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Italian Pages 259 [270] Year 2012
Mediologie 27 Collana diretta da Alberto Abruzzese, Gino Frezza, Gianfranco Pecchinenda, Giovanni Ragone
Mediologia Una disciplina attraverso i suoi classici a cura di Mario Pireddu e Marcello Serra
Liguori Editore
Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2012 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Marzo 2012 Pireddu, Mario (a cura di):
Mediologia. Una disciplina attraverso i suoi classici/Mario Pireddu, Marcello Serra (a cura di) Mediologie Napoli : Liguori, 2012 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5602 - 4
1. Sociologia e media 2. Sociologia dei mezzi di comunicazione I. Titolo II. Collana III. Serie Aggiornamenti: ———————————————————————————— 16 15 14 13 12 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
Indice
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Presentazione
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1903 · Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito recensione di Antonio Rafele
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1916 · György Lukács, Teoria del romanzo
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1929 · Aby Warburg, Mnemosyne. L’atlante delle immagini
recensione di Alberto Abruzzese
recensione di Franco Speroni
49
1936 · Rudolf Arnheim, La radio. L’arte dell’ascolto
61
1936 · Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
recensione di Roberto Maragliano
recensione di Davide Borrelli
72
1940 · Walter Benjamin, I “passages” di Parigi
83
1947 · Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo
recensione di Giovanni Fiorentino
recensione di Gino Frezza
95
1950 · Harold A. Innis, Impero e Comunicazioni
106
1955 · Elihu Katz, Paul Felix Lazarsfeld, L’influenza personale nelle comunicazioni di massa
recensione di Andrea Miconi
recensione di Davide Bennato
VIII
Indice
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1957 · Roland Barthes, Miti d’oggi
126
1957 · Martin Heidegger, La questione della tecnica
recensione di Jorge Lozano
recensione di Michel Maffesoli
134
1962 · Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica recensione di Stefano Cristante
145
1962 · Marshall McLuhan, La Galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico recensione di Giovanni Ragone
161
1962 · Edgar Morin, Lo spirito del tempo
176
1963 · Eric A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone
recensione di Sergio Brancato
recensione di Gabriele Frasca
186
1964 · Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare recensione di Peppino Ortoleva
200
1968 · Jean Baudrillard, Il sistema degli oggetti
214
1974 · Raymond Williams, Televisione, tecnologia e forma culturale
recensione di Nello Barile
recensione di Iain Chambers
224
1985 · Joshua Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale recensione di Massimo Di Felice
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Bibliografia
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Gli autori
Presentazione
A partire dal 2005 siamo stati responsabili di un servizio di recensioni di testi su media e comunicazione. Si chiamava NIM.libri e faceva parte di NIM (Newsletter Italiana di Mediologia), un progetto più ampio, articolato in una newsletter e un sito internet e giunto al termine nel 2009. Sotto la direzione di Alberto Abruzzese, e grazie al lavoro di un buon gruppo di collaboratori, NIM.libri ha recensito in quegli anni una novantina di novità editoriali, cercando di rappresentare un appoggio alla comunità italiana di studiosi dei media. Ai recensori chiedevamo infatti di non concentrarsi sulle critiche ai testi, ma piuttosto di indicare e descrivere brevemente gli strumenti che essi potevano offrire a un ricercatore del campo. I libri che sotto questo punto di vista apparivano inutili semplicemente venivano ignorati. Da lì all’idea di questo libro il passo era breve. Perché, ci siamo chiesti, non fare lo stesso con i testi classici della mediologia e ragionare sulla loro attualità? Questa iniziativa, automaticamente, suggeriva una questione ulteriore: quali sono i classici della disciplina? Domanda che, a fari spenti, ne implicava un’altra più radicale: che cosa è la mediologia e quali sono i suoi strumenti? Per cercare di dare una risposta abbiamo chiesto a un buon numero di docenti e ricercatori italiani e stranieri, studiosi di media e comunicazione, di indicare tre testi, tre libri che fossero fondamentali per il loro lavoro e che, allo stesso tempo, avessero una certa tradizione, una storia di “uso” nella ricerca mediologica.
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Presentazione
In questo modo sarebbe stato forse possibile abbozzare una specie di “canone mediologico”, una lista di libri imprescindibili e costitutivi della disciplina. Confrontando le varie risposte, alcuni testi e autori sono apparsi immediatamente come fondamentali e, più in generale, il nostro ruolo nella scelta dei titoli è stato marginale. In diversi casi, è capitato che un autore fosse indicato da più persone, ma facendo riferimento a libri diversi. Generalmente ci siamo presi la responsabilità di sceglierne solo uno per ciascun autore, con la eccezione di due casi: Walter Benjamin e Marshall McLuhan, che erano i nomi più citati. Non c’è lista che non faccia pensare a quel che ne è stato escluso e, ne siamo consapevoli, non mancheranno i delusi o contrariati per una o un’altra assenza. Evidentemente, l’elenco avrebbe potuto essere in parte diverso, più lungo o più ristretto; tuttavia, oltre che delineare un percorso storico, ci sembra che i libri selezionati ben rappresentino un universo intellettuale che trova modo di dispiegarsi nei riferimenti bibliografici in coda al volume. Una volta stilata la lista, le persone interpellate hanno ricevuto l’incarico di scrivere, seguendo una serie di istruzioni, la recensione di uno dei testi che aveva precedentemente indicato. L’idea fondamentale era quella di presentare i classici “come se uscissero adesso”, cercando di misurarne l’attualità piuttosto che di ricostruirne la fortuna critica. In questo senso, i vari contributi cercano di far dialogare i testi con le problematiche attuali, di confrontarli con la bibliografia e le teorie contemporanee; provano inoltre a spiegare, illustrandoli, quali tra gli strumenti di ricerca offerti dai vari libri restano ancora validi e perché. Una richiesta esplicita era quella di soffermarsi unicamente su questi elementi, tralasciando gli aspetti anacronistici o le ipotesi di ricerca rivelatesi sterili, inutili o ormai superate. Infine, l’ultimo vincolo era rappresentato dal punto di vista attraverso cui leggere i testi; al rispetto
Presentazione
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abbiamo ripreso una definizione di mediologia sufficientemente ampia da non creare disagio e abbastanza stretta per orientare lo sguardo: disciplina che sceglie i media come territorio di osservazione privilegiato per lo studio della società e dei suoi mutamenti. Evidentemente, questo modo di procedere ha obbligato gli autori a letture parziali dei testi e, spesso, a decontestualizzarli per concentrarsi sul confronto con le problematiche attuali e la bibliografia recente. È per questa ragione che ogni recensione è preceduta da una scheda, della cui stesura siamo i responsabili, che si incarica di presentare e introdurre l’opera. Uno degli obiettivi più importanti del volume che avete in mano è quello di fornire una “cassetta degli attrezzi” mediologica di base, di raccogliere un ventaglio di strumenti di lavoro che sia distintivo di chi si riconosce in questa disciplina. Piuttosto che di restringere l’orizzonte, si tratta di delineare un territorio comune, delle fondamenta su cui costruire la ricerca futura. Se questo libro rappresenta un passo in tale direzione il merito è di tutti coloro che hanno collaborato, raccogliendo il nostro scomodo invito. Grazie per aver scritto e sopportato l’attesa. Soprattutto, infine, grazie ad Alberto Abruzzese, che è all’origine di tutto questo e di molte altre cose ancora. Mario Pireddu e Marcello Serra
Tutte le schede che introducono le recensioni sono di Mario Pireddu e Marcello Serra. Le parentesi quadre indicano le citazioni interne ai libri oggetto delle singole recensioni.
1903 Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito Nel 1903, a Dresda, nel corso della Esposizione tedesca di urbanistica, si tenne un ciclo di conferenze sul tema della vita in città a cui parteciparono esperti provenienti da campi diversi come la scienza, l’arte o la religione. Inizialmente, a Georg Simmel venne chiesto di parlare del ruolo della vita intellettuale nella grande città, ma sorprendentemente egli decise di rovesciare il tema, preferendo analizzare gli effetti della metropoli sullo spirito e l’intelletto umano. Tra le altre cose, l’operazione aveva un fondamento biografico personale che possiamo ricavare da alcune affermazioni dello stesso Simmel. Per lo meno relativamente a un certo periodo, infatti, egli ebbe modo di sostenere che tanto la sua personale crescita intellettuale quanto il frutto specifico delle sue ricerche erano legate a Berlino e alla sua evoluzione da città a metropoli negli anni a cavallo del secolo. Il breve testo che scaturì dalla conferenza riprende alcuni dei temi essenziali della monumentale Filosofia del denaro che Simmel aveva pubblicato nel 1900, ma sposta la forma di vita metropolitana al centro della riflessione, scegliendola come punto di vista privilegiato per la comprensione di certe dinamiche della modernità. Le metropoli e la vita dello spirito muove dall’osservazione che, per difendersi dall’intensificazione degli stimoli propria della grande città, l’uomo metropolitano sviluppa una specie di “organo” protettore, una tendenza a rispondere alle sollecitazioni con l’intelletto e non con il sentimento. In una parola, che tanta fortuna avrà nella letteratura successiva, è un individuo blasé. Le argomentazioni che si dipartono da questa prima considerazione sono diventate un classico della sociologia urbana, ma anche di quella mediologia che vede la metropoli e le sue forme di vita come l’origine dei mezzi di comunicazione di massa novecenteschi, come il medium da cui nascono e prendono forma.
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Mediologia
Medium e accelerazione di Antonio Rafele
La metropoli 1 è la rappresentazione di un archetipo, di un’immagine in parte sovrapponibile a quella della metropoli attuale. È la descrizione di uno spazio, di un mondo ancora inedito e inesplorato, la testimonianza di una cesura, di un’improvvisa interruzione del corso vuoto e omogeneo del tempo, a cui corrisponde la nascita di forme mai prima sperimentate, di lunga durata. Per questo motivo la descrizione assume i caratteri di un processo instabile e provvisorio, in fieri. I caratteri di un continuo, strettissimo gioco di rimandi tra vissuto e riflessione, immersione, sospensione e costruzione di un punto di vista attuale, parziale ma articolato. La metropoli è la costruzione di un sapere che prevede una stretta complementarietà tra esperienza e repertorio metodologico. Più esattemente, il secondo appare in tutto e per tutto come un residuo, come una possibilità concessa dal primo. La particolarità della metropoli sta nel creare nuove e mutate condizioni di vita, da cui discendono nuovi e particolari stati psichici. Con la metropoli soggetto e oggetto, forma e contenuto, sono un unicum originario e inscindibile. L’io riconosce se stesso come “pasta molle”, infinitamente modellabile sulla scorta delle circostanze vissute, mentre esse funzionano come contenitori, causa e origine delle caratteristiche acquisite. Senso e figura, esperienza e rappresentazione coincidono, convergendo in un’unica tensione formale che espone i differenti aspetti del vissuto. Entrare nella conchiusa configurazione del testo significa riconoscere in esso la propria voce: la natura, i contrasti, i dettagli, gli equilibri e i punti di forza che la 1
Le edizioni precedenti a quella qui utilizzata come riferimento traducevano il titolo del testo al singolare, uso che si è scelto di mantenere nel corso di questa recensione.
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realtà ha assunto. La conoscenza si sviluppa dall’interno dell’oggetto studiato e non su di esso, culminando nell’acquisizione di una visione chiara benché provvisoria sulla complessità del vissuto. La metropoli partecipa a un percorso di studi iniziato con le prime riflessioni romantiche sul valore dell’opera – opera come protesi, lettore come articolazione vitale, completamento necessario di essa – e concluso con Understanding media di Marshall Mcluhan, dove la corrispondenza tra metodo e performance raggiunge – nel gioco di scambi e riflessi tra prima e seconda parte, tra analisi diretta dei media e loro automatica messa a distanza – una piena e compiuta visibilità. Riporto, a titolo esemplare, due frammenti particolarmente emblematici, uno dedicato all’esperienza della fotografia, l’altro all’avvenuta coincidenza tra medium e messaggio: Se apriamo un numero di Life del 1938, le immagini e le pose che ritenevamo allora normali ci appaiono ora cose remote più ancora che gli oggetti realmente antichi. I bambini di oggi usano l’espressione “i vecchi tempi” applicandola ai capelli e alle soprascarpe di ieri, tanto profondo è il loro accordo con i bruschi mutamenti stagionali dell’atteggiamento visivo introdotti dalla moda. Ma l’esperienza fondamentale si riassume in ciò che prova la maggior parte della gente per il giornale del giorno prima: la sensazione che nulla possa essere più totalmente fuori moda. I suonatori di jazz esprimono il proprio disgusto per il jazz inciso in dischi dicendo: È stantio come il giornale di ieri (McLuhan 1964: 209, corsivo di chi scrive). Non è forse evidente che non appena la sequenza lascia il posto alla simultaneità, si entra nel mondo della struttura e della configurazione? Non è forse accaduto proprio questo nella fisica come nella pittura, nella poesia e nelle comunicazioni? Segmenti
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Mediologia
di attenzione specializzata si sono trasferiti in un campo totale, talché oggi possiamo dire con sufficiente tranquillità che il “medium è messaggio”. Ciò non era per nulla ovvio prima della velocità elettrica e del campo totale. Sembrava allora che il messaggio fosse “il contenuto” e la gente soleva chiedersi cosa volesse rappresentare un quadro, anche se non si poneva mai questa domanda a proposito di una melodia, di una casa o di un abito, in quanto per queste cose conservava un certo senso dello schema generale, cioè dell’unità tra forma e funzione (Id.: 2022, corsivo di chi scrive).
I due passi sono tra loro complementari: uno descrive il tipo di esperienza alla quale si è continuamente sottoposti, l’altro ricava da quest’ultima un punto di vista globale sulla frammentarietà del vissuto. Un vissuto segnato da una particolare accelerazione del tempo, fattasi tratto dominante, e al tempo stesso elemento di continuità tra la metropoli ottocentesca e la realtà americana di fine millennio. Ne consegue un’immagine dell’esistenza come susseguirsi di istanti isolati e distanti tra loro, come continua e ripetuta esperienza di morte, qui intesa non come fine o interruzione bensì come caducità. Un’esistenza in cui gli eventi sono la manifestazione di ogni possibile vacuità, ma anche l’espressione delle modalità in cui la vita stessa avviene, ovvero i frammenti e le funzioni della psiche, individuale e collettiva. Su queste considerazioni preliminari si struttura uno sguardo che propone una lettura nuova e inconsueta sul succedersi delle vicende umane prossime o lontane: le epoche, ovvero il passato, il presente e il futuro dell’uomo, sono il risultato di un rapporto insuperabile tra l’io e le sue estensioni. Non vi è mai, tra i due termini, un rapporto di tipo gerarchico bensì una coincidenza: la metropoli determina un tipo metropolitano, la televisione un tipo televisivo, la scrittura un tipo alfabetizzato, la
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radio un tipo radiofonico. Su questa visione generale, e a tratti eccessiva, si innesta una convinzione più strettamente operativa: l’atto del conoscere comporta una decostruzione della forma presa in esame – del tessuto ad essa soggiacente – al fine di mostrare tanto la configurazione assunta dal vissuto quanto le corrispondenze stabilitesi tra quest’ultimo e l’io, le sue abitudini e assuefazioni. La metropoli richiama tuttavia più da vicino I passages di Walter Benjamin, altro studio minuzioso della vita parigina, mosaico che tiene e mostra in un’unica tensione formale i differenti aspetti del vissuto. Come nel caso della Metropoli, anche in quello dei Passages il ricercatore compie uno sdoppiamento; è un acuto osservatore di se stesso, mosso dall’intento o dal bisogno di articolare, fin nei minimi dettagli, la forma assunta dall’esperienza. Una vita da cui lui stesso è assorbito e dipende, senza alcuna possibile distinzione. Una vita che riflette per intero i percorsi che il medium ha reso possibile. Nella prospettiva di Benjamin, solo il presente può recuperare frammenti del passato, costituendo una configurazione altamente complessa e variegata. Esposizione, pubblicità, fotografia, art nouveau, avanguardie e Baudelaire, sono infatti elementi di un unico oggetto, Parigi, responsabile tanto della loro apparizione quanto della loro eventuale riattualizzazione. I singoli frammenti, pur essendo centrifughi, sembrano rispecchiare un medesimo funzionamento della storia. “La storia sta assumendo le fattezze della moda” (Benjamin 1982: 210). L’azione congiunta di tutti questi elementi trasforma, quindi, la storia in un susseguirsi di mode, il cui ritmo è veloce, il cui fine è la moltiplicazione delle abitudini, delle possibilità di vita. La moda offre il modello delle dinamiche sociali (egoismo, opinione, costumi, stili di vita, successo e identità) come del procedere “insensato” della storia (novità, discontinui-
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tà, attualizzazione, seconda natura). Nello studio della metropoli, Benjamin, e con lui il lettore, raggiungono una visione organica sul vissuto. Come nella Metropoli anche nei Passages la coesione si rivela in itinere, come un piano perfettamente aderente alle analisi particolari e non preesistente alle analisi stesse. Il Konvolut N, “Teoria della storia, del progresso e della conoscenza”, costituisce una traccia ricorrente ed ossessiva, forma un’autentica zona luminosa, riassume la metropoli in una fase momentanea ma perfettamente compiuta, ricca di variazioni e punti di forza ma anche di varchi e possibili rotture. La metropoli si apre con la descrizione di una particolare accelerazione del tempo: La base su cui si erge il tipo delle individualità metropolitane è l’intensificazione della vita nervosa, prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni interiori ed esteriori [...]. Anziché con l’insieme dei sentimenti, reagisce essenzialmente con l’intelletto [...]. La più adattabile delle nostre forze interiori: per venire a patti con i cambiamenti e i contrasti dei fenomeni non richiede quegli sconvolgimenti e quei drammi interiori che la sentimentalità, a causa della sua natura conservatrice, richiederebbe necessariamente per adattarsi ad un ritmo analogo di esperienze (Simmel 1903: 36).
La metropoli offre sin da principio uno scenario inedito, un accumulo e un’intensificazione straordinaria degli stimoli e delle sollecitazioni. L’io vi si trova come spiazzato e stordito, perduto in un mondo che non conosce e non gestisce ancora, un mondo discontinuo rispetto a ciò che lo precede, ai modi e ai ritmi vissuti come naturali, consueti. La metropoli esige un tempo più o meno lungo di adattamento, nuove organizzazioni sensoriali. L’individuo avanza come sospeso e trasognato, si lascia attrarre, distrarre e sedurre,
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impara a vedere e non vedere, sentire e non sentire. Il tutto senza permettere che qualcuno o qualcosa possa effettivamente incidere. Riesce in questo modo a seguire un ritmo rapido e dispersivo, a tollerare l’incontro di milioni di persone, a controllare un numero incalcolabile di offerte, segnali e indicazioni, senza subire particolari traumi o sconvolgimenti interiori. Il prezzo da pagare è tutt’altro che irrilevante: si ripercuote, al contrario, sulla struttura stessa del proprio esistere. Una tendenza costante e ripetuta alla rimozione, ad un ‘far finta” che solo alcune cose esistano o abbiano valore, genera un diverso modo di affrontare e concepire la vita quotidiana: lontani dai dettami di una classe o di una cultura dominante, da un insieme di regole, pratiche e costumi condivisi, ci si sente più liberi ma anche più soli, più autonomi ma anche più fragili, esposti, come mai prima, agli umori e alle sensazioni individuali. La metropoli indebolisce e mette sistematicamente in discussione qualsiasi tipo di limite o confine, valore o convinzione. Un processo così estremo da spingere ad un’esperienza di morte, intesa come esperienza conclusiva e risolutiva, come limite mediante cui costruire e ricostruire un punto di vista sulla globalità del vissuto. L’io sente e percepisce la propria esistenza come un arcipelago di frammenti sparsi, come un insieme di circostanze, più o meno significative in base al momento, al proprio bisogno momentaneo, che è sempre sul punto di saturarsi. Un insieme di abitudini atte a disegnare un carattere altrimenti opaco e indecifrabile, a conservare un’esistenza altrimenti vuota e distruttiva. Simmel offre al lettore una rappresentazione perfettamente dicotomica: da un lato la città di provincia con una precisa intenzione morale, dall’altro la metropoli con una nuova intenzione allegorica. Mentre la piccola città tende a conservare e ripetere le proprie abitudini, la metropoli invece le crea e le disfa rapidamente, riconoscendole in ultimo come effimere e
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passeggere. Se la piccola città è un medium che esige particolari strumenti, la metropoli, a sua volta, è un medium che sollecita nuovi dispositivi organizzativi. Viene attribuito valore originario al medium e non all’io. In un istante – l’attimo del suo apparire – il medium devia e rigenera il corso del tempo, offrendo una ulteriore possibilità di vita. Su questa distinzione mediologica Simmel costruisce il resto del saggio, in un percorso che vede progressivamente apparire alcuni termini chiave, da intendere come varianti, riflessi o sfaccettature della metropoli. Come si articola nelle mutate condizioni di vita la formazione individuale? Quali differenze essa stabilisce rispetto ai modi e ai tempi dell’identità classica? Quale valore assumono il piacere e lo stile di vita, la storia e la natura? Quale forma e funzione rivestono infine i gruppi sociali? Nella descrizione di Simmel, la metropoli riempe l’esistenza dei singoli e della collettività di innumerevoli eventi, discontinui tra loro e senza alcun rapporto chiaro e visibile con le esperienze passate. In simili condizioni, l’identità coincide con l’infinità delle circostanze attraversate ed incrociate, si dispiega nel dominio del caso e al di fuori di ogni immagine di perfettibilità. Più esattamente, coincide con una serie di riconoscimenti che l’io raggiunge – in varchi di sospensione temporale rispetto al continuum intenzionale dell’esistenza – su quelle tracce ormai stratificate e confuse nella psiche, lungo il corso della vita quotidiana. La costruzione dell’io avviene in un continuo gioco di rimandi tra attenzione e distrazione, immersione e riflessione postuma sull’evento vissuto. Dove la distrazione serve a sopportare una vita affollata di stimoli, l’attenzione serve invece a registrare una serie quantitativa e, inizialmente, indistinta di eventi in forme di conoscenza, di coscienza di sé. Dove la distrazione costituisce il piano rapido, sentito e inconsciente, l’attenzione è il risultato di un salto, di una discontinuità
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temporale mediante cui l’io raggiunge un “luogo alto” su se stesso. Abbandonata ai flussi della vita quotidiana, l’identità si sviluppa su due piani complementari: ogni evento viene inizialmente vissuto come un mito o un “sogno ad occhi aperti”, come una forza cieca e pulsionale che sospinge in avanti e chiede di essere interamente dispiegata; successivamente, l’uso e la ripetizione quotidiana, così come i continui sguardi retrospettivi dell’io in quanto osservatore di se stesso, trasformano quella stessa potenzialità in un habitus familiare, circoscritto e perfettamente riconoscibile. Ciò comporta che il valore e il significato delle circostanze vissute si ricomponga solo a posteriori, nell’attimo in cui il singolo costruisce un’immagine di esse, ovvero le riconosce e le relativizza come protesi del proprio vissuto quotidiano. La questione essenziale non è il significato di un’esperienza, quanto cosa essa rappresenti per il singolo, quali siano le conseguenze sull’agire quotidiano e sul vissuto di ciascuno. Date queste premesse, l’io rilegge perfino le grandi strutture sociali – religione, politica – non come sistemi olistici ma come frammenti che si sono come “incollati” nelle pieghe del suo agire quotidiano. Sul piano individuale, l’insieme di queste pratiche rende il singolo un sistema sempre potenziale, soggetto a improvvise riconfigurazioni e costantemente teso al raggiungimento, illusorio o concreto, del piacere. Una singolarità, irriducibile ma dinamica, la cui azione si giustifica nelle relazioni e nelle comunicazioni che stabilisce con altre singolarità: vivere significa riconoscere le proprie abitudini, gestirle e negoziarle continuamente con quelle degli altri. Su un piano più generale, questa stessa molteplicità, questo incredibile accumulo di cose ed esperienze, genera tra cultura oggettiva e soggettiva uno iato incolmabile, poiché l’individuo considerato nella sua singolarità perde la comprensione di tutti quei rapporti e quelle connessioni che legano tra loro le differenti forme sociali, politiche, intellettuali, delle
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quali, pur tuttavia, continua e deve continuare a far parte. Si genera quella condizione paradossale, per la quale è proprio l’estraneità dell’individuo al processo di trasformazione sociale a contribuire — in modo involontario e solo in minima parte consapevole — alla trasformazione stessa. Nei processi identitari generati dalla metropoli, lo stile di vita assume un significato molto più intimo e antropologico del passato: non è più un semplice strumento della differenziazione in classi sociali ma la creazione di una “seconda pelle”, di un habitus atto a mostrare e rendere visibile, dinanzi allo sguardo altrui, la propria personalità. Egoismo, opinione e successo costituiscono di riflesso il tessuto – la dinamica, la coesione e il fine – di una vita in cui il piano dell’identità non è più distinguibile da quello, lucido e trasparente, della superficie. In cui i confini tra vero e falso, giusto e sbagliato, reale e immaginario, sono assenti o infrangibili. In cui i singoli non si oppongono al mondo ma vi si conformano in un rapporto di “eterna” interazione comunicativa, quasi a distrarsi dalla natura, dalla reale vanità delle cose, quasi a impedire la visione della “nuda realtà”. La moltiplicazione degli stili di vita introduce infine, sul piano simbolico, una radicale trasformazione del rapporto esistente tra storia e natura. Se nella versione antica la storia riproduceva il senso e i limiti imposti dalla natura mediante una determinata condotta sociale, in quella moderna le due dimensioni si separano, costituendosi come due universi perfettamente paralleli: la natura si impone come un flusso vuoto ed omogeno, muto e indicibile, mentre la storia come un susseguirsi di abitudini atte ad alimentare una comunicazione o uno scontro tra gli individui. Le cose umane perdono ogni senso del vero, dell’utile e del necessario per divenire semplici stimoli che suscitano desideri sempre nuovi e sempre più settoriali. La vita sociale assume le sembianze di un gioco, di una droga o di una seconda natura. Il movimento
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che essa produce è acronico e privo di scopo, circolare e autoreferenziale, incurante di tutto ciò che non sia la propria ripetizione. Allo stesso modo i processi che l’attraversano sono come avvolti su se stessi; il loro significato si ridefinisce storicamente, attraverso quegli attori che ne operano una negoziazione e attraverso tutti quei meccanismi, come la citazione, il recupero o il rimosso, che stabiliscono una continuità tra forme del passato e forme del presente. La metropoli è la rappresentazione di un archetipo, tanto sul piano del metodo che su quello dei singoli contenuti, tanto per la storia dei media che per quella del pensiero mediologico. Molti dei concetti nel testo rapidamente annunciati – morte, distrazione, abitudine, stile di vita – sono infatti attivi nella letteratura successiva, da Benjamin a McLuhan fino a Baudrillard. Molti dei luoghi e dei dispositivi indicati ritornano nelle analisi dirette dei media e dei loro pubblici, del cinema e della fotografia, della radio e della televisione, del web e dell’industria culturale. Lo scenario descritto nella Metropoli appare, allo sguardo attuale, deformato o dilatato. Se il confronto con la metropoli faceva acquisire alla piccola città la dimensione di un ricordo, il fascino e la nostaglia di un sistema di vita perduto, irripetibile, oggi la differenza tra i due ambienti consiste solo nella quantità e nell’intensità delle possibilità offerte. La natura del rapporto vissuto resta, invece, pressocché identica: moderna o, che è la stessa cosa, metropolitana. La potenza della metropoli subisce tuttavia un decentramento: il rapporto particolare ed esclusivo tra l’io e la grande città viene sostituito da un rapporto più ampio, potenzialmente infinito, tra l’io e le sue estensioni. La metropoli non è che una delle tante possibili virtualità, esattamente come la campagna o la città di provincia, la radio o la televisione. Ciò comporta una situazione almeno in parte paradossale: la metropoli è una potenzialità fra
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le altre ma anche, per via della sua storia, un’impronta e un residuo sempre presenti. Alla metropoli sono infatti riconducibili alcuni dei caratteri più diffusi e costitutivi della contemporaneità: l’accumulo e la rapida successione di media, la percezione che essi funzionino come protesi del soggetto, il dominio della moda e dell’opinione, la convinzione che la storia, e con essa la vita, siano un succedersi vuoto e illusorio di virtualità, distrazioni. Tutti questi motivi fanno della metropoli un circolo vizioso, un’immagine eccessiva, apparentemente insuperabile. Anche quando la presenza di essa (autori, luoghi, ricordi, immaginari) è occasionale o marginale. Torna in mente l’Olinda di Calvino, la città che cresce in cerchi concentrici: A Olinda no: le vecchie mura si dilatano portandosi con sé i quartieri antichi [...] E così via fino al cuore della città: un’Olinda tutta nuova che nelle sue dimensioni ridotte conserva i tratti e il flusso di linfa della prima Olinda e di tutte le Olinde che sono spuntate una dall’altra; e dentro a questo cerchio più interno già spuntano – ma è difficile distinguerle – l’Olinda ventura e quelle che cresceranno in seguito (Calvino 1972: 131).
Resta da chiedersi se esistano ancora dei margini, delle intercapedini, delle zone d’ombra e, quindi, dei percorsi e delle riflessioni radicalmente inediti.
19161 György Lukács, Teoria del romanzo La stesura della Teoria del romanzo di György Luckács risale a un periodo tra il 1914 e il 1915, all’inizio di un periodo di grandi accadimenti, come la Grande Guerra e la Rivoluzione Russa, destinati a marcare indelebilmente il corso della storia del Novecento. Fu proprio la guerra, a cui era fortemente contrario, che indusse Lukács a scrivere l’opera, in risposta a un presente descritto fichtianamente come un’era della “compiuta peccaminosità”. Un’epoca di crisi e trasformazioni che vede in pieno transito anche il suo pensiero, nel mezzo di un percorso che, dall’influsso della filosofia della vita e dei suoi maestri giovanili Simmel, Weber e Dilthey, lo aveva condotto a Hegel e, da lì a poco, lo vedrà approdare ad una ferma militanza marxista. Con queste premesse Luckács intraprende un tentativo di descrivere il genere letterario della “grande epica” in termini di filosofia della storia, ovvero indagando le relazioni tra i diversi sviluppi interni alla forma artistica e i mutamenti dello spirito trascendentale (o, nella sua terminologia, dell’“anima”). La categoria alla base di tutto il ragionamento è quella di totalità, che nell’epica greca, sostiene, assicurava l’indissolubile unione di contenuto e forma. Il circolo metafisico del mondo greco, più ristretto di quello contemporaneo, consentirebbe all’epopea di esprimere in modo adeguato un mondo spirituale in cui “ogni atto aderisce alla realtà dell’anima”, in cui “essere e destino, avventura e compimento, vita ed essenza sono [...] concetti identici” [37]. Secondo questa prospettiva, l’ingenuità degli antichi permetterebbe di godere pienamente della vita così come di creare, spontaneamente, un’arte capace di trovare in se stessa il proprio compimento. In questo senso, la nascita della filosofia è già “il sintomo della scissura fra interno ed esterno, il segno della intrinseca discrepanza fra io e mondo, della non-conformità fra anima ed azione” [36]. Poi, in epoca moderna, scompare anche la fede di poter rispecchiare una unità spirituale sul mondo terreno, già visto come disunito e contraddittorio. Con questo passaggio si manifesta una compiuta frattura tra “essere” e “vita”, l’individuo si trova isolato dal flusso del mondo (espressione che potremmo,
1 Nel 1916 l’opera appare in una rivista, la Zeitschrift für Aesthetik und Allgemeine Kunstwissenschaft, mentre per la versione in volume bisognerà attendere il 1920, che viene spesso indicato come anno di edizione originale.
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volendo, tradurre con “società”) e gli è preclusa una “spontanea totalità dell’essere”. Il romanzo, in questo scenario, rappresenta una forma di compromesso. Da un lato è la constatazione definitiva che la totalità non può più essere immediatamente affermata né in cielo né in terra: la relazione tra lo spirito umano e il mondo si basa su valori precari, instabili, e l’eroe romanzesco è costretto alla ricerca, all’avventura e alla peripenzia. D’altra parte, grazie al suo essere espressione di una problematicità in atto, esso è testimone di una nostalgia della totalità e diventa strumento, per quanto insufficiente, di ricomposizione esistenziale. Nel suo sforzo di trovare una soluzione ricostruttiva ai problemi posti dall’arte moderna e dalla filosofia negativa (e qui il referente è Kierkegaard), Luckács vede il romanzo come sintomo di questa tensione e, alla fine del saggio, indica le opere di Tolstoj e Dostoievskij come una “rinnovata forma di epopea”. L’opera è dunque tesa a una ricomposizione della totalità in forme nuove, un orizzonte che resterà ben presente anche nelle riflessioni tanto estetiche quanto politiche del Luckács maturo.
L’anima e i media di Alberto Abruzzese
1. Con Teoria del romanzo di György Lukács si è di fronte a un testo per più aspetti alieno al gusto dominante. Una scrittura enigmatica, difficile quanto suggestiva, apparentemente dedita ad una visione filosofica non poco elitaria eppure sostanzialmente pre-disposta ad aprirsi al di là della società e a comprendere in sé la vita degli esseri umani. A interrogarsi sul loro destino. Quindi, se per politica intendiamo le arti umane dell’abitare, governare la propria dimora, costruire il proprio esserci, siamo2 qui messi alla prova 2 In questa mia nota, il noi a cui mi riferisco non è il noi di cui in genere tanto e troppo abusiamo, secolarmente costretti alla declinazione di un soggetto universale incarnato nel reciproco incantamento tra scrittore e lettore, ma vorrebbe essere il noi che in aula si usa con gli studenti, cercando esempi, ricavandoli nel faccia a faccia con loro e tra loro. È
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da una visione del mondo profondamente economico-politica.3 Lo stile di questo testo rappresenta, per virtù tutte sue e difficilmente sostituibili, un colpo di accetta sui modelli di manualistica e pubblicistica imposti oggi da autori che – opportunisti o parassiti o zelanti funzionari del potere – si occupano dei media sfruttando la posizione di privilegio di cui dispongono nelle istituzioni e nei media stessi. È un colpo allo stomaco delle etiche professionali del soggetto moderno, un lampo di viva passione sul loro degrado piccolo borghese, sul loro declino intellettuale e sulla loro frigida tristezza4. Per mostrare il giusto punto di connessione tra Teoria del romanzo e le forme di comunicazione, in cui stiamo transitando e tuttavia restiamo immersi, va qui indicato innanzitutto il contenuto didattico – nel suo significato etimologico di mostrare, fornire segni, rivelare – che rende questo testo interessante sotto ogni angolazione disciplinare, e comunque insostituibile nel campo degli studi mediologici. Lo è di certo anche nel campo in questa scena dal vivo che il discorso su Teoria del romanzo può diventare esemplare. 3 Nelle prime pagine di Teoria del romanzo Lukács fa ricorso a Novalis per dire il senso originariamente “economico” riposto nella filosofia: “Filosofia è propriamente nostalgia [...] è l’impulso a sentirsi dovunque a casa propria”. 4 Tuttavia attenzione (altrimenti faremmo parte del catastrofismo nostalgico dei vecchi ceti intellettuali): la condizione presente delle professioni sociali è qui vista e definita in termini dispregiativi guardando dalla stessa prospettiva della grande cultura europea tra Ottocento e Novecento, appunto l’eccellenza tipica di intellettuali di allora come Lukács, ma se oggi si vuole far funzionare lo sradicamento di quel pensiero nel vivo dei nostri tempi è proprio nelle forme più degradate, misere e disperse che va cercato il senso delle cose davvero in atto. L’aula degli studenti non va edificata all’altezza dei grandi maestri del passato ma messa nella condizione di riconoscere la propria diversità, il proprio luogo.
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della sociologia della letteratura, la disciplina con cui in Italia gli studi umanistici hanno cominciato a dialogare con la sociologia.5 Ma la sua vera forza è un’altra. Sta nel disporre di tutti gli elementi necessari a riconoscere, qui e ora, la sostanza delle forme e delle strategie dei media del presente, cioè nel cogliere e dispiegare lo snodo che stiamo vivendo tra l’apoteosi terminale dei 5 Nel 1987, quando il Mulino pubblicò il saggio di Wolf Lepenies, Le tre culture. Sociologia tra letteratura e scienze, la sociologia accademica era ancora ben lontana dal ritenere che la letteratura avesse a che vedere con le sue teorie se non addirittura con i suoi metodi. La critica letteraria di impostazione marxista si occupava di società ma i sociologi si occupavano poco o nulla di letteratura e di arte. Ed è in gran parte ancora così, tranne qualche preziosa eccezione (Franco Cassano, Paolo Jedlowski, Gabriella Turnaturi, Alessandro Dal Lago). Per trovare una sostanziale attenzione alle tradizioni della sociologia e insieme della letteratura bisogna arrivare agli studi di sociologia della letteratura di Giovanni Ragone. A volere ricostruire i rapporti in Italia tra la sociologia e la letteratura andrebbe evocata una vasta seppure in gran parte obliata produzione che, frutto di testi italiani e anche di autori stranieri pubblicati in Italia, seguiva indirizzi disciplinari tra loro diversi: rispetto al livello della critica storico-letteraria corrente, spiccava il rigore teorico di Galvano della Volpe con Critica del gusto (1960); ebbe poi una qualche fortuna Lucien Goldmann con Per una sociologia del romanzo (1964, tr. it. 1981), che sviluppava in modo più complesso i temi di sociologia della letteratura introdotti in Italia soprattutto dalla sociologia del libro e degli autori promossa da Robert Escarpit. Gli studi sulla paraletteratura portati avanti da letterati, pur encomiabili, erano attenti al sociale ma assai meno a una teoria sociale della scrittura; a loro volta gli studi di impostazione semiotica erano interessati a una teoria del testo e della comunicazione ma non altrettanto a una visione sociologica dell’istituzione letteraria. In ultimo può essere indicativo che l’uscita in Italia, nel 2005, di Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario (1992) ha interessato qualche metodologo senza tuttavia lasciare molte tracce culturali per quanto si trattasse di Pierre Bourdieu, grandemente stimato dalla corporazione dei sociologi italiani.
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mass media e l’apparire aurorale dei new media; tra i mondi della stampa e degli schermi, da un lato, e le piattaforme espressive di un mondo in divenire, ancora informe, caotico, e quindi enigmatico. Nel suo continuo insistere sul conflitto tra anima e esperienza delle cose, tra mondo interiore e mondo esteriore, tra soggetto e storia, Teoria del romanzo è del tutto privo degli stereotipi scientifici dei comunicazionisti. Ma, proprio grazie a questa sua distanza dalle loro ricerche e dai loro metodi, ci aiuta a capire per via diretta il grande transito in corso tra la sfera esteriore in cui si sono a lungo intrattenuti i regimi pubblici della metropoli e della società dello spettacolo e la sfera interiore in cui tendono a intrattenersi i regimi relazionali delle società post-industriali. Nella sfera dei mondi esteriori, le tecnologie della comunicazione hanno storicamente funzionato e tuttora funzionano da protesi dell’occhio; nella sfera dei mondi interiori, le tecnologie della comunicazione funzionano invece da protesi del corpo. Protesi sempre in divenire. Il corpo si rivela qui una forma di percezione spinta al di là della pelle (de Kerckhove 1995) del singolo individuo così come al di là delle cornici sociali che ne definiscono l’identità. In questa dimensione, quindi, per corpo si intende la sua continua espansione sensoriale mediante l’altro da sé – l’esistenza, l’esser di fuori, dell’umano e del non-umano – con cui si intrattiene e in cui viene intrattenuto. Il corpo è qui una continua estensione di arti: una carne fatta di ciò che essa tocca e insieme di ciò da cui è toccata. Ecco perché questo saggio non è roba per letterati immobili sui testi, né per specialisti dei media convinti di potere isolare i loro effetti, né per semplici professionisti della formazione sapienziale o meccanica, ma è opera da innovatori. Da fondatori. Dunque è opera da classe dirigente proprio perché consapevole della differenza tra una società fondata sull’alfabeto e una società fondata sull’esperienza non-alfabetica del-
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la carne6. Consapevoli che nuovi territori richiedono nuove responsabilità. Ripeto: un testo per la classe dirigente, ispirato al senso di responsabilità di chi si dovrebbe interrogare sul ruolo da assumere nei confronti del mondo. Quali delle sue trasformazioni sia necessario capire per potere agire ed essere agiti. Questa è una dimensione critica ormai rara dentro le istituzioni del sapere. Ecco la necessità di conoscerlo. Di tenerlo presente. Rispetto al Lukács che di lì a poco – lo vedremo poi – avrebbe deciso di restare vincolato al dettato statalista del comunismo realizzato, alle teorie estetiche e progressiste del realismo socialista, e di conseguenza a un pensiero costantemente sicuro di sé, razionalmente certo, questo Lukács risulta invece seducente proprio perché ancora interamente aperto verso la sua disperata ricerca di una via d’uscita. In gioco si sente qui quella interrogazione e quel desiderio di salvezza che non si sono già dati una risposta e un obiettivo ma s’agitano ai bordi della fine e restano con lo sguardo infisso in ciò che del mondo è sempre crollato – sempre di nuovo crolla – in rovina. Il suo è un pensiero apocalittico a ritroso, volto a trovare le fiamme che si nascondono nelle ceneri della storia7. 6
Riportare in termini così secchi e brutali l’opposizione tra regimi di senso alfabetici e regimi di senso non-alfabetici (e tanto più usare una formula come “esperienza non-alfabetica della carne”) può sembrare un eccesso snobistico, un linguaggio oscuro, lambiccato e persino di cattivo gusto. Ma questa terminologia può risultare assai più comprensibile e accettabile facendo ricorso ad alcuni testi particolarmente utili alla comprensione del significato teorico e politico di alcune fondamentali coppie oppositive quali oralità/scrittura, analfabeti/alfabetizzati, corpo/carne: McLuhan 1962, Esposito 2004. Per alcuni di questi temi cfr. Abruzzese 2010. 7 Da Simmel e Benjamin, il tema delle ceneri e delle rovine – molto vicino allo spirito della Teoria del romanzo – costituisce una vera e propria tradizione di pensiero iconografica (Piranesi), narrativa (Poe) e saggistica; si veda Moroncini 2006
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Qui c’è di mezzo la dimensione più alta e antiletteraria della letteratura come esperienza. Qui si ritrova il motivo originario – ormai dimenticato, burocratizzato, reso fiscale – per cui la scuola ha fatto della letteratura uno strumento di autorità e di disciplina. Apparentemente potrebbe sembrare soltanto un saggio dedicato alla narrativa di transito tra Ottocento e Novecento, alla crisi formale dei suoi modelli storici e sociali. Ma è invece molto di più. È un testo iniziatico esso stesso, un vero e proprio romanzo di formazione sulla società moderna in sé e per sé. Questo è il suo scopo. Questo, ripetiamo, il motivo per cui ci sembra necessario proporlo. Altrimenti, perché dovremmo occuparci di un discorso sul romanzo “che fu”? Perché dovremmo intrattenerci sul romanzo già sin da allora pervenuto alla propria morte? Per una mediologia attenta alle forme espressive dei consumi culturali – qualcosa di molto distante dalla sociologia della comunicazione – questo tema, la morte dell’arte, è propedeutico ad ogni teoria dello sviluppo tecnologico; teoria ovvero visione e strategia in tutto moderna che si basa sulla capacità innovativa delle crisi di sistema della civiltà occidentale, sulla potenza poietica delle sue catastrofi. È un tema, quindi, ancora in tutto necessario alla interpretazione critica dei nuovi orizzonti che si aprono ai media digitali a seguito della morte dei media analogici e generalisti8. Sta di fatto che Lukács in questo suo saggio parla del romanzo: quel particolare genere di romanzo che gli
e, nel quadro più generale della sua filosofia, 2009; cfr. anche Speroni 2002. 8 Il nucleo originario delle teorie sulla morte dell’arte appartiene a Hegel (1836) e si sviluppa poi nelle estetiche dei primi decenni del Novecento. A parte Asor Rosa (2011), per una connessione di questo tema con la sociologia dei media e dei consumi cfr. Abruzzese 2001.
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consente di usare alcune narrazioni canoniche come metafore e insieme strumenti del soggetto moderno, come sua tecnologia. Parlare di romanzo è una scelta che oggi può risultare assai poco semplice e scarsamente produttiva. Infatti, in quanto specifico formato di espressione letteraria trapassato nelle biblioteche e nelle aule scolastiche, il romanzo è ancora viva esperienza di lettura soltanto in un pubblico ormai nettamente delimitato. In un pubblico di nicchia per prodotti di antiquariato, prodotti di qualità alta e insieme profonda ma senza più referenti storici e sociali ancora in vita. Prodotti dispersi come i messaggi nella bottiglia che i naufraghi abbandonano ai flutti del mare. Oppure prodotti vintage, ritrovati – come derivazioni e surrogati dell’originale – in una massa di innumerevoli prodotti consimili, fruiti sui mercati culturali del mondo contemporaneo al pari di qualsiasi altro prodotto di consumo. Al pari di tutti quei prodotti di intrattenimento che – capaci di attrarre e soddisfare – assolvono le funzioni di formazione e iniziazione richieste dai mille piani di realtà in cui la società contemporanea s’è scomposta e moltiplicata negli ultimi decenni. Prodotti che – a seguito di processi di mondanizzazione di lunga durata, frutto di progressivi ripescaggi in ogni civiltà pre-industriale – sono infine giunti a loro compimento, alla loro rifinitura9 proprio nell’epoca di trapasso analizzata da Lukács. Da qui discendono alcune delle ragioni per cui il suo discorso sul romanzo, venendo così da lontano, ci tocca così da vicino. Per cui, riguardando il passato, ci obbliga a guardare il presente. C’è di mezzo ciò che anima le estetiche e politiche della morte dell’arte. La morte: basterebbe partire dal clamore di questo tema per sviluppare da subito – e poi chiudere senza altro aggiungere – il motivo domi9 Alludo qui alla definizione di finish del prodotto ad opera del consumatore elaborata da Karl Marx.
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nante per cui questo saggio è conforme alla sensibilità che oggi ci domina: oggetti in frantumi, corpi esplosi, mutanti e decomposti, violenze e delitti del desiderio e della carne, disastri e catastrofi insieme naturali e artificiali, al di qua e al di là della vita. Tutto questo è cinema, televisione, game off e on line10. Tutto questo alberga nella nostra immaginazione fluttuando tra finzioni e realtà, incapaci come siamo di cogliere il fatto che i sensi di cui disponiamo non sono tra loro diversi se si vestono di immagini o di cose, di sogni o di veglie, di libertà o di legge. Tutto questo macello è da noi vissuto nel pur costante tentativo (ricordarsi Tantalo e la sua fatica a fronte del peso del mondo) di separare le immagini che vediamo dai fatti che ci guardano. Nel tentativo – e tentazione – di distinguere tra la porta di accesso e la porta d’emergenza che parimenti s’aprono nell’abitare tecno-ludico al quale apparteniamo non per decisione né per costrizione ma per vocazione. Nel tentativo di consegnarci al piacere di catastrofi simbo-
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Che esista molto altro oltre questi prodotti del loisir di tipo catastrofico, è chiaro. Eppure l’esasperazione stessa dell’ironia e della conversazione, del pettegolezzo e dell’amore, della scienza e dell’informazione, ma in particolare il passaggio dalle forme di socializzazione del talk show classico alle forme di de-socializzazione del reality show sono comunque l’espressione del catastrofare della felicità televisiva in uno spirito di morte, ovvero di vitalità terminale in tutto analogo alle più esasperate atrocità del cinema horror (ultima appendice dell’ironia romantica). E altrettanto significativo è il fatto che l’immaginario horror – sempre più deciso a rispecchiare e esaltare l’inconscio che si nasconde nell’immaginario ordinario, quietamente e civilmente romanzesco, dei consumi sociali, quasi che ormai ne debba essere l’unica possibile forma di rappresentazione realistica – stia rapidamente confluendo anche nelle nuove fantasmagorie degli effetti speciali, nei violenti traumi psicosomatici di cui si serve la loro tecnologia immersiva (persino fondendo insieme, in un continuum senza possibile distinzione, ecologia e catastrofe).
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liche per non soccombere al dolore fisico, carnale, che ci viene dai sistemi di potere di cui quelle catastrofi – sempre reali, sempre simboliche – sono l’indotto, anzi l’essenza, l’agire “nascosto”. Questo nostro senso di morte – di fiamme di vita senza altro destino se non il perenne caos che si apre nel taglio che separa il mondo dall’io – ha un suo formidabile riverbero11 nell’esordio del saggio di Lukács: Felice il tempo nel quale la volta stellata è la mappa dei sentieri praticabili e da percorrere, che il fulgore 11 Per capire cosa qui si voglia dire nel sostenere che il senso di morte in atto nel qui e ora del nostro pianeta riverbera sulla sensibilità del primo Lukács – sempre attento al destino della tecnica e rapito nel doloroso impatto tra i mari dell’anima e gli scogli del mondo – rimando ad alcune pagine di Carlo Sini (2009) in cui la differenza ultima, fonte perenne di angoscia e sofferenza per l’essere umano, sta tutta nella distanza tra mondo come inconsapevolezza della morte e individuo, il quale, in quanto ha visto la morte, “si perde proprio là dove torna, o sogna di tornare: là dove sogna di essere, ovvero dove non poté stare e non può stare mai”. Anche qui, a un secolo di distanza, si respira lo stesso lessico di Teoria del romanzo. Sini ci aiuta a intravedere i nessi molteplici che la mediologia dovrebbe trovare in quella saggistica dei primi del Novecento in cui il tema dominante è stato il conflitto – variamente declinato a seconda della dicotomia prescelta in un ampio ventaglio di opposizioni – tra spirito e materia. Un conflitto, questo, incarnato nella tecnologia, ovvero una lacerazione umana, la conflittualità, che è il corpo stesso della tecnica. Riferendosi, in questo stesso suo ispirato saggio, al “sapere retroflesso delle protesi della voce, della mano ecc.”, Sini ci rimanda anche a Jean Baudrillard e alla sua interpretazione dei media come effetti di ritorno delle protesi del corpo sullo stesso corpo che le ha germinate: così il presupposto edonismo tecnologico per cui McLuhan viene ancora oggi penalizzato in quanto ritenuto condiscendente nei confronti delle futilità della vita e servo del potere della tecnica e dei consumi si rivela coincidente – identico, nella tipica forma moderna del “doppio” – con il senso tragico che Baudrillard ha dato alle merci e al loro simbolico scambio con la morte.
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delle stelle rischiara. Ogni cosa gli è nuova e tuttavia familiare, ignota come l’avventura e insieme certezza inalienabile. Il mondo è sconfinato e in pari tempo come la propria casa, perché il fuoco che arde nell’anima partecipa all’essenza delle stelle; come la luce del fuoco, così il mondo è nettamente separato dall’io, epperò mai si fanno per sempre estranei l’uno all’altro. Perché il fuoco è l’anima di ogni luce, e nella luce si avvolge il fuoco. Così ogni atto dell’anima riceve un senso e giunge al compimento entro questa duplicità: esso è compiuto nel senso e compiuto per i sensi, è perfetto perché l’anima riposa in se stessa mentre muove all’azione; è perfetto, ancora, perché il suo agire si stacca da essa e, fattosi autonomo, perviene al proprio centro e si iscrive in un suo conchiuso ambito [35].
2. Torniamo al romanzo. Per lo sfondo didattico che ci proponiamo, qui è bene sintetizzare come la storia sociale del romanzo sfoci nella storia sociale dei media analogici e digitali. Se è vero che senza Teoria del romanzo è difficile ragionare sui media, è almeno altrettanto vero che per accostarsi al saggio di Lukács bisogna aprire una finestra sullo sviluppo della stampa e dello schermo. Il romanzo nato nel Settecento si colloca in un particolare momento storico delle pratiche narrative di cui l’essere umano si è sempre servito per costruire il proprio ambiente. Le condizioni di mercato in cui cominciano a operare i narratori settecenteschi fanno sì che – una volta creata una solida e riconosciuta piattaforma espressiva, finalizzata a soddisfare il piacere della lettura presso la borghesia emergente – nascano scrittori consapevoli del valore sociale del loro lavoro e si sviluppino diverse strategie riguardo ai contenuti e alle funzioni di tale lavoro e dei suoi frutti. Al grande romanzo ottocentesco – così come al grand tour, analoga forma iniziatica – fu affidata la
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formazione della nuova classe dirigente, basata sulla qualità dei suoi rapporti tra interiorità e società. Fu affidata l’educazione alla proprietà (naturale per i regimi aristocratici ma artificiale per i nuovi ricchi di denaro e non di sangue) e alle forme di comando necessarie a conquistarla e averne cura. Il romanzo fu passione per l’impresa. Al romanzo di appendice fu dato il compito di far fruttare socialmente il tempo libero delle classi lavoratrici, imbrigliare le loro evasioni immaginarie, educare affettività e comportamenti dei ceti medi, trasmettere galatei, confortare la vita privata, intima e domestica delle donne, delimitandola e insieme rendendola partecipe ai diritti-doveri del “capofamiglia”. Per fare mondo, cioè produrre territorio, realizzare esperienza, insomma per dare luogo all’abitare, l’epoca moderna scaturita dalla fabbrica e dalla metropoli si è sviluppata spingendo le sue piattaforme espressive ben oltre la scena dal vivo, oltre il teatro e il romanzo, sino ad adottare i linguaggi del cinema e poi della televisione. Tuttavia il film, per assolvere il proprio ruolo di narrazione collettiva e di costante e iterata mediazione tra sfera pubblica e domicilio, ha dovuto fare ricorso ai grandi magazzini delle innumerevoli narrazioni scritte, tradotte e tramandate nei secoli. Così il consumo cinematografico diventava motore di tradizione e innovazione al tempo stesso. A sua volta la radiotelevisione è andata più in profondità e in estensione, ampliando non più il tempo della storia ma lo spazio del presente: ha ripreso su scala locale e insieme globale i ritmi delle narrazioni orali e conviviali della civiltà contadina e primitiva. Non a caso ha funzionato così bene in Italia. Persino i ceti colti italiani e le loro istituzioni – inizialmente non poco resistenti alla natura di flusso invece che di opera del prodotto televisivo (Williams 1974) – hanno finalmente compreso il contributo determinante che la TV pubblica, la RAI, ha dato alla costruzione dell’identità
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nazionale (Abruzzese, Scurti 2001). È proprio nel quadro di questa emancipazione democratica che venne realizzato – e poi riconosciuto – lo sceneggiato televisivo: attraverso questo formato, intermedio tra romanzo, teatro e cinema, la vita quotidiana si liberava dei cancelli della scuola e delle biblioteche. Tuttavia, a modificare la cultura di massa ben presto intervennero in modo assai più massiccio che in passato altre narrazioni importate da altre nazioni e culture. Il cosmopolitismo dei ceti privilegiati si estendeva così al cittadino spettatore, continuamente “in gita” tra programmi televisivi d’ogni tempo e luogo. In sintesi: i media tecnologici dei mercati mondiali hanno moltiplicato la forza con cui le narrazioni riescono da sempre a strutturare e destrutturare territori e immaginari. Costruire e trasformare identità. Tracciare e cancellare la memoria. Edificare e distruggere la storia. Nella cultura accademica, in larga misura attardata rispetto a questi processi, persino la sociologia della letteratura non riuscì a evitare la contrapposizione, dicotomica quando non gerarchica, tra le narrazioni colte e le narrazioni triviali, tra il sapere e i sensi, la conoscenza e l’immaginario. Le disquisizioni sulla paraletteratura servirono a tenere distinti gli steccati tra conoscenza e divertimento piuttosto che abbatterli o ridefinirne il significato. È stato l’avvento del sistema televisivo misto (RaiFininvest) a segnare un sostanziale allineamento dell’Italia sul fronte occidentale dei consumi diffusi: si fece strada allora una prospettiva di studio che cominciava a cogliere nel protagonismo dello spettatore, desideroso di trasformarsi in attore della scena mediatica, la portata sociale delle narrazioni dal basso, in grado di pesare sempre più sui regimi di potere dei sistemi tardo-moderni. E non a caso, dunque, l’epoca post-moderna – segnata dal venire meno delle pratiche, degli statuti e dei valori economico-politici della società industriale – venne, altrove
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da noi, annunciata nei termini di fine delle grandi narrazioni collettive (Lyotard 1979), così come l’Ottocento si era concluso con la crisi del romanzo già nei primi del Novecento. Questa formula è stata tra le più efficaci metafore dei mutamenti in corso tra culture televisive e culture digitali. Una metafora che ha ora trovato la sua verifica esperienziale nel progressivo e inarrestabile miniaturizzarsi della scrittura e dell’immagine ad opera della telefonia mobile. Così, sospinta da se stessa, la attuale società delle reti ragiona e sragiona sulla sostanziale implosione della differenza affettiva e effettiva tra forme di comunicazione lineari e forme di comunicazione ad elevato grado di interattività. E siamo così entrati in una fase di conflitto e negoziazione tra vecchi e nuovi media – mass media e personal media – o meglio tra le diverse culture personali, di gruppo e collettive che vi si incarnano (Abruzzese, Mancini 2007). La moda di dire finita la narrazione si è rovesciata nella moda di riscoprirla dovunque: chiunque faccia la professione di operatore dei media – nella pubblicità come nella politica – ha imparato che non si comunica senza avere a disposizione un racconto credibile, vivibile, vendibile e acquistabile (Salmon 2007). Da tutto ciò si può ricavare quanto riflettere sul romanzo – cuore di un sistema di narrazioni che è diventato forza motrice del tempo moderno e dei suoi territori – risulti non solo utile ma persino necessario per qualsiasi disciplina attenta al mondo dell’esperienza12. 3. Torniamo ora a ragionare su György Lukács e sul suo testo. Teoria del romanzo è un breve, compatto saggio abbozzato nell’estate del 1914 e steso nell’inverno dello 12 Per ricostruire il concetto di esperienza pertinente a questo testo di Lukács – e che tornerà ad essere molto rilevante nella sociologia della vita quotidiana – si vedano autori come Dilthey (1906) e Simmel (1903).
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stesso anno, infine pubblicato nel 1916. Riguarda la crisi del soggetto storico della società occidentale. È in tutto attuale? Di certo è una ottima premessa non solo alla letteratura sul post-moderno (di crisi della modernità si parla dalla prima all’ultima pagina di questo saggio), ma persino alla letteratura sul post-umano (parlare della morte di dio, come annunciato da Nietzsche, e partire dalla eclisse dei valori religiosi della storia significava parlare già di crisi dell’Umanesimo) e sulle strategie dei media nel loro transito dalle narrazioni generaliste ai linguaggi relazionali delle reti digitali (non a caso alla fine è lo stesso Lukács a interrogarsi su ciò che il romanzo potrà riuscire a diventare nell’epoca della tecnica13). Il saggio interviene dunque con grande tempismo sulla crisi ultima del nostro tempo, sul crollo sempre meno “rimandabile” della modernità. Offre strumenti di riflessione e di lavoro in grado di funzionare su molteplici piani: biografico e storico; istituzionale ovvero disciplinare e didattico14; infine professionale e cioè re13 Significativo che, parlando di cinema in un saggio di quegli stessi anni, Lukács (1913) consideri il film come forma d’arte in tutto organicamente connaturata con le qualità specifiche della tecnica e dunque come linguaggio destinato a piani d’espressione – già barocchi e romantici (Benjamin) – nettamente divergenti dai valori che in Teoria del romanzo gli rendono possibile fare del romanzo il perno stesso del confronto tra crisi di Dio e mondanizzazione dell’essere umano. 14 Per inciso, va detto che – proposta agli studenti di oggi – la forma del saggio (genere di cui Teoria del romanzo è un esempio eccelso) risulta altamente dis-educativa, risulta cioè uno splendido insulto nei confronti dei regimi educativi ormai in pieno corso nelle attuali routine di insegnamento, protocolli di intesa decisi a fare uso di una semplificazione sempre più accentuata delle materie, dei testi, delle lezioni, e a promuovere una pigrizia mentale elargita a piene mani dai docenti e dai curriculum di studio prima ancora che pretesa dagli studenti. Il gesto di dare da leggere il saggio di Lukács a un giovane è quindi tanto più didatticamente efficace quanto più sconveniente, tanto le sue pagine sono assai spesso diffi-
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lativo al campo dei conflitti e delle scelte politiche che dovrebbero essere il contenuto sostanziale di qualsiasi innovazione. È morto, pur essendo vissuto a lungo. Il suo tempo non è sopravvissuto. Persino quando ancora viveva alla deriva del comunismo. Ma è proprio la sua inattualità a renderlo estremamente attuale (un poco come quando in alcuni film di fantascienza si racconta di qualcuno che, a lungo ibernato nel tempo, si risveglia per agire nel mondo proprio in virtù della propria natura dimenticata, aliena, straniera). Giovanissimo, ha cominciato a scrivere a un secolo di distanza da oggi e dunque all’inizio di quel nuovo secolo che per noi, gettati ora in un analogo trapasso epocale, è invece appena concluso. Lukács appartiene a un’epoca di trapasso come la nostra, contrassegnata da grandi conflitti, da crisi politiche e sociali, da innovazioni clamorose. A rendere Lukács partecipe della realtà che stiamo vivendo concorrono molte analogie, e alcune di esse sono tanto forti da prevalere anche sulle differenze tra il nostro e il suo tempo. Si tratta infatti di differenze in tutto conformi ad una medesima origine: la società industriale, ovvero i processi di modernizzazione della vita umana secondo i modi di produzione e consumo dei sistemi di mercato e delle loro politiche sociali e economiche. Sono processi che hanno trovato nella tecnica la loro forza espressiva, operativa. E sono processi che possono essere visti per intero dentro una cornice temporale ampia, indicata al loro inizio proprio dalla biografia del giovane Lukács – tipico intellettuale dell’individualismo moderno – e segnata, alla loro fine, dalla crisi ultima in cui abitiamo qui e ora. Là dove sembrano andare in fumo cilmente comprensibili, sempre arditamente immaginifiche e sistematicamente prive di quelle citazioni e note che divennero poi – e sono restate – sicuro contrassegno del perbenismo intellettuale di un buon accademico e di un buon allievo.
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non tanto i poteri quanto piuttosto i valori fondati sul soggetto moderno. In conclusione, con Lukács abbiamo in comune il nichilismo e il lavoro: le grandi visoni apocalittiche sulla fine della storia, sul vuoto lasciato dalla morte di Dio, e la centralità della classe operaia (centralità, così la si disse a lungo in Italia a partire dal suo definitivo ingresso nelle dinamiche di sviluppo del capitale mondiale). Le classi del proletariato aprono e chiudono la storia moderna: allora – con la loro presenza, con la propria sconvolgente capacità di produzione – avevano a tal punto segnato l’avvento della società moderna da spingere un intellettuale come Lukács a specchiarsi nell’identità collettiva della classe operaia, mentre ora, con il loro scomporsi e rarefarsi in consumi diffusi15, ne stanno segnando la catastrofe. Ma torniamo alla comunicazione. Lukács è un autore esemplare del primo Novecento alto-borghese, ovvero di quel clima culturale europeo che, seppure in modo forse troppo generico, può individuarsi nell’esperienza delle avanguardie storiche: un quadro epocale del pensiero post-hegeliano, suggerito anche da Gianni Vattimo nella sua recente prefazione alla ristampa di una celebre opera di Ernst Bloch, uscita nella sua prima versione già nel 1918, Spirito dell’utopia. Ed è ancora Vattimo a ricordare un saggio fondamentale per le avanguardie storiche: Lo spirituale nell’arte di Kandinski16. Mentre in quest’ultimo celebre saggio novecentesco il rifiuto dei valori del capitalismo, per muovere contro le sue estetiche, passava attraverso la rivoluzione
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La jouissance che pervade la letteratura sul consumo produttivo nasconde dietro il sentimento di liberazione dalla fatica del lavoro la traduzione di questa fatica in prestazione psicosomatica generalizzata. 16 In effetti, questi sono due tra i testi che più andrebbero affiancati, avendone la possibilità, alla lettura del saggio di Lukács.
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formale dell’anima, del soggetto, dello spirito, il regime comunista instaurato dopo la rivoluzione sovietica arriverà in brevissimo tempo a bandire il formalismo delle avanguardie e a imporre il canone del realismo in nome della ideologia come arma politica essenziale, connaturata alle armi e alla polizia. Non fu tanto un separarsi delle forme dall’anima ma il chiudere ogni dinamica di conflitto tra l’una e l’altra. Questo passaggio storico ci insegna che le rivoluzioni dello spirito prediligono le catastrofi della storia, sprofondando nella sperimentazione artistica, mentre le rivoluzioni della storia prediligono le catastrofi dello spirito, sprofondando infine in azioni autoritarie? Ma è davvero possibile praticare queste distinzioni? Le rivoluzioni sociali tentano di rifondare l’autorità che il loro soggetto ritiene perduta, tentano di dare un nuovo contenuto, appunto una nuova soggettività alla tradizione. A esprimersi è in loro l’anima della tradizione e non quella del mondo. Allora, non è forse più ragionevole ammettere che in ogni pacificazione tra anima e forme – quale sia il regime o la poetica che le ispira – emerge il loro rimosso, il contenuto reale dei loro fantasmi, e cioè la violenza del potere? Potere delle forme e potere dell’anima si affidano a uno stesso soggetto. Esso cambia nella storia e nella società, ma permane costantemente nella vita umana. E proprio Lukács ci aiuta ad avvicinarci a questo tema. Tra Teoria del romanzo (vicinissimo ad un altro suo saggio, sino ad ora implicitamente evocato, L’anima e le forme) e Storia e coscienza di classe, uscito nel 1923 (vero e proprio manifesto della conversione politica di Lukács al comunismo), passa una distanza che è estrema solo in apparenza. Il saggio sul romanzo è un discorso sul carattere illuminante – rivelatore, ma al tempo stesso irrisolto – del romanzo moderno, narrazione di una borghesia al crepuscolo, di anime e forme che tentano di riprendere le trame della storia dopo la definitiva e
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irreversibile scomparsa dei legami religiosi ad opera della modernità stessa. Invece, il contenuto del saggio che segue ad appena tre anni dall’altro, Storia e coscienza di classe, è esplicito sin dal titolo. Lukács ha deciso: la coscienza di una classe in tutto nuova (invece dell’anima di una classe al tramonto) può rimettere in moto la Storia. La visione apocalittica di un mondo in cui ogni significato è perduto si ribalta in una visione positiva. La scomparsa di Dio si rovescia nell’avvento di un soggetto moderno rigenerato dalla classe operaia. La falsa coscienza borghese viene smascherata dalla coscienza di classe. Così l’ideologia si riproduce sempre uguale a se stessa, sdoppiandosi in giusta e ingiusta, affermazione positiva e affermazione negativa dell’unico mondo a disposizione. Alla falsa coscienza del borghese si contrappone il suo antagonista. La classe operaia attesta materialmente la verità di se stessa per mezzo del vuoto lasciato dalla caduta storica della falsità – ovvero del falso potere – della società capitalista. Qui – non più per le alterne vicende di guerre e dinastie e stirpi, ma per stessa conseguenza delle logiche economico-politiche dei sistemi di produzione delle società di mercato – si celebra il tragico sovrapporsi tra una religione e l’altra della stessa soggettività politica: il desiderio e la necessità di occupare la sede vacante del potere. Lukács, messo a nudo, ci aiuta così a capire l’anello di congiunzione tra Religione e Stato che ha caratterizzato tutte le politiche della modernità17. 17
Al fine di capire come il legame organico tra la classe operaia e il modo di produzione e socializzazione della fabbrica abbia costituito la natura stessa dello spirito delle nazioni moderne torna molto utile la rilettura neo-marxiana dei conflitti tra capitale e lavoro condotta da Mario Tronti in Operai e capitale, un saggio che, scritto nel 1966 e dunque a ridosso del neocapitalismo italiano, funziona in modo paradossale – ovvero funziona andando contro l’operaismo programmatico del suo stesso autore – da spiegazione della
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Attualissimo dunque questo Lukács che – se colto nel divergere tra Teoria del romanzo e Storia e coscienza di classe, dunque paradossalmente rovesciato contro se stesso, e contro la sua cattiva coscienza – può venirci in soccorso nel provare ad assumere una posizione critica più articolata e consapevole sull’odierno gran parlare – implicito più ancora che esplicito – di regimi democratici giunti al massimo crollo di tutte le loro classiche dicotomie tra destra e sinistra, tradizione e rivoluzione, socialismo e capitalismo. Forse la potenza del capitale sta proprio nel vuoto al quale dà parola. Nella sua natura di medium.
impossibilità di sopravvivenza tanto dei modelli di sviluppo quanto dei modelli di contestazione della società industriale. Della impossibilità della sua misura.
19291 Aby Warburg, Mnemosyne. L’atlante delle immagini Aby Warburg è la figura che per prima, superando gli aspetti meramente descrittivi dell’iconografia, ha gettato le basi per una storia delle immagini intesa come storia delle idee. L’Atlas Mnemosyne è il suo ultimo progetto, un’opera interrotta da una morte prematura all’età di 63 anni. La sua origine risale all’agosto del 1924 quando, dopo un lungo ritiro dovuto a una grave malattia nervosa, Warburg fa ritorno ad Amburgo, la sua città natale. Qui aveva lasciato una formidabile biblioteca privata, che nei quattro anni della sua assenza si era trasformata in una istituzione di ricerca frequentata da una nutrita schiera di studiosi. In occasione del rientro del maestro, il suo assistente Fritz Saxl allestisce in questi locali un’esposizioneomaggio costituita da grandi pannelli neri su cui sono appuntate le riproduzioni fotografiche delle principali opere studiate da Warburg; ciascun pannello ne riunisce una serie, aggruppandole e accostandole secondo determinati criteri tematici. Warburg, che già in passato si era servito di schemi visivi per l’elaborazione di ipotesi, fu così colpito da questa riproposizione del proprio lavoro in una forma nuova e sincronica che iniziò ad organizzare le sue ricerche secondo il medesimo sistema, costruendo i propri discorsi mediante un montaggio visivo. I pannelli gli offrivano la possibilità di visualizzare i temi che più lo interes-
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Dato il carattere particolare dell’opera e le vicissitudini editoriali a cui l’Atlas è andato incontro, preferiamo indicare l’anno in cui la morte ha interrotto il lavoro di Warburg piuttosto che la data della sua prima edizione. Avvertiamo inoltre che quella indicata in bibliografia è la versione “ufficiale” dell’opera, che nel 2000 appare in Germania in forma di volume. Tuttavia, già nel 1993 era stato pubblicato il catalogo della mostra che, in quell’anno, aveva finalmente fatto conoscere il Bilderatlas al pubblico. Le due versioni hanno un apparato critico diverso, ma la differenza più importante risiede probabilmente nel fatto che il catalogo, seguendo il probabile progetto originale di Warburg, è costituito da schede sciolte e riordinabili a piacere. L’edizione italiana di quest’ultimo, pubblicata da Artedime, è del 1998, anno in cui la mostra arriva in Italia.
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savano, organizzando gli elementi centrali della ricerca secondo rapporti non gerarchici, non lineari e modificabili a piacimento; una pratica analoga a quella seguita nell’organizzazione della biblioteca, che non si stancava mai di riordinare affinché esprimesse meglio le sue idee sulla storia dell’umanità. Per Warburg questi pannelli diventano presto uno strumento di lavoro indispensabile, al punto che, in occasione di un lungo soggiorno a Roma, arriva a farseli spedire. Inoltre, pensa di pubblicarli in un atlante figurativo (Bilderatlas) intitolato Mnemosyne, dedicato alle trasmigrazioni e le sopravvivenze delle antiche immagini di divinità nella cultura moderna. Scrive una introduzione e anche una serie di note esplicative dei pannelli, probabilmente destinate ad accompagnarli nell’edizione finale. Alla sua morte, avvenuta nell’ottobre del 1929, l’Atlas è però solo un laboratorio di immagini, una fase documentata del lavoro, ma non certo un’opera conclusa. E neppure si è certi che l’idea finale fosse quella di pubblicare le tavole come fogli sciolti e liberamente accostabili, come Warburg aveva pensato al principio, o se alla fine egli volesse costringerle nella forma più rigida del libro. I materiali iconografici utilizzati sono molteplici, spesso carenti di valore estetico, e vengono utilizzati come documenti storici, come testimoni delle correnti energetiche che attraversano la memoria dell’Europa. Dal punto di vista del contenuto, le oltre mille riproduzioni fotografiche di Mnemosyne rappresentano essenzialmente un repertorio di immagini della gestualità antica e della sua permanenza in epoca moderna, con speciale attenzione al Rinascimento. L’idea fondamentale attorno a cui si organizzano è quella delle Pathosformeln, formule espressive dell’emozione che si ripropongono a distanza di secoli, ma non sempre con il medesimo significato. Per Warburg, determinati gesti contengono infatti una energia mnesica, di carattere neutro, che la “volontà selettiva” di un’opera può polarizzare in una delle sue possibili interpretazioni. L’approccio warburgiano indaga dunque la memoria dell’Occidente a partire da una concezione della tradizione come neutrale e interessandosi alla permanenza del valore espressivo delle immagini da un punto di vista sociopsicologico e non solo storico-artistico.
L’archivio post-testuale: Aby Warburg e il suo Atlante della Memoria di Franco Speroni
Atlante, nella mitologia greca, era un Titano che secondo Esiodo fu costretto da Zeus a tenere sulle spalle l’in-
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tera volta celeste o, secondo altre iconografie, il globo terrestre. Questa punizione gli fu inflitta perché si era alleato col padre di Zeus, Crono, che guidò la rivolta agli dèi dell’Olimpo. In seguito, pietrificato da Perseo che gli aveva mostrato la testa di Medusa, Atlante divenne l’omonima catena montuosa nordafricana che continua a reggere la volta celeste. Nel nome Atlante, e quindi nelle raccolte che poi è venuto a designare, è inscritta, dunque, la fatica immane del contenimento ma anche la rivolta verso un ordine che sembra inamovibile, come quello dell’Olimpo. Una rivolta, tra l’altro, aiutata da Crono, cioè dal Tempo, rinviando così il senso del mito ad una ipotetica riorganizzazione “cronologica” appunto, e quindi ad una diversa percezione delle cose fondata su un ordine sequenziale differente. La fatica che consiste nel “sostenere il mondo” è conseguenza della rivolta fallita, ma indica anche la possibilità di “comprensione” del mondo nella sua totalità senza esclusioni. In sostanza, la fatica è la conseguenza naturale della non accettazione di un ordine stabilito da cui deriva un processo cognitivo alternativo. Pertanto l’atlante, questa volta inteso come raccolta scritta-illustrata, è una riorganizzazione dei saperi in maniera differente. Differente da cosa? Dall’ordine logico sequenziale della scrittura, ad esempio. Differente dall’ordine storico cronologico. Differente dall’ordine spaziale prospettico e dalle sue implicazioni gerarchiche dovute ad un ordine sequenziale astratto-visivo, per usare uno schema di McLuhan. La base del mondo che Piero Manzoni espose in Danimarca (1961) dedicandola a Galileo, può essere un equivalente suggestivo dell’Atlante warburghiano. La base di bronzo che si vede capovolta, come fosse un piedistallo a testa in giù, “sostiene” l’opera-mondo intera. La base trasferisce un materiale prezioso e perenne, come il bronzo, dalla statua al piedistallo, mentre l’“opera” è l’insieme indeterminato e connesso che la
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base stessa sostiene: l’intero globo con tutto ciò che vi accade e vi accadrà. Questo preambolo per dire che il libro/non-libro di Aby Warburg contiene/sostiene gli elementi sopra accennati che giustificano il suo nome. Non solo. Questo non-libro, come cercherò di spiegare tra poco, è la titanica impresa di rendere sul supporto cartaceo e sequenziale, tipico del sistema gutenberghiano, ciò che invece è proprio di un archivio digitale ipertestuale tenuto insieme da link. Allora, diciamo subito, prendendo in prestito il concetto di post-testualità dell’archivio digitale (Amendola), che l’Atlante di Warburg è frutto di un’indagine e a sua volta stimola un’indagine che libera la dimensione archivistica dalla nozione di testualità e la sviluppa invece verso una dimensione di consumo, di territorialità e di tensione performativa, allargando gli ambiti disciplinari di riferimento. Ho in parte anticipato le conclusioni, alle quali è opportuno arrivare prendendo in considerazione alcuni elementi attuali che sono presenti nel lavoro di Warburg. Elementi quali il montaggio cinematografico, la modalità operativa definita Flatbed propria di un certo tipo di arte contemporanea, la ricerca partecipata della nuova antropologia, concetti come la vitalità dell’immagine rispetto alla materialità dell’opera propri dei visual studies… tutti elementi, a loro volta, rintracciabili dentro gli sviluppi attuali della cultura digitale. L’interesse per questo libro si basa proprio sul fatto che contiene queste caratteristiche elencate e le riorganizza insieme. Per questo possiamo parlare di un tentativo di archivio tendente non tanto alla pura e semplice conservazione dei dati, bensì alla produzione di una scienza della cultura dinamica, attraverso un sistema aperto, in grado di successive integrazioni. Ovvero: l’archivio digitale come territorio post-testuale, territorio performativo, infrastruttura portante “della conoscenza e del sapere locale e globale, capace di
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conservare e fornire informazioni, sia di creare e produrre attivamente, ex novo, forme originali di cultura” (Amendola 2008: 112). Cerchiamo, dunque, di mettere sinteticamente in ordine questi punti che rendono il lavoro di Warburg così mediologicamente attuale. Innanzitutto si deve dire che questa opera di Warburg è dedicata alla continuità di temi che vanno dalla classicità al rinascimento con spunti che toccano la contemporaneità, tenuti insieme dal concetto di Pathosformel. Cioè modi di restituire emozioni non racchiudibili in codici iconografici. Le immagini che Warburg accosta tra loro in pannelli riprodotti sul testo non indicano percorsi lineari né archetipi fissi, ma transazioni dinamiche non sequenziali perché basate sul concetto di ripresa e di affioramento. In altri termini, dalla cronologia alla genealogia. Dalla storia all’anacronismo come moltiplicazione delle direzioni di tempo. Questo il “metodo” organizzativo di Warburg. È un lavoro immane, dunque, potenzialmente in progress, quindi naturalmente non-finito, che attacca il metodo storiografico conosciuto e soprattutto il metodo inteso come chiusura tendente ad escludere. Il confronto/scontro con il suo amico/nemico Jacob Burckhardt è quindi significativo. A differenza di questi, Warburg non interpreta la memoria e la tradizione come un patrimonio che cresce attraverso uno sviluppo lineare progressivo, né come una realtà solida, ma sente la necessità di osservare i meccanismi sotterranei di rifiuto, di distorsione e rovesciamento che assediano la memoria stessa (Forster, Mazzucco 2002). Warburg si sforza (come un titano) per rendere sperimentabile tutto ciò. Ecco allora che il formato dell’Atlante risponde a questo criterio, così come l’altra sua creazione strettamente connessa con l’Atlante: la biblioteca dell’istituto Warburg, oggi a Londra. Ciò che mette insieme queste due creazioni è l’idea di un territorio coincidente con l’opera. Si può tradurre questo sforzo con il famoso
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aforisma di McLuhan il medium è il messaggio? Sicuramente sì. Tanto la biblioteca che l’Atlante sono due territori da “abitare” per sperimentare, creandolo, un ordine nuovo dell’interpretazione e della ricerca, fondati entrambi su una prospettiva antropologica di autoeducazione del genere umano grazie a strumenti di ricerca in grado di stimolare e implementare le connessioni. Mnemosyne come il Memex di Vannevar Bush, l’ingegnere del MIT di Boston che ideò una macchina (Memex) in grado di funzionare come un tavolo da lavoro personale con schermo e tastiera dove i documenti vengono archiviati in forma di microfilm sulla base di associazioni decise dall’utente (Sbrilli 2001). L’Atlante, dunque, è un libro che mette insieme scrittura ed immagini cercando di trasformare il lettore in un performer di associazioni possibili. Ciò avviene nella struttura aperta della biblioteca e nel testo del libro che pertanto più che un testo diventa un territorio da esplorare ed arricchire con la propria presenza. Le immagini non illustrano il testo nel senso tradizionale ma servono per dare la dimensione delle interferenze, di quella storia/memoria che, come appena detto, non è una realtà solida per Warburg, né implementabile linearmente, ma è un organismo caratterizzato da azioni di rifiuto e/o rovesciamento. Le “vie principali e vie secondarie della storia”, come le chiama Warburg, che l’Atlante deve rendere, equivalgono alle immagini dialettiche di Walter Benjamin, per le quali Warburg cerca una soluzione spaziale ed esperenziale. Nel tentativo di creazione di una scienza dei processi culturali, Warburg cerca di creare un habitat coincidente con la riflessione teorica. Potremmo, anzi, ipotizzare che proprio il passaggio verso una costruzione visuale del testo/territorio traduce le immagini dialettiche di Benjamin in un luogo concreto, assai vicino al funzionamento dell’arte come dispositivo trasfigurante (Valeriani 2004a), dove l’opera è dispositivo non in quanto fine ma mezzo
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per vivere esperienze intersoggettive. Warburg applica questa sensibilità alla storia della cultura e quindi aiuta le analisi attuali sulle trasformazioni dalla cultura digitale ad allontanarsi dalla miopia della cronaca del presente per assumere un respiro più ampio. Così riposiziona i processi culturali dell’era digitale su temi più importanti come quello di una scienza della cultura, rispetto a quelli più circostanziati come l’innovazione tecnologica. Aprendo una piccola parentesi biografica, sempre nel campo delle ipotesi, Benjamin aveva avvertito questo passaggio di Warburg e pertanto chiese invano di conoscerlo. Incontro mancato e “ostacolato” da Erwin Panofsky (Didi-Hubermann 2000), meno sensibile alle immagini dialettiche e più propenso ad un sistema chiuso di corrispondenze immagine-testo che non al carattere enciclopedico aperto di Warburg. Diciamo meglio: il drammatico non-finito dell’opera di Benjamin è il titanico non-finibile, poiché aperto, della scienza della cultura di Warburg. Per questo il nonfinibile è vicino formalmente e concettualmente alla rete come nuova enciclopedia. Penso ad esempio a casi rilevanti quali Wikipedia con la sua struttura ipertestuale e cooperativa. Kurt Forster paragona le tavole di Warburg alle strutture cerimoniali degli altari degli Hopi (popolazione indigena nordamericana che Warburg studiò da vicino) in quanto entrambe, sebbene lontanissime tra loro, “sono macchine sperimentali, assemblate per creare e suggerire, con l’aiuto di singoli oggetti, le potenti connessioni dinamiche tra le energie che governano il cosmo” (Forster, Mazzucco 2002: 38). Questa analogia contiene sia il metodo di una ricerca partecipata col prestito di dispositivi idonei alla condivisione culturale, sia l’accostamento implicito con il montaggio cinematografico, o col metodo compositivo definito Flatbed da Leo Steinberg: entrambi depositari delle caratteristiche di un archivio digitale post-testuale.
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Vediamo meglio. Warburg condivide con il cinema il montaggio nel senso di dispositivo per rendere la seduzione del reale nella sua complessità fatta di attrazioni, che affascinò le avanguardie storiche del secolo scorso. Il montaggio serve per far prevalere la presentazione sulla rappresentazione e per esaltare le connessioni dinamiche, le inversioni, i colpi di scena, tra una situazione e l’altra. Questo da un punto di vista della soluzione formale appartiene a Warburg, come ha osservato Georges Didi-Huberman sostenendo che Mnemosyne lavora con l’intervallo dei campi e con l’intervallo dei sensi. Il senso-significazione di ogni immagine dipende dall’intervallo ovvero dalla distanza che diventa movimento ritmico rispetto ad un’altra immagine (Didi-Huberman 2002: 461). Nel libro, come nelle sue conferenze, Warburg usa pannelli scuri sui quali le immagini divise tra loro dall’intervallo nero (come nelle composizioni astratte di Mondrian) si separano e si influenzano. Il dispositivo visivo crea una sorta di archivio degli archivi dove ciascuna immagine storica, ciascun dettaglio isolato, è portatore di una memoria che si affianca ad altre distinguendosi e contaminandosi. Quali sono le conseguenze di questo dispositivo visuale? La storia non è sequenza cronologica ma intervallo, ritmo, ripresa, formalmente montaggio. Ma rispetto alla “molarità” della produzione cinematografica (Amendola), cioè alla sua caratteristica più unidimensionale conseguente all’affermarsi del cinema come identità a sé, l’artigianalità inventiva di Warburg – bisogna aggiungere – assimila l’Atlante più al montaggio come archivio degli archivi proprio della cultura digitale. Infatti, a proposito di cinema, una pista suggestiva da seguire è soprattutto quella che collega l’Atlante con il Soft Cinema di Lev Manovich, col suo montaggio combinatorio tramite database (http://softcinema.net/?reload).
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Non ci può essere nel libro di Warburg, come anche nella sua biblioteca e nelle sue conferenze, la multimedialità tipica dell’abbinamento immagine fissa, immagine in movimento, suono, testo ecc… ma le immagini sono disposte generando piste polisensoriali. Questo avviene perché accostandole tra loro il dispositivo esalta la vitalità dell’immagine (Mitchell 2002). L’immagine è un essere vivente che prescinde dalla qualità dell’opera e attraversa differenti dispositivi mediali. È il motivo per cui Warburg crea nei suoi pannelli link tra “opere d’arte” e produzioni di “cultura bassa”. Pertanto anche rispetto al montaggio cinematografico il suo sforzo assomiglia più al tentativo di una mediateca come archivio del futuro. L’intervallo infatti gioca in Warburg un ruolo fondamentale. Il rapporto tra testo e immagine, tra icona e logos (proprio dell’iconologia) viene stravolto. Per Erwin Panofsky il rapporto tra immagine e testo scritto è quello tipico con le fonti che spiegano l’immagine decrittandone l’enigma. In sostanza la fonte scritta illumina l’ambiguità dell’immagine. Per Mario Praz c’è un rapporto parallelo tra immagine e testo ed entrambi costruiscono un habitat culturale fatto di corrispondenze. Warburg scopre invece l’intervallo in quanto zona energetica dove si sviluppano tensione e passaggi. L’attenzione di Warburg è per quegli snodi complessi che rimangono impliciti ma che affiorano nel momento in cui un dispositivo è in grado di visualizzarli, di farli emergere nella loro consistenza storica. Da qui l’ipertesto come forma diversa di conoscenza. Infatti, accostare immagini tra loro, attraverso percorsi non lineari, non si risolve nella scoperta di analogie ma tende a far emergere come nell’intervallo che li separa, in quel frammezzo o interzona, sia in atto un cambiamento la cui percezione è il senso della scienza della cultura. Lo stesso cambiamento si produce sotto lo sguardo del fruitore che aziona quel mutamento essendo, di fatto,
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colui che collega quelle immagini tra loro. Colui che le usa. Il fruitore è l’attore di quell’interzona in quanto operatore del link. L’immagine, quindi, è un concetto operativo tanto quanto, si potrebbe dire, le definizioni concettuali per Georges Bataille negli accostamenti testo immagine dei suoi Documents. La parola/immagine come operatore di mutamenti piuttosto che definizione di concetti. L’accostamento serve proprio a questo, come il blank (il vuoto) nell’artista Haim Steinbach, ad esempio, che allinea su mensole da esposizione oggetti diversi tra loro che insieme ricostruiscono un pathos energetico. Questo pathos per Warburg è la storia. E veniamo al Flatbed che Leo Steinberg ha utilizzato (trovandolo in particolare nel lavoro di Robert Rauschenberg) per descrivere il passaggio dalla verticalità del quadro rinascimentale all’orizzontalità della creazione contemporanea. Flatbed allude simbolicamente – dice Steinberg – a superfici piane solide – come il piano superiore di un tavolo, il pavimento di un atelier, diagrammi, quadri di affissione – tutte superfici ricettive sulle quali si possono disporre oggetti, introdurre dati, ricevere, stampare, riportare informazioni, coerentemente o confusamente” (Steinberg 1972: 46-47, traduzione di chi scrive).
Proviamo a sostituire la parola “Flatbed” con, ad esempio, “bacheca di Facebook” e sicuramente la frase mantiene tutta la sua coerenza. L’archivio di Mnemosyne, analogamente, è questo territorio ricettivo che nell’insieme produce un site-seeing. A questo punto, qualche parola va indubbiamente spesa per uscire dall’equivoco per cui la centralità dell’immagine e della visione in Warburg (e per estensione nei visual studies) è un procedimento che in sé esclude la complessità del flusso e della connessione propri della cibercultura, come se immagine e flusso fossero
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due cose antitetiche (Costa). Il lavoro di Warburg è sicuramente un lavoro più sulle immagini che sui quadri. Questa distinzione tra Image e Picture, riprendendo Mitchell (2002), sta ad indicare la differenza tra ciò che appendiamo al muro, con la sua consistenza, e ciò che invece circola al di là delle cornici: ciò che abita più supporti a cominciare dalle nostre menti. L’immagine, proprio per la sua immaterialità, non è mai un medium esclusivamente visuale, anzi, paradossalmente, “i media visuali non esistono” (Mitchell 2005), come non esistono media puri, proprio perché sempre inseriti dentro un atto di fruizione per cui la complessità del flusso si genera nell’interazione tra noi e le immagini e tra le immagini stesse dentro un territorio. Secondo Mitchell, che riprende Raymond Williams, ciò che conta è l’uso sociale del medium. La cibercultura non fa altro che rendere tangibile, esterno alla nostra mente, questo processo finora vissuto interiormente. Con l’Atlante e con la biblioteca Warburg lo ha esplicitato, lo ha materializzato in un territorio esterno, appunto, portando fuori della nostra mente i processi connettivi/cognitivi tipici della riflessione e della memoria. Così la forma atlante assume, oltre i significati dai quali sono partito, anche quello di una geografia emozionale (Bruno) equivalente ad un viaggio tra diverse esperienze estetiche quotidiane (dalla moda all’arte, all’architettura… più in generale ai consumi) che nell’insieme definiscono una soggettività espansa in azione. È questo, ad esempio, il senso di un libro come l’Atlante delle emozioni di Giuliana Bruno, “debitore” dell’Atlante warburghiano, e della sua ripresa anche in un programma “neotelevisivo” come NonsoloModa di Fabrizio Pasquero, costruito sul modello site-seeing fatto di montaggio veloce, flatbed e geografia emozionale. In conclusione, ancora un’osservazione telegrafica e necessariamente apodittica sulla relazione tra
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Mnemosyne e cibercultura che implica, sullo sfondo, il rapporto stretto tra nuova storia dell’arte e comunicazione. L’archivio degli archivi che Warburg ha iniziato, tutto fondato sulla vitalità dell’immagine e su un dispositivo dinamico, così come l’enciclopedismo liquido della rete, sono casi rappresentativi delle “radici” dell’Occidente che, a differenza di quanto sostengono il fondamentalismo della religione e i suoi derivati identitari secolari, non affonda in nulla di comune se non un “originale assente” (Centanni) che ha generato e genera la ricchezza della poiesi tecnoculturale infinita, dell’interferenza, dell’anacronismo delle riprese, delle ibridazioni, delle connessioni.
1936 Rudolf Arnheim, La radio. L’arte dell’ascolto A pochi anni di distanza dal primo film sonoro (Il cantante di jazz, 1927), fa la sua comparsa il saggio sulla radio di Rudolf Arnheim, tra i primi testi capaci di riflettere sullo sviluppo delle comunicazioni di massa. Filosofo, discepolo dei fondatori della psicologia della Gestalt, interessato ai risvolti estetici della filosofia e a quella che in seguito diventerà la psicologia dell’arte, Arnheim affronta nel suo testo la dimensione ormai compiutamente massmediologica dei primi anni Trenta, ragionando sulle forme artistiche della cultura attraverso l’analisi del medium radiofonico. Partendo dal riconoscimento dell’esistenza di un linguaggio visivo e di un suo pubblico passivo, il testo di Arnheim si concentra sul linguaggio auditivo e sul suo pubblico, visto come più attivo perché costretto in qualche modo alla riflessione oltre che all’ascolto della parola e della musica. Nel domandarsi se la radio può essere considerata un’arte, Arnheim conclude che la musica e la radio sono le uniche arti in grado di rinunciare del tutto all’occhio. Il filosofo distingue i mass media del suo tempo utilizzando un lessico che fa riferimento ai singoli sensi umani come vista e udito, distinzione che sarà centrale anche nei lavori di studiosi come Innis e McLuhan. Se ai più la radio si mostrava come un medium che, per esempio rispetto al cinema, sacrificava la sfera del visivo, per Arnheim a essere importanti sono proprio le “smagliature del mezzo”, i suoi apparenti difetti. Nelle arti visive si danno colore, superfici e forme nelle tre dimensioni dello spazio, rileva l’autore di Il pensiero visivo, mentre le arti uditive si muovono all’interno di una sola dimensione spaziale, quella dell’estensione per mezzo del movimento dell’aria. L’assenza di immagine, che con la diffusione degli apparecchi televisivi verrà vista da molti come un deficit comunicativo, è per Arnheim possibilità concreta di modellare un’immagine acustica del mondo, mediante un inedito linguaggio auditivo che si avvicina alle forme dell’arte. Il testo dello studioso tedesco si interroga di conseguenza sulla natura specifica del medium radiofonico, offrendo una chiave di lettura controintuitiva ma di originale impianto analitico sui rapporti tra pubblico ed evoluzione tecnologica della comunicazione.
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Radio Days. Attualità di una preistoria di Roberto Maragliano
Tieni a mente queste tre date: 1936, 1979, 1987; e questi tre nomi: Rudolf Arnheim, Emilio Garroni, Glenn Gould. Ora ti dico perché. Meglio: inizio a dirtelo. 1936. È l’anno della prima pubblicazione del saggio sulla radio di cui tratto qui. Ma la data non è pacifica, concentra in sé un grappolo di stranezze. L’autore, Rudolf Arnheim, è tedesco, però quell’anno lo vede residente e attivo in Italia. Il testo, redatto in tedesco tre anni prima, esce allora in lingua inglese presso un editore londinese, Faber & Faber, e a tradurlo provvede Herbert Read, una singolare figura di poeta, critico, psichiatra, pacifista che avrà, pure lui, rapporti col nostro paese. A ridosso di quell’anno, precisamente nel 1938, esce la prima edizione italiana del volume, per conto di Hoepli, che presto però verrà esaurita e non sarà più ristampata, a dispetto della notorietà internazionale successivamente raggiunta dall’autore. Non basta. Sono i tempi della grande fortuna della radio come strumento di intrattenimento, certamente, ma anche e soprattutto come veicolo di propaganda politica: è per questa sua caratteristica che Hitler e Mussolini fanno un uso massiccio della radio. Non è pensabile, allora, che la questione possa lasciare indifferente Arnheim il quale, per la sua origine ebraica, con l’avvento del nazismo ha trovato riparo in Italia. La stranezza è che nel saggio non trovi nulla a tale riguardo, mentre anche soltanto sfogliandolo ti capiterà certamente di chiederti il perché delle preoccupazioni che Arnheim manifesta nei confronti della televisione, allora allo stato nascente (è vero, datano proprio 1936 i primi esperimenti di emissioni televisive al di fuori del laboratorio e li si compie proprio in Germania e Inghilterra, ma sono in pochi allora ad esserne adeguatamente informati). Il fatto che
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probabilmente permette di spiegare una parte di queste stranezze è che una decina di anni prima il cinema è diventato sonoro. Che c’entra quest’altro incomodo? Per ora mi fermo qui. 1979. È l’anno della seconda pubblicazione del saggio. Fuggito dall’Italia alle prime avvisaglie della campagna razziale, nel 1938, e riparato inizialmente in Inghilterra, dove proprio con l’aiuto di Read trova un impiego come traduttore presso la BBC in ambito radiofonico, Arnheim è successivamente approdato negli Stati Uniti, paese diventato, dal 1940, sua seconda patria e dove ha condotto attività di insegnamento e di ricerca in numerose e autorevoli sedi universitarie. Herbert Read è morto da qualche tempo ed è anche in omaggio alla sua figura che il testo viene recuperato, uscendo nella doppia edizione, tedesca e inglese. I tempi sono fortemente cambiati, non c’è dubbio. Si è ora in piena era televisiva. Perché allora riproporre un lavoro vecchio di mezzo secolo, centrato su un medium che sembrerebbe ormai in disuso? Perché pubblicare, senza adeguati ritocchi, uno scritto che oltre a tutto, come lo stesso Arnheim ammette nella nuova introduzione, si presenta pervaso di “ingenuità dogmatica” e “faciloneria bambinesca”, difetti ancora più evidenti laddove si misura con i “fatti sociali, estetici e pedagogici”? Operando in questo modo (paradossalmente è l’autore stesso che lo sostiene) non si rischia di fare la figura “di chi vorrebbe spiegare ad un ingegnere elettrotecnico del tardo XX secolo come illuminare nel modo migliore una sala con candele di cera”? Una risposta ci sarebbe, anche se non è quella a cui pensa Arnheim. Basterebbe infatti, a riprova del rinnovato interesse per il tema, far notare che il 1979 si colloca nel pieno della cosiddetta “età delle radioline”. Ciò significa che il processo di miniaturizzazione iniziato negli anni Cinquanta con l’introduzione dei transistor al posto delle valvole sta drasticamente ridimensionando il formato fisico del-
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l’oggetto radio dell’apparecchio. Non è un caso, inoltre, che le conseguenze sul piano dei comportamenti sociali di questa trasformazione materiale del mezzo risultino particolarmente evidenti negli USA, in quel frangente. La congiunzione tra la conquistata mobilità dell’oggetto radio (strappato dal centro del salotto e diventato accessorio, prolungamento del sensorio individuale) e lo stato di floridezza dell’industria discografica hanno infatti cambiato definitivamente, e in profondità, la natura dell’ascolto radiofonico, trasformandolo da fenomeno di microsocialità domestica e familiare a componente significativa dell’esperienza individuale, domestica e no, soprattutto in rapporto al nuovo pubblico giovanile. Ma nessuna eco della nuova realtà è dato cogliere tra i motivi che spingono a riproporre quel testo. Perché? Anche qui mi fermo all’interrogativo. 1987. È l’anno della seconda edizione italiana. Come è consuetudine per questo tipo di fenomeni, il recupero di cose che peraltro originariamente ci appartengono (se non in quanto italiani, almeno come europei) avviene tramite sollecitazioni provenienti dall’altra sponda dell’oceano. È così che diventiamo intimi dei nostri Verdi e Puccini, più di quanto non lo siamo stati prima, con l’importare le registrazioni discografiche statunitensi del nostro Toscanini, dagli anni Cinquanta in poi. Ma non basta questa forma di dipendenza dall’industria culturale statunitense a spiegare perché anche da noi si arriva a riproporre il testo di Arnheim. C’è che proprio in quel periodo il nostro paese sta vivendo il fenomeno delle cosiddette “radio libere”: la sentenza della Corte Costituzionale a favore della proliferazione delle emittenti è del 1976 e, in mancanza di un intervento normativo, l’etere sta diventando proprio allora terreno di un’occupazione sfrenata e selvaggia. Se questo per un verso porta ad infrangere ogni forma di rispetto per le questioni tecniche (e pure estetiche!), per un altro verso mette in crisi il monolitismo cultu-
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rale della radiofonia RAI, e crea le condizioni per un mercato eterogeneo, caotico ma a suo modo vitale. Associato al tema dell’hardware, a rendere appetibile il discorso sulla radio c’è dunque, qui da noi, il tema del software: il tema del giorno è dunque quello politico del fare e dell’essere radio. Direttamente da qui viene bisogno di riandare ai classici. Ma perché riesumare il saggio di Arnheim? Questo suo essere “inattuale” dà forse risposte ai temi che urgono? Altro stop. Passo ora ai tre nomi da ricordare. Il primo è quello dell’autore del testo. Come hai potuto appurare dalle righe precedenti, quella di Rudolf Arnheim è la tipica figura dell’intellettuale cosmopolita: certo, due terzi della sua lunghissima vita (muore nel 2007, a centotre anni) egli li passa negli Stati Uniti, ma senza smettere mai di girare il mondo e di tener aperti gli occhi sui cambiamenti cui va soggetto. Certo, in ciò non fa eccezione, non essendo pochi quelli che, come lui, in opposizione ai regimi totalitari affermatisi nel cuore del vecchio continente scelsero, nella prima metà del secolo scorso, di diventare cittadini del mondo, e in particolare del “nuovo mondo”, il più cosmopolita tra quelli allora praticabili. Ma Arnheim cosmopolita lo è anche e soprattutto sul piano dell’identità culturale. Non solo perché i suoi scritti sono spesso improntati alle esigenze della divulgazione e del chiarimento concettuale, ma anche e soprattutto perché in essi è riflessa la tendenza ad attraversare e mettere in collegamento diversi ed eterogenei campi di indagine, secondo un modo di vedere e discutere i problemi che, almeno rispetto alle consuetudini accademiche, non può non risultare eccentrico. La sua biografia parla di studi fatti in campo psicologico a diretto contatto con Max Wertheimer, uno dei fondatori della Scuola della Gestalt. Ma ci dice anche che uno come lui non potrebbe scrivere nel suo biglietto da visita la qualifica di psicologo, non essendolo né sul piano della professione svolta né
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su quello dell’impegno prioritario di ricerca. Ciò non impedisce che l’attenzione per la forma dei fenomeni, per la dinamica della percezione, per la globalità dei processi del conoscere e dell’esperire (sono i tratti qualificanti della psicologia della Gestalt) diventi la barra che orienta e qualifica i molteplici attraversamenti che Arnheim compie all’interno del campo delle arti. Soprattutto le arti figurative, dove si fa autore di veri e propri best seller (Arte e percezione visiva, Il pensiero visivo). Soprattutto, ma non solo. È infatti la sensibilità stessa nei confronti delle dinamiche del sistema sensorio, giocata tramite il costante riferimento ad un’accezione di globalità che, si direbbe, acquista e concede più significatività sul versante filosofico che non su quello strettamente psicologico, a indirizzare precocemente l’attenzione di Arnheim verso le “arti” della comunicazione, o meglio dei media della comunicazione, e relativamente a questi delle “arti” – o risorse mentali, pratiche, sensorie – che ne garantiscono il migliore funzionamento. “Precocemente” ho detto. Il primo volume pubblicato da Arnheim, quello che gli dà immediatamente risonanza e celebrità, prima ancora di compiere i trent’anni, è dedicato alla nuova arte cinematografica e reca, come titolo significativo, Il film come arte. Lì c’è già tutta, e non solo in nuce, la personalità eccentrica dell’autore. Tanto fuori delle righe è il suo pensiero da figurare come “passatista”. La tesi che provocatoriamente lì vi sostiene è che il cinema sia arte soprattutto visiva, anzi esclusivamente visiva, e che l’avvento del sonoro, riducendo il valore di concettualizzazione autonoma attribuibile ad un linguaggio centrato su (e stilizzato in ordine a) inquadratura e montaggio, non possa che produrre effetti di imbarbarimento e dequalificazione di quell’arte stessa. Pochi anni dopo, ma come ho già detto la sua stesura risale grosso modo allo stesso periodo, esce il saggio sulla radio, che fa da pendant a quello per il fatto di indicare la radio non solo come arte
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sonora, ma (per la stessa ragione addotta a proposito del cinema) come arte globale per eccellenza. Il cinema come visione pura, la radio come ascolto puro. C’è coerenza in tutto ciò, come negarlo? Ecco allora che, al di là del gusto per la provocazione intellettuale (che fa sempre bene, in quanto costringe a “sparigliare”, a “far saltare i giochi”), viene spontaneo chiedersi in che cosa e per che cosa possa servire un approccio di questo tipo, oggi come oggi, immersi come siamo in sensibilità e sensori multimediali, spettatori e attori di intrecci e contaminazioni e infinite forme di collaborazione tra i codici, “utenti” di messaggi compositi e in quanto tali stretti e costretti ad usare contemporaneamente lettura, ascolto, visione? Break. Se provi a collezionare e mettere assieme i molti interrogativi che ho lasciato aperti non esiterai a chiederti e chiedermi se valga la pena per te di prestare attenzione ad un saggio di più di settant’anni fa che parla di cose che in quella forma non esistono più, da tempo. E se ha senso farlo, lo ha solo in sede di ricostruzione storica (e già questo non sarebbe un male, soprattutto in relazione ad un ambito che, come quello della comunicazione, sembra avere così poca attenzione per questa dimensione) o lo ha anche in una prospettiva più ampia? La risposta che ti propongo, senza escludere la prima ipotesi, va nella direzione della seconda. Ma non la do io. Preferisco chiamare in causa quanto sostengono i portatori degli altri due nomi che inizialmente ti ho invitato a tenere a mente. Uno ti aiuta a capire il perché dell’importanza di questo testo. Un altro il perché dell’importanza e dell’attualità del tema generale affrontato dal testo. Il primo è Emilio Garroni. Docente di Estetica per un trentennio è stato anche scrittore, pittore e pure, nei primissimi anni del mezzo, speaker culturale della tv. Qui c’è in gioco il suo pensiero. “Secondo Garroni
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l’estetica è una ‘filosofia non speciale’ il cui compito non deve limitarsi allo studio delle espressioni artistiche (‘il bello’), ma è finalizzato ad una visione e ad una ‘costruzione’ del mondo fondata sull’esperienza del senso che comunque, per Garroni, continua ad avere nelle arti la sua manifestazione esemplare”: questo è quanto puoi leggere nel profilo che alla sua figura dedica Wikipedia (versione luglio 2011). Garroni è anche l’autore della prefazione all’edizione italiana 1987 del volume di Arnheim. In quelle otto dense pagine trovi non tanto una risposta puntuale all’interrogativo quanto un ragionamento complessivo che va al di là dei limiti dell’interrogativo stesso. Provo a ricostruirtelo per punti. 1. Arnheim è prima di tutto un filosofo, e in questa chiave si è occupato di fenomeni artistici non in quanto tali ma per il rilievo che essi possono assumere rispetto all’esigenza di dar conto dell’esperienza in genere. 2. Mossa prima di tutto da esigenze di riflessione filosofica e meno da un bisogno di indagine scientifica, l’analisi di Arnheim può permettersi il lusso di essere “fuori del tempo” (di esserlo anche rispetto al “suo” tempo) e il lettore di conseguenza vi si può accostare con l’atteggiamento fiducioso di chi si dispone a cogliere nelle parzialità e nelle unilateralità di un’indagine, pure nei suoi stessi errori di prospettiva, l’emergere di problemi di portata generale che sono propri dell’esperienza del conoscere e, in particolar modo, dell’esperienza del conoscere mediata dagli strumenti della comunicazione. 3. Tra gli errori di prospettiva di cui Arnheim si fa responsabile c’è certamente la scelta da lui enunciata e pervicacemente perseguita in questo volume, così come in quello che lo precede, in favore di una specificità o “autonomia sensoria” di ciascun linguaggio. Che si diano un linguaggio puramente
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visivo da una parte (che il cinema di prima dell’avvento del sonoro tratterebbe artisticamente nella sua forma più limpida) e un linguaggio puramente acustico da un’altra (che l’arte radiofonica avrebbe il merito di valorizzare) è un nucleo di teoria che nessun approccio positivo (psicologico, sociologico, nemmeno mediologico) si è successivamente trovato a condividere, e che nessuna delle forme della comunicazione sociale che nel frattempo si sono sviluppate ha confermato. 4. L’aspetto più avvincente di tutta la faccenda sta nel fatto che proprio lì, nell’errore di prospettiva appena indicato risiede il contributo più positivo che Arnheim offre alla riflessione di quanti si occupano di comunicazione e di mezzi di comunicazione; questo anche se il testo parla di una radio che non esiste più, o forse non è mai esistita, e anche se trova il suo culmine in un “elogio della cecità” che, tirato fuori da quel contesto, risulterebbe, come minimo, mediologicamente e pedagogicamente scorretto. Perché? 5. Perché così teorizzando, cioè sostenendo che la radio è e fa arte sonora esattamente, forse ancor più di come il cinema muto è e fa arte visiva, Arnheim mette in discussione, anzi addirittura annulla uno dei presupposti di tanti dei discorsi allora e tuttora correnti sui mezzi della comunicazione sociale, quello che fa coincidere la loro funzione e ragion d’essere con il compito di riprodurre la realtà e dunque di mettere in comune quanto deriverebbe da tale riproduzione di realtà (come dire: qualcosa di non pienamente autentico, un surrogato di realtà, come del resto lo sono tutti i derivati). 6. Non essendo riproduzione totale, ma parziale e dunque imperfetta di realtà (rispetto, almeno, alla realtà empirica), la radio dà conto di un reale puramente acustico, è e produce e diffonde realtà ra-
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diofonica, rispondente ad un linguaggio puramente acustico. Inoltre, poiché quello dei suoni è un linguaggio ancora più difettoso del linguaggio visivo e più di quello deve mirare a proporre soluzioni atte a tramutare in valore di ricchezza la povertà sensoria che gli è propria, il suo impegno di stilizzazione artistica risulta addirittura superiore. E, aggiungo qui, risulta superiore la sua funzione paradigmatica rispetto alle diverse tipologie della comunicazione sociale. 7. Contribuendo a portar luce non solo ad una questione estetica locale, ma ad un problema di interpretazione dell’esperienza umana nel suo complesso, l’analisi proposta da Arnheim e, al suo interno, la sottolineatura del ruolo formativo che la radio potrebbe svolgere assumono una fortissima valenza educativa, che mantengono tuttora, e che più di ieri oggi (anche per la gran quantità di pregiudizi circolanti sulla funzione riproduttiva dei media) è possibile cogliere ed apprezzare. 8. Questo non significa che i media svolgano automaticamente, o che un medium come la radio svolga di per sé, una funzione di educazione rispetto ad una presa di coscienza individuale e collettiva dell’esperienza umana. Significa (Garroni conclude così la sua disamina) che tale ruolo di formazione, che comunque c’è, può essere svolto in maniera casuale e incontrollata, o in una maniera più controllata e consapevole, sia da parte di chi fa sia da parte di chi riceve comunicazione. E questa diventa, aggiungo io, una questione particolarmente scottante oggi, per il fatto che tutti, tramite il web, siamo messi nelle condizioni di ricevere e produrre comunicazione. Qui entra in scena l’ultimo dei nomi da ricordare, Glenn Gould. Non c’entra niente con Arnheim, almeno direttamente, ma c’entra molto con il problema della
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radio come risorsa per la stilizzazione acustica e con quello della produzione/riproduzione di suono, inteso come fenomeno “estetico” e tecnologico. Canadese, è stato pianista tra i maggiori del secolo scorso, ma la ragione per cui lo chiamo in causa qui è che si deve a lui un contributo importante, in termini di fatti e idee, alla definizione di un’ “arte dell’ascolto musicale”. Una volta abbandonata, nel pieno del successo, la carriera concertistica Gould si dedica esclusivamente alla registrazione (discografica, ma anche radiofonica e pure televisiva), che pratica e teorizza come realtà autonoma e indipendente rispetto alla realtà dell’esecuzione, quella che si presume la registrazione debba o voglia riprodurre. Il tutto potrebbe essere inteso come una significativa aggiunta all’elogio della cecità. Grazie a Gould, alle sue idee e alle sue registrazioni (tra le quali tre documentari radiofonici, realizzati componendo secondo definite forme musicali aggregati di suoni d’ambiente, di rumori e di voci), capiamo meglio Arnheim, o meglio: comprendiamo quel che Arnheim soltanto intuisce, o preso da furore teorizzante sostiene in accenti estremi. Capiamo cioè che solo uno spirito visionario come il suo può cogliere nelle disposizioni spaziali delle voci, nell’uso dei filtri per la presa del suono, nelle procedure del montaggio lineare, cioè nei rudimentali marchingegni di cui dispone l’arte radiofonica del suo tempo, l’addensarsi dei primi elementi di una imminente, rivoluzionaria “grammatica del suono”, quella stessa che la musica colta e non colta del Novecento (fortemente influenzata dalla possibilità di registrare e trasmettere eventi acustici, quindi fissarli e comunicarli, insomma scriverli) ha fatto poi coincidere con la sua stessa ragion d’essere: una grammatica del suono diversa, per certi aspetti indipendente rispetto alla tradizionale grammatica musicale, esattamente come il dramma ascoltato alla radio si presenta come qualcosa di più “puro, astratto, reale” (Arnheim e Gould usano incredibilmente gli
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stessi termini, senza essersi letti l’un l’altro) rispetto al dramma seguito nel contesto del teatro. A questo punto manca lo spazio per riportare e montare estratti dal volume di Arnheim, e forse è meglio sia così, se quanto hai letto ti ha invogliato a leggere e interrogare direttamente le pagine del volume. Ti chiedo soltanto di accogliere la frase che segue, ritagliata dal capitolo centrale sull’elogio della cecità, assumendola come monito per le tue future navigazioni dentro lo spazio sonoro dei media e più in generale dentro l’universo multimediale: “non si dipingono le statue con una tinta di color carne”.
1936 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Con la stesura del saggio sull’opera d’arte l’intenzione di Walter Benjamin era di prendere posizione nell’ambito dell’acceso dibattito su espressionismo ed estetica marxista. Di fatto, pensava all’Unione Sovietica come luogo ideale di destinazione del testo e, inizialmente, cercò di pubblicarlo nella versione tedesca di un giornale moscovita. I suoi toni erano però lontani dall’ortodossia del realismo socialista e il saggio venne rifiutato. Apparve dunque nelle pagine della Zeitschrift für Sozialforschung, la rivista dell’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte, che si era all’epoca trasferito negli Stati Uniti per sfuggire al nazismo. Max Horkeheimer, direttore della rivista, trovò però opportuno modificare il testo in una serie di dettagli, soprattutto lessicali, sfumandone i riferimenti politici per evitare che la sua pubblicazione nuocesse alla vita americana dell’Istituto. La versione finale, ulteriormente elaborata, vide allora la luce solo nel 1955, molti anni dopo la morte di Benjamin, avvenuta nel 1940 in circostanze tragiche. Per quanto non immediata, l’influenza di questo saggio è stata sensazionale, tanto da convertirlo in un classico del pensiero del Novecento oltre che in un riferimento ineludibile per la riflessione estetica. E tuttavia Benjamin formula le sue tesi con un occhio al secolo anteriore, quell’Ottocento di cui si sentiva cittadino, e una grande attenzione alle riflessioni di Baudelaire sulla modernità; all’origine dell’idea centrale del saggio, per cui la riproducibilità tecnica dissolve l’aura dell’opera d’arte, c’è infatti un’immagine baudelaireiana, quella del poeta a cui, mentre attraversa un affollato boulevard, scivola l’aureola nel fango della strada. Ancor più decisiva di quella di Baudelaire è, probabilmente, l’influenza di Bertolt Brecht, che altri amici definirono “disastrosa”. Tanto Theodor Adorno che lo studioso di cabala Gerschom Scholem davano infatti all’adesione al rozzo materialismo brechtiano la colpa dell’uso chiaramente adialettico di categorie marxiste portato avanti da Benjamin. E quasi altrettanto deleterio era per Adorno il fatto che Benjamin condividesse l’atteggiamento ottimistico dell’amico drammaturgo nei confronti del potenziale rivoluzionario delle tecnologie e dell’arte popolare. È però proprio un “pensiero crudo” di matrice brechtiana che conduce Benjamin a comprendere il valore di medium delle tecnologie della riproduzione, il loro influsso sugli schemi di percezione di un’opera
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e il loro potenziale democratizzante. In quest’ultimo senso il ragionamento di Benjamin tende a (e spera di) smentire la sua stessa affermazione per cui “non vi è mai documento di cultura che non sia nello stesso tempo documento di barbarie”, e questo nel senso che la cultura ha sempre avuto come rovescio la sofferenza di coloro che ne sono stati esclusi.
Dalla riproducibilità tecnica al remixing digitale di Davide Borrelli
Ciò che fa di questo testo del 1936 una riflessione paradigmatica nell’ambito degli studi sui media è principalmente la messa a fuoco delle ragioni per le quali i linguaggi della riproducibilità tecnica (fotografia e cinema) sarebbero stati congeniali ad “esigenze rivoluzionarie nella politica culturale”. La loro portata rivoluzionaria è collegata alla possibilità di abbassare i costi di transazione necessari per accedere alla comunicazione. È una interpretazione che si può estendere all’intera storia dei media e che trova nelle piattaforme digitali della rete la sua più recente ed emblematica conferma. Man mano che comunicare diviene più facile e meno costoso si accresce il numero di chi può partecipare ai processi di produzione collettiva di senso. Le persone si sentono libere come non mai di immaginare, esprimersi, interagire con gli altri e scambiarsi esperienze. Si verifica allora un fenomeno dalla portata effettivamente rivoluzionaria: per citare Benjamin, la quantità tende a ribaltarsi in qualità. Con l’aumento del numero di consumatori di arte e di cultura, cioè, cambia profondamente anche la qualità dei consumi culturali, poiché si diffondono atteggiamenti fruitivi improntati a maggiore disinvoltura ed autonomia soggettiva. Il ragionamento di Benjamin muove dal principio per cui, se mutano i mezzi che rendono fruibili i contenuti estetici, si modifica di conseguenza anche lo statuto
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dell’arte. Ben prima di McLuhan egli ha compreso che il medium è messaggio, ossia che il canale che si usa per comunicare condiziona il senso di ciò che si comunica. La possibilità di riprodurre immagini in copie virtualmente illimitate secolarizza l’esperienza dell’arte, che tende a smarrire l’“aura” di prestigio che tradizionalmente circonda le opere e conferisce loro la qualità di qualcosa di unico, ineffabile e sublime. Esiste una sola Gioconda dipinta da Leonardo, quella gelosamente custodita al Louvre come si trattasse di un oggetto sacro, ma a partire dall’invenzione della fotografia è stato possibile generarne infinite riproduzioni che consentono a chiunque di ammirare questo capolavoro, dovunque e ogni volta che lo desidera. Storicamente l’arte deve la sua aura di eccellenza al fatto di essere poco accessibile dal punto di vista culturale, psicologico e comunicativo: nel momento in cui le tecnologie della riproducibilità abbattono le distanze spaziotemporali che ci separano dall’opera, ecco che il concetto aristocratico-umanistico dell’arte come qualcosa di geniale ed inattingibile viene messo radicalmente in discussione e si rivela obsoleto ed inattuale. L’opera d’arte è vissuta come una riserva pregiata di senso rispetto alla vita quotidiana per via dell’aura quintessenziale che l’avvolge e che ne fa qualcosa di straordinario come l’“apparizione unica di una lontananza” [25]. Ebbene, la possibilità che essa sia riprodotta in modo seriale fa venir meno precisamente queste due condizioni dell’arte (la sua lontananza e la sua l’unicità) dal momento che, da un lato, rende “le cose, spazialmente e umanamente, più vicine” e dall’altro provoca il “superamento dell’unicità”. Nella misura in cui si amplia l’accesso a contenuti tradizionalmente riservati e impenetrabili, il loro mistero viene svelato e la loro aura irrimediabilmente erosa e dissolta. Per Benjamin il valore auratico che si riconosce alle forme artistiche, e in genere al sapere, è esattamen-
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te funzione dei costi di transazione e di connessione (economici, ma soprattutto cognitivi, culturali, sociali) di cui occorre farsi carico per potervi partecipare: quanto maggiore è la difficoltà di avervi accesso (in virtù della loro unicità e lontananza) tanto più alta è la qualità che viene ad esse attribuita. Non è il pregio dei contenuti artistici o culturali in quanto tale a spiegare perché la maggior parte delle persone ne resti esclusa, ma sono per lo più proprio i costi e le difficoltà che si incontrano per accedervi a costruirne performativamente il valore. Per la stessa ragione l’attributo volgare non si predica in prima istanza di cose che manchino di qualità, non è a ciò che si allude quando si pronuncia questo tipo di giudizio. Si tratta, in realtà, di una strategia discorsiva che serve a costruire e a riprodurre, sul piano estetico e culturale, differenze che sono espressione di privilegi sociali fondati su rendite di posizione. Molto del disvalore estetico che si attribuisce alle cose “volgari” è dovuto al fatto che si tratta di cose accessibili al vulgus, ossia al popolo, e proprio perché sono accessibili a tutti (Bourdieu 1979). In questo modo l’aggettivo volgare cessa di avere il significato denotativo di “ciò che è riferibile al popolo” per assumere un senso connotativo che stabilisce in modo autoevidente l’equazione tra “popolare” e “deteriore, di bassa qualità estetica”. Analogo valore posizionale ha, ad esempio, la semantica della coppia di parole “sacro” e “profano”. Anche in questo caso ciò che fa di un oggetto o di un luogo qualcosa di sacro non è una qualità intrinseca di cui essi siano portatori, ma propriamente il fatto di essere separati (tale è il senso etimologico della parola), interdetti al consesso mondano degli uomini. E d’altra parte, “profano” è esattamente colui che resta escluso e segregato, appunto pro fano, “davanti al tempio”, tenuto ai margini di un luogo a cui non viene ammesso. Come la profanità in ambito religioso, allo stesso modo la
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volgarità non è che il coefficiente in campo estetico del privilegio e dell’esclusione sociale. È questa dimensione della sfera estetica, che genera divisioni e barriere sociali, l’oggetto della critica di Benjamin secondo una prospettiva di materialismo storico. Nell’esaminare il destino dell’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica egli si pone, infatti, un obiettivo dichiaratamente di natura politica, quello di affermare le ragioni della “politicizzazione dell’arte” rispetto a quelle dell’“estetizzazione della politica”, tipiche dei regimi autoritari. Politicizzare l’arte significa, dal suo punto di vista, scommettere sull’esperienza della fruizione estetica come fattore di emancipazione e di autocoscienza individuale, mentre estetizzare la politica equivale a fare dell’arte, se non propriamente un instrumentum regni, di certo un mezzo di conservazione dei rapporti di potere dati, nella misura in cui si riveli funzionale a mantenere e legittimare la rigorosa divisione del lavoro che esiste tra i pochi privilegiati socialmente accreditati ad esprimersi in quanto autori, e la massa della popolazione relegata al ruolo di spettatori passivi, tanto estasiati quanto incompetenti. Le esigenze rivoluzionarie che Benjamin vuole far valere nella politica culturale presuppongono una critica serrata contro i concetti, giudicati regressivi, di genialità, creatività e valore quintessenziale ed eterno dell’arte. Ed è per questa ragione che, mentre giudica “retrivi” i pur geniali dipinti di Picasso, apprezza invece come “progressivi” i film di Chaplin (anche se, anzi proprio perché popolari), in cui “l’atteggiamento progressivo è contrassegnato dal fatto che il gusto del vedere e del rivedere si connette [...] immediatamente con l’atteggiamento del giudice competente” [38]. Come accennato, Benjamin codifica la seguente legge dei media: superata una certa soglia di sviluppo dei consumi culturali e comunicativi, la quantità si ribalta in qualità. La “legge di Benjamin” – se così possiamo
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definirla – ha un duplice ambito di applicazione. Da una parte, si riferisce alla natura della fruizione estetica e generalmente di ogni tipo di contenuto simbolico, dall’altra spiega in che modo cambiano la funzione e il significato dell’oggetto artistico e culturale. Sul piano della fruizione estetica, proprio come prevede la legge di Benjamin, è sempre accaduto che “masse sempre più vaste di partecipanti [abbiano] determinato un modo diverso di partecipazione” [44]. Questo “modo diverso di partecipazione” si manifesta nel caso di fotografia e cinema attraverso la redistribuzione sociale del potere semiotico tra chi crea e chi fruisce dei contenuti, ovvero dà luogo ad una cessione di sovranità comunicativa dal produttore al consumatore del testo accorciando sensibilmente la distanza che li separa. Per Benjamin il fatto nuovo legato all’avvento delle tecnologie della riproducibilità, a suo giudizio così denso di possibilità di emancipazione sociale, è che grazie ad esse non è più il fruitore a doversi muovere con reverenza verso l’arte ma è l’opera che va incontro al suo fruitore e si immerge nella sua quotidianità. La distrazione e non più il raccoglimento, dunque, lo shock e non più il rapimento estatico sono gli stati d’animo che accompagnano questa nuova forma di esperienza fruitiva: “la massa distratta fa sprofondare nel suo grembo l’opera d’arte e non vi si sprofonda” [44]. Così, la riproducibilità tecnica uccide l’aura misteriosa e sublime che avvolge ogni opera d’arte, la spoglia del suo hic et nunc, ossia delle sue proprietà uniche e irripetibili, per renderla disponibile a nuovi contesti di enunciazione ed a nuove attribuzioni di senso da parte di coloro che ne fruiscono. In altri termini, la riproducibilità “sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione” e lo attualizza nel contesto della vita del fruitore facendo sì che l’arte si configuri come oggetto di consumo e di intrattenimento piuttosto che di muta ed estasiata contemplazione. Il consumatore consuma e dissolve il
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suo oggetto, chi invece lo contempla ne ha ri-guardo, lo lascia essere, rispetta la sua autorità ed in un certo senso vi si sottomette. La seconda importante conseguenza che si può ricavare dalla legge di Benjamin per cui la quantità si ribalta in qualità riguarda il significato stesso dell’arte e, per estensione, di ogni sistema simbolico socialmente accreditato (la formazione, la cultura, la professionalità giornalistica, ecc.). Ad esempio, quando un’opera frutto di ingegno è resa accessibile ad un pubblico di massa non avviene semplicemente che esperienze una volta riservate a pochi siano messe a disposizione di un gruppo molto più nutrito di persone. Ciò che si verifica in seguito a questo cambiamento di scala è soprattutto un mutamento di natura qualitativa che ridefinisce profondamente queste stesse esperienze, e di conseguenza le funzioni e le caratteristiche dell’arte che viene fruita. Si passa, nelle parole di Benjamin, dal “valore cultuale” al “valore espositivo” dell’opera d’arte. Dopo l’eclissi dell’aura, cioè, l’arte non potrà più avere a che fare con quella tipica dimensione di passività psicologica che si avvicina al culto religioso, e il bello non sarà più al servizio del vero. La funzione dell’arte non sarà più rituale ma politica: nel linguaggio di Hegel (1836) essa si riscatterà dalla natura di “servizio divino”, da organo dell’intuizione sensibile dell’idea assoluta, per diventare totalmente e interamente “linguaggio umano”, campo di esplorazione e di negoziazione sociale dei significati. Nella scomparsa dell’aura non è in questione semplicemente la perdita di valore dell’arte tout court, ma l’acquisizione di un altro tipo di valore, un valore che è di natura politica, espositiva, si potrebbe dire comunicativa. Ed è per questo che secondo Benjamin è ozioso e fuorviante porsi la questione se la fotografia costituisca o meno una forma d’arte. La questione su cui mette conto riflettere diventa piuttosto se attraverso la fotografia (e quindi, in generale, attraverso
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le innovazioni tecnologiche nella comunicazione) non si modifichi il carattere complessivo dell’arte. In base a questa considerazione ogni innovazione, se valutata alla luce del sistema dei valori espressivi e delle pratiche comunicative precedentemente in uso, dà sempre l’impressione di generare contenuti meno rigorosi, di peggiore qualità e di dubbio valore ed autorevolezza agli occhi di chi detiene ruoli di potere e responsabilità sociale, oltre che elevati livelli di capitale culturale. Il saggio di Benjamin appare per molti versi ancora attuale e produttivo. L’innovazione digitale, ad esempio, presenta una serie di problematiche paragonabili a quelle un tempo innescate dalle tecnologie della riproducibilità. In particolare, pone la medesima questione politica che Benjamin metteva in relazione con l’abbattimento dei costi di transazione e con la conseguente eliminazione delle barriere che impediscono ai non addetti ai lavori di prendere parte ai beni dell’arte e della sapienza (Benkler 2006; Shirky 2008). Esaminiamo ad esempio il caso del web 2.0 e dei contenuti generati dagli utenti (User Generated Content), di cui è espressione emblematica il cosiddetto citizen journalism, il giornalismo partecipativo. Così come i detrattori della fotografia posero nel XIX secolo la questione della sua scarsa qualità artistica, anche per il giornalismo dal basso non mancano oggi le critiche di quanti lamentano il pressappochismo e la scadente professionalità con cui vengono confezionate le informazioni da una massa di dilettanti che si improvvisano giornalisti senza averne la formazione e la cultura adeguata (Keen 2007; Metitieri 2009). Ma, come nel caso della fotografia, anche per il giornalismo grassroots il vero problema non è valutare se le notizie che esso produce costituiscano informazione di qualità in base ai parametri di valore e di professionalità fino ad ora invalsi. Semmai, coerentemente alla legge di Benjamin, si tratta di verificare se anche in questo caso la quantità non si ribalti in qualità,
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ovvero se la diffusione dell’innovazione digitale non abbia determinato i presupposti per ridefinire gli stessi criteri che regolano la produzione, la circolazione e l’accreditamento sociale delle informazioni. Di particolare interesse euristico è il confronto tra il concetto di riproducibilità tecnica tematizzato da Benjamin e quello di remixabilità digitale proposto da Lawrence Lessig (2008). La digitalizzazione dei contenuti sta producendo una trasformazione qualitativa nella fenomenologia della cultura, paragonabile a quella descritta da Benjamin. Il formato digitale con cui sono codificati i prodotti simbolici tende a far transitare l’oggetto estetico dal regime della riproducibilità tecnica a quello della remixabilità, ovvero del riuso creativo, della personalizzazione e della riscrivibilità dei contenuti fruiti (Id.). Se la riproducibilità tecnica ha decretato il declino dell’aura delle opere, intesa come “apparizione unica di una lontananza”, la remixabilità digitale segna la fine della condizione di intangibilità dell’opera e il suo ingresso in un nuovo orizzonte di senso e di usabilità sociale. L’opera d’arte riproducibile è un prodotto che si può moltiplicare, mentre l’opera d’arte remixabile è soprattutto un prodotto che si può trasformare e riscrivere. L’arte riprodotta si avvicina ai suoi fruitori e, avvicinandosi a loro, naturalmente muta il proprio statuto semiotico, ma conserva in ogni caso la propria unità ed autosufficienza in quanto testo compiuto. L’arte remixata, invece, è una sorta di organismo geneticamente modificato che si evolve e cambia forma man mano che viene usato e ritrasmesso. E ancora, mentre la riproduzione abbatte l’unicità dell’arte sul versante della produzione, il remix la ricostituisce sul piano del consumo, nel senso che sviluppa ad ogni passaggio fruitivo un tasso di unicità creativa, che è data dall’impronta singolare di chi utilizza e rielabora i contenuti (Didi-Hubermann 2008). Le tecnologie della riproducibilità hanno consentito di sviluppare un’idea
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di pubblico inteso come audience, ossia come un insieme di individui disseminati nello spazio, destinatari di contenuti comunicativi erogati da industrie culturali specializzate. Le tecnologie digitali danno adito, invece, alla nozione di “pubblici connessi” (Kazys 2008), composti da individui che si rendono protagonisti di una fitta rete di conversazioni, sicché i contenuti creativi non sono rivolti al pubblico ma fatti dai e dei pubblici, che vi imprimono e vi lasciano il proprio segno. La novità delle tecnologie digitali non risiede tanto nel fatto che i consumatori possano finalmente accedere al ruolo di produttori di creatività simbolica attraverso una pratica come il remix. Questo fenomeno non rappresenta di per sé, com’è ovvio, una novità in assoluto. Il mutamento davvero significativo è dato dal fatto che – in virtù dei bassi costi di transazione per l’accessibilità, l’archiviazione e il remixaggio dei contenuti in formato digitale – il fenomeno per cui sempre più consumatori provano a cimentarsi anche nel ruolo di produttori culturali (anche solo etichettando e diffondendo materiali che trovano in rete) comincia ad assumere dimensioni socialmente rilevanti. Si tratta di un processo che non produce necessariamente un numero maggiore di talenti, ma che cambia innanzitutto l’esperienza e la qualità del consumo, nonché il genere di patto comunicativo che si stabilisce tra fruitore e artefatto culturale. Chi si dedica ad attività creative in veste di produttore non per questo diventa un artista lui stesso, ma è verosimile che cominci a cambiare il proprio atteggiamento in quanto consumatore, nella misura in cui acquisisce maggiore consapevolezza e padronanza del prodotto culturale di cui fruisce. “Proprio come imparare a leggere la musica e a suonare uno strumento può fare di una persona un ascoltatore più raffinato, la diffusione della pratica di produrre artefatti culturali di ogni tipo permette agli individui di essere lettori, ascoltatori e spettatori migliori della cultura
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prodotta in modo professionale, oltre che di inserire il loro contributo in questo insieme culturale collettivo” (Benkler 2006: 373). Anche in questo caso, insomma, la quantità si ribalta in qualità. Il valore aggiunto delle piattaforme comunicative digitali è che i consumatori non si sentono esclusi dai beni comunicativi e culturali di cui fruiscono, ma imparano a percepirli come contenuti le cui condizioni di produzione non sono più completamente al di fuori della portata della propria intelligibilità ed operabilità, il che costruisce i presupposti di una cultura democratica a base partecipativa (Jenkins 2006).
19401 Walter Benjamin, I “passages” di Parigi I frammenti che compongono I “passages” di Parigi vengono scritti mentre Benjamin lavora a saggi letterari e filosofici su Kafka, Fuchs, Baudelaire e al testo sull’opera d’arte. Anche in seguito alla mancata abilitazione all’insegnamento accademico, a partire dagli anni Venti Benjamin lavora come critico e traduttore, ha l’occasione di viaggiare tra Parigi e Mosca e inizia così a concepire il progetto di un’opera sulla Parigi del XIX secolo. Dalla metà degli anni Trenta Benjamin, già collaboratore dell’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte, pur senza mai entrare a far parte organica del gruppo intensifica i rapporti con Max Horkheimer e Theodor Adorno, e diventa un habitué delle conferenze del Collège de sociologie, nato nel 1937 per iniziativa, tra gli altri, di Georges Bataille, Roger Callois e Pierre Klossowski. Circa un anno prima della sua tragica fine, in seguito allo scoppio del secondo conflitto mondiale e all’esperienza in un campo di lavori forzati, Benjamin scrive rapidamente il suo ultimo testo, le Tesi di filosofia della storia che richiamano le Tesi su Feuerbach di Marx e conducono una critica nei confronti dello storicismo da un punto di vista interno al materialismo storico. Queste, pubblicate con il titolo Sul concetto di Storia, avrebbero dovuto essere l’introduzione del Passagenwerk, opera frammentaria che Benjamin non riuscì a completare e che proprio Bataille, divenuto bibliotecario presso la Biblioteca Nazionale francese, riuscì a nascondere e preservare. Nei testi del Passagenwerk, conosciuto anche come “Arcadia Project” per via di una celebre immagine ottocentesca archetipica che Benjamin ritrova nel libro Le Paysan de Paris dello scrittore surrealista Louis Aragon, sono presenti tutti i temi fondamentali negli scritti e nelle riflessioni del filosofo tedesco. I frammenti (pubblicati in Italia nel 1986 con il titolo Parigi, capitale del XIX secolo e nel 2000 come I “passages” di Parigi) descrivono l’Ottocento, la crisi delle sue ideologie e dello storicismo, dalla prospettiva della metropoli parigina e li analizzano a partire da
1 Benjamin lavora ai Passages durante tredici anni, dal 1927 al 1940, anno in cui si toglie la vita, disperato per non riuscire a sfuggire all’esercito nazista. L’opera resta incompleta e vede la luce nella sua versione integrale solo nel 1982, dopo un lungo periodo in cui ne erano stati pubblicati solo alcuni frammenti.
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personaggi come Blanqui, Nietzsche, Baudelaire e Poe. Contengono inoltre l’analisi di dettagli eterogenei e apparentemente marginali. Il collezionismo, il gioco, la merce, la moda, la prostituzione, l’urbanistica di Haussmann, l’art nouveau, diventano elementi utili per la comprensione delle dinamiche dell’ambiente di vita metropolitano e dello sviluppo capitalistico a lui contemporanei.
Il metodo. O l’occhio del medium di Giovanni Fiorentino
Opera monumentale, frammentaria, incompiuta, perseguita da Walter Benjamin con la tenacia di un collezionista tra il 1927 e il 1940, il Passagenwerk si presenta come una raccolta di appunti e citazioni, una sorta di cantiere aperto e mai chiuso, per offrirsi – ancora oggi – al completamento e all’integrazione del lettore. Parigi, capitale del XIX secolo, non è solo l’insieme delle ventidue note che gravitano intorno alla metafora centrale dei passages organizzate nell’exposé del 1935: la parte più consistente del progetto incompleto è rappresentata da oltre mille pagine di appunti e materiali raccolte nell’arco di tredici anni. Una lunga sequenza di frammenti giustapposti, un assemblaggio di materiali eterogenei, una sorta di macchina aperta e complessa per alcuni versi accostabile – anche per la stesura coeva – a Mnemosyne di Aby Warburg (Didi-Huberman 2002). L’accostamento surrealista, “il montaggio a scatti” di citazioni e pensieri costituisce in primo luogo un metodo, una tecnica di raccolta, la possibilità di organizzare ed esporre il materiale. La forma complessa, stratificata e plurivoca traduce un connubio stringente tra metodo d’indagine, composizione, ricezione desiderata e azione politica e deriva da un obiettivo programmatico: perseguire il “risveglio”. Benjamin esplicita così il senso del progetto nella sezione intitolata Elementi di teoria della conoscenza,
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teoria del progresso. L’intento è quello di dissodare il terreno con la ragione: “bonificare territori su cui è cresciuta finora solo la follia. Penetrarvi con l’ascia della ragione, e senza guardare né a destra né a sinistra, per non cadere preda dell’orrore che adesca dal fondo della foresta. È quanto occorre fare qui per il XIX secolo” [510-511]. Il tempo da cui partire è appunto l’Ottocento, il territorio è Parigi, archetipo e radici della modernità occidentale, nodo storico e sociale per lo sviluppo dell’immaginario mediale. Il progetto di Benjamin funziona indubbiamente e allo stesso tempo come incanto e demistificazione rispetto a una città che si presenta sotto forma di mercato, vetrina e fantasmagoria della merce, spazio in divenire, territorio che va sollevato alla coscienza. Il filosofo tedesco lavora attraverso lo sguardo quotidiano e in movimento dello straniero sulla città, sensibile alle esperienze mediate che attraversano la vita quotidiana. Il panorama urbano si accende intorno a una metafora centrale, il viaggio temporale si inaugura nello spazio dei varchi, della soglia, attraverso le architetture mobili dei Passages: non a caso spazio di transito, rifugio e nuova forma di spettacolo, oggetto storico significativo e luogo della costruzione del desiderio per l’immaginario collettivo, genealogia del mondo che si appresta a vivere lo spettacolo moderno. Intorno a tale metafora gravitano temi, immagini, personaggi – la moda, la casa, il sogno, il gioco, la rivoluzione, la pubblicità, la trasformazione urbana, le Esposizioni, le ferrovie, l’illuminazione a gas, i grandi magazzini, le strade, gli specchi, i panorami, la fotografia, Marx, Grandville, Baudelaire. Lo sterminato lavoro di raccolta, catalogo e bricolage si offre come una sorta di enciclopedia del XIX secolo, nello stesso tempo elabora un modello di “filosofia della storia” proiettato nel XX secolo, costruisce una genealogia dei media di massa, esplora la nascita dello spettatore urbano, orientato su una cultura dei consumi piuttosto che su quella della
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produzione, sedotto dall’immagine che basta a se stessa, dal “sex appeal dell’inorganico” che riduce l’esperienza allo sguardo ed è già logica aperta e produttiva del “display” piuttosto che dello schermo di massa (Burgess, Green 2009). Le domande, gli argomenti e il metodo di Benjamin, nel tempo della riproducibilità digitale, ci spingono a ricostruire la storia della cultura secondo una dimensione eminentemente visiva, rimandano a una letteratura specifica sui “simulacri” e sulla smaterializzazione dell’esperienza della tarda modernità, costituiscono un punto di riferimento preciso per la fondazione del campo di ricerca dei media e dei visual studies (Rollason 2002; Schwartz 2001). “È a lui – scrivono Abruzzese e Mancini – che si deve la possibilità di una teoria dei media tecnologici come sviluppo delle forme metropolitane, e dunque una prima sostanziale divaricazione tra pensiero sociologico (la città di Simmel e Weber) e pensiero mediologico (le piattaforme espressive individuate da McLuhan)” (2007: 149). Lo studioso osserva, vive e sperimenta la città di quegli anni, attraversata dai movimenti letterari, dalle Avanguardie Artistiche, riabitata e trasformata dai mezzi di comunicazione di massa, la radio e la stampa, la fotografia e il cinema. La navigazione del flâneur – di Benjamin – nella capitale del XIX secolo si espande e si modifica nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Forse meglio dire che si muove tra la Biblioteca, nel cuore dello stesso quartiere indagato, e la città stessa. Che sia un’eccezionale navigatore nell’universo della biblioteca è testimoniato dalla quantità di reperti letterari assolutamente eterogenei, in larga parte francesi o tedeschi, che raccoglie e monta. Parigi diventa una città senza confini dove viaggio, sogno, ricerca generano un cortocircuito spezzettato. Il “risveglio” è inteso come una sorta di “tecnica” che consenta di congedarsi dal passato a partire dalla dimensione inconscia del ricordo. Il montaggio di materiali eterogenei è programmaticamente orien-
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tato a tale fine. “Assumere il principio del montaggio” consente di “passare al contropelo la storia”, di ridiscutere le narrazioni predeterminate gerarchicamente e elaborare con gli stessi elementi una storia altra. Ad emergerne sono costellazioni nuove di senso, cose, immagini, frammenti tanto noti quanto dimenticati, in cui anche quelle note sono ricontestualizzate e risignificate. Il continuum della storia viene esploso e messo in discussione. Al suo interno vengono aperti varchi che politicamente parlano al presente. La parte – il dettaglio – può venire incontro all’osservatore, al lettore, che li scopre esattamente come segni della discontinuità dello spazio che corrisponde a una discontinuità del tempo. I frammenti sono oggetti ridotti in pezzi, ma tali pezzi attendono di essere risvegliati. Il momento del risveglio, della dialettica tra sonno e veglia, assume la forma del ricordo. Il lavoro testuale di Benjamin è costruito come un reticolo di segni e significati, la sua stessa espressione diventa polimorfa, mutante, progettualmente incompiuta dove l’esperienza vissuta rimanda alla citazione, e la citazione alle immagini, in una interazione costante e intermediale. Il progetto in fieri diventa il luogo dove sperimentare un linguaggio aperto, che già si potrebbe definire ipertestuale, come l’oggetto di studio stesso richiede: la metropoli in quanto piattaforma espressiva e comunicativa implica una reinvenzione del metodo. Di fronte a situazioni inaspettate, sorprendenti, l’esperienza incongrua e frammentata del cittadino metropolitano viene assunta da Benjamin, che mette in discussione la figura dell’artista e dell’intellettuale, smonta la razionalità lineare del testo per innestarlo con il materiale più diverso, integrando e accogliendo il lavoro di sperimentazione mediale delle Avanguardie storiche, in particolare di Surrealisti e Dadaisti. “Il padre del surrealismo – scrive non a caso – fu Dada, sua madre un passage” [87].
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Gli occhi di Benjamin sono parte dello sconvolgimento percettivo metropolitano della prima parte del Novecento, quando Fascismo e Nazismo segnano le sorti dell’Europa. Oscillano, in sintonia con Baudelaire, tra lo sguardo panoramico posato sullo spettacolo quotidiano di una folla indistinta e in movimento sulle strade metropolitane e lo sguardo ravvicinato della macchina che rivela punti di vista inediti, inquadrature e dettagli che oltrepassano la visione prospettica a favore delle possibilità che corrispondono a lunghezze focali e angoli di ripresa infiniti. Ai bordi, la litografia e il cinematografo. Tra loro diorami, panorami, stereografie e fotografie: dispositivi tecnologici e visuali destinati a modificare le strutture e le modalità dell’esperienza e della conoscenza. Tecnologie e dispositivi cognitivi ai quali Benjamin presta grande attenzione. Il suo sguardo difatti, assumendo quello del medium, scardina le regole della tradizione accademica, e la prospettiva naturalista viene spappolata dalla fotografia. Il suo flâneur adopera la protesi mediale, un occhio macchina dalla percezione pluridimensionale, dilatata, tattile, discontinua, allo stesso tempo consapevolezza umana e inconscio tecnologico, che offre saperi laterali e dimensioni che vanno oltre la superficie, recuperando alle cose la plasticità tridimensionale. È lo stesso scrittore a chiarire l’aspetto pedagogico di questo progetto: “Educare in noi il medium creatore di immagini allo sguardo stereoscopico e dimensionale nella profondità delle ombre della storia” [511]. L’inquadratura è fondata “sulla base di minuscoli elementi costruttivi, ritagliati con nettezza e precisione” [515]. Nel raccogliere, spostare ed esporre il frammento, Benjamin adopera uno sguardo fotografico proprio delle Avanguardie che impregna il destino del Novecento e l’essenza del presente, ancora più forte e intenso nella percezione del consumo ordinario dello sguardo, nella rimediazione del flusso delle reti (Bolter, Grusin
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1999). Il caleidoscopio provvisto di coscienza dell’uomo immerso nella folla si arresta. “La vera immagine del passato passa di sfuggita. Solo nell’immagine, che balena una volta per tutte nell’attimo della sua conoscibilità, si lascia fissare il passato” (Benjamin 1940: 77). L’esperienza del mondo diventa esperienza del tempo, il momento prevale sulla durata, il transitorio sulla stabilità, il colpo d’occhio fuggevole, apparentemente distratto, esprime una realtà mobile, dinamica, continuamente in trasformazione. Lo sguardo del flâneur baudelariano frantuma lo spettacolo della metropoli in frammenti, istanti soggettivi; l’occhio è usato alla maniera degli altri sensi, mobile e penetrante; la tecnologia fotografica – utilizzando le parole di McLuhan – diventa estensione della persona, produce in larga parte il distacco tra l’industrialismo puramente meccanico e l’era grafica dell’uomo elettronico (1964: 203206). I media della “riproducibilità tecnica” daranno una struttura e costruiranno un dispositivo per questo meccanismo neuro-antropologico che anticipa la produzione diffusa della “riproducibilità digitale”. La macchina rende visibili tutte quelle cose che l’occhio umano, lento e impreciso, non può afferrare. Benjamin raccoglie l’antinarratività della descrizione evitando la narrazione. Coglie la velocità, la fuggevolezza, il dettaglio, l’attimo, trasferendo la modernità del “pittore della vita moderna” nella tarda modernità di fine Novecento. “Crea, come la fotografia, immagini analogiche e non naturalistiche che richiedono la partecipazione attiva di un sapere laterale integrativo dell’immagine. Lo spazio si frantuma, da narrativo alfabetico sequenziale visivo, diventa topologico acustico tattile” (Valeriani 2004: 81-82). Se la macchina cine-fotografica è al centro della riflessione dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, nei Passages la stessa diventa già lente e diaframma per il ricercatore, protesi della carne, sguardo
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laterale sulla molteplicità della metropoli, apertura alla registrazione della differenza, consente di esplorare in maniera impensata l’universo reale, il mondo, traduce un nuovo modo di esperire, e ripensare, la realtà. Il nuovo modo di percepire la realtà deve diventare metodo e ricerca, shock esperienziale accostato non a caso all’opera d’arte d’avanguardia, “straordinaria operazione intermediale costantemente scandita dallo sdoppiamento riflessivo di un’immagine sottratta a ogni effetto di fascinazione auratica” (Montani 2007: 90-91). Attraversando il montaggio visivo e spaziale del tempo, il lettore immerso nella “costellazione” interminata e incontrollabile di Benjamin si perde nella qualità e nella densità del frammento e della scrittura, si immerge e ricostruisce immagini, sceglie e monta accostando e rimandando per associazioni, in un procedimento noto e particolarmente frequentato da Aby Warburg. In definitiva Parigi, capitale del XIX secolo risponde all’insoddisfazione di Benjamin per la forma libro, mette in crisi il concetto stesso di “opera”, i suoi requisiti di unità, linearità, autonomia. La critica al progresso lineare e l’immagine della costellazione, chiaramente presenti in diversi passaggi del progetto, sono sviluppate e sintetizzate nell’ultimo testo elaborato dal filosofo tedesco Tesi di filosofia della storia scritto nel 1940. La proposta è quella di un modello non “causale”, non gerarchico né sequenziale. Il “balzo della tigre” passa attraverso la natura dialettica del cinematografo – il montaggio. “Lo storicismo si accontenta di stabilire un nesso causale fra momenti diversi della storia. Ma nessun fatto, perché causa, è già perciò storico. Lo diventerà solo dopo, postumamente, in seguito a fatti che possono esserne divisi da millenni. Lo storico che muove da questa constatazione cessa di lasciarsi scorrere fra le dita la successione dei fatti come un rosario. Coglie la costellazione in cui la sua propria epoca è entrata con un’epoca anteriore affatto determinata. E fonda così un
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concetto del presente come del ‘tempo attuale’, in cui sono sparse schegge di quello messianico” (Benjamin 1940: 86). Il “frammento come regola” dirà Adorno, ma accostato ad altri frammenti. Benjamin esplicita in più passaggi il metodo, in particolare ritornandoci nella sezione dedicata alla teoria della conoscenza. Questo lavoro deve sviluppare al massimo grado l’arte di citare senza virgolette [512].
La sua teoria è intimamente connessa a quella del montaggio. Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare. Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa [...]. La prima tappa di questo cammino consisterà nell’adottare nella storia il principio del montaggio. Nell’erigere, insomma, le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi costruttivi, ritagliati con nettezza e precisione. Nello scoprire, anzi, nell’analisi del piccolo momento singolo il cristallo dell’accadere totale [514-515].
L’opera è organizzata secondo un principio relazionale, al punto tale che il libro stesso può essere percepito come una sorta di costellazione di costellazioni. Il frammento che appare nella pagina in una sequenza lineare genera il significato attraverso relazioni dialogiche e rimandi che attraversano l’intero testo, illuminando ogni altro in una totalità dinamica e complessa. Un frammento accende un altro frammento, un gruppo di frammenti accende e rimanda a un’altra sezione. Il cinema prende forma, attraverso il procedimento e la costruzione del montaggio, nello sviluppo dei Passages. È pensare visivo anche dirompente, è passaggio e attraversamento, distruzione dell’effetto auratico dell’opera, vivente delle più diverse ibridazioni intertestuali e
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ipermediali con la tecnologia, la scienza, la cronaca, le sollecitazioni e l’abitare nuovo dei sensi. Rappresenta la realizzazione dei “requisiti di esponibilità, discontinuità, ibridazione, sconfinamento” dei media (Montani 2007: 89). Siamo di fronte a “una serie aperta di immagini, potenzialmente interminabile e tale da poter essere interrotta in ogni punto dall’intervento di un utente interattivo – competente e tecnicamente attrezzato – per dar luogo a una ramificazione, anch’essa potenzialmente interminabile, di links” (Id.: 89-90). In una genealogia culturale ideale, il Passagenwerk composto tra la metropoli e la Biblioteca, catalogo enciclopedico, raccolta di frammenti che trovano ragione nella forma mosaico, evoca già le potenzialità del Memex, struttura immaginata da Vannevar Bush nel 1945, sorta di biblioteca di ipertesti funzionante secondo una “rete di tracce associative” dove gruppi di frammenti sono autosufficienti e non collegabili linearmente. D’altra parte il metodo compositivo della “costellazione” richiama il sistema a mosaico di glosse e citazioni interagenti tra loro elaborato da Marshall McLuhan per Galassia Gutenberg (1962) nel ragionare delle distanze tra l’uomo tipografico e la riconfigurazione del villaggio elettrico e globale. Fino ad anticipare il funzionamento dell’ipertesto analizzato da George P. Landow al principio degli anni Novanta: il testo pare frammentarsi, atomizzarsi in elementi costitutivi (in lessie o blocchi di testo) e queste unità di lettura assumono vita propria e diventano più autosufficienti, perché dipendono in misura minore da ciò che viene prima e dopo di esse in una successione lineare (Landow 1992: 64).
Il cuore dell’attenzione dipende dal lettore, la “costellazione” benjaminiana si svincola da una organizzazione gerarchica, moltiplicando i centri – o i nodi – e rendendo praticamente infinite, aperte, le possibilità di
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linkaggio, di connessione secondo un modello organizzativo che richiama internet e il network non solo in quanto modello comunicativo che adotta la logica di rete, ma anche in quanto base tecnologica delle forme organizzative realizzatesi nell’epoca dell’informazione (Castells 1996).
1947 Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo Nel 1933 il nazismo prende il potere in Germania e per il dichiaratamente marxista Istituto per la Ricerca Sociale, composto in maggioranza di intellettuali ebrei e meglio noto come Scuola di Francoforte, emigrare resta l’unica soluzione. Negli anni successivi il centro delle attività diventa New York, l’Istituto riceve l’ospitalità dalla Columbia University e, tra le altre cose, collabora attivamente con il gruppo di ricerca diretto da Paul Lazarsfeld, che avviava in quel periodo i primi studi sulla radio. I rapporti sono così stretti che Leo Löwental, un importante membro dell’Istituto, dirigerà la tesi di Elihu Katz; lo stesso che, pochi anni dopo, firmerà insieme a Lazarsfeld L’influenza personale nelle comunicazioni di massa. Nonostante tutto ciò, nonostante la stima reciproca e la lunga frequentazione, la posizione dei francofortesi sui media si colloca di fatto sul versante opposto alla communication research statunitense, accusata di studiare le comunicazioni di massa come un oggetto artificialmente separato dall’ambito sociale, culturale, economico e, più in generale, di osservarle al di fuori del processo storico che le determina. Per questa ragione, nonostante l’impegno nella ricerca empirica, la teoria critica privilegia un approccio speculativo di cui Dialettica dell’illuminismo è un magnifico esempio. Scritta a quattro mani da Max Horkheimer e Theodor Adorno durante la guerra, l’opera esce solo nel 1947, in tedesco e presso una casa editrice olandese. Passa praticamente inosservata fino agli anni ’60, quando in Germania si converte in un classico underground, e poi trova un successo tardivo negli anni della contestazione, ambiente di coltura ideale per il radicalismo delle teorie francofortesi. Nell’ambito degli studi sui media il libro è noto per ospitare un famoso capitolo dedicato all’industria culturale che, presentato spesso in forma ipersemplificata ed avulsa dal resto dell’opera, è presto diventato sinonimo di posizioni apocalittiche non suffragate dalla ricerca. Una lettura che, sebbene corretta da un certo punto di vista, ragiona però su un piano diverso a quello dei due francofortesi. Dialettica dell’illuminismo è parte di un trittico, completato da Eclisse della ragione di Horkheimer e Minima moralia di Adorno, dove si sviluppa una critica totale e radicale della società e del
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pensiero occidentale. Da un punto di vista teorico, uno degli elementi più importanti è rappresentato dalla sostituzione della lotta di classe con un nuovo motore della storia, ovvero il conflitto tra l’uomo e la natura. Si tratta di una prospettiva che estende i confini della critica del dominio e riconduce la genesi dell’Occidente alla violenza identitaria sull’altro da sé. A rileggerla oggi, un punto sorprende di questa critica spinta fino ai limiti del Moderno, ed è come, paradossalmente, essa conforti quelle teorizzazioni sul postumano che tanta influenza hanno avuto nelle più recenti riflessioni sui media.
Univocità vs poliedricità della cultura di massa di Gino Frezza
Può un libro di filosofia e sociologia ambire a rappresentare e commentare l’intero campo delle culture sociali di un’epoca e, in particolare, lo spirito e il sistema dei media, identificato nel “tutto” dell’industria culturale? Il tentativo compiuto da Horkheimer e Adorno in Dialettica dell’illuminismo (un’opera edita nel 1947 e oggi riletta con sguardo non pregiudizievole e, insieme, disincantato) persegue tale ambizione ma, occorre dirlo, lo fa con un atteggiamento che è il dato più “critico” del discorso. Lo vedremo nel corso del nostro esame del testo. La dialettica dell’illuminismo, per Horkheimer& Adorno, rivela i processi di costruzione del potere che la società industriale borghese diffonde e persegue in ogni ambito: costruzioni alle quali la scienza, la tecnologia e il sapere danno un contributo essenziale. È questo il loro concetto di illuminismo, ossia una ragione scientifica che mostra una doppia valenza: da un lato, porta a chiarificazione i meccanismi della verità e, dall’altro, diviene, dal primo Ottocento in poi, strumento asservito agli interessi delle classi dominanti. L’illuminismo manifesta questa interna, contrastata, dialettica; il concetto stesso di illuminismo (chiarito preliminarmente da Horkheimer&Adorno) rivela una
Max Horkheimer, Theodor W. Adorno
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tensione sempre aperta, se non irrisolta, fra elementi positivi (l’azione della ragione contro miti e visioni che distorcono l’approccio alla verità) ed elementi negativi (quando la ragione si trasforma in forza e strumento di dominio, di limitazione della libertà, specialmente quando pretende di regolare ogni possibile dimensione della vita umana). L’illuminismo come sapere della libertà dell’uomo contiene questo interno bilico, verificato nello sviluppo della società borghese, dell’era della tecnologia e dell’industria: esso si rovescia in una scienza “naturalizzata”, serva dell’illusione allestita da dati storici (presentati come fossero “oggettivi” e “naturali”) finalizzati all’instaurazione e al mantenimento del potere delle classi dominanti. Questa dialettica concerne l’industria culturale non meno che il rapporto fra mito e ragione (dove l’oggetto d’indagine scelto dagli autori è l’avventura “antica” di Odisseo), fra etica e illuminismo (dove l’oggetto d’indagine sono gli immediati riflessi sulla vita da parte delle strategie del dominio nella società borghese, per i quali i nostri due autori seguono prospettive filosofiche riguardanti specialmente Kant, Sade e Nietzsche), mentre per ultimi, nel volume, sono presentati vari frammenti sull’antisemitismo. L’investigazione di Horkheimer&Adorno che più ci interessa è il capitolo sull’industria culturale, ossia il sistema dei media considerato nell’unità delle sue varie dimensioni (tecnologica, politica, economica, stilistica…), unità dalla quale si derivano e si determinano – secondo gli autori – forme, contenuti, modalità ricettive e significati culturali dei prodotti mediali stessi (fra cinema, radiofonia, spettacolo, musica, narrativa ecc.). L’industria culturale è un oggetto scelto non a caso dai due autori francofortesi per “dimostrare” la dialettica dell’illuminismo; è all’interno dell’industria culturale e per la sua forte cogenza unitaria che si avvera un modello attuale dell’illuminismo. Dal quale, secondo
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gli autori, si potrà uscire e ci si potrà liberare solo attraverso una complessiva indagine “critica”, nella quale l’illuminismo dovrà in ultimo fare i conti con se stesso, con la propria dimensione ambigua e la sua doppia segnatura. È nota la posizione espressa da Horkheimer& Adorno sull’industria culturale. Per evitare le parzialità di indagini amministrative e le distorsioni di analisi settoriali, la prospettiva sistemica è l’unica a smascherare il progetto di dominio della società moderna borghese, a colpire l’illusione che i rapporti tessuti fra società e individui sembrano orientare verso la garanzia di libertà, quando invece impongono comportamenti, valori e modalità del pensiero che rendono tutti uguali a tutti, ovvero senza libertà. L’epoca della standardizzazione toglie margini all’autodeterminazione e alla soggettiva presa di identificazione nel mondo. L’industria culturale è il processo attraverso cui questo progetto – per i nostri autori – si dispiega su ogni piano: dalla valorizzazione di talenti che devono poi adeguarsi, sottostando alle logiche del sistema, alla trasformazione dell’opera d’arte in merce, dalla costruzione del significato dell’opera d’arte alla sua piena conformità ai meccanismi di livellamento del senso ricondotti alla potenza “formale” dei generi narrativi e spettacolari (che pongono in gioco rigide regole di funzionamento e di progettazione delle opere) e delle loro qualità “medie”. La pubblicità, infine, è il procedimento col quale l’industria culturale giunge, addirittura, a modificare, negativamente, il rapporto fra parole e cose (“l’ultimo vincolo fra l’esperienza sedimentata e la lingua”). Quali conseguenze teoriche derivano da una impostazione siffatta dell’indagine sui media dell’industria culturale? “Il sempre uguale regola anche il rapporto al passato. La novità dello stadio della cultura di massa rispetto a quello tardo-liberale è l’esclusione del nuovo”
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[145]. Dai due intellettuali tedeschi l’industria culturale è percepita come complessiva uniformizzazione delle espressioni artistiche; la massificazione implica e comporta una forte penalizzazione – se non una riduzione quasi a zero – dell’esperienza medesima dell’arte. La visione (oggi si direbbe “elitaria”) dell’arte di Horkheimer&Adorno considera questa non come sfera peculiare dell’agire individuale e sociale, ma come esito di una tensione ideale che s’incunea fra progetto e realizzazione dell’opera, concepita nello sforzo e nell’imprevedibile scarto che sui materiali espressivi determina il senso stesso del lavoro artistico. Il momento – nell’opera d’arte – per cui essa trascende la realtà, è, in effetti, inseparabile dallo stile: ma non consiste nell’armonia realizzata, nella problematica unità di forma e contenuto, interno ed esterno, individuo e società, ma nei tratti in cui affiora la discrepanza, nel necessario fallimento della tensione appassionata verso l’identità. Anziché esporsi a questo fallimento, in cui lo stile della grande opera d’arte si è negato da sempre, l’opera mediocre si è sempre tenuta alla somiglianza con altre, al surrogato dell’identità. L’industria culturale, infine, assolutizza l’imitazione [141].
Prospettiva quasi apodittica, quella di Horkheimer&Adorno, senz’altro condizionata da fattori storici di spiccata rilevanza emergenziale (questa “lettura” dell’industria culturale si produce nell’esperienza dell’esilio in America nello scorcio della seconda guerra mondiale, periodo nel quale modi e procedure della propaganda di guerra evidentemente danno uno stigma peculiare – anche se non generale – alle produzioni del cinema, della radio, dei fumetti e della musica). Una tale prospettiva vorrebbe restituire il segno di una caratura intenzionalmente “olistica” e sistemica della loro analisi, ma d’altro canto si muove nel parados-
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so di farsi sensibilmente orientare da una opzione che rende l’approccio fortemente spinto a una semplificazione pregiudiziale. Al punto che questa impatta, con una angolazione risolutamente parziale, la complessità appunto sistemica dell’industria culturale, e ne restituisce, contraddittoriamente, una valutazione riduttiva. Può essere utile ripercorrere dunque alcuni livelli di questa semplificazione: a) dal livello della storia e delle teorie dei sistemi produttivi mediali Horkheimer&Adorno concepiscono il sistema cinematografico nella catena deterministica che collega – come in un piano di esecuzione rigidamente forzato – le diverse fasi produttive dell’opera filmica, dalla scelta dell’adattamento di opere letterarie alla sceneggiatura e alla produzione delle immagini sul set, fino alla pubblicizzazione dei film nel circuito delle sale. Nel progetto produttivo è già concepito e risolto l’esito finale: al finish del consumatore non resta altro che chiudere il circuito comunicativo seguendo il diktat produttivo. Storie e teorie dei media che hanno indagato la rete complessa del sistema e dei modi di produzione filmica, hanno d’altro canto evidenziato come, dalla scrittura narrativa alla formazione tecnica delle immagini, dalla valenza semantica del montaggio alla selezione di pubblici non sempre indifferenziati, l’industria del film presenti livelli di generazione del senso e politiche orientative, pratiche e reti di circolazione del film costituenti gallerie variegate della merce culturale, in relazione con pubblici sia locali sia generalisti e meno differenziati. Provocando indubbi successi ma anche significativi fallimenti. Il sistema del cinema vive trionfi ma altresì scacchi, fallimenti altrettanto indicativi. Né è sistema monolitico o intransitivo. È lo sfondo, piuttosto, dei diversi “modi di produzione” (Aprà, Zagarrio 1982; Zagarrio, Ricci 1983; Bordwell, Thompson 1994;
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Brunetta 1999-2000) che, nell’esempio statunitense osservato dai due autori francofortesi, si nutre di apporti assai qualificati al loro interno: basti ricordare la vasta presenza di quadri e autori europei che, già prima degli anni trenta (quando nel Vecchio Mondo si affermano sistemi politici totalitari) emigrano negli USA e, giunti a Hollywood, contaminano tematiche, procedure creative, optano per gruppi produttivi, intervenendo con originalità creativa dentro il sistema tecno-industriale del cinema (AA.VV. 1981). I due autori francofortesi, inoltre, non hanno percezione dello scarto globale che interessa il sistema cinematografico mondiale, e tanto più quello americano, nel transito dal periodo “muto” a quello “sonoro”. Fase che vede “i modi di produzione” non solo cambiare dall’interno ma anche mutare per la spinta di fattori provenienti dall’esterno. Fra questi, alcuni riconducono all’apporto cruciale fornito ai film di genere da temi e ossessioni culturali di origine europea. Horkheimer&Adorno, insomma, non individuano la interna e articolata geografia produttiva del cinema, dove il film realizzato con grande investimento tecnoeconomico e pubblicitario convive e si integra con livelli produttivi minori, segnando intersezioni e gerarchie alterne fra le case attive nel sistema produttivo; ciò comporta, per esempio, modalità fortemente variabili nell’orientamento espressivo e nelle forme di consumo di cinema (basti ricordare le differenze fra case di produzione major e minor che attengono non solo a dimensioni economico-tecnologiche ma a politiche culturali legate – spesso ma non solo – alla preferenza/selezione verso “generi” non sempre uguali e non comparabili, oltre che a qualità socio-culturali dell’intrattenimento filmico che connotano i film di serie A rispetto ai Bmovie e ai serial degli anni trenta-quaranta – già prima dell’avvento della televisione). Dal punto di vista teorico riguardante la qualità complessiva dei “modi di produzione”, l’approccio dei due francofortesi
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sorvola su una serie di nodi e questioni che avrebbero fatto trasparire il divenire articolato, non del tutto coeso, sistematico ma non per questo rigidamente unitario (meglio dovrebbe dirsi: “complessivamente integrato”) dell’industria cinematografica, da essi presa a modello dell’intera industria culturale. b) per le relazioni fra culture produttive e forme del consumo culturale Il rilievo mosso circa i “modi di produzione” del cinema si collega ad un altro lato della questione interna all’industria culturale: i due francofortesi non hanno voluto (più che saputo) riconoscere qualità socio-culturali alle varie forme di consumo di cinema. Ossia le segnature e i valori di senso alla diversa antropologia dei consumi che – già negli anni trenta, e non solo negli USA – vede stratificarsi l’approccio di pubblici diversificati al cinema e agli altri media. Pubblici che – piuttosto che partecipare in esclusiva a fenomeni di omologazione – mostrano di vivere il consumo secondo specifiche forme di vita, sia in rapporto all’appartenenza sociale sia nel vivificarsi di creazioni di immaginario, costituendo soggettività che hanno potuto riconoscersi ed altresì interagire in maniera non univoca con gli habitat socio-produttivi e con gli ambienti e i costumi sociali. Per esempio, questo è lo sfondo in cui (esattamente negli anni durante i quali i due francofortesi scrivono il loro testo) la relazione fra modi produttivi e immaginario collettivo, secondo dinamiche non appiattite da progetti di egemonia o di eterodirezione delle culture del pubblico (Abruzzese 1973, 2006), vede emergere il caso lampante di un genere quasi indefinibile come il noir. Che, infatti, può essere inteso come un prodotto dell’intelligenza del pubblico americano che, a seguito della guerra e del realismo espanso con filmati e reportage
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giornalistici, voleva vedersi narrare il lato oscuro della propria coscienza nazionale senza mediazioni o contraffazioni, e lo voleva fino in fondo. Si pagò per questo un prezzo molto alto per ciò che aveva fatto emergere: un mondo duro, privo di illusioni, buio, deserto, in cui era facile morire e molto, molto difficile amare, un mondo animato dalle peggiori pulsioni. Da questo punto di vista I misteri di Shanghai (1941) di Joseph von Sternberg esibiva la filigrana profetica di cui è intessuto. Il sogno americano mostrava la sua anima maledetta. Per la prima volta in America, il pubblico diventava soggetto della comunicazione; attivando la propria sensibilità, affinata dalle esperienze del momento storico, il pubblico partecipava creativamente all’atto comunicativo. Mai come di quel periodo, si può parlare per il pubblico americano di intelligenza collettiva, o per dirla col Marx dei “Lineamenti”, di general intellect, ossia, della mente in quanto potenza esteriore collettiva capace, con il suo patrimonio affettivo e razionale, di agire su di un sistema informazionale (Denunzio 2001: 237-238).
Nella costruzione dell’immaginario filmico del noir è insita una possibile reattività socio-culturale che l’industria dei media coagula in forme espressive, in rapporto ai modi di vita dell’epoca del capitalismo industriale. Il noir è l’umore – o spirito – collettivo che l’industria del cinema statunitense fa proprio durante e all’indomani del secondo conflitto, gettando sguardi sagaci e consapevolmente tragici nei confronti della vita disposta in disuguaglianze di classe, sesso, lavoro. Si tratta di modalità che l’approccio critico-“illuministico” dei due francofortesi non percepisce e non distingue come significativi. Horkheimer&Adorno muovono la loro intera indagine supponendo che il prodotto dell’industria culturale si riduca a merce sempre uguale, e che la pubblicità sia una sorta di deus ex machina che domina il consumatore vanificando ogni sua capacità di
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resistenza: “tecnicamente, réclame e industria culturale si fondono insieme. Nell’una e nell’altra […] si tratta sempre di soggiogare il cliente, rappresentato come distratto o riluttante” [176]. La distanza analitica dei due francofortesi dall’oggetto di indagine, se intende proporsi in funzione “critica”, finisce quindi, nel complesso, per risultare pregiudizievole verso il pubblico dei media. Negando il formarsi di saperi sociali del pubblico, di scarti o iati disposti fra modi dell’omologazione e modi di individuazione singola del consumatore o di comunità che usano e vivono i media. Il giudizio negativo di Horkheimer&Adorno rivela, al fondo, la medesima pretesa totalitaria da essi ritenuta sottesa al sistema dei media. Interessati a decostruire con tono quasi parossistico il progetto di dominio veicolato dall’industria culturale, i nostri autori mancano di considerare come, e con quale fitta tessitura, s’instaurino saperi e culture di intenso spessore immaginativo nel rapporto quotidiano fra le diverse componenti del pubblico e le strategie di comunicazione. c) circa le incorporazioni del sensorio percettivo umano nelle piattaforme comunicative Il sistema dei media contempla una pluralità di tecnologie espressive che richiedono l’inscrizione delle facoltà e dei sensi del corpo umano nei diversi dispositivi: fotografia, cinema, radio, fumetti, utilizzano sostanze tecnico-materiali e realizzano piattaforme comunicative in cui volta a volta sono organizzate e selezionate le facoltà della vista, dell’udito, le posture del corpo e i saperi cognitivi correlati. Valorizzano inoltre strategie sinestesiche suppletive, con le quali ogni medium tenta di ricomporre una percettibilità asintoticamente integrale o completa del sensorio umano (McLuhan 1964; Abruzzese 2003; Abruzzese, Borrelli 2000). Ciò dispone da un lato competenze proprie a ciascun medium, e dall’altro limita l’orizzonte delle scelte espressi-
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ve praticabili (per esempio, al cinema del periodo muto non è consentito sviluppare un genere autenticamente sonoro come il musical). D’altro canto, i limiti interni alle tecnologie comunicative ne rappresentano, talvolta, la valenza artistica, ossia la capacità di dare valore ai segni che il medium prevede come proprio campo di inespressività (Arnheim 1932, 1934). Nell’indagine di Horkheimer&Adorno non è in alcun modo contemplata questa serie di differenze e di posizionamenti che i media dell’epoca classica hanno intelligentemente coltivato, con la conseguenza che sia i processi produttivi sia i modi di fruizione sono concepiti nell’integrale cancellarsi delle incorporazioni del sensorio percettivo nelle varie piattaforme espressive. d) per la trans-medialità e l’inter-medialità fra le piattaforme comunicative Sfugge ai due autori francofortesi l’intero processo di elaborazione e di traduzione che – già nell’era delle tecnologie audiovisive analogiche sonore – comporta l’uso di piattaforme comunicative differenti. Dal best seller letterario al film, dalle tavole dei fumetti al racconto sugli schermi, dalla canzone al melodramma audiovisivo, le piattaforme mediali comportano non solo adeguamenti e sottrazioni del senso, ma aggiunte, innovazioni, ricerca, sperimentazione. Horkheimer&Adorno non colgono il fitto insieme di scambi – traduzioni, riadattamenti, rielaborazioni, remake ecc. – che dai primi del Novecento si è svolto fra i media dell’immagine narrativa. In modo particolare, ad essi sfugge la relazione, stridente e stringente, fra radiodrammi e serial cinematografici e poi televisivi, nonché il rapporto quasi necessario (per la comunanza non univoca delle materie dell’immagine e del suono riprodotti secondo linguaggi similari ma dissimili) fra cinema e fumetti (Frezza 1995, 2008; Quaresima, Sangalli, Zecca 2009). Forme narrative inter-mediali, in cui l’essenziale è
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conferire dimensionalità in movimento alla percezione dello spazio e del tempo e al pensiero inedito che in tal modo si afferma (Deleuze 1983, 1985). Da questo punto di vista, proprio testi filmici e fumetti di valore medio o generico non a caso hanno colpito l’attenzione di storici dell’arte, di sociologi e filosofi che – a differenza dei nostri due autori – hanno sottolineato lo scarto generativo di stili e di sensi dovuti alla trasformazione mediale fra “originale”, copie e/o “adattamenti” (fra molti, oltre al classico Benjamin 1936, cfr. Kracauer 1963; Panofsky 1934-1947). O l’inedito mondo e modo di rappresentazione in tal maniera edificato, in grado di essere una parte cospicua dell’immaginario moderno oltre che collezione emblematica di una società in costante evoluzione. Si tratta di una vasta messe di esperienze culturali, che i media originano per tutta la prima metà del Novecento e oltre, sedimentando campi di sperimentazione dei linguaggi e ri-adeguamenti (spesso innescando spostamenti in avanti) delle innovazioni tecnologiche.
1950 Harold A. Innis, Impero e Comunicazioni Marshall McLuhan ha scritto che amava pensare la sua Galassia Gutenberg (1962) come una postilla alle osservazioni di Harold Innis in merito alle conseguenze psichiche e sociali dell’adozione della scrittura e della diffusione della stampa a caratteri mobili. E a dover ricostruire l’eredità intellettuale e culturale dell’impianto teorico elaborato in Impero e comunicazioni, almeno per quel che riguarda gli studi sulla comunicazione, è proprio McLuhan il più noto tra i non molti studiosi che hanno costruito le proprie riflessioni a partire dagli studi di Innis. Il suo sforzo per dar vita a una sistematizzazione teorica ambiziosa e capace di proporsi come chiave di lettura globale dei mutamenti economici e tecnologici sarà infatti ripreso e rivisto sistematicamente dal solo McLuhan (e in misura minore da Eric Havelock, Jay D. Bolter e altri studiosi della cosiddetta Scuola di Toronto), seppur in modo del tutto personale, e con un deciso ridimensionamento del peso attribuito a economia e potere e con una maggiore enfasi sulla cultura e sulle conseguenze psichiche e sociali dell’innovazione tecnologica. Dal suo collega presso l’Università di Toronto McLuhan deriva la convinzione della centralità della comunicazione come variabile decisiva per comprendere la crescita e lo sviluppo di società e istituzioni nella storia delle civiltà. In Impero e comunicazioni si afferma con forza, attraverso lo studio di un periodo che va dal V secolo avanti Cristo alla metà del XX secolo, che è la prevalenza di un medium o di un altro a determinare l’organizzazione delle civiltà, secondo un approccio che si presenta di fatto come una teoria totale. Determinare significa qui, e con rari pareri discordanti, determinismo, anche se differente da quello attribuito a McLuhan: Impero e comunicazioni suggerisce che le società, le civiltà e le forme di vita in comune si costruiscono a partire da questa o quella “tecnologia caratterizzante” (Bolter) che via via le contraddistingue e, insieme, dalla competizione tra media differenti e tra i gruppi sociali interessati alla loro adozione. La ricostruzione teorica di Innis è solo in parte cronologica, e si configura invece come genealogica, poiché nel definire modelli generali valutando trasversalmente cicli di ascesa, sviluppo e decadenza degli imperi sovrappone non di rado i diversi livelli temporali presi in esame. In sintesi, Impero e comunicazioni offre una interpretazione dello sviluppo della civiltà volto a mostrare le modalità attraverso le quali le tecnologie della comunicazione hanno dato forma alla storia dell’Occidente.
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Le vie dell’impero. Comunicazione e potere in Harold Innis di Andrea Miconi
1. La fortuna di un autore, si sa, non dipende soltanto dai suoi meriti, dal profilo cristallino della qualità scientifica, ma anche dai complessi percorsi della sua adozione, dalle contingenze e dagli accidenti dello spirito del tempo; dalle affinità che un testo scopre con i processi che si dispiegano intorno. Apocalittici e integrati, per fare un esempio, accarezzò d’incanto, e fin dal titolo, un nervo scoperto della critica culturale, così come Lo spirito del tempo, più o meno negli stessi anni. La società dello spettacolo, altro caso di un titolo che sopravvive alle proprie ragioni, non avrebbe potuto intonarsi meglio al respiro del suo tempo; e Understanding Media, ancora, trovò nell’esplosione pop della televisione il terreno ideale della sua diffusione, tanto che il prolungamento di McLuhan fece più di McLuhan. Accidenti, fattori non prevedibili, l’allineamento propizio di qualche pianeta: ragioni non scientifiche dell’affermazione di una teoria, che tratteggiano il fondo irregolare, e mai confessato, dell’attività di ricerca. E invece, tutto all’opposto, questa è la storia di un autore, e di un’opera, a cui certe prerogative sono mancate: Impero e comunicazioni, e del perché Harold Innis è divenuto il grande rimosso della teoria dei media. 2. Quando, nel 1950, vengono raccolte le lectures di Impero e Comunicazioni, Innis dà corpo ad un’idea magnifica ed improbabile: raccontare l’intera storia della civilizzazione occidentale in funzione dello sviluppo dei media, intesi, nel senso più ampio del termine, come mezzi materiali di trasporto di merci, informazioni e persone. Dalla civiltà egizia, segnata dal principio ordinatore del Nilo e dalla circolazione del papiro, al monopolio sacro della scrittura cuneiforme; dalla transizione
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tra cultura orale e alfabetica nella Grecia classica, al pieno dispiegamento dei poteri della scrittura nella forza imperiale di Roma; dalla compressione territoriale dell’età di mezzo, contratta nella logica pesante della pergamena, all’invasione della carta; e infine, allo scontro tra le piattaforme del libro e della radio, che rimette in questione gli equilibri apparentemente consolidati del moderno. Secondo Innis, in particolare, le civiltà si fondano sul controllo delle due dimensioni costitutive dello spazio e del tempo, e quindi sui media che agiscono su una o sull’altra di queste dimensioni. La storia è così determinata dall’alternanza e dal conflitto tra i mezzi pesanti, orientati al tempo, e quelli leggeri, orientati allo spazio, e dalle conseguenze che ne derivano sull’organizzazione della civiltà. I mezzi pesanti, come la pietra e la pergamena, sono difficilmente trasportabili ma di grande tenuta nel tempo, e favoriscono quindi la formazione di poteri concentrati su aree territoriali ristrette, ma destinati a durare a lungo e a trasmettersi tra le generazioni, come quelli ecclesiastici, ispirati al mistero delle scritture e alla qualità iniziatica della comunicazione. I mezzi leggeri, all’opposto, sono quelli deperibili, come il papiro e la carta, che però risultano facilmente trasportabili, e determinano quindi la costruzione di unità amministrative molto estese, come l’impero romano, costrette però ad indebolirsi sull’asse del tempo, e a perdere il controllo della continuità culturale. In questo senso, Innis applica alla teoria dei media un concetto precedentemente sviluppato nelle proprie ricerche di storia economica, quello di staple: le risorse primarie su cui si fonda lo sviluppo delle civiltà, come il legname e gli animali da pelliccia nel caso della storia canadese (ad esempio, Innis 1995). Dalle materie prime ai canali del loro sfruttamento – le via commerciali, la ferrovia, la circolazione fluviale – e di qui ai media: caso
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forse unico e straordinario, in cui la visione dei mezzi di comunicazione proviene da una lettura materialista del corso della storia, anziché da una riflessione più o meno metafisica sui contenuti dello spirito1. Ogni fase della storia è quindi caratterizzata dalla tensione tra le due dimensioni, e dallo scontro tra i media che le incarnano. Nel caso della civiltà egizia, i due poli della tensione sono determinati dalla propensione leggera del papiro, un mezzo a facile circolazione, e dalle forze contrapposte della pietra, che favorisce la concentrazione del potere nel sistema chiuso della monarchia assoluta, e della scrittura geroglifica, che lo spinge nelle mani delle classi sacerdotali. A Babilonia, la transizione decisiva è quella tra la pesantezza della scrittura cuneiforme su creta e la qualità della pergamena, su cui le città commerciali imprimeranno le ragioni della propria egemonia. In Grecia, il circolo del sapere fondato sull’armonia mitica dell’oralità viene spezzato dalla razionalizzazione operata dall’alfabeto fonetico, che getta le basi dell’organizzazione moderna delle civiltà. L’impero romano, poi, è un caso esemplare di conflitto tra istanze diverse: la forza orientata allo spazio del papiro e delle reti stradali, su cui Roma ha costruito la sua espansione globale sul territorio, e la dimensione-tempo della pergamena, con cui il cristianesimo ha logorato dall’interno la tenuta culturale del sistema. L’egemonia della pergamena, poi, ha dato luogo ai monopoli locali del sapere centrati sui monasteri, a loro volta contrastati, nel Medio Evo, dall’importazione della carta, con la sua adattabilità alle burocrazie su larga scala. La dilatazione dello spazio operata dalla carta e 1 Sull’analisi del materialismo “non marxiano” di Innis, si vedano Jahlly 1993, Stamps 1995, Groswiller 1996. Ad ogni modo, la fondazione di una teoria materialista della cultura è, io credo, un tema di cui sarà necessario occuparsi a lungo.
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dalla sua messa a regime produttivo attraverso il torchio da stampa, infine, si infrange su un mezzo orientato al tempo, come la radio, in una collisione che spiega le tensioni e le lacerazioni del XX secolo. Sei capitoli, sei grandi spazi geopolitici, cinquemila anni di storia, ed una sola costante: la centralità dei mezzi di comunicazione nelle trasformazioni e nelle stabilità del sistema, la loro capacità di fare e disfare gli equilibri delle civiltà. Da una parte i media-tempo, che resistono a lungo e fissano il potere oscuro e circoscritto dei monopoli del sapere; dall’altra i media-spazio, che facilitano la circolazione delle notizie, estendono i confini amministrativi fino ai limiti del praticabile, ma rendono vulnerabile il sistema sul piano della tenuta culturale. E naturalmente si tratta di casi puramente ideal-tipici: nella pratica, ogni momento è determinato dalla tensione tra mezzi leggeri e mezzi pesanti, tra la spinta all’allargamento del territorio e quella alla riduzione dei patrimoni culturali in nuclei più densi e ristretti. Questo, in sintesi, il disegno teorico di Impero e comunicazioni 2. 3. A fronte di un’opera vasta ed originale come Impero e comunicazioni, e della smisurata estensione storico-geografica su cui si dispiega, cogliere imprecisioni ed incongruenze sarebbe un esercizio tutto sommato semplice. Per questo, anziché entrare nel dettaglio di un’estenuante ricostruzione filologica, mi sembra più produttivo isolare due nodi concettuali che costituiscono, a tutt’oggi, i punti problematici del sistema teorico di Innis, e che si collocano in certo modo ai poli opposti della scala: la definizione delle proprietà specifiche dei 2 Per una spiegazione più dettagliata dell’opera, che qui è impossibile per ragioni di spazio, e per una bibliografia più completa, mi sia permesso di rimandare alla mia introduzione all’edizione italiana del libro (Miconi 2001).
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media, e il senso attribuito al movimento complessivo della storia. Secondo Innis, per iniziare, ogni mezzo di comunicazione è caratterizzato da una particolare inclinazione, definita come bias, che può propendere verso il tempo o verso lo spazio, a seconda che si tratti, rispettivamente, di media pesanti o leggeri. Il bias è, dunque, una caratteristica intrinseca del mezzo, che fa della teoria di Innis uno schema chiaramente determinista: una tendenziosità materiale che lo rende più idoneo ad un certo sfruttamento, e predisposto a creare precise conseguenze culturali. Nelle parole chiarissime di James Carey: ogni forma di comunicazione possiede un bias; per sua natura è più adatto alla riduzione del tempo o al controllo dello spazio […] Questo bias si rafforza in un monopolio quando alcuni gruppi entrano in controllo della forma di comunicazione e identificano con essa i propri interessi, religiosi o politici (Carey 1992: 167; traduz. di chi scrive).
Naturalmente, l’attribuzione di una caratteristica di pesantezza e leggerezza è piuttosto semplice finché si parla di mezzi di comunicazione di natura meccanica: la pergamena, per fare un esempio, è oggettivamente più pesante della carta, la pietra certamente meno trasportabile di altri supporti, e via dicendo. Con l’introduzione dell’elettronica, tuttavia, le cose si fanno più sfuggenti, tanto che ai mezzi moderni e contemporanei – e soprattutto con la separazione tra piattaforma tecnica e canale comunicativo, indotta dal digitale – risulta decisamente difficile riconoscere in modo così univoco una qualità materiale, e accade anzi, come osserva Roger Silverstone (1994: 163), che i media-tempo elettronici siano paradossalmente evanescenti, più che pesanti. E dunque, cosa resta oggi di una proprietà di per sé già impalpabile ed elusiva, quasi feticistica, come il bias dei
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mezzi di comunicazione? Per l’ennesima volta, insomma, quando ci si avvicina allo specifico dei media, le certezze si fanno improvvisamente più deboli, le immagini più sgranate e i concetti ultimi – il gradiente termico di McLuhan, il bias di Innis, le proprietà di fitness, la tecnologia caratterizzante di Bolter – sembrano rimandare ad un attributo vagamente mistico, inafferrabile, astratto. E come affrontare, allora, questo nodo centrale nella fondazione di un pensiero propriamente mediologico? Nel caso specifico, due sono le risposte possibili; e due, mi sembra, i possibili modi di attualizzare il sistema teorico di Innis. La prima via per recuperare la nozione di bias impone una sorta di ribaltamento del rapporto tra forma e funzione, e considera i media in base alle conseguenze prevedibili della loro azione, prima ancora che per effetto di una loro specificità difficilmente misurabile. “Ogni forma di comunicazione”, quindi, sarà “più adatta a controllare lo spazio, se riduce il tempo di emissione dell’informazione; o a controllare il tempo, se rafforza la memoria o la coscienza collettiva” (Corsini 1992: 27): una visione dunque del tutto pragmatica, in cui il ruolo decisivo è giocato dalla contrapposizione tra i due mezzi dominanti in un’epoca storica data, che dilatano una o l’altra delle due dimensioni. Ogni epoca, in questo senso, è lacerata dal conflitto tra la spinta verso l’estensione territoriale delle civiltà e la necessità di costruire una continuità culturale: e quindi, oggi, dall’estensione dello spazio promossa dalla rete internet3, da un lato, e dalle sacche di resistenza orientate al tempo, e alimentate dai media nazionali di matrice generalista, dall’altro. Un’ipotesi alternativa, che qui si può soltanto accennare in sintesi, è offerta dal lavoro di Thomas Hu3 Un’analisi di internet come medium orientato allo spazio, nel senso di Harold Innis, è ad esempio in Menzies 1999.
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gill, che ricodifica la tipologia di Innis distinguendo tra sistemi di comunicazione ad alti costi e a bassi costi, che corrispondono rispettivamente ai media pesanti e leggeri dello schema originale. Traducendo in termini di impatto economico la questione cruciale dell’accesso ai mezzi di comunicazione, che Innis vincolava alla composizione materiale del mezzo, Hugill ottiene così una visione più elastica e aperta ai tempi del moderno, per cui i sistemi ad alto costo “tendono a produrre sistemi sociali e di governo gerarchizzati”, inevitabilmente “gestiti da monopoli privati o da aziende statali”, mentre i sistemi a basso costo possono essere usati “da chiunque” abbia “un minimo di formazione tecnica”, e conducono quindi ad una diversa articolazione di rete, meno concentrata e più estesa sul territorio (Hugill 1999: 343). Anche in questo caso, si tratta di un’ipotesi di lavoro tanto produttiva quanto per molti versi infedele, e poco rispettosa del testo originale a cui fa riferimento: ma questo è d’altronde il destino degli autori classici, e non è detto che Innis debba fare eccezione. Una brevissima considerazione, poi, sul secondo problema che abbiamo ereditato dal sistema teorico di Innis: la ricostruzione dei cicli della storia. Se, ad un primo livello, Impero e comunicazioni costituisce uno straordinario e poco seguito esempio di apertura alla lunga durata – a cui la mediologia resta tuttora gravemente impermeabile – è anche vero che la sua organizzazione andrebbe valutata in base ad una più matura riflessione di metodologia storiografica. L’alternanza tra le diverse fasi, infatti, sembra a volte alludere in Innis ad una sorta di visione saltazionista, ad una successione di blocchi ordinati, che nasconde il fitto intreccio di sovrapposizioni e di impurità, di compresenze e di tagli in orizzontale, di battiti al rallentatore e di bizzarri ritorni al passato, di cui la storia si costituisce davvero. Mostra insomma il profilo di una storia ordinata per
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dominanti chiare, organizzata in forma di ideal-tipi, che non a caso avrebbe trovato il suo seguito, ed insieme una semplificazione quasi inevitabile, nei grandi cicli di Marshall McLuhan – età tribale, età alfabetico-tipografica, galassia “riconfigurata” dell’elettricità – destinati ad informare poi tutta la teoria di stampo mediologico. Va da sé che qui lo spazio non è sufficiente ad approfondire un problema di tale portata: ma ignorarlo, questo non è davvero possibile. 4. A voler aggiungere una valutazione di sintesi, ci sono tre ordini di ragioni per cui Impero e comunicazioni non ha avuto, nella cultura accademica degli ultimi decenni, la fortuna che avrebbe meritato; ed è interessante accennarli sommariamente, credo, perché proprio il rovescio di queste ragioni può giustificare, oggi, un suo recupero critico. In primo luogo, Innis attribuisce ai mezzi di comunicazione, come detto, una qualità di staple o di risorsa primaria, un ruolo vitale nel funzionamento della struttura sociale, mostrando per primo, in sintesi, che “non esiste valore o merce senza comunicazione” (Sanfilippo, Matera 1995: 19-20): e di certo una nozione del genere non può stupire oggi, quando – dalle mille riflessioni sulla società della conoscenza all’economia “informazionale” di Castells o di Benkler – la centralità dell’informazione appare come un valore sostanzialmente acquisito. Nel 1950, quando gli investimenti di pensiero sulla comunicazione erano semmai proiettati sui destini a venire della cibernetica, tutto questo era probabilmente meno scontato; e per quanto possa sembrare strano, capita anche ad un autore di essere troppo in avanti rispetto alle convinzioni del proprio tempo. In secondo luogo, l’insistenza di Innis sulle reti di comunicazione, sui frame, sugli effetti delle infrastrutture e delle tecnologie, dovette suonare in modo stridente
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in un periodo in cui la ricerca sui media era centrata soprattutto sull’analisi dei contenuti (di qui, com’è noto, il celebre aforisma con cui McLuhan apre Gli strumenti del comunicare). In effetti, una volta assorbito il trauma delle innovazioni sprigionate dai due grandi momenti di accelerazione del progresso – la fine del XIX secolo e gli anni Venti e Trenta del Novecento – la componente tecnologica dovette sembrare a lungo addomesticata, tutto sommato pacificata e sotto controllo, tanto che le attenzioni dei ricercatori sono state attratte prevalentemente dai contenuti dei media, per tutto l’arco di tempo, dagli anni quaranta ai settanta, che ha codificato la sociologia della comunicazione come disciplina accademica. Poi, però, la nuova compressione del tardo Novecento ha rotto gli equilibri e riproposto rabbiosamente il ruolo della tecnica come fattore di mutamento, restituendo legittimità ai modelli teorici che si fondavano – perfino con furia determinista – sul suo potere e sulla sua forza di azione. Nel tempo delle reti digitali, per una curiosa giravolta delle cose, Innis può così apparire come un autore meno datato di quanto sembrasse, ad esempio, nell’età matura della televisione. Infine, il motivo principale che ha portato, io credo, a sottodimensionare il ruolo di Harold Innis nella teoria della comunicazione. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta del Novecento, com’è noto, gli stati nazionali hanno stretto in modo serrato le maglie del loro controllo, e i media non hanno vissuto una storia a sé: sono stati infatti gli anni dei sistemi radio-televisivi nazionali, della tarda egemonia dei giornali quotidiani, di un’industria culturale spesso arroccata – nella narrativa, nella musica popolare, nella Tv prima dell’era dei format – sulla consolazione dei successi locali. Anni in cui lo sguardo globale di Innis, e quella sua insistenza ossessiva su una forma organizzativa apparentemente arcaica e tagliata fuori dalla storia – l’impero – dove-
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vano sembrare come un bizzarro anacronismo, una curiosità da bibliofili, o una grossolana metafora. Poi, però, gli ultimi decenni hanno invertito bruscamente il movimento della storia, restituendo l’immagine di un mondo in cui le reti della comunicazione globale tornano a tessere la trama portante delle sovranità, come nei grandi sistemi-mondo descritti da Harold Innis e, naturalmente e più ancora, da Fernand Braudel. Nel mezzo, la breve parentesi dello Stato-nazione, un’eccezione tutta moderna e tutta europea, la cui elezione a sistema – un classico caso di distorsione e pregiudizio, di incomprensione delle civiltà, nel senso proprio di Innis – è la ragione principale della nostra incapacità di leggere i destini del mondo; e di certo, adesso che di impero e di reti globali si deve tornare a parlare, il senso di Impero e comunicazioni torna improvvisamente nitido e chiaro. Ora che l’impero, in fondo, non è soltanto il passato delle civiltà, ma anche, e in modo sempre più vistoso, il presente.
1955 Elihu Katz, Paul Felix Lazarsfeld, L’influenza personale nelle comunicazioni di massa Grande classico della communication research, Personal Influence (questo il titolo originale dell’opera) conclude una florida stagione di ricerca sociologica empirica e definisce teoricamente il paradigma degli “effetti limitati”. Al contrario dei primi studi e riflessioni sulle comunicazioni di massa, che immaginavano il ricevente come un bersaglio isolato esposto al messaggio dei media, sin dalla pubblicazione di The People Choice (Lazarsfeld, Berelson, Gaudet 1944) la nuova prospettiva sposta l’attenzione dalla manipolazione e persuasione del pubblico ad uno scenario complesso, dove i media sono una delle componenti di un ampio processo di influenza che percorre la società. Tanto è vero che il tema centrale di queste ricerche non sono le comunicazioni di massa, ma piuttosto i processi decisionali e la formazione di opinioni all’interno di determinate comunità locali. In questo senso, l’attenzione sui leader d’opinione e la fortunata idea del flusso di comunicazione a due livelli, per cui questi studi sono generalmente noti, sono il frutto di una operazione teorico-metodologica più ampia, di uno sguardo nuovo che introduce le reti personali nello studio del flusso della comunicazione mediale e, tra i suoi risultati, giunge a mettere in questione il valore stesso del concetto di massa nella communication research. Personal Influence, che esce nel 1955, ha come base uno studio di dieci anni prima sul flusso di comunicazione a due livelli, condotto da Paul Lazarsfeld ed altri ricercatori nella città di Decatur, in Illinois (tra questi c’era anche Charles Wright Mills, che si era però in seguito allontanato per i suoi sospetti sull’esercito, l’industria, le istituzioni e la sua posizione a favore degli “effetti forti” dei media). Per anni Lazarsfeld aveva cercato di pubblicare un libro con questa ricerca, che sarebbe restata inedita se un giovane Elihu Katz non avesse accettato di metterci mano. Katz riordinò il materiale e aggiunse alcuni capitoli sul flusso di comunicazione a due livelli nella moda, nel marketing, nella politica, nella decisione di andare al cinema. Soprattutto, convinse Lazarsfeld del fatto che, se volevano che il libro fosse comprensibile, era necessario occuparsi delle relazioni tra i piccoli gruppi e le comunicazioni di massa. Questa riflessione si convertì nella tesi di dottorato di Katz e, soprattutto, nella prima parte di Personal Influence, la cui novità risiedeva nel mettere in relazione due campi disciplinari tra cui il dialogo, fino ad allora, era stato assente.
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Strategie e tattiche dei leader d’opinione di Davide Bennato
La letteratura mediologica contemporanea ha una caratteristica ben precisa: quella di concentrare la propria attenzione sui fenomeni comunicativi intesi come contesto d’azione di dinamiche che potremmo definire antropologiche. Questa posizione ha sicuramente il merito di problematizzare in maniera non banale le tematiche che sono sollevate da una società fortemente mediatizzata come quella contemporanea, ma così facendo talvolta corre il rischio di decontestualizzare il fenomeno comunicativo da processi sociali più ampi. La bellezza del libro di Elihu Katz e Paul F. Lazarsfeld sta proprio in questo: considerare i mezzi di comunicazione di massa non come avulsi da un contesto sociale, ma come componenti fondamentali per comprendere dinamiche che – prima ancora che mediatiche – possono essere tranquillamente considerate come sociali e relazionali. Parafrasando von Clausewitz: l’uso dei mass media non è nient’altro che la continuazione dell’azione sociale con altri mezzi. 1. L’argomentazione: effetti dei media, gruppi sociali, reti interpersonali Il libro di Katz e Lazarsfeld si compone di due parti distinte nell’organizzazione, ma interconnesse nell’argomentazione. La prima si presenta come un’articolata rassegna della letteratura scientifica di riferimento che funge da contesto per la parte successiva. La seconda parte – infatti – è l’accurata descrizione della ricerca svolta presso la città di Decatur (Illinois), descrizione che coinvolge sia la componente metodologica, sia il ragionamento seguito per interpretare i risultati. È una interessantissima strategia retorica questa, perché
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rende il libro non solo un esempio di indagine sociologicamente attrezzata, ma anche uno strumento per illustrare il modo in cui l’immaginazione sociologica diventa teoria. Ma procediamo con ordine. Si diceva, una prima parte di rassegna della letteratura. Questa parte ha il ruolo di introdurre lo studioso alle problematiche connesse al tema della ricerca sui mass media e soprattutto al concetto scivolosissimo di effetto. Qui gli autori fanno notare che, se si mantenesse il concetto senza problematizzarlo, si rischierebbe un’impostazione deterministica dove da un lato ci sono i media e dall’altro le persone. Posizione questa che non solo è concettualmente erronea, ma empiricamente fuorviante. Infatti, l’idea degli autori è che, quando si parla di effetto, bisogna pensarlo come un termine multidimensionale che va scomposto e analizzato nelle sue componenti [5-7]. Un altro interessante contributo teorico viene dato nell’esplicitazione del legame sociale con i mass media. Se infatti dal punto di vista fenomenologico sembra pertinente interpretare il rapporto con i media broadcast come un legame da uno a molti, dal punto di vista sociologico ci sono delle variabili nascoste – che gli autori definiscono intervenienti – che devono essere esplicitate per comprendere la fruizione mediale come fatto sociale: l’esposizione ai media, le proprietà specifiche del medium, il contenuto della comunicazione, gli atteggiamenti e le predisposizioni individuali [6-10]. Per poter integrare la dimensione individuale della comunicazione con la dimensione sociale dei mass media, Katz e Lazarsfeld concentrano la propria attenzione sulle relazioni interpersonali che avvengono in uno specifico contesto sociale: il piccolo gruppo. Relazioni interpersonali [11-14, 27-30] e piccoli gruppi (famiglia, amici, colleghi, vicini: [17-23, 31-45, 46-58]) sono considerati come elementi necessari per poter declinare il concetto di comunicazione nel duplice modo relazio-
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nale e sociale, nonché analizzarne le reciproche implicazioni (ovvero come la comunicazione relazionale individuale si avvale della comunicazione sociale dei media e viceversa). A questo punto Katz e Lazarsfeld, per risolvere il problema micro-macro che potrebbe emergere da questa duplicità analitica, esprimono la propria opzione teorica verso il concetto di rete di comunicazione interpersonale [28]. Le reti interpersonali hanno due ruoli strategici: da un lato consentono la trasmissione di messaggi dai media al gruppo (funzione di relè: tipica degli opinion leader), dall’altra rafforzano l’influenza dei media se coincidono con le comunicazioni interpersonali (funzione rafforzativa) [59]. Una volta distinte queste dinamiche di diffusione, per gli autori diventa necessario identificare i modelli di trasmissione (la forma della rete sociale) ed i punti strategici (la funzione dei singoli nodi) [60]. Alla luce della letteratura, Katz e Lazarsfeld per descrivere i modelli di trasmissione riconoscono un ruolo determinante alle strutture di gruppo (qualità e quantità dei contatti fra i membri), alla cultura del gruppo (se democratico o autoritario) e alle situazioni di gruppo (contenuto degli scambi comunicativi) [61-71]. Mentre per quanto concerne i punti strategici di trasmissione, quelli cioè che facilitano (o inibiscono) gli scambi comunicativi, fanno evidentemente riferimento al tipo di leadership (nomina), al ruolo del leader nel gruppo (ubicazione) e ai meccanismi di esercizio dell’influenza (riconoscimento) [72-86], facendo attenzione a distinguere il ruolo del leader (colui che influenza le scelte degli altri) dal ruolo del gatekeeper (colui che controlla l’accesso ad un canale comunicativo), ruoli che non necessariamente sono ricoperti dallo stesso soggetto [89]. Questa dettagliata analisi delle reti interpersonali e del ruolo dei gruppi ha una ben precisa conseguenza metodologica:
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la ricerca sulle comunicazioni che mira allo studio degli effetti a breve scadenza dei mass media deve considerare sistematicamente la relazione di un individuo con gli altri. […] la ricerca sui mass media non può più limitarsi a campioni casuali di individui privi di connessione. Gli intervistati devono essere studiati nel contesto del gruppo o dei gruppi cui appartengono o che “hanno in mente” [99].
2. La ricerca: leader d’opinione, dinamiche dell’influenza sociale, flusso a due fasi La ricerca consiste in una serie di questionari somministrati ad un panel (giugno/agosto) di 800 donne della cittadina di Decatur con lo scopo di individuare i leader d’opinione (definiti anche come influenti o esperti) presenti nei gruppi informali [105-110]. Data l’importanza del contenuto per definire le strategie di influenza sociale, sono state indagate quattro sfere decisionali della vita quotidiana – beni di consumo domestico, moda, cinema, affari pubblici – cercando di risalire alla fonte dell’influenza – persona o medium – attraverso un questionario appositamente progettato (detto di follow-up) per seguire i collegamenti delle catene di influenza [115-125]. L’analisi si è concentrata sui leader d’opinione autodesignati, ovvero chi ha detto di essere interpellato per un parere su una (o più) delle sfere decisionali [181]. Di questi si sono analizzati tre fattori considerati cruciali per lo studio del flusso di influenza personale: la posizione nel ciclo della vita (se nubili o sposate con figli adolescenti), la posizione socioeconomica (status), il gregarismo (quantità di contatti con altre persone) [182-188]. Dopo una serrata analisi delle quattro sfere decisionali rispetto ai tre fattori cruciali, si sono ottenuti dei risultati interessanti [271-282] e un modello teorico di un certo rilievo [260-270]. Per quanto riguarda i risultati, emerge con una certa forza
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che non esiste un profilo “tipico” del leader d’opinione, ma a seconda delle sfere decisionali, c’è un mix particolare dei tre fattori [273, Tavola 59]. In particolare la posizione nel ciclo della vita è il fattore che più contribuisce a definire il leader d’opinione assieme al gregarismo, mentre – in maniera controintuitiva rispetto una prospettiva classicamente sociologica – lo status è la componente che meno interviene nel processo di costituzione di leadership. Ciò implica che il processo di influenza personale non si esercita solo da chi possiede uno status alto verso il basso (verticale), ma anche fra persone dotate dello stesso status (orizzontale) [273274]. La differenza in questa situazione viene giocata dall’interesse soggettivo: maggiore interesse verso un argomento (moda, cinema, ecc.) porta con sé maggiore presenza di leader. Ma l’interesse funziona solo in concomitanza con gli altri fattori. Detto altrimenti, la posizione sociale di una donna – ciclo vitale, status, gregarismo – interviene come dimensione che facilita l’attribuzione di leadership fermo restando un interesse forte verso uno specifico argomento. La conseguenza è che il flusso di influenza non è da chi è interessato verso chi non ha interesse verso l’argomento, bensì verso persone un po’ meno interessate [275-276]. Il leader d’opinione è a tutti gli effetti un primus inter pares. Osservazioni molto interessanti emergono anche dalla descrizione del modello teorico. Questa ricerca ha confermato l’ipotesi che era stata già tratteggiata in un altro studio (Lazarsfeld, Berelson, Gaudet 1944) ovvero “le idee passano spesso dalla radio e dalla stampa ai leaders d’opinione e quindi da questi ai settori meno attivi della popolazione” [260], secondo un modello che viene definito flusso di comunicazione a due fasi. Ciò che rende i leader d’opinione interessanti è il fatto che essi sono i soggetti maggiormente esposti ai media – libri, radio, cinema, giornali – sia in generale, sia con quelli più connessi al campo in cui esercitano la propria
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influenza [261-266]. Se confrontiamo il modo con cui i leader d’opinione usano la maggiore esposizione ai media e i contatti personali con gli altri nell’esercizio della leadership, vediamo che essi fanno riferimento ai contatti personali e usano i media solo come fonti supplementari in tutti i campi decisionali (beni domestici, cinema, affari pubblici). Unica eccezione sono i leader nel campo della moda che attribuiscono ai mass media un effetto maggiore rispetto ai contatti personali [266-270]. Riassumendo, i leader d’opinione sono definiti da una particolare composizione di fattori sociali che variano al variare dell’argomento analizzato, sono maggiormente esposti ai mass media in virtù del loro maggiore interessamento sui temi di cui sono leader ed esercitano la propria influenza mediante i propri contatti sociali. 3. Attualità dei temi: diffusionismo, l’influenza nei social media, passaparola online L’analisi della letteratura, la chiarezza nell’argomentazione, l’attenzione metodologica e l’importanza dei risultati non possono che rendere la ricerca di Katz e Lazarsfeld una delle ricerche più influenti sia della mediologia, sia delle scienze sociali tout court. La prima cosa che salta all’occhio del lettore è che il ruolo dei media non è ossessivamente presente, bensì è una componente della ricerca che deve dialogare con altre dimensioni sociali. Paradossalmente è proprio questo che rende la ricerca un gioiello di mediologia: i media entrano nel processo di influenza personale in maniera “naturale” in quanto parte integrante dell’ambiente sociale circostante. Questo atteggiamento verso i media è ciò che rende la ricerca un riferimento imprescindibile per la letteratura mediologica contem-
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poranea che studia i processi sociali che si svolgono nelle reti digitali, spazi questi che sollevano non pochi problemi agli studiosi per il loro essere contemporaneamente mass media e personal media (Morris e Ogan 1996). L’agenda della ricerca sui media digitali ha molto da imparare dall’impostazione di Katz e Lazarsfeld, sia per l’equilibrio tra teoria e ricerca empirica, sia perché gli studi sul coinvolgimento delle persone nei new media sono ancora agli albori (Livingstone 2006). La componente che rende esplicita l’importanza mediologica di Personal Influence è lo studio dell’opinion leader e dei processi di influenza sociale, concetti che fanno parte integrante del bagaglio dello studio delle reti interpersonali socio-tecniche. L’opinion leader è un concetto strategico della teoria della diffusione delle innovazioni (Rogers 1962) in quanto serve per spiegare le forme attraverso cui l’adozione di un’innovazione comincia a diffondersi all’interno di un sistema sociale, processo facilitato dalla rilevanza sociale di coloro che sono considerati leader d’opinione, i quali a loro volta sono le persone più esposte alle fonti del cambiamento (siano esse media o contatti personali). Secondo questo modello i leader d’opinione sono presenti nel gruppo dei primi utilizzatori (early adopters) dove giocano un ruolo cruciale nella diffusione dell’innovazione (Moore 1991), anche se è facile che siano presenti negli altri gruppi, ad esclusione dei ritardatari (laggards), il gruppo di coloro che sono socialmente isolati. In tempi recenti il termine opinion leader e influenzatore (influencer) sono stati considerati semanticamente sovrapponibili, proprio per sottolineare la componente del contatto sociale, considerata imprescindibile. Questo accostamento ha consentito di portare avanti non solo il discorso sui processi dell’influenza sociale, ma anche i tentativi di integrazione fra teorie come il flusso di comunicazione a due fasi e l’Agenda Setting (Brosius e Weimman
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1996), facilitando l’interpretazione di fenomeni di selezione e produzione di notizie osservati nel caso dei blog (Delwiche 2005). Oggi l’influenza sociale è un tema molto frequentato da studiosi di diversa estrazione teorica, proprio perché la relazione interpersonale e le dinamiche dell’influenza si sono avvantaggiate delle possibilità permesse dai social network (Facebook, Linkedin) e dai social media in generale (blog, wiki, microblog) (Boase et alii 2006). Il forte legame tra flusso di comunicazione a due fasi e diffusionismo ha portato alcuni autori a riflettere in maniera dettagliata su quale fosse il ruolo degli influenzatori in questi processi e si è visto che, pur avendo un ruolo importante, è necessario non sopravvalutare le loro possibilità (Watts e Dodds 2007, Watts 2007); posizioni caute che ricordano alcune delle risultanze di Katz e Lazarsfeld. Ad ogni modo è evidente il fatto che i social media abbiano un effetto moltiplicatore dell’influenza se considerata semplicemente come misura della connettività sociale (Leavitt et alii 2009), anche se le cose cambiano profondamente nel momento i cui si cercano evidenze empiriche del processo di influenza sociale (Cha et alii 2010). In pratica resta valida la distinzione fra opinion leader e gatekeeper, anche se rielaborata in un contesto diverso. L’interesse verso le conseguenze sociali dei contatti personali in Katz e Lazarsfeld hanno recentemente dato impulso ad un nuovo campo di ricerca, quello delle dinamiche del passaparola (word of mouth, word of mouse) che, integrandosi con gli strumenti della ricerca computazionale, sta dando un quadro piuttosto interessante dello scambio di informazioni online e delle dinamiche di costruzione della reputazione (Fong e Burton 2006, Lang 2006, Cha et alii 2010). Lo studio di Katz e Lazarsfeld ha un ruolo di primo piano all’interno della mediologia, in quanto è riuscito a elaborare un framework teorico e metodologico in grado
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di ispirare diverse linee di ricerca che stanno prendendo piede in contesti e attraverso approcci completamente diversi. Leader d’opinione, dinamiche dell’influenza, importanza dei contatti sociali, ruolo dei media: tutti questi elementi sono stati integrati da Personal Influence dentro un unico modello esplicativo in grado di produrre risultati indipendentemente da opzioni teoriche e metodologiche specifiche. Se c’è un’indicazione che la mediologia contemporanea può trarre da questo libro è la seguente: una argomentazione solida ed empiricamente fondata è in grado di produrre un modello il cui potere esplicativo va al di là dei singoli steccati scientifici. Se la mediologia vuole porsi come disciplina fondante non può non prendere in considerazione tale obiettivo ambizioso.
1957 Roland Barthes, Miti d’oggi Nell’anno accademico 1949/50 Roland Barthes è lettore di francese all’Università di Alessandria d’Egitto, dove conosce Algirdas Julien Greimas, che lo introduce agli studi di linguistica. Su insistenza dell’amico Barthes legge Saussure, e la combinazione della linguistica strutturale con la esigenza di critica sociale crea le basi per il progetto mitologico, prima, e quello semiologico poi. Secondo la periodizzazione che Roland Barthes fa della sua stessa opera, Miti d’oggi è un libro che appartiene alla prima fase della sua scrittura, che comprende anche Il grado zero della scrittura (1953) e i primi, numerosi, scritti sul teatro. Sempre a detta di Barthes, il genere di queste opere è la mitologia sociale, mentre l’intertesto è composto da Sartre, Marx e Bertolt Brecht, il cui teatro epico lavorava allo smascheramento dello stereotipo e del carattere significante della cultura. Le 53 mitologie della società piccolo-borghese, scritte tra il 1952 e il 1956, rappresentano una operazione di svelamento e denuncia del carattere ideologico della cultura di massa. L’idea è che, proprio perché estranea alle grandi scelte ideologiche, essa le sostenga nei dettagli significanti, affermando una serie di potenti stereotipi sociali; così, le intenzioni del mito verrebbero naturalizzate piuttosto che nascoste, ed un sistema di valori percepito come un sistema di fatti. Contro la Norma borghese, contro una semiosi sociale che tende a nascondere la propria ideologia ed i principi su cui si fonda, Barthes mette allora in campo una critica del dettaglio, intuendo che il passaggio dal reale all’ideologico nella cultura di massa avviene attraverso una serie di canali niente affatto neutri: “la stampa, il cinema, il teatro, la letteratura di largo uso [...], i cerimoniali [...], le conversazioni, il tempo che fa [...], la cucina dei nostri sogni, l’abito che si indossa, tutto, nella nostra vita quotidiana” [220]. Ma riportando queste considerazioni siamo già nell’ambito di ragionamento del saggio “Il mito, oggi”, che conclude la raccolta e fornisce una giustificazione teorica agli articoli precedenti. Qui l’accento passa da Brecht a Saussure e per Barthes inizia l’epoca semiologica, dove per semiologia, per quanto lo riguarda, va intesa la critica dei segni della cultura di massa. Nei dieci anni successivi essa sarà per Barthes lo strumento con cui svelare i meccanismi di occultamento dell’ideologia borghese, ovvero la doxa stereotipata veicolata dai mezzi di comunicazione di massa. E, parimenti, l’ambito di applicazione della semiologia barthesiana si riduce a questo universo culturale, a una società in cui il
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segno non può che essere “cattivo”, non può che rinviare a una ideologia ed un regime di costrizioni.
Esempi di semioclastia*
di Jorge Lozano
Nello stesso modo in cui i popoli antichi hanno vissuto la loro preistoria come immaginazione, nella mitologia, così noi tedeschi abbiamo vissuto la nostra preistoria come pensiero nella filosofia. Noi siamo contemporanei filosofici del presente, senza esserne suoi contemporanei storici. Karl Marx
Il mito, tradizionalmente, è stato definito come un racconto, ovvero un principio di intelligibilità, una macchina di produzione di senso. D’altra parte, è sempre stato visto come un dispositivo che include un sistema di credenze e che apparterrebbe al mondo del falso. Molti e ridicoli sono i miti antichi, diceva Ecateo di Mileto quando proponeva la nascita di una storiografia capace di raccontare la verità. Ed è proprio nella sfera della seduzione, dell’inganno e dell’artificio che risiede la necessità del mito. D’altra parte, c’è una dimensione antropologica del mito che lo vede strettamente relazionato con il rito, fatto per cui le pratiche rituali non sarebbero altro che attualizzazioni di un mito, ovvero di un sistema di credenze. Al contrario, quando i riti non si riferiscono a miti anteriori saremmo davanti, secondo Agostino, a un caso di pura cerimonia. Da Hubert e Mauss a Lévi-Strauss ci sono stati diversi tentativi di analizzare i riti al margine dei riti, tentativi che individuavano come principio regolatore di tali pratiche la loro efficacia; Lévi-Strauss parla al rispetto di una efficacia simbolica che non risponde a un principio di causalità, ma piuttosto alla relazione tra un significante ed un significato. È in tale prospettiva * Traduzione dallo spagnolo di Marcello Serra.
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che emerge la possibilità di pensare riti senza miti, come sono state descritte certe pratiche della post-modernità (Perniola 1981) dove il significato non deriva più dalle grandi narrazioni, ma emerge piuttosto dalla ripetizione rituale, dalla sua prosodia e dal suo ritmo. In questo modo si declina la visione di Hans Blumenberg per cui “il mito fondamentale non è ciò che esiste all’inizio ma ciò che resta alla fine, ciò che fu in grado di soddisfare le ricezioni e le aspettative” (1979: 219). È in questa direzione che si muove Miti d’oggi di Roland Barthes, libro impegnato a distruggere e dissipare quelle che chiama connotazioni culturali, sociali e ideologiche. Come un nuovo Ecateo, Barthes ci mostra che molti e ridicoli sono i miti che la borghesia ha introdotto nella lingua; prima ancora che semiologo Barthes è un semioclasta. Miti d’oggi è un libro composto da due parti autonome. La prima sezione, dal titolo omonimo a quello dell’opera, raccoglie una serie di 53 articoli, scritti mensilmente tra il 1952 e il 1956 “dietro il richiamo dell’attualità”, su alcuni miti della vita quotidiana francese. La seconda, che si presenta sotto il titolo di “Il mito, oggi”, è invece un tentativo di giustificare teoricamente le analisi precedenti e, per questa ragione, inizia con una secca definizione: “il mito è una parola” [191]. Perciò, aggiungiamo, è un linguaggio e, dunque, un medium. Un medium? Sì, perché nelle sue giustificazioni teoriche Barthes porta avanti una strana relazione con il pensiero di Saussure, anomala perché il suo ragionamento, pur nel massimo rispetto del sistema saussuriano, se ne allontana fino a rivelare una inaspettata affinità con le tesi di Marshall McLuhan, così come rivela la seguente affermazione: “Qual è la caratteristica del mito? Trasformare un senso in forma” [212]. Inoltre, invece di lavorare sul piano del segno, Barthes analizza unità significanti decisamente più ampie, che corrispondono a “ogni unità o sintesi significativa, verbale o visiva che
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sia” [193]; una definizione che serve tanto per un oggetto comune quanto per un medium. Nella sua analisi il mito si trova declinato in ogni forma della cultura di massa, tanto che, mcluhanianamente, si potrebbe dire che, se il contenuto del medium è un altro medium, nella visione di Barthes il contenuto dei mezzi di comunicazione di massa è il mito. Il mito o, come scrive lui, la parola mitica. Il fatto è che Barthes considera la semiologia come la scienza delle forme che studia le significazioni indipendentemente dal loro contenuto; pertanto, se in questa disciplina trova spazio lo studio della parola mitica, quest’ultima dovrà essere prima di tutto una forma ed i suoi limiti saranno formali. Di Barthes si è sempre detto che dove la gente normale vede cose lui vede segni, forme che gli parlano attraverso il “brusio del linguaggio”; è da questo ascolto del mondo, teso a percepirne le forme, che deriva l’idea che ogni oggetto possa passare da una esistenza chiusa, muta, ad uno stadio orale, aperto. Siamo in un caso che lui chiamerebbe translinguistica e che, utilizzando un altro lessico, si avvicina all’idea della possibilità dell’inclusione in una semiosfera di un oggetto qualsiasi, oggetto che, per via di questa operazione, si trova ad essere semiotizzato (Lotman). Tra le altre cose, l’oggetto viene definito dalla sua funzione, ovvero dal suo uso ed è, pertanto, il segno del suo uso: ogni oggetto è segno e non può non essere semiotizzato. Dal momento che è forma e significazione, qualsiasi oggetto – un tempo muto, irrilevante, banale e quotidiano – può formar parte di un mondo mitologico e, dunque, non insignificante1. Al proposito, Barthes scrive in una nota: 1
Un fenomeno analogo si osserva nel campo dell’arte, dove si afferma che qualsiasi oggetto può essere oggetto d’arte (idea che, come già notava Jean Baudrillard, sanziona la crisi
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Quanti campi veramente insignificanti attraversiamo in una giornata? Molto pochi, talvolta nessuno. Per es., mi trovo davanti al mare: certo non vi è in esso alcun messaggio. Ma sulla spiaggia, quale materiale semiologico! Bandiere, slogans, insegne, vestiti, persino un’abbronzatura, che per me sono tanti messaggi [194].
Sostiene Barthes che il mito è un sistema semiologico secondo, in chiara coincidenza con la proposta della scuola semiotica di Tartu che distingue tra un sistema di modellizzazione primario, rappresentato dal linguaggio, e vari altri sistemi di modellizzazione secondari, che derivano dal primo e tra cui si trova, appunto, il mito. “La significazione è il mito stesso”, scrive, “esattamente come il segno saussurriano è la parola (o più esattamente l’entità concreta)” [203] e ancora, sempre a proposito di significazione, dice: “la parola è qui tanto più giustificata in quanto il mito ha effettivamente una doppia funzione: designa e notifica, fa capire e impone” [199]. E se quest’ultima affermazione potrebbe far pensare che la significazione mitica sia arbitraria, Barthes sottolinea che invece “non è mai arbitraria, è sempre in parte motivata, contiene fatalmente una parte di analogia” [207], espressione che si comprende meglio nel momento in cui afferma che “il mito non nasconde niente e non dichiara niente: il mito deforma; non è una menzogna né una confessione: è un’inflessione” [210]. Infine, Barthes ci dice che il mito è un valore e che, in quanto tale, non appartiene al mondo della verità ma, secondo una terminologia aristotelica, a quello del verosimile, alla poesia piuttosto che alla storia. Così, seguendo Greimas (1983), il vero sarebbe di questa istituzione) e anche nella prospettiva di una “società degli oggetti”, dove si arriva a parlare di interoggettività (Landowski, Marrone 2002).
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sottomesso alle regole di veridizione, dove la verità può essere sostituita dall’efficacia. Quest’ultima sarebbe allora il valore del mito. Abbandoniamo adesso le giustificazioni a posteriori che costituiscono la seconda parte del libro e concentriamoci sugli articoli originalmente pubblicati su Lettres nouvelles2. Il primo testo di questa palinodia, dedicato al mondo del catch, è presentato, in exergo, da questa citazione di Baudelaire: “… la vérité emphatique du geste dans les grandes circonstances de la vie”. Qui Barthes sostiene drasticamente che il catch non è uno sport ma uno spettacolo. Al di là della sua ovvietà, questa osservazione suppone una operazione nient’affatto banale, ovvero la traduzione da un mondo semiotico ad un altro, ciascuno dei quali dotato di proprie regole specifiche. Tale prospettiva, va notato, si spinge oltre l’applicazione di un modello interpretativo come, ad esempio, quello di codifica/decodifica di Stuart Hall (1973), modello tanto usato nell’ambito degli studi culturali e che permette di dire che il catch è uno sport per gli emittenti ma uno spettacolo per i destinatari, a parte quelli incapaci di decodificare correttamente i codici del testo. Inoltre, la posizione di Barthes risulta più proficua anche di quella rappresentata dalla frame analysis, sintetizzata mirabilmente dall’esempio di Goffman per cui il golf è un gioco per chi gioca ed un lavoro per il caddy. Diversamente da queste due proposte, il semiologo suggerisce che per lo spettatore non è importante ciò che crede, ma ciò che vede, una operazione di modalizzazione che fa sì, ancora una volta, che il verosimile 2
A voler essere precisi, il testo sul catch, che inaugura la raccolta, uscì nell’ottobre del 1952 su Esprit. Un po’ sporadicamente seguirono pochi altri, fino alla regolare pubblicazione, su Lettres Nouvelles, della rubrica mensile “Petites mythologies du mois”, dal novembre 1954 al maggio 1956.
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sia superiore al veritiero, condizione che si ritrova nell’esempio dello strip-tease, dove si desessualizza la donna nel momento stesso in cui la si spoglia e dove, inoltre, “solo la durata del denudamento pone il pubblico come voyeur” [142], una affermazione che sgancia il voyeurismo dalla dimensione del contenuto, il nudo, per legarla a quella di un elemento chiave nei processi di traduzione: il ritmo. Inoltre, il metodo “traduttivo” barthesiano si manifesta anche nell’idea di declinare lo strip-tease in tre differenti forme: lo strip-tease come sport (“c’è uno Strip-tease Club che organizza sane competizioni le cui laureate escono coronate, ricompensate da premi edificanti”), come carriera (“esordienti, professioniste, semiprofessioniste”) e, infine, come vocazione. Nelle sue analisi Barthes si occupa continuamente dei contenuti dei media contemporanei (pubblicità, fotografia, cinema, teatro...) imbastendo le sue analisi a partire dalla dimensione del segno, intendendo quest’ultimo nel senso jakobsoniano di “relation de renvoi”. In questo modo, l’automobile diventa l’equivalente delle grandi cattedrali gotiche e la plastica, che ha per Barthes dei nomi tipici di pastori greci (Poliestireno, Fenoplasto, Polivinilo, Polietileno), si rivela come una sostanza alchemica, che incarna l’idea stessa della trasformazione infinita: “è, come indica il suo nome volgare, l’ubiquità resa visibile” [169]. Analogamente, il volto di Greta Garbo è un volto-oggetto, per cui “nella Regina Cristina […] il cerone ha lo spessore nervoso di una maschera; non è un viso dipinto, è un viso intonacato, difeso dalla superficie del colore e non dalle sue linee” [62]; questo volto, “non disegnato ma scolpito” (id.), viene così inserito in una catena di rinvii che lo trasformano, o meglio lo traducono miticamente, in una maschera. Questa operazione di rinvio segnico ha il suo acme nell’articolo “I Romani al cinema”, dove Barthes fa riferimento al Giulio Cesare di Mankiewcz per notare come tutti i personaggi abbiano la frangia sulla fronte:
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“chi arricciata, chi filiforme, o folta, o impomatata, tutti comunque ben pettinata, e non sono ammessi i calvi, per quanto la Storia romana ne abbia fornito un buon numero” [18]. È grazie alla frangia, cioè al segno, che sappiamo di essere a Roma: gli attori parlano, agiscono, si torturano, dibattono questioni ‘universali’, senza perdere niente, grazie a questa piccola bandiera distesa sulla fronte, della loro verosimiglianza storica: la loro generalità può anche gonfiarsi con la massima sicurezza, attraversare l’Oceano e i secoli, raggiungere la faccia yankee delle comparse di Hollywood, poco importa, tutti sono rassicurati, adagiati nella calma certezza di un universo senza duplicità, in cui i Romani sono romani mediante il più leggibile dei segni, il capello sulla fronte [18].
Da buon strutturalista, Barthes utilizza le armi dell’opposizione e della differenza e, per definire i detergenti, li oppone alla varechina: mentre quest’ultima, specie di fuoco liquido, brucia la materia e distrugge la sporcizia, i detergenti sono elementi separatori; la loro funzione ideale è quella di liberare l’oggetto dalla sua imperfezione contingente: si “espelle” lo sporco, non lo si uccide più; nell’iconografia Omo, lo sporco è un minuscolo nemico gracile e nero che scappa a gambe levate dalla bella biancheria pura alla sola minaccia del giudizio di Omo [28].
L’insistente capacità di rinvio del segno e lo sguardo traduttivo barthesiano già visti all’opera nell’analisi del catch trovano una manifestazione chiarissima anche nell’articolo “Parigi non è stata inondata” dove scrive: “la inondazione del gennaio 1955 ha avuto della Festa più che della catastrofe” [54]. Qui l’operazione mitica rende possibile il passaggio dalla dimensione disforica
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della tragedia a quella euforica della festa e permette di convertire e tradurre qualsiasi informazione catastrofica in uno spettacolo festivo. Per questa ragione Barthes osserva la facilità con cui la stampa presenta un evento che “ha potuto sviluppare molto facilmente una dinamica della solidarietà” [56], dove tutti i cittadini si impegnarono nella costruzione di “dighe, colmate, evacuazioni” (id.), mettendo in scena gli elementi di un immaginario che Barthes colloca nel mito del ’48: “i parigini hanno alzato delle “barricate”, hanno difeso la loro città con l’aiuto delle selci contro il fiume nemico” (id.). Seguendo tale isotopia Barthes mostra l’immagine di “una mobilitazione armata, il concorso delle truppe, i canotti pneumatici a motore, il salvataggio ‘dei bambini, dei vecchi e dei malati’, il rientro biblico delle greggi, tutto questo fervore di Noè che riempie l’Arca. Perché l’Arca è un mito felice...” [56]. Oltre a Giulio Cesare e Regina Cristina Barthes parla anche di Fronte del porto di Elia Kazan, che definisce “un buon esempio di mistificazione”. L’articolo si intitola “Un operaio simpatico” e rivela in modo cristallino l’influenza che su Barthes ha avuto Brecht, di cui disse, dopo aver assistito nel 1954 a una rappresentazione di Madre Coraggio e i suoi figli, che “è un marxista che ha riflettuto sugli effetti del segno”. Così, rispetto all’acritica simpatia che il film induce a provare nei confronti di Marlon Brando, senza neanche poter “prendere coscienza della sua idiozia”, Barthes offre come alternativa il metodo del distanziamento di Brecht: “Brecht avrebbe chiesto a Brando di dimostrare la sua ingenuità, di farci capire che, nonostante tutta la simpatia che possiamo avere per le sue avventure, ancora più importante è vederne le cause e i rimedi” [62]. Tra l’altro, l’influenza del drammaturgo tedesco emerge anche in altri luoghi del testo, come ad esempio nell’articolo sulle “Fotografie-choc”, dove afferma che “non basta al fotografo significarci l’orrore per farcelo
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provare” [102]; di fronte ad una fotografia scioccante ci troviamo come sprovvisti di giudizio, dal momento che “la fotografia letterale introduce allo scandalo dell’orrore, non all’orrore in sé” [104]. In sintesi e in conclusione, possiamo dire che in questo libro Barthes è ossessionato da due concetti che nel suo ragionamento, e anche altrove nella sua opera, si ritrovano strettamente vincolati: la connotazione (che come già altri hanno sottolineato, confonde con il metalinguaggio) e la doxa. Barthes sostiene di avere una malattia, quella di vedere il linguaggio. Nonostante segua Hjelmslev e definisca la connotazione come un linguaggio il cui piano dell’espressione contiene, a sua volta, un piano dell’espressione ed un piano del contenuto (a differenza del metalinguaggio, che è un linguaggio il cui contenuto è dato da un piano dell’espressione ed uno del contenuto), nel suo ragionamento la connotazione si oppone più che altro alla denotazione, esattamente come il metalinguaggio contrasta con il linguaggio. Ed è proprio la connotazione il luogo della mistificazione, il luogo in cui si costruisce il mito, mito che poi diventa doxa. In Barthes di Roland Barthes il semiologo afferma che la doxa è “l’Opinione pubblica, lo Spirito maggioritario, il Consenso piccolo-borghese, la Voce del Naturale, la Violenza del Pregiudizio” (Barthes 1975: 56) e, poi, aggiunge che essa non è nient’altro che “un oggetto cattivo perché è una ripetizione morta, che non viene dal corpo di nessuno – solo forse, appunto, da quello dei Morti” (Id.: 83). Infine, scrive che la doxa “è Medusa: pietrifica quelli che la guardano. Questo vuol dire che è evidente” (Id.: 139). Da parte sua, stupefatto dalla popolarità mitica del linguaggio, Barthes si colloca dietro la porta della doxa, nel territorio del paradosso da cui lavora allo svelamento del mito e della stereotipia generalizzata. Da qui si dedica alla semioclastia: alla semiologia.
1957 Martin Heidegger, La questione della tecnica Nato da una conferenza organizzata dalla Accademia di Belle Arti bavarese per un ciclo dal titolo Le arti nella tecnica e tenuta il 18 novembre del 1953 presso l’Auditorium Maximum della Technische Hochschule di Monaco di Baviera, La questione della tecnica è tra i testi più noti e influenti di Martin Heidegger, in cui il filosofo approfondisce uno dei temi a lui cari. Muovendo dalla rappresentazione comune della tecnica per cui essa sarebbe un mezzo e un’attività dell’uomo, Heidegger la descrive come “definizione strumentale e antropologica”, suggerendo che tale rappresentazione condiziona ogni sforzo di condurre l’uomo nel giusto rapporto con la tecnica. Il filosofo chiama in causa la volontà di dominio dell’uomo sulla tecnica, che si fa tanto più urgente quanto più essa minaccia di sfuggire al suo controllo, affermando che la definizione strumentale della tecnica, per quanto esatta da un punto di vista meramente funzionale, non mostra però la sua essenza. Nel chiedersi allora che cosa sia “la strumentalità in se stessa”, Heidegger afferma che “l’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico”, ricordando – ben prima di Apocalittici e integrati (Eco 1964) ma anche di Understanding media (McLuhan 1964) e di quel “nessun mezzo è soltanto un mezzo” contenuto nel primo volume de L’uomo è antiquato (Anders 1956) – come in quanto uomini restiamo sempre prigionieri della tecnica e incatenati a essa, “sia che la accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza”. Siamo ancora più gravemente in suo potere, si legge in La questione della tecnica, quando la consideriamo qualcosa di neutrale: “infatti questa rappresentazione, che oggi si tende ad accettare con particolare favore, ci rende completamente ciechi di fronte all’essenza della tecnica” [5]. L’essenza della tecnica, scrive Heidegger, è nel disvelamento: “la tecnica, dunque, non è semplicemente un mezzo”, ma “un modo del disvelamento”, della verità [9]. Nel ricordare che il termine viene dal greco tekné, il filosofo ribadisce l’ambito poietico dell’essenza della tecnica: tekné, infatti, indica non solo il fare artigianale e le relative abilità, ma anche l’arte superiore e più in generale le belle arti [10]. Alla tekné, per i Greci, è sempre connesso il conoscere, il saperne di qualcosa: il conoscere dà apertura, e “in quanto aprente esso è un disvelamento”. Da qui, conclude, l’elemento decisivo della tekné non risiede nel fare e nel maneggiare ma nell’ambito in cui acca-
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dono disvelare e disvelatezza, dove accade la verità (aletheia). Per il filosofo anche la tecnica moderna, pur così diversa dalla tecnica artigianale, è disvelamento: un disvelamento che però si costituisce non come pro-duzione ma come “pro-vocazione (Herausfordern), la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata” [11]. In quanto esercita la tecnica, “l’uomo prende parte all’impiegare come modo del disvelamento”, ma la tecnica moderna – intesa come il disvelare impiegante – “non è un operare puramente umano” [14]. Qui risiede infine l’importanza de La questione della tecnica: nell’affermare che la tecnica moderna non è soltanto un’attività dell’uomo, né un puro e semplice mezzo all’interno di tale attività, Heidegger rende “caduca nel suo principio” [15] la concezione puramente strumentale e antropologica della tecnica. È solo da qui che si può partire, secondo il filosofo di Essere e tempo, per rispondere alla domanda sulla tecnica, sulla ambiguità della sua essenza, sul destino del disvelamento come pericolo. Dal momento che l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico, conclude Heidegger, occorre ricondurre la riflessione sulla tecnica in un ambito che, se da un lato è affine alla sua essenza, dall’altro ne è fondamentalmente distinto: tale ambito è l’arte, di fronte al quale non si può che continuare a riflettere e domandare senza sosta.
Il reincanto della tecnica*
di Michel Maffesoli
Come è ben noto, il divertissement è una delle scappatoie abituali della nostra pigrizia intellettuale. Ma dal momento che è poco conveniente lo agghinderemo di razionalizzazioni, di legittimazioni una più pedante dell’altra. L’animo dei seri è, in genere, molto frivolo; un fatto che si affanna a mascherare con una operosità senza limiti. Poveri animali domestici che, in seguito ad una atrofia dei sensi, sono sbalorditi da ciò che il poeta chiama, elegantemente, “lo sciabordio delle cause seconda*
Traduzione dal francese di Marcello Serra.
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rie” (Claudel)! In sintesi, sono incapaci di ascoltare, e a fortiori di comprendere, il rumore di fondo del mondo. E perfino il baccano della corrente centrale di un fiume che, nel lungo periodo, ha irrigato con i suoi flutti una intera regione. Ad immagine del bacino idrografico esiste quello che l’antropologo Gilbert Durand chiama “bacino semantico”, luogo in cui, stricto sensu, il senso si costituisce. Questo permette di comprendere l’esito delle cause secondarie, quel “main stream” intorno a cui, progressivamente, tutto si ordina e si organizza. Andiamo dunque all’essenziale e vediamo a cosa si dedica Martin Heidegger in La questione della tecnica: il domandare, dice, “lavora a costruire una via”. E cerca di illustrare tale questione essenziale attraverso ciò che nella tradizione occidentale, e più precisamente a partire dalle radici semitiche, è all’origine di ogni cosa: il disprezzo di questo mondo. Per citare una volta di più Sant’Agostino, mundus est immundus. Il mondo è immondo. E conviene dunque attraversare il più rapidamente possibile hac lacrimarum valle, questa valle di lacrime, per accedere, più tardi, alla beatitudine in un mondo a venire. È questo disprezzo che, al di là della sua forma religiosa, si ritrova, sotto spoglie profane, nella grande costruzione marxista. E poi si diffonde, surrettiziamente, in tutte le militanze partigiane: questa terra non va bene. Bisogna negarla, oppure rinnegarla, cambiarla, riformarla, rivoluzionarla. Disprezzo, come ho avuto modo di dire, che è causa ed effetto di una concezione rappresentativa, metafisica del mondo. Prendiamo quest’ultima parola nel suo senso stretto: al di là della fisica. Physis naturale. Una natura troppo selvaggia e che va dunque imbrigliata, costretta, canalizzata. Disprezzo, che è rifuto di ciò che è. E dell’altro in generale. Forse di quel Grande Essere di cui parlava quel geniale pazzo di Auguste Comte. Grande Essere: non il Dio astratto e distante dei monoteismi semiti, quello
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che Lautréamont chiamava il Grande Oggetto Esteriore, ma Essere che riunisce, organicamente, l’insieme dei vivi e dei morti, la fauna, la flora ed altre espressioni dello “slancio vitale”. Ma ecco l’inversione a cui fa riferimento Heidegger: un’altra concezione della tecnica, ovvero il ritorno della potenza del destino1. Potenza che viene da molto lontano e che ritrova una nuova vitalità nelle pratiche giovanili, nelle concentrazioni sportive, nelle isterie musicali così come in altri raduni religiosi. Attraverso tutti questi fenomeni ad esprimersi è la ferocia della natura. Attitudini radicali, ovvero che si riallacciano a quelle radici profonde che costituiscono la catena senza fine che unisce un secolo a un altro. Catena che il progressismo aveva creduto di rompere, essendo il XIX secolo, non dimentichiamolo, il trionfo di colui che Karl Marx celebrava come Prometeo Scatenato! A questa figura si sta sostituendo quella di Dioniso. Dio ctonio, dio di questa terra, dio autoctono. Archetipo della sensibilità ecologica, Dioniso ai suoi piedi ha della gleba. Sa godere di ciò che si presenta e dei frutti offerti da questo mondo, qui ed ora. Si è potuto qualificare questa figura emblematica come “divinità arborea”. Un dio con radici! Tale chiave ci permette di comprendere questo vero e proprio “Manifesto” che è l’essenziale questione heideggeriana. Ecco un curioso paradosso. Gli dei non sono uraniani rivolti verso il firmamento e il cielo delle idee? Slegati da questo mondo e dai suoi piaceri? Si tratta di un simbolo istruttivo. Metafora che permette di chiarire numerosi fenomeni della società postmoderna. Lo storico Philippe Ariès ricordava che il passato è la “pietra del nostro presente”. Si potrebbe continuare 1
È qui opportuno notare come nella traduzione italiana dell’opera di Heidegger il termine “destino” vada inteso prevalentemente nel senso di “destinazione” e non di “fato” (ndtr.).
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segnalando che il presente non è altro che la cristallizzazione del passato e dell’avvenire. L’intensità (in tendere) vissuta ora ha la sua fonte in ciò che è precedente e permette che si sviluppi una energia futura. Catena del tempo. Radicamento dinamico. Ciò che, all’opposto dell’antropocentrismo, rende attenti a ciò che nell’uomo “oltrepassa l’uomo”. È così che Pascal definiva la famosa “canna pensante”, di cui si è trascurato il fatto che, pur essendo “pensante” non è per questo meno “canna”. Si può incluso dire che non può pensare che ricordandosi delle proprie radici. Un altro modo di ricordare la comunione strutturale con la natura. Ritroviamo qui l’animismo di lunga memoria. Un paganesimo in versione contemporanea. La “deep ecology” potrebbe esserne la versione parodica. Paganus. C’è, in effetti, qualcosa di pagano nell’esito dei prodotti “bio” e nell’acuirsi dell’attaccamento ai diversi valori legati alla terra, al territorio ed altre forme spaziali. Il presente è tempo che si cristallizza in spazio, che non proietta più il divino nell’al di là, ma al contrario lo inserisce nel terreste. Al contrario di ciò che chiamerà più tardi “devastazione del mondo”, Heidegger sottolinea la necessità di ri-radicarsi. Ecco dunque, all’opposto del progressismo, lo specifico del progressivo. Il primo mette l’accento sul potere del fare, sull’azione brutale e lo sviluppo sfrenato delle forze prometeiche. Il secondo, al contrario, si sviluppa dall’interno e mette in opera una potenza naturale. Ancora Prometeo e Dioniso! Si tratta qui di figure spirituali. Ma sono anche dei simboli operativi nel senso che permettono di vedere sotto una nuova luce una vita quotidiana in cui il benessere non è niente rispetto all’esser-meglio. Vita corrente in cui, nel ritmo delle opere e dei giorni, la qualità ritrova un posto primordiale. Qualità di vita. Espressione un po’ passe-partout ma che ben definisce lo spirito del tempo. È quel che ci indica il pensatore: “la legge nascosta
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della terra la mantiene nella moderata misuratezza del nascere e del perire di tutte le cose entro i limiti delle loro possibilità” (Heidegger 1957: 64). Saggezza della moderazione che deriva dall’accettazione tragica di un presente che si concepisce precario e che, pertanto, ha bisogno dell’intensità. Del piacere d’essere a partire dall’essere delle cose. Ciò che sembra essere in gioco nella socialità propria alla “progressività” contemporanea. Ma non potremo apprezzarla bene se non sappiamo fare la genealogia del mito del Progresso che, trovando origine nella cultura giudaico-cristiana, è poi fiorito in epoca moderna. Ci troviamo al cuore palpitante di ciò che lo storico della scienza Thomas Kuhn ha chiamato la struttura delle rivoluzioni scientifiche (Kuhn 1962). Vale a dire, grazie all’analisi scientifica, la possibilità per una civiltà di imboccare la via recta della ragione. E per far ciò, al fine di andare dritti allo scopo, la possibilità di lasciare sul bordo della strada tutti questi impedimenta, bagagli inutili che appesantiscono il cammino: l’onirico, il ludico, il festivo e altri parametri umani che non entrano nel disegno provvidenziale della Dea Ragione. Dritti allo scopo, sì, ma la Marcia Regale del Progresso sembra marcare un po’ il passo, tanto siamo pieni, per dirlo in una forma un po’ sofisticata, di eterotelia. Abbiamo raggiunto uno scopo diverso (hetero telos) rispetto a quello previsto: un non-mondo, una devastazione del mondo. Effetto perverso come nessun altro, ma prevedibile. Non dimentichiamolo, dopo la separazione inaugurale, il giardino dell’Eden è dato all’uomo perché lo coltivi (Genesi 2, 15). Egli deve sottomettere la terra. Ha le mani sulla fauna e la flora. È, essenzialmente, mosso da una logica di dominazione. L’animale umano è programmato per ergersi a padrone di tutte le altre specie animali. O, per dirlo in forma immaginifica, il nostro cervello rettile non può che rispondere all’in-
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giunzione divina: che l’uomo “domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili...” (Genesi 1, 26-28). Separazione – dominazione. Ecco le due caratteristiche del mito del Progresso. Ecco le radici del paradigma moderno. La natura diviene un ob-ietto (ciò che è gettato davanti a noi, Heidegger 1964) dominato da un sub-ietto (sostanziale) autosufficiente e, soprattutto, che mette in scena una Ragione sovrana che fonda lo sviluppo scientifico e poi tecnologico. È a causa di questa razionalizzazione generalizzata dell’esistenza (Weber), e grazie ad essa, che viene rotta la partecipazione magica, la corrispondenza mistica che l’uomo, nelle società premoderne, intratteneva con il suo ambiente naturale. Restando in una prospettiva weberiana, è un tale disincantamento del mondo che ha condotto la modernità all’idea monomaniaca di una natura inerte da sfruttare. Idea monomaniaca che non ha mancato di farsi distruttrice. Il razionalismo senza contrappesi sfocia, ineluttabilmente, nella morbosità. In effetti, lo specifico dell’azione razionale è di privilegiare la volontà esterna. Il mondo non è più lasciato alla sua crescita naturale: un mondo ricco in se stesso, ma assoggettato, nella sua totalità, ad una azione esteriore. Azione legittima quando è bilanciata da altri fattori spirituali o simbolici. Ovvero quando questa azione si inscrive in una concezione, o una pre-concezione della totalità. Ma azione che diventa attivismo quando il “fare”, l’utile, l’utilitarismo sono i soli elementi che, in definitiva, sono presi in considerazione. Siamo al cuore stesso del produttivismo moderno (Baudrillard 1973). La Questione della tecnica di Heidegger rompe con tale concezione paranoica del mondo. Così lo indica, alla fine del suo saggio: “quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva” (Heidegger 1957: 27).
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È la lezione che sembrano ricordare tutti quei “tecno-maghi” che sono gli utilizzatori dei nuovi mezzi di comunicazione interattivi e che, mediante la propria azione, partecipano a un vero e proprio reincantamento del mondo.
1962 Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica Dopo essersi laureato a Bonn con una tesi sul filosofo idealista Schelling, e dopo aver lavorato come giornalista interessato a questioni sociali e culturali, nel 1956 Jürgen Habermas diventa assistente di Theodor W. Adorno presso l’Istituto per la Ricerca Sociale (Institut für Sozialforschung) di Francoforte. Lì entrerà in conflitto con Max Horkheimer e con lo stesso Adorno in merito a metodi e obiettivi della Scuola dai due rifondata in Germania dopo la seconda guerra mondiale. Le posizioni di Habermas, distanti dallo scetticismo politico e da alcune prese di posizione verso la cultura moderna, gli varranno peraltro negli anni l’accusa di aver contribuito all’indebolimento e alla sostanziale dissoluzione della Scuola di Francoforte. Nel 1959, anche in seguito alle critiche e alle conseguenti richieste di revisione avanzate da Horkheimer in merito alla sua dissertazione, lascia l’Istituto e si dedica alla tesi per l’abilitazione all’insegnamento, che ottiene nel 1961 presso l’Università di Marburgo sotto la direzione del marxista Wolfgang Abendroth. L’anno successivo, in cui Habermas assume l’incarico di professore straordinario di filosofia presso l’Università di Heidelberg, la tesi per l’abilitazione all’insegnamento diventa il libro che nove anni dopo verrà tradotto in italiano con il titolo Storia e critica dell’opinione pubblica, e che in breve tempo farà conoscere il filosofo trentatreenne al pubblico di studiosi di lingua tedesca. Richiamato a Francoforte da Adorno nel 1964, nel tempo contribuirà con i suoi studi alla formazione di nuovi allievi della Scuola. Dal punto di vista della ricerca, Habermas continuerà a concentrarsi su un tema già presente nell’analisi sul mutamento della sfera pubblica: la possibilità di recupero di aspetti della razionalità illuministica in funzione di contrasto nei confronti delle derive della modernità capitalistica. A un certo punto del suo percorso, già direttore dell’Istituto Max Plank di Stanberg, Habermas metterà in questione il ruolo istituzionale della filosofia, entrando in aperto contrasto con le posizioni dei suoi maestri Horkheimer e Adorno e sottolineando la necessità di ricorrere alle scienze sociali e agli studi sulla comunicazione (la monumentale Teoria dell’agire comunicativo viene pubblicata nel 1981) per la comprensione della società e la formazione di insegnanti, economisti, giuristi. Il percorso di ricerca iniziato in Storia e critica dell’opinione pubblica e proseguito con l’opposizione dell’agire comunicativo all’agire strumentale lo condurrà quindi, negli anni, verso la proposta di
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una “democrazia deliberativa” in cui istituzioni di governo e leggi, libere dai vincoli più pesanti della proprietà privata, siano aperte alla libera discussione pubblica.
I turbamenti doxologici del giovane Habermas di Stefano Cristante
“Se si riesce a capire storicamente, nelle sue strutture, l’insieme che oggi, abbastanza confusamente, sussumiamo sotto il titolo di ‘sfera pubblica’, possiamo per ciò stesso sperare di cogliere sistematicamente, al di là di una chiarificazione sociologica del concetto, la nostra stessa società prendendo le mosse da una delle sue categorie centrali” [7].
Non si può certo dire che Jürgen Habermas abbia scarsa ambizione scientifica. In questo suo corposo saggio monografico vengono squadernate ipotesi destinate a più settori, dalla sociologia della comunicazione alla politologia, passando per la storia giuridica e per la filosofia del diritto. Per ognuno di questi ambiti vi è un tentativo di esplorazione originale, di cui cercheremo di dare conto. Partiamo innanzitutto dal titolo: l’editore italiano ha tradotto in modo non letterale Strukturwandel der Öffentlichkeit (Mutamenti di struttura della sfera pubblica), sostituendolo con il più intuitivo Storia e critica dell’opinione pubblica. Nel caso del titolo italiano – si dirà – si rende subito chiaro che si tratta dell’investigazione intorno a un’espressione ambigua, opinione pubblica, ormai da tempo entrata nel lessico comune. Habermas fornirebbe così una storia dell’opinione pubblica occidentale e, da esponente – pur eterodosso – della scuola di Francoforte, anche una critica. In realtà il concetto di Öffentlichkeit non rappresenta l’opinione pubblica, ma piuttosto la Pubblicità, cioè l’essenza pubblica della presenza del genere umano nella comunicazione politica e culturale. Habermas certo non rinuncia a fornire
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ampia argomentazione sull’opinione pubblica, ma la fa derivare da un’originaria frattura tra sfera privata e sfera pubblica stabilitasi già ai tempi dell’Atene di Pericle e della Roma repubblicana. La sfera privata prende, in quei tempi, un’accezione negativa: l’ambito privato è, per definizione, mancante, privo di. Il privato assicura i mezzi della sopravvivenza e della tenuta familiare, ma non rappresenta il comune esprimersi – aggettivo koinon, comune, sostantivo koiné, comunità – appannaggio invece della res publica e del suo dispiegarsi, scrive Habermas, “come un regno della libertà e del permanere”. Attenzione: non si tratta di un processo di statalizzazione – che pure a Roma è presente, e che vive anche nelle deliberazioni della bulé ateniese – quanto di un processo di socializzazione comunitaria. In più, condividendo l’enfasi di Hannah Harendt a riguardo (citata esplicitamente), questo processo consente di stabilire che la sfera pubblica permette eguaglianza (tra i cittadini) e distinzione (tra i migliori). La sfera pubblica dell’antichità classica è perciò un contesto di espressione dell’eccellenza. Non altrettanto può dirsi nell’accidentato Evo Medio: per lunghi secoli crollano le separazioni tra pubblico e privato. Il signore feudale non possiede i terreni in quanto proprietario: non parla quindi con l’autorità del possidente privato, ma con quella del tenutario incaricato da un potere superiore, la cui origine, in ultima analisi, è divina. Il potere non è tanto meno del popolo, quanto piuttosto è celebrato dinanzi al popolo. È dunque un potere simbolico, che viene esercitato in modo personale ma che tuttavia è sempre indiretto, giacché discende da un’autorità trascendente. La dimensione pubblica medievale può essere direttamente affrontata con degli esempi: “Il pascolo comunale è pubblico, publicum; la fontana, la piazza del mercato sono accessibili al pubblico per l’uso comune, loci communes, loci publici” [8]. Tuttavia manca un’esten-
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sione politica di questo attributo, che appartiene piuttosto alle prerogative del signore, al suo particolare: esiste una pubblica rappresentanza del dominio, non una sfera pubblica. Il detentore del potere politico-religioso medievale si “esibisce come l’incarnazione di un potere comunque ‘superiore’”. Un cambiamento strategico avviene in coincidenza dell’ascesa nel panorama socio-economico europeo di una nuova classe, la borghesia, che ben poche cose ha in comune con i ceti e i ranghi del Medioevo. Lo scambio mercantile è iniziato nel Basso Medioevo, e già nel XVI secolo conosce un suo punto di non ritorno: la dinamica pubblico-privato ne risente in modo clamoroso. La sfera pubblica moderna ha un suo imprevedibile debutto: va in scena attraverso i foglietti manoscritti degli advisa, strumenti comunicativi pieni di riferimenti alla sostanza e ai dettagli degli scambi commerciali, propagati dai gazzettieri e da altri scribacchini sempre attenti a non cadere nelle maglie investigative dell’Inquisizione. Nel secolo seguente, il XVII, il giornalismo esce dalla cornice delle lettere mercantesche che avevano caratterizzato gli advisa: in Olanda la macchina di Gutenberg ha trovato stabile patria e sforna copie su copie dei nuovi “corantos” (dal fiammingo Krant, giornale), in cui comincia a prendere forma la pubblicistica moderna. I borghesi adorano i giornali e ne hanno bisogno: le informazioni, comprese quelle borsistiche, servono per aumentare il volume delle speculazioni e per valutare l’opportunità di nuovi investimenti. E per discutere delle notizie politiche, culturali, di costume. La sfera pubblica borghese si definisce per separazione dalla sfera statale e si articola nella discussione collettiva improntata, insiste Habermas, al confronto su argomentazioni razionali. Dove avvengono questi scambi di idee? Qui l’indagine di Habermas esprime particolare interesse sociologico-culturale, perché dimostra il legame tra iniziative editoriali, produzione letteraria e luoghi di elaborazione
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e di conversazione. In Inghilterra, ricorda Habermas, già nel primo decennio del XVII secolo sono attivi ben 3000 spacci di caffè nella sola Londra, ciascuno con una propria cerchia di clienti abituali. La diffusione della bevanda, come illustrato da dettagliate osservazioni di Schivelbusch (1980), è parte di un cambiamento di abitudini e di stili di vita di cui è protagonista innanzitutto la borghesia in ascesa, i cui esponenti si affezionano al caffè consumato insieme alla lettura dei giornali e alla discussione – libera e senza limitazioni dettate dalle differenze sociali e di ceto – che si dispiega su oggetti letterari e che non teme di trasformarsi in un confronto di opinioni su questioni economiche e politiche. In questo modo i sudditi delle monarchie europee indirizzano la propria soggettività verso la costruzione di una cittadinanza culturale, attraverso gesti e azioni private che diventano pubblicamente rilevanti. Riunioni di privati che assumono carattere pubblico. È a tutti gli effetti un fenomeno nuovo e decisivo, accompagnato da movimenti organizzativi statali che puntano a limitare la libertà di espressione e di scrittura attraverso la censura o a vincolare allo Stato assoluto le prime gazzette nazionali (come nella Francia del Re Sole), mentre la sfera pubblica borghese assume atteggiamenti critici, che si faranno progressivamente sempre più simili alla costruzione di un contropotere. Si tratta di un processo che si sviluppa mentre il mercato commerciale prende le forme del mercato capitalistico della prima modernità, e le opere artistiche e culturali entrano nella dimensione della merce. Proprio questo carattere ne allarga il perimetro sociale: il costo di un giornale, di un libro o di un biglietto per uno spettacolo musicale fanno sfumare l’esclusività aristocratica e cortigiana della loro fruizione, che si allarga alla platea borghese, influenzata dal dibattito informale della nuova sfera pubblica. Il collegamento tra le istanze della sfera pubblica borghese e il dispiegarsi del pensiero filosofico set-
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tecentesco e ottocentesco si conferma attraverso un tracciato che individua il peso crescente di espressioni come “società civile” e “opinione pubblica”, e che ha i suoi precursori in Hobbes e Locke, la sua maturità nel principio kantiano di “pubblicità”, la sua parabola nelle considerazioni di Hegel sulla debolezza della società civile e nella critica materialistica di Marx dell’opinione pubblica borghese nonché nelle ambivalenze concettuali del liberalismo di Stuart Mills e di Tocqueville. Quest’ultimo illustra e propone un concetto di opinione pubblica che, nella giovane democrazia americana, oscilla tra la libera formazione delle opinioni e il rischio di un conformismo diffuso (fino alla formulazione della celebre “dittatura delle maggioranze”, definita da Stuart Mills anche come “giogo dell’opinione pubblica”). In questi nuovi paesaggi ideologici la lettura di Habermas si fa particolarmente efficace, e transita la ricostruzione storiografica nel contesto ottocentesco avanzato. Le rivoluzioni borghesi del XVIII e XIX secolo impongono un salto di qualità alle dinamiche di opinione e alla costruzione di una sfera pubblica universale: la borghesia si impegna in battaglie che spingono alla promozione di un’ulteriore apertura sociale, di cui sono esemplificativi i movimenti per l’allargamento del diritto di voto. D’altronde lo sviluppo stesso del capitalismo provvede a delineare un conflitto tra classi che si fa sempre più palpabile: la classe operaia ha propri obiettivi che si concretizzano in organizzazioni sindacali e in partiti politici tendenzialmente contrapposti a quelli della borghesia ricca e benestante, ormai prossima alla gestione di comparti sempre più vasti dell’articolazione statale. Inoltre il modello economico dominante si allontana per gradi dall’ideologia del laissez-faire, e appaiono intrecci sempre più visibili tra grandi aziende e politiche economiche dello Stato. L’affermazione della grande azienda fordista comincia a proporre un potente richiamo verso una nuova perimetrazione dello spazio
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sociale: l’azienda tenta di accreditarsi come comunità di lavoratori, istituendo salari capaci di inserire gli operai nella dinamica del consumo e promuovendo servizi collegati all’uso del tempo libero. Alla privatizzazione delle funzioni del “pubblico” (dimensione statale) corrisponde un’estensione delle prerogative economico-sociali dello Stato stesso: costretto dai cicli economici capitalistici ad affrontare crisi che minacciano le fondamenta stesse della società, lo Stato inventa una politica di interventismo sempre più spinta, che assume i caratteri di un Welfare spesso tradotto in termini di Stato sociale. Sfumano, in buona sostanza, alcune delle demarcazioni-chiave tra sfera pubblica, organizzazioni statuali e sfera privata. A ciò vanno aggiunti anche altri fenomeni, riconducibili alle dinamiche mediatiche. In questo caso i richiami francofortesi sono più espliciti nella trattazione di Habermas. Un passo di Bücher, citato dallo studioso, immette direttamente nella questione centrale: i giornali, da semplici organi per la pubblicazione di notizie diventarono esponenti e guide dell’opinione pubblica, strumenti di lotta della politica di partito. Ciò ebbe per conseguenza che nella organizzazione interna editoriale si inserì fra la raccolta e la pubblicazione delle notizie un nuovo elemento: la redazione. Questo, però, significò che l’editore, da semplice venditore di notizie, divenne un trafficante di opinione pubblica [210].
Habermas osserva e critica l’avvento del giornalemerce dominato dal principio di pubblicità, assai distante da quello della sfera pubblica “aurea”, maturata nel ’700 europeo e americano. L’industrializzazione del giornalismo crea oligopoli informativi sotto forma di grandi cartelli editoriali, interessati a indurre modelli di consumo e non a sviluppare il dibattito pubblico. In questo senso l’abbandono della discussione critica su
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base argomentativa razionale è speculare all’adozione di un linguaggio mediatico allusivo e manipolativo, a vantaggio di gruppi che intendono il potere come una zona di accesso al comando politico allargato. Habermas non fa sconti ad alcuna parte politica, e i suoi esempi contengono sia riferimenti ai conservatori sia ai socialdemocratici: è il partito in quanto gruppo di pressione che fuoriesce dalla dimensione del conflitto di classi e ceti e che si accredita come decisore nel nome di tutti e per conto di tutti (ma soprattutto di se stesso). Il partito, pertanto, persegue una logica di penetrazione privata nel ventre del frame pubblico, rendendo plausibile evocare un lontano passato per interpretare il superamento della democrazia liberale: ciò che Habemas chiama rifeudalizzazione della sfera pubblica. L’apparato della nuova sfera pubblica si muove sullo sfondo di una opinione quasi pubblica, dove la diminutio consiste nell’imperfezione di un modello che pure si dota di grandi dispositivi: il sistema delle public relations e delle lobby specializzate, l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa novecenteschi (cinema, radio, televisione), il dominio pubblicitario sui media, l’impiego generalizzato dei sondaggi. Engineering of consent. Fabbricazione dell’opinione pubblica. L’opinione quasi pubblica si fonda sull’egemonia di gruppi e istituzioni determinate. Ne consegue una centralità sempre maggiore del marketing politico, che punta a esprimere le energie più forti in coincidenza delle campagne elettorali, in cui è più evidente il richiamo a un associazionismo intensificato nelle istanze spettacolari ma semplificato nei messaggi, e dove l’aggancio con le moltitudini è implicitamente temporaneo e mediato dai leader. La sfera pubblica basata sulla disputa argomentativa viene sostituita da una sfera pubblica basata sull’identificazione, fenomeno che giustifica ulteriormente la deriva della ri-feudalizzazione. Sugli approdi piuttosto sinistri dell’epilogo haber-
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masiano – fino all’ultimo capitolo in cui viene decostruito il concetto di opinione pubblica, affrontandone la dissoluzione socio-psicologica – lo stesso autore sembra contemplare la possibilità di un ritorno all’indagine. Nel frattempo il confronto scientifico procede: Elizabeth Noelle-Neumann riconosce l’efficacia della ricostruzione storica del lavoro di Habermas, ma ne depotenzia le conseguenze teoriche. Per la studiosa tedesca la sfera pubblica borghese, con le tutte le sue istituzioni e ramificazioni comunicative, sarebbe solo la funzione manifesta del fenomeno “opinione pubblica”. Quella latente, e dunque determinante, sarebbe piuttosto l’opinione pubblica intesa nel suo significato di controllo e di integrazione sociale, in quanto tale applicabile a tutte le epoche storiche. Inevitabilmente questo approccio rinvia a un modello teorico (simil)funzionalista, in difficoltà di fronte alla descrizione dei mutamenti sociali quanto a proprio agio nell’illustrazione delle persistenze sociologiche. D’altro canto il modello della “spirale del silenzio” affronta con realismo i conflitti interni alla rappresentazione mediatica, dimostrando che una categoria generale in Habermas, la manipolazione, può essere ampiamente esemplificata entrando nel merito dell’influenza che i media esercitano sui pubblici manovrando stereotipi (qui il riferimento obbligatorio è al saggio di Walter Lippmann del 1922, ampiamente citato dalla Neumann) e modulando le narrazioni, pur senza avere mai la certezza di interpretare correttamente il clima di opinione. Niklas Luhmann, a sua volta, ridimensiona il perimetro teorico di Habermas: l’opinione pubblica è nel suo pensiero soprattutto un caso ideale, il cui vero ruolo consiste nel contribuire alla selezione delle issue del dibattito pubblico. I temi prima selezionati dai media di massa vengono condivisi o ignorati dai pubblici, che tuttavia necessitano di una costante riduzione della
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complessità del volume informativo generale, affidata a responsabili associativi e istituzionali. Proprio su questo versante, quello dei gruppi influenti, una gran mole di testi presenta interlocuzioni implicite o esplicite con l’opera di Habermas. A volte, come nel caso di Crouch (2003), prestando attenzione a una disgregazione dello Stato-nazione e a nuovi principi post-democratici. A volte, come nel caso di Manuel Castells (2009), sviluppando una critica della politica spettacolarizzata mediaticamente e dominata da lobby integrate, in qualche modo controbilanciata dalle opportunità della rete e dei social network. In buona sostanza, il terreno più fertile messo a disposizione da Habermas nel suo impegnativo lavoro sembrerebbe quello della ricostruzione storica. Anche chi si oppone alla sua operazione teorica complessiva riconosce l’efficacia del disegno di espansione comunicativa della borghesia tratteggiato seguendo una letteratura filosofica mainstream e una storia sociale agganciata a documenti e a norme giuridiche, presentati e discussi secondo una logica convincente. Tuttavia, l’ombra che la “sfera pubblica borghese” proietta sulla società del nostro tempo ne dissolve le luci. Con grande tempismo, Habermas sottolinea i punti essenziali di questo controverso fenomeno. Il primo: sfumano i confini pubblico/privato sia nell’agire delle istituzioni sia nell’agire delle aziende. Il secondo: ritornano in auge modelli politici personalizzati che trattano la cittadinanza con il sussiego dovuto a un cliente e con il cinismo di un sovrano assoluto. Il fatto che sfumino i confini tra pubblico e privato nel contesto delle istituzioni implica non solo una diffusa permeabilità alla corruzione (laddove l’appropriazione di risorse pubbliche non viene considerata atto illegittimo perché chi manovra le risorse si ritiene possessore delle stesse), ma anche una crescita di comportamenti fondati sull’esibizione della forza personale
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(a cominciare dalla ricchezza), misura di capacità private che dovrebbero automaticamente convertirsi in virtù pubbliche. In questo senso la semplice riproposizione del carattere critico della sfera pubblica borghese e del suo processo discorsivo rischia di apparire lontana dalle pratiche dei nuovi protagonisti della vita pubblica e dall’aggressività di una grandeur privata, sorretta dagli appetiti spettacolari dei media. Similmente, la riduzione di complessità dei modelli partitici, ampiamente annunciata da Habermas con riferimento a tutti gli schieramenti post-ideologici, rinvia a una personalizzazione della politica che fatica a tenere insieme la stessa cornice istituzionale democratica e l’insistenza verso la guida emozionale dell’opinione pubblica, dove l’emergere di temi forti è pilotata da un concentrato pubblicitario (nel senso del linguaggio “inserzionistico” della comunicazione politica) promosso da una visione decisionista che richiede identificazione a scapito di una visione fondata sulla separazione dei poteri e sulle istanze di partecipazione diffusa. Un nuovo possibile medioevo, ad alto tasso tecnologico, dove lo stesso concetto di “sfera pubblica” (simbolicamente aperta ed egualitaria, attraversabile da spinte sociali e culturali provenienti da ogni direzione) lascia il posto a blocchi di potere che tentano di farsi opinione stabile e di imporre un’agenda alla discussione pubblica, disattivando l’idea stessa di conflitto come territorio di crescita per la partecipazione. Una visione, quella di Habermas, ancorata a un’idea eroica di modernità, ma senz’altro piena di suggestioni per consentire una discussione sullo stato della nostra postmodernità.
1962 Marshall McLuhan, La Galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico Nel 1951, undici anni prima dell’uscita di La Galassia Gutenberg, Marshall McLuhan, professore di letteratura inglese dell’Università di Toronto, aveva pubblicato il suo primo libro. La sposa meccanica era una raccolta di saggi velenosissimi dedicati ai prodotti della cultura di massa e, in particolar modo, alla pubblicità. Di taglio fortemente critico e a volte prossimo all’invettiva, il libro rappresentava il primo tentativo di una certa portata di analizzare la cultura mediatica. Allo stesso tempo, era anche l’ultima occasione in cui McLuhan si sarebbe interessato ai contenuti espliciti dei media. Da lì in avanti, la sua ricerca si orienterà sugli effetti che essi producono sulla cultura e gli individui non attraverso i messaggi che diffondono, ma mediante la propria forma tecnologica; uno sguardo più “neutrale” che, paradossalmente, lo farà passare alla storia come un “integrato” entusiasta dei mezzi di comunicazione. Una data fondamentale in questo percorso è il 1953, anno in cui la Fondazione Ford elargisce a McLuhan e al suo collega antropologo Edmund (Ted) Carpenter un cospicuo finanziamento per organizzare una serie di seminari interdisciplinari sulla comunicazione. Fondamentalmente, l’intenzione di questi incontri è quella di ragionare intorno all’idea di Innis per cui un medium riconfigura l’ambiente nel quale agisce. A partire da questo spunto, tanto nei seminari come nella rivista Explorations – che McLuhan e Carpenter fondano nello stesso 1953 e che sopravvive fino al 1959 – studiosi di diversa provenienza iniziano a riflettere sui modi in cui i vari media influenzano i sensi dell’uomo. Nel luglio del 1961, in concomitanza con la morte della madre, McLuhan inizia a raccogliere i materiali scritti nel decennio precedente e in tre mesi di intenso lavoro porta a termine La Galassia Gutenberg, un’opera che insieme al successivo Gli strumenti del comunicare (1964) costituisce un dittico di formidabile vigore intellettuale e un punto fermo ineludibile del pensiero mediologico. Il fulcro del ragionamento mcluhaniano è l’idea che i media sono in gran parte responsabili delle caratteristiche fondamentali di una cultura, della visione del mondo e dell’assetto psico-percettivo dei singoli individui; soprattutto, essi lo sono non attraverso i contenuti diffusi, ma in quanto tecnologia. A partire da tale presupposto, La Galassia Gutenberg descrive un percorso attraverso quattro epoche storiche: la orale tribale, quella del manoscritto, l’epoca della stampa e l’era elettronica.
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In particolare McLuhan si concentra sugli effetti della rivoluzione gutenberghiana, a cui ricollega la nascita dell’individualismo, dello stato-nazione, dell’omogeneizzazione, della quantificazione e, in generale, di tutte le caratteristiche fondamentali dell’era moderna. Secondo l’interpretazione dello stesso mediologo canadese, a dare la possibilità di comprendere tale configurazione è lo scontro tra media attraverso cui, proprio in quegli anni, si stava completando il passaggio verso un nuovo assetto culturale in cui il medium elettrico rappresentava la dominante. La Galassia Gutenberg, come peraltro tutti i libri di McLuhan, è scritto seguendo un procedimento “a mosaico” che doveva servire a neutralizzare, almeno in parte, gli schemi logico-causali prodotti dalla scrittura a stampa. In altre parole, l’argomentazione non si dipana linearmente, ma si compone di una lunga serie di brevi paragrafi, lunghe citazioni di provenienza disparata e infinite digressioni. La difficoltà di lettura non fu però d’intralcio all’enorme successo dell’opera, che catapultò McLuhan in una fama improvvisa e fece da viatico all’apertura del famoso centro per la cultura e la tecnologia presso l’Università di Toronto.
La mente e il vortice di Giovanni Ragone
1. Ti irrita, ma rimani folgorato. Superi lo sconcerto e ti arrendi, gettato senza cerimonie in un impasto a mosaico di teorie sugli argomenti più disparati, che sembra assumere via via una sua coerenza, ma che cambia ogni minuto il suo aspetto fisico. Già nelle prime pagine: la narrativa orale antica, gli elisabettiani, le organizzazioni sociali “orali”, “scritte”, “elettriche”, e quella “cosa soltanto che non sappiamo” riguardo alle cause della rivoluzione tecnologica, poi la struttura del cervello, la natura metaforica del linguaggio, l’instabile equilibrio fra corpo, tecnologie e culture, il Novecento “elettrico” come scenario di crisi, tensione, globalizzazione e crollo definitivo di un intero sistema. Materiali, illuminazioni e macerie del nostro vissuto occidentale, radunate e assemblate come piattaforma di lancio per il decollo di un’altra storia – quella dei media – solo
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apparentemente nuova. Perché della vecchia Galassia Gutenberg – se con questo nome si intende un mondo ordinato, o almeno un forzoso compromesso tra l’energia del big bang e l’ordine della scrittura – qui viene dichiarata, senza ritorno, l’implosione. E nel caos – o in quello che a noi sembra il caos – andremo a cercare non tanto regole formali e universali, quanto cause o reazioni fisico-chimiche profonde, e sistemi con una certa regolarità “locale”. Avveniristica nella forma del testo, ma non si resta nemmeno così sorpresi dopo aver visto l’esperimento multimediale e simultaneo di La sposa meccanica (1951), la Galaxy inaugura una narrazione a “finestre” che ricorda lo stile del web, per accumulare e raccontare oscillando fra diacronia e sincronia niente di meno che l’ascesa e catastrofe della civiltà gutenberghiana; in altri termini: l’origine e il rovesciamento della modernità occidentale. Tesi scontata, si può dire, oggi che i lamenti sulla fine del soggetto e del fondamento razionale della cultura sono in definitiva dietro le nostre spalle. Eppure McLuhan continua a essere una sorta di rimosso, un vago fantasma giornalistico, nell’ambiente delle humanities che ancora faticano ad ibridarsi con le culture digitali, mentre perfino gli specialisti di comunicazione si limitano ad attraversamenti parziali, e paradossalmente gutenberghiani, di quel magma, come se la comunicazione fosse prevalentemente questione ingegneristica o sociometrica di efficienza e efficacia, di consumi, domanda ed offerta! Ma al XXI secolo serve una scienza dei media implicitamente mcluhaniana. Elettronica, digitale, iper-ibrida. In una convincente ricostruzione della fase primigenia della mediologia, Gabriele Frasca (2004) ha ricollegato quel “nuovo inizio” al periodo intorno al 1960. L’America assorbe la cultura inglese postcoloniale e si proietta su scala mondiale, verso le zone più avanzate della tecnologia e della comunicazione, per
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costruire il futuro globale – dell’industria dei media e non solo – secondo i suoi modelli; mentre l’Europa appena ricostruita, in un paesaggio ormai massmediale ma non ancora pervaso interamente dai linguaggi del consumo, vive anni di effervescenza teorica (linguistica, formalismo, nouvelle histoire, tendenze strutturaliste in psicoanalisi, antropologia, sociologia e filosofia) ma scarta la scienza dei media. Solo più tardi si indeboliscono le “grammatiche” basate su una pretesa isolabilità del segno, e affiora la dimensione mediale e collettiva dell’immaginario, se non la deriva del medium stesso come flusso, come soggettività culturale e sociale; qualcosa filtra anche in Italia, fra letteratura e antropologia, con la traduzione negli anni ottanta dei libri di Havelock e Ellis, di Ong, di Goody, tutti in diversi modi collegabili a McLuhan, sbeffeggiato nei Sessanta da Umberto Eco, e subito dimenticato1. In molti della mia generazione – fra sociologia, architettura, cinema, arte e letteratura – andavamo in quel periodo alla ricerca di chiavi interpretative a più dimensioni: Ong e Goody, le nuove tendenze della storiografia ereditate dalle “Annales”, la semiotica di Lotman, geniale e implicitamente ostile ai confini disciplinari, e soprattutto l’imprinting di Benjamin e dell’Abruzzese benjaminiano di Forme estetiche e società di massa (1973), La grande scimmia (1979), Archeologie dell’immaginario (1988) e Metafore della pubblicità (1988). Strumenti e riferimenti 1 Alberto Abruzzese: “un decennio, gli anni Ottanta, solitamente disprezzato da chi resta con lo sguardo fisso sui valori della tradizione civile, sulle sue culture istituzionali e sociali, sulle più forti mitologie delle classi e dei movimenti della modernità. Gli anni Ottanta sono stati invece per me l’epoca di una rivoluzione in tutto diversa dall’idea che di rivoluzione hanno le nostre appartenenze politiche alla storia occidentale: una rivoluzione silenziosa, buia e profonda, ma tanto forte da spazzare via le utopie del Novecento, da metterlo a nudo” (Abruzzese 2005).
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non più direttamente assimilabili alle scienze dei segni, della storia e dell’ideologia, e nemmeno allo scandaglio simbolico-sociale della sociologia classica che più ci affascinava, quella di Simmel, Lukács, e soprattutto Benjamin, tra metropoli, avanguardie artistiche e forme dell’abitare. 2. Ed eccoci a fare i conti con La galassia Gutenberg. La tesi fondamentale è esposta nel terzo e nel quarto tassello del mosaico: L’INTERIORIZZAZIONE DELLA TECNOLOGIA DELL’ALFABETO FONETICO TRADUCE L’UOMO DAL MONDO MAGICO DELL’ORECCHIO AL MONDO NEUTRO DELLA VISTA; e dunque LA SCHIZOFRENIA È FORSE UNA CONSEGUENZA NECESSARIA DELL’ALFABETIZZAZIONE [42-49]. Ciò che McLuhan dimostra riprendendo alcune osservazioni di John C. Carothers, un “etnopsichiatra” inglese2. Esiste una differenza sostanziale tra la mente dell’individuo delle società illetterate e quella delle società occidentali moderne. Il “primitivo” fin dai primi anni di vita si sente espressione di un organismo vivente molto più vasto, come la famiglia e il clan, ma gode in cambio come singolo di un’estesa sfera di libertà “temperamentale” che gli consente di dare libero sfogo ai sentimenti nell’hic et nunc; l’individuo del mondo letterato e a lungo plasmato dalla stampa, l’io “gutenberghiano”, si sviluppa invece alle prese con un gran numero di oggetti e di eventi fissi e preformati, che lo costringono a pensare in termini di rapporti spazio-temporali e di causalità meccanica. L’idea viene estesa e generalizzata: “il bambino africano vive nel mondo magico e implicito della risonante parola orale. Egli si imbatte non in cause efficienti ma in 2
Autore di The African Mind in Health and Disease (1953), l’antropologia recente lo ha praticamente messo all’indice per il suo coinvolgimento nel colonialismo britannico in Africa.
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cause formali all’interno di un campo di configurazioni che è simile in ogni società non-letterata”. Quello occidentale è “circondato da una tecnologia visiva, astratta ed esplicita, di tempo e spazio uniformi in cui ogni causa è efficiente e sequenziale, le cose si muovono e accadono su piani singoli in ordinata successione”. Lì, in Africa, il mondo dell’orecchio, “caldo e iperestetico”, dove le parole hanno un potere magico. Qui in Occidente il mondo dell’occhio, “relativamente freddo e neutro”, dove – soprattutto da quando la stampa ha permesso la diffusione e la centralità culturale delle tecnologie visive dell’alfabeto fonetico – le parole entrano a far parte di un processo seriale, meccanico e astratto. Tra i due mondi si apre una frattura, nel seno stesso della mente: “da ciò segue, naturalmente, che l’uomo letterato, così come lo incontriamo nel mondo greco, è un uomo diviso, uno schizofrenico, e tali furono tutti gli uomini letterati da quando fu inventato l’alfabeto fonetico”, fonte primaria del processo di detribalizzazione, e della via obbligata verso la libertà e l’individualizzazione. Mentre, in senso inverso, e ricomponendo la scissione, si torna dall’occhio all’orecchio: “oggi qualsiasi bambino occidentale cresce di nuovo in un simile mondo magico e ripetitivo allorché ascolta la pubblicità alla radio e alla televisione”. Queste osservazioni, ancora frammentarie, iniziano a scavare in un cantiere che resterà aperto per oltre un centinaio di capitoli, con titoli spesso aforistici o anche espliciti – che McLuhan chiama “glosse”, ereditando parecchi materiali dalla sterminata tesi di dottorato discussa a Cambridge nel 1943 sull’evoluzione dall’antichità al Seicento delle arti del trivio: grammatica, logica e dialettica, retorica. Si procede in un primo movimento per rapidi flash indietro-avanti “l’interiorizzazione di mezzi di comunicazione come le lettere altera il rapporto tra i sensi e muta i processi mentali?”.
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“La civiltà fornisce al barbaro, cioè all’uomo tribale, un occhio al posto di un orecchio e non sa adesso come affrontare il mondo elettronico”. “Il fisico moderno è a suo agio nella teoria orientale del campo”. “La nuova interdipendenza elettronica ricrea il mondo ad immagine di un villaggio planetario”. “Perché le società non-letterate non sono in grado di vedere film o fotografie senza un’adeguata preparazione”. “Quando la tecnologia estende uno dei nostri sensi, una nuova traduzione della cultura si verifica con la stessa rapidità con cui la nuova tecnologia viene interiorizzata”. “L’incontro del secolo XX tra due aspetti culturali, quello alfabetico e quello elettronico, conferisce alla parola stampata un ruolo primario nel rallentare il ritorno all’Africa dentro di noi”. Tra una finestra e l’altra, la teoria è ormai definita: i media sono estensione dei sensi; la cultura è il processo di interiorizzazione dei media. All’estensione oggettivante della vista è stata sottoposta la mente nell’epoca della scrittura e della stampa: la mente gutenberghiana. Ma ora essa è sottoposta in modo inatteso (e inconsapevole) a un ritorno all’orecchio, al suono, alla voce, in un nuovo ambiente elettrico, o elettronico. 3. Tornando all’origine della Galassia – la nascita dell’uomo tipografico – il discorso di McLuhan sbalzerà di qui alla fine come un sismografo tra l’elettrico, il corpo alfabetico e il primitivo-tribale. I precedenti più espliciti sono soprattutto in Impero e comunicazioni di Innis: “l’alfabeto è un elemento aggressivo e attivo che
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assorbe e trasforma le culture, come per primo mostrò H. Innis”; tuttavia sono ben presenti, oltre alle tesi di Parry sull’epica antica, che risalgono agli anni Venti, sia l’eredità post-bellica della scuola di Warburg, con Gombrich e Panofsky, sia L’apparition du livre di Febvre e Martin (1958), dalle “Annales” francesi. E se gli manca la lettura di Walter Benjamin, per il resto le conoscenze filosofiche, letterarie, sociologiche, economiche, scientifiche e soprattutto antropologiche del nostro autore sono veramente ampie (tra gli altri europei Cassirer, Huizinga, Popper, Auerbach, Curtius, Frye, Gilson, Sartre, Löwenthal, Polanyi, Einstein, Eliade, Frazer, R. Williams, e decine di americani, per lo più psicologi, antropologi come E. T. Hall e scienziati). Questo perché le “finestre” di McLuhan cercano conferme in ogni direzione. Per esempio: la prospettiva in pittura si afferma solo quando nel Rinascimento si stabilizza una mente fondata sul punto di vista fisso; i Greci conoscevano alcuni elementi della prospettiva ma avevano elaborato un punto di vista astratto molto diverso da quello moderno, e simile invece a quello medievale. Esso era sufficiente comunque per una grande messe di invenzioni scientifiche e artistiche basate sull’interiorizzazione della logica alfabetica, per altro già sperimentata a più riprese dalla civiltà romana, dalla scolastica medievale e dalle università a partire dal XII secolo [116-117, 136-144], anche se in quel periodo la lettura era ancora prevalentemente ad alta voce [134-136] e il rapporto fra scrittura e lettura restava fondamentalmente performativo e dialogico [122-131]. Durante il Cinquecento la parola si allontana decisamente “dalla sua originaria associazione con il suono” e viene trattata “come un oggetto nello spazio”; facendo riferimento all’opera di Walter Ong (1961), McLuhan nota come già Ramo tenda a considerare la conoscenza accumulata attraverso le sue arti come una merce e non come una forma di sapere. Le architetture gotiche – tattili,
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basate sul senso come facoltà direttamente conoscitiva, sulla luce che attraversa e collabora con il suono e uno spazio denso e sacro – sono sostituite da una nuova organizzazione visiva, prospettica e logico-geometrica, “universale” e utilitaristica, omologa alla razionalizzazione del pensiero e della comunicazione, dove il suono e il tatto si traducono in visivo, si fissano nella parola stampata e diventano portatili, la materia prima della nuova economia e della nuova società [150-165, 216225]. La tecnologia alfabetica costringe definitivamente il sensorio in uno spazio “chiuso” [100] e desacralizza la cultura nel letto di Procuste della “macchina” della parola scritta. La “macchina” gutenberghiana. In sostanza, provando a reimpostare l’intero dispositivo della Galassia, si tratta della combinazione – in ogni genere di medium che artificializza e organizza i processi culturali – dei vettori che seguono, tutti basati sull’asse tra parola, spazializzata e fissa, occhio e cervello: • azione/reazione meccanica • tempo lento, differito • possibile non coinvolgimento del sensorio salvo su un solo senso • isolamento del momento, senso del tempo cinematico e sequenziale • punto di vista fisso • mono-fonia • de-tribalizzazione • desacralizzazione • pensiero logico • trionfo della conoscenza applicata • specializzazione mediale • mente machiavellica e mercantile • omogeneizzazione dei linguaggi nella comunicazione di massa • standardizzazione
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• centralizzazione delle nazioni moderne • individualismo e ostilità al governo in quanto ente collettivo Siamo alla prima sistemazione organica e critica di una teoria del moderno (nemmeno così distante dalla Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno, scritta in California durante la guerra e uscita nel 1947): la scienza dei media. 4. L’insistenza sul tema della desacralizzazione, che deriva dai libri di Mircea Eliade (e ci rimanda a stretto giro al Régis Debray di Vita e morte del’immagine) è un passaggio-chiave del libro, che vorrebbe precisamente “mostrare per quali processi storici la desacralizzazione è avvenuta”; secondo McLuhan, tuttavia, Eliade individua erroneamente nella sfera del “sacro” quei tratti delle culture pregutenberghiane che si riferiscono piuttosto all’ambiente orale e al suo impianto culturale fondamentalmente non-razionale [106]. Ora, nella nostra epoca “elettrica” gli stessi tratti riaffiorano per il capovolgimento del sensorio, ciò che permetterebbe alla mente di tornare ad accogliere il pensiero mitico (e qui siamo vicini alla linea che da Durand porta a Maffesoli). Diventa così possibile abbandonare il “confinamento” fra i diversi aspetti dell’esperienza, e passare da una dimensione culturale e sensoriale all’altra (un’utopia marcusiana o un processo reale e attuale?), usando “multipli modelli di ricerca sperimentale” [108-109], poiché l’ibrido, il multiplo, il simultaneo, il “galattico” sono i soli approcci scientifici possibili nella metamorfosi più o meno rapida e violenta dei media. E in fin dei conti non va sopravvalutata la forza dominante della Galassia: più o meno un terzo dell’arco cronologico della scrittura è stato “tipografico”, imponendo attraverso la stampa una meccanizzazione della mente; ora si può rimettere a fuoco quel movimento, e osservarne gli effetti ex-post,
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mentre si vive in pieno una nuova fase. Il Novecento non esclude affatto le forme ibride, di compromesso fra il mondo elettrico e la scrittura: così per esempio il “ritorno” del primitivismo con le avanguardie artistiche o la “sacralizzazione” della tecnologia da parte di Marinetti e di altri, sarebbero “banalizzazioni ancora meccaniche” del gigantesco risprofondamento della cultura nel primato dell’orecchio. E d’altra parte, proprio il “denudamento della vita conscia e la sua riduzione ad un unico livello” nel tritacarne gutenberghiano ha prodotto – anche qui sulla lunga durata del moderno, come sfondo implicito ed oppositivo della civiltà della stampa – il “nuovo mondo dell’inconscio”: l’inconscio collettivo, con i suoi archetipi che si organizzano come sorgente della comunicazione di massa, fin dal XVII secolo (qui McLuhan lascia solo due paginette, da 320 a 322, ma quanto affascinanti!). La Galaxy rimanda dunque a un’altra costellazione, a un’altra “nascita” e “ascesa”, annunciando un secondo libro, Understanding Media: “La Galassia Gutenberg si dissolse teoricamente nel 1905 con la scoperta dello spazio curvo, ma in pratica essa era già stata invasa dal telegrafo due generazioni prima” [331]; da allora si entra nel vortice elettrico dei media, esposti ai contraccolpi di una nuova grande rivoluzione, che riconfigura “la condizione dell’uomo di massa in una società individualistica”. Ed è già chiaro, molte pagine prima, che il viaggio sarà più o meno lo stesso, seguendo le tracce del Maelstrom di Edgar Allan Poe (una metafora che sembra come una calamita per mediologi!): così come il vecchio marinaio che attentamente aveva osservato i movimenti del grande gorgo, anche noi, studiando “l’azione del nuovo vortice sul corpo delle vecchie culture”, ci salveremo [115]. 5. Non siamo al determinismo (tecnologico). Se “la meccanizzazione dell’arte degli amanuensi […] fu la prima
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traduzione del movimento in una serie di fotogrammi statici o di inquadrature”, essa “confermò ed estese la nuova accentuazione visiva della conoscenza applicata, fornendo così la prima merce ripetibile uniformemente, la prima catena di montaggio e la prima produzione di massa” [174]. Confermò ed estese: perché prima della Galassia, già nell’antichità e nel Medioevo, inizia un distaccarsi dell’immagine dal corpo, nelle arti, nella percezione e nelle pratiche rituali, narrative e sociali; di qui deriva l’innovazione tecnologica (la tipografia, ma anche per esempio l’invenzione di macchine per il calcolo veloce, o la notazione musicale standard); di qui ancora, con l’estensione e diffusione dei modelli della riproducibilità, sperimentati culturalmente e impliciti nella nuova tecnologia (ed è uno dei tanti rinvii possibili a Benjamin) deriva la grande trasformazione della modernità, la nascita della macchina-Galassia sulle ceneri dell’immagine/organismo plastico, che viene sostituita dal punto di vista razionalizzante, e dalla “magia” meccanica e riproduttiva della “camera obscura” cinque-seicentesca. Sono la mente e il corpo a generare le loro protesi tecnologiche. McLuhan trova infatti interessanti possibilità di falsificazione e legittimazione delle sue tesi sul versante sperimentale della psicologia e della neuropsichiatria, e su questo indica una strada obbligata per la mediologia. Tecnologie della mente e tecnologie del corpo: il parallelismo costante tra esterno e interno, tra “artificiale” e “naturale” teorizzato da Florenskij (1919) e poi da Vygotsky (1931) e riscoperto oggi dai progettisti di una semantica dell’artificiale come organico, olistico, naturalizzante; la nuova comprensione degli inneschi tra corpo e processi cognitivi che deriva dalla neuropsichiatria sperimentale di Damasio (1994) e altri; le ricerche sulle nuove capacità della mente, in relazione, per esempio, alle abilità e alle culture della rete e dei device digitali. In comune tra scienza dei media e scienze spe-
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rimentali c’è del resto la scoperta che l’“informazione” non è un dato statico da osservare/ricordare/comunicare. Nel ciclo di connessioni e conformazioni mentecorpo che collegano emozione/sentimento/pensiero simbolico-formale, si attivano aree diverse del cervello, per l’osservazione e per l’apprendimento, passando per la simulazione, dove neuroni mirror sono addetti a una rappresentazione astratta dell’azione. La comunicazione umana “poggia essenzialmente su una infrastruttura psicologica e culturale di intenzionalità condivisa, originatasi durante l’evoluzione a sostegno delle attività di collaborazione” e basata su “abilità socio-cognitive per creare insieme con gli altri attenzione congiunta (e altre forme di terreni concettuali comuni)”, insieme a “motivazioni (e addirittura regole) pro sociali volte all’aiuto e alla condivisione”. Il soggetto e l’oggetto si danno senso in una relazione intenzionale pragmatica (richiedere, informare, condividere) (Tomasello 2008: 23); il senso nasce in modo connettivo (la mente estesa di Bateson) per essere percepito dagli altri. Per questo l’idea “linguistica” di informazione è puramente euristica e figlia della Galassia, solo una riduzione meccanica e transitoria della comunicazione, che è invece e sempre osservazione, simulazione, immaginazione, e di qui apprendimento. Più rapsodica e per certi versi onirica e implicitamente benjaminiana l’immersione di McLuhan nel flusso della storia. Che interessa nella lunga durata, nella trasformazione lenta e ibridante (come sosteneva del resto anche Febvre riguardo agli effetti della tipografia): “fino a più di due secoli dopo l’invenzione della stampa nessuno fu in grado di scoprire come mantenere un unico tono o atteggiamento per tutta un’opera in prosa” [187]. Perché le grandi metamorfosi del sensorio richiedono strategie attive di adattamento, nel colmo di un ottundimento collettivo che è provocato proprio dall’estensione e interiorizzazione delle nuove tecnolo-
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gie [210-212]. E la stessa Galassia, storicamente, non riesce a dominare esaustivamente il campo; ma arriva, piuttosto, a surriscaldare e ipostatizzare le proprie strutture, da quando – quasi due secoli dopo Gutenberg, tra Seicento e Settecento – la nuova mente tipografica si proietta in una organizzazione sociale “nazionale” che richiede sempre maggiore interdipendenza, regolazione, calcolo, istituzionalizzazione. Essa riduce via via gli uomini a espressione della macchina, in possesso di un pensiero statico, ma “non in grado di intenderne le configurazioni” (Innis) [277-281, 286-288]. Mentre nel seno di quella cultura nuove sensibilità, considerate outsider, alienate, preparano il ritorno del magico, dell’incantamento: il nuovo uomo integrale, cioè intuitivo e irrazionale, dell’era elettrica. 6. Potrei fermarmi qui. Ma non ci riesco. Perché questo libro, mentre fonda esplicitamente una scienza dei media, lancia anche precisi segnali per una mediologia delle arti (e, in particolare, della letteratura) tutta da inventare. Come ha spiegato in una intervista del 1969 (cfr. McLuhan 1982), un primo stadio della riflessione di McLuhan deriva dall’assemblaggio, per La sposa meccanica, di materiali sulla cultura popolare, la pubblicità, la letteratura di massa, i settimanali e soprattutto l’automobile come mito e proiezione individuale e collettiva. Mentre all’inizio degli anni Cinquanta gli appare evidente l’intreccio fra le tecnologie e “l’esperienza comune, che va dai rifiuti ai tesori”, una più potente chiave interpretativa gli scatta in un secondo momento, tornando nel mainstream della letteratura: “mi resi conto […] che i più grandi artisti del XX secolo: Yeats, Pound, Joyce, Eliot avevano adottato un diverso approccio, fondato sull’identità dei processi di cognizione e di creazione. Mi resi conto che la creazione artistica è il playback dell’esperienza comune” (McLuhan 1982: 66). E per centinaia di volte, nella Galaxy, a essere preso
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come riferimento e verifica costante della rivoluzione – e conflitto – dei media è quel grande campo di sensori che è dato nei linguaggi artistici. Pour cause, le prime due finestre che si spalancano poco dopo l’inizio del libro contengono un lungo ragionamento su Shakespeare, Cervantes, Yeats e altro. Ed è un ragionamento che innerva tutto il resto. Di Shakespeare, il King Lear. Figura di un potere che impazzisce, rinsavisce, di nuovo crolla; un simbolo dissociato, e dunque praticamente universale, in grado di parlare per sempre a padri e figli, a carnefici e vittime… Fino a qui arriverebbe per suo conto anche una interpretazione critica o psicanalitica; ma McLuhan sta cercando la radice mediale della metafora di Lear. Eccola: i protagonisti del dramma sono figure-chiave, che sintetizzano e rappresentano processi (dinamiche conflittuali, e soprattutto mediali; non i tipi sociali di Weber e Lukács). Il dramma racconta come il mondo pre-gutenberghiano dei ruoli viene sostituito da quello gutenberghiano dei lavori; e come uno spazio inclusivo di “configurazioni” (l’empatia delle figlie per il Padre, per il Re) viene ridisegnato secondo una mappa esclusiva di “sequenze continue, lineari e uniformi di tempo e di spazio così come di relazioni personali” [37]. Il tragico, autodistruttivo distribuire il potere da parte di Lear. L’impotente affettività dell’altra figlia amata, Cordelia. L’introiezione della macchina della scrittura e la scissione schizofrenica. Anche sul piano testuale emerge con eccezionale efficacia ostensiva e verbale la nuova potenza sensitiva della vista – una particolare configurazione percettiva, un “ficcare gli occhi così in fondo” ormai in grado di costruire la prospettiva visiva e spaziale come forma artificiale e simbolica, isolata dalla sinestesia sensoriale e tattile, e organizzata come successione organizzata di “pannelli piatti a due dimensioni uno dopo l’altro” [40]. L’analisi si appoggia sulle teorie dello spazio visivo di Gombrich, e confluisce nel
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dimostrare come la psiche, la struttura narrativa e la testualità del dramma rivelino già pienamente operante l’esperienza dell’uomo tipografico, il principio della “separazione delle operazioni sensorie e della vita sensoria individuale in segmenti specializzati”, con “la conseguente frenesia di scoprire un gioco di forze nuovo e onnicomprensivo”, che “assicura la concitata attivazione di tutte le componenti e di tutte le persone sottoposte al nuovo stress” [41]. Così il nucleo mcluhaniano della scienza dei media è inscindibile dall’immersione mediologica nel playback delle arti3.
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Osservazioni di chi scrive su McLuhan, le funzioni dei linguaggi artistici, e qualche traccia di mediologia della letteratura in: Ragone 2000, 2004, 2006, 2007a, 2007b.
1962 Edgar Morin, Lo spirito del tempo Scritto tra il 1960 e il 1961, L’esprit du temps è stato pubblicato in Francia nel 1962, in un periodo in cui gli studi sulla comunicazione erano ancora fortemente divisi tra ricerca amministrativa e teoria critica. Nel 1963, quando l’editore Il Mulino di Bologna lo propose nelle librerie italiane, il saggio di Morin apparve con il titolo L’industria culturale, e come tale restò noto negli anni successivi, fino a quando la nuova edizione uscita per i tipi di Meltemi quasi quarant’anni dopo non ripristinò il titolo originale, appunto Lo spirito del tempo, con il risultato di ridefinire in termini più corretti la distanza tra l’approccio dello studioso francese e quello degli studi francofortesi sulla mass culture. Il testo di Morin si offre dunque esplicitamente come un testo di metodo, in cui l’autore comincia a delineare alcuni strumenti operativi che costituiranno l’asse portante di tutto il suo percorso scientifico. Tra cultura di massa e complessi meccanismi di proiezione e identificazione, l’autore francese si chiede e chiede ai lettori in che misura gli intellettuali si impegnino nella costruzione di sistemi di difesa contro processi che tendono alla loro distruzione come categoria sociale. Morin suggerisce la necessità di sottoporre ad autocritica la nozione etica o estetica di cultura, per partire da una concezione di cultura che prenda corpo da quella che definisce immersione storica e sociologica. Da una parte il metodo autocritico, necessario per rimuovere “il moralismo altezzoso e l’aggressività frustrata” di gran parte degli studiosi della cultura di massa; dall’altra il metodo della totalità, indispensabile per evitare l’empirismo molecolare che, isolando arbitrariamente singoli campi della realtà, finisce per isolarli dal reale nel suo complesso. Elaborato dopo Il Cinema o l’uomo immaginario e Le Star, Lo spirito del tempo riprende e amplia le analisi sul cinema e il divismo lì contenute, proponendo una teoria in grado di offrire una chiave di lettura antropologica utile alla comprensione di fenomeni complessi legati alle trasformazioni della cultura popolare, della cultura di massa, degli immaginari condivisi. Il tessuto comunicativo emerge dal testo di Morin come una portentosa rete nervosa che ricopre la superficie del pianeta e integra miti, fantasmi e riti della realtà sociale. Lo spirito del tempo resta dunque, dopo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Benjamin, tra i primi e principali testi fondativi degli studi sui media intesi come complessi ambienti di elaborazione e trasformazione sociale.
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Cultura di massa ed evoluzione dell’uomo di Sergio Brancato
Ci sono libri che mantengono, anni dopo la loro prima pubblicazione, un carattere innovativo e perfino provocatorio sebbene il tempo trascorso li abbia inevitabilmente ridimensionati e, almeno in apparenza, resi “inattuali”. Se ci trovassimo all’inizio degli anni Sessanta e mettessimo in una capsula del tempo l’analisi di Edgar Morin sullo spirito del tempo, proponendoci di aprirla dopo mezzo secolo, il risultato sarebbe questo. L’esprit du temps è un testo che ha attraversato un’epoca nevralgica per le trasformazioni del modus vivendi della modernità industriale, un arco temporale in cui si sono concentrate straordinarie trasformazioni tecnologiche e culturali che hanno operato in profondità sul corpo sistemico dei media e sulla stessa trama della vita quotidiana. Proprio per questo, esso dovrebbe apparire superato – letteralmente consumato – agli occhi dei lettori del secolo XXI. Eppure non è così, o non lo è in gran parte. Se da un lato il libro di Morin ha perso, ed era inevitabile, i caratteri di oggetto “scandaloso” poiché votato all’osservazione della cultura di massa e dei suoi fenomeni in un periodo in cui questi temi erano guardati con estremo sospetto dagli studiosi, ancora lacerati dal mutamento del loro status sociale determinato – appunto – dall’avvento della cultura di massa, dall’altro esso ha acquistato – o maggiormente evidenziato – quei tratti di testo di snodo in grado di cogliere gli orientamenti generali del superamento del proprio tempo. Come dire che molti tra i temi toccati dal libro sono ancora sul tappeto e continuano a crearci problemi, a interrogarci sulle prospettive di un conflitto di culture ancora lungi dall’essere risolto, sebbene ormai entrato in una fase totalmente diversa da quella in cui s’era originato. Dopo la Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer, infatti, parlare di “industria culturale”
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assumeva – specie nell’Italia che sperimentava le declinazioni industriali della Ricostruzione e del Boom economico – una marcata connotazione ideologica, volta a consegnare il dibattito nei confini della contrapposizione, obsoleta fin da allora, tra apocalittici e integrati. Uno dei meriti più rilevanti del libro di Morin è quello di prospettare il definitivo superamento di tale conflitto, collocandosi così nell’ambito di una rilettura radicale della congerie teorica associata alla Scuola di Francoforte, di certo assumendo posizioni più vicine a Benjamin che ad Adorno1, e nell’apertura europea alle innovative prospettive degli studi mediologici realizzati oltreoceano soprattutto dalla Scuola di Toronto, fondati su di una interdisciplinarietà capace di integrare in maniera rinnovata i segni e le esperienze della società di massa alle tradizioni e ai ruoli del sapere scientifico2. La “dissonanza” tra i titoli scelti per le edizioni italiane del libro, dunque, risulta significativa per un accesso al consumo di questo testo nel dibattito sull’immaginario, aiutandoci a capire quanto esso costituisca al contempo l’analisi di un fenomeno sociale ma anche uno dei sintomi dei cambiamenti che a quel fenome1 Anche se va sottolineato che l’approccio di Morin muove da un background assai differente, integrando semmai le riflessioni sulla cultura di massa e le logiche della modernità proposte da intellettuali come Marcel Mauss, Georges Bataille, Georges Friedmann. Ricordiamo, inoltre, che la sociologia postbellica europea viveva una fase di ridefinizione imposta dalla rilettura critica e storica che ne dava Talcott Parsons ne La struttura dell’azione sociale (1937) e che dunque ridimensionava il ruolo storico di maestri poco “comprensibili” nella sfera sociologica funzionalista come Georg Simmel e – appunto – Walter Benjamin. 2 Del magistero di Marshall McLuhan, senz’altro la voce di maggior spicco della Scuola di Toronto, si ritrova traccia nell’uso di un linguaggio metaforico e teso alla produzione di slogan, che Morin desume in qualche misura dallo studioso canadese.
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no sono collegati. D’altro canto, la “mobilità” del libro viene individuata dallo stesso Morin nel dinamismo connaturato al suo oggetto: la cultura di massa, che contribuisce all’evoluzione del mondo, è anch’essa evolutiva per sua natura. […] La cultura di massa aderisce a molti più processi evolutivi, e molto più complicati, delle culture imposte per autorità o per tradizione, come le culture scolastiche, nazionali o religiose [222-223].
L’intuizione di una cultura di massa “evolutiva”, ovvero in grado di rinnovarsi nella sua adesione “al divenire profondo dell’umanità” [226], non contraddice in sé la visione adorniana dell’industria culturale, fondata sull’efficacia presunta di un meccanismo di dominio piscologico delle masse organico alla divisione capitalista del lavoro, ma certo la rende più problematica, negandone o almeno ridimensionandone la funzione conservativa e ipostatizzante implicita in ogni idea di “dominio”. Espressione dello spirito del tempo, la cultura di massa è per Morin l’equivalente culturale della società industriale [14], ed essa si rende pienamente evidente agli occhi della sociologia (in specie americana) a partire dalla fine della II guerra mondiale, ovvero nella fase di chiusura della crisi di crescenza del capitale che attraversa il Novecento e si agglutina intorno ai due grandi conflitti che hanno coinvolto l’Occidente quando questo era ancora riconoscibile in un modello ideologico coerente. In termini di storia della cultura, l’analisi di Morin è fin dall’inizio incardinata all’individuazione di un preciso statuto di legittimità per la cultura di massa, uno statuto che passa per l’acquisizione (di esplicita derivazione antropologica) della centralità dell’immaginario nella definizione di individuo moderno e nella costruzione della relazione tra questo e il mondo.
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A collegare ancora, in qualche misura, la ricerca di Morin al magistero di Adorno e Horkheimer, è l’approccio sociologico anti-quantitativo – votato, cioè, al rifiuto della cosiddetta sociologia amministrativa – che giunge a considerare l’industria culturale come un sistema fortemente interrelato che lega l’immaginario all’economia, i simboli alla politica, la cultura ai processi di ridefinizione delle relazioni interumane nel quadro della società di massa. Tuttavia, e in ciò risiedono la specificità e l’interesse de Lo spirito del tempo, la direzione in cui si muove il lavoro dello studioso francese è chiaramente diversa, a partire dalla scelta di usare la medesima definizione di industria culturale in una accezione che non contiene in sé il preciso posizionamento ideologico dei due sociologi tedeschi. In Morin manca, ad esempio, la netta contrapposizione tra l’idea di una cultura popolare percepita come rispondenza fenomenica di una creatività originaria, e quella dell’industria culturale, stigmatizzata per contro quale teoria del complotto capitalistico e, dunque, affermatrice di un processo di imbarbarimento e falsificazione delle pratiche culturali. Entra qui in gioco il profilo scientificamente “spurio” di Morin, che considera la necessità di mettere a punto una metodica di lavoro basata sulla coniugazione di sociologia e antropologia, in grado di cogliere i punti di genesi della cultura di massa ben più indietro del “big bang” convenzionalmente individuato nella Rivoluzione Industriale che chiude e sigla il secolo XVIII. Per Morin i tempi “convenzionali” delle rivoluzioni, in altri termini, risultano troppo contratti e accelerati per poter rendere conto di qualcosa che va invece considerato nel quadro di processi molto più lunghi e dislocati su una differente idea di “arco storico”3. Vale a dire che 3 In ciò è assai rilevante il fatto che Morin nasca come antropologo per poi incontrare la sociologia, fondendo e rendendo
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la cultura di massa non riguarda solo l’oggi e va invece intesa come la fase di un processo molto più lungo e complesso. Ciò in cui L’esprit du temps appare maggiormente dissonante rispetto al dibattito culturologico dei primi anni Sessanta, spesso orientato verso le analisi degli epigoni del pensiero adorniano (su tutti l’Herbert Marcuse de L’uomo a una dimensione, pubblicato nel 1964), è proprio nell’aver ricucito esperienze costitutive della moderna vita quotidiana che altre prospettive di analisi avevano invece letteralmente “lacerato” nei termini di uno scisma tragico. Morin riconduce miti e riti della modernità ad archetipi profondi quanto sedimentati e sostanzialmente funzionanti, dalle strutture di senso della festa alle dinamiche normativizzanti del gioco, reintegrando la sfera del folklore – ovvero l’humus sempre attivo e aggiornato delle culture popolari – nel quadro sistemico dell’industria culturale e delle sue manifestazioni. Questo atteggiamento può essere spiegato anche nei termini di una distanza generazionale tra Morin ed i pensatori che lo hanno preceduto, uno scarto temporale non enorme ma significativo, in cui le dinamiche novecentesche della cultura di massa hanno avuto modo di sviluppare differenti sensibilità e uno spostamento laterale rispetto all’estetica della perdita che informa le narrazioni della trasformazione sociale a opera dei francofortesi, con le dovute eccezioni – su tutti – di Walter Benjamin e Ernst Bloch. Inoltre, occorre non dimenticare che la formazione di Morin ha luogo dentro un’esperienza complessiva di rinnovamento della sociologia francese che in gran parte si identifica, negli anni del dopoguerra, con la figura di Georges Friedmann e la sua riflessione sulle dinamireciprocamente funzionali all’interno delle sue prospettive di ricerca non solo due discipline ma due diversi atteggiamenti nei riguardi della temporalità dell’esperienza storica.
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che scaturenti dalla relazione tra tempo del lavoro e tempo libero nell’epoca di massimo impatto – teorico ma anche immaginario – delle tematiche relative all’automazione4. Per Morin, come per Friedmann, il tempo libero è un oggetto essenziale nella comprensione dello spirito del Moderno. Friedmann si era spinto ancora oltre fin dai nevralgici anni Cinquanta, rovesciando in parte la prospettiva adorniana per considerare la sfera del divertimento e dei consumi (in specie quelli dell’immaginario) come luogo della riscoperta e dell’affermazione del soggetto, della sua rinnovata dimensione identitaria, e perciò in grado di restituire all’esperienza dell’uomo industriale ciò che gli era stato sottratto dalla meccanizzazione del lavoro (Friedman 1956). Sulla base di questa rinnovata attribuzione di senso alla cultura di massa, Morin sviluppa un modello di analisi fondato sulla fecondità delle contraddizioni proprie della modernità industriale. Come risolvere, ad esempio, il paradosso che vede la produzione industriale delle forme estetiche basata su criteri (diremmo tipicamente weberiani) di razionalizzazione, burocratizzazione e standardizzazione, a fronte di un consumo del soggetto metropolitano sempre più caratterizzato da pulsioni fortemente individuali, tese verso il soddisfacimento dei bisogni privati, un modello di “gratificazione” che non può non accelerare le dinamiche dell’innovazione? L’industria culturale ci pone davanti a questo dilemma cornuto e apparentemente irrisolvibile, che potremmo sintetizzare nel difficile nesso tra arte e fabbrica (dunque 4 Friedmann e Morin si incontreranno nella messa in opera di due tra le maggiori esperienze della sociologia della comunicazione: il Centre d’Etudes des Communications de Masse e la rivista Communication, autentici poli di rinnovamento teorico – per molti versi “anti-francofortese” – per la ricerca europea sulla cultura di massa e l’immaginario.
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tra individuo e massificazione, creatività e ripetizione, eccetera). Al suo centro ritroviamo la questione dello standard, ovvero di quel principio industriale posto a fondamento delle logiche della produzione seriale, che tuttavia diviene – quando applicato all’industria culturale – un ambiguo oggetto teorico, contenente in sé la qualità ottimizzante tipica della serialità e la pulsione creativa volta all’innovazione delle forme come alla loro tendenziale originalità. Se proiettiamo questo problema sui fenomeni culturali in cui siamo immersi – dalle iterative narrazioni della televisione alle cicliche oscillazioni della Moda – ci rendiamo conto di quanto sia difficile far coincidere la durezza della “necessità” industriale con la soggettiva casualità dei bisogni del corpo, ovvero con le inquietudini ed i desideri – un insieme coincidente, per lo studioso francese, con una nuova accezione massificata della libido – che si animano nella vita quotidiana e la caratterizzano. Per Morin, il paradosso della cultura di massa si risolve solo se ne cogliamo la portata antropologica, ovvero se leggiamo nelle moderne forme della comunicazione l’adesione agli archetipi delle culture premoderne, tracciando un filo tenace di continuità con il passato della specie e riportando la riflessione sul presente alla stessa struttura dell’immaginario 5. Il sociologo francese ribalta, per alcuni versi in maniera davvero scandalosa, la prospettiva francofortese che vede nei dispositivi tipici dell’industria culturale – come il sistema dei generi narrativi di massa, spesso ridotti a “formule” preordinate per stereotipi e cliché – il trionfo delle ideologie collettiviste e una minaccia alla stessa
5 Un tema caro a Morin come a molti altri studiosi a lui vicini negli anni in cui scrive Lo spirito del tempo, a partire da Gilbert Durand, che pubblica Le strutture antropologiche dell’immaginario nel 1963, solo un anno dopo l’opera del sociologo francese.
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possibilità dell’esistenza individuale. Sulla scorta degli studi condotti in merito alla morfologia dei racconti mitici e fiabeschi, invece, Morin ci ricorda che i generi dell’industria culturale hanno molto a che vedere con le narrazioni originarie della specie umana: la fabbrica si riconnette all’uomo attraverso la sfera simbolica e le pratiche dell’immaginario, che recuperano nella produzione in serie di media industriali come il cinema o il fumetto la radice comune del Mito. Del resto, “la cultura di massa è una cultura: costituisce un corpo di simboli, di miti e immagini concernenti la vita pratica e la vita immaginaria, un sistema di proiezioni e di identificazioni specifiche, che si aggiunge alla cultura nazionale e alla cultura umanistica, entrando in concorrenza con loro” [16]. Non si può, sostiene Morin, arroccarsi nella difesa di un’idea “ordinata” del mondo nel momento in cui questo si riorganizza e si dis-ordina, proiettato verso un radicale riassetto dell’equilibrio sociale e l’implementazione esponenziale di quello che molti anni dopo diverrà uno dei temi approfonditi dallo studioso francese, ovvero la questione della complessità (Morin 1993): Le società moderne sono policulturali. […] La cultura di massa integra e al tempo stesso si integra in una realtà policulturale, si fa contenere, controllare, censurare (dallo Stato, dalla Chiesa) e, nello stesso tempo, tende a corrodere e disgregare le altre culture. […] Cosmopolita per vocazione e planetaria per estensione, ci pone i problemi della prima cultura universale della storia dell’umanità [16-17].
Morin non si limita ad affermare la legittimità della cultura di massa, come facevano in parecchi già allora, ma si spinge fino all’eretica asserzione che essa sia la prima cultura universale della storia, e che dunque occorre rivedere la nostra idea di cultura per poterla affrontare, analizzare e integrare nel dibattito scientifico:
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Questo ci costringe a rivedere e a sottoporre la nostra nozione etica o estetica di cultura, e a riprendere il largo, partendo da una concezione di cultura in immersione storica e sociologica: la cultura di massa, infatti, ci pone problemi mal formulati, e mal affioranti. Nemmeno l’espressione cultura di massa può da sola designare questa cultura in emersione, dalle frontiere ancora fluide, profondamente legata alle tecniche e all’industria come all’anima e alla vita quotidiana. Nella nuova cultura sono messi in discussione i differenti strati delle nostre società e della nostra civiltà, e noi siamo rinviati direttamente al complesso globale [21].
Complessità e dinamismo sono le qualità della cultura di massa che la rendono conseguente all’industria culturale intesa come applicazione delle logiche e delle strategie della fabbrica alla produzione e al consumo delle forme estetiche, ma in definitiva anche il suo punto di crisi. La tendenza a evolversi incessantemente in direzioni impreviste – in ciò l’approccio di Morin appare del tutto coincidente con quello di Marshall McLuhan – rende il problema del metodo di ricerca centrale e imprescindibile per evitare di attardarsi su condizioni e fenomeni ormai superati o non più rappresentativi. Anche qui Morin anticipa uno dei temi che approfondirà successivamente, ovvero la necessità di approdare a una sociologia della sociologia in grado “non soltanto di cogliere un fenomeno nelle sue interdipendenze, ma a coinvolgere l’osservatore stesso nel sistema delle relazioni” [22]6. La crisi generata dall’avvento della cultura di massa ha luogo nel corpo e nell’identità dell’intellettuale, ovvero del detentore-regolatore degli statuti di legittimità culturale della nostra epoca. E lì dove entra in crisi un
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Su questi argomenti, inoltre, si veda Morin 1985.
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modello storico di conoscenza del mondo (della sua organizzazione all’interno dei rapporti sociali), un altro ne emerge con spettacolare evidenza producendo – per riprendere un passaggio del libro – nuove estetiche e nuove etiche. Morin ritiene, a riguardo, che l’industria culturale possa essere interpretata anche come un’etica del loisir, ovvero della coniugazione tra tempo libero e divertimento. Rimpiazzando i precedenti imperativi morali, nel nostro tempo si afferma il ruolo del divertimento come nuova etica che intacca e disgrega quelle che l’hanno preceduta. Ma il loisir non è solo (e forse non è tanto) il decadimento di valori come l’epos del lavoro, del sacrificio cristiano o della parsimonia borghese: esso si dispiega davanti ai nostri occhi come ritorno a una dimensione rituale e partecipativa che, in qualche modo, ci era stata sottratta dall’ordine della modernità, dai suoi conflitti culturali, dai suoi modelli di organizzazione sociale. Il fondamento mitico che contribuisce alle narrazioni e alla percezione collettiva della società in cui viviamo non può non tradursi, per Morin, nell’elaborazione di nuove ritualità che permettono integrazione tra individuo e comunità in un ordine di grandezza totalmente rinnovato. È questo il senso di pratiche diffuse e dai caratteri iterativi come il turismo di massa nelle sue varie forme, il consumo di immaginario nei luoghi pubblici o in quelli privati (cinema, teatro, arena sportiva, radio, televisione), la rifondazione dei ruoli e dei rapporti sessuali (in particolare di quelli legati all’universo femminile), la distribuzione della festa lungo archi di tempo non più ciclici ma costanti e quotidiani, dunque in qualche misura desacralizzati. Il recupero del gioco e della festa, in particolare, costituisce per Morin una sorta di ritorno al rito e alla sua necessità nel quadro dei processi di partecipazione alla vita collettiva. Nell’immaginario moderno, egli sostiene, nuovi miti si sostituiscono continuamente ai vecchi, nel tentativo
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– votato al fallimento – di ritrovare le grandi trascendenze (Morin 1957). È questo uno dei punti centrali del libro, un tema che tocca la questione più generale del “nuovo individualismo” (o “super-individualismo”) che caratterizza le pratiche collettive dell’industria culturale a partire, soprattutto, dal punto di rottura generatosi nella seconda guerra mondiale, evento che ha aperto il campo a nuovi modelli comunicativi di portata planetaria. Un individualismo nuovo, sostiene Morin, poiché prende il posto dell’individualismo piccolo-borghese e influenza la percezione del tempo storico, presentificandola affinché risulti funzionale al nuovo consumo di massa e alla sua natura ludico-estetica. Per lo studioso francese, “la cultura di massa privilegia il presente su tutto l’immenso fronte stimolato e abbracciato dall’attualità. Tende a distruggere gli antichi miti per sostituirli con la ‘novità’ del giorno” [218]. Questa “sospensione” del tempo tradizionale in un presente reificato e reiterato anticipa di quasi vent’anni le tematiche del postmodernismo. Si tratta di una sorta di inquietudine generazionale che Morin trattava con estrema chiarezza già dal suo precedente lavoro sul cinema (1956), in cui il dispositivo dello schermo viene individuato quale vettore di dislocazione del “corpo” – individuale e collettivo – in uno spazio-tempo dai caratteri assai diversi da quello tradizionale, e che ne Lo spirito del tempo si spinge su uno step successivo poiché fortemente condizionato dall’emergenza televisiva e dalla sua qualità sincretica nei riguardi delle idee convenzionali di territorio. La ridefinizione del “senso del luogo” (il riferimento a Joshua Meyrowitz non è casuale) va di pari passo con il sorgere di un nuovo concetto di individuo caratterizzato da una forte partecipazione al presente del mondo [217]. È a questa conclusione che portano i capitoli del libro dedicati al romanzo borghese, alla moda, all’happy end hollywoodiano o al turismo di
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massa assai più che i passaggi dedicati alla televisione o alla moderna mitologia divistica dei rotocalchi (che al lettore degli anni Sessanta, ma anche a quello presente, potrebbero apparire più attuali), nel tentativo – coronato dal successo – di individuare in quelle fasi, ancora pregne di conflitti e “fantasmi” ottocenteschi, l’origine del trionfo dell’industria culturale. Il soggetto moderno, così, coincide con un uomo-massa sospeso, direbbe Nietzsche, sulla soglia dell’attimo: la sua felicità coincide con lo spostarsi nel mondo guidato dalle correnti di una cultura “leggera”, che non lo annichilisce con il peso dei suoi retaggi, caratterizzata dalla centralità dei consumi (un consumo in cui le merci sono sottoposte a processi di rapida usura che ne richiedono la frequente sostituzione con “l’ultima novità”) e dall’accesso a un ritmo della trasformazione sociale che non provoca più angoscia ma diviene invece “stile di vita” attraverso il Sistema della Moda e il suo ciclico diversificarsi. L’analisi di Morin su tali dinamiche non è priva di perplessità, ma nell’insieme riesce a restituire la consapevolezza di un punto di vista innovativo e sganciato dai luoghi comuni della mediologia anche mezzo secolo dopo essere stata messa su carta: La cultura di massa tende a riportare lo spirito al presente. Nello stesso tempo, instaura una prodigiosa circolazione degli spiriti verso gli ‘altrove’. Gli ‘altrove’ immaginari hanno sempre circondato le società e le esistenze più chiuse. Ma la nostra civiltà rivela a suo modo, e in forme particolarmente estensive, quel carattere fondamentale che fa dell’uomo ‘un essere delle lontananze’, il cui spirito vaga incessantemente per gli orizzonti della vita [219].
Il “limite” di questi “altrove” risiede per Morin nel permanere dell’angoscia dentro un orizzonte esistenziale in cui si dispone soltanto di risposte concentrate – appunto – nell’esperienza dell’attimo, come quelle
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proposte dalla fruizione dei mass-media e del loro immaginario: “nella cultura di massa manca l’interrogazione interiore dell’uomo alle prese con se stesso, con la vita, con la morte, con il grande mistero dell’universo” [221]. Il dinamismo della cultura di massa costituirebbe pertanto il piano di adesione al “ritmo frenetico e esteriorizzato dello spirito del tempo” [221], inevitabilmente votato alla “superficialità” di una vita quotidiana che confonde i ruoli tra sacro e profano, rovesciandoli l’uno nell’altro sino a configurarsi come una “religione della salvezza terrena” [206]. Morin giunge così a concludere che la cultura di massa, sebbene sia la prima cultura universale della storia, non può sostituirsi all’organizzazione statale oppure alla qualità ordinativa dell’angoscia tipicamente espressa dalle istituzioni religiose. La salvezza terrena garantita dall’industria culturale tenderebbe a consumarsi entro i confini di un mondo incapace di fornire alle domande fondamentali, in primis a quella della morte, risposte in grado di orientare i comportamenti quotidiani su un piano di maggiore profondità. Tuttavia, la considerazione che i meccanismi della cultura di massa agiscano non come materializzazione della weberiana “gabbia d’acciaio”, ovvero di una struttura sociale razionale e disincantata, atta a produrre dinamiche di forte coercizione delle soggettività storiche, ma piuttosto come sua contraddizione in grado di compensare i limiti dell’organizzazione sociale nel mondo della modernità industriale, rende Lo spirito del tempo il vero punto di fuga dall’estetica post-romantica della nostalgia. Per Morin, allora, la cultura di massa ci permette di “aderire all’esistenza storica di cui siamo parte. […] La cultura di massa, che corrisponde all’uomo a un certo stadio della tecnica, dell’industria, del capitalismo, della democrazia, dei consumi, pone l’umanità in relazione con lo spazio e con il tempo del mondo” [222]. Se accettiamo che l’immaginario sia espressione
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della struttura sociale e delle dinamiche profonde delle relazioni interumane, che le tematiche dell’industria culturale siano inscindibili dalla definizione di campo delle nuove forme dell’individualismo e dell’identità a fronte della crisi del Moderno, che in definitiva la cultura di massa contribuisca all’evoluzione del mondo, allora il giochino con cui s’era aperta questa ricognizione ne Lo spirito del tempo può essere portato a conclusione. Aperta l’ipotetica capsula del tempo, che coincide con il libro stesso ed i suoi contenuti, ma anche con la nostra consapevolezza dello stato dell’arte della mediologia, allora recuperiamo dagli anni Sessanta non solo lo stato del dibattito scientifico in atto sulla società industriale e di massa, e sulla sua cultura, ma anche e soprattutto l’entità dello scarto che ci separa, oggi, da quella particolare prospettiva. O, se si vuole, dalla produzione di significato di quell’epoca. A fronte di una enorme differenza in termini tecnologici, si ricava la sensazione che l’approccio teorico sui media e l’immaginario non sia mutato in maniera paragonabile e adeguata, e che nell’odierna sociologia della comunicazione permangano molti luoghi comuni e paradigmi esausti, che poco recepiscono di quella natura evolutiva e complessa del loro oggetto sottolineata mezzo secolo fa da Morin.
1963 Eric A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone Britannico, socialista, classicista, Eric A. Havelock ha vissuto tra il Canada e gli Stati Uniti e ha lavorato presso l’Università di Toronto, ad Harvard e a Yale, dando vita a una nuova corrente di studi sul periodo della Grecia classica in aperta opposizione alle teorie dei suoi stessi maestri. Cultura orale e civiltà della scrittura è, insieme a La musa impara a scrivere (1986), tra i testi più importanti non solo della produzione accademica di Havelock ma anche dell’intero filone di studi contemporaneo sul rapporto tra oralità e scrittura. Con quest’opera prende corpo per la prima volta in modo rigoroso e scientifico una analisi sul pensiero e la cultura occidentali come variabili dipendenti dal cambiamento del modo di pensare verificatosi in Grecia in seguito all’adozione dell’alfabeto. Havelock vede nel passaggio dal VII al IV secolo avanti Cristo un punto di svolta centrale per la comprensione non solo del mondo classico ma dell’intera tradizione di pensiero occidentale; in particolare, per Havelock la Repubblica di Platone può essere utilizzata per analizzare il ruolo della poesia nella storia della ‘mente greca’. “Parola ritualizzata”, “ritenzione mnemonica”: rima e ritmo sono in quest’ottica strumenti funzionali alla conservazione dell’informazione culturale per il suo reimpiego, mentre l’alfabeto libera dalla costrizione al ritmo e apre al nuovo e al non tradizionale. La proposta di Havelock, pur complessa e articolata, è osteggiata fin da subito dalla maggior parte dei classicisti, in quanto si oppone, tra le altre cose, alla considerazione del passaggio dall’oralità alla scrittura come processo lineare ed evolutivo. Per Havelock i Greci non hanno “aggiunto le vocali” a un alfabeto precedente, ma hanno inventato la “pura” consonante, fornendo agli uomini la rappresentazione visiva di un suono linguistico al contempo esaustiva ed economica, e dando vita al primo strumento perfettamente costruito per riprodurre tutto l’ambito della precedente oralità. Collocando la civiltà greca all’interno di una dimensione sociologica, il lavoro di Havelock tende a descriverla come un processo e non un’entità ideale: una realtà il cui carattere mutò profondamente con il modificarsi della tecnologia della comunicazione.
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Oralità, scrittura e una guerra mediale di Gabriele Frasca
In un capitolo di un saggio apparso nel 1986 (La Musa impara a scrivere), l’oramai anziano grecista canadese Eric A. Havelock proponeva come data significativa della “riscoperta moderna dell’oralità” un anno, a sua detta, “emblematico”: il 1963. A scorrere difatti la bibliografia di un’opera fondamentale come Oralità e scrittura (1982) di Walter Ong, chiunque avrebbe potuto constatare quanto risultasse esiguo, prima di quella data, il numero di contributi sull’argomento rispetto al “profluvio” di saggi apparsi nel ventennio successivo. Che cosa era successo, dunque, per fare esplodere da quell’anno in poi un tale interesse? Per trovare una risposta che desse conto della “demarcazione cronologica” prescelta (a motivare la quale avrebbe però nel capitolo successivo, con un autentico coup de théâtre mediologico, rimandato senz’altro agli effetti più emotivi della diffusione della radiofonia), Havelock invitava a ragionare su un evento all’epoca passato inosservato: la circostanza, alquanto sorprendente, della pubblicazione nell’arco di un solo anno, dal 1962 alla primavera del 1963, di cinque opere in vario modo fra loro consonanti da parte di studiosi che provenivano da ambiti disciplinari sostanzialmente diversi. Le opere in questione, da inserire tutte nella biblioteca degli studi mediologici, erano: Il pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss, La galassia Gutenberg di Marshall McLuhan (entrambi del 1962), Le conseguenze dell’alfabetizzazione di Jack Goody e Ian Watt (articolo apparso nel numero di «Comparative Studies in Society and History» datato 1962-1963), Animal Species and Evolution del biologo Ernst Mayr e, finalmente, Cultura orale e civiltà della scrittura dello stesso Havelock (gli ultimi due pubblicati appunto nel 1963). Gli studi di Mayr e di Lévi-Strauss, semplificando al massimo, ripensavano ciascuno a suo modo l’oralità
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come supporto stesso dell’informazione non genetica. Il primo, difatti, proponeva, sulla scorta delle teorie neodarwiniane (che sarebbero poi state assunte e portate alle estreme conseguenze da Gerald M. Edelman), non già nella cultura (riscontrabile anche in altre specie animali), ma nella coevoluzione di linguaggio, cervello e intelligenza il tratto proprio dell’ominazione. Il linguaggio, dunque, prima protesi mediale, farebbe letteralmente l’uomo (che risulterebbe così, con un’inattesa convergenza con le teorie di Jacques Lacan, un parlêtre, cioè un animale il cui tratto specie-specifico è quello di essere immerso in un medium). Il secondo tendeva da parte sua a stabilire una sorta di corrispondenza fra la logica strutturale del mito tribale e la struttura del linguaggio, ribadendo così un concetto che poi è alla base dei nostri studi: non esiste processo culturale umano che non sia innanzi tutto una riflessione sui (e dei) media. Gli altri tre saggi affrontavano invece a pieno la questione dell’alfabeto come complessivo (direbbe oggi de Kerckhove) “remapping sensoriale” della specie. Rimandando alla voce specifica di questo volume l’analisi de La galassia Gutenberg, varrà allora la pena introdurre il saggio di Havelock sulla scorta del lavoro di Goody e Watt. Nella cultura delle società non alfabetizzate, argomentavano i due autori (l’uno antropologo, l’altro teorico della letteratura), sussiste una sorta di dialettica fra memoria individuale ed eredità culturale, responsabile di quel procedimento genealogico che riadatta la storia (la memoria collettiva) alle esigenze dell’oggi, e che funziona dunque più come statuto delle contemporanee istituzioni sociali che come fedele registrazione del passato. Pertanto le più vistose “conseguenze” in tali culture dell’introduzione dell’alfabeto (che fissa un evento nell’immodificabilità della sua testimonianza) sarebbero, nell’ordine: l’introduzione della consapevolezza del passato, l’eliminazione delle “amnesie strutturali” di tipo genealogico, la stratificazione sociale e
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la nascita stessa del concetto di individuo. Il mondo greco, nel suo passaggio epocale alla scrittura di tipo alfabetico (intorno al VII secolo avanti Cristo), testimonierebbe a pieno tali “conseguenze”, che risultano in buona sostanza le stesse su cui si sarebbero soffermati McLuhan e Havelock. Cultura orale e civiltà della scrittura (in realtà il titolo originale, Praface to Plato, è meno esplicito ma più pertinente) faceva invece ruotare le proprie argomentazioni intorno alla nota condanna pronunciata nel libro X della Repubblica, e dunque tre secoli dopo, ai danni della poesia, sia essa quella omerica o la stessa tragedia attica (perché ciò che colpisce in Platone “è il suo costante rifiuto di distinguere formalmente tra l’epos e la tragedia come generi differenti”). Va dunque immediatamente fatto notare non solo che nella cultura orale non esiste, nella ricostruzione di Havelock, distinzione fra la poesia e la sua esecuzione scenica (la poesia insomma, come avrebbe successivamente spiegato un altro filologo, questa volta romanzo, Paul Zumthor, è già la sua performance), ma soprattutto che per poesia non s’intende un genere letterario, bensì un mezzo di “trasmissione del sapere” (“appena ci rendiamo conto che i poeti sono essenziali all’apparato educativo, le successive critiche alla poesia acquistano il loro vero significato”). Lo studioso aveva del resto facile gioco a mostrare che la società greca, non soltanto all’epoca della trascrizione dei poemi omerici, ma addirittura al tempo stesso della stesura della Repubblica, era ancora in buona sostanza totalmente orale (malgrado una sorta di “alfabetismo di corporazione”, testimoniato dalla diffusione delle pubbliche iscrizioni), e che avrebbe subito soltanto a partire dalla metà del IV secolo (grazie alla diffusione di un supporto economico come il papiro) le “conseguenze dell’alfabetizzazione”. Platone, dunque, si sarebbe trovato a descrivere una situazione in via di trasformazione, e avrebbe utilizzato tutto il suo peso
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intellettuale per proporre come unico modello possibile di educazione il curriculum studiorum dell’Accademia, interamente basato non tanto sull’alfabeto ma su un suo uso specifico e, per così dire, personalizzato. Nel nome della “filosofia” detentrice “del linguaggio astratto della scienza descrittiva”, il filosofo proponeva allora di congedare una volta per tutte la delectatio di cui era portavoce l’amante non già della verità, ma dell’opinione: il “filodosso”. Per Platone, insomma, fra tragici, epici e sofisti, alfieri tutti del medium performativo che ricerca non il pensiero ma le emozioni dell’uditorio, non vi era sostanzialmente differenza (tanto per mettere in crisi un’ulteriore distinzione così cara alla nostra concezione, tipografica, di letteratura: quella fra poesia e prosa). Ma in che cosa consistevano le pratiche di insegnamento affidate dalla cultura orale al canto e alla performance dell’aedo, elargitore rapsodico di una sorta di “enciclopedia tribale”? Per controllare la memoria collettiva, l’aedo doveva utilizzare un meccanismo di potere atto a stabilire un controllo sulle memorie individuali, una sorta di ipnotismo basato sul principio della variazione dell’identico, cioè sul ritorno delle invarianti e sulle leggi di variazione. Occorreva assicurare in prima istanza la ripetizione del suono (lo schema metrico, sia nel suo sistema binario di arsi e tesi sia nelle sue duplici unità di ripetizione: piede e verso), e su questa innestare il riavvolgersi dei significati e delle immagini mentali. Una funzione fondamentale era svolta dunque da quello che, prima Milman Parry, poi il suo allievo Albert Lord, avevano definito “ritmo formulaico”, basato sostanzialmente su “una serie di immagini uniformi” presenti nella mente dell’aedo nel loro stesso susseguirsi, e un insieme di “formule verbali” stereotipate usate come “strumenti mediante i quali queste immagini venivano messe in campo”. La “formula”, insomma, consterebbe di due procedimenti, l’uno mentale e l’altro performativo, lì dove il primo
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deriverebbe dalla successione di immagini in movimento che il secondo variamente ordina. Negli ascoltatori il secondo avrebbe in realtà dovuto attivare il primo, assicurando una gestione comunitaria del patrimonio delle “immagini” (in qualche modo televisive). Modulo metrico e formule verbali andavano ovviamente congiunti in una serie di riflessi corporei, che erano innanzi tutto quelli degli organi fonatori, poi quelli dei muscoli che assicuravano il mutamento ritmico della postura (la danza, insomma), e infine quelli della mano che consentivano i movimenti delle dita sullo strumento a corda. L’arte della memoria delle culture orali si basava essenzialmente su procedimenti dinamici e corporei, in virtù dei quali, se da un lato la melodia e la danza possono risultare ai nostri occhi piegati al servizio della conservazione dell’enunciato, dall’altro non può che apparire evidente il coinvolgimento dell’intero sistema nervoso nell’apprendimento mnemonico. Quanto questo avesse a che fare con l’enthousiasmos e con la theia moira (invasamento divino), rimproverata fra l’altro dallo stesso Platone agli aedi in un dialogo giovanile (Ione), è fin troppo facile argomentarsi. Da tali considerazioni Havelock traeva dunque la conclusione che la recitazione dell’“enciclopedia tribale” finiva, in virtù del suo stesso medium (il canto performativo), con l’essere anche il “divertimento tribale”, vale a dire che in un contesto culturale orale la “voce dell’istruzione”, la Musa insomma, consuona fin troppo evidentemente con la “voce del piacere”, e del piacere propriamente fisico. La partecipazione etimologicamente “entusiasta” dell’uditorio che ascoltava, ripeteva, danzava e, infine, assimilando porzioni di epos, “ricordava”, defluendo per così dire nella personalità dell’aedo che a sua volta si annullava nell’esecuzione (dal momento che la “parola poetica” gli preesisteva, in una sorta di flusso in attesa di sintonia), era una riproduzione della materia tradizionale (difficile continuare a
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chiamarla letteratura) con tutto il corpo (labbra, polmoni, muscoli, nervi). Una cultura orale, si potrebbe concludere, tramanda la necessaria informazione non genetica attraverso una sofisticatissima e apparentemente impalpabile macchina per il riposizionamento dei sensi, che finisce però col modificare, tramite la memoria, il corpo stesso che si dispone a ospitarla. Nell’alone semantico della parola mimesis (termine scelto non a caso da Platone nella Repubblica per contrassegnare sia la “tecnica” dell’aedo sia la “scomposta” e “sonnambulica” compartecipazione dell’uditorio) fluttuerebbe pertanto un significato ben lontano dall’innocuo concetto di “imitazione”: la mimesis adombrerebbe piuttosto un processo di incorporazione. Nell’atto stesso di identificare la poesia con la doxa (intesa come l’informazione accettata per tradizione, e ripetuta senza il necessario divorzio fra soggetto e oggetto della conoscenza), e nell’anteporre di conseguenza nell’educazione delle nuove generazioni il filosofo (che invita a ragionare, sulla scorta della “visibilità” della scrittura, con la propria mente, e a isolare l’essere dal flusso del divenire) al filodosso (che canta e incanta nelle convoluzioni della mente collettiva, e che invita alla contemporaneità “linguistica”, avrebbe detto LéviStrauss nel Pensiero selvaggio, fra “osservazione” e “interpretazione”), Havelock scorgeva, dunque, il senso del grande progetto platonico che avrebbe condizionato solo in parte il nodo epocale da cui sarebbe emersa la nostra cultura. La guerra mediale fra la “cultura orale” e la “civiltà della scrittura”, difatti, non si esaurisce con l’apparente vittoria della seconda; e le schermaglie fra l’élite letteraria e la maggioranza analfabeta o solo parzialmente alfabetizzata, nel corso di tanti secoli di storia, rendono conto solo parzialmente dell’entità dello scontro. La storia dei media è etimologicamente politica, riguarda il concetto stesso di socius e determina dunque la riorganizzazione complessiva del nostro sopravvivere
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in quanto specie, sicché ogni modificazione nei mezzi di comunicazione (ma sarebbe meglio definirli di “informazione”, nell’accezione forte) ridisegna la scena del mondo, e la parte in essa che ci viene assegnata. Né andrà sottovalutata l’aria di famiglia che ogni lettore può facilmente percepire nella ricostruzione che Havelock propone delle “psicotecnologie” in opera nella cultura orale (da cui quel richiamo alla radiofonia nel testo successivo): tanto, magari anche troppo, lo si sarà notato, consuona con quell’“ambiente elettrico” (avrebbe detto McLuhan) nel quale siamo ancora immersi, e con talune caratteristiche che si è soliti ritenere proprie di una cultura tecnologica di massa. D’altra parte andrà ribadito che la contesa fra “cultura orale” e “civiltà delle scrittura” non riguarda in verità due media alternativi (l’uno metrico-orale e l’altro chirografico), dal momento che la scrittura di per sé (come già sembrerebbe aver notato lo stesso Platone con le sue prescrizioni per un’opportuna profilassi dal contagio “poetico”) non può in alcun modo competere con le capacità persuasive del sortilegio orale. Il “corpo a corpo” performativo (e il suo metodo disseminativo, per usare una distinzione cara a John Durham Peters) sarà sempre in grado di ottenere rapidamente, per quanto superficialmente, una buona programmazione dell’uditorio, rispetto al lento procedimento maieutico con cui la superficie scritta, simulandosi specchio, deve farsi ridire, per essere credibile, con la voce del lettore (che nel caso degli stessi dialoghi platonici dovrà ridare paradossalmente vita alla messa in scena di un apprendimento in fieri, e “faccia a faccia”). Ciò che la diffusione della scrittura a partire dal IV secolo a.C. realizza (grazie al papiro), è in verità la piena innovazione della tecnologia dell’alfabeto, in quanto autentico incrocio mediale responsabile della giuntura occhio-orecchio che sarebbe stata in grado di “riprodurre tutto l’ambito della precedente oralità”.
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La “civiltà della scrittura” nasce in verità dal propagarsi di questo formidabile intreccio di mezzi (come ha ribadito più volte nei suoi studi Jack Goody, i media tendono piuttosto a cumularsi che a sostituirsi): la voce dell’aedo si fa macchina nella registrazione di una voce per la sua riproduzione, altrettanto perentoria e persino più incorporante. Le prime fasi della scrittura alfabetica prevedevano, difatti, ancora un processo di parassitosi di tipo orale, sebbene nella forma del prestito a termine. Alla base di tutto questo, naturalmente, la pronuncia ad alta voce richiesta dalla scrittura alfabetica greca, testimoniata dall’uso della scrptio continua, che determina un’autentica coazione ai movimenti dell’apparato fonatorio del lettore, anche e soprattutto di quello casuale, come mostrano, talvolta con particolare virulenza, i cosiddetti “oggetti parlanti” (iscrizioni su vasi e altri utensili), con il loro uso parassitante dell’io (che strappano insomma letteralmente al corpo di chi legge). Il lettore, dunque, costretto a impiegare la propria voce per slatentizzare il testo, appare alla fin fine troppo passivo, persino indegno, per quanto si lascia possedere, e disprezzabile (da cui la diffusissima pratica della lettura ancillare), cosa che parrebbe in evidente contraddizione con la funzione, diciamo così liberatoria, che Platone avrebbe affidato alla stessa scrittura alfabetica. D’altra parte, se si considera che nella Repubblica alle conoscenze “automatiche” (cioè al ripetere senza comprendere della cultura orale) si contrappone costantemente la verità espressa con parole proprie (en idiois logois), appare fin troppo evidente quanto le pratiche di lettura che si limitavano a riprodurre con la propria voce parole altrui dovettero far parte, nella visione platonica, dello stesso mondo infestato dalla doxa della cultura orale (ecco perché per lui poeti e sofisti fanno tutt’uno). Platone, in definitiva, non anteponeva tout court, per le pratiche didattiche necessarie all’istruzione del cittadino della nuova polis, la lettura all’ascolto
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dell’aedo, ma si schierava piuttosto per un impiego non oralizzato della scrittura (in un noto passo del Fedro, Socrate rimproverava non a caso al testo scritto una sorta di simulazione “a viva voce” di un sapere che altro non poteva che ripetere costantemente se stesso). Platone, insomma, proponeva la nascita, attraverso l’uso astrattivo (e in buona sostanza matematico, cioè non mnemonico né meramente replicativo) della scrittura-lettura, di un accordo fra la voce della legge e della conoscenza e il brusio interiore con cui ciascuno si percepisce vivo (la psyche di derivazione socratica), schierandosi in tal modo non tanto, o meglio non solo, contro la poesia, quanto contro le pretese accampate da ogni intreccio mediale di far risuonare, ed esaurire, praticamente in ciascuno di noi, tutte le voci del mondo. All’“incorporazione” nascosta nel concetto di mimesis (in cui conoscente e oggetto della conoscenza devono fare uno), il curriculum studiorum platonico contrapponeva, tramite un tirocinio mai coattivo con la scrittura (cui doveva predisporre il “faccia a faccia” col maestro), una schematizzazione che potesse consentire l’interiorizzazione non già di porzioni precostituite di informazione non genetica, ma di una facoltà (dynamis) per derivare informazioni dal mondo. Questo, per Platone (sempre nel Fedro, dialogo che tratta, per l’appunto, di amore e di scrittura), è l’unico discorso che dovrebbe inscriversi “con la scienza nell’anima di chi impara”; alla violenza, persino sessuale, del testo da oralizzare, non può che contrapporsi il vero amore che s’inscrive dentro. Il foglio di papiro su cui occorre esercitarsi non va letto, va piuttosto, grazie al metodo matematico del procedimento dialogico, predisposto, come un’interfaccia, a riflettere i processi del pensiero. Poeti e sofisti, incantatori a senso unico, non possono trovare posto nello stato ideale... del personal computer.
1964 Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare Pubblicato a circa dieci anni dalle prime trasmissioni televisive a colori negli Stati Uniti, Gli strumenti del comunicare (Understanding Media) fu il testo che consacrò il letterato canadese Marshall McLuhan come controverso interprete della comunicazione elettronica di massa e dei mutamenti socioculturali ad essa connessi. Scritto dopo La Galassia Gutenberg (1962), Understanding Media ne riprende e amplia le riflessioni sul rapporto tra scrittura, medium tipografico e oralità, delineando una teoria dei media capace di fornire strumenti utili per ripensare l’intera storia dell’agire tecnologico umano. Accolto con diffidenza dai colleghi accademici, il testo di McLuhan diventò rapidamente – anche grazie all’eccentricità e alle numerose comparsate televisive e radiofoniche dell’autore – un riferimento pop imprescindibile per quanti cominciavano a interessarsi agli studi sulla comunicazione manifestando insofferenza verso la ricerca amministrativa di matrice nordamericana e non si accontentavano o riconoscevano nella teoria critica francofortese. Come già nelle sue opere precedenti, McLuhan adotta una scrittura non lineare che egli stesso definisce “a mosaico”, e costruisce Understanding Media intorno al concetto di protesi, ovvero di tecnologia come estensione dell’uomo e delle sue facoltà. Abbigliamento, numeri, case, denaro, elettricità, armi, pubblicità, fotografia, giornali, fumetti, cinema, radio, telefono, televisione: tutto viene ricondotto alla logica sintetizzata nel fortunato slogan “il medium è il messaggio”. McLuhan, che sempre nel 1964 scriveva la sua introduzione alla ristampa di The Bias of Communication di Harold Innis, con Understanding Media continua a costruire un proprio discorso coerente sul rapporto tra mezzi di comunicazione e società, ampliando la portata dell’approccio delineato nelle sue opere precedenti e misurandosi qui con le analisi di specifici media. Per McLuhan le conseguenze individuali e sociali di ogni medium – di ogni estensione di noi stessi – derivano dal mutamento di proporzioni, di ritmo e di schemi che esso introduce nei rapporti umani. In esplicita opposizione alle analisi della comunicazione concentrate sui contenuti, lo studioso canadese propone lo studio dei media come studio delle forme della comunicazione (ad esempio, afferma McLuhan, l’effetto della forma cinematografica non ha nulla a che fare con il suo con-
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tenuto programmatico). Da questo punto di vista, Understanding Media è un testo che prende vita intorno al concetto di elettricità: prima della velocità elettrica e della “consapevolezza totale”, afferma McLuhan, sarebbe stato ben difficile accorgersi che il medium stesso è il messaggio. Nell’era elettrica, invece, la velocità “mescola le culture della preistoria con i sedimenti delle civiltà industriali, l’analfabeta con il semi-analfabeta e con il post-alfabeta”. Al di là della sua fortuna e del suo essere diventato punto di riferimento per numerosi studiosi della contemporaneità, così come delle curiose descrizioni di McLuhan come guru o profeta, Understanding Media sorprende ancora oggi per la straordinaria lucidità di alcuni passaggi. Passaggi controversi all’epoca della sua pubblicazione (“attraverso la simulazione tecnologica, il processo creativo di conoscenza verrà collettivamente esteso all’intera società umana”), e incredibilmente più adatti alla realtà sociotecnologica che l’umanità sta vivendo oggi con le reti digitali di comunicazione e Internet.
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di Peppino Ortoleva 1. Understanding Media esce in edizione originale nel 1964. Nasce, sull’onda dell’interesse suscitato da Gutenberg Galaxy uscito nel 1962, come tentativo in parte di sistematizzare in parte di ampliare le tesi espresse in quel libro a proposito dell’“uomo tipografico” e del suo successore, l’“uomo elettrico”. Si è a lungo discusso se e quanto l’opera di McLuhan nel suo insieme, e Understanding Media in particolare, siano un’espressione degli anni Sessanta, nel significato soprattutto statunitense dell’espressione The Sixties, che lega insieme movimenti giovanili e pop art, contro-cultura e psichedelia. Forse, più che al decennio dovremmo guardare ai singoli anni. 1964: non è una data qualunque. Man mano che ce ne allontaniamo, ci rendiamo conto che quell’anno e quelli immediatamente seguenti, le poche decine di mesi cioè a cavallo della metà degli anni Sessanta sono
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stati un passaggio cruciale della storia psico-sociale del Novecento. Qualche dato: – 1964, marzo: nasce radio Caroline, la prima radio “pirata” che emette da una nave posta oltre il limite delle acque territoriali britanniche, con una programmazione tutta musica (e pubblicità) – 1964, ottobre: nascita del “Free Speech Movement” a Berkeley e avvento della rivolta universitaria globale – 1964: compare Apocalittici e integrati di Umberto Eco, una meta-riflessione sulle teorie della comunicazione e della cultura di massa – 1964: compare Understanding Media di Marshall McLuhan – 1965, aprile: esce sulla rivista Electronics un articolo di Gordon Moore in cui si enuncia quella che verrà poi chiamata “la legge di Moore” secondo la quale la potenza di calcolo dei processori raddoppia ogni due anni (più precisamente ogni anno e nove mesi) – 1965, luglio: Bob Dylan decide di interpretare al Festival di Newport, appuntamento annuale del folk, alcuni brani “elettrici”; è accolto a quanto si racconta da un netto rifiuto da parte del pubblico; nell’agosto sarà pubblicata e giungerà rapidamente al trionfo una canzone “tutta elettrica”, Like a Rolling Stone – 1965: compare Death, Grief and Mourning in Contemporary Britain di Geoffrey Gorer, che per primo evidenzia la crisi profonda della ritualità funebre nelle società industrializzate – 1965: Berth Milton Senior fonda in Svezia Private, la prima rivista pornografica hard core – 1966: per citare una battuta del film Le invasioni barbariche di Denys Arcand, “in qualche giorno del 1966 la gente smise di venire in chiesa”. La sequenza di eventi che ho proposto nasce indiscutibilmente da una scelta soggettiva, ma non casuale. E non può essere sintetizzata in uno slogan unificante,
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se non altro perché contiene fenomeni anche contraddittori tra loro. Che cosa unisce tra loro questi fatti apparentemente disparati? Tre aspetti colpiscono in modo particolare: a. prima di tutto si tratta in larga prevalenza di fenomeni spontanei, non spiegabili in termini di decisioni politiche e neppure di scelte strategiche da parte di grandi imprese o grandi partiti; la rivolta di Berkeley nasce imprevista non solo dalle autorità ma dagli stessi studenti; la “legge di Moore” più che una legge vera e propria è un’osservazione, che constata un processo in corso da una decina di anni almeno, e che pur non avendo niente di naturale presenta un’impressionante regolarità; il mutamento radicale e imprevisto dei comportamenti cerimoniali osservato da Gorer (e inciso indelebilmente l’anno dopo in Eleanor Rigby dei Beatles) e lo svuotamento delle chiese restano tra i fenomeni più misteriosi dell’intero Novecento anche perché, pur in assenza di una causa specifica immediatamente visibile, si sono imposti nell’arco di pochi anni o addirittura di qualche mese; b. in secondo luogo si tratta di manifestazioni iniziali di tendenze che dureranno ancora a lungo, manifestazioni che in genere saranno comprese nella loro portata solo da uno sguardo all’indietro, come la nascita dell’emittenza “libera” o l’evento di Newport, la svolta della pornografia o la stessa legge di Moore, o ancora (per citare un fenomeno degli stessi anni un po’ più difficile da datare con esattezza) il passaggio dai balli, di coppia o meno, basati su “passi” predefiniti alla danza come atto collettivo spontaneo; nel 1964-66 sembrano incrociarsi, forse ancora di più che nel successivo 1968, numerosi processi di diversa portata, molti dei quali fino ad allora invisibili ma che proprio in quegli anni acquistano un’innegabile evidenza, processi che anche in questo convergere troveranno parte della loro forza e del loro senso;
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c. in tutti questi eventi quello che conta non è tanto il contenuto esplicito, quanto... si sarebbe tentati di dire il medium, ma a rischio di fare cadere tutto in uno schema mcluhaniano a priori. Forse dovremmo essere più radicali e dire piuttosto, anticipando un ragionamento che condurremo alla fine, che quello che conta è il cronotopo nel senso bachtiniano del termine (Bachtin 1975), o il frame nel senso non tanto della ricerca cognitiva contemporanea quanto delle osservazioni di Bateson nel saggio sul gioco e la fantasia (1955). Le novità degli eventi che si sono segnalati non sta tanto nei discorsi espliciti quanto soprattutto nel mutare dei quadri di riferimento: nel caso della rivolta di Berkeley possiamo parlare di un nuovo tipo, nascente, di movimento, le cui parole d’ordine sono in buona parte dimenticate ma il cui modello avrebbe esercitato la sua influenza non solo sulla nuova sinistra ma su tutti i grass root movements fino ai Tea Party; in quello della legge di Moore, siamo di fronte a una nuova dinamica dell’innovazione che ne fa una sorta di macchina inarrestabile e programmata, e dà vita a una nuova, e più inesorabile che mai in passato, forma di “progresso” proprio negli anni in cui la tradizionale idea di progresso comincia a uscire dal senso comune; nell’episodio di Newport, di un’elettrificazione che si è fatta valore in sé, fatto estetico autonomo (non sono “le canzoni” intese come note e parole, a dividere il pubblico, ma un sound che nasce a sua volta da un veicolo tecnico); nel caso dei cerimoniali funebri, della fine improvvisa di comportamenti “dati per scontati”: un processo che era maturato, poco notato, negli anni precedenti, ma di cui il libro di Gorer segnala (per dirla con un termine che avrebbe poi avuto una certa fortuna) la prima “presa di coscienza”. Understanding Media trova nella congiuntura del periodo attorno al 1964 la sua tempestività, e una parte del suo senso. Se è un classico destinato a durare ben oltre la sua collocazione storica iniziale è proprio
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perché da quella collocazione ha tratto tanta della sua forza. Propone una lettura della storia centrata non sui discorsi e sui messaggi (non perché i contenuti davvero non contino ma perché rischiano sempre di nascondere il frame) ma sui media; solo che McLuhan non dà mai dei termini medium e media una definizione precisa. È una ben strana “profezia”, la sua, che non guarda al futuro ma piuttosto al presente, che non nasce da un progetto e neppure da una previsione, ma dalla constatazione (affine a quella di Gordon Moore) di una rivoluzione che già era in corso, una rivoluzione tanto più inconsapevole in quanto spontanea. Il suo libro è uno strumento per muoversi in un ambiente (antropico prima di tutto) che proprio in quel giro di anni stava cambiando pelle; ed è un libro cool perché si presenta esso stesso come un ambiente più che come una serie di discorsi. Birth of the Cool era il titolo di un magnifico album pubblicato nel 1957 da Miles Davis; ma potrebbe anche essere un titolo giusto per il libro di McLuhan, se si volesse sottolineare lo “spirito del tempo” che lo ispira e che ne viene sintetizzato. 2. Understanding Media, invece, è un titolo quasi manualistico (non rifarò la storia, già scritta tante volte, del titolo italiano insieme deformante e, all’epoca, forse inevitabile), come manualistico può sembrare l’indice. In realtà titolo e indice sono scelte insieme ironiche e letterali. Ironiche perché l’andamento dell’argomentazione, che l’indice rappresenta ordinato e lineare, è invece spiraliforme e volutamente indisciplinato; e perché il proposito complessivo del libro più che offrire un’interpretazione organica e strutturata è quello semmai di indurre il lettore a pensare i media, passando dal “non ci capisco niente” (altro che understanding...) che accompagna in particolare la lettura delle prime pagine, alle subitanee folgorazioni del “ora forse ho capito”. Ma indice e titolo vanno anche presi alla lettera,
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perché McLuhan vuole comunque passare in rassegna i media, uno dopo l’altro, non per un bisogno di completezza ma se così si può dire di panoramicità, nel senso dello sguardo avvolgente e circolare; e perché il libro non sarebbe lo stesso se il titolo non fosse in forma di verbo. Diceva Aristotele nel De interpretatione che “il verbo è ciò che in più significa il tempo”. Non vuole dire solo che il sostantivo è per definizione immobile, mentre il verbo introduce uno svolgimento, un processo. Sottolinea che il sostantivo sottrae il vivere al tempo che ne è una componente essenziale, componente che il verbo restituisce. Il titolo Understanding Media, approfittando di un’ambivalenza propria del gerundio inglese, parla di un comprendere che non è solo finalità ma anche come lavoro in corso: ci invita, per tradurlo in italiano, a “capire” i media ma anche ad “andarli capendo” in un processo di comprensione che accompagna tutta la lettura e gioca con la mente del lettore anche dopo che ha chiuso l’ultima pagina. Coerentemente col titolo così interpretato, è un testo in movimento ininterrotto: è un libro “che in più significa il tempo”, nel senso che restituisce tutti i concetti messi in gioco alla temporalità e alla dinamicità che li caratterizza. Se avessimo lo spazio di leggere tutto il volume in quest’ottica, potremmo fare emergere, e insieme valorizzare, quella instabilità che ne è una componente insieme così inquietante e così provocatoria. Qui ci limiteremo a ragionare, a partire proprio dal riconoscimento del carattere vivente del libro, su un concetto chiave che viene posto fin dalle prime pagine ma che continua a fare capolino sempre cruciale e sempre elusivo: essere consapevoli. Nella gran parte della letteratura anche recentissima di origine cognitiva la “coscienza” viene rappresentata come facoltà, come una componente della psiche. McLuhan, riprendendo forse inconsapevolmente un celebre saggio di William James (Esiste la coscienza?)
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dei primi anni del Novecento, segue un percorso ben diverso: I. pone l’essere consci, o il diventarlo, in diretta e inscindibile relazione con il suo opposto che è in parole povere il sonno; II. affronta la consapevolezza come processo non come stato; III. fa del suo libro non una serie di contenuti di cui essere consapevoli, ma un polo del processo stesso di consapevolezza. I. Che la coscienza significhi in primo luogo “esser desti” è un’intuizione che troviamo nei Frammenti di Novalis, così come l’idea per cui il sognare di sognare costituisce di per sé una forma di risveglio. La coscienza, ovvero l’essere presenti a noi stessi, è pensabile soprattutto in contrapposizione a uno stato altro e opposto, quello appunto del sonno, o del torpore. Quello di torpore è appunto un concetto centrale nel pensiero di McLuhan, che connettendo il nome Narciso al termine narcosi (con uno dei suoi giochi di parole a volte spiazzanti a volte illuminanti) ci spiega come l’“amore per i gadget ” ci renda ciechi agli oggetti stessi e al condizionamento che esercitano su di noi, e interpreta il mito greco nei termini non di un innamoramento di Narciso per se stesso ma, appunto, di un intorpidimento che lo fa innamorare, a tutti gli effetti, di uno specchio. La consapevolezza che interessa a McLuhan è in effetti un risveglio nei confronti del torpore, che è indotto (si badi bene) proprio da quei media stessi che pure della coscienza di cui lui parla sono l’oggetto privilegiato. Il risveglio è un processo tendenzialmente interminabile (a differenza per esempio dal kantiano risveglio dal sonno dogmatico), perché il torpore di cui qui si parla si rinnova ogni volta che il sistema dei media si articola ulteriormente, ogni volta che nascono nuovi gadget, in quanto questi ci richiedono, perché noi li possiamo adottare, di amputare la nostra sensibilità. Possiamo
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aggiungere, alla luce delle tendenze del nostro tempo, che quanto più la tecnologia moderna accelera lo sviluppo della comunicazione e ne moltiplica i veicoli, tanto più il torpore tende a rinnovarsi di continuo, e l’essere consci diventa uno sforzo sempre rinnovato e sempre a rischio di essere frustrato. Nell’epoca del computer la consapevolezza potrebbe sembrare più facile che in altre epoche: dopo tutto siamo di fronte, nell’espressione di Sherry Turkle (1984), a un “secondo sé”, e si potrebbe pensare che proprio appoggiandosi su tale realtà, insieme esterna a noi e si direbbe speculare alla nostra mente, possiamo operare un pieno riconoscimento di noi stessi. McLuhan, scrivendo da qualche decennio prima di questo nostro tempo, ci invita invece a chiederci se non sia vero l’opposto, se questa nuova protesi (non più del sistema nervoso centrale ma del sé in quanto tale) non ci dia di noi stessi una “consapevolezza” facile e distorta, non produca un intorpidimento tanto più narcisistico in quanto è in noi stessi che ci illudiamo di rispecchiarci; e che può perderci in un gioco infinito di specchi, come accade sempre più spesso nei social network. Mentre secondo il mcluhanismo volgare, per esempio quello della rivista Wired, il moltiplicarsi delle macchine “intelligenti” sarebbe in sé la massima conferma delle “profezie” di McLuhan, se seguiamo davvero il suo pensiero capiamo che la nostra epoca ci mette di fronte a una minaccia di intorpidimento senza precedenti, e che gli strumenti da lui offerti ci devono servire non per aderire al presente ma per dotarci di un distacco critico più che mai indispensabile. II. Parlando della consapevolezza della presenza e del ruolo dei media, di cui il suo libro sarebbe tramite, McLuhan rappresenta la coscienza soprattutto come un andirivieni, un dialogo del sé con se stesso indispensabile a percepire quanto lo stesso sé sia condizionato e inquadrato da schemi talmente scontati che gli sfuggono. L’essere coscienti è una forma di auto-
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immunizzazione, e implica l’allontanarsi da sé per poi tornare su di sé, per distaccarsi e per riconoscersi; è in questo modo che si può distinguere il sé dal condizionamento che abbiamo assunto senza rendercene conto, che provenga da un medium o da un luogo comune. In opere posteriori McLuhan farà spesso ricorso alla contrapposizione cara alla psicologia cognitiva tra “figura” e “sfondo” per sottolineare quanto i media si facciano ambiente, nel quale rischiamo sempre di essere sommersi senza sapercene distinguere; di essere schiacciati senza coglierne lo spessore. È questo il torpore da cui dobbiamo, senza mai stancarcene, aspirare a mantenerci svegli. III. La coscienza dei media non è un bene che l’autore consegna al lettore, è una strada sulla quale lo avvia, consapevole che, se il suo lavoro avrà avuto successo, su quella strada il lettore continuerà a muoversi. Anche per questo, Understanding Media deve, a partire dalla sua stessa forma, offrirsi al lettore come flusso di concetti e di interrogativi, come montaggio di pensieri e di citazioni (tratte dalla massima varietà di fonti, tra Platone e TV Guide, tra Joyce e la narrativa popolare), come percorso a tratti comico, a tratti onirico, a tratti ludico: perché la consapevolezza, il “risveglio”, passano anche per una presa di contatto con le parti meno consapevoli del sé. Non, come nel metodo freudiano, per andare alla conquista di un possibile sé più profondo, ma al fine di rafforzare e moltiplicare i punti di vista e gli oggetti dell’esplorazione, perché l’analisi in questo caso è sempre interminabile. Flusso, montaggio (o collage), onirico/ludico: sono tutti non casualmente termini connessi all’esperienza dell’avanguardia novecentesca, da Joyce a Braque, da Ejzenstejn ai surrealisti. Il progetto di McLuhan si vuole simile a quello dell’artista secondo la nota citazione di Wyndham Lewis per cui l’artista è l’uomo, più che del futuro, della piena consapevolezza del presente. E secondo cui l’arte è
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il principale strumento di immunizzazione dell’umanità dai mali prodotti dai media, accolti in modo inconsapevole. Soprattutto, le avanguardie costituiscono per lui un esempio di sperimentazione di un nuovo che, proprio in quanto nuovo, non può essere progettato ma solo esplorato. 3. Possiamo parlare di un McLuhan fondatore, o almeno autore-chiave, della mediologia? Sembrerebbe di sì: è lui ad averci insegnato non solo a capire ma a pensare i media, ad aver fondato su di essi, e sia pure sulle orme di Innis, una lettura complessiva della storia. Ci sono però diversi buoni motivi per opporsi a una simile definizione. Il primo: “mediologia” è, nel nome stesso, una disciplina, che si vuole distinta e separata da altre scienze dell’uomo, che esiste in quanto definisce un proprio punto di vista specialistico. Per McLuhan l’era delle discipline e degli specialismi è indissolubilmente intrecciata con il modello gutenberghiano e meccanico, frutto e insieme normalizzazione di un modello di coscienza basato sulla frammentazione e sulla divisione dei compiti, inadeguato ai processi “implosivi” in corso a partire dall’elettrificazione. Il progetto di una disciplina, questa o altra, è inevitabilmente fuori sincrono coi processi stessi di cui vorrebbe occuparsi. Ammesso che di mediologia si possa parlare, non è una definizione in cui il nostro autore si sarebbe potuto riconoscere. Il secondo: il pensiero di McLuhan nasce in un’epoca in cui i media potevano essere letti come realtà storicamente determinata, nella quale si poteva individuare, per ogni canale di comunicazione, una tendenziale corrispondenza tra paradigmi tecnologici, regole istituzionali e usi sociali. La “mediologia” nascerà, in forma intermittente, in un’epoca successiva, nella quale il concetto stesso di medium appare soggetto da un lato a un progressivo sfocamento, legato alla versatilità crescente
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degli strumenti e al diversificarsi degli usi, che porta qualcuno (da ultimo Rosalind Krauss, 1999) a parlare di “post-medialità”; dall’altro, a una moltiplicazione che sta ulteriormente modificando il quadro, per cui i media non costituiscono più strumenti specifici attivi in alcuni momenti e aspetti della vita umana ma una realtà letteralmente onnipresente, una connotazione dell’intero ambiente, anche non strettamente quello abitato dagli umani: basta pensare alla tendenza a dotare di sensori e di indirizzi internet un numero crescente di oggetti, nell’ordine si prevede delle decine di miliardi nell’arco di pochi anni (potremmo parlare di “panmedialità”, anche tenendo conto delle risposte di Francesco Casetti, 2009, alla stessa Krauss). Anche non volendo riconoscere a questi processi una portata trasformativa radicale, resta il fatto che il quadro di corrispondenze tra tecnologia, usi sociali, regole, che contraddistinguevano la televisione e il cinema, la radio e il telefono in Understanding Media tende ora a indebolirsi. Qual è in questa situazione l’oggetto proprio della mediologia? Si può fondare una scienza su un oggetto che è stato classificabile con precisione solo in una fase limitata della storia? Quanto una nuova disciplina come la “mediologia” può davvero aiutarci, quanto invece rischia di protrarre equivoci da cui dovremmo liberarci? 4. C’è un’obiezione che a questo punto si può fare, e che non riguarda tanto la disciplina, quanto l’autore di cui stiamo ragionando. Possiamo ancora considerare “classico” McLuhan in un’epoca in cui il concetto di media sta attraversando un cambiamento così radicale? Che cosa possiamo farcene delle sue categorie oggi? E se cade la mediologia non cade comunque anche McLuhan, non perché aderisse a un simile progetto ma perché sarebbe venuto a perdersi l’orizzonte del suo pensiero?
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La risposta qui, avviandoci alla conclusione, dev’essere articolata. Prima di tutto, la lettura di un testo come classico (a differenza di quella in chiave “profetica”) non solo non nega la sua storicità, ma come si è cercato di far vedere prima, riconosce proprio nel suo rapporto con il suo tempo una ricchezza che sta alla base del nostro appropriarcene per comprendere il nostro. Ammesso quindi che il riferimento ai media lo riconsegni a una storia che si sta concludendo questo nulla toglie alla fecondità del suo pensiero. In secondo luogo, il concetto di medium cui McLuhan fa riferimento non è, a leggere con attenzione la sua opera, mai definito in modo netto, né tanto meno rigido: è anche per questo che può fare rientrare in questa categoria oggetti, dalle armi ai vestiti, che nelle definizioni correnti non sono così classificabili. Understanding Media, pur essendo il frutto di un’epoca precisa e da noi distante, è meno vincolato a un’accezione di media storicamente delimitata di quanto non sia la “disciplina” sorta dopo di lui e che si vorrebbe capace di leggere meglio il nostro tempo. Anche perché il vero oggetto del libro (e il soggetto-oggetto del processo di acquisizione della coscienza di cui il libro stesso è strumento), sotto e al di là dei media, siamo noi. Sentiamo qui arrivare un’ulteriore e radicale obiezione. Se così fosse, non dovrebbe essere possibile una lettura di Understanding Media che faccia a meno del concetto di medium? Ovviamente non lo è, se lo pensiamo nella sua integralità di testo, che a quell’oggetto ha scelto fin dal titolo di dedicarsi, che intorno ai media sia pure nella vaghezza del concetto è stato costruito, e che in questo va rispettato nella sua storicità. Ma demediatizzare il pensiero di McLuhan non è, in astratto, impossibile; è sicuramente più fattibile che de-economicizzare il pensiero di Marx o de-socializzare quello di Max Weber. Alla possibilità di un’antropologia che ricomprenda i media e il loro ruolo in una nozione più
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ampia, quella di sensorio, fa riferimento più volte lo stesso McLuhan e alcuni dei suoi epigoni come Walter Ong; e forse si può andare anche più oltre, e sostenere che il quadro interpretativo di base di McLuhan, e il suo concetto di consapevolezza, sono applicabili non solo ai media ma a tutti quei dati storici, materiali come appunto le tecnologie o istituzionali come i grandi sistemi religiosi, che strutturano l’esperienza umana, la dotano di un proprio cronotopo nel senso di Bachtin e di una cornice (frame), generalmente invisibile per chi si trova al suo interno e incomprensibile per chi è al di fuori. L’auto-amputazione avviene tutte le volte che accettiamo (come scontato) un sistema dato che media tra noi e gli altri esseri umani e che filtra il nostro rapporto con il mondo. È il frame che costituisce il messaggio, che assume la forma del medium o quella ancor più inesorabile del senso comune. Quello che conta è rendercene consci.
1968 Jean Baudrillard, Il sistema degli oggetti Prima opera teorica di Jean Baudrillard, Il sistema degli oggetti viene pubblicato nel 1968, quando l’autore ha 39 anni. Tardi, dirà lui stesso tempo dopo. In quel periodo Baudrillard, germanista di formazione, era assistente di Henry Lefebvre, che lo aveva introdotto agli studi di sociologia della vita quotidiana. Inoltre si era avvicinato alla semiologia di Roland Barthes seguendo le sue lezioni presso l’École pratique des hautes études en sciences sociales a Parigi. Ed è proprio Barthes l’influenza più esplicita di questo esordio, che nel titolo richiama il di lui Sistema della moda, uscito l’anno precedente, e più in generale riprende il progetto barthesiano di critica ideologica del segno iniziato con Miti d’oggi. L’interesse dichiarato di Baudrillard non risiede tanto negli oggetti in se stessi, ma nella loro relazione con i soggetti. Tuttavia, l’enfasi della sua analisi non ricade sugli usi sociali o individuali ma, come afferma il titolo, sul sistema. Un sistema degli oggetti la cui esistenza è resa possibile dal passaggio dalla tradizionale dimensione simbolica a quella del segno. Nella prima la relazione con l’oggetto è rituale e retta da regole costrittive, si fonda sul gesto, sullo sforzo, ed è altamente significativa, fortemente connessa a dei legami sociali. Nel caso dell’oggetto-segno, invece, sparisce la fatica e la complessità gestuale arriva a ridursi al tocco, alla pressione di un pulsante; inoltre, svanisce l’ambiguità simbolica, sostituita da un sistema segnico astratto, non più legato al vissuto e infinitamente riconfigurabile. Alla base di questo cambiamento c’è il concetto di funzionalità, intesa non come conformazione ad un fine, ma come facoltà di adattarsi a un ordine ed integrarsi in un sistema. Questo permette all’oggetto di trascendere il suo scopo, la sua funzione in senso stretto, per entrare in un gioco di combinazioni, per diventare un elemento di un sistema universale di segni. Nessun oggetto può scappare a questa logica e tutti vengono integrati nel sistema, che d’altra parte offre al consumatore una inedita libertà di scelta. Tuttavia, facendo esplicito riferimento alle idee di David Riesman sull’individuo eterodiretto, Baudrillard sostiene che tale libertà non è che formale. Il sistema degli oggetti, organizzato secondo i codici della moda e l’imperativo della funzionalità, opera in funzione di una integrazione ideologica; l’idea è che la formazione del soggetto avvenga mediante un processo di personalizzazione i cui termini sono fissati anteriormente dal sistema stesso. In questo modo, Baudrillard fissa già
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da ora gli orizzonti di quella critica del consumo che continuerà a sviluppare in opere successive, in particolare in La società dei consumi (1970) e Per una critica dell’economia politica del segno (1972).
Del senso delle cose. Il sistema degli oggetti dall’Encyclopédie a Ontopedia di Nello Barile
La rilettura de Il sistema degli oggetti di Jean Baudrillard può inserirsi in un preciso movimento di torsione dei discorsi che hanno assecondato l’espansione dei processi comunicativi e di consumo nel corso degli ultimi vent’anni. Il libro s’inscrive in un processo di ripensamento delle speculazioni che affidavano ai concetti di virtualità, simulacro, sciopero degli eventi, metalepsi ecc. una funzione decisiva nella descrizione dell’evo tecnologico. Come ho evidenziato altrove (Barile 2007), l’uscita de Lo spirito del terrorismo (Baudrillard 2002) ha suggellato una drastica inversione del rapporto tra immaginario e realtà nel senso che quest’ultima, assopita sotto tonnellate di discorsi sulla virtualizzazione, aveva rivendicato il suo posto nella recrudescenza della dinamica storica, nell’esatto momento in cui la catastrofe inaugurava l’inizio della nuova epoca. Anche se Baudrillard non può sconfessare in toto la validità dei suoi cavalli di battaglia, è costretto dagli eventi a considerare lo slittamento da una cultura che abita sotto il tetto della “fine della storia” verso un nuovo regime in cui la storia sembra essersi liberata delle catene che la imbrigliavano, per attivarsi in modo randomico, ipertrofico e traumatico. Nel caso che ci interessa si è creduto di vedere (con un certo sollievo, forse) una risorgenza del reale o
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della violenza del reale in un universo che si spacciava per virtuale. “Finite le vostre storie di virtuale – qui siamo nel reale”. Analogamente si è potuto vedere in ciò una ricostruzione della storia, al di là della sua fine annunciata. Ma la realtà supera veramente la finzione? Se sembra farlo, è perché ne ha assorbito l’energia, divenendo essa stessa finzione. Si potrebbe quasi dire che la realtà sia gelosa della finzione, che il reale sia geloso dell’immagine [...]. È una specie di duello fra loro a chi sia più inimmaginabile (Baudrillard 2002: 37).
L’idea di una sfida tra realtà e immagine a chi sia più “inimmaginabile” è in effetti la presa d’atto che la liberazione della storia dall’orbita referenziale della realtà possa produrre una iperstoria che entra in competizione con l’immaginario nel punto di rottura della catastrofe. Tuttavia, in questa reciproca contaminazione, anche l’immaginario subisce una drastica revisione dei suoi fini, ricurvandosi sulla realtà per iniziare a nutrirsi di storia, di singolarità e d’autenticità. In tal senso Baudrillard coglie il trend generale della cultura del nuovo millennio al di là degli entusiasmi e della sbornia euforica della cosiddetta utopia della comunicazione. In coerenza con tale ri-scoperta, il suo ultimo lavoro si colloca in una posizione simmetrica rispetto al nucleo fondamentale di teorie e discorsi che l’autore ha sviluppato dagli anni settanta ai novanta e recupera un aspetto centrale nella sua dissertazione, anche se recentemente sacrificato: il discorso sulla cosa. Il testo esordisce con una duplice esigenza teorica: a) individuare alcuni principi di classificazione del sistema contemporaneo delle merci; b) investigare le modalità d’uso ovvero la relazione tra il soggetto e la rete di oggetti che lo circonda. Come si vedrà le due diverse istanze non sono affatto divergenti e all’impossibilità di formulare un prin-
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cipio generale, unificante e classificatorio della pletora di oggetti quotidiani, si associa la necessità d’individuare un principio mobile, dinamico, eteroclito, attraverso cui l’oggetto ci consente di definire la sua collocazione nel nostro mondo. In tal senso il testo è in linea di continuità con il famoso discorso introduttivo di Michel Foucault ne Le parole e le cose (1966). La modernità con la sua proliferazione di discorsi, luoghi, dispositivi ecc. infrange l’unità tassonomica dell’epoca classica e impone un principio di classificazione caotico in cui il contenitore deve adattarsi, rimodularsi sulla incalzante varietà del contenuto: […] il sospetto di un disordine peggiore che non l’incongruo e l’accostamento di ciò che non concorda; sarebbe il disordine che fa scintillare i frammenti di un gran numero d’ordini possibili nella dimensione, senza legge e geometria, dell’eteroclito; e occorre intendere questa parola il più vicino possibile alla sua etimologia: nell’eteroclito le cose sono “coricate”, “posate”, “disposte” in luoghi tanto diversi che è impossibile trovare per essi uno spazio che li accolga, definire sotto gli uni e gli altri un luogo comune (Foucault 1966: 7).
È passato certamente molto tempo da quando la vocazione illuminista dell’Encyclopédie tentava di raccogliere la varietà degli enti generati da Dio e dall’uomo per ricondurli a un albero universale. La rottura prodotta dal progresso tecno-industriale ha decisamente sbilanciato il rapporto tra prodotti della natura e prodotti dell’uomo verso un aumento sconsiderato di questi ultimi, addirittura quasi “sembra che il vocabolario non basti più per nominarli”. Lo strappo ontologico realizzato dalla produzione industriale rompe l’equilibrio fra la sintassi delle parole e quella degli oggetti, determinando un totale sbilanciamento della società verso i secondi. L’oggetto sembra oggi vivere un revival
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inatteso e certamente il modo in cui Baudrillard intende tale termine è ben distante dal valore materico che gli assegna il senso comune. Del resto, dopo le riflessioni dell’antropologia delle merci (Douglas-Isherwood 1979) non possiamo non concepire la merce come un medium, un veicolo di significati continuamente rinegoziabili. Lo sguardo che il filosofo indirizza verso l’oggetto è molto simile a quello del semiologo. Si tratta di un oggetto comunicante che s’inscrive funzionalmente in un apparato tecnico rivolto al soddisfacimento di alcuni bisogni attraverso l’invenzione di nuove pratiche. Queste sono al contempo l’ostacolo alla diffusione dei nuovi prodotti ma anche la fonte d’ispirazione per nuove invenzioni. Non a caso si definisce il “tecnema” come l’unità minima del sistema tecno-produttivo che occupa una posizione simile a quella del fonema nel sistema delle lingue. Il tecnema è un’unità sui generis in quanto è al contempo oggetto, dispositivo1 e principio di classificazione dell’oggetto a cui si riferisce. Esso indica lo stadio di un regime ontologico in cui vigono ancora l’equilibrio, la simmetria e la corrispondenza tra le parole e le cose. Tale equilibrio non è solo quantitativo – nel senso di quantità di merci in relazione ai nomi che le designano – ma anche qualitativo nel senso che l’oggetto in quanto singolo è il frutto di una compresenza relativamente equilibrata di materia e forma. Per questo l’investigazione si concentra su un certo tipo di oggetti in cui è comunque rinvenibile un nucleo di gravità materica che li salva dal destino di un mondo abbandonato all’artificiale e all’immateriale. Non è forse un caso che l’analisi prenda piede dal luogo più prossimo al corpo, verso cui sviluppiamo un atteggiamento 1 Il termine dispositivo è stato ripreso e ridiscusso da Agamben (2006) in un breve saggio che riflette sul successo di tale termine nella riflessione di Foucault e che condivide (senza citarle) alcune acquisizioni baudrillardiane.
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pratico “immediato”: la casa. Il principio che regola la diversità degli oggetti all’interno di un salotto borghese, insieme ai loro rimandi e alle loro reciproche implicazioni, è definito come “morale” [19]. La monumentalità dei mobili nei salotti e nelle camere da letto tradizionali si edifica intorno a un nucleo d’intimità che deve essere protetto e coltivato. In questo senso lo spessore simbolico dei materiali di fabbricazione corrisponde allo spessore morale o sentimentale di una rete permanente di relazioni che sancisce nettamente: la “cesura tra interno ed esterno” come anche l’opposizione “formale sotto il segno sociale della proprietà e sotto il segno psicologico dell’immanenza familiare” [20]. Sul versante opposto si colloca l’ambiente moderno – quello delle giovani coppie oppure dei single – che per motivi di mobilità e di spazio sono tenuti a circondarsi di oggetti essenziali, senza troppi orpelli. Pezzi d’arredo che, “asciugati” fino alla loro funzione essenziale, si rivelano liberi o liberati nel raggiungimento della loro pura funzionalità. Tuttavia, proprio a tale movimento d’emancipazione dell’oggetto corrisponderebbe un soggetto che non è più “liberato” [23] perché si riconosce unicamente come utilizzatore dell’oggetto in questione. Nel mezzo dell’opposizione logica tra ambiente tradizionale (governato da un principio di natura) e ambiente moderno (ispirato da un principio di pura astrazione), Baudrillard individua un terzo orientamento indispensabile per la comprensione del consumo odierno che è capace di assegnare la stessa valenza morale dell’arredo tradizionale anche alle superfici lisce a “dominante spaziale” dell’ambiente moderno. Tale orientamento esprime in modo esemplare la dirompente trasformazione antropologica del soggetto e del rapporto con il suo ambiente primario. Non a caso le nuove forme dell’abitare sono contraddistinte da un “informatore attivo dell’ambiente” che “dispone dello spazio come di una struttura distributiva” e che
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“per mezzo del controllo di questo spazio, ha in mano ogni possibilità di rapporto reciproco e di conseguenza la totalità dei ruoli che gli oggetti possono assumere” [33]. In poche righe si celebra un rivolgimento paradigmatico della tesi iniziale. Il mondo delle cose – che colloca il soggetto al suo interno relegandolo al ruolo di “utilizzatore finale”2 delle sue funzionalità distribuite negli oggetti – tende oggi a ribaltare drasticamente tale prospettiva. Al progetto funzionale della tecnica supportato della pubblicità (sua ancella immaginifica) si associano così nuove suggestioni che passano per una retorica fatta di espressioni emozionali. Semplici soluzioni linguistiche come “a vostro gusto”, “secondo le vostre esigenze”, “questa atmosfera sarà la vostra”, “personalizzazione” ecc. acquistano la funzione di veri e propri ambienti cognitivi che indirizzano verso un nuovo modo di concepire la tecnica. Si tratta certamente di una concezione atavica ma che può essere intesa oggi come tendenza emergente o ri-emergente3 delle società contemporanee: mi riferisco all’idea di soggetto come “vaso d’interiorità” [34]. L’oggetto funzionale si genera come strappo o come tradimento dei requisiti che governavano il sistema tradizionale: funzione primaria dell’oggetto; pul-
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Come ben sappiamo, in Italia l’espressione riguarda uno scandalo che ha coinvolto vertici delle istituzioni e in cui la comunicazione politica abbandona il solito linguaggio politically correct per schermare, attraverso una burocratizzazione dell’evento, un dato discutibile: la relazione reificante tra corpo/immagine del potere e corpo/immagine della donna. 3 Qui manca una questione essenziale nella dinamica delle cosiddette iper-merci. Baudrillard è in grado di definire gli effetti della obsolescenza indotta dal sistema nei prodotti – che è questione tipicamente moderna – ma per via dell’epoca in cui scrive non può prendere in considerazione i cicli di ingresso/fuoriuscita dei prodotti dal regime di latenza (che è tipico delle mode post-moderne).
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sioni e bisogni primari; relazione simbolica reciproca [81]. Tuttavia non è possibile concepire la famosa categoria di merci-segno nel senso di un totale superamento dello stadio pregresso che genera un sistema astratto di significanti vuoti, intercambiabili e totalmente manipolabili. Se è vero che gli oggetti formali conservano la memoria storica dei loro colleghi antichi, artigianali, unici – ovvero il “fascino di una vita anteriore” – essi continuano a rivendicare l’importanza strategica della natura – o meglio della naturalità, di una natura totalmente culturalizzata – in un mondo sintetico e artificiale. L’analisi dell’oggetto marginale consente di inferire, dalla singolarità del prodotto, un sistema emergente di orientamenti collettivi, quasi una tendenza. Esiste difatti un nesso non arbitrario che collega la questione della naturalità (che oggi riesplode su scala globale grazie al green marketing e al megatrend della ecosostenibilità), quella della storialità (collegata al “mito dell’origine”) e quella dell’autenticità (di culture esotiche o sottoculture urbane). Nell’unione di queste tre direttrici fondamentali si scorge difatti un unico grande processo di revisione delle dinamiche del consumo contemporaneo. Non a caso i più recenti orientamenti del marketing contemporaneo, i cosiddetti marketing postkotleriani, assommano tali direttrici in una svolta antropologica che enfatizza il ruolo del passato, della tradizione, di un’esperienza di consumo riterritorializzata, tanto che possiamo parlare di un vero e proprio marketing dell’autenticità4. Purtroppo Baudrillard non può esplicitare tali orientamenti all’interno di una definizione più completa 4
Mi riferisco ai vari marketing di recente concezione che si fondano tutti su un diverso valore dell’autenticità come sfera di azione del consumatore (Cova, Dalli 2007), come “experience providing” (Schmitt 1999) o come “imperialismo narrativo” (Salmon 2008).
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di marca, rispetto alla quale l’autore si limita a discutere due funzioni semplici e, in un certo senso, “tipiche”: quella segnaletica e quella affettiva [241]. Pur riconoscendo al concetto di marca il ruolo fondamentale nella regolazione del “linguaggio del consumo”, il nostro è troppo vincolato a un’analisi classica, nei termini di una sociologia dei consumi che enfatizza la questione dello status piuttosto che approfondire i termini del consumo come linguaggio espressivo o auto-espressivo. Non è un caso che, proprio quando l’analisi si fa più attenta al rapporto tra personalità del consumatore e personalizzazione della merce, spunta una citazione di Riesman sul modo in cui il fine definitivo del Sistema è mettere a disposizione una gamma articolata di personalità [194]. Questa smania di autenticazione passa per un’alienazione estrema che è meglio definita come “personalizzazione eterodiretta”. Da un lato essa è deprecabile perché nel suo gioco combinatorio risiede una allarmante “matrice ideologica”, dall’altro occorre ammettere che “anche le differenze superficiali diventano reali dall’istante in cui sono valorizzate in quanto tali” [195]. In tal modo, oltre a prestare il fianco agli approcci neo-critici sul consumo, il nostro lascia aperto un minimo spiraglio da cui è possibile intravedere – oltre la coltre nichilista di un sistema che si ciba di autenticità – qualche isola di sopravvivenza dei Valori e della Realtà. Il medesimo concetto ritorna nell’analisi del sistema marginale e del suo elemento portante: la collezione. Al di là dello spazio funzionale domestico e degli oggetti che lo popolano, il vero rapporto di possesso e di costruzione reciproca tra l’identità del soggetto e quella dell’oggetto deve spostarsi su un piano metafunzionale. Solo l’oggetto svincolato dalla sua funzione può fare ingresso in una dimensione superiore che esalta gli aspetti contraddittori del sistema. Il collezionista è colui che ha totale controllo sugli elementi
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della serie a cui conferisce senso e scopo. Ma egli è anche schiavo della sua stessa passione, dato che il vero scopo della serie è quello di continuare all’infinito e di ingaggiare il collezionista in questa rincorsa di un obiettivo (il completamento della serie) che è sempre differito e che non deve essere appagato; pena: la fine della fascinazione stessa. La collezione recupera la logica puramente funzionale che è già discussa nelle pagine dedicate al rapporto tra modello e serie, ma trasferisce tale logica all’ambito della relazione intima e concreta con una élite di oggetti (ma anche di esseri viventi o di relazioni reificate)5. Solo tramite la sua collocazione nell’ordine sintattico della serie l’oggetto può acquisire una patina di unicità che si rafforza nel rimando reciproco tra gli elementi che co-appartengono a quel determinato insieme. Ciò fa della collezione al contempo un principio di aggregazione e uno strumento di esibizione di un certo capitale culturale o emozionale. Smania di possesso, fanatismo e una certa dose di feticismo contraddistinguono il mondo del collezionista che in tal senso è concepibile come avanguardia dei consumi e del rapporto dell’odierno consumatore con le merci. Sulla medesima traiettoria di scostamento dall’oggetto standard, banale e quotidiano, Baudrillard riesce a cogliere con maggiore lucidità e confidenza la natura del consumo contemporaneo. Nel trittico sugli oggetti meta e disfunzionali, dedicato al gadget, all’aggeggio e al robot, si compie l’ardua esplorazione dell’immaginario del consumo che è generato dal rapporto di doppia implicazione tra “finalità umane” e finalità della tecni5
A tal proposito l’ultima invenzione costruita intorno al magnifico mondo di Paris Hilton – il programma televisivo My best friend forever, in onda su MTV – trasferisce la logica della collezione e del rapporto tra modello e serie a un gruppo di aspiranti “migliori amici” della celebre ereditiera.
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ca”. La cosa che affascina del gadget è principalmente l’immaginario “neotecnico” che esso genera, un’epoca neobarocca dominata dalla rassicurazione del puro automatismo tanto che “c’è, ci deve essere un oggetto per qualunque operazione: se non esiste, bisogna inventarlo” [147]. Se il mondo dei gadget è composto da una pletora di oggetti dalla funzione minuziosa – iperspecificata ma altrettanto inutile – che catturano grazie alla loro natura ossessiva, l’aggeggio invece lavora sul principio inverso: una forza che si annida nella sua indeterminatezza nominale, nella sua de-specializzazione che ammicca a una “funzionalità vaga”, multipla e imprevedibile. Il termine stesso dimostra la resa del linguaggio nei confronti della proliferazione degli oggetti e il primato della creatività industriale rispetto a quella che un tempo risiedeva nel linguaggio. Ci si accorge allora che la proliferazione dei particolari tecnici provoca una sconfitta concettuale immensa, che il linguaggio è arretrato rispetto alla strutture e all’articolazione funzionale degli oggetti d’uso quotidiano, tanto che “nella società odierna ci sono sempre più oggetti e sempre meno concetti per designarli” [149]. Bastano poche righe per capire che queste pagine affrontano questioni fondamentali sia per l’economia del libro che per la teorizzazione più estesa dell’autore. La marginalità dell’aggeggio (che sostituisce in termini di vaghezza e vacuità quella che un tempo era espressa dalla parola “macchina”) è il luogo di condensazione di un immaginario che ha attraversato tre stadi: animista, energetico, cibernetico. Se nei primi due prevale rispettivamente il mito dell’organicismo assoluto e quello della funzionalità assoluta, nel terzo trionfa un immaginario e una pragmatica quotidiana che sono regolati dal mito della “interrelazionalità assoluta” [153]. In tal modo Il sistema degli oggetti ci conduce al di là delle riflessioni tipiche degli anni novanta sul neo-animismo tecnologico, sul feticismo delle merci, sulla tecnoma-
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gia6 ecc. Ciò a cui il filosofo ammicca senza nominarlo è il ruolo squisitamente pragmatico attraverso cui l’attuale tecnologia modifica il rapporto tra immaginario e vita quotidiana. La radicale alterazione dell’ambiente domestico operata dall’intelligenza artificiale e dalla cibernetica, nelle sperimentazioni della cosiddetta domotica, rappresentano la più vivida realizzazione dell’ipotesi di partenza del libro. L’idea che esista un sistema di rimandi e di implicazioni funzionali tra il soggetto-utente e l’insieme di accessori di diversa natura, grandezza e funzione che informano il nostro abitare è il presupposto teorico di una rivoluzione lenta ma tangibile, che trasformerà le nostre vite nel corso dei prossimi decenni. In una visita recente presso i laboratori di Fusionopolis a Singapore, ho avuto modo di utilizzare personalmente i nuovi oggetti “intelligenti” che popoleranno le nostre case nel prossimo futuro. Tecnologie come l’RFID, ad esempio, consentono di monitorare virtualmente i movimenti e le condizioni dei prodotti d’uso quotidiano. Le stesse offrono la possibilità alle merci di intrattenere un dialogo costante con altri accessori e di rendere tangibile il reticolo di relazioni che si instaurano tra i diversi beni (elettrodomestici, beni di largo consumo, contenuti mediali ecc.) e il soggetto-utente. Un frigorifero che analizza i flussi di merci e che pondera le ordinazioni in funzione della dieta e delle scadenze settimanali. Un sistema di sorveglianza interna che allerta l’ospedale se rileva che il corpo dell’anziano inquilino è disposto per terra in una posizione insolita. Un materasso che capisce dalla distribuzione del peso del corpo se chiudere la serranda e spegnere le luci. Sono 6 Mi riferisco ad esempio al lavoro di Vincenzo Susca e Derrick de Kerckhove (2009), che recupera elementi “esoterici” della concezione maffesoliana coniugandoli con il tecnopaganesimo di matrice statunitense.
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piccoli esempi di come abitare un ambiente domestico in modo biologico o prossemico sia immediatamente traducibile in un flusso informativo e nel suo relativo feedback. In tal senso il principio che unifica la radicale eterogeneità degli oggetti si sposta dunque dal piano funzionale (o metafunzionale per altre vie) verso quello informazionale o addirittura comunicazionale. La capacità dell’oggetto di scambiare messaggi con altre merci, con utenti o con apparati che lo hanno prodotto non solo dà vita a un ambiente d’interazione totale in cui tutto comunica, ma ancor di più abbatte la barriera che fino agli anni novanta suggellava la distanza tra il piano della Realtà e quello della Virtualità. Al di là dei successi della domotica, l’integrazione dinamica tra questi due piani rappresenta la grande rivoluzione che deborda dalla ristrettezza dello spazio domestico e si riversa sulla totalità dello spazio geografico. Come ha notato Alberto Abruzzese, tale scostamento riguarda una trasformazione epocale del sentire e dell’abitare i luoghi nella dimensione post-metropolitana, che modifica lo spazio chiuso e segmentato della vecchia urbanistica verso un modello fatto di “connessioni viventi”7. Come dire che alla formidabile rivoluzione che ci attende, nel momento di massima diffusione della cosiddetta “internet delle cose”, seguiranno anche altre innovazioni tecnologiche e culturali. Il racconto degli oggetti non sarà più separato dal suo referente materiale. Diverse ricerche raccontano oggi di questo “embedded storytelling” che trasforma l’identità degli 7 Scrive Abruzzese: “Dovremmo inventare corrispondenze, analogie, tra il territorio post-metropolitano dove viviamo ed edifici, luoghi dove poter abitare, inventare, cioè edifici che siano luoghi, ma luoghi per la vita post-metropolitana, luoghi che ne esprimano e riflettano il tempo, il movimento, che ne riproducano le antiche segmentazioni dello spazio metropolitano, che siano piuttosto connessioni viventi” (Abruzzese 2004: 57).
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oggetti in un progetto dinamico e open source mentre i nostri smartphone si trasformano in strumenti di scansione di palazzi, monumenti, località turistiche ecc. che informano direttamente sui loro servizi oppure su cosa pensano le persone che prima di noi hanno interagito con essi. La tendenza futura ci dimostra come la tecnologia stia ricomponendo la frattura tra l’Encyclopédie e il mondo delle cose, tipica dell’era industriale. La nascita di Wikipedia dà consistenza digitale a questo spazio eteroclito in cui oggetti, personaggi storici, località turistiche, concetti teoretici, soubrette, gente comune, marche commerciali, prodotti di consumo, canzoni, bestseller ecc. coesistono nel medesimo spazio concettuale. Grazie alle nuove tecnologie di geolocalizzazione, alla realtà aumentata e all’internet delle cose – che in vario modo rientrano nella nuova categoria di U-Space ovvero di marketplace Universale, Unico, Ubiquo e Unisono (Watson, Pitt, Berthon, Zinkhan 2002) – possiamo intravedere il passaggio da Wikipedia a Ontopedia. I principi di definizione/classificazione si muovono dal piano dell’astrazione formale a quello della realtà degli oggetti a tal punto che “esisterebbero tanti criteri di classificazione quanti sono gli oggetti stessi” [5]. Nel frattempo gli stessi oggetti diventano sistemi senzienti e comunicanti, media che veicolano come contenuto il loro stesso esserci e la loro relazione con il mondo. Tutto ciò forse è ampiamente preannunciato dall’opera di Baudrillard e aderisce a un modello di “trascendenza interiore al sistema” [197] che innesca semplici “rivoluzioni tautologiche” [198]. Oppure rappresenta inesorabilmente un punto rottura irreversibile, che ci proietta in una nuova epoca non più “fatta di” ma “fatta dalle” cose stesse.
1974 Raymond Williams, Televisione, tecnologia e forma culturale Nel 1973 il romanziere e studioso di letteratura Raymond Williams, originario del Galles e docente all’università di Cambridge, decide di dedicarsi alla fruizione intensiva di programmi televisivi statunitensi. L’occasione è l’invito a tenere un semestre di docenza come visiting professor presso l’Università di Stanford in California, dove si trasferisce con la moglie. Lì ha modo di studiare a fondo le differenze tra l’offerta televisiva alla quale era abituato, quella inglese della BBC e dei principi “informare, educare, intrattenere” associati all’idea di servizio pubblico, e quella nordamericana a forte vocazione commerciale. Grazie a quell’esperienza Williams può analizzare i differenti tipi di contenuto mandati in onda da emittenti inglesi e nordamericane, sia pubbliche che private, e soprattutto può comprendere la sostanziale diversità tra la divisione equilibrata in generi e in programmi specifici che caratterizzava la concezione pedagogica della televisione inglese e il flusso di brevi sequenze che dava forma alla televisione statunitense. Nasce così Television, che pur non essendo il primo lavoro di Williams sui media (Communications è del 1962) è sicuramente il più maturo e, in breve tempo, si imporrà tra i testi di riferimento per gli studi sulla televisione e il rapporto tra emittenza pubblica e privata. Oltre all’elaborazione della teoria del flusso, il libro presenta uno sforzo teorico non indifferente verso una sistematizzazione sociologica del consumo televisivo, sistematizzazione di stampo materialista alternativa sia alla sfiducia della teoria critica verso i media di massa sia alla proposta mediologica del già molto noto Marshall McLuhan. Sono probabilmente l’esperienza e la militanza marxista a spingere Williams verso la considerazione dell’ecosistema mediale come un campo di forze in cui leggere anche opportunità di cambiamento in senso progressista. Allo stesso tempo, il suo materialismo culturale gli impedisce di trarre conclusioni astratte e definitive sulla televisione e l’industria culturale più in generale. Per Williams la televisione non può che essere vista come una forma culturale, una realtà sociale con le sue istituzioni, i suoi diversi modelli organizzativi, i suoi processi di negoziazione. Le analisi di pratiche, forme ed esperienze di consumo domestico, così come il concetto di flusso elaborato in Television (a cui deve molto anche la più recente teorizzazione sullo spazio dei flussi
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informazionali di Manuel Castells), risulteranno utili negli anni a venire per non pochi tra gli studiosi dei cultural studies, interessati come Williams ai contesti di fruizione e alla rielaborazione culturale televisiva di forme mediali precedenti.
La televisone siamo noi di Iain Chambers
Su grande scala, dal servizio televisivo, attraverso la pubblicità commerciale, all’informazione centralizzata e ai sistemi di trattamento dei dati, la tecnologia che è o diviene disponibile può essere usata per influenzare, per modificare e in alcuni casi per controllare il nostro intero processo sociale. E l’ironia è che gli usi offrono scelte sociali così diverse. Noi potremmo avere sistemi televisivi poco costosi, basati localmente ed estesi fra le nazioni, che rendono possibile uno scambio di informazione e una comunicazione che sarebbero sembrati utopia non molto tempo fa. Questi sono gli strumenti contemporanei della lunga rivoluzione verso una democrazia colta e partecipata e del recupero dell’effettiva comunicazione nelle complesse società urbane e industriali. Ma essi sono anche gli strumenti di quella che sarebbe, nel contempo, una rapida e vittoriosa controrivoluzione in cui, sotto la copertura di chiacchiere su scelta e competizione, poche corporation paranazionali, con gli Stati e i poteri al loro servizio, potrebbe penetrare ulteriormente nelle nostre vite a tutti i livelli, dall’informazione allo psicodramma, fino a ridurre la risposta individuale e collettiva ai vari tipi di problemi e di esperienze alla scelta fra possibilità da loro programmate [221].
Sembra ormai quasi banale dire che la televisione fa parte di “un intero modo di vita”, di accogliere e concepire il mondo, in particolare in Occidente. Nonostante l’ovvietà di questa affermazione il profondo senso storico e filosofico della televisione resta ancora
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da scoprire. Si potrebbe parlare addirittura della televisione come un dispositivo della biopolitica contemporanea. In quest’ottica il volume del critico britannico Raymond Williams ci offre una risposta indicativa. Per Williams la televisione non è mai una questione meramente tecnica, non si tratta di uno strumento ma, come dice l’autore, di una forma culturale. Se vogliamo parlare di tecnica, dobbiamo evitare di renderla astratta e distaccata dalle sue condizioni storiche e sociali. In parole povere, e qui ci si trova vicino ad alcune considerazioni di Heidegger, non si tratta mai di un rapporto tra la tecnica e il sociale; la tecnica è già umana e sociale. Nella stessa vena diventa fuorviante parlare di un rapporto tra la televisione e la società; non esiste una storia autonoma dell’una o dell’altra: si tratta di una configurazione storica in atto. Come tale, la televisione si propone come risposta allo sviluppo di nuove esigenze sociali, politiche ed economiche. Con questa prospettiva, Williams ci spinge a considerare la televisione in termini che ci portano ben oltre la storia specifica dei media e della comunicazione di massa. L’autore insiste sul fatto che la forma culturale sostenuta dalla televisione rende impossibile ridurre la questione alla dimensione squisitamente tecnologica di un mezzo autonomo. Nelle domande e nelle sfide che orbitano attorno alla televisione come pratica culturale Williams vede giustamente la riconfigurazione radicale della società occidentale del ventesimo secolo. La televisione, come prodotto dei processi culturali che hanno caratterizzato le società occidentali industrializzate nel corso del ventesimo secolo, certamente deve essere inserita nella storia della comunicazione di massa che include l’elettricità, il telegrafo, la stampa, la fotografia, il cinema e la radio. Allo stesso tempo non si tratta solamente di un elemento che è parte integrante della storia della comunicazione. L’invito di Williams è a considerare la televisione nel contesto di una storia
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assai più ampia e complessa, articolata nella partecipazione e nella formazione della “comunità”, composta di individui spesso isolati in una società mediatica. In questa maniera, Williams sposta l’analisi della televisione (e di altri mezzi di comunicazione), sia come oggetto domestico sia come strumento narrativo, da una sociologia ristretta a un ambiente analitico in cui diventa possibile valutare la televisione in quell’ampia prospettiva in cui “narrare la nazione” (Bhabha 1990) ed elaborare la “comunità immaginata” (Anderson 1983) acquista tutta la sua forza critica. La televisione, a questo punto, non rappresenta qualcosa che incide sulla società, essendo già parte integrante della società stessa. In questa maniera, Williams vede nella televisione non un oggetto isolato della tecnica e del consumismo ma una forma culturale che svela le nuove esigenze e le nuove definizioni dei bisogni in una società marcata dalla mobilità nei rapporti e nei processi di produzione che inducono una trasformazione sociale generale. Oggi questa mobilità ha raggiunto una scala planetaria ed è pertanto opportuno considerare che i mezzi di comunicazione – dal telegrafo al cinema, dal treno all’aereo, dalla stampa al telefono, dalla televisione alla rete – nel loro evolversi diventano anche nuove istituzioni sociali coinvolte nella lotta politica ed economica per la gestione e la direzione della società. Parliamo, come direbbe Foucault, di dispositivi nuovi. Se la società, come formazione storico-culturale, è l’incubatrice di questi mezzi, questi mezzi, a loro volta, producono nuovi scenari sociali e politici. In un arco di tempo che parte dalla Rivoluzione Industriale, per arrivare ai giorni nostri, Williams legge negli sviluppi delle comunicazioni una serie di risposte ai nuovi rapporti sociali in una società in cui le istituzioni tradizionali – la Chiesa, la scuola, la comunità locale, la famiglia – perdevano peso e autorità nello spiegarne il divenire. Qui le specificità culturali incidono sulla
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questione in modo decisivo: la forma culturale della televisione in Italia, per esempio, nonostante i linguaggi mediatici in comune con quella britannica o statunitense, rivela nella sua particolarità come i rapporti sociali di cui parla Williams siano chiaramente declinati in realtà diverse. Sarebbe il caso di sottolineare che storicamente non si trattava di cambiamenti pacifici, ma spesso di contestazioni, dove i poteri istituzionali cercavano di limitare e controllare soprattutto la gestione delle potenzialità delle trasmissioni sostenute dai nuovi mezzi di comunicazione. La legislazione attuale per la trasmissione radiofonica e televisiva, come quella auspicata da certi settori governativi per internet, fa parte della storia della modernità occidentale segnata da politiche che cercavano di affrontare l’ingresso delle masse sulla scena pubblica. La continua lotta per la definizione della democrazia, per la gestione di corpi pubblici e privati, sotto l’impatto della massificazione dei rapporti sociali ed economici dall’Ottocento in poi, ha molto a che fare con l’evolversi della comunicazione di massa. L’ingresso sociale di unità di misura astratte – produzione di massa, raduni di massa, organizzazioni di massa, cultura di massa – e l’appartenenza ad altre unità astratte come classe e nazione, ha prodotto forme nuove di comunicazione. Come Williams ci fa notare, si trattava sempre più di trasmissioni di massa – la radio, la televisione, internet – indirizzate agli individui: la massificazione della società andava di pari passo con l’estensione di una presunta individualità. In questo modo si spiega perché la radio e la televisione sono state proiettate come mezzi e processi astratti, senza grandi definizioni di contenuti. Come mezzi di comunicazione di massa la radio e la televisione precedevano nella loro forma culturale i loro eventuali contenuti. Non si poteva meramente parlare di nuovi mezzi ma di una riconfigurazione sociale e culturale
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dei poteri e delle potenzialità sostenute dall’idea stessa di “comunicazione”. È in questo rapporto tra la massificazione della società e l’insistere sull’individuo come attore principale – sia in termini economici e del consumo, sia in termini politici e ideologici – che quella che Williams chiama la “privatizzazione mobile” diventa il fulcro della logica delle trasmissioni mediatiche: dalla televisione all’iPod e al cellulare. Se questa mobilità è il risultato della rottura delle vecchie forme di comunità e produzione e dell’avanzare di nuove forme di organizzazione sociale promosse dal distacco dei luoghi di lavoro dall’abitazione e sostenuto dal consumismo e dal concetto del “tempo libero”, si tratta sempre di velocità e configurazioni diverse in culture differenziate. Questa matrice ci mostra che le cosiddette scelte tecnologiche sono sempre forme culturali: nonostante la più alta qualità audiovisiva del cinema sarà la tecnica più “povera” dell’apparecchio domestico della televisione a trionfare. Mentre il cinema richiama lo spazio pubblico del teatro, la televisione disegna i nuovi spazi interni e individuali della scena privata, e mentre il cinema offre un’opera definita (il film), la televisione propone un intrattenimento pluriarticolato (lo sport, le notizie, le serie, le soap opera... il cinema) in un flusso continuo 24 ore su 24, sette giorni la settimana: totale. In questo scenario, secondo Williams, la televisione non è tanto la fonte oppure il risultato di cambiamenti socio-storici quanto il luogo ambivalente di mediazioni culturali. Così, la televisione risulta sia un prodotto sia un processo culturale che partecipa, nella sua specificità, all’articolazione delle forme in cui la società si elabora e riconosce se stessa. Qui siamo vicini a Louis Althusser e alla sua nota analisi degli apparati ideologici di Stato (1970), ma la prospettiva più ampia proposta da Williams ci permette di raccogliere la complessità culturale di cui la televisione odierna è uno dei sintomi
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e fattori principali. È a questo punto che l’idea della televisione come flusso acquista tutta la sua forza critica nell’opera di Williams. Per Williams il senso specifico della televisione non può essere identificato e isolato mediante le analisi di certi programmi individuali o di particolari generi televisivi. I telegiornali, le serie, i programmi di varietà, il meteo, la pubblicità, non forniscono momenti specifici da analizzare quanto istanze di un flusso che dovrebbe essere analizzato come tale. A questo punto, la televisione non è né un oggetto né un mezzo; è piuttosto una modalità specifica dell’istituzionalizzazione della cultura: la televisione è una forma culturale. Qui, di nuovo, si passa da un discorso basato sulla dicotomia degli effetti della televisione sull’individuo e sulla società all’idea molto più foucaultiana e deleuziana che accoglie l’ubiquità degli affetti realizzati dal flusso televisivo in cui i nostri corpi e sentimenti sono immersi, piegati, perfino prodotti, dall’esperienza televisiva. Per rilevare il peso storico e culturale della questione, possiamo suggerire che senza l’economia affettiva del dispositivo televisivo, accompagnato da tanti altri, non esisterebbero i “soggetti” della società contemporanea. Come forma culturale che elabora il senso (come profilo, come indirizzo, come tessuto) della cultura pubblica (e privata), la televisione ovviamente diventa anche luogo delle analisi dei poteri egemonici e delle forze sociali sospese e sostenute nel suo flusso. Nonostante il rischio di sembrare troppo deterministico con la sua prospettiva critica, Williams cerca di far emergere dall’intreccio dei dettagli culturali, dove la tecnica e il sociale diventano tutt’uno, un pensiero materialistico e storico, in polemica esplicita contro quella che lui considerava la visione metaforica, universalistica e formalistica di Marshall McLuhan. Per Williams si tratta sempre, com’è stato già notato, di capire le configurazioni storiche e sociali – i luoghi specifici della cultura
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– che forniscono il vissuto e la densità della problematica critica. I mass media sono ovviamente globali nella loro presenza, ma il loro senso storico e culturale non è universale; essi fanno parte di formazioni sociali specifiche, e se oggi sarebbe difficile restringere queste configurazioni a forme puramente nazionali, resta comunque in piedi la continua trasformazione/traduzione di linguaggi circoscritti culturalmente e, soprattutto, linguisticamente. Ma si deve comunque aggiungere alla visione di Williams la tendenza critica – da Guy Debord a Marshall McLuhan e a Jean Baudrillard – che coglie la forza stessa della forma culturale televisiva come metafora e metamorfosi della modernità. Qui le storie e le condizioni sociali e culturali sono reificate e feticciate nel processo stesso di trasmissione: il potere stesso della televisione – sia simbolica che reale – sta nella “magia” di tale reificazione. La fede di Williams nell’agire sociale in grado di spezzare questo incanto è stata messa a dura prova nei decenni recenti. Comunque è anche il caso di ricordare che l’agire sociale opera in tanti spazi diversi, spesso sotto e oltre la soglia del panorama televisivo: queste controstorie della comunicazione coesistono e competono in rapporti subalterni ma vivi con l’egemonia sia dentro sia fuori della forma televisiva. Nei suoi linguaggi di autorappresentazione la televisione svela una logica assai più estesa della forma culturale dell’economia politica in cui è sospesa. Williams nota come, nella retorica generale in difesa del capitalismo, le trasmissioni commerciali non si definiscano commerciali, e certamente non capitalistiche. Si usano termini come “libere”, “independenti” e “private”, per contrastare il “monopolio” e il “controllo statale” della televisione “pubblica”. Questa televisione non esiste tanto per produrre programmi (o cultura) quanto per fare profitti, e come modello ha ormai anche invaso la sfera del “servizio pubblico” e la sua dipendenza com-
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merciale dalla pubblicità. Nel secondo caso troviamo istituzioni formatesi nella continua contraddizione tra elaborare l’idea del servizio pubblico e le esigenze dello Stato che in modo diretto o indiretto gestisce l’istituzione: la RAI, la BBC ecc. In un sistema complesso di clientelismo politico, queste dipendono da una versione consensuale molto ristretta del “pubblico” e dell’interesse “nazionale”, con un qualche spazio lasciato a un’autonomia critica interna invece di un consenso aperto e pubblico. Sebbene queste strutture abbiano la loro “legittimità” formale, non sono mai né trasparenti né democratiche nelle loro gestioni e pratiche. Si tratta di consensi costruiti da trasmissioni centralizzate ad uso di una ricezione privata. Naturalmente la storia non finisce qui. La ricezione, decodificazione e declinazione della televisione resta più aperta e inaspettata rispetto ai canoni elaborati dalla direzione diretta e indiretta dell’apparato televisivo. Il divenire della televisione – nonostante la concentrazione dei poteri mediatici in poche mani, e qui l’Italia diventa un caso paradigmatico – come schermo privato della piazza pubblica continua a promettere le possibilità di disturbare, deviare e decostruire le logiche unidimensionali dei poteri politici ed economici che pensano di gestirla. Sarà dall’interno di questo connubio di tecnica e forme culturali chiamate “televisione” e “comunicazioni di massa” che il “nuovo farà il suo ingresso nel mondo” (Salman Rushdie). È soprattutto in questa chiave che Williams intende la televisione come forma culturale nella storia della “lunga rivoluzione” della democrazia e dei suoi linguaggi comunicativi. In questo spazio si gioca anche la lotta per una giustizia ancora da venire in termini sessuali e razziali, sociali ed economici, politici e culturali. La sfida critica proposta da questo volume di Williams è di portare alla nostra attenzione la centralità della televisione, evidenziata nella lunga citazione che apre questa recensione e che termi-
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na il suo libro, nel dare forma a possibilità e potenzialità che eccedono e sbeffano le definizioni istituzionali fornite dalla politica e dalla televisione stessa. Insistere su quest’apertura critica ci permette di trasformare un oggetto che domina il salotto domestico in uno spazio critico dove il senso stesso della cultura è politicamente e storicamente ancora da elaborare.
1985 Joshua Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale Oltre il senso del luogo è nato nel 1985 dalla tesi di dottorato discussa nel 1978 da Joshua Meyrowitz per il Media Ecology Doctoral Program della New York University. Nel 1986, a un anno dalla sua pubblicazione, No sense of place (questo il titolo originale dell’opera e della tesi) si era già imposto negli Stati Uniti come riferimento per l’analisi e il dibattito sugli effetti dei media nella società, fino a vincere il premio “Best Book on Electronic Media” conferito dalla National Association of Broadcasters and the Broadcast Education Association. In una inedita rielaborazione del pensiero di due studiosi molto diversi come Erving Goffman e Marshall McLuhan, l’intento esplicito di Meyrowitz è quello di delineare una teoria dei media in grado di sintetizzare sguardo mediologico e approccio sociologico al cambiamento sociale connesso alla diffusione e all’uso dei mezzi di comunicazione di massa. Oggi, scrive l’autore, la delimitazione fisica degli spazi ha sempre meno importanza perché “l’informazione può attraversare le pareti e percorrere lunghe distanze a grandi velocità”, di conseguenza il dove ci si trova è sempre meno legato alle proprie conoscenze ed esperienze dirette. Lo studioso nordamericano sostiene che molte delle differenze che una volta venivano percepite tra individui appartenenti a diversi gruppi sociali, a diversi stati di socializzazione e a differenti livelli di autorità, erano sorrette dalla suddivisione degli individui in “mondi di esperienza” molto diversi, mentre i media elettronici hanno modificato il significato del tempo e dello spazio nell’interazione sociale. Oltre il senso del luogo mostra così come la televisione abbia creato un ambiente mediale che ha consentito alle persone di osservare gli altri da sé in modo radicalmente diverso: prima della radio e della televisione, infatti, “l’interazione faccia a faccia in un luogo delimitato era l’unico mezzo per avere un accesso ‘diretto’ alle immagini e ai suoni dei comportamenti reciproci” [58]. Confermando la natura storica di periodizzazioni, rappresentazioni di genere e ruoli sociali, il lavoro di Meyrowitz sottolinea come “attraverso la televisione, ricchi e poveri, giovani e vecchi, studiosi e analfabeti, uomini e donne, e persone di ogni età, professione, classe e religione, spesso condividono nello stesso momento la stessa informazione – o un’informazione molto simi-
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le” [146]. Radio e televisione procurano ad ampi segmenti della popolazione “almeno una vaga familiarità con una vasta serie di temi e con persone immerse nelle situazioni più disparate” [137]. Nel rimarcare che “la televisione permette la più ampia percezione simultanea di un messaggio sperimentata finora dall’umanità” [146], Meyrowitz ricorda che nessun libro è mai riuscito a raggiungere un pubblico vasto come quello di molti programmi televisivi e, in ogni caso, mai in forma simultanea. La natura collettiva dell’ambiente televisivo influisce sulle identità di gruppo e i gradi di socializzazione, modificando i modelli di accesso alle informazioni stabiliti dalle distinzioni delle abitudini di lettura. L’analisi non può dunque fermarsi ai contenuti, ma deve concentrarsi sulle dinamiche specifiche del medium: la televisione è un sistema che comunica qualsiasi cosa a chiunque nello stesso momento, e “gran parte del suo significato sociale non sta tanto in ciò che viene diffuso dalla televisione, quanto nell’esistenza stessa della televisione come un’arena collettiva” [146].
Mediarchitetture, situazioni sociali tecnologiche e forme comunicative dell’abitare di Massimo Di Felice
Nei controversi anni Trenta, la notizia dell’arrivo dei marziani sulla terra annunciato dalla voce di Orson Welles durante un programma radiofonico della CBS ha rappresentato l’immagine evidente di una trasformazione epocale che ha amplificato e modificato i processi di costruzione degli spazi simbolici e delle architetture urbane. Com’era già accaduto con la stampa e la scrittura, si trattava anche in questo caso della comparsa di un nuovo tipo di distinzione fra geografia e immaginario, fra spazio urbano e spazio sociale; una distinzione che introduceva, in maniera ancora più decisiva, il contributo dell’elemento mediatico per l’edificazione, la comprensione e l’utilizzazione del paesaggio urbano. Nel caso narrato, la radio ha rappresentato una variabile fondamentale in grado di modificare, attra-
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verso il messaggio, il comportamento dei cittadini e l’interazione con il territorio urbano realizzando, in tal modo, la comparsa di un nuovo tipo di sfera pubblica, che segnava il passaggio dall’architettura degli spazi pubblici razionali-opinativi a quella delle meta-architetture informative, elettroniche ed esperienziali. A partire dall’avvento dei mass-media, abitare la città diventò qualcosa di più di un’attività di gestione topografica di spazi e di gestione architettonica di strutture pubbliche e private. Fin dalla sua prima versione industriale ed europea, la metropoli ha rappresentato, di fatto, il luogo della creazione di un nuovo tipo di spazialità, risultato di manipolazioni elettroniche, e quello della sperimentazione di una nuova forma di abitare segnata dalla mobilità e dal mutamento continuo del proprio paesaggio. Più che come una realtà architettonica, la metropoli industriale sorge come polo di comunicazioni integrate, come un insieme di circuiti informativi, di spazi luminosi e di percorsi di consumo performativi. È il suo costituirsi come insieme di spazialità elettroniche, oltre che materiali e concrete, che di fatto impone alla convivenza sociale un nuovo dinamismo estensivo, in grado di dar vita, insieme a nuove forme di cittadinanza pubbliche e private, anche a nuove forme di appropriazione, di uso e di dislocazione. Dalla corrente elettrica alle ferrovie, dal telegrafo senza filo alla macchina fotografica, al cinema e alle automobili, lo spazio metropolitano è stato lo scenario e il prodotto di una nuova forma di conoscenza teorico-empirica e dell’introduzione di una nuova forma di spazialità, segnata dall’avvento delle macchine legate alla produzione e di quelle legate alla comunicazione. Fin dalla sua origine europea, quindi, lo spazio metropolitano si manifesta come un territorio non solo meccanico, ma anche come un insieme di paesaggi e di geografie mediatiche (cinema, fotografia, giornali, pub-
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blicità ecc.) che tanto incideranno nelle pratiche sociali e nell’immaginario collettivo della modernità. Questo processo di espansione tecnologica della produzione e delle relazioni comunicative coincide con l’estensione dello spazio urbano e, di fatto, inaugura una nuova forma tecnica dell’abitare. In questo aspetto tecnologico-comunicativo va inquadrato il significato dell’alterazione dello spazio urbano e della trasformazione del territorio, così raccontato da Walter Benjamin: I nostri caffè, le strade delle nostre metropoli, gli uffici, le stanze arredate, le stazioni, le fabbriche, davano l’impressione di soffocarci irrimediabilmente. Poi arrivò il cinema e con la dinamite delle frazioni di secondo fece esplodere questo mondo simile a una prigione; così potemmo tranquillamente iniziare viaggi avventurosi in mezzo alle sue rovine. Con il primo piano si dilata lo spazio, con una ripresa lenta si dilata il movimento (Benjamin 1936: 35).
La nascita di nuove spazialità e architetture mediatiche provoca, così, l’eliminazione della sovrapposizione fra mappa e territorio, ovvero fra una costruzione sociale dell’abitare e la percezione immaginario-spaziale dello stesso. Superando il determinismo economicista, secondo il quale le innovazioni tecnologiche contribuirono quasi esclusivamente alla trasformazione dei processi socio-industriali, è necessario ricordare l’importanza delle stesse per la trasformazione della dimensione e della percezione del paesaggio. Alla riproduzione tecnica dell’opera d’arte, evocata da Benjamin, subentra quella del paesaggio, che determina il superamento del significato unico e oggettivo della località e del luogo. Dal paesaggio sfocato del treno in transito fino a quello transitorio del flâneur, lo spazio moderno metropolitano si costituisce, fin dalle sue origini, come un tipo di territorio in movimen-
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to, enigmatico e inedito, qualcosa di qualitativamente diverso dal paesaggio familiare delle vecchie città europee. La moltiplicazione elettronica degli spazi, che problematicizzerà la dialettica che contrapponeva spazio pubblico e spazio privato, ha permesso la concretizzazione di esperienze dell’abitare ibride e plurali legate alle nuove dimensioni elettroniche che spingeranno il paesaggio e l’immaginario oltre le dimensioni architettoniche dello spazio urbano. Il superamento della dimensione oggettiva e topografica dello spazio apre la possibilità all’esperienza di un abitare informativamente dislocativo e plurale: elemento, questo, centrale per comprendere il cambiamento dell’abitare e dello spazio moderno, come già analizzato da Alberto Abruzzese: Dalla piazza alla Tv, quindi. Ma anche dalla Tv alla piazza. […] La piazza urbana ha rappresentato il luogo in cui convergevano elementi strutturali e formali in grado di garantire visibilità e memoria al cittadino, occasioni sacre e profane di feste, relazioni sociali ed economiche. Edifici di pietra e costruzioni effimere, segnali e passeggiate […]. L’assenza della piazza storica di fronte alla complessità dello sviluppo diede origine alla necessità di trovare strumenti di manipolazione della realtà fisica che andassero oltre le linee tracciate nella pietra o le feste periodiche organizzate alla presenza della Chiesa o del principe. Altre maschere per i rituali di socializzazione. Altri venditori ambulanti per la vendita della merce. Altri testimoni e contenitori della memoria. Altri mezzi di informazione e apprendimento (Abruzzese 1995: 57).
Le piazze, le strade e gli edifici cessano dunque di essere i luoghi esclusivi dell’esperienza sociale e vengono affiancati da altre spazialità immateriali e informative (pubblicità, immagini, luci, paesaggi sonori ecc.)
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che si sovrappongono, creando meta-geografie e nuove esperienze dell’abitare. Se nella storia europea l’esperienza urbana e le relazioni sociali in essa contenute furono connesse alle forme architettoniche e alle organizzazioni politiche degli spazi “interni”, ovvero alle forme tangibili dello spazio e delle politiche del costruire, con l’avvento dell’energia elettrica i media audiovisivi consentiranno la nascita di altre dimensioni delle località. In esse, lo spazio si moltiplica e si smaterializza, avvicinando l’esperienza urbana a quella rapida e fugace delle sequenze cinematografiche. Le grandi esposizioni universali, le diverse città del cinema, luoghi di produzione di scenari per la realizzazione di film e gli stili comunicativi dell’architettura moderna sono, allo stesso tempo, esempi di una nuova forma di abitare e di una post-urbanità, concepita sempre di più come un avvenimento e come uno scenario di un evento spettacolare: Per quanto riguarda la vita quotidiana in contesti abitativi sviluppati, la macchina moderna muove i suoi ingranaggi a partire dalla relazione reciproca fra accelerazione e intensificazione dell’esperienza collettiva. […] Si apre un processo che fin dagli ultimi anni del XVIII secolo trasforma l’aspetto delle abitazioni, delle strade e degli edifici, compromette la possibilità del riconoscimento storico dei luoghi e dei comportamenti e sfugge al controllo delle vecchie conoscenze e dei vecchi valori. Le buone abitudini lasciano il posto a quelle cattive, lo spazio armonico del cittadino è costretto ad aprirsi al soggetto metropolitano (Id.: 63).
Eventi di massa e grandi esposizioni, così come i viali e le gallerie delle metropoli, sono i luoghi dello spettacolo della metropoli-elettronica1, dove tutto vive e 1 Per il concetto di metropoli-elettronica si veda Di Felice 2010.
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grazie alla tecnica e all’elettricità si muove di fronte allo sguardo del flâneur e dei passanti, i quali sperimentano una forma visuale e non più completamente sedentaria di cittadinanza. La velocità e la dislocazione visiva, mediatico-percettiva, sono gli elementi intervenuti a ridisegnare la spazialità e le sue percezioni, facendo in modo che lo spazio cessasse per sempre di essere una cosa, un semplice oggetto modellato dall’intervento umano. Il processo di emancipazione del paesaggio, che si amplifica attraverso i motori, l’energia elettrica, i media, acquisendo movimento e indipendenza è, di fatto, uno degli elementi più importanti della vita e del quotidiano della metropoli moderna. Il modello di produzione della metropoli del XIX secolo sarà caratterizzato dal progressivo sviluppo della messa in scena collettiva “dal vivo”: flussi e apparizioni di folla, spettacoli di massa, grandi magazzini, esposizioni universali […]. Ma darà vita anche a una vasta rete di dispositivi meta-territoriali, di veicoli di produzione e di consumo per l’opinione pubblica: urbanismo, giornali, riviste illustrate, propaganda, fotografia (Id.: 67).
Parlare di crisi dello spazio urbano significa, quindi, parlare anche della crisi del territorio empatico e dell’azione dell’individuo su questo, che all’interno dei grandi spazi metropolitani industriali ne percepiva al tempo stesso, come espresso dal concetto di unheimlich di Sigmund Freud, l’estraneità e l’attrazione. Allo stesso tempo in cui si configura come espressione e luogo della realizzazione di un nuovo stile tecnologico di vita, la metropoli dà vita a una forma di socialità visiva nella quale le immagini in movimento delle pubblicità, dei giornali, del cinema e della merce intensificano, come sottolineato da Simmel, “la vita nervosa e i sensi”, costringendo i cittadini ad abbandonare
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i ritmi dell’esistenza comunitaria e indirizzandoli verso i ritmi frenetici della metropoli industriale-produttiva e dei suoi circuiti elettronici. Illuminando l’abitazione, la luce fa diventare essenziali i passaggi fra visibile e invisibile, apre nuove frontiere al duplice movimento esistente fra i due mondi […]. Fotografia e cinema sono linguaggi destinati ad esprimere il nuovo fenomeno luce-territorio. Lo sguardo fotografico si appropria delle strategie della luce. Non si appropria degli oggetti o della realtà fisica in quanto tale, ma delle forme con le quali le cose vengono di fatto mostrate e risplendono: le immagini sono illuminazioni o assemblaggio di illuminazioni. La luce artificiale e la pellicola fissano in un istante il mondo e in tal modo spazializzano il tempo, lo assoggettano al presente (Id.: 83).
È dunque nell’elemento comunicativo e elettronico la causa dell’inarrestabile crescita delle megalopoli contemporanee che trasforma gli spazi metropolitani in circuiti informativi, dislocando per sempre l’esperienza dell’abitare dalle forme architettonico-urbane a quelle informative e metageografiche delle megalopoli. Curiosamente, questa fondamentale innovazione viene quasi del tutto trascurata dagli studi urbanistici e da quelli sociologici prodotti sia sulle metropoli che sulle megalopoli moderne. Anche se elettronico e dinamico, il paesaggio urbano continua ad esser pensato, da tali studi, per lo più esclusivamente in termini di architetture materiali, spazio concreto, costituito dai limiti prodotti dalle spazialità solide. La logica spaziale – nella maggior parte degli studi e anche nei più recenti – continua a svilupparsi secondo una concezione per la quale la metropoli è esclusivamente un insieme di spazi architettonici, all’interno dei quali prendono corpo le forme sociali. È in questa
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direzione che si sono succeduti gli studi di sociologia e antropologia urbana, nella loro forma di produzione di significati e di culture. In esse lo spazio è dato, è considerato materia passiva, scenario solido, ed è il soggetto, attraverso la propria azione – o l’osservatore flâneur, con il suo sguardo rivelatore – a riempirlo di significati. Nessuna attenzione ai circuiti elettronici, al cinema, alla televisione, che eppure hanno decisamente invertito la relazione tra soggetto e spazio urbano provocando il superamento definitivo del rapporto bipolare attivo-passivo che disciplinava la forma comunicativa fra individuo e territorio. Proprio nel superamento che l’era tecnologica e industriale impone al territorio, e di conseguenza al rapporto fra soggetto e ambiente, va ricercato uno dei primi significati attribuibili alla crisi dell’esperienza urbana e, conseguentemente, di quella dello sguardo sociologico su di essa. Se la città era uno spazio scritto e progettato, la metropoli, in quanto spazialità elettronica, sarà costituita da spazi dinamici e multiformi di fronte ai quali l’individuo non è più un attore interveniente, né uno sperimentatore delle variegate possibilità fornite dalle sue spazialità architettoniche, ma il risultato delle interazioni tecnologico-elettroniche che in questa si realizzano. Un esempio di tale dimensione esotopica dell’abitare (Di Felice 2010) è dato dalla riproduzione tecnologicoinformativa del luogo. Se l’analisi sociologica degli spazi urbani evidenzia l’importanza dell’elemento visivo nel processo di significazione e di fruizione degli spazi, per comprendere il dinamismo del paesaggio mobile delle metropoli elettroniche contemporanee è al contrario necessario prendere in esame l’elemento mediaticoelettronico. Quest’ultimo, introducendosi fra soggetto e paesaggio, attraversando i muri sotto forma di cavi e fili, perforando l’asfalto e il cemento ed elettrificando
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strade e viadotti, dà vita a una spazialità dinamica e ad una socialità elettronica. A colmare il vuoto, quasi totale, dell’approccio delle scienze sociali direzionato a non rilevare il carattere elettronico delle interazioni e degli spazi metropolitani, viene l’opera Oltre il senso del luogo di Joshua Meyrowitz, che analizza proprio il modo in cui i media elettronici influenzano le relazioni sociali. L’aspetto centrale dello studio è proprio il superamento della percezione geografica del senso del luogo e la definitiva separazione fra luogo sociale e luogo fisico provocata dai mezzi di comunicazione. Se McLuhan evidenziava il superamento di tempo e spazio, Meyrowitz si concentra sull’impatto dei media nello spazio e nelle interazioni sociali. Partendo dal concetto di situazione sociale, storicamente elaborato da autori come Erving Goffman o Roger Barker, come anche dalla relazione fra luogo e comportamento, Meyrowitz preferisce considerare la situazione sociale come un sistema informativo all’interno del quale la natura dell’interazione non è determinata più dall’ambiente fisico in quanto tale ma dai modelli di flussi informativi. Il carattere innovativo di tale percezione costituisce una vera e propria rivoluzione delle forme attraverso le quali è stato pensato il sociale e le sue relazioni all’interno della tradizione sociologica. Infatti, se le situazioni sociali possono essere modificate dall’introduzione di nuovi mezzi di comunicazione è allora necessario superare l’idea comune secondo la quale le relazioni sociali si limitano alle forme di interazione faccia a faccia (face to face) e aprirsi alla necessità di oltrepassare il significato esclusivamente antropomorfico delle interazioni e della socialità. Cosciente di tale rottura, Meyrowitz prende le distanze da Erving Goffman che, come è noto, descriveva la vita sociale come l’insieme delle interazioni
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mediante le quali ogni individuo, in una forma prossima alla situazione teatrale, provava diversi ruoli su altrettanti palcoscenici e arene sociali, l’alternarsi dei quali determinava l’alterazione del tipo di situazione sociale e della composizione dei gruppi. Al contrario di tale concezione, Meyrowitz sostiene che “i nuovi media producono nuovi tipi di relazioni fra persone e ambiente” [12], ridefinendo così i concetti di posizione e quello di situazione sociale. Ciò che egli sembra cogliere con chiarezza è la definitiva crisi del significato unico del luogo all’interno delle interazioni sociali. Andando esattamente nella direzione opposta a quella dei lavori della Scuola di Chicago, che avevano sviluppato il concetto di ecologia urbana, Meyrowitz rifiuta il punto di vista secondo il quale il luogo determinerebbe il comportamento sociale: La natura dell’interazione non è determinata dall’ambiente fisico in quanto tale, ma dai modelli di flussi informativi […]. Allo stesso modo, l’interazione sociale e i comportamenti all’interno della società possono essere modificati dall’introduzione di nuovi mezzi di comunicazione [60].
Ma la sua analisi risulta più utile proprio nell’intuizione di considerare la propria situazione sociale alla stregua di un sistema informativo, ovvero di un sistema di accesso alle informazioni sociali: Il concetto di sistema informativo sta ad indicare che gli ambienti fisici e gli “ambienti” dei media appartengono ad un continuum e non rappresentano una dicotomia [62].
La diffusione dei media sarebbe così responsabile dell’instaurazione di tante nuove situazioni sociali che consentono l’alterazione qualitativa del paesaggio architettonico, creando nuove spazialità meta-geografiche e socialmente rilevanti. Da questo punto di vista
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il salto non potrebbe essere maggiore: non soltanto i media, come vuole quasi tutta la tradizione sociologica, non assolvono un ruolo strumentale, ma sono essi stessi a costruire il genius loci e a determinare la costruzione della situazione sociale. Più che di strutture materiali fatte di mattoni, acciaio, muri, pareti, gli spazi e i nostri contesti sociali, dall’epoca delle metropoli elettroniche a quella dei social network, ci appaiono, in linea con tale prospettiva, costituiti da situazioni informative e circuiti elettronici: Il mutamento che si verifica nelle situazioni e nei comportamenti sociali quando si aprono o si chiudono porte o quando si costruiscono o si demoliscono pareti, corrisponde oggi al leggero contatto di un microfono che si accende, a un televisore che si illumina, o al momento in cui si prende in mano la cornetta per rispondere ad una chiamata [114].
La situazione sociale nei meta-spazi della metropoli elettronica somiglia a una trasformazione “proteica” degli spazi, nella quale palazzi, muri, confini e luoghi cambiano in continuazione, attraverso il play o l’off di un medium, alterando il paesaggio e la sua percezione. L’ingresso nelle strutture architettoniche di circuiti elettrici, cavi ottici, reti telematiche e la perforazione del terreno per l’introduzione di canali sotterranei – come accaduto con la diffusione delle onde radio nell’etere – hanno dato vita a nuove spazialità informative, spazialità in movimento, fatte di informazioni e di impulsi elettrici, elettronicamente attraversabili e soltanto mediaticamente abitabili. Il carattere innovativo dell’opera di Meyrowitz acquista ancora più rilevanza se si pensa anche alla tradizione antropologica degli studi sulla o nella metropoli che, come quella sociologica, ha sempre preferito ignorare i media e le nuove spazialità elettroniche concentrandosi sull’estensione e sulle architetture fisiche.
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Negli studi pionieristici (Kemper, Peck e altri) che hanno analizzato lo spazio urbano come un campo di produzione di culture o nelle forme frammentarie e polifoniche (Ilardi 1990; Canevacci 1997), la metropoli ha continuato ad esser concepita, essenzialmente, come uno spazio architettonico, luogo dell’esperienza sociale e culturale del soggetto-abitante. In quanto paesaggio architettonico, la metropoli, sebbene sconfinata e priva di un centro, secondo tale visione andava interpretata come una “città maggiore”, cioè come un reticolato di abitazioni, strade, vie, quartieri, piazze, edifici, all’interno dei quali il soggetto si sposta ed abita. In tale prospettiva, tra architettura e soggetto non può esistere nessuna continuità reale, nessun processo di ibridazione: il paesaggio continua ad essere qualcosa di esterno all’osservatore, che instaura un dialogo astratto, semantico e ideale con i palazzi e gli edifici consentito dal suo sguardo, vale a dire dalla sua appropriazione visiva del territorio. Mattoni, cemento, ponti, vie, edifici, corpi, passanti si incontrano in una relazione che li definisce come dialogicamente comunicanti e, pertanto, qualitativamente distinti. Tale interpretazione non tiene conto di una fondamentale alterazione apportata dall’elettricità all’abitare e che, di fatto, ha trasformato il rapporto fra soggetto e territorio: la sovrapposizione delle estensioni elettriche sul tessuto urbano, la quali hanno fatto di quest’ultimo reti di comunicazione e foresta di cavi, alterando allo stesso tempo il soggetto abitante, la sua località, i suoi sensi, la sua percezione e il suo stile di vita, trascinandolo in un mondo elettronico e in forme relazionali meta-geografiche, come colto da Meyrowitz: Le reti informative uniformate promosse dai media elettronici, propongono agli individui un punto di vista relativamente olistico della società e un oriz-
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zonte più vasto con cui confrontare il loro destino individuale. Per utilizzare un termine di George Herbert Mead, i media elettronici modificano l’altro generalizzato – il sistema generale attraverso il quale le persone considerano e valutano le azioni dell’altro. L’“altro mediato generalizzato” comprende parametri, valori e convinzioni non appartenenti ai tradizionali ambiti di gruppo, offrendo così alle persone una prospettiva nuova da cui osservare le loro azioni e le loro identità [214].
L’opera di Meyrowitz Oltre il senso del luogo viene a chiudere un’epoca, quella che ha raccolto studi di urbanisti, sociologi e antropologi sulle metropoli, che hanno sistematicamente escluso dalle loro analisi gli elementi informativi e elettronici e che hanno continuato a riferirsi allo spazio urbano e alla località senza problematizzarla. Ciò che è accaduto con l’elettricità e i media e che Meyrowitz riesce lucidamente a descrivere è stato il sorgere di un’altra forma dell’abitare, che provoca lo stravolgimento delle coordinate spazio-temporali e il superamento della contrapposizione tra soggetto e spazio urbano, esterno. Siamo dinnanzi ad una alterazione qualitativa la cui analisi ci porta a considerare l’abitare e la relazione tra il soggetto e il territorio da una prospettiva non più dialettica ma fluida, qualcosa di prossimo ad una essenza relazionale che definisce l’ambiente non più come qualcosa di esterno ma come la continuità di una soggettività relazionale. La trasformazione del rapporto fra spazio e individuo viene definita da Celeste Olalquiaga psicastenia, ovvero un cambiamento della relazione fra l’io e il territorio circostante che determina una condizione nella quale lo spazio delimitato dalle coordinate dell’organismo si confonde con quello rappresentato. Incapace di
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marcare i limiti del proprio corpo, perso nell’immensità che lo circonda, l’organismo psicastenico abbandona la propria identità abbracciando lo spazio circostante e mimetizzandosi nell’ambiente (Olalquiaga 1998: 24, traduzione di chi scrive).
Più che una patologia, la psicastenia può essere intesa come una possibile spiegazione delle alterazioni provocate dai media elettronici che, mettendo in atto il passaggio dal verbale al visivo e dal concreto all’elettronico, moltiplica i paesaggi urbani nelle scene, negli spazi all’aperto, nelle immagini. In altre parole, attraverso i mezzi elettronici viene definitivamente compromessa la tradizionale relazione fra ambiente, spazialità e situazione sociale. Si apre ai nostri giorni, all’interno delle dinamiche proposte dalle nuove tecnologie comunicative e dalle reti, la possibilità di ripensare non solo al ruolo dei media, e alla loro fertile ibridazione con la società e il territorio come proposto da Meyrowitz, ma anche alla fine della centralità del soggetto e della sua pretesa di autodeterminazione. Dall’ontologia relazionale heideggeriana, che pensa l’essenza non metafisica dell’essere come il risultato di una dinamica ed ecologica interazione tra i quattro elementi (cielo, terra, mortali e divini), alle caratteristiche epimeletiche2 evidenziate dagli studi biologici, assistiamo al naufragio della pretesa olistica del pensiero sociologico e al sorgere della necessità di un pensiero 2 Il concetto di via epimeletica è definito da R. Marchesini come “l’apertura del sistema uomo all’ibiridazione con il non umano”, che definisce l’umano come “una soglia di sviluppo data dal dialogo con il non umano […] e l’antropo-poiesi come un atto di ibridazione, e cioè una liturgia di ospitalità, nel doppio senso di ospitare l’alterità, ossia di lasciarsi contaminare dall’alterità, e di farsi ospitare dall’alterità” (Marchesini 2006: 37).
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e una intelligenza portatori di una nuova concezione ecologica, all’interno della quale il soggetto, i media e il territorio, come nella quadratura heideggeriana, si ridefiniscono l’uno nell’altro. Ai nostri corpi, alle nostre intelligenze, alle nostre relazioni sociali e al nostro abitare succede ciò che Calvino narrava di Armilla: Se Armilla è così perché incompiuta o perché fu demolita, se si tratta di un feticcio o di un semplice capriccio, non saprei dire. Il fatto è che non esistono pareti, né tetti né pavimenti: non c’è niente che la faccia sembrare una città (Calvino 1972: 97).
Anche per questo l’opera di Meyrowitz svolge una importante funzione all’interno degli studi di mediologia, quella di indicare la necessità della superazione delle barriere epistemiche delle scienze sociali che non riescono più, all’epoca delle reti interattive e della mobilità informativa, ad individuare le dinamiche – elettroniche e non più esclusivamente umane – del sociale.
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Gli Autori
Alberto Abruzzese Insegna Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso l’Università IULM di Milano. Ha insegnato per anni presso l’Università “Sapienza” di Roma e l’Università “Federico II” di Napoli. Tra le sue pubblicazioni: Forme estetiche e società di massa (1973), Lo splendore della TV (1995), Il crepuscolo dei barbari (2011). Nello Barile Insegna Introduzione ai media e Sociologia dei processi culturali presso l’Università IULM di Milano dove coordina il Master in Management dei processi creativi. Si occupa di moda, consumi e nuove tecnologie. Tra i libri più recenti, La mentalità neototalitaria (2008) e Sistema moda (2011). Davide Bennato Insegna Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Sociologia dei media digitali presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania. Si occupa del rapporto tra innovazione tecnologica e società, svolgendo su queste tematiche attività di ricerca presso la Fondazione Luigi Einaudi di Roma. È autore del volume Sociologia dei media digitali (2011) e del blog Tecnoetica. Davide Borrelli Insegna Sociologia dei processi comunicativi e culturali presso l’Università degli Studi del Salento. Tra le sue
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Gli Autori
ultime pubblicazioni: Il mondo che siamo (2009), Pensare i media (2010). Sergio Brancato Insegna Sociologia della comunicazione presso le Università di Salerno e di Napoli “Federico II”. Si occupa di teoria e storia dei media audiovisivi. Ha pubblicato tra gli altri: Sociologie dell’immaginario (2000), La città delle luci (2003), Post-serialità (a cura, 2011). Iain Chambers Iain Chambers insegna Studi culturali e postcoloniali del Mediterraneo presso l’Università “L’Orientale” di Napoli. Autore di una serie di volumi sulle culture urbane contemporanee ha recentemente pubblicato il volume Le molte voci del Mediterraneo (2007). Stefano Cristante È Presidente del corso di laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università del Salento, dove insegna Sociologia della comunicazione e dirige l’Osservatorio di Comunicazione Politica. Ha scritto, tra gli altri: Potere e comunicazione (1999-2004), Media Philosophy (2005), Prima dei mass media (2011). Massimo Di Felice È professore e ricercatore presso la Escola de Comunicações e Artes della Università di São Paulo, in Brasile, dove coordina il centro di ricerca internazionale ATOPOS e il master su Reti Digitali e Eco-sostenibilità. Tra le sue ultime pubblicazioni Do Publico para as redes (2008), Paesaggi Post-urbani (2010). Giovanni Fiorentino È Presidente del Corso di laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università della Tuscia dove insegna Sociologia della comunicazione e Sociologia dei consumi
Gli Autori
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e della pubblicità. Si occupa di storia e cultura dei media con particolare attenzione all’evoluzione delle immagini tra analogico e digitale. Ha scritto, tra l’altro, Il valore del silenzio (2003), L’Ottocento fatto immagine (2007) e ha curato Galassia Facebook (2011, con M. Pireddu). Gabriele Frasca È poeta, narratore, saggista, autore teatrale e traduttore. Ha collaborato con RadioRai e attualmente insegna Letteratura Comparata all’Università per Stranieri di Siena. Si è occupato di Medioevo, Barocco, Modernismo e di teoria delle comunicazioni. Fra i suoi saggi: Cascando. Tre studi su Samuel Beckett (1988), La scimmia di Dio (1996), La lettera che muore (2005). Gino Frezza Insegna Sociologia dei processi culturali presso l’Università di Salerno. I suoi studi hanno riguardato in particolare i rapporti di integrazione tecnico-mediale fra il cinema, i fumetti, la televisione, i nuovi media. Ha pubblicato, tra l’altro: La macchina del mito fra film e fumetti (1995), Effetto Notte (2006), Le carte del fumetto (2008). Jorge Lozano È semiologo e professore ordinario di Teoría de la información presso l’Università Complutense di Madrid. Già direttore dell’Accademia Reale di Spagna a Roma e responsabile della “Revista de Occidente”, è autore de Il discorso storico (1987) e direttore del GESC (Grupo de Estudios de Semiótica de la Cultura, Fundación Ortega-Marañon). Michel Maffesoli È dal 1981 docente di Sociologia all’Università Paris Descartes Sorbonne. Fondatore del CeaQ (Centre d’Etude sur l’Actuel et le Quotidien), è membro del-
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Gli Autori
l’Istituto Universitario di Francia (IUF) e del consiglio di amministrazione del CNRS. Tra le sue pubblicazioni: L’ombra di Dioniso (1982), Il tempo delle tribù (1988), La trasfigurazione del politico (1992). Roberto Maragliano Insegna Tecnologie per la formazione degli adulti presso l’Università Roma Tre. Da tempo si occupa dei rapporti fra educazione e comunicazione, sia sul piano della ricerca scientifica sia, e soprattutto, su quello delle realizzazioni pratiche e delle soluzioni operative. Tra le sue pubblicazioni: Parlare le immagini. Punti di vista (2008), Educare e comunicare (a cura, con Alberto Abruzzese, 2008), Adottare l’e-learning a scuola (2011). Andrea Miconi Insegna Introduzione ai Media e Sociologia dei Processi Culturali presso l’Università IULM di Milano. Tra le sue pubblicazioni: Una scienza normale (2005), Reti. Origini e struttura della network society (2011). Peppino Ortoleva Professore ordinario di Storia e teoria dei media all’università di Torino. Si occupa di storia, società e media. Tra i suoi libri Saggio sui movimenti del 1968 (1988), Mediastoria (2002), Il secolo dei media (2009). Antonio Rafele Ha conseguito il dottorato di ricerca in Sciences Humaines et Sociales presso l’Università La Sorbonne di Parigi. Attualmente svolge attività di ricerca presso l’Università IULM di Milano. Ha pubblicato il volume Figure della Moda (2010). Giovanni Ragone Professore ordinario di Mediologia e direttore del Centro DigiLab della Sapienza Università di Roma. Tra i
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lavori più rilevanti: Un secolo di libri (1999), Introduzione alla sociologia della letteratura (2002), L’editoria in Italia (2005). Franco Speroni È docente di Storia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di L’Aquila, dove ha insegnato anche Estetica e Teoria e Metodo dei Mass Media. Si occupa di cultura visiva con un approccio iconologico e mediologico prestando particolare attenzione alle relazioni tra arte e comunicazione. Tra le sue pubblicazioni: Sotto il nostro sguardo (1995; 2005), La Rovina in scena (2002).
Mediologie
Collana diretta da Alberto Abruzzese, Gino Frezza, Gianfranco Pecchinenda, Giovanni Ragone
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G. Ragone, L’editoria in Italia. Storia e scenari per il XXI secolo S. Cristante, Media Philosophy. Interpretare la comunicazione-mondo A. Amendola, Frammenti d’immagine. Scene, schermi, video per una sociologia della sperimentazione G. Alfano, Nelle maglie della voce. Oralità e testualità da Boccaccio a Basile A. Iannotta, Lo sguardo sottratto. Samuel Beckett e i media A. Abruzzese, G. Ragone (a cura di), Letteratura fluida A. Ceccherelli, Oltre la morte. Per una mediologia del videogioco S. Brancato, Senza fine. Immaginario e scrittura della fiction seriale in Italia E. D’Amico, Digitografie. La fotografia digitale nelle pratiche comunicative S. Bory, Il tempo sommerso. Strategie identitarie nei giovani adulti del Mezzogiorno G. Pecchinenda, Homunculus. Sociologia dell’identità e autonarrazione G. Frezza, Le carte del fumetto. Strategie e ritratti di un medium generazionale G. Scurti, Visibilità e riconoscimento. Ipotesi per una teoria sociale dei media D. Borrelli, Il mondo che siamo. Per una sociologia dei media e dei linguaggi digitali F. Denunzio (a cura di), Il linguaggio del dr. House. Sociologia di una fiction televisiva G. Frezza, Cultura e media al Centro RAI di Napoli C. Colangelo, La verità errante. Viaggi spaziali alla prova del pensiero A. Rafele, Figure della Moda. Metropoli e riflessione mediologica tra Ottocento e Novecento
19. F. Gamba, Leggere la città. Indizi di contaminazioni sociologiche 20. O. De Sanctis (a cura di), Immagini dal presente. Giovani, identità e consumi culturali 21. A. Fattori, Cronache del tempo veloce. Immaginario e Novecento 22. G. Alfano, Paesaggi, mappe, tracciati. Cinque studi su Letteratura e Geografia 23. F. Denunzio, Deleuze cinéphile. Storia e teoria di un amore 24. S. Caldieri, Spazi sintetici. Verso una sociologia dei mondi digitali 25. S. Brancato (a cura di), Post-serialià. Per una sociologia delle tv-series. Dinamiche di trasformazione della fiction televisiva 26. A. Amendola (a cura di), È tutto Sex and the City. Moda, metropoli, amicizia e seduzione in una fiction televisiva 27. M. Pireddu, M. Serra (a cura di), Mediologia. Una disciplina attraverso i suoi classici