I classici dell'età dell'indiscrezione 8806136380, 9788806136383

"Di loro natura - scrive l'autore - i classici si presentano poco sfiziosi. O, perlomeno, sarebbe difficile so

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Italian Pages 200 [204] Year 1997

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I classici dell'età dell'indiscrezione
 8806136380, 9788806136383

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È noto che ogni grande autore crea i

propri predecessori e influenza cosî non solo il futuro, ma anche, e forse soprat-

tutto, il passato. L'idea presuppone un lettore memore e attento, e per questo disposto a modificare la propria tradizione e i propri classici, o almeno la lettura che di essi si sia sedimentata nel tempo. Da sempre, dunque, leggere vuol dire anche modificare. Per la società pubblicitaria contemporanea leggere significa senz'altro manipolare, ma non in nome di una identità culturale bensi nel segno di un anonimato del pettegolezzo. È di questo costume che Maurizio Bettini propone un ritratto

che non si affida a toni apocalittici perché basta e avanza il grottesco di quanto viene rappresentato. Se la cultura orale è naturalmente discreta perché non ha a disposizione una memoria inesau-

ribile, la cultura scritta, e per di più tecnologica, è in sé indiscreta proprio perché non dimentica nulla. Quando tutto può essere ricordato, il problema si sposta allora sul come e sul che cosa ricordare o specularmente lasciare nell'oblio. A questa domanda non sa rispondere il meccanismo della «calendarietà culturale» che parla dei classici e li commemora senz’altra ragione che quella appunto anonima dei calendari e degli anniversari.

Memoria e lettura nulla hanno a che vedere neppure con il metodo che riduce il classico a curiosità, magari adottando il criterio editoriale del «taglia e

In copertina: Mehemed Fehmy Agha, Untitled, 1930. Janet Lehr, Inc., New York.

Digitized by the Internet Archive in 2023 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/iclassicinelleta0000bett

Einaudi Contemporanea 32

© 1995 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino ISBN 88-06-13638-0

Maurizio Bettini

I classici nell’età dell’indiscrezione

Einaudi

Indice

RUVIL

Prefazione

I classici nell’età dell’indiscrezione Fi

L’era della futilità

Ii. In. Iv.

L’era del calendario Per sigla quadrata Angioino Tetràstilo e la conflagrazione universale Mnemosyne in biblioteca Nel grande archivio

V. vi. vit. vii. ix.

L’età dello sfizio

Iconforti dell’etimologia

0A xI. x. x. XIV. xv.

I devoti di Rucolino I classici nell’età dello sfizio Invocazione tardiva Serenata Silvestri Liberarsi di loro Omero era nato a Trapani C'ero anch'io

xvi.

L’Arca perduta

xvi.

La sorpresa

XVIII.

«Haec autem nacti sumus»

xIx. L’età dell’indiscrezione xx. I classici nell’età dell’indiscrezione

xxI. xx.

Nonsi porge la spada a un bambino Le tavolette di Preto e il corpo della cultura

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Prefazione

Ai classici, greci e latini, si può contestare qualsiasi cosa, ma non certo la loro età. I classici hanno un'esistenza che si misura direttamente sull’ordine dei millenni. Que-

sto implica in primo luogo il fatto che essi rispecchiano universi culturali molto diversi dal nostro: mondi difficili,

che certe volte concedono il permesso di entrare solo a chi si presenta munito di un buon commento; mondi arcaici,

remoti, e per questo cosî simili a mondi esemplari. Ma non basta. Antichi come sono, i classici si configurano soprattutto come quel particolare tipo di libri che esisteva quando tutti gli altri, quelli che sono venuti dopo, non erano ancora stati scritti. Di conseguenza i classici sono

anche i libri che sono stati letti un po’ da tutti, nel corso del tempo, e dunque rappresentano ciò che abbiamo sicuramente in comune con le generazioni che ci hanno preceduto. È importante avere dei libri in comune con qualcuno, aiuta a capirsi. Per esempio, è possibile scoprire che col nostro vicino di casa si ha in comune I/ gattopardo (cosa che magari influenzerà beneficamente i problemi del condominio): mentre si può apprendere, per via di tradizione familiare, che «anche il nonno aveva una passione per Stevenson». Ma che libri potremmo pensare di aver in comune, per esempio, con Dante? Stevenson no di certo, ma con Virgilio si va sul sicuro. Virgilio lo abbiamo certamente in comune non solo con Dante ma anche con sant'Agostino, e persino con Augusto. I classici costitui-

VIII

PREFAZIONE

scono la nostra «lingua comune»: quella che condividiamo non solo con il nostro passato ma anche con tutti coloro che da questo stesso passato provengono. Il fatto è che, qualora ci fossimo trovati a nascere in altri momenti della nostra storia, i classici ci sarebbero

ugualmente stati e sarebbero stati più o meno gli stessi. C'erano infatti al tempo in cui i cristiani cominciarono a perseguitare i pagani, i quali si ostinavano per l’appunto a | voler leggere i classici; ma ovviamente c’erano già anche quando i pagani avevano cominciato a perseguitare i cristiani. Per l'esattezza, allorché Cristo decise di mettersi

sulle strade della Galilea buona parte dei classici stava lf già da un pezzo e in forma di edizioni commentate, molto simili alle nostre. Sono oltre duemila anni che le persone li studiano, e in tutto questo tempo si può ben dire che lo abbiano fatto non solo nelle congiunture storiche più disparate, ma anche nei luoghi più diversi. Se solo volessimo citarne qualcuno potremmo cominciare immaginando la Biblioteca di Alessandria, nel terzo secolo avanti

Cristo, con Zenodoto che annota i rotoli di papiro in cui stanno scritti ipoemi di Omero; quindi potremmo spostarci a Roma e sederci accanto a Cratete di Mallo, l’am-

basciatore con la gamba fratturata che, non potendo lasciare il suo lettuccio, fece ai romani le loro prime lezioni di filologia. A Roma infatti la filologia ebbe inizio perché un ambasciatore del re Attalo di Pergamo scivolò malamente nel foro di una cloaca. Dopo di che, in questo viaggio attraverso i luoghi dei classici incontreremmo per forza la Biblioteca di Augusto — salvo proseguire rapidamente verso i monasteri altomedioevali, attraversare la corte

imperiale, saltare subito alle scuole dei gesuiti, entrare disciplinatamente nelle vecchie aule dei licei statali. Ogni volta ci troveremmo di fronte a dei classici, e più o meno sempre gli stessi.

PREFAZIONE

IX

A noi, oggi, è toccato di leggere i classici in metropolitana, in aereo, o nella stanza della televisione. Ormai Ce-

sare e Platone viaggiano comunemente sulla rotta RomaTokyo, mentre Virgilio, lo desideri o no, vive anche lui nell’era del talk-show. Come c’era da aspettarsi, tutto ciò ha provocato anche qualche conseguenza sul nostro modo di guardare ai classici: ma per quanto riguarda loro, non credo che la cosa li infastidisca più che tanto. Al contrario, penso che dai classici ci sia piuttosto da aspettarsi qualche aiuto per comprendere ciò che sta accadendo intorno a noi. Del resto, chissà quante altre dovranno vederne ancora, i classici.

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«d=1. Viaggio gastronomico di un linguista a Catania, Signorelli, Roma 1972, p. 49 (debbo questa indicazione all’amico Luciano Modica). * J. Gélis, L’arbre et le fruit, Fayard, Paris 1984 [trad. amer. History of Childbirth, Northeastern University Press, Boston 1991, p. 571. © J.G. Frazer, Totemism and Exogamy, Macmillan, London r9ro, II, pp. 106 sgg.; C. Lévi- Strauss, La pensée sauvage, Plon, Paris 1962 [trad. it. I/pensiero

selvaggio, Il saggiatore, Milano 1964, pp. 90 sgg.l. 6 Scolio alla Pace, 496. ? Uno spunto interessante in questo stesso senso sta già in A. Rosaro Mennon-

na, Un dialetto della Lucania. StudisuMuro Lucano, Congedo, Galatina 1977, II, p. 183; R. Bigalke, Dizionario dialettale della Basilicata, Winter, Heidelberg 1980, p. 754.

TSI

I devoti di Rucolino

Le culture antiche praticavano con grande scrupolo l’arte di associare certe piante a determinati modelli culturali o religiosi. L’alloro, per esempio, si manifestava generalmente in contesto di vittoria, mentre la fronda di quercia evocava subito il valore in battaglia. Si potrebbe facilmente continuare. L’olivo richiamava la pace, il mirto, pianta sacra a Venere, evocava invece l’amore. Quanto

alle fronde di fico, erano in genere associate alla fecondità, mentre quelle dell’agnocasto si legavano piuttosto alla castità. Non bisogna peraltro credere che per creare questo genere di associazioni si facesse ricorso solo a fronde di piante di alto fusto o di arbusti eleganti. Qualunque tipo di pianta, anche la più umile e insignificante, poteva trovare il suo posto nella logica simbolica della cultura antica. Il sedano, per esempio, aveva relazione con la vittoria sportiva, talora con il banchetto, mentre il basilico si asso-

ciava, per noi un po’ stranamente, al mondo delle brutte parole: Plinio consigliava infatti di seminarlo cur rzaledictis et probris, perché cosî si poteva essere sicuri che sarebbe venuto su bene'. Persino la sci/la, cioè quel bulbo decisamente amaro, fornito di un fiorellino simile al giacinto e noto col nome di «lampascione » almeno nel meridione d’Italia (là dove se ne fa un uso alimentare e giustamente, perché è molto buono) — insomma, anche il lampascione era fornito della sua dose di significato simbolico°: richiamava infatti i momenti di carestia, di scarsità

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della caccia, e gli era attribuito il potere di porvi rimedio attraverso determinate azioni rituali.

Di queste antiche tassonomie simboliche del mondo vegetale resta ancora qualche traccia nella nostra cultura. In primo luogo, in tutte quelle forme di emblematismo che l’iconografia antica ha tramandato sino a noi attraverso le opere figurative che stanno negli antichi palazzi o nei musei (« perché quello lf ha delle foglie sulla testa? »): e

che come tali hanno mantenuto abbastanza vivo il significato di vittoria attribuito all’alloro o quello di pace evocato dall’olivo. Ma non si tratta solo di relitti e sopravvivenze. La tassonomia simbolica delle piante è ancora viva nella nostra cultura, pur se in misura incomparabilmente minore rispetto a quella antica. Restano infatti in molti a sapere che le rose, quando sono rosse, significano amore, mentre quando sono gialle implicano gelosia. Penso anche che, fuori dalla Toscana, sarebbe abbastanza

difficile convincere qualcuno a mettersi un cipresso in giardino, per il semplice fatto che il cipresso è sentito come pianta funebre: in pieno accordo, peraltro, con le convinzioni dei Romani su questo argomento. Mentre è nota

la reazione degli Italiani quando scoprono che, per i Giapponesi, il crisantemo non è minimamente un fiore

che si porta al cimitero. Insomina, non so fino a che punto ne siamo consapevoli ma anche noi, oggi, una certa capa-

cità di legare le piante a determinati significati, o modelli culturali, l'abbiamo mantenuta. Ecco perché può venire la curiosità di vedere se uno dei modelli dominanti della nostra attuale cultura, cioè lo sfizio, possiede o meno un suo equivalente simbolico vegetale. Se l'alloro richiama la vittoria, e il cipresso evoca la morte, quale mai pianta sarà

capace di suscitare l’immagine dello sfizio? La rucola. Ho pochi dubbi sul fatto che si potrebbe trovare una pianta più legata allo sfizio di quanto non lo

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sia questa. La rucola è una pianta sfiziosissima, nel senso che possiede la capacità di rendere subito sfiziose una straordinaria quantità di cose banali e dal sapore piuttosto piatto: una bresaola condita, un carpaccio appena uscito dal vassoietto del supermercato, una fettina in gratella. Ultimamente è persino accaduto — e la moda si va diffondendo — che la rucola comparisse sulla pizza. Ora, per la funzione che è stata chiamata a svolgere nella nostra cultura alimentare, la pizza ha un continuo bisogno di diventare sfiziosa. Sulla pizza finiscono le cose più strane, più inattese, dai carciofini alle aringhe, dalle cozze allo speck. Nelle pizzerie il ment ha ormai raggiunto le proporzioni di una interminabile litania religiosa, con tanto di ritornello produttore di estasi: «pizza ai... pizza ai... pizza alle...» A volte verrebbe quasi da pensare che la pizza sia in relazione mistica con l’universo alimentare delle cosine sfiziose, e ne costituisca una sorta di sacro ombeli-

co: se in provincia di Saronno aprono una scatola di peperoni al basilico, si può essere sicuri che prima o poi ci piovono sulla pizza. Bisognava dunque attendersi che, finalmente, sarebbe venuto anche il momento della rucola.

La rucola possiede tutte le caratteristiche necessarie a realizzare lo sfizio. Ha un sapore decisamente acuto, capace cioè di provocare quella pulsazione, o sphyg7205, che come sappiamo corrisponde alla natura profonda di questa esperienza. Inoltre, dato che se ne può fare solo un uso limitato e piccante — un po’ di foglioline sparse, non un'intera zuppiera da insalata — la rucola garantisce la brevità efficace che si richiede in qualunque pratica sfizio-

sa. Il fatto è che, come già si diceva, la rucola ha la capacità non solo di essere in sé molto sfiziosa, ma di rendere sfi-

zioso qualsiasi cibo a cui venga aggiunta. È questa la sua principale virtà, e sta verisimilmente qui la ragione del suo irresistibile successo nelle abitudini alimentari con-

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temporanee. La rucola aiuta a superare la grigia quotidianità di pasti frettolosamente consumati in famiglia, in pizzeria o allo snack bar, aggiungendovi ogni volta quella necessaria scintilla di sfizio a cui nessuno di noi sembra ormai più capace di rinunciare. È diventato obbligatorio cavarsi degli sfizi quando si interroga qualcuno in televisione, quando si studia il tedesco, persino quando si svolgono ricerche di metrica classica. Come si può pensare che allo sfizio si rinunzi proprio al momento di mangiare?

L’antica tassonomia vegetale è un mondo molto affascinante. Funzionava infatti come una vera e propria rete,

che metteva in relazione fra loro non due significati soltanto ma più di uno, in un crescente movimento di espan-

sione simbolica. Prendiamo per esempio il rituale di Bona dea, un antico culto femminile che aveva per scopo l’esaltazione di valori quali la castità, la sobrietà, insomma tutte quelle qualità che, secondo la mentalità romana, dovevano caratterizzare una buona zatrona, Da questo culto gli

uomini erano rigidamente banditi, non solo uomini in carne e ossa ma anche in effigie (se in casa c'erano immagini che rappresentavano uomini, venivano coperte), e si

evitava anche che circolassero animali di sesso maschile. Dato poi che, a Roma, le donne non erano autorizzate a

bere vino, anche questo elemento era escluso dal culto, e veniva sostituito con alimenti assai più consoni alla natura

femminile, quali il latte e il miele. Ma ecco intervenire anche la tassonomia vegetale. Durante il rituale venivano esibite e usate ogni sorta di piante, tranne una: il mirto. La spiegazione è abbastanza semplice: il mirto era sacro alla dea dell'amore, Venere, per questo non era pianta adatta a una festa di castità; d’altra parte, i suoi piccoli grappoli di bacche ricordavano quelli della vite, e dunque avrebbe-

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ro evocato nel rituale l’indebita presenza di uva e vino. Dunque, niente mirto al rituale di Bona dea, se qualcuno ce l’avesse introdotto sarebbe stato come dire una brutta parola, o meglio fare un riferimento osceno, in linguaggio vegetale. Naturalmente, ai capi di simili reti simboliche si trovano sempre delle divinità, che costituiscono il referente religioso di ciò che la cultura di una certa comunità esprime contemporaneamente in forma di piante, di sostanze alimentari, di processi rituali, e cosî di seguito. Nel caso del mirto, come già si diceva, la divinità di riferimento è rappresentata da Venere. Mentre Apollo è il dio dell’alloro, Giove quello della quercia, e cosî di seguito. Persino i semi avevano le loro divinità di riferimento. Sant'Agostino, per esempio, ci spiega’ che nella religione di Roma arcaica la sfera dei «semi» si presentava divisa in due provincie: quella dei semi «liquidi» e quella dei semi «solidi». Dei semi liquidi era signore Libero, di quelli solidi era signora Cerere. Solo che a questo punto i sentieri della tassonomia vegetale si incrociavano pericolosamente con quelli della tassonomia animale e, addirittura, sessuale. Cosa

che ad Agostino ovviamente non piaceva. Questi semi liquidi infatti si dividevano a loro volta in due sottogruppi: quelli di origine animale (liquidi seminali) e quelli di origine vegetale, fra cui spiccava inaspettatamente il «vino». Ora, tutti i semi liquidi di cui Libero era signore condividevano questa caratteristica: erano rigidamente maschili. Questo significava che, nella cultura romana arcaica, il vi-

no si configurava come seme liquido maschile, e apparteneva alla stessa provincia del liquido seminale prodotto dai maschi. Ecco perché, sia detto per inciso, a Roma le donne non potevano bere vino. Sarebbe stato come bere del liquido seminale maschile. Libero, dio dei semi liquidi, teneva le fila di una rete simbolica davvero sorprendente.

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Se a questo punto volessimo ricostruire per intero le fila della tassonomia vegetale in cui la rucola è coinvolta, ci troveremmo probabilmente in difficoltà. La nostra cultura sembra infatti aver drasticamente ridotto l’estensione di certe catene simboliche, almeno a livello esplicito, di pratica sociale effettivamente realizzata: mentre siamo del tutto privi di divinità da associare alle nostre piante predilette. Sappiamo che la rucola è una pianta connessa allo sfizio. Ma chi si sentirebbe di affermare, che so, che è an-

che una pianta maschile e non femminile? Ovvero che si oppone al mondo del latte, mentre si associa a quello del vino? Tantomeno saremmo in grado di spiegare al cameriere che la pizza alla rucola non la vogliamo non solo perché non ci piace ma perché non siamo devoti del dio Rucolino. Per fortuna le tassonomie vegetali antiche possono in qualche modo supplire a queste nostre carenze, e aiutarci a ritrovare una quantità di associazioni e di significati che, forse, non abbiamo ancora del tutto smarrito. I

latini descrivono abbastanza diffusamente poteri e significati della rucola. La chiamavano eruca. Le testimonianze sono molto chiare soprattutto su un punto: l’eruca si legava strettamente al mondo della sessualità maschile, e per gli uomini era direttamente considerata un potente afrodisiaco ‘. Tant'è vero che Ovidio, il quale nei suoi Rirzedi dell'amore tendeva ad affrontare le cose da un punto di vista molto pratico, ne sconsigliava l’uso a tutti coloro che volevano liberarsi dalla passione”. Questo costituisce già un primo risultato. Dunque, lo sfizio che la rucola aggiunge alla pizza, o all’antipasto di bresaola, possiede una forte inflessione di tipo sessuale maschile. Ne saranno consapevoli, i clienti delle pizzerie? Ma andiamo avanti. Plinio il Vecchio ‘, sostenendo che «il desiderio del coito può essere acuito anche da determina-

ti cibi», fa il caso della rucola per l’uomo, e della cipolla

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per la capra. Dunque la rucola è l'equivalente umano di ciò che la cipolla costituisce nell’universo caprino: in altre parole, la cipolla è la rucola delle capre. Non vorremmo peraltro che ciò suonasse offensivo nei confronti dei consumatori di pizza alla cipolla, la quale sicuramente esiste. Proseguiamo dunque nella lettura di Plinio. La testimonianza più interessante ce la dà infatti ancora lui”: «la rucola, in quanto spregiatrice del freddo, ha natura completamente diversa da quella della lattuga (/actuca) ed è capace di suscitare il desiderio amoroso: per questo motivo si aggiunge alla lattuga nelle vivande, con lo scopo di creare un giusto equilibrio fra le due mescolando al freddo eccessivo (della lattuga) un’eguale dose di calore (della rucola)».

Ecco dunque trovata la pianta che sta al polo opposto della rucola, è la lattuga. In questo modo abbiamo anche scoperto che la rucola, probabilmente a motivo del suo sapore piccante e del suo potere afrodisiaco maschile, sta dalla parte di ciò che è « caldo »: mentre la lattuga sta dalla parte del «freddo». Dalle parole di Plinio sembrerebbe anzi di capire che la lattuga, in quanto opposta alla rucola, non possiede neppure il potere di suscitare il desiderio amoroso, caso mai il contrario. Altre fonti sono per fortuna più esplicite e precise. La lattuga era considerata direttamente an-afrodisiaca per i maschi, cibo da impotenti e da cadaveri’. La lattuga, fredda, contraria all'amore, è

proprio il contrario di una pianta sfiziosa. I Romani le attribuivano capacità digestive e lassative ”, mentre si diceva che Augusto fosse stato salvato dall’uso accorto della lattuga che il suo medico, Musa, gli somministrò durante una malattia al fegato ". La lattuga è una medicina, non un piacere. Oltretutto il suo nome contiene quello del «latte» (/act-uca), come gli antichi stessi sottolineavano, e lat-

tiginosa risulta effettivamente la sua costa quando la si

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spezza. Il latte non è una cosa sfiziosa, richiama l’infanzia, lamamma. Il latte è dolciastro, berne una sorsata non produce certo il «soprassalto» necessario al realizzarsi dello sfizio. Anche il «latte» è dunque qualcosa, che assieme alla «lattuga», al «freddo»

e alla « astinenza sessuale », do-

vrà essere inserito nel campo simbolico avverso a quello della rucola. Per completare il quadro ci resta ancora da individuare la divinità della rucola, ma probabilmente qualcuno avrà già dei sospetti. In ogni caso Columella, nel suo trattato sull’agricoltura, ci informa esplicitamente del fatto che nell’orto la rucola «si semina accanto a Priapo portatore dei frutti». Essendo un’erba che provoca l'eccitazione sessuale maschile, la divinità da associarle non poteva essere che Priapo. Il dio che da Lampsaco si era ben presto acclimatato in terra italiana, e negli orti esercitava un po’ la funzione del nostro spaventapasseri — con in più una quantità di attribuzioni religiose, e soprattutto una sfacciata disposizione esibizionistica, che la nostra cultura non sarebbe certo più in grado di permettersi. Dunque è Priapo il dio Rucolino, e a lui tacitamente si richiamano i devoti consumatori della eruca. Ecco dunque una breve descrizione della pianta che noi ci stiamo abituando a mettere su molte delle nostre vivande per renderle sfiziose. La rucola ci si presenta adesso come una pianta « calda», fortemente « maschile», legata al mondo della sessualità e sottoposta alla giurisdizione di un dio fallico, Priapo. Resta da domandarci se tali caratteristiche possano aver influito o meno sulla straordinaria ) fortuna che questa pianticella sta avendo nella nostra vita | } quotidiana: o perlomeno, se corrispondano ad alcuni tratti dominanti della nostra epoca. Pensiamo proprio di \ sf. La nostra cultura inclina infatti, fortemente, allo sfizio

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di tipo in qualche modo sessuale. Le sue curiosità, le sue ‘indiscrezioni’, anche le continue sorprese a cui, come si vedrà, essa ci sottopone, hanno spesso come referente il

mondo del sesso e quello della sessualità maschile in particolare. Si noterà anzi che, nei capitoli che seguiranno, gli esempi verranno tratti frequentemente proprio da questa sfera dell’esistenza: il fatto è che, come tutti sanno, i setti-

manali la televisione il cinema la letteratura sono generosissimi nello spargere rucola sulle vivande che offrono ai loro consumatori. Almeno in copertina un po’ di rucola ci sta bene, serve a rendere sfiziosa la pagina economica che sta all’interno. Forse abbiamo vissuto troppo a lungo nell’anafrodisiaca era della lattuga, adesso abbiamo deciso di scacciare il freddo.

! «Con maledizioni e ingiurie»: Plinio, Storza naturale, XIX 120, a cura di G. B. Conte, Einaudi, Torino 1982-88.

“MIA ROXXIT01 è La Città di Dio VII 16, 21, a cura di C. Carena, Einaudi-Gallimard, Torino

1992. 4 Si veda per esempio Appendix Virgiliana, Il moreto, 85, a cura di A. Perutelli, Giardini, Pisa 1983; Columella, Sull’agricoltura X, 105 sgg., trad. a cura di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1977; Marziale, Epigrammi II 75, trad. a cura di A. Carbonetto, Garzanti, Milano 1979; Giovenale, Satire IX 134, a cu- ra di E. Barelli, Rizzoli, Milano 1976. 3 I rimedi contro l’amore, 799, a cura di C. Lazzarini, Marsilio, Venezia 1986. 6 Storia naturale cit., X 182.

? Ibid., XIX 154. 8 Geoponica XII 13, 2. ? M. Detienne, Les Jardins d’Adonis, Gallimard, Paris 1972 [trad. it. I giardini di Adone, Einaudi, Torino 1975]. ‘0 Appendix Virgiliana, Il moreto cit., 76; Marziale, Epigrammi cit., XI 53. ll Plinio; Storia naturale cit., XIX 128. ! Columella, Sull’agricoltura cit., X 105.

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