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Italian Pages 404 Year 2022
MIMESIS / THEORETICA N. 23 Collana diretta da Silvana Borutti (Università degli Studi di Pavia) e Luca Vanzago (Università degli Studi di Pavia) comitato scientifico
Massimo Barale (Università di Pisa) Franco Chiereghin (Università degli Studi di Padova) Vincenzo Costa (Università degli Studi di Milano) Alfredo Ferrarin (Università di Pisa) Claudio La Rocca (Università degli Studi di Genova) Roberta Lanfredini (Università degli Studi di Firenze) Enrica Lisciani Petrini (Università degli Studi di Salerno) Sandro Mancini (Università degli Studi di Palermo) Luigi Perissinotto (Università Ca' Foscari di Venezia) Mario Ruggenini (Università Ca' Foscari di Venezia) Luigi Ruggiu (Università Ca' Foscari di Venezia) Paolo Spinicci (Università degli Studi di Milano) Renaud Barbaras (Université de Paris I-Sorbonne) Rudolf Bernet (Katholieke Universiteit Leuven) Mauro Carbone (Université de Lyon III) Leonard Lawlor (Pennsylvania State University) Ullrich Melle (Katholieke Universiteit Leuven) Vicente Sanfelix (Universidad de Valencia) Dan Zahavi (Københavns Universitet) I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-rewiev
filippo nobili
LA PROSPETTIVA DEL TEMPO L’idealismo fenomenologico di Husserl come autoesplicitazione della soggettività trascendentale
MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Theoretica, n. 23 Isbn: 9788857583785 © 2022 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383
INDICE
prefazione Alfredo Ferrarin
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sigle e norme di citazione
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introduzione
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1 – l’irrompere del tempo e la fenomenologia trascendentale
§ 1.1 La rilevanza della Zeitfrage nell’opera di Husserl § 1.2 Per la fenomenologia del tempo (1893-1905): il continuo multidimensionale § 1.3 La costituzione temporale immanente (1905): l’identità relazionale-differenziale § 1.4 L’esigenza della riduzione fenomenologica (1906) § 1.5 L’idealismo correlativo del senso (1907-1908) § 1.5.1 Primo movimento § 1.5.2 Secondo movimento
41 41 46 58 70 85 96
2 – la forma del tempo: il fondamento correlativo della costituzione
§ 2.1 Temporalità e genesi intenzionale § 2.2 Coscienza assoluta e autocostituzione del flusso § 2.2.1 La temporalizzazione del requisito di evidenza interna § 2.2.2 Superamento dell’impostazione schematica? § 2.2.3 Livelli costitutivi e duplicità intenzionale § 2.3 Processo primario e auto-temporalizzazione § 2.3.1 Problemi aperti: la complessità di un fenomeno
111 111 122 122 126 131 141
§ 2.3.2 Il presente vivente come dialettica emergenziale-differenziale 154 § 2.3.3 Autoreferenzialità e prospettivizzazione originaria 170 3 – la materia del tempo: integrazione e concretizzazione del fondamento
§ 3.1 Il nesso genetico-costitutivo tra temporalità e sintesi passiva § 3.1.1 Il ritorno alla Urhyle quale complemento dell’analisi temporale § 3.1.2 La temporalità dei fenomeni associativi originari § 3.1.3 L’affezione e il risveglio dell’io: un incontro prospettico § 3.1.4 L’inconscio e la pulsazione vitale della coscienza § 3.2 Il sistema implicito della sedimentazione § 3.2.1 Il senso tra abitualità e tipizzazione § 3.2.2 L’articolazione teleologica degli strati: sull’evidenza § 3.2.3 Unità ricorsiva e integrazione schematica dell’esperienza § 3.3 Il punto di vista dell’io
191 191 216 206 218 226 236 236 247 262 284
4 – la prospettiva del tempo: l’idealismo fenomenologico-trascendentale § 4.1 L’implicito fenomenologico § 4.2 L’esplicitazione fenomenologica § 4.3 L’autoesplicitazione e la prospettiva dell’idealismo § 4.3.1 La presa di coscienza di sé § 4.3.2 Il punto di vista dell’Allsubjektivität § 4.4 Riduzione, costruzione, (meta)variazione: fenomenologia dell’Urphänomen
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conclusioni
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figure
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bibliografia
385
309 309 320 332 332 341
A Enza Parenti e Claudio Nobili
Erhebung without motion, concentration Without elimination, both a new world And the old made explicit, understood In the completion of its partial ecstasy, The resolution of its partial horror. Yet the enchainment of past and future Woven in the weakness of the changing body, Protects mankind from heaven and damnation Which flesh cannot endure. Time past and time future Allow but a little consciousness. To be conscious is not to be in time But only in time can the moment in the rose-garden, The moment in the arbour where the rain beat, The moment in the draughty church at smokefall Be remembered, involved with past and future. Only through time time is conquered. (T.S. Eliot, Four Quartets, “Burnt Norton”) Und wir: Zuschauer, immer, überall, dem allen zugewandt und nie hinaus! Uns überfüllts. Wir ordnens. Es zerfällt. Wir ordnens wieder und zerfallen selbst. Wer hat uns also umgedreht, daß wir, was wir auch tun, in jener Haltung sind von einem, welcher fortgeht? Wie er auf dem letzten Hügel, der ihm ganz sein Tal noch einmal zeigt, sich wendet, anhält, weilt –, so leben wir und nehmen immer Abschied. (R.M. Rilke, Duineser Elegien VIII)
RINGRAZIAMENTI
Il presente lavoro è frutto delle ricerche condotte durante il corso di Dottorato in Filosofia, presso le Università di Pisa e Firenze. L’elaborato prodotto al termine del ciclo di studi fu difeso nell’aprile del 2019. Rimuginate a lungo, le argomentazioni proposte allora sono qui conservate nell’essenziale. Ho cercato intanto di precisarne i contorni, procedendo organicamente a sfrondare rami secchi, sostentare i più floridi e alcune radici non del tutto allignate. Ha fatto al caso pure un innesto. Diverse persone hanno reso possibile questo progetto. Alfredo Ferrarin ha coordinato e accompagnato i miei studi per molti anni; si è speso in varie occasioni per mio conto e per questa pubblicazione. Luca Vanzago ha discusso i contenuti della tesi nella sede opportuna, offrendosi di ospitare il contributo nella collana da lui diretta. Al compianto Massimo Barale devo il primo incontro, anni or sono, con la fenomenologia husserliana. Se non me ne sono distaccato è anche per merito di studiosi come Claudio Majolino, con cui ho avuto il piacere di confrontarmi a più riprese. All’ospitalità di Nicolas de Warren devo un periodo di ricerca trascorso presso lo Husserl Archives della Katholieke Universiteit di Leuven, nel 2017. Consigli preziosi mi sono giunti da chi ha letto versioni del testo più o meno recenti: Gemmo Iocco, Michela Summa, Danilo Manca e Iacopo Chiaravalli. Ringrazio infine chi ha contornato quest’esperienza lavorativa impreziosendone il contesto di vita: ancora Iacopo, Arianna, Luca, Francesco, Luigi, Guglielmo, Biagio, Marta, Lorenzo e Silvia. Non ultimi, Martina e i compari di Piombinograd.
PREFAZIONE DISTRICARE L’IMPLICITO
Per Husserl quello del tempo costituisce il più difficile di tutti i problemi. Malauguratamente è però anche quello centrale, tanto che non è possibile fare fenomenologia senza chiarire il rapporto tra soggettività e temporalità. La coscienza è infatti coscienza interna del tempo, si costituisce in un fluire incessante e nella sempre rinnovata genesi dell’ora; non c’è un tempo se non per una coscienza, e la coscienza non è che una forma temporale di rapporto con se stessa e con il mondo –– il che significa che la coscienza è per essenza in disuguaglianza con sé. Il presente vivente, con l’articolazione interna di presenza originaria, ritenzione e protensione, è studiato da Husserl insieme all’intenzionalità longitudinale e trasversale. I primi tentativi husserliani di approfondire il tema, tra il corso del 1905 e gli appunti del 1908-11, ci sono rimasti, come quasi ogni sua riflessione sul tempo, nella forma di trascrizioni di lezioni o di manoscritti di ricerca. A mano a mano che riflette sul tempo, Husserl si rende conto della sua fondamentalità rispetto ad altri modi di coscienza, ma anche del suo rapporto stretto con le forme della presentificazione; la ritenzione, la coda di cometa dell’appena passato, si organizza assieme ad altri modi della correlazione intendere-inteso a cominciare da quelli di ricordo e immaginazione (a questo sono dedicati i manoscritti del volume 23 della Husserliana). Nonostante la pervasività dei riferimenti al tempo sparsi nelle opere pubblicate, non abbiamo un testo unico né un luogo privilegiato per approfondire le nostre conoscenze del pensiero di Husserl su questo nodo spinoso. Se fino a pochi anni fa il lettore di Husserl aveva a disposizione solo i manoscritti della coscienza interna del tempo (nel 1917 Husserl affidò a Edith Stein la collazione dei manoscritti,
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La prospettiva del tempo
che vennero pubblicati a cura di Heidegger nel 1928, e nella Husserliana nel volume 10), nel 2001 Bernet e Lohmar hanno reso disponibili i manoscritti di Bernau sul tempo (risalenti agli anni 1917-18, Husserliana 33); nel 2006, sempre a cura di Lohmar, è uscito il volume dei cosiddetti Manoscritti C sulla costituzione del tempo (1929-34, Husserliana Mat 8). Si arricchisce quindi la messe dei testi a disposizione e si complica di conseguenza la rete concettuale delle questioni in gioco, ma non migliora altrettanto pienamente la nostra comprensione del plesso di problemi e della coerenza sistematica del pensiero husserliano sul tempo con altri sviluppi importanti della fenomenologia. Sono uscite recentemente diverse ricerche importanti sul tempo in Husserl, ma spesso ci si avvicina al tema come a un aspetto centrale sì, ma accanto ad altri. Il volume di Filippo Nobili che qui si presenta, La prospettiva del tempo, è molto originale perché si propone di indagare l’idealismo trascendentale di Husserl alla luce proprio della costituzione del tempo, che è visto come la chiave per interpretare lo sviluppo della fenomenologia tutta nei termini di una autoesplicitazione, Selbstauslegung, della soggettività trascendentale. Questa ricerca parte dalla sua tesi di dottorato, in cui Nobili mostrava che a Gottinga Husserl si convince del primato della coscienza del tempo e della natura temporale di ogni vissuto, più tardi imposta il rapporto tra considerazioni iletiche e temporali nella forma di una correlazione intenzionale, sicché concetti come i dati iletici, la sintesi, la coscienza interna del tempo, e lo stesso idealismo trascendentale sono riformulati a partire dalla nuova prospettiva della predatità e della sedimentazione della costituzione implicita e passiva. Nel profondo rimaneggiamento da cui nasce questo libro, che lo ha condotto ben oltre i risultati precedenti, Nobili adotta la prospettiva del tempo come il filo conduttore per ricostruire il percorso husserliano nel suo significato complessivo. Il tempo è trattato come l’epicentro magmatico responsabile della configurazione dei temi fenomenologici, il motore interno dell’evoluzione del pensiero husserliano, e la chiave per entrare nei problemi dell’autocoscienza e dell’io, della sedimentazione e dell’implicitazione. L’implicito fenomenologico, al pari dell’inconscio oggetto della riflessione dell’ultimo Husserl, è predelineato nei modi di formazione della temporalità e non può essere inteso indipendentemente da questa.
Prefazione
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Il percorso dell’argomentazione di Nobili si può compendiare per sommi capi come segue. Nobili parte dalla scoperta, a partire dal 1905, della fondamentalità del problema del tempo, che permette a Husserl di approdare a un modello costitutivo trascendentale in cui l’indagine eidetica delle legalità essenziali della manifestazione lo conduce a staccarsi dalla chiusura dell’immanenza brentaniana e a ridefinire i concetti di immanenza e trascendenza (che ora viene a significare un modo specifico di manifestazione e non più una realtà indipendente e data). Di particolare interesse qui sono le pagine sulla retrocessione che costituisce la dimensione del passato; la ridefinizione dell’a priori fenomenologico e della costituzione; e la ricostruzione della cosiddetta svolta trascendentale della fenomenologia, che (essendo l’idealismo trascendentale non una tesi sulla priorità della coscienza rispetto al mondo, ma propriamente la correlazione di senso ed essere) non sarebbe altro che un mutamento interno all’orientamento dell’analisi fenomenologica e il superamento della restrizione immanentista dell’evidenza interna. Successivamente Nobili mette in discussione la lettura più diffusa del passaggio dalla fenomenologia statica a quella genetica, secondo cui, dopo un periodo dedicato all’analisi della costituzione e dei nessi eidetici che culminerebbe con Idee I (1913), a partire dalla riflessione sulla genealogia della logica (intorno al 1919) Husserl allargherebbe la fenomenologia in senso genetico. Se è vero che Husserl non è pienamente cosciente degli esiti del metodo genetico e non lo valorizza fino alle metà degli anni ‘10, occorre tuttavia riconoscere che il mutamento è nella prospettiva, non nei contenuti. La lettura diffusa si basa, secondo Nobili, su un’illusione retrospettiva generata dalla censura del concetto di assoluto temporale in Idee I. Fenomenologia statica e genetica in realtà diventano complementari dopo la compiuta adozione di una prospettiva trascendentale negli anni 1906-08 e grazie allo sganciamento del tema della genesi dall’alveo psicologico e naturalistico in cui rimaneva fino ad allora imprigionata. Il concetto di costituzione muta da un’accezione strutturale a una processuale, e Husserl può finalmente soffermarsi sulla sua dimensione temporale integrando i risultati dei primi manoscritti sulla coscienza interna del tempo con le dinamiche costitutive. Tra i primi risultati, in particolare del concetto di flusso ritenzionale e della non
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La prospettiva del tempo
identità con sé della coscienza, c’è la demolizione della puntualità istantanea dell’autocoscienza e dell’evidenza interna. Non vorrei qui mancare di segnalare la spiccata sensibilità con cui Nobili si sofferma sulle metafore husserliane (l’onda, il flusso increspato, il sottofondo ritmico sempre uguale a sé del fluire intemporale). Ma vorrei soprattutto segnalare come punto qualificante della tesi di Nobili il concetto di polarizzazione nel rapporto prospettico tra sfondo e primo piano immanente e costitutivo dell’Erlebnis intenzionale come una dualità interna a un’unità di fondo. Questa “prospettivizzazione” originaria assume i tratti della costituzione parallela di lato noetico e lato noematico grazie a cui la temporalità organizza la stessa costituzione oggettuale. Husserl, insomma, comincia a pensare alla temporalità come una forma generativa che presiede al rapporto di potenziale e attuale e alle disposizioni abituali. Si definiscono così alcuni concetti basilari come, oltre alla complementarità di sfondo intenzionale e primo piano, il concetto di orizzonte. Di pari passo la coscienza interna del tempo, che inizialmente è astratta e formale, viene successivamente vista all’opera nella sintesi passiva, con i concetti di affezione, risveglio dell’io, habitus, e in particolare con la sedimentazione, intesa come la prosecuzione inconscia della ritenzione. Di notevole acume è l’analisi di quella che Nobili chiama l’implicitazione del senso che dal punto di vista noematico dà luogo alla tipizzazione, da quello noetico alla abitualizzazione dell’esperienza cosciente. In tal modo si riformula la genesi intenzionale attraverso il modello ricorsivo e la retroazione appercettiva; e, nella necessità che l’analisi fenomenologica espliciti sistematicamente i nessi intenzionali costitutivi, si ridefinisce la centralità del tema dell’implicito. Ne risultano riflessioni originali e innovative che gettano una luce inconsueta su temi come l’«io posso» e il rapporto tra attuale a potenziale, la latenza del possesso abituale e il sostrato di abitualità in cui si conservano le disposizioni pratiche nei confronti dell›oggettualità esperita. La teleologia, a sua volta, non va fraintesa come un residuo naturalistico: essa va intesa piuttosto come un aspetto del metodo con cui Husserl studia la genesi intenzionale. È cioè la rivalutazione della genesi in quanto finalizzata alla sua esplicitazione. E la ragione ha altrettanto poco la valenza di un dato naturale, perché assume lo statuto di un’autorealizzazione
Prefazione
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progressiva e di un compito da perseguire, alla stregua dell’ideale regolativo di una soggettività universale (Allsubjektivität). Detto diversamente, l’idealismo fenomenologico trascendentale non è la posizione di una tesi sul mondo, ma un ideale metodico e regolativo che coincide con la compiuta esplicitazione fenomenologica di una soggettività universale, un progetto di ricerca e un compito demandato alle generazioni future di filosofi che lavoreranno congiuntamente verso un fine e uno stile metodico condivisi. Lo sviluppo genetico della fenomenologia sposta il fulcro della fondazione dalla coscienza all’a priori della correlazione, e con questo alla costituzione complementare di coscienza e mondo in un progetto di lavoro in fieri. La lettura tradizionale, che nella costituzione genetica vede una stratificazione di senso, lascia il posto a una proposta di lettura ricorsiva e dialettica della genesi come una dinamica retrospettiva che agisce su di sé: il rapporto tra attività e passività si sviluppa come un’azione e retroazione del, e sul, sistema appercettivo del senso. Il concetto di implicito diventa centrale come il catalizzatore di questi processi costitutivi ricorsivi che operano sulle sedimentazioni dell’esperienza, e l’esplicitazione è la dimensione interpretativa della correlazione noetico-noematica che muove il progetto fenomenologico. Dal libro di Nobili emerge un’immagine della pluralità delle analisi fenomenologiche unitaria e meno frammentata; anzi, la prospettiva del tempo ci mostra la coerenza di fondo e il fondamento ultimo di processi intenzionali diversi, dall’associazione all’attenzione, dalla percezione alle presentificazioni (immaginazione, coscienza d’immagine e ricordo). Tra i meriti di questo volume, che si distingue per il rigore, la minuziosa conoscenza dei testi e della cospicua letteratura secondaria, e la comprensività della visione, va annoverata l’utile opera di traduzione dal tedesco di ampi passi del lascito manoscritto ancora inaccessibile al lettore italiano. Sono pertanto convinto che, benché si tratti di un volume impegnativo e di non facile lettura, lo sforzo del lettore alla fine sarà senz’altro premiato con il guadagno di una migliore comprensione di oscurità finora rimaste impervie. Alfredo Ferrarin
SIGLE E NORME DI CITAZIONE
I testi di Husserl e di autori affini sono citati ricorrendo alle sigle sottostanti. I numeri di pagina delle edizioni tedesche seguono immediatamente le sigle, mentre quelli delle corrispettive traduzioni italiane vi sono affiancate tra parentesi quadre. Eventuali modifiche delle traduzioni disponibili saranno segnalate apponendo un asterisco al numero di pagina dell’edizione italiana (es. X 116 [141*]). La resa italiana di passi estrapolati da opere non tradotte è sempre da intendersi come opera del sottoscritto. I corsivi, laddove non segnalato, ricalcano quelli presenti nelle edizioni originali. Mi sono permesso qua e là alcune aggiunte tra parentesi quadre per facilitare la comprensione dei testi citati; le parentesi uncinate segnalano invece le inserzioni dei curatori dei volumi della Husserliana.
Husserl I
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Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, a cura di S. Strasser, M. Nijhoff, Den Haag 1973 [Meditazioni cartesiane e lezioni parigine, tr. it. (1-183)1 e cura di A. Canzonieri, La Scuola, Brescia 2017]. Die Idee der Phänomenologie. Fünf Vorlesungen, a cura di W. Biemel, M. Nijhoff, Den Haag 1973 [L’idea della fenomenologia, tr. it. e cura di C. Sini, Laterza, Roma-Bari 1992]. Ideen zu einer reinen Phänomenlogie und phänomenlogischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, a cura di K. Schuhmann, M. In questo modo si indicano le pagine del volume della Husserliana effettivamente tradotte nell’edizione italiana. L’assenza d’indicazione sta a significare una traduzione pressoché completa del volume (al netto cioè delle annotazioni testuali dei curatori dell’apparato critico).
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V
VI
VII
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La prospettiva del tempo
Nijhoff, Den Haag 1976 [Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo: Introduzione generale alla fenomenologia pura, tr. it. e cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002]. Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Zweites Buch: Phänomenologische Untersuchungen zur Konstitution, a cura di M. Biemel, M. Nijhoff, Den Haag 1952 [Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro secondo: Ricerche fenomenologiche sopra la costituzione, tr. it. e cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, pp. 3-376]. Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Drittes Buch: Die Phänomenologie und die Fundamente der Wissenschaften, a cura di M. Biemel, M. Nijhoff, Den Haag 1971 [Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro terzo: La fenomenologia e i fondamenti delle scienze, tr. it. (1-137) e cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, pp. 377-502]2. Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, a cura di W. Biemel, M. Nijhoff, Den Haag 1976 [La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1961]. Erste Philosophie (1923/4). Erste Teil: Kritische Ideengeschichte, a cura di R. Boehm, M. Nijhoff, Den Haag 1956 [Storia critica delle idee, tr. it. (3-199) e cura di G. Piana, Guerini Associati, Milano 2013; Kant e l’idea della filosofia trascendentale, tr. it. (208-287, 350-408) C. La Rocca, il Saggiatore, Milano 1990]. Erste Philosophie (1923/4). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, a cura di R. Boehm, M. Nijhoff, Den Haag 1959 [Filosofia prima. Teoria della riduzione fenomenologica, tr. it. (3-190) A. Staiti, a cura di V. Costa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007].
Le pagine relative al “Nachwort zu meinen ‘Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie’” (Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, Max Niemeyer Verlag, vol. 11, Halle 1930, pp. 549-570) sono state apposte da V. Costa alla traduzione del primo libro delle Idee (Postilla alle Idee, pp. 418-434) e non al terzo come invece fatto dai curatori della Husserliana (V 138-162).
Sigle e norme di citazione
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XIII
XIV
XV
XVI
XVII
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Phänomenologische Psychologie. Vorlesungen Sommersemester 1925, a cura di W. Biemel, M. Nijhoff, Den Haag 1968 [E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia, tr. it. (256-263, 277-301, 600-603) e cura di R. Cristin, Unicopoli, Milano 1999, pp. 133-172; Conferenze di Amsterdam. Psicologia fenomenologica e fenomenologia trascendentale, tr. it. (302-349, 527-539) e cura di P. Polizzi, Palma, Palermo 1988]. Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins (18931917), a cura di R. Boehm, M. Nijhoff, Den Haag 1966 [Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, tr. it. e cura di A. Marini, Franco Angeli, 2001]. Analysen zur passiven Synthesis. Aus Vorlesungs- und Forschungsmanuskripten (1918-1926), a cura di M. Fleischer, M. Nijhoff, Den Haag 1966 [Lezioni sulla sintesi passiva, tr. it. (3-222) e cura di V. Costa, La Scuola, Brescia 2016, pp. 75-327; Metodo fenomenologico statico e genetico, tr. it. (336-345) e cura di M. Vergani, il Saggiatore, Milano 2003, pp. 53-63]. Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass. Erster Teil (1905-1920), a cura di I. Kern, M. Nijhoff, Den Haag 1973 [I problemi fondamentali della fenomenologia. Lezioni sul concetto naturale di mondo, tr. it. (111-194) e cura di V. Costa, Quodlibet, Macerata 2008]. Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass. Zweiter Teil (1921-1928), a cura di I. Kern, M. Nijhoff, Den Haag 1973 [Metodo fenomenologico statico e genetico, tr. it. (34-42, 305-308) e cura di M. Vergani, il Saggiatore, Milano 2003, pp. 65-80]. Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass. Dritter Teil (1929-35), a cura di I. Kern, M. Nijhoff, Den Haag 1973 [Metodo fenomenologico statico e genetico, tr. it. (613-627) e cura di M. Vergani, il Saggiatore, Milano 2003, pp. 83-101]. Ding und Raum. Vorlesungen 1907, a cura di U. Claesges, M. Nijhoff, Den Haag 1973 [La cosa e lo spazio. Lineamenti fondamentali di fenomenologia e critica della ragione, tr. it. (3-293) A. Caputo e M. Averchi, a cura di V. Costa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009]. Formale und transzendentale Logik. Versuch einer Kritik der logischen Vernunft, a cura di P. Janssen, M. Nijhoff, Den Haag 1974 [Logica formale e trascendentale, tr. it. (5-335) e cura di G.D. Neri, Laterza, Bari 1966; Lezioni sulla sintesi passiva, tr. it. (351-378), cit., pp. 37-73].
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La prospettiva del tempo
Logische Untersuchungen. Erster Teil. Prolegomena zur reinen Logik, a cura di E. Holenstein, M. Nijhoff, Den Haag 1975 [Ricerche logiche, tr. it. e cura di G. Piana, il Saggiatore, Milano 2015, pp. 1-197]. Logische Untersuchungen. Zweiter Teil. Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis. In zwei Bänden, a cura di U. Panzer, M. Nijhoff, Den Haag 1984 [Ricerche logiche, tr. it. e cura di G. Piana, il Saggiatore, Milano 2015, pp. 199-824]. Logische Untersuchungen. Ergänzungsband. Erster Teil. Entwürfe zur Umarbeitung der VI. Untersuchung und zur Vorrede für die Neuafulage der Logischen Untersuchungen (Sommer 1913), a cura di U. Melle, Kluwer, Dordrecht 2002 [“Abbozzo di una prefazione alle Ricerche logiche”, tr. it. (272-329) di V. De Palma in E. Husserl, Logica, psicologia e fenomenologia. Gli Oggetti intenzionali e altri scritti, Il Melangolo, Genova 1999, pp. 187-224]. Aufsätze und Rezensionen (1890-1910), a cura di B. Rang, M. Nijhoff, Den Haag 1979. Phäntasie, Bildbewußtsein, Erinnerung. Zur Phänomenologie der anschaulichen Vergegenwärtigungen. Texte aus dem Nachlass (1898-1925), a cura di E. Marbach, M. Nijhoff, Den Haag 1980 [Fantasia e immagine, tr. it. (1-108, 170-193, 265-269, 329-386, 464-477, 486-494, 498-524, 571-590) e cura di C. Rozzoni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017]. Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie. Vorlesungen 1906/07, a cura di U. Melle, M. Nijhoff, Den Haag 1985 [Introduzione alla logica e alla teoria della conoscenza, tr. it. (1-354) e cura di F. Buongiorno, Scholé, Brescia 2019]. Aufsätze und Vorträge (1911-1921), a cura di Th. Nenon e H.R. Sepp, M. Nijhoff, Dordrecht/Boston/Lancaster 1987 [La filosofia come scienza rigorosa, tr. it. (3-62) di C. Sinigaglia, Laterza, Bari 2005; Fenomenologia e psicologia, tr. it. (82-124) e cura di A. Dionise, Filema, Napoli 2003; Fenomenologia e teoria della conoscenza, Ficthe e l’ideale di umanità: tre lezioni, tr. it. (267-293) e cura di F. Rocci, ETS, Pisa 2006]. Aufsätze und Vorträge (1922-1937), a cura di T. Nenon e H. R. Sepp, Kluwer, Dordrecht/Boston/London, 1989 [L’idea di europa. Cinque saggi sul rinnovamento, tr. it. (3-94, 105-122) e cura di C. Sinigaglia, Raffaello Cortina, Mila-
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Mat III
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no 1999; E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia, tr. it. (164-181) e cura di R. Cristin, Unicopoli, Milano 1999, pp. 189-207]. Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Ergänzungsband: Texte aus dem Nachlass 1934-1937, a cura di R.N. Smid, Kluwer, Dordrecht 1993. Aktive Synthesen: Aus der Vorlesung „Transzendentale Logik“ 1920/21. Ergänzungsband zu „Analysen zur passiven Synthesis“, a cura di R. Breeur, Kluwer, Den Haag 2000 [Lezioni sulla sintesi attiva. Estratto dalle lezioni sulla logica trascendentale (1920/21), tr. it. (3-83) e cura di L. Pastore, Mimesis, Milano 2007]. Natur und Geist. Vorlesungen Sommersemester 1927, a cura di M. Weiler, Kluwer, Dordrecht 2001 [Natura e spirito. Lezioni del semestre estivo 1927, tr. it. e cura di G.J. Mastrobisi, Aracne, Canterano 2020]. Die “Bernauer Manuskripte” über das Zeitbewußtsein (1917/18), a cura di R. Bernet, D. Lohmar, Kluwer, Dordrecht 2001. Zur phänomenologischen Reduktion. Texte aus dem Nachlass (1926-1935), a cura di S. Luft, Kluwer, Dordrecht 2002 [Sulla riduzione fenomenologica, tr. it. (162-184) a cura di N. Zippel in F. Pellecchia (a cura di), Il soggetto e il tempo, Idest, Cassino 2007, pp. 24-53]. Transzendentaler Idealismus. Texte aus dem Nachlass (1908-1921), a cura di R.D. Rollinger, R. Sowa, Kluwer, Dordrecht 2003. Wahrnehmung und Aufmerksamkeit. Texte aus dem Nachlass (1893-1912), a cura di T. Vongehr, R. Giuliani, Springer, Dordrecht 2004 [Percezione e attenzione, tr. it. (3-123, 327-370) e cura di A. Scanziani, P. Spinicci, Mimesis, Milano-Udine 2016]. Die Lebenswelt. Auslegungen der vorgegebenen Welt und ihrer Konstitution. Texte aus dem Nachlass (1916-1937), a cura di R. Sowa, Springer, New York 2008. Grenzprobleme der Phänomenologie. Analysen des Unbewusstseins und der Instinkte. Metaphysik. Späte Ethik. Texte aus dem Nachlass (1908-1937), a cura di R. Sowa, T. Vongehr, Springer, Dordrecht/Heidelberg/New York/London 2013. Allgemeine Erkenntnistheorie. Vorlesung 1902/03, a cura di E. Schuhmann, Kluwer, Dordrecht 2001.
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La prospettiva del tempo
Mat VIII Mat IX EU
Späte Texte über Zeitkonstitution (1929-1934). Die C-Manuskripte, a cura di D. Lohmar, Springer, Dordrecht 2006. Einleitung in die Philosophie. Vorlesungen 1916-1920, a cura di H. Jacob, Springer, Dordrecht 2012. Erfahrung und Urteil, a cura di L. Landgrebe, Felix Meiner, Hamburg 1999 [Esperienza e Giudizio, tr. it. e cura di F. Costa, L. Samonà, Bompiani, Milano 2007].
Vari Dok I
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INTRODUZIONE
Questa impossibilità di trovare nel passato un punto fermo di origine, un principio, una spiegazione, mi fa cercare un principio nel futuro che appare anch’esso infinito. L’origine temporale nel passato non mi dà il senso della vita: questo senso diventa compito, diventa telos che si proietta nel futuro.1
Non v’è modo d’introdurre che non sia anche un modo d’approssimare, d’approntare un discorso sul tema che non sia una messa a fuoco, l’inquadratura di qualcosa, sulle prime, di sgranato. Potrebbe darsi, allora, che se la figura di Galilei è quella di “un genio che scopre e insieme occulta” (VI 53 [81]), Husserl è personaggio che invece più di altri, lungo l’arco di sviluppo del pensiero occidentale, non scopre niente ma molto rièsuma e disoccultando rivela. Alcuni esempi eclatanti: egli non scopre l’ontologia formale né la mathesis universalis; non scopre l’intenzionalità, la sintesi, l’associazione, il flusso di coscienza, e neanche l’Io puro, il trascendentale, la monade, l’autoevidenza dell’“io sono”, etc., secondo un’elencazione che potrebbe continuare a oltranza2. Tutto ciò e molto ancora non equivale appunto a una scoperta condotta da Husserl in prima persona; quanto esumato, piuttosto, è rivitalizzato come da un gesto redentore capace di trasporlo in un contesto filosofico spurio, per cui assume un significato, un ruolo e un valore di necessità alterati.
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paci (1961, 243s.). Probabilmente, non potendo essere ricondotta a nessun preciso antecedente storico, l’intuizione categoriale è qui l’eccezione che conferma la regola. D’altro canto, però, più che un’innovazione in sé stessa, quest’ultima rappresenta una prima definizione di quel metodo latamente intuitivo (marcatamente fenomenologico) che consente di disoccultare tutto il resto.
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Pure, basterebbe un’occhiata superficiale al pastiche linguistico della lettera husserliana, a quell’“anarchia controllata”3 di termini multilingua tratti dalle più svariate tradizioni filosofiche – si pensi solo ai grecismi connotati di valenza tecnica: epochē, eidos, noesi, noema, hyle, morphē, etc. – per rendersi conto dell’intenzione sincretica sottesa alla fenomenologia trascendentale. Se con ciò volessimo però isolare un’intenzione consapevole e deliberata è appena il caso di farlo in relazione alla traiettoria conclusiva del percorso husserliano. Per quanto concerne il suo inizio, più conveniente sarebbe esprimersi in termini di sincretica esigenza o necessità, con ciò alludendo al bisogno dello scienziato di farsi filosofo, di riappropriarsi in primo luogo del lessico di una certa tradizione concettuale. Nel 1913, grossomodo a metà strada tra ciò che era esigenza e ciò che risulterà intenzione vera e propria, nell’Introduzione generale al progetto delle Idee, si adduce una sconfessione ante litteram del proposito heideggeriano di oltrepassare il linguaggio della “metafisica occidentale” – “giacché non si tratta di ricercare espressioni artificiose che cadono interamente al di fuori del quadro del linguaggio storico-filosofico” (III/1 9 [8*]). Almeno in un primo momento, il sincretismo ha a che vedere con l’incoscienza scaturente da un certo tasso d’ignoranza, da una conoscenza manualistica, in molti casi, della storia del pensiero. È opportuno, allora, riconnettere l’eclettismo husserliano all’imprudenza di chi attinge a piene mani elementi eterogenei di una tradizione e nel farlo è incurante del rischio di rigetto generato da un loro incompossibile amalgama? E ancora: è il caso d’imputare a questo aspetto la discrasia vigente tra proposito autoriale e ricezione equivoca da parte del grande pubblico, rinvenibile per ciascuna delle esigue (non postume) pubblicazioni? In parte credo lo sia. In parte però non lo è più nel momento in cui l’esigenza iniziale si fa intenzione espressa; si fa, nondimeno, progetto filosofico originale grazie alla calcolata riconquista di elementi che originali non sono, mediante cioè la loro trasvalutazione fenomenologica. Se così stanno le cose, se Husserl non scopre e non inventa (pressoché) niente, in cosa consiste la novità filosofica della fenomenologia, in cosa consiste questa trasvalutazione? 3
de
Warren (2019, 167).
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Rispondendo in via del tutto preliminare – e dunque approssimativa – con un sonoro “nel metodo d’indagine” non si fa torto né però si rende granché servizio a chi legge. Che la fenomenologia sia prima di ogni altra cosa una questione di metodo è palese a tal punto che ogni pagina scritta da Husserl sembra farvi implicito o esplicito riferimento. Che però la fenomenologia risulti in fin dei conti un discorso sul metodo stesso della filosofia – che nella riduzione egli abbia intravisto “il metodo originario [Urmethode] di tutti i metodi filosofici” (Mat VIII 16)4 – e lo risulti in un frangente particolarmente esiziale per le sorti della disciplina è forse aspetto meno scontato. Agli occhi di chi scrive, l’impresa husserliana appare oggi un contributo elargito a presente e futura memoria di ciò che il discorso filosofico è stato e avrebbe potuto continuare a essere: la drastica posizione e la risoluzione ognóra perfettibile di problemi pratico-teorico-normativi. Così pare infatti di poter condensare l’ethos più genuino della modernità filosofica, il senso di quel rigore scientifico (wissenschaftliche Strenge) a cui la fenomenologia trascendentale non ha cessato di attingere, financo nel momento in cui l’opzione post-moderna – heideggeriana in primis – di un’antitetica e filosofica dissoluzione di questo rigore si è palesata a Husserl in tutta la sua portata5. Certo, un (macro)problema su tutti: la giustificazione del sapere, di un sapere in base a cui poter agire, pensare, valutare con 4
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La corretta stima di una simile asserzione sollecita uno studio sinora intentato. Si tratterebbe di ripercorrere la storia del pensiero per valutare se le diverse filosofie susseguitesi nel corso dei secoli palesino, di volta in volta, un certo tasso di “fenomenologicità”. Laddove per ciò s’intenda un livello discorsivo in qualche modo sovraordinato o comunque separato rispetto a quello del senso comune, se a ciò si aggiunge una predisposizione del discorso filosofico all’astrazione riflessiva, all’esemplarità paradigmatica dell’esempio e al ragionamento controfattuale, all’esibizione intuitiva – quanto più evidente – di certi risultati, alla riconduzione dei fatti alle rispettive fonti di legittimità (oggettiva e soggettiva), etc., allora, una simile pretesa non pare poi così campata in aria. Com’è noto (spiegelberg 1960, 77n. 2; gadamer 1963, 53ss.), che “der Traum ist ausgeträumt”, che il sogno di una filosofia rigorosa sia svanito (VI 508 [535]) è vero o falso a seconda di come lo intendiamo. Falso se l’attribuiamo a Husserl quale proprio convincimento; vero se leggiamo nella frase, come chiaramente invita a fare il contesto, un’introiezione di ciò che Husserl reputava essere lo Zeitgeist, la temperie filosofico-culturale del 1935.
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cognizione di causa, secondo cioè uno spettro fondato di ragioni a fungere da minimo comun denominatore. È dunque un rigore eminentemente filosofico quello ricercato da Husserl, non anti bensì ultra-scientifico (“siamo noi i veri positivisti”, III/1 45 [47]), che dal pieno riconoscimento delle pretese conoscitive della scienza positiva ne auspichi un supplemento radicale, una legittimazione che di per sé non può ottenere – se non per via di una prassi (intenzionale) che pur presente in essa, essa stessa appunto non rileva6. Abbiamo a che fare con una forma di Überrationalismus – lo si confida a Lévy-Bruhl nel 1935 – contrapposto certo al misticismo e all’irrazionalismo sempre più egemoni nella cultura tedesca di quegli anni, ma anche teso a oltrepassare (überschreiten) l’insufficienza metodica del razionalismo tradizionale, di cui nondimeno si giustificano le intenzioni più profonde (Dok III/7 164). Sotto il profilo storico-filosofico intravediamo come la fenomenologia trascendentale sia concepita come prosecuzione della tradizione, seppur con altri mezzi. A giusto titolo si è asserito che Husserl, più di ogni altro contemporaneo, abbia saputo esibire in nuce, tramite cioè l’evolversi del proprio pensiero, il corso della filosofia lungo il XX secolo (Welton 2000, 262) e lo abbia per ciò stesso segnato (derrida 2000, 48). Ribaltando la prospettiva su cui questi giudizi fanno leva si constata, parimenti, come la fenomenologia trascendentale riverberi in sé echi disparati di una tradizione che il pensiero successivo avrebbe di lì a poco preteso di decostruire senz’appello. Che poi questa pretesa si sia affermata per certi versi con, per altri contro, in ogni caso attraverso Husserl, non fa che complicare la corretta stima del ruolo che egli ha effettivamente giocato nel corso del secolo. Non fa che ribadire l’urgenza di una storia della ricezione della fenomenologia trascendentale che in realtà si confessi d’acchito controstoria dei suoi travisamenti, delle sue censure, financo della spoliazione patita da un metodo (quello decostruttivo) rediretto contro i suoi scopi originari. Nel complesso, se il movimento fenomenologico è stato un varietà di dissidenti 6
Per la corretta stima dell’impresa critica husserliana è il caso di ricordare come questa si svolga agli albori e di fatto preconizzi – quanto agli scopi non certo ai modi – lo sviluppo di ciò che il XX secolo avrebbe poi inteso come “filosofia della scienza”.
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eresie7, capire oggi Husserl equivale a comprendere – sempre in via approssimativa – il Novecento come il secolo della sua equivocazione. La fenomenologia trascendentale si pone dunque dinanzi alla scienza, dopo la storia della filosofia e prima della distruzione programmatica di quest’ultima, prima cioè della post-filosofia – con ciò intendendo il venir meno dell’istanza veritativa sottesa all’idea di una giustificazione rigorosa del sapere, dell’agire, del valutare. Proprio in merito alla storia del pensiero, la posizione di Husserl ha subìto una virata in seguito al perfezionamento della proposta fenomenologica, al suo farsi filosofo (da matematico e psicologo che era di formazione); in seguito, cioè, all’autocritica filosofica dei presupposti (altrettanto filosofici) che inerivano al pensiero matematico e psicologico dell’epoca. Dapprima, la pretesa novità della fenomenologia ingenera una volontà di cesura rispetto a una tradizione che si ritiene poco significativa. Orientato perlopiù a un confronto teorico con ipotesi esplicative coeve o immediatamente precedenti, il respiro storico dei primi lavori di Husserl è poca cosa: il chiarimento dello statuto degli oggetti ideali e il superamento dell’alternativa logicista/psicologista sono urgenze del dibattito presente e come tali affrontate; i classici, quasi mai connotati storicamente, sono assunti alla stregua di contemporanei in grado di validare o meno le tesi di volta in volta in gioco. Del resto, come non si manca di riconoscere sin dal 1898, “la storia è un libro istruttivo per l’esperto che sa come leggerlo. Chi non ha una filosofia non può imparare nulla da esso. Ma noi vogliamo avere una filosofia” (Mat III 228). Non avere una filosofia equivale a mancare di una prospettiva capace di rendere la storia intelligibile, di renderne sensato il vaglio critico perché commisurabile a un canone specifico. Senza un canone che valga al presente o che possa valere in futuro come termine di paragone non è possibile imparare alcunché dalla storia, risultando quest’ultima una sequela irrelata di fatti e disparate opinioni. Ovviamente, l’erezione di un canone che non sia del tutto ingenuo presuppone a sua volta il vaglio preliminare della tradizione, decretando con ciò il reciproco presupporsi di teoria e storia, ma anche, soprat7
La perifrasi è una crasi dei giudizi simpatetici di derrida (2000, 48) e ricoeur (1986, 9).
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tutto, l’approfondimento sinergico e ricorsivo del loro potenziale euristico: la ricognizione storica potenzia l’iniziativa teoretica e viceversa. È solo dopo aver fatto sufficiente chiarezza in merito al progetto di una filosofia fenomenologico-trascendentale – nel triennio 1906-1908 – che Husserl può guardare in maniera produttiva, retrospettivamente, alla storia del pensiero (sokoloWski 1964). Può cioè concepire il progetto fenomenologico nel frattempo maturato come “la segreta aspirazione [geheime Sehnsucht] di tutta la filosofia moderna” (III/1 133 [153]) e quindi intraprendere una trasvalutazione complessiva della tradizione, riscontrando in essa tappe imperfette e anticipazioni parziali di un medesimo sviluppo: quello della graduale approssimazione – di un’introduzione appunto – alla fenomenologia (VII 6 [27s.])8. Ecco dunque che storia della filosofia e preistoria della fenomenologia di fatto coincidono, e lo fanno lungo un arco evolutivo che dalla reazione socratico-platonica alla sofistica giunge alle soglie del presente – con lacune evidenti sia inteso – fagocitando le figure più significative alla stregua di illustri predecessori: come altrettanti protofenomenologi9. Che tale prospettiva tradisca un notevole arbitrio, posta a confronto con una ricognizione storica che si pretende quanto più “obiettiva”, pare evidente. Così come altrettanto sconsiderata risulta la pur logica conseguenza che Husserl trae da un simile ragionamento. La riporta Jean Cavaillès in una lettera scritta a seguito dell’incontro avuto col filosofo nel 1931: Il suo orgoglio ha qualche cosa di commovente e un po’ triste – si è paragonato a Galilei e Descartes: “In cinquanta, forse soltanto 8
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Graduale ma non per questo lineare, priva di rotture e accidenti. La ricostruzione husserliana della storia del pensiero è infatti una lotta iterativa tra un’istanza scettica mai dòma – paragonabile a un’idra le cui teste ancorché recise non cessano di riprodursi (VII 57s. [74]) – e il radicalismo critico-conoscitivo teso a superare tale istanza (VIII 20s. [25s.]). Dato che in corso d’opera non approfondirò la questione, mi si consenta di rimandare a nobili (2019). Un esempio eclatante: “Siamo noi i veri bergsoniani!” sarebbero state le parole pronunciate da Husserl nel 1911, presso la Società filosofica di Gottinga, a seguito di una relazione dedicata da A. Koyré al filosofo francese. L’aneddoto è restituito da Héring (1939, 368n.).
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cent’anni … io non voglio esagerare – non ci sarà più che una filosofia studiata, la fenomenologia, e tutti gli scienziati cominceranno con essa prima di intraprendere i loro lavori speciali, perché essa deve fornire – in quanto saggezza universale – i fondamenti di tutte le scienze. Ciò che la fenomenologia ha fatto sinora è del resto ridicolmente piccolo, ma non è che una questione di tempo e di pazienza”.10
Ciò nonostante, è opportuno non tacere questi aspetti in quanto sintomatici di un’opzione teorica che si è posta un obiettivo degno di rilievo: l’adozione, per l’intera comunità filosofica, di un comune paradigma di ricerca assicurato da una certa impostazione metodica11. È, se vogliamo, l’obiettivo di una fenomenologizzazione integrale del sapere, resa possibile da una collaborazione osmotica tra filosofia e scienza positiva. In quest’idea, col senno di poi alquanto velleitaria, Husserl ha intravisto l’unica possibilità per lui concepibile non soltanto di promuovere un progresso scientifico della filosofia – nonché, ça va sans dire, un progresso filosofico della scienza – ma anche di preservare (in forma criticamente trasvalutata) quei nuclei di verità emersi lungo la storia del pensiero. È una prospettiva tesa a salvaguardare tanto il futuro che il passato delle discipline, consapevole che la perdita di quest’ultimo implichi l’annientamento del primo12. Viceversa, in misura antitetica, l’incombente scetticismo ha il suo appiglio in una considerazione storica globale; ritiene di poter mostrare il fatto del costante fallimento e della mancanza di risultati nel fallimento [della filosofia], crede di poter trarre la conclusione che il senso finale della filosofia è immaginario. (VI 489 [515*])
A ben vedere, l’alternativa è quella tra distruzione e trasvalutazione della storia del pensiero. Entrambe vertono su una forma peculiare di scepsi. Mentre però la distruzione post-moderna fa 10 11
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Traggo la citazione da de Warren (2019, 173) che rimanda a G. Ferrières, Jean Cavaillès, Philosophe et combattant 1903–1944, PUF, Paris 1950, p. 90. Anticipo così una delle tesi conclusive del libro, quella per cui l’idealismo fenomenologico-trascendentale altro non è che un ideale regolatore della cooperazione scientifico-filosofica, condotta all’insegna del metodo dell’esplicitazione intenzionale (infra cap. 4 e Conclusioni). La cogenza di una simile conclusione matura riflettendo sui modi specificamente temporali dell’intenzionalità e della conservazione (implicita) del senso, di cui la storicità rappresenta una forma peculiare (infra § 3.2).
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leva su uno scetticismo storico totalizzante – ricordando in questo il “dogmatismo” della scepsi antica che mina alle basi ogni giustificazione razionale e dunque anche sé stessa in quanto legittima alternativa – la trasvalutazione fenomenologica verte su uno scetticismo storico critico, in cui il compito della tradizione è sì contestato quanto ai modi di realizzazione specifici ma pure confermato mediante la generale riassunzione (Wiederaufnahme) del suo proponimento (VI 393ss. [411ss.]). In tal modo, in seguito alla trasvalutazione di quanto la tradizione ha scoperto, in quanto ciò risulta emendabile dal grado di ingenuità connaturato alle modalità del suo conseguimento particolare, proprio “la filosofia assume un nuovo volto”, potendo cioè assistere all’infinitizzazione (Verunendlichung) della sua aspirazione plurisecolare (VI 499s. [526]). La trasposizione all’infinito del compito di realizzare fenomenologicamente l’ideale regolativo della filosofia – la philosophia perennis – è lo scotto che Husserl è tenuto a pagare per la hybris relativa alla fenomenologizzazione integrale della disciplina e che la tradizione paga in pegno del suo inquadramento metodico e paradigmatico. Se la pretesa husserliana è quella di una sussunzione della filosofia alla pratica fenomenologica, tale pretesa fa leva proprio su un dispositivo metodico che per ragioni intrinseche pattuisce un tenore scientifico rinnovato in cambio della diluzione infinita del suo esercizio. Perché il tentativo di restaurare l’ethos filosofico autentico dinanzi all’eventualità della sua dissoluzione risulti plausibile, l’esecuzione di un metodo appropriato al compito storico della filosofia deve eccedere indefinitamente le capacità realizzative del singolo individuo, deve cioè socializzarsi in una prassi intergenerazionale compartecipata: “la filosofia in quanto prassi dei filosofi nella socialità degli scienziati” (VI 494 [519]). L’idea infinita della fenomenologia è l’extrema ratio per la pretesa scientifico-universale della filosofia; è la realizzazione metodica di questa aspirazione in quanto “sistematica dell’andare-oltre [Systematik des Weitergehens]” (VI 500 [527]). Se il senso finale della filosofia è quello riesumato dalla fenomenologia trascendentale – paradossalmente, una volta trasvalutato, esso è il senso di un compito illimitato, l’esecuzione indefinita di un metodo – all’agenda intenta a una distruzione della “metafisica” è possibile opporre quella disposta a una sua ricostruzione
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collettiva. Agenda, questa, che nell’ultimo progetto editoriale di Husserl persegue un vaglio ulteriore della tradizione, auspicando così l’antidoto insito nella diagnosi di una Crisi che, nel frattempo, si è fatta epoca. Le conferenze di Vienna e di Praga del maggio e del novembre 1935 rappresentano una postilla al canone fenomenologico-trascendentale che scaturisce però fuori tempo massimo – quando il parossismo irrazionalistico acclarava ormai strascichi sul piano socio-politico – ma che a ben vedere ha origine antecedente, di natura carsica. La tecnica diagnostica, per così dire, che Husserl impiega matura nel decennio precedente, a partire dall’autochiarimento occorso in merito al significato complessivo di una forma peculiare di idealismo; un chiarimento conclusivo riguardante tanto la sistematica che la metodica del progetto fenomenologico-trascendentale. Alla genesi di tale chiarimento questo libro è espressamente dedicato13. Quanto si propone è infatti delineare il modo in cui 13
Chiarimento su cui basare eventualmente, come detto, una controstoria dei travisamenti delle intenzioni fenomenologiche di Husserl nel corso del secolo passato. Si dirà con ragione che la divulgazione postuma e dilazionata dell’enorme lascito manoscritto abbia approssimato e derogato sino ai giorni nostri (se non oltre) la desunzione di ciò che il tempo intercorso avrebbe invece restituito all’interprete come il “vero” Husserl – qualunque cosa questo significhi. Si dirà che l’effettiva padronanza di un lascito sì vasto è comunque ardua e che lo è vieppiù se vi si somma la mole di studi a esso dedicati proliferati negli anni. Certo è che se si volesse scandagliare con attenzione tutta la messe di studi critici emersa negli ultimi lustri, a seguito cioè della pubblicazione di gran parte del lascito manoscritto, constateremmo una certa pullulazione di microindagini dedite ad aspetti di dettaglio dell’opera husserliana. Paradossalmente, indagini macroscopiche orientate a una valutazione complessiva di tale produzione sembrano invece appartenere a un passato ormai distante, ai decenni immediatamente successivi alla morte del filosofo, quando cioè gran parte di quel lascito permaneva in uno stato di conservazione inerte. Delineando qui delle tendenze trascuriamo le relative eccezioni, che pur ci sono indubbiamente, quando vorremmo porre lo spirito di questo lavoro in controtendenza rispetto all’orientamento esegetico degli ultimi anni. Il rischio di una ultraspecializzazione, infatti, pare scongiurato a patto di rintracciare nell’analisi microscopica la cifra in grado di promuovere la comprensione accresciuta di un intero che organicamente la trascende. Viceversa, il rischio antitetico di una superfetazione macroscopica di questo intero, che non sappia cioè intravedere nella novità di alcune analisi particolari il germe del proprio mutamento strutturale – se non nel senso di un’aggiunta posticcia – pare altresì scongiurato da un siffatto modo di procedere.
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Husserl giunge a formulare, sul finire degli anni ’20, il proprio idealismo nei termini peculiari di un’autoesplicitazione fenomenologica (phänomenologische Selbstauslegung) della soggettività trascendentale (XVII § 104; I § 41). Si crede, in questo modo, che il livello di considerazione della Crisi delle scienze europee possa essere attinto, rinvenendovi la cifra stilistica di un metodo e di un proposito codificati in precedenza e lì ritrasposti su un piano (meta) storico. Dico delineare il modo più che il senso di questa formulazione, poiché il suo significato è afferrabile non tanto a partire dai paragrafi o dalle stesse opere in cui essa si enuncia, quanto più se considerata l’esito di uno sviluppo tematico e operativo che ha occupato la fenomenologia nel corso degli anni. Di conseguenza, questo lavoro s’impegna in un duplice sforzo di ricostruzione, al contempo storica e sistematica, al fine di evidenziare le tappe che hanno favorito l’approdo a una simile ridefinizione dell’intento husserliano. Perché la ricostruzione avanzata non scadesse nella pedissequa ripetizione di una storia narrata già molte volte, si è cercato di selezionare un punto di vista neanche innovativo ma quantomeno inusuale se pensato alla luce dello scopo preposto: cos’ha infatti a che fare il tempo con la questione dell’idealismo fenomenologico? A mio modesto avviso, la temporalità rappresenta un plesso problematico in grado di retroilluminare l’evoluzione della teoresi husserliana14. Essa funge da suo motore interno, enucleando risultati che stentano a essere ricompresi pacificamente dalla configurazione superficiale del “sistema”, per come esso è presentato nelle opere pubblicate in vita dal filosofo. La parabola innescata dalla riflessione sulla temporalità consente di tracciare un percorso convergente proprio nell’idea di Selbstauslegung, rendendo possibile il chiarimento della peculiare forma d’idealismo propugnata da Husserl al termine della sua vita. Per rendere perspicuo ex ante e in attesa di validare ex post questo giudizio, si consideri un brano di Fink:
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Per dirla con gadamer (1963, 74), “tutta la problematica costitutiva ha origine nell’autocostituzione della temporalità, in quell’ultimo strato limite del presente originariamente fenomenale, l’unico che secondo Husserl non è ‘essere’ nello stesso senso di tutto ciò che è costituito come essere”.
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L’impostazione dell’idea di fondazione che determina una filosofia è già sempre l’implicita (e magari solo oscuramente cosciente) anticipazione del sistema. Così nell’idea di fondazione è abbozzata in nuce l’idea di sistema. (SPh 162 [247*])
Ebbene, io credo che il sistema dell’idealismo fenomenologicotrascendentale riscontri implicitamente la propria anticipazione in un’idea di fondazione incentrata sul chiarimento preventivo della natura correlativa della temporalità fenomenologicamente intesa. Lo credo, si noti, in un senso ben più letterale di quanto asserito da Fink stesso, e ciò nella misura in cui, nei primi anni ’20, la nozione di implicazione intenzionale acquisisce per Husserl una valenza tecnica di primaria importanza. L’implicito fenomenologico assurge cioè a tema specifico di una fenomenologia che proprio alla sua esplicitazione (Auslegung) sistematica comprende di dover attendere. Che poi la struttura temporale dell’intenzionalità predelinei non solo i modi di formazione di questo implicito, ma parimenti quelli di una sua eventuale e metodica (auto)esplicitazione, questa linea argomentativa fa sì che, alla lettera, la temporalità possa e debba essere intesa come anticipazione implicita del sistema dell’idealismo fenomenologico. Mi si consenta ora di fornire un breve resoconto delle tematiche affrontate nei capitoli del libro; così facendo, oltre a chiarirne lo sviluppo interno, cercherò di rendere maggiormente perspicuo quanto appena asserito. Nel cap. 1 ho cercato di mostrare come le prime indagini dedicate alla temporalità abbiano svolto un ruolo cruciale per la presa di distanze di Husserl dal brentanismo e la conseguente messa a punto di una prospettiva fenomenologica autentica. La trasvalutazione della nozione di coscienza interna in coscienza interna del tempo consente il superamento della chiusura immanentista tipica dei primi scritti husserliani e la definizione di un modello costitutivo di ordine trascendentale. Il risultato più importante di questo rivolgimento è l’approdo a un’interpretazione della fenomenologia come idealismo correlativo del senso. I capp. 2-3 si concentrano invece sulla disamina del fondamento sintetico della correlazione. A partire dagli sviluppi genetici della riflessione fenomenologica sulla temporalità, ho cercato di chiarire il funzionamento dell’istanza coscienziale capace di dar
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luogo – appunto instanziandola – a una dinamica complessa in cui costituzione noematica e autocostituzione noetica si implicano vicendevolmente. Il senso complessivo e per certi versi recondito da attribuire a questa dinamica è apparso quello di una prospettivizzazione originaria (Urperspektivierung) dell’orizzonte manifestativo, il suo articolarsi in un primo piano (tematico) che si staglia sulla base di uno sfondo intenzionale (operativo). Rimarcando poi come la temporalità non possa essere intesa soltanto come forma della coscienza, rappresentando anzi una sorta di impalcatura dell’intera genesi intenzionale, ho sottolineato come tale dinamica sia in grado di riprodurre in maniera onnipervasiva – a ciascun livello costitutivo, per qualsiasi àmbito d’esperienza – l’a priori della correlazione. Per far questo si è reso necessario superare, su proposta dello stesso Husserl, l’astrattezza formale che in un primo momento contraddistingue la riflessione sul tempo, cercando cioè di integrarne i risultati con le varie tematiche ricomprese sotto al titolo complessivo di sintesi passiva (associazione, affezione, inconscio, etc.). Il risultato più importante di questa integrazione ha delineato una concezione rinnovata del processo ritenzionale (Ritentionalisierung) al modo di una concreta sedimentazione (Sedimentierung) del senso, di una sua sostanziale “implicitazione” (Implizierung)15. La trasformazione implicita del senso è infatti il frutto di una divaricazione, di uno scollamento della componente “effimera” della costituzione, legata alla presentazione intuitiva particolare dell’inteso, dalla componente “durevole” e afferente all’identità noematica di quanto esperito, ossia alla formalità stilistica facente capo al senso di un’esperienza generalmente possibile. L’implicitazione del senso ha confermato quindi l’andamento correlativo della dinamica costituente, dando adito a una tipizzazione noematica non meno che a una abitualizzazione noetica dell’esperienza cosciente. La messa in luce del sistema tipico-abituale del senso ha permesso poi di sviluppare, tenendo in giusto conto il ruolo svolto dalla passività secondaria, un nuovo modello esplicativo della genesi intenzionale. Si è tentato infatti di oltrepassare la compartimentazione astratta dei gradi intenzionali, veicolata da una 15
Per il chiarimento e la giustificazione di questo termine non posso che rinviare al § 3.2.1 (infra).
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concezione stratigrafica della genesi, in favore di un modello ricorsivo dell’esperienza orchestrato da fenomeni di schematizzazione e retroazione appercettiva. Sempre l’esigenza di integrare e concretizzare il modello esplicativo ha condotto alla disamina del punto di vista dell’io, la cui natura e genesi prospettica è valsa quale controprova dell’interpretazione precedentemente avanzata dell’Urphänomen. Col cap. 4, infine, ho cercato di trarre le opportune conclusioni da quanto emerso in precedenza. Occorsa nei primi anni ’20, l’effettiva comprensione del processo di sedimentazione fa sì che la nozione di implicazione intenzionale esca dal suo stato di anonimia operativa e sia posta a tema dell’analisi fenomenologica. Di più, da tale tematizzazione consegue che la vocazione geneticoregressiva (archeologica) del metodo husserliano, nel frattempo maturata e in via di sistematizzazione, faccia di questo implicito il tema per eccellenza di una filosofia che proprio all’esplicitazione (Auslegung) dei nessi intenzionali sottesi all’esperienza si proponga di attendere in maniera sistematica. Difatti, l’idea stessa di un metodo teso a perseguire (Nachgehen) e a ricostruire (Aufbauen) l’ordinamento della genesi intenzionale fa sì che Husserl arrivi a pensare la prassi di chi fenomenologizza come lo stadio apicale di questa stessa articolazione, lo stadio in cui la soggettività trascendentale si riconosce in quanto tale e assume su di sé il compito (la responsabilità) di esplicitarsi. Essa è tenuta a farlo sino al punto di ricomprendere l’intero complesso intermonadico e il mondo stesso quali aspetti parziali di una medesima prospettiva teleologicamente orientata e in grado di sostanziare, realizzandolo, l’idealismo husserliano. La tarda nozione di Allsubjektivität trascendentale incarna allora l’ideale regolativo a cui l’esplicitazione intenzionale continuamente si approssima, al fine di perpetrare e accertare questa forma sui generis di idealismo pratico-metodologico. Infine, si è posto un problema di metodo: quello dell’effettiva praticabilità dell’esplicitazione del processo originario, una dimensione di pre-essere che per sua stessa natura sembra visceralmente inconciliabile con le risorse euristiche della fenomenologia trascendentale. Se ne è concluso che una sua trattazione è in effetti possibile grazie al lavoro congiunto di riduzione fenomenologica, intesa come prassi decostruttiva (desintetizzante), e variazione
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eidetica, intesa quale complemento “costruttivo” – non in senso deduttivo, né metafisico, bensì intuitivo – dell’indagine genetica. In ragione delle stesse risorse metodiche teorizzate da Husserl, il coacervo di manoscritti dedicati all’Urprozess equivale a una pluriarticolata dimostrazione per assurdo della legalità eidetica in grado di esibire una descrizione sempre più attendibile della struttura sintetica in gioco nel processo primario. A conclusione del libro ho apposto una sezione con delle figure atte a restituire schematicamente alcuni passaggi argomentativi e descrittivi particolarmente salienti. Vi ho fatto riferimento in corso d’opera pur consapevole della loro insufficienza esplicativa. Vorrei che fossero intese come strumenti utili a orientare chi legge nella comprensione dei testi husserliani; strumenti dunque da rigettare una volta raggiunto un certo grado di autonomo intendimento. Il presente lavoro non ha potuto fare a meno di avvalersi in gran parte del lascito manoscritto. Perché in esso, come in mare aperto – in assenza cioè di una cura editoriale vera e propria – non si navighi a vista, è fondamentale disporre di alcune coordinate essenziali per coadiuvare l’orientamento. L’utilità dei manoscritti e delle lezioni è indubbia: consentono di ricostruire l’evoluzione del pensiero husserliano colmando i vuoti di molti anni intercorsi tra le principali pubblicazioni. Non solo, il lascito manoscritto retroillumina la portata delle opere pubblicate in vita dal filosofo; animandone il significato, conferisce loro uno spessore tridimensionale che altrimenti non sarebbe possibile attribuirgli, trattandosi in quasi tutti i casi di progetti editoriali incompiuti o comunque incapaci di restituire la complessità della fenomenologia trascendentale se non per accenni e/o rimandi ad analisi suppletive condotte in altri luoghi. Giudicato oggi (pressoché) nella sua interezza, il corpus husserliano sembra necessitare di un triplice sforzo di (1) integrazione inter-tematica, (2) coerentizzazione infra-tematica e (3) tematizzazione dell’operativo, ossia: di un’integrazione fra tematiche che solo astrattamente sono sviluppate come indipendenti ma che in realtà rappresentano momenti di un intero concreto più complesso (es. temporalità originaria e sintesi passiva); di una coerentizzazione di ricerche distribuite su un nutrito numero di anni – spesso dunque terminologicamente divergenti e/o afflitte da ripensamenti – ma che afferiscono alla medesima tematica (ess. temporalità,
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intersoggettività, etc.); di una tematizzazione di concetti ancora non compiutamente compresi nel loro ruolo operativo e nella loro rilevanza sistemica (es. l’implicito fenomenologico). Non è del resto semplice, nonostante il grande sforzo editoriale degli archivi e dei curatori della Husserliana, seguire la presa diretta del pensiero del filosofo nel lascito manoscritto senza perdersi, condotti come siamo dagli sforzi pionieristici di chi – echeggiando Kant – “si è mosso realmente nelle foreste inesplorate di un nuovo continente” (V 154 [429]). È allora un modo, quello che qui si presenta, che dall’individuazione di un paio di nozioni come coordinate dirimenti se ne serva per tracciare una traiettoria, un percorso di ricerca (cap. 1), e per questa via proceda eradicando selve, sfrondando l’inessenziale (capp. 2-3), sino alla conquista di un’altura spoglia, di una vedetta da cui stimar l’intorno (cap. 4). Consapevole che l’intrapreso non può coincidere col tragitto di chi per primo ha battuto tale boscaglia e che altre vie sarebbero percorribili, uno confida nondimeno che la veduta collimi, quanto più possibile, con l’originale – e non con quella “dei geografi che ne giudicano i resoconti secondo le loro abitudini di esperienza e di pensiero, senza addossarsi la fatica di intraprendere un viaggio nelle nuove terre” (V 154s. [429]). Ciò con cui lo sforzo del viaggio ricompensa è infatti quanto nel tragitto contestualmente matura; è la vista che ci mostra la prospettiva del tempo.
1 L’IRROMPERE DEL TEMPO E LA FENOMENOLOGIA TRASCENDENTALE
§1.1 La rilevanza della Zeitfrage nell’opera di Husserl Introdurre la questione della temporalità significa collocarsi sin da subito in una prospettiva apparentemente marginale rispetto al principale filone evolutivo del pensiero husserliano. Chiunque rivolga l’attenzione alle grandi canonizzazioni teoriche – dalle Ricerche alle Meditazioni, dalle Idee alla Crisi – apparse nel corso di quasi quattro decenni di convulso ripensamento teorico circa l’inizio e il senso della fenomenologia, potrà infatti constatare la mancanza di una tematizzazione diffusa e approfondita della questione del tempo, non meno che dell’istanza coscienziale chiamata a farsene carico: lo Zeitbewußtsein. Neanche la pubblicazione tardiva delle Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins, nel 1928, rende il giusto merito a un plesso di questioni bollate come “cose della massima importanza, forse le più importanti dell’intiera fenomenologia” (X 334 [327]). Non si rende infatti giustizia al “più difficile di tutti i problemi fenomenologici, il problema appunto delle analisi del tempo” (X 276 [280]), qualora ci si spenda, come nelle Zeitvorlesungen, in una trattazione per certi versi decisiva ma incapace di sollecitarne la ricollocazione organica all’interno di un impianto architettonico ancora, per l’epoca, immaturo. Così come, viceversa, non si comprende a pieno il significato assunto dalla temporalità nelle opere più tarde – si pensi ai fondamentali §§ 18 e 37 delle Meditazioni – nel momento in cui si tace riguardo all’àmbito costitutivo fondamentale della coscienza interna del tempo, limitandosi ad assumerne i risultati a livello sistemico. Due episodi testimoniano in maniera emblematica la pervasività dell’autocensura husserliana in merito alla questione della tem-
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poralità nelle opere pubblicate in vita. Nella lezione introduttiva del corso del WS 1904-05 troviamo scritto: In una revisione recente dei miei vecchi progetti trovo così alcune riflessioni che nelle Ricerche Logiche non avevano ricevuto il loro giusto riconoscimento […]. Per esempio, l’intera sfera del ricordo e, con essa, tutti i problemi di una fenomenologia dell’intuizione originaria del tempo sono passati – per così dire – del tutto sotto silenzio. Non ero allora in grado di affrontare le eccezionali difficoltà che sono qui implicite, forse le più grandi dell’intera fenomenologia, e poiché non volevo legarmi troppo presto le mani, preferii non dir nulla di esse. (XXXVIII 4 [32s.*]).
Verosimilmente, Husserl si riferisce qui alle prime riflessioni dedicate al tempo antecedenti o concomitanti alla pubblicazione del secondo volume delle Ricerche (1901), raccolte da R. Boehm come primo gruppo della parte B di Hua X (testi Nrr. 1-171). In questo primo esempio, Husserl imputa le ragioni della censura a sé stesso, alla sua incapacità di dominare le difficoltà insite nella tematica temporale. Il secondo episodio di autocensura, più noto, compare nel celebre § 81 di Idee I, dove in modo plateale si confessa la decisione di accantonare contestualmente la questione del tempo. Nelle poche pagine che Husserl dedica al problema troviamo infatti la seguente ammissione che conviene citare per esteso: Il tempo è del resto, come risulterà dalle indagini che seguiranno più tardi, un titolo per una sfera di problemi perfettamente delimitata e di eccezionale difficoltà. Si vedrà come la nostra esposizione abbia in certo modo fin qui taciuto una intera dimensione, e doveva necessariamente tacerla, per evitare la confusione in quella parte che, in un primo tempo, è la sola accessibile all’atteggiamento fenomenologico e che, indipendentemente dalla nuova dimensione, costituisce un campo di ricerche in sé conchiuso. L’“assoluto” trascendentale, che abbiamo raggiunto per mezzo delle riduzioni, in verità non è l’ultimo, ma è qualcosa che a sua volta si costituisce in un certo senso profondo
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bernet (1985) ha successivamente rivisto la datazione dei testi raccolti da Boehm. In virtù di tale revisione, alla quale nel prosieguo terrò fede, il testo Nr. 18 non fa parte del primo gruppo (1893-1901) ma del secondo (1904-1905).
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e del tutto caratteristico, avendo la sua sorgente originaria in un ultimo e vero assoluto. (III/1 181s. [203]).
Al di là del rapporto tra assoluto trascendentale e assoluto temporale2 al quale qui soltanto si allude e sul quale torneremo, ciò che in questo passo emerge con chiarezza è la necessità di soprassedere all’analisi della temporalità per non turbare l’insediamento dell’Einstellung fenomenologica in quel campo di ricerche che inizialmente è il solo a risultarle accessibile. In questo secondo caso, dunque, l’esclusione del tempo è da imputare alla mancanza di preparazione in materia fenomenologica da parte di chi legge ed è quindi dettata da un’esigenza prettamente pedagogica3. Agli occhi di chi abbia assistito al successivo approfondimento genetico della fenomenologia husserliana, questo primo “campo di ricerche in sé conchiuso” apparirà, di contro, come un malcelato riferimento a ciò che sarà poi detta analisi “statica”. Ciò non significa attribuire a Husserl, nel 1913, la piena comprensione dei due metodi, nonché la necessità di una loro eventuale integrazione (infra § 2.1), quanto più sottolineare – tramite la precognizione che egli dimostra della distinzione tra due linee di ricerca – da un lato il ruolo destabilizzante della temporalità rispetto alla fenomenologia statica, dall’altro la funzione esplorativa svolta nei confronti di quella genetica. Com’è noto, Husserl intendeva le proprie lezioni e, in misura maggiore, i propri manoscritti come àmbiti di pura ricerca filosofica, dediti cioè all’approfondimento e perfino alla messa in 2
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Held (1966, 68ss.) ha opportunamente corretto l’interpretazione del passo offerta da boeHm (1959c, 239ss.) chiarendo come l’“ultimo e vero assoluto” sia qui da intendere in senso temporale e non teologico. Boehm ha comunque il merito di distinguere l’assoluto “trascendentale” fenomenologico da un assoluto tradizionale di tipo metafisico (231s.). costa (2002, 462) ha osservato che le principali questioni affrontate in Idee I – “riduzione eidetica, rapporto tra psicologia e fenomenologia trascendentale, esclusione del problema del mondo, esclusione dell’esperienza dell’altro, presentazioni dell’io nella sua persistenza – hanno il loro centro di gravità nell’esclusione della temporalità”. Questa esclusione colloca tali questioni attorno a un fondamento vacillante e oscuro, perché inesplorato, impedendo “l’assunzione di una effettiva prospettiva trascendentale e costitutiva perché la temporalità rappresenta il motivo che legittima la possibilità di una considerazione fenomenologico-trascendentale dell’oggetto intenzionale”.
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discussione di acquisizioni teoriche pregresse. Come lui stesso conferma, introducendo le lezioni del WS 1904-1905, “nelle questioni sulle quali come autore non mi esprimo, mi sarà possibile tuttavia esprimermi come docente: del resto, io preferisco parlare di cose non ancora completamente risolte, ma comprese nel loro stesso fluire” (XXXVIII 5 [33]). Questa scissione tra Autor e Lehrer rappresenta una costante da non sottovalutare nel tentativo di ripercorrere l’evoluzione del pensiero husserliano. Del resto, c’è chi ha sottolineato come alberghi una sorta di tensione – per lo più latente, raramente manifesta – tra lo svolgimento delle ricerche fenomenologiche concrete e l’impianto metodologico (e quindi l’ordinamento sistematico) all’interno del quale esse si svolgono4. Questa discrasia tra oggetto e metodo di studio sembra accompagnare gran parte della parabola filosofica di Husserl, costituendone l’interno motore di sviluppo. Sin dal proposito iniziale di un ritorno “alle cose stesse”, il percorso husserliano può essere inteso come una rincorsa in cui la messa a punto di un metodo che fosse in grado di farvi adeguatamente ritorno, fosse altresì capace di garantire loro un’appropriata articolazione espositiva in un progetto compiuto di sistema. Dal superamento della psicologia descrittiva alla radicalizzazione in senso trascendentale della riduzione fenomenologica, dall’avvento dell’analisi genetica sino all’intento autocritico di una fenomenologia della fenomenologia, l’impegno husserliano è sembrato quello di uno studioso mai dòmo, sempre disposto a ricalibrare il proprio pensiero alla luce di un’esperienza rinnovata della cosa (Sache), ad assecondare tale esperienza nei suoi rivoli di senso più remoti e controproducenti. Questo arrancare spasmodico appresso alle cose non getta luce soltanto sul tentativo di perfezionamento del metodo; esso coinvolge, come anticipato, anche i progetti espositivi di una prassi sistemica che rifugge apertamente ogni illusoria ambizione di compiutezza. Husserl sembra aver chiara sin dal 1904-1905 la natura ricorsiva e olistica del proprio paradigma di ricerca: 4
Su questo già de boer (1978, 179, 266) e, per quanto riguarda il tema specifico della temporalità, sakakibara (1993). Per quest’ultimo, il rapporto vigente tra le varie fasi di elaborazione della temporalità e l’evoluzione del metodo fenomenologico sarebbe quello di una “aperta connessione dinamico-dialettica” (p. 23).
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l’intimo intreccio e la natura particolare dei problemi fenomenologici fa sì che essi non possano giungere isolatamente a soluzione e che sia necessario far progredire un poco ora gli uni, ora gli altri, confidando nel fatto che ogni passo in avanti nel chiarimento degli uni getti una luce chiarificatrice sugli altri. (XXXVIII 4 [32])
Tralasciando per il momento di rimarcare le ricadute della disamina temporale sull’evoluzione della metodologia e della sistematica fenomenologica, è chiaro sin da subito come tale influenza sia presente anche laddove Husserl decida di non farne un tema di discussione. Ciò significa, a ben vedere, iniziare a ridestare la problematica del tempo da quell’apparente marginalità prospettica – cui inizialmente alludevamo – ai fini di una valutazione complessiva della parabola del pensiero husserliano. Al netto della scarsità di pagine dedicate al tema in questione nelle principali opere pubblicate in vita dal filosofo, l’analisi dello Zeitbewußtsein si mostra imprescindibile per una ricognizione intorno alla soggettività e alla metodologia fenomenologiche (zippel 2007b). Prova ulteriore ne sia il fatto per cui l’elaborazione della Zeitfrage abbraccia tutto l’arco evolutivo della produzione husserliana, a partire dagli anni ’90 del XIX secolo sino agli anni ’30 del XX. Se un certo interesse per la dimensione temporale è attestato sin dalla Philosophie der Arithmetik (1891) – interesse di cui tener conto per tracciare una “preistoria della fenomenologia” (iocco 2013, 12) – per altro verso, in seguito alle recenti pubblicazioni dei Bernauer Manuskripte e dei C-Manuskripte, è ora di pubblico dominio il costante ritorno di Husserl su tale questione sino agli ultimi scampoli della propria vita filosofica. Sembra dunque lecito considerare il problema del tempo come un filone sotterraneo dell’intera fenomenologia, a cui Husserl, volente o nolente, è consapevole di doversi rifare a più riprese, nell’ottica cioè di assecondare un’esigenza mai venuta meno di autochiarimento del proprio pensiero. Volendo anticipare una similitudine il cui senso ci si augura di chiarire in corso d’opera, il ruolo che la Zeitfrage esercita rispetto al sistema fenomenologico-trascendentale risulta paragonabile all’azione carsica e tellurica del nucleo magmatico presente al centro della Terra, da cui dipende ed è dipesa la configurazione superficiale della stessa. Con una simile cartina tornasole e con
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l’intento di liberarci gradualmente dall’impressione di marginalità da cui abbiamo preso le mosse, entriamo nel merito delle analisi fenomenologiche dedicate al tempo, convinti di penetrare un epicentro teorico fondamentale da cui poter pensare e ripensare il progetto husserliano nel suo complesso. §1.2 Per la fenomenologia del tempo (1893-1905): il continuo multidimensionale Il manoscritto originario di lezioni del febbraio 1905 reca il titolo Zur Phänomenologie der Zeit, difettando di qualsiasi riferimento alla coscienza interna del tempo5. L’apparentamento delle due tematiche si deve infatti ad approfondimenti successivi della Zeitfrage, la cui lenta maturazione stenta a emergere da una lettura dell’edizione apparsa sullo Jahrbuch nel 1928, a causa del complesso iter redazionale delle Zeitvorlesungen – ossia del lavoro di riscrittura, integrazione, coerentizzazione terminologica dei manoscritti svolto da E. Stein nel 1917 e confluito nella prima parte di Hua X6. I testi dedicati da Husserl al problema del tempo dal 1893 sino al 1904 stentano a trovare un autonomo indirizzo di ricerca. Il dibattito è quello afferente al milieu scientifico-culturale dell’epoca, variegato da autori quali F. Brentano, W. James, A. Meinong, W. Stern, etc. Dal punto di vista dell’evoluzione del pensiero husserliano, questi testi ripercorrono con un taglio particolare (quello incentrato sulla temporalità) quanto avvenuto in quegli anni nelle altre opere o cicli di lezioni. Mi limiterò a fare qualche esempio al fine di differenziare la posizione husserliana rispetto agli autori 5
Cfr. boeHm (X xiv [14]). scHuHmann (Dok I 83) e sulla sua scorta lavi(2005, 381ss., passim) riportano invece il titolo Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins. Questa incongruenza sembra dettata dal fatto che Schuhmann riprende erroneamente il titolo attribuito alle lezioni da Heidegger nella sua prefazione all’edizione del 1928 (X xxiv). Del resto, la stessa nozione di innere Zeitbewusstsein non compare nel manoscritto originario delle Zeitvorlesungen né in testi antecedenti. Sul fondamentale apporto editoriale e collaborativo di Stein, oltre all’introduzione di boeHm (1966), si veda ingarden (1962) e marini (2001). Per ricostruire il manoscritto originario delle lezioni del febbraio 1905 (salvo alcune lacune dovute alla perdita di qualche foglio manoscritto) è indispensabile seguire le indicazioni dell’apparato critico curato da Boehm (X 386ss.). gne
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citati e di preparare il terreno per gli sviluppi successivi della tematica che qui interessa. Nel testo Nr. 1 risalente al 1893, il problema di Husserl è ancora quello di rintracciare “l’origine psicologica” della rappresentazione del mutamento oggettuale (X 140 [167]). Lo stesso lessico impiegato deve ancora molto alla sua filiazione brentaniana (si veda l’esplicito richiamo a Marty e a Stumpf in X 146s. [172s.]). Su questo retroterra, però, troviamo già innestata la teoria dello specious present e dei fringes scaturente da una prima lettura di James (X 147, 151 [173, 176])7. Sulla scorta di quest’ultimo, Husserl attribuisce un’estensione temporale al contenuto che si presenta non più come un’unità puntuale bensì dotato di aloni temporali (Zeithöfe). Da qui un primo riconoscimento del fatto che il “processo intuitivo è un processo temporale” (X 148 [174]). I testi successivi, a cavallo tra i due secoli (fino al 1901, Nrr. 2-17), rappresentano un tentativo sempre più accentuato di venire a capo dei problemi sollevati da Brentano pur mantenendosi all’interno del suo paradigma teorico. Confessando ancora tutta la distanza che lo separa dall’idea di una riduzione quale che sia, Husserl si chiede se “il compito della teoria psicologica del tempo non [sia] forse quello di spiegare, presupponendo il tempo obiettivo […], il sorgere della rappresentazione soggettiva del tempo” (X 160 [184], corsivo aggiunto). D’altro canto, si assiste a una prima presa di posizione contro le tesi brentaniane dell’ora come punto matematico inesteso (X 168 [190]) e del passato come modificazione temporale del contenuto anziché del carattere d’atto (X 171, 174 [193, 195])8; compaiono i primi ten7
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Una prima lettura dei Principles of Psychology (1890) si attesta nel 18911892 (sarà poi approfondita nel 1894). All’epoca, Husserl aveva in mente di pubblicare una serie di articoli di carattere psicologico di cui solo il primo vide la luce („Psychologischen Studien zur elementaren Logik“, Philosophische Monatshefte, 1894, pp. 159-191). Egli decise infatti di sospendere la pubblicazione degli altri articoli per approfondire meglio il testo di James (Dok I 32, 41). Per un confronto a tutto campo tra i due autori v. stevens (1974); per la questione specifica della temporalità v. cobb-stevens (1998) e iocco (2013, 144-52). Com’è noto (kraus 1930), questa critica è mossa da Husserl sulla base degli appunti relativi alle lezioni tenute da Brentano a Vienna verso la metà degli anni ’80, attribuendo dunque al maestro una concezione superata a partire almeno dalla metà del decennio successivo. Non avendo qui modo
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tativi di distinzione tra i modi della coscienza di passato (ricordo primario) e quelli della rimemorazione (ricordo secondario) (X Nrr. 2, 9, 10, 15). Un salto qualitativo importante per la considerazione fenomenologica del tempo avviene negli anni successivi alle Ricerche logiche e si concretizza nel nucleo di scritti preparatori e coevi al WS 1904-05 (X Nrr. 18-35). Questo salto risulta innescato sia da motivi endogeni, riguardanti lo sviluppo interno della stessa fenomenologia husserliana, che esogeni, facenti capo alla lettura di un paio di articoli rivelatisi poi fondamentali, rispettivamente di meinong (1899) e stern (1897)9. Dal punto di vista endogeno, sia le lezioni del febbraio 1905 (X § 1) che il gruppo di testi risalenti al 1904-1905 (X Nr. 19) si aprono infatti con l’esclusione (Ausschluß) di ogni tesi – ipotesi o supposizione (Annahme), determinazione o definizione (Festsetzung), convinzione od opinione (Überzeugung) – ossia di qualsiasi presupposizione (Voraussetzung) riguardante l’esistenza, non meno che la natura trascendente del tempo obiettivo. È dunque questa Ausschluß a ridefinire i parametri dell’analisi fenomenologica del tempo a partire dal biennio 1904-1905, in ossequio alla maturazione intanto occorsa all’apparato metodologico husserliano10. A
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di approfondire le numerose fasi di sviluppo della teoria brentaniana della temporalità, né le linee di convergenza e divergenza rispetto alla teorizzazione husserliana, rimando almeno a volpi (1987), albertazzi (1990/91), rinofner-kreidl (1995/96), kortooms (2002, 28-38), fugali (2005), benoist (2008), de Warren (2009a, 55-93; 2018). Husserl legge nel settembre del 1904 l’articolo di Meinong e ne trascrive alcuni brani nel gennaio del 1905 (Dok I 82, 85). Mediante la discussione offertane in questo saggio, Husserl sarebbe poi risalito all’articolo di Stern. Sebbene niente attesti l’effettiva lettura di Stern da parte di Husserl (bernet 2009, 151n. 6), la patente influenza esercitata da questo articolo sullo sviluppo della Zeitfrage husserliana lascia ben pochi dubbi in merito (de Warren 2005). Per il rapporto tra Meinong e Husserl sulla questione temporale cfr. kortooms (2002, 39-43) e iocco (2013, 126-38). Mi riferisco ai primi tentativi di presa di distanze dal canone psicologico-descrittivo attuati negli anni immediatamente successivi alle Ricerche logiche (1900-01). Malgrado infatti l’iniziale dichiarazione d’intenti in favore di una totale “assenza di presupposti” (XIX/1 24 [214]), posta a garanzia dei requisiti di scientificità dell’indagine gnoseologica, si constata come l’esordio d’inizio secolo cogliesse l’impostazione husserliana ancora viziata da uno psicologismo (ontologico) residuale (lavigne 2005, 118129), dall’adesione cioè a un implicito naturalista che ancora equiparava
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questo stadio di sviluppo, tuttavia, non si può ancora parlare di una il vissuto intenzionale alle sembianze di un fatto psichico. Com’è noto, la prima netta divaricazione della fenomenologia dal paradigma brentaniano si attesta nella recensione scritta a un articolo di Th. Elsenhans e pubblicata nel 1903 nello Archiv für systematische Philosophie (XXII 206; sul punto in questione si veda l’autocritica più matura in XX/1 312 [213s.]). Tuttavia, già nel corso del WS 1902-03 sono presenti le avvisaglie di un simile mutamento di prospettiva: il riconoscimento del carattere empirico della scienza psicologica (Mat III 19, 29) conduce a un rudimentale esercizio di purificazione eidetica del vissuto, elevato a istanza o “caso singolo” di una vera e propria “analisi d’essenza” e considerato pertanto “in quanto generalità”, in quanto cioè “idea-di-vissuto o essenza-di-vissuto” (Mat III 66, 77s.). Tale esercizio di purificazione dell’analisi è reso possibile dall’introduzione contestuale di un prototipo di riduzione fenomenologica, una “riduzione alla possibilità ideale” (Mat III 199), che consente di emancipare l’indagine dalle implicazioni di ordine psicologista: natura fattuale del vissuto, riferimento all’oggetto trascendente, all’io empirico, etc. (“di ciò non si parla affatto, è escluso [ausgeschlossen] per mezzo della riduzione fenomenologica”, ibid.). Sebbene Husserl la qualifichi come “fenomenologica”, abbiamo qui a che fare con una riduzione che seguendo lavigne (2005, 295ss.) diremmo “restrittiva”. Essa non dischiude cioè lo sguardo sulla fenomenicità del reale ma, anzi, semmai lo riduce significativamente, restringendo il campo d’indagine alle componenti reali (reell) del vissuto: all’apprensione dei contenuti sensoriali. A suo tempo, già derrida (1990, 176, passim) aveva posto l’accento sul carattere “privativo” del primo tipo di riduzione praticato da Husserl. Più recentemente, loHmar (2012c) ha sostenuto che questo prototipo di riduzione fosse in vigore già al tempo della prima ed. delle Ricerche (nella Va in particolare). Del medesimo avviso già costa (1994, 523), il quale rimarca l’impiego di una “riduzione sensualistica”, intesa come “‘limitazione’ alle componenti reali del vissuto”, nel § 23 della VIa Ricerca. Tuttavia, le interpretazioni di Lohmar e Costa sembrano suffragate dal resoconto retrospettivo che nel 1913 Husserl fornisce nella seconda ed. dell’opera (XIX/1 368s., 413n. [477s., 817n. 28]). Da una lettura complessiva della prima ed. non risultano infatti apprezzabili gli effetti che sarebbe lecito attendersi da una simile prestazione riduttiva. Sebbene, indubbiamente, si parli della realtà immanente (reell) dei contenuti sensoriali del vissuto, quest’ultimo non patisce alcuna purificazione eidetica analoga a quella in cui incorrerà a partire dal WS 1902-03, in grado cioè di far divergere il progetto fenomenologico da quello della psicologia descrittiva. Il vissuto della prima ed. delle Ricerche logiche rimane un fatto psichico reale (real) di ordine empirico. Le stesse occorrenze del verbo reduzieren (XIX/1 370, 381, 395 [485, 494]) non denotano in alcun modo un uso tecnico del termine. Anche laddove potrebbe sembrare, ove cioè si parla di un “io fenomenologicamente ridotto” (XIX/1 364), ciò che Husserl ha in mente è la semplice distinzione della realtà (Realität) puramente psichica dell’io dalla sua componente corporea
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vera e propria epochē, di una sospensione o messa fuori circuito/ validità che conservi sia pure fra parentesi – nominalmente – un interesse per la tesi d’essere da indagare11. La prassi riduttiva è ancora declinata in senso restrittivo-immanentista, gravata cioè da quell’accezione astrattiva (veicolata dal termine Ausschluß) per tutto ciò che esorbita l’immanenza reell del vissuto. Una disamina della temporalità “in senso fenomenologico” è qui condotta “con astrazione dal tempo obbiettivo in generale e dal soggetto obbiettivo in generale” (X 189 [209]). Sebbene non manchi di un certo interesse stabilire quale sia il rapporto tra tempo della coscienza e tempo obiettivo, quest’ultimo, in quanto relativo alla trascendenza del mondo, non ricade nel dominio analitico della fenomenologia (X 4 [44]). La fenomenologia del tempo del 1904-1905 si concentra su quelle componenti interne al vissuto (eideticamente purificato)
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e la messa in rilievo della prima come àmbito di ricerca specificatamente fenomenologico (ossia, per l’epoca, psicologico-descrittivo): “se distinguiamo il corpo dell’io dall’io empirico e se riduciamo l’io puramente empirico al suo statuto fenomenologico, esso si riduce all’unità della coscienza e quindi alla complessione reale [real] di vissuti” (XIX/1 363 [474]). Il testo della prima edizione è dunque esplicito. L’accezione dei termini “fenomenologico” e “ridurre” diviene equivoca solo in seguito alla revisione del testo apportata in vista della seconda ed., allorché i termini in gioco hanno ormai mutato il loro significato originario. Un altro caso eclatante è l’aggettivo “puro”: se nel 1901 esso designa in negativo lo statuto psicologico della fenomenologia come strettamente descrittivo, in opposizione cioè a qualsiasi indagine psicologica di ordine genetico-esplicativo, nel 1913 esso sarà impiegato per riferirsi in positivo al tenore eidetico della fenomenologia trascendentale. Al netto di questa precisazione di natura filologica, gli articoli di Lohmar e Costa forniscono ottimi resoconti dei limiti che contraddistinguono la riduzione all’immanenza reale (reell) del vissuto e i motivi che hanno condotto Husserl a superare questa impostazione pervenendo alla riduzione fenomenologico-trascendentale propriamente detta. Più in generale, sulla riduzione cfr. il classico kern (1962), nonché i più recenti luft (2011, capp. 2-3), finetti (2013) e perkins (2017). Seguiamo qui l’indicazione di Boehm per cui l’unica occorrenza della parola Ausschaltung (sospensione – messa fra parentesi, fuori validità) nel testo delle Vorlesungen (X 5, rigo 16) sarebbe in realtà un’aggiunta che compare nell’edizione del 1928 e non nel manoscritto originale. Lo stesso titolo del § 1 (Ausschaltung der objektiven Zeit) sarebbe stato apposto da E. Stein nel 1917 (X 394s.). Di conseguenza, l’unico senso attribuibile alla riduzione nel manoscritto originario sarebbe quello della mera esclusione facente capo alla chiusura immanentista (lavigne 2005, 385s., 397).
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che Husserl addìta come “autentiche immanenze”; si prescinde, allora, persino dalla “realtà spazio-temporale fenomenale”, ossia dalla “figura temporale che appare” – “tutte cose che non sono dei vissuti” – giacché “per mezzo dell’analisi fenomenologica non si può trovare neanche una briciola di tempo obiettivo” (X 6 [45]). La chiusura immanentista è di tale portata che Husserl, nello sforzo di emanciparsi dai retaggi naturalistici di ascendenza psicologistica, preclude alla scienza fenomenologica non solo delle particolari direzioni di ricerca ma addirittura quell’àmbito che più di tutti dovrebbe esserle congeniale, l’àmbito della realtà fenomenica. Questo dominio sarà ricompreso all’interno dell’analisi soltanto a partire dal WS 190607, in virtù della ridefinizione delle sfere d’immanenza e trascendenza a seguito del radicalizzarsi della prassi riduttiva in chiave trascendentale (infra § 1.4). Per il momento, di contro, l’identificazione della riflessione fenomenologica con i limiti imposti dalla percezione dotata di evidenza adeguata12, tipica della fase immanentista, rischia di soffocare prematuramente la dipartita della neonata scienza fenomenologica dalla psicologia brentaniana – strangolata, per così dire, dal cordone ombelicale 12
Com’è noto, nelle Ricerche logiche Husserl aveva risolto la falsa opposizione brentaniana tra percezione interna ed esterna, basata sulla frattura ontologica tra fisico e psichico, mediante il recupero di una più genuina “differenza gnoseologica” tra modalità percettive dotate di evidenza adeguata, per cui contenuto e oggetto collimano nella pienezza del vissuto intenzionale, o inadeguata, per cui l’oggetto è còlto come presuntivo in quanto trascendente i contenuti via via intesi e a esso relativi (XIX/2 769s. [778s.]; cfr. VIa Ricerca §§ 36-39). La successiva svolta eidetico-immanentista fa leva proprio sul criterio di evidenza adeguata nella misura in cui “astraiamo dalle intenzioni trascendenti, ‘noi le escludiamo’” (XXXVIII 20 [49n. 12]). Il restringimento immanentista alla componente reale (reell) del vissuto, ai contenuti sensoriali immanenti, ha di mira la coincidenza tra presentante e presentato che invece difetta nel caso della percezione rivolta all’oggetto trascendente (XXXVIII 19 [48]). È soltanto questa coincidenza e non la natura (fisica o psichica) dell’oggetto in questione che assicura il carattere di evidenza (adeguata) alla percezione: “nella ‘percezione adeguata’, l’intendere si rivolge ai contenuti di sensazione, si vive nel sentire” (XXXVIII 20n. [49n. 12*], corsivo aggiunto). Non ho qui modo di restituire la sottigliezza (anche terminologica) della critica husserliana alla percezione (o coscienza) interna di Brentano (rimando almeno a mcdonnell 2011). Mi limito a sottolineare come la nozione di coscienza interna non sarà abbandonata da Husserl bensì ripensata radicalmente.
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che a questa ancora la lega. La fenomenologia rischia cioè di confinarsi entro la gabbia imposta dalle componenti reali (reell) del vissuto – entro cioè l’angusta immanenza racchiusa tra l’apprensione e i contenuti di sensazione, entro i limiti cioè del mero sentire (Empfinden) – a discapito dell’apparire fenomenico in quanto tale13. Prendiamo ora in esame le influenze esogene. A un vaglio critico del dibattito tra Meinong e Stern sono dedicati i testi Nrr. 2933, risalenti al gennaio del 1905, stilati quindi subito prima delle Zeitvorlesungen e quivi in parte ripresi. Questi scritti delineano la questione principale che occupava allora la riflessione husserliana sul tempo, ossia la percezione di oggetti temporalmente “distribuiti”, per rimanere alla terminologia introdotta da Meinong. Temporalmente distribuiti sono quegli oggetti costitutivamente estesi nel tempo, dotati cioè di un’intrinseca connotazione processuale (es. una melodia). Non distribuiti sono invece quegli oggetti il cui carattere temporale inerisce loro in misura inessenziale (es. un colore), giacché “contengono isocronicamente tutti gli elementi interdipendenti o necessari a produrre l’apprensione, cosicché nell’estensione temporale non è dato alcun fattore integrativo” (X 218 [233]). In questo secondo caso è cioè possibile astrarre dalle determinazioni temporali dell’oggetto non alterandone il senso complessivo (nel primo caso quest’ultimo risulterebbe inevitabilmente compromesso). Il problema diviene allora quello di capire come un atto percettivo possa apprendere un oggetto temporal13
lavigne (2005, 429, passim) non ha pertanto tutti i torti nel rilevare l’estremismo immanentista esercitato da Husserl in questi anni, qualificando quest’opzione riduttiva come “massimalista”. Dal canto suo, loHmar (2012c, 11) sembra concordare quando valuta questo prototipo di riduzione come “troppo radicale”, perché incapace di portare a compimento la prova di diritto (Rechtsprüfung), che contraddistingue ogni autentica impresa riduttiva, circa la pretesa di legittimità (Berechtigung) di una determinata posizione di realtà. Escludendo dal dominio dell’analisi l’oggetto intenzionale, la riduzione alla sfera realmente immanente (reell) preclude la possibilità di utilizzare l’oggetto inteso (Gemeint) come filo conduttore per stimare il valore legittimante (costitutivo) del vissuto. Viceversa, la riduzione trascendentale propriamente detta non consisterà più nell’esclusione (Ausschluss) dell’inteso e delle posizioni a esso relative, bensì in una loro disattivazione (Ausschaltung) finalizzata alla loro valutazione critica (infra § 1.4).
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mente distribuito, come una melodia, tenendo assieme le sue varie componenti (le note) lungo l’arco temporale della sua distribuzione. Occorre chiedersi, cioè, come quest’ultime non sfocino in una molteplicità irrelata bensì finiscano per costituire un’unità composita14. La soluzione adottata da Meinong, a dir la verità piuttosto in voga per la psicologia dell’Ottocento15, consiste nell’accreditare alla percezione dell’ultima nota la capacità di ricapitolare l’intera sequenza melodica trascorsa, in modo tale da abbracciarne compiutamente l’intera distribuzione. Secondo Meinong, spiega Husserl, “l’oggetto è compiuto nel punto finale: dunque è lì che deve aver luogo quell’atto il quale, inglobando l’intero oggetto, deve essere la percezione dell’oggetto” (X 227 [240])16. Questa soluzione risulta irricevibile anche volendo prescindere dall’influenza esercitata dalla nozione di Präsenzzeit di Stern. Il punto cruciale per Husserl è che la soluzione offerta da Meinong perpetra sul lato dell’atto apprensionale quell’astrazione matematizzante che si era già dimostrata falsa sul lato del contenuto. Proprio come l’apprensione di un singolo “ora” doveva considerarsi un astratto senza lo sfondo offerto dai suoi aloni temporali, similmente, la ricapitolazione di un oggetto temporalmente distribuito nell’apprensione della sua propaggine conclusiva – un’apprensione, dunque, non distribuita – sfocia inevitabilmente nella medesima difficoltà.
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Si noti come la presa in considerazione di un oggetto come una melodia non rompa la chiusura immanentista dell’analisi husserliana. La melodia è infatti intesa non come entità cosale trascendente ma in quanto successione di sensazioni sonore immanenti (le note). Ciò nonostante, è indubbio che l’interrogazione sull’unità apprensionale di una successione di sensazioni permetta a Husserl di compiere un passo in avanti verso una fenomenologia costitutiva della trascendenza (infra § 1.3). Husserl addìta tutto un filone che da J.F. Herbart, passando per H. Lotze, arriva sino a Brentano (X 19 [56]). Un aspetto che Husserl non precisa nel suo resoconto è il fatto per cui Meinong intende questo atto capace di inglobare retrospettivamente l’oggetto temporale al modo di una assunzione di tipo categoriale (de Warren 2009b, 161). In tal senso, sia Meinong che Brentano (quest’ultimo con l’idea della proterestesi o associazione originaria) rifiutano di attribuire alla percezione sensibile l’esperienza di una successione temporalmente estesa, ricorrendo anzi a ipotesi esplicative facenti leva rispettivamente sull’apporto del giudizio e della fantasia.
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Dunque oggetti distribuiti vengono rappresentati solo mediante “contenuti” non-distribuiti […]. Ma ciò è falso o vero a seconda di come lo si intende, e falso secondo come sembra intenderlo Meinong. Certo, la coscienza deve trascendere l’“ora” e deve far ciò in ogni atto istantaneo, ma quest’ultimo non è la percezione dell’oggetto temporale, bensì un astratto. Perché debba essere possibile una percezione dell’oggetto temporale, non solo l’atto finale ma ogni atto istantaneo deve essere totalizzante, nella fusione di questi atti totalizzanti consiste la percezione che è essa stessa estesa, distribuita. (X 226s. [240])17
Ciò che qui Husserl intravede, mediante la critica di Meinong, è la complessità strutturale del vissuto di coscienza. Essa non risiede in una fantomatica simultaneità apprensionale in grado di abbracciare sincronicamente l’oggetto come in un’istantanea; la distribuzione temporale di un mutamento oggettuale implica piuttosto un correlativo mutamento temporale del vissuto percettivo: “la coscienza intuitiva di un mutamento si compie necessariamente in un mutamento di coscienza” (X 225 [239]). Il vissuto si rivela così un’unità articolata in “fasi percettive istantanee”, la cui istantaneità è però soltanto quella di “limiti ideali”, dal momento che “concretamente sono strisce che hanno un certo ‘spessore’” (X 210 [226]). È questo inspessimento temporale del vissuto di coscienza, la sua complessa articolazione temporale, a meritare il titolo di atto percettivo, non le apprensioni istantanee18 di singoli contenuti. L’incontro con Stern e la nozione di Präsenzzeit19 conferma a Husserl la bontà della strada intrapresa e ne accelera lo sviluppo. 17
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Come specifica Boehm in nota, questo passo è probabilmente un’aggiunta successiva rispetto alla stesura originaria del testo Nr. 29. Tuttavia, esso non fa altro che ribadire con maggior chiarezza e concisione il ragionamento husserliano svolto nelle pagine precedenti e successive del testo (datato “7.I.1905”). Si veda ad esempio X 225 [239], dove Husserl critica l’idea secondo cui la percezione di un movimento consiste nel “limite finale della percezione” stessa: “è chiaro che qui si arriva alla stessa finzione idealizzante che si ha con l’istante matematico”. In modo inopportuno, Husserl si riferisce occasionalmente a quest’ultime ricorrendo alla parola “atti”, dando quindi luogo a fraintendimenti del tipo: “nessuno di questi atti merita la prerogativa di chiamarsi percezione” (X 227 [240]). Si veda gallagHer (1998, 32-42) per l’opportuna distinzione della nozione di tempo di presenza psichico di Stern dallo speciuos present di James. Mentre quest’ultimo riguarda l’estensione dell’orizzonte temporale del contenuto sensoriale, l’estensione descritta dal concetto di Präsenzzeit con-
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La denuncia del “dogma della istantaneità di una totalità di coscienza” (stern 2005, 330) consente a Husserl, mediante la sua ripresa (X 20 [57]), di superare l’impasse in cui versavano Meinong e lo stesso Brentano, rei di collassare la percezione di una successione in un’apprensione istantanea conclusiva. Al contrario, sostiene Husserl, io vedo con evidenza […] che uno stato di intuizione del tempo in generale è possibile solo come esteso, che uno stato di intuizione di un punto di tempo è possibile solo nel contesto e che una coscienza di tempo richiede essa stessa tempo, una coscienza di durata durata, una coscienza di successione successione. (X 192 [211*])20
Ma come intendere una simile articolazione temporale del vissuto? È a questo punto che il contributo di Stern diventa fondamentale. L’estensione, la dilatazione, l’inspessimento del tempo di presenza consente all’atto di abbracciare quella che Stern chiama la “non-simultaneità” dei contenuti della successione (stern 2005, 327). La distribuzione di una successione contenutistica non può essere racchiusa in una “sezione trasversale [Querschnitt]” della “vita di coscienza”; gli elementi della successione sono anzi “un intero organico” in una “sezione longitudinale [Längsschnitt]” (stern 2005, 330n.). Soltanto grazie al Längsschnitt gli elementi “formano proprio un’unità successiva, con un effetto comune, la forma dell’apprensione” (stern 2005, 330). In questo modo il tempo di presenza comprende al proprio interno non una bensì due dimensioni temporali fondamentali che stern (2005, 337) addìta ricorrendo ai latinismi Simultanea e Successiva. La vita cosciente
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cerne l’atto di coscienza, finalmente inteso come un vero e proprio decorso percettivo. Per quanto si dirà rispetto all’influenza esercitata da Stern su Husserl, si tenga comunque presente il differente approccio metodologico di fondo: psicologico vs. fenomenologico. Tale approccio si riflette sul fatto per cui la nozione di Präsenzzeit è intesa da Stern come un’estensione o durata di natura fisica – dunque come qualcosa di misurabile obiettivamente (stanti le difficoltà tecniche del caso) – laddove Husserl, invece, tenta di muoversi in un regime di esclusione/sospensione del tempo obiettivo presupposto dalla scienza naturale. Questo passo del testo Nr. 20 risale alle vacanze estive del 1904, testimoniando come Husserl fosse già ben disposto nei confronti dell’opzione teorica sterniana, di cui avrebbe letto (probabilmente) di lì a pochi mesi.
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è dunque animata da una simultaneità trasversale e da una nonsimultaneità longitudinale. Occorreranno alcuni anni perché Husserl riesca a mettere a frutto la distinzione decisiva tra le due direzioni Quer- e Längsdel flusso di coscienza (infra § 2.2.3). Già nell’immediato, però, limitandosi cioè ai testi appartenenti al nucleo originario di lezioni, è possibile rilevare come l’influenza di Stern conduca a conclusioni profondamente antibrentaniane. I testi Nrr. 32-33 descrivono infatti proprio ciò che Brentano, ancora nei suoi ultimi scritti, era convinto di dover rifuggire: la coscienza interna intesa come un continuum a più dimensioni21. Da parte sua, anche a costo di rimettere in gioco il rischio paventato dal maestro del regresso infinito, Husserl trae le opportune conseguenze dal percorso svolto sinora. Avendo cioè rimosso un duplice livello d’astrazione matematizzante – quello relativo alla puntualità dell’ora contenutistico e quello relativo all’istantaneità dell’apprensione oggettuale – avendo pertanto ricondotto la percezione al rapporto tra due densità temporalmente estese (specious present – Präsenzzeit), Husserl è finalmente in grado di pensare l’atto come una “duplice continuità, una continuità di secondo 21
Secondo Brentano, attribuire una modificazione temporale come quella inscenata dall’associazione originaria per l’oggetto presentato al versante interno dell’atto psichico (presentante) condurrebbe a un regresso infinito: “Se questa estesi [del fenomeno fisico] fosse accompagnata da una proterestesi interna si giungerebbe, come si può facilmente dimostrare, ad una complicazione infinita: il suo obietto implicherebbe una proterestesi, questa ne implicherebbe a sua volta un’altra, e così via all’infinito, finendo addirittura con un tipo di continuo a infinite dimensioni” (La psicologia da un punto di vista empirico, vol. III, Coscienza sensibile e coscienza noetica, Laterza, Bari 1997, p. 76s.). Per Brentano la coscienza interna non ha dunque alcun carattere proterestesico, nessuna declinazione temporale se non quella di un presente liminale in grado di fungere da punto di riferimento per le determinazioni temporali della percezione esterna. Come vedremo in corso d’opera è proprio qui che il percorso husserliano diparte da quello del maestro. Se, come ebbe a dire una volta blumenberg (1986, 413), “il fenomenologo si definisce con la propria impavidità davanti al regresso infinito”, ecco invece che Brentano latita e rifugge di fronte a una simile eventualità, precludendosi di esplorare una via ricca di conseguenze. Sul punto cfr. la conclusione di melandri (1960, 105) per cui, in ottica husserliana, “l’obiezione di regressus non può più essere accolta perché si fonda su di un dogma inammissibile. La fenomenologia distrugge questo dogma facendo del regressus ad infinitum parte integrante del suo metodo”.
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grado”. Al netto della ridondante enumerazione di continua fornita nel testo Nr. 32 – alcuni da espungere dalla lista in quanto ancora viziati da una certa tendenza all’astrazione istantaneista (X 231 [244]) – per ogni vissuto di coscienza abbiamo a che fare con un continuum apprensionale che abbraccia una molteplicità di continua di fase – ognuno dei quali, sulla scorta di Stern, prende il nome di “continuo intuitivo di sezione trasversale [intuitives Querschnittkontinuum]” (X 232 [245]). L’interazione di due diversi ordini di continua (contenutistico e apprensionale) genera il pensiero secondo cui l’unità della percezione complessiva, dal canto suo, è un continuo di questi continui [trasversali], che per l’appunto si associano continuamente fase per fase […] e costituiscono così la coscienza unitaria dell’intero oggetto temporale. (X 231 [244])
Sarà allora questa continuità di continui a costituire ciò che Husserl nomina “campo temporale originario” (X 234 [246]), ossia l’intelaiatura o trama sottesa all’atto percettivo in grado di sostanziarne il riferimento intenzionale. Troviamo qui una prima riformulazione dell’intenzionalità che rompe radicalmente i ponti con la concezione atomistico-associazionista della coscienza come “catena” (o “serie”) di idee tipica dell’empirismo moderno, le cui propaggini erano arrivate sino a Brentano. A quest’ultimo, infatti, Husserl rimprovera (X §§ 6-7) non tanto l’aver concepito l’associazione originaria quale operazione della fantasia e non come parte integrante dell’atto percettivo, non solo di averla intesa (almeno inizialmente) come modificazione del contenuto anziché del carattere d’atto; la critica fondamentale riguarda piuttosto la sottomissione al dogma denunciato da Stern che come un paraocchi gli ha impedito sino ai suoi ultimi giorni di penetrare la complessità strutturale della vita cosciente, di condurre un approfondimento radicale attraverso i suoi molteplici livelli operativi. Come si dirà in un’aggiunta successiva alle pagine dedicate alla critica del maestro: “un’analisi del tempo limitata a uno strato non è sufficiente: essa deve percorrere tutti gli strati della costituzione” (X 17 [55]). A un simile approfondimento, tenuto a farsi carico della complessa multidimensionalità del flusso di coscienza, Husserl si dedicherà fin dagli anni immediatamente successivi alle Zeitvorle-
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sungen, perseguendolo con ostinata perseveranza sino al termine della sua vita. §1.3 La costituzione temporale immanente (1905): l’identità relazionale-differenziale In una famosa lettera a W.E. Hocking del 25 gennaio 1903 Husserl precisa il senso d’impiego della nozione di “costituzione” nelle Ricerche Logiche: “l’espressione che ricorre a più riprese secondo cui in un atto ‘gli oggetti si costituiscono’ indica sempre la proprietà degli atti di rendere presentativo l’oggetto [den Gegenstand vorstellig zu machen]: non ‘costituire’ in senso proprio” (Dok III/3 132). Ovvero, secondo la fenomenologia del 1903, l’apporto costitutivo del vissuto si limita a far apparire l’oggetto, a renderlo intenzionalmente presente. In tal senso Husserl non si discosta, per sua stessa ammissione, dal tracciato aperto dalla psicologia descrittiva delle Ricerche. Nelle Zeitvorlesungen del 1905 questo modo d’intendere la costituzione sembra iniziare a sfaldarsi – e con esso lo stesso paradigma della fenomenologia immanentista – senza giungere ancora a esiti apertamente trascendentali22. L’incipiente metamorfosi della nozione di costituzione sembra dipendere dall’essenza stessa dell’oggetto con cui Husserl si trova ora ad avere a che fare: l’oggetto temporale immanente. Il plesso di problemi che un’analisi costitutiva dello Zeitobjekt solleva è tale da indurre Husserl a seguire nuovi sentieri che lo conducono progressivamente a erodere la chiusura immanentista dettata da una riduzione di tipo restrittivo. Il proposito iniziale di escludere (ausschließen) l’interesse per quanto trascende l’immanenza reale (reell) del vissuto e in particolare per la costituzione di una realtà spazio-temporale genuinamente fenomenica, sarà progressivamente messo in discussione. Cercherò di mostrare come questo avvenga. La discussione delle posizioni di Meinong e Stern ha condotto Husserl a concepire la percezione come un continuo apprensio22
Per come il mutamento dell’idea di costituzione sia storicamente coinciso con l’evoluzione della fenomenologia husserliana cfr. il classico studio di sokoloWski (1970).
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nale di continui di fase oggettuali, ossia come un continuum di secondo grado. In questo modo, il problema costitutivo di come i contenuti temporalmente distribuiti possano essere sintetizzati in maniera tale da consentire l’apparizione di un oggetto unitario è ricondotto alla questione dell’estensione del vissuto apprensionale, inteso ora come un vero e proprio Zeitfeld. È allora il caso di chiedersi in cosa consista l’estensione del vissuto. Nelle pagine successive del manoscritto originario delle Zeitvorlesungen, Husserl si preoccupa di distinguere nettamente i modi del ricordo primario (primäre Erinnerung) da quelli del ricordo secondario o rimemorazione (Wiedererinnerung)23. Husserl spiega come ciascuna apprensione d’ora incorra in “una retrocessione [Zurückschiebung] nel passato” (X 30 [66]). Questa retrocessione genera una sorta di “relativizzazione [Relativierung24]” (X 39 [72]) dei contenuti appresi nel decorso percettivo, un loro decentramento progressivo rispetto all’ora di volta in volta appreso. Ciò avviene senza soluzione di continuità, poiché Husserl, avendo criticato la concezione puntuale dell’ora, lo ripensa come dotato di una certa densità, comprensiva cioè del proprio orizzonte di passato. Abbiamo dunque a che fare con un “ora ‘grezzo’, che subito si suddivide a sua volta in un ora più fine e in un passato, via via che proseguiamo nella divisione” (X 40 [74]). Il carattere ideale dell’ora diviene il discrimine che consente di discernere il ricordo primario, che si media vicendevolmente con l’ora percettivo, dalla rimemorazione, atto sprovvisto di tale rapporto di mediazione. Percezione è qui dunque un carattere d’atto che racchiude una continuità di caratteri d’atto ed è contraddistinta dal possesso di quel tale limite ideale. Una consimile continuità, priva di questo limite ideale, è puro o semplice ricordo. Idealmente, la percezione (impressione) sarebbe allora la fase di coscienza che costituisce il puro ora, e il ricordo ogni altra fase di continuità. Ma si tratta appunto soltanto di un limite ideale: qualcosa di astratto che di per sé è niente [das nichts für sich ist25]. Inoltre, sta di fatto che anche questo ora ideale non è 23 24 25
X §§ 11 (secondo capoverso), 14 (primo capoverso), 16-17, 19. Il manoscritto originario delle Zeitvorlesungen recava “Relativismus” (X 415). Riporto la formulazione impiegata nel manoscritto originario, a mio avviso più chiara. La revisione di E. Stein muta “ist” in “sein kann” (X 415). Il
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qualcosa di toto coelo diverso dal non-ora ma si media [vermittelt] continuamente con quello. A ciò corrisponde il continuo trapasso [Übergang] della percezione nel ricordo primario. (X 40 [74*])
Si giunge così alla distinzione tra le funzioni costitutive della presentazione percettiva (Gegenwärtigung) e della presentificazione rimemorativa (Vergegenwärtigung). La prima altro non è che “l’atto che ci pone sott’occhio qualcosa come sé stesso, l’atto che costituisce originariamente l’oggetto” (X 41 [74]); grazie a questa forma originaria di costituzione l’oggetto percepito è intenzionato “nel modo dell’esser dato in sé stesso” (X 39 [73]). D’altra parte, il ricordo secondario o rimemorazione rende presente un oggetto non in sé stesso ma soltanto per noi, visto che in sé risulta non più presente; lo “presentifica, per così dire ce lo pone sott’occhio in immagine, anche se non proprio nel modo di un’autentica coscienza d’immagine [Bildbewußtsein]” (X 41 [74*])26. La rimemorazione sarà dunque intesa alla stregua degli atti di fantasia e di coscienza d’immagine – stanti le loro rispettive differenze e prerogative – come modo riproduttivo della Vergegenwärtigung e quindi separata nettamente dalla percezione intesa come Gegenwärtigung di un oggetto in “carne ed ossa (leibhaftig)”. Di riflesso, il ricordo primario – quel fenomeno che a partire dal 1908-1909 prenderà il nome di ritenzione27 – viene inteso come parte integrante del decorso percettivo, poiché “solo in esso si costituisce passato, e non in modo rappresentativo, ma presentativo” (X 41 [75]). L’innesto dell’istanza del ricordo primario nell’àmbito di pertinenza della percezione conduce Husserl a ripensare l’apprensione del dato percettivo come una “modificazione [che] ha il carattere di un adombramento costante [stetigen Abschattung]” (X 48
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manoscritto presenta altre minime divergenze che non alterano il senso del passo (X 415). Nell’edizione del 1928 il testo prosegue precisando: “Di una continua mediazione [Vermittlung] della percezione col suo contrario, qui non si parla neppure” (X 41 [74]). Il termine Retention è già presente in due testi del 1904 (X 211, 215 [226, 230]), scompare nel manoscritto delle lezioni del febbraio 1905, per poi ricomparire e sostituire sistematicamente la nozione di ricordo primario a partire dal 1908-1909. Le prime occorrenze del termine (1904) ne testimoniano però un uso impreciso, ancora assimilato al carattere riproduttivo della rimemorazione.
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[79*]). L’atto, astrattamente inteso come continuum di continua apprensionali di contenuti, è ora ripensato nei termini di un processo di modificazione intenzionale permanente dell’ora. Tale modificazione assume i tratti di un progressivo digradamento (Abstufung) per cui l’ora appreso e con esso l’intera complessione (Komplexion) di fasi apprensionali sono oggetto di una retrocessione sempre più marcata. È tale retrocessione che costituisce la dimensione del passato: Come l’ora costantemente digrada nel passato e nel trapassato, così anche la coscienza intuitiva del tempo digrada costantemente. […] ciò che chiamiamo coscienza originaria, impressione o anche percezione, è un atto che costantemente digrada. Ogni percezione concreta implica un intero continuo di tali digradamenti. (X 47 [79*])
Sottilmente, la concezione husserliana dell’atto percettivo rivela una propria dinamica interna. Una dinamica, oserei dire, che accentra progressivamente su di sé le attenzioni di Husserl e che lo spinge a mettere cautamente in discussione la chiusura immanentista del proprio intento analitico. Husserl s’imbatte qui in una tale sorta di paradosso metodologico (lavigne 2005, 512s.) da mettere in crisi il criterio dell’intuizione adeguata del dato di sensazione. Quest’ultimo, in virtù della modificazione innescata dall’Abstufung, rappresenta infatti una forma originaria di trascendenza del tutto interna all’immanenza della cogitatio, al Selbstgegebenheitsein percettivo. Si pone quindi il problema di come una prassi riduttiva pensata in funzione del coglimento di un’evidenza adeguata possa attagliarsi a un tipo di immanenza che per ragioni d’essenza (temporale) si rivela intrinsecamente affètta da una trascendenza a essa connaturata. Questa incongruenza tra metodo e oggetto di indagine è un motivo che, di qui a pochi anni, condurrà Husserl a radicalizzare l’idea di costituzione intenzionale e a decretare il passaggio a un nuovo tipo di riduzione che contempli il problema (costitutivo) della trascendenza. È come se, prendendo in considerazione il fattore temporale inerente al darsi oggettuale, il restringimento dell’interesse analitico al contenuto di sensazione e all’apprensione di questo contenuto subisse un contraccolpo in grado di invertire la tendenza restrittiva, innescandone una di tipo ampliativo
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(rivolta non più verso l’immanenza del vissuto ma verso ciò che lo trascende). Progressivamente, il vivere nel sentire (XXXVIII 20n. [49n. 12]) non sarà più soltanto una fonte adeguata di evidenza a cui ricondurre l’analisi ma una dimensione dalla quale pensare la costituzione di una realtà che inevitabilmente eccede l’immanenza reale (reell) del vissuto e che presenta tutta una varietà di gradi di evidenza. Vediamo come questo sommovimento inizi a prodursi già nelle Zeitvorlesungen del 1905. Innanzitutto, la legalità d’essenza fatta valere dalla temporalità viene elevata a struttura formale dell’oggettività in quanto tale: “il tempo è una forma dell’obiettività, essa si costituisce in momenti dell’apprensione obiettivante” (X 416s. [379]). In secondo luogo, in virtù del digradamento temporale dei contenuti appresi, “la percezione si costruisce sulle sensazioni [baut sich auf Empfindungen28 auf]” (X 47 [79]) e ciò significa che la percezione, in quanto atto articolato in fasi apprensionali, non è qualcosa di immediato ma un’unità anch’essa temporalmente costituita. Non solo quindi la costituzione si giocherebbe a parte obiecti; anche l’atto inizia a essere pensato al modo di un’istanza costituita nel tempo29. La temporalità può essere intesa come quella dimensione privilegiata da cui poter pensare la costituzione nel suo complesso. Ma in che modo essa sarebbe in grado di svolgere un simile ruolo fondativo? Ciò avviene, secondo Husserl, per ragioni che riguardano ancora una volta i modi dell’apprensione dell’ora percettivo e la modificazione in cui esso incorre: Ogni ora, in quanto risprofonda nel passato, mantiene la propria rigorosa identità. In termini fenomenologici: la coscienza d’ora che 28
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Ho ripreso la variante del manoscritto del 1905 “Empfindungen” in luogo della correzione successiva “Empfindung” (X 420) poiché il plurale, oltre a concordare per numero con la frase precedente in cui si parla di “Auffassungsinhalte”, rende meglio l’idea di un’unità costitutiva basata su una molteplicità contenutistica. Su come le varie accezioni della costituzione fenomenologica rimandino a un rapporto apparentemente onnipervasivo tra unità e molteplicità cfr. majolino (2012a; 2012b). Nonostante la citazione riportata, l’aspetto di una costituzione a parte subiecti stenta ancora a emergere nel 1905. Nel nucleo originario di lezioni Husserl non sviluppa il versante longitudinale del vissuto, ciò che dopo la “svolta” trascendentale chiamerà Längsintentionalität giungendo così all’idea dell’autocostituzione del flusso assoluto di coscienza.
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si costituisce sulla base della materia A, si trasforma costantemente in una coscienza di passato, mentre contemporaneamente si costruisce una sempre nuova coscienza d’ora. In questa trasformazione, la coscienza che si modifica mantiene la propria intenzione oggettuale. (X 62 [92*])
Il fatto di cui tener conto è che la modificazione apprensionale del contenuto di sensazione che digrada sempre più nel passato non intacca minimamente l’identità che gli è propria. Il digradamento concerne infatti soltanto la pienezza intuitiva del contenuto che si smorza “dal più alto livello della sensazione, nell’ora, fino all’impercettibilità” (X 62s. [92]). Ciò che invece si conserva è appunto l’intenzione oggettuale, ossia, in primo luogo, il riferimento all’individualità del contenuto30. Questa prima forma di oggettivazione assume i contorni di un’identità di tipo relazionale, dacché ciascuna apprensione assegna una posizione al contenuto in quanto parte integrante della serie apprensionale. Acquisisce cioè una posizione in relazione agli altri contenuti appresi e sprofondati sempre più nel passato. Vediamo in che modo Husserl descrive la dinamica. Il mutamento consiste nel continuo sopraggiungere di sempre nuovi ora e nella continua fusione del nuovo al vecchio. Grazie al continuum delle apprensioni che, per ogni fase istantanea della percezione dell’oggetto temporale, è un continuum simultaneo, ogni fase oggettuale ottiene una determinatezza di connessione [Verknüpfungsbestimmtheit], un valore di posto [Stellenwert]. Col comparire di un sempre nuovo punto-ora che […] appare come punto culminante di una serie di incremento, come il punto-zero [Nullpunkt] originariamente privilegiato di ogni apprensione temporale, il valore di posto della fase identica acquista un carattere relazionale che sempre si muta. (X 424 [380s.*])
Abbiamo a che fare con una situazione relazionale dove l’ora contenutistico di volta in volta appreso svolge il ruolo di punto 30
“Con ‘individuale’ intendiamo qui l’originaria forma temporale della sensazione o, se vogliamo, la forma temporale della sensazione originaria, e quindi della sensazione di quello che via via è il punto ora, e solo di esso” (X 67 [96*]). A margine di questo passo sia Husserl che Stein annotano “Ur-impression” (X 429).
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di riferimento, di origine prospettica e intuitiva per l’orizzonte di passato che costantemente gli si rivolge. Husserl chiarirà più avanti, sempre nelle Zeitvorlesungen, il privilegio di cui consta l’ora: sempre nuovo essere originario scaturisce al contempo nel punto sorgivo vivente dell’essere [lebendigen Quellpunkt des Seins], l’ora, in relazione al quale la distanza tra i punti temporali appartenenti al processo e il rispettivo ora costantemente si accresce, suscitando così il fenomeno del risprofondare, dell’allontanarsi. (X 69 [97*])
L’ora assume già nel 1905 il ruolo di fonte intuitiva – vitale – d’ogni manifestazione d’essere, un carattere che successivamente sarà esteso all’intero presente vivente (lebendige Gegenwart)31. Si comprende però come la dinamica non possa essere intesa secondo l’accezione meramente relazionale di un sistema di riferimento. Essa dovrà leggersi anche secondo un’ottica differenziale, perché capace di distinguere questi momenti man mano che essi sprofondano, di distanziarli dall’ora che costantemente si rinnova: “si forma una distanza sempre maggiore rispetto al sempre nuovo ora attuale che si costituisce grazie alla serie continua di mutamenti che a esso fanno capo” (X 63 [93*]). È ancora una volta l’ora appreso il punto di riferimento a partire dal quale il decorso percettivo è pensato come una totalità sintetica al contempo relazionale e differenziale32. 31 32
Cfr. brand (1960) e Held (1966). Huang di (2020) ha avanzato una descrizione dell’unità seriale di modificazioni dell’ora innescate dal ricordo primario in termini mereologici (mutuati dal § 13 della IIIa Ricerca logica). Tale unità può essere descritta come un intero (seriale) di parti non-indipendenti – membri (Glieder) – che si compenetrano (durchdringen). Porre l’accento sulla non-indipendenza e la compenetrazione delle parti sembra in effetti un buon modo di esemplificare l’identità sintetica al contempo relazionale e differenziale del decorso percettivo (l’intero) senza ricorrere a un’unità di ordine superiore esternamente addotta. Il fenomeno ritenzionale, come peraltro si vedrà meglio in seguito (infra § 2.2.3), non abbisogna di alcuna produzione di unità ulteriore rispetto a quella conseguita all’interno del processo (es. quella invocata mediante il ricorso a un qualche tipo di attività egologica). Aggiungo infine che sebbene sotto il profilo esegetico il riferimento alla mereologia risulti utile, almeno in questo caso specifico, difficilmente si potrà sostenere un’interpretazione mereologica complessiva della temporalità fenomenologica (non foss’altro perché Husserl quasi mai si esprime sul tema ricorrendo alla terminologia della IIIa Ricerca). Al più, quello mereologico potrà essere
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A partire dalla funzione costitutiva dell’ora il decorso dei contenuti appresi vi si distanzia, differenziandosi, senza per questo pregiudicare il proprio legame relazionale. La percezione sarà allora un decorso in cui ciascun momento temporale “è individualmente diverso da ogni altro, ma appunto diverso e non separato [verschieden und nicht geschieden]” (X 87 [111]). È questa duplicità di aspetti tra loro apparentemente contrastanti che caratterizza la percezione nella sua concretezza – al di là cioè di ogni astrazione analitica o finzione idealizzante, che pure sembrano necessarie all’indagine33 – e che connota la coscienza intenzionale come struttura eminentemente sintetica. Grazie all’apprensione costitutiva dell’ora la dinamica assume infatti una “prima obiettivazione” (X 427 [383]). Ecco come Husserl la descrive: Ogni ora produce un nuovo istante obiettivo, perché produce un oggetto nuovo; l’oggetto, insieme col suo posto temporale, viene tenuto fermo nella sua identità […]. Corrispondentemente si obiettiva anche l’intero tratto temporale, l’intero oggetto temporale esteso, che non conserva solo la sua relativa estensione temporale, ma anche il suo tempo invariabile. (X 426s. [382s.*])
Iniziamo a intravedere cosa Husserl intende quando afferma che “il tempo è rigido, eppure il tempo fluisce” (X 64 [94]). Il digradamento dei contenuti appresi che costituisce il passato (il fluire) convive all’interno del decorso percettivo con l’identità relazionale delle loro posizioni temporali (la rigidità)34. Ed è proprio l’ordinamento temporale, il quale rinnovandosi conserva l’identità dei rapporti e la proporzionalità delle distanze, a oggettivare la molteplicità sensoriale inquadrandola in una struttura relazionale stabile, per cui è possibile riferirsi a qualcosa di passato, presente, futuro, a un prima rispetto a un dopo o viceversa. Tuttavia,
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inteso come uno fra i molti campi semantici a cui ricorrere per districare la matassa di un plesso teorico indubitabilmente più complesso (infra § 2.3.1). Cfr. X 86, 434 [111, 385s.]. Non è possibile valutare sin da ora l’impatto di queste astrazioni/finzioni sullo statuto di un metodo che si pretende fenomenologico (si veda infra 4.4). Queste due accezioni prefigurano già nel 1905 una concezione dello Zeitbewußtsein come compresenza dei momenti di Stehen e Strömen, un motivo che diverrà poi preponderante negli scritti dedicati alla temporalità negli anni ’30 (Held 1966).
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non è il caso d’intendere questa prima forma di oggettivazione temporale alla stregua di un tempo obiettivo, ossia compiutamente matematizzato. Anzi, neppure le determinazioni temporali “ora”, “passato”, “futuro”, possono ritenersi determinazioni obiettive del tempo (X 427 [383]). L’analisi husserliana si situa ancora sul piano del vissuto immanente e riguarda un livello di oggettivazione pre-obiettivo. Benché si presenti come struttura temporale e pertanto costitutivamente universale, la struttura relazionale prodotta dall’apprensione e dalla modificazione digradante dell’ora ha una valenza circoscritta all’immanenza soggettiva. “Il punto-ora obiettivo che corrisponde all’ora arretra soggettivamente nel passato ma resta sempre lo stesso istante obiettivo” (X 427 [383], corsivo aggiunto). Potremmo dunque arguire che questa prima oggettivazione concerne soltanto la costituzione di un sistema relazionaledifferenziale per l’esperienza in corso. Un secondo livello di oggettivazione si deve infatti al carattere riproduttivo del ricordo secondario (X § 32). Quest’ultimo consente di re-identificare un ora passato così da farne un nuovo punto d’orientamento per la determinazione temporale di contenuti trascorsi (X 69s. [98*]). La funzione riproduttiva del ricordo secondario ha dunque il potere di oggettivare porzioni del campo temporale trapassate, reidentificandole come le stesse. Io posso riprodurre, ossia ricollocare l’evento ricordato situandolo nuovamente all’interno di un contesto di relazioni temporalmente determinate: posso cioè ricordarlo come avvenuto molto o poco tempo fa, prima o dopo altri accadimenti, in virtù della distanza che lo separa dall’ora attuale e del vincolo relazionale che lo lega ad altri valori posizionali. Ciò può avvenire anche nella forma di un’intuizione vuota, ossia di una riproduzione che in virtù del suo essere sprofondata in un passato ormai remoto ha perso qualsiasi rilevanza intuitiva35. Ecco però che la riproduzione di porzioni temporali passate pone di fronte al problema dalla loro componibilità, di come esse possano effettivamente costituire un tempo unitario, un passato equiparabile a una “fissa catena di obiettività tra loro
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Posso cioè ricollocare temporalmente (relazionare e differenziare) l’evento del mio primo giorno di scuola senza per questo ricordare alcun dettaglio di quell’esperienza, senza averne cioè alcun riempimento intuitivo.
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connesse e sempre di nuovo identificate” (X 70s. [99]). La risposta husserliana a questo problema si appella a un progressivo sovrascorrimento [Überschiebung] del campo temporale che non è, in verità, un mero allineamento [Aneinanderreihung] temporale dei campi temporali. Le parti che si accavallano [sich überschiebenden] sono identificate individualmente durante la regressione intuitiva e costante nel passato. (X 70 [98*])
Non c’è ragione alcuna per ritenere soddisfacente la risposta al problema della costituzione del tempo obiettivo fornita da Husserl nel 190536. Ciò che però qui interessa è aver mostrato come l’indagine husserliana sia giunta ad ampliare il proprio àmbito tematico. Partendo infatti dalla questione della costituzione temporale immanente dei contenuti di sensazione, il percorso svolto dalle Zeitvorlesungen ha ricondotto, mediante la scoperta di una trascendenza interna all’immanenza del vissuto e relativa alla determinazione temporale del contenuto appreso, alla posizione del problema costitutivo di una temporalità obiettiva, ossia di un tempo oggettivo trascendente. Husserl sembra tirare le somme della via intrapresa quando sostiene che l’evidenza del contenuto immanente non deve pertanto essere considerata qualcosa di puntuale: “un’evidenza così intesa (quale, per esempio, era ancora ammessa da Brentano), io potrei ritenerla una finzione” (X 84s. [110])37. Addirittura, Husserl ribalta la prospettiva brentaniana concependo l’estensione temporale come componente essenziale dell’evidenza veicolata dalla “percezione” interna: 36
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Purtroppo, nel prosieguo, non avrò modo di tornare sulla questione se non per accenni impressionistici. Del resto, Husserl stesso non ha mai formulato una teoria compiutamente articolata al riguardo, riproponendo il problema in manoscritti più tardi in forma frammentaria ed evadendo le reali esigenze di un tema così delicato (cfr. loHmar 2010). La complessità maggiore in cui incorre una trattazione fenomenologica della costituzione del tempo obiettivo è la necessità di integrare le dimensioni costitutive proprie della temporalità e dell’intersoggettività. Un tentativo in tale direzione è stato avanzato da rodemeyer (2006). Da parte sua, mettendo a frutto le risorse concettuali husserliane, blumenberg (1986) ha riflettuto in maniera originale sul problema. Sulla questione dell’evidenza in relazione alla dimensione temporale della coscienza ha insistito benoist (2008) come un tratto in grado di differenziare la posizione di Husserl da quella del maestro.
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È chiaro che quella evidenza della percezione interna, di cui tanto si parla, l’evidenza della cogitatio, perderebbe ogni significato ed ogni senso se volessimo escludere l’estensione temporale dalla sfera dell’evidenza e della verace datità. (X 85 [111])
È soltanto grazie a questa acquisizione decisiva, e non prima di essa, che la coscienza interna di brentaniana memoria diviene per Husserl coscienza interna del tempo e, viceversa, che lo Zeitbewusstsein si rivela innere Zeitbewusstsein, dando avvio, di conseguenza, all’integrazione dei due aspetti cruciali della temporalità e dell’autocoscienza. Soltanto dopo che il requisito di evidenza interna ha patito anch’esso una dilatazione temporale appropriata, ottemperando cioè al processo di digradamento dell’ora, la coscienza interna può svestirsi del manto di presupposto inindagato, di garante dell’analisi esternamente assunto, per diventarne parte integrante, ricompreso al suo interno quale fondamento costitutivo originario. Questo punto cruciale troverà una definizione più precisa soltanto in scritti degli anni immediatamente successivi alla ridefinizione della riduzione fenomenologica avvenuta durante il WS 1906-07 (infra § 2.2.1). Per intanto, alla fine delle lezioni del 1905, si nota come la temporalità inizi a prefigurare dei tratti essenzialmente correlativi, sebbene Husserl non sia ancora in grado di esplicitare il fondamento sintetico sotteso a tale struttura. È chiaro infatti che l’oggettivazione primaria consti di due lati, uno che riguarda il materiale sensibile e uno che concerne la sua apprensione (X 66 [95]). Senza il momento dell’apprensione i contenuti sensibili sarebbero solo “materia intemporale” (X 417 [379]). È l’apprensione, come già in parte mostrato, che mette in forma (temporale) i contenuti, li temporalizza (usando un’espressione dello Husserl più tardo). D’altra parte, però, il lato dell’apprensione non può essere pensato come una forma già temporalizzata, ossia costituita come a sé stante, sotto cui sussumere i contenuti di volta in volta appresi. In modo perentorio, Husserl sostiene che “non si può dare un tempo vuoto” (X 431 [385]) e che “senza l’aggiunta del nuovo ora la coscienza del tempo sarebbe del tutto impensabile” (X 425 [381]). La compresenza ineludibile dei due momenti è indice della loro fondamentale correlazione: “il tempo della percezione e quello del percepito sono lo stesso e medesimo tempo” (X 72 [100]).
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S’inizia qui a intravedere come la temporalità non sia altro che la forma assunta dalla correlazione in funzione del proprio grado di oggettivazione. Husserl non svilupperà efficacemente questa idea prima della “svolta” trascendentale. Del resto, però, il legame inscindibile tra temporalità e oggettività è già sottinteso quando egli afferma che il tempo acquista una propria consistenza soltanto in base all’oggettività costituita: “il rapporto all’identità dell’oggetto produce anche l’identità della temporalità” (X 427 [383*]). Questo legame è infine asserito esplicitamente – questo passo non compare nel manoscritto originario (X 408) ma è comunque indice della direzione intrapresa – allorché si fa presente che “un’analisi fenomenologica del tempo non può illustrare la costituzione del tempo senza tener conto degli oggetti temporali” (X 23 [59]). Perché si arrivi a un superamento effettivo della chiusura immanentista Husserl avrà bisogno ancora di alcuni anni; avrà bisogno di un ulteriore assestamento metodico consistente nell’adozione, tra il 1906 e il 1907, di una prassi riduttiva di tipo fenomenologico-trascendentale, in grado cioè di riproporre con forza il problema costitutivo della realtà trascendente. Osserviamo però come il percorso innescato con le Zeitvorlesungen anticipi la posizione del problema, arrivando sino a introdurre il tema della cosa materiale (Ding). Nell’affrontare la questione del mutamento oggettuale e specificando che “l’idea di un mutamento totale è un controsenso”, Husserl prende in considerazione l’esempio di “un oggetto spaziale [Raumobjekt]”, ossia proprio ciò che la chiusura immanentista aveva estradato dal dominio dell’indagine fenomenologica. Ecco allora che ci si confessa pronti a oltrepassare i limiti imposti da tale restrizione: Per l’esattezza, qui dovremmo prendere per oggetti esclusivamente contenuti di coscienza dati, perché di cose [Dinge], propriamente, non ne abbiamo ancora. È però chiaro che simili considerazioni costituiscono il punto di passaggio all’analisi della coscienza di cosa. Anche la cosa è un’unità […] che si costituisce nella temporalità, e tutti i concetti discussi si trasferiscono alla sfera della cosalità, alla sfera complessiva dell’obiettività individuale. […] Purtroppo non posso intavolare questa questione. Se però si ha chiaro il problema stesso e il metodo della sua soluzione, non possono esserci qui difficoltà smisurate. È un traguardo raggiungibile e non troppo distante quello di spiegare in un’analisi pu-
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ramente descrittiva la costituzione dei fenomeni di cosa e di chiarire in rapporto a ciò il senso del concetto di cosa. (X 435s. [386*])
Husserl sembra ormai deciso a compiere un salto decisivo al di là dell’immanenza del vissuto verso la trascendenza della cosa spaziale. Compiuto questo passo, il dominio dell’indagine fenomenologica potrà essere e di fatto sarà progressivamente arricchito sino a ricomprendere al suo interno la realtà fenomenica nel suo complesso. §1.4 L’esigenza della riduzione fenomenologica (1906) I risultati delle Zeitvorlesungen possono essere riassunti in una conclusione provvisoria: (1) “nella coscienza di tempo si compiono tutte le obiettivazioni” (X 425 [382]); (2) “la riduzione [delle evidenze temporali] ai fenomeni, ovvero la loro reinterpretazione alla luce dei nessi essenziali di coscienza è un compito estremamente importante per la cui soluzione […] tutto è ancora da fare” (X 431s. [385*]). Quest’ultima citazione, proveniente dalle ultimissime pagine del manoscritto delle lezioni, prefigura già un modo diverso di “ridurre” rispetto a quello caratterizzante la fase restrittivo-immanentista. Questa nuova declinazione fenomenologica – sia pur ancora non trascendentale – della riduzione dell’evidenza al piano fenomenico e al suo rapporto con la coscienza, spalanca un àmbito più ricco d’indagine per cui tutto è ancora da compiere. A questo compito Husserl proverà a dedicarsi già nell’estate del 1905, nel cosiddetto manoscritto di Seefeld sull’individuazione (X Nr. 35), redatto presso la località di vacanza tirolese38. In questo manoscritto egli tenta di muovere i primi passi in direzione di un ampliamento dell’analisi costitutiva, finalmente in grado di rivolgersi sensatamente alla costituzione dell’individualità trascendente e financo spaziale. E tuttavia, è soltanto a cavallo tra il 1906 e il 1907 – con un ritardo dunque significativo rispetto ai prodromi della svolta in 38
Secondo la revisione cronologica offerta da bernet (1985), gli altri testi raccolti da Boehm come appartenenti allo stesso gruppo (Nrr. 36-38) sarebbero in realtà da postdatare al 1917.
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corso appena descritti – che la prospettiva fenomenologica husserliana si radicalizza definitivamente in senso trascendentale39. La presunta “svolta” è situabile dopo la nomina all’ordinariato per decreto ministeriale del 28 giugno 1906 e in particolare durante i mesi di preparazione del corso Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie, avviato il 25 ottobre dello stesso anno (Dok I 96-99). Come si evince dalle Persönliche Aufzeichnungen del 25 settembre 1906 (XXIV 442-447), Husserl rimprovera al sé stesso dell’anno appena trascorso di essersi lasciato “paralizzare dal disprezzo collegiale, dal rigetto della facoltà, dalla delusione della speranza per una posizione più alta” (XXIV 447). Potremmo arguire che la nomina per decreto a professore ordinario abbia in qualche modo sbloccato questa impasse accademica, consentendo a Husserl di trarre finalmente delle conclusioni teoriche forti per cui le analisi degli anni precedenti avevano già seminato le premesse. È solo tenendo in conto questa impasse che si spiega la scarsità di manoscritti di ricerca a cavallo tra 1905 e 1906, l’esclusiva presenza di corsi ed esercitazioni di carattere storico a discapito di quelli d’impronta teorica, nonché l’apparente ritardo
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Si è spesso imputato il passaggio alla fenomenologia trascendentale a un ripensamento maturato nei corsi tenuti fra il 1905 e il 1906, dedicati in gran parte alla filosofia di Kant. Quest’idea è in realtà frutto di un’illusione retrospettiva. Come si evince dalla lista completa di corsi dedicati da Husserl nel corso degli anni al padre del criticismo (kern 1964, 425-427), l’attenzione dedicata a Kant tra 1905 e 1906 non rappresenta un’eccezione. Anzi, in questi due anni scarseggiano manoscritti di ricerca dedicati al (neo-)kantismo mentre abbondano invece negli anni successivi alla “svolta” del 1906-1907. Da ciò è possibile evincere come non sia corretto parlare di un’influenza esterna di Kant e/o del neokantismo in relazione all’avvento della fenomenologia trascendentale; Husserl sarebbe anzi pervenuto indipendentemente a una simile prospettiva – con le differenze specifiche del caso – e soltanto sulla scorta di questa messa a punto avrebbe poi maturato un rinnovato interesse per il trascendentalismo kantiano. Si veda l’appunto personale del 6 marzo 1908 in cui Husserl dice di aver imparato molto da un rinnovato studio della Critica della ragion pura durante il WS 1907-08 – successivamente dunque alla “svolta” (XXIV 449). Come ha appuntato lavigne (2005, 529-537), dal punto di vista di chi intende ripercorrere lo sviluppo del pensiero fenomenologico, non conviene considerare Husserl come un neokantiano, bensì Kant come un pre-husserliano o un pre-fenomenologo. Sul punto si tenga presente anche l’autotestimonianza resa a Cassirer nel 1925 (Dok III/5 4).
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di una “svolta” che sembrava in qualche modo matura già verso la metà del 1905. Queste poche pagine di annotazioni personali sembrano convergere in tal senso. Esse sono animate da una profonda tensione esistenziale, veicolata da una narrazione di tipo diaristico, insospettabile anche solo per lo Husserl delle lezioni o dei manoscritti di ricerca – una tensione volta a rilanciare la propria impresa filosofica all’insegna di un rinnovato impegno spirituale. Husserl spiega come abbia passato gli ultimi mesi a rileggere i propri corsi e manoscritti passati, si compiace della loro ritrovata profondità denunciandone al contempo la frammentarietà, si dice disposto a riprendere da dove aveva lasciato – pena la perdita di sé stesso, della propria vocazione filosofica – e a portare il tutto a rinnovata unità e chiarezza, alla propria “compenetrazione sistematica”. Il titolo per un simile rinnovamento diviene allora quello di una “critica della ragione. Una critica della ragione logica e pratica, della ragione normativa in generale” (XXIV 444s.). A ben vedere, dunque, l’evoluzione che conduce Husserl a trascendentalizzare l’impianto della propria fenomenologia non deriva da un evento esterno che funga da innesco, né da una vera e propria scoperta. È per questo che parlare di una “svolta” risulterebbe in questo caso iperbolico (da qui le virgolette usate). Assistiamo invece a un mutamento del tutto interno alla fenomenologia stessa, a un sottile ma inesorabile slittamento nell’orientazione dell’analisi, a una progressiva erosione dei limiti imposti dalla restrizione immanentista mediante la presa in carico della costituzione dello Zeitojekt – i cui tratti sintetici esibiscono una prima forma di trascendenza interna all’immanenza (ricordo primario) – a una conseguente, infine, dilatazione temporale del prerequisito cartesiano-brentaniano di evidenza interna. È sulla base di un simile riorientamento, di tale erosione del paradigma immanentista, che Husserl prende la decisione di operare un rinnovamento radicale della propria fenomenologia, assumendosi in piena libertà le responsabilità filosofiche che tale radicalità comporta (lavigne 2005, 546s.). Cerchiamo di ripercorrere la parte centrale del corso del WS 1906-07 allo scopo di vedere come Husserl abbia attuato questo rinnovamento. Dopo una prima parte dedicata alla logica pura quale teoria formale della scienza (primi tre capitoli) in una sorta di riedizione dei
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Prolegomena, la seconda parte del corso si concentra sulla noetica, la teoria della conoscenza e la fenomenologia. Nel quarto capitolo (il primo della seconda parte) si constata l’incapacità della logica formale, nonché di una semplice indagine noetica, di venire a capo del problema della conoscenza. Mentre la logica risulta appunto noeticamente ingenua, l’indagine noetica risulta inevitabilmente affètta da una forma di autoreferenzialità, nella misura in cui presuppone le fonti di legittimità (Rechtquellen) scaturenti da quegli atti il cui valore legittimante pretenderebbe invece dimostrare (XXIV 140 [175]). Scopriamo allora che alla base della questione dell’evidenza – ossia della giustificazione del sapere – dev’esserci non soltanto un interesse di tipo noetico bensì la presa in considerazione dell’intera “correlazione tra coscienza e oggetto, alla quale naturalmente non possiamo rinunciare” (XXIV 154 [189]). A questo stadio di sviluppo della riflessione husserliana, si scopre che la correlazione non è più quella tra contenuti sensoriali e modi dell’apprensione, ossia limitata all’interiorità del vissuto, bensì quella in grado di dispiegarsi tra soggettività e oggettività, plasmando di volta in volta, a seconda dell’àmbito di ricerca, il rapporto conoscitivo40. Soltanto ripartendo da questo tipo di correlazione l’indagine noetica può pretendersi, nel capitolo successivo, teoria della conoscenza in senso eminente, autentica filosofia prima. Vediamo in che modo. Innanzitutto, l’Erkenntnistheorie è caratterizzata contrastivamente rispetto alle scienze naturali. Si può dire che la filosofia, al contrario di quest’ultime, sia condotta attraverso una “direzione innaturale del pensiero”, nella misura in cui non assume alcun elemento come prestabilito o “predato”. Essa si trova anzi senza un proprio àmbito oggettuale predefinito da investigare, senza neppure un metodo chiaro da utilizzare. Per questo, conclude Husserl, è nocivo (schädlich) per la filosofia importare teorie e metodi dalle scienze naturali41. Del resto, soltanto dopo essersi liberato da queste istanze eteronome il compito della filosofia può stagliarsi in tutta la sua autonoma purezza, può pretendersi dunque scienza dei 40 41
Il tema della correlazione tra soggettività e oggettività compare già in una lettera del 28.09.1906 indirizzata a H. Cornelius (Dok III/2 28). Cfr. XXIV 176n. [213s. n.] dove si spiega che derivare risultati gnoseologici dalle scienze naturali è una falsa metabasis.
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princìpi, della chiarificazione (Aufklärung) e della giustificazione (Rechfertigung) ultime, del conferimento di senso (Sinngebung) – critica della ragione teoretica (XXIV 165s. [201ss.]). Ma in cosa consiste esattamente questa impresa di elucidazione ultima della conoscenza? Husserl arriva a chiederselo consapevole che una simile indagine debba condursi a partire dalla sfera della soggettività, dalla sfera dell’intuizione evidente. A questa sfera occorre ricondurre, nel tentativo di chiarificarli, i concetti delle scienze e dell’ontologia perché possano trovare il proprio riempimento intuitivo (XXIV 173 [210]). Ma ricondurre l’indagine entro il dominio della soggettività non equipara di fatto la filosofia prima alla psicologia? Alla psicologia in quanto scienza delle attività mentali soggettive in cui, a ben vedere, ogni ricerca conoscitiva si esercita? Non aveva forse ragione Brentano? Tutte domande che Husserl giustamente si pone ma alle quali non può che rispondere in maniera categorica: Il peccato [Sünde] specificamente gnoseologico, il peccato contro lo Spirito Santo della filosofia, e purtroppo anche il peccato originale [Erbsünde] nel quale l’uomo, destatosi dallo stato dell’innocenza gnoseologica, necessariamente cade, è la confusione tra coscienza e anima, tra teoria della conoscenza e psicologia. (XXIV 176 [213])
Ancora una volta, è da tale miscuglio psicologistico che occorre riscattare la coscienza e con essa la nozione stessa di intenzionalità, purificandola da ogni implicazione naturalistica ed elevandola a un tipo di considerazione trascendentale in grado di apprezzarla (alla fine di questo percorso) nelle sue vesti di istanza sinteticocostitutiva. Il problema è allora di capire come discernere l’indagine critica dalla ricerca psicologica, la teoria della conoscenza dall’attività psichica42. Per superare questa impasse, sostiene Husserl, occorre che la teoria della conoscenza si appropri di quel 42
“Un arduo dilemma ci tormenta: una teoria della conoscenza accompagnata dalla psicologia e sulla base della psicologia non funziona, contraddice il senso della teoria della conoscenza. Teoria della conoscenza senza psicologia: anche questo non funziona. […] Il termine ‘conoscenza’ include però delle attività psichiche. Indagando ciò che è psichico, noi pratichiamo eo ipso la psicologia. Dobbiamo trarre allora la conclusione che non può darsi in generale una teoria della conoscenza?” (XXIV 178 [215]).
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particolare tipo di scetticismo che quasi spontaneamente sorge dall’ingenuità tipica dei modi di procedere delle scienze naturali (XXIV § 33; Beilage A VIII). Husserl rileva infatti la portata pedagogica della scepsi, imprescindibile perché il pensiero possa esercitarsi in autonomia, in maniera cioè squisitamente filosofica (XXIV 179 [216s.]). Il peculiare scetticismo gnoseologico ricercato da Husserl non va però confuso con lo scetticismo storico, descritto anzi come dogmatico e di conseguenza come autocontraddittorio43; va pensato invece alla stregua di uno scetticismo critico di tipo metodologico, di cui Descartes rappresenta il più fulgido esempio. Questo secondo tipo di scetticismo, propulsore dell’impresa critico-conoscitiva, non nega la possibilità di una conoscenza oggettiva in quanto tale, non nega i risultati delle scienze naturali ma si limita a porli in questione per quel che concerne il loro statuto conoscitivo, si limita cioè a interrogare la loro pretesa di scientificità alla luce dei loro fondamenti di legittimità, in vista cioè di una loro poderosa riaffermazione. Lo scetticismo critico è ciò che sottrae il teoreta da quella sorta di paradisiaca ingenuità gnoseologica veicolata dalla scienza positiva. Di conseguenza, questa seconda forma di scepsi finisce per coincidere col metodo stesso della filosofia, col cammino che conduce dalla conoscenza naturale, mediante la sua messa in questione, a quella filosofica (XXIV 185-187 [222-224]). Attraverso la scepsi critica, sostiene Husserl, “tutto rimane in sospeso, tutto è in questione, tutto è posto fuori gioco dal punto di 43
L’accusa rivolta allo scetticismo storico antico e moderno (XXIV 181ss. [218ss.]; cfr. X 351 [341]) ricorda la strategia messa in gioco nella confutazione dello psicologismo nei Prolegomena. Rivolgendo i loro strali scettici alla natura stessa dell’oggettività della conoscenza, i sofisti (ma anche Hume, sia pure in forma moderata) ricorrono nelle loro confutazioni alle stesse procedure di argomentazione razionale che in realtà contestano. Una simile strategia confutatoria sarà impiegata da Husserl qualche mese più tardi – ne L’idea della fenomenologia – contro la pretesa di risolvere il problema della conoscenza a partire dalla teoria evoluzionistica darwiniana (II 21 [44-46]). A ben vedere, qualsiasi spiegazione naturalistica della prassi conoscitiva, qualsiasi riduzione delle validità logiche a presunte basi psicologiche o biologiche, ricade infatti in una forma di scepsi autocontraddittoria, nella misura in cui la pretesa di universale assertorietà che caratterizza le teorie scientifico-naturali presuppone la validità di quelle leggi logiche di cui si denuncia al contempo la relatività psicologica, biologica, etc.
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vista gnoseologico” (XXIV 187 [224]). Ogni conoscenza è posta in questione per ciò che concerne la sua pretesa di validità e giustificazione: Questa presa di posizione scettica, questa epoché assoluta, che non riconosce alcuna pre-datità e che contrappone a ogni conoscenza naturale il suo non liquet come pura astensione dal giudizio, è la prima, fondamentale parte del metodo gnoseologico. (XXIV 187 [225])
Eppure, per altro verso, questa epochē dev’essere mantenuta distinta rispetto al dubbio metodico, anch’esso di tipo critico, cartesiano. La presa di distanze da Descartes non concerne l’operatività del dubbio, la messa in questione delle conoscenze acquisite (aspetto che Husserl condivide), quanto più lo scopo che tale scepsi persegue. Secondo Husserl, il dubbio cartesiano e la conseguente individuazione dell’io sono quale centro di evidenza archimedea, avrebbe per scopo la riproposizione, sulla base della certezza così acquisita, di una scienza matematica universale guidata dall’ideale di un assoluto rigore logico (Stringenz). In tal senso, la funzione esercitata dal dubbio cartesiano risulterebbe finalizzata al progresso della scienza stessa e non a un’interrogazione critica circa il suo significato ultimo, consisterebbe dunque in un teorizzare (Theoretisieren) e non in un chiarificare (Aufklären). Descartes avrebbe soltanto presentito l’importanza dell’indagine critica finendo poi per confonderla – stante la sua formazione non puramente filosofica ma anche scientifica – con l’idea di perfezionamento e di ampliamento della scienza stessa44. Dal punto di vista husserliano, questa confusione è deleteria perché colpevole di mascherare l’importo critico della teoria della conoscenza: anche qualora la scienza ottenesse il rigore e la perfezione logica cui Descartes aspira in quanto scienziato, l’esigenza di un’elabo-
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Si noti come Husserl, rimproverando Descartes come qualcuno che è al contempo scienziato e filosofo (XXIV 192 [229]), non stia sconfessando anche la propria formazione matematica giovanile. Ciò che qui Husserl intende sottolineare è che non si può contemporaneamente operare come scienziati e come filosofi perché le due figure sono animate da scopi, metodi e atteggiamenti differenti. Quanto allo statuto e agli scopi della scienza cartesiana cfr. cHiaravalli (2020).
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razione (Auswertung) filosofica dei risultati di questa scienza non verrebbe per ciò stesso meno (XXIV 188-192 [225-229]). Con questo, tuttavia, non siamo ancora in possesso di un metodo che consenta di perseguire la teoria della conoscenza senza ricadere in una qualche forma di psicologismo: “l’epoché non è ancora essa stessa un metodo, nel migliore dei casi è parte costitutiva di un metodo” (XXIV 193 [230]). Oltretutto, come già anticipato nei riguardi della noetica, una teoria della conoscenza degna di tale nome – in quanto “auto-comprensione della conoscenza” – ci pone innanzi un problema non da poco, ossia “il necessario retro-riferimento [Rückbeziehung] della chiarificazione conoscitiva a sé stessa”. Dal momento che le domande gnoseologiche che l’indagine critica si pone contengono un implicito riferimento a quella conoscenza dalla quale trae origine la possibilità della loro formulazione, la situazione descritta sembra quella ineludibile di una petitio principii. La natura essenziale di questo retro-riferimento dell’indagine critico-conoscitiva è tale da non poter essere imputata a una carenza umana, giacché anche una supposta conoscenza divina ne sarebbe cionondimeno affètta (XXIV 193s. [231])45. Sembra allora che la disamina husserliana non sia progredita di un solo passo. Non soltanto non sono stati risolti problemi di natura specifica come il rapporto tra idealità del significato e atto psichico o come la presunzione riposta nell’esistenza del mondo; la situazione appare vieppiù quella di una confusione generale per cui ogni conoscenza è divenuta problematica mentre il ricorso a soluzioni psicologiche o biologiche conduce a esiti inevitabilmente relativistici, se non platealmente assurdi (XXIV 196s. [234s.]). Ecco però che proprio in questo frangente ci si accorge di come l’esito dell’esercizio scettico non sia del tutto vano e anzi ricompensi con un surplus conoscitivo sulla cui base poter ripartire (“per quanto insignificanti possano sembrare conoscenze di tal genere, 45
La formulazione più chiara di questa petitio principii si offre qualche pagina più avanti: “è infatti ovvio, ed è fondato nell’essenza della conoscenza, che per rischiarare l’essenza della conoscenza sia richiesta la conoscenza”; quindi, dopo aver ribadito che l’autoreferenzialità concerne anche un’eventuale conoscenza divina, si precisa: “gli atti conoscitivi della ricerca gnoseologica rientrano, come casi particolari, nelle chiarificazioni conoscitive generali che essa determina obiettivamente” (XXIV 199 [237]).
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esse sono conoscenze”, XXIV 198 [236]). Nella fattispecie, il guadagno conoscitivo con cui la scepsi critica ricompensa è qualcosa che il dubbio non ha potuto scalfire, ossia la fenomenicità della realtà conoscitiva. La strategia argomentativa è qui eminentemente cartesiana dacché si appella all’indubitabilità del dubitare stesso. La rivoluzione fenomenologica husserliana, rispetto a Descartes, consiste però nella subitanea estensione correlativa dell’evidenza indubitabile dall’io sono alla realtà fenomenica nel suo complesso. Ma persino quando dubitiamo realmente di quell’esistenza, una cosa è certa: che ora, mentre dubito o metto in questione, esistono queste e quelle percezioni (ossia quelle attualmente realizzate), che in esse mi appaiono questi e quegli oggetti. Allo stesso modo, è certo che l’idea “scienza della natura” esiste, che la scienza naturale esiste come fenomeno, e che una volta presentificata proprio questa o quella teoria, questi fenomeni di teorie [Theorienphänomene] esistono. Qualsiasi scienza, qualsiasi teoria, qualsiasi conoscenza esiste non come validità ma come pretesa di validità, come fenomeno di validità [als Geltungsansprüche, als Geltungsphänomene], ogni volta che io, in qualità di teorico della conoscenza, compio le corrispondenti percezioni, i corrispondenti pensieri, rappresentazioni di teorie etc. Conferendo a tutte le scienze e a tutte le oggettualità correlative (come natura, anima, dio) il carattere della problematicità mantengo tutto ciò che resta come fenomeno. Posso servirmi liberamente di questo mondo dei fenomeni: il fenomeno esiste in quanto fenomeno e può essere esaminato secondo il suo contenuto e il suo senso. (XXIV 198s. [236s.])
Il punto archimedeo da cui la fenomenologia può finalmente ripartire non è più l’interiorità autoevidente dell’atto psichico, come ancora riteneva Brentano, ma l’evidenza veicolata dall’indubitabile automanifestatività del fenomeno. L’evidenza fenomenologica non è più un fondamento strettamente immanente ma la si ritrova ovunque qualcosa si manifesti. Essa è dunque onnipresente, così come onnipresente è la realtà intesa come manifestantesi. Ogni fenomeno comporta un grado di evidenza manifestativa su cui la fenomenologia può trovare appiglio e fare leva. Il problema scettico-dogmatico della parvenza (Schein), della possibile illusorietà della conoscenza, pare così disinnescato perché totalmente riassorbito dal tenore raggiunto dalla considerazione fenomenologica: non più incentrata sul livello restrittivo-immanente del vissu-
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to manifestativo (Erscheinung), bensì aperta, d’ora in poi, a quello onnicomprensivo del fenomeno (Phänomen)46, dei suoi modi e gradi di evidenza. Nelle pagine successive (XXIV § 35), sulla base dell’avvenuta acquisizione del terreno fenomenico, Husserl può dunque differenziare la prospettiva della teoria critica della conoscenza (di chi fenomenologizza) da quella della psicologia (di chi psicologizza). La psicologia, sia essa intesa dal punto di vista genetico-esplicativo o analitico-descrittivo poco importa, è adesso pienamente identificata con la scienza naturale e quindi gravata da presupposizioni mondane inerenti alla realtà obiettiva che trascende l’orizzonte della pura manifestazione (XXIV 210 [248]). Viceversa, l’indagine critico-conoscitiva non concerne dati di fatto empirico-naturali, bensì la natura dei fatti fenomenici (Tatsachen-Phänomene) che concorrono alla costituzione dell’apparire in quanto tale. I vissuti psichici rientrano cioè nell’àmbito d’indagine critico-conoscitivo solo in quanto fenomenologicamente trasfigurati, ossia in quanto sottoposti al duplice esercizio di “ritrazione e fenomenizzazione [Ausscheidung und Phänomenierung]” che prenderà il nome, d’ora in poi, di riduzione fenomenologica (XXIV 211 [249*]). L’orientamento dell’indagine critica si distingue allora dall’orientamento scientifico naturale in virtù di questa fenomenizzazione assoluta del dominio esperienziale dell’analisi, resa possibile dall’epochē di – dal ritrarsi da – ogni supposizione di valore che ne trascenda appunto la fenomenicità. Come ammette lo stesso Husserl, le differenze tracciate tra i due orientamenti, “in un primo momento, sembrano delle sottigliezze finissime”, ma a ben vedere si tratta di una sfumatura (Nuance) d’importanza decisiva, giacché 46
È da rimarcare qui la distinzione tra la nozione di Erscheinung, con la quale Husserl, nei suoi primi anni fenomenologici, ha prevalentemente inteso il livello di fenomenizzazione immanente al vissuto (contenuti iletici/apprensione), e la nozione di Phänomen, relativa a un tipo di fenomenizzazione a tutto tondo per cui il vissuto diventa la dimensione privilegiata dell’apparire in quanto tale (anche della realtà che lo trascende). La nozione di fenomeno abbraccerà, d’ora in avanti, sia l’oggetto che l’atto intenzionale, sia l’apparire che il far apparire, preludendo così a un’analisi non più ristretta della costituzione. Il passaggio alla considerazione fenomenica sembra sancire di per sé il radicalizzarsi della riduzione e la ridefinizione del senso di immanenza e trascendenza, in poche parole: l’apertura dell’orizzonte di esperienza fenomenologico-trascendentale.
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qui risiede “il vero punto archimedeo della filosofia”, qui risiede la possibilità di una critica della ragione non soltanto teoretica ma normativa in senso lato (XXIV 211 [250]). Lungo questa via si passa infatti da ciò che è primo per noi a una considerazione autenticamente filosofica della realtà: “il próteron pròs hemâs è la coscienza naturale. La teoria della conoscenza deve innalzarci, e questo è il suo primo, dalla coscienza naturale alla coscienza filosofica, dall’empirico al fenomenologico” (XXIV 212 [250*]). Nelle pagine che seguono, Husserl può descrivere passo passo l’effettuazione della riduzione fenomenologica. Assistiamo cioè alla disattivazione (Ausschaltung), sospensione (Suspension), messa fuori azione (außer Aktion Setztung), messa tra parentesi (Einklammerung), di ogni credenza, decisione, giudizio, opinione – di qualsiasi posizione di esistenza che riguardi l’in-sé del reale in quanto trascendente il registro fenomenico della sua manifestazione. Come si precisa, ciò non significa dover abdicare o venir meno alle proprie convinzioni; ciò che conta è la loro disattivazione, la revoca della loro efficacia euristica in vista della loro presa in esame. Ogni posizione di realtà non è esclusa se non sotto il profilo operativo; sotto quello tematico essa è mantenuta quale semplice pretesa di validità, come tema di un’interrogazione in merito alla sua legittimità (Berechtigung). Ogni giudizio, se fenomenologicamente trasfigurato, cessa di valere come pregiudizio delle nostre condotte pratico-teoriche, cessa di funzionare come premessa di una prassi argomentativa, per diventare tema d’indagine critica (XXIV 214s. [252s.]). La petitio principii ravvisata inizialmente come caratteristica essenziale dell’analisi noetica è disinnescata dalla prassi riduttiva; una prassi che non è mai fatta e compiuta ma anzi ognóra da rinverdire, ogniqualvolta si presenti cioè una posizione di realtà inindagata (“finché ho coscienza di cose del genere, continuo a compiere la riduzione”, XXIV 213 [251])47. 47
Come ha rilevato loHmar (2013), è possibile isolare un senso complessivo che ricomprende le diverse formulazioni husserliane della riduzione nei termini di un esame della validità (Rechtsprüfung) di una determinata rappresentazione o posizione di realtà. La riduzione schiude all’analisi fenomenologica la possibilità di indagare un campo d’esperienza (ridotto) in cui la posizione di cui si deve indagare la validità non è contenuta come tale, se non appunto nominalmente: come semplice pretesa. In tal modo,
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Una conseguenza immediata dell’introduzione della riduzione fenomenologico-trascendentale è d’importanza decisiva per il tema precipuo della nostra indagine. Si tratta della distinzione che Husserl traccia fra percezione interna e percezione fenomenologica48. La riflessione condotta sinora produce un ripensamento del modo cartesiano di considerare l’evidenza, un modo che Husserl introietta inizialmente in virtù della mediazione offertane dalla scuola di Brentano. L’evidenza della cogitatio, da un punto di vista strettamente fenomenologico, non può più essere assimilata a quella psicologica di un soggetto psichico particolare; l’evidenza non è e non può ridursi all’evidenza della mia cogitatio (XXIV 216 [254]). Nella Beilage A XI afferente al paragrafo in questione (§ 35d) e relativa anch’essa al WS 1906-07, Husserl distingue senza mezzi termini tra un orientamento percettivo empirico-naturale e uno tipicamente fenomenologico. Per phänomenologische Wahrnehmung Husserl intende e perfeziona quanto aveva cercato di additare in passato con l’espressione “percezione adeguata”. Ciò che è essenziale, si evince ora, non è l’adeguatezza ma il tenore puramente fenomenico risultante dalla prestazione riduttiva. Ciò che in quanto fenomeno è fenomenologicamente percepito non è alcunché di situato in uno spazio-tempo obiettivo, non è corredato di attributi che ne trascendano il tenore manifestativo: “il puro fenomeno è un questo completamente puro, un’assoluta datità e aproblematicità” (XXIV 372). L’orizzonte fenomenico non è indagato dalla fenomenologia con l’intento di determinarlo nelle sue caratteristiche esistenziali. Anzi, da ciascun fenomeno tali determinazioni contingenti sono astratte, sono lasciate del tutto indeterminate affinché ogni manifestazione possa essere intesa come di specie esemplare, portatrice
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chi fenomenologizza evita di incorrere nella circolarità dell’analisi scaturente dal presupporre come valido quanto debba essere ancora indagato nella sua validità (ancora soltanto presunta), nel tentativo cioè di ricondurlo a un’evidenza fondata sulle fonti intenzionali dell’esperienza. È dunque l’accento posto sull’esame di validità che contribuisce a connotare in senso critico-trascendentale l’impresa fenomenologica, echeggiando il quid juris dei progetti di deduzione kantiana, ferma restante la differenza in vigore tra le diverse strategie legittimanti sviluppate dai due autori. Sulla critica di Husserl alla concezione brentaniana della percezione interna v. mcdonnell (2011); sul diverso modo d’intendere l’autocoscienza dei due autori cfr. invece zaHavi (1998).
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di istanze tipico-universali – perché se ne possa trarre cioè un’intuizione d’essenza (XXIV 225s. [256]). Dal punto di vista dell’analisi eidetica “è indifferente se i dati siano attualmente percepiti o presentificati nella fantasia” (XXIV 228 [267])49. La riduzione al fenomenico è infatti ciò che legittima l’equiparazione tra l’analisi di ciò che è attualmente esperito e l’analisi di ciò che lo è solo potenzialmente come pura possibilità esperienziale (ossia ricordato, immaginato, prefigurato, idealizzato, etc.). Ciascun fenomeno è considerato l’istanza esemplificativa di una legalità essenziale che in nessun modo trascende l’orizzonte complessivo della manifestazione – “datità è datità dell’essenza” (XXIV 372) – ma che anzi vi è sempre ricompresa. La riduzione fenomenologica, potremmo dire, è ciò che legittima il ricorso da parte del pensiero filosofico a esempi o esperimenti mentali nel tentativo di esibire un contenuto la cui validità possa pretendersi generale; la riduzione fenomenologica garantisce il valore realmente esemplificativo dell’esempio, ciò che ne assicura l’esemplarità in relazione a un dominio esperienziale ridotto, che prescinde da qualsivoglia predicato esistenziale (XXIV 232 [271]). Possiamo a questo punto completare il nostro quadro sullo stato evolutivo della fenomenologia all’alba del 1907. A ben vedere, la riduzione al fenomenico determina l’ampliamento della nozione d’immanenza, tesa ora a ricomprendere il piano della manifestazione nel suo complesso. Il § 38 è in tal senso dirimente. L’esclusione (Ausschluß) non coincide più con la messa al bando di quanto trascende l’orizzonte circoscritto del vissuto; questa accezione di trascendenza è invece riassorbita come parte integrante del dominio manifestativo dell’indagine eidetica e ciò in ragione del fatto che le legalità essenziali che lo governano coincidono con quelle del suo apparire. Di conseguenza, correlativamente alla ridefinizione della nozione di immanenza, Husserl procede a una risemantizzazione del trascendente, adesso non più da intendersi
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In questo modo Husserl inizia un percorso di decentramento rispetto al primato della presenza percettiva, un percorso che consentirà alla fenomenologia di superare i limiti della datità presente in carne e ossa (leibhaftig) e di aprirsi a una trattazione cogente delle dimensioni della realtà potenziale e inattuale (infra § 2.2.1). Più in generale, sul carattere eidetico della fenomenologia v. soWa (2007; 2012).
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come una sfera di realtà a sé stante ma come un modo specifico di manifestatività del tutto interno all’orizzonte fenomenico50. Vediamo che l’ampiezza possibile delle indagini, da noi chiamate fenomenologiche […], è molto più estesa di quanto pensassimo inizialmente. […] L’indagine legale-essenziale si estende propriamente a ogni cosa, dunque anche a ogni trascendente: soltanto, non possiamo realizzare alcuna posizione in rapporto a una “esistenza”. […] nella sfera dell’immanenza rientra non soltanto, ad esempio, la percezione o un qualche altro atto oggettivante ma anche, in un certo modo, ogni oggetto, a dispetto della sua trascendenza. (XXIV 230s. [269s.])
Con l’acquisizione decisiva della trascendenza oggettuale, la fenomenologia husserliana supera la chiusura restrittiva che si era imposta negli anni precedenti come presa di distanze, ancora rudimentale, dalla psicologia descrittiva. Il sommovimento interno al modello restrittivo-immanentista, innescato dal rilevamento di una trascendenza temporale immanente al vissuto, ha condotto a una radicalizzazione della prassi riduttiva consistente nella rimozione della restrizione stessa (lavigne 2005, 593, 596s.); il radicalizzarsi della riduzione è ciò che produce la fenomenizzazione del dominio esperienziale dell’indagine, ridefinendone i requisiti di evidenza, giustificandone le pretese eidetiche e sancendone la qualifica “trascendentale”. Sebbene in queste pagine le occorrenze dell’aggettivo siano tutte aggiunte a mano e quindi successive alla stesura del manoscritto originario (XXIV 139, 237, 240, 241n. [173, 276, 280, 280n.])51, nondimeno, in ragione dei mutamenti nel frattempo sopraggiunti, Husserl 50 51
Su trascendenza e immanenza si veda boeHm (1959b), taminiaux (1988) e brougH (2008). Cfr. XXIV 480, 489. Stando ai limiti della mia conoscenza, la prima occorrenza manoscritta dell’aggettivo “trascendentale” per qualificare in positivo il senso delle ricerche husserliane e in particolare quella in merito all’oggettivazione spaziale risale a qualche mese più tardi, ossia alle celebri Dingvorlesungen tenute nel SS 1907 (XVI 133 [160]). Parimenti, il primo testo in cui Husserl pone il proprio pensiero filosofico sotto al titolo “fenomenologia trascendentale” risale invece all’estate del 1908 (XXIV Beilage B V, 424-430). Questo ritardo tra risultati dell’analisi e ricomprensione degli stessi a livello autointerpretativo è una costante nell’evoluzione del pensiero husserliano. La tensione vigente tra approfondimento analitico e
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può finalmente esercitare, senza alcun tipo d’impedimento, un’analisi costitutiva di tipo trascendentale. Questo lo vedremo in concreto nelle prossime sezioni. Per il momento mi limito a segnalare altri due indizi che puntano ormai in tale direzione. Il primo è la ridefinizione delle leggi d’essenza che reggono la manifestazione nei termini del vero e unico senso dell’a priori. L’a priori fenomenologico non sarà dunque ciò che è noto prima o indipendentemente dell’esperienza ma tutto ciò che si fonda nell’essenza manifestativa del fenomeno (XXIV 235 [274]). La chiarificazione di questi princìpi a priori, con ciò intendendo entrambi i versanti dell’a priori categoriale e materiale, nonché la necessità di ricondurli alla loro origine (Ursprung) e al loro senso (Sinn), rappresenta l’orizzonte di lavoro della nuova fenomenologia (trascendentale). Soltanto a partire da questa “comune matrice fenomenologica”, sulla base offerta cioè dalla chiarificazione preliminare dell’a priori, è possibile perseguire l’indagine critico-conoscitiva e rilevare come da essa traggano origine gli assiomi delle discipline scientificonaturali (XXIV 237, 240s. [276, 280]). Il secondo e ultimo punto consiste nel definitivo superamento dello psicologismo mediante una nozione di coscienza intenzionale del tutto purificata: È anche chiaro che l’apparente psicologizzazione della scienza naturale fisica si pone sulla stessa strada, perché tutti i contesti d’essere rimandano a una “coscienza” nella quale essi sono, o possono essere, costituiti fenomenologicamente. Se, tuttavia, la coscienza smette di essere una coscienza umana o comunque empirica, allora il termine perde ogni senso psicologico e siamo ricondotti [zurückgeführt], infine, a un assoluto che non è un essere fisico né un essere psichico nel senso scientifico-naturale. Ma nella trattazione fenomenologica il campo della datità è ovunque questo assoluto. Si deve rompere proprio con il pensare, presumibilmente così ovvio e derivante dal pensiero naturale, secondo cui tutto ciò che è dato è o qualcosa di fisico o qualcosa di psichico. (XXIV 241s. [281])
ricomprensione sistematica caratterizza da cima a fondo le ricerche fenomenologiche di Husserl.
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Con queste parole si chiude la seconda parte del corso. Siamo ormai prossimi al Natale 1906 (XXIV 489s.) e con l’avvento del nuovo anno la fenomenologia husserliana si accinge a esplorare in lungo e in largo questo assoluto – non fisico, né psichico, ma genuinamente fenomenico – schiuso da una forma radicale di riduzione. §1.5 L’idealismo correlativo del senso (1907-1908) §1.5.1 Primo movimento Da liegt der Haken52
Riassumiamo il percorso svolto nella scorsa sezione, ossia il passaggio da una fenomenologia immanentista a una trascendentale, rilevando come la radicalizzazione in cui è incorso il metodo riduttivo produca una peculiare inversione del rapporto di priorità che intercorre tra immanenza (d’atto) e datità (fenomenica). Se per il paradigma immanentista la distinzione tra sfera immanente al vissuto e sfera trascendente risultava prioritaria rispetto a un’indagine condotta all’interno di un orizzonte manifestativo così circoscritto – quello dei contenuti sensoriali immanenti – perché appunto da quella distinzione predeterminato; d’altro canto, col superamento di tale impostazione è l’orizzonte del “puro fenomeno della datità” (XXIV 215 [254]) a risultare prioritario rispetto a qualsivoglia distinzione tra i modi costitutivi dell’immanenza e della trascendenza. Non solo, quest’inversione coinvolge anche la stessa prassi riduttiva: se prima della “svolta” la distinzione pregiudiziale tra immanente e trascendente indirizzava la riduzione prefigurando il suo punto di partenza nonché quello di approdo – la riduzione era tenuta a restringere l’indagine a una sfera immanente assunta in maniera preconcetta – adesso invece, dopo la “svolta”, è la stessa riduzione che determina, facendo convergere su di essa l’analisi, la nuova nozione di immanenza fenomenologica, coincidente con la datità fenomenica nel suo complesso (“l’immanenza autentica e la riduzione fenomenologica che la offre”, XXIV 219 [258]). 52
E. Husserl, Ms. B II 2, 19a (in lavigne 2005, 776)
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In virtù di tale riorientamento complessivo, Husserl può finalmente rompere i ponti con i propri retaggi brentaniani53. Il superamento del pregiudizio psicologistico incarnato dalla distinzione tra sfera (d’atto) immanente e sfera trascendente – ultima propaggine della scissione naturalistica tra psichico e fisico – è conseguito ponendo l’attenzione sul fenomenico e recuperando il cogitatum all’interno del dominio dell’analisi. Ciò consente a Husserl non soltanto di rifondare su nuove basi la teoria critico-conoscitiva ma di raddoppiare la posta in gioco in direzione di una scienza fenomenologica della realtà nel suo complesso – di una realtà concepita quale correlato di una prestazione costitutiva intenzionale. Un’appendice del dicembre 1906 (XXIV Beilage A XIV), dedicata a riflessioni sul metodo e gli scopi della fenomenologia, aiuta a fare chiarezza circa la direzione di ricerca che Husserl intraprenderà già nella terza e ultima parte del WS 1906-07, incentrata sulle forme di oggettivazione, e che sarà approfondita nei mesi, negli anni a venire. Vediamo come in questa Beilage il problema della costituzione sia riproposto in termini squisitamente temporali. Si rimanda in primo luogo al flusso di coscienza come a quella sorta di sfondo (Hintergrund) in cui ciò che si manifesta risulta oggettivato (verobjektiviert). In base a questo processo oggettivante, il vivere coscienziale è pensato al modo di un flusso di conoscenza (Fluß der Erkenntnis) da sottoporre al vaglio critico. L’oggettivazione riguarda in primo luogo “la propagazione temporale preempirica”, ossia, come vedremo (infra § 2.2.3), una ripresa della Zeitfrage nei suoi risvolti costitutivi più originari. Solo riprendendo da questo plesso teorico, sostiene Husserl, si può illustrare come si formano “le unità preempiriche” e come esse implichino “una cosalizzazione [Verdinglichung] preempirica e una posizione del tempo”; solo così si comprende che “all’essenza di queste ‘realtà’ (irrealtà delle esistenze) appartiene di costituirsi in un flusso siffatto e che all’essenza di ‘ciò che si trova’ nel flusso appartiene che esso fluisce necessariamente” (XXIV 387). Dal passo si evince anche che la fenomenologia non si astiene, non si ritrae del tutto da dichiarazioni riguardanti dati di fatto (Tatsachenaussagen). 53
“Noi abbandoniamo definitivamente il terreno della psicologia, anche di quella descrittiva” si dirà di lì a poco nel Gedankengang delle lezioni su L’idea della fenomenologia del SS 1907 (II 7 [133]).
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E tuttavia, i fatti che le interessano non sono fatti empirici bensì eminentemente costitutivi. Alla fenomenologia trascendentale interessa dunque il fatto stesso della costituzione. La conclusione che Husserl trae da questa linea argomentativa suona così: Da tutto ciò risulta che io non ho ancora determinato correttamente il senso della fenomenologia. Essa è un’analisi assoluta dell’essere che accerta anche l’essere assoluto e l’accerta in quanto essere necessario che “costituisce” e regge [trägt] in sé ogni essere di altro tipo, ogni “essere trascendente”. (XXIV 388)
A ben vedere, ciò che troviamo abbozzata già nel dicembre del 1906 altro non è che la tesi dell’idealismo trascendentale fenomenologico, espressa pubblicamente solo nel 1913 col primo libro delle Idee54. Abbiamo rilevato come essa sorga in concomitanza al radicalizzarsi del metodo riduttivo, ossia al suo trascendentalizzarsi. Secondo questa tesi la coscienza, e in particolar modo la temporalità della coscienza, diviene la dimensione costitutiva per eccellenza, l’assoluto a partire dal quale poter pensare la costituzione di un mondo che si manifesta come un che di relativo. Il corso del SS 1907, intitolato Hauptstücke aus der Phänomenologie und Kritik der Vernunft – comprensivo oltre che delle cinque lezioni su Die Idee der Phänomenologie (II) anche delle altrettanto celebri Dingvorlesungen (XVI) – ha l’indubbio merito di precisare i contorni di questo nuovo orizzonte di lavoro. Innanzitutto, vi troviamo asserita in maniera esplicita la duplicità di significati attribuibile alle nozioni di immanenza e trascendenza (II 35ss. [63ss.]), a seconda cioè che si prenda in considerazione 54
Tendenze idealistiche sono presenti negli scritti di Husserl già a partire dagli anni delle Ricerche Logiche (XIX/1 112 [286]). Tuttavia, mentre all’inizio del secolo i motivi idealistici rappresentavano dei tentativi più o meno riusciti di determinare in negativo la propria posizione in chiave antimetafisica (non assumendo cioè l’esistenza in sé di un mondo esterno soltanto presunto) o antipsicologistica (riservando cioè all’idealità del significato e quindi della conoscenza uno statuto non riconducibile alle attività mentali del soggetto), in seguito alla “svolta” trascendentale l’idealismo husserliano acquista un senso più marcato, appellandosi in positivo alla relatività dell’oggetto costituito e quindi del mondo rispetto all’assolutezza costituente della coscienza. Vedremo in corso d’opera come al di là di alcune ambigue formulazioni, il significato da assegnare a questa peculiare forma di idealismo trascendentale sia quello di un idealismo correlativo del senso.
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come discrimine il criterio psicologico-naturale dell’orizzonte reale (reell) del vissuto anziché quello fenomenologico dell’assoluta datità manifestativa. La confusione, l’ingarbugliamento vigente tra queste due accezioni è ciò che affligge, come un errore fatale, qualsiasi teoria della conoscenza prima che essa incorra in un necessario approfondimento critico55. In ogni caso, comunque lo s’intenda, il problema della trascendenza diviene l’enigma (Rätsel) in grado di distinguere l’indagine trascendentale da ogni genere di considerazione di ordine naturale. Anziché assumere la trascendenza come un presupposto inindagato, dal punto di vista fenomenologico, “non è lecito, d’ora in poi, servirsi del trascendente come già dato [als vorgegeben]”. Se il pensiero naturale oscura del tutto la questione della trascendenza, privandosi della possibilità di comprendere “come la conoscenza potrebbe cogliere qualcosa che la trascende” (II 36 [65]), l’indagine fenomenologica, viceversa, non si sottrae all’apparente assurdità insita nella domanda: “come può il vissuto andare, per così dire, oltre sé stesso?” (II 35 [64]). Questo enigmatico oltrepassarsi da parte del vissuto, questa trascendenza nell’immanenza dell’orizzonte fenomenico è ciò che si rivela essere, alla fine delle Fünf Vorlesungen, il problema della costituzione. Husserl lo descrive in un modo che riecheggia non soltanto lo sviluppo delle lezioni ma addirittura il personale cammino intercorso dal 1901 al 1907: Abbiamo preso le mosse dall’evidenza della cogitatio. Sembrava sulle prime di avere in essa un solido terreno, puro essere e nient’altro. […] Ma a quel punto si rivela che il puro essere della cogitatio non si presenta affatto, a una più precisa considerazione, come una cosa tanto semplice, si rivela che già nella sfera cartesiana si “costituiscono” oggettualità diverse; e il costituire dice che le datità immanenti non sono, come sembra a prima vista, semplicemente nella coscienza come in una scatola, ma che si presentano di volta in volta in qualcosa come delle “apparizioni [Erscheinungen]” […] che nella loro mutevole e molto sorprendente costruzione in certa misura pro55
È interessante notare come Husserl, nel Gedankengang scritto la sera stessa dell’ultima delle cinque lezioni, di fatto reinterpreti la presa in considerazione iniziale della sola immanenza reelle come un primo necessario grado di sviluppo della riflessione fenomenologica (II 5 [131s.]), dando luogo a un tentativo di giustificazione ex post del proprio periodo restrittivo-immanentista.
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ducono [schaffen] gli oggetti per l’io, nella misura in cui appunto vi occorrono apparizioni di tal natura e formazione perché ci sia ciò che qua si chiama “datità”. (II 70s. [111s.*])
Il problema di come le diverse oggettualità si costituiscano attraverso molteplici apparizioni diventa d’ora in poi la questione fondamentale della ricerca fenomenologica. Qualsiasi tipologia di oggetto si presenti come puro fenomeno appartenente all’orizzonte manifestativo reso accessibile dalla riduzione dev’esservi inteso non come semplicemente dato bensì come prodotto. La problematica della costituzione ridefinisce i limiti dell’indagine estendendoli fin dove può estendersi il dominio della manifestatività, ossia, a ben vedere, dal singolo dato di sensazione sino all’universale, sia esso inteso come forma categoriale (II 71 [114]) o come essenza (Wesen)56. Non solo: anche l’oggetto simbolico-matematico e persino il palese controsenso (Widersinnig) (es. l’idea di un quadratorotondo), anche la contraddizione e il non-essere, stanti le complicazioni del caso, devono poter essere intesi a loro volta come costituiti (II 73s. [116ss.]). Qualora ci si chieda, dunque, “ma non sono questi puri miracoli? E dove comincia questo costituire-oggettualità e dove termina? Vi sono dei limiti effettivi?” (II 72 [115*]), occorre rispondere che “fin dove arriva l’effettiva evidenza, arriva anche la datità” (II 73 [117]). Ecco allora delinearsi nella propria interezza il nuovo progetto fenomenologico-trascendentale: “si tratta ovunque non di constatare apparenze qualsiasi come date, ma di portare alla comprensione evidente [Einsicht] l’essenza della datità e il costituirsi dei diversi modi di oggettualità” (II 73 [117s.*]). L’ardire del progetto husserliano sarà d’ora in poi la pretesa di chiarire la costituzione integrale della realtà fenomenica. In particolar modo, come si rimarca a più riprese ne L’idea della fenomenologia, si tratta di porre in rilievo la struttura correlativa 56
Che l’essenza sia anch’essa una datità e come tale risulti costituita è asserito implicitamente già in II 68 [107]. In un manoscritto di ricerca relativo al settembre 1907 troviamo però una formulazione più esplicita: “L’essenza ‘si costituisce’, gli appartiene correlativamente una conoscenza; cosa appartiene all’essenza di una conoscenza nella quale l’‘essenza’ si attesta come essente, come datità? Come si ‘costituisce’ l’essenza?” (XXIV 403).
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della dinamica costituente, di chiarire “questa meravigliosa correlazione tra fenomeno di conoscenza e oggetto di conoscenza” (II 12 [139]). Avendo chiarito l’accezione trascendentale e non più psicologica da attribuire all’indagine correlativa (II 75 [120s.]), avendo liquidato in maniera definitiva (equiparandolo a un’astrazione fittizia) il ricorso alla percezione interna (II 63 [103]), ecco come si delinea il progetto fenomenologico lungo le sue linee essenziali di sviluppo: Occorre comprendere con evidenza che il problema veramente significativo è quello dell’ultimo conferimento di senso da parte della conoscenza e, con ciò, al contempo dell’oggettualità in generale, che è quello che è solo nella sua correlazione con una conoscenza possibile. Occorre inoltre comprendere evidentemente che questo problema è da risolvere nella sfera di pura evidenza, nella sfera dell’ultimamente normativa, perché assoluta, datità; e che di conseguenza dobbiamo rintracciare [nachgehen], nel procedere guardando, una per una tutte le figure fondamentali della conoscenza e tutte le figure fondamentali delle oggettualità che in essa giungono pienamente o parzialmente a datità, per determinare il senso di tutte le correlazioni su cui si debba far luce. (II 75s. [121*])
Con queste parole si chiude la quinta e ultima delle Fünf Vorlesungen, tracciando un programma di lavoro che occuperà Husserl per il resto della sua vita. Si tratta di un progetto di ampio respiro che trapela in nuce nel verbo nachgehen, ossia nello sforzo di rintracciare, di perseguire, rendendole perspicue, le varie configurazioni (correlative) della costituzione, mediante le quali i modi di conoscere e d’interagire di una coscienza nel mondo conferiscono a quest’ultimo un senso possibile. Un altro passo aiuta a tratteggiare meglio i contorni di questo progetto. Lungi dall’approntare una mera giustapposizione tassonomica di differenti figure conoscitive, la fenomenologia s’appresta anzi a descriverne l’articolazione rilevandovi una sistematica interna: gli atti di conoscenza, presi in senso più ampio, gli atti del pensiero in generale non sono singolarità sconnesse […]. Essi mostrano, riferiti essenzialmente l’un l’altro, inerenze teleologiche e corrispondenti nessi di riempimento, di conferma, di prova e dei loro contrari. E ciò che interessa sono questi nessi che presentano l’unità intelligibile. Sono essi stessi che costituiscono l’oggettualità […]. E solo in questi
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nessi si costituisce, non in un sol colpo ma in un processo ascendente, l’oggettualità della scienza obiettiva e prima di tutto l’oggettualità della realtà effettiva spazio-temporale. (II 75 [119 s.*])
Qui s’intravede come il progetto fenomenologico si articoli non soltanto lungo l’asse della correlazione ma anche lungo una direttrice teleologicamente orientata, innervata cioè dai nessi di fondazione che intercorrono tra i vari atti conoscitivi e in ragione dei quali il sistema costitutivo evolve in rapporti di complicazione ascendente. L’orizzonte complessivo di questo programma non potrà che chiarirsi strada facendo, ripercorrendo alcuni snodi fondamentali in grado di illuminarne almeno l’intelaiatura portante57. Husserl si mette all’opera già nel prosieguo del semestre. Le Dingvorlesungen rappresentano un primo tentativo sufficientemente articolato di analisi costitutiva di un dominio di realtà ben preciso, quello della cosa spaziale, qui intesa come base d’esperienza imprescindibile di ogni teorizzazione scientifica (XVI § 1). Proprio in queste lezioni si concretizza la decisione di condurre l’indagine costitutiva “conformemente alla natura delle cose, dal basso, vale a dire dall’esperienza inferiore e ordinaria” (XVI 7 [8])58. Si precisa così un’idea dell’oggettività articolata in gradi (Stufen) o, per meglio dire, in strati (Schichten) costitutivi, che l’indagine fenomenologica assume l’onere di elucidare, ripercorrendo criticamente le operazioni conoscitive con cui generalmente si procede a determinarla. È giustappunto l’“esecuzione rigorosa del metodo degli strati” a guidare l’analisi husserliana; lo scopo manifesto è di chiarire “in che modo 57
58
Di questo progetto è bene però non perdere di vista lo scopo. Nelle Fünf Vorlesungen Husserl lo riassume in questi termini: “la conoscenza guardante è la ragione che si prefigge di portare l’intelletto appunto alla ragione” (II 62 [102]). La fenomenologia sottopone a critica la prassi intellettiva del pensiero scientifico-naturale e lo riconsegna alla ragione nel suo significato filosofico-razionale più autentico (II 58 [96s.]). Ci troviamo pertanto in perfetta linea di continuità con il WS 1904-1905, in cui per la prima volta si penetrava l’orizzonte della fenomenologia seguendo non la strada intrapresa con le Ricerche Logiche, assumendo cioè come punto di partenza gli “atti intellettivi superiori”, bensì mediante “una trattazione esauriente degli atti intellettivi semplici situati al livello più basso” (XXXVIII 3 [31]), ovvero percorrendo l’“altra via [zweiter Weg], che procedeva dal lato opposto, cioè dal lato dell’esperienza e dei dati sensibili”, di cui si fa cenno nel primo libro delle Idee (III/1 287n. [309n. 2]).
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deve essere compreso il costituirsi [dell’oggettività] nei suoi diversi gradi, in quanto datità intesa e che, gradualmente, giunge a mostrarsi” (XVI 19s. [23s.*]). Il fine precipuo del presente lavoro non consente un’analisi approfondita di queste lezioni59. Un paio di passi consente però di arricchire il quadro emerso nel 1906-07. Il § 13 fornisce alcune indicazioni preziose su come intendere il rapporto costitutivo (la correlazione). Non dobbiamo infatti pensare che sopravvenga allorché una coscienza già formata incontri una cosa data in sé stessa e quindi proceda a costituirla mediante operazioni eseguite su di essa; questa concezione, ci dice Husserl, equivale al modo in cui il pensiero naturale e certa parte della tradizione ha pensato il rapporto tra soggetto e oggetto. La concezione cui abbiamo controbattuto opera chiaramente come se l’oggettualità, l’essere di ogni specie, fosse qualcosa privo in sé di relazioni con la coscienza, e come se la coscienza si imbattesse nell’oggettualità casualmente, trafficasse con essa e procedesse a questi o quei cambiamenti, precisamente al modo di un’operazione in senso naturale. Si cela qui la seguente, supposta, ovvietà: le cose sono in sé, prima di ogni pensare. Poi sopraggiunge il soggetto egologico, una nuova cosa, ed effettua e produce qualcosa con la cosa, compie con essa il pensare, l’intuire, il riferirsi, il collegare, attraverso cui la cosa è data al soggetto egologico, appunto, solo nella configurazione che ad essa è imposta. Tutto questo si disgrega in niente non appena viene attuata la riduzione fenomenologica, e non appena viene sospesa l’attitudine naturale con le sue “ovvietà”. (XVI 65 [47s.*])60
L’invito husserliano sarà allora di tutt’altro avviso. La costituzione non dovrà essere intesa come un evento che avviene a partire dall’interazione di due poli (soggettivo e oggettivo) a sé stanti, che s’incontrano ed entrano quindi in correlazione; la correlazione, viceversa, è da intendersi come prioritaria rispetto 59 60
Per un inquadramento sistematico delle Dingvorlesungen all’interno del progetto husserliano di un’estetica trascendentale-fenomenologica si veda costa (1999). Si noti come questo passo rappresenti una risposta preventiva alla critica sollevata da Heidegger nel § 13 di Sein und Zeit – e malcelatamente rivolta anche, se non soprattutto, a Husserl – rispetto al tradizionale modo d’intendere il rapporto conoscitivo come un commercium tra soggetto e mondo.
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ai poli che proprio a partire da essa risultano costituiti secondo gradi coordinati di prestazioni intenzionali. A questo stadio di sviluppo del pensiero husserliano, la priorità della dimensione correlativa rispetto ai poli sembra acclarata per quanto riguarda il versante oggettivo della costituzione, mentre lo è sicuramente meno per quello soggettivo. Per il momento, infatti, Husserl sembra comprendere la coscienza all’interno della dinamica costitutiva attribuendole il privilegio dell’assolutezza (rispetto alla relatività dell’oggetto)61. Eppure, come si evince dal passo seguente, neppure la coscienza risulta del tutto estranea al processo graduato di oggettivazione: Ma, in senso più ampio, anche la “coscienza” […] è oggettuale e sottostà alla stessa legge che prescrive il senso dell’oggettualità. Ma questo oggettuale ha un privilegio: che fonda in modo fondamentale il contrapporre la coscienza e l’oggetto in senso stretto, in quanto ogni oggettualità trascendente ha il suo fondamento originario ed il suo supporto nell’oggettualità in senso lato che denominiamo coscienza. […] Ma la coscienza stessa è essere assoluto e, proprio per questa ragione, non è essere cosale. La schietta autoposizione la conduce, in quanto assoluta, a datità, ed essa è ciò che è dato nel puro sguardo; essa è un che di identificabile e perciò è anche oggetto, ma non si costituisce solo nei nessi di coscienza e nel senso che li lega sinteticamente: essa semplicemente è ed è guardata. Il mondo è, per così dire, retto dalla coscienza, ma la coscienza stessa non ha bisogno di alcun supporto. (XVI 40 [48s.*], corsivi aggiunti)
Pare che l’intento sotteso a questa lunga citazione sia quello di discriminare nettamente tra i modi di oggettivazione cui va incontro la cosa e quelli invece tipici della coscienza. Quest’ultima, in quanto assoluta, si distingue dalla relatività dell’oggetto, il quale appunto si oggettiva al modo di una cosa in virtù dei nessi sintetici istituiti dall’intenzionalità. D’altro canto, la coscienza si trova nell’eccentrica posizione di ciò che, da una parte, (1) “non ha bi61
Volendo anticipare quanto si esporrà nei prossimi capitoli, l’interrogazione genetica successiva a Idee I rappresenterà un tentativo di de-assolutizzare la soggettività costituente. Concomitante a questo processo di de-assolutizzazione, come sua controparte, un processo di apriorizzazione, per così dire, riguarderà lo statuto della correlazione quale autentico baricentro della dinamica costitutiva.
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sogno di alcun supporto”, “non è essere cosale”, mentre dall’altra (2) “è un che di identificabile e perciò è anche oggetto”. Secondo (1) la coscienza non risulta costituita “solo nei nessi di coscienza” ma anzi “semplicemente è ed è guardata”; secondo (2) essa “è oggettuale e sottostà alla stessa legge che prescrive il senso dell’oggettività”. Come si spiega questa eccentricità essenziale62 della coscienza? In che termini risulta comprensibile un’assolutezza costituente – che si pretende svincolata da qualsiasi legame costitutivo – ma che al contempo rientra a pieno titolo nel processo di oggettivazione? Una possibile risposta a questa domanda è rintracciabile in un testo dell’anno successivo (XXXVI Nr. 4) teso a precisare il senso dell’idealismo fenomenologico. Vi si trova innanzitutto ribadita la cifra stilistica di ogni costituzione, il suo essere riassumibile nella formula onnicomprensiva “unità di molteplicità” (XXXVI 62ss.). Ciascun tipo di datità si presenta cioè in quanto unità fenomenica costituita a partire dalla molteplicità delle sue manifestazioni63. Vi si critica poi ogni concezione che veda nell’oggetto una cosa in sé (qualcosa cioè di trascendente l’orizzonte della sua esperibilità). Vi si oppone infine l’idea per cui “l’essere della natura è dunque interamente racchiuso nella coscienza e in un senso del tutto simile come l’essere del suono nella coscienza del suono” (XXXVI 69). Questa verità, prosegue Husserl, è quanto la filosofia moderna ha ricercato senza mai raggiungere nelle figure tra loro certamente eterogenee di Locke, Berkeley, Kant, ma anche di un certo positivismo che da J.S. Mill giunge sino a E. Mach. Una verità, quella della costituzione del mondo, che sembra correttamente afferrabile solo se declinata, ancora una volta, in ottica temporale:
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Col senno di poi potremmo già intravedere nello statuto eccentrico qui delineato una formulazione ancora imprecisa del paradosso della soggettività denunciato nel § 53 della Crisi. Rimando ancora a majolino (2012a; 2012b) per un’esposizione dettagliata della posta qui in gioco. Quest’impostazione della tematica costitutiva risulta acclarata con le Dingvorlesungen, dove si è riflettuto a lungo sull’impossibilità di principio (eidetica, a priori) di una percezione adeguata della cosa spaziale, in quanto sintesi d’identificazione di una molteplicità irriducibile (poiché infinitamente aperta) di adombramenti (XVI §§ 27, 30, 33, 35, 39).
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La coscienza, l’essere in senso radicale, è nel senso autentico e radicale del termine. Essa è la radice e – secondo un’altra immagine – la fonte di tutto quanto, oltre a ciò, si chiama e può chiamarsi “essere”. Essa è la radice: essa regge ogni altro essere individuale, sia esso immanente o trascendente. Se essere è essere individuale che dura e nella sua durata muta o non muta, essere temporale, dunque la coscienza non è essere. Essa è ciò che regge il tempo [Träger der Zeit], ma non è essa stessa e in sé stessa un ente temporale; ciò non impedisce che essa ottenga, mediante la “soggettivazione [Subjektivierung]” (una varietà determinata di oggettivazione), un ordinamento nel tempo e quindi di assumere la “forma” di un oggetto temporale che dura. Ma in sé essa è intemporale, non è una unità di molteplicità; non rimanda ad altro da cui poter e dover essere presa come unità. Ma ogni altro essere è per l’appunto un che di unitario e rimanda mediatamente o immediatamente al flusso assoluto di coscienza. (XXXVI 70)
Sulla base di questo passo di notevole spessore assertivo è possibile avanzare un tentativo di risposta – del tutto provvisorio e da validare in corso d’opera – alle domande lasciate in consegna dal § 13 delle Dingvorlesungen. L’eccentricità dianzi rilevata circa lo statuto della coscienza sembra ricomporsi qualora si riesca a ritagliare all’interno della dinamica costitutiva una “varietà determinata di oggettivazione”, che riguarda il versante soggettivo del rapporto costitutivo, a cui diamo appunto il nome di soggettivazione. Trova conferma l’adagio per cui l’assoluto costituente si oggettiva anch’esso nel corso della costituzione dell’essere relativo, sebbene però non al modo della cosa ma secondo le specificità proprie di un soggetto. La coscienza, a ben vedere, si soggettivizza in quanto tale. Permane, in ogni caso, l’ambivalenza costitutiva, per cui essa risulta parimenti costituente e costituita; questo aspetto Husserl lo enuncia in riferimento alla dimensione temporale e anzi, proprio all’esplorazione di questa dimensione la risoluzione dell’enigma sembra pertanto demandata. La coscienza è l’intemporale che regge il tempo, che determina la temporalità degli oggetti, ma che al contempo si temporalizza, acquista una propria configurazione, un proprio ordinamento temporale. L’enigma della costituzione fenomenologica, della sua natura correlativa, risiede in questo zugleich, nella possibilità di evincere il senso per cui – una volta compreso
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che “questo al contempo è un al contempo fluente” (Mat VIII 12) – la temporalità possa valere non come semplice tema d’indagine, fra i molti possibili, ma come architrave dell’idealismo fenomenologico-trascendentale. §1.5.2 Secondo movimento kein Objekt ohne Subjekt wie kein Subjekt ohne Objekt64
Prima di sviscerare analiticamente la questione della temporalità è opportuno portare a compimento il quadro emerso dal radicalizzarsi della riduzione sul finire del 1906. Come anticipato, è soltanto in alcuni manoscritti del 1908 (redatti a uso personale) che Husserl inizia ad attribuire alla fenomenologia la qualifica “trascendentale”. Questi testi si concentrano nel mese di settembre (Dok I 118s.), a rimarcare come egli fosse solito impiegare il periodo antecedente l’inizio del Wintersemester per ripensare il proprio progetto filosofico nel suo complesso. Nella Beilage B V di Hua XXIV ricorre per la prima volta la locuzione “fenomenologia trascendentale”. Essa è nettamente distinta tanto dalla psicologia descrittiva delle Ricerche, ancora gravata da tutta una serie di presupposizioni empiriche, che da qualsiasi indagine ontologica a priori65. La fenomenologia riguarda invece l’intenzionalità costituente e verte sul puro fenomeno, nella sua duplice accezione correlativa: “1) nel senso dell’apparizione in cui l’oggettività appare”, come vissuto; “2) […] nel senso dell’oggettività considerata soltanto in quanto appare nell’apparizione. […] in quanto correlato” (XXIV 424s.). L’interesse trascendentale che ora anima la fenomenologia riqualifica di conseguenza l’istanza costituente: “ovunque il problema è quello della ‘costituzione’
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XXXV 277. Il rapporto tra la fenomenologia e le varie sfere ontologiche sarà precisato meglio qualche pagina più avanti (XXIV 428), dove si spiega che a ciascuna di queste ontologie pertiene una corrispondente fenomenologia trascendentale che ne indaga gli oggetti specifici in rapporto ai relativi atti di coscienza.
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di ogni tipo di oggettività nella ‘soggettività’ trascendentale, nella coscienza trascendentale, ‘io’ trascendentale” (XXIV 429)66. Ma sono soprattutto tre testi relativi al settembre 1908 (XXXVI Nrr. 1-3) che aiutano a precisare lo statuto dell’idealismo husserliano. Il primo di questi torna sulla formula costitutiva unità di molteplicità chiarendo come essa non richieda un’attualità di molteplici manifestazioni ma soltanto la loro possibilità (XXXVI 11s.). A sua volta, però, tale possibilità non dev’essere intesa come una virtualità vuota (leere) bensì come realmente motivata dall’esperienza perché in essa fondata67. In altre parole, l’esistenza dell’oggetto spaziale si attesta come unità (sintetica) di molteplici esperienze potenziali, nella misura in cui tali esperienze sono contenute (come rimandi possibili) nel vissuto attuale (di un profilo parziale) dell’oggetto. L’esistenza della cosa dipende dal suo inserimento in un contesto motivazionale di rimandi effettivamente possibili (XXXVI 12s.). In tal modo, la costituzione della cosa palesa una natura eminentemente processuale, tende cioè a coincidere con la storicità teleologicamente orientata delle sue apparizioni. 66
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Misconoscere le differenze che intercorrono tra le nozioni di soggettività, coscienza e io genera fraintendimenti e mistificazioni di ogni tipo. Non che Husserl sia sempre efficace nelle proprie distinzioni terminologiche (il passo in questione sembra far collassare grossolanamente le tre nozioni sullo stesso piano). Non che questo problema risulti specifico degli studi husserliani; anzi, ferrarin (2017) ha mostrato come la confusione tra soggettività e io interessi gran parte della filosofia moderna e come Hegel e Husserl, viceversa, abbiano saputo differenziare le due nozioni e pensarne in modo non del tutto dissimile il legame. Da parte mia, in misura preliminare rispetto a quanto risulterà strada facendo, distinguerei le nozioni nel modo seguente: l’io concerne il polo strettamente egologico della correlazione fondamentale, ovvero un certo stadio di sviluppo del processo di soggettivazione (infra § 3.3). Le nozioni di coscienza e soggettività tendono invece ad abbracciare la correlazione nella sua interezza, a comprendere l’intero arco della fenomenizzazione; si estendono pertanto al di là del versante propriamente egologico della correlazione, potendo così inerire anche a livelli di costituzione passiva (pre-egologica) e intersoggettiva (post-egologica). Si potrebbe infine distinguere la nozione di coscienza da quella di soggettività attribuendo alla seconda un più alto grado di consapevolezza circa l’autonomia e la responsabilità delle proprie prerogative constituenti. Avremo comunque modo di tornare su queste distinzioni. Husserl tende a concepire il rapporto di fondazione come un sistema di nessi di natura motivazionale; da qui l’uso del verbo begründen (e derivati) il cui significato richiama ambedue le accezioni del fondare e del motivare.
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Mostrare l’origine della presentazione della cosa non significa far vedere attraverso quali “costruzioni” psicologiche o psichiche sorga qualcosa del genere (non ci troviamo in nessuna psicologia), ma mostrare la “storia” della presentazione della cosa, ossia attestare la gradazione di atti edificati teleologicamente uno sopra l’altro, studiare la sua essenza, i suoi nessi, nei quali viene chiarito, conformemente, il possibile nesso di fondazione per l’essere della cosa […]. (XXXVI 13s.)
La cosa si costituisce dunque in un “sistema di cogitationes” (XXXVI 14) e non è niente al di fuori di questo sistema di esperienze realmente possibili. La fenomenologia coincide allora con l’analisi di questo sistema e, di conseguenza, non potrà che ripercorrerne e tentare di chiarificarne l’articolazione teleologica (infra § 3.2.2). La cosa stessa (die Sache selbst) in quanto sistema aperto di esperibilità e conoscibilità, in quanto correlato di esperienze e conoscenze illimitatamente costituenti, vincola – prescrivendone in certo senso lo sviluppo – l’esposizione sistematica della scienza fenomenologica. Il secondo dei testi del settembre 1908, approfondisce il significato dell’idealismo husserliano affrontando di petto la dirimente questione che concerne “la ‘risoluzione [Auflösung]’ dell’‘essere’ empirico nei nessi della coscienza assoluta” (XXXVI 21, cfr. XXXVI 27s.). Tale significato si rende perspicuo a patto di confrontare nuovamente la prospettiva fenomenologica con quella della scienza positiva. Cercando di discriminare fra le due, Husserl scrive che per la fenomenologia non si tratta del “senso” in quanto “essenza” delle cose, degli oggetti ideali come i numeri. […] All’essenza o al senso del numero appartiene questo e quello, all’essenza di una proposizione quello e questo e così via. Questo me lo spiega la scienza obiettiva, l’ontologia generale, la matematica etc. Non si tratta [per la fenomenologia] del senso ultimo, ma dell’essere ultimo*. E in ciò si trova che l’essere nel senso della scienza obiettiva non è “nessun essere ultimo”, ma si “risolve” nella “coscienza”. La cosa [Ding] non si risolve nella coscienza. Essa si risolve in atomi e molecole. Ma “una cosa è nella realtà effettiva” e questo “c’è una realtà effettiva” e siffatte conoscenze rimandano ai nessi di conoscenza, alle configurazioni di coscienza, e in loro l’essere della cosa e l’essere di tutti gli stati di cose di tipo cosale ottengono il proprio senso. (XXXVI 27s.)
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Ciò che il testo citato dovrebbe dirimere è la distinzione tra ciò che si risolve (das Sein des Dinges) e ciò che non si risolve (das Ding) nella coscienza. Il fatto che la cosa si risolva nella propria struttura atomico-molecolare pone subito un freno a qualsiasi interpretazione dell’idealismo husserliano che includa fra le prerogative costitutive della coscienza la produzione materiale dell’oggetto68. Del resto, la stessa riduzione esclude dal dominio dell’analisi la questione della conformazione empirica dell’oggettività – riservata alla scienza naturale – a vantaggio di quella intenzionale69. E tuttavia, l’essere indagato dalla scienza obiettiva non è l’ultimo ma si risolve a sua volta nella coscienza. Ossia, qualsiasi conoscenza riguardante l’essere della cosa indagata dalla scienza naturale – quindi anche la sua composizione materiale, la sua realtà effettiva – rimanda alla sua costituzione intenzionale come a quella in grado di conferirle il proprio senso – appunto – d’essere. Il complesso della conoscenza scientifica viene così riscattato dalla presunzione di assoluta indipendenza, di completa autarchia euristica. Il problema principale rimane allora quello di sbrogliare il rapporto sussistente tra senso ed essere in relazione a ciò che è ultimo e ciò che invece è relativo (poiché rinvia a questo ultimo per la costituzione del proprio senso d’essere). Si tenga presente la difficoltà insita nelle ambiguità che contraddistinguono queste nozioni. Un aiuto in merito Husserl lo offre apponendo una nota al passo appena citato, all’altezza segnalata sopra da un *: Qua si trova evidentemente un’ambiguità: 1) Senso di un oggetto = la sua essenza, il suo “contenuto”, dato nell’intuizione. 2) Senso dell’essere oggettuale, il suo ultimo “senso assoluto”. Vale a dire, ogni essere oggettuale ammette una riduzione all’essere assoluto in quanto costituente. (XXXVI 28n. 1)
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Al riguardo si veda anche il giudizio più tardo, per cui “un idealismo, che per così dire annienta la materia, che dichiara la natura esperita una mera parvenza e vero solo l’essere psichico, è sbagliato” (XXXV 276). Potremmo anzi aggiungere che la conformazione empirico-materiale dell’essere rimane indecidibile all’interno della considerazione fenomenologica. Sappiamo però che qualsiasi teoria si formuli al riguardo non potrà esimersi – pena il ricadere in una forma di naturalismo acritico – da una valutazione del portato costitutivo-intenzionale implicito in tale teoria.
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Così come l’essere è rivelativo di un’ambiguità, nella misura in cui si può discriminare fra un essere relativo (intenzionalmente costituito) e un essere assoluto (intenzionalmente costituente), allo stesso modo, la nozione di senso pare scindersi nel senso peculiare di un oggetto, ciò che lo rende quell’oggetto specifico, e nel senso dell’essere oggettuale in quanto tale. L’essenza di un oggetto (il suo senso peculiare) è indagata dalla scienza positiva che si occupa del determinato dominio ontologico a cui esso appartiene (tocca alla matematica spiegare che “all’essenza o al senso del numero appartiene questo e quello…”). Ma questo senso specifico presuppone il senso d’essere dell’oggettività in generale capace di predeterminare il dominio ontologico in questione, rimandando cioè alla dimensione che costituisce questo dominio facendone esperienza. Ecco allora che l’idealità del numero indagata dalla matematica rimanda ai nessi che ne regolano la costituzione intenzionale all’interno di questa particolare prassi scientifica; l’essere naturale indagato dalla fisica rimanda a sua volta ai nessi intenzionali operativi nella messa a punto di una scienza della natura; la spiritualità propria di un artefatto o di un’opera d’arte presuppone un contesto intersoggettivo di validità scaturenti da prestazioni riconducibili a un atteggiamento personalistico, etc. In generale, il tenore trascendente dell’esperienza di un’alterità oggettuale di un certo tipo rinvia alle operazioni intenzionali che ne motivano e fondano la relativa posizione d’essere. In tal modo, il trascendentalismo husserliano si connota non soltanto come idealismo correlativo, ma anche come idealismo del senso: Una cosa ottiene il proprio senso. Essa è un senso e ogni senso presuppone un conferimento di senso e appartiene ai nessi del conferimento e dell’accertamento del senso l’intendere e il fondamento dell’intendere, nel quale l’oggetto “sta”, si determina, si legittima come vero essente e così via. Se noi revochiamo questi nessi, in questa maniera il discorso sull’essere della cosa perde ogni possibilità. (XXXVI 28)70
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Sulla fenomenologia trascendentale come idealismo del senso cfr. il giudizio di Fink in SPh 97 [166].
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L’essere, nella sua realtà effettiva, non è mai qualcosa di avulso dall’attribuzione di un senso valevole per una coscienza possibile. Senso ed essere rimandano ineludibilmente l’uno all’altro in virtù della loro originaria correlazione che si espleta in una certa prestazione costitutiva. Soltanto in virtù di tale prestazione, tramite cioè l’istituzione di certi nessi intenzionali, l’essere acquisisce il proprio senso generalissimo di validità esistente (naturale, ideale, spirituale, etc.). Ma questo non significa affatto che l’essere esista solo nella o per la coscienza, bensì che la prestazione intenzionale costituisce il senso (d’essere) dell’essere in quanto validità che sussiste al di là della coscienza, appunto, come trascendente. Se le molteplicità di coscienza e i rispettivi nessi di motivazione sono effettivamente, così ogni essente in senso obiettivo vi è “conchiuso [mitbeschlossen]” e tuttavia non come qualcosa che vi è contenuto realmente [reell] e che in qualche modo esiste anche al di fuori degli stessi. Tale essente non vi è racchiuso realmente ma come unità di validità inclusa essenzialmente; e l’unità di validità è ciò che è solo in rapporto al nesso in cui il valere si “fa”. Il “mondo” si costituisce nella coscienza. Esso è ciò che è solo in rapporto alla coscienza. Ma questo non significa che il reale [Reale] contenga nel suo contenuto qualcosa della coscienza, come se nell’affermare obiettivo circa il reale dovesse trovarsi la coscienza. (XXXVI 28s.)
La costituzione intenzionale è dunque ciò che conferisce alla realtà il valore di un che di esistente; i nessi intenzionali sono ciò per cui questo valere si fa. Ma da questo non è possibile concludere che il mondo sia “qualcosa della coscienza”, un suo momento o prodotto interno. Ciò che la coscienza produce è il senso di una realtà che proprio in ragione della Sinngebung vale come ciò che trascende l’orizzonte del vissuto e che però, senza riferirsi a tale orizzonte, non avrebbe il senso d’essere che siamo soliti attribuirgli: “l’‘esso è’ significa che la coscienza è e che esistono conformi possibilità di coscienza in cui si costituisce, in cui esso è percepibile, determinabile, conoscibile”; il senso d’essere dell’oggetto “è per così dire nient’altro che un’altra ‘espressione’ [che sta] per la coscienza”; “il senso ‘esso è’ si esaurisce in ciò” (XXXVI 29), ossia nei nessi intenzionali grazie a cui un ente è posto in quanto unità trascendente.
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La cosa è l’unitario in questi atti possibili, ma questa unità è unità di pensiero. La cosa non è un che di secondo oltre a ciò, così come se essi potessero esistere e la cosa ciò nonostante non fosse o come se la cosa fosse e tali possibilità non potessero esistere. L’“accordo” fra loro non è casuale, come se avessimo due serie di essere assoluto fatti casualmente l’uno per l’altro. Piuttosto la “cosa” non è altro che l’indicazione [Anzeige] per queste “effettività” e possibilità, ovvero la cosa è l’unitario delle stesse; è data proprio come un’“unità” è data. E l’unità è impensabile senza la coscienza, alla quale essa è data e può esser data come unità. (XXXVI 29s.)
L’idealismo fenomenologico si gioca dunque all’interno dello scorcio prospettico propiziato da queste distinzioni apparentemente sottili e marginali. Si noti però come contestualmente trovi compimento il cammino inaugurato con la radicalizzazione trascendentale della prassi riduttiva. La preventiva sospensione, la messa fuori circuito di tutte le posizioni di realtà, proprio perché non consiste in una loro esclusione tout court ma anzi prelude a un esame critico delle loro pretese di valore – senza per questo incorrere nel circolo dettato dalla loro “ovvia” presupposizione – ha fatto sì che esse potessero essere ricondotte71 alle fonti intenzionali di una giustificazione possibile. Dire che il senso d’essere di un oggetto è il correlato del proprio orizzonte di esperibilità, ossia delle esperienze possibili che di esso è lecito attendersi, significa ribadire una volta di più la relatività, la dipendenza di ogni posizione esistenziale dall’assolutezza della coscienza (XXXVI 32s.). Il valore da attribuire alla relatività del senso d’essere rispetto alla prestazione costitutiva della coscienza emerge distintamente nel testo Nr. 3. Qui Husserl esplicita il significato di questa “dipendenza funzionale” (XXXVI 56) – non ontologica – nei termini di una variabilità correlativa di coscienza e mondo. Ciò che m’importa qui è questo, che la variazione della coscienza, una variazione logicamente possibile, significhi una variazione del mondo, che per questa coscienza è un mondo legittimo, vero, realmente effettivo. (XXXVI 54)
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Sulla riduzione come riconduzione (Zurückleitung) infra § 4.4.
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Nei righi che seguono – sorprendentemente, ex abrupto – Husserl si concede un utilizzo per così dire anacronistico, ante litteram, di ciò che negli anni a venire teorizzerà come metodo della variazione immaginativa. Se noi provassimo a pensare – riassumo così la sequenza argomentativa – a concepire un mondo in sé, absolutus, ossia prosciolto da un legame costitutivo di tipo intenzionale, ricadremmo letteralmente nel puro nonsenso (Nonsens). La capacità di variazione nei confronti dell’idea di mondo incontrerebbe un limite invalicabile per via dell’impossibilità di pensarlo come qualcosa di irrelato rispetto a una coscienza, rispetto cioè all’istanza capace di conferirgli un senso d’essere quale che sia72. Se ne evince che un mondo è sempre un mondo per una coscienza e che “dunque essere e coscienza possibile […] sono sicuramente correlativi” (XXXVI 54). Alla pagina successiva Husserl propone di variare, anziché il mondo, la coscienza stessa. Ma anche in questo caso, “notiamo che in modo sorprendente siamo limitati nella variazione” (XXXVI 55). Qualora si provi a pensare una coscienza che esperisce il mondo in una certa maniera e conformemente lo giudica e impara a conoscerlo, mentre in realtà (al contempo) il mondo non esiste o esiste in modo completamente differente, ci s’imbatte ancora una volta una impasse immaginativa: tutto questo non sembra avere senso. Il fatto stesso del mondo, con le sue specifiche prerogative, sembra anzi far valere una propria “regolazione apriorica [apriorische Regelung]” nei confronti della soggettività costituente: Il fatto di un mondo M prescriverebbe a priori a una coscienza C, che si connette con esso, una regola secondo cui in C sono possibili
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Husserl non esplicita sino in fondo l’argomentazione appellandosi all’evidenza di tale limite immaginativo e all’ovvietà per cui, se il conferimento di senso da parte della coscienza venisse meno, allora, ricadremmo nel nonsenso. A ben vedere, dunque, l’argomentazione si regge sull’implicito legame che vige tra l’istituzione di un senso possibile e i margini di variabilità immaginativa. Si può dire allora, parafrasando la celebre proposizione 5.6 del Tractatus di Wittgenstein, che i limiti del conferimento di senso coincidono con i limiti del nostro mondo, dal momento che l’orizzonte di pensabilità di quest’ultimo non eccede quello di un senso concepibile per la coscienza.
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solo tali nessi di coscienza in base ai quali può essere compiuta unicamente la legittima fondazione d’essere di M. (XXXVI 55)
A ben vedere, ciò che Husserl sottopone a variazione non è il mondo o la coscienza a esso relata ma la loro correlazione originaria. L’impossibilità di variare per via immaginativa (sino alla revoca) questo sistema di nessi, di svincolare il mondo dal proprio conferimento di senso o, viceversa, di svincolare la coscienza intenzionale dalla produzione del senso d’essere del mondo, riafferma lo statuto a priori della correlazione. Proprio in questi termini Husserl giunge a parlarne: Lo statuto [Gehalt] di una coscienza fattuale prescrive: proprio questo mondo è e se anche qualcos’altro può essere, certamente all’essere complessivo appartiene proprio questo mondo. Lo statuto di un mondo fattuale prescrive: se una coscienza fattuale è, allora non può essere una [coscienza] qualsiasi logicamente possibile, ma il suo contenuto fattuale deve essere in modo tale da non negare l’essere di questo mondo fattuale. […] Lo statuto della realtà effettiva fattuale nel suo complesso [faktischen Gesamtwirklichkeit] (di ogni [realtà] concepibile) prescrive: se in relazione a essa c’è una coscienza in generale e precisamente [una coscienza] conoscente, allora il suo contenuto deve essere di tale sorta che essa può legittimamente conoscere solo questo mondo. Dunque in una relazione non esiste un essere indipendente da una coscienza. […] Ora, se la coscienza fosse qualcosa di completamente separato dall’essere o che separa, allora questo rapporto sarebbe impossibile. Qualcosa di completamente separato, qualcosa che è insieme solo accidentalmente, è variabile indipendente. Dunque: coscienza ed essere devono essere in relazione in un modo o nell’altro. (XXXVI 55s.)
Non ci si lasci ingannare dal ricorrere dell’aggettivo faktisch (= fattuale, ma anche effettivo, reale). Ciò a cui Husserl mira in queste pagine è appurare l’imprescindibilità del fatto stesso della correlazione, ovvero il suo carattere apriorico in grado di regolare, di prescrivere i modi possibili di qualunque (concepibile) interazione costitutiva tra coscienza e mondo73. Il fatto del mondo, la sua feno73
Del resto, è Husserl stesso a tenere ben separato il fattuale dall’empirico (VII 390 [33]; XVII 279 [388]). Sulla Faktizität quale elemento imprescindibile della costituzione si veda inoltre vergani (1998), depraz (2000), luft (2011, cap. 4) e dell’orto (2015, 69-108).
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menicità, prescrive alla coscienza di attendere alla costituzione del suo senso d’essere senza che questa fattualità risulti con ciò compromessa. Al contempo, in misura complementare, il fatto stesso della coscienza prescrive al mondo, in ragione della medesima attribuzione di senso, l’orizzonte della sua esperibilità/conoscibilità. Infine, che una realtà nel suo complesso risulti concepibile implica l’effettiva sussistenza della correlazione tra coscienza e mondo. In base alle analisi condotte in questi luoghi, lo statuto dell’idealismo fenomenologico si rivela quello di un idealismo correlativo del senso. Husserl giunge a queste conclusioni ben prima della formulazione offertane al grande pubblico in Idee I. Anzi, proprio sulla base di questo lascito manoscritto si comprendono meglio alcune tesi sostenute nella summa phaenomenologica del 1913. Ad esempio, l’ipotesi di una coscienza assoluta e residuale stante l’annientamento del mondo (Weltvernichtung, III/1 § 49) può essere opportunamente reinterpretata come il risultato di un esercizio di variazione immaginativa sul modello sopra esposto74. Del resto, simili tentativi di variazione immaginativa del mondo, vòlti a esplorare la pervasività della correlazione fondamentale, nonché le prerogative costitutive della coscienza, sono perseguiti da Husserl proprio a partire dal 1907-1908, ossia dagli anni appena considerati. Il caso più eclatante è certamente il paragrafo conclusivo delle Dingvorlesungen (XVI § 84)75. Qui Husserl ha il 74 75
Non è il caso di soffermarsi qui su una discussione di questo celebre paragrafo. Al riguardo, cfr. le pagine dirimenti di majolino (2010; 2016). Ma si vedano anche le pagine di un testo del 1908 dedicato a Kant (VII 383-385 [22-26]). Husserl inizia qui con un adagio profondamente antikantiano, ossia rilevando l’esistenza di “questioni a posteriori di tipo ‘trascendentale’”, ad esempio: “come deve essere fatto un mondo, affinché esso sia accessibile alla coscienza?”, oppure: “come deve essere fatta una conoscenza, affinché sia conoscibile in essa un mondo […]?”. Quindi, cercando di rispondere a queste domande, egli prosegue performando una serie di variazioni immaginative, ossia chiedendosi – empiricamente – come sarebbe il mondo dal punto di vista di una medusa, se la terra collidesse col sole, se lo spazio fosse quadrimensionale o se la legge di gravitazione fosse diversa. Questa ricognizione/variazione empirica non è di per sé rilevante da un punto di vista fenomenologico – essa ci rende edotti soltanto riguardo al fatto che il mondo potrebbe essere diverso da come è e anche risultarci inconoscibile. Tuttavia, prosegue Husserl: “in queste riflessioni empiriche è contenuto però anche qualcosa di apriorico, che si comincia a scorgere non appena si raggiunge il punto di vista della
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merito di chiarire cosa intende per Weltvernichtung, l’eventualità del non-essere del mondo (XVI 286-289 [351-353]). Questa eventualità non coincide con l’ipotesi del nulla – ciò implicherebbe che niente si dia: una vera e propria assurdità fenomenologica – bensì con quella di un caos o trambusto (Gewühl) di sensazioni per cui non è possibile parlare di una realtà o di un mondo in senso pregnante (XVI 288 [353]). L’annientamento del mondo consiste dunque in una variazione immaginativa che lo riduce a un pulviscolo di sensazioni tra loro sconnesse, a una confusione per cui tale molteplicità sensoriale non sembra esibire più alcuna regolarità in grado di favorire una sintesi che conduca tale molteplice a unità. Un simile trambusto fenomenico riverbera sul versante apprensionale del vissuto (“è infatti chiaro che, in tal caso, dovrebbero necessariamente dissolversi anche le apprensioni”, XVI 288 [353]). La dissoluzione del mondo affètta cioè anche il versante soggettivo della correlazione: il processo di soggettivazione, il costituirsi di una formazione egologica e financo psichica stabile, centrata, predisposta a un’esperienza sensata del mondo (XVI 288s. [353]). A ben vedere, la variazione immaginativa ha ricondotto l’analisi a quello che potremmo definire il grado zero del senso; il venir meno del mondo è infatti il venir meno della sua sensatezza e quindi del conferimento da parte della coscienza (XVI 289 [353])76.
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fenomenologia trascendentale”. L’aver scandagliato immaginativamente le possibilità alternative dell’empirico, l’aver visto variare il mondo di pari passo alla conoscenza che se ne ha, ci ha messo sostanzialmente di fronte all’a priori della correlazione (NB: un a priori, in questo caso, la cui evidenza onnipervasiva è emersa a posteriori). Si noti en passant che la sfera del senso non coincide tout court con quella dell’apparire intuitivo (il grado zero del senso non è infatti un nulla assoluto ma anzi persistono manifestazioni sensoriali sia pure fra loro del tutto irrelate). È dunque in ragione di questo scollamento tra sfera del senso e sfera dell’apparire che Husserl potrà sostenere, nel § 49 delle Idee, che l’assolutezza della coscienza “nulla “re” indiget ad existendum” (III/1 104 [121]). Letteralmente, la ripresa della formula cartesiana sostiene che per l’esistenza della coscienza non è richiesta alcuna cosa (alcuna res) in senso proprio, ovvero ciò che nel paragrafo finale delle Dingvorlesungen Husserl addìta con la felice perifrasi “idea di cosa come [idea] rigorosa [Dingidee als strenge]” (XVI 289 [354]). A rigore, la cosa è appunto un’unità costituita intenzionalmente sulla base di una sintesi continuativa della concordanza delle sue molteplici apparizioni, proprio ciò che con l’annientamento del
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Arrivati a questo punto, sulla base di questo esercizio di variazione, Husserl trae una conclusione differente rispetto ai testi del 1908 sopracitati. Non si concentra cioè sull’a priori della correlazione bensì sul significato più recondito che l’esperimento mentale della Weltvernichtung ha rivelato riguardo al mondo. Husserl ci dice: “Tutto sommato, il mondo è, secondo la propria esistenza ed il suo esser-così, un fatto irrazionale, e la sua fatticità risiede unicamente e solamente nel carattere fisso delle connessioni motivazionali” (XVI 289s. [354]). Ovvero, in altre parole, “la razionalità, che è presente nella connessione di manifestazioni effettive e possibili e che rende possibile l’unità stabile della cosa e del mondo, questa razionalità sarebbe un fatto irrazionale” (XVI 289n. [354n.*]). Ciò che la variazione immaginativa ci ha messo di fronte è la verità per cui il mondo è un fatto che di per sé non è in grado di esibire una struttura capace di legittimarlo. Dal punto di vista della mera possibilità logica fatta valere dalla variazione immaginativa, la fatticità del mondo è quella propria di una regolarità (Regelmäßigkeit) che di per sé potrebbe essere come non essere (XVI 389 [354]). La razionalità in grado di giustificare il mondo nella sua pretesa d’essere proviene allora dai nessi motivazionali istituiti dalla coscienza intenzionale. Ma ciò significa che quella della costituzione, per il mondo, “è l’unica possibilità ragionevole [vernünftige], precisamente quella che non è pre-data a priori, bensì fondata a posteriori” (XVI 290 [354]). Dal punto di vista dell’autentico a priori, quello della correlazione, non c’è nulla che legittimi razionalmente l’essere del mondo; la variazione ci ha mostrato che la possibilità di un trambusto fenomenologico non vìola l’a priori correlativo (vi è pur sempre un coacervo sensoriale che appare come correlato della coscienza)77.
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mondo verrebbe meno. Ma il venir meno di ogni cosa e dunque di un mondo in senso pregnante serba per la coscienza una possibilità di esistenza residuale – un’esistenza al limite – in quanto correlato di un coacervo brulicante di sensazioni. È opportuno precisare la differenza sostanziale che intercorre tra la variazione nel senso della Weltvernichtung (proposta da Husserl in III/1 § 49, VII Beilage XX e qui in XVI § 84) e la variazione proposta nel testo del 1908 sopra esaminato (XXXVI Nr 3). Nel caso della Weltvernichtung la variazione riguarda il mondo, cioè soltanto il polo oggettivo della correlazione (se ne immagina cioè l’annientamento allo scopo di vedere cosa succede alla coscienza); nell’altro caso, il tentativo di variazione è rivolto
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Pur tuttavia, non è il caso di concludere che l’originaria irrazionalità della realtà ne decreti un’esistenza soltanto presunta, ipotetica. La lacuna di razionalità a priori è compensata a posteriori da un surplus di legittimazione riscontrabile e di fatto riscontrato nel corso dell’esperienza costitutiva del mondo. L’esperienza è la dimensione in cui il mondo si razionalizza, in cui il conferimento di senso esercitato dalla costituzione intenzionale riconsegna una realtà, per così dire, a misura di ragione. In pagine memorabili Husserl scrive: Ogni apprensione percettiva è motivata, e in tale motivazione essa ha il proprio diritto, per così dire, di proclamare l’essere. Tale posizione di ragione nella percezione non è una posizione assoluta; è come una forza che può essere sopraffatta da superiori forze contrarie. L’esperienza è la forza che garantisce l’esistenza del mondo, e l’esperienza è una forza che attinge continuamente da sé nuova forza, integrandola sempre in sé. Ogni percezione, già in quanto dura, integra la sua forza, e ogni percezione si rafforza l’una con l’altra nella connessione percettiva, conformemente a tutte le serie di riempimento che, in un molteplice intreccio intessono in modo concordemente unitario i lati e i raggi delle percezioni. La forza che fonda l’essere cresce nello sviluppo dell’esperienza, nella sua progressiva razionalizzazione [Rationalisierung] nella forma di scienza dell’esperienza, che procura a ogni eccezione un ordinamento in una regola, assegna a ogni non-essere una parvenza [Schein] che appartiene a un essere. Cresce così la forza dell’esperienza che costituisce il mondo, sino a una tale schiacciante potenza (e questa potenza è potenza della ragione [Vernunftgewalt]) che le possibilità del non-essere di un mondo reale – un mondo che nella connessione manifestativa si costituisce rigorosamente in modo legalmente unitario e che si determina sempre più compiutamente – diventano appunto possibilità vuote, non prive di senso ma irragionevoli, prive di fondamento. (XVI 290s. [355*])
all’a priori della correlazione: si tenta cioè di darle scacco immaginando un mondo del tutto svincolato (absolutus) dalla coscienza o, viceversa, una coscienza che conoscendo il mondo giunga a negarne le pretese di esistenza. È per questo che questo secondo tipo di variazione si rivela un nulla di fatto e l’impasse in cui ricade l’immaginazione può essere assunta da Husserl quale controprova dell’a priori correlativo. Nel primo caso invece, come si è visto, l’immaginazione ha buon gioco nel mostrare la relatività del mondo così come lo conosciamo.
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La razionalizzazione del mondo è una prassi d’esperienza che integra i propri risultati costitutivi allestendo una realtà conforme a un’idea di ragione. Ciò rende edotti circa l’importante ruolo che la fenomenologia si trova ad attendere. Come si evince, la fenomenologia trascendentale ha il compito di elevare il fatto della costituzione dal livello della mera operatività inconsapevole sino a quello di una vera e propria “scienza dell’esperienza”. Dobbiamo qui sottolineare con forza la continuità di questo movimento anche a costo di mettere in crisi, di sfumare sino all’inverosimile la distinzione husserliana tra atteggiamento naturale e atteggiamento fenomenologico. Il punto fondamentale da tener presente è che la prassi fenomenologica affonda le proprie radici in disponibilità noetiche (costitutive) che sono proprie della coscienza atteggiata naturalmente (es. ritenzione, attenzione, riflessione, immaginazione, astrazione, ideazione, etc.). Ora, la riduzione fenomenologica è un’operazione metodica di rottura che prelude a un addestramento teoretico di tutto rispetto; e tuttavia, lo stesso metodo fenomenologico (epochē, riduzione, variazione, etc.) non sembra poter fare a meno di sfruttare, stando alle condizioni di possibilità del proprio esercizio, le risorse intenzionali operative già sul piano dell’atteggiamento naturale. In tal senso, il tragitto della fenomenologia consiste nel portare a consapevolezza metodica il tenore trascendentale e costitutivo di queste disponibilità intenzionali. Di conseguenza, il sistema della scienza fenomenologica non sarà niente di diverso dalle molteplici prestazioni costitutive della coscienza naturale ricondotte a un livello, per così dire, di autocoscienza trascendentale. In altre parole, la fenomenologia non si pone su un altro piano rispetto alla dinamica stratificata delle operazioni costitutive, rappresentandone anzi un grado specifico in cui tali operazioni, mediante la loro chiarificazione e sistematizzazione, pervengono a un livello di autoconsapevolezza riflessiva (infra § 4.3.1). Lo scopo della scienza fenomenologica consiste dunque nel rendere edotta la coscienza della propria funzione di razionalizzazione del mondo – o, il che è lo stesso: di inveramento della ragione – in tutti i rivoli di esperienza possibili. La fenomenologia può essere considerata scienza dell’esperienza solo a patto di non trascendere l’esperienza stessa ma di pretendersi a sua volta espe-
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rienza trascendentale e fenomenologica, meglio: fenomenologia della trascendentalità dell’esperienza. Da un punto di vista sistematico, l’idealismo correlativo del senso attende dunque alla “compossibilità [Kompossibilität]” (XVI 292 [357]) delle molteplicità costitutive in cui la razionalità del mondo si fonda nel corso d’una prassi esperienziale realmente motivata.
2 LA FORMA DEL TEMPO: IL FONDAMENTO CORRELATIVO DELLA COSTITUZIONE
Das Konstituieren ist gewissermaßen ein Sich-selbstAufbauen „Konstituieren“ ist kontinuierliche und diskrete Synthesen immer wieder herstellen1
§2.1 Temporalità e genesi intenzionale Come appurato nel capitolo precedente, tra la fine del 1906 e il settembre del 1908 Husserl giunge a una decodifica sostanziale del progetto fenomenologico. Esso assume i tratti di un idealismo correlativo del senso e accompagnerà la fenomenologia sino ai suoi ultimi giorni. L’evoluzione successiva del pensiero husserliano riguarderà dunque l’affinamento e/o l’arricchimento di tematiche e metodiche del tutto interne a questo quadro di riferimento – che pertanto non sarà più messo in discussione. Raggiunto tale livello di considerazione si è soliti ricostruire l’evoluzione successiva della parabola filosofica di Husserl nei termini seguenti. Almeno in prima battuta, il progetto fenomenologico persegue un’analitica della costituzione intenta a tematizzare le legalità eidetiche che regolano le modalità di esercizio della prestazione costitutiva per ogni tipo di esperienza possibile. La fenomenologia si rivolge, almeno in un primo momento, all’esame statico delle strutture correlative della costituzione in gioco nei diversi àmbiti regionali di esperienza. Con la sua uscita sullo Jahrbuch nel 1913, Idee I è il ricettacolo in cui lo sforzo analitico della fenomenologia statica trova massimo compimento e pubblica espressione. Solo dopo alcuni anni, si dice, Husserl perseguirà 1
Mat VIII 29, 42.
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invece il progetto di una genetica della costituzione e segnatamente a partire dal 1919 con i primi studi sulla genealogia della logica. Con questi studi, infatti, il passaggio alla fenomenologia genetica sembra acclarato a tal punto in sede di commento da lasciar spazio a ipotesi tese a rintracciare in scritti precedenti alcune sue anticipazioni significative2. Ora, un aspetto di cui ogni intento filologico-ricostruttivo deve tener conto è quello per cui, di fatto, Husserl fosse già impegnato in analisi genetiche prima di maturare la consapevolezza che una specifica dimensione genetica dovesse connotare l’impresa fenomenologica (steinbock 1996, 37). A tal proposito, non sembra esservi dubbio che Husserl abbia acquisito piena consapevolezza del metodo genetico-regressivo soltanto nella seconda metà degli anni ’103. Ciò dicendo, tuttavia, non si esclude la presenza di analisi protogenetiche antecedenti a tale autochiarimento. A mio modesto avviso, già alcuni testi successivi alla “svolta” trascendentale e dedicati alla temporalità – nella fattispecie: alla pre-costituzione del vissuto nel flusso assoluto di coscienza – sono qualificabili come indagini genetico-regressive (infra 3.2.3; es. X Nr. 54)4. 2
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Poiché la temporalità assume un’importanza decisiva per la fenomenologia genetica si è cercato di retrodatarne l’esordio agli anni dei manoscritti di Bernau (1917-18) (bernet 2010, 16). Non manca, infine, chi è risalito sino alla stesura delle prime bozze di Idee II (1912-15), individuando nella trattazione dell’ego come sostrato di abitualità una prima esemplificazione di studio genetico (sakakibara 1997; loHmar 2012b). Citando alcuni manoscritti del Nachlass, vergani (2003) rintraccia nella rilettura durante la grande guerra degli scritti kantiani e neokantiani (Natorp su tutti) l’occasione per un simile chiarimento metodico. Al riguardo si veda già kern (1964, 259s.), il quale riporta il seguente brano tratto dal Ms. B IV 12 intitolato non a caso Synthesis als Konstitution und Analysis des logischen Denkens. Kants Synthesis = genetische Konstitution: “Ciò che qui si chiama ‘costituzione’ è ciò che Kant aveva in mente sotto al titolo di sintesi: ‘connessione in quanto azione dell’intelletto [Verstandeshandlung]’. È la genesi in cui si costituisce l’io e correlativamente il mondo circostante dell’io. È una genesi passiva – non un’azione categoriale che produce formazioni categoriali” (p. 2a). Concordo dunque con bernet, kern, marbacH (1989, 257) quando mettono in luce che nella fenomenologia della coscienza interna del tempo si palesa il fondamento stesso della genesi. Ancor più radicale è invece la posizione di blumenberg (1986, 318, 42), il quale non soltanto intravede nelle Zeitvorlesungen del 1905 la “licenza alla trascendentalizzazione” della fenomenologia, ma intende la stessa costituzione temporale quale paradigma
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Del resto, come accertato (supra § 1.5), Husserl ha ben presente la storicità inerente all’articolazione teleologico-processuale degli strati costitutivi già nel biennio 1907-1908 (II 75 [119]; XXXVI 13s.). Un simile rilievo invita a concludere che analitica e genetica sorgono in misura pressoché consustanziale a seguito della trascendentalizzazione dell’analisi fenomenologica. La lettura per cui la maturazione di un interesse genetico segua l’avvenuta espletazione dell’analisi statica è frutto dell’illusione retrospettiva generata dalla censura patita dalla questione dell’assoluto temporale nel primo libro delle Idee; è frutto cioè della scelta husserliana, di carattere pedagogico, di differire la trattazione pubblica della dimensione genetica della fenomenologia (supra § 1.1) – una dimensione che però si riteneva necessaria e alla cui privata esplorazione si era già in qualche modo provveduto. Come nel caso del passaggio alla riduzione trascendentale, la messa a punto di un’analisi genetica non deve essere intesa come una svolta vera e propria o una rottura, bensì come uno sviluppo conseguente della prassi fenomenologica. A differenza poi della trascendentalizzazione dell’analisi, la quale aveva sancito l’abbandono di alcuni residui psicologistici di ascendenza brentaniana, l’approdo all’analisi genetica non soppianta minimamente la necessità della sua controparte statica5, contribuendo anzi alla messa a punto di un metodo combinato fra le due direzioni di ricerca.
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tout court della fenomenologia genetica. A differenza di quest’ultimo e sebbene condivida il giudizio sulla licenza alla trascendentalizzazione – verificatasi, come visto, conseguentemente all’analisi della costituzione temporale immanente condotta nelle Zeitvorlesungen – penso sia errato considerare la Zeitfrage precedente alla “svolta” quale paradigma dell’indagine genetica; e ciò per il semplice motivo che prima di una trascendentalizzazione effettiva dell’analisi non può darsi genesi se non di tipo empirico-psicologico (infra). Si noti per inciso come la caratterizzazione della fenomenologia precedente come “statica” sia intesa da Husserl in opposizione a quella genetica. Prima dell’effettivo chiarimento del metodo genetico-regressivo non vi è alcun accenno a un’analisi “statica” – che pertanto dev’essere intesa come un titolo con cui caratterizzare ex post quella che fino ad allora doveva considerarsi la fenomenologia tout court. Sotto il profilo nominale la “statica” segue dunque la “genetica”. larrabee (1976, 164) ha argomentato la scelta terminologica richiamandosi alla nozione greca στάσις, espressiva di un’analisi costitutiva avulsa dalla benché minima connotazione processualetemporale. Come vedremo, questa interpretazione a dire il vero piuttosto canonica si dimostra in realtà insufficiente per rendere conto della comples-
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Occorre far notare come l’integrazione dei due metodi non fosse possibile prima della “svolta” trascendentale, prima cioè che la nozione di genesi potesse essere riscattata dal proprio retaggio psicologistico. L’ambivalenza dimostrata da Husserl nel corso degli anni rispetto alla questione genetica ricalca l’altalenante considerazione manifestata nei confronti della psicologia del proprio tempo (derrida 1990). Se la Filosofia dell’aritmetica (1891) offre un primo esempio di ricognizione genetica in merito all’origine psicologica dei concetti matematici di molteplicità, grandezza, etc., nelle Ricerche Logiche, la crociata antipsicologista individua soprattutto nel versante genetico della psicologia ottocentesca il proprio bersaglio polemico, riscontrando in esso il tenore più sconvenientemente empirico-naturale della disciplina e salvaguardando al contempo il versante descrittivo come prerogativa della scienza fenomenologica. Prima della “svolta” occorsa nel triennio 1906-08, la prospettiva genetica non poteva che coincidere con l’indagine psicologico-naturale, con la ricerca di una spiegazione fisiologico-causale dei vissuti di coscienza. Da questo punto di vista, il definitivo superamento del paradigma psicologico-descrittivo, assieme alla purificazione del versante soggettivo della correlazione (il riconoscimento cioè di una dimensione soggettiva non empirica), ha permesso di trasvalutare fenomenologicamente il filone genetico della ricerca psicologica e quindi di contemplare la possibilità di un’interrogazione genetica di altro tipo. Ciò detto, si comprende come Husserl possa retrodatare – rispetto a quanto si è soliti leggere in sede di commento – agli anni della prima “svolta” la maturazione dell’idea di una genesi trascendentale. Come ebbe a scrivere a Natorp nel giugno 1918, infatti, “già da più di un decennio ho superato lo stadio del platonismo statico e procurato alla fenomenologia come suo tema principale l’idea della genesi trascendentale” (Dok III/5 137). Del resto, proprio lo studio dei testi natorpiani – oltre alla Einleitung (1888) soprattutto la nuova Allgemeine Psychologie (1912) – ha rappresentato per Husserl un’occasione di
sità inscenata dalla prospettiva genetica. Quest’ultima richiede piuttosto che i risultati emersi dall’indagine sulla temporalità vengano per così dire riassorbiti a livello sistematico, dando luogo a un metodo specifico in grado di esplorarne i risvolti operativi a ciascun livello di oggettivazione.
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chiarimento circa il proprio metodo d’indagine6. La psicologia pura natorpiana, intenta a descrivere il processo di costruzione soggettiva dell’oggettività, prevedeva il ricorso a un metodo che fosse in grado di scongiurare il rischio di una tematizzazione oggettivante della soggettività in questione. Natorp riteneva che tale metodo dovesse rintracciare appunto geneticamente le operazioni costruttive del soggetto, regredendo sino alle ultime forme di oggettivazione, al fine di ricostruire poi la genesi di questa dinamica. Egli opponeva quindi tale metodo genetico-ricostruttivo in grado di spiegare (erklären) il portato soggettivo della costruzione nella sua effettiva concretezza – senza snaturarne dunque il carattere processuale in una fissazione/ reificazione riflessiva – al metodo descrittivo impiegato nella chiarificazione (Aufklärung) dei vari atti conoscitivi e tipi di oggettività. Poiché negli ultimi anni della sua vita Natorp ha in realtà superato questa impostazione psicologico-trascendentale a vantaggio di una più strettamente logicista, potremmo dire che sia stato proprio Husserl a sviluppare in maniera personale l’intuizione del filosofo neokantiano mediante l’approfondimento genetico della fenomenologia. Con l’intenzione di delineare l’orizzonte di lavoro dei prossimi capitoli, cercherò ora di illustrare la prospettiva aperta dall’idea di una genesi trascendentale riferendomi a quei pochi passi in cui Husserl tenta una comparazione tra i due metodi d’analisi (statica e genetica). In una nota apposta al testo Statische und genetische phänomenologische Methode (1921), Husserl suddivide la propria impresa filosofica lungo tre filoni di ricerca: “1) fenomenologia universale delle strutture generali di coscienza; 2) fenomenologia costitutiva; 3) fenomenologia della genesi” (XI 340n. [104n. 4]). La perifrasi “fenomenologia costitutiva” sembra qui interpretabile come un tentativo di mediazione tra l’analisi statica delle strutture di coscienza e una loro trattazione di tipo genetico. Se infatti, poco prima della tripartizione, Husserl etichettava la riflessione in merito alla struttura noetico-noematica dell’appercezione come un’analisi sì costitutiva ma non ancora supplita da una discussione circa la sua genesi esplicativa (XI 339s. [56]), alcune pagine dopo egli arriva a teorizzare “un’altra fenomenologia ‘costitutiva’, quella della genesi” (XI 345 [62]). Sono poche le nozioni husserliane in grado di riassumere in sé 6
Cfr. Welton (2003), il quale indica anche Fichte come altro autore rilevante, e luft (2011, cap. 8).
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la complessità dell’intero percorso fenomenologico ma quella di costituzione è forse quella che più si adatta allo scopo. Nel passaggio alla fenomenologia genetica essa subisce uno slittamento semantico: non viene più intesa secondo l’accezione strutturale del termine, nel senso cioè attribuibile a una concezione meramente oppositiva della correlazione tra un soggetto e un oggetto d’esperienza, bensì secondo un’accezione processuale, in grado quindi di render conto dell’origine e dell’evoluzione di tale opposizione correlativa7. Sia l’italiano “costituzione” che il tedesco Konstitution racchiudono entrambe le accezioni generando spesso equivoci circa il loro senso d’impiego. La lingua tedesca permette comunque di distinguere le due accezioni senza perderne la radice comune ricorrendo a forme sinonimiche come la seguente: “è dunque un compito necessario stabilire le leggi generali e primitive secondo le quali procede la formazione [Bildung] delle appercezioni a partire dalle appercezioni originarie e dedurre sistematicamente le formazioni [Bildungen] possibili, dunque chiarire ogni formazione [Gebilde] data secondo la sua origine” (XI 339 [55]). La fenomenologia genetica permette dunque di indagare il processo di formazione (Bildung) di ogni formazione (appercettiva) strutturale (Gebilde) che l’analisi statica assume semplicemente come data. Tenuto conto di una simile assunzione, nelle Meditazioni cartesiane, Husserl stimerà le descrizioni offerte dalla fenomenologia statica come “analoghe a quelle storico-naturali, che esaminano i singoli tipi per poi, al massimo, sistematizzarli secondo un ordine” (I 110 [151]). Proprio in tal senso, allora, pare sia il caso di intendere l’ordinamento tassonomico delle varie ontologie regionali in Idee I (Welton 1997, 266s.). Un simile assetto ontologico, si precisa in un’appendice relativa al terzo libro, risulta di tipo “catastematico” e si oppone a quello “cinetico” della fenomenologia trascendentale. Mentre l’approccio ontologico statico indaga “le unità nella loro identità e per la loro identità, come se fossero un che di saldo e definito”, secondo un fine cioè classificatorio, l’approccio genetico-fenomenologico considera “le unità nel loro flusso, come unità di un flusso costitutivo” (V 7
Si noti dunque come l’approfondimento genetico della fenomenologia risulti funzionale – anche, ma non si tratta solo di questo – a una trattazione dinamica della coscienza, del suo divenir-cosciente – di contro a uno statico aver-coscienza – di qualcosa (bernet 2006, 269).
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129 [496]), in un’ottica quindi genealogica. Secondo quest’ultima ogni ipostasi platonizzante relativa a una presunta essenza ontologica del reale risulta a ben vedere superata da una fenomenologia “il [cui] scopo non sia quello di stabilire una dottrina essenziale delle realtà, bensì una dottrina essenziale della costituzione [processuale] della realtà” (V 130 [496]). Un’indagine genealogica di questo tipo riassorbe in sé l’analisi statica, per cui “esaminare la costituzione [strutturale] non significa esaminare la genesi, che è precisamente la genesi della costituzione” (XIV 41 [74])8. È dunque la genesi processuale e non l’analisi strutturale della correlazione a rappresentare il tema precipuo della tarda fenomenologia husserliana; non si tratterà più di una mera indagine descrittiva (beschreibende) volta alla decifrazione delle forme essenziali (Wesengestalten) dei vissuti, bensì di un’indagine esplicativa (erklärende) che ne ricostruisce il processo di formazione secondo leggi originarie della genesi (Urgesetze der Genesis) (XI 340, 344 [57, 61]). Come non si è mancato di far notare (blumenberg 1986, 46), il senso da attribuire a questo erklären risulta quello che si rinviene nella tesi tipica della modernità – di sentore vichiano – per cui sarebbe possibile comprendere soltanto ciò che produciamo. In buona sostanza, il compito di una fenomenologia della genesi sarebbe quello di spiegare – percorrendolo regressivamente, in senso inverso9 – il processo di formazione delle strutture che intessono l’articolazione intenzionale della realtà e, in quanto tali, della stessa prassi fenomenologica. Come anticipato, ciò significa non soltanto riconoscere una storicità intrinseca alla struttura noetico-noematica descritta con accuratezza in Idee I, non soltanto rilevare “la storia necessaria di questa oggettivazione, e con ciò, la storia dell’oggetto stesso come oggetto di una conoscenza possibile” (XI 345 [63]), ma anche riuscire a percorrere controcorrente questa storia per ricostruirne la genesi a partire dai gradi costitutivi più elementari10. 8 9 10
“[…] e si sviluppa come genesi di una monade”: così prosegue il passo sancendo quello stretto legame che accompagnerà lo sviluppo della fenomenologia genetica a quello della monadologia husserliana (infra § 3.3). luft (2011, 214) ha evidenziato come già per Natorp il metodo ricostruttivo dovesse dapprima invertire l’orientamento teleologico del processo di oggettivazione (infra § 4.4). Secondo la semplice formulazione di blumenberg (1986, 45): “la fenomenologia poté diventare genetica in quanto essa descriveva come si arri-
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Tutto ciò contribuisce invero a connotare l’impresa husserliana quale sorta di “archeologia fenomenologica” (Mat VIII 356, cfr. VIII 29 [36])11. Solo in questo modo il ruolo della temporalità è riconosciuto nella sua valenza sistematica. Dopo la censura patita in Idee I, assistiamo, per così dire, a una progressiva assunzione di responsabilità da parte di Husserl nei riguardi della dimensione temporale della costituzione. Egli si assume cioè l’onere di integrare a livello sistematico i risultati specifici scaturiti dalla reiterata e approfondita disamina dello Zeitbewußtsein. In questo modo, tramite la presa in carico dei risvolti sistemici dell’analisi temporale, è sancito un vincolo assai stretto tra genesi trascendentale e sistema fenomenologico. Prima di una compiuta decodifica della prospettiva genetica – faccia fede il nucleo originario delle Zeitvorlesungen del febbraio 1905 – il rapporto intercorrente tra temporalità e costituzione poteva dirsi quello di una semplice giustapposizione (sokoloWski 1970, 183): il tempo era sì funzionale alla definizione di differenti aspetti costitutivi ma questi erano assunti alla stregua di compartimenti stagni, senza cioè che l’analisi interrogasse i problemi della loro dipendenza reciproca. In poche parole, la temporalità rappresentava niente più che una parte del puzzle della costituzione e non la chiave di volta in grado di restituirne un senso complessivo, ponendo cioè le basi per un’indagine archeologica dei diversi gradi costitutivi. L’analisi statica distingue infatti una tassonomia di differenti strati essenziali ma non interroga la loro interazione e derivazione reci-
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vava ai fenomeni che doveva descrivere”. Nel tentativo cioè di soddisfare il richiamo iniziale del proprio percorso filosofico – zu den Sachen selbst! – Husserl ha finito per compiere, con la fenomenologia genetica, un détour tale da condurlo non già alle cose stesse, bensì alla genesi della possibilità di un simile rivolgersi, di un simile ritorno. Al riguardo si veda l’annotazione di Fink secondo cui “Husserl si è sempre rammaricato che un’espressione veramente calzante per l’essenza della filosofia fosse già stata assunta da una scienza positiva, l’espressione: archeologia” (SPh 199 [291]). Si veda anche la lettera scritta da Husserl a G. Walther nel maggio 1920: “ciò che è descritto in modo meramente statico è incomprensibile e non si sa mai ciò che è radicalmente significativo e cosa no, e la significatività è proprio l’intelligibilità costitutiva. Io mi riguardo rispetto alle datità fenomenologiche così come si comporta l’archeologo durante lo scavo: esse sono raccolte insieme accuratamente ma il vero lavoro non è la loro descrizione bensì la ricostruzione” (Dok III/2 260). La questione è approfondita in bégout (2000, 241-248).
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proche; essa li interroga lungo le direttrici fondante-fondato, condizione-condizionato, ma solo la prospettiva genetica può spiegare la produzione sintetica di uno strato da quello che teleologicamente lo precede, inserendolo dunque in un contesto generativo in grado di rescindere i presupposti astrattivi che l’analisi statica non poteva fare a meno di promuovere nel corso del proprio esercizio12. Oltre a essere la forma della coscienza e dell’oggettualità in senso lato (XXIV 273 [317]), con la fenomenologia genetica la temporalità assurge al ruolo di orizzonte onnicomprensivo in grado di articolare la storia dei loro diversi gradi di correlazione. La torsione genetica dell’analisi pone dunque a tema la compenetrazione tra dimensione storico-temporale e costituzione intenzionale. Come asserito da Husserl nell’autunno del 1922, “il tempo visto dall’interno è la forma della genesi intenzionale” (XIV 221). La temporalità non struttura la sola forma del vissuto bensì l’intera genesi dei processi correlativi di oggettivazione e soggettivazione, la loro articolazione complessiva. Eppure, e ciò è dirimente, non si tratta qui della temporalità genericamente intesa ma del “tempo visto dall’interno”. Come si mostrerà nelle prossime sezioni, la prospettiva della fenomenologia genetica tende a coincidere con quella enucleata almeno inizialmente dalla coscienza interna del tempo, ossia da una forma minimale di autocoscienza che si palesa già al livello preriflessivo dell’autocostituzione del flusso assoluto di coscienza13. Senza tale consapevolezza preriflessiva l’impresa husserliana risulterebbe minata alle sue stesse basi: il metodo mancherebbe cioè di quella disponibilità cognitiva in grado di rendere possibile la benché minima riflessione tematica (IV 318 [313])14. Dire che la temporalità, compresa nel suo valore sistematico, concide con la forma stessa della genesi significa allora dotare la dinamica costitutiva di un orizzonte contestuale in cui potersi di12
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Non solo: la prospettiva genetica pone anche le basi per una considerazione dei livelli costitutivi non semplicemente von unten, interrogando cioè la formazione dei gradi più elevati a partire da quelli inferiori, ma anche von oben, ossia ricercando gli effetti retroattivi esercitati dagli strati superiori su quelli inferiori (loHmar 2012b, 272ss.). Torneremo su questo aspetto in maniera decisiva (infra § 3.2.3). Sull’aspetto della preriflessività hanno insistito particolarmente Held (1966, 96s., 104ss.), zaHavi (1999; 2003b; 2010b). Cfr. ni liangkang (1998).
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spiegare concretamente. Come sottolinea loHmar (2012b, 267), uno dei tratti distintivi dell’analisi statica è il paradigma del singolo atto: essa si concentra cioè sulla struttura di uno specifico vissuto prescindendo dal rapporto intercorrente con quelli che precedono e seguono nel corso dell’esperienza. Si noti invece, a mo’ di contrasto, il passo in cui Husserl spiega proprio che “la fenomenologia della genesi mostra come da coscienza derivi coscienza” (XIV 41 [75]). In altre parole, la prospettiva genetica prelude a una concretizzazione sostanziale dell’analisi costitutiva, finalmente reinserita o per meglio dire situata in un proprio orizzonte o contesto operativo (XVII 316 [387]). Si tratta cioè di situare un vissuto nella totalità della propria corrente coscienziale, un oggetto nel proprio background percettivo, un’asserzione all’interno di un certo ordine del discorso, un soggetto nella comunità intermonadica, etc. In buona sostanza, la fenomenologia genetica rivela una attenzione rinnovata per il ruolo svolto dal fenomeno d’orizzonte inteso come sistema di rimando (Verweisungssystem)15. Sulla base di questa decisiva concretizzazione dell’analisi, la torsione genetica decreta al contempo un ampliamento tematico dell’indagine. Spiegando la prima illumineremo di fatto l’enorme portata di quest’ultimo. Secondo Welton (2003, 275s.), la concretizzazione risiede nella rescissione di tre livelli d’astrazione vigenti nel regime di indagine statica. La più evidente, alla quale abbiamo già accennato, è quella relativa all’esclusione della temporalità fenomenologica: l’indagine genetica conquista una dimensione processuale e financo storico-generativa (Krisis). Le altre due astrazioni riguardano invece gli elementi fondativi della correlazione: si ha così, da una parte, il concretizzarsi dell’Io puro (descritto in Idee I) mediante la rinnovata attenzione per il processo formativo della monade quale sostrato di abitualità esperienziali; dall’altra, grazie alla nozione di Lebenswelt, si assiste a un correlativo ripensamento del mondo – precedentemente ridotto a mera controparte del rapporto intenzionale – quale orizzonte concreto di ogni prassi intenzionale possibile (e dunque anche di quella atteggiata fenomenologicamente). Come detto, questi due estremi delineano anche l’ampliamento tematico del nuovo àm15
Per il tema dell’orizzonte cfr. Welton (2000, 329-392) e soprattutto ge(2012).
niusas
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bito d’interesse fenomenologico, il quale potrà ora estendersi dal microcosmo delle analisi concernenti la vita pre-egologica dell’intenzionalità costituente (il terreno delle pre-datità e dell’esperienza antepredicativa del soggetto), sino al macrocosmo etico e culturale dell’intersoggettività – ivi compreso il progetto della scienza moderna – in quanto storicamente determinato16. In conclusione, è importante ribadire come la messa a punto di un’indagine genetica non discrediti i risultati di quella statica ma anzi sancisca la necessaria compenetrazione metodologica dei due orientamenti all’interno di un comune paradigma di ricerca. L’approfondimento genetico della fenomenologia promuove una rivalutazione dell’analisi statica, la quale rivela soltanto adesso il proprio significato di “fenomenologia dei fili conduttori [Leitfäden]” (XIV 41 [75]). Le strutture generali di coscienza individuate dall’analisi statica, nella loro valenza puramente eidetica, costituiscono i punti di partenza per l’interrogazione regressiva (Rückfrage) intrapresa dalla fenomenologia genetica: si tratterà ora di interrogare a ritroso le strutture costituite e rintracciare il loro processo di formazione radicandone la validità negli strati più basilari della dinamica costituente. Ecco allora che l’approdo all’idea di una genesi trascendentale rivoluziona in chiave genealogica l’intera fenomenologia (bégout 2000, 64). Punto di vista statico e punto di vista genetico risultano integrati in un metodo complessivo retto da un duplice andamento: archeologico-regressivo (per cui l’unità di senso staticamente assunta rappresenta il filoconduttore per una decostruzione dei vari stadi della genesi) e teleologico-progressivo (per cui l’avvenuta decostruzione fornisce gli elementi atti alla ricostruzione della dinamica generativa di quanto inizialmente assunto). Da qui la presupposizione reciproca dei due punti di vista e la necessità di un loro coordinamento all’interno di un unico paradigma genealogico, frutto della compiuta integrazione dei due momenti (statico e genetico) che lo compongono17. 16
17
Così è possible tenere assieme in un quadro coerente le linee di pensiero del tardo Husserl, dalle microanalisi temporali dei Bernauer Manuskripte, ai testi sulla genealogia della logica, sino al progetto della Crisi. Per un sunto delle direzioni di ricerca dischiuse dalla fenomenologia genetica cfr. XI 342ss. [59ss.]. Seguendo larrabee (1976, 171) è possibile descrivere in maniera schematica l’integrazione dei due metodi a partire dalla formulazione dei loro principi operativi, che qui riportiamo. Metodo statico: (1) conduce un’analisi
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Sebbene, dunque, l’analisi statica continui a esercitare una funzione indispensabile nella prassi fenomenologica – in ragione del carattere ordinativo e orientativo dei fili conduttori – è giunto adesso il momento di volgere l’attenzione alla “connessione totale concreta” (XVII 316 [387]) esaminata dall’indagine genetica. Avendo appreso che “la forma essenziale universale della genesi intenzionale, alla quale ogni altra è riferita, è quella della costituzione della temporalità immanente, che domina in una rigida legalità ogni concreta vita di coscienza” (XVII 318 [389]), si procederà a sondarne la rilevanza in tutta la sua portata. Dapprima, in questo capitolo, la temporalità sarà considerata in sé stessa, secondo cioè il suo tenore puramente formale; quindi, essa verrà risituata in un contesto esperienziale concreto, percorso in lungo e largo da ciò che si rivelerà essere il suo complemento funzionale: il dominio della sintesi passiva (infra cap. 3). §2.2 Coscienza assoluta e autocostituzione del flusso §2.2.1 La temporalizzazione del requisito di evidenza interna Come ho cercato di mostrare (supra § 1.3), lo stadio di sviluppo della riflessione sulla temporalità nel febbraio 1905 è tale da non poter soddisfare – sebbene vi preluda – i requisiti idealisticotrascendentali della prospettiva maturata nei tre anni successivi. Prendendo cioè in considerazione soltanto il manoscritto originario intitolato Zur Phänomenologie der Zeit si riscontrano analisi in grado di erodere progressivamente gli assunti del paradigma guidata da “indizi trascendentali”, da oggetti predati, nella forma cioè di unità compiute e dotate di senso; (2) compie una serie di analisi correlative che individuano i livelli costitutivi dell’oggetto in funzione dei corrispondenti livelli d’atto coscienziali. Metodo genetico: (3) parte dove finisce il metodo statico, ossia dalla traccia rilevata dei differenti livelli correlativi dell’oggetto di coscienza; (4) compie analisi costitutive in grado di disvelare i riferimenti celati nell’oggetto costituito ma operativi nel suo processo di costituzione (pp. 164s.). All’integrazione dei due metodi si procede secondo questi semplici passi: (A) mantenendo la validità di (1); (B) abbandonando (3) in quanto ridondante alla luce dell’integrazione dei due metodi; (C) armonizzando (2) e (4) in un nuovo principio (5) che tenga egualmente conto della correlatività tra livelli del polo oggettivo e soggettivo nonché dell’operatività dei rimandi che hanno concorso alla loro costituzione reciproca.
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immanentista ma che inevitabilmente ancora si muovono al suo interno. Non è possibile, ad esempio, parlare di una costituzione trascendentale del tempo, con ciò intendendo la temporalizzazione dei diversi tipi di oggetti (dal contenuto sensoriale, alla cosa spaziale, all’idealità matematica, etc.), né sembra ancora sufficientemente chiarito l’apporto sintetizzante dell’istanza coscienziale preposta a un simile compito. Se non vado errato, infatti, le prime occorrenze della nozione di coscienza interna del tempo (innere Zeitbewußtsein) risalgono ai testi Nrr. 45 e 54 di Hua X (X 297, 369s. [298, 355s.]), risalenti, rispettivamente, ai periodi 19071909 e 1909-1911. Come argomentato, soltanto la messa in discussione della puntualità istantanea del criterio di evidenza interna, innescata dal fenomeno del digradamento temporale del contenuto sensoriale appreso, poteva legittimare un discorso in merito alla coscienza interna del tempo e quindi l’estensione progressiva del criterio di evidenza interna all’intero flusso di coscienza. Proprio negli sviluppi successivi della riflessione husserliana (1907-1911) assistiamo allora alla temporalizzazione del requisito di evidenza interna. Emancipandosi dal primato della presenza qui ed ora, il requisito incorre in una concomitante estensione ai modi del passato ritenzionale e del futuro protensionale, nonché a quelli propriamente inattuali della presentificazione (ricordo, aspettazione, fantasia, coscienza d’immagine, empatia, etc.). A fissare con notevole chiarezza questo passaggio fondamentale sono alcune lezioni relative al corso del semestre invernale 1910-1911 intitolato Grundprobleme der Phänomenologie. Nei capp. IV-VI in particolare, si argomenta in favore di una vera propria “trasgressione [Hinausgehen] fenomenologica del dominio assoluto del dato” (XIII 159 [49]) e dunque, di due conseguenti conquiste (Gewinnungen) fondamentali per il dominio dell’analisi fenomenologica: quella “dell’intera corrente di coscienza nella sua connessione unitaria” e quella “della molteplicità fenomenologica delle monadi” (XIII 171, 183 [61, 71]). Come si evince da queste pagine, è l’onnipresenza della modificazione ritenzionale a decretare l’insostenibilità del requisito di assoluta pienezza della cogitatio. Quest’ultima risulta infatti percorsa da una trascendenza interna che coincide con la propria struttura temporale ed è pertanto sufficiente a decretare una sostanziale “trascendenza
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nell’immanenza fenomenologica” (XIII 166 [55]). Questa presa di coscienza, quella per cui “abbiamo ammesso una ‘trascendenza’ all’interno dell’atteggiamento fenomenologico” (XIII 162 [51]), racchiude in sé la cifra del percorso husserliano di progressiva emancipazione dal brentanismo. Con queste semplici parole Husserl addìta l’implosione del paradigma immanentista; quest’ultimo propriamente non esplode ma collassa, internamente eroso dal lavorìo di scavo dell’impercettibile fluire ritenzionale. La coscienza interna, dunque, non rappresenta più un requisito assunto ingenuamente dall’indagine psicologica, un presupposto inindagato perché inconcusso, autoevidente. In quanto essenzialmente incline ad “autotrascendersi” (X 347 [338]) la coscienza deve poter essere interrogata in merito alla sua specifica (auto)costituzione. La coscienza interna diviene coscienza interna del tempo allorché Husserl rileva la necessità di renderla parte integrante, se non il fulcro stesso, della dinamica costituente. L’esigenza di un’analisi in merito all’autocostituzione del flusso di coscienza attinge da questa acquisizione teorica decisiva la propria ragion d’essere. A ben vedere, infatti, la tendenza all’autotrascendimento non riguarda soltanto il vissuto naturale ma anzi riverbera, per così dire, sul piano metodico: la trascendenza pervade anche l’atteggiamento di chi fenomenologizza. Dire allora con forza che “il vedere della riflessione fenomenologica […] non è un’autopercezione psicologica” (X 346 [337]) significa farsi carico a pieno titolo di questa (auto)trascendenza, dovendo ricomprenderla all’interno dell’indagine costitutiva. Ma ciò significa, per quanto eclatante possa sembrare, che la fenomenologia è chiamata a rintracciare la costituzione del proprio requisito di evidenza interna. Sotto questo punto di vista, l’analisi della struttura temporale del vissuto mette in rilievo quella che Husserl rinomina “evidenza ritenzionale” (XIII 162 [51]). A partire da questa evidenza, quindi, la fenomenologia deve poter ricostruire la genesi della propria possibilità di esercizio, chiarendo oltre agli snodi della genesi intenzionale anche il requisito di evidenza che di necessità inerisce a una simile opera di chiarificazione. L’esame genetico è dunque tenuto a rintracciare il fondamento di legittimità in grado di giustificare l’esecuzione della stessa analisi fenomenologica. In tal senso, l’apporto costitutivo della coscienza interna del tempo dovrà esibire le condizioni della propria conoscibilità e ciò, come anti-
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cipato, al modo di una forma seppur minimale di autocoscienza, un’autoconsapevolezza implicita nella stessa dinamica costituente. Per mostrare come Husserl abbia potuto maturare una simile prospettiva occorre ripercorrere gli sviluppi della sua riflessione in merito alla temporalità successivi al 1905. Il primo passo in questa direzione è compiuto nella terza e ultima parte del WS 1906-07. Qui compare per la prima volta la nozione di “coscienza assoluta”18, in una sezione (XXIV § 42) preposta non a caso a quella dedicata allo studio della temporalità in quanto forma basilare di oggettivazione. Husserl vi discrimina tre diverse accezioni del termine coscienza manifestando una certa distanza rispetto alla tripartizione offerta all’inizio della Va Ricerca (XIX/1 356 [469] su cui cfr. zaHavi 2002). Si distingue infatti, (1) la coscienza come vissuto, (2) la coscienza come coscienza intenzionale e, infine, (3) la coscienza come presa di posizione (resa possibile da un supplemento d’atto attenzionale da parte del soggetto esperiente). Le tre accezioni fanno capo ad altrettanti livelli costitutivi secondo una complicazione ascendente: la presa di posizione riflessiva, ossia la credenza tetica nell’esistenza o inesistenza dell’oggetto, presuppone il riferimento intenzionale all’oggetto presentato; a sua volta, questa fenomenizzazione presuppone la dimensione pre-riflessiva del vissuto – in un certo senso protointenzionale – ossia l’esistenza del mero essere pre-fenomenale (XXIV 244 [286]). Questa dimensione pre-fenomenale della dinamica costituente prende il nome di “coscienza originaria” o “assoluta” e rappresenta quello stadio in cui, nonostante “il datum non [sia] ancora divenuto oggettuale, tuttavia è presente” prima di essere “fenomenizzato […] trasformato in datità”. Si appura inoltre che “all’essenza dell’essere pre-fenomenale come dell’esserdato appartiene irrevocabilmente [unaufhebbar] una temporalità dell’estensione”, tenuta a mediare tra i due livelli, e che la coscienza assoluta altro non è che una corrente temporale in cui le componenti pre-fenomenali giungono a manifestarsi come forme oggettive di datità (XXIV 245s. [287s.*]). Per capire che genere di costituzione abbia luogo all’interno della corrente temporale originaria occorre considerare due sviluppi del pensiero husserliano occorsi tra il 1907 e il 1911: la re18
Al riguardo si veda il classico studio di brougH (1972).
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visione del modello costitutivo incentrato sullo schema apprensione-contenuto d’apprensione e la teoria della doppia intenzionalità. Vediamo di affrontarli uno dopo l’altro. §2.2.2 Superamento dell’impostazione schematica? Prima di occuparci della struttura sintetica del flusso assoluto di coscienza conviene spendere alcune parole sulla cosiddetta interpretazione schematica del processo costitutivo, incentrata cioè sullo schema apprensione-contenuto d’apprensione (Auffassung– Auffassungsinhalt). Ciò è tanto più necessario se pensiamo che proprio nei testi integrativi raccolti nel quarto e quinto gruppo della sezione B di Hua X, una simile interpretazione mutuata dalla distinzione già presente nelle Ricerche tra forma intenzionale e materia sensoriale dell’atto è messa in discussione e secondo alcuni interpreti superata definitivamente con l’approdo al flusso assoluto di coscienza19. D’altro canto il ricorrere dell’interpretazione schematica in testi più tardi, ha spinto altri commentatori a una lettura più mite, secondo cui Husserl non avrebbe del tutto abbandonato lo schema, limitandosi a una revisione autocritica del modello costitutivo (loHmar 2009; menscH 2010b). Nella sua forma più generale, lo schema si basa sulla distinzione di ascendenza immanentista tra un contenuto sensibile, il quale verrebbe appreso dall’atto costitutivo e in tal modo “interpretato” (“animato”) e, appunto, questa sua apprensione. Il contenuto sarebbe di per sé qualcosa di neutro e acquisirebbe il proprio riferimento intenzionale solo grazie all’apprensione interpretativa. Una simile impostazione, applicata alla coscienza temporale, era stata formulata da Husserl in aperto contrasto rispetto al tentativo brentaniano di spiegare la modificazione di passato sulla base di un mutamento del contenuto (X Nr. 14). Da qui la sua utilità: rispetto alla teoria del maestro, l’interpretazione schematica husserliana, la sua “Repräsentationstheorie” (X 319 [315]), mirava infatti a spostare 19
Che l’emergere della problematica della coscienza assoluta abbia deteriorato e quindi indotto Husserl all’abbandono dello schema è sostenuto da brougH (1972); il superamento dello schema è poi argomentato lungo tutta l’opera di sokoloWski (1970), il quale ha però evidenziato la necessità dell’approdo alla fenomenologia genetica degli anni ’20 perché tale superamento possa pretendersi definitivo.
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l’onere della determinazione temporale del contenuto sul carattere d’atto (Aktcharakter) tramite cui risulta appreso (interpretato). Secondo la scansione delle varie fasi di pensiero compresenti in Hua X offerta da bernet (1985) e brougH (1991), l’interpretazione schematica pervade tutti i testi sino al 1908, salvo poi essere messa in discussione in quelli successivi. In particolare, lo schema sconterebbe dapprima una limitazione del suo àmbito di applicazione – verrebbe meno cioè il suo impiego rispetto all’orizzonte della Vergegenwärtigung (X Nr. 46; XXIII Nr. 8) – quindi, in un secondo momento, risulterebbe contestato perché insostenibile o superfluo anche in relazione alla sfera strettamente percettiva della Gegenwärtigung (X 319s. [315s.]). L’uso del condizionale restituisce l’atteggiamento con cui Husserl affronta il problema in quei pochi passi in cui esso è tematizzato. Nei testi del periodo 1907-1911, in effetti, non ci è mai offerto un esplicito rifiuto teorico dell’interpretazione schematica, ma solo restrizioni del suo àmbito di utilizzo e interrogazioni meramente dubitative circa la sua efficacia esplicativa. In sede di commento, l’abbandono dell’impostazione schematica da parte di Husserl è stato pertanto argomentato col senno di poi, facendo cioè riferimento ad approdi teorici successivi in cui lo schema non sembra più operativo: la coscienza assoluta nel caso di Brough, la fenomenologia genetica degli anni ’20 secondo Sokolowski. Ciò detto, la ripresa in scritti più tardi dell’interpretazione schematica non rappresenta un motivo valido per gettare alle ortiche il modo in cui si è tentato di argomentare a favore del suo superamento. Anzi, pur non potendo fare a meno di ritenere quella della revisione e della limitazione nell’applicabilità dello schema (Lohmar, Mensch) la posizione più autentica da attribuire a Husserl, giudichiamo nondimeno rivelative le strade percorse da Brough e Sokolowski, perché in grado di illuminare il giusto significato da attribuire a una simile revisione. La prima cosa che si può rilevare ai fini di una corretta valutazione dell’abbandono o meno dell’impostazione schematica è come quest’ultima sia profondamente radicata nella prima trattazione husserliana dello Zeitbewußtsein, quella cioè più legata alle analisi condotte nelle Ricerche e incentrata sulla disamina della temporalità degli atti percettivi. In un simile contesto d’analisi, il rapporto tra sensazione (contenuto) e apprensione è spesso inteso
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come qualcosa che si esaurisce istantaneamente nell’intenzione della fase-ora oggettuale. Come abbiamo visto nelle sezioni precedenti è solo in seguito al riconoscimento dell’articolazione temporale inscenata dalla modificazione ritenzionale (ricordo primario) che l’atto percettivo assume la possibilità di dilatarsi nel coglimento di oggetti temporalmente estesi. Ma se l’Auffassung è ciò che secondo l’interpretazione schematica promuove il riferimento intenzionale del contenuto, allora, di conseguenza, anch’essa subirà un simile processo di modificazione per via del suo essere intercalata in un orizzonte temporale fluente. Ora, l’applicazione temporale dello schema nelle Zeitvorlesungen è limitata alla trattazione della modificazione ritenzionale di un’“apprensione originaria” (X 291 [293]). Il problema però è che “la coscienza ritenzionale contiene realmente [reell] coscienza di passato del suono, ricordo primario del suono, e non è da scomporre in suono sentito e apprensione come ricordo [primario]” (X 32 [67*]; cfr. X 312 [310]). E ciò – spiega Husserl nel SS 1909 – perché “la sensazione […] è già coscienza” (XXIII 265 [155]). Se infatti l’apprensione è ciò che permette al contenuto sentito di essere interpretato come una qualità percepita obiettivamente (X 6s. [46], l’esempio del “rosso”), la modificazione ritenzionale dell’atto non sarà di per sé un’apprensione – essa non distingue tra appreso e sentito – bensì un’istanza costitutiva del vissuto e come tale situata a un livello più elementare. Come nota menscH (2010b), i “fenomeni costitutivi” (X 74 [101]) originari dello Zeitbewußtsein – quelli che in questi anni vanno definendosi secondo la nomenclatura canonica di ritenzione, impressione, protensione20 – non possono essere intesi come atti a sé stanti, in grado cioè di interpretare i contenuti sensoriali corrispondenti. Come spiega Husserl, “la ritenzione non è di per sé un ‘atto’ (cioè, un’unità durativa immanente costituita in una serie di fasi ritenzionali)” (X 118 [143]). Se così fosse, se i fenomeni costitutivi originari fossero atti compiuti in loro stessi, ci troveremmo innanzi a un regresso infinito dettato dalla riproposizione dello schema per ogni fase durativa dell’atto e ciò nell’ordine di 20
Molti interpreti e traduttori optano per la dizione “protenzione” ricalcando l’analogon “ritenzione”. Risalendo tuttavia alla derivazione latina dei due termini è possibile apprezzarne l’etimo differente: protensio e retentio.
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grandezza di un’infinità virtualmente infinita di volte (secondo cioè le potenzialità della ritenzione di riassumere in sé i precedenti continua ritenzionali: infra § 2.2.3). In sostanza, ciascuna ritenzione o protensione dovrebbe farsi carico di una specifica funzione apprensionale con cui interpretare il contenuto di volta in volta dato. Ma ciò non sembra possibile, anche perché il contenuto è inteso una volta per tutte nella sua irripetibile fase-ora e l’elaborazione coscienziale che ne deriva, la distensione temporale della coscienza, avviene in maniera completamente svincolata dal contenuto dato e non più presente. I fenomeni costitutivi originari devono quindi essere intesi come pre-temporali (menscH 2010b, 159s., 163s.) giacché proprio in virtù della loro articolazione complessiva il carattere d’atto dell’apprensione acquista un qualche spessore, una qualche profondità temporale. Questa conclusione evidenzia come l’analisi dei fenomeni costitutivi indaghi la costituzione dell’“unità apprensionale” (X 283 [286]) degli atti (percettivi e non), mostrando cioè come l’apprensione debba emergere in quanto carattere d’atto sulla base di istanze costitutive più elementari. A ben vedere, però, qualcosa di analogo a quanto rilevato per il polo apprensionale sembra valere anche per il polo contenutistico dello schema, almeno se prendiamo per buone le seguenti parole di Husserl: “Sentito” [Empfunden] sarebbe dunque l’indicazione di un concetto di relazione che, di per sé, non direbbe nulla circa il carattere sensibile di ciò che è sentito, né sul suo carattere immanente nel senso della sensibilità; in altri termini: resterebbe indeciso se il sentito stesso sia già costituito e, magari, in tutt’altro modo dal sensibile. – Ma è meglio lasciare senz’altro da parte questa distinzione; non ogni costituzione ha lo schema “contenuto apprensionale-apprensione”. (X 7n. [46n.])
Secondo la lettura che menscH (2012b, 160s.) offre del passo, il fatto che il “sentito” venga qui dipinto come un concetto relazionale equivale a collocarlo in un sistema di rimandi che coinvolge una molteplicità di livelli costitutivi. Ciò significa che il contenuto interpretato (appreso) a un determinato livello costitutivo risulta il prodotto pre-costituito da un livello inferiore del processo. La proliferazione di strati costitutivi fondati l’uno sull’altro rimanda dunque alla triplice struttura dello Zeitbewußtsein come al loro
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stadio più originario. A quest’ultimo livello viene meno ogni differenza tra coscienza apprensionale e contenuto di coscienza, poiché ciò che contestualmente vi opera è un processo costitutivo elementare la cui posta in gioco è nulla più che l’apparire fenomenico. Lo strato costitutivo originario, come vedremo, sarà quello dell’apparire in quanto tale; un livello dunque prioritario rispetto alla distinzione tra polo contenutistico-oggettuale e polo soggettivo-apprensionale tipica dei livelli costitutivi superiori. Volendo riassumere quanto detto, la questione dello schema Auffassung/Auffassungsinhalt non risiede tanto in un rifiuto argomentato da parte di Husserl, ma nel tentativo di un suo ripensamento – di un riorientamento funzionale subìto dallo stesso – alla luce di un’approfondita concezione del processo costitutivo originario. Questo riorientamento è dettato dall’individuazione di un grado costitutivo assoluto – cioè, in prima analisi, non ulteriormente costituito – da cui dipende la possibilità (situata su un livello ulteriore) del riferimento intenzionale e dunque dell’apprensione (interpretazione) del contenuto. In tal senso, ha (parzialmente) ragione brougH (1972) nel sottolineare come l’approdo a un livello costitutivo ultimo vanifichi l’impostazione schematica. Soltanto, come anticipato, ciò non equivale a superare definitivamente lo schema, bensì a ripensarne il livello d’applicazione pertinente. L’apprensione è anch’essa pre-costituita come unità apprensionale a partire da un processo costitutivo originario anteriore alla distinzione tra polo oggettuale (contenuto) e polo soggettivo (apprensione) dell’atto. Infine, in maniera analoga, ha (parzialmente) ragione anche sokoloWski (1970) nel porre l’accento sull’approdo husserliano alla fenomenologia genetica degli anni ’20. Come si potrà verificare (infra § 3.1.2), la nozione di sintesi passiva avrà il merito di radicalizzare la concezione husserliana del polo contenutistico dello schema: anch’esso non potrà più essere inteso come dato amorfo ma come eminentemente pre-costituito. La dimensione associativa originaria (Urassoziation) rappresenterà un livello costitutivo a cui qualsiasi interpretazione schematica risulta di fatto inapplicabile, al pari di quanto la scoperta di un livello assoluto di coscienza ha rappresentato per il polo apprensionale. Tanto l’originarietà della Urassoziation quanto quella del flusso assoluto (Urprozess) testimoniano una primigenia indistinzione costitutiva, per cui l’apparire è tale da non presupporre già qualco-
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sa che appare a qualcuno. Proprio questa indistinzione è in grado di invalidare qualsivoglia interpretazione schematica. Ciò nondimeno, la non applicabilità contestuale dello schema non ne pregiudica la validità e la possibilità di essere variamente impiegato per livelli costitutivi superiori21. §2.2.3 Livelli costitutivi e duplicità intenzionale Die Wesensgesetzmäßigkeit (die eidetische Struktur) des zeitkonstituierenden Bewußtseins ist die an sich erste und tiefste Gesetzmäßigkeit einer Bewußtseinsgenesis und zugleich einer Genesis als ursprünglicher Konstitution von Gegenständlichkeiten.22
Come non si è mancato di rilevare (brougH 2010, 22), uno dei più importanti elementi di continuità tra la miriade di analisi dedicate allo Zeitbewußtsein è rappresentato dalla distinzione di tre livelli di costituzione temporale. Nel continuo rimando tra questi gradi è infatti possibile ordinare ogni problema relativo alla temporalità fenomenologica e inquadrarlo alla luce della sua giusta collocazione nella complessità ascendente della dinamica costitutiva. Vediamo come li presenta il § 34 delle Zeitvorlesungen: Sarà bene fissare ora nella loro struttura essenziale i diversi gradi della costituzione ed esaminarli sistematicamente. Abbiamo trovato: 1. le cose dell’esperienza nel tempo obiettivo (e qui bisognerebbe distinguere ancora diversi gradi dell’essere empirico che, finora, non sono stati presi in considerazione: la cosa d’esperienza del soggetto singolo, la cosa intersoggettivamente identica, la cosa della fisica); 2. le molteplicità d’apparizione costituenti di diverso grado, le unità immanenti nel tempo preempirico; 3. l’assoluto flusso di coscienza costitutivo di tempo. (X 73 [100s.*])23 21
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Per esempio, a un livello esperienziale in cui la cosa spazio-temporale sia già pienamente costituita, diventa possibile interpretarla variamente secondo molteplici soluzioni apprensionali. Si veda la peculiare modalità d’atto incarnata dalla coscienza del dubbio (EU 99ss. [209ss.]) dove la visione di una figura umana in vetrina dà adito a una compresenza di differenti interpretazioni possibili (impiegato o manichino?). XXXIII 281. Si confronti questo passo con l’inizio del testo integrativo Nr. 40 (1907-08) sulla base del quale E. Stein ha redatto il § 34. Qui Husserl distingue i tre
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Una prima cosa da notare è che tematica costitutiva e tematica temporale sembrano qui fondersi inestricabilmente l’una con l’altra. Questi livelli non riguardano semplicemente la questione del tempo, bensì l’articolazione della vita costituente nella misura in cui la temporalità che le è propria si riproduce, sia pure in forme mutevoli, a ciascun livello costitutivo. In secondo luogo, è opportuno sottolineare come dei tre livelli qui elencati – in realtà, come indicato dalla parentesi, sarebbe auspicabile graduare maggiormente il livello dell’empiria – solo il primo si riferisce alla realtà trascendente, mentre il secondo e il terzo risultano articolazioni del vivere coscienziale. Lasciamo per il momento da parte il problema della trascendenza e concentriamoci sulla struttura del flusso assoluto di coscienza. Innanzitutto, ribadiamo come l’unità strutturale del presente vivente sia ciò che secondo Husserl interviene a costituire gli atti dotati di una propria dimensione temporale, tali cioè da abbracciare e cogliere oggetti temporalmente distribuiti. Come visto nella sezione precedente, però, il fatto che l’atto sia a sua volta qualcosa di costituito nel fluire spinge Husserl a una revisione del proprio modello costitutivo: “se nella coscienza assoluta c’è molteplicità d’adombramento, non è per questo necessario che vi sia una corrispondente apprensione immanente la quale vi porrebbe l’oggetto immanente” (X 285n. [287s. n. 142]). La scoperta della coscienza assoluta è infatti promossa da una problematizzazione della dimensione immanente, ovvero dalla distinzione di due accezioni secondo cui sarebbe possibile declinarla. La prima accezione è quella che oppone alla trascendenza di un oggetto l’immanenza della sua percezione come atto intenzionale o, qui è lo stesso, come vissuto esperienziale (Erlebnis); la seconda accezione riguarda invece quella attribuibile a un livello più originario, costituente l’atto stesso in quanto unità di coscienza individuabile nel fluire incessante (X 283s. [286s.]). Quest’ultima livelli in ordine inverso: “1) Il flusso della ‘coscienza’. 2) Il ‘tempo’ preempirico con passato, ‘ora’, ‘dopo’; e l’‘ente’ preempirico, quello che dura e si modifica (suono come ‘contenuto di coscienza’). 3) I gradi dell’essere empirico, dell’essere d’esperienza, il dato e il pensato d’esperienza, l’essere che chiamiamo realtà effettuale. Il reale che si costituisce nel pre-reale [Vorrealen]” (X 286s. [289]). Sulla demarcazione dei livelli costitutivi si basa anche la necessità di “operare la distinzione: coscienza (flusso), apparizione (oggetto immanente), oggetto trascendente” (X 76 [103]).
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accezione corrisponde all’“assoluto flusso di coscienza costitutivo di tempo” individuato dal § 34, mentre la prima fa riferimento alle “unità immanenti nel tempo preempirico”. Si è osservato (de Warren 2009a, 128) che la distinzione tra una coscienza costituente assoluta e una invece costituita replica la distinzione tra atto costituente e oggetto (trascendente) costituito. Ciò sembra in prima battuta corretto a patto di far collassare ogni distinzione, anche soltanto di tipo nominale, tra coscienza costituita e atto costituente: la coscienza è infatti costituita in quanto molteplicità d’atti, laddove per atto s’intenda semplicemente il portato costitutivo del fluire coscienziale (“ciò che chiamiamo atto è un flusso nel quale si costituisce un’unità temporale immanente”, X 372 [357]). In pratica, il secondo livello individuato nel § 34 sarebbe sia costituito dal flusso assoluto, sia costituente l’oggetto nella propria trascendenza. Ciò trova conferma nella descrizione che Husserl offre del livello intermedio, da intendere sia come “molteplicità d’apparizioni costituenti”, cioè di vissuti, sia come collezione di “unità immanenti” costituite dal flusso originario. Si noti infatti che la coscienza assoluta sta prima di ogni posizione d’unità, cioè di ogni oggettivazione. Unità è unità dell’oggettivazione e oggettivazione è proprio ciò che oggettiva ma non è oggettivata. Ogni oggettivazione non oggettivata appartiene alla sfera della coscienza assoluta. (X 286 [289*]).
Stando a questa terminologia, l’atto inteso come unità apprensionale sarebbe un’oggettivazione (dell’oggetto trascendente) oggettivata (dalla coscienza assoluta). Quella del flusso assoluto, d’altro canto, risulterebbe una dimensione oggettivante ma non oggettivata – né, come si vedrà (infra § 4.4), pienamente oggettivabile. Ora, il problema è però quello di evitare che il retrocedere a un secondo livello d’immanenza deputato alla costituzione del primo provochi una sorta di regresso infinito della genesi costitutiva, per cui anche questo secondo livello debba risultare a sua volta costituito sulla base di un livello ulteriore e così via (X 114 [139]). Si ripropone cioè lo spettro che aveva raggelato la riflessione brentaniana in merito alla coscienza interna. La possibilità di principio di un regresso sembra attentare al fulcro stesso della dinamica costituente. Del resto, proprio nel tentativo di arginare
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una simile deriva, Husserl ha non per niente nominato un simile livello di coscienza come “assoluto” – cioè, secondo l’etimo della parola (ab-solutus), prosciolto, libero, nella fattispecie, da ogni ulteriore vincolo costitutivo. Occorre dunque chiedersi come evitare il regresso. La soluzione adottata da Husserl in questi anni (1909-11) consiste nel pensare il flusso assoluto come una dimensione “auto-costituente-si”, così da scongiurare il regresso arrestandolo sulla base di una forma peculiare di autoriferimento. In effetti, “per quanto scandaloso (se non, a tutta prima, addirittura assurdo) possa sembrare che il flusso di coscienza costituisca la sua propria unità, è proprio così, e ciò è da spiegare grazie alla sua stessa costituzione essenziale” (X 378 [362s.*]). A rigor di logica, lo scandalo dovrebbe risiedere nel fatto per cui si è soliti ritenere ben distinte le dimensioni di ciò che è inteso (ossia costituito) e di ciò che intende (costituente). Ora, la distinzione tra l’intendere e l’inteso può pretendersi valida in un regime già pienamente articolato secondo la struttura intenzionale ego-cogito-cogitatum, ma non sembra potersi applicare, a ben vedere, alla dimensione originaria del flusso assoluto costituente. Da qui lo scandalo suscitato dall’individuazione di una sfera coscienziale assoluta perché autocostituentesi. Vediamo dunque di penetrare e illustrare in maniera adeguata la sua “costituzione essenziale”. In quanto dimensione costitutiva ultima, il fluire assoluto presenta non soltanto un’intelaiatura genuinamente correlativa; di questa intelaiatura il flusso incarna anzi il fondamento sintetico capace di riprodurne la struttura per tutti gli strati costitutivi superiori. A questo livello originario, infatti, la correlazione assume dei connotati differenti rispetto a quella che tipicamente descrive il rapporto intenzionale tra noesi e noema; a questo stadio assistiamo alla decodifica da parte di Husserl di una sorta di proto-correlazione del tutto interna al fluire che vede relazionarsi non soltanto il vissuto a una molteplicità di contenuti sensoriali ma innanzitutto il flusso a sé stesso in una forma peculiare di auto-correlazione. Se infatti ci immergiamo riflessivamente all’interno del flusso lo scopriamo capace di un duplice orientamento intenzionale. Lo sguardo può dirigersi una volta attraverso [durch] le fasi che “coincidono” nel costante sviluppo del flusso in quanto intenziona-
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lità del suono. Lo sguardo può però anche andare lungo [entlang] il flusso, su un tratto del flusso, sul trapasso della coscienza fluente dall’inizio alla fine del suono. (X 378s. [363*])
Sussiste cioè una “doppia intenzionalità” per cui “o noi consideriamo il contenuto del flusso”, i contenuti intesi dai singoli vissuti, “oppure volgiamo lo sguardo sulle unità intenzionali” (X 116 [141]), verso gli atti costituiti nel fluire. Distinguere fra due direzioni intenzionali del flusso significa aver individuato al suo interno due orientamenti costitutivi specifici: uno rivolto tematicamente al contenuto sensoriale e al modo in cui esso digrada, uno operativamente incline al susseguirsi dei vissuti e cioè al defluire del flusso stesso. Occorre chiedersi, a questo punto, come ciò sia possibile. Si è visto in precedenza (supra § 1.2) come, riflettendo sull’opera di Stern e James, Husserl fosse giunto a pensare, in misura profondamente antibrentaniana, il flusso di coscienza al modo di un continuum di continua: all’estensione temporale del vissuto (Präsenzzeit) inerivano le molteplici estensioni dei rispettivi decorsi contenutistici (i vari specious presents). Tutto questo può essere compreso meglio mediante ciò che lo sviluppo della teoria del ricordo primario addìta come fenomeno dell’inscatolamento (Schachtelung) o annidamento (Verschachtelung). Nel testo Nr. 50 (1909-11) Husserl torna a interrogarsi sulla “legge della modificazione” del ricordo primario (X 326 [321]). Rilevando ancora una volta come ciascun ora dia luogo a un proprio continuum ritenzionale di adombramenti e avendo dunque il flusso a che fare con una molteplicità di continua, egli specifica: Ciò non conduce a un regresso infinito per il fatto che ogni ricordo [primario]24 è in sé stesso una modificazione continua che, per così dire, reca in sé nella forma di una serie di adombramenti il retaggio [Erbe] dell’intero sviluppo antecedente. Così, non è che ogni ricordo precedente sia semplicemente sostituito da uno nuovo nella direzione longitudinale [Längsrichtung] del flusso, sia pure in maniera costan24
Per la corretta interpretazione del passo citato precisiamo come ogni occorrenza della parola “ricordo (Erinnerung)” sia da intendersi come ricordo primario, ossia nel senso della ritenzione e non in quello della rimemorazione (Wiedererinnerung).
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te; bensì, ogni ricordo successivo non è solo una modificazione continuativa risultante dalla sensazione originaria, ma una modificazione continuativa di tutte le costanti modificazioni del medesimo punto di attacco, ovvero, questo punto di ricordo è esso stesso un continuum. […] Il ricordo che adesso ho del punto d’attacco del suono è una unità di ricordo, alla quale appartengono anche i ricordi dei ricordi che or ora avevo della stessa fase di suono. […] Si tratta di infinità inscatolate l’una nell’altra e ciò infinite volte. (X 327s. [321s.*])
In tal modo, Husserl non fa altro che estendere la legge della modificazione ritenzionale anche al secondo sezionamento del flusso individuato da Stern. D’ora in poi, essa troverà applicazione non soltanto trasversalmente, rivolgendosi al contenuto sensoriale attraverso (durch) le rispettive fasi di decorso, ma anche longitudinalmente, dirigendosi lungo (entlang) l’intero svolgimento del flusso e ripercorrendone le fasi che incessantemente si susseguono. Husserl completa dunque l’analisi del ricordo primario accreditandogli non soltanto la capacità di ritenere il contenuto che digrada nel susseguirsi delle fasi di decorso, ma anche la possibilità di riepilogare in sé stesso, secondo una sorta di inscatolamento progressivo, i precedenti continua ritenzionali in quanto fasi coscienziali pregresse. Questa duplice funzionalità operativa è ciò che il § 39 dell’edizione del 1928 delle Zeitvorlesungen definirà “doppia intenzionalità della ritenzione”25. Già nel testo Nr. 54, Husserl distingue infatti tra una Quer-intentionalität (intenzionalità trasversale) e una Längs-intentionalität (intenzionalità longitudinale). Come anticipato, mentre la prima consente la ritenzione dell’oggetto temporale come unità sintetica identificabile attraverso le fasi di decorso (es. le singole note di una melodia vengono ri-tenute assieme come appartenenti a un intero), la seconda, rivolgendosi alle 25
Sarebbe più opportuno, a questo livello, parlare di “proto-” o “quasi-intenzionalità”, preservando il senso pieno del termine per un livello costitutivo superiore, in cui cioè la distinzione tra polo soggettivo e oggettivo risulti già compiutamente articolata. Sempre assecondando quest’ottica, riteniamo sia il caso di parlare di intenzionalità parziali o, meglio ancora, di declinazioni intenzionali in relazione alle istanze temporali del flusso (ritenzioneimpressione-protensione). Solo a partire dall’azione parziale e sinergica di queste tre declinazioni è infatti possibile render conto dell’intenzionalità comunemente intesa.
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fasi stesse del fluire e sintetizzando la coincidenza del flusso con sé stesso, ossia la coappartenenza delle singole fasi al medesimo flusso, va configurandosi come una ritenzione di secondo grado (o ritenzione della ritenzione)26. Più nello specifico: sezionando trasversalmente il flusso, la Querintentionalität è in grado di tematizzare in ciascuna delle fasi il contenuto di volta in volta in gioco e di integrarne i vari adombramenti in quella che potremmo chiamare una sintesi tematico-oggettuale della durata intrafasica. Se mi dirigo sul suono e quindi mi immergo attenzionalmente27 nella intenzionalità trasversale (la quale fa continua esperienza dell’unità della sensazione originaria come sensazione del rispettivo suono-ora, negli adombramenti riproduttivi in quanto ricordi primari della serie dei punti-suono defluiti, e poi nel flusso delle modificazioni riproduttive delle sensazioni originarie e delle riproduzioni già disponibili), ecco qua il suono che dura e che nella sua durata continuamente si estende. (X 380 [364*])
L’intenzionalità trasversale sintetizza dunque l’unità del contenuto a fronte della sua scomposizione in una molteplicità di prospettive temporali, a fronte cioè del suo progressivo digradamento. Per fare questo deve tenere in pugno il contenuto sensoriale tematicamente, attraversandone tutte le fasi di decorso. Cogliere l’apporto costitutivo della Längsintentionalität comporta invece uno spostamento “riflessivo” dello sguardo28; occorre cioè volgersi dal contenuto di volta in volta in gioco al 26 27
28
Sarebbe questa seconda intenzionalità longitudinale a concretare l’autoriferimento del flusso in grado di prevenire il regresso della genesi costitutiva a cui prima si faceva cenno. Husserl parla di “percezione attenzionale” anche in X 116 [141]. Tuttavia, tirare in ballo l’apporto costitutivo dell’attenzione per la descrizione di un livello così originario sembra alquanto fuori luogo. All’esplicazione attenzionale di un oggetto inerisce già un grado più elevato di attività costituente. Per questo motivo, in tale contesto, è piuttosto il caso di leggere nel richiamo all’attenzione il modo in cui chi fenomenologizza riesce a cogliere il fenomeno costitutivo e non come quest’ultimo di fatto opererebbe. È Husserl stesso che immergendosi nel flusso segue con attenzione, cercando di ripercorrerlo, il versante trasversale dell’intenzionalità costituente. Cfr. X 380, 82 [364, 108]. Si noti come anche in questo caso entrambi i riferimenti alla riflessività siano da imputare al punto di vista dell’io fenomenologizzante che conduce l’analisi. Come già rilevato, la prestazione sintetica del flusso è qui da intendersi come posta a un livello originaria-
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defluire delle fasi di coscienza. Come detto, tale defluire è riepilogato dall’inscatolamento ritenzionale e tuttavia mai compiuto stante il continuo aggiungersi di nuove fasi fluenti. In tal modo si evince come all’interno del flusso possa compiersi, per così dire, una sintesi della coincidenza interfasica (di sé con sé) del flusso coscienziale. C’è dunque un’intenzionalità longitudinale che attraversa il flusso, che nel corso del flusso è in una costante unità di coincidenza [Deckungseinheit] con sé stessa. Nell’assoluto trapassare, fluente, la prima sensazione originaria si trasforma in ritenzione di essa, questa ritenzione in ritenzione di questa ritenzione, etc. (X 81 [107]).
Si scopre che l’intenzionalità longitudinale è ciò che concorre all’autocostituzione del flusso nel suo complesso: ritenendo le fasi defluite di quest’ultimo essa le integra nell’unità di un decorso unitario, di un unico flusso di coscienza. Da questo punto di vista, sintetizzando la medesimezza del flusso, l’intenzionalità longitudinale coincide con la coscienza interna del tempo, con l’autocoscienza del flusso che sintetizza la propria unità fluente. Alcune precisazioni. In primo luogo, non sembra lecito poter separare le due intenzionalità ritenzionali se non in astratto. Descrivendo infatti il flusso assoluto nel suo complesso, Husserl sostiene che “vi sarebbero quindi due intenzionalità unite inscindibilmente e necessarie l’una all’altra come due lati di una sola cosa, intrecciate nell’unico flusso di coscienza”. È dunque soltanto sulla base della loro congiunta operatività che scaturisce ciò che egli descrive al modo di una “autoapparizione del flusso […] afferrabile nel fluire”. Una simile Selbsterscheinung “non richiede un secondo flusso, è lo stesso flusso che si costituisce in sé stesso come fenomeno”, poiché in tale dimensione originaria “il costituente e il costituito coincidono” (X 381 [365*]). Il flusso assoluto fenomenizza allora sé stesso in una dimensione di sostanziale indistinzione costitutiva, vanificando così ogni possibile ricorso allo schema Auffassung-Auffassungsinhalt (supra § 2.2.2). mente pre-riflessivo e, nel caso dell’intenzionalità longitudinale, addirittura non tematico, ossia meramente operativo.
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A ben vedere, dunque, sotto il profilo genetico-costitutivo il flusso assoluto dischiude un orizzonte costitutivo primigenio, coincidente col primissimo vivere (apparire) della coscienza, a partire dal quale ogni altro vissuto (manifestazione) giunge a costituirsi. Non è un caso che in un testo probabilmente coevo (XXIII Beilage XXXV) si riformuli la distinzione tra i livelli di costituzione temporale nella seguente maniera: “1) La coscienza interna, il vivere [das Erleben], 2) il vissuto [das Erlebnis], 3) l’oggetto intenzionale del vissuto” (XXIII 326; cfr. X 290 [292]). Questa tripartizione mima in effetti quella tracciata tra “1) l’apparire (flusso), 2) le manifestazioni, 3) [l’]oggetto che appare” (X 358 [346]). Se ne evince che alle distinzioni riguardanti i livelli costitutivi temporali ineriscono dunque analoghe ripartizioni interne alle dimensioni del vivere coscienziale e del manifestarsi fenomenico. Questo aspetto indirizza la disamina verso il giusto modo di intendere la posta qui in gioco. La dinamica inscenata dal flusso assoluto dovrà infatti essere intesa come capace di orchestrare sia un’esperienza diretta al darsi oggettuale, costituito attraverso la sintesi intrafasica del contenuto (in quanto vissuto-manifestazione), sia un’auto-esperienza della coscienza nella coincidenza interfasica del proprio vivere-apparire. Queste due modalità esperienziali sono inseparabili come le due orientazioni intenzionali del flusso che le rende possibili e, anzi, si presuppongono l’un l’altra nell’economia di esercizio della dinamica costituente. L’esperienza originaria della sintesi oggettuale della durata presuppone l’esperienza originariamente sintetica della coincidenza con sé della coscienza e viceversa. Nella sua processualità il flusso assoluto è tale che il riferimento all’unità intrafasica del contenuto oggettuale e l’autoriferimento della coscienza alla propria unità interfasica si mediano vicendevolmente. Del resto, è proprio il carattere ambiguo della nozione di Zeitbewußtsein a rivelare sia pure in nuce quest’aspetto fondante e fondamentale. La nozione appare capace di instanziare il germe seminale di quella struttura correlativa dell’esperienza che la fenomenologia trascendentale è tenuta a elucidare per ogni livello di costituzione possibile. Come ha osservato de Warren (2009a, 102), alla base della concezione husserliana dello Zeitbewußtsein si cela un’ambivalenza significativa che il composto tedesco e la
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corrispettiva traduzione inglese (time-consciousness) tendono a mantenere implicite e che invece la traduzione italiana è tenuta a esplicitare. La nozione husserliana può e per certi versi deve essere intesa al contempo sia come coscienza del tempo sia come tempo della coscienza. Senza che ciò conduca a una valutazione dello Zeitbewußtsein quale concetto schizofrenico o mal definito, occore anzi rilevare come l’ambivalenza sia se non propriamente ricercata da Husserl, almeno accolta con certa soddisfazione man mano che essa finiva per dischiudere tutte le proprie potenzialità euristiche. Parlare invero di coscienza del tempo e/o, indistintamente, di tempo (o temporalità) della coscienza significa infatti accogliere all’interno della nozione husserliana quell’a priori della correlazione decodificato in seguito alla svolta trascendentale e sistematizzato compiutamente nelle opere più tarde29. La temporalità dello Zeitbewußtsein contiene in sé il riferimento alla bilateralità del processo costitutivo secondo i due rami della coscienza del tempo, in quanto costituente la temporalità fenomenica degli oggetti, e del tempo della coscienza, con ciò intendendo il flusso assoluto quale luogo (auto)costitutivo originario della coscienza. Lo Zeitbewußtsein alberga in sé, in forma germinale, il riferimento alla costituzione della trascendenza oggettuale (coscienza del tempo) nonché il riferimento alla (auto)costituzione del soggetto (tempo della coscienza). In senso lato, ciò che emerge quasi in controluce dietro al concetto di Zeitbewußtsein è il nesso apriorico fondamentale presente a ogni livello e in ogni àmbito costitutivo tra oggettività e temporalità. Se l’oggettività è sempre un prodotto sintetico dell’intenzionalità costituente e se la struttura intenzionale della coscienza è anch’essa (auto)costituita sulla base dell’azione oggettivante del flusso assoluto di coscienza, la temporalità è allora quella forma generalissima capace di tenere unite, mediandole reciprocamente, le due direzioni del processo di sintesi correlativa: quella diretta alla trascendenza del mondo e quella retrodiretta all’immanenza autocosciente. La temporalità risulta quindi operativa sia nel processo costitutivo dell’oggettualità intenzionata, sia nel processo (auto)costitutivo della soggettività intenzionante (in quanto cioè intrinsecamente autocosciente). 29
Cfr. I § 17 (posto subito prima del § 18 dedicato al tempo); VI §§ 46, 48.
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Comprendere l’essenziale duplicità di cui risulta intrisa la coscienza temporale30, comprendere come le due accezioni che la compongono risultino implicate in un nesso indissolubile di cui è necessario tener conto anche laddove chi fenomenologizza, nel corso dell’analisi, ne isoli (tematizzi) una a esclusione dell’altra, tutto ciò consente di pensare alla loro reciproca compenetrazione come al vero e proprio guadagno prospettico avviato da Husserl con la disamina del flusso assoluto di coscienza. Lo Zeitbewußtsein si rivela cioè l’istanza portatrire (doppiamente sintetica) dell’a priori della correlazione; esso è ciò che ne consente la propagazione in ogni grado costitutivo, ovvero nella totalità dell’esperienza possibile. L’onnipervasività dell’a priori correlativo ricalca, e non potrebbe farne a meno, l’onnipresenza del tempo lungo l’articolazione stratigrafica della costituzione. La dimensione originaria del flusso assoluto di coscienza rappresenta l’epicentro costitutivo a partire dal quale questa stratificazione intenzionale, riverberando, s’irradia. §2.3 Processo primario e auto-temporalizzazione Synthesis. Der Parnaß ist leider noch im Nebel31
§2.3.1 Problemi aperti: la complessità di un fenomeno Per comprendere meglio quanto appena rilevato a proposito della dinamica interna al flusso costituente occorrerà introiettare nella disamina elementi della riflessione husserliana più tarda. Toccherà pertanto esaminare alcuni luoghi del lascito manoscritto, i cosiddetti Bernauer Manuskripte (gruppo L = XXXIII) e CManuskripte (gruppo C = Mat VIII), risalenti rispettivamente al secondo (1917-1918) e terzo (1929-1934) periodo di riflessione sulla tematica temporale da parte di Husserl32. Due ragioni moti30 31 32
Questa mi pare l’espressione italiana più neutra e in grado di convogliare entrambe le direzioni costitutive della correlazione. X 293 [294]. Per un inquadramento generale dei due gruppi manoscritti v. bernet, loHmar (2001) e loHmar (2006).
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vano la necessità di un simile supplemento analitico: da una parte, la volontà di superare alcune asperità e ambiguità teoriche presenti nel primo periodo di indagine (Hua X); dall’altra, l’arricchimento della Zeitfrage mediante l’interazione con altri rivoli della ricerca fenomenologica. Ciò però non significa presentare il secondo e terzo stadio come una maturazione lineare rispetto al primo, come un semplice progresso capace di condurre a una teoria compiuta della temporalità fenomenologica. Difatti: se alcuni manoscritti di ricerca risultano senz’altro dirimenti rispetto a problemi o aspetti insoluti della concezione antecedente, altri invece (e non sono pochi) danno adito a ripensamenti terminologici non sempre opportuni, clamorose smentite di acquisizioni teoriche ormai accertate, spunti di riflessione senza via d’uscita, vicoli ciechi, veri e propri aborti di pensiero33. Tutto questo ha certamente a che fare con le modalità di redazione del lascito manoscritto, un vero e proprio tracciato stenografico vòlto a mimare fedelmente il pensiero di Husserl nel proprio farsi – come una sorta di presa diretta – senza una reale ponderazione di quest’ultimo in una prassi di scrittura più di tanto articolata e funzionale all’altrui lettura, prima ancora che a un’eventuale pubblicazione. Aggiungiamo che il lavoro di revisione, correzione, coerentizzazione svolto da Stein per quanto riguarda le Zeitvorlesungen, non è mai stato svolto per gli altri gruppi manoscritti. Fink, al quale i manoscritti di Bernau erano stati affidati, non ha mai portato a termine il lavoro di revisione preferendo da un certo punto in poi spendersi in approfondimenti e tentativi di oltrepassamento delle teorie del maestro (bruzina 1993; 1994; 2004). Alle prese con simili criticità teoriche e testuali, chiunque si approcci a questo lascito si trova nella situazione di dover fare delle scelte ben precise, preferendo alcuni testi in favore di altri, privilegiando alcuni indizi risolutori a spese di altre possibili opzioni. Accostandosi a una teoria in fieri, chi legge o interpreta 33
Si veda, a titolo di esempio, il giudizio non certo positivo di zaHavi (2004). kortooms (2002, 106-223), al quale si deve lo studio più approfondito dei manoscritti di Bernau, ha decodificato tre modelli fra loro non coerenti di costituzione temporale originaria. In conclusione del presente lavoro avanzerò una proposta interpretativa che, se accolta, sarà in grado di spiegare un simile pastiche testuale (infra § 4.4).
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è invitato/a a tirare le somme, cercando una quadra che di per sé stenta a emergere. Di grande aiuto è almeno la messe di studi che nel corso degli anni ha tentato di dipanare la matassa di problemi legati allo Zeitbewußtsein. Se al riguardo non sembra corretto parlare di un consenso a favore di una lettura univoca della questione, sembrano nondimeno intravedibili alcune linee di convergenza. In tal senso, quello che proporrò nelle prossime sezioni è un doppio tentativo di coerentizzazione: di alcuni testi husserliani e di alcune interpretazioni degli stessi. Sulla scorta di questa duplice coerentizzazione non pretendo di far tornare i conti, restituendo la vera teoria husserliana dello Zeitbewußtsein, ma di tracciare un percorso sensato di lettura nel lascito manoscritto. Questa esigenza sembra tanto più auspicabile in quanto la reputazione di cui gode la Zeitfrage agli occhi di Husserl non è mai venuta meno e sembra essersi anzi accresciuta nel corso degli anni. Come egli ebbe a dire nel 1927, presentando il plico dei Bernauer Mss. a ingarden (1968, 154) e denunciando le Zeitvorlesungen come “immature”: “questa è la mia opera principale”. Uno dei primi punti da chiarire è la complessità del fenomeno in questione. La dimensione originaria del flusso assoluto consta a ben vedere di due ordini di complessità che esporrò almeno in prima battuta in questa sezione. Un primo ordine, per così dire, estrinseco riguarda il modo in cui il flusso assoluto si presta a essere descritto, secondo cioè una molteplicità di accezioni fra loro interrelate. Abbiamo visto come Husserl lo declini secondo varie connotazioni: quella più tecnica dell’articolazione sinteticocostitutiva (unità inter- e intrafasica) e quelle a essa co-riferite del vivere coscienziale (Erleben) e dell’apparire fenomenico (Erscheinen). A queste accezioni se ne aggiungono altre che hanno il merito di precisare, ciascuna, un particolare aspetto della Urkonstitution. La comprensione effettiva della dinamica in gioco sembra dover risultare dall’interazione di queste diverse declinazioni parziali dello stesso fenomeno costitutivo originario. La prima accezione è quella che intende il flusso assoluto come un processo di temporalizzazione. Il termine Zeitigung verrà usato in misura preponderante solo nel terzo periodo di riflessione sulla temporalità (C-Mss.) ma compare già nei testi di Bernau, ove si parla del processo originario al modo di una “proto-temporalizzazione [Urzeitigung] vivente” (XXXIII 70). Del resto, che il
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portato costitutivo della coscienza si presti a esser letto come un processo di temporalizzazione non dovrebbe destare sospetti di alcun tipo: nonostante l’assenza del termine Zeitigung, l’indagine condotta in merito alla costituzione del tempo obiettivo si proponeva di mostrare come gli oggetti acquisissero una diversa determinazione temporale a seconda dei diversi gradi di articolazione empirica (dal tempo scandito dalla nostra routine quotidiana sino alla sua idealizzazione fisico-matematica). La stessa costituzione pre-empirica aveva dato luogo a un primo tipo di temporalizzazione: “si costituisce il tempo immanente, un tempo obbiettivo34 autentico, in cui c’è durata e mutamento di ciò che dura” (X 381 [365]); è la temporalità delle unità immanenti, della successione ordinata dei vissuti, individuata dal secondo livello di costituzione temporale nel § 34 delle Zeitvorlesungen (X Nr. 40). In virtù poi della problematizzazione in cui è incorsa la sfera immanente, la scoperta della coscienza assoluta poneva il problema di una dimensione temporale ulteriore rispetto a quella trasversale dei vissuti, coincidente dunque con la dimensione automanifestativa e autocostituentesi dell’Erleben: ciò che nei C-Mss. prenderà il nome di autotemporalizzazione (Selbstzeitigung). Non è ben chiaro quale determinazione temporale sia il caso di assegnarle. Husserl sembra propenso a caratterizzarla per via negativa rispetto alla successione temporale immanente, attribuendole la prerogativa dell’intemporalità (“Il tempo soggettivo si costituisce nell’assoluta coscienza intemporale”, X 112 [136]; cfr. X 333s. [327]). Del resto, come recita un passo dei Bernauer Mss., “l’ulti34
Naturalmente, come evidenziato anche dal fatto che Husserl parla di una temporalità “immanente”, non si intende qui il tempo obiettivo delle scienze fisico-naturali, il tempo misurabile degli orologi. Questa temporalità immanente è piuttosto quella costituita a partire dalla multidimensionalità strutturale del presente vivente come unità monodimensionale della successione dei vissuti (X 380 [364]: “si costituisce nel flusso della coscienza l’unità del flusso stesso come un ordine unidimensionale quasi-temporale”). Noi esperiamo le note di una melodia “una dopo l’altra”, in una successione ordinata, sebbene, come vedremo meglio nella prossima sezione, il presente vivente consista di istanze proto-intenzionali co-attuali, in grado cioè di riferirsi contemporaneamente a più fasi di decorso passate (ritenzioni) e future (protensioni). Col tempo immanente, ci troviamo quindi dinanzi a una forma di temporalità già in qualche misura costituita, alla quale è possibile riferirsi riflessivamente come a un decorso ordinato di fasi.
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mo tempo a esser chiamato effettivamente così è il ‘tempo immanente’, dietro al quale risiede però ancora il flusso che costituisce il tempo” (XXXIII 179). Anni dopo, parlando del presente vivente come di un essere proto-fenomenale (urphänomenale), Husserl lo paragonerà a un “nunc stans” (Mat VIII 8), a un eterno presente sulla cui natura e problematicità tornerò dopo aver compreso meglio la dinamica autocostitutiva (infra § 2.3.3)35. Nel frattempo, un’altra accezione in grado di restituire un aspetto ulteriore del flusso assoluto è quella per cui esso si presenta come un processo di differenziazione (Differenzierung). Per comprendere quest’aspetto occorre sottolineare con forza come l’ultimo livello costitutivo rilevato da Husserl si dimostri una dimensione contraddistinta da una fondamentale indistinzione costitutiva (“costituente e costituito coincidono” come abbiamo visto). Ciò significa che solo in virtù dell’apporto sintetico dei due orientamenti costitutivi (Quer- e Längs-) la dinamica riesce a promuovere un qualche tipo di distinzione, ossia di (auto)trascendenza. In particolare, il processo assume i tratti di una duplice differenziazione per cui acquistano una certa autonomia costitutiva sia la manifestazione del vissuto che l’autoapparizione del flusso. Secondo la direzione trasversale (Querrichtung) il vissuto distingue da sé stesso la trascendenza dell’oggetto temporale costituito; lungo la direzione longitudinale (Längsrichtung), invece, il flusso distingue sé stesso in ragione della differenza che va istituendosi tra la coscienza costituita in quanto unità del vissuto (l’atto) e quella autocostituentesi in quanto assoluta medesimezza (il fluire). Secondo questa connotazione, dobbiamo abituarci a intendere la costituzione come un unico processo sintetico-differenziale: oggettivazione e differenziazione vanno cioè di pari passo nella misura in cui la sintesi della manifestazione oggettuale coincide con la distinzione dell’oggetto trascendente la dimensione del vissuto. Qualcosa di analogo sembra valere per l’orientamento longitudinale (per il versante della soggettivazione), lungo il quale il
35
Sulla nozione di nunc stans cfr. già un brano del 1917 (XXV 223) e quindi uno del 1932 dove si sostiene che la sua caratterizzazione per mezzo della parola “presente” “propriamente […] non conviene” (XXXIV 384).
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vissuto si costituisce e al contempo si differenzia in quanto unità consustanziale al flusso36. Ovviamente, trattandosi di modi diversi di declinare lo stesso fenomeno costitutivo, l’istituzione di differenze sarà da intendere in primo luogo in relazione alle diverse modalità temporali cui si accennava. La duplice differenziazione mima in effetti la capacità del flusso assoluto di riferirsi sia alla durata del contenuto oggettuale (dando luogo a una temporalizzazione noematica), sia a sé stesso, cioè alla durata dei propri vissuti di coscienza (promuovendo una concomitante temporalizzazione noetica)37. Infine, la distinzione tra i due versanti del processo di temporalizzazione consente di comprendere la costituzione originaria secondo un’accezione ulteriore, ossia come polarizzazione della struttura intenzionale. L’indistinzione propria della dimensione originaria riguarda infatti una proto-intenzionalità (una protocorrelazione) non ancora strutturata secondo la polarità io-mondo. Come già accennato, non ha il benché minimo senso parlare a questo livello di un rivolgersi intenzionale all’oggetto, di un manifestarsi a un supposto soggetto. Il flusso assoluto è per l’appunto ciò che promuove la genesi di strutture minimali di riferimento di cui, come vedremo, la distinzione tra costituente e costituito e quindi tra soggetto e oggetto rappresenta l’esempio più eclatante. Abbiamo dunque delineato tre accezioni – temporalizzazione, differenziazione, polarizzazione – per cui sembra possibile declinare la complessità della proto-costituzione operata dal flusso assoluto. Queste si aggiungono a quelle già rilevate di costituzione (sintesi), vivere coscienziale (Erleben, Erlebnis) e manifestazione (Erscheinen, Erscheinung). Nel § 2.3.3, proverò a tirare le somme di quanto qui soltanto abbozzato. Per il momento, è fondamentale mettere a fuoco il secondo ordine intrinseco di complessità; questo non pertiene più al modo di descrivere il fenomeno in questione bensì alla sua struttura 36 37
Cfr. bernet (1985, lvi) e de Warren (2009a, 163; 2008, 166s.). Circa l’opportuna distinzione tra temporalizzazione noematica e noetica cfr. XXXIII 121-124. Si veda quindi Held (1966, 46-49) e de Warren (2009a, 50). Non abbiamo modo di ripercorrere storicamente l’approdo husserliano alla nozione di noema (si rimanda almeno a bernet 1994, 6592 e lavigne 2005, 651, 698ss.). Un’analisi della temporalità dal punto di vista noematico compare per la prima volta in XXXIII 142ss.
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essenziale. Nel farlo è opportuno ripercorrere per sommi capi un dibattito originatosi in letteratura secondaria dedicato alla descrizione ambigua offerta da Husserl del flusso di coscienza38. La questione centrale del dibattito risiede nel rapporto problematico che lega i due livelli di costituzione immanente e che intercorre dunque tra le unità preempiriche costituite (gli atti) e il flusso assoluto costituente. Secondo l’originaria interpretazione di Brough, più fedele a una marcata distinzione dei livelli e ancorata a una notevole messe di evidenze testuali39, la coscienza manifesta sé stessa nei vissuti a partire da una dimensione soggettiva più originaria (l’assoluto fluire della coscienza interna del tempo), delineando perciò un tipo di costituzione degli atti speculare a quella per cui gli atti stessi costituiscono la trascendenza oggettuale. Il problema di un simile approccio esplicativo, secondo Zahavi, risiede nella sua incapacità di spiegare l’autocoscienza del flusso – e quindi la sua automanifestatività – se non nei termini di una duplicazione del modello costitutivo tipico della costituzione degli oggetti trascendenti. Ciò comporta il dover 38
39
Mi riferisco qui alla critica formulata per la prima volta da zaHavi (1999, 69s.) nei confronti dell’interpretazione da lui definita “dominante” del processo di autocostituzione del flusso assoluto e rappresentata dalle letture di sokoloWski (1974, 138-168) e di brougH (1972). Tale critica, precisata in zaHavi (2003b), ha quindi innescato un dibattito diretto tra Brough e lo stesso Zahavi, propiziato da deroo (2011), sulle pagine degli Husserl Studies. Cfr. zaHavi (2011), dove l’A. risponde in maniera critica alla ricostruzione del dibattito fornita da DeRoo e tenta di conciliare la propria posizione con quella più recentemente espressa da brougH (2010); si veda infine brougH (2011) per una replica conclusiva. Oltre ai passi riportati nelle precedenti sezioni si veda il passo dei Bernauer Mss. dove Husserl non soltanto distingue nettamente tre livelli (di cui due immanenti) ma addirittura avalla l’interpretazione – che vedremo rivelarsi problematica – del vissuto come oggetto interno: “Essenzialmente necessaria è chiaramente la successione di gradi: oggetto ‘esterno’, oggetto immanente di primo grado, processo di costituzione orginaria degli [atti] immanenti” (XXXIII 191). In un manoscritto più tardo (estate 1930), Husserl riprenderà la tripartizione secondo l’accezione temporale palesando una certa confusione enumerativa: “Doppio senso, tripartito, del fluire [Doppelsinn, dreifacher, von Strömen]: 1) il flusso vivente, pre-temporalizzante; 2) il flusso dei ‘vissuti’ immanenti costituiti come unità iletiche e come atti attraverso atti; 3) il tempo del mondo in cui ogni cosa reale ‘fluisce’ – il flusso del tempo, il divenire, etc.” (XXXIV 180n. [47n. 33]). Proprio questa confusione enumerativa è indicativa della posta qui in gioco.
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affrontare alcune conseguenze irragionevoli. La discutibile concezione dell’atto come oggetto interno – internal object interpretation è definita la posizione sostenuta da Brough e Sokolowski – implica infatti la surrettizia adesione a una teoria riflessiva dell’autocoscienza. Un simile modello di spiegazione dell’autocoscienza, alla quale Zahavi oppone la propria concezione della prereflective self-awareness, comporta la scissione della coscienza tra un polo riflettente e un polo riflesso inapplicabile a un livello costitutivo fondamentale come quello descritto da Husserl col flusso assoluto. Concepire l’atto alla stregua di un oggetto interno corrisponde vieppiù ad attribuire al flusso che lo costituisce un’intenzionalità di tipo oggettivante, caratteristica invece di un atto già strutturato secondo la polarità intenzionale io-mondo40. Il riproporsi a livello immanente del medesimo modello costitutivo adottato per la trascendenza non sembra dunque in grado di spiegare l’autocoscienza del flusso – la sua autoapparizione o autotemporalizzazione, che dir si voglia – ossia quell’autoreferenzialità originaria capace di arrestare il regresso infinito della genesi costitutiva. Zahavi, dal canto suo, condivide certamente l’attribuzione di una forma minimale di autocoscienza allo Zeitbewußtsein tale da arrestare così il regresso; il problema è semmai quello di capire come e se la retrocessione a un secondo livello di costituzione immanente, quello incarnato dal flusso assoluto, sia un’opzione valida da un punto di vista teorico. Secondo Zahavi, l’unica via praticabile è quella di attribuire già agli atti stessi una forma di autocoscienza implicita senza il bisogno di retrocedere a un livello costitutivo ulteriore (il flusso assoluto). Il punto sollevato da Zahavi, peraltro simpatetico alle intenzioni di alcuni passi husserliani41, è quello per cui non ci 40
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Husserl stesso, specialmente negli scritti più tardi, non sembra disposto ad attribuire questo tipo di intenzionalità al flusso costituente; conviene dunque parlare della proto-intenzionalità di ritenzione e protensione come di un tipo di intenzionalità non oggettivante. Si veda il passo di X 291 [292*] secondo cui “ogni vissuto è ‘coscienza’, e coscienza è coscienza di… Ma ogni vissuto è vissuto esso stesso, e a tale riguardo anche ‘cosciente’. Questo esser-cosciente è coscienza del vissuto”. Si confronti poi con l’incipit della Beilage XII dove Husserl descrive la coscienza che ogni atto ha di sé stesso, sia pure ricorrendo a delle formulazioni di ascendenza brentaniana come “percezione interna” (X 126s. [152]). Per altri passi in grado di supportare questa tesi si rimanda a zaHavi (1999; 2003b; 2010b; 2011).
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sarebbe alcun bisogno di attribuire l’autocoscienza preriflessiva a un livello ulteriore, giacché potrebbe essere più semplicemente una proprietà strutturale dell’atto. L’interpretazione di Brough, seppur motivata testualmente, sembra dunque avallare in maniera inopportuna una pleonastica moltiplicazione dei livelli costitutivi. Come si evince da quanto appena riportato, i rilievi critici mossi da Zahavi sono perlopiù di matrice teorica, rivolti cioè a una ridefinizione più coerente del modello tratteggiato da Husserl. Tale riformulazione pare auspicabile tenuto conto della fondamentale ambivalenza che caratterizza la lettera husserliana su questo specifico seppur cruciale aspetto. Tuttavia, senza bisogno di allontanarsi troppo da essa ma anzi ripercorrendola attentamente, è forse possibile approdare a soluzioni teoriche più consistenti. Ad esempio, per quanto riguarda la concezione degli atti, Husserl ne parla sì come se fossero oggetti (Objekte o Gegenstände)42 ma anche come unità (Einheiten). Se l’utilizzo del primo termine è foriero di complicazioni e conseguenze implausibili – tanto che lo stesso Brough sembra a più riprese accogliere di buon grado l’obiezione sollevata da Zahavi – il secondo termine ha buon gioco nel descrivere la prima forma di discretezza interna al fluire coscienziale rappresentata dagli atti43. Si presti ora attenzione al tentativo di risposta di Brough all’accusa di indebita moltiplicazione dei livelli costitutivi. Innanzitutto, anche sotto questo riguardo i manoscritti non sembrano a prima vista coerenti. Da una parte, come detto, sono molteplici i passi in cui Husserl individua tre distinti livelli di costituzione; dall’altra, non mancano passi in cui l’atto è inteso come intimamente autocosciente. Stando a questi ultimi sembrerebbe superfluo isolare un terzo livello di costituzione e l’opzione di Zahavi di attribuire una consapevolezza di sé (pre-riflessiva) agli atti risulterebbe in effetti 42 43
Addirittura, nei Bernauer Mss., Husserl conia in maniera sintomatica la perifrasi noetische Gegenstände (XXXIII 449). Brough pone un forte accento sulla demarcazione degli Erlebnisse nel corso del fluire, propendendo per una caratterizzazione della coscienza come fenomeno differenziale. La discretezza degli atti è ciò su cui si basa poi la riflessione in quanto forma di autocoscienza di più alto livello. Sarà dunque l’atteggiamento riflessivo che retroagendo sulle diverse unità d’atto ne conseguirà l’oggettivazione, seguendo (presupponendo) l’operato della prima rudimentale forma di distinzione disposta dall’autocoscienza pre-riflessiva.
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la via più economica da percorrere, anche a costo di allontanarsi in modo sensibile dal modello tripartito offerto da Husserl. Tuttavia, l’opzione di sacrificare un livello costitutivo a favore della capacità del singolo Erlebnis di automanifestarsi non appare del tutto convincente e ciò per un motivo molto semplice: un simile modello perde di vista la necessità di garantire alla coscienza un’unità complessiva al di là delle sue molteplici automanifestazioni. Difatti, se l’atto si costituisse in sé stesso verrebbe meno la possibilità di ricomprenderlo all’interno di un fluire unitario. Ogni vissuto coscienziale sarebbe simile a una cellula solipsistica, in sé costituita ma incapace di riferirsi a quella precedente o a quella successiva. In ogni vissuto, dunque, la coscienza troverebbe sé stessa come riproducentesi ex-nihilo, refrattaria a qualsiasi integrazione in una dimensione diacronicamente unitaria44. Non solo: considerare gli atti come costituiti in sé stessi finisce per pregiudicare anche quella discretezza che abbiamo visto essergli propria. Eliminando un livello ultimo di assoluta indistinzione si elimina di fatto quello sfondo necessario a partire dal quale la discretezza dei vissuti può risaltare e manifestarsi. Di queste conseguenze indesiderate, scaturenti da un appiattimento della dimensione dell’Erleben su quella degli Erlebnisse, Zahavi sembra accorgersi, facendo proprie le perplessità di Brough, quando ammette che l’automanifestazione di un vissuto sarebbe così soppiantata da quella del vissuto successivo, vanificando l’unità diacronica dell’autocoscienza. In virtù di quest’ultimo chiarimento è possibile individuare se non un accordo almeno una convergenza tra le interpretazioni in gioco, non solo per quanto riguarda la cosiddetta internal object interpretation ma anche in merito alla questione dei livelli costitutivi. L’occasione per appianare una simile divergenza interpretativa la offre Husserl stesso pervenendo a una più adeguata caratterizzazione metaforica del rapporto costitutivo che intercorre tra l’Erleben e gli Erlebnisse. In una pagina manoscritta redatta nel 1917 a Bernau ma non inclusa nell’edizione critica di Hua XXXIII, volendo argomentare a favore della non completa indipendenza dell’atto rispetto al fluire coscienziale, Husserl scrive: “la coscienza è un’unità. Un 44
Da qui la posizione di Brough sulla coscienza come unità di molteplicità (di vissuti). Sulla questione unità-molteplicità in relazione al tempo l’A. si era espresso già prima del dibattito in brougH (2002).
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atto non è per sé, esso è un’onda nel flusso di coscienza” (Ms. L I 15 2b)45. La metafora dell’onda ricorre anche in un paio di brani più tardi. Un Ms. del gruppo C, proprio con l’intento di descrivere la stabilità della vita cosciente, recita: Nella vita desta io sono stabilmente cosciente del mondo. Questa stabilità dell’aver-coscienza è un che di unitario che scorre in questa unitarietà di molteplici aver-coscienza, in cui mi diventano coscienti sempre nuove singole realtà e complessi di realtà nella [loro] particolarità, ognuna delle quali scorre anche per sé in mutevoli coscienzialità particolari. Ciononostante, c’è sempre un flusso che in sé racchiude, per così dire, in quanto sue onde tutti questi flussi particolari ed è l’unità di una coscienza […] le cui rispettive singolarità e i cui complessi di molteplicità, nella [loro] particolarità, per me “entrano in scena” e ne “riescono”, per me risaltano o affiorano o sfumano o sprofondano. (Mat VIII 362s.)
Similmente recita un passo tratto da un testo coevo alla redazione della Krisis: La nostra vita cosciente del mondo è un flusso continuo di “vissuti”, che scorrono in molteplici vissuti particolari come momenti non indipendenti, in certo modo, come onde di questo flusso. Ciascuno non è solo “onda del flusso”, dunque parte dell’intero, dell’intera vita, ma in ognuno qualcosa è vissuto [erlebt]. (XXIX 194)
La metafora dell’onda ha il vantaggio di assicurare all’Erlebnis sia il carattere dell’autonomia discreta che quello della non indipendenza rispetto al flusso (all’Erleben). In questa maniera, la divergenza esegetica emersa nel dibattito, al pari dell’ambiguità della lettera husserliana, può essere riassorbita da un rinnovato intendimento della cosa stessa, da una caratterizzazione più pregnante di un fenomeno complesso. L’onda, infatti, è sia un qualcosa di autonomo rispetto al flusso – e quindi isolabile (oggettivabile) per via riflessiva – che una sua parte integrante. In 45
Il Ms. è citato per la prima volta in zaHavi (1999, 77) e ripreso in tutti i contributi del dibattito. Segnalo che già nel WS 1906-07 Husserl aveva descritto il sopraggiungere di sempre nuovi ora al modo di altrettante “creste d’onda [Wellengipfel]” (XXIV 277 [321]). La metafora è poi ripresa in XXXII 137, 143, 168 [229, 236, 264*].
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virtù di questa plasticità, la metafora del flusso increspato sembra veicolare un’effettiva comprensione del carattere al tempo stesso transitorio e permanente dell’esperienza, nonché specificare più chiaramente il rapporto fondativo tra le due funzioni costitutive immanenti46. Gli atti risaltano a partire da un sottofondo assoluto, sorgono come increspature superficiali del processo costitutivo primario, durano e si esauriscono. Come si vedrà nelle prossime sezioni, si tratta ora di intendere questo risaltare (herausheben) come un fenomeno di emergenza contrastiva rispetto al nunc stans, al carattere intemporale del fluire costituente. Dal canto suo, l’assolutezza non può mai risaltare, manifestarsi come tale se non attraverso i propri atti, i quali letteralmente la realizzano, la rendono attuale47. Di per sé il flusso assoluto manca infatti di quella prima forma di discriminazione che esso stesso rende possibile per gli Erlebnisse. Al più, come visto, l’assolutezza potrà essere vissuta (erlebt), presentita in ogni vissuto per via negativa, come quel nulla (di temporale) da cui – secondo la propria genesi costitutiva – la temporalità dell’atto risulta48. Avanzo dunque un’ipotesi di lavoro che le prossime sezioni cercheranno di corroborare: il flusso assoluto opera come uno sfondo intemporale rispetto al quale ciascuna esperienza cosciente può emergere, risaltare tematicamente, come in primo piano, ossia manifestarsi in un vissuto di coscienza49. Se il convergere delle interpretazioni di Brough e Zahavi ci ha messo sulla giusta strada, la complessità intrinseca della dinamica 46
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Secondo le ultime considerazioni di Brough, infatti, non conviene affatto parlare di “livelli” costitutivi, col rischio di rendere “sostanziale” la differenza che intercorre tra gli Erlebnisse e l’Erleben, bensì di “aspetti” o “funzioni”, sviluppando dunque una “demarcazione funzionale” tra una duplice direzione operativa del flusso di coscienza. Non sembra pertanto erroneo aggiungere accezioni ulteriori al nostro elenco, declinando la dimensione costitutiva originaria come un processo di possibilizzazione (Ermöglichung) e realizzazione (Verwirklichung) di prestazioni intenzionali di ordine via via più complesso (infra § 3.2). L’eco hegeliano – per cui “questo nulla è per certo il nulla di ciò da cui risulta” (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, vol. I, p. 71) – è qui di notevole pertinenza; nel caso di Husserl ciò significa rilevare al cuore della dinamica costitutiva un’imprescindibile dialettica di tipo differenziale ed emergenziale (infra § 2.3.2). Cfr. brougH (2011, 36) per la suggestione primo piano/sfondo.
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costitutiva originaria si pone in questi termini. Essa presenta una struttura eminentemente diadica; pur essendo un’unica dimensione costitutiva (rifuggiamo dall’astrazione dei due livelli) è contraddistinta da una compresente dualità di aspetti/funzioni – è cioè sia onda (costituita) che flusso (costituente). Questi due aspetti o funzioni risultano tra loro non indipendenti sia pure mutualmente escludentesi. Non indipendenti lo sono per due ordini di ragioni: 1) perché il vissuto presenta una peculiare natura emergenziale, esso risalta cioè contrastivamente rispetto al fluire, rispetto al vivere coscienziale; 2) perché quest’ultimo, l’Erleben, non giunge a manifestare sé stesso se non nella molteplicità di vissuti che lo realizzano. Viceversa, i due aspetti sono mutualmente escludentesi dacché non sembra possibile una loro tematizzazione congiunta. Non è cioè praticabile una tematizzazione univoca del fenomeno costitutivo originario che tenga conto al contempo della sua reciproca funzione operativa. Proprio come non è possibile tematizzare assieme il primo piano e il relativo sfondo, allo stesso modo, per via della loro emergenza contrastiva, non è possibile render conto della coscienza al contempo come molteplicità di vissuti (onde) e come vivere unitario (flusso). Sebbene le due funzioni operino per così dire in parallelo, dando luogo a due orientamenti costitutivi interdipendenti, ci troviamo nella paradossale situazione di chi non riesce a restituire questa duplicità operativa se non appunto ipostatizzandone le funzioni in due livelli costitutivi distinti. Da qui l’ambivalenza dei testi husserliani e l’iniziale divergenza esegetica dei commentatori50. Nelle prossime sezioni cercherò di sostanziare l’interpretazione appena avanzata. Per fare questo è indispensabile rendicontare
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È forse possibile aiutarci con un paragone non so fino a che punto calzante: la situazione descritta in queste pagine ricorda il dibattito secolare occorso in àmbito fisico tra i sostenitori della natura ondulatoria (es. C. Huygens) e corpuscolare (es. I. Newton) della luce. Il dibattito, originatosi nel corso del XVII secolo, è proseguito sinché gli sviluppi della meccanica quantistica hanno permesso di inquadrare il dualismo costitutivo della luce in una teoria coerente che riuscisse a spiegare entrambi gli aspetti della radiazione elettromagnetica. La formulazione del principio di complementarietà da parte di Niels Bohr nel 1927, ribadendo la complementarietà, appunto, della bivalenza onda-corpuscolo, ha però teorizzato l’impossibilità di un’osservazione congiunta dei due aspetti all’interno della stessa misurazione.
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circa un importante sviluppo occorso alla concezione del presente vivente nei Mss. di Bernau. §2.3.2 Il presente vivente come dialettica emergenziale-differenziale Die Zeitigung ist Unifikation und Pluralisierung in eins51
I primi due testi raccolti in Hua XXXIII rappresentano alcune tra le pagine più penetranti che Husserl abbia saputo offrire in merito alla temporalità. In esse la concezione presentata nelle Zeitvorlesungen del 1905 e arrichita negli anni successivi viene sì supplita con un’analisi finalmente adeguata della protensione52, ma più in generale è la concezione complessiva del presente vivente che incorre in sottili trasformazioni sino ad acquisire un senso sostanzialmente diverso e – stando alla valutazione nella lettera a ingarden (1968, 154) – più maturo. Almeno sotto un certo profilo, infatti, la concezione esposta nelle Zeitvorlesungen non sembra del tutto adeguata all’ideale metodico di cui Husserl si era dotato per esplorarne la struttura. In particolare, tale esplorazione presupponeva ancora quanto inizialmente si era invece proposta di escludere (X § 1), ossia il tempo obiettivo. Tale inadeguatezza si evince dal modo in cui sono caratterizzate non tanto le nozioni di impressione originaria e di ricordo primario (ritenzione) prese singolarmente, bensì il loro rapporto reciproco. Se accettiamo il fatto per cui l’impressione originaria debba necessariamente (a priori) precedere (vorangehen) la ritenzione corrispettiva (X 33 [68]), ciò significa, a ben vedere, instaurare tra le due istanze proto-intenzionali un rapporto di successione temporale che proprio dalla loro interazione dovrebbe invece poter risultare, dovrebbe potersi costituire. La stessa immagine suggestiva del Kometenschweif (X 35 [69] e passim.) fa della modificazione ritenzionale una sorta di appendice della
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XV 317. Sebbene Husserl abbia sempre fatto cenno a una certa dimensione anticipatrice dell’intenzionalità, una trattazione soddisfacente della protensione non compare sino agli anni 1917-1918 (rodemeyer 2003).
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fase-ora impressionale53. Assecondando questa prospettiva, Husserl starebbe ancora presupponendo, aderendovi, la concezione lineare del tempo tipica dell’atteggiamento naturale54. Questa adesione inficia la Voraussetzungslosigkeit dell’analisi costitutiva liberata dalla riduzione. Presupponendo come valida la linearità del tempo obiettivo Husserl è spinto a concepire la costituzione del passato operata dal ricordo primario come successiva, posposta, rispetto alla costituzione della fase ora impressionale. Per lo stesso motivo anche la protensione è concepita come verificantesi prima dell’impressione. Questo modo di pensare, scaturente da una certa immaturità tipica della riduzione restrittivo-immanentista, genera una sopravvalutazione della dimensione del presente per cui ritenzione e protensione acquistano un senso specifico soltanto a partire dall’impressione originaria. Quest’ultima rappresenta allora la vera chiave di volta del modello esplicativo, la vera fonte del tempo. Ma una simile concezione, prima ancora che esporre il fianco al consesso retorico che vorrebbe fare della fenomenologia di Husserl una metafisica della presenza55, contrasta col principale obiettivo teorico husserliano di fare dell’atto percettivo un’apprensione temporalmente estesa, capace cioè di abbracciare un’oggettualità distribuita. Se la costituzione del passato e del futuro avvenisse rispettivamente in fasi precedenti e successive del flusso rispetto alla costituzione della fase-ora, essa non riuscirebbe infatti a render conto dell’effettiva estensione temporale del vissuto. Inoltre, pensare l’impressione come inizio dell’atto, seguita poi da una fase ritenzionale, pregiudica ogni tentativo di comprendere l’origine della protensione che rimarrebbe, per così dire, campata 53 54
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Cfr. bernet (1982, 103), il quale fornisce una buona illustrazione dei limiti della prima riflessione husserliana sulla temporalità. Sintomatici di questa presupposizione sono i primi diagrammi temporali tracciati da Husserl (X 330s. [324s.]): qui l’asse orizzontale rappresenta una sequenza ordinata di istanti di tempo obiettivo, tipica dell’idealizzazione matematica (t0, t1, t2, etc., si noti l’equidistanza dei punti). I diagrammi dei Mss. di Bernau sostituiranno agli istanti di tempo una successione di eventi o avvenimenti esperienziali (Ereignisse) dotati di una densità temporale specifica (si noti la non equidistanza dei diversi E0, E1, E2, etc. nei diagrammi presenti in XXXIII 22, 48). Sui diagrammi temporali cfr. larrabee (1994) e dodd (2005). Al riguardo si tengano comunque presenti larrabee (2000) e staiti (2010).
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in aria – essendo impossibile evincere donde tragga la possibilità di anticipare lo sviluppo dell’esperienza. Naturalmente, già in Hua X sono presenti passi che mettono radicalmente in discussione questo primato del presente, nonché l’implicita adesione alla concezione lineare del tempo da cui ha origine. Tutti i passi in cui si denuncia il carattere astratto dell’ora, il suo non essere altro che un punto limite, possono esser letti in tal senso. C’è però un passo estremamente significativo – risalente al periodo 1909-1911 – in cui Husserl sembra rompere nettamente con questa impostazione. C’è qualcosa di assurdo nel fatto che il flusso temporale venga visto come un movimento obiettivo? Sì! D’altra parte, il ricordo [primario] è pur qualcosa che ha un proprio ora […]. Qui si trova l’errore di fondo. Il flusso dei modi di coscienza non è un procedimento, la coscienza-dell’-ora non è essa stessa ora. La ritenzione56 che esiste “assieme” alla coscienza-dell’-ora non è “ora”, non è simultanea all’ora, ciò che anzi non avrebbe senso. L’errore è già compiuto quando si indica la ritenzione in rapporto alle precedenti fasi di coscienza come ricordo. Ricordo è un’espressione che si riferisce sempre e soltanto a un oggetto costituito. Ritenzione invece è un’espressione utilizzabile per indicare il riferimento intenzionale (una relazione fondamentalmente diversa) da fase di coscienza a fase di coscienza, nella qual cosa le stesse fasi e gli stessi continua di coscienza non devono esser visti a loro volta come oggetti temporali. Dunque, sensazione, se con ciò si intende la coscienza (non il rosso, il suono, etc. immanente che dura, cioè il sentito), e ugualmente ritenzione, rimemorazione, percezione, etc., sono intemporali, ossia niente [che sia] nel tempo immanente […]. Queste sono cose della massima importanza, forse le più importanti dell’intera fenomenologia. (X 333s. [326s.*])
Husserl rifugge qui dal marchiano errore di descrivere i fenomeni proto-costitutivi come rispondenti a un decorso o procedi56
Stando a una nota del curatore Boehm (X 333n. 2 [326n. 177]), da qui in poi la parola Retention comparirebbe nella stesura originale del manoscritto con l’intento di marcarne la differenza rispetto al carattere riproduttivo del ricordo. Tuttavia, secondo la revisione della datazione dei manoscritti offerta da bernet (1985, xlv), il testo Nr. 50 sarebbe verosimilmente successivo rispetto al settembre del 1909. In tal senso, la prima occorrenza manoscritta di un uso consapevole da parte di Husserl della nozione di ritenzione risalirebbe invece al testo Nr. 51 (SS 1909).
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mento seriale analogo a quello del tempo obiettivo. Dire che “la coscienza-dell’-ora non è essa stessa ora” significa emancipare la dinamica costitutiva dalla surrettizia accettazione della linearità del tempo, significa svincolarla dalla dipendenza funzionale dalla presenza del dato, che invece si pretende costituita proprio da essa. Qualificare la ritenzione come unzeitlich significa riscattare l’intero flusso dal rispecchiamento dello scorrere del tempo come naturalmente siamo propensi a intenderlo. Gli effetti più dirompenti di questa rottura epistemologica, la quale altro non è che il portato del perfezionamento in senso trascendentale della riduzione, sono riscontrabili nella rinnovata concezione del presente vivente formulata dai Bernauer Mss. Tale novità è annunciata innanzitutto da alcuni ripensamenti terminologici. Il più eloquente è certamente il passaggio dalla nozione di Urimpression a quella di Urpräsentation (presentazione originaria o proto-presentazione) per caratterizzare la coscienza dell’ora. In tal modo, Husserl sembra prendere le distanze da una connotazione ancora per certi versi atomistica del contenuto sensoriale, inteso cioè alla stregua di un’apparizione puntualeistantanea, cercando dunque di reinserirlo all’interno di una dinamica presentativa più articolata. Questa dinamica avrà il merito di decostruire la centralità dell’ora, decentrando la struttura portante del vissuto in favore di ciò che Husserl definisce la Verflechtung (intreccio) o l’Ineinander (l’essere una nell’altra) di ritenzione e protensione. Il processo originario (Urprozess) – in questi termini è ridefinito il flusso assoluto costituente – consisterà in questo co-implicarsi di ritenzione e protensione, capace di render conto dell’evento esperienziale (Ereignis) di un oggetto temporalmente esteso. Più in generale, la chiave per comprendere il nuovo intendimento husserliano è la riformulazione del presente vivente in termini di riempimento intuitivo o, per meglio dire, di forma del riempimento. Detto in altre parole: la nozione di Erfüllung – la cui rilevanza epistemica nell’economia della fenomenologia husserliana non è il caso di sottovalutare (almeno dalla VIa Ricerca logica) – trova in questo contesto la propria giustificazione operativa, la decodifica della propria struttura sintetica. Ma procediamo con ordine. Husserl introduce la nozione di protensione come una “intenzionalità pre-diretta” che alla stregua di una “‘attesa’ (però senza
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partecipazione attenzionale da parte dell’io) […] si dirige su ciò che viene e lo accoglie al modo del riempimento” (XXXIII 7). La protensione è rivolta al venire incontro (entgegenkommen) di ciò che accade, di ciò che appunto avviene (XXXIII 8); essa “prende al volo”, per così dire, “a braccia aperte ciò che si approssima”, lo capta in una “intenzione di futuro vuota, più o meno determinata, a ogni modo determinabile” (XXXIII 4). In maniera eloquente, spiega Husserl, “la protensione è una ritenzione rovesciata [umgestülpte57]”; essa “è una modificazione della ritenzione che in un certo senso la ‘presuppone’” (XXXIII 17). La protensione assume dunque i tratti di una tendenza (Tendenz)58 proto-intenzionale (XXXIII 25 e passim.) capace di anticipare il prosieguo dell’esperienza in corso tramite la proiezione dell’orizzonte di passato (ritenzionale) nel futuro (protensionale): “questa anticipazione in quanto continuum progredente è motivata attraverso il continuum delle ritenzioni precedenti” (XXXIII 24). Le ritenzioni passate offrono la base motivazionale perché “lo stile del passato sia proiettato nel futuro”. Non è ben chiaro cosa intendere qui con stile59, sta di fatto che la ritenzione ha la prerogativa di “agire sulla protensione determinandone il contenuto e prescrivendone il senso” (XXXIII 38). La vaghezza delle nozioni di stile e di senso sembra giocare qui a favore di Husserl, denotando tutta una gradazione di possibile (in)determinatezza con la quale la protensione (pre-) intenziona l’avvenire. Come si evince, la protensione predetermina il contenuto di ciò che avviene in maniera del tutto generale 57
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E ciò nel duplice senso veicolato dal verbo umstülpen, ossia capovolta sotto-sopra e rivoltata dentro-fuori (de Warren 2009b, 169). Se la direzione sotto-sopra è rilevante sotto il profilo della visualizzazione grafica nei diagrammi temporali, nel prosieguo si privilegerà l’accezione dentro-fuori che reputo concettualmente più pregnante ai fini della comprensione della dinamica interna all’Urprozess. La tendenza protensionale non deve essere confusa con una sorta di aspirazione o desiderio (Streben), bensì pensata come mera tensione volta al riempimento, alla presentazione dell’inteso. In tal senso, la ritenzione sarà allora una controtendenza. “Tendenza non è aspirazione, e tendenza negativa non è aspirazione contraria [Widerstreben]” (XXXIII 38n. 2). L’unico studio di mia conoscenza sulla nozione di stile è quello di meacHam (2013), il quale, tuttavia, non prende in considerazione le occorrenze della nozione nei Mss. di Bernau. Torneremo sulla questione nel prossimo capitolo (infra § 3.2).
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(Allgemeinsten), non riuscendo ad anticiparne le specificità se non in casi speciali60. Ma come preavvertito, la disamina husserliana nei testi Nrr. 1-2 non si limita a introdurre la protensione quale contrappunto della ritenzione, riequilibrando cioè la vecchia concezione incentrata sul presente-passato al modo di un Vor-bewußtsein (XXXIII 22) e schiudendo alla coscienza l’imprescindibile orizzonte del nonancora. È piuttosto l’intendimento complessivo del presente vivente a cambiare radicalmente. Per capire in che modo occorre esplorare il rapporto di interdipendenza che lega protensione e ritenzione. In queste pagine, si parla a più riprese di una fondamentale mediatezza (Mittelbarkeit) intenzionale che contraddistingue vicendevolmente l’orizzonte protensionale e ritenzionale (XXXIII 4, 8, 10, 16s., 20, 23, 25s., 28, 40-42, 47)61. Abbiamo già intravisto un aspetto di questa mediazione reciproca esplicitando la funzione motivazionale che la ritenzione esercita rispetto alla proiezione protensionale. A ciò deve aggiungersi l’aspetto complementare per cui la ritenzione è sempre anche ritenzione delle protensioni motivate dalle precedenti ritenzioni, secondo una funzione che diremmo ricapitolativa. La nuova fase dunque non è solo trasformazione della ritenzione in una ritenzione di grado più prossimo – la quale è cosciente nella sua intenzionalità mediata dell’anteriore [ritenzione] modificata – e una trasformazione della protensione co-intrecciata, ma anche una ritenzione della protensione anteriore. (XXXIII 25s., corsivo aggiunto)
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Cfr. XXXIII 14, dove si aggiunge a mo’ di esempio: “se un suono ha cominciato a risuonare, così anche in futuro è un suono, anche se il come più prossimo dei rapporti di intensità e qualità rimane indeterminato nel senso della protensione, etc.”. Per un’analisi esaustiva della protensione si veda loHmar (2002), il quale offre pure una casistica dei suoi gradi di (in-) determinatezza. È questa persistente accentuazione del carattere mediato di ritenzione e protensione ad autorizzare una lettura dialettica della loro cooperazione all’interno del presente vivente. Un altro aspetto che spinge in questa direzione sarà il ruolo di elemento negativo svolto dal non-intuitivo nell’avvicendarsi di fasi di riempimento e svuotamento del processo (infra). Cercherò di corroborare questa lettura nel corso di questa e della prossima sezione. La dialettica non ha naturalmente esiti hegelo-speculativi in Husserl bensì, come vedremo, di tipo emergenziale (differenziale).
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Ecco dunque profilarsi la Verflechtung, l’Ineinander ritenzionaleprotensionale. Mentre la protensione acquisisce un qualche tipo di determinatezza proiettando in avanti il portato stilistico-ritenzionale dell’esperienza in corso, le ritenzioni successive conservano questi stessi slanci protensionali motivati dalle ritenzioni precedenti62. Il quadro si complica ulteriormente se pensiamo che la duplicità intenzionale che in Hua X caratterizzava la ritenzione concerne altresì la tendenza protensionale. Ovvero, anche la protensione presenta un duplice orientamento costitutivo (rispettivamente trasversale e longitudinale) nella misura in cui “l’‘attesa’ non si dirige semplicemente al nuovo dato, ma anche alle ritenzioni e alle ritenzioni di ritenzioni che vengono” (XXXIII 7). In altre parole, l’orizzonte protensionale attende non soltanto alla predelineazione stilistica (più o meno indeterminata) dell’esperito; esso ne anticipa (in modo del tutto predeterminato) anche il necessario digradamento ritenzionale. In questo modo, grazie alla protensione, il flusso anticipa le proprie fasi di decorso, il proprio reflusso ritenzionale63. Non solo: un aspetto ulteriore della protensione e spesso sottaciuto in fase di commento è il fatto per cui essa si rivolge implicitamente – in maniera analoga al modo in cui il decorso ritenzionale corrisponde a una sorta di inscatolamento di ritenzioni di ritenzioni, etc. – anche alle protensioni a venire, ossia si presenta essa stessa come protensione di protensioni. Ogni protensione precedente sta a ciascuna delle seguenti nel continuum protensionale, come ogni ritenzione susseguente sta alla precedente della stessa serie. La protensione precedente racchiude intenzionalmente in sé tutte le [protensioni] ulteriori (le implica), la ritenzione susseguente implica intenzionalmente tutte le [ritenzioni] anteriori. (XXXIII 10)
Soltanto tenendo conto anche di quest’ultima indicazione si comprende l’esitazione husserliana nell’attribuire a ciascuna fase 62 63
Sull’Ineinander ritensionale-protensionale cfr. il frammento del 1927 in XXXII 255 [362]. Questo aspetto è stato sottolineato con forza da loHmar (2002), il quale ha proposto di distinguere tra una protensione iletica (che anticipa gli sviluppi contenutistici dell’esperienza) e una protensione ritenzionale (che anticipa il digradamento dell’esperire, ossia le ulteriori fasi di decorso del flusso stesso).
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intermedia (mittlere) del flusso “un doppio o piuttosto un triplice aspetto” (XXXIII 7; cfr. Mat VIII 350). Stante l’orientamento tematico (trasversale) di ciascuna fase rivolta al contenuto, l’orientamento operativo (longitudinale), riferito al flusso stesso, si sdoppia a sua volta: così come ciascuna ritenzione racchiude in sé le ritenzioni e le protensioni pregresse, ogni protensione implica intenzionalmente sia le protensioni che le ritenzioni a venire. La anteriore è protensione (cioè proprio un’intenzione “diretta” al posteriore), e la ritenzione susseguente sarebbe dunque ritenzione della ritenzione anteriore che al contempo è caratterizzata come protensione. Questa nuova ritenzione che si verifica, riproduce dunque la ritenzione anteriore con la sua tendenza protensionale e al contempo riempie quest’ultima, ma in un modo tale che una protensione [diretta] alle prossime fasi passa attraverso questo riempimento. (XXXIII 25)
In questo modo, l’intreccio tra le due declinazioni intenzionali è sancito in maniera completa (Fig. 1). In ogni ritenzione si avviluppa (s’implicita) tutto il decorso (protensionale e ritenzionale) del flusso compiutosi sino a quel momento – vi si riavvolge – mentre in ogni protensione il portato di questo avviluppamento (implicitazione) si trova per così dire proiettato oltre sé stesso e quindi nuovamente sviluppato (esplicato)64. È opportuno sottolineare come l’intreccio tra ritenzione e protensione rompa nettamente con la rappresentazione lineare del tempo tipica dell’atteggiamento naturale65. La loro è piuttosto una sorta di inerenza reciproca che 64 65
Sul significato complessivo da attribuire a questa dinamica di implicitazione ed esplicazione torneremo nei prossimi capitoli. Per il momento ci limitiamo a metterne in rilievo la struttura formale. Con un certo grado di approssimazione l’intera dinamica ricorda quella tracciata da un fascio di cicloidi (Fig. 2). L’immagine della spirale proposta da bernet (2009, 142) ed elaborata a più riprese in dell’orto (2015), per quanto in grado di descrivere il fenomeno di inscatolamento ritenzionale, non sembra sufficiente a restituire anche lo sviluppo protensionale e dunque l’avvicendarsi delle fasi di decorso del flusso. Curiosamente, la curva cicloide è stata evocata da cHieregHin (2008, 170n.) per illustrare il processo di superamento/conservazione delle figure della coscienza nella Fenomenologia dello spirito di Hegel. Naturalmente non abbiamo qui a che fare con figure dello Spirito, bensì con il semplice ricorrere di vissuti (cicli) di coscienza orchestrato dal lavoro congiunto di ritenzione e protensione. La formalizzazione della dinamica in una curva matematica è avallata dalla
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struttura il vissuto di coscienza secondo una co-attualità di istanze proto-intenzionali rivolte al contempo sia al passato che al futuro dell’esperienza in atto. Il presente vivente è dunque percorso strutturalmente da questa co-attualità di momenti passati e futuri e in quanto tale reso intimamente estatico. A questo punto, nel tentativo di precisare quanto appena rilevato, occorre chiedersi cosa ne sia dell’ora, ovvero dell’istanza a esso riferita (Urimpression). Ciò facendo indagherò in un primo momento l’orientamento costitutivo trasversale completando il resoconto in un secondo tempo con l’orientamento longitudinale. Come anticipato, la riformulazione dell’ora nei termini di una presentazione originaria (Urpräsentation) contribuisce a decostruire (abbauen)66 la funzione che era solita svolgere nelle Zeitvorlesungen del 1905. Come si evince dalla disamina sinora offerta dell’intreccio ritenzionale-protensionale, l’ora è assente e apparentemente inessenziale rispetto alla dinamica in gioco. Eppure, esso non scompare del tutto dall’analisi husserliana, essendovi anzi ricompreso come fenomeno puramente emergenziale. Per capire questo aspetto è bene concretare, come fa Husserl in queste pagine, la struttura formale dell’intreccio ritenzionale-protensionale nei termini di un processo di riempimento (Erfüllung) e di svuotamento (Entfüllung) intuitivo. Ciò significa pensare il versante protensionale come un tendere a vuoto che si approssima al riempimento effettivo67, alla presentazione intuitiva dell’inteso (Gegenwärtigung), e il versante ritenzionale come quella sorta di contro-tendenza che svuota la pienezza intuitiva raggiunta, concorrendo di fatto alla sua depresentazione (Entgegenwärtigung)68 o postpresentazione (Postpräsentation, XXXIII 55). Da questo
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notazione via via introdotta in queste pagine da Husserl (variabili, incognite, massimi/minimi, +/- ∞, etc.). Husserl si esprime in questi termini descrivendo l’andamento grafico dello sprofondamento ritenzionale: “Dopo la fine dell’evento, il ramo ritenzionale della sempre nuova Ux [= Urpräsentation] si decostruisce giù dall’alto [baut sich … von oben her ab]” (XXXIII 37). “Riempimento significa qui ‘venire nel senso di una tendenza’” (XXXIII 30s.). La caratterizzazione della ritenzione come de-presentazione è introdotta da Fink (SPh 23 [75s.]) e verosimilmente ripresa da Husserl in Mat VIII 134; de Warren (2009a, 159s.) paragona la coscienza ritenzionale a una sorta di contro-intenzionalità, opposta a quella rivolta al riempimento intuitivo. Ancora una volta, ricordiamo come sia inopportuno parlare di intenzionalità in
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punto di vista, l’intermediazione dialettica di protensione e ritenzione può essere intesa come un campo differenziale di valori (Belegungen) gradualmente contrapposti (XXXIII 34), come due tendenze inverse e rispettivamente votate al “massimo di prossimità” e al “minimo di distanza” rispetto allo stato di pienezza intuitiva (XXXIII 39). In tal senso, l’ora non sarà altro che la risultante della dinamica di riempimento e svuotamento (“L’ora è costituito attraverso la forma del riempimento intenzionale”, XXXIII 14). Dal punto di vista dell’Urprozess, la presentazione originaria non possiede più il primato costitutivo che la prima riflessione husserliana attribuiva alla Urimpression, risultando anzi un che di derivato. Ed è proprio in quanto derivata che essa rappresenta adesso il compimento dell’intera dinamica. Se cioè “soltanto essere-ora è ‘essere-effettivo’” e se l’ora “è dato nella coscienza del riempimento” (XXXIII 41), ciò significa che “la realtà effettiva è la realizzazione di una coscienza anticipante” (XXXIII 46). E siccome la protensione è sempre innervata dal portato ritenzionale che la motiva, la conclusione che se ne trae è che la realtà effettiva dell’ora si attualizza grazie al lavoro sinergico di protensione e ritenzione69. L’ora altro non è che quel frangente in cui la coscienza si appaga (Bewußtsein der Sattheit), come quel “punto di saturazione [Sättigungspunkt]” in cui la tendenza protensionale raggiunge il massimo della pienezza intuitiva; questo massimo rappresenta però, di conseguenza, anche un “punto di rigetto/repulsione [Abstoßungspunkt70] […] dal quale la coscienza si dirige via” (XXXIII 39), incorrendo cioè nel proprio svuotamento ritenzionale. Si comprende allora perché Husserl intenda l’intera dinamica come dotata di un proprio scopo (Ziel, XXXIII 34), di un proprio terminus ad quem coincidente con il massimo di pienezza
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senso pieno in relazione ai fenomeni costitutivi originari (da qui il ricorso al termine “tendenza” o al prefisso “proto-”). Come si dirà negli anni ’30, il presente vivente è “l’unica sede di realizzazione [Verwirklichungsstätte] in generale” della realtà (Mat VIII 95). Il termine Abstoßung può rendere sia l’idea di un rigetto organico che di una più generica repulsione. Preferisco lasciare qui entrambe le soluzioni perché in grado di alludere a due modi secondo cui Husserl descrive la dinamica: il rigetto richiama la saturazione ora descritta, la repulsione la caratterizzazione in termini di tendenze e controtendenze (di valori differenziali dello Zeitfeld).
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intuitiva, nonché di un proprio terminus a quo coincidente con il suo minimo (XXXIII 38). Si precisa anche il tenore dialettico71 della dinamica in gioco, vivificata dall’ineludibile mediazione del negativo: “nel flusso originario di coscienza, il non-intuitivo [das Unanschauliche] è necessariamente uno stadio di passaggio verso il riempimento in quanto pienezza” (XXXIII 40). La mancanza di intuitività costituisce dunque un elemento strutturale del presente vivente, alla stregua del carattere della non presenza. Il non presente, il non intuitivo incarnano qui l’elemento negativo in gioco in una dialettica differenziale. Senza la depresentazione intuitiva, banalmente, non vi potrebbe essere alcuna proiezione, alcuna anticipazione protensionale, poiché la struttura del presente vivente risulterebbe costantemente satura e incapace di riprodursi. Viceversa, la dimensione propria della coscienza, “secondo la sua peculiare pulsazione vitale [Lebenspulse], è vivere nel trasvivere [Leben im Verleben], nel costante trapassare del vivere” (XXXIII 69). La coscienza consiste di una dialettica di autotrascendimento in cui l’intermediazione tra le istanze proto-intenzionali genera la possibilità del riempimento e la necessità dello svuotamento intuitivo, la presentazione della realtà effettiva e la sua depresentazione finalizzata a una nuova 71
Preciso che qui, come nel prosieguo, il senso d’impiego del termine “dialettica” è del tutto peculiare, ossia non assimilabile ad alcun illustre precedente storico. Non è mia intenzione, ad esempio, ricondurre la trattazione husserliana del presente vivente alla logica dialettica di Hegel come fa invece Trần Đức Thảo (1995). Piuttosto, sarà mia premura rilevare un certo tenore dialettico specifico della fenomenologia trascendentale che andrà precisato di volta in volta a seconda del contesto d’analisi e in base alle sole risorse desumibili dai testi husserliani (oltre alla presente sezione v. infra §§ 2.3.2, 3.1.2, 3.2.3). Non potendo che procrastinare una discussione più approfondita della questione a un lavoro espressamente dedicato – dove soltanto sarebbe eventualmente possibile commisurare il senso complessivo del tenore dialettico della fenomenologia trascendentale rispetto ad altri autori – posso nondimeno rimandare a lampert (1995, 28-33), il quale mostra come sia tutt’altro che insolito da parte di eminenti studiosi di Husserl, in sede di commento, esprimersi in termini dialettici. Agli autori menzionati da Lampert se ne potrebbero aggiungere molti altri, più o meno recenti; per tutti valga qui il classico studio di sokoloWski (1970, 219), secondo cui: “Constitution is the product of the dialectic between these two poles [subjectivity and reality], each of which must be posited if a true dialectic is to exist”.
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realizzazione. Si veda come Husserl descrive il rapporto di mediazione intenzionale: La mediatezza è dunque equivalente al grado di prossimità della pienezza, e l’immediatezza alla pienezza stessa, che è intenzione soppressa [aufgehobene Intention]: diremo anche, l’intenzione “non è più mera intenzione” ma ha in sé il proprio oggetto in carne e ossa. Dunque, di nuovo, “intenzione” significa mediatezza della coscienza che funge sempre intenzionalmente nel nesso delle intenzioni, ma in quanto caso limite è appunto intenzione soppressa, immediata coscienza dell’originale. (XXXIII 40)
Scopriamo che all’apice del ciclo di presentazione la coscienza è per così dire completamente estroflessa; poiché l’intermediazione intenzionale è soppressa nel limite del proprio autotrascendimento, la coscienza è interamente (presso) l’oggetto. Un autotrascendimento che tuttavia si presta a essere ricompreso, ossia rifunzionalizzato lungo il versante della depresentazione. Lungi dal ricoprire una posizione costitutiva preminente come nelle Zeitvorlesungen, nei Bernauer Mss. l’ora presente e con ciò l’effettività del reale non sono niente di diverso da questo passaggio al limite, da questa idealizzazione motivata dal gioco di co-implicazione tra ritenzione e protensione72. Difatti, assecondando la caratterizzazione dell’intenzionalità quale tendenza frutto della mediazione ritenzionaleprotensionale, come tensione vitale votata alla pienezza intuitiva, allora, la realtà effettiva risulta attualizzata in ognuna delle “tendenze soppresse sull’oggetto stesso” (XXXIII 40). La presentazione dell’oggetto coinciderà con il compimento (soppressione) della tendenza, “in quanto culmine dell’immediatezza” (XXXIII 240), con il rilascio della sua tensione vitale, di una tendenza (mediazione) che però saprà gradualmente ricostituire la propria vitalità lungo il versante anticiclico della depresentazione. Secondo quanto detto, dunque, il presente non è altro che un rilievo emergente dalla dialettica differenziale tra riempimen72
La decostruzione subita dal presente è rilevabile anche nel modo in cui Husserl traccia i nuovi diagrammi temporali. Si veda a titolo esplicativo il § 4 del testo Nr. 2 (XXXIII 30-34). In queste pagine, la linea orizzontale che demarca la presentazione effettiva degli Ereignisse viene tracciata per ultima (e non per prima), come risultante delle linee che rappresentano gli sviluppi protensionali-ritenzionali e non come origine del piano.
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to protensionale e svuotamento ritenzionale. Husserl parla non a caso della fase di decostruzione della presentazione originaria (Ux) come di una perdita di differenze (“essa perde le fasi intuitive […] perde differenziazione”); la pienezza intuitiva si svuota gradualmente sino al “dominio dell’implicazione indifferenziata” (XXXIII 37). Se la protensione mira come proprio terminus ad quem alla pienezza, la ritenzione conduce la coscienza a svuotare completamente sé stessa, ristabilendo così il proprio terminus a quo, ovvero ciò che nel testo Nr. 4 prende il nome coscienza vuota (leere Bewußtsein) (XXXIII 67)73. Sotto il profilo trasversale, la pienezza intuitiva rappresenta così il massimo grado di differenza – la più elevata discriminazione possibile tra ciò che è intuito dalla coscienza e la coscienza stessa – per cui l’oggetto risalta (emerge) come in carne e ossa senza alcun grado ulteriore di mediazione intenzionale. La depresentazione produce viceversa uno stato di oscurità, di indifferenza o indistinzione costitutiva. A questo stadio (il terminus a quo) la tensione vitale dell’intenzionalità è massima: l’effettività del reale è al suo minimo costitutivo ma l’intenzionalità fungente è – correlativamente – all’apice inverso della sua massima potenzialità costituente. Anche questo stadio, come del resto il suo opposto, è contraddistinto da quella sorta di estaticità o di instabilità strutturale derivante dal valore divergente delle tendenze protensionali e ritenzionali. Dalla loro contrapposizione non sembra poter risultare un equilibrio, se non appunto metastabile, giacché esse non sono opposte una contro l’altra ma avversate una dentro l’altra (Ineinander) come inerenze reciproche. Raggiunto il terminus a quo, la tendenza protensionale sovverte quella ritenzionale, proiettando la coscienza oltre sé stessa, verso l’emergere (il differenziarsi) di una nuova presentazione originaria, verso l’effettiva trascendenza del mondo. Con una certa dose di genio, Husserl riesce a restituire graficamente l’idea della presentazione come rilievo emergente facendo ricorso a un diagramma che nonostante sia stato descritto, non è 73
Contestualmente, Husserl opera una decisiva distinzione tra senso e pienezza intuitiva, distinguendo cioè i due aspetti di cui sembra comporsi la costituzione. Preferiamo posticipare al prossimo capitolo la discussione di questa importante questione (infra § 3.2.1).
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stato poi di fatto tracciato74. La trovata husserliana, degna di un vero e proprio trompe-l’oeil, consiste nell’atto di piegare il foglio lungo la linea orizzontale addetta alla restituzione dei vari eventi di presentazione E1…En (“ci figuriamo il foglio piegato in EE”), in modo tale che questa linea risulti come “tirata verso l’alto” (XXXIII 34). Il modello grafico acquista in tal modo una salienza tridimensionale. I due semipiani rappresentanti il processo di riempimento e di svuotamento intuitivo collimano nella linea di presentazione come in uno spigolo (Kante). La soglia del presente effettivo, della pienezza, coinciderà dunque con questo spigolo, con questo margine o crinale risultante dall’intersezione (dall’incontro-scontro) dei due piani. Ecco perché si può parlare dell’ora come di un rilievo emergenziale originato dall’intermediazione ritenzionale-protensionale75. 74 75
Per delle restituzioni grafiche di questo diagramma v. kortooms (2002, 167s.), scHnell (2004, 213) e dodd (2005, 133). Nel tentativo di decodificare la dinamica dell’Urprozess, Husserl lascia proliferare diversi campi semantici in grado di sostanziare metafore di varia estrazione (flusso/onda, campo differenziale, saturazione/rigetto, etc.). Non sembra pertanto fuori luogo arricchire il quadro di metafore in gioco, ché almeno la comprensione del fenomeno non finisca per ristagnare in una sola di esse. Con rilievo emergenziale intendo alludere al processo di orogenesi che ha dato luogo ai rilievi montuosi. La metafora pare giustificata oltre che dalla propensione geologica del lessico husserliano anche da quanto si dirà nel prossimo capitolo in relazione ai rilievi emergenziali (Abgehobenheiten) della passività sintetica. Del resto, potremmo egualmente tornare a puntare sulla metafora del flusso increspato, sottolineando come questa versione tridimensionale del modello assomigli non poco all’emersione di un’onda come parte non-indipendente del flusso (riporto qua sotto la versione di Kortooms del diagramma).
Ciò dicendo, si tenga nondimeno a mente che ogni rappresentazione grafica risulta a ben vedere difettosa rispetto alla complessità del processo in questione, non riuscendo a restituire la totalità degli aspettti in gioco. Questo grafico, ad esempio, sebbene rappresenti certamente il più compiuto tra
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Il correlato di questo spigolo sarà allora ciò che Husserl non stenta a definire Kantenbewußtsein (“coscienza dello spigolo”), una coscienza, per meglio dire, marginale o liminale. Eppure, abbiamo visto che la presentazione effettiva di un oggetto coincide con la soppressione (Aufhebung) della tendenza intenzionale a esso rivolta, con un suo completo annullamento scaturente dalla saturazione intuitiva dell’inteso. Che senso ha quindi parlare di una coscienza in relazione all’ora se ques’ultimo coincide con la massima estroflessione della prima, se in esso per l’appunto essa si risolve? Per rispondere a questa domanda è il caso di integrare la disamina prendendo in considerazione l’orientamento costitutivo longitudinale. Una simile contraddizione si rivela difatti apparente non appena si consideri il modo in cui il Kantenbewußtsein è caratterizzato. Descrivendo il momento di saturazione intuitiva, il frangente appunto in cui la tendenza protensionale s’appaga, Husserl spiega che “in quanto punto finale della sua presentazione originaria [Ux], che è la sua coscienza concreta, ha in sé tutte le fasi intenzionali anteriori tendenti a esso in una implicazione di coscienza [Bewußtseinsimplikation]” (XXXIII 42). Non solo, tre pagine dopo, aggiunge: Il presente è una coscienza onnicomprensiva, per così dire, onnisciente [allwissendes] di sé stessa e di tutte le sue sussistenze intenzionali – la sua struttura racchiude in sé, potenzialmente, l’onniscienza del mondo – come possibilità ideale, purché noi teniamo in conto soltanto che l’orizzonte di oscurità in cui passato e futuro si confondono e che delimita completezza della percezione di sé della coscienza è un limite contingente che può essere pensato come ampliato in infinitum, così che, in quanto “idea”, risveglia una coscienza “divina” onnisciente, la quale abbraccia sé stessa nella più completa chiarezza. Anche la coscienza “finita” è onnisciente, anche la sua intenzionalità abbraccia l’intero suo passato e futuro, ma solo in modo parzialmente chiaro, in una oscurità che del resto è una potenzialità per delucidazioni e rimemorazioni. (XXXIII 45s.)
quelli escogitati da Husserl, non restituisce che l’approssimazione e l’allontanamento rispetto al terminus ad quem, lasciando del tutto imprecisata, nell’oscurità indifferenziata che la contraddistingue, la dimensione del terminus a quo. Quest’ultimo potrebbe invece essere reso graficamente dai nodi formati dal fascio di cicloidi (Fig. 2).
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A ben vedere, il tendere intenzionale della coscienza al climax della propria pienezza intuitiva (terminus ad quem) non riguarda altro che sé stessa. Ciò che risulta soppressa è soltanto la tendenza costitutiva rivolta alla presentazione oggettuale, attraverso cioè l’orientamento trasversale dell’intenzionalità costituente. Di contro, l’orientamento longitudinale del Kantenbewußtsein, trovandosi all’apice della propria estroflessione, manifesta una tensione massima rivolta a sé stesso, ossia al terminus a quo del processo. È questa tensione della coscienza a riappropriarsi di sé che dà luogo all’autocostituzione del flusso. Questo è possibile perché l’estrinsecazione della coscienza prodotta dallo sviluppo protensionale trasversale (rivolto all’oggetto) coincide con la generazione, ad opera della ritenzione longitudinale (rivolta alle fasi di decorso del flusso), di una tensione antitetica che ha di mira l’intrinsecazione della coscienza stessa. Come si specifica riguardo ai termini ad quem e a quo del processo, ogni fase di coscienza “è entrambi in una, li ha entrambi in sé” (XXXIII 39). Ecco perché, una volta raggiunta la saturazione trasversale del riempimento e dunque la soppressione della tendenza a esso rivolta, ciò nondimeno, sotto il profilo longitudinale, il Kantenbewußtsein tende ad abbracciare idealmente, in misura largamente oscura e indeterminata, la totalità del proprio corso temporale passato e futuro. La tensione longitudinale, che si rivela dunque antitetica rispetto a quella trasversale, lungi dal trovar appagamento nell’ora, strappa via la coscienza dal suo stato di estasi, dallo stato di massima chiarezza/distinzione intuitiva dell’inteso e la riporta inesorabilmente a sé stessa, alla propria immanente e indifferenziata oscurità, ripristinando di fatto lo status (a) quo. In tale oscurità s’appaga la tendenza longitudinale e correlativamente si ripristina la tensione trasversale alla costituzione del trascendente. Riappropropriandosi di sé stessa, la coscienza si dispone nuovamente a proiettarsi nel mondo76. 76
Da questo punto di vista, sarebbe opportuno ripensare protensione e ritenzione come tendenze rispettivamente all’autotrascendimento e all’autoimmanentizzazione, per così dire, della coscienza. Espresso in questi termini, ossia nei termini processuali di due tendenze antitetiche, il superamento dell’ipostatizzazione dell’immanenza e della trascendenza come due regio-
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Cercando di rendere conto della struttura dell’Urprozess, si è conclusa la descrizione di almeno un ciclo di questa “‘storia’ genetica” (XXXIII 27). In prima battuta, la dinamica appare un gioco di intermediazione reciproca, di co-implicazione intenzionale, in cui la pulsazione vitale riproduce sé stessa alimentando la trascendenza del mondo e in cui, viceversa, il mondo manifesta sé stesso sostanziando la vita cosciente. L’estaticità del vissuto è allora inscritta in ciò che diremmo il disequilibrio dialettico del presente vivente: sempre ricondotto a sé stesso – sempre proiettato oltre sé stesso77. §2.3.3 Autoreferenzialità e prospettivizzazione originaria Notwendig ist ein so strukturiertes strömendes Bewußtsein Bewußtsein von sich als strömendem. Und ist das nicht voll verständlich?78
La mutata concezione del presente vivente rappresenta certamente un salto qualitativo in termini di complessità rispetto al modello elaborato nelle Zeitvorlesungen. Come visto, essa risolve alcune spinose questioni relative alla presupposizione di una concezione lineare del tempo obiettivo e al primato della presenza79. In questa sezione si cercherà di mostrare se e in che modo questo nuovo modello si presti ad appianare la problematica inerente al rapporto tra i due aspetti costitutivi “immanenti” o, il che è lo stes-
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ni ontologiche (rispettivamente psichica e fisica) risulterebbe finalmente intelligibile. In maniera affine, sartre (1943, 117) descriverà la presenza a sé del cogito preriflessivo, alla stregua cioè di una “distanza ideale nell’immanenza del soggetto in rapporto a sé, un modo di non essere la propria coincidenza, di sfuggire all’identità, pur ponendola come unità; insomma un modo di essere in equilibrio continuamente instabile fra l’identità come coesione assoluta senza traccia di diversità, e l’unità come sintesi di una molteplicità”. Sull’influsso che la prima trattazione husserliana dello Zeitbewußtsein ha esercitato su Sartre v. de coorebyter (2003). XXXIII 48. Ciò non toglie che il modello offerto dai Bernauer Mss. lasci in eredità altre asperità teoriche di non poco conto (scHnell 2004, 255 e penna 2007). Per alcune di queste asperità legate principalmente alla questione del momento iletico della costituzione si veda il prossimo capitolo.
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so, al problema dell’autocostituzione del flusso assoluto e dunque al rischio del regresso all’infinito della genesi costitutiva80. La ricognizione in merito al presente vivente ha mostrato la processualità intimamente ciclica81 di una pulsazione vitale animata dall’intreccio ritenzionale-protensionale; ha inoltre rimarcato il duplice orientamento costitutivo noetico-longitudinale e noematico-trasversale82. Del resto, come si è cercato di concludere, è proprio lo sfasamento dialettico tra i due orientamenti a rendere irrimediabilmente estatico l’intero processo, a prescrivere cioè alla coscienza un’oscillazione temporale (Zeitschwingung)83 tesa tra un proprio massimo autotrascendimento e un antitetico minimo quale peculiare forma di auto-immanentizzazione. Come illustrato, questo massimo coincide con il terminus ad quem del riempimento intuitivo (Erfüllung): qui si assiste A) alla soppressione (appagamento) della tendenza noematico-trasversale sull’oggetto – la coscienza è completamente estroflessa – e, al contempo (= correlativamente), B) al rigenerarsi della massima tensione noetico-longitudinale volta alla riappropriazione di sé da parte del flusso (la coscienza tende cioè a ricostituire la coincidenza delle proprie fasi). Quanto al minimo, al terminus a quo del processo, esso coincide in maniera antitetica con lo svuotamento intuitivo (Entfüllung): esso prevede A’) la soppressione (appagamento) della tensione costitutiva noetico-logitudinale – la coscienza ha ricostituito la propria immanenza – e, correlativamente (= al contempo), B’) il rinnovarsi della tenden80 81
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Husserl dibatte a più riprese il problema del regresso nei testi Nrr. 9-13, dandone spesso delle formulazioni contraddistinte da lievi slittamenti di significato (XXXIII 184-187, 221-224, 243-245; cfr. kortooms 2002, 129-134). Non dobbiamo pensare questa ciclicità in termini di chiusura o di perpetuo ritorno dell’uguale. Come si preciserà nel prossimo capitolo, quella tracciata dal presente vivente non è che una ricorsività formale, costantemente aperta al rinnovamento contenutistico dell’esperienza. Secondo zaHavi (2003b, 179n. 68), nel Ms. B III 9 (p. 23a) Husserl parlerebbe dell’intenzionalità longitudinale e trasversale in termini di temporalizzazione noetica e noematico-ontica. In entrambi i casi, trattandosi di un livello costitutivo originario, in cui cioè la correlazione intenzionale vera e propria è in via di formazione, sarebbe più opportuno parlare di temporalizzazione proto-noetica e proto-noematica. Nel testo non farò sempre fede a questo proposito per non appesantire l’esposizione. Il termine, di origine heideggeriana, proviene dalla rielaborazione finkiana dei manoscritti di Bernau, cfr. bruzina (1994, 379, 382, 384, 390).
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za noematico-trasversale (per cui la coscienza sarà strappata via dalla presenza a sé in vista di un ulteriore autotrascendimento). La Lebenspulse è dunque animata dalla discrasia vigente tra i due orientamenti intenzionali, dalla loro oscillazione antinomica. In ciascun vissuto alberga, per così dire, un nucleo di instabilità – un disequilibrio dialettico, appunto – indice di due funzioni costitutive antagoniste, la cui azione sinergica dà luogo alla pulsazione ciclica della vita intenzionale84. Husserl rimarca a più riprese la compresenza di questi due aspetti costitutivi interdipendenti. Dapprima, ricadendo nel linguaggio di Brentano, spiega che “ad ogni intenzionalità mediata appartiene la doppia ‘direzione’ dell’intenzionalità, sull’oggetto primario e sull’oggetto secondario, ossia sugli ‘atti’ e [sugli] oggetti primari nel come dei loro modi di datità” (XXXIII 10). Come si precisa nel testo Nr. 8, è infatti la modalizzazione noematica dell’oggetto, costituito nel come dei suoi modi protointenzionali, a rendere perspicuo un primo tipo di temporalizzazione rudimentale, la distinzione cioè tra le condizioni minimali di senso (forme noematiche) dell’ora (jetzt), dell’appena-passato (soeben-vergangen) e dell’appena-futuro (soeben-kommend) (XXXIII 142). Lungo il versante noematico si appronta l’incipiente fenomenizzarsi del tempo: distinzioni minimali come quelle tra passato e futuro, prima e dopo, si rendono disponibili grazie alle tendenze ritenzionali e protensionali dirette trasversalmente al contenuto oggettuale esperito di volta in volta. “Il tempo in sé stesso non è presente, non è stato e non sarà” (XXXIII 181) e ciò a ben vedere significa che il fenomenizzarsi del tempo non è nulla di diverso dalla modalizzazione noematica dell’oggetto in cui il tempo fenomenico per così dire si radica: “il tempo e i suoi oggetti non fluiscono, essi sono e questo ‘sono’ è rigido. Il flusso temporale non è il flusso del tempo, ma dei modi di datità del tempo e dei suoi oggetti” (XXXIII 182). Il fenomenizzarsi del tempo coincide dunque con l’oggettivazione della realtà costituita e con la soggettivazione correlativa della (inter)soggettività costituente: “il tempo è con i suoi og84
Per quanto detto e per quanto si dirà nella presente sezione cfr. Fig. 3, in cui ho cercato di districare la matassa di termini con cui Husserl descrive le due funzioni costitutive in gioco.
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getti in sé e però anche per me: tutto ciò che esiste di temporale è riferito al mio ora attuale. E ciò non vale solo per me, ma per ‘chiunque’” (XXXIII 194). Si rimarca cioè che la temporalizzazione non è un processo distinto rispetto alla dinamica di oggettivazione-soggettivazione; essa rappresenta anzi la possibilità di articolare questa stratificazione correlativa e ciò nel duplice senso di struttura e infrastruttura della correlazione. Dal punto di vista strutturale, il presente vivente costituisce l’intelaiatura di ogni esperienza cosciente, la forma di qualsiasi prestazione sintetica, dispiegandone il decorso formale di sviluppo85; dal punto di vista infrastrutturale, la Lebenspulse articola invece la dinamica correlativa secondo strati di costituzione temporale – dalla intemporalità del processo originario alla onnitemporalità degli oggetti eidetici e ideali86, passando per la prima forma rudimentale di temporalità immanente e per i gradi di obiettivazione temporale propri dell’empiria87. L’articolazione infrastrutturale è dunque indissociabile dall’oggettivazione dei membri di ciascun livello costitutivo e ciò in ragione del carattere individualizzante della forma temporale, la quale assume le vesti di un vero e proprio principium individuationis (XXXIII 299ss.)88. Ecco allora perché, secondo Husserl, par85 86
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“Struttura designa il complesso intreccio che appartiene a ogni fase concreta della vita psichica fluente” (IX 9). Cfr. XXXIII Nr. 18; EU § 64. Dal punto di vista husserliano, l’intemporalità (Unzeitlichkeit) e la sovratemporalità (Überzeitlichkeit) o onnitemporalità (Allzeitlichkeit) sono altrettanti modi del tempo. L’intemporalità del processo originario, lo si vedrà in questa sezione, non è equiparabile a una stasi bensì a un sottofondo ritmico sulla cui base la temporalità del vissuto può emergere contrastivamente. Dal punto di vista strutturale il presente vivente traccerebbe, per così dire, la coordinata orizzontale del campo trascendentale della costituzione, dal punto di vista infrastrutturale, invece, la coordinata verticale. L’ulteriore dimensione della profondità dovrebbe risultare dai modi di interazione di struttura e infrastruttura, prendendo cioè in considerazione il modo in cui le due dimensioni si coordinano nella concretezza armonica dell’esperienza. Tale concretizzazione dell’analisi esigerà una ridefinizione del rapporto vigente tra i vari “livelli” costitutivi (infra § 3.2.3). Nel 1918 Husserl presentava i Mss. di Bernau come propedeutici a una vera e propria fenomenologia dell’individuazione, capace di promuovere una “ontologia razionale fenomenologicamente fondata” (si vedano gli stralci di corrispondenza con Heidegger, Ingarden e Grimme citati da bernet, loHmar 2001, xxii). Per un’analisi più approfondita del problema dell’in-
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lare di un tempo vuoto, a prescindere cioè dal suo essere tempodi, costituisce un Nonsens (XXIV 271). Ecco perché la Zeitigung deve sempre essere intesa come un processo inscindibile eppure declinabile secondo i due versanti noetico e noematico della correlazione. Una correlazione che proprio per questo inizia a essere pensata quale autentico assoluto fenomenologico (vero a priori universale), a discapito dell’assolutezza che intorno al 1906-08 – ma del resto anche in Idee I – caratterizzava la coscienza in quanto polo soggettivo; quest’ultima va ora incontro a un conseguente percorso di de-assolutizzazione. Proprio in tal senso sembra interpretabile l’abbandono della nozione di coscienza assoluta a favore di quella di Urprozess, alla luce cioè del concomitante assolutizzarsi dell’a priori della correlazione e della messa a punto di un idealismo non più ammiccante al soggettivismo ma autenticamente correlativo. Husserl scrive nei Bernauer Mss.: Infine, noesi e noema divengono il problema centrale: sarebbe da determinare chiaramente in che modo questa distinzione di carattere generale sia assoluta e non meramente relativa come all’inizio ero in realtà incline ad assumere, e in che modo, in definitiva però, non resti come necessario qualcosa di assoluto89. […] L’ultima coscienza afferrabile […] è necessariamente [qualcosa] che si auto-costituisce in sé stessa (in quanto flusso), e tutti gli altri gradi noematici vi si consituiscono “di conseguenza” [abwärts]90. Ad ogni modo, reputo che questa coscienza originaria si possa descrivere propriamente solo attraverso le sue consistenze noematiche e queste si devono perseguire per gradi. (XXXIII 163)
L’ideale sistematico della fenomenologia rispecchia ancora quello emerso con la “svolta” trascendentale (supra § 1.5). La differenza sostanziale rispetto al passato consiste nella sopraggiunta
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dividuazione temporale si veda bernet (2004, 119-142) e summa (2012). Al riguardo si tenga presente XI 301-303. Avanzo l’ipotesi interpretativa per cui Husserl, dicendo che non resta qualcosa di assoluto come necessario, intenda qui riferirisi proprio alla coscienza assoluta emersa nel WS 1906-07. Non avrebbe molto senso tradurre letteralmente abwärts con “verso il basso” poiché, anzi, Husserl indica generalmente il livello del processo originario come l’ultimo, il più basilare; è dunque verosimile che Husserl intenda qui rimarcare una sorta di discendenza logica, intesa come dipendenza costitutiva degli strati noematici superiori rispetto quello più originario.
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integrazione della temporalità fenomenologica all’interno dell’infrastruttura costitutiva. Il processo di costituzione temporale rappresenta adesso l’epicentro fondativo e funzionale dell’architettura sistematica, ossia dell’articolazione correlativa degli strati costitutivi. A partire dal processo originario,in virtù del conferimento di senso, s’irradia tutta una stratificazione noematica secondo cui è possibile declinare la realtà costituita e di cui la temporalità rappresenta appunto l’intelaiatura infrastrutturale. Tornerò sulla questione della stratificazione nel prossimo capitolo. Adesso si consideri daccapo il problema dell’autocostituzione, dal momento che “il processo non soltanto scorre, ma è cosciente di sé stesso in quanto processo”, meglio: “è per sé stesso coscienza del processo” (XXXIII 29). L’articolazione strutturale della dinamica ripropone un dualismo di dimensioni temporali che mima i diversi orientamenti costitutivi della coscienza in quanto etero- e autoriferita. Come si specifica nel testo Nr. 10, “ tempo del flusso idealmente91 distinto dal tempo dei vissuti” (XXXIII 186). Abbiamo cioè a che fare con un “tempo trascendentale di primo grado”, che concerne gli “adombramenti spazio-temporali” dei dati di sensazione (tempo dei vissuti), e un “tempo trascendentale di secondo grado” che si rivolge “al flusso di questi modi di datità, alla forma temporale” complessiva del vivere intenzionale (tempo del flusso) (XXXIII 185). La coscienza risulta una volta di più percorsa da un duplice orientamento: da una parte è diretta all’oggettualità costituita, dall’altra a sé stessa in quanto flusso o processo costituente (XXXIII 42, 48, 148s.). L’insistenza di Husserl su questa duplicità inerente all’Urprozess non può in alcun modo essere intesa come un vezzo o una semplice retorica. L’importanza di questo aspetto è tale che su di esso si basa l’intero impianto della scienza fenomenologica e ciò, come più volte ricordato, per due semplici ragioni: 1) la prima è che in tale duplicità si annida il “germe” della correlazione fondamentale, facendo dunque dello Zeitbewusstsien quell’istanza onnipervasiva in grado di riprodurre l’a priori correlativo organicamente, per ogni àmbito e livello costitutivo; 2) la seconda con91
L’avverbio ideell sta qui a indicare che la dualità rilevata da Husserl vale soltanto in astratto, sotto il profilo analitico. Per la distinzione tra tendenza analitica e sintetica della ricerca fenomenologica husserliana infra § 3.2.
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cerne invece i prerequisiti della stessa indagine fenomenologica: la capacità del flusso di autoriferirsi coincide infatti con una forma minimale di evidenza interna al processo, una forma di autocoscienza (preriflessiva) sulla quale si fonda la possibilità stessa della riflessione e dunque dell’intera prassi descrittiva ed esplicativa della fenomenologia trascendentale92. Nelle ultime due sezioni sono stati fatti alcuni passi in avanti nel tentativo di comprendere come tale duplicità operativa possa essere riassorbita all’interno di una dinamica dotata di una certa complessità93. In questa sezione cercherò di trarre le opportune conclusioni da quanto già messo in conto. Come anticipato, stante lo stato frammentario e incongruente dei testi, non pretendo di avanzare un’interpretazione conclusiva ma soltanto un’ipotesi di lavoro che consenta di orientarsi in maniera sensata all’interno di questa mole di scritti e di apprezzarne la rilevanza per gli sviluppi successivi del percorso husserliano. In perfetta continuità rispetto alla soluzione avanzata negli ultimi testi Hua X, il tentativo di superare lo spettro del regresso della genesi costitutiva fa perno sull’autocostituzione del processo94. Proprio quest’ultimo 92
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Si veda il passo in cui Husserl lega tematicamente la questione dell’autocoscienza del flusso alla possibilità di una sua conoscenza: “se la coscienza fluisse e non potesse essere per sua propria essenza coscienza di questo fluire, allora non sapremmo mai e poi mai qualcosa del fluire” (XXXIII 103). È lo stesso Husserl ad impiegare a più riprese l’espressione kompliziert in relazione alla struttura del presente vivente (XXXIII 88, 197, 262; X 281 [285]). Un elemento di complessità ulteriore che emerge nei Mss. di Bernau concerne il modo in cui chi fenomenologizza può legittimamente pretendere di carpire la dinamica interna al processo, una dinamica che si pensa preposta rispetto a ogni tematizzazione possibile (infra 4.4). Non è dunque un caso che Fink abbia sviluppato una riflessione sul metodo fenomenologico anche a partire dalla lettura di questi manoscritti. Questa continuità merita di essere rimarcata perché riaffermata al di là di altre possibilità esplicative. kortooms (2002, 116-174) ha individuato nei Mss. di Bernau tre modelli alternativi secondo cui Husserl avrebbe cercato di venire a capo del puzzle rappresentato dallo Urprozess. Secondo Kortooms, soltanto il terzo modello avrebbe il merito di sventare con profitto il regresso e ciò in ragione del fatto che a differenza dei primi due consentirebbe un effettivo superamento dello schema costitutivo apprensione/ contenuto d’apprensione. Da parte mia perferirò concentrare l’attenzione sull’unica via effettivamente praticabile proposta da Husserl. Si tenga però a mente quanto segue. Mentre il primo modello ripropone un uso standard dello schema costitutivo criticato in precedenza (supra § 2.2.2), il secon-
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dovrebbe essere in generale non soltanto un [processo] auto-costituito, dunque auto-“percepito”, “internamente consaputo”, ma di tale sorta che, senza esigere un nuovo processo, dovrebbe essere un processo cosciente in sé stesso, per sé stesso costituente: dunque un ultimo processo originario, il cui essere sarebbe coscienza e coscienza di sé stesso e della sua temporalità. (XXXIII 191)
La situazione delineata da Husserl è ancora quella di uno stesso processo, sia pure articolato internamente in una duplice funzione costitutiva capace di orchestrarne l’operato lungo i due orientamenti proto-noetico e proto-noematico sottolineati a più riprese. Si tratta di un singolo “processo di vita” la cui intenzionalità “è da ‘penetrare’ secondo differenti direzioni” (XXXIII 207). Il primo passo da compiere per districare la matassa è allora quello di porre l’accento sulla mirabile autoreferenzialità del processo. Occorre dunque che ogni vissuto sia cosciente e anche coscienza di sé stesso. Tutto dipenderà ora dalla chiarificazione dell’autoreferenzialità [Selbstbezogenheit] del processo costituente i vissuti di primo grado, la quale inizialmente ricorda il barone di Münchhausen che si tira per il proprio ciuffo fuori dal pantano e che tuttavia non possiamo abbandonare se il regresso infinito deve essere evitato […]. (XXXIII 207)
do modello prevede l’ipotesi di un flusso iletico originario di per sé non constituito, ossia inconsciente, ma che può essere appreso/attenzionato riflessivamente e dunque costituito eventualmente in un secondo momento. In tal modo, però, lo schema apprensione/contenuto d’apprensione è riproposto in forma nuova, non più come necessità interna al flusso ma come suo possibile compimento supplementare (nachträglich). In questo modo, il rischio del regresso risulterebbe superato quanto alla sua necessità ma ancora in vigore quanto alla sua possibilità. Difatti, affidare la costituzione del flusso a un’istanza apprensionale ulteriore rispetto a un livello di per sé inconscio significa postulare l’eventualità non più di un regresso bensì di un progresso infinito dei livelli riflessivo-attenzionali supplementari (il contenuto iletico diverrebbe cosciente in una nuova apprensione, la quale diverrebbe cosciente per mezzo di una riflessione su tale apprensione e così via, etc.). Proprio contro questo modello Husserl riafferma con forza l’idea di una fondamentale autoreferenzialità del processo originario e del vissuto in particolare: “se un vissuto immanente di primo grado è originariamente cosciente, allora è evidente che la costituzione dello stesso gli appartiene inseparabilmente in quanto vissuto immanente e non è appercepito solo suppletivamente” (XXXIII 207).
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Non sembra esserci alternativa. A distanza di anni l’idea dell’autoriferimento del flusso, della sua autocostituzione, sembra essere l’unica in grado di evadere il regresso della genesi costitutiva95. A differenza dei testi precedenti, però, la rinnovata concezione del presente vivente offre a Husserl la possibilità di pensare l’autoreferenzialità del processo in maniera più convincente. Rispetto al testo Nr. 54 di Hua X, infatti, i manoscritti di Bernau presentano un modello dinamico e non più statico di autocostituzione (kortooms 2002, 156, 163). Non si ha più a che fare con due livelli di costituzione semplicemente giustapposti in un rapporto di fondazione – per cui la coscienza assoluta costituirebbe i vissuti che a loro volta costituirebbero l’oggetto trascendente – bensì con una dinamica dotata di una duplice funzione operativa. La decodifica della struttura sintetica del presente vivente (supra § 2.3.2) consente di comprendere l’autoriferirsi del flusso non come una proprietà istantanea, per cui ciascuna fase risulterebbe seduta stante cosciente di sé stessa, bensì come un’autocoscienza, per così dire, “temporalmente”96 distribuita lungo le fasi del flusso. Da qui il carattere dinamico del nuovo modello. Vediamo di chiarire meglio il tutto. In seguito al ripensamento del presente vivente e al chiarimento dell’apporto costitutivo della protensione, Husserl distingue tra un riempimento generale (allgemeine Erfüllung) e uno particolare (besondere Erfüllung) del processo originario (XXXIII 29s.), a se95
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Nel loro interessante saggio, bergmann e Hoffmann (1989) rimarcano l’importanza della categoria di autoriferimento per lo studio dei sistemi complessi e autopoietici, di cui la coscienza rappresenta un caso esemplare. Pur non confrontandosi con i testi dirimenti dei Bernauer Mss., all’epoca ancora non pubblicati, i due autori individuano nella fenomenologia husserliana tre tipi di autoreferenzialità (basale, strutturale, riflessiva) facenti capo ad altrettanti livelli (temporalmente) costitutivi (fluire coscienziale, memoria, riflessione). Secondo i due autori, la stabilità e il normale funzionamento del sistema coscienza dipenderebbero dalla possibilità di riferirsi a sé stessa. Stando alla loro terminologia, nel prosieguo della sezione approfondirò la questione dell’autoriferimento basale. Il virgolettato è qui d’obbligo visto che stiamo parlando della dimensione costitutiva originaria che Husserl stesso non esita, come visto, a qualificare come zeitlos. Eppure, alla luce della dinamica interna all’Urprozess, sembra opportuno preservare una specifica forma temporale per la dimensione autocostitutiva del flusso, nella fattispecie, come si chiarirà alla fine della sezione, una temporalità ritmica.
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conda cioè che si consideri l’andamento rispettivamente longitudinale e trasversale del flusso. Mediante il riempimento generale il processo si autocostituisce riferendosi a sé stesso. Questo autoriferimento è dinamico perché prediretto (la protensione anticipa le proprie fasi di decorso ritenzionale) e retrodiretto (la ritenzione riepiloga le fasi protensionali intercorse): “ciascun momento attuale di coscienza […] ha in sé un duplice orizzonte, è coscienza prediretta e rivolta all’indietro” (XXXIII 46). In tal modo, portando a compimento quanto emerso nella scorsa sezione, si direbbe che l’autoreferenzialità del processo sia di natura ricorsiva e non istantanea. Sotto il profilo noetico-longitudinale, il flusso si costituisce in un costante autotrascendimento e in una pedissequa riappropriazione di sé, dando luogo a una sorta di auto-riempimento strutturale o formale del processo, per cui “una coscienza si riempie mediante una coscienza in una ‘coincidenza’ successiva” (XXXIII 226)97. L’autoriempimento longitudinale è dunque reso possibile dal co-implicarsi delle fasi ritenzionali e protensionali, nella misura in cui la coscienza che riempie è di fatto la stessa che risulta riempita. Detto in altre parole: lo sprofondamento ritenzionale (la coscienza che riempie98) conserva l’anticipazione protensionale che fu (la coscienza da riempire), ponendo così le basi per una nuova anticipazione, ovvero per una nuova coscienza tendente al riempimento. Sotto un profilo formale, la vita cosciente consiste di questa autoreferenzialità “temporalmente” distribuita, attraverso la quale il flusso autocostituisce ricorsivamente la propria coincidenza con sé stesso. La nuova concezione del presente vivente ha reso altresì edotti circa l’inseparabilità del momento autocostitutivo formale (riempimento generale-longitudinale) e di quello costituente materiale (riempimento particolare-trasversale). Anzi, ha fornito spunti preziosi al fine di chiarire il rapporto di questo dualismo non più sostanziale (due livelli) bensì operativo (due funzioni). Si è infatti descritta la dinamica interna al processo originario come una dia97 98
Come si ricorderà la coincidenza di sé con sé del flusso era esattamente la prestazione sintetica offerta dall’intenzionalità longitudinale in Hua X (supra § 2.2.3). Che anche le fasi ritenzionali siano da considerarsi una forma di Erfüllung, in quanto capaci di realizzare una sorta di Gesamtretention della struttura formale della coscienza, sarà ribadito in Mat VIII 266.
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lettica emergenziale contraddistinta da una insanabile estaticità. Tale disequilibrio dialettico, così ci si è espressi, è dovuto proprio alla discrasia operativa vigente tra le due tendenze costitutive (noetica e noematica). Il riempimento particolare (trasversale) incarna allora una tendenza anticiclica rispetto al riempimento generale (longitudinale). L’emergere dell’ora come climax presentativo dell’oggetto si pone agli antipodi rispetto al vuoto intuitivo raggiunto mediante la sua depresentazione; e tuttavia, questo minimo intuitivo coincide con il massimo di pienezza a sé della coscienza, ovvero con il massimo dell’auto-riempimento formale dell’intero processo. Si capisce allora, rendendo parzialmente giustizia alla precedente formulazione husserliana (X Nr. 54), come “l’autoapparizione del flusso non richied[a] un secondo flusso” e come “il costituente e il costituito coincid[a]no, anche se ovviamente non possono coincidere in ogni aspetto” (X 381s. [365*]). Non coincidono in ogni aspetto poiché la perfetta coincidenza tra costituito e costituente è inficiata dalla discrasia del duplice orientamento costitutivo, ragion per cui l’autocostituzione longitudinale risulta ogniqualvolta mediata dalla costituzione trasversale. La mediazione, come visto in precedenza, è dovuta al grado di riempimento di volta in volta in gioco lungo le due direzioni costitutive. Il grado di riempimento è infatti inversamente proporzionale nei due casi in questione: il massimo riempimento particolare-oggettuale (terminus ad quem) coincide con il minimo riempimento generaleformale, il massimo riempimento generale (terminus a quo) con il minimo particolare (Fig. 3). Soltanto in virtù di questa interdipendenza funzionale è possibile sancire la coappartenenza dei due orientamenti costitutivi alla stessa dinamica processuale. A questo punto dovrebbe risultare intelligibile come il flusso possa manifestare una duplicità operativa stante la propria unità sostanziale. Conviene dunque rideclinare il processo originario secondo le varie accezioni menzionate (supra) nella sezione § 2.3.1. Al termine di questo ripasso proporrò un’accezione ulteriore in grado di ricomprendere le precedenti in una caratterizzazione complessiva del processo. Avevamo parlato del flusso assoluto in termini di temporalizzazione, differenziazione, polarizzazione, tutte connotazioni in grado di cogliere un aspetto parziale dell’Urprozess. In seguito alla ridefinizione della dinamica interna al presente vivente possiamo precisare meglio ciascuna di esse.
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Per quanto riguarda la temporalizzazione Husserl tende a mantenere due accezioni temporali distinte relative ai due diversi orientamenti costitutivi. Lungo il versante trasversale si origina una temporalità immanente in virtù dell’oggettivazione-successione dei momenti presenti, ossia del succedersi dei riempimenti intuitivi particolari. Più interessante è capire semmai che tipo di temporalizzazione inerisca all’orientamento longitudinale del processo. Sebbene se ne parli come di una dimensione intemporale (come un nunc stans), alla luce del resoconto della Lebenspulse offerto nei Bernauer Mss. sembra più sensato interpretare l’autoriempimento formale del flusso nei termini di un sottofondo ritmico. La nozione di Rhythmus non è estranea al corpus husserliano. Nel testo Nr. 10 di Hua X, si parla di ritmo in relazione alla pienezza dell’intenzione (X 165 [188]), mentre in un brano dei tardi C-Mss. dell’“io [e] dei suoi atti temporalizzati nel loro ritmo” (Mat VIII 49)99. A ben vedere, dunque, si potrebbe avanzare l’ipotesi che la tendenza autocostitutiva del flusso dia luogo a una ritmica interna al processo, una pulsazione appunto, secondo cui la coscienza costantemente si estrania e si riappropria di sé. Dal punto di vista della coscienza interna non ha infatti alcun senso parlare di uno scorrere del tempo giacché la struttura formale del processo si ripete ciclicamente come eguale a sé stessa (come un autoriempimento innescato dalla co-implicazione di ritenzioni e protensioni). Lo scorrere del tempo, una prima rudimentale successione, emergerebbe dunque soltanto lungo l’orientamento trasversale, attraverso cioè il succedersi del riempimento particolare. Secondo questa ipotesi, i diversi modi di temporalizzazione della duplice tendenza costitutiva del flusso consentirebbero anche di declinare il processo in termini di differenziazione100. In particolare, la temporalità seriale dei vissuti emergerebbe contrastivamente rispetto alla temporalità ritmica del flusso. In alcune belle pagine della sua tesi di dottorato (Vergegenwärtigung und Bild), Fink parla delle diverse temporalità che contraddistinguono i modi della presentazioAltre occorrenze della nozione di Rhythmos presenti in Hua XXXVIII e XI saranno prese in considerazione nel prossimo capitolo. 100 Tale differenziazione non va confusa con la gradazione differenziale della pienezza intuitiva propria dei due diversi riempimenti (particolare e generale).
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ne e della presentificazione in termini di differenze ritmiche, di una differente “velocità trascendentale del tempo”. In particolare, mentre l’io si troverebbe imposto il ritmo (Tempo) della presentazione originaria dei vissuti – essendo eventualmente in grado di sovradeterminarlo mediante una variazione ritmica dei modi dell’attenzione o disattenzione – sarebbe invece in grado di variare a piacimento quello proprio del ricordo (“posso lasciar scorrere un ricordo ora ‘velocemente’ ora ‘lentamente’”) (SPh 53ss. [110s.])101. Assecondando l’intuizione finkiana e trasponendola all’interno del processo originario si comprende l’intemporalità del fluire come una forma ritmica sempre uguale a sé stessa. Diventa cioè possibile mantenere per il nunc stans la valenza di un’eternità presente accreditando al contempo una certa dinamicità all’intero processo102. Di conseguenza, sulla base cioè del sottofondo ritmico inscenato dal costante autoriferimento strutturale del flusso, tutta una gradazione noematica di tempi può avanzare la pretesa di differenziarvisi al modo di una variazione ritmica. L’oggettivazione di diversi gradi noematici di tempi scombina cioè l’invarianza ritmica (autoreferenziale) del processo e ciò di necessità, poiché mentre nell’autocostituzione il flusso ha a che fare solo con sé stesso, col progredire dell’oggettivazione esso si apre a una molteplicità (noematica) di modi temporali (a titoli di esempio: tempo della sensazione, del ricordo, della fantasia, tempo della cosa empirica, dell’alternanza giorno/notte, delle stagioni, tempo della periodizzazione storica, degli orologi, tempo fisico-matematico, delle idealità, etc.). Restando al processo originario, come anticipato, la differenziazione assume i tratti di una polarizzazione divergente. Il flusso, a partire da una dimensione di indistinzione costitutiva, si polarizza nella realtà effettiva di un vissuto intenzionalmente strutturato. In ragione del duplice orientamento costitutivo, il flusso distingue sé stesso, attualizzandosi nell’unità di un vissuto, e lo stesso vissuto dall’oggetto presentato (costituito) come trascendente. La duplice temporalizzazione consente l’emergenza 101 Su questo aspetto si veda già Husserl in X 197 [215]. Cfr. inoltre EU 310 [631] dove si parla di “ritmo del giudizio”. 102 La qualificazione del fluire originario come stasi a-temporale ci porrebbe altrimenti dinanzi alla questione insolubile di una generazione ex nihilo del tempo.
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contrastiva, rispetto all’invarianza autoreferenziale del processo, della correlazione tra polo oggettivo (l’oggetto come portato sintetico di una molteplicità di adombramenti) e polo soggettivo (l’io come portato sintetico di una molteplicità di vissuti103) del rapporto intenzionale. Soltanto grazie a questa polarizzazione dell’orizzonte manifestativo, Husserl può validare geneticamente la propria concezione della relazione cogito-cogitatum come un campo di irradiazione (Ausstrahlung) e convergenza (Einstrahlung) intenzionale strutturato egologicamente (IV 105 [110]; XIV 30; IX 315 [94]). Solo presupponendo l’apporto costitutivo del processo originario, egli può rilevare “nell’essenza della sfera dei vissuti una certa straordinariamente importante bilateralità che ci consente di dire che in ogni vissuto si deve distinguere un lato orientato soggettivamente da un lato orientato oggettivamente” (III/1 180 [201]; cfr. IX 316 [95])104. Ora, volendo cogliere l’operato dell’Urprozess nel suo complesso, cercando cioè di riassorbire le accezioni proposte in una dizione che renda conto complessivamente del suo apporto costitutivo originario, la nozione di fenomenizzazione (Phänomenierung) sembrerebbe proporsi d’acchito come la candidata più idonea. Non v’è infatti alcun dubbio che il vivere della coscienza attenda al primo fenomenizzarsi della realtà. Tuttavia, in considerazione del fatto che la fenomenizzazione riguarda ogni grado costitutivo, dal più originario sino al più derivato, essa risulta a ben vedere un termine troppo generico se utilizzato per indicare la dimensione originaria del presente vivente. Vi è allora una nozione più tecnica che ben si attaglia a riassumere l’operatività 103 Stando almeno alla formulazione delle Idee. Del resto, la concezione più tarda della monade come sostrato di abitualità (I § 32) non sembra palesare una diversa struttura formale. La problematica dell’io in relazione al processo originario sarà affrontata più avanti (infra § 3.3). 104 Si noti ancora una volta come una simile bilateralità tematica si rifletta in una bipartizione metodica dell’indagine fenomenologica: “Aggiungiamo subito che a questa bilateralità corrisponde, almeno in notevoli tratti, la partizione (sebbene non sia una vera separazione) delle ricerche, una parte delle quali si orienta verso la pura soggettività, l’altra parte verso ciò che inerisce alla ‘costituzione’ dell’oggettività per la soggettività” (III/1 180 [201s.]). Questa partizione rispecchia l’aspirazione sistematica della fenomenologia, ossia il perseguimento dell’articolazione correlativa della costituzione che si stratifica nei rivoli coordinati di oggettivazione e soggettivazione.
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funzionale dell’Urprozess. La proposta che intendo avanzare è la seguente: stando al senso d’insieme del suo apporto costitutivo, il processo dà luogo a una prospettivizzazione originaria (Urperspektivierung) dell’orizzonte manifestativo105. Anche in questo caso, come per la nozione di ritmo, il termine Perspektivierung non è estraneo al corpus husserliano: ricorre infatti in alcuni scritti dei tardi anni ’20 (XIV 521, 539) e soprattutto degli anni ’30 (XV 207, 262, 269, 287, 306s., 311s., 649, 651, 654, 662s.; Mat VIII 208, 210; Ms. D 10 III; VI 108, 225 [135, 243]). Perlopiù, la nozione è impiegata per descrivere il ruolo dei sistemi cinestesico e locomotorio nella definizione della prospettiva spaziale, il che sembrerebbe escludere qualunque ipotesi dedita a connotare una dimensione eminentemente temporale. E tuttavia non mancano luoghi in cui la nozione viene declinata temporalmente (VI 108 [135]; Mat VIII 210). Al di là delle occorrenze del termine, però, ciò che qui occorre tenere a mente è il fatto per cui Husserl abbia sempre cercato di pensare tempo e spazio in maniera analogica. Senza che ciò finisse per sconfinare – secondo l’ammonimento di Bergson – in una concezione spazializzata del tempo, Husserl ha sempre mostrato una certa confidenza nella possibilità di chiarire reciprocamente le due dimensioni. Del resto, il progetto di estetica trascendentale fenomenologica s’impegna in un’interpenetrazione della spazio-temporalità basata sul terreno condiviso della prestazione sintetica della coscienza. Ecco perché sin dall’epoca delle Dingvorlesungen, per Husserl, “l’estensione temporale è affratellata [verschwistert] con quella spaziale” (XVI 65 [81])106. Cerchiamo dunque di avvalorare l’ipotesi di lettura dell’Urprozess come Urprospektivierung dell’orizzonte manifestativo. Nel testo Nr. 53 di Hua X, Husserl parla dello sprofondamento (ritenzionale) al modo di un “contrarsi” o “restringersi” (sich zusammenziehen) della prospettiva temporale, in analogia a quella spaziale (X 367 [353]; cfr. X 26 [62]). Non solo: già nel Nr. 45, pur invitando a 105 Per quanto si dirà si tenga presente oltre alla Fig. 3 anche la Fig. 4. 106 Su questo aspetto cfr. summa (2014). L’autrice ha avuto il merito di mostrare inequivocabilmente come l’estetica trascendentale implichi una trattazione congiunta dello spazio-tempo. L’accento posto sulla prospettivizzazione potrebbe aiutare a integrare le due dimensioni, radicando l’intreccio spaziotemporale all’interno della dinamica del processo originario. Per quanto si dirà circa l’analogia tra prospettiva temporale e spaziale v. anche XI 295-301.
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non prendere alla lettera l’analogia e a precisarne il rigore in ulteriori ricerche (X 305 [304]), Husserl aveva instaurato un parallelo tra lo sfondo spaziale di un’intenzione “complessa”, come quella tipica della percezione impropria (co-percezione) del lato posteriore di un oggetto, e lo sfondo temporale dell’ordinamento di una durata oggettuale intesa in primo piano (Vordergrund) (X 304 [303s.]). Nei Mss. di Bernau, l’idea di una prospettiva temporale è rilanciata in alcuni brani del testo Nr. 4. Qui i fenomeni di affievolimento ritenzionale (Abklangsphänomene) sono descritti come capaci di produrre una sorta di accorciamento o rimpicciolimento prospettico (perspektivische Verkürzung/Verkleinerung) (XXXIII 70), un restringimento (Zusammenrücken) dell’orizzonte di passato (XXXIII 76s.). Husserl si chiede espressamente: “come si definisce tecnicamente l’orizzonte nella dottrina della prospettiva?”. Rievocando l’analogia con lo spazio, spiega poi come la prospettiva sia frutto della distanza che il digradamento del contenuto produce rispetto all’ora presente (XXXIII 73)107. Quest’ultimo può essere inteso come una sorta di “punto focale [Brennpunkt]” (XXXIII 275) a partire dal quale decorrono i vari continua ritenzionali, non però secondo traiettorie parallele come quelle tracciate dai diagrammi husserliani, bensì tenendo conto del loro convergere verso il grado zero della pienezza intuitiva108. Queste considerazioni dedicate al versante ritenzionale possono essere facilmente estese
107 Sull’analogia spazio-temporale e la prospettiva intesa come “struttura di vicinanza-lontananza [Nah-fern-Struktur]” cfr. il brano del 1927 in XXXII 224 [327]. 108 Husserl si rammarica più volte che la dimensione prospettica del decorso non sia resa nei diagrammi (XXXIII 73, 209), arrivando però a descrivere come questi possano essere modificati così da restituire l’accorciamento ritenzionale della prospettiva (XXXIII 77s.). Riporto qua sotto la versione offerta da kortooms (2002, 172) del diagramma modificato. Il restringimento prospettico si evince dalla convergenza delle linee di sprofondamento, ossia dalla progressiva riduzione degli intervalli che li separano (si confronti per chiarezza con il grafico non modificato in XXXIII 78).
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a quello protensionale109. Questa estensione deve naturalmente invertire qualitativamente il senso del mutamento di prospettiva, così da intendere la protensione non come un restringimento bensì quale allargamento o ampliamento prospettico (perspektivische Verbreiterung110). Dal punto di vista dell’orientamento costitutivo trasversale avremmo allora a che fare con una pulsazione vitale descrivibile non solo in termini di riempimento e svuotamento intuitivo ma anche in termini di ampliamento e restringimento prospettico (Fig. 4). Il quadro deve però essere complicato dalla presa in considerazione dell’orientamento auto-costitutivo longitudinale. In tale direzione mi pare si possano leggere i continui richiami di Husserl a uno sfondo temporale. Riflettendo infatti sulla coscienza del flusso, egli si chiede: “l’unità temporale è effettivamente cosciente ‘nello sfondo [im Hintergrund]’ in quanto temporale […]?” (XXXIII 195). Come appurato, un modello esplicativo che voglia scongiurare il regresso all’infinito deve poter rispondere affermativamente alla domanda, poiché “il processo [...] è cosciente senza che qualche notare lo afferri, esso si svolge nello ‘sfondo’ eppure vi è cosciente” (XXXIII 197). A ben vedere, si sta riflettendo su una dimensione processuale “‘cosciente’ ma non ‘notata (afferrata)’” (XXXIII 197n.), ovvero su un orizzonte costitutivo intessuto da una vera e propria “intenzionalità di sfondo” (XXXIII 243n.)111. A ciò si aggiunga quanto precisato
109 Husserl parlerà di sfondi ritenzionali e protensionali in Mat VIII 100. 110 Nei C-Mss. compare la nozione di ampiezza (Breite) riferita al presente vivente (Mat VIII 51ss.). 111 L’espressione è tratta da un’annotazione piuttosto controintuitiva apposta al § 1 del testo Nr. 12. Letta per intero essa recita: “Un tentativo di pensare
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nei C-Mss., ossia che “ogni inserzione d’atto presuppone già [un] sottofondo fluente [stromenden Untergrund112] e che in ciò è già costituito come unità” (Mat VIII 47). La continuità del passato presupposta dalla rimemorazione è infine costituita dall’immancabile autocoincidenza (Selbstdeckung) delle fasi ritenzionali, al modo di un sottofondo (Mat VIII 436). A questo punto sembra lecito avanzare la seguente proposta interpretativa: la duplicità funzionale interna al presente vivente, la dialettica emergenziale inscenata dalle tendenze trasversale e longitudinale del flusso, coincide con la prospettivizzazione originaria dell’orizzonte manifestativo. Secondo il nuovo modello presentato nei Bernauer Mss., l’ora emerge come presente in virtù della co-implicazione di ritenzione e protensione. Questa emergenza può essere pensata coma una prospettivizzazione per cui il vissuto risalta a partire dal proprio sfondo, ossia sulla base dell’autocostituzione del flusso in quanto sottofondo ritmico sempre uguale a sé stesso. La costituzione di un tempo fenomenale, ordinato secondo rapporti di coesistenza e successione presuppone approfonditamente le conseguenze contrarie della mia vecchia concezione. Una intenzionalità di sfondo che costituisce già gli oggetti temporali è negata. Importante per le aporie”. Se interpreto bene il passo in questione, Husserl sta proponendo una dimostrazione per assurdo della necessità della Hintergrundintentionalität; si propone cioè di negarla al fine di mostrare come l’antica concezione (l’adesione allo schema apprensione/contenuto d’apprensione) conduca a esiti aporetici. A maggior ragione, nel successivo § 2, egli procede allo sviluppo di un modello alternativo a quello imperniato sullo schema apprensionale. Questa precisazione sembra tanto più opportuna in quanto all’incirca dieci anni prima, nel WS 1906-07 e forse facendo leva proprio sullo schema costituitivo poi rigettato, Husserl manifestava delle perplessità circa l’idea di una coscienza di sfondo nel senso dell’essere vissuto (Erlebtsein) della coscienza assoluta (XXIV 252 [295]). Tali perplessità sembrano però rigettate da Husserl già nel SS 1909, dove si prevede un’azione costitutiva anche per ciò che non viene attenzionalmente appreso (cfr. l’esempio della casa in XXIII 266 [157]), e soprattutto nel § 45 di Idee I, ove si parla espressamente della presenza irriflessa dei vissuti al modo di uno sfondo (III/1 95 [110]). 112 Nei Mss. degli anni ’30 prevale l’uso della dizione Untergrund forse per sottolineare meglio il (sotto)fondo di passività preposto all’attività dell’io. Ciò nonostante, Husserl sembra spesso impiegare Hintergrund e Untergrund come termini interscambiabili; del resto, come si mostrerà nel prossimo capitolo, passività e temporalità originaria sono aspetti complementari del medesimo Urphänomen.
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dunque l’implicito rimando a uno sfondo (in)temporale di (auto) riferimento, sulla cui base poter emergere contrastivamente e palesarsi dunque in primo piano. Leggere la dinamica interna al processo originario alla stregua di una Urperspektivierung consente di tenere assieme gli elementi di complessità affrontati in precedenza. La prospettivizzazione non soltanto aiuta a esplicitare il senso della temporalizzazione del flusso, ma la coordina con le accezioni ulteriori (differenziazione e polarizzazione). Tipicamente, infatti, il rapporto prospettico tra primo piano e sfondo è intrinsecamente polarizzato così come richiesto dalla struttura del vissuto intenzionale. Per di più, l’ipotesi della prospettivizzazione conserva il senso della dualità costitutiva all’interno dell’unità di uno stesso processo. Il vissuto si staglia come un’onda (o un rilievo) in primo piano rispetto al flusso che opera come uno sfondo; se ne differenzia pur rimanendovi vincolato da un rapporto di intermediazione prospettica. Tale rapporto, inscindibile, attesta in maniera inequivocabile l’unità sintetica della vita di coscienza al netto della sua differenziabilità interna. Come recita il § 18 delle Meditazioni cartesiane in una sorta di compendio del percorso svolto in questo capitolo: La sintesi, però, non si trova solo in tutti i singoli vissuti di coscienza e non connette solo occasionalmente i vissuti singoli tra loro. L’intera vita di coscienza è piuttosto […] unificata sinteticamente. Proprio per questo, l’intera vita di coscienza è un cogito universale che comprende sinteticamente in sé tutti i singoli vissuti emergenti in essa e che ha il suo cogitatum universale, fondato a diversi livelli su molteplici cogitata particolari. […] ogni vissuto singolo immaginabile è solo un’emergenza [Abgehobenheit] all’interno di una totalità di coscienza già sempre presupposta come unitaria. Il cogitatum universale è la vita universale stessa nella sua unità e totalità infinitamente aperta. […] La forma fondamentale di questa sintesi universale, quella che rende possibili tutte le sintesi di coscienza particolari, è l’onnicomprensiva coscienza interna del tempo. (I 80s. [115])
Infine, leggere il processo al modo di una prospettivizzazione originaria consente di chiarire in che modo il rapporto correlativo tra oggettivazione noematica e soggettivazione noetica risulti essere un’operazione, per così dire, di costituzione in parallelo. Da una parte, l’estensione temporale del vissuto emerge contra-
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stivamente sullo sfondo offerto dal riferimento ritmico a sé del flusso; dall’altra, lo sfondo ritmico, questo intemporale riferirsi a sé è presentito – vissuto preriflessivamente come sfondo – solo in ragione della concomitante emersione del vissuto. Lo sfondo è sempre sfondo a partire da un focalizzarsi, dall’attualizzarsi di un primo piano; ecco perché non è possibile concepire l’autocostituzione del flusso come un retroagire differito rispetto alla costituzione del vissuto, come una costituzione suppletiva (nachträglich) di natura attenzionale o riflessiva. Non stiamo qui descrivendo due momenti temporalmente differiti, bensì due aspetti concomitanti (zugleich) del medesimo processo: l’emergere del vissuto in primo piano è già di per sé l’autocoscienza (preriflessiva) del flusso come sfondo prospettico. Sono due aspetti concomitanti del medesimo sommovimento costituente, della dialettica differenzialeemergenziale innescata dalla duplicità intenzionale della coscienza interna del tempo. Nel prossimo capitolo cercherò di corroborare quanto appena rilevato attraverso una disamina della passività sintetica, cercando cioè di integrare l’analisi dello Urprozess con i temi dell’associazione, dell’affezione, dell’inconscio – all’insegna cioè di un rinnovato accento posto sul momento materiale della costituzione.
3 LA MATERIA DEL TEMPO: INTEGRAZIONE E CONCRETIZZAZIONE DEL FONDAMENTO
§3.1 Il nesso genetico-costitutivo tra temporalità e sintesi passiva Das „Chaos“ der „Eindrücke“ organisiert sich — die Eindrücke noch keine Gegenstände, Reduktionselemente, genetische Urelemente, auf die derAbbau der Intentionalität und ihre Genesis zurückführt. Ungegliederte Affinität, ungegliederte „Gegenstände“. Die Synthesen machen die Gegenstände nach Prinzipien, die nur durch „Analyse“ gewonnen werden können. Voran gegeben und evident ist immer die „fertige“ Struktur der impressionalen Welt mit ihren Einheiten und ihren sie bedingenden Affektivitäten. Wie kann man daraus eine ideale Genesis aus dem Chaos zeichnen?1
§3.1.1 Il ritorno alla Urhyle quale complemento dell’analisi temporale Al termine dell’Introduzione apposta al ciclo di lezioni raccolte sotto il titolo Analysen zur Passiven Synthesis, Husserl chiarisce che “queste analisi intenzionali, in sé difficili e ramificate, appartengono a una genesi universale della coscienza” (XI 24 [98]). Subito dopo prosegue affermando: se il tema delle analisi costitutive consiste nel rendere comprensibile […] come la percezione stessa realizzi il suo conferimento di senso e come, attraverso ogni presunzione vuota, si costituisca l’oggetto in quanto senso di manifestazione ottimale che si presenta sempre e soltanto in maniera relativa, allora il tema delle analisi genetiche è quello di rendere comprensibile come, nello sviluppo che appartiene all’essenza di ogni corrente di coscienza e che è al contempo sviluppo egologico, si dispieghino quei complicati sistemi intenzio1
XI 414.
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nali attraverso cui può manifestarsi alla coscienza e all’io un mondo esterno. (XI 24 [98*])
Oltre a una caratterizzazione riassuntiva dei momenti di cui consta l’indagine fenomenologica – quello costitutivo (qui in senso statico) e quello genetico – il passo in questione offre un’indicazione degna di nota. Si precisa infatti che lo sviluppo interno al fluire coscienziale “è al contempo sviluppo egologico”. Ciò è quanto abbiamo evidenziato mostrando la natura intimamente correlativa dello Zeitbewußtsein, capace cioè di orchestrare una costituzione in parallelo della dimensione oggettuale e di quella soggettiva2. Tutto questo è stato esplorato sotto il profilo della temporalità fenomenologica ma con l’intento sinora differito di integrare questo punto di vista con quello della passività sintetica. Del resto, l’esigenza di una simile operazione emerge già nei Mss. di Bernau e trova conferma nelle Lezioni sulla sintesi passiva. Vediamo in che modo. Due brevi ma significativi testi (XXXIII Nrr. 14-15) danno voce a una sottotraccia che sembra percorrere la riflessione husserliana in quel di Bernau (1917-18). I ripetuti tentativi di emanciparsi da un modello costitutivo che prevede il ricorso a un contributo apprensionale, attenzionale o riflessivo da parte dell’io rappresentano altrettanti spunti verso la definizione di ciò che negli anni ’20 sarà precisata come sfera della precostituzione (Vorkonstitution). Il grande sforzo di Husserl è teso a sfrondare progressivamente la dimensione costitutiva originaria di tutte le prestazioni sintetiche di grado più elevato. Da qui la necessità di ricalibrare la riduzione trascendentale alla luce del nuovo andamento della fenomenologia genetica, di rifunzionalizzarla per gli scopi precipui di quest’ultima. La riduzione è riproposta alla stregua di un “ritorno”, dapprima alla dimensione della temporalità e quindi alla coscienza originaria preposta alla sua costituzione (XXXIII 281). Naturalmente, come sempre capita nello sviluppo della fenomenologia husserlia2
Soltanto alla fine del presente capitolo (infra § 3.3) saremo in grado di porre correttamente il problema dell’io in relazione al flusso di coscienza. L’appianamento di tale questione esige infatti un preliminare sforzo volto a concretizzare i risultati dell’analisi temporale e a codificare quelle che ritengo essere due tendenze operative (analitica e sintetica) della fenomenologia genetica husserliana.
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na e come spiega il testo Nr. 14, l’impiego operativo del metodo anticipa la sua compiuta sistemazione e tematizzazione, nella misura in cui la prassi fenomenologica necessariamente prelude alla riflessione critico-metodologica sul proprio operato. All’inizio di un lungo passo in cui si prospetta l’elaborazione del dominio della passività sintetica condotta negli anni successivi, Husserl scrive: Abbiamo compiuto la riduzione fenomenologica nella direzione da me stabilita. Con ciò abbiamo messo fuori circuito il “mondo”. a) Intendiamo ora esercitare pienamente consapevoli un tipo di riduzione che abbiamo già esercitato ma senza denominarla chiaramente: la riduzione alla “sensibilità originaria” [corsivo aggiunto]. […] Abbiamo quindi nel primo ordine temporale immanente dati di sensazione e affetti sensibili. Pulsioni sensibili sono affezioni in relazione all’io, e un passivo esser-tratto [Gezogensein] dell’io; allo stesso modo realizzazioni “sensibili”, “azioni pulsionali” sono reazioni passive, ma passivamente niente deriva qui dall’io sgorgando a sé stesso come actus. È dunque la sfera degli “stimoli” e delle reazioni agli stimoli: irritabilità. Ma noi vogliamo ancora mettere fuori gioco questo, poiché ciò porta in gioco l’io. Ossia, da questo dominio distinguiamo le tendenze sensibili “completamente non egologiche”: tendenze sensibili dell’associazione e riproduzione, con ciò formazioni d’orizzonte determinate. domanda come ciò si relaziona già con la coscienza temporale originaria [corsivo aggiunto]. Intenzionalità passiva. Qui è pensato fuori gioco anche l’io come polo di affezioni e reazioni, o piuttosto se ne è fatta astrazione. Abbiamo dunque allora una prima struttura da estrapolare “astrattivamente”, quella della passività della sensibilità originaria. b) Noi prendiamo poi in considerazione l’io e la polarizzazione dell’io. E precisamente si ottiene come prima cosa l’irritabilità, il dominio delle affezioni e reazioni, che naturalmente presuppone il primo livello. c) E quindi, come terzo livello (che presuppone i precedenti), il dominio dell’intellectus agens. Tuttavia dobbiamo prima di nuovo separare: le partecipazioni dell’io come partecipazioni dell’io desto sono differenti. “Attenzione”. L’io è attento, è desto per qualcosa in particolare, diretto su questo, diretto come io-polo su un polo intenzionale, un polo-contrario [Gegenpol], un oggetto, in modi diversi, afferrando, sentendo, desiderando, volendo. Occorre qui una teoria dell’attenzione, dell’esser-desto e della separazione dei gradi di passività nella vigilanza, del cedere [dell’io agli stimoli]; d’altra parte, dell’essere spontaneo in senso pregnante, del compimento di specifici atti dell’io. (XXXIII 275s.)
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Il grande progetto connaturato alla dimensione della precostituzione passiva e al suo rapporto con l’attività (spontaneità) costituente è qui già formulato secondo i suoi principali gradi di articolazione: 1) passività-sensibilità originaria, 2) affettivitàirritabilità dell’io, 3) attenzionalità-vigilanza dell’io. Oltre al carattere regressivo della riduzione, da condurre sino al livello della sensibilità originaria, occorre sottolineare come la distinzione e l’articolazione dei gradi sia pensata in riferimento al grado di partecipazione o non partecipazione dell’io, al suo livello di (in-) attività costituente. Per questo motivo le successive Analysen zur passiven Synthesis non potranno fare a meno di considerare la “genesi universale della coscienza”, qui intesa come “sviluppo egologico”3. Detto in altre parole, la demarcazione di una dimensione pre-costitutiva – il prefisso Vor- allude qui a una priorità logico-operativa rispetto al punto di vista della partecipazione egologica – consente a Husserl di porre il problema della genesi stessa di questo punto di vista, cercando di enucleare il modo in cui si verifica la polarizzazione del campo esperienziale. Ecco allora che il rapporto tra l’indagine condotta in seno alla temporalità e quella successiva in merito alla genesi passiva sembra non poter essere compreso all’insegna della mera continuità tematica. Anzi, questo rapporto decreta la necessità di una sostanziale integrazione dei due àmbiti, visto che, a ben vedere, essi trattano lo stesso fenomeno costitutivo originario secondo prospettive e livelli di astrazione differenti. Nel corso degli anni ’20, lo Zeitbewußtsein assume le vesti di “una intelaiatura [Rahmen] formale universale, […] una forma costituita sinteticamente, alla quale devono partecipare tutte le altre possibili sintesi” (XI 125 [217*]; cfr. già XXXIII 282). La struttura del presente vivente svolge pertanto il ruolo decisivo di forma universale in cui ogni genesi, in quanto attività
3
Si tenga a mente anche il passo in cui si spiega che mediante la riproposizione, come vedremo, fenomenologicamente trasfigurata della “tradizionale psicologia dell’associazione dell’età moderna”, “si può accedere alla teoria universale della genesi della soggettività pura”, giacché “l’analisi eideticofenomenologica della coscienza che costituisce l’oggettualità temporale ci ha già condotti ai principi elementari della legalità della genesi che domina la vita soggettiva” (XI 118 [210]).
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o passività sintetica, deve potersi realizzare4. Husserl presenta quindi “la fenomenologia dell’associazione” – tema portante delle Analysen – come “una prosecuzione superiore [höhere Fortführung] della teoria della costituzione originaria del tempo”, poiché “attraverso l’associazione la prestazione costitutiva si estende a tutti i gradi dell’appercezione” (XI 118 [210*]; cfr. EU 76 [163])5. L’ambiguità di questa affermazione ha spinto alcuni commentatori a situare il contributo della passività sintetica su un livello costitutivo ulteriore, diverso dunque rispetto a quello primordiale enucleato dal processo temporale originario6. Da parte mia, invece, l’invito è quello di intendere la “prosecuzione [di ordine] superiore” alla stregua di un approfondimento genetico; nulla più quindi che una concretizzazione delle analisi sullo Zeitbewußtsein, resa possibile dalla loro integrazione con le varie tematiche della passività sintetica7. Del resto, solo qualche pagina più tardi, lo Zeitbewußtsein è descritto come “una coscienza che produce una forma generale”, in grado sì di acco4 5 6 7
Lo stesso concetto verrà ribadito con forza negli anni ’30: “Il fluire, che costituisce la temporalità soggettiva, è la forma costante di tutte le sintesi costituenti” (XXXIV 172 [36]). Sull’appercezione infra § 3.2.3. Questa almeno sembra la prospettiva di deroo (2011), il quale ha però il merito di spingere il dibattito ricostruito in precedenza (supra § 2.3.1) in direzione del tema della passività sintetica. Questa è del resto la soluzione fatta propria da ricHir (1989) e depraz (1994 e 2000). Dal canto suo, Holenstein (1972, 64) sembra intendere il rapporto tra temporalità e associazione come una sussunzione (Subsumtion) della prima sotto quest’ultima. Egli sottolinea come negli anni ’20 la tematica associativa tenda a coincidere con le stesse nozioni di sintesi (“Sintesi nelle sue diverse forme in quanto unificazione universale della vita di un io = associazione nel senso più ampio”, XI 405) e di genesi (“L’associazione è il principio universale della genesi passiva”, I 113 [155]); sottolinea inoltre come negli anni ’30 Husserl arrivi a pensare l’associazione quale “titolo universale della formazione di unità” che “compie la temporalizzazione a tutti i livelli” (Mat VIII 298). Tuttavia, anche alla luce di questi passi, non sembra il caso di parlare di una sussunzione della tematica temporale sotto quella associativa. Come accennato, anzi, l’associazione acquista la rilevanza che merita nella tarda fenomenologia husserliana soltanto perché inquadrata all’interno della cornice strutturale-infrastrutturale delineata dalla riflessione sulla temporalità – soltanto, quindi, perché pensata come concretizzazione di quest’ultima. È dunque la passività associativa che, per così dire, sostanzia e concreta il quadro formale tracciato dallo Zeitbewußtsein e non quest’ultimo a essere sussunto sotto la prima.
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gliere ogni costituzione possibile, ma limitatamente al suo momento formale. La riflessione sulla temporalità va dunque configurandosi come un tipo di analisi “astrattiva” (XI 128 [220]) e richiede pertanto di essere integrata. Parlando generalmente di materie, contenuti, sensazioni, hyle, etc., la Zeitfrage è come se si fosse limitata ad assumere delle unità contenutistiche che come altrettanti segnaposto occupassero la struttura sinteticoformale del flusso di coscienza. Difatti, l’analisi temporale da sola non può tuttavia dirci che cosa dia unità contenutistica a ogni singolo oggetto, che cosa costituisca contenutisticamente per la coscienza, ed a partire dal suo fare costitutivo, le differenze dell’uno e dell’altro oggetto, che cosa ancora renda coscienzialmente possibile la partizione e il rapporto tra le parti, ecc. Essa astrae, infatti, proprio dal momento contenutistico. (XI 128 [220])
È pertanto interesse dello stesso Husserl quello orientato a rimuovere l’astrazione presente nella disamina della temporalità fenomenologica, in direzione di una rinnovata attenzione per il momento contenutistico della sintesi correlativa: solo una teoria radicale che soddisfi allo stesso modo la costruzione concreta del presente vivente e quella delle singole concrezioni che si formano a partire dagli elementi costitutivi può risolvere l’enigma dell’associazione e con questo tutti gli enigmi dell’“inconscio” e del mutevole “divenir cosciente”. (XI 165 [260s.])
Rimuovere una simile astrazione, a ben vedere, significa assumersi un’ulteriore responsabilità di tipo trascendentale. Dopo quella relativa alla ricomprensione del ruolo svolto dalla temporalità all’interno del sistema fenomenologico (supra § 2.1), sembra arrivato il momento di riassorbire all’interno di questa articolazione anche l’onere di un’adeguata caratterizzazione dell’alterità materiale. È dunque l’elemento contenutistico a subire una problematizzazione per certi versi analoga a quella precedentemente occorsa al vissuto intenzionale ed esemplificata dall’approfondimento della sua costituzione immanente (supra § 2.2.3). Così come la dinamica interna al flusso assoluto aveva mostrato una dimensione costitutiva anteriore al cogito, adesso, in misura correlativa, sarà il polo contenutistico dell’atto a subire una proble-
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matizzazione tesa a evidenziarne i presupposti costitutivi8. Ciò condurrà alla scoperta e all’analisi dell’intrinseca modalità autoorganizzativa della pre-datità, in grado cioè di strutturarsi autonomamente secondo le leggi proprie della sintesi associativa originaria (Urassoziation)9. L’importante, però, sarà concepire il dominio della passività sintetica come dotato di un’autonomia relativa. Ciò significa che la correlazione rimane ineludibile. L’impossibilità di trascendere l’a priori della correlazione rende dunque impensabile anche soltanto additare col pensiero una dimensione costitutiva completamente autonoma, ossia irrelata (supra § 1.5.2). Non si tratta pertanto di intendere la passività come in grado di strutturarsi a prescindere da una soggettività visceralmente correlata, ma soltanto di evidenziare la sua organizzazione spontanea, ovvero indipendente dalla partecipazione attiva e consapevole dell’io (Ichbeteiligung)10. 8
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Recuperando quanto detto a proposito della revisione dello schema Auffassung/Auffassungsinhalt (supra § 2.2.2), si noti come l’introduzione del tema della passività sintetica e, in particolar modo, della cosiddetta fenomenologia della Urassoziation permetta ora di completare la destrutturazione patita dall’interpretazione schematica retrocedendo verso gradi costitutivi sempre più originari. Se nel secondo capitolo, in seguito alla scoperta di un flusso assoluto preposto alla costituzione degli atti, si è cercato di illustrare la problematizzazione occorsa al versante apprensionale dello schema (secondo le indicazioni di brougH 1972), adesso, in ragione della scomposizione subita dal momento materiale con la scoperta della pre-datità associativa, si promuoverà un’analoga problematizzazione del versante contenutistico dello schema (come indicato da sokoloWski 1970). costa (1999, 48) ha osservato che “l’intero progetto fenomenologico crollerebbe se uno strato ante-predicativo, una sensibilità autonoma, che si struttura autonomamente prima delle sedimentazioni storico-culturali e delle operazioni dell’intelletto, non si lasciasse esibire, di diritto, nell’analisi fenomenologica”. Una considerazione dell’oggettività che sappia prescindere dal conferimento di senso della soggettività costituente sarebbe l’ideale metodologico della scienza fisico-matematica. L’uso del condizionale è qui d’obbligo per ragioni intrinseche alla stessa epistemologia scientifica e alle quali possiamo soltanto alludere in questa sede: il dibattito novecentesco post-popperiano (ess. T.S. Kuhn, L. Laudan) ha infatti rimarcato l’implicito ricorso a valori di tipo epistemico – se non addirittura di ordine morale – nella valutazione scientifica delle teorie e nella conseguente adesione a paradigmi alternativi e in concorrenza tra loro. Dal canto suo, la prospettiva fenomenologica insegna che il raggiungimento di una considerazione obiettiva della natura, frutto della rescissione di ogni vincolo costitutivo di ordine intenzionale,
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In tal senso, la dimensione della passività sintetica (dell’autocostituzione iletica) risulta a tutti gli effetti pre-egologica ma non a-soggettiva (biceaga 2010, 10), non a-coscienziale o in-intenzionale. Come già sottolineato a proposito della (pre)costituzione temporale, il processo originario attende tra l’altro a una forma rudimentale di soggettivazione, consistente in una forma minimale di autocoscienza istanziata dal riferimento a sé del flusso. Sotto questo profilo, infatti, la soggettività (al pari della coscienza e dell’intenzionalità – nozioni con le quali risulta coestensiva seppur non equivalente) eccede la sua strutturazione egologica (ferrarin 2017). Pertanto, la passività sintetica non può essere intesa come un’assoluta autonomia organizzativa del dato iletico, completamente avulsa dal benché minimo rapporto costitutivo con la coscienza. Cerchiamo di chiarire questo aspetto problematizzando la nozione di hyle, sempre più centrale nel cammino di ritorno alla sfera della sensibilità originaria11. Come punto di partenza si consideri
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potrà essere raggiunta (forse) soltanto sulla base di “sustruzioni” teoriche estremamente raffinate, la cui validità risulterebbe per così dire svincolata dal processo che le ha prodotte. Il problema, husserlianamente inteso, è quello della costituzione degli oggetti logico-ideali impiegati dalla scienza fisico-matematica, ai quali è attribuita solitamente una validità onnitemporale. Questa validità deriva in primo luogo dalla soppressione (Aufhebung) del vincolo costitutivo (temporale) che ha condotto alla loro definizione (che è anche la loro scoperta definitoria), da una sorta di autonomizzazione del loro àmbito di applicazione rispetto alla particolarità contingente della loro genesi (EU § 64, infra § 3.2.3). La nozione husserliana di hyle è stata criticata a più riprese da autori come gurWitscH (1929), lévinas (1965), sartre (1943, 25-27), merleauponty (1945, 321s., 519), nonché discussa da commentatori più recenti: asemissen (1957), claesges (1964, 133-136), de almeida (1972), smitH (1977), føllesdal (1974), gallagHer (1986), caputo (1999), penna (2004), Hopp (2008), Williford (2013), de giovanni (2018). Le critiche principali fanno leva sullo schema Auffassung/Auffassungsinhalt all’interno del quale la hyle si troverebbe inserita, mostrando così l’implausibilità di un contenuto sensoriale non intenzionale, di per sé sprovvisto di significato (irrazionale) ma ciononostante in grado di rinviare, se noeticamente appreso (animato), a una determinata qualità o proprietà del percepito (ess. Sartre, Aemissen, Hopp). Altre critiche, insistendo sul carattere gestaltico della percezione, rimarcano l’astrattezza (il carattere finzionale) di un dato iletico destrutturato, avulso cioè da un proprio contesto percettivo (ess. Gurwitsch, Merleau-Ponty), disincarnato rispetto alla prassi cinestesica del corpo vivo (es. Gallagher). Altre ancora, infine, sollevano dubbi di ordine
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il celebre § 85 di Idee I. Qui Husserl distingue in maniera netta tra componente iletica (materiale) e noetica (morphē intenzionale) dell’atto. Entrambe costituiscono la sfera reale (reell) immanente di ogni vissuto di coscienza (III/1 § 97). Alla componente iletica afferiscono tutti quei contenuti di sensazione che in quanto semplici materie (Stoffe) “non ha[nno] in sé alcuna intenzionalità” e derivano il proprio conferimento di senso, la propria “animazione”, dall’apporto apprensionale dello strato noetico, grazie a cui ha luogo “il concreto vissuto intenzionale” (III/1 191s. [213]). Manifestando limiti propri dell’analisi statica, Husserl spiega come la sensibilità sia intesa al modo di un “residuo fenomenologico12 di
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metodologico circa lo statuto di evidenza della hyle, a partire dalla pretesa husserliana, giudicata illusoria, di cogliere riflessivamente nella sua inerte purezza una materia di per sé inanimata, senza con ciò presupporre un’apprensione e dunque un’animazione (sia pure di ordine meta-) della materia in questione (es. Smith). C’è da dire che molte di queste critiche puntano i propri strali contro l’esposizione offerta nelle Ricerche logiche e in Idee I, senza però considerare gli ulteriori sviluppi del pensiero husserliano in merito (ess. la revisione dell’àmbito di applicazione dello schema Auffassung/ Auffassungsinhalt e il conseguente livello di pertinenza dell’opposizione hyle/morphē, l’introduzione della nozione di Ur-hyle e il suo inserimento in un orizzonte di pre-costituzione originaria, i suoi legami non del tutto chiariti ma nondimeno accertati con il sistema cinestesico del Leib, etc.). In generale, alla luce di questi sviluppi, molte delle critiche sollevate sfondano per così dire delle porte aperte. Tenendo conto delle riflessioni husserliane più tarde, diventa infatti possibile rivalutare lo statuto della hyle – a prescindendere cioè da alcune formulazioni dei primi lavori perché ritenute immature (Ricerche logiche) o reticenti (Idee I) – e riscattarla dall’accusa di essere un elemento residuale immanente, irrazionale e decontestualizzato; diventa anzi possibile ascriverle una certa trascendenza rispetto all’io, nonché un ruolo già costitutivamente significativo, in quanto limite intrinseco dell’arbitrio apprensionale (Føllesdal), e strutturato, in quanto risultante di un contesto di sfondo più originario di ordine pre-riflessivo (Caputo). In quanto segue mi limiterò pertanto a problematizzare lo statuto della hyle, demandando a chi legge il compito di elaborare autonomamente un tentativo di risposta puntuale alle critiche menzionate. Un simile compito sembra facilitarsi non poco in seguito alla lettura di Welton (1982), nei cui confronti confesso una sostanziale identità di vedute. Naturalmente, l’impiego in questo paragrafo della nozione di residuo fenomenologico non va confuso con quello relativo alla coscienza assoluta come “superstite” della Weltvernichtung (III/1 §§ 49ss.) e che nel 1924 sarà squalificato in quanto foriero di possibili equivoci (VIII 432). L’uso della nozione di residuo fenomenologico in relazione alla hyle sensoriale persiste invece anche negli anni ’30 (Mat VIII 110).
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ciò che nella normale percezione esterna viene procurato per mezzo dei ‘sensi’”; una residualità scaturente dunque dalla possibilità di distinguere, secondo lo schema costitutivo apprensione/contenuto d’apprensione, tra “materie informi e forme prive di materie” (III/1 193 [214]). La materialità iletica è residuale proprio perché manchevole di connotazione intenzionale, perché materia inerte. In tal senso, essa risulta sì un residuo in-intenzionale ma da considerarsi al contempo come una componente reale (reell) del vissuto, suscitando non poche perplessità circa il suo statuto effettivo. Non sembra dunque un caso che in Idee I Husserl prosegua privilegiando una trattazione della componente noetica dell’atto e della sua relazione con quella noematica. Di fatto, la trattazione del momento materiale scompare nei paragrafi successivi oscurata da “analisi incomparabilmente più importanti e più ricche” (III/1 196 [217]) come quelle relative alla relazione tra noesi e noema. Questa sorta di dualismo irrisolto tra hyle materiale e morphē intenzionale all’interno della dimensione reale (reell) del vissuto, un dualismo che sembra prestare il fianco all’accusa di un certo sensismo irriducibile, è però attenuato da un paio di precisazioni decisive e in grado di ricollegarci al percorso svolto sinora. La demarcazione offerta in Idee I pare infatti commisurata allo specifico livello a cui l’analisi è posta; essa risulta spendibile nella misura in cui, in questa sede, dobbiamo astenerci dall’indagare le oscure profondità della coscienza ultima che costituisce ogni temporalità dei vissuti e assumere invece i vissuti come accadimenti temporali unitari, quali si offrono alla riflessione immanente. (III/1 191s. [213])
In altre parole, questa mirabile duplicità e unità di ὕλή sensoriale e di μορφή intenzionale ha un ruolo dominante in tutto il territorio fenomenologico (in tutto – [cioè] nell’àmbito del grado, a cui bisogna [qui] costantemente attenersi, della temporalità costituita). (III/1 192 [214])
Come visto in precedenza, la revisione dello schema Auffassung/Auffassungsinhalt ha reso edotti circa la sua inapplicabilità
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alla sfera originaria di costituzione temporale13. Proprio questa sfera è contraddistinta da una indistinzione costitutiva per cui risulta impossibile parlare di una materia intenzionalmente inanimata. Sebbene nel corso degli anni Husserl continui a ricorrere alla nozione di hyle, con ciò riferendosi genericamente alla “materia per funzioni di coscienza” (IX 167), la distinzione tra hyle e morphē non rappresenterà più – ma come del resto già in Idee I non rappresentava – un’opposizione fondamentale bensì fondata (precostituita) e dunque operativa soltanto a partire da un determinato livello costitutivo (cairns 1976, 65). Lo sviluppo della questione intrapreso nelle Analysen ha quindi il merito di approfondire proprio quanto non affrontato in Idee I, riproponendo con forza la questione della componente iletica non soltanto in relazione alla dimensione dell’Erlebnis ma anche a quella dell’Erleben. Se sul piano dell’atto rimane pur vero che Husserl considera l’apprensione una sorta di “appercezione trascendentale […] che conferisce ai contenuti meramente immanenti dei dati sensibili, dei cosiddetti dati sensoriali o iletici, la funzione di presentare un oggettivo ‘elemento trascendente’” (XI 17 [90s.]); tuttavia, il punto diventa ora quello di comprendere come la dimensione dell’Erleben, in quanto “fenomeno genetico più universale”, rechi sempre un “nucleo iletico”, di comprendere cioè che “per essenza nella contemporaneità e nella successione vivente si costituisce costantemente una molteplicità di dati sensibili […] unificata in modo estremamente articolato” (XI 137s. [230]). In questo modo, Husserl realizza che il sensibile, prima ancora di poter essere appreso e interpretato da un io esperiente, dev’essere costituito in quanto tale, deve cioè rendersi disponibile a un io mediante una pre-costituzione (relativamente) autonoma. La prestazione della passività, nel suo livello più basso, la prestazione della passività iletica è di creare sempre di nuovo un campo di 13
Secondo il classico studio di de almeida (1972, 52ss., passim), sarebbe proprio all’interno dell’orizzonte dischiuso dall’analisi temporale che Husserl arriva a formulare un’effettiva interrogazione in merito alla costituzione del sensibile. Ciò consentirebbe di riscattare il momento iletico da un certo sensismo del dato, da una certa irrazionalità e insignificanza residuale dello stesso. Per una netta presa di distanza dal e per una critica del sensismo si veda la tarda posizione di Husserl in XVII 291s. [350].
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oggettualità pre-date e, come ulteriore conseguenza, eventualmente date. Ciò che si costituisce si costituisce per l’io, e deve infine costituirsi un mondo circostante completamente reale nel quale l’io viva e agisca e dal quale sia d’altro canto costantemente motivato. Ciò che è coscienzialmente costituito è presente per l’io solo in quanto lo affètta. Un qualsiasi quid costituito è pre-dato se esercita uno stimolo affettivo, è dato se l’io ha aderito allo stimolo, in quanto si è rivolto ad esso portandogli attenzione e afferrandolo. Queste sono le forme fondamentali dell’oggettualizzazione. (XI 162 [257*]; cfr. SPh 146 [226s.]).
Si giunge così a distinguere la sfera della predatità, in cui la hyle è pre-costituita nella sua capacità di risaltare esercitando uno stimolo affettivo (infra § 3.1.3), e quella della datità, in cui la componente materiale è appresa dall’io e in quanto tale interpretata. Proprio allo scopo di discriminare le due dimensioni, negli anni ’30 Husserl preferirà parlare di Ur-hyle in riferimento alla sensibilità che va pre-costituendosi nel processo originario. In alcuni dei C-Mss. si precisa lo statuto di questa componente proto-iletica: “la Urhyle nella sua propria temporalizzazione è per così dire il nucleo estraneo all’io [ichfremde Kern] nel presente concreto” (Mat VIII 110; cfr. Mat VIII 295, 351). Rispetto alla concezione di Idee I, in cui la hyle rappresentava un elemento reale (reell) del cogito, la differenza è notevole. Adesso, dice Husserl, “interrogando all’indietro giungiamo alla sfera iletica [originaria] in quanto l’ultima non-egologica [Nicht-Ichliche]” (Mat VIII 86). La Rückfrage promossa dall’andamento genetico della fenomenologia ha così raggiunto una dimensione di costituzione autonoma, preesistente a quella partecipata dall’io. E tuttavia non dovremmo commettere l’errore di pensare alla Urhyle come a una dimensione completamente irrelata rispetto a una prestazione intenzionale, sia pur passiva. L’autonomia della sfera iletica originaria è infatti quella di un’autonomia relativa, nella misura in cui essa è da sempre inquadrata dal processo di temporalizzazione originaria, il quale persegue l’istituzione di una forma prototipica di correlazione intenzionale. Come si precisa altrove, in un testo di datazione incerta (1925-28), la hyle è “un concetto che si lascia relativizzare” in relazione all’io: “l’io concreto ha stabilmente nella sua vita in quanto vita di coscienza un nucleo di hyle, di non-io, ma essenzialmente appartenente all’io [ichzugehörig]” (XIV 379).
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Lo statuto della hyle è dunque quello di un’alterità extra-egologica e tuttavia finalizzata all’io, ossia ricompresa quale parte integrante del suo processo di formazione: “senza un regno di predatità, senza un regno di unità costituite, costituite come non-io, nessun io è possibile” (XIV 379). Riassumendo in uno slogan: la Urhyle è non io per l’io14. A conferma ulteriore di quanto detto si consideri quanto segue. Scorrendo in rassegna i fenomeni trattati dalle Analysen si nota il ricorrere di termini quali contrasto, somiglianza, omogeneità, affezione, etc., tutte nozioni incapaci di farsi carico di una descrizione esclusiva della realtà fenomenica, laddove per esclusiva s’intenda a prescindere da un riferimento (anche soltanto implicito) alla coscienza. Tali concetti rimandano inequivocabilmente a un contesto di manifestazione, in cui cioè sia presente (o presentabile) una coscienza per cui essi possano acquisire un senso possibile. Com’è possibile evincere sin dai suoi esordi15, Husserl fa spesso un uso correlativo della semantica, sfruttando l’ambiguità referenziale di alcuni termini. Per non limitarsi che a un esempio16, quello dell’affezione, scopriamo che essa “è noeticamente un modo dell’intenzionalità costitutiva e noematicamente un modo dell’unità intenzionale, o meglio dell’oggetto che è eventualmente cosciente in quanto essente in una modalità d’essere” (Mat VIII 193). In tal senso, l’affezione diventa una nozione in grado di descrivere la polarizzazione noetico-noematica, mediando per così dire la dinamica innescatasi tra io e non-io, tra un soggetto e un oggetto che stanno formandosi correlativamente. 14
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Non sarà la prima volta che Husserl pretenderà di riassorbire una distinzione tra livelli costitutivi – qui, nella fattispecie, quella tra pre-datità iletica originaria (pre-egologica) e datità iletica appresa dall’io – ricorrendo a un principio teleologico di unificazione per cui tale distinzione risulta ricompresa all’interno di uno sviluppo unitario. Anzi, come vedremo in questo stesso capitolo (infra § 3.2.2), l’idea di sviluppo teleologico rappresenta la struttura portante dell’intera articolazione sistematica dei processi correlati di oggettivazione e soggettivazione. In un passo della VIa Ricerca, Husserl appurava: “Percezione e oggetto sono concetti strettamente interdipendenti, che si assegnano reciprocamente il loro senso, ampliandolo e riducendolo correlativamente” (XIX/2 666 [700]). Si veda claesges (1964, 134) per un’osservazione analoga circa la nozione di Empfindung.
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Potremmo dire allora che la passività propria delle sintesi associative è una passività per noi, stimata tale solo dal punto di vista di chi conduce l’analisi (un io inevitabilmente strutturato e atteggiato riflessivamente). Se considerata in sé stessa, d’altro canto, la dimensione precostitutiva della Urhyle è un’attività sintetica vera e propria, alla quale sia il soggetto esperiente, sia (soprattutto) chi fenomenologizza, si rivolgono come a una dimensione che s’impone passivamente da sé e sulla quale non hanno il benché minimo margine d’azione17. E tuttavia, come anticipato, qualora si assuma il punto di vista del costituito – che inevitabilmente è il punto di vista da cui l’analisi è condotta – la sfera pre-costitutiva assume i connotati di un evento teleologicamente orientato, ossia operante proprio in funzione dell’io (“Ciò che si costituisce si costituisce per l’io”). Solo in questa maniera, distinguendo cioè i diversi punti di vista, si evince come la pre-costituzione iletica possa risultare al contempo passiva, stante la sua (relativamente) autonoma attività sintetica, ed estranea all’io (non egologica), stante il proprio costituirsi in funzione di quest’ultimo. Chiosa Husserl: Questo genera un nuovo concetto di oggettivo e soggettivo. Se è impensabile che l’io abbia una coscienza senza una hyle, e questa si dà realmente e unitariamente con ciò che è egologico, [allora] anche la hyle si dice soggettiva. (XIV 52)
Reinterpretando la sfera iletica al modo di una estraneità originariamente soggettiva, ossia consustanziale alla dimensione precostitutiva, Husserl finisce per conferire dignità trascendentale all’elemento materiale della correlazione. Quest’ultimo, infatti, ripercorrendo i vari gradi della stratificazione, risulta essenziale per costituire un mondo altro dall’io eppure per l’io. Vivendo in modo primordiale […] io sono “cosciente” di me in quanto io-vivo [Ich-lebe] presente, passato e futuro, io, l’io trascen17
La passività, si potrebbe anche dire, è un’attività celata (verborgene) (cai1976, 49). Del resto, come non si è mancato di notare, l’opposizione tra passività e attività si presta a essere relativizzata a seconda del grado di partecipazione dell’io al processo costitutivo (Holenstein 1972, 218ss.). Da parte mia, ho cercato di precisare il rapporto vigente tra costituzione attiva e passiva tentando di oltrepassare il criterio di una loro demarcazione “analitica” in nobili (2020). rns
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dentale. Ma in questo vivere io sono cosciente del mondo – che io, l’io trascendentale, non sono, che non si trova nella mia temporalità trascendentale originaria, […], [che] è estraneo all’io in relazione a questa, che è non-io trascendentale [transzendentales Nicht-Ich]. Il mondo è esistente temporalmente, non è esso stesso altro che tempo riempito – tempo del mondo, spaziotempo. (Mat VIII 120)
L’alterità iletica è ciò che sostanzia il tempo in quanto forma della genesi costitutiva. La forma temporale, lungi dal rappresentare una sfera immanente in sé conchiusa, è anzi da sempre aperta all’alterità trascendente, da sempre connessa a un concomitante processo di spazializzazione. Nelle prossime sezioni si tratterà di ridiscendere sino ai gradi più bassi della costituzione per indagare, stavolta, l’elemento iletico-materiale del fluire originario, capace di motivare e sostanziare il processo di temporalizzazione. In tal modo risulterà più chiaro come a partire dalla lebendige Gegenwart possa generarsi un ambiente (Umgebung) esperienziale extra-egologico del quale e nel quale l’io possa però fare un’esperienza sensata18. D’altro canto, la presentazione originaria del dato iletico dovrà essere considerata come quella dimensione privilegiata in cui sondare l’effettiva integrazione, nonché la complementarietà funzionale, di forma temporale e passività iletico-materiale. Un simile complemento sarà in grado di promuovere, secondo almeno alcuni interpreti, una prima spazializzazione del flusso coscienziale, ossia l’apertura contestuale delle prospettive temporale e spaziale19. Di conseguenza, in virtù dell’integrazione sopraggiunta tra istanza formale e materiale del fenomeno costitutivo primario (Urphänomen), la prospettivizzazione radicale dell’orizzonte di manifestazione fenomenica acquisirà una connotazione più concreta. È bene tenere comunque a mente quale sia il motivo guida delle prossime analisi, ossia il tentativo di ritornare a sondare la prospettiva di una costituzione (proto-)correlativa, per cui al costituirsi di una predatità corrisponda la genesi di un io in ragione del quale la prima si dia. Stavolta avremo l’onere di intentarne un resoconto integrato, che tenga assieme i due momenti della noetica tempora18 19
Al riguardo cfr. zippel (2007b, 99-127). Cfr. Welton (1982, 61-66), ricHir (1989), depraz (1994), dell’orto (2015, 88).
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le e della iletica materiale, mostrando così come l’io sia il frutto di un processo di costante attivazione sulla base di una passività che sotto il profilo genetico risulta preordinata, ossia fenomenologicamente inconscia (infra § 3.1.4). §3.1.2 Temporalità e fenomeni associativi originari Il ciclo di Lezioni sulla sintesi passiva, così come raccolto e disposto dai curatori di Hua XI (a partire cioè da tre corsi tenuti a Friburgo tra il 1920 e il 1926), prevede una considerazione introduttiva incentrata sulla percezione20, cui fa seguito una prima parte dedicata alle forme della sua modalizzazione e una seconda parte incentrata sull’evidenza dell’Erfüllung; si conclude, infine, con un’indagine regressiva volta a rintracciare la genesi del percepire nella cosiddetta fenomenologia dell’associazione (terza parte). Come appurato, la percezione propriamente detta si esercita sul terreno già costituito della datità; in essa il soggetto (egologicamente strutturato) si rivolge in maniera tematica a un polo oggettuale individuato come tale. Il compito di una fenomenologia dell’associazione è però quello di muoversi a ridosso di tale oggettivazione per sondare il terreno della pre-datità oggettuale, ossia di quei fenomeni associativi che promuovono l’organizzazione spontanea del moltplice iletico sul quale l’io può eventualmente concentrarsi tematicamente. Addentrandosi nel terreno delle sintesi associative originarie (Urassoziation), occorre non dimenticare ciò che costituisce il loro presupposto formale, ossia la temporalizzazione promossa dalla coscienza originaria del tempo (XI § 27). Il problema di 20
La trattazione della percezione offerta in tale contesto è più matura di quella tratteggiata in scritti precedenti e in particolare nelle Zeitvorlesungen. L’oggetto percepito è qui correttamente inteso, per quanto riguarda il versante noematico, secondo i modi dell’“adombramento prospettico”; secondo quello noetico il percepire assume invece i caratteri di un vero e proprio “miscuglio” tra l’intenzione dei lati intuitivamente presenti e quelli “cointenzionati” al modo del “rimandare al di là [Hinausweisen], in un additare di natura non intuitiva […] un vuoto indicare che rimanda a possibili nuove percezioni” (XI 3ss. [75ss.]). Sulla scorta della prospettiva noematica descritta in Idee I, il senso oggettuale diventa dunque una “costante X” capace di fungere da sostrato per quel complesso sistema di rinvii intenzionali di cui consiste adesso la dinamica percettiva (XI 6 [78]).
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Husserl, per sua stessa ammissione (XI 164 [259]), è quello che Kant nel § 24 della prima Critica aveva posto sotto il titolo di sintesi “figurata” (synthesis speciosa), riferendosi con ciò al problema dell’unità del molteplice dell’intuizione sensibile in opposizione alla sintesi categoriale di congiunzione intellettuale (synthesis intellectualis)21. Posta in termini estremamente generali, la questione assume i tratti di una “messa in forma estensionale” del materiale iletico, secondo cioè quella “legalità strutturale generale della sfera presente, riguardo alla sua tipica configurazione temporale e locale” (XI 164 [259]). Attraverso l’orientamento trasversale la lebendige Gegenwart incanala, per così dire, le sintesi associative secondo le forme di ordinamento generale della coesistenza spaziale e della successione temporale22; quest’ultime producono l’individuazione delle componenti iletiche all’interno di un sistema di coordinate possibili (XI § 30). Così come ogni unità della successione […] ha la sua forma temporale e la sua posizione individuale, allo stesso modo ogni unità della coesistenza di un campo locale ha sia una forma di campo […] sia 21
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Cfr. KrV B 151. Per la valutazione husserliana del progetto kantiano si vedano anche le considerazioni in XI 118s., 125s., 275s., 327, 392, 498, 508 [210s., 217s.]. Per la distinzione tra sintesi estetica e sintesi categoriale cfr. IV § 9. Tocchiamo qui lo spinoso problema del rapporto tra temporalizzazione e spazializzazione. Secondo la lettura di ricHir (1989, 18s.), l’ora risulterebbe già spazializzato nel corso della sua temporalizzazione, così che spazio e tempo non sarebbero più da ritenersi due forme separate bensì riassorbite dallo stesso fenomeno costitutivo originario. Questo, sempre secondo Richir, sarebbe il risultato più significativo dell’integrazione tra temporalità e passività sintetica. L’ipotesi ci sembra suggestiva ma non possiamo valutarne criticamente la portata, anche perché i Mss. del gruppo D, decisivi per la costituzione spaziale, risultano ancora in fase di pubblicazione (cfr. pertanto summa 2014). Del resto, il problema dello spazio in Husserl meriterebbe un approfondimento tale da valicare i limiti imposti al presente lavoro (cfr. claesges 1964; costa 1996 e 1999; sinigaglia 2000). A parziale conferma di quanto qui soltanto alluso è però la testimonianza di Fink: “con ciò lo ‘spazio’ si mostra la quarta dimensione del tempo. In altre parole, l’analisi della ‘temporalità’ […] non è separabile dal momento dello ‘spazio’. La temporalità originaria in quanto senso d’essere della soggettività trascendentale è sempre spaziale. Presso Husserl, l’intero significato del momento spaziale è sempre visto come parte integrante [integraler Bestand] del tempo” (Eugen Fink-Archiv Z-VI 26a, cit. in bruzina 2000, 82n. 18).
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la sua individuazione grazie alla posizione individuale che è irripetibilmente unica. L’analisi elementare, in quanto analisi delle fasi di un campo locale inteso come continuità della coesistenza, ci riconduce al fatto che esso (per esempio il campo visivo) ha, analogamente al tempo, la forma di un sistema di posizioni ordinato in maniera continua. (XI 143 [236s.])
Non solo, la struttura del presente vivente promuove anche un’azione sintetica complessiva rispetto al dominio dei diversi campi sensibili (Sinnesfelder). Quest’ultimi, in virtù delle sintesi associative originarie, sono infatti dotati di una loro intrinseca omogeneità (visiva, acustica, tattile, etc.); il problema sorge però se cerchiamo di capire quale sia il principio che li presenta associati in uno scenario intuitivo coerente, stante cioè la loro reciproca eterogeneità. Scopriamo allora che è l’unità formale della temporalità a garantire l’associazione dei campi sensibili e quindi la compossibilità materiale dell’esperienza percettiva. Abbiamo trovato, all’interno delle forme onnicomprensive della coesistenza e della successione, le unificazioni particolari derivanti dall’omogeneità. Tutto ciò che emerge in un presente ed è al contempo omogeneo è anche collegato. Di conseguenza ogni dominio sensibile è un dominio unitario per sé: ogni elemento visivo è collegato dall’omogeneità visiva, ogni elemento tattile dall’omogeneità tattile, ogni elemento acustico dall’omogeneità acustica, ecc. In un senso amplissimo possiamo parlare di campi sensibili unitari. L’uno è eterogeneo all’altro: sono dunque uniti solo grazie alla temporalità del presente vivente. Accanto a questa unitarietà formale ogni campo possiede in sé unità contenutistica, materiale, che è appunto quella dell’omogeneità contenutistica. (XI 138 [231*])23
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Alla luce di questo e dei prossimi passi citati non pare corretto imputare l’unificazione dei diversi campi sensibili al sistema cinestesico del Leib (gallagHer 1986, 153). Husserl ascrive senza mezzi termini l’unità formale dei campi alla sintesi temporale. Sarebbe nondimeno interessante perseguire l’integrazione funzionale della struttura formale del presente vivente ben oltre l’àmbito circoscritto preso qui in considerazione (quello dell’alterità iletica), sino a soppesare cioè l’apporto delle cinestesi e del corpo vivo in generale. Forse, procedendo in questa direzione (franck 1984; picolas, soueltzis 2019, WeHrle 2020), le due interpretazioni potrebbero rivelarsi meno alternative di quanto saremmo portati a pensare in un primo momento.
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Su come avvenga effettivamente questa unificazione transmodale dei campi sensibili, su come questi risultino cioè integrati in uno scenario esperienziale coerente, Husserl non dice molto; in alcuni passi (XI 272s., 286, 415) egli sembra attribuire questa prestazione sintetica a una sorta di ritmizzazione (Rhythmisierung) operata dalla coscienza temporale24. Siccome l’Urphänomen è contraddistinto da una pluridimensionalità (Mehrdimensionalität) presentativa (Mat VIII 58, 129) – il processo attende cioè alla concomitante costituzione di pluralità iletiche tra loro eterogenee, corrispondenti ai diversi campi sensibili – una soluzione interpretativa appetibile sarebbe quella per cui l’Urprozess orchestra l’eterogeneità materiale coordinandola in un sistema unificato in virtù del comune riferimento all’invarianza ritmica inscenata dall’autocostituzione noetico-longitudinale (supra § 2.3.3). Ciò che è certo è qui il ruolo svolto dallo Zeitbewußtsein, inteso quale “campo temporale originario” in grado di coordinare la “coesistenza originaria” dei campi sensibili, in quanto “forma temporale” concepita come “persistente nella [loro] mutevolezza” (Mat VIII 76s.). Riservando all’orientamento costitutivo trasversale l’individuazione delle componenti iletiche all’interno del rispettivo campo sensibile, è plausibile ascrivere al versante longitudinale “la temporalizzazione che per i campi eterogenei, i diversi campi sensibili, rende possibile la coesistenza” (Mat VIII 297n.). Si tenga dunque a mente questo duplice sforzo costitutivo dello Zeitbewußtsein – 1) l’individuazione del materiale iletico in rapporti di coesistenza e successione e 2) l’unificazione transmodale di accoppiamento (Paarung) dei Sinnesfelder (cairns 1976, 73) – prima di dedicarsi ai fenomeni dell’Urassoziation, nel tentativo cioè di comprendere le prestazioni sintetiche sottese a ciascun campo che lo rendono in sé omogeneo. Ogni campo sensibile è infatti il frutto di una generalissima “sintesi coscienziale dell’omogeneità” (XI 129 [221]) che collega fra loro i contenuti emersi. L’omogeneità del campo sensibile, tuttavia, presuppone a sua volta i fenomeni originari della fusione (Verschmelzung) e del contrasto (Kontrast) 24
Sulla questione del ritmo in Husserl rimando oltre a ricHir (1989, 26ss.), soprattutto a biceaga (2010, 11-16). Un’interessante elaborazione d’ispirazione fenomenologica della nozione di ritmo è stata offerta poi da zHok (2012, capp. IV-VI).
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(XI § 29), il cui compito è quello di pre-allestire il campo iletico secondo unità sensibili minimali25. L’interazione di questi due fenomeni costitutivi produce infatti una sorta di dialettica differenziale interna al dominio iletico in grado di configurare l’omogeneità del campo in senso emergenziale. Il fatto che per descrivere l’interazione associativa stiamo usando gli stessi termini impiegati per la descrizione della dialettica interna all’Urprozess non dovrebbe suscitare obiezioni. Stiamo infatti cercando di descrivere lo stesso Urphänomen – “associazione originaria = il fluire” (Mat VIII 295n.) si dirà negli anni ’30 – seppure da due punti di vista differenti (uno strettamente formale e uno che tenti di chiarire il ruolo svolto al suo interno dal momento materiale). Husserl rileva quindi come fusione e contrasto rimandino intrinsecamente l’una all’altro nella più complessa sintesi dell’omogeneità: Ad una pluralità omogenea di gruppi appartengono entrambe le cose: la fusione concreta e il contrasto. I membri di una pluralità sono ognuno per sé grazie a un contrasto, ma non si oppongono per ciò l’uno all’altro; essi sono anzi peculiarmente unificati l’uno con l’altro grazie a una fusione priva di contrasto (un esempio: alcune macchie rosse su sfondo bianco). In ogni contrasto, che resta comunque un fenomeno dell’omogeneità, è inoltre implicito, seppure in modo diverso, qualcosa della fusione, qualcosa che unifica omogeneamente i dati concreti e contemporaneamente disturba la loro concrezione interrompendone la continuità. (XI 139 [232*]).
Il contrasto, da parte sua, contribuisce in misura sostanziale a questa dialettica emergenziale esemplificando il fatto per cui “ogni elemento che emerge in un campo è emerso in questo campo da qualcosa”. Il contrasto delinea cioè quella “fondamentale nozione di separazione [Sonderung]” (XI 138 [231]) tra i dati iletici in via di formazione, quella discontinuità e discrezionalità caratteristica del manifestarsi fenomenico come internamente differenziato. In altre parole, inteso come funzione della Sonderung, il contrasto costituisce nientemeno che l’elemento negativo della dialettica emergenziale: 25
È costa (1999, 157) a parlare di unità sensibile, mentre ricHir (1989, 10s., 21) preferisce l’espressione unità fenomenologica nel tentativo di differenziare maggiormente quella husserliana dalla prospettiva empirista. Sempre Richir, recuperando una formulazione di Merleau-Ponty, si riferisce all’unità sensibile come a un tipo peculiare di “cohésion sans concept”.
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l’unità, nella [sua] forma originaria, è costituita già come unità di affinità (unità di fusione) e diversità, emergenza, separazione come negativo della fusione [Sonderung als Negativum der Verschmelzung], ma in quanto forma unitaria. (XI 397).
Porre l’accento sulla Sonderung consente altresì di gettare uno sguardo d’insieme all’articolazione stratificata della costituzione. Come anticipato e come sarà ulteriormente chiarito (infra § 3.2.2), l’intero sviluppo è ricompreso sotto un punto di vista teleologico e l’idea di separazione – assieme a quelle affini di delimitazione (Abgrenzung), segregazione (Absonderung), differenziazione (Differenzierung), etc. – sembra riflettere un aspetto decisivo di tale punto di vista. Sin dal WS 1904-05, infatti, l’ideale regolativo sotteso alla percezione sembra quello di una sempre più precisa separazione dell’oggetto, di una sua radicale circoscrizione rispetto al proprio sfondo percettivo e, di contro, al soggetto d’esperienza. “Il risaltare è dunque qualcosa di nuovo, e nuovo è appunto ciò che costituisce l’apparire-per-sé-separato [Für-sich-gesondert-Erscheinen]” (XXXVIII 33 [62*]). Si noti come ciò non valga soltanto per la semplice percezione ma si accentui, per così dire, nei gradi più attivi di oggettivazione innescati dai modi dell’intendere attenzionale e del manifestare interesse: “l’intendere [Meinen] ci apparve come un carattere che delimita, che conferisce all’apprensione la sua propria indipendenza. Solo grazie a un simile intendere un oggetto ci si presenta per sé” (XXXVIII 116 [146*])26. Potrebbe dirsi dunque, in senso lato, che la costituzione sviluppa una tendenza di progressiva perseizzazione (Verselbständigung) del correlato intenzionale. Subire l’affezione di un oggetto 26
Si confrontino poi le pagine seguenti (XXXVIII 117s. [147s.*]) dove il Meinen è distinto dai modi dell’interesse. Quest’ultimo, pur essendo anch’esso “un atto delimitante”, si distingue dal semplice intendere poiché motivato da “una base di sentimento”. Husserl non esplora in tale contesto “se altri atti provenienti dalla sfera del desiderio poss[a]no fungere quali motori della delimitazione [Motoren für die Abgrenzung]” ma la risposta sembra essere affermativa. Anzi, la forza di tale delimitazione sembra procedere di pari passo al grado di complessità del desiderio. Per chiunque pensi all’amato (di qualunque sorta: essere umano, animale, oggetto, etc.) come al desideratum per eccellenza, questi gli/le appare come un unicum incommensurabile, come l’estremamente individualizzato, in grado di risaltare nella sua segregazione assoluta rispetto a tutto ciò che lo circonda e vi si rapporta.
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e a questo rivolgersi, osservarlo, porvi attenzione, interessarsene, etc. – lungo una progressione che dalla semplice esperienza percettiva sfocia in appercezioni e prestazioni conoscitive di ordine superiore (predicazione, intellezione, idealizzazione, formalizzazione, etc.) – tutto ciò a ben vedere significa, tra le altre cose e secondo l’etimo della parola: discernere il fenomeno in questione. Tale discernimento si lascia declinare lungo i vari gradi costitutivi: l’oggetto emerge dapprima come unità isolabile dal proprio sfondo percettivo; viene poi individuato come occupante una specifica posizione spazio-temporale e reidentificato nel ricordo o in successive osservazioni; in quanto oggetto di esplicito interesse può essere tematizzato, quindi inquadrato all’interno di uno stato di cose e persino nominalizzato come sostrato di un giudizio possibile, etc27. La tendenza alla Sonderung è tanto più evidente se pensiamo come la dimensione del “distendersi temporale vivente” sia invece caratterizzata da un “fluire inesplicato e privo di separazioni” (XI 140s. [234*]). Come asserito a più riprese, il processo originario rappresenta un àmbito di sostanziale indistinzione costitutiva e soltanto a partire da ciò una prima forma di separazione può aver luogo. Nel presente originariamente fluente-stante […] abbiamo fusione originaria che fonda l’unità e separazione originaria (contrasto e disunione originari) che non fonda unità bensì separatezza, [il] differire. Separatezza delle unità, pluralità in cooperazione con la fusione che crea l’unità. (Mat VIII 76)
Naturalmente, vi può essere un contrasto soltanto a partire da e sulla base di un “terreno di comunanza” (EU 77 [165*]). È per questo che l’“emergenza del contrasto [Kontrastabhebung]” (Mat VIII 296) rimanda essenzialmente al fenomeno della fusione qua27
Si noti come la tendenza alla Sonderung patisca un’improvvisa evoluzione col passaggio alla predicazione e alle prestazioni costitutive superiori. In questi casi la separazione sembra coincidere con un processo di rescissione dei vincoli genetici imposti dalla presentazione intuitiva del fenomeno. Con l’avvento del linguaggio, il discernimento di un oggetto prescinde dalla sua effettiva presentazione senza per questo cessare di circoscriverne le prerogative. Questa sorta di autonomizzazione della prestazione costitutiva rispetto ai propri esordi estetici sembra raggiungere il proprio climax con la formalizzazione logico-matematica (infra § 3.2.3).
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le suo contraltare dialettico. Husserl descrive il portato sintetico della Verschmelzung come una “concrezione di dati che emergono in una somiglianza priva di differenza” (XI 139 [232]), come una concrescenza (Konkreszenz) qualitativamente simile che risulta (e risalta) contrastivamente, a partire da uno sfondo rispetto a cui tale somiglianza viene meno. Del resto, le nozioni di somiglianza (Ähnlichkeit) o affinità (Gleichheit) sono impiegate al fine della corretta valutazione del fenomeno associativo primario in quanto eminentemente correlativo: il dato in formazione rivela sì un’affinità contenutistica ex parte obiecti, ma tradisce al contempo un implicito rimando alla sensatezza o meno di questa affinità ex parte subiecti, come quel dato che potrà essere rilevato da un io in quanto stimolo affettivo28. Ecco perché nozioni come quelle di “somiglianza”, “fusione”, “contrasto”, etc. devono essere intese come concetti correlativi e perché la costituzione originaria dei dati iletici, sebbene avvenga passivamente a ridosso dell’io, risulti a esso teleologicamente orientata. Come ha fatto notare costa (1999, 156s.), la fusione designa “una legalità sensibile intrinseca ai contenuti che, per così dire, s’impone da sé”. Almeno per il primo periodo della produzione husserliana, tale legalità sarebbe contraddistinta da due connotazioni essenziali, quelle della totalità e dell’istantaneità: da un lato la fusione produrrebbe una configurazione contenutistica irriducibile alla somma delle sue parti (totalità); dall’altro questa configurazione risulterebbe coglibile con un solo sguardo (istantaneità). L’operato della fusione equivarebbe al coglimento di una relazione tra contenuti iletici quale “apprensione di una totalità in un solo colpo”. Ora, rispetto alla trattazione della nozione offerta in opere precedenti29, la novità essenziale introdotta nelle Analysen è però 28
29
La sensatezza o meno di questa somiglianza deriva infatti anche dalla capacità discriminatoria del soggetto: perciò ha senso parlare di una fusione incentrata sulla somiglianza tra due macchie di colore o due note di violino ma non lo ha, almeno a questo livello di costituzione primitiva, parlare di una somiglianza relativa tra due onde radio o due atomi di elio. Quest’ultimi sono oggetti che ricadono al di fuori dello spettro del percepibile e ai quali possiamo riferirci soltanto indirettamente grazie alle prestazioni teoretiche e ai mezzi tecnici propri delle scienze naturali. Non ho qui modo di ripercorrere la trattazione antecedente alle Analysen dei vari tipi di associazione. Si vedano pertanto Holenstein (1972, § 3) e bégout (2000, 71-92).
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quella relativa alla distensione temporale della sintesi associativa. Dopo aver distinto tra una fusione a distanza (Fernverschmelzung) e una fusione da vicino (Nahverschmelzung), Husserl spiega che quest’ultima mira alla connessione di dati contigui, cioè presenti qui ed ora, mentre la prima consente una fusione tra contenuti dilazionati nel tempo, ragion per cui “i dati emersi separatamente vengono unificati in maniera discontinua” (XI 139 [232]). E tuttavia, sbaglieremmo qualora pensassimo la Nahverschmelzung come avulsa dal giogo temporale. Anche nella fusione da vicino, infatti, il contenuto è temporalmente esteso (strutturato) poiché a esso appartiene “la proprietà del continuarsi, del continuare ad estendersi di fase in fase” (XI 140 [234])30. Questo perdurare sintetico della concrezione iletica è dunque essenziale al fine di un’esperienza sensata dell’alterità. La benché minima estensione temporale sarà una condizione imprescindibile per motivare affettivamente il rivolgimento tematico dell’io (infra § 3.1.3); di contro, postulare un’unità sensibile intemporale equivarrebbe ad attribuirle una forza affettiva pari a zero. Per intanto, si arriva a constatare che l’integrazione tra l’operatività della sintesi associativa originaria e quella temporale risulta totalizzante: l’unità materiale [sachliche] è pensabile solo come ordinata in maniera continua, come temporalmente estesa. Un’unità concreta, quella di un dato immanente, è pensabile solo come continuità del contenuto nella e grazie alla continuità di un’estensione, di una durata. Dicevo: in e grazie a. Poiché è chiaro che ciò che appunto procura all’elemento materiale l’interna continuità materiale, e quindi anche la sua unità, si basa in primo luogo sulla continuità, che ha la massima originarietà, dell’estensione temporale. Ogni continuità contenutistica […] è unità di una fusione continua di fase in fase; ed è solo nel divenire continuo, nell’ordinamento temporale che il contenuto può fonder-
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Sempre costa (1999, 158) ha schematizzato i diversi tipi di fusione alla luce delle due forme temporali ordinative della coesistenza e della successione: “1) la fusione a distanza nella coesistenza (per esempio delle macchie rosse su uno sfondo bianco); 2) la fusione a distanza nella successione (per esempio delle ripetizioni di suoni); 3) la fusione da vicino nella coesistenza (per esempio una macchia rossa su uno sfondo bianco); 4) la fusione da vicino nella successione (per esempio un suono che si espande uniformemente e che si staglia sullo sfondo sonoro)” (cfr. XI 411).
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si in forma continua. Anche ciò che nella coesistenza, per esempio all’interno del campo visivo, chiamiamo gradazione continua della qualità o dell’intensità può essere rappresentato come un continuum ininterrotto di somiglianza solo nella continuità temporale. Solo in essa si giunge ad un’unità reale immanente [reell] nella quale il simile può con il simile trasformarsi in un dato “reale [real]”, in un dato che esiste per sé. (XI 141 [234*]).
Prima di concludere la sezione è opportuno precisare ancora due questioni. La prima concerne la trasvalutazione compiuta da Husserl della tradizionale nozione di associazione. Essa non è più considerata com’era intesa dall’empirismo moderno o dalla psicologia associazionista ottocentesca, alla stregua di una “forma di causalità oggettiva, psicofisica”; si ha piuttosto a che fare con “una forma e una legalità della genesi immanente che appartiene costantemente alla coscienza in generale”, con “una legalità assolutamente necessaria senza la quale la soggettività non potrebbe esistere” (XI 117s. [210s.]). Appare allora evidente la riterritorializzazione operata da Husserl della tematica associativa: essa è reinserita in un contesto d’analisi trascendentale in cui rappresenta un postulato sotteso alla dinamica costituente31. La seconda questione riguarda ancora il rapporto vigente tra Zeitbewußtsein e Passive Synthesis. Abbiamo rilevato come le sintesi associative presuppongano un ordinamento scaturente dal processo di temporalizzazione formale della coscienza. Sappiamo dai capitoli precedenti che per Husserl la temporalità ha rappresentato variamente, nel corso degli anni, la dimensione autenticamente absoluta della dinamica costitutiva, il processo primario della costituzione, etc. Sembrerebbe quindi scontato attribuire un primato trascendentale alla coscienza temporale rispetto alla dimensione della passività sintetica. Tuttavia, introducendo al presente capitolo, si è appurato che il tema della temporalità richiede il superamento del proprio carattere formale-astratto, soprattutto in seguito a una
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“Assoziation ist ein transzendentales Postulat” (Ms. A VI 25/3b) scrive Husserl in un manoscritto riportato da costa (1999, 142). Si confronti questo estratto col seguente passo dei Pariser Vorträge: “l’associazione è un termine straordinario per indicare una legalità essenziale, un a priori innato, senza il quale l’ego in quanto tale sarebbe impensabile” (I 29 [60]).
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rinnovata attenzione posta sulla componente materiale della costituzione. Husserl stesso denuncia in alcuni passi l’incompletezza delle modalità temporali del divenir cosciente, le quali rimarrebbero vuote senza che per l’io vi sia un qualche tipo di ridestamento suscitato dall’organizzazione emergenziale del materiale iletico (XI 125 [217]). In buona sostanza, senza l’apporto associativo primario non vi sarebbe alcunché da temporalizzare perché gli orizzonti ritenzionali e protensionali mancherebbero del loro complemento (iletico) funzionale. Solo grazie all’organizzazione associativa del campo sensibile diviene possibile per il presente vivente organizzare il rilievo emergenziale di una presentazione percettiva. Sotto quest’ottica sembrerebbe allora invertito il rapporto di priorità e la coscienza temporale finirebbe essa stessa col presupporre il portato sintetico delle leggi originarie dell’associazione. A ben vedere, ciò che a tutta prima risulta una impasse teorica, può essere risolta se, anziché dal punto di vista dell’una o dell’altra tematica, ci poniamo nella prospettiva dischiusa dalla riduzione trascendentale, ossia quella eminentemente correlativa. Alla luce di quanto ricostruito, il rapporto tra temporalità e passività può a ragione essere inteso come un reciproco presupporsi dal punto di vista logico, non meno che come un reciproco originarsi dal punto di vista genetico. Nei tardi C-Mss., Husserl esplicita una tendenza peraltro già latentemente contenuta in scritti precedenti: il rapporto tra temporalità e associazione delinea una sorta di ilemorfismo, sia pure totalmente diverso da quello descritto nel § 85 di Idee I. “Il fluire come forma – scrive Husserl – l’elemento formale del presente fluente: forma della coesistenza, forma del flusso in quanto flusso; di contro a una ‘forma’ un ‘contenuto’, associazione contenutistica – associazione formale” (Mat VIII 296). Secondo questo passo, una concezione concreta del presente vivente prevede che l’orientamento trasversale del flusso coincida con la dimensione contenutistica dell’associazione originaria, l’orientamento longitudinale con la sua dimensione propriamente formale. L’Urphänomen sembra così essere concretamente rideterminato in termini associativi, nella misura in cui i due orientamenti costitutivi del presente vivente si rapportano al modo di una forma e di un contenuto che si generano vicendevolmente. Se di ilemorfismo si può parlare, esso deve però essere inteso al modo
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di una dinamica generativa in cui l’aspetto formale e l’aspetto contenutistico si producono l’uno in (cor)relazione all’altro, l’uno emergendo contrastivamente sulla base dell’altro. Come sottolineato in precedenza (supra § 2.3.3), il senso recondito di questa correlativizzazione (Korrelativierung) è quello di un’originaria messa in prospettiva, è l’emersione di un primo piano rispetto al proprio sfondo (e viceversa), l’apertura radicale di una prospettiva sul e nel mondo. Vi torneremo, in maniera conclusiva, nella prossima sezione. Terminiamo la presente rimarcando come la possibilità di basare una simile interpretazione dell’Urphänomen sulla duplice operatività del presente vivente non venga mai meno, neanche nei tardi C-Mss. Interrogandosi su cosa significhi per qualsiasi tipo di ente, col suo tempo specifico, appartenere a priori a un medesimo tempo, Husserl scrive: tutti i tempi di tutti gli onta costituiti devono intrattenere una relazione essenziale al tempo originario [Urzeit] del presente vivente fluente, nel quale dobbiamo senz’altro distinguere: il tempo originario in quanto costituire fluente e il tempo originario in quanto costituito nel fluire degli onta come tali, i quali sono da considerare nel presente vivente stesso come loro proprio essere concreto. Più precisamente: distinguiamo dal flusso di vita che si costituisce come flusso […] – che è la costituzione proto-noetica [urnoetische] dello stesso flusso di vita – l’universo immanente “costituito” in esso, la cui forma è il tempo immanente. (Mat VIII 297)
L’integrazione del tema della Urassoziation con quello della Urzeitigung, scaturita dall’assunzione di una nuova responsabilità trascendentale da parte di Husserl, promuove un riequilibrio correlativo della costituzione, non più sbilanciata formalmente a parte subiecti. Questo movimento di pensiero, propiziato dalla restituzione all’elemento materiale della sua ineludibile funzione costitutiva, produce una concretizzazione dell’analisi, una comprensione rinnovata delle modalità affettive che motivano lo sviluppo dell’esperienza.
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§3.1.3 L’affezione e il risveglio dell’io: un incontro prospettico “das Ich wird geschaffen”: es tritt der “unbegreifliche Anstoß” ein32
La ricognizione in merito ai fenomeni associativi originari ha lasciato in consegna uno scenario intuitivo complessivamente omogeneo, dominato in lungo e in largo da veri e propri rilievi emergenziali (Abgehobeneiten)33. Come si afferma all’inizio della parte dedicata all’affezione, la loro “emergenza era quindi per noi un’emergenza attraverso una fusione contenutistica basata sul contrasto”. È proprio in relazione a questi rilievi che si precisa la tematica dell’affezione. Anch’essa “è, in un certo senso, una funzione del contrasto” che “presuppone innanzitutto l’emergenza” (XI 149 [244*]). Tutte le unità sensibili prodotte dalle sintesi di coincidenza (Deckungssynthesen) – come Husserl chiama i fenomeni associativi originari – possiedono infatti una loro forza affettiva che esercitano sull’io (EU 79s. [169s.]). Secondo la definizione più elaborata delle Analysen: Sotto il titolo di affezione comprendiamo lo stimolo [Reiz] coscienziale, la caratteristica trazione [Zug] che un oggetto cosciente esercita sull’io. Si tratta di una trazione che trova soddisfazione nel volgersi [Zuwendung] dell’io e che da qui si continua nell’aspirazione alla volta dell’intuizione auto-offerente che disvela sempre più il sé stesso oggettuale – alla volta della presa d’atto, dell’osservazione più prossima dell’oggetto. (XI 148s. [243*])
Riguardo al tema dell’affezione è importante tener presente almeno tre cose: la prima è che la forza affettiva non equivale a una trazione di tipo fisico-causale. Essa è bensì accomunabile a una 32 33
IX 487. Ribadiamo come la Urassoziation risulti vincolata all’omogeneità del campo sensibile (XI 151 [245s.]). Vi può cioè essere contrasto soltanto all’interno dei limiti imposti dal campo in questione, contrasti quindi di ordine qualitativo (diverse note musicali) o relativi all’intensità (un do più o meno forte); ma non può darsi contrasto alcuno tra stimoli appartenenti a campi sensoriali differenti. Tra questi, come vedremo, potrà darsi al massimo un rapporto di copertura per cui la forza affettiva dell’uno risalterà a spese di quella dell’altro.
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sorta di attrazione (o di lusinga) mediante la quale il rilievo affettivo motiva il ridestamento (Weckung) tematico dell’io, motiva cioè il soggetto a porre attenzione su di sé (sul rilievo)34. La seconda concerne invece il grado di trazione esercitato dalla forza affettiva: come Husserl sottolinea (XI 149 [243]) questi non dipende soltanto dall’incisività del contrasto iletico ma anche da ciò che egli chiama tendenza all’affezione (Tendenz zur Affektion). Lo stesso stimolo può infatti suscitare o meno il ridestamento a seconda del contesto dato, a seconda cioè di specifiche “circostanze favorevoli” o avverse (XI 149 [244])35. Questo dipende essenzialmente da due ordini di fattori: in primo luogo, dalla disponibilità o meno da parte dell’io a essere motivato. Husserl precisa meglio questo aspetto nel § 35, dove distingue la vivacità (Lebendigkeit) della trazione esercitata sull’io dalla sua oggettiva intensità materiale (sachliche Intensität) (XI 167 [262]). Quest’ultima, in quanto forza effettiva dello stimolo, è infatti doppiamente condizionata: dalle “circostanze affettive date” del contesto percettivo (XI 166 [261])36 e dalla disponibilità contingente del soggetto esperiente37. Ma soprattutto, il che ci porta alla terza questione da tener presente, questo modo di ragionare a partire da una singola tendenza affettiva è di per sé un limite astrattivo controproducente. La nozione di campo infatti non dev’essere qui accantonata (EU 74 [159]). Come si rammenta, “il singolo dato nella sua connessione è dipendente, nella sua forza affettiva, dagli altri dati, così come questi lo sono da esso” (XI 150 [245]). Vi sarebbe cioè una sorta di competizione o concorrenza (Konkurrenz) tra le diverse tendenze, tra le diverse fusioni contenutistiche fondate sul contrasto, per cui soltanto alcune tra esse riescono a oltrepassare la soglia del34 35 36 37
Cfr. steinbock (2004, 24). Sull’affezione cfr. inoltre montavont (1994; 1999, cap. VII), costa (1999. cap. VII), bégout (2000, 167-198), biceaga (2010, 31-41). Alla stessa pagina si precisa: “Uno stesso contrasto può cioè effettivamente esercitare uno stimolo sull’io ed in un’altra occasione può accadere che l’io non venga raggiunto dalla tendenza affettiva”. Ad esempio: un urlo di medesima intensità risulterà più avvertibile se proferito nel silenzio del cuore della notte anziché nella confusione di un concerto rock. Ancora, il fatto che in questo momento sia più o meno concentrato sul lavoro determina il grado di avvertibilità (Merklichkeit) o notabilità (Bemerksamkeit) dei rumori del cantiere giù in strada.
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la latenza affettiva, pervenendo così all’attualità presentativa che consiste nella produzione di una “contro-trazione [Gegenzug]” da parte dell’io (XI 166 [262]). Le altre tendenze affettive, le meno salienti, subiranno invece “una specie di copertura [Verdeckung]” (XI 149 [244]) da parte delle trazioni predominanti, restando così relegate in una dimensione pre-affettiva. Secondo l’opportuna chiosa di Husserl, “ci troviamo così all’interno di un relativismo delle tendenze affettive” (XI 150 [245]). Da tutto ciò si può trarre una prima conclusione: quanto abbiamo definito in precedenza “unità strutturale del presente vivente” è ora reinterpretabile nei termini di una vera e propria affektive Einheit. Qualsiasi dato concreto della sfera del presente vivente si inabissa, come sappiamo, nel passato fenomenale, soggiace alla trasformazione ritenzionale e conduce nello stesso tempo necessariamente nella regione dello zero affettivo [affektive Nullgebiet] nella quale si annida e in cui pure non è un nulla. Dobbiamo quindi in generale attribuire al presente vivente un orizzonte di grado affettivo zero [affektiven Nullhorizont], che si modifica costantemente con il presente stesso. Prima di trattare più dettagliatamente questo orizzonte, vogliamo caratterizzare la peculiarità complessiva del presente vivente: considerato nella sua interezza, esso è un’unità affettiva; ha di conseguenza una vivacità unitaria nella quale confluiscono in quanto suoi momenti tutte le affezioni particolari che gli appartengono e che in esso sono sinteticamente unificate. (XI 167s. [263])38
Ciò rappresenta un passo ulteriore nel tentativo di mostrare l’effettiva integrazione tra Zeitbewußtsein e Passive Synthesis. Ma non è tutto. Dopo aver individuato all’interno del presente vivente “un certo rilievo di avvertibilità, un rilievo di osservabilità e di attenzione”, Husserl scrive: “si distinguono qui dunque lo sfondo e il primo piano” (XI 167 [262]). Ciò significa che il relativismo delle tendenze affettive organizza il materiale iletico secondo una prospettivizzazione che riecheggia quella rilevata in precedenza in merito all’emergenza dei vissuti dal fluire originario, inteso cioè quale loro sfondo costitutivo (supra § 2.3.3). Del resto, la distin38
misHara (1990, 39) ha fornito un resoconto di stampo topografico del modo in cui il relativismo delle tendenze affettive concreta l’orizzonte del presente vivente, resoconto che ben si sposa con la caratterizzazione orogenetica del processo originario.
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zione prospettica fra un primo piano, inteso come “l’elemento tematico in senso più ampio” (XI 167 [262]), e il proprio sfondo era per certi versi implicita nell’organizzazione emergenziale delineata dall’operare delle “legalità pre-affettive della formazione di unità” (XI 154 [249]), ovverosia delle sintesi associative originarie. La connotazione emergenziale dell’affezione, il suo risaltare a partire da una dimensione costitutiva preordinata è qui sottolineato rinominando come “pre-affettivo” il terreno originario della Urassoziation. Lo stesso rilievo emergenziale organizzato dalla concrescenza e dal contrasto del materiale iletico è reinterpretato al modo di un rilievo affettivo (affektive Relief) (XI 168 [263]), giacché affettivi a tutti gli effetti sono connotati gli stessi Hintergrund e Vordergrund del presente vivente (XI 411). Se ne evince che l’attualizzarsi dell’affezione coincide, e non potrebbe essere altrimenti, con il momento della presentazione in quanto fonte originaria di ogni affezione possibile (XI 168 [264])39. Non è ancora il momento di trarre conclusioni da questa apparente identità tra l’organizzazione passiva del materiale iletico e la struttura temporale del processo primario. È bene proseguire la disamina concentrandosi sul ridestamento dell’io, il quale saprà dire qualcosa di più al riguardo. Innanzitutto, la nozione di affezione è anch’essa annoverabile tra i concetti correlativi al pari del contrasto e della fusione per somiglianza. È lo stesso Husserl a distinguere due sensi del termine, uno pertinente al dato di coscienza e uno relativo all’io: il primo è quello sinora descritto con il nome di forza affettiva (intensità dello stimolo); al secondo si è soltanto 39
Prima di proseguire è opportuno sottolineare un altro fattore d’integrazione tra le due tematiche che tuttavia non avremo modo di trattare diffusamente: quello dell’associazione non originaria. All’affezione suscitata sulla base dell’apporto della Urassoziation pertengono infatti vere e proprie leggi di propagazione in grado di estendere l’effetto di tale affezione agli orizzonti costituiti del passato e del futuro di coscienza (spinicci 1985, 33s.). L’affezione sarebbe cioè in grado di suscitare associazioni rammemoranti e infuturanti (XI 155-58 [249-253]). costa (1999, 145ss.) definisce questo tipo di ridestamenti affettivi “associazioni del senso comune” poiché esemplificano fenomeni ai quali siamo soliti riferirci col nome di associazione (es. un evento presente ce ne riporta alla mente uno simile verificatosi in passato – un evento presente prospetta il verificarsi di un evento futuro). Queste associazioni si muovono già nella dimensione del costituito, presuppongono infatti un ordine temporale già organizzato in rapporti di successione.
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alluso parlando della disponibilità dell’io a risultare affètto, motivato (XI 166 [261]). La connotazione correlativa dell’affezione esemplifica un carattere troppo spesso frainteso dell’intenzionalità. Essa non può essere intesa come una relazione unidirezionale che dall’io intenzionante diriga sé stessa verso l’oggetto intenzionato. Occorre invece rilevare il suo carattere inesorabilmente bilaterale, come ad esempio fa steinbock (2004, 24) paragonandola a una sorta di “duetto costitutivo”. Nella fattispecie: un duetto tra l’organizzazione dell’alterità iletica e la disposizione partecipativa dell’io, tra oggettivazione e soggettivazione che sembra eludere qualsiasi tentativo di delucidazione unilaterale della dinamica in gioco. In tal senso, dal punto di vista dell’alterità, il ridestamento dell’io consiste in una vera e propria adesione allo stimolo, in una sorta di sottomissione all’attrazione da esso suscitata. In EU 80 [171] Husserl parla non a caso di “imposizione [Aufdringlichkeit]” del rilievo affettivo. Viceversa, dal punto di vista dell’io, proprio in virtù della sua capacità di prodursi in un Gegenzug, suscitando così il coglimento tematico del rilievo e controbilanciando la forza affettiva originaria, abbiamo a che fare con l’attualizzazione della tendenza affettiva, con la sua realizzazione. Secondo il paragrafo § 17 di Esperienza e giudizio, che ha il merito di riassumere e precisare questo importante passaggio, “l’io segue lo stimolo” e dunque vi “cede” (EU 81 [173]). Oltre a questo, però, si precisa l’effettiva bilateralità della dinamica ricorrendo non a caso a un’immagine prospettica: Una tendenza graduale connette i fenomeni, una tendenza alla transizione dell’oggetto intenzionale40 dallo stato di sfondo per l’io [Ichhintergrundes] a quello di contrapposizione per l’io [Ichgegenüber]; un cambiamento che correlativamente è tale dell’intero vissuto intenzionale di sfondo in un vissuto di primo piano: l’io si rivolge all’oggetto. (EU 81 [173*]).
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Qualche rigo più sopra si trova apposta la seguente nota in relazione allo stimolo esercitato da un presunto “oggetto intenzionale”: “qui è improprio parlare di oggetto, di cosa. Infatti, come si è tante volte rilevato, non si può propriamente ancora parlare di oggetti nel dominio della passività originaria” (EU 81n. [173n.]).
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L’idea di una messa in prospettiva consente allora di ricomprendere all’interno del processo anche il primo apporto costitutivo dell’io. Volendo tentare di riassumere il senso di questo snodo fondamentale – quello cioè del ridestamento intenzionale dell’ego al modo di una transizione sfondo/primo piano – potremmo parlare di un incontro prospettico tra l’io e l’alterità che lo affètta sulla base di una prospettivizzazione originaria. Si noti come questo incontro coincida, a ben vedere, con quanto siamo soliti indicare tramite la nozione di intenzionalità. Il riferimento intenzionale, ovvero il ridestamento affettivo dell’io, è dunque possibile soltanto in ragione della struttura emergenziale del vissuto predisposta dal processo originario di temporalizzazione e sostanziata dal risaltare iletico-associativo: “all’attività e affettività [dell’io] appartiene continuamente come presupposto un flusso di vissuto nella sua temporalizzazione” (Mat VIII 197). Di conseguenza, considerando le due tematiche perfettamente integrate nel medesimo Urphänomen, la questione relativa al primato del momento formale anziché di quello materiale risulta appianata in una concezione che pone l’accento sulla co-appartenenza dei due momenti, sulla coincidenza di sfondo temporale (Hintergrund) e sottofondo iletico-associativo (Untergrund). L’incontro affettivo tra l’io e un’alterità data presuppone una prospettivizzazione preaffettiva dell’orizzonte manifestativo, ovvero la sua temporalizzazione e associazione originaria. In termini generali, ciò significa che l’incontro intenzionale è possibile soltanto se l’io e l’oggetto condividono il medesimo orizzonte prospettico, se entrambi emergono e al contempo divergono a partire da una stessa polarizzazione. Non si dà alcun rapporto intenzionale egologicamente strutturato prima di tale Urperspektivierung. La condivisione dell’orizzonte esperienziale è il portato della genesi correlativa dei due poli, ovvero il frutto della dinamica costitutiva originaria nella quale Zeitbewußtsein e Passive Synthesis – presupponendosi a vicenda – intessono in senso correlativo il campo esperienziale, in senso ineludibilmente prospettico il contesto manifestativo: “così l’intero campo percettivo ha anche il suo orizzonte di attualizzazione possibile, che fa sì che pure lo sfondo sia còlto in primo piano” (Mat VIII 215). Il passaggio dallo sfondo al primo piano altro non è che l’attuazione correlativa del rilievo affettivo e dell’io in uno stesso vissuto intenzionale. Hus-
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serl è chiaro al riguardo. Tutto ciò, ancora una volta, presuppone la precostituzione di uno sfondo di latenza potenziale. La vita desta (wache Leben) dell’io, infatti, “non è per sé, essa è ciò che è a partire dal sottofondo di non vigilanza [Unwachheit]. (Mat VIII 42s.). Solo presupponendo lo sfondo offerto da un orizzonte costitutivo primario è possibile penetrare la dimensione affettiva della “ricettività dell’io” (EU 83 [177]). Con la presa in carico di questa dimensione, l’analisi sale infatti di livello. Con la ricettività dell’io si risale dalla sfera della predatità a quella della datità effettiva. Non solo: questo passaggio è anche uno snodo essenziale per comprendere la natura del rapporto tra passività e attività costituente. La ricettività, infatti, in quanto predisposizione dell’io a risultare affètti, non può essere pensata come opposta alla sua attività specifica: “piuttosto bisogna riguardare la ricettività come il grado più basso dell’attività” (EU 83 [177])41. In tal modo, il rapporto tra attività e passività dell’io si trova a essere problematizzato in maniera tale da reinvestire lo statuto descrittivo della fenomenologia husserliana: Con ciò si vuol dire che la distinzione tra attività e passività non è una distinzione rigida [starre], che questi due termini non possono essere trattati come stabiliti per definizione una volta per tutte, ma è solo un mezzo per descrivere e rilevare un contrasto, il cui senso deve essere ogni volta attinto originariamente a seconda del caso singolo, avuto riguardo alla concreta situazione dell’analisi intenzionale – un’osservazione che vale per tutte le descrizioni dei fenomeni intenzionali. (EU 119 [249*])
Tralasciando di approfondire le complicazioni inerenti a un simile situazionismo e correlativismo semantico42, si noti come sia soltanto con la ricettività che si può legittimamente parlare di una intenzionalità compiuta, finalmente reinserita nella struttura d’atto
41 42
Al riguardo cfr. spinicci (1985, 36) e nobili (2020). Esula dagli scopi del presente lavoro affrontare le spinose questioni che pone il linguaggio fenomenologico. Mi limito a sottolineare come le scarne considerazioni di cui si è fatto cenno in corso d’opera convergano verso l’esigenza di ciò che Husserl, nella sua tarda interlocuzione con Fink, additerà con la suggestiva locuzione: “linguaggio della correlazione trascendentale universale” (Dok II/1 104n. 333 [100n. 333]).
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ego-cogito-cogitatum43. A partire da qui, infatti, potranno realizzarsi le prime modalità di costituzione attiva tipiche dell’attenzione, dell’interesse esplorativo, etc. (EU §§ 18ss.). D’ora in poi, l’io potrà cioè vagliare tematicamente il portato pre-costituito dal lavoro congiunto di associazione e temporalizzazione primaria, contribuendo attivamente alla sua oggettivazione. Potrà dunque fare esperienza consapevole del mondo, delle sue datità (pre-date). Scrive Husserl: “è manifesto che il concetto normale di esperienza (percezione, rimemorazione etc.) indica l’esperienza attiva che si sviluppa poi come esperienza esplicativa [explizierende]” (EU 84 [179]). Sebbene nella dimensione ricettiva l’io non sia ancora guidato da un interesse epistemico, è tuttavia solo a questo livello che un simile interesse può essere suscitato per la prima volta. D’altronde, le modalità ricettive della percezione rappresentano un fare a tutti gli effetti in cui il soggetto, mosso da un primo interesse di appropriazione conoscitiva, promuove un processo virtualmente illimitato di esplicazione (Explikation) dell’oggetto (EU §§ 22-32), nonché di afferramento/coglimento (Erfassung) delle sue proprietà e relazioni (EU §§ 33-46). Esplicazione e coglimento rappresentano i pilastri ricettivi a partire dai quali si articola il progetto di Esperienza e giudizio, ossia il tentativo di colmare il gap che separa la dimensione ante-predicativa dell’esperienza dalla dimensione predicativa del pensiero concettuale, esplicitando i presupposti della logica operativi nella prassi giudicante del soggetto44. Ci troviamo dinanzi a un vero e proprio turning-point della dinamica costitutiva. Col passaggio dalla passività all’attività costituente, reso possibile dalla concomitanza dei due momenti della trazione affettiva e della ricettività, assistiamo nuovamente a quella divaricazione tra soggetto e oggetto scorta in precedenza in relazione al processo di temporalizzazione, seppure da un punto di vista soltanto formale. Assistiamo al divenir-cosciente dell’io, cosciente di sé in quanto cor43
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È questa la cosiddetta Akt-intentionalität, di contro alla Strom-„Intentionalität“ dell’Urphänomen (XXXIV 183 [51]); quest’ultima, come più volte ricordato, è detta intenzionalità solo impropriamente (da qui le virgolette), essendo piuttosto da intendere come pre- (Vor-) o proto- (Ur-) intenzionale. Col presente lavoro non possiamo naturalmente seguire Husserl lungo questa strada. Al riguardo si vedano spinicci (1985), bégout (2000, IIIa parte) e dodd (2006).
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relato dell’alterità oggettuale che si manifesta. Assistiamo alla genesi della coscienza intenzionale comunemente intesa, strutturata egologicamente e tematicamente rivolta all’oggetto d’esperienza. Giunti a questo punto, d’altro canto, l’analisi dovrebbe subire una specie di sussulto: se l’io si desta solo a un determinato punto della genesi costitutiva, ciò non lascia forse tempo e modo sufficiente per un suo stato anteriore a questo ridestamento, a questo suo esser divenuto tale? Non si spalanca così – retrospettivamente – la dimensione spettrale propria di una coscienza anteriore al suo divenir cosciente, di una coscienza inconscia? In che misura una prospettiva teorica come quella incarnata dalla fenomenologia trascendentale e imperniata sulla nozione di intenzionalità può legittimamente pretendere di presupporre una dimensione “inconscia” anteriore all’io? §3.1.4 L’inconscio e la pulsazione vitale della coscienza Schliesslich auch Unbewusstes, das zu Bewusstsein kommt, hat seine Weise des Für-mich-da-seins und Vorgegeben-gewesen-seins45
L’ultimo testo raccolto in Hua X (Nr. 54) si conclude in maniera per certi versi sconcertante. Redatto tra il 1909 e il 1911, questo scritto ha avuto il merito di precisare il ruolo costitutivo del flusso assoluto di coscienza, nonché il rapporto intercorrente, al suo interno, tra intenzionalità trasversale e longitudinale. Dopo avervi precisato ciò che appena qualche anno più tardi, in Idee I, avrebbe additato come il “vero assoluto”, Husserl si chiede se non sia il caso di ammettere “che oltre ogni coscienza nel flusso non agisca ancora la coscienza ultima” (X 382 [365*]). Qualche rigo più sotto egli prosegue in maniera ancora più ardita, recuperando un’ipotesi già scartata a suo tempo da Brentano: bisogna però seriamente riflettere se sia necessario assumere una coscienza ultima che sarebbe necessariamente una coscienza “inconscia”; infatti, in quanto intenzionalità ultima, essa non può essere oggetto d’attenzione (se il fare attenzione presuppone sempre come già
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XIV 54.
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data un’intenzionalità), quindi non può mai, in questo senso particolare, giungere alla coscienza. (XI 382 [365s.])
All’incirca così si conclude il testo Nr. 54, lasciando chi legge alle prese con una sorta di impasse teorica di non poco conto. Non solo sembra esservi una dimensione ancor più ultimativa di quella appena descritta dal flusso assoluto; non solo essa è definita con toni smaccatamente ossimorici (“coscienza inconscia”); come se ciò non bastasse, si dice che essa non può esser fatta oggetto d’attenzione, che non può giungere alla coscienza, gettando ombre inquietanti sul suo statuto epistemico all’interno della considerazione fenomenologica. Il fatto che la suggestione manchi del benché minimo carattere assertorio e anzi sia posta con toni puramente ipotetici mitiga appena la perplessità di chi legge. Per capire qualcosa di più al riguardo, conviene abbandonare questo primo stadio della riflessione husserliana e riferirsi ancora una volta alle ricerche condotte nei primi anni ’20 in relazione al tema della passività sintetica. Circa a metà del § 32 delle Analysen, laddove si precisa il rapporto tra Urassoziation e Affektion, troviamo scritto: “non ho bisogno di dire che a tutte queste considerazioni che stiamo conducendo può anche essere dato un titolo famoso: quello di ‘inconscio’. Si tratta quindi di una fenomenologia di questo cosiddetto inconscio” (XI 154 [248s.]). La preterizione con cui Husserl introduce questa sorta di prospetto informativo circa le indagini da lui condotte ha un che di beffardo. Si apprende così di passaggio che il ciclo di lezioni sulle sintesi passive dà luogo a una fenomenologia dell’inconscio. Cerchiamo dunque di chiarire la posizione di Husserl al riguardo, riconnettendola alle fila del discorso avviato nelle precedenti sezioni46. In primo luogo, è forse il caso di rimuovere una possibile pregiudiziale che riguarda la praticabilità di una trattazione fenomenologica dell’inconscio. Qualora si pensasse che una simile disamina rappresenti di per sé un’impossibilità pratica, se non un vero e proprio controsenso teorico – e ciò in ragione del luogo comune per cui 46
Per la questione dell’inconscio in Husserl e una sua valutazione rispetto alla prospettiva freudiana, si vedano oltre al già citato misHara (1990), anche de WaelHens (1959), seeboHm (1992), zaHavi (1999, 203-220), bernet (2002), ni (2005), trincia (2008), moran (2017), scHnell (2017), manca (2018), nakamura (2019), geniusas (2020).
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la fenomenologia privilegi la coscienza (autocosciente) quale luogo atto alla propria condotta analitica – ci si sbaglierebbe di grosso. Per constatarlo basta far notare come dal punto di vista fenomenologico la costituzione di un senso possibile sia di fatto una produzione di senso per la coscienza, in quanto costitutiva dello stesso. Rivolgendosi con una simile precomprensione alla questione dell’inconscio si scopre allora quanto rilevato da Fink nella Beilage XXI della Krisis, ovvero che il problema di una trattazione del non-cosciente non risiede, in prima battutta almeno, dalla parte della fenomenologia che tramite l’analisi intenzionale pone a tema qualcosa che le è massimamente estraneo47, bensì dalla parte di chi vorrebbe dedicarsi all’inconscio prescindendo – ingenuamente – da una considerazione fenomenologica della coscienza. L’ingenuità a cui alludiamo consiste, prima di ogni teorizzazione dell’inconscio, in un’omissione. Si crede di sapere già che cosa sia il “conscio”, la coscienza, e ci si sottrae al compito di tematizzare progressivamente quel concetto, rispetto al quale qualsiasi scienza dell’inconscio deve delimitare il proprio tema, il concetto appunto di coscienza. Ma poiché non si sa che cosa sia la coscienza, ci manca di principio l’inizio di una scienza dell’“inconscio”. […] L’ingenuità della teoria corrente dell’“inconscio” sta in questo: che essa approfondisce questi fenomeni già dati nell’interesse quotidiano, mette in opera un’empiria induttiva e abbozza “spiegazioni” costruttive, mentre tacitamente è sempre guidata da un’implicita teoria ingenuodogmatica della coscienza […] Soltanto dopo un’esplicita analitica della coscienza può essere posto il problema dell’inconscio. Soltanto affrontando attivamente questo problema verrà in luce la possibilità di esplicitare l’“inconscio” con i mezzi metodici dell’analisi intenzionale. (VI 474s. [499s.])
L’inconscio, insomma, può dirsi tale in virtù del conferimento di senso della coscienza che lo costituisce come qualcosa che le è avulso, che non le pertiene. Ecco perché solo per mezzo della fenomenologia trascendentale i fenomeni inconsci potranno essere esplorati, non prescindendo da essa. Del resto, come appurato sin dal 1907, “l’essere-inconscio non è mera privazione, 47
Quello della massima estraneità è un senso che la coscienza conferisce all’inconscio sulla base di sé stessa, è un senso per lei e dunque per noi che conduciamo l’analisi.
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ma è esso stesso un carattere coscienziale” (XXIV 251 [294])48. Tradizionalmente, si è cercato di far coincidere l’inconscio fenomenologico con il pre-conscio freudiano (ricoeur 1965, 424; Holenstein 1972, 322). Questo tentativo non è sbagliato a patto che si tenga presente quanto segue. Come argomentato da bernet (2002), l’inconscio fenomenologico rifugge dall’interpretazione “topografica” del primo Freud; esso dovrà pertanto essere considerato, nella sua vitale dinamicità, un concetto dialettico49. Non si darebbe mai dunque un inconscio in sé ma soltanto una coscienza inconscia a partire da una frattura, da un’assenza della e nella coscienza, la quale risulterebbe affètta ogniqualvolta dalla presenza del non presente. Assecondando queste linee interpretative e tornando adesso alle Analysen, si cerchi di capire a cosa si riferisca Husserl parlando di fenomenologia dell’inconscio. Alla luce di quanto detto nelle scorse sezioni, la dimensione della Urassoziation aveva qui il compito di pre-allestire il campo concorrenziale delle tendenze affettive. Questa pre-costituzione ci consegna immediatamente una delle due accezioni di inconscio decifrabili nelle Analysen, ossia quella che “corrisponde al grado zero della vivacità coscienziale”. In accordo col rilievo di Bernet sollevato poc’anzi, questo grado zero non è uno zero assoluto (uno zero in sé), “esso è un nulla soltanto rispetto alla forza affettiva e quindi rispetto a quelle operazioni che presuppongono appunto un’affettività che abbia un valore positivo (sopra il punto zero)” (XI 167 [262]). Ancora una volta, tale zero è un nulla del e per l’io. Questo nulla è infatti elemento costitutivo di ogni affezione, nella misura in cui esso coincide con lo sfondo contrastivo a partire dal quale si staglia il rilievo emergenziale che prevale, in virtù della propria salienza, sino alla motivazione 48
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Questo modo d’intendere l’inconscio accompagnerà Husserl lungo tutta la sua vita: “l’intenzionalità costituente, qui generalmente intesa come la coscienza nel senso più ampio, della quale persino lo ‘zero’ della coscienza, l’inconscio è un modo, è costituita essa stessa nel flusso del presente vivente” (Mat VIII 193). In questo saggio Bernet affronta soprattutto le implicazioni inconscie dei fenomeni della Vergegenwärtigung, come il ricordo o la fantasia, arrivando a individuare nella coscienza interna del tempo – intesa come dimensione auto-affettiva e istintuale – la base comune di tutti i fenomeni relativi all’inconscio.
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dell’io: “secondo quanto detto, appartiene inoltre ad ogni presente uno sfondo o un sottofondo di non vivacità, di inefficacia affettiva (lo zero)” (XI 168 [263]). Il primo tipo di inconscio tratteggiato da Husserl risulta allora assimilabile alla sfera della passività preaffettiva, ossia al processo originario in cui il materiale iletico si trova a essere organizzato (temporalizzato e associato). In tal senso, questa dimensione inconscia non può essere interpretata come una coscienza ulteriore o ultima – come sembrava ipotizzare Husserl alla fine del Nr. 54 di Hua X. Essa non rappresenta una coscienza aggiuntiva rispetto al fluire ma anzi collima con esso, con la pre-formazione di un orizzonte fenomenale, in quanto latenza di sfondo per ogni manifestazione possibile. La miglior rappresentazione di questo primo tipo di inconscio l’ha offerta Merleau-Ponty, parlando di ciò che non risiede al fondo della coscienza o dietro di essa bensì “davanti a noi, come articolazione del nostro campo” esperienziale50. Nelle Analysen vi è poi una seconda accezione di inconscio, la cui comprensione invita ad abbandonare la soglia del presente affettivo in direzione del suo orizzonte passato. Questo secondo inconscio è trattato sempre nel § 35, dove Husserl tenta appunto di “integrare [ergänzen]” (XI 171 [266]) la descrizione dell’affezione con quella dello sprofondamento ritenzionale. A testimonianza dell’avvenuta integrazione delle due tematiche, egli arriva alla seguente conclusione circa il “fenomeno prospettico” dello “scorrere ritenzionale”: “Noi non lo intendiamo come un fenomeno di effettiva perdita di differenze oggettuali, ma come un fenomeno in primo luogo affettivo: la prospettiva è una prospettiva affettiva” (XI 172 [267]). Emerso dal proprio sfondo di inefficacia affettiva, il rilievo carico affettivamente penetra dunque l’orizzonte intuitivo del presente vivente, lo riempie suscitando il risveglio dell’io, salvo poi incorrere nella modificazione ritenzionale. L’analisi integrata di Husserl – il cui scopo, ripetiamolo, è 50
“Questo inconscio da cercare, non in fondo a noi, dietro la nostra ‘coscienza’, ma davanti a noi, come articolazioni del nostro campo. Esso è ‘inconscio’ per il fatto che non è oggetto, ma è ciò grazie a cui degli oggetti sono possibili, è la costellazione in cui si legge il nostro avvenire – L’inconscio è fra di essi come l’intervallo degli alberi fra gli alberi, o come il loro livello comune. E la Urgemeinschaftung della nostra vita intenzionale, l’Ineinander degli altri in noi e di noi negli altri” (merleau-ponty 1964, 197).
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quello di de-formalizzare la comprensione meramente temporale dell’Urphänomen – descrive ora il digradamento innescato dalla ritenzione come un decrescere progressivo della forza affettiva del rilievo. Il processo ha dunque termine in ciò che qui, in maniera non del tutto appropriata, Husserl chiama rappresentazione vuota (Leervorstellung)51: questa forza affettiva diminuisce inarrestabilmente, ed inarrestabilmente si impoverisce il senso oggettuale che perde differenze interne e quindi, in un certo modo, si svuota. Alla fine ci imbattiamo in una rappresentazione vuota che rappresenta il suo rappresentato in maniera completamente indifferenziata; il rappresentato ha perduto infatti l’intero patrimonio di proprietà internamente emerse che l’impressione originaria aveva istituito. Che cosa rimane? (XI 170 [265])
Già, che cosa rimane una volta sprofondati nella Leervorstellung che sia ancora in grado di preservare il rilievo passato? Con termini ambigui, apparentemente contradditori rispetto al passo appena citato, alla pagina successiva si chiarisce che “nel continuo spegnersi ritenzionale, le differenze di senso persistono come momenti propri dell’identità del senso. Muta dunque la sua modalità di passato, non il senso stesso” (XI 171 [266]). L’apparente contraddittorietà deriva dal fatto che, al contrario di quanto appena riportato, nella prima citazione si era parlato dell’impoverirsi (verarmen) del senso oggettuale. Il problema qui, a ben vedere, è comprendere cosa s’intenda per senso (Sinn). Da una lettura complessiva di queste pagine si evince che a perdersi sia la componente del senso che attiene alla vivacità intuitiva dell’inteso. Le differenze intuitive veicolate dal rilievo affettivo vanno via via impoverendosi man mano che esso digrada, ma l’identità noematica del senso permane nella consapevolezza di aver esperito proprio quel determinato tipo di oggetto e non un altro. Come sottolinea Husserl: “se alla fine, sul piano del contenuto, esso è dato in ma51
Nei Bernauer Mss., come anticipato (supra § 2.3.2), si parlava più convenientemente di coscienza vuota (leere Bewußtsein), dizione ripresa in numerosi altri brani delle Analysen. La formulazione Leervorstellung risulta non del tutto appropriata visto il contesto meramente presentativo – dunque non rappresentativo – del presente vivente. La dizione Leervorstellung è del resto ripresa in maniera opportuna in XI Beilage V in merito all’intuizione d’immagine (Anschauungsbild).
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niera del tutto vuota di differenze, ciò riguarda il suo modo di datità, non il suono stesso” (XI 171 [266]). Vediamo infatti come lo sprofondamento prospettico conduca ogni rilievo verso una nuova zona d’ombra, verso un nuovo azzeramento della forza affettiva, la quale procede quindi di pari passo ai gradi dell’intuitività (XXXIII 66). Il modo di coscienza modificato è sempre parte della connessione sintetica dell’identificazione, ma è una parte sempre più piccola del senso in essa racchiuso ad essere di per sé affettiva. E infine tutto confluisce in uno, tutte le correnti ritenzionali e gli affievolimenti in un’unità nella quale implicite si trova un senso molteplice, poiché in questa unità esso è sfociato attraverso particolari linee di unità; in un modo tale che da quest’unità non diparte alcuna trazione affettiva che possa dar voce e rendere per sé efficace qualcuna delle oggettualità passate o qualcuna delle sue proprietà che in tali unità sono implicitamente racchiuse. Possiamo dunque dire: tutte le affezioni particolari sono giunte allo stadio zero e sono trapassate in un’affezione complessiva indistinta; ogni coscienza particolare è trapassata nell’unica coscienza di sfondo, costantemente disponibile52, del nostro passato in generale: la coscienza dell’orizzonte del passato interamente inarticolato, completamente indistinto, in un orizzonte che conclude il passato ritenzionale vivente e mobile. (XI 171 [267*])
Con il raggiungimento dello zero intuitivo, con il completo svuotamento del presente vivente descritto al modo di uno sfondo inaffettivo, indistinto e inarticolato, ecco dunque delinearsi la seconda accezione di inconscio desumibile dalle Analysen. Richiamando le ricerche condotte durante i soggiorni a Bernau, Husserl ne parla come di “un restringimento prospettico nel regresso dal presente impressionale variamente articolato al passato sempre meno articolato che si restringe e si confonde sempre più” (XI 171s. [267]). Secondo la pertinente immagine husserliana, allora, tutto ciò che è incorso nella costituzione del presente vivente, tutte le distinzioni emerse come unità affettive per l’io, “sono immerse in un’unica notte, sono diventate, in senso eminente, inconsce” (XI 172 [267*]). Questo secondo tipo di inconscio è
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Si tenga presente questa costante disponibilità (implicita) del trapassato in vista delle prossime sezioni, dove se ne chiarirà la portata.
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quindi un inconscio mnestico (post-affettivo)53, una sorta di vuoto e indifferenziato orizzonte di coscienza, posto nondimeno al cuore stesso del presente originario (Urgegenwart) (XI 388). Arrivati a questo punto è possibile tirare le fila di quanto detto nel corso di questa, nonché delle scorse sezioni. Così facendo cercherò di fornire uno sguardo d’insieme – un bilancio sia pure provvisorio – della Lebenspulse. La ricognizione sui fenomeni associativi originari ha permesso infatti di concretizzare la dinamica altrimenti formale del presente vivente. L’avvenuta integrazione con la tematica della passività sintetica ha consentito di comprendere come il processo di temporalizzazione primaria risulti (affettivamente) motivato dall’organizzazione (relativamente) spontanea del materiale iletico in un campo pullulato da rilievi emergenti in concorrenza tra loro. A questa struttura emergente del campo l’io non può inizialmente fare a meno di conformarsi, assecondando la propria dimensione primariamente ricettiva; questa passiva sottomissione allo stimolo rappresenta però a sua volta il ridestamento dell’io, ossia l’approdo al suo primo grado di libera attività. L’interpretazione fornita di tale passaggio è stata quella di un incontro prospettico tra l’ego e il rilievo affettivo, entrambi realizzati nella transizione da uno stato di latenza di sfondo a uno di salienza proscenica. In quest’ultima sezione abbiamo quindi introdotto la nozione di inconscio fenomenologico secondo le due accezioni tratteggiate nelle Analysen: un primo inconscio dinanzi a noi (pre-affettivo), quale coacervo di tendenze costitutive latenti, presupposto inconcusso per l’emergenza contrastiva di ogni datità affettiva; un secondo inconscio dietro di noi (post-affettivo), quale deposito mnestico del senso ritenzionalizzato a partire da ciascun volgimento
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Si veda misHara (1990, 36) per un inquadramento storico della nozione di inconscio mnestico. L’autore ricollega l’intendimento husserliano (ma lo stesso potrebbe valere per Freud o Kafka) all’immaginario del romanticismo tedesco, il quale, rifacendosi a sua volta alla concezione degli inferi dei classici greci e latini, avrebbe variamente inteso l’inconscio secondo le metafore della notte (Nacht) e della miniera (Berwerk) e l’esplorazione del sé come un’attività di estrazione o scavo archeologico. Del resto, come ricorda ferrarin (2006, 14s.), già Hegel nel § 453 dell’Enciclopedia aveva descritto il processo inconscio di conservazione mnemonica secondo la potente immagine del “pozzo notturno”.
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tematico. In entrambi i casi, la dimensione inconscia è descritta da Husserl in termini prospettici, ossia ricorrendo alla nozione di sfondo. Un brano dei C-Mss. aiuta a fare chiarezza riguardo ai differenti concetti di sfondo: 1) l’inconscio assoluto, lo zero assoluto; 2) l’“inosservato”, benché “notabile”, che affètta non penetrando con la sua voce; 3) ciò con cui l’io ha a che fare, non in modo primario, ma [vi] a che fare solamente [come] “ancora”. (Mat VIII 184)
Confesso che non mi è chiaro cosa Husserl abbia qui in mente parlando di inconscio assoluto54. Le altre due accezioni si riferiscono però senza dubbio alcuno a quanto desunto dalle Analysen: una dimensione pre-conscia in cui l’organizzazione del materiale iletico pre-costituisce un potenziale affettivo (notabile ma di per sé non osservato) eventualmente capace di destare l’io; una dimensione inconscia post-affettiva in cui confluiscono tutti i rilievi che hanno dissipato la propria forza (la propria pienezza intuitiva) ma con cui l’io ha avuto e ha ancora a che fare in quanto disponibilità di senso conservate ed eventualmente riattivabili55. L’aspetto interessante è che queste due accezioni di inconscio delimitano i ranghi entro cui un vissuto di coscienza può sorgere, persistere e infine tramontare. Ogni singolo Erlebnis – qui inteso come incontro prospettico (intenzionale) tra un oggetto e un soggetto d’esperienza – emerge a partire dalla dinamica costitutiva originaria; esso eserciterebbe quindi per un certo periodo d’interesse56 la propria funzione d’atto (percettiva, predicativa, rimemorativa, immaginativa, etc.) fino all’esaurimento della propria parabola motivazionale, fino al proprio ineludibile reflusso. Traspare qui tutta la finitezza della vita intenzionale57. Ogni esperienza vissuta è pa54 55 56
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Potrebbe forse essere ricollegato al problema della morte (Tod) della soggettività trascendentale affrontato in alcuni Mss. degli anni ’30 (XLII parte I; Mat VIII Nrr. 21, 43, 94, 96-7). Al riguardo v. steinbock (2017, 21ss.). In merito alle due accezioni di inconscio cfr. XI 420-422. L’espressione è volta a sottolineare l’avvenuta integrazione tra il momento temporale formale e quello iletico-motivazionale in grado di connotare qualitativamente, secondo cioè un interesse specifico, il processo di temporalizzazione. Secondo blumenberg (1986, 108) sia lo spazio che il tempo sarebbero “forme con cui la soggettività si adatta alla propria ristrettezza, alla propria sproporzione rispetto al mondo”; il tempo, nella fattispecie, risulterebbe
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ragonabile a una breve parentesi interposta fra lo zero pre-affettivo e il nulla post-affettivo, tra l’indistinzione del non ancora emerso e l’oscurità o nebulosità58 di un trascorso non più articolato, in breve: una corda tesa su un abisso d’inconscienza. La modalità temporale che più si attaglia a ciascun vissuto è quella del trapassare59 e dunque di “un vivere nel tras-vivere, nel costante trapassare del vivere” (XXXIII 69), secondo la già menzionata formulazione dei Bernauer Mss. La vita intenzionale risulta quindi intessuta dall’avvicendarsi di vissuti di coscienza, da una persistente pulsazione coscienziale in cui coesistono e s’intervallano elementi di presenza e non presenza, fasi di presentazione e di depresentazione. Alla luce di questo bilancio provvisorio, l’identità del soggetto pare compromessa dall’intermittenza di attivazioni (divenir-cosciente-di-qualcosa) e altrettante disattivazioni (divenir-incosciente-di-questo-qualcosa), lungo il percorso predelineato dalla dinamica formale del processo originario. Non v’è bisogno di nascondere che lo scenario or ora descritto appaia piuttosto desolante. Mediante l’integrazione di Urzeitigung e Urassoziation abbiamo assistito alla genesi dell’io60, una genesi inevitabilmente vincolata al divergere/ emergere di un’alterità pre-data sulla base di una sostanziale indistinzione pre-costitutiva. Se quanto descritto non appare in prima battuta conforme al nostro modo d’intendere la vita cosciente, non rispecchia cioè la ricchezza identitaria di un soggetto propriamente detto, è perché ci siamo sinora limitati a considerare la dimensione della passività originaria, dell’organizzazione iletico-associativa del campo esperienziale. Non è stato cioè preso ancora in esame, in tutta la sua rilevanza, l’apporto costitutivo della passività o sen-
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“costituito dalla necessità della coscienza di essere e restare sé stessa nei suoi vissuti originari”, ossia dalla necessità di non perdere sé stessa dinanzi al suo continuo rinnovellarsi. Le Analysen descrivono il confluire delle linee di fuga ritenzionali come una sorta di annebbiamento (Vernebelung) affettivo (XI 156, 169, 171, 173 [251, 264, 266, 270]; cfr. le occorrenze di Nebel già in XXXIII 50-54). Conseguentemente, il ridestamento può allora essere inteso come una specie di diradarsi della nebbia (Entnebelung) (XI 176 [273]). Nel § 38 delle Analysen, riflettendo sulle prerogative del ridestamento rimemorativo di “una connessione oggettuale stabilmente costituita e che si è soltanto assopita”, Husserl ne specifica le modalità temporali nei termini di un “presente trapassato” (XI 182 [279]). Su cui però torneremo conclusivamente (infra § 3.3).
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sibilità secondaria (XI 342; XXXI 124; EU 300, 336 [611, 683]; IV 332ss. [325s.]; XVII 319s. [390s.]); non si è esplorato come il defluire di ciascun vissuto nella “notte dell’inconscio” (Mat VIII 185) conservi il senso costituito in quanto possesso abituale della coscienza. Nelle prossime sezioni cercheremo quindi di completare il nostro resoconto, introducendo le fondamentali nozioni di sedimentazione e abitualità. Solo a quel punto l’intendimento husserliano della vita intenzionale potrà essere stimato in tutta la sua portata.
§3.2 Il sistema implicito della sedimentazione §3.2.1 Il senso tra abitualità e tipizzazione Nelle precedenti sezioni abbiamo compiuto alcuni passi in direzione di un resoconto concreto della vita intenzionale. Si è mostrato, in particolare, il fenomeno del divenir-cosciente a partire da una dimensione pre-conscia, nonché quello conseguente del “divenir-incosciente” (Mat VIII 132). Concludendo la scorsa sezione abbiamo quindi concepito l’inconscio – secondo le due accezioni distinte nelle Analysen – come quel duplice orizzonte (pre- e post-affettivo) che delimita il decorso di un vissuto. Questa conclusione ha lasciato in consegna l’insoddisfazione per una vita coscienziale equiparabile a una pulsazione intermittente, per cui risulta assai problematico attribuire un qualche tipo di identità al soggetto esperiente. Per fortuna, abbiamo anche intravisto come il resoconto integrato del processo di ritenzionalizzazione – lo sprofondamento del rilievo affettivo nella buia notte dell’inconscio mnestico – non si traduca in un nulla di fatto per la coscienza, bensì ammetta un qualche tipo di conservazione del senso, alla qual cosa conviene ora volgere l’attenzione. Nel § 36 delle Analysen Husserl chiarisce l’ambiguità che nel paragrafo precedente caratterizzava la questione dell’impoverimento (Verarmung) del senso oggettuale. Si dice, infatti, che lungo il processo ritenzionale, “nonostante la continua identità del senso; il senso possiede una pienezza intuitiva sempre minore” (XI 174 [271]). Assistiamo quindi a una sorta di scollamento interno alla dinamica costituente tra il momento della presentazione intuitiva (Veranschaulichung) e quello del conferimento di senso (Sinngebung). A con-
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ferma di questa interpretazione è possibile richiamare un brano dei Bernauer Mss. in cui Husserl distingue in maniera netta, “dal punto di vista noematico, il puro senso e la pienezza in quanto momenti mutualmente differenti” (XXXIII 66s.). Questa distinzione è ripresa e precisata circa la sua valenza eidetica nella Beilage VI di Hua XI: Non possiamo certo giustapporre due componenti – senso e pienezza – nell’intuitivo in quanto tale. Solo mediante la contrapposizione di senso vuoto e pieno possiamo ottenere la [loro] distinzione, dunque attraverso la sintesi di intuizione e coscienza vuota. Forse potremmo dire: l’astrattivamente identico, che chiamiamo senso rispetto ai differenti atti di coscienza, è un’essenza (l’essenza del senso) che si specifica […] secondo due modi fondamentali: nel modo dell’intuitività […] e in quello della non intuitività, del vuoto. (XI 363)
In base a queste ragguardevoli precisazioni, sembra lecito concludere che ciò che s’impoverisce e decade in uno stato di indistinzione rispetto allo sfondo da cui era emersa sia soltanto la componente della pienezza intuitiva; non quindi il momento rispondente all’identità del puro senso dell’inteso (il momento non intuitivo della Sinneswesen), che anzi mantiene tutta la discrezionalità acquisita nel corso della Sinngebung. Ecco perché “l’intuizione è sempre meno un’intuizione pura e sempre più una mescolanza di intuizione e rappresentazione vuota”; ecco perché, ciò nondimeno, “nella continuità di questo processo, il senso si è conservato identico e si è solo velato; da senso esplicito si è trasformato in senso implicito” (XI 174 [271]). Mi preme sottolineare come questi passi risultino d’importanza decisiva non solo per quanto concerne il tema del ridestamento affettivo affrontato in queste pagine, bensì a fortiori in vista del più generale progetto di fenomenologia costitutiva. Vediamo di sondare le ragioni alla base di questa valutazione. Come detto, lo sprofondamento ritenzionale sacrifica, per così dire, la pienezza intuitiva a beneficio della conservazione del senso oggettuale (XXXIII 66s.). Quest’ultimo, a partire da uno stato di palese manifestazione intuitiva realizzato nell’incontro tra rilievo affettivo e ricettività egologica, incorre poi in un processo di vera e propria implicitazione61. Un bel modo per comprendere questa 61
Col termine “implicitazione” cerco di rendere perspicuo il processo di trasformazione del senso esperito da uno stato di attualità esecutiva (esplicita)
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divergenza tra senso e intuitività è fare nostre alcune riflessioni di mayzaud (2010, 148s.), secondo cui il flusso di coscienza sarebbe da intendere non solo in termini di sviluppo ma anche come una forma peculiare di inviluppo. La nozione di inviluppo rende conto del processo di implicitazione del senso come contrapposto al dispiegamento intuitivo dei vissuti. Secondo questa lettura, che ben si sposa con la duplicità operativa del processo originario (trasversale/longitudinale) descritta nel precedente capitolo, al massimo della presentazione trasversale (all’apice dell’esplicazione intuitiva) corrisponderebbe un minimo di implicitazione del senso oggettuale (ancora non ritenzionalizzato) e, viceversa, al minimo di presenza intuitiva (la buia notte dell’inconscio mnestico) corrisponderebbe il massimo stato di conservazione implicita del senso oggettuale (della sua costante disponibilità)62. Il compimento di un ciclo di tale dinamica coincide con il già menzionato leere Bewußstein – che preferiamo rispetto a Leervorstellung – il quale conserva implicite l’identità del senso oggettuale a discapito delle differenze intuitive e della forza affettiva. In questo vuoto intuitivo, infatti, “il senso è ancora implicitamente presente in forma ‘morta’, è soltanto privo di vita fluente”; e tuttavia, la morte del senso è soltanto presunta, “esso è inerte per ciò che concerne il nuovo costituire – nota bene, per un nuovo costituire originariamente esperiente” (XI 177s. [275*]). L’inerzia del senso, a ben vedere, dev’essere intesa come una sua disponibilità latente in vista di una possibile riattivazione:
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a uno di conservazione latente (implicita). Questo processo può naturalmente essere descritto mediante termini coestensivi come “ritenzionalizzazione” o “sedimentazione”, solitamente impiegati negli studi husserliani. Tuttavia, è mia convinzione che entrambi stentino a restituire efficacemente la posta qui in gioco. Mentre il primo rimane legato a un livello di considerazione astratta della vita intenzionale, il secondo è connotato di una valenza metaforica per certi versi fuorviante, in quanto allusiva a una concezione dell’immanenza coscienziale ancora di tipo rappresentazionale (come sovrapposizione di strati costitutivi) che invece si pretende di mettere in discussione (infra, § 3.2.3). “Che cosa significa questo zero? Esso è il deposito permanente degli oggetti che sono giunti a una fondazione vivente nel processo vivente del presente. Per l’io essi sono rinchiusi in questo deposito, ma sono pur sempre a sua disposizione” (XI 177 [274])
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il ridestamento è possibile perché è effettivamente implicato il senso costituito nello sfondo di coscienza, nella forma non vivente che qui chiamiamo inconscio. Il ridestamento è anche in questo caso la produzione di una comunicazione affettiva e quindi la produzione di una sintesi attuale, di un collegamento oggettuale che viene effettivamente prodotto in quanto collegamento, come un oggetto semplice, per sé affettivo. (XI 179 [276])
Il caso più eclatante del ridestamento è quello dell’associazione rimemorativa, ossia del ricordo suscitato passivamente in noi da un avvenimento presente. Si noti che questo tipo di associazione non è ancora l’attività del ricordare vero e proprio, con ciò intendendo la possibilità di vagliare attivamente il passato mnestico per richiamare alla mente un determinato evento trascorso (es. la gita di quarta superiore). Ora, alla luce di quanto detto, trova giustificazione il tentativo husserliano di reinterpretare il reflusso del presente vivente – l’esaurirsi cioè della forza affettiva del vissuto – come un processo di sedimentazione (Sedimentierung) del senso: ogni prestazione del presente vivente, cioè ogni prestazione di senso oppure ogni prestazione costitutiva di oggetti si deposita [sich niederschlägt] nell’àmbito della sfera d’orizzonte morta o piuttosto assopita, seguendo un ordine fisso di sedimentazione [Sedimentordnung], poiché di continuo, mentre al suo apice il processo vivente riceve nuova vita originaria, nelle sue fondamenta si deposita tutto ciò che in un certo qual modo è acquisizione finale [Enderwerb] della sintesi ritenzionale. (XI 178 [275*])
Per sedimentazione s’intende la prosecuzione inconscia della ritenzione (Held 1966, 35), oppure, come in altri luoghi si esprime lo stesso Husserl (XI 288s., 384s., 407s.), una ritenzione lontana (Fernretention)63, in grado cioè di ritenere il senso costituito al di là della dimensione presentativa del vissuto – a detrimento cioè della sua Veranschaulichung. Ogni presentazione lascia in noi un sedimento di senso durevole, il quale, si noti, non è un lascito disponibile alla stregua di un possesso rapsodico, bensì di un vero e proprio “sistema 63
In merito alla Fernretention e al suo rapporto con la ritenzione vicina (Nahretention), parte integrante del presente vivente, si veda rodemeyer (2006, 86ss.) e de Warren (2009a, 170ss.).
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nascosto delle sedimentazioni, un sistema che è in una connessione continua” (XI 184 [281]). Questa connessione sistematica del senso sedimentato, scaturendo in primo luogo dalla forma del suo ordinamento temporale64, riflette l’organizzazione correlativa (noetico-noematica) veicolata da quest’ultima. Come si nota nel § 25 di Esperienza e giudizio, il fatto stesso che un vissuto possa venir dimenticato non significa che esso sia “scomparso senza lasciar alcuna traccia”; esso è piuttosto “divenuto semplicemente latente” (EU 137 [285]). Secondo il paragrafo in questione, la latenza riguarderebbe sia il senso noetico dell’atto costituente che quello noematico dell’oggettività costituita; ciò significa che il processo di sedimentazione concerne entrambi gli orientamenti dello sprofondamento ritenzionale, quello trasversale così come quello longitudinale. Questo aspetto induce una comprensione più profonda di quale sia in effetti il portato dell’implicitazione del senso. Come ha osservato de Warren (2009a, 241), dal punto di vista noetico la sedimentazione altro non è che l’eredità del processo di auto-costituzione. Il senso sedimentato non riguarda solo gli oggetti dell’esperienza mutevole, ma riguarda anzitutto il nostro modo di fare esperienza dell’oggetto in questione: “la sedimentazione di ogni temporalizzazione vivente concerne anche la temporalizzazione dell’io e dei suoi atti” al modo di altrettanti “compimenti sedimentati” (Mat VIII 202). Complessivamente, l’implicitazione del senso – il fatto per cui esso muti, conservandosi identico, da uno stato esplicito a uno implicito (XI 174 [271]) – è interpretabile come un passaggio di testimone tra l’attualità intuitiva del fare esperienza (della specifica oggettualità esperita) e la sua potenzialità latente (l’esperienza potenziale di nuove oggettualità). In questo modo la de-presentazione del flusso – lo svuotamento intuitivo dell’orizzonte di presenza – costituisce le potenzialità dell’esperienza a venire65. L’intero processo delinea non soltanto le condizioni per trascendersi in sviluppi ulteriori, ma anche la possibilità di farlo 64
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Il passo prosegue affermando che questa connessione continua “sarebbe riproduttivamente realizzata soltanto se potessimo riprodurre dall’inizio e tutta d’un fiato, senza interruzioni, la nostra intera vita” (XI 184 [281]). Questa eventualità è stata esplorata narrativamente da borges (1944) nel racconto Funes el memorioso. Più in generale, sulla memoria in Husserl v. brougH (1975). Cfr. de Warren (2009a, 251) e mayzaud (2010, 149).
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secondo condizioni di esercizio via via più complesse e articolate. Concretandosi, come vedremo, nel duplice orientamento di conservazione noematica (tipizzazione66) e noetica (abitualizzazione), l’implicitazione sostanzia dunque la verità sottesa alla massima arcinota ma mai del tutto compresa per cui chiunque, a suo modo, impara dall’esperienza. La storia dell’io è infatti un percorso in cui vengono a costituirsi nuove aperture, nuove esperienze all’interno di un orizzonte di senso sempre più ricco e nondimeno rivedibile, riorganizzabile nei suoi nessi intenzionali alla luce di nuove prestazioni costitutive. Questa costante disponibilità del senso sedimentato dev’essere intesa, dal punto di vista noetico, come l’istituzione di facoltà o abilità (Vermögen) sempre più complesse e affinate dall’interazione con l’alterità costituita nel corso dell’esperienza pregressa. Per una delucidazione in merito alla nozione di Vermögen si tenga conto del § 59 di Idee II che ne precisa il senso secondo una concezione apertamente epigenetica67. L’io in quanto unità è un sistema dell’“io posso”. […] L’io spirituale può essere concepito come un organismo, un organismo di facoltà, con un suo sviluppo secondo uno stile tipico, attraverso gradi dell’infanzia, della giovinezza, della maturità, della vecchiaia. […] La facoltà non è un vuoto potere, bensì una potenzialità positiva che, volta per volta, si attualizza, che è sempre pronta a trapassare in attività, in un’attività che, conformemente a come è vissuto, rimanda al relativo potere soggettivo, alla facoltà. (IV 253ss. [254s.])
È pur vero che, proseguendo, il passo in questione distingue tra facoltà originarie del soggetto (Urvermögen) e facoltà acquisite (erworbene Vermögen), ma come si precisa l’originario dev’essere qui inteso come la possibilità per l’io di essere motivato, di generarsi assecondando istinti o pulsioni (IV 255s. [256]) che come altrettanti stimoli tendono alla formazione della sua libera attività68. 66 67 68
Cfr. EU § 8. Per la teoria dei tipi in Husserl si veda loHmar (2003a), nonché, sulla sua scorta, diaz (2020). Tornerò sull’argomento nel § 3.2.3 (infra). Traggo il termine epigenesi dalla scienza biologico-evolutiva per indicare la formazione di strutture e funzioni cognitive nel corso dello sviluppo dell’organismo, ossia nel corso dell’esperienza stessa (gottlieb 1992). Non ho modo in questa sede di colmare il gap esplicativo che dall’istintualità originaria dell’io conduce alla formazione di un soggetto atteggiato
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Cerchiamo adesso di comprendere meglio in cosa consista l’implicitazione del senso. Sembra infatti di poterla descrivere in questi termini: la depresentazione intuitiva – lo svuotamento proprio del Leerbewußtsein – departicolarizza, per così dire, il senso relativo al vissuto, trasformandolo in una potenzialità d’esperienza di valore più generale, di natura stilistica69. Per Husserl infatti, “ogni atto, compiuto ‘per la prima volta’, è l’istituzione originaria di una proprietà permanente” (IV 311 [307*]). Ciò significa che ogni prestazione intenzionale concorre alla definizione di uno stile complessivo d’esperienza declinabile sotto il duplice profilo noematico e noetico (tipico-abituale). L’esperienza di un oggetto, specie se ripetuta, informa, struttura le modalità di esercizio di esperienze ulteriori di tipo analogo. Le informa nella misura in cui il nostro standard percettivo (la percezione normale, direbbe Husserl70), il nostro comune modo di “vedere” le cose, non ci è dato
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praticamente. Rimando pertanto a lee nam-in (1993), menscH (1998) e pugliese (2014). Mi permetto soltanto di far notare che, alla stregua di quanto avvenuto per la nozione psicologistica di associazione, la trasvalutazione fenomenologica della nozione di istinto la reinserisce all’interno di una concezione trascendentale della genesi intenzionale: “istinto trascendentale – in un senso la tendenza universale che attraversa la totalità dell’intenzionalità dell’ego – la permanente teleologia universale” (Mat VIII 260). Su istintualità e teleologia cfr. XLII, parti IIa e IIIa. Il concetto di stile ha per Husserl valenza operativa e quasi mai tematica. Limitandosi alle numerose occorrenze di Idee II (IV 21, 58, 236, 249n. 1, 254, 270, 273, 277, 329-331, 342, 344, 379 [25, 62, 239, 250n. 1, 255, 269s., 272, 276, 323s., 333, 335, 364]), si evince come la nozione di stile sia impiegata secondo plurime accezioni che oscillano tra il significato (psicologico) di senso comune – un modo di comportamento che contraddistingue la personalità di ciascun individuo – e quello tecnico (trascendentale) riferito alla cifra eidetico-costitutiva caratteristica di un determinato genere di esperienza (percettiva, categoriale, etc.) e relativa a un certo àmbito regionale (natura, mondo spirituale, etc.). È importante sottolineare come le diverse accezioni non siano irrelate e come tra esse viga anzi un rapporto di mediazione veicolato dal grado di generalità/particolarità in cui la nozione di stile trova impiego. Come nota opportunamente meacHam (2013, 7), la nozione di stile è legata a doppio filo con la nozione genetico-fenomenologica di “istituzione” (Stiftung), la quale designa “an actual sense development that opens a horizon of other potential future sense developments, which can be said to have a form of latent existence in the horizon of the first development”. Sul concetto di normalità fenomenologica e sulla tensione vigente tra normalità intersoggettiva e primordiale cfr. taipale (2012). Al riguardo e so-
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originariamente in quanto tale ma ha dovuto generarsi nel corso di un processo di formazione storica. I molteplici modi di manifestazione […] continuano a scorrere e nella loro sintesi evidentemente passiva si manifesta la cosa con il suo essere “una”, con quell’unica forma, ecc. Di certo anche questa sintesi, in quanto sintesi di questa forma, ha la sua storia che si annuncia nella sintesi stessa71. Il fatto che io, l’ego, possa fare esperienza di una cosa al primo sguardo dipende da una genesi essenzialmente necessaria. […] Ci sono buone ragioni per dire che noi, nella prima infanzia, abbiamo dovuto imparare a vedere le cose in quanto tali, così come ha le sue buone ragioni dire che questo apprendimento ha dovuto precedere, dal punto di vista genetico, tutte le altre modalità di coscienza delle cose. Il campo percettivo che è a nostra disposizione nella prima infanzia non contiene ancora nulla di ciò che un semplice sguardo potrebbe esplicitare come “cosa” (I 112 [154]).
Il duplice processo di implicitazione trasversale e longitudinale estrapola (herausheben) dunque dalla particolarità contenutistica di volta in volta in gioco il senso stilistico-formale delle oggettualità in questione (tipi) e, correlativamente, delle modalità d’atto che l’hanno istituita (abiti). Per dirla con bégout (2000, 204), ciò che si verifica è la dissociazione tra la quidditas e la quodditas dell’esperienza, laddove il valore di senso (Sinngehalt) dell’esperito (il quid) sopravvive all’impoverimento della sua circostanziata presentazione intuitiva (al quomodo). La sedimentazione estrapola e conserva in forma implicita il senso costituito in vista di eventuali esperienze rinnovate e concordi, ovvero aderenti allo stile unitario di cose esperibili analogamente, secondo le medesime prestazioni costitutive72.
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prattutto in vista di quanto si dirà nella prossima sezione, si tenga presente che anche “i livelli delle normalità e anomalie [Anomalitäten] corrispondono ai livelli di costituzione dell’essere secondo l’essere relativo in manifestazioni relative, fino all’essere oggettivamente vero del mondo veramente esistente” (XV 155; cfr. XXXIX 668). Dire che la sintesi “ha la sua storia che si annuncia nella sintesi stessa” significa rimarcare come il portato genetico della costituzione, il senso implicitamente sedimentato, riverberi in ogni prestazione intenzionale ulteriore – co-determinandola (infra § 3.2.3). L’unità stilistica risulta immediatamente comprensibile se declinata secondo determinate tipologie di esperienze. Ad esempio: lo stile di un rinomato
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Nel corso dell’implicitazione, assistiamo dunque a una sorta di trasduzione della particolarità intuitiva presentata dalla sintesi oggettuale nella formalità stilistica facente capo al senso di un’esperienza generalmente possibile. Il fatto di cui tener conto è quello per cui nell’orizzonte indifferenziato dell’inconscio mnestico permane la forza affettiva liminale propria di un “vuoto ‘qualcosa’” (XI 388)73. L’impoverimento in cui incorre il momento intuitivo della Veranschaulichung fa sì che il tenore del senso in corso di sedimentazione risulti progressivamente decondizionato dalla particolarità dell’esperienza attuale (dall’occorrenza contingente di questo oggetto in questa situazione). Ciò che s’implicita è allora il senso afferente a un certo tipo oggettuale, un qualcosa di generalmente esperito secondo determinate prestazioni stilistiche e abituali. Assistiamo così alla trasduzione del senso da un registro di esperienza attuale e particolare (esplicito) a uno potenziale e di valenza più generale (implicito)74. Com’è ovvio, questo non avviene
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sommelier avrà subìto un processo di informazione dovuto alla ripetuta e contrastata esperienza di diversi vitigni. Il suo stile esperienziale differirà dunque (noematicamente) da quello specifico di un assaggiatore di formaggi pur avendo in comune (noeticamente) i tratti essenziali propri della degustazione. Entrambi differiranno poi (noematicamente e noeticamente) dallo stile esperienziale di un manovale, un falegname, etc. Ciò che però importa sottolineare è come l’implicitazione dia forma a un sistema di potenzialità sempre più raffinato, latore di un discernimento sempre più svincolato dalla presentazione effettiva dell’oggetto (infra § 3.2.3). Secondo bégout (2000, 208s.) l’inconscio rappresenta l’insieme degli oggetti X, ossia dei puri sensi oggettuali che trascendono le rispettive manifestazioni. In tal modo, l’inconscio non coincide con l’annullamento della coscienza, bensì con l’orizzonte indeterminato di ogni possibile rimando di senso (Sinnverweisung). Nel linguaggio tecno-scientifico il trasduttore è un dispositivo che opera la trasmissione di un determinato segnale trasformandolo in un segnale di diversa natura. La nozione di trasduzione trova pertanto impiego in àmbito ingegneristico per la trasformazione dell’energia, in àmbito computazionale per la trasmissione dell’informazione, financo in àmbito biologico nei fenomeni della trasduzione genetica e del segnale elettrochimico intracellulare. La nozione ha quindi trovato impiego filosofico nei tentativi da parte di pylysHyn (1984, capp. 5-6) di fondare la scienza cognitiva, nonché, più recentemente, da parte di caston (1998, 268, 285) di spiegare alcuni aspetti della cognizione in Aristotele. Ribadisco infine il significato specifico assunto dal termine nella presente analisi: per trasduzione s’intende la trasformazione del senso costituito da uno stato attuale, esplicito e particolare a uno potenziale, implicito e generale.
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necessariamente in una volta ma nel progredire dell’esperienza, mediante episodi di differenza e ripetizione. In tal modo però si comprende perché Husserl parli della latenza del senso come di “un possesso abituale” (EU 117 [285]). Aggiungeremmo volentieri: un possesso abituale e tipico (= stilistico), rimarcando cioè l’andamento correlativo dell’implicitazione noetico-noematica. La nozione di abitualità è infatti decisiva e strettamente collegata al processo di sedimentazione75. L’introduzione di questo concetto fornisce anche l’occasione per spostare la nostra attenzione lungo il versante longitudinale del processo. È qui possibile scorgere come la dinamica operi una stratificazione correlativa alla tipizzazione noematica: quella riguardante l’io quale sostrato di abitualità. Nelle Meditazioni (§ 32) Husserl sostiene che proprio “in virtù della legalità della genesi trascendentale, con ogni atto che s’irradia dall’io e che ha un senso oggettuale nuovo, l’io acquisisce una nuova proprietà stabile” (I 100 [140s.]). Come anticipato, non soltanto l’implicitazione opera in vista della formazione di un tipo oggettuale riconoscibile; essa opera al fine di conservare anche il senso di ogni disposizione pratica, attitudinale, nei confronti dell’oggettualità esperita. Ogni presa di posizione in merito all’oggetto – sia essa di tipo affettivo, emozionale, valoriale, proposizionale, etc. – viene mantenuta e ciò concorre al costituirsi di un “sostrato identico di proprietà permanenti dell’io”, il quale risulterà funzionale, in un successivo sviluppo, alla definizione di un “io personale stabile e permanente”, “un carattere personale” (XI 101 [141s.]) dotato di uno specifico “stile di vita” (IV 270 [269s.]). L’individuo si genera dunque lungo la storia dei propri vissuti e delle relative prese di posizione: tutto ciò – sedimentandosi – ne informa le attitudini esperienziali secondo schemi cognitivi abituali. La personalità dell’individuo è dunque il precipitato delle sue esperienze pregresse, essa è in qualche modo la risultante dei propri abiti esperienziali; prova ne sia che Husserl parla “di uno stile complessivo e di un habitus del soggetto che attraversa, nella forma di una concordante unità, tutti i suoi modi di comportamento, tutte le attività e le passività” (IV 277 [276]). Ancora più esplicita sarà la posizione dei C-Mss.: “attraverso la temporalizzazione degli atti dell’io e dell’io stesso si attua l’umanizzazione e in primo 75
Al riguardo si veda moran (2011; 2014) e cavallaro (2016).
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luogo la prima forma di umanizzazione di sé, la corporeizzazione del mio io” (Mat VIII 345). Come si precisa in una nota della stessa pagina, allora, i processi di Verzeitlichung, Vermenschlicung e Verleiblichung vanno di pari passo lungo la genesi storica della soggettività trascendentale. L’abitualità opera infatti a tutti i livelli, dalla pre-costituzione passiva della realtà percettiva, alla formazione dell’identità personale sino allo sviluppo di un’identità intersoggettiva: gruppi, società, popoli, nazioni etc. (moran 2011, 53). Essa si declina secondo una varietà nutrita di abiti (schemi corporei, buone o cattive abitudini, costumi, tradizioni, culture, etc.), tutti però intimamente connessi a quel loro significato unitario individuabile nel carattere della disposizionalità, di una riserva di senso costantemente disponibile e ogniqualvolta riattivabile. Ogni habitus infatti – foss’anche un un “abito del pensare [Denkgewohnheit]” (IV 246 [268]) – deve intendersi come finalizzato all’azione, all’esercizio di una disposizione facoltativa, di una potenzialità costituitasi nel corso della genesi intenzionale del soggetto. Avviandosi a concludere la sezione è opportuno riassumere quanto detto. È possibile farlo a patto di focalizzare nuovamente la nostra attenzione sul tema del flusso costituente e ripensare i risultati (di volta in volta posti in evidenza) della sua integrazione col mare magnum dei temi ricompresi sotto il titolo di sintesi passiva (associazione, affettività, inconscio, etc.). Questa operazione ha condotto a riformulare il processo ritenzionale nei termini di una implicitazione del senso costituito. Alla luce di questa riformulazione diventa quanto mai evidente come il grande sforzo di Husserl sia divenuto quello di pensare alla temporalità, finalmente reintegrata con le tematiche della passività sintetica, come una forma generativa in grado non soltanto di articolare l’attualità di ciascun Erlebnis secondo modi specifici di decorso, ma anche di trasporre questa attualità in una potenzialità rinnovata del nostro modo di fare esperienza, ovvero in disposizioni abituali finalizzate al suo esercizio. La generazione di tipi noematici e di abitualità noetiche costituisce quindi la condizione possibilitante, la possibi-
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lizzazione (Vermöglichung) capace di innescare sintesi costitutive ulteriori – di complessità crescente76. Lungo questo ricorrere di attualità e potenzialità d’esperienza, la forma temporale intesse la storia correlativa dell’io e del mondo nell’unità di una genesi condivisa. La fenomenologia genetica interroga a ritroso le tracce disseminate di questa storia sedimentaria. Partendo cioè dal costituito essa regredisce lungo l’iter istitutivo delle sue condizioni possibilitanti, quelle che lo hanno reso tale, fino ai gradi ultimi e più originari. La scoperta di quest’opera di scavo archeologico attraverso gli strati sedimentari del senso è quella al contempo banale e stupefacente per cui l’io e il mondo coincidono e divergono nel corso della loro genesi evolutiva. Essi sono co-implicati nella complessità multistrato di una costituzione correlativa evolutasi nel tempo. Proprio di questo dovremo adesso parlare. §3.2.2 L’articolazione teleologica degli strati: sull’evidenza Rückbeziehung aller Modi des Bewußtseins […] auf das System der Evidenz.77
Una bella descrizione della Beilage XII del secondo libro delle Idee permette di riassumere quanto emerso dalla disamina che ha occupato quest’ultimo capitolo in relazione all’attivazione dell’io e alla sedimentazione dei suoi trascorsi: Abbiamo qui un’affezione “inconscia” dell’io e una reazione. Ciò che provoca l’affezione concerne l’io, ma non l’io desto, l’io del prestare coscientemente attenzione a qualche cosa, dell’occuparsi di, ecc. L’io vive sempre nel medium della sua “storia”, tutti i suoi precedenti momenti di vita sono sprofondati e riverberano nelle tendenze, nelle influenze, riplasmazioni o analogicizzazioni di momenti di vita 76
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Cfr. mayzaud (2010, 149) e blumenberg (1986, 120). Per uno studio espressamente dedicato al rapporto tra potenzialità e temporalizzazione si veda la terza parte di Wiegerling (1984, 84-117). Che la costituzione di abiti dia luogo a un potenziamento delle capacità esperienziali (Vermöglichkeiten) dell’io è stato infine ben rilevato da bergmann, Hoffmann (1984). In generale, sulla possibilità in Husserl v. anche moHanty (1984) e serban (2016). IX 427.
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precedenti, nelle nuove formazioni fuse assieme a partire da simili analogicizzazioni, ecc. – esattamente come nella sfera della sensibilità originaria, le cui formazioni appartengono pure al medium dell’io, al suo possesso attuale e potenziale. (IV 338 [330*])
Sin dal § 2.1 (supra) abbiamo individuato nell’analisi di questa storia costitutiva la dimensione esplorativa propria della torsione genetica della fenomenologia. Questa torsione ha quindi permesso di comprendere che “la vita conoscitiva, la vita del logos, proprio come la vita in generale, scorre in una stratificazione fondamentale”: ovvero, in termini estremamente generali, quella tra gradi della passività e dell’attività (XI 64 [146]). Le considerazioni conclusive delle Analysen (XI § 48) hanno il merito di precisare il senso complessivo della stratificazione, quasi a voler condensare retrospettivamente l’imponente sforzo archeologico husserliano, tutto il lavorìo di scavo condotto all’insegna della Rückfrage. Finalmente, dal punto di vista cioè di chi ne abbia ricostruito la genesi, si apprende che “il grande tema della filosofia trascendentale è la coscienza in generale in quanto costruzione stratificata delle prestazioni costitutive” (XI 218 [323*]). A mio modo di vedere, non esiste nel corpus husserliano una formulazione altrettanto capace di ricomprendere lo sforzo analitico prodotto dall’interrogazione genetica. Dico “analitico” perché in questa formulazione mi sembra giunga a compimento quella tendenza ormai di lungo corso – presente almeno dalla seconda metà degli anni Zero – consistente anzitutto nell’individuazione e demarcazione verticale dei livelli di oggettivazione, nella ponderazione delle rispettive prerogative funzionali e nella distinzione dei rispettivi àmbiti operativi78. Questo sforzo analitico è infine ricompreso in una definizione rispondente della coscienza, ossia dell’istanza primariamente responsabile di tale stratificazione – nonché, ça va sans dire, di una sua eventuale interrogazione ed elucidazione. All’esaurirsi di questa tendenza analitica – del resto forse mai venuta completamente meno – fa seguito nel corso dei tardi anni 78
Cercando di riassumere in tre tappe fondamentali questa linea di sviluppo, mi pare che il § 34 delle Zeitvorlesungen (supra § 2.2.3), il Nr. 14 dei Bernauer Mss. (supra § 3.1.1) e il § 48 delle Analysen ne rappresentino rispettivamente una sorta di nucleo embrionale, di manifesto programmatico e di bilancio conclusivo.
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’20 e ’30 l’emersione di una duplice esigenza fenomenologica. Da una parte, l’esigenza del superamento della mera demarcazione “analitica” dei livelli e degli àmbiti costitutivi, della loro restituzione all’interno di un resoconto integrato dell’unità vitale e concreta dell’esperienza. Alla luce di questa urgenza vanno letti gli sforzi dei tardi Mss. husserliani di produrre un discorso coerente che tenga assieme indagini sino allora condotte separatamente e facenti capo a differenti livelli tematici e operativi, quali ad esempio temporalità, spazialità, corporeità, intersoggettività, eticità, storicità, etc. In tal senso, l’integrazione perseguita nelle Analysen tra questione temporale e questione iletico-associativa può essere considerata come l’antesignana o la capostipite di questa tendenza al superamento della demarcazione analitica dei livelli, della mera giustapposizione degli àmbiti79. La seconda esigenza è invece quella di un’autocritica metodologica, di un’interrogazione condotta in merito alle effettive possibilità del metodo fenomenologico di intraprendere, giustificare ed esporre le proprie analisi. È mio parere che nessuna di queste due esigenze sia stata perseguita sino in fondo (in maniera compiuta) da Husserl negli anni rimasti della propria vita. Tornerò più avanti su questa duplice esigenza della tarda fenomenologia husserliana (infra §§ 3.2.3, 3.3, 4.4). Per il momento si consideri il § 48 delle Analysen da cui si è preso le mosse e in cui Husserl sembra riassumere per sommi capi il percorso sinora svolto, nonché prospettare quello a venire. Vi si apprende che l’inaudita definizione della coscienza quale, ripetiamolo, “costruzione stratificata delle prestazioni costitutive” dev’essere intesa “all’interno del metodo fenomenologico, e quindi nella coscienza pura e secondo un ordinamento sistematico” (XI 218 [323]). Ciò significa, a ben vedere, che la coscienza è qui solo il titolo di un progetto più generale, di un’articolazione che essa ha solo il merito di ricomprendere implicitamente, additandone al contempo la portata sistemica. Riformulata in questi termini, la coscienza tende cioè a coincidere con l’articolazione dello
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Questa tendenza potrebbe definirsi “sintetica”, in senso oppositivo ma anche – soprattutto – complementare a quella “analitica”. Una giustificazione testuale di questa terminologia è rinvenibile in una conversazione riportata da cairns (1976, 20). Tornerò in corso d’opera sulla questione.
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stesso sistema fenomenologico che nei primi anni ’20 ha assunto ormai una fisionomia ben definita: Una fenomenologia sistematica, come la pensavo, esamina i gradi delle costituzioni possibili: al livello più basso la costituzione sempre necessaria del flusso immanente del tempo e dell’essere monadico come unità temporale immanente, poi i gradi geneticamente superiori, i gradi della trascendenza, i fantasmi, la costituzione di una natura, la costituzione di animali nella natura, tutto l’“estetico”. Poi le prestazioni del pensare, che possono poggiare su tutti i gradi, e le loro diverse forme secondo questi gradi (attività dell’io). (XIV 38 [70*])
La coscienza in quanto costruzione delle prestazioni costitutive è allora in nuce – in quanto cioè forma sedimentaria implicita – la possibilità dell’estrinsecazione sistematica della fenomenologia trascendentale. La coscienza, considerata retrospettivamente alla luce dello scavo archeologico condotto dall’interrogazione genetica, altro non è che la sinèddoche in grado di ricomprendere e dunque prospettare l’intero sistema fenomenologico80. Husserl chiarisce poi quale sia il vero e proprio “pensiero dominante” sotteso a tale ordinamento sistematico: nulla può divenire cosciente in un flusso coscienziale, o meglio per il suo io, senza che questa coscienza abbia compiuto – a partire dal suo materiale di compagini iletiche – secondo leggi essenziali e quindi semplicemente irrevocabili, la corrispondente genesi intenzionale, la cui emanazione [Ausschlag] è la rispettiva coscienza d’oggetto e il cui precipitato [Niederschlag] è il rispettivo sistema ritenzionale, in cui si trovano le condizioni preliminari per l’in sé di un tipo siffatto di obiettività intenzionale e per la sua regolazione normativa. (XI 218 [323s.*])
Risulta evidente che l’idea di uno sviluppo sistematico della fenomenologia è tenuta a ripercorre la genesi intenzionale della coscienza, una genesi che è al contempo un inviluppo sistematico del senso costituito e organizzato ritenzionalmente in un 80
Si noti però come tale sinèddoche veicoli un senso non soltanto metaforico. La coscienza è letteralmente l’istanza in grado di ricomprendere l’articolazione sistematica perché proprio in essa si sedimentano gli strati di senso prodotti lungo la genesi costitutiva. Proprio per questo l’esplicitazione fenomenologica (infra §§ 4.2, 4.3) assumerà le vesti di un’autoesplicitazione da parte della coscienza o, per meglio dire, della soggettività trascendentale.
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ordine sedimentario costantemente disponibile – disponibile, si noti, anche per un’eventuale interrogazione fenomenologica. In tal modo, come ampiamente argomentato, la coscienza “non è una mera successione di vissuti, un flusso nello stesso senso in cui si pensa ad un flusso obiettivo”, bensì “un divenire incessante in quanto costituzione incessante di obiettività nel progressus incessante della successione dei livelli” (XI 218s. [324]). Quest’ultima formulazione rimarca come alla plurivocità sedimentaria di gradi coscienziali si relazioni una correlativa proliferazione di mondi di coscienza, al plurale (I 29, 161 [60, 214]), essendo ciascuno costituito secondo una specifica attribuzione di senso. Non stiamo qui riferendoci a una moltiplicazione numerica di universi fisici e neppure alla pluralità di mondi possibili quale correlato della pura variazione immaginativa (XXXVI Nr. 11); si allude, piuttosto, al multiforme intreccio di orizzonti di esperienza realmente motivata all’interno di un unico mondo. Così come l’unità della coscienza è internamente articolata secondo una molteplicità di gradi costitutivi sedimentati, allo stesso modo, il mondo risulta contraddistinto da una corrispettiva complessità strutturale, da una molteplicità di orizzonti d’esperienza possibile. Dobbiamo infatti riuscire a pensare la totalità del mondo come internamente venata o striata da una compresenza di filoni o “strati di senso”, la cui avvenuta sedimentazione ricalca – correlativamente – il precipitato costitutivo conservatosi in modo inconscio nella passività secondaria. Tale compresenza sedimentaria di strati di senso è ciò che predelinea – alla stregua di “una corrispettiva forma stilistica a priori” (I 164 [217s.]; cfr. XI 216 [320]) – gli orizzonti di indeterminata determinatezza che caratterizzano il nostro modo di conoscere il mondo, di fare esperienze sensate di quest’ultimo. Il ruolo svolto dalle prestazioni della passività originaria è dunque quello di predefinire il senso di un’esperienza per noi contestualmente possibile e ciò in ragione del fatto che “ad ogni senso appartengono una verità e una norma della verità” (XI 219 [324]). L’accenno alla verità e alla sua norma è teso a sottolineare come ogni orizzonte esperienziale faccia valere al suo interno una peculiare autonomia del senso. La possibilità di una simile autonomia altro non è che la costante riattivibilità del senso precipitato, il quale continua a esercitare una funzione inevita-
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bilmente regolatrice nei confronti dell’esperienza a venire. Per capire questo aspetto si pensi alla varietà di abiti che contraddistinguono le nostre diverse possibilità di abitare l’ambiente che ci circonda. In esso, i nostri atteggiamenti variano consequenzialmente al variare delle dimensioni mondane di volta in volta esplorate: mi muovo in un ambiente fisico e ne patisco gli effetti, percepisco una realtà data che si manifesta, ne immagino una soltanto possibile o addirittura irrealizzabile, sono percorso da stati di natura psichica ed emozionale, assimilo (o meno) usi e costumi di un certo folklore, agisco e valuto secondo un apparato normativo di valori, comunico all’interno di un universo linguisticamente codificato, convivo in una sfera di civiltà definita dal punto di vista socio-politico, mi erudisco circa culture presenti e passate, mi beo di tradizioni artistiche e letterarie, rifletto e penso all’interno di un orizzonte interconnesso di ragioni e idealità, etc. L’atteggiamento naturale intrattiene con questo spettro variegato di mondi un rapporto di tipo dogmatico; li assume cioè come àmbiti ovvi del proprio esercizio d’essere senza con ciò interrogare la genesi della loro costituzione storico-intenzionale. Tutto questo non vale invece per la prospettiva dischiusa dalla riduzione trascendentale: ancora una volta, infatti, “il cammino della ricerca fenomenologica radicale deve seguire la costruzione stratificata della costituzione e questa stessa ricerca deve reperire e porre in luce tale costruzione” (XI 219 [324*]). Ciò a ben vedere significa che la fenomenologia è tenuta a decostruire tale costruzione dapprima regressivamente, al fine di disseppellire tutti gli strati costituenti sino al più originario e poi a ricostruirla in senso inverso (progressivamente), al fine di esporre la concreta evoluzione del processo. A mio modo di vedere, è per l’appunto questo duplice movimento genealogico del metodo ciò che conferisce all’intera dinamica un qualche tipo di orientamento teleologico. Secondo Husserl, la successione dei livelli emersa dallo scavo fenomenologico “è una storia mai interrotta. E la storia è un costituire per gradi formazioni di senso sempre più alte attraversato e retto da una teleologia immanente” (XI 219 [324*])81. 81
Che le varie Schichten siano riconducibili al complesso finalisticamente orientato di una Geschichte è qui sottolineato dalla medesima radice etimo-
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Rilevare questo orientamento teleologico interno alla processualità costituente è per la fenomenologia husserliana d’importanza decisiva82. Esso permette infatti di cogliere il significato più recondito tracciato dalla correlazione lungo tutto l’arco della sua evoluzione. Soltanto la presa in carico di questo aspetto consente di sviscerare la coappartenenza originaria dei correlati in quanto essenti l’uno in funzione dell’altro lungo un percorso di costituzione reciproca, di reciproco arrichimento di senso. Lungo questa direzione possiamo infatti cercare di comprendere la configurazione della coscienza e del mondo – al di là cioè della variegata stratigrafia di prestazioni costitutive – nei termini di un tutto organizzato teleologicamente. Come si evince dal § 60 di Logica formale e trascendentale, il vincolo che lega le operazioni intenzionali nell’unità complessiva di una coscienza è quello relativo alle molteplici forme di evidenza o, il che è lo stesso, del darsi oggettuale – giacché “categoria dell’oggettualità e categoria dell’evidenza sono correlate” (XVII 169 [200*])83. L’unità delle
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logica. Come ulteriormente si precisa, rispetto a questa articolazione stratigrafica, “la storia in senso comune, nella sua relazione alla cultura umana è solo un livello più alto” che vede a sua volta “predelineato il suo in sé” (XI 219 [324]). Si veda al riguardo costa (2010) per una sua caratterizzazione dal punto di vista – privilegiato – della temporalità. bernet (1994, 121-138) ha puntualizzato invece il significato di tale sviluppo teleologico a partire dall’esperienza – basilare – della percezione e in relazione alla finitezza umana. Si vedano infine paci (1961, cap. VIII) e aldea (2017) per un chiarimento della nozione di teleologia dal punto di vista apicale della Crisi e dell’inveramento della stessa ragione fenomenologica. Nel corso degli anni la nozione husserliana di evidenza è incorsa in una sostanziale revisione. Alla fine degli anni ’20, il requisito di un’apodittica e adeguata comprensione evidente (Einsicht), assunto dai primi scritti husserliani quale criterio di assoluta fondatezza della scienza fenomenologica, sembra ormai appartenere al passato, avendo lasciato spazio a una concezione “relativizzata” dello stesso (VIII 34 [41]; XVII § 105); a ogni tipo di oggettualità costituita corrisponde cioè un tipo fondamentale o stile di evidenza (XVII 169 [200]) secondo gradi possibili di adeguazione. Il sintomo più eclatante di tale revisione del requisito di evidenza è certamente il caso dell’esperienza interna. Come già intravisto (supra § 2.2.1), l’analisi temporale aveva sostanzialmente decretato, mettendo in luce il proprio carattere prospettico, l’insostenibilità di una adeguazione completa financo per gli oggetti relativi alla sfera immanente (XVII § 107b-c), in maniera non speculare ma analoga all’inadeguatezza della trascendenza spaziale (XVI § 35). Tale revisione del requisito di evidenza raggiunge un suo epilogo
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prestazioni costitutive della coscienza, abbiamo visto, è vincolata all’unità del mondo in quanto molteplicità di orizzonti di esperienza possibile. Questo vincolo è individuato da Husserl nella nozione di evidenza: “intenzionalità in generale – il vissuto di un aver coscienza di una cosa qualsiasi – ed evidenza, intenzionalità del darsi stesso, sono concetti che si coappartengono essenzialmente” (XVII 168 [199*]). Ancora una volta, si ricorre a una nozione dotata di un intrinseco valore correlativo – impariamo infatti che l’evidenza pertiene sia alla Selbstgebung oggettuale che al possesso, alla Selbsthabe soggettiva (XVII 169, 292 [200, 351]) – per sostanziare la coappartenenza dei processi di oggettivazione e soggettivazione, nonché per porre l’accento sull’unità teleologica complessiva della loro articolazione: Così l’evidenza è un modo universale dell’intenzionalità riferito alla vita complessiva della coscienza; grazie all’evidenza tale vita ha una struttura teleologica universale, una disposizione alla “ragione” e persino una tendenza continua verso di essa, a comprovare ciò che è corretto (e quindi al contempo al possesso abituale dello stesso) e a cancellare ciò che non lo è (con la qual cosa cessa di valere come possesso acquisito). (XVII 168s. [169*])
Alcuni luoghi della Logica hanno il merito di restituire una concezione dell’evidenza funzionale all’idea di un sistema costitutivo stratificato e unificato teleologicamente. Questo perché l’evidenza, ormai non più pensabile secondo la “consueta interpretazione stravolta […] nel senso di un’assoluta apoditticità”, è intesa al modo di una “intenzionalità fungente”, di una vera e propria “preconseguente laddove Husserl nega persino all’io-penso il carattere di una conoscibilità adeguata (VIII 397). A conclusione di questo excursus occorre ribadire con forza come tale revisione non conduca a esiti scettici, non ricada pertanto nello psicologismo. L’evidenza non sarà mai per Husserl un sentimento (Gefühl) ma sempre e comunque il “vissuto della verità” (XVIII 193 [150]), sebbene di una verità non più necessariamente pensata sul modello parziale e fuorviante veicolato dall’esempio della scienza logico-matematica. La via intrapresa da Husserl dovrà allora essere intesa come una duplice presa di distanza dal relativismo scettico e dall’assolutismo logico (XVII 208, 284 [247, 341]). Per un’efficace ricostruzione dell’evoluzione della nozione di evidenza in Husserl v. Heffernan (1998); per una valutazione sistematica della nozione in rapporto all’idea husserliana di ragione v. invece bostar (1987).
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stazione intenzionale del darsi stesso” (XVII 165s. [195s.*])84. A ben vedere, dunque, l’evidenza risulta compiutamente assimilata allo svolgimento della prestazione costitutiva. In tal modo, l’adeguatezza o meno di tale evidenza, la correttezza o meno di ogni nostro esperire, altro non è che il frutto di una “adeguazione sintetica alle ‘cose stesse’” (XVII 167 [198])85. Ma ciò significa che l’evidenza non può semplicemente essere intesa come il vissuto di un qualche tipo di adaequatio rei et intellectus, come un loro semplice rispecchiamento. Evidente è piuttosto la sintesi stessa, la prestazione costitutiva che sta alla base del riempimento più o meno adeguato di qualsivoglia intenzione. Ciò significa che l’evidenza non è un dato, un qualcosa che semplicemente si rileva, ma piuttosto un farsi, una produzione inerente all’articolazione della stessa sintesi intenzionale. Tutto questo è possibile evincerlo a patto che ci si emancipi da un certo modo di “filosofare preconcetto e che si muove dall’alto”, a patto che si smetta di “lasciarsi abbagliare dalle idee e dai metodi ideali e regolativi delle scienze ‘esatte’” – non perché questi siano di per sé errati ma perché sono indici di prospettive parziali – a patto quindi che ci si apra fenomenologicamente a tutte “le infinità della vita e della sua conoscenza, le infinità dell’essere relativo (con le sue relative verità) che solo in questa relatività [è] razionale” (XVII 284 [341*]). Cerchiamo allora di comprendere il senso di questa relatività, di chiarirne l’intima razionalità, prevenendo qualsiasi frainten84
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Al fine di evitare facili fraintendimenti è utile sottolineare come al venir meno dell’accezione logico-inferenziale di apoditticità corrisponda il mantenimento di un senso specificatamente fenomenologico di evidenza apodittica, riferibile al tenore prospettico-operativo dell’io (infra § 3.3). Del resto, come riporta cairns (1976, 43), “l’apoditticità della coscienza trascendentale non è identica all’apoditticità mondana”. In questa formulazione traspare tutta la distanza che separa la posizione di Husserl nei tardi anni ’20 rispetto a quella di inizio secolo. La distanza ma anche e soprattutto l’unità d’intenti. Che l’ingenuità di un mero ritorno alle cose stesse abbia finito per rivelare la necessità di un’adeguazione sintetica alle stesse cose condensa in una perifrasi tutto l’intercorso e progressivo rivolgimento filosofico di Husserl: il radicalizzarsi della nozione di costituzione, la trascendentalizzazione dell’analisi fenomenologica, la torsione genetica di quest’ultima, etc. Lo condensa però non alla stregua di uno stravolgimento dell’intento originario, bensì di un suo continuo ripensamento all’insegna di una problematizzazione dell’idea di un ritorno effettivamente possibile.
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dimento relativistico. Abbiamo visto come il precipitato costitutivo rappresenti una riserva di senso in grado di predelineare al soggetto l’orizzonte di una tipica abituale di esperienza. Ebbene, ciò fa sì che tutta la vita quotidiana del singolo e della comunità è riferita a una similarità tipica di situazioni, in modo tale che ciascuno […] ha eo ipso il rispettivo e comune orizzonte situazionale. Si può esplicare in seguito questo orizzonte, ma l’intenzionalità costitutiva d’orizzonte, attraverso la quale il mondo circostante della vita quotidiana è in generale un mondo d’esperienza, precede sempre l’esplicitazione di chi riflette […]. (XVII 207 [246*])86
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Questo passo fa parte di un brano dedicato ai giudizi occasionali, giudizi che proprio in ragione dell’apporto situazionale dell’intenzionalità d’orizzonte ricevono una qualche determinazione di verità. La nota apposta da Husserl a questo brano ci consente di precisare la distanza che separa la sua posizione attuale rispetto a quella di inizio secolo: “Nelle Logische Untersuchungen non possedevo ancora la dottrina dell’intenzionalità d’orizzonte, il cui valore universalmente determinativo è stato rilevato per la prima volta dalle Ideen. Perciò in quella prima opera non potevo venire a capo dei giudizi occasionali e del loro significato” (XVII 207n. [247n.]). Per gli stessi motivi, mancando cioè di una concezione sviluppata dell’intenzionalità d’orizzonte, alle Ricerche rimaneva precluso un intendimento dell’evidenza come prestazione costitutiva, presente invece nella Logica. Del resto però, come osserva Heffernan (1998, 35-37), una concezione situazionale dell’evidenza risultava in nuce almeno nel terzo capitolo della VIa Ricerca, dedicato alla fenomenologia dei gradi di conoscenza. Alla luce di quest’ultimo rilievo, proprio le Ricerche risulterebbero dunque animate da una tensione interna fra una nozione debole di evidenza, allusiva a tutta una serie di gradi e livelli possibili, e una concezione di evidenza financo troppo rigorosa, ancora legata a presupposizioni di ordine positivistico-logicista, che finirebbe col sopprimere la plasticità della prima nozione sull’altare di una richiesta insostenibile di assolutezza logica. Il percorso successivamente intrapreso da Husserl equivale pertanto a una rivalutazione della prima nozione “debole” di evidenza a detrimento delle pretese della seconda. A conferma di questa lettura si può notare come i due concetti di evidenza siano distinti con cognizione di causa in un brano del 1920/21 (XI Beilage XXVII). Qui si distingue infatti l’evidenza del darsi stesso in generale (Selbstgebung überhaupt), la quale rimanda a tutta una serie di possibili gradi, e quella del puro darsi stesso (reine Selbstgebung). Proprio quest’ultima sarebbe l’erede dell’evidenza rigorosa delle Ricerche, le cui pretese assolutistiche di apoditticità (logica) e adeguatezza sono però riconsiderate al modo di un vero e proprio proprio limite ideale mai compiutamente attingibile (XI 431-433).
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L’evidenza, quale intenzionalità fungente, concorre alla precostituzione di questi orizzonti situazionali, secondo la determinazione di una serie di “‘presupposti’ che, in quanto elementi di implicazione intenzionale [intentionale Implikate] racchiusi nell’intenzionalità costituente, determinano già costantemente il senso oggettuale dell’ambiente esperienziale più prossimo” (XVII 207 [247*]). Un orizzonte di esperienza possibile è dunque evidentemente predelineato, in relazione ai suoi margini di determinabilità (esperibilità), dal portato precostitutivo dell’intenzionalità d’orizzonte (la quale agisce sulla base del precipitato di senso resosi implicito). Al soggetto naturalmente atteggiato risultano cioè evidenti (ovvie) determinate possibilità esperienziali e non altre87. A questo punto è possibile comprendere la relatività cui accennava Husserl, al modo cioè di un nuovo intendimento della nozione di verità basato espressamente sulla rinnovata concezione sintetica e situazionale dell’evidenza. Abbiamo a che fare con una “verità vivente” ossia “non assolutizzata falsamente bensì volta per volta nei rispettivi orizzonti” (XVII 285 [342*])88. Solo così si evince, secondo la formula summenzionata delle Analysen, che “ad ogni senso appartengono una verità e una norma della verità”. Difatti, la nozione vivificata di verità cui approda Husserl nel corso degli anni ’20 prevede che persino “il commerciante, al mercato, [abbia] la sua verità di mercato [Marktwahrheit]” (XVII 284 [341]) – secondo una concezione che incarna quanto di più distante possa esserci rispetto al supposto teoreticismo che spesso si è soliti rimproverargli. È una concezione situazionale del vero che non per questo ne sminuisce le pretese epistemiche contestualmente al proprio specifico orizzonte di senso, un orizzonte pre-costituito secondo determinate prestazioni intenzionali, secondo peculiari presupposizioni (sintetiche) di evidenza.
87 88
Dal punto di vista dell’io fenomenologizzante questo significa invece che “l’evidenza è dapprima un ‘metodo nascosto’ e attuato nell’ingenuità, che deve essere indagato circa il modo in cui è prodotto” (XVII 208 [247]). Il fatto poi che tali orizzonti, dal punto di vista fenomenologico, “non rest[i] -no inindagati né velati ma [siano] esplicitati sistematicamente” (XVII 285 [342*]) sarà tema d’interesse del prossimo capitolo (infra §§ 4.2, 4.3).
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A ciò si aggiunga che l’eventuale ricaduta nel relativismo è sventata non solo contestualmente ma anche sistematicamente – in ragione cioè della teleologia interna che attraversa i livelli costitutivi governandone l’articolazione. Non a caso, l’organizzazione teleologica della vita cosciente invita a pensare gli strati come finalizzati l’uno all’istituzione (possibilizzazione) dell’altro; e ciò nella misura in cui la loro evoluzione fa sì che la coscienza conosca l’ordinamento anch’esso teleologicamente orientato di un mondo costituito secondo gradi di senso autonomi ma edificati l’uno sull’altro. Come riporta il brano sopra citato per esteso, è solo “grazie all’evidenza” che la vita intenzionale possiede una “struttura teleologica universale, una disposizione alla ‘ragione’ e persino una tendenza continua verso di essa” (XVII 168s. [169]). Ma come intendere un simile rapporto tra evidenza e orientamento teleologico? In che senso quest’ultimo risulterebbe in funzione della prima? La risposta a simili interrogativi risiede nel fatto che l’evidenza si dà sempre e soltanto secondo un grado contestualmente imperfetto di adeguazione e che dunque rimandi sempre oltre sé stessa all’eventualità mai concretamente data di un perfezionamento possibile. Questa carenza strutturale è la diretta conseguenza di un’evidenza pensata al modo di un’intenzionalità fungente e dunque eminentemente operativa, tematizzabile in un secondo momento (nachträglich) per via riflessiva ma soltanto come struttura d’orizzonte e dunque esplicabile indefinitivamente. È allora l’inadeguatezza strutturale che contraddistingue ogni nostra esperienza – da quella più comunemente percettiva a quella autenticamente fenomenologica89 – a inoculare all’interno della dinamica costi89
La percezione della cosa trascendente ha di mira l’esperienza adeguata di quest’ultima alla stregua di un’idea in senso kantiano (III/1 § 143), che sia cioè in grado di regolare lo sviluppo percettivo alla luce di un ideale di completezza sia pure inattingibile (bernet 1994, 121-138); tale inattingibilità spinge a demandare la perfettibilità dell’interesse cognitivo per l’oggetto a una prassi esperienziale di grado più complesso (es. la sua determinazione predicativa). A sua volta, come vedremo, la prassi fenomenologica ha di mira l’ideale della compiuta esplicitazione dei nessi costitutivi operanti in ciascun àmbito e livello d’esperienza, ma tale prassi comporta una serie di ingenuità che gettano seri dubbi sulla possibilità di perseguire un simile ideale e che suscitano l’esigenza di una critica interna alla stessa metodica fenomenologica (XVII 294s. [353s.]; infra §§ 4.3, 4.4).
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tutiva la necessità di superare tale inadeguatezza. In tal senso, è la finitezza connaturata all’esperienza intenzionale – il suo essere ogniqualvolta commistione di evidenza e inevidenza, presenza e non presenza, razionalità e irrazionalità – a orientare lo sviluppo della dinamica costitutiva al modo di una disposizione/tendenza alla ragione. Alla luce di questa ipotesi interpretativa si spiega perché sia proprio la relatività della vita intenzionale a incarnare la razionalità del processo (XVII 284 [341]). È quindi il valore contestuale di ogni esperienza – l’autonomia parziale del senso che vige in essa perché normata da un orizzonte pre-costituito – a spingere in direzione del suo oltrepassamento e dunque verso la sua razionalizzazione. Se così stanno le cose, allora, ciò che chiamiamo orientamento teleologico è in realtà il frutto di una considerazione retrospettiva di un processo animato da necessità intrinseca. Mi spiego meglio: se l’articolazione della dinamica costitutiva altro non è se non il frutto dell’inadeguatezza epistemica dei livelli che ne induce di necessità il superamento, ciò significa che l’idea di un teleologismo, di una finalità interna al processo, è in realtà il portato di una riflessione successiva, di una tematizzazione a posteriori che ricostruisce l’articolazione degli strati a partire dalla prospettiva finale, dal suo punto di approdo – nella fattispecie: la prospettiva fenomenologica. L’orientamento teleologico è più una conquista dei gradi costitutivi più elevati – una presa di coscienza (infra § 4.3.1) – che non un’istanza operativa preesistente all’intero complesso sistematico90. Teleologica è dunque la rivalutazione della genesi in quanto finalizzata alla sua esplicitazione, di una genesi che di per sé risulta piuttosto animata da una necessità (dialettica) interna, frutto di una discrasia strutturale originaria tra costituente e costituito91. 90 91
“L’intero: un’unità di sensatezza, nel conferimento di senso e nel senso stesso come forma che non è concepita preliminarmente dagli uomini come senso finale” (VI 502 [529*]). Si noti come questo aspetto, il fatto cioè che il dinamismo teleologico risulti il frutto di una costitutiva mancanza e incompletezza, era di fatto già implicito nella dinamica interna alla temporalizzazione originaria. Quest’ultima (supra § 2.3.2) risultava animata da una sorta di disequilibrio dialettico originato dalla discrasia vigente tra il duplice orientamento costitutivo noematico-trasversale (tematico) e noetico-longitudinale (operativo), tra riempimento particolare e riempimento generale. Questa discrasia originaria
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Alla luce di queste considerazioni risulta manifesto come in Husserl la nozione di ragione non possa essere intesa alla stregua di una facoltà o di un regime di esperienza predefinito; essa è piuttosto l’idea di un compito da conseguire, da realizzare instancabilmente, perseguendo passo passo la razionalizzazione del mondo. Dal punto di vista fenomenologico questo aspetto essenziale è ricompreso nell’assolutizzazione di un metodo (“L’indubitabilità concerne il metodo”, VI 492 [516]) e non di una particolare dottrina, ossia nella progressiva assunzione di responsabilità rispetto alle prerogative di una dinamica, di una tendenza che inequivocabilmente la precede. La disposizione alla ragione, il compito della razionalità, non è un’esclusiva della fenomenologia trascendentale. Rispetto a una caratterizzazione sistematica dell’evidenza come propellente dell’ordinamento teleologico dell’articolazione costitutiva, la fenomenologia non si presenta come una teoria avulsa da questa articolazione; anzi, essa non è che “un’evidenza di grado superiore” (XVII 167 [197]), una prospettiva in grado di ricomprenderne ed esplicitarne l’intelaiatura portante. Pervenuta al punto di vista fenomenologico, la soggettività penetra infatti l’articolazione del mondo perché – trascendentalmente – vi si riannette, si comprende cioè come parte costitutiva di tale ordinamento. È soltanto a questo punto, allora, che la coscienza può rendersi consapevole del senso autentico insito nell’a priori della correlazione: lo sviluppo della coscienza e del mondo è correlativo in virtù della loro coappartenenza originaria alla medesima prospettiva teleologicamente orientata. Il punto essenziale è quello di far valere come prioritario non l’uno o l’altro polo della correlazione, ma appunto la vita trascendentale intesa come un dinamismo insito nell’apparire in quanto tale, tendente all’automanifestazione e quindi all’autocomprensione (brand 1960, § 5; costa 2010, 12s.). Questo dinamismo eccede l’io, eccede il mondo in quanto valevole per noi, eppure, a suo modo, li ricomprende all’interno di una prospettiva comune – meglio: di una comune prospettivizzazione, secondo l’interpretazione analitica fatta valere nei capitoli precedenti.
non può che riverberare attraverso tutti i gradi superiori, conseguentemente al riprodursi della struttura formale della temporalità.
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Ciò detto, infine, risulta manifesto come l’a priori della correlazione non possa venir inteso staticamente – come dato una volta per tutte – ma soltanto in funzione del tempo, ossia in virtù di quell’orizzonte complessivo di articolazione formale, entro cui la correlazione stessa può dispiegarsi e giungere infine a riconoscersi come tale. È ancora dunque la prospettiva enucleata dalla temporalità fenomenologica la più idonea a delineare la complessità infrastrutturale di un processo che coincide con la stessa genesi intenzionale – in tutti i suoi gradi – e dunque con la stessa genesi del tempo. La finalità dell’ultimo paragrafo della Crisi – quel fine coincidente con l’auspicio di un’autentica umanizzazione dell’uomo mediante l’autorealizzazione della ragione filosofica – corrisponde non per niente all’idea di una direzione teleologica disposta lungo i binari tracciati dal divenire storico-temporale (VI § 73). La prospettiva “storica” dell’ultimo Husserl è presente in nuce nei risultati ottenuti dalla fenomenologia genetica dei primi anni ’20; vi è presente come grado ultimo e ancora non esplicitato di un’articolazione complessiva che la precede ma che latentemente non può fare a meno di alludervi92. Al suo grado più alto, l’autocostituzione della soggettività trascendentale si rivela infatti un processo di autocomprensione dell’uomo nel mondo; ciò non toglie che a cominciare dal primo vagito intuitivo sino ai vertici teoretici della riflessione filosofica, la temporalità finisca per accompagnare passo passo, lungo il tragitto della sua evoluzione, l’intero sistema fenomenologico-trascendentale.
92
L’intento di una ricostruzione storica delle varie tappe concettuali che hanno condotto alla crisi attuale del pensiero e dunque all’esigenza della fenomenologia trascendentale altro non è che la riproposizione su un piano metastorico dell’interrogazione archeologico-regressiva che ha consentito a Husserl di esplicitare gli snodi fondamentali della genesi intenzionale (nobili 2019). Husserl non sembra del resto poter fare a meno di leggere lo sviluppo storico in analogia alla propria concezione del presente vivente (VI 489 [514]).
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§3.2.3 Unità ricorsiva e integrazione schematica dell’esperienza Übertragung urstiftend gebildeter Apperzeptionen, Vorstiftung von Apperzeptionen. Apperzeptionstypen im Voraus gestiftet.93 Alles Zeitliche ist von kategorialer Natur94
Arrivati a questo punto, è giunto il momento di problematizzare la cornice in cui si muove la fenomenologia genetica tout court. Ho già avuto modo di osservare come il § 48 delle Analysen rappresenti una sorta di compimento dello sforzo analitico di Husserl95, mirato cioè all’individuazione, distinzione ed elucidazione dei differenti strati costitutivi. Su questa base è il caso di chiedersi se ed eventualmente come da questa demarcazione analitica di livelli possa risultare un resoconto della vita intenzionale che non finisca per scomporla astrattivamente in aspetti certamente essenziali ma tra loro, per così dire, compartimentati96. Si potrebbe obiettare a Husserl ciò di cui egli sembra del resto rendersi conto quando rileva le difficoltà che s’incontrano avendo a che fare con una “stratificazione astrattiva della sfera trascendentale” (XXVII 178 [203]). La questione è dunque quella che si pone qualora ci si interroghi su come differenti livelli costitutivi si armonizzino all’interno di un’esperienza coerente, su come essi concretamente cooperino al di là della loro demarcazione analitica. Se tale demarcazione pare infatti attagliarsi al compito di una decostruzione 93 94 95
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XXXIX 2n. 1. XXIV 273 [317]. Ribadisco come ciò che trova qui compimento sia soltanto la formula definitoria, in senso pregnante, della coscienza intenzionale quale “costruzione stratificata delle prestazioni costitutive”, ossia di una coscienza concepita finalmente all’altezza del ruolo sistematico che la fenomenologia trascendentale propriamente le assegna. Di fatto, lo sforzo analitico husserliano non viene mai meno nei Mss. più tardi. Ciò che però muta è il sovrapporglisi di una duplice esigenza volta, da un lato, all’integrazione sintetica dell’apporto costitutivo dei diversi strati, dall’altro, all’autocritica circa le ingenuità che ancora affliggono il metodo fenomenologico. Cfr. rinofner-kreidl (2000, 429); l’A. ha quantomeno il merito di mettere in guardia circa la problematicità inerente al modello stratigrafico affrontata in questa sezione. Viceversa, la nozione di stratificazione pare assunta in maniera acritica dal recente contributo di kinkaid (2019).
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della genesi intenzionale nelle varie dimensioni in cui idealmente si articola, sembra però inadatta a ricostruire in modo efficace la complessità di un concreto esercizio d’esperienza. È mia convinzione che Husserl abbia in qualche modo presagito l’esigenza di oltrepassare il livello di astrazione proprio dell’impostazione analitica – veicolata cioè da una concezione fittizia (fiktive) della genesi97 – fornendo spunti per un suo ripensamento in vista di un’esperienza che contempli al suo interno l’apporto congiunto e integrato di più di uno strato costitutivo. Credo sia pertanto possibile elaborare alcune sue intuizioni98. Come si è cercato di mostrare (supra § 3.2.1), ogni compimento costitutivo deve poter essere inteso, sotto il profilo noematico, come un prodotto tipico sedimentatosi nel corso del processo di depresentazione e, sotto quello noetico, come un possesso abituale, una disponibilità in grado di rendere possibili ulteriori esperienze (di ordine e complessità crescente). Ad esempio: la pre-costituzione passiva dei rilievi affettivi promuove la Weckung, l’Explikation e l’Erfassung da parte dell’io; con ciò si pongono le basi per l’esercizio di un 97
98
Già nelle Dingvorlesungen (SS 1907) l’“applicazione rigorosa del metodo degli strati” era infatti precisata secondo il proprio carattere “fittizio o astrattivo” (XVI 19, 226 [23, 275]). Nel terzo volume delle Idee si precisa poi quanto segue: “ci si può rappresentare la formazione graduale della costituzione ricorrendo all’immagine di una genesi, fingendosi che l’esperienza si compia effettivamente dapprima soltanto nelle datità di grado più basso, che si presenti poi la novità del nuovo strato con cui si costituiscono nuove unità, ecc. Ma questa è una genesi dello stesso genere di quella che compie la matematica. Sarebbe completamente erroneo pensare qui a una genesi psicologica e a una spiegazione delle rappresentazioni del mondo e dell’io in quanto uomini nel mondo. Non ci stiamo affatto occupando di questo. Semplicemente noi raffiguriamo ciò che per strati è nell’essenza delle datità reali [realen] e, d’altra parte, per strati nell’apprensione delle stesse, nei diversi gradi degli atti offerenti, in cui ogni strato di ciò che si è dato si attesta in quanto tale, in quanto unità delle sue molteplicità di sensazioni, adombramenti, esibizioni, ecc. Se eleviamo all’altezza delle pure idee tutto l’attualmente esperito o il fantasticato in quanto esperito, questi sono in tutto e per tutto nessi essenziali. Di ciò dobbiamo sempre rimanenere accorti” (V 125s. [493*]). Sul carattere ideale-finzionale e dunque eidetico della genesi si veda anche XIV 477, nonché Ms. D 10 III (p. 10 della trascrizione depositata presso l’Husserl-Archief di Leuven). Sulla possibilità di disfare (abtun) strato per strato la conformazione del mondo della vita v. XXXIX 517. Per quanto dirò in questa sezione si tenga presente anche nobili (2020).
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interesse cognitivo e l’avvento delle prime forme di modalizzazione dei vissuti: negazione, dubbio, possibilità “aperta” e “problematica” costituiscono di fatto le prime acquisizioni logiche rudimentali (EU § 21); a loro volta, queste saranno necessarie per l’ottenimento di vere e proprie abitualità logico-predicative, indispensabili per l’esercizio del pensiero concettuale. Senza profondersi in una trattazione diffusa di Esperienza e giudizio, al nostro scopo è sufficiente una rappresentazione schematica dei livelli in cui si articola la stratificazione della vita intenzionale. Questa rappresentazione fornisce infatti il pretesto per riproporre con più precisione la questione del rapporto funzionale intercorrente fra gli strati – al di là della loro genesi ideale, ossia dei loro rapporti di fondazione99 – concentrandosi sul loro esercizio congiunto e cooperativo nell’economia di una concreta esperienza di vita. Il problema, volendo richiamare un precedente illustre, è per certi versi affine a quello presentato a suo tempo nel De Anima da Aristotele. Riflettendo sulla connessione delle diverse capacità (dynameis) relative a una psyché all’interno di una definizione comunque unitaria100, lo Stagirita istituisce un paragone con la nozione di figura e perviene a una conclusione che risulterà non dissimile da quella husserliana. Egli scrive: il caso della figura è simile a quello dell’anima giacché sempre nel termine successivo è contenuto in potenza il termine antecedente […]. Ad esempio nel quadrilatero è contenuto il triangolo, e nella facoltà sensitiva quella nutritiva. […] In realtà senza la facoltà nutritiva 99
Che le diverse tipologie d’atto intrattengano rapporti di fondazione tali per cui quelle di livello superiore si basano su quelle immediatamente inferiori è un aspetto noto del pensiero husserliano. Vediamo però come esso si presenta in un testo del 1920 (circa): “nella genesi ogni nuovo grado risulta certamente da una costituzione originaria, ma già presuppone, per poter essere costituito, la predatità del grado precedente” (XXXIX 12). Cosa significa che anche i gradi geneticamente più elevati debbano risultare da una costituzione che si ritiene originaria? La nozione di predatità, presupposta da ciascun nuovo livello, non viene per ciò stesso relativizzata nel corso della Stufenbildung? A consimili interrogativi sarà possibile rispondere solo a patto di sviluppare una concezione meno astratta della genesi intenzionale, un intendimento meno naiv delle modalità operative dei vari gradi costitutivi. 100 Cfr. De Anima, II 3, 414 b 20 – 415 a 13. Per un commento al passo v. polansky (2007, 194-199).
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non esiste quella sensitiva, mentre nelle piante la facoltà nutritiva esiste indipendentemente da quella sensitiva.101
Secondo Aristotele, l’unità della psyché, stanti le diverse capacità che la compongono, è assicurata dal fatto che l’ultimo grado – quello gerarchicamente più elevato (nell’uomo la facoltà intellettiva) – riassume in sé in potenza le funzioni esercitate dai gradi precedenti. Da parte sua, Husserl arriva a pensare qualcosa di non molto distante allorché spiega che “tutti gli altri livelli sono con ciò soppressi [aufgehoben] in quelli superiori, ma non vi sono persi [verloren]; essi stessi, piuttosto, sono sempre disponibili per corrispondenti direzioni dello sguardo e attestazioni” (XI 218 [323*], corsivo aggiunto). Purtroppo, il passo husserliano risulta verosimilmente più criptico di quello del De Anima e non fornisce ulteriori indicazioni in merito. Oltretutto, al contrario di Aristotele, Husserl non traccia neppure una netta gerarchia di livelli coscienziali e lascia imprecisata quale funzione o facoltà patisca una soppressione (Aufhebung) pur rimanendo disponibile nella successiva. Si possono comunque fare alcune ipotesi: la strutturazione passiva in rilievi emergenziali del campo iletico-associativo viene soppressa nella percezione di oggetti spazio-temporalmente determinati; questa percezione si troverebbe a sua volta sussunta, per così dire, sotto la disponibilità linguistico-predicativa tipica del nostro modo di fare esperienza di cose (cose cioè immediatamente identificabili tramite l’uso di sostantivi nominali come “tavoli”, “sedie”, “bottiglie”, etc.). loHmar (2012b, 272-274) ha sottolineato con merito come il rapporto tra i livelli non sia soltanto un rapporto genetico di fondazione verso l’alto (nach oben), ma debba render conto anche di un’influenza esercitata dai gradi più elevati verso il basso (nach unten), per cui sembra lecito parlare di una certa retroazione (Rückwirkung) 101 De Anima, II 3, 414 b 28 – 415 a 3 (L’anima, Bompiani, Milano 2010, p. 131). In una nota di commento al brano citato (p. 269n. 70), il curatore della tr. it. G. Movia precisa che “fra il termine anteriore e quello posteriore vige un rapporto di dipendenza ontologica unilaterale e non biunivoca: il secondo non può essere senza il primo, ma il primo può essere senza il secondo”. Si veda anche tinaburri (2011, 96), secondo cui il problema della stratificazione troverebbe posto nella riflessione husserliana proprio a partire da un confronto indiretto col De Anima aristotelico.
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costitutiva degli strati superiori su quelli inferiori. L’attività costitutiva produrrebbe allora una tipizzazione appercettiva dell’esperienza102, una sorta di schematizzazione tale da predeterminarne gli sviluppi, facendo sprofondare i propri effetti sino alla dimensione costitutiva più originaria. In effetti, riflettendo sul rapporto tra i modi dell’attività e quelli della passività, Husserl sostiene che “ogni prestazione dell’attività stessa sprofonda regolarmente nella passività [secondaria] e si ripercuote [sich…niederschlägt] sulle prestazioni della passività originaria” (XXXI 3 [53*]; cfr. XXXI 40 [92]). Se, dal punto di vista della genesi intenzionale, “la passività è ciò che è primo in sé perché ogni attività presuppone essenzialmente un sottofondo di passività e un’oggettualità in essa già precostituita” (XXXI 3 [53*]), sotto il profilo dell’esercizio dell’esperienza, viceversa, occorre tener presente che “tutta la vita della coscienza è anche un oggettivare progressivo” (XXXI 6 [56]) e che dunque, al di là dei rapporti di fondazione tra prestazioni intenzionali di diverso grado, “i valori di senso derivati da vissuti non oggettivanti sono co-intrecciati in oggettivazioni di livello più alto” (XXXI 7 [56*]). Almeno in prima battuta, la soppressione dei livelli inferiori in quelli superiori può quindi essere interpretata come l’intreccio di differenti strati costitutivi che si fondano non l’uno sull’altro, bensì l’uno dentro l’altro. Sarebbe infatti questo intreccio a produrre un arricchimento progressivo del tipo oggettuale, in un modo in cui le due coscienze non sono giustapposte, ma l’una, quella fondata, ha il suo oggetto in ciò che l’altra ha istituito in quanto 102 Cfr. loHmar (2003a) e diaz (2020). In generale, in Husserl, l’appercezione concerne tutto ciò che in un vissuto d’esperienza è inteso senza essere effettivamente presentato. Ciò riguarda dunque una grande varietà di fenomeni, dalla co-percezione di un lato nascosto della cosa spaziale sino al senso d’uso di uno strumento, passando per l’esperienza entropatica di un soggetto estraneo. È importante sottolineare che “l’appercezione non è per nulla un’inferenza, non è un atto del pensiero” e che “ci sono differenti gradi di appercezione che corrispondono a differenti gradi del senso oggettuale” (I 141 [189s.]). L’appercezione “è dunque un concetto che abbraccia ogni coscienza che dà qualcosa in originale, ogni coscienza intuitiva”, trascendendone il contenuto immanente (XI 336s. [53s.]). Ciascuna appercezione, infine, sebbene possa essere considerata staticamente come “bell’e pronta (fertig)” ha in realtà una natura essenzialmente genetica, essendo prodotta nel corso di una storia costitutiva che ineluttabilmente la precede (XI 345 [62s.]). Sull’argomento cfr. Holenstein (1972, cap. VII).
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oggetto e così questo oggetto ottiene ora un carattere nuovo. Questo carattere nuovo diventa esso stesso qualcosa di identificabile grazie alla proprietà essenziale di ogni coscienza fondata di potersi riferire a un oggetto solo attraverso la fondazione, facendo qualcosa per l’oggetto, precipitando [niederschlägt] qualcosa nel suo noema e al contempo oggettivandolo in quanto senso. (XXXI 6 [56*])
Ora, è certamente vero che l’attività intenzionale “oggettiva i valori [di senso] che si destano nel sentire e che si serve di loro per costituire nuovi strati di predicazione di cose costituite in altro modo” (XXXI 7 [57*]), eppure, rimane il problema di comprendere in cosa consista questo intreccio dei modi del sentire e della predicazione e in che misura esso dia luogo a un’esperienza armonica delle componenti intuitive e categoriali di un determinato oggetto. La questione, volendo rifarci a un esempio emblematico su cui Lohmar è tornato più volte, può essere esemplificata dalla conoscenza acquisita del funzionamento di un semaforo, la quale fa sì che vedendo il rosso ci si prefiguri, al livello originario e pre-costitutivo della protensione, l’imminente passaggio al verde – con tutto ciò che questo passaggio comporta in termini normativi per la mobilità (extra)urbana. Senza una tipizzazione pregressa del fenomeno in questione, capace di retroagire sul livello primario e di prefigurare passivamente l’esperienza in corso, sarebbe infatti verosimile attendersi una proiezione protensionale incentrata sulla persistenza della luce rossa, dal momento che nella “vergine” intuizione di un colore non vi è nulla in grado di anticipare il suo mutamento103. L’esperienza 103 Cfr. loHmar (2012b, 174; 2002, 161ss.). Nel secondo articolo menzionato, Lohmar azzarda l’ipotesi – per sua stessa ammissione non ancora ben definita – di una “auto-affezione fantasmatica” nel tentativo di spiegare l’effetto di ritorno dell’aspettazione attiva sul livello originario della protensione. loHmar (2003b) ha quindi cercato di chiarire questa ipotesi in relazione al fenomeno della tipizzazione appercettiva ricorrendo alla nozione di autoaffezione. La nozione di auto-affezione non è estranea al corpus husserliano anche se come vedremo starebbe a indicare un fenomeno riflessivo di diversa natura (infra § 4.3). Per di più, Lohmar manca qui di rilevare come l’idea di un’azione di ritorno dell’esperienza pregressa risulti legata, prima ancora che all’azione della fantasia, a quella della memoria: “tutto quello che si è costituito in maniera attiva tuttavia scompare nello sfondo, trasformandosi in una passività, e, riemergendo dalla memoria, può esercitare un’affezione proprio come una qualsiasi altra forma di passività” (XXXI
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di un semaforo dev’essere stata tipizzata perché qualcuno possa appercepire il passaggio dal rosso al verde mediante un atto in cui tale transizione si rende anticipatamente intuitiva (Vorveranschaulichung) al modo di un presapere (Vorwissen) della stessa (EU 27 [65]). La Vorveranschaulichung si appella in effetti alla facoltà di fissare preventivamente i margini di variabilità di un determinato tipo di esperienza (EU 31 [73]). Il fatto è che, “geneticamente parlando, con ogni nuovo oggetto costituito per la prima volta è indelebilmente pretracciato un nuovo tipo oggettuale, grazie al quale altri oggetti simili ad esso risultano appresi a priori”. Ciò fa sì che almeno a una “coscienza sviluppata” il mondo risulti “‘predato’ in quanto variamente formato secondo le sue categorie regionali e tipizzato secondo molti generi particolari, specie, etc.” (EU 35 [81*]). Ciò significa che ogni esperienza è condotta all’insegna di una tipica familiarità (EU 32s. [75ss.]) relativa all’ambiente circostante, il quale risulta organizzato al modo di un “orizzonte vuoto di conosciuta sconosciutezza”, un orizzonte in cui è inscritta la cifra stilistica delle proprie potenzialità esplicative (EU 33, 35 [77, 81]). Il fenomeno della tipizzazione consiste allora nella formazione e nella costante disponibilità di una “riserva di senso [Sinnesbestand]” (EU 30 [71*]) in grado di co-determinare – implicite, a priori – il duplice orizzonte, interno ed esterno, di esperibilità (= esplicabilità) di un oggetto. Poiché la cosa che entra nell’esperienza ha senso d’essere solo come cosa d’un eventuale orizzonte interno, benché di essa solo un nucleo di quiddità [Washeiten] sia entrato nella cognizione fattuale e autentica, ogni cosa, ogni reale in generale ha in quanto esperibile il suo “a priori” universale, una pre-conosciutezza di un tipo a priori in quanto universalità indeterminata ma costantemente identificabile come la stessa, appartenente a uno spazio di gioco [Spielraum] di possibilità a priori. (EU 32 [75*])
La concezione husserliana dell’a priori – posta in stretta connessione col fenomeno di tipizzazione noematica dell’esperienza, 40 [92]). L’accento posto sulla memoria ci riconduce dunque all’inconscio mnestico che ospita il sistema implicito di sedimenti di senso al modo di uno sfondo di coscienza (supra § 3.1.4).
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il quale a sua volta richiama il processo correlativo di abitualizzazione noetica – si palesa come eminentemente epigenetica. L’a priori ha cioè una propria genesi che si dispiega internamente allo sviluppo dell’esperienza stessa e che coincide con l’acquisizione (Erwerb) della validità implicita del senso sedimentato. Per questo il discorso sulla struttura di conosciuta sconosciutezza del mondo vale per una coscienza già formata e non, poniamo, per quella di un neonato. Un aspetto da sottolineare è quello per cui la formazione di tipi oggettuali non genera una molteplicità irrelata di particolari validità a priori. Visto che l’implicitazione del senso costituito coincide con un ordinamento sistematico di sedimenti (XI 184 [281]), essi risultano anzi coordinati secondo un criterio che diremmo olistico. Sia il processo di formazione dei tipi che quello degli abiti è infatti strutturato organicamente e regolato da un centro di convergenza. Nel caso dei tipi essi concorrono alla definizione del macrotipo “oggetto in generale” (EU 34, 36 [79, 83])104. Nel caso degli abiti, come già rilevato, essi convergono nella personalità individuale del soggetto, ovvero in un abito o “stile complessivo […] che attraversa, nella forma di una concordante unità, tutti i suoi modi di comportamento, tutte le attività e le passività” (IV 277 [276]). La natura olistica del sistema implicito del senso si mostra anche nel fatto seguente: le potenzialità epistemiche dei tipi – e correlativamente degli abiti – sottostanno a un meccanismo di rinforzo (arricchimento) e di erosione (impoverimento) indicizzato al sopraggiungere di nuove esperienze rilevanti di valore concorde o divergente (loHmar 2003a, 115-118). In tal modo, la modifica di un tipo (-abito) si ripercuote inevitabilmente su tutto il sistema di convergenza105. 104 Si riconnetta questo estratto con il passo citato in precedenza (supra § 3.2.1) secondo cui la modificazione ritenzionale departicolarizza il senso oggettuale sino a un “vuoto ‘qualcosa’” (XI 388). La coordinazione di molteplici “vuoti qualcosa” (= tipi) nel dominio dell’inconscio mnestico è ciò che produce la convergenza verso il macrotipo “qualcosa in generale”. 105 Un altro aspetto da tener presente ma che non possiamo qui esplorare è che il processo di formazione dei tipi sembra ricalcare – permettendo dunque di chiarificarne la genesi – il sistema gerarchico di generi, specie e singolarità eidetiche dell’ontologia husserliana (per una convincente lettura di questo sistema cfr. majolino 2015). Come afferma Husserl in Ideen I “ciò che è eideticamente singolare implica [impliziert] dunque tutte le universalità che si trovano al di sopra di esso, e queste, a loro volta, gradatamente ‘risiedo-
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A questo punto, riconnettendosi al proposito di superare il tenore astratto di una concezione stratigrafica della genesi e di muovere verso una comprensione integrata dell’esperienza, chiediamoci: in che modo il processo di tipizzazione-abitualizzazione risulterebbe funzionale allo scopo? Esso sembra consentire una certa precomprensione schematica dell’esperienza, in grado cioè di pre-determinarne il senso mediante il ricorso a disponibilità cognitive implicite, che pertanto non derivano dall’esperienza in corso. Il richiamo alla nozione di schema è giustificato almeno dal seguente passo di mia conoscenza e di estremo interesse per la questione in esame: Ci sono anche atti che si danno come originariamente istituenti nella misura in cui presentano “qualcosa di nuovo” che per noi non è qui al modo di una prosecuzione di validità [Fortgeltung]. Così tutte le nostre esperienze di nuovi oggetti che non abbiamo mai incontrato, sono appunto nuove esperienze “che istituiscono originariamente”. Tuttavia, in un altro senso non lo sono. Innanzitutto, occorre far notare in proposito che vedere per la prima volta una palma influenza il vedere in futuro palme che non sono state ancora mai viste: esse sono sconosciute individualmente e tuttavia “qualcosa”, “un che” di conosciuto. Già nel primo sguardo rivolto al nuovo abbiamo uno schema di senso [Sinneschema] di ciò che dobbiamo aspettarci nel progredire del vedere e nella presa d’atto più prossima (in cui il nuovo senso oggettuale individuale si costituisce per la prima volta). (XXXIX 2)106
A ben vedere, il sistema implicito del senso assolve una funzione di schematizzazione a priori. Da parte sua, “il tipo si configura attraverso una multiforme esperienza, s’imprime in noi, e determina una forma appercettiva” (IV 273 [272*]). Tale forma consente quindi una “traslazione appercettiva [apperzeptive Übertragung]” (EU 140 [291*]) della riserva implicita di senso sull’esperienza a
no l’una nell’altra’, quella superiore sempre in quella inferiore” (III/1 31 [33*]). Da un punto di vista genetico, ciò significa che la sedimentazione del senso e la formazione di tipi oggettuali sono per l’appunto ciò che istituisce – certamente in modo ancora rudimentale – i nessi di implicazione tra singolarità eidetiche e generi ontologici. 106 Di schemi appercettivi parla anche Fink in Dok II/1 91 [88]. Si tengano infine presenti gli accenni di melandri (1960, 101) e Welton (1982, 76ss.).
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venire107. L’esperienza risulta allora schematizzata secondo vere e proprie anticipazioni di valore (Vorgeltungen, EU 30 [71]) in grado di predisporre una generale cornice di significatività (Sinnesrahmen), al cui interno le condotte esperienziali del soggetto risultano in certa misura co-determinate da predelineazioni o tracciati di senso (Sinnesvorzeichnungen, Sinneseinzeichnungen) (XI 8s. [80-82]). Il fatto di cui tener conto è che ciò che si costituisce è la ripetizione di ciò che prima si è già costituito allo stesso modo, solo che ormai è pressoché “noto” e mediante l’anticipazione ha già in anticipo [im Voraus] la forma di senso che ha ottenuto per la prima volta nella prima costituzione. […] Poiché costitutivamente è qui un universo della potenzialità e la datità attuale può avere soltanto la forma della realizzazione di una possibilità o di una serie di possibilità, così è evidente che la percezione (in certo senso appercipiente) rimanda alla percezione appercettiva precedente. (XXXIX 12)
È importante sottolineare come la portata della mediazione schematica operata dal senso si estenda a qualsiasi prestazione intenzionale, dalle forme più elementari come il riconoscimento oggettuale, sino a quelle più complesse della predicazione logicolinguistica108 e della formalizzazione matematica. In modo suggestivo, spiega Husserl, “gli ‘oggetti’ non cadono giù dal cielo nella nostra coscienza”; essi sono piuttosto il frutto di una “trasmissione intenzionale ereditaria [intentionale Vererbung]”, ossia “la formazione e la continua integrazione di una permanente acquisizione 107 Sulla traslazione appercettiva cfr. Mat VIII 15, 161, 210, 337; XXXIX 431s., 450ss., 503, 598, 611, 622. Che la Übertragung concerna il senso è appurato in Mat VIII 436, dove si parla espressamente di Sinnübertragung ricollegando così il discorso all’eredità di senso (Sinnerbschaft) implicita nelle abitualità acquisite dal soggetto. Si tenga presente anche il passo seguente dal grande valore esemplificativo: “L’artigiano nel suo lavoro fa esperienze e acquisisce esperienza nel senso abituale, egli ottiene la maestria di farlo sempre di nuovo e ciò secondo l’appercezione pratica in quanto intenzionalità che si trasla tipicamente [als sich typisch übertragender Intentionalität]. Ottiene la facoltà, [sa] come si realizza qualcosa del genere” (XXXIX 358). 108 Si veda il caso di un giudizio, il quale dopo aver costituito uno stato di cose ed essere “incorporato [einverleibt] allo sfondo passivo, all’‘inconscio’ […] può da ora in poi, così come ogni altra passività, affettare di nuovo” (EU 336 [683]).
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[…] che d’ora in poi contribuisce a modellare il presente stesso” (XXXII 145 [237s.*]). Ciò che accomuna la vita intenzionale è infatti la struttura formale del presente vivente, la quale incanala ogni prestazione lungo un percorso ineluttabile di istituzione originaria, implicitazione (post-costitutiva) ed eventuale riattivazione appercettiva (pre-costitutiva). Siccome la proto-costituzione temporale preesistente operava già in casi simili precedenti, ogni [caso] successivo ha eo ipso il “carattere della notorietà” e crea “appercezione” a priori laddove il suo “materiale” si presenta. (XXXIX 10s.)
L’andamento formale dell’Urprozess fa sì che tutta l’attività costituente debba sprofondare nella dimensione della passività secondaria – debba implicitarsi – per poi esercitare una pre-costituzione schematico-appercettiva al modo della passività originaria così rinnovata. Di conseguenza, se così stanno le cose, si evince come il rapporto tra passività e attività non possa più essere inteso – se non in astratto, ossia sotto il profilo di un approccio analitico – come una mera stratificazione verticale di livelli. In concreto, a ben vedere, tale rapporto palesa una natura eminentemente ricorsiva (Fig. 5). Difatti, se ogni attività presuppone l’apporto costitutivo della passività originaria, se ogni attività incorre quindi in una sedimentazione che ne implicita il senso costituito nel dominio della passività secondaria e se, infine, questo sprofondamento si ripercuote, si deposita affettando la stessa passività originaria (XXXI 3 [53]), ecco che un ciclo della Lebenspulse si chiude, essendo quest’ultima il presupposto schematico-appercettivo di ogni attività ulteriore. Il carattere ricorsivo, del resto, era in nuce quello delineato e prescritto, sia pure formalmente, dal ritmo di pulsazione vitale del presente vivente (supra §§ 2.3.2, 2.3.3). Ora, tenendo conto della ricorsività vigente tra attività e passività, la compartimentazione analitica degli strati costitutivi si diluisce, per così dire, nel sistema implicito dei sedimenti, ossia nella compresenza di uno sfondo di validità latenti co-intrecciate, costantemente disponibili e pertanto in grado di co-operare una
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pre-costituzione integrata dell’esperienza a venire109. Una concreta prassi esperienziale si avvale allora di questa riserva potenziale di senso di ogni genere e grado, capace di predefinirne i margini di azione, di schematizzarne i contorni di significatività e di esplicazione all’interno di un certo contesto d’orizzonte. Soltanto così si comprende perché nella natura precipita [schlägt sich…nieder] costantemente il valore spirituale variegato dei soggetti che esercitano un’attività sulla natura. In tal modo non si esperisce mai, in fondo, una mera natura e una mera animalità, bensì un mondo ambiente spiritualizzato in quanto cultura – con case, ponti, utensili, opere d’arte, etc. (VIII 151 [195*])
Altresì si comprende, contrariamente a quanto si è soliti ritenere, che “io non assumo il mondo predato nella sua predatità e nel suo esser così, bensì io faccio [mache] l’esser predato del mondo” (Mat VIII 41). Come diretta conseguenza della natura ricorsiva del rapporto tra attività, passività secondaria, passività originaria e nuova attività, la nozione stessa di Vorgegebenheit non può più essere intesa, ingenuamente, come qualcosa di compiuto una volta per tutte, che l’attività del soggetto si limita a presupporre operativamente. In uno slogan: la predatità non è così da sempre data, bensì ognóra ricostituita. Certo, per definizione essa rimane costituita passivamente, denotando cioè un tenore normativo su cui l’io non ha immediati margini di azione. Eppure, ciò non toglie che la retroazione esercitata dall’attività sulla passività finisca per riconfigurare il valore originario della predatità in quanto mediatamente appercepita, relativizzando e indicizzando dunque la nozione rispetto al grado di sviluppo della dinamica ricorsiva di arricchimento/impoverimento del sistema tipico-abituale del senso. 109 Si noti almeno per inciso come l’opera di schematizzazione risulti a ben vedere un processo di colonizzazione del futuro, ovvero della dimensione protensionale del presente vivente (come si evince dall’esempio del semaforo). Come specificato nella ricognizione in merito (supra § 2.3.2), è infatti la protensione quell’istanza del processo originario che attingendo al passato ritenzionale ne proietta in avanti la cifra stilistica. Ciò che nelle ultime sezioni abbiamo scoperto è che la protensione è in grado di attingere anche al bacino di utenza della passività secondaria, ossia alla riserva di senso implicito nel sistema delle ritenzioni lontane.
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Scrive Husserl: “così abbiamo, in questo senso, predatità nelle mediatezze, nei gradi di ordinamento della relatività” (XXXIX 10)110. E ancora: “‘predatità’ significa: predatità per sempre nuove potenziali attività che creano originariamente senso di grado superiore, dunque, ciò è lo stesso, predato per sempre nuove possibili appercezioni degli uomini in quanto soggetti d’atto” (XXXIX 517). Ecco allora, conseguentemente, che “il mondo della vita è sempre in movimento [in Bewegung]”, perché continuamente riplasmato da nuove “formazioni di validità appercettiva”. La concreta prassi esperienziale produce nuovi rivestimenti di senso (Sinnesauflagen) che nel corso dalla loro sedimentazione immancabilmente “rieditano” – volendo qui giocare sull’altro significato di Auflage – la predatità del mondo della vita. Quella della Lebenswelt è una riedizione appercettiva senza tregua che ne trasmuta ricorsivamente significato e valore in relazione alle prestazioni costitutive di una comunità di soggetti (XXXIX 514-516; XV 201s.). Le prestazioni di livello più elevato, quelle attinenti ad esempio alla dimensione spirituale (scientifico-culturale), rideterminano il senso d’essere di quelle inferiori, ossia di ciò che le fonda secondo i gradi discriminati da una considerazione astratta della genesi. Ma riescono a farlo solo mediatamente e in maniera ricorsiva, a patto cioè di retroagire sulla passività, implicitando in essa il portato di senso costituito dalla loro attività e rendendo con ciò possibile una pre-costituzione (appercettivamente) potenziata dell’esperienza a venire. Secondo il modello ricorsivo, la predatità è infatti relativa 110 Il passo, a dire il vero piuttosto criptico, è il culmine di una sequenza argomentativa di alcune pagine (XXXIX 8-11 e relative note) tesa a problematizzare la nozione di Vorgegebenheit distinguendone un duplice senso d’impiego: secondo un primo consueto significato “naturale”, predata sarebbe l’unità di un certo rilievo emergenziale in grado di suscitare il ridestamento dell’io; secondo un significato fenomenologicamente più pregnante si darebbe invece anche una predatità co-determinata da facoltà e interessi pratico-teorici di diverso grado. Il primo tipo di Vorgegebeheit potrebbe essere intesa come meramente intuitiva – rappresentando in tal senso un nucleo duro di esperienza retta dalle rigide leggi della Urassoziation; il secondo tipo è invece una predatità appercettiva e dunque costantemente riconfigurabile. In un testo più tardo (XXXIX Nr. 6, 1930 circa) si parlerà espressamente della costituzione di differenti universi (gradi) di Vorgegebenheiten attraverso l’istituzione di corrispettive abitualità.
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alla riserva di senso tipico-abituale acquisita dalla soggettività, al grado di sviluppo olistico delle disponibilità appercettive con cui schematizza a priori l’esperienza. Questa dinamica fondamentale spiega perché il vivere quotidiano della coscienza sia circondato da cose111 e non da rilievi emergenziali; sia scandito da ore, da ticchettii di orologio e non da spaccati multidimensionali del flusso temporale immanente112. Se appercettivamente schematizzata, la percezione non è più un processo di mera localizzazione e identificazione spazio-temporale, essendo anch’essa in gran parte rivestita dalla predicazione e dal pensiero concettuale. In concreto, infatti, non soltanto facciamo esperienza di oggetti percependoli, essi ci appaiono secondo attributi vari (EU § 55), in relazione tra loro – entro cioè “stati di cose” (EU § 58) – o in quanto esemplificazioni particolari di formazioni universali (EU §§ 81ss.). Si noti come Husserl sembri ascrivere la possibilità di una simile retroazione proprio alle prerogative costitutive dell’intelletto: La precostituzione dell’intelletto si differenzia contrastivamente da quella della sensibilità; l’intelletto, unificando sinteticamente in modi diversi gli oggetti tematici, riesce a dar luogo a una prestazione di precostituzione categoriale; una prestazione che porta con sé la possibilità a priori di rendere un nuovo tema – “ricomprendendolo” – ciò che si è precostituito, di renderlo un oggetto che in sé è articolato e che rimanda con ogni membro e forma alla precedente azione categoriale. (XXXI 52s. [104*])
111 “Se ci si chiede quale sia il più semplice pregiudizio col quale lavoriamo in un mondo di esperienza, esso è la ‘cosa’. Anche qui già la nostra percezione fa uso di un procedimento di fortuna, che consiste nell’elaborare solo poche note caratteristiche e nell’attribuire ‘alla cosa’ le sue costanti. Ad una intelligenza idealizzata, capace di una visione panoramica indipendente dal tempo, quella che nella nostra esperienza compare come cosa o che in essa viene elaborata in cosa, apparirebbe uno stato fuggevole in un sistema materiale complessivo dalla durata volta a volta relativamente più grande” (blumenberg 1986, 291). 112 Ancora blumenberg (1986, 330s.) spiega che, “nel suo fondo, il tempo della vita è la trasformazione della struttura immanente del tempo in tempo della vita vissuta” e che, nondimeno, è doveroso interrogare “quali strutture della temporalità oggettiva sia possibile e lecito applicare ‘retroattivamente’ alla temporalità soggettiva”.
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Uno dei tratti fondamentali della sintesi intellettuale sembra proprio quello del “ricomprendere [Rückgreifen]” tematicamente come unità quanto spontaneamente precostituitosi al modo di una semplice pluralità, mediante appunto un atto di “prensione ricomprensiva [rückgreifenden Erfassung]” (EU 293s. [597s.]). In tal modo, l’intelletto risulta animato da una tendenza retroattiva capace di ricondizionare quanto emerso dalla sintesi identificativa, riuscendo ad esempio a concettualizzare quanto tipicamente appercepito (EU § 83a)113. Di conseguenza, la funzione appercettiva propria di una prestazione costitutiva di un certo grado si trova a essere sussunta (= tematicamente soppressa) sotto la funzione della prestazione di grado superiore, favorendo schematizzazioni sempre più raffinate dell’esperienza. Parlare di una retroazione degli strati costitutivi “superiori” su quelli “inferiori” pare dunque legittimo a patto di interpretare in senso ricorsivo il rapporto tra attività e passività costituente, ossia tenendo conto dell’implicitazione cui va incontro il senso estrapolato da ogni prestazione costitutiva e della funzione schematicoappercettiva da esso esercitata. È una ricorsività temporale, la cui ciclicità non è però l’eterno ritorno dell’identico imputabile a una chiusa circolarità, bensì il complesso trascendersi e riconfigurarsi appercettivo di una fluidità plastica – graficamente approssimabile a un fascio di cicloidi (Fig. 2). Questa retroazione [Rückwirkung] sulla validità d’essere passata, questa retrotraslazione [Rückübertragung] di appercezioni, conoscenze e correzioni successivamente acquisite sulle riserve mnestiche 113 Una tendenza simile a quella dell’intelletto sembra valere anche per la riflessione, la quale non fa altro che ricomprendere tematicamente una tendenza autocostitutiva già in corso d’opera. Come si evince dalla Vorlesung 40 di Erste Philosophie II, la riflessione non è da intendersi comunemente come una mera percezione di sé da parte dell’io. Riflettendo, l’io percepisce infatti sé stesso mentre coglie al contempo la cosa percepita nell’atto percettivo. La riflessione coincide dunque con la generazione di uno scarto prospettico in grado di cogliere l’intera correlazione ego-cogito-cogitatum. Non è dunque un caso che la scienza fenomenologica, votata allo studio sistematico dei modi e dei gradi della correlazione, pretenda di esercitarsi riflessivamente. La possibilità di un simile ricomprendere (Zurückgreifen) sembra dunque essere una prerogativa della costitituzione attiva tout court (riflessiva o categoriale che sia). Sulla riflessione cfr. Hopkins (1989), ni liangkang (1998), zaHavi (2003a), zHang Wei (2016).
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[Erinnerungsbestände] è un fatto universale e deve essere accuratamente chiarificato. (Mat VIII 160)
L’appercezione è dunque ciò che concretamente sostanzia la ricorsività della Lebenspulse mediante i due momenti complementari della traslazione e retrotraslazione del senso costituito. Se [l’oggetto] è costituito una volta, così ha luogo necessariamente un’appercezione che trasla su ogni altro simile presente reale [reale] che mi si fa incontro e ancora come retrotraslazione sul mondo-ambiente passato, nella misura in cui questo [presente] nel suo stile della cosa singola e delle configurazioni della cosa riempie secondo analogia le condizioni della traslazione appercettiva. (XXXIX 503)
L’appercezione è dunque “una legge fondamentale che amplia il processo di formazione dell’esperienza”, istituendo “un’abitualità implicita per un intero genere di sensi d’esperienza modificati, per esperienze [ulteriori], come se fossero state istituite originariamente” (XXXIX 502s.). Nel suo complesso, l’unità ricorsiva dell’appercezione è ciò che concreta “la duplice andatura [Doppelschritt] della costituzione: in quanto costituzione che procede e retrocede [fortschreitende und rückschreitende]” integrando e conservando in sé ogni nuova acquisizione abituale (XXXIX 505s.). È in questo modo, procedendo e retroagendo appercettivamentea oltre e su sé stessa, che la vita costituente si storicizza. Nella costituzione di realtà durature, nel loro seme [Keime], v’è già un momento di storicità [Historizität]. Ma nel progredire dell’esperienza e della rimemorazione lontana che s’insedia sempre di nuovo, che oltrepassa il presente concreto, è costituita in ciò che è effettivamente ricordato la storicità lontana, e questo entra nell’appercezione di nuove tipiche esperienziali. Si costituisce così la tipica del divenire. Ma dalla tipica esperienziale delle realtà ha luogo la costante retrotraslazione sull’appercepito in un precedente passato, sicché ora ottiene appercettivamente la forma storica. (XXXIX 506)
O meglio, è la storia stessa che rivela il senso d’essere di una realtà geneticamente costituita, un senso che è l’unico in grado di rispondere significativamente alla questione “come può il mondo
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oltrepassare la sfera del ricordo?” mediante l’apporto costitutivo di una “retroproiezione appercettiva [apperzeptive Rückprojektion]” dell’eredità presente sull’orizzonte del passato (Mat VIII 161). Avviandoci a concludere la sezione, chiariamo quanto segue. Porre la questione della retroazione come fa Lohmar, al modo cioè di un’azione esercitata von oben nach unten, non è il modo migliore per esemplificare quanto appena ricostruito. Esprimersi infatti in termini di alto e basso, superiore e inferiore, non fa altro che presupporre la rappresentazione stratigrafica veicolata dalla decostruzione analitica della genesi intenzionale. Ciò che viceversa dev’essere revocata è proprio l’astrazione114 inerente a una concezione verticale dei livelli, a vantaggio di un’idea di esperienza che anzi presupponga il loro essere implicati ricorsivamente l’uno nell’altro (i più basilari in quelli più complessi) e che si avvalga pertanto di un sistema del senso olisticamente integrato, in grado cioè di far valere una precostituzione appercettiva univoca dell’esperienza in corso, non frammentata secondo la compartimentazione dei suoi diversi strati essenziali. A mo’ di compendio di quanto sinora argomentato: Per ogni riduzione decostruttiva [Abbau-Reduktion] vale il principio secondo cui gli strati decostruttivi [Abbauschichten] non sono costituiti per sé nella genesi, in una successione genetica che corrisponde alla successione della fondazione. Certamente, a ogni strato corrisponde uno strato nella genesi; ogni intenzionalità, mediante la quale il mondo predato è costituito, è geneticamente acquisita ed è compresa nel progredire genetico. Ma tutte le genesi di tutti gli strati cooperano in modo temporalmente immanente, sono genesi coesistenti. (Mat VIII 394)
Quando distolgo appena lo sguardo da questa pagina di foglio elettronico e percepisco una pila di libri sulla scrivania a sinistra del PC, questo dato di fatto mi appare già in tutta la sua significatività percettivo-categoriale e non come una serie progressivamente articolata di sintesi che dalla coalescenza di rilievi affettivi passi per la loro individuazione spazio-temporale, per la loro prensione ed esplicazione tematica, per la 114 È Husserl stesso a parlare di revoca/soppressione (Aufhebung) dell’astrazione (Mat VIII 160, 14).
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produzione del tipo oggettuale “libro” e la coordinazione di più esemplari di questo tipo in uno stato di cose complesso, sino alla formulazione predicativa del giudizio proposizionale “una pila di libri è sulla scrivania alla sinistra del PC”. Il portato di senso costituito in questa progressiva oggettivazione di un dato di fatto è già del tutto implicito nell’unità cognitiva dell’esperienza che una coscienza sviluppata può farne. Quest’ultima sa già d’acchito che “una pila di libri è sulla scrivania” perché l’esperienza che fa di questo stato di cose le risulta schematizzata secondo riserve di senso acquisite e implicitamente conservate, a prescindere dunque dall’effettiva formulazione di un giudizio in merito, a prescindere dal fatto che sia in grado di ripercorrere ed esplicitare la genesi intenzionale di questa specifica cognizione. Alla luce di quanto detto è ora possibile decriptare cosa intende Husserl quando parla dell’Aufhebung dei livelli costitutivi inferiori in quelli di grado superiore. Spiegando questo aspetto mi auguro di chiarire come la rappresentazione stratigrafica della genesi possa lasciare il passo a una lettura ricorsiva – in un certo senso dialettica – di quest’ultima; nonché, come l’astrattezza della demarcazione delle prestazioni costitutive possa fare spazio a un intendimento concreto del loro esercizio integrato. La modificazione innescata dalla passività secondaria determina la soppressione (= implicitazione) dell’apporto costitutivo di un certo livello; ciò fa sì che il livello in questione possa essere ricompreso (sussunto) – per via schematico-appercettiva – sotto un’attività costitutiva di ordine superiore. In questo modo – tramite il rapporto ricorsivo vigente tra attività, passività e nuova attività – si riesce a prescindere (perché soppresso, reso implicito) dal legame istitutivo che costringerebbe la nuova attività a riprodurre esplicitamente l’intera genesi presupposta da tale prestazione. Così facendo si libera (si autorizza) l’esercizio indipendente di una funzione costitutiva potenziata – ossia basata su un sistema tipico-abituale epigeneticamente raffinato – vincolando al contempo l’arbitrio di questo esercizio al debito genetico conservato implicitamente. Questa dialettica tra superamento (soppressione) del portato tematico esplicito e conservazione (sedimentazione) implicita del legame istitutivo di uno strato inferiore rispetto a uno superiore può
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essere esemplificata prendendo in considerazione il passaggio da un’esperienza antepredicativa a una predicativa. La distinzione tra momento tematico e momento operativo della costituzione risulta qui essenziale per chiarire la posta in gioco. Ciò è evidente quando Husserl descrive la genesi sintattica del giudizio al modo di una “formazione spontanea di nuove forme tematiche” (EU 247 [505]). Soggetto e predicato sorgono allorché l’esplicazione ricettiva di un sostrato mantenuto sotto presa – esplicazione che determina così un arricchimento di senso (Sinnesbereicherung) – ingenera un interesse di grado superiore che motiva l’esecuzione attiva (perché partecipata e promossa dall’io) del passaggio sintetico (synthetisch Übergang) dal sostrato alla sua determinazione – passaggio, si noti, che l’esplicazione percettiva aveva già pre-costituito ricettivamente. In questo modo, in un atteggiamento mutato, l’io si rivolge (zurückwendet) all’unità di coincidenza (Deckungseinheit) nel frattempo sedimentata promuovendo una sua rideterminazione spontanea, capace infine di istituire l’unità d’identità (Identitätseinheit) del giudizio “S è p”. Questa rideterminazione sopprime il tema proprio della sintesi ricettiva (la mera coincidenza esplicativa tra il sostrato e le sue molteplici determinazioni) a favore di un nuovo tema istituito dall’io spontaneamente: l’identità proposizionale accresciuta di S che si determina in quanto (Sich-bestimmen als) p (EU § 50a). In questo modo, il giudizio si emancipa tematicamente dal proprio legame genetico (di tipo ricettivo), dalla necessità cioè di presentare ed esplicare intuitivamente i propri referenti. Al contempo, però, esso conserva operativamente (come implicito, sedimentato) questo legame, dovendo poter rimandare, pena la sua insensatezza, a dei referenti intuitivi generalmente possibili. L’io può dunque predicare autonomamente, senza cioè dover riprodurre ogni volta la genesi del giudizio. È questo il caso emblematico di una qualsiasi forma di linguaggio, il quale può essere esercitato in completa autonomia – senza cioè l’esigenza di esibire intuitivamente i referenti dei termini in gioco – rispetto a una dimensione antepredicativa che pure ha concorso all’istituzione della sua possibilità di esercizio115. Per corro115 Questa indipendenza vale sia per la predicazione concettuale del linguaggio naturale che, a maggior ragione, per i linguaggi formalizzati del pensiero scientifico, il cui ricorso a variabili prescinde volutamente da un esplicito
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borare questa lettura vediamo come Husserl si esprime riguardo alla prestazione logico-predicativa: Le oggettività che si costituiscono in queste operazioni logiche risulteranno tali da rimandare sempre al loro fondamento inferiore ma tuttavia possono staccarsi da esso e condurre la loro vita propria come giudizi che nelle loro forme molteplici sono il tema della logica formale. (EU 234 [479])
Constatiamo dunque il “fatto della separabilità [Ablösbarkeit] di queste oggettività dal loro sottofondo” genetico-istitutivo (EU 234 [479*]). Grazie alla dialettica ricorsiva di soppressione (implicitazione) del portato costitutivo delle prestazioni intenzionali “inferiori”, l’oggetto logico-categoriale incorre in un processo di relativa autonomizzazione o indipendentizzazione (Verselbständigung)116 del proprio impiego. Di conseguenza, la funzione predicativa non dev’essere rifondata geneticamente ogni volta che si palesi una particolare occasione di esercizio. Avendo retroagito sul piano della passività e avendo trasposto il portato di senso in un registro di significatività e operatività più generale (departicolarizzato), essa può esercitarsi prontamente, secondo cioè una piena indipendenza appercettiva117 rispetto alla contingenza riferimento intuitivo pur ammettendone uno di tipo implicito a tutti i possibili referenti del caso. Senza una possibilità ancorché implicita di riferimento, il linguaggio – naturale o formale che sia – non sarebbe altro che un ammasso sconnesso di segni senza la benché minima pretesa comunicativa. 116 Husserl parla in generale del fenomeno della Verselbständigung in merito alla fondazione delle scienze della natura e dello spirito (XXV 3 [4]; XVII 7 [5]), all’instaurarsi dell’interesse teoretico (XXV 125 [59]), alla logica formale (VI 46 [75]) e più in particolare riferendosi alla determinazione tematica di un sostrato e quindi di un sostantivo (XXXI 36, 40 [87, 92]; EU 148, 151, 156, 163, 248, 275, 284 [307, 313, 323, 337, 507, 561, 579]). Egli afferma comunque che il fenomeno della Verselbständigung può riguardare ogni grado possibile dell’esplicazione poiché ogni esplicato può in fin dei conti esser reso tematico e in quanto tale indipendente (EU 150 [311]). 117 In un certo senso, fornendo un oggetto “bell’e pronto” (fertig) (XXXIX 11), già corredato cioè dei suoi attributi noti (categoriali e non), la schematizzazione è come se ne riproducesse l’intera genesi istantaneamente. Questo aspetto risulterà chiarito (infra § 4.1) allorché si scoprirà come la forma temporale propria dell’implicazione intenzionale – ciò da cui la traslazione appercettiva del senso non può fare a meno di attingere – è quella di una totalità simultanea.
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della sua istituzione originaria, ormai soppressa (resa implicita). Banalmente, ciò consente di formulare giudizi senza dover ogniqualvolta esibire una presentazione intuitiva del proprio tema. E tuttavia, la possibilità reale o semplicemente ideale dell’esibizione tematica rimane una condizione inaggirabile della predicazione e ciò in virtù del debito istitutivo che geneticamente la vincola agli strati inferiori che l’hanno resa possibile118. Concludo la presente sezione traendone un’indicazione rilevante sotto l’aspetto metodologico. In virtù dei fenomeni della retroazione e della schematizzazione appercettiva, la prassi esperienziale del soggetto sembra invero strutturata in modo da velare progressivamente l’apporto costitutivo delle prestazioni intenzionali, limitandosi per così dire a sussumerne il portato di senso acquisito. Ma ecco che ciò consente di gettare uno sguardo sul modo in cui lo stesso atteggiamento naturale è generato. L’intera dimensione dell’esperienza naturale è infatti basata proprio sul velamento della genesi delle prestazioni costitutive mediante cui essa opera, delle facoltà di cui essa dispone. Il fatto cioè che la natura ricorsiva del rapporto tra attività e passività consenta al soggetto di ricomprendere il valore di senso di quanto costituito e di operare con esso prescindendo dalla storia intenzionale che lo ha prodotto, fa sì che l’atteggiamento naturale sia precisamente quello di chi esperisce il mondo basandosi su una precomprensione di cui tuttavia ignora la genesi implicita. All’atteggiamento naturale il mondo si dà come una positività assoluta, un’ovvietà cieca dinanzi alla propria genesi trascendentale119. Ma, allora, il compito specifico della fenomenologia sarà precisamente quello della rimozione di questo velamento costitutivo del mondo della 118 “Che anche l’operazione logica debba poter aver il carattere dell’intuitibilità, costituisce per una logica genetica elaborata sotto le condizioni della fenomenologia, una concessione irrinunciabile; altrimenti, nessun formalismo potrebbe essere ricondotto all’originarietà che lo giustifica e, a partire da essa, ‘autorizzato’ all’autonomia della propria funzione” (blumenberg 1986, 384). 119 Per dirla ancora con blumenberg (1986, 284), il quale ha il merito di restituire anche l’altra faccia della medaglia, ossia il motivo per cui l’atteggiamento naturale è praticamente costretto a vivere in ottemperanza a questa cieca velatezza: “una delle caratteristiche banali della coscienza [naturale] è il fatto che essa non s’interroga sulla natura di ciò che comunque si integra nella prassi della vita, perché altrimenti, a forza di incespicare su ‘questioni ultime’, la vita si fermerebbe”.
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vita, della sua ri-trascendentalizzazione per mezzo dell’esplicitazione dei nessi intenzionali che lo intessono (infra § 4.2). È questo il problema specifico del metodo fenomenologico posto dinanzi al mondo dell’atteggiamento naturale. Il metodo dovrà tener conto del fatto per cui “noi dobbiamo valutare la dynamis secondo l’entelecheia” (XXXI 8 [57]). Ciò significa che chi fenomenologizza procede sempre dal costituito in direzione del costituente, dalla validità positiva ingenuamente attribuita al reale alle modalità della sua istituzione. È per questo motivo che l’impresa genetica è condotta innanzitutto retrospettivamente all’insegna della Rückfrage. A ben vedere, l’idea di una retroazione dell’attività sulla passività costituente è connaturata al compito della stessa fenomenologia genetica. Poiché a ciò inerisce una conseguenza oltremodo difficile dell’interrogazione regressiva e con ciò dell’interrogazione regressiva nella genesi originariamente istituente di tutte le appercezioni: l’essente di ogni grado può essere esperito soltanto in appercezioni, e così alla fine l’essente presuppone il pre-essente, il quale può essere afferrato esso stesso come essente soltanto dall’io sviluppato delle appercezioni (e dal noi) nel coglimento retrospettivo e nella retrotraslazione delle appercezioni già formate, come qualcosa da ricostruire e identificare metodicamente, sempre di nuovo, eppure come qualcosa che “era” prima che fosse appercepito. (Mat VIII 223)
La prassi di chi fenomenologizza (l’entelecheia) retroagisce riflessivamente, cognitivamente, predicativamente, etc. su quei livelli costitutivi originari (la dynamis) che sono invece eminentemente pre-riflessivi, a-cognitivi, ante-predicativi e che nel corso della genesi fondano la stessa possibilità di esercizio dell’esperienza fenomenologico-trascendentale. Alla luce di quanto detto, tuttavia, la precostituzione passiva dell’esperienza non sembra direttamente accessibile dal punto di vista di un semplice sguardo retroagente, e questo proprio in ragione della sua costitutiva velatezza. Ecco allora porsi con tutta evidenza l’urgenza di un metodo atto alla risoluzione di un compito specifico, quello di esplicitare quanto implicitamente operativo nella prassi del mondo della vita. Prima di affrontare la questione nel prossimo capitolo mi si consenta un ultimo chiarimento in merito al problema dell’io nella tarda fenomenologia husserliana.
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§3.3 Il punto di vista dell’io Das Ich ist nicht etwas für sich und hat Bewußtsein nicht als etwas außer sich, neben sich.120 Statt “Ich” müsste ich vielleicht besser immer sagen “Selbst”.121
Per la fenomenologia trascendentale, la questione dell’io rappresenta una matassa sì fitta di nodi teorici che chiunque intenda esprimersi in merito è bene sia premunito della cautela che si confà a un artificiere dinanzi a un qualche tipo di ordigno. La complessa evoluzione storica in cui è incorso il pensiero di Husserl, la multiforme stratificazione operativa dell’ego mondanamente e trascendentalmente inteso, non meno che le implicazioni sistemiche a esso direttamente o indirettamente riconducibili, tutto ciò meriterebbe un tal numero di precisazioni da travalicare il numero di pagine in cui si articola la presente sezione122. Chiarisco allora sin da subito il taglio specifico secondo cui intendo affrontare la questione: mi concentrerò sul rapporto vigente tra l’io e il processo costitutivo originario, valutando in particolar modo lo statuto e la funzione operativa della tarda nozione di Ur-ich. In questo modo tralascerò il noto mutamento di pensiero occorso tra la prima edizione delle Ricerche e il primo libro delle Idee, focalizzandomi invece sull’arco temporale delineato dall’approfondimento genetico della fenomenologia husserliana. L’economia argomentativa del presente lavoro impone da sé l’esigenza di un simile chiarimento e ciò in ragione del fatto che le ricerche degli anni ’30 condotte nei C-Mss. mostrano una presenza ben più cospicua della nozione di io rispetto alle riflessioni precedenti (Zeitvorlesungen, Bernauer 120 XXXIV 189. 121 XIV 48. 122 Senza la minima pretesa di esaustività rimando pertanto a van peursen (1959), brand (1960), kern (1964, § 26), Held (1966), marbacH (1973; 1974), benoist (1994, cap. 1), ferrarin (1994), sakakibara (1997), zaHavi (1999, cap. 8; 2021), rinofner-kreidl (2000, cap. 2, § 5), brougH (2005; 2016), bloecHl (2006), tagucHi (2006), zippel (2007a; 2007b, 137-153), altobrando (2010), menscH (2010a, cap. 4), niel (2010), avercHi (2012), geniusas (2012, cap. 9), loHmar (2012a), pugliese (2020).
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Mss., Analysen, etc.). Questo aspetto ha fatto sì che alcuni commentatori interpretassero quest’ultima fase di elaborazione manoscritta come un ripensamento o una revisione in chiave egologica del modello precedente, da noi invece descritto come essenzialmente vor-ichlich123. Il problema è allora quello di comprendere se le ricerche condotte nei C-Mss. invalidino il resoconto offerto in precedenza di una dimensione costituente preposta all’attività dell’io e anzi deputata alla sua attivazione. A mio modo di vedere, questa contraddizione tra differenti modelli esplicativi dell’Urprozess si rivela apparente non appena si consideri alla luce della distinzione tra di123 diemer (1956, 145s.) è stato forse il primo a decretare l’abbandono da parte di Husserl dell’idea di una temporalizzazione passiva in favore di una compiuta attivamente dall’io. Meno estreme ma sulla stessa falsa riga di Diemer, ossia legate all’idea della revisione del modello precedente, sono le proposte interpretative di Held (1966, 96) – che pur non rigettando la dimensione di un “fluire primariamente passivo pre-compiuto” rileva la necessità di un supplemento costitutivo “post-compiuto” di tipo riflessivo, attivo, egologico – e di kortooms (2002, 259-271) – secondo cui Husserl manterrebbe la distinzione tra pre-costituzione passiva e costituzione attiva pur disconoscendo alla prima il carattere dell’intenzionalità in senso forte. Sebbene, come più volte ribadito, concordiamo su quest’ultimo aspetto – sarebbe semmai da discutere nel merito se questi costituisca un effettivo mutamento di prospettiva rispetto alla precedente riflessione husserliana o non semplicemente una più chiara attestazione di quanto già da essa desumibile – divergiamo tuttavia dalla lettura dell’A. secondo cui la passività che residua nei C-Mss. sarebbe di tipo meramente associativo – associazione che peraltro muterebbe significato rispetto alle Analysen – e non più temporale (kortooms 2002, 271-281). Come largamente argomentato, una simile disgiunzione tra Urzeitigung e Urassoziation non può valere se non in astratto, contravvenendo espressamente all’esigenza di concretizzazione dell’analisi perseguita da Husserl negli ultimi anni della sua produzione. Di diverso avviso rispetto agli autori menzionati, a favore quindi di una lettura continuista, sono invece seeboHm (1962, 124s.) – per cui tra i C-Mss. e i testi precedenti vi sarebbe soltanto un mutamento terminologico – e, sulla sua scorta, menscH (2010a, cap. 4) e brougH (2005; 2016) (per una critica estesa alla ricostruzione di Kortooms cfr. brougH 2016). Personalmente, pur ritenendo che nel corso degli anni ’30 non vi sia stata una revisione sostanziale del modello costitutivo, stimo nondimeno una lettura meramente continuista non sufficientemente in grado di spiegare lo slittamento terminologico né, soprattutto, alcune formulazioni husserliane apparentemente contraddittorie. Reputo pertanto necessarie alcune considerazioni suppletive afferenti alla duplice esigenza di concretizzazione/integrazione e di raffinamento metodologico dell’analisi.
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verse tendenze presenti all’interno della fenomenologia genetica. Come si è cercato di mostrare nelle ultime sezioni, a una tendenza volta alla decostruzione analitica della genesi, ossia alla demarcazione stratigrafica dei livelli costitutivi in astratto, si è sovrapposta una duplice esigenza ricostruttiva, tesa da un lato all’integrazione dell’apporto costitutivo dei vari strati in un esercizio concreto di esperienza, dall’altro all’interrogazione autocritica circa le pretese e i limiti del metodo fenomenologico. Entrambe queste esigenze sembrano convergere e coagulare sincreticamente nella tarda riflessione sull’io, tanto che solo il loro chiarimento preventivo sembra poter dirimere la questione. A mo’ di riprova si consideri il brano seguente. Ogni metodo che intenda trasformare la prima concrezione, per così dire muta, in un’altra tematicamente esplicita, appunto in quanto esplicitante e descrittivo, si muove in “astrazioni”; ciò che è stato estratto [herausgefaßte] nell’esplicare il concreto ha un suo orizzonte ancora muto […] perché lo si può esplicitare e quindi conoscere soltanto passo passo e attraverso le sue stratificazioni. […] non dobbiamo pretendere affrettatamente di avere in pugno il pieno essere dell’io trascendentale. (XXXIV 296)124
Il problema che si pone a chi fenomenologizza è quello di esplicitare un concreto d’esperienza; per far questo egli è costretto a muoversi inizialmente in un’astrazione consistente nel vaglio analitico dei relativi strati costitutivi. Questi vengono demarcati “passo passo” decostruendo i passaggi sintetici che ne hanno istituito il senso d’essere nel corso di una genesi ideale. Solo in un successivo movimento di pensiero si procede a ricostruire il concreto, fornendo un resoconto integrato dei diversi momenti costitutivi che cooperano nell’unità di un’esperienza effettiva125. Tener presente questo duplice movimento della riflessione fenomenologica consente di chiarire il rapporto vigente tra io e processo originario nei Mss. degli anni ’30 e dunque di valutare se la concezione hus124 Per la questione tecnica dell’esplicitazione fenomenologica (Auslegung) infra § 4.2. 125 A conferma di questa lettura si veda Mat VIII 187s. dove Husserl sembra astrarre dall’io e quindi reintrodurlo a seconda dell’orientamento rispettivamente regressivo (decostruttivo) o progressivo (ricostruttivo) dell’analisi.
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serliana sia mutata rispetto alle riflessioni precedenti. Procediamo con ordine. La volontà di chiarire un simile rapporto, prima ancora di divenire pervasiva nei C-Mss., è presente già nei testi Nrr. 14 e 15 dei Bernauer Mss. Come rilevato, il Nr. 14 prospetta la necessità di una riduzione alla sensibilità originaria (supra § 3.1.1). Husserl spiega però che “la riduzione che noi intendiamo e che ci restituisce una struttura necessaria a priori è l’astrazione da un io e da tutto ciò che è egologico” (XXXIII 275). Ciò significa che il tentativo di decriptare la struttura dell’Urprozess – una “struttura da estrapolare ‘astrattivamente’” (XXXIII 276) – è condotto prescindendo espressamente dall’io, il cui apporto costitutivo compete a livelli costitutivi superiori (affettività, attenzionalità, spontaneità, etc.). L’io propriamente detto, in quanto polo o centro identico dei vissuti (XXXIII 277), è infatti attivato a partire da un fluire originario passivo in cui l’organizzazione associativa del materiale proto-iletico genera un campo di tendenze affettive concorrenziali in grado di suscitarne il volgimento tematico. La polarizzazione del vissuto è pertanto una struttura emergente di natura prospettica, l’attualizzazione di un primo piano di salienza tematica a partire da uno sfondo di latenza operativa. Fin qui nulla di nuovo (supra § 3.1.3). La disamina husserliana prosegue nondimeno introiettando elementi in grado di gettare nuova luce sullo statuto e la pre-costituzione dell’io. Proprio tali elementi, i quali consentono un primo superamento dell’astrazione veicolata dalla riduzione alla sensibilità originaria, saranno ripresi e ampliati nel corso della riflessione degli anni ’20 e ’30. Il punto nevralgico della questione consiste nel rilevare un qualche tipo di istanza, per così dire, proto-egoica operativa all’interno dell’Urprozess. È ciò che Husserl denomina qui per la prima volta Ur-Ich (XXXIII 286)126. Per comprendere a pieno il ruolo 126 La nozione compare anche in un altro manoscritto redatto a Bernau nel 1918 e dedicato alla questione dell’entropatia (Einfühlung) (XIII 407s.); nel corso degli anni ’30 ha quindi trovato impiego in relazione alle tematiche del presente vivente (Mat VIII 2, 197-199, XXXIV 300) e dell’intersoggettività (VI 187s. [210s.]). Ciò non toglie che in numerosi altri luoghi Husserl alluda alla medesima nozione mediante perifrasi sinonimiche che qualificano l’Ich come ursprünglich, urtümlich, urmodal, etc. In letteratura, la plurivocità dell’Urich ha condotto a un’interpretazione “funzionale”
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svolto da tale concetto conviene rintracciarne la genesi all’interno dell’opera husserliana. Di primo acchito, l’Ur-ich pare il frutto di una decostruzione dell’io puro analoga, per non dire parallela, a quella in cui è incorso il materiale iletico mediante la retrocessione alla Ur-hyle (supra § 3.1.1)127. Così come la hyle necessitava di una pre-costituzione originaria per poter svolgere il ruolo di materia di una certa apprensione, allo stesso modo, l’io abbisogna di un’analoga genesi pre-costitutiva capace di porlo come polo funzionale di irradiazione e convergenza dei vissuti. Detto in altre parole: se la dimensione proto-associativa (Urassoziation) delinea uno scenario affettivo in grado di suscitare noematicamente il ridestamento dell’io, occorre che l’eventualità di tale rivolgimento sia noeticamente predisposta all’interno del processo di temporalizzazione primaria (Urzeitigung). E ciò, banalmente, perché risulti scongiurata l’ipotesi di un’attivazione dell’io di natura avventizia, al modo cioè di una sopravvenienza difficilmente spiegabile a par-
della nozione. Anziché ammettere la realtà di tanti io originari quanti quelli desumibili dai suoi diversi contesti d’impiego, si è posto l’accento sulla sua valenza metodologica: l’Urich sarebbe cioè un concetto funzionale alle esigenze di superamento delle ingenuità che di volta in volta contraddistinguono l’analisi, inducendola a reiterare la riduzione e a regredire sino a dimensioni costitutive più originarie (loHmar 2012a, 300ss.). geniusas (2012, 170-172), da parte sua, ha ripreso l’interpretazione funzionale nel tentativo di rispondere alle critiche ermeneutiche mosse alla concezione husserliana dell’io da parte di Heidegger e Gadamer. Egli va però oltre la proposta di lettura di Lohmar, tentando di riunificare le varie accezioni dell’Urich sotto l’egida dell’essenziale storicità della soggettività trascendentale: le diverse accezioni farebbero cioè riferimento a differenti livelli prestazionali della soggettività. Personalmente, ritengo che la lettura funzionale colga un aspetto importante quando pone l’accento sulla valenza metodologica della nozione: essa ha certamente il merito di indurre un’autocritica circa alcune ingenuità residuali della prassi fenomenologizzante. Come però ho cercato di argomentare, il tasso residuale d’ingenuità non ha tanto a che fare con la necessità di discriminare tra differenti livelli costitutivi – aspetto questo già ben presente a partire dalla seconda metà degli anni Zero – bensì con l’esigenza di superare un certo grado di astrazione dell’analisi, veicolato proprio dalla considerazione stratigrafica, e di reintegrare dunque l’apporto costitutivo dei diversi strati. Anche in conseguenza di ciò, sono vieppiù convinto che l’Urich possa essere interpretato in maniera univoca stanti i differenti contesti d’impiego, giacché proprio per l’integrazione di diversi àmbiti analitici la nozione sembra essere escogitata. 127 Sullo stretto legame vigente tra Urich e Urhyle cfr. tagucHi (2006, 222-226).
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tire da un processo stimato come pre-egologico128. Decriptare la nozione di Urich appare dunque essenziale al fine di comprendere 128 È qui necessario un ulteriore chiarimento preliminare in merito al rapporto tra dimensione vor-ichlich (Mat VIII 59, 309, 352; XV 598, 604; XXXIX 432) e ur-ichlich. Si è difatti affermata in letteratura la tendenza a distinguere i due piani, attribuendo alla nozione di Vor-Ich il ruolo di origine ultima della genesi (letzte Ursprung der Genesis) riservando invece all’Ur-Ich quello di origine ultima della validità (letzte Ursprung der Geltung), ossia di fondazione ultima dell’evidenza (cfr. lee nam-in 1993, 212-218, nonché, sulla sua scorta, tagucHi 2006, 116-122). Questa distinzione, a dire il vero piuttosto arguta, conduce Taguchi alla conclusione secondo cui l’Ur-Ich sarebbe in primo luogo l’io fenomenologizzante che opera l’epochē, colui/colei che scoprendosi fonte originaria di evidenza apodittica può legittimamente riesumare l’intera genesi trascendentale sino al suo primordio vor-ichlich. In tal senso, l’Ur-Ich presupporrebbe il Vor-Ich sotto il profilo della genesi costitutiva (l’ordinamento dell’essere oggettivo), mentre quest’ultimo presupporrebbe il primo per quanto concerne la conoscibilità di questa stessa genesi (l’ordinamento soggettivo della scoperta). Ora, sebbene la distinzione tra i due ordinamenti giochi indubbiamente un ruolo essenziale all’interno della fenomenologia trascendentale, mi pare nondimeno che la differenza a partire da cui la si argomenta, quella cioè tra Ur-Ich e Vor-Ich, sia invece artatamente delineata. In primo luogo, anche volendo prescindere dalla scarsa propensione di Husserl al rigore terminologico nella produzione manoscritta, sembra altamente improbabile riuscire a riconnettere tutte le occorrenze in cui si fa riferimento all’originarietà dell’io (qui nel senso di ur-ichlich, ursprünglich, urtümlich, urmodal, etc.) al punto di vista dell’io fenomenologizzante. Difatti, esse fanno perlopiù riferimento a una certa operatività che ha a che fare con la dimensione strutturale del presente vivente, la quale è prerogativa di ogni esperienza possibile, tanto di quella fenomenologica quanto di quella mondana, nonché, a maggior ragione, della dimensione costitutiva originaria (questa volta nel senso della genesi: vor-ichlich) che tutte quante presuppongono. In secondo luogo, è il caso di sottolineare come la separazione, tracciata da Taguchi, tra la vicinanza (Nähe) a sé dell’Ur-Ich fenomenologizzante e la distanza (Ferne) del passato genetico-trascendentale del Vor-Ich sia tale solo assumendo una concezione stratigrafica della genesi, per cui essi rappresenterebbero astrattamente il grado più prossimo e quello più remoto dell’analisi decostruttiva. Se invece si procede a ricostruire in concreto la vita intenzionale, concependo ricorsivamente il rapporto tra passività e attività e tenendo in giusto conto il rapporto di implicitazione, retroazione e cooperazione tra le varie prestazioni costitutive (supra § 3.2.3), ecco che la separazione tra Vor-Ich e Ur-Ich si rimargina: la lontananza del passato genetico è implicita (e quindi prossima) nell’esperienza attuale (anche in quella fenomenologica). Come vedremo, allora, ciò con cui in effetti abbiamo a che fare è un medesimo fenomeno di prospettivizzazione della vita intenzionale che a partire da una latenza di sfondo (vorichlich) realizza un vissuto attuale (ichlich) mediante un’operazione di accentramento (urichlich).
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il tentativo di radicare la ragion d’essere dell’io proprio all’interno dell’Urprozess. Così facendo però, e questo è il punto delicato della questione, non si sconfessa la passività operativa del processo – esso accade infatti senza la benché minima partecipazione dell’io – quanto più si rileva al suo interno una certa funzione proto-egoica preposta all’attività dell’io propriamente detta129. È dunque tale egoicità pre-egologica che la tarda riflessione husserliana tenterà di integrare nel modello costitutivo delineato in precedenza, al fine di superare l’astrazione veicolata dalla prima riduzione alla sfera della sensibilità originaria, la quale finiva col decretare la natura sopravveniente dell’io rispetto al processo originario. Cerchiamo dunque di delineare quest’ulteriore movimento di pensiero che mira alla concretizzazione del modello formale del processo. La decostruzione del polo egologico dell’intenzionalità d’atto (l’io puro) e la scoperta di un’istanza proto-egoica conseguono da una preliminare de-sostanzializzazione dell’io: “esso non è dunque un ‘essente’ ma la controparte per ogni essente, non un oggetto ma la proto-istanza [Urstand] per ogni oggettività”. L’insostanzialità dell’io è avvalorata da una serie di attributi che ne palesano lo statuto peculiare: l’io è infatti sovratemporale (überzeitlich), anonimo (namenlos) e meramente fungente (fungierend). Da ciò si evince che “non dovrebbe essere chiamato propriamente io, e in generale non chiamato [affatto], poiché in tal caso sarebbe già divenuto oggettuale” (XXXIII 277s.)130. Nondimeno, l’io dispone 129 bloecHl (2006) ha parlato opportunamente di una forma di “Egoity without Ego” presente all’interno della passività originaria. Si è anche mostrato, del resto, come l’Urassoziation organizzi l’estraneità del materiale proto-iletico proprio in funzione dell’io, che pertanto risulta già in certo modo “alluso” nel processo (supra § 3.1.1). Naturalmente la questione si gioca qui su sfumature di significato piuttosto sottili e in certo senso equivoche attribuibili alla nozione di io originario. La sua natura prospettica (insostanziale) o, per meglio dire, la natura strutturalmente prospettica del movimento che dall’Urich conduce all’istituzione dell’io propriamente detto consentirà di rimarginare la tensione che vige in apparenza tra gli scritti husserliani. 130 Sovratemporalità e insostanzialità dell’io sono da pensare assieme. Questo perché, come visto, temporalizzazione e oggettivazione/individualizzazione vanno di pari passo: “‘Essente’ in quanto essente individuale, legato a posizione temporale e individualizzato tramite essa. L’io così non ‘essente’” (XXXIII 278n. 1). Ciò comunque non esclude che l’io possa essere oggettivato o, per meglio dire, soggettivato nachträglich in un
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di una sua caratteristica identità “in quanto centro funzionale identico, in quanto operante per tutte queste prestazioni”, siano esse affezioni passive o vere e proprie attività spontanee (XXXIII 278). L’identità insostanziale dell’io puro è dunque una mera centralità, l’identità che attiene a un “centro di relazione” verso cui converge e a partire da cui irradia la molteplicità dei vissuti (a seconda cioè che siano affezioni o azioni). Difatti, pur essendo inseparabile dalla corrente dei vissuti, l’io non decorre con essi ma sussiste come “un idealmente identico che è ‘localizzato’ sempre di nuovo secondo i suoi atti, i suoi stati, e tuttavia non è effettivamente temporale” (XXXIII 280). La sovratemporalità dell’io (Überzeitlichkeit), che potrebbe in prima battuta richiamare l’onnitemporalità degli oggetti ideali (Allzeitlichkeit), non s’identifica tuttavia con essa; l’idealità del centro egologico non è infatti l’onnivalidità incondizionata propria degli oggetti matematici, quanto più una potenzialità tipicamente soggettiva che si realizza in ciascun vissuto e che pertanto mantiene un rapporto assai stretto col processo di temporalizzazione – in particolare con la sua dimensione noetica. In tal senso, la sovratemporalità dell’io deve essere piuttosto intesa come un primo indizio in grado di rimandare all’intemporalità (Unzeitlichkeit) dell’Urzeitigung. L’essere dell’io è infatti essere-soggetto, e in quanto tale di vivere in un vivere originario che si libra oltre ogni [essere] temporale, un vivere che però entra subito nella temporalità e procura in modo secondario all’io stesso, in quanto polo-soggetto dei suoi vissuti nel tempo, una posizione e una durata nel tempo. (XXXIII 287)
Come precisa Husserl, l’estensione dell’io non è neppure equiparabile a quella del versante iletico-materiale del vissuto, alla durata temporale (Dauer) caratteristica di un contenuto di coscienza. L’io dispone infatti di un’“unità che non è contenutistica e dunque estensiva”, bensì “un’estensione quasi-temporale” (ibid). Già a un primo sguardo, dunque, il fungere dell’Urich non sembra così diverso rispetto a quello del vivere originario (Erleben) – inteso come atto di riflessione (XXXIII 286s.) e dunque anche temporalizzato in atti di presentificazione rimemorativa (XV 355s.). Del resto, la fenomenologia inizia appurando per via riflessiva la struttura d’atto polarizzata ego-cogitocogitatum salvo poi retrocedere e indagare la genesi di tale struttura.
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struttura formale della vita intenzionale – che dona unità a ciò che gli è estraneo, essendo di per sé privo di contenuto (XXXIII 287s.). L’identità sovratemporale dell’io, la sua “estensione ideale”131 che s’istanzia volta per volta nell’attualità dei vissuti e quivi acquisisce una localizzazione quasi-temporale, sembra allora poter essere compresa in termini prospettici, ricollegandosi direttamente all’interpretazione dell’Urzeitigung come Urperspektivierung avanzata in precedenza e arricchita in questo stesso capitolo (supra §§ 2.3.3, 3.1.2, 3.1.3). Per sostanziare questa ipotesi è però necessario richiamare alcuni brani successivi al 1918, in cui la questione del rapporto tra Urich e lebendige Gegenwart è articolata con più precisione. In tal modo si apprezzerà come il modello husserliano non sia incorso in una revisione, ma anzi abbia intrapreso una quanto mai auspicata integrazione tra Ichfrage e Zeitfrage132. Nei primi anni ’20, lo statuto dell’io è precisato conseguentemente rispetto a quanto emerso nei Bernauer Mss. Se ne ribadisce la vuotezza contenutistica, l’innominabilità (pena l’inevitabile oggettivazione), l’identità formale e insostanziale per via del suo consistere non in un sostrato/reggitore (Substrat/Träger) dei vissuti ma in un modo originario di vivere e operare al loro interno (XIV 23, 26-30; XXXV 91-93, 389-391). È proprio riguardo al fungere dell’io originario che Husserl compie ora un passo in avanti: “in quanto esso è prima della funzione polarmente opposta [vor der polar entgegengesetzten Funktion]” (XIV 29), precede cioè la struttura intenzionale d’atto tra un polo oggettuale e uno egologico propriamente detto (essendo quest’ultimo, infatti, “un che di in sé secondo”), ecco che l’operatività originaria dell’“io” consiste in una forma di centratura (Zentrierung) o di centralizzazione (Zentralisierung) della vita intenzionale (XIV 28; XXXV 92). Per capire in cosa consiste questa centratura dobbiamo compiere lo sforzo di assimilare l’operatività dell’Urich al fenomeno di prospettivizzazione originaria. Come appurato, grazie al duplice orientamento noematico-trasversale e noetico-longitudinale, l’Urprozess sintetizza l’emersione dei vissuti a partire dal vivere coscienziale. La vita intenzionale orchestra una temporalizzazio131 Ms. E III 2, p. 17a, citato in zippel (2007a, 98, cfr. 107n. 62). 132 Integrazione che Idee I non aveva saputo offrire per via della censura patita dall’“ultimo e vero assoluto” temporale (supra § 1.1).
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ne immanente per cui una successione di vissuti si attualizza, acquisendo cioè una salienza in primo piano (Vordergrund) rispetto a uno sfondo di latenza (Hintergrund), interpretabile come una ritmica (in)temporale inscenata dal costante riferimento a sé della coscienza (supra § 2.3.3). Ogni vissuto è cioè l’“unità di una sintesi di sfondo” (XXXIX 7n. 2). Ciò detto, occorre chiedersi come il fungere dell’io s’inquadri in questa dinamica. A ben vedere, il fungere dell’Urich coincide con l’emersione del vissuto, nella misura in cui ciò che la centratura opera non è altro che la generazione al suo interno di un determinato punto di vista. Husserl perviene a questa conclusione dibattendo la nozione leibniziana di monade; essa rappresenta per la fenomenologia il tentativo di pensare la soggettività trascendentale in tutta la sua vitale concretezza133. All’interno di una concezione monadologica, la questione dell’Urich, o per meglio dire del sé, si pone in termini di dynamis, ossia di mera potenzialità, visto che dapprincipio “l’io non è realmente a disposizione [reell vorhanden] quale polo centrale a cui tutto sarebbe riferito”. Piuttosto, quello egologico è un punto di vista che si genera in concomitanza al costituirsi del vissuto intenzionale e che pertanto coincide con l’attualizzarsi della vita autocosciente134. È infatti certo che “autocoscienza e vissuto delimitato [abgegrenztes]135 vanno assieme necessariamente”, giacché “solo dove [vi] vissuti emersi, allora anche l’io è ‘là’, pre-dato, non solo vivente ma io vissuto [erlebtes Ich]” (XIV 53). La vita intenzionale è fatta in modo che “l’emersione dei propri vissuti e la centratura dell’io necessariamente si coappartengono” (XIV 49n. 2). Benché, riflettendo, l’io si trovi contrapposto a una molteplicità di vissuti, di fatto esso ne è però inseparabile in quanto loro centro 133 Come non si è mancato di osservare (altobrando 2010, § 13) la monade è almeno in prima battuta un’unità ego-centrica di vissuti; ciò significa che sotto il profilo mereologico corrisponde a un intero di compenetrazione, per cui Ich ed Erlebnisse sussistono in un rapporto di fondazione reciproca. 134 La nostra interpretazione si basa sul fatto che l’io propriamente detto sia per così dire l’emanazione costitutiva di un sé originario, di ciò che lungo il nostro percorso abbiamo additato con perifrasi quali coscienza interna del tempo, autocoscienza preriflessiva, etc. Questa ipotesi di lettura è corroborata dal passo posto a mo’ di esergo della presente sezione nonché dalle numerose ricorrenze in queste pagine dell’innere Bewußtsein (XIV 44-51, 54). 135 Delimitato cioè emerso come unità a sé stante rispetto al proprio sfondo e agli altri vissuti.
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esecutore e/o ricettore, come referente possibile di ogni potenzialità di sfondo. L’io concretamente inteso è il sé che si estrinseca (sich ausleben) nel flusso dei vissuti e che fa tutt’uno con esso (XIV 48s.). Il fluire coscienziale altro non è che il medium dell’io (XIV 45), l’ambiente immanente (immanente Umwelt, XIV 47) in cui ogni prestazione costitutiva – attiva o passiva – si realizza136. Che il senso della riflessione husserliana non consista qui in una revisione/correzione del modello costitutivo originario in chiave egologica, quanto più nell’integrazione/concretizzazione della Lebenspulse mediante la presa in carico dell’operatività dell’io lo si evince in maniera eclatante da quanto segue. Nel giro di una pagina e mezzo Husserl compie una duplice distinzione analitica che sembra confermare la nostra ipotesi interpretativa. Da una parte, si discerne “un doppio concetto della vita dell’io”, ossia 1) la vita della “coscienza universale dell’io nel suo flusso di vissuti” (il “medium intenzionale”) e “2) il fare molteplice e lo stesso risultare affètto, la vita della partecipazione dell’io, dell’entrare-in-gioco in quanto io” (XIV 45s.). Dall’altra, è ribadito il discrimine tra “1) la continuità della coscienza interna”, la cui forma “è originariamente temporalizzante per la costituzione del tempo immanente”, e “2) la continuità dei vissuti, che sono internamente coscienti, in quanto continuità della vita di coscienza che trascorre attraverso la forma immanente del tempo” (XIV 46)137. La nostra ipotesi di lettura invita dunque a sovrapporre le due distinzioni nel tentativo di integrare l’aspetto della coscienza temporale con quello della vita dell’io. Come anticipato, il viatico per una simile integrazione è offerto dalla trasvalutazione fenomenologica della nozione di
136 Difatti, “l’Io è possibile solo come soggetto di un ‘ambiente’” che gli si contrappone in quanto pre-costituito nell’Untergrund iletico-associativo e sul quale può esercitare la propria attività (Ms. E III 2, pp. 22b-23a, citato in zippel 2007a, 108) 137 Naturalmente, come tutte le distinzioni analitiche, anche le due appena riportate sono valide solo in astratto. Come ampiamente argomentato, se considerati in concreto, coscienza interna del tempo e flusso dei vissuti non rappresentano due livelli separati ma due aspetti costitutivi del medesimo fenomeno di prospettivizzazione originaria. Allo stesso modo, i due momenti della vita dell’io possono essere intesi come uno stesso movimento di accentramento soggettivo, come l’acquisizione di un certo punto di vista interno all’esperienza.
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monade138. Quest’ultima appare in grado di orchestrare i differenti aspetti della vita intenzionale all’interno di un resoconto concreto della soggettività trascendentale. Tra di essi sussiste infatti una essenziale interrelazionalità o coappartenenza, non è un intero di parti, bensì un’unità assoluta. Una certa potenzialità unisce la coscienza “priva di io”, per cui l’io […] dorme, con la coscienza desta, quella di un io desto. […] Chiamiamo vita monadica l’unità della vita universale nel vivere, con partecipazione o senza partecipazione dell’io, in ogni caso con una partecipazione possibile, e la prendiamo in piena concrezione, che assume il dato di fatto essenziale dell’io di questa vita nella sua coappartenenza, dunque l’io in relazione al suo vivere e il vivere in relazione all’io, entrambi presi in uno, in questo caso parliamo di monade. (XIV 46)139
È dunque il caso di chiedersi in cosa consista l’apporto euristico della nozione di monade e in particolare che tipo di concretezza essa veicoli tale da promuovere l’integrazione dei diversi aspetti della vita intenzionale. Perché l’operazione husserliana abbia senso occorre che la concretezza ricercata non sia quella di un fatto empirico, bensì quella di un fatto trascendentale in cui le differenti analisi possano pretendere di essere giustificate e coerentizzate armonicamente. Assecondando la lettura dell’Urphänomen come prospettivizzazione originaria dell’orizzonte manifestativo, è possibile concepire la monade fenomenologica al modo di una potenzialità prospettica. La vita intenzionale può dirsi monadica poiché ogni esperienza risulta immancabilmente orientata secondo una certa prospettiva che si apre sul mondo-ambiente. Se, secondo la sua funzione originaria, l’“‘Io’ designa una peculiare centratura della mia vita, della mia coscienza” (XIV 312), ecco allora che 138 La cifra essenziale della trasvalutazione del concetto leibniziano consta nel fatto che la monade fenomenologica non è un’unità in sé conchiusa bensì dotata di finestre (XIII 470ss.; XIV 295), aspetto questo che risulta essenziale per lo sviluppo della questione dell’Einfühlung intermonadica. 139 Il testo prosegue (ibid. n. 2) palesando la necessità di integrare all’interno della concezione monadologica il flusso iletico e le facoltà abituali dell’io (che le abitualità, in quanto possessi dell’io, rappresentino un astratto da concretizzare prendendo in considerazione il loro rapporto con la vita intenzionale è asserito in XIV 275). Infine, Husserl rideclina in chiave monadologica i due aspetti della proto-temporalizzazione (“monade nella sua forma ultima, assoluta o originaria”) e della temporalità immanente (“monade in quanto unità del ‘senso interno’”) (XIV 46s.).
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ogni vissuto sarà orientato secondo un certo focus, ciò in cui a ben vedere consiste l’ego compiutamente decostruito (XIV 276; zaHavi 1999, 146-148). La struttura intenzionale d’atto, concretamente intesa, non è dunque una connessione astratta tra due poli sostanziali (soggettivo e oggettivo), bensì l’apertura focale, l’estrinsecazione di un potenziale monadico attraverso l’instaurazione di un punto di vista vivente sul mondo140. Risulta così apprezzabile la concretezza di una monade ognóra situata, radicata prospetticamente nel proprio ambiente esperienziale. Un simile punto di vista è allora quello di un orizzonte manifestativo in cui qualunque fenomeno risulta indicizzato rispetto all’io, ossia rispetto a una coscienza centralizzatasi come fulcro prospettico dell’apparire. Il movimento di accentramento dell’Urich non è altro che il focalizzarsi della vita intenzionale, l’estroflessione della coscienza che trascende la propria immanenza in una sorta di punto zero di orientamento (Nullpunkt)141 e che tuttavia coincide col massimo 140 Riprendo qui uno spunto di tagucHi (2006, 175s., 187s., passim) che ben si sposa con la ricostruzione dell’Urprozess offerta dal presente lavoro, secondo cui la funzione originaria dell’io sarebbe istitutiva di un lebendiges Gesichtspunktes. Da qui scaturisce, secondo l’A., la strutturale asimmetria che contraddistingue l’esperienza dell’alterità (oggettuale ma anche intermonadica) alla stregua di un deficit evidenziale rispetto all’apodittica prossimità (Nähe) che invece caratterizza la seità (Selbigkeit) del soggetto. 141 La nozione di Nullpunkt è un ulteriore indizio di come le riflessioni condotte nei primi anni ’20 non sconfessino ma anzi si ricolleghino al modello formale delineato nei Bernauer Mss. Qui la nozione trovava già largo impiego per descrivere alternativamente o il terminus ad quem del processo originario, in cui lo svuotamento formale (noetico-longitudinale) della dinamica coincide con la saturazione della pienezza intuitiva del riempimento materiale (noematico-trasversale) (XXXIII 39, 42, 63, 66, 148n., 240) oppure con il suo terminus a quo, in cui cioè lo svuotamento materiale (noematico-trasversale) collima con l’autoriempimento formale del processo (noetico-longitudinale) (XXXIII 67, 69, 71, 212, 227). Al fine di giustificare l’ambivalenza del termine, conviene interpretarlo in generale come un “punto di passaggio”, come “punto zero della mediatezza” dell’intreccio tra tendenze ritenzionali e protensionali (XXXIII 229s.), ovvero, come “punto zero delle coordinate temporali” (XXXIII 235). Nondimeno, negli anni successivi sembra prevalere l’impiego atto a descrivere il terminus ad quem, ossia la realizzazione del processo mediante la presentazione effettiva dell’inteso, in cui anche l’io trova piena attualizzazione; il terminus a quo, come abbiamo visto (supra § 3.2.1) sarà viceversa additato facendo riferimento allo stato di vuotezza (Leerheit) della coscienza. Sebbene en passant, visto che non è possibile approfondire la questione, si noti infine
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grado di prossimità a sé (der Nächste) del soggetto (XIV 216). A ben vedere, l’estrinsecazione della monade richiama espressamente i cicli di pulsazione vitale della Lebenspulse. Per comprendere a pieno questo aspetto e portare a compimento la disamina, recuperiamo alcuni Mss. degli anni ’30. Sotto il profilo metodologico, Husserl manifesta l’esigenza di una riduzione radicalizzata rispetto a quella normalmente in essere. Se, poniamo, mediante la riduzione condotta in Idee I si ottiene il flusso di coscienza “quale formazione riduttiva trascendentale del mio essere psichico complessivo e della mia vita”, nonché, al suo interno, l’io puro trascendentalmente inteso quale centro polifunzionale degli atti; occorre nondimeno reiterare il gesto riduttivo, esercitando una riduzione suppletiva di questa stessa vita all’interno della riduzione stessa (XXXIV 299s., 384; Mat VIII 342), e ciò al fine di disvelare la struttura sottesa al flusso e alla vita dell’io propriamente detto142. Così facendo si perfeziona il contesto metodico in grado di riaffermare l’ipotesi dell’Urich quale dimensione proto-egoica e si rinnova la questione del suo rapporto con lo sfondo primario (Urgrund) della vita onnitemporalizzante (allzeitigend) (XXXIV 300).
come la Zentrierung e l’istituzione di un Nullpunkt di orientazione siano ciò che permette di concretizzare ulteriormente l’analisi mediante la presa in considerazione del Leib: “il mio corpo vivo è oggetto-zero dell’orientazione, è oggetto centrale del mio ambiente” (XIV 483; cfr. 78, 85n.; XXXIII 300; Mat VIII 112). L’unità psico-fisica del Leib realizza cioè la sintesi di coincidenza tra l’io in quanto centro intenzionale di ogni manifestazione e il Körper in quanto centro del riferimento spaziale. 142 Si noti come il superamento (Überwindung) dell’ingenuità veicolata dalla riduzione praticata nelle Idee – un’ingenuità quindi non più naturale, bensì trascendentale (VIII 170 [218]) – mediante la riduzione radicale al vivere primordiale e all’io-sono originario (XV 585) non sia nulla di diverso, quanto a profondità e radicalità riduttiva, da quanto operato nei Bernauer Mss. e nelle Analysen, al pari dunque della summenzionata riduzione alla sensibilità originaria. Ciò che pertanto cambia con “la riduzione radicale al presente vivente fluente” degli anni ’30 (XXXIV 185) non è la portata dell’interrogazione genetica bensì la progressiva rimozione del suo tenore astrattivo – constatiamo cioè una maggiore consapevolezza critico-metodologica – mediante la presa in carico e l’integrazione nell’analisi di elementi sinora esplorati disgiuntamente rispetto al processo originario (Io, Leib, intersoggettività, storia, etc.).
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Vediamo dunque come molti dei tratti emersi negli anni precedenti trovino conferma nella produzione dei primi anni ’30. In primis, l’io dev’essere annoverato nell’economia di esercizio dell’Urphänomen in quanto anonimo, non quindi come qualcosa di palesemente contrapposto alla vita intenzionale, bensì come ciò a cui anzi si contrappone – manifestandosi – ogni possibile datità. L’anonimia è parte integrante di ogni forma e grado di soggettivazione poiché si riproduce iterativamente sul piano riflessivo in virtù dello scindersi (Sich-Spalten) della coscienza in un polo egologico (tematico) e in un residuo egoico meramente operativo (tematizzante) (Mat VIII 2; XXXIV 298)143. Soprattutto, è ribadita l’idea di una pre-costituzione passiva dell’attività egologica: l’attività presuppone infatti l’“associazione […] nella forma del sottofondo ultimamente iletico” e questo perché ha sempre a che fare con una pre-datità formatasi pre-egologicamente (vorichlich) nello strato inferiore del fluire proto-associativo, che dunque precede144 l’essere-rivolto dell’io (Mat VIII 53, 59, 122). Proprio nell’Urströmen – una dimensione sprovvista della benché minima partecipazione egologica ma anzi funzionale alla sua attivazione e a quella correlativa dei vissuti (XXXIV 179-181 [46-48]) – si compie allora l’autocostituzione dell’ego al modo 143 Ogni intentio tematizzante presuppone la latenza operativa di uno “sfondo di presente trascendentale” in ragione del quale l’io “ha già la costante capacità di diventare consapevole dell’inconsapevole” (XXXIV 165 [28s.]); ciò a patto di riprodurre iterativamente un cono d’ombra d’inconsapevolezza operativa, in quanto dimensione possibilitante l’autotematizzazione riflessiva. Si genera così un diverso tipo di regresso (“verso l’alto”), a cui Husserl dà il nome caratteristico di auto-affezione (Mat VIII 185, 193n., 365; cfr. kortooms 2002, 282-284), tutto sommato innocuo rispetto a quello di ordine fondativo della genesi costitutiva (“verso il basso”) (supra § 2.3.3). Al riguardo, si ricordi quanto le Analysen (supra § 3.1.3) avevano concluso circa la natura prospettica dell’affezione, consentendo di reinquadrarla all’interno del fenomeno di prospettivizzazione originaria. Non v’è dubbio che l’anonimia dell’Urich, attestandosi iterativamente per via dell’autoaffezione riflessiva, risulti un fenomeno parimenti prospettico: ogni inflessione dello sguardo prevede infatti lo spiccarsi di quell’istanza operativa che sola ingenera lo scarto prospettico necessario all’istituzione del punto di vista tematico, decretando al contempo, per così dire, la perenne “contumacia” dell’io. 144 È naturalmente una precedenza logica e non temporale. Temporalmente, infatti, il costituirsi della forza affettiva della predatità e il ridestamento dell’io avvengono al contempo (zugleich).
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di una vera e propria autotemporalizzazione (Selbstzeitigung) (Mat VIII 117, 119, 145). In buona sostanza e a dispetto di quanto la nozione di Urich potrebbe far pensare, l’io non è un primum incostituito ma sosttostà (unterliegt) anch’esso alla costituzione dell’essere (Mat VIII 187) e in particolare all’“intenzionalità passiva” in cui si costituisce come centro della vita intenzionale (Mat VIII 112). L’io è infatti frutto non di un’identificazione attiva bensì di una sintesi passiva di coincidenza in unità (Einheitsdeckung) (Mat VIII 190)145. A ben vedere, ciò che l’Urich addìta è un movimento costitutivo originario che prelude all’io, così come la Urhyle prelude alla salienza carica affettivamente del materiale iletico. L’Urich è l’antefatto dell’io, il sé ineludibile eppure inafferrabile della vita intenzionale; in quanto puramente fungente, e dunque non tematizzabile, esso è il presupposto operativo di ogni attività intenzionale. In tal senso, nel suo fungere primigenio, l’ego è così denominato soltanto per via di un’equivocazione (Äquivokation) che, nondimeno, risulta assolutamente necessaria in quanto dettata dall’esigenza di una sua delucidazione riflessiva e quindi di una nominalizzazione retrospettiva rispetto al corso ideale della genesi costitutiva (VI 188 [210]; XV 586s.)146. In un certo senso, “io così precedo me 145 Per altri passi che confermano la tesi della pre-costituzione dell’io a partire dal processo originario cfr. XV 355, 540, 598; XXXIX 432s., 451ss., 470ss; XLII 121. Come si evince dalla datazione del complesso dei testi citati, essi abbracciano tutto l’arco temporale di redazione dei manoscritti precedenti al progetto della Crisi (1929-34). È importante sottolineare questo aspetto contro l’ipotesi di una revisione in chiave egologica del modello costitutivo originario, per lo più argomentata sulla base di alcune ambigue aggiunte (Zusätze) al testo Nr. 10 di Hua XXXIV, risalenti al 1932. L’ambiguità di tali aggiunte risiede nel fatto che qui Husserl ascrive la temporalizzazione in senso proprio (eigentlich) addirittura all’io fenomenologizzante, ossia all’attività fenomenologica che retroagisce appercettivamente sulla dimensione costitutiva originaria. Data la natura essenzialmente metodica del problema rimando al § 4.4 (infra) per una sua valutazione. 146 La natura equivoca dell’io originario è del resto evidente se contestualizzata all’interno della questione dell’intersoggettività monadica. L’Urich non è “io” più di quanto non sia “altri”, inerisce a una dimensione indeclinabile sotto il profilo dei pronomi personali e anteposta alla monadizzazione della pluralità di soggetti in essa implicati (Mat VIII 13s.; XV 666). Sulla Monadisierung quale processo di autoestraniazione (Selbstentfremdung) dell’Urich, concepita da Husserl in analogia alla modificazione intenzionale del presente vivente, rimando a tagucHi (2006, cap. 6, § 5); secondo l’A.
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stesso e al contempo tutto ciò che è non-io” (XIV 432), mi evinco come divenuto, generato a partire da uno sfondo d’indistinzione costitutiva logicamente prioritario rispetto all’emergere di una differenza specifica tra ciò che sono e che non sono, all’istituzione di un punto di vista per cui qualcosa o qualcuno mi si manifesta come altro da me. Siamo ricondotti al tenore essenzialmente prospettico dell’Urphänomen, il quale orchestra non a caso l’emersione correlativa – la correlativizzazione – noetico-noematica di io e nonio. Husserl è cristallino al riguardo: ogni vissuto consta di una bilateralità strutturata secondo un lato egologico (Ich-Seite) e un lato iletico, estraneo all’io (Seite des Ichfremde). E tuttavia, tale struttura altro non è che il portato di un medesimo processo sintetico in cui l’emergenza dell’io (ichliche Abgehobenheit) diverge da quella iletico-materiale (sachliche Abgehobenheit) (Mat VIII 183s.). Diverge eppur si correla: “l’emergenza dell’io ha [il] suo presupposto, [il] suo correlato in quella oggettiva; la non emergenza egologica (l’‘inconscio’-per-me-qua) nella non emergenza materiale (il confondersi contenutistico)” (Mat VIII 191). L’Urich – in quanto accentramento originario della vita intenzionale – e l’Urzeitigung – in quanto forma della proto-materialità (Ur-Sachlichkeit) – rappresentano le fonti primarie di qualsiasi “costituzione di essenti di diverso grado, di mondi, di tempi” (Mat VIII 199). Considerati secondo il loro statuto originario – in termini cioè di pura dynamis costitutiva – “l’io non è qualcosa per sé e l’estraneo un che di separato dall’io”, dal momento che “tra i due non v’è [ancora] spazio per un rivolgersi” (Mat VIII 351s.). Ciò che ancora manca alla dynamis originaria è per l’appunto la realizzazione di uno stato di salienza tematica in grado di stagliarsi sullo sfondo di latenza operativa. Ecco perché, a rigore di termini, “il discorso sull’io è determinato ultimativamente dalla ‘polarizzazione’ dell’atto” (Mat VIII 352). Prima della Polarisierung non v’è tematizzazione possibile giacché vige un regime di vita (pre)intenzionale in cui il mero apparire sussiste in un decorso temporale di assoluta immanenza. È “Husserl ha davanti agli occhi questa fondamentalità della ‘prospetticità’ quando afferma che la reciproca implicazione dell’io e degli altri è d’altra parte implicita ‘in me’” (p. 176).
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dunque merito della dialettica emergenziale della Lebenspulse far sì che la coscienza si estrinsechi nella posizione di una trascendenza noematica che è al contempo l’autoposizione noetica di un focus prospettico, del punto di vista dell’io come centro della vita intenzionale. I C-Mss. hanno il merito di precisare il fenomeno dell’Ichzentrierung in termini squisitamente temporali, portando a compimento l’integrazione noetica dell’aspetto egocentrico della costituzione147 con la dinamica temporale del presente vivente in una sorta di “vuota struttura formale monadico-egologica” (Mat VIII 436). Per comprendere come l’integrazione abbia luogo, è sufficiente rilevare che la centratura dell’Urich di fatto coincide con l’emersione del presente a partire dall’intreccio ritenzionaleprotensionale. Mediante una domanda retorica, Husserl s’interroga se per caso “il presente pienamente concreto” sia “ di diverso rispetto all’io stesso, che è identico nel presente concreto ed è mentre si muta nell’esser stato concretamente presente” (Mat VIII 54). La risposta risulta a tutti gli effetti negativa visto che proprio l’Ichzentrierung è il fenomeno grazie a cui il presente – e a partire da esso anche il passato e il futuro – acquistano un senso possibile (Mat VIII 57). La centratura è il modo in cui, sotto il profilo noetico, il vivere coscienziale trascende la propria potenzialità di sfondo e si attualizza nella realtà effettiva di un vissuto. Si rammenti come il terminus ad quem del processo originario decretasse la completa estroflessione della coscienza mediante la soppressione della tensione noematico-trasversale e lo svuotamento noetico-longitudinale (supra § 2.3.2). Comprendiamo adesso che tale stato di estroflessione della coscienza, il continuo autotrascendersi (sich Selbsttranszendieren) del fluire coscienziale (Mat VIII 130), altro non è che la compiuta istituzione del punto di vista sovratemporale dell’io interno al flusso dei vissuti, ossia di un focus prospettico dischiuso in seno al corso dell’esperienza. Tale focus, agendo al modo di un centro di orientamento temporale, riqualifica le fasi di decorso in termini di passato e futuro, riferendole cioè a sé stesso in quanto ora presente148. In quanto fenomeno emergenziale, l’attualità del 147 zaHavi (1999, cap. 8) parla opportunamente di egocentricity. 148 Concretizzando ulteriormente la disamina, tenendo cioè conto anche del corpo vivo quale centro di orientamento spaziale, risulta apprezzabile la
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presente coincide con la realtà effettiva dell’io: “ma ora e solo ora io sono l’io ‘effettivo’” (Mat VIII 18). È dunque l’accentramento della vita intenzionale nell’io – co-determinato dall’emersione del rilievo affettivo che propizia l’incontro prospettico (supra § 3.1.3) – a qualificare come presente una porzione del flusso che altrimenti, di per sé, equivarrebbe a una successione indifferenziata di fasi di decorso. L’apertura di una prospettiva egocentrica nel medium del flusso temporale realizza l’accentuazione qualitativa del tempo, secondo cui passato, presente e futuro si differenziano acquisendo le prerogative che siamo soliti accordare loro. Senza l’accentramento della vita intenzionale, in particolare, il presente non acquisirebbe la valenza che ha per noi, ossia quella di “realtà effettiva assoluta” perché “originariamente produttiva [urzeugende]” (XV 348). Che cosa si produce, che cosa si attesta – secondo l’etimo ulteriore del verbo zeugen – nella realtà effettiva del presente? A ben vedere, due conseguenze tra loro profondamente intrecciate. La prima è l’appropriazione soggettiva del tempo, nonché – ça va sans dire – di quanto in esso costituito. Nel presente l’io è il “‘proprietario’ dell’acquisito” (ibid.), dal momento che il mio ha la sua meità [Meinheit] in questa centratura dell’io mediante la coincidenza che si attualizza costantemente in ogni presentificazione subentrante e si mantiene e si conserva attraverso ogni sedimentazione. Dico anche: attualizzazione mediante il sopraggiungere della coincidenza originale con il costante io proto-originale [uroriginalen] nel presente proto-originale, il costante terreno sorgivo [Quellboden]. (XV 351)
Soggetto è chi per mezzo della centratura della propria vita intenzionale, ossia dell’istituzione di una prospettiva egocentrata, esperisce il possesso di ciò che è ora vivente (Mat VIII 35, 374) e se ne appropria in quanto riferibile a sé stesso, come direttamente riconducibile al proprio punto di vista149. In ragione della sintesi natura eminentemente deittica dell’io, ossia come “qui e ora” onnipresente. 149 Ricordiamo che la dinamica dell’Urprozess all’apice del proprio terminus ad quem coincide con uno stato di estroflessione della coscienza e dunque con la massima tensione noetico-longitudinale volta alla riappropriazione di sé (terminus a quo) (supra §§ 2.2.3, 2.3.3). La riappropriazione si espleta allora nella sedimentazione/implicitazione del senso costituito (supra § 3.2.1), sfruttando cioè la modificazione intenzionale operata dalla ritenzio-
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di coincidenza150 degli stati, delle azioni e delle abitualità dell’io, quest’ultimo reca in sé la vita passata del soggetto (l’intera temporalità immanente) al modo di un’eredità implicita – “in quanto precipitato interconnesso” e ogniqualvolta esplicabile (proiettabile) sul proprio orizzonte di futuro (Mat VIII 17s., 34). Vediamo così come la questione dell’io risulti intercalata nel modello ricorsivo della genesi supra (§ 3.2.3) delineato. L’io desto opera infatti sulla base di facoltà abituali acquisite; la sua attualità così come quella del mondo implica cioè l’interezza del proprio passato al modo di una continuità che però è anche una mediazione intenzionale (intentionaler Kontinuität und Vermittlung). In tal modo, schematicamente, “attraverso la passività associativa si compie l’attualizzazione dell’acquisito”, ovvero: “la vita dell’io desto in quanto appercipiente il nuovo secondo il vecchio, […] in un certo senso assimilandolo” (XV 148s.). La seconda conseguenza desumibile dal prospettivizzarsi della vita intenzionale nell’attualità di un presente egocentrato è l’attestazione/produzione di un nucleo esperienziale di evidenza apodittica (Mat VIII 19)151. Quest’evidenza – lungi dal rappresentare un sapere incontrovertibile: un tipo di evidenza epistemica veicolata da un giudizio o da uno schema di derivazione logica – sta piuttosto a significare la condizione preposta a ogni sapere, alla stessa possibilità di giudicare. La vita egocentrata nel presente vivente incarna il terreno assolutamente originario (Urboden) di ne che troviamo ribadita nel suo duplice orientamento noematico (sachliche Zeit konstituierende) e noetico (ichliche Retention der „Geltung“) (Mat VIII 201). 150 La coincidenza dell’io attuale con i suoi trascorsi operativi è dunque, in primo luogo, il prodotto di una sintesi della passività secondaria; non abbiamo cioè ancora a che fare con una sintesi attiva dell’identità personale dell’io per via rimemorativa e riflessiva, una sintesi in cui l’io si appercepisce come un medesimo soggetto di vita – una persona dotata di specifiche convinzioni e prese di posizione – intercalato in una comunità di monadi disposta lungo il corso del mondo (Weltzeit). 151 In conformità a quanto appurato (supra § 3.2.2), si noti come non vi sia alcuna differenza tra attestazione e produzione dell’evidenza (Zeugung), dal momento che la tarda concezione husserliana ha ricondotto quest’ultima all’operatività sintetica dell’intenzionalità fungente. In questa sezione abbiamo appreso come l’istituzione di una prospettiva egologica rimandi anch’essa all’operatività fungente dell’Urich. Sullo statuto apodittico dell’ego cfr. tagucHi (2006, cap. 7).
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ogni validità, il sito originario (Urstätte) a partire dal quale si concreta la benché minima prestazione conoscitiva (Mat VIII 40; XXXIV 299). Il fatto di cui tener conto è che “io non giudico il mondo, bensì il mio essere originariamente vivente e il ‘mondo’ in esso presunto che vale ‘in quanto tale’” (Mat VIII 41). E ciò significa che qualsiasi conoscenza reca in sé l’evidenza insopprimibile di una vita intenzionale che concorre in prima persona – in quanto egocentrata – alla sua istituzione. Il tenore apodittico del cogito altro non è che l’evidenza indefettibile della costituzione correlativa del reale. L’evidenza apodittica della costituzione è ciò che alberga in ogni vissuto conoscitivo, la ragione per cui ogni cosa appare secondo modalità manifestative che inevitabilmente contemplano l’operatività di un soggetto e che a esso inesorabilmente riconducono in quanto loro fulcro prospettico. L’evidenza dell’“io sono – io vivo” (Mat VIII 3) è apodittica in quanto prodotta e attestata dalla stessa logica della manifestazione che inerisce alla struttura sintetica e originariamente prospettica del vissuto. È importante ribadire come il tenore apodittico dell’io non ponga nessuna ipoteca circa la correttezza della prestazione conoscitiva in gioco152. L’esperienza vissuta in cui si esprime un giudizio palesemente falso, financo contraddittorio, risulta apodittica – in senso fenomenologico – allo stesso modo di quella relativa a una verità tautologica; questo perché entrambe arrecano in modo inequivocabile il fatto di essere costituite a partire da una certa prospettiva egocentrata che si estrinseca nell’attualità del presente. Il mio proprio essere è per me imperdibile, mentre ho sempre coscienza di ciò che esperisco (nel cui tema [è] incluso me stesso), il mio essere è indubitabile, indepennabile e presso tutto ciò che è per me, “con questo”; [ciò] nella misura in cui tutto è primariamente inteso dalle mie intenzioni e trae la forza di legittimità del suo essere dai miei conferimenti di legittimità, dai miei accertamenti, dalle mie fondazioni, dunque dai miei vissuti soggettivi e dalle attività dell’io. Io sono necessariamente ogniqualvolta mi rendo conto del fatto che 152 L’aspetto della correttezza epistemica della conoscenza concerne viceversa il grado di adeguazione dell’evidenza e presenta una progressione indefinita di possibili realizzazioni che si approssima all’ideale regolativo della compiutezza (supra § 3.2.2).
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sono; [detto] più chiaramente: questo “io sono” è posizione d’essere apoditticamente necessaria – il non essere, mentre esperisco me stesso come tema, [è] irrealizzabile, “impensabile”; non [però] come se ogni affermazione su me stesso – incluso nell’“io sono” apodittico che per così dire abbraccia nella forma ogni affermazione sul mio conto – fosse apodittica, come se dunque l’affermato escludesse il non essere possibile e l’affermazione non potesse essere falsa. Io sono e questa affermazione ha fondamento nella costante possibilità dell’autoesperienza tematica, la quale, da parte sua, rimanda apoditticamente […] a una costante vita non tematica, che è da tematizzare come riflessione evidente, il cui carattere fondamentale è l’afferramento originale. (XIV 433)
Immancabilmente, l’essere (soggetto) dell’io si attesta in ciascun vissuto manifestativo, foss’anche di tipo illusorio; si attesta “nella struttura formale che mi è congenita” (XIV 434), come origine prospettica dell’apparire. Che qualcosa mi si manifesti e che valga dunque per me – secondo le due componenti fondamentali della costituzione: la Veranschaulichung e la Sinngebung – che dunque io stesso inerisca a questo manifestarsi è il “dato di fatto primario” (XVII 244 [293]) che la riduzione trascendentale rivela come inizio inconcusso della scienza fenomenologica (supra § 1.4). Tale apoditticità concerne il come (Wie) e non il che cosa (Was) io sia realmente: “ciò che sono risiede all’interno di questo orizzonte in quanto qualcosa di presunto, ma in quanto necessariamente pretracciato” (XIV 434s.): in quanto cioè essenzialmente prospettato dalla logica dell’apparire. Non dovrebbe sorprendere, sotto il profilo almeno dell’atteggiamento naturale, che il tenore di tale apoditticità risulti quello di un’“evidenza inapparente [unscheinbar]” (VIII 166 [214]). Essa cioè si attesta – ma non per questo si appalesa – come l’inerenza a un certo punto di vista, come ciò a partire da cui tutto è tematizzabile ma che per ciò stesso residua al di fuori di ogni tematizzazione possibile. Tale evidenza è in un certo senso l’ovvietà più ovvia (tagucHi 2006, 208s.) da cui la riflessione fenomenologica prende le mosse nel tentativo di comprenderne la genesi e la portata all’interno del sistema costitutivo dell’esperienza. Per comprendere me stesso come l’io che in sé realizza quelle prestazioni in cui il mondo essente è per me nella validità […] devo
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imparare intanto a vedere me stesso, nella misura in cui sono ancora incompreso in questo operare, mentre esperisco costantemente il mondo secondo il dato di fatto originariamente fenomenale, mentre faccio umanamente esperienza nel mondo […]. (XXXIV 299)
Sotto il profilo eidetico, l’evidenza apodittica dell’io rappresenta allora un caso del tutto eccezionale: contrariamente a quanto vale per ogni altro essente, il cui tenore eidetico è svincolato dall’eventualità del suo essere o meno, è indipendente cioè dalla possibilità della sua realizzazione effettiva, viceversa, “l’eidos dell’io trascendentale è impensabile senza l’io trascendentale come fattuale” (XV 385). L’eidos ego – la cui autovariazione delinea a priori l’àmbito di estrinsecazione della scienza fenomenologica (I 105s. [146s.]) – è allora un fatto originario (Urfatktum), un dato di fatto assoluto (XV 386, 403, 666, 669), e ciò significa: “con la sua essenza è data, di necessità, l’esistenza” (XXIX 89). Quella relativa all’ego trascendentale non è infatti un’apoditticità vuota, quella di un vuoto io-polo, bensì quella di un concreto d’esperienza, di un “io sono” la cui forma essenziale è quella del fluire (XLII 122s.), ossia di un presente vivente “che io vivo fattualmente” e a cui l’eidos risulta “costitutivamente riferito” (XXIX 85)153. Quella dell’io è dunque l’essenza apodittica desumibile dalla “temporalizzazione trascendentale”, la cui prestazione costitutiva è onnipresente e fa sì che il tenore apodittico riverberi “gradatamente” in tutti i “gradi di valore dell’apoditticità” implicati (XXIX 86s.). Difatti, è proprio “nel modo dell’implicazione intenzionale” che l’intero fatto del mondo è racchiuso (beschlossen) nella mia esistenza apodittica (XLII 123 e n. 1). A ben vedere, “questa implicazione trascendentale delle possibilità eidetiche di me stesso e dell’eidos nella mia fatticità si trasla [überträgt sich] su tutti gli altri [soggetti che sono] per me” (XV 384), giacché “l’eidos dell’intersoggettività trascendentale è implicato al contempo nell’eidos dell’io trascendentale” (XV 383). Ciò che nel tenore apodittico dell’io si attesta è il fatto stesso della costituzione, il quale racchiude implicitamente gli altri soggetti e il mondo stesso in una sorta di totalità (Allheit), di tutto-monadico (Monaden-All) o, per meglio
153 Sul presente vivente come fatto assoluto cfr. Held (1966, 146-150).
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dire, di una onnisoggettività (Allsubjektivität) (XV 380, 383, 385; XXIX 87) (infra § 4.3.2). Lo statuto dell’implicitazione fenomenologica, nonché l’esigenza di una sua esplicitazione, è precisamente quanto ci occuperà nel prossimo capitolo. Concludo la sezione riassumendo quanto emerso rispetto allo scopo preposto. L’opera di concretizzazione in cui è incorsa l’analisi fenomenologica restituisce l’idea di una soggettività trascendentale radicata nel proprio contesto esperienziale. La monade è infatti concepita al modo di una potenzialità prospettica che si estrinseca istituendo un punto di vista, un focus vivente che risulta dall’accentramento noetico della vita intenzionale. In questo modo, il punto di vista dell’io può essere reintegrato ragionevolmente nel modello esplicativo dell’Urprozess sopra delineato e facente capo all’idea di una prospettivizzazione originaria dell’orizzonte manifestativo (Fig. 6). La precostituzione dell’io coincide con questo sommovimento strutturale della coscienza e sfocia nella produzione di un nucleo di evidenza apodittica che ne attesta l’esistenza effettiva.
4 LA PROSPETTIVA DEL TEMPO: L’IDEALISMO FENOMENOLOGICO-TRASCENDENTALE
§4.1 L’implicito fenomenologico […] alles ist letztlich im beständigen Urströmen der transzendentalen Subjektivität gewordene und werdende transzendentale Leistung durch Implikation.1
È giunto il momento di gettare uno sguardo retrospettivo sul cammino svolto. Si apprezzerà come gli sforzi analitici che hanno occupato le sezioni precedenti, pur mantenendo un valore intrinseco, rimandino all’argomento del presente capitolo per un loro chiarimento complessivo. Se nel primo capitolo ho cercato di delineare la genesi storica dell’idealismo husserliano, nei capp. 2 e 3 ho indugiato a lungo sulla dinamica costitutiva che ne sta a fondamento. Quest’ultima è stata descritta secondo un’ottica formale salvo poi essere ripresa in termini sempre più concreti mediante l’integrazione della questione temporale con le tematiche afferenti alla passività primaria e secondaria, all’inconscio, all’evidenza, all’io. Ho argomentato come la rimozione del tenore astrattivo veicolato da una decostruzione analitica della genesi induca il superamento della sua scomposizione stratigrafica; ciò delinea un modello alternativo che interpreta ricorsivamente il rapporto tra passività e attività e che restituisce un resoconto integrato dell’esperienza cosciente grazie all’azione/retroazione schematico-appercettiva del/sul sistema implicito del senso. Giunti a questo punto è possibile trarre le fila di quanto messo in conto ponendo l’accento proprio sullo statuto dell’implicazione intenzionale. In parte si è visto, in parte si vedrà come la nozione svolga un ruolo dirimente nell’economia del pensiero fenomenologico. Una delucidazione in merito non è ulteriormente procrastina1
XXXIV 173 [37].
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bile, tanto più che in letteratura l’esigenza di un simile chiarimento non è emersa con l’impellenza che invece sembra competerle. E le compete per ragioni al contempo storiche e sistematiche che, se sottaciute, rischiano di inficiare la comprensione dell’idealismo fenomenologico codificato da Husserl verso la fine degli anni ’20. La natura prassico-metodologica di tale idealismo, da conseguire per mezzo di un lavoro di autoesplicitazione della soggettività trascendentale, risulterebbe infatti inintelligibile senza aver prima appurato come la torsione genetica della ricerca husserliana abbia assunto sempre più le vesti di una vera e propria fenomenologia dell’implicito. Husserl sviluppa tale consapevolezza nel corso degli anni ’20, riflettendo sugli aspetti pre- e post-costitutivi dell’esperienza. Spostando infatti il focus dell’indagine al di là della presentazione intuitiva verso la dimensione post-presentativa dell’implicitazione (sedimentazione) del senso – e anzi scindendo l’aspetto della resa intuitiva della costituzione (Veranschaulichung) da quello del conferimento di senso (Sinngebung) – egli giunge a decifrare il meccanismo sintetico in grado di fungere da epicentro costitutivo della “stratificazione”2. L’implicito fenomenologico, il precipitato dell’implicitazione del senso, fuoriesce quindi dal suo stato di anonimia operativa per essere finalmente tematizzato, riconosciuto quale tema generale dell’indagine fenomenologica. Questa proposta interpretativa sembra trovare conferma in una ricognizione incentrata sulle ricorrenze terminologiche di nozioni quali implizit, explizit e derivati, lungo l’arco di sviluppo del pensiero husserliano. Nei Prolegomena sono usati per la discussione dell’implicazione logica e della teoria della verità (XVIII §§ 23, 62). Nelle Ricerche trovano variamente impiego, a seconda cioè della disamina contestualmente perseguita da Husserl: ci si interroga ad esempio sulla possibilità del nome proprio di individuare implicitamente il proprio referente (XIX/1 162 [324]); si riflette sul fatto che le leggi analitiche siano libere da ogni posizione esi2
In realtà, avendo reinterpretato la sedimentazione del portato costitutivo dei diversi “gradi” operativi al modo di un’implicitazione ricorsiva, è proprio la metafora della stratificazione che in qualche modo viene meno. In particolare, è la rappresentazione estensiva di una giustapposizione/sovrapposizione di livelli a sé stanti che lascia il posto a una caratterizzazione integrata e non rappresentazionale delle funzioni cognitive.
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stenziale (implicita o esplicita) (XIX/1 258 [397]); si precisa che l’oggetto che riempie un’intenzione signitiva può essere inteso esplicitamente nell’atto o implicitamente co-intenzionato (XIX/2 578s. [627]) e che l’intero percettivo si dà esplicitamente mentre le sue parti soltanto in forma implicita (XIX/2 579 [710]). La distinzione tra percepire implicitamente e percepire esplicitamente viene poi canonizzata nel WS 1904-05 (XXXVIII Nr. 1, § 17) e raffinata alla luce dell’apporto costitutivo dell’attenzione e delle nozioni di avvertibilità e inavvertibilità dell’osservazione (XXXVIII Nr. 1, § 21). L’analisi fenomenologica degli atti immaginativi mostra poi come la rappresentazione di un oggetto possa implicare la co-rappresentazione del soggetto rappresentante (XXIII 173s. [132s.]; X 161 [184]) e, inoltre, che sia possibilefantasticare implicitamente qualcosa di diverso da come in realtà appare (XXIII 580). Dal canto suo, l’analisi della rimemorazione spiega come il ricordo implichi certamente una presentazione percettiva passata di ciò che ora è ricordato (XXIII 197) e che la riproduzione di quest’ultimo avvenga solo grazie a quella condotta implicite dell’intera corrente coscienziale sino alla presenza attuale (X 54 [85]). L’eidetica temporale prevede invece che il coglimento di un fenomeno che dura implichi il coglimento di questa durata (X 350 [340]) o, il che è lo stesso, che la percezione di una successione implichi la successione della percezione stessa (X Nr. 20). Durante il WS 1906-07, scopriamo che lo scetticismo critico è un’istanza già in qualche modo implicita in ogni scetticismo dogmatico (XXIV 180 [217]), che la psicologia descrittiva implica il riferimento a trascendenze empirico-fattuali (XXIV 209 [248]). Apprendiamo ancora che la percezione ingenua possiede già in forma implicita i momenti che la riflessione fenomenologica pone in luce (XXIV 244, 420 [286]), che la percezione implica il ricordo fresco (XXIV 274 [319]) mentre la rimemorazione, a differenza della fantasia, una relazione alla presenza attuale (XXIV 277 [322]). Si precisa inoltre che la coscienza di unità altro non è che una forma implicita della coscienza di identità e che quest’ultima, in quanto forma esplicita, pertiene a un livello costitutivo più alto come quello del pensiero (XXIV 279, 291 [324, 335]). Si evince come la relazione di uguaglianza implichi a sua volta l’identità, come il genere risulti implicato nella specie (XXIV 300 [346])
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e l’essenza del rosso implichi il genere colore (XXIV 305, 389 [351]); e ancora: che l’implicazione logica tra premesse e conclusioni, se di tipo analitico, risulta necessaria (XXIV 344 [392]), che la negazione di una legge naturale non implica la benché minima contraddizione (XXIV 349 [397]) e che, infine, la metafisica implica in certo qual modo la teoria della conoscenza (XXIV 402). Gli esempi potrebbero essere moltiplicati all’inverosimile, in relazione alla costituzione della cosa spaziale e al ruolo svolto dal sistema cinestesico (XVI 49s., 143, 182, 185, 193, 195s., 208s., 220, 291 [61, 174, 222, 225, 235, 237s., 253s., 267s., 356]), alla dottrina dell’essenza (III/1 17, 31 [20, 33]), alla modificazione di inattualità (III/1 72 [83]) e ancora, nuovamente, alla questione dello scetticismo (III/1 174 [196]), della temporalità immanente (III/1 185 [206]), del valore (III/1 221 [243]), del ricordo (III/1 233 [256]) e dell’idea di cosa (III/1 348 [371]). Ciò che però importa sottolineare, oltre all’enorme varietà d’impiego delle nozioni “implicazione”, “implicito”, “implicitamente”, “implicare” (e dei relativi contrari), è il fatto che tutte le occorrenze denotano un uso operativo e mai tematico dei termini in gioco3, che oscilla in maniera arbitraria da un utilizzo più tecnico a uno di senso comune. Husserl si serve infatti di queste nozioni per descrivere altri fenomeni senza mai soffermarsi sul loro significato intrinseco, sul ruolo effettivamente svolto nell’economia dell’analisi intenzionale, né sull’onere che un’effettiva tematizzazione di questo implicito comporterebbe dal punto di vista della prassi metodica, ossia l’esigenza di una sua esplicitazione – per non parlare delle modalità attuative di quest’ultima4. 3 4
Alludo naturalmente alla distinzione tracciata nel classico saggio di fink (1957). Una possibile eccezione potrebbe rappresentarla il passo di XXIII 17 [21] in cui Husserl spiega che in fin dei conti ognuno sa già cosa significhi immaginarsi un oggetto, a prescindere cioè dall’analisi fenomenologica, lo sa infatti implicitamente; dal punto di vista dell’analisi il problema è allora quello di “portare esplicitamente a coscienza” l’essenza del carattere d’immagine (Bildlichkeit). Al di là dell’ancora acerba commistione tra fantasia e coscienza d’immagine, ciò che sembra trapelare da questo passo è una sorta di prefigurazione dell’idea per cui la fenomenologia dovrebbe compiere un’operazione di esplicitazione rispetto a quanto di implicito risulti contenuto nell’esperienza. Tuttavia, a ben vedere, il passo in questione non allude a un’esplicitazione dei nessi intezionali che precostituiscono l’espe-
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Ben diverso è invece iniziare a ragionare – come si fa in Idee II – sul fatto che l’analisi fenomenologica non deve essere condotta al modo di una riattivazione (Reaktivation) di quanto implicitamente contenuto nella sintesi intenzionale, perché anzi, è piuttosto in virtù della “successiva esplicazione [Explikation]” di quanto, nella sintesi, vi è di confuso che se ne può ottenere un “afferramento teoretico” (IV 21 [25])5. Ben altra cosa, inoltre, è iniziare a tematizzare tecnicamente (dal punto di vista cioè della sintesi intenzionale) le prerogative e la genesi di questo implicito fenomenologico – come fa Husserl nei luoghi che abbiamo citato e commentato per esteso nelle scorse sezioni. Riepilogo quanto emerso nel secondo e terzo capitolo in relazione a questo tema specifico: ritenzioni e protensioni si implicano vicendevolmente intessendo al modo di una Verflechtung la dinamica del processo originario (XXXIII 10); al riempimento intuitivo del processo fa seguito un orizzonte di depresentazione che si conclude in una implicazione indifferenziata (XXXIII 37); secondo l’orientamento costitutivo longitudinale ogni presentazione coincide con una Bewußtseinsimplikation che racchiude implicitamente in sé tutte le fasi di coscienza (passate e future) (XXXIII 42). In seguito al concretizzarsi della riflessione nelle Analysen, abbiamo appreso come l’esaurirsi della forza affettiva faccia sì che il senso costituito si conservi implicitamente nell’unità di una Leerevorstellung (XI 171 [267]); che dunque il senso esplicito si trasformi in senso implicito (XI 174 [271]) e si conservi implicitamente al modo di una forma inerte (XI 177s. [275]), come
5
rienza cosciente bensì soltanto all’esplicitazione di una conoscenza ancora ingenua e irriflessa tipica dell’atteggiamento naturale. Propriamente parlando, infatti, la riattivazione schematico-appercettiva del senso sedimentato, il modo in cui il soggetto ne attualizza le validità euristico-esperienziali, pertiene all’atteggiamento naturale e non a quello fenomenologico, che anzi si astiene proprio dall’assunzione di validità allo scopo di indagarne criticamente lo statuto. Si noti poi che sebbene qui si parli di porre in luce (heraustellen) ciò si distingue nettamente rispetto al passo del WS 1904-05 citato alla nota precedente. Nel passo di Idee II, infatti, l’accento è posto sull’esplicitazione di quanto contenuto implicitamente nella sintesi intenzionale e non in una ingenua precomprensione naturale. Vorrei sottolineare come il passo più tardo punti in direzione di una tematizzazione tecnica dell’implicazione intenzionale e non alluda semplicemente all’idea di un superamento dell’ovvio (naturalmente inteso).
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un senso implicato in uno sfondo di potenzialità sempre pronte al ridestamento (XI 179 [276]). Il breve excursus sulla questione dell’evidenza nella Logica ha infine reso edotti del fatto che le implicazioni intenzionali operano alla stregua di presupposti in grado di predelineare determinate validità di senso all’interno di una certa situazione esperienziale (XVII 207 [247])6. Non dovrebbe stupire come la questione dell’implicito incorra in una rivalutazione complessiva che sfocia in una tematizzazione sempre più manifesta e consapevole. Nella seconda parte del corso Erste Philosophie (1923-1924), un’intera lezione è dedicata alle implicazioni intenzionali (Vorlesung Nr. 47). Sempre in questo semestre invernale Husserl palesa più volte l’esigenza di venire a capo del problema spiegando, ad esempio, che l’io puro “racchiude in sé mediatezze di implicazione intenzionale insospettate e celate in profondità, non dipanando le quali la vita pura rimarrebbe del tutto incomprensibile” (VIII 123 [158s.*]; cfr. 144 [187]). È allora ponendo l’accento su tale dipanamento (Aufwicklung), sulle modalità di un’indagine che necessita cioè di penetrare e districare certi complessi intenzionali impliciti, che si comprende in cosa debba consistere una concreta analisi fenomenologica: quali che siano le intenzionalità che vengono prese in esame, penetrando più profondamente nelle loro strutture si mostra che un’intenzione concreta è possibile soltanto mediante l’intreccio [Ineinander] delle prestazioni intenzionali del resto non indipendenti con un intreccio celato di oggettualità intenzionali. (VIII 124 [159*])
Nelle lezioni di Filosofia prima si preconizza quanto compiutamente acclarato nella Logica (supra § 3.2.2), ossia il modo in cui l’implicito fenomenologico predetermina l’orizzonte esperienziale del soggetto: i suoi “aperti spazi di gioco [offene Spielräumen]” (VIII 149 [193]). A questo intreccio coscienziale, il quale abbraccia non soltanto il presente ma l’intero orizzonte temporale, pertiene infatti “il regno, per così dire, dei passati compiuti, precipitati [niedergeschlagenen]”, che in quanto “trac6
Tralascio qui di rievocare nuovamente passi relativi ai manoscritti più tardi in quanto ciò che mi preme sottolineare è l’emersione della tematica dell’implicito nel corso degli anni ’20.
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ciati o predelineazioni” operano al modo di altrettante “infinità di validità implicite” (VIII 150 [194]). Il grado di consapevolezza raggiunto circa il compito di una tematizzazione dell’implicito è tale che Husserl prospetta “un enorme campo di studi […] relativi alla struttura sistematica e mutevole, ma persistente nel suo stile generale, di queste implicazioni” e, conseguentemente, “relativi al tipo di esplicazioni mediante intuizioni che appartengono loro” (VIII 150 [194]). Addirittura si prospetta una vera e propria “dottrina dell’implicazione [Lehre von der Implikation]” (VIII 319 [197n.*]). Tale dottrina sembra non potersi esimere dal ripartire da quanto ormai acquisito nel corso di analisi mirate a disvelare quella dinamica costitutiva originaria in grado di animare la vita coscienziale nella sua interezza; una vita che quanto alla sua forma è eminentemente temporale e che denota la seguente caratteristica essenziale: il fatto che essa, in ogni fase di presente, possiede – anche se vuota – una coscienza lontana, una coscienza d’orizzonte, che viene prodotta sempre di nuovo nel continuo fluire e che, in questa coscienza d’orizzonte, è implicato in maniera universale tutto ciò che per me può esserci mai stato, esserci ed essere in futuro dal punto di vista oggettuale, implicato come correlato intenzionale di tutta la mia vita, che dunque è, a sua volta, co-implicata [mitimplizierten]. Ogni presente di vita ha “in sé”, nella sua intenzionalità concreta, la vita intera e, unitamente all’oggettualità percettivamente cosciente in questo presente, porta in sé, come orizzonte, l’universo di tutte le oggettualità che abbiano mai avuto validità per me e, in un certo modo, addirittura di quelle che varranno per me in futuro. (VIII 161 [207s.*])
Ciò detto, sembra pacifico asserire che a partire dal WS 1923-24 l’implicito fenomenologico – con ciò intendendo l’insieme dei valori di senso che regolano la vita del soggetto in quanto complesso sedimentario di prestazioni sintetico-costitutive – questo implicito è assurto a tema per eccellenza della fenomenologia trascendentale. Lo è diventato perché l’implicazione intenzionale è ormai agli occhi di Husserl un titolo sotto al quale è possibile integrare le precedenti analisi relative ai diversi tipi di atti (VIII 153 [197]). La dinamica che sta alla base dell’implicitazione è infatti talmente basilare da risultare onnipervasiva. Essa concerne ogni modalità o tipologia d’atto, qualsivoglia livello o contesto d’esperienza; ri-
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guarda vieppiù l’orizzonte totale, attuale e inattuale, della vita cosciente, nonché tutte le validità a essa riferibili (VIII 162 [208s.]). Volendo riassumere il tutto con un’incisiva nota apposta al passo appena citato per esteso, l’implicito fenomenologico concerne la “temporalizzazione dell’intera monade e dell’intero universo monadico [Monadenalls], in ogni punto della vita, in ogni vissuto” (VIII 161n. 1 [208n. 1]). Come si preciserà in alcuni manoscritti dei primi anni ’30, se “nell’unità di un ‘atto’ […] è ‘inclusa’ una molteplicità esplicita e implicita infinita di atti”, allora, proprio “questa implicazione è l’enigma”7. Nei C-Mss. (Mat VIII 20-23) Husserl procederà a sviluppare almeno una bozza di quella dottrina dell’implicazione summenzionata. La nozione è sfruttata per descrivere – ripercorrendola – l’articolazione dei livelli costitutivi, in riferimento cioè ai gradi di sviluppo coordinati della monade e del mondo. L’implicazione intenzionale concerne l’intera stratificazione correlativa della realtà: dalle implicazioni primordiali (urprimordialen Implikationen) scaturenti dal primo fenomenizzarsi della monade originaria (Ur-Monade), all’“implicazione della totalità dell’universo delle monadi” che ha per correlato l’idea di verità di un mondo costituito intersoggettivamente (Mat VIII 20). Tuttavia, l’intento husserliano in questo manoscritto non è più quello di una semplice distinzione dei livelli costitutivi, anzi. La riflessione in merito all’implicito fenomenologico è proprio ciò che consente di approntare un superamento del carattere astratto di tale compartimentazione analitica e dunque di procedere alla sua integrazione all’interno di una totalità concreta e unitaria. Si ha a che fare con un vero e proprio “ordinamento di implicazioni” che riguarda l’intera “comunità [in me] implicita” di monadi e che orienta la vita intenzionale secondo un’“aspirazione alla concordanza intersoggettiva”, promuovendo cioè l’interesse scientifico universale “verso la verità da formare come progressiva presa di coscienza di sé dell’umanità” (Mat VIII 21). L’attualità del mondo, la sua stessa possibilità, sono il correlato intenzionale di questa implicazione intermonadica: 7
Ms. B III 9, p. 41b. Il manoscritto è citato in costa (2016, 25) senza riportare il tedesco. Si confronti comunque con quanto già asserito nel 1924, ossia che “tutti i misteri risiedono nella chiarificazione dell’implicazione e esplicazione, orizzonte, indice, etc.” (VIII 436n.).
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La realtà effettiva universale è implicata in questo ordinamento – ma anche l’universale delle possibilità; [vi] implicata la struttura che rende possibile, che passa attraverso tutte le possibilità concepibili (concepibilità è implicazione [Erdenklichkeit ist Implikation]), ed implicata la fatticità stessa nella fattualità del mio monadico presente fluente. (Mat VIII 21s.)
Con gli anni ’30, il tema dell’implicito fenomenologico sembra aver raggiunto un livello di considerazione decisivo nell’economia del pensiero husserliano e ciò in ragione del fatto che la razionalizzazione del mondo – dai suoi gradi più infimi di appagamento pulsionale all’idea di una Selbstbesinnung dell’umanità nel suo complesso – riguarda innanzitutto la possibilità di una integrazione funzionale delle prospettive parziali delle singole monadi nella verità di un mondo valido intersoggettivamente. La possibilità di una simile integrazione riguarda necessariamente l’implicitazione del senso costituito non soltanto da me stesso, in prima persona, ma anche e soprattutto da altri – dalla (inter)soggettività trascendentale nel suo complesso. La singola monade si avvale dunque di prestazioni e istituzioni compiute lungo una storia collettiva e all’interno di un orizzonte che indubbiamente la sovrastano, ma che in essa virtualmente riverberano come altrettante acquisizioni appartenenti alla medesima direzione, alla medesima tensione teleologica che ha di mira l’inveramento della ragione8. Di più: in essa riverbera non soltanto il costituito ma, a ben vedere, il dominio ben più smisurato del costituibile, del concepibile in quanto possibilità di variazione (Erdenklichkeit ist Implikation). Ciò concerne non soltanto l’infinità di prestazioni costitutive legate al passato controfattuale o a un futuro ancora largamente indeterminato ma anche al mondo dell’immaginario. Così si comprende quanto asserito da Husserl: “il mio presente vivente fluente, il proto-modale [urmodale], reca in sé tutto il 8
Le vicende della battaglia delle Termopili, la descrizione della quinta malabolgia dell’ottavo cerchio dell’inferno dantesco, la composizione del campo stellare afferente alla Cintura di Orione, il significato sotteso all’equazione di Schrödinger o ai teoremi di incompletezza di Gödel, ma anche, più semplicemente, il fatto che dall’altra parte della Terra, rispetto all’Italia, si trovi lo stato insulare della Nuova Zelanda, tutto ciò è virtualmente implicito nel possesso conoscitivo del mio complesso monadico in quanto precipitato di prestazioni costitutive altrui.
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concepibile” (Mat VIII 22), ossia “le possibilità della modalizzazione [Modalisierung]” e dunque l’insieme del “modalizzabile [Modalisierbares]” (VI 497 [522]). Ancora una volta, la conclusione che è possibile trarre da questi passi è quella per cui il fenomeno dell’implicitazione del senso si estende fin dove si dispiega – riproducendosi – la forma temporale. Siccome quest’ultima, come visto più volte, è coestensiva all’intero dominio della costituzione, altrettanto onnipervasiva risulterà la portata dell’implicitazione. Del resto, che “la mediatezza dell’implicazione intenzionale” coincida, sotto il profilo operativo, con la “modificazione intenzionale” per eccellenza, ossia con la ritenzione, è un fatto acclarato (XXXIV 167 [31]). Il senso estrapolato da ciascuna prestazione costitutiva finisce dunque per sedimentarsi, per divenire possesso implicito del soggetto in ragione della dinamica temporale in cui risulta necessariamente intercalata. Il punto da tener presente per capire cosa significhi “l’essereimplicito del mio passato nel mio presente vivente, l’essere-implicito di altre monadi nella mia monade” è il fatto strabiliante per cui, secondo Husserl, occorre intendere l’“implicazione come [un] trascendentale simultaneo [Implikation als transzendental simultane]” (Mat VIII 22). Si è visto che il divenire implicito del senso coincide con il compimento della parabola depresentativa, con il venir meno della sua individuazione e differenziazione temporale. Ciò significa che il sistema di conservazione implicita del senso lo conserva come un tutto simultaneo, che prescinde giustappunto dall’individuazione-differenziazione intuitiva che ne contraddistingue il decorso presentativo. In questo modo, il sistema implicito del senso rappresenta una totalità indifferenziata sotto il profilo temporale, quel profilo che eminentemente concorre, nei modi sopraesposti, all’individuazione e alla discriminazione ancorché formale del costituito. La simultaneità è allora la modalità (in)temporale propria dell’implicito fenomenologico, una modalità in grado di organizzare il senso sedimentato alla stregua di una totalità inerte eppure a suo modo integrata. Non solo, la disponibilità simultanea della riserva del senso fa sì che “tutte le mediazioni della coscienza insorg[a]no in una presenza originaria ‘contemporaneamente [gleichzeitig]’” (XXXIV 168 [31*]); il che, a ben vedere, è ciò che consente una schema-
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tizzazione appercettiva univoca e coordinata dell’esperienza: la traslazione del senso avviene cioè in contemporanea per tutti gli “strati” simultaneamente implicati9. In conclusione, il dominio dell’implicazione intenzionale è ciò che riassume in sé l’intera articolazione storico-sistematica della costituzione; la riassume al modo di una conservazione latente – inarticolata – del senso variamente costituito. Se, sotto il profilo formale, l’articolazione costitutiva assume le vesti di una differenziazione plurale di tempi, la sua implicitazione li fa collassare in una dimensione di indifferenza simultanea. L’implicazione è dunque ciò che rende possibile l’unità dell’ego trascendentale al di là della sua complessa stratificazione. L’implicazione significa: l’“essere-oltre [Übersein]” dell’ego non è altro che un costante costituire originariamente fluente e un costituire differenti universi di gradi di essenti (“mondi”), a ciascuno dei quali appartiene una validità d’essere attuale e abituale nel modo del relativo carattere d’orizzonte […]. (XV 590)
Tutto ciò ha due conseguenze direttamente desumibili che riguardano l’esigenza di dipanare il dominio dell’implicito fenomenologico. La prima, già affrontata, concerne il piano dell’esperienza naturale: l’implicitazione è ciò che permette di ricostruire una concreta prassi esperienziale del soggetto, in cui cioè la riserva implicita di senso è esplicata mediante la traslazione appercettiva di quest’ultimo (supra § 3.2.3). La seconda conseguenza riguarda viceversa il piano fenomenologico: dal punto di vista di chi fenomenologizza, il sistema dell’implicazione intenzionale coincide con l’eventualità non già della sua riattivazione (Reaktivierung) appercettiva – al fine cioè di un’esperienza potenziata del soggetto – bensì con quella della sua esplicitazione sistematica. Proprio a questa eventualità rivolgiamo adesso l’attenzione.
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Nonché per la pluralità dei soggetti implicati. Si noti come caratteristica della sintesi intersoggettiva sia in primo luogo la costituzione di un “presente simultaneo [Simultangegenwart]” (XV 668), ovvero di un presente in grado di valere contemporaneamente per una pluralità intermonadica.
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§4.2 L’esplicitazione fenomenologica Das Strömen ist Urzeitigung, und transzendentale Analyse ist Entfaltung der Implikationen, die als implizierte gezeitigte Zeitigung und zeitigende Zeitigung, als implizierte Genesis vorkommen, für das reflektierend analysierende Ich, das im Strömen sein Vorsein hat, sein vermögliches „ich kann, und kann immer wieder, identifizieren und wieder identifizieren, Seiendes verschiedener Stufen als Impliziertes, schon Seiendes herausstellen“.10
Avendo posto a tema d’indagine il dominio dell’implicazione intenzionale, Husserl giunge a ridefinire conseguentemente il compito della fenomenologia al modo di un’esplicitazione sistematica di questo implicito. Verso la fine degli anni ’20, la nozione di Auslegung (esplicitazione) – assieme ad alcuni sinonimi: Aufwicklung (dipanamento), Entfaltung (dispiegamento) – assume infatti il ruolo di termine tecnico capace di riassumere in sé le prerogative della prassi fenomenologica. Dico termine tecnico perché Husserl sembrerà preferirlo, da un certo punto in poi, rispetto al più neutro Explikation (esplicazione). Non sarà pertanto vano ripercorrere in breve l’evoluzione di questo lemma all’interno del corpus husserliano. Nei principali scritti degli anni Zero, il concetto di Auslegung praticamente non compare. L’unica eccezione di mia conoscenza è una nota di commento a A. Marty apposta alla IVa Ricerca logica (XIX/1 316 [812s. n. 10]): qui però il termine ricorre secondo l’uso di senso comune, ossia come “interpretazione” di un testo. Ben più interessante è un passo tratto da Idee I (§ 18), in cui Husserl spiega come le distinzioni nel frattempo maturate su Tatsache und Wesen siano state “assunte esattamente come si sono offerte, senza alcuna esplicitazione [Auslegung] ipotetica o interpretativa” (III/1 39 [40]). Questa occorrenza negativa del termine, tesa cioè a escludere il ricorso all’esplicitazione da parte dell’analisi fenomenologica, se non vado errato, è anche l’unica dell’intero complesso delle Idee. Essa ha l’indubbio merito di preannunciare contrastivamente la portata del mutamento di prospettiva che si verificherà nel decennio successivo.
10
XV 584.
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Del resto, sempre in Idee I, la nozione di Explikation, che invece ricorre più volte, è sempre intesa come mera esplicazione linguistico-concettuale di quanto afferrato fenomenologicamente (ricorrendo cioè al vedere offerente), secondo dunque un’accezione di fatto paragonabile a quella di senso comune (III/1 43, 45, 51, 58, 62 [45, 47, 53, 63, 68], passim). Nel secondo libro delle Idee, vuoi anche per la composizione stratificata di un testo originato da diversi sforzi redazionali compresi tra il 1912 e il 1924-25 (IV 397ss. [505ss.]), la faccenda si complica. Qui Husserl sembra oscillare tra l’accezione di senso comune come quella fatta valere nel primo libro (IV 15, 18 [19, 22]) e un impiego tecnico del termine Explikation, prerogativa dell’analisi fenomenologica. Oltre al passo commentato nella scorsa sezione, in cui Husserl poneva il problema dell’esplicazione di quanto implicitamente contenuto nella sintesi intenzionale (IV 21 [25]), si tenga presente anche la conclusione del § 19: Occorre piuttosto interrogare, attraverso l’intuizione eidetica, l’essenza dell’esperito in generale e come tale, così come si esplica [sich expliziert] in una qualsiasi esperienza, sia essa effettivamente o immaginativamente compiuta (in un fingersi-all’interno-di-un-esperire-possibile), al fine di cogliere intuitivamente, nel dispiegamento [Entfaltung] delle intenzioni che risiedono essenzialmente in tal esperire, il senso dell’esperito come tale – del genere in questione delle oggettualità regionali – e di dare ad esso espressione in un’analisi e in una descrizione rigorosa. (IV 91 [96*])
In questo brano, i propositi dell’indagine eidetica sembrano doversi conciliare con l’esigenza di un dispiegamento delle intenzioni implicitamente contenute in una certa esperienza. Tale dispiegamento, si badi bene, è finalizzato al coglimento intuitivo del senso dell’esperito e non quindi alla sua espressione linguistica, la quale interviene semmai in un secondo momento. L’esigenza di una esplicazione intenzionale dell’implicito sembra qui iniziare a divergere dall’esplicazione di senso comune, quella di tipo linguistico. In Idee II, tale esigenza pare trovare conferma in relazione al tema specifico della temporalità (sia pure procastinando l’esecuzione di tale compito esplicativo: IV 179 [184]), al tema dell’associazione-motivazione (IV 225s. [228s.]), a quello, infine, della costituzione preriflessiva dell’io personale (IV
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252 [253]). Anche nel saggio Phänomenologie und Erkenntnistheorie, redatto nel 1917 in vista dell’Antrittsrede previsto dal regolamento dell’Università di Friburgo, emerge il proposito di coniugare indagine eidetica ed esplicazione intenzionale, ovvero l’idea per cui i concetti fondamentali delle ontologie regionali debbano svolgere il ruolo di fili conduttori per un’analisi appunto eidetico-esplicativa delle “formazioni conoscitive fungenti” relative all’esperienza delle diverse tipologie oggettuali (XXV 192 [241ss.]). Se l’esigenza di un’esplicazione intenzionale inizia a farsi largo, seppur sporadicamente, nei testi husserliani degli anni ’10, ciò che però ancora manca all’appello è un’effettiva rivalutazione – trasvalutazione fenomenologica – della nozione di Auslegung, ossia di quella nozione che denoterà il tecnicismo in grado di riassumere il significato complessivo dell’idealismo fenomenologico trascendentale. Neanche con i Bernauer Mss., i quali per primi sembrano porre a tema la dinamica formale di implicitazione del senso, si va oltre qualche generico accenno all’esigenza di un’esplicazione fenomenologica di questo implicito. Il termine Auslegung semplicemente non compare. Per quanto mi è dato sapere, esso inizia a essere impiegato con cognizione di causa da Husserl nella seconda metà degli anni ’20 per poi essere usato assiduamente col passaggio al decennio successivo11. 11
Una possibile eccezione: il compito di una esplicitazione intenzionale (intentionale Auslegung) compare in un’appendice critica apposta al corso tenuto durante il semestre di guerra del 1915. La data di tale redazione è incerta, i curatori R. Rollinger e R. Sowa la fanno risalire al 1921 o al 1926 (XXXVI 130). Siccome l’uso della nozione di Auslegung non sembra acquisito in altri corsi e scritti dei primi anni ’20 (XI; XXXV; VII; VIII), sembra verosimile postdatare questa appendice al 1926. In generale, di avviso parzialmente avverso al mio è costa (2017, 11) il quale sostiene che la nozione di Auslegung sia usata “in maniera sistematica almeno a partire dal 1923-24, nelle lezioni sulla Filosofia Prima”. A me risulta invece che il termine non compaia nel testo di queste lezioni e che anzi l’unica sua occorrenza nominale all’interno dell’intero volume Hua VIII, peraltro poco enfatica, sia quella in conclusione della Beilage XXIX (VIII 479). Le altre occorrenze di forme coniugate del verbo auslegen (tutte relative a testi integrativi: VIII 272, 292, 390, 383, 385) non sembrano dotate della valenza tecnica assunta invece negli anni successivi. L’unica reale eccezione è un passo in cui il participio ausgelegt è qualificato dall’avverbio transzendental (VIII 480). Tornerò diffusamente su questo
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A mio modesto avviso, il motivo dell’introduzione del termine nella seconda metà del decennio è da ricondurre al fatto che la formulazione compiuta della teoria dell’implicitazione del senso (supra § 3.2.1) è occorsa soltanto con la seconda rielaborazione delle Analysen. Ciò significa che le pagine relative ai §§ 35-37 di Hua XI, in cui tale teoria va precisandosi, sono state redatte da Husserl soltanto in vista del corso del WS 1925-26 (XI 443446). La nozione e l’idea dunque di una intentionale Auslegung prende slancio nel corpus husserliano dopo che la teoria dell’implicitazione del senso va definendosi compiutamente nella prima metà degli anni ’20 (oltre alle Analysen si tengano presenti anche le pagine di Erste Philosophie II commentate nella scorsa sezione)12. La nozione di Auslegung è infatti usata con una certa ricorrenza a partire dal corso relativo al SS 1927 su Natur und Geist (XXXII 100, 112, 147ss., 169 [192*, 204, 240s.*, 264*]).
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brano (infra § 4.3.2) avanzando qualche perplessità sulla sua presunta datazione. In virtù di quanto detto, sembra comunque il caso di escludere un impiego sistematico della nozione di Auslegung in riferimento al biennio 1923-1924. In altro luogo, costa (2007, § 7) ha comunque ragione nel sottolineare l’importanza di questo corso per la definizione della teoria dell’implicazione (supra § 4.1). Ed è pur vero che nella Vorlesung 52 compare l’idea della Selbstentfaltung della soggettività trascendentale, termine sinonimico che di fatto anticipa la nozione di Selbstaulegung. E tuttavia, come vedremo (infra § 4.3.1), in questa lezione la questione è posta da Husserl ancora in via del tutto ipotetica e sembra pertanto incapace – a questo stadio di riflessione almeno – di reinvestire e permeare l’intero progetto fenomenologico-trascendentale come sarà in grado di fare di lì a pochi anni. A quest’ordine motivazionale intrinseco, inerente cioè allo sviluppo della fenomenologia husserliana, si sovrappone con tutta probabilità quello estrinseco derivante da un primo confronto con Sein und Zeit (§§ 7c, 3233). Com’è noto, l’8 aprile del 1926, Heidegger omaggiò il sessantasettesimo compleanno di Husserl con alcune parti del manoscritto, allora in via di composizione tipografica. Husserl stesso, nei giorni successivi, collaborerà alla correzione delle prime bozze (Dok I 303s.). È dunque assai probabile che nel corso di questo primo e superficiale incontro col testo heideggeriano, Husserl abbia fatto proprio il termine Auslegung con una certa nonchalance. È altresi indubbio, come il corso degli eventi avrebbe mostrato di lì a poco, che la trasposizione della nozione all’interno del paradigma husserliano non possa essere intesa come una ripetizione dell’intento di Heidegger. Sebbene all’epoca Husserl non ne avesse contezza, la divergenza dei due progetti fenomenologici fa sì che l’Auslegung risulti immediatamente trasvalutata nel passaggio dall’uno all’altro.
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Qui si precisa che “questa auto-esplicitazione [Selbstauslegung] della vita, e in particolare della vita che esperisce il mondo, non è una mera spiegazione [Auseinanderlegung], l’analisi di una cosa pronta e fissa [fertig-festen]” (XXXII 147 [240*])13. L’impiego di tale nozione sembra poi diventare pervasivo allorché Husserl ne collega il potenziale euristico al compito generalissimo di una trattazione fenomenologica delle predatità inerenti alla totalità del mondo della vita14. È pur vero, come ho già avuto modo di precisare, che l’idea di una Explikation è già presente in alcuni scritti che risalgono ad anni precedenti, ma ciò che qui preme sottolineare è la rilevanza e la valenza tecnica sempre più cospicua assunta dalla nozione di Auslegung. Mentre Husserl sembra descrivere con termini quali Explikation, explizieren, etc., anche le modalità percettive, attenzionali, riflessive, financo predicative, con cui il soggetto naturalmente atteggiato esplica il proprio oggetto o stato di cose d’interesse, la nozione di Auslegung sembra invece introdotta con l’intento specifico di denotare l’attività propria di chi fenomenologizza, il compito della stessa fenomenologia trascendentale. La phänomenologische Auslegung tende quindi non soltanto a caratterizzare l’andamento archeologico della torsione genetica della fenomenologia ma la filosofia fenomenologica nel suo complesso. Volendo rendere scrupolosa una distinzione che nell’impiego terminologico di Husserl può essere desunta,
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Alla luce di citazioni come questa, non convince la resa del termine Auslegung con “analisi” in una recente traduzione delle Meditazioni ad opera di D. D’Angelo (Bompiani, Milano 2020; al netto di questo appunto l’edizione rimane sicuramente valida nonché la più ricca sotto il profilo dell’apparato critico). “Esposizione” fu invece la scelta più letterale, sebbene a mio avviso incapace di catturare il tecnicismo sotteso all’impiego husserliano del termine, avanzata dall’edizione ormai obsoleta di F. Costa (sempre Bompiani, Milano 1960) e ripresa da A. Altobrando per la nuova traduzione del testo (Orthotes, Napoli/Salerno 2017). Azzeccata e qui contestualmente adottata è invece la resa “esplicitazione”, proposta per la prima volta da G.D. Neri nella sua pionieristica traduzione di Logica formale e trascendentale (Laterza, Bari 1966) e ripresa da A. Canzonieri per quella delle Meditazioni (La Scuola, Brescia 2017). Per farsene un’idea è sufficiente gettare un occhio all’indice dei testi raccolti in Hua XXXIX incentrati non a caso su Die Lebenswelt. Auslegungen der vorgegebenen Welt und ihrer Konstitution.
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sia pure con una certa mancanza di rigore15, potremmo allora dire che l’esplicazione (Explikation) del senso concerne la sua riattivazione per l’esperienza in corso di svolgimento da parte del soggetto naturalmente atteggiato (l’appercezione schematica, supra § 3.2.3); di contro, l’esplicitazione (Auslegung) delle implicazioni intenzionali concerne la stessa interrogazione trascendentale, il cui fine è quello di elucidare criticamente le condizioni di esercizio dell’esperienza in questione. Del resto, la nozione di Auslegung si arricchisce di connotazioni che tendono a differenziarla dalla esplicazione mondanonaturale. Il § 7 degli Amsterdamer Vorträge, redatti nell’aprile del 1928, aiuta a capire questo aspetto. Da un lato vi si spiega che l’io naturalmente atteggiato conduce un’“esperienza progressiva ed esplicativa [explizierende]” delle determinazioni della cosa (IX 315 [94]); dall’altro, che ogni analisi coscienziale inizia invece a esplicare (sempre explizieren) il singolo vissuto salvo poi essere ricondotta da quest’ultimo alla rispettiva totalità sintetica di coscienza, senza la quale il senso noematico dell’inteso non sarebbe affatto esplicabile. Si specifica inoltre che l’“analisi intenzionale è quindi toto coelo diversa, per metodo e prestazione, da un’analisi di datità reali”, ossia da una riflessione condotta naturalmente (IX 317 [96*]). L’analisi fenomenologica ha cioè sempre a che fare con “l’esplicazione [Explikation] del senso intenzionale” in quanto “esplicazione dell’orizzonte [Horizontexplikation]” dell’oggetto in questione. Soltanto in questa maniera diventa possibile “produrre costruttivamente [Konstruktiv erzeugen wir…]” il sistema di esperibilità di un determinato oggetto, in relazione cioè 15
Comprensibilmente, infatti, l’utilizzo husserliano del termine Explikation non è sempre univoco. Non mancano anzi luoghi in cui il termine è impiegato proprio per descrivere la prassi fenomenologica. Mi pare tuttavia che in seguito all’introduzione e all’impiego assiduo della nozione di Auslegung, questo utilizzo del termine Explikation vada progressivamente scemando. Non mi sembra poi di aver individuato casi in cui, viceversa, la nozione di Auslegung sia impiegata per riferirsi all’esplicazione mondana, relativa cioè all’esperienza pre-fenomenologica. Su quest’ultimo aspetto inviterei chi legge a mantenere comunque una certa cautela, a fronte dell’imponente lascito manoscritto di cui non ho che una conoscenza parziale. Al di là però della notazione terminologica è la ridefinizione dell’idealismo fenomenologico all’insegna dell’Auslegung intenzionale ciò che qui conta davvero e che vorrei affrontare nel presente capitolo.
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ai suoi possibili modi di manifestazione, determinati sempre più adeguatamente. Questa (ri)costruzione è però possibile soltanto presupponendo, appunto, un’operazione esplicativa preliminare di “disvelamento [Enthüllung]” conforme all’orizzonte di esperibilità che co-determina ciò che di volta in volta è inteso (IX 318s. [98s.]). A questo punto, Husserl conclude: L’esplicazione intenzionale [Intentionale Explikation] ha la singolare caratteristica essenziale di una esplicitazione interpretativa noetico-noematica [interpretierenden noematisch-noetischen Auslegung]. Interpretativa in un senso più ampio e non nel mero senso di una dissezione delle caratteristiche [Merkmalszergliederung] di un concreto intuitivo. (IX 319 [99])
Da quanto riportato è possibile evincere alcune caratteristiche peculiari della phänomenologische Auslegung: il fatto che essa, a differenza dell’esplicazione naturalmente atteggiata, risulti immancabilmente correlativa (noetico-noematica), che sia sempre perseguita conformemente a un orizzonte (horizontmäßig) e che includa al suo interno una qualche dimensione interpretativa16. Tutte accezioni che in un modo o nell’altro la distinguono dall’esplicazione mondana, la quale tematizza esclusivamente il proprio oggetto d’interesse, prescindendo dunque dalle prestazioni costitutive che gli ineriscono (anche quelle d’orizzonte), al fine di carpirne determinate proprietà e caratteristiche atte all’espletamento di scopi pratici. Avendo già avuto modo di trattare la questione dell’orizzonte e della correlazione, concentriamoci sull’aspetto dell’interpretazione. Come si dirà expressis verbis di lì a qualche anno, in occasione delle conferenze tenute nel giugno del 1931 alle Kant-Gesellschaften di Francoforte e di Berlino, “l’autentica analisi della coscienza è, per così dire, ermeneutica [Hermeneutik] della vita di coscienza” (XXVII 177 [203])17. Occorre qui 16 17
A ciò si aggiunga almeno un’altra caratteristica piuttosto ovvia che l’Auslegung assume in quanto condotta nell’atteggiamento fenomenologico, il fatto che essa abbia un tenore eidetico. Il contesto di questa esternazione è troppo importante per non tenerlo in giusto conto. È indubbio che in tali conferenze Husserl tenti di riabilitare la bontà del proprio progetto fenomenologico-trascendentale dinanzi alle nuove tendenze ermeneutiche della filosofia tedesca. Da qui l’uso ruf-
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far notare come certi motivi interpretativi percorressero già da lungo tempo la fenomenologia husserliana. Sotto il profilo tematico, basti pensare a un modello costitutivo dell’oggetto basato sull’Auffassung intenzionale, alla rilevanza della dimensione appercettiva, alla costituzione entropatica del soggetto estraneo basata sull’analogizzazione e l’appresentazione del suo corpo vivo (Leib)18. Sotto il profilo metodologico, l’adozione di un tipo d’indagine archeologico-regressiva, innescata dalla torsione genetica della fenomenologia, inoculava una certa esigenza interpretativa all’interno dell’analisi (luft 2011, cap. 9). Questo non significa, però, che tale esigenza pregiudichi l’assertorietà analitica al modo di una discrezionalità ermeneutica. Ciò non avviene perché il momento interpretativo risulta ancorato fedelmente all’esplicitazione intenzionale dei presupposti di evidenza precostituiti e implicitamente conservati. Dal punto di vista husserliano, sostenere che la prassi fenomenologica prevede una componente d’interpretazione non significa spalancare le porte a una miriade di teorie fenomenologiche in concorrenza fra loro19. L’esplicitazione è interpretativa, è cioè in grado di spiegare sensatamente un complesso fenomenico, soltanto nella misura in cui ne ripercorre la genesi o ne chiarifica la struttura intenzionale portante. L’esplicitazione è sensata soltanto se ripercorre i gradi di evidenza e di senso – appunto – sedimentati in tale complesso. Se così stanno le cose, allora, non sussistono più interpretazio-
18 19
fianesco del termine Hermeneutik, vero e proprio hapax legomenon nel corpus husserliano e del resto subito specificato secondo l’ottica dell’analisi intenzionale. Dico questo perché non si corra il rischio di confondere il metodo dell’Auslegung con un tipo di ermeneutica testuale, né, tantomeno, con un’analisi linguistica d’ispirazione analitica (in questa seconda direzione mi pare vada küng 1975). Non ho del resto qui modo di trattare diffusamente il complesso rapporto vigente tra fenomenologia trascendentale e ermeneutica fenomenologica (post-heideggeriana), per cui rimando, oltre al classico studio di ricoeur (1974), ai recenti lavori di luft (2011, capp. 9, 11-12), Hart (2018), majolino, djian (2018), menscH (2018) e moran (2018). Al riguardo si veda biancHin (2002). Secondo Husserl, la stessa fruizione di un’opera d’arte ci pone innanzi a delle possibilità ermeneutiche tutt’altro che illimitate. Pur con le prerogative tipiche di un oggetto culturale-spirituale, la (pre)costituzione dell’opera determina in maniera oggettiva i margini della propria fruibilità (XXIII 519s., 523s.). Sulla questione mi permetto di rimandare a nobili (2017).
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ni ammissibili del medesimo complesso intenzionale bensì una sola, la sola in grado di esplicitare i nessi sintetici sottesi a tale evidenza20. In un manoscritto dei primi anni ’20 si precisa: Questa è “interpretazione [Interpretation]”, ma chiaramente non arbitraria, bensì svolgimento [Auseinanderwicklung] di una intenzionalità evidente, esibibile. O piuttosto, tale dipanamento [Auswicklung] è interpretazione fin dal principio; e ogni analisi intenzionale, ogni autocomprensione della coscienza che trova la propria espressione nella “descrizione” è interpretazione; in ogni sua evidenza è appunto interpretazione evidente, la quale è dunque originariamente legittimante. (XXXIX 2)
A tal proposito, peraltro, non si fa che ribadire quanto sostenuto in precedenza (supra § 2.1), ossia che l’indagine genetica finisce per rifunzionalizzare l’analisi statica. Come si evince dal passo citato, la tensione esplicativo-interpretativa della prima si scopre presupposto funzionale di ogni intento descrittivo della seconda. Proprio in tal senso, nella Beilage II della Logica, Husserl giunge a rideterminare i due andamenti della fenomenologia trascendentale come altrettanti modi di un medesimo proposito esplicativo, ovvero secondo una “esplicitazione [Auslegung] intenzionale statica” e una “esplicitazione [Auslegung] intenzionale della genesi” (XVII Beilage II, §§ 2a, 2b). Vediamo come Husserl riqualifichi i due momenti dell’indagine. La statische Auslegung concerne principalmente i vari Erscheinungsmodi di un determinato tipo oggettuale. Essa ha di mira la delucidazione delle connessioni implicite di rimandi che connettono a priori (= eideticamente) i modi di manifestazione modificati (non originali) a quello non-modificato (originale). In questo modo si esplicita il senso oggettuale del tipo in questione: si porta alla luce la totalità noematica del sistema di esperienze possibili che lo riguardano, giungendo così a una chiarificazione effettiva della cosa stessa, ovvero della medesima cosa di contro alle sue molteplici varietà manifestative. Difatti, la statische Auslegung non consiste in una scomposizione (analitica) dell’oggetto in parti, bensì nell’espli20
Ciò non toglie, naturalmente, che l’unica interpretazione ammissibile possa essere progressivamente arricchita e riveduta; questo dipende infatti dal grado di adeguazione e dal contesto di evidenza su cui l’esplicitazione fa leva.
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citazione di quei passaggi sintetici (synthetischen Übergangen) che producono il senso oggettuale alla stregua di un centro teleologico (teleologische Mitte); un centro in cui convergono i rimandi della molteplicità coscienziale (Bewußtseinmannigfaltigkeit) dei diversi modi di esperire la cosa (XVII 315s. [384-386]). Se l’esplicitazione statica “è guidata dall’unità dell’oggetto intenzionato”, viceversa, la controparte genetica “è indirizzata alla connessione totale concreta”. Ciò significa che l’indagine genetica tiene conto degli “altri rimandi intenzionali che ineriscono alla situazione” e dunque che l’esperienza dell’oggetto è ricompresa nell’“unità immanente della temporalità della vita, che ha in essa la sua ‘storia’” (XVII 316s. [387]). Di conseguenza, mentre l’analisi statica esplicita il sistema delle diverse esperienze possibili di un certo tipo oggettuale, l’indagine genetica ne pone in luce i nessi intenzionali che afferiscono al contesto storico-istitutivo e situazionale21. Complessivamente, dunque, la prospettiva di una simile congiuntura esplorativa è quella di una progressiva “presa di coscienza [Besinnung]”, la quale coincide, se “radicalmente intesa”, con un’“originaria esplicitazione del senso [Sinnesauslegung]” (XVII 13 [13]). Posta in termini così generali, poco importa che l’esplicitazione si volga al complesso della logica formale, al progetto di una psicologia scientifica o di un’altra scienza positiva, alla totalità del mondo della vita (“ancora altre strade sono praticabili per delle prese di coscienza che mirano alla radicalità”, XVII 11 [11]). Le varie vie della riduzione sperimentate da Husserl convergono infatti nell’idea comune di una phänomenologische Auslegung tesa al superamento di quell’“unilateralità limitata […] che determina il senso specifico della logica tradizionale [o di qualsiasi altra 21
Si apprezza così il modo in cui i due orientamenti di ricerca si presuppongono l’un l’altro: l’indagine genetica presuppone sotto il profilo euristico la chiarificazione preliminare delle modalità d’apparizione che convergono nella definizione complessiva del senso oggettuale di un determinato tipo esperienziale (occorre che esso sia sufficientemente chiaro da poter fungere da filo conduttore per l’analisi genetico-regressiva); d’altra parte, dal punto di vista della genesi concreta, l’analisi statica presuppone tutta una serie di operazioni precostitutive che fanno sì che il senso emerga come unitario nei suoi vari modi di apparizione. È questo rapporto di presupposizione reciproca a far sì che l’andamento complessivo della prassi fenomenologica sia di tipo ondivago, sia appunto un continuo zigzagare, come si esprime Husserl (XIX/1 22s. [213]; XXXV 394; Mat VIII 357; VI § 9l), tra i due momenti della ricerca.
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disciplina] come essenzialmente ‘oggettivo’” (XVII 14 [13*])22. L’oggettività coincide qui con la positività (filosoficamente cieca) delle discipline scientifico-naturali, una cecità che non consente loro di raggiungere “un’autocomprensione e un’autogiustificazione finali” (XVII 17 [18]). È dunque questa positività unilaterale a dover essere superata nella pratica onnilaterale dell’Auslegung: L’elemento non filosofico di questa positività consiste in null’altro che in ciò, che le scienze, a causa dell’incomprensione delle loro proprie prestazioni, come tali [frutto] di una intenzionalità operativa che resta per loro non tematica, non sono in grado di chiarire il senso d’essere autentico del loro àmbito e dei concetti che lo circoscrivono – dunque di dire in senso proprio e ultimo quale senso abbia l’essente di cui parlano e quali orizzonti di senso esso presupponga, orizzonti di cui le scienze non parlano e che tuttavia co-determinano il senso. (XVII 17s. [18*]).
Ecco che il progetto di un’esplicitazione intenzionale “procede dalle formazioni teoretiche che l’esperienza storica ci mette a disposizione […] da ciò che costituisce il loro contenuto tradizionale oggettivo, e le ritrasporta nell’intenzione vivente” (XVII 14 [14]) che ha concorso alla loro istituzione originaria. In tal modo “è interrogata l’intenzionalità che si ravviva [sich verlebendigende] in ogni effettiva ricomprensione”, mentre il proposito di una “consapevole esplicitazione [besinnliche Auslegung]” giunge a risemantizzare il progetto fenomenologico originario della “chiarificazione critica” della conoscenza di ogni ordine e grado (XVII 15 [14*]; supra § 1.4). La critica della conoscenza dovrà però evitare l’ingenuità propria di una teoria che si limiti ad aggiungersi esternamente (äußerlich beifügen) alle varie discipline scientifiche, che semplicemente vi si conformi. Il proposito husserliano è piuttosto l’inverso: è quello di 22
Naturalmente, rispetto alle altre discipline, la logica pura mantiene il ruolo preminente, assegnatole sin dai Prolegomena, di dottrina generale della scienza (teoria delle teorie). Si noti però che anche questa concezione risulta adesso pervasa dall’idea dell’esplicitazione intenzionale: “una logica effettivamente filosofica, una teoria della scienza che conduca a una esplicitazione onnilaterale [allseitiger Auslegung] della possibilità essenziale di una scienza autentica in generale, e con ciò possa guidare il divenire della scienza autentica, può risultare esclusivamente in connessione a una fenomenologia trascendentale” (XVII 17 [17]).
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una critica interna alle teorie esistenti che grazie all’opera di esplicitazione finisca per co-determinare (mitbestimmen) il senso stesso dell’impresa conoscitiva nel suo complesso (XVII 18 [18]). L’Auslegung ne co-determina i risultati attraverso la de-sedimentazione (Ent-sedimentierung, XLII 37) delle prestazioni intenzionali sottaciute dalla prassi scientifico-positiva, mediante la chiarificazione delle incrostazioni storico-sedimentarie che inevitabilmente pervertono il significato delle rispettive formazioni e acquisizioni teoriche. La vera teoria della conoscenza è la chiarificazione del senso “autentico” dei concetti logici e della stessa logica – non di un senso che preceda e già preesista, bensì da portare a termine [zu schaffenden] in primo luogo attraverso la teoria della conoscenza, da esplorare prima negli orizzonti della sua portata; ma ciò sotto la guida del senso precedentemente solo presunto. Del resto è come con le scienze positive; il fatto che ci siano storicamente significa che ci sono così bozze, pretese e in quanto tali, fili conduttori per ricerche trascendentali, il cui scopo è in primo luogo quello di portarle a termine, le scienze, come autentiche in generale. (XVII 18 [18*])
Alfine, la fenomenologia trascendentale si propone lo scopo di una fenomenologizzazione integrale dell’impresa conoscitiva. Essa consiste nella “revoca e innalzamento [Aufhebung, Emporhebung] di tutte le scienze mondane nella sfera trascendentale” (VIII 458). Performando l’epochē, “tutta la verità [delle posizioni d’essere dogmatico-naturali] è guadagnata in un senso più elevato” (VIII 168 [216]), perché ricompresa all’interno di un ordinamento sistematico capace di esplicitarne le implicazioni costitutive sottese. Tale ordinamento sistematico è quello offerto loro da un’autentica fondazione fenomenologica, la quale “conferisce unità a tutte le scienze in quanto ramificazioni della prestazione costitutiva a partire dall’unica soggettività trascendentale” (XVII 278s. [334*]). Di conseguenza, le discipline scientifiche acquisiscono il loro senso autentico in quanto “parti non indipendenti dell’unica scienza universale: la filosofia” (I 43 [74*]; cfr. XVII 279 [334]). Una cosa che vorrei sottolineare, prima di passare alla questione dell’idealismo, è che un simile riassestamento complessivo della fenomenologia attorno alla proposta dell’intentionale Auslegung finisce per coinvolgere anche il principio della Voraussetzungslosigkeit (III/1 136 [158]; I 47 [77]). Riconsiderata in questi termini, la scien-
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za fenomenologica non sembra affatto scevra di presupposti, anzi: proprio nella misura in cui essa procede a esplicitare formazioni di senso più o meno compiute essa di fatto le presuppone. E tuttavia, tale principio sembra mantenere una qualche validità capace di connotare l’impresa husserliana. Se per un verso, infatti, l’analisi genetica abbisogna di presunzioni di senso che come fili conduttori si pongano a guida dell’interrogazione regressiva (“è impossibile cercare senza pensieri guida”, VIII 169 [217]), per un altro, la stessa analisi promuove una rimozione progressiva di tali presupposti. La phänomenologische Auslegung presuppone la precostituzione intenzionale del senso passato, eppure, proprio perseguendo la sua desedimentazione, di fatto ne esplicita l’operatività latente, rimuovendo al contempo la sua valenza di presupposto inindagato. L’assenza di presupposti si rivela così non un punto di partenza bensì di approdo, una conquista graduale della fenomenologia che, per così dire, de-assolutizza ogni essente riconducendolo al proprio contesto di costituzione correlativa (XVII 279, 282s. [335, 339]). In questo modo, l’idea della Voraussetzungslosigkeit risulta salvaguardata non come postulato bensì come ideale regolativo del metodo – in quanto “radicalismo più estremo nell’aspirazione verso l’assenza di pregiudizi [im Streben nach Vorurteilslosigkeit]” (XVII 283 [339*]). Come risulterà nelle prossime sezioni, lo statuto dell’idealismo fenomenologico incorre in un rivolgimento non dissimile da quello patito dal principio della Voraussetzungslosigkeit. §4.3 L’autoesplicitazione e la prospettiva dell’idealismo §4.3.1 La presa di coscienza di sé […] ja oft genug sind wir schon – nur nicht bewußt und methodisch – mitten im Apriori.23
Con la presente sezione questo libro raggiunge il proprio compimento tematico. In maniera pressoché spontanea, la rivalutazione in cui è incorsa durante gli anni ’20 l’idea di una esplicitazione intenzionale conduce Husserl ad assumerne le potenzialità euristiche 23
XXVII 11 [12].
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al fine di decodificare l’intero progetto sistematico della fenomenologia24. Il sistema dell’idealismo fenomenogico-trascendentale prospettato alla fine del decennio coincide allora, quanto all’àmbito e al metodo di sviluppo, con l’idea stessa della phänomenologische Auslegung. “Quest’idealismo” sostiene Husserl “attinge puramente il proprio valore/contenuto [Gehalt] dall’esplicitazione fenomenologica dell’esperienza trascendentale riesumata [freigelegten] nella riduzione” (XV 20). La cogenza di una simile conclusione risulta evidente non appena si considerino alcuni paragrafi collocati strategicamente al culmine della parabola argomentativa di scritti emblematici per la fenomenologia di quegli anni: il § 104 della Logica e il § 41 della IVa Meditazione. Questi paragrafi non soltanto presentano ma precisano terminologicamente al grande pubblico quanto già formulato da Husserl al termine del ciclo di lezioni su Filosofia prima (Vorlesung 52), sia pure ancora soltanto in forma d’ipotesi: Forse, di nuovo, è vero in senso stretto che l’autoconoscenza, ma dunque soltanto l’autoconoscenza radicalmente pura o trascendentale, è l’unica fonte di tutta la conoscenza scientifica soddisfacente, autentica nel senso ultimo e più elevato, vale a dire della conoscenza filosofica, che rende possibile una vita “filosofica”. In questo caso, dunque, la filosofia stessa sarebbe soltanto un autodispiegamento [Selbstentfaltung] sistematico della soggettività trascendentale sotto forma di un’autoteoretizzazione [Selbsttheoretisierung] sistematica e trascendentale, sulla base dell’autoesperienza [Selbsterfahrung] trascendentale e dei suoi derivati. (VIII 167 [214*])
In questa sezione si tratterà di riflettere specificamente sul significato complessivo di questa operazione. Che senso ha infatti pensare la fenomenologia in termini di un autodispiegamento, 24
Tale spontaneità è però soltanto apparente. Come si è cercato di mostrare, Husserl è approdato a una simile conclusione soltanto dopo un enorme lavoro genealogico che ha messo in luce, tra le altre cose, la dinamica costitutiva sottesa alla possibilità dell’implicitazione correlativa del senso. Senza la comprensione preventiva di una simile congiuntura, l’idea dell’Auslegung non avrebbe potuto prendere corpo e raggiungere la propria valenza sistemica, proprio perché manchevole di una giustificazione interna all’analisi costitutiva. In altre parole, la fenomenologia non avrebbe potuto porsi il compito dell’esplicitazione se non avesse prima concepito la costituzione della realtà al modo di un sistema correlativo di implicazioni intenzionali.
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di un’autoteoretizzazione, di un’autoesperienza da parte della soggettività trascendentale? Che cosa s’intende del resto per quest’ultima? E che significato assume l’idealismo fenomenologico alla luce di tutto questo? Per rispondere a tali questioni sarà necessario compiere dei piccoli passi che completino quanto già messo in conto. Il primo di questi passi prevede il chiarimento del prefisso Selbst- che a ben vedere finisce per sovradeterminare il progetto dell’Auslegung. È il caso cioè di comprendere perché Husserl intenda la prassi fenomenologica come eminentemente autoriferita e cosa ciò effettivamente comporti. In prima battuta, si può osservare che l’autoreferenzialità della fenomenologia dà voce a una sua necessità intrinseca, ossia al fatto di non poter prescindere dal riferirsi a sé stessa in quanto esercizio di una certa condotta riflessiva. Proprio in quanto scienza della correlazione, essa non può tematizzare alcunché senza rimandare al contempo alle prestazioni intenzionali che tale tematizzare sorreggono ed espletano. Difatti: “la scienza in quanto teoria ha però il suo correlato nella scienza in quanto funzione, in quanto attività conoscente del soggetto” (XXV 205 [279]); e ciò vale sia per la scienza positiva che per quella fenomenologica. La differenza risiede però nel fatto che la fenomenologia, al contrario di qualunque pensiero naturale, non può esimersi dalla tematizzazione di questo correlato funzionale, dal farsi carico dell’apporto constitutivo dell’elemento soggettivo (non soggettivistico) in gioco. La fenomenologia è certamente scienza dedita all’elucidazione dell’intelaiatura eidetica che sorregge il sistema ontologico-regionale; ma la questione sollevata dall’approfondimento genetico è appunto che anche il mondo delle idee è un mondo costituito, e rimanda quindi alla coscienza costituente. Perciò la fenomenologia, in quanto scienza dell’eidos della coscienza pura si riferisce a sé stessa. Nel chiarire la costituzione di tutte le unità della coscienza chiarisce anche la costituzione delle unità che essa stessa forma, per così dire, ingenuamente. (XXV 204s. [277*]).
La fenomenologia assume dunque su di sé la responsabilità di esplicitare le prestazioni intenzionali che concorrono al chia-
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rimento del proprio tema specifico. Ora, ancor prima di sfociare nell’esigenza di una (auto)critica metodologica, l’autoreferenzialità della fenomenologia dev’essere connessa alla circostanza ovvia, ma spesso sottaciuta, secondo cui essa ricorre alle stesse dotazioni cognitive di cui dispone il soggetto nell’atteggiamento naturale. La prassi fenomenologica si esercita cioè in vissuti di percezione, attenzione, riflessione, variazione immaginativa, astrazione, ideazione etc., i quali sono parte integrante del vivere naturale della coscienza. In tal modo, la fenomenologia presuppone operativamente proprio quegli atti che è tenuta a elucidare perché implicati in determinate esperienze conoscitive, in determinati àmbiti di realtà. Sin dai Prolegomena (§ 65), interrogando le condizioni noetiche di possibilità della scienza in generale, Husserl reputa come sia “evidente a priori che i soggetti pensanti in generale debbono essere in grado […] di compiere tutte le specie di atti nei quali si realizza la conoscenza teoretica” (XVIII 240 [184]). Applicando questa evidenza a priori alla distinzione più tarda tra atteggiamento naturale e fenomenologico si ottiene con facilità il seguente principio di buon senso: è a priori evidente che ogni soggetto d’esperienza (naturalmente atteggiato) deve poter compiere tutti quegli atti in cui si esercita/realizza la conoscenza fenomenologica. Questo significa che l’atteggiamento naturale è ciò che in fin dei conti rende possibile la fenomenologia nel suo complesso e che quest’ultima, viceversa, lungi dal rappresentare un’invenzione ex-nihilo o un punto di vista da e su nessun luogo, è in realtà una prassi teoretica radicata e integrata nelle disponibilità cognitive della soggettività naturale25. 25
Incidentalmente, reputo che questo genere di considerazioni debba incentivare una sorta di fluidificazione osmotica della divaricazione tra atteggiamento naturale e fenomenologia. La loro netta demarcazione è certamente propedeutica a una prima comprensione della novità fenomenologica. Persistendo tuttavia nella mera contrapposizione dei due atteggiamenti finiremmo col perdere di vista la possibilità di interrogare il loro rapporto reciproco. Risulterebbe cioè impervio comprendere come la fenomenologia si radichi nell’esperienza naturale, sfruttandone le risorse cognitive (sia pure riorientandole per scopi propri), e come quest’ultima in qualche modo la motivi; similmente, risulterebbe arduo capire che l’atteggiamento naturale non può essere assunto come un dato originario ma debba anzi essere inteso come trascendentalmente costituito e dunque fenomenologicamente scoperto (luft 2011, cap. 1).
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Stando a questo ragionamento, allora, la fenomenologia si pone in una certa continuità rispetto alla teoresi mondano-naturale. Certamente, Husserl si avvale della rottura epistemologica prodotta dalla riduzione trascendentale ma quest’ultima rappresenta nulla più che una radicalizzazione di tendenze euristiche già operative in una prassi riflessiva che inevitabilmente la precede. Già sul terreno dell’atteggiamento naturale, la riflessione mi insegna che il mondo, che ogni genere di essente del quale io possa mai sapere qualcosa o parlare sensatamente, è, appunto, qualcosa di saputo che appartiene al mio sapere, qualcosa di esperito che appartiene al mio esperire, qualcosa di pensato che appartiene al mio pensiero, in breve, qualcosa di cosciente che appartiene alla mia coscienza. […] Se poi passo alla riduzione fenomenologica, questo significa che prendo sul serio [mehr Ernst mache], più di quanto faccia il soggetto che riflette in modo naturale e ingenuo, questa conoscenza della soggettività degli eventi conoscitivi […]. (VIII 182 [232])
La prospettiva fenomenologica radicalizza ciò di cui la riflessione naturale era più o meno (ingenuamente) consapevole. I vari modi della correlazione tra conosciuto e conoscente, esperito ed esperiente, pensato e pensante, etc., indubbiamente già noti prima di qualsiasi fenomenologia, sono però adesso conosciuti e, quindi, reinterpretati alla luce di una teoria trascendentale della costituzione. Per questa teoria essi non sono assunti semplicemente come dati di fatto ma indagati in quanto produzioni sintetiche, come altrettante prestazioni intenzionali. Sotto questo profilo, la fenomenologia appare come il grande sforzo di portare a consapevolezza quanto già latentemente operativo nell’atteggiamento naturale – e in esso ingenuamente presentito – ossia, nientemeno che il sistema di costituzione correlativa della totalità del reale (attuale, possibile, ideale)26. Almeno a partire dal corso del 1923-1924 su Erste Philosophie, la fenomenologia husserliana è allora, più che semplice riflessio26
In questo modo si spiega anche la retorica della Krisis in merito alla necessità di superare l’incomprensibile enigmaticità di quanto naturalmente assunto come ovvio (VI 183s. [206]). Già nel 1927, del resto, il compito dell’Auslegung si proponeva di ricucire la discrasia vigente tra Selbstverständlichkeit naturale e Verständlichkeit fenomenologica (XXXII 148 [241]).
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ne, vera e propria presa di coscienza (Besinnung)27 e, più precisamente, presa di coscienza di sé (Selbstbesinnung) in quanto soggettività transcendentale. L’apporto costitutivo della soggettività deve cioè essere riscosso dallo stato di “autovelamento” (VIII 77 [98]) cui lo relega l’atteggiamento naturale. Come preciserà anni dopo Fink, nella VIa Meditazione cartesiana, “la riflessione trascendentale […] rivela e dischiude per prima cosa questa vita trascendentale dell’io, levandola da un occultamento [Verborgenheit] e da una ‘anonimia’ che è vecchia quanto il mondo”. La riduzione fenomenologica è allora ciò che ridesta questa vitalità costituente, è il modo in cui “si compie il processo del divenire trascendentalemente autocosciente” di questa vita, in una sorta di “movimento del ‘pervenire-a-se-stessa’ della soggettività trascendentale” (Dok II/1 15 [27*])28. Grazie a queste precisazioni, l’autoreferenzialità della scienza fenomenologica sembra trovare chiarimento: essa si riferisce a sé stessa nella misura in cui rappresenta quello stadio di articolazione della genesi intenzionale in cui la vita cosciente si rivela per quello che da sempre è, ovvero: soggettività trascendentale. La fenomenologia, intesa come Selbstbesinnung, non è allora scienza campata in aria, né, tantomeno, smentita tout court dell’atteggiamento naturale, bensì un suo più alto grado di autoconsapevolezza. Husserl ricontestualizza il percorso di scoperta di chi fenomenologizza vincolandolo alla necessità della presa di coscienza di sé in gradi sempre superiori, quindi, di un processo di sviluppo della presa di coscienza di sé fin su [bis hinauf] alla presa di coscienza trascendentale di sé nel proprio sviluppo sistematico. (XV 378)
A ben vedere, allora, la fenomenologia altro non è che l’autocoscienza della soggettività trascendentale – di una soggettività che risulta già costitutivamente operativa, sia pure in maniera anonima e inconsapevole, in qualsiasi esperienza naturale. Ecco perché la feno27 28
Riprendo qui la traduzione del termine, a mio avviso appropriata, proposta da ricoeur (1986, 35). Fink matura questo genere di riflessioni a partire dalla conclusione del corso di Husserl su Natur und Geist del SS 1927. Si vedano gli appunti di Fink pubblicati in XXXII 264 [373].
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menologia può e dev’essere intesa alla stregua di un’autoesperienza e dunque di un’autoteoretizzazione, di un’esperienza e di una teoresi che la soggettività rivolge a sé stessa e precisamente a quelle prestazioni costitutive sottese alla sua stessa genesi, ossia alla generazione di sé stessa in quanto punto di vista (trascendentalmente) autocosciente. Di conseguenza, si comprende come questa autoreferenzialità coinvolga anche l’esigenza di un autodispiegamento (Selbstentfaltung) e quindi di una vera e propria autoesplicitazione (Selbstauslegung). In un manoscritto redatto a conclusione del WS 192627, Husserl sembra infatti legare a doppio filo l’intento di una “presa di coscienza di sé, [di una] esplicitazione trascendentale, [di un] autodispiegamento della soggettività e del mondo in essa racchiuso in quanto mondo oggettivo” (XIV 558). Questo legame indissolubile sarà quindi ribadito di lì a poco nella Logica. Ivi si afferma che “l’intera fenomenologia non è niente più che la scientifica presa di coscienza di sé della soggettività trascendentale” e, quindi, che il compito di una “critica della conoscenza in tutti i tipi di scienze, in quanto prestazione fenomenologica, è autoesplicitazione della soggettività che prende coscienza delle sue funzioni trascendentali” (XVII 280 [336*]). Del resto, come ho cercato di sottolineare sin dalla ricognizione in merito al fenomeno costitutivo originario (supra §§ 2.2, 2.3), la possibilità di una simile presa di coscienza è inscritta nella stessa dinamica autocostitutiva dell’Urprozess. Nelle ultime pagine della Vorlesung 54 di Erste Philosophie, Husserl ribadisce e precisa questo aspetto cardinale della vita intenzionale. Essa “si costituisce originariamente per sé stessa secondo l’esperienza”, al modo di un “flusso universale di vita nella forma di un’autocoscienza originaria”; quest’autocoscienza è come noto quella del “percepire ‘più intimo [innersten]’”, del “realizzare coscienzialmente sé stessi per sé stessi”. È importante sottolineare ancora una volta come questa autocoscienza sia “solo eccezionalmente e in singoli casi un percepire attenzionale, un attivo autoafferramento” e che, almeno inizialmente, essa sia anzi da intendere in maniera preriflessiva, “nel senso dell’apparire per sé stesso in originale” (VIII 188 [240*]). Tutto ciò contribuisce a connotare la soggettività come dimensione d’essere assolutamente peculiare in quanto strutturalmente autoriferita nel costituire e realizzare sé stessa:
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Così solo il soggetto ha un essere autonomo effettivo e costantemente realizzato: l’essere assoluto, come anche diciamo, proprio in quanto essere nell’essere-per-sé-stesso. (XXXV 278) Solo la soggettività può essere per sé in senso autentico e assoluto. Essere-per-sé vuol dire manifestarsi-a-se-stesso, vuol dire essere un processo di vita trascendentale di obiettivazione, cioè essere sotto il titolo classico di ego cogito. (VIII 189 [241]) L’essente assoluto sussiste nella forma di una vita intenzionale la quale, di qualunque cosa possa aver coscienza di volta in volta, è al contempo [zugleich] coscienza di sé stessa. Appunto per ciò […] essa può sempre per essenza riflettere su sé stessa secondo tutte le sue forme, le forme che da essa sono emerse, rendersi tematica, produrre giudizi ed evidenze riferite a sé stessa. Appartiene alla sua essenza la possibilità della “presa di coscienza di sé”, di una presa di coscienza di sé che retrocede dalle vaghe opinioni all’autentico sé per mezzo di disvelamenti. (XVII 279s. [334s.*])
Questo per dire che l’autoreferenzialità è una caratteristica strutturale che accompagna passo passo la soggettività in tutti i suoi stadi di (auto)costituzione, dal più originario sino al massimo livello di consapevolezza raggiunto dalla fenomenologia. Del resto, come emerso dall’analisi dell’Urphänomen, quella autoriferita non è che una delle due tendenze che animano la dinamica costitutiva. Come sottolineato, l’autocostituzione del soggetto non è mai qualcosa di immediato ma un’acquisizione temporalmente differita, una presa di coscienza, appunto, costantemente mediata dalla dialettica in gioco tra costituzione noematico-trasversale (oggettivazione) e noetico-longitudinale (soggettivazione). Questo fa sì che lo sviluppo della tendenza autocostitutiva preveda di necessità un qualche tipo di soppressione dialettica dei suoi stadi parziali – la loro implicitazione (supra § 3.2.3) – sino al raggiungimento di un’autocoscienza trascendentale autentica: fenomenologica29. Per il momento, se quanto detto è vero, ne risulta come non sia auspicabile intendere la soggettività trascendentale come una dimensione meramente “soggettiva”. Se essa coincide con il livello di autocoscienza acquisito una volta raggiunta la prospettiva 29
Quest’ultima, a sua volta, non rappresenta un grado ultimativo ma palesa anzi l’esigenza di un’autocritica che rimuova le ingenuità residuali del metodo che l’ha resa possibile (infra § 4.4).
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fenomenologica, allora, propriamente parlando, all’interno di questo surplus di autoconsapevolezza, la soggettività trascendentale denota non soltanto il soggetto egologico (l’io) o la sua estensione intersoggettiva (la comunità monadica), bensì l’intero punto di vista della correlazione fondamentale30. Poiché la presa di coscienza assume ogniqualvolta un “senso bilaterale” (XVII 281 [337]), la prospettiva fenomenologica, per cui il soggetto si comprende al contempo come costituito e costituente, coincide col punto di vista in cui l’a priori della correlazione si rivela nella sua interezza – e non soltanto in quanto polo soggettivo. Come già evidenziato, secondo Husserl, il mondo nella sua alterità può essere inteso come quel non-io trascendentale che è parte integrante del rapporto costitutivo (Mat VIII 120) e ciò nella misura in cui l’io, il polo egologico, non è pensabile senza un implicito riferimento intenzionale al non-io, a un suo contraltare oggettivo (XIV 244; Mat VIII 351s.). Fenomenologicamente intesa e opportunamente dispiegata, allora, la soggettività trascendentale non sarà altro che l’autocoscienza della correlazione, ossia quel grado di autoconsapevolezza in cui essa rivela la propria funzione onnipervasiva – strutturale e infrastrutturale – manifestando al contempo l’esigenza di un’indagine esplicativa a essa rivolta. Per capire meglio quest’ultimo decisivo aspetto nonché, di rimando, il peculiare statuto dell’idealismo fenomenologico, conviene prendere in considerazione una tarda nozione husserliana, quella di Allsubjektivität. Nell’apprestarci a far questo puntualizziamo quanto segue. Sulla scorta di quanto ricostruito nei capitoli precedenti, dovrebbe risultare evidente che parlare in termini di “prospettiva” e di “punto di vista” non rappresenta un mero espediente retorico. Tutt’altro: quello fenomenologico è letteralemente
30
Come già rimarcato, per riferirsi al versante noetico, al polo soggettivo della correlazione Husserl dispone di termini quali “io”, “ego”, etc. Sebbene egli non sia sempre conseguente nelle scelte terminologiche, nozioni quali “coscienza” e “soggettività”, se prese nella loro valenza trascendentale, tendono invece a ricomprendere l’intera dimensione correlativa. Riguardo quest’ultime, poi, reputo opportuno differenziarle in conseguenza del loro diverso grado di (auto)consapevolezza. La soggettività sarebbe dunque una coscienza consapevole di sé quanto alle proprie prerogative (trascendentali e non). Viceversa, la coscienza (in primis quella naturale) rappresenterebbe un grado di sviluppo immaturo della soggettività autocosciente.
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un punto di vista, la cui genealogia è inestricabilmente radicata in un percorso graduato di prese di coscienza; esso è l’approdo di un apprendistato meditante fatto di centrature, calibrazioni, ricognizioni riflessive espletate in seno all’esperienza. La rottura epistemologica inscenata dalla riduzione rappresenta il compimento di tale apprendistato e l’inizio della scienza propriamente detta. Ma la continuità prospettica di tale percorso non risulta per ciò compromessa. Anzi, essa vieppiù si radicalizza, disoccultando l’elemento trascendentale operativo al suo interno e riorientando su di esso l’interesse analitico. L’approfondimento genetico dell’analisi, se condotto sino all’ultimo dei suoi gradi, riconnette infine la prospettiva fenomenologica nel frattempo maturata alla prospettivizzazione originaria dell’orizzonte manifestativo. Similmente, l’idealismo fenomenologico-trascendentale, non coincide con l’affermazione di una certa tesi filosofica bensì col punto di vista prospettato – ancorché indefinitivamente – da un ideale metodico e regolativo, con la prospettiva della compiuta esplicitazione fenomenologica. §4.3.2 Il punto di vista dell’Allsubjektivität […] nehmen wir unseren Ausgang von dem, was vor allen Standpunkten liegt31
Arrivati a questo punto, è possibile porre la questione dell’idealismo in relazione alla tematica della Selbstauslegung, nel tentativo cioè di chiarire il primo a fronte di quest’ultima. In primo luogo, si rileva che, per Husserl, “l’intera fenomenologia non è altro che la prima forma rigorosamente scientifica di questo idealismo” (VIII 181 [231]). Come non si è mancato di osservare, la proposta husserliana non eccede le pretese e i limiti di un idealismo epistemologico32 e financo metodologico33. Lungi dal porsi come 31 32 33
III/1 45 [46]. Cfr. bernet (2004, 154). In tal senso, come osservato da Wallner (1987), manca il bersaglio la critica di ingarden (1975) basata su una lettura ontologico-esistenziale. Cfr. seeboHm (1962, 154) e de palma (2003). De Palma distingue questo motivo critico dell’idealismo metodologico di Husserl, consistente nel rifiuto della cosa in sé (ossia di qualcosa che per principio si sottrae a un legame
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fautore di una dipendenza metafisica della realtà dal soggetto che la intende, l’idealismo husserliano pone invece l’accento sul loro intrinseco correlativismo34. Ciò consente a Husserl non soltanto di mantenere la propria proposta al di là di ogni classica opposizione tra realismo ingenuo e idealismo psicologico-soggettivo (XVII § 66; I 33s., 118s. [64, 161]; V 150-154 [426-429])35, ma anche di riequilibrare alcune formulazioni che potevano far pensare a una risoluzione ontologica tout court dell’oggetto nella coscienza (supra § 1.5.2). Cerchiamo dunque di comprendere meglio quali siano le peculiarità della proposta husserliana. Innanzitutto, parlare semplicemente di correlativismo, con ciò intendendo la mutua dipendenza logica di un mondo e di una mente impensabili l’uno senza l’altra, non è sufficiente36. Vanno anzi ribadite le prerogative
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costitutivo ancorché solamente possibile con la coscienza), da un motivo di tipo invece dogmatico (fenomenista), legato a una concezione ancora amorfa della base iletico-materiale della costituzione e al primato ontologico dell’esperienza interna. Sebbene alcune formulazioni ambigue, specialmente dei primi scritti husserliani, prestino il fianco a questo secondo tipo di lettura, quanto ricordato nel corso del presente lavoro in merito alla ricezione critica della teoria brentaniana della coscienza interna, in merito alla contestazione dello schema apprensione-contenuto d’apprensione, alla problematizzazione della sfera costitutiva immanente e all’autocostituzione della stessa, agli sviluppi genetici della riflessione sulla hyle e sulla sua organizzazione passiva, tutto ciò dovrebbe risultare sufficiente a sventare un’interpretazione dogmatica dell’idealismo husserliano. Cfr. zippel (2007b, 61s), secondo il quale la peculiarità di questo idealismo è quella per cui “pur non risolvendo la realtà trascendente nell’immanenza soggettiva, ne radica il senso d’essere nelle operazioni coscienziali dell’Ego”. Si veda anche zaHavi (2017), il quale insiste a più riprese sul correlativismo fenomenologico rintracciandone (p. 114) una prima diagnosi in beck (1928). “La risoluzione fenomenologica di tutte le opposizioni filosofiche” è un vanto con cui Husserl ammanta la propria novità filosofica nell’articolo redatto per l’Encyclopaedia Britannica (IX 299s. [170s.]). Tale risoluzione prevede l’armonizzazione di opposizioni quali razionalismo/empirismo, relativismo/assolutismo, soggettivismo/oggettivismo, ontologismo/trascendentalismo, teleologicismo/causalismo, etc., all’interno di una prospettiva più ampia, quella fenomenologica appunto, che rilevi al contempo la validità e la parzialità dei nuclei di verità in gioco in tali opposizioni filosofiche, le quali risultano dunque al contempo rivalutate e trasvalutate fenomenologicamente. Il semplice richiamo al correlativismo non permette infatti di distinguere la posizione di Husserl da quella, fra gli altri, di Dilthey (in questo errore cade non a caso beck 1928, 611).
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trascendentali di questa correlazione, il suo tenore costitutivo, e ciò non soltanto sotto il profilo della presentazione intuitiva di un fenomeno a un soggetto dato (la Veranschaulichung), ma anche per quanto riguarda l’istituzione dei valori di senso relativi al fenomeno in questione (la Sinngebung). Solo tenendo assieme i due aspetti (manifestabilità e validità del senso) risulta apprezzabile il valore epistemologico dell’idealismo husserliano – per cui il senso d’essere sovradetermina, per così dire, l’apparire fenomenico – nonché la connotazione metodologica di questo idealismo – per cui ciascun senso d’essere è ricondotto alle proprie radici di validità intenzionale. Un brano di datazione incerta37, tratto dalla Beilage XXX di Erste Philosophie II, precisa la questione fornendo una chiave di lettura che reputo d’importanza decisiva: Finché non afferro l’intera universalità della soggettività trascendentale nell’esperienza e nel pensare trascendentale, precisamente in quanto inter-soggettività, e in ciò non ho riconosciuto il mondo come correlato di questa intersoggettività […]; in altre parole: finché non ho esplicitato trascendentalmente [transzendental ausgelegt] la soggettività trascendentale in tutte le sue dimensioni […] fino ad allora persiste la tensione [Spannung] tra rappresentazione del mondo – e in particolare tra una rappresentazione meramente soggettiva di ciò che è mondano – e il mondo stesso, il mondo effettivamente esistente.
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La Beilage (VIII 479-482) è tratta da tre fogli manoscritti (pp. 15-7) appartenenti al plico catalogato come Ms. B II 15 presso l’Archivio Husserl di Lovanio. Secondo il curatore Boehm, mentre il resto del manoscritto sarebbe stato composto non prima del 1930, i tre fogli rappresentano un testo a sé stante che per contenuto e aspetto risalirebbe circa al 1924 (Hua VIII 585). Vista la collocazione temporale comunque incerta, mi si consenta di ipotizzare una datazione successiva a quella indicata da Boehm, magari coeva al primo periodo di rielaborazione dei Pariser Vorträge (marzo ’29-marzo ’30). Dico questo sulla base di due indizi testuali e tenendo ferma l’ipotesi della derivazione autonoma dei tre fogli rispetto al resto del manoscritto. Per la prima volta nell’intero corpus husserliano, infatti, fa qui la sua comparsa il termine Allsubjektivität. Ora, si dà il caso che tutte le altre occorrenze della nozione si attestino in scritti degli anni ’30; se la Beilage fosse stata redatta quando sostiene Boehm sarebbe dunque da spiegare perché un termine introdotto nel 1924 non trovi poi ulteriore impiego se non a diversi anni di distanza dalla sua introduzione. A ciò si aggiunga – come argomentato in precedenza (supra § 4.2) – che un impiego tecnico del verbo auslegen, anch’esso presente nel brano, sembra affermarsi solo nella seconda metà degli anni ’20.
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[…] Soltanto se ho ricercato l’ultimo punto di vista trascendentale [den letzt-transzendentalen Standpunkt] e da questo ho abbracciato nella sua totalità l’infinità dell’onnisoggettività trascendentale [transzendentalen Allsubjektivität] […] questa tensione scompare, scompare la differenza tra rappresentazione e realtà effettiva. (VIII 480)
Sono molte le cose che è lecito evincere da questo passo. In primo luogo, l’impresa husserliana coincide con la ricerca di un determinato punto di vista, quello trascendentale appunto. La fenomenologia può dunque ritenersi a giusto titolo una scienza prospettica38: essa prevede certo il superamento del punto di vista ingenuo e parziale dell’atteggiamento naturale, ma anche una progressiva presa di coscienza all’interno dello stesso atteggiamento fenomenologico. Ancora una volta, si apprezza come questa lettura della fenomenologia – alla stregua cioè di un guadagno prospettico – consenta di ricollegare il punto di vista ultimativo da essa ricercato all’apertura prospettica originaria (Urperspektivierung) conseguita dal processo primario. La presa di coscienza fenomenologica consiste allora nell’ottenimento di uno Standpunkt privilegiato come quello trascendentale, in grado cioè di riabbracciare, infine, l’intera articolazione costitutiva sino alla propria genesi prospettica39. Secondo la lettura, per così dire, continuista che abbiamo iniziato a tratteggiare nella scorsa sezione, la prassi fenomenologica affonda a pieno titolo le sue radici nelle risorse cognitive disponibili nell’atteggiamento naturale: “la vita viene sempre prima del metodo esplicitante [auslegenden Methode] e questo metodo è esso stesso vita” (XXXIV 175 [39*]). La prospettiva fenomenologica è allora quella in cui quanto consegue dall’apertura dell’orizzonte manifestativo (l’Urphänomen) trova una sorta di chiusura prospettica; è una chiusura che coincide con quell’ultimo punto di vista in grado di ricomprendere l’articolazione della genesi intenzionale con tutti i suoi gradi di sviluppo, 38 39
Nel 1925 Husserl parla espressamente di una “critica prospettica dell’esperienza trascendentale”, di una “teoria della conoscenza prospettica” (XXXV 406). La fenomenologia della fenomenologia avviata da Husserl e proseguita da Fink, concepita in primo luogo come fenomenologia della riduzione trascendentale, rappresenta in tal senso il tentativo di chiudere il cerchio riflettendo sulla genesi stessa della prospettiva fenomenologica.
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in tutta la sua portata, e di conferirle un proprio valore epistemico: “ma solo l’esplicitazione pensante [denkende Auslegung] constata questa vita, che è così, questo è il suo esito, e in tal modo precede l’essere nel senso della verità” (ibid.). Da ciò si evince che la maturazione di una prospettiva idealistica non è una conquista immediata a seguito del mutamento di atteggiamento, bensì il frutto del lavoro di esplicitazione della sfera d’interesse trascendentale. Come emerge dal passo succitato per esteso (VIII 480), questa sfera è sì quella della soggettività trascendentale ma soltanto se afferrata nella sua “intera universalità”, “in tutte le sue dimensioni”, in modo tale da ricomprendere al suo interno l’intersoggettività e il mondo come suo correlato. La vera estensione del trascendentale husserliano si rivela allora quella propria di una onni-soggettività (Allsubjektivität), di una soggettività cioè compiutamente esplicitata, che collima con la totalità sistematica dei nessi che intessono la struttura intenzionale della realtà nel suo complesso. In tal modo, (il punto di vista del) l’idealismo trascendentale husserliano può pretendersi tanto soggettivo quanto oggettivo, poiché esso coincide con la totalità dei possibili modi del correlarsi, ovvero con il sistema di covarianza dei processi di soggettivazione e oggettivazione. Se quanto detto è vero, ecco che l’assunzione di un simile punto di vista comporta il superamento della tensione vigente tra rappresentazione (soggettiva) e realtà (oggettiva) del mondo. Questa distinzione collassa perché presuppone ancora la credenza in un mondo in sé e dunque in un soggetto o insieme di soggetti deputati al mero rilevamento conoscitivo della realtà40. Il superamento di questa credenza consiste invece nel rilievo per cui il soggetto o l’insieme di soggetti, proprio perché conoscenti, contribuiscono più o meno consapevolmente alla (pre-)costituzione di un mondo a sé stante41. L’in-sé del mondo altro non è che il prodotto di 40
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Quest’ultima è la tesi propria di un realismo metafisico, l’unico tipo di realismo a cui l’idealismo fenomenologico apertamente si oppone, palesando l’attualità e financo la spendibilità della posizione husserliana (zaHavi 2010a). Il realismo ingenuo-naturale, consistente nella credenza nell’esistenza empirica del mondo, risulta invece pienamente salvaguardato dalla proposta di Husserl. Ricordiamo come l’andamento del processo di costituzione e dei gradi di conoscenza proceda secondo una progressiva differenziazione e perseizzazione dei poli e degli orizzonti costitutivi (supra § 3.1.2).
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prestazioni intenzionali che intessono l’esperienza del soggetto in (cor)relazione al mondo stesso, ossia, nulla più che un senso d’essere trascendentalmente costituito. In questo modo, l’intero piano ontologico risulta sovradeterminato dalla dimensione trascendentale del senso: Tutte le ontologie filosofiche sono ontologie fenomenologico-trascendentali: tutte le regioni di ὄντα sono regioni di ὄντα che secondo il loro effettivo senso d’essere trascendental-filosoficamente chiarificato sono idealità trascendentali, unità costituite nella onnisoggettività trascendentale. (VIII 482)
E ancora: la fenomenologia trascendentale pienamente sviluppata in modo sistematico sarebbe eo ipso l’ontologia universale vera e autentica – non una mera ontologia vuota e formale, ma tale da racchiudere in sé tutte le possibilità regionali dell’essere secondo tutte le correlazioni che appartengono a esse. (I 181 [239])
Il compito della fenomenologia è appunto, letteralmente, quello di esplicitare il senso di questa sovradeterminazione trascendentale dell’ontologia, comprendendo come “l’esistenza della cosa stessa, dell’oggetto d’esperienza, [sia] inseparabilmente implicata in questo sistema di connessioni trascendentali” (VIII 179 [229]). Di conseguenza, proprio perché visceralmente costituita e non dogmaticamente presupposta, “la trascendenza del mondo […] non presenta alcun mistero metafisico: è di tipo diverso ma, quanto al suo tratto più universale, dello stesso genere di quello della trascendenza dei numeri e di altre obiettività irreali” (VIII 180 [229s.*]). Sebbene le cose, intese come complessi spazio-temporali, non esibiscano le stesse leggi eidetiche di formazione delle idealità matematiche, nondimeno, “ciascuna di queste oggettualità ideali esistenti è ciò che è in quanto indice dei suoi sistemi costitutivi” (I 30 [60]). L’in-sé dell’oggetto non ha dunque valore noumenico ma è costituito come idealità trascendente, come l’indice di convergenza di un sistema indefinitamente aperto di esperienze possibili che lo riguardano. Rileggendo l’idealismo fenomenologico alla luce del compito della Selbstauslegung, si giunge a comprendere come, in certa
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misura almeno, la prospettiva husserliana si ricolleghi con quella dell’idealismo classico tedesco, sebbene, in fin dei conti, non possa coincidervi42. Anch’essa pare infatti decisa a far valere una sorta di coincidenza tra soggetto e oggetto d’indagine, una certa commistione tra io e mondo. Da parte sua, sokoloWski (1970, 135) ha intravisto la possibilità di distinguere l’idealismo husserliano da quello sostenuto a suo tempo da Hegel, rilevando come, a differenza di quest’ultimo, Husserl non identifichi coscienza e realtà (sic)43, mantenendo anzi i due termini nel paradosso – irriducibili, per così dire, stanti i loro modi di interazione. Se presa cum grano salis, la posizione di Sokolowski coglie nel segno per quanto riguarda la dimensione dell’atteggiamento naturale, in cui coscienza e realtà si oppongono nella comune esperienza di un mondo altro dall’io. Questa separazione però non sembra valere né per il livello costitutivo originario (nell’Urphänomen costituito e costituente coincidono), né in relazione all’ultimo Standpunkt ricercato dalla fenomenologia (quello di una compiuta esplicitazione): a questo stadio soggetto e mondo tendono infatti a essere riassorbiti come momenti parziali della medesima totalità sistemica, all’interno di ciò che abbiamo appreso essere la Allsubjektivität trascendentale. In tal senso, l’idealismo di Husserl pare riavvicinarsi alla prospettiva dell’idealismo classico: l’opposizione tra coscienza e realtà potrebbe effettivamente rappresentare soltanto una parentesi tesa tra l’indistinzione costitutiva originaria e la piena autocoscienza raggiungibile dalla compiuta esplicitazione della Allsubjektivität. Sarebbe allora soltanto l’Einstellung naturale (la “coscienza naturale” per Hegel) a vivere di e in questa separazione. L’uso del condizionale, però, è qui d’obbligo. Come vedremo, infatti, l’effettiva ricomposizione della scissione tra soggetto e oggetto rappresenta per la fenomenologia husserliana soltanto un’eventualità indefinitamente approssimabile. La tensione prospettata dall’ideale metodico della Selbstauslegung, che pure sus42 43
Su questo si tenga presente boeHm (1959a). Per amor di discussione, mi limito a riportare qui i termini usati da Sokolowski, senza cioè problematizzare più di tanto se questo modo di esprimersi restituisca fedelmente quanto in effetti sostenuto da Hegel. È infatti indubbio che quest’ultimo, propriamente parlando, non abbia inteso identificare realtà e coscienza, quanto più essere e pensiero.
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siste e regola fattivamente la prassi fenomenologica, è appunto un ideale regolativo e come tale inattingibile. In concreto, dunque, ha ragione Sokolowski a sostenere che coscienza e realtà siano costantemente mantenute nel paradosso. Ciò non toglie, però, che almeno in punta di teoria la prospettiva husserliana attenda metodicamente alla risoluzione della loro separazione e dunque tenda a riallinearsi con quella dell’idealismo classico tedesco44. Vediamo di capire meglio in che modo. Ora, è pur vero, come si spiega in Ideen I, che “tra coscienza e realtà si spalanca un vero abisso del senso” (III/1 105 [122*]). Ma questo abisso è giustappunto ciò che il proposito dell’autoesplicitazione intenzionale ha la pretesa di ricucire, ricostruendo i nessi di intermediazione che l’hanno istituito. Ciò che staticamente è inteso come abisso del senso, come struttura correlativa del rivolgimento intenzionale (ego-cogito-cogitatum), dal punto di vista genetico altro non è che il portato costitutivo del processo che ha generato tale struttura, differenziando dunque io e mondo come due poli mutualmente distinti. Il compito dell’esplicitazione è appunto quello di considerare che “la soggettività trascendentale in generale è data secondo gradi di immediatezza e mediatezza relativi ed è data soltanto all’interno di questi gradi, gradi di una implicazione intenzionale” (VIII 175 [223]). Soltanto ricostruendo i suoi gradi di intermediazione si arriva a comprendere quanto espresso con mirabile chiarezza nel § 41 delle Meditazioni: Voler cogliere l’universo dell’essere vero come qualcosa che sta al di fuori dell’universo di una coscienza possibile, di una conoscenza 44
È anche il caso di precisare come la trasposizione all’infinito del compito dell’Auslegung fa sì che non si dia alcun superamento possibile della prospettiva fenomenologica, con ciò che ne consegue hegelianamente parlando: non si dia cioè alcun Sapere Assoluto e con esso la possibilità di attendere all’autosvolgimento sistematico dell’idea logica (in termini husserliani: all’autoarticolazione correlativa della costituzione della realtà). La fenomenologia trascendentale non è infatti propedeutica alla vera scienza, è essa stessa l’ideale metodico cui indefinitivamente si approssima una philosophia perennis, una prassi scientifica che in sé stessa trova cioè le possibilità e i limiti del proprio esercizio. Tra i numerosi tentativi di confronto tra le filosofie di Hegel e Husserl rimando almeno ai recenti volumi di manca, magrì, ferrarin (2015); manca (2016); ferrarin, moran, magrì, manca (2019).
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possibile, di un’evidenza possibile, mettendo in relazione reciproca i due universi meramente dall’esterno attraverso una legge rigida, non ha alcun senso. Tali universi appartengono in modo essenziale l’uno all’altro e questa coappartenenza essenziale significa che sono un’unità, un’unità nell’unica assoluta concrezione della [onni]soggettività trascendentale. Se la [onni]soggettività trascendentale è l’universo del senso possibile, allora porre una qualche esteriorità rispetto ad essa non ha proprio alcun senso. (I 117 [159])
Se mi sono permesso di modificare lievemente il passo citato, anteponendo cioè il prefisso All- al termine Subjektivität, è perché tale prefisso sembra qui in grado di esprimere meglio il punto di vista trascendentale dell’unità dei due momenti dell’essere e della coscienza. Del resto, l’uso del termine Allsubjektivität risulta pervasivo in almeno due testi redatti nel novembre del 1931, durante cioè il secondo periodo di rielaborazione delle Meditazioni (XV Nrr. 22-23). Qui Husserl ha il merito di corroborare quanto argomentato nel corso delle ultime due sezioni. Riflettendo in merito all’articolazione storico-generativa della soggettività trascendentale, al suo essere dapprima operativamente celata e all’esigenza di una sua esplicitazione fenomenologica, Husserl precisa: Ma il fenomenologo e la fenomenologia in persona stanno in questa storicità. Mondanizzata [Verweltlicht] come tutto ciò che di trascendentale si presenta, essa mostra un grado di sviluppo della stessa soggettività trascendentale, quello della breccia [Durchbruchs] dell’autoconoscenza trascendentale della onnisoggettività trascendentale. (XV 393)
La fenomenologia rappresenta dunque il più alto grado di autoconsapevolezza tra quelli resisi disponibili nel corso della genesi intenzionale. Tale consapevolezza, come visto, eccede l’autocoscienza del singolo soggetto e della comunità monadica per ricomprendere al suo interno la totalità del reale costituita da impliciti nessi intenzionali e da altrettante validità di senso. La presa di coscienza di sé è infatti un’autoesplicitazione correlativa, condotta tanto per ciò che riguarda l’io, quanto per ciò che è posto come non io (XXXIV 230s.). Dinanzi al compito della Selbstauslegung si spalanca dunque il campo sterminato della Allsubjektivität trascendentale. Il modo in cui in vari testi Husserl precisa i contorni
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dell’onnisoggettività sembra infatti collimare con le prerogative attribuite all’autoesplicitazione fenomenologica. Tra gli aspetti peculiari della Allsubjektivität se ne rimarca la correlatività della “struttura costituente-costituito” (XLII 115), il legame necessario con “i fatti originari della hyle” (XV 385), il carattere di orizzonte e di operatività fungente (XXXIX 567, 628). In senso lato, il risveglio dell’onnisoggettività equivale dunque a quello della teleologia immanente allo sviluppo delle forme costitutive (XV 380); rappresenta cioè il compimento dello sviluppo dell’autocoscienza trascendentale (XLII 223), del suo svelamento sistematico (XV 390), coincide alfine con il compito di un’autoconoscenza disposta all’infinito (VI 472 [498])45. Alla luce di quanto detto, risulta intelligibile cosa intende Husserl quando rimarca la novità del proprio idealismo fenomenologico. Esso non rappresenta un idealismo di tipo psicologistico o soggettivistico, perché sebbene “la correlazione soggetto-oggetto non [sia] tale che la cosa possa essere in sé e per sé”, tuttavia, anche “l’esseresoggetto […] sottostà alla stessa correlazione, per quanto sorprendente possa apparire” (VI 468s. [493]). D’altro canto, la proposta di Husserl si sottrae alla “lotta dialettica con i vari tipi di realismo” (I 118 [161]). Proprio perché egli attende al “disvelamento sistematico dell’intenzionalità costituente”, ossia all’“esplicitazione di senso effettivamente condotta in merito a ogni tipo di essente che io, l’ego, posso immaginare” (I 119 [161]), di fatto e per ciò stesso, le pretese di qualunque forma di realismo sono ricondotte alle proprie fonti sottese di validità. In altre parole, l’“idealismo trascendentale racchiude46 in sé interamente [birgt…ganz in sich] il realismo naturale” (IX 254), lo sovradetermina e per così dire lo invera47.
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Sempre in merito alla Allsubjektivität cfr. XV 646; XXIX 80, 88, 207, 307; XXXIV 317, 325, 363; Mat VIII 23. “Racchiude” ma anche “recupera”, “salva”, giocando sui diversi significati del verbo bergen. Come recita una nota lettera a E. Baudin del 1934: “nessun ‘realista’ ordinario è mai stato così realistico e concreto come me, l’‘idealista’ fenomenologico (una parola che del resto non uso più)” (Dok III/7 16). La riluttanza a usare il termine “idealismo” negli ultimissimi anni della vita di Husserl non è dovuta a un mutamento di pensiero bensì mirata all’esigenza di evitare superficiali fraintendimenti interpretativi dello stesso (VI 440 [462]).
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Si comprende, inoltre, che cosa intende Husserl quando asserisce che “la prova di questo idealismo è l’attuazione [Durchführung] della fenomenologia stessa” (I 34 [64*]). Esso “non si prova mediante l’argomentare aporetico, bensì tramite la conseguenza dello stesso lavoro fenomenologico” (IX 254). A ben vedere, l’idealismo husserliano collima col progetto della phänomenologische Selbstauslegung, con la realizzazione della fenomenologia; e questo significa che la prospettiva idealistica non precede il metodo al modo di una tesi metafisica bensì ne consegue quale esito della sua esecuzione sistematica. L’idealismo fenomenologico non è tanto il tema specifico della fenomenologia, qui intesa come prassi e metodo di lavoro, quanto più il risultato (Ergebnis) (VIII 482). L’idealismo non si presenta cioè come una preconcetta visione del mondo48 ma come una conquista filosofica, un’attestazione metodologica progressiva, man mano cioè che l’esplicitazione intenzionale prosegue e che interi àmbiti ontologici sono ricondotti alle rispettive fonti di validità e così riassorbiti all’interno del dominio complessivo della Allsubjektivität trascendentale. “Questo tipo di intelligibilità – dice Husserl – è la più alta forma di razionalità concepibile”, il cui conseguimento permette di superare “tutte le errate interpretazioni dell’essere”, le quali “sorgono dall’ingenua cecità per gli orizzonti che ne co-determinano il senso e per i compiti relativi al disvelamento dell’intenzionalità implicita” (I 118 [160*]). Al contempo, però, tutto ciò equivale anche a dire che una prova definitiva dell’idealismo fenomenologico non si avrà mai. Un’attestazione conclusiva di questo idealismo esigerebbe infatti l’esplicitazione compiuta dell’intero sistema dell’esperienza reale e possibile, attuale e potenziale, egologica e intersoggettiva, e ancora: normale e anormale, umana e animale, terrestre e financo aliena (XV 382) – insomma: l’esplicitazione di “tutti i mondi immaginabili” (I 33 [63]). Tutto questo, infatti, in quanto àmbito d’interesse 48
Per una critica della Weltanschauung cfr. VI 509 [536s.]. Si tenga presente, tuttavia, che se declinato storicamente il rapporto tra Weltanschauung e filosofia come scienza rigorosa risulta meno scontato di quanto possa apparire a prima vista: l’avvento di una fenomenologia “scientifica” autentica presuppone in effetti la sua prefigurazione ideologica mutuata da un certo milieu positivista. Starebbe poi alla realizzazione della stessa scienza fenomenologica rimuovere questo presupposto ideologico che ne ha coadiuvato l’istituzione (cfr. boeHm 1959a).
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dell’intenzionalità costituente, deve poter essere esplicitato ed eventualmente incorporato, quale suo momento, dalla Allsubjektivität. Oltre questo limite estrinseco di natura estensionale, il compito ne presenta anche uno di ordine intrinseco e legato al tenore ricorsivo e temporale del processo costitutivo che inevitabilmente riverbera sul piano metodico della Selbstauslegung. Il fatto è che “io esplicito ciò che ho già come acquisito [als Erwerb], ma in quanto acquisito che è sempre nel [corso dell’]acquisire [im Erwerben]” (XV 201). L’unità dell’esperienza è un prodotto ricorsivo per cui il senso sedimentato implicitamente non è un possesso definitivo ma ognóra rivedibile (supra § 3.2.3). Ciò fa sì che anche l’Allsubjektivität risulti qualcosa di esplicitabile intersoggettivamente nel corso di una storia (XXIX 87). Se così non fosse, se cioè Husserl avesse pensato la fenomenologia come un sistema chiuso e non come un’idea tesa all’infinito, non avrebbe alcun senso affidarne l’adempimento alla cooperazione di generazioni e generazioni di filosofi (VI 439 [460]). Più che una concezione filosofica, l’idealismo fenomenologico-trascendentale è allora un vero e proprio progetto di ricerca; un progetto che prevede lo sviluppo cooperativo e metodologicamente codificato dei suoi modi di attestazione e corroborazione. È un idealismo, per così dire, in itinere, per cui l’essere è funzione di una prassi specifica. In fin dei conti, “per l’indagine in merito alla correlazione della fenomenologia, l’essente è un’idea pratica: l’idea di un lavoro infinito di determinazione teoretica” (I 121 [163*]). In conclusione, mi si consenta un’ultima postilla. Se, idealmente, il terreno a cui si rivolge la fenomenologia è quello della totalità correlativa dell’Allsubjektivität, nondimeno, l’autoesplicitazione risulta “condotta nella forma di una scienza egologica sistematica” (I 33, 118 [64, 161]). Almeno sotto il profilo euristico la correlazione fa valere cioè una fondamentale asimmetria, giacché, banalmente, è solo il polo soggettivo (l’ego cogito) a perseguire praticamente il progetto dell’Auslegung. Il modo in cui chi fenomenologizza promuove l’esplicitazione è inizialmente lo stesso con cui Husserl ha aperto la strada alla fenomenologia, ovvero quella via diretta all’ego trascendentale e promossa dal pri-
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mo “rivolgimento cartesiano” (I § 3)49. Solo a partire da questo rivolgimento, dopo cioè che il punto di vista trascendentale si è in qualche modo instaurato, esso potrà anche estendersi concentricamente sino ad abbracciare l’intera estensione del sistema costitutivo dei rimandi intenzionali, integrando in esso la dimensione intersoggettiva e perseguendo l’ideale regolativo dell’autoesplicitazione dell’Allsubjektivität50. L’inizio cartesiano, è bene ribadirlo, non è comunque sufficiente a pregiudicare il progetto husserliano resuscitando gli spettri del soggettivismo. Non bastasse quanto detto a proposito dell’autocostituzione correlativa della soggettività trascendentale, si tenga in giusto conto che la fenomenologia sarà comunque in grado di appellarsi, a pieno titolo, al tenore eidetico del proprio sguardo: L’autoesplicitazione fenomenologica che si attua nel mio ego, che riguarda tutte le sue costituzioni e oggettualità che esistono per lui, assume necessariamente la forma metodologica di un’autoesplicitazione a priori. Un’autoesplicitazione che assegna ai fatti la loro posizione all’interno del corrispettivo universo della pura possibilità (eidetica). L’autoesplicitazione riguarda, sì, il mio ego fattuale, ma solo nella misura in cui esso è una tra le pure possibilità, che possono essere ottenute a partire dalla sua libera variazione immaginativa (o nella fantasia). L’autoesplicitazione, in quanto è eidetica, vale per l’universo di queste possibilità di variazione del mio ego in quanto ego in generale, vale per l’universo di queste mie possibilità di essere un altro ego qualsiasi. Proprio per questo essa vale anche per qualunque intersoggettività possibile che si riferisce (con una variazione corrispondente) a queste mie possibilità e, pertanto, vale anche per il mondo che deve essere pensato come costituito intersoggettivamente. (I 117s. [160])
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L’avvio cartesiano non ha soltanto ragioni intrinseche per la fenomenologia, ragioni propedeutiche; esso ha per Husserl un incrollabile valore storico come quel primo impulso del motivo trascendentale che riverbera in tutta la storia della filosofia moderna, cfr. nobili (2019). Al netto di questo primato euristico, è possibile argomentare in favore della co-originarietà trascendentale, intesa come interdipendenza costitutiva strutturale, di soggettività, intersoggettività e mondo (zHang junguo 2021). E tuttavia questa co-originarietà non può essere assunta preliminarmente: come conclude l’A. essa è infatti il risultato dell’indagine fenomenologica, ossia, dal nostro punto di vista, il portato ultimo (seppure mai compiutamente attestabile) della Selbstauslegung.
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L’autoesplicitazione è dunque eidetica e a priori. Meglio: l’esplicitazione concerne eideticamente l’a priori, quell’a priori universale della correlazione – in tutta la sua indefinita portata: io, intersoggettività, mondo – alla cui elaborazione sistematica Husserl ha dedicato il lavoro di una vita (VI 169n. [292n. 13]). §4.4 Riduzione, costruzione, (meta)variazione: fenomenologia dell’Urphänomen Das Rätsel des Urseins — mein, des transzendental Fragenden, Urrätsel — mein urphänomenaler Strom der Zeitigung.51
Una questione di grande rilievo che il presente lavoro ha sinora eluso concerne l’effettiva praticabilità di un’analisi della costituzione originaria, di quella dimensione che più di ogni altra sembra mettere in crisi il paradigma metodologico architettato da Husserl52. Lo scopo di questa sezione sarà quello di sondare daccapo la disamina husserliana dell’Urprozess per vedere quali presupposti metodici siano operativi all’interno della sua (nonché della presente) trattazione. Solo in tal modo sarà possibile dirimere lo statuto epistemologico dell’Urphänomen, stabilendo se la pretesa di una sua esplicitazione fenomenologica sia sostenibile o meno. Stando ai tardi manoscritti di Husserl, la Urkonstitution coincide con una dimensione di pre-essere (Vor-sein), di operatività pre-temporale (Vor-zeit); in quanto tale, essa possiede i caratteri di ciò che dovrebbe risultare e permanere ben al di là di qualsivoglia considerazione fenomenologica: inesperibile (unerfahrbar), extratematica (außerthematisch) e indicibile (unsagbar) (Mat VIII 269, 342; XXXIV 183 [50]). Come rilevato a suo tempo da Held (1966, 120), se l’atteggiamento naturale è caratterizzato dalla celatezza delle prestazioni costitutive che di fatto lo intessono, da un’anonimia che però è rimovibile (aufhebbare) mediante l’esercizio della prassi riduttiva; viceversa, l’operatività del presente vivente risulta caratterizzata da un’anonimia apparente51 52
XV 201. Si pone qui una questione di fenomenologia della fenomenologia (cfr. van kerckHoven 1988, luft 2002, finetti 2014).
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mente irremovibile (unaufhebbare) perché del tutto interna all’atteggiamento fenomenologico. Questa seconda anonimia rischia però di minare alle basi l’intero progetto husserliano, incapace di chiarire l’epicentro stesso dell’articolazione costitutiva e dunque dell’intero sistema fenomenologico-trascendentale. Come ovviare allora a questa situazione? Come rimuovere questa anonimia fondamentale? In ciò che segue cercherò di valutare se una trattazione della Urkonstitution sia praticabile in linea di principio, facendo leva sulle sole risorse che il metodo fenomenologico mette a nostra disposizione. Il § 24 del primo libro delle Idee enuncia ciò che Husserl non esita a definire il principio di tutti i princìpi, perché in grado di salvaguardare l’analisi fenomenologica dal cadere in errore. Questo principio, ampiamente noto, si appella all’“intuizione di ciò che si dà originalmente [originär]” – “per così dire nella sua realtà effettiva in carne e ossa” – quale fonte legittima di conoscenza. Inoltre, esso spiega come tutto ciò che l’intuizione presenta “sia semplicemente da assumere come ciò che si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà” (III/1 51 [52s.*]). Con una certa approssimazione, credo si possa affermare che l’approfondimento genetico della fenomenologia sia stato condotto all’insegna della seconda parte del principio, ponendo cioè l’accento sui limiti della datità anziché sulla presenza in carne e ossa. La Rückfrage mirata all’esplicitazione delle prestazioni intenzionali sottese alla costituzione della realtà fenomenica non poteva certo appellarsi all’evidenza di ciò che si dà leibhaftig, giacché proprio quest’ultimo, lungi dal designare l’explanans dell’indagine, ne rappresentava semmai l’explanandum. Certo, la Selbstgebung indicava ancora l’ineludibile punto di partenza dell’analisi ma soltanto in quanto filo conduttore, come guida in grado di orientare uno scavo archeologico a ridosso del costituito che riesumasse le prestazioni intenzionali implicate nella stratificazione di senso che ne contraddistingue l’apparire tipico. Tale scavo prevedeva una limitazione progressiva del grado di evidenza, proprio perché l’analisi si allontana dal darsi in originale (originär) del costituito in direzione del suo costituente originario (ursprünglich). Questa progressiva limitazione del grado intuitivo dell’evidenza, man mano che l’analisi ridiscende lungo la stratificazione co-
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stitutiva53, sembra però trovare il proprio esito conclusivo nella disamina dell’Urprozess. Come ampiamente documentato (supra §§ 2.2, 2.3, 3.1), tale dinamica è precisamente ciò che concorre a generare l’orizzonte manifestativo mediante l’istituzione di una prima rudimentale forma di prospettivizzazione. Senza l’apporto costitutivo dell’Urperspektivierung nulla potrebbe manifestarsi e come tale essere esperito. E tuttavia, proprio perché il processo originario realizza la prima forma di manifestazione possibile, ecco porsi il problema di come possa a sua volta essere esibito e dunque fenomenologicamente accertato. Di una simile difficoltà di principio era ben consapevole Fink, il quale nella VIa Meditazione cartesiana confessa la necessità di un supplemento metodico per l’interrogazione genetico-regressiva, quello afferente alla cosiddetta fenomenologia costruttiva (Dok II/1 § 7). Per fenomenologia costruttiva non s’intende una nuova disciplina fenomenologica dotata di un proprio àmbito tematico. Essa fa capo piuttosto all’“unità metodica di tutte le conoscenze trascendentali accessibili per ‘costruzione’ – in senso fenomenologico! –, e che in quanto tali possono essere eterogenee quanto ai contenuti” (Dok II/1 62 [65]). Se con Fink si specifica il significato della nozione di “datità” al modo della “datità riduttiva” – intendendo con essa non l’essere sottomano (Vorhandensein) o lo stare davanti (Vorliegen) bensì “la possibile accessibilità [Zugänglichkeit] tramite il dispiegamento della riduzione fenomenologica” (Dok II/1 63s. [66]) – se ne evince che la fenomenologia costruttiva si rivolge a ciò che non si dà per sola via riduttiva, a ciò che mediante il “semplice” ricorso alla riduzione trascendentale non risulta accessibile. Sempre a dire di Fink, tra i fenomeni che eccedono i limiti di accesso della riduzione fenomenologica e dunque richiedono un supplemento costruttivo si trovano: oltre alla Urzeitigung, anche la questione della nascita e della morte della soggettività trascendentale, lo sviluppo della prima infanzia, l’esperienza dell’altro e in generale i problemi relativi alla nozione di totalità (intermonadica, storica, etc.). Purtroppo, egli non fornisce una trattazione esaustiva del procedimento 53
Se ci troviamo qui a presupporre ancora una volta il modello stratigrafico (astratto) della genesi è perché la difficoltà metodologica che ci interessa esplorare non è quella della ricostruzione del concreto (supra § 3.2.3) bensì quella preliminare relativa alla praticabilità di una sua decostruzione.
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metodico sotteso alla costruzione fenomenologica, limitandosi ad affermare quanto segue: ovviamente tale costruzione non può essere una fantasia arbitraria più o meno ingegnosa, ma può attingere la propria dignità conoscitiva solo da un differenziato studio preliminare dei processi genetici dati, delle temporalizzazioni esibibili, nelle quali si fonda un possesso [Habe], etc. per poi poter astrarre “costruttivamente”, in modo appropriato e motivato, dal presupposto comune di tutti gli “sviluppi” e dei processi genetici dati ed esibibili: cioè dal tempo trascendentale che già si trova nel corso dell’autotemporalizzazione in quanto orizzonte universale, nel quale tutti i processi e le genesi nascono e terminano. (Dok II/1 70 [71*])
Evitando di condividere gli esiti speculativi a cui l’idea di costruzione fenomenologica ha poi condotto fink (1952), possiamo accettare nondimeno il quadro diagnostico da lui tracciato54. Il problema sollevato è infatti di non poco conto e l’esigenza di un supplemento metodico in grado di integrare l’analisi regressiva sembra effettivamente emergere dai testi di Husserl. Oltretutto, a dispetto di quanto si potrebbe credere stante il suo presunto intuizionismo, l’idea di una certa azione creativa e costruttiva del metodo fenomenologico è tutt’altro che estranea al corpus husserliano. La fenomenologia inizia infatti senza alcun terreno (bodenlos) ma ottiene la forza di crearsi (sich schaffen) un proprio terreno d’analisi (VI 185 [208]). L’ottiene, va da sé, grazie all’impiego di un metodo che, per ciò stesso, è a tutti gli effetti un “evento trascedentale [transzendentale Vorkommnis]” che pertiene “alla sfera proto-fenomenale [urphänomenale], cioè anonima” (Mat VIII 7)55. In quanto esso stesso vita intenzionale fun54
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Sulla costruzione in fenomenologia cfr. bruzina (2001), sugli esiti hegelospeculativi in Fink v. finetti (2015). Il surrettizio ricorso da parte di Husserl a ipotesi costruttive – in specie riguardo allo Zeitbewußtsein – è testimoniato in rinofner-kreidl (2000, 422s., 499s., 528, 564). Infine, l’idea finkiana di costruzione è stata difesa ed elaborata fenomenologicamente da scHnell (2012; 2015). Schnell ha ragione quando mostra l’esigenza di un supplemento metodologico in grado di trattare fenomeni non direttamente accessibili per semplice via riduttiva; ciononostante, a mio modesto avviso, egli non riesce mai a spiegare in modo convincente in cosa la costruzione fenomenologica possa e debba consistere. Con questa locuzione Husserl rimarca che, almeno inizialmente, prima di ogni considerazione meta-fenomenologica che tematizzi ex post il metodo
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gente (XXXIV 175 [39]), il metodo altro non è che l’insieme delle prestazioni intenzionali che consentono a chi fenomenologizza di formare le proprie appercezioni trascendentali e, più in generale, di costituire il “mondo trascendentale” (XXXIV 183 [50]). Il fatto è che sin dalle prime riflessioni in merito alla temporalità fenomenologica, Husserl ammette l’esigenza di ricorrere a “procedimenti intellettivi di analisi che rendono possibili trattazioni” del concreto mediante il ricorso a “finzioni idealizzanti” (X 86 [111]). Sempre nelle Zeitvorlesungen, un passo poi espunto dall’edizione del 1928 precisa che “abbiamo bisogno di concetti idealizzanti per descrivere”, ma che, nondimeno, “dobbiamo guardarci dall’importare [hineinzutragen] l’ideale stesso nei vissuti come datità reali” (X 434 [386*]). E ancora, in una Beilage dei primi anni ’20: “così l’intera dottrina della coscienza del tempo è il lavoro di una idealizzazione concettuale” grazie a cui è possibile ingaggiare il “metodo dell’interpretazione del fenomeno mediante il fenomeno originario” (XI 387). A ben vedere, il problema è sempre quello di una Rückfrage condotta dall’io fenomenologizzante – da un io cioè già “sviluppato” e dunque “mondanamente costituito” – che retroagisce appercettivamente, col proprio apparato categoriale acquisito, sui propri antefatti genetici (visceralmente a-categoriali), per cui “è molto difficile mantenere qui un metodo puro e ottenere risultati puri” (XXXIV 184 [52]). Il grado di tensione retroattiva esercitato dal metodo su ciò che a tutti gli effetti ne rappresenta l’esordio genetico è tale che, addirittura, all’essenza del flusso del vissuto, che in sé non realizza alcuna autentica temporalizzazione e non è una corrispondente prestazione di coscienza, appartiene la mia costante capacità di instillargli [einzuflößen], per così dire, l’intenzionalità. Tuttavia, la temporalità effettiva ora non è quella del flusso in quanto flusso, ma è la mia, quella dell’io fenomenologico-trascendentale. (XXXIV 184 [53])56
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in questione, la prassi metodica è da intendersi in termini puramente operativi, capace dunque di pre-costituire, portandolo a manifestazione, il tema trascendentale specifico della fenomenologia. Il passo in questione – il cui grado di paradossalità tenterò di contenere – è la conclusione della seconda delle due Zusätze apposte nel 1932 al Nr. 10 di Hua XXXIV. Come ricordato (supra § 3.3), proprio facendo leva su queste aggiunte, alcuni commentatori hanno finito per trarre la conclusione che Husserl avesse rinnegato l’idea di una temporalizzazione passiva (pre-
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L’esordio genetico-costitutivo è dunque ricreato metodologicamente: chi fenomenologizza “costruisce” la (pre)intenzionalità e la (pre)temporalizzazione dell’Urphänomen, attribuendole al processo come sue proprietà. Ciò non significa che quest’ultimo non le abbia di per sé, senza cioè l’intervento retroattivo dell’io fenomenologizzante, bensì che il metodo ne esplicita la struttura sintetica ricostruendola nella propria valenza eidetica: “nell’interrogazione genetico-regressiva costruiamo come inizio il pre-campo ancora privo di mondo e il pre-io” (Mat VIII 352); “io, l’ego fattuale fenomenologizzante, costruisco l’eidos. Costruire e costruzione […] pertengono alla mia esistenza fattuale, alla mia individualità” (XV 383). In un certo senso, siamo alle prese con una “costruzione esplicitante [auslegende Konstruktion]” (XV 384n.). Del resto, essendo l’esecuzione del metodo una particolare condotta intenzionale della soggettività trascendentale, sarebbe illogico non conferirle un certo tenore costitutivo. Proprio in virtù di tale conferimento si comprende anzi l’esigenza per chi fenomenologizza di farsi spettatore disinteressato (uninteressiert Zuschauer) – o per meglio dire “non partecipante” (unbeteiligt), giacché una nuova forma di interesse comunque lo anima (non mondano ma critico-trascendentale) (VI 175s. [198s.])57. Proprio perché altri-
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egologica) in favore di una operata direttamente dall’io. Tuttavia, come già argomentato in proposito, la posta qui in gioco non è tanto chi o che cosa operi la temporalizzazione originaria (il fluire o l’io). Al riguardo, visti anche numerosi brani successivi al 1932, Husserl è piuttosto chiaro: vi è una pre-costituzione temporale dell’io propriamente detto in virtù della quale esso si realizza attualizzandosi nel flusso di vissuti. Si può naturalmente disquisire sul fatto che tale pre-costituzione sia di natura ritmica (intemporale) e che dunque non si tratti di una “temporalità” a tutti gli effetti. Questa rimane però una questione terminologica de dicto e nulla toglie al fatto che de re l’io sia possibile soltanto sulla base offerta da uno sfondo di latenza potenziale che ne orchestra l’accentramento. Oltretutto, il discorso condotto in queste Zusätze concerne espressamente il problema di cosa comporti per l’io fenomenologizzante indagare l’Urzeitigung; è cioè un discorso, per così dire, de methodo e dunque poco o nulla rilevante per le questioni succitate. Se così non fosse, ne dovremmo concludere non che sia l’io (naturalmente atteggiato) a compiere la temporalizzazione, ma che non si darebbe temporalizzazione alcuna prima del passaggio all’atteggiamento fenomenologico – conclusione quest’ultima a dir poco bizzarra. Si noti almeno en passant come tali formulazioni non stiano però a significare che Husserl promuova una forma di soggettività acquiescente. Il “puro guardare” rappresenta solo un momento parziale – quello legato alla noto-
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menti attiva, la soggettività deve disinteressarsi, astenersi quanto più possibile dal partecipare essa stessa alla vita costituente, al fine di non sovradeterminare i risultati della propria indagine regressiva, al fine di non importare sustruzioni ideali all’interno dell’analisi58. Cerchiamo ora di chiarire in cosa consista il tenore costruttivo del metodo fenomenologico escludendo dapprima alcune opzioni interpretative. Ciò che emerge dai testi husserliani è l’idea per cui, laddove non si abbia un accesso diretto (intuitivo) al fenomeno, il metodo non debba costruirlo ricorrendo a inferenze (pseudo) deduttive e/o a postulazioni metafisiche. Se, da una parte, la critica al deduttivismo è sempre stata per Husserl un aspetto essenziale in grado di distinguere la Rückfrage fenomenologica da quella kantiana (VII 197s. [210s.]; VI 118 [145])59; dall’altra, l’esplicitazione fenomenologica è contraria a qualsiasi “costruzione metafisica” desumibile dalla tradizione filosofica: l’Auslegung “sta in netto contrasto con tutto ciò attraverso il suo procedere nell’àmbito della pura intuizione o, piuttosto, della pura esplicitazione del senso mediante il darsi stesso che si riempie” (XV 20). È dunque il carattere “intuitivo” della costruzione fenomenologica, il suo statuto ostensivo ed esibibile (aufweisbar), a distinguere il metodo husserliano da ogni altra opzione costruttiva di ordine inferenziale e/o metafisico: non un pensare che s’inventa fuori da parole-concetti, un gioco di costruzioni ben lontane dall’intuizione, bensì una ricerca che attinge intuitivamente a datità fenomenologiche può condurre la critica del-
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mia delle strutture correlative di coscienza – del più ampio compito della fenomenologia trascendentale. Se trasposta infatti da un piano meramente analitico al piano metastorico della Krisis, quella fenomenologizzante diventa un’attività partecipativa a pieno titolo (VI 492 [517]; cfr già XXVII 4 [4]), legata a doppio filo al telos moderno di emancipazione dell’umanità mediante la realizzazione di una ragione filosofica autentica, ossia fenomenologica. Un esempio su tutti che riguarda la questione della temporalità: la prima fase di elaborazione husserliana dello Zeitbewußtsein è guidata dall’esigenza di decondizionare il punto di vista fenomenologico dalla concezione fisico-matematica del tempo, dalla concezione dell’ora come idealità puntiforme e della successione temporale come sequenza indifferenziata di istanti (t0 t1 t2…). Cfr. kern (1964, 94ss.).
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la ragione e con essa ogni filosofia sulla via della scienza rigorosa. (XXV 81)
Naturalmente, qui non si deve pensare alla mera intuizione sensibile, bensì all’espansione eidetico-categoriale in cui è incorsa la nozione sin dalla VIa Ricerca logica60. E tuttavia, stando alla problematica che ci siamo posti, la Urkonstitution è giustappunto ciò che pare sottrarsi a qualunque accesso intuitivo, a ogni possibile esibizione. La domanda allora è la seguente: è lecito ovviare alla non datità riduttiva dell’Urphänomen senza con ciò eccedere le risorse metodologiche della fenomenologia husserliana, senza cioè fare implicito ricorso a costruzioni di tipo inferenziale e/o metafisico? Forse sì e cercherò brevemente di avanzare un’ipotesi al riguardo. La soluzione che intendo proporre consta essenzialmente di due passi argomentativi. Il primo passo da compiere consiste nel mostrare come Husserl abbia finito per piegare l’accezione operativa della riduzione trascendentale alle esigenze regressive della fenomenologia genetica. Per accezione operativa non intendo il preliminare atto di rottura capace di superare l’atteggiamento naturale e di introdurre al dominio fenomenologico-trascendentale (accezione tematica della riduzione), bensì la prassi riduttiva intesa come performance in grado di sostanziare l’analisi intenzionale (l’esplicitazione). Nel 1930, Husserl sembra infatti propenso a far coincidere la riduzione fenomenologica con la “riduzione radicale al presente vivente fluente” (XXXIV 185)61. L’operatività della riduzione tende sempre più a collimare con l’esercizio dell’analisi regressiva, a sua volta intesa come decostruttiva (Abbau-Analyse) (Mat VIII 50, 53, 89n., 107n., Nr. 23, 134s., 166, 224, 402; XXXIV 386; XI 413)62. La decostruzione 60 61 62
Secondo Welton (2000, 410n. 8), una volta che la nozione di intuizione è incorsa in tale espansione, un certo elemento costruttivo diviene ineludibile per l’analisi fenomenologica. In merito si veda finetti (2013, cap. VII). Come appurato da claude evans (1990a), la nozione di Abbau è impiegata da Husserl secondo un’accezione metodologica a partire dai primissimi anni ’20 (XIII 481s.; XIV Nr. 6), dunque prima di essere assimilata al progetto heideggeriano di distruzione della storia dell’ontologia (Sein und Zeit, § 6), al compito cioè di “una decostruzione [Abbau] critica di quei concetti che ci sono stati tramandati” (I problemi fondamentali della fenomenologia,
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fenomenologica non è altro che il titolo tardo con cui Husserl reinterpreta il radicale sforzo archeologico promosso dall’interrogazione genetica63. Decostruire significa dunque smantellare i diversi strati costitutivi che ineriscono a una determinata formazione (Gebilde) appercettiva, al fine di individuare le prestazioni intenzionali sottese a tale processo di formazione (Bildung). Di conseguenza, al momento decostruttivo deve poter far seguito un momento ri-costruttivo (Neuaufbau, Rekonstruktion, Mat VIII 157, 437) in cui la genesi intenzionale non è disseppellita regressivamente – isolando astrattivamente i suoi diversi strati – ma ricostruita in maniera progressiva e concretata all’interno di un sistema integrato d’esperienza (supra § 3.2.3)64.
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Il Melangolo, Genova 1988, p. 21). In tal senso, inversamente rispetto a quanto accaduto alla nozione di Auslegung, è ipotizzabile un’appropriazione e una contestuale trasvalutazione del concetto di Abbau nel passaggio dal paradigma fenomenologico husserliano a quello heideggeriano. Nel 1931, Husserl parlerà in proposito di un fraintendimento (cairns 1976, 18). Recentemente, niel (2013) ha avuto il merito di riproporre, seppur in maniera tutt’altro che dirimente, la spinosa questione di come Husserl possa pretendere di fenomenologizzare la dimensione della Urzeitigung. La proposta di Niel fa leva proprio sull’idea dell’Abbau-Analyse. Personalmente, ritengo il ricorso alla nozione di Abbau necessario ma non sufficiente per la risoluzione del problema. Da qui, come vedremo, la necessità di un secondo step. In maniera simpatetica, a suo tempo landgrebe (1982) e più recentemente alves (2017) si sono interrogati sulla possibilità o meno di fenomenizzare la predatità in gioco nella sintesi passiva. In virtù di quanto sostenuto (supra) nel cap. 3 in merito all’integrazione di temporalità e sintesi passiva risulta evidente che quest’ultimo problema sia in fin dei conti identico al primo. Il momento progressivo-ricostruttivo (Aufbau) non va dunque confuso con l’idea finkiana – ma già preconizzata da Husserl – di costruzione fenomenologica (Konstruktion). Mentre la Konstruktion attiene ancora al momento regressivo-decostruttivo della fenomenologia, manifestando la propria necessità per quei fenomeni non direttamente accessibili per via riduttiva, l’Aufbau pertiene al momento progressivo-ricostruttivo (Mat VIII 29, 69, 70, 78, 83, 94, 171s., 185, 194, 250, 252s., 278, 313, 318n., 320, 335, 336s., 347, 357, 373, 432, 443; XXXIV 135ss., 158, 257, 267, 364, 401, 412, 418). L’unità dei due momenti (Abbau-Aufbau) è ciò che connota il metodo fenomenologico come eminentemente genealogico (supra § 2.1). Sul duplice andamento sistematico, regressivo e progressivo, della fenomenologia cfr. Mat VIII 69, 185ss. e Dok II/2 6ss. Infine, è il caso di sottolineare come anche nel caso dell’Aufbau e dell’Abbau, il metodo fenomenologico rigorizzi e implementi scientemente istanze cognitive già all’opera nell’esperienza ingenuo-naturale (XVI 245 [297]; claude evans 1990a, 16s.).
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Concentriamoci sul versante regressivo dal momento che è questo a doversi fare carico della pretesa husserliana di retrocedere sino alla dimensione della Urkonstitution. In cosa consiste operativamente la prassi decostruttiva della riduzione? Recuperando un’intuizione di loHmar (2013, 18), potremmo arguire che essa equivale a una prassi metodica de-sintetizzante, il cui scopo è giustappunto quello di disfare determinate formazioni di senso al fine di esplicitarne le implicazioni sintetiche. La riduzione riuscirebbe, per così dire, a invertire la direzione costitutiva – da costituente a costituito – procedendo controcorrente a desintetizzare il costituito risalendo così al costituente. Da un certo punto di vista, la riduzione sarebbe allora l’inverso della costituzione (menscH 2010b, 156), sarebbe ciò che consente di regredire sino al fondamento proto-correlativo di quest’ultima. Un altro aspetto di cui tener conto è infatti quello per cui la riduzione trascendentale opera sempre in parallelo, per così dire, una duplice decostruzione correlativa, noetico-noematica, di una determinata esperienza. Qui si mostra ora qualcosa di assai importante: che ogni esperienza ammette una doppia riduzione fenomenologica. Una prima riduzione porta al puro intuire immanente l’esperienza stessa, mentre una seconda viene esercitata rispetto al contenuto e all’oggetto intenzionale dell’esperienza. (XIII 178 [66]; cfr. VIII 85 [111])
L’analisi decostruttiva è dunque ciò che in ultima istanza riconduce alla sfera del presente vivente. Intesa secondo l’accezione operativa, la riduzione è un “metodo” nel senso etimologico della parola: è una “via della ricerca”, una vera e propria riconduzione (Zurückleitung) (XV 598; XXXIV 225; Mat VIII 6; SPh 134 [212]). Mediante lo sforzo decostruttivo gli strati di senso che costituiscono l’ingenuità positiva dell’atteggiamento naturale sono via via rimossi, i nessi intenzionali che compongono questi strati risultano regressivamente dipanati, ossia esplicitati. In tal modo, regredendo di costituito in costituente, secondo i vari livelli che hanno prodotto una determinata formazione di senso, si giunge alla dimensione del fluire coscienziale, dove si susseguono i vissuti di certi rilievi affettivi. Questo stadio rappresenta significativamente la prima forma di manifestazione possibile, la forma di presentazione intuitiva
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più originaria. L’incedere regressivo vi ha ricondotto sotto la guida di un determinato filo conduttore che fungesse da prototipo o modello intuitivo da desintetizzare lungo tutti i suoi stadi genetici. Di per sé, la prassi riduttiva non è però in grado di regredire oltre la dimensione costitutiva immanente del flusso di coscienza, decostruendolo e ricostruendolo secondo cioè la sua dinamica interna. Non è in grado di risalire sino all’origine assoluta della Urkonstitution proprio perché la spinta orientativa offerta dal filo conduttore sembra essersi esaurita. Essendo il vissuto la forma più originaria di manifestazione, la guida offerta dal costituito non riesce a oltrepassarlo, mancando al di là di esso il benché minimo grado di evidenza intuitiva. In che modo, allora, Husserl può pretendere di afferrare la dinamica interna al flusso immanente dei vissuti? Sta per caso facendo ricorso a un qualche tipo di costruzione fenomenologica, qualunque cosa essa significhi65? Per cercare di rispondere affermativamente a questa seconda domanda e sensatamente alla prima, occorre introdurre un ulteriore step argomentativo. La risposta al primo quesito, tutt’altro che assertoria, prevede in effetti che Husserl si giovi di un supplemento metodico costruttivo in grado di completare e integrare l’iter desintetizzante della riduzione. Tale supplemento costruttivo, come anticipato, non va però inteso alla stregua di una postulazione metafisica66, né tantomeno di un’inferenza deduttiva di tipo kantiano. Viceversa, la mia proposta consiste nel 65
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Curiosamente, richiamando per via di certe assonanze le criticità metodologiche qui riscontrate, in un breve scritto del 1937 Freud paragona l’indagine psicoanalitica al lavoro di scavo dell’archeologo. Egli manifesta l’esigenza di integrare il momento interpretativo dei singoli aspetti sintomatici con un complemento “costruttivo” in grado di ricomprendere il sintomo all’interno della più ampia storia clinica del paziente. Essendo quest’ultima spesso in larga parte rimossa, l’analista si trova dinanzi all’esigenza di creare tale storia per via ipotetica, congetturale, ricorrendo quindi a vere e proprie costruzioni in grado di supplire alla mancanza di un accesso (diretto o indiretto) all’episodio patologico scatenante. Il ricorso a costruzioni psicoanalitiche, secondo Freud, non inficerebbe più di tanto l’analisi, essendo queste assunte quali mere ipotesi esplicative in cerca di riscontro o smentita durante la seduta: “se la costruzione è falsa nel paziente non cambia nulla; se invece è giusta o si avvicina alla verità egli reagisce ad essa con un inequivocabile aggravamento dei suoi sintomi e del suo stato generale” (freud 1937, 549). Come invece conclude frettolosamente claude evans (1990b).
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guardare a un metodo eminentemente intuitivo, quello della variazione eidetica, per vedere se anch’esso possa riscontrare, al pari della riduzione, una valenza d’impiego tipicamente genetica, intenta cioè a decriptare la dinamica interna al flusso assoluto di coscienza. Affinché tale ipotesi interpretativa stia in piedi occorre ribadire come per Husserl la chiarificazione del metodo segua sempre e mai preceda l’analisi fenomenologica che “ingenuamente” ne fa uso. In questo senso, si dà fenomenologia trascendentale prima dell’effettivo chiarimento della prassi riduttiva – prima cioè di intavolare una fenomenologia a essa espressamente dedicata – e dunque si dà analisi eidetica prima del retto inquadramento del metodo della variazione. La fenomenologia della fenomenologia segue sempre l’analisi fenomenologica poiché quest’ultima si avvale delle disponibilità cognitive già presenti nell’atteggiamento naturale, di fatto radicalizzandole e, per così dire, irregimentandole. Soltanto se già presenti e dunque all’opera, le risorse metodiche della fenomenologia possono essere eventualmente tematizzate, discusse e raffinate. Alla luce di quanto appena ricordato, la proposta consiste nell’interpretare le ricerche condotte negli ultimi testi di Hua X, nei Bernauer Mss. – nonché nei Mss. successivi dedicati all’Urphänomen – al modo di un grande esercizio di variazione metafenomenologica, vòlto alla decodifica della legalità eidetica sottesa alla dinamica del processo originario. Cercherò di spiegare cosa questo significhi, in che modo ciò sia possibile e in che misura quest’interpretazione si ricolleghi a quanto asserito da Fink nella VIa Meditazione cartesiana in merito alla costruzione fenomenologica. All’inizio del § 3 del testo Nr. 10 dei Bernauer Mss. Husserl fornisce una sorta di prospetto informativo circa le analisi ivi condotte. Come sempre in questo lavoro, noi trivelliamo e facciamo saltare camere di mina da ogni parte, in ogni possibile direzione, ponderiamo tutte le possibilità logiche e investighiamo quali di loro esibiscono possibilità e impossibilità d’essenza, e alla fine prendiamo così visione del sistema delle concordi necessità d’essenza. Noi partiamo da fatti, da fatti di una riflessione effettiva o fatti di una riflessione possibile, ossia singoli fatti possibili che si incontrano come esempi nell’atteggiamento della possibilità [Einstellung der Möglichkeit]: ma riguardo ai gradi di riflessione sugli oggetti temporali e sulla coscienza dell’oggetto temporale, ciò eleva dagli oggetti spazio-temporali al vivere che
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costituisce la spazio-temporalità […]. Procediamo nell’atteggiamento eidetico fenomenologico-trascendentale! (XXXIII 189)
Al limite estremo delle possibilità di esercizio della fenomenologia genetica – laddove ogni ambizione decostruttiva sembra scontrarsi con l’insormontabile ostacolo della trattazione di una dimensione di pre-essere, la quale, attendendo alla costituzione originaria della spazio-temporalità, elude ogni possibile appiglio intuitivo – Husserl si appella alle risorse, del resto mai venute meno, dell’analisi eidetica67. Quest’ultima consente di valutare “tutte le possibilità logiche” secondo cui la dinamica della Urkonstitution potrebbe effettivamente concretarsi, senza cioè risultare una “impossibilità d’essenza” ma anzi accordandosi con quei fatti che a mo’ di esempi o Leitfäden hanno ricondotto l’analisi regressiva sino alle soglie del processo primario. Il supplemento metodico costruttivo di cui la Rückfrage sembra aver bisogno è allora un grande esercizio ante litteram68 di variazione immaginativa, condotto nell’“atteggiamento della pura possibilità”. Così almeno sembra legittimo interpretare tutta una mole di manoscritti il cui tratto distintivo è quello di non presentare una teoria coerente, bensì di vagliare uno spettro di alternative possibili mediante le quali si mira a comprendere la dinamica del processo primario. Troviamo conferma di questa lettura negli anni ’30, allorché la consapevolezza metodica di Husserl risulta accentuata: dal momento che “fattualmente non ho alcuna rimemorazione in una pre-mondanità [Vor-Weltlichkeit]”, non si ha cioè alcun accesso intuitivo a tale dimensione di pre-essere, “come sempre io […] fingo intorno [umfingiere] al mio presente vivente, dunque mi costruisco intuitivamente un presente vivente variato a piacere” (Mat VIII 353). Ecco che il tenore eidetico della variazione immaginativa sembra essere l’unico elemento in grado di assicurare un qualche tipo di 67
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Che lo scopo delle analisi ivi condotte sia quello di un’elaborazione della Urgenesis (als eidetische Form), ossia della forma essenziale dello sviluppo necessario, in quanto sviluppo parallelo (parallel), cioè correlativo, dell’ambiente iletico e dell’io è ribadito con forza in XXXIII 282s. Com’è noto, il metodo della variazione eidetica sarà canonizzato solo in testi successivi all’epoca dei Bernauer Mss. (XXVII 13ss. [15ss.]; IX 72ss.; EU § 87). Del resto però, come più volte sottolineato in corso d’opera: “l’esercizio ingenuo del metodo deve precedere la sua giustificazione e autocomprensione, e persino il fatto che esso debba essere così deve essere reso comprensibile successivamente” (Mat VIII 7).
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esibizione intuitiva dell’Urphänomen. E tuttavia, a ben vedere, non abbiamo qui a che fare con una “semplice” variazione. Come già ricordato, all’interno dei Bernauer Mss. sono stati individuati almeno tre modelli esplicativi alternativi (kortooms 2002); in un certo senso, però, è come se ciascun manoscritto avanzasse una pretesa di validità indipendente e una conseguente valutazione da parte di Husserl. Molti dei manoscritti si concludono negativamente, ovvero con la presa di coscienza dell’impraticabilità logica della via contestualmente intrapresa. Lo spettro del regresso infinito torna costantemente a raggelare le pretese della maggior parte dei tentativi di venire a capo della questione. Ma questo, per l’analisi husserliana, non rappresenta uno scacco bensì un momento parziale di una pluriarticolata dimostrazione per assurdo69 tesa alla progressiva erosione delle “impossibilità d’essenza” e alla concomitante messa in luce, per via negativa70, della legalità eidetica in grado di render conto del processo di costituzione primaria. Il deficit intuitivo riscontrato nella trattazione della Urkonstitution viene dunque supplito con l’esibizione, mediante il ricorso alla variazione immaginativa, delle pure possibilità logiche in grado (o meno) di assolvere le funzioni di una fenomenizzazione originaria – della Urperspektivierung. A differenza di una canonica variazione finalizzata all’intuizione d’essenza di un certo sistema di invarianza, il tipo di variazione ivi condotto può essere descritto come una sorta di variazione metafenomenologica (in breve: metavariazione)71. Perché meta-? 69
70
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Si veda la già citata e commentata (supra § 2.3.3) annotazione per cui, secondo Husserl, il testo Nr. 12 rappresenterebbe un “tentativo di pensare approfonditamente le conseguenze contrarie”, esponendo cioè gli esiti aporetici, “della mia vecchia concezione” (XXXIII 243n.). Sebbene non condivida la cornice argomentativa in cui è inserita – quella per cui l’Abbau equivarrebbe a un rigetto del tenore riflessivo della fenomenologia – merita di essere sottolineata l’osservazione di carr (1974, 231) secondo cui la decostruzione rappresenta “una sorta di costruzione negativa”. Si veda anche claude evans (1990a), il quale ha il merito di ricollegare l’Abbau alla variazione immaginativa e al momento complementare dell’Aufbau. Essa può essere accostata a quel tipo di ricerca eidetica che Fink nel § 9 della VIa Meditazione distingue da quella riguardante l’ente mondano. Questo secondo tipo di eidetica trascendentale riguarderebbe infatti il “‘modo d’essere’ descrivibile solo paradossalmente del pre-essere” (Dok II/1 89 [86]).
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Perché, a ben vedere, ciò che Husserl varia nei suoi molteplici stralci manoscritti non sono dei tipi oggettuali o categoriali bensì delle pure possibilità riduttive, delle opzioni esplicative facenti capo ad altrettante strategie di riduzione in grado di spiegare la dinamica strutturale dell’Urprozess. L’operazione consiste in una variazione e in un vaglio critico delle possibili legalità d’essenza che potrebbero valere quali esplicitazioni fenomenologiche dell’Urphänomen. In questo modo si comprende la necessità da parte di Husserl di considerare daccapo ipotesi esplicative già cassate come inconsistenti in scritti precedenti (ess. l’ipotesi di una coscienza inconscia ulteriore rispetto al flusso assoluto, l’applicazione a quest’ultimo dello schema apprensione-contenuto d’apprensione, etc.). Ragionando in questi termini, risulta evidente perché l’esercizio di metavariazione non trovi compimento nel corpus husserliano, ripetendosi anzi sino ai suoi ultimi anni con nuovi manoscritti dedicati al problema della Urzeitigung. Non esiste infatti un limite teorico delle pure possibilità riduttive da variare, non esiste un momento conclusivo in cui tutte le impossibilità d’essenza possano pretendersi erose, derubricate tramite l’esibizione del loro esito aporetico. La messa in luce progressiva e contrastiva della legalità eidetica in grado di sorreggere l’impianto sistematico della fenomenologia trascendentale è piuttosto un cantiere indefinitamente aperto, un lavoro in corso a cui tocca sempre rimetter mano per elucidare al meglio l’eidos che pertiene alla Urkonstitution. Ecco, allora, che ogni tentativo di decifrare quella specifica legalità eidetica che permetterebbe di render conto della dinamica originaria, un tentativo peraltro avanzato anche dal presente lavoro, non potrà mai pretendersi un resoconto ultimativo. Se infatti volessimo ricondurre il tenore costruttivo della metavariazione a un certo tipo d’inferenza, essa non equivarrebbe alla stringente e conclusiva risolutezza di una deduzione, bensì alla plausibile ragionevolezza di una presentazione abduttiva della migliore spiegazione (sinora) esibibile del fenomeno originario72. 72
Il richiamo a C.S. Peirce merita di essere precisato. Com’è noto, le indagini sulla logica della scienza del filosofo americano espandono significativamente una concezione ritenuta troppo formalistica dell’inferenza, affiancando alla deduzione e all’induzione tradizionalmente intese un terzo tipo di ragiona-
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Infine, vorrei però specificare in che modo l’esercizio della metavariazione non risulti arbitrario. Facendo nostro quanto sostenuto nel passo sopracitato di Fink riguardo alla costruzione fenomenologica, la metavariazione “può attingere la propria dignità conoscitiva solo da un differenziato studio preliminare dei processi genetici dati, delle temporalizzazioni esibibili [di ordine superiore], nelle quali si fonda un possesso” (Dok II/1 70 [71*]). Come non si è mancato di far notare73, a guidare e motivare la variazione immaginativa non è l’eidos, il quale è anzi il prodotto finale di questo esercizio metodico, bensì il bagaglio di esperien-
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mento, quello abduttivo. Peirce rinviene l’antecedente storico dell’abduction nella nozione aristotelica di παγωγ (Analitici primi, II, 25); quest’ultima risulta implicata anche nel “sillogismo per riduzione all’impossibile [ ες τò δύνατον παγóμενος συλλογισμός]”, ossia nella dimostrazione per assurdo, la quale, infatti, “differisce da quella diretta per il fatto di porre ciò che s’intende eliminare riducendolo a qualcosa che siamo d’accordo essere una falsità” (Aristotele, Organon, Bompiani, Milano 2016, p. 725). È interessante notare come Peirce si serva di un termine ulteriore – finendo anzi col preferirlo ad abduction – per identificare questo tipo di ragionamento mutuato dall’παγωγ aristotelica, ossia del neologismo retroduction. In entrambi i casi – muovendosi nel contesto della scoperta, non già in quello della giustificazione – si tratta per Peirce di elaborare un’ipotesi esplicativa percorrendo a ritroso la catena inferenziale dal conseguente verso un antecedente congetturale che, se accettato, consentirebbe di rendere conto di un certo fenomeno, appunto, come sua conseguenza. In tal senso, il ragionamento “retroduttivo” è per Peirce l’unico momento realmente produttivo/costruttivo della ricerca scientifica, il solo in grado di espandere le nostre conoscenze; il suo statuto epistemico è certamente quello di una validità problematica, svincolata dal criterio di evidenza immediata, che però siamo indirettamente portati ad ammettere, selezionando tra possibili alternative, come la più adatta a gettare luce su una data esperienza. Su Peirce cfr. almeno fann (1970), nonché le voci abduction e retroduction in The Commens Dictionary. Peirce’s Terms in His Own Words (http://www.commens.org/dictionary). Al di là delle possibili affinità con quanto discusso in questa sezione, è il caso di precisare come l’abduzione peircianamente intesa descriva una pratica inferenziale condotta su un piano che Husserl direbbe “naturale”, manchevole dunque di qualsiasi inquadramento e perfezionamento metodico di ordine fenomenologico. In tal senso, la (meta)variazione eidetica rappresenta un salto qualitativo di cui tener conto. Cfr. de santis (2012), il quale ha il merito di radicare le possibilità di esercizio della variazione eidetica nella passività (mediante una perspicace ricognizione in merito alla nozione ivi operativa di Ähnlichkeit) e di vincolarla all’orizzonte d’azione della monade concreta, dotata cioè di un bagaglio di esperienze pregresse in grado di motivarla.
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ze pregresse di un determinato tipo oggettuale (SPh 215 [310]). Per questo motivo, la variazione metafenomenologica in merito alla struttura eidetica del processo primario risulta motivata e sensatamente condotta soltanto a fronte del possesso tipico-abituale acquisito preliminarmente da chi fenomenologizza, tramite cioè uno studio approfondito e differenziato dei sistemi di implicazione genetico-regressivi che in tale processo convergono. L’attendibilità della metavariazione risulta dunque potenziata ricorsivamente dall’addestramento nel frattempo maturato nell’esercizio decostruttivo, in virtù del grado di competenza trascendentale sviluppato dall’io fenomenologizzante. In tal modo, tra i due momenti del metodo (decostruzione e metavariazione) s’innesca un rapporto di tipo sinergico, un circolo virtuoso che consente loro di beneficiare vicendevolmente dei rispettivi risultati. L’approfondimento e l’estensione ai più diversificati àmbiti esperienziali della Rückfrage permetterà l’affinamento in termini di significatività della metavariazione eidetica dell’Urprozess, a cui tutti questi àmbiti – se decostruiti – in ultima istanza riconducono; d’altro canto, tale affinamento condurrà a una comprensione approfondita dei primi stadi della genesi intenzionale, consentendone una ricostruzione (Aufbau) sempre più attendibile.
CONCLUSIONI
La filosofia trascendentale, un’arte molto inutile, non serve d̓aiuto ai signori e padroni di questo mondo, ai politici, agli ingegneri, agli industriali. Ma forse non è un difetto che essa ci salvi teoreticamente dall’assolutizzazione di questo mondo, e ci apra l’unica porta d̓ingresso scientifica possibile in quello che soltanto è nel senso più alto il vero mondo, il mondo dello spirito assoluto. E forse è anch’essa funzione teoretica di una prassi, e proprio di quella nell̓ambito della quale devono necessariamente compiersi i supremi e ultimi interessi dell’umanità.1
Vorrei concludere soppesando schematicamente i principali risultati emersi da questa nostra ricognizione2. In generale, ciò che più mi premeva era di mostrare la rilevanza sistemica della riflessione di Husserl sulla temporalità. Solo in tal modo ritenevo fosse possibile rischiarare la sua proposta filosofica complessiva. Ho così proposto una delucidazione temporale dell’a priori della correlazione, mostrando come nell’economia del pensiero husserliano esso non reciti il ruolo di una struttura postulata e genericamente assunta; l’onnipervasività della correlazione è piut1 2
VII 283 [181], corsivi aggiunti. Nel farlo mi rendo conto che la loro rilevanza riguarda immediatamente il ristretto àmbito degli studi husserliani. Del resto, come palesato sin dall’inizio, il principale intento del lavoro era ed è quello di una ricostruzione storico-sistematica del tutto interna al pensiero di Husserl. Resto nondimeno convinto che numerosi elementi così ricostruiti convergano verso un modello di soggettività e di razionalità filosofica per certi versi attuale, o per meglio dire attualizzabile, se opportunamente intercalato in un confronto critico con altre tendenze del pensiero contemporaneo (filosofico e non). Ovviamente, in questa sede almeno, argomenti e modi del confronto rimarranno silenti, affidati alla capacità di chi legge di scorgere tra le righe la vitalità o meno della proposta fenomenologico-trascendentale.
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tosto l’intessitura prodotta e riprodotta da un incessante lavoro di sintesi formale da parte dello Zeitbewußtsein. Ho pertanto riservato ampio spazio alla dinamica interna al presente vivente, decrittando la struttura sintetica della Lebenspulse mediante un duplice tentativo di coerentizzazione condotto fra i manoscritti husserliani e fra i commenti dei principali studi a essa dedicati. Auspicando di non aver reso un torto né ai primi né ai secondi e senza alcuna pretesa di conclusività, reputo nondimeno un risultato soddisfacente aver riformulato la questione ponendo nuove chiavi di lettura e, soprattutto, sviscerandone il grado di complessità. Che Husserl avesse dedicato analisi minuziose alla temporalità era noto ai più, che la temporalità abbia rappresentato l’epicentro magmatico in grado di rideterminare la configurazione sistematica della fenomenologia dovrebbe risultare ora più chiaro alla luce del presente studio. Un risultato ulteriore che reputo di aver sufficientemente illustrato, è l’esigenza di un’integrazione funzionale di macro- e micro-analisi spesse volte condotte e stimate come a sé stanti: temporalità e sintesi passiva, passività originaria e passività secondaria, passività e attività in senso lato, etc. A tal fine, facendo leva su alcuni spunti husserliani, ho cercato di elaborare un modello di esperienza ricorsivo che reputo estremamente plastico e pertanto capace di soddisfare le esigenze di una concezione plurale del soggetto stante la sua sostanziale unità operativa. Per far questo si è reso necessario chiarire, per quanto possibile, due nozioni come quelle di senso e di implicazione intenzionale; mentre la prima, ben nota agli studiosi, ha sempre palesato uno statuto evanescente, la seconda meritava di essere riscattata invece da una certa pervasività che tuttavia le impediva – perché eccessivamente ovvia – di essere pienamente riconosciuta e accreditata della sua valenza sistematica. Mi auguro di aver reso il giusto merito a entrambe le nozioni, descrivendo il ciclo di vita del senso (conferimento-sedimentazione-schematizzazione), nonché l’enorme valore epistemico, per una teoria sensata dell’esperienza, di ciò che risulta (intenzionalmente) implicato in ogni nostra pratica di vita. Entrambi gli elementi ora richiamati puntano in direzione della messa in rilievo di un certo tasso di dialetticità operativa all’inter-
Conclusioni
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no della fenomenologia trascendentale3. Sebbene Husserl difficilmente possa essere ritenuto un pensatore dialettico, nondimeno, è la stessa proposta fenomenologica che in alcuni dei suoi snodi sembra manifestare tratti dialettici di un qualche tipo. In questa sede, naturalmente, non si è avuto che la pretesa di corroborare marginalmente una simile tesi, ponendo in luce come il processo primario si presti a essere descritto al modo di una dialettica emergenziale – animato da un sostanziale disequilibrio tra momento costitutivo e autocostitutivo – e come un resoconto astratto della genesi possa essere superato mediante una dialettica di soppressione tematica e conservazione appercettiva dell’apporto costitutivo degli strati. Vi sono poi delle conseguenze scaturenti dalla ricorsività della Lebenspulse. In primis, un modello esplicativo dell’autocoscienza di natura, come noto, pre-riflessiva, il cui operare è però legato a un tipo di autoriferimento processuale temporalmente distribuito. Non si dà autocoscienza istantanea di sé ma solo in quanto coscienza interna del tempo, nell’esito complessivo del moto di pulsazione vitale che continuamente si ri-trascende e re-immanentizza. In secondo luogo, la ricorsività del processo è ciò che consente quan3
Nel suo brillante esordio filosofico, derrida (1990) ha fornito una ricostruzione suggestiva della parabola filosofica di Husserl, rinvenendo nel problema della genesi un desideratum dialettico mai pienamente tematizzato e capace pertanto di condurre a esiti aporetici ogni tappa di sviluppo della fenomenologia trascendentale. Resta il fatto che l’opera prima di Derrida, in cui peraltro compaiono in nuce molte delle critiche rivolte alla fenomenologia nei testi della maturità (derrida 1967), sembra sorvolare (sottolineo: non a caso) su una discussione approfondita della temporalità e del suo legame con la passività originaria e secondaria. Proprio queste tematiche hanno invece condotto il nostro discorso in direzione di una concezione dialettico-ricorsiva della prassi esperienziale alternativa al modello stratigrafico comunemente inteso. Del resto, questo limite evidente della lettura derridiana non sembra imputabile all’autore se non in piccola parte. Sebbene egli abbia potuto accedere al lascito manoscritto durante un soggiorno presso l’Archivio-Husserl di Lovanio, nessuno dei testi rilevanti per l’effettiva comprensione delle dinamiche in gioco – essenzialmente i Bernauer Manuskripte e le Anlysen zur passiven Synthesis – risultava allora pubblicato. La sensibilità esegetica di Derrida arriva sino al punto d’intuire l’importanza strategica rivestita dal tema della costituzione originaria del tempo e si rammarica che i Bernauer Mss. fossero stati affidati a Fink, il quale, a suo dire, “si rifiuta[va] di pubblicare o di consegnare tutti questi testi” (derrida 1990, 222n. 73).
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to abbiamo chiamato potenziamento epigenetico dell’esperienza, ovvero l’istituzione di capacità esperienziali (Vermöglichkeiten) sempre più complesse e affinate d’interazione col mondo-ambiente. Tale istituzione ha a che fare con la formazione di un sistema implicito del senso organizzato e integrato olisticamente, in grado dunque di promuovere una schematizzazione a priori della predatità. Proprio quest’ultima nozione, pertanto, non deve essere intesa come un dato originario, appunto, fatto e compiuto, bensì come qualcosa che risulta continuamente riconfigurabile dall’andamento ricorsivo dell’esperienza e di fatto riconfigurato dal suo potenziamento epigenetico. La predatità del mondo della vita è dunque in movimento, essendo ricostituita intersoggettivamente, quanto al suo statuto appercettivo, ogni volta da capo. Alcuni risultati sono poi stati conseguiti sul piano del metodo. Ho mostrato come si debba a esso un chiarimento della nozione altrimenti problematica di teleologia. Essa risulta infatti spiegabile in funzione del metodo genealogico adottato da Husserl, in virtù cioè dell’andamento regressivo e progressivo della ricerca fenomenologica. Il telos rilevato all’interno della genesi intenzionale è dunque ricostruito come tale da chi fenomenologizza, a partire cioè dalla prospettiva finale, dal punto di approdo della sua articolazione. La fenomenologia ricostruisce il telos, di fatto istituendolo, in base a una considerazione retrospettiva di ciò che, di per sé, sarebbe invece un processo animato da necessità intrinseca: una dinamica motivata al superamento dell’inadeguatezza epistemica dei gradi di evidenza parziali che ineriscono ai differenti modi dell’esperienza “naturale”. Sempre in relazione al metodo, si è visto come la prassi fenomenologica non possa essere ritenuta “neutra” rispetto al proprio oggetto d’indagine. Essa fa leva anzi su procedimenti intellettivi (ideazioni, astrazioni) di cui almeno in un primo momento non sembra del tutto consapevole. La possibilità stessa di fenomenologizzare l’Urphänomen verte su un momento costruttivo – nel senso specifico sopra delineato – dell’analisi. Alla fenomenologia della fenomenologia spetta pertanto il compito di gettare luce sullo statuto del metodo, nonché sulle sue consuetudini operative, in modo tale da non pregiudicare i risultati nel frattempo conseguiti. Lo svolgimento della fenomenologia husserliana prevede un movimento ondivago di pensiero che sappia zigzagare tra livelli e
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àmbiti costitutivi, tra declinazioni parziali di uno stesso metodo d’indagine (eidetico, statico, genetico); che sappia eventualmente tornare ricorsivamente sui suoi passi rivedendo i propri tentativi di fondazione e di espressione alla luce dei risultati nel frattempo maturati. L’edificazione sistematica di una scienza fenomenologica è dunque per Husserl un compito trasposto all’infinito e compartecipato da generazioni di filosofi che siano in grado di accettare un comune paradigma di ricerca, adoperandosi al suo interno. L’interminabilità del sistema husserliano, lo si è visto, risiede tanto al cuore dell’intento ricostruttivo della sua articolazione, per via del carattere ognóra perfettibile dell’argomentazione abduttiva che ne accerta eideticamente il fondamento originario (l’Urprozess), che alla mèta del progetto, per via delle possibilità estrinsecamente e intrinsecamente illimitate dell’esperienza e dunque del compito di autoesplicitazione che a essa inerisce. Il significato recondito dell’idealismo fenomenologico non sarà dunque, non potendolo di fatto essere, quello che pertiene a un sistema deduttivo di principi, ma quello relativo a un “sistema della scoperta” – meglio: a un “ordinamento della scoperta sistematica dei principi” (XXXV 394) – la cui compiutezza (Vollständigkeit) non potrà che assicurarsi virtualmente, nell’indefinita disponibilità e praticabilità di una prassi teoretica codificata. Ricordiamo infatti che “l’indubitabilità concerne il metodo” (VI 492 [516]): non cioè una particolare dottrina bensì il paradigma di ricerca fenomenologico. Quest’ultimo, infatti, riproduce sé stesso al di là della particolare configurazione assunta in un certo frangente storico: Questo è il possesso del tempo [Habe der Zeit], il campo di lavoro che è in funzione del tempo, soprattutto il regno di ciò che è stato sbrigato [Erledigten] in funzione di esso e che è giunto a un intreccio sistematico […]. Evidentemente ciò genera per ogni presente l’inclinazione fondamentale [Hauptzug] dell’intero lavoro, del lavoro accumunato degli scienziati […]. Questo patrimonio acquisito è la communis opinio della scienza di un certo “tempo” o “presente”. In questo campo ognuno lavora al proprio posto, ai suoi problemi e nei suoi ambiti parziali. In questo campo, per quanto si estende, domina naturalmente un interno nesso di senso, di cui ognuno deve avere riguardo, così che anche coloro che lavorano a determinati compiti e in determinati ambiti non possono trascurare ciò che muove [treiben] l’ambito generale. (VI 493 [518*])
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Nel corso dei primi anni ’30, gli sforzi husserliani di elaborare in prima persona il sistema dell’idealismo fenomenologico precisatosi nel decennio appena trascorso – riassettando e riordinando il cospicuo lascito manoscritto – si scontreranno con la debolezza psicofisica della età sopraggiunta, con la frustrazione scaturente da un ordine espositivo mai conforme alle attese, col profilarsi di un contesto accademico e politico sempre più avverso4. Del progetto di ampliamento e rielaborazione delle Meditazioni cartesiane – progetto che avrebbe dovuto rappresentare l’opera sistematica di una vita – non restano che alcuni manoscritti e una bozza di sistema (XV xxxvi, Nrr. 6-28). Sotto un certo profilo, il passaggio al progetto editoriale della Crisi delle scienze europee equivarrà per Husserl all’extrema ratio in grado di riaffermare il proprio ideale filosofico al di là della sua esplicitazione sistematica, oltre cioè la sua realizzazione effettiva nell’elaborazione del sistema – cosa, quest’ultima, che per necessità intrinseche, prima ancora che contingenti, non potrà che demandarsi (indefinitamente) ai posteri. Nel progetto della Crisi, l’ideale della Selbstauslegung emerso dalla riflessione degli anni ’20 non scompare ma anzi riecheggia trasposto non più sul piano dell’ontogenesi bensì su quello della filogenesi5, sul piano cioè dell’esplicitazione storica dell’intersoggettività trascendentale. Il compito della phänomenologische Auslegung – la cui effettiva esecuzione impone di rispondere negativamente al quesito retorico: “è possibile separare la ragione e l’essente se è proprio la ragione che, nel processo conoscitivo, determina ciò che l’essere è?” (Hua VI 9 [41]) – viene contestualmente intercalato e dunque concretato all’interno del proprio orizzonte generativo. Saranno infatti la rivoluzione scientifica e buona parte della storia della filosofia moderna a dover essere decostruite e ricostruite nelle rispettive tappe essenziali.
4 5
Cfr. kern (1973) e Welton (2000, 117-130). Su ontogenesi e filogenesi – da intendersi in senso intenzionale e non biologico – si veda XV 595 e XLII 98. In linea di massima si può pensare l’ontogenesi come lo sviluppo delle Vermöglichkeiten e della Selbstbesinnung del singolo soggetto, la filogenesi come l’analogo sviluppo dell’intersoggettività trascendentale trasposto però su un piano (meta)storico.
Ma anche se noi risalissimo lungo la storia, fino ai primi inizi della scienza, non potremmo attingere criticamente il mondo circostante pre-teoretico se non attraverso la decostruzione [Abbau] delle convinzioni teoretiche che noi abbiamo realmente e che, certo, abbiamo attinto alla tradizione. (VI 498 [524*])
Queste tappe rappresentano nulla più che altrettanti snodi cruciali da esplicitare perché in grado di mostrare l’esigenza e quindi le condizioni per l’effettiva instaurazione del paradigma fenomenologico-trascendentale. La tradizione moderna diviene l’orizzonte implicito da dipanare perché in grado di legittimare la scienza fenomenologica suscitandone il bisogno (VI xiv n. 3 [29n. 4]) L’ultima fatica di Husserl varrà allora il rilievo di un nesso motivazionale teso a rilanciare la Selbstauslegung, e con essa la ragione umana, oltre sé stessa, oltre cioè la crisi in cui versa. Nel nostro piccolo abbiamo cercato di rintracciare la genesi storico-sistematica della proposta husserliana, di una fenomenologia pensata come Selbstauslegung della soggettività trascendentale. Per orientarci lungo il percorso ci siamo affidati al filo conduttore della temporalità. Cercando di chiosare quanto emerso lungo il tragitto, potremmo dire che la fenomenologia, in quanto Selbstauslegung, affronta il modo in cui la temporalità si rivela una dimensione intrinsecamente correlativa, nonché, ma in fin dei conti è lo stesso, il modo in cui la correlazione si articola nel tempo. Alla fenomenologia spetta però il compito di ricomporre i due punti di vista, esplicitando quanto di intenzionalmente implicito li separa e al contempo li congiunge. Anche questo compito è però una prassi del tempo – che abbisogna di tempo per generarsi, di tempo per condursi: Va detto che tutto ciò deve essere inteso non in termini statici, bensì genetico-dinamici. La scienza rigorosa non è essere oggettivo, ma divenire di un’oggettività ideale; ed essa è conforme alla propria essenza solo nel divenire, sicché l’idea stessa di un’autentica umanità e il metodo con cui si dà forma sono solo nel divenire. (XXVII 55 [66s.])
Soltanto nel divenire l’abisso teso tra coscienza e realtà potrà in qualche misura ricucirsi lungo la via intrapresa di una prospettiva idealistica – in quanto riappropriazione del tempo che tale abisso
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La prospettiva del tempo
ha generato. La cifra stilistica di questo idealismo risiede allora nel porsi non come visione preconcetta del mondo bensì come ideale pratico da realizzare per mezzo di un lavoro indefinito e socializzato di esplicitazione intenzionale. La fenomenologia è in tal senso Arbeitsphilosophie (SPh 177 [265]), nulla più che “funzione teoretica di una prassi” (VII 283 [181]). L’idealismo fenomenologico sorto in seguito alla “svolta” trascendentale come reazione teoretica all’“assolutizzazione [positivistica] di questo mondo” (VII 283 [181]) sembra assolutizzare di rimando, almeno in un primo momento, il polo egologico della correlazione. L’approfondimento genetico della fenomenologia ha il merito di riequilibrare la prospettiva husserliana de-assolutizzando la coscienza e ponendo come autentico assoluto l’a priori della correlazione, reintegrando via via al suo interno l’intersoggettività e il mondo quali aspetti parziali di una medesima tendenza costitutiva latente. Questa tendenza, l’abbiamo visto, gradualmente si desta dal suo status operativo, si tematizza per via fenomenologica e infine si persegue responsabilmente come un progetto di lavoro in fieri, condotto all’insegna dell’ideale dell’Allsubjektivität trascendentale. In questo modo, la fenomenologia arriva a comprendersi quale prospettiva d’approdo della parabola costitutiva riesumata lungo il proprio scavo archeologico, come quel particolare punto di vista da essa generato – come l’unico in grado di ripercorrerne e seguitarne lo sviluppo. La fenomenologia trascendentale si comprende scienza eminentemente prospettica. Deassolutizzare l’essere del mondo significa cingerlo nella sfera del senso, riscattarlo dalla sua inerzia naturale, rimodularlo appercettivamente e quindi – eventualmente – poterlo trasformare; significa oltrepassare l’ingenua e irrazionale accettazione di un fatto, vicolandone il corso allo sviluppo della vita intenzionale e autocosciente – intenzionale perché autocosciente – di una vita che nell’interscambio esperienziale si rende autonomamente responsabile di sé e del mondo: si razionalizza. Il tenore trascendentale dell’esperienza che si estrinseca in gradi di consapevolezza vieppiù crescente persegue dunque un ideale di ragione. Quest’ideale – questo idealismo – non è però un dato originario bensì un telos esso stesso da costituire, da protrarre e perseguire scientemente.
Figure
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FIGURE
Fig. 1 Intreccio (Verflechtung) ritenzionale-protensionale.
380
La prospettiva del tempo
Fig. 2 Urprozess/Lebenspulse
Figure
381
Fig. 3 Chiarimento terminologico della dialettica differenziale-emergenziale
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La prospettiva del tempo
Fig. 4 Urperspektivierung
Figure
383
Fig. 5 Tendenze della fenomenologia genetica
384
La prospettiva del tempo
Cogitatum Reflexiv Grund
Objekt-Pol
Sachliche Vordergrund Abgehobenheit (Erlebnisse) (Brennpunkt) Untergrund (Erleben)
Urhyle
Cogito
Ego
Noema
Noesi
Ich-Pol
Affektion
Immanente Zeitigung
Ichliche Abgehobenheit (Focus)
Urassoziation Urzeitigung
Urich
Fig. 6 Inquadramento analitico della questione dell’io in rapporto alla stratificazione correlativa
BIBLIOGRAFIA
Si è preferito citare menzionando l’anno di pubblicazione della prima edizione, in lingua originale, dell’opera. Per non appesantire oltremodo il testo, tuttavia, nel caso in cui fosse disponibile una traduzione italiana, si è scelto di riferire solo ad essa le indicazioni dei numeri di pagina. albertazzi, L. (1990/1991), “Brentano, Meinong and Husserl on internal time”, Brentano Studien, vol. 3, pp. 89-109. aldea, A.S. (2017), “Making Sense of Husserl’s Notion of Teleology – Normativity, Reason, Progress and Phenomenology as ‘Critique from Within’”, Hegel Bulletin, vol. 38, pp. 104-128. altobrando, A. (2010), Husserl e il problema della monade, Trauben, Torino. asemissen, H.U. (1957), „Strukturanalytische Probleme der Wahrnehmung in der Phänomenologie Husserls“, Kantstudien, vol. 73 (Ergänzungsheft), pp. 7-97. avercHi, M. (2012), “Io puro, unità di coscienza e temporalità fenomenologica tra Ricerche logiche e Idee I”, in C. Di Martino (a cura di), Attualità della fenomenologia, Rubbettino, Soveria Mannelli, pp. 137-191. alves, P.M.S. (2017) “Perception and Passivity. Can the Passive Pre-Givenness Be Phenomenalized?”, Phainomenon, vol. 26, pp. 13-35. barale, G.M. (2006), “Trascendental Phenomenology and Life-world”, in A. Ferrarin (a cura di), Passive Synthesis and Life-World. Sintesi passiva e mondo della vita, ETS, Pisa, pp. 165-197. beck, M. (1928), „Die Neue Problemlage der Erkenntnistheorie“, Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistsgeschichte, vol. 6, pp. 611-639 (http://ophen.org/pub-108312). bégout, B. (2000) La généalogie de la logique. Husserl, l’antéprédicatif et le catégorial, J. Vrin, Paris. benoist, J. (1994), Autour de Husserl: l’ego et la raison, J. Vrin, Paris. (2008), “Modes temporales de la conscience et réalité du temps. Husserl et Brentano sur le temps”, in Id. (a cura di), La conscience du temps, J. Vrin, Paris, pp. 11-28.
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THEORETICA Collana diretta da Silvana Borutti e Luca Vanzago 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19.
Sandra Viviana Palermo, Il bisogno della filosofia. L’itinerario speculativo di Hegel tra Francoforte e Jena (1797-1803) Giovanni Raimo, La filosofia del linguaggio di Moritz Schlick. Immagine, uso e verificazione Stéphane Finetti, Riflessione e astrazione Renaud Barbaras, Introduzione a una fenomenologia della vita Silvana Borutti, Luca Fonnesu, Luca Vanzago (a cura di), Intersoggettività Luca Maria Scarantino (a cura di), Sulla filosofia teoretica di Giulio Preti. In occasione del centenario Alice Pugliese, Il movente dell’esperienza. Costituzione, pulsione ed etica in Edmund Husserl Silvia Barberani, Silvana Borutti, Claude Calame, Mondher Kilani, Claudia Mattalucci, Luca Vanzago, Soggetto, persona e fabbricazione dell’identità. Casi antropologici e concetti filosofici Marco Barcaro, Il mondo come paradosso. Patočka e lo sviluppo della Lebenswelt Leonard Lawlor, Le implicazioni dell’immanenza. Verso un nuovo concetto della vita Fulvio Papi, Il pensiero ironico e il regno dell’amore. Traversata filosofica nell’opera di Robert Musil Federica Malfatti, Willard van Orman Quine e l’incertezza ontologica Luca Pinzolo, Relazione e ontologia. Verso la transindividualità a partire da Emmanuel Lévinas e Gilbert Simondon Gaetano Chiurazzi e Giacomo Pezzano (a cura di), Attualità del possibile Matteo Bianchin, Intenzionalità e interpretazione. Uno studio su Husserl Serena Feloj, Il dovere estetico. Normatività e giudizi di gusto Luca De Giovanni, L’ombra di Husserl. Il problema della sensazione nella fenomenologia husserliana Leonardo Arigone, Erich Auerbach e Walter Benjamin tra figura Jetztzeit. Una considerazione teologico-politica Giulio Piatti e Ugo Ugazio (a cura di), La fine del mondo umano e la filosofia
Finito di stampare nel mese di gennaio 2022 da Geca Industrie Grafiche- San Giuliano Milanese (MI)