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Italian Pages 272 [198] Year 2019
SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA 5 Napoli nello specchio del cinema (Registi e film nel II dopoguerra dal 1945 al 1990) I circoli del cinema a Napoli (1947 – 1968) e altri saggi Copyright 2019 Marina Napolitano Doriomedoff Tutti i diritti riservati Edizione, fotografie e progetto grafico a cura di Marina Napolitano Doriomedoff Si ringrazia la gentile Signora Sigrid Bastin-Pagenel che mi ha concesso l’uso di una sua bellissima fotografia per illustrare lo “In memoriam” di questo volume. 2
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4 IN MEMORIAM “…c’est l’amour vrai, et lui seul, qui fait chanter les oiseaux et rend bavards les rossignols, et met en verve les bacchants. L’amour est un chant d’oiseau dans le ciel.” VLADIMIR JANKÉLÉVITCH - Les vertus et l’amour A mio marito Firenze 1989 – Napoli 2019 5 DELLO STESSO AUTORE Totò, uno e centomila Tempo Lungo, Napoli 2001 G. Leopardi. Un taccuino napoletano, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2007 Il memoriale di Seneca. Un galateo del ben vivere e del ben morire, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2008 Shakespeare: specchio del mondo. Lo stile come messaggio, Ist. Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2010 Cinema d’autore off Hollywood, Ist.Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2012 ANSIA VIVA – Momenti lirici Amazon – Ebook Kindle – 2016 IDEOGRAMMI esercizi a mente libera POLITICOPOLI epigrammi sale e pepe Amazon – Ebook Kindle - 2016 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume 1: Ingmar Bergman Robert Bresson Andrej Arsen’evič Tarkovskij
Amazon – Ebook Kindle + Libro – 2016-2018 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume 2: Shakespeare sullo schermo, Laurence Olivier, Akira Kurosawa,… Amazon – Ebook Kindle + Libro – 2016-2018 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume 3: Film significato e realtà Amazon – Ebook Kindle + Libro - 2017-2018 SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA Volume 4: Cineasti russi a Parigi (1917-1950), Ėjzenštejn teorico Tra gelo e disgelo & altri saggi Amazon – Ebook Kindle + Libro - 2018 6 INDICE IN MEMORIAM 5 Dello stesso autore 6 BIOGRAFIA 11 “A GUISA DI PREFAZIONE…” 13 NAPOLI NELLO SPECCHIO DEL CINEMA 15 I. Napoli nel II dopoguerra 17 II. L’amaro “stil nuovo” 25 III. La Napoli di Rossellini 30 IV. Tra populismo e melodramma 41 V. Eduardo in celluloide 56 VI. Comencini, De Santis, Zampa e Castellani 6 8
VII. Totò 78 VIII. De Sica e l’oro di Partenope 93 IX. La sfida di Rosi 1 08 X. Le quattro giornate 126 XI. Medioevo contemporaneo: Ferreri e Pasolini 139 XII. Miscellanea: da “Viaggio in Italia” a “Il giudizio universale” 153 XIII. Guappi, mazzette e camorriate 163 XIV. La pelle di Napoli 175 XV. Una nuova oggettività 188 XVI. Ricominciare da tre? 205 I CIRCOLI DEL CINEMA A NAPOLI (1947 – 1968) 219 Il Centro di Filmologia e Cinema sperimentale 235 UNO STORICO NAPOLETANO DEL CINEMA: ROBERTO PAOLELLA 239 7 LA PARABOLA UMANA E INTELLETTUALE DI 244 RENATO CACCIOPPOLI Indice dei nomi 253 Indice dei film
260 Bibliografia 267 Napoli 267 Cultura generale cinematografica 268 Saggi e articoli 269 Roberto Paolella: una bibliografia essenziale 271 8
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10 BIOGRAFIA Antonio NAPOLITANO (1928-2014), nato a Napoli, Campania, è un critico e storico italiano di cinema. Tra 1947 e il 1959, Antonio Napolitano è socio poi dirigente del “Circolo Napoletano del Cinema” e di altri cineclub. Nel 1959, già insegnante abilitato in inglese, va a diplomarsi in Inghilterra in “General linguistics” . Dal 1956 inizia a collaborare a riviste letterarie e di cinema, tra quali “L’Italia letteraria”(FI), “Il Letterato”(CS), “L’altro cinema”(MI), “Cinema Sud”(AV) etc. Nel 1961 vince la cattedra di Lingua e Letteratura inglese negli Istituti Superiori statali. Nel 1960, ha ottenuto il “Premio Pasinetti-Cinema Nuovo”1 a Venezia, per la saggistica filmica e collabora a “Cinema Nuovo”(MI), “Civiltà dell’immagine”(FI), “Le Artinews”(RO) e, in seguito a “Filmcritica” e altre pubblicazioni specializzate. Per conto di tali riviste, è stato, fin dal 1959, più volte inviato alle Mostre di Venezia, Locarno, Karlowj Varj, Salerno etc. Per lunghi anni ha collaborato a quotidiani con articoli di cinema e di
linguistica (da “Il Mattino” di Napoli a “Il lavoro” di Genova, “La Voce della Campania” e altri. Vari suoi saggi sono tradotti in danese, svedese, inglese, e russo. Nel 1969 ha consegnato la libera docenza universitaria in “Storia e Critica del cinema” e ha tenuto corsi e seminari presso Università statali e private. Dal 1963, per oltre un decennio, è stato nel Direttivo degli “Incontri internazionali del Cinema” di Sorrento e in quello del “Centro di filmologia”. E’ stato chiamato numerose volte a tener conferenze e presentazioni di film in istituti di cultura in Italia e all’estero. 1 “Il Premio Pasinetti venne istituito nel 1949 all’indomani della morte di Francesco Pasinetti, lo studioso che contribuì autorevolmente alla formazione in Italia di una coscienza cinematografica. Attraverso il premio si sono rivelati alcuni dei nomi dell’attuale critica cinematografica: esso venne assegnato, tra gli altri, a Vittorio Caldiron, Guido Gerosa, Guido Oldrini, Antonio Napolitano, Ernesto Ferrerò, Giuseppe Feruzzi. In generale, anche questa IV edizione ha confermato la sua duplice funzione: segnalare nel campo della critica cinematografica nuove forze e fresche energie, e mantenere vivo il colloquio e la collaborazione che “Cinema Nuovo“ intende avere con i suoi lettori.”(“Cinema Nuovo N.151”- maggio-giugno 1961) 11 Il suo è stato un lavoro di decenni teso ad una seria valutazione e degli autori partendo da valide basi di Estetica, al di là delle mode, dello “up to date” e della “novità” ad ogni costo. E’ deceduto il 31 marzo 2014 dopo una lunga malattia. Il suo ultimo saggio scritto in 2013, su Roberto Rossellini è stato pubblicato nel 2014 dalla rivista “Arte e carte”.2 2 Per evitare ogni confusione sul nome, mio marito non ha mai scritto su pagine web come taxidrivers, lospaziobianco, close-up e altre simile. Ne si è interessato a questo tipo di film. 12
“A GUISA DI PREFAZIONE…” 13 14 NAPOLI NELLO SPECCHIO DEL CINEMA (Registi e film nel II dopoguerra dal 1945 al 1990) 15
16 I - Napoli nel II dopoguerra L’ex-capitale ha subito, nel secondo conflitto mondiale, più di cento bombardamenti. Si sono aggravati i suoi problemi: disoccupazione, sottooccupaziano, disgregazione sociale. A livello politico è emerso, ancora una volta, un clima di confuso emozionalismo: nostalgie monarchiche, desiderio di uomini dispotici o cari-smatici e una nuvola di grigio qualunquismo. Mentre la sinistra laica o marxista è in netta minoranza, un modera-tismo clericale e conservatore è quello che domina l’elettorato in modo sotterraneo o strisciante. Da esso viene praticamente appoggiate il fenomeno del “laurismo” che aggrega grossi commercianti, speculatori edili, borghesia professionista ed imprenditoriale, in nome di un rivendicazionismo partenopee mai meglio specificate. Resta, significativa testimonianza di ciò, la legge speciale approvata dal Governo De Gasperi a favore della Napoli del comandante Lauro. Continua ad aver vigore le schema del tradizionale sistema economico: sfruttamento delle risorse esterne, richiesta cronica di assistenza, poco rilievo all’industria e soprattutto al suo aggiornamento tecnologico e, di conseguenza, alla sua competitività a livello europee. Il turismo diventa, di anno in anno, una pia illusione perchè ormai si sono rovesciati in negativo i luoghi comuni sul “giardino d’Europa” : la metropoli è accusata, e non da poco, di essere un “paradiso abitato da diavoli” . La densità abitativa è altissima, l’inquinamento idrico, atmosfe-rico, perfino acustico è notevolissimo, scandaloso il rapporto tra area verde ed area fabbricata, senza dire di alcune patologie endemiche, ospedali funzionanti al 50%, carceri sovraffollate, spirale evolutiva della malavita etc. etc. Non è certo questo il luogo per ricercare all’indietro molteplici responsabilità storiche (borboniche, spagnole o aragonesi); è certo però che, sul piano antropologico, la comunità napoletana è legata ad un sistema di su-perficiale solidarietà che si viene spesso a risolvere in sostanziale asocia-lità (o individualismo esasperato). Da ciò quel “familismo amorale” (di cui parlano i teorici anglo-sassoni) che conduce a scarso spirito di iniziativa, a risparmio di energie e, in fondo a battere, vittimisticamente, il “mea culpa” sul petto degli altri. Naturalmente, con tutte le possibili e brillanti eccezioni: intellettuali molto dotati, cervelli immaginosi, alcuni imprenditori di rare capacità, e gruppi 17 politici che si battono per un rinnovamento delle strategie e delle tattiche socioeconomiche e socioculturali. Nella linea storica resta il fatto, che a Lauro subentrerà, negli anni ‘60, il bossismo gaviano che farà del clientelismo il fulcro della sua azione. Ciò non servirà affatto a risollevare le sorti della città. Questo sistema rimpiazzerà capillarmente la rete dei favori “principeschi” elargiti dall’armatore miliardario. Quasi una nuova dinastia sembra dominare Napoli, dopo quelle esem-plate ed eternate nelle nicchie della facciata inferiore del Palazzo Reale a Piazza Plebiscito. Nel quadro della più spicciola pragmaticità, essa riesce ad operare l’ag-gregazione di forze diverse, dai transfughi del partito monarchico ai qualunquisti di Giannini, alle schiere non sottili dei nostalgici del regime fascista. E riesce anche a farsi tramite con il centro statale per la distribuzione sapientemente strumentalizzata di fonti e provvidenze finanziarie.
In questo senso, da una parte svuota l’azione della destra e d’altra si aggancia con surrettizia continuità alla sua pratica e alla sua teoria. Questo continuo gioco su più scacchiere non muta molto nemmeno quando viene conclusa la coalizione con altri partiti al tempo del cosiddetto centrosinistra. Così per forza di cose, Napoli continua ad essere una città piuttosto provinciale, folkloristica, oggetto di servizi giornalistici di colore. Il suo sottoproletariato si arrangia con l’economia del vicolo, con il contrabbando, con la prostituzione, vivendo alla giornata e in modo piuttosto rassegnato. Si diverte tra una canzoncina ed uno sberleffo: educato a “parere” non riesce ad “essere” . Verso di lui viene instaurata una politica fatta di piccoli rammendi, di minuti risarcimenti, mance, talvolta vere e proprie elemosine: tutto l’as-sistenzialismo di un sottogoverno che non propone prospettive civili nè una pedagogia autenticamente democratica. In questa situazione di stagnamento paludoso una scossa è provocata da un evento amarissimo e quasi anacronistico per il XX secolo: il colera (fenomeno, in fondo, limitato come patologia ma eclatante come allarme sociale). La classe dirigente DC appare del tutto disorientata di fronte a questa nemesi e il PCI prende, in buona parte, le redini dell’organizazzione, di-mostrando di essere un nucleo compatto, abbastanza efficiente da farsi carico dell’amministrazione cittadina. E viene infatti ampiamente pre-miato nelle successive elezioni. Eppure lo stesso neosindaco Valenzi 18 parlerà poi di “frutto avvelenato” che il gruppo di potere precedente ha lasciato in eredità alle sinistre. Non è facile ricomporre le troppe disgregazioni, ripianare i vasti deficit, ristrutturare o ammodernare tanti organi (e aziende) che hanno un notevole ritardo storico nell’ambito della terza e quarta rivoluzione industriale. Persistono non poche distorsioni nel meccanismo di sviluppo (il porto, la siderurgia, il turismo), si è amplificato in modo abnorme il settore ter-ziario e la camorra si rinnova e si organizza facendosi sempre più violenta e mortifera (quasi mille uccisi nell’ultimo quinquennio). Anche la nuova amministrazione è in bilico tra accordi e disaccordi, in uno stato di crisi operativa che verrà poi ulteriormente aggravata dal sisma del novembre ‘80. Nelle vicende culturali si avvertono alcuni mutamenti alla fine del secondo conflitto mondiale. Alla necessità di influenzarli o secondarli si oppone, però, l’inadeguatezza degli strumenti organizzativi, solo raramente forniti dall’amministrazione pubblica, Tra il ‘46 e il ‘50 si costituiscono alcuni circoli come “Cultura nuova” e vengono fondati giornali progressisti come “La Voce” o liberali nel senso più ampio come “Il Giornale” . Nasce la battagliera ma poco duratura rivista “SUD” , diretta da P.Prunas, a cui collaborano nomi di spicco dell’intellettualità napoletana. Cadono alcuni cordoni sanitari, si indagano meglio i dati demopsico-logici, al di là degli stereotipi della più vieta tradizione. Anche la cultura figurativa si scrolla di dosso una decennale pigrizia e reperisce altri discorsi e altri contesti: è il caso di “Gruppo Sud” a cui ade-riscono anche intellettuali d’altro mestiere come Caccioppoli o A.M. Ortese, si impongono i nomi di Lippi, Waschimps, De Stefano. In alternativa o in contraltare, agisce il gruppo astratto-concreto di De Fusco, Tatafiore e Venditti. In architettura, Luigi Cosenza porta avanti un interessante aggiornamento linguistico e dà vita ad opere di non secondaria importanza. Fioriscono numerosi Circoli del Cinema, da quello dell’Alhambra e dell’Amedeo a quelli di alcune fabbriche e dell’Enel (ex-SME) (cui presiede lo storico del cinema R.Paolella). E’ un fitto intrecciarsi di dibattiti sulla natura del fenomeno filmico e sui contenuti e sulle motivazioni delle opere più rilevanti. Anche quando le implicazioni sono più latamente politiche, manca una vera circolazione delle idee tra i vari livelli della “comunità” napoletana, un vero rapporto d’interscambio culturale. 19
Non si riempie del tutto quel vasto solco che permane tra borghesia colta e classi subalterne; la stessa attività di cellule e federazioni di partito non riesce a infrangere il diaframma tra le “due Napoli” , tra il terzo e il quarto stato. La terza pagina dei quotidiani interessa solo una frazione minima di lettori e riviste come “Nord e Sud” e le stesse “Cronache Meridionali” hanno una platea limitata, quasi specialistica. Si comprende così che quando romanzieri o saggisti si inducono ad assumere i dati della cronaca più immediata ad argomento delle loro opere permane un clima di prudente equivoco, un atteggiamento non del tutto aperto a vere metamorfosi del gusto e del costume. Ristagna in scrittori di pur autentica vocazione una via di mezzo tra l’istintività e la volontà di ragionare, tra la brillante improvvisazione e la professionalità più cosciente. Così in Incoronato si ritrova una naturalismo al quadrato, striato da impeti di sdegno e da istanze di partecipazione, in Rea una verve colori-tissima, spontanea e piena di succhi veraci, in Bernari una capacità di reportage altamente drammatizzato e in Prisco una ricerca sottile delle cause di irrecuperabili astenie morali. Il punto di più alta consapevolezza viene raggiunto, ai primi del 1960, con la pubblicazioni de “Le ragioni narrative” , ad opera di chi intende rompere certi accerchiamenti conformistici e certe pesanti remore del retaggio partenopeo più spurio. Per alcuni mesi andrà avanti il tentativo di guardare meglio il proprio lavoro, per comprenderne e analizzarne le articolazioni e le motivazioni, E’ un far luce sulle dimensioni sociali in cui operano romanzieri, saggisti e uomini “della terza pagina” , anche un modo di sfuggire al lirismo forzoso dell’elzeviro e allo spazio stretto delle due colonne di piombo. Incoronato, Rea, Pomilio, Prisco, cui si affiancano critici meridionali e non, si propongono “un lavoro di scavo nella narrativa … per chiarire i problemi e le particolarità che si pongono ai narratori italiani nel presente momento storico… lavoro tanto più utile e doveroso in un tempo in cui le crisi appaiono artificiali e la moda va sostituendo il gusto e l’interesse di mercato il giudizio di valore.” Forse lo scopo precipuo è di liberarsi da quell’alternativa infernale cui va incontro l’intellettuale napoletano “tra l’emigrazione e l’attaccamento biologico alla terra madre” (W.Mauro). Anche qualche romanziere esterno al gruppo de “Le ragioni narrative” , lavora, a modo suo, alla demistificazione di certi rituali mondani della borghesia benestante (R.La Capria in “Ferito a Morte” ). E, in più, con un 20
21 buon lavoro della mano sinistra contribuisce a qualche sceneggiatura filmica centrata sulla propria città. Non mancano altri autori che scandagliano il magma sociale che li avvolge o che seguono un nuovo filo d’Arianna per orientarsi nel labirinto napoletano (Ortese, Devena, De Jaco, Paliotti). Verso il finire degli anni ‘50, si costituisce il “Gruppo 58” in opposizione al gusto neorealistico che si va calcificando in maniera spuria o in banale ricalco. Esso assumerà, come annota Paolo Ricci, “i caratteri di un neo-surrealismo bonario” , più bellicoso nelle intenzioni che nelle realizzazio-ni. Gli artisti che lo compongono avranno una loro diaspora verso lidi lontani dal Mezzogiorno (Del Pezzo, Biasi, Di Bello). Su questa scia, si collocano riviste come “Uomini e Idee” che perseguo-no con meritoria ostinazione un loro progetto di totale sprovincializza-zione del capoluogo partenopeo. Si caldeggia una neoavanguardia senza timidezze e senza mezzi termini, e uno scavalcamento della routine artistica e letteraria. Intanto, scendono a Napoli, con quasi regolare frequenza, registi nati altrove che vengono a specillare il tessuto dell’antica città. Sono anch’essi elementi di indubbia fermentazione della situazione culturale che rischierebbe altrimenti di chiudersi in se stessa. Le pellicole realizzate da uomini come Ferreri, Loy, Pasolini sono propulsive di discussioni e polemiche che comunque avvantaggiano la messa a fuoco di questioni e nodi di non lieve consistenza. In un campo ben differenziato, come quello dell’etnomusicologia, Roberto De Simone compie passi notevoli verso una lettura rinnovata di testi e spartiti dei “secoli d’oro” . Alcune sue opere e la stessa fondazione della “Nuova Compagnia di Canto Popolare” segnano il punto più alto di questa ricerca che scarta ogni oleografia e ogni compiacimento arcaizzante. Verso gli anni ‘70, l’editoria napoletana dà vivaci segni di ripresa e Guida e Liguori arricchiscono il loro catalogo di titoli interessanti, mentre l’ESI porta a termine l’impresa monumentale della “Storia di Napoli” . La stampa quotidiana, al contrario, rivela incertezze e sbandamenti, tra cambi della guardia al vertice, nuove parole d’ordine e autentici fallimenti economici. Viene spesso a rinunciare alla sua funzione precipua di cin-ghia di trasmissione culturale, non partigiana, e di attiva “sollecitazione di energie nuove.” A metà degli anni ‘70, “La Voce della Campania” è un quindicinale che sull’onda del successo della sinistra e dei referendum laici, coagula una 22 buona parte di queste forze e dimostra un’inconsueta potenzialità di dialogo a più voci. La sua scomparsa, che avviene senza soprassalti e quasi in ordina, segna un’altra sconfitta della cultura democratica.
Nel frattempo, la rapida evoluzione dei mezzi di comunicazione crea-trice di nuovi modelli e nuovi standard d’esistenza trova un riscontro alquanto banale nelle TV locali. Lo stesso centro-RAI di Napoli è più che altro un semplice ponte attraverso il quale passano chilometri di immagini pensate e confezionate altrove, semmai da industrie culturali USA che impongono i loro “patterns” e la loro “way of life”. Molti strumenti interpretativi restano quelli di un tempo; ci si aggrappa al crocianesimo come ad un blasone indiscutibile e troppo spesso vengono convocati gli epigoni stranieri del filosofo napoletano per rinnovare un’anacronistica liturgia devozionale. Non c’è da stupirsi se alcuni cervelli emigrano o se altri si crogiolano nella regressione qualunquistica o anarco-vitalistica. Resta comunque grave quella frattura tra istituti di alta cultura e massa popolare, quel dislivello tra il dibattito accademico e il discorso quotidiano, tra i centri di ricerca scientifica e le sedi per la decisione organizzativa o sociopolitiche Si spiega forse cosi il successo di un manipolo di giovani registi che, agli inizi degli anni ‘80, instaura un nuovo itinerario di linguaggio, tra l’amaro e l’umoroso, nello sforzo di capire e far conoscere una realtà non trascu-rabile come quella di Napoli e dei suoi abitanti. 23
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II - L’amaro “stil nuovo” Non sono pochi i registi che sanno rendersi consapevoli del fatto che il secondo conflitto mondiale è stato un avvenimento che ha sconvolto l’ordine delle cose, tanto più nel già arretrato Sud d’Italia. Essi sentono che sotto le macerie, sotto la cenere, sotto l’ardente dolore fermenta una rigenerata speranza civile. Vogliono perciò esplorare questa realtà dura e angosciente senza partire da schemi prefabbricati o da spe-culazioni di mera fantasia. Intendono accostarsi alle cose, liberi da preconcetti o pregiudizi, senza escludere alcuna prospettiva di ricerca e sono pronti a cancellare dal loro angolo visuale quegli stantii clichés su Napoli, tramandati da canzoni, letteratura o teatro in un flusso di retorica incline all’autovezzeggiamento se non all’autoaccecamento. Si tratta, per Rossellini o altri autori, di giungere, al di là di ogni conformismo, ad un patto della ragione col sangue che è quello “che solo può meritare il nome di piena umanità” (Thomas Mann). Come tutti i fenomeni storici, anche il fermento umano e sociale del neorealismo è stato preparato da forze nascoste, da energie represse, da una lunga fame e una impaziente attesa di sincerità. Le braci sono state covate in profondità da narratori, drammaturghi, saggisti: sono di prima del ‘40 “Tre operai” di Bernari, molte cose di Viviani e di Eduardo, perfino certe magiche pagine della Ortese e alcuni splendidi brani di Vittorini o Pavese, Alvaro o Luigi Russo. Dopo il ‘40, esse trovano nuove accensioni nella rovente indignazione di uomini tesi a superare ormai un’ansia fatta solo di “astratti furori”. Così, in “Ossessione” e ne “I bambini ci guardano” (tutti e due del 1943) vengono rappresentate parti non minime del mondo umiliato ed offeso. Il film di Visconti col suo panorama della depressione esistente in una vasta zona del Nord, corrisponde già, in chiave metaforica, a quella ancor più diffusa ed endemica del Mezzogiorno d’Italia. Il secondo, firmato da De Sica, ritrova il coraggio di parlare delle incrinature morali in un ceto piccolo borghese, che raccoglie frutti di cenere e tosco dalle sue radici d’egoismo, di squallido “particulare” : realtà fino ad allora conculcate o velate dalla retorica del regime, costellata di telefoni bianchi, di glorie semiarcheologiche e di burbanzose certezze nelle forza d’anime e nei destini imperiali dello homo italicus. Sta invece crollando, come un castello di carte, un sistema politico tirannico e bellicoso, estraneo al temperamento del meridionale medio (dell’italiano medio). E sotto la prima polvere del crollo non pochi autori di 25 cinema ritrovano spunti di onestà e di sincerità per una doverosa autocritica. Il cinema che precorre “Paisà” di Rossellini è già un linguaggio che si svincola dalle troppe menzogne convenzionali o coatte, che rigetta la maschera della macchietta gustosa o del folklore sentimentale, che trae spesso la sua linfa migliore da una cronaca pervasa di rabbia o sofferenza. E, a sua volta, film come “Paisà” sono contemporanei, o quasi, agli exploits di narratori napoletani come Rea o Incoronato spinti da vitali pulsioni o coscienti eresie a rappresentare spaccati del reale microcosmo partenopeo. Autori che si ritrovano la stessa disinvolta sfrontatezza degli scugnizzi, il loro stesso umore sarcastico e grottesco, la loro tracotanza nel gridare, commentare o ridere. In Rossellini, come negli autori summenzionati, viene scansato il pericolo più attraente, quello di accontentarsi del bozzetto, delle dimensioni grettamente naturalistiche o di ritagliare una tipologia di personaggi troppo caratterizzati. E il pregio più in evidenza risulta, in ultima analisi, quello che il regista stesso definisce in un suo raro scritto “… necessità di esprimersi senza ri-correre allo stratagemma di inventare lo straordinario con la ricerca ma con il ritorno continuo alla fantasia perchè nell’uomo c’è una parte che tende al concreto e un’altra che spinge verso l’immaginazione.”3 E “Paisà” dimostra proprio questo, di essere cioè un discorso referenziale, attento alle cose, ai fatti, alle minime vicende del dramma postbel-lico senza escludere la componente intrinseca della rielaborazione emo-tiva e immaginosa. Non è solo un freddo sguardo di documentazione quello di Rossellini o la semplice volontà di testimoniare, ma è uno slancio “in medias res” per costruire plessi di sequenze lancinanti,
appassionate, al calor bianco. Non è la forma che è latitante in questo discorso visuale ma il formali-smo e le immagini sono tanto più comunicanti (ed aggressive) quanto più scarne, spogliate d’ogni calcolo o compiacimento estetizzante. Indubbiamente, il momento storico è propizio perchè la guerra ha messo a nudo i lati peggiori e migliori della società meridionale e basta frugare con un lucido obbiettivo, immedesimarsi in questo panorama per coglierne i punti salienti e doloranti, per organizzare, avendone la sensibilità, un affresco veritiero, denso, fervoroso. L’esigenza primaria è però quella di una conoscenza completa, per fare i 3 ROSSELLINI R., “Due parole sul neorealismo”, in “Retrospettive” №4, 1953 26
27 conti con le circostanze più stringenti, strappando quei veli rosa che tanta letteratura di adattamento ha tessuto intorno a queste realtà per una mal-intesa idea di prestigio. E’ questo nucleo centrale di concretezza virile che allontana dalla pellicola rosselliniana (e soprattutto dall’episodio napoletano, come vedremo) i tanti morbidi fumi della cultura idealistica venendo a ristabilire il contatto con strutture importanti per quanto disgregate o vulnerate.
Proprio sulla base di tali convincimenti, a uomini come Rossellini, De Sica o Visconti, interessa ritrarre i drammi collettivi che hanno coinvolto o coinvolgono il Sud (“Sciuscià” , anche se in buona parte girato a Roma, appartiene di diritto a quella geografia umana della miseria meridionale e “La terra trema” ha in sè l’esponenzialità capace di simboleggiare l’intera e irrisolta questione del Mezzogiorno). Per una positiva astuzia della storia, l’inclinazione al realismo è facilita-ta in quel periodo dal fatto che i grandi “studios” delle case di produzione sono quasi del tutto inagibili e anche dal fatto che le riprese in istrada e con attori non professionisti vengono a costare assai meno. In questo clima, come annota Lizzani nella sua “Storia del Cinema Italiano” “con una foga che appare più propria del cronista che del creatore, il regista italiano va a caccia di argomenti nuovi, fruga fra le notizie dei giornali, compie quotidianamente, fin nel segreto della vita privata, un lavoro di osservazione, di inchiesta; accumula dati ed elementi, stimola il colloquio e cerca la confessione dell’uomo della strada, approfitta di ogni occasione per visitare ambienti caratteristici, località che in varie parti d’Italia vanno diventando famose per la loro miseria, per il problema sociale che pongono in luce, per il dramma umano che vi si svolge.”4 Sembra proprio il profilo dinamico di Rossellini alle prese con gli episodi di “Paisà” : in più, il regista romano proprio per il fatto di rifiutare a priori qualsiasi sceneggiatura preliminare alle riprese, si trova particolarmente in grado di orientarsi e riorientarsi nei confronti della realtà con una immediatezza unica. Il film diventa così e soltanto cosi il lavoro che egli deve svolgere in aderenza allo svolgersi del tempo e al presentarsi del luogo in cui egli ha deciso di agire con la sua cinepresa. E non può essere lavoro alienato, perchè l’autore come il vero uomo decide lui ciò che gli spetta fare e quello che farà di lì a poco. Non si fa 4 LIZZANI C., Storia del cinema italiano, p. 116, Firenze, 1961 28 guidare da binarii convenzionali o da traiettorie obbligate. Infatti, mentre gira, non delega le sue decisioni di fondo, ma affidando certe operazioni ai necessarii collaboratori si limita a trasmettere solo l’uso di un meccanismo, non la capacità poetica di scegliere simboli, sineddochi o metonimie (motivatamente gli “aiuti” si lamenteranno di non saper quasi mai dove “si va a parare” .) Come risulta da altre testimonianze, Rossellini, nel corso della lavora-zione di “Paisà” presenzia, vigila, condiziona la pur limitata “troupe” : è lui l’autore unico della realizzazione perchè solo lui conosce la configurazione completa di ogni episodio, di ogni sequenza, di ogni campo o controcampo. Egli sa bene che le cose non parlano mai da sole, ma solo attraverso la mediazione del pensiero dell’artista, in questo caso, del suo pensiero visivo; solo se egli riuscirà ad inscriverle come segni o macrosegni nella struttura coerente di un’opera, l’opera stessa riuscirà ad esprimere e comunicare e a rimanere messaggio perdurante nel tempo avvenire. A vederlo e rivederlo, pur a distanza di molti e moltissimi anni tale appare “Paisà” e, in particolare, il secondo episodio centrato su una vicenda simbolica nella Napoli dell’immediato dopoguerra, nei duri anni tra il 1943 e il 1945. 29
III - La Napoli di Rossellini 30 Il secondo episodio di “Paisà” (1946) si apre con una panoramica da destra a sinistra che mostra i templi di Paestum mentre la voce dello speaker commenta: “La guerra passò rapida attraverso le regioni dell’Italia meridionale. L’otto settembre, cannoni della flotta alleata erano puntati contro Napoli. Infranta la resistenza tedesca a Salerno…” (qui si ha una panoramica piuttosto veloce sul Vesuvio e la zona circostante e poi la voce riprende): “… gli angloamericani sbarcarono sulla costa amalfi-tana e alcune settimane dopo Napoli era liberata.” Mentre la musica si va intensificando una rapida “tendina” scopre il porto della città partenopea pieno di navi che caricano e scaricano il più diverso materiale, soprattutto di tipo bellico. La sequenza immediatamente successiva è quella che riprende, in campo lungo, la folla che si accalca a Porta Capuana e dintorni. Il sonoro è ora costituito da rumori vari, clacson di auto, jeep, camion e voci di venditori e di persone che sostano o camminano. In campo medio viene individuato un ragazzino che compie salti acro-batici e più in là ci sono tre scugnizzi, tra cui Pasquale che esaltano a voce alta e concitata le prodezze del loro coetaneo: “Guardate , guardate che zumpe che fà! E’un fenomeno, son cose da pazzi! E’ un fenomeno!”5 Pasquale ripreso a mezza figura, sfida poi un G.I. americano a far qualcosa di simile, se ne è capace, e questi, sorprendentemente, accetta l’invito, compie un perfetto salto mortale e va via con estrema
noncuranza. I tre ragazzini restano attoniti, quasi strabiliati, e Pasquale, quasi tirandone una amara conclusione, dice : “Ma ‘ccà non s’abbusca niente!, solo chille che magnano ‘o ffuoco, abbuscano nu sacc ‘e renare!” Uno stacco e poi la macchina da presa insegue Pasquale che cammina da solo verso un’altra strada dove altri scugnizzi giocano con delle mone-tine a ridosso di un muro; Pasquale si china a raccattare una cicca, poi viene chiamato da un suo coetaneo che sembra proporgli un affare; dopo una rapida contrattazione si accordano su una cifra, chiaramente enun-ciata in dialetto: centocinquanta lire. Altro stacco dell’inquadratura e dietro l’angolo del vicolo viene ad apparire l’oggetto del contratto: un soldato americano di colore che, in evidente stato di ubriachezza, si appoggia malamente al muro, assediato da un nugolo di guaglioni che lo palpano, lo frugano, spartendosi a voce i suoi vestiti; il negro lascia fare, in uno stato di stuporosa passività, accenando solo vaghe, incoerenti proteste e incomprensibili borbottii. 5 ROSSELLINI R., Trilogia della guerra (a cura di S.Roncoroni), Bologna 1972 31
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33 Viene presentato così, con un progressivo e concentrico avvicinamento dello sguardo, il nucleo di un momento di estrema drammaticità storica: l’incontro tra due razze umiliate ed offese sullo sfondo delle macerie di una civiltà millenaria, troppo stratificata per non essere anche corrosa, lacera, usurata materialmente e moralmente. La capacità di entrare per scorciatoie chirurgiche nel cuore del problema, con veloci suturazioni di inquadrature, di snodi da un fotogramma all’altro, da un piano all’altro è la cifra più emblematica dello stile rosselliniano. L’alta temperatura di questa scrittura, apparentemente di mera cronaca, la eleva ad un livello di prosa tragica, nelle sue strette cadenza, nel conciso periodare, nel suo procedere per frasi brevi ma baluginanti. Il clima emozionale della Napoli tra il ‘44 e il ‘45 è colto e ritagliato con tale immediatezza, da far pensare veramente ad “un amaro stil novo” , alla sapienza di coniugare un presente storico alle sue radici antiche con un’urgenza appassionata di contemporaneità e di essenzialità. La sequenza riprende, poi, con l’annuncio dell’arrivo della M.P. (polizia militare alleata) e col piccolo Pasquale che riesce a tirarsi dietro, da solo, l’ancora barcollante Joe. Seguono alcuni episodi
di umore picaresco, che non sono slegati alla vicenda (l’inframmettersi del negro in un teatro di pupi e il suo confuso intervenire nel combattimento rituale tra Orlando ed un guerriero saraceno). La reazione dei burattinai è violenta mentre Joe, ancora sbronzo, boxa ridicolmente con le grosse marionette e inciampa nei loro fili. La platea protesta nel modo più colorito e finalmente Joe è cacciato dal teatrino a furor di popolo. La sequenza montata a ridosso di quest’ultima visualizza un’altra strada di Napoli, lungo la quale Pasquale, lo scugnizzo che emerge sempre più in primo piano quale personaggio-cardine della vicenda, conduce adesso per mano il soldato di colore, ancora riluttante; essi bordeggiano insieme i margini di un intrico di filo spinato. “Let me go, boy!” è la frase ripetuta con tono implorante ma impotente da parte di Joe. In un movimento successivo che il ragazzino fa per smuo-vere il negro che si è messo a sedere, gli sfugge da una tasca un’armonica a bocca; Pasquale con mossa lesta e bene articolata la riprende e comincia a suonarla, allontandosi con aria furbesca e sfottente; solo allora Joe si riprende, si rialza e si dà ad inseguirlo come ammaliato dalla musica sempliciotta del ragazzino. Ora lo insegue, gridando sempre a più alta voce: “Let me try it!” (fammi provare!). Così i due, inquadrati dalla cinepresa di Rossellini, continuano a rincor-34
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rersi tra le macerie che costeggiano la strada, forse la Via Marina. Di tanto in tanto tra i cumuli di detriti la figura di Pasquale scompare per poi riap-parire sempre con l’armonica tra le labbra e un sorriso sornione negli occhi grandi e scuri, sotto la fronte sormontata da uno strano berrettino militare. Mentre la musica ritrova un suo tema seppur tenue (contrappuntato dal vero e proprio commento musicale della colonna sonora), i volti di Joe e del ragazzo ripresi a intermittenza dall’obbiettivo assumono una presenza ben marcata: può rendersi conto, allora lo spettatore, che sono ormai essi (e ciò che resta della città) le figure in chiaroscuro del dramma che viene narrato. Il cielo è grigio, sono grigie le macerie, è grigiastro il sorriso del soldato americano: la corsa dei due avviene dietro una futile illusione. Quando il negro riesce ad impadronirsi dell’armonica e cerca di suonarla, soffia l’aria dalla parte sbagliata; Pasquale la riprende e ricomincia a far musica ma stavolta per mostrargli come si fa ad usarla. A questo punto Joe, in un graduale, perplesso crescendo, comincia a cantare “Nobody knows the troubles I’ve seen” , un famoso, struggente blues del Deep South e Pasquale commenta, alla fine: “Hai cantato buono, ma non m’è piaciuto proprio!” Nella descrizione analitica,volutamente minuziosa, delle sequenze iniziali dell’episodio, si è tentato di cogliere l’articolazione poetico-figurativa operata nei fatti da parte del regista che riesce a non staccarsi dalla concrete situazione e a non perdersi in calligrammi retorici o sentimentali. Come risulta bene dalle immagini, dalla loro determinazione ambientale, dagli sfumati ma accorti dettagli inclusi in esse, Rossellini sa mante-nersi in presa diretta coll’attimo della cronaca, portandolo però ad un’intensità particolare, ad un calor bianco. La presentazione dei due protagonisti di questa avventura storico-creaturale è sfrondata di ogni merlettatura, di ogni falso ornamento: di loro viene afferrata in un vivido colpo d’occhio biografia psichica e civile. Perciò ogni segmento narrativo, ogni sfondo della città sbriciolata ha una sua pregnanza di significato, una sua alta tensione. In “Paisà” il destino umano non è puramente adiacente agli avvenimenti storici, collettivi o comunitarii: Joe e Pasquale sono attraversati da essi in continuazione, ne sono spesso parte integrante e in base ad essi prendono consistenza e credibilità. Nella sofferenza dei due personaggi, apparentemente antagonisti nella rincorsa continua, non c’è nulla di atemporale od astratto. Ed è proprio questa sofferenza gridata, cantata, giocata che li riscatta dal rischio di essere meri oggetti o pupi manovrati da qualche corda pazza di demiurgo 36
37 nascosto negli intermondi di un qualche metafisico cosmo.Le apparentemente caotiche connessioni e riconnessioni tra i micro-eventi si succe-dono in un accumulo progressivo di stati d’animo che riescono a contagiare lo spettatore, a convincerlo sul piano emotivo come su quello cognitivo. La cornice materiale del paesaggio, certe radure squallide, Via Marina con gli edifici dissestati, le grotte alla fine della Riviera o poco prima della salita di Posillipo, sono misurate dall’equilibrio espressivo che Rossellini si è imposto perchè la narrazione non trascenda in una facile metastoria, in un’amara favola capovolta. E sono selezioni, angolazioni congeniali ad un regista che intende essere sincero senza riserve mentali, che ha deciso che lui e i suoi film siano un’unica cosa inscindibile perchè per lui il cinema è un momento di estreme scommesse, senza dissimulazioni o simulazioni, un momento di verifica dell’intero suo rapporto con altre esistenze. La penetrazione prospettica dello habitat napoletano avviene con gra-dualità crescente, fino a dosi d’urto notevoli ma il punto di approdo è pe-rò l’uomo, bianco o di colore, piccolo o adulto che sia. E’ lui il fulcro della comprensione, l’epicentro della situazione sia economica, che morale e psicologica. Le onde della storia vivono in quanto lambiscono l’uomo ed è nell’uomo che si decidono le svolte del mondo. Tutto ciò Rossellini lo afferra con sguardo impetuoso e accorato, con una splendida moltiplicazione di scene centripete al ragazzo e al negro e con piccole, rapide invenzioni fascinose (l’armonica, le corsette interrotte e continuamente riprese, le ragnatele dei fili spinati e lo spiritual suggestivo e insieme incomprensibile per Pasquale). La struttura dell’immagine filmica è qui orientata verso la vita come tensione, comprensione, pietas: di essa viene data la trama orizzontale e verticale, la durata ed insieme il flusso. Rossellini dimostra di sapersi im-mettere nelle correnti della storia ma di non restare in loro balia, sapendo navigare e governare il suo medium di conoscenza e di immedesimazione. I personaggi sono posseduti dall’interno, nelle oscillazioni e pulsazioni minime delle loro arterie e delle loro coscienze, e le sequenze scorrono con una adesione intima allo snodo dei tempi minimi dell’angoscia, dell’inquietudine e dello smarrimento. Il linguaggio iconico del cinema consente a Rossellini il continuo rinvio referenziale a gesti assolutamente veri; gli permette, inoltre di avvicinarsi alla realtà di Napoli con un’energia di scandagliamento che è raro trovare sia in opere filmiche che letterarie. Le strade, le case, certi vicoli sordidi sono visualizzati nella loro essen-38 zialità, in quel momento difficilissimo del dopoguerra quando ogni naturale speranza urtava contro cumuli di rovine o di squallori insormontabili.
L’istinto antiteatrale del regista lo induce a far diventare attori e personaggi entità del tutto inscindibili e ciò opera in modo potente sul vissuto dell’eventuale spettatore. La camera di Rossellini scruta i mali presenti, ma individuandone anche le radici passate; esse mette “a fuoco” il luogo dei punti di un’umanità parabolica, incline sempre a cadere come a risorgere, tra polvere e feste, tra macerie e palcoscenici, tra dolori cocenti e concertate Piedigrotte. L’obbiettivo riesce a visualizzare con il massimo di nitidezza chiaroscurale l’intelligenza amara e la compassione, la disgregazione coscienziale e il gioco ironico al loro livello di massima spontaneità. Sono scavalcati i banali perimetri del bozzetto, dell’elegia e del roman-zesco, proprio perchè Rossellini riesce a dare di Napoli la ribalta e il re-troscena, il suo perenne equilibrio instabile. Lo scugnizzo è visto nella sua miserabilità, nel suo inconscio dolore, ma anche nella sua scorza di cinica sincerità, insomma senza vernici idealizzanti. E l’episodio si conclude, dopo uno stacco netto, col negro finalmente so-brio, che reincontra Pasquale e gli intima di ridargli le scarpe. Lo costrin-ge a farsi condurre fino alla sua “abitazione” vicino alla quale scoprirà che ha a che fare con un orfano di genitori morti sotto un bombardamento che vive in promiscuità con altri poveracci in una quasi oscura spelonca. Insomma Pasquale è più negro di lui e veramente “nobody knows the troubles he has seen” . L’episodio si chiude all’improvviso senza fronzoli di inutile retorica. La scrittura filmica del regista è incisiva, presenziale, energica: lascia fuori il compatimento rituale, il vago fideismo, la ribellione utopica. Vuol capire senza piangere nè meravigliarsi, come voleva Spinoza. La dialettica tra forma e contenuto qui non è nemmeno ipotizzabile: ogni riga di luce, ogni muro ripreso, ogni sguardo, ogni oggetto inquadrato arricchisce e intensifica la struttura visuale che si va organizzando in un discorso da uomo ad uomini. Il bianco e nero non è affatto prezioso, curato o cincischiato ma assume un proprio peso specifico, una propria autonoma consistenza: è la materia in cui trova la sua fisicità un flusso di frasi visuali che parlano del dolore dell’esistenza, individuale e collettiva. C’è nel secondo episodio di “Paisà” qualcosa di sorgivo, come in un processo di crescita naturale e da ciò l’impressione dell’autorivelazione di una città, secondo un ritmo che è sincrono a quello che batte al polso di chi è veramente vivo. 39
40 IV - Tra populismo e melodramma Il sistema organizzativo non ha saputo o voluto aprire strade larghe ad opere come “Paisà” ; produzione, distribuzione, noleggio hanno giocato un ruolo negativo contro questo cinema della conoscenza che ha avuto così ampii riconoscimenti all’estero. E mentre timidamente fa i suoi primi passi quella irregolare ripresa economica che sarà poi etichettata con la denominazione di “miracolo economico”, nessuno riesce a dare una seria struttura industriale all’attività cinematografica e tanto meno sul piano regionale o locale. A livello di stile, ci si allontana velocemente da qualsiasi ispirazione a ri-gorose teoriche, e si perviene sempre più a rozze contaminazioni del realismo col più vecchio e obsoleta naturalismo o col melodramma. E’ una sorta di risacca ideologica, in parallelo con il montante qualunquismo, con la depressione dovuta alla cocente sconfitta del 18 aprile 1948. Mentre la ricostruzione si avvia tra mille difficoltà e contraddizioni viene a mancare una riconnessione più intima tra le forze produttive e gli intellettuali (scrittori, pittori, registi). Il caso del “Politecnico” e la polemica Vittorini - Togliatti finiscono con lo spegnere molti entusiasmi e il dibattito sulla linea De Sanctis - Labriola - Croce - Gramsci lambisce solo marginalmente certi settori dell’operare filmico. Insieme ad un prudente conservatorismo culturale, domina il mero calcolo finanziario e la stessa censura assume le funzioni surrettizie di castratrice delle idee nuove e dei nuovi modi d’approccio alla realtà. Non certo per fortuita concomitanza, il governo manca di una chiara politica culturale e lascia che si sviluppi in modo abnorme il dumping del cinema hollywoodiano nei confronti del nostro. Le manifestazioni collettive salvano l’occupazione ma non la qualità del prodotto medio. Sono pochi i registi che continuano a sentire la responsabilità civile del mestiere e che giungono ad instaurare discorsi rigorosi e intransigenti, evitando una “disgregazione molecolare” della propria personalità. L’approccio di Rossellini sembra dover rimanere isolato; prendono il campo, pian piano, quegli artigiani del cinema il cui vero scopo è di far quadrare il bilancio delle case di produzione da cui dipendono. Un ritorno al mercantilismo appena appena riverniciato da qualche pretesa di letteratura popolare, come di chi ha orecchiato la questione “realista” , che tenta un possibile nuovo collaudo nel ricalco di drammi о
commediole di successo. 41 Si vede allora un Mario Mattoli, responsabile di varietà tipo Zabum о di filmetti della più insipida e strapaesana comicità, tentare la via del “rema-ke” con “Assunta Spina” (1948): abbastanza scaltrito da ottenere nel cast la presenza di un’Anna Magnani ma non abbastanza genuino da comprendere che il personaggio digiacomiano non si attaglierà ai modi della recitazione dell’attrice romana che farà involontariamente scattare il ricordo della folgorante interprezione “muta” della Bertini. La pellicola evidenzia, punto per punto, la scarsa consonanza del “metteur en scène” con la materia trattata (ritrattata); l’ambiente è visto soltanto nella sua esteriorità architettonica (Castelcapuano, S.Francesco, certe zone popolaresche del Lavinaio о certe trattorie verso Posillipo). Mattoli non sa scavare aldi sotto di questa cartolineria tradizionale ma solo aggravarla di carrozzelle, pini, spiagge e spiaggette. Anche gli stracci vengono inquadrati come mero materiale fotogenico, e si potrebbe parlare di “pezzi di colore” anche se il film è naturalmente in bianco e nero. L’apporto della sceneggiature, stranamente firmata da E.De Filippo, può assai poco contro il deficit di credibilità di un Antonio Centa manie-rato protagonista che senta a sè estranea quasi completamente la figura di Michele Bоссadifuoco e finisce col lo smaniare talvolta in una mimica caricata se non caricaturale. La fotografia risulta o troppo levigata o manipolata: l’operatore Pogány, più adatto ai virtuosismi di un Blasetti, resta allettato dal pittoresco, dal mare bello, dalle tavolate viste, in carrellata. Gli scontri verbali, le voci delle risse, gli stessi scoppi di furore passionale restano come velati da un’atmosfera stranamente rarefatta, talvolta in toni o timbri signorili o piccolo borghesi (quando non trasteverini). Ad un napoletano autentico ed insieme esperto di cinema, quale Roberto Paolella, queste cartoline sonorizzate, giustapposte e montate alla meglio, fanno salire il sangue alla testa: intitolerà un suo indovinatissimo articolo “Assunta Spina uccisa da Mattolli” .6 Lo storico individua subito la nuova tendenza involutiva e ne rintraccia le matrici nei filmetti consolatori del fine-fascismo (del resto girati dagli stessi mestieranti convertitisi al populismo da un giorno all’altro). Sono le perverse inclinazioni a far trapelare la tragedia chiassosa dietro il bozzetto sentimentale, la retorica da dépliant turistico, il richiamo a valori troppo assoluti e perciò arcaici, cioè inattuali. 6 PAOLELLA R., “Assunta Spina uccisi da Mattoli” , in “Cinema” N°74, Nov.1952 42
43 Sono invece proprio queste scelte strutturali a vietare a Mattoli di riuscir ad intrecciare la vita di Assunta con quella del vicolo, con quella delle altre stiratrici; il regista resta miope, pur con tutti i mezzi tecnici a disposizione, di fronte al fatto sociale, alle sue radici e ai suoi tropismi quotidiani. Così finisce col collezionare solo luoghi comuni sulla metropoli di fine ‘800. “E’ inutile ricercare in questo film il mordente cupo e disperato che distingue l’opera muta… e quella concezione allucinante e visionaria calata in immagini informi, tenere e micidiali, angeliche ed invasate, repellenti ed attraenti, ma sempre dense di efficacia e di senso (che aveva l’opera muta)”7, chiosa acutamente Paolella. La descrizione dei fatti si muove in superficie, l’azione dialogica è spesso mistificata, ridotta, frammentata; Mattoli non si rende conto che la cultura drammatica e sociologica di Di Giacomo è l’altra sostanziale parte, e più sanguigna, della sua linfa poetica, il contraltare a certe liriche effusioni grecizzanti di tante sue poesie e canzoni. Ma non è involuzione che cade dal cielo e di cui si può far carico al solo Mattoli, dotato peraltro di tanto buona volontà (anche se sempre preoccupato della pentola quotidiana da far bollire, come dicono più sincera-mente i suoi colleghi hollywoodiani). E’ tutta una revanche dell’organizzazione industriale contro il troppo anarchico cinema neorealista, contro la proba ma non lucrativa ricerca di un Rossellini, di un De Sica et alii. E indotti da questa paraindustria culturale scendono a plotoni verso Napoli, registi certamente non del tutto incapaci ma assetati di popolarità come di populismo, e di box office florido e remunerativo, come branchi di turisti della cinepresa pronti a squadernare gli sterotipi più stantii sulle cose partenopee del passato o del presente. Ecco allora C.L.Bragaglia con “Torna a Sorrento” e il quasi decrepito M.Bonnard con “Addio, mia bella Napoli” che portano a galla nei loro frettolosi primi piani attori dal consunto birigna teatrale o toscaneggiente come F.Giachetti, V.Carmi o Bella Starace Sainati. Essi costellano la loro celluloide di zuccherosità sentimentali da strapazzo, astruserie di intrecci, pseudocadenze sudiste (nei meno abbienti). Sciatteria di prosa, pressapochismo tecnico, improvvisazione storiogra-fica o, comunque, culturale sono all’ordine del giorno in queste troupes di visitatori estemporanei del Golfo di Napoli. 7 PAOLELLA R., “Assunta Spina uccisi da Mattoli” , in “Cinema” N°74, Nov.1952 44
45 Il risultato è costituito da tanti cineromanzi d’appendice, talvolta im-burrati o mielati, talaltra truculenti, senza una possibile via di mezzo tra “comédie larmoyante” e “grand guignol” . L’importante è suggestionare il pubblico, mesmerizzarlo, indurlo dema-gogicamente a parteggiare non a comprendere o ad analizzare. Il rozzo diagramma sociologico sotteso a tali “trame” trova le sue coordi-nate in un concetto arcaico della famiglia meridionale, che viene ancorato ad un mondo contadino scomparso anche nelle periferie più lontane, e in una strutturazione di psicologie che trovano il loro punto d’appoggio esistenziale nell’onore in tutte le sue varianti virili, verginali o della terza età. Espedienti provvidenziali servono a risolvere casi assai improbabili e taumaturgie insperate guariscono mostruosità inverosimili: il realismo è lontano mille miglia, è quasi un miraggio. Insomma, Napoli ed il suo mito continuano ad essere impunemente saccheggiati come repertorii per rappresentazioni comico-tragico-idillico-pastorali. La città, i suoi abitanti, i loro annosi problemi sono spesso un pretesto per esercitazioni di spuria fantasia, dei meri passatempi, in ultima analisi amare o facete pulcinellate.
Si producono in celluloide arrangiamenti iconici di canzonette dal facile successo, amplificazioni d storte di antiche poesie ardenti o marinares-che, così che in una dicotomia da strapazzo il sole o la luna si alternano nell’egemonizzare le immagini, nell’occultare le fibre interne delle vere vicende del quotidiano partenopeo. Brignone passa con scivolosa disinvoltura da “Il barone Carlo Mazza” (1948) a “Monaca Santa” (1948), da “Il conte di S.Elmo” (1950) a “Core ‘ngrato” (1951). Mescola senza alcun ritegno la declamazione “luciana” di Eva Nova con quella altoborghese di Pina Lattanzi e quella di Buazzelli con il ritmo donprocopiesco di Croccolo. E ce ne sono tanti altri di questi autori che non guardano “per il sottile” , che si danno un gran daffare per rendere accettabile qualsiasi ambiente anche il più miserabile, il più disastrato riverniciandone solo l’intonaco, rattoppando o cancellando fessure, crepe o voragini, tutti tesi come sono alla catarsi non-aristotelica del “tarallucci e vino”. Lo stesso Matarazzo che qualche giovane critico ha, in questi ultimi anni, inteso rivalutare non si sottrae alle tentazioni del melodramma più procace, più arroventato e, pour cause, più antirealista. Sarebbe bastata, d’altronde, una semplice occhiata al suo non breve curriculum d’anteguerra, per capire che l’uomo non offre garanzie di sorta. Si tratta di un indefesso imbrattapellicole, un bon à tout faire dalla 46
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48 prosa filmica stracca, fasulla, occasionale. (Titoli sintomatici: “Kiki”, “Il serpente a sonagli”, “E’ tornato Carnevale” ). che hanno avuto il solo pregio di passare inosservati. Quando nel ‘49, questo regista imbocca l’ennesima svolta della sua carriera camaleontica, si trova tra le mani un testo di L.Bovio e di Di Maio “Catene” e lo riduce in “salsiccia cinematografica” . Chiosa Paolella: “è certamente il film più pianto della stagione” . Non è lavoro arduo individuare dove termina quel pò di abilità narra-tiva concessa anche ai mestieranti dopo molti anni di esperienza e dove iniziano le cento astuzie dell’uomo di spettacolo che vuol prendere in trappola (o per i fondelli) lo spettatore sprovveduto o facile al pianto surrogatorio. Si pensi che il nucleo espressivo dell’opera sta nella disperazione di un amante abbandonato, nella feroce soddisfazione di un vendicativo marito e nella confusione procedurale di un tribunale che assolve, tra gli applausi, l’onorato omicida.
Amedeo Nazzari, dimessa le sahariane fasciste, riempie di enfasi ed istrionismi varii il vuoto del personaggio principale, aspirando al titolo di super divo della subcultura partenopea, che ancora resta in bilico (a 450 anni dalla Riforma) tra parrocchia e Corte d’Assise. Lo strepitoso successo, le soffiate di naso, le palpitazioni delle vene più turgide indurranno Matarazzo a riproporre lo stesso schema in “Tormento” (1950) e ne “I figli di nessuno” (1951) Il codice di comportamento che viene sottolineato con passionale clamore è di tipo metastorico: i vincoli sacri del sangue e del matrimonio, il patriarcalismo, la santità della vendetta contro “traditori” e “infami” . E’, insomma, una struttura populista della più speciosa lega, che adula gli istinti più arretrati della piatea, spinge indietro di qualche secolo la concezione del vivere civile, ripercorre itinerari sbagliati con motivazioni ancor più immiserite dalla matta voglia di successo commerciale. Come annota Asor Rosa, per analoghe situazioni (in campo letterario): “non è, infatti, possibile che tra un cittadino della Napoli del secondo dopoguerra e un cittadino della Napoli del vicereame non corrano diffe-renze connotative di qualche rilievo”.8 Si potrebbero anche comprendere, non giustificare, certe posizioni reazionarie se questo populismo non disconoscesse palesemente troppi dati di fatto, troppi rapporti umani. Le sue parentele più strette vanno rintracciate in quello smaccato feuil-8 ROSA A., Scrittori e popolo, Roma 1965, p.229 49 leton ottocentesco che già Marx fustigava con acuta ironia, a proposito de “I misteri di Parigi” , in cui “un’ipocrita fantasia fa sì che Fleur de Marie si trasformi prima in peccatrice pentita poi in monaca e infine da monaca in cadavere” .9 Quasi un paradigma di certi film qui in questione che si srotolano tra banali sussulti d’anima e sensazionalismi da necrofori. E, in ultima analisi che cosa fanno Matarazzo o Brignone o il forse can-dido Mattoli se non scavar baratri artificiosi tra buoni e cattivi? Quale altra risultante ottengono se non quella di occultare i termini effettivi (o certamente assai più problematici) dei conflitti individuali e sociali che si svolgono in questa fascia del Mezzogiorno d’Italia? I loro film finiscono col concretare soltanto una casistica di venture e sventure, di “catene” ineluttabili che costringono i personaggi ad accettare qualsiasi evento col solito passivo e superstizioso fatalismo da cui è irretito il suddito meridionale benpensante ed ossequiente ai dettami del governo e della Chiesa. Sul piano più strettamente professionale della formulazione in linguaggio dinamico dei temi, delle loro frasi e circostanze, la stessa gesticolazione manierata, il dialogare fitto ma intarsiato di poncifs piccoloborghesi viene ad intorbidare anche qualche raro momento di verità e qualche atto di vita genuinamente colto dall’obbiettivo (che pur, ha una sua natura dichiarativa). La ricchezza d’impulsi spontanei d’un popolo e dei suoi portavoce (nel film) è distorta in modo spettacolare, venendo a sfociare in lenocinii teatrali, in colpi di scena o al plesso solare di chi non si pone in giusta guar-dia di fronte a queste immagini torrenziali, prevaricanti, troppo coinvolgenti. Quello che emerge in questo tessuto narrativo è un’attenzione ai trucchi e tranelli delle sceneggiate più bastarde, quelle cioè rimaneggiate da “autori” trasformistici a fini autenticamente di bottega. La forzatura dei caratteri, il sensazionalismo a ripetizione, la ridotta e quasi puerile articolazione della sintassi sono le cifre che s’imprimono con prepotenza su questi elaborati cinematografici “fatti in serie”. La stessa impostazione delle sequenze, l’orientamento forzoso dello sviluppo tematico finisce con il collocarle in schemi prefissati e assai più vicini al melodramma minore, viscerale e struggente (o, per converso all’opera buffa in cascami) che al verace folklore partenopeo e al suo nucleo di talvolta genuina emotività. Gli snodi degli intrecci, i congegni ad effetto, il concertato (mal controllato) di pianti, urla e singhiozzi finiscono col rimpiazzare ogni suono vivo, 9 MARX C., La sacra famiglia, Roma 1949,
pp.178 ss. 50 ogni tensione silenziosa, ogni tacito gesto che possano alludere a passioni realmente vissute e sentite. Non sono testimonianze attive sul costume di un popolo ma un confor-marsi passivo allo stereotipo più in voga o al sentito dire. Alla fine, non è esagerato affermare che questi mediocri registi approdano ad una apologia della stasi sociale, alla conservazione delle reliquie e scorie del passato. Come produttori di manufatti astuti essi sono lesti a catturare un certo tipo di pubblico che si lascia persuadere che essi parlino di lui e si lascia adescare e lusingare o titillare fino alle lacrime più cocenti (o più gioiose). Come ha notato un meridionalista senza peli sulla lingua e restio alla facile originalità (G.Grieco): “gli organizzatori di questi film sono spalleggiati da alcuni registi da strapazzo, i quali si sono trascinati dietro soggettisti e sceneggiatori improvvisati e attori sui generis…”.10 Chi fa le spese di queste menzogne speculative in immagini è proprio Napoli di cui si avalla ancora una volta, con quella potenza di penetrazione capillare che ha il cinema, un cliché falso e abusato. E’ la realtà romanzesca della metropoli e dei suoi abitanti, quella che viene sbandierata sullo sfondo di un risibile cartoname scenografico e la simbologia passionale profusa a pieni rulli ha la stessa disorganicità della tecnica approssimativa di cui son dotati i responsabili di simili confezioni. Non trapela da nessun fotogramma un quantum di coscienza critica, un distacco verso la più stanca tradizione, è il trionfo anacronistico della morale quietistica e antistorica del “lassammo fa Dio” oppure del camorrista che ha pur qualche buona ragione per mangiare giorno dopo giorno, pane, onore e sangue (altrui). In un quadro più ampio, ha poi ben visto Lizzani che non solo per mera casualità questi prodotti vengono realizzati nel periodo ‘48-‘50, quando cioè “il rafforzarsi e il prevalere di forze conservative decise a mantenere chiusa, la società italiana in un cerchio di immobilità, ha condotto i nostri registi, in questi anni, ad una serie di compromessi coscienti o incoscienti con se stessi, sì che il realismo si è risolto spesso in una velleità, più che in una concreta espressione.”11 Rientrano in tali compromessi e in tali velleitarismi populistici anche i filoni dei vari “Guaglione”, “Zappatore”, “Monaca Santa”, “Napoli che non muore” o “Napoli terra d’amore” che fanno leva su tutti i fulcri più malin-tesi del sentimento della vita partenopea. 10 GRIECO G., “E’ crollato il monopolio di Don Ciccio…” in “Cinema Nuovo” N°77, 1956 11 LIZZANI, C., Storia del cinema italiano, p.147 51 Altri equivoci ingenerano cineasti come Mastrocinque che giocano a ricalcare classici perduti come “Sperduti nel buio” . Fa quasi rabbia veder la recitazione manierata di un De Sica che diviene apocrifa quanto quella di Jacqueline Plessis, per non dire dei toni d’accademia d’arte di un Sandro Ruffini, quanto mai incongrui in vista del Vesuvio e del suo fumo altrettanto artificioso. Il confronto con la famosa (ma sconosciuta a tutti) pellicola muta del ‘14 è ovviamente impossibile, ma è certo che Mastrocinque si rivela uno dei tanti improvvisatori che pencola verso il melodramma più becero e non disdegna nessuna acrobazia per arrivare anche lui ad un sensazionalisto fumoso e lacrimogeno. E’ la solita tendenza tartufesca alla consolazione o allo sfogo affettivo offerto a buon mercato agli spettatori, nei quali pur non si può troppo dubitare un fondo autolesionistico. Ancora una volta si parla di popolino non di operai o di proletari, si parla di semplici poveri non di lavoratori e si zavorrano i loro principi con le pietrose norme della retorica familistica. Senza dire dei soliti manicheismi d’accatto, delle divisioni nette tra diavoli e acquesante, tra madri e puttane, tra uomini tutti d’un pezzo e uomini fatti a pezzetti. C’è perfino un cinema autoctono a Napoli tra gli anni ‘50 e ‘6o che è prodotto da imprese indigene, con mezzi propri, propri studios, interpreti locali e per uso interno.
Almeno due nomi tra questi produttori-registi sono noti ai meridionali: Roberto Amoroso e F.Misiano: le loro confezioni sono più elementari di quelle esaminate finora ma ancora più ingenue: l’approccio narrativo, la tematizzazione sono rudimentali, anch’essi ispirati, regressivamente ad una concezione patriarcale dell’esistenza. Lo sviluppo delle trame avviene per linee superficiali o per macchinose digressioni. Non dicono nulla di non banale o di nuovo sulla metropoli del Sud e finiscono per volare anch’essi nel cielo di Partenope “come fiammeggianti arcangeli… senza scendere nel cuore delle cose…” 12 Vedono la città dall’alto, a livello dei pini (tra l’altro quasi tutti scomparsi), non pongono mai la macchina di presa nel fondo di un vicolo: “Maruzzella”, “Madunnella”, “Nennella”, “Cerasella” , come evidenziano le loro etimologie sono personaggi ad una dimensione (quella sentimentale) che spendono la loro giovane vita tra canzonette e patemi erotici, 12 REA D., “Le due Napoli” , in “Paragone” , 1950 52 appellandosi talvolta ai santi per sbrogliare le loro vicissitudini psicologiche, mischiando sacro e profano. Sono i residui della commedia dialettale deteriore che quando si colora un pò di comicità si svolge tra equivoci sgangherati, peripezie bislacche, con figure in ritardo sui tempi (e nel confronto con la cronaca di oggi e i suoi veri problemi). Non mancano inopportuni inserti sonori che sono il concentrato del vo-ciare di guappi in borghese e di zemaeste-fintedorine che si sgolano in passioni retrospettive, in moralismi anacronistici, e soprattutto in pette-golezzi a mitraglia. E’ assai dubbio che film di questo tipo assumano una rilevanza a qualche fine di verità o atto di vita; disconoscono troppi rapporti essenziali, troppi movimenti evolutivi perchè vengano esaminati anche con i soli pa-rametri sociologici. In essi i duri nodi dell’esistenza sono avvolti in oscuri e farraginosi involucri sentimentali, che finiscono coll’essere un’educazione alla rovescia. Non pochi partono dal “pattern” della fortunata commedia dialettale di R.Castellani, girata a Boscotrecase “Due soldi di speranza” (Amoroso, infatti, non si periterà di intitolare uno dei suoi prodotti “Due soldi di felicità” ), ma di quell’operina così riuscita viene tralasciato proprio il nocciolo espressivo che sta “nel singolare dissidio tra bellezze naturali e ironica miseria”. Queste Ceraselle e Madunnelle sono le figlie di una cultura provincial-popolare, interessata solo al corrivo successo, senza agganci con reali situazioni individuali o sociali, tesi a sfruttare stereotipi localistici e, franca-mente, provinciali. Questi autori, al contrario di Castellani, sono scarsamente attenti alla preparazione profilmica, alla scansione della vicenda, ai dialoghi; partono con la fiducia assoluta in platee di bocca buona, pronte a bersi tutto quello che viene offerto, tra ombre e luci, dallo schermo bianco. Giustamente Paolella, nell’articolo citato, chiarisce che esse “non vanno oltre i fini di sfruttamento delle sale locali o di esportazione tra le comunità italo-americane o comunque d’oltremare.”13 In esse lo storico trova, gustosamente , “tracce di cinema odorifero, e uno stile belante, e sbiaditi clichés ottocenteschi e un’incapacità di affon-dare le radici della ricerca in una terra che ha generato capricciosamen-te questa folla di uomini lavoratori e indolenti, pronti e pigri, gai ed aggrondati, pietosi e motteggiatori, timidi e sfrontati, religiosi e pagani.” 13 PAOLELLA R., “Assunta Spina uccisi da Mattoli” , in “Cinema” N°74, Nov.1952 53
54 Qualcuna di queste pellicole si situa alla periferia di Napoli, ma anche in quelle che scorrono tra i luoghi deputati della più verace napoletanità, l’esistenza pulsante della città resta inedita, misteriosa, estranea agli autori e per conseguenza agli spettatori. Non c’è l’alta borghesia, non c’è nemmeno il demimonde (impiegati e piccoli funzionarii che sono connotativi al massimo della geografia antro-pica partenopea), ma è assente perfino il popolino, che come notava Rea nel suo ottimo saggio non per nulla viene definito con questo strano dimi-nutivo, come “non degno di essere elevato a “popolo ” . Amoroso, come Misiano, come prima diversi altri, non si interessano affatto all’ambiente reale, alle connessioni che intercorrono “tra basso e palazzo, tra povero e ricco, tra onestà e corruzione”. Gli strumenti operativi sono una commozione senza ritegno, un respiro faticoso, una generosa grossolanità figurativa, insomma una disinvoltura di soluzioni narrative. E trovano perfino epigoni, da Mario Sequi ad Armando Fizzarotti, e Luigi Capuano. Il primo confeziona un “Monastero di Santa Chiara” con una bizzarra apparizione moraviana, in veste di ascoltatore della vicenda che si dipanerà di lì a poco. Grottini e Capuano, rispettivamente con “Carcerato” (1951) e con “Ergastolo” (1952) si accostano come ad un referente ideale al Mastriani, con tutti i suoi iperbolici itinerarii tra Pretura e Poggioreale. Un caso di puro mercantilismo manageriale, sarà invece “La contessa azzurra” realizzata da C.Gora per conto dell’armatore Lauro. Tra malin-conie borboniche e malvezzi meridionalistici, viene inquadrato e seguito con attenzione degna di altra causa, tutto il più dozzinale repertorio di oc-chiate voluttuose, ardenti, sognatrici, assassine o soltanto prepotenti. La diva a fumetti solleva il petto colmo di aneliti ipertesi, di angosce e convulsioni varie: siamo alla psicopatologia dell’Eros quotidiano.
Nè si salva lo sfondo: gli scenarii sono di cartapesta, o ripresi in modo stucchevole, iterativo; il colore è usato al di fuori d’ogni possibilità di de-codificazione simbolica. E’ più che comprensibile allora che registi di tal fatta non si prendano nemmeno la briga di conoscere i progetti o i soggetti che narratori di polso, quali Prisco o Rea, vanno pubblicando su “eretiche” riviste specializzate (per citarne uno solo lo splendido spunto di “Una Moll Flanders napoletana” di Rea).14 14 REA D., “Una Moll Flanders napoletana” , in “Cinema Nuovo” №12, Giugno 1953 55
V - Eduardo in celluloide 56 Alla fine degli anni ‘40, il cinema cade sempre più in preda a tentazioni escapiste. Gli autori appaiono sempre più condizionati dai loro finanzia-tori che sbandierano le ragioni del mercato e il gusto retrivo del grosso pubblico che, dopotutto, è quello che deve riempir le platee. In questa situazione, in cui la parabola dell’impegno tocca livelli gradualmente più bassi, anche l’apporto di un altro linguaggio, può servire da innesto benefico. Tanto meglio se i temi teatrali mostrano analogie con certi contenuti del cinema “popolare” . Tanto meglio se l’autore dei testi è un beniamino degli spettatori che ha saputo divulgare un aspetto gradevole seppure amaro-gnolo dei vizi e delle virtù dei napoletani.
Affidato a mani esperte, il connubio può avvenire in modo ottimale e superare le riserve dei tanti “puristi” . Teatro e cinema hanno non poche cose in comune e appare possibile evitare le polarizzazioni estreme del primo come “pura parola” e del secondo come “pura figuratività” . Uno spettacolo teatrale trasposto nelle sequenze di un film può raggiungere il giusto equilibrio nel rapporto dosato delle due componenti essenziali. Occorrerrà sviluppare una sapiente tecnica a base di tagli, integrazioni, adattamenti, sostituzioni di luoghi o di sfondi. Il movimento, la mimica, l’azione del grande attore suppliranno alle manchevolezze del ritmo o alla fluidità dello svolgimento. Non importa molto ai produttori la questione della “ricezione diretta” o dell’ “atto di pubblica comunione” sotteso alla proposta scenica che viene dalla ribalta. L’importante è accaparrarsi una numerosa udienza che riempia le casset-te del “box-office” . Vengono sottovalutati i pericoli dell’ibridazione, della riproduzione fotografica di un testo creato per prender vita in un altro medium. L’unica garanzia richiesta è quella della massima popolarità dell’interprete che dovrà assumere la parte del “mattatore” anche sull lenzuolo bianco dello schermo. Questa garanzia la dà un grande autore-attore di teatro, quale Eduardo De Filippo, rappresentante della “Napoli amara” , quella autocosciente ed autocritica che sa indagare sui suoi difetti. Sotto il manto lucido ma ipocrita del “bene mio, core mio” , che rifiuta le bugie che hanno le gambe lunghe, egli trova nel secondo dopoguerra il momento propizio per trascrivere in immagini filmiche alcuni dei suoi testi più rilevanti. Ha già compiuto un modesto tirocinio negli anni ’40 con modesti filmetti 57 ( “In campagna è caduta una stella” o “Ti conosco mascherina” ) in parecchi altri è apparso come brillante interprete ( “Il cappello a tre punte” ), ma è solo nel 1950 che comincia a dar prova della sua maturità di regista. “Napoli milionaria” viene, infatti, da lui portata sullo schermo filmico con buona consapevolezza del nuovo linguaggio, delle implicazioni tecniche ed espressive e dei fattori che lo differenziano da quello drammaturgico. In un’intervista dell’Aprile 1952, Eduardo chiarisce in termini semplici qualche parte di questo argomento quando dice: “Fra il personaggio teatrale ed il pubblico si stabilisce subito un contatto diretto che si rinnova continuamente nel corso dello spettacolo. Così gli eventuali difetti del personaggio si disperdono, sfuggono al-l’attenzione… Il personaggio cinematografico, invece, prende forma a poco a poco e la sua fisionomia si precisa alla distanza. Perciò i suoi difetti, invece di disperdersi strada facendo, si sommano e si accumu-lano e risultano infine evidenti tutti insieme.” 15 Sembra proprio una riflessione a posteriori sui film da lui diretti nei due anni precedenti ( “Napoli milionaria” e “Filumena Marturano” (1951)). Egli, in quanto responsabile regista, ha dovuto registrare un certo scetticismo della critica nei suoi confronti. E nella detta intervista ammette con la solita franchezza che Eduardo regista non ha saputo controllare a dovere Eduardo attore (dello schermo). E’ facile accorgersi, appunto, che certi effetti, certe accentuazioni o sottolineature che che sul palcoscenico assumono valenze comunicative di straordinaria efficacia, risultano invece assai ridondanti nella inquadratura in bianco e nero. Questa per le sue stesse dimensioni amplificate non ha affatto bisogno di nessun sovraccarico gestuale o fisionomico. Eduardo, però, ha compreso d’acchito che lo stile realista ha assunto in quegli anni una funzione “rivoluzionaria” in quanto è servito “a scalzare molte delle convenzioni e delle convinzioni prima vigenti” . Resta il fatto che le due opere filmiche citate risentono senz’altro della loro matrice e stranamente l’intervento sul dialogo è stato solo limitata-mente rielaborativo, la stessa trasposizione, il taglio e il
ritmo delle vicende non sono state abbastanza dinamizzate rispetto alla misura spazio-temporale cardine del discorso filmico. 15 AGNOLETTI B., “Portare l’attore dall’uomo della strada” (Intervista con Eduardo, in “Cinema” N°84, 15 aprile 1952 58
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60 La storia di “Napoli milionaria” è quella, notissima, di una famiglia travolta dall’occupazione militare alleata della metropoli partenopea. Il padre, Gennaro Jovine, reduce da anni di prigionia ritrova la moglie Amalia che si è data al mercato nero. Egli non può nè vuole comprendere e tanto meno giustificare questa smania di guadagno, questa sete di profitto che pervade i suoi congiunti. Resta pertanto molto scosso dalla risposta che gli dà il figlio Amedeo quando ad una sua osservazione moraleggiante, ribatte con sicurezza: “Se la classe dirigente filasse dritto, va bene… ma quando tu vedi che quelli che devono dare il buono esempio sono una mappata di mariuoli, allora uno dice: vuoi sapere la verità, tu mangi bene e ti ingrassi e io mi muoio di fame? Tu rubi e rubo pure io. Si salvi chi può!” 16 E’ questo il nucleo strutturale tematico che resta alla base della narrazione cinematografica, ma è indubbio che il travaso dal dialetto ad una lingua o koiné italianeggiante fa perdere lo smalto di veracità a non poche battute, situazioni, sequenze. Una ottima idea è stata però quella di aver chiamato Totò ad interpretare un personaggio di notevole impegno. La sola presenza di questo elemento di supernapoletanità galvanizza non poche frazioni del film ridando loro colore, freschezza, vivacità. L’affiatamento tra Eduardo e Totò, come tra Eduardo e Titina è comple-to, ed anche esso viene a raddoppiare una verve già presente nel testo di partenza, obliterando così certe evanescenze narrative, certe lungaggini o i non pochi punti neutri della narrazione per immagini. Ciò che conta per l’attore-autore-regista è portare gli interpreti vicino all’uomo della strada, alla sua umile verità poetica. Egli è cosciente del fatto che l’arte procede per esemplificazioni e per sintesi, e che anche la macchina da presa è uno strumento delle esigenze soggettive e creative del regista. Ma nelle due opere, viene spesso meno proprio quell’analisi microsco-pica dei personaggi e dei momenti culminanti delle loro azioni. L’obbiettivo viene penalizzato e si paralizza a lungo di fronte alle scene-madri in cui si svolgono ad un livello troppo teatrale le picche e le ripicche verbali, gli incontri o gli scontri psicologici dei personaggi, che finiscono con l’assumere quella fissità nella
prospettiva immota tipica dell’arcoscenico e poco congeniale al fluire dei fotogrammi sullo schermo bianco. Anche in “Filumena Marturano” ci sono pregi e scompensi alla pari. Eduardo ha inteso sì trasferire sulla tela a commovente figura dell’ex-16 DE FILIPPO E., in “Napoli Milionaria” ne “La cantata dei giorni dispari” , Torino, ’73 61
62 meretrice, ora madre al cento per cento, ma contemporaneamente ha tentato di uscire dalla claustrofilia dell’appartamento di Domenico Soria-no, immettendo tutti in un ambiente più largo, nel panorama di un universo sociale che appaia come il condizionamento esterno (seppure non deterministico) delle involuzioni od evoluzioni soggettive. Ciò, se da una parte amplia l’orizzonte dell’azione, dall’altra conduce il regista a diluire la densa vena di emotività racchiusa nelle pieghe del dramma teatrale. Occorre però ammettere, che l’obbiettivo ha gioco più agevole nel cogliere le mille sfumature del milieu napoletano, i cento tic psicologici, e le manie e i gusti dello “Homo neapolitanus” . Resta il gheriglio passionale della dura noce morale: “i figli sò i figli!”: l’esistenza ha alcuni cardini biologici da cui non è possibile uscir fuori se non si intende far crollare la società, o comunque il
proprio gruppo ambientale; se, insomma, non si ha il coraggio di sovvertire completamente lo spirito della propria epoca. L’istinto di vita, l’amore per la vita, la feroce vitalità partenopea pro-rompono di tanto in tanto dalle inquadrature del film, ma talaltra sono come attenuati, opacizzati dalla perdita della terza dimensione, dall’assenza di quell’empatia che i teatranti riescono a far scoccare tra le poltro-ne della platea, quando incorporano in se stessi, nelle loro voci, nei movimenti del proprio fisico le passioni, le rivolte, gli urli che potrebbero pro-rompere da chiunque arrivi ad immedesimarsi nella loro immaginaria eppure vissuta vicenda. L’impasto linguistico usato da Eduardo in “Filumena” è più acuto o almeno più funzionale che nella prima opera; si tratta di un “blend” tra dialetto ed italiano che si avvale di certi cromatismi partenopei, di certe inflessioni per conferire toni e timbri di verità alle parole enunciate, mor-morate, gridate. C’è un rifiutarsi più maturo al compiacimento per la pura e semplice battuta lasciata cadere ad arte tra una banalità ed un’altra o per la inser-zione totalmente vernacola di modi di dire o terminologie o fraseologie ad effetto sicuro. Anche lo schema drammaturgico risulta più robusto, più incalzante, forse per la natura originaria della “fiction” eduardiana. In diversi momenti si ritrova la cifra più autentica di questo maestro della commedia, cioè quel saper far collimare umore e tragedia, modi esistenziali e modi autoironici e quel continuo metter in gioco libertà e possibilità di dolore. E’ certamente un brano di vita rappresentato con forte espressività: 63 ogni ammiccamento, ogni sovratono di voce, ogni modulazione dello sguardo, ogni inarcamento di sopracciglio portano i segni di una inte-riorità genuina, sofferta o goduta, non importa; ma che sgorga di prepotenza, quasi indifferente all’eventuale recepimento, ma tesa a uno sfogo naturale impetuoso, istintuale, quasi ai limiti dell’animalità umana. E la casa, il vicolo, la piazza sono campi di lotta, spazi per dar libertà alle proprie contrastanti o convergenti emozioni: una battaglia darwi-niana di mosse, contromosse, sgambetti, sapienti e comiche ritualizza-zioni della conflittualità quotidiana. Non sussiste la diplomazia sorniona del milieu borghese, con le sue goffaggini e le sue ridicole affettazioni. Ed è proprio per questo che la comicità sconfina nel tragico e viceversa, e ogni nota è vicendevolmente canto e controcanto: ogni battibecco è una corrente sonora alternata che porta a collisione due animi umani, ben al-dilà di un regolamento contabile (e logico) di ragioni e torti secondo un’ordinato diagramma. Proprio nei momenti migliori l’intreccio di una situazione e il suo scioglimento vanno avanti per accavallamenti, accumuli di sensazioni, impressioni veloci, perfino blocchi del ragionamento comune. E sono quei momenti che nell’opera filmica riescono a convogliare lo stesso magma di emotività e che non fanno rimpiangere la vibrante fisicità degli interpreti sulle tavole di legno e tra le quinte del grande teatro di Eduardo. Meno tipicamente partenopeo e più “emigratorio” è un altro film girato da De Filippo nel ‘53 “Napoletani a Milano” . E’ la storia di alcuni abitanti di un povero quartiere della periferia che vengono sfrattati da una società settentrionale, proprietaria di tutti gli immobili. Essi si trasferiranno nella capitale del NordItalia, cuore del triangolo industriale e riusciranno, alla fine, a salvare dalla bancarotta la società milanese che li aveva trattati con tanta durezza. E’ un lavoro senza troppe pretese, con notazioni di carattere, talvolta puntuali; c’è in esso una riverniciatura di roseo sul bianco e nero che non persuade, quasi una riduzione polemica dell’ottica ideologica. Così ancora, nel ‘54, Eduardo ritorna al cinema con una trascrizione di un altro dei suoi grandi successi in palcoscenico: “Questi fantasmi” . Com-mette però una badiale bizzarria affidando a Rascel la parte di Pasquale Lojacono, il protagonista della pièce. L’opera che già soffriva di aggettiva-zioni piccoloborghesi, appena insaporite da puntatine in dialetto finisce coll’orientarsi solo verso doppi sensi alla francese o sketch che trovano nei soliloqui la loro sola ragion d’essere.
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65 Il regista sembra lavorare quasi sbadatamente, con angolature decise alla meglio, senza operare esatti raccordi tra i piani delle sequenze. Lo stesso uso delle luci è fuori dai righi, oscillando tra un espressionismo di maniera (tipo “Il cappotto” ) e un neorealismo involontario o sfiduciato. L’impianto comico-patetico del “cocu magnifique” alla Spaccanapoli, condito dall’ordito di miracolosi e benefici fantasmi risulta sfilacciato e perde progressivamente consistenza; si sfalda quel vivace discorso sulle “anime in pena, irrequiete, innocenti e perfino inutili”. Manca proprio la maestria del “comedian” Eduardo che, avanzando verso il proscenio, carico di esperienza inossidabile, sa risolvere anche i vuoti creativi dell’autore con la perfetta o magica padronanza della comunicazione mimica o pantomimica. E se ne ha una controprova quando ci si accorge che alla sceneggiatura hanno dato una mano temperamenti contrastanti come Marotta o Soldati. E si potrebbe perfino ricordare che un famoso poemetto di Eduardo “De Pretore Vincenzo” ha fornito lo spunto per un film non suo (e comunque anonimo) come “Un ladro in Paradiso” .
Come questo, gli altri film che verrano diretti dal commediografo napoletano saranno sempre disuguali, sempre più insoddisfacenti ( “Fortunella” ( 1958), “Spara forte, più forte… non capisco” (1966). Viene proprio a mancargli, nel cinema, quella ricchezza di dettagli umani che egli ha saputo sventagliare con geniale immaginazione nella sua “Cantata dei giorni dispari” . Sembrerebbe quasi che di fronte alla macchina da presa De Filippo perda l’appiglio con quella griglia di rappresentazioni amare e disincan-tate che costellano il suo mondo napoletano a livello intermedio tra ceto medio e proletariato. E si sbiadiscono sulla celluloide tante figure piene di folli puntigli, di umori bislacchi, di effervescenti sarcasmi, insomma di delusa filosofia partenopea. Fa bene allora constatare che Eduardo si convince a ritornare al suo lavoro di sempre, a precisare ed approfondire il suo repertorio di dram-maturgo che ha fatto delle incursioni (e delle esperienze) nel cinema ma ha compreso che si tratta di un altro linguaggio, di un altro medium e che veramente il medium è spesso il messaggio (anche se MacLuhan non è ancora apparso nel firmamento dei saggisti à la page). Il teatro resterà il clima che più gli si confà; quella sua serra dove sono stati allevati personaggi indimenticabili da Luca Cupiello a Libero Incoronato, da Gennaro Jovine fino a Guglielmo Speranza. 66 Insomma anche lui si è presentato agli esami di cinema, ma lo scrutinio se non è stato negativo non è stato esaltante e nemmeno troppo incorag-giante. Da uomo di esperta saggezza, da scrutatore di coscienze ha saputo imporsi un opportuno dietrofront rispetto ad un’arte che non gli ha dato soddisfazioni adeguate alla sua statura d’artista. E così come ha saputo non cedere ad una visione faziosa o settaria della sua Napoli, ma nemmeno ad una formulazione rosea dei suoi problemi (sia individuali che sociali), De Filippo ha dimostrato di saper allonta-narsi con tempismo ottimale dalle tentazioni della decima musa forse non benevola o a lui non troppo congeniale. Non è, dopotutto, un limite se non nel senso che i suoi contorni di autore teatrale (e di poeta vernacolo) ne escono ancor meglio tratteggiati. E’ evidente, anche dai lavori susseguenti, che la felice spontaneità del suo temperamento creativo trova il terreno più adatto sullo sfondo di una semplice scena dipinta a mano, che viene animata da discorsi verbali e non d’immagini, le quali richiedono altri tempi, altri raccordi, altre prosodie. Se si trasporta il discorso sul piano storico, è comunque provvidenziale che esistano però registrazioni iconiche della sua arte interpretativa e drammaturgica. Esse resteranno a testimonianza non obsolescente di un grande talento che ha meritato elogi nelle capitali culturali di quasi tutto il pianeta ed è stato acclamato tra i pochi capaci di ricollocarsi sulla linea di grandezza pirandelliana. 67
VI – Comencini, De Santis, Zampa e Castellani 68 Come si è visto, proprio i registi minori hanno frapposto un flou forma-listico, patetico e ridondante tra l’obbiettivo cinematografico è la realtà di Napoli. Essi si sono lasciati immobilizzare da un clima di preoccupazioni e di incertezze, concorrendo ad accrescere il disordine e il disorientamento del quadro produttivo. A metà strada tra arte ed artigianato, ci sono però uomini che sanno svin-colarsi da certi schematismi retorici e da certe superficiali passionalità: i nomi son presto fatti, da Comencini a Zampa, da Castellani a De Santis, pur tenendo conto dei limiti, degli errori e dei tic che qualcuno di essi rivela. Sono temperamenti di novellieri che cercano di intrecciare biografia e storia, vicende individuali e sociali, tendendosi a giusta distanza dal folklore e dall’appendice di marca partenopea, e rifiutando paternalismi ed “esprit de suffisance” di ascendenza nordica o comunque anti napoletana. Sono autori alieni dal protagonismo che non invocano valori estetici su-premi eppure sanno coltivare un proprio campicello narrativo, una propria “tenuta” . Nell’approcio con la capitale del Sud, partono senza moralismi preconcetti, evitando atteggiamenti espressivi ambigui (forse solo De Santis ca-drà nella rete di un nazionalpopolare predigerito, su cui ha giurato in piena ingenuità. Comencini, Zampa e lo stesso Castellani riescono a metter da parte slanci consolatorii o purificatorii e a dimenticare i tanti mitologemi che incrostano la fisionomia di Partenope. La loro marcia di avvicinamento alla realtà ha un ritmo moderato ma riesce a scrutare e a sfiorare non poche verità metropolitane, a inquadrare parecchi problemi senza mai mettersi al rimorchio di quei reazionarii che sanno perfino travestirsi da fautori di “un progresso senza avventure” . Luigi Comencini che sarà un giorno responsabile della serie “Pane, amore e…” , arriva a Napoli nel ‘48 e dopo essersi ben guardato attorno decide di dedicare alla città un film che è stato a torto dimenticato: “Proibito rubare” . Al centro della vicenda si collocano alcuni scugnizzi che operano tanti piccoli furti, per la loro mera sopravvivenza e con una inconsapevole naturalezza nel comportamento illecito (questa tematica
sull’infanzia e ado-lescenza abbandonata a sè verrà ripresa dal regista solo dopo anni di sbandamento “fantamoroso” . Il contatto con storie vere, il dover rappresentare senza remore un’umanità piena d’immediatezza spingono Comencini all’uso di un linguaggio scevro di artifici. Lo stile che aderisce forzosamente alle cose che egli vede 69
70 e quasi tocca con mano, risulta schietto, antiretorico, penetrante, finendo col rientrare a pieno titolo nel grande alveo del “amaro stil novo” . La vicenda di questi ladruncoli per stato dì necessità viene a simboleggiare, ancora una volta, i problemi concreti di una sottoclasse sociale, negletta, disorientata dall’inefficienza o ipocrisia di chi dovrebbe invece dirigerla, istruirla, farla progredire. La chiassosa ma non spensierata umanità dei vicoli sotto il sole (o sotto la pioggia) di Napoli viene colta come un tutto, parte organica di una struttura verosimile. La gesticolazione concitata,, il sovrapporsi veloce delle parole in vernacolo, le macchie grigiastre degli ambienti configurati con rapide manovre dell’obbiettivo si amalgamano, nelle sequenze più riuscite, non in un quadretto di maniera ma come in un lacerto cocente di esistenza colta nel suo farsi penoso e miserabile.
Come Fucini un secolo prima, anche Comencini è come sopraffatto dall’esigenza di non barare con se stesso, di abolire comici dalla divagante fantasticheria per documentare in piena sincerità questi spezzoni di società sottoproletaria, questo terzo mondo d’Europa. E i limiti del film sono i limiti che si è imposto lo stesso suo autore: l’impossibilità per una testimonianza di approfondire una dura esperienza sociale e di inscriverla in una problematica più ampia che risalga alle responsabilità economiche e morali di tanta precoce degradazione umana. Come poi evidenzierà la sua carriera a zigzag, manca nel pur sensibile regista lombardo un preciso metodo analitico, un valido strumentario di valutazione, per far completa chiarezza su questo mondo adolescenziale che egli scopre ed insegue tra i vicoli, le piazze e i reclusori (quartieri “spagnoli” , S.Eframo, fino al monumentale casermone di Piazza Carlo III). Un’operazione certamente più presuntuosa mette in atto Giuseppe De Santis quando viene a Napoli a girare “Un marito per Anna Zaccheo” 1953); il regista ex-critico ha già sollevato grossi interrogativi con “Riso amaro” e “Non c’è pace tra gli ulivi” quando inizia le riprese del film tra Mergellina e Santa Lucia. La stessa scelta della protagonista, Silvana Pampanini, si rivela di un’ambiguità non facilmente sanabile ai fini di un ritratto veritiero di una giovane e bella “luciana” . Come la Silvana mondariso, così Anna Zaccheo è vittima della sua avve-nenza: è proprio questa dote apparentemente favorevole che le impedisce di trovare un lavoro onesto e un marito come lo hanno tutte le sue amiche. Sembra che questa qualità, così provocatoria per gli ardenti uomini del quartiere, vieti alla ragazza un normale destino di donna e di cittadina. 71 Come ammetterà G.Aristarco, in una sua lunga recensione del film “una volta individuata questa condizione e questa educazione sbagliata, sembra che De Santis, nel presentare la protagonista, sia sua volta vittima di un supergallismo; e così la critica dei vari fenomeni lascia il posto al gusto per la bellezza fisica fine a se stessa e sfiora, quando non cade nel sensualismo, l’erotismo.”17 Si ricordi infatti almeno la sequenza iniziale in cui la macchina da presa si sofferma a lungo sul corpo dell’attrice per poi scorrere con quasi millimetrico indugio sulle sue gambe, le ben tornite cosce e poi sul bacino e tutta l’altra esuberante anatomia muliebre. D’altro canto, la città (e questo è ancor peggio), si presenta all’obbiettivo del regista come un serbatoio ridondante di spunti populistici, inquadra fatterelli troppo coloriti (sia in positivo che in negativo) e rende defor-mato sia il profilo urbano che quello sociologico. De Santis perviene così, di fatto, ad una notevole mistificazione dell’ambiente a cui si è posto di fronte, accumulando un sovraccarico di annotazioni nient’affatto specifiche o congrue al tema che ha deciso di sviluppare. Partenope non è citta che si riassuma in quattro e quattro otto, che si possa sintetizzare con rapidi colpi d’occhio, o carrellate verticali tra pino e Vesuvio: come altrove ha riconosciuto un narratore che si è provato non poche volte a ritrarla essa é “una città anche troppo difficile, una specie di valigia a doppio fondo di cui non si potrà conoscere mai l’indifferibile contenuto, con tutte quelle eredità di cui è impastato il sangue della sua gente: fenicia, greca, moresca… e non dimenticando il Vesuvio, questa specie di Moby Dick dei partenopei”. 18 Così anche De Santis è passato per Napoli come un turista appena appena più consapevole del suo problema storico-sociale; nè lo ha aiutato l’impegno dell’attrice irretita in civetterie, amenità, scatti che hanno frat-turato il personaggio in tanti segmenti divistici o subdivistici. Non sono bastati slancio e generosità della troupe, non sono bastate le pur innegabili doti tecniche. L’istanza sociale, che rappresenterebbe in teoria l’interesse narrativo precipuo dell’autore, resta marginale, con scarse intersezioni con la storia di Anna, non riesce a trasformarsi in una prosa convincente, essenziale, in cui le linee configurative siano saldamente connesse tra loro. Questa operazione cinematografica si rivela purtroppo, episodica, senza robuste 17 ARISTARCO G., rec. a “Un marito per Anna Zaccheo” in “Cinema Nuovo” N°25, Ott.1954 18 PRISCO M., “I registi italiani non conoscono il Moby Dick dei partenopei” in “Cinema Nuovo” N°7, 1953 72
motivazioni, un’altra occasione perduta per lo schermo e soprattutto per Napoli. Beppe De Santis ha dimenticato le belle pagine che scriveva da critico su “Cinema” quando si chiedeva “come altrimenti sarebbe possibile intendere ed interpretare l’uomo se lo si isola dagli elementi nei quali ogni giorno vive, con i quali ogni giorno egli comunica, siano essi le mura della sua casa o le strade della sua città”.19 Più misurato e più attento, nell’incontro con Napoli, appare un altro regista della generazione di mezzo: Luigi Zampa. Nel ‘53, insieme con Brancati, egli stende la sceneggiatura di “Processo alla città” : ricostruzione interessante del famoso o famigerato processo Cuocolo svoltosi quasi cinquant’anni prima e che portò allo smaschera-mento di una intricata rete camorristica operante all’ interno e a ridosso del centro partenopeo. In questo film, Zampa recupera con notevole equilibrio narrativo le fasi di quella difficilissima istruttoria che finirà con lo svelare le cento complicità che vincolano gli ambienti più disparati (e talvolta insospettabili) alla malavita organizzata. Nel personaggio dell’inflessibile giudice istruttore, Amedeo Nazzari si trova a suo bell’agio e la sua temperamentale ed estroversa gigioneria viene dosata con mano esperta dal regista che non lo lascia libero di strafare nemmeno per un solo attimo. Zampa allude ad un tempo ben presente mentre il suo carrello scorre su volti e costumi di un tempo assai anteriore: egli è troppo consapevole che il fenomeno ha radici sotterranee profonde per essere tramontato dopo o durante lo spettacolare processo: l’omertà, un erroneo codice d’onore, la diffusa sfiducia nella giustizia, la miseria malconsigliera sono cose che fermentano ancora. La formalizzazione in immagine dei fatti truci, delle arringhe, dei contrasti riportati alle loro esatte dimensioni imprime un timbro classico a questa cronaca giudiziaria in costume. Il discorso ben ritmato, ben montato visualizza fascinosamente un’atmosfera solo apparentemente remota, e trova la sua vena segreta di attualità nelle immagini ferme del tempo dei tribunali della Napoli contemporanea, nei dialoghi che echeggiano con premonizioni i battibecchi di cui son piene le note recenti di cronaca nera. Il realismo di Zampa è di livello artigianale ma serio e ragionato, 19 DE SANTIS G., “Per un paesaggio italiano” in “Cinema” N°116, apr. 1941 73
74 sostenuto da un non ostentato impegno civile. Ciò gli consente di ripercorrere con lucidità di sintassi e di angolazioni i fili principali dell’inchiesta giudiziaria e a dominare la trama con un senso di unitarietà che talvolta non è agevole riscontrare anche in narratori di maggior respiro. Alla periferia geografica (e storica) di Napoli, resta un autore come Renato Castellani, quasi avesse timore di addentrarsi nell’indecifrabile labirinto metropolitano. Il suo “Due soldi di speranza” è il film più dialettale di quel periodo che presenta aspetti gradevoli nell’impasto tra il vernacolo e il boccaccevole e le contaminazioni tra recitazione non professionale e gestualità da commedia dell’arte. In questa direzione, il regista riesce ad intridere questo “neorealismo roseo” di certi disagi sociali che serpeggiano tra il contado e la città. In Carmela costruisce un personaggio femminile dalla vitalità focosa e prepotente e in Totonno, il suo ragazzo, l’emblema di una dura sorte collettiva, i cui termini sono disoccupazione e difficolta di bilancio familiare. La vera abilità stilistica è quella di conferire un ritmo di balletto a quelli che sono gli snodi di una non allegra vicenda esistenziale. Totonno, tornato dal servizio militare alla sua natia Cusano, prima di poter prender moglie, dovrà provvedere, secondo tradizione, alla dote delle sue cinque so-relle. Deve accettare qualunque tipo di lavoro, in quell’ambiente senza risorse ed ancorato ad un’economia agricola quasi primitiva. Accetterà perfino di fare il campanaro, lui che di notte lavora come attacchino per i partiti del Fronte Popolare. E’ conseguenziale il suo licenziamento e l’abbandono da parte della fidanzata d’argentovivo. In città, il ragazzo trova una sistematione come “trasportatore” di pizze di pellicola da un cinema all’altro, lavoro che espleta per conto della vedova proprietaria di questi locali di spettacolo: altra febbre in Carmela che cova gelosie infondate, e si decide a colpi di testa pur di riportare a sé il giovanotto. Le belle impennate di verve figurativa (si veda la sequenza in cui Totonno si dà da fare a spinger carrozzelle) sdrammatizza, quanto è necessario, il racconto. E Castellani conclude anche con un senso appropriato della coralità quando, di fronte al giovane che grida la sua volontà di impalmare Carmela anche senza camicia, si srotola la panoramica laterale che svela le tante e diverse fisionomie dei paesani. La città è vista solo di scorcio ma quell’ottimismo che circola in ogni sequenza dell’opera non è di maniera, nè è un facile ersatz alle delusioni 75
76 politiche di qualche anno prima. Si potrebbe dire che proprio per giocare una sua autentica carta di speranza, il regista si è tenuto lontano dal groviglio di cemento e di vicissitudini secolari che intriga la metropoli, della quale comunque si sente l’eco non flebile nè di maniera. E quei pochi approcci visuali al suo habitat superano il gusto tanto diffuso della convenzionale incasellatura sociologica od estetizzante. 77
VII - Totò 78 Già dal ‘37 sullo schermo è riapparso Pulcinella, sia pure senza maschera, nella figura snodata e iperdinamica di Totò, Ma è soltanto negli anni che seguono la conclusione della seconda guerra mondiale che esplode questo personaggio poliedrico, esso riasssume la vitalità e l’apatia, l’astuzia e la rassegnazione, l’ironia e l’amarezza del napoletano di ieri e di oggi. La bruttezza espressiva, la fisionomia (e il fisico) estremamente mobili, la prodigiosa capacità gestuale (smorfie e tic compresi), fanno di questo attore-autore un creatore di tipi, caratteri, e macchiette che servono da spia alla psicologia partenopea. La fantasia comica di Totò non è nata precipuamente col cinema ma è germogliata dallo spettacolino di strada, dal cafè chantant e si è arricchita progressivamente in un repertorio da palcoscenico, attraverso il varietà. Ha trovato, solo dopo anni e anni la via per imporsi anche nei confronti dell’impassibile obbiettivo di cristallo, con lo sciorinare senza alcuna timi-dezza davanti ad esso la gamma completa della sensualità primigenia del “Gennaro Esposito” che in pochi, lunghi movimenti entra in contatto con qualunque oggetto o persona del mondo esterno, guardando, toccando, annusando, degustando. Dal ‘41 in poi, la supermarionetta Totò ha stampato la sua dinamica immagine su chilometri e chilometri di pellicola e comunque ciò è stato positivo perchè altrimenti non si sarebbero potuti conservare e rivedere gli exploit di un arte come quella teatrale effimera ed evanescente per costituzione. Interprete immediato del suo paese, della sua agilità mentale, capofila nell’arte di arrangiarsi, nella sua capacità di malizie e maldicenze il personaggio Totò non subisce gli eventi ma reagisce ad essi con scatti improvvisi, sberleffi, affondi:, non è il poveruomo che si fa sballottare dai casi avversi o dalle mille stranezze dell’esistenza che sono ancor più bizzarre quando hanno luogo in quella metropoli assurda che gli ha dato i natali. E’ stato definito giustamente e con acutezza (da Sandro De Feo) “il Pi-casso della risata” ed un quadro semovente è proprio quello che egli configura con il suo corpo, perchè riesce a scolpirsi, a guidarsi, a truccarsi, a manovrarsi e a travestirsi in tutti i possibili modi che possano servire ad innescare e poi a far esplodere l’ilarità della platea. E’aiutato in tale performance dai tratti singolarissimi del volto e del fisico, dalle sue mascelle asimmetriche, dagli zigomi in rilievo, dal collo quasi svitabile e dal torso che può ruotare in tutte le direzioni desiderate. Dal punto di vista sociologico come ha bene annotato Fofi: “…Totò è, dunque, a cavallo tra l’esperienza sottoproletaria e quella piccolobor-79 ghese, in una società in cui è fortissimo il tentativo piccoloborghese di negare gli elementi di somiglianza da parte della seconda per distin-guersi dalla insicurezza della prima. He derivano due tipi diversi di ag-gressività, quella di chi da una condizione di precarietà assoluta tende alla soddisfazione dei bisogni primari e di conseguenza risponde solo alla morale del bisogno, e quella di chi si sente perennemente minacciato nella sua minimale sicurezza da forze oscure e generiche non mai precisamente definite (lo Stato, chi comanda, i caporali, gli altri).” 20
Le sue gag hanno ascendenze antiche, risalgono fino alla commedia dell’arte e oltre, agli histriones, agli joculatores, ai mimi e saltimbanchi della Campania Felix. La sua teoria verbale si apparenta non poco a quella dei ciarlatani e venditori, degli imbonitori ed esorcisti che ancora popolano le strade e gli angiporti di Napoli. Le battute, a ben guardare (e udire), sono ripetute di frequente ma vengono ogni volta arricchite tramite deformazioni, variazioni, amplificazioni che mirano ad adattarle alla nuova situazione in cui agisce il personaggio. Le sue danze e le sue acrobazie se le è modellate su di sè, trasformando il suo corpo e la sua faccia in quella di un singolare clown moderno che trova ispirazione nei segmenti più minuti della cronaca di Napoli o di una citta che sia il traslato di questa. Naturalmente, deve anche qualcosa a Chaplin o a Petrolini, a Gennariel-lo o a Grock, ma soprattutto deve molto a se stesso, alla sua natura partenopea, che egli riesce a configurare scavando fino in fondo ai suoi ricordi amari, alle sue esperienze paradossali, alla sua problematica esistenza in gioventù. E’ proprio questo che gli permette di sovrapporre con appropriatezza la sua personalità comica intinta di surrealismo e metafisica sullo sfondo estremamente realistico della scenografia cittadina. A ben guardare, anche le pellicole che riguardano altri ambienti risentono del suo comportamento meridionale tipico: sia a Roma, che a Capri, a Fiug-gi che a Pollenatrocchia egli cammina, si volta, occhieggia o si frega le ma-ni, si rialza da terra o si risveglia al mattino come un napoletano classico. Rispetto alla media gestualità meridionale egli non presenta che delle sottolineature caricaturali, delle accumulazioni in graduale crescendo dei segmenti dinamici. La loro concatenazione paradossale conferisce a questi segni comunicativi una suggestione assai peculiare. Le sopracciglia, le rughe della fronte, lo stesso cappello si muovono al-20 FOFI G. e FALDINI F., Totò, l’uomo e la maschera, Milano 1978, p.89 80 l’unisono con le labbra che profferiscono commenti salaci o scurrili. La scucchia sbatacchiata a destra o a sinistra, l’orecchio mobile, gli occhi a radar, il collo a periscopio, le mani parlanti, il busto dislocabile a volontà sono strumenti singolari di un linguaggio, di una sua “parole” oltremodo articolata. Forse perciò la sua comicità ha servito meglio quei registi minori che gli hanno lasciato maggior libertà d’improvvisazione; essi hanno capito che valeva meglio assecondarlo nei suoi umori, nelle sue tirate estemporanee, nelle sue folgoranti battute a braccio, ai fini di una particolare creatività. Nel ‘40, Antonio De Curtis, (nome anagrafico del grande attore napoletano) partecipa a tre film che si rifanno più da vicino alla tipologia strutturale degli individui e delle avventure che si incontrano nella sua metropoli tragicomica. In “Toto cerca casa” , ad esempio, (diretto da Steno e Monicelli), l’attore è inquadrato nel contesto di uno dei problemi più assillanti per il partenopeo non abbiente, cioè la ricerca disperata (e pertanto comica) di un al-loggio qualunque per sè e per i suoi. La cifra neorealista della pellicola viene arricchita dalla vivacissima presenza della maschera atemporale: il dramma è contro appuntato dalle smorfie del volto, dai significanti voli delle mani, dal sapiente balletto delle dita in sincronia con quello degli occhi, roteanti, convergenti, penetranti. Gli sberleffi, i finti pianti, i digrignamenti, gli aggrottamenti le pose sbi-lenche del corpo di Totò accrescono la tensione comica che attraversa la vicenda dal principio alla fine. Lo spettatore, specie se conterraneo, partecipa intensamente perchè sente che quelle ripulse movimentate, quelle pantomime non sono buffo-nerie fini a se stesse o puerili pagliacciate, ma iperboliche rappresentazioni delle vicissitudini quotidiane che il napoletano medio sperimenta nel quotidiano scontro con le difficoltà della sopravvivenza e con i problemi della famiglia, quasi sempre numerosa o costituita in clan, con generi o suoceri o altri “carichi pendenti” dal capostipite. Eppure Totò non si rivela uomo inferiore, nè è uno Zanni che prende facilmente gli schiaffi o un vecchio che si ringalluzzisce per un nonnulla: egli è un protagonista che opera subitanee analisi
della “posizione” in cui si trova e si arma di una reattività stupefacente, tanto più energetica quanto più viene presa per inconsulta. La sua fantasia lo porta poi, sul piano dialogico, ad intensificare i tratti del linguaggio natio e a contaminarlo con i ridicoli fronzoli del burocra-81 tese o dell’etichetta arcaizzante (“tampoco, appunto, eziandio, a prescindere, fa d’uopo”…) Oppure lo inducono a ridurre in battute olofrastiche quei modi di dire che tendono a neutralizzare il peso oscuro della realtà: “Quisquiglie, baz-zecole, pinzellacchere”. Con esse mette a tacere avvocati e vaiasse, dottori e lavandaie, salumieri e netturbini, portieri e vicini di casa, tutto quel presepe ficcanaso e maldi-cente, ossessivo e petulante che gli turbina attorno e vuole da lui rendi-conti, notizie, confessioni, forse pentimenti o atti di dolore. In “L’imperatore di Capri” , sempre dello stesso anno (‘49), riesce a mettere a frutto, pur di fronte ad un altro scenario, il suo temperamento proteiforme, versatile, polivalente. E’ lui a sommuovere il ritmo normale del film, a mettere in subbuglio le inquadrature: così sprizza malignità intelligente da tutti i pori, quando rifà il verso ad un ambiente di “napoletani” espatriati nell’isola di Tiberio e che vagheggiano anni di ozio, di snob-berie, di tormentosa ricerca dei piaceri. In una splendida sequenza, riesce a fare del suo volto la parodia calca-rea di un Tizio da Basso Impero, quando immobilizza la sua fisionomia nell cornice di pietra di una fontana caprese. E dà innumeri prove della sua essenza anguillesca, fantasistica, fregoliforme, anche in tanti altri film in cui si fa, di tratto in tratto, invasare da follia donchisciottesca o da puntiglio guascone, pur senza mai liberarsi dal complesso del seno (mamma o mammella). E’ quasi inutile menzionar i titoli, ma non occorre fare sforzi di memoria (soprattutto dopo l’anche eccessivo revival), per rievocare intere giran-dole di sketch talvolta anche mal suturati tra loro, ma che, al di là delle troppo esili fabulae, rendono il suo spirito di chiarissima marca meridionale, che risale ad atellane o fescennini. E sempre viene in primissimo piano quel suo saper trovare rimedi immediati a cento contrattempi, quel suo saper districare terribili nodi gor-diani, quell’istintito maramaldeggiare con i deboli e dolcificarsi con i potenti che finisce per apparire come un manuale visivo di certi antichi e perenni difetti di un popolo che intende vivere giorno per giorno, nella dimensione più precaria della storia umana, col suo vulcanico e sismico destino che l’incalza ( “domani penso ai debiti, stanotte sono un re!” ) . L’interpretazione dei molteplici ruoli diventa così, in Totò, la rappresentazione di una buona parte della psicologia di un popolo per il quale spes-so le virtù non si distinguono dai vizi, la bugia dalla verità, il merito dal demerito, perchè a Napoli vige il caos non il cosmos, Socrate non è ancora 82
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84 nato, e si vive edonisticamente o precariamente al di là del bene e del male. Del personaggio di Pasquale Miele, reso con umoristica puntigliosità in “Napoli milionaria” di Eduardo, si è già accennato. Possiamo aggiungere che in esso si viene a condensare tutta una “weltanschaung” sottoproletaria: Pasquale potrebbe far di cognome anche Cetrulo dato che egli finisce anche col fingersi morto per poter difendere la sua porzione di macchero-ni e di pummarole (stavolta frutto di mercato nero al tempo dei “mamma e papà” U.S.Army). E in un altro film dalla firma illustre (Rossellini) ma in verità deragliato su strani binari, “Dov’è la libertà” , Toto si metamorfosa in un carcerato che preferisce rinunciare ad uscir di prigione. Questo film, come annota sintomaticamente Fofi, “arricchisce però Totò di un aspetto che nella sua recitazione non era venuto ancora precisamente in luce: quello un tantino funereo, paradossale, grottesco.”21 E’un aspetto che troverà il suo sviluppo in alcuni film tratti da testi pirandelliani e che qui sono fuori discorso per il tema prescelto. Così come risultano fuori di un contesto organico quelle sequenze che si esauriscono in semplici siparietti teatrali o in facili couplets o in acrobazie clownesche fini a se stesse. Certamente significativo resta, d’altra parte, “Totò a colori” , sempre del ‘52, un’antologia dei guizzi più coloriti, sia mimici che verbali dell’attore che gioca il tutto per tutto per restituire quanto di vis comica napoletana gli ribolle in petto. In questo film, Totò si sfuria nei più gustosi paradossi gestuali e fraseologici (“il capostazione, quell’uomo in borghese col cappello in divisa” , “parli come bada!”, “se lei mi tocca io faccio il ritocco.” ) o in magistrali contorsioni poliglotte, in salsa piccante napoletana: “les chauffeurs sont les chauffeurs!” oppure “au visage du poisson!” . Ancora una volta è insieme qualunquista ed aggressivo (soprattutto con l’On.Trombetta, mediocre e probabile assenteista, la cui sorella insinua Totò - è dedita a comportamenti stravaganti o perversi). E’ giacobino e sanfedista, è paranoico e conformista. E’ soprattutto zoomorfo quando si trasforma in gallo che avvicina gallinelle formose e le annusa, le palpa, le rimira, le ripercorre con l’occhio esorbitante, per poi starnazzare in maniera orgiastica. Si erige a direttore di una superorchestra dodecafonica che include nel suo “sound” sibili, mortaretti, intonarumori d’ogni sorta. E Totò dirige 21 FOFI G. e FALDINI F., Totò, l’uomo e la maschera, Milano 1978, p.89 85
86 allora con tutte le sue membra, a salti, a lazzi, a sgambetti, con gestacci o con impetuosi strabuzzamenti d’occhi. Nel finale effettivamente “travol-gente” si fa in quattro: orchestrale, bersagliere, superpupazzo e capofan-fara. Riesce insomma a segmentarsi a velocità supersonica per poi ricom-porsi di nuovo in consonanza con la musica, componendo quasi uno spartito visivo con quel suo corpo deviante, alienato, che diverge da ogni etichetta e da ogni baricentro. In alcuni film successivi, Totò riprende alcuni canovacci scarpettiani da “Un turco napoletano” (1953) a “Il medico dei pazzi” (1954) o si esibisce in parti non protagoniste come in “Miseria e nobiltà” (1954) sempre diretto dal modesto e remissivo Mattoli. Cerca di riprendere ed aggiornare il suo repertorio espressivo ma certamente risulta alquanto limitato dal “copione” di firma illustre. In qualche momento riesce a dare il meglio di sé, se il personaggio collima con le sue dimensioni interne ed esterne (ad es. “lo scrivanno di sotto S. Carlo” ) ma molte altre volte appare convogliato su binari rigidi, uniformi che non si attagliano al suo temperamenti,esso tende a fuoriuscire dalle carreggiate di un “carattere” situato in una ben precisata e tradizionale azione di nota matrice teatrale. Anche se poi, in non pochi punti della performance, vengono fuori certe consonanze o equivalenze filmiche di una sua non troppa nota confessione autobiografica: “io so a memoria la miseria, e la miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine.” 22 Queste convinzioni lo inducono probabilmente ad accettare la parte del “pazzariello” nell’episodio “Il guappo” , ne “L’oro di Napoli” (1954) per la regia di De Sica. (film che verrà esaminato più estesamente in un altro capitolo). Qui si può considerare che la storia umana di questo individuo che passa dalle quotidiani umiliazioni ad una rivincita totale contro il camorrista che voleva avvilirlo è giocata in toni equilibrati che rendono giustizia all’interprete capace di una gamma estesa che non esclude il patetico, su di un piano di notevole autenticità e senza infiltrazioni di melodramma spurio.
Da puro e semplice fantoccio meccanico e pubblicitario, il corpo di Totò pazzariello ritrova la sua plastica dignità, e da una originaria assurdità anatomica sembra riprendere man mano forma di persona, di creatura 22 DE CURTIS A., in FOFI G. e FALDINI F., op. cit., p.128 87
88 umana, di cittadino che intende sottrarsi alla crudeltà di chi vorrebbe schematizzarlo in un diagramma ridicolo e senza vita autonoma. E anche stavolta il grande attore riesce a costruire i dettagli più significativi di una complessa psicologia umana, amalgamando suggestivamente i tropismi più emblematici di un “tipo” partenopeo per eccellenza, senza farsi irretire dal pittoresco revival di costume o dal pittoresco parastorico. E sono tanti e tanti gli altri film che hanno per ambiente il milieu napoletano, ma non è il caso qui di indagarne pregi e difetti, dato che l’assunto è chiarire quello che si condensa, nel personaggio comico, delle stigmate e dei nei, delle qualità e dei difetti dei suoi concittadini. Nato nel rione Sanità, cugino o gemello di Pulcinella, nipote di Chichir-ros, altezza imperiale e clown da strada, dotato di una tecnica istintiva e di vis comica vesuviana, strano miscuglio di tristezza e di allegria, di angoscia e di tracotanza, dalla parte degli uomini umili contro tutti i
caporali, Totò è stato più intelligente dei suoi più recenti estimatori, prendendo coscienza di aver fatto troppi film e di averne realizzato solo alcuni veramente buoni. Si è giustamente ed acutamente ritenuto “vittima di una situazione po-co simpatica: produttori senza scrupoli, soggetti scadenti, sceneggiatori improvvisati - confessa con malcelati impeti di rabbia - hanno creato il Totò dalla risposta facile.”23 Infatti, anche se messo in compagnia, di attori napoletani d’alta scuola (seppur autodidatti anch’essi) come Peppino De Filippo o Nino Taranto, si sente “non troppo a suo agio”. Vengono così stampate in tante i o quasi in serie le molte e banali macchiette di “Totò, Peppino e… ” (mettere quel che si vuole al posto dei puntini), e poi altre operine banali, fino a “Operazione San Gennaro” (1966), uno degli ultimi film girati dal grande comico, già afflitto da una grave malattia alla vista e che morirà l’anno seguente. I suoi funerali hanno luogo nella Chiesa del Carmine, a Piazza Mercato luogo deputato per i partenopei illustri e meno illustri. Lo saluta per l’ultima volta una folla strabocchevole e plaudente che si è spesso riconosciuta in lui, per il bene e per il male, in questo suo volto bislungo, dalle larghe pu-pille mediterranee, dagli abbracci improvvisi come affondi di duello, dallo sveglio ingegno, mordace, provocatorio, lesto di lingua, di mano e di cuore. E’ arrivata anche per lui la “livella” , la grande falce democratica che ugua-glia tutti, senza retorica, senza discriminazioni di sorta, nella eterna immobile pace di una tomba, che non importa se sia imponente o meschina. 23 DE CURTIS A., in FOFI G. e FALDINI F., op. cit., p.123 89
90 Sanculotto e reazionario, pieno di follia e di saggezza come un greculo del XX secolo, sofistico e dialettico come un don del vicereame, antico e contemporaneo, nobile e lazzarone, egli può affermare di concludere la sua epopea recitativa con non pochi rimpianti. (E anche se un vero autore come Pasolini lo ha scelto con estetica consapevolezza per due o tre cose assai rilevanti, quali “Uccellacci e uccellini” o “La terra vista dalla luna” e prima ancora Monicelli gli ha dato maggior possibilità in “Guardie e ladri” o in “Totò e Carolina” e ne “I soliti ignoti”). Il suo rammarico più cocente è che “La Napoli di allora, degli anni intorno al Venti, è scomparsa, non c’è più. Quella odierna è una cosa diversa, spesso non la riconosco. La mia Napoli è lontana. Adesso c’è il “Napoli” : alla larga! Tutte fregnacce, fetenzie e fracasso. Detesto il fracasso. Cosa ne è oggi del rione Sanità?” . 24 Resta però, al di fuori di queste tormentate e nostalgiche considerazioni soggettive, che la città ha trovato nel suo Totò chi ha saputo dare colore e movimento ai contorni sinuosi e labili dello spirito della sua gente, chi ha distillato il suo brio inossidabile in mille smorfie, mille giochi di parole, in tanti simpatici qui pro quo. Totò è stato l’acciarino magico, divertente che ha saputo far sprigionare il riso da tante piccole sorprese, da minime novità umane, da sapienti ripetizioni o lapsus. Le intenzionali distorsioni o camuffamenti si sono rive-late simili ad infantili regressioni di un individuo geniale e colmo di estre-mo umorismo e di estri scoppiettanti. Ha voluto rivendicare, a nome della sua fantasiosa città, la dignità della immaginazione contro le ferree norme del sillogismo, dei voli anarchici contro le sbarre ideologiche, dell’affermazione anche risibile del proprio io contro l’autoavvilimento o l’autocommiserazione. In questo senso e sia pure tra luci e ombre, è pervenuto a rappresentare una gran parte dei napoletani di ieri e di oggi, condensando nei tratti della sua maschera nuda e vivace gli elementi molteplici di una lunga tradizione di spettacolo, servita forse a compensare una altrettanto lunga sequela di casi storici avversi. 24 DE CURTIS A., in FOFI G. e FALDINI F., op. cit., p.119 91
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VIII- De Sica e l’oro di Partenope 93 “La possibilità di rialzarsi dopo ogni caduta, una remota, ereditaria, intelligente, superiore pazienza. Arrotoliamo i secoli, i millenni e forse ne troveremo l’origine nelle convulsioni del suolo, negli sbuffi di morti-fero vapore che erompevano improvvisi, nelle onde che scavalcavano le colline, in tutti i pericoli che più insidiavano la vita umana: è “l’oro di Napoli” questa pazienza.” 25 Così nel volume omonimo Giuseppe Marotta definiva la qualità primaria del popolo partenopeo. E dei suoi concittadini il libro rende cento me-daglioni in un vivace e frizzante susseguirsi di fatti, fatterelli, vicende allegre e dolorose. Nel 1954, De Sica e Zavattini che hanno già tante volte lavorato in tan-dem, lo leggono, lo rileggono, se ne innamorano e decidono di ritenerlo particolarmente adatto ad una buona trascrizione cinematografica. De Sica, già da un pezzo, ha abbandonato i grandi temi ed inclina ad una nuova forma di neorealismo, che includa altri stati d’animo, altri caratteri oltre quelli di precipua denuncia sociale. In dichiarazioni prelimi-nari asserisce di voler rispettare “in tutto e per tutto lo spirito del libro di Marotta” , cioè proprio “questa immutabilità rispetto ai secoli della gente di Napoli con i suoi costumi, le sue abitudini, la sua filosofia.” Qualche riserva in proposito viene semmai avanzata proprio dallo scri-tore che è stato invitato a collaborare alla sceneggiatura filmica, ma poi si dichiara sempre più soddisfatto del lavoro di Zavattini a cui spetta la parte preminente nella impostazione del lavoro di base. Insieme, finiranno per rendersi conto, però, che è impossibile, fisica-mente impossibile, far entrare nella pellicola tutte le storie, gli aneddoti, le figure e le figurine che popolano le pagine. Trascelgono quindi, con paziente e appassionata disamina, quei quadri e quadretti che hanno nella loro tela, nel loro pigmento un maggior ordito di cose, sensazioni ed emozioni caratteristiche. Talvolta arrivano a rimescolare i segmenti narrativi per ottenere un conglomerato più scorrevole secondo i ritmi del medium filmico. A questo fine, integrano, contaminano, rielaborano non poche strutture tematiche, per renderle più “cinegeniche” , più traducibili in linguaggio d’immagini, per calarle in quelle sequenze che possano concatenarsi secondo una più scorrevole linea di lettura visuale. De Sica si sente amorevolmente “catturato” da queste vignette marot-tiane piene di simpatici irregolari, pronti a tutti i mestieri, a tutte le im-25 MAROTTA G., L’oro di Napoli, Milano, 1947, p.18 94
95 provvisazioni, a tutte le metamorfosi. Si è lasciato contagiare dall’entu-siastico ottimismo e dalla straripante simpatia che lo scrittore napoletano (espatriato a Milano come tanti altri) ha espresso per i suoi ormai lontani concittadini, in un empito di ricordi, talvolta veritieri, talvolta idealizzati, talaltra troppo datati. Ma sempre in quella sua prosa interessante e singolare “arricciolata, lavorata, gonfia di similitudini” che gli è valsa un successo strepitoso, anche al di là dei meriti dei contenuti effettivi e de la configurazione generale del brillante affresco. L’autore è comunque certamente più vicino, per cultura e per esperienza genuina, alla città rispetto a quei tanti “individui grevi ed atoni, dalle tarde espressioni di plantigradi, nativi dello Ohio o del Friuli che” , proprio secondo Marotta “hanno fatto di Napoli il prezzemolo dei loro film.” Contro di essi e contro i loro sacrileghi obbiettivi lo scrittore invocherà perfino l’ira vendicativa di S.Gennaro. Napoli, secondo lo scrittore de “L’oro di Napoli” , è rimasta una città dove “Pulcinella e Sofocle vanno sottobraccio” e inoltre egli non dissimula di saper che, purtroppo “a Napoli muoiono troppi bambini e… la morte è la più vera e antica cittadina…” . 26 Questa città che ha tanti contatti con la morte ha attratto, con le sue forti impressioni e i suoi lampi rivelatori, anche lo humour di Zavattini.
Ciò mette in sospetto per qualche mese la casa di produzione che diventa cauta, reticente, renitente. Si sconsiglia perfino la rappresentazione di un “soggetto napoletano troppo malinconico” . La censura andreottiana si avvarrà poi di ben altri machiavellismi al fine di impedire la proiezione dell’episodio de “Il funeralino” , cioè del bianco carro funebre che attraversa col suo penoso carico le assolate strade della città, mentre gli altri bimbi si inseguono, giocano, scorrazzano inconsapevoli dell’acerbo destino toccato al loro coetaneo. Quasi in contropartita, le esigenze spettacolari verranno rispettate e agevolate: vengono reclutati dalla produzione i divi di maggior spicco in quel momento, da Eduardo a Totò, da Silvana Mangano a Sophia Loren, da Paolo Stoppa allo stesso De Sica, che renderà con buona misura, il personaggio del giocatore impenitente (ed interdetto) che si accontenta perfino di una partitina col figlio del portiere, tanta, è l’assuefazione al vecchio vi-zio (e tanta è la solita scalogna da incontrare anche nel ragazzino un av-versario che gli dà non poco filo da torcere). Gli episodi realizzati restituiscono assai spesso quella molteplicità di 26 MAROTTA G., L’oro di Napoli, Milano, 1947, p.185 96
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98 toni, quelle molte sfumature che costituiscono i non pochi pregi stilistici del libro, afferrando - con le parole di Zavattini “il patetico corretto dall’umoristico, il realistico mescolato al fantastico e cosi via…”27 Il risultato è congruo all’intenzione manifestata di non strumentalizzare i racconti, non servirsene, cioè, come meri pretesti, ma interpretarli in modo non pedissequo nè puramente mimetico. La stessa interpolazione di figure non previste, come ad es. nello episodio “Pizze a credito (dal racconto “Gente nel vicolo” ), permette al regista di varcare i confini della novelletta rapida e divertente. Infatti nella pantomima esagitata di Don Peppino Finizio che dà stura a tutte le sue risorse gesticolatorie, quando si finge deciso a farla finita, c’è un nucleo inventivo che certamente non deve nulla al testo di partenza. Così come, nella caratterizzazione in carne ed ossa della “pizzaiola” la Loren trova per la prima volta un ruolo che le permette di andar oltre la semplice e presuntuosa esibizione del suo corpo statuario. Anche la vicenda del professore deciso a vendicarsi del Duca Alfonsa Maria di S.Agata dei Fornari che vuole egemonizzare tutto lo spazio del vicolo per le manovre della sua antiquata automobile, è una del tutto libera trascrizione del bozzetto marottiano. Questo, infatti, non include il finale col “pernacchio di testa e di petto” , messo in opera cioè con tutta l’intelligenza e con tutta la passione possibili in un essere umano ralle-grato dall’ira (C’era invece nel libro una disquisizione a parte,
tra il sofistico e l’esilarante, delle possibili plurime modulazioni degli sberleffi, a seconda degli usi e del sesso dei destinatari). Le vicende scorrono a ridosso di una scenografia che non può essere considerata conformista o convenzionale: Napoli è spesso inquadrata in un clima invernale, con i selciati umidi di pioggia, con abitanti quasi mai scamiciati od oziosi. Si tratta non solo di una cornice ottica ma di un filtro visivo attraverso cui De Sica vuol ricavare quanto di plumbeo c’è nel prezioso metallo cesellato da Marotta: egli non sembra condividere tutti quei perdoni retro-spettivi alla patria natia “abbandonata” . Nè viene fuori il clichè anche troppo sbandierato da un neorealismo di maniera, che ha cominciato a sovrapporsi a quello genuino dei primissimi anni del dopoguerra: lo stesso Zavattini confesserà, in uno dei suoi impeti di sincerità, che “questa volta non mi ha neppure sfiorato l’idea di fare un film con una Napoli realistica, studiata e analizzata nei suoi problemi 27 ZAVATTINI C., in “Carnet di Napoli con oro e senza” , in “Cinema Nuovo” , 32, 1954 99
100 attuali, quelli della SME o quello dei Granili.” 28 Ciò gli viene amara-mente rimproverato da un critico come Aristarco che non trova il lavoro della famosa coppia regista-sceneggiatore “un vero
film sulla città” . L’impronta di Marotta resta comunque su molte sequenze, da quella del pernacchio a quello delle pizze, da quello del pazzariello a quello del fune-rale del bambino, fino alla storia tetra della prostituta sposata per espia-zione dal troppo riservato Don Ubaldo. Il sale della narrazione sono spesso quelle figurine riprese con veloci carrellate dall’obbiettivo desichiano e che si identificano con quella fauna ancora sopravveniente nella cronaca spicciola della città: faccendieri, scri-vani all’inpiedi, paglietti, vetturini, giocatori incalliti, bambini pazzerel-loni, teneri, incoscienti, sfottitori. Sono essi soprattutto a dar colore d’umanità alle vicende, anche se la prospettiva scelta è quella anamorfica del grottesco, della risatina sotto i baffi. E’ un film che non è facilmente tacciabile di opportunismo o di evasività, come hanno fatto certi soloni della critica filmica, c’è, in parte, il contraccolpo delle forti delusioni politiche conseguenti al ‘48, ma la spiegazione di certe défaillances va imputata al naturale declino di cente energie creative. E nonostante ciò, il discorso aperto su Napoli dalla coppia De Sica-Zavattini è in una direzione antropologica, psicologica ma non del tutto qualunquistica o, peggio, fumettistica. E’ facile rinvenire qua e là, ne “L’oro di Napoli” pennellate pittoriche persuasive, colpi d’occhio di estrema acutezza, carrellate rivelatrici di ritardi storici e non la mera giustificazione del “dolce far niente” o di altri logori slogan che tappezzano certi commenti pur autorevoli su chi dopotutto deve inventarsi lavori e strane occupazioni giorno dopo giorno, se non ora dopo ora. La stessa fotografia di Carlo Montuori coglie bene parecchi scorci inedi-ti della città e riesce a concentrare l’atmosfera in un riquadro minimo attraversato da bianchi e neri altamente espressivi, o da quei tropismi d’attori non professionisti che riempiono lo spazio offerto loro, anche per un solo attimo, con la loro vena immediata che va, in oscillazioni frenetiche, dal passionale fino allo strafottente. Vengono così in campo lungo certi muri emblematici di quartieri popolari o ex spagnoli o borbonici, certi balconcini che hanno anch’essi la loro microstoria, e soprattutto la moltitudine vociante degli abitanti della città di mare, gonfia sì di pazienza ma pronta anche al tumulto, con allegrezze interne e nevrastenie ben recitate all’esterno. 28 ZAVATTINI C., in “Carnet di Napoli con oro e senza” , in “Cinema Nuovo” , 32, 1954 101
102 Vengono in primo piano i gesti, gli occhi, i musi mobili dei veraci partenopei che sanno usare (professionisti o no) questo antichissimo linguaggio fisionomico e corporeo per comunicare, per commuovere, per sfogar-si, per ridere o per disprezzare. E occorre dar atto al regista che è venuto rifuggendo dagli stereotipi più eclatanti, dai pini, dai vesuvi bluastri, dalle onde di Mergellina e insomma dai santini sentimentali della tradizione. Certamente De Sica non è più lo stesso autore che girava, in stato di grazia, “Miracolo a Milano o “Umberto D ma la sua ancor brillante professionalità lo aiuta a scansare diversi luoghi comuni,e non poche cartoline o mandolini: da un certo punto di vista, “L’oro di Napoli” si colloca in una zona di aurea mediocrità che sta a metà strada tra i grandi exploits del primo neorealismo e i grandi tradimenti che verranno perpetrati da chi si va arrendendo sulla scia commerciale dei “poveri ma belli” o “belli ma poveri” e del “Pane, amore e fantasia” con tutti i suoi derivati, surro-gati e liofilizzati. In “Cinema e Pubblico” V.Spinazzola ha giustamente annotato, a proposito di questo discusso film, “che nei contrasti chiaroscurali dei vari episodi, nella sapiente miscela di toni agrodolci, il segno prevalente é dato da ciò che viene presentato come l’inalienabile patrimonio mentale o morale del popolo o, verrebbe fatto di dire, della razza partenopea.” 29 La prosa di De Sica si adegua con flessibilità inconsueta a quella bizzarra o grottesca o scintillante di Marotta, senza dar sintomi di ossequio mimetico, equilibrandosi con il nucleo del pensiero zavattiniano che in questo paese del Sud può sperimentare qualche pedinamento e qualche rapida incursione nel privato che qui ha zone intime eppure estroverse. I fatti della cronaca minuta sono sollevati, con qualche panoramica o qualche gru, in contesti più ampi e più significativi, oltre un certo schele-trico schematismo ed oltre una certa routine del “divertente a tutti i costi” che aduggia talvolta la pagina scritta. Con poche aggiunte, con sapienti insinuazioni, con qualche ritocco si arrivano a toccare punte molieriane, come nell’episodio del vedovo, reso con spunti eclettici ma penetranti da Paolo Stoppa. Ma non viene snobbata o contraffatta l’estrosa, effervescente verve che è l’ingrediente primario dell’opera: sono restituiti indenni quegli aspetti della città che Marotta ha inteso cogliere col il suo umoroso intuito d’artista al di sopra delle parti, al di sopra del suo rammarico o dei suoi 29 SPINAZZOLA V., Cinema e Pubblico, Milano 1974, p.111 103
104 complessi di colpa verso la Napoli lasciata da tanti anni. La risata liberatoria che percorre come un filo policromo tutte le sequenze de “L’oro di Napoli” , tranne naturalmente quella de “Il funeralino” , serve da contrappunto a quell’amaro panorama che si presenta troppo spesso davanti all’obbiettivo che inquadra la città reale, con le sue teorie di bassi, con le artigianali bancarelle di alimentari poco igienici, di gio-cattolini miserrimi, o di stracci che vengono da chissà dove. Quando viene angolata in alto qualche villa con giardino, o uno scorcio di Posillipo allora è evidente che il contrasto topografico si tramuta in contrasto sociale. Un’altra interessante trasposizione filmica viene operata nello stesso anno (1954), sia pure dal teatro allo schermo: “Carosello Napoletano’’ di Ettore Giannini, un autore che avrebbe meritato maggior spazio e maggior udienza, ed invece risulta gradualmente emarginato o retrocesso a lavori di minor impegno. (Vicende che anch’esse costituiscono la filigrana intellettuale della questione meridionale). “Carosello Napoletano” , nato per il palcoscenico acquista un’insolita e brillante cadenza sul telo bianco di proiezione che aderisce più congenial-mente alla bella strutturazione coreografica
dell’opera, un excursus originale sulla storia di Napoli, attraverso le meno banali canzoni del repertorio storico, da “Michelemmà” a quelle ancor classiche dell‘800 e principio novecento. C’è un uso felice del colore e la straordinaria capacità di armonizzare dinamicamente i segmenti narrativi: qualità che giustamente serviranno a far ottenere al film riconoscimenti internazionali (al Festival di Cannes, ad esempio). Le riprese tematiche, le indovinate digressioni, le suturazioni senza stacco, il fascino delle parti danzate costituiscono un buon esempio di “cinema sinfonico” : Giannini, come già in certe sue messe in scena teatrali, riesce a superare gli steccati del discorso dialettale per giungere alle radici etniche di un costume idealizzato attraverso canzoni e balli (’ndrez-zata, tarantella etc. ). Una cultura non improvvisata gli permette di dare uno spessore e una qualità assai particolari alle immagini in movimento, organizzate in un racconto coerente disteso lungo un arco temporale di secoli, privo di grossolane smagliature o di orpelli da bric à brac. Lo spettacolo scorre con captante fluidità, è forse l’unico “musical” italiano che ha raggiunto, in questo quarantennio, una certa precisione di prosodia e di fusione audio-visiva. Un critico di non facile contentatura, come C.Pavolini “aveva visto nel-105
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l’autore di “Carosello Napoletano” “spontaneità di vena, impeccabilità di mestiere e sicurezza di gusto,… insomma la figura di un dotatissimo eclettico”. E si noti bene, che il sostantivo finale non può sollevare acce-zioni negative in un campo come quello filmico in cui il “realizzatore” deve dominare veramente più procedure espressive per arrivare ad un amalgama equilibrato, in vista di quella totalità estetica altrimenti già detta “Gesamtkunstwerk” . 30 30 PAVOLINI C., in “Giannini E.”, ( voce dell’Enciclopedia dello spettacolo), vol.V, Firenze-Roma 1953 107
IX - La sfida di Rosi 108 Sul finire degli anni ‘50, il cinema italiano sembra aver superato un’ennesima crisi congiunturale e registra un soprassalto di energie, di iniziative e di opere. Antonioni con “L’avventura” , Visconti con “Rocco e i suoi fratelli” Fellini con “La dolce vita” riportano l’attenzione delle platee di tutto il mondo sul cinema made in Italy. Anche per quanto attiene alla narrativa filmica meridionalista, non sono impercettibili i segni di nuove aperture, di nuove procedure stilistiche.
Ciò, nonostante lo smagliamento di parecchie solide convinzioni ideologiche, operatosi soprattutto dopo il rapporto Krusciov e i fatti di Ungheria: da allora molti intellettuali hanno cominciato a lottare su due fronti, per un recupero della dialettica materialistica che serva al superamento di ogni tipo di alienazione umana. Sembra di nuovo possibile un cinema “antropomorfico” , in cui sia mi-surabile il peso specifico dell’individuo sul rettangolo luminoso dello schermo. Sembra che si possano nuovamente restituire con intense inquadrature i gesti, gli impulsi, gli incontri e gli scontri dell’uomo con la realtà circostante. Si ricerca nel reportage incandescente, estremamente drammatizzato un modo per liberarsi da quegli schemi che si sovrappongono al discorso su Napoli, avvolgendolo di vapori, artifici e trucchi obnubilanti. E altresì si risponde in modo perentorio alle cento proposte dell’ermeti-smo risorgente sotto l’algebra delle astratte raffinatezze avanguardistiche. Ben al di là della produzione corrente, di pura gastronomia consumistica (quella delle Nonne Sabelle, delle Susanne fatte di panna) e del risibile riciclaggio degli Ercoli e dei Macisti prorompe il bisogno di ritrovare un linguaggio di piena e robusta dignità per raccontare vicende e problemi concreti. Nel quadro più particolare del cinema su Napoli, Francesco Rosi sembra il più incline a dare uno sguardo all’interno delle cose vere, ai meccanismi e alle cause reali della disgregazione sociale. E’ il regista che saprà meglio indagare, lungo il percorso di certe sue opere, il profilo della sua tormentata città, al di là di vieti schemi sentimentali e di sovrastrutture tradizionali. Gli interessano i fatti macroscopici come le mostruosità urbanistiche ma gli preme anche auscultare la coscienza degli individui e le convinzioni dei gruppi. Sa bene, però, che all’arte, anche a quella filmica, spetta impostare bene i termini dei problemi, dar loro risalto emotivo, intensificazione di vita, ma 109 non spetta risolverli. E’ consapevole però che il mestiere di regista può anch’esso articolare un contributo di conoscenza che non può essere mi-nimizzato nè tanto meno rifiutato da chi opera per gli uomini, nel senso di una politica umanizzante non vincolata a gelidi o faziosi egoismi di parte. Già assistente di Zampa per “Processo alla città” e di Visconti per “La terra trema” , egli sembra intenzionato seriamente a produrre una speciale cartografia sociopolitica cui personaggi napoletani (protagonisti e comprimari) possano assumere o ritrovare autentiche dimensioni. La sua solida cultura, la sua sensibilità, il suo tirocinio con maestri dell’obbiettivo lo mettono nella giusta posizione per afferrare i non pochi segni di contraddizione presenti nella vita e nella dialettica comunitaria. Il suo diventa un cinema della conoscenza, attento alla cronaca della città (e dei suoi immediati dintorni) come cristallizzazione di tanti fatti pregressi, di tante precedenti disgregazioni molecolari che poi sboccano nel dramma di prima pagina. La sua sicura vocazione al sociale, la sua consapevolezza civile aliena da retorica o da dogmatismi lo metteranno in grado di testimoniare con piena sincerità su non pochi risvolti e “misteri” dell’universo partenopeo. Il linguaggio di Rosi è tutt’altro che semplicistico, rivela tensioni di stile, riflessioni su correnti estetiche apparentemente lontane dai suoi interessi documentarii (Lang, Dreyer o certi autori “neri” americani); lo stesso suo impegno di documentazione fitta, puntigliosa sugli argomenti da trattare allontana i rischi di un’espressione stracca o irresponsabile. La sua impostazione scansa da una parte una scrittura a blocchi compatti e dall’altra evita gli equivoci di una tecnica astratta o estetizzante. Già la sua prima prova d’autore, “La sfida” (1958) è un film che attinge una serrata e composta dignità. La camorra viene vista attraverso vari fil-tri umani, sociologici e psicologici, anche se nel complesso è visualizzata come una deformazione del patto sociale. Il giovane uomo “di rispetto” che vuol dare la scalata ai vertici dell’organizzazione non può che essere un eroe negativo, in bilico tra il fuorilegge semiesperto e la figura tragica.
Non pare, tra l’altro, che il paradigma narrativo su Vito Polara abbia molto da spartire con le vicende di Pascalone e Nola e della sua vendica-trice Pupetta Maresca. La vera capacità di Rosi si rivela proprio nel de-collare dal mero fatto di cronaca e nel contestualizzare nella sua narrazione ben altri rapporti e ben altri elementi. Cioè nel costruire una storia emblematica dell’onorata società, prima del salto qualitativo verso le “nuove organizzazioni” degli anni ‘70 - ‘80. 110
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112 Il regista cura soprattutto le nervature degli intarsi caratteriali, le azioni e reazioni minute, certi tempuscoli emotivi che sono gli inneschi delle più decise e fulminee azioni criminali. Proprio in questo Rosi dimostra di saper metabolizzare, senza residui neutri, la lezione del cinema gangster americano, rielaborando su quelle tracce certe forti sfumature, certi contrasti chiaroscurali, gli infragrigi o i neri d’inchiostro che gli Hawks o i Keighley usavano per veicolare con efficacia l’urto emotivo-cognitivo. Eppure quest’attenzione formale non è dissociata dal controllo del contenuto, inerisce ad esso con naturalezza, si compenetra con le cose, col loro ritmo incalzante, e la gestualità sottolinea soprassalti, vibrazioni o exploits mortali. Dalla campagna periferica ai magazzini generali della città, dalle polverose arterie d comunicazione a certi vicoli in perenne ombra, fino a certe trattorie di collina o a rioni anonimi di nuova costruzione da questi fotogrammi di Rosi viene fuori una Napoli non di maniera, tratteggiata con squarci di luce vigorosa, con originali angolazioni, in significativi controcampi. “La sfida” si snoda con una sua salda coerenza, sintetizzando in un destino sbagliato il destino di migliaia di fuorilegge, troppo sicuri di sè, del proprio istinto, della propria agilità mentale. Vito Polara che maneggia con uguale noncuranza le offerte alla Madonna e le pistole di vario calibro non sa, invece, di essere solo un piccolo ingranaggio di un grosso meccanismo messo in moto da forze a lui stesso sconosciute, e comunque da una società disgregata, ancorata a riti e miti del medioevo (si dimentica spesso che in essa fallì sul nascere una timida rivoluzione borghese e si ebbe il trionfo di una sanguigna e sanguinolenta controrivoluzione sanfedista). Più omogeneo a questa linea regressiva, e perciò ancor più chiuso in una fosca tradizione di onore e di vendette omicide, risulta il diretto antagonista di Vito, Salvatore Ajello che non potrà certo abdicare al suo prestigio di capo. Eppure il regista si svincola dai nodi del “fattaccio” tra delinquenti prepotenti e intreccia intorno ad essi, come fili d’acciaio invisibili coartanti, tutte le motivazioni d’ordine economico o sociale.
Vito non esplode nel suo arrivismo solo per ragioni temperamentali, egli è sollecitato da concrete esigenze di spesa (l’appartamento che ha messo su con Assunta) così come Salvatore e suo fratello devono contrastare chiunque incrini anche da un solo lato il monopolio di un certo tipo, esercitato sul mercato e sulle transazioni riguardanti gli ortaggi, la frutta e altro (un mercato, come fu detto con cinico umorismo, di tipo “mortofrutticulo” ). 113 Vengono resi assai bene, come annota Zambetti (nel suo “Castoro-cinema” sul regista)- “sia il raccordo tra l’azione e lo sfondo su di cui essa si svolge, sia “la violenza formale come espressione della violenza sociale sottesa allo spietato gioco economico.” 31 La ruvidezza di questi snodi drammatici può apparire talvolta attenuata dalla storia d’amore di Vito ed Assunta, ma queste riserve potrebbero ri-baltarsi se si considera il breve idillio fra i due giovani (splendida e già “classica” e ricalcata decine di volte, la sequenza dell’inseguimento erotico tra le lenzuola sciorinate sul vasto terrazzo inondato di sole mattutino). Esso finisce proprio col rinforzare i toni scuri della sfida mortale in atto tra l’ambizioso Vito e l’incallito mammasantissima. In questo oscillare tra “buoni sentimenti” , “tendenza alla vita familiare” e l’omicidio “necessitato” da un individualismo inconscio con sedi-mentazioni profondissime, va ricercata la subnormalità politica di questo fenomeno di malavita così diffuso nel Sud. Se esso non sarà decifrato in questi termini continuerà, con altri fattori di disagio o malessere pubblico, ad ostacolare qualunque progetto di sviluppo democratico anche in tanti altre zone (e non solo meridionali) della giovane repubblica italiana. E’ questa consapevolezza problematica che distingue la prosa di Francesco Rosi da quella di tanti altri svelti e compiaciuti cantori della “cam-murriata”; e in più occorre apprezzare il distacco affettivo dal protagonista, l’impostazione serrata delle sequenze, la fotografia calibrata e manovrata verso gli oggetti essenziali, la abilità di “specillare” piccoli e ine-diti spazi della Napoli limitrofa, tutte qualità che danno al racconto un taglio ed una misura inconsueti. Si è quindi ben lontani, pur all’esordio, dal clamore audiovisivo di certe sceneggiate travasate sullo schermo senza un attimo di riflessione e dal torpore giustificativo di tanti filmetti su guappi visti come semplici tra-viati e in fondo teneri “figli di mamma” . L’obbiettivo di Rosi fissa la realtà con coraggio, ne focalizza con trasparenza i termini effettivi e nè lo sgarro, nè il precipitare degli eventi sono accompagnati da un’eco di enfasi o di mélo. Si veda, infatti, con quale tacitiano rigore, la stessa cruenta conclusione è giocata su un solo nome che viene chiamato e nemmeno troppo ad alta voce e su un secco colpo di pistola che pone termine alla vita e alle ambizioni di Vito Polara. Dopo di ciò, è almeno pleonastica la disperazione di Assunta, proprio 31 ZAMBETTI S., Francesco Rosi, Firenze 1974, p.23 114 perchè tende al repêchage di certi valori umani su di una trama che voleva denunciarne l’assenza. Nel complesso, però, il tener sotto severo controllo la tentazione di un’epicità nera o di larghi sovratoni emotivi, e lo scansare una schema-ticità di comodo fanno di quest’opera prima di Rosi una prova in gran parte compiuta e una premessa di buon lavoro a venire. E infatti, dopo “I magliari” che solo tangenzialmente toccano caratteri meridionali (trapiantati in Germania e, a dire il vero,un pò troppo di maniera) e dopo il grande affresco drammatico di “Salvatore Giuliano” (1961) (che per ragioni “geografiche” qui non può essere analizzato), Rosi riprende pieno contatto con Napoli ne “Le mani sulla città” (1963). Anche questa volta, la molla che spinge il regista è quell’impulso a scavare con energia al di sotto della scorza della mera “attualità” . Egli vuole un incontro a viso aperto con personaggi contemporanei nati e operanti in questa terra, che si muovono su queste strade, fra queste mura. Passerà diversi mesi a scrivere il soggetto e a sviluppare la sceneggiatura insiema a La Capria, a Provenzale e Forcella.
Il punto essenziale del traguardo è il raccordo di due o tre forti psicologie con una vicenda pubblica che configuri “una realtà sorpresa nella sua evoluzione” , una realtà di cui riesca a farsi partecipe come uomo e come cittadino. Al centro della storia è, infatti, la speculazione edilizia e nel suo cerchio concentrico è configurata l’azione del costruttore Nottola, uomo vitale ma privo di scrupoli, carico di ambizioni spietate. Il film si apre con una lunga panoramica “aerea” sulla “muraglia cine-se” , cioè l’aggregato di cemento armato che si spande a oriente della collina vomerese e ne sta divorando il suo antico verde. Dopo un brevissimo stacco e qualche sequenza di raccordo, c’è l’episodio del crollo del fabbricato fatiscente vicino al quale si sta lavorando; questo episodio è intervallato a quello in cui Nottola esprime senza mezze misure il suo vasto progetto edilizio. Lo stile rigoroso, imparziale e raziocinante di Rosi imprime subito una sigla personale a queste prime sequenze che vanno dai duri fatti ai duri volti, scoprendo senza ostentarli, quei congegni politici e psicologici che fagocitano l’economia di una città, non disdegnando di mettersi al ritmo della grande impresa moderna, ma scavalcando d’impeto ogni questione morale, umana o sociale, in nome del dio profitto. Un’idea acuta e acutamente realizzata è stata quella di dare il volto di Rod Steiger a Edoardo Nottola, per ricavare dai suoi tratti, decisi, 115
116 autoritari, moderni il profilo di questi nuovi managers miliardari. E le rughe, gli occhi, le bocche vengono inquadrati senza maquillages di benevolenza, senza quella marmorizzazione hollywoodiana che ne fa maschere ambigue, attraenti e repellenti insieme. I gesti sono colti nella loro rispondenza agli atti, agli ordini, alla cinica sfrontatezza da piccoli “principi” del XX secolo. La macchina da presa manovrata con perizia dal regista procede con chiarificante cadenza dal piano dei contenuti narrativi a quello delle soluzioni formali, di scelta tra bianchi, grigi e infragrigi (o di interni-notte). Così vengono determinati, metro dopo metro, i nessi causali tra le azioni e tra i sintagmi, tra i motivi politici e i motivi del “plot” . Viene così contes-tualizzato il rapporto tra tempo e ambiente, e si marca la netta distinzione tra modi attivi e passivi, tra parole decisionali e parole di rimbalzo o di mera remissività. Si opera così la traduzione in immagini di un lacerto di storia negativa della città, senza che l’autore debba inclinare verso trucchi profilmici o altri interventi di manipolazione della realtà esterna e psicologica, che non è affatto restia a trasmutarsi in segni iconici e in plessi fraseologici pregnanti. Non si può affermare, tout court, che si tratta di mera registrazione perchè ogni luogo deputato della vicenda, dall’ufficio modernissimo di Nottola, fatto di cristalli e tendaggi, al Consiglio Comunale in vecchio stile (di noce e mura nude), dalla Via marina fatiscente al “grattacielo” che ha obliterato parte del panorama napoletano, viene strutturato secondo canoni espressivi personali, secondo le connotazioni emotive che l’autore intende realizzare e trasmettere a chi riceve il suo “messaggio”. La dialettica oratoria, il duello verbale ora a distanza ora ravvicinato, si svolge appunto tra i due poli dell’azione: Nottola e il suo antagonista, De Vita, consigliere della Sinistra (così è detto nel sonoro del film, per operare utili semplificazioni apartitiche). Il secondo conciona con impetuosa, debordante passione polemica e, co-me annota lucidamente Zambetti nella sua monografia, già citata, “nel confronto, il consigliere della Sinistra, (risulta, anche figurativamente, rag-gomitolato contro una parete bianca, alla stregua di un pugile alle corde) come irrigidito in argomentazioni senza vigore, di stampo legalitario (“A me basta che i palazzi siano costruiti dove e come vuole la legge e non dove e come volete voi”: ma, se sono i Nottola e i loro amici a fare le leggi?)”. 32 E così pian piano viene in sinistra emergenza proprio la figura dello 32 ZAMBETTI S., Francesco Rosi, Firenze 1974, p.60 117
118 speculatore, con le sue manovre machiavelliche per passare dalla Destra al Centro. Questo metodo di trasformismo, di assoluto disincanto ideologico, di pragmatismo cinico e attento al “particulare” fa corpo col fisico e col movimento dell’attore americano, si fonde quasi col commento sonoro (tranne quand’esso, come capita, è troppo esplicito o prevaricante). E Nottola finisce col prendere le redini dell’azione in cui si accavallano gli scontri, le discussioni e i meeting serali. Egli gioca sempre il tutto per tutto, come quando decide che il proprio figlio dovrà costituirsi all’Autorità Giudiziaria come unico responsabile del crollo, e per poter lui stesso ricavare un altro vantaggio elettorale da questa demonica mossa: il suo scopo ossessivo è, infatti, quello di diventare consigliere e poi assessore per poter controllare senza remore tutti gli appalti edilizi della città. Viene fuori, sia pure oltre i righi della normale espressività, il diagramma occulto dell’ordito politico e viene reso il profilo di consistenza dei molti ignari che pagheranno con i loro lutti, con altre miserie, queste trame di avidità, di ingordigia del potere e della ricchezza. Il contatto visivo che l’obbiettivo di Rosi istituisce di continuo con gli edifici della vecchia e della nuova Napoli, con gli edifici storici e gli sca-toloni di cemento, con gli slarghi dove si sfoga la sofferenza dei non abbienti e i chiusi salotti della città, è il controcanto che fa da “basso continuo” alla narrazione; ne equilibra certi eccessi e ne rende verosimili certi sbalzi spazio-temporali, certi paradossi, certe incongruenze. L’animosità contenuta con cui il regista pedina anche i comprimari di Nottola (i De Angelis, i Balsamo) gli garantisce la traccia giusta da cui raramente devia: “la politica come mera occupazione del potere, vana-mente contrastata da un rifiuto morale che non sa tradursi, a sua volta, in linea politica”. E il De Angelis di Randone è quasi perfetto, cesellato in tutti i dettagli di sorniona indifferenza, di stratificata malizia, di cardinalizia sufficienza nei confronti degli altri. Balsamo si rivela sempre più impotente di fronte a quell’eloquio sottile, sofisticato, intarsiato da mille ipocrisie, pseudospi-
ritualismi, sapienti dissimulazioni e concreti invischiamenti che rinviano a secoli di surrettizie strategie posttridentine. I fotogrammi coi volti in penombra, oscuri e maliosi, di questi uomini sono i ritratti all’acido nitrico di una classe di guicciardiniani, moderatori smodati nel proteggere i propri secolari privilegi, ma insieme incapaci di prender posizione mentre la città viene espugnata da un racket edilizio dallo stile neocapitalista e americanoide. A questi dialoghi nell’oscurità, presso cappelle private, in ginocchiatoi 119
120 d’antiquariato, Rosi riesce a sovrapporre, con fulminee suturazioni di montaggio, inserti documentarii sui comizi elettorali o sulle battagliate sedute consiliari, per reintrodurre le cadenze della più vera lotta e il passo della storia, cioè il contrasto in fieri tra interessi naturalmente opposti. In questo senso, l’opera è attraversata da sussulti, inquietudini, prese di coscienza esternate con lessico visuale lucido e ben perimetrato. Anche il diagramma storico è colto nella sua attuale complessità: se, da una parte, il regista condivide le tesi della Sinistra, dall’altra, come hanno notato non pochi recensori, appare
interessato alla personalità dell’im-prenditore edile teso a realizzare un suo progetto machiavellico, social-mente negativo ma ribollente, come la vita, di energie prorompenti. Comunque, Rosi non intende portare la narratività su di un binario ideologico, sapendo bene che questo congelerebbe la vita delle immagini in una prosa da oratoria o da didascalie politicosociali addirittura controproducenti. La linfa fresca che scorre nelle sequenze del film sgorga invece proprio da questa instabilità di punti di vista, da questo saper lottare instancabil-mente su due fronti evitando da una parte lo stile troppo sicuro del manifesto o del cinegiornale di partito e iniettando, dall’altra, verosimiglianza alla prospettiva globale della vicenda. Nè ci sono le facili consolazioni del “plot” escogitate a livello emotivo: contrariamente a quel che un banale pensierò può immaginare, è proprio questo “pattern” che può stimolare lo spettatore ad una più attiva riflessione sui fatti e ad una più approfondita valutazione della realtà extrafil-mica con cui deve far i conti giorno dopo giorno, se non ora dopo ora. In questo senso si potrebbe parlare di un’operazione estetica “balzac-chiana” per la sinistra, nel senso, ormai anche troppo noto, in cui Marx ed Engels parlavano del significato dello scrittore francese nei confronti della situazione reale del sistema economico francese dei suoi tempi (legittimisti e reazionarii). Il film è conchiuso senz’altro ad un livello superiore che si situa al di là del semplice apologo o aneddoto, e certamente al di là della “denuncia” o servizio giornalistico impegnato o teso allo scandalismo o al sensazionale o al propagandistico. E’ una prosa scarna, virile, pienamente dominata dall’autore attraverso procedimenti di stile a lui connaturali che finisce col porsi come uno specchio d’acciaio di fronte a settori e periodi decisivi nella vita della città partenopeaa. Una volta tanto è assolutamente veritiera e non pretestuosa la didascalia 121 iniziale: “I personaggi e i fatti sono immaginari ma autentica è la realtà sociale e ambientale che li produce.” Napoli riappare anche in “Lucky Luciano” (1973) sempre di Francesco Rosi. L’esistenza del gangster viene pedinata con sagacia geometrica dal regista che, nel rievocare il clima della città tra il ‘43 e il ‘46 (mercato ne-ro, segnorine, sciuscià), ritrova intatta quella corruzione che ha lavorato ai fianchi la Napoli civile. (In quegli anni, Rosi aveva parlato anche di una possibile trascrizione per lo schermo de “The Gallery” di John H.Burns, altro affresco sincero di quel clima cinico e inquieto). Quegli anni segnano, infatti, il momento più teso dello scontro tra bisogni primari e convenzioni sociali, fra individui istintivamente portati al-l’arte misera della sopravvivenza e malavitosi che sono di nuovo pronti ad approfittare delle loro difficoltà e dei loro sbandamenti. Anche se velocemente, appaiono analisi intuitive di molti tipi che affol-lano il gran teatro della Napoli postbellica, un’analisi che è operata a colpi di scandaglio visuale dall’obbiettivo aquilino di Rosi. Con abili snodi di montaggio, dal plesso delle sequenze viene ad emergere la ambigua, reticente, camuffata figura di Salvatore Lucania (detto Lucky Luciano), anche se poi la diacronia, il ritmo temporale è troppo “verticale” per essere veramente esaustivo, anche se si hanno omissioni o sovrapposizioni, per l’accumulo frettoloso delle notazioni cronistiche. La vicenda è centrata su lati e scompensi umani del demiurgo degli stupefacenti tra Napoli, Sicilia e New York: l’abilità di Rosi è proprio quella di inscrivere la personalità del Lucania in un poligono assai più esteso della sua rete gangsteristica, cioè in quella trama di connivenze politiche e scambi di favori tra il grosso potere e le cosche, o anche sullo sfondo di un certo logorio sentimentale dell’andropausa in un uomo pur dai nervi di acciaio e dalla calma “stupefacente” . In questo modo, la figura del boss italo-americano resta esente da quella retorica spettacolare e melodrammatica che formano i nodi irrisolti di tante anche buone pellicole “nere” di Hollywood. Pian piano, per tratteggiamenti molecolari, per scorci laterali, Rosi delinea la fisionomia pubblica ed esistenziale di Lucky: e sempre più appare il profilo di un falco in declino, un uomo che, chiuso nel suo agorafobico appartamentino napoletano, si fa irretire da una strana nostalgia dell’America e dei “tempi belli” della gioventù.
A spostare la diegesi sul versante autobiografico è certamente la interpretazione di un attore come Gian Maria Volonté, capace di una gamma 122
123 raffinata di nuances espressive lungo il volgere rapido dei molti anni rappresentati nel film: dalla tracotanza self controlled degli anni verdi new-yorkesi alle non poche implosioni emozionali degli anni più avanzati, in cui balugina solo di tanto in tanto la non spenta energia di un uomo che si è sentito per tanto tempo capo. Ma anche stavolta il nucleo centrale dell’opera, è quella strutturazione a tasselli lampeggianti di reportage sull’ambiente e sull’individuo come sua emanazione o parte integrante. Perciò gli scorci originali dell’Ippodromo di Agnano, o di certe zone adiacenti il Tribunale, o certi caseggiati che si arrampicano sulle colline napoletane sono ripresi e impostati con un rigore che è fuori delle aree tranquille e noiose del luogo comune. Con fotogrammi ben calibrati, il regista stana dietro queste zone un sistema di contraffazione storica tra i segni di una politica “gialla” e i sottili fili d’acciaio che legano la metropoli ai suoi emigrati di Brooklyn o Bronx. Senza comunque che si cada nel “padrinismo” di maniera, cioè nella retorica di un’epopea intessuta solo di facili omicidi, e quindi di scene “madri” .
La sonda del regista intende penetrare in anfratti più alti e più personali, anche se non sempre questa sfida psicologica ottiene risultati ottimali. (Le stesse prove su Luciano restano un pò troppo impalpabili, congettu-rali). Ma “il fattore umano” è reso con acutezza estrema, tra stati d’animo contrastanti, intermittenze del cuore e impennate del vecchio animo di uomo terribile. La lotta contro il pedinamento del Narcotics Bureau e della Guardia di finanza è resa con destrezza di allusioni, leggerissimi ammiccamenti. Nella sua morte anonima tra la folla a tutt’altro affaccendata, nei polverosi recinti del vecchio aereoporto di Capodichino, il regista scopre la naturale conclusione inconcludente di una vita e di un rapporto ambiguo tra il boss e la città. Eppure, nella filigrana delle sequenze precedenti, si è venuto istituendo il traliccio di un sistema sociale negativo che è alla base dell’inspiegabile “miracolo” di una metropoli e dei tanti suoi abitanti, in un modo o nell’altro “fuori legge” . Quelle figurine sfuggenti e nervose implicate in tanti commerci, traffici, passamano, profitti dubbi del cui “odore” non possono preoccuparsi, se vogliono sbarcare il lunario, far combaciare il pranzo con la cena e posse-dere qualcosa di brillantemente superfluo. Anche con questo film minore, Rosi è riuscito ad aprire un’altra finestra 124 sulla Napoli contemporanea. In questo senso è uno dei pochi esponenti di un cinema “che non si è fermato ad Eboli.” Ha saputo rappresentare con vigore le sconnessioni delle strutture e delle sovrastrutture nella capitale antica del Mezzogiorno d’Italia. Senza inalberare vessilli, senza calzare coturni oratorii, ma restituendo un’immagine in chiaroscuro dei problemi concreti, in una rassegna spassionata dei fatti e misfatti che sottostanno a tanto malessere comunitario e individuale. 125
X - Le quattro giornate 126 Agli inizi degli anni ‘60, si delinea sempre più marcata la tendenza a riflettere in modo critico e approfondito sui fatti e sui miti della Resistenza. Affiora anche in alcuni registi una capacità di storicismo più meditato. E’ un felice contraccolpo a tanta produzione eroicomica nostrana e hollywoodiana che maramaldeggia con risibile faciloneria sugli avvenimenti del secondo conflitto mondiale. Si va da “La lunga notte del ‘43” di Vancini, a “L’oro di Roma” di Carlo Lizzani, da “Il terrorista” di G.De Bosio al “Processo di Verona” dello stesso Lizzani. Anche Rossellini si è imposta una rilettura con lenti diverse di certi avvenimenti minori dell’aneddotica resistenziale con il discutibile “Generale della Rovere” e con “Era notte a Roma” . Contro tanta prosa filmica svuotata di serietà e di verosomiglianza, la tematica antinazista (e antifascista) viene riesaminata da questi autori in modo più distaccato ma anche più riportabile alla considerazione sul tempo presente, in un rapporto tra semi e frutti, radici e infiorescenze. Molti fatti sono ripresentati con angolature e latitudini mutate e sotto-posti ad analisi minuziose. Si rifiuta la deformazione fantastica o faziosa di quelle ondate di storia in cui fu versato il miglior “sangue d’Europa” , le immagini terrestri, ferrigne, asciutte come cicatrici permettono la rivisitazione di tante rapide epopee senza atteggiamenti celebrativi o edificanti. Così, mentre Montaldo in “Tiro al piccione” (1961) rintraccia un episodio della lotta partigiana visto dall’altra trincea, e mentre Del Fra e Micci-chè configurano in un virile montaggio le inquadrature dell’Italia prebel-lica in “Allarmi, siam fascisti?” (1961), un regista sardo dopo l’incerto tirocinio di “Un giorno da leoni” , decide di affrontare una pagina di storia napoletana, non tanto lontana da aver perduto il rovente calore dell’immediatezza cronistica. Ne “Le quattro giornate di Napoli” (1962), Nanni Loy attinge un livello espressivo che raramente gli sarà dato di raggiungere nel prosieguo della sua professione di regista. Come lui stesso nota (in risposta ad un quesito di un lettore di “Filmcritica”): “Si tratta di far vedere qualcosa di cui nemmeno i napoletani riuscirono a rendersi conto. Ma, nello stesso tempo, evitare una ricostruzione cronistica, dopo tanti anni. Perciò in questo mio film cerco di raccontare il disordine e lo sviluppo contemporaneo di una battaglia che non ebbe mai una lo-calizzazione ed una fisionomia: qualcosa di molto napoletano, insomma, 127
128 che cominciò spontaneamente e s’ingrossò in maniera caotica.” 33 Questa prospettiva scelta da Loy e dai suoi esimi collaboratori, al soggetto e alla sceneggiatura (Bernari, Festa Campanile, Vasco Pratolini, M.Franciosa), non è casuale e tanto meno immotivata. E’ una presa di posizione che viene precisandosi proprio dopo aver va-gliato con attenzione il materiale cronistico e storico concernente quei quattro giorni. Un modo per impostare una tematizzazione visuale nitida e insieme libera da ogni impronta apologetica o commemorativa. Quella brevissima guerra a cespuglio, a macchie di leopardo che si accende negli ultimi giorni di settembre del ‘43 nel capoluogo campano tra le strade, i vicoli, gli orti e le terrazze, assunse realmente caratteri assai peculiari. Non ha avuto una gestazione strategica e tantomeno ideologica, ma finisce coll’essere il risultato corale di tante indignazioni, tante vendette, tante giuste rabbie contro la disumanità nazista. L’episodio che rappresenta la goccia che fa traboccare il vaso già colmo è ottimamente ricostruito da Loy: il marinaio che si sta dissetando alla fontanella e che viene fermato di soppiatto dal soldato tedesco, perqui-sito, legato e poi fucilato sulle scale dell’Università di fronte ad una folla di gente inconsapevole, incolonnata a forza dalle SS. L’inquadratura iniziale di questo episodio è estremamente dettagliata nelle sue componenti realistico-simboliche: il marinaio impolverato, con i calzoni rimboccati fin quasi al ginocchio, si curva avido vicino alla bocca d’acqua, quando il milite germanico gli si avvicina con passi d’agguato e gli punta la nera, lunga rivoltella alla tempia sinistra. Non è più un clima di guerra, ma un tranello da belva, un istinto di lotta che si basa più su un odio personale, razziale che su cause politico-militari. Il muretto diroccato che fa da sfondo all’azione della scena, l’edicola vo-tiva sul lato destro della parete che mostra tutta la sua decrepitezza sono contestualizzati nell’inquadratura con notevole sensibilità drammatica e figurativa (quasi un recupero, dopo tanto tempo, di certi alti, strazianti momenti del “Paisà” rosselliniano.).
Il segno nero circolare che sta tra la divisa bianca del marinaio impol-verata e sgualcita e quella scura, quasi impeccabile, del suo aggressore e catturatore sembra un grigioscuro geroglifico maligno, carico di triste premonizione: regista ed operatore hanno qui saputo cogliere in rarefatti elementi i più sottili risvolti della situazione umana che si amplificherà nei giorni seguenti per cento o mille volte. 33 LOY N., “A Napoli niente cronica” in “Filmcritica” , N°124, Agosto 1962 129 Le sequenza che poi mostra la gente di Mezzocannone, di piazzetta Nilo e altri luoghi adiacenti al Rettifilo che viene rastrellata e poi sarà ammas-sata dai tedeschi in via Sedile di Porto é anch’essa carica di tensione assai significativa (sarà girata dalla troupe, però, in Via Bellini e presso l’Accademia di Belle Arti, per ragioni logistiche e di traffico cittadino). La macchina da presa panoramica su volti di uomini immobilizzati da un silenzio cupo e atro, su bocche di donne che gridano o piangono senza tregua, quasi chiedendosi da sole e a squarciagola il perchè di tanta ferocia. Hanno compreso ormai che dovranno assistere alla rappresaglia per l’uccisione di un milite tedesco, ma essi non conoscono questa norma belluina che può far pagare ad un innocente il fio di un atto commesso da altri. C’è poi l’accavallarsi delle immagini, parti per il tutto, col quale viene mostrata come la notizia di tale “manifestazione” viene diffusa e comu-nicata con la tecnica geniale del “telegramma napoletano” (una sorta di tam-tam che usa tutti i gesti, tutti gli strumenti per spargere le informazioni attraverso balconi, finestre, terrazze, tetti. Incomincia, cosi a germinare senza una vera preparazione, senza pre-meditazioni l’organizzazione della risposta da dare alle truppe tedesche. Loy stesso dichiara che dalla farraginosa documentazione di quei giorni non ha poi tratto gran che di materiale e finisce coll’asserire con franchezza d’artista: “In fondo la documentazione più significativa di quelle giornate di settembre l’ha lasciata il famoso fotografo Robert Capa… in uno dei suoi servizi più appassionati e più attenti. C’è una foto memorabile di Capa, quella dello scugnizzo sporco e stracciato con l’elmetto tedesco in testa. E’ una immagine che fece il giro del mondo e che, per me, mentre cercavo di chiarire certe formule del film, è stata come un’immagine chiave. E’ servita ad impostare il racconto in un certo modo più di qualsiasi scoperta documentaria.”34 Infatti le inquadrature più pregnanti, più baluginanti di vita restano quelle che angolano in un certo modo questi giovanissimi napoletani, scugnizzi e studenti, quattordicenni e sedicenni, che si improvvisano guerri-glieri e si danno da fare con armi a loro sconosciute e preparano alla men peggio i cocktail Molotov da lanciare contro i mastodontici Tigre. Il film riprende e attua un vecchio progetto del regista, “Il coprifuoco” , che però concerneva la resistenza romana durante l’occupazione nazista; è stato, come è evidente, rifatto, aggiustato, rinnovato totalmente: Bernari e Pratolini (che in quegli anni abita a Napoli) contribuiscono a trasporre 34 LOY N., “A Napoli niente cronica” in “Filmcritica” , N°124, Agosto 1962 130 la vicenda in un altro clima ed elaborano nuovi episodi (di alcuni resterà assai poco al momento della conclusione delle riprese e i due autori un pò se ne dorranno (ad esempio, manchera il ritratto del col.Scholl, comandante della guarnigione e autore di famigerati manifesti di “deportazione” o di pesantissime minacce o quella dei primi due morti della resistenza, portati sull’imperiale di un tassi, in mancanza di qualsiasi altro mezzo). O ancora le sequenze delle riunioni degli intellettuali antifascisti che discu-tevano del futuro assetto della città. Ma l’importante è che ci sono i volti di quelli che “agirono” realmente come Antonino Tarsia in Curia, Murolo, Schettini e Pansini anche se i nomi loro non sono citati letteralmente, ne viene dimenticata la figura del capitano Enzo Stimolo, uno dei più corag-giosi animatori della lotta di fine settembre. E restano, poi, tante splendide sequenze e tante lampanti inquadrature: quelle degli ostaggi guardati a vista nello Stadio del Vomero (ex campo Lit-torio), e l’uccisione da parte delle SS del fascista caduto anche lui nella retata e che non riesce convincere i suoi “amici” : “e grida, perchè non sa esprimersi nella lingua straniera, “Come sfaccimma di dice fascista in tedesco?” , ma
mentre si dibatte, viene abbattutto da una scarica di mitra. E inoltre tutte le panoramiche dolorose sulle macerie, sui bassi vuoti, sulle strade de-serte e piene di paura e desolazione o sulle deportazioni degli abitanti del lungomare che va da Mergellina Via Caracciolo e fino alla Marina. La cadenza accelerata e talvolta folgorante dei movimenti di macchina non trascura oggetti, persone, azioni emblematiche: l’autore riesce spesso a farsi coinvolgere col cuore e con la mente da questo bruciante ricordo e entra in empatia con gli attori, anche quelli non professionisti (e sono la stragrande maggioranza) che rivivono una terribile esperienza di vita. So-no restituite a più incandescente temperatura le fortissime impressioni sulla nobile e sanguinosa epopea confusa di un popolo confuso dalla disumanità della logica bellica nazista. Gli eventi che meno si inseriscono nella “temperie” sono proprio quelli in cui agisce un’attrice di mestiere (e una delle più intelligenti dobbiamo ammettere, come è Lea Massari): ma essa, nonostante la indubbia sensibilità, pare agganciarsi a fatica con quella spontaneità dei gruppi, così ben circostanziata dall’obbiettivo di Loy. C’é anche qualche momento enfatico, qualche cosa troppo sottolineata, come è stato notato con acribia da un giovane e valente critico scomparso di recente, Adelio Ferrerò: quello della morte del direttore (l’attore francese Georges Wilson), che ha da poco permesso ai suoi piccoli “reclusi” (si tratta di un istituzione di correzione), di unirsi, nelle ore di luce, ai combattenti: 131
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“morte retorica e quasi vaticinante” che è effettivamente al di sopra dei righi della inedia narrativa e non si fonde bene con gli altri episodi, con il magma della loro spontaneità senza ornamenti e senza bellurie. Va invece menzionata la recitazione misurata e sobria di G.M.Volontè, proprio nella parte di Stimolo, che si immedesima in questo personaggio infaticabile, presenza ubiquitaria e rincuorante nelle vie della città in rivolta contro gli oppressori. Una sequenza di alto equilibrio espressivo si lega nell’episodio dell’incontro della madre col figlio Gennarino che va verso la sua morte: il controcampo del volto impietrito ma asciutto della donna con lo sguardo inconsapevolmente sorridente del ragazzino si situano come nuclei tragici a cospetto di quella Napoli solare eppure ingrigita dal fumo, dall’orrore, semidistrutta quasi inconoscibile. Altra splendida pagina in cui si concatenano immagini di duro e virile realismo è quella della visita collettiva alla stanza dove giace ucciso da una raffica di mitra tedesco un giovane ignoto di cui ognuno dei soprav-venienti potrebbe essere padre, madre, sorella o fratello. E’ certamente l’emozione di una ritrovata passione civile che fa scattare nel regista l’intuizione visuale, la capacità selettiva, la mira giusta per col-pire al cuore e alla coscienza lo spettatore di buona o di poca memoria. E’ forse questa capacità di immedesimazione che induce Loy a scartare ben due finali già pronti (la morte del giovane che non riesce a raggiungere la sua Sorrento e la processione delle bare tra cui biancheggia quella più piccola di Gennarino) per puntare come per una scommessa di estrema sensibilità sul corale esodo vergognoso delle truppe naziste. Mentre esse sfilano, umiliate, stanche, nell’alba polverosa al di là della collina di Capodimonte, un grido anonimo e potente lancia l’invettiva iraconda e sfottente: “Jatevenne, ricciuni!” E tanto più le proteste ufficiali e semiufficiali delle autorità tedesche ri-sultarono infondate o pretestuose, quanto più si potette osservare con graduale convincimento che il film, come ha ben detto uno dei resistenti di quei giorni non è “una revanche contro di loro quanto la rappresentazione di una di quelle manifestazioni di risveglio dell’onore ferito che riscattano le debolezze, le colpe e gli errori degli uomini e ridanno ad essi una consapevolezza nuova della dignità.”35 E sono ben ritmate decine e decine di scene in cui sale come in un 35 PARENTE A., “Una conclusione e un giudizio”, ne “Le quattro giornate di Napoli”, Napoli 1963, p.378 133
134 interiore crescendo musicale la pulsione profonda che va dal senso di profonda umiliazione alla sacrosanta volontà di restituire colpo su colpo le ingiustizie, i soprusi, le crudeli sopraffazioni. Anche in questo clima di infiammata rievocazione, di soprassalti emotivi non era facile inquadrare e delimitare i punti nodali della città in lotta. E, invece, questo problema è stato impostato e risolto dal regista con scorci illuminanti, sineddochi evocative, con metafore veloci e rapidi simboleggiamenti che nulla hanno di celebrativo o di trionfalistico. Loy ha saputo resistere alle due grandi tentazioni del bozzetto gradevole (per alleggerire il pathos) e all’affresco magniloquente (per dar peso alla storicità dei fatti) e ha saputo trovare, al contrario, quel giusto blend di immagini e voci dialettali, di eroismo lazzarone in preda a cose più grandi di lui, senza farsi irretire da allegorie monumentali e perciò fuorviarti. Si veda ad esempio la conclusione “napoletana” delle trattative condot-te dalla delegazione dei combattenti a colloquio con alti ufficiali della Wermacht in una stanza appena illuminata dell’Hotel Park al Corso Vittorio Emmanuele: “A noi la guerra non piace affatto, perciò ve ne dovete andare!” Ed un grido elementare di libertà è come un filo rosso sotteso a tutto il commento sonoro (un accenno delle note di “O sole mio” rivisto in chiave epica da Rustichelli). E’ esso che aiuta a tener lontano tante edificanti idee: certo, la storicizzazione dell’avvenimento è incompleta, c’è qualche eco di marca risorgimentale che talvolta stona e qualche zona di disinvolta eloquenza patriottica (Ferrerò), ma la struttura emotivo-cognitiva dell’opera è plausibile, comunicante, costellata da tanti punti vitali: l’organicità profonda è data proprio dal passaggio dall’istinto di conservazione a una necessità di rivalsa, di sfogo fino all’esplosione più che legittima della controviolenza, quell’opporsi al male che è una delle strane facce della giustizia che è concessa agli uomini. L’involucro sensazionale di non pochi segmenti è qui giustificato dalla atipicità forzosa dei momenti di emergenza storica: c’è più emozione che ricerca dell’effetto, c’è più passione che volontà di far spettacolo. Anche certe omissioni che sembrerebbero poco corrette finiscono coll’avvantaggiare il nucleo espressivo dell’opera: ad es. il tralasciare la presentazione di certi generali inetti o traditori: le quattro giornate sono state, infatti, una lotta di subalterni contro il degrado umano imposto da militari imbarbariti (la presentazione dei Pentimalli e Del Tetto sarebbe di-venuta col passar del tempo sempre più superflua perchè il tempo galan-tuomo sbiadisce e rende opachi o nulli questi nomi negativi (chi ricorda 135 più il nome degli accusatori di Socrate che pur vinsero la causa? ) Il carattere popolare del film sta proprio nel visualizzare quei quattro fucili, quelle quattro bottiglie di benzina, quei tram messi di traverso al Museo che finirono per aver ragione di ufficiali da manuale, di impeccabili “panzer”
corazzati, che riuscirono ad umiliare ed allontanare un super-lubrificato congegno d’ingegneria bellica moderna. Il carattere autentico della narrazione resiste proprio in quei primi piani fugaci e non compiaciuti che colgono l’indignazione febbrile degli scugnizzi, dei popolani, il colore della giusta ira sui volti anonimi di tanti combattenti, come anonimi finirono per essere nella realtà (le manifestazioni ufficiali saranno poi tenute,come accade, da quelli che stavano ben nascosti o comunque ben lontani dai luoghi delle azioni). Attraverso le carrellate sui misfatti, sulle deportazioni, sulle ruberie, gli incendi, attraverso i dettagli del sangue sparso qua e là, il film di Loy riesce a restituire quasi intatta una particolarissima temperie psicologica e storica, anche senza porsi grosse questioni di approfondimento critico, ma tenendo conto nei fatti delle diverse contraddizioni e molteplici pieghe della vicenda. Alcuni hanno rimproverato ripetutamente il regista di aver taciuto sulla rabbiosa reazione fascista di quei giorni, ma tal proposito sembra di po-tersi dare piena ragione al poeta Nazim Hikmet che a tale obiezione rispo-se, nel corso di un interessante dibattito tenuto al Circolo Napoletano del Cinema che “in arte basta un simbolo ben collocato per configurare una realtà assai complessa” (e nella narrazione non si può trascurare il fascista Valente, in camicia nera, che, unico tra gli ostaggi, spera invano di salvarsi dalla furia vendicativa delle SS). Se l’ispirazione, come è stato detto, è in gran parte traspirazione dei succhi assorbiti, e dei libri “non libreschi” digeriti e transustanziati, può dirsi che Loy “ha sudato” attraverso la sua pelle più sensibile quest’opera e ha saputo organizzare una ricerca di vita nel confronto con quei momenti di morte che quella lotta pur sacrosanta comportava. Ha voluto soprattutto osservare l’uomo che rinasce tra mille amari sforzi, che cerca di riorientare il suo cammino vero, quello che va verso il futuro non verso il passato, e che non può non essere un avvenire di paci-ficazione (cioè il contrario della distruzione e della autodistruzione). Ha mostrato di saper afferrare i piccoli accadimenti in modo non dis-continuo, con un felice equilibrio tra positivo e negativo, con un linguaggio che si riporta, senza spurii ricalchi, a quello più felice del primo neorealismo. Si è opposto a tante menzogne ben declamate, a tanti 136
137 compiacimenti o autoaccecamenti, non si è lasciato prendere dalla trivialità o dai toni comizieschi (il turpiloquio è raro, conciso, funzionale come accade con i veri autori); ha dismesso anche il sussiego serioso e ininterrota-mente drammatico di chi vuol dare importanza anche ai tempi vuoti, agli attimi di pausa che sono naturali sia nella realtà che nell’arte. E’ riuscito a dominare la molteplice materia, innalzandola solo di qualche grado, per non travisarla con aureole, santini o cori gloriosi. E’ stato pedagogico senza essere moralizzante, dichiarativo ma non apodittico, sapendo di dover testimoniare su un grave momento di lacerazione umana in quell’ombelico lacerato d’Europa che è l’antichissima e, di tanto in tanto, nobile Napoli. 138
XI - Medioevo contemporaneo: Ferreri e Pasolini 139 Una Napoli certamente fuori del comune, regressiva e visionaria è quella configurata da Marco Ferreri nel suo film “La donna scimmia” (1964) Il regista ha l’istinto per il dettaglio all’acido nitrico, per l’allusione feroce: è un intellettuale che non vuol esser assorbito nel sistema e che intende predicare con le immagini certe sue parabole paradossali. Egli ha girato negli anni precedenti tre film di humour nero in Spagna, non avendo avuto all’inizio udienza nel suo paese ( “El pisito”, “Los Chicos” e “Il cochecito” ) ed è reduce da “L’ape regina” , strana ma affascinante storia di parassitismo coniugale). Stavolta si interessa ad una vicenda ancor più bizzarra, quella che riguarda Antonio Focaccia (Tognazzi) e Maria (A.Girardot), donna affetta da una pelosità abnorme in tutte le parti del suo corpo di femmina peraltro regolare. In proporzione di esatta simmetria, Focaccia, per suo conto, è un anor-male sociale, semidisocccupato, che vive di mille espedienti, giravolte e bubbole. Non è affatto fuori posto, però, perchè la città formicola di tanti altri irregolari, spostati, “assistiti” , ed è forse lo habitat più conveniente allo svolgersi di un rosario di fatti sempre più strani. Il regista pur senza calcar la mano la formalizza come una metafora di fenomenologia terato-logica da terzo o quarto(o quinto) mondo. Il denudamento di questo ambiente dai panni che pur lo mascherano piedigrottescamente è operato da Ferreri con quel suo senso di infrazione dei limiti convenzionali e con quel crescendo di trasgressioni che costituiscono l’ordito più autentico del suo narrare. La stessa messa in linea dei segmenti rappresentativi tende a restituire l’impossibilità di essere normali in una comunità che ha stratificate tante zone di emarginazione, di iperindividualismo, di artisticità al limite della follia. Queste zone diventano subito per il regista scenarii naturali per tutte le guitterie, per tutti gli exploits a livello di circo che devono far da con-torno all’anomala vicenda umana. Il gerontocomio in cui lavora saltuariamente Focaccia (nome pulcinel-lesco quant’altri mai!) e la cucina di questo istituto dove incontrerà Maria, la donna scimmia, tenuta lì da sguattera, sono microcosmi nel macro-cosmo della degradazione urbana. Questi gironi della subvita sono nascosti sotto i veli della falsa charitas di un non ben specificato ordine mo-nastico femminile. Quando Focaccia esibirà l’intenzione di andar a nozze con Maria, alle suore interesserà solo la vidimazione rituale del rapporto, senza un minimo interesse alla vera finalità di un simile matrimonio. Nel personaggio di Focaccia, Ferreri riesce a ribaltare la ripetuta e com-140
141 piaciuta caratterizzazione che ha finito per incasellare l’attore comico settentrionale nel “buzzurro” chiacchierone, vanaglorioso e piuttosto aggressivo. Qui è visto come un “Cetrulo” in preda ai sussulti di una sopravveniente tecnologia che egli non saprà dominare e da cui deve rifuggire con stratagemmi d’ordine più tradizionale (ad es. nelle prime sequenze Tognazzi viene mostrato mentre si impappina nel compito di chi dovrebbe proiettare diapositive sulle imprese delle Missioni cattoliche nel conti-nente nero, ai rimbambiti ospiti dell’istituzione presunta benefica). Certamente l’attore sa assecondare la trasfigurazione voluta dall’autore, riuscendo ad assumere i tic, le smorfie e la gestualità del suo nuovo personaggio cui conferisce portamento, accento e sfumature espressive diffe-renti dal suo solito “andante” recitativo. E finisce col trasformarsi in un genuino esponente di Partenope alle prese con le tecniche più bislacche dell’arte di arrangiarsi in quei mille modi che devono rispondere alle canoniche novecentonovantanove disgrazie prevista dalla tradizione per il più estroverso Pulcinella di qualsiasi annata. E la macchina da presa di Ferreri incastra Focaccia che va inciampando tra i vicoli della Duchesca, zona di mille mestieri, mille truffe, luogo consacrato ai più vistosi marchingegni del “bidone” e dello “scartiloffio” . E nella determinazione ambientale vengono ripresi banchi e bancarelle come altarini della sacra illegalità eretta a sistema di esistenza.
Il modus vivendi escogitato dal protagonista è degno, in tutto e per tutto, dell’ambiente, risponde ad esso in consonanza precisa, con una reazione a griglia: Focaccia finisce, infatti, dopo il matrimonio con Maria, donna scimmia, con l’allestire una tenda pseudo-africana all’interno di un’au-torimessa e vi organizza una “sceneggiata da safari” con ingresso a paga-mento per il pubblico curioso di veder mostruosità femminine. Le sequenze successive mostrano, appunto, il protagonista vestito da esplora-tore (alla men peggio) che va alla ricerca di questo cercopiteco muliebre e che dopo averlo trovato, senza repulsione alcuna per l’esorbitante sistema pilifero, lo induce a soddisfare le sue brame erotiche. E’ troppo evidente questo gioco grottesco a raddoppiare gli effetti, questa ridondanza dello spettacolo nello spettacolo, e l’amplificazione dei temi che per quanto il regista stesso abbia sostenuto in un’ intervista 36 di “considerare la “Donna Scimmia” inserito in un filone neorealistico” , il film assume coloritura e sostanza ben diversa da quella corrente di stile del dopoguerra italiano. 36 FERRERI M., “Intervista” , in “Cinema e Film” primavera 1969, pp. 33 ss 142 La stessa ossessione per i dettagli, certe metafore che sconfinano nell’espressionistico, quel compiacimento per i momenti di eccesso timbrano l’opera con altri marchi, e talvolta contrassegni personalissimi. La stessa concentrazione iperbolica dei “fatterelli” , la stilizzazione grigionera dell’universo partenopeo testimoniano di un brillante sfondamento dei confini del tradizionale realismo. Соmе ha notato acutamente M.Grande nel suo saggio su Ferreri “i tempi lunghi, gli spazi vuoti delle riprese, i lenti piani che sottolineano il campo vuoto alla fine della sequenza in cui Antonio (Focaccia) esibisce Maria, sono i portatori dei minimi cambiamenti psicologici, dei piccoli fatti d’amore con cui la donna-scimmia si rivolge all’uomo; rivendican-do finalmente la propria umanità e, dopo il matrimonio, la propria nor-malissima femminilità (in senso sessuale, erotico ed affettivo).” 37 Una Napoli quasi da incubo fa capolino da ogni anfratto della vicenda con la sua gente cialtrona, le grida supersoniche, i volti pieni di smorfie, di scherni, di sberleffi: la carrellata laterale che scopre gli spettatori del bizzarro corteo nuziale che si snoda dietro Antonio e Maria, viene a dare una sorta di srotolamento visuale di psicologie napoletane anche nel lam-po di un tempuscolo; e sullo sfondo appaiono gli emblemi più antichi della città, i suoi muri sporchi, i cumuli d’immondizia, i naturali décollages dei manifesti, le polverose finestrelle e gli ingressi dei bassi. Un intero quartiere popolare viene così raffigurato senza insistenza, con un obbiettivo che lo sfiora appena ma con la penetrazione sapiente di pochi colpi d’obbiettivo ben mirati da Ferreri. Non ci sono forzature di ammiccamenti sociologici, nè tanto meno etnologici, non vengono caricate le tinte, che, del resto, risultano già di per sè anomale ed extravaganti. Lo humour acido del regista può indurre a risate a denti stretti ma soprattutto rende inquieti, colloca lo spettatore a mezza strada tra dolore ed ironia: Focaccia gioca in un cerchio tragico che ha le connotazioni della antichissima e sofferta povertà partenopea. In questo cerchio normalmente le cose sono rotte, funzionano alla rovescia o sono fuori posto, i soffitti fanno acqua quando piove, i garages servono ad ospitare esseri umani e nelle cucine raramente si preparano pranzi. Qui il destino è già incluso nella biologia (la mostruosità dermatologica di Maria) eppure tutti lottano per non tenerne conto, per “fruculiarsene” : da ciò quella sensazione che ogni azione, perfino ogni movimento può essere d’aspetto insieme comico e drammatico. 37 GRANDE M. Marco Ferreri , Firenze, 1974, p.41 143 Il contropiede in cui viene presa la platea è proprio nelle sequenze che hanno apparenze tragiche: nei loro confronti essa non sa più se commuoversi o ridere, come ad esempio quando Tognazzi viene ripreso al capezzale della donna-scimmia in agonia: la scena genera una profonda contraddizione. (E potrebbe essere questa serie di crudeli tagliole mentali che non hanno concesso al film di aver successo presso il più largo pubblico.) L’anarchico Ferreri pur nel suo breve apologo (e metà dell’opera ha luogo a Parigi) va dritto al cuore della dissociata metropoli meridionale, ne ausculta aritmie e scompensi, senza presunzione di facili diagnosi. Egli ha compreso subito che essa è il luogo deputato dove l’imprevisto, il surreale o l’iperrealistico sono a portata d’obbiettivo, senza bisogno di soffiar troppo sul fuoco dell’immaginario.
Così, le scene si saldano una all’altra come su di un nastro che ruoti flui-damente intorno alla zona, al fatto dal riprendere: i movimenti automa-tici, le gag insinuanti, i sonnambulismi manovrati, certi spasimi sono for-malizzati con nonchalance da Ferreri, senza lo sforzo di scovarli, angolarli in modo troppo meditato. E’ la stessa materia epiteliale della città di Napoli che fa da collante tra un’immagine e l’altra, con quelle sue macchie congenite, quel suo sudicio splendore e con quel groviglio umano che offre sempre di comparse, di comprimari, clowns e Augusti e Pierrot, con o senza lagrima. E’ un universo sfilacciato che finisce per rivelarsi una rete d’acciaio, nelle sue calcificate interrelazioni: l’occhio spinoziano del regista riflette calmo ed impassibile questi luoghi antichissimi e non si meraviglia, nè piange nè ride, solo talvolta sembra aderire quando la pietas umana ha il sopravvento sull’ironia, sul velato sarcasmo, sull’umore solforoso e volterriano. Non risulta affatto che l’autore intenda “fare lo sciacallo di un mondo che va distruggendosi” : il suo modus videndi è solo l’articolazione di un terribile materiale predisposto dalla natura sismica e vulcanica del capoluogo campano e manipolato senza tanti complimenti da una storia di secoli bui, invadenti, volgari. Egli è convinto in buona fede di ricercare una soluzione umana perchè, comunque, “la gente ha bisogno di contare su qualcosa” sia pure essa strana, invereconda o mostruosa. Nè la particolare scrittura filmica appare “sciatta, spiacevole o disarmonica” : essa è adatta alla materia prescelte, si sviluppa senza eccessivo spirito di costruzione, senza compiacimenti di montaggio o di dissolvenze. Il fatto elementare che colpisce anche lo spettatore comune è che luoghi notissimi come la Duchesca o la Marina, Forcella o Via Nilo sono reali, la 144
145 loro realtà è però apparente: è questa una costante della fenomenologia partenopea. Un mondo che appare come in continuo trasloco, nomade, provvisorio e che pure ha una sua logica interna (le ragioni di un vecchissimo cuore dopotutto umano). Certe chiarità, certe trasparenze attraversano, di tanto in tanto, il tessuto connettivo dello strano racconto fatto di grigio e di nero e sono lembi di cielo o di lenzuola appena lavati e che giocano nella luce del sole che fa capolino tra i vicoli o sfiora i balconi come una sigla di speranza. Questa dea ritorna spesso nell’alterna risacca di disperazione e acquietamento, ansia e rinnovata fiducia, sistole e diastole naturali in un corpo collettivo che non può morire. In questo mondo di vagabondi, di precarii, di “mostri” , Ferreri si sente liberato da tante tare sociali, da tante riserve mentali e riesce perciò ad impostare una specie di storia romantica alla rovescia: il grottesco gli si muta in fantastico e il fantastico assume i contorni di una topografia estremamente verace, consistente, con radici che toccano le cause primige-nie della originalità di una comunità urbana e del suo ritmo più segreto. Sembrerebbe che questa vicenda di “mostri” faccia vibrare le corde della tenerezza più nascosta di Ferreri che rende testimonianza dovuta a due derelitti quasi dimenticati dalla Provvidenza divina, oltre che dalle pro-gettazioni ideologiche più avanzate ma refrattarie anch’esse a fare i conti con gli “scherzi di natura” . L’unico scatto di pungentissimo sarcasmo lo si ritrova nella sequenze in cui, al ritorno da Parigi, in un labirinto della subcultura meridionale, tap-pezzato di superstiziosi “santini” , amuleti e altri aggeggi apotropaici, ai due “coniugi” vengono estorti soldi da un vecchio imbroglione e dal suo diabolico assistente, un ragazzotto travestito malamente da serafino. Questi due compari, con notevole aplomb mercantile, incassano salate tariffe per promuovere interventi taumaturgici da parte della Madonna che dovrebbe proteggere il bambino che nascerà da Maria fecondata da Focaccia. E’ evidente che questa è la parte di Napoli che Ferreri rifiuta con tutte le sue fibre: la contraffazione in spettacolo e a caro prezzo di sentimenti che non dovrebbero essere mezzo di sfruttamento ulteriore dei disperati, dei maltrattati dalla sorte. In questo mercimonio della fede più genuina il regista individua il retaggio più negativo di una civiltà che è stata chiusa al ricambio e al colloquio col mondo moderno da cricche ipocrite e pseudo-spirituali. Il primo film della trilogia pasoliniana ( “Decameron”, ”I racconti di Canterbury”, “Il fiore delle mille e una notte”) contiene almeno due 146 episodi che hanno attinenza con Napoli, con la sua essenza o con la sua storia. La relazione con questo mondo, come avvertiva lo stesso poeta-regista, è di tipo mitico, mentre il narrare ricerca una struttura ontologica. “Si narra e si rappresenta qualcosa che non c’è più: uomini, sentimenti, cose. Non c’è storicamente, ma esistenzialmente sopravvive il popolo di Napoli”. Il filtro usato è quello dello stile medio del Boccaccio e le due novelle usate ai fini dell’elaborazione semiotico-iconica sono quelle di Andreuccio da Perugia e di Peronella. Riesce, in alcune larghe frazioni della pellicola quel “gusto/ del dolce e grande manierismo/ che tocca col suo capriccio dolcemente robusto/ le radici della vita vivente ed è realismo…” 38 La città partenopea è vista dall’autore in una sorta di fantastica retrospettiva storica, nelle sue connotazioni medioevali più evidenti e con una forte accentuazione della dialettalità boccaccesca.
In questa città trasfigurata in entità metastorica si addensa la più tor-tuosa fisicità umana: “con i suoi” più comuni, più inutili, più inermi aspetti” . Soprattutto nella seconda giornata, quella che tratta di Andreuccio da Perugia “venuto a Napoli a comprar cavalli che in una notte da tre grandi accidenti sovrappreso e da tutti scampato, con un rubino si torna a casa sua.” Per mezzo di colori oscuri e turbolenti, Pasolini-Giotto affresca il paesaggio notturno di un antichissimo universo brulicante di tagliaborse, femmine da conio, mentecatti, ruffiani che si muovono tra la suburra del Porto e il Castello Angioino, tra i fossati e le case più sbreccate dei chias-suoli, neri di sterile miseria. Andreuccio assiste mezzo abbacinato e mezzo affascinato a questa livida commedia “à la Bosch” , gridata da bocche sdentate, avide, balbettanti, blasfeme, in preda a rictus di oscene e aggressive irrisioni. Si mescola a “uomini neri-fetenti come capri, in cerchi luridi di pochi metri, tra pelli sudate e nel tanfo di ruderi pisciosi e di mura marce.” In queste cifre Pasolini vuole allegorizzare la condizione sotto proletaria di un “popolino” che è come una tribù al di fuori di ogni ciclo storico “che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Boja, vive nel ventre di una grande città di mare.” E secondo questa linea metastorica sono raffigurati questi antichi napoletani incontrati da Andreuccio, uomini che servono, sfottono, imbrogliano carezzano, scippano in nome di quell’antico defraudamento che è stato, 38 PASOLINI P.P., in “Poesia a forma di rosa” (“La guinea”), Milano, 1976 147
148 operato in loro danno da migliaia e migliaia di invasori ed oppressori locali e stranieri. E’, in sostanza, la continuazione del discorso sugli “accattoni” , con la stessa consentaneità psichico-culturale da parte dell’autore, ma quasi senza più rabbia, senza delusioni laceranti e perciò proiettato al di qua di ogni recinto empirico o pratico-concreto. Si sente solo la volontà talvolta compiaciuta di partecipare globalmente alla vita di questa gente senza classe, senza identità sociale, ammasso ed intreccio di tanti sangui, di tante biologie. La vicenda dell’episodio è logicamente concentrata sul personaggio di Andreuccio e sui suoi scontri con la dura realtà della Napoli sublunare, con la formosa e mala giovane, col trabocchetto aperto su un pozzo nero, con i ladri che stanno a spogliare la salma riccamente addobbata dell’arci-vescovo della città. Da quest’ultimo incontro-scontro il perugino riceverà finalmente un compenso alle sue molte disavventure, un anello con rubini che lo ripagherà dei cinquecento fiorini perduti nella stolta contrattazione e nelle altre peripezie. Concluderà infatti questa azione, imprevistamente fortunata, con una danza leggera e arlecchinesca tra le grigie e mute nava-te della cattedrale di Napoli. La vitalità animalesca della figura di Andreuccio è recuperata in pieno da Pasolini, convinto com’è che “godere la vita nel corpo significa godere una vita che storicamente non c’è più.” Questa logica meramente biologici è, secondo lui, quel che resta di più vitale nella personalità dei napoletani (anche contemporanei). Questo edonismo effimero, questa tormentosa ricerca del piacere, questo darsi da fare solo per il divertimento, per la risata, questo irridere il destino, gli uomini, le idee sono i loro impulsi più traboccanti, la loro perenne libido. Gli scorci di una Napoli del‘300, fra Castelnuovo e l’Incoronata, tra Santa Chiara e i vicoli adiacenti sono una policromia che porta in sé una strana patina evocativa di nostalgie come di chi pensa a “come recuperare al-la rivoluzione alcune affermazioni reazionarie” . Il livello plebeo dell’avventura di Andreuccio è mantenuto su di un piano di solida coerenza figurativa che riscatta quel mondo fangoso e magmatico, sderenato e paragulo. E’ sempre una “vita violenta” ci questo popolo minore, intorpidito per troppa fame o vivace per troppo vino, lontano dall’idea di salvare la propria coscienza ma vicino a quella di guadagnare un buon pranzo. Viene messa da parte, data l’opzione “storica” , quella esasperazione ideologica che animava certe prime pellicole dell’autore friulano, ma la 149
150 procedura è, al fondo, quella vitalistico-religiosa che tende a riaffermarsi con un significato antiborghese, soprattutto rispetto a gente che non può aspettare i tempi lunghi dell’evoluzione, (e non sarà mai pronta per una rivoluzione). In questa Napoli, Pasolini trova quella vita “che si esprime anche soltanto con se stessa” e insieme un luogo emblematico dove si può misu-rare l’enorme torto del mondo, dove anche le vittime sono torbide, dove si resiste a qualunque scandalo, ma con attaccamento a tutte le astuzie che possano prolungare la dannata esistenza. E vitalistica è anche la novella di Peronella, qui napoletanizzata al massimo tramite l’interpretazione di Angela Luce. Il regista coglie anche in questa breve vicenda la cifra della comicità edonistica che aveva intriso l’opera del Boccaccio (e che lo aveva segnato “a vita” dopo il soggiorno napoletano). Qui il sesso è un simbolo nudo, i glutei della donna “valli sacre alla libidine” , i seni sono gonfiori tiepidi da tastare, brancicare, titillare. C’è il culto profano della donna, non solo strumento di piacere ma fonte di rallegrata malizia, di tattiche beffarde per trarre fino all’ultima goccia di miele. D’altra parte la gran voglia di ridere è uno sfogo per ottenere tutto sul momento, proprio perchè è stata accantonata la speranza che è un’energia storica, che si proietta in avanti,ma rischia di dar piaceri fittizi. La prontezza sensuale che anima la protagonista della “settima giornata” si legge nelle sue forme rigogliose, infrenabili, esuberanti che si squa-dernano tra il caldo del sole e il fresco delle fronde. Essa, avendo nascosto il suo amante Gianello in un doglio dice al marito sopraggiunto di aver appunto venduto quest’orcio gigantesco e che il compratore vi è entrato dentro per vedere se fosse robusto abbastanza. (Quando Gianello vi entra dentro è invece per sfuggire all’ira del marito di Peronella). Ma quando le parti si invertono, perche il coniuge sospet-toso vuol far anche lui la prova, la donna non si perita di cornificarlo ancora una volta e nel modo più funambolico possibile.
In questo mondo precristiano, presocratico, preilluminista il desiderio travalica ogni ragione, ogni ritegno, ogni senso del dovere: la sua realizzazione è la gioia primordiale dell’umanità, e la sua più libera manifestazione. Oltre la sessualità c’è però il gusto del gioco in cui la femmina sceglie per sè e per gli altri il rischio, la corda tesa che può d’un tratto spezzarsi ma che dà vibrazioni più forti al momento in cui si cammina su di essa, perchè l’acrobazia è il virtuosismo del pericolo. Eppure non si può far a meno di sentire che questa Napoli contadina, 151 carnale e piena di voglie, ornata di orti e piccole campagne, di gelsomini e di giovani pini, è quasi un sogno retrospettivo di Pasolini, l’accensione della sua creatività al di là d’ogni confronto col “qui ed ora” . E’ anche la grande illusione di credere i napoletani sottratti alle leggi comuni, al lavorio del tempo, alla noia delle ripetizioni, dei cerimoniali, il volerli immaginare come “irripetibili, irriducibili e incorruttibili” . E’ una visione autogratificante dell’universo partenopeo che mette in concatenazione fisionomie e corpi, dinamicamente inquadrati, ma finisce con l’idealizzarli in un’ambra senza tempo e senza dimensioni. Il retrogusto di tanta traboccante vitalità è quello di Tanatos, compagno fisso di Eros, che smentisce la possibilità di perfetti e perenni paradisi terrestri (anche se abitati da diavoli). Pasolini è passato per Napoli come ci è passato Giotto (in un allievo del quale egli, in altro episodio, si identifica), tangenzialmente, senza incidere e senza compenetrarsi molto nella polpa della città, nella sua quotidiani-tà, assai più complessa. La sua pittura filmica ha assunto qualcosa di oggettuale, la sua semiologia del cinema come lingua scritta dell’azione tradisce il senso di chi ricerca “altro” nel suo operare. Perciò il suo materiale basso, i ruscelletti della cloaca, le celle piene di mota, la sporche viuzze, gli oscurissimi androni cadenti sono, in fondo, stilizzati iconicamente (ed icasticamente) e si con-vertono continuamente in un aulico splendore che la memoria di un mito riaccende continuamente ma vena anche di un’astrattezza indubitabile. In questo senso si comprende che non abbia avuto interesse a narrare la Napoli d’oggi, forse perchè ha finito col credere che non esiste, in ciò tro-vandosi d’accordo con l’amara diagnosi che fa un altro scrittore, membro, della numerosa diaspora napoletana (R.La Capria) quando afferma: “questo patrimonio peculiare della civiltà napoletana… (é) paragonabile a quello delle altre capitali della decadenza, Dublino, Atene, Alessandria o New Orleans…dove tutto è accaduto una volta per sempre.” 39 39 LA CAPRIA R., ne “La Napoletanità” (a cura di A. Ghirelli), Napoli, 1976, p.61 152 XII- Miscellanea: da “Viaggio in Italia” a “Il giudizio universale” Nell’euforia dell’espansione economica, il cinema italiano è venuto mo-dificando il suo atteggiamento di fondo. Si è andata rarefacendo l’adesione ai temi e ai personaggi della realtà meridionale. Il cinema americano ha imposto una forte ipoteca non solo sul “box-office” nostrano ma anche sui moduli espressivi, sul ritmo e sullo stile del la nostra narrativa per immagini. C’è un indubbio restringimento dell’orizzonte culturale e la stessa fruizione dello schermo avviene sempre più in un’atmosfera di attenzione flut-tuante, sottoprodotto percettivo dell’utenza sempre più massiccia della TV. Come risposta all’invadenza dei “21 o 23 pollici” , la commedia all’italiana si fa sempre più sconnessa, scollacciata e frammentaria. La televisione fa concorrenza sleale anche ai tanti documentari e cinegiornali, dato che il piccolo schermo, per sua precipua natura, riesce a cogliere e vivacizzare l’istante della cronaca. Il percorso all’indietro di autori come Rossellini esemplifica bene l’im-poverimento dell’atmosfera generale: l’ispessirsi dei moduli metafisici, certi prestiti letterarii, la fuga dalla storia sono gli indizi di una diatesi negativa, tra sistole e diastole non regolari e gravi fibrillazioni della creatività.
In un clima di notevole incomprensione si fa avanti l’opera di un moralista moderno come Antonioni che sconta grosse sconfitte di cassetta. Parecchi critici semplificano nel monomio della “incomunicabilità” i molteplici stilemi narrativi del regista ferrarese che non cede a compromessi e ricatti. Occorrerà parecchio tempo prima che siano apprezzate per intero le sue qualità, cioè la sua precisione, la sua sintassi scrupolosa, il suo scartare tante soluzioni stracche o irresponsabili. Molti suoi colleghi sono pronti invece ad accettare le lusinghe della produzione, le loro offerte di contratti purchè “lo spettacolo continui” . Comunque qualche parola deve, forse, essere spesa anche per quei film in cui Napoli è vista soltanto di sfuggita o in cui i napoletani sono in tra-sferta, o alla ricerca di altri possibili modi di sopravvivenza. E’ il caso, rispettivamente, di alcune sequenze di “Viaggio in Italia” (1953) di Rossellini o di “Leoni al sole” (come già di “Napoletani a Milano” etc.). In “Viaggio in Italia” l’ottica con cui viene guardata la città è quella di una coppia inglese altoborghese in piena crisi coniugale. I due arrivano a Torre del Greco dove hanno ereditato una villa e si sentono ancor più strani a 153
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155 contatto con quest’ambiente un pò arcaico, ma caldo e pieno di vitalità. Lui, Alex, se ne va a Capri in cerca d’avventure, lei, Katherine (Ingrid Bergman) intende visitare tutti i luoghi più celebrati dalla tradizione: dalla Solfatara di Pozzuoli agli scavi di Pompei, al Museo Archeologico di Napoli. Questo contatto con la gente vesuviana e partenopea riporta, man mano, la coppia, ad una più giusta temperatura umana e il climax si ha quando l’automobile in cui si trovano i due viene bloccata da una processione che si svolge in un quartiere popolare. Decisi a proseguire a piedi i coniugi, in un primo momento, si perdono di vista, poi si incontrano di nuovo e poi, solo in quel frastuono variegato di voci, di invocazioni, di ri-chiami ritrovano i segni dell’antica fiamma. L’impostazione scenografica e registica da parte di Rossellini dello sfondo partenopeo è in questo film, piuttosto convenzionale: l’intento principale sembra di fornire un colore emotivo di contrappunto alle vicende dei due protagonisti che sono troppo in rilievo di fronte al “background” (e anche linguisticamente, i primi piani e i mezzi primi piani sono numerosissimi rispetto ai campi lunghi e ai totali). Si può ritrovare il panorama più autentico della metropoli forse proprio nei suoi punti più moderni ed eleganti, la zona dei grandi alberghi, Via Caracciolo e Via Partenope che sono indagati nella loro fantasmagoria cosmopolita e falsa, nei riti e miti di maniera, col servilismo dei camerieri, la finta gentilezza delle prostitute d’alto bordo, con tutti gli esempi della mercificazione di certi strati sociali che mettono via dignità e coscienza pur di sbarcare il lunario, e
si tingono di un certo colore di outsiders nel frequente contatto con gente d’altri luoghi e d’altra cultura. In “Leoni al sole” , il napoletano V.Caprioli disegna, invece, una sfilata di ritrattini estivi dei suoi conterranei dislocati nella chic “summer resort” di Positano. E’ il profilo umoristico di una gioventù sfaccendata e godereccia che crede solo al “carpe diem, quam minime credula postero”. Vengono realizzati con mano leggera ed abile alcuni gustosi sketch su questi vitelloni napoletani immersi talvolta nell’inconscienza, talaltra in una strana autocoscienza da “feriti a morte” . Il leitmotiv che viene filato da questo filmetto sta tra l’ironia e il pateti-smo, certamente non intende e non riesce a cogliere le motivazioni più profonde di questo vivere in superficie, di questo agire senza sostanza. Sono solo accennate le caratteristiche personali di questi giovanotti che finiscono così per risultare spesso solo delle macchiette anche se un tantino più sofisticate di quelle mostrate usualmente in simili pellicole balneari. 156
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158 Vien fuori, come la cosa più genuina, questa immoralità brillante, questo disimpegno rispetto a tutto “una visuale che consiste nel farsi beffa di ciò che si ama, di ciò che si è, strizzando un occhio a se stessi, tanto per intendere e ricordare che, in fondo, l’ironia è soltanto bonomia” . 40 E altri leoncelli al sole sono quelli che si muovono inconsultamente nell’episodio napoletano de “I nuovi angeli” (1961) di U. Gregoretti, apparen-tati solo per certi versi, però, al raffinato sudismo di Caprioli: stavolta c’è un implicito sottinteso “di classe” nella vicenda dei giovani aristocratici che hanno imbarcato sul loro yacht delle ragazze di bassa estrazione sociale (bobby soxers o mezze calzette?) Comunque anche questi fatti si dipanano in modo esile, senza giungere a significazioni di gran sorte, senza mordere nel vivo delle contrapposi-zioni. Anzi, proprio questo spunto narrativo finisce coll’essere uno dei più deboli del film che ha momenti di intensa intelligenza in diversi altri episodi (da quello del “Chianti” , a quello del “miracolo milanese” o della Montecatini di Agrigento). Un altro film, pure esso ad episodi, “Ieri, oggi e domani” (1963) offre bozzetti bizzarramente coloriti e festosi sulla miseria di Napoli: la storia più equilibrata e con tratti di umana partecipazione, è quella della “con-trabbandiera di sigarette” , Adelina, interpretata da una Loren in forma smagliante, che è seguita nel suo vivere alla giornata, nel suo campare sè e i suoi piccoli.
Al centro del mondo dei bassi, dei vicoli, della illegalità quotidiana, la protagonista ha risolto il problema di come evitare l’arresto e l’imprigio-namento: facendosi trovare perennemente in attesa di un lieto evento perchè con il pancione gravido nessun pretore o giudice può ordinarne l’incarcerazione per reati di minore gravità come il piccolo contrabbando. Lo stile cordiale e affettuoso di De Sica e la sceneggiatura di Eduardo rendono la “novella” piuttosto credibile ed accettabile, (del resto essa è desunta da un fatto di cronaca vera, cui i giornali partenopei avevano da-to non scarso risalto). In perfetta buona fede, anche se a livello di facile antropologia, il regista “col suo sorriso accattivante, allo sforzo di portare il film italiano sul piano delle inquietudini della civiltà neocapitalista, risponde celebrando l’antica sanità del nostro Mezzogiorno perenne.” 41 Un altro scorcio della Napoli storica delle “quattro giornate” è visualiz-40 PELLIZZARI L. rec. a “Leoni al sole” , in “Cinema Nuovo” , N°149, 1960 41 SPINAZZOLA V., “Cinema e Pubblico” , Milano 1974, p.290 159 zato, ad esempio, nel finale del film di Comencini “Tutti a casa” (1960): proprio nella città partenopea massacrata dai bombardamenti e sotto il tallone di ferro tedesco, proprio tra le sue ancor fumanti macerie, il te-nente Innocenzi e il soldato Ceccarelli ritrovano una vestigia di virile consapevolezza e riconquistano dignità d’uomini (si devono menzionare gli exploits di un Sordi estremamente autocontrollato e di un Serge Reg-giani che si cala nel personaggio con calda immedesimazione e impeccabile stile, sfrondato d’ogni francese eleganza d’accademia o di nobile tradizione spettacolare). Più amara e più notturna è la carrellata su Napoli ne “Il giudizio universale” (1961) un film che solo metaforicamente si riferisce alla città meridionale (anche se molte delle sue sequenze sono state certamente girate in essa, tra il Porto o all’interno del Teatro San Carlo). Tra gli attori non c’è, infatti, alcun elemento partenopeo, e ciò accresce il tono di favola satirica che De Sica-Zavattini hanno voluto raccontare, ma senza quel tocco felice che li portava a trasfigurare tante cose come, ad es. in “Miracolo a Milano”. L’episodio che ha come pernio Alberto (Sordi) nel personaggio di un te-tro mediatore nella compravendita di bambini poveri, attinge non poche volte una verità umana a tutto tondo, anche lontana dai freddi diagrammi della sociologia (o della statistica). La sua lunga, perplessi, impaurita passeggiata verso il Molo d’imbarco (la famosa Immacolatella di vivianesca memoria) è un brano di incisivo humour nero che riesce a porsi in rilievo rispetto alle molte banali coreografie degli altri episodi. L’angelismo metafisico degli autori pesa un pò troppo nella faciltà di scioglimento di certi nodi e nella coloritura positiva di azioni, reazioni, sgomenti e turpi confessioni da parte di non meno turpi figuri. Anche se spettacolarmente grandioso, il gran ballo finale (sulla parterre del teatro d’opera napoletano) troppo agevolmente riassume e recupera sotto il segno del “volemose bene” le ore apocalittiche attraversate dalla città. Risultano troppo spesso fantastatiche sia le connotazioni partenopee che le ri-sultanze dell’apologo manovrato verso il moraleggiamento a buon mercato. E lo stesso miscuglio non amalgamato delle strane fisionomie (da Jack Falance ad Akim Tamiroff, da Fernandel a Lino Ventura, da Paolo Stoppa ad Ernst Borgnine) rendono poco trasparente la struttura ed il senso dell’insieme e quasi annullano la filigrana partenopea dello scenario (il temperamento di Zavattini si rivela abbastanza incongruo e si sforza di compensare molti scollamenti con sprazzi della sua verve candida ma ahimè quanto poco vesuviana!). Ancora sulla scia di “Leoni al sole” , é un filmetto come “Ischia operazio160
161 ne Amore” (1965), un cocktail di tutti gli ingredienti più stereotipi della commedia balneare all’italiana, con P.De Filippo, lo stesso Caprioli, G.Granata, I.Schoeller e molti altri illustri ignoti. Sono vignette corrive sulle consolazioni estive di turiste straniere solitarie, coi varii Peppinielli, Capetoste e “Fine del mondo” . Gag parasessuali, pornografie timide, am-plessi angolati con astuzia semigesuitica, tartuferie, moralismi di bassa lega riempiono questo polpettone tra la farsa demenziale e il “galateo” (negativo). Un repertorio di tutte le fisime e le idee da evitare, ad uso di qualsiasi regista che volesse affrontare con brio autentico il lato leggero di vicende sentimentali napoletane (in loco o in una delle tante pro loco, sempre peggio amministrate e spesso anch’esse nel mirino della camorre tentacolare). Su di un altro versante, anch’esso partenopeo solo di sfuggita, è “Pasqualino Settebellezze” della Wertmueller. Il film soffre del complesso anarcoide della regista che non sempre riesce a moderare le sue smanie di voler impressionare la platea a tutti i costi. C’è un fondo schizoide di misantropia in operine di tal fatta che tendono ad eccitare il cattivo gusto, il compiacimento per la scatologia e il turpiloquio, senza un minimo riscatto sul piano della vera inventiva o dell’immaginazione divertita.
G.Giannini, sotto la direzione estremizzante dell’autrice, rende il personaggio con denotazioni negative portate oltre i righi del possibile e del grottesco e svilisce i problemi altrimenti serii di un essere partenopeo alle prese con i drammi di un lager nazista in cui è realmente arduo tentare la sopravvivenza. Colori pseudoespressionisti, angolazioni squilibrate, lo stesso montaggio che ha qualcosa di caricaturale abbassano il livello della narrazione ad opera di pupi contemporanea. Tantomeno convince il finale, con il ritorno a Napoli di Pasqualino, che riprende il suo mestiere di souteneur: la sua simbolica passeggiatina è una sfilata di luoghi comuni su difetti, tic e segni profondi di un malcostume stratificatosi nei secoli (ma gli ammiccam-menti sono cosi sfacciati che si ritorcono contro ogni attendibilità). 162 XIII- Guappi, mazzette e camorriate Il linguaggio filmico è, per sua natura, referenziale, non può, cioè, non rinviare ai fenomeni della storia, della cronaca o della vita quotidiana. L’immagine, come segno iconico, vive della forte somiglianza con la realtà, non è “arbitraria” nè immotivata come i grafi del linguaggio verbale. Così, registi d’alto o di medio livello debbono ugualmente partire dai fatti che avvengono o che sono avvenuti nell città (o nei suoi immediati dintorni) se vogliono parlare di Napoli e di cose napoletane. E certamente i fatti più in rilievo per la loro brutalità e per la loro carica emozionale sono i delitti della malavita (organizzata o meno). Guapperia, camorra, contrabbando sono, di fatto, le attività criminose più stratificate nell’universo napoletano, luogo nel quale non pochi individui sono convinti di vivere in un ambiente saturo di ostilità e nel quale i rapporti umani di fondo dipendono da una concezione fatalistica secondo la quale anche la Polizia, il Tribunale, il Carcere hanno più o meno il ruolo casuale tenuto dal destino avverso rispetto agli altri eventi della vita (ma-lattie, terremoti, eruzioni etc. ) In un mondo simile gli uomini riescono sempre più difficilmente a di-stinguere tra ciò che rientra nella legalità e ciò che ne resta fuori, tra giustizia ed ingiustizia, tra condotta corretta e suscettibile di correzione. Gli scippi e le rapine, gli sgarri e le vendette (interspecifiche e intraspe-cifiche o addirittura trasversali) sono la frangia di questa terribile realtà (non si dimentichi che si sono avuti più di mille morti ammazzati negli ultimi quattro anni, per soli “regolamenti di conti” di natura camorristica). Chi si pone con sguardo lucido di fronte a questo universo negativo, premorale, a livello di “pensée sauvage” , dovrebbe pertanto andare oltre la sua scorza e arrivare alle radici di tanto malessere sociale, di così spino-so problema umano. Non rivela tale lucidità un regista, per altri versi congeniale a tali questioni, Pasquale Squitieri che preferisce troppo spesso partire da momenti storici lontani o comunque datati, e da situazioni artefatte. Ne “I guappi” (1973), come anche precedentemente in “Camorra” , il regista opera una ricostruzione pittoresca e melodrammatica della delinquenza napoletana negli anni che ruotano intorno alla fine dell ‘800 e ai principi del ‘900. Il suo sguardo è appannato dalla ricerca compiaciuta dell’effetto e forse proprio per questo sceglie, in un vagheggiamento retrospettivo, il mito del fuorilegge super, del bandito gentiluomo, con tratti di impossibile raffinatezza. 163
164 La sequenza iniziale de “I guappi” , in cui gli abitanti del vicolo attendo-no immobili il risveglio di Don Gaetano e poi la sinfonia dei rumori in crescendo appena si sparge la voce che il “don” si è finalmente svegliato, è carica di simboli congelati e di un repertorio sovraccarico di figurine tipizzate e ritagliate con troppo compiacimento per risultare vive e parlanti. Ancor più appesantiti risultano gli emblemi figurativi usati: la cravatta color sangue, la camicia immacolata, lo specchio e soprattutto il rasoio sempre a portata di mano di Don Gaetano e da lui accarezzato, manovrato, girato in tutte le direzioni e con tutti gli annessi barbaglii di luce omicida (quasi un saggio sugli appannaggi più comuni di un delinquente). Non meno scontati (ma inverosimili) risultano certi personaggi che devono fare da contrappunto a Don Gaetano Frungillo, così ad esempio, la macchietta squallida di “Gianni ‘o carognone” assetato di sputi in faccia e, insomma, di ogni umiliazioni e di avvilimenti di ogni genere. Così, quasi meccanicamente incastrati nel racconto si possono considerare gli elementi che cifrano una temperie storica lontana: le carrozzelle, i cocchieri, le palme, i morti di fame, il gioco della morra, i ragazzini cen-ciosi, le cocottes in villa. Allo stesso livello si colloca il “pazziariello” che finirà ucciso dal super-guappo che lo ritiene colpevole di sgarro.
L’improvvisato concertino funebre degli accompagnatori assume quindi una nuance troppo calcata per accettarsi come una conseguenza naturale; rientra piuttosto nell’uso astuto di dettagli folklorici che ravvivino l’interesse e la curiosità dello spettatore “alieno” . Nè meno pittoresche (e sofisticate) sono certe battute messe in bocca al protagonista: “Il coltello è come la parola, se la si sa usare si è poeti.” E, naturalmente il termine “onore” la fa da padron di casa, compare in ogni momento, a colazione, pranzo e cena; è quasi sbandierato come un marchio di fabbrica. Anche poco espressivo risulta l’inserimento a freddo di un gergo degra-dato a turpiloquio, quasi un prontuario delle “male parole” ed una esem-plificazione della capacità scatologica partenopea (da “merda a cacasotto, da sfaccimma a culorotto” e tanto possa bastare). Qualche scena, in verità, riporta ad un colore verace dei tempi passati (della malavita), ad esempio il drammatico duello a frustate ma la conseguente e spettacolare azione infermieristica delle donnine è un pezzo di colore che annulla subito l’effetto positivo e storicizzante della rievocazione. Il ritmo con cui erompono ad ogni sequenza, ad ogni inquadratura minacce o promesse di minacce, intimazioni o schiaffi di avvertimento (se 165
ne arrivano a contare una decina in un quarto d’ora) finisce col perdere di intensità, a capovolgersi in una cadenza che ha qualcosa di ridicolo. “I guappi” , insomma, è la sintesi troppo compressa di una cronaca nera di quasi cento anni addietro, ridipinta con pigmenti troppo accesi per apparire spontanea. In questo senso non arriva a divenire quella narrazione acuta di circostanze negative che si riproporranno anche a distanza di decenni. La stessa angolazione di fisionomie troppo truci ed aggressive è sposta-ta verso gradazioni esagerate perchè possa essere la restituzione di uno standard di realtà credibile. L’operazione registica resta in bilico tra un espressionismo imparaticcio ed un verismo di maniera, spesso becero o gonfiato oltre ogni misura. Amicizie improvvise, crepacuori repentini, vergogne altrettanto subitanee, svenimenti, incontri, le tecniche del “giustappunto” più teatrale sono dispensati a piene immagini: la temperatura emozionale sale e deborda oltre il termometro, finisce per essere recepita e goduta nel suo ombroso versante caricaturale. Lo spettatore accusa quasi colpi di “calore” , fino allo stordimento, nel fuoco intemperante del linguaggio verbale e iconico, appena si riprende e riacquista un minimo di vigilanza e lucidità, si stacca dalle immagini più “incandescenti” , prende una più giusta distanza da esse e le vede per quello che sono: veicoli di idee sensazionali, paradossali, in ultima analisi, controproducenti. La stessa onorata società è ripresa, ad esempio nella sequenza del “Pater Noster” , come una galleria di volti lombrosiani, deterministicamente caratterizzati nella loro iattanza (un’eco reboantemente moltiplicato, per dieci del positivismo alla Mastriani). Capintesta, servi, infami, canagliume spicciolo sono continuamente alla ribalta quasi cancellare ogni realtà retrostante a farne un enclave di “strani abitatori della città” partenopea non prodotti naturali di situazioni storico-sociali anomale. Squitieri ritaglia con premeditata caparbietà un solo e unico settore di Napoli e il suo sguardo si rimpicciolisce senza approfondire altri fattori, altre componenti, altri sotterranei rapporti: finisce così col compiacersi del negativo, dello squallido, del sanguinario. La stessa rigida curvatura delle voci ha sovratoni da cupo melodramma e viene svuotare quel tanto di realistico che potrebbe annidarsi in questi “fattacci”. Di uguale vernice “romanzesca” è spalmata la controstoria del guappo-166 studente (in giurisprudenza) che in base ad un’opposta ma in fondo affine retorica vorrebbe rappresentare la possibilità di redenzione di “un traviato” . Eppure, una delle tante sentenziose battute diceva: “Chi nasce miserabile ha sempre bisogno di un padrone.” Insomma, ne “I guappi” viene persa ancora una volta l’occasione di andare alle radici del fenomeno così persistente della “malavita organizzata” nel napoletano. La struttura rappresentativa rispecchia più la tendenza allo spettacolo di tradizione che la ricerca del background storico-civile del fenomeno e della autentica distorsione delle personalità. Sono, come in una sceneggiata usuale, schematizzate le vicende, appe-santite le trame psicologiche. Non si viene a costituire nessuna prospettiva nella quale il passato possa esser letto e decifrato come il germe del presente. Sono le stesse riserve che si possono avanzare per “Camorra” e “L’ambizioso” . Stranamente, Squitieri farà di meglio in cose d’ambiente siculo come “Il prefetto di ferro” , o “Corleone” dove riuscirà a temperare la sua enfasi rovente, il suo popolaresco populismo, la sua strategica adesione ai dettami dello spettacolare. Si riconferma anche con lui il fatto che non sempre i “locali” riescono a comunicare dati veridici sul “borgo natio” , forse perchè più presi degli altri in una morsa di odio-amore e in raptus che portano a voler “épater les bourgeois”.
Sotto un diverso aspetto, ma ugualmente deragliato è da considerarsi un film come “La mazzetta” (1978) di S.Corbucci, ritenuto da un acuto re-censore opera “anfibia” perchè “giallo brillante con tinte comiche e ambizioni sociali”.42 Derivato dal ben impostato e fortunato romanzo del napoletano Veraldi, affronta anche esso solo tangenzialmente la questione della malavita napoletana. Il Faito, via Caracciolo o certe zone alte della città servono solo da sfondo scenografico alla vicenda, non si intersecano con lo sviluppo interno degli avvenimenti. La stessa decisione di rendere protagonista un attore come Nino Man-fredi chiarisce certe défaillances sul piano più prettamente partenopeo. Nella parte di Sasà Iovine, il comico ciociaro ribalta non pochi segni di riconoscimento del personaggio che gli è stato affidato (e si comprende, a 42 GRAZZINI G., in “Cinema ‘78” , Bari, 1979 p.40 167 questo punto, e a questo riguardo, come ben quattro sceneggiatori siano stati convocati dalla produzione per rendere plurilingue il suo parlare, che sbocca poi in un quale cosa che non è carne nè pesce. ) Alla ricerca della ragazza scomparsa, forse sequestrata, figlia di un grosso boss dell’edilizia e nel tentativo di recupero di un dossier assai compro-mettente, Sasà si scontra con una serie allucinante di avventure thrilling e di inconvenienti di vario genere, compresa una tortura gastronomica alla napoletana: sarà costretto, ad un certo punto della vicenda ad ingurgitare chili e chili di spaghetti al sugo di polpo. Verrà preso, poi, di mira da due gorilla gemelli e finirà coll’intraprende-re enormi gimkane, arrampicandosi su tubature instabili, salendo sui tetti di non poche case e assistendo all’ammazzamento del suo committente e insieme persecutore, con l’aria sempre più tragicomica di chi veramente non ci si raccapezza più. E’ proprio lungo queste peripezie troppo avventurose che il regista perde il contatto con la città, con il suo clima umano e sociale: non bastano alcune indovinate intonazioni dell’attore principale per restituire sostanza autentica a questo personaggio di assicuratore, devoto del “dolce far niente”, capitato in un groviglio affaticante di fattacci, l’uno più grosso dell’altro. E’ quasi naturale allora che il più smaccato folklore prenda il sopravvento e la filigran risulti ancor più lacerata dalla pur brillante presenza di un Tognazzi (nelle parti dell’investigatore) o di uno Stoppa, certamente ambedue di temperamento antitetico a quello dei napoletani veraci. Qualche viva spruzzata di mare di Mergellina (o di Conte di Mola) riescono a darle, di tanto in tanto, le attrici Marisa Laurita e Imma Piro e qualche solido caratterista di verace ascendenza partenopea come Gennaro Di Napoli (tanto nomini). Come ha annotato Grazzini: “Ciò che più lascia perplessi ne “La mazzetta” è la sintesi tentata tra i motivi classici dell’intrigo, già di per sè abbastanza arruffato e i toni della commedia, alquanto logori. Accade che non ci si appassiona alla soluzione del puzzle, non ci si indigna a questa ennesima denuncia degli speculatori edilizi napoletani e soltanto si sorride, qua e là, della macchietta del protagonista.” 43 Occorre dare atto che Corbucci fa il suo mestiere di “entertainer” e lo fa anche sorretto da un certo gusto, ma è lontano evidentemente anche da un interesse standard per quanto Veraldi, pur sotto il gioco giallonero, vo-43 GRAZZINI G., in “Cinema ‘78” , Bari, 1979 p.41 168 leva far trasparire: cose e vicende di una Napoli equivoca, piena di malesseri originati dalla crescente sete di benessere. Incrinature morali, familiari, disgregazioni molecolari o macroscopiche sfuggite all’occhio e alle penna di tanti osservatori della grossa città meridionale. Un altro filone su camorra e delinquenza che può definirsi autoctono, è quello rappresentato dal tipo di cinema realizzato da Alfonso Brescia, (da “L’ultimo guappo” (1977) a “Napoli, serenata calibro 9” (1978) a “Mammasantissima” (1979)). Questi film sono generalmente imperniati sulla personalità di Mario Merola, popolare interprete di sceneggiate partenopee e di canzoni nella più schietta tradizione vernacola.
Quanta poca realtà riescano a rispecchiare questi prodotti “interni” è presto detto: anzitutto, la preoccupazione dello spettacolo è dominante in un simile tipo di manufatti. Si osservi il rito preordinato per cui il personaggio, ad un certo momento di tensione narrativa, non può non esprimersi musicalmente (come si dice in gergo, “è più forte di lui” .) In quel “giustappunto” che funziona da intermezzo canoro-emozionale tutta l’azione e la sua logica evaporano, vengono smarrite per strada a dispetto d’ogni motivo conduttore e d’ogni buon senso narrativo. In più il copione (chiaramente “di ferro” ), prevede altresì anzi, esige l’episodio vellicante, l’episodio che porta alla risata rilassante, per un pubblico considerato mero consumatore di “passatempi” . Qualche nuance di verosimiglianza può venir riscontrata quando vengono inquadrati i luoghi deputati del contrabbando (sigarette e poi eroina), dei dichiaramenti, dei complotti ma il tutto è sempre avvolto in una fo-schia di approssimazioni, di emozionalismo gratuito, di sbrodolamenti melodici. Un sicura controprova di ciò è data da un altro film, dello stesso Brescia “Napoli, Palermo, New York - Il triangolo della camorra” : il film inizia tra spaghettate (in faccia) e canzoni “cesellate” dal posteggiatore Merola, tra comparse vestite come ai tempi di Masaniello. Il ristorante a mare è quasi una scena fissa per i primi 500m. di pellicola (e Merola sventola la sua coppola e malmena i suoi accompagnatori). Alla fine di ogni “pezzo” del repertorio gli applausi si sprecano e i ringraziamenti sono più volte ripe-tuti (come in un’opera buffa): è la solita prolissa introduzione ambientale. Non meno confuse risultano le idee nella presentazione di altri personaggi: si veda, ad un tavolo, il commissario di polizia ridicolmente vestito da hippy in ritardo. Così tra virtuosismi canzonettari, bravate e querimonie il film va avanti 169
170 alla men peggio su un ritmo di maniera inframmezzato da spunti di banale comicità (una partita a “battaglia navale” tra due tipetti di adulti ritar-dati presi di peso dai più rancidi luoghi comuni della pochade napoletana). Divagazioni, digressioni, circonlocuzioni discorsive frammentano ulteriormente la storia che non è legata a nessuna realtà della cronaca (vengono presto in emersione i punti di ricalco delle sequenze stereotipe dei “neri” americani, tipo “notte di S.Valentino” , ma imbibiti in un liquame pacchiano, casereccio, ai limiti della cafoneria).(v.anche “Carcerato” , 1981, dello stesso autore) Non si contano le sconnessioni sintattiche, i salti di montaggio o gli indugi pesantemente superflui, così che dopo la prima mezzora è ancora arduo capire in quale “triangolo” vivano effettivamente i personaggi che si danno tanto da fare per nulla. A tappare a tanti buchi “concettuali” del discorso erompono dalla colonna sonora le melodie fluenti dalle labbra di Merola tra i sorrisi enigmatici o irritati di alcuni “pezzi da novanta” . Come ha scritto Kezich “con i guancioni, il doppio mento, le verruche sul naso, Mario Merola denuncia un fisico da caratterista piuttosto che le stimmate dell’eroe” . 44 E infatti l’attore, beniamino del pubblico più plateale, talvolta si trave-ste da posteggiatore, talaltra da maschera della commedia dell’Arte (e più propriamente da Pulcinella). Si muove col fisico massiccio e ingombrante con una certa goffaggine tra le maglie confuse di una società i cui tralicci vengono rappresentati come simulacri. La sua epopea di fondo è quella tribale e patriarcale: i suoi cardini sono la paternità, il culto dell’onore, del sangue purificatore. Ma è proprio questo contrasto tra un velleitario “modernismo” configu-rativo e il magma tradizionale che perverte l’orientamento narrativo di tali “fabulae” . Su di loro incombe uno strano clima da “revival” delle tradizioni e un malinteso anelito ad un Piedigrotta “strutturalista” , un malriuscito amalgama tra vecchissimo e contemporaneo, tra atellana e ironia nera moderna. Un guazzabuglio poco degno delle discussioni accademiche parasocio-logiche e criptoarriviste che hanno generato come superfetazione culturale, tale travisamento del gusto estetico e della discorsività filmica. Anche nei momenti accettabili (e sono assai rari), appaiono i leitmotiv più logori del vecchio fatalismo meridionale (“ognuno nasce con un 44 KEZICH T., Il centofilm, Milano 1979, p.105 171 destino, con un croce da portare…” oppure “anche ‘o guappo è nu mestiere e s’adda sapè fà” ). E gli episodi sono precetti, come ingredienti in serie o in iscatola: Merola deve umiliare uno strozzino a suon di sberle, deve farsi restituire da zingari sacrileghi una corona preziosa rubata ad una Madon-na, deve battere la “sleale” concorrenza, dei contrabbandieri in scafo blu. Travestito da Pulcinella deve vendicare la figliola Maria, morta di crepa-cuore dopo esser stata sequestrata e violentata. Il Merola vindice spara, come in uno stanco rituale e poi con gesti ugualmente convenzionali si consegna alla polizia. E’ una sorta di difesa, parodistica di una “comunità onorata” frutto di secolare emarginazione, arretratezza di costumi, stolida certezza nella propria “furberia”. Il tutto, appunto, non riscattato nemmeno dalla “cattivante rozzezza” di “un contesto dialettale molto acceso e vitale” . 45
Quello che potrebbe afferrarsi come bandolo non esile degli intrecci e della causalità intrinseca agli avvenimenti è forse la istintiva giustificazione della “vita onorata” , cioè un sistema di valori (o disvalori) che finisce per far da base ad ogni azione predatoria, a legittimarne le conseguenze, le azioni e le reazioni. In questo sistema gli impulsi primari sono quelli viscerali, e così il senti-mentalismo è l’ersatz dell’empirismo, anzi è l’anima di “una concezione pseudoprofetica” , cioè non fondata sui fatti, ma declamata come possibile. Altro bandolo sicuro è l’atteggiamento manicheo sia nell’autore che negli interpreti di questi prodotti filmici, il dividere, col coltello, il torto dalla ragione, l’incolpare gli altri quasi per partito preso, insomma tutte le propaggini di un pensiero primitivo. E’ insita la privatizzazione della nozione di bene, e c’è un forte “darwinismo conflittivo” che comporta una catena sempre aperta di vendette, sanguinose senza accento di catarsi. Ma anche queste, a ben riflettere, sono considerazioni antropologiche che non si giustificano in base alle esili vicende configurate in un cinema-tografia sempliciona con la sola pretesa di ottenere successo di “popolino” . (Si veda, ad esempio, a quale livello di rozzezza scenda quel guazzabuglio musicriminal di “Napoli: la camorra sfida, la città risponde” .) Sarebbe più esatto dire che questi film sono abborracciati all’unico scopo di creare spazio ai divi locali e sfruttarne fino in fondo il successo canoro. E’ un fatto più che trasparente che essi non riescono a dare nemmeno una briciola di quella possente ambivalenza, che pur deve esserci 45 KEZICH T., Il centofilm, Milano 1979, p.105 172 tra uomini capaci di così forti passioni e di altrettanto indicibili crudeltà, pronti a gesti solidali come a disumane vendette. Soprattutto questi filmetti, non restituiscono quella tesissima atmosfera dove domina di continuo il pericolo di una morte violenta e in cui l’esistenza dell’individuo é “breve, solitaria, sordida e bestiale”, come voleva il diagramma di Hobbes riferito alle manifestazioni dei conflitti interni nel Medioevo. Questi terribili fenomeni, i loro contraccolpi psicologici, la perdita di linfa “creaturale” sono soltanto sfiorati dai film di cui si sta trattando; operine avvolte, nel 90% dei casi da nuvole di bellurie narcisiste o da un cellophane di inveterate banalità. Nè riescono a cogliere i raccordi segreti tra le condizioni materiali di vita e le griglie di valori e disvalori arcaici che, come abbiamo visto, resi-duano presso gruppi anacronistici; così falliscono totalmente o quasi, nello svelare la reale condizione della città e del suo entroterra, che oscilla tra incongrua modernità e calcificata arretratezza, Appare in essi solo il fantasma pittoresco o il fenotipo della conurbazio-ne inurbana con le sue cento articolazioni illegali che lambiscono anche i vertici politici, tecnologici e dirigenziali e li coinvolgono spesso in miti e riti metastorici, in regressioni subculturali. Manca sia il recto fantastico che il verso documentario di una città difficile da cogliere nei suoi poliedrici aspetti. E certamente il recupero di un’autonomia espressiva locale non può avvenire in questa direzione, facendo uso di un simile linguaggio, sciatto e talvolta balordo, pieno di soperchierie recitative, di intromissioni arbitrarie o di svuotamenti di significato: una “parole” retrograda, snaturata, infantile. In essi anche il ricalco della struttura iperteatrale della sceneggiata è un procedimento spurio, proprio perchè sullo schermo e dallo schermo non può venir fuori quell’empatia collettiva che si anima nella comunicazione diretta tra personaggio-simbolo e spettatore in platea, a distanza ravvicinata e quasi a contatto fisico. In ultima analisi, può dirsi che la motivazione primaria, anche se inconscia, è quella della consolazione o dell’apologia: gli stessi ruoli sono infatti distribuiti secondo una stretta suddivisione tra positivi e negativi così che gli sviluppi sono del tutto, prevedibili e le nemesi anche troppo facili e piene di forzose giustizie retributive. “Se, da una parte, il fenomeno sembra inserirsi nel bisogno sempre più diffuso di recuperare le forze di certi sentimenti fondamentali e necessari all’uomo” chiosa Michele Prisco, in un suo intervento su un quotidiano 173 partenopeo - “dall’altra, i risultati per la loro rozzezza, finiscono col restituire un’immagine del meridionale ormai superata e non più tipica della nostra società: al tempo stesso aggravando, con
la loro carica illu-soria, l’incultura del meridione.”46 Si tratta, infine, di film a corto di idee ma non di fotogrammi, pellicole che annebbiano la vista, intontiscono la coscienza civile barando sul peso specifico della realtà di Napoli e di buona parte del Sud. 46 citato in “Il discutibile fascino delle coltellate” di G.DI BIANCO ne “Il Mattino” dell‘11/3/82 174
XIV - La pelle di Napoli 175 C’è tutto un repertorio di opere letterarie su Napoli, di osservazioni e commenti, giudizi e ripulse di cui hanno tenuto conto i diversi registi che hanno puntato il loro obbiettivo sulla città. Da Fucini alla Serao, da Mastriani a Rea, da Prisco a J. H. Burns non pochi autori cinematografici hanno tratto una mediazione di sensibilità e di cultura per arrivare a meglio dettagliare il loro quadro delle condizioni materiali e morali della capitale del Sud, Attraverso mille e mille pagine, perfino di Boccaccio o di Goethe, di Di Giacomo o di Viviani, i realizzatori delle opere filmiche sono riusciti a sottolineare o liricizzare il “genius loci” , a stigmatizzare il groviglio malavito-so, a esaltare il carattere festosamente pagano dei partenopei
che essi vo-levano inscrivere nelle loro sequenze mettere a fuoco nei loro primi piani o pedinare con le loro carrellate. Non tutte le traduzioni cinematografiche dei testi letterari si sono collo-cate ad un eguale livello di dignità o di plausibilità. Come è chiaro, i problemi della conversione del linguaggio verbale in linguaggio iconico sono molteplici. Non è facile trasporre una simbolizzazione di tipo lineare-sequenziale in una di tipo simultaneo-coassiale. Il regista creatore è soprattutto, come si diceva altrove, quello che “non si sottomette supinamente al testo narrativo” 47 Tra immagine e parola non sussiste, però, quella netta differenziazione che viene sostenuta da chi giura sulla concettualità del “verbo” e sulla assoluta “emozionalità” dell’immagine. Non può meravigliare, pertanto, che De Sica abbia utlizzato Marotta, o che Pasolini sia andato alla ricerca delle cadenze perenni del Boccaccio più partenopeo, o che lo stesso Squitieri abbia ristrutturato a suo modo le pagine più turgide del Mastriani indagatore di guapperie e di camorre. Dopo essersi liberamente ispirata per “I cannibali” all’ ”Antigone” di Sofocle e ai “Fioretti” per il suo “Francesco” e ad una biografia anglosas-sone per “Milarepa” , una donna regista ha scelto un maledetto toscano come testimone di vicende partenopee. Liliana Cavani si è posta, di fronte al problema Napoli, usando come filtro visuale “La pelle” di Curzio Malaparte, un’utile griglia interpretativa per cogliere certi punti nodali, denudatisi al massimo nel momento della “débacle” postbellica. Qualche anno prima, la regista ha dichiarato: “Il cinema è immagine e la “camera” è quasi un test di verità sulla faccia delle persone; la bravura di 47 NAPOLITANO A., “Cinema e Narrativa” , Napoli 1965, p.14 176 un attore è importanze ma ugualmente importante sono le emo-zioni che non controlla e che la camera registra…” 48 Per trascrivere in fotogrammi il discusso libro sulla Napoli al tempo dell’occupazione alleata, la regista utilizza in gran parte volti autentici di napoletani (e di americani, per le parti degli occupanti).La sua cinepresa esplora queste fisionomie per fare affiorare l’amara verità di una città sconvolta da più di cento bombardamenti e da una miseria apocalittica; una città in cui sono scomparse le remore morali, le convenzioni e ogni forma di belletto e di mascheramento. I volti di C. Giuffré, come di Peppe Barra o di A. M. Ackermann, come di Nunzia Fumo e di Burt Lancaster servono quindi a comporre una galleria di ritratti umani che caratterizzino al massimo la scena, l’ambiente, lo stesso clima storico. Vergognose o spavalde, timide o truffaldine, sofferenti o stranamente euforiche, ambiziose o remissive queste facce si incontrano, si scontrano, si ignorano, si guardano o si sfuggono in una circolarità di racconto visivo che tende a recuperare momenti, giorni o anni affogati nel vortice di avvenimenti ineluttabili. Malaparte aveva messo in occhiello al primo capitolo del suo scritto un motto acuto di Paul Valéry: “Ciò che mi interessa non è sempre ciò che mi importa” . Nella libera trasposizione filmica del romanzo la regista sembra voler scavalcare questa dicotomia e chiarire che le importa e le interessa tutta la vicenda come allegoria vivente del dolore e dell’abbiezione di un popolo, ancora una volta condizionato se non determinato nel suo itinerario umano da sconvolgenti eventi planetarii. Anche per la Cavani resta il fatto che il valore dei vinti è superiore a quello dei vincitori anche perchè a questi “non risulta facile rispettare “ i templi e gli dei” dei primi”. E in ciò la regista concorda pienamente col romanziere, anche se poi è costretta, per dare maggiore spettacolarità alle sequenze, a introdurre altri elementi di raccordo o di “cappello” e in primo luogo proprio l’io nar-rante di Malaparte che diventa il personaggio, assai poco verosimile, di Mastroianni. Così risulta sovrapposta malamente anche la figura dell’aviatrice americana, moglie di un influente congressman, che viene a disturbare con la sua inframmettenza “la gloria” del generale Cork (alias Clark) e ugual-mente male inserita è l’avventura sessual-sentimentale della 48 TISO C., Liliana Cavani, Firenze, 1975, p.4
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178 nobildonna napoletana. Ma l’atmosfera generale rimane inalterata: quell’apatia epicurea che sopravvive alla nuova catastrofe o quell’energia biologica che spinge i popolani a trovare vie d’uscita nel nuovo labirinto affollato dagli invasori di ogni tipo e colore. I napoletani, nonostante le disgrazie, le macerie, la fame, non si danno per vinti o almeno non da quelle contingenze di strategia o di guerra. E il film è innanzitutto la rappresentazione di questo “struggle for life” , di questa lotta per la sopravvivenza ad un livello che deve per forza ignorare ogni scrupolo etico e ogni norma di corretto comportamento. Sciuscià petulanti col loro martellante bastone sulla cassetta di legno, segnorine da due, tre o cinque dollari, bottiglie di alcool cattivo, spettacoli osceni, mercimoni d’ogni genere, d’ogni prezzo e d’ogni tinta prendono posto nell’ottica della macchina da presa, senza compiacimenti formali e con una loro logica interna che li apparenta a certi colorati ma terribili affreschi del Goya (o ai suoi equivalenti grafici in bianco e nero dei “Caprichos” ).
E i colori usati nel film sono, appunto, quanto di meno colorato è dato vedere: tinte livide, brune, spettrali, tendenti al cupo. (Del resto la regista carpigiana ha sempre confessato d’essersi lasciata ispirare dal cinema e dalla pittura espressionista). La Napoli che viene raffigurata ne “La pelle” è una città che ha qualcosa di lunare, di sismico; é un epitelio che assume toni verdastri o sfumature d’un arancione fortemente marcato. Questa scelta cromatica serve, in parte, a compensare lo svaporamento del sarcasmo malapartiano operato in più punti dalla Cavani che inclina verso una pietà meno ambigua e meno altalenante. Questo atteggiamento sentimentale è la risultante della sua acculturazione cristiana, della sua charitas appena appena dissimulata in clarté intellettuale e volontà estrema di comprensione. La realtà degli avvenimenti, dei luoghi, delle situazioni drammatiche è spesso bifronte, ma si afferra subito per chi tiene l’autrice, considerando l’angolazione diversa con cui vengono prospettate le due civiltà antagoni-ste: quella pulita, lavata e ben nutrita dei G.I. americani (e del loro ufficiale di collegamento, Mastroianni-Malaparte) e quella anemica, febbrile, sporca e affamata della popolazione locale. L’obbiettivo insegue spesso per vie, vicoli, salite e gradoni torme di donne spettinate o greggi di scugnizzi laceri o di ragazze olivastre, semische-letrite, precocemente sfatte. Sono il contraltare di quei soldati dalle uniformi biondotabacco ben stirate, dalle scarpe tirate a lucido, dai bottoni di 179 ottone rilucente, che comprano carne di fagiano a prezzo di carne di vacca, che ottengono i più diversi servizi e capricci a prezzo stracciato. Questo contrasto stimola l’analisi visuale della regista, la spinge ad una ricostruzione puntigliosa e anche crudele della Partenope in quel tempo tra il 1° ottobre ‘43 e la conclusione definitiva del conflitto (Aprile ‘45). In un certo senso, la Cavani riprende il suo registro sadomasochistico che le ha permesso di realizzare “Portiere di notte” ad un livello di forte efficacia narrativa: l’iperrealismo delle inquadrature carica il clima storico di un dramma ambivalente. E’ questa cifra che va oltre la scorza degli avvenimenti, che salta oltre la piatta descrittività degli avvenimenti, delle compravendite, delle mille ruffianerie e corruzioni. Le piazze, le strade, certi scorci di monumenti cittadini, certe visioni dei “gironi” napoletani servono insieme da contrassegni di verosimiglianza e da simboli: S. Ferdinando, Toledo, Piazza della Carità, la Pignasecca, Montesanto, i Pellegrini sono i luoghi deputati di una vicenda che è ad un tempo storica e fuori del tempo. Risuona dentro queste immagini anche l’eco de “La Galleria” di John Horne Burns, uno dei più attenti scrutatori dell’aria del tempo. In una delle sue pagine descrittive egli vede la città partenopea dell’an-no ‘44 come “Una trappola fatta di disordine, di attività e di furto, in mezzo alla rovina e al terrore” e il porto in cui “sono dovunque i segni del disastro: navi affondate al loro posto di ancoraggio, macchinari e gru a pezzi, capannoni sforacchiati lungo le banchine. E dinanzi a que-sto sfacelo, lontana, al largo, l’isola di Capri, con la sua mole gialla di sole.” 49 Anche la luce dei riflettori della Cavani “conferisce a Napoli crudezza e inesorabilità e tocca, frugando con le sue dita spietate i fabbricati bom-bardati. “Perciò, ciò che resta dell’intonaco sotto le grondaie è vivo e pu-rulento come pelle umana…” La colonna sonora restituisce amplificati “il ticchettare dei sandali, il picchiettio delle scarpe chiodate, il leggero tonfo sordo dei bruni piedi nudi dei bimbi che mendicano, fanno i mezzani, urlano spingono, piangono ed offrono. E soffrono lungo i vicoli serpeggianti al di sopra di Via Roma come intestini, ognuno col suo inutile segnale di “off-limits”. Di fronte a tutto ciò, l’ufficiale di collegamento, proiezione arrogante dell’arrogante io malapartiano, commenta, in timbro anacronistico: “le lacrime sono il chewing gum dei napoletani”. 49 BURNS JOHN H., La galleria, Garzanti Editore, Milano, 1949, p.19 180
181 E tanto più queste battute sono laterali, in quanto l’interpretazione del personaggio, che si presumerebbe protagonista e coro del film, risulta scial-ba e slogata da parte di un Mastroianni molto poco a suo agio nelle vesti del “maledetto toscano” . E’ propria la sua recitazione tenuta su di un “basso continuo” che indebolisce il ritmo e la carica vitale di non poche sequenze. Quel suo disincanto timido, quello scetticismo a fior di pelle (e a fior di labbra), quel dubbio pirroniano verso gli interlocutori travisa l’aspetto più sostanzioso del Malaparte-autore, testimone risentito di quegli anni bui e di quei luoghi infernali. Forse, proprio avvertendo queste carenze strutturali, la regista insiste nel proporre i capitoli più sensazionali e meno credibili della terribile cronaca partenopea: “il pesce sirena” (o pescebambina) il rito del toccamen-to dell’imene, il mercato delle bionde parrucche vulvari. Questi “oggetti” vengono sfiorati, occhieggiati, focalizzati nella loro strana morfologia, quasi per un compiacimento emotivo-cognitivo: cre-spe, ricciute, ondulate, pettinate, vengono presentate nelle loro svarianti tinte tra oropallido e ruggine, tra fuoco tiziano o biondo platino. Si è di fronte ad un nucleo espressivo più verosimile e più circostanziato quando viene inquadrata l’architettura fatiscente dei palazzi, dei cortili, delle arcate, delle vecchie e consunte scalinate che
costellano piazze e strade, angiporti e colonnati. In questo caso la messa a fuoco del comportamento collettivo tra questi materiali diviene certamente più precisa e puntuale. Viene fuori quel senso di contagio dell’abiezione, della miseria, del deterioramento morale, fatto di urla brevi, di grida quasi trattenute, di invocazioni, di querimonie, di contrattazioni insieme avide ed imploranti. Talvolta, un certo oltranzismo espressivo prende la mano alla Cavani ed essa sembra quasi divertirsi a dipingere figure attraenti e pittoresche di maschi napoletani, come quella del guappo Mazzullo che mercanteggia col generale Cork la cessione, tanto al chilogramma, di quasi duecento prigionieri tedeschi, tenuti all’ingrasso proprio per farne aumentare la quotazione. In generale, la tematizzazione dei plessi narrativi è mantenuta sotto un accorto controllo, eppure di tanto in tanto c’è qualche “plot” più a sè, co-me quello che con acrobazia rappresentativa segue da vicino l’acrobazia manuale dei giovanotti che scompongono, in quattro e quattr’otto, un intero tank Sherman. Le panoramiche si distendono, comunque, su di una Napoli senza folklore, senza feste, senza piedigrotte: nel fondo dell’animo dei personaggi c’è 182 quell’oscura cognizione del dolore collettivo che si trasforma in angoscia, in amareggiamento e poi in depravazione: come in un popolo che si senta abbandonato dalle antiche divinità protettrici, siano esse celesti o ctonie. Anche dall’altro polo di questa società in disgregazione, nel palazzo di pesante barocco spagnuolo dei duchi di Candia, aleggia lo stesso presenti-mento che tutto sta andando in frantumi, irrecuperabilmente. Le carrellate lungo gli stacchi, gli encausti, gli interni pieni di pitture e di merlettature ornamentali hanno il carattere di una descrizione psico-storica. E’ chiaro che la guerra ha disperso la media borghesia: plebe ed aristo-crazia sono di nuovo, fianco a fianco, nella loro credenza totemica in un destino che non dipende nè dall’uomo nè dal cittadino, nè dall’impegno quotidiano nè dal senso del dovere. Il Vesuvio si presenta ancora una volta come la divinità demiurgica del Fato: a lui sottosta l’esistenza o la morte dell’intera città. E’ una potenza che può essere buona, calma e apportatrice di frutti ma può divenire, d’un tratto, vendicativa e spietata e scuotitrice della intera regione e del suo stesso mare. La Cavani utilizza bene le memorie storiche dell’eruzione vesuviana del ‘44, e riesce ad incorporarle in robusti segmenti rappresentativi della tragedia tellurica che si sovrappose a quella già in atto. Si sente che quei giorni segnano la data della rottura finale di un equilibrio sociale già instabile per altre ragioni; non per pura casualità la stessa aviatrice americana sarà travolta dal terrore e dalla violenza ingenerate dal cataclisma (stuprata da un gruppo di soldati, tornerà in Americana forse traumatizzata per sempre, certamente deprivata di quell’ottimismo pra-gmatico che promanava dalla sua personalità vitale e anche prepotente.) Le scene che si accavallano con impeto lungo le sequenze dedicate all’eruzione sono illuminate da un’angoscia profondamente rivelatrice: da quel brulichio di uomini e donne, napoletani, marocchini, o americani borsane-risti o straccioni, puttane o timide adolescenti, si riesce a desumere l’aspetto spettrale della catastrofe capitata per l’ennesima volta ad una metropoli, vulnerata già troppe volte nell’arco dei suoi molti secoli di esistenza. Ciononostante, i fotogrammi riescono a scansare quel gusto di perver-sione, di abbrutimento o autodistruzione che prenderebbe forse abituato ad altri ritmi più pacifici di vita, fosse posto di fronte ad un simile scon-quasso fisico e morale. In altre parti del film, non c’è la stessa serrata meditazione sul significato 183
184 di quegli anni terribili, quasi la regista si sentisse incalzata da ragioni extraestetiche, di gran spettacolo o di produzione, La stessa accettazione di certi nomi da star-system è una spia a tale “doppio binario” . Così, come un altro elemento rivelatore del penchant per il sensazionale è la sequenza della “figliata” , antica cerimonia del culto uraniano che ha luogo in una casa di pescatori alla periferia di Torre del Greco. L’osservazione troppo dettagliata dei movimenti del “vago essere umano” con la testa nascosta da una cuffia orlata di merletti e mezzo affondata in un guancia-le dalla lucida federa di seta bianca, stesa sotto una coperta di stoffa gial-la, risulta nel complesso ridondante, anche un pò esibizionista, octroyée. Tende più ad ottenere la sorpresa dello spettatore che a dare un resoconto calibrato dell’episodio. La stessa danza degli astanti, che si dimena-no intorno a quello strano capezzale, con tutti i gesti relativi ad un pre-sunto parto è troppo insistita, calcata, ripresa in più modi per venirsi ad inserire in un discorso più distaccato ma più documentale. Si tratta, appunto, sulla falsariga malapartiana e sul suo gusto per l’épatement, di una scena “straordinaria” fatta di mosse, moine, gridolini, smanie, carezze troppo compiaciute che termina nell’aspettato climax ma che non lega troppo, per il suo sfalsato paganesimo, con tutte le precedenti scene di miseria urbana così ben descritte e così ben sottolineate.
Sembra quasi che l’autrice del film voglia chiudere questi personaggi in una loro peculiare istintualità, con un’ottica che oscilla tra la comprensione e il rifiuto, tra l’adesione e lo sconcerto per queste assurde tinte dell’animo meridionale. Con una scena di straordinaria crudeltà, quasi ai limiti della astrazione, si chiuderà il film: quando le truppe del generale Cork, lasciata Napoli, si apprestano ad entrare in Roma, fra i resti solenni e magniloquenti dell’Appia Antica, un uomo che va loro incontro per rendere un cordiale benvenuto verrà schiacciato dai cingoli di un tank della quinta Armata. Un tappeto di pelle umana resta disegnato a tinte di sangue sulla polvere della strada, quasi “una ragnatela di ossa… un vestito inamidato, una pelle d’uomo inamidata. ” L’autore del libro aveva chiosato: “… una bandiera di pelle umana, “bandiera della nostra patria” che “sarà poi buttata (come la bandiera della patria di tutti i popoli) e di tutti gli uomini, nell’immondezzaio della fossa comune.” 50 50 MALAPARTE C. La pelle, Firenze 1959, p.238 185 La Cavani sembra condividere con Malaparte il senso dell’apologo cruento, che è insito in questa orribile scena “atroce e insieme leggera, delicata e remota.” Si resta in dubbio se la adesione sia spontanea o se la regista si sia lasciata suggestionare dalla volontà di ottenere forti effetti, sensazioni crude, implosioni di shock, che non poche volte hanno magnetizzato la sua personalità di narratrice per immagini (da “Portiere di notte” fino a a “Al di là del bene e del male” ). Può darsi che sia andata oltre la misura per non attutire la sua passione per Sade o per Dostojevskij o per Nietzsche che la Cavani ha più volte confessato di amare proprio in quanto “autori imbarazzanti.” Soprattutto si resta al di qua dell’affresco realistico per le tante incursioni in un territorio di maligne seppur penetranti folgorazioni visuali. In non poche parti dell’opera, la dilatazione dei confini della cronaca va in direzione di un discorso a quoziente prevalentemente emozionale. La tipologia dei fatti e degli individui è troppo caricata, il contenutismo psicologico sopraffà le procedure espressive e puramente linguistiche. Talvolta il patologico, lo straordinario, l’eccezionale diventano i cardini della struttura narrativa (in questo, non discostandosi molto dall’operazione malapartiana.) Ciò porta a non poche collisioni tra sequenza e sequenza, a non pochi iati nel discorso complessivo che perde di misura e perciò anche di impatto. La cifra stilistica della Cavani si transvaluta talvolta in un espressionismo romantico-orrorifico, con tutti i rischi che tale metamorfosi estetica comporta. Il clou, in questo senso, è raggiunto nel momento dell’eruzione: il fuoco e la cenere, i bagliori e i boati, i fiumi di lava ora fiammeggianti ora opachi, le scaglie nere dei lapilli, la tenebra rossa della prima alba sono tratteggiate con tale forza visuale da indebolire le sequenze precedenti, al punto da assorbirne il senso o quasi annullarlo. Resta tuttavia vitale e vivace, in più punti del testo, quella strana e atto-nita pietà e insieme quella strana stanchezza per le sofferenze umane, in-dagate non nel trasparente matraccio di una singola psicologia ma all’interno magmatico e vulcanico di un’anima collettiva, tanto peculiare e tanto estroflessa come quella napoletana. Anche quando dirige la sua attenzione su comportamenti umani al limite del grottesco, del surreale, la regista sa far scattare di tanto in tanto flash di luce che illuminino zone intime dello “spirito” partenopeo: ad esempio, quel fatto incontestabile che le norme morali sono manovrate, in in ultima analisi, dalle figure femminili, più vitali, più resistenti, più 186 biologicamente attrezzate per situazioni estreme. Perciò, se la coscienza materna viene meno ciò è indizio di crisi totali, a livello antropologico. E l’autrice controlla bene queste intersezioni tra costume provvisorio e civiltà stratificata. Così, i negri, i marocchini, gli ubriachi sono visti tra i tanti fattori di rottura morale, ma non come cause determinanti del precipitare degli eventi involutivi. E proprio perchè essi sono simboli intar-siati nel tessuto filmico che, nel suo complesso, va al di là della rievocazione del “cataclisma” e tenta di afferrare l’essenza problematica di un’esperienza di degradazione collettiva, fatta di fame, di miseria, di abbrutimento.
La Napoli della Cavani è un universo frammentato, dove il passato os-sessiona la cronaca e la cronaca rivela una gran parte di passato. Sta perciò a mezza strada tra la consolazione che dà la rimembranza e il furore che nasce dalla convinzione di aver risalito solo una parte della china, per sua natura lunga e secolare. La violenza cromatica delle tinte rende bene un mondo assurdo e con-flittuale al calor bianco, così corporeo e insieme così fantasmatico: una configurazione che può dare i brividi. Si sente che è un epitelio attraversato da virus pronti a scatenarsi ogni qualvolta si superino i limiti della “negazione urbana” e della negatività sociale, per una causa esterna o interna. E’ attraversato anche da terrori antichissimi che possono risalire dalle viscere ctonie del sottosuolo, fino a spezzare la pur spessa crosta della speranza e dell’impegno civile. Una sorta di paura ancestrale è l’arteria più profonda di questa “Pelle” , che forse rifiuta sia la sostanza nichilista che quella millenarista, ma perciò include una naturale doppiezza espressiva. Risultato non casuale per chi si è imbattuto in qualcosa di originale, una terra che resta ancora un mosaico inestricabile di splendori consunti e di istinti oscuri, non redenti da alcuna religione o dal alcun mito moderno, proprio perchè connaturali colle primarie e pur profonde energie della Terra. 187
XV - Una nuova oggettività 188
Dopo il ‘68; il cinema italiano ha avuto molteplici diramazioni (e disper-sioni). I Bellocchio, i Ferreri, i Taviani hanno riconfermato il loro talento, l’avanguardia si è ritirata dalle sue posizioni più avanzate, i “maestri” si sono spesso chiusi in un loro discorso d’alta classe, incline all’autobiografismo (Visconti, Fellini, Antonioni). C’è stata una overdose di intellettualismo in reazione alla crescente vol-garità del prodotto medio, offerto dal noleggio dominante a consumatori di bocca buona, pronti a digerire lo hardcore più revulsivo pur di trasgre-dire le norme della repressione cattolica. C’è stato, in compenso, l’inizio della produzione radiotelevisiva di film veri e propri e ciò ha rappresentato uno sforzo positivo per il salvataggio della qualità. Si è, comunque, rarefatto il rapporto conoscitivo col Sud, con la sua storia e con la sua vicenda contemporanea. La produzione locale, improvvisata, erratica, capricciosa si è intestardi-ta in parecchie occasioni sciupate, in ambizioni incontrollate. Dai filmetti strappacore e suscitalacrime ha fatto capolino un neopopulismo sempre più smaccato, un greve dialettalismo e un canzonettismo in triviale crescendo. Non può meravigliare, allora, che nella seconda metà degli anni ‘70, venga dalla Germania un regista a porsi domande e a strutturare risposte sul significato di Napoli e della sua gente, attraverso gli ultimi decenni della sua cronaca. E’ un approccio interessante, proprio perchè ha il pregio di non essere appesantito da retaggi o preconcetti campanilistici. E’ un collocarsi con la cinepresa di fronte d un grumo di storia europea, con la volontà di interpretare vicende emblematiche di uomini e gruppi sociali che si muovono in una complicata metropoli, stratificatasi tra il Vesuvio e i Campi Flegrei. La sonda lanciata dall’autore risente di questo calore vulcanico, di questa passionalità sismica che intride di sè i tanti fatti che si srotolano nel secondo dopoguerra. E “Nel regno di Napoli” (1979), del tedesco Werner Schroeter è appunto una vicenda centrata su avvenimenti che si svolgono nella città partenopea dal ‘43 fino al giorno d’oggi. Una delle prime scene mostra, infatti, la nascita d’una bambina che viene battezzata col nome di Vittoria, proprio perchè da pochi giorni le truppe d’occupazione tedesche sono state cacciate da Napoli a furor di popolo. Nell’appartamento al primo piano di Via Marina quasi nulla, però, viene a cambiare: la miseria è quella di prima, le risorse restano quelle della degradazione, furti e furterelli, lenocinio, meretricio, piccolo commercio, e 189
190 piccole truffe. La proprietaria dell’officina è troppo autoritaria perchè si possa aver una rapporto di lavoro continuativo con lei. L’anno seguente al battesimo di Vittoria nasce Massimo e il film pedina, passo a passo, le vicende esistenziali dei due ragazzi, lungo il percorso di sopravvivenza. La trama fitta di fatti e fatterelli è tessuta da Schroeter con una sagace selettività di cromatismi ed angolature assai personali. Solo la chiave della rappresentazione appare duplice: da una parte si evidenzia la vena popolare, densa, turbolenta da “sceneggiata immersa in un’ostinata tetrag-gine” (Kezich), dall’altra si intravvede l’ordito teorico da “estraniamento” , in una sorta di presa di distanza dalla cronaca più avvilita, per coglierla, a colpo d’occhio, nella sua più nucleare allegoricità. La visuale del regista si espande in modo orizzontale su casermoni d’af-fitto, afflitti da luci opache, da lebbra d’intonaci, da ruggine che prolifera un pò dappertutto. E’ quasi la prospettiva del saggio di Benjamin su Napoli: “Edifici e azioni si trasformano gli uni nelle altre e in cortili, arcate, scalinate. Un’architettura anarchica, contorta e paesana… all’interno essa è, invece, il blocco delle abitazioni tenuto insieme, agli angoli, da immagini murali della Madonna, quasi fossero mollette di ferro.”51 Queste grezze ma significanti occasioni della realtà minuta si offrono ad un reportage immediato e vengono sfruttate fino in fondo dal regista che porta ad una temperatura quasi febbrile i simboli in esse racchiusi. Le imprevedibili avventure economiche, familiari e sociali dei due fratelli sono centripete rispetto all’asse centrale del racconto, risultano congrue a quelle concatenazioni di misteriose e profonde contraddizioni che insorgono negli abitanti meno fortunati della Napoli postbellica. Le veloci trasformazioni di Massimo da volenteroso aiutante della sezione del PCI a ruffiano estemporaneo e poi ad ospite del carcere di Poggioreale compongono un diagramma, seppur affrettato, dello scadimento caratteriale di un ragazzo del sud, dalla fatale genesi sottoproletaria, al quale è inibita una coscienza rettilinea quasi per un veto atavico. I colori sulfurei, concentrati, notturni rendono bene la filigrana fatali-stico-ideologica del racconto e servono ad alludere alla massa difforme degli ingredienti psicologici (dalla cieca speranza, alla amoralità spontanea, dal bollore dei sensi al distacco umano più gelido, dalla gelosia fu-rente all’indifferenza che allontana). Così certe tinte violacee o purpuree e fiammeggianti che Schoeter usa 51 BENJAMIN W.- LACIS A., Napoli, in “ES. Materiali per il ‘900” N°9-10, Napoli, 1979 191
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193 con notevolissima abilità servono ad affrescare con getti da altoforno la strana epopea sentimentale dell’espatriato Simonetti (responsabile della cellula del PCI) con l’avida, sanguigna, iperattiva vedova Cavioli. Quest’ultima colpirà a morte l’amante che si è rivelato incapace di trovare un medicinale indispensabile per salvare da sicura morte la figliastra di lei. Il regista tedesco rivela una coscienza turbata di fronte a queste tempe-ste magnetiche scaturenti dalle personalità dei protagonisti, di fronte a questo intrecciarsi di passioni espresse con impetuosi ultrasuoni, con gestualità ultrattiva, con sguardi dilatati e abbaglianti. In questo senso, egli non può far a meno di oltrepassare la soglia del verismo per configurare una “oggettività” sui generis, da melodrammatur-gia meridionale, piena di scontri temperamentali, di tesissima libido. A tal fine, sente che l’illuminazione delle scene deve aver particolari chiaro-ri, asprezze improvvise, accensioni fuori della norma. La sequenza finale del film, con la carrellata laterale che segue il “pazzariello” nella sua notturna passeggiata tra le sporche e maleolenti colonne di S. Francesco di Paola è un brano di indubbia energia onirica e premo-nitoria. Il rullo ininterrotto del tamburo sembra invadere tutti gli spazi come una musica sotterranea che estrinsechi il ritmo vero della città, il suo pul-sare più autentico e più ferino. Nei cerchi potenti di questo lugubre ma autoritario rimbombo, le statue dei re nelle loro nicchie appaiono sempre più lontane, astrali, velate da irreali fasce di blu cobalto, squarciato solo a tratti dai fari gialli delle auto, apparizioni ectoplasmatiche anch’esse di un’epoca effimera quante altre mai. E’ come una panoramica riassuntiva, di alto tono audiovisivo, che afferra di colpo il bandolo di un intrico storico-sociale indipanabile, da cui attraverso secoli è sorto un tessuto di ambiguità ed equivoci tra emozioni e ragioni, tra mente e cuore, tra silenzi e fracassi umani, sovrumani e subumani.
E’ certo comunque che l’autore tedesco si è sottratto con felici impennate a quel tedio pittoresco di chi, giunto nella città, intona ricordi polverosi e pittoreschi, o scava tra ruderi archeologici e bacheche museografiche, per poi ritrovarsi tra le mani un brillantissimo stereotipo. Molto spesso, il suo stile convulso, e frenetico ha saputo rendere quella misteriosa pullulazione sociale, quel fermentare di metastasi, di incoerenze che fluiscono non senza rilevanza nella cronaca nera e nella storia civile della ex capitale del Regno di Napoli. Non senza ragione questa suo opera estrosa, irriverente, polemica, 194 dissidente è stata premiata e discussa, osannata e derisa, ma non ha lasciato immobile la retina e il cervello di chi l’ha visionata. Più che una serie di aforismi iconici lividi o grotteschi, essa appare una serie di incandescenti interrogativi che l’autore si è voluto porre confrontandosi col magma non spento di una grande e complessa civiltà, assai remota dalla sua “kultur” ; con un’umanità oppressa ed eccitata dalla torva preoccupazione dei soldi, del lunario da sbarcare giorno per giorno, ora per ora. La civiltà napoletana che Schroeter ha di fronte si è distaccata completamente da quella che un suo conterraneo di almeno due secoli prima aveva idealizzato nel suo viaggio in Italia. Goethe aveva, infatti, riscontra-to negli stessi luoghi uno stato d’animo ancestrale “di ebbrezza e di oblio di se stessi” che il regista non riesce a ritrovare in nessun luogo di questa Partenope dopobellica. Una Napoli vista da lontano, vagheggiata come una pittura sfocata su una tela da teatro, rivissuta in una nostalgia tra ironica e impietosa è quella del meridionale Nino Russo ricostruisce ne “Il giorno dell’Assunta” (1977). La città viene emergendo pian piano nei discorsi di due amici da essa transfughi che fanno una lunga passeggiata ferragostana in una Roma finalmente deserta. A quel che pare i due si sono alquanto integrati nell’Urbe immortale (o Eternit). Vanno a caso per le sue larghe strade recitando brani di poeti, filosofi e saggisti del Mezzogiorno d’Italia, tentando così di evocare gli anni del loro “vissuto” intellettuale ed emotivo in quel di Napoli. Giunti a Cinecittà, tentano, quasi in una bizzarra operazione in memoriam di sistemare un fondale sul quale è malamente affrescato il golfo di Napoli. E’ un puro rituale, un simulacro, come un mero simulacro è la lo-ro decisione di ritornare in grembo alla città madre: verranno presto rias-sorbiti dal tran tran del loro lavoro, dalla quieta noia ripetitiva dell’esistenza quotidiana, dai mille atti pratico-concreti che formano la vita. Si tratta di un’esile cometa nell’oceano delle costellazioni filmiche su Partenope e dintorni, ma segnalabile in questo contesto per il suo carattere di “controcampo” : la Napoli verbalizzata, simulata, idolatrata è in realtà un luogo di sofferenza da cui si è fuggiti, come ne sono andati via tutti quegli altri meridionali sradicati che i due amici protagonisti hanno in-contrato nel corso della loro passeggiata nel giorno dedicato all’Assunta. E una sorta di “nuova oggettività” neutra e quasi indifferente sta alla base dei due film che S. Piscicelli (nato a Pomigliano d’Arco nel 1948) ha girato in riferimento alla Napoli più recente. Già in qualche suo intervento giornalistico, il giovane regista dichiarava 195 di considerare il cinema “un mezzo di comunicazione di massa con una maggiore incidenza sociale rispetto agli altri” e intendeva così distaccarsi da ogni “discorso sul bello e sul brutto, sul nobile e sul volgare, sull’alta e sulla bassa cultura.” 52 Una tensione avalutativa, quasi un’ansia di oggettività globale in cui non si discriminasse più il superfluo dal necessario, il durevole dall’effimero, l’oro dal piombo. E la coerente sprezzatura della materia trattata è certamente evidente in tutte e due i film dell’autore: la prima “Immacolata e Concetta” (1979) è tutta impostata sulle figure delle due donne dell’entroterra napoletano. la prima gestisce una macelleria ed è sposata con un muratore, Pasquale, da cui ha avuto una figlia, Lucia. La seconda, Concetta, è una lavoratrice agricola sui trentacinque anni che ha una relazione con una donna sposata: finisce in carcere avendone ferito il marito in una lite degenerata in “vie di fatto” a base di pistola abilmente maneggiata. Proprio in prigione, conoscerà Immacolata che è stata arrestata a sua volta per prossenetismo, allorché ha cercato di blandire un suo creditore, grossista di carni, offrendogli una ragazzina sedicenne disposta a vendere il corpo. In carcere le due donne convivono in un’unica cella quasi more uxorio, alimentando, nella dura segregazione, la loro sete di ricompense sensuali. E quando
saranno liberate si cercheranno, e Concetta, a dispetto dei mormorii della gente e della gelosia del marito di Immacolata, si trasferirà in casa dell’amica. L’occhio di cristallo di Piscicelli guarda questi fatti senza lasciarsi coinvolgere, senza rivestirli di particolari tinte o significati. E’ una impassibi-lità documentaria verso azioni e reazioni umane, riluttante a sottolineare o a prender posizione di alcun genere. Un discorso così freddo, così testimoniale, così tecnico è anche stato accusato di essere frutto di “uno spirito paralizzato” . Ma l’autore, in una personale dichiarazione, non risentita, lo nega; affermando: “In questo film si parla delle donne, della sessualità, della passione amorosa, della morte. Sono temi che si vorrebbero sottratti definitivamente alla diatri-ba ideologica per essere ricondotti alla loro reale sfera di appartenenza, l’esperienza concreta degli uomini.” 53 Il rischio, però, è quello che non di ideologia ma di assiologia si tratta e il pericolo della freddezza premeditata è quello di naufragare nel mare in-52 PISCICELLI S., Intervento al “Convegno su Mezzogiorno e cinema” , Salerno, 9 ottobre 1975 53 id. in “Incontro col cinema italiano” , Sorrento-Napoli, 1979 196 finito dei fatti. Un velo di ghiaccio in sottofondo alla narrazione rende la storia delle due donne abbastanza estranea allo spettatore. I loro impulsi passionali sono resi con distacco di entomologo, con occhio fermo di com-portamentista perchè gli echi persistano in successivi momenti della vicenda e si riaggancino a stati d’animo e a nuove pulsioni che riaffiorano prepotentemente. In questo flusso spassionato che dovrebbe dar conto di furenti tormenti gli avvenimenti sembrano cadere come grandine, si giustappongono con casualità gli uni agli altri: così la caduta della figlia di Immacolata e il suo ricovero in ospedale, come il pellegrinaggio a Montevergine per implorare la grazia alla Madonna scura e così anche l’amplesso tra il grossista e Immacolata o la susseguente scena di gelosia di Concetta che finirà poi per uccidere l’amica, rimasta incinta del commerciante. La volontà di puntiglioso sfrondamento delle emozioni o del troppo esatto bulinamento dei fatti contrasta con il contenuto passionale della vicenda, tradisce una elaborazione concettuale prima che estetica di tutta la vicenda. (che soffre, anzi, di “una struttura narrativa di mélo tradizionale”). Le cose sono guardate con occhio clinico, quasi impostate a priori come un organigramma sociologico in un divenire di cronaca nera. La sensazione è che la vita sia qui guardata come un teorema animato, così che anche le deviazioni del destino, le inconseguenze o gli incidenti di percorso arrivino a maturazione come programmati al computer. Il reale è una materia algebrica non trasfigurata ma solo finalizzata ad un certo impianto sillogistico. E in parte lo stesso autore, nella citata dichiarazione, lo ammetteva: “La messa in scena obbedisce, nelle mie intenzioni, ad una regola: quella dell’esercizio di uno sguardo al tempo stesso distante ed attivo. Attivo perchè non si sottrae al fascino e alla forza di ciò che guarda; distante, per far sì che questa forza, per così dire, si congeli ed operi sotterraneamente, oltre la superficie della sua durezza.” Ma di fronte alle immagini concrete, a certe sequenze si ha spesso l’impressione di una fisicità senza corpi, senza filamenti organici, senza vi-schiosità, senza sudori. Si vedono acrobazie ginnicosessuali tecnicamen-te più efficienti dello “hardcore” ma manca il senso del “si tratta anche di te, mio simile, mio amico, mio spettatore!” E’ interrotta la comunicazione empatica, il quoziente emozionale (grande incanalatore delle significanze iconiche) è ridotto al grado zero. Sembra che per quegli uomini (e quelle donne) non ci siano più scopi, progetti, credenze o speranze, ma solo residui istintuali, fame e libidine. L’impressione più forte è che si intenda deliberatamente trascurare lo 197 sforzo di studiare i personaggi dall’interno e le fisionomie delle due protagoniste assumono qualcosa di fermo, di marmorizzato, di deciso (a priori). L’obbiettivo resta fermo, senza allargamenti o restringimenti del campo, non è miope nè presbite, insomma troppo olimpico per essere terre-stre, troppo “distante” per essere meridionale. Immacolata e Concetta, nonostante i loro connotati provinciali e sudisti (la vernice esterna) finiscono per assurgere ad antipersonaggi in un
“mondo che è quello che è” , come manichini beckettiani mossi solo da bisogni elementari, fisiologici. E’ una sorta di cinema popolaresco immerso nella geometria rigida dell’école du regard, fatto cioè di descrizioni visive depurate di qualunque illusione, illazione o imponderabile personale. Scatta giustificatamente, di tanto in tanto, il ricordo di quanto diceva un grande critico a proposito dei vari Robbe-Grillet: “Dietro le decisioni stoi-che si nasconde l’impossibilità di fare diversamente. Il partito preso di ignorare il profondo maschera una serie di fallimenti… nel tentativo di raggiungerlo.”54 Certamente, alla base della costruzione filmica di Piscicelli c’è l’individuazione di alcuni fenomeni contemporanei, di certe metamorfosi nel costume meridionale. Ma la sola individuazione è una conoscenza parziale di essi, che può esser facilmente fraintesa anche per cinismo, eccesso di delusione etica o mera giustificazione dell’esistente. La conoscenza deve essere attiva e formalizzatrice per poter ricostituire i confini della coscienza che è sempre insieme soggettiva e sociale. Il passivo rispecchiamento, anche enfatizzato, di una situazione concreta (ai limiti, fra l’altro, dell’atipico e di un mondo di periferia), non procede agevolmente lungo i binari di un lavoro creativo, perchè come ben dice Mo-rawsky “la prassi mentale, anche quella artistica,” è uno sforzo di conoscenza, cioè di elaborazione e di organizzazione della realtà, in modo tale da essere la base per la riconversione della realtà stessa. “55 E il rischio della tautologia delle immagini è un rischio presente nel linguaggio del regista di Pomigliano. L’altro grande azzardo è quello di considerare il problema del Mezzogiorno “il Grande Luogo Comune” , e ciò proprio mentre si aggravano gli scompensi, e i deterioramenti economici e umani dell’area dissestata. Se, da una parte, è ben motivato il distacco da una prosa visiva estetizzante ed aristocratica (Visconti è una vera fobia per il giovane regista), 54 DE BENEDETTI G., Personaggi e destino, Milano 1972, p.169 55 MORAWSKI S., Il marxismo e l’estetica, Editori Riuniti, Roma 1973, p.316 198 dall’altra è pericoloso un troppo calcolato positivismo filmico. Lo sdegno per le forme di oratoria elegante, ideologizzata (ma non era il caso nè de “La terra trema” nè di “Bellissima” ) non deve portare a ridosso di un comportamentismo o peggio di un “animalismo” di tipo deterministico. I poli da evitare sono due, cioè sia il “frigidamente estetico” che “l’umana-mente frigido”. Si può essere senz’altro d’accordo sulle mutazioni molecolari del tessuto etnico e psicologico del meridione, ma occorre più analiticità nell’avvicinarsi allo spazio lacerato e contraddittorio delle nuove conurbazioni. Anche partendo dall’avversario di Lukács, B.Brecht, non si può far a meno di ricordare che proprio lo scrittore e commediografo tedesco aveva annotato: “Realistico vuol dire mettere in luce le complesse cause sociali, smascherare i punti di vista delle classi dominanti, sottolineare il momento dello sviluppo, essere concreti e render possibile l’astrazione.” 56 Dopotutto, “Immacolata e Concetta” finisce con l’aderire a certe convenzioni rovesciate del cinema mercificato (il lesbismo, la messa in primo piano del lesbismo, della sensualità più sbrigliata, la minimizzazione dei grossi problemi sociali e l’amplificazione di quelli individuali). Sia pure con acuta caparbia, l’oggettività di Piscicelli registra e esplora un mondo assai circoscritto: le cose sfuggono dal cerchio conoscitivo proprio perchè la prospettiva culturale (sia pure quando è partigiana, passionale o unilaterale) è quella che permette di vedere con più chiarezza, di intensificare la realtà e di intriderla di un colore emotivo che le tolga il pallore spettrale dell’operazione matematica. Eliminare quasi totalmente la percentuale affettiva dal canale cognitivo è un’operazione che finisce col perdere punti decisivi in termini di espressività e comunicatività. Il film, come ogni altra opera narrativa, non può essere il semplice fluire di fatti visibili ma un concatenamento di parti selezionate di essi (paradigmi): e questo procedimento sintattico è messo in atto proprio dall’angolo visuale che in un modo o in un altro il narratore deve scegliere, come suo e assolutamente suo, personale punto di vista.
La ripresa filmica come ogni strutturazione di frasi significanti non è un semplice medium neutro, asettico e imparziale ma un procedimento umano e soggettivo per promuovere il riscatto della mera presenza delle cose fisiche. Si può partire dal basso, ma per una anabasi: la stessa interpretazione materialistica della realtà è una base per la lotta culturale, un lavoro che serva all’umanizzazione della scimmia-uomo. 56 BRECHT B., Scritti sulla letteratura e sull’arte, Torino, 1973, p.200 199 Come ha lucidamente annotato Kracauer, il pericolo vero è che “appena emancipati dalle antiche fedi, siamo portati ad eliminare la qualità delle cose” 57 (così l’etica diventerebbe un trabocchetto della filosofia). Occorre, però dare atto, che il giovane regista, anche nel suo secondo film ribadisce la sua tematica e la sua concezione della scrittura filmica. Ne “Le occasioni di Rosa” (1981) appare la stessa visione entomologica dei personaggi, la stessa “apatia” ma anche lo stesso rigore algido e alge-brico nella composizione contestuale dei fotogrammi. “Con animo secco se non proprio con arido cuore -(devono avergli detto che commuoversi è una colpa borghese)” - chiosa Grazzini - egli fa scorrere sotto l’obbiettivo l’esistenza di Rosa, una bella ragazza napoletana che ha deciso di lasciare il lavoro in fabbrica per darsi al più redditi-zio mestiere della prostituta. 58 Rosa rompe anche con la madre che le ricorda troppo spesso le regole di una vita ordinata tutta matrimonio e famiglia. Contro questo repertorio di circostanze, per lei logore, la giovane donna si ribella e decide di abbandonare anche l’abitazione materna. Chiede così ospitalità ad Angelo, un ex marinaio, amico di Tonino, il suo ragazzo (di Rosa) che vive d’espedienti varii e appare legato ad esponenti della camorra partenopea. Tonino, però, è a sua volta “amichetto” di un facoltoso commerciante, Gino, al quale fornisce la quotidiana razione di cocaina. Il panorama della Napoli ‘80 è specillato nei suoi dettagli più negativi: locali di travestiti, papponi, scippatori, ladri di auto, trafficanti di stupefacenti, rapinatori e aspiranti tali, l’unico che pare salvarsi in tanta degradazione è il marinaio che sogna di reimbarcarsi al più presto e perciò custodisce nella sua ca-meretta i simboli più allettanti della vita di bordo. Anche stavolta la preoccupazione di Piscicelli é quella dell’ “esibizione corretta dei materiali di partenza” , con le sue stesse parole di tipo pre-kantiano. Non è possibile non accorgersi che il luogo e il livello di partenza sono sempre decisi dall’autore e che le sue sono sempre scelte, ricostruzioni private del collettivo sociale. La cifra migliore del film resta nella configurazione di una Napoli anonima, con strade assolutamente “moderne” , chioschi di benzina ad ogni passo, edifici squallidamente funzionali e col verde ridotto quasi a ridicoli fazzoletti polverosi e calpestati. 57 KRAKAUER S., “Film: ritorno alla realtà fisica” , Milano - Il saggiatore - 1962, p.429 58 GRAZZINI G., Cinema ‘81, Bari 1981, p.101 200 Altra caratteristica positiva è l’assenza quasi completa di infiocchettature folkloriche e l’uso abile di attori non professionisti (ma la protagonista del film, Marina Suma, comincerà da qui una agognata carriera neosexy). Il blend dialettale, l’impasto plurilingue del parlato, invece, non sempre raggiunge una adeguata verosimiglianza e lo sforzo di tener compresso il sentimento raffredda i momenti che pur dovrebbero porsi ad un certo livello di tensione umana. Chi manovra la macchina da presa sembra preoccupato di girare un’attualità “pura” senza rendersi conto che questa “purezza” la rende priva di spessore, di stratificazioni, di ben sedimentate esperienze. Così il profilo della città, in certi segmenti della narrazione, diventa rarefatto, confon-dibile con quello di qualsiasi altro centro urbano, prodotto di una prolife-rante obliterazione pubblicitaria (cartelloni, manifesti, insegne e vetrine).
(Secondigliano come il Bronx?) Piscicelli vuol dirci che la vita è diventata consumo, anche il sesso è consumo, tutti i valori sono appiattiti sul piano di una reificazione balorda. Il fatto è che se si azzera la fisionomia morale di tutto un habitat, si destruttura la drammaticità dell’involuzione, ci si fa complici di questa regressione, si ammucchia un’ovvietà appresso un’altra. Da ciò deriva che le identità personali risultano più che anomale, indefi-nibili o inqualificabili (almeno da parte dell’A.). Il dato cronologico è una sorta di “presente fossilizzato” , senza ricordi del passato e con un avvenire dal profilo senza consistenza. Si comprende perchè gli sviluppi delle vicende vengano dati con una sorta di metodo matematico di estrapolazione: Rosa accetterà un ménage a tre con Gino e Tonino, e quasi quasi si persuaderà a farsi fare un bambino che l’invertito commerciante vorrebbe adottare come suo figlio. Il rovesciamento in negativo della decisione arriva, da parte di Rosa co-me un rifiuto non ben motivato, un tic nevrotico, una revulsione fisiologi-ca e il regista lo annota come mero dato di fatto nella partita doppia delle occasioni colte e perdute (senza saper quale è il passivo e quale l’attivo). Sembrano appunto espunte tutte le implicazioni storico-sociali e appaiono accettate con freddezza tutte le punte estreme dei comportamenti. Sotto il rigido microscopio cinematografico s’agitano figure che non hanno un percorso proprio, ma sembrano impigliate come cavie in congegni più grandi di loro. Personaggi corporei identificabili solo attraverso i bisogni immediati, gli interessi, gli impulsi momentanei. Il reale sembra presentare una qualità superiore al suo significato o, forse, la qualità essenziale degli oggetti e delle persone è la loro mera 201 presenza. Ciò spinge a sostituire alla trama l’intrico di una situazione non plausibile, coll’accettare i rapporti fattuali tra i protagonisti che sembrano prescindere da un carattere realmente formato, oltre che da una qualunque bussola morale; le sequenze appaiono come nomenclature di atti, di movimenti, di pure gestualità: i protagonisti coincidono con la loro situazione “oggettiva” senza alcuna possibilità di valicarla con la volontà, la conoscenza o l’ironia. Rosa è una piacente donna, ma perde progressivamente qualsiasi fascino umano perchè sembra in preda alle onde del mare sociale in cui sono le cose a decidere le sue azioni, a spingerla meccanicamente verso questo o quel domani, come un manichino senza vita, senza desideri e senza nemmeno capricci. Napoli nel film si configura come un labirinto ben illuminato ma torvo, duro, livido; in questo puzzle di cemento si muovono come topini i personaggi, senza orizzonti raggiungibili, senza nemmeno una larva di speranza che non sia quella di accumulare altri oggetti. La ricerca del “reale” è qui tesa alla sua riproduzione fotostatica; ne vengono fuori immagini in cui cose, esseri umani, ambienti sono come sarebbero anche se il regista non esistesse (per parafrasare Taine). Solo in rari momenti si ha l’impressione che l’autore costringa lo spettatore a mettersi di fronte a tanta casualità, indifferenza, che lo induca a prender coscienza di questo sisma alienante, di questa “rivoluzione culturale” alla rovescia. Ma il suo puntiglio sta nel scansar il simbolo che allude, la polisemia iconica proprio per non togliere al materiale grezzo la sua autonomia di comunicazione. Il problema resta quello che senza interventi creativi (anche velati, attenuati, di mano leggera) si può finire con l’accettare un condizionamento e questo può farsi, nella mente del destinatario, un vero e proprio determi-nismo, cioè un’alienazione totalizzante o un nichilismo entropico. Se sde-gni e proteste, denunce e contestazioni possono risultare controproducenti, la messa in mora di qualunque dialettica, di ogni bipolarità può essere il segnale di una resa all’universo unidimensionale, senza una sola occasione di superamento dello scacco. I napoletani di Piscicelli sono naturalmente sradicati, disincantati, estra-niati, hanno odio per l’amore, attitudini spontaneamente sacrileghe. Sono l’equivalente disarmato della malavita armata, una razza senza futuro. La loro attività principale è scaricare il malumore, i residui dei cattivi sogni, o degli incubi fatti ad occhi aperti. Sono eccitati ma non speranzosi, 202 sono attivi ma senza orientamento, sanguigni ma con pochissimo cuore.
Sono il prodotto di una crisi cosmica, sismica, ctonia, in una società che ha perso la religione ma non ha saputo sostituirla con una filosofia ed è caduta preda facile degli oggetti e dei venditori e proclamatori della bontà assoluta degli oggetti. E per quanto attiene ai “metteurs en scène” di questi uomini “vuoti” occorre ricordare che perfino un famoso pessimista ammetteva che “il mondo non è solo rappresentazione ma anche volontà” . 203
204 XVI - Ricominciare da tre? Mentre imperversano ancora, negli anni ‘80, i filoni soliti (da “Carcerato” di Brescia, col solito Merola a “Lo studente” e a “Il carabiniere” di S.Amadio), con tutta la loro profluvie di cuori d’oro o di innamorati respinti che si arruolano nella Fedelissima e poi vengono fatti fuori in un modo almeno equivoco), un grappolo di nuovi film napoletani riesce a portarsi all’attenzione dei critici e degli spettatori meno assuefatti alla solita pappi-na strappacuore o melodrammatica. Essi sono centrati su una nuova nota di umorismo, cioè un tipo di comicità che emerge dall’esperienza attuale dei fatti nuovi e che non si aggrappa infantilmente al solito lunghissimo braccio dei Petito e degli Scarpetta, ma vive di idee e di azioni e reazioni proprie.
Ce ne sono, naturalmente, di tutti i livelli: en passant si possono citare (prescidendo dalla pura cronologia) i frettolosi exploits di un Decaro ( “Prima che sia troppo presto” ) (1981) o di un Arena ( “Grazie, il caffè mi rende nervoso” ) (1982) Ambedue questi giovani attori e coautori sono sul penchant della operina buffa su Napoli, rinverdita con tocchi di nonsense, di annotazioni me-no pedisseque e meno tradizionali. Essa raramente approda alla poesia, ad una verace fantasia ma dimostra almeno di ricercare una propria via, di voler camminare sulle proprie gambe. Certamente, nell filmetto di De Caro, la drammatica situazione lavorativa (o non lavorativa) della città viene abilmente capovolta in pochade e si avverte una sostanziale scissione tra le “riprese” di stabili pericolanti, strade franate, vicoli attraverso cui a stento passa una sola persona e la filigrana stilistica e umorale usata dal giovane regista. La stessa surreale occupazione di Antonio (un immigrato in USA tornato al suo luogo d’origine) che trova impiego presso “l’Organizzazione alternativa del disoccupato” , la sua stessa “liaison” con Janet maggiore dell’esercito americano presso la NATO di Bagnoli sono elementi che mistificano la storia o che decompongono la vicenda in una quantità di tasselli non facilmente riordinabili. Alcune figure risultano alquanto atipiche: la madre di Antonio (madre di un emigrato) che dilapida i suoi soldi in corse di cavalli e lotterie non è molto credibile, sia pure a livello di costruzione parodistica di caratteri. (Questo habitat napoletano è ancora pervaso da quel “pregiudizio” greco-romano per il quale il lavoro era cosa degradante così che lo schiavo liberato adduceva come primo diritto quello di non lavorare (farsi assistere?). Nell’altro “ready made” o pellicola occasionale (con la regia di 205 L.Gasparini), Lello Arena, dotato comico partenopeo, si dà da fare nell’interpreta-zione di un guaglione dalla doppia personalità ma i casi che la sua vicenda affronta sono troppo calcati, e sfiorano i confini del pagliaccesco. La modulazione del racconto è caratterizzata da tecniche di basso vol-taggio, da corse contro cronometro, callosità espressive, anacoluti e capi-toletti volatili. E sfilano in un crescendo talvolta assurdo la caricature di camionisti, malavitosi, padri bisbetici e avari più di Arpagone e tutto l’altro trovarobato misto della pulcinellata sia pur rinnovata e riverniciata e tesa a smitizzare le grosse questioni da cui è afflitta Napoli. Ci si può anche scompisciare dalle risate, ma alla fine il residuo solido della “fruizione” è quello del cinema di consumo, del “ridi e getta” , del prodotto effimero allo stato più disorganico, un limite superiore della obsolescenza artigianale. Si può, infatti, imbrigliare il problema “Napoli” in reti leggere quanto si vuole, ma per far ciò non si può prescindere da eleganza, verve e gran padronanza del mestiere. Queste doti sembrano tutte presenti nel giovane Massimo Troisi che, col suo “Ricomincio da tre” (1981), viene a ribaltare non poche convenzioni subculturali del cinema meridionale, serio o allegro che sia ma con pretese non evanescenti. Non si tratta, infatti, del solito filmetto facile da capire perchè, in fondo, non c’è nulla da capire, ma di un’operazione intelligente di recupero della comicità napoletana, sulla scia di certe sottigliezze mentali alla Eduardo che hanno ribaltato spesso il dannato “senso comune del Sud” , e il suo “bene mio, core mio” , e le tante “bugie con le gambe lunghe” che corrono per il mondo sulla “perla del golfo” , sul “paese del sole” , su S.Gennaro. L’impasto stesso tra il gergo giovanile dialogato, con le sue novità e le sue tante omologazioni, l’intreccio tra le sue radici verbali e mimiche, rende essai interessante il vernacolo di questo film d’esordio. Si può senz’altro considerare una favorevole congiuntura di intuito e di esperienza precoce, di istintivismo e di tempestività, ma è senz’altro un’operina conclusa, ben circoscritta nelle sue ambizioni, nel suo humus, nel suo “poligono di tiro” , in cui si spara con garbo e giusta coordinazione del ritmo e del calibro.
“Ricomincio da tre, e non da zero, perchè qualcosa di buono l’avrò pur fatta” , è una delle battute iniziali di Gaetano, il giovane che si accinge ad affrontare un nuovo itinerario di vita, al di là del tran tran familiare, oppres-sivo, iperparentale, intriso di quella atavica rassegnazione che è l’atarassia” o “il tranquillante” medio degli abitatori delle plaghe circumvesuviane. 206 Egli non ne può più del padre cui è stata amputata una mano e che è sempre in attesa di un taumaturgico intervento della Madonna (cui comunica anche l’eventuale cambio d’indirizzo); non ne può più dell’attesa nel turno mattutino davanti alla porta del “bagno” , non ne può più del rituale stanco delle passeggiate e dei discorsi sul Napoli o su altri logori, fatiscenti argomenti. Gaetano decide, pertanto, di mettersi “on the road” , facendo l’autostop all’imbocco dell’autostrada che porta al Nord. Non è molto fortunato perchè l’automobilista che lo porta verso Firenze si rivela un compendio di psicopatologia contemporanea: Gaetano preferisce sbarcare al più presto dall’auto e avviarsi in altro modo verso la città del Giglio. Le sue disavventure, però, non sono affatto conclude: la zia che dovrebbe ospitarlo ha una relazione con un “professore” e così Gaetano sarà costretto ad accettare l’ospitalità “pelosa” di un missionario protestante americano che lo monopolizza, lo catechizza intendendo fargli seguire “la sua via” . L’arrivo dell’amico Lello gli procura un altro paio di grattacapi e, forse, forse, l’unica cosa positiva sembra l’incontro con la giovane assistente Marta che ha conosciuto quando ha depositato l’autista folle in una sorta di clinica psichiatrica, prima di raggiungere il casello di Firenze. Attraverso tanti piccoli segmenti rappresentativi, nel sapido ed equilibrato concatenamento delle situazioni e delle reazioni mimiche e verbali del protagonista, Troisi (interprete del suo stesso personaggio) riesce pian piano a dare il profilo di consistenza di un giovane napoletano timido, introverso, riflessivo, insomma; “fesso” . Si instaura così una garbata polemica con la cosiddetta “intelligenza” dei suoi concittadini, quella che già uno studioso di forte tempra come Salvemini aveva identificato come “agilità mentale” , più vicina alla furberia che ad altro, quasi una ricerca di “corti circuiti” per sottrarsi al continuo e lungo confronto col reale. Le osservazioni, vocali e subvocali di Gaetano, certe sue incidentali, so-no in netto contrasto con le vuote declamazioni sulla “genialità” dei figli di Partenope, sulla gloria del loro passato (quello edonistico-musicale è indiscutibile), e sull’arte di cavarsela. Diventano le sue balbettate considerazioni una sorta di richiamo alla onesta mediocrità, al senso civico, più che a quello individualista e menefreghista. Così tra immagini e monologhi sornioni, viene scavalcata con salti leggeri la Napoli logora della prontezza, dell’arrangiamento estroso e che rimedia a tutto, la Napoli dello sfottò e della pernacchia, come quella della pizza serale antidoto a tutte le angosce dell’età verde, marrone o grigia. La stessa decisione di spostare a Firenze buona parte della vicenda è un 207
208 modo per concentrare meglio lo sguardo, per prendere le dovute distanze da un argomento scottante, infuocato da mille polemiche superficiali o sotterranee, da gazzetta o da enciclopedia. “Io non ho fatto nessuna ricerca nè su Napoli nè sulla napoletanità - ha detto Troisi, in un recente incontro all’Università di Roma- e manco mi sono guardato attorno ad osservare la realtà dei giovani, come hanno scritto. Oppure, se mi sono guardato attorno, non me ne sono accorto. Ho raccontato storie che conoscevo, che riguardavano me e i miei amici. E poi, la realtà non vale come racconto cinematografico, così com’è. C’è sempre una interpretazione, una spettacolarizzazione…” 59 Se il film sia il risultato intenzionale o fortuito della capacità di Troisi, qui non interessa poi tanto, e si son versati fiumi d’inchiostro su tale questione d’estetica, e forse la verità “stat in medio” , come spesso accade. Quello che colpisce, in un autore così giovane è che il dialetto, in lui come in Eduardo, è un linguaggio autonomo, una cultura, uno stile di esistenza, non un semplice espediente comico frizzante e gustoso, come è stato per tanti precarii commediografi in vernacolo, che solo prepotenti rigurgiti di nostalgia borbonica possono far trangugiare con rinnovata gradevolezza. Il tono medio che il giovane regista è arrivato a produrre in questa lingua, limandone via quel tanto di aggressivo e di osceno o di compiaciuto o di melodrammatico che c’è nel lessico e nella gestualità esagerata che lo accompagna, è un felice risultato di equilibrio comunicativo, un riuscito amalgama tra ironia e dolore, tra gioco e inquietudine. E’ anche indubbio che il non breve tirocinio umoristico esperito da Troisi a livello di cabaret con il complesso de “La smorfia” ha giocato al suo apprendistato, gli è servito da arguta lezione e da quotidiana autocritica, nonché da misurato trampolino di lancio verso questa nuova e brillante esperienza. Il personaggio di Gaetano gli calza addosso in maniera millimetrica, anche se si risente l’autobiografismo (che qui non guasta affatto): infatti, es-so è funzionale al sottile discorso
sull’obbligo - impossibilità di scrostarsi di dosso tutte le catene tradizionali del meridione (gelosia, impazienza, speranza nel “colpo di fortuna” o “miracolo” , ma anche autolesionismo o gusto per il sabotaggio). Gaetano non risparmia critiche verbali nè al padre nè al prete e tanto meno all’amico Lello, ma in fondo anche lui macina dentro di sè una sorta 59 FUSCO, M. P. “Mi chiamo M. T. e sono soltanto un comico” , ne “La repubblica” del 15 dicembre 1982 209 di fideismo aggiornato, che consiste nel tentare continui “esperimenti” di psicocinesi, cioè quella facoltà extra sensoriale che permetterebbe di far muovere gli oggetti con la sola energia del pensiero o della volontà. Così quando l’assistente Marta, spregiudicata e sicura di sè, gli rivela in modo disinibito il proprio innamoramento, diventano saporosamente patetiche e divertenti le mosse di disimpegno del giovane napoletano, che avverte che una sorta di “psicocinesi” lo ha preso in un imprevisto contropiede. E ancor di più Gaetano sente oscillare la sua personalità quando la ragazza toscana, da lui corteggiata (che, tra l’altro si diletta di scrivere ro-manzetti ad alta tensione erotica) gli comunica di essere incinta (e forse, non proprio di lui). Allora rifà in fretta le valigie e scappa a Napoli: lo scontro di ritorno con l’atmosfera della sua città, esaltata da un pranzo di nozze in cui si quintessenziano tutte le più viete caratteristiche degli “ho-mines neapolitani” , lo fa rimbalzare verso Firenze. E un finale di cauta vis comica (la scelta del nome del nascituro in base alla quantità delle sillabe e al loro numero o all’uso autoritario o meno che si può far di esso da parte dei genitori) chiude in bellezza la vicenda di questo film divertente che può far soffrire (soprattutto i ventenni ilaro-tristi che in esso si sono guardati come in un nitido specchio appena appena deformante. Al di là della congerie di premi ricevuti (nei premiati premifici festiva-lieri o meno), “Ricomincio da tre” è effettivamente molto di più di un quadretto gradevole d’ispirazione partenopea. Ci sono in esso frammenti acuti di una coscienza che avverte i tanti piccoli o grossi malesseri morali e psicologici, trascinati decenni o secoli dagli abitanti della nobilissima città, per convenienza,forza d’inerzia o motivato scetticismo cosmico. Troisi, con occhio vivido e mano leggera passa in rassegna “secoli di mi-racolismo, di inerzia, di autocommiserazione, di ossequio verso i potenti, di sfiducia in se stessi” come riassume ottimamente Grazzini. 60 E l’autore-protagonista avverte questo magma esistenziale come una zavorra dell’anima ma anche come uno strano lubrificante per la fantasia ironica, per il gioco che tenda alla rimozione. La vera abilità di questo “malincomico” sta, comunque, nel riuscire a travasare in immagini originali il distillato di tutto un bizzarro umanesi-mo del ridere, di cui la sua città ha non poche prerogative. E quel saper 60 GRAZZINI G., Cinema ‘81, Bari 1981, p.50 210 rompere gli schemi meccanici dell’ansia giovanile con l’effetto catartico della risatina, del rabbuffo, dello scoppiettio autocritico o sarcastico. In un caso come questo, il riso è veramente l’espressione di un recupero di energie di difesa contro le molteplici avversità che possano scatenarsi nella sfera individuale come in quella sociale. E tanto più che esso non è visto come un fattore magico, un toccasana globale ma come una tecnica di autoanalisi, propedeutica ad ogni possibile ribaltamento della “Neapolitan way of life” . In questo senso la risata di Troisi è molto meno reazio-naria di tante operazioni, anche teatrali, che tra ghigni e sfoghi tendono a rovistare nelle piaghe di Napoli con un compiacimento isterico o un acca-nimento sadico che confina con una perdita d’identità, di “fou rire” , di allegra concupiscenza di morte (e che spesso ha odor di droga). C’è in Troisi la percezione lucida ma anche autodivertita di una autosva-lutazione fatta per meglio risalire la china: i cento casi avversi che capitano a Gaetano ( “no, non sono un emigrante, sono uno che intende fare delle esperienze.” ) sono gli ostacoli posti contro la sua ricerca di una nuova dimensione di vita, alternativa al fatalismo passivo di molti suoi conterranei ( “mi spezzo, ma non m’impiego!” )
Gli intenerimenti improvvisi, le strizzatine d’occhio, la tacita complicità che l’autore sa istituire pensando al suo pubblico più giovanile non sono astuzie escogitate a tavolino, prefabbricate in sede di sceneggiatura ma sono impulsi sinceri che tendono all’arricchimento della propria e altrui personalità. Suonano, perciò, pienamente sincere le parole di Troisi quando confessa: “Io, quando scrivo, butto giù delle cose mie, che neanche so se fanno ridere. Non me lo propongo. E quando recito, è la stessa cosa, parlo napoletano, parlo come parlo e muovo le mani come le muovo sempre.” 61 In questo humour filmico, non è facile trovare artificio, affettazione e tanto meno intellettualismo. E’ dificile pescare citazioni dall’agrodolce Chaplin o dal sofisticato Tati o dalle “facce di padella morta” alla Keaton o alla Lloyd; nè c’è parentela possibile con il corticale Allen nè con la supermarionetta Totò. C’è, forse, solo l’assorbimento, per naturale metabolismo di partenopeo di certe dosature autoironiche alla Eduardo, ma di un De Filippo ventenne che non ha mai potuto estrinsecare il suo estro giovanile a causa dei duri eventi che hanno marcato la sua esistenza, anche se poi sono stati essi che 61 FUSCO, M. P. “Mi chiamo M. T. e sono soltanto un comico” , ne “La repubblica” del 15 dicembre 1982 211
212 l’hanno temprata fino ad una maturità chiaroveggente e quasi carismatica, dopo i trent’anni. C’è anche, come capita alle cose d’arte riuscite, il segreto del realismo trionfante anche a dispetto dell’autore che finisce col restituire con briosa immediatezza e nel perimetro di una sottile cornice formale quello che la persona fa senza sforzo alcuno nelle azioni e vicende d’ogni giorno. C’è quel fortunato accordo di terza maggiore che suona nell’intelligenza (narrativa, visuale o pittorica) di chi sa andare al nocciolo di certi problemi senza grinta e senza muso duro, ma con una strategia di risatine sommes-se e sommessi sgomenti, una felice psicoterapia sociale applicata alla rappresentazione di sè. C’è il sano (in senso estetico) rifiuto del pierinismo, di quello spirito scatologico, volgare, da caserma semianalfabeta o da vagone ferroviario che aduggia troppa comicità cinematografica di questi ultimi anni. E, d’altra parte, non c’è (fortunatamente) la calcificazione in maschera, in tipo fisso da commedia dell’arte o il rincorrersi delle pagliacciate fini a se stesse o degli stralunamenti fuor di luogo, dei tic mimati a fini di ade-scamento del pubblico. E manca, grazie a Momo, la verbigerazione delle barzellette sovrapposte alle barzellette, nuclei genetici di tante commediole all’italiana, prive di mordente e che devono rifarsi facendo di seni e culetti provocanti epifanie distraenti e ruffiane. A buon motivo è stata sottolineata l’importanza di un film come “Ricomincio da tre” , posto in quella “terra di nessuno” che sta tra “la disponi-bilità al nuovo e un patrimonio in cui hanno spazio, sulla scia della miseria, anche la viltà e il fatalismo.” 62 Certo, Napoli appare toccata solo tangenzialmente con dita veloci che però sanno trarre dalla sua usurata tastiera accordi non di routine: il sound è quello di un esecutore che organizza, su di un tessuto musicale troppo noto, altre disarmonie, altre fughe (dal convenzionale) e che costella il suo spartito di crome e biscrome illuminate e illuminanti. Le battute di Troisi nascono, pur senza consapevolezza critica, da un humus che ha assorbito i fertilizzanti di una cultura laica, antisupersti-ziosa, empirica nel suo senso migliore. Tali guizzi di humour si inseriscono con ritmo e contestualità assai appropriati. Anche quando l’atmosfera del racconto sta in bilico tra la caricatura benevola e l’empatia, si coglie bene in essa un filo ininterrotto lungo il quale si suturano comico e 62 GRAZZINI G., Cinema ‘81, Bari 1981, p.50 213 drammatico, senza trucchi ed effettacci ma anche senza sdilinquimenti, senza fratture, senza inutili eccessi od esibizionismi. I piccoli tic del napoletano timido, come del suo amico impiccione, le gaffes e le smorfie appena accennate, il gioco prosodico delle frasi non finite, delle false partenze verbali, del bla-bla, delle sovrapposizioni e dei fraintendimenti (magistrale il colloquio tra la zia e Gaetano nel bar “all’inglese” di Firenze), punteggiano brillantemente lo svolgersi della pellicola e della sua colonna sonora e ne accrescono il peso specifico. Troisi sa ricavare anche da piccolissimi eventi un loro succo gustoso (ad es. il trasporto in bicicletta dell’amico Lello), coll’accennare a sfasamenti minuti, incongruenze, convessità o protuberanze un tantino anomale nel panorama umano o materiale dei partenopei, sia “in casa” che “fuori casa” . L’immagine dinamica che egli fornisce di un giovane napoletano degli anni ‘80 è sbalzata con indovinati colpi di cesello, lavorata con precisione di bulino e rifinita con “labor limae” d’indubbia serietà d’autore. Il giovane regista traccia grafici sintetici di certe situazioni o défaillances antropologiche (i giochi degli invitati alle nozze, le coazioni a ripetere degli anziani, il balletto davanti alle porte etc. etc. ) e lo fa centrando le molte scissure, i numerosi scompensi in un momento di transizione anche per la civiltà partenopea, in un tramonto delle antiche fedi, in cui si va ampliando lo iato tra il cattolicesimo arcaico e lo scetticismo post-moderno. Imposta così una gustosa carrellata sulla psicopatologia quotidiana d’una città schizoide nel suo equivoco amore per il nuovo e il suo resistente feticismo per l’antico, che va costruendo un suo pagano cristianesimo e un suo primitivismo cristiano. Una Napville che in parte è ancora Neapolis ma che nella confusione e nell’emozionalismo è soprattutto “Napule” .
Può essere che “Ricomincio da tre” sia il prodotto fortunato di una temperie espressiva passeggera, un liberarsi scherzosamente di tutti i refoule-ments adolescenziali, in uno scatto estetico di occasionale felicità. E’ un dubbio che può venire a visionare il suo secondo film, di cui non si può essere parimenti contenti, seppur qua e là anche “Scusate il ritardo” (1983) evidenzia tocchi leggeri e pungenti di humour. Ma le carenze qui prevalgono sulle cose positive, si accentua il gusto teatraleggiante del piano-sequenza e viene anche il sospetto che a Troisi occorra addestrarsi nell’uso tecnico e linguistico dell’obbiettivo. Ma sarebbe prematuro stroncare le promesse ed è certo preferibile concludere nella tonalità della speranza (in re maggiore) sia per i registi che per la città che essi hanno voluto rappresentare. 214
215 Così, mattone su mattone, fotogramma dopo fotogramma, pur tra vuoti e pause, è stata innalzata, nel secondo dopoguerra, una costruzione d’immagini su Napoli. Tra opere atone e film vibranti, tra sequenze veraci e inquadrature tra-ditrici, non poche cose riescono a salvarsi. Ed esse parlano in modo schietto, aspro, talvolta perentorio, ma non senza echi. C’è nelle pellicole migliori una forza morale che si fa energia conoscitiva: in certe icone di Rossellini o Rosi o Loy, De
Sica o Ferreri o Cavani, Napoli assume una maggiore trasparenza. Sembra quasi allora di poter afferrare l’inafferrabile, di vedere ciò che è rimasto al buio per secoli, o quanto è stato seppellito dietro tumuli di fantasia bugiarda. La concentrazione, l’intensificazione, il riordino dei fatti in stringhe narrative efficaci, conferisce loro naturalezza e credibilità, squarcia la fo-schia del mistero che li avvolge. C’è un immersione nel perimetro più umano della conoscenza, nelle sue giuste proporzioni di cuore e di mente, anche se si avverte che la natura col suo tellurico e la storia con le sue avversità restano in gran parte ancora da esser vinte, superate. Altre volte, come si è visto, la retorica fraudolenta egemonizza il lavoro, lo destruttura o l’appesantisce o lo gonfia fino a renderlo inverosimile, ridicolo, caricaturale. Questa mancanza di misura, di spontaneità e lo sfacciato fine mercantile rendono spurii tanti filmetti e filmacci partenopei, che purtroppo continuano ad attrarre, ad adescare tanti spettatori, falsificandone la coscienza, deviandola o disorientandola. Sono quelle operine stracche, banali, lacrimose o ridanciane di cui pur si è voluto dar conto, ma prive di qualunque rigore, mentre si sa bene che una forma precisa si accompagna sempre alla creatività, come una pelle che aderisce alla carne viva. La qualità resta sempre il valore che nega la contraffazione, la reificazione e il consumo, che sconfigge il pressapochismo, la frettolosità, la noncuranza. Sfasature, incrinature e miserevoli rattoppi sono appannaggio delle procedure narrative che hanno natura diversa dal linguaggio autentico, sia cronistico, immaginoso o storicizzante. Quando si giunge invece all’identità tra soggetto ed oggetto, tra regista e realtà che gli si pone di fronte, quando il cuore diventa intelligente e l’intelligenza si fa appassionata, allora l’obbiettivo diventa un occhio vigile, una lente cristallina che scruta e dipinge le cose della città, quelle più in 216 rilievo e che possono essere antichi malesseri o recenti inquietudini. E non importa allora che i racconti siano configurazioni altamente drammatiche o rappresentazioni di casi umorosi e perfino comici. In tali esiti positivi anche il cinema su Napoli riesce ad affermarsi come un discorso non segregato dalla realtà, nè tantomeno ermetico od effimero (come vorrebbero i neognostici che proclamano la morte dell’arte, oltre che dell’uomo). Napoli 1980-1995 217
218 I CIRCOLI DEL CINEMA A NAPOLI (1947 – 1968) Nell’autunno del 1947 sta per essere approvata la Costituzione della Repubblica italiana che è nata in seguito al referendum dell’anno precedente. Capo provvisorio dello Stato è il napoletano Enrico De Nicola che conosce bene la situazione della sua città, “ex-capitale declassata, percorsa dalla disperazione” dopo i cento e più bombardamenti subiti nel corso del secondo conflitto mondiale. Per riportarla ad un livello di vita decorosa, c’è da ripristinare i traspor-ti, i rifornimenti essenziali, dar da lavorare ai numerosissimi disoccupati che affrontano anche i moschetti della Celere per rivendicare i loro diritti. Imperversano mercato nero e contrabbando. Dall’altro lato, un impegno assai vivace caratterizza la vita culturale partenopea: è stato, ad esempio, inaugurato - col patrocinio di Benedetto Croce - “L’istituto per gli studi storici” affidandone la direzione a Raffaele Mattioli e poi a Federico Chabod. Anche i giornali quotidiani mostrano forti segni di ripresa da “Il Giornale” di ispirazione crociana, a “Il Risorgimento” che ha sostituito, prov-visoriamente, “Il Mattino” fino a “La voce” nata da poco più di un anno su iniziativa della sinistra. Sulle loro pagine trova spazio una nuova generazione di scrittori ed intellettuali che va dalla Ortese a Incoronato, da Compagna a Prisco. E proprio nel corso del ’47, sono stati pubblicati “Spaccanapoli” di Domenico Rea, “L’oro di Napoli” di Giuseppe Marotta e da vari mesi si replica, a teatro, “Filumena Marturano” di Eduardo. Nell’aprile dello stesso anno, c’è stata la manifestazione di apertura di “Cultura Nuova” con l’intervento di Corrado Alvaro che ha parlato de “Gli aspetti della cultura contemporanea” nell’Aula Magna del Ginnasio-Liceo “J. Sannazaro” . Si sono poi susseguiti numerosi dibattiti su argomenti storici, filosofici e d’arte: una sera è stato invitato Ferruccio Parri a parlare della Resistenza e del “vento del Nord” . Tra gli animatori dell’associazione ci sono Vittorio De Caprariis, Guido Piegari, Dario Santamaria e alcuni docenti dello stesso liceo vomerese, da Mario Sansone e Graziano Graziussi. È in quelle discussioni che arriva chiara l’eco della polemica tra Vittorini e Togliatti, a causa della sospensione de “Il politecnico” . Non sono pochi a concordare con l’autore di “Conversazione in Sicilia” che possa sussistere anche “un conformismo di sinistra che porta a suonare il piffero per la rivoluzione”. 219
Così, in questo clima di “comitato di liberazione culturale” si inaugura, a Napoli, sul finire del 1947, il Circolo Napoletano del Cinema. Esso rappresenta non soltanto “un circuito alternativo all’usuale programmazione delle sale cittadine” ma anche un tentativo di arginare lo straripare delle pellicole commerciali e di mera evasione. Suo scopo primario è l’elevazione culturale del pubblico che rischia di farsi massa amorfa e passiva di fronte allo scorrere delle immagini sullo schermo. Perciò, nel programma di base, viene enfatizzato l’invito a discutere i problemi e i significati dell’arte “più importante” del XX secolo. Fin dalle prime proiezioni nella sala dell’ “Alhambra” di Via Nisco (traversa di Via dei Mille) si ritrovano esponenti delle più diverse posizioni, da Roberto Paolella a Mario Alicata, da Gianni Scognamiglio a Renato Giordano, da Vittorio Viviani ad Alfredo Parente. Aderiscono al Circolo giornalisti delle più varie testate (e tendenze) da Federico Frascani a Renzo Lapiccirella, da E.Grassi a Pasquale Prunas e Ruggero Guarini. Tra questi ultimi c’è chi avuto esperienza di Cineguf e ha scritto perfino recensioni di film sulla rivista “IX Maggio” , organo culturale della Gioventù Universitaria Fascista, sia pure in termini di “fronda” o di larvata opposizione interna. Nelle discussioni che, immancabilmente, seguono le proiezioni della domenica mattina, si estrinseca - pertanto - un genuino pluralismo di convinzioni storiche, estetiche ed ideologiche. La programmazione non soffre di alcuna remora e si va da “Man of Aran” di Flaherty a “La terra” di Dovženko, da “Alba tragica” di Carné a varie opere di registi sui quali era calato un tabu negli anni del regime dittatoriale. In pratica, vengono visionate le cose più significative della “settima arte” , come Ricciotto Canudo ha denominato il cinema, allorché - nel 1921 - ha fondato a Parigi il primo cine-club della storia. (E al nome del “petit Barisien” Prunas intitolerà il bollettino mensile del Circolo). Nella sala dell’Alhambra, la libertà di discussione appare come l’esercizio più degno per chi vive pensando ed esprimendo il proprio pensiero. Le riflessioni ad alta voce sono come salutari boccate d’ossigeno dopo il clima asfittico e coatto del ventennio. Nessuno oserebbe, allora, gridare - come farà un giorno Nanni Moretti“No, il dibattito no!” . In quella sala la democrazia vive appieno nei suoi sviluppi dialogici, nelle tesi e controtesi che testimoniano la viva e attenta partecipazione dei presenti. 220 Vengono, così, puntualmente smentite le teorie pessimistiche dell’ “oni-rismo filmico” e del “sonnambulismo coatto degli spettatori” . In questo senso si può dire che Napoli risulta fortunata, in quel particolare periodo: l’ “Alhambra” non è affatto quel “pidocchietto” che Bianciardi descriverà anni dopo nel suo “Il lavoro culturale” , non vi accorrono “elet-tricisti o idraulici convertiti al culto del cinema” . Parimenti, il Circolo Napoletano è ben lontano da quello di Nocera Inferiore ritratto, con sapi-da ironia e qualche pizzico di nostalgia, da Ettore Scola in “C’eravamo tanto amati”. Pur senza spocchia, va detto che a Napoli, si è formata, sia pur casual-mente, una sorta di “università autogestita di filmologia” cui collabora un’élite di critici, saggisti, musicologi, artisti. Da uno dei soci del sodalizio, una domenica mattina, vien data lettura di una lettera di Croce al prof. R.Franchini, suo biografo; in essa si afferma che “se un film si sente e si giudica bello esso ha il suo pieno diritto… e la negazione e il malumore verso il cinematografo di cui uomini di gusto danno segno sovente non si possono riferire del regista e degli attori, ma al pervertimento che gli interessi industriali favoriscono per soddisfare le richieste extraestiche del pubblico” .
Sono parole atte a metter d’accordo tutti i presenti, del resto, è il periodo in cui anche i marxisti tendono a collegare Gramsci a Croce e a De Sanctis, senza comunque trascurare Pudovkin ed Ėjzenštejn di cui, semmai, celano le dure disavventure con l’egemone Ždanov. Certamente, dopo le proiezioni di opere di Renoir, Lang, Rossellini, Chaplin e De Sica nessuno dubita di trovarsi di fronte ad autentici valori narrativi. L’anno 1949 vede eletto alla presidenza del Circolo il prof. Renato Caccioppoli, matematico di fama mondiale, pianista e, last but not least, com-petente di cinema d’arte. È una personalità dallo spirito raffinato e pungente cha avalla ancor più, col suo prestigio, l’azione del Direttivo in cui si prodigano giovani intellettuali “in pectore” , da Marina Guardati a Geppino Golia, da Alberto De Fez a Nino Numeroso. L’adesione del pubblico è costante e le proiezioni mantengono un ritmo regolare con una proiezione aliena da preconcetti ideologici e stilistici. Si va da “Poil de carotte” di Duvivier a “Terre sans pain” di Buñuel, da Chaplin ad Aleksandrov, da Murnau a Pabst e a Lang. Certamente, non si trascura l’attualità neorealista, da “Achtung! Banditi!” di C. Lizzani a “Sciuscià” di De Sica e si ritrovano prodromi del 221 movimento in film quali “Ossessione” di Visconti e “Quattro passi tra le nuvole” di Blasetti. Una mattinata memorabile è quella della visione de “La passion de Jeanne d’Arc” di Dreyer, il cui accompagnamento sonoro è offerto dallo stesso Caccioppoli che suona, al piano, musiche di Bach. Quel dramma di anime suscita riverberazioni incancellabili col suo stu-pendo bianco e nero, i suoi piani-sequenza e, alla fine della proiezione, un applauso sostituisce il solito dibattito. È anche vero, come ha ricordato P.A.Toma, che non mancano momenti umorosi, come certe presentazioni - a braccio - di Paolella pronto ad affermare: “questo film di Duvivier, come tutti i film di Duvivier, mostra i soliti pregi e difetti dei film di Duvivier”. Ma molto più spesso, lo storico napoletano è un consulente indispensabile per il Circolo dati i suoi rapporti amichevoli con Langlois, Clair e altri cinefili parigini, in prima fila nella cura e nella valorizzazione delle opere della “settima arte”. Quando, in una introduzione a “Il porto delle nebbie” Paolella indica la pregnante risposta del pittore a Gabin: “Io non dipingo gli alberi ma la sofferenza degli alberi” riesce a sintetizzare in poche parole il “realismo poetico” del cinema francese tra le due guerre. È anche vero che spesso ci si affanna a enumerare i termini dello “specifico filmico” allora in voga, da “flou” a “dissolvenza incrociata o meno” , da “materiale plastico” a “montaggio d’attrazione” etc. È tale passione montante che spinge lo stesso Paolella a organizzare fin dal novembre 1948 dei pomeriggi “cinematografici” nella saletta del do-polavoro S.M.E. a via Roma. In quella sede si ha modo di visionare le chicche selezionate dall’eru-dito, da “La Kermesse héroique” di Feyder a “Knock” , col grande Jouvet. C’è pure una serata tutta dedicata al recente “Amleto” di L. Oli-vier, da poco vincitore al Festival di Venezia. Insorgono così nuove diatribe sui rapporti tra cinema e teatro, tra linguaggio dell’immagine e linguaggio verbale, molto tempo prima che la semiologia si provi a districare il groviglio concettuale. Ma ci sono anche i cicli divertenti dei comici del muto da Max Linder a Mack Sennett e ai “dead pan comedians” . Intanto, alla metà degli anni Cinquanta, il Circolo Napoletano del Cinema si è riorganizzato con un direttivo giovanile, in cui spiccano Riccardo Napolitano, Dario Natoli, Aurelio Argento, Sergio Lambiase e il sottoscritto. (È, da qualche tempo, iniziata la profonda crisi esistenziale di 222 Caccioppoli che Martone esporrà nel drammatico resoconto filmico del 1991.
È stata scelta una nuova sala di proiezione, quella del cinema “Fiamma” , ma il giorno fissato resta la domenica, come per un convinto rituale laico. L’accento è spostato a sinistra e il tema di fondo della programmazione è quello di “Cinema e società” anche per un impulso di difesa del neorealismo che, in quegli anni, sta subendo un declino evidente. L’attività di base è svolta da militanti della F.G.C.I. che si danno da fare a sdoganare “pizze” , diffondere volantini e altro. Ma sia tra i soci che tra i dirigenti non mancano indipendenti e “dissidenti” . Infatti, i programmi rivelano i compromessi operati a livello “politico” , per un De Sica si ha un Antonioni, per un Dreyer un Ivens etc. Talvolta sono invitati autori stranieri, ad es. J.Bardem ma anche italiani debuttanti o quasi, da Maselli a Montaldo e Loy. Una costante dell’attività del CNC è la mobilitazione contro la censura che, da anni, è patrocinata dall’on.Andreotti, sottosegretario allo Spettacolo, noto per il suo discorso in Senato in cui ha ammonito i cineasti a “non lavare i panni sporchi in pubblico” . È un fatto, però, che nella legislazione cinematografica sono state ri-messe in vigore il “nulla osta” e altre procedure ostruzionistiche che risalgono alla cessata dittatura. In base ad esse, vengono osteggiati film quali “Anni difficili” di Zampa, “Il sole negli occhi” di Pietrangeli, “I vinti” di Antonioni e lo stesso “Umberto D.” di De Sica. A questi autori il sottosegretario D.C. ha voluto ricordare che “L’Italia ha avuto anche un Don Bosco, un Forlanini e una progredita legislazione sociale” . E sono proprio tali pellicole oscurate, tagliate, censurate che il Circolo del Cinema si privilegia di far conoscere ai suoi soci, oltre alle pellicole straniere che pure sono incorse in problemi di “visti” nelle sale normali: da “All’ovest niente di nuovo” di Milestone, fino a “Il cielo può attendere” di cui si è manipolato il finale in senso edificante, stravolgendo - così - lo stesso significato del titolo. Quasi per un ironico paradosso della storia, dei giovani che mostrano simpatia per un’ideologia totalitaria si ergono, di volta in volta, ad alfieri della libertà di espressione. Tra loro, certamente, hanno creato scompiglio e delusione sia il rapporto Krusciov che l’invasione dell’Ungheria e non sono pochi quelli che si ritengono “sciolti dal Giuramento” . Gli indipendenti possono esigere che si allarghi il ventaglio della programmazione. Si includono sempre più 223 opere inglesi o americane e “commedie borghesi” (Tati, Guinness e lo splendido “Hellzapoppin” ): ciò serve in più ad attenuare quel clima di austera seriosità delle domeniche al “Fiamma” . Al contempo, il Direttivo non cessa dall’utilizzare ogni occasione per inviare telegrammi di solidarietà agli autori di quei progetti di film bocciati dalla Commissione di censura: da Visconti per il suo “Marcia nuziale” a De Sica per “Immatella Califano” , da una novella di Prisco etc. Si fa molto stretta la collaborazione con la Federazione dei Circoli e viene firmato, insieme con molti cineasti, un manifesto intitolato “Difendia-mo il cinema italiano!” . La federazione (FICC) fa, in più, pervenire sempre più regolarmente il suo bollettino “Occhio critico” , valido ausilio per il reperimento delle pellicole e per la stesura dei programmi. In quel periodo, intanto, si è costituito a Napoli un “Cineforum” a cura dei padri gesuiti che ha la sua prima sede all’Istituto “Fontano” del Corso Vittorio Emanuele Occorre ammettere che anche quelle proiezioni appaiono libere da vincoli ufficiali o bigotti: sotto la conduzione del padre Casolaro, S.J. si sus-seguono opere delle più varie cinematografie, firmate da Mizoguchi, Wajda, Jutkevič e molti altri. Accanto a questi cicli per il largo pubblico, si attiva “Il Centro G.Lombardo” che è quasi un’appendice d’élite del normale Cineforum. In esso, con cadenza meno regolare, vengono presentati in anteprima film di autori italiani, da Petri a Rosi, da Vancini allo stesso De Sica. Essi sono vi-sionati e commentati da una platea che comprende personalità di spicco della cultura, da Mario Pomilio a Luigi Compagnone a Francesco Compagna e molti altri. Nello stesso periodo è sorto anche un altro sodalizio con sede al cinema
“Amedeo” , il “Filmclub” che ha come responsabile Guido Cincotti ben coadiuvato da una schiera di studiosi quali Marcello Clemente, Paolo Nuzzi (futuro regista), Tommaso Mozzillo e altri. Anche in questo caso i programmi sono strutturati in base ad una rigo-rosa selezione di retrospettive che vanno da Dreyer a Cocteau, da Pabst a Autant-Lara. Né in quella sede si tace sulle disavventure che il cinema italiano sta subendo a causa di censure e “veline” di vario tipo. È ancora il tempo in cui si interviene con le forbici su “Il passaggio del Reno” di Cayatte e si lascia “dormire” a lungo “Notte e nebbia” di Resnais. Intanto, al circolo del “Fiamma” , o meglio, a casa di R.Napolitano, a Monte di Dio, dove si riunisce il direttivo, le discussioni si sono fatte alquanto laboriose. Un ricordo personale: l’introduzione illustrativa - a 224 stampa - del ciclo su “La terra nel cinema sovietico” viene rinviata alle calende greche per la difficoltà di “traslitterazione dei nomi dal cirillico all’italiano” : guarda caso, invece, la rivista a cui è stata spedita dal sottoscritto l’ha pubblicata senza cincischiare sul problema. Comunque, il temperamento diplomatico del giovane presidente riesce a evitare ogni crisi annunciata e a ricucire ogni strappo che si teme imminente. Frutto positivo di questi compromessi sono i “Lunedì dell’Amedeo” che fanno spazio non solo a film di “sinistra” ma a filoni nient’affatto caratterizzati dal continuamente sbandierato “impegno sociale”. In questo nuovo orientamento, si arriva alla grande manifestazione unitaria (al “Fiamma”) per la proiezione de “La dolce vita” che ha luogo nel dicembre del 1960. È l’omaggio doveroso ad un grande artista, Fellini, che pur si sottrae ai facili incasellamenti sociologici ed estetici. È anche un risarcimento morale, dato che su di lui si è abbattuta una grandine di insulti (la sera della “prima” al “Capitol” di Milano qualcuno è arrivato a sputargli addosso! ) A Napoli, il dibattito è aperto da Rino Del Sasso e da alcuni redattori delle rubriche di cinema dei quotidiani cittadini. Interviene, subito dopo, il padre Arpa che è il gesuita che ha difeso l’opera scrivendo che “mai un regista ha inserito nel peccato un così profondo senso di amarezza, di sventura e desolazione”. Il programma del CNC continuerà poi con altri film “boicottati” (od “oscurati” ) da “Tu ne tueras point” di Autant-Lara fino a “Rocco e i suoi fratelli” , vicende che oggi paiono inverosimili ma sono giustamente anno-tate, a futura memoria, da Mino Argentieri nel suo “La censura nel cinema italiano” . Un’altra mattina memorabile è quella dedicata a “Le quattro giornate di Napoli” di N. Loy. Sono presenti alcuni dei “patrioti” che parteciparono a quegli eventi del ’43 (i tenenti Abbate, Federico etc. ) è giunto altresì da Berlino il giovane critico Ulrich Gregor a testimoniare lo spirito democratico della rinata Germania. Seguiranno poi le opere del “secondo neorealismo” , da “Le mani sulla città” di Rosi a “La lunga notte del ‘43” di Vancini e “Il processo di Verona” di Lizzani, prove della non spenta passione civile che anima ancora. Né viene trascurato il filone lirico-esistenziale degli Antonioni, dei Germi e dei Bolognini con un ciclo che va da “L’avventura” a “L’uomo di paglia” fino a “La viaccia” . In parallelo, anche il “Centro G.Lombardo” presenta opere non certo di 225 evasione o d’intrattenimento quando invita a visionare “I giorni contati” di Petri o “Il posto” di Olmi. La parola d’ordine che, in quegli anni, pare accomunare tutti i Cinefo-nim, Filmclub, Circoli è quella di opporsi al divismo e al box-office di marca hollywoodiana. Si fa barriera, insomma, contro il cinema di consumo, quello che, nelle parole di Paolella, “produce kilometri di salsicce di celluloide” e contro lo “star-system” . È questo che pare soprattutto inteso a indurre il pubblico in una condizione che azzeri l’attitudine critica, portandolo ad un’inconscia “identificazione” con i divi (la casalinga che si proietta in Lana Turner e l’impiegatuccio in John Wayne).
La convergenza in questa direzione viene verificata in quella sorta di assise unitaria dei sodalizi che si tiene al Circolo della Stampa su “Cinema e Mezzogiorno” , con interventi di padre Casolaro, R.Napolitano e del sottoscritto. La recente produzione viene indagata proprio nella presentazione dei volti autentici del Sud, pur senza prescindere dai valori formali che i registi tengono ben presenti nell’esporre le vicende sociali. Non viene sottovalutato il nucleo cognitivo-emotivo del linguaggio filmico ancora non catalogato come “mass-medium” giustificabile a tutti livelli, dal capolavoro al “trash movie” e alla “pulp fiction” . Un uguale criterio culturale informa l’attività cinematografica che si svolge, fin dagli inizi degli anni Sessanta, nella “Società napoletana di Cultura” , in via della Cavallerizza a Chiaia. In essa, infatti, oltre a conferenze letterarie e storiche si offrono proiezioni di pellicole di qualità, da “Tabù” a “La strada” , sempre in collaborazione col CNC. Nella predetta sede inoltre, hanno luogo dibattiti su argomenti di carattere filmico, da quello su “Antonioni, moralista moderno” a “Il primo Bergman” . Una delle discussioni più animate sarà, però, quella su “Vincitori e vinti” , di Stanley Kramer che vede impegnati in essa Andrea Barba-to, Luigi Amirante, Francesco Guizzi e altri. Nell’estate, la stessa “Società” organizza, a Positano, un breve festival del cinema umoristico dei primordi. La rassegna si intitola “L’age d’or du comique” e mostra preziosi “incunaboli” , da Méliès a Linder al primo Clair etc. Manifesto e dépliant sono firmati dal pittore Thermes e il successo viene assicurato per la presenza in contemporanea di un affollato convegno su “poesia e letteratura” i cui partecipanti non perdono una sola delle proiezioni serali (il critico Giacomo Debenedetti se ne mostra entusiasta). Al contrario, l’anno sociale che si apre ai primi di autunno, registra un 226 notevole assottigliarsi del numero dei soci del Circolo napoletano e la sala del “Fiamma” ha troppi posti vuoti. Quasi a rimedio di ciò, il Direttivo decide di non sottrarsi alla moda de “la commedia all’italiana” , in quel momento vincente sugli schermi. Sono, così, inclusi nel programma “I soliti ignoti” di Monicelli, “L’ape regina” di Ferreri, “Divorzio all’italiana” di Germi, selezionando quanto di meglio c’è nel genere in voga. Una mattina, nell’occasione della visione de “Il Giudizio universale” di De Sica, viene proiettato, in coda, l’episodio de “Il funeralino” tagliato da “L’oro di Napoli” per l’intolleranza della più retriva burocrazia. Mentre G.L.Rondi, sull’andreottiana “Concretezza” difende ancora tali interventi affermando che “la censura non è poi quel mostro illegittimo contro cui tanti si accaniscono e non è neppure un relitto di tempi antidemocratici…” Purtroppo, al Circolo del Cinema continua l’assottigliarsi del pubblico presente alle sue periodiche proiezioni; viene indetto un convegno nazionale della FICC che si tiene a Porretta terme, in cui si “prende atto della progressiva involuzione organizzativa, pur dopo anni di coscienzioso e duro lavoro” . Se ne ricercano le cause soprattutto nella valanga di film che la TV nazionale riversa dal piccolo schermo e, in parte, anche nell’a-stuta programmazione dei neonati “Cinema d’essai” che operano una strategia di compromesso tra cinema di qualità e produzione commerciale, quella che va scivolando verso il pornosoft. Per un rilancio dei Circoli, si mobilitano anche alcune riviste specializzate, tipo “Cinema Nuovo” di Milano. Si promette un notiziario che, a scadenza fissa, ragguagli gli appassionati della “settima arte” sull’attività dei Circoli nella varie città. Ma, di fatto, dopo due o tre roventi apologie negli articoli di Lorenzo Pellizzari, la rubrica viene dismessa. In realtà, le difficoltà primarie risiedono soprattutto nel mancato ricambio delle dirigenze: molti “anziani” dei Circoli hanno, ormai, impegni di lavoro e di famiglia. È questo che limita sempre più il tempo che essi possano dedicare all’organizzazione. A Napoli, comunque, si riprende all’inizio del ’63 con una esauriente retrospettiva di Lattuada che si conclude con una cerimonia al Teatrino di Corte della Reggia.
È presente il regista che, da antico “cinetecario” , ben conosce le difficoltà che incontrano i cinecircoli. La manifestazione ha un certo successo ma è significativo che poche settimane dopo viene indetto un referendum, tra i soci del sodalizio, che involontariamente riassume i termini della crisi. Si 227
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229 leggono, tra i vari quesiti, i seguenti: “È di vostro interesse il dibattito?” e “secondo voi, il Circolo assolve una valida funzione?” e, infine, “av-vertite l’esigenza di un Circolo del cinema e per quali motivi?” . Non si potrebbe essere più chiari di così. Quando, l’anno seguente, il presidente, Riccardo Napolitano si trasfe-risce a Roma per meglio proseguire la sua attività di documentarista, l’estinzione del sodalizio può considerarsi compiuta. Alcuni tra i soci più attivi si trasferiscono al “Cineclub” di via Orazio: tra essi Antonio e Aldo Vergine che saranno poi assistenti di Rossellini per il suo “cinema didattico” (che annovera capolavori quali “La presa del potere di Luigi XIV” ). Al “Cineclub” dà il suo contributo culturale anche Roberto Paolella, che - tra i primi in Italia - ha conseguito la docenza in Storia e Critica del Cinema e l’avvocato V.M.Siniscalchi, pubblicista emerito e il sottoscritto che da tempo ha iniziato l’attività di saggista.
L’associazione di via Orazio fornisce ai soci anche le possibilità di attività pratiche, di regia, sceneggiatura etc. Così, interessanti cortometraggi sono firmati dai fratelli Vergine, da Nicola de Rinaldo, da Alfredo Scognamiglio e altri. Vengono tenuti cicli su Bergman, Buñuel, Antonioni e su registi delle ultime leve italiane, da Maurizio Ponzi a Giuseppe Fina, da Roberto Faen-za a Ermanno Olmi. Sono personalmente invitati anche registi stranieri di chiara fama, da Alexander Kluge a Grigorij Chukraj ed una sera viene festeggiato il poeta Evtušenko, ben conosciuto come sceneggiatore di non pochi film sovietici. L’organico dei soci, verso il 1965, è assai ben consolidato e con l’adesione di numerose personalità della cultura cittadina sembra di rivivere le giornate dei primi anni dell’ “Alhambra” . Sono proposte serie su temi particolari, quali “il cinema e la psicanalisi” (a cura di Sergio Piro) e, nell’occasione, si danno pellicole di Pabst e Hitchcock. Un’altra serie riguarda le nuove star del cinema comico americano tra cui primeggia Jerry Lewis; ci sono rassegne speciali dedicate ai rapporti tra cinema e pittura con la partecipazione di artisti e critici d’arte, da Gianni Pisani a Lea Vergine. Il clou del ciclo è la sera in cui viene analizzata l’opera di Antonioni “Deserto Rosso” . Si fanno conoscere i film degli angry young men inglesi da Richardson a Reisz, allo stesso Losey (di fatto, espatriato dagli USA a causa del maccartismo e poi rimasto a lavorare nel Regno Unito). In più, si dà avvio a interessanti minifestival delle cinematografie dell’Europa Orientale, dalla polacca, alla cèca fino alla rumena, e anche in 230
231 tali occasioni giungono cineasti e critici da quei paesi d’oltrecortina. Si riesce, così, a far conoscere quelle produzioni che non trovano una facile distribuzione sul mercato italiano. E passano, sullo schermo del “Cineclub” , opere di Wajda, Forman, Nemec, Pintilie e altri autori che, dopo la Primavera di Praga, conosceranno l’esilio.
Quasi in parallelo con tali manifestazioni sono sorti, nell’ottobre del ’63, “Gli incontri del Cinema” di Sorrento. Non per caso i responsabili di tale festival (non ancora monografico) sono proprio Enzo Fiore, Roberto Paolella, V.M.Siniscalchi, Federico Frascani e il sottoscritto (ben tre anni prima dell’avvento di Rondi). Un appoggio organizzativo viene, al principio, dato anche dalle strutture di via Orazio che hanno valide colonne in L.Riccio e L.Ammendola. Sono stati loro ad avere voluto che la funzione precipua dell’associazione fosse quella di diffondere la cultura del film d’arte. Nello Statuto si legge (e viene ribadito ad ogni invito) che “andar via senza assistere alla discussione significa travisare uno degli scopi del Cineclub” . Purtroppo anche lì, l’adesione dei giovani appare sempre più scarsa, nonostante sia prevista per essi una ridotta quota per l’iscrizione. “I tempi stanno cambiando” canta Bob Dylan e si avvertono ovunque i sintomi della “contestazione globale” e il rifiuto di una cultura che viene ritenuta “funzionale all’integrazione nell’ordine sociale” . Per richiamare al Club un maggior numero di studenti viene fondato, nel 1966, “Il Centro di filmologia e cinema sperimentale” che ha la sua sede negli stessi locali di Via Orazio. Si attivano seminari su argomenti teorici, da “grammatica e semantica delle immagini filmiche” , curati da specialisti degli argomenti, da Silvio Ceccato a Bruno Lauretano, a Enrico Fulchignoni. Alcune serate sono dedicate alla revisione dell’avanguardia dei Léger, Duchamp, Man Ray, McLaren e altri e in tali casi, il contributo critico è portato da semiologi quali Lindekens e critici d’arte quali Crispolti e Gillo Dorfles. Sono sempre più in voga i nomi di Eco, Metz, dello stesso Pasolini che ha tenuto a Pesaro una relazione sul linguaggio cinematografico con tesi tanto personali da venir commentate da Maria Corti in un sapido saggio dal titolo “Le orecchie della neocritica”. Questo fervore di laboratorio intellettuale non impedisce, d’altra parte, la normale programmazione del circolo che proietta cicli di Godard, Marker, Bellocchio e Ferreri, in certi casi - come per i due ultimi - con la presenza degli autori. 232 Dalle polemiche che insorgono nei dibattiti si ricava che la temperatura dell’epoca sta salendo, in premonizione del ’68. Per alcuni giovani cinefili parrebbe che la storia del cinema cominci dagli anni de “L’oriente è rosso” e le tesi di Mao sono sbandierate ad ogni occasione, si cita come vangelo la rivista “Ombre rosse” in cui, sinteticamente, Fofi auspica “un cinema di guardie rosse… con l’artista al servizio delle masse … per spettacoli che non abbisognino di alcuna mediazione” . Viene sempre più esaltato il cinema politico che poi risulta non poche volte consistere di testi “pedagogici sermoneggianti” e ci si azzuffa sulle pellicole degli Orsini, dei fratelli Taviani e perfino gli “spaghetti western” vengono interpretati in chiave rivoluzionaria. Proliferano, in somma, anche a Napoli, quelli che proprio Godard ha chiamato “i figli di Marx e della Coca-Cola” . Qualcuno ipotizza “un autore-produttore-distributore, cineasta totale che sia intellettuale nella mischia e militante di base uguale agli altri militanti”. L’onda lunga del ’68 arriva a sommergere anche il “Centro di Filmologia” allorché, una sera, esso viene occupato da studenti della Facoltà di Architettura. Essi urlano che, in mattinata, a Roma in quel di Valle Giulia ha avuto inizio “la rivoluzione antiborghese e antimperialista”. Insorgeranno ovunque controcorsi, controlezioni, contropiani in quel clima da “Joli Mai” , di anarchica euforia. Ma non ci sarà alcun Vietnam о Fiatnam, nessuna palingenesi culturale. È certo, invece, che in quello scorcio di tempo si conclude un periodo preciso storico per i Circoli del Cinema e i Cineclub sorti a partire dal 1947. In un bilancio equilibrato, nessuno oggi potrebbe negare che hanno adempiuto una meritoria funzione socioculturale nei primi vent’anni della risorta democrazia in Italia.
Essi hanno segnato, con un’attiva presenza, una stagione di dialogo civile e di viva circolazione delle idee. Sono spesso riusciti a contrastare il di-lagare dell’industria culturale e la massificazione del gusto, avvicinando non pochi spettatori alle opere e agli autori “sempreverdi” dell’arte cinematografica. Hanno sicuramente posto le premesse per un riconoscimento ufficiale (universitario) dell’importanza dell’analisi e della comprensione del fenomeno filmico. 233
234 Il Centro di Filmologia e Cinema sperimentale Programma e attività Il Centro di Filmologia che ha inaugurato in dicembre la sua attività ufficiale, dopo lunga e prudente gestazione, è un’iniziativa di intellettuali napoletani, coadiuvata - in ciò che concerne le attrezzature tecniche e la sede - dal Cineclub di via Orazio 77. Gli scopi di ricerca del Centro si innestano su quelli più ampii della gno-seologia, della comunicazione e dell’informazione; essi verranno perse-guiti da specialisti dei varii rami, quali Aldo Masullo, docente di filosofia nell’Ateneo, Sergio Piro, docente di psicologia ed esperto di problemi di psicopatologia dell’espressione, V.Braitenberg, cibernetico et alii.
L’analisi del linguaggio filmico, l’indagine sulle componenti molecolari dell’iconologia, la valutazione degli stimoli emozionali e, in genere, sui processi psìchici attivati dal cinema rientrano nel quattro d’impianto pre-fisso dal gruppo di studio, cui si affiancano sociologi ed esperti di altre discipline che verificheranno in diversi settori le incidenze di quel vasto fenomeno che è il mezzo di comunicazione per immagini in movimento. Il piano di lavoro dell’équipe è già allestito per quanto concerne l’anno sociale 1965-66 ed é cosi stato formulato: “Processo gnoseologico in una comunicazione per immagini quale può essere quella filmica.” Riferiranno: per l’aspetto teoretico A. Masullo, per quello psico-linguistico, S.Piro e per quello semantico-filmico A.Napolitano; sono inoltre già progettate analisi sperimentali sul valore semiotico del materiale filmico in rapporto al tipo di determinazione ambientale. E’ particolare di non piccolo peso il fatto che questo Centro si inserisca in un fermentante discorso su arti figurative, funzione critica e operazione poetica che da tempo si ripropone, con rinnovato vigore, nella città di Napoli. Ed è da sottolineare come questa verifica filmologica intenda differenziarsi da quell’alone pedagogico, psicodidattico se non moralistico che investe l’analoga attività dello “Istituto A.Gemelli” di Milano, peraltro già collaudato da un lungo periodo di sperimentazioni e di rapporti a livello internazionale. A conferma della fattività del sodalizio, si è già avuto nel primo mese di vita, un fitto programma di manifestazioni - dalla visione e discussione di film d’avanguardia cecoslovacchi, alla proiezione del film di Taylor Mead “La regina di Saba e l’uomo-atomo” , alla conferenza di S.Ceccato su “La comunicazione, via linguistica, via d’osservazione, via estetica.” Ogni serata ha suscitato anche fra i semplici soci, non aderenti al più ristretto gruppo di studio, dibattiti d’alto livello che hanno vivamente 235 interessato gii esponenti più qualificati della cultura napoletana, seppure di campi non affini o lontani dal detto tipo di ricerca. Sulla più recente manifestazione del Centro, più peculiarmente filmologica crediamo che valga la pena di intrattenersi più diffusamente: “La verifica incerta” di Baruchello e Grifi non è, infatti, cinema nel senso corrente del termine e può forse definirsi un “saggio” sul cinema ottenuto attraverso la singolare campionatura di un certo repertorio emozionale tipico del cinema di “consumo” . Un confronto, sia pure a base di “random numbers” , tra i temi di un mosaico, i motivi di un’arazzo che ci è troppo spesso sventolato sotto gli occhi e un confronto teso a devitalizzare i sortilegi e le ipnosi congeniali alla “pellicola d’evasione per spettatore sprovveduto” . Gli autori hanno visto venirsi incontro questo materiale sotto forma di celluloide da macero (nel 90% dei casi, film americani del decennio 50-60) e ne hanno selezionato sequenze per via d’analogie iconologiche, o similitudini o contrasti, montandole in modo da ottenere un’acuta demistificazione della tensione allucinatoria, motivo primario se non unico di quel tipo di produzione. Sequenze di eccitati combattimenti, di grida esortative, di rombanti va-ticinii e di torrenziali catastrofi, sono tutte legate da un’unica cornice: tutti gli stereotipi hollywoodiani che, attraverso iterazioni deliberate, combi-nazioni sarcastiche dei dialoghi, associazioni ridondanti dei significati, finiscono col restituire allo spettatore una umana capacità critica e a libera-rlo dall’atmosfera passiva di suspense, di identificazione e proiezione. Si tratta qui di di un vero e proprio instaurarsi di un processo conoscitivo che insinua concetti al posto di sensazioni grossolane e idee in luogo di un materiale rappresentativo quanto mai caotico e aggressivo. E si può ben dire che nei momenti meglio riusciti, attraverso un metodo induttivo e generalizzante, vien fuori il nucleo di pensiero e di giudizio proprio dall’alone di provocazione percettuale che era, in partenza, l’unica ragion sufficiente di un simile materiale iconico-acustico. Talvolta il risultato è frutto di ciò che i “researchers” anglosassoni amano chiamare “serendipity” , cioè quel margine di felice casualità messa in moto dallo studioso e che è coefficiente non minimo di invenzioni e sco-perte. Ma è la linea direttiva verso il comico che, secondo noi, garantisce il procedimento intellettivo, mettendo a nudo la banalità degli impulsi e sollecitando in loro vece
l’intervento benefico della riflessione; il riso sca-turisce, anche più di quanto s’immagini, da operazioni di verifica raziocinante dell’assurdo, del suggestivo e del ciarlatanesco. Così gli autori operano sulla punteggiatura e sulla sintassi del film 236 medio d’avventura, di guerra e d’agitazione erotica: la sequenza della apertura-chiusura delle porte, messe in serie, infilate una dopo l’altra in una collana a doppio riflesso, illumina sul giuoco così funzion le ma così spurio dei puntini, puntini a sensazione: “la porta poi s’aprì e comparve… aprendo la porta, vidi… etc. etc. ” I presunti personaggi di tante vicende vengono smascherati come marionette immerse sempre nello stesso vortice prefabbricato di passioni, reazioni e riflessi condizionati: cannonieri che sparano sullo spiazzo del “Deserto rosso” , colonnelli incerti sull’uso della loro autorità, eroi ignoti che marciano al suono dei pifferi oppure personaggi femminili di grande dolcezza e combattività, corteggiate indiscriminatamente e simultanea-mente da Sinuhe l’egiziano, Sir Walter Raleigh e Eddie Spanier. E’ quest’ultimo il camaleontico ed autistico protagonista de “La verifica incerta”: autentico interprete a circuito chiuso che ogni evenienza, ogni fatto assume su di sè e conformemente alle proprie aspettative egocentriche; tipico “man of the street” che risulta, al fondo, il sempre rinascente personaggio - in multiformi panni - di tutta la produzione per folla solitaria. L’omaggio a Marcel Duchamp è, forse, il meno congruente di tutto il “saggio” : non si tratta, infatti, della dimostrazione de “la magica forza attrattiva degli oggetti, del loro succo surreale o freudiano” ; al contrario, le cose, le azioni vengono circoscritte nel loro stretto significato logico, al-dilà di ogni recinto patico e manovrate verso il loro più esatto riferimento semantico. E’ cosi che “La verifica incerta” si fa strumento di filtraggio, di depurazione severa dei tanti luoghi comuni, stregonerie e pozioni morfi-niche messe sul mercato a prezzi minimi dai dittatori occulti della nostra civiltà delle immagini. 237
238 UNO STORICO NAPOLETANO DEL CINEMA: ROBERTO PAOLELLA Una domenica mattina dell’autunno 1947, si inaugurò il primo anno sociale del “Circolo napoletano del cinema” , nei locali dell’ “Alhambra” , in via Nisco, traversa di Via dei Mille. Roberto Paolella era tra i soci fondatori del sodalizio insieme con il prof.R.Caccioppoli, P.Ricci, V.Viviani, G.Napolitano e altri. Le proiezioni erano frequentate da gran parte dell’intellettualità partenopea; valga ricordare, infatti, i nomi di Incoronato, Prisco, Rea (tra gli scrittori) e Prunas, Frascani, Grassi, Lapiccirella (tra i giornalisti). Un autentico pluralismo democratico si estrinsecava nei dibattiti che, allora, seguivano puntualmente le proiezioni. Ad un giovane che usciva dal clima asfittico della dittatura, la platea dell’ “Alhambra” appariva come una sorta di comitato di liberazione culturale; quegli appassionati discorsi scaturivano da coscienze represse per un ventennio o, almeno, invitate alle più ermetiche divagazioni. La pellicola con la cui proiezione era stato inaugurato il Circolo era “L’uomo di Aran” di R.Flaherty, “autentico poeta dello schermo che nell’introduzione tenuta da Paolella -“aveva saputo tenere in delicato equilibrio l’emozione umana e il paesaggio esterno, senza alcun ricorso ad eventi di eccezione”. Solo qualche disinformato (o maligno) poteva considerare il lavoro critico di Paolella alla stregua di quello di un qualsiasi fanatico schedatore. Guarda caso, era stato proprio lo studioso napoletano a descrivere quel tipo di impegno come “un lavoro indubbiamente preciso ma terribilmen-te limitato, tipico di afosi eruditi in grado, sì, di accertare il giorno e l’ora in cui un capolavoro fosse stato terminato ma incapaci di conden-sarne, in felice sintesi, i significati umani e artistici…” Simili acute osservazioni di metodo estetico affioravano spesso nei saggi e negli articoli che fin dal ‘40 egli andava pubblicando su riviste specializzate che rappresentavano anche una fronda al regime culturale dominante. Il suo primo contributo apparso su “Bianco e Nero” era stato proprio uno studio sul cinema muto a Napoli, in cui si analizzava, tra gli atri, il film “Sperduti nel buio” di Martoglio che nel dopoguerra sarebbe andato disperso. Nel 1949, Roberto Paolella veniva chiamato, tra i primi in Europa, a tenere un corso universitario di cinema presso la Facoltà di Magistero di Roma. Ma la sua cattedra meno precaria era rappresentata dalla sala del 239 CRAL-SME (oggi Enel) di Via Roma dove andava presentando opere che a lui pervenivano dalla cineteca di Milano. Anche al circolo “Le 4 arti” si ritrovava con critici e letterati a dibattere questioni inerenti al cinema di qualità: segnò un’epoca il convegno su cinema e letteratura in occasione dell’uscita sugli schermi dell’Amleto di L.Olivier. Non pochi amici, quali Pietro La Via e L.Giusso, sapevano bene, fin da allora, che i foglietti che Paolella compulsava con ritmo mercuriale, erano sintesi di capitoli e capitoli già pronti per ben più
ponderosi volumi. Il primo, Storia del cinema muto venne dato alle stampe nel 1956, per i tipi dell’ed.Giannini e fu tradotto subito in molte lingue straniere, tra cui il russo. Il secondo volume dedicato a La storia del cinema sonoro, 1926-1939 avrebbe visto la luce solo dieci anni dopo. In ambedue, Paolella aveva riversato la sua eccezionale documentazione filtrandola attraverso una cultura e un gusto indiscutibili. Erano venuti a maturazione, così, i frutti di un’appassionata attenzione dedicata per decenni ad un fenomeno ch’era a lui coetaneo - era nato il giugno 1896 - e che fin da ragazzo aveva intuito come cosa di grande avvenire, al contrario dei suoi sfiduciati inventori. Dalle centinaia e centinaia di pagine emergevano le predilezioni estetiche di un Paolella che si autodefiniva sovente “pourri de littérature” : i suoi numi rispondevano, infatti ai nomi di Baudelaire, Jacob, Valéry, Malraux. Questa tendenza all’asistematicità gli permetteva una “lettura” dei film libera da ogni schema ideologico e lo riconciliava spesso con la storiografia crociana. Per lui “lo storico, come l’artista, deve saper estrarre dagli eventi ciò che essi contengono di vitale e saper trarre l’essenziale dall’effimero” . E, aggiungeva “anche allo storico del cinema si richiedono doti di intuizione, cultura e sensibilità particolari perché egli è tenuto sempre a porsi di fronte al fatto filmico come ad un problema vivo di gusti, di tendenze e di valori… e in base ad essi, lo studioso non può non operare delle scelte…” . Avvertiva, quindi, come si profilasse, attraverso la pratica di recensire ogni produzione più insignificante, il rischio di giustificare tutto ciò che venisse ad esistenza, anche il kitsch più sfacciato, la frode artistica e la stessa spazzatura filmica. I suoi autori prediletti andavano da Linder a Chaplin e a Keaton, da Dreyer a Ėjzenštejn (che in un dibattito alla “Stampa” aveva appellato S(ua) M(aestà) Ėjzenštejn), ma non trascurava di inserire nelle sue programmazioni “retrospettive” i Carnè, i Renoir, i Clair; di quest’ultimo 240 aveva appreso con personale soddisfazione la nomina all’Accademia degli Immortali (Institut de France). Ma accoglieva con “esprit de géometrie” vari autori, allora nuovi quali Clouzot, Bresson, Kurosawa, Bergman e Lean, spesso presentati in anteprima al Cineforum diretto da p. Casolaro, S.J. Non era molto tenero soprattutto col termine “neorealismo” perché, diceva, “è cosa troppo comoda accomunare in un’unica scuola autori così diversi tra loro quali De Sica, Antonioni, Visconti, etc.” Contestava alla sinistra più zdanoviana l’accaparramento di opere che presentavano nel loro tessuto artistico ben altre filigrane di cifra laica od esistenziale e cristiana. Ma da genuino liberale era contro ogni censura e riconosceva il carattere “funesto” di ministri e sottosegretari che “facevano di tutto per far fuggire tanti cineasti italiani tra le braccia del PCI” . Prendeva parte, instancabil-mente, ad ogni convegno o tavola rotonda che s’incentrasse sul cinema d’arte, al “Fiamma” , all’ “Amedeo” e, più tardi, al “Cineclub” di Via Orazio. Collaborò fino al ‘68 alla pagina degli spettacoli che appariva il venerdì su “Il Mattino” dove ribadiva la sua fede nel film come arte figurativa e come moderna forma del pensiero visivo. Le sue obiezioni a una certa produzione media e mediocre erano, però, condite di sale attico e, forse, con peperoncino della Magna Grecia. Il suo sforzo costante era teso a dis-sipare quegli equivoci di base tra “specifico filmico” e “linguaggio iconico” e a chiarire i qui pro quo “tra Gutenberg e Ariosto e tra il grammofo-no e il mito di Orfeo” . Gli parevano ridicole le classifiche tra “i campioni d’incasso” che per lui rappresentavano il business hollywoodiano cioè il trionfo del profitto a svantaggio del buon gusto. Fin dal 1963 venne chiamato nel Direttivo degli “Incontri internazionali” di Sorrento, tre anni prima - cioè -dell’avvento di Rondi (e chissà come avrebbe commentato certe falsificazioni cronologiche operate con tanta nonchalance nelle commemorazioni scritte e orali). Nel ‘64, era stato invitato al congresso su “La storiografia cinematografica” dove aveva avuto gli omaggi dei suoi più famosi colleghi, da Sadoul a J. Mitry, da Arnheim a R. Manvell. In quei brillanti interventi a Venezia insisteva a metter in guardia il comune spettatore dall’industria sempre più dispensatrice di “salsicce di celluloide” e avvertirlo del rischio di regressione infantile verso i “costosi ma vuoti trenini elettrici pieni di luci ed effetti speciali ma privi di ogni qualità veramente umana” .
Nel ‘66 conseguì la libera docenza in Storia e critica del cinema, tra i 241
242 primi in Italia, e la esercitò, nonostante l’età avanzata, con contagiante entusiasmo; scomparve nel 1968 tra il cordoglio di quanti l’avevano conosciuto e apprezzato; qualche anno dopo, proprio a Sorrento veniva istituito un Premio a suo nome che fu periodicamente assegnato a personalità che avevano illustrato la “Settima arte” , da I.Smoktunovskij a R.W.Fassbinder. 243
LA PARABOLA UMANA E INTELLETTUALE DI RENATO CACCIOPPOLI 244 “I veri ingegni sono come le stelle, la loro luce impiega così tanto tempo per giungere a noi che quando possiamo scorgerlo l’astro è già scomparso da tanto”. E’ una proposizione di Proust riportata da P.A.Toma nel suo interessante testo su “Renato Caccioppoli. L’enigma” (NA 1992). Essa appare particolarmente atta a rappresentare la parabola umana e intellettuale del matematico napoletano, scomparso da oltre quarantacinque anni, l‘8 maggio 1959. Dopo un protratto silenzio seguito alla sua morte, è da un quindicennio (o poco più) che appaiono moltiplicarsi saggi e pubblicazioni sulla sua complessa figura, comprendendo fra essi anche l’ottimo film di Mario Martone, (1992) concentrato sulle sue ultime settimane di vita. In realtà, già nel 1987, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici lo aveva commemorato, a Pisa, con varii contributi di colleghi ed estimatori. Due anni dopo un “International Symposium” era stato tenuto e gli atti pubblicati nel Vol.XL di “Ricerche matematiche”. In tali scritti si andava già delineando non solo la personalità di Caccioppoli ma anche la temperie politica e culturale della Napoli del dopoguerra in cui egli si muoveva come uno dei protagonisti (seppur involontariamente, data la naturale modestia). In uno di essi, a proposito del suo anticonformismo, libertario e paci-fista, acutamente osservava G.Marotta che “i modi anarcoidi erano giu-dicati tali dai cosiddetti benpensanti quasi allo scopo di giustificare le loro incoerenze poiché chi si professava rivoluzionario non si discostava di un millimetro, nella vita privata, dagli egoismi e dalle grettezze del piccolo borghese impermeabile ad ogni esigenza più ampia”. Di fatto, i comportamente ritenuti “anomali” dai tanti perbenisti erano motivati, in Caccioppoli, da una consapevolezza estrema del concetto di autenticità esistenziale. Quella, appunto, che non può esser riconducibile a mode collettive o impersonali che finiscono poi col dissolversi nel tran tran delle ipocrisie quotidiane. La stessa idea del riscatto sociale non era per lui accettazione di un passivo trasformarsi in uomomassa spiegato alle parole d’ordine o agli slogan di qualche partito egemone. La sua presunta eccentricità, quindi, non veniva dalla voglia di “épater les bourgeois” ma era la decisione di affermare, al di là dello stantio galateo convenzionale, vere e proprie scelte di valori.
D’altra parte, una singolare genealogia pareva che lo avesse destinato ad una “missione di profeta in patria” , perchè non è superfluo ricordare che suo nonno, da 245 parte materna, era stato niente meno che Mikhail Bakunin, il famoso rivoluzionario russo. Questi, nelle sue avventurose peregrinazioni tra. Dresda, Parigi, Zurigo e Londra si era ritrovato a vivere alcuni anni a Napoli diffondendo anche qui con i suoi scritti (la rivista “La situazione” ) le sue utopiche dottrine di totale egualitarismo. La sua personalità aveva certamente avuto un peso sui parenti spesso riuniti nella Villa Caccioppoli di Capodimonte (e poi al Calascione di Monte di Dio); in essa discussioni politico-filosofiche coinvolgevano le personalità dei presenti. Così, indubbiamente e certi “stigmi” erano stati trasmessi tramite l’austera Sofia (madre di Renato) e Maria (sua zia) (ambedue figlie di Bakunin). Qualcosa di slavo era stato ereditato dal giovane matematico e ciò talvolta preoccupava la genitrice o induceva la zia a serrate discussioni: era, forse, una certa sensibilità febbrile o quella tendenza ad una malinconia piena di astratte meditazioni . Ad esse si aggiungeva la sua pronta reattività ad un ambiente banale dal quale si sentiva ora oppresso ora irritato. E ciò può esser ben capito se si riflette che gli anni della gioventù e della prima maturità erano stati vis-suti da Caccioppoli tra il ‘22 e il ‘43 proprio nel periodo del fascismo, cioè quanto di più estraneo alla sua mentalità di studioso e alla sua morale. Quei dogmi e quelle “mistiche” a buon mercato avevano certamente ec-citato in lui il senso dell’ironia se non del sarcasmo. Qualche conforto contro la marea dei motti retorici e delle frasi fatte lo aveva trovato nel frequentare la esigua élite di dissidenti dal regime. Essa gravitava, in quel tempo, tra il “Caffé Gambrinus” di Via Chiaia, il salotto La Via a Posillipo e la trattoria “II Grottino” al Vomero, da decenni ritrovo di artisti e intellettuali C’è un episodio, tra i tanti, che ben caratterizza la sua singolare maniera di opporsi alla soffocante dittatura e alle sue “parole d’ordine” ed è quello avvenuto alla birreria “Löwenbrau” di Piazza Municipio: Renato e Sara Mancuso (allora non ancora sposi), una sera del maggio 1938, in risposta agli inni di alcune camicie nere presenti nel locale avevano intonato a piena voce la “Marsigliese” , ben marcando le parole “… liberté, liberté ché-
rie!” Per due o tre minuti, gli ufficiali della milizia fascista erano rimasti come impietriti mentre ancora Caccioppoli aveva continuato ad arringare il pubblico sul senso di quei versi e di quella musica ( si era messo al piano, al posto del normale intrattenitore). Fu inevitabile per lui l’arresto e il trasferimento in carcere dal quale poté esser rilasciato solo dopo l’inter-246 vento della madre e della zia. Ma il compromesso accettato da Sofia Bakunin fu per Renato quasi più duro della cella di rigore: la madre riconobbe, per iscritto, che il figlio era stato vittima di “un accesso di follia” accettan-do per lui il ricovero in una clinica psichiatrica. Fu un dolore che per anni ed anni il matematico non riuscì ad estingue-re dentro al suo animo, quasi al punto di non perdonare il gesto alla pur adorata madre. In quegli anni, però, fatti positivi non erano mancati, specie nel campo degli studi: dopo il quasi immediato abbandono del corso di “Ingegneria” Caccioppoli aveva conseguito una brillante laurea in Matematica e poi, nel 1928, la libera docenza. Appena due anni dopo gli veniva conferita la cattedra a Padova dove era rimasto poco tempo in attesa del trasferimento all’Ateneo di Napoli. Era qui che esercitava va il suo insegnamento con passione e serietà che spesso erano equivocate per “eccessiva severità” . Invece, a ben guardare anche questa presunta intransigenza era nient’altro che il portato della sua insofferenza per ogni pressapochismo e furberia. L’aneddoto, da lui talvolta citato, del sensale di matrimoni che aveva procurato al timido provinciale “una ragazza seria e illibata , solo…più o meno incinta” era un monito morale ai candidati troppo disinvolti sui segni algebrici da scrivere alla lavagna. Una storia pervasa, di sottile umorismo eppure emblematica della onestà intellettuale del grande matematico e della sua allergia ad ogni sotterfugio.
E a proposito del suo eccellente curriculum di ricercatore è forzoso, per noi, il rinvio al volume ristampato di recente in suo ricordo a cura di Alvino, Carbone, Sbordone e Trombetti, suoi emeriti colleghi ed estimatori ( “In ricordo di R.C.” Napoli, 2004). Si rinnova, cosi quella dicotomia negativa segnalata da C.P. Snow fin dal 1959 ne “Le due culture” , cioè la scissione improvvida tra sapere scientifico ed umanistico. Proprio quel solco che era riempito così sagacemente da Caccioppoli con quel suo continuo annodare i fili dell’arte, della letteratura, della musica con quelli delle dottrine fisiche, geometriche e naturali. E ciò è in grado di testimoniare lo scrivente dato che fin dal 1947 ebbe il privilegio di frequentare il “Circolo napoletano del Cinema” cui avevavo dato vita proprio P.Prunas, Roberto Paolella e non certo ultimo Renato Caccioppoli. Infatti, i cosiddetti “dibattiti” dopo le proiezioni dei film in programma 247 spaziavano, in realtà, su molti campi della cultura dal cinema alla poesia, dalla pittura alla musica e vi prendevano parte esponenti notevoli dell’in-tellighenzia partenopea. In tal modo venivano analizzate non solo le opere ma le radici stesse dei film: quanto ad es., vi fosse di Rimbaud o di Verlaine in registi quali Carné o Duvivier o quali erano le filosofie sottese ai discorsi per immagini di un Ėjzenštejn o Dreyer, di un Bresson o di un Murnau. Tra gli altri, sia il matematico che lo storico (Paolella) citavano spesso le valutazioni fatte da Lorenzo Giusso, loro amico e poi sodale del “salotto La Via” a Posillipo. Era di pochi anni prima il brillante volume del Giusso che compendiava e analizzava le teorie dei maggiori pensatori del ‘900 ( Il ritorno di Faust” ). Era un testo che aveva evidentemente influenzato i partecipanti alle discussioni dei dopofilm al cinema Alhambra di Via Nisco. Una lettura privilegiata doveva esser stata il bel capitolo consacrato ai concetti espressi da Bergson
relativamente ai “dati immediati della coscienza come spontaneità e libertà irriducibile” . Tra le tante mattinate svoltesi al Circolo una resta memorabile per il significato rivelatore della personalità po-liedrica di Caccioppoli, quella, appunto, della proiezione de “La passion de Jeanne d’Arc” di C.T.Dreyer. Il matematico si era offerto di eseguire lui stesso, al piano, il commento sonoro al capolavoro del cinema muto e così fece dando vita ad un splendido sèguito di musiche bachiane, adeguata-mente interpretate. Si ebbe modo così di capire, quanto la musica fosse da lui vissuta come fattore umano a integrazione del ragionamento algebrico e quanto essa lo potesse far vibrare di una alta e piena vitalità. Era già testimonianza comune di quelli che lo frequentavano familiar-mente che, allorchè si mettesse alla tastiera per un brano di Debussy o Wagner (la parafrasi listziana del “Tristano” , ad es.) si operasse in lui una sorta di salvifica trasfigurazione. Era, per lui, come ritrovare in quelle note un’emozione che nessuna equazione o derivata avrebbe mai potuto dargli. Così, anche l’episodio del “comizio” al teatro “Piccinni” di Bari (del dicembre 1953), può ritenersi significativo del suo vivere appieno la fusione delle nobili idee con le frasi della grande musica. Era stato lì inviato a parlare in nome dei “Partigiani della pace” , ma dopo poche battute di discorso “impegnato” , avendo scorto sul palcoscenico uno Steinway pronto all’uso, Caccioppoli aveva pensato bene di esemplificare il concetto di pace nel mondo con le note edeniche della “Pastorale” di Beethoven. 248 Dopo il primo lieve moto di sorpresa, il pubblico si fece sempre più attento immedesimandosi delle motivazioni profonde che avevano indotto l’oratore ad un tale exploit. Cosa che non fu ugualmente appprezzata dalla “nomenklatura” della Associazione parapolitica, per la quale
qualcuno disse “occorrevano efficienti, propagandisti non “raffinati esteti”. Ciò dimostrava comunque che il personaggio era ancora una volta sfuggito a certi schemi banalmente riduttivi e a certi giochi machiavellici. Era chiaro, d’altronde, che i gerarchi ricordava-no bene quando il “simpatizzante” se l’era presa con “quell’imbecille di Ždanov che crede di poter censurare ogni libro, ogni poesia che nasce in Russia” o quando aveva irriso alle “ciclopiche idiozie di Lysenko” , in una divertita allocuzione in presenza addirittura dello stesso console dell’URSS. Ben sapevano anche di quanto spesso il loro eminente socio aveva parlato di “chiesa comunista piena di dogmi” . Insomma, si confermava di volta in volta la coscienza critica di un intellettuale che non amava farsi imprigionare in formulette partitiche. Una mente che rifiutava ogni statica verità definitiva atta solo a frenare il progresso del pensiero e proprio mentre proclamava improbabili escatologie libertarie. Nè si può presumere che tali prese di posizione fossero pretesti per affermare un arrogante individualismo data poi l’attitudine a non parlar mai di sè, nemmeno per comunicare agli amici che nello stesso anno 1953 gli era stato conferito un importante premio da parte dell’ Accademia dei Lincei, ( “per le scienze fisiche, matematiche e naturali” ). Al contrario, specie con i giovani collaboratori del Circolo del Cinema, il matematico era prodigo di brillanti aneddoti, motti di spirito e osservazioni satiriche sugli avvenimenti in corso. Nei “codicilli” che avevano luogo alla conclusione dei dibattiti nell’atrio dell’AIhambra, non mancavano a Caccioppoli gli argomenti desunti dall’attualità: affermazioni o promesse di ministri, diplomatici o presidenti finivano quali bersagli dei suoi sapidi commenti al sale attico. Tra le fonti spiccavano, allora, le gaffe verbali e geopolitiche della sig.ra Luce, amba-sciatrice USA a Roma. Il riso che scaturiva da quelle glosse ironiche era senza acredine, come un andare euforico alla scoperta di lacune e difetti in persone troppo piene di sè. Era quasi un gioco fanciullesco teso a buttar giù le scene di cartapesta del teatrinopolitico, dai falsi colori e dalle labili strutture.
Lo humour del matematico, insomma, non era il compiacimento del dileggio ostile o della facile derisione, ma come l’ironismo di cui ha scritto Pirandello era quel “sentimento del contrario” cioè il senso del pensiero 249 che analizza avvenimenti, persone o discorsi per trarne fuori aporie e contraddizioni, fin troppo umane. Perciò, esso si diramava in tutte le direzioni, senza pregiudiziali, colpen-do talvolta anche le responsabilità di certi “idoli” . Ad esempio, in un comizio tenutosi pochi giorni prima del 18 aprile 1948, si era ascoltata la defini-zione di Iosif Vissarionovič come “uno dei satrapi del nostro tempo” . Era emersa con evidenza là sorpresa del pubblico presente quando aveva decifrato in quelle strane generalità che si trattava dopotutto del tanto osanna-to Stalin (confermando al contempo la quasi totale ignoranza da parte dei compagni della personalità del dittatore e del suo vero nome). Nè si potevano ritenere questi exploit dei meri funambolismi i mentali: erano, invece, ulteriori prove della sua indipendenza di pensiero, quella che preoccupava i “puri e duri” del Fronte Popolare. Questi, solo alcuni decenni dopo, avrebbero realizzato che il “grillo parlante” aveva ragione dato che i fatti storici avrebbero pian piano rivelato che egli era nel giusto. Il matematico napoletano, pur di sinistra, faceva parte di quella schiera di chi “non intendeva suonar il piffero per la rivoluzione” come avevano sostenuto non pochi intellettuali, da Vittorini a Diaz, da Colletti a Macca-nico, da Sapegno a Petri a Calvino etc. Perciò, era stato ben chiaro il suo parere negativo sull’esclusione dal “gruppo Gramsci” di varii giovani studiosi non conformisti (Piegari, Marotta, La Rocca). Aveva visto, in tale ukase, il sintomo di una tendenza autocratica in seno ad un partito che poi era solito sbandierare in altri luoghi e altri momenti la più strenua difesa dei princìpi di libertà e di democrazia.
Nè era stato un cronico capriccio il rifiutarsi costantemente al tessera-mento, ma un metodo per rifiutare di accettare verità stabilite “a priori” . Sarebbe stato per lui il rinnegamento dello spirito di ricerca che animava tutta la sua personalità di studioso, quel criticismo rigoroso cui costantemente si ispirava, quella dialettica senza dogmi utile a scansare certezze metafisiche o ideologiche, alla base di tante intolleranze politiche. Era questo, forse, il motivo più profondo per il quale molti giovani vedevano in Caccioppoli un modello di comportamento culturale e un lievito vero per la crescita morale. In lui essi individuavano la volontà lucida e conseguente di conoscere e analizzare i fatti senza travestimenti interessati . Quella qualità, cioè, che consente di mantenere la propria dignità senza ridursi ad automi o robot in cui inserire un programma da non discutere nè elaborare. Da lui apprendevano che nessun distintivo può garantire la 250 bontà di un’idea, di un’azione o di un intero sistema. Nella sua passione per l’arte (musica, poesia o cinema) essi riconosce-vano il complemento necessario per l’umanizzazione dell’ impegno sociale, il momento della più intima fusione tra cognizioni ed emozioni. Del resto, il loro stesso “maestro” , non poche volte, aveva indicato nella matematica pura il rischio di un puro “divertissement” come aveva ricordato A.Gide in una sua annotazione di poco posteriore all’incontro avuto in quel di Sorrento nel luglio del 1937 con la “affascinante persona del matematico napoletano” . Purtroppo, lo scorrere degli anni rivelava sempre meno infondati certi timori del “simpatizzante” Caccioppoli : nel 1956 i fatti d’Ungheria aveva-vano scosso la coscienza e la struttura stessa del P.C.I., provocando “una frattura che il partito stesso era ora impotente a superare” , come avevano scritto nel loro “manifesto” i 101 intellettuali decisi ad abbandonarlo.
Fu il 1956 l’anno dell’inizio della crisi non solo politica ma anche esistenziale per Renato: era venuta meno anche la solidità del matrimonio con Sara ed era morta l’amata madre Sofia. La parabola della vita declinava ormai verso una drammatica conclusione, accelerata dal crescente uso dell’alcool buono solo ad aggravare le angosce. Come ha ben descritto il film di Martone, il matematico napoletano si muoveva per la sua città sempre più come in un dedalo di vicoli ciechi, tentando invano di spiegarsene i misteri. Era sempre più solo “nel silenzio del luogo e nel silenzio proprio, come avulso dalla realtà” (G.Bilotta nel numero unico di “Secondo tempo” , NA, 2004.) Invano, socraticamente dialogava con i miseri, con i sottoproletari, con il popolo delle notti abiette dei quartieri più degradati. In quegli ultimi mesi della sua vita, Partenope appariva al chiarissimo docente come un immenso e fatiscente cubo Rubik, dalle cento facce mai complanari. Sentiva che si era rotto l’equilibrio tra la ricerca intellettuale e la passione che lo aveva tenuto legato a tanti aspetti del mondo, a tante persone. I dis-inganni avevano superato il livello di guardia e ogni cosa appariva come un’irresolvibile equazione. Giustamente nel suo libro, P.A.Toma lo ha ritratto a colloquio con la figura di Evaristo Galois, giovane genio matematico dell‘800, condannato anche lui ad essere “respinto in favore della mediocrità servile” dei suoi tempi. 251 Il colpo di pistola dell‘8 maggio 1959 sarebbe stato il punto fermo posto a conclusione di cento ragionamenti ineluttabili. A lunghi anni di distanza dalla scomparsa di un simile “astro” , un qualche conforto ci viene dall’aver saputo che il nome di Caccioppoli è stato dato a un asteroide63 che gira intorno al nostro pianeta, come ci è stato riferito nel recente convegno
del 25 settembre 2004 tenutosi in onore del grande matematico all’Istituto di Studi Filosofici di Napoli. 63 9934 Caccioppoli è un asteroide della fascia principale. Scoperto nel 1985, presenta un’orbita caratterizzata da un semiasse maggiore pari a 2,5796914 UA e da un’eccentricità di 0,2318150, inclinata di 16,61787° rispetto all’eclittica. Fu battezzato così in onore di Francesco Caccioppoli, direttore dell’Istituto Navale di Procida (1855-1904) e astrofilo appassionato, e Renato Caccioppoli, matematico italiano. 252 INDICE DEI NOMI * Illustrazioni ABBATE ten.Giovanni, 225 BEETHOVEN Ludwig van, 248 ACKERMANN Anna Maria, 177 BELLOCCHIO Marco, 189, 232 ALEKSANDROV Grigorij Vasil’evič, BENJAMIN Walter, 191 221 BERGMAN Ingmar, 226, 230, 241 ALICATA Mario, 220 BERGMAN Ingrid, 6, *154, *156, 156 ALLEN Woody, 211 BERGSON Henri, 248 ALVARO Corrado, 25, 219, 271 BERNARI Carlo, 20, 25, 129, 130, 269 ALVINO Angelo, 247 BERTINI Francesca, 42, *43 AMIRANTE Luigi, 226
BIANCIARDI Luciano, 221 AMMENDOLA Luigi, 232 BIASI Alberto, 22 AMADIO Silvio, 205 BILOTTA Giuseppe, 251 AMOROSO Roberto, *40, 52, 53, 55 BLASETTI Alessandro, 42, 222 ANDREOTTI Giulio, 223 BOCCACCIO Giovanni, 147, 151, 176 ANTONIONI Michelangelo, 109, 153, BOLOGNINI Mauro, 225 189, 223, 225, 226, 230, 241, 270 BONNARD Michel, *40, 44, *45 ARENA Lello, 205, 206, *208, *212, BORGNINE Ernst, 160 *215 BOSCH Hieronymus, 147 ARGENTIERI Mino, 225 BOSCO san Giovanni, 223 ARGENTO Aurelio, 222 BOVIO Libero, 49 ARIOSTO Ludovico, 241 BRAGAGLIA Carlo Ludovico, *40, 44, ARISTARCO Guido, 72, 101, 270, 271, *45 274 BRANCATI Vitaliano, 73 ARNHEIM Rudolf, 241 BRECHT Bertold, 199 ASOR ROSA Alberto, 49
BRAITENBERG Valentino von, 235 AUTANT-LARA Claude, 224, 225 BRESCIA Alfonso, 169, *170, 205 BRESSON Robert, 241, 248 BACH Johann Sebastian, 222 BRIGNONE Guido,*40, 46, *47, 50 BAKUNIN Maria, 99, 122, 140, 142, BUAZZELLI Tino, 46 143, 146, 172, 232, 246 BUÑUEL Luis, 221, 230 BAKUNIN Mikhail, 246 BURNS John H., 122, 176, 180 BAKUNIN Sofia, 96, 246, 247, 251 BARBATO Andrea, 226 CACCIOPPOLI Renato, 1, 19, 221, 222, BARDEM Juan Antonio, 223 223, 239, *244, 245, 246, 247, 248, BARRA Peppe, 177 249, 250, 251, 252 BARUCHELLO Gianfranco, 236 CALVINO Italo, 250 BAUDELAIRE Charles, 240 CANDIA Duchi di, 183 253 CANUDO Ricciotto, 220 DECARO Enzo, 205 CAPA Robert, 130 DE CURTIS Antonio, 81
CAPRIOLI Vittorio, 156, *157, 159, DE FEO Sandro, 79 162 DE FEZ Alberto, 221 CAPUANO Luigi, 55 DE FILIPPO Eduardo, 7, 25, 42, *43, CARBONE Luciano, 247 56, 57, 58, *59, *60, 61, *62, 63, 64, CARMI Vera, 44 *65, 66, 67, *84, 85, 96, *102, *158, CARNÉ Marcel, 220, 240, 248 159, 206, 209, 211, 219, 269 CASTELLANI Renato, 7, *40, 53, *54, DE FILIPPO Peppino, 89, 162 68, 69, 75, *76 DE FILIPPO Titina, *60, 61, *62 CAVANI Liliana, *175, 176, 177, *178, DE FUSCO Renato, 19 179, 180, *181, 182, 183, *184, 186, DE GASPERI Alcide, 17 187, 216 DE JACO Aldo, 22 CAYATTE André, 224 DE NICOLA Enrico, 219 CECCATO Silvio, 232, 235 DE RINALDO Nicola, 230 CENTA Antonio, 42 DE SANCTIS Francesco, 41, 221, 271 CHABOD Federico, 219
DE SANTIS Giuseppe, 7, 68, 69, *70, CHAPLIN Charlie, 80, 211, 221, 240 71, 72, 73, 272 CHUKRAJ Grigorij, 230 DE SICA Vittorio, 7, *24, 25, 28, 44, CINCOTTI Guido, 224 52, 87, 93, 94, *95, 96, *97, *98, CLAIR René, 222, 226, 240 99, *100, 101, *102, 103, *157, 159, CLARK, generale Mark Wayne 177 160, 176, 216, 221, 223, 224, 227, CLEMENTE Marcello, 224 241, 270, 271 CLOUZOT Henri Georges, 241 DE SIMONE Roberto, 22 COCTEAU Jean, 224 DE STEFANO Armando, 19 COLLETTI Lucio, 250 DEBENEDETTI Giacomo, 226 COMENCINI Luigi, 7, 68, 69, *70, 71, DEBUSSY Claude, 248 *83, *158, 160 DEL FRA Lino, 127 COMPAGNA Francesco, 219, 224 DEL PEZZO Lucio, 22 COMPAGNONE Luigi, 224 DEL SASSO Rino, 225 CORBUCCI Sergio, 167, 168 DEL TETTO Ettore, 135
CORTI Maria, 232 DEVENA Mario, 22 COSENZA Luigi, 19 DI BELLO Bruno, 22 CRISPOLTI Enrico, 232 DI GIACOMO Salvatore, 44, 176 CROCCOLO Carlo, 46 DI MAIO Gaspare, 49 CROCE Benedetto, 41, 219, 221 DI NAPOLI Gennaro, 168 DIAZ Luigi Pepe, 250 DE BOSIO Gianfranco, 127 DORFLES Gillo, 232 DE CAPRARIIS Vittorio, 219 DOSTOEVSKIJ Fëdor Michajlovič 186 254 DOVŽENKO Aleksandr Petrovič, 220 FRASCANI Federico, 220, 232, 239, DREYER Carl Theodor, 110, 222, 269, 272 223, 224, 240, 248 FUCINI Renato, 71, 176 DUCHAMP Marcel, 232, 237 FULCHIGNONI Enrico, 232 DUVIVIER Julien, 221, 222, 248 FUMO Nunzia, 177 DYLAN Bob, 232 FUSCO Mari Pia, 209, 211 ECO Umberto, 232
GABIN Jean, 222 ĖJZENŠTEJN Sergej Michajlovič, 221, GALOIS Evariste, 251 240, 248 GASPARINI Luca, 206 ENGELS Friedrich, 121 GERMI Pietro, 225, 227 EVTUŠENKO Evgenij Aleksandrovič, GIACHETTI Fosco, 44 230 GIANNINI Guglielmo , 18 GIANNINI Francesco, editore, 240 FAENZA Roberto, 230 GIANNINI Ettore, *104, 105, *106, FALANCE Jack, 160 107, 162, 271, 273 FALDINI Franca, 80, 85, 87, 89, 91 GIDE André, 251 FASSBINDER Rainer Werner, 243 GIORDANO Renato, 220 FELLINI Federico, 109, 189, 225 GIOTTO di Bondone, 147, 152 FERNANDEL Fernand-Joseph-Désiré GIRARDOT Annie, 140, *141, *145 CONTANDIN , 160, *161 GIUFFRÉ Carlo., 177 FERRERI Marco, 7, 22, 139, 140, GIUSSO Lorenzo 240, 248 *141, 142, 143, 144, 146, 189, 216, GODARD Jean-Luc, 232, 233
227, 232 GOETHE Johann Wolfgang von, 176, FERRERO Adelio, 11, 131, 135 195 FESTA CAMPANILE Pasquale, 129 GOLIA Geppino, 221 FEYDER Jacques, 222 GORA Claudio, *40, 55 FINA Giuseppe, 230 GOYA Y LUCIENTES Francisco José de FIORE Enzo, 232 , 179 FIZZAROTTI Armando, 55 GRAMSCI Antonio, 41, 221, 250 FLAHERTY Robert Joseph, 220, 239 GRANATA Graziella, 162 FOFI Goffredo, 79, 80, 85, 87, 89, GRANDE Maurizio, 143 91, 233, 270 GRASSI Ernesto, 220, 239 FORCELLA Enzo GRAZIUSSI Graziano, 219 FORLANINI Federico, 223 GRAZZINI Giovanni, 167, 168, 200, FORMAN Miloš, 232 210, 213, 270 FRANCHINI Raffaello, 221 GREGOR Ulrich, 225, 270
FRANCIOSA Massimo, 129 GREGORETTI Ugo, 159 GRIECO Giuseppe, 51, 272 255 GRIFI Alberto, 236 LANG Fritz, 110, 221 GROCK Charles Adrien WETTACH , LANGLOIS Henri, 222 80 LAPICCIRELLA Renzo, 220, 239 GROTTINI Armando, 55 LATTANZI Pina, 46 GUARDATI Marina, 221 LATTUADA Alberto, 227 GUARINI Ruggero, 220 LAURETANO Bruno, 232 GUIDA Mario, 22 LAURITA Marisa, 168 GUINNESS Alec, 224 LAURO Achille, 17, 18, 55 GUIZZI Francesco, 226 LEAN David, 241 GUTENBERG Johannes, 241 LÉGER Fernand, 232 LEWIS Jerry, 230 HAWKS Howard, 113 LIGUORI Editore, 22 HIKMET Nazim, 136
LINDEKENS René, 232 HITCHCOCK Alfred, 230 LINDER Max, 222, 226, 240, 274 HOBBES Thomas, 173 LIPPI Raffaele, 19 LIZZANI Carlo, 28, 51, 127, 221, 225, INCORONATO Luigi, 20, 26, 219, 239, 272 272 LLOYD Harold, 211 IVENS Joris, 223 LOREN Sophia, 96, *98, 99, *106, 159 JACOB Max, 240 LOSEY Joseph, 230 JOUVET Louis, 222 LOY Nanni, 22, *126, 127, *128, 129, JUTKEVIČ Sergej Iosifovič , 224 130, 131, *132, 133, *134, 135, 136,*137, 216, 223, 225 KEATON Buster, 211, 240 LUCANIA Salvatore, 122 KEIGHLEY William Jackson, 113 LUCE Angela, 151, 249 KEZICH Tullio, 171, 172, 191, 270 LUKÁCS György , 199 KLUGE Alexander, 230 LYSENKO Trofim Denisovič , 249 KRACAUER Siegfried, 200, 270
KRAMER Stanley, 226 MACCANICO Antonio, 250 KRUSCIOV Nikita Sergeevič, 109, 223 MACLUHAN Marshall , 66 KUROSAWA Akira, 6, 241 MAGNANI Anna, 42, *43 MALAPARTE Curzio, 176, 177, 179, LA CAPRIA Raffaele, 20, 115, 152 182, 185, 186 LA ROCCA Vincenzo, 250 MALRAUX André, 240 LA VIA Pietro, 240 MAN RAY Emmanuel RADNITZKY, LABRIOLA Antonio, 41 232 LAMBIASE Sergio, 222 MANCUSO Sara, 246, 251 LANCASTER Burt, 177 MANFREDI Nino, 167 256 MANGANO Silvana, 96, *102 MONICELLI Mario, 81, *83, *90, 91, MANN Thomas, 25 *92, 227 MANVELL Roger, 241 MONTALDO Giuliano , 127, 223 MARESCA Assunta “Pupetta”, 110 MONTUORI Carlo, 101
MARKER Chris, 232 MORAWSKI Stefan, 198 MAROTTA Giuseppe, 66, 94, *95, 96, MORETTI Nanni, 220 99, 101, 103, 176, 219, 245, 250, MOZZILLO Tommaso, 224 270, 271, 272 MURNAU Friedrich Wilhelm , 221, MARTOGLIO Nino, 239 248 MARTONE Mario, 223, 245, 251 MUROLO Roberto , 131 MARX Carlo, 50, 121, 233 MASANIELLO Tommaso ANIELLO NAPOLITANO Antonio, 222, 226, d’Amalfi , 169 232, 235 MASELLI Francesco , 223 NAPOLITANO Giorgio, 239 MASSARI Lea, 131 NAPOLITANO Riccardo, 222, 224, MASSINE Léonide, *104 226, 230 MASTRIANI Francesco, 55, 166, 176 NATOLI Dario, 222 MASTROCINQUE Camillo, *40, 52 NAZZARI Amedeo, *48, 49, 73, *74 MASTROIANNI Marcello, 177, *178, NĚMEC Jan, 232
179, 182 NIETZSCHE Friedrich Wilhelm , 186 MASULLO Aldo, 235 NOVA Eva, 46 MATARAZZO Raffaello, 46, *48, 49, NUMEROSO Nino, 221 50 NUZZI Paolo, 224 MATTIOLI Raffaele, 219 MATTOLI Mario, 42,*43, 44, 50, OLIVIER Laurence, 6, 222, 240 53,*86, 87, *88, 274 OLMI Ermanno, 226, 230 MAURO Walter, 20, 269 ORSINI Valentino, 233 MCLAREn Norman, 232 ORTESE Anna Maria, 19, 22, 25, 219, MEAD Taylor, 235 269 MÉLIÈS Georges, 226 MEROLA Mario, 169, *170, 171, 172, PABST Georg Wilhelm , 221, 224, 205 230 METZ Christian, 232 Padre ARPA Angelo s.j., 225 MICCICHÈ Lino, 127 Padre CASOLARO Mario s.j., 224, MILESTONE Lewis, 223
226, 241 MISIANO Fortunato, 52, 55 PALIOTTI Vittorio , 22 MITRY Jean, 241 PANSINI Adolfo , 131 MIZOGUCHI Kenji , 224 PAOLELLA Roberto, 1, 8, 19, 42, 44, 49, 53, 220, 222, 226, *229, 230, 257 232, *238, 239, 240, *242, 247, REA Domenico, 20, 26, 52, 55, 176, 248, 273 219, 239, 269, 273 PARENTE Alfredo, 220, 272 REGGIANI Serge, *158, 160 PARRI Ferrucio, 219 REISZ Karel, 230 PASOLINI Pier Paolo, 7, 22, *90, 91, RENOIR Jean, 221, 240 139, 147, *148, 149, *150, 151, 152, RESNAIS Alain, 224 176, 232, 270 RICCI Paolo, 22, 239 PAVESE Cesare, 25 RICCIO Lello, 232 PAVOLINI Corrado, 105, 107 RICHARDSON Tony, 230 PELLIZZARI Lorenzo, 227 RIMBAUD Arthur, 248
PENTIMALLI Riccardo , 135 ROBBE-GRILLET Alain, 198 PETITO Antonio, 205 RONDI Gian Luigi, 227, 232, 241 PETRI Elio, 224, 226, 250 ROSI Francesco, 7, 108, 109, 110, PETROLINI Ettore Pasquale Antonio, *111, *112, 113, 114, 115, *116, 117, 80 *118, 119, *120, 121, *123, 122, 124, PICASSO Pablo, 79 216, 224, 225, 271 PIEGARI Guido, 219, 250 ROSSELLINI Roberto, 7, 12, 25, 26, PIETRANGELI Antonio, 223 *27, 28, 29, 30, 31, *32, *33, 34, PINTILIE Lucian, 232 *35, *37, 36, 38, 39, 41, 44, *84, 85, PIRO Imma, 168, 235 127, 153, *154, 156, 216, 221, 230, PIRO Sergio, 230, 235 270, 271, 272 PISANI Gianni, 230 RUFFINI Sandro, 52 PISCICELLI Salvatore, 195, 196, 198, RUSSO Luigi, 25, 269 199, 200, 201, 202 RUSSO Nino, 195 PLESSIS Jacqueline, 52 RUSTICHELLI Carlo, 135
POGÁNY Gábor, 42 POMILIO Mario, 20, 224 SADE Marchese de, 186 PONZI Maurizio, 230 SADOUL Georges, 241 PRATOLINI Vasco, 129, 130 SALVEMINI Gaetano, 207 PRISCO Michele, 20, 55, 72, 173, 176, San GENNARO, 96, 206 219, 224, 239, 273 SANSONE Mario, 219 PROVENZALE Enzo, 115 SANTAMARIA Dario, 219 PRUNAS Pasquale, 19, 220, 239, 247 SAPEGNO Natalino, 250 PUDOVKIN Vsevolod Illarionovič, SBORDONE Carlo, 247 221 SCARPETTA Eduardo, 205 SCHETTINI Giulio , 131 RALEIGH sir Walter, 237 SCHOELLER Ingrid, 162 RANDONE Salvo, 119, *120 SCHOLL col. Walter, 131 RASCEL Renato, 64 258 SCHROETER Werner, *188, 189, THERMES Giovanni , 226 *190, 191, *192, *193, 195
TISO Ciriaco, 177 SCOGNAMIGLIO Alfredo, 230 TOGLIATTI Palmiro, 41, 219 SCOGNAMIGLIO Gianni, 220 TOGNAZZI Ugo, 140, *141, 142, 144, SCOLA Ettore, 221 *145, 168 SENNETT Mack, 222 TOMA Piero Antonio, 222, 251 SEQUI Mario, *54, 55 TOTÒ, 6, 7, *60, 61, 78, 79, 80, 81, SERAO Matilde , 176 82, *84, 85, 87, *88, 89, 91,*92, SINISCALCHI Vincenzo Maria, 230, 96,*97, 211 232 TROISI Massimo, *204, 206, 207, SMOKTUNOVSKIJ Innokentij *208, 209, 210, 211,*212, 213, 214, Mikhailovič, 243 *215 SNOW Charles Percy, 247 TROMBETTI Guido, 247 SOCRATE, 82, 136 TURNER Lana, 226 SOFOCLE, 96 SOLDATI Mario, 66 VALÉRY Paul, 177, 240
SORDI Alberto, *158, 160, *161 VANCINI Florestano, 127, 224, 225 SPANIER Eddie, 237 VENDITTI Antonio, 19 SPINAZZOLA Vittorio, 103, 159, 271, VENTURA Lino, 160 273 VERGINE Antonio e Aldo, 230 SPINOZA Baruch, 39 VERGINE Lea, 230 SQUITIERI Pasquale, 163, *164, 166, VERLAINE Paul, 248 167, 176 VISCONTI Luchino, 25, 28, 109, 110, STALIN Iosif Vissarionovič 189, 198, 222, 224, 241 DŽUGAŠVILI, 250 VITTORINI Elio, 25, 41, 219, 250, 273 STARACE SAINATI Bella, 44 VIVIANI Raffaele , 25, 176, 239 STEIGER Rod, 115, *116, *118 VIVIANI Vittorio, 220 STENO Stefano VANZINA , 81, *83 VOLONTÈ Gian Maria, 122, *123, STIMOLO Enzo, 131, 133 133, *137 STOPPA Paolo, *74, 96, 103, 160, 168 SUMA Marina, 201 WAGNER Richard, 248 WAJDA Andrzej , 224, 232
TAINE Hippolyte, 202 WASCHIMPS Elio, 19 TAMIROFF Akim, 160 WAYNE John, 226 TARANTO Nino, 89 WERTMUELLER Lina, 162 TARSIA IN CURIA Antonino, 131 WILSON Georges, 131 TATAFIORE Guido, 19 TATI Jacques, 211, 224 ZAMBETTI Sandro, 114, 117, 271 TAVIANI Paolo e Vittorio, 233 259 ZAMPA Luigi, 7, 68, 69, 73, *74, 110, ZVAB Federico, 225 223 ZAVATTINI Cesare, 94, *95, 96, 99, 101, 160, 271 ŽDANOV Andrej Aleksandrovič, 221, 249 260 INDICE DEI FILM * Illustrazioni Achtung! Banditi! (1951), 221 Addio, mia bella Napoli (1946), 44, *45 Al di là del bene e del male (1977), 186 Alba tragica ( Le Jour se lève - 1939), 220 All’ovest niente di nuovo (All Quiet on the Western Front 1930), 223
Allarmi, siam fascisti? (1961), 127 Amleto (Hamlet - 1948), 222, 240 Anni difficili (1948), 223 Assunta Spina (1948), 42, *43, 44, 53 Assunta Spina (1915), *43 Bellissima (1951), 199 C’eravamo tanto amati (1974), 221 Camorra (1972), 163, 167 Carcerato (1981), 55, 171 Carosello Napoletano (1954), *104, 105, *106, 107 Catene (1949), *48, 49 Cerasella (1959), 52 Core ‘ngrato (1951), 46 Corleone (1978), 167 De Pretore Vincenzo (1957), 66 Decameron (1971), 146, *148, *150 Deserto Rosso (1964), 230, 237 Divorzio all’italiana (1961), 227 Dov’è la libertà (1954), *84, 85 Due soldi di felicità (1954), 53 Due soldi di speranza (1952), 53, *54, 75,*76 E’ tornato Carnevale (1937), 49 El pisito (1958), 140 Era notte a Roma (1960), 127 Ergastolo (1952), 55 Filumena Marturano (1951), 58, 61, *62, 63 Fortunella (1958), 66 261
Francesco (1989), 176 Generale della Rovere (1959), 127 Grazie, il caffè mi rende nervoso (1982), 205 Guaglione (1956), 51 Guardie e ladri (1951), *90, 91 Hellzapoppin (1941), 224 I bambini ci guardano (1943), *23, 25 I cannibali (1970), 176 I figli di nessuno (1951), 49, *48 I giorni contati (1962), 226 I guappi (1973), 163, *164, 165, 166, 167 I magliari (1959), 115 I nuovi angeli (1961), 159 I racconti di Canterbury (1972), 146 I soliti ignoti (1958), 91, *92, 227 I vinti (1953), 223 Ieri, oggi e domani (1963), *157, 159 Il barone Carlo Mazza (1948), 46, *47 Il cappello a tre punte (1935), 58, *59 Il carabiniere (1981), 205 Il cielo può attendere (Heaven Can Wait 1943), 223 Il cochecito (1960), 140 Il conte di S.Elmo (1950), 46, *47 Il fiore delle mille e una notte (1974), 146 Il giorno dell’Assunta (1977), 195 Il giudizio universale (1961), 160, *161, 227 Il medico dei pazzi (1954), 87, *88 Il passaggio del Reno (Le Passage du Rhin, 1960), 224
Il porto delle nebbie (Le Quai des brumes, 1938), 222 Il posto (1961), 226 Il prefetto di ferro (1977), 167 Il processo di Verona (1962), 225 Il serpente a sonagli (1935), 49 Il sole negli occhi (1953), 223 Il terrorista (1963), 127 262 Immacolata e Concetta (1979), 196, 199 In campagna è caduta una stella (1939), 58, *59 Ischia operazione Amore (1966), 162 Kiki (1934), 49 Knock (1951), 222 L’ambizioso (1975), 167 L’ape regina (1963), 140, 227 L’avventura (1960), 109, 225 L’imperatore di Capri (1949), 82, *83 L’uomo di paglia (1958), 225 La contessa azzurra (1960), 55 La dolce vita (1960), 109, 225 La donna scimmia (1964), 140, *141, 142, *145 La Kermesse héroique (1935), 222 La lunga notte del ‘43 (1960), 127, 225 La mazzetta (1978), 167 La passion de Jeanne d’Arc (1928), 222, 248 La pelle (1981), 176, *178, 179, *181, *184, 187 La presa del potere di Luigi XIV (1966), 230
La regina di Saba e l’uomo-atomo (Queen of Sheba Meets the Atom Man 1963), 235 La sfida (1958), 110, *111, *112, 113 La strada (1954), 226 La terra trema (1948), 28, 110, 199 La terra (Zemlya / Земля, 1930), 220 La verifica incerta (1964), 236, 237 La viaccia (1961), 225 Le mani sulla città (1963), 115, *116, *118, *120, 225 Le occasioni di Rosa (1981), 200 Le quattro giornate di Napoli (1962), 127, *128, *132, 133, *134, *137, 225 Le streghe -La terra vista dalla luna (1967), 91 Leoni al sole (1961), 153, 156, *157, 159, 160 L’oro di Napoli (1954), 87, 96, 101, 103, 105, 227 L’oro di Napoli (1954) - Pizze a credito, *98, 99 L’oro di Napoli (1954) - Il funeralino, *95, 96,*98, 105, 227 L’oro di Napoli (1954) - Il guappo, 87, *97 263 L’oro di Napoli (1954) – I giocatori, *100 L’oro di Napoli (1954) – Teresa, *102 L’oro di Napoli (1954) – Il professore, *102 L’oro di Roma (1961), 127 Los Chicos (1959), 140 Lo studente (1982), 205 Lucky Luciano (1973), 122, *123 L’ultimo guappo (1977), 169 L’uomo di Aran (Man of Aran 1934), 220, 239 Madunnella (1947), 52
Mammasantissima (1979), 169 Marcia nuziale (1965), 224 Maruzzella (1956), 52 Milarepa (1974), 176 Miracolo a Milano (1951), 103, 160 Miseria e nobiltà (1954), 87, *88 Monaca Santa (1948), 46, 51 Monastero di Santa Chiara (1949), *54, 55 Napoletani a Milano (1953), 64, *65, 153 Napoli che non muore (1939), 51 Napoli milionaria (1950), 58, *59, 61, *84, 85 Napoli terra d’amore (1954), 51 Napoli, serenata calibro 9 (1978), 169 Napoli… la camorra sfida, la città risponde (1979), 172 Napoli, Palermo, New York - Il triangolo della camorra (1981), 169, *170 Nel regno di Napoli (1979), 189, *190, *192, *193 Nennella (1948), 52 Non c’è pace tra gli ulivi (1950), 71 Notte e nebbia (Nuit et brouillard - 1955), 224 Operazione S. Gennaro (1966), 89 Ossessione (1943), 25, 222 Paisà (1946), 26, *27, 28, 29, 31,*32, *33, *35, *37, 36, 39, 41, 129, 273 Pane, amore e…(1955), 69 Pane, amore e fantasia (1953), 103 Pasqualino Settebellezze (1975), 162 264 Poil de carotte (1932), 221
Portiere di notte (1974), 180, 186 Prima che sia troppo presto (1981), 205 Processo alla città (1953), 73, *74, 110 Processo di Verona (1962), 127 Proibito rubare (1948), 69, *70 Quattro passi tra le nuvole (1942), 222 Questi fantasmi (1967), 64, *65 Ricomincio da tre (1981), 206, *208, 210, *212, 213, 214 Riso amaro (1949), 71 Rocco e i suoi fratelli (1960), 109, 225 Salvatore Giuliano (1961), 115 Sciuscià (1946), 28, 221 Scusate il ritardo (1983), 214, *215 Spara forte, più forte… non capisco (1966), 66 Sperduti nel buio (1914), 239 Sperduti nel buio (1947), 52 Tabù (Tabu: A Story of the South Seas, 1931), 226 Terre sans pain (1933), 221 Ti conosco mascherina (1943), 58 Tiro al piccione (1961), 127 Tormento (1950), 49 Torna… a Sorrento (1945), 44, *45 Totò a colori (1952), 85, *86 Totò cerca casa (1949), 81, *83 Totò e Carolina (1955), 91, *92 Tu ne tueras point (Non uccidere, 1961), 225 Tutti a casa (1960), *158, 160 Uccellacci e uccellini (1966), *90, 91
Umberto D. (1952), 103, 223 Un giorno da leoni (1961), 127 Un ladro in Paradiso (1952), 66 Un marito per Anna Zaccheo (1953), *70, 71, 72 Un turco napoletano (1953), *86, 87 265 Viaggio in Italia (1953), 7, 153, *154, *155, 271 Vincitori e vinti (Judgment at Nuremberg, 1961), 226 Zappatore (1950), 51 266 BIBLIOGRAFIA Napoli ALLUM P., Politics and society in post-war Naples, Cambridge, 1973 BERNARI C., Rapporto su Napoli (ne “Le sette piaghe d’Italia” ), Milano, 1964 BERNARI C., Napoli: silenzio e grida, Roma, 1977 CARUSO L. (a cura di), La disoccupazione mentale, Ravenna, 1972 COMPAGNA F., Il labirinto meridionale, Venezia, 1955 CONSIGLIO A., Dizionario filosofico napoletano, Napoli, 1970 DRAGO A., Scuola e sistema di potere a Napoli, Milano, 1975 FRASCANI F., La Napoli amara di Eduardo De Filippo, Firenze, 1955 FRASCANI F., Eduardo, Napoli, 1974 GATTO A., Napoli N.N., Firenze, 1974 GALASSO G., Passato e presente nel Mezzogiorno, Napoli, 1982
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Document Outline IN MEMORIAM Dello stesso autore Indice BIOGRAFIA ““A GUISA DI PREFAZIONE…” NAPOLI NELLO SPECCHIO DELCINEMA I - Napoli nel II dopoguerra II - L’amaro “stil nuovo” III - La Napoli di Rossellini IV - Tra populismo e melodramma V - Eduardo in celluloide VI - Comencini, De Santis, Zampa e Castellani VII - Totò VIII - De Sica e l’oro di Partenope IX - La sfida di Rosi X - Le quattro giornate XI - Medioevo contemporaneo: Ferreri e Pasolini XII - Miscellanea: da “Viaggio in Italia” a “Il giudizio universale” XIII - Guappi, mazzette e camorriate XIV - La pelle di Napoli XV - Una nuova oggettività XVI - Ricominciare da tre? I CIRCOLI DEL CINEMA A NAPOLI (1947 - 1968) Il Centro di Filmologia e Cinema sperimentale UNO STORICO NAPOLETANO DEL CINEMA: ROBERTO PAOLELLA LA PARABOLA UMANA E INTELLETTUALE DI RENATO CACCIOPPOLI Indice dei nomi Indice dei film BibliografiaNapoli Cultura generale cinematografica Saggi e articoli Roberto Paolella: una bibliografia essenziale