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Italian Pages 120 [122] [122] Year 2014
BIBLIOTECA del Centro Novarese di Studi Letterari collana di letteratura italiana dell’800 e ’900
14 SAGGI E TESTI
LE MUSE DI MONTALE GALLERIA DI OCCASIONI FEMMINILI NELLA POESIA MONTALIANA con antologia e immagini a cura di Giusi Baldissone nuova edizione accresciuta
INTERLINEA
© Novara 2014, Interlinea srl edizioni via Pietro Micca 24, 28100 Novara, tel. 0321 612571 © Milano, Arnoldo Mondadori editore per le poesie di Montale (qui pubblicate, per gentile concessione, da Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, e da Diario postumo, a cura di Annalisa Cima) www.interlinea.com [email protected] Stampato da Italgrafica, Novara ISBN 978-88-8212-943-9 Prima edizione: Novara 1996 L’editore ringrazia Giuseppe Marcenaro e quanti hanno collaborato. Dopo la ricerca degli aventi diritto resta a disposizione in caso di omissioni Referenze fotografiche: da Eugenio Montale. Immagini di una vita, Mondadori, Milano 1996 (26, 28, 38, 40, 42, 56, 60, 66, 72, 76, 80, 86, 90, 94, 100, 104, 108); da Una dolcezza inquieta. L’universo poetico di Eugenio Montale, Electa, Milano 1996 (29, 48); da G. Marcenaro, Una amica di Montale. Vita di Lucia Rodocanachi, Camunia, Milano 1991 (46); da P. De Caro, Invenzioni di ricordi. Vite in poesia di tre ispiratrici montaliane, Edizioni Centro Grafico Francescano, Foggia 2007 (52); da La tavolozza color foglia secca di Eugenio Montale, Sagep, Genova 1991 (58); da E. Montale, Lettere a Clizia, Mondadori, Milano 2006 (64); da Eugenio Montale. Parole e colori, Cesarenani, Lipomo 2002 (92); http://www.thais.it/speciali/Messina/Medie/Foto25_26.htm (32) Pubblicazione realizzata con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale “A. Avogadro” In copertina: elaborazione grafica da Oscar Saccorotti, Ritratto di Lucia Rodocanachi, olio su tela, 1928
SOMMARIO
Angeli, mostri e complici: le diverse muse di Montale
p. 7
LE MUSE DI MONTALE Esterina Rossi «Esterina, i vent’anni ti minacciano, grigiorosea nube» Falsetto
» 25 » 27
Bianca Clerici «È scritto ch’io debba perdervi, ciò intendo» Turbamenti
» 31 » 33
Paola Nicoli «Ed era mia, era nostra, la vostra dolce ignoranza» [Tentava la vostra mano la tastiera]
» 37 » 39
Gerti Tolazzi «Se ti nevica sui capelli e le mani un lungo brivido» Carnevale di Gerti
» 41 » 43
Lucia Morpurgo Rodocanachi «La mia Sévigné è sempre più in forma» Lettere di Eugenio Montale da Firenze
» 47 » 49
Maria Rosa Solari «mi rimane il sobbalzo che riporta al tuo sentiero» Sotto la pioggia
» 51 » 53
Liuba Blumenthal «Il gatto del focolare or ti consiglia» A Liuba che parte
» 55 » 57
Dora Markus «È una tempesta anche la tua dolcezza» Dora Markus
» 59 » 61
Clizia (Irma Brandeis) «Tu che il non mutato amor mutata serbi» [Ti libero la fronte dai ghiaccioli] La primavera hitleriana
» 65 » 67 » 69
La madre (Giuseppina Ricci) «E la domanda che tu lasci è anch’essa un gesto tuo» A mia madre
» 71 » 73
Marianna, la sorella «Il gong che ancora ti rivuole fra noi, sorella mia» Madrigali fiorentini
p. 75 » 77
Drusilla Tanzi (Mosca) «Caro piccolo insetto» Ballata scritta in una clinica [Caro piccolo insetto]
» 79 » 81 » 83
Maria Luisa Spaziani (Volpe) «Sei tu che brilli al buio?» Da un lago svizzero
» 85 » 87
Gina Tiossi «Lui la guardava quasi riconoscente» Il rondone
» 89 » 91
Laura Papi, Mushka von Nagel, Adelaide Bellingardi (Adelheit) Il primo gennaio L’Arno a Rovezzano Diamantina
» 93 » 95 » 96 » 97
Carla Fracci «Poi potrai rimettere le ali» La danzatrice stanca
» 99 » 101
Anna degli Uberti (Arletta) «Può dirsi che hai reso diverso il mondo?» Per un fiore reciso
» 103 » 105
Maria Bordigoni «Poteva leggere il mio nome e il suo come ideogrammi» Quel che resta (se resta)
» 107 » 109
Annalisa Cima «Non fosti un semplice bagliore» [Porterai con te l’ultima ventata]
» 111 » 113
Bibliografia essenziale Indice dei nomi
» 115 » 117
ANGELI, MOSTRI E COMPLICI: LE DIVERSE MUSE DI MONTALE
Le donne di Montale sono muse. Svelati per opera degli ultimi esegeti nomi, circostanze ed epifanie (anche fotografiche), la poesia gioca a carte scoperte ma ribadisce più che mai una sua «lunga fedeltà» ai miti, agli archetipi, alle fantasie. È come se nulla, in fondo, fosse stato veramente svelato: ora che sappiamo tutto, dalle preterizioni di Marco Forti al «volo» di Esterina dal trampolino scoperto e stampato da Franco Contorbia, dalle testimonianze di Silvio Guarnieri a quelle di Giacinto Spagnoletti e Laura Barile, è come se avessimo saputo tutto da sempre: al contrario che per il Boccaccio decameroniano, le cui muse sono le donne, per Eugenio Montale le donne sono figure della fantasia poetica e i loro senhal non solo le rappresentano, ma le costituiscono per intero. Credo che tutto il «male di scrivere» montaliano sia espresso in questo concetto e che, comunque, lo spazio della poesia e dell’arte in genere come attività fantastica primaria sia uno spazio privilegiato: è lo spazio di chi, nella sua personale costruzione di un universo con cui armonizzarsi, riparando i danni inflitti dalla realtà, riesce a esprimere anche il disagio altrui, trovando una gratificazione che risulterà a sua volta gratificante per coloro che vi si rispecchieranno. La ricerca del fantasma femminile percorre tutta l’esistenza di Montale e tutta la sua scrittura. Nel cercare di suddividere le numerose presenze in figure storiche e figure poetiche, come qualcuno ha tentato di fare, forse si commette già un abuso, una sorta di infrazione, ma non solo nei confronti di quel codice di discrezione che separa la vita privata dall’opera, bensì, soprattutto, nei confronti di quest’ultima, che è poi la sola che resti e conti realmente. Certamente dobbiamo dare per acquisiti alcuni dati: una madre, una sorella, una o più governanti e una moglie sono figure storiche e, in modo altrettanto certo, dietro ai senhal si celano e sono state identificate alcune donne: hanno nomi e cognomi, sono stati scoperti, li elenchiamo diligentemente.1 Ma di un concetto non possiamo liberarci, se abbiamo imparato a conoscere fino in fondo le opere di questo scrittore: nei confronti di tutte queste donne la scrittura funziona come vera attività creatrice, le fa esistere, riparando alla loro assenza. 7
Se dei loro nomi occorre tenere conto, bisogna farlo in un’ottica vastamente ermeneutica. Ogni figura femminile, nella poesia montaliana, è la figura di un’assente, della quale urge evocare la presenza. Bastano pochi oggetti per compiere il rito; e basta un nome, meglio se convenzionale, perché avvenga l’apparizione. Ci sono anche situazioni propiziatorie: talvolta la «bufera», spesso il «meriggiare». I lampi e i bagliori che accompagnano la prima consentono l’irruzione segreta del «visiting angel»; il «demone meridiano»2 che si scatena nel secondo caso consente una visione simile a quella di Dante nel Paradiso. Non è un poeta notturno, Eugenio Montale: contrariamente a tutti i grandi malinconici, bordeggianti fra acedia ed epoché, la sua tonalità è la solarità abbagliante: niente «sole nero»,3 il suo colore è il giallo: in questo senso l’emblema, non solo senhal, è veramente Clizia. La sua solarità è ancora quella di Dante: l’eccesso di luce produce lo stesso effetto della sua mancanza e per catturare un attimo certe «disturbate divinità» occorre allenare a lungo lo sguardo, meglio se con la mediazione di un occhio femminile già puntato verso il cielo. Il nome di Clizia è una scelta simbolica, che vela il nome storico di Irma Brandeis, a cui Le occasioni sono dedicate in cifra («a I.B.»). Ma si noti che anche il nome simbolico appare in poesia una sola volta: Le revenant, in Satura e due volte nelle prose: Clizia a Foggia, in Farfalla di Dinard; Due sciacalli al guinzaglio, in “Corriere della Sera”, 16 febbraio 1950, a commento del mottetto La speranza di pure rivederti. Neppure la Volpe, in cui si vela Maria Luisa Spaziani, si manifesta troppo spesso ma ottiene l’acrostico del nome storico in Da un lago svizzero, nella Bufera. In ogni caso, soltanto queste due “muse” sono oggetto di simbolizzazione esplicita. Per le altre, Annetta/Arletta inclusa, del cui fantasma e della cui identità storica ancora si discute, ma giustamente allineata da Zambon alle «visioni di bestiuole ferite»,4 Montale mette in atto un dispositivo che rappresenta la tecnica astratta, profondamente anche se “inconsciamente” d’avanguardia, della sua creatività poetica: l’occasione. Montale decide di essere poeta proprio a partire da questo secondo libro di versi, proposto a Einaudi in cambio di un altro, che l’editore voleva per un censimento o rassegna critica della poesia italiana del Novecento. Il trionfo della nuova tecnica poetica si gioca prevalentemente sul nome delle donne: il gioco è quello dell’artefice che fabbrica l’oggetto poetico utilizzando l’occasione: una fotografia, un nome raro, un oggetto che cade nel suo campo visivo, fermo come quello di Arsenio e del suo «delirio d’immobilità». È il punto di vista di chi guarda immobile 8
qualcosa che non cessa di muoversi. Così nasce esemplarmente Dora Markus, da una fotografia tagliata che riproduce solo le gambe, ma anche Liuba, Gerti, alla stessa maniera di Buffalo: pure occasioni, oggetti poetici intensamente composti in un quadro astratto ma ricco di riferimenti al contesto storico: Dora, Liuba, Gerti sono ebree in fuga dalle leggi razziali dell’Italia fascista, conosciute fuggevolmente ma catturate significativamente a rappresentare il tempo e lo spazio della storia fiorentina in cui il poeta è immerso in quegli anni. Così, paradossalmente, solo le “occasioni” hanno nomi espliciti, mentre per le donne che entrano in contatto affettivo più profondo con il poeta si inventano nomi simbolici, senhal, che ne manifestano insieme presenza e assenza: per quanto riguarda la cancellazione del nome di Arletta da un manoscritto poetico, Gareffi parla di «occitanica assenza della donna. E un po’ psicanalitica».5 Montale dice il nome solo quando non lo tocca profondamente, negli altri casi lo vela o lo cancella. Da questa tecnica non sono esclusi i nomignoli che attribuisce alle donne con cui ha un rapporto più profondo, tra cui Mosca: anche quei senhal funzionano come occasioni poetiche e fanno esistere i personaggi prima ancora che le persone storiche. La tecnica è astratta, qualcosa di ben più nuovo e significativo del famoso correlativo oggettivo di eliotiana memoria, di cui generalmente i critici gratificano l’arte poetica montaliana. Le figure, invece, che non hanno nomignoli sono quelle archetipiche (madre, sorella), quelle che un pudore giovanile e un riguardo amicale costringono a tenere celate, come Bianca Clerici Messina, o quelle che un pudore senile lascia nel paratesto dell’attualità, come Annalisa Cima. Le donne montaliane sono sostanzialmente raggruppabili in tre tipologie: la donna superiore (angiole stilnoviste), la donna mostruosa (o barbuta), la donna complice e sorella. Tutte le ispiratrici, occasioni reali, referenti “storici” della poesia, confluiscono in questa sorta di categorie della fantasia poetico-affettiva. Ciò che le lega tutte, inoltre, è la loro modalità di presentazione, quasi una struttura del ritratto; il poeta si serve degli stessi elementi per descriverle: gli occhi, la fronte, i capelli, il gesto, gli oggetti che, feticisticamente, le rappresentano (gli orecchini, il bulldog di legno, la sveglia marca “Angelo”, il microfilm di un sonetto eufuista, ecc.). Per quanto riguarda la prima tipologia, si potrebbe assumere come emblematica la poesia d’apertura della terza raccolta, La bu� fera. La figura che appare frantumata e rivelata dietro ogni lampo, ogni barbaglio dorato, subisce una sorta di aggressione che ne fissa il ritratto attraverso gli occhi e la fronte: «Brucia ancora una grana 9
di zucchero nel guscio delle tue palpebre»; «Come quando / ti rivolgesti e con la mano, sgombra / la fronte dalla nube dei capelli / mi salutasti…» La metafora della nube, riferita ai capelli, richiama Vento e bandiere (Ossi di seppia), mentre il ritratto femminile è sostanzialmente identico a quello di La frangia dei capelli, nella stessa raccolta, e di Ti libero la fronte dai ghiaccioli (Le occasioni). Anche in Lungomare il balenio di una luce, che rompe il buio a squarci, rivela una figura femminile attraverso i «lunghissimi cigli» del suo sguardo, come pure in Su una lettera non scritta: la donna, rivelata da un bagliore tra le ciglia, è contrapposta a ciò che esiste sulla terra, perciò è una creatura dell’oltremondo e il messaggio che il poeta le ha mandato in un’emblematica bottiglia non la raggiungerà mai. «Ben altro è sulla terra», dunque, e il conflitto è tra la figura dell’oltremondo, che appare per il poeta fonte di ogni vita, e la vita reale, a cui egli non sa più partecipare, a cui è difficile «riaffacciarsi». Il gesto, il saluto, il liberare la fronte dai capelli, il volo (la donna è dotata di ali: «l’ala onde tu vai» – si noti che qui la «trasmigratrice Artemide» richiama il paragone con Diana creato per Esterina in Fal� setto) e tutta la serie di gesti unici, che identificano la figura femminile, richiamano quello che tutti li esprime e sintetizza: il «gesto tuo, all’ombra delle croci» della figura materna, nella poesia a lei dedicata. La lontananza, l’assenza di questa figura femminile è soprattutto determinata da una superiorità che ne costituisce l’irraggiungibilità, l’impossibilità di possesso. Ciò che appare chiaramente dall’analisi particolareggiata dei testi, alla quale si rimanda,6 è la presenza di una figura fantastica femminile dalle caratteristiche angelicate, stilnovistiche, la cui superiorità e alterità rispetto all’immanenza avvolge di un alone uniforme molte «occasioni» femminili della storia poetica e affettiva di Montale. Si pongono sullo stampo di quel fantasma, a partire dalla figura materna, sia Esterina che Gerti, Liuba, Dora Markus, Clizia (che lo occupa e lo sostanzia lungamente e profondamente), la Volpe – la poetessa Maria Luisa Spaziani –, Arletta e Adelheit, Paola Nicoli e tutte le «divinità in incognito» che appaiono nella luce meridiana come «fatto che non era necessario», «punto morto del mondo», «anello che non tiene»: il «prodigio», insomma, e non solo quello che può schiudere la «divina Indifferenza», ma anche quello inteso in senso faustiano, da Goethe. Questo prodigio ha spesso il carattere di un rito magico, di evocazione. Si confronti la poesia Il tuo volo con L’arca (La bufera e altro): nella prima, gli elementi caratteristici della donna ci sono tutti: si tratta di un essere alato, la sua chioma è un ciuffo stellato da 10
amuleti, splendori improvvisi l’accompagnano, due dei quali possono essere i suoi occhi, è superiore al mondo e agli uomini, visti come «la gonfia peschiera dei girini umani», «immondo vivagno» di «superstiti». Nel finale della poesia appare il «fuoco» in funzione medianica: «Se rompi il fuoco [...] / come potrà la mano delle sete / e delle gemme ritrovar tra i morti / il suo fedele?» Questo rito di evocazione finisce per collegare la figura della donna ai morti familiari del poeta: basta confrontare questo finale con quello dell’Arca, dove il ramaiolo fuma in cucina, nel suo tondo di riflessi appaiono i volti ossuti, i musi aguzzi dei «perduti», protetti dalla magnolia. Il fuoco e il ramaiolo, elementi medianici di tipo domestico, ricreano quei bagliori e quei riflessi che sempre accompagnano la presenza femminile angelicata in Montale. In entrambi i casi la funzione dell’evocazione, il suo senso finale, consiste nella riaffermazione di un legame di fedeltà con chi non c’è più. Si potrebbe continuare a lungo nell’identificazione degli elementi e delle situazioni che disegnano questa figura come angelo domestico ed estraneo nello stesso tempo (si pensi alle tre cassettine di Per album, con «SABBIA SODA SAPONE», parole magiche della «piccionaia» da cui partì il volo della donna), ma ciò che conta è l’immagine che si è ormai disegnata con chiarezza ad accomunare la maggior parte delle figure femminili dell’universo montaliano. In un quadro di continua frustrazione, estraneità e sentimento di appartenenza alla «razza di chi rimane a terra», tutta l’esistenza si gioca in una specie di epoché che è impossibile sospendere, ben sapendo che «non può nascere l’aquila dal topo» (Botta e risposta I, in Satura). Si è parlato molto di questa debolezza montaliana, assurta a ideologia, in polemica opposizione al vitalismo di stampo fascista. Non si sa se davvero egli sia riuscito a fare di questa sua debolezza una forza, la chiave di un’etica laica e non corriva, capace forse di quella stoica carica eversiva che caratterizza la quotidiana decenza. Silvio Guarnieri, finché fu in vita, testimoniò che Montale per ben due volte inoltrò domanda di iscrizione a quel partito fascista che poi lo licenziò dal Vieusseux: la motivazione con cui le domande vennero respinte fu proprio la debolezza del pensiero montaliano, quell’epoché difficilmente condivisibile dal fascismo. Nella situazione di grande fragilità in cui sempre il poeta si è trovato, e che ha sempre descritto con piena lucidità, altre figure femminili gli si sono fatte intorno, più vicine e affabili, complici e giocose, per rendere più sopportabile la sua condizione. E qui si affacciano, nell’esistenza come nella scrittura, le donne barbute e quelle complici, capaci di ispirargli modelli poetici inusitati e, nello stesso tempo, fortemente e profondamente motivati. 11
L’accesso alla figura angelicata, superiore, è vietato: la lontananza, la morte, la differenza la rendono inaccessibile, come di un’altra razza, come di un altro mondo. La bellezza, in questo tipo femminile, rappresenta una sorta di marchio razziale (come l’ebraismo?). Ma se la figura femminile, anziché bellissima, appare mostruosa e barbuta, comunque non cessa di manifestarsi per mezzo degli stessi segni: occhi che mandano lampi, capelli che velano la fronte, gesti, corredo di oggetti simili e l’idea dell’amore associata alla figura in forma di negazione freudiana: «Perché attardarsi qui / a questo amore di donne barbute…?» (Elegia di Pico Farnese, in Le occasioni). Nella poesia questo fantasma mostruoso e barbuto non ha lasciato molte tracce, ma nella raccolta Farfalla di Dinard ha colmato quasi tutti i racconti della sua presenza. Si tratta di una galleria di tipi femminili d’eccezione, dotati di varie forme di «mostruosità». Il personaggio di Gerda, ad esempio (riflesso degradato di Gerti?), in Le rose gialle, si autoconfessa poco femminile e in lei il consueto motivo della chioma è rappresentato da «uno spazzolino di capelli color saggina». Così la sciancata Palmina, dalla pazza vitalità, figura scombinata, «storta», «ma non volgare», sprigiona un fascino dovuto a un dono speciale: «che anche persone non torbide, vicino a lei torbidissima, si sentivano peggio di lei»; inoltre «le sue guance hanno un rossore piacevole (cipria, dice Teodora), il suo caracollante incedere di sciancata mi sembra ancora una sua grazia». La donna barbuta è naturalmente, da questo punto di vista, il racconto più importante. La figura descritta è quella della prima domestica di casa Montale, Maria Bordigoni, che tanta parte ebbe nella formazione affettiva del poeta. «Mostro angelico e barbuto», la vecchia serva rappresenta una sorta di archetipo per Montale, una figura primitiva in senso psichico, matrice di fantasie. Come tale, è allineata fra i tabù familiari, come un oggetto magico e protettivo, dotato di virtù taumaturgiche in quanto angelo protettore: ella può infatti «vincere l’orrore della solitudine». Un altro modello ancillare appare nel racconto I quadri in cantina: è l’«Agata, cucitrice e faccendiera», un po’ «truffaldina» ma, come Maria, brava compagna di solitudine. Se si passa poi a Honey, nel racconto omonimo, ci si ritrova in presenza di un’altra domestica repellente e preziosa, mostruosa e adorabile. Anche Honey (Miele) è una figura angelica: «L’angelo giunto da una città nera come il carbone era nerissimo anch’esso». Il fascino di queste creature è indiscutibile: Honey è una sorta di genio tutelare per la casa di sir Donald, produttrice di cibo e di buon umore: «una donna esplosiva, di umore franco 12
e gagliardo, pronta al motteggio, rapida nel cogliere i doppi sensi arguti, le allusioni salaci»; vera padrona di casa; i suoi malesseri e i suoi umori ritmano la vita di tutti, delle sue cene andate a male tutti tengono a consolarla: «Honey era tornata allegrissima e stava facendo fagotti, tutti le davano piccoli baci dietro l’orecchio e l’assicuravano che il suo successo era stato straordinario». Se di queste figure un tantino repulsive Montale sottolinea soprattutto il fascino, esistono, sempre nei racconti, altre che, pur conservando gli stessi elementi del ritratto, si presentano come prevalentemente o totalmente negative. Si veda ad esempio donna Juanita, dell’omonimo racconto, la «pingue farfalla», l’«enorme medusa», «nera e formosa», che galleggia sul mare approdando con guizzi di coda e voli finali che la legittimano mostruosamente donna fra le donne montaliane. Ancora più aggressiva è la figura di Dirce F. nel racconto La tempestosa: la sua prima apparizione è talmente abbacinante da essere direttamente insostenibile, perciò appare indirettamente, riflessa dalla grande specchiera di un trumeau: «l’immagine di uno strano uccello da preda raggomitolato, con le pinne del naso (del becco) vibranti, i capelli tra il blu e il mogano e gli occhi bistrati e ardenti di una luce tutta esteriore. Accendeva gli occhi come si fa sprizzare il briquet per le sigarette degli ospiti, poi li spegneva per riporli nella sua trousse di tartaruga, a portata di mano». La donna alata si è trasformata in un uccello da preda, i lampi dei suoi occhi sono mostruosamente e artificiosamente sorprendenti. Altre figure delle prose montaliane fanno una fugace, inquietante o negativa apparizione: Micky, Freya, Cassandra, Violante, ossia le Donne del «Karma» sono segnate negativamente da un frivolo ascetismo, benché Michelangiola (ora Micky) conservi un ricordo del suo omen nel nome ormai storpiato e in quella «lunga spazzola biondo-cenere giù per le spalle e un passo lieve e intrepido che dava un senso di gioiosa speranza e quasi di trionfo… un’andatura joie de vivre da Nora ibseniana». Anche Frau Brentano, nel racconto L’angoscia, conserva nella sua figura ottusa di automa alcuni elementi tipici del ritratto femminile montaliano: «Portava un turbante azzurro sovrastato da una piuma rossa, un tailleur molto attillato, una pelliccia costosa che tolse subito. Capelli scuri probabilmente tinti, età indefinibile». Così è anche la signora Gabriela di Gli occhi limpidi, coinvolta in un intenso gioco di confronto con tre ragazze potenzialmente adultere, dove il racconto è svolto come indagine dai «capelli» agli «occhi limpidi», come dagli indizi alle prove, mentre lo scrittore si diverte a far scaturire dalla limpidezza splendori enig13
matici, luci, riflessi, colori fatti per nascondere o per rivelare tanto l’innocenza quanto la colpa. Le donne mostruose di Montale sono ritratte attraverso gli stessi segni di quelle angeliche, bellissime, superiori: anzi, sono angeliche e superiori esse stesse. È probabile che i modelli di queste figure angeliche e superiori, simmetriche e opposte quanto a bellezza, abbiano origine nella prima infanzia del poeta e risalgano alle immagini della madre e della domestica, accomunate come ruolo nella struttura delle relazioni affettive. La donna barbuta si presenta come modello sostitutivo della figura materna nella fantasia poetico-affettiva, e come la figura materna appare dotata di un suo alone di superiorità e di intangibilità. C’è un terzo tipo femminile che interviene fra le due simmetriche, opposte tipologie di donne angeliche e donne mostruose ed è quello della donna sorella, compagna, complice. Alla formazione di questo fantasma poetico-affettivo dovette contribuire in modo determinante la figura della sorella del poeta, Marianna, colei che ebbe un’influenza importante nella formazione culturale giovanile di Montale, colei che lo accompagnò e gli fu vicina nelle lunghe giornate di un’adolescenza fragile, scontrosa, poco promettente sotto tutti gli aspetti, compreso quello scolastico (gli studi di ragioneria rappresentarono per lui un ripiego, a causa della salute cagionevole). Della sorella, come della madre, il ritroso poeta non parla quasi mai direttamente, e quando lo fa si tratta già di una rievocazione post mortem. Lo stesso farà nei confronti di Mosca («caro piccolo insetto / che chiamavano mosca non so perché»), Drusilla Tanzi, già moglie di Matteo Marangoni, che gli sarà pietosa compagna e soccorritrice nei difficili anni fiorentini del Vieusseux e, soprattutto, del dopo Vieusseux; diventerà infine sua moglie, pochi mesi prima di morire. Come a ribadire una sorta di fedeltà alle sue muse, anche di Mosca il poeta quasi non parla, finché è in vita. Dopo la morte della moglie, invece, le poesie montaliane si popolano del suo fantasma. Il ritratto di Mosca nell’evocazione è realizzato per mezzo degli stessi elementi che compongono da sempre la figura femminile montaliana: tutto però ha un tono più dimesso, più umile. Dell’enigmaticità di uno sguardo ricco di fascino, il luccichio degli occhiali di questa minuscola donna non conserva che la funzione, quella di essere un segno di riconoscimento. La figura angelica si è tramutata in un «mini angelo spazzacamino» (L’angelo nero, in Satura) e rappresenta quasi un’astrazione, ossia non più una donna-angelo ma un vero angelo, che si fa riconoscere «nel sonno, nella veglia, nel mattino», 14
senza conservare caratteristiche femminili. Sembra l’irruzione di una figura fantastica e remota nel presente, con qualche frustrazione e qualche senso di colpa ammessi come pure citazioni: «Penso agli angeli / sparsi qua e là / inosservati / non pennuti non formati / neppure occhiuti / anzi ignari / della loro parvenza / e della nostra / […] / e se nessuno li vede / è perché occorrono altri occhi / che non ho / e non desidero. // La verità è sulla terra / e questa non può saperla / non può volerla / a patto di distruggersi» (Che mastice tiene insieme, in Satura; si noti che pare una citazione – «Muore chi ti riconosce?» – del Ventaglio, nella Bufera e altro). Mosca, non bella ma nemmeno barbuta, non può essere veramente quell’angelo: è piuttosto un insetto, che «ali / aveva solo nella fantasia». Mosca è una figura di complice, ed è questo ad attrarre il poeta, che anzi si compiace delle sue caratteristiche fisicamente modeste, in cui la sente simile a sé, quando la chiama «piccolo insetto», «povero insetto» «senza occhiali né antenne», «insetto miope», «moscerino» e «moschina», «donna miope» e «bozza scorretta che il Proto non degnò d’uno sguardo». È significativo che quest’ultima definizione nel testo sia al plurale e rivolta anche al poeta. Infatti l’intesa che si stabilisce tra i due è totale e richiama quella di alcuni racconti di Farfalla di Dinard, come Reliquie, L’Angiolino, Crollo di cenere. La ludica complicità dà coraggio al poeta, che finisce per vedere anche in lei, pur miope, qualcuno che vede per tutti, col suo «radar di pipistrello», perché tra loro due «le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, / erano le sue» (Xenia II, 5). La figura di Mosca si carica dunque anch’essa di un ruolo di superiorità, che nasce più dalla dipendenza del poeta che da una superiorità intrinseca della figura femminile, ma vale per il gioco quotidiano dell’esistenza, le dà senso e coraggio di fronte agli eventi «di una realtà incredibile e mai creduta», «Di fronte ad essi il mio coraggio fu il primo / dei tuoi prestiti e forse non l’hai saputo» (Xenia II, 14). La complicità fraterna di questa figura dà sicurezza perché comunque la sua superiorità non è dell’altro mondo, non è irraggiungibile: il suo ruolo ludico non crea angoscia ma fonda quasi un equilibrio, se non la felicità, della quale il poeta ha detto a suo tempo «non ti tocchi chi più t’ama» (Felicità raggiunta, in Ossi di seppia) e ora ribadisce che «Ha un prezzo troppo alto, non fa per noi» (Vedo un uccello fermo sulla grondaia). La perdita di Mosca rappresenta dunque una perdita d’equilibrio. La sua mancanza fa ripiombare in una situazione precedente di senso d’inutilità, di cecità, di incapacità. L’assenza svuota di senso ogni situazione ludica, gli oggetti stessi a cui il gioco si appoggiava: il tele15
fono, le stanze degli alberghi, la sveglia, i soprammobili. Ma questa, che sembra essere la poesia che maggiormente rivela l’attaccamento a Mosca come donna, in realtà ne rivela anche tutti i limiti; c’è in Satura una poesia assai dolorosa nella sua confessione: «quattro sillabe, il nome di un ignoto / da te mai più incontrato e senza dubbio morto. / […] / Sei stata forse la sua Clizia senza / saperlo. La notizia non mi rallegra» (Le revenant). La notizia non rallegra perché il poeta ha sognato Clizia tutta la vita, come Mosca è stata forse sognata da un altro: è come se due fantasie parallele si fossero accompagnate in un’esistenza comune, come se il poeta si sentisse «fantasma» per l’altra, nello stesso modo in cui l’altra lo è stata per lui. Certo l’assenza di Mosca si presenta come definitiva: ultima erede di quei segni del ritratto che arrivavano direttamente dalla figura materna, dopo averli visti trasferire in Clizia, nella “Volpe” dei Madrigali privati e in tutti gli altri tipi femminili che presentano costanza di struttura, Mosca si allontana, i suoi segni si attenuano sempre di più, rischia davvero di essere perduta per sempre. «Sembrano inesplicabili queste tue visite mute. / Probabilmente è solo un lampeggio di lenti, / quasi una gibigianna che tagli la foschia. / L’ultima volta c’era sul scendiletto / colore di albicocca un vermiciattolo / che arrancava a disagio. Non riuscì facile farlo / slittare su un pezzo di carta e buttarlo giù vivo / nel cortile. Tu stessa non devi pesare di più» (Luci e colori). I segni della presenza di Mosca si deteriorano di momento in momento: la compagna, complice, sorella nella vita quotidiana, nella morte sembra morire per sempre, senza che la fantasia le susciti doppioni o simulacri. Quando poi all’esistenza e alla fantasia poetica si affacceranno altre presenze o, in folla, altri ricordi, convocati tutti come in una sorta di catalogo della memoria, Mosca sarà la figura meno evocata, mentre torneranno Clizia e la “capinera” e altre lontane. Quanto all’ultima ispiratrice, Annalisa Cima, sarà anch’essa dotata di voli e nuvole avvolgenti e capelli memorabili, baleni e brillio di colori o di bianco, girasoli d’aureole (cfr. Mattinata, in Diario postumo). Sembra quasi inevitabile, nel momento in cui ci si addentra fra queste ombre poetiche, ricorrere a metodi di analisi che hanno a che fare con la psicoanalisi o, almeno, con la critica simbolica. È un terreno delicato, su cui Montale fu alquanto reticente e diffidente: dopo la famosa Intenzioni (Intervista immaginaria) del 19467 e dopo la recensione positiva e sorridente al libro di Michel David,8 il poeta tacque su questo argomento, poi, nell’Opera in versi, tra le Poesie disperse, pubblicò La vita in prosa che si conclude così: «Non resta che il pescaggio nell’inconscio / l’ultima farsa del nostro moribondo teatro. / 16
Manderei ai lavori forzati o alla forca / chi la professa o la subisce. È chiaro che l’ignaro / è più che sufficiente per abbuiare il buio». L’«infarinatura di psicoanalisi» di cui Montale aveva parlato nell’Intervista immaginaria si era nel frattempo trasformata in un rifiuto assoluto. Nelle sue più recenti interviste e negli autocommenti raccomandava ai suoi critici di interpretare i suoi testi alla lettera e di non oltrepassare quella soglia. In effetti, esiste una tendenza a obbedirgli, da parte di alcuni suoi studiosi, in primo luogo Franco Croce, che si pone quasi come il guardiano della “lettera” montaliana, a difesa di una collocazione della sua poesia lontano dal simbolismo ottocentesco e dalle scuole poetiche francesi, di cui peraltro Montale stesso afferma di essersi nutrito in giovinezza. Ma non si può ignorare che fra le tendenze interpretative più proficue negli esiti, anche se tra le più osteggiate dai custodi dell’immagine ufficiale del poeta, si sia posta proprio la critica psicoanalitica. Occorre partire da Giacomo Debenedetti, che fu tra i primi studiosi italiani ad accogliere la prospettiva psicoanalitica come lettura di emblemi, di sensi nascosti sotto la “lettera”, il primo a leggere l’ermetismo montaliano in una chiave aperta e non ridotta alla pura opposizione comunicare-esprimere. La sua interpretazione dell’oscurità della poesia montaliana è tutta incentrata sul momento in cui l’apparizione naturale del mondo, dell’altro, assume in lui «una significanza emblematica dei suoi momenti individuali».9 Già Solmi era sulle tracce di questi emblemi,10 che non provengono da una mitologia codificata e nota a tutti, ma da una mitologia personale, privata (come non ricordare qui anche Charles Mauron?).11 Debenedetti definisce queste figure come «i personaggi delle operette vedute dal giovane in Keepsake», o come tutti gli altri ricordi ed emozioni o vedute, di cui lui solo sa il come e il quando e che contratti a un nome-cenno, a un nome-sigla compaiono in quelle enumerazioni caotiche che sono così tipiche della poesia moderna. Di qui l’ermetismo: per il fatto che quelle apparizioni si riferiscono a una storia differente dalla nostra. Di qui, tuttavia, la loro promessa, la loro potenziale decifrabilità in quanto trasmettono, in maniera intensamente suggestiva, esperienze come le nostre, potenzialmente anche nostre, tutte verificabili allume delle nostre storie di uomini […]. L’ermetismo di Montale deriva proprio da questo doppio impiego della parola, adoperata a significare ciò che unisce e alludere, celandolo, a ciò che disunisce e rende l’uomo che ha scritto la poesia «unico e irripetibile» […]. In Montale, la storia individuale, la situazione empirica che ha prodotto l’emergere di quelle figure, di quelle evidenze, ci sono sottratte. Non sappiamo perché il loro apparire abbia preso quella forma, si sia organizzata in quella sequenza di apparizioni. Potrebbero anche, al limite, essere l’orologio e l’ombrello sul tavolo chirurgico. Eppure
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sentiamo, da un lato, che ciascuna di quelle evidenze, di quelle porzioni di visibile che affiorano, flagranti o scontornate, incise o sfumate, vetrine o auto dissolventisi, ciascuno di quei frammenti di visibile è l’emblema, il segnale di qualche cosa di attinente a un destino.12
È proprio Debenedetti a cercare sotto quegli emblemi, sgombrando il campo dai timori e dalle diffidenze nei confronti di un nuovo modo di interpretare la cultura, quello che egli chiama «una nuova idea dell’universo». L’uomo è autore di tutte le opere d’arte moderne, anche di quelle che paiono a lui stesso incomprensibili: Posto che sia giunto a tracciare segni incomprensibili, nel senso che non si lasciano spiegare regolarmente, deve poter capire perché è giunto lì. Capirlo storicamente e sociologicamente, o psicologicamente, magari come un fatto del costume o del comportamento, oppure capirlo fenomenologicamente, come manifestazione in qualche modo positiva della componente irrazionale dell’uomo; la quale potrà essere anche combattuta dal punto di vista della ragione, ma ha anch’essa una ragione di essere, una sua positività.13
Questo invito di Debenedetti trovò molta resistenza. Si deve arrivare al 1970 per incontrare un altro saggio di impostazione psicoanalitica sulla poesia montaliana: uno studio di Sisto Dalla Palma, Occasioni di guerra nell’ultimo Montale, riapre questa prospettiva di analisi.14 Ma ci sono studi di carattere semiologico che recano contributi importanti anche alla comprensione del linguaggio dell’inconscio: Gli orecchini di Montale, ad esempio, di D’Arco Silvio Avalle,15 illuminano il tema della ricerca dell’immagine allo specchio (l’immagine dell’assente) in modo assai proficuo anche per la psicoanalisi, e L’iride nel fango, di Francesco Zambon,16 oltre a riprendere il dibattito metodologico in un’intervista finale, offre un contributo importante per la valutazione di emblemi e figure proprie del poeta. Così è pure significativo il saggio di Bárberi Squarotti sull’ironia di Montale, per l’analisi della deformazione, che avviene nel secondo Montale, del «linguaggio della sofferenza e dell’oppressione nella formula della cucina».17 Dopo Il male di scrivere einaudiano, mio studio del 1979, non si trovano più scritti di psicoanalisi dell’intera opera montaliana, salvo il recente di Gioanola.18 Tuttavia, nonostante resistenze e rimozioni più o meno volute, la ricerca critica ha continuato un suo percorso, attento a formalizzare un metodo di analisi testuale piuttosto che una ricerca di riscontri biografici. Tra i più raffinati interpreti di questa tendenza è Stefano Agosti, che dalla semiologia si è spostato verso uno studio ermeneutico di tipo psicoanalitico.19 La sua 18
analisi del testo montaliano come «testo-cripta» (e cripta del testo) presenta una visione stratificata degli spazi poetici, in cui semiologia e psicoanalisi cooperano, portando alla luce nuovi sensi di lettura. Importante è anche il contributo di Giuliano Gramigna, che analizza il linguaggio gastronomico-escrementizio dell’ultimo Montale, da Sa� tura in poi, nella prospettiva dell’epoché: L’intreccio, o la trasmutazione dei valori, viene fuori già da un semplice censimento delle ricorrenze. La retorica della cucina serve a metaforizzare grottescamente quella sorta di ironica epoché epistemologica che corre attraverso tutta l’ultima produzione di Montale, con tratti piuttosto fisici (e debitamente degradati) che metafisici, per cui non si dà né alto né basso, né prima né dopo. […] Ciò che guadagna a poco a poco il campo è la perdita di consistenza, una «decozione / di tutto in tutti», sicché l’intera realtà «oscilla / come il latte alla portoghese»: e in tale irresistibile scivolata verso lo scioglimento, la decomposizione […], le occorrenze pertinentissime di strumenti, pratiche, prodotti della cucina declinano in modo eloquente già verso quella parallela figurazione escrementizia o comunque di liquame, rifiuto […] con sullo sfondo magari i classici passaggi dal crudo al cotto al putrido, dovuti a Lévi-Strauss.20
Ciò che sembra emergere come il dato più significativo di tutte queste ricerche è proprio l’esito interpretativo, sia per quanto riguarda l’organizzazione retorica inconscia del linguaggio poetico, sia, soprattutto, per quanto riguarda le figure femminili in Montale. Queste figure appaiono nella loro tipologia tripolare, e nella loro sostanziale uniformità di elementi formali costitutivi, proprio attraverso le letture psicoanalitiche dei testi montaliani. Si tratta prevalentemente di letture effettuate sulla scrittura poetica e non sulla biografia, basate su ricerche metodologiche partite dalla scuola francese, con Mauron e Lacan, passando per Barthes,21 tenendo presenti Orlando e Lavagetto (senza dimenticare Fachinelli e Fornari),22 studiosi che non cercano di psicoanalizzare il poeta o l’artista studiandone il vissuto e trattandone poi l’opera artistica come un sintomo nevrotico, ma scoprendo come l’inconscio organizza scelte linguistiche e formali proprie, dalle quali il vissuto può emergere a confermare certe intuizioni ma può anche non emergere e non è essenziale che emerga. Così la figura di Mosca come compagna di giochi, complice e sorella, affiora dall’analisi testuale effettuata sui testi da Satura in avanti23 o prima delle conferme ottenute dalla ricostruzione di fatti biografici ancora ignoti, come quelli narrati da Giacinto Spagnoletti.24 Pochi decisero di proseguire la ricerca del metodo psicoanalitico nella critica letteraria, e anche quei pochi, come Lavagetto e Orlando, decisero a un certo punto di trasformare quel metodo, che rischiava di diventare troppo schematico, in un’ermeneu19
tica che trova di volta in volta nell’opera stessa i percorsi simbolici e i metodi che le sono più utili per offrire una produzione supplementare di senso rispetto a un primo approccio di lettura critica. Oggi nessuno getterebbe più le proprie reti per farvi impigliare, una sull’altra, le metafore ossessive di un’intera opera poetica. Ma quelle reti mauroniane hanno pur dato indicazioni importanti, hanno segnato un percorso che, integrato con altre acquisizioni metodologiche, continua a produrre risultati interpretativi, ossia «simulacri orientati»25 dell’opera originaria, capaci di renderla accessibile a più livelli interpretativi. Va detto che in tempi recenti un nuovo impulso all’analisi testuale è dato dalle ricerche di onomastica letteraria che, stimolate da un gruppo di docenti dell’Università di Pisa, si configura sempre più come una vera e propria metodologia della critica letteraria, anche grazie agli apporti di studiosi di tutto il mondo: il nome letterario nei testi funziona spesso come uno specifico indicatore semiologico, che ne consente nuove interpretazioni.26 Soltanto tenendo conto di tutte queste metodologie interpretative si è arrivati all’identificazione delle muse montaliane come grandi fantasmi poetici. Non sono i loro nomi reali finalmente disvelati a rendere più comprensibile l’opera del poeta, ma è la percezione (emersa dall’applicazione delle metodologie citate) che le singole esistenze storiche non siano state che passaggi, effimeri voli di varie trasmigratrici che hanno lasciato tracce significative nella poesia, ma come se ognuna si fosse inserita in un percorso già modellato. Ciò che ha davvero contato, nella formazione delle figure poetiche femminili di Montale, è stata la progressiva costruzione di una struttura tripartita, in cui ciascuna ispiratrice “storica” andava a ricoprire una funzione assegnata. Così l’angelo-madre-Clizia, la donna barbuta-mostruosa e la donna-sorella-complice-compagna si sono moltiplicate in un’infinità di senhal, lampi e bagliori, gibigianne di occhi e di occhiali, voli terrestri e oltremondani, per comporre un mosaico capace di serbare ancora, da ultimo, il mistero infinitamente poetico del suo complesso funzionamento. G.B. 1 Per i riferimenti bibliografici rimandiamo il lettore alle note dedicate ai singoli personaggi femminili nella parte antologica del libro. 2 R. Caillois, Les démons de midi, Fata Morgana, Paris 1936, trad. it. I demoni meri� diani, a cura di C. Ossola, Bollati Boringhieri, Torino 1988 [1937]. 3 G. De Nerval, El desdichado, in “Le mousquetaire”, Paris, 10 décembre 1853. Cfr. J. Kristeva, Soleil noir. Dépression et mélancolie, Gallimard, Paris 1987, trad. it. Sole nero. Depressione e melanconia, Feltrinelli, Milano 1988; J. Starobinski, Histoire
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du traitement de la mélancolie des origines à 1900, Geigy, Basel 1969, trad. it. Storia del trattamento della malinconia dalle origini al 1900, Guerini, Milano 1990; Id., La malin� conia allo specchio, Garzanti, Milano 1990. 4 F. Zambon, L’iride nel fango. L’anguilla di Eugenio Montale. Lezione di poesia, Pratiche, Parma 1994, pp. 34-41. 5 A. Gareffi, La strofa circuita, e poi raggirata, in “Sincronie III”, 5 (1999), gennaiogiugno, pp. 229-231. 6 G. Baldissone, Il male di scrivere. L’inconscio e Montale, Einaudi, Torino 1979; Ead., Lo scrittoio di Montale (note su “Altri versi”), in L’arte dell’interpretare. Studi critici offerti a Giovanni Getto, L’Arciere, Cuneo 1984; Ead., Le Muse senza nome di Eugenio Montale, in Il nome delle donne. Modelli letterari e metamorfosi storiche tra Lucrezia, Beatrice e le Muse di Montale, Franco Angeli, Milano 2005. 7 In “La Rassegna d’Italia”, I (1946), 1, poi in Poesia italiana contemporanea, a cura di G. Spagnoletti, Guanda, Parma 1954, indi in E. Montale, Sulla poesia, Mondadori, Milano 1976, poi a cura di G. Zampa, ivi, 1997. 8 M. David, La psicoanalisi nella cultura italiana, Boringhieri, Torino 1966 (1970², rist. 1976). L’articolo di Montale fu pubblicato sul “Corriere della Sera” il 30 ottobre 1966. David dedicò un articolo specialistico a Montale: Eugenio Montale poète de l’angoisse. Du témoignage ironique à la méditation métaphysique, in “Le Monde”, 6 décembre 1969. Occorre appena ricordare che il capostipite degli studi psicoanalitici applicati alla letteratura e all’arte fu Sigmund Freud, teorizzati in particolare nel saggio Der Dichter und das Phantasieren (1907), trad. it. di C. Musatti, Il poeta e la fantasia, in S. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Boringhieri, Torino 1969, vol. I, pp. 47-59. In Italia il primo ad applicare quella metodologia fu Cesare Musatti. 9 G. Debenedetti, Montale, in Poesia italiana del Novecento. Quaderni inediti, Garzanti, Milano 1974 (poi 1993), pp. 33-55. 10 S. Solmi, Scrittori negli anni, Il Saggiatore, Milano 1963. 11 C. Mauron, Des métaphores obsédantes au mythe personnel, Corti, Paris 1963, trad. it. Dalle metafore ossessive al mito personale. Introduzione alla psicocritica, Il Saggiatore, Milano 1966. 12 G. Debenedetti, Montale, pp. 38-40. 13 Ibi, p. 55. 14 In “Vita e pensiero”, LIII (1970), 6-7, pp. 54-75. 15 Ora in D’A.S. Avalle, Tre saggi su Montale, Einaudi, Torino 1970. 16 F. Zambon, L’iride nel fango… 17 G. Bárberi Squarotti, L’ironia di Montale, in “Sigma”, 13 (1967), pp. 57-86. Né si dimentichi che Bárberi Squarotti è stato tra i primi studiosi italiani attenti alla metodologia psicoanalitica, con Simboli e strutture della poesia del Pascoli, D’Anna, MessinaFirenze 1966. 18 Si segnalano recentemente anche in Brasile studi psicoanalitici sulla letteratura: in particolare su Montale cfr. M. Pelella Melega, Eugenio Montale. Criatividade Poética e Psicanalise, Ateliê Editorial, São Paulo 2001; Ead., Imagens oniricas e formas poéticas: um estudo da criatividade, Univ. De São Paulo, São Paulo 2004, trad. it. Immagini oniri� che e forme poetiche. Uno studio sulla creatività, Aracne, Roma 2013. 19 S. Agosti, Tombeau, in Modelli psicanalitici e teoria del testo, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 113-114: «sotto il limine, sotto la soglia del discorso (ma dentro la cripta del testo), circolano dunque, si spostano, si assestano gli uni sugli altri o accanto agli altri, tutti questi “mots anglés”, parole angolate (come i denti o le unghie, ma anche come pietre da costruzione), parole straniere. Parole-feticcio, parole-amuleto, parole-cose, gemme e monili tra bende e pietre […]. Qui la cripta si rompe. Verso l’esterno (e cioè verso lo spazio della comparazione […] e verso l’interno (verso il “far exclur”)». Ma illuminante anche, per il metodo seguito, pur senza avere a che fare con Montale, Id., Gli occhi le chiome. Per una lettura psicoanalitica del “Canzoniere” di Petrarca, Feltrinelli, Milano 1993.
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20 G. Gramigna, Che cosa sa il poeta (Montale I) e Il paté degli Iddii pestilenziali (Montale II), in Le forme del desiderio. Il linguaggio poetico alla prova della psicoanalisi, Garzanti, Milano 1986, pp. 101-120. 21 Cfr. in particolare C. Mauron, Des métaphores obsédantes…; J. Lacan, Ecrits, Editions du Seuil, Paris 1966, trad. it. La cosa freudiana e altri scritti. Psicanalisi e lin� guaggio, Einaudi, Torino 1972; R. Barthes, S/Z, Editions du Seuil, Paris 1970, trad. it. S/Z, Einaudi, Torino 1973; Id., Sade, Fourier, Loyola, ivi, 1971, trad. it. ivi, 2001; F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, ivi, 1973; Id., Illuminismo e retorica freudiana, ivi, 1982; M. Lavagetto, Freud. La letteratura e altro, ivi, 1985; Id., Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust, ivi, 1991; La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura, ivi, 1992. 22 Cfr. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1989; B. Fornari, F. Fornari, Psicoanalisi e ricerca letteraria, Principato, Firenze 1975; F. Fornari, La lezione freudiana, Feltrinelli, Milano 1983. Ma non vanno dimenticati, per l’importanza anche metodologica delle loro indagini psicoanalitiche sulla cultura, N.O. Brown, Life against Death [1959], trad. it. La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, Adelphi, Milano 1964 poi Il Saggiatore, Milano 1968 e L. Fiedler, Love and Death in the American Novel, [1960], trad. it. Amore e morte nel romanzo americano, Longanesi, Milano 1963. 23 G. Baldissone, Il male di scrivere…, pp. 68-115. 24 G. Spagnoletti, I maestri del Novecento. Le sorprese della memoria, Giunti, Firenze 1996. 25 È questa la definizione che Roland Barthes dà dell’attività strutturalista, ma che ben si adatta a essere applicata a qualsiasi esercizio critico che miri alla reale interpretazione del testo e non a una pura e semplice esibizione accademica: R. Barthes, L’attivit�������� à������� strut� turalista, in Essais critiques. Sur Racine [1964], trad. it. Saggi critici, Einaudi, Torino 1972. 26 In particolare Maria Giovanna Arcamone (che nel 1992 inaugurò all’Università di Pisa la prima cattedra di linguistica onomastica e toponomastica), insieme a Davide De Camilli, Donatella Bremer, il compianto Bruno Porcelli, Leonardo Terrusi e molti altri studiosi di tutto il mondo ha dato vita a partire dal 1961 a importanti convegni internazionali che tra le scienze onomastiche riservano uno spazio privilegiato ai rapporti fra onomastica e letteratura. L’associazione omonima, fondata nel 1994 a Pisa, dal 1995 pubblica gli atti dei convegni annuali nella rivista “Il Nome nel Testo”, autentico punto di riferimento per una nuova ermeneutica letteraria.
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LE MUSE DI MONTALE
Abbreviazioni bibliografiche adottate nei commenti alle poesie: Opera in versi Eugenio Montale, L’opera in versi, a cura di Gianfranco Contini e Rosanna Bettarini, Einaudi, Torino 1980. Il male di scrivere Giusi Baldissone, Il male di scrivere. L’inconscio e Montale, Einaudi, Torino 1979. Contorbia Eugenio Montate. Immagini di una vita, a cura di Franco Contorbia, introduzione di Gianfranco Contini, Librex, Milano 1985 (Mondadori, Milano 1996). Forti Marco Forti, Il nome di Clizia. Eugenio Montale: vita, opere, ispiratrici, All’insegna del Pesce d’Oro, Milano 1985. Isella Eugenio Montale, Le occasioni, a cura di Dante Isella, Einaudi, Torino 1996. Nascimbeni Giulio Nascimbeni, Eugenio Montale, Longanesi, Milano 1969 (nuova edizione ampliata, 1986). Zampa Eugenio Montale, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 1984.
ESTERINA ROSSI «Esterina, i vent’anni ti minacciano, grigiorosea nube» 1924
Esterina Rossi in uno dei tuffi, allo stabilimento di Quarto dei Mille, che hanno ispirato la celebre poesia Falsetto.
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Falsetto Esterina, i vent’anni ti minacciano, grigiorosea nube che a poco a poco in sé ti chiude. Ciò intendi e non paventi. Sommersa ti vedremo nella fumea che il vento lacera o addensa, violento. Poi dal fiotto di cenere uscirai adusta più che mai, proteso a un’avventura più lontana l’intento viso che assembra l’arciera Diana. Salgono i venti autunni, t’avviluppano andate primavere; ecco per te rintocca un presagio nell’elisie sfere. Un suono non ti renda qual d’incrinata brocca percossa!; io prego sia per te concerto ineffabile di sonagliere. La dubbia dimane non t’impaura. Leggiadra ti distendi sullo scoglio lucente di sale e al sole bruci le membra. Ricordi la lucertola ferma sul masso brullo; te insidia giovinezza, quella il lacciòlo d’erba del fanciullo. L’acqua è la forza che ti tempra, nell’acqua ti ritrovi e ti rinnovi: noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo, 27
Autografo in pulito, con varianti, di Falsetto.
come un’equorea creatura che la salsedine non intacca ma torna al lito più pura. Hai ben ragione tu! Non turbare di ubbie il sorridente presente. La tua gaiezza impegna già il futuro ed un crollar di spalle dirocca i fortilizî del tuo domani oscuro. T’alzi e t’avanzi sul ponticello esiguo, sopra il gorgo che stride: il tuo profilo s’incide contro uno sfondo di perla. 28
Esterina Rossi nel 1920 circa.
Esiti a sommo del tremulo asse, poi ridi, e come spiccata da un vento t’abbatti fra le braccia del tuo divino amico che t’afferra. Ti guardiamo noi, della razza di chi rimane a terra. 29
La «grigiorosea nube» Esterina è la giovanissima protagonista di Fal� setto, una delle poesie più celebri degli Ossi di seppia. «Lo ricordo benissimo, nacque sugli scogli di Quarto», ha scritto Francesco Messina in Bianca (un capitolo delle sue memorie intitolate Poveri gior� ni). Il ricordo dello scultore merita d’essere riferito, come fa anche Contorbia nel suo Immagini di una vita: «In questo tempo Montale ci divenne compagno assiduo. Con lui passavamo interi pomeriggi, facendo lunghe passeggiate verso le colline […] faceva anche i bagni con noi, in uno stabilimento di Quarto dei Mille. In questo periodo scrisse Falsetto. […] Esterina, bravissima e giovanissima nuotatrice, si era aggregata a noi con slancio di simpatia e di dedizione. Bravissima anche in tuffi, Esterina si lanciava in acqua dal “tremulo asse” a volo d’angelo. Montale, accoccolato al sole, la guardava assorto e silenzioso. Dopo qualche giorno ci consegnò un foglio con la prima stesura di Falsetto. Su piccoli fogli simili Bianca e io possediamo, quasi per intero, Ossi di seppia nella sua prima versione». La poesia, in tutte le edizioni, è dedicata. È curioso segnalare un errore di stampa che colpì questo testo nell’edizione Ribet degli Ossi (Torino 1928), in cui, al verso 46, «Esiti» venne stampato «Esisti»: a questo refuso lo stesso autore accenna ironicamente nella prosa Fu mai soldato Aristotile? (in Trentadue variazioni, Lucini, Milano 1973): ����������������������������������������������������������� «���������������������������������������������������������� Un poeta di mia conoscenza scrisse “Esiti a sommo del tremulo asse” (si trattava di una tuffatrice ritta sul trampolino) e il compositore scrisse “Esisti a sommo etcetera”. Molti lettori preferirono la forma errata giudicandola più… esistenziale».
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BIANCA CLERICI «È scritto ch’io debba perdervi, ciò intendo; invano derelitto mi guarderò d’attorno» 1924 ca.
Francesco Messina, Ritratto della moglie Bianca, scultura.
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Turbamenti I Guardai le cilestri pupille che in orbite pure splendevano, e l’iridi che mille volte vidi sprizzare scintille, soffio che si disperde di pagliuche, non ravvisai quel giorno. Erano un fuso metallo ribollente nell’ora incolore, un fervido crogiuolo onde struggeva l’ieri le sue forme visibili, i pensieri nascosti, me perduto, voi risorta. Un mare che gonfiava di spume al chiaro lume d’un raggio che feriva le sue cime m’apparve: tosto candido fu di sfuggente bava. Poscia si squarciò il velo in brandelli: sembrò di contro ai rombi di quell’onde – o dei polsi? – un volo strepitoso di colombi. Di poi rividi le tranquille spere. Qualche cosa era stata consumata. Una visione s’aperse di verginale vita: nitide e terse come nate appena le sue contrade: io non poteva offrirle la mia giovinezza contrita. Un altro mare sfrusciava sulla piazzola antica. 33
Curve femmine, prossime, rammendavano reti. Volli parlare, non seppi, respirai a fatica. II Io, voi, qui insieme nel leggiadro asilo, l’ora che corre, le superflue parole e il gestire e le risa; tutto questo può dunque esistere. È un filo che può troncarsi ma bene ci tiene per ora: la mia fiducia è quella stessa che guida il sole pellegrino di fuori: non è giunta ancora l’ora che abbrucia. Pure oltre i vetri è il mondo una rapina, un conflagrare, un crollo che impaura: un volo di avvoltoi sta contro al sole. Ormai la terra più non regge le sue case, come un’accesa torcia nero fumiga il tempo. Parlate; e non muovetevi. Chi sa l’insidia che n’è attorno troppo gode questa straordinaria fissità. Qui *un* attimo dismemori della torba marea che tenta la nostra porta noi siamo due insetti fragili nel calice d’una ninfea. III Passando con voi nella strada tra le ombre alte degli alberi che occidui raggi gettavano lontane, m’era un’angustia nel cuore, e in bocca un amaro. Ogni stecco svettasse tra le crepe d’un muro era un indice teso di meridiana: finiva la sua carriera col sole 34
ogni viva creatura: trasmutava col fil d’erba la nuvola. Voi pure cui pensava io già esistenza immobile, distruggeva il minuto come l’onda lenta le collinette della sabbia. Ogni foglia stormisse era l’acqua che rode e che dissolve; per sempre vi rapiva a me: non avrei stretto che una vuotata forma in breve: spenta quella che vita fu della mia vita, viva. V’andavo accanto afflitto senza osare guardarvi per timore di non più ravvisarvi: anche il ricordo dell’ore andate già s’intorbidava. La vostra voce dava un suono più sordo. Un velo veramente tra noi calava. IV Se avvenga ch’io debba perdervi, ciò sia senza parole o rombo di [fuggenti] rinchiuse [treni o di chiuse] porte e fuggenti treni; ma sia questo in alcuna nostra diletta via solitaria ed un nimbo di parventi erbe selvagge coroni di là dai muri la nostra sorte. Senza rumori se non fosse i suoni che concludono fasi e maturazioni di piante e il declinare di loro spoglie: sussurri fremiti: aloni del grembo del mondo che non appare. Sparerà una boccia di magnolia o tonferà una frasca; da quell’istante sarete da me divisa. Poi da quell’ora d’incubo mia preziosa fuggiasca saprò evadere: la nostra vita è sposata 35
a una vicenda che non passa senza ritorno: la notte ha la sua albata. È scritto ch’io debba perdervi, ciò intendo; invano derelitto mi guarderò d’attorno. Me ne andrò solitario; quando un giorno vi riavrò in uno scroscio di cascata. Analizzando il Fondo Messina, composto da lettere e poesie inviate separatamente da Montale agli amici Bianca Clerici e Francesco Messina, Laura Barile ha scoperto non solo poesie inedite di Montale, ma anche la presenza di Bianca come interlocutrice privilegiata e musa di quei primi anni di apprendistato poetico: sono a lei dedicate la maggior parte delle poesie degli Ossi di seppia. Fra le dodici lettere a Bianca, scritte dal 3 agosto 1923 al 9 settembre 1925, si trovano tre poesie inedite, ignorate anche dall’Opera in versi, come documenta Barile: Domande (19 novembre 1923), La stasi (20 novembre 1923) e Turbamenti, in quattro parti, senza data, ma riconducibile allo stesso periodo, di cui riproduciamo la trascrizione diplomatica, con le indicazioni lessicali del poeta. «L’identità del “tu” femminile protagonista di questa vicenda di mutamento e fine è trascolorante, si sovrappone a quella che pensavamo essere Arletta [assimilabile per certi aspetti ad Annetta, ndr], e tocca il cuore, la radice biografica del trauma originario profondo che percorre tutto l’arco della poesia montaliana […]. Annetta dunque, o Bianca? Tutte e due, forse: come di tanti materiali e di tante “fonti” musicali, pittoriche, letterarie e filosofiche sono costituiti, risemantizzati, trasfigurati, altri nuclei ispiratori della poesia di Montale» (Lette� re e poesie a Bianca e Francesco Messina 1923-1925, a cura di L. Barile, Libri Scheiwiller, Milano 1995).
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PAOLA NICOLI «Ed era mia, era nostra, la vostra dolce ignoranza» 1924
Eugenio Montale con una tartaruga marina nel giardino della villa di Monterosso negli anni venti.
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[Tentava la vostra mano la tastiera] Tentava la vostra mano la tastiera, i vostri occhi leggevano sul foglio gl’impossibili segni; e franto era ogni accordo come una voce di cordoglio. Compresi che tutto, intorno, s’inteneriva in vedervi inceppata inerme ignara del linguaggio più vostro: ne bruiva oltre i vetri socchiusi la marina chiara. Passò nel riquadro azzurro una fugace danza di farfalle; una fronda si scrollò nel sole. Nessuna cosa prossima trovava le sue parole, ed era mia, era nostra, la vostra dolce ignoranza. Già Nascimbeni indica Paola Nicoli come ispiratrice o dedicataria di alcune poesie degli Ossi: «Il “tu” di Casa sul mare e di Crisalide è indirizzato a una donna splendida: era stata attrice e tutti quelli che l’avvicinavano se ne innamoravano. Era sposata con un uomo debole, indifeso: andarono in Sudamerica. Da allora non ho pi���������������������������� ù��������������������������� saputo nulla di lei������� »������ . Sulle tracce di questa fanciulla peruviana di origine genovese si pongono in seguito sia Forti (anche in Esercizio su «I limoni», in Profilo di un au� tore. Eugenio Montale, a cura di Annalisa Cima e Cesare Segre, Rizzoli, Milano 1977) sia Maria Corti e Maria Antonietta Grignani (in Autografi di Montale. Fondo dell’Università di Pavia, Einaudi, Torino 1977) che riportano una lettera montaliana alla donna, dell’agosto 1924. Oltre alle poesie citate, sono sicuramente dedicate a Paola Nicoli Godi se il vento ch’entra nel pomario, I limoni e Marezzo. Isella riconosce questa figura femminile anche nei primi tre Mot� tetti delle Occasioni, dedicate a I.B. (Irma Brandeis, il vero nome di Clizia). In realtà due-tre figure si incrociano: Irma Brandeis, Paola Nicoli e Maria Rosa Solari, come appare dalle Lettere a Clizia (in particolare cfr. la lettera del 10 dicembre 1934). Tentava la vostra mano la tastiera reca la dedica «to P-». 39
Drusilla Tanzi, Italo Svevo e Gerti Tolazzi sul piazzale Michelangelo a Firenze nel 1928.
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GERTI TOLAZZI «Se ti nevica sui capelli e le mani un lungo brivido» 1928
Gerti Tolazzi: a lei Montale dedicò Carnevale di Gerti.
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Carnevale di Gerti Se la ruota s’impiglia nel groviglio delle stelle filanti ed il cavallo s’impenna tra la calca, se ti nevica sui capelli e le mani un lungo brivido d’iridi trascorrenti o alzano i bimbi le flebili ocarine che salutano il tuo viaggio ed i lievi echi si sfaldano giù dal ponte sul fiume, se si sfolla la strada e ti conduce in un mondo soffiato entro una tremula bolla d’aria e di luce dove il sole saluta la tua grazia – hai ritrovato forse la strada che tentò un istante il piombo fuso a mezzanotte quando finì l’anno tranquillo senza spari. Ed ora vuoi sostare dove un filtro fa spogli i suoni e ne deriva i sorridenti ed acri fumi che ti compongono il domani: ora chiedi il paese dove gli onagri mordano quadri di zucchero alle tue mani e i tozzi alberi spuntino germogli miracolosi al becco dei pavoni. (Oh il tuo Carnevale sarà più triste stanotte anche del mio, chiusa fra i doni tu per gli assenti: carri dalle tinte di rosolio, fantocci ed archibugi, palle di gomma, arnesi da cucina lillipuziani: l’urna li segnava a ognuno dei lontani amici l’ora che il Gennaio si schiuse e nel silenzio si compì il sortilegio. È Carnevale 43
o il Dicembre s’indugia ancora? Penso che se tu muovi la lancetta al piccolo orologio che rechi al polso, tutto arretrerà dentro un disfatto prisma babelico di forme e di colori…). E il Natale verrà e il giorno dell’Anno che sfolla le caserme e ti riporta gli amici spersi, e questo Carnevale pur esso tornerà che ora ci sfugge tra i muri che si fendono già. Chiedi tu di fermare il tempo sul paese che attorno si dilata? Le grandi ali screziate ti sfiorano, le logge sospingono all’aperto esili bambole bionde, vive, le pale dei mulini rotano fisse sulle pozze garrule. Chiedi di trattenere le campane d’argento sopra il borgo e il suono rauco delle colombe? Chiedi tu i mattini trepidi delle tue prode lontane? Come tutto si fa strano e difficile, come tutto è impossibile, tu dici. La tua vita è quaggiù dove rimbombano le ruote dei carriaggi senza posa e nulla torna se non forse in questi disguidi del possibile. Ritorna là fra i morti balocchi ove è negato pur morire; e col tempo che ti batte al polso e all’esistenza ti ridona, tra le mura pesanti che non s’aprono al gorgo degli umani affaticato, torna alla via dove con te intristisco, quella che additò un piombo raggelato alle mie, alle tue sere: torna alle primavere che non fioriscono. Montale conobbe Gerti Frankel Tolazzi grazie a Bobi Bazlen, amico e intellettuale triestino che tanta parte ha nell’attivit������������������ à����������������� e nelle occasioni montaliane: «nell’ambiente di Bobi avevo conosciuto Gerti: era 44
“asburgica” come Dora [Markus] e si trovava in Toscana perché il marito era ufficiale di stanza a Lucca. La vidi una decina di volte. Poi seppi che aveva lasciato il marito. Di lei e di Dora feci un unico fantasma», confidò il poeta a Nascimbeni, il quale annota nella sua biografia: «Dopo la morte del poeta si è saputo il cognome [del marito] di Gerti: Tolazzi. Gerti, anche se con lei Montale non ebbe alcun rapporto che non fosse d’amicizia, è protagonista di Carnevale di Gerti», testo per la prima volta pubblicato sulle pagine della rivista “Il Convegno” il 15 giugno 1928 (per essere poi raccolto in Le occa� sioni). In una lettera ad Angelo Barile del 6 luglio 1932 il poeta ricorda l’occasione che suscitò i versi di Carnevale di Gerti: «era ed è una signora di Graz. Aveva il marito soldato (accenno alle caserme) e lo vedeva solo in libera uscita. Il giorno di Capodanno avevamo estratto a sorte alcuni doni per gli amici triestini e per gli stessi avevamo fatto un sortilegio abbastanza usato nel nord. Gettare per ognuno una cucchiaiata di piombo fuso in una tazza d’acqua fredda e dalle strane deformazioni solidificate che ne risultano dedurre il destino di ciascuno. Il resto (regressione nel tempo ecc.) è chiaro. Questa poesia doveva restare “privata”; ci��������������������������������������������� ò�������������������������������������������� ne spiega la diffusione e la relativa oscurità, insolita in me. Tuttavia m’è stato detto che il pathos risultava anche ai “non addetti ai lavori” e mi sono indotto a pubblicarla». In una lettera a Gianfranco Contini del 31 ottobre 1945 è anche spiegato che le «iridi» del v. 5 sono i coriandoli (Opera in versi, pp. 898-899). La figura di Gerti compare anche nella seconda parte di Dora Markus, sempre nelle Occasioni, poi in Dall’altra sponda, nel Quader� no di quattro anni.
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Guglielmo Bianchi, Lucia con Friz, matita grassa su carta, 1938 ca.
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LUCIA MORPURGO RODOCANACHI «La mia Sévigné è sempre più in forma»
Lucia Rodocanachi in una fotografia del 1930 circa, al tempo dell’amicizia fiorentina con Eugenio Montale.
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Lettere di Eugenio Montale da Firenze «Mi dispiace rispondere così balordamente a un capolavoro come il suo, con quella carta da lettere gentilizia…» (22 giugno 1933) «Il caldo veramente asfissiante m’impedisce di pensare e di far nulla. E invece la mia Sévigné è sempre più in forma. Ormai nessuno più la salva dall’antologia des femmes des lettres…» (20 luglio 1933) é���� qui� «Non è vero che io faccia leggere le sue lettere ad altri. Solo il co����� pier Vittorini ha letto alcuni morceaux choisis per assicurarsi del suo “stile”, e credo le far����������������������������������������������� à���������������������������������������������� spiumare molti serpenti… [si allude alla traduzione di The plumed serpent, di D.H. Lawrence, per Vittorini]. Mi duole di non essere un abate Fabiani, come lei meriterebbe. Così la nostra corrispondenza non sarà mai pubblicata… Le consiglio di tenere un diario per i posteri se vuol salvare il suo nome…�������� » (7 ������ novembre 1933) «�������������������������������������������������������������������� Dimmi a occhio e croce se potresti tradurre letteralmente e lasciando tra una riga e l’altra un grande spazio il romanzo di Steinbeck To a God Unknown che ti manderei a parte. Non mi occorre una traduzione accurata; basta che siano precisi quei 100/200 luoghi (eventuale slang, termini tecnici) che possono costituire la difficoltà del libro, in modo che la mia revisione possa essere solo stilistico-formale, senza che io debba pi���������������������������������������������������� ù��������������������������������������������������� ricorrere a vocabolari e possa star sicuro. Mondadori ha fretta. Potresti far tutto in un 40 giorni, in modo che nei successivi 20 io lavori a finir tutto? Sono 320 pagine, però non fitte, anzi piuttosto rade. Dal compenso (che ignoro ancora) dedurrò il 10 per cento che – essendo la Mondadori una Soc. Anonima – dovrò versare all’agente delle tasse; e le spese di copisteria (forse 1 1/2-2 per cento); e il resto lo divideremo in parti eguali: circa il 44 per cento del lordo toccherà perciò a te: sarà sempre almeno 1000 lire, che ti pagherò naturalmente non appena sar�������������������������������������� ò������������������������������������� pagato dall’Editore. La faccenda dovrebbe restare assolutamente fra di noi e neppure Vittorini dovrebbe essere informato». (24 maggio 1940) 49
Nata a Trieste nel 1901, vissuta a Genova dal 1913, morta nel 1978 ad Arenzano, dove viveva con il marito, il pittore Paolo Stamaty Rodocanachi, Lucia Morpurgo fu amica di Montale, Sbarbaro, Gadda, Vittorini: per essi, quando si dedicarono freneticamente all’attività di traduttori, fu una stimatissima «negra sconosciuta» (o «traduttrice di sponda������������������������������������������������������������������ »����������������������������������������������������������������� ). �������������������������������������������������������������� «������������������������������������������������������������� La fortissima passione letteraria di Lucia, che in lei si mutava in una intensa passione per la vita, la portava a identificarsi nei personaggi e negli scrittori amati» (scrive Marcenaro in Una amica di Montale. Vita di Lucia Rodocanachi, Camunia, Milano 1991, p. 203). Lucia, nel 1933, soggiornò a Firenze per dodici giorni, dal 24 aprile all’8 maggio. Secondo il suo biografo «��������������������� ���������������������� durante quel soggiorno fiorentino, tra Lucia e Montale nasce una “privata confidenza” che vive nascostamente accanto alla “confidenza ufficiale”. Le lettere “ufficiali” vengono scritte da Montale su carta intestata del “W.C.”, com’egli chiama il Gabinetto Vieusseux; i messaggi segreti sono vergati in inglese e introdotti furtivamente in altre buste con “corrispondenza innocua” o tra i libri: Paolo Rodocanachi non conosce la lingua di Shakespeare».
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MARIA ROSA SOLARI «mi rimane il sobbalzo che riporta al tuo sentiero» 1933
Maria Rosa Solari a Venezia negli anni quaranta.
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Sotto la pioggia Un murmure; e la tua casa s’appanna come nella bruma del ricordo – e lacrima la palma ora che sordo preme il disfacimento che ritiene nell’afa delle serre anche le nude speranze ed il pensiero che rimorde. «Por amor de la fiebre»… mi conduce un vortice con te. Raggia vermiglia una tenda, una finestra si rinchiude. Sulla rampa materna ora cammina, guscio d’uovo che va tra la fanghiglia, poca vita tra sbatter d’ombra e luce. Strideva Adiós muchachos, compañeros de mi vida, il tuo disco dalla corte: e m’è cara la maschera se ancora di là dal mulinello della sorte mi rimane il sobbalzo che riporta al tuo sentiero. Seguo i lucidi strosci e in fondo, a nembi, il fumo strascicato d’una nave. Si punteggia uno squarcio… Per te intendo ciò che osa la cicogna quando alzato il volo dalla cuspide nebbiosa rèmiga verso la Città del Capo. Nella lettera del 15 gennaio 1935 a Irma Brandeis (Lettere a Clizia) Montale risponde a una sfuriata di quest’ultima per la presenza di altre figure femminili nei Mottetti: «Ecco: i famigerati Mottetti furono scritti prima di avere conosciuta I.B. [...]. Nel Mottetto n. 2 l’imma53
gine di I.B. (abitante in Costa San Giorgio) andò a coincidere con M.R.S. nata a Genova, “Città di San Giorgio e del Drago”. […] Io poi ti avevo parlato di M.R., e ti avevo anche fatto vedere una fotografia in pull-over della giovane pantera peruviana. Per due mesi (quelli precedenti il nostro incontro) mi ha fatto rimescolare il sangue, cosa che non mi accadeva dal 1924. Poi, la sera del “parlez-moi d’amour”, mi sono accorto che nulla esisteva del passato, e M.R. ne è stata felice perché io non ero “son type” e lei non era certamente il mio». L’acronimo M.R.S. indica Maria Rosa Solari, il cui incontro con Montale la fa assurgere, pur se spesso confusa con Paola Nicoli, al ruolo di musa nascosta e frantumata, di cui rimane traccia in alcuni testi delle Oc� casioni, in particolare Sotto la pioggia, Lindau e Verso Vienna (P. De Caro, Invenzioni di ricordi. Vite in poesia di tre ispiratrici montaliane, ed. Centro grafico francescano, Foggia 2007, pp. 193-220).
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LIUBA BLUMENTHAL «Il gatto del focolare or ti consiglia» 1938
Bobi Bazlen.
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A Liuba che parte Non il grillo ma il gatto del focolare or ti consiglia, splendido lare della dispersa tua famiglia. La casa che tu rechi con te ravvolta, gabbia o cappelliera?, sovrasta i ciechi tempi come il flutto arca leggera – e basta al tuo riscatto. «Liuba Blumenthal, scomparsa recentemente a Londra, fu grande amica di Bobi Bazlen. Si deve a lei la conservazione delle lettere di Montale a Bazlen, successivamente alla morte di quest’ultimo. Le lettere sono un documento prezioso se non indispensabile su una stagione cruciale della vita e dell’opera di Montale. Liuba Blumenthal, morendo, ha lasciato queste lettere in legato a Luciano Foà»: così documenta Forti. Nella seconda edizione Einaudi del 1942 un errore di stampa nel quarto verso sopprimeva l’aggettivo «tua». Nelle Note alle varie edizioni il poeta commenta: «Finale di una poesia non scritta. Antefatto ad libitum. Servirà sapere che Liuba – come Dora Markus – era ebrea». La poesia è datata 1938.
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Upupa, acquaforte di Eugenio Montale.
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DORA MARKUS «È una tempesta anche la tua dolcezza» 1939
Le gambe di Dora Markus nella fotografia che Bobi Bazlen inviò all’amico Montale suggerendogli di scrivervi sopra una poesia. Nacquero i versi di Dora Markus.
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Dora Markus I Fu dove il ponte di legno mette a Porto Corsini sul mare alto e rari uomini, quasi immoti, affondano o salpano le reti. Con un segno della mano additavi all’altra sponda invisibile la tua patria vera. Poi seguimmo il canale fino alla darsena della città, lucida di fuliggine, nella bassura dove s’affondava una primavera inerte, senza memoria. E qui dove un’antica vita si screzia in una dolce ansietà d’Oriente, le tue parole iridavano come le scaglie della triglia moribonda. La tua irrequietudine mi fa pensare agli uccelli di passo che urtano ai fari nelle sere tempestose: è una tempesta anche la tua dolcezza, turbina e non appare, e i suoi riposi sono anche più rari. Non so come stremata tu resisti in quel lago d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse ti salva un amuleto che tu tieni vicino alla matita delle labbra, al piumino, alla lima: un topo bianco, d’avorio; e così esisti!
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II Ormai nella tua Carinzia di mirti fioriti e di stagni, china sul bordo sorvegli la carpa che timida abbocca o segui sui tigli, tra gl’irti pinnacoli le accensioni del vespro e nell’acque un avvampo di tende da scali e pensioni. La sera che si protende sull’umida conca non porta col palpito dei motori che gemiti d’oche e un interno di nivee maioliche dice allo specchio annerito che ti vide diversa una storia di errori imperturbati e la incide dove la spugna non giunge. La tua leggenda, Dora! Ma è scritta già in quegli sguardi di uomini che hanno fedine altere e deboli in grandi ritratti d’oro e ritorna ad ogni accordo che esprime l’armonica guasta nell’ora che abbuia, sempre più tardi. È scritta là. Il sempreverde alloro per la cucina resiste, la voce non muta, Ravenna è lontana, distilla veleno una fede feroce. Che vuole da te? Non si cede voce, leggenda o destino… Ma è tardi, sempre più tardi. Dora Markus, che dà il titolo alla poesia, è una misteriosa amica slava. La lettera di Bobi Bazlen che ne parla è del 25 settembre 1928: 62
«Gerti e Carlo: Bene. A Trieste, loro ospite, un’amica di Gerti, con delle gambe meravigliose. Falle una poesia. Si chiama Dora Markus» (cfr. L. Rebay, I diaspori di Montale, in “Italica”, 46, 1969, 1). La fotografia con le gambe di Dora Markus, inviata da Bazlen a Montale, già pubblicata da Contorbia, è l’occasione poetica che riunisce le figure di Dora e di Gerti nello stesso componimento, diviso infatti in due parti. Nelle Note alle varie edizioni il poeta scrive: «La prima parte è rimasta allo stato di frammento. Fu pubblicata a mia insaputa nel ’37 [in “Meridiano di Roma”, 10 gennaio). Alla distanza di 13 anni (e si sente) le ho dato una conclusione, se non un centro». In una lettera a Silvio Guarnieri del 29 aprile 1964, citata nell’O� pera in versi (pp. 900-902): «Io Dora non l’ho mai conosciuta; feci quel primo pezzo di poesia per invito di Bobi Bazlen che mi mandò le gambe di lei in fotografia. […] La fede feroce (Dora Markus II) coincide col ritiro di Gerti in una Carinzia immaginaria. Non c’è la condanna di ogni fede, ma la constatazione che per lei tutto è finito e deve rassegnarsi al suo destino. Resta per sempre uno iato tra la vita inesplosa di Dora e la vita già vissuta di Gerti. La fusione delle due figure non è perfetta, a metà strada qualcosa è avvenuto che non viene detto e che io non so…»
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Disegno intitolato Map of my brain sul verso del primo foglio della lettera a Irma Brandeis del 25 maggio 1934.
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CLIZIA (IRMA BRANDEIS) «Tu che il non mutato amor mutata serbi» 1940 (?); 1946-1947
Irma Brandeis, chiamata Clizia dal poeta, la sua massima ispiratrice.
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[Ti libero la fronte dai ghiaccioli] Ti libero la fronte dai ghiaccioli che raccogliesti traversando l’alte nebulose; hai le penne lacerate dai cicloni, ti desti a soprassalti. Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole freddoloso; e l’altre ombre che scantonano nel vicolo non sanno che sei qui. Fin dalla prima edizione Mondadori del 1949, Le occasioni figurano dedicate «a I.B.», iniziali di Irma Brandeis, che Montale conobbe nel 1933, quando la giovane italianista americana (New York, 19051990), avendo letto Ossi di seppia, lo andò a trovare al Gabinetto Vieusseux (cfr. R. Bettarini, G. Contini, D. Isella, G. Zampa, In� contro al Gabinetto Vieusseux del 15 gennaio 1981. Dedicato a Mon� tale, in “Antologia Vieusseux – Giornale di scienze, lettere e arti”, 64 [1981], ottobre-dicembre; ma anche L. Rebay, Montale, Clizia e l’America, in “Forum Italicum”, 16 [1982], 3). Il senhal o pseudonimo della donna amata risale a un sonetto attribuito a Dante, rivolto a Giovanni Quirini, in cui il poeta, dopo aver »������� si padichiarato il suo amore per una «donna dispietata e disdegnosa�������� ragona a «quella ch’a veder lo sol si gira / e ’l non mutato amor mutata serba», ossia a Clizia, figlia dell’Oceano e amante del Sole che, gelosa di Leucotoe e causa della sua morte, fu dal Sole abbandonata e si trasformò in eliotropio o girasole (Ovidio, Metamorfosi, IV, 234-270). Nello scritto autobiografico Due sciacalli al guinzaglio (“Corriere della Sera”, 16 febbraio 1950, ora nella raccolta Sulla poesia, Mondadori, Milano 1976), Montale racconta: «Basti identificare la tipica situazione di quel poeta, e direi quasi d’ogni poeta lirico che viva assediato dall’assenza-presenza di una donna lontana, nel caso presente di una Clizia portante il nome di colei che secondo il mito fu mutata in girasole. Le piccole poesie di Mirco [Eugenio Montale, ndr], che 67
formarono poi una serie, un romanzetto autobiografico tutt’altro che tenebroso, nascevano di giorno in giorno: Clizia non ne sapeva nulla e forse non le lesse che molti anni dopo; ma talvolta le notizie di lei che giungevano a Mirco fornivano lo spunto di qualche mottetto; e così nuovi epigrammi nascevano e scoccavano come frecce, al di l���������������������������������������������������������������������� à��������������������������������������������������������������������� dei mari, senza che l’interessata ne offrisse, neppure involontariamente, il pretesto». A Clizia sono dedicati la maggior parte dei Mottetti, studiati e commentati in particolar modo da Dante Isella, e molte fra le grandi liriche conclusive delle Occasioni come Stanze (in cui peraltro Barile riconosce Arletta) o Costa San Giorgio o Elegia di Pico Farnese o Nuo� ve Stanze o Palio o Notizie dall’Amiata, secondo Forti. E, ancora, la maggior parte delle poesie di La bufera e altro, oltre a Botta e Risposta I, Gli uomini che si voltano, Ex voto, Senza salvacondotto in Satura; A c., A questo punto in Diario del ’71 e del ’72, Lagunare, Due destini, L’eroismo, Una lettera non spedita, I ripostigli, Morgana in Quaderno di quattro anni; Il mio cronometro svizzero, Luni e altro, Ho tanta fede in te, Clizia dice, Clizia nel ’34, Previsioni, Interno/esterno, Nel ’38, Quartetto, Poiché la vita fugge in Altri versi. Nel 1939, ad aprile, Montale si trasfer���������������������������� ì��������������������������� a vivere con Drusilla Tanzi, rinunciando così definitivamente a raggiungere in America Irma Brandeis. Ti libero la fronte dai ghiaccioli fa parte del gruppo di originali appartenuti a Gianfranco Contini (Opera in versi, p. 912) e presenta Clizia nella forma tipicamente montaliana del «visiting angel» o «divinità in incognito» (cfr. Mottetti, a cura di Dante Isella, Adelphi, Milano 1988). Pubblichiamo un’altra poesia dedicata a Clizia, del 1946-1947: La primavera hitleriana (da La bufera e altro), così annotata dal poeta nelle varie edizioni: «Hitler e Mussolini a Firenze. Serata di gala al teatro Comunale. Sull’Arno, una nevicata di farfalle bianche». Porta in esergo la citazione di attribuzione dantesca ricordata a proposito del nome dato a Clizia, il cui sguardo verso il sole richiama, in questi versi, quello di Beatrice in Paradiso (I, 46-48 e 64-66): «Né quella ch’a veder lo sol si gira…»
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La primavera hitleriana Né quella ch’a veder lo sol si gira… Dante (?) a Giovanni Quirini
Folta la nuvola bianca delle falene impazzite turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette, stende a terra una coltre su cui scricchia come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona ora il gelo notturno che capiva nelle cave segrete della stagione morta, negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai. Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito, si sono chiuse le vetrine, povere e inoffensive benché armate anch’esse di cannoni e giocattoli di guerra, ha sprangato il beccaio che infiorava di bacche il muso dei capretti uccisi, la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate, di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere le sponde e più nessuno è incolpevole. Tutto per nulla, dunque? – e le candele romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii forti come un battesimo nella lugubre attesa dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi gli angeli di Tobia, i sette, la semina dell’avvenire) e gli eliotropi nati dalle tue mani – tutto arso e succhiato da un polline che stride come il fuoco e ha punte di sinibbio… Oh la piagata primavera è pur festa se raggela in morte questa morte! Guarda ancora in alto, Clizia, è la tua sorte, tu 69
che il non mutato amor mutata serbi, fino a che il cieco sole che in te porti si abbàcini nell’Altro e si distrugga in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi che salutano i mostri nella sera della loro tregenda, si confondono già col suono che slegato dal cielo, scende, vince – col respiro di un’alba che domani per tutti si riaffacci, bianca ma senz’ali di raccapriccio, ai greti arsi del sud…
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LA MADRE (GIUSEPPINA RICCI) «E la domanda che tu lasci è anch’essa un gesto tuo» 1942
Dall’album di famiglia Montale, la madre e il padre del poeta con i figli Marianna, Salvatore, Ugo, Eugenio e Alberto a Monterosso (1901).
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A mia madre Ora che il coro delle coturnici ti blandisce nel sonno eterno, rotta felice schiera in fuga verso i clivi vendemmiati del Mesco, or che la lotta dei viventi più infuria, se tu cedi come un’ombra la spoglia (e non è un’ombra, o gentile, non è ciò che tu credi) chi ti proteggerà? La strada sgombra non è una via, solo due mani, un volto, quelle mani, quel volto, il gesto d’una vita che non è un’altra ma se stessa, solo questo ti pone nell’eliso folto d’anime e voci in cui tu vivi; e la domanda che tu lasci è anch’essa un gesto tuo, all’ombra delle croci. «Della madre, Giuseppina Ricci, morta nel 1942, Montale parla con teneri accenti. Assomigliava a Lucia Mondella: aveva una pettinatura con la scriminatura a forma di croce e portava quattro chignons. Da ragazza aveva fatto inorridire le monache di una scuola di Nervi dove studiava: in un tema dalle evidenti intenzioni agiografiche (“Quale donna vorresti essere?”) aveva risposto: vorrei essere la grande Adelina Patti. E nonostante le preghiere e gli scongiuri delle suore non aveva voluto cambiare personaggio per orientarsi, come le sue pi����� ù���� disciplinate compagne di classe, verso qualche santa o qualche venerata patronessa» (Nascimbeni, p. 18). Non è frequente la presenza esplicita della figura materna nella poesia di Montale, ma la sua immagine costituisce lo stampo primitivo di tutte le «������������������������������������������������������ ������������������������������������������������������� angiole����������������������������������������������� »���������������������������������������������� che sorvolano le poesie pi������������������� ù������������������ stilnoviste, Clizia compresa. Assente ancor prima della morte, superiore, descritta 73
attraverso gli stessi elementi, gesti, funzioni attribuiti a quel tipo di figura femminile irraggiungibile e nello stesso tempo ben presente nell’identità dei suoi gesti, anche per lei la fantasia poetica crea un ritratto che vuol essere una presenza permanente e definitiva. Si noti che nella poesia, simmetrica a questa, dedicata al padre, Voce giunta con le folaghe, Montale respinge il perdurare della memoria quando non giova, quando è «letargo di talpe, abiezione / che funghisce su s���������������������������������������������������� é»�������������������������������������������������� . Le due poesie funebri montaliane solo apparentemente sono state composte con il medesimo intento: in realt���������� à��������� , la prima tende a rinsaldare i rapporti con la madre, fissandoli per sempre attraverso l’esaltazione dei dati concreti ed unici che la individuano; la seconda tende a liberarsi per sempre del padre, staccandolo dai figli come per opera di una scelta materna. È quanto già viene indicato in Il male di scrivere (p. 52). L’«ombra», pur riconoscibile in Clizia, ha molti tratti del fantasma materno.
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MARIANNA, LA SORELLA «Il gong che ancora ti rivuole fra noi, sorella mia» 1944
Marianna Montale, la sorella di Eugenio, figura centrale nella vita del poeta.
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Madrigali fiorentini I
11 settembre 1943
Suggella, Herma, con nastri e ceralacca la speranza che vana si svela, appena schiusa ai tuoi mattini. Sul muro dove si leggeva morte a baffo buco passano una mano di biacca. Un vagabondo di lassù scioglie manifestini sulla corte annuvolata. E il rombo s’allontana. II
11 agosto 1944
Un Bedlington s’affaccia, pecorella azzurra, al tremolio di quei tronconi – Trinity Bridge – nell’acqua. Se s’infognano come topi di chiavica i padroni d’ieri (di sempre?), i colpi che martellano le tue tempie fin lì, nella corsia del paradiso, sono il gong che ancora ti rivuole fra noi, sorella mia. La figura della sorella Marianna, nata due anni prima di Eugenio (nel 1894) e morta prematuramente, a Genova, il 15 ottobre 1938, è fondamentale nella formazione culturale e nella configurazione poetica dell’immagine femminile in Montale. Nascimbeni vi dedica non più di una pagina, lasciando tuttavia intravedere l’importanza della sua presenza: «Marianna seguiva la via degli studi classici: più tardi si sposò e non arrivò alla laurea in filosofia per la quale le mancavano pochi esami. In quegli anni, lei studentessa di liceo ed Eugenio già “congedato” dal mondo della scuola, stavano molto insieme. Quando verso sera Marianna aveva finito di preparare le lezioni per il giorno dopo, raggiungeva Eugenio chiuso nella sua stanza e diventava la 77
sua ripetitrice: un po’ di latino, un po’ di greco e poi, più avanti, la rivelazione dei primi filosofi. Non ci fu l’autore decisivo, il libro che improvvisamente fa cambiare una vita. Fratello e sorella costruirono insieme una trama sempre più fitta di interessi comuni, di scoperte. Li distoglieva dal loro isolamento solo la voce del padre che irrompeva oltre le porte e oltre i muri: “Sono le sei! Si cena!”». Nel saggio Il male di scrivere si dedica molta attenzione alla figura della “donna-complice”, che ha il suo modello primitivo in Marianna e la sua proiezione estrema in Mosca, la moglie del poeta. «Marianna dovette spostare leggermente la sfera affettiva montaliana, creando nella sua fantasia la figura femminile della donna complice e compagna. […]. Così appare infatti da alcune prose raccolte in Farfalla di Dinard: L’angiolino, Reliquie, Ti cambieresti con…? e anche Crollo di cenere forniscono tutte l’immagine di una donna con cui si gioca, a un gioco peraltro estremamente serio, di cui soltanto i due giocatori conoscono a fondo il significato». Nel 1980 l’edizione critica dell’Opera in versi riporta la lettera scritta da Montale a Silvio Guarnieri, in cui la sorella è esplicitamente nominata come ispiratrice della poesia Un Bedlington s’affaccia: «Il paradiso immaginato come ospedale. Mia sorella era morta da molti anni in un ospedale ed era religiosa». Nel 1985 la raccolta di immagini montaliane curata da Contorbia dedica il giusto spazio alla figura di Marianna e all’influenza da lei esercitata sul mondo affettivo e culturale del poeta: sono citate le lettere di lei a Minna Cognetti, che tracciano un ritratto molto efficace del fratello, per la cui sorte è affettuosamente apprensiva. La poesia che presentiamo fu pubblicata, nella sezione Madrigali fiorentini, in La Bufera e altro (1957), con la nota montaliana: «Un Bedlington (terrier), dunque un cane, non un aeroplano come fu creduto, si affacciò da un troncone del ponte di Santa Trinità in un’alba di quei giorni. Il gong fa eco a quello che diceva alla famiglia: “Il pranzo è servito”».
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DRUSILLA TANZI (MOSCA) «Caro piccolo insetto» 1964
Drusilla Tanzi, dal 1939 compagna di vita di Eugenio Montale.
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Ballata scritta in una clinica Nel solco dell’emergenza: quando si sciolse oltremonte la folle cometa agostana nell’aria ancora serena – ma buio, per noi, e terrore e crolli di altane e di ponti su noi come Giona sepolti nel ventre della balena – ed io mi volsi e lo specchio di me più non era lo stesso perché la gola ed il petto t’avevano chiuso di colpo in un manichino di gesso. Nel cavo delle tue orbite brillavano lenti di lacrime più spesse di questi tuoi grossi occhiali di tartaruga che a notte ti tolgo e avvicino alle fiale della morfina. L’iddio taurino non era il nostro, ma il Dio che colora di fuoco i gigli del fosso: Ariete invocai e la fuga del mostro cornuto travolse con l’ultimo orgoglio anche il cuore schiantato dalla tua tosse. Attendo un cenno, se è prossima l’ora del ratto finale: 81
son pronto e la penitenza s’inizia fin d’ora nel cupo singulto di valli e dirupi dell’altra Emergenza. Hai messo sul comodino il bulldog di legno, la sveglia col fosforo sulle lancette che spande un tenue lucore sul tuo dormiveglia, il nulla che basta a chi vuole forzare la porta stretta; e fuori, rossa, s’inasta si spiega sul bianco una croce. Con te anch’io m’affaccio alla voce che irrompe nell’alba, all’enorme presenza dei morti; e poi l’ululo del cane di legno è il mio, muto. Nel 1929 Montale è nominato direttore del Gabinetto Vieusseux, in sostituzione di Bonaventura Tecchi. Dopo due anni trascorsi alla Pensione Colombini, si trasferisce in casa di Drusilla Tanzi e di Matteo Marangoni. L’incarico al Vieusseux viene sospeso nel ’38; l’anno dopo il poeta va a vivere con Drusilla Tanzi, rinunciando definitivamente a raggiungere Clizia in America. Nel settembre del ’44 Drusilla Tanzi è ricoverata in clinica per una grave forma di spondilismo. La Ballata citata nasce in quell’occasione e viene pubblicata la prima volta, datata «gennaio 1945», in “Il Ponte”, I (1945), 5. Mosca è il nomignolo con cui tutti chiamano colei che diverrà moglie di Montale nell’aprile del ’63, morendo poi in ottobre, in seguito alle conseguenze di una caduta avvenuta nell’estate. A lei sono dedicate, oltre alla Ballata inclusa nella Bufera, tutte le poesie delle due serie di Xenia e molte altre. Tra i versi di Xenia se ne potrebbero citare di molto affettuosi e commossi, come questi: Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. 82
[…] Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue. Ancora sono dedicate a Mosca Nel fumo, Piove, Gli ultimi spari, Le revenant, Pasqua senza week-end, Luci e colori, sempre in Satura. Inoltre sono ispirate a lei I nascondigli, Il pirla, Sorapis, 40 anni fa, Al mio grillo in Diario del ’71 e del ’72; Quando cominciai a dipingere, Nel disumano in Quaderno di quattro anni; Mi pare impossibile, Non più notizie, Tergi gli occhiali appannati in Altri versi; Se la mosca ti avesse vista e Ricordo nel Diario postumo. 66 poesie e altre. Da Satura in avanti, il tono della poesia montaliana cambia radicalmente, facendosi più colloquiale e quotidiano. Il dato che emerge più nitidamente, a chi legga la quarta raccolta di poesie montaliane, è che tutto il libro appare orchestrato intorno a un’assenza, quella della moglie morta. Anche Mosca si trova al centro di un universo semantico fisicista, o feticista, che ella stessa suscita: la sua presenza è ormai data da un «luccichio» dei suoi occhiali, dal suo «radar di pipistrello», dal suo «pianto» e dalle sue «risate». All’evocazione di Mosca partecipano ancora gli stessi oggetti che caratterizzavano la figura femminile montaliana nelle altre opere: tutto però ha un tono più umile, più familiare, più dimesso: nel luccichio degli occhiali di questa minuscola donna non c’è pi��������������� ù�������������� l’enigmaticità data da un fascino che turba; è solo un segno di riconoscimento, la manifestazione di una presenza. Mosca è una complice, non una donna-angelo per il poeta. La complice, risalente alla matrice primitiva della sorella, conserva certe caratteristiche di madre senza averne quelle che pi����������� ù���������� angosciavano e frustravano il fanciullo di fronte alla madre vera: dà sicurezza, ma non è troppo superiore, non è irraggiungibile; è alla sua portata, gioca con lui, ne conosce i segreti desideri. [Caro piccolo insetto] Caro piccolo insetto che chiamavano mosca non so perché, stasera quasi al buio mentre leggevo il Deuteroisaia 83
sei ricomparsa accanto a me, ma non avevi occhiali, non potevi vedermi né potevo io senza quel luccichìo riconoscere te nella foschia. Questi versi, che uscirono la prima volta nell’edizione di Xenia del 1966 con la dedica «a mia moglie», risalgono – al di là di alcune varianti – al 10 aprile 1964, secondo la data scritta sul manoscritto “in pulito” del Quaderno 4 preso a testimone da Contini e Bettarini nell’edizione dell’Opera in versi.
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MARIA LUISA SPAZIANI (VOLPE) «Sei tu che brilli al buio?» 1949
Eugenio Montale con Maria Luisa Spaziani, poetessa e francesista, che il poeta soprannominò «mia volpe».
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Da un lago svizzero Mia volpe, un giorno fui anch’io il “poeta assassinato”: là nel noccioleto raso, dove fa grotta, da un falò; in quella tana un tondo di zecchino accendeva il tuo viso, poi calava lento per la sua via fino a toccare un nimbo, ove stemprarsi; ed io ansioso invocavo la fine su quel fondo segno della tua vita aperta, amara, atrocemente fragile e pur forte. Sei tu che brilli al buio? Entro quel solco pulsante, in una pista arroventata, àlacre sulla traccia del tuo lieve zampetto di predace (un’orma quasi invisibile, a stella) io, straniero, ancora piombo; e a volo alzata un’anitra nera, dal fondolago, fino al nuovo incendio mi fa strada, per bruciarsi. Montale conobbe Maria Luisa Spaziani a Torino nel 1949. “Volpe” è, questa volta, il senhal adottato dal poeta per la figura che gli ha ispirato (in alternanza con Clizia e con l’italo-inglese G.B.H., nota Forti) alcuni dei Flashes e dediche, alcune Silvae e tutti i Madrigali privati, in uno dei quali, Da un lago svizzero, figura anche, in acrostico, il nome per esteso della poetessa. Nascimbeni (p. 122) riporta il commento di Montale su questa figura femminile: «������������������������������������������������ ������������������������������������������������� Era una giovane donna e ne è�������������������� ��������������������� venuto un personaggio diverso da Clizia, un personaggio molto terrestre. Di fronte alla “Volpe” mi sono paragonato a Pafnuzio, il frate che va per convertire Thais ma ne è conquistato. Vicino a lei mi sono sentito un uomo astratto vicino a una donna concreta: lei viveva con tutti i pori della pelle. Ma anch’io ne ricevevo un senso di freschezza, il senso soprattutto d’essere ancora vivo». 87
«Raramente mi sono divertita e ho riso come con Montale. In lui l’umorismo, il comico, andavano in profondo, anche quando si incarnavano in piccole situazioni o minimi personaggi. C’era sul fondo una certa curiosità o angoscia delle aporie, delle gaffe, la benedetta svista, “lo spiraglio che butta un lampo sulla scorza delle convenzioni e della buona educazione forzata, base del nostro comportamento fin da bambini”» (M.L. Spaziani, Montale e la Volpe. Ricordi di una lunga amicizia, Mondadori, Milano 2011, p. 9). La lunga amicizia tra Montale e la Spaziani è������������������������������������������������� �������������������������������������������������� documentata da un Fondo depositato all’Università di Pavia (Catalogo a cura di G. Polimeni) di circa ottocento lettere dal 1949 al 1984, che testimoniano anche la collaborazione letteraria tra i due: «Montale considerava le sue lettere alla Volpe quel “diario” o quello zibaldone che non aveva avuto il tempo o la pazienza di scrivere (una volta lo chiamò “il mio romanzo”) e per i quali gli era mancato, disse, un interlocutore vivo e congeniale» (G. Marcenaro, Eugenio Montale, Bruno Mondadori, Milano 1999, pp. 187-188). Così commenta Paolo Zoboli in Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento (Interlinea, Novara 1995, con successive edizioni, p. 280): «L’ombra della magnolia […] segna l’esplicito addio a Clizia ed apre la strada al nuovo personaggio celato sotto il senhal di Volpe, l’“antibeatrice”, la donna dai tratti ancora angelici ma totalmente terrestre a cui è dedicata L’anguilla (che chiude la sezione aperta da Iride) e che sarà la protagonista dell’intera sezione successiva dei Madrigali privati. Con Volpe la salvezza è, ancora una volta, solo del poeta: “il dono che sognavo / non per me ma per tutti / appartiene a me solo”».
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GINA TIOSSI «Lui la guardava quasi riconoscente» 1971
Gina Tiossi, l’ultima domestica del poeta, che da lei fu accompagnato a Stoccolma per ricevere il Premio Nobel.
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Il rondone Il rondone raccolto sul marciapiede aveva le ali ingrommate di catrame, non poteva volare. Gina che lo curò sciolse quei grumi con batuffoli d’olio e di profumi, gli pettinò le penne, lo nascose in un cestino appena sufficiente a farlo respirare. Lui la guardava quasi riconoscente da un occhio solo. L’altro non si apriva. Poi gradì mezza foglia di lattuga e due chicchi di riso. Dormì a lungo. Il giorno dopo all’alba riprese il volo senza salutare. Lo vide la cameriera del piano di sopra. Che fretta aveva fu il commento. E dire che l’abbiamo salvato dai gatti. Ma ora forse potrà cavarsela. Gina Tiossi ������������������������������������������������������� fu����������������������������������������������������� l’ultima domestica di Montale, colei che lo accompagnò a Stoccolma per la consegna del Premio Nobel, e fu presente accanto a lui fino alla morte. Appare in un certo numero di poesie del Diario del ’71 e del ’72 e del Quaderno di quattro anni, quali Al mio grillo, Il giorno dei morti, Gina all’alba mi dice, nonché in alcune del Diario postumo. 66 poesie e altre: Se la mosca ti avesse vista, Un alone che non vedi e altre in cui non è citata espressamente. Manoscritti inediti di Montale, raccolti da Gina Tiossi e donati nel 2004 al Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia, si trovano in La casa di Olgiate e altre poesie, Mondadori, Milano 2006.
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Renato Guttuso, Ritratto di Eugenio Montale.
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LAURA PAPI MUSHKA VON NAGEL ADELAIDE BELLINGARDI (ADELHEIT)
Laura Papi, ispiratrice della poesia Il primo gennaio, del 1970.
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Il primo gennaio So che si può vivere non esistendo, emersi da una quinta, da un fondale, da un fuori che non c’è se mai nessuno l’ha veduto. So che si può esistere non vivendo, con radici strappate da ogni vento se anche non muove foglia e non un soffio increspa l’acqua su cui s’affaccia il tuo salone. So che non c’è magia di filtro o d’infusione che possano spiegare come di te s’azzuffino dita e capelli, come il tuo riso esploda nel suo ringraziamento al minuscolo dio a cui ti affidi, d’ora in ora diverso, e ne diffidi. So che mai ti sei posta il come – il dove – il perché, pigramente indisposta al disponibile, distratta rassegnata al non importa, al non so quando o quanto, assorta in un oscuro germinale di larve e arborescenze. So che quello che afferri, oggetto o mano, penna o portacenere, brucia e non se n’accorge, né te n’avvedi tu animale innocente inconsapevole di essere un perno e uno sfacelo, un’ombra e una sostanza, un raggio che si oscura. So che si può vivere nel fuochetto di paglia dell’emulazione senza che dalla tua fronte dispaia il segno timbrato 95
da Chi volle che tu fossi… e se ne pentì.
Ora uscita sul terrazzo, annaffi i fiori, scuoti lo scheletro dell’albero di Natale, ti accompagna in sordina il mangianastri, torni dentro, allo specchio ti dispiaci, ti getti a terra, con lo straccio scrosti dal pavimento le orme degl’intrusi. Erano tanti e il più impresentabile di tutti perché gli altri almeno parlano, io, a bocca chiusa. È Laura Papi l’ispiratrice montaliana di questa poesia, Il primo gen� naio, del 1970, tratta da Satura (cfr. Forti). Le iniziali di Laura Papi sono indicate da Zampa, mentre Contorbia ha pubblicato per primo l’immagine che abbiamo riprodotto a p. 94. A Laura Papi è dedicata anche Dopo una fuga, una suite di otto componimenti, sempre in Satura. Mushka von Nagel è un’altra musa a cui fa riferimento Montale. Nel Commento a se stesso (p. 56) il poeta afferma che il «tu» di L’Arno a Rovezzano (1969) è una ragazza corteggiata da Arturo Loria: «è badessa in un convento col nome di sorella Jerome (si chiamava baronessa von Agel [sic])» (Opera in versi, p. 1023). L’Arno a Rovezzano I grandi fiumi sono l’immagine del tempo, crudele e impersonale. Osservati da un ponte dichiarano la loro nullità inesorabile. Solo l’ansa esitante di qualche paludoso giuncheto, qualche specchio che riluca tra folte sterpaglie e borraccina può svelare che l’acqua come noi pensa se stessa prima di farsi vortice e rapina. Tanto tempo è passato, nulla è scorso da quando ti cantavo al telefono «tu che fai l’addormentata» col triplice cachinno. La tua casa era un lampo visto dal treno. Curva sull’Arno come l’albero di Giuda 96
che voleva proteggerla. Forse c’è ancora o non è che una rovina. Tutta piena, mi dicevi, di insetti, inabitabile. Altro comfort fa per noi ora, altro sconforto. Melanie von Nagel Mussayassul (Berlino 1908-Bethlehem 2006), detta Mushka, poetessa e traduttrice di madre statunitense, discendeva per via paterna dall’aristocrazia bavarese. Dopo la morte del padre Karl, generale dell’esercito bavarese ucciso negli scontri che posero fine alla Repubblica dei consigli di Monaco (1919), con la famiglia si trasferì per un lungo periodo a Firenze. Sposò nel 1944 il pittore Halil-beg Mussayassul, originario del Dagestan; si trasferì poi negli Stati Uniti. Dopo la morte del marito entrò all’abbazia Regina Laudis a Bethlehem nel Connecticut, dove si dedicò agli studi e alla poesia. Ebbe scambi epistolari con varie personalità della cultura, tra cui Nicola Chiaromonte (cfr. N. Chiaromonte, Fra me e te la verità. Lettere a Mushka, Una città, Forlì 2013). Anche Zampa e Forti nominano questa singolare ispiratrice di un’unica poesia montaliana. Altra è l’ispiratrice di Il frullato e di Il trionfo della spazzatura, Adelaide Bellingardi, poi chiamata Adelheit in Diamantina, poesia così intitolata poiché la giovane lavorava da un famoso gioielliere romano; i testi sono editi in Diario del ’71 e del ’72 (Forti, p. 59). Diamantina Poiché l’ipotiposi di un’arcana Deità posta a guardia degli scrigni dei sommi Mercuriali non si addice a te, Adelheit, apparsa come può tra zaffate di Averno baluginare una Fenice che mai seppe aedo idoleggiare, così conviene che io mi arresti e muti la mia protasi in facile discorso. Si trattava soltanto di sorvolare o sornuotare qualche eventuale specchio 97
di pozzanghera e dopo col soccorso di sbrecciati scalini la scoperta che il mondo dei cristalli ha i suoi rifugi. C’è un tutto che si sgretola e qualcosa che si sfaccetta. Tra i due ordini l’alternarsi o lo scambio non può darsi. Forse un cristallo non l’hai veduto mai, né un vaso di Pandora né un Niagara di zaffiri. Ma c’era la tua immagine non ipotiposizzabile, per sua natura, anzi sfuggente, libera e sfaccettata fino all’estremo limite, pulviscolare. Ma il mio errore mi è caro, dilettissima alunna di un artefice che mai poté sbalzarti nelle sue medaglie. Era appena la Vita, qualche cosa che tutti supponiamo senza averne le prove, la vita di cui siamo testimoni noi tutti, non di parte, non di accusa, non di difesa ma che tu conosci anche soltanto con le dita quando sfiori un oggetto che ti dica io e te siamo uno. Adelheit ritorna anche nel Diario postumo (1996), in Agile messag� gero eccoti e in Vivremo mai nella nostra.
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CARLA FRACCI «Poi potrai rimettere le ali» 1972
Carla Fracci, celebre ballerina classica, con il poeta in una bella immagine scattata a Forte dei Marmi.
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La danzatrice stanca Torna a fiorir la rosa che pur dianzi languia… Dianzi? Vuol dir dapprima, poco fa. E quando mai può dirsi per stagioni che s’incastrano l’una nell’altra, amorfe? Ma si parlava della rifioritura d’una convalescente, di una guancia meno pallente ove non sia muffito l’aggettivo, del più vivido accendersi dell’occhio, anzi del guardo. È questo il solo fiore che rimane con qualche merto d’un tuo Dulcamara. A te bastano i piedi sulla bilancia per misurare i pochi milligrammi che i già defunti turni stagionali non seppero sottrarti. Poi potrai rimettere le ali non più nubecola celeste ma terrestre e non è detto che il cielo se ne accorga. Basta che uno stupisca che il tuo fiore si rincarna a meraviglia. Non è di tutti i giorni in questi nivei défilés di morte. L’identificazione di Carla Fracci, celebre ballerina classica del Teatro alla Scala, come ispiratrice e destinataria di questo componimento (La danzatrice stanca, tratto dal Diario del ’71 e del ’72) si trova in Forti. In Immagini di una vita il poeta appare con la danzatrice in un bellissimo ritratto fotografico. Sul “Corriere della Sera” del 5 maggio 1996 Carla Fracci ha ricordato il poeta: «Eugenio Montale riposa a poche centinaia di metri dalla nostra casa sulla via Volterrana, a sei chilometri da Firenze. Tutti i giorni che resto là, qualche volta per quattro volte al giorno, passo 101
per andare e venire dalla citt��������������������������������������� à�������������������������������������� in auto dalla strada vecchia del Galluzzo. Guido lentamente e il mio sguardo buca le sbarre del cancello del cimitero e il pensiero fa un percorso volontariamente obbligato fino a quella umile lapide. Un Nome e una Data. �������������������� È������������������� l����������������� ì���������������� che riposa Montale: “Eusebio”. È così che noi lo si chiamava con serena confidenza nelle tante sere estive passate insieme al Forte dei Marmi. […] In quelle lunghe sere estive, il poeta “Eusebio” si metteva a cantare: arie sperdute, lontane dal repertorio, la voce bellissima e la parola con il significato a tutto tondo, non accennato come capita ai cantanti, ma la parola compiuta, intera, definitiva: “Perché rossa di sangue è la tua spada?” Poi, quando la notte era ai bordi e gli ombrelloni erano ormai tutti chiusi, arrivava la leggendaria Gina, la sua nobilissima governante. Il poeta rinfilava i calzini e rimetteva le espadrillas blu scuro e ci si avviava, lui a braccetto di lei, tanti e tutti insieme a casa dei Papi Contini Bonaccossi, Villa Vittoria. Si cenava tutti insieme a un grande tavolo ovale. […] Il pensiero torna indietro nel tempo. Lui camminava ormai a passetti di dieci-quindici centimetri, strisciando veloci i piedi. Io ero andata in via Bigli a prenderlo per una passeggiatina. Lui scese allegro dall’ascensore con la nazionale accesa fra le labbra, la Gina me lo consegnò per mezz’ora. Ricordo bene, era una di quelle mattine festive di tarda primavera quando, come ora, Milano è deserta di pedoni, solo macchine in fuga. Cominciava allora l’ossessione weekend. Io gli detti il braccio orgogliosa di assomigliare alla Gina e ci avviammo per un breve giro. Lui a passetti, io a passettini di formica per non imbarazzarlo. Mi piace ricordarci così, come due antichi ospiti della Baggina in uscita domenicale […]».
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ANNA DEGLI UBERTI (ARLETTA) «Può dirsi che hai reso diverso il mondo?» 1975
Anna degli Uberti (Arletta-Annetta) al tempo del primo incontro con Montale, in una fotografia del 1920.
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Per un fiore reciso Spenta in tenera età può dirsi che hai reso diverso il mondo? Questa è per me certezza che non posso comunicare ad altri. Non si è mai certi di noi stessi che pure abbiamo occhi e mani per vederci, per toccarci. Una traccia invisibile non è per questo meno segnata? Te lo dissi un giorno e tu: è un fatto che non mi riguarda. Sono la capinera che dà un trillo e a volte lo ripete ma non si sa se è quella o un’altra. E non potresti farlo neanche te che hai orecchio. Arletta o Annetta, poi anche Capinera, fu chiamata dal poeta Anna degli Uberti (1904-1959), una giovane frequentata per alcune estati, dal 1919 al 1923, a Monterosso, poi visitata a Roma, dove abitava. Ispirò a Montale Il canneto rispunta, Vento e bandiere, Incontro, Delta negli Ossi di seppia, Il balcone, La casa dei doganieri, Stanze, Eastbourne nelle Occasioni, Due nel crepuscolo nella Bufera, Il lago di Annecy, Ancora ad Annecy, Annetta in Diario del ’71 e del ’72, Per un fiore reciso, La capinera non fu uccisa, Se al più si oppone il meno, Quella del faro in Quaderno di quattro anni, Il big bang dovette pro� durre, Quando la capinera, Cara agli dei, Una visita e Ah in Altri versi (Forti). Zampa, nell’Introduzione al Meridiano del 1984, rileva che: «Ven� to e bandiere, Delta, Incontro, I morti sono sotto il segno di Arletta. Le tre ultime poesie del ’26, accolte nella seconda edizione di Ossi di seppia, formano un gruppo cui vanno annessi Il balcone e Vecchi versi in apertura delle Occasioni. Se Arletta si identifica con Anna degli Uberti, rimarrebbe inesplicabile che Montale si rivolga sempre a lei come a una defunta: a proposito di La casa dei doganieri, altra lirica destinata ad Arletta, Montale dichiarò: “La casa dei doganieri 105
fu distrutta quando avevo sei anni. La fanciulla in questione non poté mai vederla; andò… verso la morte, ma io lo seppi molti anni dopo”. La spiegazione del poeta, contenuta in una lettera ad Alfonso Leone del 19 giugno 1971, sarebbe forse deliberatamente depistante? La casa dei doganieri fu davvero demolita nel 1902? Si trattava forse di un edificio che rientrava nella proprietà di famiglia? Villa Fegina, appartenente in parte al padre del poeta, fu cominciata a costruire nel 1900 e ultimata nel 1905. Per gli abitanti di Monterosso la casa dei doganieri �������������������������������������������������������� è������������������������������������������������������� oggi una torretta con questo nome, gi����������������� à���������������� propriet������� à������ demaniale, poi privata, a picco sul mare […]. Montale considerò Arletta “morta”, sottratta cio�������������������������������������������������� è������������������������������������������������� alla sua vita, per lui perduta, quando la ragazza con il 1924 smise di andare a Monterosso?» Virginia Galante Garrone, in una lettera inviata a Giusi Baldissone (Torino, 26 maggio 1996), così rievoca i suoi «lontani incontri a Monterosso con Marianna Montale, e con le adolescenti luminose Anna e Mimmina Degli Uberti. Io (allora) ero poco pi��������������� ù�������������� di una ragazzina (1920-1922…). E ricordo bene “il poeta” che appariva e scompariva come un fantasma muto… irraggiungibile, inaccessibile (per noi appena adolescenti!)».
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MARIA BORDIGONI «Poteva leggere il mio nome e il suo come ideogrammi» 1976
Eugenio con la sorella Marianna e Maria Bordigoni, «la donna barbuta».
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Quel che resta (se resta) la vecchia serva analfabeta e barbuta chissà dov’è sepolta poteva leggere il mio nome e il suo come ideogrammi forse non poteva riconoscersi neppure allo specchio ma non mi perdeva d’occhio della vita non sapendone nulla ne sapeva più di noi nella vita quello che si acquista da una parte si perde dall’altra chissà perché la ricordo più di tutto e di tutti se entrasse ora nella mia stanza avrebbe centotrent’anni e griderei di spavento. Maria Bordigoni fu la prima domestica di casa Montale. Così viene descritta in una delle prose autobiografiche di Farfalla di Dinard (pp. «������������������������������������������� Vecchia fin dalla nascita, analfabeta, cur48-49), La donna barbuta: �������������������������������������������� va e barbuta da sempre, ma tenace custode delle fortune degli M. prima ancora che il paterfamilias si fosse accasato diramando propaggini non indegne, Maria era stata fra i quindici e gli ottant’anni l’arbitra e la regolatrice della sua nuova casa. Ne aveva avuto anche una sua, s’intende; ma per andarci doveva attendere il soggiorno estivo, a Montecorvo, e poi fare a piedi circa dieci ore di strada. Per due o tre stagioni, nel corso dei primi anni, si era sobbarcata a quell’impresa, poi quando s’era accorta che l�������������������������������������� à������������������������������������� non la ricordavano pi��������������� ù�������������� o la consideravano come una foresta, un’intrusa, Maria s’era distaccata del tutto dalle catapecchie dei suoi lari. Aveva due case quasi sue, in città e in campagna, dei figli come suoi da accompagnare a scuola, dei figli ben spaziati nel tempo, dai due ai quindici anni, tali da promettere lunghe cure e assistenze, e poi un punto e daccapo pieno di consolanti promesse». 109
L’attribuzione, a questo «����������������������������������������� ������������������������������������������ mostro angelico e barbuto���������������� »��������������� , di caratteristiche femminili (confermate dalla biografia di Nascimbeni e dall’��� «�� amore di donne barbute» in Elegia di Pico Farnese) proietta la figura di Maria Bordigoni in una dinamica psicologica piuttosto complessa in Montanelle fantasie montaliane. Citiamo da Il male di scrivere: «��������� le alle donne mostruose, di quel certo tipo di mostruosità, vengono attribuite le stesse caratteristiche angeliche che alle donne attraenti, risalenti al tipo della madre, inoltre esse sono descritte attraverso lo stesso genere di elementi». Donne barbute e mostruose abbondano nelle prose di Farfalla di Dinard: fra le altre, i racconti I quadri in cantina e Honey hanno due domestiche come protagoniste.
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ANNALISA CIMA «Non fosti un semplice bagliore» 1976
Annalisa Cima, dedicataria delle poesie del Diario postumo.
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[Porterai con te l’ultima ventata] Porterai con te l’ultima ventata di poesia; poi una nube gonfia di presagi funesti oscurerà la luce che ci fu concessa. Non fosti un semplice bagliore, giungesti inaspettata, voce di salvazione. Un suono limpido emettono i cristalli quando il vento li sfiora, il chiarore li fa splendere come incandescenti arcobaleni che illuminano d’attorno. Intorno il mondo scolora. L’amicizia di Montale con Annalisa Cima risale al 1968, anno in cui la Cima pubblica presso Scheiwiller Eugenio Montale, Via Bigli, Milano, con un inedito del poeta, L’intellettuale. Nel 1969 riceve in dono due poesie a lei dedicate, Mattinata e La foce. «Era l’inizio di una serie di preziosi doni […]. Quando il “tesoro” tocc������������������������ ò����������������������� i sessantasei componimenti, Montale volle distribuirlo in undici buste: il segreto sarebbe stato conosciuto a poco a poco, dopo la sua morte, con scansione annuale, secondo l’ordine dei sigillati manipoli di versi. E così fu. Nel 1986, a cinque anni dalla scomparsa dell’artista, conforme alla sua volont������������������������������������������������������������� à������������������������������������������������������������ , la Fondazione Schlesinger (di cui Montale era stato presidente ad honorem) cominciò a pubblicare le prime sei liriche in una plaquette dal titolo Poesie inedite di Eugenio Montale» (A. Marchese, Introduzione a Diario postumo. 66 poesie e altre, Mondadori, Milano 1966, p. XV). La prima parte del Diario postumo è uscita nel 1991 a Milano da Mondadori, con trenta poesie caratterizzate dall’unica giovane interlocutrice; come nel testo 20 gennaio o 30 anni in cui l’anziano poeta scrive: La tua età m’impaura […] Anima viva, sai dare vita 113
a me che ignoro e brancolo in un tempo che vola come i tuoi trent’anni. Con l’ultima parte del Diario, uscita nel 1996, si chiude il testamento lasciato da Montale alla sua ultima musa: le poesie sono tutte comprese fra il 1969 e il 1979 e si intrecciano con quelle che il poeta compose e mandò a Gianfranco Contini e a Rosanna Bettarini, durante la stesura e l’organizzazione dell’edizione critica di tutte le sue poesie per l’editore Einaudi, L’opera in versi. «Con i due curatori d’allora l’autore non fece parola delle poesie lasciate in dono e serbate per dopo, come se, sul punto di chiudere il Libro e di consegnarsi alla storia delle patrie lettere sotto la lente dei filologi alla maniera di Petrarca e di Leopardi, avesse maliziosamente deciso di allungare il fil rouge della cronaca attraverso poetici messaggi dall’aldilà […]. Tutti i testi sono firmati “Eugenio Montale” o “E. Montale” o “Montale”, e tutti portano l’indicazione “ad Annalisa” o “ad Annalisa Cima”, che è molto più una nota di lascito che una dedica» (R. Bettarini, Apparato critico in Diario postumo, p. 89). Sull’amicizia con Montale cfr. A. Cima, Le occasioni del “Diario postumo”. Tredici anni di amicizia con Eugenio Montale, Ares, Milano 2012.
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Per la bibliografia complessiva degli studi su Montale: Bibliografia degli scritti su Eugenio Montale, a cura di F. Castellano e S. D’Andrea, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2012. Utili indicazioni e analisi sul tema si trovano nelle seguenti edizioni montaliane: L’opera in versi, a cura di G. Contini e R. Bettarini, Einaudi, Torino 1980. Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1984. Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, I-II, a cura di G. Zampa, ivi, 1996. Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, ivi, 1996 . Le occasioni, a cura di D. Isella, Einaudi, Torino 1996. Le occasioni, a cura di T. De Rogatis, Mondadori, Milano 2011, con un saggio di L. Blasucci e uno scritto di V. Sereni. Finisterre. Versi del 1940-42, a cura di D. Isella, Einaudi, Torino 1996. Ossi di seppia, a cura di P. Cataldi, F. D’Amely, Mondadori, Milano 2003, con un saggio di P.V. Mengaldo e uno scritto di S. Solmi. Lettere a Clizia, a cura di R. Bettarini, G. Manghetti e F. Zabagli, Mondadori, Milano 2006. Catalogo delle lettere di Eugenio Montale a Maria Luisa Spaziani: (19491964), a cura di G. Polimeni, Università di Pavia. Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei, Pavia 1999. Studi e testimonianze S. Agosti, Cinque analisi. Il testo della poesia, Feltrinelli, Milano 1982. Atti del Seminario sul “Diario postumo” di Eugenio Montale (Lugano, 2426 ottobre 1997), Libri Scheiwiller, Milano 1998. G. Baldissone, Il male di scrivere. L’inconscio e Montale, Einaudi, Torino 1979. Ead., Gli occhi della letteratura. Miti, figure, generi, Interlinea, Novara 1999. Ead., Il nome delle donne. Modelli letterari e metamorfosi storiche tra Lucre� zia, Beatrice e le muse di Montale, Franco Angeli, Milano 2005. B. Bazlen, Scritti, a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano 1984. G.P. Biasin, Il vento di Debussy. La poesia di Montale nella cultura del Novecento, Il Mulino, Bologna 1985. D. Bremer, Les noms dans l’oeuvre poétique de Montale, in Proceedings of the XXI International Congrss of Onomastic Sciences (Uppsala 19-20 August 2002), “Spräck-och folkminnesinstitutet”, (2005), I, Uppsala, pp. 358-379. A. Cima, Le occasioni del “Diario postumo”. Tredici anni di amicizia con Eugenio Montale, Ares, Milano 2012. G. Contini, Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Einaudi, Torino 1974.
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F. Contorbia, Eugenio Montale. Immagini di una vita, Mondadori, Milano 1996. Id., Una Donna Velata tra Lucia e Irma, in Lucia Rodocanachi: le carte, la vita, a cura di F. Contorbia, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2006, pp. 101-128. J. Cook, Irma Brandeis: origini di una musa, a cura di M. Sonzogni, Edizioni Ulivo, Balerna 2007. D’A.S. Avalle, Tre saggi su Montale, Einaudi, Torino 1970. P. De Caro, Journey to Irma, De Meo, Foggia 1999. Id., Invenzioni di ricordi. Vite in poesia di tre ispiratrici montaliane, Centro grafico francescano, Foggia 2007. G. Ficara, Montale sentimentale, Marsilio, Venezia 2012. M. Forti, Il nome di Clizia. Eugenio Montale: vita, opere, ispiratrici, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1985. Id., Nuovi saggi montaliani, Mursia, Milano 1990. A. Gareffi, Montale. La casa dei doganieri, Studium, Roma 2000. E. Gioanola, Montale. L’arte è la forma di vita di chi propriamente non vive, Jaca Book, Milano 2011. L. Greco, Montale commenta Montale, Pratiche, Parma 1980. M.A. Grignani, Dislocazioni. Epifanie e metamorfosi in Montale, Manni, Lecce 1998. S. Guarnieri, L’ultimo testimone. Storia di una società letteraria, Mondadori, Milano 1989. Lettere e poesie a Bianca e Francesco Messina 1923-1925, a cura di L. Barile, Scheiwiller, Milano 1995. G. Marcenaro, Una amica di Montale. Vita di Lucia Rodocanachi, Camunia, Milano 1991. Id., Eugenio Montale, Bruno Mondadori, Milano 1999. A. Marchese, Visiting Angel. Interpretazione semiologica della poesia di Montale, Sei, Torino 1977, ora in Id., Amico dell’invisibile. La perso� nalità e la poesia di Eugenio Montale, a cura di S. Verdino, Interlinea, Novara 2006. G. Nascimbeni, Montale. Biografia di un poeta, Longanesi, Milano 1986. C. Ott, Montale e la parola riflessa, Franco Angeli, Milano 2003. B. Porcelli, Arsenio, Arletta, Crisalide, Esterina e le metamorfosi dell’“Alcyone”, in Id., In principio o in fine il nome. Studi onomastici su Verga, Pirandello e altro Novecento, Giardini, Pisa 2005, pp. 166-181. L. Rebay, Montale, Clizia e l’America, in “Forum Italicum”, 16 (1982), 3. M.L. Spaziani, Montale e la Volpe. Ricordi di una lunga amicizia, Mondadori, Milano 2011. L. Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, Il Nuovo Melangolo, Genova 1998. F. Zambon, L’iride nel fango. Lezione di poesia, Pratiche, Parma 1994. P. Zoboli, Il recto e il verso del Libro poetico di Montale, in Il canto strozza� to. Poesia italiana del Novecento, Interlinea, Novara 20114, pp. 337-353.
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INDICE DEI NOMI
Adelheit pseud. di Adelaide Bellingardi 10, 93, 97, 98 Agosti, Stefano 18, 21n, 115 Alighieri, Dante 8, 67, 69 Annetta/Arletta pseud. di Anna degli Uberti 8, 9, 10, 36, 68, 103, 104, 105, 106 Arcamone, Maria Giovanna 22n Artemide 10 Avalle, D’Arco Silvio 18, 21n, 116
73, 74, 82, 87, 88 Clizia (ninfa) 67 Cognetti, Minna 78 Contini, Gianfranco 24, 45, 67, 68, 84, 114, 115 Contorbia, Franco 7, 24, 30, 63, 78, 96, 116 Cook, Jean 116 Corti, Maria 39 Croce, Franco 17
Baldissone, Giusi 21n, 22n, 24, 106, 115 Bàrberi Squarotti, Giorgio 18, 21n Barile, Angelo 45 Barile, Laura 7, 36, 68, 116 Barthes, Roland 19, 22n Bazlen, Bobi 44, 56, 57, 60, 62, 63, 115 Beatrice (Beatrice Portinari) 68 Bettarini, Rosanna 24, 67, 84, 114, 115 Bianchi, Guglielmo 46 Biasin, Gian Paolo 115 Blasucci Luigi 115 Blumenthal, Liuba 9, 10, 55, 57 Bordigoni, Maria 12, 107, 108, 109, 110 Brandeis, Irma v. Clizia Bremer, Donatella 22n, 115 Brown, Norman Oliver 22n
D’Andrea, Sofia 115 Dalla Palma, Sisto 18 D’Amely Floriana 115 David, Michel 16, 21n Debenedetti, Giacomo 17, 18, 21n De Camilli, Davide 22n De Caro, Paolo 54, 116 De Nerval, Gérard 20n De Rogatis Tiziana 115 Diana 27
Caillois, Roger 20n Calasso, Roberto 115 Capinera pseud. di Anna degli Uberti v. Annetta/Arletta Cassandra 13 Castellano, Francesca 115 Cataldi Pietro 115 Chiaromonte, Nicola 97 Cima, Annalisa 9, 16, 39, 111, 112, 113, 114, 115 Clerici Messina, Bianca 9, 30, 31, 36 Clizia pseud. di Irma Brandeis 8, 10, 16, 20, 39, 53, 64, 65, 66, 67, 68, 69,
Einaudi, Giulio 8 Fabiani, Giuseppe (abate) 49 Fachinelli, Elvio 19, 22n Ficara, Giorgio 116 Fiedler, Leslie 22n Foà, Luciano 57 Fornari, Bianca 22n Fornari, Franco 19, 22n Forti, Marco 7, 24, 39, 57, 68, 87, 97, 101, 105, 116 Fracci, Carla 99, 100, 101 Frankel Tolazzi, Gerti 9, 10, 40, 41, 42, 44, 45, 63 Freud, Sigmund 21n Gadda, Carlo Emilio 50 Galante Garrone, Virginia 106 Gareffi, Andrea 9, 21n, 116 Gioanola, Elio 18, 116 Giuda 96
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Goethe, Johann Wolfgang 10 Gramigna, Giuliano 19, 22n Greco, Lorenzo 116 Grignani, Maria Antonietta 39, 116 Guarnieri, Silvio 7, 11, 63, 78, 116 Guttuso, Renato 92 Hitler, Adolf 68 Isella, Dante 24, 39, 67, 68, 115 Kristeva, Julia 20n Lacan, Jacques 19, 22n Lavagetto, Mario 19, 22n Lawrence, David Herbert 49 Leone, Alfonso 106 Leopardi, Giacomo 114 Lévi-Strauss, Claude 19 Leucotoe 67 Loria, Arturo 96 Manghetti, Gloria 115 Marangoni, Matteo 14, 82 Marcenaro, Giuseppe 50, 88, 116 Marchese, Angelo 113, 116 Markus, Dora 9, 10, 45, 57, 59, 60, 62, 63 Mauron, Charles 17, 19, 21n, 22n Mengaldo, Pier Vincenzo 115 Messina, Francesco 30, 32, 36 Montale, Alberto 72 Montale, Marianna 14, 72, 75, 76, 77, 78, 106, 108 Montale, Salvatore 72 Montale, Ugo 72 Morpurgo Rodocanachi, Lucia 47, 48, 50 Mosca pseud. di Drusilla Tanzi 9, 14, 15, 16, 19, 40, 68, 78, 79, 80, 82, 83 Musatti, Cesare 21n Mussayassul, Halil-beg 97 Mussolini, Benito 68 Nagel, Karl von 97 Nagel, Melanie von (Mushka) 93, 96, 97 Nascimbeni, Giulio 24, 39, 45, 73, 77, 87, 110, 116 Nicoli, Paola 10, 36, 39, 54 Orlando, Francesco 19, 22n
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Ossola, Carlo 20 Ott, Christine 116 Ovidio (Publio Ovidio Nasone) 67 Pafnuzio 87 Papi, Laura 93, 94, 96 Patti, Adelina 73 Pelella Melega, Marisa 21n Petrarca, Francesco 114 Polimeni, Giuseppe 88, 115 Porcelli, Bruno 22n, 116 Quirini, Giovanni 67, 69 Rebay, Luciano 63, 67, 116 Ricci, Giuseppina 71, 73, Rossi, Esterina 7, 10, 25, 26, 27, 29, 30 Sbarbaro, Camillo 50 Segre, Cesare 39 Sereni Vittorio 115 Shakespeare, William 50 Solari, Maria Rosa 39, 51, 52, 54 Solmi, Sergio 17, 21n, 115 Sonzogni, Marco 116 Spagnoletti, Giacinto 7, 19, 21n, 22n Spaziani, Maria Luisa v. Volpe Stamaty Rodocanachi, Paolo 50 Starobinski, Jean 20n Steinbeck, John 49 Surdich, Luigi 116 Svevo, Italo 40 Tanzi, Drusilla v. Mosca Tecchi, Bonaventura 82 Terrusi, Leonardo 22n Thais 87 Tiossi, Gina 89, 90, 91, 102 Tolazzi, Carlo 63 Uberti, Anna degli v. Annetta/Arletta Uberti, Mimmina degli 106 Vittorini, Elio 49, 50 Volpe pseud. di Maria Luisa Spaziani 8, 10, 16, 85, 86, 87, 88, 116 Zabagli, Franco 115 Zambon, Francesco 8, 18, 21n, 116 Zampa, Giorgio 21n, 67, 96, 97, 105, 115 Zoboli, Paolo 88, 116
Giusi Baldissone, docente di letteratura italiana all’Università del Piemonte Orientale, ha pubblicato volumi monografici su: Montale (Il male di scrivere. L’inconscio e Montale, Einaudi, Torino 1979), Marinetti (Fi� lippo Tommaso Marinetti, Mursia, Milano 2009²), la novella come genere specifico (Le voci della novella. Storia di una scrittura da ascolto, Olshcki, Firenze 1992), la visività nei generi letterari (Gli occhi della letteratura. Miti, figure, generi, Interlinea, Novara 1999), i nomi femminili dalla storia alla letteratura (Il nome delle donne. Modelli letterari e metamorfosi sto� riche tra Lucrezia, Beatrice e le muse di Montale, Franco Angeli, Milano 2005; Benedetta Beatrice. Nomi femminili e destini letterari, ivi, 2008), ancora Marinetti alla luce di nuove ricerche (Filippo Tommaso Marinetti, Mondadori Education-Le Monnier Università, Milano-Firenze 2012). Ha curato edizioni di Gozzano (Utet), De Amicis (“Meridiani” e “Oscar” Mondadori), Barbieri (Interlinea). Ha pubblicato due volumi di versi: Cartoline e Le donne del coro (Interlinea, Novara 2008 e 2011).
forse / ti salva un amuleto che tu tieni / vicino alla matita delle labbra, / al piumino, alla lima: un topo bianco, / d’avorio; e così esisti!