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CAHIERS DE LA REVUE BIBLIQUE
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LA PURITÀ E IL CUORE DELL’UOMO Indagini lessicali e percorsi teologici attorno a καθαρός
a cura di Marco SETTEMBRINI
PEETERS
LA PURITÀ E IL CUORE DELL’UOMO
CAHIERS DE LA REVUE BIBLIQUE
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LA PURITÀ E IL CUORE DELL’UOMO Indagini lessicali e percorsi teologici attorno a καθαρός
a cura di Marco SETTEMBRINI
PEETERS LEUVEN – PARIS – BRISTOL, CT
2019
A Catalogue record for this book is available from the Library of Congress. © 2019 – Peeters, Bondgenotenlaan 153, B-3000 Leuven. ISBN 978-90-429-3957-8 eISBN 978-90-429-3958-5 D/2019/0602/60 No part of this book may be reproduced in any form or by any electronic or mechanical means, including information storage or retrieval devices or systems, without prior written permission from the publisher, except the quotation of brief passages for review purposes.
Introduzione Marco SETTEMBRINI Il presente volume raccoglie gli studi promossi da un progetto di ricerca del Dipartimento di Storia della teologia della FacoltàTeologicadell’Emilia-Romagna di Bologna. L’aggettivo καθαρός, assieme ai termini corradicali καθαίρω, καθαρίζω, κάθαρσις, è indagato nelle sue differenti valenze all’interno della Bibbia greca e di alcuni scritti ad essa vicini per cogliere in particolare i cardini dell’insegnamento ebraico-cristiano concernente la purità ovvero, come si vedrà, la possibilità dell’uomo di avvicinarsi a Dio per godere dell’intensità della vita che da lui promana. Per chi ha condotto le ricerche qui offerte è motivo di vera soddisfazione avere incontrato l’incoraggiamento e l’attenzione di Paolo Garuti, che ha voluto accogliere in questa collana un’opera che, auspichiamo, rappresenti un utile contributo per lo studio del testo biblico approfondito sia nel suo contesto storico-culturale sia nella sua recezione nelle comunità di lingua greca. A lui, dunque, nonché all’Editore, i nostri sensi di stima sincera e di gratitudine. I diversi articoli, nel loro insieme, desiderano concorrere alle ricerche promosse dalla équipe, guidata da Eberhard Bons (Université de Strasbourg) e Jan Joosten (Oxford University), responsabile della realizzazione dello HistoricalandTheologicalLexiconoftheSeptuagint, dizionario in più volumi, in corso di pubblicazione presso Mohr Siebeck. Come in ciascuna delle voci lì presentate il singolo lemma è considerato all’interno della letteratura greca, nei Settanta, nella letteratura giudaica di lingua greca, nel Nuovo Testamento e nei primi autori cristiani, così qui si è scelto di richiedere a specialisti dei rispettivi ambiti indagini che – attraverso le numerose occorrenze nei distinti corpora dei vocaboli selezionati – mettessero in luce i campi semantici interessati e i testi di maggior rilievo, appunto leggendo la letteratura greca, i Settanta, gli scritti di Filone Alessandrino, Giuseppe Flavio, il Nuovo Testamento, i cosiddetti Padri apostolici, l’opera ADiogneto (di incerta datazione), alcuni grandi teologi del II-V secolo della vitalissima Alessandria d’Egitto (Clemente, Origene, Cirillo), il monaco Massimo il Confessore, del VI-VII secolo, di origine palestinese,
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MARCO SETTEMBRINI
appassionato interprete delle Scritture e brillante custode degli insegnamenti di Evagrio e dei Cappadoci. In merito alla purità in ambito giudaico una recente panoramica delle principali pubblicazioni è offerta da Wil Rogan (2018). Perlustrando le piste di indagine maggiormente battute, questi si sofferma sugli apporti di chi investiga il sistema simbolico espresso mediante il linguaggio di purità (Mary Douglas, Jonathan Klawans, Jacob Milgrom in particolare) e le pertinenti puntalizzazioni di chi propone un approccio psico-biologico, attento a rinvenire nelle emozioni della paura, del disgusto e nel senso di giustizia ciò che guida alla codifica delle leggi di purità (Thomas Kazen). Rogan richiama poi la classificazione della purità, ora principalmente orientata al culto, ora inerente alla morale, ora discriminante per le geneaologie. Gli studi da lui citati rintracciano nelle concezioni di purità forme di protezione messe in atto nei confronti di ciò che nel mondo biologico o nella sfera dei rapporti interpersonali, per la sua energia non facilmente arginabile, può incrinare la tenuta della convivenza sociale (come la sessualità, la malattia, la morte, il peccato). La purità si dischiude in tal modo a molteplici valenze metaforiche in base alle quali si definisce ciò che è sacro e ciò che è profano, ciò con cui si può venire a contatto e ciò da cui occorre tenersi lontano, si precisa il rapporto con il tempio e, rispetto a questo, si mira a consolidare l’identità di un popolo dinanzi a Dio (Feder 2013, Frevel – Nihan 2013, Harrington 2010, Hayes 2002, Latz – Ermakov 2014, Lévi-Strauss 1962, Meshel 2008, Neusner 1973, Olyan 2000, Rosenblum 2016, Schreiner 2016, Smith 1987). Nel percorso qui offerto Pietro Rosa richiama gli ambiti in cui si rinvengono i derivati di καθαρός nella letteratura greca, siano essi impiegati in senso proprio o figurato, in ambito morale e religioso. Elencando diverse pratiche di purificazione che con valenza igienica e sociale demarcano simbolicamente il passaggio da una sfera a un’altra (dalla guerra alla pace, dal profano al sacro, dalla colpa alla riabilitazione), non se ne tralascia la portata estetica. Soffermandosi poi sulla figura di Oreste, assassino della madre, si delinea il prototipo del purificato. Venendo a Melampo, indovino-purificatore, si sottolinea l’innesto dell’arte profetica nella pratica purificatrice. Dopo aver apprezzato il valore della disciplina, in ambito pitagorico, per liberare l’anima attraverso lo studio, il silenzio, l’esame di coscienza e l’astinenza dalla carne, si giunge a considerare il valore della medicina per la cura della purezza del corpo e quello della musica per l’anima.
Introduzione
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Contestualizzata la partecipazione ai culti misterici, via di scampo dalle malattie e dalle pene più grandi, se ne sottolinea la funzione sociale di tipo purificatorio specie in senso psicologico. Ripresentata dunque la teoria aristotelica in merito alla κάθαρσις musicale e tragica, utile per il raggiungimento del mesontra eccesso e difetto, si offre una preziosa indagine nel lessico medico, da Ippocrate a Galeno. Marco Settembrini, curatore del volume, si dedica ai Settanta. Indaga gli usi propri e metaforici del linguaggio della purità, elenca i termini ebraici tradotti con i derivati di καθαρός, ne osserva i contesti d’uso, per soffermarsi a osservare come il linguaggio di purificazione serva a esprimere l’esperienza della salvezza, quale avvicinamento a Colui che è Santo, possibile solo grazie all’accoglienza della parola divina trasmessa per bocca di Mosè, dei profeti e dei saggi. Ripercorrendo pagine scelte di Filone, Lorenzo Flori si muove tra l’esegesi e la filosofia dell’Alessandrino. Mostra i passi in cui il linguaggio di purità è utilizzato per esplorare gli spazi del mondo creati per mezzo del Logos, per parlare del Cielo, dimora di Dio, degli astri, degli angeli, delle creature che abitano l’aria, nonché dell’anima del sapiente, imitazione del cielo, da coltivare come un campo e da esercitare nell’acquisizione di una «mentalità da straniero». La purificazione è pertanto rintracciata nella pratica delle virtù, nel discernimento delle cose veramente necessarie, nell’impegno sociale e financo «purificando la stessa purificazione» dell’anima, ossia rimettendo a Dio la prerogativa di rendere mondi. L’uomo, alla ricerca di Dio con il proprio intelletto, può così giungere alla moderazione dei sensi custodendo il pentimento per le proprie inadempienze. Negli scritti di Giuseppe Flavio Lucio Troiani coglie come il discorso della purità porti l’attenzione su un’appartenenza etnica libera da forme di idolatrie ma pure sulla possibilità di una autentica convivenza sociale. Chi invero è puro dà prova di essere immune da passioni irrazionali e pregiudiziali, rifiuta ogni forma di dogmatismo fanatico che porta a ostilità. Paolo Mascilongo, percorrendo il Nuovo Testamento, riscontra la presenza della terminologia investigata in ambito rituale e nel contesto dei comportamenti umani. Essa contribuisce a declinare gli efetti della salvezza ottenuta dal Cristo, latore di una forza capace di vincere e rendere inoffensiva ogni impurità. Superando concezioni difensive, tese a proteggere il fedele dalle occasioni di impurità, Gesù rinsalda infatti in modo duraturo il rapporto con Dio, segno dell’avvento del Regno.
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MARCO SETTEMBRINI
Sincero Mantelli attraversa la Didaché, la lettera di Clemente ai Corinzi, Ignazio di Antiochia, l’Epistola di Barnaba, e il Pastore di Erma. Accanto a frequenti citazioni veterotestamentarie osserva un nuovo impiego concernente i sacramenti della chiesa nascente (il sacrificio eucaristico, il battesimo) e la vita cristiana che vi si alimenta, da custodire nel perdono reciproco, nella conversione dal peccato, nella comunione con l’altare ovvero nella comunione con i capi delle comunità, nel desiderio di divenire personalmente «pane puro», tendendo alla santificazione che Dio compirà nell’eschaton. Nel discorso protrettico indirizzato a Diogneto, Fabio Ruggiero sottolinea l’invito ad abbandonare vecchi stereotipi e luoghi comuni per accogliere l’istruzione cristiana. Sarà infatti in grado di comprendere rettamente, «in maniera pura», chi si sarà liberato da irragionevolezza e inganno (si noterà in questo una peculiare consonanza con l’argomentazione flaviana). Matteo Monfrinotti ripercorre con il lettore passi di grande bellezza in cui Clemente d’Alessandria, con categorie di marca platonica, indica nella purificazione un elemento cruciale della vita cristiana. L’accoglienza del Vangelo immette invero in un cammino di perfezione il cui termine è la contemplazione del volto di Dio e l’assimilazione all’Essere, a immagine e somiglianza del quale si è stati creati. In Origene Antonio Cacciari vede in καθαρός e correlati una terminologia di grande rilievo, impiegata in riferimento sia alla cultura religiosa giudaica, sia a quella ellenistico-romana. Il ControCelso, su cui si sofferma, si dischiude come un grande laboratorio in cui idee e concetti religiosi consolidati si mescolano ad altri ancora in via di definizione. Da un lato si riprendono le parole dei testi legali dell’Antico Testamento, dall’altro i termini tipici delle religioni misteriche. Di Cirillo Pietro Rosa richiama sia testi esegetici della Bibbia sia scritti più specificamente dottrinali e pastorali. Così facendo riproduce i luoghi in cui l’antico padre ha visto prefigurazioni dell’efficacia del battesimo e della potenza purificatrice di Cristo, ha polemizzato con le pratiche pagane, ha esortato alla pratica del «buon digiuno» che genera la virtù. Raffaele Coppi, infine, si cimenta in una acuta analisi delle pagine in cui Massimo il Confessore si sofferma su alcuni detti neotestamentari (quali Mt 5,8; 1 Tm 1,3 e 1 Gv 6,16). In lui la purificazione mira all’eliminazione del peccato e trae forza dal battesimo, coinvolge la dimensione corporea e tende a una meta che supera il presente. Attraverso le tre tappe della πρᾶξις, della θεωρία (proprie di
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ambiti complementari e reciproci) e della θεολογία, si deve giungere alla divinizzazione dell’uomo, possibile a motivo della incarnazione del Logos. Oggetto della purificazione è il νοῦς, che deve pervenire alla preghiera pura, estatica, culmine del cammino di avvicinamento a Dio. La mente deve essere liberata da ciò che è sensibile, eppure l’uomo deve trovare un rapporto corretto con il mondo, grazie a una vita virtuosa al cui culmine sta la carità. La disposizione interiore purificata giunge in tal modo a orientare le decisioni in modo conforme al progetto divino, all’interno di un’esperienza immediata di Dio.
Osservazioni su καθαρός, καθαίρω, κάθαρσις, καθαρίζω nella letteratura greca Pietro ROSA 1. ETIMOLOGIA E
PARENTELE
Di καθαρός, «pulito», «puro», manca un’etimologia accettabile1. Si è supposto un antico neutro *κάθαρ o *κόθαρ e qualcuno ha avanzato l’ipotesi di un’origine pelasgica o pre-greca, o di un prestito semitico, per il quale si è suggerito il confronto con una radice dell’àmbito semantico della purificazione, cf. la forma qatārucon significato «räuchern»2. Resta inspiegata per gli studiosi anche l’oscillazione tra l’attico καθαρός e le forme dialettali del dorico κοθαρός3 e dell’eolico κόθαρος (cf. Alceo, fr. 38a,3 V.). A fronte di tale oscurità etimologica, la radice è invece estremamente produttiva e ha dato vita a: 1) verbi denominativi come καθαίρω, «pulisco», «purifico», «purgo», utilizzato anche con numerosi prefissi (ἀνα-, ἀπο-, δια, ἐκ-, ἐπι-, περι-), già da Omero e nel dialetto ionico-attico, con valore tecnico nella letteratura medica, καθαρίζω, «pulisco», «purifico», attestato nei Settanta, Nuovo Testamento e papiri, καθαρεύω (Platone) / καθαριεύω (letteratura medica), «sono pulito, puro», καθαριόομαι, «sono purificato», «guarisco» (Settanta); 2) nomina agentis come καθαρτής, «purificatore» (Ippocrate, testi ionico-attici), καθαρτικός, «purificatorio» (Platone, Aristotele), «purgativo», «purgante» (Ippocrate), καθάρσιος, «purificatore» (in senso religioso), «lustrale» (Erodoto, tragici), καθάρσιον, «offerta, sacrificio espiatorio» (Erodoto, tragici) / «purga» (letteratura medica), καθαρτήριον, «purgativo», «purgante» (Ippocrate, Galeno); con α privativo: ἀκάθαρτος, «sporco», «impuro» (Ippocrate, Platone), ἀκαθαρσία, «sporcizia», «impurità», «depravazione» (Ippocrate, Platone, Demostene); 3) nominaactionis, come κάθαρσις, anche con 1 2 3
H. FRISK 1954, 752; P. CHANTRAINE 1970, 479. W. BURKERT 1975, 77. E. SCHWYZER 19593, 260.
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prefissi ἀνα- e δια-, «purificazione», «evacuazione», καθαρμός, «purificazione», soprattutto in senso religioso (Erodoto, tragici), κάθαρμα, «purificazione», ma anche il risultato che ne deriva, quindi, soprattutto al plurale, «immondizia», «rifiuto» (ionico-attico), καθαρισμός, «purificazione» (Settanta, Nuovo Testamento, papiri). Forme tarde sono καθαρτήρ = καθαρτής (Plutarco) e καθαρτήριος (Dionigi di Alessandria). Ancora imparentati con καθαρός sono l’aggettivo καθάριος, «puro», «corretto», «di buona qualità», l’avverbio καθαρείως, «in modo puro», «chiaramente», il nomenqualitatisκαθαρότης, «purezza», «proprietà», «integrità» e il diminutivo comico καθάρυλλος (Platone comico fr. 92,2 K.-A.), detto di un pane. Permangono anche nel greco moderno termini come καθαρίζω, καθάρισμα, «pulire», «pulizia», καθαριστήριο, «tintoria», mentre καθαρεύουσα individua la lingua purista. 2. SIGNIFICATI PROPRI E
METAFORICI
Tanto καθαρός quanto καθαίρω sono impiegati comunemente in senso proprio e figurato. Si utilizzano in relazione ad oggetti puliti o da pulire: abiti (Omero, OdisseaVI 61), sostanze come l’acqua (Erodoto, Storie IV 53) o la luce (Pindaro, Pitiche 6,14), suppellettili (Omero, OdisseaXX 152; XXII 439), parti del corpo (Omero, OdisseaXVIII 192; XXIV 44), prodotti e materiali non contaminati come il grano (POxy.1124,11, I sec. d.C.) o i metalli (Erodoto, Storie IV 166). Frequente è l’espressione ἐν καθαρῷ (τόπῳ), che individua un luogo libero da oggetti, una via sgombra (Sofocle, Edipore1575), un fiume il cui corso non incontra ostacoli (Erodoto, Storie I 132), come anche la sequenza καθαρóς ἀπό + genitivo, con cui ci si riferisce ad esempio a luoghi liberi da piante infestanti (PTeb.105,59, II sec. a.C.) o a documenti privi di errori (POxy.1277,13, III sec. d.C.), mentre il verbo ricorre talora nel significato di «ripulire» i residui di quanto è stato rimosso con l’azione purificatrice: λύματα πάντα (Omero, Iliade XIV 171), ῥύπα πάντα (Omero, Odissea VI 93). In àmbito medico l’aggettivo individua spesso fluidi e sostanze corporei, che all’esame clinico risultano privi di scorie, come οὖρον (Ippocrate, EpidemiaeI3) o διαχώρημα (Ippocrate, CoacaePraenotiones640), mentre il verbo è spesso impiegato per individuare la pulizia di ferite (Ippocrate, De ulceribus 6) e l’evacuazione attraverso purganti o emetici: καθαίρειν κάτω ἢ ἄνω (Ippocrate, DemorbismulierumI64; Epidemiae I 15), ma anche l’azione prodotta dal flusso mestruale
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(Ippocrate, Superfoetatione33) o la pulizia del corpo femminile post partum(Ippocrate, DemorbismulierumI78). Assai vasta è la gamma di impieghi metaforici, soprattutto nell’àmbito morale e religioso: in tal senso l’aggettivo può indicare una morte «pura», ossia onorevole (Omero, Odissea XXII 462), mani pulite, libere da profanazione (Eschilo, Eumenidi 313), supplici che, dopo essersi macchiati di qualche colpa, siano poi stati purificati (Eschilo, Eumenidi 474), oggetti e luoghi puri o purificati, come altari (Eschilo Supplici654), vittime (Euripide, IfigeniainTauride1163), case (Euripide Ifigenia in Tauride 1231), cibi (Erodoto, Storie II 37). Il verbo è di uso comune nel senso di «purificare» qualche oggetto, ad esempio attraverso la fumigazione con lo zolfo (Omero, Iliade XIV 171), oppure una persona che si sia macchiata di un delitto di sangue (Erodoto, Storie I 44). 3. PURIFICAZIONI SACRE E
PROFANE
Secondo la classificazione proposta da Hoessly4 nella civiltà greca arcaica, di cui abbiamo riflessi nei poemi omerici, è possibile individuare occasioni di purificazione sacre e profane. Queste ultime assumono a suo parere una doppia valenza, igienica e sociale, e si manifestano ad esempio nei confronti di un ospite, come quando Nausicaa invita le sue ancelle a nutrire e lavare Odisseo giunto naufrago sull’isola dei Feaci (OdisseaVI 206-210), oppure dopo una battaglia (ad esempio Achille si ripulisce dal sangue dei nemici uccisi in IliadeXXIII 41), nel cui caso l’azione di lavarsi segna una netta, simbolica distinzione tra la sfera della guerra e quella delle attività pacifiche, o, ancora, prima di un pasto, una scena tipica che dimostra come il banchetto risulti in sé, per gli antichi Greci, un’occasione cerimoniale5, mentre in qualche caso la pulizia ha luogo per ragioni puramente estetiche, si veda per tutte la scena in cui Era si lava e si profuma per sedurre Zeus (IliadeXIV 159-189). La purificazione in àmbito religioso sembra invece collocarsi in una posizione intermedia tra la sfera profana e quella sacra, costituendo in sostanza una via di passaggio dall’una 4 F. HOESSLY 2001, 5. Lo studio mira a definire con esattezza il concetto di catarsi in Aristotele muovendo dai due àmbiti a cui il filosofo attinge: i culti religiosi e la medicina ippocratica. Si articola dunque in tre parti, rispettivamente intitolate Reinigung beiHomer (15-96), Kultish-rituelleReinigungvonKrankheit(97-244), κάθαρσιςim CorpusHippocraticum (245-314). 5 R. PARKER 1983, 20-21.
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all’altra6, a partire dalla sua forma più semplice, che consiste nel lavaggio delle mani prima di compiere offerte e sacrifici, per arrivare poi ai bagni e ad indossare abiti nuovi e puliti (così Penelope, prima di fare un’offerta ad Atena in Odissea IV 758-761), tutti gesti che contribuiscono alla preparazione di un atto di culto. Anche persone che prendono parte ad un’azione rituale o oggetti utilizzati nel suo contesto possono essere purificati: Achille purifica con lo zolfo e poi lava in acqua corrente una coppa utilizzata per libare a Zeus (IliadeXVI 225-230). Particolare rilievo assume nel mondo greco la purificazione da qualche contaminazione (μίασμα), che non si può rimuovere come fosse una semplice sporcizia, ma richiede un processo particolare e che diviene effettiva dopo un certo periodo di tempo, in quanto non interessa solamente l’àmbito fisico, ma anche quello metafisico, rientrando nella più generale convinzione, attestata in tutta l’antichità fin dai poemi omerici, per cui le malattie provengono dalla divinità come punizione di una colpa7. In tal senso la contaminazione si configura come un atto sacrilego, ad esempio il matricidio di Clitennestra commesso da Oreste, per cui l’uccisore viene perseguitato dalle Erinni, costretto ad andare in esilio e privato di contatti sociali fino al momento della sua purificazione. Questo tipo di purificazione è sicuramente attestato in età post-omerica, mentre gli studiosi sono divisi sulla possibilità di individuarne la presenza anche in Omero, dove in effetti un rituale di purificazione di sangue con sangue non sembra presente. In Omero sono invece sicuramente attestate forme di purificazione da malattie traumatiche e non traumatiche: indagando le figure di Podalirio e Macaone, i due figli di Asclepio incaricati di curare gli Achei feriti sotto le mura di Troia, gli studiosi hanno osservato come essi, prima di ripulire una ferita, utilizzino incantesimi e purificazioni, in modo tale che appare difficile capire se distinguano chiaramente tra intervento sanitario e purificazione rituale, lasciando trasparire la possibilità che tali pratiche riflettano influssi sciamanici8. Appare interessante l’osservazione di Hoessly9 per cui mentre l’Iliaderiflette nei due figli di Apollo figure specialistiche in malattie R. PARKER 1983, 20-21; 31. Cf. I. MAZZINI 1998, 160, secondo cui «la convinzione che le malattie provengano dalla divinità, come punizione di un peccato, risulta documentata in tutta l’antichità greca e romana, fin dai poemi omerici, sia nella letteratura pagana, sia in quella cristiana, sia in quella tecnico-medica (in questa in quanto viene combattuta), sia in quella d’arte, sia nella tradizione mitologica, sia nei documenti epigrafici». 8 Cf. H. LLOYD-JONES 1983, 72. 9 F. HOESSLY 2001, 86. 6
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traumatiche (Macaone) e interne (Podalirio), nell’Odissea ci sono vicerversa riferimenti soprattutto a medici che si muovono di gente in gente, «guaritori di mali» (ἰητῆρα κακῶν), che sono posti sullo stesso piano degli indovini girovaghi (μάντεις, Odissea XVII 384), con un accostamento che sarà oggetto di una delle più importanti concezioni polemiche contenute nel CorpusHippocraticum(cf. infra § 9). I poemi omerici presentano tuttavia anche esempi di purificazione per malattie non traumatiche, a cominciare dalla νοῦσος κακή di IliadeI 10, la pestilenza che devasta il campo degli Achei, generata dall’offesa subita dal sacerdote Crise ad opera di Agamennone, la cui purificazione richiede la restituzione di Criseide al padre e un’ecatombre riparatrice ad Apollo. Le modalità con cui si praticava la purificazione potevano per altro essere molteplici: spesso tali cerimonie prevedevano un movimento circolare10 e seguivano la legge magica della similarità, per cui similiasimilibuscurantur: l’omicidio doveva in tal senso essere purificato col sangue e così via. Il materiale purificatorio, dotato di grande potere contagioso, doveva essere nascosto o sotterrato o affidato a elementi, come il mare, che avevano potere immunizzante11. 4. PURIFICATI E
PURIFICATORI MITICI:
ORESTE E MELAMPO
Oreste, come già visto, è nel mito greco il prototipo del purificato: secondo il racconto eschileo egli è impuro, in quanto assassino della madre, e ha le mani macchiate di sangue, per cui viene perseguitato dalle Erinni, che lo spingono alla follia. Deve abbandonare la sua terra e cercare come esule un protettore che ne purifichi la contaminazione: fino ad allora è costretto a restare muto e a non avere alcun contatto sociale. Per questo, dopo il matricidio commesso a Micene, si reca ad Atene, dove si pone sotto la protezione di Atena, grazie alla quale viene assolto dall’Areopago. La purificazione avviene nel suo caso, almeno secondo la variante attica del mito seguita da Eschilo, 10 Cf. F. PFISTER 1935, 149, che elenca una serie di vocaboli e verbi collegati al concetto di purificazione, caratterizzati dalla presenza del prefisso περι- a sottolineare il fatto che «der Umgang und die Umwandlung bei der Katharsis eine so grosse Rolle spielt». Tra essi περικαθαίρω, περικαθαρτής, περικάθαρμα, περιαγνίζω, περιρραίνω, περικαπνίζω, περιμάσσω. 11 G. LANATA 1967, 45-46. La studiosa rileva come questa sorta di «relegazione nell’inaccessibile e nell’indeterminato del materiale terapeutico» sia prescritta in ogni rituale magico: «l’incauto che toccasse il chiodo che ha servito a curare il mal di denti ne sarebbe immediatamente colpito egli stesso» (46).
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PIETRO ROSA
attraverso il sacrificio di un porco (χοιρόκτονος, cf. Eumenidi283), il cui sangue deve essere versato su di lui in modo da lavare via la contaminazione. Si deve tuttaria notare che per un delitto di sangue un semplice sacrificio non è sufficiente a cancellare la colpa commessa, liberando Oreste dalla persecuzione delle Erinni: deve intervenire anche un secondo livello di purificazione, di natura giuridica. Melampo rappresenta invece, nel mito, il modello dell’indovino-purificatore (καθαρτής): da bambino si era addormentato sotto un albero e alcuni piccoli serpenti, da lui trovati e nutriti, gli avevano leccato le orecchie per cui, da quel momento, egli era stato in grado di comprendere il linguaggio di uccelli e di altri piccoli animali, nonché di prevedere il futuro. Le sue virtù di guaritore sono legate invece ad una visita ad Argo, dove aveva risanato le Pretidi dal pazzo furore con cui le aveva colpite Era, adirata perché si erano ritenute migliori di lei, o Dioniso, di cui avevano disprezzato il culto12. Melampo sposa poi una di loro, Ifianassa. In lui si può di nuovo apprezzare come nel mondo greco arcaico le figure di indovino e di guaritore coincidono in una stessa persona, cf. Apollodoro II 2: «era indovino e aveva trovato per primo la cura per mezzo di farmaci e purificazioni» (μάντις ὢν καὶ τὴν διὰ φαρμάκων καὶ καθαρμῶν θεραπείαν πρῶτος εὑρηκώς). Nelle differenti versioni del mito di Melampo la purificazione dei contaminati avviene attraverso l’esercizio dell’arte profetica (Esiodo, Bacchilide, Ferecide), per mezzo di una catarsi dionisiaca e il ricorso al sangue (Apollodoro) o anche (Teofrasto) con la somministrazione di purganti come l’elleboro nero (ἑλλέβορος μέλας). L’elleboro (bianco o nero) era utilizzato come farmaco dalla medicina ippocratica in una grande quantità di malattie, tra cui quelle mentali. Questo conferma i punti di contatto tra purificazione rituale e purificazione medica, pratiche a tal punto vicine, da offrire spesso il destro a raffigurazioni satiriche in contesti comici. L’elleboro è ad esempio in più occasioni citato dai poeti comici greci e latini quale cura per personaggi considerati folli, come nelle Vespedi Aristofane, dove il servo Xantia, ad un certo punto, suggerisce al padrone Filocleone di bere l’elleboro (v. 1489), o in un noto frammento di Difilo (125 K.-A.), che ridicolizza Melampo guaritore delle Pretidi e le sue pratiche di purificazione.
12 Su Melampo e la vicenda della purificazione delle Pretidi cf. in particolare G. MARENGHI 1960.
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5. MEDICI-INDOVINI E PURIFICATORI IN ETÀ ARCAICA E
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CLASSICA
Figure di intersezione tra l’esercizio di arti divinatorie e la medicina antica appaiono in età arcaica i cosiddetti ἰατρομάντεις. Nelle Supplici di Eschilo, il re Pelasgo, riferendo sulle origini della regione Apia, compresa nel territorio del suo regno, afferma che essa, da tempo antico, era così denominata da Apis, un uomo «esperto di medicina» (φωτὸς ἰατροῦ, v. 261), medico-indovino figlio di Apollo (ἰατρόμαντις παῖς Ἀπόλλωνος, v. 262). Questi era stato in grado di purificare (ἐκκαθαίρειν) quel territorio da terribili mostri, generati dalla terra stessa, infetta per il sangue di delitti antichi, attraverso «efficaci cure liberatrici» (ἄκη τομαῖα καὶ λυτήρια, v. 268), ottenute con l’estrazione del succo di erbe e radici, tipica della magia e della medicina arcaiche. Come Apis sono molteplici le figure leggendarie dell’età arcaica che sembrano influenzate dai contatti che i Greci avevano avuto con popolazioni e civiltà del nord di tipo sciamanico. Si tratta dei ἰατρομάντεις, veggenti, guaritori magici e maestri religiosi, alcuni dei quali già la tradizione greca metteva in relazione con il nord13; dal nord veniva Abari, servo leggendario di Apollo Iperboreo, assegnato da Pindaro all’età di Creso, capace di fugare pestilenze e predire terremoti; dall’Arcadia proveniva invece Bachis, che secondo Teopompo (FgrHist 115 F 77) purificò le donne spartane da un attacco di pazzia; di Gortina, a Creta, era invece Taleta, attivo a Sparta nel VII secolo, che secondo Pratina (Plutarco, Demusica42) avrebbe purificato la città da una pestilenza per mezzo della sua musica. Tra le caratteristiche delle figure sciamaniche, infatti, oltre al dono dell’ubiquità e particolari capacità di resistere al digiuno e divinare il futuro, si annoverano abilità nella poesia religiosa e nella medicina magica14, tutti elementi dai quali lo sciamano traeva la propria importanza sociale e per i quali diventava depositario di una sapienza superiore. In questa categoria rientra anche la figura del cretese Epimenide, a cui la tradizione attribuisce la purificazione di alcune città, soprattutto di Atene, 13 E. DODDS 1951, 171. Lo studioso discute la possibilità che il comportamento degli sciamani sia connaturato «alla composizione psico-fisica umana» e che quindi simili figure possano essere comparse fra i Greci indipendentemente da influenze straniere, ma formula tre obiezioni contro questa ipotesi: «a) tale comportamento comincia ad essere attestato fra i Greci allorché il Mar Nero si apre alla colonizzazione greca, non prima; b) dei primi “sciamani” di cui si abbia notizia, uno è scita (Abari), l’altro un greco che aveva visitato la Scizia (Aristea); c) vi sono concordanze in particolari concreti fra lo sciamanesimo antico greco-scitico e quello moderno siberiano, sufficienti a render piuttosto poco probabile l’ipotesi della semplice convergenza». 14 E. DODDS 1951, 185.
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PIETRO ROSA
contaminata in seguito alla violazione del diritto di asilo nel caso dei seguaci di Cilone, intorno al 600 a.C. (Aristotele, AthenaionPoliteia 1; Pausania I 14, 4; Plutarco, Vita Solonis 12, 7-12). Significativo appare tra l’altro che la tradizione gli attribuisca un’opera mistica dal titolo Καθαρμοί15. Anche Pitagora e i Pitagorici sono variamente collegati ai concetti di purezza e purificazione, a partire dalla convinzione che l’anima dell’uomo sia una divinità decaduta, confinata nel corpo come in una tomba e condannata ad un ciclo di reincarnazione uomo-animale/pianta, da cui può liberarsi solo coltivando una purezza apollinea e purificarsi attraverso lo studio e l’indagine della natura. In tale sistema di vita la rigida disciplina pitagorica prevedeva – come noto – diverse forme di purificazione, di cui erano parte il silenzio, l’esame di coscienza e l’astinenza dalla carne. Interessante a tal proposito è l’affermazione di Aristosseno (fr. 26 Wehrli), secondo cui i Pitagorici curavano la purezza del corpo attraverso la medicina (διὰ τῆς ἰατρικῆς), quella dell’anima per mezzo della musica (διὰ τῆς μουσικῆς). Di una terapia musicale utilizzata dai Pitagorici come strumento di purificazione ci informano anche altre fonti, a partire da Giamblico (Vita Pithagorica 65; 110-112; 114; 164), che pone tra l’altro in relazione questa forma terapeutica con particolari momenti di passaggio, come quello tra il giorno e la notte o anche tra l’inverno e la primavera, ennesimo punto di contatto con gli scritti ippocratici, nei quali ricorre con frequenza la raccomandazione di procedere a flebotomie o somministrazione di purghe, per i pazienti che ne abbiano necessità, nella stagione primaverile: ὁκόσοισι φλεβοτομίη ἢ φαρμακείη ξυμφέρει, τούτους τοῦ ἧρος φαρμακεύειν ἢ φλεβοτομεῖν (Aphorismi6, 47, cf. DemorbisII 15, 4). Molte caratteristiche degli ἰατρομάντεις di età arcaica, come pure aspetti evidenti degli iniziatori ai culti orfici (ὀρφεοτελεσταί) si ritrovano anche in Empedocle, aristocratico di Agrigento che visse nel V secolo e fu filosofo, scienziato, poeta, ma anche mistagogo e guaritore. Dalla sua opera principale, il poema in esametri Περὶ φύσεως, di cui ci sono conservati circa 350 versi, come da alcuni altri frammenti di un secondo poema intitolato Καθαρμοί, emergono 15 Sulla figura di Epimenide già le fonti antiche mostrano di avere ben poche certezze: se Aristotele (Athenaion Politeia 1) sostiene che la sua venuta ad Atene fosse legata alla purificazione dopo i fatti di Cilone, Platone (Leggi 642d) afferma invece che sarebbe venuto per scongiurare un attacco dei Persiani e Diogene Laerzio (1, 110) sostiene che gli Ateniesi lo mandarono a prendere a Creta in quanto un oracolo della Pizia aveva prescritto di purificare Atene colpita da una pestilenza. Cf. in particolare G. PUGLIESE CARRATELLI 1990, 365-377.
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stretti contatti con la tradizione orfica di Agrigento. Si tratta di una personalità complessa in cui convivono aspetti antichi e nuovi, che hanno indotto gli studiosi a vederne l’opera come quella di un antico sciamano trapiantato fra le genti di stirpe greca o, viceversa, come uno scienziato moderno16, interessato a dimostrare il peso dell’aria o il legame delle malattie con gli effluvi del sangue. Resta il fatto che anche in lui è attestata la concezione per cui la vita è portata sulla terra dalle anime, cadute per una qualche colpa dal mondo celeste di cui erano parte. Incorporate in piante, animali e uomini, esse rimangono vincolate alla vita terrena attraverso varie incarnazioni, finché non faranno ritorno alla vita celeste, tra gli immortali, al termine di un graduale processo di purificazione. Nonostante tutte le difficoltà che si incontrano nel tentativo di ricostruire con certezza gli aspetti salienti del pensiero di Empedocle, pare abbastanza sicuro che quando egli promette ai suoi discepoli di rivelare loro notizie di «farmaci quanti ci sono fatti a rimedio di mali e di vecchiezza» (φάρμακα δ’ ὅσσα γεγᾶσι κακῶν καὶ γήραος ἄλκαρ, VS31 B 111, 1 trad. A. Lami), si riferisca all’impiego di purificazioni rituali utilizzate come cure mediche, per rispondere alle istanze rivoltegli da uomini e donne delle città in cui giungeva, che «per morbi d’ogni sorta richiedono di udire voce di guarigione, già da lungo trafitti come sono aspri» (VS31 B 112, 11s., trad. A. Lami). 6. MISTERI E CULTI ORFICI Riti magici e purificazioni avevano un ruolo importante anche nei culti misterici. In un noto passo della Repubblica(364c-365a) Platone riferisce che girovaghi e indovini (ἀγύρται δὲ καὶ μάντεις) bussano alle porte dei ricchi per convincerli di avere ottenuto dagli dei, per mezzo di sacrifici e incantesimi (θυσίαις τε καὶ ἐπῳδαῖς), la facoltà di porre riparo con divertimenti e feste (μεθ’ ἡδονῶν τε καὶ ἑορτῶν) a colpe commesse. Questi personaggi assicurano di potere anche danneggiare qualche nemico, a poca spesa, ricorrendo a incantesimi e nodi magici (ἐπαγωγαῖς τισιν καὶ καταδέσμοις): inoltre presentano una folla di libri di Museo e Orfeo, discendenti, a loro dire, della Luna e delle Muse; e sulla base di questi libri compiono i loro riti, convincendo non solo i singoli, ma anche le città, che esistono sia per chi è ancora in vita sia per chi è morto assoluzioni e purificazioni dalle colpe (λύσεις τε καὶ καθαρμοὶ ἀδικημάτων) per mezzo di sacrifici e 16
B. FARRINGTON 1949.
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PIETRO ROSA piacevoli divertimenti, ai quali danno il nome di iniziazioni (ἃς δὴ τελετὰς καλοῦσι) capaci di liberarci dei mali di laggiù, mentre pene terribili attendono chi non compie tali sacrifici (trad. G. Caccia).
Tra i molteplici mezzi che questi indovini e girovaghi utilizzano per la purificazione vi sono dunque anche riti iniziatici (τελεταί), da essi ricondotti alle figure di Museo e Orfeo: a quest’ultimo si faceva risalire il movimento religioso sviluppatosi in età arcaica e da lui detto orfismo17. Tra le complesse dottrine che tale culto prevedeva, assai nota è l’idea del corpo inteso quale prigione dell’anima, in quanto parte malvagia dell’individuo, in contrapposizione con quella divina rappresentata dall’anima stessa. Da qui la proibizione di uccidere animali e di mangiarne le carni, legata probabilmente al carattere impuro del corpo, oltre che, forse, alla convinzione della trasmigrazione dell’anima in corpi differenti. Tra le conseguenze di tali convinzioni, chiunque non si fosse sottoposto a processi di purificazione in questa vita avrebbe dovuto giacere nel fango del mondo sotterraneo, mentre ai giusti e agli iniziati era riservata la felicità. La concezione orfica dell’uomo, quindi, comportava un atteggiamento mentale di abnegazione e di profonda moralità, spesso travisati in età classica, anche perché trasmessi insieme a riti e miti grossolani, da filosofastri e ciarlatani che li sfruttavano a proprio vantaggio. Inoltre, ad ulteriore riprova della diffusione di un’idea di contiguità tra i rimedi ai mali offerti dagli indovini guaritori e dalla medicina «ufficiale», nell’Alcesti di Euripide il Coro (νν. 962-971), prendendo atto che niente è più forte della Necessità (Ἀνάγκα), ricorda di non aver trovato alcun rimedio (φάρμακον) «nelle tavolette tracie dettate dalla voce di Orfeo, né tra gli antidoti (φάρμακα) che Febo insegnò ai discendenti di Asclepio per il bene degli uomini afflitti (πολυπόνοις ... βροτοῖσιν)» (trad. G. Paduano). 7. PURIFICAZIONI DIONISIACHE E MISTERI ORFICO-BACCHICI Un àmbito molto importante in cui i Greci manifestano attenzione al problema della purificazione è quello del dionisismo e dei culti estatici, che descrivono l’invasamento (μανία) dei seguaci del dio. 17 Su Orfeo e l’orfismo resta ancora fondamentale E. DODDS 1951, in particolare 186-209. Cf. inoltre, sulle pratiche di vita e riti e misteri orfici, G. PUGLIESE CARRATELLI 1990, 391-419; F. HOESSLY 2001, 198-223. Per lo studio delle fonti su Orfeo e l’orfismo, cf. G. PUGLIESE CARRATELLI 2001.
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Nel Fedro(244a) il Socrate platonico, dopo avere descritto l’aspetto umano negativo della μανία, passa poi ad illustrarne diversi tipi positivi, accostando a quella mantica, a quella poetica e a quella erotica anche una τελεστικὴ μανία, data ai mortali per concessione divina, di cui descrive aspetti vantaggiosi per gli uomini, citando ad esempio i beni procurati alla Grecia dalla Pizia delfica o dalla sacerdotessa di Dodona. Tale mania di origine divina è considerata preferibile all’assennatezza degli uomini, in quanto offre una via di scampo dalle malattie e dalle pene più grandi (νόσων γε καὶ πόνων τῶν μεγίστων), che si abbattono su alcune stirpi per antiche colpe, in quanto, procurando purificazioni e iniziazioni (καθαρμῶν τε καὶ τελετῶν τυχοῦσα), rende libero chi ne è interessato per il presente e per il futuro. Una simile figura di iniziato ai culti orfici, impegnato a coltivare tecniche di purificazione per separarsi da quanti sono soggetti a delitti e sozzure, sembra trapelare anche dal ritratto di Ippolito, tracciato nell’omonima tragedia euripidea da Teseo, che si chiede se il figlio sia veramente «casto e intatto dal male» (σώφρων καὶ κακῶν ἀκήρατος, v. 949), ironizzando sulla sua dieta vegetariana e invitandolo sarcasticamente a seguire Orfeo come signore (Ὀρφέα τ’ ἄνακτ’ ἔχων / βάκχευε, vv. 953-954) e a mostrarsi ispirato «onorando i fumi di molti libri» (πολλῶν γραμμάτων τιμῶν καπνούς, v. 954). Altre testimonianze dei riti di iniziazione bacchica e delle purificazioni ad essi connesse sono ancora conservati negli autori del teatro attico, che descrivono i rituali orgiastici, le danze, i canti e le libagioni che li caratterizzano: nelle Baccantidi Euripide il Coro (vv. 72-77) celebra il makarismosdi chi segue tali riti: Beato chi ha il demone amico, / e, iniziato ai Misteri (τελετὰς θεῶν εἰδώς), / ne ha parte e fa pura la vita, / che nell’anima è uno col tiaso, / quando celebra sui monti / il santo rito che monda, la festa del Baccanale (ἐν ὄρεσσι βακχεύων / ὁσίοις καθαρμοῖσιν) (trad. C. Diano).
Nell’Antigonedi Sofocle ancora il Coro invoca l’avvento di Dioniso perché con «passo purificatore» (καθαρσίῳ ποδί, v. 1144) venga a salvare Tebe colpita da «violento morbo» (βιαίας ... ἐπὶ νόσου, vv. 1140-1141), chiedendo che il dio si manifesti con le Tiadi, sue compagne, che invasate danzano per tutta la notte (αἵ ... μαινόμεναι πάννυχοι / χορεύουσι, vv. 1151-1152). La funzione guaritrice di canti e danze è per altro connessa anche ai riti di Cibele, la divinità frigia della fertilità e della natura selvaggia: Platone, nelle Leggi(790e) ricorda che la cura per quanti sono
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PIETRO ROSA
fuori di sé a causa dei furori bacchici (τῶν ἐκφρόνων βακχειῶν) prevedeva il ricorso alla danza corale e alla musica, una purificazione rituale che, secondo gli studiosi, ha evidenti somiglianze con la “cura coribantica”, volte come sono entrambe ad operare la catarsi attraverso contagiose danze orgiastiche, accompagnate da musica di modo frigio di corrispondente tenore18. Forme di catarsi musicale erano già state utilizzate dai Pitagorici, ma furono soprattutto i rituali dionisiaci ad incarnarne l’essenza più autentica, secondo gli autori di età classica, assolvendo ad una funzione sociale di tipo purificatorio, da intendere, secondo Dodds, soprattutto in senso psicologico: essi purgavano «l’individuo da quegli impulsi irrazionali contagiosi che, contenuti e repressi, avrebbero provocato (...) accessi di danzimania e analoghe manifestazioni di isterismo collettivo»,19 risolvendo tali impulsi con l’offrire loro una medesima terapia “omeopatica”, caratterizzata da una purificazione della pazzia con la pazzia (per un rituale di questo tipo, si veda Demostene, Decorona 259-260). 8. ARISTOTELE E
LA
κάθαρσις TRAGICA
Delineato un simile quadro, gli studiosi si chiedono se e in che misura Aristotele possa essere stato influenzato da alcune di queste manifestazioni rituali al momento di elaborare la sua teoria sulla κάθαρσις musicale e tragica, oggetto di differenti e molteplici interpretazioni nel corso dei secoli e ancora oggi questione aperta e ampiamente dibattuta. Mentre in epoca rinascimentale e neoclassica si affermarono infatti letture di stampo controriformistico, basate sull’idea che la purgatioteorizzata nella Poeticacostituisse una sorta di espulsione delle passioni, intese come elementi nocivi per lo spettatore di rappresentazioni tragiche, l’età del Positivismo accreditò una visione che ha goduto per lungo tempo di grande fortuna tra gli studiosi, in cui, a far data da Bernays (1857)20, la catarsi tragica veniva in toto identificata con una pratica medica, anche sulla scia di un noto passo della Politica (1341b), in cui Aristotele parla dell’ἐνθουσιασμός indotto da determinate esecuzioni musicali, probabilmente collegate 18 E. DODDS 1951, 106, che osserva come dall’analogia tra la cura coribantica e quella dionisiaca si può dedurre che entrambi i culti «si rivolgevano a tipi psicologici simili e producevano reazioni psicologiche simili». 19 E. DODDS 1951, 101. 20 Cf. ora al riguardo G. UGOLINI 2012.
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a culti misterici, al termine delle quali i fruitori ritornavano alla loro condizione normale, acquetandosi, come se un medico ne avesse purgato i corpi da umori maligni (ὥσπερ ἰατρείας τυχόντας καὶ καθάρσεως). Tale interpretazione viene oggi posta in dubbio da più interpreti21, sia perché nel passo della Politica Aristotele si riferisce probabilmente ai riti coribantici, trattando specificamente ed esclusivamente di modi musicali, sia soprattutto perché lo studio delle passioni, nell’etica aristotelica, è volto a individuare fondamentalmente il giusto mezzo per ognuna di esse, senza mai considerarle come umori nocivi da espellere. La catarsi aristotelica delle passioni va dunque intesa in un significato più ampio e complesso rispetto all’idea di una semplice evacuazione e/o alleggerimento in senso medico e psicologico e va compresa nel contesto della funzione etico-pratica che lo Stagirita attribuisce al piacere: Aristotele avrebbe in sostanza preso a prestito dalla preesistente tradizione religiosa e medica il termine κάθαρσις per definire la mimesi tragica, ossia la purificazione delle passioni dal dolore ad esse connaturato, e per indicare in definitiva «il processo di trasformazione di sentimenti di per sé dolorosi in piacevoli e quindi la predisposizione dell’animo dello spettatore (...) al raggiungimento del meson tra eccesso e difetto di quel genere di passioni, la parte più consistente e più complessa degli impulsi umani»22. In tal senso, non agendo direttamente sulle passioni, la κάθαρσις non può essere associata all’idea di una terapia, né omeopatica né allopatica, in quanto essa interviene piuttosto sul dolore e sul piacere che accompagnano le passioni e mira a trasformare il primo nel secondo. 9. SCIENZA E
RELIGIONE NEL
CORPUS HIPPOCRATICUM
Quando tra il VI e il V sec. a.C. la religiosità tradizionale greca entrò in crisi, prima nelle regioni della Ionia e quindi ad Atene, si svilupparono nuove correnti di pensiero di stampo razionalistico, volte a indagare su questa base fenomeni precedentemente considerati di origine divina23. Di estremo rilievo appare in questo quadro il trattato Demorbosacro,conservato nel CorpusHippocraticum e datato Cf. ad esempio S. HALLIWELL 2003. D. GUASTINI 2010, 167. 23 Cf. S. FELICI 1998, in particolare 81-84, in cui si traccia un quadro sintetico del passaggio dalla concezione della medicina magica nella civiltà classica a quella razionalistica tesimoniata nel CorpusHippocraticum. 21
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dagli studiosi24 tra la fine del V e l’inizio del IV secolo, in cui, ragionando sull’epilessia e le sue caratteristiche, l’autore afferma che tale morbo non gli sembra né più divino né più sacro rispetto ad altre affezioni e che la sua presunta natura divina è dovuta soltanto alla singolarità dei sintomi con cui essa si manifesta, come pure all’incapacità di comprenderne le cause da parte di chi lo cura facendo ricorso a purificazioni e incantamenti (καθαρμοῖσί τε ... καὶ ἐπαοιδῇσιν, 1,2), ossia con modalità tipiche delle purificazioni rituali, incantesimi o formule magiche che il medico ippocratico rifiuta, in quanto espressioni di superstizione. Ad esse viene invece qui contrapposta una lettura scientifica della malattia, basata sulla ricerca della sua origine naturale (φύσις) e della sua causa occasionale o scatenante (πρόφασις), respingendo quindi qualsiasi ipotesi di straordinarietà in grado di giustificarne la definizione di “morbo sacro”, anche in virtù dell’esistenza di tante altre malattie che nessuno considera sacre e che sono ugualmente straordinarie e prodigiose (ad esempio le febbri quotidiane, terzane o quartane). Il medico autore del trattato ritiene infatti che i primi ad avere rilevato i sintomi dell’epilessia siano i responsabili dell’idea che essa abbia un’origine divina. Costoro non vengono elogiati – come invece avviene di norma nella letteratura del V sec. per i πρῶτοι εὑρηταί, di solito considerati benefattori dell’umanità – ma paragonati in senso spregiativo a «maghi, purificatori, accattoni e ciarlatani» (μάγοι τε καὶ καθάρται καὶ ἀγύρται καὶ ἀλαζόνες, 1,4)25. In tale sequenza, accanto a termini impiegati con un valore apertamente negativo (i μάγοι si dedicano a pratiche illusionistiche, gli ἀγύρται sono questuanti girovaghi, gli ἀλαζόνες sono vagabondi fanfaroni e vanagloriosi), ricorre anche il riferimento ai καθάρται, sacerdoti o guaritori dediti alle purificazioni, visti qui come rappresentanti di una concezione antiscientifica e antirazionalistica della pratica medica, accostati come sono a soggetti che nascondono la loro ignoranza e incapacità di trovare cure opportune dietro il pretesto che la Cf. soprattutto J. JOUANNA 2003, LXX-LXXIV. Cf. G. LANATA 1967, 40-44, che discute nel dettaglio etimologia e interpretazioni di questi singoli termini: con μάγοι «i Greci in origine indicavano semplicemente e propriamente i sacerdoti Persiani» (40), ἀγύρται «erano coloro che raccoglievano mendicando doni per qualche scopo, soprattutto sacerdoti mendicanti e vaganti, i più famosi dei quali, i μητραγύρται, erano collegati al culto di Cibele; ed ἀλαζών era sentito in rapporto etimologico con ἀλᾶσθαι, “vagabondare”» (41). Se poi si intende la malattia come «l’invasione di forze esterne, divine e demoniche, se è una polluzione, μίασμα, la guarigione non potrà essere operata che da una purificazione rituale» (42). 24 25
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divinità è la causa delle malattie, stabilendo procedimenti terapeutici fondati su purificazioni e incantamenti (καθαρμούς ... καὶ ἐπαοιδάς, 1,4), nonché sull’astinenza dai bagni e da molti cibi non adatti ai malati. Questa polemica, incentrata sulla spiegabilità delle affezioni oggetto dell’attenzione medica, riemerge anche in altri trattati del Corpus,come Arie,acqueeluoghi, ma non rappresenta un punto di vista univoco ed esclusivo della scuola ippocratica, come dimostra un passo molto discusso e variamente interpretato, all’inizio del Prognostico(1), in cui l’autore sottolinea la necessità che il medico appuri, nell’indagine sulla natura delle malattie che deve curare, se in esse vi sia o meno qualcosa di divino (τι θεῖον). 10. Καθαίρω/κάθαρσις E PRATICA MEDICA Al di là del giudizio estremamente negativo formulato dall’autore di Morbosacro su maghi, guaritori girovaghi e purificatori, l’importanza fondamentale del concetto di purezza nel Corpus Hippocraticum è testimoniata dalla frequenza con cui καθαίρω e κάθαρσις ricorrono nei trattati della raccolta26: il primo conta 435 occorrenze, il secondo 229, mentre meno frequenti risultano καθαρός (171), καθαρτικός (50), καθαρτήριος (29), καθαρμός (10), καθάρσιος (6). L’uso tecnico-medico di tale terminologia si concentra su alcune tipologie terapeutiche relative alla pulizia esterna delle ferite e a quella interna dei corpi, volta a ottenerne lo svuotamento o in modo spontaneo o attraverso medicamenti, purghe o emetici, in omaggio al principio dell’equilibrio degli umori, la cui alterazione è considerata causa di malattie. Per quanto attiene al primo aspetto, è frequentissima, negli scritti chirurgici del Corpus, la raccomandazione di pulire le ferite prima di curarle, espressa nella formula καθαίρειν (o ἐκκαθαίρειν) τὰ ἕλκεα (Deulceribus12,10; 17,4), al fine di evitare conseguenze negative, come la difficoltà di far rimarginare lesioni non adeguatamente ripulite (Deulceribus8,1) o il rischio che si formino su di esse escrescenze (Deulceribus6). Per il medico ippocratico è di estrema importanza che la ferita non sia solo lavata, ma anche adeguatamente asciugata, un’operazione per la quale è prescritto l’impiego di spugne: la ferita asciutta è infatti molto più vicina alla condizione di salute rispetto a quella umida e l’applicazione di medicamenti ritenuti utili si potrà realizzare unicamente dopo essersi 26
Cf. G. MALONEY-W. FROHN 1986.
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assicurati che la zona interessata dalla ferita sia completamente asciutta, per poi procedere, eventualmente, al bendaggio della stessa (De ulceribus 4). Nel caso di fratture accompagnate da ferite, il medico ippocratico procede alla cura di queste ultime per mezzo di qualche farmaco spurgativo (καθαρτικῷ τινι), come olio di pino, o un emostatico, per poi applicare il bendaggio impregnato di vino o lana unta (Defracturis24). Per fratture di gambe o braccia vi sono medici che applicano bendaggi su entrambi i lati della parte ferita, «ma presso la ferita li interrompono, lasciandola esposta all’aria; poi vi sovrappongono qualche farmaco spurgativo, e la trattano con compresse impregnate nel vino o con lana unta» (De fracturis 25, trad. M. Vegetti). Anche Galeno, commentando queste indicazioni ippocratiche, conferma l’importanza della pulizia delle ferite per una loro cura efficace, quando sostiene che l’impiego di un farmaco καθαρτικόν, accompagnato all’asciugatura della ferita, costituisce l’intervento principale per la cura di questi casi (τὸ κεφάλαιον τῆς τῶν ἑλκῶν ἰάσεως, inHippocratisDefracturisCommentariusIII 3), un principio che in definitiva si rintraccia già nell’Iliade, quando in XI 844-848 è descritta la cura per una ferita di freccia alla coscia subìta dal greco Euripilo: lo scudiero incide l’arto colpito, estrae il dardo, lava il sangue che sgorga abbondante con acqua tiepida, applica un’acre radice per calmare il dolore e con essa il sangue si arresta, la ferita si stagna. Nel sistema ippocratico – come si è visto – la condizione di salute è data quando nel corpo dell’uomo vi è equilibrio tra i quattro umori principali, sangue, acqua, bile, flegma, prodotti ciascuno da una fonte (πηγή) differente, cuore, milza, colecisti, testa. Si tratta di un’idea in realtà già presente nella medicina egiziana, poi perfezionata da quella greca27. Alle quattro fonti, corrispondono altrettante vie d’uscita, attraverso cui il corpo stesso si purifica rispetto agli eccessi degli umori, responsabili di causare malattie: bocca, naso, ano, uretra. Quando il corpo non riesce ad eliminare autonomamente gli eccessi degli umori, occorre l’intervento medico, che in questo quadro mira a favorire la purificazione attraverso le suddette vie e una doppia modalità, definita nei trattati del Corpus con la formula ἄνω o κάτω καθαίρειν. Nella prima modalità rientra l’impiego di emetici (ad esempio l’elleboro) o di altri φάρμακα ἀνωτερικά, che mirano allo svuotamento dello stomaco (καθαίρειν τὴν κοιλίην ἄνω, Denaturamuliebri 89), nella seconda si contempla l’impiego di purghe (φάρμακα κατωτερικά), 27
Cf. P. COSMACINI 2015.
Καθαρός,καθαίρω,κάθαρσις,καθαρίζωnellaletteraturagreca
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destinate a liberare l’intestino (καθαίρειν τὴν κάτω κοιλίην, De morbis III 2,2). Per liberare la testa da umori in eccesso si procede con l’inserimento di un φάρμακον nel naso (τὴν κεφαλήν ... καθαίρειν, πρὸς τὰς ῥῖνας προστιθεὶς φάρμακον, Deinternisaffectionibus10), la cui funzione è quella di suscitare irritazione e provocare starnuti: il muco così prodotto libererà la testa dal flegma in eccesso. Altre forme di purificazione sono quelle che coinvolgono la vescica (κατὰ κύστιν καθαίρειν), per mezzo dei diuretici, o riguardano lo sputo e le vie respiratorie, definite con la formula κάθαρσις τῶν ἀπὸ πλεύμονος (Epidemiae III 13). L’espulsione del muco da queste parti del corpo, di fondamentale importanza, come è facile immaginare, per la salute del paziente, poteva essere realizzata attraverso fumigazioni, oppure con l’assunzione di φάρμακα liquidi per via orale, oppure ancora attraverso vapori inalati per mezzo di un tubo inserito nella bocca del malato, ma era nota anche una tecnica che prevedeva di versare un medicamento direttamente nei polmoni, attraverso la sua deglutizione, stante la convinzione dei medici antichi per cui, almeno in parte, i liquidi ingeriti per bocca finissero nei polmoni (Demorbis II47b,2). Per lo svuotamento e la purificazione del ventre, infine, il medico ippocratico raccomanda di procedere con la somministrazione di clisteri di varia natura (κλύσματα, κλυσμοί). Particolare attenzione è rivolta dalla medicina ippocratica alle problematiche connesse al corpo femminile: per quanto concerne il tema della purificazione sono trattati in tal senso gli aspetti relativi alle procedure di pulizia successive al parto e ricorrono comunemente28 espressioni come τὰ λόχια, τὰ λοχεῖα (Demorbismulierum1,29), λοχίη κάθαρσις (Demorbismulierum1,1) per individuare la purificazione post partum, mentre χορίων κάθαρσις (Epidemiae II 5,25) individua l’eliminazione della placenta. Nella discussione delle patologie mestruali s’incontrano invece spesso espressioni e sequenze quali ἡ γυνὴ καθαίρεται τὰ καταμήνια (De morbis mulierum 1,6), τὰ καταμήνια ἀποκαθαίρεται ἡ γυνή (De morbis mulierum 1,5), o ancora ἡ γυνὴ καθαίρεται τοῦ αἵματος (Demorbismulierum1,58) o infine semplicemente ἡ γυνὴ καθαίρεται, e le rispettive ἡ ἐπιμήνιος κάθαρσις (Demorbismulierum8,2), ἡ κάθαρσις τῶν ἐπιμηνίων (De aëre aquis et locis 4,8), e semplicemente ἡ κάθαρσις (De morbis mulierum6,6). Varie patologie interessano anche l’utero e richiedono una sua purificazione da sangue o flegma, la κάθαρσις τῆς μήτρας 28
Cf. F. HOESSLY 2001, 259.
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(De sterilibus 217), che può essere ottenuta per mezzo di apposite supposte, con acqua oppure semplicemente utilizzando farmaci assunti per via orale. Nel Corpussono infine presenti anche forme ulteriori e particolari di purificazione come quella che si ottiene attraverso la respirazione stimolata passeggiando o compiendo esercizi ginnici (DevictusrationeII 62,4) o ancora quella ottenuta con il sudore di saune e bagni di vapore, la cosiddetta κάθαρσις διὰ τοῦ χρωτός ricordata ad esempio in DevictusrationeIV 89,3. 11. GALENO: POLEMICHE SUGLI EVACUANTI Erede della grande tradizione ippocratica, Galeno di Pergamo (129-200 d.C.) si occupa specificamente dei medicinali che hanno capacità di purificare i corpi, nonché delle modalità e dei tempi in cui devono essere somministrati, soprattutto in due trattati intitolati De purgantiummedicamentorumfacultate(Περὶ τῆς τῶν καθαιρόντων φαρμάκων δυνάμεως) e Quos, quibus catharticis medicamentis et quandopurgareoporteat (Τίνας δεῖ ἐκκαθαίρειν καὶ ποῖοις καθαρτηρίοις καί ποτε). Entrambi si muovono pienamente nel contesto della patologia umorale e della clinica ippocratiche, incentrate sullo schema quaternario di elementi, qualità, umori, temperamenti ed esposte nel Denaturahominis, un trattato che Galeno ritiene in gran parte scritto da Ippocrate. Nella prima operetta Galeno attacca con sarcasmi e ironie quei medici che negano che i farmaci evacuanti abbiano una facoltà attrattiva, Asclepiade, Erasistrato (III sec. a.C.) e i loro seguaci29. Essi hanno cercato – a suo dire – di stravolgere del tutto il sapere medico precedente in materia di purganti, negando o ignorando il tema della capacità di attrazione che essi esercitano sugli umori. Secondo questi medici la κάθαρσις realizzata da tali farmaci non sarebbe κένωσις di un solo elemento – quello rispetto a cui il farmaco esercita la propria facoltà attrattiva – ma mutamento e alterazione di tutti gli umori presenti nelle vene. Galeno sostiene invece con chiarezza la tesi ippocratica per cui ciascun farmaco evacua l’umore che gli è affine, attirandolo, in base al principio che il simile agisce sul simile. Sfidando come sua consuetudine gli avversari, egli chiede che gli si conduca un malato afflitto da un eccesso di bile nera per mostrare come, dopo qualche giorno di preparazione, con una sola somministrazione di un purgante colagogo lo ricondurrà alla sua 29
S. FORTUNA 2012, 165-167.
Καθαρός,καθαίρω,κάθαρσις,καθαρίζωnellaletteraturagreca
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condizione di equilibrio con un simile intervento di purificazione (ἐκ τῆς τοιαύτης καθάρσεως, 11,328 Κ.) e ricorda di avere guarito, per mezzo di farmaci evacuanti, la moglie dell’ex console Flavio Boeto (11,341 K.). Nel secondo trattato Galeno si sofferma invece su specifiche patologie, illustrando per quali di esse sia preferibile procedere al salasso, per quali altre invece sia meglio ricorrere a farmaci purganti. Sono presenti indicazioni precise, con il rinvio ai testi di Ippocrate in cui si regola la materia, sulle stagioni in cui è meglio somministrare le purghe e raccomandazioni particolari in merito all’assunzione dell’elleboro, al tipo di malattia, ai luoghi in cui vivono i pazienti, alla loro età, alle consuetudini di vita del malato. Di particolare interesse sono le indicazioni relative ai giorni e ai momenti critici nei quali occorre evitare la somministrazione di purganti e alla necessità di procedere con grande cautela verso chi è già malato e nelle malattie acute. Sempre a Ippocrate si rimanda con la raccomandazione di assumere, dopo la purga, una tisana perché lo stomaco è danneggiato, sospendendone però l’assunzione dopo che la purga ha cominciato a fare effetto, per non vanificarne l’esito. 12. UN LESSICO, DUE
CONCEZIONI
L’impiego in àmbito medico di καθαρός, καθαίρω e di tutta questa area semantica presenta, come si è visto, significativi punti di contatto con il concetto di catarsi rituale e non sono pochi i testi letterari in cui la malattia è assimilata ad una contaminazione, a partire dal primo libro dell’Iliade per arrivare al caso forse più noto, quello dell’Edipo redi Sofocle. Il μίασμα descritto nei trattati del CorpusHippocraticumnon ha però in sé componenti morali o sociali, per cui la malattia non viene considerata una punizione religiosa30; tuttavia gli studiosi si interrogano sui punti di convergenza tra questi due àmbiti così importanti per la Grecia arcaica, muovendo proprio dalla considerazione che i medici del V e del IV secolo utilizzano nei loro trattati la stessa lingua dei καθαρταί che li hanno preceduti e hanno fatto loro concorrenza; che i due mondi abbiano continuato ad essere percepiti a lungo come contigui è per altro testimoniato dal Cratilodi Platone, in cui Socrate osserva (405 ab) che κάθαρσις e καθαρμοί, sia nell’arte medica sia nella mantica, perseguono il medesimo obiettivo 30
I. MAZZINI 1998, 161.
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di rendere l’uomo puro nel corpo e nell’anima; è stato ancora osservato31 che in alcuni testi la purificazione medica e quella religiosa sono distinte solo dal dativo strumentale che accompagna l’impiego del verbo καθαίρω: Melampo purifica le Pretidi con lo zolfo, Ippocrate gli abitanti di Cos con farmaci diuretici. Proprio questa convergenza nell’uso del lessico fa però significativamente risaltare le differenze concettuali di fondo: per i medici del Corpusla malattia non insorge come conseguenza di una colpa, non è la punizione decisa da un dio per chi ha commesso un sacrilegio o un delitto, bensì è ricondotta ad uno squilibrio degli umori del corpo. Non necessita dunque della purificazione da richiedere a un dio, eventualmente per mezzo di un professionista come il καθαρτής o lo ἰατρόμαντις, ma è sufficiente l’intervento di un medico che adotti una terapia adeguata all’affezione denunciata dal malato. Non pochi studiosi sono quindi inclini a ritenere che il concetto di purificazione espresso nei testi della medicina ippocratica rappresenti per vari aspetti il risultato di una secolarizzazione dell’analoga concezione religiosa, quest’ultima presentata come una pratica esterna al corpo umano, la prima caratterizzata da trattamenti prevalentemente interni, nella considerazione che l’eccesso e lo squilibrio dei fluidi corporei sia qualcosa di impuro, da eliminare per ristabilire il giusto e salutare equilibrio.
31
R. PARKER 1983, 214.
Osservazioni sull’impiego di καθαρός κτλ. nei Settanta Marco SETTEMBRINI Il lessico della purità è come noto ben presente nei Settanta e i lemmi collegati all’aggettivo καθαρός costellano la quasi totalità dei libri biblici. Il termine καθαρός occorre 160 volte,1 il verbo καθαρίζω 125 volte,2 καθαρισμός 18 volte,3 καθαρειότης 6 volte,4 κάθαρσις 4 volte,5 καθαίρω 2 volte,6 καθαρειόω solo in Lam 4,7, καθάρσιος solo in 4 Mac 6,29. Non attestato in Giudici, Rut, Ester, Cantico dei Cantici, Lamentazioni, Baruc, il lessico in esame occorre con speciale frequenza nei libri di Esodo, Levitico (ove nei soli cc. 10–16 καθαρός, καθαρίζω e κάθαρσις tornano 63 volte), Numeri e Giobbe. La radici ebraiche tradotte con καθαρός κτλ. sono molteplici, benché quelle maggiormente interessate siano ṭhr (164 volte), nqh (12 volte), zkk (10 volte), brr (6 volte). I lessemi rendono termini ebraici 1 Gen 7,2. 3. 8; 8,20; 20,5. 6; 24,8; 44,10; Es 25,11. 17. 23. 28. 29. 31. 36. 38. 39; 27,20; 28,13. 14. 22. 36; 30,3. 4. 35; 31,8; 36,22. 37; 38,2. 9. 25; 39,16; Lv 4,12; 6,4; 7,19; 10,10; 11,32. 36. 37. 47; 13,6. 13. 17. 34. 37. 39. 40. 41. 58; 14,4. 7. 8. 9. 49. 53; 15,8. 12. 13; 17,15; 20,25; 22,7; 24,2. 4. 6. 5. 7; Nm 5,17. 28; 8,7; 9,13; 18,11. 13; 19,3. 9. 12. 18. 19; Dt 12,15. 22; 14,11. 20; 15,22; 23,11; 1 Regni 20,26; 2 Cr 3,4. 5. 8; 4,16. 20. 21; 9,15; 13,11; 2 Esd 2,69; 6,20; 12,20; Gdt 10,5; 12,9; Tb 3,14; 8,15; 13,17; 2 Mac 7,40; Sal 23,4; 50,12; Pro 8,10; 12,27; 14,4; 20,9; 25,4; Qo 9,2; Job 4,7. 17; 8,6; 9,30; 11,4. 13. 15; 14,4; 15,15; 16,17; 17,9; 22,25. 30; 25,5; 28,19; 33,3. 9. 26; Sap 7,23; 14,24; 15,7; Ab 1,13; Zac 3,5; Mal 1,11; Is 1,16. 25; 14,19. 20; 35,8; 47,11; 65,5; Ger 4,11; Ez 22,26; 36,25; 44,23; Sus 1,46; Dn 7,9. 2 Gen 35,2; Es 20,7; 29,36. 37; 30,10; 34,7; Lv 8,15; 12,7. 8; 13,6. 7. 13. 17. 23. 28. 34. 35. 37. 59; 14,2. 4. 7. 8. 11. 14. 17. 18. 19. 20. 23. 25. 28. 29. 31. 48. 57; 15,13. 28; 16,19. 20. 30; 22,4; Nm 6,9; 8,15; 12,15; 14,18; 30,6. 9. 13; 31,23. 24; Dt 5,11; 19,13; Gs 22,17; 1 Regni 20,26; 4 Regni 5,10. 12. 13. 14; 2 Cr 29,15; 34,3. 5. 8; 2 Esd 6,20; 22,30; 23,9. 22. 30; Gdt 16,18; 1 Mac 4,36. 41. 43; 13,47. 50; 2 Mac 2,18; 10,3. 7; 14,36; 4 Mac 1,11; 17,21; Sal 11,7; 18,13. 14; 50,4. 9; Pro 25,4; Gb 1,5; Sir 23,10; 34,4; 38,10. 30; Os 8,5; Mal 3,3; Is 53,10; 57,14; 66,17; Ger 13,27; 32,29; 40,8; Ez 24,13; 36,25. 33; 37,23; 39,12. 14. 16; 43,26; 44,26; Dn 8,14; 11,35. 3 Es 29,36; 30,10; Lv 14,32; 15,13; Nm 14,18; 1 Cr 23,28; Ne 12,45; 2 Mac 1,18. 36; 2,16. 19; 10,5; 4 Mac 7,6; Sal 88,45; Pro 14,9; Gb 7,21; Sir 51,20; Dn 12,6. 4 Es 24,10; 2 Sam 22,21. 25; Sal 17,21. 25; Sir 43,1. 5 Lv 12,4. 6; Ger 32,29; Ez 15,4. 6 2 Sam 4,6; Is 28,27.
28
MARCO SETTEMBRINI
che concernono la purità (ṭhr appunto), la pulizia, l’innocenza, la purezza, l’integrità, la giustizia (variamente indicate da nqh, zkk, brr7 ma pure da ṣdq, tmm8). Quanto è puro è talora espressamente detto di valore (ṭôb, 2 Cr 3,5), può essere stato passato al fuoco come l’argento (zqq, Sal 11[12],7) o essere tale – come nel caso dell’altare – perché liberato dall’influenza misteriosa del peccato (si vedano Es 29,36-37 con ḥṭ’ e kpr al piel). Colui che è riconosciuto puro ottempera ai criteri della purità rituale (es. Lv 12,7, con ṭhr), ha il cuore giusto (yšr, Gb 33,3), ha visto rimossa la propria colpa (ta‘ăbîr’et‘ăwônî si legge in Gb 7,21TM), è come sia stato raffinato9 o reso bianco (ṣrp, lbn, Dn 11,35), è stato perdonato (slḥ, Nm 30,6). Nella Bibbia greca καθαρός si accompagna a termini quali ἅγιος, «santo» (Lv 10,10; Is 35,8; Ez 22,26), corradicali di ἁγνός, «sacro, casto, puro» (Nm 8,7; 19,12), ἄτρυγον, «privo di feccia, limpido» (Es 27,20), ἀθῷος, «immeritevole di castigo» (Nm 5,28; Sal 23[24],4), ἄμεμπτος, «irreprensibile» (Gb 4,17; 11,4), ἀληθινός, «genuino» (Gb 8,6) ed esprime l’opposto di ἀκάθαρτος, «impuro» (Lv 10,10), ἁμαρτών, «peccatore» (Gb 33,9), πεφυρμένος, «sporcato» (Is 14,19). In congiunzione con espressioni di separazione, si precisa la liberazione da vincoli contratti a seguito di un giuramento (καθαρὸς ἀπὸ ὅρκου, Gen 24,8) o di scelte inique. Si legge pertanto della purificazione dai peccati (ἀπὸ τῶν ἁμαρτιῶν, Lv 16,30; Pro 20,9; ἀπὸ τῆς ἁμαρτίας, Sal 18[19],14; 50[51],4; Sir 23,10; 38,10; ἀπὸ τοῦ ἁμαρτήματος, Gs 22,17), dalle ingiustizie (ἀπὸ πασῶν τῶν ἀδικιῶν, Ger 40[33],8), dalle iniquità (ἐκ τῶν ἀνομιῶν, Ez 36,33), così come dalla sporcizia (ἀπὸ ῥύπου Gb 14,4), dalle contaminazioni idolatriche (ἀπὸ τῶν ἀκαθαρσιῶν καὶ ἀπὸ τῶν εἰδώλων, Ez 36,25; ἀπὸ τῶν μιασμάτων, 1 Mac 4,50; cf. 2 Cr 34,3; 2 Esd 23,30 = Ne 13,30) o da illeciti rapporti sessuali (καθαρά εἰμι ἀπὸ ἀκαθαρσίας ἀνδρὸς, Tb 3,14). In modo analogo, con un genitivo di separazione,10 si parla della guarigione da ferite (καθαρίσαι τῆς πληγῆς, Is 53,10).
7 Si vedano Gen 24,8; 44,10; Es 20,7; 34,7; Gb 4,7.17; Sal 18(19),12. 13; Is 1,16; Dn 7,9 (con nqh), Es 27,20; Lv 24,2. 7; Gb 8,6; 11,4; 15,15; 16,17; 33,9; Is 1,16; Lam 4,7 (con zkk), Es 24,10; Gb 9,30; 22,30; Sal 23(24),4; Pro 14,4; Is 1,25 (con brr). 8 Si vedano Gb 4,17; Dn 8,14 (con ṣdq), Gen 20,5. 6 (con tmm). 9 In merito alla metafora metallurgica, si veda N. AMZALLAG 2013, in part. 158162 con puntuali riferimenti a Es 22,18. 20; 24,11; Is 31,9; 48,10; Ger 6,27-30; 9,6. 10 Cf. H.W. SMYTH 1920, § 1392.
Καθαρόςκτλ.neiSettanta
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Per quanto riguarda il verbo καθαρίζω, si osserva come nei Settanta si associ a ἁγιάζω, «santificare» (Es 29,36), ἁγνίζω, «purificare» (Nm 31,23; Is 66,17), ἐξιλάσκομαι, «fare espiazione» (Lv 16,30; Ez 43,26), πλύνω, «pulire con acqua» (Nm 31,24; Sal 50[51],4), (ἀπο)λούομαι, «lavarsi» (4 Regni 5,10; Gb 9,30), βαπτίζομαι, «immergersi» (4 Regni 5,14), ῥαίνω ὕδωρ, «aspergere con acqua» (Ez 36,25), ῥαντίζω, «spruzzare» (Sal 50[51],9), λευκαίνω, «rendere bianco» (Sal 50[51],9), πυρόω, «arroventare» (Sal 11[12],7), χωνεύω, «purificare, fondere» (Mal 3,3), ῥύομαι ἀπὸ τῶν ἀνομιῶν, «liberare dalle iniquità» (Ez 37,23), e trovi in μιαίνω, «macchiare» (Ez 44,24-26) il suo antonimo più esatto. Dopo una rassegna dei contesti in cui si rinvengono i vocaboli in esame, si vorrà approfondire il discorso programmatico di Levitico 10–16 in merito alla purità per soffermarsi quindi sulle procedure di purificazione del popolo peccatore delineate nell’Antico Testamento, per cogliere infine l’efficacia dell’istruzione ad avvicinare a Dio. L’approfondimento proposto, prevalentemente di natura sincronica, potrà probabilmente contribuire allo studio dell’etica dell’antico Israele, non compiutamente ricostruibile dalla sola ricerca dell’ideologia delle distinte «scuole» responsabili della redazione della Bibbia.11 1. PURITÀ, PUREZZA E
GIUSTIZIA
L’ambito principale in cui occorre καθαρός coi suoi derivati concerne la purità degli animali (Lv 11,46-47; 20,25) – in base alla quale possono essere toccati, assunti come cibo o addirittura sacrificati al Signore – e quella delle persone, ora ammesse al contatto immediato con Dio nei luoghi della sua misteriosa presenza, ora abilitate a intervenire nella vita sociale e nel culto, ora costrette all’allontanamento (Lv 12,1–15,33). Ai fini della destinazione cultuale è urgente che altare, arredi, paramenti sacerdotali, utensili liturgici siano puri, così come il firmamento stesso ove Dio si muove (Es 24,10). In merito si menzionano nella fattispecie l’olio per la lampada (Es 27,20; Lv 24,2), la mistura confezionata per l’incenso (Es 30,35; 38,25; Lv 24,7), il candelabro (Es 31,8; 39,16; Lv 24,4), la tavola per i pani della presentazione (Lv 24,6; 2 Cr 13,11), l’altare dei sacrifici (Es 29,36; Lv 8,15) come pure il tempio stesso (Dn 11,35; 1 Mac 4,36), perché l’offerta sia 11
Cf. J. BARTON 2017, 185-190.
MARCO SETTEMBRINI
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«pura» e pertanto gradita a Dio (Mal 1,11). Strumento di purificazione, specialmente necessario per liberare l’altare dalle sue contaminazioni, è il sangue (in Es 30,10 si parla invero del «sangue della purificazione» ovvero «dell’espiazione», αἷμα τοῦ καθαρισμοῦ τῶν ἁμαρτιῶν τοῦ ἐξιλασμοῦ). A prescindere dagli spazi sacri e addirittura, nell’ambientazione esodale, fuori dell’accampamento, esistono poi «luoghi puri» (Lv 4,12; 6,4; Nm 19,3. 9). La purità degli spazi dell’incontro con Dio è di fatto strettamente legata alla «purezza» di ciò che vi è ammesso, intesa come qualità fisica di ciò che risulta integro, senza difetto, incorrotto, privo di commistioni con elementi estranei. Di «purezza» così intesa si parla in merito all’oro (es. Es 25,11; 28,13; 30,3; 36,22; 38,2; 2 Cr 3,4; 4,20; 9,15; 2 Esd 2,69; Tb 13,17; Gb 28,19; Pro 8,10) o, più raramente, al rame (2 Cr 4,16), al grano (2 Regni 4,6), al cumino (Is 28,27), alla lana (Dn 7,9) nonché all’acqua viva, pura e purificante (Nm 5,17). Il termine καθαρός può quindi indicare ciò che è semplicemente «pulito»: una strada sgombra da inciampi, una mangiatoia o una fornace mondate da ogni sporcizia (cf. Is 57,14; Pro 14,4; Sir 38,30). Nella diffusa concezione secondo la quale il peccato «macchia» la persona – i crimini più gravi insozzano invero le mani di sangue e ogni iniquità, per estensione, sporca (Is 1,18; Ger 2,22)12 – la pretesa di avere cuore, mani, labbra, occhi puri vale a testimoniare la propria giustizia, a non essere compromessi dalla menzogna, dal tradimento, dall’empietà. Un cuore puro, indice di un animo schietto (πνεῦμα εὐθές), rende accetta la preghiera, rischiara il viso, sostiene la speranza di essere esauditi (Sal 50[51],12; Gb 11,13-17). Chi non devia nella propria condotta possiede mani pure (Gb 17,9) e da queste, si dice, sarà messo in salvo (Gb 22,30). Parole e ragionamenti retti attestano che labbra e cuore sono puri (Gb 33,3) mentre un occhio puro, come quello di Dio, rifugge dall’iniquità e non tollera l’oppressione (Ab 1,13).13 Allo sguardo del Signore, pertanto, chi è passibile di condanna non è certamente ritenuto puro, Egli infatti «non proscioglie il colpevole» (οὐ καθαριεῖ τὸν ἔνοχον, Es 34,7; cf. Es 20,7; Nm 14,18; Dt 5,11).14 Si veda in merito l’approfondimento di J. LAM 2016, 179-206. Simili espressioni si ritrovano in Gen 20,5; Sal 23(24),4; Pro 20,9; Sir 38,10. 14 Rispetto alla complessa relazione tra purità e giustizia, si veda M. SETTEMBRINI 2016, 15-25. 12 13
Καθαρόςκτλ.neiSettanta
2. LA PURITÀ RITUALE:
LE LEGGI DI
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LEVITICO 10–16
Inaugurato il culto nella tenda del convegno con la consacrazione di Aronne e dei suoi figli (Lv 8–9), il pericolo di accedervi senza curarsi delle prescrizioni di Mosè è presto palesato: Nadab e Abiud impugnano ciascuno il suo incensiere per offrire incenso al cospetto del Signore servendosi di fuoco «estraneo» (ἀλλότριος, Lv 10,1), ovvero profano rispetto a quello ravvivato sull’altare (cf. Lv 1,7), e sono presto avvolti dalle fiamme di quel fuoco sacro. La collera divina non infierisce sull’intera comunità degli Israeliti solo per l’intervento di Mosè, che indica ad Aronne e ai suoi figli superstiti come comportarsi (Lv 10,1-7). Comincia così la presentazione delle norme che interessano anzitutto i sacerdoti e in secondo luogo tutti gli Israeliti che di esse dovranno essere edotti. Si legge: Norma eterna per le vostre generazioni: distinguere tra le cose sante e quelle profane, tra quelle impure e quelle pure; istruirai i figli di Israele in tutte queste norme che il Signore ha detto per loro per mezzo di Mosè (Lv 10,9b-11).15
In ciò che segue si dettagliano pertanto le regole relative alla purità degli animali (c. 11), alla puerpera (c. 12), alla contaminazione della pelle e, per estensione, dei tessuti o altri manufatti (c. 13), precisazioni sulla purificazione della «lebbra»16 delle persone e delle case (c. 14), e infine ragguagli sulle impurità di natura sessuale (c. 15). Nel c. 16 si presenta quindi il rituale per il giorno dell’espiazione, necessario appunto per liberare Israele da ogni impurità.17 Νόμιμον αἰώνιον εἰς τὰς γενεὰς ὑμῶν· διαστεῖλαι ἀνὰ μέσον τῶν ἁγίων καὶ τῶν βεβήλων καὶ ἀνὰ μέσον τῶν ἀκαθάρτων καὶ τῶν καθαρῶν· καὶ συμβιβάσεις τοὺς υἱοὺς Ἰσραὴλ πάντα τὰ νόμιμα, ἃ ἐλάλησεν κύριος πρὸς αὐτοὺς διὰ χειρὸς Μωυσῆ. Cf. Lv 11,47. 16 La comune traduzione con «lebbra» del termine ebraico ṣāra‘at deriva dalla Vulgata (lepra) che ricalca i Settanta. In greco, tuttavia, λέπρα è usato da Ippocrate e poi da Galeno nella diagnosi di diverse malattie cutanee, per la psoriasi e per infezioni da funghi della pelle. La lebbra vera e propria, indicata dal termine ἐλεφαντίασις, non fu probabilmente conosciuta nel Vicino Oriente antico sino all’epoca ellenistica quando fu portata dall’India dagli eserciti di Alessandro Magno. La confusione con lepra, ricondotta al medico arabo Giovanni di Damasco, comincia nel IX sec. d.C. I testi di Levitico riflettono piuttosto i sintomi di dermatiti desquamative, riconosciuti per analogia nei processi di distacco degli intonachi e di formazione di muffe nelle case e nei tessuti. Per ulteriori approfondimenti si veda J. MILGROM 1991, 816-824. 17 La materia contenuta in Lv 11–15 è scandita da brevi sommari conclusivi con il medesimo incipit (οὗτος ὁ νόμος), rinvenibili in 11,46-47; 12,7b; 13,59; 14,54-57; 15,32-33. 15
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Sotto il profilo della tecnica di traduzione, la versione è nel suo insieme molto aderente al dettato semitico, come già si constata in Lv 10: si mantiene l’uso della congiunzione καί all’inizio di frase, caratteristico della forma narrativa ebraica wayyiqtol, si ricalcano le ripetizioni di una medesima radice (ἀφόρισμα ἀφορίσαι, v.15; ζητῶν ἐξεζήτησεν, v. 16), si riproducono espressioni idiomatiche dell’ebraico (διὰ χειρὸς Μωυσῆ, v. 11), si ricorre talvolta a un termine aramaico (σίκερα, «bevanda inebriante», v. 9), si utilizza un termine non altrove attestato (ἀποκιδαρόω, «togliersi il copricapo», solo al v. 6 e in 21,10), si riprendono alcuni neologismi coniati dal traduttore di Esodo che consentano di identificare più facilmente realtà tipiche della cultura giudaica, quali i gesti dedicatori di terûmāh e di tenûpāh (rispettivamente ἀφόρισμα e ἀφαίρεμα, v. 14) o l’offerta riservata al Signore (κάρπωμα, v. 12), alcuni vocaboli sono impiegati con un senso differente da quello di uso classico, come πυρεῖον e στηθύνιον per indicare rispettivamente il turibolo e il petto dell’animale sacrificale (vv. 1. 14). Con καθαρός si rende ordinariamente ṭāhôr e con ἀκάθαρτos l’aggettivo ṭāmē’ (in Genesi ed Esodo tradotto con μὴ καθαρός).18 Nei precetti sugli animali (Lv 11) si elencano quelli impuri, precisando che sono tali sia vivi sia morti, sicché diviene impuro ciò che entra a contatto con loro o con le loro carcasse, così come chi ne tocca le carni. Chi si fosse reso impuro a causa loro deve lavarsi le vesti e attendere fino a sera (vv. 24-28. 39-40), l’oggetto eventualmente contaminato (di legno, di tessuto, di pelle o di sacco) deve essere immerso nell’acqua, «sarà impuro fino alla sera, poi sarà puro» (v. 32). Il vaso di terracotta entro cui dovesse invece cadere uno di questi animali deve essere spezzato (v. 33), forni e pentole contaminati dalle loro carcasse devono essere distrutti (v. 35), ogni cibo e bevanda contaminati sono definitivamente impuri (v. 34). Immuni da contaminazione sono invece le sorgenti, le cisterne, le raccolte d’acqua o i semi per la semina, purché non bagnati (vv. 36-38). Per gli Israeliti attenersi a queste indicazioni significa mantenersi «santi» in conformità al Signore che è santo (ἁγιασθήσεσθε καὶ ἅγιοι ἔσεσθε, ὅτι ἅγιός εἰμι ἐγὼ κύριος ὁ θεὸς ὑμῶν, v. 44), evitando di rendersi abominevoli a causa di contaminazioni e impurità (οὐ μὴ βδελύξητε τὰς ψυχὰς ὑμῶν … καὶ οὐ μιανθήσεσθε … καὶ οὐκ ἀκάθαρτοι ἔσεσθε, v. 43). 18 Ulteriori caratteristiche della lingua di Levitico sono esposte in A. VOITILA 2015, 45-50 e I. HIMBAZA 2016. In merito al lessico cultuale restano poi utilissimi J. CASABONA 1966 e S. DANIEL 1966.
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Nelle parole di Mosè la puerpera (Lv 12) è impura per sette giorni (il doppio nel caso abbia partorito una femmina) e deve restare appartata come per i giorni del ciclo mestruale (κατὰ τὰς ἡμέρας τοῦ χωρισμοῦ τῆς ἀφέδρου αὐτῆς, v. 2), dopodiché deve evitare di venire a contatto con cose sante per altri trentatré giorni (il doppio nel caso abbia partorito una femmina). Contaminata da «sangue impuro» (vv. 4. 5) e «dalla sorgente del suo sangue» (ἀπὸ τῆς πηγῆς τοῦ αἵματος αὐτῆς, v. 7), è infine invitata a offrire un sacrificio con il quale il sacerdote tornerà a renderla pura. Come si vede, l’impurità comporta anche in questo caso una purificazione che avviene in più giorni, richiede l’attenta osservanza della persona interessata (la puerpera) ma pure l’intervento del sacerdote. La κάθαρσις (vv. 4. 6) rimanda a un processo di purificazione. Il ruolo del sacerdote è pure cruciale nella diagnosi di una «piaga di lebbra» (ἁφὴ λέπρας), ovvero di una «ulcera di comparsa evidente» (οὐλὴ σημασίας τηλαυγής, Lv 13,2). Osservandone la cute, egli «dichiara impuro» (μιανεῖ) o, viceversa, mondo (καθαριεῖ) l’uomo segnalatogli (vv. 3-44). Come si ripete a più riprese, egli deve «vedere» (ἰδεῖν), «segregare» l’impuro (ἀφορίζειν) finché, guarita la ferita (v. 37), dopo essere rimasto con le vesti senza lacci, a capo scoperto ma con la bocca velata, potrà finalmente, lavate le vesti, ritornare in comunità. Il ministro dell’altare deve quindi apprendere come osservare particolari macchie che comparissero su lana, stoppa o pelle, deciderne la dismissione fino a che non siano libere da chiazze sospette e lavate (vv. 47-59). Ulteriori indicazioni sono aggiunte in merito alle procedure di purificazione per «lebbra» di un uomo o di una casa (Lv 14). Colui che purifica è sempre il sacerdote (καθαρίζων) e il malato è colui che deve essere purificato (καθαριζόμενος). Se la piaga, esaminata dal sacerdote fuori dell’accampamento, sarà trovata guarita, per il «lebbroso» che è stato dichiarato puro (τῷ κεκαθαρισμένω), si compirà la purificazione con due uccelli vivi, puri, legno di cedro, filo scarlatto e issopo (v. 4).19 L’uomo sarà asperso sette volte con sangue e 19 Gli uccelli selvatici – e non domestici come le colombe che possono rientrare a casa – devono portare via l’impurità e svolgere una funzione analoga a quella del capro espiatorio di Lv 16,22. Il rituale, derivato verosimilmente dal passato non yahwista dell’antico Israele e raffrontabile con pratiche mesopotamiche, presuppone un valore magico del legno. Il legno di cedro, così come il filo scarlatto, è scelto in particolare per il suo colore rosso sangue, simbolo della vita: si deve con questo vincere il biancore pallido della «lebbra». L’issopo, diversamente, è utilizzato per aspergere. Cf. MILGROM, 834-836.
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acqua, si sciacquerà le vesti, si raderà, si laverà con acqua «e sarà puro» (v. 8). Rientrato nell’accampamento, resterà sette giorni fuori della propria abitazione, si raderà ancora una volta, tornerà a sciacquare le proprie vesti e a lavarsi «e sarà puro» (v. 9). L’ottavo giorno si recherà dal sacerdote per un sacrificio di espiazione con due agnelli, una pecora, farina e olio durante il quale sarà asperso di sangue e di olio (vv. 10-20),20 nel caso sia indigente provvederà solamente a un agnello e a due tortore, in aggiunta a farina e olio (vv. 21-32). Una casa che sia trovata con macchie simili a quelle di lebbra deve essere sbarrata (ἀφωρισμένη, v. 46), le pietre infette devono essere sostituite e quanto vi è dentro, impuro, deve essere lavato. Nel caso le mura non vengano risanate la dimora deve essere abbattuta, mentre qualora si accerti l’avvenuta purificazione occorre provvedere a un sacrificio per purificare la casa (ἀφαγνίσαι τὴν οἰκίαν, v. 49) analogo a quello previsto per la guarigione di un uomo, con due uccelli, legno di cedro, filo scarlatto e issopo (vv. 33-53). Come si osserva, lo stato di impurità è grave, provoca isolamento, può interrompere anche definitivamente i rapporti e il suo superamento è progressivo: dapprima si constata la ritrovata purità poi, nei tempi stabiliti, bisogna attuare procedure rituali perché questa sia acclarata. In ciò che segue si ribadisce che la perdita di seme, da parte dell’uomo, rende impuro l’interessato e tutto ciò che con lui viene a contatto. Se questi è affetto da gonorrea, avvenuta la guarigione e comprovato che è puro, deve attendere sette giorni, sciacquare le vesti, lavarsi. L’ottavo giorno deve poi offrire un sacrificio espiatorio (Lv 15,1-17). Precisato che il rapporto sessuale rende impuri fino a sera, si elencano le attenzioni analogamente richieste alla donna che abbia un flusso di sangue (vv. 18-30). Nel giorno dell’espiazione (Lv 16) il santuario è liberato dalle impurità, dalle ingiustizie e dai peccati degli Israeliti (καὶ ἐξιλάσεται τὸ ἅγιον ἀπὸ τῶν ἀκαθαρσιῶν τῶν υἱῶν Ἰσραὴλ καὶ ἀπὸ τῶν ἀδικημάτων αὐτῶν περὶ πασῶν τῶν ἁμαρτιῶν αὐτῶν, v. 16) e in tal modo i sacerdoti (vv. 19-20) e tutti i membri del popolo sono purificati (ἐξιλάσεται περὶ ὑμῶν καθαρίσαι ὑμᾶς ἀπὸ πασῶν τῶν ἁμαρτιῶν ὑμῶν ἔναντι κυρίου, καὶ καθαρισθήσεσθε, v. 30). In questa importante sezione che occupa il centro della Torah emerge come la purità sia un requisito essenziale per il popolo che, 20
Olio e sangue posseggono una forza apotropaica, pure riscontrata in analoghe fonti egiziane (MILGROM, 854-855).
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eletto dal Signore, si trova ad abitare assieme a lui. Il rispetto della santità di Dio, che si propaga ai luoghi del culto e alla persona dei suoi fedeli, esige la custodia di uno stato di purità. Quando questo è messo a repentaglio, tutto ciò che ne è causa deve essere allontanato. Se ogni membro del popolo è responsabile del mantenimento della purità della propria comunità, i sacerdoti ne sono i primi fautori in quanto maestri, giudici in materia rituale e officianti dei sacrifici che solo possono ristabilire l’effettiva purità delle persone e delle cose. Così come l’alleanza poggia sulla continua disponibilità ad ascoltare il Signore, in ogni stagione dell’esistenza dell’individuo e in ogni epoca del popolo, lo stato di purità non è mai garantito e anzi è costantemente perso e quindi da ritrovare. Il patto di Dio è invero stretto con un popolo che vive nella carne, sempre attraversata dagli umori, dal sangue, esposta alle malattie e destinata alla corruzione. Il popolo dimora inoltre assieme ad altre culture e convive con animali, rettili ed esseri striscianti puri e impuri che da un lato devono essere riconosciuti e tenuti lontani, dall’altro periodicamente si introducono nelle case dei fedeli più osservanti. Come rilevato, la perdita della purità può essere improvvisa ma il suo riacquisto è solo progressivo e si dispiega in tempi ben più lunghi. Le impurità non sono necessariamente provocate da un atto di ribellione a Dio e nondimeno devono essere espiate al pari dei peccati. Per ristabilire lo stato di purità devono insomma intervenire l’istruzione dei sacerdoti, l’acqua delle abluzioni e il sangue dei sacrifici. 3. LA PURIFICAZIONE DI
UN INTERO POPOLO: METAFORA DI SALVEZZA
Gli insegnamenti concernenti la purità di oggetti e persone appena richiamati riemergono quando la sventura del popolo, umiliato dalle nazioni vicine ed esiliato, viene interpretata come l’inesorabile destino di un popolo contaminato, la cui salvezza potrà giungere solo con la sua purificazione.21 Israele, stringendo un’alleanza con il Signore, si è impegnato ad obbedire alle sue parole ed è divenuto «una nazione santa» (ἔθνος ἅγιον), come una «casta sacerdotale» di alto livello i cui membri sono esclusivamente di stirpe regale (βασίλειον ἱεράτευμα, Es 19,6). 21 L’annuncio del «lavaggio», quale metafora dell’espiazione dei peccati è approfondita, a partire da Is 1,2-20; 4,2-6; Ger 2,20-25; 4,11-20, in L.R. DIFRANSICO 2016, 29-78.
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Per tale ragione, come si ripete nel Levitico, è e deve rimanere santo perché il suo Dio è santo (ἅγιοι ἔσεσθε ὅτι ἐγὼ ἅγιος κύριος ὁ θεὸς ὑμῶν, Lv 19,2). Allorché trasgredisce i comandamenti mosaici, e il primo in particolar modo («Non avrai altri dèi all’infuori di me», Es 20,3), si contamina. Nel linguaggio di Ezechiele, il libro più prossimo alla teologica di Levitico, le infrazioni delle leggi divine contaminano (Ez 14,11; 20,43) e la corruzione di Israele deriva dal traviamento procurato dagli idoli stranieri (Ez 20,7; 22,3. 5; 23,7; 37,23). Al modo in cui una donna che subisce violenza da un uomo è considerata contaminata (Gen 34,5; Ez 18,6), Gerusalemme si è lasciata macchiare da egiziani, assiri e babilonesi pur essendo la sposa del Signore (Ez 16,8. 26. 28; 23,17). Accogliendo profferte straniere, concludendo nuovi patti e assecondando usi culturali e religiosi estranei, si è gradualmente separata dal suo Dio, i suoi sacerdoti hanno cessato di distinguere tra sacro e profano, tra puro e impuro (Ez 22,26), lasciando violare il sabato, il tempio e quindi la terra nel suo insieme (Ez 23,38; 36,17).22 Il rimedio per il popolo in esilio, relegato appunto in una terra impura, è logicamente prospettato in una generosa aspersione di acqua pura: «E spruzzerò sopra di voi acqua pura, e sarete purificati da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, e vi purificherò» (Ez 36,25). Il contesto dell’annuncio è presto detto: Israele, incaricato di mostrare la grandezza di Dio ha fallito e pertanto il nome del Signore, anziché apparire glorioso, «santo», è ridicolizzato tra le nazioni. Il Signore decide così di provvedere: «mostrerò santo il mio grande nome che è stato profanato tra le nazioni, che avete profanato in mezzo a loro» (v. 23). Si impegna così a rimediare al corso degli eventi e quindi, se Israele è entrato tra le nazioni, dapprima assimilandosi ai loro costumi poi disperdendosi tra le loro terre, ora Dio lo fa rientrare nella terra promessa (vv. 22. 24). Giunto nella terra «santa» il popolo deve ritrovare lo stato di purità necessario per abitarvi e per questo gli è data «acqua pura».23 Tale acqua ha la funzione dello ὕδωρ ἁγνισμοῦ / ῥαντισμοῦ a cui si accenna in altri passi (Nm 8,7; 19,9), preparato con le ceneri di una giovenca rossa. 22 Simili denunce del popolo, diventato «impuro» a motivo del suo peccato, sono accennate anche in Is 64,5; Ger 2,7. 23; 7,30; 19,13; Os 5,3. La contaminazione procurata dagli idoli si rinviene anche in Gen 35,2; Ger 13,27; 40(33),8. 23 In merito all’adozione di lavaggi per ritrovare la purità si veda J.D. LAWRENCE 2006, 23-42.
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A differenza di quell’acqua, disponibile presso il tempio, questa sembra tuttavia di natura immateriale, mero simbolo dello «spirito» con cui Dio provvederà concretamente alla purificazione del popolo. L’azione dello spirito di fatto agirà sulle menti degli israeliti, sicché comincino a osservare con perseveranza i precetti divini (Ez 36,27). Tornando all’alleanza con Dio, evocata dalla formula «per me sarete un popolo e io sarò per voi Dio» (v. 28), Israele godrà quindi della benedizione promessa per la sua obbedienza (Lv 26,3-13) e il rispetto di tutti i popoli (suggerito dall’espressione «affinché non riceviate l’ingiuria della carestia tra le nazioni» in Ez 36,30b). All’interno del passo di Ez 36,22-32 ecco le parole in cui si articola il dono dell’acqua pura al dono dello spirito, capace di informare le menti degli israeliti (vv. 25-27):24 καὶ ῥανῶ ἐφʼ ὑμᾶς ὕδωρ καθαρόν, καὶ καθαρισθήσεσθε ἀπὸ πασῶν τῶν ἀκαθαρσιῶν ὑμῶν καὶ ἀπὸ πάντων τῶν εἰδώλων ὑμῶν, καὶ καθαριῶ ὑμᾶς. 26 καὶ δώσω ὑμῖν καρδίαν καινήν καὶ πνεῦμα καινὸν δώσω ἐν ὑμῖν καὶ ἀφελῶ τὴν καρδίαν τὴν λιθίνην ἐκ τῆς σαρκὸς ὑμῶν καὶ δώσω ὑμῖν καρδίαν σαρκίνην. 27 καὶ τὸ πνεῦμά μου δώσω ἐν ὑμῖν καὶ ποιήσω ἵνα ἐν τοῖς δικαιώμασί μου πορεύησθε καὶ τὰ κρίματά μου φυλάξησθε καὶ ποιήσητε. 25 E spruzzerò sopra di voi acqua pura, e sarete purificati da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, e vi purificherò. 26 E vi darò (δώσω) un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò (δώσω) in voi e toglierò il cuore di pietra dalla vostra carne e vi darò (δώσω) un cuore di carne. 27 E il mio spirito metterò (δώσω) in voi e farò che nei giudizi camminiate e i miei decreti osserviate ed eseguiate. 25
I versetti in questione presagiscono un’azione divina che dapprima fornisce acqua, poi consegna un cuore e uno spirito nuovo e infine il dono dello spirito santo («il mio spirito»).25 Liberato dai condizionamenti degli idoli, il popolo si ritrova ricreato (cf. Sal 50[51],12), con un cuore finalmente di carne – come secondo natura – anziché di 24 Il brano riprodotto (vv. 25-27) costituisce il centro del passo (Ez 36,22-32). Il v. 24 è ripreso infatti al v. 28 («introdurrò nella vostra terra… abiterete sulla terra»), così come l’avvio è ripreso nella conclusione («Casa di Israele […] non per voi io agisco […] | non con il vostro aiuto agirò […] casa di Israele», vv. 22. 32). 25 In merito alla terminologia dello spirito di Dio, ovvero dello spirito santo nell’Antico Testamento si veda il mio «La terminologia dello Spirito nell’Antico Testamento», 2018.
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pietra.26 Tanto il «cuore» quanto lo «spirito» donati consentono infatti il rinnovamento della persona, dal momento che «cuore» e «spirito», quali elementi costitutivi della persona, possono indicarne la totalità, designando in particolare lo stato d’animo, il temperamento, le disposizioni della volontà (cf. Dt 2,30; Sal 33[34],19; 50[51],19; 77[78],8; 142[143],4; Is 65,14; Ez 21,12). Nel fedele purificato e rinnovato è quindi infuso il medesimo spirito divino, pregno di energia vitale, capace di destare nell’uomo le risorse necessarie per essere guida, eroe liberatore, re, profeta (si pensi ai racconti di Gedeone, Sansone, Saul, Davide e al Servo di Isaia in Gdc 6,34; 13,25; 1 Regni 10,10; 16,13; Is 42,1; 61,1). Lo stesso Ezechiele racconta come lo spirito gli abbia trasmesso un oracolo (Ez 11,5), lo abbia indirizzato sia interiormente nei pensieri sia negli spostamenti, come già aveva fatto con Elia (Ez 8,3; 11,1. 24; 37,1; cf. 3 Regni 18,12; 4 Regni 2,16). La presenza dello spirito, nella prospettiva di Ez 36,27 pare muovere più specificamente all’obbedienza dei comandi mosaici, agendo sulle doti di intelligenza, sapienza e consiglio del popolo (cf. Is 11,2). Nella disposizione concentrica del passo si deve probabilmente intendere che l’aspersione con acqua pura coincide con il dono dello spirito divino, causa del rinnovamento delle disposizioni interiori del popolo.27 Il πνεῦμα, dalla potenza del vento, può d’altronde separare la pula dal grano e mondare (cf. 2 Regni 4,6; Ger 4,11). Questo πνεῦμα, come indicherà il seguito del libro, sarà elargito mediante il profeta, incaricato di indirizzarsi al popolo, icasticamente ritratto come un cumulo di ossa (impure!), perché riabbia vita (Ez 37,4-14). Ezechiele deve invocare lo spirito perché, entrando tra le ossa come in principio è entrato in lui (Ez 2,2), le rianimi. Esattamente così, dunque, parlando e profetizzando, Ezechiele otterrà il dono divino dello spirito che realizza la purificazione, un miracolo solo raffrontabile al passaggio dalla corruzione della morte alla vita.28 DIFRANSICO, 79-142 indaga questo passo mettendo a fuoco i collegamenti con Sal 50(51) e Zac 13,1-2. 27 Alcuni commentatori suggeriscono che lo stesso «spirito nuovo» del v. 26 sia lo «spirito santo» citato al v. 27. Cf. J.E. ROBSON 2006, 242-249. 28 Questa interpretazione si ritrova di fatto nella Regola della Comunità di Qumran: «Dio purificherà con la sua verità tutte le opere dell’uomo, e purgherà così la struttura dell’uomo sradicando ogni spirito di ingiustizia dall’interno della sua carne, e purificandolo con lo spirito di santità da ogni azione empia. Si verserà su di lui, come acque lustrali, lo spirito di verità contro tutti gli uomini di falsità e la contaminazione» (1QS IV 20-21, con la trad. di C. MARTONE 2014). 26
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Che la purificazione del popolo sopraggiunga con le parole del profeta e quindi si compia nel cuore che si riapre alla conoscenza di Dio trova corrispondenze con altre modalità di correzione testimoniate delle Scritture di Israele. Nel medesimo libro di Ezechiele Gerusalemme, moglie adultera del Signore, deve essere denudata, lapidata, trafitta dalla spada, deve vedere incendiate le case per l’ira del Signore per poi comprendere la gravità dei propri delitti e trovarsi perdonata (Ez 16,3843. 60-63). Il suo peccato, la propria contaminazione, deve cioè essere scontato perché la mente – vero luogo dell’incontro con Dio che deve essere purificato – si riapra a Dio («perché te ne ricordi e ti vergogni… quando mi sarò placato con te», v. 63). La collera di Dio come fuoco si deve riversare sulla città affinché sia liberata della sua impurità (Ez 24,13), poi deve giungere il ravvedimento poiché Dio non vuole la morte del malvagio «ma che si converta e vita» (Ez 33,11). Nella grande predicazione di Isaia Israele, come un figlio ribelle, deve rinsavire: per questo, come colpito dalla verga della correzione del padre, si ritrova coperto di piaghe (fuor di metafora, è giunta l’invasione assira e la terra è devastata). È invitato ad apprendere la giustizia, in modo da lavarsi e purificarsi. Prestando ascolto, vedrà i peccati «rossi scarlatto» divenire bianchi come la neve (Is 1,2-7. 16-19). Il fuoco che arde inaugura in fondo l’avvento dello spirito che apre le labbra. Ezechiele, muto davanti alla distruzione incombente, avvertito della capitolazione di Gerusalemme riprende a parlare (Ez 33,22). Isaia attesta che il Signore purifica con il fuoco Gerusalemme (πυρώσω σε εἰς καθαρόν, Is 1,25) e per primo confessa che le sue labbra impure, bruciate dal carbone ardente avvicinatogli da un serafino, liberate da ogni peccato, possono pronunciare gli oracoli di Dio (Is 6,5-9). Se il silenzio distingue chi, colpevole, non ha con che replicare, la parola scaturisce per converso da chi è giusto. Nell’elaborazione teologica di marca apocalittica fissata nel libro di Daniele, ma pure testimoniata da 2 Maccabei, la persecuzione di Antioco IV Epifane (167-164 a.C.) macchia e purifica: spinge molti a compromettersi con atteggiamenti contrari agli insegnamenti tradizionali, infligge sofferenze, saccheggi, ma in questi frangenti alcuni sono purificati. Questo accade grazie alla loro sapienza che li guida ad acquistare lo splendore degli astri e a procurare salvezza per altri (Dn 11,33-35; 12,1b-3).29 Chi con coraggio, sostenuto dalle lezioni 29
«33 E coloro che si danno pensiero per il popolo converranno per molti (καὶ ἐννοούμενοι τοῦ ἔθνους συνήσουσιν εἰς πολλούς); e cadranno di spada e andranno
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dei pari, affronta la morte inflittagli dal persecutore, offrendo la propria vita, compie il sacrificio che lo rende «puro». Dopo la morte si può così presentare al cospetto di Dio (καθαρὸς μετήλλαξεν παντελῶς ἐπὶ τῷ κυρίῳ πεποιθώς, 2 Mac 7,40).
in rovina con questa e per la prigionia e per il saccheggio di giorni saranno macchiati. 34 E quando saranno spezzati raccoglieranno una forza esigua e si raduneranno contro di loro molti come in una spartizione. 35 E alcuni di coloro che intendono saranno disposti a purificarsi e a essere prescelti e a essere purificati (καὶ ἐκ τῶν συνιέντων διανοηθήσονται εἰς τὸ καθαρίσαι ἑαυτοὺς καὶ εἰς τὸ ἐκλεγῆναι καὶ εἰς τὸ καθαρισθῆναι) fino al tempo del compimento. (…) 3 Coloro che intendono risplenderanno come gli astri del cielo (…)» (Dn 11,33-35; 12,3). Nel Testo Masoretico in Dn 11,33 anziché «andranno in rovina», si legge «nella fiamma» (belehābāhforse inteso come blhbh); cf. J.A. MONTGOMERY 1927, 460.
Il concetto di «puro» in Filone Lorenzo FLORI 1. INTRODUZIONE A proposito dei lemmi καθαρός, καθαίρω, κάθαρσις, καθαρίζω, l’uso che ne fa Filone è abbastanza ampio e difficile da sintetizzare in un percorso rigido. Il nostro tentativo è quello di presentare alcune delle espressioni più interessanti proponendo alcune categorie per raccogliere questi lemmi. Ma non si tratta certo di un sistema a scatole chiuse: molti di questi significati si intrecciano e si confondono all’interno della riflessione filoniana che non propone una chiara riflessione manualistica ma si muove sinuosa tra esegesi e filosofia1. Καθαρίζω presenta solo tre ricorrenze in Filone (due delle quali nelle citazioni di Gen 35,2 e Lv 13,12) e in tutte il soggetto dell’azione è Dio che purifica; 81 sono invece le ricorrenze per καθαίρω e 219 per καθαρός (κάθαρσις compare invece 39 volte)2. Molti sono gli utilizzi di queste radici: a volte il linguaggio è semplicemente una ripresa del linguaggio biblico-liturgico (le ossa di Giuseppe sono pure, Migr 17) o di alcune formule convenzionali (come «i purificati quanto alle orecchie», formula dal tono misterico3); altre volte sono definiti puri il Logos, Mosè (οὗτός ἐστι Μωυσῆς, ὁ καθαρώτατος νοῦς, Congr 132), l’intelletto, la luce, la sapienza (Leg 1,77), l’occhio dell’anima (Conf 92), ecc. In questo nostro 1 Per il rapporto tra esegesi e filosofia in Filone l’opera di riferimento è la tesi di Valentin Nikiprowetzky citata in vari commentari: NIKIPROWETZKY 1977. 2 P. BORGEN 2000, 181-182. Da questo testo prendiamo anche le abbreviazioni utilizzate in questo articolo per citare i vari trattati di Filone. 3 Si vedano le ricorrenze di Cher 48; Gig 54; Mos 2,114; Spec 4,59. Ciò non toglie che l’approccio misterico sia contestato da Filone. In Spec 1,319-323 ai discepoli di Mosè non è permesso chiudersi in discorsi settari. Certe istruzioni devono essere fornite alla luce del sole, in piena luce (ἡλίῳ καθαρῷ, Spec 1,321) perché, aggiunge nel paragrafo successivo, la Natura stessa non nasconde nulla delle cose più belle: «Forse non vedi che la natura non nasconde nulla delle sue stesse cose più famose e più belle?» (ἢ οὐχ ὁρᾷς, ὅτι καὶ ἡ φύσις τῶν ἑαυτῆς ἀοιδίμων καὶ παγκάλων ἔργων οὐδὲν ἀπέκρυψεν). Eppure « malgré sa vive opposition aux mystères Philon n’éprouve aucun scrupule à utiliser leur vocabulaire. Il applique ἱεροφάντης non seulement à Moïse (cf. Spec 2,201; 4,177; Virt 75.174), mais à Dieu lui-même (cf. Somn 1,164) » (S. DANIEL 1975, 33, n. 5).
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contributo proponiamo un percorso con alcune tipologie in cui leggere le ricorrenze più significative per meglio comprendere l’articolato pensiero filoniano. 2. COSMOLOGIA Un primo linguaggio che riscontriamo nella lettura dei passi interessati è quello cosmologico. Dio ha creato l’universo e questo è dunque in qualche modo legato a lui. Certo, ci sono diversi gradi di vicinanza. Il cielo è, di tutti gli elementi, il più puro (la parte più pura del tutto come dice Plant 20, τὴν καθαρωτάτην τοῦ παντὸς μοῖραν, οὐρανόν), è il migliore degli elementi creati perché Dio vi abita (Opif 27); speciali sono gli astri che non sono solo esseri viventi ma ciascuno è detto spirito purissimo (καὶ γὰρ ἕκαστος τούτων οὐ μόνον ζῷον, ἀλλὰ καὶ νοῦς ὅλος δι᾽ ὅλων ὁ καθαρώτατος εἶναι λέγεται, Somn 1,135). L’aria è in realtà come una città abitata da esseri (Somn 1,133): ci sono le anime, e tra queste, alcune entrano nei corpi mortali ma altre «non si curano di avere alcun posto in terra, ma quelle fra di esse che sono più pure si collocano nella regione più alta, addirittura in prossimità dell’etere»4 (Plant 14). Queste anime sono gli angeli (noti presso i greci come eroi). La creazione proviene da una materia che all’inizio, nel momento in cui Dio separa terra e acqua, è ancora pura («la materia costitutiva degli esseri che nascevano era senza mescolanza, genuina, pura [καθαράν]», Opif 136) e da questa materia si trae la parte più pura (ἐκ καθαρᾶς ὕλης τὸ καθαρώτατον, Opif 137) per creare l’uomo che è tempio dell’anima razionale (ψυχῆς λογικῆς). Ciò con cui Dio crea è il Logos, che è elemento purissimo («Questo Logos è di natura fine, così da poter pensare ed essere pensato; di natura assai lucente e pura, sì da attrarre lo sguardo […] Il Logos di Dio sovrasta tutto l’universo, è il primo nato e il più universale di tutti gli esseri creati», Leg 3,170. 175). Questo Logos è alla base della creazione. Come il Logos determina e muove l’universo, così l’intelletto muove tutte le parti dell’uomo. Filone passa così da una lettura cosmologica ad una più antropologica5. 4 Per gli autori delle traduzioni si invita a considerare i testi riportati in bibliografia: ricordiamo che i curatori di tali edizioni si possono essere avvalsi della traduzione di altri colleghi. 5 E viceversa a partire da considerazioni antropologiche propone spunti per la sua cosmologia. Per esempio, a partire dall’invisibilità della nostra mente, può parlare dell’esistenza di un re invisibile che è alla base della creazione (Abr 74). In realtà, il
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3. ANTROPOLOGIA È quanto troviamo ben definito in Her 87-88. In questo paragrafo Filone sta commentando il passo in cui Dio dice ad Abramo di contare le stelle e aggiunige «Così sarà la tua discendenza» (Gen 15,5). Il «così» non riguarda il numero, ma la qualità di questi futuri uomini, che hanno dunque un ché di celeste perché sono i sapienti: Egli dice che sarà «così», cioè come l’etere visibile; «così», cioè celeste; «così», cioè piena di luce trasparente e pura (οὕτως αὐγῆς γέμον ἀσκίου καὶ καθαρᾶς οὐρανοῦ), giacché nel cielo non c’è notte e nell’etere non c’è tenebra, simile in sommo grado alle stelle, ben ordinata, seguace di un ordine indefettibile, che si mantiene immobile ed identico a sé. | Infatti, Egli vuol far vedere che l’anima del sapiente è un’imitazione del cielo (ἀντίμιμον οὐρανοῦ), o per dirla con una immagine iperbolica, che è un cielo sulla terra, perché in lei, come nell’etere, ci sono realtà pure (οὐρανὸν ἐπίγειον... τὴν τοῦ σοφοῦ ψυχὴν ἔχουσαν ἐν ἑαυτῇ καθάπερ ἐν αἰθέρι καθαρὰς φύσεις), movimenti ordinati, danze armoniose, divine rivoluzioni, raggi di virtù in sommo grado simili a stelle e luminosissimi. E se nessuno riesce a contare il numero delle stelle sensibili, come potrebbe contare quello delle intelligibili? (Her 87-88).
Fug 71 è un altro brano interessante che commenta la differenza tra Gen 1,26 e il versetto successivo: se nel primo si parla, con un soggetto plurale, di «fare un uomo» in quello seguente invece troviamo come soggetto Dio stesso e si utilizza l’articolo determinativo. Dell’uomo vero, che si identifica con l’intelletto allo stato più puro (νοῦς ... καθαρώτατος), il solo artefice è il Dio unico, mentre l’essere chiamato uomo, cui si mescolano le sensazioni, deve la propria creazione a una molteplicità di artefici (Fug 71).
Anche in Leg 1,53-55 Filone parla della creazione dell’uomo e lo fa partendo da Gen 2,8 distinguendo l’uomo plasmato da quello creato. Del primo non si dice che viene posto a guardia del giardino: è infatti immagine dell’uomo dotato di un intelletto più terrestre che finirà per essere cacciato dall’Eden. In Leg 1,88 si spiega poi che con confronto con il cosmo verrà utilizzato anche per parlare della liturgia, nel caso specifico del Tempio: il culto infatti sarebbe specchio della realtà che ci circonda. «Prominent among Philo’s multifarious interpretations of cultic rites is the notion that many aspects of the temple’s ritual and structure are to be understood as representing elements of the cosmos. Philo, tellingly, emphasizes this point when he introduces his most detailed and sustained discussion of sacrificial matters in the first book of Special Laws (1:66–67)» (J. KLAWANS 2005, 118).
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l’espressione «l’uomo fatto» si intende un intelletto più immateriale, celeste, che non ha parte della materia mortale avendo una sostanza pura e semplice. Nel DeGigantibus, si parla invece di tre tipi di uomini (οἱ μὲν γῆς, οἱ δὲ οὐρανοῦ, οἱ δὲ θεοῦ ... ἄνθρωποι, Gig 60). Il primo gruppo è per coloro che sono legati ai piaceri. Il secondo è per chi è guidato dall’intelletto. L’intelletto è infatti l’elemento celeste che è negli uomini («ὸ γὰρ οὐράνιον τῶν ἐν ἡμῖν ὁ νοῦς) e infatti questi sono chiamati i figli del cielo. Ma questo non basta, bisogna diventare come Abramo, che è il ragionamento virtuoso, eletto e purificato; in quanto tale Abramo è assegnato all’unico vero Dio (Gig 64). In Deus 41-49 Filone propone un’altra struttura per definire l’uomo, basata su questi tre elementi: αἴσθησις, φαντασία, ὁρμῆ. Dalle percezioni arrivano all’intelletto dei «sigilli», delle rappresentazioni, che si imprimono nell’intelletto che è come una cera che fa memoria di quanto riceve finché l’oblio non lo cancella. Si creano così nell’uomo delle esperienze che gli sono familiari, verso le quali si formano gli impulsi, dei movimenti dell’anima. Le piante non hanno percezione e non hanno impulsi: per questo gli animali sono esseri migliori di loro. Ma il loro intelletto non è rivolto alla libertà! Per questo sopra tutti gli esseri vi è l’uomo che ha ricevuto in sorte l’intelligenza (διάνοια), una sostanza più pura6: La sola cosa incorruttibile in noi. Solo essa, infatti, il Padre che ci ha generati ha giudicato degna della libertà, e, sciolti i vincoli della necessità, l’ha lasciata libera, donandole la parte che essa poteva accogliere di ciò che a Lui appartiene nel modo più specifico e proprio, la libera volontà (Deus 47).
La purezza allora si configura come somiglianza a Dio e tale somiglianza non è teorica ma è riconoscibile nell’agire dell’uomo che, liberamente, si decide per il bene e per ciò che è bello e virtuoso. Certo, questa dimensione della libertà rende l’uomo esposto anche alle punizioni, perché questa libertà può scegliere il male. Per questo motivo, quando Filone analizza gli alberi del giardino dell’Eden (Leg 1,60-61), dichiara che in realtà essi non sono che uno solo. Quando l’uomo fa il bene, resta piantato nel mezzo del giardino (ecco spiegato l’albero della vita lì collocato) mentre l’albero del bene e del ἐξαίρετον οὗτος τοίνυν γέρας ἔλαχε διάνοιαν… καθαρωτέρας δὲ καὶ ἀμείνονος ἔλαχε τῆς οὐσίας, Deus 45-46. 6
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male spiega la doppia dimensione dell’uomo che può scegliere anche di peccare (in questo caso l’albero non può stare nel giardino; ecco spiegato perché il testo biblico non commenta la sua posizione). 4. L’ANIMA RAZIONALE Spesso si parla dell’anima razionale come della parte purificata che deve farsi carico di gestire l’anima irrazionale, dettata dalle passioni. L’intelletto purificato soffre poco la dittatura dei sensi (κεκαθαρμένος νοῦς ἐλάχιστα ἀλγεῖ, Leg 3,200). La purezza si lega dunque alle capacità razionali: lo stolto (ἄφρων) è molto più esposto! Il Logos purificato che è nell’uomo controlla l’istinto (ἡνιοχηθήσεται ὁ θυμὸς ὑπό τε λόγου κεκαθαρμένου, Leg 3,127). L’intelletto migliore è quello più vicino a Dio, che ne ha una conoscenza diretta: non a caso si fa il confronto tra Mosè e Bezaleel, l’artista. Quest’ultimo ha una conoscenza di Dio tramite le arti, così come molti uomini hanno una conoscenza di Dio solo attraverso la creazione e il Logos con cui Dio ha creato. Ma anche il Logos stesso è solo ombra di Dio (Leg 3,96); invece l’intelletto più puro e più perfetto è Mosè che ha una conoscenza diretta della Causa, cioè non mediata dalle cose create (ἔστι δέ τις τελεώτερος καὶ μᾶλλον κεκαθαρμένος νοῦς... ὅστις οὐκ ἀπὸ τῶν γεγονότων τὸ αἴτιον γνωρίζει,... οὗτός ἐστι Μωυσῆς», Leg 3,100-101). Mosè è superiore anche ad Aronne: di questi si dice che ha la chiarezza sul petto, cioè cerca di mitigare l’istinto (μετριοπάθεια). Mosè invece ha il coltello, taglia il petto, cioè l’appetito: in effetti fu in grado di non mangiare e bere per quarata giorni (Leg 3,142). Eppure ciò non significa che Filone proponga un totale disprezzo del corpo. Se l’istinto e il bisogno fisico van controllati e mitigati, però si dice che Mosé tolse il petto ma non il ventre: questo va lavato e purificato (πλυνέτω οὖν αὐτὴν καὶ καθαιρέτω ἀπὸ τῶν περιττῶν καὶ ἀκαθάρτων παρασκευῶν, Leg 3,147). In Det 170 si parla delle parti irrazionali dell’animo (che sono i sette sensi, ripresi nell’immagine delle sette coppie pure di animali sopravvissuti a quella purificazione che fu il diluvio, Det 168) e le si definisce tutte pure: «ritenendo giusto che il nobile ragionamento usi di tutte le parti pure dell’anima irrazionale» (δικαιώσας τὸν ἀστεῖον λογισμὸν χρῆσθαι μέρεσι τοῖς τοῦ ἀλόγου πᾶσι καθαροῖς). Ciò che conta è l’ottavo elemento, l’intelletto, che non deve essere eliminato (come Caino). Queste parti dunque sono pure se si trovano nel saggio, sono da punire se si trovano nello stolto (Det 169; 173).
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Se all’intelletto viene riconosciuto un assoluto primato, ciò non significa che la dimensione sensibile sia totalmente impura e da eliminare. Certo, la donna è usata come immagine dell’anima irrazionale minacciata dagli aspetti più sensibili: «della donna, che è il percepire, è proprio il sentire dolore» (τῆς γυναικός, ἥτις αἴσθησις ἦν, ἴδιόν ἐστιν ἀλγηδὼν πάθος, Leg 3,200). Ma se Filone usa spesso figure femminili per parlare della percezione, è anche vero che ne fornisce degli esempi positivi (Sara e Agar in Congr 143). In Agr 80 Maria è la guida di tutte le donne, come Mosè è l’uomo perfetto, cioè l’intelletto puro; Maria sarebbe immagine di una sensazione purificata (Μαριάμ, αἰσθήσει κεκαθαρμένῃ). Una categoria importante per parlare della purezza sarà quella di «migrazione» (Migr 2), ossia l’uomo si purifica allontanandosi dal corpo, dalla sensazione e dalla parola (quella proferita, pronunciata in pubblico). Ma questa «migrazione» (μετανάστασις) non è da interpretare letteralmente, altrimenti si farebbe di Dio qualcuno che invita la gente a morire: «sarebbe l’ordine di chi prescrive la morte» (ἐπεὶ θάνατον ἦν διαγορεύοντος ἡ πρόσταξις, Migr 7). In realtà, Filone non abbraccia mai un totale disprezzo del corpo e del sentire, elemento che non va semplicemente eliminato. Si specifica infatti che il sentire è sorella e congenere della διάνοια: αἴσθησις δὲ συγγενὲς καὶ ἀδελφόν ἐστι διανοίας (Migr 3)7. La purezza si ottiene dando primato alla parte razionale, senza negare totalmente la dimensione corporea, sensibile (che certamente risente di un certo decadimento rispetto alle prime cose create). A proposito delle virtù, Filone nota che, al di là del nome al femminile, queste sono in realtà un principio maschile perché mettono in moto e organizzano il sentire, lo incanalano; il pensiero invece subisce il movimento, lo accoglie, è femminile nel senso di ricettivo, passivo. Eppure questo non toglie valore al pensiero, che resta un principio puro nonostante la sua passività, che anzi è la fonte della sua salvezza: «femminile è il pensiero che subisce il movimento, che viene educato e sostenuto e che insomma ha il suo contrassegno nella 7 Al paragrafo precedente, in Migr 2, si parlava della «parentela» che l’anima ha con la dimensione sensibile. La sensibilità resta infatti un momento imprescindibile del sapere per Filone: «Prima di entrare in contatto con Eva, l’intelletto è sterile e vacuo, privo di contenuti, cieco, immobile in una situazione di impotenza (Cher 58). In seguito all’incontro, gli si apre un mondo meraviglioso di colori e sensazioni, una grande ricchezza di possibilità e di contenuti (Cher 61-62), una fonte continua di conoscenza e di gioia. Immediatamente però subentra la trasgressione dovuta all’orgoglio, all’attribuzione a sé del sapere» (F. CALABI 2013, 41).
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passività al punto che proprio in questa condizione passiva è la sua unica salvezza» (Abr 102). Certo, anche Filone conosce l’attrazione per la perfezione: per questo una realtà uniforme e non variegata può venir considerata come più pura. Seguendo questa idea in Plant 110-116, Filone spiega un passo difficile sulla lebbra nel quale vuole mostrare che è puro colui che è bianco da cima a fondo (mentre sembrerebbe logico il contrario). Questo si può spiegare perché il soggetto in questione non è punteggiato, e ciò è stato detto affinché noi in analogia con il mutamento del corpo lasciamo quell’atteggiamento della mente che è variegato, malvagio, oscillante e indefinito, e assumiamo il puro colore della verità, che è uniforme e definito (Plant 111).
Questo approccio non deve tuttavia far credere che ci sia sempre una preferenza per ciò che è uniforme e identico. Bisogna segnalare che in Somn 1,201-208 a proposito delle pecore chiazzate del sogno di Giacobbe, Filone propone una magnifica lode della creazione con tutta la sua varietà: il creatore è grande proprio per essere l’artefice di questa magnifica tessitura8. Certamente, la dimensione fisico-corporea non è perfetta. Filone usa l’immagine della città e parla dell’uomo come di un composto di anima e corpo. La nostra parte mortale è esposta al mutamento, è naturale che sia così, ma il servitore di Dio riceve una eterna libertà che lo guarisce da ciascuno di questi moti. L’uomo è fatto così, continuamente cambia, e continuamente deve essere liberato, perché il mutamento è innato a causa dalla sua natura mortale (Sacr 126127). Il mutamento dunque ha un che di negativo: «questo tifone è un cambiamento involontario improvviso che contamina l’anima, 8 Oltre ai capi tutti-bianchi, il testo sacro «vuole che ve ne siano degli altri, variegati, ma non alla maniera della lebbra, il male repellente che assume di continuo forme e modi diversi, né soggetti ad una vita instabile e agitata per manchevole fermezza di giudizio, bensì bollati da scritte e contraddistinti da sigilli diversi l’uno dall’altro ma tutti genuini, le cui caratteristiche mescolate e combinate tra loro producono un’armonia simile a quella musicale (...). Io guardo con ammirato stupore non solo all’arte (della variegatura) in sé, ma anche al nome che la designa, specialmente quando contemplo le sezioni della terra, le sfere celesti, le specie diverse degli animali e delle piante, insomma quel tessuto tempestato di screziature che è il nostro mondo. Perché sono costretto di colpo a pensare all’Artefice di tutta questa tessitura, all’Inventore della scienza del variegare; venero l’inventore, valuto la Sua invenzione, rimango sbigottito dinanzi alla sua opera, per quanto non possa abbracciarne con lo sguardo neanche una minima parte» (Somn 1,202-204).
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cambiamento che chiamiamo morte» (ὁ δὲ τυφὼν οὗτος τροπή τίς ἐστιν ἀκούσιος παραχρῆμα τὸν νοῦν μιαίνουσα, ἣν καλεῖ θάνατον, Deus 89). Ma il mutamento può essere anche in senso opposto: significa che l’uomo può tornare alle cose di prima. In Somn 1,180 si dirà che sarebbe stato meglio non migrare, ma visto che questo non è possibile, allora bisogna darsi al possibile ritorno: «sarebbe stato bello che l’anima razionale, rimanendo in se stessa, non fosse emigrata verso la percezione; ma il secondo viaggio è il ritornare in se stessi» (καλὸν μὲν γὰρ ἦν, τὸν λογισμὸν ἐφ᾽ ἑαυτοῦ μείναντα μὴ ἀποδημῆσαι πρὸς αἴσθησιν· δεύτερος δὲ πλοῦς, ἐφ᾽ ἑαυτὸν ὑποστρέψαι πάλιν, Somn 1,180). Commentando l’espressione «Noè trovò grazia» Filone interpreta il verbo «trovare» come un ri-trovare e sottolinea così l’importanza del ritorno ad uno stadio perduto, dimostrando che questo recupero è possibile dopo la purificazione: «e purificatosi riprende e si ricorda di quelle cose che per un attimo aveva trascurato e ritrova le cose che aveva gettato via» (καὶ καθαρθεὶς ἀναλαμβάνει καὶ ἀναμιμνῄσκεται ὧν τέως ἐπελέληστο, καὶ ἅπερ ἀπέβαλεν εὑρίσκει, Deus 90). 5. L’EDUCAZIONE E L’ASCESI Alla purezza ci si può educare: infatti esiste l’agricoltura dell’anima (ἡ ψυχῆς γεωργική, Agr 17), cioè una cura dell’anima che purifica (Agr 10) eliminando gli alberi delle passioni e dei vizi (παθῶν ἢ κακιῶν δένδρα) che portano frutti di morte. Riprendendo la categoria di migrazione, Filone afferma che questa può essere intesa come un acquisire una mentalità da straniero, bisogna infatti diventare «simile a colui che si è fatto straniero per mentalità» (ἴσον τῷ τὴν γνώμην ἀλλοτριώθητι, Migr 7). La trattazione di questo argomento continua nei paragrafi successivi (Migr 17-21). Essendo assurdo che le cose impure stiano con quelle pure (ἄτοπον ἡγούμενος καθαρὰ μὴ καθαροῖς συνεζεῦχθαι, Migr 17) bisogna allearsi alle realtà incorruttibili (τὰ ἄφθαρτα), di cui la prima è proprio l’avversione, l’estraneità ai piaceri (ἡ πρὸς ἡδονὴν ἀλλοτρίωσις, Migr 19)9. 9 Seguono poi la perspicacia unita a fermezza (ἡ μετὰ καρτερίας ἀγχίνοια, Migr 19), il non essere sottomesso (τὸ μὴ ὑπήκοον, Migr 20), il migrare dalle cose sensibili a quelle intelliggibili. «Ebreo» significa infatti migratore (ἀπὸ τῶν αἰσθητῶν ἐπὶ τὰ νοητὰ μετανίστασθαι περάτης γὰρ ὁ Ἑβραῖος ἑρμηνεύεται), rifiutare ciò che non è degno di lode, prendersi gioco dell’incontenibile natura dei desideri e di
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Esemplari in questo senso sono i leviti10, gente senza una terra propria perché sempre pronti ad emigrare. Questa loro capacità di distacco è assoluta, tanto che sono pronti a uccidere i familiari: questo è il modo con cui Filone giustifica la strage operata dai leviti in occasione del vitello d’oro (Ebr 66). Filone, per parlare dell’ascesi, utilizza il patriarca Giacobbe, «l’asceta» per antonomasia (ὁ ἀσκητὴς ἐπίκλην Ἰακώβ, Plant 110). Questo personaggio si confronta con Esaù, icona della dura ignoranza. Ma Giacobbe non è ancora perfetto e per questo motivo deve fuggire dal fratello. Dall’altra parte, fuggire il male non è sufficiente per arrivare ad uno stadio di purezza e poter abitare con il vero bene. Se non ci si è ancora purificati perfettamente (μήπω τελείως καθαρθέντες, Fug 41), bisogna fuggire sia il peggio che il meglio (ἀποφεύγετε οὖν ἐν τῷ παρόντι καὶ τὸ κάκιστον καὶ τὸ ἄριστον, Fug 42). Infatti, vivere a contatto del male è danno grave, ma anche stare con il bene perfetto è assai rischioso (τὸ μὲν γὰρ συνδιατρίβειν κακῷ βλαβερώτατον, τὸ δὲ ἀγαθῷ τελείῳ σφαλερώτατον, Fug 43). Per questo motivo, Giacobbe deve emigrare, non potendo stare con il fratello ma neppure con i genitori, soprattutto con il padre Isacco, immagine di quanto c’è di più puro. Infatti, se Giacobbe è immagine dell’asceta, Isacco è pensiero purissimo: «il generato non era uomo, ma pensiero purissimo, bello per natura più che per occupazione» (οὐ γὰρ ἄνθρωπος ἦν ὁ γεννώμενος, ἀλλὰ νόημα καθαρώτατον, φύσει μᾶλλον ἢ ἐπιτηδεύσει καλόν, Fug 167). Questo perché Isacco, per Filone, è icona dell’autodidatta (αὐτομαθής) di colui cioè che impara direttamente da Dio, senza più la fatica della ricerca. Tornando al trattato DePlantatione, si parla del frutto che per tre anni sarà non purificato. È un testo da leggersi allegoricamente per Filone: anche perché l’espressione ἀπερικάθαρτος καρπός potrebbe significare, per lui, sia «che ha bisogno di purificazione» ma anche che è «frutto di un’abbagliante purezza» (Plant 115). Allora i tre anni potrebbero essere le tre parti del tempo (il passato, il presente e il futuro) e il frutto di cui si sta parlando sarebbe quello dell’educazione tutte le passioni (τὸ ἐμπαίζειν ἐπιθυμιῶν καὶ πάντων παθῶν ἀμετρίαις, Migr 21), aver timore di Dio se ancora non si è capaci di amarlo (τὸ φοβεῖσθαι τὸν θεόν, εἰ καὶ μηδέπω γέγονεν ἀγαπᾶν ἱκανός, ibidem), acquistare anche in Egitto la vita vera (τὸ ζωῆς ἐν Αἰγύπτῳ μεταποιεῖσθαι τῆς ἀληθοῦς, ibidem). 10 Sacr 119 parla dei leviti: essi sono un sacrificio vivente offerto a Dio, sono «fuggiti» in Dio, sono immagine del Logos, cioè della parte più intima e più dominante dell’anima a cui è assegnata la contemplazione, l’azione preminente, appunto come a Levi è data la primogenitura, anziché a Ruben.
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che «sarà, si manterrà e continuerà ad essere intatto in tutte le dimensioni del tempo, il che equivale a dire che non subirà mai corruzione. Incorruttibile è, infatti, la natura del bene» (Plant 114). 6. LA
DIMENSIONE ETICA
A questo punto, vogliamo mettere in rilievo l’interesse di Filone per la dimensione pratica dell’agire. Non tutte le azioni sono identiche, e tra quelle malvagie, impure, non tutte hanno la stessa gravità. Commentando i tre tipi di nudità11, Filone nota che ci sono peccati rimasti in casa e altri che sono andati fuori. Noè cade nel peccato ubriacandosi, ma se fosse tutto dipeso solo da lui il peccato sarebbe rimasto in casa con Sem e Iafet che lo coprono (e per questo sono lodati); non è così a causa di Canaan che esterna il peccato del padre. In questo senso, anche il saggio può cadere nel vizio, ma lo limita al pensiero, non lo pone in atto; se lo esterna, invece, come Canaan, viene maledetto dal padre. Dunque, se i ragionamenti non restano inerti e non accondiscendono allo sbandamento dell’anima, annullano il peccato. E il Padrone di ogni cosa la purificherà (l’anima). Il voto della vedova e della ripudiata, al contrario, è lasciato irrevocabile (Leg 2,63).
Sempre allo stesso paragrafo ci viene spiegato il perché di questa irrevocabilità: la ripudiata è segno di chi ha commesso il peccato all’esterno (cioè ha peccato con azioni pienamente realizzate, καὶ διὰ τῶν ἀποτελεσμάτων ἁμαρτάνειν) e resta incurabile (ἀθεράπευτος μένει). È dunque Dio che purifica; dall’altra parte, la dimensione umana è importante perché potrebbe ostacolare per sempre l’azione divina. La realizzazione o meno di una cosa è dunque fondamentale per Filone: Alcuni proclamano questo principio fondamentale della pietà religiosa: Dio è l’inizio e la fine di tutto (τινὲς... ἔφασαν τὸν θεὸν ἀρχὴν καὶ πέρας εἶναι τῶν ἁπάντων, δόγμα κατασκευαστικὸν εὐσεβείας). Un siffatto principio, una volta piantato nell’anima, produce il frutto più bello e nutriente, ossia la santità (Plant 77). 11 Si veda Leg 2,53-64: la migliore nudità è la spogliazione dal corpo e dalle passioni (esempi ne sono Abramo, Isacco, Giacobbe); la seconda è la nudità del bambino, che è in uno stato di innocenza perché non in grado di pensare o di percepire (fu la condizione originaria di Adamo ed Eva); la terza (ma trattata per seconda da Filone) è lo smarrimento della virtù come accadde a Noè che, ubriaco, si spogliò nudo.
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Bisogna dunque arrivare ai frutti. L’uomo è visto come un intelletto mediano (τὸν μέσον νοῦν) posto nel giardino che è l’universo, spinto da forze opposte, costretto a scegliere (Plant 45); dalle sue azioni, cioè dai suoi frutti, lo possiamo giudicare. Per ottenere frutti buoni bisogna avere anche il coraggio di operare una meticolosa purificazione di questi frutti (ἀλλὰ τοῦτό γε τὸ φυτὸν καθάρσεως δεῖται καὶ περιττοτέρας ἐπιμελείας, Plant 101). Il discorso delle virtù è fondamentale per Filone. In Somn 2,20 dice che chi desidera il bene per se stesso giunge di notte a visioni più pure (τὰς ἐν τοῖς ὕπνοις φαντασίας εἱλικρινεστέρας καὶ καθαρωτέρας ἐξ ἀνάγκης εἶναι συμβέβηκεν) e di giorno ad azioni migliori. Spec 1,150 presenta delle parti dello stomaco dell’animale sacrificato da consegnare al sacerdote e Filone le interpreta come il primato della padronanza di sé sulla concupiscenza; questa padronanza è «virtù pura e senza macchia» (ἐγκράτεια δέ, καθαρὰ καὶ ἀκηλίδωτος ἀρετή)12. Nel sogno dei covoni di Giuseppe, Filone mette in risalto soprattutto il tema del mietere, cioè del discernere (διακρίνειν) tra le cose veramente necessarie e quelle che non lo sono, tra le cose utili e quelle inutili. La capacità di poter distinguere (…) non tanto tra i prodotti della terra quanto tra le elaborazioni del pensiero, è indizio di virtù pienamente compiuta (τὸ γὰρ δύνασθαι διακρίνειν [...] μὴ ἐν οἷς ἡ γῆ βλαστάνει μᾶλλον ἢ διάνοια φύει, τελειοτάτης ἀρετῆς ἐστιν) (Somn 2,22).
I sacerdoti devono essere maestri nell’arte del distinguere, e distinguere tra puro e impuro corrisponde al distinguere tra giusto e ingiusto (εἰς διαστολὴν καὶ διάκρισιν ἁγίων καὶ βεβήλων καὶ καθαρῶν καὶ ἀκαθάρτων καὶ νομίμων καὶ παρανόμων, Spec 1,100). E sempre in questo paragrafo, Filone ricorda che proprio per evitare che il vino offusci la capacità dell’uomo di discernere tra bene e male è importante evitare l’ubriacatura. Eppure la capacità di distinguere da sola non basta: i sofisti sarebbero come i maiali, animali dall’unghia bipartita (immagine del separare, del discernere) ma impuri perché non ruminano (non sono cioè in grado di meditare). 12 Per esaustività, si veda anche il paragrafo precedente: «Avversario della concupiscenza è la padronanza di sé; che è opportuno procurarsi con ogni mezzo, esercitandola, lavorando duro e affrettandosi, come (se fosse) il bene più grande e più perfetto sia privatamente che pubblicamente (ἀντίπαλον δὲ ἐπιθυμίας ἐγκράτεια, ἣν ἀσκητέον καὶ διαπονητέον καὶ σπουδαστέον μηχανῇ πάσῃ περιποιεῖσθαι ὡς μέγιστον ἀγαθὸν καὶ τελειότατον ἰδίᾳ τε καὶ κοινῇ συμφέρον)» (Spec 1,149).
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La dimensione etica è usata anche per spiegare le interpretazioni liturgiche: infatti Filone non può capire come il passaggio di un sacerdote, persona purificata, renda impura una casa. Dovrebbe essere il contrario (Deus 132): ma allegoricamente il Sacerdote è il testimone che viene ad accusare chi sbaglia per inesperienza e non sa neanche di commettere dei peccati. In questo senso, il sacerdote è un raggio di luce purissima (φωτός τις αὐγὴ καθαρωτάτη, Deus 135) che mette in evidenza le impurità e offre la possibilità del perdono (Deus 134). Per questo, ciò che era puro, dopo il suo passaggio può diventare impuro. Certamente la natura ha fornito agli uomini l’intelligenza, e questa è una grandissima alleata dell’uomo (λόγον ἡ φύσις δυνατώτατον σύμμαχον ἀνθρώπῳ δημιουργήσασα, Cher 39) ma essa non basta. Il DeSacrificiis spiega perché non si offrono il cervello o il cuore, che dovrebbero essere le parti più sacre degli animali, quelle appunto più importanti e dunque le più adatte al sacrificio. In realtà la purezza non è data dalla sola dimensione razionale ma dall’atto. Il principio direttivo ha in sé sia la possibilità del bene che quella del male, è infatti «la regione che ha accolto entrambi i combattenti, il bene e il male» (τὴν δεδεγμένην οὖν χώραν ἄμφω τὰ μαχόμενα καλόν τε καὶ αἰσχρόν, Sacr 138). Ma il male morale è profano, esclude dal sacro. Quindi solo dopo che ha agito, che ha separato le due possibilità e si è deciso per il bene sarebbe possibile offrirlo a Dio. Purificare dunque è separare, nel senso di eliminare il male per scegliere di compiere il bene. Dio infatti non si interessa tanto alle dimensioni degli animali offerti ma alla disposizione dell’offerente (οὐ γὰρ πολυσαρκίᾳ καὶ πιότητι ζῴων χαίρει ὁ θεός, ἀλλ᾽ ἀνυπαιτίῳ τοῦ εὐξαμένου διαθέσει, Spec 2,35). Da tutto questo capiamo come Filone abbia una dimensione religiosa che va oltre la semplice prassi virtuosa. Egli afferma che le virtù non sono sufficienti da sole per giungere al bene. Come la donna ha bisogno di un seme maschile per generare, così le virtù da sole non possono nulla (Cher 1,43) ma da Dio ricevono questo seme: «Chi dunque semina in loro le opere buone se non il padre delle cose che sono, il Dio ingenerato e generatore di tutto?» (τίς οὖν ὁ σπείρων ἐν αὐταῖς τὰ καλὰ πλὴν ὁ τῶν ὄντων πατήρ, ὁ ἀγένητος θεὸς καὶ τὰ σύμπαντα γεννῶν, Cher 44). E, sempre in questo paragrafo, Filone spiega che questo è lo stile di Dio, che è generoso, dona questi semi (ὃ ἔσπειρε, δωρεῖται) e non lo fa per un qualche scopo, non fa nulla per un suo interesse egoistico, non avendo bisogno di nulla, ma genera il bene per gli altri (γεννᾷ γὰρ ὁ θεὸς οὐδὲν αὑτῷ, χρεῖος ἅτε ὢν οὐδενός). E qui Filone cita Sara e Lia: la prima ha partorito
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non per Dio (che l’aveva visitata) ma per colui che cerca la sapienza, cioè Abramo (Cher 45), e la seconda non partorisce per Dio che non ha bisogno di nulla ma lo fa per l’asceta Giacobbe che cerca di imparare il bene (Cher 46). Centrale per Filone è questo tema di Dio come l’ente più generoso, colui al quale non potremo mai corrispondere pienamente perché il suo dono supererà sempre la capacità umana di restituire. In questo senso «L’uomo non ha il potere e nemmeno il dovere di ricambiare direttamente il Creatore. C’è la δόσις ma non c’è né ci può essere ἀντίδοσις»13. Ma il non poter restituire a Dio non deve portare al disimpegno. Al contrario, proprio perché non possiamo rendere a lui tutto ciò che abbiamo ricevuto possiamo darlo agli altri: la pietà religiosa fonda dunque l’impegno sociale. Bisogna dunque assolutamente combattere l’egoismo (φιλαυτία) che proviene dalla presunzione di essere autosufficienti, dimenticandosi di Dio e degli altri14. 7. LA DIMENSIONE LITURGICA L’interesse per la dimensione più etica non ci deve far dimenticare la dimensione liturgica di Filone. Egli non elimina una interpretazione anche letterale di alcuni passi15. In questo senso, riconosce un certo valore a gesti liturgici come possono essere i lavaggi del corpo: «il corpo, come dicono, si purifica con aspersioni e abluzioni (τό γε D. FARIAS 1993, 53. «Il vano opinare da cui procede la φιλαυτία è l’opinare di un intelletto egoista e ateo (φίλαυτος καὶ ἄθεος ὁ νοῦς) che ritiene di essere uguale a Dio (ὁιόμενος ἴσος εἰναι θεῷ). Sul presupposto di tale assurda parificazione, l’uomo pensa di essere stabile e fermo come Dio, dimentica la propria mutevolezza e instabilità, nell’anima e nel corpo (…). L’egoista, che riferisce teoricamente e praticamente tutto a sé, è l’uomo che pretende di avere tutto, senza accorgersi che anche quello che ha lo ha ricevuto. Lo mostra chiaramente la figura di Caino, un nome che significa “possesso”. Un altro esempio è Alessandro Magno (…). Un uomo come il Labano biblico, non sa fare altro che vantarsi e ripetere continuamente “mio, mio, mio” (…). Il non egoista (ὁ μὴ φίλαυτος) riconoscerà francamente che la causa di tutti i beni è Dio, dei beni dell’anima, di quelli del corpo e di quelli esteriori. Questo riconoscimento è il nucleo intimo della perfezione dell’uomo e lo porta a sintonizzarsi alla grande corrente di generosità che si origina in Dio e vuole pervadere l’interiorità dell’anima non meno che tutto l’universo creato. La natura ha fatto l’uomo non come le belve solitarie, ma come gli animali che vivono in gregge e con ordine. L’ha fatto socievole al massimo, di modo che non viva solo per sé, ma per il padre, la madre, i fratelli, la moglie, i figli e gli altri congiunti e amici. E viva per quelli del suo demo, delle sua tribù, per la patria e per quelli della stessa stirpe e per tutti gli uomini» (D. FARIAS 1993, 58-61). 15 Filone è piuttosto per letture plurime, che riconoscano la validità di una pluralità di approcci (cf. F. CALABI, Filone, 27-28, 33). 13 14
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μὴν σῶμα, ὡς εἶπον, λουτροῖς καὶ περιρραντηρίοις καθαίρει)» (Spec 1,261). E certamente anche i sacrifici mantengono una loro importanza. Ma certamente è impossibile pensare che Dio si occupi degli animali più che degli uomini. Se si purificano delle cose inanimate, è solo perché ancor di più l’uomo purifichi se stesso nel presentarsi a Colui che è il Purissimo. E sarebbe sciocco non permettere di entrare nei santuari a chi non si sia prima lavato e ripulito il corpo, ma permettere che si metta a pregare e a fare sacrifici con un macchiato e insudiciato (…). Un uomo oserà avvicinarsi a Dio, al Purissimo, senza essersi purificato nella propria anima e senza avere neppure l’intenzione di pentirsi? (Deus 8).
In realtà, dietro l’acribia con cui si parla di questi riti (ἀκριβολογία), Dio vuole intervenire sugli offerenti, perché si presentino anch’essi senza imperfezioni all’altare dei sacrifici. La legge è infatti formulata non per gli esseri senza uso di ragione ma per coloro che hanno intelletto e pensiero (οὐ γὰρ ὑπὲρ ἀλόγων ὁ νόμος, ἀλλ᾽ ὑπὲρ τῶν νοῦν καὶ λόγον ἐχόντων, […] ἀλλὰ τῶν θυόντων, Spec 1,260). I sacrifici vanno quindi letti in maniera corretta: essi hanno l’obiettivo di insegnare all’uomo che ha ricevuto tutto da Dio e che tutto è suo. Offrire dei sacrifici significa imparare a «prendere per Dio». Nel trattato QuisHeres 102-115 si commenta la frase «prendi per me» («Gli disse: Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo», Gen 15,9). Dio, creatore della vita, ci ha dato in consegna l’anima, il linguaggio e la sensazione (lettura allegorica per la giovenca, il montone e la capra) ma c’è chi se ne appropria e ne fa un uso solo egoistico: riceveranno in eredità cose degne della loro cattiveria. I pochi che prendono queste cose non per sé ma per Dio (οἱ δὲ λαβόντες μὴ ἑαυτοῖς, ἀλλὰ θεῷ, Her 110) lo riconoscono come la fonte di tutte queste attività. A questo punto Filone introduce la tenda sacra, copia ed immagine della sapienza. In questo trattato infatti il figlio che sarà erede di Abramo sarà Isacco, icona della sapienza. In questa tenda si eseguono i comandi dati a Mosè in Esodo 25: Dio ordina di prendere per lui le primizie. E questo culto ha proprio la funzione di purificare i credenti perché elimina quell’orgoglio di chi crede di vivere solo per se stesso mentre deve imparare a «prendere per Dio»: La Scrittura dice infatti che la tenda è accampata «nel mezzo della nostra impurità», affinché noi avessimo un luogo di purificazione per espiare e liberarci delle nostre impurità (τῆς γὰρ ἀκαθαρσίας ἡμῶν ἐν μέσῳ φησὶ τὴν σκηνὴν ἱδρῦσθαι τὸ λόγιον, ἵν᾽ ἔχωμεν ᾧ καθαρθησόμεθα) (Migr 113).
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Mut 235-245 analizza le tre tipologie di offerte per la purificazione. Prima di tutto, quest’ultima viene messa in relazione al pentimento. Si dice infatti che le offerte di bestiame minuto, di uccelli o di farina bianca corrispondono ai tre mezzi per ottenere la conversione (τρισὶ μετανοίας τρόποις ἱλάσκεται, Mut 235) e si aggiunge che questa avviene «in relazione alla capacità di colui che si purifica e si pente» (πρὸς τὴν τοῦ καθαιρομένου καὶ μετανοοῦντος δήπου δύναμιν). Queste tre tipologie sono simbolo della purificazione (σύμβολον καθάρσεως, Mut 237). Il bestiame minuto serve per purificare i pensieri: si tratta infatti di animali docili, utili all’uomo, e sono la prima offerta perché il modo migliore per raggiungere la purezza sarebbe proprio dominare i pensieri (Mut 240; 247). L’offerta di uccelli è simbolo della purificazione della parola («simbolo della parola sono gli alati, la parola infatti, per sua natura, è cosa lieve e alata», Mut 237). Questa sfera è più colpevole di quella precedente perché i pensieri in fondo non fanno male a nessuno. La parola è invece un atto pubblico e, se proferita male, colpevole, perché deliberata: si ha sempre infatti l’alternativa di stare in silenzio, cosa di cui tutti sarebbero capaci (Mut 242-243). Il fior di farina è l’offerta per purificare le azioni (Mut 249), perché il fior di farina richiede riflessione e arte, una dimensione pratica che serve anche per riparare a dei fatti. Commentando lo YomKippur, Filone fa delle interessanti considerazioni sui due capri utilizzati nel rito. In Spec 1,188 si dice che il capro mandato nel deserto non porta via i peccati ma le maledizioni dei peccatori e che i peccatori non sono purificati dal capro ma dai loro cambiamenti ricevendo su di sé le maledizioni a vantaggio di coloro che hanno peccato, questi sono stati purificati per mezzo dei loro cambiamenti volti al bene, lavando con la loro nuova osservanza l’antica violazione della legge (ἐφ᾽ ἑαυτῷ κομίζοντα τὰς ὑπὲρ τῶν πλημμελησάντων ἀράς οἳ μεταβολαῖς ταῖς πρὸς τὸ βέλτιον ἐκαθάρθησαν, εὐνομίᾳ καινῇ παλαιὰν ἀνομίαν ἐκνιψάμενοι).
8. PENTIMENTO E
UMILTÀ
Per Filone è fondamentale il pentimento, che, come abbiamo già visto, è spesso accostato alla purificazione. Chi si pente, riconosce che Dio conosce tutto, che in quanto creatore nulla gli sfugge; neppure le cose non ancora compiute gli sono ignote. Se un’anima dichiara le proprie colpe alla luce del sole, allora «essa è già purificata e assolta
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(…) e questo avviene se l’anima si apre al pentimento, che è fratello minore della completa innocenza» (κεκάθαρται καὶ ὠφέληται … εἰ τὸ μετανοεῖν ἀδελφὸν νεώτερον ὂν τοῦ μηδ᾽ ὅλως ἁμαρτεῖν ἀποδέχεται, Somn 1,91). Evidente dunque l’importanza del pentimento se questo è equiparato addirittura al non peccare. Ritroviamo la stessa considerazione in Spec 1,187 dove Filone parla della festa dello Yom Kippur come di una festa sia di gioia che di purificazione (καθάρσεως) nella quale «il perdono è dato dalla grazia del Dio misericordioso» (ἀμνηστία δέδοται χάρισι τοῦ ἵλεω θεοῦ) e si dice che questo perdono è totale, rimette il peccato come se non fosse mai stato fatto, e si completa la frase dicendo che «Dio onorava tanto il pentimento/conversione quanto il non peccare» (μετάνοιαν ἐν ἴσῳ τῷ μηδὲ ἁμαρτάνειν τετιμηκότος). Il vertice del pensiero filoniano a proposito della purificazione lo si può d’altronde riscontrare nell’espressione «purificazione della purificazione». Partendo da alcune espressioni doppie presenti nel testo della LXX (per tradurre gli infiniti assoluti ebraici o etimologie interne), Filone si interroga su espressioni come «mietere la mietitura» giungendo a vedervi la totale rinuncia dell’uomo a ergersi a giudice per consegnarsi invece totalmente a Dio, l’unico a cui appartiene il giudizio (Dt 1,17). Interessante esempio del suo pensiero sono i paragrafi 24-25 di DeSomnisII: Dichiararsi sconfitti da Lui è bello ed è più glorioso della più celebrata vittoria. | Al «mietere la mietitura» equivale la doppia circoncisione, di cui si legge là dove il legislatore introduce un’innovazione inventando la circoncisione della circoncisione (Gen 17,13), che equivale a sua volta alla «consacrazione della consacrazione» (Nm 6,2), ossia al purificare la purificazione stessa dell’anima (τὴν κάθαρσιν τῆς ψυχῆς αὐτὴν καθαίρεσθαι), rimettendo a Dio la prerogativa di rendere mondi e non giudicando mai se stessi capaci di lavare e ripulire la propria vita piena di macchie senza il benevolo aiuta di Dio.
Fondamentale per l’uomo è dunque avere sempre un atteggiamento umile (al contrario dei sofisti contro i quali Filone spesso si scaglia16). Paragonando le virtù a delle piante che hanno come frutti le buone azioni, egli ricorda che in realtà è Dio che semina e pianta e che è dell’ateo il ritenersi artefice del bene compiuto (Leg 1,48-49). Offrire a Dio è fondamentale proprio perché l’uomo non ha nulla da dargli che non sia già suo: in verità, facendo dei sacrifici, gli dimostra 16
Mut 208; Ebr 71; 78 (sui sofisti antisociali); Agr 144-145.
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la propria riconoscenza e questo gli vale come purificazione (Deus 7). Alla fine, bisogna imparare da Mosè, l’uomo perfetto, che imparò a non cercare di possedere nulla sulla terra. La terra promessa accettò di vederla semplicemente e questo è immagine della vera fede che crede in Dio non perché riceve dei benefici ma perché sa attenderli (Migr 43). A questa generazione pura, Dio fa la grazia di rivelarsi: Dal momento che le cose più belle che sono in natura sono piuttosto da vedersi che da possedersi, come è possibile che chi ha avuto parte delle realtà divine queste le abbia in possesso? È già tanto che non sia impossibile il contemplarle. Ma neppure questo è impresa di tutti, bensì solo del genere più puro e dalla vista più acuta, al quale il Padre dell’universo ha mostrato l’opera che Gli è propria, facendo con ciò, la grazia più grande di tutte (Migr 46).
Sempre a proposito del tema della fede, Abr 9 dice che Enos fu «l’iniziatore della razza più pura e veramente monda» perché fu il primo che «sperò» (τὸ ὄνομα αὐτοῦ Ενως οὗτος ἤλπισεν) e la speranza è la caratteristica dell’uomo: Mosè chiamò «uomo» il primo essere che concepì l’amore della speranza, largendo a lui per graziosa scelta il nome comune a tutta la specie. I Caldei chiamano l’uomo «Enos» a indicare che l’unico essere veramente degno del nome di «uomo» è colui che attende il bene e che fonda la propria esistenza sulla speranza del bene (Abr 7-8).
9. CONCLUSIONI Il pensiero filoniano sul tema del puro e dell’impuro si mostra articolato e ampio (attributi che certamente caratterizzano l’intera opera di questo autore). Egli non presenta una interpretazione univoca e non rinchiude una questione ampia come quella della purezza in pochi elementi astratti. In questo senso, Filone conferma di usare la filosofia, di conoscerla, ma si pensa più come un esegeta interessato a sviscerare i significati profondi della parola di Dio che ama e intende approfondire17. Da pio giudeo non dimentica la tradizione liturgica e l’importanza dei riti, riconoscendo anche una interpretazione letterale di alcuni passi. Ma certo la sua lettura non si ferma ad 17 « Philon n’est un philosophe : il use de la philosophie. Mais il écrit des sortes de midrashim. Il applique au Texte sacré de la Bible tous les arguments intellectuels dont il dispose pour développer le sens de ce Texte. Son premier principe est commun tout aussi bien aus Rabbins qu’aux allégoristes grecs : le sens est toujours caché » (J. CAZEAUX 1983, 5).
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un rigido rispetto delle norme. Il suo pensiero è ampio, teso ad inglobare il pensiero religioso con quello morale, sociale, spirituale. Stupisce di Filone la sua serenità18, la sua fiducia in Dio e nell’uomo. La sua visione di Dio non incute paura, tutta la creazione parla dell’ordine del Creatore e questo ci deve portare a riconoscerlo: sebbene l’uomo non possa entrare pienamente nel mistero di Dio, ciò non significa che non ne possa parlare, anzi, «occorre che nel nome dell’amore di Dio se ne parli anche al di là delle (proprie) forze» (ἀλλ᾽ ἕνεκα τοῦ θεοφιλοῦς καὶ ὑπὲρ δύναμιν ἐπιτολμητέον λέγειν, Opif 1,5). Se è possibile parlare di Dio e conoscerlo, allora è possibile anche uniformarsi a lui, tendere verso la sua perfezione. Questo grazie alle capacità (intelletto, virtù, ecc.) che Dio stesso ha infuso negli esseri umani e che continua a donare loro. Se è vero che la realtà concreta dell’uomo presenta anche fatiche e lotte (e Filone ne conosce tante, per il suo impegno anche politico19) ciò non deve scoraggiare il credente a confidare in Dio e anche in se stesso. La purificazione è possibile e con essa il ritorno a Dio. Se si confronta l’approccio paolino e quello filoniano, scopriamo come in quest’ultimo sia assente quel pessimismo antropologico che caratterizza alcuni passi di Paolo20. In conclusione, attraverso un processo di purificazione rituale e morale è possibile per Filone vivere un vero cammino di divinizzazione, sogno di cui la liturgia ebraica è da sempre portatrice21. In questo, Filone dimostra tutta l’appartenenza alla sua radice ebraica, che da uomo intelligente e acculturato sa rileggere e attualizzare nel contesto così particolare dell’Alessandria di allora. 18
Di Filone stupiscono le descrizioni della natura del suo Egitto, così ricco e rigoglioso, pieno di animali e uccelli di ogni genere. La luminosità di quella terra e la sua bellezza pervade lo stile di Filone, come probabilmente la magnificenza di una città come Alessandria. L’esperienza della luce del famoso faro del porto (citato da Filone in Spec 3,1-6) non a caso è l’episodio scelto da Dorothy Sly come punto di partenza per introdurre il volume intitolato Philo’sAlexandria. Lo stesso passo viene ripreso da Daniélou nella sua introduzione a Filone (J. DANIÉLOU 1991, 22). 19 Per una classica presentazione di Filone come «political thinker», si veda E. GOODENOUGH 1963, 52-74. 20 «Bei Philon fanden wir nur eine idealtypische Gegenüberstellung von gottgegebener Anlage (φύσις) und später daraus erfließendem Tun (...), jedoch keinen ausgeprägten Kontrast zwischen göttlicher Gnade und menschlichem Werk» (D. ZELLER 1990, 197). 21 «Philo’s approach to purity, sacrifice, and the temple is truly remarkable. His approach is integrated, sympathetic, and symbolic. Moreover, his approach exhibits a number of continuities with earlier ancient Jewish and even Israelite traditions… Philo sees ritual (and moral) purification as part of a process of divinization that leads to the sacrificial encounter with God’s earthly presence», J. KLAWANS 2005, 123.
Purità e puro: il caso di Giuseppe Flavio Lucio TROIANI 1. UNA PREOCCUPAZIONE TUTT’ALTRO CHE PRIORITARIA Il tema della purità si presenta sotto molteplici aspetti e sfumature nell’opera di Giuseppe e il termine «puro» in particolare, nel classico ACompleteConcordancetoFlaviusJosephus1,elenca meticolosamente i seguenti significati: «pure, clean; unpolluted, clear, cloudless; pure (free) from sickness, healthy; unmixed, unadulterated, purified; free (of passion, guilt, shame), guiltless, faultless; ritually pure; morally pure, upright». Esso acquista dunque, di volta in volta, significati e sfumature diversi in relazione al contesto narrativo. La purità rituale è specialmente trattata nella sezione delle AntichitàGiudaiche dedicata alla parafrasi dei libri biblici da Genesi ad Ester (1-11). Nel libro terzo delle AntichitàGiudaiche(§§ 258-273 in particolare)2 egli illustra e commenta le leggi bibliche di purità. Esse riguardano le norme di purificazione per i sacrifici che perciò sono collocate nella sezione dedicata ai sacrifici e alle feste. Nessuna menzione inoltre della casistica, offerta da Dt 14,3-20, degli animali puri e impuri. Osserviamo però, in via preliminare, come la purità rituale non sia che uno dei significati della parola e non certamente il più frequente. In AntichitàGiudaiche 19,214, il termine è applicato addirittura ai pretoriani che sarebbero «la parte più pura dell’esercito» (non risulta a me comprensibile il motivo per cui A Complete Concordance indichi con un punto di domanda il senso del termine nel brano in questione; Giuseppe dà un giudizio qualitativo della guardia imperiale, quella parte dei militari, precisamente, che egli sapeva essere decisiva nel sostegno al regime: AntichitàGiudaiche 19,162-165). Nella descrizione ideale ed apologetica della costituzione di Mosè, elaborata nella seconda parte del ControApione, la purità occupa un
1 2
K.H. RENGSTORF (ED.) 1975, 398-399. D.R. SCHWARTZ, 2013, 85. S. CASTELLI, 2002, 301-307. L.H. FELDMAN, 2000, 307-313.
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ruolo marginale ed egli inoltre si appoggia su Platone per esaltarne il valore. Specialmente Platone ha imitato il nostro legislatore sia nel prescrivere ai cittadini nessun insegnamento tanto quanto l’apprendere con precisione tutte le leggi e inoltre anche sulla necessità di non mescolarsi come capita con certuni di fuori, ma si preoccupò che fosse puro il corpo civico di coloro che si attengono alle leggi (ControApione 2,257).
Qui si tocca il punctumdolens della cosiddetta misantropia ebraica3. I riferimenti alla purità del corpo civico potevano rafforzare i pregiudizi e il richiamo a Platone risente probabilmente di questa preoccupazione del nostro autore. Giuseppe, indipendentemente dal fatto che ha vissuto per anni – dapprima in catene – presso l’accampamento romano (ControApione 1,48), non deve avere comunque nutrito particolare attenzione per le norme e i gradi di purità. Se lo fa, è per enfatizzare l’empietà dei “rivoluzionari”. D’altra parte, il focus della sua esposizione storica si concentra sulla lezione morale che si può trarre dagli avvenimenti passati (Guerra Giudaica 5,376-419) e sull’appassionata difesa della sua militanza politica in seno all’ethnos. Giuseppe è uno storico, non un interprete della Sacra Scrittura i cui passi giudicati controversi rimette abilmente alla libertà di opinione del lettore. L’interpretazione delle norme appartiene a una scienza difficile e complessa, diremmo esoterica: egli sostiene che dei suoi connazionali solo «due o tre» hanno avuto successo in questa attività (AntichitàGiudaiche 20,265). Non sembra d’altra parte entusiasta di quelli che definisce «gli inutili sotterfugi delle allegorie»4. Egli vorrebbe approfondire il tema, ma rinvia l’esposizione a trattati che o non ci sono pervenuti oppure non sono mai stati scritti5. L’enfasi sopra i processi degenerativi subiti dalla natura umana, una volta che abbia assunto il potere supremo (AntichitàGiudaiche6, 262-267), la sua insistenza sul carattere di monarchia militare dello stato romano (19,162 per esempio), ma soprattutto il suo coinvolgimento diretto nella storia dei rapporti politici fra ebraismo e impero rivelano che speculazioni sulle leggi di purità non potevano costituire un punto centrale all’interno dei suoi scritti. Come Filone Alessandrino che illustra con perizia gli attributi e le forme di culto degli dei pagani 3 4 5
Cfr. M.F. BASLEZ, 2016, 112-158. P. SCHÄFER, 1999, 275-292. L. TROIANI, 1986, 343-353. Cfr. AntichitàGiudaiche 20,265; ControApione 2,255. S. CASTELLI, 2002, 124-126.
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(AmbasceriaaGaio §§ 78-113), egli descrive, per esempio, con dovizia di particolari, i rituali e le cerimonie religiose celebrate per il trionfo romano sui giudei nella recente guerra e descrive Vespasiano che, «levatosi in piedi e ricopertasi con il mantello quasi tutta la testa, pronunciò le preghiere di rito; ugualmente anche Tito pregava»6. Egli sa che gli dei di cui parla non sono né suoi né dei suoi lettori (Guerra Giudaica 7,136), ma non ha remora alcuna a parlare di riti e pratiche religiose romane. Le manifestazioni di giubilo a Roma, dopo l’assunzione al trono di Vespasiano, sono da lui equiparate alle festosità consuete in un tempio pagano. «Tutta la città poi era piena di corone e di incensi come un tempio» (GuerraGiudaica 7,71). Egli, descrivendo l’episodio dei sommi sacerdoti e dei nobili, fuggiti da Gerusalemme durante l’assedio e riparatisi presso Tito, sa bene con Cesare come il loro soggiorno presso i Romani (dove egli trascorre il suo tempo) possa suscitare problemi ed essere «spiacevole» (6,115). Certamente, da gerosolimitano che trascorre parte della sua vita in terra straniera, il problema lo avrà toccato, ma egli, a differenza dell’anonimo autore della cosiddetta LetteradiAristea, non enfatizza il tema nei suoi scritti. Il sommo sacerdote Eleazar spiega infatti ad Aristea: «il legislatore, essendo saggio, istruito da Dio per la ricognizione di ogni cosa, ci chiuse all’interno con palizzate ininterrotte e con mura di ferro, affinché non ci mescolassimo in nulla con alcuna delle altre nazioni, rimanendo puri nel corpo e nell’anima» (§ 139). Questo autore probabilmente scrive in un ambiente in cui l’autorità di un Apollonio Molone, che solleva il problema del presunto esclusivismo e dogmatismo in materia teologica degli ebrei, non ha ancora fatto breccia o non ha proprio fatto breccia nel mondo della cultura?7 Come il Cefa, rappresentato da Paolo in Gal 2,12, la rigida applicazione delle norme di purità non lo avrà coinvolto in modo particolare. Egli ha modo di lodare alcuni sacerdoti ebrei che, trascinati da Antonio Felice, procuratore della Giudea, a giudizio davanti al tribunale di Cesare per una accusa che egli definisce «da niente», su suolo straniero avevano mantenuto la pietas verso il divino e lo stato di purità, nutrendosi di fichi e di noci per non contaminarsi. È una nota questa, però, che sembra dettata da orgoglio patriottico e da ammirazione, più che da adesione personale. Egli sembra presupporre che non sia questa la pratica usuale. Egli specifica che, per aiutarli, entrò in amicizia 6 7
GuerraGiudaica 7,128. M. STERN 1976, 148-156.
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con un mimologos (“compositore di mimi” o “mimo”), caro a Nerone, personaggio che era nato in Giudea. Attraverso di lui egli fu presentato a Poppea che acconsentì di buon grado alla sua richiesta di liberare i sacerdoti (Giuseppe definisce il suo atto un «favore») e addirittura ricevette da lei anche grandi doni. Ancora, egli accoglie l’offerta di Vespasiano che gli diede ricovero e alloggio in quella che era stata la sua abitazione prima che divenisse Cesare (Vita §§ 13-16; 423). La circostanza non dovette suscitare scrupoli nel nostro autore che nelle sue opere si oppone incisivamente alla rigidità e univocità del giudizio e delle credenze, appellandosi alla libertà di pensiero; perfino quando parla tanto di episodi biblici miracolosi, come quello della manifestazione divina sul Sinai, quanto del giudizio altrui su Mosè8. Ricordiamo come egli traduca il precetto biblico ’elohimlō’teqallel (Es 22,28) con «non offendere gli dei oggetto di culto nelle città» (AntichitàGiudaiche 4,207). Parafrasando i precetti biblici relativi ai lebbrosi, egli osserva che proprio queste disposizioni, così rigide, tolgono credibilità alla versione che circolava in ambienti specialmente grecoegiziani secondo la quale Mosè e il suo seguito sarebbero stati affetti da lebbra; ma per poi aggiungere che su questo argomento ognuno può pensare come vuole9. È teorizzata la piena libertà di opinione. Sembra non facile trovare nel nostro autore un approfondimento proprio e peculiare della purità e della sua funzione all’interno della «vita giudaica», per dirla con Svetonio10. 2. UNA PURITÀ SENZA ECCESSI Il brano che, a mio giudizio, meglio illustra l’originalità e la peculiarità dell’approccio di Giuseppe è quello di Antichità Giudaiche 16,177. Qui l’accezione del termine appare in piena sintonia con lo spirito complessivo della sua opera. Lo storico ha riportato una serie di atti pubblici romani che testimonierebbero come in passato i rapporti fra ebraismo e amministrazione greco-romana siano stati amichevoli e come Roma si sia presa cura di esercitare il suo patronato a difesa di talune pratiche ebraiche che interferivano con l’attività cittadina. Giuseppe aggiunge che nelle città sono grandi i conflitti fra le varie nazionalità che le abitano, tanto più che una stessa nazione non 8
AntichitàGiudaiche 3, 81 e 322. AntichitàGiudaiche 3,268. 10 M. STERN 1980, 128. 9
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conserva immutati i propri costumi. Egli informa che le stesse istituzioni e forme di governo dei popoli hanno subito una trasformazione radicale già con l’affermazione dell’egemonia greco-macedone (1,121). A 16,177 il nostro autore sembra abbandonare la consueta vena apologetica e oleografica per constatare un fenomeno che doveva apparirgli ben visibile: le nazionalità, che coesistono soprattutto nelle grandi città, tendono gradualmente ad alterare i loro costumi. Questa nota, originale in Giuseppe, è indizio di attenta e sicura recettività dell’ambiente che lo circonda; al di là delle solite oleografie: anche il ghenos ebraico non usa sempre gli stessi costumi. Egli conosce diversità e articolazioni all’interno dell’ebraismo. Sa per esempio di alcuni ebrei di oltre Eufrate che, dopo avere percorso un cammino di quattro mesi, affrontato pericoli e spese e avere sacrificato nel tempio, non poterono avere parte delle offerte sacrificali perché seguivano qualcosa del rituale «che non era in uso e che non proveniva loro dalle nostre patrie usanze»11. Le sue città multietniche e cosmopolite, allora, possono trovare un punto di equilibrio per una pacifica coesistenza al loro interno nell’esercizio di quello che egli chiama «il giusto». Perché il senso della giustizia è l’unico fattore di aggregazione per culture e civiltà differenti fra loro e che per di più mutano con il tempo i loro modi di vita. La prospettiva di Giuseppe non è quella dell’accademia ma dell’agorà. Aggiunge il nostro autore: «Il quale senso della giustizia le nostre leggi tenendo in grandissimo conto, se ci atteniamo ad esse in modo puro (καϑαρῶς), ci rendono con tutti ben intenzionati e amici». L’estraneo per Giuseppe non sta nella diversità del modo di vivere, ma nell’esercizio della probità; «questo è comune a tutti e l’unico a preservare la vita degli uomini». A mio avviso, nulla meglio di questo avverbio («puramente») riflette il significato più originale e pregnante del termine nell’opera del nostro storico. Questa accezione è congruente con lo spirito della sua opera e con gli ambienti nei quali egli si sarà mosso e vissuto. Vale a dire, purità intesa come atteggiamento immune da passioni, da comportamenti irrazionali, patologici e pregiudiziali: purità che non è solo rifiuto della contaminazione «idolatrica», ma è specialmente una disposizione dell’anima che respinge ogni forma di dogmatismo, estremismo e fanatismo. «Purità» nell’attenersi alle leggi significa allora respingere ogni forma di radicalismo che induce all’ostilità. Per questo nella ricostruzione storica 11
AntichitàGiudaiche 3,318-319. S. CASTELLI 2002, 317-318.
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di Giuseppe, l’estremismo dei rivoluzionari ha finito per trasformare la distruzione e l’incendio del tempio in un’opera di purificazione operata dai romani. Come è spiegato subito dopo, il suo ragionamento sulla purità nell’osservanza della legge si rivolge agli «irragionevoli». I romani hanno purificato con il fuoco le nefandezze dei connazionali (Guerra Giudaica 1,10). Per un ebreo della diaspora che vive nella città disseminata da statue degli dei e da forme e simboli di devozione di immagini, la purità è di necessità la capacità di sapere discernere e di mantenere sotto controllo gli impulsi dettati da un’osservanza, per così dire, letterale della sua legge. È la capacità critica, improntata a realismo e razionalismo, che finisce per intendere la purità come disposizione d’animo, diremo, limpida e scevra da reazioni irrazionali per mantenere pacifica la coesistenza con la restante cittadinanza. Analoga è la preoccupazione dell’anonimo autore della LetteradiGeremia, collocata dopo il libro greco (LXX) del profeta. L’autore qui ammonisce a non lasciarsi impressionare dal culto pagano e ripete come un ritornello «non abbiate paura degli idoli»: ecco uno squarcio sulla psicologia e la sensibilità religiose degli ebrei della diaspora cittadina. Costante e periodico è il richiamo alla ragionevolezza contro ogni atto estremo. Analoga spiritualità sembra essere espressa in AntichitàGiudaiche3,5. Parafrasando la Bibbia, Giuseppe osserva: «Mosè si accorse che l’esercito non era “puro” così da opporre coraggio virile alla violenza della necessità». Essere «puro» qui per lui significa mantenere sangue freddo, animo libero da paure, passioni ed emozioni provocate dalla difficoltà del momento. Questa accezione del termine ricorre anche altrove. Per esempio, in GuerraGiudaica2,31, dove si parla delle accuse di Antipatro ad Archelao, si usa l’espressione «anima pura da ogni passione». Con «pura», l’A. vuole indicare un’anima scevra da passioni, che sa controllare i risentimenti e gli eccessi emotivi. Purità intesa come la chiarezza della ragione sana che sa controllare gli istinti e gli impulsi più deleteri. Questo avviene, per usare le sue parole, ὑγιαίνοντος λογισμοῦ. Osserviamo come tutto il ragionamento dell’autore di 4 Maccabei si fondi sull’assunto che il retto raziocinio può controllare e dominare ogni genere di passione e sofferenza. Eusebio, non seguito dai moderni, aveva attribuito l’opera proprio a Giuseppe12. Come è naturale, nei primi undici libri delle Antichità Giudaiche il senso della purità è condizionato dal testo biblico che Giuseppe sta 12
T. RAJAK 2002, 99-133. M.-F. BASLEZ 2016, 121-139.
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parafrasando. Qui il discorso diventa complesso soprattutto perché non sappiamo quale sia il presunto originale da cui Giuseppe attinge. Ma in generale si può dire che nella maggioranza dei casi, la purità è intesa in senso rituale così come prescritta dalla legislazione mosaica (cfr. ad esempio 3,198; 241; 4,228; 5,42; 8,87; 9,74; 138,262,273; 10,42). È da notare come, nella parafrasi del LibrodiDaniele, Giuseppe caratterizzi la purità di Daniele e dei suoi compagni (10,194) come scaturita da una vita morigerata e senza eccessi. Altra cosa è l’enfasi, contenuta nei libri delle Antichitàgiudaiche dedicati ad Erode e all’epoca successiva, sulle impurità commesse dal sovrano come pure dall’amministrazione romana. Qui l’autore è mosso dall’intento di spiegare, al modo di Polibio, le ragioni inevitabili del conflitto scoppiato nel 66 d.C. Il tema della purità non doveva essere particolarmente congeniale e appropriato all’opera di Giuseppe che mira, al di là della ricostruzione storica, a smantellare le critiche degli intellettuali greci che godevano ancora di prestigio, quali Apollonio Molone e Posidonio, che avevano espresso riserve, ma senza degenerare nel pamphlet, sul presunto esclusivismo ebraico. Apollonio Molone aveva inserito qua e là le sue insinuazioni maligne sugli ebrei e Giuseppe doveva sapere che queste critiche, soprattutto dopo il 70 e alla vigilia della guerra della diaspora13, erano particolarmente pericolose. Il più noto antisemita dell’antichita, Apione, può utilizzare, quasi un secolo dopo, l’autorità di questi intellettuali e questo riutilizzo sembra ancora attuale circa cinquanta anni dopo la sua morte. Nell’età in cui Mosè è rappresentato all’opinione pubblica da un autore di un trattato di pedagogia come Quintiliano come «l’autore primo della superstizione giudaica» e gli si attribuisce l’infamia di contraxissealiquamperniciosamceterisgentem e nei tempi in cui l’intellighenzia greca, con Elio Aristide, parlerà degli «empi di Palestina» isolati dal cosiddetto mondo civile14, la purità doveva rimanere una cura interna al mondo ebraico e oggetto di discussione accademica nel chiuso delle scuole. Giuseppe è ben consapevole della delicatezza del tema quando osserva, come abbiamo notato sopra, che appena due o tre riuscirono a interpretare il significato delle Sacre Scritture.
13 14
W. HORBURY 2014. M. STERN 1976, 512-514. M. STERN 1980, 220.
Puro e purificare (καθαρός, καθαρίζω e καθαίρω) nel Nuovo Testamento Paolo MASCILONGO 1. ALCUNI DATI STATISTICI I lemmi di radice καθαρ- occorrono complessivamente 69 volte nel Nuovo Testamento, con queste frequenze: καθαρίζω, 31 volte; καθαρός, 27; καθαρισμός, 7; ἐκκαθαίρω, 2; καθαίρω, 1; καθαρότης, 1. I termini negativi compaiono 42 volte: ἀκαθαρσία (10 occorrenze) e ἀκάθαρτος (32). Nel presente contributo ci occuperemo in particolare dei lemmi καθαρός, καθαρίζω e καθαίρω, in quattro sezioni omogenee: Vangeli sinottici ed Atti; letteratura giovannea (comprese le Lettere ed Apocalisse); letteratura Paolina (compresa Ebrei); altre Lettere cattoliche. Considerando i soli vocaboli καθαρός, καθαρίζω e καθαίρω, la situazione è la seguente: vangeli sinottici e Atti letteratura giovannea letteratura paolina (con Ebrei) lettere cattoliche -
καθαρός 6 occorrenze, καθαρίζω 21 (27 totali), καθαρός 10, καθαρίζω 2, καθαίρω 1 (13 totali), καθαρός 9, καθαρίζω 7 (16 totali), καθαρός 2, καθαρίζω 1 (3 totali).
La distribuzione disomogenea tra aggettivo e verbi si può spiegare piuttosto facilmente con il carattere più narrativo di Vangeli e Atti (dove prevale quindi il verbo) e quello più esortativo delle lettere o descrittivo di Apocalisse (prevale l’aggettivo). A livello di significato, tuttavia, non vi sono differenze rilevanti tra aggettivo e verbi, e per questo presenteremo insieme lo studio dei due tipi di lemmi. Nessuna (o quasi) delle occorrenze presenta difficoltà testuali; laddove necessario, sarà segnalato. 2. ANALISI SEMANTICA 2.1. Vangeli sinottici e Atti Quasi la metà delle occorrenze complessive (27 su 59) dei lemmi qui studiati è presente nei vangeli sinottici e negli Atti. In Marco è
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utilizzato solo καθαρίζω (4 volte), in Matteo καθαρός (3 volte) e καθαρίζω (10 volte), in Luca καθαρός (1 volta) e καθαρίζω (7 volte) e in Atti rispettivamente 2 e 3 volte. 2.1.1. VangelosecondoMarco Nel Vangelo secondo Marco, per ben tre volte, il verbo καθαρίζω è utilizzato nella pericope del lebbroso guarito, narrata in Mc 1,40-451. Qui il significato «purificare» è sovrapponibile a «guarire», sia nella domanda rivolta dal lebbroso a Gesù in 1,40: «Se lo vuoi, puoi guarirmi» (ἐὰν θέλῃς δύνασαί με καθαρίσαι) sia nella risposta di Gesù in 1,41: «Lo voglio, guarisci» (θέλω, καθαρίσθητι), sia, infine, nelle parole conclusive del narratore in 1,42: «Subito la lebbra fuggì da lui, e fuguarito» (εὐθὺς ἀπῆλθεν ἀπ᾽ αὐτοῦ ἡ λέπρα, καὶ ἐκαθαρίσθη). L’utilizzo del verbo καθαρίζω in questa circostanza mostra una possibilità di significato ben attestata al tempo: la lebbra provocava infatti uno stato di impurità che faceva considerare la persona malata come persona «impura»; di fatto i due significati si identificano2. Molto interessante e studiato è il secondo brano di Marco (7,19), all’interno di una lunga sezione dedicata a una disputa tra Gesù e alcuni farisei e scribi proprio sui temi concernenti la purità (7,1-23). Per la sua importanza, il brano sarà studiato a parte; per ora si noti che l’utilizzo di καθαρίζω è del narratore, che commenta le parole di Gesù con un inciso che ne amplifica il significato: «purificando così tutti i cibi» (καθαρίζων πάντα τὰ βρώματα). Nella sezione (dove non compaiono altri termini della radice καθαρ-, ma il linguaggio è quello della purità di tipo religioso3) il significato di καθαρίζω è quello specifico di “purificare” in ambito rituale. 2.1.2. VangelosecondoMatteo Nel Vangelo secondo Matteo la prima occorrenza di καθαρός è nell’importante versetto Mt 5,8, la sesta beatitudine del discorso della montagna: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (μακάριοι οἱ καθαροὶ τῇ καρδίᾳ, ὅτι αὐτοὶ τὸν θεὸν ὄψονται). L’aggettivo, qui 1 Il brano è di triplice tradizione e anche nei paralleli (Mt 8,2-4 e Lc 5,12-16) compare il medesimo vocabolario. 2 Cfr. G. IBBA 2014, 65-68. Nel brano di Marco compare anche il sostantivo καθαρισμός (1,44) che significa «purificazione» rituale, per attestare l’avvenuta guarigione. 3 Compaiono i termini: «mani impure» (κοιναῖς χερσίν) e «non lavate» (ἀνίπτοις, 7,2); «lavare/purificare» (νίψωνται, 7,3); «lavare» (βαπτίσωνται e βαπτισμοὺς, 7,4); «essere/rendere impuro» (κοινόω, 7,15.18).
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utilizzato in forma sostantivata, come nelle altre beatitudini, individua i destinatari del macarismo; Matteo non specifica come intendere qui καθαρός, ma è chiaro che il contesto è più ampio rispetto a quello della purità rituale, secondo una possibilità di significato che ritroveremo più volte nel Nuovo Testamento. Il secondo brano è parallelo a quello visto in Mc 1,40-45: l’episodio narrato in Mt 8,1-4 racconta la guarigione del lebbroso, utilizzando tre volte il verbo καθαρίζω. Anche le due successive occorrenze di καθαρίζω in Matteo hanno il significato di «guarigione» dalla lebbra. La prima è in 10,8 quando Gesù invia i Dodici e assegna loro l’incarico, tra gli altri, di «guarire i lebbrosi» (λεπροὺς καθαρίζετε). La seconda occorrenza è 11,5, dove καθαρίζω è utilizzato, sempre nelle parole di Gesù, in risposta alla domanda di Giovanni il Battista; tra le altre azioni miracolose descritte, c’è anche la guarigione/purificazione dei lebbrosi («i lebbrosi sono guariti», λεπροὶ καθαρίζονται). Interessante sono le tre occorrenze dei lemmi (due volte καθαρίζω e una καθαρός) nella pericope 23,13-32. Vi è narrata una disputa su diversi aspetti dell’osservanza della Legge e delle tradizioni religiose con i farisei di Gerusalemme; Gesù li accusa di «purificare l’esterno delle stoviglie e non l’interno» (vv. 25-26), usando espressioni – come appunto «interno» ed «esterno» e «stoviglie» – già presenti in Mc 7,1-23, con cui vi sono molti punti in comune. L’ultima occorrenza è 27,59; qui l’aggettivo καθαρός è impiegato per indicare il «lenzuolo» (σινδών) che Giuseppe di Arimatea utilizza per avvolgere il corpo di Gesù, deponendolo dalla croce. Solo Matteo, tra i quattro vangeli che narrano il fatto, utilizza l’aggettivo καθαρός per indicare la qualità del lenzuolo; di solito si traduce con «pulito», «nuovo», senza dare particolare peso a una possibile sfumatura religiosa, che pure qualche commentatore presume4 e che non si può escludere a priori, anche se rimane l’evidenza che il significato primario – riferito al lenzuolo, e non al corpo di Gesù – indica soprattutto l’utilizzo di un oggetto nuovo e pulito. 2.1.3. VangelosecondoLucaeAttidegliApostoli Nel Vangelo secondo Luca5, sono presenti molti casi paralleli agli episodi sinottici già incontrati. Si tratta di 5,12-16 (la guarigione di 4 5
Cfr. G. MICHELINI 2014, 73. Cfr. per tutta la problematica il recente P. SHELLBERG 2015.
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un lebbroso, due occorrenze di καθαρίζω); 7,18-30 (le parole sul Battista, compare καθαρίζω in 7,22); infine 11,37-52 (la disputa con i farisei; una sola volta entrambi i lemmi). In quest’ultimo caso, il contesto narrativo diverge leggermente rispetto a Matteo, in quanto Luca colloca la disputa fuori da Gerusalemme, in casa di un anonimo fariseo che ospita Gesù, e mostra un maggior contatto con Mc 7,1-23, con cui ha in comune l’affermazione che «è pura ogni cosa» (πάντα καθαρὰ ὑμῖν ἐστιν, 11,41). Il verbo καθαρίζω compare poi in altri due episodi, entrambi associati alla guarigione della lebbra. In 4,16-30 Gesù, nel suo primo discorso pubblico a Nazaret, parla della guarigione di Naaman il Siro al tempo di Eliseo (ἐκαθαρίσθη, 4,27); nel secondo episodio (17,11-19) si racconta della fede del samaritano, unico dei dieci lebbrosi guariti a ritornare da lui (ἐκαθαρίσθησαν, 17,14. 17). Non compaiono quindi significati nuovi per καθαρίζω, anche se si può notare che in entrambi i casi oggetto della guarigione è uno straniero. Negli Atti degli Apostoli sono quattro i contesti in cui sono presenti, per cinque volte, lemmi della radice καθαρ-: in At 10,15; 11,9 e 15,9 compare il verbo καθαρίζω; in 18,6 e 20,26 καθαρός. Il primo caso (10,15) è nell’importante capitolo decimo di Atti, in cui è descritto l’incontro tra Pietro e il centurione Cornelio a Giaffa, cui fa seguito la discesa dello Spirito Santo e il battesimo del soldato romano. Tutto l’episodio è poi riassunto da Pietro a Gerusalemme (11,1-18), davanti alla comunità cristiana, ed è qui che si ha la ripetizione del verbo καθαρίζω (11,9), in una ripresa letterale di 10,15. L’episodio di Cornelio è molto ben raccontato6. L’uso di καθαρίζω è nell’ambito della visione che Pietro ha, ed è proprio la voce celeste che utilizza il verbo nella sua risposta all’obiezione dell’apostolo all’invito a mangiare: «Pietro rispose: “Non sia mai, Signore, perché io non ho mai mangiato nulla di profano o di impuro” (κοινὸν καὶ ἀκάθαρτον). E la voce di nuovo a lui: “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano” (ἃ ὁ θεὸς ἐκαθάρισεν, σὺ μὴ κοίνου)» (10,14-15). Pietro non è convinto dalla voce (che si ripete tre volte) e comprende il significato simbolico della visione solo quando giunge in casa di Cornelio; qui infatti afferma: «Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro (κοινὸν ἢ ἀκάθαρτον) nessun uomo» (10,28). L’episodio termina con la discesa dello Spirito Santo sui romani, e il conseguente battesimo. In 11,1-18 Pietro riassume 6
Cfr. I. OLIVER 2013, 320-364.
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l’accaduto a favore dei fratelli di Gerusalemme, riportando le parole del dialogo quasi alla lettera: «Io dissi: “Non sia mai, Signore, perché nulla di profano o di impuro (κοινὸν ἢ ἀκάθαρτον) è mai entrato nella mia bocca”. Nuovamente la voce dal cielo riprese: “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano” (ἃ ὁ θεὸς ἐκαθάρισεν, σὺ μὴ κοίνου)» (11,7-9). Si ha quindi un contesto ampio in cui sono presenti altri lemmi del campo semantico della purità/impurità (non solo di radice καθαρ-); rispetto ai casi simili nei sinottici (cfr. Mc 7; Mt 23; Lc 11) qui la tematica dell’impurità è legata direttamente a quella del contatto degli ebrei con gli stranieri, e sembra piuttosto chiaro che sia questo il vero tema, non tanto quello del cibo, o del mangiare cibi considerati impuri dagli ebrei7. Sia in At 10 che in At 11, del resto, le ultime parole di Pietro riguardano il Battesimo (cfr. 10,47; 11,16-17) e le parole che i cristiani pronunciano al termine del brano si riferiscono non alla purità dei cibi, ma all’ingresso dei pagani nella comunità. In questa direzione va anche 15,9 dove καθαρίζω compare nelle parole che Pietro rivolge all’assemblea di Gerusalemme, radunata per decidere come comportarsi con i pagani venuti alla fede. Il tema è lo stesso dei cc. 10–11; Pietro afferma che Dio «non fa discriminazione tra noi e loro, purificando i loro cuori con la fede (τῇ πίστει καθαρίσας τὰς καρδίας αὐτῶν)» (15,8-9). Qui καθαρίζω non ha più alcun legame con il cibo, ma è una «purificazione intima»8 dovuta alla fede, con un accostamento che tornerà spesso nel Nuovo Testamento, oltre a Mt 5,8 già considerato. Che però non sia possibile scindere del tutto le tematiche (purità dei cuori e del cibo) è la prosecuzione del racconto a mostrarlo: infatti, le disposizioni che vengono date per i cristiani provenienti dal paganesimo riguardano di nuovo anche la purità dei cibi, cui si fa esplicito riferimento (v. 29). L’aggettivo καθαρός compare due volte in Atti con un significato nuovo. In 18,6 Paolo si rivolge agli ebrei in sinagoga a Corinto; davanti al loro rifiuto di ascoltare l’annuncio che Gesù è il Cristo, egli dichiara: «Il vostro sangue sia sul vostro capo; io d’ora in avanti andrò puro verso i pagani» (τὸ αἷμα ὑμῶν ἐπὶ τὴν κεφαλὴν ὑμῶν· καθαρὸς ἐγω ἀπὸ τοῦ νῦν εἰς τὰ ἔθνη πορεύσομαι). In 20,26 è sempre Paolo a parlare, questa volta agli anziani di Efeso, cui dichiara, in 7 Cfr. S.G. WILSON 1983, 69; J. SVARTVIK 2000, 128; per l’impurità dei pagani: P. SACCHI 2002; J.C.H. SMITH 2012; G. IBBA 2014, 86-88. 8 ROSSÉ 1998, 570.
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virtù della propria incessante predicazione: «sono puro dal sangue di tutti [voi]» (καθαρός εἰμι ἀπὸ τοῦ αἵματος πάντων). In entrambi i casi si fa riferimento al dovere, da parte di Paolo, di annunciare il vangelo, e alle eventuali conseguenze di una sua mancanza in tal senso, secondo la concezione dell’Antico Testamento9. Paolo si dichiara quindi «innocente» (καθαρός) davanti a Dio, perché egli ha sempre compiuto il proprio dovere. Qui il significato principale di καθαρός è quindi di tipo morale, tuttavia, la presenza del «sangue» (αἷμα) introduce anche un’interessante sfumatura di tipo rituale. 2.2. Letteratura Giovannea Nella letteratura giovannea i lemmi compaiono 5 volte in Giovanni, 2 nella Prima Lettera di Giovanni e 6 in Apocalisse; 10 volte compare καθαρός (4 in Giovanni e 6 in Apocalisse), 2 καθαρίζω (entrambe nella Prima Lettera) e 1 καθαίρω (in Giovanni; è l’unica occorrenza di tutto il Nuovo Testamento). Alla varietà di occorrenze, corrisponde una certa varietà di significati; non esiste infatti uniformità nell’uso – a parte Apocalisse – e si nota una distanza anche dall’uso prevalente nei sinottici. 2.2.1. VangelosecondoGiovanni Nel Vangelo, sono due i contesti in cui compaiono le cinque occorrenze complessive. Tre volte compare l’aggettivo καθαρός nell’episodio della lavanda dei piedi (13,1-20), in una parola di Gesù poi ripresa dal narratore. Davanti all’obiezione di Pietro, Gesù risponde (13,10): «Colui che è lavato non ha bisogno se non di lavare i piedi, ed è completamente puro. E voi siete puri, ma non tutti» (ὁ λελουμένος οὐκ ἔχει χρείαν εἰ μὴ τοὺς πόδας νίψασθαι, ἀλλ᾽ ἔστιν καθαρὸς ὅλος· καὶ ὑμεῖς καθαροί ἐστε, ἀλλ᾽ οὐχὶ πάντες). Le ultime parole sono riprese e commentate dal narratore, che nota (13,11): «Perché conosceva il suo traditore; per questo disse “non tutti siete puri”» (ᾔδει γὰρ τὸν παραδιδόντα αὐτόν· διὰ τοῦτο εἶπεν ὅτι οὐχὶ πάντες καθαροί ἐστε). Il contesto di partenza del dialogo è di tipo rituale: Gesù sta compiendo un gesto di purificazione, e il 9 Per l’uso di καθαρός con questo significato, cfr. ad esempio Gen 20,5-6. Più in generale, si vedano i casi in cui Dio chiede conto della parola del suo profeta, che pagherà con la vita il mancato annuncio verso coloro cui è inviato, cfr. in particolare Ez 3,18.20 (LXX): «chiederò conto a te del suo sangue» (τὸ αἷμα αὐτοῦ ἐκ χειρός σου ἐκζητήσω), letteralmente «il suo sangue cercherò dalla tua mano».
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vocabolario utilizzato richiama tale ambito (λούω, «fare il bagno»; νίπτω, «lavare»); anche i discepoli e Pietro interpretano così gesto e parole di Gesù10. Credo che il primo καθαρός, quindi, vada interpretato in senso di purità del corpo. Ma, com’è tipico del Quarto Vangelo, ecco che Gesù stesso sovrappone un nuovo significato alla stessa parola: nell’affermazione «voi siete puri, ma non tutti», καθαρός riguarda ora l’agire morale, come ripetuto dal narratore in 13,11. Anche il discorso, del resto, assume presto un carattere esortativo (in 13,12-20 Gesù chiede ai suoi di imitarlo), anche se ancora più importante è l’aspetto cristologico chiaramente presente (Gesù «li amò fino alla fine», 13,1; la promessa di «avere parte con lui», 13,8), come sottolineano molti commentatori11. In conclusione, le tre occorrenze di καθαρός in 13,10-11 presentano una peculiare ricchezza di significato, del resto prevedibile nel Quarto Vangelo. Sono ancora due versetti consecutivi a contenere le successive due occorrenze della radice καθαρ- del Quarto Vangelo: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota (καθαίρει) perché porti più frutto. Voi siete già puri (ὑμεῖς καθαροί ἐστε), a causa della parola che vi ho annunciato» (15,1-3). Come si nota, è presente un gioco di parole, per cui la stessa radice verbale ha prima un significato letterale concreto («purificare» un ramo, cioè potarlo) e poi traslato («essere puri»). Gv 15,2 segna l’unica occorrenza nel Nuovo Testamento del verbo καθαίρω, che oltre al medesimo significato di καθαρίζω, forma più recente di matrice ellenistica12 è utilizzato con il significato di “potare” in ambito agricolo13. Data la simbologia della vite presente nel brano, è probabile che Giovanni utilizzi tale verbo appositamente, preferendolo a καθαρίζω14. L’utilizzo di καθαρός si lega poi a 13,10-11, dove risuonava una frase identica (ὑμεῖς καθαροί ἐστε); anche in questo caso la purità deriva dal rapporto dei discepoli con il loro signore e maestro; un significato, quindi, prevalentemente cristologico. Così, in tutti i casi in cui 10 L’espressione “fare il bagno” (verbo λούω) nel Nuovo Testamento compare altre quattro volte, indicando sempre il lavaggio completo e può avere un’attinenza alla purità rituale. L’abluzione in realtà non attiene al rituale della cena (BROWN 1979, 673), ma piuttosto al dovere dell’ospitalità (cfr. Lc 7,44), ma il vocabolario suggerisce tale significato, almeno indirettamente. 11 Cfr. R. BROWN 1979, 675-678; K. BERGER 2014, 498. 12 Cfr. F. HAUCK 1938, 417. 13 R. BROWN 1979, 795. 14 Cfr. K. BERGER 2014, 509-510.
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si utilizza la radice καθαρ- nel Quarto Vangelo, si sta parlando dei discepoli e del loro rapporto con Gesù15. 2.2.2. LettereeApocalisse Nella Prima lettera di Giovanni καθαρίζω compare in 1 Gv 1,7. 9, in un contesto molto ricco dal punto di vista teologico, com’è caratteristico di tutta la Lettera. Le due occorrenze sono simili: «Il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato» (τὸ αἷμα Ἰησοῦ τοῦ υἱοῦ αὐτοῦ καθαρίζει ἡμᾶς ἀπὸ πάσης ἁμαρτίας, 1,7) e: «Egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità» (πιστός ἐστιν καὶ δίκαιος [ὁ Ἰησοῦς], ἵνα ἀφῇ ἡμῖν τὰς ἁμαρτίας καὶ καθαρίσῃ ἡμᾶς ἀπὸ πάσης ἀδικίας, 1,9). I passi di trovano all’inizio della prima sezione della Lettera e, come nel Quarto Vangelo, la radice καθαρ- è utilizzata per descrivere un aspetto del rapporto tra Gesù e i discepoli, anche se qui è accentuato il retroterra anche rituale di καθαρίζω, come il riferimento esplicito al sangue suggerisce. Si deve notare il legame con il linguaggio battesimale proprio del Nuovo Testamento (cfr. Mt 26,28; Eb 9,14; Ap 1,5)16 e con la teologia veterotestamentaria dell’alleanza, che ha le sue radici nei fondamentali testi di Ger 31,34 – dove compaiono, come qui, «iniquità» (ἀδικία) e «peccato» (ἁμαρτία) – ed Ez 36,25, dove compaiono sia καθαρίζω che καθαρός. Si tratta di uno sviluppo importante nell’uso della radice καθαρ- nel Nuovo Testamento, che mostra come da un significato rituale si possa arrivare a uno più decisamente teologico, ancora una volta in particolare cristologico. Nell’Apocalisse l’aggettivo καθαρός compare sei volte, in tre capitoli (Ap 15,6; 19,8. 14; 21,18[bis]. 21); il senso è sempre anzitutto letterale, legato a un sostantivo concreto: il «lino» (λίνον) o il «bisso» (βύσσινον) della veste in 15,6 e 19,8. 14; l’«oro» (χρυσίον) e il «cristallo» (ὕαλος) in 21,18. 21. Ap 15,6 si riferisce al lino delle vesti degli angeli che escono dal tempio (celeste) chiamati a ricevere le sette coppe colme dell’ira di Dio. La purezza è associata quindi al mondo di Dio, come anche in 19,8. 14 per le vesti della sposa dell’Agnello e dei cavalli bianchi degli eserciti del cielo. In 19,8 è interessante ciò che segue: «La veste di lino sono le opere giuste dei santi»; senza ripetere καθαρός, si interpreta 15
1976. 16
Secondo una possibilità già rilevata da J. NEUSNER 1973, recensito in P. SACCHI Cfr. J. BEUTLER 2009, 48.
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l’immagine della veste in senso morale, con un linguaggio specifico che ritroveremo (cfr. «giustizia», δίκαιος in 1 Gv 1,9; «santità», ἁγιωσύνη in 2 Cor 7,1). In modo solo accennato ma chiaro, si fa intendere che quella purezza tipica del (solo) mondo di Dio e del futuro escatologico, è in realtà possibile fin da ora, grazie all’azione giusta dei santi. Le ultime tre occorrenze di καθαρός in Apocalisse servono a descrivere la Gerusalemme celeste nel c. 21. Con immagini già presenti nell’Antico Testamento (cfr. Tb 13,17) si ha la grandiosa descrizione della città santa escatologica, «di oro puro simile a cristallo puro (χρυσίον καθαρὸν ὅμοιον ὑάλῳ καθαρῷ)» (21,18), seguita da quella, del tutto simile, della piazza: «La piazza è di oro puro, come cristallo trasparente (καὶ ἡ πλατεῖα τῆς πόλεως χρυσίον καθαρὸν ὡς ὕαλος διαυγής)» (21,21). Anche in questo caso, la purità è la caratteristica del mondo di Dio, serve a descrivere la bellezza e la trascendenza di questa realtà celeste. Il significato letterale si carica quindi anche in questo caso, inevitabilmente (visto il carattere di Apocalisse) anche di un significato simbolico. Credo però che, per quanto riguarda queste occorrenze del c. 21, sia possibile individuare anche una lettura cristologica della purità: la città santa, infatti, che discende dal cielo, è “abitata”, o meglio pervasa, dalla presenza di Gesù, tenda di Dio tra gli uomini (21,3), Tempio (21,22) e lampada (21,23). In essa entreranno uomini da tutte le nazioni, dice Apocalisse, ma «solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello» (21,27) mentre non vi potrà entrare «nulla d’impuro» (κοινός). Ancora una volta, quindi, Apocalisse lega la purità alla relazione con Gesù, l’Agnello: purità e giustizia, purità e santità, purità e salvezza sono intimamente legate tra loro. 2.3. Letteratura paolina17 A parte le Lettere pastorali, in cui la radice καθαρ- compare 8 volte, sono solo 3 le occorrenze di καθαρίζω e καθαρός nelle lettere di Paolo: Rm 14,20; 2 Cor 7,1; Ef 5,2618. Le 5 occorrenze nella Lettera agli Ebrei sono concentrate nei capitoli nono e decimo: καθαρίζω in 9,14. 22. 23; 10,2 e καθαρός in 10,22. 17 Ricordo che per comodità si considerano “letteratura paolina” tutte le Lettere che la tradizione attribuisce a Paolo, compresa Ebrei. 18 Interessante l’indagine sul lessico della purificazione in Paolo operata da PENNA 2016. Egli riscontra e motiva teologicamente l’assenza di tale lessico nell’interpretazione della morte di Gesù da parte dell’Apostolo.
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2.3.1. LetteraaiRomani,SecondaLetteraaiCorinzi,Letteraagli Efesini Rm 14,20 si inserisce in una sezione in cui la purità dei cibi è discussa da Paolo in relazione al comportamento dei cristiani “deboli” e “forti” (14,1–15,13). Dopo che in 14,14 compare per tre volte l’aggettivo κοινός, con la chiara affermazione che «nulla è impuro per se stesso» (οὐδὲν κοινὸν δι᾽ ἑαυτοῦ), 14,20 afferma: «tutto è puro, ma è male per l’uomo che mangia recando scandalo» (πάντα μὲν καθαρά, ἀλλὰ κακὸν τῷ ἀνθρώπῳ τῷ διὰ προσκόμματος ἐσθίοντι). L’affermazione paolina è molto vicina a Mc 7,19 sulla purità dei cibi, ma è legata dall’apostolo al comportamento morale, mostrando un chiaro superamento – a motivo di situazioni più decisive, come l’unità dei cristiani – delle regole di purità rituale19. Il tema sarà ripreso più avanti. In 2 Cor 7,1 il verbo καθαρίζω compare, al termine della prima parte della Lettera, in una sezione (6,11–7,4) in cui il tema dell’impurità è già presente in una citazione dell’Antico Testamento (6,17: «Non toccate nulla d’impuro», ἀκαθάρτου μὴ ἅπτεσθε; cfr. Is 52,11). Paolo poi prosegue: «Purifichiamo noi stessi da ogni macchia di carne e di spirito, portando a compimento la santità nel timore di Dio» (καθαρίσωμεν ἑαυτοὺς ἀπὸ παντὸς μολυσμοῦ σαρκὸς καὶ πνεύματος, ἐπιτελοῦντες ἁγιωσύνην ἐν φόβῳ θεοῦ). L’affermazione è all’interno di una sezione molto personale dell’apostolo, che ricorda il suo ministero tra i Corinzi rivendicando per sé un atteggiamento giusto e corretto. L’utilizzo di καθαρίζω ha qui un tono piuttosto generico, che ben si addice a un contesto esortativo, senza espliciti riferimenti alla purità rituale (pur presente nella citazione di Is 52,11), e va piuttosto inteso in senso genericamente morale, legato alla «santificazione» (ἁγιωσύνην) della persona, ampliando quindi il significato della purità, rispetto alla citazione dell’Antico Testamento20. Anche in Ef 5,26 il termine καθαρίζω compare in contesto esortativo, all’interno del celebre brano dedicato ai rapporti tra coniugi (5,21-33). Il discorso morale si allarga, in questo caso, alla cristologia, mediante la nota analogia per cui il marito deve amare la propria moglie come Cristo ha amato la Chiesa. Descrivendo l’effetto di tale amore, Paolo afferma: «Per santificarla purificandola con il lavacro 19 Cfr. M. NEWTON 1985, 98-114; P.J. TOMSON 1999; T. KAZEN 2002; A. PITTA 2013b. Per A. DESTRO-M. PESCE 1996 si tratta invece soprattutto del problema dei cibi, qui. 20 Cfr. A. DESTRO-M. PESCE 1996, 36-37 e M. NEWTON 1985.
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dell’acqua nella parola» (ἵνα αὐτὴν ἁγιάσῃ καθαρίσας τῷ λουτρῷ τοῦ ὕδατος ἐν ῥήματι). Il contesto è molto concreto e riguarda certo anche la purificazione dei corpi (la metafora del corpo ricorre subito dopo più volte), per cui è innegabile un retroterra di tipo cultuale (anche l’accenno al sacrificio/offerta di Cristo va in questa direzione); ma qui Paolo lega la purificazione alla santità conferita dal battesimo («lavacro», λουτρόν). Anche Efesini, quindi, mostra un singolare intreccio di morale e cristologia. 2.3.2. LetterePastorali Il più ampio utilizzo della radice καθαρ- all’interno del corpus paolinosi ha nelle Lettere pastorali: in 1 Tm, 2 Tm e Tt sono presenti 7 occorrenze di καθαρός e 1 di καθαρίζω. Nelle Lettere a Timoteo, colpisce subito una caratteristica: καθαρός è legato sempre a due sostantivi, cuore (καρδία) in 1 Tm 1,5 e 2 Tm 2,22 e coscienza (συνείδησις) in 1 Tm 3,9 e 2 Tm 1,3. Per l’autore delle Lettere, quindi, il termine καθαρός ha un significato di tipo morale, legato alla vita interiore del cristiano: del resto, è utilizzato nelle esortazioni e negli indirizzi di saluto delle Lettere. In 1 Tm 1,5 si afferma: «Lo scopo del comando è però la carità, che nasce da un cuore puro (ἐκ καθαρᾶς καρδίας), da una buona coscienza e da una fede sincera»; in 2 Tm 1,3 (sempre nel saluto iniziale): «Rendo grazie a Dio che io servo, come i miei antenati, con coscienza pura (ἐν καθαρᾷ συνειδήσει)». Le altre due occorrenze sono di tipo esortativo: in 1 Tm 3,9 si sta rivolgendo ai diaconi, cui chiede anzitutto di essere persone degne, moderate, capaci di conservare la fede in una «coscienza pura». In 2 Tm 2,22 si rivolge direttamente a Timoteo, esortato a mantenere e cercare la giustizia, la fede, la carità e la pace «insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro». Molto interessante Tt 1,15, versetto in cui ricorrono ben tre occorrenze di καθαρός. Si afferma così: «Tutto è puro per chi è puro, ma per quelli che sono corrotti e senza fede nulla è puro: sono corrotte la loro mente e la loro coscienza» (πάντα καθαρὰ τοῖς καθαροῖς· τοῖς δὲ μεμιαμμένοις καὶ ἀπίστοις οὐδὲν καθαρόν, ἀλλὰ μεμίανται αὐτῶν καὶ ὁ νοῦς καὶ ἡ συνείδησις). La celebre massima con cui s’apre il versetto è inserita in un contesto polemico, contro alcuni falsi cristiani che Tito deve combattere; si allude qui al permanere di usanze del giudaismo, con una ripresa del vocabolario di Marco 7 o Romani 1421. 21
Cfr. J. SVARTVIK 2000, 129.
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Anche in questo versetto appare poi, come nelle Lettere a Timoteo, il sostantivo «coscienza». L’affermazione è netta, e lascia intendere che il problema della purità rituale quasi non si pone più, a fronte di una concezione morale ormai prevalente22. È nell’ultima occorrenza delle lettere pastorali, Tt 2,14, che torna il legame esplicito tra il verbo καθαρίζω e la persona di Cristo. Infatti, è Gesù Cristo il soggetto del verbo, egli che «ha dato se stesso per noi affinché riscattasse (λυτρώσηται)… e purificasse un popolo scelto (καὶ καθαρίσῃ ἑαυτῷ λαὸν περιούσιον)»23. All’interno della breve lettera, questa è la parte più dottrinale e teologica; non stupisce quindi un tale uso di καθαρίζω. Si ha quindi una concezione sì morale, ma soprattutto cristologica: è Cristo che purifica, mediante la sua azione, espressa con il raro verbo «riscattare» (λυτρόω), che lega Tt 2,14 alla Prima Lettera di Giovanni, ma anche alla Lettere agli Ebrei e di Pietro, che vedremo a breve. 2.3.3. LetteraagliEbrei Delle cinque occorrenze totali della Lettera agli Ebrei, le prime quattro sono inserite nella parte dottrinale, laddove è messo a confronto il sacrificio e il sacerdozio di Cristo con l’antica alleanza. L’ultima occorrenza, in 10,22, è invece in una sezione esortativa. Ebrei 9 introduce il celebre paragone tra santuario, sacerdozio e sacrifici del popolo ebraico e il nuovo sacerdozio di Cristo, posto nella sezione più ampia e importante della Lettera (5,11–10,39)24. E il primo utilizzo di καθαρίζω (9,14) si riferisce proprio al sangue di Cristo, perché, dice l’autore di Ebrei, «quanto più il sangue di Cristo… purificherà la nostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente» (πόσῳ μᾶλλον τὸ αἷμα τοῦ Χριστοῦ... καθαριεῖ τὴν συνείδησιν ἡμῶν ἀπὸ νεκρῶν ἔργων εἰς τὸ λατρεύειν θεῷ ζῶντι). Il contrasto è con il sangue dei sacrifici antichi, tra le opere mortee il Dio vivente. Nel medesimo contesto, anche le tre successive occorrenze di καθαρίζω sono legate ai sacrifici antichi. In 9,22 si afferma che l’efficacia dell’alleanza nella Legge era garantita dal sangue capace di «purificare ogni cosa» (ἐν αἵματι πάντα καθαρίζεται κατὰ τὸν νόμον). In 9,23 si dice invece che «era necessario che le cose Cfr. H. RÄISÄNEN 1983, P.J. TOMSON 1999. Traduzione più letterale; CEI 2008 parafrasa eliminando il verbo «purificare»: «Per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone». 24 Cfr. A. VANHOYE 2010; H. VAN DE SANDT 2014, 95-99. 22 23
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raffiguranti le realtà celesti con tali cose fossero purificate» (Ἀνάγκη οὖν τὰ μὲν ὑποδείγματα τῶν ἐν τοῖς οὐρανοῖς τούτοις καθαρίζεσθαι). In 10,2, infine, il sacrificio antico, al contrario del nuovo, si ripete ogni anno proprio perché non può «purificare una volta per tutte gli offerenti» (τοὺς λατρεύοντας ἅπαξ κεκαθαρισμένους). In tutti e quattro i casi, dunque, il verbo καθαρίζω è utilizzato in riferimento al sacrificio legato al sangue, secondo un vocabolario cultuale specifico dell’Antico Testamento. Ma come già visto in 1 Gv 1,7. 9 e in Tt 2,14, anche in Ebrei si aggiunge una lettura cristologica di καθαρίζω; che «la morte di Cristo avesse un effetto purificatore»25 è un dato ormai acquisito. Infine, in 10,19 l’aggettivo καθαρός compare non più riferito a Cristo, ma direttamente al cristiano; all’inizio di una sezione esortativa (10,19-39) che conclude la lunga parte dottrinale precedente, si chiede ai fratelli di accostarsi al santuario di Cristo «aspersi i cuori da cattiva coscienza e lavati i corpi con acqua pura» (ῥεραντισμένοι τὰς καρδίας ἀπὸ συνειδήσεως πονηρᾶς καὶ λελουσμένοι τὸ σῶμα ὕδατι καθαρῷ). Il brano è ricco di termini legati alla purità (in particolare i verbi «aspergere», ῥαντίζω e «lavare», λούω), con un chiaro riferimento all’acqua (del battesimo). Così, la purità è ancora una volta associata al Battesimo26, ma anche alla coscienza e al cuore del credente. Quest’ultima occorrenza, in chiave esortativa, si inserisce pertanto in un registro meno cultuale e più etico, con la presenza del vocabolario già incontrato altrove nel Nuovo Testamento. 2.4. Lettere cattoliche Le ultime tre occorrenze dei nostri lemmi si trovano in Gc 1,27; 4,8 e in 1 Pt 1,22. Nella Lettera di Giacomo compaiono sia il verbo καθαρίζω sia l’aggettivo καθαρός, nella Prima Lettera di Pietro solo καθαρός. Nella Lettera di Giacomo27, la prima occorrenza si ha al termine di un’iniziale esortazione ad accogliere e mettere in pratica la parola (1,19-25), dove è già presente il vocabolario della purità (cfr. 1,21: «impurità», ῥυπαρίαν); ora, parlando della «religione» (θρησκεία), si contrappone una falsa religiosità a quella vera, definita appunto 25 26 27
H. W. ATTRIDGE 1999, 422. Cfr. Ibidem, 478. Cfr. H. VAN DE SANDT 2014, 91-95.
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«pura e senza macchia» (καθαρὰ καὶ ἀμίαντος). Il registro è tipicamente etico, in quanto ciò che rende pura la religione è «visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo». L’utilizzo di καθαρός è piuttosto originale, quindi, ma ciò non stupisce all’interno di una lettera che presenta numerose peculiarità, anche di linguaggio; in ogni caso, il legame tra purità e santificazione segna fin dall’inizio l’argomentare della lettera28. Anche la seconda occorrenza (Gc 4,8) è in contesto morale ed esortativo, rivolta direttamente ai peccatori: «purificate la mani, peccatori, e santificate i cuori, doppi di cuore» (καθαρίσατε χεῖρας, ἁμαρτωλοί, καὶ ἁγνίσατε καρδίας, δίψυχοι). Anche in questo caso, il vocabolario è piuttosto originale, ma si riconoscono qui alcuni termini già incontrati, in particolare il verbo ἁγνίζω (che di norma significa appunto «purificarsi» ed è usato in Atti, 1 Gv 3,3 e che ritroveremo in 1 Pt 1,22) e il sostantivo «cuore», καρδία. Ad ogni modo, non si riscontrano particolari novità nell’uso dei lemmi studiati. Anche 1 Pt 1,22 è un’esortazione; Pietro rivolge l’invito ad «amarsi reciprocamente» (ἀγαπήσατε ἐκτενῶς) e «con cuore puro» (ἐκ [καθαρᾶς] καρδίας)29. In tutto il brano che precede, e anche in questa esortazione, è presente l’implicito paragone tra la condotta di prima e la vita nuova del cristiano; nel paragone tornano, come già visto altre volte, i riferimenti al riscatto (1,18), al sangue di Cristo (1,19) così come altri termini propri del linguaggio rituale (la «santità», in 1,15; l’«agnello senza difetti e senza macchia», in 1,19). Come nella Lettera agli Ebrei (cfr. 10,22) si riscontra qui la possibilità di inserire καθαρός in contesto parenetico, intriso tuttavia di linguaggio cultuale. Anche in questo caso, quindi, non mi sembra che la Lettera aggiunga nuove sfumature ai significati di καθαρός già incontrati.
Cfr. J.H. ELLIOTT 1993. In 1 Pt 1,22 il lemma presenta una difficoltà testuale. Infatti καθαρός, pur presente nella maggioranza dei manoscritti, molti dei quali antichi, come il papiro P72, il Sinaitico e il manoscritto di Efraim, è assente in altri importanti codici, tra cui Alessandrino e Vaticano (esso è posto tra parentesi quadre nel GNT4 con grado di probabilità {C}). Non è quindi facile decidere quale sia l’accezione migliore, avendo motivi sia per immaginare un’aggiunta armonizzante, sia per un’elisione, visto che si tratta di un’espressione non decisiva né necessaria (ἐκ καρδίας manterrebbe il significato: «amatevi di cuore»). Come spesso accade in critica testuale, non è possibile una decisione definitiva. 28 29
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2.5. Sguardo complessivo al Nuovo Testamento Da quanto esposto, si individuano due significati principali dei lemmi καθαρίζω, καθαίρω e καθαρός nel Nuovo Testamento. Il primo è legato al mondo rituale, tipico già dell’Antico Testamento. Lo si è incontrato nei molti casi dei sinottici in cui si riferisce alla guarigione di lebbrosi, oppure alle regole della Legge o della tradizione farisaica, come anche in Atti 10–11 o in alcuni brani delle Lettere (Rm 14,20; Tt 1,15). Come nell’Antico Testamento, i lemmi della radice καθαρ- sono normalmente impiegati per definire la complessa situazione di purità cui è connesso l’agire religioso dell’uomo, e così sono stati impiegati da Gesù e dal cristianesimo primitivo. Il secondo principale significato riguarda invece la purità legata ai comportamenti umani, quindi di tipo morale, e qui prevale un vocabolario etico che vede la presenza di sostantivi come cuore o coscienza (o dall’altro lato il peccato), che richiamano la vita interiore e spirituale dell’uomo. Tale significato (del resto non estraneo all’Antico Testamento) prevale nelle Lettere, ma non si può dimenticare che la prima occorrenza, nell’ordine canonico dei libri del Nuovo Testamento, è proprio quel «beati i puri di cuore» di Mt 5,8 oltre alle tre occorrenze presenti in Gv 13 o quella in At 15. I due significati, però, nel Nuovo Testamento non sono separati, perché il linguaggio cultuale è sovente utilizzato, in senso metaforico, per indicare una conseguenza di tipo morale. Inoltre, in molti casi si lega il linguaggio sacrificale, con sfumatura morale, all’evento cristologico (in Ebrei, ma anche in Ef 5,26; 1 Gv 1,7. 9; Tt 2,14; 1 Pt 1,22). Così la purità non è più solo uno “stato” in cui si può trovare o no un oggetto o il cristiano, ma diventa un atteggiamento interiore che nasce dall’evento cristologico; il legame tra la purità del cristiano e l’agire di Cristo è evidente se si pensa che per almeno cinque volte, in questo contesto, il soggetto di καθαρίζω è Cristo o il suo sangue (Ef 5,26; Tt 2,14; Eb 9,14; 1 Gv 1,7.9). La caratteristica peculiare nel Nuovo Testamento è forse proprio il valore cristologico che i lemmi di radice καθαρ- assumono in alcuni casi30.
30 Oltre ai due significati qui indicati, vi sono poi i casi in cui il verbo o l’aggettivo sono utilizzati in modi ancora differenti, senza particolari profondità teologiche dirette, come in Mt 27,59, Gv 15,2.3; At 18,6; 20,26 o in Apocalisse; è evidente l’ampiezza semantica che essi assumono nel Nuovo Testamento.
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3. CENNI AD ALTRI LEMMI CORRELATI:
ἐκκαθαίρω, καθαρισμός, καθαρότης, ἀκαθαρσία, ἀκάθαρτος Prima di passare ad alcuni approfondimenti, è bene gettare uno sguardo sugli altri termini, sempre legati alla radice καθαρ-, presenti nel Nuovo Testamento. In 1 Cor 5,7 e 2 Tm 2,21 è presente la forma verbale ἐκκαθαίρω, che si può spiegare come una variante del verbo καθαίρω, senza apprezzabili differenze di significato, se non quella di un rafforzamento dato dal prefisso; in entrambi i casi ha un valore rituale. Più diffuso (7 occorrenze) il termine καθαρισμός, tradotto di norma con «purificazione», impiegato in Mc 1,44; Lc 2,22; 5,14; Gv 2,6; 3,25; Eb 1,3; 2 Pt 1,9. Nei vangeli si riferisce sempre a un concreto atto di purificazione da un’impurità (la lebbra; la nascita; le giare o il battesimo). Nelle Lettere, assume il senso di purificazione «dai peccati» (τῶν ἁμαρτιῶν), sintagma presente in entrambi i casi. In Eb 9,13 si trova l’unica occorrenza del sostantivo καθαρότης, anch’esso tradotto «purificazione», senza particolari difficoltà di comprensione. Molto più ampio e importante l’utilizzo dei termini negativi, il sostantivo ἀκαθαρσία e l’aggettivo ἀκάθαρτος, presenti rispettivamente 10 e 32 volte nel Nuovo Testamento31. Fermandoci a un rapido sguardo, per il sostantivo si può affermare che prevale il significato morale; non a caso ἀκαθαρσία compare in particolare nelle Lettere (solo Mt 23,27 per i Vangeli, in senso concreto riferito ai sepolcri), dove è spesso utilizzato in contrasto con l’idea di santità (Rm 6,19; Ef 5,3; 1 Ts 4,7), ma in ogni caso mantiene un significato ampio e generico (Rm 1,24; 2 Cor 12,21; Gal 5,19; Ef 4,19; Col 3,5; 1 Ts 2,3). L’aggettivo ἀκάθαρτος è molto diffuso nei sinottici con 19 occorrenze; qui mantiene costantemente il significato di “spirito impuro”, in associazione con il sostantivo «spirito» (πνεῦμα) in tutti e 19 i casi in cui compare, così come anche in At 5,16; 8,7; Ap 13,16; 18,232. L’uso così costante denota un modo di dire diffuso e noto; rimane però interessante che al tempo di Gesù si associasse l’impurità al regno demoniaco, e, soprattutto, che i vangeli mostrino un Gesù decisamente impegnato nel contrastare questo tipo di impurità. Per le altre nove occorrenze, in At 10,14. 28; 11,8 ἀκάθαρτος è utilizzato da 31 32
Cfr. A. DESTRO-M. PESCE 1996, T. KAZEN 2002. Ampia analisi in WAHLEN 2004.
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Pietro per indicare ciò che è ritualmente impuro nell’episodio di Cornelio (sempre associato a κοινός). Per altre tre volte, poi, ἀκάθαρτος è presente in Apocalisse, sempre in un senso concreto di «impurità» legata prima alla donna seduta sulla bestia (Ap 17,4) e poi agli esseri immondi di Babilonia (due volte in Ap 18,2). Infine, per tre volte ἀκάθαρτος compare nelle Lettere di Paolo (1 Cor 7,14; 2 Cor 6,17; Ef 5,5); nel primo caso, indica i figli di un matrimonio tra cristiani e non cristiani, che non vanno considerati «impuri», ma santi; nel secondo, in un contesto già incontrato, ci si riferisce alle impurità dell’antica alleanza; in Ef 5,5 infine, ἀκάθαρτος indica chi è escluso dal regno di Cristo, ancora in contrapposizione alla santità. 4. ANALISI E APPROFONDIMENTI 4.1. Purità, legge e Gesù storico I versetti del settimo capitolo contenenti l’insegnamento di Gesù sulla purità rituale (Mc 7,1-23) sono tra i più studiati del Vangelo secondo Marco. Oggetto di molte analisi storico-critiche (critica della tradizione e della redazione), il brano mostra presto la sua importanza per la questione del Gesù storico33. Infine, la sezione sulla purità di Marco torna spesso negli studi sui rapporti tra Gesù, il giudaismo e la Torah. Non mi addentro nella discussione sulla composizione diacronica della sezione; è piuttosto evidente che si possano rintracciare alcuni differenti strati, più o meno antichi, e che i commenti del narratore (vv. 3-4 e v. 19b) sono le parti più recenti del brano; su questo aspetto si è incentrata dapprima gran parte della ricerca del XX secolo34. Narrativamente, la sezione presenta almeno tre nuclei tematici: discussione sulle mani non lavate (vv. 1-8); comandamento di Dio e tradizione degli uomini (vv. 9-13); ciò che contamina l’uomo (vv. 14-23). 33 Secondo G. Jossa, Mc 7,15 è «un testo importantissimo per la ricerca del Gesù storico, perché è nei Vangeli canonici l’unica affermazione di principio fatta da Gesù in materia di purità ed è quindi da esso che dipende in maniera quasi esclusiva il giudizio sull’atteggiamento assunto da Gesù nei confronti delle regole di purità del mondo giudaico» (G. JOSSA 2011, 229). Si vedano: H. HÜBNER 1973; K. BERGER 1977; W.R. LOADER 1998; J.D.G. DUNN 2002; T. KAZEN 2002; J.C. CROSSLEY 2003; J.D.G. DUNN 2006; S. HABER-A. REINHARTZ 2008; J.P. MEIER 2009, 344-477 con bibliografia; T. HOLMÉN 2011; G. JOSSA 2011; J.C: CROSSLEY 2012; T. KAZEN 2013a; P. MASCILONGO 2018, 418-437 con bibliografia. 34 Cfr. N.Y. MCELENEY 1972; J. LAMBRECHT 1977; H. RÄISÄNEN 1982; J.D.G. DUNN 1990; H. SARIOLA 1990; E. CUVILLIER 1992; G. SALYER 1993; B. CHILTON 1997; T. KAZEN 2013B.
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Il tema della purità è trattato da diversi punti di vista: Gesù non limita la propria risposta a farisei e scribi alla sola questione delle mani non lavate (l’accusa formulata verso i discepoli in 7,5), ma estende il discorso prima a tutte le tradizioni da loro introdotte “contro” la Torah, esemplificando con il caso del korban, e infine a ciò che contamina l’uomo, riferendosi non più solo al cibo, ma all’intera vita morale. Proprio tale ampiezza rende il brano particolarmente interessante e ne ha favorito uno studio su più livelli. Così, a partire da Marco 7, l’interesse degli studiosi si è spostato verso una comprensione complessiva dell’insegnamento di Gesù sulla Torah, messo a confronto con il giudaismo del suo tempo35. Se la classica posizione di molti studiosi della seconda ricerca sul Gesù storico considerava autentiche le parole di Gesù a causa della forte discontinuità con il giudaismo (fu questa la posizione di E. Käsemann, G. Bornkamm, V. Taylor, W. G. Kümmel, ecc.) studi successivi hanno notato la difficoltà di conciliare una parola di Gesù sulla purità dei cibi con il silenzio e l’imbarazzo di Atti sull’argomento, con esplicito riferimento alla reazione di Pietro in Atti 10 (tra gli altri: H. Räisänen, E. P. Sanders, J. P. Meier, J.D.G. Dunn). Oggi, gli studiosi sono più propensi ad allargare l’orizzonte delle argomentazioni, inquadrando la discussione all’interno dell’ampia analisi del rapporto tra Gesù e la Torah e, ancora più ampiamente, tra Gesù e il giudaismo (o i giudaismi) del suo tempo36. Di solito, si riconosce continuità tra insegnamento di Gesù e Legge giudaica, attorno alla quale esisteva già nel giudaismo del I secolo una vasta gamma di posizioni, oltre quella farisaica più rappresentata nel Nuovo Testamento. Un’interessante e più completa tendenza attuale è quella che considera in modo complessivo l’approccio di Gesù alla purità, considerata forse come la più vistosa novità portata rispetto al mondo giudaico 35 Si tratta di uno sviluppo recente molto importante negli studi sul Gesù storico; per un’iniziale bibliografia, si vedano: J. NEUSNER 1976; R.P. BOOTH 1986; B. LINDARS 1988; E.P. SANDERS 1992; P. FREDRIKSEN 1995; M. HENGEL-R. DEINES 1995; C. FOCANT 1996; W.R. LOADER 1997; P. SACCHI 1999; KOET 2000; OTTENHEIJM 2000; TOMSON 2000; T. HOLMÉN 2001; D.J. RUDOLPH 2002; P. SACCHI 2002; J.H. CHARLESWORTH 2008; Y. FURSTENBERG 2008; P. BERTALOTTO 2010; W.R. LOADER 2011; R. PESCH 2011; W. STEGEMANN 2013; C. FOCANT 2014; J.C. CROSSLEY 2015a; J.C. CROSSLEY 2015b, 96-133; A.C. LACOCQUE 2015. 36 Cfr. discussione in J. SVARTVIK 2000; B. CHILTON-J. NEUSNER-C.A. EVANS 2002; J. SVARTVIK 2004; J.D.G. DUNN 2006; J.P. MEIER 2009; G. JOSSA 2011; T. KAZEN 2013a.
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del tempo37. I Vangeli vanno pertanto letti nella loro interezza anche rispetto a questo tema, e testimonierebbero una prassi per cui Gesù non nega né relativizza l’importanza della purità e delle leggi a essa collegate, ma supera una concezione «difensiva» della purità, tipica almeno del mondo farisaico – per cui la purità è qualcosa da preservare contro gli innumerevoli assalti dell’impuro – a favore di una «purità offensiva». Con questa espressione si esprime la convinzione che Gesù (e chi era con lui, come i discepoli) si riteneva portatore di una forza tale per cui non aveva bisogno di difendersi dall’impurità, che era invece sconfitta dalla sua azione. Si instaura così un nuovo ordine nei rapporti tra puro e impuro, per cui è la purità che si impone sull’impurità e non viceversa, chiaro segno escatologico dell’irrompere del regno di Dio nel mondo. Per questo motivo Gesù ha potuto relativizzare le norme di purità rituali, seguito in ciò dal cristianesimo primitivo, e nello stesso tempo ha espresso un’esigenza più elevata e radicale dal punto di vista morale. Per tali studiosi, la posizione che Gesù ha manifestato nei confronti di questa problematica sarebbe uno dei più importanti per rivelare la sua visione complessiva del mondo. Anche l’agire di Gesù contro il potere demoniaco (associato, come visto, nell’uso linguistico, all’«impurità»), così presente in tutti i Vangeli, ben si addice a questa interpretazione. Il pregio principale di tale modo di vedere è di considerare la purità all’interno di una più ampia visione cristologica, secondo quella che è sicuramente una caratteristica specifica del Nuovo Testamento. All’interno del filone storico, infine, si devono segnalare alcuni studi apparsi di recente, che riprendono l’antica questione del rapporto tra Marco e la dottrina di Paolo38. Come visto, Rm 14,20 mostra molte affinità con Marco 7, analizzate sia dal punto di vista teologico che letterario; anche in questo caso le posizioni sono discordi, ma di solito si ammette la precedenza dei sinottici su Paolo, pur senza contatti letterari diretti39.
37 Sintetizzo qui in modo rapidissimo numerosi studi recenti: J.H. NEYREY 1986; C. FOCANT 1996; B. CHILTON 1998; C. GRAPPE 2004; C.H.T. FLETCHER-LOUIS 2006-07; T. HOLMÉN 2011; C. GRAPPE 2013; T. KAZEN 2013A; A. RUNESSON 2013; K. BERGER 2014; A. ERMAKOV 2014; G. IBBA 2014; T. ESKOLA 2015. 38 Cfr. R.J. DILLON 1995; J. SVARTVIK 2000; J.-N. ALETTI 2009; J.C. CROSSLEY 2011; A. PITTA 2013 a.b; K.B. LARSEN 2014; L. SCORNAIENCHI 2014. 39 Cfr. J.-N. ALETTI 2009, 364-370.
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4.2. «Beati i puri di cuore»: purità ed etica Secondo gli studi più tradizionali, nel Nuovo Testamento si rispecchierebbe una concezione morale di purità ben lontana dal ritualismo tipico della Legge antica, e appunto in ciò starebbe la novità e la superiorità dell’insegnamento di Gesù. Se, naturalmente, non è più possibile sostenere una posizione così semplicistica40, grazie anche a una nuova comprensione dell’idea di purità nell’Antico Testamento, è evidente che in molti dei testi neotestamentari in cui compaiono i termini con radice καθαρ- emerge una concezione più “spirituale” della purità41. Non si può che partire da Mt 5,8: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio». La sesta beatitudine utilizza il linguaggio cultuale della purità secondo un significato spirituale e morale, come testimoniato già nell’Antico Testamento, dove è ben presente l’immagine del «cuore puro»42. Altri passi neotestamentari in cui essa ricorre sono 1 Tm 1,5; 2 Tm 2,22 e 1 Pt 1,22; in tutti i casi, qui, si ha un contesto che parla d’amore fraterno; anche in At 15,9 si afferma che Dio «purifica i cuori» (dei pagani) grazie alla fede. Ma il significato morale non è ristretto al «cuore puro»: nello stesso Matteo la controversia sulla purità rituale con i farisei non rimane mai solo su un piano cultuale; le affermazioni di Mt 15,11 o di Luca 11 su ciò che entra ed esce dalla bocca dell’uomo e le altre di Matteo 23 contro i farisei riguardano ancora l’intreccio con l’interiorità più profonda dell’uomo. Che non ci si debba però limitare solo a un significato morale, a favore di un’interpretazione propriamente cristologica, lo mostrano altri passaggi incontrati in precedenza. Nei Vangeli un uso teologico della radice καθαρ- è attestato in Gv 15,1-3, dove i discepoli sono puri non tanto per il loro comportamento, ma in virtù dell’intima unione 40 Per la posizione tradizionale si possono citare le parole di F. HAUCK 1938, 427: «Per la religione neotestamentaria è essenziale non solo aver superato l’antico concetto di purità rituale, ma di averlo anche realmente respinto come non più vincolante» (ed. italiana, col. 1282); cfr. anche G. SALYER 1993, H.D. BETZ 1997, J. KLAWANS 2000. Propendono per un superamento, tra gli altri, P. SACCHI 1999; M.N.A. BOCKMUEHL 2000; E. OTTENHEIJM 2000; T. KAZEN 2002. 41 Spesso ripresa nella teologia dei padri; cfr. M. SIMONETTI 1996 e U. LUZ 2006, 325. 42 Cfr. Sal 24,3-4; Sal 51,12; Ger 31,34; Ez 36,25. Su questo si possono vedere: C. STETTLER 2004; L. SÁNCHEZ NAVARRO 2005, 43-45; T. KAZEN 2013a, 176-190, S. GRASSO 2014, 149-150.
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con il Signore43. Essere puro, quindi, dipende dal rapporto con Cristo: riguarda l’essere e non l’agire. Il linguaggio della purità è utilizzato in chiave cristologica anche nei passi studiati della Prima Lettera di Giovanni: è Gesù che purifica, mediante il suo sangue44. Nella Lettera agli Ebrei il riferimento al culto è ancora più stretto: l’uomo peccatore, secondo Ebrei, è purificato solo mediante il sacrificio e il sangue di Cristo; la purificazione riguarda l’intimo della persona, non la sua superficie, come Eb 10,22 ribadisce, utilizzando nel medesimo contesto sia καθαρίζω che «cuore» (καρδία). Infine, anche 1 Pt 1,22 si inserisce nello stesso registro: è il sangue di Cristo, il suo darsi in riscatto per gli uomini a consentire al cristiano di vivere con cuore puro nell’amore reciproco. Per la Lettera di Tito, infine, la purità è la condizione ovvia di chi vive la fede e conosce Dio. Qui tende a scomparire il riferimento di tipo cultuale, mentre rimane il contesto cristologico: l’unica occorrenza di καθαρίζω è nell’inno di Tt 2,11-14: la purificazione del «popolo» (λαός, 2,14) cristiano è possibile grazie alla «salvezza» (σωτήριος, 2,11; σωτήρ, 2,13) portata da Cristo, esito diretto della sua «consegna» (ἔδωκεν ἑαυτὸν, 2,14) in «riscatto per i credenti» (ἵνα λυτρώσηται ἡμᾶς, 2,14); colpisce la grande somiglianza con 1 Gv 1,7. 9 e 1 Pt 1,22. Ancora una volta, la riflessione neotestamentaria vede la purità come conseguenza dell’azione di Cristo, trovando nell’antico linguaggio di origine cultuale uno strumento adeguato per esprimere, almeno in parte, la novità della salvezza cristiana45.
43 Cfr. P. SACCHI 2007, 219 e K. BERGER 2014, 602-603: «Se sono puri i cuori, allora tutto è puro. Allora non esiste più la divisione di principio tra il Dio santo e gli esseri umani impuri». 44 Notiamo che anche in 1Gv 3,1-3, dove ricorre il medesimo campo semantico del “vedere Dio” e della purità (indicata tuttavia con i vocaboli ἁγνίζω e ἁγνός), si parla del cristiano come figlio di Dio, rileggendo il significato rituale alla luce dell’evento di Cristo. 45 Cfr. R. PENNA 2016, 143-144. Si rimane più legati al registro morale in Giacomo (cfr. B. REPSCHINSKI 2008) e nelle altre occorrenze delle Lettere pastorali, dove καθαρός e καθαρίζω fan parte delle esortazioni al cristiano a vivere secondo cuore e coscienza puri.
Καθαίρω, καθαρός, κάθαρσις, καθαρίζω nei Padri apostolici Sincero MANTELLI La raccolta denominata Padri apostolici,1 costituita con intento teologico, riunisce testi eterogenei dal punto di vista storico-letterario, che «rappresentano una generazione successiva a quella dei testimoni oculari del Nazareno».2 Intendiamo mostrare il significato dei lemmi in esame all’interno di opere che, escluse dal canone scritturistico, danno conto di una recezione della terminologia della purità in un arco temporale racchiuso fra il 70 e i primi decenni del II secolo, periodo segnato dall’insorgere del fenomeno cristiano e della sua precisazione rispetto al mondo giudaico. 1. DIDACHÈ Didachè, opera liturgico-disciplinare ritornata alla luce nel 1883 e datata ipoteticamente o tra il 50 e il 70 o agli inizi del II secolo, utilizza due volte l’aggettivo καθαρός al capitolo 14, paragrafi 1 e 3, dove tratta del giorno del Signore e offre alcune istruzioni circa la partecipazione all’eucaristia. Si trova sempre connesso a «sacrificio» (θυσία): «Nella domenica del Signore riuniti spezzate il pane e rendete grazie, dopo aver confessato i vostri peccati, affinché il vostro sacrificio sia puro (ὅπως καθαρὰ ἡ θυσία ὑμῶν ᾖ)» (14,1). Segue la citazione di Mal 1,11. 14 da cui è tratta la locuzione «sacrificio puro» (θυσίαν καθαράν). L’uso del linguaggio sacrificale applicato all’eucaristia ha dato occasione di ampie discussioni fra gli studiosi, soprattutto in rapporto ai capitoli 9-10, che costituirebbero per alcuni un’anafora eucaristica, in cui tale lessico è assente.3 L’espressione καθαρὰ θυσία è un richiamo alle condizioni di purità rituale veterotestamentaria, ma 1 Ci riferiamo principalmente per l’edizione e per la traduzione a E. PRINZIVALLI – M. SIMONETTI, 2010-2015. In alcuni passaggi abbiamo utilizzato altre edizioni critiche o siamo intervenuti con adattamenti nella traduzione. 2 PRINZIVALLI – SIMONETTI 2010, XI. 3 PRINZIVALLI – SIMONETTI 2010, 444-445 n. 102. Ritiene infondata la concezione sacrificale dell’eucaristia in Didachè B. GRIMONPREZ-DAMM 1990, 9-25.
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assume nel contesto un valore morale. Difatti la purezza richiesta per celebrare l’eucaristia nel giorno del Signore viene esemplificata in 14,2: «Chi è in lite con il suo compagno non si unisca con voi, finché non si siano riappacificati, per evitare che il vostro sacrificio sia contaminato (ἵνα μὴ κοινωθῇ ἡ θυσία ὑμῶν)». Tale interpretazione è confermata dalla confessione dei peccati (τὰ παραπτώματα) che deve precedere l’eucaristia e che ne garantisce appunto la «purezza». Segue la citazione di Malachia, ricordata sopra, che dà autorevolezza all’argomento e rilegge il dato di matrice giudaica alla luce di Cristo, come avviene per numerosi passi della Didachè. 2. LA LETTERA DI CLEMENTE AI CORINZI Nella LetteraaiCorinzi, testo ascritto dalla tradizione a Clemente di Roma e la cui datazione abbraccia un arco temporale compreso fra il 70 e il 130 d. C., l’aggettivo καθαρός occorre sette volte e quattro il verbo καθαρίζω. Nella citazione di Is 1,16-20 (8,4) troviamo il lessema «puri» (καθαροί) all’interno dell’invito alla conversione, che l’autore rivolge ai suoi destinatari. Questo testo ci fa entrare nello scopo della lettera, scritta dal vescovo a nome della comunità romana per ricondurre i fratelli di Corinto alla pace e alla concordia, dopo le divisioni. In altri due passi «puro» significa «privo» o «scevro da» sempre in citazioni veterotestamentarie: Gb 14,4-5 (17,4: ἀπὸ ῥύπου «da macchia») e, in riferimento al cuore puro, «privo di peccato», Sal 50,12 (18,10). In 21,8 Clemente dà istruzioni circa l’educazione dei figli, sostenendo la tesi che una buona formazione iniziale possa prevenire comportamenti sbagliati nell’uomo adulto:4 essa deriva direttamente da Dio ed è fatta di umiltà, amore casto e timore «in una mente pura» (ἐν καθαρᾷ διανοίᾳ). L’uomo mortale è detto «puro» quando è «irreprensibile» (39,4), citando Gb 4,16-18 e di seguito in riferimento a Gb 15,15 (39,5) il cielo non è «puro» davanti a Lui (οὐρανὸς δὲ οὐ καθαρὸς ἐνώπιον αὐτοῦ): quest’ultimo riferimento al libro di Giobbe si inserisce di seguito alla lunga citazione di Gb 4,16-18 e non si sa se ritenerlo una glossa inserita nel rotolo a disposizione dell’autore oppure un’aggiunta intenzionale per affinità di contenuto.5 Anania, Azaria e Misaele hanno venerato Dio «con coscienza pura» (ἐν 4 5
PRINZIVALLI – SIMONETTI 2010, 485 n. 154. PRINZIVALLI – SIMONETTI 2010, 504 n. 254.
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καθαρᾷ συνειδήσει) contrariamente a coloro che furono abominevoli, pieni di ogni cattiveria e accrebbero il loro furore sino a mandarli alla tortura benché servissero Dio (45,7). Il verbo καθαρίζω ricorre in 1 Clem 16,10, all’interno di un passo che sembra alludere a Is 53,5 ripreso in 1 Pt 2,21-25: «Il Signore vuole che egli sia purificato dalla piaga» (καὶ κύριος βούλεται καθαρίσαι αὐτὸν τῆς πληγῆς). Di solito regge ἀπὸ con il genitivo, qui con il genitivo semplice. La liberazione da una piaga rimanda, stando al lessico dei Settanta, alle dieci piaghe d’Egitto (cfr. Es 11,1; 12,13; 33,5; Lv 26,21; Nm 11,33). Lo stesso verbo ricorre in 1 Clem 18,3 all’interno della citazione di Sal 50,4b «purificami dal mio peccato» (ἀπὸ τῆς ἁμαρτίας μου καθάρισόν με) e poco dopo all’interno dello stesso riferimento (Sal 50,9a) «mi aspergerai con issopo e sarò purificato» (ῥαντιεῖς με ὑσσώπῳ, καὶ καθαρισθήσομαι). Infine nella parte eucologica che chiude la lettera (60,2): «purificaci con la purificazione della tua verità» (καθάρισον ἡμᾶς τὸν καθαρισμὸν τῆς σῆς ἀληθείας). Qui abbiamo una figura etimologica legata ai lessemi che stiamo analizzando, atta a sottolineare il concetto di purezza che viene dalla verità, o meglio della verità stessa che purifica. Forse un riferimento a Cristo, autodefinitosi Verità (Gv 14,6) e che può purificare. L’accostamento di purificazione e verità si trova con nesso differente e quindi senza un rapporto immediato in 1QS4,21.6 3. LE LETTERE DI IGNAZIO Per analizzare l’epistolario ignaziano ci serviamo della recensione mediana composta di sette lettere, comunemente ritenute autentiche e inviate dal vescovo di Antiochia a diversi destinatari durante il viaggio che lo portò a subire il martirio a Roma intorno al 110-120. Complessivamente καθαρός fa la sua comparsa cinque volte e una sola καθαρίζω. Nella lettera AiTralliani (7,2) occorre due volte l’aggettivo καθαρός. Il contesto è segnato da una forte messa in guardia dal pericolo dell’eresia: solo tenendosi uniti a Gesù Cristo, al vescovo e ai precetti degli apostoli si può essere immuni dalla pretesa di introdurre in materia cristologica speculazioni personali in contrasto con la retta tradizione.7 La purità del credente (καθαρός) e della sua coscienza 6 7
PRINZIVALLI – SIMONETTI 2010, 534 n. 425. Cfr. H. LÖHR 2003, 253-254. AiTralliani 7,1. Cfr. PRINZIVALLI – SIMONETTI 2010, 578 n. 240.
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(καθαρός τῇ συνειδήσει) è legata al suo essere all’interno dell’altare (θυσιαστήριον). Il senso di questa immagine è chiarito molto bene da Ignazio: è fuori dall’altare, non è puro, chi fa qualcosa senza il vescovo, il presbiterio e i diaconi. Non è chiara l’origine del riferimento all’altare, che potrebbe riecheggiare quello del tempio di Gerusalemme, spazio sacro richiamato da Ap 11,1; 14,18. Sappiamo, però, dell’avversione di Ignazio al giudaismo e della fine materiale di questa struttura.8 Più verisimile sembra l’uso allegorico del linguaggio giudaico della purità e dell’altare per il sacrificio per indicare, in una sorta di metonimia, le guide del nuovo popolo di Dio ossia i membri del «presbiterio», la comunione con i quali è garanzia di appartenenza al popolo. L’uso simbolico di questa terminologia, confermato da altri passi che connettono l’immagine dell’altare con la comunione con Dio assicurata dal vescovo e dalle guide della comunità (Efesini 5,2; Magnesii 7,2; Romani 2,2; Filadelfii 4,1), trasferisce l’aggettivo καθαρός dall’ambito sacrale a quello dell’ortodossia. Il permanere nella retta dottrina è legato alla comunione con Cristo garantita nel presente dall’unione alle guide della chiesa, distintamente nominate, «vescovo, presbiterio e diaconi (ἐπισκόπου καὶ πρεσβυτερίου καὶ διακόνων)». Nella lettera AiRomani καθαρός ricorre due volte. In 4,1 l’espressione «pane puro» (καθαρὸς ἄρτος) serve a interpretare il senso della morte attesa da Ignazio. La sua uccisione attraverso il supplizio delle belve non sarà una semplice condanna, ma un volontario (ἑκών) aderire al volere divino. Con queste parole Ignazio inaugura un parallelismo fra la sua morte e quella di Cristo: «sono frumento di Dio e vengo macinato da zanne ferine per essere trovato pane puro». Sarebbe riduttivo leggere queste parole come semplice metafora, mentre si tratta di un riferimento all’eucaristia, con la quale peraltro Cristo stesso ha inteso interpretare la sua stessa morte. Anche i riferimenti che seguono (7,2) vanno in questa direzione: Ignazio vuole diventare «vero discepolo di Gesù Cristo» (μαθητὴς ἀληθῶς Ἰησοῦ Χριστοῦ) e «sacrificio» (θυσία), accostando in questo modo la sua vicenda a quella dell’offerta che il Signore ha fatto di se stesso sulla croce.9 La purezza del pane è una immagine che contamina l’eucaristia con i sacrifici giudaici mettendo in luce che il martire PRINZIVALLI – SIMONETTI 2010, 578 n. 241 e 549 n. 46. Cfr. PRINZIVALLI – SIMONETTI 2010, 589 n. 311 in cui si ricordano anche i riferimenti ammirati a questo testo da parte di Ireneo (aduersus haereses V 28,4); l’immagine viene riadattata in MartyriumPolycarpi15,2. 8 9
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diviene santo partecipando all’immolazione di Cristo sull’altare della croce. In 6,2 l’espressione «luce pura» (καθαρὸν φῶς) si inserisce sempre nella riflessione sul martirio come imitazione della passione di Gesù (6,3) e riguarda la meta che Ignazio spera di raggiungere con la sua morte. Una sola volta incontriamo il verbo καθαρίζω nella lettera Agli Efesini (18,2). Si tratta di un’immagine ardita, come spesso avviene nell’epistolario ignaziano, che riguarda l’ambito sacramentale: la missione di Cristo è stata ordinata secondo il «disegno divino» (κατ’ οἰκονομίαν θεοῦ) in vista della purificazione dell’acqua. Ma tale processo avviene tramite la sofferenza di Cristo, che purifica l’acqua (ἵνα τῷ πάθει τὸ ὕδωρ καθαρίσῃ), rendendola adatta a rigenerare nel battesimo i fedeli. Quest’ultima considerazione rimane implicita nel testo di Ignazio, ma ci sembra la logica conseguenza del ragionamento portato avanti a partire da 17,1 in cui troviamo un riferimento battesimale all’unzione sul capo.10 4. LA LETTERA DI BARNABA Nella Lettera di Barnaba, epistola senza mittente attribuita poi a Barnaba datata tra il 70 e il 132, opera “antigiudaica” per eccellenza in cui l’Antico Testamento è salvato tramite l’interpretazione spirituale della legge, l’aggettivo καθαρός appare complessivamente cinque volte. Due volte nell’endiadi «mani pure e cuore puro» (15,1.6: χερσὶν καθαραῖς καὶ καρδίᾳ καθαρᾷ) di Es 20,8. Alla seconda occorrenza segue una spiegazione: «Se il giorno che il Signore ha santificato lo si potesse santificare adesso, se si ha un cuore puro (καθαρὸς ὢν τῇ καρδίᾳ), ci sbaglieremmo totalmente» (Barn 15,6). L’autore inserisce tra l’alleanza e il tempio il tema del sabato, che – secondo la costante logica della lettera – non deve essere inteso alla maniera giudaica, bensì come realizzazione escatologica. Solo alla fine si potrà realizzare tale santificazione, quando sarà Dio stesso a purificare gli uomini rendendoli giusti. 5. IL PASTORE DI ERMA Nel Pastore di Erma sono di casa i lessemi che si riferiscono alla purità: due volte il verbo καθαίρω, ventisette καθαρίζω e ventisei 10
Cfr. PRINZIVALLI – SIMONETTI 2010, 557-558 n. 110.
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l’aggettivo καθαρός. Si possono raggruppare secondo aree semantiche, che si ritrovano attorno al tema della penitenza, cioè della conversione dell’uomo che dal peccato può volgersi a una vita nuova, purificata dalla grazia di Dio. «La finalità primaria – scrive Manlio Simonetti11 – che il libro si propone è l’appello, indirizzato a quanti fedeli, nella Roma cristiana della prima metà del II secolo, fossero incorsi, dopo il battesimo, in gravi peccati, affinché si pentano e si convertano a un modo di vita più cristianamente informato e lo facciano in fretta, perché il tempo sta per compiersi». Lo sguardo escatologico di fondo in cui si inserisce l’invito alla conversione ci fa comprendere l’importanza che assume in un testo tanto ampio e prolisso il riferimento al lessico della purità. Pertanto abbiamo cercato di dare un ordine alla nostra indagine raggruppando le occorrenze per aree di significato. 5.1. Pulire Il verbo καθαίρω significa pulire in senso materiale, anche se nel simbolismo di Erma assume significati spirituali: «tutto è stato pulito» (πάντα, φησί, κεκάθαρται) (87,4) e «ci sarà un solo corpo dei purificati» (καὶ ἔσται ἓν σῶμα τῶν κεκαθαρμένων) (95,3). Più numerose le attestazioni di καθαρίζω. Nel senso materiale (ma anche spirituale) di «pulire»: «pulisci accuratamente queste pietre» (84,2) (ἐπιμελῶς καθάρισον τοὺς λίθους) e «puliremo le pietre ... bisogna infatti che si faccia completa pulizia intorno alla torre» (84,6) (καθαρίσωμεν τοὺς λίθους τούτους ... τὰ γὰρ κύκλῳ τοῦ πύργου πάντα καθαρισθῆναι δεῖ). Lo scenario apocalittico che segue, annunciando la venuta del padrone, dà al lessico della purificazione espresso dal verbo καθαρίζω una valenza allegorica: l’idea materiale di pulire le pietre e i dintorni della torre esprime la necessità della purificazione dei peccatori in vista dell’avvento di Dio.12 Sempre di «pietre pulite» (καθαρίσας) si tratta in 85,4. In 95,2 si parla del giudizio finale e si afferma che per i cristiani il giudizio sarà più esigente, dal momento che hanno conosciuto Dio: alla fine «la chiesa di Dio sarà purificata» (καθαρισθήσεται ἡ ἐκκλησία τοῦ θεοῦ). Il brano prosegue (95,3) dicendo che alcune pietre, rappresentazione dei malvagi, sono state 11 12
224.
PRINZIVALLI – SIMONETTI 2015, 179. PRINZIVALLI – SIMONETTI 2015, 583 n. 280. Cfr. C. OSIEK – H. KOESTER 1999,
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tolte e così «ci sarà un solo corpo dei purificati» (occorrenza di καθαίρω ricordata sopra): pertanto la torre, dopo «essere stata purificata» (ripetuto due volte: μετὰ τὸ καθαρισθῆναι), apparirà come costruita di un’unica pietra. Questa visione porta con sé l’idea che alla fine non vi sarà più commistione tra buoni e malvagi e la chiesa apparirà nella sua purezza e unità. La purezza è un tratto escatologico della chiesa, dopo un processo di purificazione che precede l’eschaton. In 95,4, proseguendo il discorso sulla condizione finale della chiesa, si dice fra l’altro che essa sarà «un popolo puro» gradito al Figlio di Dio (τὸν λαὸν καθαρόν). Il Pastore comanda a Erma (70,1) di indossare un «grembiule pulito, di tela di sacco» (ὠμόλινον ἐκ σάκκου γεγονὸς καθαρόν): si tratta di un tipico abbigliamento penitenziale.13 Ancora in 87,2 si dice che il Pastore ordina di spazzare e pulire (καθαρά) intorno alla torre. Il passo di 113,2-3, giunto a noi in lingua latina,14 utilizza il verbo mundare e gli aggettivi mundus e purus. Grazie a un frammento di Ossirinco15 sappiamo che all’espressione «igitur si habuerint domum tuam puram, tecum permanebunt»16 dovrebbe corrispondere il greco ἐὰν [μὲν οὖν καθαρὸν τὸν οἶ]κόν σου ε[ὕρωσι μετὰ σοῦ παρα] μενοῦσι[ν, a indicare la pulizia della casa. Le vergini rimarranno nella casa a condizione che Erma la tenga nettata: si tratta della stessa immagine della pulizia della torre, anche qui con valore simbolico. 5.2. Liberarsi dai peccati Significato diffuso di purificarsi è liberarsi dai peccati, cioè convertirsi: «affinché si ravvedano dai loro precedenti peccati (ἵνα καθαρισθῶσιν ἀπὸ τῶν προτέρων ἁμαρτιῶν αὐτῶν)» (7,1); «comunque sarai purificato dalle tue mancanze (καθαρισθήσῃ δὲ ἀπὸ τῶν ὑστερημάτων σου)» e subito di seguito «saranno purificati dai loro peccati (καθαρισθήσονται ἀπὸ πάντων τῶν ἁμαρτημάτων)» (10,2). Stesso significato di liberazione e mondazione dai peccati si ritrova in 16,11: «si purifichino dai loro peccati (καθαρισθῶσιν ἀπὸ τῶν πονηριῶν αὐτῶν)»; purificarsi dai desideri mondani e convertirsi in 66,2(-3) (καθαρίσωσι ἑαυτοὺς ἀπὸ πάσης ἐπιθυμίας τοῦ αἰῶ13 14 15 16
Cfr. Mt 11,21; Ap 11,3. PRINZIVALLI – SIMONETTI 2015, 578 n. 234. Per la traditiotextus vedasi PRINZIVALLI – SIMONETTI 2015, 180. Fragmenta (P. Oxy. 3.404), in M. WHITTAKER 1967, 109, 111. 113,2.
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νος τούτου. ὅταν οὖν μετανοήσωσιν καὶ καθαρισθῶσιν); in 73,5 si unisce sempre conversione e purificazione (ἐκαθάρισαν ἑαυτοὺς καὶ μετενόησαν), così pure in 77,3 (μετανοήσωσιν ἐξ ὅλης καρδίας αὐτῶν καὶ καθαρίσωσιν ἑαυτοὺς ἀπὸ τῶν πονηριῶν αὐτῶν); in 100,5 il Signore promette la remissione dei peccati a condizione che «si purifichino» (ἐὰν καθαρίσητε) da un demonio. L’accostamento tra vizi / peccati e demòni è usuale in ambito sia giudaico che pagano. La purificazione dai peccati è pertanto anche liberazione da spiriti che infestano gli uomini.17 In modo analogo viene usato l’aggettivo καθαρός, per indicare che lo Spirito santo deve essere accolto in un animo puro (33,2-3): «lo Spirito santo che dimora in te sarà puro» (τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον τὸ κατοικοῦν ἐν σοὶ καθαρὸν ἔσται) e lo Spirito rifugge un animo peccatore «non avendo un luogo puro» (μὴ ἔχον τὸν τόπον καθαρόν). La «carne» (60,1) deve essere custodita «pura e incontaminata» (τὴν σάρκα σου ταύτην φύλασσε καθαρὰν καὶ ἀμίαντον), perché lo Spirito santo possa dimorare in essa e giustificarla. Così di seguito (60,4) troviamo l’invito pressante a custodire «puri» la carne e lo Spirito (ἀμφότερα οὖν καθαρά), che abita in noi. Stessa logica alla fine del Precetto X, in cui si invita a cacciare lo spirito di tristezza come uno dei più rovinosi, tant’è che «non permette (alla preghiera) di salire pura all’altare (οὐκ ἀφίησι τὴν ἔντευξιν ἀναβῆναι καθαρὰν ἐπὶ τὸ θυσιαστήριον)» (42,3). In 42,4 troviamo l’esortazione a cacciare la tristezza: «Perciò purìficati da questa tristezza cattiva (καθάρισον οὖν σεαυτὸν ἀπὸ τῆς λύπης τῆς πονηρᾶς ταύτης)». Queste riflessioni riguardano tutte il rinnovamento dello spirito, la conversione, e riflettono un uso del lessico della purità che unisce il miglioramento etico-spirituale con la degnità cultuale. Il Signore stesso purifica (59,2) gli uomini dai peccati (αὐτὸς τὰς ἁμαρτίας αὐτῶν ἐκαθάρισε) a prezzo di molta fatica e travaglio (πολλὰ κοπιάσας καὶ πολλοὺς κόπους ἀνηντληκώς): la tribolazione del Signore, che opera la cancellazione dei peccati, è la sua passione e morte, qui unicamente ricordata nel suo valore redentivo.18 Subito dopo (59,3) viene ribadito che il Signore rende puro dai peccati il popolo (αὐτὸς οὖν καθαρίσας τὰς ἁμαρτίας τοῦ λαοῦ ἔδειξεν). Coloro che avranno parte alla vita eterna, secondo l’endiadi che si incontra in 24,5, «saranno senza macchia e puri» (ἄσπιλοι καὶ 17 18
Cfr. PRINZIVALLI – SIMONETTI 2015, 562 n. 96. PRINZIVALLI – SIMONETTI 2015, 574 n. 201.
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καθαροί). Il pentimento (ἡ μετάνοια) secondo il Pastore (27,7) deve essere «semplice, puro, incontaminato» (καὶ καθαρὰ καὶ ἄκακος καὶ ἀμίαντος): questi tre aggettivi sono sostanzialmente usati come sinonimi per indicare l’integrità e la mancanza di ripensamenti nel rinnovamento della vita. In 46,2 il «pentimento» deve esser custodito «puro per i restanti giorni della loro vita» (ἡ μετάνοια αὐτῶν καθαρὰ γένηται τὰς λοιπὰς ἡμέρας τῆς ζωῆς αὐτῶν), cioè non si deve deviare di nuovo verso il peccato dopo la conversione. In questo caso la purezza indica un’integrità duratura. Anche in 66,6 «puro» è aggettivo di «conversione» (ἡ μετάνοια ... καθαρά) a indicare integrità nel percorso che dal peccato conduce a una piena adesione al Signore. Il testo di 110,3 «cumque uidisset Dominus bonam atque puram esse paenitentiam eorum» sopravvive anche in greco nel Fragmentum in F (cod. Paris. gr. 1143):19 «καὶ ἐπεῖδεν ὁ θεὸς τὴν μετάνοιαν αὐτῶν καλὴν καὶ καθαράν». La purezza si riferisce all’integrità e radicalità della conversione. 5.3. Cuore e mente puri Il tema del «cuore puro» si lega alla medesima idea di pentimento e conversione: «non volete purificare il vostro cuore (καθαρίσαι τὰς καρδίας ὑμῶν) e rendere concorde il vostro consiglio in purezza di cuore (ἐν καθαρᾷ καρδίᾳ)» (17,8); «perciò purifica il tuo cuore (καθάρισόν σου τὴν καρδίαν) da tutte le vanità... perciò purifica il tuo cuore dal dubbio (καθάρισον οὖν τὴν καρδίαν σου)» (39,4.7). Alla richiesta di perdono e di rinnovamento risponde l’angelo della penitenza, il quale rassicura dicendo: «li [= i comandamenti] osserverai se il tuo cuore si volge con purezza (ἡ καρδία σου καθαρὰ γένηται) al Signore, e li osserveranno tutti quelli che avranno purificato i loro cuori (καθαρίσωσιν ἑαυτῶν τὰς καρδίας) dai desideri vani di questo mondo» (49,5). Il cuore poi (56,6) deve essere custodito puro dalla vanità del mondo (καθάρισόν σου τὴν καρδίαν ἀπὸ πάντων τῶν ματαιωμάτων τοῦ αἰῶνος τούτου). In 65,2 si rimprovera colui che non vuole purificare il suo cuore (οὐ θέλεις σου τὴν καρδίαν καθαρίσαι). L’espressione «cuore puro» si trova anche in 23,5 (ἡ καρδία καθαρά) nel senso di libero dal peccato; i precetti divini devono essere messi in pratica «con cuore puro» (25,7) (ἐν καθαρᾷ καρδίᾳ); 19
WHITTAKER 1967, 118.
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in 54,5 è richiesto un «cuore puro» (ἐν καθαρᾷ καρδίᾳ) per servire Dio, senza compromessi con il male e in piena aderenza ai precetti divini. In 63,6 ricorre due volte la locuzione «con cuore puro» (ἐν καθαρᾷ καρδίᾳ) a indicare il risultato del faticoso percorso penitenziale che conduce a una duratura unione con Dio. In 66,5-6 ricorre altre due volte la medesima espressione e si inserisce nella stessa dinamica di tribolazione in vista della conversione. Espressione affine (53,7) è «mente pura» (ἔχων καθαρὰν τὴν διάνοιαν), che l’autore lega al servizio di Dio cui il credente deve devolversi totalmente e con integra intenzione. In 69,8 ancora la locuzione «con cuore puro» (ἐν καθαρᾷ καρδίᾳ) a indicare chi vive nell’osservanza dei comandamenti divini e in 72,2 il «cuore puro» (τὴν καρδίαν καθαράν) è solamente quello di coloro che si convertono. 5.4. Oro nel fuoco La purificazione del credente è spiegata tramite l’immagine dell’oro reso puro dal fuoco: (24,4) «quanti di voi avranno perseverato e saranno stati vagliati col fuoco da costoro, saranno purificati (πυρωθέντες ὑπ’αὐτῶν καθαρισθήσεσθε). E come l’oro elimina le sue scorie, così anche voi vi libererete di ogni dolore e afflizione, vi purificherete (καθαρισθήσεσθε) e diventerete adatti alla costruzione della torre». Il simbolismo è tratto da Sap 3,6 che parlando dei giusti descrive il loro itinerario di perfezionamento dicendo che il Signore «li ha saggiati come oro nel crogiuolo».20 6. CONCLUSIONE Sebbene attraverso testi eterogenei, la ricerca dei significati dei lessemi in esame nei Padriapostolici mostra chiaramente uno sviluppo semantico dall’ambito giudaico a quello che si sta delineando come cristiano. Questa fase di passaggio è chiaramente rilevabile in alcuni contesti. Anzitutto nell’utilizzo di un lessico cultuale che si riferisce alla liturgia del tempio. In Didachè il «sacrificio» (θυσία) deve essere puro (14,1-2). Tuttavia καθαρός non è legato a norme rituali, bensì alla domenica e all’eucaristia. Questo nuovo sacrificio connesso 20 Cfr. 1 Pt 1,7: «perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell’oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo».
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all’economia di Cristo è puro non per l’osservanza di precetti materiali, bensì perché segnato dalla confessione dei peccati e dalla rappacificazione con i nemici, cioè da un rinnovamento morale dell’esistenza. Questo passaggio, dall’osservanza materiale a quella spirituale, già avviato nell’Antico Testamento, soprattutto nella critica profetica al tempio,21 si consuma pienamente nell’uso linguistico di «puro» in Didachè, che allegorizza l’area linguistica legata al culto. Stesso fenomeno si osserva in Ignazio di Antiochia, che non si riferisce quasi mai all’Antico Testamento e tuttavia utilizza il linguaggio cultuale dell’antica legge e lo fa risorgere nel nuovo contesto cristiano. Mettendo in guardia dal pericolo dell’eresia cristologica indica un criterio di ortodossia: essere all’interno dell’altare (7,2: θυσιαστήριον). Ignazio non può più vedere il recinto sacro di Gerusalemme, eppure continua a evocarlo per indicare nel legame con le guide (vescovo, presbiteri e diaconi) del popolo cristiano un baluardo contro le deviazioni dottrinali in materia cristologica. Sempre Ignazio nella letteraAiRomani preconizzando la sua morte dice di voler essere (4,1) «pane puro» (καθαρὸςἄρτος): con queste parole egli crea un parallelismo fra la sua morte e quella di Cristo e utilizza la stessa chiave ermeneutica usata dal Maestro. Gesù ha interpretato e prefigurato la morte in croce attraverso il segno del pane e ugualmente Ignazio dà un senso sacrificale al suo martirio attraverso la terminologia veterotestamentaria del sacrificio puro, gradito a Dio. Un altro esempio di reimpiego allegorico del lessico cultuale veterotestamentario. L’utilizzo più massiccio del vocabolario della purità si ritrova nel Pastore di Erma, dove pure ci sono riferimenti veterotestamentari (o di ambito giudaico) adattati all’esortazione alla penitenza (μετάνοια), come l’immagine ricorrente del «cuore puro» (ad esempio in Sal 50,12). Possiamo acquisire da queste considerazioni che l’interpretazione allegorica dell’Antico Testamento traspare chiaramente anche dall’uso delle parole connesse con καθαρός e che l’adozione di questo ambito semantico è costante nei Padri apostolici.
21
Ad esempio in Am 4,4-6; 5,21-25; Os 6,6; 8,11-13; Is 1,11-17; Mi 6,6-8; Ger 7,1-11. 21-23.
Purità e cuore dell’uomo nell’ADiogneto Fabio RUGGIERO 1. CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE L’ADiogneto è una breve opera (una decina o poco più di pagine a stampa) che viene solitamente inclusa tra quanto di meglio i cristiani dei primi secoli hanno composto in lingua greca: per lo stile brillante, armonico e retoricamente elevato, per l’organica distribuzione del materiale, per talune affermazioni e immagini particolarmente significative e accattivanti nel loro tono appassionato. Nelle edizioni moderne si presenta abitualmente suddivisa in dodici capitoli1. Da sempre, in sede filologica, l’opera suscita curiosità e interesse per la perigliosa vicenda della trasmissione del testo, per l’essere rimasta sconosciuta tanto agli antichi come ai medievali, infine per le fitte nebbie che ancora avvolgono le sue coordinate fondamentali, considerato che di essa con certezza non ci sono noti (e, dunque, sono oggetto di disputa) l’autore, l’epoca e il luogo di composizione, il genere letterario e il destinatario, persino la stessa estensione, variabile a seconda che se ne giudichi autentica o meno la sezione finale (capitoli 11-12). A quest’ultimo riguardo, decisivo sotto il profilo testuale, ritengo, sulla scia di altri editori e critici, che l’ADiogneto in nostro attuale possesso termini mutilo con il decimo capitolo e che quanto segue ne rappresenti semplicemente un’appendice spuria. Da questa complessa situazione è scaturita, evidentemente e inevitabilmente, una molteplicità di posizioni, di cui ci si può fare un’idea considerando già solo il numero delle proposte avanzate per l’autore e l’epoca di composizione dal tempo del primo editore – Henri Estienne, alla fine del Cinquecento – sino ad oggi. Anche limitando lo sguardo al lasso cronologico che va dall’inizio del II secolo all’epoca di Costantino, esse sono all’incirca quindici, nel primo caso, e oltre
1 Questo contributo sul tema della purità nell’ADiogneto s’inserisce nel quadro di una più ampia indagine volta alla pubblicazione, presso la casa editrice Città Nuova di Roma, di una nuova edizione critica dello scritto corredata da introduzione e commento, di cui è prossima l’uscita.
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venti, nel secondo2. Un po’ meno ampia, per forza di cose, la rosa degli ambienti in cui lo scritto avrebbe visto la luce, dal momento che le città o le aree che trovano più credito sono Smirne e l’Asia Minore, Alessandria d’Egitto, infine Roma. Per riprendere il discorso relativo alla disputa sull’effettiva estensione dell’opera, essa nasce dalla presenza in particolare di una lacuna nel testo. Nel corso della lettura di questo piccolo gioiello letterario s’incontrano in verità due interruzioni formali, già presenti nel modello da cui copia l’autore del manoscritto. La natura dell’interruzione non è tuttavia uguale nei due casi. Nel primo, secondo il parere comune, si tratta di una perdita di testo, di cui non è definibile con precisione l’estensione. Nel secondo caso, alla fine del decimo capitolo, numerosi studiosi – a cominciare dal primo editore – ipotizzano che lo scritto presenti l’interruzione ormai in prossimità della propria conclusione e che, dunque, all’inizio del capitolo successivo si sia già in presenza di un altro scritto. La disputa – già all’origine della moderna filologia classica, lungo tutto l’Ottocento e fin verso la prima metà del Novecento – vede molti editori schierarsi per la conclusione dell’opera alla lacuna che fa seguito alla fine del decimo capitolo. Nel secondo dopoguerra, tuttavia, la critica inizia a mostrarsi meno decisa al riguardo, tanto che diversi studiosi di varia scuola e nazionalità si convincono via via della bontà della tesi dell’unità. Negli ultimi decenni (a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso) è in particolare Marco Rizzi, con rinnovati argomenti, a divenire la voce più autorevole e rappresentativa di tale orientamento3. Ma ad esso, sulla fine del secolo scorso, una parte della critica reagisce. Con nuovi e più probanti argomenti rispetto a quelli portati dagli studiosi dei tempi precedenti, la posizione per così dire tradizionale e antiunitaria viene fermamente difesa. Su questo fronte spiccano da subito due esperti, Klaus Wengst4 ed Enrico Norelli5, ai quali col tempo se ne aggiungono altri, sino ai nostri giorni. Per quanto i dati a nostra disposizione siano troppo esigui e in parte anche largamente generici per fondare tesi resistenti alla corrosione 2 Si veda, a mero titolo esemplificativo, lo specchietto proposto da H.E. LONA 2001, 64-66. 3 Specialmente col volume: La questione dell’unità dell’«Ad Diognetum», Milano 1989. 4 Nella sua edizione dell’opera: SchriftendesUrchristentums, II. Didache(Apostellehre). Barnabasbrief. Zweiter Klemensbrief. Schrift an Diognet. Eingeleitet, herausgegeben, übertragen und erläutert, München 1984. 5 In particolare, nel commento dello scritto: ADiogneto. Introduzione, traduzione e note, Milano 1991.
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della critica, allo stato attuale degli studi sussistono ad ogni modo considerazioni storico-letterarie di un certo valore, ma troppo articolate per trovare in questa sede adeguata esposizione, per cui è lecito supporre che lo scritto possa risalire alla Seconda Sofistica (datazione approssimativa: 190-210 d.C.), avere per autore un teologo in contatto con la tradizione romana, ma non per questo necessariamente egli stesso romano, e per destinatario la classe colta e in certa misura anche dirigente dell’Impero. A tale riguardo, lo scritto presenta l’autore in dialogo con Diogneto, personaggio pagano non meglio identificato, ma certo provvisto di cultura e autorevolezza: è tuttavia anche possibile, ma meno probabile, che si tratti di “nome parlante”, dal momento che «Diogneto» significa «generato da Zeus» e, dunque, di figura fittizia impersonante il mondo gentile. Relativamente al genere, l’opera è da tempo ormai ritenuta un vero e proprio discorso protrettico prima ancora che un’apologia, forse anche un’istruzione, ma certo non una lettera o una epistola, come invece per vari secoli e a partire dal suo primo editore è stata giudicata. Al riguardo, ritengo che, pur non mancandole i tratti protrettico e apologetico, la si debba ritenere anche un breve trattato teologico. L’opera si presenta, infatti, come un’esposizione del mistero cristiano: dopo avere mostrato l’insufficienza delle esperienze religiose dei greci e dei giudei nel conoscere Dio (cc. 2–4), propone la novità della rivelazione cristiana quale unica modalità di relazione autentica col divino (cc. 5–10). Circa poi la questione della sua unità, i miei favori, come già sopra ho scritto, vanno per l’orientamento che ravvisa una profonda discontinuità tra i primi dieci capitoli e gli ultimi due. In questi ultimi colgo differenze di struttura complessiva del discorso e della frase, differenze di lessico e di espressione, differenze di contenuto e di referenti. 2. PURIFICARE SE STESSI DA TUTTI I
RAGIONAMENTI
(2,1)
Nel primo capitolo Diogneto è descritto come un pagano interessato anche sul piano personale al cristianesimo e, dunque, desideroso di approfondirne la conoscenza. Egli viene lodato per questa sua buona disposizione d’animo, che lo porta a porre alcuni quesiti teologici di non poco conto. Essi non solo trovano risposta nel corso dell’opera, ma anche costituiscono il punto di partenza di quella più ampia presentazione della fede cristiana che percorre tutta l’opera. In questo senso, l’intero capitolo va evidentemente letto anche come un artificio
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retorico per consentire all’autore di sviluppare il proprio discorso teologico. Perché Diogneto, però, possa recepire in modo profondo e autentico il senso delle risposte che l’autore si appresta a dargli, è necessario preliminarmente che egli si purifichi, abbandonando vecchi stereotipi e luoghi comuni della religione pagana che gli impediscono al momento di vedere la realtà delle cose per quello che in realtà esse sono6. Anche se il percorso di purificazione è di tipo spirituale e intellettuale, non catechetico-liturgico, alcune espressioni alludono precisamente a una rinascita di tipo sacramentale («dopo essere divenuto come dal principio un uomo nuovo») e un percorso d’iniziazione catechetica («dal momento che è anche un discorso nuovo – come pure tu stesso hai riconosciuto – quello di cui ti appresti ad essere uditore»). Come è stato giustamente notato dalla critica, l’autore rifiuta il piano della “presenzademoniaca”: dietro il politeismo di Diogneto l’autore non ravvisa un agire satanico né egli è presentato sotto il potere di forze demoniache. Su, coraggio! Dopo avere purificato (καθάρας) te stesso da tutti i ragionamenti che ancora tengono il dominio sulla tua mente (ἀπὸ πάντων τῶν προκατεχόντων σου τὴν διάνοιαν λογισμῶν), dopo esserti spogliato dell’abitudine che ti trae in inganno (τὴν ἀπατῶσάν σε συνήθειαν ἀποσκευασάμενος) e dopo essere divenuto come dal principio un uomo nuovo, dal momento che è anche un discorso nuovo – come pure tu stesso hai riconosciuto – quello di cui ti appresti ad essere uditore, guarda non solo con gli occhi ma anche con l’intelligenza (τῇ φρονήσει), quale sia la sostanza o quale la forma di quelli che voi chiamate e giudicate dèi (2,1).
3. IRRAGIONEVOLEZZA E INGANNO COME MOTIVI APOLOGETICI Tale purificazione riguarda dunque la sfera della ragione e del pregiudizio consolidatosi per effetto dell’ingannevole abitudine. Mancanza di ragionevolezza e inganno sono temi che assumono un preciso rilievo nell’argomentazione apologetica dell’autore dell’A Diogneto, sia verso gli elleni sia verso i giudei.
6 Vi sono chiaramente sottese alcune reminiscenze bibliche (Col 3,9-10; Rm 6,4-6; 2 Cor 5,17; Gv 3,3-7) come anche numerosi sono i paralleli patristici che si possono stabilire (Giustino, I Apologia 49,6; Taziano, Discorso ai Greci 30; Teofilo, Ad Autolico, I,2; Minucio Felice, Ottavio 6,1; Clemente, Protrettico89,1; 101,1); è, tuttavia, da Ef 4,22-24 che sembrano provenire i principali motivi del passo (uomo nuovo, inganno, purificazione razionale e disponibilità a farsi creature nuove).
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Verso la fine del secondo capitolo emerge il tema del “dileggio” dei simulacri degli dèi: Voi, infatti, che ritenete e credete di rendere loro lode, non li disprezzate forse assai maggiormente? Non li dileggiate (χλευάζετε) e li oltraggiate molto di più, quando quelli di pietra e di terracotta li venerate non protetti da guardie, mentre quelli d’argento e d’oro di notte li mettete sotto chiave e di giorno collocate delle guardie per evitarne il furto? (2,7).
Subito dopo viene espressa l’opposizione tra “insensibilità” e “sensibilità/raziocinio”: 8. Con gli onori che pensate di rendere loro, se sono provvisti di sensibilità (αἰσθάνονται), voi piuttosto fate loro torto; se invece non sono dotati di sensibilità (ἀναισθητοῦσιν), voi, nel rendere loro culto con sangue e grasso fumante, ne dimostrate l’insussistenza. 9. Sopporterebbe ciò uno di voi, tollererebbe che ciò si applicasse a se stesso? Eppure non un solo uomo tollererà volentieri questo supplizio, dal momento che è dotato di sensibilità (αἴσθησιν) e raziocinio (λογισμόν). La pietra invece lo tollera, perché non è provvista di sensibilità (ἀναισθητεῖ). Pertanto siete voi che dimostrate l’insussistenza della sua natura sensibile! (τὴν αἴσθησιν) (2,8-9).
L’opposizione è ripresa anche nel terzo capitolo, con la riprovazione della “dissennatezza” dei greci, che offrono sacrifici a dèi insensibili («Se i greci, infatti, nel presentare offerte a dèi insensibili e sordi, danno prova di dissennatezza [ἀφροσύνης]», 3,3) e nel quarto capitolo, là dove si rimarca che i cristiani si astengono dalla “sconsideratezza” e dall’“inganno” generali: Che a buon diritto i cristiani si astengono (ἀπέχονται) dunque dalla sconsideratezza (εἰκαιότητος) e dall’inganno (ἀπάτης) generali e dalla smania di indagare e dalla vanteria dei giudei, ritengo tu l’abbia appreso adeguatamente (4,6).
Quanto al giudaismo, esso pure, non diversamente dal politeismo ellenico, è separato dalla comunicazione con Dio. Se, come si è già visto nel terzo capitolo, i greci nel presentare offerte a dèi insensibili e sordi, danno prova di dissennatezza, la posizione dei giudei, che intendono fare offerte a Dio che non ha bisogno di nulla, evidentemente è più grave: Costoro [scil. i giudei] dovrebbero ritenere la sola idea di porgere tali cose [scil. le offerte] a Dio, come se ne avesse bisogno, verosimilmente piuttosto follia (μωρίαν) e non pietà (θεοσέβειαν) (3,3).
E sempre, nel quarto capitolo, ritornano gli stessi elementi, questa volta leggermente scambiati.
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Nel quadro di un discorso aspramente polemico, alcuni tratti peculiari della religione dei giudei dapprima sono menzionati complessivamente con tono di “scherno”: Di certo poi non ritengo che tu abbia bisogno di apprendere da me la loro timorosa cautela verso i cibi, il loro eccessivo scrupolo religioso relativamente al sabato, la loro vanteria della circoncisione, la loro ipocrisia in relazione al digiuno e al novilunio, cose che suscitano dileggio (καταγέλαστα) e non meritano alcuna considerazione (οὐδενὸς ἄξια λόγου) (4,1).
Poi, considerati singolarmente, sono fatti segno di un attacco “climatico” dai toni sempre più accesi, dove è di nuovo la “irragionevolezza” a denotare il vertice dell’infamia: 2. Infatti, fra le realtà create da Dio perché gli uomini se ne servano, ammetterne alcune in quanto create buone e respingerne invece altre in quanto inutili e superflue, come può non essere illecito? (πῶς οὐκ ἀθέμιστον;) 3. Inoltre, calunniare Dio, sostenendo che proibisce di compiere una buona azione in giorno di sabato, come può non essere empio? (πῶς οὐκ ἀσεβές;) 4. Ancora, vantarsi persino della mutilazione della carne come di una testimonianza di elezione, quasi che per questo si sia amati da Dio in modo speciale, come può non essere meritevole di scherno? (πῶς οὐ χλεύης ἄξιον;) 5. Attendere alle stelle e alla luna per stabilire l’osservanza dei mesi e dei giorni e distinguere le disposizioni di Dio e il succedersi delle stagioni secondo i moti dei corpi celesti celebrandone alcuni per le feste e altri per il lutto, chi lo reputerebbe un segno di pietà e non molto più di dissennatezza? (τίς ἂν θεοσεβείας καὶ οὐκ ἀφροσύνης πολὺ πλέον ἡγήσαιτο δεῖγμα;) (4,2-5).
“Irragionevole” è anche il moto d’animo che spinge sia greci sia giudei a essere ostili verso i cristiani (5,17): Dai giudei sono combattuti come stranieri e dai greci sono perseguitati; e quelli che li odiano nonsannodireilmotivo della propria ostilità.
L’ingannevole irragionevolezza di un culto esteriore impedisce in definitiva a entrambe le “stirpi” di pervenire a quell’intima, autentica “pietà” che è propria invece dei cristiani: Invisibile, l’anima è tenuta prigioniera nel corpo visibile; dei cristiani, si sa che sono nel mondo, ma invisibile rimane la loro pietà (θεοσέβεια) (6,4).
4. UN’OCCORRENZA SPURIA: «IN MANIERA PURA» (12,3) Come si è sopra esposto, sono convinto che i capitoli 11 e 12 non facciano parte del testo originale dell’A Diogneto. Essi vanno probabilmente intesi come parte di una omilia/istruzione pasquale,
Puritàecuoredell’uomonell’A Diogneto
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incentrata, relativamente alla seconda parte (capitolo 12), in una rilettura del racconto di Genesi. Nel passo in oggetto è presente una relazione tra «l’agire impuro dei progenitori» e «l’inganno del serpente». Il comportamento dei progenitori, che conduce alla nudità, non è propriamente chiarito, ma sembra muoversi nella direzione dell’“orgoglio intellettuale”, come lascia intendere il seguente richiamo a Paolo, e di un’estraneità alla verità, all’amore e al timore, che sono tutti per la vera vita e tutti si oppongono all’inganno del serpente. Per Norelli7, siamo nel quadro di una polemica antignostica. Si suggerisce che l’agire impuro dei progenitori consiste nel tentativo di ottenere la conoscenza indipendentemente dalla pratica di vita, quindi in maniera scollegata dal Logos, che è vera vita, mentre è solo l’adesione a lui che consente all’uomo di tenersi fedele al progetto di Dio. 2. In questo luogo, infatti, sono stati piantati l’albero della conoscenza e l’albero della vita: non però l’albero della conoscenza uccide, ma la disobbedienza uccide. 3. Infatti, non è oscuro quanto sta scritto, come Dio al principio piantò in mezzo al giardino l’albero della conoscenza e l’albero della vita, mostrando la vita per mezzo della conoscenza. Non essendosene serviti in maniera pura (καθαρῶς χρησάμενοι), i progenitori sono stati resi nudi dall’inganno (πλάνῃ) del serpente. 4. Non c’è vita, infatti, senza conoscenza, né conoscenza sicura senza vera vita: perciò i due alberi sono stati piantati l’uno accanto all’altro. 5. E scorgendo questo significato, l’Apostolo, biasimando la conoscenza che viene esercitata senza il precetto di verità che è per la vita, afferma: Laconoscenzagonfia,l’amore invece edifica [1 Cor 8,1]. 6. Chi infatti ritiene di conoscere qualcosa senza una conoscenza vera e testimoniata dalla vita, non ha acquisito la conoscenza: è ingannato (πλανᾶται) dal serpente, non avendo amato la vita. Chi invece con timore (μετὰ φόβου) ha acquisito la conoscenza e cerca la vita, pianta nella speranza in attesa del frutto. 7. Che per te il cuore sia conoscenza, e che per te sia vita il Logos verace, una volta accolto. 8. Portandone l’albero e aspirando al suo frutto, tu raccoglierai ininterrottamente le cose che si desiderano trovare presso Dio, cose che il serpente non può toccare né l’inganno (πλάνη) contaminare (12,2-8).
7
In: ADiogneto, cit., 159.
La purezza del cuore per la contemplazione di Dio: la riflessione di Clemente d’Alessandria Matteo MONFRINOTTI La profonda riflessione di Clemente sulla identità del perfetto gnostico, ovvero sulla imprescindibile conoscenza del Logos e della sua dottrina affinché il cristiano possa definirsi tale e possa accedere alla contemplazione di Dio, è costantemente presente nelle sue opere e si afferma concetto irrinunciabile verso il quale convergono i tanti argomenti da lui trattati, da quelli di carattere etico a quelli di carattere filosofico, spirituale e teologico. Accogliere e fare proprio il messaggio del Verbo, ovvero la Parola, è iniziare un cammino di perfezione per intraprendere il quale l’anima e il cuore di ciascuno devono sperimentare una graduale, incessante purificazione per raggiungere quella purezza piena e perfetta grazie alla quale, contemplando il volto di Dio, divengono albergo della sua presenza, assimilandosi all’Essere che è loro simile, portando a termine la somiglianza voluta dal Creatore per la sua creatura, godendo nel Regno eterno quali spirituali nella chiesa spirituale1. Ecco allora che anche il tema della purezza e della purificazione chiede di essere letto alla luce di un’istanza che l’Alessandrino avverte come prioritaria non solo all’interno della sua responsabilità pedagogica ma, anzitutto, all’interno della sua stessa fede in Dio e nell’uomo posti in indissolubile relazione; emerge così un proposito apologetico e protrettico al tempo stesso, che va oltre il fine specifico dell’una o dell’altra opera ma che, al contempo, ne raccorda l’insegnamento attraverso un linguaggio che va attentamente considerato perché è la voce stessa di Clemente, testimonianza di una volontà ben determinata: trasmettere un principio che, non certo estraneo alla filosofia platonica nell’assunto di base, viene convertito grazie alla identificazione dell’Essere con il Dio Padre Creatore e del suo Logos rivelato. 1 Quanto mai orientativo, ai fini del presente contributo, l’articolo di J. RAASCH 1968, 7-55 (spec., pp. 13-24); la nostra ricerca tuttavia, si avvale di una indagine specificamente filologica basata sul reperimento e sullo studio della terminologia relativa al concetto di purità e purezza; indagine che va oltre il riferimento a Mt 5,8 considerato dal Raasch testo biblico portante e basilare della speculazione clementina sull’argomento.
110
MATTEO MONFRINOTTI
1. PURITÀ, PUREZZA,
PURIFICAZIONE:
VALENZA QUANTITATIVA DEL LESSICO E SUA DISTRIBUZIONE
Quando, all’interno di uno scritto appartenente alla letteratura cristiana antica, lo studio si concentra su un termine (o su una terminologia) che non sia un neologismo, corre in prima istanza l’obbligo metodologico di verificare se e fino a che punto lo stesso uso e la stessa applicazione semantica siano già attestati in precedenza da testimoni di lingua greca o di lingua latina, soprattutto quando – come nel caso di Clemente Alessandrino – il retaggio culturale e filosofico fa parte della sua identità. Di fatto, anche per il nostro autore, possiamo parlare di “permanenza di vocabolario” ma, al tempo stesso di “dilatazione di significato”. A tal riguardo sembra significativo il passo di Str. 3,109,1 nel quale l’Alessandrino si affida alla citazione di Tt 1,15 per offrire un concetto di purità nuovo rispetto alla tradizione filosofica e religiosa precedente: «Tutto è puro per i puri, ma per i contaminati e gl’increduli niente è puro, anzi la loro mente e la loro coscienza sono contaminate»2. Agli encratiti di rigore e agli indifferenti lassisti Clemente propone un nuovo concetto di purezza che non è solo esteriorità e moralità, ma interiorità e vita dello e nello spirito; infatti riguarda il νοῦς (pensiero) e la συνείδησις (coscienza). Il testo è certamente breve e circostanziato: insieme a tutti gli altri passi letti e analizzati, aiuta a prendere atto di come la terminologia dell’Alessandrino sia sempre frutto di una riflessione, mai approssimativa sebbene non sempre facile da interpretare, mediazione tra la sapienza antica e la sapienza divina, tra il dettato del filosofo e quello del vero, unico Pedagogo che è il Logos di Dio. Scorrere la terminologia relativa al concetto di purità e purificazione, per numerare e classificare le occorrenze e verificarne la distribuzione, permette un immediato orientamento sullo spazio accordato da Clemente a ciascun termine della famiglia lessicale più rappresentativa la quale, segnatamente e per ordine di frequenza, è costituita dagli aggettivi καθαρός, καθάρσιος, καθαρτικός, καθάριος (e avverbio καθαρῶς); dai verbi καθαρίζω, καθαίρω e καθαρεύω e dai sostantivi κάθαρσις, καθαριότης, καθαρμός, καθαρότης, καθαρισμός. Dall’indagine svolta e dalle occorrenze registrate risulta anzitutto la seguente distribuzione: 2
Traduzione di riferimento: G. PINI 2006; nostre alcune varianti.
21
20
19
18
17
16
15
14
13
12
11
10
9
8
7
6
5
4
3
2
917
714
-----
1
11
38
781
Stromateis
618 -----
-----
215
3
-----
13
210
53
-----
29
202
119
116
-----
-----
-----
64
120
-----
3
12
-----
85
Paedagogus Protreptcus Quisdives Eclogae salvetur propheticae
-----
-----
-----
121
76
Excerptaex Theodoto
-----
-----
-----
17
Fram.
Cf. Str. 1 (8,4; 12,2; 22,3; 55,4; 58,4; 94,5. 6; 175,2; 177,3); 2 (7,4; 50,2; 80,5; 94,5; 104,2. 3; 114,3; 116,2; 145,1); 3 (19,2; 42,6; 100,4; 103,2; 109,1 [3 volte]); 4 (15,1; 21,1; 31,4; 37,2; 39,1. 4; 74,4; 83,1; 106,3; 108,4; 126,1; 139,4; 141,4; 142,2. 3; 160,2); 5 (7,7; 17,3; 19,2 [2 volte]; 19,4 [2 volte]; 40,1; 46,6; 67,1; 87,4; 101,1; 119,1; 138,1.3 [2 volte]); 6 (28,5; 46,3; 50,2; 76,2; 102,2; 108,1; 113,2; 132,3); 7 (5,2; 13,1; 27,5 [2 volte]; 34,2; 56,5; 57,1; 58,2; 68,4; 73,1; 78,5; 109,1. 2 [2 volte]). Cf. Paed. 1 (3,3; 48,1; 82,3); 2 (7,1; 9,3; 29,3; 63,2; 100,2 [2 volte].3; 118,5); 3 (16,4; 48,1; 51,3; 54,1; 55,2; 74,3; 76,1; 84,1; 89,2). Cf. Ecl. 1,1; 6,2; 14,2; 25,4; 30,1; 31,2; 32,3; 34,1. Cf. Q.d.s.16,2; 18,5; 19,3; 20,6; 31,8; 38,4. Cf. Prot. 49,2 [2 volte]; 92,4; 99,2; 114,1. Cf. Ex.Th. 11,1; 12,3; 27,1; 27,4; 48,1; 81,1; 83. Cf. Fram. 43,4. Cf. Str. 4,88,2 [2 volte]; 5,70,7. Cf. Paed. 1,14,3; 3,47,4. Cf. Prot. 10,2; 110,1. Cf. Str. 5,71,2. Cf. Ecl. 8,2; 25,4; 26,5. Cf. Paed. 3 (46,1 [2 volte]; 55,2). Cf. Str. 3,79,4; 4 (15,3; 40,1; 158,1); 5 (13,2; 83,1); 7,62,7. Cf. Paed. 2 (1,3; 108,2). Cf. Q.d.s.41,6. Cf. Str. 4 (39,2; 104,1; 143,1; 152,3); 5 (3,4; 19,4); 7 (56,4. 7; 57,2). Cf. Paed. 1 (48,1; 50,4; 51,1; 82,3); 2,92,1; 3,48,3. Cf. Q.d.s.42,19. Cf. Ecl. 50,1. Cf. Ex.Th. 27,1.
18
κάθαρσις
1
3
10
καθάριος
4
καθαρτικός
καθαρῶς
7
125
καθαρός
καθάρσιος
Occorrenze complessive
Lemma
Lapurezzadelcuore:lariflessionediClemented’Alessandria
111
3
2
15
15
11
2
1
καθαρμός
καθαρισμός
καθαίρω
καθαρίζω
καθαρεύω
ἀποκαθαίρω
καθαροποιέω
39
38
37
36
35
34
33
32
31
30
29
28
27
26
25
24
23
22
Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf. Cf.
------29
26
27 28
128
1
39
----
335
832
9
2
3
51
----
----
736
533
3
----
24
3
323
122
7
----
----
----
----
----
----
----
----
Str. 5,89,4. Paed.3 (46,1 [2 volte]; 55,2). Str. 6 (31,5; 55,1); 7,79,4. Q.d.s. 18,7. Str. 5,20,1; 7 (26,2; 27,6). Str. 4,159,1; 6,60,2. Str. 1,55,2; 2 (56,1; 116,2); 4,83,2; 5 (9,5.7; 48,4); 6,86,2; 7,71,2. Paed. 1 (66,4. 5); 2,92,3. Ecl. 7,2; 34,1. Ex.Th. 14,4. Str. 1,8,3; 3 (32,1; 59,4; 62,3; 74,1); 4 (107,3; 131,4; 158,4). Paed. 1,90,2; 3 (48,1 [2 volte] 48,2; 79,1) Ecl. 15,1; 62,1. Str. 2,114,4; 3,42,5; 6,97,2. Paed. 2 (51,1.2; 94,1; 114,1); 3 (1,1; 15,1; 83,2) Q.d.s.16,1. Ex.Th. 12,3 [2 volte]. Str. 5,55,2.
224
4
καθαρότης
Totale occorrenze
4
καθαριότης
10
----
----
137
----
----
----
----
1
25
----
16
----
----
234
2
30
----
----
----
----
----
----
----
----
----
----
11
238
1
31
1
----
----
----
----
----
----
----
----
112 MATTEO MONFRINOTTI
Lapurezzadelcuore:lariflessionediClemented’Alessandria
113
Come c’era d’attendersi gli Stromati registrano il maggior numero di occorrenze in particolare nei libri quarto e quinto dedicati al “vero gnostico” e al concetto della perfezione cristiana, a come il martire testimoni nella forma più alta questa perfezione: la ricca presenza dimostra come Clemente abbia a cuore questo concetto con esplicito riferimento all’identità del cristiano3. Segue il Pedagogonel quale la frequenza dei termini si concentra nel terzo libro dove si insiste sul concetto di purità nel senso morale4. Negli altri scritti si verifica una rarefazione della terminologia che non pregiudica però lo spessore concettuale5. Inoltre, corre l’obbligo di precisare che non pochi dei termini presi in esame sono tratti dai testimonia biblici6 e da quelli della classicità greca7, tenendo conto che, impiegati da Clemente, non mantengono costantemente lo stesso significato che assumevano nella pagina sacra o in quella pagana; un’eccezione è costituita inevitabilmente da Mt 5,88 e, segnatamente dalla macarismo «beati i puri di cuore» che, pur ricorrendo con frequenza e con ragionato impiego, non sempre si rivela esatto imprestito del locus matteano perché il contesto in cui è 3 Str. 1 (8,3. 4; 12,2; 22,3; 55,2. 4; 58,4; 94,5. 6; 175,2; 177,3); Str. 2 (7,4; 50,2; 56,1; 80,5; 94,5; 104,2. 3; 114,3; 116,2; 145,1); Str. 3 (19,2; 32,1; 42,5. 6; 59,4; 62,3; 74,1; 79,4; 100,4; 103,2; 109,1); Str. 4 (15,1. 3; 21,1; 31,4; 37,2; 39,1. 2. 4; 40,1; 74,4; 83,1. 2; 88,2; 104,1; 106,3; 107,3; 108,4; 126,1; 131,4; 139,4; 141,4; 142,2. 3; 143,1; 152,1; 158,1. 4; 159,1; 160,2); Str. 5 (3,4; 7,7; 9,5. 7; 13,2; 17,3; 19,2. 4; 20,1; 40,1; 46,6; 48,4; 55,2; 67,1; 70,7; 71,2; 83,1; 87,4; 89,4; 101,1; 119,1; 138,1. 3); Str. 6 (28,5; 31,5; 46,3; 50,2; 55,1; 60,2; 76,2; 86,2; 97,2; 102,2; 108,1; 113,2; 132,3); Str. 7 (5,2; 13,1; 27,5; 34,2; 56,4. 5. 7; 57,1. 2; 58,2; 62,7; 68,4; 71,2; 73,1; 78,5; 79,4; 109,1. 2). 4 Paed. 1 (3,3; 14,3; 48,1; 50,4; 51,1; 66,4. 5; 82,3; 90,2); Paed. 2 (1,3; 7,1; 9,3; 29,3; 51,1. 2; 63,2; 92,1. 3; 94,1; 100,2. 3; 108,2; 114,1; 118,5); Paed. 3 (1,1; 15,1; 16,4; 46,1; 47,4; 48,1. 2. 3; 51,3; 54,1; 55,2; 74,3; 76,1; 79,1; 83,2; 84,1; 89,2). 5 Ecl. 1,1; 6,2; 7,2; 8,2; 14,2; 15,1; 25,4; 26,5; 30,1; 31,2; 32,3; 34,1; 50,1; 62,1; Q.d.s.16,1.2; 18,5. 7; 19,3; 20,6; 31,8; 38,4; 41,6; 42,19; Prot. 10,2; 49,2; 92,4; 99,2; 110,1; 114,1; Ex. Th. 11,1; 12,3; 14,4; 27,1; 27,4; 48,1; 81,1; 83; Fram. 43,4. 6 Is 1,11-16 (Str. 5,119,1); 1,16-18 (Paed. 3,89,2); 4,4 (Paed. 3,48,2); 6,7 (Str. 1,55,2); Gb 14,4 (Str. 3,100,4; 4,83,1; 4,106,3); Pro 8,9-11 (Str. 1,58,4); Sal 18,13b (Ecl. 62,1); 23[24],3-6 (Str. 7,58,2); 50 (Str. 1,8,4; 4,107,3); Mt 19,23 (Q.d.s. 19,3); 11,3-6 (Paed. 1,90,2); 23,25 (Paed. 3,48,1); Dn 7,9 (Paed. 3,16,4); Gv 15,1-2 (Paed. 1,66,4);2 Cor 6,14-16; 7,1 (Str. 3,62,3; 3,74,1); Tt 1,15 (Str. 3,109,1); Eb 9,14 (Str. 3,59,4);1 Gv 1,7 (Str. 3,32,1). 7 Cf. Platone, Fedone 62b; (Str. 3,19,2); 114b-c (Str. 4,37,2); 65e-66a; 67d; 80 e-81a (Str. 5,67,1); Timeo22c-e (Str. 5,9,5. 7); OdisseaIV,750 (Str. 4,142,2); Parmenide, D.K. 28B10 (Str. 5,138,1); Pindaro, fr. 108b Sn.4 (Str. 5,101,1); Epicarmo, fr. 23B 26 D.K. (Str. 7,27,5); Fililio, CAF 20 (Str. 5,46,6); Zenone, SVF I,246 (Paed. 3,74,3); Epigr.or.gr. (Ms.Laur. 32.37) (Str. 4,142,3). 8 Cf. Str. 4,39,1; 5,7,7; 6,108,1; 7 (13,1; 19,2; 56,5; 57,1); Ex.Th. 11,1; Q.d.s. 19,3.
114
MATTEO MONFRINOTTI
inserita la citazione di Matteo non è certamente la stessa del discorso della beatitudini. 2. DALLE OCCORRENZE AI SIGNIFICATI: VALENZA QUALITATIVA DEL LESSICO
Le numerose occorrenze dei termini che pertengono al concetto di purità e di purificazione non sono omologate su uno stesso significato sebbene convergano nell’unico principio secondo il quale solo il perfettamente puro di cuore potrà contemplare Dio: «Divenuti puri di cuore (καθαροὺς τῇ καρδίᾳ γενομένους), li aspetta quindi la restaurazione (ἀποκατάστασις) definitiva nella contemplazione (τῇ θεωρίᾳ) eterna per l’unione con il Signore»9. Di fatto, a seconda dei contesti e delle tematiche di volta in volta affrontate, Clemente sembra voler condurre per mano il suo destinatario aiutandolo non solo a comprendere cosa significhi essere puro ma a raggiungerne la condizione. Di conseguenza, in un climax pedagogico, parenetico e dottrinale al tempo stesso, ma costatabile e convincente solo a lettura degli scritti pervenuti, l’Alessandrino insegna a realizzare una condizione di purezza a partire dal quotidiano, ovvero dalla vita terrena quale itinerarium verso l’Essere, per poi indicare in che modo avanzare verso quella perfezione in cui il divenire cede il posto all’essere, inteso questo non solo come nuova e definitiva esistenza ma come penetrazione di Dio in colui che, purificandosi dal materiale e dai suoi tentacoli, può finalmente accogliere in sé l’Eterno e sommo Bene. Se entriamo nel merito specifico della famiglia lessicale in oggetto, peraltro ampiamente attestata fin da Omero, Erodoto e Platone, la sua applicazione ruota quasi sempre intorno al concetto di integrità morale comprensivo, talora, dell’ottenimento di tale integrità attraverso l’espurgazione che libera dalle colpe, dai vizi e dalle passioni e che non raramente si raggiunge attraverso dolore e sofferenza: è il messaggio etico-esistenziale trasmesso dai tragici e conforme alla concezione aristotelica secondo la quale «la tragedia, imitazione di un’azione seria e compiuta […] per mezzo di pietà e paura porta a compimento la purificazione (κάθαρσις) di siffatte emozioni» (Poetica1449 b,24-28). Il dramma rappresentato interrogava lo spettatore sul senso della vita, sul mistero della morte, sulla presenza del male, 9
Str. 7,56,5. Cf. anche Str. 2,114,3; 7,13,1-2; Ex.Th.11,1.
Lapurezzadelcuore:lariflessionediClemented’Alessandria
115
del dolore, del vizio, sulla responsabilità della colpa e sul destino finale; e così, dall’empatia alla repulsione del male, si verificava un effetto catartico perché amore, passione, odio, vendetta, assorbiti dalla scena venivano elaborati e razionalizzati, cosicché le passioni dello spettatore si sprigionavano dal suo subconscio e, purificandolo, lo rendevano libero. Se dalla letteratura classica ci si sposta a quella cristiana e, nello specifico a quella rappresentata dalle opere dell’Alessandrino, si registra un significato di «puro» e di «purificazione» che, rispetto a quello veicolato dalla cultura pagana, intende convergere verso una sfera semantica indissolubilmente legata al principio di “vera gnosi” che, come noto, rappresenta il fulcro del pensiero di Clemente, della sua reazione antignostica, della sua identità di fede. Si pensi all’affermazione che si legge in Str. 2,104,2 dove il vero gnostico è colui che «coabitando con il Signore, ne resterà confidente e commensale secondo lo spirito: puro nella carne, puro nel cuore, santificato nel pensiero (καθαρὸς μὲν τὴν σάρκα, καθαρὸς δὲ τὴν καρδίαν, ἡγιασμένος τὸν λόγον)» (cf. Paed.1,14,3); stesso concetto che si rincorre nelle tante pagine in cui è possibile leggere la riflessione di Clemente, a volte esito dell’esegesi di un testo sacro, a volte commento di una citazione o di una reminiscenza classica ma, soprattutto, risultato di una dialettica interiore attraverso la quale consegnare una pedagogia esistenziale e soteriologica al tempo stesso, che merita di essere evidenziata nelle sue coordinate fondamentali ricostruibili attraverso gli enunciati più significativi e più caratterizzanti l’insegnamento di Clemente10. 2.1. Purificazione e purezza: legge etica del cristiano Nell’analisi dei numerosi passi in cui ricorre la terminologia studiata nel presente contributo, è possibile registrare che in Clemente la prima forma di purificazione e purità è quella di carattere morale; infatti, «avere desideri tali da sentir bisogno della temperanza per dominarli, è proprio di chi non è ancora puro (οὐδέπω καθαροῦ), ma sottoposto alla passione» (Str. 6,76,2). L’Alessandrino paragona gli uomini in balia delle passioni ai porci che preferiscono rotolarsi alla maniera dei vermi nelle paludi e nel 10
I paragrafi che seguono sono elaborati sulla base dei testi più dimostrativi del fine pedagogico dell’Alessandrino.
116
MATTEO MONFRINOTTI
fango, cioè nelle correnti del piacere (cf. Prot. 92,4). Questo genere di uomini si alimenta di inutili e insignificanti delizie, e gode del fango più che dell’acqua pura, cioè di quell’acqua necessaria per una vera e profonda purificazione: è l’acqua razionale, ὕδωρ λογικόν, cioè l’acqua del battesimo che libera da tutti i peccati; il che comporta l’abbandono del precedente costume di vita per accogliere la vita nuova, con animo libero in quanto liberato11. Di fronte al genere umano infangato, Clemente ritiene importante esprimere il suo rimprovero affinché gli impuri e i peccaminosi, possano ravvedersi e intraprendere una metanoia ponderata e sicura (μετάνοια ἀκριβὴς καὶ βεβαία, Str.4,143,1). Anche Platone, riconoscendo la grande efficacia della correzione e vedendo nel rimprovero un eccellente mezzo di purificazione, sostiene, conformemente al Logos, che chi è macchiato di più grandi impurità è divenuto incorreggibile e vergognoso per il fatto di non essere stato rimproverato, mentre chi era destinato alla vera felicità avrebbe dovuto essere sommamente puro e bello (Paed. 1,82,3).
L’importanza del rimprovero come provocatorio verso la metanoia, conseguimento a sua volta della purità, non è convinzione mutuata solamente da Platone, ma derivata ed ereditata dalla stessa storia sacra. In Paed. 1,66,5 l’Alessandrino polemizza contro coloro che ritengono che il Dio giusto non sia buono: al contrario egli evidenzia come nel corso della storia Dio sempre opera ed è sempre mosso da un profondo amore nei confronti dell’uomo, lo stesso amore e la stessa bontà da cui muovono il suo rimprovero e il suo castigo (cf. Paed. 1,64,3), infatti «il rimprovero è come un intervento chirurgico sulle passioni dell’anima, un tumore dell’anima [sono] le passioni che bisogna combattere eliminandole con un’amputazione» (Paed. 1,64,4). È proprio in tale contesto che, come vedremo subito dopo, Clemente introduce il concetto di Logos purificatore: in linea con la tradizione filosofica platonica e stoica, egli sottolinea, soprattutto nel Pedagogo, come il controllo dalle passioni, necessario per conseguire una crescente e radicata purità dell’anima, necessita della moderazione di comportamento a cominciare dal vivere quotidiano che anche nelle azioni più consuete – bere e mangiare, curare il corpo, coltivare le amicizie, praticare la sessualità – deve sempre essere caratterizzato
11
Cf. Prot. 99,2. In merito all’acqua via per ottenere la condizione di purità cf. anche Str. 1,2,2; 2,7,4; 4,126,1; 4,160,2; Paed. 3,48,3; Prot. 92,4; Ecl. 7,2.
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dalla temperanza12 perché l’anima può essere purificata e mantenersi pura solo se si coltiva onestà e continenza e si assume una condotta intemerata (cf. Str. 6,113,2). È quindi proprio nell’esercizio della temperanza, mai disgiunta dalla giustizia, ovvero dalla legge dell’onestà e della integrità, che il credente tende verso la purità e, grazie a questa, verso la pietà religiosa il cui vertice è la piena adesione a Dio: La temperanza poi è di per sé non scevra di coraggio, poiché la si conquista in base ai comandamenti, facendosi cioè seguaci del Dio che ha ordinato [l’universo]; e d’altronde è prudenza anche la giustizia, imitatrice del divino ordine, in conformità della quale poi esercitiamo la continenza; e così tendiamo, in purità, verso la pietà religiosa, verso il comportamento di piena adesione a Dio: ci assimiliamo al Signore per quanto ci è possibile, pur restando soggetti alla morte naturale (Str. 2,80,5)13.
Clemente vede la purificazione morale come una via necessaria per intraprendere l’assimilazione a Dio per quanto possibile all’uomo, che viene esortato dall’Alessandrino a mantenere giorno e notte l’anima pura e immacolata (κάθαρα καὶ ἀκηλίδωτος) nella consapevolezza che solo nella immutata integrità dello spirito, l’uomo può conseguire l’esito perfetto della somiglianza al Creatore (Str. 4,139,4). Per Clemente quindi la purificazione morale è l’ineluttabile condizione prima di accedere all’acqua pura e divina, cioè alle profondità di Dio (Str. 2,7,4), in quanto l’acquisizione della perfetta gnosi necessita di comportamenti liberi da ogni passione (cf. Str. 4,39,4): Più di ogni altro, lo gnostico può conservare il comportamento decoroso conforme a quello secondo il logos. Infatti, recisa ogni passione, e spogliata tutta l’anima (scil. da ogni passione), vive per il resto [del tempo] praticando (σύνεστι καὶ βιοῖ) quella che, divenuta pura e resa libera per l’adozione a figlio, è la [condotta] migliore (Ecl. 31,3).
Lo gnostico quindi, nella sua identità, si propone di conservare e custodire (φύλασσοι) la propria vita secondo il logos (κατὰ λόγον), cioè una vita che purificata da ogni pathos viene resa libera per ottenere l’adozione filiale (cf. Str. 3,42,6; 6,97,2; 7,73,1; Ecl. 30,2). Al contrario colui che non è purificato non è degno della sacra verità (ἀγνὴ ἀλήθεια, cf. Str. 5,19,2). L’impuro, cioè colui che non è capace di dominare le passioni, è paragonato da Clemente a chi, non ancora 12 Cf. Paed. 2,29,3; 2,51,2; 2,114,1; 3,15,1; 3,53,5. Per quanto riguarda la purezza nel sesso, che Clemente ritiene essere conseguenza della castità, cf. Paed. 2,94,1; 2,100,2; 3,55,2; 3,83,2; 3,84,1; Str. 4,160,2. 13 Cf. anche Str. 2,18,80,5.
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iniziato ai misteri divini, è inesperto di musica e danze, e rimane quindi fuori dal coro. Infine, e a coronamento del concetto di purezza come condizione costitutiva dell’etica del vero gnostico, Clemente propone, quale modello da imitare, il martire che, nella sua testimonianza eccellente e sublime, affrontando la morte consegna a Dio la sua anima pura dimostrando che l’amore verso Dio lo ha elevato al di sopra di coloro che, resi malati dalle loro stesse passioni, rimangono impuri nel corpo e nell’anima (cf. Str. 4,14,3-15,1). 2.2. Il Logos puro e purificatore Nel paragrafo precedente si evidenziava come, secondo Clemente, Dio, nella sua economia di salvezza, decide di muovere, mediante il suo Logos, il rimprovero per condurre l’uomo verso la metanoia, verso una conversione alla vita nuova. In Paed. 1,66,5 il Logos, soggetto del verbo καθαίρω, è il coltello (ἡ μάχαιρα) che recide le passioni proprio come accade quando la vite viene potata per essere ripulita dal fogliame in eccesso. È il Logos stesso a compiere l’azione per la salvezza degli erranti e la citazione di Gv 15,1-2, diventa la prova biblica introdotta a sostegno del pensiero clementino secondo il quale il Logos rimprovera e castiga per il bene stesso dell’uomo e compenetrando tutto ciò che è umano sana e purifica dalle passioni (μιγνύμενος γὰρ ὁ λόγος φιλανθρωπίᾳ, Paed. 1,51,1,2). Se purificazione e purezza sono la legge etica del cristiano, colui che rende possibile l’osservanza e l’adempimento di tale legge è solo il Logos di Dio: egli, il puro per eccellenza, è anche il perfetto purificatore, la pietra santa (ἅγιος λίθος) di cui adornarsi: Il Logos di Dio […], Gesù splendente e puro (τὸν διαυγῆ καὶ καθαρὸν Ἰησοῦν), l’occhio che contempla (Dio) nella carne, il limpido Logos, tramite il quale la carne è stata rigenerata attraverso l’acqua (ed ha così riacquistato il suo) grande valore (Paed. 2,118,5).
L’azione del Logos pedagogo è dunque anche azione purificatrice nella misura in cui ci si pone sulle orme del suo insegnamento: «Egli (il Salvatore) stesso è già strada per il puro di cuore (ὁδὸς γὰρ αὐτὸς ἤδη τῷ καθαρῷ τὴν καρδίαν γίνεται)» (Q.d.s. 16,2), purificatore (ὁ καθάρσιος) e al tempo stesso salvatore, mite e obbediente fino a essere umiliato e disprezzato, egli, figlio del padrone (ὁ δεσπότης)
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dell’universo, agisce sempre e comunque a beneficio dell’uomo che rende perfetto mondandolo da ogni lordura e rendendolo puro per condurlo al cospetto di Dio (cf. Prot. 110,1). In Paed. 1,3,3 così si esprime Clemente: Ebbene, come coloro che sono malati nel corpo hanno bisogno di un medico, così gli infermi nell’anima necessitano di un pedagogo, il quale guarisca le nostre passioni e poi ci guidi verso il maestro, preparando l’anima pura a essere massimamente adatta alla conoscenza e capace di ricevere la rivelazione del logos.
La purezza dell’anima è il traguardo che l’uomo raggiunge grazie all’intervento del pedagogo che guarisce dalle passioni e guida verso la verità del maestro. Il cammino di purificazione non può essere compiuto se non alla sequela di chi personifica la stessa purezza perché incontaminato da ogni macchia e quindi il solo capace di purificare. 2.3. La purezza del cuore per la contemplazione di Dio La fede espressa da Clemente nel Logos purificatore permette di comprendere come la purificazione e la purità morale non siano fine a se stesse ma in ordine a una gnosi progressiva e chiave di accesso alla contemplazione divina per colui che «coabitando con il Signore, ne resterà “confidente” e “commensale” secondo lo spirito: puro nella carne, puro nel cuore, santificato nel pensiero» (Str. 2,104,2). Purificazione, quindi, non come rinuncia, sacrificio, correzione, ma innanzitutto come beneficio indispensabile per partecipare alla visione di Dio: «dopo aver deposto la carne [1 Pt 3,21; cf. 2 Pt 1,14] (lo vedremo) faccia a faccia allora sì, in modo definito e con piena comprensione, quando il nostro cuore sarà puro» (Str. 1,94,6)14. In Str. 7,68,4 si legge: Sono questi infatti i titoli di nobiltà, gnosi e perfezione in rapporto alla contemplazione di Dio, che l’anima gnostica raggiunge (come) il progresso più eccelso, in quanto sarà perfettamente pura e degna di vedere eternamente Dio Onnipotente facciaafaccia, come dice (1 Cor 13,12): divenuta tutta spirituale, facendo spazio al suo Simile, resta nella chiesa spirituale per riposare in Dio. 14 Cf. Mt 5,8. Purezza di cuore e visione diretta di Dio sono spesso associate negli Str. 5,7,7; 5,40,1; 6,46,3; 6,102,1-2; 6,108,1; 7,13,1-2; 7,40,1; 7,56,5-57,1. Cf. anche Tertulliano, Deanima 53,5-6.
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La condizione di purità, secondo Clemente, è presupposto della contemplazione perché raggiunta la purezza, secondo il grado di perfezione, l’anima vive la compenetrazione nel suo Simile, che le assicura il permanere eterno nella Chiesa spirituale per riposare in Dio. Non solo: l’anima perfettamente pura non gode solo individualmente il suo conformarsi a Dio, ma ne gioisce di una chiesa spirituale. Concezione che supera ogni individualismo soteriologico e che risolve la salvezza di ciascuno in una realtà comunionale e universale al tempo stesso. Il progressivo cammino di purificazione è ulteriormente delineato in un altro passo di Stromati che, nonostante il carattere miscellaneo degli argomenti e la conseguente discontinuità del contenuto, si afferma l’opera più eloquente riguardo alla proiezione purità-contemplazione, così come il Pedagogo resta lo scritto più illuminante sulla realizzazione della purità in ambito morale. InStr. 6,102,2 si legge: Lo gnostico prega dunque anche con il pensiero, ogni ora, in familiarità con Dio grazie all’amore. Anzitutto chiederà la remissione dei peccati, poi, oltre al non peccare per l’avvenire, la possibilità di fare il bene e di comprendere tutta la creazione e l’economia del Signore. E ciò allo scopo di divenire puro di cuore, e di farsi iniziare, attraverso il riconoscimento del Figlio di Dio, faccia a faccia, alla beata visione; così egli dà ascolto alla Scrittura che dice: “Cosa buona è il digiuno congiunto alla preghiera”: ove “digiuni” significano astensione da ogni male in genere, da quelli che si compiono con l’atto, con la parola, con il pensiero stesso15.
Il maestro d’Alessandria intende delineare con precisione i diversi passaggi mediante i quali il credente riesce a raggiungere la condizione di gnostico e quindi la purezza del cuore. La sua vita è vissuta nella piena familiarità con Dio (οἰκειμούμενος τῷ θεῷ) grazie all’esercizio dell’amore16 che non può attuarsi in pienezza senza riconoscere il proprio peccato, chiederne la remissione, proporsi di non peccare più in futuro ma di operare solo il bene rileggendo all’insegna della carità tutta la creazione e l’economia del Signore. È questo il cammino della metanoia e quindi della purità morale, per accedere a una gnosi sempre più profonda: puro di cuore il credente sarà iniziato e quindi 15 Cf. anche 7,73,1 dove Clemente evidenzia come la vita dello gnostico è vissuta in una preghiera profonda che assicura la comunione con Dio. Proprio questa condizione permette il conseguimento del sommo grado di santità, testimoniata secondo Clemente dalla capacità di essere più prepararti a non ottenere anche se si chiede, che a ottenere se non si chiede. In questo modo il credente scoprirà di ottenere comunque ciò che vuole. 16 Cf. W. RICHARDSON 1963, 87-97, part. 93.
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ammesso alla beata visione: «solo chi si sarà diligentemente purificato del tutto sarà ritenuto degno della dottrina e della forza che viene da Dio» (Ecl. 34,1). Principio fondamentale che, pur diversamente formulato, ricorre anche in Str. 4,21,117: Lo stesso discorso vale anche per la povertà. Anche la povertà costringe l’anima a rinunciare a ciò che è necessario, alludo alla contemplazione e alla condizione di purità e assenza di peccato: costringe colui che non ha ancora dedicato tutto se stesso a Dio per amore, a perder tempo per procurarsi di che vivere. Così, viceversa, la salute e l’abbondanza dei mezzi conserva libera e senza impedimenti l’anima, pur che sappia bene usare di quel che ha.
Clemente congiunge i concetti di contemplazione, purezza e assenza di peccato, e li connette come obiettivi fondamentali e necessari per la vita dell’uomo, delineati in un climax ascendente: solo colui che vive nell’assenza dal peccato potrà raggiungere la purezza e godere della contemplazione. Lo confermano molti dei passi più significativi tra i quali la sezione di Str. 7,56,3-57,3 sembra efficacemente dimostrativa e ricapitolativa di quel concetto molto insistito secondo il quale il «puro di cuore» è colui che ha fatto propria la «vera gnosi» che, a sua volta, è maestra che guida fino alla contemplazione di Dio. Premesso che tutto il capitolo 10 del libro VII propone il “vero gnostico” come esempio e modello di ogni virtù, va tuttavia sottolineato il periodo di apertura (55,1-2) nel quale viene fissato l’assunto primo: La gnosi è come il perfezionamento (τελείωσις τις) dell’uomo in quanto uomo e raggiunge la pienezza mediante la conoscenza delle cose divine (διὰ τῆς τῶν θείων ἐπιστήμης), nella vita come nella parola, concordemente e coerentemente con se stessa e con il Logos di Dio18.
Posta dunque la indispensabilità della gnosi per raggiungere la perfezione (altrimenti non potrebbe essere perfetto il «fine» stesso della gnosi), Clemente assicura che solo se «trasmessa per tradizione e affidata per grazia di Dio a coloro che si rendono degni dell’insegnamento divino» (Str. 7,55,6), si trasforma in pedagogia perché insegna in anticipo (προδιδασκούσα), il modo di vivere (δίαιταν) secondo Dio che sarà nostro (τὴν ἐσομένην ἡμῖν), (quando saremo) insieme alle 17
Cf. anche Q.d.s. 16,1,3; 19,3; Prot. 92,4. Nella traduzione italiana si perde la presenza di Logos che ricorre due volte sia per indicare la “parola/pensiero” dell’uomo sia per indicare il Logos/Verbo di Dio. 18
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creature divine (μετὰ θεῶν), liberati da ogni castigo e pena che in conseguenza dei nostri peccati sopportiamo per una correzione salutare (Str. 7,56,3).
L’accesso alla conoscenza del divino è al tempo stesso garanzia di immediata purificazione. Si noti come Clemente afferma senza esitazione e quasi con tono lapidario, «rapida dunque verso la purificazione (εἰς κάθαρσις) la gnosi e necessaria alla conversione verso il (bene) migliore e atteso» (Str. 7,56,7)19. Come dire: l’immediato accesso alla purificazione è dato solo dalla gnosi che nel pensiero di Clemente si configura sempre come condizione prima (e forse unica) affinché l’uomo possa realizzare la «conversione», ovvero il «cambiamento» (μεταβολή) finale e definitivo «nel luogo supremo del riposo» (εἰς τὸν κορυφαῖον ἀποκαταστήσῃ τῆς ἀναπαύσεως τόπον, Str. 7,57,1) e che avviene dopo il passaggio dal paganesimo al Dio unico (prima trasformazione) e dopo il passaggio dalla fede alla gnosi (cf. Str. 7,57,3). In questa migrazione verso Dio «colui che conosce si avvicinerà a Colui che è il conosciuto» (τὸ γιγνῶσκον τῷ γιγνωσκομένῳ, ibidem). Focalizzando il ruolo pedagogico della gnosi, e mantenendo la relazione maestro-discepolo voluta e proposta da Clemente, è di assoluto rilievo – e tanto più pertinente al tema odierno – la frase in cui si specifica che il «discepolo» della «gnosi» è «il puro di cuore» (ὁ καθαρὸς τῇ καρδίᾳ), cioè colui che ha un animo e una mente liberi da ogni ostacolo e impedimento, mondi da ogni sordidezza che impedisca di accedere a quella fede che altro non è se non la vera “conoscenza” in cui si compendiano tutte le verità riguardanti Dio (ibidem). Se il cuore non è puro – ovvero purificato – non può accogliere la vera dottrina e quindi la Parola. Concetto questo che anticipa il vacare Deodi Origene e il più tardo quaerereDeum di Agostino benché in Clemente l’apertura a Dio sia ancora più spirituale e in ascensione verso di lui (διαβιβάζει τὰς προκοπὰς τὰς μυστικὰς, Str. 7,57,1). L’acquisizione della gnosi in un cuore che è già καθαρός perché disposto ad accogliere – e quindi sgombro da ogni elemento che si frappone tra l’uomo e Dio – non esaurisce la purificazione la quale sarà definitivamente compiuta quando il puro di cuore potrà contemplare Dio «faccia a faccia» (cf. Str. 7,57,1).
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Pini traduce: «Rapida via di purificazione è dunque la gnosi ed atta a provocare il ben gradito trapasso al grado superiore».
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Quando l’anima del puro di cuore potrà così contemplare Dio «si troverà con il Signore, lì, collocata in quel luogo (ὅποὐ) immediatamente dopo di lui, avendo superato ogni rituale di purificazione (πάσης κάθαρσεώς τε καὶ λειτουργία)» (Str. 7,57,2)20. In che cosa consista la πάσης κάθαρσεώς τε καὶ λειτουργία Clemente non lo spiega. Presumibilmente ci troviamo di fronte a una endiadi il cui significato vuole sottolineare la perfezione della purificazione: quando ci si presenta al cospetto di Dio per contemplare il suo volto, il cuore, l’anima, la mente devono essere assolutamente purificati e puri e l’unica scienza che si possiede è quella di Dio. A volte, dalla lettura dei testi, sembra emergere che in Clemente il concetto di puro-purificazione riguardi solo l’elemento spirituale dell’uomo (sia esso denominato «cuore» oppure «anima») e non l’elemento materiale, ovvero la vita e l’azione quotidiana. Questa sarebbe però una deduzione assai riduttiva, anzi non rispondente al pensiero dell’alessandrino perché la purezza dell’anima o, se si preferisce, del cuore che deve accogliere la gnosi di verità, non può costituire una realtà separata dalla creatura in senso corporeo e quindi l’azione intellettiva non può essere estranea e disgiunta dall’azione materiale. Diremmo allora che, esclusa ogni forma e atto di purificazione che si configurino e vengano a consistere in una ritualità esteriore (si pensi ad esempio ai riti e ai sacrifici espiatori della religiosità pagana per ottenere il favore degli deì o a quelli prescritti dalla legislazione levitica nei quali l’immolazione della vittima o l’offerta di un bene rendeva propizio Dio e mondava il peccatore), la καθάρσις meditata e insegnata da Clemente muove dall’assoluta convinzione che può essere chiamato «puro» colui che assume in sé la legge di Dio, cioè l’insegnamento del Logos, cioè la vera conoscenza. Ne consegue che essere «puro di cuore» è anzitutto conseguenza di una volontà che vuole orientarsi alla progressiva μεταβολή. «Purezza di cuore» e «anima pura» non corrispondono a una condizione di natura ma conseguono a quella conversione che in linguaggio agostiniano definiremo «della intelligenza». Se la mente (e potremmo dire anche «il cuore») si converte perché «confessa l’esistenza di Dio» (τὸν θεόν ὁμολογοῦσα) e se la fede è «fondamento della conoscenza» (θεμέλιος γνῶσεως, Str. 7,55,5) e 20 πάσης καθάρσεώς τε καὶ λειτουργίας ὑπεκβᾶσαν σὺν τῷ κυρίῳ γίγνεσθαι, ὅπου ἐστὶν προσεχῶς ὑποτεταγμένη. Da non condividere la traduzione di Pini («prova di purificazione e ministero»).
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suo presupposto, colui che crede non può rinunciare a elevarsi affinché possa ricevere, per grazia, «la conoscenza che riguarda Dio» (τὴν περὶ αὐτοῦ […] γνῶσιν), «per quanto è possibile» (ὡς οἱόν τε ἐστιν, Str. 7,55,3). Da questa gnosi, e solo da questa, il credente ricava anche una legge di vita di cui principio e fine è il Cristo stesso (ὁ Χριστός ἀρχὴ καὶ τέλος, Str. 7,55,5). Di conseguenza la vita di chi ha fede, il suo essere e il suo comportarsi saranno disciplinati dalla gnosi, la quale non è imposta ma acquisita per libera scelta e faticosamente perseguita. Una gnosi i cui contenuti non sono nozioni teologiche che erudiscono, ma principi che, applicati, saranno indispensabili «per una compostezza di vita e per conseguire con fermezza una giustizia più piena di quella secondo la legge» (εἰς καταστολὴν βίου καὶ εἰς τὸ έπὶ πλέον τῆς κατὰ νόμον δικαιοσύνης κατὰ ἐπίτασιν προεληλυθένει, Str. 7,56,2)21. Si noti il termine καταστολή: la prima accezione è quella di «compostezza» da accogliere anche nel senso di «dignità» e di «decenza» non lontano, se volessimo recuperare un concetto stoico, dal significato di «misura» (μετριότης). Il «puro di cuore», destinato a essere il «vero gnostico», aspirerà dunque a una vita dignitosa e non sovrabbondante di beni mondani, vorrà mantenersi in vita ma senza essere assediato dalle passioni: «non ha più bisogno di volgersi ai beni mondani colui che ha attinto la luce inaccessibile» (Str. 6,74,2). La vita del «puro di cuore» è dunque composta, misurata, dignitosa perché egli «ha strappato l’anima dalle passioni» (ἐξήγαγεν δὲ τὴν ψυχὴν τῶν πανθῶν, Str. 6,75,3) mentre «non è ancora puro chi è sottoposto alla passione» (οὐδέπω καθαροῦ, ἀλλ’ ἐμπαθοῦς, Str. 6,76,2). Pertanto, se la prima μεταβολή è quella di «volgersi» a Dio e professarlo e la seconda μεταβολή è quella di aprirsi alla «gnosi», questa purifica il cuore e perfeziona il credente il quale non potrà contraddire la già avvenuta conversione perché non si può essere «puri di cuore» e «purificati dalla gnosi» e condurre contemporaneamente una vita che confligga con la gnosi stessa, fermo restando che l’agire quotidiano e il comportamento di colui che professa Dio verrà orientato proprio dalla gnosi cui si è scelto di aderire. La purificazione del fedele sarà progressiva tanto quanto il processo conoscitivo e la penetrazione della gnosi, che si fanno strada 21
Pini traduce: «per regolare la propria vita e pervenire con ferma disposizione a una giustizia superiore a quella della legge».
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nella mente e nel cuore dell’uomo il quale gradatamente deve «addestrarsi» e «prepararsi» ad accogliere il più elevato e veritiero degli insegnamenti (cf. Str. 7,56,2). Avanzerà al modo di chi compie un’ascesa: una «mistica progressione» (τὰς προκοτὰς τὰς μυστικάς, Str. 7,57,1) accompagnato da una «luce che gli è familiare»22 (διὰ τινος οἰκείου φωτός, ibidem) perché forse la stessa che lo ha illuminato al momento del battesimo. Verso dove? Quale il luogo che il puro di cuore raggiungerà ascendendo in alto e sempre inondato di luce, splendore che non certo si addice all’impuro? Raggiungerà «il luogo supremo del riposo» (ibidem) che è anche il luogo della contemplazione di Dio. Azione purificatrice, dunque, quella della gnosi e al tempo stesso liberatrice ed educatrice; illuminazione che fornisce risposte che non provengono da questo mondo bensì da una volontà divina non indifferente alla storia dell’uomo ma anzi operante in profondità a favore della di lui salvezza e dispensatrice di sommo bene, tanto da concedere per grazia la rivelazione di colui che è l’unico Signore, l’unico Sovrano, l’unico Sapiente: pur essendo ἄγνωστος, questi ama essere conosciuto e manifestarsi a colui che lo professa Dio consacrandogli il cuore puro e purificato. La purezza, pur muovendo da quella fisica, cultuale, etica, si attesta superiore perché è la stessa purezza raccomandata da Gesù in Mt 5,8 e assicurata da lui stesso come garanzia dell’incontro con Dio: «beati i puri di cuori perché vedranno Dio». Di qui l’ipotesi non remota e non infondata che sia proprio la sesta beatitudine l’ipotesto biblico che soggiace a Str. 7. Il macarismo è accolto e professato come postulato di fede che anima il pensiero di Clemente e lo incoraggia a formulare un insegnamento che non sia recepito solo come destabilizzante ogni legge ritualistica e ogni purismo farisaico o come contestazione e polemica nei confronti del giudaismo e ancor più dello gnosticismo e della letale contaminazione dei suoi assiomi, ma come verità che da Dio deriva e di cui egli è orgogliosamente latore manifestando, attraverso il suo dettato, una delle più elaborate esegesi della sesta beatitudine, frutto di una interpretazione meditata e vissuta dallo stesso esegeta e testimonianza di una chiave ermeneutica spirituale nel senso più «puro» del termine.
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Da non condividere la traduzione di Pini: «una luce che le è propria».
Καθαρός e termini corradicali nel ContraCelsum di Origene Antonio CACCIARI Nel Contra Celsum, opera in otto libri composta probabilmente nel 249 a Cesarea o forse a Tiro1, Origene intende rispondere in dettaglio alle accuse di Celso, un filosofo vissuto decenni prima di lui, sulla cui datazione e identificazione prosopografica non vi è effettiva certezza2. Secondo la prefazione del ContraCelsum, sarebbe stato lo stesso Ambrosio3, il ricco mecenate di Origene, a fornire al maestro alessandrino il testo dell’opera celsiana – l’Ἀληθὴς λόγος – perché ne svolgesse la confutazione. Gli studî più recenti tendono a collocare Celso più o meno all’epoca di Marco Aurelio, e a considerarlo un esponente alquanto originale del pensiero medioplatonico; della sua opera, tutto ciò che ci resta sono le citazioni incluse nella confutazione origeniana. Il ContraCelsum – una delle pochissime opere di Origene conservate integralmente nel testo greco, il che è tanto più degno di nota, considerandone la mole – può definirsi a tutti gli effetti un’apologia del cristianesimo – la più imponente che la letteratura cristiana antica ci abbia trasmesso, prima del DeciuitateDeidi Agostino – ma molto differente e nell’insieme ben più complessa rispetto agli scritti apologetici risalenti al secondo secolo. Ciò è dovuto al fatto che Origene si riferisce in modo continuativo e puntuale a un testo preciso, citandone interi brani alla lettera, e che, quindi, le accuse che egli controbatte non vengono genericamente imputate alla cultura greco-romana, come peraltro di norma avviene negli apologisti greci, ma sono attribuite a un autore e a un’opera ben definiti. Inoltre, e in conseguenza di ciò, la quantità di tematiche emergente dalla confutazione è molto ampia, 1 Sulla datazione del ContraCelsum(= CC), si vedano P. NAUTIN 1977, 375ss.; H. CROUZEL 1985, 77; un’approfondita discussione dello statusquaestionis in A. LE BOULLUEC 1998, 10-14. Quando non altrimenti specificato, il CC qui citato secondo l’edizione di P. KOETSCHAU 1899; la traduzione italiana citata è di P. RESSA 2000. 2 Sulla personalità di Celso, cf. H.E.LONA 2005, 28-31 e 42-49. 3 Su Ambrosio, cf. voce Ambrosios (6) in Pauly-Wissowa Realencyklopädie I (1894), 1812.
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e tale da coinvolgere numerosi e importanti aspetti del pensiero religioso, filosofico e finanche politico proprî dell’età imperiale. Nel Contra Celsum, l’area lessicale rappresentata da καθαρός e corradicali è, come vedremo, decisamente ampia; ne diamo qui una prima, sommaria rassegna. Καθαρός (aggettivo: «puro») ricorre 24 volte, καθαρότης (nome denominativo: «purezza») 7 vv., καθαίρω («purifico») 13 vv., καθαρεύω (verbo denominativo [intr.]: «sono / mi mantengo puro»; [tr.]: «purifico») 6 vv., καθαρότης (nomenqualitatisdenominativo, «purezza»), κάθαρσις (nomenactionis deverbativo [< καθαίρω]: «purificazione» 1 v., κάθαρσιος (aggettivo deverbativo [< καθαίρω], «purificatore») 8 vv., ἀκάθαρτος (aggettivo antonimico deverbativo: «impuro») 11 vv., ἀκαθαρσία (nomen abstractum antonimico deverbativo: «impurità») 1 v.; in totale, quindi, una settantina di occorrenze4. Le occorrenze dei termini in questione, peraltro disseminate nell’intera opera, si trovano concentrate in modo particolare in alcuni gruppi di testi omogenei sotto il profilo contenutistico5. 1. PURITÀ E
IMPURITÀ RITUALE
Nei passi seguenti, la terminologia riguardante «puro» (καθαρός) e «impuro» (ἀκάθαρτος) ricalca fedelmente la problematica classica dei testi legali dell’Antico Testamento. a) CC II,1. Origene riprende quanto detto nel libro precedente – ove, tramite la “prosopopea” del Giudeo, venivano mosse accuse ai Giudei che avevano abbandonato la loro fede per quella in Cristo (cf. fr. II,1 B.)6 – e controbatte richiamando il noto passo di At 10,9-15 (la visione di Pietro riguardo alle leggi alimentari giudaiche, cf. spec. In generale, sulla semantica di καθαρός, si veda G. NEUMANN 1992, 71-75. Va detto subito che il tema della “purità” in Origene – come, in generale, nei primi scrittori cristiani – è ben poco studiato; un’eccezione è costituita dai lavori di F. COCCHINI 2006, spec. 149-162; M. BLIDSTEIN, 2013, 373-384; ID. 2017 (su Origene, cf. le pp. 203-227), che peraltro rileva tale mancanza («there is no scholarly work which investigates Christian purity and defilement in the second and third centuries across several domains. In works which are dedicated to baptism or to sexual abstinence, two fields in which purity language is prominent and which are relatively well-studied, purity is rarely singled out for study. Even in scholarly literature on the body in early Christianity, a field greatly developed in the past decades, purity and defilement do not receive sustained discussion, especially in the ante-Nicene period», p. 4). 6 I frammenti dell’opera di Celso sono citati secondo l’edizione di R. BADER 1940. 4 5
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v. 15: Ἃ ὁ θεὸς ἐκαθάρισεν σὺ μὴ κοίνου), aggiungendo: «Vedi qui come Pietro viene presentato che osserva ancora i costumi giudaici riguardo alle cose pure e a quelle impure (περὶ καθαρῶν καὶ ἀκαθάρτων)»7. b) CC II,7. Ancora di leggi di purità si parla in un contesto di poco successivo; riguardo alle accuse di «empietà» rivolte dal Giudeo a Cristo, Origene controbatte in forma di domanda retorica: «È forse un’empietà astenersi dalla circoncisione corporea e dal sabato, dalle feste, dai novilunii intesi secondo il corpo, dai cibi puri ed impuri (καθαρῶν καὶ ἀκαθάρτων), e rivolgere invece la mente a una legge degna di Dio, vera e spirituale…?»8. c) CC III,11. Il dibattito sulle osservanze da imporre ai convertiti alla fede cristiana – con allusione al passo citato di Atti 10 – trova un’ulteriore ripresa nel libro seguente, in risposta all’accusa rivolta da Celso ai cristiani di essere particolarmente soggetti a discordie e divisioni (cf. fr. III,10 B.: «All’inizio, essi erano pochi e concordi. Una volta diffusisi fino a formare una folla, ripetutamente si dividono, si separano e ciascuno desidera avere proprie fazioni»)9. Ribattendo, Origene si fa forte del fatto che i testi dimostrano l’esistenza di «diverse interpretazioni» fin dalle origini, e subito sopra cita appunto l’antica disputa riguardante i cibi puri e impuri (καθαρῶν καὶ ἀκαθάρτων). d) CC V,49. Ancora il passo di At 10,14-15 funge da discriminante tra l’antica e la nuova economia riguardo alla «purità»: i Giudei non si vantano perché si astengono dai maiali, come se fosse qualcosa di grande, ma perché hanno appreso la natura degli animali puri e impuri, ne hanno scoperto la causa e hanno scoperto che il maiale si colloca con gli impuri (ἐπὶ δὲ τῷ τὴν καθαρῶν καὶ ἀκαθάρτων ζῴων φύσιν μεμαθηκέναι καὶ τὴν τούτου αἰτίαν ἐγνωκέναι καὶ τὸν σῦν ἐν ἀκαθάρτοις τετάχθαι). E queste cose erano simboli di alcune verità fino alla venuta di Gesù, dopo la quale, al suo discepolo, che non capiva ancora la ragione di queste cose e diceva: “Niente di profano o di immondo è giunto sulla mia bocca”, è stato detto: “Ciò che Dio ha purificato, tu 7 Ibid. (127,16-18; tr. cit., 160): Ὅρα γὰρ ἐν τούτοις, τίνα τρόπον παρίσταται τὰ ἰουδαϊκὰ ἔθη περὶ καθαρῶν καὶ ἀκαθάρτων ἔτι τηρῶν ὁ Πέτρος. 8 CC II,7 (133,13-16; tr. cit., 165): ῍Η ἀνόσιον μὲν τὸ ἀφιστάνειν σωματικῆς περιτομῆς καὶ σωματικοῦ σαββάτου καὶ σωματικῶν ἑορτῶν καὶ σωματικῶν νουμηνιῶν καὶ καθαρῶν καὶ ἀκαθάρτων, μετατιθέναι δὲ τὸν νοῦν ἐπὶ νόμον θεοῦ ἄξιον καὶ ἀληθῆ καὶ πνευματικὸν. 9 CC III,10 (210,14-17; tr. cit., 234): ὅτι ἀρχόμενοι μέν, φησίν, ὀλίγοι τε ἦσαν καὶ ἓν ἐφρόνουν· εἰς πλῆθος δὲ σπαρέντες αὖθις αὖ τέμνονται καὶ σχίζονται καὶ στάσεις ἰδίας ἔχειν ἕκαστοι θέλουσι.
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non considerarlo immondo” (Ἃ ὁ θεὸς ἐκαθάρισε σὺ μὴ κοίνου: cf. At 10,14-15).
e) CC VIII,29. Prendendo ancora una volta spunto dalle leggi alimentari dei Giudei, che «credendo di comprendere la legge di Mosè, si preoccupano di mangiare i cibi da loro considerati puri e di astenersi da quelli impuri (Ἰουδαίων οἰομένων νοεῖν τὸν Μωϋσέως νόμον καὶ τηρούντων ἐπὶ τῶν βρωμάτων τὸ μεταλαμβάνειν μὲν τῶν νενομισμένων αὐτοῖς καθαρῶν ἀπέχεσθαι δὲ τῶν ἀκαθάρτων)», Origene vi mette a confronto una nuova, diversa e più spirituale accezione di purità, «l’insegnamento di Gesù …, che vuole esortare tutti gli uomini alla pura devozione a Dio (εἰς τὴν καθαρὰν θεοσέβειαν)»10. f) CC IV,93. Abbiamo qui la risposta origeniana a un testo di Celso (fr. IV,88 B.), in cui, con un ragionamento paradossale, questi attribuiva ad alcuni animali – quelli dotati, secondo la cultura religiosa greco-romana, della prerogativa di predire gli eventi11 – una dignità pari o addirittura superiore a quella umana: «Perciò – afferma Origene – se pure ho ammirato qualcos’altro di Mosè, sosterrò che è degno di ammirazione questo fatto, che egli […] ha definito, nella classificazione degli animali, impuri (ἀκάθαρτα) tutti quelli considerati profetici dagli Egiziani e dai rimanenti uomini, e puri (καθαρά), invece, per lo più tutti quelli che non sono tali». In questo caso, con un inatteso rovesciamento delle tesi dell’avversario, Origene giunge ad approvare le leggi mosaiche di purità alimentare, altrove ampiamente contestate (si vedano i testi citati in precedenza), per farne di conseguenza un’arma polemica contro Celso12. 10 CC VIII,29 (244,12-26; tr. cit., 585): Ἰστέον μέντοι γε ὅτι, Ἰουδαίων οἰομένων νοεῖν τὸν Μωϋσέως νόμον καὶ τηρούντων ἐπὶ τῶν βρωμάτων τὸ μεταλαμβάνειν μὲν τῶν νενομισμένων αὐτοῖς καθαρῶν ἀπέχεσθαι δὲ τῶν ἀκαθάρτων ἀλλὰ καὶ μὴ χρῆσθαι αἵματι ζῴου εἰς τροφὴν μηδὲ τοῖς θηριαλώτοις καὶ ἄλλοις, περὶ ὧν πολὺς λόγος καὶ διὰ τοῦτο νῦν οὐκ εὔκαιρον ἐξετασθῆναι, ἡ τοῦ Ἰησοῦ διδασκαλία, βουλομένη πάντας ἀνθρώπους προσκαλέσασθαι εἰς τὴν καθαρὰν θεοσέβειαν καὶ μὴ προφάσει τῆς περὶ βρωμάτων βαρυτέρας νομοθεσίας κωλύειν πολλοὺς τῶν δυναμένων ὠφεληθῆναι εἰς ἤθη ἀπὸ χριστιανισμοῦ, ἀπεφήνατο ὅτι “Οὐ τὰ εἰσερχόμενα εἰς τὸ στόμα κοινοῖ τὸν ἄνθρωπον, ἀλλὰ τὰ ἐξερχόμενα ἐκ τοῦ στόματος”· τὰ μὲν γὰρ “εἰσερχόμενα εἰς τὸ στόμα εἰς τὴν κοιλίαν”, φησί, “χωρεῖ καὶ εἰς ἀφεδρῶνα ἐκβάλλεται”, τὰ δ᾽ ἐξιόντα ἐκ τοῦ στόματος “διαλογισμοί” εἰσι “πονηροὶ” λαλούμενοι καὶ “φόνοι” καὶ “μοιχεῖαι” καὶ “πορνεῖαι κλοπαί” τε καὶ “ψευδομαρτυρίαι” καὶ “βλασφημίαι”. 11 Sull’argomento, si veda A. BOUCHÉ-LECLERCQ 1879, I, 123ss. 12 CC IV,93 (366,3-10; tr. cit., 366): Ὅθεν εἴπερ ἄλλο τι Μωϋσέως τεθαύμακα, καὶ τὸ τοιοῦτον θαύματος ἀποφανοῦμαι ἄξιον εἶναι, ὅτι φύσεις κατανοήσας ζῴων
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g) CC V,46. In polemica col giudaismo, Celso aveva affermato (fr. V,41 B.) che «essi si vantano di conoscere qualcosa di più saggio e detestano la società con gli altri, come se non fossero puri come loro (‹ὡς› οὐκ ἐξ ἴσου καθαρῶν)»; Origene risponde difendendo Mosè e i profeti, che «proibiscono di nominare “il nome di altri dèi” (cf. Es 23,13) con una bocca che ha avuto cura di pregare soltanto il Dio al di sopra di tutte le cose e di ricordarlo con un cuore che è stato istruito a conservarsi puro (καθαρεύειν) da ogni vanità di pensieri e di parole». In questo caso, si noti bene, la terminologia in questione non indica più, come di norma avviene nella controversia col giudaismo (di cui si vedano sopra alcuni esempi) la «purità» rituale, bensì la «purezza» spirituale13. 2. VARÎ TIPI DI
PURITÀ
Nei testi che seguono, si ha una sorta di “incrocio” tra la terminologia veterotestamentaria riguardante puro e impuro e quella corrente nel linguaggio delle religioni misteriche. Il più importante precedente nell’applicazione massiccia del linguaggio misterico ai «misteri» cristiani da parte di Origene è costituito, come è noto, da Clemente di Alessandria14. a) CCIII,59. Celso (fr. III,59 B.) aveva istituito un confronto tra i «misteri» della religione greco-romana e quelli dei cristiani: Infatti, quelli che invitano alle altre iniziazioni prima proclamano: “Chiunque ha mani pure (καθαρός) e voce perspicace”, e altri ancora: “Chiunque sia mondo (ἁγνός) da ogni impurità, la cui anima non sia conscia di male alcuno e chi sia vissuto bene e giustamente”. Questo proclamano prima quelli che promettono la purificazione dei peccati (καθάρσια ἁμαρτημάτων).
διαφόρους καὶ εἴτ᾽ἀπὸ τοῦ θείου μαθὼν τὰ περὶ αὐτῶν καὶ τῶν ἑκάστῳ ζῴῳ συγγενῶν δαιμόνων εἴτε καὶ αὐτὸς ἀναβαίνων τῇ σοφίᾳ εὑρών, ἐν τῇ περὶ ζῴων διατάξει πάντα μὲν ἀκάθαρτα ἔφησεν εἶναι τὰ νομιζόμενα παρ᾽Αἰγυπτίοις καὶ τοῖς λοιποῖς τῶν ἀνθρώπων εἶναι μαντικά, ὡς ἐπίπαν δὲ εἶναι καθαρὰ τὰ μὴ τοιαῦτα. 13 CC V,46 (50,11-15; tr. cit., 411): Ταῦτα δὴ καὶ τὰ τούτοις ἀνάλογον ἀπόρρητα ἐπιστάμενοι Μωϋσῆς καὶ οἱ προφῆται ἀπαγορεύουσιν “ὄνομα θεῶν ἑτέρων” ὀνομάζειν ἐν στόματι, μελετήσαντι τῷ ἐπὶ πᾶσι μόνῳ εὔχεσθαι θεῷ, καὶ ἀναμνημονεύειν ἐν καρδίᾳ, διδασκομένῃ καθαρεύειν ἀπὸ πάσης ματαιότητος νοημάτων καὶ λέξεων. 14 Sull’argomento, cf. Clem. Alex. Protr. 12, 120, 1-2, ed. C. MONDÉSERT 19492 (SCh 2), 189-190; inoltre, 33 e n. 1.
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Origene risponde delineando quelli che sono i tratti della iniziazione cristiana: non appena poi i progrediti (οἱ προκόπτοντες) tra quelli che sono stati precedentemente esortati rivelano di essere stati purificati (κεκαθάρθαι) dal Logos e, per quanto possibile, di aver vissuto meglio, allora noi li chiamiamo alla nostra iniziazione: “Perché noi parliamo di saggezza fra perfetti” (cf. 1 Cor 2,6)15.
b) CC III,60. Sulla stessa linea, proseguendo nell’argomentazione contro il passo celsiano sopra citato, Origene approfondisce in che cosa consista l’iniziazione cristiana: Chiunque ha mani pure (χεῖρας καθαρός) e per questo motivo innalza a Dio “delle mani sante” (χεῖρας ὁσίους) … venga da noi. […] Il maestro degli insegnamenti dell’immortalità, chiunque sia mondo non solo da ogni bruttura, ma anche dai peccati considerati minori, con coraggio sia iniziato ai misteri della religione di Gesù, trasmessi con buona ragione soltanto ai puri e ai santi (θαρρῶν μυείσθω τὰ μόνοις ἁγίοις καὶ καθαροῖς εὐλόγως παραδιδόμενα μυστήρια τῆς κατὰ Ἰησοῦν θεοσεβείας)16. […] Invece, colui che, secondo Gesù, conduce gli iniziati a Dio, dirà a coloro che sono stati purificati nell’anima (ὁ δὲ κατὰ τὸν Ἰησοῦν μυσταγωγῶν τῷ θεῷ τοῖς κεκαθαρμένοις τὴν ψυχὴν ἐρεῖ): “Quello la cui anima non conosce il male da molto tempo e soprattutto dal momento in cui si è avvicinato alla cura della dottrina cristiana, ascolti anche ciò che è stato espresso in privato da Gesù ai suoi veri discepoli”. Pertanto, egli (scil. Celso), mettendo a confronto i Greci che iniziano ai misteri e i maestri delle dottrine di Gesù, non ha compreso la distinzione fra i malvagi, che vengono chiamati alla guarigione, e quelli ormai puri, chiamati invece alle dottrine più mistiche17. CC III,59 (253,21-29; tr. cit., 270): Εἶτα μετὰ ταῦτα αἰσθόμενος ἑαυτοῦ ὁ Κέλσος πικρότερον ἡμῖν λοιδορησαμένου ὡσπερεὶ ἀπολογούμενος τοιαῦτά φησιν· Ὅτι δὲ οὐδὲν πικρότερον ἐπαιτιῶμαι ἢ ἐφ᾽ ὅσον ἡ ἀλήθεια βιάζεται, τεκμαιρέσθω καὶ τοῖσδέ τις. Οἱ μὲν γὰρ εἰς τὰς ἄλλας τελετὰς καλοῦντες προκηρύττουσι τάδε· ὅστις χεῖρας καθαρὸς καὶ φωνὴν συνετός, καὶ αὖθις ἕτεροι· ὅστις ἁγνὸς ἀπὸ παντὸς μύσους, καὶ ὅτῳ ἡ ψυχὴ οὐδὲν σύνοιδε κακόν, καὶ ὅτῳ εὖ καὶ δικαίως βεβίωται. Καὶ ταῦτα προκηρύττουσιν οἱ καθάρσια ἁμαρτημάτων ὑπισχνούμενοι. 16 Sull’iniziazione cristiana e il battesimo, cf. G. AF HÄLLSTRÖM 2011, II, 989-1010. 17 CCIII,60 (254,16-255,8; tr. cit., 270-271): Καὶ διδάσκοντες “ὅτι εἰς κακότεχνον ψυχὴν οὐκ εἰσελεύσεται σοφία οὐδὲ κατοικήσει ἐν σώματι κατάχρεῳ ἁμαρτίας” φαμέν· ὅστις χεῖρας καθαρὸς καὶ διὰ τοῦτ᾽ ἐπαίρων “χεῖρας ὁσίους” τῷ θεῷ καὶ παρὰ τὸ διηρμένα καὶ οὐράνια ἐπιτελεῖν δύναται λέγειν· “Ἔπαρσις τῶν χειρῶν μου θυσία ἑσπερινή”, ἡκέτω πρὸς ἡμᾶς· καὶ ὅστις φωνὴν συνετὸς τῷ μελετᾶν τὸν νόμον κυρίου “ἡμέρας καὶ νυκτὸς” καὶ τῷ “διὰ τὴν ἕξιν τὰ αἰσθητήρια γεγυμ νασμένα” ἐσχηκέναι “πρὸς διάκρισιν καλοῦ τε καὶ κακοῦ” μὴ ὀκνείτω προσιέναι στερεαῖς λογικαῖς τροφαῖς καὶ ἁρμοζούσαις ἀθληταῖς εὐσεβείας καὶ πάσης ἀρετῆς. Ἐπεὶ δὲ καὶ “ἡ χάρις” τοῦ θεοῦ ἐστι “μετὰ πάντων τῶν ἐν ἀφθαρσίᾳ ἀγαπώντων” τὸν διδάσκαλον τῶν τῆς ἀθανασίας μαθημάτων, ὅστις 15
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c) CCVII,3. Celso aveva stigmatizzato (cf. fr. VII,3 B.) il fatto che i cristiani non dessero valore alcuno alle predizioni oracolari della religione greco-romana, ritenendo essi invece «meravigliose e inimitabili» «le cose dette o non dette alla loro maniera dagli abitanti della Giudea e come sono abituati ancora adesso a fare quelli che vivono in Fenicia e in Palestina». La contestazione origeniana si basa soprattutto sulle modalità in cui tradizionalmente si diceva avvenisse la possessione della Pizia nel culto delfico, considerato il più autorevole: «la profetessa di Apollo riceve uno spirito attraverso le cavità femminili»; Vedi ora – incalza Origene – se da questo non appare il carattere impuro e profano di quello spirito (τὸ τοῦ πνεύματος ἐκείνου ἀκάθαρτον καὶ βέβηλον), che non sopraggiunge nell’animo della profetessa attraverso pori sottili e invisibili, molto più puri degli organi femminili (πολλῷ γυναικείων κόλπων καθαρωτέρων ἐπεισιόν), ma attraverso quegli organi che non sarebbe lecito per l’uomo prudente guardare e, figurarsi, toccare18.
3. DALLA «PURITÀ» ALLA «PUREZZA» E ALLA «PURIFICAZIONE» a) CC VII,48. In due passi (fr. VII,42; VII,45 B.) Celso, prendendo le mosse da un famoso brano platonico (Tim. 28c)19, aveva dubitato ἁγνὸς οὐ μόνον ἀπὸ παντὸς μύσους ἀλλὰ καὶ τῶν ἐλαττόνων εἶναι νομιζομένων ἁμαρτημάτων, θαρρῶν μυείσθω τὰ μόνοις ἁγίοις καὶ καθαροῖς εὐλόγως παραδιδόμενα μυστήρια τῆς κατὰ Ἰησοῦν θεοσεβείας. Ὁ μὲν οὖν Κέλσου μύστης φησίν· ὅτῳ οὐδὲν ἡ ψυχὴ σύνοιδε κακόν, ἡκέτω· ὁ δὲ κατὰ τὸν Ἰησοῦν μυσταγωγῶν τῷ θεῷ τοῖς κεκαθαρμένοις τὴν ψυχὴν ἐρεῖ· ὅτῳ πολλῷ χρόνῳ ἡ ψυχὴ οὐδὲν σύνοιδε κακόν, καὶ μάλιστα ἀφ᾽ οὗ προσελήλυθε τῇ τοῦ λόγου θεραπείᾳ, οὗτος καὶ τῶν κατ᾽ ἰδίαν λελαλημένων ὑπὸ τοῦ Ἰησοῦ τοῖς γνησίοις μαθηταῖς ἀκουέτω. Οὐκοῦν καὶ ἐν οἷς ἀντιπαρατίθησι τὰ τῶν μυούντων ἐν Ἕλλησι τοῖς διδάσκουσι τὰ τοῦ Ἰησοῦ οὐκ οἶδε διαφορὰν καλουμένων ἐπὶ μὲν θεραπείαν φαύλων ἐπὶ δὲ τὰ μυστικώτερα τῶν ἤδη καθαρωτάτων. 18 CCVII,3 (155,12-23; tr. cit., 506-507): Ἱστόρηται τοίνυν περὶ τῆς Πυθίας, ὅπερ δοκεῖ τῶν ἄλλων μαντείων λαμπρότερον τυγχάνειν, ὅτι περικαθεζομένη τὸ τῆς Κασταλίας στόμιον ἡ τοῦ Ἀπόλλωνος προφῆτις δέχεται πνεῦμα διὰ τῶν γυναικείων κόλπων· οὗ πληρωθεῖσα ἀποφθέγγεται τὰ νομιζόμενα εἶναι σεμνὰ καὶ θεῖα μαντεύματα. Ὅρα δὴ διὰ τούτων εἰ μὴ τὸ τοῦ πνεύματος ἐκείνου ἀκάθαρτον καὶ βέβηλον ἐμφαίνεται, μὴ διὰ μανῶν καὶ ἀφανῶν πόρων καὶ πολλῷ γυναικείων κόλπων καθαρωτέρων ἐπεισιὸν τῇ ψυχῇ τῆς θεσπιζούσης ἀλλὰ διὰ τούτων, ἃ οὐδὲ θέμις ἦν τῷ σώφρονι καὶ ἀνθρώπῳ βλέπειν, οὔπω λέγω ὅτι καὶ ἅπτεσθαι· καὶ τοῦτο ποιεῖν οὐχ ἅπαξ που οὐδὲ δίς – ἴσως γὰρ ἔδοξεν ἀνεκτότερον τὸ τοιοῦτο τυγχάνειν –, ἀλλὰ τοσαυτάκις, ὁσάκις προφητεύειν ἐκείνη ἀπὸ τοῦ Ἀπόλλωνος πεπίστευται. 19 CC VII,42 (192,25-26; tr. cit., 539): “Τὸν μὲν οὖν ποιητὴν καὶ πατέρα τοῦδε τοῦ παντὸς εὑρεῖν τε ἔργον καὶ εὑρόντα εἰς πάντας ἀδύνατον λέγειν” (cf. Platone, Timeo 28c: si tratta di uno dei passi platonici più frequentemente citati e commentati nella letteratura cristiana dei primi secoli).
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della capacità, da parte dei cristiani, di attingere alle profondità delle dottrine filosofiche, accusandoli fra l’altro di essere «completamente azzoppati e mutilati nell’anima, vivendo per il corpo, cioè per una cosa morta» (CC VII,45). Origene così controbatte (CCVII,46): Quelli che … hanno appreso dal Logos divino, e lo mettono in pratica, a benedire “quando sono insultati”, a sopportare, “quando sono perseguitati”, a confortare, “quando sono calunniati” (cf. 1 Cor 4,12), sarebbero coloro che hanno raddrizzato il cammino dell’anima, purificato (καθαίροντες) e preparato l’intera anima20.
E così prosegue (CCVII,48): Invece, quelli che sono disprezzati da costoro per la loro ignoranza e sono detti sciocchi e schiavi … a tal punto sono privi di insolenza, di impurità (ἀκαθαρσίας) e di ogni indecenza nelle unioni sessuali che, proprio alla maniera dei sacerdoti perfetti che hanno abbandonato ogni unione sessuale, molti di loro sono completamente puri (παντελῶς καθαρεύειν) … »21; Ma anche in quei cristiani che, per molta ignoranza o per semplicità o anche per mancanza di uomini che li abbiano esortati alla devozione razionale, non approfondiscono queste dottrine, ma credono in Dio al di sopra di tutte le cose e al suo Figlio unigenito, Logos e Dio, si potrebbero trovare un decoro, una purezza (καθαρότητος), una schiettezza di carattere e una semplicità spesso migliore (CCVII,49)22.
20 CC VII,46 (198,2-12; tr. cit., 544-545): Οἱ δὲ πρὸς ἑτέροις μαθόντες ἀπὸ τοῦ θείου λόγου καὶ ποιοῦντες καὶ τὸ “λοιδορούμενοι” εὐλογεῖν, “διωκόμενοι” ἀνέχεσθαι, “δυσφημούμε νοι” παρακαλεῖν, οὗτοι ἂν εἶεν οἱ τὰς τῆς ψυχῆς βάσεις ὀρθώσαντες καὶ ὅλην τὴν ψυχὴν καθαίροντες καὶ εὐτρεπί ζοντες· οὐχ ἵνα λέξεσι μόναις οὐσίαν ἀπὸ γενέσεως χωρίζωσι καὶ νοητὸν ἀπὸ ὁρατοῦ, καὶ τὴν μὲν ἀλήθειαν τῇ οὐσίᾳ συνάπτωσι τὴν δὲ μετὰ γενέσεως πλάνην παντὶ τρόπῳ φεύγωσι, σκοποῦντες, ὡς ἔμαθον, οὐ τὰ γενέσεως, ἅπερ ἐστὶ “βλεπόμενα” καὶ διὰ τοῦτο “πρόσκαιρα”, ἀλλὰ τὰ κρείττονα, εἴτ᾽ οὐσίαν αὐτά τις βούλεται καλεῖν εἴτε διὰ τὸ νοητὰ τυγχάνειν “ἀόρατα” εἴτε διὰ τὸ ἔξω αἰσθήσεως εἶναι αὐτῶν τὴν φύσιν “μὴ βλεπόμενα”. 21 CC VII,48 (199,12-17; tr. cit., 546): Οἱ δ᾽ὑπ᾽αὐτῶν ἐπὶ ἰδιωτείᾳ ἐξουθενούμενοι καὶ μωροὶ καὶ ἀνδράποδα εἶναι λεγόμενοι, κἂν μόνον πιστεύωσιν ἑαυτοὺς τῷ θεῷ, παραδεξάμενοι τὴν τοῦ Ἰησοῦ διδασκαλίαν τοσοῦτον ἀποδέουσιν ἀσελγείας καὶ ἀκαθαρσίας καὶ πάσης τῆς ἐν συνουσίαις ἀσχημοσύνης, ὡς καὶ τρόπον τελείων ἱερέων, πᾶσαν συνουσίαν ἀποστραφέντων, πολλοὺς αὐτῶν παντελῶς καθαρεύειν […]. 22 CCVII,49 (200,10-18; tr. cit., 546-547): Ἀλλὰ καὶ παρ᾽ οἷς εἴτε διὰ πολλὴν ἰδιωτείαν εἴτε δι᾽ ἁπλότητα εἴτε καὶ δι᾽ἀπορίαν τῶν προτρεψάντων ἐπὶ τὴν λογικὴν εὐσέβειαν ταῦτα μὲν οὐ τετράνωται θεὸς δὲ ὁ ἐπὶ πᾶσι πιστεύεται καὶ ὁ τούτου “μονογενὴς υἱὸς” λόγος καὶ θεός, εὑρεθείη ἄν ‹τι› σεμνότητος καὶ καθαρότητος καὶ ἤθους ἀφέλεια καὶ ἁπλότης πολλάκις κρείττων, ἣν οἱ “φάσκοντες εἶναι σοφοὶ” μὴ ἀνειληφότες ἐγκαλινδοῦνται μετὰ παίδων ἐν οἷς οὐ θέμις, “ἄρρενες ἐν ἄρρεσι τὴν ἀσχημοσύνην κατεργαζόμενοι”.
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b) In un gruppo di testi, tutti presenti nel libro IV dell’opera, s’insiste a più riprese sul tema del diluvio universale. 1. CC IV,11. Punto di partenza è un passo di Celso (fr. IV,11 B.), ove il filosofo accusava giudei e cristiani di «aver frainteso ciò che è stato detto fra i Greci o fra i barbari su queste cose»23, cioè sul diluvio e la conflagrazione. Come è noto, la tesi celsiana è che il racconto biblico del diluvio sia stato tratto di peso dalla teoria stoica dei cicli cosmici, interrotti e rinnovati da periodiche conflagrazioni. Ne consegue la risposta di Origene (CC IV,12): Noi … non attribuiamo né diluvio né conflagrazione a cicli e a periodici ritorni di astri, ma affermiamo che la causa di queste cose è il male che si spande grandemente e viene purificato con un diluvio o con una conflagrazione (καθαιρομένην κατακλυσμῷ ἢ ἐκπυρώσει)24.
2. CC IV,62. Successivamente, riferendosi a un altro testo di Celso (fr. IV,62 B), Origene gli contesta d’aver parafrasato pedissequamente un passo platonico (Teeteto 176a), e vi oppone un’altra citazione da Platone, questa volta dal Timeo (22d): “Quando gli dèi purificano la terra con l’acqua (Ὅταν δ᾽οἱ θεοὶ τὴν γῆν ὕδατι καθαίρωσι)” ha rivelato che la terra, purificata (καθαιρομένη) con le acque, possiede un numero minore di mali rispetto al periodo precedente la purificazione (πρὸ τοῦ καθαίρεσθαι).
3. CCIV,64. E la dottrina sull’esistenza dei mali – prosegue Origene –, necessaria per quelli che vogliono studiare, per quanto possibile, ogni cosa, è che essi non rimangono sempre al medesimo livello, grazie alla provvidenza che preserva le cose in terra oppure le purifica (καθαίρουσαν) con diluvi e conflagrazioni, e forse non solo le cose in terra, ma anche quelle del mondo intero, che ha bisogno di purificazione (καθαρσίου) allorché la malvagità in esso è diventata eccessiva.
4. CC IV,69. Infine, Origene si riallaccia a un ultimo testo di Celso (fr. IV,69 B.): «non “come un uomo che ha creato qualcosa in maniera difettosa e senz’arte Dio introduce una correzione nel mondo, 23 CCIV,11 (281,13-16; tr. cit., 294): Μετὰ ταῦτα βουλόμενος ἡμᾶς παραδεῖξαι μηδὲν παράδοξον μηδὲ καινὸν λέγειν περὶ κατακλυσμοῦ ἢ ἐκπυρώσεως, ἀλλὰ καὶ παρακούσαντας τῶν παρ᾽ Ἕλλησιν ἢ βαρβάροις περὶ τούτων λεγομένων ταῖς ἡμετέραις πεπιστευκέναι περὶ αὐτῶν γραφαῖς. 24 CC IV,12 (282,15-18; tr. cit., 295): Ἡμεῖς δὲ οὔτε τὸν κατακλυσμὸν οὔτε τὴν ἐκπύρωσιν κύκλοις καὶ ἀστέρων περιόδοις ἀνατίθεμεν, ἀλλὰ τὴν τούτων αἰτίαν φαμὲν εἶναι κακίαν ἐπὶ πλεῖον χεομένην καὶ καθαιρομένην κατακλυσμῷ ἢ ἐκπυρώσει.
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purificandolo (καθαίρων) con un diluvio o con una conflagrazione”», e così prosegue: «ma impedisce che l’effusione del male si diffonda di più, e io credo anche che la cancelli completamente con ordine, in maniera vantaggiosa per il tutto». Si tratta di una serie di testi di grande importanza, in cui il tema della «purificazione» attraverso le catastrofi naturali si connette strettamente con un problema di ordine più generale, spesso trattato da Origene: quello della provvidenza e del libero arbitrio25. c) Alcuni testi trattano del problema della «purezza» per quanto attiene generalmente ai costumi, e in particolare a quelli sessuali. 1. CCV,27: in diretto riferimento a un passo celsiano (fr. V,25 B.), Origene, sulla base di notizie provenienti, probabilmente, da fonti letterarie ed etnografiche26, si chiede: E (scil.: Celso) ci dica se, per dire, sono giuste le leggi degli Sciti riguardanti l’uccisione dei padri, o quelle dei Persiani, che non impediscono che le madri si sposino con i propri figli, né che le figlie siano sposate dai loro padri. […] Ma Celso ci dica in che senso sarebbe empio trasgredire le leggi patrie riguardanti la possibilità di sposare madri e figlie o il fatto che è beato chi esce dalla vita per impiccagione, o che sono completamente purificati (καθαίρεσθαι) quelli che si consegnano al fuoco e alla dipartita dalla vita attraverso il fuoco27.
Vengono qui stigmatizzate forme di «purificazione» ritenute del tutto perverse. 2. CCI,26: dal momento in cui (scil.: i cristiani) hanno accolto questa dottrina, sono diventati più ragionevoli, più nobili e più equilibrati, al punto che alcuni 25 CC IV,69 (338,26-339,2; tr. cit., 345): Ἀλλ᾽ οὐδ᾽ ὡς ἄνθρωπος τεκτηνάμενός τι ἐνδεῶς καὶ ἀτεχνότερον δημιουργήσας ὁ θεὸς προσάγει διόρθωσιν τῷ κόσμῳ, καθαίρων αὐτὸν κατακλυσμῷ ἢ ἐκπυρώσει, ἀλλὰ τὴν χύσιν τῆς κακίας κωλύων ἐπὶ πλεῖον νέμεσθαι, ἐγὼ δ᾽ οἶμαι ὅτι καὶ πάντῃ τεταγμένως αὐτὴν ἀφανίζων συμφερόντως τῷ παντί. A questo problema, più volte affrontato da Origene, è dedicata, come è noto, un’intera sezione del Deprincipiis(III,1), riportata nell’originale greco dalla Philocalia (cf. É. JUNOD [ed.], 1976). 26 Si tratta con ogni probabilità di un repertorio topico: cf. M. BORRET (ed.) 1969, 81; cf. inoltre H. CHADWICK, 1947, 35; ID. (ed.) 19652, 284 n. 3. 27 CC V,27 (27,25-28,9; tr. cit., 395): ἀπαγγειλάτω δὲ ἡμῖν καὶ πῶς ὀρθῶς πράττεται τὰ παρ᾽ ἑκάστοις δρώμενα, ὅπῃ τοῖς ἐπόπταις ἐστὶ φίλον, καὶ εἰ ὀρθῶς ἔχουσι φέρ᾽ εἰπεῖν οἱ Σκυθῶν περὶ ἀναιρέσεως πατέρων νόμοι ἢ οἱ Περσῶν, μὴ κωλύοντες γαμεῖσθαι τοῖς οἰκείοις παισὶ τὰς μητέρας μηδὲ ὑπὸ τῶν πατέρων τὰς ἑαυτῶν θυγατέρας. […] Λεγέτω δ᾽ ἡμῖν ὁ Κέλσος, πῶς οὐχ ὅσιον παραλύειν νόμους πατρίους περὶ τοῦ γαμεῖν μητέρας καὶ θυγατέρας, ἢ περὶ τοῦ μακάριον εἶναι ἀγχόνῃ τὸν βίον ἐξελθεῖν, ἢ πάντως καθαίρεσθαι τοὺς ἑαυτοὺς παραδιδόντας τῷ πυρὶ καὶ τῇ διὰ πυρὸς ἀπαλλαγῇ τῇ ἀπὸ τοῦ βίου.
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tra loro per il desiderio di una purezza superiore e per onorare in maniera più pura la divinità non si accostano ai piaceri d’amore concessi dalla legge28.
Alla base di queste, e di altre affermazioni difensive dello stesso genere vi è la generica accusa di «impurità» rivolta ai cristiani29, a cui Origene direttamente risponde come segue. 3. CCVII,12: non c’è niente di malvagio, di vergognoso, di impuro (ἀκάθαρτον) né di scellerato in quelle parole30, ma che esse diventano tali per coloro che non hanno compreso come si deve accogliere la Scrittura divina31.
Ma, sulla «purezza» dei cristiani, questa volta in relazione alla loro condotta sessuale, Origene ritorna in modo assai più esplicito, controbattendo un passo particolarmente radicale – e malevolo – di Celso32: 4. CC VIII,55: Dio ci ha permesso di prender moglie, in quanto non tutti comprendono il bene essenziale, cioè l’assoluta purezza (τὸ πάντῃ καθαρόν), e a quelli che hanno preso moglie ha permesso di allevare con ogni mezzo i loro nati e ha proibito di uccidere i figli concessi dalla provvidenza33.
I cristiani, insomma, devono essere considerati assolutamente «puri», anche senza ricorrere a umilianti privazioni della loro sessualità. 5. CCVII,48: quelli che sono disprezzati da costoro (scil.: «coloro che affermano di essere saggi»: cf. supra, VII,47) per la loro ignoranza e sono detti sciocchi e schiavi, anche se si affidano soltanto a Dio, dopo aver accolto l’insegnamento di Gesù, a tal punto sono privi di insolenza, di impurità (ἀκαθαρσίας) e di ogni indecenza nelle unioni sessuali che, proprio alla 28 CCI,26 (78,24-28; tr. cit., 114): ἐξ οὗ δὲ παρειλήφασι τὸν λόγον, τίνα τρόπον γεγόνασιν ἐπιεικέστεροι καὶ σεμνότεροι καὶ εὐσταθέστεροι, ὥς τινας αὐτῶν διὰ τὸν ἔρωτα τῆς ὑπερβαλλούσης καθαρότητος καὶ διὰ τὸ καθαρώτερον θρησκεύειν τὸ θεῖον μηδὲ τῶν συγκεχωρημένων ὑπὸ τοῦ νόμου ἅπτεσθαι ἀφροδισίων […]. 29 Cf. Cels. fr. VII,12 B. 30 Il riferimento è, in particolare, alle parole dei profeti biblici. 31 CCVII,12 (164,6-9; tr. cit., 195): Ἐχρῆν δ᾽ αὐτὸν ἀπὸ τῶν προφητῶν τὸ φαινόμενον ἐν αὐτοῖς πονηρὸν ἢ τὸ δοκοῦν αὐτῷ αἰσχρὸν ἢ τὸ νομιζόμενον αὐτῷ ἀκάθαρτον ἢ ὃ ὑπελάμβανεν εἶναι μιαρὸν παραθέσθαι, εἴπερ τοιαῦτα ἔβλεπεν ἐν τοῖς προφήταις εἰρημένα. 32 Cf. fr. VIII,55 B. 33 CCVIII,55 (272,11-14; tr. cit., 608): Ἀλλὰ καὶ ἄγεσθαι γυναῖκα ἐπέτρεψεν ἡμῖν ὁ θεός, ὡς οὐ πάντων χωρούντων τὸ διαφέρον τουτέστι τὸ πάντῃ καθαρόν, καὶ ἀγομένοις γυναῖκας τὰ γεννώμενα πάντως τρέφειν καὶ μὴ ἀναιρεῖν τὰ ὑπὸ τῆς προνοίας διδόμενα τέκνα.
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maniera dei sacerdoti perfetti che hanno abbandonato ogni unione sessuale, molti di loro sono completamente puri (παντελῶς καθαρεύειν), non solo da ogni congiungimento. E c’è, se non erro, fra gli Ateniesi uno ierofante, che, non credendosi capace di essere signore dei propri desideri virili e di dominarli come vuole, ha distrutto con la cicuta le sue parti virili ed è considerato puro (καθαρός) per il culto tradizionale degli Ateniesi34. Fra i cristiani invece è possibile vedere uomini che non hanno avuto bisogno della cicuta, per servire Dio in modo puro (καθαρῶς), ma si accontentano della dottrina, invece della cicuta, per servire Dio con preghiere, dopo avere scacciato ogni desiderio dal loro pensiero35.
4. MALI PRESENTI E CASTIGO FINALE COME FONTI DI PURIFICAZIONE a) CC VI,56: Ma se si afferma che quelli che vengono detti mali corporei ed esterni vengono denominati così in senso improprio, si concederà che talora Dio ha creato alcuni di questi, per convertire attraverso di essi alcuni uomini. […] In questo modo noi spieghiamo anche l’affermazione: “Io sono colui che fa la pace e crea i mali”36. Egli infatti crea i mali corporei o esterni, purificando (καθαίρων) ed educando quelli che non hanno voluto essere educati da una dottrina e da un insegnamento sano. Queste parole sono la risposta alla domanda di Celso37: “Come poté Dio creare il male?”38.
Il complesso dibattito a questo riguardo in realtà nasconde un’altra questione ancora: Celso manifestamente conosce le dottrine 34 Origene sembra avere in mente i rituali dei misteri di Eleusi; per un’ampia discussione del passo, cf. CHADWICK 19652 (supra, n. 26), 436 n. 1. 35 CCVII,48 (199,12-25; tr. cit., 546): Οἱ δ᾽ ὑπ᾽ αὐτῶν ἐπὶ ἰδιωτείᾳ ἐξουθενούμενοι καὶ μωροὶ καὶ ἀνδράποδα εἶναι λεγόμενοι, κἂν μόνον πιστεύωσιν ἑαυτοὺς τῷ θεῷ, παραδεξάμενοι τὴν τοῦ Ἰησοῦ διδασκαλίαν τοσοῦτον ἀποδέουσιν ἀσελγείας καὶ ἀκαθαρσίας καὶ πάσης τῆς ἐν συνουσίαις ἀσχημοσύνης, ὡς καὶ τρόπον τελείων ἱερέων, πᾶσαν συνουσίαν ἀποστραφέντων, πολλοὺς αὐτῶν παντελῶς καθαρεύειν, οὐ μόνον ἀπὸ πάσης μίξεως. Καὶ εἷς μέν που παρ᾽ Ἀθηναίοις ἱεροφάντης, οὐδὲ πιστευόμενος ἑαυτοῦ τὰς ἀρσενικὰς ὀρέξεις ὡς κύριος αὐτῶν εἶναι δυνάμενος καὶ κρατεῖν αὐτῶν ἐς ὅσον βούλεται, κωνειασθεὶς τὰ ἄρσενα μέρη καθαρὸς εἶναι νομίζεται πρὸς τὴν νενομισμένην παρ᾽ Ἀθηναίοις ἁγιστείαν· ἔστι δ᾽ ἐν Χριστιανοῖς ἰδεῖν ἄνδρας μὴ δεηθέντας κωνείου, ἵνα τὸ θεῖον καθαρῶς θεραπεύσωσιν, ἀλλ᾽ ἀρκουμένους λόγῳ ἀντὶ κωνείου, ὡς πᾶσαν ἐπιθυμίαν ἀπὸ τῆς διανοίας αὐτῶν ἐξελάσαντες τὸ θεῖον εὐχαῖς θεραπεύωσι. 36 Is 45,7. 37 Fr. 52d B. (pp. 167-168). 38 CCVI,56 (126,32-127,9; tr. cit., 481): Εἰ δὲ τὰ καταχρηστικῶς οὕτως ὀνομαζόμενα λεγόμενα σωματικὰ κακὰ καὶ ἐκτός τίς φησι, δεδόσθω ἔσθ᾽ ὅτε τούτων τινὰ πεποιηκέναι τὸν θεόν, ἵνα διὰ τούτων ἐπιστρέψῃ τινάς. […] Τοῦτον δὲ τὸν τρόπον καὶ τὸ “ὁ ποιῶν εἰρήνην καὶ κτίζων κακὰ” διηγούμεθα· κτίζει γὰρ τὰ σωματικὰ ἢ τὰ ἐκτὸς κακά, καθαίρων καὶ παιδεύων τοὺς μὴ βουληθέντας παιδευθῆναι λόγῳ καὶ διδασκαλίᾳ ὑγιεῖ. Καὶ ταῦτα μὲν εἰς τό· πῶς μὲν ὁ θεὸς κακὰ ἐποίει;
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marcionite39, e può attribuire così al ‘Demiurgo’, in quanto Dio, la creazione del male. b) CCV,15: (Celso) non ha compreso che, come è sembrato ad alcuni Greci, che forse lo hanno ricavato dall’antichissimo popolo degli Ebrei, il fuoco purificatore viene recato nel mondo, verosimilmente per ciascuno di quelli che hanno bisogno di giudizio e di guarigione insieme attraverso il fuoco40.
E, subito dopo: c) CC V,16: la Scrittura afferma che rimangono senza provare il fuoco e le punizioni solo quelli che sono sommamente purificati (κεκαθαρμένους) nelle dottrine, nei costumi e nella mente. Quelli che non sono tali, invece, e hanno bisogno, secondo il merito, della dispensazione di punizioni attraverso il fuoco, la Scrittura dice che si troveranno in queste punizioni fino a un certo termine, quello che conviene a Dio arrecare a quelli fatti “a sua immagine”41 che hanno vissuto contrariamente alla natura “secondo l’immagine”. Queste parole costituiscono la risposta all’affermazione: “Tutto il resto della stirpe degli uomini sarà arrostito, mentre soltanto loro rimarranno”42.
Il testo origeniano riprende, confutandolo, un passo celsiano43 in cui, con sprezzante ironia, il filosofo derideva la fede nella resurrezione da parte dei cristiani e la speranza di salvezza al momento del giudizio finale e del relativo castigo, a cui – egli diceva – erano convinti di potersi sottrarre «soltanto loro». Il «fuoco» purificatore veniva ridotto da Celso a una sorta di «arrosto» finale, in cui Dio faceva la parte del «cuoco». Tale attacco non poteva certo lasciare Su Celso e Marcione, cf. A. VON HARNACK 19242, 325*-327*. CCV,15 (16,5-8; tr. cit., 385): οὐ συνιδὼν ὅτι, ὥσπερ Ἑλλήνων τισὶν ἔδοξε – τάχα παρὰ τοῦ ἀρχαιοτάτου ἔθνους Ἑβραίων λαβοῦσι –, τὸ πῦρ καθάρσιον ἐπάγεται τῷ κόσμῳ, εἰκὸς δ᾽ ὅτι καὶ ἑκάστῳ τῶν δεομένων τῆς διὰ τοῦ πυρὸς δίκης ἅμα καὶ ἰατρείας […]. 41 Cf. Gen 1,26. 42 CCV,16 (17,27-18,5; tr. cit., 386): Ὁ λόγος οὖν μόνους μὲν ἀγεύστους τοῦ πυρὸς καὶ τῶν κολάσεών φησι διαμενεῖν τοὺς τὰ δόγματα καὶ τὰ ἤθη καὶ τὸ ἡγεμονικὸν ἄκρως κεκαθαρμένους· τοὺς δὲ μὴ τοιούτους, κατὰ τὴν ἀξίαν χρῄζοντας τῆς διὰ πυρὸς κολάσεων οἰκονομίας, ἐν τούτοις ἐπί τινι τέλει φησὶν ἔσεσθαι, ὃ τῷ θεῷ ἁρμόζει ἐπάγειν τοῖς “κατ᾽ εἰκόνα” αὐτοῦ πεποιημένοις καὶ παρὰ τὸ βούλημα τῆς “κατ᾽ εἰκόνα” φύσεως βεβιωκόσι. Καὶ ταῦτα δὲ πρὸς τό· Τὸ μὲν ἄλλο πᾶν ἐξοπτήσεσθαι γένος, αὐτοὺς δὲ μόνους διαμενεῖν. 43 Cf. CC V,14 (15,1-6; tr. cit., 384), fr. V,14 B.: Λέγει οὖν ταῦτα· Ἠλίθιον δ᾽ αὐτῶν καὶ τὸ νομίζειν, ἐπειδὰν ὁ θεὸς ὥσπερ μάγειρος ἐπενέγκῃ τὸ πῦρ, τὸ μὲν ἄλλο πᾶν ἐξοπτήσεσθαι γένος, αὐτοὺς δὲ μόνους διαμενεῖν, οὐ μόνον τοὺς ζῶντας ἀλλὰ καὶ τοὺς πάλαι ποτὲ ἀποθανόντας αὐταῖς σαρξὶν ἐκείναις ἀπὸ τῆς γῆς ἀναδύντας, ἀτεχνῶς σκωλήκων ἡ ἐλπίς. 39 40
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insensibile Origene, riguardando esso una delle tematiche a lui più care e, nello stesso tempo, più controverse, nonché determinanti la damnatio memoriae da lui subìta a partire dal IV secolo: la sorte dell’uomo al momento del giudizio44. Basti dire, in questa sede, che il «fuoco» divino è da lui interpretato non come potenza distruttrice, ma purificatrice45. 5. LA PUREZZA DI CRISTO a) CC II,40-41 (cf. fr. II,41 B.): argomento in questione è se Gesù si sia conservato puro dai mali. Origene contesta un passo (che sfortunatamente però non riporta) in cui Celso sosteneva «che la superiorità di Gesù sugli uomini non consisteva in una dottrina di salvezza e in un comportamento puro, ma nell’agire in maniera contraria al carattere della persona che aveva assunto»46. Inoltre, accusava Gesù, per mezzo del personaggio del Giudeo, perché «non si è conservato puro da tutti i mali»47. Nella replica, l’Alessandrino distingue fra male operato e male subìto: l’erudito Giudeo di Celso ci dica: da quali mali Gesù non si è conservato puro? Se infatti egli dice che Gesù non si è conservato puro dai mali in senso proprio, mostri con evidenza un atto di malvagità presente in Lui. Se invece considera dei mali la povertà, la croce e l’insidia derivante dagli uomini malvagi, è chiaro che egli afferma che sono avvenuti dei mali anche a Socrate, che non è stato capace di mostrarsi puro dai mali48.
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Il tema s’intreccia, ovviamente, con quello della ‘apocatastasi’, cioè della ‘restaurazione’ finale, uno dei principali capi d’accusa dottrinali che vennero sostenuti a carico di Origene; al riguardo, cf. H. CROUZEL 1987, 282-290. 45 Cf. per es. PrinI,1,2 e, soprattutto, H38Ps1,7; HIerXX,8; sull’argomento, si vedano E. PRINZIVALLI 2000, 177-181; EAD., 208-209, con ulteriori rimandi bibliografici. 46 CCII,40 (164,11-13; tr. cit., 195): Καὶ ἀφιλόσοφον δέ τι παθὼν ὁ Κέλσος τὴν ἐν ἀνθρώποις ὑπεροχὴν οὐκ ἐν λόγῳ σωτηρίῳ καὶ ἤθει καθαρῷ φαντάζεται εἶναι, ἀλλὰ ἐν τῷ παρὰ τὴν ὑπόθεσιν οὗ ἀνείληφε προσώπου ποιῆσαι […]. 47 CC II,41 (164,23-25; tr. cit., 195): Ἔτι δ᾽ ἐγκαλεῖ τῷ Ἰησοῦ ὁ Κέλσος διὰ τοῦ ἰουδαϊκοῦ προσώπου, ὡς μὴ δείξαντι ἑαυτὸν πάντων δὴ κακῶν καθαρεύοντα. Cf. Celso, fr. II,41 B. (ibid.). 48 Ibid. (164,25-31; tr. cit., 195): Ποίων δὴ κακῶν, λεγέτω ὁ Κέλσου λόγιος, οὐκ ἔδειξεν ἑαυτὸν καθαρεύοντα ὁ Ἰησοῦς; Εἰ μὲν γὰρ τῶν κυρίως κακῶν λέγει αὐτὸν μὴ κεκαθαρευκέναι, παραστησάτω ἐναργῶς κακίας ἔργον ἐν αὐτῷ· εἰ δὲ κακὰ νομίζει πενίαν καὶ σταυρὸν καὶ τὴν ἀπὸ τῶν ἀτόπων ἀνθρώπων ἐπιβουλήν, δῆλον ὅτι καὶ Σωκράτει φησὶ κακὰ συμβεβηκέναι, μὴ δυνηθέντι ἑαυτὸν ἀποδεῖξαι καθαρὸν ἀπὸ τῶν κακῶν.
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b) Lo stesso tema viene ripreso in CC VIII,19. Origene parte da una discussione, che occupa il precedente contesto (CC VIII,17-18), riguardante gli edifici sacri, rigettando l’accusa di Celso e dei suoi seguaci, secondo cui i cristiani evitano «di costruire altari, statue e templi», nella convinzione che «questo sia il segno convenuto della nostra associazione segreta e misteriosa»49. Al contrario, ribadisce l’Alessandrino, noi non ci rifiutiamo di edificare quei templi che sono appropriati alle statue e agli altari di cui abbiamo parlato, e ci rifiutiamo invece di costruire templi inanimati e morti per l’autore di ogni vita»; «ma il corpo santo e puro (καθαρόν) del nostro Salvatore Gesù era migliore e più eccellente di tutti quelli che sono ritenuti templi50.
6. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE Nel corso di questa breve ricerca – che, nella grande quantità di passi ove i lemmi compaiono, si è limitata a mettere in evidenza solo quelli che sono apparsi di maggior rilievo – si è cercato di mettere in luce come, all’interno della vasta e varia congerie delle opere origeniane giunte fino a noi, καθαρός e corradicali riflettano una notevole varietà di usi e di relative sfumature semantiche, legate ai diversi contesti in cui i lemmi sono inseriti. Ciò non stupisce di certo, trattandosi di una terminologia di grande rilievo, in riferimento tanto alla cultura religiosa del giudaismo, quanto a quella ellenistico-romana. Questi, infatti, sono i due poli principali intorno ai quali ruota la discussione – avvenuta aposteriori, come si è detto – riguardante le opinioni a suo tempo formulate da Celso a proposito dei cristiani; 49 CC VIII,17 (234,15-17; tr. cit., 576): Μετὰ ταῦτα δὲ ὁ Κέλσος φησὶν ἡμᾶς βωμοὺς καὶ ἀγάλματα καὶ νεὼς ἱδρύεσθαι φεύγειν, ἐπεὶ τὸ πιστὸν ἡμῖν ἀφανοῦς καὶ ἀπορρήτου κοινωνίας οἴεται εἶναι σύνθημα. Cf. Cels. fr. VIII,17 B. 50 CCVIII,19 passim (236,14-28; tr. cit., 578): Εἰ δὲ καὶ ναοὺς ναοῖς δεῖ παραβαλεῖν, ἵνα παραστή σωμεν τοῖς ἀποδεχομένοις τὰ Κέλσου ὅτι νεὼς μὲν ἱδρύεσθαι τοὺς πρέποντας τοῖς εἰρημένοις ἀγάλμασι καὶ βωμοῖς οὐ φεύγομεν, ἐκτρεπόμεθα δὲ τῷ πάσης ζωῆς χορηγῷ ἀψύχους καὶ νεκροὺς οἰκοδομεῖν νεώς· ἀκουέτω ὁ βουλόμενος, τίνα τρόπον διδασκόμεθα ὅτι τὰ σώματα ἡμῶν “ναὸς τοῦ θεοῦ” ἐστι, καὶ “εἴ τις” διὰ τῆς ἀκολασίας ἢ τῆς ἁμαρτίας “φθείρει” “τὸν ναὸν τοῦ θεοῦ”, οὗτος ὡς ἀληθῶς ἀσεβὴς εἰς τὸν ἀληθῆ ναὸν φθαρήσεται. Πάντων δὲ τῶν οὕτως ὀνομαζομένων ναῶν κρείττων ἦν καὶ διαφέρων νεὼς τὸ ἱερὸν καὶ καθαρὸν σῶμα τοῦ σωτῆρος ἡμῶν Ἰησοῦ, ὅστις ἐπιστάμενος ἐπιβουλεύεσθαι μὲν δύνασθαι ὑπὸ τῶν ἀσεβῶν τὸν ναὸν τοῦ ἐν αὐτῷ θεοῦ, οὐ μὴν ὥστε ἰσχυροτέραν εἶναι τὴν τῶν ἐπιβουλευόντων προαίρεσιν τῆς τὸν νεὼν οἰκοδομούσης θειότητος, φησὶ πρὸς ἐκείνους· “Λύσατε τὸν ναὸν τοῦτον, κἀγὼ ἐν τρισὶν ἡμέραις ἐγερῶ αὐτόν”. Τοῦτο δὲ “ἔλεγε περὶ τοῦ ναοῦ τοῦ σώματος αὐτοῦ”.
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giacché, se è vero che il filosofo spesso coinvolge dottrine e idee religiose tipiche del politeismo greco-romano quale antitesi alla Weltanschauung dei cristiani, è altrettanto vero che egli non di rado accomuna polemicamente religione giudaica e movimento cristiano, e non manca di indirizzare i propri strali all’uno come all’altro51. Nel complesso, si può affermare che il Contro Celso rappresenta, in tal senso, una sorta di grande laboratorio, in cui idee e concetti religiosi consolidati si mescolano ad altri, ancora, per così dire allo stato fluido; il contributo che quest’opera offre, sotto il profilo storico-religioso e storico-teologico, può certamente dirsi inestimabile.
Sul trattamento del giudaismo in Celso, cf. N. DE LANGE 1976, 63ss.; G. SGHERRI 1982, 13ss.; approfondita discussione in A. LE BOULLUEC (supra, n. 1), 15-19. 51
Καθαρός, καθαίρω in Cirillo Alessandrino Pietro ROSA 1. OCCORRENZE TRA
ESEGESI E DOTTRINA
Καθαρός, καθαίρω, con i termini e i concetti ad essi collegati, ricorrono con frequenza sia nelle opere di esegesi scritturistica sia in quelle di natura prettamente dottrinale e pastorale di Cirillo. Tanto nel primo quanto nel secondo àmbito la loro presenza è connessa a letture messianiche e cristologiche che sviluppano temi caratteristici del pensiero dell’Alessandrino, con particolare riguardo al motivo battesimale: in alcuni precetti mosaici Cirillo individua prefigurazioni del battesimo cristiano, che libera dalla macchia del peccato e restituisce l’uomo ad una condizione di purezza. Spiegando e commentando altre prescrizioni e insegnamenti veterotestamentari Cirillo propone invece interpretazioni morali o di taglio antipagano e antigiudaico, mentre l’analisi di alcuni passaggi giovannei legati ai concetti di purezza e purificazione offre al patriarca lo spunto per affrontare questioni teologiche di cui avverte l’urgenza nel dibattito dottrinario del suo tempo. Interessanti paiono infine alcune osservazioni sul digiuno inteso quale via privilegiata per ottenere la purezza, formulate in contesti omiletici. 2. PREFIGURAZIONI BATTESIMALI Commentando nel Deadorationeetcultuinspirituetveritate(IX) le prescrizioni di Esodo 30 a proposito dell’altare dei profumi (PG 68,623d), e in particolare del rito di espiazione che Aronne deve compiere su di esso una volta all’anno (30,10), bagnando con il sangue del giovenco sacrificato i corni dell’altare (Lv 4,7), Cirillo svela al discepolo Palladio il significato simbolico di questi riti legali. Secondo i moduli tipici della lettura allegorica alessandrina, qui evidenziati dalla presenza di termini caratteristici del lessico esegetico, comunemente impiegato da Cirillo1, la purificazione attraverso il sangue della vittima prefigura 1
Cf. soprattutto A. KERRIGAN 1952, 35; 111; M. SIMONETTI 1987; 1991.
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(προανατυπόω) il sacrificio dell’Emanuele, che ci libera dai peccati attraverso il proprio sangue versato sulla croce, anticipata in figura nei corni dell’altare. La Legge, tuttavia – prosegue Cirillo – mostra anche qui in modo enigmatico (αἰνιγματωδῶς) che una purificazione col solo sangue non è sufficiente a cancellare le colpe, ma che occorre ripulirsi anche con l’acqua, la via più perfetta per una completa purificazione (τελεωτάτη γὰρ ἥδη πρὸς κάθαρσιν ὁδός), se si considera il mistero di Cristo. Tale modalità è anticipata nelle indicazioni relative ad Aronne e ai suoi figli, che prima di accedere all’altare dei sacrifici devono lavarsi mani e piedi (Es 30,18-21) per non morire: si vede qui il τύπος della grazia battesimale, che ci libera dalla sporcizia del cuore e dell’animo. Il fatto inoltre che Aronne e i figli, benché siano santi secondo la Legge, debbano comunque lavarsi mani e piedi prima di accedere all’altare dei sacrifici, mostra chiaramente (καταδηλόω) che anche chi è santo secondo la Legge non lo è presso Dio, cioè – nell’ottica di Cirillo, sulla scia di Eb 10,4 («è impossibile che il sangue dei tori e dei capri tolga i peccati») – i precetti della Legge non sono sufficienti alla purificazione, se ad essi non si aggiunge la forza salvifica del battesimo: mani e piedi lavati significano (ὑποσημαίνω) dunque la purezza e la schiettezza dell’azione; lo stesso Battista, del resto, sebbene insignito di sommi onori chiedeva il battesimo al Salvatore (Mt 3,14). La prescrizione che impone di ripulirsi prima di accedere al SanctaSanctorum, inoltre, contiene un secondo utile insegnamento: avvicinarsi a Dio senza essersi precedentemente purificati (μὴ κεκαθαρμένους), è pericoloso e non resta un atto impunito, come avverte anche Paolo in 1 Cor 11,30-32. Un’altra lettura allegorica che offre lo spunto a Cirillo per presentare la tematica della purificazione battesimale, s’incontra ancora in De adoratione XII (PG 68,833-836), quando il Patriarca spiega ed interpreta le prescrizioni inerenti al sacrificio di lode, a partire da Lv 2,11-12 e 7,11-15: si tratta di passi assai cari a Cirillo, da lui discussi anche altrove, in particolare nel prologo al suo Commentoai Salmi, dove sono oggetto di un’interpretazione in parte diversa2. 2 Per il testo cf. G. MERCATI 1948, per una discussione cf. P. ROSA 2018. L’aspetto più interessante, nel prologo del commento ai salmi, è il fatto che Cirillo rileva la discrepanza fra la prescrizione relativa al sacrificio di salvezza e il divieto di porgere al Signore offerte lievitate, ma la spiega fornendone un’interpretazione allegorica (da lui definita «mistica»), in base alla quale la Legge preannuncia che gli Israeliti, una volta giunti alla fede, sono destinati ad offrire sacrifici di lode al Signore insieme ai gentili.
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Come in quel passo, anche qui Cirillo richiama in parallelo Sal 115,14 e precisa che il sacrificio di lode è definito da Davide «calice di salvezza» (ποτήριον σωτηρίου), per poi aggiungere che anche i cristiani rivolgono spesso la loro lode a Dio riuniti in spirito, in un unico corpo e un’unica anima, nelle assemblee in cui si mescolano senza distinzione quanti sono già purificati dal santo battesimo e i catecumeni, ancora in attesa di purificazione e perciò esclusi dai misteri più sacri e dal sacrificio di Cristo. In tal senso i «pani lievitati» di Lv 7,13 offerti «in sacrificio di salvezza, come lode» sono figura (τύπος) della vita non ancora purificata dal santo battesimo (ζωῆς ... τῆς οὔπω κεκαθαρμένης διὰ τοῦ ἁγίου βαπτίσματος), né ancora del tutto liberata dall’impurità mondana (οὔτε μὴν εἰσάπαν ἀπηλλαγμένης κοσμικῆς ἀκαθαρσίας). Il pane azzimo, invece, rappresenta una vita già purificata in Cristo attraverso la fede, la vita di quanti sono già iniziati e perfetti, di cui Paolo dice «celebriamo dunque la festa non tra lievito vecchio, né in lievito di malizia e perversità, ma con azzimi di purezza e di verità» (1 Cor 5,8). Ulteriore prefigurazione della purificazione battesimale che si ottiene attraverso l’acqua è presente secondo Cirillo in alcune norme relative alla riammissione dei lebbrosi all’interno della comunità, una volta che essi siano guariti. Sempre nel De adoratione (XV = PG 68,984ab) egli avverte infatti che laddove la Legge considera che il lebbroso guarito non sarà considerato puro (καθαρὸν ἔσεσθαι) prima di avere lavato le proprie vesti, si deve cogliere come sia delineato in figura corporea (ὡς ἐν τύποις ἡμῖν τοῖς ἐν αἰσθήσει σωματικῇ) il mistero della purificazione battesimale. In questi passi si vede già ben delineata la ferma convinzione del Patriarca alessandrino in merito alla natura parziale e preparatoria della Legge mosaica, un motivo che torna con regolare insistenza all’interno di tutti i suoi commenti esegetici3. Se ne trova in effetti puntuale conferma quando nel CommentoaIsaia (PG 70,40b) egli affronta l’esegesi di Is 1,16 («Lavatevi, purificatevi») per la quale l’ennesimo richiamo alla prefigurazione (διατυπόω) battesimale contenuta nelle ombre (ὡς ἐν σκιαῖς) della Legge lo spinge a evocare le prescrizioni mosaiche sulla purificazione dei leviti di Lv 8,7-8: confrontate con Eb 9,13-14 («Infatti se il sangue dei capri e dei tori e la cenere di vacca aspersa sui contaminati li santificano, purificandoli Cf. su questo aspetto M. SIMONETTI 1985, 216-226; P. ROSA 1994, 59-62; J.-N. GUINOT 1998a, 49-51; R.L. WILKEN 2003. 3
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nella carne, quanto più il sangue di Cristo [...] purificherà la vostra coscienza dalle opere morte per servire Dio!»), esse mostrano con evidenza come la Legge proponesse semplicemente una σαρκικὴ κάθαρσις attraverso l’acqua di purificazione, mentre Cristo, attraverso il battesimo, ripulisce tutta la sporcizia della nostra anima (πάντα ῥύπον ἡμῶν ψυχικόν). 3. CRISTOLOGIA MESSIANICA La riflessione su purità e impurità spinge Cirillo a riproporre più volte la sua lettura cristologica degli insegnamenti mosaici4. Ciò emerge bene da una serie di testi vetero e neotestamentari accostati tra loro secondo una modalità di marca prettamente alessandrina, frequente nell’esegesi del patriarca: in DeadorationeIII(PG 68,297c) egli muove infatti dalla spiegazione di Is 28,16 («Ecco io pongo in Sion una pietra, una pietra scelta, angolare, preziosa, ben fondata: chi crede non si confonderà»), per identificare questa «pietra» con Cristo, tesoro unico della Chiesa, nostra ricchezza spirituale e perciò chiamato anche «pietra preziosa» (Mt 13,45). Attraverso di sé, infatti, egli ci ha uniti al Padre, dissolvendo l’inimicizia nel suo corpo, come si legge in Ef 2,16. Cristo manifesta in sostanza la volontà di essere una cosa sola col Padre, ma al tempo stesso vuole che chi lo segue sia anch’egli unito ad entrambi loro. Per questo – prosegue Cirillo – il figlio è chiamato κασσιτέρινος λίθος in Zac 4,10 («Si rallegreranno vedendo la pietra di stagno in mano a Zorobabele)» e analogamente in Zac 5,7-8 si parla di un «talento di piombo» (τάλαντον μολίβδου). Secondo Cirillo questi riferimenti allo stagno e al piombo si debbono intendere come richiami alla natura e all’azione di Cristo, in quanto è noto che metalli come l’argento, quando sono impuri, si purificano perfettamente se vengono fusi insieme al piombo, capace, per sua stessa natura, di attrarre a sé le impurità del metallo insieme al quale è stato fuso; è quello che Cristo ha fatto nei nostri confronti: si è unito infatti fisicamente e spiritualmente (σωματικῶς τε ἄμα καὶ πνευματικῶς) a noi che siamo impuri e ha sciolto ogni sporcizia rimasta in noi, cioè ha tolto i nostri peccati per renderci puri e splendidi attraverso di lui (ἵν’ἡμεῖς ... δι’αὐτοῦ καθαροί τε ὦμεν καὶ λελαμπρυσμένοι). Non manca naturalmente, anche in questa lettura Per la cristologia di Cirillo, cf. in particolare M.-O. BOULNOIS 1994; B. MEUNIER 1997; S.A. MCKINION 2000; T.G. WEINANDY 2003. 4
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legata alla simbologia dei metalli e della loro fusione5, una nota polemica antigiudaica, tipica dell’Alessandrino6, quando sostiene che Ger 6,29-30 si lamenta perché i Giudei non hanno accolto la purificazione: «Il mantice sbuffa perché sia liquefatto il piombo; invano fonde il fonditore, le scorie non si staccano. Argento di scarto sono chiamati, perché il Signore li ha rifiutati»: ne conclude Cirillo che la Scrittura non ignora il fatto che senza piombo non si può avere purificazione, e il piombo è Cristo perché ha purificato noi che, come un metallo impuro, siamo impuri, letteralmente «pieni di scorie» (ἐπειδήπερ ἀδοκίμους ὄντας ἡμᾶς ἐξεκάθηρεν ὁ Χριστός). Di particolare interesse per la ricchezza e la molteplicità delle corrispondenze allegoriche appare anche l’interpretazione che Cirillo propone delle norme relative alla guarigione dei lebbrosi e dunque alla loro riammissione nella comunità, commentando Lv 14,1-9 nei suoi Glaphyra (PG 69,557a). Si tratta di un altro passo su cui l’Alessandrino ritorna a più riprese nella sua esegesi veterotestamentaria, con risvolti significativi anche sul piano teologico, in particolare quando illustra la prescrizione che riguarda i due uccelli vivi, uno destinato al sacrificio, l’altro liberato dopo essere stato intinto nel sangue del primo, a simboleggiare la doppia natura di Cristo7, o la spiegazione degli elementi richiesti per il rito di purificazione: il legno di cedro, che prefigura il corpo sacro di Cristo non soggetto a corruzione, l’issopo, anticipazione della forza purificatrice dello Spirito Santo, in quanto erba per sua natura calda e adatta a eliminare le impurità flegmatiche e fredde contenute nelle viscere dei malati, l’acqua viva, “tipo” di quella battesimale, e infine lo scarlatto, prefigurazione del modo (τρόπος) dell’incarnazione, in cui il Verbo è Dio, ma assume corpo mortale, costituito da carne e da sangue. Qui sembra tuttavia più attento ai risvolti morali della lettura allegorica: quando il malato di lebbra era sulla via della guarigione, egli veniva infatti condotto al sacerdote, che lo visitava fuori dall’accampamento, per compiere il rito dei due passeri, si radeva i peli del corpo e quindi rientrava nell’accampamento e infine nella propria casa, dopo esserne rimasto escluso ancora per sette giorni. 5 Come i frequenti riferimenti a pittura e scultura, anche questi richiami alle attività di artefici derivano probabilmente a Cirillo dalla filosofia platonica, cf. ad esempio Resp.601a. 6 Cf. infra§ 5; A. KERRIGAN 1952, 385. 7 Il passo è analizzato e discusso da A. KERRIGAN 1952, 375-376; J.-N. GUINOT 1988b; P. ROSA 1994, 81-83; 169-171.
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Per Cirillo il malato di lebbra in via di guarigione rappresenta noi uomini contaminati (κατασπιλόω) dalla multiforme crudeltà delle malattie e sofferenti per una sorta di lebbra spirituale (καὶ λέπραν ὥσπερ ἠρρωστηκότες τὴν νοητήν), frutto dell’errore di chi adora la creazione anziché il Creatore (Rm 1,25). Siamo invece stati condotti a Cristo, al Figlio, che è sacerdote santo e innocente (Eb 7,26), prefigurato nel sacerdote di Lv 14; la visita al lebbroso all’esterno dell’accampamento è la sua visita a noi, scacciati e in attesa fuori dalla città santa, cioè dalla Chiesa di Dio; dopo averci visitati egli ci ha resi puri attraverso il santo battesimo e il suo corpo (ἀπέφηνε καθαροὺς διὰ τοῦ ἁγίου βαπτίσματός τε καὶ τοῦ σώματος αὐτοῦ): ciò è ancora prefigurato nelle ombre della Scrittura, perché i due passeri del sacrificio sono puri (καθαρά), come Cristo è veramente καθαρὸς καὶ ἀβέβηλος, in quanto non conosce peccato (οὐκ εἰδὼς ἁμαρτίαν). Ne consegue che la settemplice irrorazione del lebbroso guarito significa Cristo, che rende puri attraverso il battesimo e santificandoci. Il numero sette – secondo il gusto tipicamente alessandrino per la simbologia numerologica8 – rappresenta, sulla scia di Rm 5,20 («Dove il peccato si è moltiplicato, sovrabbondò la grazia»), l’abbondanza della grazia di Dio e ciò che è quasi perfetto per la purificazione (τὸ οἱονεί πως τελείως ἔχον εἰς ἀποκάθαρσιν). La rasatura dei peli, inoltre, è ancora simbolo della nostra purificazione battesimale dalle escrescenze (βλαστήματα) della carne, cioè dai piaceri insiti nella nostra natura (i peli), da cui siamo liberati insieme alle altre colpe. A liberarci è Cristo, il Logos, affilatissimo nel tagliare via i peccati, liberando la nostra mente dall’impurità che da essi deriva (τομώτατος ἀποκείρων ἁμαρτίας καὶ τῆς ἐκ παθῶν ἀκαθαρσίας ἀπαλλάττων τὸν νοῦν) e infine l’attesa dei sette giorni prima di rientrare in casa, mostra in figura come, una volta purificati, possiamo entrare nella casa di Dio, ma non nelle dimore superiori (εἰς τὰς ἄνω μονάς), riservate ai santi, cui anche noi potremo giungere dopo la vita presente, una volta ottenuta la purificazione attraverso Cristo (τὴν διὰ Χριστοῦ κάθαρσιν ἔχοντες). L’attenzione a Cristo e al suo indispensabile ruolo di mediatore tra gli uomini che devono purificarsi dai loro peccati e Dio Padre è ancora al centro dell’esegesi relativa alle prescrizioni mosaiche sulla purificazione dalla gonorrea e dal flusso mestruale. Per entrambe Per questo aspetto cf. soprattutto gli esempi raccolti e discussi da A. KERRIGAN 1952, 383-385. 8
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Cirillo rileva in De adoratione XV (PG 68,1004bc) l’indicazione scritturistica di praticare un lavaggio che coinvolge non solo la persona che ne è interessata, ma ogni suppellettile, il letto, le vesti e chiunque altro entri in contatto con loro. Sono quindi richiesti un sacrificio di tortore e la propiziazione del sacerdote che pratica il rito, fungendo in tal modo da mediatore (καὶ ἱλασμοῦ τοῦ μεσιτεύοντος ἱερέως). Commentando al riguardo Lv 15,31 («Ammonirete i figli di Israele su tutto ciò che può renderli impuri, perché non muoiano per le loro impurità, contaminando il mio tabernacolo che è in mezzo a loro»), il patriarca conclude che quando saremo purificati e santificati per mezzo di Cristo, allora potremo accedere davvero splendidi, senza pericolo di inquinarlo, al santo tabernacolo, ma adoreremo Dio frequentando puri, puramente, le chiese (προσκυνήσομεν δὲ καθαροὶ καθαρῶς τῷ παναγίῳ Θεῷ φοιτῶντες ἐν ἐκκλησίαις). 4. LETTURE MORALI Nell’esame dei passi che implicano più direttamente la cristologia di Cirillo si è già osservata la sua tendenza a trasferire la lettera della Legge ad un livello di interpretazione morale, secondo una modalità da lui largamente praticata in àmbito esegetico9. Tale caratteristica, connessa ai concetti di purificazione e purezza, riemerge con evidenza ancora nei Glaphyra e segnatamente nell’interpretazione di Es 4,6-7 (PG 69,472c): la mano di Mosè diventa lebbrosa e poi guarisce, a seconda che Dio gli comandi di porla una prima e una seconda volta nel suo seno. Ciò offre il destro al patriarca per sottolineare come gli Israeliti, soggetti ad un gravissimo malanno, la schiavitù d’Egitto, possano essere guariti solo da un medico di eccezionali capacità, Dio, che riesce a vincere i mali peggiori. La simbologia, per Cirillo, è chiara: la lebbra rappresenta il decadimento dei costumi cui gli Israeliti sono andati incontro in occasione della schiavitù d’Egitto. Si tratta infatti di una malattia che è segno di impurità e di morte (ἀκαθαρσίας γὰρ καὶ νεκρότητος σημεῖον), mentre l’intervento divino è volto a mostrare che essi si sarebbero potuti facilmente liberare dalla sporcizia di una morte spirituale. Più nel dettaglio: è costume (ἔθος) della Scrittura ispirata designare il Figlio con termini come «mano», «braccio», «destra» (χεῖρ, βραχίων, δεξιά), poiché Dio opera ogni cosa per mezzo suo. Appare dunque evidente che il Figlio, assumendo 9
Cf. in particolare A. KERRIGAN 1952, 152-164; M. SIMONETTI 1977, 319-320.
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natura umana, ha accolto in sé la debolezza e l’impurità che le sono proprie, come dimostra anche il fatto che Gesù fu accusato di essere un peccatore (Gv 9,24): nato come uomo impuro, tuttavia, compiuta la sua missione egli tornò al Padre, nel suo seno, e smentì quindi l’idea di essere nato nel segno dell’impurità e della morte (ἐν νεκρότητι καὶ ἀκαθαρσίᾳ). Riflettendo ancora sulle prescrizioni di Lv 15,2-11 a proposito di chi è afflitto da gonorrea e dunque versa in contaminazioni grandi e ininterrotte, in DeadorationeXV(PG 68,997c) Cirillo fornisce nuovamente al discepolo Palladio una lettura in chiave morale, suggerendogli di trasferire le considerazioni relative a questa malattia a immagini evidenti di quanto si verifica nella nostra mente: anch’essa infatti, si corrompe spesso, impegnata in azioni che non le competono minimamente, attratta da interessi del tutto infruttuosi, da cui è danneggiata e condotta verso le realtà peggiori. Per questo è necessario che l’uomo si incammini per una via pura, quella a cui si riferisce Is 35,8 («Vi sarà una strada pura, che chiameranno via sacra; nessun impuro vi passerà, non ci sarà lì una strada impura»): esaminando questo versetto nel suo Commento a Isaia (PG 70,753c) Cirillo è convinto che il profeta definisca «via pura» la potenza della vita evangelica (τῆς εὐαγγελικῆς πολιτείας ἡ δύναμις) o altrimenti la purificazione che si raggiunge attraverso lo Spirito (ἡ διὰ τοῦ Πνεύματος κάθαρσις), capaci entrambe di liberarci dai peccati e renderci migliori di ogni sporcizia. Si tratta di una via non accessibile a quanti non siano stati ancora purificati dal santo battesimo, cioè agli infedeli, ancora impuri, alle vittime di Satana che servivano un tempo gli idoli e si muovevano lungo vie oblique. Quando ancora il profeta spiega che su quella via non ci saranno leoni e bestie feroci (Is 35,9) vuole intendere che gli impuri impareranno a percorrere la via retta e pura, che conduce ad una vita santa, liberati dalla forza diabolica, redenti in virtù di Cristo e riuniti per mezzo della fede in concordia d’animo. Lasceranno insomma la via vecchia e giungeranno a Sion, cioè alla Chiesa, godendo in terra e in cielo di una gioia infinita. 5. POLEMICA ANTIPAGANA Cirillo è buon conoscitore della cultura pagana10 e per questo non esita a polemizzare energicamente contro riti, simboli e modelli che 10
Cf. A. KERRIGAN 1952, 7-11; 61-86; 308-309.
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nella tradizione classica riguardano la purificazione intesa come espiazione delle colpe commesse, che egli vede come una falsa purificazione rispetto a quella autentica conferita solo da Dio per mezzo di Cristo. Ciò emerge in particolare quando si trova a commentare versetti della Legge quali Dt 14,1 («Non farete purificazioni, non farete tonsura in mezzo ai vostri occhi per un morto»), o ancora Dt 18,10 («Non sarà trovato in te uomo che purifichi suo figlio o sua figlia col fuoco»). Nel primo caso (De adoratione VI = PG 68,448a) egli muove da una considerazione linguistico-etimologica, non estranea alla sua formazione alessandrina11, per osservare che i Greci ritengono Apollo, il sole, puro e incontaminato (καθαρὸς καὶ ἀμίαντος), riconducendone il nome ai verbi φοιβάζειν e φοιβᾶσθαι, nel senso di καθαίρειν e καθαίρεσθαι. La rivelazione divina, tuttavia, preserva i cristiani da pratiche purificatorie quali quelle proibite dalla Legge mosaica, in quanto non ritiene che la morte dei corpi sia una contaminazione dell’anima (μολυσμὸν .... ψυχῆς) o che la visione di un cadavere possa apportare sporcizia nei cuori di chi lo osserva. Simili pratiche appaiono dunque ai suoi occhi inutili e dannose, perché allontanano chi le esercita dalla conoscenza della vera via da seguire per emendare le colpe commesse: chi viola le leggi divine, infatti, non può essere puro, se non ottenendo la purificazione direttamente da Dio, unico giudice e legislatore, come ammonisce anche Sal 50,4 («Contro te solo ho peccato e ho fatto il male davanti a te»). Per questo i pagani sono in errore, quando attribuiscono al fuoco e all’acqua la possibilità di liberarli dalle colpe, cosa che è possibile solo al vero Dio, che afferma: «Sono io colui che cancella le tue colpe, grazie a me, e non me ne ricorderò» (Is 43,25). Questa è la vera purificazione (κάθαρσις ἀληθής): noi, infatti, siamo ripuliti dopo avere ottenuto la remissione dei peccati attraverso la fede in Cristo e siamo poi arricchiti dalla grazia divina dello Spirito Santo, che è vero fuoco in grado di consumare, come paglia, le macchie dei nostri animi. Per questo la Scrittura sostiene che noi siamo stati battezzati in Spirito Santo e fuoco (Mt 3,11).
11 Su questo aspetto cf. in particolare A. KERRIGAN 1952, 376-383 con numerosi esempi; da ultimo cf. D. ZAGANAS 2014, 41: «le recours à l’étymologie des noms bibliques devient un argument afortiori dans le processus exégétique cyrillien: prouver l’existence d’un typos et le transformer en vérité “au moyen de la traduction des noms” (ἀπὸ τῆς τῶν ὀνομάτων ἑρμηνείας) ou reconnaître le mystère du Christ préfiguré dans leur sens étymologique».
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Nel commento al secondo versetto citato (De adoratione VI = PG 68,444b) la contrapposizione fra una vera e una falsa purificazione assume toni sarcastici e derisori, nell’evocazione di situazioni e figure del mito greco e delle loro punizioni, ricordate spesso con termini ed espressioni desunti dai testi letterari della tradizione. Cirillo legge infatti la proibizione mosaica relativa a riti magici di espiazione in uso presso i pagani alla luce delle pratiche diffuse nel mondo greco. In tal senso si chiede ironicamente che funzione abbiano le torce agitate intorno al colpevole di qualche grave delitto (δᾷδες ἐν κύκλῳ περιθέουσαι) per liberare dalla colpa chi se ne è macchiato: il fuoco, infatti, può fondere i metalli e ripulirli dalle loro impurità, ma in che modo – si chiede – potrebbe far scomparire la lordura che infanga le mente e gli animi umani? Si tratta insomma, a suo parere, di ridicolaggini e invenzioni frutto della mente di ciarlatani (φληνάφων ἐννοιῶν εὑρήματα). Il sarcasmo polemico ritorna ancora nel riscontro della contraddizione per cui mentre uomini contaminati da colpe gravissime sono assolti, nel mito, con l’impiego del fuoco e dei rami, punizioni dure e infinite sono invece inflitte (forse è finito il fuoco? – ironizza il patriarca) ad altre figure come Tantalo, Issione o Tizio, divorato quest’ultimo da vendicatori terribili e immani come avvoltoi dagli artigli ricurvi. Gli stessi – prosegue l’Alessandrino – che torturano quel gran ladro (ὁ ... κλεπτίστατος) di Prometeo, l’autore del furto del fuoco, inchiodato da vincoli così forti da non poter essere spezzati. Sarebbe logico, conclude Cirillo, che la purificazione attraverso il fuoco riguardasse anche queste figure. Un ulteriore motivo polemico è poi introdotto con la riflessione che una tale forma di purificazione è ricercata per mezzo di ministri (i sacerdoti pagani) che sono di gran lunga più contaminati di tutti gli altri: in tal senso il pagano è paragonato ad un uomo che vorrebbe cospargersi di profumo, ma dimentica di trovarsi avvolto da fetidissimo fango (βορβόρῳ δέ τῳ ἀκοσμοτάτῳ), che ricorre all’acqua e al fuoco per purificarsi, come se bastassero per renderlo santo e puro. 6. DISPUTE TEOLOGICHE È noto che gli interessi esegetici di Cirillo mutano dopo il 428, quando la predicazione di Nestorio lo costringe a concentrarsi su polemiche strettamente dottrinarie12. Se ne colgono evidenti riflessi 12
Cf. J. LIÉBAERT 1970.
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anche in relazione alla tematica della purezza, affrontata nell’esame di alcuni versetti evangelici nel suo CommentoaGiovanni. Emerge con chiarezza lo sforzo compiuto dal patriarca allo scopo di respingere con decisione quelle dottrine che intendevano distinguere la natura di Cristo rispetto a quella del Padre, secondo teorie che, da opposti versanti, accentuavano nel Figlio l’aspetto umano, fino a ridurlo ad un semplice mortale in cui la divinità aveva preso dimora (nestoriani), o viceversa privilegiavano la natura divina del Verbo a danno di quella umana (monofisiti). Commentando la parabola della vite e dei tralci di Gv 15,1-7 Cirillo (Pusey 1872, 551 = PG 74,353a) si serve della sua consueta lettura spirituale per identificare nel tralcio infruttuoso il popolo ebraico, che il Padre separa dalla comunione con Cristo, mentre quelli che non vengono tagliati completamente, ma restano nella vite e saranno purificati dalla cura divina, sono alcuni giudei, che hanno creduto, e soprattutto i gentili che, dopo di loro, si sono convertiti. Per tutti costoro vi è un’unica purificazione (οἷα μία κάθαρσις), anche se essa avviene con modalità differenti (ἑτεροῖός γε μήν, καὶ παρηλλαγμένος ὁ τοῦ καθαίρεσθαι τρόπος) attraverso lo Spirito Santo: dagli Israeliti viene infatti tagliata via la volontà di vivere secondo la legge mosaica, mentre dal cuore degli idolatri viene eliminato l’antico inganno, quello che Cirillo definisce «la spazzatura dell’impurità dei comportamenti insipienti (τῆς τῶν ἀσυνέτων ἐϑῶν ἀκαθαρσίας ὁ συρφετός)», perché così possano portare il frutto commestibile e gradito a Dio dell’insegnamento divino ed evangelico. Ne consegue che Israele è circonciso, anzi è purificato (διακαθαίρεται), respinto l’antico errore di venerare più la creatura del creatore, mentre la purificazione dall’antico inganno sarà per i gentili un’amputazione utilissima (ἐπωφελεστάτη τομή), che porterà loro ogni forma di bene. Il dispensatore di questa purificazione, che avviene come circoncisione spirituale, è il Padre, che opera attraverso il Figlio: sono dunque in errore quanti desumono dalla parabola che il Figlio, individuato nella simbologia della vite, sia di differente natura rispetto al Padre, rappresentato dall’agricoltore. Contro di loro Cirillo si esprime con una durezza che è stata definita un’«affermazione intransigente dell’unità ipostatica delle due nature»13, quando sostiene, tra l’altro: «Risulta dunque vana la sfrontatezza amara ed empia degli avversari, che non hanno provato timore nel sostenere che siccome il Figlio si è definito ‘vite’ e ha chiamato Dio Padre ‘agricoltore’, per questo egli 13
E. LIVREA 1987, 109.
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non è della sua stessa natura». Se consideriamo dunque che l’agricoltore è il Figlio, attraverso la circoncisione spirituale, allora possiamo capire che gli agricoltori, in quanto uomini, hanno tra loro identica natura, per cui il Figlio non può essere estraneo alla consustanzialità con Dio Padre (πρόδηλον ὅτι τῆς πρὸς τὸν Πατέρα καὶ Θεὸν ὁμοουσιότητος οὐκ ἀλλότριος ὁ Υἰός). Cirillo si concentra poi su Gv 15,3 («Voi siete già mondi [καθαροί] per la parola che vi ho annunciata»), per insistere ancora sugli stessi concetti: con queste parole Cristo fornisce ai discepoli una dimostrazione chiara ed indubbia della sua capacità di purificarli (τῆς τοῦ διακαθαίροντος αὐτοὺς τέχνης), realtà che si compie attraverso la parola da lui rivolta a loro, ossia la dottrina divina ed evangelica. Secondo il patriarca in questo passo «purificazione» (ἀποκάθαρσις) significa che Cristo è penetrato nella profondità dell’animo di ciascuno e ne ha svelati i vani intendimenti per eliminarli con un taglio affilato, attraverso l’azione dello Spirito. I discepoli rappresentano noi credenti, curati dal Padre attraverso il Figlio, per cui è folle (μεματαίωται) il «tentativo vano e malvagissimo» (τὸ περιττὸν καὶ κακουργότατον ... ἐπιχείρημα) di quegli avversari che da qui deducono una diversa natura di Padre e Figlio: i discepoli non sono purificati solo dall’azione di Dio Padre, ma lo sono in quanto, accanto ad essa, agisce nei loro confronti l’opera purificatrice della parola espressa dal Figlio, a cui essi obbediscono. In aperta polemica con l’esegesi dei suoi avversari, che Cirillo definisce toutcourt«frutto di ignoranza e totalmente rozza» (ἀμαθῆ τε καὶ ἀκομψότατον λογισμόν), egli precisa infatti che l’agricoltore non si limita a curare soltanto i tralci della vite, ma ogni sua parte, come il tronco o il ceppo, concludendone che anche il Figlio, in quanto uomo, ha bisogno della cura del Padre come tutti noi. Gv 15,3 significa quindi per Cirillo che da parte del Padre, attraverso la parola del Figlio, si è compiuto verso i discepoli, per primi, «il modo della purificazione spirituale e attraverso lo Spirito e nello Spirito» (ὁ τῆς νοητῆς καὶ διὰ Πνεύματος καὶ ἐν Πνεύματι νοουμένης διακαθάρσεως τρόπος); ora essi sono pronti a produrre frutti di pietà, dopo essersi liberati da comportamenti propri della condizione mortale e dalla vana osservazione della Legge: il discorso di Cristo li ha purificati (ἐξεκάθαρε λόγος ὑμᾶς ὁ ἐμός). Da questa esegesi l’Alessandrino traccia poi le conseguenze pastorali della purificazione divina: tutti quanti, come i discepoli, seguiranno il verbo di Cristo saranno purificati come loro, sottraendosi alle insidie del diavolo, ai lacci dell’idolatria, all’impurità degli antichi
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costumi (τὴν τῶν ἀρχαίων ἐθῶν ἀκαθαρσίαν). Tale destino è riservato anche agli ebrei: secondo una convinzione che Cirillo non si stanca mai di ribadire14, anch’essi torneranno a Dio, come tralci della vite, una volta che si saranno lasciati vincere dalla fede in Cristo e che avranno accolto nella loro mente la purificazione attraverso la parola (τὴν διὰ τὸν ἐμὸν λόγον διακάθαρσιν), finalmente allontanatisi dalla cura continua (προσεδρεία) della lettera e dei tipi espressi nella Legge. Con le sue parole, infine, Cristo anticipa anche, secondo Cirillo, la bellezza futura di quanti saranno purificati attraverso la sua parola (τῶν μελλόντων διακαθαρθήσεσθαι): sulla scia delle esortazioni paoline ad imitare Cristo e i santi (Eb 13,7; 1 Cor 4,16; 11,1), il patriarca ritiene infatti che egli mostri ai suoi discepoli come l’adesione ai suoi insegnamenti e alla dottrina evangelica non siano inutili, poiché seguendoli essi si rendono modelli da mostrare a tutti quanti crederanno in lui (ἑαυτοὺς εἰς ὑποτύπωσιν τοῖς εἰς Χριστὸν πιστεύουσι). 7. PURIFICAZIONE E
DIGIUNO
Nelle Epistulae paschales, inviate da Cirillo alle Chiese d’Egitto ogni anno tra il 414 e il 442 per precisare la data della ricorrenza e dare disposizioni in merito, s’incontrano esortazioni morali e motivi dottrinali legati alle polemiche del momento. Sul tema della purificazione aspetti interessanti sono presenti nell’epistola 7, scritta per la Pasqua del 419 (Burns 1993, 18-55 = PG 77,536a), in cui il patriarca riflette sul valore del digiuno come mezzo di cui il cristiano dispone per liberarsi dal peccato. Muovendo da una tematica a lui cara15 come quella della ricerca di ciò che è utile (τῆς τοῦ συμφέροντος θήρας), e ricorrendo ad una metafora frequente nei suoi scritti16, ossia lo sforzo, la fatica, il sudore richiesto al cristiano, all’esegeta, allo studioso delle Scritture, Cirillo osserva che nel periodo quaresimale ci viene offerto «il tempo dei gloriosi sudori» (ὁ τῶν εὐκλεῶν ἱδρώτων ... καιρός), che noi dobbiamo afferrare per purificarci «da ogni macchia 14 Questa convinzione torna con grande frequenza nei commentari di Cirillo agli scritti dei Profeti: a suo parere essi hanno a cuore la sorte di Israele, che vedono destinato a rovinarsi con atteggiamenti empi e col rifiuto di Cristo, per cui, specialmente nella conclusione delle loro profezie, inseriscono riferimenti messianici e preghiere per il loro popolo. Su tale aspetto cf. P. ROSA 2015, 338-339. 15 Cf. P. ROSA 2018, 243-245. 16 Cf. per questo aspetto C. FERRARI TONIOLO 2000, 32.
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della carne e dello spirito» (2 Cor 7,1) e attraverso il buon digiuno (διὰ νηστείας ἀγαθῆς) mortificare «le membra terrene: fornicazione, impurità, piacere, desideri sfrenati» (Col 3,5). In questo modo potremo essere uniti a Dio che ci esorta alla santità perché egli stesso è santo (Lv 11,44). Per spiegare l’importanza e la funzione purificatrice del digiuno Cirillo ricorre poi ad una seconda metafora, che riflette un sapere e un lessico medico di stampo classico, anche altrove attestato nei suoi scritti, probabilmente legato all’ambiente alessandrino in cui la disciplina medica – come altri saperi scientifici – era conosciuta e praticata da secoli. Cirillo si riferisce in sostanza alla dottrina ippocratica che identifica la salute del corpo con l’equilibrio dei suoi umori, sa che i bravi medici (παῖδες ... ἰατρῶν οἱ φιλοτεχνέστατοι) per contrastare le affezioni che alterano l’ordinato equilibrio degli elementi presenti nel corpo umano utilizzano «purghe annuali» (τοὺς ἐτησίους καθαρισμούς), riducendo così le conseguenze dei mali che si presentano all’improvviso e liberando i pazienti da malanni non piccoli. Così anche ai credenti conviene preparare una sicurezza duratura accettando rimedi che producono sofferenze misurate (τὸ δὲ μετρίως ἐκ τῶν ὠφελούντων ἀλγύνεσθαι), piuttostο che evitare dolori minori per poi cadere in mali più gravi che causano sofferenze terribili e inevitabili. Persuasi di ciò conviene che anche noi, al modo dei medicamenti che purgano il corpo (ἐν βοηθημάτων τάξει καθαίρειν εἰδότων) introduciamo nel nostro animo il puro digiuno che genera ogni virtù, conduce alla santità ed esorta sempre al più conveniente tra i beni17.
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W.H. BURNS 1993, 20-22.
La κάθαρσις in Massimo il Confessore: terminologia e significato teologico Raffaele COPPI Gli scritti di Massimo il Confessore, monaco orientale vissuto a cavallo tra VI e VII secolo, rappresentano uno snodo fondamentale nelle discussioni cristologiche dell’epoca patristica, specialmente nell’ambito delle controversie monoenergita e monotelita. La sua produzione letteraria, però, non si limita a tali questioni, ma spazia in vari campi: dalla letteratura ascetica, all’esegesi, alla filosofia, alla liturgia. Le sue opere, che siano trattati o risposte a questioni poste da altri, riflettono la ricchezza della sua formazione e mostrano la complessità di un pensiero che riesce a integrare finezza teologica e profondità spirituale. La terminologia legata alla radice καθαρ- è estremamente presente nel linguaggio massimiano. Una semplice ricerca sul ThesaurusLinguae Graecae (che contiene circa metà della produzione letteraria del Confessore1) evidenzia che il verbo καθαίρω, nelle sue diverse forme, è usato 52 volte2; il sostantivo κάθαρσις compare 25 volte; dell’aggettivo καθαρός, infine, si contano addirittura 114 occorrenze. Massimo utilizza il vocabolario della purificazione soprattutto in ambito ascetico, per illustrare il progresso individuale nel cammino di divinizzazione. Un esempio in tal senso è il passo dell’Expositioin PsalmumLIX in cui, commentando il significato del termine Moab, egli offre una definizione di κάθαρσις. 1 Le opere del Confessore sono raccolte quasi interamente nei volumi 90 e 91 della PatrologiaGraecadi Migne. Il Thesaurus contiene quelle di cui è attualmente disponibile un’edizione critica: Quaestiones ad Thalassium, Quaestiones et dubia, Expositio orationis dominicae, Expositio in Psalmum LIX, Ambigua ad Thomam, AmbiguaadIohannem, Liberasceticus, Mystagogia, Capitadecaritate, Quaestiones adTheopemptum, EpistulasecundaadThomam, ScholiainEcclesiasten, Expositio orationisdominicae, Opusculumdeanima, Hymni. Le opere di maggior rilievo non contenute nel Thesaurus sono: Opuscula theologica et polemica, Disputatio cum Pyrrho, Epistulae, Capitatheologicaedoeconomica.A questi scritti, privi tuttora di edizione critica, si aggiungano anche quelli legati alla fase finale della vita di Massimo – i processi e l’esilio – di cui P. Allen e N. Brown hanno curato il volume per la collana di CorpusChristianorumSeriesGraeca (CCSG 39). 2 Si aggiungano anche 5 occorrenze del verbo καθαρίζω.
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Moab si interpreta come «ventre del padre». Va compreso come il nostro corpo, per mezzo del quale, attuando la filosofia pratica, come in un lavacro – è ciò che indica chiaramente il catino – avviene la purificazione dei peccati. Purificazione, infatti, è il catino della speranza, ossia l’attitudine – realizzata nella vita, con la purificazione – [a ricevere] l’eredità dei beni riservati per noi nella speranza3.
Il testo parla di una purificazione che mira all’eliminazione del peccato, trae forza dal battesimo, coinvolge la dimensione corporea e tende ad una meta che va al di là della condizione presente. Questi elementi, che appartengono al patrimonio comune della fede cristiana, vengono interpretati da Massimo alla luce della sua formazione monastica e intellettuale4, che trova i suoi riferimenti privilegiati nei Cappadoci, nella mistica dionisiana e nell’impostazione ascetica di stampo evagriano5. Quest’ultima, in particolare, è fondamentale per comprendere il modo con cui il nostro autore parla della purificazione: per il Confessore, infatti, la κάθαρσις si colloca in un percorso fatto di tre tappe (πρᾶξις, θεωρία, θεολογία), che definiscono l’itinerario verso la perfezione. Questa struttura tripartita di matrice evagriana, comune alla tradizione monastica orientale, trova tuttavia in Massimo un’espressione originale: infatti, la tensione finalizzante che permea tutto il suo pensiero e la stretta corrispondenza tra incarnazione del Logos e divinizzazione dell’uomo portano il nostro autore a comprendere le tappe 3 Μωὰβ δὲ ἔντερον πατρὸς ἑρμηνεύεται, νοεῖται δὲ τὸ ἡμέτερον σῶμα, δι’ οὗ κατὰ τὴν πρακτικὴν φιλοσοφίαν, λουτροῦ δίκην —ὅπερ δηλοῖ σαφῶς ὁ λέβης—, ἡ κάθαρσις πέφυκε γίνεσθαι τῶν ἁμαρτημάτων· κάθαρσις γάρ ἐστιν ὁ λέβης τῆς ἐλπίδος, τουτέστιν ἡ διὰ βίου κατὰ τὴν κάθαρσιν πρὸς κληρονομίαν τῶν κατ’ ἐλπίδας ἀποκειμένων ἡμῖν ἀγαθῶν ἑτοιμότης (Exp.Ps.LIX [CCSG 23 16.226-233]). 4 Una possibile pista di studio sul tema della purificazione nell’opera massimiana potrebbe riguardare un confronto dettagliato con le fonti a cui il Confessore attinge. Dovendo tuttavia concentrare l’attenzione su un aspetto, si è scelto di tralasciare un confronto puntuale con questi autori, limitandoci a delineare il pensiero massimiano nei suoi contenuti principali. 5 Tra gli studiosi si è dibattuto, in particolare, sull’importanza dell’apporto dionisiano al pensiero di Massimo, anche rispetto ad altre fonti significative come ad esempio Evagrio Pontico. Su questo tema cf. W. VÖLKER 1961; Y. DE ANDIA 2015. Il richiamo a questi autori, tuttavia, non esaurisce le fonti di Massimo. Nei suoi scritti, infatti, si possono trovare innumerevoli riferimenti di carattere filosofico, antropologico, spirituale – oltre che dogmatico – che provengono da autori differenti, come ad esempio Nemesio di Emesa, Diadoco di Fotica o Cirillo di Alessandria. La vastità della sua preparazione letteraria pone domande circa i luoghi della sua formazione, che inevitabilmente toccano il dibattito sulle due Vitae (greca e siriaca), che tuttora divide gli studiosi del Confessore. Per una conoscenza di base sulla questione prosopografica di Massimo, si veda P. ALLEN 2015.
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ascetiche in modo dinamico e integrato. A differenza di Evagrio Pontico6, il Confessore è molto chiaro nell’affermare che πρᾶξις e θεωρία non sono livelli di perfezione progressivi, ma ambiti complementari e reciproci7; il vero scarto qualitativo non avviene, per lui, nel passaggio tra azione e contemplazione, ma nella tappa «teologica», intesa come ambito della pura grazia, irraggiungibile per le forze umane8. La virtù che meglio esprime la dinamicità del processo – e che pertanto risulta centrale nel pensiero massimiano – è l’ἀγάπη. Essa è il punto di arrivo delle altre virtù nella tappa pratica9; è ciò che consente l’unione dinamica e senza confusione dell’uomo con Dio10; è ciò che esprime la natura stessa di Dio, secondo le parole di 1 Gv 4,8. 1611. 1. LA PURIFICAZIONE DEI SENSI: INTERRUZIONE DELLA DINAMICA DI MORTE E RINASCITA NELLE VIRTÙ
Queste premesse consentono di inquadrare l’itinerario spirituale tracciato da Massimo nei suoi scritti e di comprendere la funzione che la κάθαρσις riveste in esso. A più riprese, specialmente nei testi di tenore ascetico, il nostro autore assegna alla purificazione una connotazione «negativa», ossia di freno al movimento passionale. Così avviene, ad esempio, in Thal.17, a commento di Es4,24. Dice infatti: Il sangue della circoncisione del ragazzo s’è fermato: sono cioè cessati la vita, l’immaginazione e il movimento passionali, grazie alla purificazione del pensiero sudicio, nella fede, per mezzo della saggezza. Dopo tale purificazione, la parola si riposa, essa che, come un messaggero, percuote attraverso la coscienza la mente peccatrice e accusa ogni pensiero che in lei si muove in direzione contraria a ciò che è conveniente12. 6 È Evagrio stesso, nel prologo al Praktikos, a dividere il suo progetto in due parti, la prima di cento capitoli «pratici», la seconda di cinquanta più seicento capitoli «gnostici» (cf. Evagr.Pont., Cap.pract. Prol.9 [SCh170, 492-494]). 7 Sono famosi i passi letterari in cui Massimo parla di πρᾶξις ἔνσοφος e γνῶσις ἔμπρακτος (cf. Amb.Th.Prol. [CCSG 48 3.9]). 8 Per una comprensione generale della tappa teologica in Massimo cf. J.-C. LARCHET 2010, 69-73. 9 Cf. Char.1.2-3 (A. CERESA–GASTALDO 1963, 50). 10 Cf. Amb.Io.41 (PG 91 1308B). 11 Cf. Char.4.100 (A. CERESA–GASTALDO 1963, 88). 12 Φησὶ γὰρ ἔστη τὸ αἷμα τῆς περιτομῆς τοῦ παιδίου, τουτέστιν ἔληξεν ἡ ἐμπαθὴς ζωὴ καὶ φαντασία καὶ κίνησις, καθαρθέντος διὰ τῆς σοφίας κατὰ τὴν πίστιν τοῦ μολυνθέντος λογισμοῦ· μεθ’ ἣν κάθαρσιν παύεται, καθάπερ τις ἄγγελος, ὁ διὰ τῆς συνειδήσεως πλήττων τὸν ἁμαρτάνοντα νοῦν καὶ ἐνδιαβάλλων αὐτοῦ πᾶν νόημα παρὰ τὸ προσῆκον κινούμενον λόγος (Thal.17.50-56 [CCSG 7 113.50-56]).
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Nella concezione dinamica del pensiero massimiano, il peccato e la caduta primordiale non sono concepiti come passaggio da una condizione originaria di riposo al movimento13, ma come deviazione nell’orientamento di quest’ultimo: da una tensione naturale verso Dio, l’uomo si è volto verso le realtà create, ingannato dal diavolo14, pervertendo così la propria facoltà volitiva e rendendola instabile e soggetta alle passioni. Impura è l’anima schiava delle passioni, piena di pensieri di concupiscenza e odio15.
I πάθη sono, pertanto, il nemico contro il quale dirigere la lotta spirituale, e la prima necessità è porre un freno alla sensazione, intesa come movimento passionale che schiaccia l’uomo sulla realtà materiale, impedendogli di elevarsi verso Dio. Per sottolineare questa necessità Massimo parla, in alcuni casi, di morte della sensazione o del corpo. Tutte le realtà visibili hanno bisogno della croce, cioè della disposizione stabile capace di trattenere l’attività abituale di ciò che opera in esse secondo la sensazione; e tutte le realtà intelligibili richiedono la sepoltura, cioè la completa immobilità di ciò che opera in esse secondo l’intelletto16.
Intendendo la salvezza come conformazione a Cristo, Massimo non esita a utilizzare la mistica della croce e della sepoltura17 per indicare la cessazione di uno stato negativo come primo passo necessario alla salvezza18. A seguito di questa morte, in linea con il suo 13 Cf. P. SHERWOOD 1955. Questo studio, una pietra miliare degli studi massimiani, mostra tra le altre cose la differenza tra la triade origeniana στάσις - κίνησις - γένεσις e quella massimiana γένεσις - κίνησιν - στάσις. Nel primo caso, il movimento è visto come il risultato di una scelta di allontamento dalla contemplazione di Dio, condizione originaria degli esseri razionali; nel secondo, esso è invece ciò che permette positivamente il raggiungimento di una condizione finale di divinizzazione, pensata in origine da Dio ma inattuabile con le sole potenzialità umane. 14 Cf. Thal.Intr. (CCSG 7 31.227-239). 15 Ἀκάθαρτός ἐστι ψυχὴ ἐμπαθής, λογισμῶν ἐπιθυμίας καὶ μίσους πεπληρωμένη (Char.1.14 [A. CERESA–GASTALDO 1963, 54]). 16 Τὰ φαινόμενα πάντα δεῖται σταυροῦ· τῆς τῶν ἐπ᾽αὐτοῖς κατ’αἴσθησιν ἐνεργουμένων ἐπεχούσης τὴν σχέσιν, ἕξεως· τὰ δὲ νοούμενα πάντα, χρῄζει ταφῆς· τῆς τῶν ἐπ᾽αὐτοῖς κατὰ νοῦν ἐνεργουμένων ὁλικῆς ἀκινησίας (Th.Oe.1.67 [PG 90 1108B]). 17 Così anche Amb.Io.52-55 (PG 91 1372B-1377C). 18 Come si vedrà più avanti – e come afferma Th. Oe. 1.67 – ciò non riguarda solo la dimensione sensibile, ma anche quella intellettuale. Così, ad esempio, Char.2.62, dove Massimo parla di morte del νοῦς come uscita da ciò che è creaturale nell’estasi della preghiera.
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Maestro, anche il discepolo può accedere alla condizione di risorto, che si esprime nella vita virtuosa. Purifica la tua mente da ira, rancore e pensieri vergognosi; allora potrai conoscere l’inabitazione di Cristo (in te)19.
In questo capitolo delle Centuriesullacarità, l’oggetto della purificazione è il νοῦς, che nell’antropologia massimiana indica sia il centro della soggettività umana, sia la facoltà deputata alla contemplazione e alla conoscenza di Dio e del mondo. Fedele alla tradizione monastica del suo tempo, il Confessore si serve costantemente della tripartizione psicologica νοῦς - ἐπιθυμία - θυμός, per indicare rispettivamente le dimensioni intellettuale, concupiscibile, irascibile. Spesso, poi, indica per ognuna di esse passioni o rimedi precisi, in linea con la classificazione di vizi e virtù tracciata da Evagrio. In questi casi, la κάθαρσις si configura come il risultato di un processo che agisce sulle facoltà irrazionali e trova la sua massima espressione nel νοῦς. L’elemosina guarisce la parte irascibile dell’anima; il digiuno estingue la concupiscenza; la preghiera purifica la mente e la prepara alla contemplazione degli esseri. Per le potenze dell’anima il Signore ci ha fatto dono anche dei comandamenti20.
Nei casi in cui Massimo non presenti questa tripartizione in modo chiaro, oggetto della purificazione può essere più genericamente il cuore, la ragione, l’anima, la coscienza, così come il corpo e i sensi. Certamente, un tale uomo vedrà la salvezza di Dio, poiché egli ha il cuore puro; e grazie ad esso, per mezzo delle virtù e delle pie contemplazioni, al termine dei combattimenti egli vede Dio, secondo il detto evangelico: Beatiipuridicuore,perchévedrannoDio21. Alcuni pensano che il Signore parli del soffio dell’aria; a me pare piuttosto che parli dello Spirito Santo. Esso, infatti, di propria autorità 19 Κάθαιρε τὸν νοῦν σου ἀπὸ ὀργῆς καὶ μνησικακίας καὶ τῶν αἰσχρῶν λογισμῶν καὶ τότε δυνήσῃ γνῶναι τὴν τοῦ Χριστοῦ ἐνοίκησιν (Char.4.76 [A. CERESA– GASTALDO 1963, 228]). 20 Ἡ μὲν ἐλεημοσύνη τὸ θυμικὸν μέρος τῆς ψυχῆς θεραπεύει· ἡ δὲ νηστεία τὴν ἐπιθυμίαν μαραίνει· ἡ δὲ προσευχὴ τὸν νοῦν καθαίρει καὶ πρὸς τὴν τῶν ὄντων θεωρίαν παρασκευάζει. Πρὸς γὰρ τὰς δυνάμεις τῆς ψυχῆς καὶ τὰς ἐντολὰς ὁ Κύριος ἡμῖν ἐχαρίσατο (Char. 1.79 [A. CERESA–GASTALDO 1963, 80]). 21 Ὁ τοιοῦτος εἰκότως ὄψεται τὸ σωτήριον τοῦ θεοῦ, καθαρὸς τῇ καρδίᾳ γενόμενος· καθ’ ἣν διὰ τῶν ἀρετῶν καὶ τῶν εὐσεβῶν θεωρημάτων ὁρᾷ τὸν θεὸν ἐπὶ τέλει τῶν ἄθλων, κατὰ τὸ μακάριοι οἱ καθαροὶ τῇ καρδίᾳ, ὅτι αὐτοὶ τὸν θεὸν ὄψονται, τῶν ὑπὲρ ἀρετῆς πόνων τῆς ἀπαθείας τὴν χάριν ἀντιλαβών, ἧς οὐδὲν πλέον τὸν θεὸν ἐμφανίζει τοῖς ἔχουσι (Thal.47.204-210 [CCSG 7 325.204-208]).
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soffiadovevuole, ossia in coloro che sono disposti ad accoglierlo e sono puri nella ragione22. È pura l’anima che è stata liberata dalle passioni ed è rallegrata continuamente dalla divina carità23. Signore, nella tua bontà salvaci dalle difficoltà di questo mondo, affinché, attraversato il mare di questa vita con una coscienza pura, presentandoci irreprensibili e puri al tuo terribile tribunale, siamo ritenuti degni della vita eterna24. Quando vedrai che la tua mente si occupa in modo pio e giusto delle idee del mondo, sappi che anche il tuo corpo rimane puro e senza peccato25. Con la chiusura delle porte che segue [alla lettura del Vangelo] avviene il trasferimento e il passaggio dell’anima, nella disposizione, da questo mondo corruttibile al mondo intelligibile. Per mezzo di tale passaggio, dopo aver chiuso i sensi come porte, essa li purifica dai fantasmi del peccato26.
Questi pochi testi mostrano la varietà di elementi antropologici a cui Massimo applica il linguaggio della purificazione. In alcuni casi è lampante il riferimento biblico, come nel richiamo alle beatitudini di Matteo o alla «coscienza pura» di 2 Tm1,3; in altri casi prevale invece la dicotomia corpo-mente, o sensi-anima. Al fondo di tutte queste distinzioni, emerge chiaramente che la purificazione ha una prima funzione «negativa», che funge da premessa per un passaggio positivo, ossia la vita virtuosa. Ciò che sintetizza meglio questo doppio movimento è il concetto di ἀπάθεια, che nella riflessione massimiana si potrebbe tradurre come «stato di libertà interiore». Nella scala delle virtù, il nostro autore colloca l’ἀπάθεια subito prima della carità, che è il vertice 22 Τινὲς μὲν περὶ τοῦ ἀερίου πνεύματος λέγειν τὸν κύριον νομίζουσιν, ἐμοὶ δὲ μᾶλλον φαίνεται ὅτι περὶ τοῦ ἁγίου πνεύματος λέγει. Τοῦτο γὰρ ἐξουσιαστικῶς ὅπου θέλει πνεῖ, θέλει δὲ ἐν τοῖς δεκτικοῖς καὶ καθαροῖς τὴν διάνοιαν (Qu.D.188.4-7 [CCSG 10 128.4-7]). 23 Ψυχή ἐστι καθαρά, ἡ παθῶν ἐλευθερωθεῖσα καὶ ὑπὸ τῆς θείας ἀγάπης ἀδιαλείπτως εὐφραινομένη (Char.1.34 [A. CERESA–GASTALDO 1963, 60]). 24 Σῶσον ἡμᾶς, Κύριε, ἐκ τῶν δυσχερῶν τοῦ κόσμου τούτου, κατὰ τὴν χρηστότητά σου, ἵνα ἐν καθαρᾷ συνειδήσει τὸ πέλαγος τοῦ βίου διαπεράσαντες, ἄμεμπτοι καὶ ἀκέραιοι τῷ φοβερῷ βήματί σου παραστάντες, ἀξιωθῶμεν τῆς αἰωνίου ζωῆς (Asc.39.10-14 [CCSG 40 99.847-851]). In questa preghiera vi è il richiamo all’espressione di 2 Tm1,3: «Ringrazio Dio, che servo come i miei antenati con coscienza pura» (Χάριν ἔχω τῷ θεῷ, ᾧ λατρεύω ἀπὸ προγόνων ἐν καθαρᾷ συνειδήσει). 25 Ὅταν βλέπῃς τὸν νοῦν σου εὐσεβῶς καὶ δικαίως ἀναστρεφόμενον ἐν τοῖς τοῦ κόσμου νοήμασι, γίνωσκε καὶ τὸ σῶμά σου καθαρὸν καὶ ἀναμάρτητον διαμένειν (Char.3.52.1-3 [A. CERESA–GASTALDO 1963, 168]). 26 Διὰ δὲ τῆς μετὰ ταῦτα τῶν θυρῶν κλείσεως τὴν κατὰ διάθεσιν ἀπὸ τούτου τοῦ φθαρτοῦ κόσμου πρὸς τὸν νοητὸν κόσμον μετάβασιν τῆς ψυχῆς καὶ μετάθεσιν, δι’ ἧς τὰς αἰσθήσεις θυρῶν δίκην μύσασα, τῶν καθ’ ἁμαρτίαν εἰδώλων καθαρὰς ἀπεργάζεται (Myst.24.28-33 [CCSG 69 57.911-915]).
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della vita pratica; in tal modo, definisce in essa una condizione non più schiava delle passioni e che si apre alla tensione amorosa verso Dio. Per Massimo, questo stato comporta più livelli e accompagna l’intero percorso del credente, ben oltre la sfera pratica. Un passo di Thal.55 descrive molto bene la complessità della ἀπάθεια e il suo duplice carattere negativo-positivo, applicando ad essa il linguaggio dellα κάθαρσις. O ancora, le quattro migliaia indicano quelle che sono chiamate le quattro impassibilità generali. La prima impassibilità è la totale astensione dalle azioni malvagie (si osserva in coloro che sono all’inizio del cammino); la seconda è il rigetto totale, attraverso la riflessione, di ogni assenso ai pensieri malvagi (la si trova presso coloro che partecipano della virtù e della ragione); la terza è l’immobilità totale nella concupiscenza davanti alle passioni (per coloro che contemplano intellettualmente, attraverso le forme, i logoidelle realtà visibili); la quarta impassibilità è la purificazione totale anche della semplice rappresentazione delle passioni (si realizza in coloro che, attraverso la conoscenza e la contemplazione, hanno fatto dell’elemento direttivo della loro anima uno specchio puro e senza macchia)27.
L’immagine dello «specchio puro e senza macchia», che Massimo utilizza anche altrove nei suoi scritti28, è una buona sintesi per esprimere la condizione di libertà dal peccato e di disponibilità verso Dio maturata nel credente. 2. LA
PURIFICAZIONE NELLA CONTEMPLAZIONE:
COMPRENDERE LA REALTÀ NELLA LUCE DIVINA
A livello contemplativo, il percorso di purificazione si manifesta come capacità di cogliere le realtà create – visibili e invisibili – nella loro vera essenza. In più occasioni, Massimo utilizza la simbolica 27 Ἢ πάλιν, τὰς λεγομένας τέσσαρας γενικὰς ἀπαθείας αἱ τέσσαρες μυριάδες σημαίνουσιν. Πρώτη γάρ ἐστιν αἱ τέσσαρες μυριάδες σημαίνουσιν. Πρώτη γάρ ἐστιν ἀπάθεια ἡ παντελὴς ἀποχὴ τῶν κατ’ ἐνέργειαν κακῶν, ἐν τοῖς εἰσαγομένοις θεωρουμένη, δευτέρα δὲ ἡ παντελὴς κατὰ διάνοιαν περὶ τὴν τῶν κακῶν συγκατάθεσιν ἀποβολὴ λογισμῶν, ἐν τοῖς μετὰ λόγου τὴν ἀρετὴν μετιοῦσι γινομένη, τρίτη ἡ κατ’ ἐπιθυμίαν περὶ τὰ πάθη παντελὴς ἀκινησία ἐν τοῖς διὰ τῶν σχημάτων τοὺς λόγους νοητῶς θεωμένοις τῶν ὁρωμένων, τετάρτη ἀπάθεια ἡ καὶ αὐτῆς τῆς ψιλῆς τῶν παθῶν φαντασίας παντελὴς κάθαρσις, ἐν τοῖς διὰ γνώσεως καὶ θεωρίας καθαρὸν καὶ διειδὲς ἔσοπτρον τοῦ θεοῦ ποιησαμένοις τὸ ἡγεμονικὸν συνισταμένη (Thal.55.200-211 [CCSG 7 493.200-211]). 28 Cf. ad esempio Thal.65 (CCSG 22 253.32-33). Anche in questo caso, Massimo afferma che la condizione ottenuta dal credente è il frutto di una ‘mente purificata dalle passioni’.
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dell’occhio e della luce solare per indicare il nuovo sguardo prospettico acquisito dal credente che ha combattuto le passioni. Come la luce del sole attira ad esso l’occhio sano, così pure la conoscenza di Dio attira a Lui naturalmente la mente pura, per mezzo della carità29. Come la bellezza delle cose visibili attira a sé l’occhio sensibile, così la conoscenza delle cose invisibili attira a sé la mente pura: per invisibili intendo le realtà incorporee30.
In linea con la tradizione ascetica di marca evagriana, il linguaggio usato dal Confessore fa spesso pensare alla contemplazione come al superamento di ciò che è corporeo per giungere ad un livello di conoscenza immateriale. Così avviene in Char.1.90, dove si evidenzia la tensione sensibile-incorporeo, ponendo a prima vista i due piani in contrapposizione. In realtà, anche in un testo tradizionale come le Centurie sulla carità, Massimo fa capire che la κάθαρσις nella contemplazione non si risolve in un abbandono della dimensione sensibile, ma in una piena integrazione tra ciò che è materiale e ciò che è immateriale. Come il sole sorgendo e illuminando il mondo mostra se stesso e le cose da lui illuminate, così anche il sole della giustizia, apparendo alla mente pura, mostra se stesso e i logoidi tutte le cose che sono state e saranno fatte da lui31.
Riprendendo ancora una volta l’immagine dell’occhio illuminato dal sole, questo capitolo delle Centurie afferma che non occorre abbandonare ciò che è sensibile, ma coglierlo secondo l’intenzione di Dio. In questo contesto, è centrale la funzione dei logoi, che nel pensiero massimiano indicano i principi costitutivi a partire dai quali Dio ha realizzato ogni cosa; i logoi sono pertanto le «ragioni», in senso noetico, ma al tempo stesso le «volontà» divine, poiché da essi prende avvio il processo creativo e provvidente. Ὥσπερ τὸ φῶς τοῦ ἡλίου τὸν ὑγιῆ ὀφθαλμὸν πρὸς ἑαυτὸν ἐφέλκεται, οὕτω καὶ ἡ γνῶσις τοῦ Θεοῦ τὸν καθαρὸν νοῦν φυσικῶς διὰ τῆς ἀγάπης πρὸς ἑαυτὸν ἐπισπᾶται (Char.1.32 [A. CERESA–GASTALDO 1963, 60]). 30 Ὥσπερ τὸν αἰσθητὸν ὀφθαλμὸν ἡ καλλονὴ τῶν ὁρατῶν, οὕτω καὶ τὸν καθαρὸν νοῦν ἡ γνῶσις τῶν ἀοράτων πρὸς ἑαυτὴν ἐπισπᾶται· ἀόρατα δὲ λέγω τὰ ἀσώματα (Char.1.90 [A. CERESA–GASTALDO 1963, 84]). 31 Ὥσπερ ὁ ἥλιος ἀνατέλλων καὶ τὸν κόσμον φωτίζων δείκνυσί τε ἑαυτὸν καὶ τὰ ὑπ’ αὐτοῦ φωτιζόμενα πράγματα· οὕτω καὶ ὁ τῆς δικαιοσύνης ἥλιος τῷ καθαρῷ νῷ ἀνατέλλων καὶ ἑαυτὸν δείκνυσι καὶ πάντων τῶν ὑπ’ αὐτοῦ γεγονότων καὶ γενησομένων τοὺς λόγους (Char.1.95 [A. CERESA–GASTALDO 1963, 86]). 29
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Icammelli,innumerodiquattrocentocinquanta. I cammelli, che escono insieme ai figli di Israele, una volta sciolti in piena libertà dall’amara prigionia, sono le diverse contemplazioni naturali delle realtà visibili: in modo simile al cammello hanno da una parte – come piedi – le manifestazioni impure delle realtà visibili, per la percezione sensibile; dall’altra, per l’intelletto – come la testa – hanno i logoi puri presenti in tali realtà, elevatissimi nello spirito32.
La purezza nella contemplazione nasce, pertanto, dalla capacità di passare dal piano sensibile a quello intellettuale, ossia dai typoi ai logoi, per usare termini cari al nostro autore. Questo movimento di ascesa, che culmina nell’accesso alla tappa teologica e all’incontro con il Logos (unicamente per grazia), trova corrispondenza in un processo discentente, che ritorna dai logoi ai typoi, in una conoscenza trasfigurata della realtà33. Tale dinamica di ascesa e discesa trova il proprio fondamento nella centralità assegnata all’incarnazione di Cristo. Questo mistero di salvezza segna profondamente il pensiero del Confessore, conferendogli accenti originali rispetto ad altri autori, come ad esempio Dionigi l’Areopagita, da lui considerato un importantissimo maestro34. 3. LA
PURIFICAZIONE NELLA TAPPA TEOLOGICA: IL TEMA DELLA PREGHIERA PURA
La tappa teologica, culmine del cammino di avvicinamento a Dio, è vista dal nostro autore in due modi: è il frutto maturo della purificazione operata a livello sensibile e intellettuale, che permette di conoscere il mistero trinitario; è esperienza di totale uscita da sé, di passività accolta liberamente per amore, per lasciarsi plasmare da Dio a somiglianza del Figlio in una unione indicibile. Il primo aspetto pare quasi una sorta di passaggio tra θεωρία e θεολογία, poiché al centro vi è ancora l’elemento «teoretico», sebbene portato al suo 32 Κάμηλοι τετρακόσιαι τριακονταπέντε. Κάμηλοι, συνεξιοῦσαι τοῖς υἱοῖς Ἰσραήλ, σὺν ἐλευθερίᾳ πολλῇ τῆς πικρᾶς ἀπολυομένοις αἰχμαλωσίας, εἰσὶν αἱ φυσικαὶ τῶν ὁρωμένων διάφοροι θεωρίαι, κατὰ τὴν κάμηλον ἔχουσαι πρὸς μὲν αἴσθησιν, ὥσπερ πόδας, ἀκαθάρτους τὰς ἐπιφανείας τῶν ὁρατῶν, πρὸς δὲ νοῦν, ὥσπερ κεφαλήν, καθαροὺς τοὺς ἐν αὐτοῖς ὑψηλοτέρους ἐν πνεύματι λόγους (Thal. 55 [CCSG 7 501.347-353]). In questa Quaestio, Massimo commenta 1 Esd 5,41-42 (TM Esd2,64-67), soffermandosi lungamente sulla simbologia numerica. 33 A partire da questa dinamica, P. Mueller-Jourdan elabora una vera e propria teoria della conoscenza in Massimo il Confessore (cf. P. MUELLER-JOURDAN 2006, 276-287). 34 Su questo tema è classico lo studio di Y. de Andia: Y. DE ANDIA 1997, 293-328.
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grado più elevato; il secondo aspetto si pone invece sul piano della πεῖρα, ossia dell’«esperienza», ed esprime la conoscenza immediata di Dio, che non ha più bisogno di mediazioni di alcun tipo35. Una declinazione di questo stato di perfezione, nella sua duplice valenza, è certamente la καθαρὰ προσευχή. Massimo parla in più occasioni della «preghiera pura», specialmente in testi dal tenore ascetico come le Centuriesullacarità, ove il tema è ripreso spesso e fa addirittura da Leitmotiv per una delle quattro raccolte di capitoli36. Nella SecondaCenturia, infatti, il punto di partenza è la preghiera «senza distrazioni», che viene poi definita «pura» nei capitoli successivi – con la distinzione tra credenti impegnati nella vita pratica e contemplativi – e alla fine è detta preghiera «come si conviene». Colui che ama sinceramente il Signore, prega anche senza alcuna distrazione; e chi prega senza alcuna distrazione, ama anche sinceramente il Signore. Non prega però senza distrarsi colui che ha la mente fissata su una qualche realtà terrestre; perciò non ama Dio chi ha la mente legata a qualcosa di terrestre37. È opera dei comandamenti rendere pure le idee delle cose; della lettura e della contemplazione, rendere la mente senza materia e senza forma; da ciò viene il pregare senza distrazioni38. Due sono gli stati eccelsi della preghiera pura: l’uno è proprio degli uomini attivi, l’altro dei contemplativi. E l’uno nasce nell’anima dal timore di Dio e dalla buona speranza; l’altro dall’ardente amore divino e dalla purificazione più elevata. Segni distintivi del primo stato sono il raccogliere la mente da tutte le idee del mondo e, come se le fosse presente 35 Massimo spiega questa distinzione soprattutto in Thal. 60 (CCSG 22 77.6390). Per una conoscenza sintetica di questo tema si veda P. MIQUEL 1989, 120-127. 36 Nella Seconda Centuria si parla della preghiera ben 16 volte (cf. Char. 2.1, 4-7, 14, 19, 35, 47, 52, 54, 57, 61-62, 70, 90 [A. CERESA–GASTALDO 1963, 90-92, 96-98, 110, 116-120, 122-124]). Anche se non sempre il Confessore usa in modo esplicito l’aggettivo «pura», si coglie generalmente una profonda consonanza tra i vari capitoli. È significativo che il primo capitolo della raccolta abbia per tema la preghiera senza interruzioni e che tale tema si ripresenti alla fine. È difficile pensare che si tratti di una scelta casuale; più probabilmente, ciò indica una scelta precisa del Confessore per definire il contenuto principale (o perlomeno uno dei contenuti principali) della raccolta. 37 Ὁ γνησίως τὸν Θεὸν ἀγαπῶν, οὗτος καὶ ἀπερισπάστως πάντως προσεύχεται· καὶ ὁ ἀπερισπάστως πάντως προσευχόμενος, οὗτος καὶ γνησίως τὸν Θεὸν ἀγαπᾷ. Οὐκ εὔχεται δὲ ἀπερισπάστως ὅ τινι τῶν ἐπιγείων ἔχων τὸν νοῦν προσηλωμένον· οὐκ ἄρα ἀγαπᾷ τὸν Θεὸν ὅ τινι τῶν ἐπιγείων ἔχον τὸν νοῦν προσδεδεμένον (Char.2.1 [A. CERESA–GASTALDO 1963, 90]). 38 Ἔργον τῶν ἐντολῶν, ψιλὰ ποιεῖν τὰ τῶν πραγμάτων νοήματα· ἀναγνώσεως δὲ καὶ θεωρίας, ἄϋλον καὶ ἀνείδεον τὸν νοῦν ἀπεργάζεσθαι· ἐκ δὲ τούτου συμβαίνει τὸ ἀπερισπάστως προσεύχεσθαι (Char.2.4 [A. CERESA–GASTALDO 1963, 90]).
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Dio stesso – come realmente è –, compiere le orazioni senza distrazioni o turbamenti. Segno distintivo del secondo stato è che la mente venga rapita, nello stesso slancio della preghiera, dalla divina e infinita luce e non si accorga più in nessun modo né di se stessa né di qualunque altro essere, se non del Solo che, per mezzo della carità, opera in lei un tale splendore. Allora, occupandosi delle ragioni intorno a Dio, riceve pure e limpide le immagini da Lui riflesse39. Il grado eccelso della preghiera dicono sia questo: che la mente si trovi fuori della carne e del mondo, del tutto immateriale e senza forma durante la preghiera. Chi dunque mantiene questo stato integro, costui prega davvero incessantemente40. Una volta che la mente si sia spogliata dalle passioni e abbia ricevuto l’illuminazione nella contemplazione degli esseri, allora può giungere a Dio e pregare come si deve41.
Come spesso accade nei suoi scritti, specialmente di carattere spirituale, il linguaggio usato dal Confessore è fortemente debitore della tradizione monastica a lui precedente; così è anche per il tema della καθαρὰ προσευχή, che richiama molto da vicino la mistica di Evagrio, tanto da trarre in inganno alcuni autori del secolo scorso, che lo hanno considerato alla stregua di un compilatore – per quanto dotto – del pensiero del monaco egiziano42. 39 Τῆς καθαρᾶς προσευχῆς δύο εἰσὶν ἀκρόταται καταστάσεις· ἡ μὲν τοῖς πρακτικοῖς, ἡ δὲ τοῖς θεωρητικοῖς ἐπισυμβαίνουσα. Καὶ ἡ μὲν ἐκ φόβου Θεοῦ καὶ ἐλπίδος ἀγαθῆς τῇ ψυχῇ ἐγγίνεται· ἡ δέ, ἀπὸ θείου ἔρωτος καὶ ἀκροτάτης καθάρσεως. Γνωρίσματα δὲ τοῦ μὲν πρώτου μέτρου, τὸ ἐντὸς συναγαγεῖν τὸν νοῦν ἐκ πάντων τῶν τοῦ κόσμου νοημάτων καὶ ὡς αὐτῷ συναγαγεῖν τὸν νοῦν ἐκ πάντων τῶν τοῦ κόσμου νοημάτων καὶ ὡς αὐτῷ αὐτοῦ παρισταμένου τοῦ Θεοῦ, ὥσπερ καὶ παρέστη, ποιεῖσθαι τὰς προσευχὰς ἀπερισπάστως καὶ ἀνενοχλήτως· τοῦ δὲ δευτέρου, τὸ ἐν αὐτῇ τῇ ὁρμῇ τῆς προσευχῆς ἁρπαγῆναι τὸν νοῦν ὑπὸ τοῦ θείου καὶ ἀπείρου φωτὸς καὶ μήτε ἑαυτοῦ μήτε τινὸς ἄλλου τῶν ὄντων τὸ σύνολον ἐπαισθάνεσθαι, εἰ μὴ μόνου τοῦ διὰ τῆς ἀγάπης ἐν αὐτῷ τὴν τοιαύτην ἔλλαμψιν ἐνεργοῦντος. Τότε δὲ καὶ περὶ τοὺς περὶ Θεοῦ λόγους κινούμενος, καθαρὰς καὶ τρανὰς τὰς περὶ αὐτοῦ λαμβάνει ἐμφάσεις (Char.2.6 [A. CERESA–GASTALDO 1963, 92]). 40 Τὴν τῆς προσευχῆς ἀκροτάτην κατάστασιν ταύτην εἶναι λέγουσι· τὸ ἔξω σαρκὸς καὶ κόσμου γενέσθαι τὸν νοῦν καὶ ἄϋλον πάντη καὶ ἀνείδεον ἐν τῷ προσεύχεσθαι. Ὁ οὖν ταύτην ἀλώβητον διατηρῶν τὴν κατάστασιν, οὗτος ὄντως ἀδιαλείπτως προσεύχεται (Char.2.61 [A. CERESA–GASTALDO 1963, 122]). 41 Ὅταν ὁ νοῦς παθῶν γυμνωθῇ καὶ τῇ τῶν ὄντων καταλάμπηται θεωρίᾳ, τότε δύναται καὶ ἐν Θεῷ γενέσθαι καὶ ὡς δεῖ προσεύχεσθαι (Char.2.100 [A. CERESA– GASTALDO 1963, 142]). 42 Cf. M. VILLER 1930, 156-184; 239-268; 331-336. L’impostazione di Viller, poco attenta a cogliere l’originalità del Confessore, è stata presto criticata da buona parte degli studiosi massimiani. Thunberg, in particolare, motiva in modo puntuale le sue divergenze di opinione, toccando vari aspetti tra cui quello della preghiera pura (cf. L. THUNBERG 1995, 332-368).
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Contrariamente a queste posizioni, come ha giustamente notato Thunberg43, per Massimo la preghiera «pura» non indica tanto uno stato «negativo» – la liberazione da ciò che è materiale o formale – quanto l’eccedenza di una condizione in cui il credente è rapito in Dio per puro dono di grazia; in tal senso, non è fuori luogo parlare di preghiera «estatica». Ciò non significa che in alcuni casi la προσευχή non sia presentata dal nostro autore anche come perfezione del percorso teoretico; la dimensione prevalente rimane, tuttavia, quella legata alla sfera teologica in senso stretto. Thunberg evidenzia proprio in questo carattere di eccedenza la differenza tra Massimo ed Evagrio44. 4. LA
PURIFICAZIONE COME PROCESSO: INTERRELAZIONE TRA GRAZIA E LIBERTÀ NELLA FORMAZIONE DELLA
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Si è detto che la novità di Massimo non risiede nella strutturazione del percorso ascetico, ma nel modo dinamico con cui egli interpreta i dati della tradizione monastica a lui precedente. A tal proposito, l’itinerario fatto evidenzia bene la stretta interazione tra πρᾶξις e θεωρία, dove la purificazione non è volta solo a «liberare» il νοῦς da ciò che è sensibile, ma ha altresì il compito di permettere all’uomo un rapporto corretto con il mondo, attraverso una vita virtuosa al cui culmine è posta la carità. Anche la tappa teologica, di cui la καθαρὰ προσευχή è un’importante declinazione, approda ad un’esperienza immediata di Dio (πεῖρα) che si esprime nell’agire divinizzato. Tutto ciò fa capire che la κάθαρσις è un processo. In esso, l’uomo è chiamato a collaborare nella libertà con la grazia divina, sostenendo Cf. L. THUNBERG 1995, 362-368. Scrive Thunberg: «For Maximus pure prayer is no longer just a purified prayer, but a prayer in pure concentration upon God which reaches out in love to God, certainly as He manifests Himself to the naked mind, but probably also as He is in Himself, i.e. in the very mistery of His being. It is true that the term “ecstasy” is more proper here, but Maximus draws no very sharp distinction between ecstasy and pure prayer. Evagrius has a far more intellettual approach at this point. For him pure prayer is purified prayer, and as such it is the prayer of a mind which is made pure. But a pure mind is in Evagrius’ opinion a mind restored to full divine communion, able to contemplate God in itself. For Maximus, on the contrary, the mind as created must reach outside itself to find God as He is, and pure prayer is thus for him a formless contemplation of God in the qualities which He shows by grace. And it aims beyond these to the communion with God as He is in Himself. At this point Maximus is assisted by Ps.-Dionysian apophatic theology, and not by Evagrian thinking, though he agrees with Evagrius that the mind may be fully illuminated by God in prayer alone, and though he seems to be less interested in divine darkness than Ps.-Dionysius» (L. THUNBERG 1995, 367). 43
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con un’ascesi costante il dono di Dio, volto a realizzare in ciascun credente l’incarnazione del Figlio Unigenito. Massimo afferma che lo spazio di tale collaborazione è l’εὖ εἶναι, dimensione dell’essere in cui si attua una conformazione cristologica inarrivabile con le sole forze umane (ἀεὶ εἶναι), ma pensata fin dall’inizio da Dio per le sue creature (τὸ εἶναι)45. In questa tensione verso la vita divinizzata, la facoltà volitiva dell’uomo assume un ruolo centrale: in essa, infatti, si è prodotta la distorsione del fine con il peccato di Adamo; in essa opera la salvezza di Cristo a partire dal battesimo; in essa si sviluppa la collaborazione tra la grazia divina e la libera adesione dell’uomo. Massimo perfezionerà la sua riflessione su queste tematiche nella sua produzione più matura, a causa delle controversie monotelite; tuttavia, fin dai suoi primi scritti emerge con chiarezza l’attenzione verso questa sfera antrolopogica. In Char.4.91, egli afferma che vi è una καθαρὰ κατάστασις; da essa scaturisce un giudizio, che a sua volta porta alla libertà interiore e alla carità. I comandi del Signore ci insegnano a servirci in modo lodevole delle realtà indifferenti; l’uso lodevole delle realtà indifferenti purifica lo stato dell’anima; lo stato puro produce il giudizio; il giudizio, infine, genera l’impassibilità, dalla quale proviene la carità perfetta46.
Con maggior frequenza, Massimo parla di καθαρὰ διάθεσις, ossia di una disposizione interiore purificata che orienta il processo decisionale, rendendolo stabilmente conforme al progetto divino. È il caso, ad esempio, dell’Expositioorationisdominicae, laddove si commenta la richiesta di perdono dei peccati. Infatti, la disposizione pura verso chi lo ha afflitto è necessaria ad entrambi [chi chiede il pane spirituale e chi chiede il pane materiale] per il loro reciproco vantaggio, sotto ogni aspetto e specialmente per la potenza delle parole seguenti, che suonano così: enonindurciintentazione,ma salvacidalmaligno47.
45 Per una conoscenza di questa tripartizione ontologica e del suo orientamento finalistico, cf. J.-C. LARCHET 2010, 31; P.G. RENCZES 2003, 182-185. 46 Αἱ μὲν ἐντολαὶ τοῦ Κυρίου διδάσκουσιν ἡμᾶς τοῖς μέσοις εὐλόγως χρήσασθαι πράγμασιν· ἡ δὲ εὔλογος τῶν μεσῶν χρῆσις τὴν τῆς ψυχῆς καθαίρει κατάστασιν· ἡ δὲ καθαρὰ κατάστασις τίκτει τὴν διάκρισιν· ἡ δὲ διάκρισις τίκτει τὴν ἀπάθειαν, ἐξ ἧς τίκτεται ἡ τελεία ἀγάπη (Char.4, 91 [A. CERESA–GASTALDO 1963, 234]). 47 Ἀναγκαία γὰρ ἀμφοτέροις πρὸς τὴν σφῶν αὐτῶν λυσιτέλειαν καθέστηκεν ἡ καθαρὰ πρὸς τοὺς λελυπηκότας διάθεσις, πάντων μὲν ἕνεκεν, οὐχ’ ἥκιστα δὲ διὰ τὴν τῶν λειπομένων ῥητῶν δύναμιν, τοῦτον ἔχουσαν τὸν τρόπον· καὶ μὴ
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Questa διάθεσις, poco prima, era stata definita da Massimo come il frutto della purificazione dalle passioni, grazie a cui la volontà del credente vince la tentazione dell’odio e torna ad accordarsi con il logosdell’unica natura umana. E forse per questo Dio vuole che per prima cosa noi compiamo la riconciliazione gli uni con gli altri: non perché possa imparare da noi […], ma per purificarci dalle passioni e mostrare la disposizione di chi è perdonato in accordo con la condizione della grazia48.
I termini che però esprimono con più precisione la complessità della sfera volitiva e la sua centralità nel processo salvifico sono γνώμη e ἕξις49. Il primo lemma indica la facoltà dell’uomo nella sua funzione decisionale e nell’ambiguità che la caratterizza a seguito del peccato ancestrale. Nel corso della sua produzione letteraria, Massimo affina progressivamente la sua concezione di γνώμη, cogliendone con chiarezza sempre maggiore l’ambivalenza di fondo, tanto da affermarne l’assenza in Cristo50; fin da subito, tuttavia, il nostro autore vede nella γνώμη ciò che presiede al processo della decisione e, conseguentemente, della scelta. In questa prospettiva, non sorprende leggere che la grazia operante nel battesimo agisce proprio su tale facoltà. Se invece noi predisponiamo la nostra facoltà volitiva, tramite la conoscenza, ad accogliere le loro operazioni, intendo quelle dell’acqua e dello Spirito, sicuramente l’acqua mistica potrà, attraverso la vita pratica, produrre la purificazione della nostra coscienza, e lo Spirito che vivifica opererà in noi, grazie alla conoscenza acquisita attraverso l’esperienza, la perfezione ormai inalterabile del bene. Resta dunque a ciascuno di noi, che possiamo ancora peccare, il voler offrire tutto noi stessi allo Spirito attraverso una volontà [γνώμη] e una modalità pure51. εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν, ἀλλὰ ῥῦσαι ἡμᾶς ἀπὸ τοῦ πονηροῦ (Exp.or.dom. 700-706[CCSG 23 66-67, 700-706]). 48 Καὶ τυχὸν διὰ τοῦτο πρότερον ἡμᾶς βούλεται τὰς πρὸς ἀλλήλους ποιεῖσθαι καταλλαγὰς ὁ θεός, οὐχ’ ἵνα παρ’ ἡμῶν μάθῃ καταλλάττεσθαι τοῖς ἁμαρτάνουσι καὶ τῶν πολλῶν συγχωρεῖν καὶ φοβερῶν ἐγκλημάτων τὴν ἔκτισιν, ἀλλ’ ἵνα ἡμᾶς καθάρῃ παθῶν καὶ δείξῃ συμβαίνουσαν τῇ σχέσει τῆς χάριτος τὴν τῶν συγχωρουμένων διάθεσιν (Exp.or.dom. 668-674[CCSG 23 65.668-674]). 49 Su questo tema si veda il fondamentale studio di P.G. RENCZES 2003. L’autore tedesco propone un percorso filosofico e patristico, per giungere a dimostrare come la tensione γνώμη - ἕξις, nel pensiero del Confessore, sia la chiave di comprensione dell’intero processo di divinizzazione. 50 Cf. Th. Pol. 16 (PG 91 193A); Pyrr (PG 91 309A). Per quel che riguarda le opinioni degli studiosi in merito a questo tema, cf. P.G. RENCZES 2003, 339; M.C. STEENBERG 2006, 237-242. 51 Εἰ δὲ τούτων, ὕδατος λέγω καὶ πνεύματος, τὴν ἐνέργειαν δέχεσθαι γνωστικῶς τὴν γνώμην παρεσκευάζομεν, ἄρα ἂν διὰ τῆς πρακτικῆς τὸ μυστικὸν ὕδωρ
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Il secondo termine, ἕξις, indica ciò che la γνώμη è chiamata a divenire per grazia: una disposizione stabilmente orientata al bene. Scrivendo nel corso della crisi monotelita, Massimo afferma che Cristo non possiede una volontà ambigua, ma ha solamente ἕξις; ed è proprio nella costituzione di una ἕξις cristologica che risiede il dono della divinizzazione per il credente, ossia l’incarnazione di Cristo in lui. Questo, in ultima analisi, è il luogo in cui si struttura la collaborazione tra grazia divina e libera accoglienza dell’uomo, in un processo che ha come meta la costituzione del Corpo mistico di Cristo, di cui ciascun credente è membro unico e insostituibile. Per tale motivo, Massimo assegna anche alla ἕξις l’aggettivo καθαρά, come liberazione dall’ambivalenza gnomica, ma anche nel senso dell’eccedenza proprio della condizione «teologica». Così avviene in Thal. 64, nel famoso passo in cui si parla delle tre leggi naturale, scritta, della grazia. La legge scritta abitua, attraverso la paura del castigo, a trattenere gli slanci disordinati delle persone più insensate; essa insegna loro a guardare unicamente ad una ripartizione equa, in virtù della quale la forza della giustizia, consolidata nel tempo, divenga naturale. Essa fa del timore una disposizione educata a poco a poco con dolcezza per un orientamento al bene della disposizione del volere [γνώμη]; inoltre, rende l’habitus[ἕξις] uno stato purificato, grazie all’oblio del passato e generando insieme ad esso l’affetto reciproco in cui risiede la pienezza della legge, poiché tutti sono legati armoniosamente gli uni agli altri tramite la carità52.
5. CONCLUSIONE A conclusione del percorso, si possono raccogliere cinque punti sull’uso del vocabolario relativo alla purificazione nei testi massimiani. ἐποιεῖτο τὴν τῆς συνειδήσεως κάθαρσιν, καὶ τὸ ζωοποιὸν πνεῦμα τὴν ἄτρεπτον ἐν ἡμῖν τοῦ καλοῦ διὰ τῆς ἐν πείρᾳ γνώσεως ἐνήργει τελείωσιν. Λείπει τοιγαροῦν ἑκάστῳ ἡμῶν τῶν ἁμαρτεῖν ἔτι δυναμένων τὸ καθαρῶς ἑαυτοὺς ὅλους κατὰ τὴν γνώμην ἐμπαρέχειν βουληθῆναι τῷ πνεύματι (Thal.6.43-51 [CCSG 7 71.43-51]). 52 Ὁ δὲ γραπτὸς νόμος φόβῳ τῶν ἐπιτιμιῶν ἐπέχων τὰς ἀτάκτους τῶν ἀφρονεστέρων ὁρμὰς ἐθίζει, διδάσκων πρὸς μόνην αὐτοὺς ὁρᾶν τὴν τοῦ ἴσου διανομήν, καθ’ ἣν τῆς δικαιοσύνης τὸ κράτος, χρόνῳ βεβαιωθέν, εἰς φύσιν μεθίσταται, ποιοῦν τὸν μὲν φόβον διάθεσιν, ἠρέμα κατὰ μικρὸν τῇ περὶ τὸ καλὸν γνώμῃ κρατυνομένην, ἕξιν δὲ τὴν συνήθειαν, τῇ λήθῃ τῶν προτέρων καθαιρομένην καὶ τὸ φιλάλληλον ἑαυτῇ συναποτίκτουσαν, καθ’ ὃ τοῦ νόμου γίνεσθαι τὸ πλήρωμα πέφυκεν, πάντων ἀλλήλοις κατὰ τὴν ἀγάπην συναρμοσθέντων (Thal.64.755-764 [CCSG 22 235.755-764]).
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Un primo dato, di carattere letterario, è il legame del Confessore con la tradizione monastica a lui precedente e con il linguaggio biblico. La conoscenza che Massimo ha dei Cappadoci, così come dei testi ascetici di stampo evagriano o del pensiero di Pseudo Dionigi emergono con chiarezza dai suoi scritti, e influenzano il suo modo di parlare della purificazione53. Similmente, Massimo si serve anche di categorie bibliche – quali quella del «cuore puro» di Matteo o della «coscienza pura» di 2 Tm 1,3 – comuni nel mondo cristiano. Un secondo dato è la duplice valenza del concetto di purificazione: Massimo parla, inprimis, di un freno posto alle passioni – sia nella vita attiva, sia nella contemplazione –, dando così alla κάθαρσις una connotazione negativa, di morte; a tale connotazione segue, per contro, l’aspetto di risurrezione, tramite l’acquisizione di una libertà interiore (ἀπάθεια) che apre il credente alla vita virtuosa. L’approdo di questo percorso è la tappa teologica, dove il significato prevalente non è quello di liberazione dal male, ma di eccedenza; esempio di ciò è la «preghiera pura», che può essere intesa anche come preghiera «estatica». Un terzo dato è la varietà di elementi psicologici e antropologici a cui viene applicato il concetto di κάθαρσις: può essere pura la mente, così come l’anima, lo spirito, la ragione, la coscienza, oppure il corpo o i sensi. Massimo si serve con molta frequenza dello schema tripartito νοῦς - ἐπιθυμία - θυμός, a volte considerando il νοῦς come un elemento della terna, a volte nella sua funzione complessiva. Allo stesso modo, però, può utilizzare anche la tripartizione antropologica πνεῦμα - ψυχή - σῶμα di stampo paolino, oppure la distinzione tra sensi e intelletto. La varietà nell’uso di queste categorie è un indicatore della libertà con cui il nostro autore attinge a fonti diverse e della complessità del suo pensiero. Un quarto dato è il carattere di integrazione legato al concetto di purificazione. Più volte il Confessore intende il percorso spirituale come una κάθαρσις rispetto a ciò che è sensibile, per giungere alla chiarezza della contemplazione. Ciò non deve far pensare, tuttavia, all’ascesi come ad un passaggio da πρᾶξις a ϑεωρία o come liberazione dal mondo materiale; per Massimo, piuttosto, la contemplazione è 53 Nel percorso fatto, si è scelto di presentare un solo esempio di dipendenza letteraria (il tema della καθαρὰ προσευχή in rapporto ad Evagrio), per suggerire che, al di là dei richiami più o meno espliciti ad altri autori, il dato interessante dell’opera massimiana è l’originalità con cui vengono riletti dati appartenenti alla tradizione.
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la capacità di cogliere la realtà sensibile (i τύποι) alla luce delle ragioni in base alle quali Dio l’ha creata (i λόγοι). In altre parole, al cammino di ascesa verso le realtà intelligibili (θεωρία) corrisponde un percorso di discesa verso ciò che è materiale in un agire risanato e virtuoso (πρᾶξις). L’ultimo dato riguarda, infine, il binomio γνώμη - ἕξις. Nell’impostazione massimiana, queste due categorie legate alla sfera volitiva sono la chiave per comprendere la divinizzazione come un processo, in cui libertà umana e grazia divina collaborano insieme, al fine di realizzare in ciascun credente l’incarnazione del Figlio. In questo contesto, la κάθαρσις (nella γνώμη o nella ἕξις) mantiene entrambe le accezioni di purificazione ed eccedenza già osservate, ma ne sottolinea l’aspetto dinamico e finalizzato, permettendo così di cogliere in modo unitario e armonico gli elementi finora analizzati.
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Indici dei passi biblici Gen 1,26 Gen 2,8 Gen 15,5 Gen 15,9 Gen 17,13 Gen 24,8 Gen 35,2 Es 4,6-7 Es 4,24 Es 11,1 Es 19,6 Es 20,3 Es 20,8 Es 22,28 Es 23,13 Es 24,10 Es 25 Es 25,11 Es 27,20 Es 29,36-37 Es 30 Es 30,10 Es 30,18-21 Es 30,35 Es 31,8 Es 34,7 Es 38,25 Es 39,16 Lv 1,7 Lv 2,11-12 Lv 4,7 Lv 4,12 Lv 6,4 Lv 7,11-15 Lv 7,13 Lv 8,7-8 Lv 8,15 Lv 10,1 Lv 10,6 Lv 10,9-11
43 43 43 54 56 28 41 149 159 91 35 36 93 62 131 29 54 30 28; 29 28; 29 143 30 144 29 29 30 29 29 31 144 143 30 30 144 145 145 29 31; 32 32 31
Lv 10,9 Lv 10,10 Lv 10,11 Lv 10,12 Lv 10,14 Lv 10,15 Lv 10,16 Lv 11 Lv 11,44 Lv 11,46-47 Lv 12 Lv 12,7 Lv 13 Lv 13,12 Lv 14 Lv 14,1-9 Lv 15 Lv 15,2-11 Lv 15,31 Lv 16 Lv 16,30 Lv 19,2 Lv 20,25 Lv 24,2 Lv 24,4 Lv 24,6 Lv 24,7 Nm 5,17 Nm 5,28 Nm 6,2 Nm 8,7 Nm 19,9 Nm 19,12 Nm 30,6 Nm 31,23 Nm 31,24 Dt 1,17 Dt 2,30 Dt 14,1 Dt 18,10
32 28 32 32 32 32 32 32 156 29 33 28 33 41 33-34; 148 147 34 150 149 34 28; 29 36 29 29 29 29 29 30 28 56 28; 36 30; 36 28 28 29 29 56 38 151 151
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Indicedeipassibiblici
Gs 22,17 28 Gdc 6,34 38 2 Regni 4,6 30; 38 4 Regni 5,10 29 4 Regni 5,14 29 2 Cr 3,5 28 2 Cr 4,16 30 2 Cr 13,11 29 Tb 3,14 28 Tb 13,17 75 1 Mac 4,36 29 1 Mac 4,50 28 2 Mac 7,40 40 4 Mac 6,29 27 Sal 11(12),7 28; 29 Sal 18(19),13 113n Sal 18(19),14 28 Sal 23(24),3-6 113n Sal 23(24),4 28 Sal 50(51) 113n Sal 50(51),4 28; 29; 91; 151 Sal 50(51),9 29; 91 Sal 50(51),12 30; 37; 90 Sal 115,4(116,13) 145 Pro 8,9-11 113n Pro 14,4 30 Pro 20,9 28 Gb 4,16-18 90 Gb 4,17 28 Gb 7,21 28 Gb 8,6 28 Gb 9,30 29 Gb 11,4 28 Gb 11,13-17 30 Gb 14,4 28; 113n Gb 14,4-5 90 Gb 15,15 90 Gb 17,9 30 Gb 22,30 30 Gb 33,3 28; 30 Gb 33,9 28 Sap 3,6 98 Sir 23,10 28 Sir 38,10 28 Sir 38,30 30 Ab 1,13 30
Zac 4,10 Zac 5,7-8 Mal 1,11 Mal 1,14 Mal 3,3 Is 1,2-7 Is 1,11-16 Is 1,16 Is 1,16-18 Is 1,16-20 Is 1,18 Is 1,25 Is 4,4 Is 6,5-9 Is 6,7 Is 11,2 Is 14,19 Is 28,16 Is 28,27 Is 35,8 Is 35,9 Is 43,25 Is 52,11 Is 53,5 Is 53,10 Is 57,14 Is 66,17 Ger 2,22 Ger 4,11 Ger 6,29-30 Ger 31,34 Ger 40(33),8 Lam 4,7 Ez 2,2 Ez 8,3 Ez 11,5 Ez 14,11 Ez 16,8 Ez 16,38-43 Ez 18,6 Ez 20,7 Ez 22,26 Ez 23,38 Ez 24,13 Ez 33,22 Ez 36,22-25
146 146 30; 89 89 29 39 113n 145 113n 90 30 39 113n 39 113n 38 28 146 30 28; 150 150 151 76 91 28 30 29 30 38 147 74 28 27 38 38 38 36 36 39 36 36 36 36 39 39 36
Indicedeipassibiblici Ez 36,25 Ez 36,25-27 Ez 36,27-30 Ez 36,33 Ez 37,4-14 Ez 37,23 Ez 43,26 Ez 44,24-26 Dn 1 Dn 7,9 Dn 11,33-35 Dn 11,35 Dn 12,1-3 Mt 3,11 Mt 3,14 Mt 5,8 Mt 8,1-4 Mt 10,8 Mt 11,3-6 Mt 11,5 Mt 13,45 Mt 15,11 Mt 19,23 Mt 23,13-32 Mt 23,25 Mt 23,27 Mt 26,28 Mt 27,59 Mc 1,40-45 Mc 7 Mc 7,19 Lc 4,16-30 Lc 5,12-16 Lc 7,18-30 Lc 11,37-52 Lc 17,11-19 Gv 3,3-7 Gv 9,24 Gv 13,1-20 Gv 14,6 Gv 15,1-3 Gv 15,1-7 Gv 15,3 At 5,16 At 10
28; 29; 74 37-38 37 28 38 29 29 29 65 30; 113n 39 28; 29 39 151 144 68; 81; 86; 113; 119n; 125; 161 69 69 113n 69 146 86 113n 69 113n 82 74 69 68 68, 83-84 68; 76 70 69 70 70 70 104n 150 72-73 91 73; 86; 113n; 118 153 154 82 81; 84
At 10,9-15 At 10,14-15 At 10,28 At 10,47 At 11,1-18 At 15,8-9 At 15,9 At 15,29 At 18,6 At 20,26 Rm 1,24 Rm 1,25 Rm 5,20 Rm 6,4-6 Rm 6,19 Rm 14,20 1 Cor 2,6 1 Cor 4,12 1 Cor 4,16 1 Cor 5,7 1 Cor 5,8 1 Cor 7,14 1 Cor 8,1 1 Cor 11,1 1 Cor 11,30-32 1 Cor 13,12 2 Cor 5,17 2 Cor 6,14-16 2 Cor 7,1 2 Cor 12,21 Gal 2,12 Gal 5,19 Ef 2,16 Ef 4,19 Ef 4,22 Ef 5,3 Ef 5,5 Ef 5,26 Col 3,5 Col 3,9-10 1 Ts 2,3 1 Ts 4,7 1 Tm 1,5 1 Tm 3,9 2 Tm 1,3 2 Tm 2,21
195 128 70; 129 70; 82 71 70-71 71 86 71 71 71 82 148 148 104n 82 76; 85 132 134 155 82 145 83 107 155 144 119 104n 113n 75; 76; 113n; 156 82 61 82 146 82 104n 82 83 76-77; 81 82; 156 104n 82 82 77 77 77; 162 82
196 2 Tm 2,22 Tt 1,15 Tt 2,14 Eb 7,26 Eb 9,13 Eb 9,14 Eb 9,13-14 Eb 9,22-23 Eb 10,2 Eb 10,4 Eb 10,19 Eb 10,22 Eb 13,7 Gc 1,19-25 Gc 1,27 Gc 4,8 1 Pt 1,22 1 Pt 2,21-25
Indicedeipassibiblici 77 77; 113n 78; 79; 87 148 82 74; 78; 113n 145 78 79 144 79 78; 80; 87 155 79 79 80 80; 87 91
1 Pt 3,21 2 Pt 1,14 1 Gv 1,7 1 Gv 1,7-9 1 Gv 1,9 1 Gv 3,3 1 Gv 4,8 Ap 1,5 Ap 11,1 Ap 13,16 Ap 15,6 Ap 17,4 Ap 19,8 Ap 21,3 Ap 21,18 Ap 21,21-23 Ap 21,27
119 119 74; 79; 81; 87; 113n 74; 79; 81; 87 75 80 159 74 92 82 74 83 74 75 74; 75 75 75
Sommario Introduzione (Marco SETTEMBRINI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1
Osservazioni su καθαρός, καθαίρω, κάθαρσις, καθαρίζω nella letteratura greca (Pietro ROSA). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.
Etimologia e parentele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Significati propri e metaforici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Purificazioni sacre e profane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Purificati e purificatori mitici: Oreste e Melampo . . . . . . . . . . . . Medici-indovini e purificatori in età arcaica e classica. . . . . . . . . Misteri e culti orfici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Purificazioni dionisiache e misteri orfico-bacchici . . . . . . . . . . . . Aristotele e la κάθαρσις tragica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Scienza e religione nel Corpus Hippocraticum . . . . . . . . . . . . . . . Καθαίρω/κάθαρσις e pratica medica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Galeno: polemiche sugli evacuanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Un lessico, due concezioni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7 8 9 11 13 15 16 18 19 21 24 25
Osservazioni sull’impiego di καθαρός κτλ. nei Settanta (Marco SETTEMBRINI) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
27
1. Purità, purezza e giustizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. La purità rituale: le leggi di Levitico 10–16 . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. La purificazione di un intero popolo: metafora di salvezza . . . . .
29 31 35
Il concetto di «puro» in Filone (Lorenzo FLORI). . . . . . . . . . . . . . . .
41
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cosmologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Antropologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’anima razionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’educazione e l’ascesi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La dimensione etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La dimensione liturgica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pentimento e umiltà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
41 42 43 45 48 50 53 55 57
Purità e puro: il caso di Giuseppe Flavio (Lucio TROIANI) . . . . . . .
59
1. Una preoccupazione tutt’altro che prioritaria . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Una purità senza eccessi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
59 62
198
Sommario
Puro e purificare (καθαρός, καθαρίζω e καθαίρω) nel Nuovo Testamento (Paolo MASCILONGO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
67
1. Alcuni dati statistici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Analisi semantica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.1. Vangeli sinottici e Atti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.2. Letteratura Giovannea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.3. Letteratura paolina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.4. Lettere cattoliche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.5. Sguardo complessivo al Nuovo Testamento . . . . . . . . . . . . . 3. Cenni ad altri lemmi correlati: ἐκκαθαίρω, καθαρισμός, καθαρότης, ἀκαθαρσία, ἀκάθαρτος.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Analisi e approfondimenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.1. Purità, legge e Gesù storico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.2. «Beati i puri di cuore»: purità ed etica. . . . . . . . . . . . . . . . .
67 67 67 72 75 79 81
Καθαρός κτλ. nei Padri apostolici (Sincero MANTELLI) . . . . . . . . . . .
89
1. 2. 3. 4. 5.
82 83 83 86
Didachè . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La lettera di Clemente ai Corinzi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le lettere di Ignazio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La lettera di Barnaba . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il Pastore di Erma. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.1. Pulire. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.2. Liberarsi dai peccati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.3. Cuore e mente puri. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.4. Oro nel fuoco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6. Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
89 90 91 93 93 94 95 97 98 98
Purità e cuore dell’uomo nell’A Diogneto (Fabio RUGGIERO). . . . . .
101
1. 2. 3. 4.
Considerazioni introduttive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Purificare se stessi da tutti i ragionamenti (2,1) . . . . . . . . . . . . . . Irragionevolezza e inganno come motivi apologetici . . . . . . . . . . Un’occorrenza spuria: «in maniera pura» (12,3) . . . . . . . . . . . . .
101 103 104 106
La purezza del cuore per la contemplazione di Dio: la riflessione di Clemente d’Alessandria (Matteo MONFRINOTTI) . . . . . . . . . . . . . .
109
1. Purità, purezza, purificazione: valenza quantitativa del lessico e sua distribuzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Dalle occorrenze ai significati: valenza qualitativa del lessico . . 2.1. Purificazione e purezza: legge etica del cristiano . . . . . . . . . 2.2. Il Logos puro e purificatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.3. La purezza del cuore per la contemplazione di Dio . . . . . . .
110 114 115 118 119
Sommario Καθαρός e termini corradicali nel Contra Celsum di Origene (Antonio CACCIARO) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. 2. 3. 4. 5. 6.
199 127
Purità e impurità rituale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Varî tipi di purità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dalla «purità» alla «purezza» e alla «purificazione» . . . . . . . . . Mali presenti e castigo finale come fonti di purificazione . . . . . . La purezza di Cristo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Considerazioni conclusive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
128 131 133 138 140 141
Καθαρός, καθαίρω in Cirillo Alessandrino (Pietro ROSA). . . . . . . . .
143
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Occorrenze tra esegesi e dottrina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Prefigurazioni battesimali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cristologia messianica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Letture morali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Polemica antipagana. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dispute teologiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Purificazione e digiuno. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
143 143 146 149 150 152 155
La κάθαρσις in Massimo il Confessore: terminologia e significato teologico (Raffaele COPPI). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
157
1. La purificazione dei sensi: interruzione della dinamica di morte e rinascita nelle virtù . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. La purificazione nella contemplazione: comprendere la realtà nella luce divina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. La purificazione nella tappa teologica: il tema della preghiera pura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. La purificazione come processo: interrelazione tra grazia e libertà nella formazione della ἕξις . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5. Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
159 163 165 168 171
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
175
Strumenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Edizioni citate per gli autori antichi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Studi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
175 175 178
Indice dei passi biblici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
193