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Italian Pages 96 [100] Year 2018
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Helmuth Plessner Il sorriso
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C an o n e e u r op eo
Collana diretta da: Andrea Tagliapietra
Comitato scientifico: Giovanni Bonacina, Catherine Douzou, Nicola Gardini, Helmut Karl Kohlenberger, Leonel Ribeiro dos Santos.
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Canone europeo | 3
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Helmuth Plessner Il sorriso con testo tedesco a fronte Traduzione e cura di Vallori Rasini
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Pubblicazione del Centro di Ricerca Interdisciplinare in Storia delle Idee (CRISI) e del Centro Europeo di Ricerca di Storia e Teoria dell’Immagine (ICONE)
Titolo originale Das Lächeln, 1950
© 2018, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Canone europeo ISSN 2533-1329 n. 3 - ottobre 2018 ISBN – Edizione cartacea: 9788885716506 ISBN – E-book: 9788885716513 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Leonardo da Vinci, Gioconda
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Introduzione
L’espressione, il riso, il sorriso di Vallori Rasini
1. L’eccentricità posizionale Che l’uomo abbia la necessità di interpretarsi è cosa nota; l’intera storia della filosofia si può leggere attraverso questo semplice punto di vista: il bisogno umano di definire se stesso, di trovare il senso della propria esistenza e dell’esistenza in generale. Dalla propria prospettiva – quella del vivente che è, così dotato e così esistente – certo non può uscire, né può prescindere. Per questo motivo, una teoria antropologica sembra dover precedere ogni altra considerazione, etica, teoretica o storica. L’impianto filosofico di Helmuth Plessner prende avvio da questa consapevolezza, che egli indaga in ogni suo aspetto1. Convinto della necessità di rinnovare le fondamenta
1. Filosofo e sociologo di grande profilo, Plessner si è dedicato a lungo anche a studi di carattere scientifico ed è considerato, insieme a Max Scheler e Arnold Gehlen, uno dei principali esponenti dell’antropologia filosofica contemporanea. Le sue opere principali sono raccolte in H. Plessner, Gesammelte Schriften, voll. I-X, a cura di G. Dux, O. Marquard e E. Ströker (con la collaborazione di R. W. Schmidt, A. Wetterer e M. J. Zemlin), Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1980-1985 (poi stw, 2003). Per notizie biografiche dettagliate si veda la sua Selbstdarstellung (1975), in Id., Gesammelte Schriften X, cit., pp. 302-341.
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del sapere contemporaneo, Plessner si è fatto promotore di un processo di collaborazione tra differenti aree, sostenendo che la ricerca scientifica e la riflessione filosofica, altrettanto indispensabili per una ricognizione esaustiva della realtà antropologica, dovrebbero procedere verso un reciproco e proficuo completamento2, e a maggior ragione se lo scopo è la rifondazione della «scienza della natura umana»3. La natura dell’uomo, oggetto dell’indagine, è un’unità psicofisica, una totalità dalla struttura complessa, insieme biologica e razionale, che palesa una duplicità così manifesta da avere depistato per secoli ogni indagine e costituito l’ostacolo maggiore al chiarimento del suo statuto ontologico. La soluzione di questa difficoltà dipende per buona parte dall’impostazione metodologica del problema e ha come condizione una presa di posizione netta nei confronti del dualismo di origine cartesiana, dominante sia in ambito scientifico sia in ambito filosofico. Constatare che l’uomo appartiene contemporaneamente a una dimensione spirituale e a una dimensione organica non giustifica di per sé uno “smembramento” della sua natura, la riconduzione della sua essenza a due sostanze o principi; al contrario, è necessario individuare un punto di vista unitario, assumere un principio strutturale unico, in grado di condurre alla spiegazione dei diversi aspetti in cui si mostra la complessa e contraddittoria realtà antropologica.
2. Cfr. H. Plessner, Moderner Wissenschaftsbegriff und philosophische Tradition (1956), in Id., Gesammelte Schriften IX, cit., pp. 325-331. 3. Nel pensiero filosofico della Germania del primo dopoguerra il bisogno di tematizzare la questione della natura umana era particolarmente sentito; si pensi – solo per fare un esempio – alle parole di M. Scheler in Mensch und Geschichte (tr. it., Uomo e Storia, in Id., Lo spirito del capitalismo e altri saggi, a cura di R. Racinaro, Guida, Napoli 1988, pp. 257-258). Quanto a Plessner, pare fosse sua precisa intenzione proporre una fondazione ex novo dell’antropologia filosofica; un proposito che urtò contro il dissenso di Scheler (si veda, di Plessner, la Selbstdarstellung, cit., pp. 329-330).
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L’intenzione di estendere il piano di conoscenza della natura antropologica spiega non solo la varietà degli interessi della ricerca plessneriana – che attraversa i campi più differenti, dalla fisiologia animale e umana all’estesiologia, dalla gnoseologia alla sociologia e alla teoria politica – ma soprattutto la sua disponibilità ad adottare molteplici strumenti di indagine, metodi appartenenti a correnti e tradizioni differenti, talora affiancati in maniera singolare e rielaborati in funzione di una solida unità prospettica4. In particolare, per determinare le categorie della natura umana, Plessner predilige inizialmente un approccio di tipo fenomenologico-ermeneutico che poi cederà il passo a una deduzione aprioristica – in un’ottica dialettica – che si mantiene tuttavia ancorata empiristicamente. Lo studio dell’uomo come portatore di cultura – capace di organizzarsi in società e di esprimersi creativamente nel linguaggio, nell’arte, nella scienza – e la ricerca delle condizioni di possibilità di
4. La vasta opera di Plessner, oltre a contributi sul significato e la funzione della filosofia (Gesammelte Schriften I, II, IX), comprende studi di ontologia dell’organico e antropologia filosofica (ivi, IV, VIII), di ermeneutica dei sensi e teoria dell’espressione (ivi, III, VII), di teoria della società e filosofia della politica (ivi, V, VI, X). La letteratura critica è oramai assai ampia e varia, soprattutto in Germania; si veda l’apposita sezione nel sito della Helmuth Plessner Gesellschaft: http://helmuth-plessner.de/literatur/ literatur-zu-plessner. Quanto alla letteratura in lingua italiana, ci limitiamo qui a menzionare alcuni dei primi volumi che hanno contribuito a introdurre il suo pensiero nel nostro Paese: B. Accarino (a cura di), Ratio Imaginis. Uomo e mondo nell’antropologia filosofica, Ponte alle Grazie, Firenze 1991; S. Giammusso, Potere e comprendere. La questione dell’esperienza storica e l’opera di Helmuth Plessner, Guerini scientifica, Milano 1995; M. Russo, La provincia dell’uomo. Studio su Helmuth Plessner e sul problema di un’antropologia filosofica, La Città del Sole, Napoli 2000; O. Tolone, Homo absconditus. L’antropologia filosofica di Helmuth Plessner, ESI, Napoli 2000; V. Rasini, Teorie della realtà organica. Helmuth Plessner e Viktor von Weizsäcker, SIGEM, Modena 2002; A. Borsari - M. Russo (a cura di), Helmuth Plessner. Corporeità, natura e storia nell’antropologia filosofica, Soveria Mannelli, Napoli 2005.
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simili manifestazioni, devono essere affiancati da un’indagine “verticale” concernente la sua realtà biologica e il confronto con gli altri organismi naturali5. Nell’opera Die Stufen des Organischen und der Mensch, del 1928, Plessner determina le fondamenta sulle quali poggia il suo progetto antropologico: «senza una filosofia dell’uomo, nessuna teoria dell’esperienza umana della vita nelle scienze dello spirito. Senza una filosofia della natura, nessuna filosofia dell’uomo»6. È quindi necessario partire dalle categorie elementari del vivente, mediante una minuziosa e complessa deduzione dei caratteri essenziali dell’organico, e procedere poi nella ricostruzione dei diversi “gradi” della natura, fino a giungere la dimensione umana. L’intenzione di Plessner non è di approdare a una metafisica dell’organico, ma di tracciare il quadro logico-ontologico delle coordinate strutturali del vivente, funzionali all’elaborazione di una teoria polivalente capace di porsi alla base della spiegazione della realtà comportamentale e storica dell’essere umano. La «teoria dei modali organici» rimane un’operazione unica nel suo genere e fondativa per l’intera produzione filosofica di Plessner7.
5. Cfr. H. Plessner, Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie (1928); tr. it., I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, a cura di V. Rasini, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 60. 6. Ivi, p. 50. 7. L’opera I gradi dell’organico e l’uomo è stata ripubblicata, del tutto invariata, nel 1965, e ha continuato a rappresentare il trattato generale di filosofia della natura al quale rimandano tutti gli studi di Plessner, di carattere antropologico, sociologico, storico-politico. In particolare, in quest’opera metodo a priori fenomenologico-dialettico e metodo empirico a posteriori mantengono la loro efficacia in un singolare intreccio teoretico: se il carattere della deduzione è rigorosamente aprioristico e la sua validità necessaria e universale, la sua giustificazione (vale a dire la sua verifica) si affida, in ultima istanza, al dato esperienziale.
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Il concetto di posizionalità (Positionalität) consente a Plessner di trasformare la «duplicità d’aspetto» in cui si manifesta percettivamente la realtà organica (e in particolare quella umana) in un fondamento categoriale che offre uno statuto unitario al vivente. L’organismo si distingue dal corpo inanimato per una relazione dialettica con se stesso e con il proprio ambiente; una relazione attiva di “posizionamento” che lo rende autonomo e soggettivo. L’ente posizionale costituisce una totalità (Ganzheit) dalla struttura plastica e dinamica, essenzialmente “in sé” e “oltre sé”, insieme fissa e duttile, stabile e instabile, regolare e irregolare. Diversamente dal corpo inorganico, che semplicemente “è”, il vivente “prende posizione” (anche in senso spaziale e temporale), in quanto sistema organizzato sottoposto a un processo di sviluppo continuo. Soltanto l’organismo “ha” propriamente un ambiente e un corpo ed è il soggetto di questo “avere”. Persino alla pianta appartengono queste determinazioni strutturali: anche un vegetale, in quanto sistema autonomamente organizzato e indipendente dall’esterno, è infatti un soggetto “avente” il proprio corpo; ma, diversamente dall’organismo animale, la sua forma strutturale è aperta verso l’ambiente e strettamente vincolata al proprio ciclo vitale; la sua individualità è più formale che reale. Nel grado animale, invece, soprattutto quando compaia un centro di organizzazione dell’intero in grado di elevarsi al di sopra della totalità corporea, si determina un rapporto di concreta mediazione con l’esterno. Posto nel proprio centro, l’animale agisce e reagisce di fronte all’ambiente, entrando in una relazione riflessa con il proprio corpo; in questo modo può divenire un soggetto cosciente, nella sensazione e nell’azione. Ma soltanto l’essere umano è anche consapevole di tutto ciò, del rapporto di alterità col mondo, della oggettività delle cose, delle singolarità della propria forma di esistenza; soltanto l’uomo è un io, un soggetto totalmente riflesso su se stesso, una
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individualità autocosciente, un ente eccentrico (Exzentrisch)8. Egli sperimenta continuamente gli effetti e i limiti di questa sua condizione e, benché radicato nel proprio centro esistenziale, lo scavalca, gli si proietta oltre. Per questo, alla natura umana appartiene una profonda frattura, uno iato che tuttavia rende possibile una speciale compattezza: l’uomo – dice Plessner – «vive al di là e al di qua della frattura, come anima e come corpo e come l’unità psicofisicamente neutrale di queste sfere»9. Relativamente debole di istinti e non adattato a un ambiente specifico (come invece l’animale), l’uomo è in grado di trasformare questo svantaggio in un privilegio: il suo campo d’azione è il mondo intero, un vastissimo orizzonte di possibilità rispetto al quale compiere scelte e fare progetti10. L’uomo è aperto al mondo, dunque; ciò nonostante rimane vincolato alla natura e alla concretezza della corporeità. Per questo è vittima dell’antagonismo tra libertà e costrizione, tra l’impulso a una conduzione spontanea della vita e la necessità di una guida consapevole e calcolata, nell’affrontare situazioni sempre nuo-
8. Cfr. ivi, p. 312 ss. 9. Ivi, p. 316. 10. È la nota tesi di J.G. Herder dell’uomo “invalido” e tuttavia forte della propria invalidità, alla quale si richiama espressamente anche A. Gehlen nel suo Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (tr. it., L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, a cura di V. Rasini, Mimesis, Milano 2010, p. 71 e pp. 112 ss). In Plessner questa tematica viene sviluppata in particolare nei saggi: Id., Die Frage nach der Conditio humana (1961); tr. it. Il problema della conditio humana, a cura di M. Attardo Magrini, in I Propilei, vol. I, Mondadori, Milano 1967, pp. 23-97; Id., Der Mensch als Lebewesen (1967); tr. it., L’uomo come essere vivente, in «B@belonline. Rivista di filosofia», n. 5, 2008, a cura di M.T. Pansera, pp. 21-29; Id., Macht und menschliche Natur. Ein Versuch zur Anthropologie der geschichtlichen Weltansicht (1931); tr. it. Potere e natura umana. Per un’antropologia della visione storica del mondo, a cura di B. Accarino, manifestolibri, Roma 2006.
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ve e diverse11. La sua vita, gestita passo a passo tra progetti e mediazioni, crea bisogni sempre nuovi, sempre più elaborati e complessi, che lo allontanano da una dimensione “originariamente naturale”: è per natura non naturale, poiché il suo modo di essere un ente naturale passa attraverso l’artificio. Natura e cultura, sensibilità e spiritualità determinano l’intreccio esistenziale in cui si muove, conformemente alle varie modalità di relazione e compromesso che lo espongono al rischio della perdita di certezze. L’uomo ha la possibilità di oggettivare se stesso, oltre che il mondo; di mettere e di mettersi in dubbio; di viversi come qualcosa di “altro da sé”, scoprendo altresì i falsi sentimenti, il pensiero molteplice, la propria abissale debolezza. Posto “dietro” se stesso, l’io perde il radicamento nel presente e trova la via dell’infinito, avvertendosi contemporaneamente spaesato, senza luogo e senza tempo; finisce così per considerare la propria esistenza come posta nel nulla e la sua condizione come votata all’inquietudine12. Alla radice eccentrica dell’essenza umana appartiene però anche la chance di trasformare l’isolamento dell’io nella partecipazione a una dimensione intersoggettiva e sociale13. La persona condivide un ambito comune, la sfera delle relazioni intraumane e della spiritualità (la Mitwelt). In questa concezione, lo spirito non è né anima né coscienza. L’uomo è anima ed è coscienza, e li esperisce come realtà allo stesso modo in
11. Plessner prende distanza dalla posizione sostenuta da M. Scheler e A. Gehlen, secondo la quale l’uomo sarebbe totalmente aperto al mondo e svincolato da legami ambientali; si vedano in particolare, di Plessner, Über das Welt-Umweltverhältnis des Menschen (1950), in Id., Gesammelte Schriften VIII, pp. 77-87, p. 78; e Id., Il problema della conditio humana, cit., p. 88. 12. Cfr. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., pp. 343 ss. 13. Sul tema, si veda, di Plessner, Grenzen der Gemeinschaft. Eine Kritik des sozialen Radikalismus (1924); tr. it., I limiti della comunità. Per una critica del radicalismo sociale, a cura di B. Accarino, Laterza, Roma-Bari 2001.
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cui esperisce come reale il suo essere corpo; lo spirito non istituisce invece alcuna realtà; rappresenta una sfera partecipativa soggettivo-oggettivamente neutrale, la cui possibilità dipende dalla struttura posizionale stessa. Partecipe di questa sfera, l’uomo si proietta al di là della contrapposizione tra soggetto e oggetto; e proprio in questo consiste il suo paradosso: soggetto di fronte al mondo e oggetto per se stesso, egli – al contempo e proprio per questo – si sottrae a quella contrapposizione14. Nella concretezza del vivere, egli interviene nel proprio campo d’azione imparando a gestire un intreccio di dati materiali e spirituali attraverso gli strumenti della comprensione, della comunicazione, dell’espressione mimico-gestuale, conservando una distanza – oggettivante, astraente, estraniante – dal complesso dei vincoli soggettivi e intersoggettivi in cui è immerso.
2. Espressione e creatività La speciale forma di esistenza dell’essere umano porta con sé il vincolo alla creatività e all’espressione15. In quanto realizzazione espressiva, qualunque prodotto della cultura si aggancia all’elemento naturale, ai materiali offerti dal mondo grezzo, ma ottiene il carattere dell’artificialità. Né la forma né il contenuto di queste manifestazioni sono dati a priori; lo è invece il modo in cui si determina il nesso di forma e contenuto, vale a dire la legge generale della modalità di espressione dell’uomo;
14. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 329. Sulle leggi della natura umana nella concezione di Plessner, V. Rasini, L’eccentrico. Filosofia della natura e antropologia in Helmuth Plessner, Mimesis, Milano 2013, pp. 109 ss. 15. Cfr. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 344.
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ciò che pertanto è definito non sono le singole manifestazioni concrete, ma il rapporto sussistente tra la configurazione posizionale dell’essere umano e l’espressività come suo modus vitale. A differenza di ogni altro vivente per l’essere umano l’esternazione rappresentativa costituisce una condizione obbligata e un bisogno ineliminabile; la sua vocazione alla socialità e il suo essere “animale politico” dipendono da una caratteristica necessità di comunicazione e di configurazione discendente – appunto – dalla sua natura eccentrica. Essa comporta una composizione dello stato di immanenza coscienziale e del contatto col mondo apparentemente paradossale, definibile in termini di «immediatezza mediata». Secondo questa legge antropologica il soggetto umano si trova con il mondo in un rapporto «indirettamente diretto»: l’eccentricità della posizione – spiega Plessner – si può determinare come una condizione in cui il soggetto vivente sta in relazione indirettamente diretta con il tutto. Una relazione diretta si ha laddove i componenti della relazione sono connessi l’uno con l’altro senza elementi intermedi. Una relazione indiretta si ha laddove i componenti della relazione sono connessi attraverso elementi intermedi. Si dice relazione indirettamente diretta quella forma di connessione nella quale l’elemento intermedio è necessario per produrre e garantire l’immediatezza della connessione. L’indirettamente diretto o l’immediatezza mediata non rappresenta allora un’assurdità, una contraddizione in sé fallimentare, bensì una contraddizione che si risolve in sé senza annullarsi, che rimane sensata anche se non può osservare la logica analitica.16
L’uomo è consapevole di trovarsi in questa condizione: si esperisce come corpo e al contempo come qualcosa che è “contenuto” nel corpo; un corpo che gli risponde e che in ogni caso si distingue da qualunque altro corpo dell’ambiente
16. Ivi, p. 347; si veda anche ivi, p. 348.
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circostante. Questo corpo, che pertanto egli “ha” ed “è”, rappresenta un limite, un ostacolo e una resistenza ma insieme il mezzo, il “modo” della comunicazione con il mondo. Alla duplicità in cui l’uomo si esperisce sta dinanzi l’unità concreta che di fatto egli costituisce; una unità che sul piano esistenziale va continuamente posta in atto, articolata, ricalibrata. Non si tratta della semplice strumentalizzazione del corpo da parte di un soggetto; si tratta invece di una inevitabile mediazione del vivente con se stesso nel commercio con il fuori (e con sé). La complessità di questo rapporto non appartiene alla natura animale; l’animale può fare un uso consapevole del proprio corpo ma non è consapevole di questa strumentalizzazione, poiché non si vede “da fuori”. Sollevandosi “sopra” se stesso e la propria esistenza, vale a dire divenendo un io autocosciente, l’uomo sperimenta invece la propria situazione nel mondo come «immediatamente mediata». Chiarisce Plessner: solo attraverso la mediazione del mio corpo, che io stesso vivendo sono (sebbene io lo abbia), l’io è presso le cose, guardando e agendo. L’esistenza comprovabile di componenti intermedie, come i processi chimici, i contenuti di coscienza, le immagini e i processi psichici, interrompe – come ogni analisi – nella nostra comprensione il senso della mediazione, così come l’esibizione isolata di singoli suoni interrompe il senso della musica. Nel quadro della mediazione invece esse ottengono il loro senso: sopprimere se stesse per produrre l’immediatezza della relazione tra le componenti.17
Nel quadro della teoria di Plessner, la legge dell’immediatezza mediata rappresenta un fondamento; quel fondamento che rende obsoleto qualunque tentativo di matrice dualistica nella
17. H. Plessner, Lachen und Weinen. Eine Untersuchung der Grenzen menschlichen Verhaltens; tr. it., Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano, a cura di V. Rasini, Bompiani, Milano 2000; poi Giunti, Firenze 2017, pp. 76-77.
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spiegazione della realtà umana. A questa struttura può corrispondere tutto ciò a cui ci riferiamo parlando di Homo faber, le sue attitudini comportamentali e ogni tendenza all’espressione, incluse le varie modalità di manifestazione linguistica, mimica, gestuale18.
3. Riso e sorriso Tra le manifestazioni espressive alcune rivestono un ruolo speciale. Il riso, ad esempio, è senza dubbio una delle modalità che da sempre suscita particolare interesse; lo dimostra peraltro una vasta letteratura, di carattere umanistico, psicologico e scientifico19. A Plessner però interessa un punto di vista differente, quello squisitamente “antropologico”; gli importa cioè di determinare quale significato “propriamente umano” assumano le manifestazioni espressive e in quale misura esse rivelino le facoltà di una natura eccentrica. Il riso si può ritenere – non meno del linguaggio verbale – un monopolio specifico della natura umana20; e il sorriso richiama senz’altro questa più decisa e fragorosa espressione, come a indicarne una forma diminutiva o una fase iniziale. Persino la formulazione linguistica, in molti casi, sembra attenersi a questa impressione: come per l’italiano “sorridere”, anche subridere, sourire, sonrisa, oppure lächeln, osmijeh, buzequeshje ecc.
18. Sul tema, si veda B. Accarino (a cura di), Espressività e stile. La filosofia dei sensi e dell’espressione in Helmuth Plessner, Mimesis, Milano 2009. 19. Lo stesso Plessner prende in esame alcune teorie sul riso, oggetto di vivace discussione nel corso del Novecento; in particolare si sofferma su quelle di Bergson, Darwin, Piderit, Klages. 20. Cfr. V. Rasini, L’espressione non verbale: il riso e il pianto in Plessner, in «Rivista Italiana di filosofia del Linguaggio», VII, n. 2, 2013, pp. 123-135.
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propongono un chiaro rimando al riso21. Naturalmente, questo fatto non è privo di fondamento: accade spesso che il riso si scateni a partire dal sorriso o che si concluda con un sorriso; oppure si dà che invece di ridere apertamente ci si trattiene forzatamente in un sorriso, sostituendo dunque quest’ultimo al riso. Ma in queste circostanze ad avere la meglio è soprattutto il fattore mimico; di per sé – sostiene Plessner – il sorriso è un’espressione autonoma, con una propria caratterizzazione e proprie occorrenze. Soprattutto se – come dicevamo – il punto di vista da cui ci si pone è quello del significato antropologico dell’espressione. Nella prefazione alla seconda edizione del volume dedicato al riso e al pianto Plessner scrive: il sorriso è una modalità espressiva sui generis: 1. è una forma germinale, frenata e di passaggio al riso e al pianto, e perciò è una espressione mimica nell’ambito delle espressioni non mimiche; 2. è espressione mimica “di” e gesto “per” una sterminata quantità di sentimenti, sensazioni, azioni, relazioni e stati, come la cortesia e l’impaccio, la superiorità e l’imbarazzo, la compassione, la comprensione, l’indulgenza, la sciocchezza e la ragionevolezza, la dolcezza e l’ironia, l’irrilevanza e la lealtà, la difesa e la seduzione, lo stupore e il riconoscimento; 3. è gesto di costume (keep smiling dall’Asia orientale all’America), che dice tutto e nulla, e atteggiamento semplicemente rappresentativo, essendo specchio della eccentricità come distanza dell’uomo da se stesso.22
Per questo, una trattazione congiunta del riso e del sorriso gli pare del tutto inappropriata; il riso va trattato invece insieme al pianto, perché come il pianto riveste il significato di manifestazione estrema, di “limite comportamentale” e al contempo
21. Persino la lingua scritta cinese compone la parola “sorridere” utilizzando il carattere per “ridere”, preceduto da uno che indica “poco”, “piccolo”, “minima parte”. 22. H. Plessner, Il riso e il pianto, cit., p. 43.
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di superamento di detto limite. Dal punto di vista fenomenico, il riso è una manifestazione violenta e improvvisa; potente nella sua irruenza, rumorosa e singolarmente coinvolgente; ma è anche difficilmente controllabile: come se l’intera persona venisse improvvisamente trascinata in un processo puramente fisiologico, “profondo” e in qualche modo autonomo. Tutto ciò è sintomo del fatto che il riso costituisce un fenomeno di rottura e di disorganizzazione, una manifestazione dal significato univoco e inequivocabile. Esattamente come il pianto, il riso testimonia l’irrompere di una crisi, un deragliamento dell’uomo dinanzi a una situazione che lo spiazza; denuncia una insanabile (anche se momentanea) debolezza, lasciando trasparire l’esistenza di uno iato nella natura eccentrica dell’uomo23. Per questo, il riso rappresenta una “forma limite” del comportamento; una manifestazione che si determina cioè “al limite” della normale condotta. Si presenta quando le possibili risposte, consuete e controllate, dinanzi a una certa situazione appaiono praticamente esaurite. Normalmente – spiega Plessner – l’uomo ha una esistenza in cui si orienta, nel senso proprio e in quello figurato del termine. Essa deve essergli familiare o deve poterlo divenire, e deve dargli spazio così che di essa e in essa si possa fare qualcosa. […] L’uomo ha bisogno di essere sicuro che c’è un certo stato di cose, anche se non sa (e forse non saprà mai) quale. […] Essere di fronte a un certo stato di cose significa per l’uomo potersi attenersi a qualcosa perché si tratta di questo e non di quello e poterci avere a che fare: potersi rivolgere a qualcosa in quanto qualcosa, anche al rischio di un contrasto; poter fare qualcosa di qualcosa, anche al rischio che si sottragga all’intervento; far valere qualcosa come qualcosa, anche al rischio che si riveli come qualcosa di diverso.24
23. Ivi, pp. 213 ss. 24. Ivi, pp. 214-215.
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Per conservarsi stabile, il comportamento ha bisogno di familiarità (reale o possibile) con gli elementi delle situazioni che incontra, e la linearità delle correlazioni ha a che far con la “serietà” delle circostanze. Una situazione è seria – in senso lato – nella misura in cui appare coerente, attendibile e rispondibile. Ogni volta che una situazione si fa “non seria” – per una ragione qualunque – può venire meno la capacità di una risposta equilibrata. Non ha alcun senso ricondurre il riso alla gioia e il pianto al dolore; le due reazioni dipendo non direttamente dai motivi, ma dalle situazioni che si determinano in relazione alla eccentricità umana. Con il suo ritmo, secco e continuativo, il riso ci conduce nella sfera della meccanica corporea, rompe repentinamente con il comportamento ragionevole e dominato. Nel riso manca inoltre un passaggio graduale dalla disposizione d’animo al moto espressivo, un diffondersi progressivo, una irradiazione che denoti un trasferimento dell’emozione dall’interno all’esterno. L’uomo può ridere (come pure piangere) solo consegnandosi alla manifestazione stessa; si abbandona, al riso, interamente. Lo dimostra anzitutto lo schiatto, l’esplosione che gli dà inizio: «il motivo del riso – dice Plessner – ci assale ed esercita una costrizione»25; e per cercare di reprimerlo dobbiamo mettere in atto una certa violenza. Dal riso si viene dunque sopraffatti, e si perde la padronanza della condotta; pare che si spezzi l’equilibrio tra la persona che noi siamo e la nostra esistenza fisica a tutto vantaggio di processi corporei che scuotono e spossano. Ciò nondimeno, il riso costituisce un’autentica risposta, rappresenta una reazione sensata che riesce, in qualche modo, a far fronte alla situazione. Il riso interviene a risolvere davvero una impasse, a porre concretamente rimedio a un fallimento. 25. Ivi, p. 109.
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Si tratta – è vero – di una perdita di controllo, di una consegna alla meccanicità di un processo fisiologico, ma in essa si conserva l’unità della persona. Il corpo – diciamo così – si incarica di rispondere al posto della persona26, la quale non scompare, non si annulla, non viene realmente meno: rimane dietro le quinte e sovrintende alla performance. Se ne evince una vera e propria collaborazione tra la persona e il suo corpo, indice – indirettamente – della profonda frattura in cui vive l’essere umano. Questa frattura non contraddice, ma al contrario ratifica, la tesi della unitarietà dell’essere umano. La natura dell’uomo non ha a che vedere con una “composizione”, ma con una intricata rete di mediazioni, possibile esclusivamente sulla base della capacità di “prendere distanza” specifica di un essere eccentrico. I motivi che conducono alla crisi del riso possono essere, di fatto, i più diversi (lo scherzo, la comicità, l’imbarazzo, il solletico in qualche parte del corpo ecc.), ma tutti hanno in comune la possibilità di rendere ingestibile la condizione del momento, riescono cioè – in relazione alla specifica sensibilità e alla condizione dell’individuo – a determinare una situazione destabilizzante, che genera un “corto circuito” comportamentale. Il doppio senso, un significato sfuggente, la confusione tra possibili traiettorie, determinano di per sé effetti differenti ma altrettanto favorevoli all’esplosione del riso. La tensione che si accumula nell’intrecciarsi delle possibilità di interpretazione e di reazione avanza la pretesa di sfogarsi e l’esplosione del riso le concede soddisfazione. Il sorriso è un fenomeno assai diverso; e se si prescinde dal fatto che talora i processi di civilizzazione li hanno accomunati nella funzione di gesto simbolico o di maschera, il riso e il sorriso hanno ben poco a che vedere l’uno con l’altro; a partire 26. Ivi, p. 65.
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dal fatto che la rozzezza del riso sembra male adattarsi all’immagine di un essere che si vuole «padrone di sé e del proprio linguaggio» e che «cerca di affinare la propria esistenza corporea», giacché – come si legge nella Bibbia – «si vergogna della sua nudità»27. Al contrario del riso, il sorriso costituisce uno strumento espressivo estremamente raffinato, duttile, polivalente, capace di mostrare – attraverso una configurazione solo apparentemente sempre identica – di quali livelli di autocontrollo e padronanza di sé sia in grado di disporre la natura umana.
4. L’essenza del sorriso Il sorriso ha lo statuto ermeneutico di una forma espressiva centrale. Deve questa centralità proprio alla sua polivalenza, a quella straordinaria plasticità che ne fa un comportamento mimico capace di trasmettere gli stati d’animo più diversi. «Fra le forme espressive – dichiara Plessner – esso ha il privilegio di essere meno di tutte legato a una particolare emozione»28; un privilegio che, ponendolo al servizio di differenti e anche opposte comunicazioni, lo rende al contempo particolarmente faticoso da inquadrare. Il sorriso è così adattabile e sfumato da potersi esibire in situazioni che spaziano dall’assenza di consapevolezza (si pensi al sorriso del lattante o a quello che segue l’agonia) alla più piena e circospetta cognizione; dalla rabbia alla complicità; dall’imbarazzo al riconoscimento: uno spettro incredibilmente ampio di applicazioni, dove l’uomo non è “in preda all’espressione”, ma piuttosto la esibisce (in genere dominandola).
27. H. Plessner, Il problema della conditio humana, cit., p. 83. 28. Ivi, p. 86.
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Condotti principalmente con gli strumenti della fisiologia neurologica, gli studi sul sorriso disponibili tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento tendevano a metterne in relazione la configurazione mimica – le labbra lievemente stirate, la comparsa di piccole fossette ai lati della bocca, l’incavo intorno agli occhi – con un’espressione di piacere e a considerarlo in genere una manifestazione di introduzione al riso, seguendo un metodo e un filo conduttore non in linea con l’impianto della ricerca plessneriana29. Persino Frederik J.J. Buytendijk, neurofisiologo e psicologo animale amico e collaboratore di Plessner, accoglieva sostanzialmente posizioni simili30; la sua concezione aveva tuttavia il pregio di sottolineare – ponendosi dal punto di vista fisiologico – un elemento di paradossalità nel sorriso che in sostanza si avvicinava all’idea che questa manifestazione, nell’atto di esprimere, prende distanza dall’espressione stessa. Si tratta di un motivo centrale per cogliere le peculiarità del sorriso: quella «garbata distanza» doppiamente mediatrice – verso se stessi e verso ciò a cui il sorriso si rivolge – rappresenta al meglio l’eccentricità umana nel suo complesso. Proprio per questa distanza, l’uomo è in grado di dare forma alle proprie performance mimiche e, facendo del volto il campo di gioco principale delle relazioni 29. Di grande importanza era ancora il trattato sulla espressione delle passioni di G.-B. Duchenne, Mécanisme de la physionomie humaine, ou Analyse électro-physiologique de l’expression des passions, Jules Renouard, Paris 1862, che d’altronde aveva costituito una fonte importante anche per il trattato di Ch. Darwin, The Expression of the Emotions in Man and Animals (1872); tr. it., L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, a cura di P. Ekman, Bollati Boringhieri, Torino 1999. Si veda però soprattutto l’interessante lavoro scientifico pluridisciplinare di G. Dumas, Le sourire. Psychologie et physiologie, PUF, Paris 1948, in particolare pp. 99-100, che si confronta con le principali posizioni del tempo. 30. Si veda infra, p. 65. Il saggio al quale si riferisce Plessner è F.J.J. Buytendijk, Algemene Theorie der menselijke houding en beweging, Utrecht- Antwerpen 1948.
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comunicative, vi scolpisce i propri sentimenti31. Questo spiega facilmente anche quel carattere simbolico del sorriso, quella ineguagliabile potenzialità allusiva – delicata, eppure estremamente pregnante (talora persino violenta) – che, forte del distacco prospettico, sanziona il pieno dominio dell’uomo su di sé e sul mondo. Il sorriso rappresenta insomma un plastico trastullo della mimica che consente partite di altissimo livello, potendo altresì permettere balzi umorali funambolici all’interno del complicato intreccio umano di mediazioni e riflessioni, di affetti e comunicazioni. L’opinione più “poetica” e corrente ha chiamato il sorriso la «mimica dello spirito», non con l’intenzione di indicare l’espressione diretta di sentimenti che si diffondono a partire dalle profondità interiori dell’animo, bensì con quella di vedervi la superiorità di un canale comunicativo che attinge a una “eccellenza originaria” della natura umana. La posizione di Plessner, a questo riguardo, è dubitativa e circospetta: una simile definizione deve essere quanto meno precisata in duplice direzione: per un verso, infatti, essa sembra non tener conto di legittime forme semplici e spontanee del sorriso; per l’altro tende a vincolarlo alla presenza di determinati contenuti. Da una parte, dunque, rimane circoscritta al semplice carattere di gesto, dall’altra diviene vittima della peculiare enigmaticità dell’essere umano: due limiti superabili mediante la considerazione del sorriso dalla prospettiva filosofico-antropologica, che ne rivela – appunto – il carattere mediatico, ambiguo, paradossale. Questa paradossalità – vissuta come «attiva quiete» – ha a che vedere con la dinamica tipica del rilassamento. Già la semplice mimica facciale trasmette un’impressione di allentamento delle tensioni e di rasserenamento; non si tratta però di una 31. Si veda infra, p. 53.
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manifestazione di abbandono; al contrario, il rilassamento è frutto di una gestione dell’emozione (e della muscolatura), resa possibile – come si diceva – dalla distanziabilità eccentrica dell’uomo da se stesso. Questo allentamento porta con sé una certa luminosità e una “attenuazione” degli impulsi, rendendo eloquenti messaggi silenziosi e (almeno apparentemente) pacati. Secondo il parere di certuni, questo sarebbe dovuto a un “difetto”, quello di non poter esprimere forti cariche emotive. Il sorriso sarebbe pertanto una manifestazione adatta solamente a trasmettere sentimenti deboli, scarsamente sostenuti dagli impulsi emozionali. Una simile ipotesi non è accreditata da Plessner, che agganciandosi alla teoria dell’espressione di Ludwig Klages (della quale accoglie tuttavia solo alcuni e marginali motivi) sostiene che l’intensità di un sentimento può variare indipendentemente dalla sua forma impulsiva. In particolare, l’intervento della volontà e della consapevolezza circa la forza del sentimento provato può mediare l’azione di scatenamento della reazione32. Il sorriso è senz’altro un’espressione “al diminutivo” e certamente non si presenta come derivato da una forte carica emotiva; ma questo non significa che l’intensità dei sentimenti di cui è tramite non possa essere massima. Precisa Plessner: Il sentimento di beatitudine o il rapimento estatico, ad esempio, possono pervadere totalmente, eppure la loro forma impulsiva resta debole, essi cioè non possiedono uno spiccato impulso motorio, o ne possiedono in scarsa misura. Viceversa, una gioia repentina, che possiede un forte impulso motorio, ci fa “esplodere”, saltare, danzare, esultare. L’intensità di un
32. Di Ludwig Klages si veda Ausdrucksbewegung und Gestaltungskraft. Grundlegung der Wissenschaft von Ausdruck, in Id., Sämtliche Werke, vol. VI, Bouvier, Bonn 1964; tr. it., Espressione e creatività, a cura di D. Di Maio, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2015.
28 sentimento varia indipendentemente dalla sua forma impulsiva; un sentimento debole può avere una forma impulsiva forte, pronunciata, mentre un sentimento forte può averla debole e attenuata.33
Nonostante sia in grado di manifestare anche stati d’animo estremi, il sorriso non si mostra mai “all’estremo”: la sua forma mitiga e allenta; non rappresenta un semplice “effetto” (come ad esempio il riso) e non può confondersi con un difetto. Se il riso si mostra al limite del comportamento e concretizza (nella sottrazione) la duplicità di una natura instabile, il sorriso ne rivela al contrario la complicatezza, ne percorre la pericolosa ambiguità, tutelandola. Confinato nella dimensione della giocosità, il sorriso può concedersi ampi interventi sulle modalità e sulla direzione delle prestazioni e persino sulle regole interne al gioco stesso che conduce; ma non può uscire da se stesso, non può abdicare dal ruolo di specchio dell’eccentricità, e tanto meno dissolversi in un meccanismo corporale. Il medesimo “libero vincolo” che riguarda l’espressione mimica del sorriso si ritrova nella figura artistica dell’attore. Soltanto un essere eccentrico può dedicarsi interamente alla rappresentazione di un altro – di un altro vivente, di un altro carattere, di un’altra persona – senza tuttavia trasformarsi in esso; può «impersonare» chiunque altro senza rinunciare a se stesso34. Libero, dunque, ma altresì 33. Infra, pp. 41, 43. 34. H. Plessner, Zur Anthropologie des Schauspielers (1948); tr. it., L’antropologia dell’attore, in Id., Studi di estesiologia. L’uomo, i sensi, il suono, a cura di A. Ruco, CLUEB, Bologna 2007, pp. 77-90. Si veda anche H. Lerch, «Nur Menschen äffen nach». Helmuth Plessners Anthropologie der Geste, in U. Richtmeyer - F. Goppelsröder - T. Hildebrandt (a cura di), Bild und Geste Figurationen des Denkens in Philosophie und Kunst, transcript Verlag, Bielefeld 2014, pp. 127-148. Il termine tradotto con “impersonare” è “verkörpern”, usato da Plessner per indicare in generale una attività di “insomazione” dei sensi e più in generale l’attività corporea di assunzione
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sempre imprigionato, equivoco, ambiguo, esposto, il sorriso rappresenta dal punto di vista espressivo l’emblema più azzeccato della condizione antropologica; è la più autentica espressione dell’umanità dell’uomo.
(generazione) e trasmissione di tutto ciò che si ritiene psicologico, razionale, spirituale. Cfr. H. Plessner, Anthropologie der Sinne (1970); tr. it. di M. Russo, Antropologia dei sensi, Cortina, Milano 2008; inoltre, V. Rasini, Estesiologia e natura umana. Il valore dei sensi dell’antropologia filosofica di Helmuth Plessner, in «I Castelli di Yale online», IV, n. 1, 2016, pp. 1-13.
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Nota editoriale
Il saggio Das Lächeln è apparso per la prima volta nel volume collettivo dal titolo Pro regno, pro sanctuario. Festschrift für G. van der Leeuw, a cura di W.J. Kooiman e J.M. van Veen, G.F. Callenbach, Nijkerk 1950, pp. 365-376; è stato ripubblicato più volte, all’interno di raccolte di saggi filosofici: H. Plessner, Zwischen Philosophie und Gesellschaft. Ausgewählte Abhandlungen und Vorträge, Francke, Bern 1953, pp. 193-203 (nuova edizione Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1979, pp. 220-232); Id., Philosophische Anthropologie, a cura di G. Dux, S. Fischer, Frankfurt a.M. 1970, pp. 173-186. Ora si trova in Id., Gesammelte Schriften, a cura di G. Dux, O. Marquard, E. Ströker, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1980-1985, vol. VII: Ausdruck und menschliche Natur; poi in stw 1630 (2003), pp. 419-434. La presente traduzione, lievemente riveduta, era apparsa sulla rivista «aut aut», 282 (1997), pp. 153-163. Le note al testo sono della traduttrice.
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Helmuth Plessner Das Lächeln
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Helmuth Plessner Il sorriso
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An Vieldeutigkeit alle anderen mimischen Bewegungen des Menschen übertreffend scheint das Lächeln seine Ausnahmestellung darin zu haben, daß eine Verbindung zwischen Ausdrucksform und Anlaß, die für die Gebärden starker Affekte und für Lachen und Weinen gilt, bei ihm nicht nachweisbar ist. Angenommen, diese Feststellung bewahrheitete sich, ließe sich der Mangel geradezu als ein Vorzug auffassen, da dem Menschen im Lächeln ein Ausdruck zu Gebote stünde, der zu den verschiedensten und selbst gegensätzlichen Regungen seines Innern paßt. Auf den ersten Blick ist es so. Die Situationen, die Stimmungen, in denen Lächeln auftritt, haben nichts miteinander gemein, das erste Lächeln des Säuglings und das letzte Lächeln nach dem Todeskampf scheinen die Ausdrucksbewegung sogar dem sinngebenden Bewußtsein zu entziehen und an die Grenzen bewußten Lebens zu verweisen. Zugleich spiegelt es in unzählbaren Brechungen und Nuancen die Zustände und Haltungen menschlichen Daseins. Die Klugheit lächelt und die Dummheit, der Stolz und die Bescheidenheit, die Überlegenheit und die Verlegenheit. Wir kennen das freundliche, das abweisende und das zurückhaltende, das spottende und das mitleidige, das verzeihende und das verachtende Lächeln. Es kann Überraschung, Einsicht
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La peculiarità del sorriso, che supera in polivalenza ogni altro movimento mimico umano, sembra consistere nell’impossibilità di dimostrare il suo legame specifico, in quanto forma espressiva, con un motivo scatenante; il che vale, per contro, tanto per i gesti provocati da forti affetti quanto per le manifestazioni del riso e del pianto. Ammesso che sia plausibile mantenere questo assunto, si potrebbe considerare tale difetto sotto forma di pregio: quello di avere l’uomo nel sorriso un’espressione adattabile ai più differenti e contrastanti impulsi interiori. Così a prima vista. Le situazioni, le disposizioni d’animo in cui il sorriso compare non hanno tra loro nulla a che vedere; il primo sorriso del lattante e il sorriso che segue l’agonia sembrano persino sottrarsi alla consapevolezza e rimandare ai limiti della vita cosciente. Nello stesso tempo, esso è in grado di riflettere le condizioni e gli stati d’animo dell’esistenza umana attraverso innumerevoli rifrazioni e sfumature. Sorride la saggezza come la stupidità, la fierezza come la modestia, la superiorità come l’imbarazzo. Conosciamo il sorriso amichevole, quello scortese e quello riservato, il beffardo e il compassionevole, il sorriso del perdono e quello sprezzante. Può esprimere sorpresa, comprensione,
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und Wiedererkennen, Unverständnis und Einverständnis, sinnliches Behagen, Zufriedenheit, aber auch Leid und Bitterkeit ausdrücken. Sieg und Niederlage empfangen gleichermaßen sein Siegel. Das umeinander Wissen der Auguren und die verhaltene Tiefe des Buddha, die stereotype Maske archaischer Figuren, die Rätselhaftigkeit der Gioconda, die süße Erlöstheit der Inconnue de la Seine, die Skepsis des alten Voltaire und der Weitblick des alten Rembrandt haben aus diesem seltsamen Lichte ihr unverwechselbares Leuchten.
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riconoscimento, incomprensione, piacere sensuale, soddisfazione, ma anche dolore e amarezza. Successo e sconfitta portano egualmente il suo sigillo. Il sapere complice degli Auguri, la profondità e modestia del Buddha, la maschera stereotipata delle figure arcaiche, l’enigmaticità della Gioconda, la dolce redenzione dell’Inconnue de la Seine, la scepsi del vecchio Voltaire e lo sguardo del vecchio Rembrandt ricevono il loro splendore dalla sua singolare luminosità.
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I Was ist sein Wesen? Um beim Eindruck zu bleiben, zweifellos eine Erheiterung und Auflichtung des Gesichts, eine Auflockerung, die freundlichen Anblick und Gelöstheit mit sich bringt. Die Erfahrung der Porträtisten und Photographen hat daraus ihren Nutzen gezogen. Allzuleicht scheint nämlich das ausdruckslose Gesicht, wird es im Bilde festgehalten, den Eindruck der Gespanntheit zu machen, die erst im freundlichen Lächeln zur Entspanntheit sich befreit. Die leichte Vertiefung der Falten um Augen und Mund bringt mit der Verstärkung des Reliefs, der Lichter und Schatten, eine Verdeutlichung und Verlebendigung der Züge ins Bild, eine größere Wärme und Nähe, welche das nie ganz ruhende Mienenspiel im täglichen Leben nur in seltenen Fällen entbehrt. Zu dieser Erfahrung paßt eine mehrfach geäußerte, wiewohl bisher noch unbewiesene und wohl auch sehr schwer korrekt beweisbare Vermutung der Physiologen: daß nämlich das Lächeln, abgesehen von den in ihm sich auslebenden Ausdruckstendenzen, die »leichteste« mimische Bewegungsform darstellt, in die das Gesicht »von selbst« übergeht, wenn die gewöhnlichen Hemmungen wegfallen. Es ließe sich denken, daß die durchschnittliche Gespanntheit der mimischen Muskulatur im Widerschein der Affekte und der Fixierung an die wechselnden Verrichtungen des täglichen Lebens nur einer Enthemmung bedarf, um in Lächeln und nicht, wie man erwarten sollte, in Ausdruckslosigkeit überzugehen. Das Lächeln beim Säugling und nach beendetem Todeskampf könnte diese Theorie bestätigen. Wie immer es sich damit verhalten mag, so ist es gewiß im Wesen des Eindrucks, den das Lächeln auf den Lächelnden und seine Umwelt macht, und seiner leichten Hervorrufbarkeit begründet, daß die Zivilisierung des Umgangs sich gerade dieser vieldeutigen Gebärde bedient. Sie liegt in der gemäßigten Zone zwischenmenschlicher Temperatur.
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I Qual è l’essenza del sorriso? La prima impressione è che si abbia a che fare con un rasserenamento e un’illuminazione del volto, con un rilassamento1 che porta con sé un’aura di serenità e liberazione. È da questo che la pratica dei ritrattisti e dei fotografi ha tratto i propri vantaggi. Troppo spesso, però, ci si attiene all’idea che il volto fermato in un’immagine, senza particolari espressioni, susciti un’impressione di tensione della quale si libera solo mediante la distensione apportata dal sorriso. Il lieve incavo delle rughe intorno agli occhi e alla bocca, con l’accentuarsi del rilievo, delle luci e delle ombre, rischiara e vivifica i tratti nell’immagine, produce un effetto di più intenso calore e di maggiore vicinanza, che raramente mancano nella mimica della vita quotidiana, mai del tutto a riposo. A questa esperienza si abbina l’ipotesi della fisiologia – frequentemente formulata, benché sinora non comprovata scientificamente, e del resto difficilmente comprovabile – secondo cui il sorriso, indipendentemente dalle tendenze espressive che in esso si estrinsecano, rappresenterebbe la “più semplice” forma di movimento mimico, a cui il volto darebbe “spontaneamente” luogo al venir meno delle comuni inibizioni. Si dovrebbe cioè pensare che alla tensione media della muscolatura mimica, nel riverbero degli affetti e delle loro fissazioni alle variabili faccende della vita quotidiana, basti una semplice disinibizione per passare al sorriso e non, come ci si dovrebbe forse aspettare, a un’assenza di espressione. Il sorriso nel lattante e quello che segue l’agonia parrebbero avallare questa teoria. Comunque sia, l’idea secondo cui il sorriso riguarda colui che sorride nel rapporto col suo ambiente e che si appiglia alla facilità con cui viene suscitato, motiva il fatto che il processo di civilizzazione dei rapporti si sia molto servito di questo polivalente gesto, un gesto che si colloca nella temperata zona intraumana.
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Verbindlich-unverbindlich hält sie höflichen Abstand zur eigenen Regung und zum Anderen, durch den sie geweckt ist und an den sie sich wendet. Die Auflichtung teilt sich dem Anderen mit und wird ihm mitgeteilt, ohne ihn direkt auf eine Reaktion festzulegen. Ob stilisierte Geste oder unwillkürlicher Ausdruck, meidet das Lächeln die Extreme der affektgeladenen Grimasse und der explosiven Katastrophenreaktion des Lachens und Weinens. In den Zügen des Schreckens, der Angst, der Wut, der Gier, des Hasses und der Freude malen sich die Erregungen unverkennbar. In den Explosionen des Lachens und Weinens malt sich zwar nicht die Erregung, aber manifestiert sich der Verlust der Selbstbeherrschung als Bruch zwischen der Person und ihrem Körper. So oder so tritt der Erregte seiner Umwelt gegenüber, zwingt sie zum Eingehen auf ihn, zur Abwehr, zu Mitleid und Mitfreude, zum Mitlachen und Mitweinen. Die malende Gebärde des Affekts, die explosiven Reaktionen des Lachens und Weinens schaffen für das Miteinandersein eine unausweichliche Lage, wie sie für gewöhnlich solcher Lage entstammen und auf sie antworten. Ein Witz, eine Beleidigung, Streit und Zank, Konflikte, Zwischenfälle, Unfälle, außergewöhnliche Begegnungen rufen derartige Lagen hervor. Sicher ist das Lächeln von beiden Ausdrucksformen unterschieden. Ihm fehlt die Explosivität. Es ist lautlos und gedämpft, ein Ausdruck im Diminutiv. Ihm fehlt auch die grobe Affektladung. In seiner Gebärde kann eine starke Erregung nicht ausgedrückt werden. Aber man muß sich hüten, daraus den Schluß zu ziehen, daß Lächeln die Ausdrucksform nur schwacher Erregungen sein könnte. Mit dem Klagesschen Begriff der Antriebsform der Gefühle läßt sich die Schwierigkeit beheben. Das Gefühl der Seligkeit, der seligen Entrücktheit z. B. kann uns völlig ausfüllen, doch bleibt seine Antriebsform schwach, genauer gesagt, es besitzt keine oder nur wenig ausgeprägt motorische Impulswerte.
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Vincolante o liberatorio, il sorriso mantiene una garbata distanza dalla propria emozione e dall’altro; da ciò che lo suscita e da ciò a cui si rivolge. Il suo effetto luminoso comunica con l’altro e viene da questi recepito, senza necessariamente vincolare a una reazione. Gesto stilizzato o espressione involontaria, il sorriso evita sia le accentuate smorfie a cui inducono le forti emozioni, sia le reazioni esplosive caratteristiche del riso e del pianto. Nei tratti dello sgomento, dell’ansia, della collera, della brama, dell’odio e della gioia sono inequivocabilmente dipinte le rispettive eccitazioni. Nell’esplosione del riso e del pianto non si manifestano invece le eccitazioni, ma la perdita dell’autocontrollo, una frattura tra la persona e il suo corpo2. Nell’un caso e nell’altro, l’eccitato affronta il proprio ambiente, lo forza a prestarsi e a resistergli, a condividere la sofferenza, la gioia, il riso e il pianto. I gesti segnati dagli affetti, come le reazioni esplosive del riso e del pianto, creano un’inevitabile situazione di reciprocità, da cui sono generalmente originati e a cui rispondono. Uno scherzo, un’offesa, dispute e liti, conflitti, contrattempi, incidenti, incontri insoliti suscitano simili situazioni. Il sorriso si distingue senz’altro da entrambe le forme di espressione. A esso manca l’esplosività; è silenzioso e sfumato, un’espressione al diminutivo. È privo di una forte carica affettiva e nel suo gesto non può esprimersi un’eccitazione violenta. Ci si deve tuttavia guardare dal concludere che il sorriso possa essere una forma espressiva adatta solo a eccitazioni deboli. Mediante l’introduzione del concetto klagesiano di forma impulsiva del sentimento è possibile risolvere questa difficoltà3. Il sentimento di beatitudine o il rapimento estatico, ad esempio, possono pervadere totalmente, eppure la loro forma impulsiva resta debole, essi cioè non possiedono uno spiccato impulso motorio, o ne possiedono in scarsa misura.
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Eine jähe Freude dagegen will uns »zerspringen« lassen, wir springen, tanzen, jubeln; ihr motorischer Impulswert ist groß. Die Intensität eines Gefühls variiert unabhängig von seiner Antriebsform. Ein schwaches Gefühl kann eine starke, d. h. ausgesprochene, ein starkes Gefühl eine schwache, unausgesprochene Antriebsform haben. Der Satz, daß dem Lächeln die grobe Affektladung fehlt, bedarf mithin einer zusätzlichen Erläuterung. Lächeln kann kein Ausdruck von Affekten mit ausgesprochener Antriebsform sein. Die Gedämpftheit der Ausdrucksform sagt also nichts über die Stärke oder Ausgesprochenheit der sich in ihr manifestierenden Erregung. Es gibt auch hier eine Angleichung der Gebärde an das Gefühl oder, umfassender gesagt, an die seelische Bewegung. Die Zartheit, der diminutivische Charakter des Lächelns korrespondiert mit der Zartheit der Empfindung, Stimmung, Erregung oder wie immer man den jeweiligen Zustand des Erlebens glaubt benennen zu müssen. Ein triumphierendes, ein seliges, ein friedliches Lächeln ist seinem Gefühl nicht weniger adäquat als ein süffisantmaliziöses, ein ironisches, ein bitteres Lächeln. Über die Größe, Stärke, Fülle und Echtheit des Gefühls ist damit nichts gesagt. Es braucht nicht darum schwächer, kleiner, oberflächlicher oder gar unecht zu sein, weil es sich in zarter Gebärde äußert. Es kann in reinster und kräftigster Entfaltung lebendig sein und erfüllt sich doch in dieser und keiner andern Ausdrucksform. Wir nannten sie lautlos und gedämpft, einen Ausdruck im Diminutiv. Dieses Wort ist gefährlich, da es der Suggestion nachzugeben scheint, die von den Bezeichnungen des Lächelns in einigen Sprachen ausgeht. Lächeln, sourire (subridere), glimmlachen benennen es vom Lachen her, als ob es seine anklingende Anfangsform oder seine verkleinerte Andeutung wäre, und auch da, wo das Lächeln einen Namen mit eigener Stammform hat (z. B. smile), gehen die Bezeichnungen für Lachen und Lächeln ineinander über. Natürlich ist das nicht
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Viceversa, una gioia repentina, che possiede un forte impulso motorio, ci fa “esplodere”, saltare, danzare, esultare. L’intensità di un sentimento varia indipendentemente dalla sua forma impulsiva; un sentimento debole può avere una forma impulsiva forte, pronunciata, mentre un sentimento forte può averla debole e attenuata. L’idea secondo cui al sorriso mancherebbe una forte carica affettiva ha dunque bisogno di un chiarimento supplementare: sorridendo non si esprimono affetti attraverso forme impulsive pronunciate. Di fatto, l’aspetto sfumato della forma espressiva non dice nulla sulla forza e sull’intensità delle eccitazioni che in essa si manifestano. Anche qui si ha un adattamento del gesto al sentimento, più in generale, al moto interiore e la delicatezza del carattere diminutivo del sorriso corrisponde alla delicatezza della sensazione, dello stato d’animo, dell’eccitazione o comunque si voglia denominare la condizione vissuta. Un sorriso trionfale, un sorriso beato o pacifico non è meno adeguato al suo sentimento di quanto lo sia un sorriso sufficiente o malizioso, un sorriso ironico o amaro. Non è in gioco l’entità, la forza, la pienezza o l’autenticità del sentimento; non è necessario che esso sia più debole, più breve, superficiale o addirittura inautentico per il fatto che si manifesta in un gesto delicato. II sentimento può esibirsi nel modo più vivido e puro, e tuttavia realizzarsi in questa e nessun’altra forma. Lo abbiamo detto silenzioso e sfumato, un’espressione al diminutivo. Un termine pericoloso, che sembra cedere alla suggestione che parte dalla denominazione del sorriso in alcune lingue. Lächeln, sourire, subridere richiamano il riso, come se ne accennassero alla fase iniziale o ne fossero una piccola traccia; e anche laddove il sorriso prende un nome dalla radice autonoma (ad esempio smile) le designazioni del riso e del sorriso trapassano le une nelle altre. Tutto ciò, naturalmente, non è
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aus der Luft gegriffen. Sehr oft entwickelt sich das Lachen aus einem Lächeln oder klingt darin aus. Oft bemüht man sich mit einem Lächeln, wo ein Lachen am Platz wäre. Ein alter, ein fader Witz, billige Komik können uns mehr nicht entlocken. Aber auch die Gebärden selbst, abgesehen davon, daß die eine als Anfangs- oder Endphase der anderen auftritt, haben Gemeinsamkeiten, weshalb es nicht auffällt, wenn ein Lächeln das Lachen vertritt oder (wie man dann sagt) sich nicht zum Lachen entfaltet. Der Funke glimmt, solange als er nicht zur vollen Flamme entfacht ist. Lächeln kann Anfangs- und Endphase des Lachens sein, es kann auch Lachen vertreten. Eine Vertretung in umgekehrter Richtung freilich ist unmöglich, und diese Unumkehrbarkeit läßt sich wiederum am einfachsten durch die Auffassung des Lächelns als eines verkürzten, verkleinerten, keimhaften Lachens begreifen. Das Entwickelte, Ausführliche, Große kann nun einmal das Unentwickelte, Skizzenhafte, Kleine nicht vertreten oder andeuten. Nur etwas, das noch Raum und Durchblick läßt, vermag dies von sich aus und bietet sich von selbst als Ersatz an. So verhält sich denn das Lächeln zum Lachen wie das Liebeln zum Lieben: es hat etwas davon, es tut so als ob, es ist seine Vollform in der Verkürzung und Andeutung. Die flüchtige Ähnlichkeit der Gebärden genügt der Sprache jedenfalls, an dieser Analogie und – sit venia verbo – mikrologischen Deutung des Lächelns festzuhalten. In Wirklichkeit verhält es sich anders. Wir können unerörtert lassen (was tatsächlich auch noch nicht untersucht ist), ob Lächeln ein stets wiederkehrendes Anfangsstadium des Lachens sein muß. Schwerer als diese mimische frage wiegt die Einsicht, daß Lächeln von sich aus nicht zum Lachen hinstrebt. Es tritt oft (aber keineswegs immer) an seine Stelle, es wechselt auch wohl mit ihm ab, aber es hat sein eigenes unverwechselbares Wesen, seine spezifische Angemessenheit, es ist eine Ausdrucksform sui generis.
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senza fondamento: sovente il riso si scatena a partire dal sorriso o si conclude con esso; spesso ci si trattiene in un sorriso mentre si vorrebbe ridere. Una barzelletta vecchia o insulsa, una comicità spicciola, non possono strapparci il riso. Eppure, a prescindere dal fatto che compaiano come fase iniziale o finale di qualcos’altro, i gesti stessi hanno un tratto in comune, che il sorriso supplisca a una risata o – come si diceva – non esploda in riso. La scintilla brilla, sino a che non accende una vera e propria fiamma. Il sorriso può dunque rappresentare la fase iniziale o finale del riso e persino sostituirlo, mentre una sostituzione del sorriso con il riso appare impossibile, cosa che viene semplicisticamente spiegata con l’idea del sorriso come qualcosa di abbreviato, di ridotto o germinale. E qualcosa di sviluppato, di ampio e ingente, non può certo essere indice o sostituto di qualcosa che è ancora in nuce, piccolo e appena accennato. Solo ciò che è in grado di permettere ancora un’apertura o uno spazio può offrirsi come surrogato. Ed è questo il modo in cui il sorriso è in relazione al riso, lo stesso in cui lo è l’amoreggiare all’amore: esso “ha a che fare”, si propone “come se”, ne rappresenta la forma compiuta nella diminuzione e nell’allusione. La superficiale somiglianza dei gesti è sufficiente al linguaggio, che si attiene a questa analogia e – sit venia verbo – al significato micrologico del sorriso. In realtà, le cose stanno altrimenti. Se il sorriso costituisca necessariamente un ripresentarsi dello stadio iniziale del riso (cosa di fatto non ancora studiata) è questione della quale possiamo anche non occuparci. Più seria di questa questione prettamente mimica è quella riguardante il fatto che il sorriso, da sé solo, non sfocia nel riso. Spesso (ma non certo sempre) si presenta al suo posto o si trasforma in riso, ma ha una sua propria, inconfondibile essenza e una sua specifica occorrenza: è una forma espressiva sui generis.
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Zur Malice, zur Ironie, zum Humor, vor allem wenn er sich verschmitzt gibt, paßt allenfalls ein sehr zurückhaltendes Lachen, besser die Lautlosigkeit des Lächelns. Für andere Regungen wie Mitleid, Melancholie, Verzeihung, Scham, Einverständnis, Güte wäre Lachen nicht weniger deplaciert. Hier zeigt sich manchmal eine merkwürdige Diskrepanz zwischen Feingefühl und Nuancierungsvermögen der Mimik. Zarter besaitete Naturen, Menschen von größerer Distinktion (es sind nicht immer Leute von reicherem Wissen oder, sofern es das noch gibt, guter Erziehung) werden in entsprechenden Lagen eher lächeln als lachen. Scharfe Grenzen bestehen jedoch nur für die sublimen Regungen der Entrücktheit, der Abgeschiedenheit, der Verschwiegenheit und Verinnerlichung und weiterhin überall da, wo der Akzent auf das Sublime, Zarte und Feine der Regung fallen soll. Es gibt ein gutmütiges Lachen und ein gutmütiges Lächeln. Soweit sie Gebärden der Gutmütigkeit sein wollen, unterscheidet sich das Hoho des Ersten nicht von dem angedeuteten Schweigen des Zweiten. Aber dieses »sagt« mehr. Es wahrt Abstand im Ausdruck zum Ausdruck. Mit dem echten Lachen hat das Lächeln, von gewissen Äußerlichkeiten vielleicht abgesehen, nichts zu tun. Aber mit der Geste des Lachens steht es anders. Sie ist auch mit der explosiven Reaktion auf Komik und Witz nicht zu verwechseln. Als Geste bleibt sie der Verfügungsgewalt des Einzelnen unterworfen, der sich mit ihr der gesellschaftlichen Konvention anpaßt. Sie kann das Lächeln ebensogut ersetzen wie das Lächeln umgekehrt die Geste des Lachens, gewiß nicht überall und nur innerhalb der eben erwähnten Grenzen; aber der Stil spielt hier sicher eine erhebliche Rolle. Das maskenhafte Lächeln des Asiaten und das burschikose »Lachen« des Yankees, so verschieden sie auch sind, schaffen ein bestimmtes gesellschaftliches Klima. Daß sie es schaffen können, beruht jedoch auf der Erkenntnis von der weitgehenden (wenn auch nicht durchgängigen) Ersetzbarkeit
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Alla malizia, all’ironia, all’umorismo, specie se scaltro, è conforme solo un riso molto riservato; un silenzioso sorriso è ancora più adatto. Per altre disposizioni d’animo, come la compassione, la malinconia, il perdono, il pudore, il consenso, la bontà, il riso non sarebbe meno inopportuno. Talora si manifesta, in questi casi, una rilevante discrepanza tra la raffinatezza del sentimento provato e la capacità di renderlo attraverso l’espressione mimica. Una natura particolarmente sensibile, persone capaci di grande discernimento (e non si tratta necessariamente di persone di grande cultura o, se ancora ne esistono, di buona educazione) in simili situazioni sorridono, piuttosto che ridere. Confini netti esistono tuttavia solo per sentimenti sublimi come l’estasi, la solitudine, la discrezione, l’intimizzazione, e in genere ovunque venga accentuato il carattere sublime, delicato e raffinato del sentimento. Esiste un riso indulgente, ed esiste un sorriso indulgente. Nella misura in cui li si voglia considerare gesti che esprimono bonarietà, il fragore del primo non si distingue dal tacito alludere del secondo. Ma quest’ultimo “dice” di più. Nell’esprimere, esso preserva una distanza dall’espressione. Se si prescinde da certi aspetti esteriori, il sorriso non ha nulla a che vedere con il vero riso. Per quanto riguarda il gesto del riso – da non confondere con la reazione esplosiva alla comicità o allo scherzo – le cose stanno invece altrimenti. In quanto gesto, esso rimane soggetto al potere decisionale del singolo che se ne serve per conformarsi alle convenzioni sociali. Può sostituire il sorriso allo stesso modo in cui il sorriso può rimpiazzare il gesto del riso; certo, non sempre, e solo entro i limiti già menzionati. Ma, qui, è lo stile a giocare un ruolo importante. Il sorriso da maschera degli asiatici e il “riso” spigliato degli yankee, pure così differenti tra loro, creano un determinato clima sociale. E alla base di questo è la consapevolezza dell’ampia (anche se non così frequente) sostituibilità
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des Lächelns durch die Geste des Lachens, welche die Distanziertheit des Lächelns, den Umstand, daß es im Ausdruck zum Ausdruck Abstand wahrt, nachdrücklich bestätigt. »An sich« ist Lächeln keine künstliche Geste, sondern eine natürliche Gebärde, zu bestimmten Regungen passend. Aber von gewissen Grenzfällen abgesehen, läßt sich die natürliche Ausdrucksgebärde durch die künstliche Geste des freundlich jovialen, des fröhlichen usw. »Lachens« ersetzen. Diese Ersetzbarkeit ist im ganzen Umkreis der mimischen Ausdrucksbewegung sonst unbekannt. Sie weist auf den eigentümlichen Charakter des Lächelns, den wir seine Distanziertheit, Verschwiegenheit, Verhaltenheit nannten: daß es im Ausdruck zum Ausdruck Abstand wahrt.
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del sorriso mediante il gesto del riso, che conferma decisamente il distanziamento caratteristico del sorriso, il fatto che esso nell’espressione mantiene una distanza dall’espressione. “In sé” il sorriso non è un gesto culturale, ma un atteggiamento spontaneo adatto a certi sentimenti. A parte certi casi limite, tuttavia, l’espressione gestuale spontanea si lascia sostituire dal gesto culturale del “riso” gioviale, amichevole ecc. Una sostituibilità di questo genere non si ripresenta nell’intero restante ambito dell’espressione mimica: un indice di quel peculiare carattere del sorriso che abbiamo chiamato il suo distanziamento, la sua riservatezza e il suo contegno, il suo preservare un distacco dall’espressione nell’espressione stessa.
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II Nichts spricht deutlicher für die Sonderstellung des Lächelns unter den mimischen Ausdrucksformen als die mit seiner Lautlosigkeit, Gedämpftheit und Verhaltenheit gegebene Unmöglichkeit, scharf die Grenzen anzugeben, in der seine natürliche Gebärde in andeutende Geste, die verhüllende Maske übergeht. Die leichte Auflockerung des Gesichts, in der sich offenbar alle Erregungen mit schwacher, unausgesprochener Antriebsform spiegeln, insofern sie dem Erregten das Gefühl der Lockerung vermitteln, bietet sich ihm selbst als Spielfeld dar. Sagten wir, daß Lächeln im Ausdruck zum Ausdruck Abstand wahrt, d. h. den Eindruck einer gewissen Distanz hervorruft, so erlebt das der Lächelnde selbst als »ein Verhältnis zu« seinem Ausdruck, zu seinem Gesicht. In den Affekten mit starker Antriebsform und in den explosiven Reaktionen des Lachens und Weinens sind wir ganz hingenommen und gehen unmittelbar im Ausdruck auf, allenfalls mit Anspannung darauf bedacht, uns nichts anmerken zu lassen und uns nicht bloßzustellen. Ist dagegen bei eventuell starker und ausgesprochener Regung die Antriebsform schwach, dann merken wir die sich ergebende, die sich von selbst einstellende Lockerung als ein spielendes Geschehen, dem wir auf alle möglichen Weisen übertreibend oder dämpfend, aber stets andeutend und zu verstehen gebend nachhelfen. Warum? Weil wir die Unausgesprochenheit der mimischen Motorik, die zur Schwäche der Antriebsform paßt, als inadäquat zur Qualität und Intensität der Regung selbst erleben. Lächeln entfaltet somit ein symbolisches Mienenspiel, das mit seinem Ausdruck spielt. Erstes Ergebnis: ein Reichtum an motorischen Nuancen, die zu einer unübersehbaren Vielfalt von Regungen passen bzw. an sie angepaßt werden. Zweites Ergebnis: im Ausdruck ist die Grenze zwischen natürlicher Gebärde und andeutender Geste fließend. Natur wird – Kunst. Die spontane Symbolik des Leibet wird zur Allegorie.
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II Quanto alla speciale posizione ricoperta dal sorriso tra le forme di espressione mimica, nulla è più significativo dell’impossibilità, insita nel suo carattere silenzioso, delicato e composto, di determinare con precisione i limiti entro cui l’atteggiamento spontaneo del sorriso si trasforma in gesto allusivo, una maschera di copertura. Il lieve rilassamento del volto, in cui le eccitazioni si riflettono attraverso una forma impulsiva debole, non pronunciata, che fornisce all’eccitato la sensazione di un rilassamento, si offre come il campo di gioco del sorriso. Dire che il sorriso nell’esprimere mantiene un distacco dall’espressione significa che esso richiama l’impressione di una certa distanza, vissuta da colui che sorride come un “essere in relazione” alla propria espressione e al proprio volto. Quando abbiamo a che fare con affetti dalla forma impulsiva forte o con reazioni esplosive come quelle del riso e del pianto siamo totalmente presi dall’espressione e assorbiti in essa, magari impegnati a dissimularla e a non comprometterci. Quando invece la forma impulsiva dei sentimenti, anche intensi e molto pronunciati, è debole avvertiamo l’allentamento spontaneo che ne risulta come un semplice accadere, che sosteniamo in ogni modo, esagerandolo o smorzandolo, sempre però in una forma accennata e allusiva. Per quale motivo? Perché il non detto della motricità mimica che si adatta alla debolezza della forma impulsiva viene da noi avvertita come inadeguata rispetto alla qualità e all’intensità del sentimento provato. Il sorriso attiva così una mimica4 simbolica che gioca con la sua stessa espressione. Abbiamo un primo risultato: un’abbondanza di sfumature motorie che si adattano, o meglio vengono adattate, a una molteplicità sterminata di sentimenti. E un secondo risultato: nell’espressione, il confine tra atteggiamento spontaneo e gesto allusivo è fluido. La natura diviene arte. La simbolica spontanea del corpo diviene allegoria.
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In den Grimassen der Affekte mit starker Antriebsform wie Angst, Schrecken, Gier, Wut, Haß, jähe Freude malt »sich« die Erregung ab. In den Explosionen des Lachens und Weinens malt sich zwar nicht die auslösende Erregung, wohl aber der Bruch zwischen Leib und Person im Verlust ihrer Selbstbeherrschung. Im Lächeln schließlich malen wir unsere Regung, geben ihr Ausdruck im Spielfeld des Gesichts. Dies erklärt zugleich die Ungenauigkeit des Begriffs, der die unwillkürliche Aufheiterung der Freundlichkeit, Sympathie, Zufriedenheit und des Behagens ebenso deckt wie die Gebärde des Spotts, der Süffisance, der Verachtung, der Schamhaftigkeit oder der Verlegenheit, die, jede für sich, ihre Ersatzform in einer entsprechend getönten Geste des Lachens haben kann oder in ursprünglich sich einstellender Form in abgewandelter Mimik die Lockerung hindurchscheinen läßt. Sein Spiel mit den Mienen der Lockerung bedient sich deshalb häufig der Asymmetrie, in der nicht nur der auflockernde, leichte, unbeschwerte und schwebende Charakter der Regung, der Abstand des Erregten zu sich und der Umwelt, sondern oft auch die Ambivalenz und Vieldeutigkeit der Sache, das Schiefe, Riskante einer Situation angedeutet werden soll. Die »Sprache« der Mundwinkel, Augenbrauen, Lider geht sehr gern in diese Richtung; vom einseitig zugekniffenen Auge nicht zu reden. Sie gehört, strenggenommen, nicht mehr zur Mimik des Lächelns als einfacher Aufhellung des Gesichts, schließt sich jedoch zum Zweck der Nuancierung des Ausdrucks häufig daran an, übertreibend oder dämpfend, stets ins Bedeuten hebend, den Anderen zugewandt, doch nicht weniger: sich selbst. Durch seine Distanziertheit gewinnt das Lächeln Bedeutung als Mittel und Ausdruck der Kommunikation. Man gibt sich lächelnd zu verstehen: gemeinsames Wissen um etwas, Gemeinsamkeit überhaupt, auch in der
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Nell’espressione degli affetti con forma impulsiva forte, come paura, sgomento, brama, collera, odio, improvvisa gioia, le emozioni “si” dipingono nella deformazione dei tratti del volto. Nell’esplosione del riso e del pianto non si manifestano le emozioni che la provocano, ma la frattura tra corpo e persona causata dalla perdita del dominio su se stessi. Nel sorriso noi stessi scolpiamo i nostri sentimenti, diamo loro espressione nel campo di gioco del volto. Questo spiega, contestualmente, l’inesattezza dell’idea secondo cui il rasserenamento involontario che accompagna la gentilezza, la simpatia, la soddisfazione o il piacere avrebbe una funzione di occultamento, alla stregua dei gesti di scherno, sufficienza, disprezzo, vergogna o imbarazzo, ciascuno dei quali può avere un surrogato in una scrosciante risata oppure lasciar trasparire un rilassamento mimico di vario tipo, spontaneo e originario. Il gioco instaurato dal sorriso con la mimica del rilassamento si serve spesso dell’asimmetria, in cui vengono tratteggiati non solo il carattere allentato, leggero, libero e sospeso del sentimento, oltre alla distanza da se stesso e dal proprio ambiente di colui che è affetto dal sentimento, ma sovente anche l’ambiguità e la polivalenza della cosa, l’obliquità e rischiosità della situazione. Lo favorisce il “linguaggio” dell’angolo della bocca, delle sopracciglia, delle palpebre; per non parlare degli occhi parzialmente socchiusi. Tale linguaggio non appartiene più, in senso stretto, alla mimica del sorriso come semplice rasserenamento del volto, ma contribuisce spesso al fine di sfumare l’espressione: accentuando o mitigando; sempre mettendo in luce un significato, rivolto all’altro, come pure a se stesso. Proprio per il suo distanziamento il sorriso ottiene il valore di mezzo ed espressione di comunicazione. Sorridendo ci si fa intendere: su qualcosa di condiviso o risaputo, anche nella
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Form des Getrenntseins wie Triumph und Niederlage, Überlegenheit, Verlegenheit, Demut. Das Lächeln reagiert auf die Situation und bestätigt zugleich sich selbst und dem Anderen, daß man die Situation begreift und insofern ihre Bindung wieder gelockert hat. Es wird durch Lagen ausgelöst, aber es bezieht sich zugleich auf sie, doch gedämpft. Dabei bleibt es den Beteiligten und der Nuancierung überlassen, ob die Dämpfung einen mildernden oder verschärfenden Sinn hat. Ein Zucken um die Mundwinkel kann verletzen, ein breites Haha und Hoho versöhnen. Als Reaktion auf und Zeichen von Begreifen und Nichtbegreifen irgendeiner Sache, als Symbol des Ich hab’s oder des Ich hab’s nicht bekundet das Lächeln nicht weniger die Begegnung mit einer Situation als es entsprechende Ausdrucksformen der Scham, Bescheidenheit, Unschuld, des Erstaunens und der Verblüffung, des Wiedererkennens und des Zweifels usw. vermögen. Natürlich braucht die Gebärde nicht immer etwas zu besagen. Das irre und blöde Lächeln beruht vielleicht auf rein physiologischen Mechanismen, die nur noch einen ungewollten Ausdruckssinn mit sich führen. Das Spiel der Gelöstheit auf dem Gesicht des Säuglings, der Adel friedlicher Heiterkeit in den Zügen des Toten sind ebensowenig gewollt. Doch künden sie. Sein allegorischer Charakter, d.h. seine bewußte Symbolik und Fähigkeit, die natürliche Gebärde zur Gebärdensprache und Geste spielend zu verwenden, gibt dem Lächeln die Funktion beredten Schweigens. Es hat damit den gleichen Hintergrund wie die Sprache, es gibt zu verstehen, besagt und bedeutet, wiewohl in verhaltener, verhüllter, unausgesprochener Form. Darum kann es ebensogut nichtssagend und leer wie vielsagend und schließlich unerschöpflich, unergründlich sein und mehr ausdrücken als alle Worte sagen können. Die Vieldeutigkeit des Schweigens und des Lächelns sind einander verwandt, äquivalent und im strengen Sinne äquivok. Unterbricht das Schweigen den Strom der Rede,
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lontananza dall’altro, come nel trionfo o nella sconfitta, nella superiorità, nell’imbarazzo o nell’umiltà. Il sorriso reagisce a una situazione, confermando tanto a chi sorride quanto all’altro, un’avvenuta comprensione e un allentamento del legame con la stessa. Il sorriso è contemporaneamente causato da certe condizioni e correlato a esse, ma sempre in forma mitigata. Spetta all’interessato conferire a questa mitigazione, mediante la giusta sfumatura, un senso acuito o sminuito. Un fremito dell’angolo della bocca può ferire, un largo e aperto sorriso riconciliare. In quanto “reazione a” e “indice di” una comprensione o un’incomprensione, in quanto simbolo per un “ho inteso” o “non ho inteso”, il sorriso riesce, allo stesso modo, a mostrare l’incontro con una situazione e a dare espressione a stati emotivi come quelli del pudore, della modestia, dell’innocenza, come la meraviglia e lo sconcerto, il riconoscimento e il dubbio. Naturalmente, non è necessario che i comportamenti gestuali dicano sempre qualcosa. Il sorriso insensato e stupido si fonda probabilmente su meccanismi esclusivamente fisiologici dal significato espressivo involontario. E altrettanto involontari sono il gioco di contrazioni e rilassamenti sul volto del lattante e la nobile serenità nei tratti della morte. Eppure fanno capire qualcosa. Il suo carattere allegorico, vale a dire il suo consapevole simbolismo e la sua facoltà di trasformare, come per gioco, un atteggiamento naturale in un linguaggio comportamentale e gestuale, conferisce al sorriso la funzione di eloquente silenzio. Il suo retroterra è il medesimo del linguaggio: fa intendere, dice e significa, sebbene in forma trattenuta, velata, inesplicita. Può essere altrettanto insignificante e vuoto, quanto significativo; in fondo inesauribile e imperscrutabile e persino più eloquente di qualunque parola. La polivalenza del silenzio e quella del sorriso sono reciprocamente affini, equivalenti e, in senso stretto, equivoci. Il silenzio interrompe il flusso del discorso
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um ihn unterirdisch weitergehen zu lassen oder abzubrechen und mit der Stille das Gesagte zu begrenzen, zu vertiefen, ins Unsagbare zu lieben oder ausklingen zu lassen, setzt es ihm, gleich der Pause im Spiel der Töne, Lichter auf, so leistet das Lächeln dasselbe. Es kündet auf seine Weise schweigend das Schweigen, das verbergende und behütende ebenso wie das gelöste, das allen Besitz und alles Wissen hinter sich gelassen und die Welt überwunden hat. Aber sein Künden bedarf nicht mehr einer Umwelt, an die es gerichtet ist. Auch das Lächeln der Andacht, Entrücktheit, Verzücktheit, Erlöstheit gibt nichts mehr »zu verstehen«. Es ist weitabgewandt, bedeutet nicht mehr, sondern läßt wie die lächelnden Gebärden einfacher Zustände die Lockerung ausklingen. Nur seine Luzidität verrät seine Höhe, den Adel der Menschheit.
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per lasciarlo proseguire in modo sotterraneo oppure per spezzarlo e, nella quiete di quanto detto, limitare, approfondire, scavare nell’indicibile o lasciarlo smorzare; come fa la pausa nel gioco dei toni, mette in risalto; così pure il sorriso. Esso dice, silenziosamente e a modo proprio, il tacito, l’occulto, il trattenuto come il dissolto, ciò che ha abbandonato dietro sé ogni possesso e ogni sapere e superato il mondo. Il suo dire non ha più bisogno di essere rivolto a un ambiente. Anche il sorriso del ricordo, del rapimento, dell’estasi, della redenzione, non ha più nulla da “far capire”. È migrato dal mondo, non pronuncia qualcosa; come l’atteggiamento sorridente nelle condizioni più semplici, fa svanire il rilassamento. Solo la sua lucidità tradisce la sua altezza, la nobiltà dell’uomo.
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III Die verwirrende Vieldeutigkeit des Lächelns, sein Auftreten bei Anlässen, die nichts miteinander gemeinsam haben, seine unübersehbare Mannigfaltigkeit in affektiver Tönung verleiht ihm eine Sonderstellung im Gebiete mimischen Ausdrucks. Wußte die Wissenschaft bisher keinen Rat mit ihr, zu einseitig festhaltend an dem schon durch die sprachliche Bezeichnung suggerierten Gedanken, Lächeln sei ein Lachen im Kleinen oder in statu nascendi, auch wohl durch Lachen in gewissen Grenzen ersetzbar, daher im Annex zu ihm zu studieren und gesonderter Behandlung nicht wert, so belehrt uns genauere Analyse doch eines Besseren. Lächeln ist eine Ausdrucksform sui generis, passend für und anzupassen an Regungen der verschiedensten Art und Stärke, doch schwach ausgeprägter Antriebsform. Als Gebärde der Auflockerung bei entsprechenden Anlässen von selber sich einstellend, bietet es Möglichkeiten mit ihr zu spielen, zumal wenn das Mißverhältnis zwischen der Ausgesprochenheit von Art und Stärke der Regung und der Unausgesprochenheit ihrer Antriebsform dazu anreizt, der Gebärde nachzuhelfen. So entfaltet sich Lächeln in vielen Lagen, will es etwas andeuten und zu verstehen geben, die flüchtige Regung festhalten oder von sich absetzen, zu einem bewußt symbolischen Mienenspiel – mit seiner eigenen Gebärde. Unmerklich gleitet der Ausdruck aus natürlicher Gebärde in die gewollt bedeutende Geste und wandelt sich die spontane Symbolik zur sublimen Allegorie des beherrschten Leibes. Nennen wir daher das Lächeln die Mimik des Geistes, so bedarf dieses Wort zugleich der Einschränkung und der Erweiterung. Nahe liegt es nämlich, um allein das Spiel mit der natürlichen Symbolik der Auflockerung als geistige, geistreiche Gebärde zu bezeichnen, die spontanen Formen aber des Behagens, der Freundlichkeit und Erheiterung, sowie die nicht weniger spontanen Gebärden
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III La sconcertante polivalenza del sorriso, il suo comparire in situazioni che non hanno nulla in comune tra loro, la sterminata varietà delle sue tonalità affettive conferiscono al sorriso una posizione speciale tra le espressioni mimiche. La scienza, sino a ora, non è riuscita a provvedere a una spiegazione e si è attenuta all’idea, già suggerita dall’uso linguistico, secondo cui il sorriso non sarebbe che una riduzione del riso o un riso in statu nascendi e da questo, entro certi limiti, eventualmente sostituibile. Il sorriso sarebbe dunque da studiare congiuntamente al riso, mentre una sua trattazione autonoma risulterebbe priva di interesse: di questo un’analisi più approfondita ci fa ricredere. Il sorriso è una forma di espressione sui generis, adeguata e adeguabile ai sentimenti più diversi per genere e intensità, ma dotata di una forma impulsiva debole. Come atteggiamento di rilassamento diversamente calibrato a seconda dell’occasione, il sorriso lascia spazio a un gioco, soprattutto quando la sproporzione tra il tipo e l’intensità del sentimento e il non esplicitarsi della sua forma impulsiva invita a dare aiuto al gesto. Il sorriso si presenta così in molteplici circostanze, per accennare a qualcosa e offrire una comprensione, per trattenere un sentimento sfuggente o sottrarvisi, grazie a un gioco mimico cosciente e simbolico col suo stesso gesto. L’espressione naturale scivola impercettibilmente nel gesto meditato e significativo, mentre il simbolismo spontaneo si trasforma nella sublime allegoria del dominio sul corpo. Se consideriamo il sorriso la mimica dello spirito, la definizione ha bisogno sia di una restrizione sia di un ampliamento. Per indicare come atteggiamento spirituale il gioco in atto con il naturale simbolismo del rilassamento sembra necessario doverne escludere le forme più spontanee di piacere, di serenità e divertimento, così come atteggiamenti non meno spontanei
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der Seligkeit, Entrückung, Andacht und des Friedens davon auszunehmen. Oder aber auf den Inhalt der Gebärde zu achten und dann die erst genannten Spontanformen als Äußerungen bloßer Stimmungen und vitaler Zustände davon auszuschließen. Beide Auffassungen sind zu eng, da sie entweder nur den Charakter der Geste (die »Geist« in sich trägt) oder gewisse geistige Inhalte im Auge haben. Umgekehrt: weil Lächeln als natürliche Gebärde bereits im Ausdruck zum Ausdruck Abstand wahrt, drückt es die Distanziertheit des Menschen zu sich und seiner Umwelt aus, die wir seine Geistigkeit nennen, kraft deren er sich einer geistigen Welt verbunden weiß. Weil Lächeln eine Lockerung verrät, deren das Tier durch seinen Mangel an Distanz zum eigenen Leib und dem ihm entsprechenden Umfeld nicht teilhaftig werden kann, hat es für den Lächelnden jenen spielerischen Zug, der zum Spiel mit ihm, zum Mienenspiel verlockt; wird es zum Bedeutungsträger par excellence, zum Spiegel nicht nur sehr vieler und nuancierter Gefühle, sondern geradezu der menschlichen Position. Wir meinen hiermit gewiß nicht, daß jedes Lächeln »im Grunde« ein Lächeln über sich selbst sei. Von dieser Überschätzung des Humors und der Ironie sind wir weit entfernt. Aber seine Reaktionsfähigkeit auf Regungen, deren Antriebsschwäche in keinem Verhältnis zu ihrer Art und Stärke steht, beweist, daß in jedem Lächeln, unabhängig von seiner Transponierung in die Geste oder Maske, abgesehen auch von dem Inhalt, den es hat, jene spezifische Distanz zum Vorschein kommt, welche allen menschlichen Monopolen, nicht zuletzt der Sprache, zugrunde liegt. Lächeln ist Mimik des Geistes. Wir können auch sagen: Mimik der menschlichen Position. Wie aber steht es dann mit Lachen und Weinen? Steht das Urteil nicht in Widerspruch zu unserer eigenen These, daß Lachen und Weinen Monopole des Menschen sind, Ausdrucksweisen seiner exzentrischen Position? Zunächst sind beide überhaupt keine mimischen Gebärden,
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di gioia, di assenza di raccoglimento e tranquillità. Oppure si guarda al contenuto dei gesti e vi si includono esternazioni cosiddette spontanee di semplici inclinazioni e stati vitali. Entrambe le concezioni sono in realtà limitate, avendo esse di mira o soltanto il carattere del gesto (che abbia in sé lo “Spirito”) oppure certi contenuti spirituali. Le cose stanno all’opposto: poiché già come atteggiamento naturale il sorriso nell’esprimere prende distanza dall’espressione, manifesta l’essere distanziato dell’uomo da se stesso e dal proprio ambiente – ciò che chiamiamo la sua spiritualità – e in forza di questo l’uomo viene a sapersi legato a un mondo spirituale. Poiché il sorriso rivela un rilassamento – estraneo all’animale, impossibilitato a prendere distanza dal proprio corpo e dall’ambiente5 – esso ha per chi ride quel tratto ludico che seduce l’uomo nel gioco mimico: diviene portatore di senso par excellence e specchio non solo di molti e sfumati sentimenti, ma della stessa posizione umana6. Con questo non intendiamo dire che “in fondo” ogni sorriso non è che un sorriso su se stessi: siamo ben lontani da una sopravvalutazione simile dell’umorismo e dell’ironia. Ma la sua capacità di reazione, la cui debolezza impulsiva non è in relazione alcuna con il genere e l’intensità dei sentimenti, dimostra che ogni sorriso, indipendentemente dalla sua trasposizione nel gesto stilizzato o nella maschera e a prescindere dal contenuto manifestato, comporta quella specifica distanza che sta alla base del monopolio umano, non per ultimo del linguaggio. Il sorriso è la mimica dello spirito. E possiamo anche dire: la mimica della posizione umana. Ma come stanno le cose con il riso e il pianto? Non c’è forse una contraddizione rispetto alla nostra tesi secondo cui sono il riso e il pianto il monopolio specifico della realtà umana, le modalità di espressione della sua posizione eccentrica? Anzitutto, riso e pianto non sono propriamente atteggiamenti mimici,
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sondern Katastrophenreaktionen an Grenzen menschlichen Verhaltens. Als Ausbrüche ziehen sie auch die Mimik in Mitleidenschaft, jedoch durch Verlust unserer Selbstbeherrschung und damit auch unserer Herrschaft über den eigenen Körper. Dieser Verlust trifft den Menschen in Situationen, auf die er keine Antwort weiß, da sie durch ihre Mehrdeutigkeit oder Unvermitteltheit zugleich an sein Verständnis appellieren und ihn der Mittel berauben, ihrer Herr zu werden. Ein Wesen ohne Verständnis, ein ungeistiges Wesen könnte demnach seiner Inkongruenz mit der Situation nicht gewahr werden. Nur ein geistiges Wesen vermag auf solches Mißverständnis entsprechend, d. h. in diesem Falle mit einem Bruch zwischen sich und seinem Leib zu reagieren. Lachen und Weinen sind unbeherrschte und gebrochene Antworten auf Situationen, welche beherrschte, auf geordnetem Verhältnis der Person zu ihrem Leib beruhende und solches Verhältnis wahrende Antworten unmöglich machen, doch die Person zugleich zur Antwort zwingen. Wenn die Formel erlaubt ist: sinnvolle Fehlreaktionen mit Hilfe eines Bruchs zwischen Mensch und Körper. Die Distanziertheit der menschlichen Person wird als Bruch im Verlust ihrer Selbstbeherrschung sichtbar. Ein physischer Automatismus tritt an die Stelle artikulierter, von der Person selbst ausgehender Antworten. Ein Wesen ohne Distanz, ohne Exzentrum kann nicht objektivieren, nicht begreifen, kennt weder Sinn noch Unsinn und vermag darum weder zu lachen noch zu weinen. Es vermag, da es nicht »über sich« steht, auch nicht »unter sich« zu fallen. Nur wer Selbstbeherrschung besitzt, kann sie verlieren. In ihrem Verlust wird die Distanziertheit, die Geistigkeit manifestiert. Ihr explosiver und desastreuser Ausdruck reißt auch die Mimik mit sich, läßt aber der Person gerade keine Freiheit zu ausdrückender Gebärde mehr. Sie ist das katastrophale Ende aller Mimik, wiewohl darin ein Zeugnis menschlicher Distanz und ein Monopol des Menschen.
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ma reazioni catastrofiche ai limiti del comportamento umano. Sono accessi che coinvolgono la mimica, ma nella perdita dell’autocontrollo, cioè del dominio sul proprio corpo. Una perdita che colpisce l’uomo in situazioni a cui egli non è in grado di dare una risposta, di divenirne padrone attraverso atteggiamenti polivalenti o immediati, appellandosi alla razionalità o sottraendovisi. Un essere privo di ragione, un essere non spirituale, non si accorge della propria incongruenza alla situazione. Solo un essere spirituale è in grado di corrispondere a una situazione equivoca e di reagirvi; in questo caso, ponendo una frattura tra sé e il proprio corpo. Riso e pianto sono risposte incontrollate e di netta cesura con situazioni che rendono impossibile una compassata risposta fondata sul regolare rapporto della persona al corpo, una risposta che tuteli detto rapporto; e tuttavia la persona è costretta a rispondere. Se la formula è consentita: riso e pianto sono eloquenti reazioni difettose che introducono una rottura tra uomo e corpo. Che la persona umana sia distanziata da se stessa diviene qui manifesto sotto forma di frattura e di perdita dell’autocontrollo; un automatismo fisico compare al posto di un’articolata risposta della persona. Un essere incapace di distanza, privo di eccentro7, non può obiettivare, non può comprendere, non conosce senso né non senso, e non può ridere, né piangere. Esso non è “oltre sé”, né può cadere “sotto di sé”. Solo colui che possiede il dominio di se stesso può perderlo. In questa perdita si manifestano l’essere distanziato e la spiritualità. L’espressione esplosiva e disastrosa della perdita trascina con sé la mimica, senza lasciare più alla persona libertà alcuna sui gesti espressivi: rappresenta quindi la fine rovinosa di qualunque mimica, sebbene sia testimonianza dell’essere distanziato e del monopolio dell’uomo.
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Im Lächeln dagegen bewahrt er seine Distanz zu sich und zur Welt und vermag sie, mit ihr spielend, zu zeigen. Lachend und weinend ist der Mensch das Opfer seines Geistes, lächelnd gibt er ihm Ausdruck. In seiner lehrreichen Auseinandersetzung mit den Auffassungen Duchennes, Spencers und Dumas’ vom Mechanismus des Lächelns kommt Buytendijk (Alg. Theorie der menschelijke houding en beweging, Utrecht-Antwerpen 1948), wiewohl am üblichen Gedanken festhaltend, Lächeln sei Einleitung des Lachens, Ausdruck der Freude (S. 347 f.), zu dem trefflichen Satz, seine Paradoxie bestünde in der Spannung einer Muskelgruppe, welche Spannung als Entspannung einer aktiven Ruhehaltung erlebt werde. Diese bilde zugleich die Vorbedingung für die Entwicklung einer ausdrucksfähigen Innerlichkeit, somit für die Erscheinung des Lächelns als echter Ausdrucksbewegung. Hiermit ist physiologisch fixiert, was wir Abstand im Ausdruck zum Ausdruck nannten. Sicher trifft auch seine Zeichnung der Genese etwas Richtiges, die er als Entwicklung aus einer puren Reaktion auf ein passiv erlebtes ambivalentes Lustgefühl, den Kitzel, zu einem aktiven Lächeln, einem Suchen nach expansivem Gefühl – wir sprechen von Lockerung – sieht. Das Lächeln wird dann Ausdruck einer Vorwegnahme und zugleich Reaktion auf eine sinnlich bestimmte Empfindung, die sensorische Verlegenheit. Freilich scheint mir die Entfaltung des ausdrücklichen Lächelns hier zu stark an ein sinnliches Anfangsstadium gebunden und seiner Emanzipationsfähigkeit zu wenig Rechnung getragen. Selbst wenn das erste Lächeln des Kleinkindes Reaktion auf kitzelnde Reize wäre, brauchte seine weitere Ausbildung zum Ausdruck der Lockerung nicht an Verlegenheit und strukturell verwandte »Freuden« gebunden oder darauf bezogen zu sein. Hier macht sich auch für die Entwicklungspsychologie des Phänomens die einseitige Auffassung als Einleitung des Lachens und als Ausdruck der Freude störend bemerkbar.
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Con il sorriso, invece, l’uomo conserva la distanza da sé e dal mondo e, giocando con essa, la mostra. Nel riso e nel pianto l’uomo è vittima del suo spirito; sorridendo gli dà espressione. Nel suo interessante confronto con le concezioni sul meccanismo del sorriso di Duchenne, Spencer e Dumas, F.J.J. Buytendijk8, sebbene si attenga alla consueta idea secondo cui il sorriso non è che un’introduzione al riso e un’espressione di piacere9, giunge a sostenere il principio della paradossalità del sorriso, consistente nella contrazione di un gruppo di muscoli vissuta sotto forma di distensione come attiva quiete. Esso costituisce insieme il presupposto per una concezione dell’interiorità espressiva e del sorriso come autentico movimento di espressione, sostenendo dal punto di vista fisiologico ciò che abbiamo chiamato la distanza dall’espressione nell’espressione. Indovinata è anche la descrizione della sua genesi, che egli concepisce come sviluppo di un sorriso attivo, come la ricerca di una sensazione espansiva – noi abbiamo parlato di rilassamento –, a partire dalla semplice reazione a un’ambigua sensazione di piacere vissuta passivamente, il solletico. Il sorriso diviene così espressione di un’anticipazione e, contemporaneamente, reazione a una precisa sensazione, un imbarazzo sensibile. Mi sembra, però, che venga troppo accentuato il legame del sorriso con l’idea di uno stato sensibile iniziale e trascurata la sua capacità di emancipazione. Se pure il primo sorriso del bambino fosse una reazione a un simile stimolo, non ci sarebbe alcun bisogno di vincolare o di rimandare il formarsi di un’espressione di rilassamento all’imbarazzo e a “piaceri” strutturalmente affini. Una simile interpretazione, limitata all’idea del sorriso come momento introduttivo del riso ed espressione di piacere sembrerebbe piuttosto sconveniente anche per una psicologia dello sviluppo del fenomeno.
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Wie für die Genese des Lachens und Weinens hat auch für die Genese des Lächelns der methodische Grundsatz zu gelten, daß man erst den vollentwickelten Ausdruck in seinem vollen Sinn verstanden haben muß, will man seine Keimformen richtig taxieren. Nur dann wird die Gefahr der Überbestimmung ebenso wie der Unterbestimmung eines Ausdrucksphänomens vermieden. Das Diffuse in den kindlichen Reaktionen kann erst zum Ansatz eines Studiums gemacht werden, wenn ihre entwickelten Endstadien bekannt sind, so aufschlußreich auch der erinnernde Rückblick auf ihre Keimformen bleibt. Die Formel: Lächeln ist Ausdruck des Geistes, scheint das Phänomen viel zu hoch und einseitig im Hinblick auf gewisse Formen des Lächelns beim Erwachsenen zu nehmen, für die einfachen Freuden des sinnlichen Wohlseins und Behagens und für die entsprechenden Gebärden des Kleinkindes dagegen verfehlt. Nimmt man sie freilich in verengter Bedeutung, als Gebärdensprache und Sinnbezüge andeutendes Gebaren, dann fällt das sinnlich-reaktive und vitale Lächeln aus dem Bereich der Formel. Jedoch auch das »nicht mehr« andeutende und zu verstehen gebende Lächeln des Friedens, des Erlöstseins und der Entrückung, das sich bisweilen auf dem Antlitz des Toten malt, gehörte dann nicht mehr dazu. Wird Lächeln Ausdruck, dann drückt es in jeder Form die Menschlichkeit des Menschen aus. Nicht nur so wie jede Expression bei ihm, auch die ungehemmteste der starken Affekte, noch etwas Menschliches durchscheinen läßt, nicht wie Lachen und Weinen, die als seine Monopole in spezifischen Formen eines Verlusts seiner Selbstbeherrschung zum Vorschein kommen, sondern in aktiver Ruhehaltung und beherrschtem Abstand. Noch in den Modifikationen der Verlegenheit, Scham, Trauer, Bitterkeit, Verzweiflung kündet Lächeln ein Darüberstehen. Das Menschliche des Menschen zeigt sich nicht zufällig in leisen und gehaltenen Gebärden,
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Come per la genesi del riso e del pianto, deve infatti valere anche per la genesi del sorriso il principio metodologico di comprendere anzitutto l’espressione nel suo completo sviluppo e pieno significato per poi valutare correttamente le sue forme germinali. Solo così è possibile evitare il pericolo di una sopradeterminazione o di una sottodeterminazione del fenomeno espressivo. La reazione infantile del sorriso può costituire l’inizio di uno studio se se ne conoscono anche le successive fasi di pieno sviluppo; solo in questo modo il ritorno alle forme germinali è proficuamente informativo. La formula secondo cui il sorriso è l’espressione dello spirito sembra sopravvalutare il fenomeno, limitarne la considerazione a certe forme di manifestazione nell’adulto; e al contrario non essere adatta per semplici forme di gioia, di piacere sensibile, di soddisfazione e dei corrispondenti comportamenti infantili. E se pure se ne restringe il significato a quello di linguaggio gestuale e comportamento allusivo, le manifestazioni del sorriso più attinenti a stati vitali e sensibili non rientrano nella suddetta formula. Come non vi rientrano il quieto sorriso che lascia intendere o allude al “non più”, o il sorriso estatico e liberatorio che talvolta si dipinge sul volto del morto. Il sorriso è espressione e, in ogni sua forma, esprime l’umanità dell’uomo. Non solo come lo fa ogni altra espressione, fosse anche il più libero e intenso degli affetti: esso lascia tralucere qualcosa di propriamente umano. E non nella forma in cui lo possono il riso e il pianto, che rivelano il monopolio umano secondo specifiche modalità di perdita dell’autocontrollo, ma come attiva quiete e controllata distanza. Anche nelle tonalità dell’imbarazzo, del pudore, della tristezza, dell’amarezza, della disperazione, dal sorriso traspare uno “stare oltre”. Non a caso l’essenza dell’uomo si mostra in atteggiamenti silenziosi e riservati;
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sein Adel in Lockerung und Spiel; wie eine Ahnung im Anfang, wie ein Siegel im Ende. Überall, wo es aufscheint, verschönt sein zartes Leuchten, als trage es einer Göttin Kuß auf seiner Stirn.
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la sua nobiltà nella mitigazione e nel gioco: come un presagio al principio, un sigillo sulla fine. Ovunque esso compaia, la sua tenera luce risplende come portasse in fronte il bacio di una dea.
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Note
1. I termini Auflockerung e Lockerung, tradotti a seconda dei casi con rilassamento, allentamento o mitigazione, rimandano all’idea di un effetto di mediazione dell’emozione caratterizzato da un distanziamento (Distanzierung). 2. Il rapporto tra io e corpo si determina nella forma dell’autocontrollo (Selbstbeherrschung) che, lungi dal denotare una condizione di stabilità o di equilibrio (l’uomo è anzi privo di equilibrio, sia nei confronti dell’ambiente sia rispetto a se stesso; è un essere inquieto e instabile), rimanda alla caratteristica strutturale dell’essenza umana, l’eccentricità. L’uomo propriamente “ha” un corpo e un’individualità che è in grado di gestire secondo precise modalità, ed egualmente “ha” un ambiente col quale si confronta, perché “sa” di se stesso e dell’altro da sé; e ogni sua azione e ricezione soggiace a uno stato di autocoscienza. Si parla dunque di autocontrollo nel senso di una “costrizione”, in qualunque circostanza, a valutare il complesso sistema di oggettivazioni e interrelazioni concernenti il proprio corpo (vissuto come tale e dunque Leib, non semplice Körper) e la propria soggettività (che nel massimo grado di auto-mediazione assume le caratteristiche dell’io eccentrico). Il termine persona (Person) indica l’io come soggetto-oggetto di se stesso, che nel riso e nel pianto manifesta una momentanea “perdita” della capacità di fronteggiare una situazione; a essa viene data una risposta in cui una frattura si sostituisce a una mediazione controllata o razionale e un meccanismo si incarica di quietanzarla.
72 3. Si tratta dell’Antriebsform, con cui Ludwig Klages (1872-1956) indica una forza (una variante della Triebhaft) che accompagna il sentimento (Gefühl) determinandone la capacità affettiva. Cfr. L. Klages, Ausdrucksbewegung und Gestaltungskraft. Grundlegung der Wissenschaft von Ausdruck, in Id., Sämtliche Werke, vol. VI, Bouvier, Bonn 1964, p. 178 (tr. it., Espressione e creatività, a cura di D. Di Maio, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2015). 4. Il termine usato qui da Plessner non è Mimik, ma Mienenspiel (che si potrebbe tradurre alla lettera con “gioco mimico”), probabilmente per sottolineare che quel gioco che si attiva nel sorriso, tra il sorridere (in quanto gesto spontaneo, naturale) e il significato simbolico che viene a esprimere – quel gioco di mediazione e di presa di distanza che ne fa l’arte dell’allusione –, ha la sua radice già nell’atteggiamento naturale, esso stesso “gioco gestuale” capace, in quanto tale, di rivelarsi distanziatore e distanziabile da se stesso. 5. Diversamente dall’uomo, che ha una relazione complessa e pluri mediata con l’ambiente (Umwelt) e che anzi propriamente si muove in un mondo (Welt), l’animale, definito da Plessner “centrico” (zentrisch), benché avverta la separazione dal proprio ambiente (Umfeld o Umgebung) si trova con esso in uno stretto rapporto di reciprocità, chiuso all’interno del circuito vitale prodotto dalla loro relazione. 6. L’espressione menschliche Position rimanda alla teoria della posizionalità (Positionalität), elaborata da Plessner nell’opera Die Stufen des Organischen und der Mensch (tr. it., I gradi dell’organico e l’uomo, a cura di V. Rasini, Bollati Boringhieri, Torino 2006), del 1928, sotto forma di deduzione aprioristica dei caratteri d’essenza della natura organica. Individuata nel “principio posizionale” la base logico-ontologica per la definizione della realtà vivente – che “si pone”, “prende posizione” rispetto a sé e all’altro da sé, in opposizione alla realtà fisica, che semplicemente “è” –, il sistema della graduazione ha il proprio culmine nell’eccentricità dell’uomo, il quale, trovandosi nella condizione di massima mediazione con se stesso e con il mondo circostante, è contemporaneamente il più presente a se stesso e il più lontano da sé (posto “dietro” di sé, in un “punto di fuga”). È chiaro, dunque, perché il sorriso rappresenti lo specchio della posizione umana: rende manifesta quella distanziabilità (riflessività infinita) caratteristica della sua essenza.
73 7. Eccentro (Exzentrum) è termine correlato a Exzentrizität, il carattere posizionale dell’uomo, e indica l’oltre-il-centro, la proiezione al di là di sé possibile alla natura umana. 8. Con F.J.J. Buytendijk, fisiologo e studioso di psicologia animale, Plessner aveva scritto nel 1925 il saggio Die Deutung des mimischen Ausdrucks (ora in H. Plessner, Gesammelte Schriften VII, cit., pp. 67-130); dietro invito di Buytendijk, Plessner, esule dalla Germania nazista, fu ospite e collaboratore dal 1934 dell’Istituto di Fisiologia di Groninga. Qui Plessner si richiama allo scritto Algemene Theorie der menselijke houding en beweging, Utrecht-Antwerpen 1948. 9. Ivi, pp. 347 ss. (l’indicazione al saggio di Buytendijk è fornita dallo stesso Plessner).
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Nota biografica
1892. Helmuth Plessner nasce a Wiesbaden il 4 settembre, figlio di un medico che dirige una clinica privata. Cresce in un ambiente ricco di stimoli e di interessi scientifici. 1910-1912. Appassionato alle scienze naturali e della vita, si iscrive alla facoltà di Medicina dell’Università di Freiburg, dove frequenta le lezioni del noto fisiologo Johannes von Kries e stringe amicizia con il botanico Albrecht Reuber. Dopo soli due semestri si trasferisce a Heidelberg, per dedicarsi alla zoologia, inizialmente sotto la guida di Otto Bütschli, poi di Curt Herbst e Wolfgang von Buddenbrock (entrambi pionieri nel campo della zoologia sperimentale) e infine del più noto esponente del neovitalismo contemporaneo, il biologo Hans Driesch. Contemporaneamente, avendo maturato un considerevole interesse per la filosofia, Plessner segue i seminari del neokantiano Wilhelm Windelband e frequenta ambienti dove si incontrano filosofi e sociologi affermati. 1913. Prosegue le ricerche zoologiche e, anche se con notevoli perplessità, rifiuta la proposta di Windelband di presentare come dissertazione universitaria un lavoro squisitamente filosofico. Compare la sua prima pubblicazione di rilievo, Die wissenschaftliche Idee. Ein Entwurf über ihre Form (ora in
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Gesammelte Schriften I, pp. 7-141), ispirato a un recente saggio di Driesch. 1914-1915. Decide di approfondire gli studi di filosofia e si reca a Göttingen, dove insegna il fondatore della scuola fenomenologica, Edmund Husserl, e si dedica in modo particolare allo studio di Kant. 1916. Dopo che Husserl ebbe lasciato Göttingen per Freiburg, Plessner si trasferisce a Erlangen, dove insegna un allievo di Windelband, Paul Hensel. Qui si laurea in filosofia, con uno scritto che verrà ampliato e pubblicato nel 1918 con il titolo Krisis der Transzendentalen Wahrheit im Anfang (ora in Gesammelte Schriften I, pp. 143-310). 1920. Con Hans Driesch e Max Scheler, consegue a Köln l’abilitazione alla libera docenza, presentando un lavoro dal titolo Untersuchungen zu einer Kritik der Philosophischen Urteilskraft (ora in Gesammelte Schriften II, pp. 7-321) e una relazione orale sulla teoria dell’origine del linguaggio di Johann Gottfried Herder. 1923. Pubblica l’opera Die Einheit der Sinne. Grundlinien einer Ästhesiologie des Geistes (ora in Gesammelte Schriften III, pp. 7-315) una sorta di “critica dei sensi” che affianca filosofia trascendentale kantiana e metodo fenomenologico. Comincia a pensare a un ampio progetto di indagine antropologica, di carattere filosofico ma in stretto contatto con le scienze contemporanee. 1924. Dopo appena un anno, appare Grenzen der Gemeinschaft. Eine Kritik des sozialen Radikalismus (ora in Gesammelte Schriften V, pp. 7-133), la prima opera in cui vengono trattate questioni di carattere etico-sociale. Ha inizio l’amicizia con il fisiologo olandese Frederik J.J. Buytendijk, conosciuto in casa Scheler.
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1925. Esce il primo numero di «Philosophischer Anzeiger. Zeitschrift für die Zusammenarbeit von Philosophie und Einzelwissenschaft» (ne appariranno complessivamente 4 volumi, tra il 1925 e il 1930), una rivista interdisciplinare curata da Plessner in collaborazione con alcuni dei maggiori esponenti della cultura filosofica e scientifica del tempo. Tra gli altri vi è Georg Misch, attraverso il quale Plessner si avvicina al pensiero di Wilhelm Dilthey. In questo primo numero della rivista, Plessner pubblica il saggio, scritto in collaborazione con Buytendijk, Die Deutung des mimischen Ausdrucks. Ein Beitrag zur Lehre vom Bewußtsein des anderen Ichs (ora in Gesammelte Schriften VII, pp. 67-130). 1928. Plessner pubblica il suo capolavoro di filosofia della natura e dell’uomo, Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie (ora in Gesammelte Schriften IV). L’opera, in cui presenta in forma sistematica la teoria dei modali organici, introduce la maggior parte dei concetti chiave del suo pensiero antropologico. 1931. Esce il volume dedicato al rapporto tra antropologia e politica Macht und menschliche Natur. Ein Versuch zur Anthropologie der geschichtlichen Weltansicht (ora in Gesammelte Schriften V, pp. 135-234). 1932-1933. A causa delle disposizioni razziali del regime hitleriano, Plessner, di padre ebreo, deve lasciare l’insegnamento a Köln. Si trasferisce dapprima in Turchia; qui riceve l’invito dell’amico Buytendijk a recarsi a Groningen, presso l’Istituto di Fisiologia da lui diretto. 1934-1951. Plessner parte per l’Olanda nel gennaio del 1934. A questo periodo pare risalga la redazione di Lachen und Weinen. Eine Untersuchung der Grenzen menschlichen Verhaltens (ora in Gesammelte Schriften VII, pp. 201-387), ma il saggio uscirà solo nel 1941. Da alcune conferenze tenute all’Università di Groningen ha origine il saggio, pubblicato
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nel 1935, Das Schicksal deutschen Geistes im Ausgang seiner bürgerlichen Epoche, ristampato nel 1959 con il titolo Die Verspätete Nation. Über die Verfügbarkeit bürgerlichen Geist (ora in Gesammelte Schriften VI, pp. 7-223). Dopo i primi due anni di soggiorno a Groningen, ottenuto un sostegno finanziario dalla Fondazione Rockefeller, Plessner diviene docente di sociologia. Sarà costretto a lasciare la cattedra con l’occupazione tedesca e a trasferirsi prima a Utrecht, poi ad Amsterdam. Ritorna a Groningen solo nel 1946, dopo la liberazione, e vi resterà fino al 1951 come docente universitario di filosofia. 1952-1961. Nel 1952 viene chiamato dall’Università di Göttingen per ricoprire la cattedra di sociologia. Plessner accetta l’incarico a condizione di potersi occupare anche di filosofia. L’anno successivo pubblica la raccolta di saggi dal titolo Zwischen Philosophie und Gesellschaft. Ausgewählte Abhandlungen und Vorträge (Franke, Bern 1953), contenente anche il saggio Das Lächeln, pubblicato per la prima volta nel 1950 in un volume collettivo. Si occupa della situazione delle università tedesche, una questione alla quale dedica anche alcune pubblicazioni. Durante il periodo di rettorato universitario, tra il 1960 e il 1961, contribuisce alla promozione di un programma di istruzione per adulti e favorisce i rapporti inter universitari. 1962. Per un anno, è professore alla “New School for Social Research” di New York. 1963-1976. Successivamente si stabilisce nei pressi di Zurigo, dalla cui Università sarà invitato a tenere lezioni e seminari. Nel 1964 riceve la laurea honoris causa in filosofia dall’Università di Groningen e nel 1972 il medesimo riconoscimento dall’Università di Zurigo. Tra la seconda metà degli anni Sessanta e la seconda metà degli anni Settanta, quando ancora la sua attività intellettuale è feconda, escono alcune raccolte di saggi: Diesseits der Utopie. Ausgewählte Beiträge zur Kultur-
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soziologie (Diederichs, Düsseldorf-Köln 1966); Philosophische Anthropologie (Fischer, Frankfurt a.M. 1970); Die Frage nach der Conditio humana. Aufsätze zur philosophischen Anthropologie (Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1976). 1980-1985. Nel 1980, l’editore Suhrkamp di Frankfurt a.M. inizia la pubblicazione delle Gesammelte Schriften, in 10 volumi. Il 1985, l’anno in cui escono gli ultimi due volumi, è anche quello della scomparsa di Plessner.
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Nota bibliografica
Opere di Helmuth Plessner Plessner, H., Gesammelte Schriften, Herausgegeben von Günther Dux, Odo Marquard und Elisabeth Ströker unter Mitwirkung v. Richard W. Schmidt, Angelika Wetterer und Michael-Joachim Zemlin, Suhrkamp-Verlag, Frankfurt a.M. 1980-1985 (poi in stw 1624-1633, 2003): Band I. Frühe philosophische Schriften 1 Die wissenschaftliche Idee. Ein Entwurf über ihre Form (1913) Krisis der transzendentalen Wahrheit im Anfang (1918) Band II. Frühe philosophische Schriften 2 Untersuchungen zu einer Kritik der philosophischen Urteilskraft (1920) Kants System unter dem Gesichtspunkt einer Erkenntnistheorie der Philosophie (1923) Kants Kunstsystem der enzyklopädischen Propädeutik (1976)
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Band III. Anthropologie der Sinne Die Einheit der Sinne. Grundlinien einer Ästhesiologie des Geistes (1923) Anthropologie der Sinne (1970) Band IV. Die Stufen des Organischen und der Mensch Die Stufen des Organischen und der Mensch. Einleitung in die philosophische Anthropologie Band V. Macht und menschliche Natur Grenzen der Gemeinschaft. Eine Kritik des sozialen Radikalismus (1924) Macht und menschliche Natur. Ein Versuch zur Anthropologie der geschichtlichen Weltansicht (1931) Über das gegenwärtige Verhältnis zwischen Krieg und Frieden (1939/1949) Die Emanzipation der Macht (1962) Band VI. Die Verspätete Nation Die verspätete Nation. Über die Verführbarkeit bürgerlichen Geistes (1933/1959) Deutschlands Zukunft (1948) »Kannitverstaan.« Hollands Verhältnis zu Deutschland (1952) Analyse des deutschen Selbstbewußtseins (1960) Die Legende von den zwanziger Jahren (1962) Ein Volk der Dichter und Denker? (1964) Wie muß der deutsche Nation-Begriff heute aussehen? (1967) Band VII. Ausdruck und menschlicher Natur Zur Geschichtsphilosophie der bildenden Kunst seit Renaissance und Reformation (1913) Über die Möglichkeit einer Ästhetik (1925) Zur Phänomenologie der Musik (1925) Die Deutung des mimischen Ausdrucks. Ein Beitrag zur Lehre vom Bewußtein des anderen Ichs (1925)
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Sensibilité et raison. Contribution à la philosophie de la musique (1936) Mit deutscher Zusammenfassung: Zur Anthropologie der Musik (1951) Lachen und Weinen. Eine Untersuchung der Grenzen menschlichen Verhaltens (1941) Zur Anthropologie der Nachahmung (1948) Zur Anthropologie des Schauspielers (1948) Das Lächeln (1950) Ausdruck und menschliche Existenz (1957) Der imitatorische Akt (1961) Zur Hermeneutik nichtsprachlichen Ausdrucks (1967) Die Musikalisierung der Sinne. Zur Geschichte eines modernen Phänomens (1972) Band VIII. Conditio humana Die physiologische Erklärung des Verhaltens. Eine Kritik an der Theorie Pawlows (1935) Die Aufgabe der Philosophischen Anthropologie (1937) Mensch und Tier (1946) Über den Begriff der Leidenschaft (1950) Über das Welt-Umweltverhältnis des Menschen (1950) Mit anderen Augen (1953) Über Menschenverachtung (1953) Über einige Motive der Philosophischen Anthropologie (1956) Die Frage nach der Conditio humana (1961) Elemente menschlichen Verhaltens (1961) Immer noch Philosophische Anthropologie? (1963) Ein Newton des Grashalms? (1964) Der Mensch als Naturereignis (1965) Zur Frage der Vergleichbarkeit tierischen und menschlichen Verhaltens (1965) Ungesellige Geselligkeit (1966) Der Mensch im Spiel (1967)
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Der Mensch als Lebewesen (1967) Das Problem der Unmenschlichkeit (1967) Der kategorische Konjunktiv. Versuch über die Leidenschaft(1968) Homo absconditus (1969) Trieb und Leidenschaft (1971) Der Aussagewert einer Philosophischen Anthropologie (1973) Zur Anthropologie der Sprache (1975) Band IX. Schriften zur Philosophie Vitalismus und ärztliches Denken (1922) Über den Realismus in der Psychologie (1922) Über die Erkenntnisquellen des Arztes (1923) Das Problem der Natur in der gegenwärtigen Philosophie (1930) Geistiges Sein. Über ein Buch Nicolai Hartmanns (1930) Die Frage nach dem Wesen der Philosophie (1934) Phänomenologie. Das Werk Edmund Husserls (1938) Zum gegenwärtigen Stand der Frage nach der Objektivität historischer Erkenntnis (1944) Gibt es einen Fortschritt in der Philosophie? (1947) Levensphilosophie en Phaenomenologie (1949) Über die Beziehung der Zeit zum Tode (1952) Deutsches Philosophieren in der Epoche der Weltkriege (1953) Das Identitätssystem (1954) Das Ärgernis des Denkens. Zum Thema: Schuld und Aufgabe der Philosophie (1955) Moderner Wissenschaftsbegriff und philosophische Tradition (1956) Zum Situationsverständnis gegenwärtiger Philosophie (1958) Bei Husserl in Göttingen (1959) Husserl in Göttingen (1959)
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Holland und die Philosophie (1966) Das gegenwärtige Interesse der Philosophie an der Sprache (1966) Was bedeutet Untersuchen in der Philosophie? (1968) Band X. Schriften zur Soziologie und Sozialphilosophie Zur Soziologie der modernen Forschung (1924) Die Utopie in der Maschine (1924) Abwandlungen des Ideologiegedankens (1931) Die Entzauberung des Fortschritts (1936) Over het object en de beteekenis der Sociologie (1938) Aspekte sozialer Gesetzmäßigkeit (1949) Nachwort zum Generationsproblem (1949/1966) Soziologie und Anthropologie (1950) Über Elite und Elitenbildung (1955) Die Funktion des Sports in der industriellen Gesellschaft (1956) Zur Lage der Geisteswissenschaften (1958) Zur Frage menschlicher Beziehungen in der modernen Kultur (1959) Der Weg der Soziologie in Deutschland (1960) Das Problem der Öffentlichkeit und die Idee der Entfremdung (1960) Soziale Rolle und menschliche Natur (1960) Wissenschaft und moderne Gesellschaft (1961) Universität und Erwachsenenbildung (1962) Über die gesellschaftlichen Bedingungen der modernen Malerei (1965) Selbstentfremdung, ein anthropologisches Theorem? (1969) Technik und Gesellschaft in Gegenwart und Zukunft (1969) Selbstdarstellung
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Plessner, H. (a cura di), «Philosophischer Anzeiger. Zeitschrift für die Zusammenarbeit von Philosophie und Einzelwissenschaft», Bonn 1925-1930, Jg. 1-4. Plessner, H. (a cura di), Das Umweltproblem, in Symphilosophein. Bericht über den Dritten Deutschen Kongreß für Philosophie in Bremen 1950, Lehnen, München 1952. Plessner, H., Anthropologie philosophique, in R. Klibansky (a cura di), Philosophy in the mid-century. A Survey - La philosophie au milieu du vingtième siècle. Chroniques II, La Nuova Italia, Firenze 1958, pp. 85-90. Lessing, H.-U. - Mutzenbecher, A. (a cura di), Briefwechsel J. König - H. Plessner, Alber, Freiburg 1994. Plessner, H., Politik, Anthropologie, Philosophie. Aufsätze und Vorträge, a cura di S. Giammusso, H.-U. Lessing, Fink Verlag, München 2001. Plessner, H., Elemente der Metaphysik, Eine Vorlesung aus dem wintersemester 1931/32, a cura di H.-U. Lessing, Akademie Verlag, Berlin 2002.
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Plessner, H., Potere e natura umana. Per un’antropologia della visione storica dell’uomo, a cura di B. Accarino, Manifestolibri, Roma 2006. Plessner, H., L’uomo: una questione aperta, a cura di M. Boccignone, Roma, Armando, Roma 2007. Plessner, H., Studi di Estesiologia. L’uomo, i sensi, il suono, a cura di A. Ruco, CLUEB, Bologna 2007. Plessner, H., Antropologia dei sensi, a cura di M. Russo, Cortina, Milano 2008. Plessner, H., Antropologia filosofica, a cura di O. Tolone, Morcelliana, Brescia 2010.
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Saggi su Helmuth Plessner Indichiamo qui una selezione dei principali scritti sul lavoro di Helmuth Plessner, con particolare riguardo al tema in questione e alle pubblicazioni in lingua italiana. Per una bibliografia completa e aggiornata è possibile consultare il sito della Helmuth Plessner Gesellschaft al seguente indirizzo: http:// www.helmuth-plessner.de. Aa. Vv., Philosophical Anthropology and Contemporary German Thought, in «Iris. European Journal of Philosophy and Public Debate», 1, 2009. Accarino, B. (a cura di), Ratio Imaginis. Uomo e mondo nell’antropologia filosofica, Ponte alle Grazie, Firenze 1991. Accarino, B. - Schloßberger, M. (a cura di), Expressivität und Stil. Helmuth Plessners Sinnes- und Ausdrucksphilosophie, in «Internationales Jahrbuch für Philosophische Anthropologie», Band 1, Akademie, Berlin 2008. Accarino, B. (a cura di), Espressività e stile. La filosofia dei sensi e dell‘expressione in Helmuth Plessner, Mimesis, Milano 2009. Asemissen, H.U., Egologische Reflexion, in «Kantstudien», 50, 1958-59, pp. 262-272. Borsari, A. (a cura di), Antropologia filosofica e pensiero tedesco contemporaneo, in «Iride» 39, XVI, agosto 2003. Borsari, A. - Russo, M. (a cura di), Helmuth Plessner. Corporeità, natura, storia nell’antropologia filosofica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006.
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Indice
Introduzione L’espressione, il riso, il sorriso di Vallori Rasini
p. 9
Nota editoriale
p. 31
Helmuth Plessner Das Lächeln
p. 34
Helmuth Plessner Il sorriso
p. 35
Nota biografica
p. 75
Nota bibliografica
p. 81
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Canone europeo | 3
Collana diretta da Andrea Tagliapietra
Misterioso ed estremamente eloquente, il sorriso col suo fascino ha stregato poeti, musicisti, scultori e pittori di ogni tempo, ispirando alcune delle opere più straordinarie della cultura mondiale: dalle molte rappresentazioni orientali del Buddha all’etrusco Apollo di Veio; dai ritratti in affresco dell’antichità alla ineguagliabile Gioconda, per sedurre infine l’arte relativamente giovane della fotografia. Al contempo, la sua spontanea insorgenza – talora apparentemente inconsapevole, talaltra pregna della massima concentrazione raziocinante – ha incuriosito scienziati e psicologi. Solitamente viene accostato al riso, come sua forma diminutiva o contenuta. Secondo Plessner, invece, il sorriso appartiene a una specie sui generis di espressione che, proprio per la sua polivalente performatività, non ha nulla a che vedere con il significato antropologico del riso e denota la straordinaria capacità dell’essere umano di allontanarsi da se stesso e assumere maschere.
ISBN E-book 9788885716513
€ 5,00