tradire? Ti ribelli contro il tuo padrone e naturale signore? Diventi ardito con chi ti dà il suo pane?». Il pane, non solo il pane, ma la gloria e la stessa vita imperitura. «Né abbatto, né innalzo re alcuno – rispose Sancio – ma dò aiuto a me che sono il mio signore». Oh, povero Sancio, in che abisso di infamia ti precipita la tua carne peccatrice! Ti rivolti contro il tuo padrone e signore naturale, contro chi ti dà l’eterno pane della tua vita eterna, ritenendo di essere signore di te stesso. No, povero Sancio, no; i Sanci non sono signori di se stessi. Questa proterva affermazione: «sono il mio signore», che adduci per ribellarti, non è che una eco del «non servirò!» di Lucifero, il principe delle tenebre. No, Sancio, no; tu non sei né puoi essere signore di te stesso; e se giungessi ad ammazzare il tuo padrone, in quel medesimo istante uccideresti anche te stesso, e per sempre. Ma, pensandoci bene, non è neppure del tutto sbagliato che Sancio si ribelli in tal modo, poiché, se non si fosse mai ribellato, non sarebbe uomo, ma uomo veramente, completo ed autentico. Anzi, questa ribellione, a ben vedere, fu un atto di affetto, di profondo affetto per il suo padrone che perdeva il dominio di sé e superava, nella tristezza della sua agonizzante follia, i limiti delle buone norme cavalleresche. Da quel momento in poi, dopo averlo tenuto fermo sotto il proprio ginocchio, dopo averlo sconfitto, è certo che Sancio amò e rispettò e ammirò di più il suo padrone. Così è fatto l’uomo. E Don Chisciotte promise di non toccare mai più, d’allora in poi, neanche un pelo del suo vestito, lasciandosi vincere dal suo scudiero. È la prima volta in tutta la sua vita che il Cavaliere dei Leoni si lascia vincere umilmente e senza neppure difendersi; e si lascia vincere dal suo scudiero. Ma ecco che quello stesso Sancio, che aveva assalito il suo padrone e gli aveva piantato il ginocchio sul petto, quando sente sulla testa, pendenti giù da un albero, due piedi di persona con tanto di calze e scarpe, trema di paura e si mette ad urlare invocando Don Chisciotte affinché lo soccorra e l’aiuti.
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No bien acaba de desmandarse contra su amo y señor natural al grito revolucionario de «¡yo soy mi señor!», cuando no es señor de sí mismo, sino que tiembla de miedo al sentir sobre su cabeza unos pies calzados, y llama a su amo y señor natural, al que le amparaba del miedo. Y Don Quijote, claro está!, acudió a la llamada, porque era bueno. Y supuso fueran pies de forajidos y bandoleros que en aquellos árboles estaban ahorcados. Así lo vieron al amanecer, en que «cuarenta bandoleros vivos, que de improviso les rodearon diciéndoles en lengua catalana que se estuvieran quedos y se detuvieran hasta que llegase su capitán». Y el pobre Don Quijote hallose «a pie, su cabado sin freno, su lanza arrimada a un árbol, y finalmente sin defensa alguna, y así tuvo por bien cruzar las manos e inclinar la cabeza, guardándose para mejor sazón y coyuntura». ¡Ejemplarísimo Caballero! Y ¡cómo le han enseñado las burlas de los Duques, las coces de los cabestros y la arremetida de Sancho! Es que barrunta, aun sin conocerla, la cercanía de su muerte. Llegó el capitán, Roque Guinart, vio la triste y melancólica figura de Don Quijote y le animó. Había oído hablar de él. Y allí conoció Don Quijote la concertada república de los bandoleros y pretendió persuadir con buenas palabras, y no obligarle por fuerza, a Roque Guinart a que se hiciese caballero andante. Sirvió el encuentro para que el Caballero admirase la vida del caballeresco bandolero, la equidad con que se repartían los despojos del robo y su generosidad con los viandantes. Y él. Don Quijote, que con grande escándalo de las personas graves había dado libertad a los galeotes, no intentó siquiera deshacer la república de los bandidos. Esto de la justicia distributiva y el buen orden que en repartir los despojos del botín se observaba en la banda de Roque Guinart, es condición de toda sociedad de bandoleros. Fernando del Pulgar, al hablarnos en sus Claros varones de Castilla del bandolero don Rodrigo de Villadrados, conde de Ribadeo, que con sus bandas y su gran poder «robó, quemó, destruyó, derri-
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Ha appena finito di rivoltarsi contro il suo padrone e signore naturale al grido rivoluzionario: «sono il mio signore», che già non è più signore di se stesso, ma trema di paura nel sentirsi sulla testa dei piedi calzati, e invoca il suo padrone e signore naturale, colui che lo difendeva dalla paura. E Don Chisciotte – ovviamente! – accorse all’invocazione, perché era buono. E immaginò che si trattasse di piedi di banditi e briganti, impiccati a quegli alberi. Che così fosse, lo videro chiaramente all’albeggiare, quando «quaranta banditi vivi improvvisamente li circondarono, intimando loro in lingua catalana di fermarsi e di non muoversi finché non giungesse il loro capitano». E il povero Don Chisciotte si trovò «a piedi, il cavallo non aveva redini, la lancia era appoggiata ad un albero; insomma, non aveva alcuna difesa, cosicché credette che fosse meglio incrociare le braccia e piegare il capo, riservandosi per tempi migliori e migliori occasioni». Esemplarissimo Cavaliere! Come lo avevano ammaestrato le beffe dei Duchi, i calci delle mucche e l’assalto di Sancio! Il fatto è che presagisce, anche senza saperlo, l’approssimarsi della morte! Arrivò il capitano, Rocco Guinart, vide la triste e malinconica figura di Don Chisciotte e gli fece coraggio. Aveva udito parlare di lui. E lì Don Chisciotte imparò a conoscere l’ordinata repubblica dei banditi e cercò di persuadere con buone parole, non già di costringerlo con la forza, Rocco Guinart a farsi cavaliere errante. L’incontro fu utile, perché il Cavaliere poté ammirare la vita del bandito cavalleresco, l’equità con cui veniva fatta la divisione delle spoglie dei ladrocini e la sua generosità verso i viandanti. E lui, Don Chisciotte, che con grave scandalo delle persone serie aveva ridato la libertà ai galeotti, non fece neanche il più piccolo tentativo per sbaragliare la repubblica dei banditi. Questa faccenda della giustizia distributiva e dell’ordine perfetto che si osservavano nella banda di Rocco Guinart nella divisione delle spoglie del bottino, è una caratteristica di qualsiasi associazione di banditi. Fernando del Pulgar, quando ci parla nei suoi Illustri uomini di Castiglia, del bandito don Rodrigo di Villadrados, conte di Ribadeo, che con le sue bande e il suo immenso potere «saccheggiò, arse, distrusse, abbatté,
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bó, despobló villas e lugares e pueblos de Borgoña e de Francia» nos dice que «tenía dos singulares condiciones: la una, que fazía guardar la justicia entre la gente que tenía, e no consentía fuerza ni robo ni otro crimen; e si alguno lo cometía, él por sus manos lo punía». Por donde se ve cómo es en el seno de las sociedades organizadas para el robo donde más severamente se persigue el robo mismo, así como en los ejércitos, organizados para ofender y destruir, es donde más duramente se castigan las ofensas y lo que a la destrucción del ejército mismo tienda. Y así cabe decir de todo gènero de justicia humana que brotó de la injusticia, de la necesidad que esta tenía de sostenerse y perpetuale. La justicia y el orden nacieron en el mundo para mantener la violencia y el desorden. Con razón ha dicho un pensador que de los primeros bandoleros a sueldo surgió la Guardia Civil. Y los romanos, formuladores del derecho que aún subsiste, los del «ita ius esto», ¿qué eran sino unos bandoleros que empezaron su vida por un robo, según la leyenda por ellos mismos forjada? Conviene, lector, te pares a considerar esto de que nuestros preceptos morales y juridicos hayan nacido de la violencia y de que, para poder matar una sociedad de hombres, se haya dicho a cada uno de estos que no deben matarse entre si, y se les haya predicado que no deben robarse unos a otros para que asi se dediquen al robo en cuadrilla. Tal es el verdadero abolengo y linaje de nuestras leyes y nuestros preceptos; tal la fuente de la moral al uso. Y este su abolengo y linaje se descubre en ella, y por esto nos sentimos inclinados a perdonar y aun querer a los Roque Guinart, porque en ellos no hay doblez ni falsía, sino que aparecen sus bandas tal y como son, mientras los pueblos y naciones que se dicen llamados a cumplir el derecho y servir a la cultura y a la paz son sociedades fariseas. ¿Conocéis algún rasgo quijotesco de una nación de hombres como tal nación? Consideremos, por otra parte, cómo del mal sale el bien – porque al fin es un bien, si bien transitorio, el de la justicia distributiva – y tiene este sus raices en aquel, o son más bien
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spopolò borghi, paesi e villaggi di Borgogna e di Francia», ci dice che «aveva due singolari caratteristiche: anzitutto che faceva osservare la giustizia tra la sua gente e non lasciava passare impuniti violenze, ratti ed altri delitti; e, quando qualcuno dei suoi ne avesse commesso, lo puniva egli stesso di propria mano». Dal che si vede che è proprio nelle società organizzate per il furto che più severamente si perseguita il furto stesso, allo stesso modo che negli eserciti, organizzati per offendere e distruggere, più duramente si puniscono le offese e tutto ciò che può tendere alla distruzione dello stesso esercito. Cosicché si deve dire di ogni sorta di giustizia umana, che essa è derivata dall’ingiustizia, dalla necessità che questa aveva di sostenersi e perpetuarsi. La giustizia e l’ordine nacquero nel mondo per tenere in piedi la violenza e il disordine. Con ragione ha detto un pensatore che dai primi assoldati vennero fuori i gendarmi. E i Romani, i costruttori del Diritto che ancora vige e sussiste, gli assertori dello «ita ius esto», che cos’erano se non banditi che iniziarono la loro vita con un ratto, secondo la leggenda che essi stessi crearono? Conviene, lettore, che rifletta sul fatto che i nostri precetti morali e giuridici sono nati dalla violenza e che, per poter ammazzare una società fatta di uomini, si sia detto ad ognuno di essi che non si devono ammazzare tra loro, per far sì che si dedichino invece al furto collettivo e organizzato. Queste sono la vera origine e la vera ascendenza delle nostre leggi e dei nostri precetti; questa è la fonte della morale corrente. In tale morale si scoprono facilmente origine ed ascendenza e perciò ci sentiamo inclini a perdonare e perfino ad amare i Rocco Guinart, poiché non vi sono in loro né doppiezza né falsità; perché anzi le loro bande ci si mostrano proprio come sono, mentre i popoli e le nazioni che si dichiarano chiamati a osservare il diritto e a servire la cultura e la pace, sono società farisaiche. Avete mai sentito parlare di un tratto chisciottesco di una nazione come tale? Consideriamo, d’altra parte, come dal male venga fuori il bene, – giacché, in fondo, quello della giustizia distributiva, anche se transitorio, è sempre un bene –, e come il secondo abbia le sue radici nel primo, e siano anzi, entrambi, come le due facce
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caras de una misma figura. De la guerra brota la paz, y del robo en cuadrilla el castigo al robo. La sociedad tiene que tomar sobre si los crimenes para libertar de ellos, y de su remordimiento, a los que la forman. Y no hay, acaso, un remordimiento social, desparramado entre sus miembros todos? Sin duda, y el hecho este del remordimiento social, tan poco advertido de ordinario, es el móvil principal de todo progreso de la especie. Acaso lo que nos mueve a ser buenos y justos con los de nuestra sociedad es cierto oscuro sentimiento de que la sociedad misma es mala e injusta; el remordimiento colectivo de una tropa de guerra es tal vez lo que les mueve a prestarse servicios entre si y aun a prestárselos, a las veces, al enemigo vencido. Por conocer la insolencia de su oficio se guardaban fe entre sí los compañeros de Roque. Este precioso episodio de Roque Guinart es el que más intima relación guarda con la esencia de la historia de Don Quijote. Es un reflejo, a la vez, del culto popular al bandolerismo, culto jamás borrado de nuestra España. Roque Guinart es un predecesor de los muchos bandidos generosos cuyas hazañas, trasmitidas y esparcidas merced a los pliegos de cordel y coplas de ciegos, han admirado y deleitado a nuestro pueblo: de Diego Corrientes, llamado por antonomasia el bandido generoso; del guapo Francisco Esteban; de José María, el Rey de la Sierra Morena; del gaucho Juan Moreira, allá en la Argentina, y de tantos otros más, cuyo patrón en el cielo de nuestro pueblo es San Dimas. Cuando crucificaron a Nuestro Señor Jesús Cristo, uno de los malhechores, que estaban colgados junto a Él le injuriaba, diciendo: «Si Tú eres el Cristo, salvate a Ti mismo y a nosotros». Y respondiendo el otro, reprendiole diciendo: «¿Ni aun tú temes a Dios estando en la condenación? Nosotros, a la verdad, justamente padecemos porque recibimos lo que merecieron nuestros hechos, mas Este ningún mal hizo». Y dijo a Jesús: «Señor: acuérdate de mí cuando fueres en tu Reino». Y entonces Jesús le dijo: «De veras te digo que hoy serás conmigo en el paraíso» (Lc., XXIII, 39-43).
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di una stessa medaglia. Dalla guerra scaturisce la pace, e dal furto collettivo emerge la punizione del furto. La stessa società deve addossarsi i delitti per liberarne coloro che la costituiscono, e liberarli allo stesso tempo dal rimorso. Ma non esiste forse un rimorso sociale suddiviso e sparso tra tutti i membri di una società? Esiste certamente; e questo fatto del rimorso sociale che di solito si avverte così poco, è il primo movente di ogni progresso della specie umana. Forse ciò che ci spinge ad essere buoni e giusti verso i membri della nostra stessa società è un vago sospetto, una vaga sensazione che la società è cattiva ed ingiusta; il rimorso collettivo di un esercito in guerra è forse l’elemento che ne spinge i componenti a prestarsi scambievoli servigi, e a prestarne, a volte, persino al nemico vinto. Proprio perché avevano coscienza della perfidia del loro mestiere, i compagni di Rocco conservavano una fiducia reciproca. Questo bellissimo episodio di Rocco Guinart è quello che mostra una più stretta relazione con l’essenza della storia di Don Chisciotte. È nel contempo un riflesso del culto popolare per il banditismo, culto che non è stato mai totalmente abolito nella nostra Spagna. Rocco Guinart è predecessore dei tanti banditi generosi, le cui imprese, tramandate e diffuse mediante opuscoli popolari e canzoni recitate dai cantastorie, hanno fatto stupire e divertire il nostro popolo: Diego Corrientes, chiamato il bandito generoso per antonomasia, lo spavaldo Francisco Esteban; José María, il Re della Sierra Morena; il gaucho Juan Moreira, della lontana Argentina e tantissimi altri, che hanno per patrono, nel cielo del nostro popolo, San Dimas. Quando misero in croce Nostro Signore Gesù Cristo, uno dei malfattori che gli erano stati appesi ai due lati, lo ingiuriava dicendo: «Se sei il Cristo, salva te stesso e noi». Ma l’altro, rispondendo, lo rimbrottò con queste parole: «Non temi Dio, tu, pur stando sul patibolo? Noi, in verità, soffriamo giustamente poiché riceviamo ciò che hanno meritato le nostre azioni; ma Costui non ha commesso alcun male». E, rivolto a Gesù, disse ancora: «Signore, ricordati di me quando sarai nel tuo regno». Ed allora Gesù gli disse: «In verità, in verità ti dico che oggi sarai con me in Paradiso» (Lc., XXIII, 39-43).
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No se encuentra otra vez alguna en el Evangelio una afirmación tan redonda de «serás conmigo en el paraíso», una tan fírmemente dada seguridad de salvación. Una vez canoniza el Cristo y es a un bandolero en el momento de la muerte. Y al canonizarle canoniza la humildad de nuestro bandolerismo. Y, ¿por qué cuando fustigó duramente a tantos escribas y fariseos, hombres honrados segun la ley? Porque estos se tenían por justos a si mismos, como el fariseo de la parábola, mientras el bandolero, como el publicano de la misma, reconoció su culpa. Fue su humildad lo que premió Jesus. El bandolero se confesó culpable y creyó en el Cristo. Nada aborrece más el pueblo que al Catón, que se tiene por justo y parece ir diciendo: miradme y aprended de mi a ser honrados. Roque Guinart, por el contrario, no ensalzaba su estado, sino que confesó a Don Quijote que no habia modo de vivir más inquieto ni sobresaltado que el suyo, y que perseveraba en él por deseo de venganza, a despecho y a pesar de lo que entendia, y anadió: «y como un abismo llama a otro y un pecado a otro pecado, hanse eslabonado las venganzas de manera que no solo las mias, pero las ajenas, tomo a mi cargo; pero Di,os es servido de que, aunque me veo en la mitad del laberinto de mis confusiones, no pierdo la esperanza de salir dél a puerto seguro». Es un eco de la oración de San Dimas. Y nos parece oír aquello de Pablo de Tarso: «no hago el bien que quiero, sino el mal que no quiero hago… miserable hombre de mi, ¿quién me librará de este cuerpo de muerte?» (Rm., VII, 19, 24). «No hago el bien que quiero, sino el mal que no quiero hago». Palabras que nos sugiere la conducta de Roque Guinart y que nos piden a gritos nos paremos a meditarlas. Y a meditar que no es lo mismo cumplir la ley que ser bueno. Hay, en efecto, quien se muere sin haber abrigado un solo buen deseo y sin haber, a pesar de ello, cometido un solo delito, y quien, por el contrario, llega a la muerte con una vida cargada de delitos y de generosos deseos a la vez. Son las intenciones y no los actos lo
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In nessun altro luogo del Vangelo si ritrova un’affermazione così netta come questa: «sarai con me in Paradiso», una certezza di salvezza espressa con tanta fermezza. Una sola volta, dunque, Cristo canonizza qualcuno, e questi non è che un bandito alla soglia della morte. E nel canonizzarlo, canonizza l’umiltà del nostro banditismo. Ma perché fa questo mentre aveva fustigato duramente tanti scribi e farisei, uomini dabbene, secondo la legge? Perché costoro si ritenevano giusti da sé, come il fariseo della parabola, mentre il bandito, come il pubblicano della stessa parabola, riconosceva le proprie colpe. Fu la sua umiltà che Gesù volle premiare. Il bandito si confessò colpevole e credette in Cristo. Il popolo non odia nessuno più del Catone che si considera giusto e pare che vada in giro dicendo: guardatemi ed apprendete da me ad essere onesti. Rocco Guinart, al contrario, non si vantava della propria condizione, e anzi confessò a Don Chisciotte che non esisteva genere di vita più inquieto e tormentato del suo, ma vi perseverava unicamente per desiderio di vendetta, a dispetto ed in contrasto con ciò che capiva benissimo, e aggiunse: «e come un abisso ne chiama un altro e un peccato un altro ancora, le vendette si sono concatenate come tanti anelli, poiché non solo prendo le mie su di me, ma anche quelle degli altri; ma Dio mi concede grazia, sebbene sia in mezzo al labirinto dei miei smarrimenti, di non farmi perdere la speranza di uscirne a porto sicuro». È un’eco della preghiera di San Dimas. E ci sembra di udire le parole di Paolo di Tarso: «Non faccio il bene che voglio, ma il male che non voglio; me miserabile, chi mai mi libererà da questo corpo di morte?» (Rm., VII, 19, 24). «Non faccio il bene che voglio, ma il male che non voglio». Parole che ci vengono suggerite dalla condotta di Rocco Guinart e che ci chiedono con eloquenza di fermarci a meditarle. E a meditare che osservare la legge non è la stessa cosa che essere buoni. C’è infatti chi muore senza aver mai avuto nel cuore un solo buon desiderio e senza avere, malgrado ciò, commesso un solo delitto, e c’è chi, all’opposto, giunge alle soglie della morte dopo una vita carica di delitti, ma in pari tempo piena di desideri generosi. Sono le intenzioni e non le azioni a insudiciarci
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que nos empuerca y estraga el alma, y no pocas veces un acto delictuoso nos purga y limpia de la intención que lo engendrara. Más de un rencoroso homicida habrá empezado a sentir amor a su victima luego que sació su odio en ella, mientras hay gentes que siguen odiando al enemigo que se murió, después de muerto. Ya sé que son muchos los que anhelan una humanidad en que se impidan los crímenes aunque los malos sentimientos envenenen las almas, pero Dios nos dé una humanidad de fuertes pasiones, de odios y de amores, de envidias y de admiraciones, de ascetas y de libertinos, aunque traigan consigo estas pasiones sus naturales frutos. El criterio jurídico solo ve lo de fuera y mide la punibilidad del acto por sus consecuencias; el criterio estrictamente moral debe juzgarlo por su causa y no por su efecto. Lo que ocurre es que nuestra moral corriente está manchada de abogada y nuestro criterio ético estropeado por el jurídico. El matar no es malo por el daño que reciben el muerto o sus deudos o parientes, sino por la perversión que al espíritu del matador lleva el sentimiento que le impulsa a dar a otro la muerte; la fornicación no es pecado por dano alguno que reciba la fornicada – pues de ordinario no lo recibe tal y sí solo deleite –, sino porque el sucio deseo distrae al hombre de la contemplación de su fin propio y le tiñe de falsedad cuanto percibe. Con hondo sentimiento se llama entre los gauchos «desgracia», no al ser muerto, sino al haber tenido que matar a otro. Y por ello, aunque en el mundo de la servidumbre, en el mundo aparencial de las trasgresiones del derecho, caigamos en delito, nos salvaremos si conservamos sana intención en el mundo de la libertad, en el mundo esencial de los anhelos íntimos. Y además, ¿no endurecerá en sus fechorías al facineroso la desconfianza del perdón? Recordad aqui a los galeotes. Creo que, si todos los hombres se persuadieran de que hay un perdón final para todos y una vida perdurable, en una u otra forma, se harían
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e rovinarci l’anima; e non di rado un’azione delittuosa ci purga e ci ripulisce dall’intenzione che l’ha generata. Più di un omicida pieno di rancore avrà incominciato a provare amore per la sua vittima, dopo aver sfogato su di lei il proprio odio, mentre c’è gente che seguita ad odiare il nemico morto anche dopo la morte. So bene che sono molti coloro che aspirano a vedere un’umanità in mezzo alla quale siano impediti i delitti, anche se i sentimenti malvagi continuano ad avvelenare le anime; ma per conto mio prego Dio affinché ci dia un’umanità piena di forti passioni, di odi e di amori, di invidie e di ammirazioni, di asceti e di libertini, anche se tali passioni dovranno portare con sé i loro frutti naturali. Il criterio giuridico vede solo l’esteriorità e misura la punibilità di un’azione attraverso le sue conseguenze; ma il criterio strettamente morale la deve giudicare invece attraverso le cause e non attraverso gli effetti. Purtroppo succede invece spesso che la nostra morale corrente è avvocatesca, e il nostro criterio etico è compromesso da quello giuridico. Uccidere non è male per il danno che ricevono il morto e i suoi parenti e consanguinei, ma per la perversione che induce nell’animo dell’uccisore il sentimento che lo spinge a dar morte a un altro; la fornicazione non è peccato perché la fornicata ne riceve un qualunque danno, – perché di solito non ne riceve altro che diletto –, ma perché l’immondo desiderio distrae l’uomo dalla contemplazione del suo fine intrinseco e tinge di falsità tutte le sue percezioni. Con un profondo significato i gauchos chiamano “disgrazia” non già l’essere ammazzati, ma l’essere stati costretti ad ammazzare un altro. E perciò, sebbene nel mondo della schiavitù, nel mondo tutto esteriore della trasgressione del diritto, possiamo cedere in colpa, ci salveremo alla fine se manteniamo sane le nostre intenzioni nel mondo della libertà, nel mondo essenziale delle nostre intime aspirazioni. E poi, la mancanza di fede nel perdono non renderà il facinoroso ancora più incallito nei suoi crimini? Ricordatevi a questo punto dei galeotti. Credo che, se tutti gli uomini si persuadessero che esiste per tutti un perdono finale ed una vita imperitura, sotto una forma o un’ultra, diverrebbero tutti migliori.
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todos mejores. El temor al castigo no evita más fechorías que las que provoca la desesperanza de perdón. Recordad a Pablo el ermitaño y a Enrico, el bandolero del drama de Tirso de Molina que lleva por título El condenado por desconfiado, profonda quintaesencia de la fe española; recordad que si Pablo, macerado en penitencias, se pierde por desconfiar de su salvación, por confiar en ella se salva Enrico, el forajido. Volved a leer este drama. Recordad a aquel Enrico, hijo de Anareto, que conservó entre sus maldades entrañable cariño a su tullido padre y fe en la misericordia de Dios, reconociendo la justicia del castigo. Recordadle diciendo: Mas siempre tengo esperanza en que tengo que salvarme, puesto que no va fondada mi esperanza en obras mías, sino en saber que se hermana Dios con el más pecador, y con su piedad le salva. (Acto II, 17)
Y recordadle arrepentido, gracias a su padre. ¿Que esto repugna al sentido moral? Al Sanchopancesco, sí; al quijotesco, no. Un filósofo alemán de hace poco, Nietzsche, metió ruido en el mundo escribiendo de lo que está allende el bien y el mal. Hay algo que está no allende, sino dentro del bien y del mal, en su raiz común. ¿Qué sabemos nosotros, pobres mortales, de lo que son el bien y el mal vistos desde el cielo? ¿Os escandaliza acaso que una muerte de fe abone toda una vida de maldades? ¿Sabéis acaso si este último acto de fe y de contrición no es el brotar a la vida exterior, que se acaba entonces, sentimientos de bondad y de amor que circularon en la vida interior, presos bajo la recia costra de las maldades? Y ¿es no hay en todos, absolutamente en todos, esos sentimientos, pues sin ellos no se es hombre? Sí, pobres hombres, confiemos, que todos somos buenos.
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Il timore della punizione non giunge ad evitare più delitti di quanti ne provoca la mancanza di fiducia nel perdono. Ricordatevi di Paolo l’eremita e di Enrico, il bandito del dramma di Tirso de Molina che s’intitola Il dannato per mancanza di fiducia, che rappresenta la quintessenza della fede spagnola; ricordate che se Paolo, macerato dalle penitenze, si perde perché non ha fede nella propria salvezza, Enrico, invece, si salva, pur essendo un bandito proprio perché vi crede fermamente. Rileggete questo dramma. Ricordate quell’Enrico, figlio di Anareto, che nonostante le sue malvagità ha sempre conservato uno sviscerato affetto per il povero storpio suo padre e una fede inconcussa nella misericordia di Dio riconoscendo la giustizia del castigo. Ricordatevi quando dice: Ma ho sempre viva speranza che dovrò salvarmi un giorno, giacché non va mai fondata la speranza nei miei atti, ma nel saper che è fratello Dio del peggior peccatore, e per sua pietà lo salva. (Atto II, 17)
E ricordatelo infine pentito grazie a suo padre. Dicono che tutto questo ripugna al senso morale? A quello sanciopanzesco, sì; a quello chisciottesco, no davvero. Un filosofo tedesco del nostro tempo, Nietzsche, suscitò rumore nel mondo scrivendo intorno a ciò che c’è al di là del bene e del male. Ma c’è qualcosa che non sta al di là del bene e del male, ma nel loro interno, nella loro comune radice. Che cosa sappiamo noi, poveri mortali, di ciò che sono il bene e il male visti dall’alto dei cieli? Vi scandalizzate forse perché una morte affrontata con fede riscatta un’intera vita di malvagità? Che ne sapete se quest’ultimo atto di fede e di contrizione non è il germogliare, nella vita esteriore che si spegne in quell’istante, dei sentimenti di bontà e d’amore che hanno prima circolato nella vita interiore, imprigionati sotto la dura crosta della malvagità? Perché forse non esistono in tutti, assolutamente in tutti, quei sentimenti? Senza di essi non saremmo uomini. Sì, poveri uomini, abbiamo fiducia, perché tutti siamo buoni!
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¡Pero es que así no viviremos nunca seguros! – exclamáis –. Con tales doctrinas no cabe orden social! Y ¿quién os ha dicho, apocados espíritus, que el destino final del hombre se sujete a asegurar el orden social en la tierra y a evitar esos daños aparentes que llamamos delitos y ofensas? ¡Ah, pobres hombres!, siempre veréis en Dios un espantajo o un gendarme, no un Padre que perdona siempre a sus hijos, no más sino por ser hijos suyos, hijos de sus entrañas, y como tales hijos de Dios, buenos siempre por dentro de dentro aunque ellos mismos ni lo sepan ni lo crean. Tengo, pues, para mí que Roque Guinart y sus compañeros eran mejores de lo que ellos mismos se creían. Reconocía el buen Roque la insolencia de su oficio, pero se sentía atado a él como a un sino fatai. Era su estrella. Y podía haber dicho con el gaucho Martin Fierro lo de: Vamos, suerte, vamos juntos, puesto que juntos nacimos, y ya que juntos vivimos, sin podernos dividir, yo abriré con mi cuchillo el camino pa seguir.
Y volviendo a nuestra historia, conviene recordar aquí lo que don Francisco Manuel de Melo, en su Historia de los movimientos, separación y guerra de Catalaña en tiempo de Felipe IV, obra publicada unos cuarenta años después de la historia de nuestro Caballero, dice al describir a los catalanes «por la mayor parte hombres de durísimo natural», que «en las injurias muestran gran sentimiento y por eso son inclinados a venganza», y añade: «la tierra, abundante en asperezas, ayuda y dispone su ánimo vengativo a terribles efectos con pequeña ocasión; el quejoso o agraviado deja a los pueblos y se entra a vivir en los bosques,
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Ma in questo modo, non possiamo mai vivere sicuri, esclamate. Con simili dottrine, è finito ogni ordine sociale! Ma chi vi ha mai detto, spiriti modesti, che il destino ultimo dell’uomo sia legato al mantenimento dell’ordine sociale sulla terra e serve ad evitare quei danni apparenti che chiamiamo delitti ed offese? Oh, poveri uomini! Non saprete mai vedere in Dio che un gendarme o uno spauracchio, e non un padre che perdona sempre ai suoi figli, figli delle sue viscere, e perciò appunto figli di Dio, sempre buoni nel più profondo del loro intimo, nonostante essi stessi non lo sappiano, né lo credano. Sono dunque sicuro, da parte mia, che Rocco Guinart e i suoi compagni erano assai migliori di quanto essi stessi non credessero. Il buon Rocco riconosceva la perfidia del suo mestiere, ma vi si sentiva legato come a un destino fatale. Era la sua stella. Ed avrebbe potuto benissimo dire col gaucho Martín Fierro: Andiam, sorte, andiamo insieme, poiché insieme siamo nati, e giacché insieme viviamo, né ci è dato separarci, aprirò col mio coltello un varco per proseguire.
Ma, ritornando alla nostra storia, converrà riportare ciò che don Francisco Manuel de Melo9 nella sua Storia dei moti, della separazione e della guerra di Catalogna al tempo di Filippo IV, opera pubblicata una quarantina d’anni dopo l’apparizione della storia del nostro Cavaliere, dice nel descrivere i Catalani: «per la maggior parte uomini di durissimo carattere» che «si mostrano estremamente sensibili alle ingiurie e sono perciò assai inclini alla vendetta», e aggiunge «il paese, ricco di luoghi impervi, dispone il loro animo vendicativo a terribili rappresaglie per piccole occasioni; chi si sente umiliato e offeso abbandona i luoghi abitati e se ne va a vivere tra i boschi, dove con 9 Francisco Manuel de Melo o Mello (1611-1666) fu uno dei maggiori scrittori portoghesi di storia e politica del suo tempo. (N.d.T.)
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donde en continuos saltos fatigan los caminos; otros, sin más ocasión que su propia insolencia, siguen a estotros; estos y aquellos se mantienen por la industria de sus insultos. Llaman comunmente andar en trabajo aquel espacio de tiempo que gastan en este modo de vivir, como en serial de que le conocen por desconcierto; no es acción entre ellos reputada por afrentosa, antes al ofendido ayudan siempre sus deudos y amigos». Y habla luego de los famosos bandos de Narros y Cadells, «no menos celebrados y dañosos a su patria que los Güelfos y Gibelinos de Milán, los Pafos y Médicis de Florencia, los Beamonteses y Agramonteses de Navarra y los Gamboinos y Oñacinos de la antigua Vizcaya». Al bando de los Narros pertenecía Roque Guinart, y como de tal bando despachó un mensajero a Barcelona dando cuenta a sus amigos de cómo iba Don Quijote, «para que con él se solazasen, que él quisiera que careciesen de este gusto los Codells, sus contrarios; pero que esto era imposible a causa de que las locuras y discreciones de Don Quijote y los donaires de su escudero Sancho Panza no podían dejar de dar gusto general a todo el mundo». ¡Pobre Don Quijote, ya querían hacerte monopolio de un bando y solaz a él solo reservado! ¡Lo que se le ocurre a un catalán, aunque sea bandolero!
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continui assalti rende insicure le strade; altri senz’altro motivo che la loro stessa indole violenta, li seguono; e questi e quelli si mantengono servendosi delle loro prepotenze. In genere danno il nome di “travaglio” al tempo che trascorrono vivendo in questo modo quasi per voler significare che essi stessi lo giudicano come una forma di sregolatezza; e non è un’azione che tra loro venga giudicata oltraggiosa, perché anzi amici e parenti danno mano forte all’offeso». Viene poi a parlare delle notissime fazioni dei Narros e dei Cadells, «non meno famose e non meno pericolose per la loro patria che quelle dei Guelfi e dei Ghibellini a Milano, dei Pazzi e dei Medici a Firenze, dei Beamontesi e degli Agramontesi in Navarra e dei Gamboinos e degli Oñacinos nell’antica Biscaglia». Alla fazione dei Narros apparteneva Rocco Guinart e proprio nella sua qualità di membro di tale fazione inviò un messaggero a Barcellona per avvertire gli amici dell’arrivo di Don Chisciotte, «affinché si sollazzassero un po’; e che egli avrebbe desiderato che di tale divertimento non godessero i Cadells, suoi avversari, ma che ciò era impossibile, in quanto le follie e le stravaganze di Don Chisciotte come pure le facezie del suo scudiero Sancio Panza non potevano non essere che di generale diletto per tutti. Povero Don Chisciotte!». Avrebbero voluto addirittura fare di te monopolio di una fazione e zimbello riservato solo ad essa! Che razza di cose vengono in mente a un catalano, anche se è solo un brigante!
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de lo que le sucedió a Don Quijote en la entrada de Barcelona, con otras cosas que tienen más de lo verdadero que de lo discreto A los tres días «por caminos desusados, por atajos y sendas encubiertas, partieron Roque, Don Quijote y Sancho con otros seis escuderos a Barcelona», a cuya playa llegaron la víspera de San Juan en la noche, y allí se les despidió Roque, dejando diez escudos a Sancho. Ya tenemos en ciudad a Don Quijote, y nada menos que en la grande y florida ciudad condal de Barcelona, «archivo de la cortesía, albergue de los extranjeros, hospital de los pobres, patria de los valientes, venganza de los ofendidos y correspondencia grata de firmes amistades y en sitio y belleza única», como más adelante, en el capítulo LXXII, la llama el historiador. Allí, al rayar el día, apacentó en el mar su vista, pareciéndole espaciosísimo y largo, vio las galeras y se halló de fiesta. Y vino la burla ciudadana de los amigos de Roque, que rodeando a Don Quijote, al son de chirimías y atabales le llevaron a la ciudad, donde los muchachos le hicieron ser derribado de Rocinante, poniendo a este aliagas bajo el rabo. Ya estás, mi señor Don Quijote, de hazmerreír de una ciudad y juguete de sus muchachos. ¿por qué te saliste del campo y de sus caminos libres, único terreno propio de tu heroísmo? Allí, en Barcelona, le sacaron al balcón de una de las calles más principales de la ciudad, «a vista de las gentes y de los muchachos, que como a mona le miraban»; allí le pasearon por las
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capitoli lxi, lxii e lxiii
di quel che accadde a Don Chisciotte nel fare il suo ingresso a Barcellona, come pure di altre cose che sono più vere che sensate Di lì a tre giorni, «per strade non battute, per scorciatoie e sentieri nascosti, Rocco, Don Chisciotte e Sancio partirono con altri sei scudieri alla volta di Barcellona» e ne raggiunsero la spiaggia di notte, la vigilia della festa di San Giovanni. Lì Rocco si congedò da loro lasciando a Sancio dieci scudi. Ecco dunque Don Chisciotte in una città, e nientemeno che nella grande e fiorente città comitale di Barcellona, «luogo della cortesia, ritrovo dei forestieri, asilo ospitale dei miseri, patria dei valorosi, vendicatrice dei maltrattati, grata ricambiatrice di salde amicizie, unica per posizione e bellezza», come più avanti, al capitolo LXXII, la chiama lo storico. Là, allo spuntar del giorno, poté posare lo sguardo sulla distesa del mare, che gli parve amplissimo e lungo; poi vide anche le galere e gli parve di toccare il cielo col dito. E naturalmente vi fu la beffa cittadina degli amici di Rocco che, stretti intorno a Don Chisciotte, lo scortarono fino in città al suono di chiarine e timpani; e là i ragazzi fecero in modo che Ronzinante, lo sbalzasse di sella mettendogli sotto la coda fascetti d’erica. Eccoti dunque diventato, mio signor Don Chisciotte, lo zimbello di uno città e il divertimento dei ragazzi. Perché mai hai voluto abbandonare la campagna e le sue libere strade, unico terreno che si addicesse al tuo eroismo? Lì a Barcellona lo fecero affacciare al balcone di una delle vie principali della città, «alla vista della folla che stava a guardarlo come se fosse una scimmia»; lì lo portarono a spasso per le strade in groppa ad
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calles, sobre un gran macho de paso llano, con un balandrán y a las espaldas un pergamino en que se leía: «este es Don Quijote de la Mancha», lo que traía consigo, con grande admiración del Caballero, que todos los muchachos, sin haberle jamás visto, le conocieran. ¡Pobre Don Quijote, paseado por la ciudad con tu «ecce homo» a espaldas! Ya estás convertido en curiosidad ciudadana. Y no faltó, un castellano por cierto, quien te llamase loco y te reprendiese tu locura. Y luego, en casa de don Antonio Moreno, que le hospedaba, hubo sarao y le hicieron bailar hasta que tuvo que sentarse «en mitad de la sala, en el suelo, molido y quebrantado de tan bailador ejercicio». Esto supera ya en tristeza a cuanto desde el día malaventurado en que topó con los Duques le está ocurriendo. Le pasean por las calles, convertido en mona de los muchachos, y luego le hacen bailar. Tómanle de juguete, de trompo, de perinola y zarandillo. Ahora, ahora es, mi señor, cuando cuesta seguirte; allora es cuando tus fíeles han de poner su fe a prueba. «¡Que baile! ¡Que baile!», es uno de los gritos de irrisión y burla con que escarnecen a los hombres las muchedumbres españolas. Y a ti, mi señor Don Quijote, te hicieron bailar en Barcelona hasta molerte y quebrantarte. Ser blanco de la ociosa curiosidad de las muchedumbres; oír que al pasar dicen junto a uno a media voz: «¡ese!, ¡ese!»; aguantar las miradas de los necios que le miran a uno porque se le trae y se le lleva en los papeles públicos, y luego persuadirte de que no conoce tu obra esa gente, como no conocían las hazañas de Don Quijote, y menos aún su espíritu heroico, los chicuelos que por las calles de Barcelona le aclamaban, y de que no eres sino un nombre para ellos; ¿sabéis lo que es esto? ¿Sabéis lo que es eso de que se conozca solo vuestro nombre y de que os conozcan en dondequiera, mientras en dondequiera no saben lo que habéis hecho? Pudiera muy bien suceder que estos mis comentarios a la vida de mi señor Don Quijote provocaran en esta nuestra España, como han provocado algunos otros tra-
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un enorme mulo dal passo lento, avvolto in un’immensa palandrana e con sulle spalle un cartello di pergamena che diceva: «Questo è Don Chisciotte della Mancia», grazie al quale avveniva con grandissimo stupore del Cavaliere, che tutti i ragazzini, senza mai averlo visto prima, lo riconoscessero subito. Povero Don Chisciotte, portato a spasso per la città con il tuo «ecce homo» sulle spalle! Ormai ti hanno tramutato in una curiosità cittadina. È anche vero che ci fu un tale, sicuramente un castigliano, che ti chiamò pazzo e ti rinfacciò la tua follia. E poi, in casa di quell’Antonio Moreno che l’ospitava, vi fu una grande festa e lo fecero ballare finché non fu costretto a buttarsi a sedere «nel bel mezzo della sala, per terra, spossato e rotto da tutto quello sforzo della danza» Tutto questo ormai supera in tristezza ogni altra cosa che gli fosse capitata a partire dal nefasto giorno in cui si era imbattuto nei Duchi. Lo portano in giro per le strade come fosse uno zimbello per i monelli e poi lo fanno ballare. Lo prendono per un balocco, per una trottola. È adesso, è adesso, signor mio che si fa fatica a starti dietro; è ora che i tuoi fedeli devono mettere a dura prova la loro fede. «Che balli! Che balli!», è una delle grida di derisione e di beffa con cui le folle spagnole scherniscono gli uomini. E tu, mio signor Don Chisciotte, fosti costretto a ballare a Barcellona fino a ridurti spossato e rotto. Essere bersaglio dell’oziosa curiosità delle folle, sentire che, quando ti passano accanto, tutti sussurrano a mezza voce: «È lui! È lui!»; sopportare le occhiate degli sciocchi che ti guardano, perché sui giornali parlano e sparlano di te a dritto e a rovescio, e renderti poi conto che tutta questa gente non conosce le tue opere come non conoscevano le imprese di Don Chisciotte, e ancora meno il suo spirito eroico, i monelli che lo acclamavano per le strade di Barcellona, e capire che per essi sei solo un uomo qualunque, lo sai che cosa significa? Sai cosa vuol dire vedere che si conosce soltanto il tuo nome e che ti riconoscono dovunque vada, mentre in nessun posto conoscono quello che hai fatto e scritto? Potrebbe succedere benissimo che questi miei commenti alla vita del signor Don Chisciotte provocassero in questa nostra Spagna discussioni e strepiti, come ne hanno
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bajos míos, discusiones y vocerío; pues bien: os aseguro desde ahora que los mas furiosos en vocear por ellos no los habrán leído. Y, sin embargo, es tan miserable el hombre que prefiere el nombre sin la obra a la obra sin el nombre; quiere más dejar su efigie acuñada en cobre a dejar oro puro de su espíritu, pero de donde se borren la efigie y la leyenda. Allí, en la industriosa ciudad de Barcelona, le enseñaron, ¿qué sino curiosidades de industria? Allí vio y oyó a la cabeza encantada; allí visitó el taller de imprimir. «Sucedió, pues, que yendo por una calle alzó los ojos Don Quijote y vio escrito sobre una puerta, con letras muy grandes: aquí se imprimen libros; de lo que se contentó mucho, porque hasta entonces no había visto emprenta alguna y deseaba saber cómo fuese». Curiosidad naturalísima en quien buscó en libros bálsamo al demasiado amor y fue por libros llevado a meterse en las azarosas andanzas de su carrera de gloria. Figuraos al hidalgo cincuentón que allá, en su lugarejo manchego, había alimentado con lecturas su soledad, para quien más que para otro cualquiera fueron los libros fieles amigos, y comprenderéis con qué ánimo entraría en la imprenta. En la cual se portó como discreto y manifestó que sabía algún tanto del toscano y se preciaba de cantar algunas estancias del Ariosto. Y hasta allí dejó asomar ciertas puntas y ribetes de ironía a cuenta de los traductores y las traducciones. Este y otros pasajes especialmente literarios de nuestra historia son de los que más suelen citar esos que se llaman a sí mismos cervantistas, pero la verdad es que ello apenas lo merece. Son tiquismiquis y minucias de los del oficio, que a los demás les debe tener sin cuidado. Bien está que los escritores nos cuidemos de la hechura de nuestros trabajos y le demos vueltas y más vueltas al lenguaje y al estilo, pero de esto nada se le da al que nos lee. Bien está el que un escritor teja sus párrafos y luego los desmonte, perche, lustre, tunda y prense para cortarlos y coserlos luego y hacer así traje a su pensamiento, mas sea para provecho del que le haya de leer. Yo mismo, en estas páginas, confieso
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provocato altri miei scritti; ebbene: vi posso garantire fin d’ora che i più scalmanati a prenderne le difese saranno quelli che non li hanno letti. E, malgrado tutto, l’uomo è talmente meschino da preferire il nome senza l’opera all’opera senza il nome; preferisce lasciare la propria effigie coniata in rame al lasciare oro puro nelle opere del suo spirito, se da quell’oro devono essere cancellate l’effigie e la leggenda. Che cosa potevano mostrargli, là, nell’industriosa città di Barcellona, se non le curiosità dell’industria? Là vide ed ascoltò la testa incantata; là visitò per la prima volta una stamperia. «Avvenne che, passando per una strada, Don Chisciotte alzò gli occhi e vide scritto su una porta a caratteri cubitali: “Qui si stampano libri”; ne fu molto lieto perché fino ad allora non aveva mai visto una stamperia ed era desideroso di sapere come fosse». Curiosità più che naturale in chi aveva cercato nei libri un balsamo all’eccesso d’amore e dai libri era stato spinto a cacciarsi nelle avventurose imprese della sua carriera di gloria. Immaginatevi un po’ l’hidalgo cinquantenne che laggiù, nel suo villaggio della Mancia, aveva alimentato di letture la sua solitudine, per il quale più che per chiunque altro i libri erano stati fedeli amici, e capirete con che animo entrò nella stamperia. Nella quale si comportò da uomo saggio e rivelò che sapeva anche un po’ di toscano e che si dilettava a cantare qualche strofa dell’Ariosto. Anzi addirittura lasciò trasparire qualche ironico accenno contro i traduttori e le traduzioni. Questi ed altri passi specificamente letterari della nostra storia si trovano fra i più frequentemente citati da coloro che si battezzano da soli col nome di “cervantisti”; ma a dire il vero si tratta di piccole cose di poco conto. Sono sottigliezze e minuzie da gente del mestiere delle quali agli altri importa poco. È giusto che noi scrittori ci preoccupiamo della struttura dei nostri testi e andiamo scavando e trafficando intorno alla lingua ed allo stile; ma di tutto ciò importa ben poco a chi ci legge. È giusto che uno scrittore tessa i suoi periodi e poi li disfi, li limi, li lustri e li stiri per poi tagliarli e cucirli per preparare in tal modo un abito consono al proprio pensiero; ma ciò dev’essere in vista dell’utilità di chi lo leggerà. Io stesso confesso che, a volte, in
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que a las veces he zuñido y bruñido mi discurso, mas en lo que sobre todo he puesto ahínco es en sacar a ras de lengua escrita voces de la lengua corrientemente hablada, en desentoñar y desentrañar palabras que chorrean vida según corren frescas y rozagantes de boca en oído y de oído en boca de los buenos lugareños de Castilla y de León. Hay que flexibilizar y enriquecer el rígido y escueto castellano, dicen allende los mares. Sin duda hay que darle más soltura y más riqueza, pero es a la lengua enteca y enclavijada de los periódicos y de los cafés. Mas para ello no es menester acudir fuera y tornar de prestado voces y giros de otros idiomas; basta remejerle los entresijos al mismo romance castellano. Cada uno ha de engordar de sí mismo. Otros vienen y nos dicen que no, sino que lo necesario y apremiante es podar nuestra lengua y recortarla y darla precisión y fijeza. Dicen los tales que padece de maraña y de braveza montesina nuestra lengua, que por dondequiera le asoman y apuntan ramas viciosas, y nos la quieren dejar como arbolito de jardín, como boje enjaulado. Así, añaden, ganará en claridad y en lógica. ¿Pero es que vamos a escribir algún Discurso del método con ella? ¡Al demonio la lógica y la claridad esas! Quédense los tales recortes y podas y redondeos para lenguas en que haya de encarnar la lógica del raciocinio raciocinante, pero la nuestra, ¿no sabe ser acaso, ante todo y sobre todo, instrumento de pasión y envoltura de quijotescos anhelos conquistadores? Y en eso mismo de claridad habría que entenderse, pues hay quien aspira a que le den las ideas mascadas, ensalivadas y hechas boia engullible para no tener que pasar otro trabajo sino el tragarlas, o mejor aún, que se las empapucen.
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queste pagine, ho levigato e tirato a lucido il mio discorso; ma soprattutto mi sono impegnato nell’inserire nel linguaggio scritto parole che appartengono alla lingua corrente, nel riesumare e tirare a galla parole che sembrano stillare vita, tanto corrono fresche e rigogliose di bocca in bocca e d’orecchio in bocca ai buoni abitanti delle terre di Castiglia e di León. Bisogna rendere flessibile, bisogna arricchire il rigido e stringato castigliano, sogliono dire al di là dell’Atlantico. Indubbiamente è necessario dare ad esso maggiore scioltezza e ricchezza, ma soltanto a quella lingua sciatta e monotona usata sui giornali o intorno ai tavolini dei caffè. Ma per arrivare a tanto non c’è nessun bisogno di rivolgersi fuori dei confini per prendere in prestito voci e modi di dire da altri idiomi; basta rimestare nelle viscere dello stesso castigliano volgare. Ognuno deve ingrassare da solo. Altri vengono a dirci che non è questo il difetto, anzi che la cosa necessaria ed urgente è provvedere a potare la nostra lingua, a tagliarne i fronzoli, a darle precisione e stabilità. Questi sostengono che la nostra lingua soffre di una complessa sovrabbondanza e di una aspra fierezza; che da tutte le parti spuntano e crescono virgulti inutili; e vorrebbero ridurcela come un alberello da giardino, come un cespuglio ben intagliato. Così, asseriscono, acquisterà in chiarezza e logicità. Ma dobbiamo forse scrivere un nuovo Discorso del metodo? Al diavolo la logicità e la chiarezza! Lasciamo simili tagli, potature e arrotondamenti alle lingue destinate ad incarnare la logica del raziocinio raziocinante; ma la nostra sa essere forse, così com’è, prima di tutto e soprattutto, uno strumento di passione, un involucro per chisciotteschi aneliti di conquista? Ed anche sulla questione della chiarezza bisognerebbe intenderci una buona volta, giacché c’è chi aspira a vedersi somministrare le idee già masticate, imbevute di saliva e ridotte a boli pronti per essere inghiottiti tanto per non spendere altra fatica che quelli di ingurgitarli; anzi, se fosse possibile, vorrebbero che gliele ficcassero nel gozzo come si fa coi tacchini da ingrasso.
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que trata de la aventura que más pesadumbre dio a Don Quijote de cuantas hasta entonces le habían sucedido Y allí, en Barcelona, dieron fin las malandanzas caballerescas de nuestro Don Quijote; allí fue vencido por el Caballero de la Blanca Luna. Hízose este el encontradizo, le buscó quimera por precedencia de hermosura de sus respectivas damas, le derribó y le pidió confesase las condiciones del desafío. Y el gran Don Quijote, el inquebrantable Caballero de la Fe, el heroico loco, molido y aturdido y «corno si hablara dentro de una tumba, con voz debilitada y enferma dijo: Dulcinea del Toboso es la más hermosa mujer del mundo y yo el más desdichado caballero de la tierra, y no es bien que mi flaqueza defraude esta verdad; aprieta, caballero, la lanza y quítame la vida, pues me has quitado la honra». Ved aquí cómo cuando es vencido el invicto Caballero de la Fe es el amor lo que en él vence. Esas sublimes palabras del vencimiento de Don Quijote son el grito sublime de la victoria del Amor. Él se había entregado a Dulcinea sin pretender que por eso se le entregase Dulcinea, y así su derrota en nada empañaba la hermosura de la dama. Él la había hecho en pura fe, él la había creado con el fuego de su pasión; pero una vez creada, ella era ella y de ella recibía su vida él. Yo forjo con mi fe, y contra todos, mi verdad, pero luego de así forjada ella, mi verdad se valdrá y sostendrá sola y me sobrevivirá y viviré yo de ella.
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che tratta dell’avventura che più dispiacere procurò a Don Chisciotte di quante finora gli erano successe E lì a Barcellona ebbero fine le disavventure cavalleresche del nostro Don Chisciotte; lì fu sconfitto dal Cavaliere della Bianca Luna. Costui finse di imbattersi per puro caso nel nostro eroe; lo stuzzicò per benino a proposito della preminenza in fatto di bellezza delle rispettive dame; lo sbalzò di sella e gli chiese di confessare ciò che nel cartello di sfida era stato precisato. Ma il grande Don Chisciotte, l’invincibile Cavaliere della Fede, il pazzo eroico, pestato e stordito e «come se parlasse dall’interno di una tomba con un filo di voce e malferma disse: Dulcinea del Toboso è la donna più bella del mondo ed io il più sventurato cavaliere della terra; né si deve dire che, poiché sono debole, venga meno questa verità. Affondami nel cuore la tua lancia, o cavaliere, e toglimi la vita, poiché mi hai tolto l’onore». Vedete a questo punto che, quando l’invincibile Cavaliere della Fede è vinto, è sempre l’amore a vincere in lui. Le sublimi parole della sconfitta di Don Chisciotte sono il supremo grido della vittoria dell’Amore. Egli si era dato a Dulcinea senza pretendere che perciò Dulcinea si desse a lui; e così la sua sconfitta non offuscava per nulla la bellezza della dama. L’aveva creata lui, è vero, l’aveva creata in pura fede, l’aveva forgiata col fuoco della sua passione; ma, una volta creata, Dulcinea era Dulcinea e da lei egli riceveva la sua vita. Io forgio con la mia fede e contro tutti, la mia verità; ma essa, una volta così forgiata, si aiuterà e si sosterrà da sola e mi sopravviverà ed io vivrò in essa.
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¡Oh, mi Don Quijote, y cuán a dos dedos de tu salvación eterna estás, pues curado ya de la presunción no hablas de la fortaleza de tu brazo, sino que confiesas tu flaqueza! Y ¡cómo se te viene encima la luz purificadora de la muerte próxima! ¡Cómo de dentro de una tumba hablas; cómo de dentro de la tumba del mundo que se burla de los héroes y los pasea por las calles con su pergamino a la espalda! Y vencido y maltrecho y triste y afligido y conociendo tu flaqueza, aún proclamas a Dulcinea del Toboso la más hermosa mujer del mundo. ¡Oh, generoso Caballero! Tú no eres como esos que, buscando la Gloria cuando se ven por ella desdeñados, la niegan y la deniegan y la motejan de vana y aun dañosa; tu no eres de los que culpan a la Gloria de sus propias flaquezas y de no haber podido conquistarla; tu, vencido y maltrecho, prefieres la muerte a renegar de la que te metió en tu carrera de heroísmo. Y es porque tienes fe en ella, en tu Dulcinea; sientes que, cuando pareciendo abandonarte, deja que te venzan, es para luego cenirte entre sus temblorosos brazos con hambriento cariño, y apretarte a su pecho encendido hasta que sean un parejo golpear el de su corazón y el del tuyo, y pegar a tu boca su boca, respirando de tu aliento y de su aliento tú y quedar así las dos bocas prendidas para siempre en un beso inacabable de gloria y de amor eternos. Te deja ser vencido para que comprendas que no a la fortaleza de tu brazo, sino al amor que la tuviste debes tu vida eterna. Tú la amaste, invicto Caballero de la Fe, con el amor más esmerado y grande, con amor que se alimentaba de sus desdenes y rechazos. No por haberla visto trasformada en zafia labradora se te amenguó el denodado ánimo ni pregonaste el vanidad de vanidades y todo vanidad, del sabio rey podrido por los hartazgos. Al ser vencido, tu grito de triunfo, invicto Caballero, fue proclamar la hermosura sin par de Dulcinea.
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Oh, mio buon Don Chisciotte, devi essere ormai molto vicino alla tua eterna salvezza, dal momento che, guarito ormai dalla presunzione, non parli più del valore del tuo braccio, ma confessi la tua debolezza! E come ti sovrasta ormai la luce purificatrice della tua morte prossima! Parli come dentro una tomba; come dentro la tomba del mondo che si fa beffa degli eroi e li conduce a spasso per le strade con un cartello di pergamena appeso dietro le spalle! Ma pur vinto e malconcio, triste ed afflitto, continui a proclamare che Dulcinea è la più bella dama del mondo. Oh, generoso Cavaliere! Tu non sei come coloro che vanno in cerca della Gloria e poi, quando se ne vedono disdegnati, la rinnegano, la denigrano e la chiamano vana, quando non perniciosa; tu non sei di coloro che danno la colpa alla Gloria delle proprie debolezze e di non essere riusciti a conquistarla; tu, benché sconfitto e malconcio, preferisci la morte piuttosto di rinnegare colei che ti sospinse nella tua eroica carriera. Ed è perché hai fede in lei, nella tua Dulcinea; senti che quando ti sembra che ti abbandoni e permette che ti vincano, è solo perché poi ti stringerà fra le sue braccia trepidanti con avido affetto, ti terrà sul suo seno ardente finché non batteranno all’unisono il tuo ed il suo cuore, e incollerà la sua sulla tua bocca, e respirerà il tuo alito come tu respirerai il suo, e le vostre due bocche rimarranno unite così per sempre in un bacio interminabile di gloria e di amore eterni. Lascia che tu sia vinto per comprendere infine che non alla forza del tuo braccio, ma all’amore che hai portato vai debitore della vita eterna. Tu l’amasti, invincibile Cavaliere della Fede, con l’amore più puro e più grande, dell’amore che si alimentava dei suoi disdegni e dei suoi rifiuti. E non perché la vedesti poi trasformata in rustica villana ti si avvilì l’animo generoso, né andasti predicando vanità delle vanità e tutto è vanità, del saggio re corrotto per il troppo cibo. Quando fosti sconfitto, il tuo grido di trionfo, invincibile Cavaliere, si levò ancora alto per proclamare l’impareggiabile bellezza di Dulcinea.
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Así a nosotros, tus fieles, cuando más vencidos estemos, arando el mundo nos aplaste y nos estruje el corazón la vida y se nos derritan las esperanzas todas, danos alma, Caballero, danos alma y coraje para gritar desde el fondo de nuestra nadería: ¡plenitud de plenitudes y todo plenitud! ¿Que yo muero en mi demanda? Pues así se hará esta más grande con mi muerte. ¿Que peleando en pro de mi verdad, me vencen? ¡No importa! No importa, pues ella vivirá, y viviendo ella os mostrará que no depende de mí, sino de ella. No es este mi yo deleznable y caduco; no es este mi yo que come de la tierra y al que la tierra comerá un día, el que tiene que vencer; no es este, sino que es mi verdad, mi yo eterno, mi padrón y modelo desde antes de antes y hasta después de después; es la idea que de mi tiene Dios, Conciencia del Universo. Y esta mi divina idea, esta mi Dulcinea, se engrandece y se sobrehermosea con mi vencimiento y muerte. Todo tu problema es este: si has de empañar esa tu idea y borrarla y hacer que Dios te olvide, o si has de sacrificarte a ella y hacer que ella sobrenade y viva para siempre en la eterna e infinita Conciencia del Universo. O Dios o el olvido. Si por guardar tu mecha apagas la luz; si por ahorrar tu vida malgastas tu idea, Dios no se acordará de ti, anegándote en su olvido como en perdón supremo. Y no hay otro infierno que este: el que Dios nos olvide y volvamos a la inconciencia de que surgimos. «Señor, acuérdate de mí», digamos con el bandolero que moría junto a Jesús (Lc., XXIII, 42). Señor, acuérdate de mí, y que mi vida toda sea una vivificación de mi idea divina, y si la empeñare, si la sepultare en mi carne, si la deshiciere en este mi yo caduco y terreno, entonces, ay de mi, Señor, porque me perdonarias olvidándome! Si aspiro a Ti, viviré en Ti; si de Ti me aparto, iré a dar en lo que no es tuyo, en lo único que fuera de Ti cabe: en la nada.
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Così a noi tuoi fedeli, quando giaceremo più prostrati nella disfatta, quando il mondo ci schiaccerà la vita e ci opprimerà il cuore ed ogni speranza ci si dissolverà dentro, dà nuovo animo, Cavaliere, dà animo e valore per gridare ancora dal fondo del nostro annichilimento: pienezza delle pienezze, e tutto è pienezza! E se morirò nel proclamarlo? Meglio; con la mia morte diverrà ancora più grande la verità affermata. E se, mentre combatto per la mia verità, mi vincono? Non importa! Non importa, perché essa vivrà e vivendo vi dimostrerà che non è essa a dipendere da me, ma io da essa. Non è questo mio io spregevole e caduco; non è questo mio io che si ciba di terra e che la terra un giorno divorerà, che deve vincere; non è questo mio io, ma la mia verità, il mio io eterno, mio esempio e modello da prima dell’inizio dei tempi e fino dopo la loro fine; è l’idea che di me ha Dio, Coscienza dell’Universo. E questa mia idea divina, questa mia Dulcinea si fa più grande e si adorna di sovrumana bellezza con la mia sconfitta e la mia morte. Tutto il tuo problema è questo: se devi offuscare questa tua idea, cancellarla e far sì che Dio si dimentichi di te, o se devi sacrificarti ad essa e far sì che affiori e viva per sempre nell’eterna ed infinita Coscienza dell’Universo. O Dio o l’oblio. Se per risparmiare il tuo lucignolo spegni il lume; se per conservare la tua vita sciupi la tua idea, Dio non si ricorderà di te e ti lascerà affogare nel suo oblio come per un supremo atto di perdono. E questo è l’unico vero inferno: che Dio si dimentichi di noi e che ritorniamo nell’inconscio dal quale siamo sorti. «Signore, ricordati di me», diciamo insieme al ladrone che moriva accanto a Gesù (Lc., XXIII, 42). Signore, ricordati di me e fa che tutta la mia vita non sia una vivificazione della mia idea divina; e se la offuscherò, se la seppellirò nella mia carne, se la dissolverò in questo mio io caduco e terreno, allora, guai a me, Signore, perché Tu mi perdoneresti dimenticandomi! Se aspiro a Te, vivrò in Te; se mi allontano da te, finirò là dove Tu non regni, nell’unico luogo che in Te non è contenuto: nel nulla!
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Y el vencedor de Don Quijote, el de la Blanca Luna, a quien también sacó del sosiego aldeano el amor a Dulcinea, no mata al Caballero, sino que exclama: «¡viva, viva en su entereza la fama de la hermosura de la señora Dulcinea del Toboso!», y se contenta con pedirle al vencido que se retire a su lugar mientras él le mande… ¡que se retire a bien morir! Sansón Carrasco, el bachiller por Salamanca, que no era otro el de la Blanca Luna, fue también en busca de gloria, y para que la fama lleve su nombre con el de Don Quijote. ¿Y no fue acaso también para merecer a los ojos de aquella andaluza Casilda, de quien se enamoró en unas callejas de la dorada ciudad del Tormes? Y Sancho, el fiel Sancho, «todo triste, toda apesarado, no sabia qué hacerse ni decirse; parecíale que todo aquel suceso pasaba en sueños y que toda aquella máquina era cosa de encantamiento. Veía a su señor rendido y obligado a no tornar armas en un año; imaginaba la luz de la gloria de sus hazañas oscurecida, las esperanzas de sus nuevas promesas deshechas, como se deshace el humo con el viento». Parémonos a considerar este fin de la gloriosa carrera de Don Quijote y cómo fue en Barcelona vencido, y vencido por su convecino el bachiller Sansón Carrasco. Y aqui, mi señor Don Quijote, he de confesarte una mi pasada bellaquería. Hace algunos años que en un semanario que en esta nuestra España alcanzó autoridad y renombre, lancé contra ti, generoso hidalgo, este grito de guerra: ¡Muera Don Quijote! Resonó el grito, sobre todo en esa Barcelona donde fuiste vencido, y donde me lo tradujeron al catalán; resonó el grito y tuvo eco y me lo corearon y aplaudieron muchos. Pedí que murieras para que resucitara en ti Alonso el Bueno, el enamorado de Aldonza, como si su bondad se hubiera nunca mostrado más espléndida que en tus locas hazañas. Y hoy te confieso, señor mío, que aquel mi grito que tanto gusto dio en esa Barcelona, donde fuiste vencido y donde me lo tradujeron al catalán, fue un grito que me lo inspiró tu vencedor Sansón Carrasco, bachiller por Salamanca.
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Ma il vincitore di Don Chisciotte, il Cavaliere della Bianca Luna, che come lui fu tratto dalla quiete paesana per amore di Dulcinea, non uccide il Cavaliere, ché anzi esclama: «Che viva, che viva integra la fama della bellezza di madama Dulcinea del Toboso!» e si accontenta di chiedere al vinto che si ritiri nel suo villaggio finché non gli sarà comandato da lui… che si ritiri a cercarvi la buona morte! Sansone Carrasco, il baccelliere diplomato a Salamanca, giacché altro non era il Cavaliere della Bianca Luna, correva anch’egli in cerca di gloria per ottenere che la fama propagasse il suo nome insieme a quello di Don Chisciotte. Ma non fu forse anche per acquistare merito agli occhi di quell’andalusa Casilda, della quale si era invaghito in una certa viuzza della dorata città del Tormes? E Sancio, il fedele Sancio, «tutto avvilito, tutto afflitto, non sapeva né che dire, né che fare; gli pareva che quanto era successo fosse un sogno e che tutta quella scena fosse un altro incantesimo. Vedeva lì il suo signore sconfitto ed obbligato a non prendere armi per un anno; immaginava oscurata la luce di gloria delle sue prodezze, immaginava ormai svanite le speranze delle sue nuove promesse, come svanisce il fumo col vento». Soffermiamoci a considerare questo finale della gloriosa carriera di Don Chisciotte e che a Barcellona venne sconfitto, e sconfitto dal suo vicino, il baccelliere Sansone Carrasco. E a questo punto, mio signor Don Chisciotte, devo confessarti una cattiva azione del mio passato. Qualche anno fa, in un settimanale che raggiunse autorità e rinomanza in questa nostra Spagna, scagliai contro di te, generoso hidalgo, questo grido di guerra: A morte Don Chisciotte! Il grido ebbe echi, soprattutto in quella Barcellona ove fosti sconfitto e dove venne tradotto in catalano; il grido ebbe echi e risuonò alto e mi fecero coro e mi applaudirono in molti. Volevo che morissi perché risuscitasse in te Alonso il Buono, l’innamorato di Aldonza, quasi che la sua bontà si fosse mai mostrata più splendidamente che nelle tue folli imprese. Ma oggi ti confesso, signor mio, che quel mio grido che tanto piacque in questa Barcellona ove fosti sconfitto e dove me lo tradussero in catalano, fu un grido che mi ispirò il tuo vincitore Sansone Carrasco, baccelliere diplomato a
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Porque si es en esa Barcelona, faro y como centro de la nueva vida industriai de España, si es en esa ciudad donde más se grita contra el quijotismo, es el espíritu bachilleresco, espiritu de socarroneria y de envidia, el que lo anima. Fuiste, sí, vencido en Barcelona, pero lo fuiste por un manchego, bachiller por Salamanca. Es, sí, en Barcelona donde más se denigra tu espíritu, pero es lo bajo del espíritu bachilleresco y salmantino lo que a esas denigraciones les lleva. Porque allí, en Barcelona, es donde vence el bachiller Sansón Carrasco. Y cuando este declaró a don Antonio Moreno quién era: «Oh, señor – dijo don Antonio –, Dios os perdone el agravio que habéis hecho a todo el mundo en querer volver cuerdo al más gracioso loco que hay en él. ¿No veis, señor, que no podrá llegar el provecho que cause la cordura de Don Quijote a lo que llega el gusto que da con sus desvaríos?». Y por este hilo siguió ensartando sus pareceres. ¡Triste modo de pensar, pues no quiere que sane, por parecerle loco «gracioso» y por tornar «gusto» de sus desvaríos! No se sabe qué deplorar más, si la pequeñez de alma de Sansón Carrasco o la de don Antonio Moreno. Quieren a Don Quijote para reírle las gracias y tornar gusto de sus desvaríos, y por haberlas reído antaño tienen hogaño que llorar, y por haber tornado de sus desvaríos gusto les tiene que disgustar la vida de hoy. Yo lancé contra ti, mi señor Don Quijote, aquel muera. Perdónamelo; perdónamelo, porque lo lancé lleno de sana y buena, aunque equivocada intención, y por amor a ti, pero los espíritus menguados, a los que su mengua les pervierte las entendederas, me lo tomaron al revés de como yo lo tomaba, y queriendo servirte te ofendí acaso. Triste caso este de que no nos hayan de entender cosa alguna a derechas, y no más por defecto de cabeza que por vicio de corazón. Perdonarne, pues. Don Quijote mío, el daño que pude hacerte queriendo hacerte bien; tú me has convencido de cuán peligroso es predicar cordura entre estos espíritus alcornoqueños; tú me has enseñado el mal que se sigue de amonestar a que sean prácticos a hombres que
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Salamanca. Perché, se è proprio in questa Barcellona, faro e quasi centro della vita industriale della Spagna, se è proprio in questa città dove più forte si grida contro il chisciottismo, ciò si deve allo spirito baccellieresco, spirito di malignità e di invidia, che lo anima. Tu fosti, sì, sconfitto a Barcellona, ma lo fosti per mano di un mancego, baccelliere diplomato a Salamanca. È a Barcellona, sì, dove più si denigra il tuo spirito, ma è la bassezza dello spirito baccellieresco e salmantino che spinge la gente a siffatte denigrazioni. Perciò lì, a Barcellona vince lo spirito di Sansone Carrasco. E quando questi dichiarò a don Antonio Moreno chi era: «Oh, Signore – disse don Antonio – Dio vi perdoni il torto che avete fatto a tutto il mondo volendo far diventare saggio il folle più divertente che esista! Non vedete, Signore, che il vantaggio che potrà derivare dal buon senso di Don Chisciotte non potrà arrivare al grado a cui perviene il divertimento che dà con le sue stravaganze?». E su questa falsariga andò avanti a snocciolare le sue opinioni. Triste modo di pensare, poiché non vuole che risani, giacché gli sembra un matto «divertente» e trova uno «spasso» nelle sue stravaganze! Non sappiamo che cosa si debba deplorare di più, se la meschinità d’animo di Sansone Carrasco o quella di don Antonio Moreno. Vogliono Don Chisciotte per ridere alle sue spalle e spassarsi per le sue stravaganze; ma proprio per averne riso allora, adesso ne devono piangere; e proprio per essersi divertiti per le sue stravaganze, la vita odierna deve per forza disgustarli! Io ho lanciato contro di te, mio signor Don Chisciotte, quel grido di morte. Perdonami; perdonami, perché lo lanciai, sia pure sbagliando, pieno di buone e sane intenzioni, e poiché ti amavo; ma gli spiriti meschini ai quali la meschinità turba l’intelletto, intesero tutto l’opposto di quel intendevo io; sicché, mentre volevo servirti, forse ti offesi. È ben triste che la gente non debba mai capire nulla nel verso giusto, e per difetto di cuore assai più che per difetto di intelligenza. Perdonami, dunque, mio Don Chisciotte, per il male che ho potuto farti nel volerti fare il bene; tu mi hai convinto quanto sia pericoloso predicare saggezza tra certi spiriti aridi come sughero; mi hai insegnato quanto male derivi dall’ammonire ad essere pratici
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propenden al más grosero materialismo, aunque se disfrace de espiritualismo cristiano. Pégame tu locura. Don Quijote mío, pégamela por entero. Y luego que me llamen soberbio o lo que quieran. No quiero buscar el provecho que ellos buscan. Que digan: ¿qué querrá?, ¿qué busca?, y conjeturando por los suyos, no encuentren mis caminos. Ellos buscan el provecho de esta vida perecedera y se aduermen en la rutinera creencia de la otra; a mi Don Quijote, déjame luchar conmigo mismo, ¡déjame sufrir! Guárdense para si aspiraciones de diputado provincial a mí dame tu Clavileño, y aunque no me mueva del suelo, sueñe en él subir a los cielos del aire y del fuego imperecederos. ¡Alma de mi alma, corazón de mi vida, insaciable sed de eternidad e infinitud!, sé mi pan de cada dia. ¡Hábil! No, hábil, no; no quiero ser hábil. No quiero ser razonable según esa miserable razón que da de corner a los vividores; ¡enloquéceme, mi Don Quijote! ¡Viva Don Quijote!, ¡viva Don Quijote vencido y maltrecho!, ¡viva Don Quijote muerto!, ¡viva Don Quijote! ¡Regálanos tu locura y deja que en tu regazo me desahogue! Si supieras lo que sufro, Don Quijote mío, entre estos tus paisaños, cuyo repuesto todo de locura heroica te llevaste tú, dejándoles solo la petulante presunción que te perdia. ¡Si supieras cómo desdeñan desde su estúpida e insultante sanidad todo hervor de espíritu y todo anhelo de vida íntima! ¡Si supieras con qué asnal gravedad ríen las gracias de la que creen locura y toman gusto de lo que estiman desvaríos! ¡Oh, Don Quijote mio, qué soberbia, qué estúpida soberbia la soberbia silenciosa de estos brutos que llaman paradoja a lo que no estaba etiquetado en su mollerá y afán de originalidad, a todo revuelo del espíritu! Para ellos no hay quemantes lágrimas vertidas en el silencio, en el silencio del misterio, porque estos bárbaros se lo creen tener todo resuelto; para ellos no hay inquietud del alma, pues se creen nacidos en
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uomini che hanno propensione per il più gretto materialismo, anche quando lo travestono da spiritualismo cristiano. Contagiami con la tua follia, mio Don Chisciotte; contagiami interamente. E poi, vengano pure a chiamarmi superbo o come vogliono. Non voglio rincorrere l’utile che essi inseguono. Dicano pure: «Che mai vorrà? Che va cercando?», ché intanto, imboccando la loro strada, non incroceranno mai la mia. Essi cercano l’utile in questa vita peritura e si addormentano cullandosi nell’abitudinaria credenza nell’altra: lasciami, Don Chisciotte, combattere con me stesso, lasciami soffrire! Si tengano care le loro aspirazione a diventare deputati provinciali; a me dà invece il tuo Clavilegno e lascia che, anche senza staccare i piedi dal suolo, sogni di salire in groppa ad esso nei cieli imperituri dell’aria e del fuoco. Anima dell’anima mia, cuore della mia vita, insaziabile sete di eternità e di infinito, sii tu il mio pane quotidiano. Abile? No, non voglio essere abile. Non voglio neppure essere ragionevole secondo i dettami di quella miserabile ragione che dà da mangiare ai viventi; rendimi pazzo con te, mio Don Chisciotte! Viva Don Chisciotte! Viva Don Chisciotte sconfitto e malconcio. Viva Don Chisciotte, morto! Viva Don Chisciotte! Donaci la tua follia, e lasci che mi sfoghi nel tuo grembo. Se sapessi come soffro, mio Don Chisciotte, tra questi tuoi compaesani, la cui riserva di eroica follia ti sei portato via lasciando loro unicamente la petulante presunzione che ti portava alla rovina… Se sapessi come disdegnano, dall’alto della loro stupida e insultante vanità, ogni ardore spirituale, ogni anelito di vita intima! Se sapessi con quanta asinina gravità ridono dell’ingenuità di quella che giudicano follia e si divertono per quelle che a loro sembrano stravaganze! Oh, mio Don Chisciotte, che superbia, che stupida superbia è la superbia silenziosa di questi bruti che chiamano paradosso tutto ciò che non esiste già perfettamente catalogato ed etichettato nel loro cervello e definiscono smania di originalità ogni volo dello spirito! Per essi non esistono lacrime brucianti versate in silenzio, nel silenzio del mistero, poiché questi barbari credono fermamente di aver risolto tutto; per essi non esistono inquietudini dell’anima, poiché ritengono di essere
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posesión de la verdad absoluta; para ellos no hay sino dogmas y fórmulas y recetas. Todos ellos tienen alma de bachilleres. Y aunque odian a Barcelona, van a Barcelona y allí te vencen. «Seis días estuvo Don Quijote en el lecho, marrido, triste, pensativo y mal acondicionado, yendo y viniendo con la imaginación en el desdichado suceso de su vencimiento», sin que le sirviesen los consuelos de su biel Sancho. El cual veía bien que era él allí el más perdidoso, aunque su amo el más malparado. Y pocos días después emprendieron su regreso a la aldea, «Don Quijote desarmado y de camino, Sancho a pie, por ir el rucio cargado con las armas». Así es desde que vencieron a Don Quijote: son rucios los que llevan sus armas. En el camino encontró a Tosilos el lacayo, que le contó cómo los Duques le hicieron apalear, y doña Rodríguez se volvió a Castilla y su hija entró monja. Así había acabado una de las aventuras a que dio mejor remate Don Quijote.
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nati già in possesso della verità assoluta; per essi vi sono solo dogmi, formule e ricette. Hanno tutti anime da baccelliere. E, sebbene nutrano un profondo odio per Barcellona, vengono a Barcellona e lì ti vincono. «Stette a letto sei giorni Don Chisciotte, smarrito, triste, pensieroso e malinconico, riandando con l’immaginazione su quel disgraziato caso della sua disfatta», senza che a nulla gli servissero i conforti del suo fedele Sancio. Il quale capiva benissimo che in quel frangente era lui che perdeva più di tutti, anche se il suo padrone era in apparenza quello ridotto peggio. E pochi giorni dopo si avviarono per ritornare al villaggio, «Don Chisciotte disarmato e in abito da viaggio; Sancio a piedi, perché l’asino era carico delle armi». E così accade sempre fin da quando sconfissero Don Chisciotte: sono i somari a portare le sue armi. Lungo la strada s’imbatté in Tosillo, il lacchè che gli raccontò come i Duchi l’avessero fatto bastonare, e come donna Rodríguez se n’era tornata in Castiglia e sua figlia era entrata in monastero. Così era poi andata a finire una delle avventure che Don Chisciotte aveva condotto a termine nel migliore dei modi.
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de la resolución que tomó Don Quijote de hacerse pastor y de seguir la vida del campo en tanto que pasaba el año de su promesa, con otros sucesos en verdad gustosos y buenos Caminando, caminando, llegaron al lugar en que habían topado a «las bizarras pastoras y gallardos pastores que en él querían renovar e imitar a la pastoral Arcadia». Y al reconocerlo, dijo Don Quijote: «si es que te parece bien, querría, oh Sancho, que nos convirtiésemos en pastores siquiera el tiempo que tengo de estar recogido. Yo compraré algunas ovejas y todas las demás cosas que al pastoral ejercicio son necesarias y llamándome yo el pastor Quijótiz y tú el pastor Pancino, nos andaremos por los montes, por las selvas y por los prados, cantando aquí, endechando allí, bebiendo de los líquidos cristales de las fuentes, o ya de los limpios arroyuelos, o de los caudalosos ríos. Daránnos con abundantísima mano de su dulcísimo fruto las encinas, asiento los troncos de los durísimos alcornoques, sombra los sauces, olor las rosas, alfombras de mil colores matizados los extendidos prados, allento el aire claro y puro, luz la luna y las estrellas, a pesar de la oscuridad de la noche, gusto el canto, alegría el lloro, Apolo versos, el amor conceptos, con que podremos hacernos eternos y famosos, no solo en los presentes, sino en los venideros siglos». ¡Válgame Dios y con qué tino se dijo aquello de «cada loco con su tema», y cuán bien conocía a su tío la sobrina de Don Quijote cuando, al encontrarse el cura y el barbero, en el escrutinio que de la libreria hicieron, con La Diana de Jorge de
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della decisione presa da Don Chisciotte di farsi pastore e di condurre vita campestre finché passasse l’anno di ritiro che aveva promesso come anche di altri casi davvero piacevoli e belli Camminando camminando, giunsero nel punto in cui si erano imbattuti «nelle bizzarre pastorelle e nei leggiadri pastori che volevano rinnovare e imitare qui la pastorale Arcadia». E nel riconoscerlo, Don Chisciotte disse: «Se a te sembra ben fatto, vorrei, o Sancio, che ci convertissimo in pastori, se non altro per il tempo che devo essere in ritiro. Comprerò delle pecore e quanto occorre alla vita pastorale, e, chiamandomi io il pastore Chisciotte e tu il pastore Panzino, ce ne andremo per questi monti, per le selve e per i prati, qua cantando, là emettendo lamenti, dissetandoci ai liquidi cristalli delle fonti o dei limpidi ruscelletti o dei copiosi fiumi. Ci elargiranno del loro dolcissimo frutto in grandissima abbondanza le querce, ci offriranno da sedere i tronchi dei durissimi cerri, ombra i salici, profumo le rose, tappeti di mille colori la distesa dei prati; ci vivificherà l’aria chiara e pura, ci rischiareranno, nonostante l’oscurità della notte, la luna e le stelle, diletto ci sarà il canto e gioia il pianto; Apollo e l’amore ci ispireranno versi e concetti con i quali potremmo farci immortali e famosi, non solo nell’età presente, ma anche nei secoli futuri». Santo cielo! Come è vero quel detto: «ogni matto ha il suo argomento»; e come conosceva bene suo zio la nipote di Don Chisciotte quando, mentre il curato e il barbiere stavano facendo lo spoglio della biblioteca e si trovarono tra le mani La Diana
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Montemayor y querer perdonarla, exclamó: «¡Ay, señor!, bien puede vuestra merced mandar quemar como a los demás; porque no seria mucho que, habiendo sanado mi señor tío de la enfermedad caballeresca, leyendo estos se le antojase de hacerse pastor y andarse por los bosques y prados cantando y tañendo». Parece, al volver Don Quijote de Barcelona, ir en camino de curarse de su heroica locura y de prepararse a bien morir, mas en viendo el prado de otrora, sueña de nuevo con hacerse eterno y famoso, no solo en los presentes, sino en los venideros siglos. Porque está era su radical locura, este su resorte de acción, esta, como vimos al principio de su historia, la causa que le movió a hacerse caballero andante. El ansia de gloria y renombre es el espíritu íntimo del quijotismo, su esencia y su razón de ser, y si no se puede cobrarlos venciendo gigantes y vestiglos y enderezando entuertos, cobraráselos endechando a la luna y haciendo de pastor. El toque está en dejar nombre por los siglos, en vivir en la memoria de las gentes. ¡El toque está en no morir! ¡En no morir! ¡No morir! Esta es la raíz última, la raíz de las raíces de la locura quijotesca. ¡No morir!, ¡no morir! Ansia de vida; ansia de vida eterna es la que te dio vida inmortal, mi señor Don Quijote; el sueño de tu vida fue y es sueño de no morir. Con tal de no morir cambiabas tu profesión de caballero andante por la de pastor endechante. Así tu España, mi Don Quijote, al tener que recojerse a su aldea, vencida y maltrecha, piensa en dedicarse al pastoreo y habla de colonización interior, de pantanos, de riegos y de granjas. Y por debajo de esa ansia de no morir, ¿no andaba, mi pobre Alonso, tu soberano amor? «Las pastoras de quien hemos de ser amantes» – dijiste – «corno entre peras podemos escoger
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di Jorge di Montemayor10 e manifestarono l’idea di risparmiarla, esclamò: «Ah, signore! Potete mandarli a bruciare come gli altri, perché non ci vorrebbe molto che, una volta guarito il mio signore zio dalla malattia cavalleresca, con la lettura di questi gli venisse voglia di farsi pastore e di andarsene per i boschi e per i prati cantando e suonando». Quando Don Chisciotte parte da Barcellona, sembra per il momento che sia sulla buona via per guarire dalla sua eroica follia e per prepararsi a una buona morte; ma non appena rivede il prato dell’altra volta, torna a sognare di farsi eterno e famoso, non solo nell’età presente, ma anche nei secoli futuri. Era infatti questa la sua follia fondamentale, era questa la molla di tutte le sue azioni, era questa, come abbiano visto sin dall’inizio, la causa che lo aveva spinto a diventare cavaliere errante. L’ansia di gloria e di rinomanza è lo spirito intimo del chisciottismo; la sua essenza e ragion d’essere; e se non si riesce a conseguirle vincendo giganti e paurosi mostri e raddrizzando torti, si conquisteranno, facendo serenate alla luna e atteggiandosi a pastori. Quel che importa è lasciare il proprio nome affidato ai secoli futuri, è vivere nella memoria delle genti. Quel che importa è non morire! Non morire! Questa è la radice ultima, la radice delle radici della follia chisciottesca. Non morire, non morire! Ansia di vita, ansia di vita eterna è ciò che ti diede vita immortale, mio signor Don Chisciotte: il sogno della tua vita fu ed è il sogno di non morire. A patto di non morire, sei disposto a cambiate la tua professione di cavaliere errante per la professione di pastore cantante. Così la tua Spagna, mio Don Chisciotte, quando è costretta a ritirarsi nel suo villaggio, sconfitta e malconcia, pensa di dedicarsi alla pastorizia e va parlando di colonizzazione interna, di laghi artificiali, di irrigazione e di fattorie. Ma, celato sotto questa ansia di non morire, non c’era forse mio povero Alonso, il tuo sovrano amore? «Per le pastorelle poi, delle quali si deve essere innamorati – dicesti – ci sarà di 10 Jorge de Montemayor (o Montemor) (1520-1561), fu poeta e musico e scrisse favole pastorali, la più celebre delle quali è La Diana. (N.d.T.)
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sus nombres, y pues el de mi señora cuadra así al de pastora como al de princesa, no hay para qué cansarse en buscar otro que mejor le venga». Sí, siempre era Dulcinea, la Gloria, y por debajo de ella siempre era Aldonza Lorenzo, la suspirada doce años. ¡Y como suspirarías ahora por ella!, ¡cómo la llamarías!, ¡cómo grabarías un día y otro su nombre en las cortezas de los árboles y hasta alguna vez en tu corazón! ¿Y si así llegaba ello a su noticia y se daba cata de ello y venía a ti, desencantada? ¡Hacerse pastor! Es también, mi Don Quijote, lo que se le ha ocurrido a tu pueblo luego que ha vuelto de América derrotado en su encontronazo con el de Robinsón. Ahora habla de dedicarse a cuidar y cultivar su hacienda, a alumbrar pozos y trazar canales para regar sus resecas tierras; ahora habla de política hidráulica. ¿No será que siente el remordimiento de sus atrocidades pasadas por tierras de Italia, Flandes y América? Leed Patria, el hermoso poema de Guerra Junqueiro, el poeta de nuestro pueblo hermano, el pueblo portugués. Leed esa amarga sátira y llegad al fin de ella, cuando aparece vestido de monje carmelita el espectro del condestable Nunalvares, el vencedor de Aljubarrota, que luego entró en religión. Oídle hablar, oídle hablar del dolor que purifica y redime, del dolor que: Como no ar o vento sabre o vento como na mar o vaga sabre o vaga só na dôr tem a dór socegamento
y llegad a cuando en un éxtasis descuelga la vieja espada de Aljubarrota, tinta en sangre fraternal, y exclama: Porém, se a patria, ja na derradeira angustia e mingoa onde a lençou meu dano, terra d’escravos é, terra estrangeira,
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che scegliere i nomi come si fa con le pere; e siccome quello della mia Dulcinea sta bene sia a una pastorella che a una principessa, non devo affaticarmi a cercarne un altro che le stia meglio». Sì, era sempre Dulcinea, la Gloria, e sotto di essa era sempre Aldonza Lorenzo, la donna sospirata per dodici anni. E come avresti sospirato per lei, adesso! Come l’avresti invocata! Come avresti inciso, un giorno dopo l’altro, il suo nome sulle cortecce degli alberi, e magari, almeno qualche volta, nel tuo stesso cuore! Se una cosa simile le fosse giunta all’orecchio e fosse venuta da te, libera ormai dall’incantesimo? Farsi pastore! È quello che è successo anche al tuo popolo, o mio Don Chisciotte, dopo che è ritornato dalle Americhe sconfitto nel suo urto contro il popolo di Robinson. Adesso parla dell’intenzione di dedicarsi a curare e a coltivare i suoi poderi, a scavare pozzi ed a tracciare canali per irrigare le terre inaridite; adesso si è messo a parlare di politica idraulica. Non si tratterà dell’effetto di un rimorso per le atrocità di altri tempi nelle terra d’Italia, delle Fiandre e dell’America? Leggete Patria, il bel poema di Guerra Junqueiro, il poeta del popolo che ci è fratello, il popolo portoghese. Leggete quell’amara satira ed arrivate alla fine quando, vestito da monaco carmelitano, appare lo spettro del conestabile Nunalvares, il vincitore di Aljubarrota, che entrò nell’ordine dopo aver abbandonato le armi. Ascoltatelo mentre parla; ascoltatelo parlare del dolore che purifica e redime, del dolore di cui si può dire che: come nell’aria il vento sopra il vento come nel mare l’onda sopra l’onda, sol nel dolor si placa ogni dolor.
e arrivate poi al punto in cui, preda di un’estasi, brandisce la vecchia spada di Aljubarrota, tinta di sangue fraterno, ed esclama: Se la patria perciò, già nell’estrema angoscia ove il mio danno l’ha gettata, terra è di schiavi, terra a noi straniera,
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Rutila espada, que brandí ufano! Antes un velho lavrador mendigo te erga á casto do châo, piadoso e humano Volte a bigoma o duro ago antigo! E acabes, afinal, relha de arado, pelos campos de Deos, a lavrar trigo
y arroja su espada al abismo de la noche, exclamando: Deos te acompanhe! Seja Deos louvado!
Y luego entra en escena «el loco» – «o doido» –, el pobre pueblo portugués, nuestro hermano, y echa de menos los tiempos en que fue campesino: Fosse eu ainda o camponez adusto, lavrador matinal, risonho e grave, d’alma de pomba e coragao de justo! Sentisse eu ainda a musica suave da candura feliz no peito agreste, qual em rorida brenha um trino d’ave! Em vez do mundo (fome, guerra e peste!) Conquistasse, por unica vitoria, os thesoiros sen fin do amor celeste. Nunca de feitos meus cantasse a Historia; ignorasse o meu nome a voz da Fama e a minhá sombra humilde a luz da Gloria. Vivesse obscuro e triste, herva da lama; nas alturas, porém, fosse contado entre os que Deos aceita, os que Deos ama.
Es todo lo contrario de Don Quijote y Sancho. Busca nuestro Caballero en la vida pastorial hacerse eterno y famoso; busca en
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spada fulgente che brandisci trionfante, pria che un misero vecchio contadino ti sollevi da terra, umano e pio, all’incudine dà il duro acciaio antico! Ritorna, infine, vomere d’aratro, a trar frumento dai campi di Dio.
E getta la spada nell’abisso di tenebre della notte esclamando: Dio t’accompagni! E sempre sia lodato!
Entra poi in scena il “folle” o doido, il povero popolo portoghese, nostro fratello, a rimpiangere i tempi in cui fu agricoltore: Ancora io fossi il contadino austero, all’opera dall’alba, lento e lieto, anima di colomba e cuor di giusto! Udissi ancora la musica soave nel felice cantor del petto agreste, come in rorida macchia un trillo alato! Anziché il mondo (fame, guerra e peste! ), avessi fatto miei, sola vittoria, gli infiniti tesor d’amore celeste! Non avesse cantato mai la Storia le imprese mie, e ignorasse la Fama il nome, la mia ombra e infin la Gloria! Vivessi oscuro e triste, erba nel limo; ma su nell’alto fossi annoverato tra coloro che Dio accoglie, che Dio ama!
È tutto l’opposto di Don Chisciotte e di Sancio. Il nostro Cavaliere cerca di diventare eterno e famoso nella vita pastorale; e
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ella este pobre loco portugués ser olvidado, expiar sus culpas y redimirse en el dolor: Dôr temerosa, Dôr idolatrada o Dôr, filha de Deos, mâe do Universo!
¿No buscan, en el fondo, una misma cosa? ¿No buscaba lo mismo Don Quijote echándose al mundo a deshacer entuertos y proponiéndose dedicarse al ejercicio pastoril? ¿No busca nuestro pueblo ahora, con los pantaños y canales y la política hidráulica, lo mismo que buscó con sus atrocidades en América? El pobre loco portugués, «o doido», luego de confesar sus culpas, sus glorias Minhas gloriasi… ínfamias e vergonhas de ladrâo, de pirata e de assasino!
Pide la cruz, pide el dolor, y muere en la cruz, en cuya cabecera «desenhada a sangue», esta ironía: «Portugal, rei do Oriente!» muere bendiciendo el llanto que brota de sus ojos porque és o mar de pranto que os meus crimes verter am pelo mundo…
Bendiciendo la sangre que corre de sus heridas, porque es o mar de sangue do meu orgulho e minha iniquidade…
¿Es esto lo que pide y busca nuestro loco, nuestro pueblo español? No, no es esto precisamente. No es que no cante sus hechos la Historia, que ignore su nombre la voz de la Fama, y su nombre humilde la luz de la gloria; no, no es esto.
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in quella stessa vita il povero folle portoghese cerca di essere dimenticato, di espiare le proprie colpe e di redimersi nel dolore: Dolor temuto e insieme idolatrato, Figlio di Dio, dell’Universo Padre!
Ma non cercano, in fondo, la stessa cosa? Don Chisciotte non cercava la medesima cosa lanciandosi nel mondo a dirimere torti e proponendosi di dedicarsi alla vita pastorale? Non cerca forse in questo momento il nostro popolo, con i laghi artificiali, i canali e la politica idraulica la stessa cosa che aveva cercato in America con le sue atrocità? Il povero folle portoghese, o doido, dopo aver confessato le sue colpe, perché tali erano le sue glorie: La mia Gloria!… Infamie sono, vergogne di ladrone, pirata ed assassino!
Chiede la croce, invoca il dolore e muore sulla croce che porta sul cartiglio, «scritto col sangue», questo motto ironico: «Portogallo, re dell’Oriente»; e muore benedicendo il pianto che gli sgorga dagli occhi: perché sei il mar di pianto che i miei delitti hanno sparso per il mondo…
Benedicendo il sangue che gli cola dalle ferite perché é il mar di sangue Della mia iniquità e del mio orgoglio…
Ma è questo che invoca e va cercando il nostro folle, il nostro popolo spagnolo? Non è questo, precisamente. Non chiede che la Storia non canti le sue imprese, che la voce della Fama ignori il suo nome, né che la luce della Gloria non illumini la sua umile ombra; no, nulla di tutto questo.
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Se retira a la vida pastoril, derrotado en la de caballero andante, para poder hacerse eterno y famoso, no solo en los presentes, sino en los venideros siglos. Cambia de camino, pero no de estrella que le guíe. ¿Ha de renunciar el pueblo a toda acción quijotesca y encerrarse en su natal dehesa a purgar sus antiguas culpas, ondando de su ganado o labrando su tierra y sin poner su mira más que en el cielo? ¿Ha de pensar tan solo en ser allá en las alturas contado entre los que Dios ama? ¿Ha de volver a su apacible vida de antes de lanzarse a sus aventureras empresas? ¿Tuvimos esta vida nunca? ¿Tuvimos paz? No basta como ideal de la vida de un pueblo el de mantener la vida misma en el mayor bienestar y holgura, ni aun basta la felicidad. Menos aun abrazarse al dolor. No puede ser ideal de un pueblo el ideal ascètico, destructor de la vida. ¿Aspirar al cielo? No; ¡al reino de Dios! Y a todas horas, día tras día, alza por miles de bocas nuestro pueblo esta plegaria a Nuestro Padre que está en los cielos: «venga a nos el tu reino»; es el reino de Dios el que ha de bajar a la tierra, y no ir la tierra al reino de Dios, pues este reino ha de ser reino de vivos y no de muertos. Y ese reino cuyo advenimiento pedimos a diario, tenemos que crearlo, y no con oraciones solo; con lucha. Pudesse eu, d’alma libre e resoluta, olhos no fogo da manha nascente, erguer ainda os bragos para a lutal! Nâo, como outr’ora, para a luta ardente, da riqueza e grandeza, e validade…, da fortuna, que è sombra que nos mente… Seja a bora do prelio a eternidade! E o globo estreito a arena, onde nâo cança a batalla do Amor e da Verdade!
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Si ritira a far vita pastorale, sconfitto in quella di cavaliere errante, per poter diventare eterno e famoso non solo nell’età presente ma nei secoli futuri. Cambia strada, ma è sempre la stessa stella a fargli da guida. Il popolo deve rinunciare a qualsiasi azione chisciottesca per rinchiudersi nel piccolo podere natale ad espiare le antiche colpe accudendo alle sue bestie o zappando le terre senza più volgere gli occhi altro che al cielo? Deve cercare unicamente di essere annoverato, lassù in alto, tra quelli che Dio ama? Gli converrà ritornare alla tranquilla vita che conduceva prima di gettarsi nelle sue avventurose imprese? Ma una simile vita, l’abbiamo mai vissuta? Abbiamo mai avuto pace? Non è sufficiente, come ideale della vita di un popolo, quello di conservare la vita stessa nel benessere e nell’agiatezza più grandi; non è sufficiente nemmeno la felicità. Ancor meno basterà avvinghiarsi stretti al dolore. Non può essere l’ideale di un popolo l’ideale ascetico che distrugge la vita. Aspirare al cielo? No, aspirare al regno di Dio! E a ogni istante, un giorno dopo l’altro, innalza attraverso migliaia di bocche questa preghiera a nostro Padre che sta nei cieli: «venga il tuo regno»; è il regno di Dio che deve discendere sulla terra; non già la terra innalzarsi al regno di Dio, poiché questo regno dev’essere il regno dei vivi e non dei morti. E questo regno, il cui avvento chiediamo giorno per giorno, tocca a noi crearlo, e non con le sole preghiere, ma con la lotta. Potessi, animo libero e saldo, gli occhi nel fuoco del mattin nascente, levar ancor le braccia per lottare! Non, come un tempo, per la lotta ardente, per la ricchezza e la grandezza vane…, per la fortuna, ombra che sempre mente… Sia l’ora di pugna l’eternità! E arena il globo stretto, in cui non cessa la battaglia d’Amore e Verità!
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¡Esta, la batalla del Amor y de la Verdad! Y en tal pelea ha de ser el pueblo todo un Don Quijote, un pastor Quijótiz más bien: Cavalleiro de Deos, ergue – te e avança! Pôe na bigoma os cravos de Jesus; bate – os contando… E o ferro da tua lança! Faz a hastea de lança duna cruz; vae, cavalleiro de viseira erguida; dá lançadas magnánimas de luz!…
¡Hay que pelear, sí, a lanzadas de luz! Encerrémonos, bien está, en la natal dehesa, pero a cobrar fama pastoreando y cantando. Es un derivativo de la acción heroica; es otra nueva empresa. Vayamos a manejar el cayado con mano movida por el corazón mismo que nos hizo manejar la espada. Es el ejercicio pastoril ahora gobierno, que «no consiste – dice el maestro Fray Luis de León en los Nombres de Cristo, lib. I, cap. IV – en dar leyes ni en poner mandamientos, sino en apacentar y alimentar a los que gobiernan». ¿Apacentarlos y alimentarlos con qué? Con amor y verdad. Pueblo moribundo se ha llamado a tu pueblo, Don Quijote mío, por los que embriagados con el triunfo pasajero olvidan que la fortuna da más vueltas que la Tierra y que aquello mismo que nos hace menos aptos para el tipo de civilización que hoy priva en el mundo, acaso eso mismo nos haga mas aptos para la civilización de mañana. El mundo da muchas vueltas y la fortuna más. Hay que aspirar, de todos modos, a hacerse eternos y famosos, no solo en los presentes, sino en los venideros siglos; no puede subsisdr como pueblo aquel pueblo cuyos pastores, su
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Occorre proprio questa, la battaglia d’Amore e Verità! E in siffatta battaglia, tutto il popolo dev’essere un Don Chisciotte, o piuttosto un pastore Chisciottisio: Cavaliere di Dio, alzati e avanza! Metti i chiodi di Cristo sull’incudine; martella e canta… E il ferro della tua lancia! Fa della Croce l’asta della lancia; va, cavaliere, alzata la visiera, a dar colpi di lancia tutti luce!…
Bisogna combattere, sì, ma a gran colpi di lancia sfolgoranti di luce! Rinchiudiamoci nel piccolo podere natale, ma per acquistare fama pascolando gli armenti e cantando. È una derivazione dell’azione eroica; è un’altra nuova impresa. Accingiamoci ad impugnare il bastone (pastorale) con la mano mossa da quello stesso cuore che ci faceva maneggiare la spada. Il compito del pastore, che è simile al governo, «non consiste – dice il maestro Fra Luis de León11 nei suoi, Nomi di Cristo, lib. I, cap. IV – nel dare leggi ed emanare ordinanze, ma nel pascere ed alimentare gli esseri che si governano». Pascerli ed alimentarli, ma con che cosa? Con amore e verità. Il tuo popolo è stato chiamato popolo moribondo, o mio Don Chisciotte, per bocca di coloro che, ebbri di trionfi passeggeri, dimenticano che la fortuna gira più rapidamente della Terra, e che proprio ciò che ci rende meno adatti rispetto al tipo di civiltà che oggi va per la maggiore in questo mondo, ci rende forse più adatti alla civiltà di domani. Il mondo gira veloce, e la fortuna ancora più velocemente. Bisogna comunque aspirare a diventare eterni e famosi non solo nell’età presente, ma anche nei secoli futuri; un popolo non può sussistere come popolo i cui pastori che ne rappresentano la 11 Fra Luis de León (1527-1591), monaco agostiniano e docente all’Università di Salamanca. Fu imprigionato dall’Inquisizione ma poi, rimesso in libertà, riprese l’insegnamento. Tra i suoi scritti più celebri, Nomi di Cristo. (N.d.T.)
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conciencia, no se lo representen con una misión histórica, con un ideal propio que realizar en la tierra. Estos pastores han de aspirar a cobrar fama pastoreándolo y cantando, y así, cobrando fama, llevarle a su destino. ¿Es que no hay en la Conciencia eterna e infinita una eterna idea de tu pueblo, Don Quijote mío? ¿Es que no hay una España celestial, de que esta España terrena no es sino trasunto y reflejo en los pobres siglos de los hombres? ¿Es que no hay un alma de España tan inmortal como el alma de cada uno de sus hijos? Cruzando el mar en quebradizas carabelas fueron nuestros abuelos a descubrir el Nuevo Mundo, que dormía bajo estrellas antes desconocidas; ¿no hay algun nuevo mundo del espíritu cuyo descubrimiento nos reserve Dios cuando osemos, como los héroes de Camões, lanzarnos a «mares d’antes nunca navegados» en espirituales carabelas labradas con madera de los bosques de nuestro pueblo? Dicen en mi tierra vasca que los abuelos de mis abuelos, los denodados pescadores del golfo de mi Vizcaya, se iban tras de la ballena hasta los bancos de Terranova siglos antes de que Colón Ilamara a las puertas de la Rábida. Soberbiamente lo dice el escudo de Lequeitio: «Reges debellavit horrenda cete subiecit, terra marique potens, Lequeitio». Y para someter a horrendas ballenas fueron, dicen, los balleneros de mi casta hasta las entonces desconocidas costas de la remota América. Y aún dicen más, y es que corre la leyenda de que fue un marino vasco, por nombre Andialotza, es decir Gran Vergüenza, quien primero dio a Colón noticias del Nuevo Mundo, por no atreverse, sin duda, el gran vergonzoso a descubrirlo. Temía a la gloria. ¿Será esto profético? Y si el buen Andialotza, mi paisano, pierde su ingénita vergüenza, ¿habrá que esperar al Colón del Nuevo Espíritu de España? ¿Hay una filosofía españda? Sí, la de Don Quijote. Y conviene que este, nuestro Caballero de Fe, el Caballero de nuestra Fe,
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coscienza non lo vedono sorretto da una missione storica, da un proprio ideale da realizzare sulla terra. Questi pastori devono aspirare ad acquisire fama pascendolo e cantando, e così, acquistando fama, condurlo verso il suo destino. Non vi è forse nella Coscienza eterna ed infinita un’idea eterna del tuo popolo, o mio Don Chisciotte? Non esiste forse una Spagna celeste, della quale questa Spagna terrena non è che compendio e riflesso nei miserabili secoli degli uomini? Non esiste forse un’anima della Spagna non meno immortale di quella di ciascuno dei suoi figli? Solcando il mare su fragili caravelle, i nostri avi andarono alla scoperta del Nuovo Mondo, che dormiva sotto stelle sconosciute a quei tempi; non esiste alcun nuovo mondo dello spirito, la cui scoperta Dio ha messo in serbo per noi, quando oseremo, come gli eroi di Camões, lanciarci per «mari mai navigati prima», imbarcati su spirituali caravelle costruite col legno dei boschi del nostro popolo? Raccontano nella mia terra basca che i nonni dei miei nonni, temerari pescatori del golfo della mia Biscaglia, andavano a caccia di balene fino ai banchi di Terranova qualche secolo prima che Colombo bussasse alla porte del convento della Rábida. Lo afferma superbamente lo stemma di Lequeitio: «Reges debellavit horrenda cete subiecit, terra marique potens, Lequeitio»12. E per assoggettare orrende balene, i balenieri della mia stirpe andarono, si dice, fino alle coste allora sconosciute, della remota America. Anzi si dice di più: è diffusa la leggenda che fosse un marinaio basco, Andialotza, che vuol dire «Gran Vergogna», a dar per primo a Colombo notizia del Nuovo Mondo, probabilmente perché non osava, per troppo pudore, andare egli stesso a scoprirlo. Aveva paura della gloria. Avrà un contenuto profetico, questa leggenda? Ma se il buon Andialotza, mio compaesano, metterà da parte il suo pudore, dovrà attendere il Colombo del Nuovo Spirito di Spagna? Esiste una filosofia spagnola? Sì, quella di Don Chisciotte. E conviene che questi, il nostro Cavaliere della Fede, il Cavaliere 12 Potente per terra e per mare, Lequeitio sconfisse sovrani, assoggettò gli orrendi cetacei. (N.d.T.)
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deje en el astillero su lanza y en la cuadra a Rocinante y cuelgue la espada, y convertido en el pastor Quijótiz, empune el cayado con mano firme, y lleve consigo el caramillo, y a la sombra de las sombrosas encinas de dulcísimo fruto, mientras pacen cabizbajas sus ovejas, cante inspirado por Dulcinea, su visión del mundo y de la vida, para cobrar, cantandola, eterno nombre y fama. Y no ya su visión, sino más bien su encorazonamiento de ellos. Y para cobrar fama, pues se nos dio la gloria como norte de la vida. El Nunalvares del poeta os dirá de la fama que Fama grande do mundo tâo mezquino dando ás trombetas com ardor, nâo vôa onde vôa cantando, um passarinho.
Mas no os fiéis demasiado de tales voces de desaliento, pues sí, la fama vuela, vuela más allá del mundo, y vuela aún más la canción del amor y la verdad. Tal vez a los ecos de esa canción de amores del pastor Quijótiz caigan vencidos los gigantes que fíngen ser molinos y se amansen los galeotes, y licencie Roque Guinart a sus huestes, y enmudezcan los canónigos y los graves eclesiásticos, y reconozcan los cuadrilleros que las bacías en manos del hidalgo milagrero son yelmos, y renuncien los maese Pedro a sus titereras, y se nos abran las entrañas de la cueva de Montesinos, y se enderece todo entuerto, y se deshaga todo agravio, y se adoncellen todas las mozas del partido, y venga a nosotros el reino de Dios, realizándose en la tierra aquel Siglo de Oro con cuya Vision embobó y suspendió Don Quijote el ánimo de los cabreros. Hay que dar «lanzadas magnánimas de luz», o mejor, hay que lanzar la verdad al mundo, mientras se pastorea el ganado, al son de pastoril caramillo, la santa palabra que ha de hacer el milagro. Hay que pedir a Apolo versos, al amor conceptos. Sobre todo, conceptos al amor.
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della nostra Fede, lasci la lancia nella rastrelliera, Ronzinante nella scuderia, appenda la spada al chiodo e poi, trasformato in pastore Chisciottisio, impugni il pastorale con mano salda e si porti dietro lo zufalo e all’ombra delle ombrose querce dal dolcissimo frutto, mentre le sue pecorelle pascolano a testa bassa, canti, ispirato da Dulcinea, la sua visione del mondo e della vita, per acquistare, cantandola, eterna rinomanza e fama. Anzi, neppure la sua visione, ma piuttosto quello che il suo cuore gli detta. E per acquistare fama, poiché ci è stata assegnata la gloria come stella polare della nostra vita. Il Nunalvares del poeta vi parlerà della fama che Fama grande del mondo sì meschino forte sonando la sua tromba, vola men che non voli e canti un uccellino.
Ma non vi fidate troppo di simili voci di scoraggiamento, poiché in realtà la fama vola, e vola al di là del mondo, ma vola ancora di più la canzone dell’amore e della verità. Forse agli echi della canzone d’amore del pastore Chisciottisio cadranno sconfitti i giganti che fingono di essere mulini a vento, e si ammansiranno i galeotti, e Rocco Guinart congederà le sue schiere, e ammutoliranno i canonici e i gravi ecclesiastici, e gli sbirri riconosceranno che le bacinelle sono elmi nelle mani dell’hidalgo miracoloso, e i mastri Pietro rinunzieranno alle loro baracche di marionette, e ci verranno dischiuse le viscere della grotta di Montesinos, e si raddrizzerà ogni torto, e verrà disfatto ogni oltraggio, e torneranno donzelle tutte le ragazze allegre, e verrà il regno di Dio, realizzando sulla terra quel secolo d’oro con la cui visione Don Chisciotte incantò e stupì l’animo dei caprai. Bisogna dar colpi di lancia sfolgoranti di luce o, meglio ancora, bisogna scagliare la verità nel mondo, mentre si pascola il bestiame al suono dello zufalo pastorale; bisogna scagliare nel mondo la santa parola che opererà il miracolo. Bisogna chiedere ad Apollo versi, all’amore concetti. E soprattutto concetti all’amore.
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¿Hay una filosofía española, mi Don Quijote? Sí, la tuya, la filosofia de Dulcinea, la de no morir, la de creer, la de crear la verdad. Y esta filosofía ni se aprende en cátedras ni se expone por lógica inductiva ni deductiva, ni surge de silogismos, ni de laboratorios, sino surge del corazón. Pensabas, mi Don Quijote, en hacerte pastor Quijótiz y que te diera el amor conceptos. Todos los conceptos de vida, todos los conceptos eternos, manan del amor. Es Aldonza, mi pastor Quijótiz, es siempre Aldonza la fuente de sabiduría. A través de ella, a través de tu Aldonza, a través de la mujer, ves Universo todo. ¿No ves a este pueblo endiosando cada día más el ideal de la mujer, a la mujer por excelencia, a la Virgen Madre? ¿No le ves rendido a ese culto, y hasta casi olvidando por él el culto al Hijo? ¿No ves que no hace sino ensalzarla más y más alto, pujando por ponerla al lado del Padre mismo, a su igual, en el seno de la Trinidad, que pasaría a ser Cuaternidad si no es ya que la identificaran con el Espíritu como con el Verbo se identificó al Hijo? ¿No la han declarado Corredentora? Y esto, ¿por qué es? La concepción de Dios que se nos ha venido trasmitiendo ha sido una concepción, no ya antropomórfica, sino andromórfica; nos lo representamos, no ya como a persona humana – «homo» –, sino como a varón – «vir» –; Dios era y es en nuestras mentes masculino. Su modo de juzgar y condenar a los hombres, modo de varón, no de persona humana por encima de sexo; modo de Padre. Y para compensarlo hacía folta la Madre, la Madre que perdona siempre, la Madre que abre siempre los brazos al hijo cuando huye este de la mano levantada o del ceño fruncido del irritado Padre, la Madre en cuyo regazo se busca como consuelo una oscura remembranza de aquella tibia paz de la inconciencia que dentro de él fue el alba que precedió a nuestro nacimiento, y un dejo de aquella dulce
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Esiste una filosofia spagnola, mio Don Chisciotte? Sì, la tua, la filosofia di Dulcinea, quella di non morire, quella di credere, quella di creare la verità. Ma questa filosofia non si apprende nelle scuole, né si può creare secondo la logica deduttiva o induttiva, né scaturisce dai sillogismi, né dai laboratori: ma sorge direttamente dal cuore. Pensavi, o mio Don Chisciotte, di mutarti nel pastore Chisciottisio e di farti dare concetti dall’amore. Tutti i concetti di vita, tutti i concetti eterni derivano dall’amore. E Aldonza, mio pastore Chisciottisio, è sempre Aldonza la fonte della sapienza. Per mezzo suo, per mezzo della tua Aldonza, per mezzo della donna, riscopri l’Universo. Non vedi come questo popolo innalza ogni giorno di più l’ideale della donna, la donna per eccellenza, la Vergine Madre? Non lo vedi tutto preso da questo culto, dimenticando quasi per esso il culto del Figlio? Non vedi che non fa che innalzarla sempre più in alto tentando quasi di porla accanto allo stesso Padre, come uguale a lei, nel seno della Trinità che diverrebbe così Quaternità, se non la identificassero istintivamente con lo Spirito Santo, allo stesso modo che il Verbo si identificò col Figlio? Non l’hanno proclamata Corredentrice? E tutto questo, perché? La concezione di Dio, che ci è stata tramandata, è stata una concezione non solo antropomorfica, ma addirittura andromorfica; ce lo rappresentiamo non già come persona umana – homo –, ma come maschio – vir –; Dio nelle nostre menti era ed è maschio. Il suo modo di giudicare e condannare gli uomini è un modo tutto maschile, non già un modo di persona umana posta al di sopra del sesso; è un modo di Padre. E per fargli da contrappeso occorreva la Madre, la madre che perdona sempre, la madre che apre sempre le braccia al figlio quando fugge dalla mano alzata o dal cipiglio accigliato del Padre adirato, la Madre nel cui grembo si va a cercare, come conforto, un’oscura rimembranza di quella tiepida pace dell’incoscienza che entro di esso fu come l’alba che precedette la nostra nascita, e il sentore di quel dolce latte che imbal-
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leche que embalsamó nuestros sueños de inocencia, la Madre que no conoce más justícia que el perdón ni más ley que el amor. Las lágrimas maternales borran las tablas del Decálogo. Nuestra pobre e imperfetta concepción de un Dios varón, de un Dios con largas barbas y voz de trueno, de un Dios que impone preceptos y pronuncia sentencias, de un Dios Amo de Casa, «Pater familias» a la romana, necesitaba compensarse y completarse, y como en el fondo no podemos concebir al Dios personal y vivo, no ya por encima de rasgos humanos, mas ni aun por encima de rasgos varoniles y menos un Dios neutro o hermafrodita, acudimos a darle un Dios femenino y junto al Dios Padre hemos puesto a la Diosa Madre, a la que perdona siempre porque, como mira con amor ciego, ve siempre el fondo de la culpa y en ese fondo la justicia única del perdón, a la que siempre consuela, a la Madre Dulcísima, a la Madre de Dios, a la Virgen Madre. Es la Virgen Madre, es la Madre Purísima, la que no es sino madre y, siendo todo Io que hace ser mujer a la mujer, queda limpia de todo el barro humano para que en ella aliente e irradie tan solo el soplo divino. Es la Virgen Madre, es la Madre de Dios. Es la Madre de Dios, es la pobre Humanidad dolorida. Porque, aunque compuesta de hombres y mujeres, la Humanidad es mujer, es madre. Lo es cada sociedad, lo es cada pueblo. Las muchedumbres son femeninas. Juntad a los hombres y tened por cierto que es lo femenino de ellos, lo que tienen de sus madres lo que los junta. La pobre Humanidad dolorida es la madre de Dios, pues en ella, en su seno, es donde se manifiesta, donde encarna la eterna e infinita Conciencia del Universo. Y la Humanidad es pura, purísima, limpia de toda mancha, aunque nazcamos manchados cada uno de los hombres y mujeres. ¡Dios te salve, Humanidad: llena eres de gracia! Mira, mi pastor Quijótiz, cómo se va a la Humanidad desde Aldonza, la recatada doncella del Toboso: mira cómo da el amor conceptos. Y mira si al son de tu pastoril caramillo puede hacerse amorosa filosofía española, aunque graznen, para aho-
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samò i nostri sogni innocenti; la Madre che non conosce altra giustizia che il perdono, né altra legge che quella dell’amore. Le lacrime materne hanno la forza di annullare, di cancellare le tavole del Decalogo. La nostra meschina ed imperfetta concezione di un Dio maschio, di un Dio dalla lunga barba e dalla voce tonante, di un Dio che impone precetti e pronunzia sentenze, di un Dio padrone di casa, Pater familias per dirla con parola latina, doveva essere completata e compensata; ma siccome non riusciamo a concepire un Dio personale e vivente non solo facendo astrazione dai tratti umani, ma nemmeno togliendogli le sembianze maschili, e meno ancora un Dio neutro e ermafrodita, abbiamo dovuto ricorrere ad un Dio femminile, e accanto al Dio padre abbiamo collocato una Dea Madre, colei che perdona sempre, poiché dato che ci guarda con cieco amore, vede sempre il fondo estremo della colpa e in quel fondo la giustizia unica del perdono; colei che sempre consola, la Madre Dolcissima, la Madre di Dio, la Vergine Madre. È la Vergine Madre, è la Madre Purissima, colei che non è altro che madre e che, pur essendo tutto quello che fa donna una donna, rimane pura rispetto a tutto il fango umano affinché aliti e irradi su di lei soltanto il soffio divino. È la Vergine madre, è la Madre di Dio. È la Madre di Dio, la povera umanità dolorosa. Giacché, sebbene la compongano uomini e donne, l’Umanità è femmina, è madre. E così avviene per ogni società, per ogni popolo. Le folle sono femmine. Mettete assieme degli uomini, e state pur certi che l’elemento che li unisce sarà quel che posseggono di femminile, quello che hanno preso dalle loro madri. La povera Umanità dolorosa è la Madre di Dio poiché è in lei, nel suo seno, che si manifesta e si incarna l’eterna ed infinita Coscienza dell’Universo. E l’Umanità è pura, purissima, priva di ogni macchia, anche se ognuno di noi, uomini e donne, nasce macchiato. Dio ti salvi, Umanità; tu sei piena di grazia! Vedi, dunque, mio pastore Chisciottisio, come, partendo da Aldonza, la pudica donzella del Toboso, si giunge all’Umanità; guarda come l’amore dà i concetti. E guarda se al suono del tuo zufolo pastorale si può o no fare della filosofia spagnola amorosa,
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gar sus melódicos sones, los grandísimos cuervos y grajos que anidan en la boca de la cueva de Montesinos. Si Don Quijote volviera al mundo sería pastor Quijótiz, no ya caballero andante de espada: sería pastor de almas, empuñando, en vez del cayado, la pluma o dirigiendo su encendida palabra a los cabreros todos. Y ¡quién sabe si no ha resucitado…! Si Don Quijote volviera al mundo sería pastor, o lo sera cuando vuelva; pastor de pueblos. Y buscará que le dé el amor conceptos, y en hacer vivir y triunfar estos pondrá todo el denuedo y la bravura toda que puso antes en acometer molinos y libertar galeotes. Y buena falta nos está haciendo, porque es cobardía de pensar lo que nos tiene tan abatidos. Es cobardía de afrontar los eternos problemas; es cobardía de escarbar en el corazón; es cobardía de hurgar las inquietudes íntimas de las entrañas eternas. Esa cobardía lleva a muchos a la erudición adormidera de desasosiegos del espíritu u ocupación de la pereza espiritual: algo así como el juego del ajedrez. «No quiero meterme a estudiar patología – me decía un cobarde –, ni aun quiero saber hacia dónde me cae el hígado ni para qué sirve, pues si me pongo a ello llego a creer que padezco de la enfermedad cuya descripción acabo de leer. Ahí está el médico, cuyo oficio es curarme y para lo cual le pago; descargo en él mi responsabilidad, y si me mata, allá por su cuenta; moriré, al menos, sin aprensiones ni cuidados. Y lo mismo tengo al cura. No quiero meterme a pensar en mi origen ni en mi destino, de dónde vengo y dónde voy, y si hay o no Dios y cómo sea, y si hay o no otra vida y en qué consista; eso no sirve más que para dar quebraderos de cabeza y robarme el tiempo y la energía que necesito para ganar el pan de mis hijos.
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anche se, a soffocarne i suoni melodiosi, i grandissimi corni e gracchi che si annidano all’imbocco della grotta di Montesino gracchiano forte. Se Don Chisciotte ritornasse al mondo, sarebbe il pastore Chisciottisio, e non cavaliere errante armato di spada. Sarebbe pastore di anime e impugnerebbe, invece del bastone, la penna, o rivolgerebbe a tutti i caprai la sua vibrante parola. E chissà se non sia già risuscitato!… Se Don Chisciotte ritornasse al mondo, sarebbe pastore, e lo sarà certamente quando ritornerà: pastore di popoli. E cercherà di far sì che l’amore gli dia i concetti; e, nel farli vivere e trionfare, metterà tutta l’abnegazione, la bravura e lo slancio che mostrò nell’assalire mulini e nel liberare galeotti. E ne abbiamo davvero bisogno, perché quello che ci tiene così avviliti è la codardia di pensiero. È la codardia di affrontare gli eterni problemi; la codardia di frugarci dentro il cuore; la codardia di penetrare e svelare le inquietudini intime delle viscere eterne. Siffatta codardia spinge molti a dedicarsi all’erudizione che addormenta i tormenti dello spirito e offre occupazione alla pigrizia spirituale; la si potrebbe in un certo modo paragonare al gioco degli scacchi. «Non voglio mettermi a studiare patologia – mi diceva un codardo – e nemmeno voglio sapere da che parte ho il fegato e a che cosa mi serve; perché, se mi ci metto, arriverò a credere fermamente nella malattia la cui descrizione ho appena finito di leggere. C’è il medico, per questo; il suo mestiere è quello di guarirmi, e proprio per questo lo pago; scarico su di lui la mia responsabilità e se poi mi ammazza, se la vedrà con la propria coscienza; ma per lo meno morirò senza apprensioni, né preoccupazioni. E dall’altra parte ho il prete. Non mi voglio mettere a pensare alla mia origine e al mio destino; non voglio rompermi la testa per sapere da dove vengo e dove vado, e se esiste o no un Dio e come è fatto, e se c’è un’altra vita e in che consiste; questa roba serve solo a far venire il mal di testa e a rubarmi il tempo e l’energia che mi servono per guadagnare il pane per i miei figli.
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Ahi está el cura, y pues tal es su oficio, averigüe él lo que haya, dígame misa y absuélvame cuando al ir a morirme confiese mis pecados. Y si se engaña y me engaña, allá él por su cuenta. Él responderá de sí: para mí, en el creer no hay engaño». ¡Qué falta nos estás haciendo, pastor Quijótiz, para arremeter con tus conceptos, dictados por el amor, a lanzadas magnánimas de luz contra esta mentira apestosa y libertar a los pobres galeotes aunque luego te apedreen, que te apedrearán, de seguro, si les rompes las cadenas de la cobardía que les tienen presos; te apedrearán! Te apedrearán. Los galeotes espirituales apedrean al que les rompe las cadenas que les agarrotan. Y precisamente por esto, porque ha de ser uno apedreado por ellos, es por lo que hay que libertarlos. El primer uso que de su libertad hacen es apedrear al libertador. El más acendrado beneficio es el que se hace al que no nos lo reconoce por tal; la mayor caridad que puedes rendir a tu prójimo no es aplacarle deseos ni remediarle necesidades, sino encenderle aquellos y crearle estas. Libértale, y luego que te apedree por haberle libertado y ejercite asi sus brazos libres, empezará a desear la libertad. Te apedrearán porque se verán perdidos. Y dirán: ¿libertad? Bien, ¿y qué hago yo con esto? Un galeote amigo mío, a quien me dedicaba yo a limarle las cadenas espirituales y sembrar inquietudes y dudas en su alma, me dijo un día: «Mira, déjame en paz y no me molestes; así vivo bien. ¿Para qué tribulaciones y congojas? Si yo no creyera en el infierno sería un criminal». Y le contesté: «No, seguirías siendo como eres y haciendo lo que haces y no haciendo lo que hoy no haces, y si así no fuera y dieses en criminal entonces, es que lo eres también ahora». Y me replicó: «Necesito una razón para ser bueno; un fundamento objetivo sobre que basar mi conducta; necesito saber por qué es malo lo que a mi conciencia repugna».
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C’è il prete apposta; e, dato che quello è il suo mestiere, si informi lui di quel che c’è, mi dica la messa e mi assolva quando in punto di morte gli confesserò i miei peccati. E se si inganna e mi inganna, se la vedrà con la sua coscienza. Toccherà a lui rendere conto di sé; per me, se credo, non ci può essere accusa di frode». Come ci manchi, pastore Chisciottisio, per assalire con i tuoi concetti dettati dall’amore, a colpi di lancia sfolgoranti di luce, questa pestifera menzogna; per liberare i poveri galeotti, anche se dopo ti prenderanno a sassate; perché anzi ti prenderanno certamente a sassate, se spezzi le catene della codardia che li tengono prigionieri. Ti prenderanno a sassate, sì. Ti prenderanno a sassate. I galeotti spirituali prenderanno a sassate chi spezza loro le catene che li tengono avvinti. E proprio per questo, perché si deve essere presi a sassate da loro, bisogna assolutamente liberarli. Il primo uso che faranno della loro riconquistata libertà, sarà quello di prendere a sassate il liberatore. Il più nobile e puro beneficio è quello che si fa a chi non lo riconosce come tale: la più grande carità che puoi usare al tuo prossimo non è quella di soddisfare i suoi desideri o di soddisfare i suoi bisogni, ma l’altra, di rinfocolargli i primi e di creargli i secondi. Liberalo e, dopo che ti avrà preso a sassate per averlo liberato ed aver così usato le braccia libere, inizierà a desiderare la libertà. Ti prenderanno a sassate perché si sentiranno perduti. E diranno: «Libertà? Ebbene, che me ne faccio?». Un galeotto, mio amico, al quale mi ero accinto a limargli le catene spirituali e a seminargli inquietudini e dubbi nell’anima, un giorno mi disse: «Senti: lasciami in pace e non mi disturbare; vivo bene così. A che scopo cercare tribolazioni e angosce? Se non credessi all’inferno, sarei un delinquente». Gli risposi: «No, continuerai ad essere come sei e a fare quello che fai ora e a non fare quello che ora non fai; perché se poi non fosse così e dovessi diventare un delinquente, vorrebbe dire allora che lo sei anche adesso». Mi replicò: «Ho bisogno di una ragione per essere buono, di una base oggettiva su cui fondare la mia condotta Ho bisogno di sapere perché è male ciò che ripugna alla mia coscienza».
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Y yo le contrarrepliqué: «Lo es porque repugna a tu conciencia, en la que vive Dios». Y volvió a replicarme: «No quiero encontrarme en medio del Océano, como un náufrago, ahogándome, perdido y sin tener una tabla a que agarrarme». Y volvi a contrarreplicarle: «¿Tabla? La tabla soy yo mismo; no la necesito, porque floto en ese Océano de que hablas, y que no es sino Dios. El hombre flota en Dios sin necesidad de tabla alguna, y lo único que yo deseo es quitarte la tabla, dejarte solo, infundirte aliento y que sientas que flotas. ¿Fundamento objetivo, dices? ¿Y qué es eso? ¿Quieres más objetivo de ti que tu mismo? Hay que echar a los hombres en medio del Océano y quitarles toda tabla, y que aprendan a ser hombres, a flotar. Tienes tan poca confianza en Dios, que estando en Él, en quien vivimos, nos movemos y somos (Hechos, XVII, 28), ¿necesitas tabla a que agarrarte? El te sostendrá, sin tabla. Y si te hundes en Él, ¿qué importa? Estas congojas y tribulaciones y dudas que tanto temes son el principio del ahogo, son las aguas vivas y eternas, que te echan el aire de la tranquilidad aparencial en que estas muriendo hora tras hora; déjate ahogar, déjate ir al fondo y perder sentido y quedar como una esponja, que luego volverás a la sobrehaz de las aguas, donde te veas y te toques y te sientas dentro del océano». «Sí, muerto», me dijo. «No, resucitado y más vivo que nunca», le dije. Y el pobrecito de mi amigo el galeote se me escapó lleno de miedo de sí mismo. Y luego me ha apedreado, y al sentir sus pedradas sobre el yelmo de Mambrino con que me cubro la cabeza, he dicho en mi corazón: ¡Gracias, Dios mío, porque has hecho que no cayeran mis palabras en el espíritu de mi amigo como en pelada roca, sino que prendieron en él! ¡Si les oyeses, mi pastor Quijótiz, hablar de su fe y de sus creencias a los galeotes del espíritu!… ¡Si oyeras, mi buen pastor, hablar de ello a sus pastores!…
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Ed io ritornai alla carica: «È male, proprio per il fatto che ripugna alla tua coscienza, nella quale vive Dio». Ed anch’egli ritornò a ribattere: «Non voglio ritrovarmi come un naufrago in mezzo all’oceano, sul punto di affogare, sperduto e senza neppure una tavola alla quale aggrapparmi». Ripresi io: «Una tavola? Ma la tavola sono io stesso; non ne ho bisogno perché galleggio su questo oceano del quali parli, e che altro non è che Dio. L’uomo fluttua in Dio senza alcun bisogno di una tavola; anzi, l’unica cosa che desidero è proprio di toglierti quella tavola e per lasciarti solo, darti coraggio e farti sentire che galleggi. Una base obiettiva, dici? Che roba è? Vuoi per te qualcosa di più oggettivo di te stesso? Occorre gettare gli uomini in mezzo all’oceano e togliere loro ogni tavola e far sì che imparino ad essere uomini, a stare a galla. Hai dunque così poca fiducia in Dio da aver bisogno di una tavola a cui aggrapparti, quando ci muoviamo e siamo in Lui, nel quale viviamo? (Atti, XVII, 28). Anche senza tavola, Egli ti sosterrà. E se poi affondassi in Lui, che ti importa? Le angosce, le tribolazioni e i dubbi dei quali hai tanta paura, sono il principio dell’affogamento, sono le acque vive ed eterne che ti tolgono l’aria della tranquillità apparente in cui stai morendo ora per ora; lasciati affogare, lasciati andare a fondo, smarrisci pure i sensi e diventa come una spugna, perché poi ritornerai alla superficie delle acque e ti vedrai, toccherai e ti sentirai dentro l’oceano stesso». «Si, morto», mi disse. «No, risuscitato e più vivo che mai», gli risposi. Ma quel poveretto del mio galeotto fuggì via da me, pieno di paura di se stesso. E poi mi ha preso a sassate e, nel sentire le sue sassate sull’elmo di Mambrino col quale mi proteggo la testa, ho detto in cuor mio: «Grazie, mio Dio! Perché hai fatto sì che le mie parole non cadessero sullo spirito del mio amico come sulla nuda roccia, ma che mettessero radici in lui». Se tu sentissi, mio buon pastore Chisciottisio, i galeotti dello spirito parlare della loro fede e delle loro credenze!… Se sentissi, mio buon pastore, i loro pastori che parlano di tali cose!…
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Uno de estos pastores he conocido, para quien la virtud de los silbos con que llamaba a sus ovejas, la verdad de la doctrina en que les adoctrinaba y sin acatar la cual les negaba salud eterna, estribaba, ¡fígurate, en que era castiza, en que era la más española! Para él la herejía no era sino una traición a la patria. Y conozco un perro de pastor, un ladrador de nuestras glorias patrias y guardián de nuestras tradiciones, para quien la religión no es más que un género literario, tal vez una rama de las humanidades y a lo sumo una de las bellas artes. Contra estos miserables haces falta, mi pastor Quijótiz, para limpiar con tus cantos toda esa asquerosa cotena del espíritu e infundirnos a todos valor para que nos hundamos en la cueva de Montesinos y miremos allí cara a cara las visiones que se nos presenten. Se comprende bien que los jesuitas, remachadores de cadenas de galeotes, te guarden ojeriza, mi Don Quijote, y quemen con algazara el libro de tu historia, según nos asegura que alguna vez lo han hecho, uno que rompió las cadenas de la Orden: el ex jesuita autor de Un barrido bacia fuera en la Compañía de Jesús. ¡Ven, pastor Quijótiz, a pastorearnos y cantar los conceptos que el amor te inspire!
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Ho conosciuto uno di questi pastori per il quale la virtù dei fischi che lanciava per richiamare le sue pecorelle, la verità della dottrina in cui le ammaestrava e ad onta della quale rifiutava loro l’eterna salvezza, trovava fondamento – pensa un po’! – nel fatto che era tradizionale, che era la più spagnola di tutte! Per lui l’eresia non era che un tradimento alla patria. E conosco anche un cane da pastore, uno che coltiva le nostre glorie patrie e custodisce le nostre tradizioni, per il quale la religione è solo un genere letterario, forse anche una branca degli studi umanistici e, tutt’al più, una delle belle arti. Ci vuoi tu, contro questi miserabili, mio pastore Chisciottisio, per raschiar via coi tuoi canti tutta quella ripugnante cotenna dello spirito e per infondere coraggio a tutti noi, affinché possiamo penetrare nella grotta di Montesinos e vedervi chiaramente coi nostri occhi le visioni che ci si presenteranno. Si comprende benissimo come i gesuiti, ribaditori di catene di galeotti, ti guardano torvi, mio Don Chisciotte, e diano alle fiamme giubilando il libro della tua storia, come ci garantisce che abbia fatto qualche volta uno che spezzò le catene dell’Ordine: l’ex gesuita autore di Un’energica spazzata nella Compagnia di Gesù. Vieni, pastore Chisciottisio, a pascolarci e a cantare i concetti che ti ispirerà l’amore.
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capítulo lxviii
de la cerdosa aventura que le aconteció a Don Quijote Y a poco de haber hecho Don Quijote estos propósitos de pastoreo, llegó una piara de más de seiscientos puercos, y pasaron sobre él. Por pena de su pecado tuvo aquella afrenta el Caballero, mas no le acongojó tanto que no le dejase componer aquel madrigalete en que decía, entre otras cosas, lo de: Así el vivir me mata que la muerte me torna a dar la vida. ¡Oh condición no oída la que conmigo muerte y vida trata!
¡Maravillosa sentencia en que se declara lo más íntimo del espíritu quijotesco! Y ved cómo cuando Don Quijote llegó a expresar lo más recóndito, lo más profundo, lo más entrañable de su locura de gloria, lo hizo en verso, y después de vencido y después de pisoteado por piara de cerdos. El verso es, sin duda, el lenguaje natural de lo profundo del espíritu; en verso compendiaron San Juan de la Cruz y Santa Teresa lo más íntimo de sus sentires. Y así Don Quijote fue en verso como llegó a descubrir los abismos de su locura, que el vivir le mataba y la muerte tornaría a darle vida, que su anhelo era anhelo de vida inacabable y eterna, de vida en la muerte, de perdurable vida.
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della setolosa avventura capitata a Don Chisciotte Ma poco dopo che Don Chisciotte aveva formulato questi propositi di dedicarsi alla pastorizia, arrivò un branco di più di seicento maiali, lo buttò a terra e lo calpestò. Il Cavaliere considerò quell’oltraggio come una giusta pena per i suoi peccati, ma non se ne angustiò tanto da non poter poi comporre quel madrigaletto in cui, tra l’altro, diceva: Così il vivere mi uccide; così la morte mi ritorna a dar la vita. O miseria infinita che l’uno apporta e l’altro non recide.
Mirabile sentenza dove si chiarisce il nucleo più intimo e profondo dello spirito chisciottesco! E osservate con quanta abilità Don Chisciotte riuscì ad esprimere la parte più recondita, più profonda, più essenziale della sua follia di gloria, e come lo fece in versi e non in prosa, dopo essere stato sconfitto e calpestato da un branco di maiali. Il verso è indubbiamente il linguaggio naturale della profondità dello spirito; in versi esposero San Giovanni della Croce e Santa Teresa i loro più intimi sentimenti. E allo stesso modo fu in versi che Don Chisciotte poté giungere a svelarci gli abissi della sua follia rivelandoci che il vivere l’uccideva e che la morte lo faceva ritornare in vita, poiché il suo anelito era anelito di vita sconfinata ed eterna, di vita nella morte, di vita duratura.
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Así el vivir me mata que la muerte me torna a dar la vida.
Sí, Don Quijote mío, la muerte tornó a darte vida, y vida imperecedera. El vivir nos mata. Ya lo dijo tu hermana Teresa de Jesús, cuando cantó: Sácame de aquesta muerte mi Dios y dame la vida; no me tengas impedida en este lazo tan fuerte; mira que muero por verte y vivir sin Ti no puedo, que muero porque no muero.
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Così il vivere mi uccide; così la morte mi ritorna a dar la vita.
Sì, mio Don Chisciotte, la morte ti ha fatto ritornare a vita, e a vita eterna. Vivere ci uccide. E d’altronde l’aveva già detto la tua sorella spirituale Teresa di Gesù quando cantò: Strappami a questa morte, mio Dio; donami la vita, non tenermi impedita con vincolo sì forte, mi muoio per vederti e senza Te non vivo, muoio perché non muoio.
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capítulo lxix
del más raro y más nuevo suceso que en todo el discurso desta grande historia avino a Don Quijote Cantando el madrigalete Don Quijote y durmiendo la vida Sancho, les llegó el nuevo día, y al declinar de la tarde de este la última burla de los Duques. Y fue que les rodearon hasta diez hombres de a caballo y cuatro o cinco de a pie, y entre denuestos e improperios los llevaron al casdllo de los Duques. Y allí se encontraron sobre un túmulo con el cuerpo muerto de Altisidora, para resucitar a la cual mandó Radamante que sellaran el rostro de Sancho con veinticuatro mamonas y doce pellizcos y seis alfílerazos en brazos y lomos. Y a pesar de su resistencia hiciéronle así seis dueñas y resucitó Altisidora. Y viendo Don Quijote la virtud que el cielo puso en el cuerpo de Sancho, pidiole de rodillas el que entonces, teniendo sazonada semejante virtud, se diera algunos azotes para desencantar a Dulcinea. Y lo cierto es, a pesar de las torpes burlas de los Duques, que el cuerpo de Sancho tiene virtud para desencantar y resucitar doncellas. Del cuerpo de Sancho se alimentaban los Duques y sus lacayos y sus doncellas; del cuerpo de Sancho, en última instancia, procede el que Dulcinea pueda llevar a sus favoritos al templo de la eternidad de la fama. Sancho se azota con el trabajo para que puedan otros, libres de él, enamorar a Dulcinea; los azotes de Sancho hacen al héroe y a su cantor celebrado, y al santo santo y al poderoso poderoso.
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del più strano e più nuovo caso che in tutto il corso di questa storia sia accaduto a Don Chisciotte Mentre Don Chisciotte cantava il suo madrigale e Sancio dormiva profondamente, spuntò per loro il nuovo giorno; e più tardi, al calar della sera, venne anche l’ultima beffa dei Duchi. E li circondarono una decina di uomini a cavallo e quattro o cinque a piedi, e, tra bestemmie ed improperi, li scortarono al castello dei Duchi. E lì si trovarono dinanzi ad un tumulo con il cadavere di Altisidora, per risuscitare la quale Radamante comandò che bollassero la faccia di Sancio con ventiquattro biscottini e dodici pizzicotti, oltre a sei colpi di spillo nelle braccia e nei fianchi. Malgrado tutta la sua resistenza, il meschino dovette subire il martirio e Altisidora resuscitò. E così, vedendo quale virtù il cielo avesse riposto nel corpo di Sancio, Don Chisciotte gli chiese in ginocchio che in quel momento, essendo ben matura tale virtù, si desse qualche staffilata per disincantare Dulcinea. Ed è proprio vero che, malgrado le brutali beffe dei Duchi, il corpo di Sancio ha virtù di disincantare e resuscitare donzelle. Del corpo di Sancio si alimentano i Duchi, i loro lacchè e le loro damigelle; dal corpo di Sancio, in ultima analisi, deriva il fatto che Dulcinea possa condurre i suoi protetti fino al tempio dell’eternità della fama. Sancio si staffila col lavoro affinché altri, liberi dalla servitù che esso impone, possano corteggiare Dulcinea; le staffilate di Sancio fanno eroe l’eroe e celebrano cantore il suo cantore, e santo il santo, e potente il potente.
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Aquí dice el historiador una verdad como un tempio, cual es «que tiene para sí ser tan locos los burladores como los burlados, y que no estaban los Duques a dos dedos de parecer tontos, pues tanto ahínco ponían en burlarse de los tontos…». Alto aquí, que ni a Don Quijote ni a Sancho puede llamárseles tontos y sí a los Duques, que lo eran, y de remate y capirete, y tontos, como todos los tontos suelen serio, maliciosos y bellacos. No hay, en efecto, tonto bueno; el tonto, y más si es amigo de burlas, rumia el pasto amargo de la envidia. En el fondo no perdonaban los Duques a Don Quijote el renombre por este adquirido y aspiraban a unir su nombre al nombre inmortal del Caballero. Pero bien los castigó el sabio historiador pasando en silencio sus nombres, con lo cual no lograron su propósito. En «los Duques» a secas se quedarán, y como cifra y compendio de Duques sandios y mal intencionados. Poco después de la resurrección de Altisidora, entró esta desenvueltísima doncella en el aposento de Don Quijote, y en la plática que allí tuvieron dijo el Caballero aquellas memorables palabras de «no hay otro yo en el mundo», sentencia hermana melliza de aquella otra de «¡yo sé quién soy!». ¡No hay otro yo en el mundo! He aquí una sentencia que deberíamos no olvidar nunca, y sobre todo cuando al acongojarnos por tener que desaparecer un día, nos vengan con la ridícula monserga de que somos un átomo en el Universo y que sin nosotros siguen los astros su curso y que el Bien ha de realizarse hasta sin nuestro concurso, y que es soberbia imaginar que toda esa inmensa fábrica se hizo para nuestra salud. ¡No hay otro yo en el mundo! Cada uno de nosotros es único e insustituible. ¡No hay otro yo en el mundo! Cada cual de nosotros es absoluto. Si hay un Dios que ha hecho y conserva el mundo, lo ha hecho y conserva para mi. ¡No hay otro yo! Los habrá ma-
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A questo punto lo storico dice una verità grande come una cattedrale, ed è che, «secondo lui, i burlatori sono altrettanto matti quanto i burlati e che il Duca e la Duchessa non erano lontani dal sembrare scemi anch’essi, poiché avevano messo tanto impegno nel burlarsi di due scemi…». Ma, un momento, perché non si possono chiamare scemi né Don Chisciotte, né Sancio, mentre si potevano benissimo definire così i Duchi che lo erano veramente e coi fiocchi; anzi, erano scemi come sogliono del resto esserlo tutti gli scemi, maligni e vigliacchi. Non esiste infatti uno scemo buono; lo scemo, tanto più se ama far burle, rumina sempre l’amaro boccone dell’invidia. Fondamentalmente, i Duchi non sapevano perdonare a Don Chisciotte la rinomanza che aveva acquisito, e aspiravano solo a legare il proprio nome al nome immortale del Cavaliere. Ma ebbero dallo storico la giusta punizione, perché egli tacque ostinatamente i loro nomi e così non raggiunsero lo scopo che si erano prefissi. Rimarranno “i Duchi” e basta, e saranno per sempre emblema e compendio di ogni Duca stolto e malintenzionato. Poco dopo la sua risurrezione, Altisidora, la più che disinvolta damigella, entrò nella camera di Don Chisciotte e, durante la conversazione che si svolse tra loro, il Cavaliere pronunciò parole memorabili: «Non c’è un altro io come me nel mondo!»; sentenza che è sorella gemella dell’altra: «So io chi sono!». Non c’è un altro io come me nel mondo! Ecco una sentenza che non dovremmo mai dimenticare; soprattutto quando, mentre ci si stringe il cuore al pensiero che dovremmo scomparire un giorno, alcuni vengono fuori con la ridicola storiella che siamo solo un atomo nell’Universo, e che anche senza di noi gli astri seguiranno il loro corso, e che il Bene si realizzerà anche senza il nostro concorso, e che è superbia immaginare che tutta quell’immensa costruzione è stata edificata per la nostra salvezza. Non c’è un altro io come me nel mondo! Ognuno di noi è unico ed insostituibile. Non c’è un altro io come me nel mondo! Ciascuno di noi è in sé assoluto. Se c’è un Dio che ha fatto il mondo e lo tiene in vita, lo ha fatto e lo tiene in vita per me. Non c’è un altro io come
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yores y menores, mejores y peores, pero no otro yo. Yo soy algo enteramente nuevo; en mi se resume una eternidad de pasado y de mi arranca una eternidad de porvenir. ¡No hay otro yo! Esta es la única base sólida del amor entre los hombres porque tampoco hay otro tú que tú, ni otro él que él. Prosiguió la plática y en ella mostró la liviana Altisidora que, aun en burlas y todo, le dolia el desvío de Don Quijote. Imposible es que una doncella finja en chanzas enamorarse y no lleve a mal el que no se la corresponda en veras. Y fue tal su irritación por no haber logrado esto, que llamando a Don Quijote «don vencido y don molido a palos», le declaró que lo de la resurrección habia sido una burla. Este rasgo debia bastar para convencernos de cuán real y verdadera es la historia que estoy explicando y comentando, porque esto de acabar por tornar en veras las burlas la desdeñada doncella es de las cosas que no se inventan ni pueden inventarse. Y tengo para mí que si Don Quijote flaquea y cede y la requiere, se le entrega ella en cuerpo y alma, aunquesolo fuera para poder decir luego que fue poseída por un loco cuya fama llenaba el mundo entero. Todo el mal de aquella doncella nacía de ociosidad, según declaró a los Duques el mismo Don Quijote. Sin duda, pero falta saber de qué género de ociosidad nacía su mal.
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me! Ce ne saranno di più grandi e di più piccoli, di migliori e di peggiori, ma non c’è un altro io come me. Io sono qualcosa di interamente nuovo; in me si riassume un’eternità di passato e da me si diparte un’eternità di futuro. Non c’è un altro io come me! Questa è l’unica base solida dell’amore tra gli uomini, perché non c’è neppure un altro te al di fuori di te, né un altro lui se non lui. La conversazione seguitò e la leggera Altisidora dimostrò che, anche in mezzo alle burle, le dispiaceva sul serio il rifiuto di Don Chisciotte. È impossibile che una damigella finga di innamorarsi per burla e non se ne abbia a male poi se non è ricambiata davvero. E la sua irritazione per non essere riuscita nell’intento fu tale che, chiamando Don Chisciotte «don Sconfitto o don Legnato», gli comunicò che tutta la faccenda della risurrezione era stata una beffa. Questo particolare dovrebbe bastare a convincerci quanto sia reale e veridica la storia che sto spiegando e commentando, perché questa faccenda che la disdegnata donzella prenda sul serio, alla fine, le burle è una di quelle cose che non si inventano, né si possono inventare. E sono del parere che se Don Chisciotte avesse vacillato e ceduto e le avesse chiesto di amarlo, elle si sarebbe concessa corpo ed anima, non foss’altro che per poter poi dire di essere stata posseduta da un pazzo la cui fama riempiva il mondo intero. Tutti i guai di quella damigella derivavano dall’ozio in cui viveva, come dichiarò ai Duchi lo stesso Don Chisciotte. È verissimo, ma sarebbe da vedere da che sorta di ozio nascevano i suoi guai.
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capítulo lxxi
de lo que a Don Quijote le sucedió con su escudero Sancho yendo a su aldea Salieron amo y escudero de casa de los Duques y reanudaron camino de su aldea. Y yendo de camino ofreció Don Quijote a Sancho pagarle los azotes, «a cuyos offecimientos abrió Sancho los ojos y las orejas de un palmo, y dio consentimiento en su corazón a azotarse de buena gana», pues el amor de sus hijos y de su mujer le hacía mostrarse interesado, según declaró él mismo. Estimolos Sancho en ochocientos veinticinco reales, y Don Quijote exclamó: «¡Oh Sancho bendito!, ¡oh Sancho amable!, y cuán obligados hemos de quedar Dulcinea y yo a servirte todos los días que el cielo nos diere de vida». Y llegada la noche se retiró Sancho entre unos árboles, y «haciendo del cabestro y de la jáquima del rucio un poderoso y flexible azote», desnudose de medio cuerpo arriba, «comenzó a darse y comenzó Don Quijote a contar los azotes». A los seis u ocho pidió Sancho aumento de precio y se lo dobló su amo, «pero el socarrón dejó de dárselos en las espaldas, y daba en los árboles, con unos suspiros de cuando en cuando, que parecía que con cada uno de ellos se le arrancaba el alma». Mira, Sancho, esto que a cuenta de tus azotes pasó entre tu amo y tú, es un perfecto símbolo de lo que en tu vida pasa. Ya te dije que de tus azotes vivimos todos, incluso los que filosofamos sobre ellos o los ponemos en coplas. Tiempo hay en que se te quiere obligar por fuerza a que te azotes, y se te esclaviza, pero
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capitolo lxxi
di ciò che successe a Don Chisciotte col suo scudiero Sancio nell’andare al loro villaggio Padrone e scudiero partirono dalla casa dei Duchi e ripresero il cammino alla volta del loro villaggio. E mentre andavano, Don Chisciotte offrì a Sancio di pagargli le staffilate e «a tale offerta Don Chisciotte spalancò tanto d’occhi e di orecchi acconsentendo in cuor suo a frustrarsi volontariamente», poiché l’amore che portava alla moglie ed ai figli l’induceva a mostrarsi interessato, come ebbe a dichiarare lui stesso. Sancio stimò le staffilate in ottocentoventicinque reali e Don Chisciotte esclamò: «Oh, Sancio benedetto! Oh, Sancio amabile! Quanto Dulcinea ed io rimarremmo obbligati a servirti per tutti i giorni che il cielo ci concederà di vivere!». E, scesa la notte, Sancio si allontanò in disparte tra certi alberi e, «facendo della cavezza e capestro dell’asino un potente e flessibile flagello», si denudò dalla testa in su e «cominciò a frustarsi e Don Chisciotte iniziò a contare le staffilate». Dopo sei o sette, Sancio chiese un aumento di prezzo e il suo padrone glielo raddoppiò, «ma il briccone smise di darsele sulle spalle e invece le dava sugli alberi, emettendo di quando in quando certi sospiri da sembrare che ognuno di essi gli strappasse l’anima». Sta attento, Sancio, poiché quanto è accaduto tra te e il tuo padrone a proposito delle staffilate è un simbolo perfetto di quello che accade nella tua vita. Ti ho già detto che tutti viviamo delle tue staffilate, compresi coloro che, come me, vi filosofeggiano o ne traggono versi e canzoni. È ormai da un pezzo che ti si vuol costringere a fustigarti con la forza, e ti si fa schiavo; ma verrà
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llega día en que haces lo que hiciste con tu amo y señor natural Don Quijote, y es desmandarte contra quien te quiere forzar a que te azotes y poner tu rodilla sobre su pecho y exclamar: «¡mi amo soy yo!». Y entonces se cambia de táctica y se te ofrece pagarte los azotes, lo cual es un nuevo engaño, pues que de ellos sale también la paga que por ellos te dan. Y tú, pobre Sancho, movido del amor a tus hijos y a tu mujer, accedes y te dispones a azotarte. Pero, ¿cómo has de hacerlo con voluntad y de veras, si no estás persuadido del valer de tus azotes? Das seis u ocho en tu cuerpo y los tres mil doscientos noventa y dos restantes en los árboles, y lo más de tu trabajo se pierde. Lo más del trabajo humano se pierde, y es natural que así sea, porque, ¿con qué devoción va a pulir joyas un infeliz que las pule para ganarse el pan, mas sin estar persuadido del valor social de las tales joyas?, ¿con qué ahínco hará juguetes para los hijos de los ricos el que haciéndolos saca el pan para los suyos, que no tienen con qué jugar? Trabajo de Sísifo es lo más del trabajo humano, y el pueblo no tiene conciencia de que es solo un pretexto para que le den el jornal, y no como cosa suya, sino como algo ajeno que le hacen la merced de dejárselo ganar. El toque está en que reciba Sancho su salario como cosa que no le pertenece sino en virtud de los azotes que se hubiera dado y porque le han hecho la merced de proporcionarle azotina, y para sostener y perpetuar la mentira del derecho de propiedad y del acaparamiento de la tierra por los poderosos, se inventan azotes, por absurdos que ellos sean. Y así se azota Sancho con el mismo empeño con que desenchinarran calles esos desgraciados a los que en los meses de invierno, cuando escasean azotes, les mandan los municipios a desenchinarrar calles para volverlas a enchinarrar y con ello justificar la limosna vergonzante que se les reparte.
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un bel giorno in cui tu farai quel che facesti col tuo padrone e signore naturale Don Chisciotte, e ti ribelli contro chi ti vuole forzare a fustigarti e gli metti il ginocchio sul petto ed esclami: «Sono io il mio padrone!». Allora si cambia tattica e ti si offre di pagarti le frustate; ma anche questo è un nuovo imbroglio, poiché da quelle botte esce anche il salario che ti propongono di pagarti perché tu ed io le dia. E tu, povero Sancio, spinto dall’amore della moglie e dei figli, accetti e ti prepari a staffilarti. Ma come potresti farlo, volentieri sul serio, se non sei neppure persuaso del valore delle tue frustate? Ne appioppi sei o sette sul tuo corpo e le restanti tremiladuecentonovantatré le dai agli alberi, cosicché la maggior parte del tuo lavoro va perduta. La maggior parte del lavoro umano va perduta, ed è naturale che così avvenga, giacché con quanta devozione si metterà a lustrare gioielli un disgraziato che li lustra unicamente per guadagnarsi il pane, ma senza neppure essere convinto del valore sociale di siffatti gioielli? Con che slancio si metterà a costruire balocchi per i figli del ricco colui che facendoli guadagna un tozzo di pane per i suoi, che non hanno nulla con cui giocare? La maggior parte del lavoro umano è lavoro di Sisifo, ma il popolo non si rende conto che è soltanto un pretesto per giustificare il salario che gli danno; e glielo danno, per giunta, non già come cosa dovuta, ma come qualcosa di altri che altri gli fanno la grazia di lasciargli guadagnare. La questione sta nel fatto che Sancio riceva il suo salario come qualcosa che non gli appartiene di diritto, ma solo grazie alle staffilate che si sta dando, e perché gli hanno fatto la grazia di concedergli quella serie di frustate; e per sostenere e perpetrare la menzogna del diritto di proprietà e dell’accaparramento delle terre da parte dei potenti, si inventano le staffilate, per quanto assurde esse siano. Così Sancio si fustiga con lo stesso impegno con cui disselciano le strade quei disgraziati che nei mesi invernali, quando ci sono poche staffilature in giro, i Comuni assoldano per disselciare le strade per poi tornare a selciarle e giustificare così la vergognosa elemosina che si distribuisce loro.
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Tela de Penélope y tonel de las Danaides es lo más de tu azotina, Sancho; el caso es que te cueste ganarte el pan y que tengas que agradecérselo a los que te proporcionan azotes, y que reconozcas que te pagan de lo suyo y no pongas el pie en sus hanegas de sembradura como en su pecho pusiste la rodilla. Haces, pues, muy bien en desollar los árboles a jaquimazos, pues lo mismo te han de pagar, ya que te pagan, no por que te azotes, sino por que no te rebeles. Haces bien, pero harías mejor si volvieras la jáquima alguna vez contra tus amos y los azotaras a ellos y no a los árboles, y los echaras a azotes de sus hanegas de sembradura, o que las aren y siembren ellos contigo y como cosa de los dos.
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Tela di Penelope e botte delle Danaidi è la maggior parte della tua serie di staffilate, o Sancio; il fatto è che guadagnarti il pane ti costa e che devi essere grato a coloro che ti procurano le sferzate a patto che riconosca espressamente che ti pagano di tasca loro e non poggi il piede sui loro seminati come hai posato il ginocchio sul loro petto. Fai dunque benissimo a scorticare le piante a sferzate, dal momento che te le dovranno pagare lo stesso, visto che ti pagano non perché ti frusti, ma solo perché non ti ribelli. Fai benissimo, ma faresti ancora meglio se adoperassi qualche volta la sferza contro i tuoi padroni e frustassi loro e non gli alberi, e li cacciassi a sferzate dai loro campi seminati, a meno che non li arassero e seminassero insieme a te, come cosa che appartiene ad entrambi.
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capítulos lxxii y lxxiii
de cómo Don Quijote y Sancho llegaron a su aldea Prosiguendo su camino se encontraron en el mesón con don Álvaro Tarfe; a los dos días acabó con sus azotes Sancho, y a poco divisaron la aldea. Entraron en ella y en sus casas. Y al declarar Don Quijote al cura y al bachiller su propósito de que se hicieran pastores, descubrió Carrasco su mal, la locura pegada por Don Quijote, y que le llevó a vencer a este al decir lo de «como ya todo el mundo sabe, yo soy celebérrimo poeta». ¿No os dije que el bachiller estaba tocado de la misma locura del hidalgo? ¿No había acaso soñado entre las doradas piedras de Salamanca, sueño de no morir? Acudió el ama al oír lo de los pastores a aconsejar a su amo, y le dijo: «estese en casa, atienda a su hacienda, confiese a menudo, favorezca a los pobres y sobre mi ánima si mal le fuere». Esta buena ama habla poco, pero cuando rompe a hablar se vacía en pocas palabras. ¡Y qué bien discurre!, ¡con cuánto seso! Lo que aconsejó a su amo es lo que nos aconsejan los que dicen querernos bien. ¡Querernos bien!… ¡Querernos bien!… ¡Ay, cariño, cariño, y qué miedo te tengo! Así que oigo a un amigo lo de «yo te quiero bien», o «haga caso de los que bien le querernos», me echo a temblar. Los que me quieren bien… ¿y quiénes me quieren bien? Los que quieren que sea como ellos quieren, para quererme. ¡Ay, cariño, cariño, terrible cariño, que nos lleva a buscar en
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capitoli lxxii e lxxiii
di come Don Chisciotte e Sancio giunsero al loro villaggio Proseguendo per la loro strada, incontrarono all’osteria don Alvaro Tarfe; nel giro di due giorni Sancio mise termine alle staffilate e di lì a poco scorsero il villaggio. Vi entrarono e se ne andarono a casa. E quando Don Chisciotte rivelò al curato e al baccelliere il proposito di dedicarsi, (lui e Sancio), alla vita pastorale, Carrasco non potè più nascondere il suo male, la follia che Don Chisciotte gli aveva contagiato e che lo aveva portato a sconfiggerlo quando ebbe a dire: «Come sa ormai tutto il mondo, io sono un celeberrimo poeta». Non vi avevo detto che il baccelliere era preso dalla stessa follia dell’hidalgo? Non aveva forse sognato anche lui, tra le dorate pietre di Salamanca, il sogno di non morire? Quando sentì parlare della faccenda dei pastori, accorse la governante per dare consigli al suo padrone e gli disse: «Se ne stia in casa sua, attenda ai suoi affari, si confessi spesso, soccorra i poveri, e ricada sull’anima mia se gliene verrà mai danno». Parla poco, questa brava governante, ma quando inizia a parlare, si esprime in modo risoluto. E come ragiona bene! E con quanto senno! Ciò che consigliò al padrone è, più o meno, quello che ci consigliano coloro che dicono di volerci bene. Volerci bene! … Volerci bene! … Oh, affetto, affetto, quanto mi fai paura! Non appena sento dire da un amico: «Ti voglio bene», o: «pensi al bene che le vogliamo», mi metto a tremare. Quelli che mi vogliono bene… Ma chi è, poi, che mi vuole bene? Quelli che vogliono che io sia come vogliono loro per volermi bene. Oh, affetto, affetto, terribile affetto, che ci spingi a
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el querido el que de él hicimos! ¿Quién me quiere como soy? Tú, Tú solo, Dios mío, que queriéndome me creas de continuo, pues es mi existencia misma obra de tu eterno amor. «Estese en su casa…». ¿Y por qué he de estarme en casa? Estese cada uno en la suya y no habrá Dios que esté en la de todos. «Atienda a su hacienda…». ¿Y cuál es mi hacienda? Mi hacienda es mi gloria. «Confiese a menudo…». Mi vida y mi obra son una confesión perpetua. Desgraciado del hombre que tiene que recojerse a tiempos y lugares para confesarse. Eso de la confesión, de que habla el ama de Don Quijote, ¿no nos educa acaso a ser reservados y chismosos a la vez? «Favorezca a los pobres…». Sí, pero a los verdaderos pobres, a los pobres de espíritu, y no con el favor que ellos piden, sino con el que necesitan. Mira, lector, aunque no te conozco, te quiero tanto que si pudiese tenerte en mis manos te abriria el pecho y en el cogollo del corazón te rasgaría una llaga y te pondría allí vinagre y sal para que no pudieses descansar nunca y vivieras en perpetua zozobra y en anhelo inacabable. Si no he logrado desasosegarte con mi Quijote es, créemelo bien, por mi torpeza y porque este muerto papel en que escribo ni grita, ni chilla, ni suspira, ni llora, porque no se hizo el lenguaje para que tú y yo nos entendiéramos. Y ahora vamos a asistir a bien morir a Don Quijote.
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cercare in colui che amiamo quello che noi stessi abbiamo fatto di lui? Chi mi ama così come sono? Tu, Tu solo, Dio mio, che amandomi mi crei continuamente, poiché la mia stessa esistenza è opera del tuo eterno amore. «Se ne stia in casa sua…». Ma perché dovrei starmene in casa? Se ne stia ognuno a casa sua e non ci sarà Dio che stia in quelle di tutti. «Attenda ai suoi affari…». Ma quali sono i miei affari? I miei affari sono la mia gloria. «Si confessi spesso…». La mia vita ed opera sono una continua confessione. Sventurato l’uomo che deve ricorrere a tempi e luoghi determinati per confessarsi. Questa faccenda della confessione, di cui parla la governante di Don Chisciotte, non ci educa forse ad essere reticenti e chiacchieroni nello stesso tempo? «Soccorra i poveri…». Sì, ma i veri poveri, i poveri in spirito, e non col genere d’aiuto che essi chiedono, ma con quello di cui hanno veramente bisogno. Senti, lettore: per quanto ti conosca, ti voglio tanto bene che, se potessi averti nelle mie mani, ti aprirei il petto e ti scaverei una piaga nel cuore dove metterei aceto e sale affinché non potessi mai riposare e dovessi vivere in perpetua agitazione ed in ansia interminabile. Se non sono riuscito a smuoverti con questo mio Don Chisciotte, credimi pure, è stato per la mia scarsa abilità e perché questa morta carta su cui scrivo non grida, né strilla, né sospira, né piange, perché il linguaggio non è stato creato affinché tu ed io ci possiamo intendere. E adesso andiamo ad assistere alla buona morte di Don Chisciotte.
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capítulo lxxiv
de cómo Don Quijote cayó malo, y del testamento que hizo, y su muerte Dio el alma a quien se la dio. El cual la ponga en el cielo y en su gloria, y aunque la vida murió, nos dejó harto consuelo su memoria. (Final de las Coplas que Jorge Manrique compuso a la muerte de su padre don Rodrigo Manrique, gran maestre de Santiago).
Llegamos al cabo, oh lector, al remate de esta lastimosa historia; a la coronación de la vida de Don Quijote, o sea a su muerte, y a la luz de la muerte es como hay que mirar la vida. Y tan es así, que aquella antigua máxima que dice «cual fue la vida tal será la muerte» – sicut vita finis ita – habrá que cambiarla diciendo «cual es la muerte tal fue la vida». Una muerte buena y gloriosa abona y glorifica la vida toda, por mala e infame que esta hubiese sido, y una muerte mala malea la vida al parecer más buena. En la muerte se revela el misterio de la vida, su secreto fondo. En la muerte de Don Quijote se reveló el misterio de su vida quijotesca. Seis días estuvo encamado con calentura, desahuciole el médico, quedose solo y durmió más de seis horas de un tirón. «Despertó al cabo del tiempo dicho, y dando una gran voz dijo:
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seconda parte
- capitolo lxxiv
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capitolo lxxiv
di come Don Chisciotte si ammalò, del testamento che fece e della sua morte A Chi l’alma gli aveva dato la rendea che in ciel l’accolga ed in gloria, e se è spenta la sua vita, buon conforto ci ha lasciato la memoria. (Fine delle Strofe che Jorge Manrique compose per la morte di suo padre, don Rodrigo Manrique, gran maestro di Santiago)
Siamo giunti, infine, al termine di questa pietosa storia, al coronamento della vita di Don Chisciotte, vale a dire alla sua morte; ed è proprio alla luce della morte che bisogna guardare la vita. Infatti, l’antica massima «qual fu la vita, tal sarà la morte» – sicut vita finis ita –, dovremmo modificarla dicendo: «quale è la morte, tale fu la vita». Una morte gloriosa e buona riscatta e glorifica tutta la vita, per malvagia e infame che sia stata, mentre una cattiva morte guasta anche la vita all’apparenza più buona. Nella morte si rivela il mistero della vita, il suo fondo segreto. Nella morte di Don Chisciotte si rivelò il mistero della sua vita chisciottesca. Rimase sei giorni a letto con la febbre; poi il medico lo dichiarò spacciato e lo lasciarono solo. Dormì più di sei ore tutto d’un fiato. «Alla fine di queste sei ore si svegliò e gridando forte disse:
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Bendito sea el poder de Dios, que tanto bien me ha hecho. En fin, sus misericordias no tienen límite, ni las abrevian ni impiden los pecados de los hombres». ¡Piadosísimas palabras! Preguntole la sobrina qué le pasaba, y respondió: «Las misericordias, sobrina, son las que en este instante ha usado Dios conmigo, a quien, como dije, no las impiden mis pecados. Yo tengo juicio ya libre y claro, sin las sombras caliginosas de la ignorancia, que sobre él me pusieron mi amarga y continuada leyenda de los detestables libros de caballerías. Yo conozco sus disparates y sus embelecos, y no me pesa sino que este desengaño ha llegado tan tarde que no me deja tiempo para hacer alguna recompensa, leyendo otros que sean luz del alma. Yo me siento, sobrina, a punto de muerte; quería hacerla de tal modo que diese a entender que no había sido mi vida tan mala que dejase renombre de loco: que puesto que lo he sido, no querría confirmar esta verdad en mi muerte». ¡Pobre Don Quijote! A lindero de morir, y a la luz de la muerte, confiesa y declara que no fue su vida sino sueño de locura. ¡La vida es sueño! Tal es, en resolución última, la verdad a que con su muerte llega Don Quijote, y en ella se encuentra con su hermano Segismundo. Mas todavía lamenta no poder leer otros libros, que sean luz del alma. ¿Libros? ¿Pero es, noble hidalgo, que no estás desengañado ya de ellos? Libros te metieron a caballero andante, libros te llevaban a ser pastor; ¿y si esos libros que sean luz del alma te meten en otras, aunque nuevas caballerías? ¿Será cosa de recordar aquí, una vez más, a Íñigo de Loyola en cama, herido, en Pamplona, pidiendo le llevasen libros de caballerías para matar con ellos el tiempo y dándole la vida de Cristo Nuestro Señor y el Flos Sanctorum, los que le empujaron a meterse a ser caballero andante a lo divino?
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Benedetto l’onnipotente Dio che mi ha concesso un così grande bene! Le sue misericordie sono veramente infinite ed i peccati degli uomini le ostacolano e deturpano». Parole molto pie, parole da buon cristiano! La nipote gli chiese che cosa gli fosse successo, ed egli rispose: «Le misericordie sono, nipote mia, quelle che in quest’istante ha usato con me Dio, a cui, come ho detto, non sono di ostacolo i miei peccati. Io sono in senno ora, sono libero e lucido, non velato dalle fosche ombre dell’ignoranza in cui mi avvolse la deplorevole, continua lettura che ho fatto dei detestabili libri di cavalleria. Ora ne comprendo le stravaganze e gli inganni e non mi rammarico d’altro se non che questa disillusione sia giunta così tardi che non mi resta tempo per farne ammenda leggendo altri libri che siano luce dell’anima. Sento, o mia nipote, che sto per morire e desidererei fare una morte tale da dimostrare che la mia vita non era poi stata tanto sciagurata da lasciarmi reputazione di pazzo; poiché, quantunque io sia stato tale, non vorrei confermare questa verità con la mia morte». Povero Don Chisciotte! Sul punto di chiudere gli occhi per sempre ed alla luce della morte, confessa e dichiara che la sua vita non fu che sogno di follia! La vita è sogno! Questa è, in ultima analisi, la verità a cui Don Chisciotte giunge con la morte, e su questa verità concorda con suo fratello Sigismondo. Ma si lamenta ancora di non poter più leggere altri libri che siano luce dell’anima. Libri? Ma, mio nobile hidalgo, non sei ancora abbastanza deluso dei libri? I libri ti spinsero a farti cavaliere errante; i libri ti suggerirono di farti pastore; e se quegli altri libri che dovrebbero esserti luce dell’anima, ti coinvolgessero in altre, per quanto nuove e diverse, cavallerie? Sarà opportuno a questo punto ricordare ancora una volta Ignazio di Loyola giacente a letto, ferito, a Pamplona, che chiedeva che gli portassero libri di cavalleria, tanto per ammazzare il tempo, mentre gli altri gli davano la vita di Cristo Nostro Signore e il Flos Sanctorum13, i libri cioè che lo spinsero ad essere cavaliere errante di Dio?
13 Si tratta di una raccolta di vite di santi, curata dal Padre Rivadeneira. (N.d.T.)
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Llamó Don Quijote a sus buenos amigos el cura, el bachiller Sansón Carrasco y a maese Nicolás el barbero, y pidió confesarse y hacer testamento. Y apenas vio entrar a los tres dijo: «dadme albricias, buenos señores, de que ya no soy Don Quijote de la Mancha, sino Alonso Quijano, a quien mis costumbres me dieron renombre de bueno». Pocos días hace que hablando con don Álvaro de Tarfe y al llamarle este bueno, le dijo: «yo no sé si soy bueno, pero sé decir que no soy malo», tal vez recordando aquello del Evangelio: «¿por qué me llamas bueno? Ninguno es bueno sino uno: Dios», y ahora, a pique de morir y por la luz de la muerte alumbrado, dice que sus costumbres le dieron «renombre de bueno». ¡Renombre!, ¡renombre!, y ¡cuán dura de arrancar es, Don Quijote mío, la raíz de la locura de tu vida! ¡Renombre de bueno!, ¡renombre! Siguió disertando piadosamente, abominó de Amadís de Gaula y «de toda la infinita caterva de su linaje», y al oírle creyeron los tres «que alguna nueva locura le había tomado». Y así era, en verdad, que le tomo la última locura, la no curadera, la de la muerte. La vida es sueño, de cierto, pero dinos, desventurado Don Quijote, tú que despertaste del sueño de tu locura para morir abominando de ella, dinos, no es sueño también la muerte? ¡Ah, y si fuera sueño eterno y sueño sin ensueños ni despertar!, entonces, querido Caballero, ¿en qué más valía la cordura de tu muerte que la locura de tu vida? Si es la muerte sueño, Don Quijote mío, ¿por qué han de ser molinos los gigantes, carneros los ejércitos, zafia labradora Dulcinea y burladores los hombres? Si es la muerte sueño, locura y solo honda locura fue tu anhelo de inmortalidad. Y si fue sueño y vanidad tu locura, qué sino sueño y vanidad es todo heroísmo humano, todo esfuerzo en pro del bien del prójimo, toda ayuda a los menesterosos y toda guerra a los opresores? Si fue sueño y vanidad tu locura de no morir, entonces solo tienen razón en el mundo los bachilleres Carrascos, los Duques, los don Antonio Moreno, cuantos burladores, en fin, hacen del valor y de la bondad pasatiempo y regocijo de sus ocios. Si fue sueño y vanidad tu ansia de vida eterna, toda la verdad se encierra en aquellos versos de la Odisea:
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Don Chisciotte fece chiamare i suoi buoni amici: il curato, il baccelliere Sansone Carrasco e mastro Nicola il barbiere; poi chiese di confessarsi e di fare testamento. E non appena li vide entrare tutti e tre disse: «Fatemi le vostre congratulazioni, miei cari signori, perché io non sono più Don Chisciotte della Mancia, ma Alonso Chisciano, a cui i retti costumi meritarono il soprannome di Buono». Erano trascorsi solo pochi giorni da quando parlando con don Alvaro Tarfe, che lo aveva chiamato buono, gli aveva detto: «Non so se sono buono; posso però dire che non sono cattivo», ricordando forse quel passo del Vangelo dove è detto: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono tranne uno solo: Dio»; ma adesso, in punto di morte e illuminato dalla morte, dice che i suoi costumi gli meritarono «il cognome di Buono». Soprannome!… Soprannome!… Com’è dura da strappare, o mio Don Chisciotte la radice della follia della tua vita! Soprannome di Buono! Soprannome di Buono! Seguitò a discorrere piamente, rinnegò Amadigi di Gaula e «tutta l’infinita catena dei suoi discendenti», sicché nell’udirlo i tre amici pensarono che «gli fosse presa qualche nuova pazzia». Ed in effetti era proprio così, perché gli era presa l’ultima pazzia, quella da cui non si guarisce, la pazzia della morte. La vita è sogno, certamente; ma dicci, sventurato Don Chisciotte, tu che ti sei destato dal sogno della tua follia per morire rinnegandola, dicci: non è forse sogno anche la morte? Oh, se fosse sonno eterno e sonno senza sogni né risvegli, allora, amato Cavaliere, in che cosa valeva di più la saggezza della tua morte confrontata con la follia della tua vita? Se la morte è sogno, la tua aspirazione all’immortalità fu follia e nient’altro che follia. E se la tua follia fu sogno e vanità, che cos’è se non vanità ogni eroismo umano, ogni sforzo fatto per il prossimo, ogni aiuto dato ai bisognosi, ogni guerra mossa agli oppressori? Se la tua follia di non morire fu sogno e vanità, allora hanno ragione in questo mondo soltanto i baccellieri Carrasco, i Duchi, i signori don Antonio Moreno; tutti gli schernitori, insomma, che del valore e della bontà si fanno spasso e divertimento per i loro ozi. Se la tua ansia di vita eterna fu sogno e vanità, ogni verità è compendiata in due versi dell’Odissea:
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τὸν δὲ θεοὶ μὲν τεῦξαν, ἐπεκλώσαντο δ’ ὄλεθρον ἀνθρώποισ’, ἵνα ᾖσι καὶ ἐσσομένοισιν ἀοιδή. (VIII, 579-580)
«Los dioses traman y cumplen la perdición de los mortales para que los venideros tengan algo que cantar». Y entonces sí que podemos decir con Segismundo, tu hermano, que «el delito mayor del hombre es haber nacido». Más nos valiera, si eso fuese así, no haber visto la luz del sol ni haber recojido en nuestro pecho el aire de la vida. ¿Qué te arrastró, Don Quijote mío, a tu locura de renombre y fama y a tu ansia de sobrevivir con gloria en los recuerdos de los hombres, sino tu ansia de no morir, tu anhelo de inmortalidad, esa herencia que heredamos de nuestros padres, «que tenemos un apetito de divinidad y una locura y un frenesí de querer ser más de lo que somos», para servirme de palabras del P. Alonso Rodríguez, tu contemporáneo (Ejercicio de perfección y virtudes cristianas, tratado octavo, capítulo XV)? ¿Qué es sino el espanto de tener que llegar a ser nada lo que nos empuja a querer serlo todo, como único remedio para no caer en ese tan pavoroso de anonadarnos? Pero allí estaba Sancho, en la cumbre de su fe, a que llegó después de tantos tumbos, arredros y tropiezos, y Sancho, al oírle tan desengañado, le dijo: «¿ahora, señor Don Quijote, que tenemos nueva que está desencantada la señora Dulcinea, sale vuesa merced con eso; y ahora que estamos tan a pique de ser pastores para pasar la vida cantando como unos príncipes, quiere vuesa merced hacerse ermitaño? Calle, por su vida, vuelva en sí y déjese de cuentos». ¡Notables palabras! «¡Vuelva en sí! ¡Vuelva en sí y déjese de cuentos!». Mas ¡ay!, amigo Sancho, que tu amo no puede ya volver en sí, sino que ha de volver al seno de la tierra todoparidora, que a todos nos da a luz y a todos nos recoje en sombras. ¡Pobre Sancho, que te quedas solo con tu fe, con la fe que te dio tu amo!
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Questa [sorte] vollero i numi e rovina filarono agli uomini, ché anche ai futuri fosse materia di canto14. (VIII, 579-580)
«Gli dèi tramano e portano a compimento la perdizione dei mortali, affinché i posteri abbiano qualcosa da cantare». E allora sì che possiamo dire con Sigismondo, tuo fratello, che «il delitto maggiore dell’uomo è di essere nato». Sarebbe meglio se le cose stessero così, non aver visto mai la luce del sole, né aver accolto nel nostro petto l’aria vitale. Che cosa ti trascinò, o mio Don Chisciotte, alla tua follia di rinomanza e di fama, alla tua ansia di sopravvivere glorioso nella memoria degli uomini se non la tua ansia di non morire, il tuo anelito all’immortalità, quel retaggio che ereditiamo dai nostri padri, «di avere un desiderio di divinità e una follia ed una frenesia di voler essere di più di quel che siamo?». Mi servo di parole del Padre Alonso Rodríguez, tuo contemporaneo (Esercizio di perfezione e di virtù cristiane, trattato ottavo, capitolo XV). Che cos’è mai, se non la paura di dover finire per essere nulla, ciò che ci spinge a voler essere tutto, come unico rimedio per non cadere nello spaventoso abisso dell’annichilimento? Ma c’era accanto a te Sancio, ormai al culmine della sua fede, a cui era giunto dopo tanti inciampi, ritrosie e cadute; e Sancio, nell’ascoltarlo così disingannato, gli disse: «Ora, signor Don Chisciotte, che abbiamo notizia che la signora Dulcinea è disincantata, viene fuori con questi discorsi? Proprio ora che siamo sul punto di diventare pastori per trascorrere la vita cantando versi, beati come principi, vossignoria vuol farsi eremita? Taccia, per carità; ritorni alla ragione, e bando alle sciocchezze!». Parole oltremodo significative! «Ritorni in sé! Ritorni in sé e bando alle sciocchezze!». Ma, ahimè, amico Sancio, il tuo padrone non può più ritornare alla ragione, perché deve tornare nel seno della terra onnipartoriente, che ci dà tutti alla luce e tutti ci accoglie poi nella sua ombra. Povero Sancio, che rimani solo con la tua fede, con la fede che ti diede il tuo padrone! 14
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Versione a cura di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1963. (N.d.T.)
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¡Déjese de cuentos! «Los de hasta aquí – replicó Don Quijote – que han sido verdaderos en mi daño, los ha de volver mi muerte, con ayuda del cielo, en mi provecho». Sí, Don Quijote mio, esos cuentos son tu provecho. Tu muerte fue aún más heroica que tu vida, porque al llegar a ella cumpliste la mas grande renuncia, la renuncia de tu gloria, la renuncia de tu obra. Fue tu muerte encumbrado sacrificio. En la cumbre de tu pasión, cargado de burlas, renuncias, no a ti mismo, sino a algo más grande que tú: a tu obra. Y la gloria te acoje para siempre. Hizo salir la gente el cura y quedose solo con él y confesole. Y acabose la confesión y salió el cura diciendo: «verdaderamente se muere y verdaderamente está cuerdo Alonso Quijano el Bueno; bien podemos entrar para que haga su testamento». Rompieron a llorar Sancho, el ama y la sobrina, porque en verdad, «en tanto que Don Quijote fue Alonso Quijano el Bueno a secas, y en tanto que fue Don Quijote de la Mancha, fue siempre de apacible condición y de agradable trato, y por esto no solo era bien querido de los de su casa, sino de todos cuantos le conocían». Fue siempre bueno, bueno sobre todo y ante todo, bueno con bondad nativa, y esta bondad que sirvió de cimiento a la cordura de Alonso Quijano y a su muerte ejemplar, esta misma bondad sirvió de cimiento a la locura de Don Quijote y a su ejemplarisima vida. La raíz de tu locura de inmortalidad, la raíz de tu anhelo de vivir en los inacabables siglos, la raíz de tu ansia de no morir, fue tu bondad, Don Quijote mío. El bueno no se resigna a disiparse, porque siente que su bondad hace parte de Dios, del Dios que es Dios no de los muertos, sino de los vivos, pues para Él viven todos. La bondad no teme ni al infinito ni a lo eterno; la bondad reconoce que solo en alma humana se perfecciona y acaba; la bondad sabe que es una mentira la realización del Bien en el proceso de la especie. El toque está en ser bueno, sea cual fuere el sueño de la vida. Ya lo dijo Segismundo (jornada III, escena IV): que estoy soñando y que quiero
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Bando alle sciocchezze! «Le tante commesse finora – replicò Don Chisciotte – che sono state purtroppo tali a mio danno, ora la morte, con l’aiuto del cielo, le dovrà mutare a mio vantaggio» Sì, mio Don Chisciotte, quelle sciocchezze sono a tuo vantaggio. La tua morte fu ancora più eroica della vita, perché alla sua soglia facesti la più grande rinuncia, la rinuncia alla tua gloria, la rinuncia alla tua opera. La tua morte fu un sacrificio sublime. Giunto al culmine della tua passione, soverchiato da tanti scherni, rinunci, non a te stesso, ma a qualcosa che è più grande di te; alla tua opera. E la gloria ti accoglie per sempre. Il curato fece uscire la gente, restò solo con lui e ascoltò la sua confessione. Poi la confessione ebbe termine ed uscì anche il curato dicendo: «Sta proprio morendo ed è anche in senno Alonso Chisciano il Buono; ora possiamo entrare perché faccia testamento». Sancio, la governante e la nipote scoppiarono a piangere, poiché in verità «sia al tempo in cui Don Chisciotte fu Alonso Chisciano il Buono, sia quando fu Don Chisciotte della Mancia, sempre fu di carattere amabile, di modi piacevoli, sicché non solo era amato da quelli di casa ma anche da quanti lo conoscevano». Era stato sempre buono, soprattutto ed innanzitutto buono, buono di una bontà innata: e questa bontà che era servita da fondamento alla saggezza di Alonso Chisciano e alla sua morte esemplare era la stessa che aveva fatto da fondamento alla follia di Don Chisciotte ed alla sua esemplarissima vita. La radice della tua follia di immortalità, la radice della tua ansia di vivere per gli infiniti secoli, la radice della tua aspirazione a non morire, fu la tua bontà, o mio Don Chisciotte. Il buono non si rassegna a dissolversi, perché sente che la sua bontà fa parte di Dio, di Dio che è Dio non dei morti, ma dei vivi, perché per suo volere vivono tutti. La bontà non teme né l’infinito, né l’eterno; la bontà riconosce che solo nell’anima umana può perfezionarsi e giungere alle maggiori altezze; la bontà sa benissimo che è una menzogna la realizzazione del Bene lungo il processo della specie. L’importante consiste nell’essere buoni, qualunque sia il sogno della vita. E l’aveva già detto Sigismondo (Atto III, scena IV): che sto sognando e che voglio
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obrar bien, pues no se pierde el hacer bien ni aun en sueños.
Y si la bondad nos eterniza, ¿qué mayor cordura que morirse? «Verdaderamente se muere y verdaderamente está cuerdo Alonso Quijano el Bueno»; muere a la locura de la vida, despierta de su sueño. Hizo Don Quijote su testamento y en él la mención de Sancho que este merecía, pues si loco fue su amo parte a darle el gobierno de la ínsula, «pudiera estando cuerdo darle el de un reino, se le diera, porque la sencillez de su condición y fidelidad de su trato lo merece». Y volviéndose a Sancho quiso quebrantarle la fe y persuadirle de que no había habido caballeros andantes en el mundo, a lo cual Sancho, henchido de fe y loco de remate cuando su amo se moría cuerdo, respondió llorando: «Ay, no se muera vuesa merced, señor mío, sino tome mi consejo y viva muchos años, porque la mayor locura que puede hacer un hombre en esta vida es dejarse morir sin más ni más». ¿La mayor locura, Sancho? Y consiento en mi morir con voluntad placentera clara y pura; que querer hombre vivir cuando Dios quiere que muera, es locura
pudo contestarte tu amo, con palabras del maestre don Rodrigo Manrique, tales cuales en su boca las pone su hijo don Jorge, el de las coplas inmortales. Y dicho lo de la locura de dejarse morir, volvió Sancho a las andadas, hablando a Don Quijote del desencanto de Dulcinea y de los libros de caballerias. ¡Oh heroico Sancho, y cuán pocos advierten el que ganaste la cumbre de la locura cuando tu amo se despenaba en el abismo de la sensatez y que sobre su lecho
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agir bene, perché il far bene non è vano neanche in sogno.
E se la bontà ci rende eterni, quale maggior saggezza della morte? «Sta proprio morendo ed è anche proprio in senno Alonso Chisciano il Buono; muore alla follia della vita, si ridesta dal suo sogno» Don Chisciotte fece il suo testamento e in esso si ricordò di Sancio come questi meritava, perché se da matto il suo padrone aveva contribuito a fargli dare il governo dell’isola, «potessi ora che sono in senno, dargli quello di un regno, glielo darei, perché lo meritano la semplicità della sua indole e la fedeltà del suo comportamento». E, rivolgendosi a Sancio, cercò di distruggere in lui la fede e di persuaderlo che al mondo non c’erano mai stati cavalieri erranti; ma allora Sancio, pieno di fede e pazzo da legare proprio nel momento in cui il suo padrone stava morendo rinsavito, rispose piangendo: «Ah! Non muoia vossignoria, padrone mio, ma dia retta a me: viva ancora a lungo, poiché la maggior pazzia che l’uomo possa fare in questa vita è di lasciarsi morire così senza ragione!». La maggior pazzia, Sancio? E consento al mio morire con gioiosa volontà, chiara e pura; perché pretendere la vita, quando Dio vuol che si muoia, è follia,
avrebbe potuto risponderti il tuo padrone con le parole del maestro don Rodrigo Manrique così come le mette sulle sue labbra il figlio don Jorge, autore delle strofe immortali. Dopo aver detto che era una pazzia lasciarsi morire così, Sancio tornò alle solite, parlando a Don Chisciotte del disincantamento di Dulcinea e dei libri di cavalleria. Oh, eroico Sancio, come sono pochi coloro che si avvedono che hai conquistato la vetta della follia quando il tuo padrone stava precipitando nell’abisso del buon senso; che sul suo letto di morte irradiava
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de muerte irradiaba tu fe, tu fe, Sancho, la fe de ti, que ni has muerto ni morirás! Don Quijote perdió su fe y muriose; tú la cobraste y vives; era preciso que él muriera en desengaño para que en engaño vivificante vivas tú. ¡Oh Sancho, y cuán melancólico es tu recuerdo de Dulcinea, ahora que tu amo se prepara al trance de la muerte! Ya no es Don Quijote, sino Alonso Quijano, sino Alonso Quijano el Bueno, el tímido hidalgo que se pasó doce años queriendo como a la lumbre de sus ojos, de esos ojos que en breve ha de comerse la tierra, a Aldonza Lorenzo, hija de Lorenzo Corchuelo y de Aldonza Nogales, la del Toboso. Al recordarle, Sancho, en su lecho de muerte a su dama, le recuerdas a la garrida moza a la que solo gozó, a hurtadillas, con los ojos cuatro veces en doce largos años de soledad y de recato. La vería el hidalgo ahora casada ya, rodeada de sus hijos, gloriándose en su marido, haciendo frucdficar la vida en el Toboso. Y entonces, en su lecho de muerte de soltero, pensó acaso que pudo haberla llevado a él y haber bebido de ella en él la vida. Y habría muerto sin gloria, sin que Dulcinea le llamase desde el cielo de la locura, pero sintiendo sobre sus labios fríos los ardientes labios de Aldonza, y rodeado de sus hijos, en quienes pervivia. ¡Tenerla allí, en el lecho en que morías, buen hidalgo, y en que se habrían confundido antes tantas veces en una sola vuestras sendas vidas; tenerla allí, cojida de su mano tu mano y dándote así con la suya un calor que de la tuya se escapaba, y ver llegar la luz encegadora del último misterio, luz de tinieblas, en sus ojos llorosos y despavoridos, fijos en los cuales pasarían a la eterna visión los tuyos! Te morías sin haber gozado del amor, del único amor que a la muerte vence. Y entonces, al oír a Sancho hablar de Dulcinea, debiste de repasar en tu corazón aquellos doce largos años de la tortura de vergonzosidad invencible. Fue tu último combate, mi Don Quijote, del que ninguno de los que te rodeaban en tu lecho de muerte se dio cata.
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la tua fede, Sancio, la fede di te, che non sei morto, né morrai! Don Chisciotte perdette la sua fede e morì; tu l’acquistasti e vivi; era necessario che egli morisse disingannato perché tu vivessi in un inganno vivificante. Oh, Sancio, come appare malinconico il tuo ricordo di Dulcinea, ora che il tuo padrone si prepara al duro passo della morte! Non è più Don Chisciotte, ma Alonso Chisciano il Buono, il timido hidalgo che trascorse dodici anni ad amare la luce dei suoi occhi, di quegli occhi, che ormai la terra divorerà, Aldonza Lorenzo, figlia di Lorenzo Corciuelo e di Aldonza Nogales, la ragazza del Toboso. Ora, Sancio, nel richiamargli alla mente, sul suo letto di morte, la sua dama, gli fa ricordare la ragazzona che fece sua soltanto con gli occhi, e per giunta di nascosto, quattro volte in dodici anni di solitudine e di pudore. E forse adesso l’hidalgo la vedeva già sposata, circondata dai suoi figli, che si vantava di suo marito e faceva fruttificare la vita, là al Toboso. Ma allora, nel suo squallido letto di scapolo, letto di morte ormai, pensò – chissà – che avrebbe potuto portarsela lì e bervi da lei la vita. E sarebbe morto senza gloria, senza che Dulcinea lo chiamasse dal cielo della follia, ma sentendo sulle sua labbra fredde di gelo mortale, le labbra ardenti di Aldonza, circondato dai suoi figli, nei quali si sarebbe perpetuato. Averla lì, nel letto in cui morivi, buon hidalgo, e nel quale si sarebbero confuse prima tante volte in una sola le vostre due vite! Averla lì, la mano stretta nella mano, nel tentativo di comunicarti con quella stretta il calore che ormai ti abbandonava, e veder giungere la luce accecante dell’ultimo mistero, luce di tenebre, guardandola negli occhi lacrimosi ed impauriti, con questi tuoi occhi che, fissi nei suoi, sarebbero passati alla visione dell’eternità! Morivi senza aver goduto l’amore, l’unico amore che vince la morte. E allora, ascoltando Sancio che ti parlava di Dulcinea, dovresti ripercorrere in cuor tuo quei dodici lunghi anni della tortura inflitta da un’invincibile ritrosia. Fu il tuo ultimo combattimento, o mio Don Chisciotte, e nessuno di coloro che ti stavano intorno mentre giacevi sul tuo letto di morte se ne avvide!
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Acudió el bachiller en ayuda de Sancho, y al oírlo dijo Don Quijote con mortal sosiego: «Señores, vámonos poco a poco, pues ya en los nidos de antaño no hay pájaros hogaño; yo fui loco y ya soy cuerdo; fui Don Quijote de la Mancha, y soy ahora, como he dicho, Alonso Quijano el Bueno; pueda con vuesas mercedes mi arrepentimiento y mi verdad volverme a la estimación que de mi se tenía». Sanaste, Caballero, para morir; volviste a ser Alonso Quijano el Bueno para morir. Mira, pobre Alonso Quijano, mira a tu pueblo y ve si no sanará de su locura para morirse luego. Molido y maltrecho y después de que alla, en las Américas, acabaron de vencerle, retorna a su aldea. ¿A curar de su locura? ¡Quién sabe!… Tal vez a morir. Tal vez a morir si no quedara Sancho, que te reemplazará lleno de fe. Porque tu fe, Caballero, se atesora en Sancho hoy. Sancho, que no ha muerto, es el heredero de tu espíritu, buen hidalgo, y esperamos tus fieles en que Sancho sienta un día que se le hincha de quijotismo el alma, que le florecen los viejos recuerdos de su vida escuderil, y vaya a tu casa y se revista de tus armaduras, que hará se las arregle a su cuerpo y talla el herrero del lugar, y saque a Rocinante de su cuadra y monte en él, y embrace lanza, la lanza con que diste libertad a los galeotes y derribaste al Caballero de los Espejos, y sin hacer caso de las voces de tu sobrina, salga al campo y vuelva a la vida de aventuras, convertido de escudero en caballero andante. Y entonces. Don Quijote mío, entonces es cuando tu espíritu se asentará en la tierra. Es Sancho, es tu fiel Sancho, es Sancho el bueno, el que enloqueció cuando tu curabas de tu locura en tu lecho de muerte, es Sancho el que ha de asentar para siempre el quijotismo sobre la tierra de los hombres. Cuando tu fiel Sancho, noble Caballero, monte en tu Rocinante, revestido de tus armas y embrazando tu lanza, entonces resucitarás en él, y entonces se realizará tu ensueño. Dulcinea os cojerá a los dos, y estrechándoos con sus brazos contra su pecho, os hará uno solo.
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In soccorso di Sancio intervenne anche il baccelliere; ma nell’udirlo Don Chisciotte disse con mortale placidità: «Signori, andiamo adagio, perché ornai “nei nidi di un tempo quest’anno non vi sono uccelli”. Io sono stato pazzo ma ormai sono in me; fui Don Chisciotte della Mancia e ora, come ho detto, sono Alonso Chisciano il Buono. Possa il mio sincero pentimento restituirmi nella stima che si aveva di me presso di voi». Sei rinato, Cavaliere, per morire; sei tornato ad essere Alonso Chisciano il Buono per morire. Guarda, mio povero Alonso Chisciano, guarda il tuo popolo, e dimmi se non risanerà della sua follia per morire subito dopo. Pestato e malconcio e, dopo che laggiù nelle Americhe hanno appena finito di batterlo, ritorna ora al suo villaggio. Per guarire della sua follia? Forse… o forse per morire. Forse per morire, se non rimanesse tra noi Sancio che, pieno di fede, ti sostituirà. Giacché la tua fede, Cavaliere, è riassunta in Sancio. Sancio, che non è morto, è l’erede del tuo spirito, mio buon hidalgo, e noi tuoi fedeli attendiamo che un giorno Sancio si senta l’anima gonfia di chisciottismo, l’anima infiorata dai vecchi ricordi della sua vita scudieresca; e allora andrà a casa tua e indosserà la tua armatura che farà ridurre alla sua misura dal fabbro del villaggio, e tirerà fuori dalla stalla Ronzinante, e monterà in sella, e impugnerà la tua lancia, la lancia con cui rendesti la libertà ai galeotti e abbattesti il Cavaliere degli Specchi, e senza badar più di tanto alle grida di tua nipote, uscirà in campagna e ritornerà alla vita di avventura, trasformato da scudiero in cavaliere errante. E allora, o mio Don Chisciotte, sarà il momento in cui il tuo spirito dominerà la terra. È Sancio, è il tuo fedele Sancio, è Sancio il Buono, colui che impazzì proprio mentre tu guarivi della tua follia sul letto di morte, è Sancio che dovrà far trionfare per sempre il chisciottismo sulla terra degli uomini. Quando il tuo fedele Sancio, nobile Cavaliere, monterà sul tuo Ronzinante, rivestito delle tue armi e imbracciando la tua lancia, allora tu resusciterai in lui, e allora si realizzerà il suo sogno. Dulcinea vi prenderà entrambi e, stringendovi al petto in un abbraccio, farà di voi due una sola persona.
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«Vámonos poco a poco, pues ya en los nidos de antaño no hay pájaros hogaño»; disipose el sueño. Y la experiencia me enseña que el hombre que vive sueña lo que es, hasta dispertar. Sueña el rey que es rey y vive con este engaño mandando, disponiendo y gobernando…
(La vida es sueño, II, 19)
Soñó Don Quijote que era caballero andante hasta que todas sus aventuras en cenizas le convierte la muerte – ¡desdicha fuerte!
(II, 19)
¿Qué fue la vida de Don Quijote? ¿Qué es la vida? Una ilusión, una sombra, una ficción, y el mayor bien es pequeño; que toda la vida es sueño y los sueños sueños son.
(II, 19)
«¡Ay, no se muera vuesa merced, señor mío, sino tome mi consejo y viva muchos años!». ¿Otra vez? – ¡qué es esto, cielos! – ¿queréis que sueñe grandezas que ha de deshacer el tiempo? ¿Otra vez queréis que vea entre sombras y bosquejos la majestad y la pompa desvanecida del viento?
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«Signori andiamo adagio perché ormai nei nidi di un tempo quest’anno non vi sono uccelli»; il sogno si è dissipato. E l’esperienza mi insegna che l’uomo che vive sogna quel ch’egli è, fino al risveglio. Sogna il re che è re, e vive così illuso, comandando, disponendo e governando…
(La vita è sogno, II, 19)
Don Chisciotte sognò di essere cavaliere errante finché tutte le sue avventure in cenere le converte la morte (somma sventura! )
(II, 19)
Che cosa fu la vita di Don Chisciotte? Che cos’è la vita? Un’illusione, solo un’ombra, una finzione; e il maggior bene è meschino, ché tutta la vita è sogno ed i sogni sogni sono.
(II, 19)
«Ah, non muoia, vossignoria, mio padrone, ma dia retta a me: viva ancora a lungo!». Or di nuovo (ma che avviene?) volete ch’io sogni grandezze che svaniranno nel tempo? Ancora volete ch’io veda tra ombre e fantasie la maestà e la pompa che svaniscono nel vento?
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«Señores, vámonos poco a poco, pues ya en los nidos de antaño no hay pájaros hogaño». Idos, sombras que fingís hoy a mis sentidos muertos cuerpo y voz, siendo verdad que ni tenéis voz ni cuerpo; que no quiero majestades fingidas, pompas no quiero fantásticas, ilusiones que al soplo menos ligero del aura han de deshacerse, bien como el florido almendro que por madrugar sus flores sin aviso y sin consejo, al primer soplo se apagan, marchitando y desluciendo de los rosados capullos belleza, luz y ornamento.
(III, 70)
Dejadme, que diga con mi hermana Teresa de Jesús: Aquella vida de arriba es la vida verdadera; hasta que esta vida muera no se goza estando viva; muerte, no me seas esquiva; vivo muriendo primero, que muero porque no muero.
«¡Señores, vámonos poco a poco, pues ya en los nidos de antaño no hay pájaros hogaño!». O como dijo Íñigo de Loyola cuando al tiempo de ir a despertar del sueño de la vida, ya expirante, querían darle un poco de sustancia: «ya no es tiempo deso» (Rivadeneira, lib. IV, cap. XVI), y murió Íñigo, como habia de morir, unos cincuenta años más tarde. Don Quijote, sencillamente, sin comedia alguna, sin reunir gente en torno de
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«Signori, andiamo adagio, perché ormai nei nidi di un tempo quest’anno non vi sono uccelli». Andate, ombre che mostrate oggi ai miei sensi già morti corpo e voce, ed in realtà né voce avete, né corpo: io più non voglio maestà contraffatte, né voglio pompe fantastiche, né illusioni che sotto il più lieve soffio dell’aura si disferanno, siccome il mandorlo in fiore che avendo aperto i suoi boccioli, sconsigliato, troppo presto, al primo soffio li perde, appassendo ed imbruttendo dei suoi calici rosati bellezza, luce ed ornamento.
(III, 70)
Lasciate che dica insieme a Teresa di Gesù, mia sorella: Sol la vita di lassù è la vita veritiera; finché non muor questa vita, non la si gode vivendo; morte, non essere schiava; io vivo prima morendo, perché muoio perché non muoio.
Signori, andiamo adagio, perché ormai nei nidi di un tempo quest’anno non vi sono uccelli!». O, come disse Ignazio di Loyola quando, mentre stava per ridestarsi dal sogno della vita e già sul punto di spirare, gli altri cercavano di somministrargli un po’ di cibo sostanzioso: «non è più tempo per queste cose» (Rivadeneira, lib. IV, cap. XVI); e Ignazio morì come doveva morire cinquant’anni più tardi di Don Chisciotte, semplicemente, senza alcun apparato, senza riunire gente intorno al suo letto,
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su lecho, sin hacer espectáculo de la muerte, como se mueren los verdaderos santos y los verdaderos héroes, casi como los animales se mueren: acostándose a morir. Siguió dictando Alonso Quijano su testamento y mandó toda su hacienda a puerta cerrada a Antonia Quijana, su sobrina, mas imponiéndola como obligación para el disfrute de ella que «si quiere casarse, se case con hombre de quien primero se haya hecho información que no sabe qué cosa sean libros de caballerías; y en caso que se averiguare que lo sabe y con todo eso mi sobrina quiere casarse con él y se casare, pierda todo lo que le he mandado, lo cual puedan mis albaceas distribuir en obras pías a su voluntad». Y iqué bien calaba Don Quijote que entre el oficio de marido y de caballero andante hay mutua y fortísima irreductibilidad! Y al dictar esto, ¿no pensaría acaso el buen hidalgo en su Aldonza, y que de haber él roto el sello de su demasiado amor se habría ahorrado las malandanzas caballerescas, preso junto al fogón del hogar por los brazos de ella? Tu testamento se cumple, Don Quijote, y los mozos de esta tu patria renuncian a todas las caballerías para poder gozar de las haciendas de tus sobrinas, que son casi todas las españolas, y gozar de las sobrinas mismas. En sus brazos se ahoga todo heroismo. Tiemblan de que a sus novios y maridos les dé la ventolera por donde le dio a su tío. Es tu sobrina, Don Quijote, es tu sobrina la que hoy reina y gobierna en tu España; es tu sobrina, no, Sancho. Es la medrosica, casera y encojida Antonia Quijana, la que temía te diese por dar en poeta, «enfermedad incurable y pegadiza»; la que ayudó con tanto celo al cura y al barbero a quemar tus libros; la que te aconsejaba no te metieses en pendencias ni fueses por el mundo en busca de pan de trastrigo; la que se te atrevió a asegurar en tus barbas que todo eso de los caballeros andantes es fábula y mentira, doncellesco atrevimiento que te obligó a exclamar: «Por el Dios que me sustenta que si no
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senza trasformare la morte in spettacolo, come muoiono gli autentici santi e gli autentici eroi; quasi come muoiono gli animali: disponendosi a morire. Alonso Chisciano proseguì nella dettatura del suo testamento e lasciò tutti i suoi averi, a cancelli chiusi, ad Antonia Chisciana, sua nipote, imponendole però, come condizione per poterne godere, che se «volesse sposarsi, lo facesse con uno di cui prima si fosse informata che non sa neppure che cosa siano i libri di cavalleria; nel caso poi che sia stato accertato che lo sapesse e, ciò nonostante, mia nipote volesse sposarsi con lui, perda quanto le ho lasciato, che i miei esecutori testamentari destineranno ad opere pie, a loro piacimento». Come comprendeva bene Don Chisciotte che tra il mestiere di marito e quello di cavaliere errante c’è una mutua ed irriducibile opposizione e incompatibilità! Ma, nel dettare queste frasi, non avrà forse pensato il buon hidalgo alla sua Aldonza, sospettando che, se avesse avuto la forza di spezzare il suggello che imprigionava il suo smisurato amore, si sarebbe risparmiato tante disavventure cavalleresche, incatenato accanto al fuoco di casa dalle braccia di lei? Il tuo testamento si avvera, Don Chisciotte, e i giovani di questa tua patria rinunciano ad ogni sorta di cavalleria per potersi godere i patrimoni delle tue nipoti, ossia di quasi tutte le spagnole e godersi in sovrappiù le nipoti stesse. Tra le loro braccia si soffoca ogni eroismo. Tremano pensando che ai loro fidanzati e mariti possa venire la stessa stravagante idea che venne allo zio. È tua nipote, Don Chisciotte, è tua nipote che regna e governa oggi nella tua Spagna; è tua nipote e non Sancio. È la timida, casalinga e ritirata Antonia Chisciana, quella che temeva che ti lasciassi prendere dall’estro poetico, «malattia incurabile e contagiosa»; quella che con tanto zelo aiutò il curato e il barbiere a bruciare i tuoi libri; quella che ti consigliava di non mettere il naso nelle questioni altrui e di non andartene per il mondo alla ricerca di cose difficili; quella che osò asserire sotto il tuo stesso naso che tutta la storia dei cavalieri erranti è soltanto favola e menzogna, temerarietà fanciullesca che ti indusse ad esclamare: «Per quel Dio che mi dà vita, se tu non
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fueras mi sobrina derechamente como hija de mi misma hermana, que habia de hacer un tal castigo en ti, por la blasfemia que has dicho, que sonara por todo el mundo»; es esta la «rapaza que apenas sabe menear doce palillos de randas» y se atrevía a poner lengua en las historias de los caballeros andantes y a censurarlas; es esta la que maneja y zarandea y asenderea como a unos dominguillos a los hijos de tu España. No es Dulcinea del Toboso, no; no es tampoco Aldonza Lorenzo, por la que se suspira doce años sin haberla visto sino solo cuatro veces y sin haberla confesado amor; es Antonia Quijana, la que apenas sabe menear doce palillos de randas y menea a los hombres de hoy en tu patria. Es Antonia Quijana la que, por mezquindad de espíritu, por creer a su marido pobre, le retiene y le impide lanzarse a heroicas aventuras en que cobre eterno nombre y fama. ¡Si fuese siquiera Dulcinea!… Dulcinea, sí; por extraño que nos parezca, Dulcinea puede moverle a uno a renunciar a toda gloria, a que se dé la gloria de renunciar a ella. Dulcinea, o mejor dicho, Aldonza. Aldonza, la ideal, puede decirle: «Ven, ven acá a mis brazos y deshaz en lágrimas tus ansias sobre mi pecho, ven acá; ya veo, veo para ti un empinado tormo en los siglos de los hombres, un picacho en que te contemplen tus hermanos todos; te veo aclamado por tus generaciones, pero ven a mí y por mi renuncia a todo eso; serás así más grande, mi Alonso, serás más grande. Toma mi boca entera y hártala de calientes besos en su silencio, y renuncia a que ande en frío tu nombre en bocas de los que no has de conocer nunca. ¿Oirás luego de muerto lo que de ti digan? ¡Sepulta en mi pecho tu amor, que si él es grande, mejor es que lo sepultes en mi a no que lo desparrames entre los hombres pasajeros y casquivaños! No merecen admirarte, mi Alonso, no merecen admirarte. Serás para mi sola y así serás mejor para el Universo todo y para Dios. Parecerán así perdidos tu poderío y tu heroísmo, mas no hagas caso; sabes, por ventura, el efluvio inmenso de vida que, sin nadie notarlo, se desprende de un amor heroico y callado y se desparrama luego por más allá
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fossi mia nipote vera, in quanto figlia proprio di mia sorella, ti dovrei infliggere, per l’eresia che hai detto, un tale castigo da risuonarne la fama in tutto il mondo», e usava anche mettere bocca nelle storie dei cavalieri erranti per censurarle; è questa che maneggia, fa muovere e camminare come tanti miserabili i figli della tua Spagna. Non è Dulcinea del Toboso, no; e non è nemmeno quell’Aldonza Lorenzo, per la quale si può sospirare dodici anni senza averla vista più di quattro volte e senza averle fatto una dichiarazione d’amore; è Antonia Chisciana, colei che «sa appena maneggiare dodici fuselli di merletto a tombolo» e maneggia gli uomini di oggi nella tua patria. È Antonia Chisciana che, per meschinità di spirito, perché crede povero il marito, lo trattiene e gli impedisce di lanciarsi in eroiche avventure in cui possa conquistarsi eterna rinomanza e fama. Fosse almeno Dulcinea… Dulcinea, sì; per quanto strano possa sembrarci, Dulcinea può indurre qualcuno a rinunciare ad ogni gloria, a conquistare la gloria di rinunciarvi. Dulcinea o, per meglio dire, Aldonza. Aldonza, la donna ideale, può dirgli: «Vieni, vieni qui tra le mie braccia e sciogli in lacrime le ansie che ti assillano, sul mio seno; vieni qui. Vedo già, vedo per te un ripido tumulo nei secoli degli uomini, un irto picco sul quale ti contempleranno tutti i tuoi fratelli; ti vedo acclamato dalle loro generazioni… Ma vieni a me, e per me rinuncia a tutto ciò; così sarai ancora più grande, Alonso mio, sarai più grande. Eccoti. Prendi la mia bocca, tutta, e saziala di ardenti baci nel suo silenzio, e rinuncia a vedere il tuo nome andare freddamente sulle bocche di gente che non conoscerai mai. Quando sarai morto, udrai forse quello che diranno di te? Seppellisci nel mio seno il tuo amore, poiché, se è grande davvero, sarà meglio che lo seppellisca in me, e non che lo vada spargendo tra uomini di scarso senno e di breve vita! Non meritano di ammirarti, Alonso mio; non meritano di ammirarti. Sarai per me sola e così apparterrai meglio all’Universo intero e a Dio. In questo modo potranno sembrare perduti il tuo potere e il tuo eroismo, ma non badarci. Conosci forse il flusso immenso di vita che, senza essere notato da nessuno, si sprigiona da un amore eroico e silenzioso e si diffonde poi, travalicando tutti gli uomini, fino al confine
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de los hombres todos hasta el confín de las últimas estrellas? ¿Sabes la misteriosa energía que irradia a todo un pueblo y a sus generaciones venideras hasta la consumación de los siglos de una feliz pareja donde se asienta el amor triunfante y silencioso? ¿Sabes lo que es conservar el fuego sagrado de la vida y aun encenderlo más y más en un culto callado y recojido? El amor, con solo amar, y sin hacer otra cosa, cumple una labor heroica. Ven y renuncia a toda acción entre mis brazos, que este tu reposo y tu oscurecimiento en ellos serán fuente de acciones y de claridades para los que nunca sabrán tu nombre. Cuando hasta el eco de tu nombre se disipe en el aire, al disiparse este, aún el rescoldo de tu amor calentará las ruinas de los orbes. Ven y date a mí, Alonso, que aunque no salgas a los caminos a enderezar entuertos tu grandeza no habrá de perderse, pues en mi seno nada se pierde. Ven, que yo te llevaré desde el reposo de mi regazo al reposo final e inacabable». Así podría hablar Aldonza, y sería grande Alonso renunciando en sus brazos a toda gloria; pero tú, Antonia, tú no sabes hablar así. Tú no crees que el amor vale más que la gloria; tú lo que crees es que ni el amor ni la gloria valen el amodorrador sosiego del hogar, que ni el amor ni la gloria valen la seguridad de los garbanzos; tú crees que el Coco se lleva a los que duermen poco, y no sabes que el amor, lo mismo que la gloria, no duerme, sino vela. Acabó de hacer su testamento Alonso Quijano, recibió los sacramentos, abominó de nuevo de los libros de caballerías, y «entre compasiones y lágrimas de los que allí se hallaban, dio su espíritu; quiero decir que se murió», agrega el historiador. «¿Dio su espíritu?». ¿Y a quién se lo dio? ¿Dónde está hoy?, ¿dónde sueña?, ¿dónde vive?, ¿cuál es el abismo de la cordura en que van a descansar las almas curadas del sueño de la vida, de la locura de no morir? ¡Oh Dios mío!; Tú, que diste vida y espíritu a Don Quijote en la vida y en el espíritu de su pueblo; Tú, que inspiraste a Cervantes esa epopeya profundamente cristiana; Tú, Dios de mi sueño, ¿dónde acojes los espíritus de los que atravesamos este sueño de la vida tocados de la locura de vivir por los
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delle ultime stelle? Conosci forse la misteriosa energia che illumina un intero popolo e le sue future generazioni, fino alla consumazione dei secoli, una coppia nella quale si trovi l’amore trionfante e silenzioso? Sai che cosa significa conservare il sacro fuoco della vita e persino accenderlo sempre più in un culto silenzioso e raccolto? L’amore, soltanto amando e senza fare altro, compie un’opera eroica. Vieni e rinuncia ad ogni azione tra le mie braccia, poiché questo riposo, quest’oscurità che troverai in esse saranno fonte d’azione e di chiarezza per coloro che mai conosceranno il tuo nome. Quando persino l’ultima eco del tuo nome si sarà dissipata in aria, il tepore del tuo amore riscalderà ancora le rovine dei mondi. Vieni, e abbandonati a me, Alonso, giacché, se anche non percorrerai le strade del mondo per raddrizzare torti, la tua grandezza non andrà perduta, perché nel mio seno nulla si perde. Vieni, perché ti condurrò dalla quiete del mio grembo alla quiete finale e interminabile». Così potrebbe parlare Aldonza e Alonso sarebbe ugualmente grande rinunziando tra le sue braccia a ogni gloria; ma tu Antonia, tu non sai parlare così. Tu non credi che l’amore valga più della gloria; la sola cosa in cui credi è che né l’amore, né la gloria valgono la soporifera calma del focolare domestico, che né l’amore, né la gloria valgano la sicurezza di un piatto di ceci; tu credi che l’uomo nero si porti via i bambini che dormono poco, e non sai che l’amore, proprio come la gloria, non dorme, ma veglia. Alonso Chisciano terminò di dettare il suo testamento, ricevette i sacramenti, rinnegò ancora una volta i libri di cavalleria e, «fra i pianti ed i lamenti di coloro che erano presenti, rese la sua anima; cioè morì», chiarisce lo storico. «Rese l’anima sua?». E a chi la rese? Dov’è essa oggi? Dove sogna? Dove vive? Qual è l’abisso di saggezza in cui vanno a riposare le anime guarite ormai dal sogno della vita, dalla follia di non morire? Oh, Dio mio! Tu che desti vita e spirito a Don Chisciotte nella vita e nello spirito del suo popolo; Tu che ispirasti a Cervantes quest’epopea profondamente cristiana; Tu, Dio del mio sogno, in quali luoghi accogli i nostri spiriti che attraversano questo sogno della vita, pervasi dalla follia di vivere
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siglos de los siglos venideros? Nos diste el ansia de renombre y fama, como sombra de tu gloria; pasará el mundo; ¿pasaremos con él también nosotros, Dios mío? ¡La vida es sueño! ¿Será acaso también sueño, Dios mío, este tu Universo de que eres la Conciencia eterna e infinita?, ¿Será un sueño tuyo?, ¿Será que nos estás sonando? ¿Seremos sueño, sueño tuyo, nosotros los soñadores de la vida? Y si así fuese, ¿Qué será el Universo todo, qué será de nosotros, qué será de mí cuando Tú, Dios de mi vida, despiertes? ¡Suénaños, Señor! Y, ¿No será tal vez que despiertas para los buenos cuando a la muerte despiertan ellos del sueño de la vida? ¿Podemos acaso nosotros, pobres sueños soñadores, soñar lo que sea la vela del hombre en tu eterna vela, Dios nuestro? ¿No será la bondad resplandor de la vigilia en las oscuridades del sueño? Mejor que indagar tu sueño y nuestro sueño, escudrinando el Universo y la vida, mejor mil veces obrar el bien, pues no se pierde el hacer bien, ni aun en sueños.
Mejor que investigar si son molinos o gigantes los que se nos muestran dañosos, seguir la voz del corazón y arremeterlos, que toda arremetida generosa trasciende del sueño de la vida. De nuestros actos y no de nuestras contemplaciones sacaremos sabiduría. ¡Suénaños, Dios de nuestro sueño! ¡Consérvale a Sancho su sueño, su fe, Dios mío, y que crea en su vida perdurable y que sueñe ser pastor allá en los infinitos campos de Tu Seno, endechando sin fin a la Vida inacabable, que eres Tú mismo; consérvasela, Dios de mi España! Mira, Señor, que el día en que tu siervo Sancho cure de su locura, se morirá, y al morir él se morirá su España, tu España, Señor. Fundaste este tu pueblo, el pueblo de tus siervos Don Quijote y Sancho, sobre la fe en la inmortalidad personal; mira, Señor, que esa es nuestra razón de vida y es nuestro destino entre los pueblos el de hacer que esa nuestra verdad del corazón alumbre las mentes
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nei secoli dei secoli futuri? Ci hai dato l’ansia di rinomanza e di fama come un’ombra della Tua gloria; il mondo passerà; passeremo con esso anche noi, Dio mio? La vita è sogno! Sarà forse sogno anch’esso, Dio mio, questo Tuo Universo, del quale sei la Coscienza eterna ed infinita? Sarà un tuo sogno? E non può essere che Tu ci stia sognando? Saremo sogno, un Tuo sogno, noi sognatori della vita? E se fosse così, che mai sarà di tutto l’Universo; che sarà di noi, che sarà di me, quando Tu, Dio della mia vita Ti desterai? Sognaci, Signore! E non avverrà che ti desti per i buoni, proprio quando essi, nel transito della morte, si destano dal sogno della vita? Possiamo forse noi, poveri sogni sognatori, sognare quello che possa essere la veglia dell’uomo nella Tua veglia eterna, Dio nostro? Non sarà la bontà uno splendore di veglia nelle oscurità del sonno? Meglio che indagare sul Tuo e sul nostro sogno, scrutando l’Universo e la vita, meglio mille volte fare il bene, perché non si perde il far bene, neanche in sogno.
Meglio che indagare se sono mulini o giganti quelli che ci appaiono paurosi, è seguire la voce del cuore e assaltarli, perché ogni generoso slancio trascende il sogno della vita. Trarremo saggezza della nostre azioni e non dalle nostre contemplazioni. Sognaci, Dio del nostro sogno! Serba a Sancio il suo sogno, la sua fede, o mio Dio, e fa’ che creda in una sua vita duratura e sogni di essere pastore là negli infiniti campi del Tuo seno inneggiando senza fine alla vita sempiterna, che sei Tu stesso; conservagliela, Dio della mia Spagna! Bada, Signore, che il giorno in cui il tuo servo Sancio guarisse dalla sua follia, morirà; e morendo, morrà anche la sua Spagna, la tua Spagna, o Signore! Hai fondato questo tuo popolo, il popolo dei Tuoi servi Don Chisciotte e Sancio, sulla fede nell’immortalità individuale; bada, Signore, che è questa la nostra ragione di vita, che il nostro destino tra i popoli è quello di far sì che questa nostra verità del cuore illumini le menti, contro
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contra todas las tinieblas de la lógica y del raciocinio y consuele los corazones de los condenados al sueño de la vida. Así el vivir nos mata que la muerte nos torna a dar la vida.
Agrega el historiador que pidió el cura al escribano le diese por testimonio «cómo Alonso Quijano el Bueno, llamado comúnmente Don Quijote de la Mancha, había pasado de esta presente vida y muerto naturalmente, y que el tal testimonio pedía para quitar la ocasión de que algun autor le resucitase falsamente», y más addante añade que yace en la huesa «tendido de largo, imposibilitado de hacer tercera jornada y salida nueva». ¿Pero es que creéis que Don Quijote no ha de resucitar? Hay quien cree que no ha muerto; que el muerto, y bien muerto, es Cervantes que quiso matarle, y no Don Quijote. Hay quien cree que resucitó al tercer día, y que volverá a la tierra en carne mortal y a hacer de las suyas. Y volverá cuando Sancho, agobiado hoy por los recuerdos, sienta hervir la sangre que acopió en sus andanzas escuderiles, y monte, como dije, en Rocinante, y revestido de las armas de su amo, embrace el lanzón y se lance a hacer de Don Quijote. Y su amo vendrá entonces y encarnará en él. Animo, Sancho heroico, y aviva esa fe que encendió en ti tu amo y que tanto te costó atizar y afirmar!, ¡Ánimo! Y no se cuenta milagro que hiciese después de muerto, como se cuenta del Cid que ganó la batalla siendo cadáver, y se cuenta de él además que estando muerto también y queriendo un judío tocarle la barba, que en su vida nadie se la tocó: antes que a la barba llegue, el buen Cid había empuñado a la su espada tizona, y un buen palmo la había sacado; y el judío que esto vido, muy gran pavor ha cobrado; tendido cayó de espaldas, amortecido de espanto.
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tutte le tenebre della logica e del raziocinio, e consoli i cuori di tutti i condannati al sogno della vita. Così il vivere ci uccide che la morte ci torni a dar la vita.
Lo storico aggiunge che il curato pregò il notaio che gli attestasse come «Alonso Chisciano il Buono, chiamato comunemente Don Chisciotte della Mancia, era passato da questa vita presente ed era morto di morte naturale» e che «chiedeva tale attestato perché non si desse il caso che qualche altro autore… lo facesse risuscitare falsamente»; e più oltre aggiunge ancora che giace nel sepolcro «dove realmente e veramente giace disteso in lunghezza, impossibilitato a fare una terza campagna con una sua nuova uscita». Ma credete che Don Chisciotte non debba risuscitare? C’è chi crede addirittura che non sia mai morto; che morto, e ben morto, sia Cervantes che volle farlo morire; non già Don Chisciotte. C’è chi crede che risuscitò il terzo giorno e che ritornerà sulla terra vestito del suo corpo mortale per farne delle sue. E tornerà quando Sancio, oppresso oggi dai ricordi, sentirà ribollirsi nelle vene il sangue che accumulò nelle sue peregrinazioni scudieresche, e monterà, come ho già detto, in sella a Ronzinante e, rivestito delle armi del suo padrone, imbraccerà la pesante lancia e si accingerà a fare come Don Chisciotte. E il suo padrone tornerà allora e si incarnerà in lui. Coraggio, eroico Sancio, ravviva le fede che ti accese nel cuore il tuo padrone e che tanta fatica ti costò ravvivare ed affermare! Coraggio! Ma non si narra di lui che compisse miracoli dopo la morte, come si narra del Cid che vinse la battaglia quand’era già cadavere, e che, essendo già morto e volendo un ebreo toccargli la barba che in vita nessuno mai gli aveva toccato: prima che alla barba giunga, il buon Cid ha già impugnato la buona spada Tizona e un palmo ne ha sfoderato; e il giudeo che tale vide, gran paura ne ha pigliato; piombò di spalle per terra, dallo spavento inchiodato.
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Don Quijote no sé que haya ganado batalla después de muerto, y sé que muchos judíos osan tocarle la barba. De Don Quijote no se sabe que haya hecho milagro alguno después de muerto, pero ¿no basta con los que hizo en vida, y no fue perpetuo milagro su carrera de aventuras? Cuanto más que, como recordaba el P. Rivadeneira en el capitulo final de su tantas veces citada obra al hablarnos de los milagros que Dios hizo por San Ignacio, entre los nacidos de mujer no se había levantado, al decir del Evangelio, otro mayor que San Juan Bautista, y con todo eso dice de él el Evangelio mismo que no hizo milagro alguno. Y si el piadoso biógrafo de Loyola tiene por el mayor milagro de este la fundadón de la Compañía de Jesús, ¿no hemos de tener nosotros por el milagro mayor de Don Quijote el que hubiese hecho escribir la historia de su vida a un hombre que, como Cervantes, mostró en sus demás trabajos la endeblez de su ingenio y cuán por debajo estaba, en el orden natural de las cosas, de lo que para contar las hazañas del Ingenioso Hidalgo y tal cual él las contó, se requería? No cabe duda sino que en El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha que compuso Miguel de Cervantes Saavedra se mostró este muy por encima de lo que podríamos esperar de él juzgándole por sus otras obras; se sobrepujó con mucho a sí mismo. Por lo cual es de creer que el historiador arábigo Cide Hamete Benengeli no es puro recurso literario, sino que encubre una profunda verdad, cual es la de que esa historia se la dictó a Cervantes otro que llevaba dentro de sí, y al que ni antes ni después de haberla escrito trató una vez más; un espíritu que en las profundidades de su alma habitaba. Y esta inmensa lejanía que hay de la historia de nuestro Caballero a todas las demás obras que Cervantes escribió, este patentísimo y espléndido milagro es la razón principal – si para ello hiciesen, que no hacen falta razones, miserables siempre – para creer nosotros y confesar que la historia fue real y verdadera, y que el mismo Don
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Non mi risulta che Don Chisciotte abbia vinto battaglie dopo la morte e so che molti ebrei osano toccargli la barba. Non si sa se Don Chisciotte abbia fatto qualche miracolo dopo la morte; ma non bastano quelli che fece in vita? E non fu del resto un perpetuo miracolo tutta la sua carriera di avventure? Tanto più che, come avverte il Padre Rivadeneira nel capitolo conclusivo della sua opera tante volte citata, nel parlarci dei miracoli che Dio volle fare attraverso Sant’Ignazio, tra i nati da donna non ne era venuto al mondo un altro più grande di San Giovanni Battista, secondo l’espressione evangelica e, con tutto ciò il Vangelo stesso dice di lui che non fece alcun miracolo. E se il pio biografo di Loyola considera la fondazione della Compagnia di Gesù come il miracolo più grande da lui compiuto, noi non dobbiamo considerare come il più grande miracolo di Don Chisciotte quello di aver fatto scrivere la storia della propria vita da un uomo che, come Cervantes, mostrò negli altri suoi scritti la limitatezza del suo ingegno e come esso, nell’ordine naturale delle cose, fosse enormemente al di sotto di quanto si richiedeva per narrare le imprese dell’ingegnoso hidalgo, e per giunta nello splendido modo in cui le raccontò? Non c’è dubbio che ne L’ingegnoso hidalgo Don Chisciotte della Mancia, scritto da Michele Cervantes Saavedra, questi mostrò doti di scrittore assai superiori a quelle che ci saremmo potuti aspettare da lui giudicandolo attraverso le altre sue opere; in quel libro superò di gran lunga se stesso. Ed è perciò da credere che lo storico arabo Cide Hamete Benengeli non sia un puro e semplice espediente letterario, ma che sotto la finzione poetica si celi una profonda verità; cioè che questa storia fu dettata a Cervantes da un altro che a sua insaputa si nascondeva dietro di lui e col quale, né prima né dopo averla scritta, ebbe alcun altro contatto: uno spirito che dimorava nelle profondità della sua anima. E questo immenso divario esistente tra la storia del nostro Cavaliere e tutte le altre opere composte da Cervantes, questo chiarissimo miracolo, splendido oltre ogni dire, è la ragione principale – se pur ci fosse bisogno di ragioni, miserabili sempre, e delle quali non si sente affatto la mancanza – perché noi crediamo e confessiamo che la storia fu reale e veridica, e
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Quijote, envolviéndose en Cide Hamete Benengeli, se la dictó a Cervantes. Y aun llego a sospechar que, mientras he estado explicando y contentando esta vida, me han visitado secretamente Don Quijote y Sancho, y aun sin yo saberlo, me han desplegado y descubierto las entretelas de sus corazones. Y he de añadir aquí que muchas veces tenemos a un escritor por persona real y verdadera e histórica por verle de carne y hueso y a los sujetos que finge en sus ficciones no más sino por de pura fantasía, y sucede al revés, y es que estos sujetos lo son muy de veras y de toda realidad y se sirven de aquel otre que nos parece de carne y hueso para tornar ellos ser y figura ante los hombres. Y cuando despertemos todos del sueño de la vida, se han de ver a este respecto cosas muy peregrinas y se espantarán los sabios al ver qué es la verdad y qué es la mentira y cuán errados andábamos al pensar que esa quisicosa que llamamos lógica tenga valor alguno fuera de este miserable mundo en que nos tienen presos el tiempo y el espacio, tiranos del espíritu. Cosas muy peregrinas conoceremos allí respecto a la vida y a la muerte, y allí se verá cuán profundo sentido tiene la primera parte del epitafio que en la sepultura de Don Quijote puso Sansón Carrasco y que dice: Yace aquí el hidalgo fuerte que a tanto extremo llegó de valiente, que se advierte que la muerte no triunfó de su vida con la muerte.
Y así es, pues Don Quijote es, merced a su muerte, inmortal; la muerte es nuestra inmortalizadora. Nada pasa, nada se disipa, nada se anonada; eternízase la más pequeña partecilla de materia y el más débil golpecillo de fuerza, y no hay visión, por huidera que sea, que no quede refle-
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che Don Chisciotte in persona, celandosi sotto le spoglie di Cide Hamete Benengeli, la dettò a Cervantes. Anzi, arrivo addirittura a sospettare che, nel tempo in cui sono andato spiegando e commentando questa vita, siano venuti a visitarmi Don Chisciotte e Sancio e, senza che nemmeno lo sapessi, mi abbiano svelato e chiarito l’intimità dei loro cuori. Devo aggiungere, a questo punto, che numerose volte consideriamo uno scrittore come una persona reale, autentica e storica solo perché lo vediamo in carne e ossa, e riteniamo invece i personaggi che introduce nelle sue invenzioni semplici creature della sua fantasia; mentre invece le cose sono all’opposto, e cioè questi personaggi sono perfettamente reali e autentici e si servono dello scrittore, di colui che ci appare fatto di carne e ossa, per acquistare essi stessi, agli occhi degli uomini, esistenza e figura tangibile. E quando ci desteremo tutti dal sogno della vita, ci toccherà vedere, a questo riguardo, cose assai peregrine, e i dotti resteranno a bocca aperta nel conoscere finalmente che cos’è la verità e che cos’è la menzogna, e quando errassimo nel pensare che quella misteriosa faccenda alla quale diamo il nome di logica avesse un qualsiasi valore al di fuori di questo mondo meschino in cui ci tengono prigionieri il tempo e lo spazio, tiranni dello spirito. Allora apprenderemo cose assai peregrine intorno alla vita e alla morte; e allora si vedrà quanto sia profondo il significato che contiene la prima parte dell’epitaffio che Sansone Carrasco fece porre sulla tomba di Don Chisciotte e che dice: Giace qui l’hidalgo forte che i più forti superò, sì che pure della morte la sua vita trionfò.
Ed è così in effetti, giacché Don Chisciotte, grazie alla sua morte, è ormai immortale; la morte è colei che ci dà l’immortalità. Nulla passa, nulla si dissolve, nulla si annienta; diviene eterna la più minuscola particella e il più debole gesto di forza, e non esiste visione, per quanto fugace, che non rimanga per sem-
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jada para siempre en alguna parte. Así como si al pasar por un punto, en el infinito de las tinieblas, se encendiera y brillara por un momento todo lo que por allí pasase, así brilla un momento en nuestra conciencia del presente cuanto desfila de lo insondable del porvenir a lo insondable del pasado. No hay visión ni cosa ni momento de ella que no descienda de las honduras eternas de donde salió y allí se quede. Sueño es este súbito y momentáneo encendimiento de la sustancia tenebrosa, sueño es la vida, y apagado el pasajero fulgor descende su reflejo a las honduras de las tinieblas y allí queda y persiste hasta que una suprema sacudida lo reenciende para siempre un día. Porque la muerte no triunfa de la vida con la muerte de esta. Muerte y vida son mezquinos términos de que nos valemos en esta prisión del tiempo y del espacio; tienen ambas una raíz común y la raigambre de esta raíz arraiga en la eternidad de lo infinito: en Dios, Conciencia del Universo. Al acabar la historia colgó el historiador su pluma y le dijo: «aquí quedarás colgada desta espetera y deste hilo de alambre, ni sé si bien cortada o mal tajada péñola mía, adonde vivirás luengos siglos, si presuntuosos y malandrines historiadores no te descuelgan para profanarte». Líbreme Dios de meterme a contar sucesos que al puntualísimo historiador de Don Quijote se le hubiesen escapado; nuanca me tuve por erudito ni me he metido jamás a escudriñar los archivos caballerescos de La Mancha. Yo solo he querido explicar y comentar su vida. «Para mí solo nació Don Quijote, y yo para él; él supo obrar y yo escribir», hace decir el historiador a su pluma. Y yo digo que para que Cervantes contara su vida y yo la explicara y comentara nacieron Don Quijote y Sancho, Cervantes nació para explicarla, y para comentarla nací yo… No puede contar tu vida, ni puede explicarla ni comentarla, señor mío Don Quijote, sino quien esté tocado de tu misma locura de no morir. Intercede,
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pre riflessa in qualche parte. È lo stesso che se, passando per un punto determinato nell’infinità delle tenebre, si accendesse e brillasse per un istante tutto ciò che vi passa; così brilla per un istante nella nostra coscienza del presente tutto quello che ci sfila dinanzi, dalle profondità insondabili del futuro a quelle, altrettanto insondabili, del passato. Non esiste visione, né parte di essa, né momento che non discenda dalle profondità eterne dalle quali è uscita e non vi ritorni. È sogno questo subitaneo ed istantaneo accendersi della sostanza tenebrosa; la vita è sogno; e, una volta spento il fugace fulgore, il riflesso ne discende fino alle profondità delle tenebre, vi rimane e persiste fino a quando un supremo scuotimento non lo riaccenderà un giorno per sempre. Giacché la morte non trionfa sulla vita con la morte di questa. Morte e vita sono due termini meschini, di cui ci serviamo in questo carcere del tempo e dello spazio dove siamo costretti a vivere; entrambe hanno la stessa radice e le punte estreme di tale radice si abbarbicano nell’eternità dell’infinito: in Dio, Coscienza dell’Universo. Terminata la sua storia, il narratore mise da parte la penna e le disse: «Qui resterai attaccata all’uncino di questa asticella, da questo filo di rame, non so se tagliata e temperata finemente o rozzamente; e qui vivrai per lunghi secoli, se storici presuntuosi e maligni non ti distacchino per profanarti». Dio mi liberi dal pretendere di mettermi a raccontare avvenimenti che potessero essere sfuggiti allo scrupolosissimo storico di Don Chisciotte; non ho mai avuto pretese di erudito, né mi sono accinto mai a frugare e rifrugare negli archivi cavallereschi della Mancia. Ho voluto soltanto spiegare e commentare la sua vita. «Don Chisciotte venne al mondo soltanto per me ed io soltanto per lui», fa dire alla sua penna lo storico. E io dico a mia volta che Don Chisciotte e Sancio nacquero affinché Cervantes narrasse la loro vita e io poi la commentassi e spiegassi. Anzi, Cervantes nacque per spiegarla, e per commentarla sono nato io… Non può narrare la sua vita, né può spiegarla, né commentarla, mio signor Don Chisciotte, se non chi sia stato contagiato dalla tua stessa follia di non morire. Intercedi dunque a mio
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pues, en favor mío, oh mi señor y patrón, para que tu Dulcinea del Toboso, ya desencantada merced a los azotes de tu Sancho, me lleve de su mano a la inmortalidad del nombre y de la fama. ¡Y si es la vida sueño, déjame soñarla inacabable! A reinar, fortuna, vamos; no me despiertes si sueño. καὶ μαχόμην κατ’ἐμ’ αὐτὸν ὲγώ
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favore, o mio signore e patrono, affinché la tua Dulcinea del Toboso, disincantata ormai grazie alle staffilate del tuo Sancio, mi conduca per mano all’immortalità del nome e della fama. E se la vita è sogno, lascia che io la sogni imperitura! A regnar, fortuna, andiamo; e non destarmi, se dormo! e io combattei per mio conto15
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(La vita è sogno, II, 4) (Iliade, I, 271)
Versione a cura di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1950. (N.d.T.)
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BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE DI MIGUEL DE UNAMUNO E DELLA LETTERATURA SECONDARIA
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Valdés M.J., An Unamuno Source Book, Toronto 1973. Aggiornamenti bibliografici sono reperibili nei «Cuadernos de la Cátedra Unamuno» I-XVIII (1948-67) e nelle due edizioni delle Obras Completas di Unamuno, a cura di M. García Blanco.
Rassegne bibliografiche riguardanti specificamente l’Italia sono dovute a: Bardi U., Fortuna de Unamuno en Italia, «Cuadernos de la Cátedra Unamuno» XIV-XV (1964-65), pp. 23-31. Bellini G., Unamuno en Italia, «Asonante» XVII (1961), pp. 90-96. Bertini G.M., Contributo a un repertorio bibliografico italiano di letteratura spagnola (1890-1940), in AA. VV., Italia e Spagna, Firenze 1941. De Tomasso V., Il pensiero e l’opera di Unamuno, Bologna 1967. Ferraro C.L., Recenti studi su Unamuno in Italia, in Studi unamuniani, Lecce 1999, pp. 175-191. Foresta G., Unamuno, Milano 1976, pp. 179-188. González Martín V., La cultura italiana en M. de Unamuno, Salamanca 1978. Macrì O., Mezzo secolo di traduzioni italiane dallo spagnolo, «L’albero» 3640 (1962). Meregalli F., Sobre Unamuno en Italia, «Cuadernos Hispanoamericanos» 440-441 (1987), pp. 119-126 Rossi G.L., Apuntes sobre bibliografía unamuniana en Italia y Alemania, «Cuadernos de la Cátedra Unamuno» 3 (1952), pp. 13-18. Savignano A., La diffusione del pensiero spagnolo contemporaneo nell’Italia di oggi, in Radici del pensiero spagnolo contemporaneo, Napoli 1995, pp. 177-206.
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ii. edizioni delle opere Unamuno ha pubblicato durante la vita le seguenti opere: En torno al casticismo, «La España moderna» 1895; Barcelona 1902. Paz en la guerra, Madrid 1897. De la enseñanza superior en España, Madrid 1899. Nicodemo, el fariseo, «Revista nueva» 1899. Tres ensayos, Madrid 1900, che comprendono: Adentro!; La Ideocracia; La fe. Amor y pedagogía, Barcelona 1902. Paisajes, Salamanca 1902. De mi país. Descripciones reales y articulos de costumbre, Madrid 1903. Vida de Don Quijote y Sancho, Madrid 1905 Poesías, Bilbao 1907. Recuerdos de niñez y mocedad, Madrid 1908. La Esfinge, opera teatrale rappresentata nel 1909 e pubblicata in Teatro Completo, Madrid 1959. Mi religión y otros ensayos, Madrid 1910. Rosario de sonetos líricos, Madrid 1911. Por tierras de Portugal y España, Madrid 1911. Soliloquios y conversaciones, Madrid 1911. Contra esto y aquello, Madrid 1912. Del porvenir de España, Madrid 1912, che contiene anche lettere tra Unamuno e Ganivet, pubblicate anteriormente in «El defensor de Granada» (1897). Del sentimiento trágico de la vida en los hombres y en los pueblos, Madrid 1913. El espejo de la muerte (Novelas cortas), Madrid 1913. La Venda, Madrid 1913 Niebla (Nivola), Madrid 1914. Ensayos, vol. I, II, e III, Madrid 1916; vol. IV e V, Madrid 1917; vol. VI e VII, Madrid 1918. Il contenuto di ciascun vol. è il seguente, secondo la data di composizione di ogni saggio: Vol. I: En torno al casticismo: 1. La tradición eterna, 1895. 2. La casta histórica. Castilla, 1895. 3. El espiritu castellano, 1895. 4. De mistica y humanismo. 5. Sobre el marasma actual de España, s.d.
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Vol. II: La Enseñanza del latín en España, 1894. La regeneración del teatro español, 1896. El caballero de la triste figura, 1896. Acerca de la reforma de la ortografía castellana, 1896. La vida es sueño (Reflexión sobre la regeneración de España), 1898. Adentro!, 1900. La Ideocracia, 1900. La fe, 1900. Vol. III: La dignidad humana, s.d. La crisis del patriotismo, s.d. La juventud “intelectual” española, 1896. Civilización y cultura, s.d. La reforma del castellano, 1911. Sobre la lengua española, 1901. La educación, 1902. Maese Pedro (Notas sobre Carlyle), 1902. Ciudad y campo (De mis impressiones de Madrid), 1902. La cuestión del vascuence, 1902. Vol. IV: Contra el purismo, 1903. Viejos y jovenes, 1902. El individualismo español, 1902. Sobre el fulanismo, 1903. Religión y patria, 1904. La selección de los Fulánez, 1903. La lectura del doctor Montarco, 1904. Intelectualidad y espiritualidad, 1904. Vol. V: Almas de jovenes, 1904. Sobre la filosofía española, 1904.
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Plenitud de plenitudes y todo plenitud!, 1904. El perfecto pescador de cana, 1904. A lo que salga, 1904. Sobre la soberbia, 1904. Los naturales y los espirituales, 1905. Sobre la lectura e interpretación del Quijote, 1905. Vol. VI: Ramplonería!, 1905. Soledad, 1905. Poesía y oratoria, 1905. La crisis actual del patriotismo español, 1905. Sobre el rango y el merito, 1906. La Patria y el exercito, 1906. Qué es verdad?, 1906. Vol. VII: Más sobre la crisis del patriotismo, 1906. El secreto de la vida, 1906. Sobre la consecuencia, la sinceridad, 1906. Sobre la tumba de Costa, 1911. Abel Sánchez, Madrid 1917. El Cristo de Velázquez, Madrid 1920. Tres novelas ejemplares y un Prólogo, Madrid 1920, che comprende: Dos madres; El marqués de Lumbaría; Nada menos que todo un hombre. La tía Tula, Madrid 1920. Fedra, «La luna» 8, 9, 10 (1921). Andazas y visiones españolas, Madrid 1922. Rimas de dentro, Valladolid 1923. Teresa: rimas de un poeta desconocido, Madrid 1923. Todo un hombre, Madrid 1925. De Fuerteventura a Paris, Paris 1925. Cómo se hace una novela, Buenos Aires 1927. Quest’edizione è più ampia della prima, tradotta in francese da Cassou J., Comment on fait un roman, «Mercure de France» CLXXXVII (1926), pp. 13-39. Romancero del destierro, Buenos Aires 1928.
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Dos articulos y dos discursos, Madrid 1930. La agonía del cristianismo, Madrid 1931, ma pubblicato prima in francese da Cassou J., L’agonie du christianisme, Paris 1925, il cui cap. IX, La foi pascalienne, era stato pubblicato in «Revue de Métaphysique et de Morale» XXX (1923), pp. 345-349. San Manuel Bueno, mártir, «La Novela de hoy» 401 (1931). Riedito in San Manuel Bueno, mártir, y tres historias mías, Madrid 1933. El otro, Madrid 1932. El hermano Juán o el mundo es teatro, Madrid 1934. La ultima lección de Unamuno, Madrid 1934.
Esistono tre edizioni delle opere di Unamuno: Obras Completas, ed. Afrodisio Aguado, Madrid 1959-64, a cura di M. García Blanco, 16 vol.: vol. I: Paisaje; vol. II: Novela, 1; vol. III: Ensayos, 1; vol. IV: Ensayos, 2; vol. V: De esto y aquello; vol. VI: La raza y la lengua; vol. VII: Prólogos, conferencias, discursos; vol. VIII: Letras de América y otras lecturas; vol. IX: Novela, 2 y Monodiálogos; vol. X: Autobiografía y recuerdos personales; vol. XI: Meditaciones y otros escritos: vol. XII: Teatro; vol. XIII: Poesía, 1; vol. XIV: Poesía, 2: vol. XV: Poesía, 3; vol. XVI: Ensayos espirituales y otros escritos. Obras Completas, ed. Escélicer, Madrid 1966-71, a cura di M. García Blanco, t. 9: t. I: Paisajes y ensayos; t. II: Novelas; t. III: Nuevos ensayos; t. IV: La raza y la lengua; t. V: Teatro completo; t. VI: Poesía; t. VII: Meditaciones y ensayos espirituales; t. VIII: Autobiografía y Recuerdos personales; t. IX: Epistolario e indices generales. Obras Completas, ed. Turner, Madrid 1994-2009, a cura di R. Senabre Sempere, t. 10: t. I: Narrativa, 1994; t. II: Narrativa, 1995; t. III: Teatro, 1996; t. IV: Poesía, 1999; t. V: Poesía, 2002; t. VI: Paisajes y recuerdos, 2004; t. VII: Paisajes y recuerdos, 2005; t. VIII: Ensayos, 2007; t. IX: Ensayos, articolos y conferencias, 2008; t. X: Ensayos, 2009. Manca a tutt’oggi un’edizione integrale e critica delle opere di Unamuno.
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Scritti di Unamuno pubblicati postumi: El pensamiento político de Unamuno. Antología de textos, a cura di E. Díaz, Madrid 1965. Desde el mirador de la guerra, a cura di L. Urrutía Salaverri, Paris 1970. Articulos olvidados sobre España y la primera guerra mondial, a cura di Ch. Cobb, London 1976. Escritos socialistas, a cura di P. Ribas, Madrid 1976. Crónica política española (1915-1923), a cura di V. González Martín, Salamanca 1977. Unamuno socialista, a cura di M.D. Gómez-Molleda, Madrid 1978. República española y España republicana (1931-1936), a cura di V. González Martín, Salamanca 1979. Ensueño de una patria. Periodismo republicano 1931-1936, a cura di V. Ouimette, Valencia 1984. El resentimiento trágico de la vida. Notas sobre la revolución y la guerra civil española, a cura di C. Feal, Madrid 1991. Unamuno. Política y filosofía. Articulos recuperados (1886-1924), a cura di P. Ribas e D. Núñez, Madrid 1992. Articulos en «Las Noticias» de Barcelona (1892-1902), a cura di A. Sotelo Vázquez, Barcelona 1993. Articulos en «La Nación» de Buenos Aires (1919-1924), a cura di L. Urrutía Salaverri, Salamanca 1994. Nuevo mundo, a cura di L. Robles, Madrid 1994. Escritos inéditos sobre Euskali, a cura di L. Robles, Bilbao 1998. Alrededor del estilo, a cura di L. Robles, Salamanca 1998. De patriotismo espirituale. Articulos en «La Nación» de Buenos Aires (19011914), a cura di V. Ouinette, Salamanca 1998. Del sentimiento trágico de la vida en los hombres y en los pueblos y Tratado del amor de Dios, a cura di N.R. Orringer, Tecnos, Madrid 2005. Mi confesión, a cura di A. Villar, ed. Siguème, Salamanca-Madrid 2011. Scritti filosofici inediti conservati nella Casa-Museo Unamuno a Salamanca: Filosofía lógica Cuadernos Filosofía I Cuadernos Filosofía II Appunti su El mal del siglo Manual del quijotismo Diálogo sobre el progreso social
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INDICE DEI NOMI
Le occorrenze in corsivo si riferiscono ai nomi citati nella parte introduttiva del volume.
Abellán, José Luis 14 Abramo 39 Adamo 235 Alfonso X 179 Amadigi di Gaula 67, 363, 803 Ayala, Francisco 13 Azaña, Manuel 49 Azorín (José Augusto Trinidad Martínez Ruiz) 12 Beccari, Gilberto 137 Bello, Luis, 49 Benengeli, Cide Hamete 36, 57, 65, 77, 141, 143, 543, 829, 831, Bergson, Henri 21 Bloch, Ernst 40 Bouchon, H. 88, 89 Brandes, Georg 99 Busiñol, Santiago 49 Calderón de la Barca, Pedro 43, 683 Camões, Luís Vaz de 189, 261, 321 Campoamor, R amón de 403
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Carlo Magno 569, 571, 579 Cartesio (R ené Descartes) 25 Castro, Amerigo 12, 13, 49 Castro, Eugenio de 503 Cerezo Galán, Pedro 16, 34, 35, 38, 41 Cervantes, Miguel de 9, 11, 12, 13, 14, 19, 20, 21, 22, 24, 25, 26, 28, 30, 31, 33, 34, 36, 55, 65, 77, 89, 91, 99, 107, 109, 111, 113, 115, 117, 119, 121, 123, 125, 127, 129, 135, 137, 141, 143, 177, 195, 197, 203, 219, 221, 227, 231, 239, 243, 257, 261, 263, 279, 305, 317, 321, 329, 343, 345, 351, 363, 387, 417, 443, 477, 547, 619, 823, 827, 829, 831, 833 Clavería, Carlos 37 Cohen, Hermann 14, 16, 17, 18, 21 Colombo, Cristoforo 121, 763 Corrientes, Diego 715 Cortés, Hernán 73 Coypel, Charles-Antoine 89 Croce, Benedetto 17, 37
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878 Curtius, Ernst Robert 32 Dante Alighieri 99 De Moraine, Louis-Pierre 89 Democrito 185 Diaz de Bivar, Rodrigo 697 Diaz de Bivar, Ruy 545 Diego Ammazzamori, Santo 677 Diego di Alcalá, Santo, 503 Dilthey, Wilhelm 13 Doré, Gustave 29, 89 Dostoevskij, Fëdor 12, 37 Earle, Homer Price 141, 143 Eça de Queirós, José Maria 443 Elcano, Juan Sebastián 267 Ercilla y Zúñiga, Alonso de 261, 705 Erostrato 503 Eucken, R.C. 42 Fernández de Velasco, Pedro 687 Fernando d’Austria 245 Ferrant, D.L. 91 Ferri, L. 103 Fichte, Johann Gottlieb 42 Fierro, Martín 277, 723, Figuera, Gaspare de la 235 Filippo II 181, 313, Filippo IV 723 Flaubert, Gustave 18, 22, 119, Florez Miguel, Cirilo 45 Foresta, Gaetano 37 Francesco d’Assisi, Santo 291 Freud, Sigmund 12 Friedemann, K äte 17 Ganivet, Angel 35, 341, 343, 345 Garagorri, Paulino 16, 20 García Bacca, G.D. 13 García de Paredes y Torres, Diego 409, 411, 557 García Mateo, Rogelio 38 Gesù Cristo 37, 181, 449, 557, 715
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Giorgio, Santo 677 Giovanni della Croce, Santo 779 Goethe, Johann Wolfgang 12, 21 Góngora, Luis de 479 González Caminero, Nemesio 32 González, Zeferino 103 Gracián, Baltasar 11 Haeckel, Ernst 105 Hall Caine, Thomas Henry 38 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 37 Heine, Heinrich 12 Huarte, Giovanni 63, 179, 181, 185, 191, 339, 419, 421, 641 Immisch, Otto 18 Inman Fox, Edward 20 Isla de la Torre y Rojo, José Francisco 673 James, William 42, 44 K alkhoff, Albert 107, 109 K ant, Immanuel 12, 16, 42 Kierkegaard, Søren 155 Laín Entralgo, Pedro 40 Lavater, Johann K aspar 83, 85, 95 Lefebvre, Jules Jospeh 89 Liberatore, Matteo 103 Linneo, Carlo 649 Lizárraga, Conceptión 48 López de Haro, Diego 259 López Fabra, Francisco 89 Loyola, Ignazio di 38, 91, 181, 193, 195, 197, 209, 213, 221, 227, 241, 245, 247, 265, 293, 319, 373, 387, 417, 419, 421, 505, 549, 557, 559, 565, 585, 599, 631, 643, 689, 801, 817, 829 García di Loyola, Martín 241 León, Luis de 761 Macaulay, Thomas Babington 123 Machado, Antonio 24, 34
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indice dei nomi
Madariaga, Salvador de 13 Madrazo, Luis de 91 Maeztu, R amiro de 13 Mann, Thomas 12 Manrique, Jorge 685, 799 Manrique, Rodrigo 809 Maria di Magdala 201 Marías, Julián 16, 24 Marstrand, Wilhelm 89 Martino, Santo 677 Marx, K arl 12 Mefistofele 89 Melo, Francisco Manuel de 723 Menéndez Pelayo, Marcelino 103 Montemayor, Jorge de 643, 751 Morón A rroyo, Ciriaco 16 Múgica, Pedro 32 Natorp, Paul 16 Nietzsche, Friedrich 44, 721 Nín y Frías, Alberto 32 Nordau, Max Simon 103 Novalis (Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg) 12 Novicow, Jacques 103 Nuñez di Balboa, Vasco 255 Omero 18, 73 Orringer, Nelson R. 14, 15, 16, 17, 38 Ortega y Gasset, José 12, 13, 14, 15, 20 Ouimette, Victor 37 Paolo, Santo 677 Papini, Giovanni 137 Paris, Carlos 33 Pietro, Santo 655, 683, Pietro d’Alcántara, Santo 503 Pirandello, Luigi 12 Pizarro, Francisco 73, 255, 279, 327 Platone 649
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879 Primo de R ivera, José Antonio 49, 50 Prisco, Giuseppe 103 Pulgar, Fernando del 687, 711 Quevedo, Francisco de 673, R enan, Ernest 31 R éville, Albert 38, R ibbans, Geoffrey 34 R iehl, Wilhelm Heinrich 17 R ivadeneira, Pietro de 91, 181, 195, 213, 227, 241, 245, 293, 319, 373, 387, 417, 419, 505, 549, 557, 559, 565, 585, 643, 689, 801, 817, 829 R ivelles, José 93 Rodríguez, padre Alonso 245, 277, 631, 645, 805 Rosell, Isabella di 293 Rousseau, Jean-Jacques 45 Ruskin, John 87 Sabatier, Auguste 45 Sanz del R ío, Julián 103 Savater, Fernando 45 Savignano, A rmando 13, 20, 27, 29, 44, 45 Schapp, Wilhelm 15, 17 Scheler, Max 16 Schelling, Friedrich 12 Schopenhauer, A rthur 44 Schürr, Friedrich 35 Sciacca, Michele Federico 37 Sergi, Giuseppe 103 Serrano Poncela, Segundo 32, 33 Shakespeare, William 11, 75, 77, 99 Silver, Philip W. 16 Simmel, Georg 16, 19 Sobejano, Gonzalo 44 Stael, C. 89 Stapfer, Philipp Albert 38
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Taparelli D’Azeglio, Luigi 103 Telory, B. 89 Teresa di Gesù, Santa 203, 779 Tirso de Molina 259, 721 Tiziano Vecellio 87 Tommaso da Celano 505 Turgenev, Ivan Sergeevicˇ 12 Urráburu, Juan José 103 Urrabieta, Daniel 91 Vega, Garcilaso de la 695 Velázquez Rodríguez de Silva, Diego 10, 49, 91 Viardot, Luis 89 Vico, Giambattista 11 Wundt, Wilhelm 16 Yáñez di Oñaz e Sáez de Balda, Ignazio 265 Zambrano, Maria 9, 13, 18, 20, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 33, 34 Zarra, L. 91
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INDICE GENERALE
Sommario 5 Saggio introduttivo di A. Savignano Don Chisciotte tra idealismo etico e tragi-commedia 7 1. In cammino con Don Chisciotte, 9 2. Ortega: Don Chisciotte e la volontà di avventura, 13 3. Zambrano: l’enigma di Don Chisciotte e l’ambiguità di Cervantes, 22 4. Don Chisciotte e la volontà di utopia, 29 5. Don Chisciotte, Cavaliere della Fede, 38 Cronologia della vita e delle opere
47
Nota editoriale
51
Il Cavaliere dalla Triste Figura 53 Sulla lettura e l’interpretazione del Chisciotte 97 Vita di Don Chisciotte e Sancio 133 Prologhi dell’autore alla seconda edizione 135 Alla terza edizione 139 Il sepolcro di Don Chisciotte
145
Prima parte capitolo i
che tratta della condizione e delle abitudini del famoso hidalgo Don Chisciotte della Mancia
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capitolo ii
che tratta della prima uscita di Don Chisciotte dalla sua terra
193
capitolo iii 207
nel quale si racconta il piacevole modo in cui Don Chisciotte fu armato cavaliere
capitolo iv
ciò che successe al nostro Cavaliere quando uscì dall’osteria
215
capitolo v 231
dove prosegue il racconto della disgrazia del nostro Cavaliere
capitolo vi 239 capitolo vii 241 della seconda uscita del nostro valoroso Cavaliere Don Chisciotte della Mancia capitolo viii 251 del buon successo che il valoroso Don Chisciotte ebbe nella spaventosa e inimmaginabile avventura dei mulini a vento e di altri eventi degni di felice ricordo capitolo ix 263
dove si conclude e termina la mirabile battaglia tra il prode biscaglino ed il valente mancego
capitolo x 269 dei piacevoli ragionamenti intercorsi tra Don Chisciotte e Sancio Panza suo scudiero capitolo xi 273
di quel che successe a Don Chisciotte con alcuni caprai
capitoli xii e xiii 285
di ciò che raccontò un capraio a quelli che erano con Don Chisciotte e dove si conclude il racconto della pastora Marcella, e si narrano altri avvenimenti
capitolo xv 309 dove si narra la sfortunata avventura in cui incorse Don Chisciotte scontrandosi con certi disumani janguesi
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indice generale
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capitolo xvi 315 di quel che avvenne all'ingegnoso hidalgo nell’osteria che immaginava fosse un castello capitolo xvii 319 dove si continuano a narrare le infinite tribolazioni che il valoroso Don Chisciotte e il suo buono scudiero Sancio Panza soffrirono nell’osteria che, per sua disgrazia, Don Chisciotte credette fosse un castello capitolo xviii 325
dove si racconta dei ragionamenti di Sancio Panza col suo signor Don Chisciotte, nonché di altre avventure degne di essere narrate
capitolo xxi 335 che tratta dell’eccelsa avventura e della preziosa conquista dell’elmo di Mambrino, nonché di altre cose successe al nostro invincibile Cavaliere capitolo xxii 341 della libertà che dette Don Chisciotte a molti sventurati che, loro malgrado, erano condotti dove non avrebbero voluto andare capitolo xxiii 357 di ciò che accadde al famoso Don Chisciotte in Sierra Morena e che fu una delle più strane avventure di quante se ne raccontano in questa veridica storia capitoli xxiv e xxv 363
dove continua l’avventura della Sierra Morena e che tratta delle cose meravigliose accadute nella Sierra Morena al valoroso Cavaliere della Mancia e della penitenza fatta per imitare Beltenebros
capitolo xxvi 373
dove sono contenute le galanterie che, da innamorato, Don Chisciotte fece nella Sierra Morena
capitolo xxvii 383
come il curato ed il barbiere riuscirono nel loro intento ed anche di altre cose degne di essere narrate in questa grande storia
capitolo xxviii 385 che tratta della nuova e piacevole avventura capitata al curato e al barbiere nella Sierra Morena
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capitolo xxx 393
che tratta della discrezione della bella Dorotea, nonché di altre cose molto piacevoli e divertenti
capitolo xxxi 401
dove si parla dei gustosi ragionamenti tra Don Chisciotte e Sancio Panza, suo scudiero, e di altri avvenimenti
capitolo xxxii 409 che tratta di quel che successe all’osteria a tutta la comitiva di Don Chisciotte capitoli xxxiii e xxxiv 415 capitolo xxxvi 417 dove si tratta dell’eroico e straordinario combattimento di Don Chisciotte con alcuni otri di vino rosso, e dove si conclude la novella del «Curioso impertinente» capitolo xxxvii 423 che tratta di altri singolari avvenimenti svoltisi nell’osteria capitolo xxxviii 425
che tratta del singolare ragionamento di Don Chisciotte sulle armi e le lettere
capitoli xxxix, xl, xli e xlii 427
parlano della storia della schiavitù e narrano poi come il giudice incontrò suo fratello
capitolo xliii 429 dove si narra la piacevole storia del mulattiere, insieme ad altri strani casi accaduti nell’osteria capitolo xliv 435 dove continuano gli inauditi eventi dell’osteria capitolo xlv 439
dove è pienamente chiarito il dubbio sull’elmo di Mambrino e dell’alabarda, e si leggono altre avventure assolutamente vere
capitolo xlvi 455
della memorabile avventura dei quadriglieri e del fiero coraggio del nostro prode Cavaliere Don Chisciotte
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capitolo xlvii 457 del curioso modo in cui Don Chisciotte della Mancia fu incantato, nonché di altri celebri avvenimenti capitolo xlviii 461 dove il canonico continua l’argomento dei libri cavallereschi e tratta altre cose degne del suo ingegno capitolo xlix 465 dove si tratta del saggio discorso che Sancio Panza ebbe col suo signore Don Chisciotte capitolo l 469 delle sapienti dispute tra Don Chisciotte e il canonico, e di altri eventi capitoli li e lii 473 che trattano di ciò che raccontò il capraio a tutti coloro che conducevano Don Chisciotte, e della disputa che Don Chisciotte ebbe col capraio, nonché della singolare avventura dei disciplinati che egli portò felicemente a termine a prezzo del suo sudore
Seconda parte capitolo i 477 della conversazione che il barbiere e il curato ebbero con Don Chisciotte sulla sua malattia capitolo ii 479
che tratta della memorabile contesa tra Sancio Panza, la nipote e la governante di Don Chisciotte, nonché di altri piacevoli eventi
capitoli iii e iv 483
del divertente discorso tra Don Chisciotte, Sancio e il baccelliere Sansone Carrasco, e dove Sancio Panza risponde ai dubbi e alle domande del baccelliere Sansone Carrasco e si narrano altri fatti degni di essere conosciuti
capitolo v 485
dell’accorta e piacevole disputa tra Sancio Panza e sua moglie Teresa Panza, nonché di altri fatti degni di buon ricordo
capitolo vi 487 di ciò che accadde a Don Chisciotte con la nipote e la governante: uno dei più importanti capitoli di tutta la storia
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capitolo vii 497 di quel che avvenne tra Don Chisciotte e il suo scudiero, nonché di altri celebri avvenimenti capitolo viii 503 dove si narra quel che accadde a Don Chisciotte mentre andava a trovare la sua signora Dulcinea del Toboso capitolo ix 509
nel quale si racconta ciò che in esso si vedrà
capitolo x 513 nel quale si narra l’astuzia che Sancio usò per incantare la signora Dulcinea, nonché di altri avvenimenti ridicoli quanto veri capitolo xi 527
della strana avventura capitata al valoroso Don Chisciotte col carro o carretta della Corte della Morte
capitolo xii 531
della singolare avventura che capitò al prode Don Chisciotte col bravo Cavaliere degli Specchi
capitoli xiii e xiv 533
dove continua l’avventura del Cavaliere del Bosco con l’assennata, originale e pacifica conversazione che avvenne tra i due scudieri
capitolo xv 537
dove si narra e si comunica chi erano il Cavaliere degli Specchi ed il suo scudiero
capitoli xvi e xvii 541
di ciò che avvenne tra il nostro Don Chisciotte e un saggio cavaliere della Mancia, e dove si dimostra a quale altissimo segno e punto estremo giunse e poté giungere il coraggio inaudito di Don Chisciotte, nonché dell’avventura dei leoni felicemente compiuta
capitoli xviii, xix, xx, xxi, xxii e xxiii 551 che trattano di ciò che accadde a Don Chisciotte in casa del cavaliere dal verde gabbano, dell’avventura del pastore innamorato, delle nozze di Camaccio, e nei due ultimi dell’avventura della grotta di Montesinos, che è posta proprio nel cuore della Mancia e delle mirabili cose che l’esausto Don Chisciotte raccontò di aver visto
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capitolo xxiv 557
dove si narrano mille inezie tanto inutili quanto necessarie per intendere veramente questa grande storia
capitolo xxv 563
dove si espone l’avventura del raglio e quella burlesca del burattinaio, nonché i memorabili presagi della scimmia indovina
capitolo xxvi 569
dove continua la burlesca avventura del burattinaio con altre cose davvero bellissime
capitolo xxvii 581
dove si dice chi erano mastro Pietro e la sua scimmia, nonché l’infausto esito che Don Chisciotte ebbe nell’avventura del raglio. La quale non portò a termine come avrebbe voluto e come già si era creduto
capitolo xxix 585
la famosa avventura della barca incantata
capitolo xxx 589 di ciò che accadde a Don Chisciotte con una bella cacciatrice capitolo xxxi 591
che tratta di molte e grandi cose
capitolo xxxii 595 della risposta data da Don Chisciotte al suo ammonitore e di altre cose serie e facete capitolo xxxiii 605 della gustosa conversazione che la duchessa e le sue damigelle ebbero con Sancio Panza, degna di essere letta e notata capitolo xxxiv 609 che narra come fu conosciuto il mezzo da usare per disincantare l’ineguagliabile Dulcinea del Toboso, e che è una delle più celebri avventure di questo libro capitoli xl, xli, xlii e xliii 617
dell’arrivo di Clavilegno e di altre cose
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capitolo xliv 627 come Sancio Panza fu insediato al governo e della solitudine e povertà di Don Chisciotte capitolo xlvi 641
del terribile spavento che campanacci e gatti provocarono a Don Chisciotte quando lo corteggiava l’innamorata Altisidora
capitoli xlvii, xlix, li, liii e lv 653
della travagliata fine e conclusione del governo di Sancio Panza
capitolo lvi 667 di ciò che successe a Don Chisciotte con donna Rodríguez, la maggiordoma della Duchessa, nonché di altri casi meritevoli di essere trascritti e di eterno ricordo capitolo lvii 675 che tratta di come Don Chisciotte si congedò dal Duca e di ciò che gli successe con l’astuta e sfacciata Altisidora, damigella della Duchessa capitolo lviii 677
che tratta di come fioccarono su Don Chisciotte tante avventure da non dar respiro l’una all’altra
capitolo lix 703
dove si narra lo straordinario caso, che può ritenersi un’avventura cavalleresca, capitato a Don Chisciotte
capitolo lx 707 di quel che successe a Don Chisciotte andando a Barcellona capitoli lxi, lxii e lxiii 727
di quel che accadde a Don Chisciotte nel fare il suo ingresso a Barcellona, come pure di altre cose che sono più vere che sensate
capitolo lxiv 735
che tratta dell’avventura che più dispiacere procurò a Don Chisciotte di quante finora gli erano successe
capitolo lxvii 749
della decisione presa da Don Chisciotte di farsi pastore e di condurre vita campestre finché passasse l’anno di ritiro che aveva promesso come anche di altri casi davvero piacevoli e belli
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capitolo lxviii 779
della setolosa avventura capitata a Don Chisciotte
capitolo lxix 783 del più strano e più nuovo caso che in tutto il corso di questa storia sia accaduto a Don Chisciotte capitolo lxxi 789
di ciò che successe a Don Chisciotte col suo scudiero Sancio nell’andare al loro villaggio
capitoli lxxii e lxxiii 795 di come Don Chisciotte e Sancio giunsero al loro villaggio capitolo lxxiv 799 di come Don Chisciotte si ammalò, del testamento che fece e della sua morte
Apparati 837 Bibliografia delle opere di Miguel de Unamuno e della letteratura secondaria Indice dei nomi Indice generale
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