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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda Introduzione
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Gian Giuseppe Filippi
IL SERPENTE E LA CORDA I PARTE INTRODUZIONE
Gurur Brahmā, Gurur Vṣṇu, Gurur Devo Maheśvaraḥa, Guruḥa Sākṣāt Paraṃbrahman Tasmai, Śrīguruve Namaḥa Il Guru è Brahmā, il Guru è Viṣṇu, il Guru è l’autoluminoso Maheśvara Venerazione al Guru che è Testimone del Supremo Brahman
Dopo la pubblicazione del nostro libro Discesa agli Inferi. La morte iniziatica nella Tradizione hindū1 e del testo di Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī Dottrina e Metodo del Vedānta2, abbiamo potuto verificare che un certo numero di lettori, per quanto esiguo, ha espresso un vivo interesse per l’Advaita Vedānta, in particolare nella forma con cui questa dottrina è descritta da coloro che ancor oggi sono iniziati a questa via spirituale, nonostante i tempi tenebrosi che corrono. La dottrina, che è argomento di questi scritti, lungi dall’essere una vuota elaborazione filologica3, appare ricca di spunti di riflessione per chiunque ne tenti un approccio con sincero desiderio di conoscenza. In questi scritti si può attingere a una fonte indiana diretta, usufruendo di un linguaggio piano e alla portata di tutti, basato sull’esperienza di vita condivisa, anche se quasi nessuno è più in grado di riconoscerla. Prima però d’affrontare la dottrina vedāntica, ci si dovrà chiedere come mai, se il linguaggio è semplice e l’esperienza è comune, così pochi siano in grado di comprendere gli argomenti proposti. In verità l’attuale umanità è travolta da una fase della moderna civiltà “dannatamente” complicata, frammentata, composita e sottoposta alla tirannia della molteplicità. L’essere umano contemporaneo è allevato, fin dalla sua più verde infanzia, a una mentalità ottusamente analitica, che persegue nei più infimi dettagli lo studio del mondo di cui fa parte; questo mondo, poi, è considerato sotto l’aspetto meno qualificato, ridotto a sola massa ed energia, e sottoposto alla continua interferenza da parte dello psichismo inferiore4. Il seggio della conoscenza che nobilita l’animo umano è stato usurpato dalla tecnologia, ammirata per le sue ricadute utilitarie immediate e per le sue sempre più fatue e ingannevoli magie5. Un materialismo pratico invade tutti i campi dello scibile, con conseguenze irreversibili. Sarà 1 2
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Gian Giuseppe Filippi, Discesa agli Inferi. La morte iniziatica nella Tradizione hindū, Aprilia, Novalogos ed., Quaderni di Indoasiatica, 2014. Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, Dottrina e Metodo del Vedānta, G.G. Filippi (a cura di), Aprilia, Novalogos ed., Quaderni di Indoasiatica, 2015. Per essere più espliciti, il presente lavoro non ha nulla a che fare e a che spartire con le inutili e distorte traduzioni e interpretazioni degli indologi e sanscritisti accademici d’Occidente e d’Oriente. La migliore conoscenza filologica si rivela del tutto insufficiente a rendere in traduzione i veri significati anche dei testi più elementari, visto che l’unico vero mezzo di conoscenza in questo dominio è l’Intuizione. Per molti lo psichismo inferiore, ossia quell’aspetto deteriore della psiche umana abusivamente definito “inconscio”, che la moderna psicoanalisi pretende di studiare, ha sostituito per rovesciamento l’antica psicologia in quanto studio dell’anima. “... faranno grandi segni e miracoli tanto da sedurre, se fosse possibile, anche gli eletti” (Vangelo di S. Matteo 24.5-11; 24.25). Questo monito evangelico è del tutto attuale, tanto che persino molti, che si dichiarano “tradizionali”, arrivano ad affermare che la scienza moderna sta confermando le antiche dottrine d’Oriente e di Occidente come, per esempio, l’ipotesi del “Big Bang”, la natura vibratoria della massa, o la
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sufficiente dare uno sguardo alle ultime generazioni occidentali, ahimé non molto diverse ormai da quelle orientali, per rendersi conto della gravità irreparabile della situazione. La gioventù di oggi è stata sistematicamente istruita e preparata a non riconoscersi in una specie, l’umana, perché il darwinismo ha convinto capillarmente tutte le vittime della scuola dell’obbligo a pensare che le specie non sono categorie fissate e che tra noi e i primati o i placentati non esiste una vera barriera invalicabile, nonostante che l’evidenza dimostri il contrario. Ugualmente costoro non si identificano con una razza umana1; anzi si è arrivato a negare accademicamente l’esistenza stessa delle razze, sotto pena di essere tacciati di “razzismo”; anche questo contro ogni evidenza, soprattutto oggi in cui nelle nostre città possiamo facilmente riconoscere e distinguere un negro da un estremorientale o da un indigeno. I giovani sono stati anche istruiti a non sentirsi parte d’una nazione, ma di una entità globale amorfa priva di qualità comuni, che si vuole sovranazionale, ma che in realtà è solo antinazionale. Per cancellare anche l’ultimo baluardo di identità nazionale, si agevola nel privato e si impone nel pubblico l’impoverimento e l’imbastardimento della lingua dei padri con il broken english, il miserabile e cacofonico gergo planetario alla portata delle menti più elementari, confezionato in modo da impedire la trasmissione di qualsiasi pensiero che vada oltre le più brute necessità; e anche in questo sono evidenti la bruttezza e la povertà di questo idioma artificiale2 paragonandolo con la ricchezza, duttilità ed eleganza delle lingue nazionali. Anche l’appartenenza a una forma religiosa è oggi negata, perfino dalle stesse sfere più elevate delle istituzioni ecclesiastiche cattoliche o riformate3, nella diffusa convinzione relativistica che “una religione vale l’altra”4. D’altronde se quelle forme religiose o confessioni, come preferiscono definirsi, hanno rinunciato del tutto a ogni meta e a ogni dottrina di ordine spirituale per trasformarsi in associazioni a fini sociali, è evidente che, nell’appiattimento operato verso il basso, tra loro si considerino equivalenti. Il missionarismo, prodotto velenoso del Rinascimento, che, a scopi colonialistici, fin dall’inizio era finalizzato a distogliere aderenti alle tradizioni ancora intatte per offrire loro un frettoloso battesimo e nessuna formazione religiosa, da diversi decenni si è trasformato unicamente in uno strumento per la penetrazione delle ideologie e delle teorie scientifiche del mondialismo ateo al fine di estirpare dalle tradizioni viventi ogni traccia del sacro. Ugualmente è stato sradicato il concetto di classe sociale poiché, attraverso ripetute rivoluzioni, a partire da quella francese, si sono abolite le caratteristiche naturali dell’aristocrazia prima, della borghesia poi, e infine anche quelle del popolino, riducendo la società a una poltiglia informe, uniformata nella
teoria quantica, senza accorgersi che tutte queste congetture speculative hanno un unico scopo: quello di dimostrare che tutto è spiegabile “scientificamente”, prescindendo dai principi spirituali. Recentemente è stata anche ipotizzata da certo Dr. Robert Lanza, dichiarato “genio universale” in base al suo curriculum universitario, che la coscienza sarebbe immortale e che perciò la morte è una illusione. Tutto ciò sarebbe stato dedotto dallo scienziato menzionato come risultato delle sue speculazioni sulla teoria dei quanti. Ecco dunque che si pretende che perfino l’immortalità sia dimostrabile dalla scienza tecnologica senza far appello a Dio o a una dottrina metafisica, che così diventano “enti e preoccupazioni inutili”! Ovviamente tutto ciò è artefatto e fasullo: infatti né la scienza né la logica possono essere in grado di dimostrare ciò che le trascende. Il Lanza sarebbe arrivato volutamente a scimiottare il concetto vedāntico che la coscienza è immortale in base a una ricerca sedicente “scientifica” sulla sostanza che compone gli oggetti, considerata smultaneamente come energia e come massa. Il “genio” sarebbe riuscito, perciò, a fare dell’Ātman non solo un oggetto, ma adirittura un “oggetto da laboratorio”! Tuttavia non ci si deve stupire che si lancino di continuo simili sciocche suggestioni per manipolare ancor più la mentatiltà corrente, grazie anche alla servile opera dei divulgatori scientifici. 1 Specifichiamo “umana” perché, incoerentemente, si continua a riconoscere diverse razze di gatti, cani, equini ecc. 2 Queste considerazioni valgono anche per le arti attuali che vogliono esprimere esclusivamente ciò che è brutto, decomposto, sconcio e sacrilego. 3 “Dio non è cattolico”, ha affermato di recente il principale dirigente di ciò che fu la Chiesa Cattolica, forse intendendo dire che, a suo modestissimo parere, Dio dovrebbe essere ateo. 4 In realtà questa affermazione è profondamente errata, perché, come vedremo in seguito, le forme tradizionali sono adattamenti della Tradizione unica a umanità, tempi e luoghi profondamente diversi tra loro, il che le rende differenti anche qualitativamente tra loro. Non per nulla, se per esempio si esaminano le tre religioni monoteistiche che scaturiscono dalla medesima radice, noteremo che nel giudaismo, per lo meno fino a un certo periodo storico, ci fu un vero e proprio sacerdozio stabilito per diritto di nascita; nel cristianesimo c’è un sacerdozio sussidiario, in quanto chiunque, in base a scelte e inclinazioni individuali, può liberamente accedervi ed essere consacrato; e nell’islam, invece, vi è assenza di sacerdozio. Ciò non può non riflettersi sulla natura dei rituali e della dottrina così diversamente trasmessi.
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maleducazione, ignoranza e ottusità. L’unica differenza che persiste è il censo, anche se ricchezza e povertà non comportano alcuna distinzione qualitativa tra i ceti.1 Ma l’opera di eversione più tenace è stata portata contro quello che, a pieno diritto, è il fondamento sociale di qualsiasi tradizione, vale a dire la famiglia. La propaganda ha logorato a lungo le generazioni successive alla seconda guerra mondiale, con un’opera di convincimento sulla bontà del divorzio e sul diritto allo scioglimento del vincolo matrimoniale considerato come una anacronistica mancanza di libertà. Così la letteratura, il cinema e i mezzi d’informazione hanno martellato le deboli menti degli occidentali sulla famiglia aperta, in cui la mamma è sposata con un altro, papà con un’altra e i figli, con l’aiuto dissolvente del “tribunale per minori” e degli “assistenti sociali”, scelgono con chi stare o, alternatamente, di stare ora con gli uni, ora con gli altri secondo il capriccio, con fatali ripercussioni sulla loro educazione. Educazione che nessuno più impartisce né sa più impartire perché è considerata una “imposizione autoritaria”, e la cui assenza totale fa apparire, al confronto, nobile, generoso ed elegante il comportamento degli animali. Ma questo era soltanto il passo iniziale, perché, ovviamente, ciò portava fatalmente all’abrogazione totale del matrimonio, sostituito dal concubinato più sregolato. Il terzo passo susseguente al dissolvimento della famiglia (detta “tradizionale”, anche senza alcuna consapevolezza di quanto corretta sia tale definizione) è consistito nel riconoscimento legale dello status di famiglia a qualsiasi connubio, preferibilmente mostruoso e innaturale. Per ultima è arrivata l’ideologia “gender” a mettere in dubbio perfino l’esistenza di due soli sessi, il maschile e il femminile, in sfacciata contraddizione con le evidenze naturali2. Tutte queste ripugnanti fantasticherie morbose, diventate realtà, sono state imposte dall’alto con leggi ingannevoli, criminalizzando l’ordine normale delle cose, grazie al patrocinio di tutte le organizzazioni internazionali e sovranazionali e da una infinità di ONG, inspiegabilmente legalizzate ovunque. Demoliti così la società, la famiglia e l’individuo, le nuove generazioni appaiono un vero e proprio polipaio infraumano, in cui le distinzioni tra individuo e individuo sono ormai delegate a un numero esiguo di nomi propri, rigorosamente slegati dal cognome familiare, e indistinguibili tra loro per la moda
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L’assenza di un sacerdozio cattolico per nascita comporta di conseguenza che anche gli ecclesiastici siano parte di questa poltiglia informe. Se nel cristianesimo una distinzione era stata riconosciuta tra un “alto clero” e un “basso clero”, il primo è stato spazzato via da almeno due secoli, e il clero più “basso” ha occupato i vertici della Chiesa, con i risultati che stanno davanti agli occhi di tutti. Riguardo all’assenza di un sacerdozio, queste considerazioni possono essere estese, nelle attuali condizioni, a tutte le forme tradizionali, con una sola eccezione: nonostante il continuo lavorìo di logoramento perpetrato dall’interno e dall’esterno, la struttura castale in India mantiene di fatto, se non di diritto, il suo mandato naturale. In questo modo, nonostante la confusione delle caste dilagante in tutto il mondo, i brāhmaṇa conservano ancor oggi gran parte del loro prestigio, svolgendo regolarmente le loro funzioni rituali e sapienziali. Vâlsan, con la sua consueta ignoranza dell’induismo, in uno dei suoi articoli di “propaganda” in favore della sharica islamica afferma: “En tout état de cause, dans l’intégration finale dont il s'agit, l'Hindouisme ne peut jouer aucun rôle sur le plan formel de la tradition : sur ce plan, sa définition, conditionnée par le régime des castes, est non seulement inextensible hors le monde hindou actuel, mais aussi destinée à disparaître dans l’Inde même : ses modalités sociales et culturelles spécifiques ne pourront malheureusement pas survivre à la dissolution qui se poursuit à notre époque. Dans la phase actuelle du Kali-Yuga, les choses devant aller jusqu’à l’état, annoncé dans les Livres sacrés de l’Inde, « où les castes seront mêlées et la famille n’existera plus », la base indispensable même de la tradition hindoue, le régime des castes disparaîtra et lorsqu’un redressement traditionnel deviendra possible, il ne pourra l'être que dans la formule fraternitaire d'une législation sacrée comme celle de l'Islam.” (Michel Vâlsan, “Le Triangle de l'Androgyne et le Monosyllabe «OM»” II, Etudes Traditionnelles, mai-juin et nov.-déc. 1964). Questa “profezia” vâlsaniana fortunatamente in India non s’è verificata nonostante la tristezza dei tempi; al contrario, la confusione delle caste, diffusa in tutto il resto del mondo, è stata sancita come regola sociale proprio nell’egualitarismo islamico (nella citazione addolcito in “formule fraternitaire”), come adattamento legislativo per l’ultima religione monoteista alla situazione caotica del kali yuga. Sul filo del suo teorema, Vâlsan (ibid. n. 32) si rallegra che l’islam “... depuis le 8e siècle gagne, dans l'espace hindou, continuellement des positions nouvelles”. Senza precisare che quella penetrazione è avvenuta per mezzo di eccidi e distruzioni catastrofiche prima, e tramite il più aggressivo missionarismo e terrorismo salafita, oggi. Questo spiega molto dell’ambigua posizione dei seguaci di Vâlsan nei confronti delle deviazioni della sharica contemporanea. Ciò avviene anche con la colpevole copertura degli ambienti “scientifici”, disposti a qualunque falsificazione pur di non essere privati dei conclamati “fondi per la ricerca” erogati da politici manovrati da agenti nemmeno poi tanto occulti. Basti pensare alla grottesca teoria per cui il “buco nell’ozono” sarebbe stato (parliamo al passato, perché, nel frattempo, ahimé, il “buco” si è richiuso da solo!) provocato dai gas delle flatulenze dei duecento milioni di vacche che vivono in India, all’unico scopo evidente di colpire qualcosa che ritengono sia “sacro” per gli hindū. Ma gli “scienziati” ecologici si sono mai interrogati, invece, sui medesimi effetti provocati da sette miliardi e mezzo di umani?
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stracciona1 con cui si abbigliano con vestiti comprati già a brandelli, turpiloquiendo orrendamente per scarsezza di lessico e di ragione, e tutti, indistinguibilmente lobotomizzati dall’imprescindibile cellulare2. È dunque un vero miracolo se, soprattutto nei paesi “tecnologicamente più avanzati”, sopravvive ancora qualche sparuto individuo che cerca la Verità.
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Le altre mode che i giovani seguono al giorno d’oggi, tendono a camuffarli da guerriglieri, terroristi o delinquenti, che evidentemente rappresentano per loro modelli da emulare, pur dichiarandosi tutti regolarmente “pacifisti”.
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Se le sostanze intossicanti producono l’effetto di incapacitare la mente dalle sue normali funzioni con effetti dissolventi, la multimedialità invece è strumento per “programmare” la mente a funzionare in modo rovesciato. A dimostrazione della maggiore pericolosità di questi strumenti di stregoneria tecnologica. 4 This article is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License
Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 1. Attuale situazione delle forme tradizionali
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1. ATTUALE SITUAZIONE DELLE FORME TRADIZIONALI E DELLE ORGANIZZAZIONI INIZIATICHE Dalla fine della seconda guerra mondiale lo sgretolamento delle istituzioni tradizionali si è verifiata con velocità sempre crescente. Se René Guénon affermava nel 1947 che molte porte si erano ormai chiuse, egli stesso non avrebbe potuto immaginare la rovinosa situazione che si è prodotta dopo la sua scomparsa. È quindi opportuno aggiornare il quadro generale per cercare di distinguere ciò che si è definitivamente perduto da ciò che può essere ancora recuperato e in quale misura. Infine sarà necessario identificare le fonti di conoscenza ancora valide e quelle, rarissime, tuttora intatte. In Europa occidentale, le istituzioni religiose latine, a cui spettava il ruolo di ergersi a bastioni di saggezza in difesa dalle degenerazioni descritte nell’Introduzione, alla fine si sono dimostrate conniventi con esse e hanno concluso grottescamente nell’ignoranza e nella stupidità1 la loro corsa bimillenaria2. Altre forme più “orientali” di cristianesimo si trovano in una intrigante fase di restaurazione, soprattutto nella loro forma slava, ferocemente perseguitata per lunghi decenni dai regimi comunisti. La componente iniziatica, pur sempre presente, vi si trova tuttavia in una forte fase di chiusura difensiva, a tutela degli ultimi misteri gelosamente conservati, riducendo così il numero di neofiti. Certo, questa attitudine, assai diffusa presso le organizzazioni iniziatiche esicaste, monastiche o meno, delle chiese autocefale ortodosse, copte, maronite, armene e altro ancora, corrisponde a una necessità e ha le sue giustificazioni3. Ciò non toglie che essa rappresenti comunque un grave segno dei tempi4. Trattando sempre di religioni tipiche dell’occidente, ricorderemo che gran parte delle tendenze anomale del mondo in cui viviamo, quali il marxismo e la psicanalisi, sono state prodotte in seno alla mistica deviata di quel giudaismo considerato “ultraortodosso” da coloro che non hanno idea di cosa sia l’ortodossia. Al contrario, l’autentica qabbalah, già così rara nei secoli passati, oggi non dà più segni di vita, al punto tale da essere oggetto di tentativi di restaurazione “accademica” di matrice assai sospetta. L’islām, che alcuni per errore di valutazione considerano come una religione “orientale”5, mentre, come ogni religione semitica “monoteistica”, è perfettamente occidentale, da almeno quarant’anni è in preda a una inattesa situazione di degenerazione rapidissima e devastante. Abbiamo assistito in questi più recenti anni all’improvviso passaggio, nei paesi islamici, da regimi espressi dall’antitradizione laica
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È davvero doloroso assistere al modo in cui i sinceri devoti cattolici si aggrappano pateticamente all’illusione e alla speranza che il cadavere della Chiesa Romana possa un giorno risorgere da morte; vite religiose spezzate, vittime di una gerarchia che ha perso per sempre ogni trasmissione, oltre al “ben dell’intelletto”. Costoro, invece d’insistere a prestare voto di obbedienza ai fattivi seguaci dell’Avversario, devono prendere atto che il “non prevalebunt” è tuttora effettivo presso altre Chiese che hanno mantenuta ritualmente la trasmissione apostolica. Non teniamo in alcuna considerazione, in questo contesto, la religiosità protestantica, suddivisa nelle sue innumerevoli sette, per il fatto che non può in alcun modo essere annoverata nell’ambito, pur limitato spiritualmente, delle autentiche religioni, proprio per l’assenza di ogni tradizione rituale, spirituale, conoscitiva e della trasmissione apostolica. Naturalmente tutte le Chiese cristiane orientali che, volenti o nolenti, hanno fatto atto di sottomissione a Roma, si trovano nella medesima tragica condizione del cattolicesimo latino. Tuttavia, godendo paradossalmente dell’abrogazione del latino come lingua liturgica generale in favore dei volgari, scelta che è stata fatale per il rituale romano, queste Chiese hanno potuto conservare la loro liturgia originaria nelle lingue paleoslava, armena, aramea e altro ancora, mantenendo così ancora una certa efficacia per i loro riti essoterici. Purtroppo lo stesso non può dirsi dell’esoterismo, che la gerarchia latina non capisce, confondendolo con il misticismo o con un preteso “gnosticismo”, e a cui è comunque sordamente ostile. Potremmo osservare che la tradizione tibetana, avendo fatto una simile scelta difensiva, ha garantito la continuità di certe trasmissioni segrete anche dopo la perdita del suo centro spirituale himalayano; ma contemporaneamente ha permesso l’entrata nel corpo del saṅga d’una massa d’individui spaventosamente squalificati d’origine europea, estremo-orientale o nordamericana, che ha provocato, di riflesso, anche un repentino crollo intellettuale fra le più giovani generazioni monastiche in esilio. Perciò alla gelosa preservazione della componente esoterica ha corrisposto una evidente decadenza qualitativa della tradizione esteriore. Le sole rarissime turuq, che hanno elaborato una qualche forma di metafisica, possono essere definite “orientali”, intendendo questo termine in senso simbolico e non solamente geografico. Si tratta di vie iniziatiche che sono entrate in contatto diretto con la Tradizione Primordiale.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 1. Attuale situazione delle forme tradizionali
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e profana, a regimi intesi a instaurare un ordine “califfale” rovesciato d’ispirazione dichiaratamente contro-tradizionale. Al suo interno, il tasawwuf esprime sempre più raramente dei murshidun qualificati; e qualora, alla scomparsa dei vecchi maestri, subentrino degli autentici shuyukh, la tendenza generalizzata tra costoro consiste nell’evitare l’accettazione di nuovi discepoli in ragione della scarsezza di qualificazioni presso le nuove generazioni. Quando invece, alla scomparsa d’uno shaykh adepto succede un maestro privo delle qualifiche minime richieste, la tendenza prevalente di quest’ultimo sarà quella di occuparsi di problemi esteriori, della sharica più letteralista e della politica più profana e antitradizionale, dedicandosi al proselitismo e alla proliferazione di rappresentatanti (muqaddam), anche con ampi reclutamenti, scelti preferentemente tra convertiti1 europei e nordamericani2. I “maestri”3 contemporanei di questo tipo 4, ben più gravemente dei preti latini, che, tutto sommato, hanno soltanto soffocato sul letto di morte un agonico essoterismo, stanno corrompendo le vie iniziatiche a cui hanno avuto incautamente accesso, spesso in favore di una sharica sempre più disastrosamente violenta, che persegue ciecamente i devastanti piani d’invasione di Gog e Magog5. Ciò non toglie che in molti angoli della terra dell’islam il tasawwuf sia ancora una realtà operante e questo spiega la ragione per la quale esso sia sempre più frequentemente vittima di persecuzione sia da parte di tutti gli Stati a maggioranza musulmana, dichiarati “islamici” o “laici”, nessuno escluso, sia da parte di masse fanatizzate, per mezzo di progrom apparentemente spontanei. In questa fin troppo rapida panoramica possiamo solamente menzionare il miserevole rudere delle iniziazioni di mestiere del cattolicesimo medievale, troppo compromesso, quando non protagonista dell’azione contro-tradizionale. Se un progetto di raddrizzamento della tradizione occidentale potesse ancora essere formulato, possibilità sempre fattibile anche se viepiù improbabile, ciò non avverrà certamente con il sostegno della Libera Muratoria o alla Chiesa “cattolica”6.
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Con “convertiti” intendiamo coloro che sono passati da un precedente stato profano all’essoterismo di una tradizione tale da permettere o favorire un simile passaggio. Costoro, perciò, non essendosi “collocati” nell’esoterismo dell’altra tradizione attraverso il suo centro, portano le caratteristiche e gli attacamenti esteriori tipici delle conversioni. In questo i pseudo guru “californiani” hanno fatto scuola. I discepoli occidentali, soprattutto quelli di provenienza protestantica, che rappresentano anche una importante fonte finanziaria, sono facilmente indotti all’adorazione acritica del guru o dello shaykh per il loro atteggiamento fideistico cieco dovuto alle loro radici culturali. Usiamo le virgolette in questo caso in quanto la massima parte dei “maestri” di oggi sono in realtà dei facenti funzioni, khulafā, che non hanno raggiunto il grado di realizzazione corrispondente alla funzione di shaykh o pīr; ciò spiega anche la deriva di quel tipo di turuq che stiamo descrivendo. L’affermazione secondo la quale nessuna organizzazione iniziatica islamica si trasferirebbe o fonderebbe mai una sua diramazione fuori del dār al-islām è del tutto valida e attuale; ciò è necessitato da quella organizzazione della geografia sacra che nel medioevo cristiano era denominata “Feudi Celesti e feudi terreni” e che è ancora una realtà attuale per il tasawwuf. La totale ignoranza di questa concezione da parte dei vari autonominati “shuyukh” europei conduce le loro pretese turuq a essere soltanto centri di conversione essoterica, inducendo i loro proseliti a una inutile e disordinata memorizzazione di simboli e dottrine “tradizionali” di fonte libresca al fine di mantenere una parvenza “iniziatica”. Cfr. Jean-Louis Gabin, L’idée que l’islam doit dominer la planète, Vaux-le-Pénil, Vers la Tradition, n° Hors Série, Décembre 2016. È altrettanto evidente il clamoroso fallimento della ripetizione di formule rituali iniziatiche impartite in simili ambienti, davanti alla supponente ignoranza dottrinale e incapacità metodica di tali pretesi “maestri”, i quali riescono solamente a convincere i discepoli più illusi e manipolabili che certe “sensazioni” rappresentano il raggiungimento d’una qualche “realizzazione”. Per distrarre dall’inefficacia di tali rituali esoterici, si ricorre a una intensificazione dei riti essoterici che, per loro natura, nulla hanno a che fare con la dimensione iniziatica. Dobbiamo tuttavia ammettere che l’azione di tutti costoro è stata provvidenziale, poiché, attirando nelle loro cerchie i “guénoniani” intellettualmente meno qualificati, hanno drenato parzialmente il flusso di occidentali nelle fila delle autentiche turuq della terra d’islam. Infatti, a nostra diretta conoscenza, alcune turuq, che hanno subito massicce infiltrazioni di convertiti più o meno “guénoniani”, hanno subito una rapida quanto inaspettata degenerazione. Non a caso la “lotta finale”, secondo la tradizione tibetana, si svilupperà contro certe diaboliche correnti islamiche provenienti da quello che è l’attuale Afghanistan. D’altra parte, le pretese forme “iniziatiche ermetiche” d’origine rinascimentale sopravvissute fino al giorno d’oggi, come quelle annunciate con annunciate con alone di mistero da Charbonneau, con la sospetta complicità di Jean Reyor, e ancora recentemente date per buone da inquietanti
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La strada che conduce al dominio spirituale è diventata, dunque, quasi impraticabile in Occidente ed estremamente ridotta in Oriente, se questa divisione geografica può ancora avere alcun senso al tempo presente. Il taoismo nella Cina continentale è stato infiltrato e controllato dal regime comunista, che ha utilizzato a fini magici certe sue conoscenze di psichismo inferiore, allo scopo di rafforzare il “Partito” e i suoi gerarchi, oltre ad ordire una spietata guerra “sottile” contro i suoi nemici. La grave ribellione del démone Dorje Shugden (Rdo-rje shugs-ldan) contro le gerarchie monastiche gelupa (dGe Lugs Pa) pilotata da Pechino, ne è una prova sotto gli occhi di chiunque sappia vedere. Rimangono, naturalmente, alcune organizzazioni taoiste ancora intatte fuori dal continente, in particolare a Taiwan e Singapore, ma la loro perifericità dal centro e l’allentamento della “solidarietà di razza”, così importante per l’efficacia rituale della tradizione estremo orientale, non può non averne indebolito la portata.1
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“cacciatori di sette”, si sono poi rivelate semplici pie confraternite religiose; proprio di quelle che proliferano ancora a migliaia nelle aree “pretecnologiche” del cattolicesimo dell’Italia meridionale, dell’Occitania, della Spagna e del Portogallo. Da qualche anno il regime della Cina continentale ha riproposto, in chiave new age-maoista, un “nuovo confucianesimo”, con pretese iniziatiche alternative a quelle del taoismo e promotore dell’egemonia cinese sul pianeta. Il “pericolo giallo” preconizzato tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, in definitiva oggi è diventato reale. Il lettore non confonda il “nuovo confucianesimo”, con il “neo-confucianesimo” che si formò sotto la guida di Chu Hsi durante la dinastia Sung e che integrava in un’unica forma tradizionale confucianesimo, buddhismo e taoismo.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 2. L’induismo contemporaneo e le sue organizzazioni iniziatiche
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2. L’INDUISMO CONTEMPORANEO E LE SUE ORGANIZZAZIONI INIZIATICHE Tra le tradizioni viventi rimane ancora da esaminare la condizione in cui versa l’induismo. Certamente, nemmeno in questo caso la situazione è rosea: il regime secularist, indipendentemente da quale partito sia al governo, si dimostra scopertamente avverso alla tradizione. La stessa struttura delle istituzioni statali, nate dalla costituzione gandhiano-nehruviana, ha lavorato per decenni in quella direzione con decisione e astuzia. E ciò accadeva fin da prima che l’India raggiungesse l’agognata indipendenza dal rāj britannico, quando la stuttura del nuovo stato si trovava ancora allo stato embrionale sotto tutela coloniale. Sta di fatto che il cosiddetto ceto medio, a lungo preparato in chiave anticastale, ma ora di fatto padrone coloniale dell’India ufficiale contemporanea, è stato allevato nella vergogna della propria tradizione, che gli è stata sempre raffigurata da ogni istituto di formazione e di informazione come “superstiziosa”, “antidemocratica”1, “egoista” e “oscurantista”. Un tale condizionamento, usato senza scrupolo alcuno dai rappresentanti indiani pilotati dalla contro-tradizione mondiale, ha pochi esempi storicamente paragonabili2 e ha creato un’India virtuale, conosciuta e apprezzata soltanto nei circuiti internazionali, ben diversa dall’India reale; quell’India reale che gli occidentali evitano, disprezzano e schifano, senza neppure rendersi conto di esserne essi stessi respinti con repulsione. L’India ufficiale, quella virtuale per intenderci, è un guazzabuglio di tutte le peggiori tendenze della civiltà tecnologica più avanzata. Tra queste tendenze la new age fa da regina: per questo motivo la politica, la finanza, l’industria, il commercio, i media fanno da sostegno alla new age, considerata la nuova “religione” preparata per l’India, ossia il “neo-induismo”, ovviamente “progressista”, “democratico”, “olistico” e “illuminato”. Ciò spiega gli appoggi, i finanziamenti e le coperture che i falsi guru riscuotono presso le strutture pubbliche e private. I media sono poi i diffusori capillari di questa follia e le televisioni sono prese d’assalto da predicatori sciocchi, ignoranti e fanatici che riversano sugli spettatori i loro melensi messaggi d’amore e pace universale, con una originalità che oseremmo definire “californiana”. L’altra India è molto più discreta. Anche su questo versante si assiste a una chiusura sempre maggiore, con vie iniziatiche che degenerano con rapidità sia esteriorizzandosi in culti “popolari” sia scomparendo puramente e semplicemente3. I guru qualificati non trovano più discepoli o preferiscono interrompere la trasmissione del magistero per indegnità delle nuove generazioni. Quei maestri, che sono tali soltanto di nome, affidano a individui squalificati o addirittura pericolosi la loro virtuale eredità, confluendo, infine, nella deriva new age. Anche in India l’uomo fa fatica a guardare dentro di 1
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Per la verità, questa caratteristica è considerata negativa solamente da coloro che si compiacciono di questo sistema politico che è riuscito solamente a realizzare il più corrotto tra i regimi della storia dell’umanità, affidando i cittadini e la cosa pubblica ai peggiori, ai disonesti e agli imbecilli. Fortunatamente il sanātana dharma ha una struttura sociale autenticamente aristocratica, cosa che ha permesso la produzione del pensiero umano universalmente più elevato e la sua preservazione anche nell’attuale tempesta. Forse l’unico caso paragonabile è quello che ha volutamente condizionato a un acritico senso di vergogna le generazioni tedesche nate dopo il secondo conflitto mondiale. Così nell’Europa cristiana si riattivò la sentenza veterotestamentaria: “Le colpe dei padri ricadono sui figli” (Es XX. 5; cfr. Nm XIV.18; Dt V. 9; Ger XXXII.18). Infatti, neppure il lavaggio di cervello, operato nelle scuole inferiori sui bimbi europei a partire dal medesimo dopoguerra in favore della costruzione di una miracolistica “Europa unita”, è stato perpetrato con tanta sottigliezza e spietata protervia in comparazione ai due casi precedenti. Un esempio di questo tipo è quello della tradizione trika, nota in occidente con il nome improprio di Śivaismo del Kashmir. Questa scuola tantrica si è definitivamente ritirata nel corso del XX secolo. L’ultimo dotto discepolo di questo saṃpradāya, Śrī Lakṣman Jhu, le cui conoscenze provenivano comunque prevalentemente da fonte libresca, ha sempre dichiarato con schiettezza e umiltà di non essere nient’altro che un semplice praticante. Ciò nonostante, egli fu scoperto da un gruppo di occidentali, prevalentemente cattolici, ai quali soleva leggere e commentare alcuni testi sanscriti. Tutti costoro, indifferenti alle proteste del loro onesto mentore, si dichiararono suoi discepoli e, dopo la sua morte, fu da costoro innalzato al rango di svāmī, pur non avendo mai assunto il saṃnyāsa. Così in Occidente si è consolidato il mito cattolico-new age della prosecuzione dello “Śivaismo del Kashmir”, con l’appoggio unanime di quei sanscritisti e indologi accademici più apertamente avversi al sanātana dharma.
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sé; alcuni sprofondano nell’Acheronte della psicanalisi, altri si rifugiano in un evoluzionismo positivista completamente ottocentesco, ma che essi credono d’avanguardia. Nonostante tutte queste tristi note, la metafisica in India è ancora estremamente viva e i suoi maestri spesso raggiungono livelli elevatissimi. Al declino o alle difficoltà in cui si dibattono alcune vie iniziatiche della conoscenza del non-Supremo si contrappone l’incrollabilità della dottrina advaita che, sempre libera da ogni condizionamento spaziale, temporale o altro1, non subisce gli effetti nefasti del kali yuga, di cui abbiamo presentato solo qualche abbozzo nelle righe precedenti. Perciò, in luogo di contrapporsi al fatale andare dei tempi in cui viviamo, come si comportano con scarsa fortuna tante organizzazioni iniziatiche della scienza non suprema (aparavidyā), il Vedānta trascende le contingenze del kali yuga esponendo la semplice verità2. Finora il percorso tradizionale usato da René Guénon nei suoi libri per illustrare la dottrina vedāntica agli occidentali s’era sempre affidato a una lunga preparazione preliminare basata sullo studio del Sāṃkhya e dello Yoga. Questa scelta era motivata dal desiderio di procedere per gradi, in modo da condurre per mano, dall’ignoranza alla conoscenza, i suoi lettori, generalmente poco portati e poco preparati a una visione puramente metafisica, per le già accennate squalifiche dovute alla nascita e per la mentalità assorbita dall’ambiente. Nonostante l’immenso sforzo intellettuale e l’elevatissimo livello d’insegnamento prodotto da Guénon, a quanto ci consta in tutta evidenza questo procedimento non è approdato a buon porto. Coloro che si sono interessati a questi argomenti non sono poi stati in grado di discernere le diverse vie iniziatiche, confondendo quelle che conducono a tappe verso la restaurazione della purezza primordiale, con l’unica via che permette la Liberazione (mokṣa o mukti) immediata, considerandole quasi come fossero due fasi d’un percorso unico. Peggio ancora: hanno erroneamente supposto che persino l’essoterismo religioso potesse essere considerato in continuità con il dominio iniziatico. Sta di fatto che negli ultimi sessant’anni in Occidente non è comparsa nessuna pubblicazione che abbia mostrato nemmeno la parvenza della vera metafisica. Sovrabbondano invece pubblicazioni di pseudo maestri europei che trattano di questioni religiose, ammantate, per renderle più “esoteriche”, da osservazioni simbologiche, ritualistiche e cosmologiche, spesso prodotte dalla loro immaginazione. Poiché la presentazione graduale in Occidente della dottrina advaita, anche per contraddizione concettuale, non ha potuto produrre alcun frutto di un qualche interesse, abbiamo deciso di procedere in questa sede con il tradizionale metodo advitīya che con fermezza respinge come erronee le dottrine del Sāṃkya e dello Yoga darśana poiché entrambe dichiaratamente dualistiche (dvaitavāda): I seguaci del Sāṃkhya e dello Yoga sono dei dualisti perché non comprendono che il Sé è unico.3
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Questa libertà totale della metafisica fa sì che l’Advaita Vedānta non si appoggi né ai rituali né ai simboli né alla mitologia né ad altre caratteristiche cosmologiche ed empiriche dell’induismo. In diversi passi dei Brāhmaṇa e delle Upaniṣad è menzionata una duplice generazione di figli di Brahmā. La prima corrisponde ai figli della mente (manas putra) a cui fu affidato il nivṛtti dharma (il dharma della rinuncia), ossia la conoscenza (jñāna). Essi non generarono in quanto erano saṃnyāsin. Allora Brahmā manifestò, come seconda generazione, i ṛṣi a cui fu affidato il pravṛtti dharma (il dharma sottoposto al divenire) detto anche pramita dharma (dharma limitato), ossia la sfera dell’azione (karma). I ṛṣi generarono dei figli e divennero i capostipiti dei diversi clan castali (gotra); essi trasmisero l’iniziazione del karma khaṇḍa. I manas putra invece hanno esclusivamente discendenza spirituale tramite il jñāna khaṇḍa. Così l’umanità è distinta fin dalle origine tra contemplativi e attivi. Il sanatāna dharma, avendo origine all’inizio dei tempi, è per trasmissione l’erede più diretto della Tradizione primordiale. Tuttavia l’Advaita Vedānta, trasmesso dai manas putra senza soluzione di continuità, è propriamente la metafisica della Tradizione primordiale. Per questa ragione essa si pone al di sopra e al di là di qualsiasi forma. L’unica sua caratteristica che mantiene un contatto con l’induismo è l’uso del sanscrito; ma ciò è dovuto al fatto che questa lingua è particolarmente precisa nell’esposizione della metafisica. Ciò non toglie che l’intero insegnamento advitīya possa anche essere integralmente espresso in qualsiasi altra lingua. Ciò spiega l’atto di presenza sapienziale del Vedānta in questa fine di ciclo. Sarà utile ricordare che la via iniziatica śākta di Śrī Vidyā, strettamente collegata alla linea del Vedānta śaṃkariano, in tutta l’India sta validamente operando, nel campo dell’azione, in armonia con quest’ultimo. Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya (BSŚBh), II. 1. 4.
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Il Sāṃkya afferma l’eterna distinzione di puruṣa1 e di prakṛti, mentre lo Yoga aggiunge Īśvara a quei due principi non manifestati (avyakta tattva), tra loro irriducibilmente distinti. La critica del Vedānta al Sāṃkhya è dunque severissima, in quanto quest’ultimo darśana afferma che i tattva prodotti dalla prakṛti (o pradhāna) sono dotati di coscienza (cit), a partire dalla buddhi (o mahat), ahaṃkāra, manas e via dicendo. Al contrario l’Advaita sottolinea che prakṛti è per sua natura priva di coscienza (acit): e, poiché il meno non può produrre il più, si deve concludere, a rigore di logica, che tutte le produzioni di prakṛti non possono che essere non-coscienti (acit). Ciò comporta ineludibili conseguenze, perché dal punto di vista metafisico si ricava che ahaṃkāra, volgarmente considerata come la coscienza individuale, in realtà non è affatto cosciente2. La ragione, per la quale gli ignoranti possono accettare il punto di vista del Sāṃkhya e attribuire un’apparenza di coscienza ad ahaṃkāra, è minuziosamente argomentata dal testo di Śaṃkara riportato in questa pubblicazione nel capitolo dedicato alla spiegazione del mahāvākya “tu sei Quello”. Perciò è stata nostra cura presentare la dottrina dell’Advaita Vedānta per quello che è, anche se, proprio per la sua portata assolutamente conoscitiva (śuddha jñāna dṛṣṭi), sarà di più difficile comprensione. Dobbiamo però chiarire ulteriormente che, proprio per quest’ultima ragione, l’Advaita Vedānta è stato spesso male interpretato in alcuni suoi punti3 anche da eminenti personalità che appartennero alla medesima paramparā śaṃkariana. Due sono le cause di tali sviste dottrinali. La prima consiste in una sorta di punto morto (sakaṣāya)4 in cui ci si può imbattere nel corso della discriminazione vedāntica. Dopo essersi impadroniti della teoria metafisica nel modo più ampio concesso alla ragione umana, alcuni si sono chiesti come mai essi non siano ancora riusciti a raggiungere la Liberazione. “Cosa si deve fare ulteriormente per ottenerla?”, è la domanda che allora sorge spontanea. Il fatto che ci si interroghi sul “fare”, ossia sull’agire, è la dimostrazione che tale conoscenza non ha raggiunto affatto la sua perfezione e che tale vidyā, sebbene ampia e, per certi versi, perfino autorevole, è ancora sottoposta al dominio dell’ignoranza (avidyā). Infatti con l’azione (karma) non ci si libera dal mondo dell’azione. Per esempio, personaggi come Maṇḍana Miśra e Vācaspati Miśra hanno alla fine ripiegato su un metodo jāpaka (basato sul mantra) che li ha portati a confondere il samādhi yogico con la Liberazione. Parzialmente, anche Vidyāraṇya5 è incorso in un simile equivoco causato da una indebita commistione metodica tra Advaita e Śrī Vidyā, equivoco oggi assai frequente. La confusione tra jñāna e karma yoga6 è dunque la seconda causa di confusione. Per amore di completezza aggiungiamo qualche riga per descrivere per sommi capi la portata di altri tipi di Vedānta dualista, soprattutto il Dvaita da una parte e il Viśiṣṭādvaita7 dall’altra. Il primo, il Vedānta dualista fondato da Madhva, mantiene una separazione ontologica irriducibile tra il Brahman 1 2
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Questo darśana arriva persino ad affermare la molteplicità dei puruṣa. Questa è la ragione della nostra perplessità a usare il termine “coscienza” per indicare il puro Caitanya, che avevamo espresso nella nostra prefazione al libro di Svāmī Satcidānandendra (Dottrina e Metodo, cit. pp. 19-22). In questo studio, invece, abbiamo deciso di usarlo liberamente, seguendo direttamente il tradizionale lessico vedāntico. Un altro punto che ha provocato, e provoca tuttora, l’insorgere di alcune confusioni, talora gravi, è la cosiddetta dottrina dell’ignoranza radicata (mūla avidyā), formulata da Padmapāda, mai rintracciabile in Śaṃkara, che conferisce all’avidyā una sorta di eternità. Questa dottrina può essere accettata a solo scopo didattico in quanto ragionamento per assurdo, come fu il caso del parameṣṭhi guru Cāndraśekhara Bhāratī Mahāsvāmījī. Descriveremo meglio questa difficoltà nel dodicesimo capitolo. In compenso nel suo Jīvanmuktiviveka Vidyāraṇya invece di descrivere correttamente la videha mukti come il superamento dell’identificazione (abhimana) con la forma corporea, la presenta come una liberazione successiva alla jīvanmukti, affermazione che ha dell’incredibile. Esattamente come è specificato ripetutamente nella Bhagavad Gītā, con karma yoga il Vedānta non intende indicare una specifica via yogica basata sul rituale, ma tutte le vie che usano una azione corporea, vocale o mentale al fine di operare una purificazione della mente. Queste due scuole sono all’origine di altre correnti di Vedānta, come il Bedhābedha, il Dvaitādvaita e il Śuddhādvaita, tra loro molto simili. Non è un caso che tutte esse siano vaiṣṇava (devote a Viṣṇu), il che spiega la loro attenzione per i rituali e la loro minore portata intellettuale.
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da una parte e il mondo (jagat) e l’anima individuale (jīva) dall’altra. La realizzazione a cui questa via iniziatica conduce si limita all’identificazione del jīvātman con la coscienza del totale stato di veglia. Qualcuno, a questo punto potrebbe obiettare che questo gradino corrisponde alla restaurazione dello stato primordiale; perciò il Dvaita Vedānta apparirebbe come un doppione delle vie iniziatiche che si basano su yantra, mantra e tantra. L’osservazione è corretta, ma, comunque, il metodo usato dal Dvaita consiste in un viveka vedāntico e non nella meditazione su un simbolo. Invece il Viśiṣṭādvaita Vedānta di Rāmānuja e i suoi derivati, sebbene in forme diverse, sostengono che il mondo e l’anima individuale sono per alcuni versi identici (aviśeṣa) al Brahman e, allo stesso tempo, per altri aspetti, sono da esso differenti (viśiṣṭa). Rapportando queste prospettive dualiste viśiṣṭādvitīya alla dottrina Advaita, risulta evidente che il jīvātman e il jagat sono considerati simultaneamente come reali e irreali (satasat). Nell’Advaita la presa di coscienza che corrisponde a questa prospettiva è definita conoscenza del totale stato di veglia, sia quando esso esiste sia quando non esiste, come accade durante il sonno profondo. In questo caso si tratta della testimonianza o conoscenza sintetica che ha il Sākṣin dell’esistenza e, allo stesso tempo, della limitatezza esistenziale dell’intero stato di veglia nella sua universalità. Si tratta dunque, da questo punto di vista, del grado di conoscenza caratteristica dell’Uomo universale (Viśvānara). Perciò il Dvaita Vedānta rappresenta la dottrina che consente la restaurazione dello stato primordiale o, in termini vedāntici, la purificazione della mente (mānasa śuddhi)1, mentre il Viśiṣṭādvaita permette la sua universalizzazione. È da quest’ultimo punto che può cominciare l’advaita vicāra per ottenere il mokṣa. Le presenti considerazioni, all’inizio, potranno sembrare di difficile comprensione al lettore sprovveduto. Ma, avanzando nel testo, tutte queste argomentazioni saranno sviluppate in modo da averne una coerente visione globale. Questi chiarimenti preliminari sono necessari per fare ordine nel caos creato dagli studi accademici che, sulla falsariga delle correnti filosofiche occidentali, dipingono le scuole vedāntiche come fossero tra loro irriducibilmente rivali e, comunque, tutte sullo stesso piano. Non abbiamo né il tempo né la pazienza di soffermarci su ciò che si denomina Neo-Vedānta, sincretismo inventato da Vivekānanda e dai suoi seguaci dell’“Ordine di Rāmakṛṣṇa”2, ch’egli fondò scimmiottando gli ordini religiosi cattolici3. Si tratta di una filosofia in cui sono mischiati scientismo occidentale e moralismo protestantico con tutte le tendenze devianti del Vedānta. Questa corrente si è poi metastatizzata in un numero incalcolabile di rivoli che ammorbano l’India e il globo intero innondandolo di pubblicazioni che predicano l’amore universale e altre amenità consimili. Ovviamente, divulgando una versione semplificata e corrotta della vera tradizione, il Neo-Vedānta riscuote facili simpatie e finanziamenti da parte dei beoti planetari. Quello che deve essere tenuto come discrimine è che non esiste autentico Advaita Vedānta se non quello insegnato da un saṃnyāsin regolarmente risalente a una catena iniziatica riconosciuta dai Pīṭha fondati dallo stesso Ādi Śaṃkara Bhagavadpāda. E, poiché per regola, i saṃnyāsin “non attraversano l’Oceano”, qualsiasi insegnamento di Advaita che possa essere ricevuto in Occidente non potrà essere riconosciuto per effettivo. Al massimo ci potrà essere un qualche istruttore autorizzato a eporre una preliminare esplicazione teorica. * * * 1
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La restaurazione dello stato primordiale, attuato nella prospettiva vedāntica, si incentra sulla mera purificazione mentale, non essendo interessante, da questo punto di vista, la purificazione dettagliata degli elementi grossolani e dei prāṇa come invece si dilungano a fare le vie della conscenza non suprema (aparavidyā). Ciò non toglie che alcuni “saṃnyāsin” di questo “Ordine” non siano stati degli ottimi studiosi e grandi conoscitori del sanscrito, come, per esempio, Gambhīrānanda. Il sincretismo vivekānandiano ha divulgato l’idea che tutte le “religioni” (termine in cui sono incluse anche tutte le sādanā!) sono tra loro uguali, promovendo un relativismo sui contenuti. Ciò non è affatto vero, essendo i loro mezzi rituali e i loro fini molto differenziati tra loro e adattati a luoghi, periodi e umanità tra loro diversi per mentalità e grado di decadenza.
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A questo punto però dovremo compiere una ulteriore rettifica terminologica. Nei nostri scritti precedenti abbiamo abbondantemente fatto uso dei termini “piccoli misteri” e “Grandi Misteri” ispirati alla Grecia classica; il primo per indicare ciò che in India è conosciuto come l’insieme delle numerose vie iniziatiche (sādhanā mārga) che fanno parte del dominio della conoscenza del non-Supremo (Aparabrahman vidyā); il secondo per l’avvio alla conoscenza immediata del Supremo Brahman (Parabrahma vidyā). Appartengono al dominio dell’Aparabrahman vidyā tutte le vie iniziatiche a tappe che hanno come mèta il raggiungimento o l’“unione”1 con il Brahman Sagūṇa. Ma non soltanto queste: infatti, tra esse ci sono persino numerose discipline che non si pongono nemmeno il problema dell’esistenza del Brahman non-Supremo, come, per esempio, la Pañcāgni vidyā e la Pūrva Mīmāṃsā. Tuttavia, esse comunque portano l’iniziato (sādhaka) che percorre una di quelle vie a determinate mete, più o meno elevate, nella direzione della restaurazione dello stato primordiale, vale a dire della purificazione dell’individuo. È ben noto che Kriyāyoga2, Layayoga e Mantrayoga, servono da avvio alla pratica dello Haṭhayoga; che quest’ultimo, conduce, a sua volta, al Dhyānayoga e che il Dhyānayoga deve essere considerato preliminare al Rājayoga3. Tutte queste vie, più o meno elevate, percorse in sequenza, hanno però in comune alcune caratteristiche: quelle di condurre a una progressiva purificazione dell’aggregato individuale, attraversando un certo numero di tappe o gradi, per mezzo di una disciplina ingiunta a tal fine da un guru qualificato a questo scopo. La disciplina, che richiede un certo tempo per dare i suoi frutti, consiste nell’uso metodico di determinate azioni (kriyā), le quali possono essere ritualmente compiute con la mente, con la voce o con il corpo4. I riti si basano sulla meditazione (upāsanā) rivolta a un simbolo (ketana o liṅga) che funge da mediatore tra il meditante (upāsaka) e la sua mèta (lakṣya), rappresentata da un elemento, una facoltà individuale, una particolare potenza, un suono, una forma o una divinità. Man mano che si procede su questa via, a ogni tappa si affina, si trasforma, oppure si sostituisce il simbolo (mantra, yantra, tantra) utilizzato ritualmente. A questa attivazione del simbolo per mezzo dello sforzo meditativo si aggiungono alcune tecniche atte ad agevolare il sādhaka nell’attuazione della sua intenzione (saṃkalpa). In questo ambito, una preparazione teorica circa il metodo, le varie tappe e la mèta da raggiungere è una precondizione utile, ma non necessaria5. Ebbene, queste vie di portata diversa, abbiano o no la concezione d’un principio non-Supremo, posseggono tutte le descritte caratteristiche e appartengono comunque al dominio della conoscenza non suprema (aparavidyā). In questo mondo ciascuno fruisce della forma [del Brahman] a cui è particolarmente incline, poiché è detto che, in verità, il Brahman è tutto. Perciò ognuno mediti su quella che per lui è la forma migliore. Però, alla fine la respinga, perché questi [simboli] sono solo mezzi per arrivare a tappe sempre più elevate; ma poi, per superare la manifestazione totale, si deve identificare con Puruṣa, si deve identificare con Puruṣa (Maitry Upaniṣad, IV. 6).
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In realtà questa “unione” (yoga o samādhi) è del tutto illusoria in quanto si tratta dell’aggregazione al jīva ghana o Hiraṇyagarbha, ciò che in altre forme tradizionali è definito “prossimità”, “vicinanza”, “amicizia” o “contemplazione del Dio personale”. Com’è evidente, questa “unione” con il Saguṇa non ha certamente nulla a che spartire con il mokṣa in quanto non rimuove l’individualità (jīvatva). Ovviamente ci riferiamo all’autentica disciplina tradizionale e non all’adattamento new age operato da certi falsi guru che si rifanno a una paramparā di fantasia, trasmessa da poco credibili “bābā” himalayani, inarrivabili e, ovviamente, immortali. Si deve notare che Rājayoga allude alla regalità (rājya), cioè all’esercizio dell’azione e non della contemplazione che corrisponde alla brāhmaṇicità (brāhma). Inoltre rajas è il guṇa dell’espansione e dell’attività. Ciò dimostra che la contemplazione pura è al di sopra e al di là del dominio del Rājayoga. La contemplazione, infatti, è appannaggio esclusivo dell’Ādhyātmika yoga vedāntico, come si potrà leggere di seguito. “Pensieri, parole e opere”, recitava il catechismo di Pio X, trasmettendo una nozione tradizionale autentica, anche se già allora del tutto incompresa. Al massimo la preparazione teorica in queste organizzazioni iniziatiche comprende una classificazione degli elementi che compongono la manifestazione universale, generalmente a trenta o trentasei tattva e la corrispondenza con le tappe da raggiungere nel corso della sādhanā. È evidente che questa non è affatto una dottrina completa né tanto meno metafisica.
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Molto più agevole è la descrizione della conoscenza del Supremo (Parabrahman vidyā o più semplicemente Brahmavidyā o Paravidyā): in questo caso si tratta di un “metodo” che permette di distruggere l’ignoranza (avidyā o ajñāna), la falsa conoscenza (mithyā o bhrama) e il dubbio (samdeha o śaṃkā), realizzando così, bruscamente e immediatamente, che il proprio Sé, la propria vera natura (svarūpa), è l’Assoluto, il Brahman. Bruscamente, perché la presa di coscienza di cui si tratta è “attimale”, ossia indipendente dal tempo e da tappe da percorrere1, in quanto la Liberazione dall’ignoranza è lo stato della propria eterna realtà (nitya sattā). Immediata, perché non c’è nulla che possa fungere da mediatore per raggiungere tale consapevolezza: né meditazione né simbolo né azione alcuna. Non ci soffermeremo oltre sulla conoscenza suprema, poiché essa è il contenuto unico di questa esposizione. Sulla base di queste argomentazioni ci siamo interrogati sull’opportunità di definire la Parabrahman vidyā e le molteplici vie che fanno parte del dominio dell’Aparabrahman vidyā con la terminologia classica tratta dai misteri eleusini. Poiché le fonti greche antiche ci informano che sia i “piccoli misteri” sia i “Grandi Misteri” erano impostati su alcuni rituali da compiere collettivamente o singolarmente, in precise date dell’anno e in località stabilite dell’Attica settentrionale, siamo arrivati a conclusione certa che questi termini sono inapplicabili per definire le due vidyā della tradizione hindū2. Se per ipotesi in epoca preistorica la Grecia avesse conosciuto qualcosa di paragonabile al Vedānta, come lo stesso nome “Grandi Misteri” potrebbe suggerire, rimane il fatto che non ne è pervenuta alcuna traccia: quello che sappiamo al loro riguardo, infatti, indica che i “Grandi Misteri” storicamente erano soltanto una via ritualistica a tappe. Perciò, con nostro rammarico3, abbiamo deciso di non usare più questa terminologia in quanto del tutto fuorviante. * *
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Ogni trattato tradizionale hindū inizia evidenziando quattro punti (anubandha catuṣṭaya) che rappresentano le motivazioni dell’opera. A questo uso tradizionale ci adeguiamo come segue: 1- Viṣaya: l’argomento principale. Nel nostro trattato è la conoscenza del Brahman (Brahma Vidyā). 2- Prayojana: lo scopo. Esso consiste nell’esporre la dottrina in modo da indicare in che modo ottenere la Liberazione (mokṣa) dall’ignoranza. 3- Saṃbandha: il modo di procedere. Nel testo tratteremo dei principali ostacoli che impediscono la conoscenza e il modo in cui dissolverli. 4- Adhikārin: la persona qualificata a cui tale insegnamento è rivolto. Anzitutto costui deve già essere iniziato (sādhaka). Ma ciò non è sufficiente, in quanto è inoltre richiesto che abbia le qualifiche intellettuali che lo rendano capace di comprendere, e che senta ardente desiderio di conoscenza. Questo vale indipendentemente dalle illusioni per le quali certi individui reputano d’essere un caso eccezionale solamente perché hanno letto i libri giusti e hanno creduto di averli capiti. Da quanto precede, perciò, il lettore comprenderà che qui non ci si atterrà soltanto all’esposizione della teoria, ma s’indicherà anche in che modo la conoscenza teorica, trasformandosi in conoscenza vera, possa essere ricondotta a una reale presa di coscienza della propria vera natura che è il Brahman-Ātman.
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Ciò non toglie che per gradi avvenga il processo di discriminazione (viveka) tra Ātman e anātman compiuto per mezzo della buddhi. Tuttavia questa gradualità non rappresenta la conquista di tappe lungo un percorso d’avvicinamento. Sono debitore alla prof.ssa Patrizia Tedesco Busetto per questa informazione certificata fuori ogni dubbio da numerose fonti letterarie. Rammaricati perché i nostri lettori erano già avvezzi all’uso di questi termini, e ciò favoriva una comprensione immediata. Inoltre “Grandi Misteri” e “piccoli misteri” traducevano bene i termini sanscriti para rahasya e apara rahasya con cui spesso si definiscono le dottrine del Supremo e del non-Supremo. Tuttavia l’accertata inapplicabilità delle analogie ci ha imposto questa scelta.
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Ovviamente questo passaggio alla realizzazione non potrà avvenire tramite la semplice lettura di queste righe, ma dall’insegnamento diretto, esposto da un maestro qualificato, dotato di una indiscussa trasmissione (paramparā), il quale deve anche essere un adepto. Ciò sta a significare che soltanto il guru che abbia già sperimentato la Liberazione dall’ignoranza è abilitato a trasmettere il metodo conoscitivo diretto (sākṣāt sādhanā). Per esporre la dottrina e il metodo dell’Advaita ci siamo attenuti con il più attento rigore alle opere dell’Ādi Śaṃkarācārya Bhagavatpāda e ai loro commenti scritti e orali da parte di Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī e del suo immediato successore, fonti della più elevata e indubitabile conoscenza. Trattandosi di un lavoro che non ha né scopo divulgativo né tanto meno “scientifico”, ma semplicemente illustrativo, non ci siamo peritati di fare nostre alcune parti adeguatamente rielaborate di queste opere, senza alcuna preoccupazione d’essere sospettati di plagio. La Tradizione, infatti, non è ossessionata dallo sciocco pregiudizio accademico che favorisce qualsiasi ottusa “originalità” e che avversa ogni intelligente “ripetizione”; al contrario, vuole trasmettere fedelmente le concezioni immutabili, vere in quanto già sperimentate e sperimentabili da chiunque1. Per questa ragione alcuni dei capitoli che seguono consistono in una traduzione, da noi commentata, del XVIII libro dell’Upadeśa Sāhasrī di Śaṃkara. Con la loro lettura s’approfondiscono alcuni temi di non facile comprensione atti a confermare che la conoscenza non è soltanto la dottrina, ma anche il “metodo” del Vedānta. Di particolare importanza, a questo riguardo, è la dottrina delle trayāvasthā, i tre stati di coscienza che sono argomento della più elevata tra le Upaniṣad, la Māṇḍūkya. Questa dottrina scaturisce dall’osservazione dell’esperienza vitale umana considerata da due punti di vista tra loro incompatibili: quello dell’esperienza empirica (vyāvahārika anubhava) e quello della visione metafisica (pāramārthika dṛṣti). Durante la nostra vita si alternano in continuazione le esperienze della veglia, del sogno e del sonno profondo. Investigando su ciascuno di questi stati di coscienza e paragonandoli fra loro, appare in tutta evidenza la loro limitatezza, grazie alle contraddizioni che sorgono quando li si sperimenta; in questo modo si è in grado di riconoscere l’illusorietà delle convinzioni che l’umanità ordinaria si forma al riguardo. Così facendo, emerge dalle tenebre dell’ignoranza la folgorante intuizione che esiste un punto di vista superiore, capace di fornire una spiegazione unica, non contraddittoria, assoluta e non duale dei tre stati di coscienza. Prima ancora di percepire, valutare e scegliere nei confronti sia del mondo esterno sia delle nostre modificazioni mentali, noi intuiamo con assoluta certezza d’esistere e di essere coscienti. Coscienzaesistenza, che è la chiave universale per spiegare tutte e tre le avasthā, e che è il Testimone (Sākṣin) d’ogni conoscenza. Ritornando all’Occidente, nell’attuale situazione è fatale che gli eletti, tra i non molti chiamati, siano ridotti a un numero sempre più esiguo. Come abbiamo scritto nell’Introduzione, la parte d’umanità, che ha dato nascita al mondo moderno, è nella sua quasi totalità squalificata per nascita, mentalità, karma, scarsezza intellettuale, ostilità a qualsiasi tipo di conoscenza2, soprattutto nei confronti di quella Vera. Se qualcuno può pensare che il contenuto di queste pagine sia una dottrina riservata a coloro che sono inseriti nell’induismo, ebbene, costui sbaglia. Come s’è già detto, l’Advaita Vedānta è la metafisica e perciò rappresenta il superamento dell’induismo come anche di qualsiasi forma tradizionale particolare. Ciò che si potrà leggere di seguito è valido dunque per chiunque sia regolarmente iniziato e abbia il desiderio irrefrenabile e le qualifiche intellettuali per conoscere il proprio Sé. Se noi useremo un linguaggio sanscrito, ciò è dovuto alla precisione dei termini di quella lingua sacra. Tuttavia, ripetiamo che i medesimi concetti potrebbero essere espressi in forma piana in qualsiasi altro idioma, sacro, 1
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Né il lettore si stupisca delle reiterazioni di identici concetti nel corso dell’argomentazione: s’accorgerà, infatti, che ogni volta in cui si nota la ripetizione, abbiamo volutamente cambiato il punto di vista di partenza, in modo da dare all’esposizione una visione il più possibile “a tutto tondo”. Per la verità, non è che le vie iniziatiche caratteristiche dell’Occidente si trovino nelle presenti tragiche condizioni perché degenerate spontaneamente tanto da non permettere ai loro iniziati la benché minima realizzazione. Al contrario, esse sono tali perché l’umanità a cui sono destinate è così squalificata da non poter pretendere niente di meglio.
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liturgico o volgare, poiché la Verità non può essere circoscritta in ancun modo a un ambito per quanto vasto esso sia1. Tuttavia, anche se il linguaggio dell’Advaita Vedānta è semplice e l’esperienza illustrata è condivisa da tutti quotidianamente, è facile che la capacità di comprensione della metafisica, com’è esposta nel prosieguo della nostra pubblichiazione, sia ridotta quasi a nulla. Nonostante le numerose riserve avanzate, quand’anche questo testo fosse colto nei suoi fondamenti da un solo lettore, sarebbe valsa la pena essersi impegnati in questa impresa e l’autore se ne riterrebbe gratificato. Chi ha occhi per vedere, dunque, veda, perché, “Dopo questo, ora comincia la conoscenza del Brahman”2.
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Vedasi come esempio la forma nella quale la dottrina dell’Advaita Vedānta è stata espressa dallo Shaykh indiano Mohammed Ibn Fazlallah el-Hindi nell’epistola in arabo intitolata “Il Dono” (“Le Cadeau” tr. par ‘Abdul-Hādī, La Gnose, n° 12. Dec 1910.). Brahma Sūtra, I.1.1.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 3. La Conoscenza o esperienza intuitiva del Brahman
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3. LA CONOSCENZA O ESPERIENZA INTUITIVA DEL BRAHMAN Il primo problema da affrontare consiste nel rispondere ai quattro quesiti che si pone chiunque per la prima volta si rivolge al Vedānta: ossia se si può conoscere il Brahman, come lo si conosce, in che cosa consiste questa conoscenza e chi può conoscerlo. Questo problema, tuttavia, è impostato male poiché pare dare realtà all’equivoco che debba essere l’individuo a conoscere l’Assoluto. Ciò è un errore da respingere poiché è impossibile che il relativo possa conoscere il Brahman, l’Assoluto. Anzi, appare evidente che solo quest’ultimo deve essere considerato come l’unico conoscitore. Per rettificare il modo in cui procedere dobbiamo perciò considerare con attenzione per quale ragione l’individuo, in quanto essere contingente non può avere accesso a quella conoscenza. Esaminiamo, dunque, questo primo problema per gradi, partendo dall’argomento per cui il Brahman è l’unico conoscitore. Quando il Brahman è considerato come conoscitore (jñātṛ o jñāta), lo si deve intendere in senso non duale, perciò privo di qualsiasi cosa che possa essere conosciuta (jñeya) come altra da lui. Ossia, il Principio supremo non può essere in alcun modo considerato come un soggetto che conosca altro da Sé come oggetto; e nemmeno come fosse dotato di una conoscenza intesa quale attività d’indagine nei confronti di qualcosa da conoscere diverso da lui che, se fosse tale, sarebbe del tutto inesistente: Ma quando per quella persona tutto è diventato il solo Ātman, chi si potrebbe vedere e con che cosa, chi si potrebbe annusare e con che cosa, chi si potrebbe gustare e con che cosa, a chi si potrebbe parlare e con che cosa, chi si potrebbe toccare e con che cosa, chi si potrebbe conoscere e con che cosa?1
La conoscenza priva di oggetto attribuita al Brahman deve perciò essere compresa come Coscienza di Sé, vale a dire come Intuizione metafisica (pāramārthika anubhava). Analogamente, come l’Assoluto è autoconoscente, allo stesso modo si può dire che è autoluminoso (Deva o svaprakāśa), senza che esista qualcosa d’altro da poter illuminare né che il Brahman possa svolgere un’attività diretta a illuminare alcunché differente da lui stesso: Quell’autoluminoso (Deva) primordiale, difficile da vedere, è entrato in un luogo segreto, è nascosto nella caverna [del cuore] e abita un posto soggetto a molteplici pericoli. Conoscendolo per mezzo dell’adhyātma yoga il saggio è libero sia dalla gioia sia dalla sofferenza.2
Perciò colui che si è riconosciuto identico al Brahman autoluminoso riscopre il proprio stato di illuminazione immutabile ed eterno e, di conseguenza, rimuove l’errore di credersi un individuo separato. Allo stesso modo, indentificandosi coscientemente all’Assoluto, rimuove persino tutti i mezzi empirici che lo hanno aiutato a rimuovere l’errore: Dato che c’è il testo che comincia così: “Qui il padre smette d’essere il padre […] i Veda non sono più nessun Veda”3 noi, nello stato d’illuminazione, riconosciamo con certezza che persino la śruti non sia più nulla.4
Da ciò deriva che l’illuminato è tale non in quanto è illuminato da alcunché, ma perché autoluminoso per sua natura essenziale (svarūpa). Ciò è sostenibile per la medesima ragione per cui, essendo egli stesso il Brahman, possiamo dire, parafrasando la śruti: “cosa ci sarebbe da illuminare, e con che cosa?” Inoltre è affermato con chiarezza che l’Intuizione altro non è se non la luce di chi è autoluminoso: Perché, non appena affiora, l’Intuizione dell’Ātman annulla l’ignoranza (avidyā) e, quindi, non c’è alcuna ulteriore illuminazione che debba essere considerata necessaria.1
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Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (BU), IV. 5. 15. Kaṭha Upaniṣad (KU), I. 2. 12. BU IV. 3. 22. BSŚBh IV. 1. 3.
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A buon diritto possiamo affermare anche in questo caso: “cosa ci sarebbe da intuire, e con che cosa?” Per usare il sillogismo proprio della logica “secca” (śuṣka tarka), che ogni qual volta sia necessario può essere assunto anche nel corso della riflessione vedāntica (manana), se l’Ātman è il Brahman, esso è anche il conoscitore, l’autoluminoso e colui che intuisce: Questo Ātman è il Brahman. Esso è chi intuisce tutto; questo è l’insegnamento.2
In base a quanto premesso, possiamo iniziare l’argomentazione (vicāra) sulla natura dell’Intuizione vedāntica (Vedānta vijñāna). Come si può vedere nella formula precedente si è usato il termine vijñāna per esprimere il concetto di Intuizione; dobbiamo perciò avvertire il lettore che ci sono diversi modi per esprimere in sanscrito l’“esperienza intuitiva” che in precedenza abbiamo definito anubhava. La terminologia śaṃkariana s’adegua alle diverse varianti usate nelle Upaniṣad, e che si devono considerare sinonimiche tra loro: anzitutto vijñāna che abbiamo qui usato per ultimo, il cui significato vedāntico andrebbe tradotto con “conoscenza discriminativa”3, vale a dire quella conoscenza che appare a conclusione della discriminazione, viveka, attuata per mezzo della tecnica del “neti neti”. Vedānta vijñāna perciò significa conoscenza istantanea ottenuta distinguendo ciò che è reale (sat) da quello che non lo è (asat). L’esempio classico vedāntico che illustra il rapporto intercorrente tra la realtà e l’apparenza è il seguente: se qualcuno entra in una stanza in penombra, sul cui pavimento giace una corda, potrebbe prenderla per un serpente. Solamente rimovendo le tenebre per mezzo d’una lampada costui sarà in grado di riconoscere che non di un serpente si trattava, ma d’una corda. Ovvero, se si rimuovono le tenebre dell’ignoranza, la reale natura, la corda, appare immantinente per l’eliminazione della falsa apparenza di serpente. La conoscenza immediata e improvvisa della realtà, è dunque ciò che si intende con Intuizione. Altri termini upaniṣadici che significano Intuizione sono avagati, comprensione, adhyavasāya, apprendimento, comprensione finale e, forse quello più ricorrente e in cui ci siamo già imbattuti, anubhava, esperienza intuitiva immediata. Noi in italiano useremo principalmente i termini di esperienza diretta, illuminazione e Intuizione, adattando questi tre termini e altri ancora al contesto, ma sempre per intendere il medesimo concetto. Si dovrà prestare attenzione a un altro particolare non da poco: infatti Intuizione assume un significato assoluto solamente quando è applicato alla conoscenza del Brahman. Negli altri casi i vari usi del termine intuizione 4, pur essendo passibili di fungere da simboli dell’Intuizione, devono essere sempre rigorosamente distinti da quest’ultima. Per spiegare meglio questo distinguo, anubhāva significa esperienza intuitiva raggiunta senza alcuna mediazione anche quando lo si usa in riferimento alla funzione delle facoltà di senso. È esperienza quotidiana (vyāvahārika anubhāva) di tutti che, per esempio, la vista recepisce immediatamente le forme e i colori degli oggetti esterni, ossia senza alcuna mediazione o indugio5; analogamente si comporta il tatto, allorché percepisce il calore o la freddezza dell’oggetto che tocca. Allo stesso modo percepiscono anche gli altri sensi. In questo modo, dunque, la nostra percezione sensoriale appare come una esperienza intuitiva immediata. Per la natura di questa esperienza i sensi sono considerati strumenti validi di conoscenza (pramāṇa) degli oggetti esterni, nei limiti del loro campo d’applicazione e, proprio per questa ragione, sono definiti jñāna – indriya, facoltà “di “conoscenza6.
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BSŚBh IV. 1. 2. BU II. 5. 19. Quando è usato al di fuori dell’ambito vedāntico, vijñāna, come anche vidyā, sta a significare una scienza particolare, applicata a qualche settore della cosmologia, distinguendolo così da jñāna, la conoscenza metafisica. Segnaliamo al lettore che in questo studio l’Intuizione applicata all’Ātman è stata scritta sempre con l’iniziale maiuscola, per distinguerla con maggiore prontezza dalle altre intuizioni, in minuscolo, riferite a quelle dei sensi, della mente e dell’intelletto. Questa affermazione è tradizionalmente espressa dall’affermazione: “Apro gli occhi e vedo”. Si potrebbe obiettare con ragione che i sensi recepiscono le percezioni degli oggetti esterni tramite la mediazione degli organi corrispondenti. Cosa d’altronde verissima poichè nulla si può percepire senza il supporto del corpo grossolano. Tuttavia, nella prospettiva in cui ci stiamo ponendo, quella espressa nella Māṇḍūkya Upaniṣad, gli organi sono considerati non tanto come mediatori, ma come delle aperture (mukha) attraverso le quali passano liberamente le percezioni. In questo caso, è considerato intermediazione soltanto quando un organo di senso ne sostituisce un altro, come nella successiva citazione dalla Bṛhadārṇyaka Upaniṣad in cui è detto che l’udito sostituisce la vista per orientarsi. Naturalmente, per i fini stessi che si prefigge, questa conoscenza non può superare i limiti degli oggetti su cui indaga, appartenenti tutti alla modalità grossolana.
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Che si tratti di conoscenza valida (saṃyaj jñāna) è provato dal fatto che, per esempio, la vista percepisce davvero la forma della corda, mentre è la mente che alla retta percezione sovrappone, per errata interpretazione, l’apparenza illusoria del serpente. Infatti la mente ha degli oggetti esterni solo una conoscenza mediata. Mediata, appunto, dalle facoltà di senso, ragion per cui possiamo a buon diritto dire che se la mente fosse isolata dai propri sensi non avrebbe nessun contatto con il mondo esterno 1. Tuttavia, anche la mente, manas, riceve certe intuizioni, che essa sperimenta come una gamma di sensazioni comprese tra i termini estremi di gioia (sukha) e di dolore (duḥkha). Anche queste esperienze piacevoli o spiacevoli sono della natura delle intuizioni immediate; il che spiega le repentine impressioni di simpatia o antipatia che, a seconda delle inclinazioni innate di ogni essere vivente, sorgono irriflessivamente nei confronti di persone, cose e idee. Analogamente, l’intelletto, buddhi, quando elabora le informazioni che il manas le comunica, a sua volta recepisce intuizioni nella forma di ciò che gli appare come attraente o repellente a livello concettuale, ossia ciò che è favorevole (artha o śreyas) od ostile (anartha o aśreyas) al proprio “io” (aham) e al proprio “mio” (mama). Tutto ciò accade appunto nel dominio individuale sottoposto all’aham, o jīvātman che dir si voglia. Questi diversi livelli di intuizione riguardano comunque una valutazione immediata e istantanea e sono provocati dal contatto sensoriale con oggetti esterni, durante la veglia, e con oggetti interni, durante il sogno. Fanno, cioè, parte dell’orizzonte ordinario (vyāvahārika darśana) dell’“io”. Queste intuizioni, infatti, anche se repentine e immediate, riguardano avvenimenti che si sviluppano nel tempo, e come tali sorgono e si estinguono nel corso del tempo. Ci si può chiedere, a questo punto, cos’è che fa sì che l’essere umano diventi cosciente delle sue percezioni, sentimenti, volizioni e desideri. Come s’arriva a concepire la mente e le sue stesse intuizioni? Come si riesce a riconoscere quando la mente assieme a tutte le sue molteplici modificazioni è presente o è assente? È evidente che i sensi non possono diventare oggetti di loro stessi e quindi non possono indagarsi da soli: la vista non può vedere la vista, né l’udito può udire l’udito. Parimenti la mente non è in grado di pensare a se stessa come un oggetto del suo pensiero2 né, a maggior ragione, diventare cosciente della sua assenza. Per esempio la mente non può essere cosciente durante il sonno profondo, lo svenimento, il coma grave, la condizione artificialmente indotta dall’anestesia totale, poiché in quegli stati essa è assente (abhava). È, infatti, esperienza comune di tutti che la percezione sensoria e la presenza mentale in quegli stati sono sospese. Ebbene, ciò che ci rende capaci d’essere coscienti di tutte le intuizioni corrispondenti alle percezioni, emozioni, volizioni e desideri provenienti dai sensi, dalla mente, dall’intelletto e dall’“io”, sia durante la loro presenza sia in loro assenza (bhavābhava), è quello che il Vedānta nel suo linguaggio tecnico chiama anubhāva, l’Intuizione universale. Le intuizioni sensorie e mentali possono essere ricordate quando ci si sforza in tal senso: questo è possibile perché l’anubhāva immutabile ci permette d’essere consapevoli di tali esperienze temporanee 3, anche quando sono passate. Sul rapporto tra le intuizioni o illuminazioni sensorie e mentali e l’Intuizione illuminante universale, la śruti afferma quanto segue: Una volta Yājñavalkya andò da Janaka [Re] di Videha senza aver l’intenzione d’impartire alcun insegnamento. Dopo che Janaka [Re] di Videha e Yājñavalkya ebbero dialogato sull’agnihotra, Yājñavalkya concesse al Re di esaudire un suo desiderio. Il Re gli chiese di poterlo interrogare quanto voleva e Yājñavalkya accettò. Fu così che il Re gli pose per prima questa domanda: «Yājñavalkya, quale luce illumina questo puruṣa?» Egli rispose: «O Re, è la luce del sole. Illuminato dalla luce solare il puruṣa sta, si muove, agisce e torna a casa.» «Sì, Yājñavalkya, è davvero così;
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Se in questa condizione fossero annullati anche tutti i ricordi impressi nella mente (vāsanā saṃskāra), l’antaḥkāraṇa non potrebbe avere alcuna prova dell’esistenza del mondo esterno. La mente può, infatti, analizzare alcune sue attività minori formulate come pensieri o idee, ma non se stessa in quanto tale. Questa concezione è sempre più lontana dalle convinzioni moderne, il cui stato d’ignoranza, avidyā, ha raggiunto un livello d’estrema gravità, tale da indurre a confondere la mente con il suo organo corporeo corrispondente, il cervello, e le funzioni intellettive con i segnali elettrici del sistema nervoso. È in virtù di questo anubhāva immutabile che è possibile mantenere una fievole consapevolezza dei sogni, una volta “ritornati” allo stato di veglia. Sogni che non sono ricordi, in quanto il ricordo nello stato di veglia è la memorizzazione di un’esperienza passata che è avvenuta sempre nel medesimo stato di veglia. Possiamo portare un esempio empirico di questa differenza: il ricordo si affievolisce con il passare dei giorni, dei mesi, degli anni. La consapevolezza del sogno elaborata appena svegli è cancellata nel giro di pochi secondi o minuti. Nel prossimo capitolo ritorneremo a sviluppare queste considerazioni.
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ma, Yājñavalkya, quando il sole è tramontato, quale luce illumina questo puruṣa?» «O Re, è la luce della luna. Illuminato dalla luce lunare il puruṣa sta, si muove, agisce e torna a casa.» «Sì, Yājñavalkya, è davvero così; ma, Yājñavalkya, quando il sole e la luna sono tramontati, quale luce illumina questo puruṣa?» «O Re, è la luce del fuoco. Illuminato dalla luce del fuoco il puruṣa sta, si muove, agisce e torna a casa.» «Sì, Yājñavalkya, è davvero così; ma, Yājñavalkya, quando il sole e la luna sono tramontati e il fuoco è spento, quale luce illumina questo puruṣa?» «O Re, è la luce del suono [o voce]. Illuminato dalla luce del suono il puruṣa sta, si muove, agisce e torna a casa. Perciò, o Re, quando le tenebre sono dense tanto da non poter vedere neanche una propria mano, si va verso il luogo da cui si sente [provenire] un suono » «Sì, Yājñavalkya, è davvero così; ma, Yājñavalkya, quando il sole e la luna sono tramontati, il fuoco è spento, e ogni suono tace, quale luce illumina questo puruṣa?» «O Re, è la luce dell’Ātman. Illuminato dalla luce dell’Ātman il puruṣa sta, si muove, agisce e torna a casa.»1
Śaṃkara, commentando il quinto śloka spiega che : Durante la stagione delle piogge, quando alle tenebre [s’aggiunge] l’oscurità prodotta dalle nuvole, soffocando ogni barlume, tanto da non poter vedere neanche una propria mano e da interrompere qualsiasi attività a causa della mancanza di luce esterna, ci si riesce a orientare se si percepisce un suono, come per esempio il latrato di un cane o il raglio d’un asino. Il suono agisce come una luce e connette l’udito con la mente: così, in questo caso, il suono svolge la funzione di luce.2
Non per nulla in un altro passaggio s’afferma: “È attraverso la mente che si vede e si ode.” 3 Il che non fa altro che sottolineare il fatto che le facoltà di senso non sono altro che forme o modificazioni (vikāra, vṛtti) della mente. Così, dunque, si spiega in qual modo la mente, essendo la radice di tutti i sensi, abbia la capacità di usare l’udito come fosse la vista4, al fine d’ottenere l’intuizione sensoriale necessaria. Le prime quattro strofe, dunque, riguardano le intuizioni sensorie e la quinta l’intuizione mentale 5. In quest’ultimo caso, infatti, la mente interviene per usare un senso che non è collegato all’elemento corrispondente: il senso della vista (rūpa) corrisponde alla luce, l’elemento tejas, cioè il fuoco. Ma in assenza totale di luce e perciò con il senso della vista onnubilato, la mente, al fine di poter ritrovare l’agognata via di ritorno a casa, è in grado di decidere di sostituirlo con un altro senso, l’udito (śrotra) che corrisponde all’elemento etere (ākāśa). Ritorniamo ora al sesto śloka sopra citato, che qui c’interessa maggiormente in quanto tratta dell’Intuizione universale che è l’Ātman stesso: tant’è vero che vi è affermato esplicitamente che la luce interiore dell’Ātman costituisce l’intrinseca natura dell’uomo e di ogni altro essere. La luce dell’Intuizione può istruire direttamente e, anche nella vita quotidiana, funge da eterna guida in ogni scelta per quell’aggregato di corpo, facoltà di senso, mente, intelletto ed ego che è l’individuo. A questo dobbiamo aggiungere alcune precisazioni, perché qualcuno potrebbe sospettare che l’Intuizione universale si limiti a essere una funzione della mente atta a ispirare l’aggregato individuale al fine d’operare delle scelte e a compiere le conseguenti azioni. Questa idea sarebbe comprensibile se si trattasse di una semplice questione di deduzione: in quest’ultimo caso la mente non ha la possibilità d’indagare il mondo esterno se non attraverso la mediazione delle facoltà di senso (indriya) e per mezzo degli organi corporei corrispondenti (indriya golaka). Sempre rimanendo su questo piano individuale, si sa che esiste una facoltà razionale che rende la buddhi capace di mettere a confronto le somiglianze e le differenze
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BU IV. 3. 1-6. Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya (BUŚBh), IV. 3. 5. BU I. 5. 3. Questa osservazione consente di comprendere in qual modo, nei tempi primordiali, i “veggenti” (questo è il significato letterale di ṛṣi derivato dalla radice verbale dṛś, vedere) abbiano potuto “ascoltare” la śruti. Quest’ultimo termine significa, infatti, “audizione”, perciò è sinonimo di śrāvaṇa. Rispettivamente indriya anubhāva (o vedana anubhava) e mānasa pratyakṣa (o pratyaya anubhāva quest’ultimo usato anche per l’intuizione intellettuale). Śrī Śrī Satcidānandendra Saraswathi Swāmījī, Articles and Thoughts on Vedanta, Bangalore, Adhyatma Prakasha Karyalaya, 2015, pp. 53-54.
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tra due idee o due oggetti, purché siano collocati nel medesimo continuum spaziale o percepibili come successivi nel medesimo scorrere del tempo. Ma poiché il processo cognitivo è possibile solamente se l’organo interno (antaḥkāraṇa), quando pensa, formula una idea alla volta come modificazione di se stesso1, è evidente che non può mai concepire due pensieri simultaneamente. Per questa ragione la mente, nel suo complesso, può elaborare solo un pensiero separatamente da un altro. In caso contrario, i due pensieri si ostacolerebbero reciprocamente durante il loro sviluppo.
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Nel Vedānta i pensieri (mata, pratyāya) sono considerati provenire dall’esterno; prodotti da Hiraṇyagarbha, essi vanno e vengono alla mente di tutti gli esseri individuali attraverso i prolungamenti sottili, provocando al loro passaggio delle modificazioni mentali (vṛtti, coinvolgimenti). Queste modificazioni costituiscono la base per le cogitazioni che un determinato individuo rielabora e poi rimette in circolo. La portata generale dei pensieri è ciò che dà origine alla mentalità, che si diffonde comunemente tra gli individui di una medesima specie, comunità, generazione; l’esempio dell’insorgenza inattesa e immotivata delle mode nel comportamento e nelle idee si spiega in questi termini. Quanto al passaggio dei pensieri indotti da Hiraṇyagarbha nella mente d’un individuo, esso può provocare una “scoperta” scientifica, tecnologica, geografica o altro, in forma apparentemente casuale, che si suole attribuire alla genialità dello “scopritore”. In realtà lo “scopritore” appare sempre imbattersi passivamente e casualmente nella “scoperta”, la cui giustificazione “scientifica” ufficiale è poi formulata a posteriori. L’esempio classico usato per illustrare come circolano i pensieri nella collettività composta dagli individui è quella dell’aria (prāṇa) che si respira. Essa è di ciascuno e di tutti, e circola in continuazione nel dominio del generale, diffondendo nell’ambiente e nei singoli i residui sottili espulsi, mischiati all’aria espirata da ogni individuo.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 4. L’Intuizione che sorge dall’osservazione dei tre stati
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4. L’INTUIZIONE CHE SORGE DALL’OSSERVAZIONE DEI TRE STATI Le precedenti considerazioni ci conducono ad affermare che al di sopra e al di là delle intuizioni mentali, ci deve essere qualcosa di costante che ci rende capaci di adempiere a quelle funzioni. Per comprendere questa affermazione produciamo come esempio l’idea della somiglianza o della differenza tra due oggetti collocati in due condizioni spaziali e temporali diverse, come, per esempio, un avvenimento a cui s’assiste nello spazio e tempo della veglia e un altro evento a cui si partecipa nello spazio e nel tempo del sogno. Ora, il mondo della veglia e il mondo del sogno hanno tempi e spazi separati; in tutta evidenza non c’è alcuna continuità tra spazio e tempo dello stato di veglia (jāgrat avasthā) e spazio e tempo del sogno (svāpna avasthā). Ciò che in stato di veglia si ricorda dei sogni, perciò, in realtà non fa parte della memoria di chi veglia. Infatti durante la veglia si può ricordare soltanto qualcosa che si è sperimentato durante la veglia. Quello che si chiama “ricordo” del sogno, quindi, non è affatto un “ricordo”1, ma qualcosa di altra natura. Questo presuppone necessariamente un Testimone cosciente (Sākṣin Caitanya) che sta “dietro” alla mente presa come un tutt’uno, pur nella sua complessità (antaḥkāraṇa), che esiste indipendentemente e che è al di là d’ogni spazio e tempo, la cui Coscienza rimane inalterata dalla veglia e dal sogno2. La natura immutabile dell’Intuizione, la quale rimane sempre identica a se stessa indipendentemente dalle condizioni di spazio e di tempo, non è solamente dimostrata dalla deduzione (anumāna pramāṇa) sopra formulata, ma trova supporto e spiegazione nella śruti. Così la dottrina autorevole delle Upaniṣad3 (śabda pramāṇa) ricorre anche agli esempi tratti dall’esperienza quotidiana della vita umana per indicare un’evidenza che, anche se non compresa nel suo vero senso, è davanti agli occhi di tutti. [Il puruṣa,] quando s’addormenta, da questo mondo troppo coinvolgente porta lì qualche cosa4. Egli sopprime [il corpo] e si crea un nuovo corpo e, grazie alla sua somiglianza e la sua propria luminosità, sogna. Qui, questo puruṣa diventa autoluminoso.5
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Per la medesima ragione il sogno scompare con grande rapidità dalla mente non appena svegli. Se tra sogno e veglia ci fosse una continuità temporale il ricordo dovrebbe rimanere vividissimo, essendosi apparentemente prodotto solo pochi istanti prima del risveglio. Invece scompare completamente in pochi secondi o pochi minuti. Non è, quindi, di un “ricordo che passa” che qui si tratta, ma della coscienza del Testimone, che rimane stabile mentre le avasthā sono mutevoli. Tuttavia c’è da precisare che si sperimenta questo falso “ricordo” solamente dopo essere “tornati” alla veglia, perciò esso è il frutto di una rielaborazione che fa la mente della veglia dell’esperienza onirica testimoniata dal Sākṣin. Tutte queste considerazioni devono essere comprese alla luce delle esperienze di Coscienza (Caitanya) e non come oggetti d’indagine psicologica. L’indagine psicologica tradizionale, come quella divinatoria o medica, pur lecite (perciò non ci riferiamo qui alla psicoanalisi), si applicano a un livello d’indagine molto più esteriore di quello della conoscenza dei tre stati di coscienza dell’Ātman. Ci riserviamo di sviluppare in altra sede la dottrina dei tre stati, trayāvasthā, essendo troppo complessa per essere sintetizzata nel corso della presente argomentazione vedāntica (Vedānta vicāra). Ci si ripromette, dunque, in un prossimo futuro di dedicare un’intera pubblicazione su questo tema. Diciamo autorevole perché la dottrina upaniṣadica, intesa come śabda, ovvero come “la parola”, è considerata come l’ultimo strumento più elevato di conoscenza (antyapramāṇa), ben di più della deduzione logica (anumāna) fin qui da noi usata. La śruti, infatti, è la dottrina tramandata da quei liberati (mukta) che hanno sperimentato direttamente la Verità suprema e che l’hanno trasmessa come insegnamento orale, sotto forma di Upaniṣad, attraverso le generazioni dei discepoli. Questa sua natura la distingue nettamente dai testi sacri “rivelati”. A proposito di quest’ultimi si legge in Śaṃkara: “Obiezione: Anche l’oppositore del Vedānta potrà richiamarsi all’autorità dell’Āgama [un testo tantrico, in questo caso il Pāśupata Tantra] che è stato rivelato da Dio onnisciente. Risposta: No, perché in questo caso ci sarebbe il ripugnante errore della reciproca dipendenza (anyonya āśraya doṣa), in quanto l’autorità dell’Āgama deve appoggiarsi sull’onniscienza del Dio che l’ha rivelato, e l’onniscienza del Dio deve appoggiarsi sull’autorità dell’Āgama rivelato” (BSŚBh II. 2. 38). Svāmī Satcidnāndendra così commenta questa citazione: “È ovvio che Śaṃkara con questo si riferisce alla Bibbia, al Corano, allo Zend Avesta e ai libri sacri delle religioni, perché tutti affermano che la loro natura ispirata dipende dalla debole argomentazione basata su un circolo vizioso, esattamente come accade per gli Āgama dell’induismo” (Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī, Intuition of Reality, Holenarsipur, APK, 1995, pp. 8-9). Si noti che śruti, esattamente come śrāvaṇa, significa audizione. Audizione di che cosa? Dello śabda, cioè dell’insegnamento orale del Vedānta. Il “qualche cosa” a cui si riferisce l’Upaniṣad corrisponde in senso inverso all’apparente “ricordo” degli oggetti del sogno durante la veglia di cui s’è accennato nella nota n. 2; gli oggetti del sogno appaiono, in questo caso, come fossero costituiti dai “ricordi” che il sognatore avrebbe della veglia. Si tratta sempre, anche in questo caso dunque, soltanto della Coscienza del Testimone. BU IV. 3. 9.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 4. L’Intuizione che sorge dall’osservazione dei tre stati
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Quando si sta sognando, si vedono corpi apparenti e apparenti oggetti. Ma cos’è quella luce che, anche quando si tengono gli occhi chiusi, ci permette di osservare questa replica del mondo della veglia che è il sogno 1? In ogni evidenza, non c’è nulla dello stato di veglia che possa passare allo stato di sogno, come neppure i sensi né la mente “cosciente” tipica dello stato di veglia. Se ci si addormenta con un fucile in mano, com’è che con quest’arma non si può uccidere la tigre che ci assale nel sogno? Se si guadagna una fortuna in sogno, com’è che ci si risveglia poveri? Perciò è il Sé autoluminoso che illumina tutti gli oggetti, fenomeni e accadimenti onirici per mezzo della sua propria coscienza: questa è la ragione per la quale lo stato di sogno (svāpna avasthā) è chiamato anche taijasa, il luminoso. Questa coscienza permanente è l’Intuizione illuminante che è lo stesso Ātman. Nel sogno, il Sé non ha bisogno di ricorrere a una luce a lui esteriore che debba operare attivamente, come invece fa la mente quando percepisce gli oggetti esterni nello stato di veglia (jāgrat avasthā). In quest’ultimo stato il soggetto vegliante, infatti, illumina gli oggetti della sua indagine sensoriale per mezzo della luce di quella parziale coscienza 2 che è la mente; ma il vegliante deve anche ricorrere alla luce solare e ad altre luci secondarie, come è stato spiegato nella precedente citazione della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad sui quesiti di re Janaka. Invece nello svāpna avasthā, gli oggetti interni sono tutti illuminati da un’unica luce interiore: è perciò evidente che l’Ātman è la sua propria luce. Ciò risulta ancor più lampante quando si smette di considerare i singoli oggetti del mondo onirico, e si prende coscienza dello stato di sogno (svāpna avasthā) come un tutto, cioè quando lo si considera come un unico oggetto sintetico3. Ci si renderà conto allora che ciò accade anche quando si diventa coscienti dello stato di veglia (jāgrat avasthā), non per via analitica lasciandosi coinvolgere nel mondo della veglia, ma contemplandolo come un tutt’uno. Dalle precedenti osservazioni e dimostrazioni, si trae che gli stati di jāgrat e di svāpna sono tra loro discontinui al punto tale che né il mondo con gli oggetti che lo compongono, spazio, tempo, causalità, molteplicità e altre condizioni limitative tipiche del Macrocosmo, né il soggetto, con il suo corpo, sensi, mente, intelletto, io (aham) e altre condizioni limitative tipiche del microcosmo, possono essere traslati da un’avasthā all’altra. Ciò nonostante hanno in comune la coscienza del Testimone, ossia l’Ātman, il quale rimane inalterato dalla presenza o assenza degli stati di veglia e di sogno. Questa riflessione ci permette di ottenere l’Intuizione che l’immutabile coscienza dell’Ātman continua a mantenersi identica a se stessa persino nello stato di sonno profondo (suṣupti avasthā), in cui non soltanto sono evidentemente assenti la mente e i sensi, ma anche l’“io” (aham), che è il loro locus. Ecco come si esprime la śruti a questo riguardo: Dunque questa è la sua vera forma al di là d’ogni desiderio, al di là d’ogni male, senza paura (abhaya). Come qualcuno che è abbracciato appassionatamente dall’amatissima moglie non è cosciente né del mondo esterno né di quello interno, così anche questo puruṣa, appassionatamente abbracciato dall’Ātman cosciente, non conosce nulla di esterno o di
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Per meglio comprendere le considerazioni che seguono, il lettore deve essere informato sulla terminologia vedāntica in uso sull’argomento. Gli stati di coscienza dell’Ātman, le avasthā, soprattutto quelle di veglia e di sogno, comprendono una persona (puruṣa) e il mondo corrispondente (prapāñca). La persona è il soggetto (pramātṛ-viṣayin) o conoscitore (jñātṛ), mentre il mondo è composto da un numero illimitato d’oggetti (prameya o viṣaya) o cose conoscibili (jñeya). Lo spettatore (dṛṣṭṛ) che osserva lo spettacolo (dṛṣya) messo in scena dalla persona e dal mondo, è l’Ātman, chiamato in questo caso Sākṣin, Testimone diretto. Il Testimone, comunque, ha una visione sintetica della persona, del mondo e degli oggetti del mondo come un tutt’uno, poiché queste sono soltanto sue differenziazioni apparenti. Al contrario, l’individuo-soggetto vede gli oggetti del mondo in modo analitico. Per la verità le componenti individuali in quanto tali sono prive di coscienza (acit), esattamente come le pietre e la sabbia: “[...] Prajāpati allora pensò: “Possa io fruire degli oggetti esterni.” Quindi effettuò delle aperture [nel corpo] attraverso le quali fruì degli oggetti esterni per mezzo delle cinque redini. Le cinque redini sono le facoltà di percezione; i karmendrya sono i cavalli; il corpo è il carro, la mente l’auriga, la volontà [buddhi] la frusta; dietro Suo impulso il corpo cominciò a muoversi come la ruota del vasaio. Così questo corpo appare come fosse cosciente, mentre lo è soltanto chi lo muove (Maitry Upaniṣad, II.6). Ciò è possibile soltanto quando si è “usciti” dallo stato di sogno. Infatti, finché si sta sognano, il mondo del sogno appare illuminato da un sole, una luna, un fuoco di sogno, perché la persona è coinvolta nell’illusorietà del sogno. Che nella svāpna avasthā non ci sia alcuna fonte luminosa appare evidente soltanto quando se ne è fuori: allora si comprende che quella luminosità interna era prodotta soltanto dall’autoluminoso Ātman. La logica conseguenza di questa argomentazione è che se l’illusorietà del sogno è evidente solamente quando non si è più coinvolti dallo sperimentare il mondo onirico, i suoi oggetti e i suoi avvenimenti, così l’illusorietà della veglia apparirà evidente soltanto uscendo dal mondo della veglia.
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interno. Questa in verità è per lui la situazione (rūpa) che ha esaudito tutti i desideri, per la quale è estinto ogni altro desiderio diverso da quello per il Sé, e che è priva di desideri e libera da sofferenza.1
Quell’Ātman reale, che è Testimone anche dell’aham, non è mai contaminato dalle apparenze o dai mutamenti del mondo esterno (jāgrat prapañca) né da quelli del mondo interno (svāpna prapañca). Può essere riconosciuto per il fatto che la sua natura essenziale di pura coscienza e di Intuizione assoluta permane anche mentre passa, almeno in apparenza2, attraverso i tre stati di veglia, sogno e sonno profondo. Rimane inalterato anche quando attraversa nascita, crescita e morte, se lo si considera dal punto di vista microcosmico; oppure quando attraversa le fasi di manifestazione, mantenimento e dissoluzione dell’Universo, se considerato dal punto di vista macrocosmico. Si deve quindi prestare attenzione a queste due affermazioni di Śaṃkara, per comprendere a fondo che la immutabile natura dell’Ātman è esattamente la stessa cosa dell’Intuizione: Esattamente come un mago non cambia affatto se stesso durante le tre fasi temporali [in cui proietta, mantiene e dissolve] una immagine illusionistica ch’egli stesso ha prodotto, per il semplice fatto che quest’ultima è priva di sostanza, così anche il vero Sé rimane incontaminato dall’immagine illusoria del saṃsāra.3 Esattamente come un sognatore rimane immutato dall’esperienza fantasmagorica dei sogni, per il fatto che questa esperienza non continua ad apparire nella veglia e nel sonno profondo, così l’unico Testimone di tutti i tre stati rimane sempre immutato e incontaminato dalle tre avasthā che sono mutevoli. In verità, quel vero Sé appare nella triplice forma delle avasthā, che è solo un gioco illusionistico, come quando la corda è percepita sotto le parvenze di un serpente o altri oggetti. A questo riguardo il venerato maestro [Gauḍapāda], ben versato nell’autentica tradizione vedāntica, ha proclamato nella seguente kārikā4: “Quando il jīva si sveglia dal sogno senza inizio prodotto dalla Māyā, egli giunge a conoscere il Principio non duale mai nato (aja), che non dorme mai né sogna”.5
Qui è probabile che si possa sollevare un’obiezione: se, come sostengono gli advaitin, la libertà da tutte le differenziazioni è la natura intrinseca dell’Ātman, perché le cose differenziate, dopo che sono scomparse tutte nel sonno profondo, svegliandosi riappaiono ripetutamente? Ciò non sarà il segnale di qualcosa di potenzialmente persistente nell’Ātman che lo condiziona a rimanifestare quelle differenziazioni? A questa obiezione Śaṃkara così risponde: Questo non è affatto un punto debole, perché a questo proposito vi è un’evidenza [indiscutibile]: proprio come nel caso di chi è andato nel sonno profondo, nel samādhi o in qualsiasi altro stato simile dove c’è eterna assenza di distinzione, la distinzione riappare come prima non appena costui si sveglia, per la semplice ragione che la falsa conoscenza non è stata eliminata, così può anche accadere persino in questo caso. C’è la seguente śruti6 a confermarlo: “Tutti questi esseri sono diventati uno con l’Essere puro, ma essi non sono consapevoli d’essere diventati uno con l’Essere puro. Qualunque cosa essi siano stati in precedenza, tigre, leone, lupo, cinghiale, insetto, farfalla, tafano o zanzara, essi tornano a esserlo di nuovo”.7
Con questa argomentazione Śaṃkara risponde all’obiezione spiegando com’è che, anche dopo la totale dissoluzione del cosmo differenziato, gli esseri e le cose ricompaiano. Come egli afferma in modo inequivocabile, l’esempio macrocosmico del pralaya è esattamente paragonabile all’esperienza microcosmica dell’entrata in suṣupti, in samādhi, in coma profondo o durante una sincope.
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BU IV. 3. 21. In realtà non è il Testimone che “passa”, poiché la sua vera natura non è sottoposta ad azione e cambiamento: sono i tre stati che sembrano “passare” a causa della loro condizione saṃsārica (saṃsāṛtva). BSŚBh II. 1. 9. Māṇḍūkya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā (MāUGK), I. 16. BSŚBh II. 1. 9. Chāṅdogya Upaniṣad (ChU), VI. 9. 2. BSŚBh II. 1. 9
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In verità in questo Essere ci sono due stati: questo mondo e l’altro: la terza avasthā intermedia è lo stato di sonno profondo. Stando in questo stato egli contempla gli altri due stati, quello di questo mondo [della veglia] e quello dell’altro [del sogno].1
Si pone ora il problema se vi è una fusione reale delle distinzioni durante il sonno profondo o in quegli stati inaccessibili all’aham a esso paragonabili. È sbagliato ritenere che Ātman sia realmente contaminato da differenziazioni, e che perciò si debba raggiungere quello stato di indistinzione, conosciuto come mukti o Liberazione, a seguito di un percorso di disciplina spirituale. La verità è che la nostra reale natura è sempre libera da ogni distinzione e differenza, anche quando appare da esse macchiato e contaminato, come la nostra innata ignoranza ci fa credere. Finché l’ignoranza (avidyā) non sia stata spazzata via, noi continuiamo a immaginare che le differenze si mantengano, almeno in forma potenziale, persino quando la natura ci immerge ripetutamente nella realtà indifferenziata dello stato di sonno profondo e degli altri stati analoghi prima citati. Così Śaṃkara descrive il grave errore di valutazione, tipico della gente ordinaria: Durante il periodo di mantenimento [e sviluppo] dell’universo, a causa della falsa conoscenza, si constata che la vita empirica si sviluppa nella differenziazione, sebbene l’Ātman sia sempre privo di distinzioni; il che conferma che si tratta di una percezione illusoria simile a quella d’un sogno. Così, dal punto di vista empirico la medesima falsa conoscenza ci induce a credere che la differenziazione persista allo stato potenziale anche durante il pralaya. Ciò confuta l’obiezione che considera possibile la rinascita perfino per i liberati, perché nel loro caso la falsa conoscenza è stata distrutta del tutto dalla vera Conoscenza.2
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BU IV. 3. 9. Ibid.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 5. Gli strumenti di conoscenza che rimuovono l’ignoranza
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5. GLI STRUMENTI DI CONOSCENZA CHE RIMUOVONO L’IGNORANZA Questa, dunque, è l’essenza dell’Intuizione universale vedāntica: non si tratta affatto di qualcosa che è prodotto per mezzo d’uno sforzo. Ogni qual volta affermiamo di conoscere una cosa in quanto tale usiamo alcuni validi mezzi di conoscenza (pramāṇa), come, per esempio, la percezione sensoria. L’unica funzione di tali pramāṇa è semplicemente quella di rimuovere le tenebre dell’ignoranza che circondano quella cosa; si tratta, cioè, di rimuovere la concezione erronea dell’oggetto da conoscere, concezione che è stata prodotta dall’assenza di un contatto con la luce dell’Intuizione. Così s’esprime il commentatore della Māṇḍūkya Upaniṣad: Se d’altronde accettiamo che i validi mezzi di conoscenza utilizzati per distinguere un vaso dall’oscurità che lo avvolge, raggiungono il loro scopo quando è dissipata l’oscurità, allo stesso modo potremo anche affermare che il taglio operato per segare in due un tronco d’albero raggiunge il suo fine solo quando i due pezzi siano stati del tutto separati l’uno dall’altro. La conoscenza del vaso nascosto nell’oscurità, affiora spontaneamente non appena questa è dissipata; perciò il pramāṇa non può essere considerato il produttore di tale conoscenza [ma solo della rimozione dell’ignoranza]. Gli strumenti di conoscenza che usano la discriminazione negativa [neti neti] per rimuovere la falsa apparenza, quando sono applicati per discriminare attributi quali “conoscente degli oggetti interni”1 e gli altri2 che sono sovrapposti all’Ātman, non potrebbero essere usati allo stesso modo per Turīya. Perché assieme all’eliminazione del “soggetto cosciente” [aham] e degli altri [gli oggetti], cessa automaticamente qualsiasi distinzione tra conoscitore, conosciuto e conoscenza.3
L’Ātman, in quanto Intuizione, è l’unica Realtà autosussistente. La retta conoscenza d’ogni cosa invariabilmente culmina rivelando la sua vera natura come Intuizione solamente rimovendo l’ignoranza che s’intromette e nasconde la sua realtà. Quando si tratta di comprendere una cosa particolare, la nostra mente rimuove davvero l’ignoranza da quell’oggetto e si stabilisce nell’Ātman che, in questo caso, rivela se stesso come l’Intuizione di quella cosa. L’Ātman, che in Sé è Intuizione, quando lo si riscontra nello stato di veglia e negli altri stati di coscienza empirica è definito “intuizione” in modo del tutto relativo Allo stesso modo si usa dire che il sole illumina con i suoi raggi oggetti come un vaso ecc., facendoli apparire. Invece, come s’è già detto, ciò che li fa apparire4, è la scomparsa delle tenebre quando si ritirano davanti alla sua luce. Ciò che si chiama intuizioni dei sensi e della mente sono in realtà questa medesima Intuizione, considerata come se si determinasse in forme particolari a causa di quelle sovrapposizioni condizionanti che noi conosciamo come sensi, mente e intelletto. Come si prova l’Intuizione? Ogni tipo d’intuizione, sensoria, mentale, intellettuale, come, ovviamente, anche quella di natura universale, è una comprensione diretta che deriva dall’Intuizione universale. Da questo punto di vista, l’intuizione parziale pare spargere la sua luce solamente sui suoi oggetti e non dà alcun giudizio se quegli oggetti siano realmente ciò che sembrano essere. Da questo può naturalmente sorgere il seguente dubbio: come possiamo arrivare a definire reale un certo oggetto dell’intuizione? Come si può essere sicuri sulla verità di ciò che le Upaniṣad insegnano sull’Ātman? Per cominciare, nella vita di tutti i giorni le intuizioni sensorie, ovvero le percezioni sensoriali, vanno provate in tre fasi diverse. Anzitutto se ne fa la prova verificando se l’intuizione che abbiamo avuto a prima vista possa essere confermata con un esame più attento di ciò che conosciamo dell’oggetto. In secondo luogo si controllerà se la cosa sia provvista dell’efficienza causale che da essa ci si
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Il soggetto cosciente (pramātṛ-viṣayin) è l’ego individuale (aham o jīvātman), l’essere umano (puruṣa), il conoscitore (jñātṛ), che altro non è se non una sovrapposizione apparente (adhyāsa) o un travestimento (upādhi) che nasconde la vera natura di Ātman. Gli altri attributi a cui Śaṃkara allude in questo passo sono: il “conoscente degli oggetti esterni” ovvero Vaiśvānara-jāgarita jñātṛ; il “conoscente sia degli oggetti esterni sia di quelli interni”. Ciò vale a dire Vaiśvānara e Taijasa-svāpna presi insieme per rappresentare tutto il dominio della manifestazione formale; l’“agglomerato indifferenziato di coscienza” ossia Prājña-suṣupta; e, infine, la “generalità di oggetti non-coscienti” (acit sarvaviṣaya), cioè gli oggetti della sola manifestazione grossolana (adhibhūta). Cfr. Māṇḍūkya Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya (MāUŚBh), I. 7. Ibid. “D’altra parte noi sosteniamo che i pramāṇa servono a discriminare il vaso dalle tenebre che lo avvolgono, e questa azione discriminativa culmina con la rimozione delle tenebre” (MāUŚBh 7). Perciò per l’Adavita, non soltanto la Conoscenza del Sé, ma anche la l’“azione conoscitiva” a livello sensoriale, mentale e intellettuale culmina soltanto dopo aver rimosso l’ignoranza.
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aspetta1. Il terzo modo consiste nel controllare se la nostra esperienza è comune a tutte le persone dotate di facoltà intatte. Per esempio, in primis vediamo qualcosa a distanza che la nostra intuizione percettiva ci comunica trattarsi di acqua; in secundis avvicinandoci potremo verificare se il liquido che ora è davanti a noi possa bagnare i nostri vestiti o spegnere la nostra sete; denique, si appurerà se le proprietà che noi attribuiamo a quel liquido possano essere condivise allo stesso modo da qualsiasi persona equilibrata. Quando arriviamo a essere convinti che è così, possiamo concludere che si tratta veramente di ciò che conosciamo come acqua. Una intuizione mentale, come quella d’un oggetto del mondo onirico, può soddisfare a tutte le prove summenzionate finché il sogno dura, ma è scartato come ingannevole quando viene a essere rimosso al risveglio. In questo modo, tutto quello a cui abbiamo assistito prima è giudicato come se fosse stata soltanto l’impressione d’un individuo particolare, paragonabile all’allucinazione di un malato di mente. Allora possiamo vedere che, oltre a soddisfare le prove dell’efficienza causale e della condivisione generale, la vera Intuizione deve essere tale per cui sia inconcepibile la sua rimozione. L’Intuizione dell’Ātman non può essere in conflitto con la percezione e gli altri strumenti di conoscenza (pramāṇa), poiché si situa su un altro piano. Infatti, talvolta qualcuno sostiene che l’Intuizione dell’unità dell’Ātman debba essere rigettata perché non corrispondente alla realtà, in quanto i validi mezzi di conoscenza, i pramāṇa, sono concordi a indicare la molteplicità dell’universo. Ma la verità è proprio il contrario di quanto si afferma, perché ogni pramāṇa è riconosciuto valido solo nella misura in cui culmina con l’Intuizione che certifica la sua validità, cioè quando si conforma alla natura dell’oggetto. Inoltre, la veridicità della percezione, come quella di qualsiasi altro pramāṇa, consiste nel presupposto che Ātman è realmente un conoscitore. Ma questa è in se stessa soltanto una supposizione priva di qualsiasi garanzia. Perché, come fa notare Śaṃkara: La funzione della percezione e degli altri [pramāṇa], come ben sappiamo, non è possibile senza l’uso dei sensi. E i sensi nemmeno possono svolgere la loro funzione senza un corpo in cui collocarsi. Né si può essere attivi con il proprio corpo senza sovrapporgli l’idea ch’esso sia il proprio Sé. Perciò non può esserci funzione di conoscitore per l’Ātman, che per sua natura è incorrotto da qualsiasi altra cosa, se non si presumono tutte queste [sovrapposizioni]. Nessun pramāṇa, dunque, può entrare in azione senza la Sua funzione di conoscitore. Perciò è evidente che la percezione, come anche gli altri pramāṇa, compresi gli śāstra [le Upaniṣad], sono solo per persone soggette all’ignoranza.2
L’Intuizione dell’Ātman non può mai essere messa in dubbio anche per un’altra ragione: Inoltre questo pramāṇa, che consente la comprensione dell’unità dell’Ātman, è assolutamente conclusivo, perché non esiste alcun ulteriore argomento che possa porsi quando quella [comprensione] emerge. Quando nella vita ordinaria si dice che si deve compiere un sacrificio, ci si può chiedere: “Cosa, con cosa e come si deve sacrificare?” Ma nessuna domanda simile è possibile quando si afferma: “Quello sei tu [Tat tvam asi]”, “Io sono il Brahman [aham Brahma asmi]”. Perché l’Intuizione che allora insorge si riferisce all’unità dell’Ātman come Tutto. Infatti, un ulteriore argomento può essere sollevato solamente allorché rimane qualcos’altro: ma non c’è nient’altro che rimane al di là dell’unità dell’Ātman che possa provocare come conseguenza un argomento aggiuntivo da affrontare.3
Ci si può chiedere, a questo punto, se l’insegnamento vedāntico possa essere opposto alla ragione. Questo dubbio può essere sollevato perché si sa che l’insegnamento vedāntico è un’affermazione su un fatto reale, e può essere ritenuto inattaccabile soltanto quando non s’opponga alla ragione. D’altra parte, la ragione è spesso 1
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Con efficienza causale s’intende l’insieme delle informazioni che la percezione raccoglie: forma, colore, proprietà ecc.. Per esempio la percezione d’una corda vista in una stanza buia ci informa che si tratta d’un oggetto lungo, sinuoso e arrotolato e che giace al suolo. Queste informazioni appaiono obiettive indipendentemente dal fatto che poi la mente interpreti tale oggetto a modo suo. Il fatto che la mente ingannevolmente decida di interpretare l’oggetto percepito come un serpente, non smentisce che l’efficienza causale abbia informato correttamente il senso della vista. La veridicità della percezione dell’efficienza causale si verifica provando la sua utilità. Se bagna e disseta, allora si stabilisce che è acqua, essendo questa la sua intrinseca utilità per il soggetto. Quello che, invece, rimane soggiacente, cioè la corda, deve essere inteso come sostanzialità causale. Efficienza causale e sostanzialità causale, altro non sono se non nāma e rūpa intesi come proiezioni della causa efficiente e della causa sostanziale all’interno della manifestazione. BSŚBh, Upodghāta. BSŚBh II. 1. 14.
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utilizzata per trarre per via deduttiva qualcosa di sconosciuto da qualcos’altro che è già stato conosciuto in precedenza per mezzo della percezione. In questo modo potrebbe sembrare più prossima all’Intuizione di quanto lo sia un’affermazione testuale. Inoltre, le Upaniṣad sostengono che non si deve soltanto prestare attenzione all’insegnamento che riguarda l’Ātman, e aggiungono che si deve riflettere sullo stesso insegnamento. Ciò potrebbe spingere qualcuno a supporre che l’insegnamento testuale appreso dalla voce del guru debba essere sottoposto al vaglio del ragionamento. Infatti, nelle medesime Upaniṣad s’afferma che qualunque cosa sia insegnata deve risultare invariabilmente sostenibile razionalmente come, per esempio, quando la śruti propone degli esempi tratti dall’esperienza di vita quotidiana per illustrare e sostenere la verità di quanto è già stato esposto dottrinalmente. Sembrerebbe, perciò, che la verità di una semplice dichiarazione dottrinale debba essere respinta ogni qual volta sia in conflitto con la ragione. Invece tutte queste considerazioni sono erronee: infatti, al contrario, ognuno può facilmente constatare che la ragione non può mai innalzarsi fino alla realtà ineffabile dell’Unità assoluta. Quel dubbio è pertanto del tutto ingiustificato per il semplice motivo che ogni ragionamento è solo un prodotto secondario della comparsa improvvisa e illuminante dell’Intuizione stessa, poiché il pensiero appartiene solamente alla condizione formale della vita empirica. Le Upaniṣad senza dubbio impiegano la ragione mentre spiegano l’Assoluto, ma questo accade nella misura in cui la loro spiegazione è basata su intuizioni parziali, al fine di condurre il cercatore allo svelamento della Realtà. Perciò la śruti non incoraggia mai il semplice raziocinio per amore della ragione speculativa. Śaṃkara così distingue la sterile razionalità del ragionamento logico dalla riflessione vedāntica, usata come strumento per insegnare il Brahman: Questo argomento non può essere applicato in questo caso come pretesto per infilarvi la logica secca (śuṣka tarka); perché qui si fa ricorso solamente al ragionamento basato sulla śruti in qualità di mezzo ausiliario dell’intuizione. Si tratta della riflessione (manana) che si esprime, per esempio, in questi modi: «l’Ātman non è dotato di nessuna delle caratteristiche né del sogno né della veglia, in quanto queste appaiono tra loro incompatibili le une con le altre. Perciò il sé individuale respinge ogni molteplicità e, nel sonno profondo, diventa uno con l’Ātman in quanto pura esistenza, proprio perché l’Ātman è della natura dell’esistenza ed è privo di molteplicità.» Un altro esempio di riflessione, manana, è il seguente: «poiché l’universo è nato dal Brahman, non può essere nient’altro che il Brahman, in forza della legge che vuole che l’effetto non sia diverso dalla sua causa.»1
Qui in tutta evidenza la śruti sostiene la riflessione basata sull’Intuizione universale e non quella fondata sull’induzione logica o sulla deduzione sillogistica. Come se non bastasse, nessun ragionamento di qualsiasi tipo è necessario a colui che può far riferimento direttamente alla natura del puro Ātman come il Sé-Testimone dell’“io” (aham). E questo perché il Sākṣin è per sua propria natura sempre del tutto indipendente da qualsiasi non-Sé (anātman). Questi ultimi, dunque, non possono mai pretendere d’avere una esistenza indipendente dal proprio Testimone come fosse realmente altro da loro. I Vedāntin, seguendo le orme di Bādarāyaṇa basandosi sul commento di Śaṃkara, portano come esempio il sonno profondo e agli altri stati non duali simili a quello, allo scopo di confermare la loro certezza sul fatto che l’Ātman mantiene la sua assoluta identità nonostante che questo molteplice mondo della veglia (jāgrat prapāñca), assieme al suo corrispondente stato di veglia (jāgrat avasthā) continui ad apparire e a scomparire; e il medesimo ragionamento lo applicano anche al mondo del sogno (svapna prapāñca) e allo stato di sogno (svapna avasthā). Ma né la veglia né il sogno possono prevalere sul Sé Testimone quando sappiamo che veglia e sogno valgono esclusivamente per il sé individuale che s’identifica al corpo e che immagina che i suoi sensi dimorino e funzionino realmente in quel corpo. Ciò che si usa chiamare “riassorbimento” nell’Essere puro o in Ātman durante il sonno profondo è soltanto una concessione a quegli sprovveduti che continuano a credere che ognuno sia realmente un individuo distinto dal Sé
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BSŚBh II. 1. 6.
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reale1. Di conseguenza Śaṃkara propone la seguente precisa osservazione sull’idea che il Sé illusoriamente sia sottoposto ai tre stati di coscienza: Non esiste nessuna situazione in cui il jīvātman non sia un tutt’uno con il Brahman, perché la natura interiore d’una cosa non può mai esserGli considerata differente. È soltanto nell’ottica della sua apparente trasformazione in forme diverse durante il sogno e la veglia che si suppone che il jīva raggiunga la sua vera natura nel sonno profondo. Perciò, per questa medesima ragione, è errato affermare che il jīva diventi un tutt’uno con il puro Essere soltanto in quella occasione particolare e non nelle altre.2
Più avanti descriveremo i tre “tipi” di contemplazione che fanno parte del metodo advitīya, ossia śravaṇa, manana e nididhyāsana. Tuttavia ci si permetta la seguente anticipazione: un discepolo di Vedānta perspicace, è messo sull’avviso fin d’ora che la tecnica del manana conduce il cercatore puramente e semplicemente a collegare un aspetto dell’Intuizione ottenuto nel corso di śravaṇa a un altro aspetto della stessa natura. L’infittirsi di intuizioni parziali (o, perlomeno, ciò che si sperimenta in questo modo nello stato di veglia), dà l’impressione di un processo di “comprensione” continua che pare attuarsi nella coscienza del cercatore. In realtà non avviene alcun processo: si tratta semplicemente di sempre più frequenti rimozioni dell’avidyā, che ci permettono di riconoscere intuitivamente l’unico substrato di tutto, l’Ātman non duale. È quindi un grave errore considerare che questo costituisca una via “a tappe”, paragonabile a quegli “stati” o “stazioni” tipiche di una via del non-Supremo (aparavidyā). Infatti qui non si tratta di acquisire qualcosa che “prima non c’era”, ma, tutto all’opposto, di rimuovere qualcosa che “non c’è mai stato”. Non si tratta invero di un procedimento per gradi, se non per chi vi assiste dall’esterno. Questa difficoltà di comprensione avviene perché, come sarà spiegato più estesamente in seguito, l’Intuizione è per sua natura atemporale, mentre il procedimento di discriminazione avviene nel dominio della māyā e quindi pare sottoposto alla condizione temporale. Perciò non si deve confondere il punto di vista empirico (vyāvahārika dṛṣṭi) con la realtà metafisica (pāramārtika satya). Procedendo in questo Vedānta vicāra, il cercatore otterrà la visione totalizzante (che è propriamente il significato di nididhyāsana) quando avrà definitivamente intuita da Sé la sua vera natura, sopra e al di là di qualsiasi ragionamento speculativo, [...] poiché manana e nididhyāsana, come anche śravaṇa, stanno a indicare l’Intuizione.3
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Una simile credenza è tollerata allorché da essa sorga il desiderio di conoscere la propria vera natura (svarūpa), poiché per il cercatore ciò corrisponde alla fase dell’adhyāropa. Invece, l’ignorante, che rimane fermamente convinto della sua totale autonomia dal Brahmātman, rappresenta il modello del credulone che si basa sulle apparenze con cieca fede. L’ateo, dunque, è il peggior fideista tra gli ignoranti. BSŚBh III. 2. 7. BSŚBh I. 1. 4.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 6. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico śrāvaṇa
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6. ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL METODO VEDĀNTICO: ŚRĀVAṆA L’argomento di questo e dei prossimi capitoli riguarda la spiegazione del metodo usato nell’Advaita Vedānta per realizzare la conoscenza intuitiva ricevuta ascoltando (śrāvaṇa) l’insegnamento orale (upadeśa) da parte d’un guru, e indagata per mezzo della riflessione (manana) intellettuale dell’aspirante alla Liberazione, del mumukṣu. Quella conoscenza, che all'inizio appare quasi fosse soltanto di natura dottrinale, consiste nella certezza che la propria vera essenza, l’Ātman, è lo stesso Principio supremo, il Brahman. Tale spiegazione non è facile da proporre poiché, anche se esposta nei termini più piani, riguarda il più profondo mistero che l’intelletto umano possa affrontare. Con mistero, ovviamente, non s’intende qualcosa impossibile da capire, ma una verità che non è trasmissibile se non a coloro che hanno le qualifiche e la determinazione valide per indagare e fare propria la conoscenza metafisica (pāramārthika vidyā). Il metodo (sādhanā) del Vedānta, come si vedrà di seguito, è ben diverso da quello in uso presso tutte le altre vie iniziatiche (sādhanā mārga) in quanto prevede la preliminare identificazione dell’Ātman dell’iniziato (sādhaka) con il supremo Brahman. Identificazione inizialmente sperimentata tramite l’indiscutibile intuizione della propria esistenza e coscienza, generalmente condivisa da tutti. Mentre, però, per l’uomo ordinario questa intuizione rimane priva di qualsiasi effetto, l’iniziato intellettualmente qualificato (adhikārin) vi troverà l’impulso per desiderare ardentemente di liberarsi (mumukṣā) da tutto ciò che impedisce tale Coscienza-conoscenza. Il mumukṣu, in questo modo, sarà portato a formarsi una perfetta conoscenza dottrinale, nella misura delle sue capacità intellettuali, imprescindibilmente raggiunta e consolidata, prima di dedicarsi alla ricerca d’un maestro qualificato alla Conoscenza suprema (paravidyā). Le righe che seguono danno per scontato che il lettore sia già dotato di questa dottrina: la prospettiva che abbiamo adottato, basandosi esclusivamente sulla dottrina vedāntica, non farà perciò appello ad alcunché di teorico, ma alla capacità intuitiva di coloro che desiderassero andare oltre la semplice teoria o la lettura di libri, per quanto possano essere veritieri ed elevati nei contenuti. Come s’è già descritto in precedenza, con intuizione (anubhava) preliminarmente intendiamo la comprensione istantanea e immediata di aspetti della verità che, proprio perché “aspetti”, appaiono comunque parziali e contingenti. Dovremo tuttavia distinguere attentamente l’intuizione 1 da ciò che si è intuito. Quest'ultimo, infatti, è soltanto un’informazione, un oggetto che è venuto alla conoscenza ed è emerso alla coscienza istantaneamente, ma che è pur sempre della natura delle modificazioni mentali (mānasa vṛtti), essendo soltanto l'impressione dell'esperienza intuitiva nell'individualità. Invece ciò che si dovrà ritenere è l’Intuizione in sé, giacché l’Intuizione in quanto tale è il proprio Ātman anche qualora essa appaia mediata e frammentaria. D’ora in poi, dunque, con Intuizione (anubhava) o illuminazione (jñānaprakāśa), s'intende l'immediato e improvviso riconoscimento della Verità totale non vista come altro da Sé. Il metodo del Vedānta è chiamato sākṣāt sādhana, di solito tradotto come metodo diretto 2. La traduzione è abbastanza soddisfacente, in quanto si tratta d’un metodo che non s’appoggia su nulla che possa fare da intermediario tra il sādhaka e la meta prefissata. Quindi, l’advaitin non farà alcun uso di meditazioni, di supporti simbolici, yantra, mantra, tantra, di azioni rituali, corporee, vocali o mentali che siano. L’indagine realizzatrice di questo sādhaka si basa esclusivamente sulla ricerca del Brahman per mezzo del proprio Sé; ma, essendo il Sé di ciascuno sempre identico al Brahman, appare evidente che esso non può consistere in alcun mezzo, supporto, strumento o simbolo. Perciò un metodo immediato non può essere che un metodo diretto. Per spiegare meglio il significato di sākṣāt sādhana aggiungeremo che l’indagine sul Brahman o, se si preferisce, la cerca del Brahman, è compiuta dal proprio Ātman inteso come Sākṣin, vale a dire il Testimone diretto. A questo proposito ricordiamo la dottrina dei quattro pāda di Ātman, laddove è detto:
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Più avanti si ritornerà a parlare dell’intuizione parziale. In realtà parziale è soltanto la modificazione mentale, vṛtti, che è il risultato dell’intuizione. Questo per quanto riguarda il Vedānta, in quanto nello Yoga darśana con anubhava s’intende sempre e soltanto il risultato mentale dell’Intuizione universale. Sākṣin è un termine giuridico che significa testimone oculare, e designa chi ha visto o sperimentato direttamente, non essendo a conoscenza “per sentito dire”. In questo senso sākṣāt significa esperienza o visualizzazione diretta, priva di intermediazione.
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Il primo pāda [di Ātman] è Vaiśvānara, il cui dominio è lo stato di veglia, che ha conoscenza degli oggetti esterni, che possiede sette membra e diciannove bocche, e che fruisce delle cose grossolane. Il secondo pāda [di Ātman] è Taijasa, il cui dominio è lo stato di sogno, che ha conoscenza degli oggetti interni, che possiede sette membra e diciannove bocche, e che fruisce delle cose sottili.1
Ātman, in quanto prende coscienza sia degli oggetti esterni sia di quelli interni, è il testimone oculare (Sakṣin2) dei mondi della veglia e del sogno 3. Il Testimone è l’Ātman in quanto ha coscienza, o meglio, è la Coscienza della manifestazione universale. È dal proprio Ātman in quanto Testimone che inizia la cerca del Brahman. Ritorneremo su questo argomento più avanti, specificando con più precisione il senso di questo “inizio”. Questa digressione è stata necessaria per spiegare fin d’ora che la sākṣāt sādhanā deve essere intesa come il metodo del Testimone, del Sākṣin. La sādhanā insegnata dall’Advaita Vedānta offre tre occasioni in cui è possibile ottenere la conoscenza diretta del Sé, chiamati śrāvaṇa, l’ascolto, manana, la riflessione e nididhyāsana, detta anche adhyātma yoga, la contemplazione attenta. Cominceremo a considerare per primo śrāvaṇa. Il discepolo (śiṣya) dovrà ascoltare gli insegnamenti basati sulle Upaniṣad di un guru competente, o di un istruttore spirituale, qualora il suo guru non detenesse la conoscenza del Supremo4. Durante l’ascolto dell’insegnamento (upadeśa), affinché la comprensione di ciò che ode sia proficua, ci si aspetta che il sādhaka faccia riferimento non alla dottrina precedentemente appresa dai libri, che rimane come un retroterra già acquisito, ma alle esperienze intuitive che gli sono stimolate dall’insegnamento del guru. Per questa ragione il guru o istruttore spirituale deve necessariamente essere un adepto stabilmente fissato nella sua reale natura del Sé. Altrimenti il maestro non sarà capace di inserire nel suo insegnamento quegli stimoli e allusioni sottili capaci di indurre il discepolo all’intuizione. Il maestro che dà questo insegnamento, che alcuni, pur avendo capito, non realizzano, che molti, pur avendo ascoltato, non capiscono, è un prodigio. È ugualmente un prodigio chi, avendo ascoltato e realizzato sotto la guida di un maestro che conosce, sia diventato un conoscitore. [L’Ātman] non è affatto comprensibile quando è insegnato da un uomo che non ne è all’altezza. Per questo su di Esso si costruiscono teorie così diverse. Ma quando è insegnato da chi si è identificato a Quello (tat), non c’è più spazio per alcuna teoria, perché Esso è più sottile di quanto più sottile si possa immaginare. 5
Śaṃkara, commentando in modo particolare il primo dei due śloka qui citati, ha esposto in profondità sia la natura dell’insegnamento sia i suoi risultati. In sintesi, il pensiero di Śaṃkara può essere riproposto in questo modo: durante l’ascolto dell’insegnamento da parte del guru, il sādhaka apprende che la sua vera natura è il Sé sempre libero dall’esperienza della vita ordinaria. Egli deve aver già risolto tutti i dubbi e compensato tutte le lacune della sua conoscenza dottrinale. Dovrà comprendere che oltre alla Conoscenza del Brahman-Ātman non può rimanere alcun residuo di qualsiasi altra “conoscenza”. Infine non ci potrà essere più alcun problema o dubbio che s’interponga alla conoscenza o comprensione circa la natura del Sé. Perciò il maestro deve essere competente e il discepolo (śiṣya) deve essere qualificato (sukalpa), puro di cuore e con l’attenzione rivolta al suo interno.
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MāU I. 3-4. Si vedrà in seguito che il Sākṣin è identico a suṣupti, che, in apparenza illusoria, corrisponde al terzo pāda. Il mondo della veglia, jāgrat prapañca, e l’uomo della veglia, jāgrat puruṣa, stanno all’interno dello stato di veglia, jāgrat avasthā, poiché quest’ultimo è uno stato di coscienza dell’Ātman che tutto ingloba. Con guru s’intende il maestro che conferisce l’iniziazione. Qualora, come d’altronde spesso succede, il dīkṣāguru non fosse in grado di insegnare la conoscenza del Supremo Brahman, il discepolo che aspira alla Liberazione si dovrà rivolgere a un altro maestro dotato della Parabrahma vidyā. Quest’ultimo non conferirà alcuna altra iniziazione, essendo già quel discepolo un dīkṣita; perciò quel maestro dovrà essere più propriamente considerato un istruttore spirituale (jñānaguru). Ovviamente, se l’aspirante fosse ancora un profano e il maestro di conoscenza del Supremo gli desse l’iniziazione, in questo caso quest’ultimo dovrà essere anche considerato un dīkṣāguru. Cfr. René Guénon, Initiation et Réalisation spirituelle, Paris, éd. Éditions Traditionnelles, 1967, ch. XXI. KU I. 2. 7-8.
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A questo punto è opportuno che il jijñāsu, colui che aspira alla conoscenza, s’abitui a vedere il mondo da una prospettiva rovesciata rispetto a quella mantenuta fino allora. Si tratta di qualcosa paragonabile a ciò che intendeva l’Ermetismo medievale con la formula del “rovesciamento delle luci”. La gente ordinaria crede di essere nata in questo mondo in un tempo e luogo particolari, ed estende questa credenza all'idea che anche tutti gli altri esseri siano nati in questo mondo segnato dalle medesime condizioni d'esistenza. Ognuno pensa anche d’essere questo individuo, nato e cresciuto per fruire del piacere e soffrire del dolore fino all'avvento della morte. Tutti costoro sono convinti che prima della propria nascita il mondo esistesse già e che anche dopo la morte il mondo continui a esistere eternamente. Ma, secondo gli insegnamenti vedāntici, per prima cosa il cercatore della Conoscenza (jijñāsu) deve riconoscere che il suo proprio Essere totale (samasta sattā) è al di là della sensazione che esista un “io” contingente. Egli dovrà porsi dal punto di vista della sua propria natura reale, cioè del Sé. In questo modo può rendersi conto di non appartenere allo stato di veglia come se questo fosse obiettivamente reale, ma che è lo stato di veglia nella sua totalità che appare al suo Essere totale. Nello stato di veglia sono contenuti sia il suo “io” (aham) sia l’intero mondo di veglia (jagat o jāgrat prapāñca), ivi comprese anche le idee illusorie di spazio infinito e tempo eterno, l’idea della relazione causale (kāraṇa-kārya saṃbhanda) e altri condizionamenti (upādhi) ancora. Mentre sta ad ascoltare l’insegnamento del guru, il sādhaka inevitabilmente prova intuitivamente l’identità con la sua vera natura di Sé, fosse anche per un solo istante, e ciò interrompe la sua convinzione d’essere identico all’“io”. Egli allora s’accorgerà chiaramente che riconoscere l’identità con il Sé e rimuovere la sua identità con l’ego sono la medesima cosa e non due funzioni separate. Dal punto di vista del Sé, ossia dopo aver stabilito la coscienza nel proprio Essere, egli si renderà conto come tutte le sue credenze precedenti fossero idee sbagliate. Śaṃkara nella sua Māṇḍūkya Upaniṣad Bhāṣya descrive in questo modo il risultato dell’insorgere della conoscenza: Il fine [della discriminazione per mezzo del neti neti] è quello di dimostrare che l’intero microcosmo, il Macrocosmo, assieme al mondo corporeo composto dai cinque elementi contribuiscono a costituire i quattro pāda 1. Se si osservano le cose sotto questa luce, con la rimozione del mondo fenomenico nella sua totalità, la non dualità emerge evidente; e anche il Sé, che esiste in tutti gli esseri, è concepito come un tutt'uno, mentre tutti gli esseri sono visti come esistenti nel Sé.2
A questo proposito si devono fissare alcuni punti: - Il primo è che i concetti di spazio e di tempo sono inclusi nello stato di veglia (jāgrat avasthā). Perciò lo stato3 (avasthā) in quanto tale non è sottoposto a spazio e tempo perché queste condizioni gli sono interne. - Il secondo punto fermo è che il Sé, che è il sostrato di tutti i fenomeni dello stato di veglia, è anch’esso al di là del tempo e dello spazio; perciò è sbagliato affermare che il Sé è una cosa e lo stato è un’altra cosa. - Altro punto fermo: il Sé è di natura onnipervadente e quindi permea tutti i fenomeni dello stato di veglia. Da ciò si trae che la natura del Sé è non duale e assoluta, ma a causa dell’ignoranza della propria natura reale, lo stesso Sé appare all’individuo (jīva) come mondo della veglia (jāgrat prapañca). - Infine, è evidente che se il risultato, menzionato da Śaṃkara nella citazione precedente, è raggiunto mentre il discepolo (śiṣya) sta ascoltando l’insegnamento del maestro, egli potrà facilmente vedere intuitivamente l’intero universo in Sé e il Sé nell’intero universo. A questo punto il sādhaka riconosce che la sua vera natura è eternamente libera dalle miserie del mondo. Questo è un esempio dell’insegnamento vedāntico e dei suoi risultati. Svāmī Satcitānandendra Sarasvatī ha ripristinato con autorevolezza i concetti śaṃkariani espressi nel Māṇḍūkya Upaniṣad Bhāṣya, secondo cui tempo, spazio e causalità devono essere considerati all’interno dello stato (avasthā), indifferentemente che si tratti di quello di veglia o quello di sogno. Perciò la vera natura del Sé è fuori di ogni dubbio al di là delle condizioni di tempo, spazio e causalità.
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Vale a dire che la concezione che esista una divisione in quattro pāda di Ātman dipende dall’incapacità della mente (antaḥkāraṇa) di liberarsi dall’illusione della differenziazione a causa dell’ignoranza (avidyā o ajñāna). Più avanti spiegheremo cosa s’intenda con adhyātma prapañca, adhidaiva prapañca e adhibhūta prapañca. MāUGKŚBh, I. 3. In MāU è usato il sinonimo sthāna. In tal caso, in luogo di jāgrat avasthā, si trova la forma jāgarita sthāna.
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Prima di questa netta presa di posizione dello Svāmīji, numerosi pseudo advaitin avevano sostenuto che per l'individuo vivente gli stati di veglia, sogno e sonno profondo 1 si avvicendano nel corso di una giornata. Questa affermazione comporta l’opinione per cui il Sé dipende dal corso “eterno” del tempo, perpetuando la sua esistenza attraverso tutti e tre gli stati come se l’Ātman fosse un saṃsāri. Persino Vidyāraṇya afferma questa dottrina errata, per cui l’Ātman sperimenterebbe il corso del tempo! 2 Sempre secondo l’opinione di questo celebrato maestro, per fare esperienza della natura non duale dell’Ātman, dopo aver seguito śrāvaṇa, manana e nididhyāsana, si dovrebbe ricorrere all’uso del pātañjala yoga per raggiungere finalmente il Sé nel samādhi; questo, naturalmente, perché, secondo il suo parere, la mera discriminazione non permetterebbe di ottenere la conoscenza del Sé. 3 Svāmī Satcitānandendra si è preoccupato di rettificare quel suo predecessore del XIV secolo. Egli, infatti, ha stabilito definitivamente che il Sé non può essere oggetto di sperimentazione per mezzo della discriminazione (viveka) e che l’Ātman non è né può mai essere considerato un oggetto di conoscenza. Si deve intendere, perciò, che la funzione della discriminazione si limita a rimuovere l'ignoranza (avidyā), permettendo all'Intuizione universale di emergere immediatamente. Ancora al giorno d’oggi, per influenza del neo-nyāya e della filosofia occidentale, viveka è preso spesso come se fosse un mero esercizio speculativo. Con ciò se ne confonde completamente il senso, perché la discriminazione vedāntica è usata per separare la reale natura del Sé dal senso dell’“io”. Perciò è evidente che il Sé non può essere raggiunto in alcuno stato particolare né sotto qualsiasi condizionamento. Ciò è stato inconfutabilmente definito da Śaṃkara con queste parole: L’identità dell’Ātman e del Brahman com’è dichiarata dal [Mahāvākya] Tatvamasi, [“tu sei Quello”], non è raggiungibile in nessuno stato particolare.4
Così un discepolo (śiṣya), qualora sia molto qualificato, potrà raggiungere la meta finale anche soltanto attraverso śrāvaṇa; in altre parole, solo ascoltando l’insegnamento del maestro costui può essere in grado di realizzare l’Intuizione finale. Ciò significa che l’ascolto vedāntico non è apprendimento passivo, ma contemplazione intuitiva; in questo modo s’avvera l’identificazione tra guru e śiṣya in un unico maestro interiore non duale. E, come colui che avvicina un guru di Vedānta non può né deve compiere alcun rito, così per quello śiṣya che, per sue qualifiche innate, ha identificato il suo Sé con il Brahman, è del tutto inutile la ripetizione di śrāvaṇa; per lui la liberazione dall’ignoranza è definitivamente compiuta. Quando qualcuno conosce che la sua reale natura è l’Ātman, acquista una incrollabile certezza che è chiamata Ātmā pratyaya, consapevolezza del Sé, […] la cui prova evidente consiste nella semplice consapevolezza del Sé, per mezzo della quale tutti i fenomeni scompaiono, e che è immutabile, beato e non duale. Quello è l’Ātman, Quello che deve essere conosciuto. 5
Ci si può “collocare” nella propria natura reale solamente tramite questo Ātmā pratyaya che affiora dall’ascolto delle parole del maestro, ed esso è dunque della natura stessa dell’intuizione, cioè del Brahman. Perciò, lo ripetiamo, conoscere il Sé significa essere il Sé, essere coscienti in quanto Sākṣin, e così cessa totalmente l’identificazione con i non-Sé. Lo śiṣya demolisce così l’apparenza del mondo duale e, quindi, permane nella sua realtà non duale. In seguito non ci sarà più alcuna domanda per sapere alcunché, né aspirazione per qualcos’altro che sia sottoposto alle condizioni (upādhi) di spazio e tempo, come pure non sarà più possibile imbattersi in altro che ostacoli la Sua conoscenza. 1
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Ciò è assurdo, perché il tempo del sogno non è lo stesso di quello della veglia; e il sonno profondo è addirittura privo di tempo. Supporre che veglia, sogno e sonno profondo s’avvicendino nel corso della giornata vuol dire imporre ai tre stati la falsa continuità di un medesimo tempo, quello della veglia. Vidyāraṇya, Pañcadaśī, I. 6-7. Vidyāraṇya è considerato da sanscritisti e da pseudo vedāntin (tra questi annoveriamo i vari “svāmī” dell’“Ordine di Ramakrishna”) come la più importante autorità dell’Advaita Vedānta dopo Śaṃkarācārya. Effettivamente Vidyāraṇya ricoperse la funzione di Jagadguru a Śriṅgeri, dove fu maestro di Vedānta e di Śrī Vidyā. Probabilmente queste due discipline usate senza discriminazione furono la causa delle numerose confusioni tra Vedānta e Yoga tantrico che si riscontrano nelle sue opere. Pañcadaśī, I. 53-61. Si noti qui la confusione tra discriminazione metodica (viveka) e conoscenza teorica (vitarka). BSŚBh II. 1. 14. MāUGK I. 7.
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[...] quando, dopo l’eliminazione delle limitazioni sovrapposte [adhyāsa], è rimosso il desiderio di conoscere qualsiasi cosa nel tempo e nello spazio, egli realizza la propria identità con il Brahman, la verità delle verità, omogeneo come un granello di sale [sciolto nell’acqua], pura intelligenza senza nulla d’interno o di esterno a Lui. Per costui ogni desiderio di conoscenza è appagato, il suo intelletto è puntato solamente su Quello. 1
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BUŚBh II. 3. 6.
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7. ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL METODO VEDĀNTICO: MANANA Passiamo ora a considerare manana. I discepoli (śiṣya) non eccezionalmente qualificati, e che perciò non hanno raggiunto il mokṣa durante il semplice ascolto dell’insegnamento magistrale, avranno una seconda opportunità impegnandosi in manana, la riflessione, su quanto appreso dal guru. A proposito delle tre opportunità per la realizzazione, Śaṃkara commentando una śruti, afferma: Perciò il Sé , mia cara Maitreyī, deve essere realizzato, è opportuno che sia realizzato, dovrebbe essere considerato la 1 meta da realizzare. Si dovrà per prima cosa ascoltare di Lui dal maestro e dalle scritture . Poi si dovrebbe riflettere su 3 4 2 di lui tramite la ragione , e infine si dovrà contemplarlo fermamente.
Questa è una breve e preziosa sintesi su quei tre momenti. Sul primo ci si è già espressi sopra. Passiamo perciò a considerare il secondo, manana. Com’è evidente dall’ultima citazione, manana è una azione compiuta con la mente (mānasa5 kriyā). Il ragionamento generalmente corrisponde alla logica (tarka), che usa solamente i seguenti strumenti validi di conoscenza (pramāṇa): la deduzione o inferenza (anumāna), l’analogia basata sulla comparazione (upamāna), la supposizione (arthāpatti), talvolta coadiuvati dall’esempio (udhāraṇa); tuttavia quest’ultimo non fa parte di quegli strumenti di valida conoscenza, essendone solamente di supporto chiarificatore. Nel caso della conoscenza del Sé si deve comprendere che la semplice logica e la dialettica, come sono concepite dalla filosofia occidentale e dai logici (tārkika) dell’India, sono scarsamente utili all’iniziato. Secondo l’insegnamento di Śaṃkara, ci sono tre livelli di logica. Il primo e più basso, è quello della logica astratta (śuṣka tarka)6, che s’avvale cioè esclusivamente di dati mentali o ricordi memorizzati; è privo della verifica percettiva7, perciò è solo un’astrazione. Può essere utilizzato per correggere opinioni mentali erronee, come per esempio: Se qualcuno dice che una biscia d’acqua è come un cobra, la biscia non per questo diventa velenosa; e, di converso, se si dice che un cobra è come una biscia d’acqua, non è che con questo il cobra diventi innocuo. 8
La logica di questo primo livello è raramente usata dal Vedānta. Lo si potrà desumere dal seguente esempio di logica astratta, applicata soprattutto nelle matematiche per illustrare certe leggi come, per esempio, la proprietà transitiva: se A è uguale a B e B è uguale a C, A è uguale a C. Questi elaborati di logica astratta si appoggiano su certi procedimenti mentali, ma nessuno saprebbe come attribuire ad A, B e C una esistenza oggettiva. 9 Inoltre il concetto astratto d’eguaglianza, anche se puramente quantitativo, è contraddetto dal principio degli indiscernibili,
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L’ascolto (śrāvaṇa) è riferito all’insegnamento del guru sulle verità upaniṣadiche. La riflessione (manana). Nididhyāsana, l’attenzione contemplativa. BUŚBh II. 3. 6. In questo caso il sostantivo manana, l’aggettivo mānasa e i composti anumāna e upamāna, tutti derivati dalla radice verbale man (pensare), piuttosto che alla funzione emotiva del manas alludono all’attività discriminatrice della buddhi. Il Vedānta preferisce considerare in modo sintetico manas, ahaṃkāra e buddhi come modificazioni secondarie dell’organo interno (antahkāraṇa). Considerare analiticamente le facoltà sottili, infatti, è più pertinente a una attitudine psicologica che non a una visione metafisica. Lett. “logica secca”. Gli strumenti di valida conoscenza che s’appoggiano sui cinque sensi sono: pratyakṣa, la percezione che verifica la presenza di un oggetto e anupalabdhi che ne constata l’assenza. Essi s’aggiungono ai pramāna mentali citati nel testo. BSŚBh II. 2. 10. La restrizione al campo matematico è dovuta al fatto che questa scienza s’applica alla quantità pura, sprovvista cioè di qualunque aspetto qualitativo. In quel caso, cambiando l'ordine dei fattori, l'eguaglianza viene rispettata. Se invece si applica questa proprietà a un altro dominio caratterizzato da certe qualità, il risultato raramente corrisponderà all’esperienza. Se si prende, per esempio il risultato del sillogismo aristotelico che procede dal generale al particolare: “Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; perciò Socrate è mortale” si deve ammettere che è condivisibile. Ma se si cambiasse l’ordine del sillogismo, procedendo dal particolare al generale e s’affermasse: “Deucalione è un uomo; Deucalione è immortale; perciò tutti gli uomini sono immortali” il risultato del sillogismo sarebbe clamorosamente falso.
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per cui se due o più cose sono uguali, esse sono rigorosamente una cosa e una soltanto. Questi due esempi sono sufficienti per descrivere la natura labile e la scarsa utilità dello śuṣka tarka, detto anche kutarka1. Il secondo livello di logica è chiamata pramāṇa tarka, ossia la logica che s’appoggia sui validi mezzi di indagine, su prove riconosciute. Essa consiste nell’arte della deduzione, applicata alle informazioni percettive (pratyakṣa) provenienti dal mondo esterno tramite i sensi (jñānendriya); sensi che permettono d'indagare su un oggetto presente (sat), oppure di constatare l'impossibilità di percepire (anupalabdhi) un oggetto assente (asat). L’esempio classico è il seguente: se si osserva del fumo sulla cima di una montagna si deduce che lì ci sia del fuoco. L’esistenza del fumo è provata dall’oggettiva informazione ricevuta dalla vista 2, in base alla quale la mente deduce l’esistenza del fuoco. Naturalmente, che il fuoco produca fumo è dipendente dal ricordo di una passata esperienza durante la quale, una volta per tutte, s’è osservato un fuoco produrre fumo. Questo pramāṇa tarka è piuttosto affidabile, ed è usato quotidianamente da tutti. La scienza della logica, Tarka Śāstra, sia quella antica, Prācīna Nyāya, più aderente alle scritture, sia quella medievale, Navīna Nyāya3, più astrattamente speculativa, ha stilato con grande precisione innumerevoli regole ed elaborato esempi efficaci. Nelle sfide tra logici, colui che è più fortemente ancorato a prove evidenti è sempre capace di sconfiggere gli avversari. In questa scienza logica, se l'iniziale percezione dei sensi, su cui poi si costruisce tutta l’argomentazione deduttiva, risultasse falsa, allora tutto il castello di argomentazioni crollerebbe nel nulla. Per esempio, quando qualcuno reputa di aver visto del fumo sulla cima della montagna, ma poi s’accorgesse che non si trattava di fumo, ma di nebbia o di polvere sollevata dal vento, a quel punto dovrebbe ammettere che tutte le sue ulteriori deduzioni rimangono annullate. Allo stesso modo, se l’evidenza o l’esempio risultassero scorretti, tutti i suoi ragionamenti non reggerebbero più. A questo tipo di logica Śaṃkara imputa tre difetti4. Il primo consiste nel fatto che non si può mai raggiungere una spiegazione definitiva, perché un logico che afferma una verità come provata può essere confutato da un logico più sperimentato; il quale, a sua volta, potrà essere contraddetto da un altro ancora più abile e così indefinitamente. Ed è impossibile arrivare alla verità d’una dimostrazione facendo la sommatoria dei giudizi contrastanti emessi da logici nel passato, nel presente e, se fosse possibile, nel futuro. Il secondo difetto sta nel fatto che anche se due logici arrivassero alla medesima conclusione, il loro percorso deduttivo potrebbe essere reciprocamente incompatibile; e quindi ognuno sosterrà che esclusivamente la propria dimostrazione debba essere ritenuta valida. Infine, i logici, durante le loro dimostrazioni, sono soliti entrare in contraddizione con loro stessi senza farsi degli scrupoli, pur di dimostrare la bontà della loro tesi. Il terzo livello di logica è definito śrauta tarka (logica basata sulla śruti) in quanto è il tipo di ragionamento basato sulle Upaniṣad. Con questo termine di tarka si deve intendere manana, ossia la riflessione vedāntica sul Sé. Ogni tanto, per qualche fine particolare, anche il pramāṇa tarka ed, eccezionalmente, perfino lo śuṣka tarka possono essere usati per la riflessione vedāntica, a patto che questi strumenti logici non entrino in conflitto con le affermazioni scritturali. Tuttavia è più regolare che il sādhaka utilizzi prevalentemente lo śrauta tarka, com’è dichiarato da Śaṃkara: Si deve anche tenere in considerazione che per fruire della riflessione che segue l’ascolto dell’insegnamento del guru, la Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad riconosce l’utilità dell’impiego della logica. Ma, in questo caso, non possono essere accettati né i sofismi né la logica basata sulla percezione, perché solo la logica conforme alle Upaniṣad è approvata come mezzo sussidiario utile alla realizzazione.5
Con śrauta tarka s’intende anzitutto la logica posta al servizio dall’esperienza intuitiva della propria reale natura in quanto Sé, quell’esperienza dell’“Io esisto”, che è accettata universalmente per la sua patente evidenza. Ciò significa che deve basarsi sulla piena consapevolezza di esistere e di essere cosciente, insita in ciascuno.
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Lett. “logica fallace” o sofisma. Pramāṇa tarka deve necessariamente partire da una percezione, altrimenti si ricadrebbe nel caso dello śuṣka tarka, quello citato in precedenza, che può fare a meno dell’esperienza sensoria, limitandosi ai concetti e ricordi mentali. Lett. “la nuova logica”. Crf. BSŚBh II. 1. 11. BSŚBh II. 1. 6.
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[...] questo Puruṣa è chiamato con la parola Sé; ed è impossibile negare il proprio Sé, perché anche chi lo nega è Ātman.1
In second’ordine, śrauta tarka ha il compito di prendere in considerazione due intuizioni parziali e unirle tra loro in modo tale da arrivare a una conclusione unica, basata fermamente sull’esperienza intuitiva. C'è da aggiungere che śrauta tarka è un ragionamento che supera i limiti della dualità, il che significa che non è connesso alla percezione sensoriale, né ai concetti mentali, né alle deduzioni intellettuali, né alle costruzioni mentali di tempo, spazio, causalità, ecc. Allo śiṣya perspicace deve essere chiaro che non può esserci margine alcuno per alterità, opposizioni e contraddizioni nelle conclusioni che si traggono dallo śrauta tarka, perché questo modo di riflettere è al di là dei limiti della dualità. Troviamo l’esempio di come funziona la riflessione nella prossima citazione tratta da Śaṃkara. Cogliamo l'occasione per far notare che la dottrina dei quattro pāda di Ātman, com’è esposta nella Māṇḍūkya Upaniṣad, svolge un ruolo essenziale nel metodo advitīya. [… lo śrauta tarka] ha queste caratteristiche: considerando che lo stato di sogno e lo stato di veglia si contraddicono mutuamente, il Sé non può essere identificato con nessuno dei due. Dato che l’anima individuale, jīvātman, si dissocia dal mondo quando è in stato di sonno profondo per diventare tutt’uno con il Sé, che è l’Esistenza, essa deve essere il medesimo Sé assoluto. Perciò la manifestazione è stata prodotta dal Brahman e, poiché la causa e l’effetto non possono essere differenti, la manifestazione non deve essere differenziata dal Brahman; e così via [...]2
Nella quale citazione troviamo l’esempio dell’applicazione d’ognuna delle tre tipologie di logica. Il primo livello è qui rappresentato laddove si dice che lo stato di veglia e lo stato di sogno non possono coesistere. Quando si è nello stato di veglia, lo stato di sogno inevitabilmente scompare e viceversa. Il Sé, che è il sostrato di questi due stati, non può essere in loro contenuto né da loro circoscritto. Questo è il senso del primo ragionamento logico. Nel mondo che appare nello stato di veglia, si devono riconoscere tre aspetti: il macrocosmo, adhidaivika prapañca, corrispondente al mondo esterno e che include la generalità della manifestazione grossolana, delle modalità sottili e Hiraṇyagarbha3 che le ingloba tutte; il secondo aspetto è quello microcosmico, ādhyātmika prapañca, che comprende tutte le modalità costitutive d’un singolo individuo, ossia quelle grosse che compongono il corpo, quelle psichiche e il jīvātman4, che le ingloba tutte; infine, il terzo aspetto corrisponde alla sola manifestazione grossolana, adhibhautika prapañca5, con cui s’intende sia il mondo esterno e gli oggetti di cui si compone sia il corpo d’un singolo essere, in quanto entrambi composti dai medesimi cinque elementi grossi (pañcabhūta). Si devono, inoltre, evocare i concetti di spazio, tempo e causalità, oltre alla molteplicità di tutti gli altri esseri che hanno il medesimo senso dell’“io”, esattamente come lo possiede anche lo stesso jijñāsu. Così tutti questi fenomeni, oggetti e persone dello stato di veglia devono essere considerati come un tutt’uno, devono essere oggetto unico da parte del Testimone (Sākṣin).
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BSŚBh I. 1. 4. BSŚBh II. 1. 6. Hiraṇyagarbha va inteso come la proiezione di Brahmā, il dio che manifesta quel mondo, quale embrione collocato al centro dell’Uovo cosmico, che, per questa ragione è detto Brahmāṇḍa, uovo di Brahmā. Hiraṇyagarbha corrisponde nel cosmo esattamente a ciò che è il jīvātman nell'aggregato individuale. I termini occidentali di Macrocosmo e microcosmo corrispondono abbastanza precisamente ai concetti espressi da quelli sanscriti adhidaivika prapañca e adhyātmika prapañca. Il Macrocosmo, adhidaivika prapañca comprende le tre componenti dell'Uovo cosmico, che, per ritornare alla terminologia medievale dell’Occidente, sarebbero Res materiales vel Corpus Mundi, Anima Mundi e Spiritus Mundi. Analogamente ad adhyātmika prapañca, al microcosmo umano, corrisponde la triade corpus, anima et spiritus. Perciò il corpo, l’anima e lo spirito d’un individuo trovano il loro equivalente nella modalità grossolana degli oggetti che costituiscono l’Universo, in quella sottile degli esseri intermedi, quali gli yakṣa, i rākṣasa, i gaṇa e altre schiere di geni, e in quella spirituale delle gerarchie divine. Ad adhibhūta, letteralmente “totalità grossolana”, si può far corrispondere il “macrantropo” del simbolismo ermetico. Si tratta d’un simbolismo ricalcato sulla forma corporea dell’essere umano: il Macrantropo cosmico (adhibhautika prapañca) è perciò composto di terra, atmosfera e cielo, trimundio (tribhuvana) che, benché formato solamente dai cinque elementi, si presta a simboleggiare le dimore degli esseri corporei, sottili e spirituali. Analogamente la parte addominale e le gambe del macrantropo individuale, adhibhautika puruṣa, rappresentano la terra, l'apparato respiratorio l’atmosfera, e la testa il cielo. Tuttavia, la dottrina vedāntica afferma rigorosamente che questi tre aspetti appartengono tutti allo stato della veglia, dal momento che lo stato di sogno è provvisto di aspetti suoi propri e il sonno profondo ne è totalmente privo.
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Allo stesso modo, si deve considerare lo stato di sogno (svāpna avasthā). Quando il sādhaka segue questo processo di discriminazione tra gli stati di veglia e di sogno, allora è portato ad abbandonare spontaneamente la sua identificazione con il suo ego e a “installarsi” nella sua reale natura che è il Sé. Questi due fenomeni della veglia e del sogno non possono essere contemplati in maniera comprensiva in alcun altro modo. Durante questo processo di discriminazione, si arriva al punto in cui ci si rende conto che la propria vera natura non è contaminata da questi due stati. Di conseguenza si comprende che l’essenza di quelle due false apparenze è solo il Sé. Nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad1 il ṛṣi Yājñavalkya insegnò questa verità al re Janaka, affermando che la natura del Sé è incontaminata, auto luminosa e non duale. Queste tre conclusioni del processo di viveka sono state descritte nel corso della dimostrazione precedente, dove l’intuizione dello stato di veglia e dello stato di sogno erano state considerate come due intuizioni ancora parziali. Perciò le due intuizioni sono state unificate fra loro sulla base della riflessione che il loro comune denominatore è la reale natura del Sé. Alla fine, dopo aver dimostrato che i due stati sono inconciliabili tra loro, si perviene alla loro cancellazione reciproca, trovando così nella reale natura del Sé la risoluzione del problema antinomico. In questo modo, a conclusione di questo manana, il sādhaka si riconosce nella sua natura essenziale di Brahman non duale. Per ottenere questo risultato si è ricorsi soltanto alla logica upaniṣadica (śrauta tarka). Allora il sādhaka sarà ben consapevole di come questo ragionamento compiuto con lo śrauta tarka sia in grado di andare ben al di là dei limiti dell’intelletto e dei concetti di spazio, tempo e causalità. Questa è la caratteristica tipica dello śrauta tarka, come si può notare anche da questa affermazione della Kāṭha Upaniṣad: Non esiste una Sua forma che possa essere contemplata, né alcuno che Lo possa vedere con la vista. La coscienza che sta nel cuore e che controlla la mente Lo comprende tramite la riflessione. Coloro che così Lo conoscono diventano immortali.2
Al secondo livello di ragionamento sono state considerate due intuizioni parziali riguardanti lo stato di veglia e di sonno profondo, e da queste si è dunque giunti alla conclusione che la natura del jīvātman è sempre libera dalle limitazioni mondane (sāṃsārika upādhi). Dal punto di vista del mondo della veglia ogni individuo sperimenta il godimento del piacere e la sofferenza del dolore. Questa credenza è dovuta alla erronea identificazione con i nonSé, cioè con tutte le modalità comprese tra quella corporea e il senso dell’“io” (aham). Chi capisce che piacere e dolore sono irraggiati dal Sé e che quest’ultimo è il Testimone di questi due pensieri, immediatamente comprenderà di essere libero da entrambi. Il comune discepolo dotato di scarse qualifiche trova diverse difficoltà ad assumere una simile capacità discriminativa nitida e acuta. Un uomo comune, anche se provvisto di un intelletto molto sviluppato, considera questo tipo di discriminazione come se fosse una semplice deduzione mentale, poiché la sua natura è riluttante a rivolgersi verso la sua interiorità in quanto si trova in difficoltà a respingere la sua identificazione con il proprio ego. Invece, lo śiṣya qualificato è in grado di comprendere questa verità nel suo significato appropriato e nella giusta prospettiva. Se il sādhaka trova una qualche difficoltà a porsi nel Sé come sua vera natura, allora egli dovrà prendere come suo criterio guida l’intuizione del sonno profondo. Nel sonno profondo (suṣupti avasthā) ogni essere è chiaramente libero da ogni limitazione (baṅdha) in quanto è libero del proprio “io”. Vediamo ora di chiarire il modo in cui i due tipi di intuizioni parziali vengono congiunti: sebbene l’individuo nello stato di veglia soffra per le disgrazie mondane, tuttavia il Sé non ne è intaccato in quanto è Testimone di quelle stesse sofferenze. Nello stato di sonno profondo egli è libero da tutte le miserie del mondo, essendo privo di tutte le sovrapposizioni come corpo, sensi, mente e intelletto, che sono false apparenze caratteristiche dello stato di veglia. Queste due intuizioni parziali sono qui state unite e, in conclusione, si raggiunge il risultato che la natura del Sé è sempre libera dalle sofferenze del mondo. Questo è il senso del secondo livello di logica usato per la riflessione (manana). Invece, l’uso di ciò che abbiamo paragonato al sillogismo aristotelico corrispondente al primo livello di logica secca, è contenuto nell’affermazione che segue: «Perciò la manifestazione è stata prodotta dal Brahman e, poiché
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BU IV. 3. 1-6. KU II. 3. 9.
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la causa e l’effetto non possono essere differenti, la manifestazione non deve essere considerata differente dal Brahman.» Si potrà ora considerare la grande distanza che separa questa visione puramente metafisica dalle altre concezioni, scientifiche, cosmologiche o teologiche che dir si voglia, rivolte sempre e soltanto al mondo esterno della veglia (jāgrat prapañca), ordinariamente considerato come l’unica realtà incontestabilmente reale. Secondo la scienza contemporanea, particelle come protoni, elettroni e neutroni vibrano e compongono il sistema dell’atomo, che costituirebbe l’unità di base di tutte le cose presenti nella manifestazione grossolana. Gli scienziati non rispondono alla domanda da dove queste particelle siano prodotte, e sostengono che esse sono là casualmente e spontaneamente1. Ovviamente, perché queste cose funzionino, è richiesta l’esistenza a priori dei concetti di tempo e spazio. Se si chiede loro da dove tempo e spazio siano venuti in esistenza, essi si schermiscono dicendo che queste problematiche sono poco scientifiche e aggiungono con sufficienza che sono “problemi metafisici”. In altre parole, senza volerlo, ammettono che queste domande conducono a un dominio che è al di fuori della loro portata2. Anche nel pensiero indiano le concezioni che prescindono dall’insegnamento advaita sono il frutto di elaborazioni che poggiano su presupposti erronei. I seguaci del Sāṃkhya, per esempio, sostengono che la sostanza primordiale, matrice non manifestata dell’universo, chiamata di volta in volta Pradhāna, Prakṛti o Avyakta, è la causa del mondo. Secondo il Vaiśeṣika la causa dell’universo sono gli atomi. Vaiśeṣika, Nyāya e Yoga darśana concordano che ci debba essere un Dio, Īśvara, che manifesta il mondo a partire dagli atomi o dalla Prakṛti. Questo Dio, però, è qualcosa di natura diversa sia dal mondo sia dalle anime. Le religioni monoteistiche sostengono che Dio ha creato, mantiene in esistenza e distruggerà questo mondo, rimanendo eternamente differente dalle anime e dal mondo, palesando quanto, in realtà, il monoteismo sia dualista. Il Buddhismo, distinguendosi da tutte le altre forme tradizionali, afferma che l’universo è solo una creazione mentale, come un sogno, e che tutta questa esistenza non ha niente di reale. E fino a questo punto tale teoria sarebbe condivisibile se non fosse che conclude affermando che la natura dell’universo, Dio e l’anima sono privi di essere.3 Consideriamo ora il punto di vista vedāntico circa la manifestazione. Per prima cosa si deve comprendere che le condizioni di tempo, spazio, causalità, molteplicità ecc. sono tutte incluse nel mondo manifestato dal nome e dalla forma4. Śaṃkara spiega la produzione del mondo come segue: Quell’onnisciente e onnipotente origine dev’essere Brahman, da cui deriva la nascita, il mantenimento e la dissoluzione di questo universo, che è manifestato per mezzo del nome e della forma, che è associato con diversi agenti e fruitori [dei risultati delle azioni], che presta strumenti per compiere azioni e ottenere risultati, dopo aver regolato tra loro spazio, tempo e causalità, e che sfida tutti i pensieri circa la reale natura della sua manifestazione.5
Per riconoscere tutte le realtà, il Vedānta prende come supporto una visione onnicomprensiva della vita. Tra i profani è diffusa la credenza che l'unica realtà sia lo stato di veglia, giacché considerano il sogno una mera fantasia e il sonno profondo uno stato vacuo e inesistente. Invece la vita di tutti gli uomini, anche dei profani, considerata, come si diceva, in modo onnicomprensivo, è segnata da quotidiane esperienze di veglia, sogno e sonno profondo. La vita, dunque, nel suo complesso non è affatto solo la veglia. Mettendo in pratica 1
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L’autoproduzione spontanea, assieme al concetto di casualità, è il presupposto della scienza atea contemporanea, che tuttavia rispetta incoerentemente il ferreo dogma ideologico del “progresso indefinito”. Per cercare di superare l’evidente limitazione intellettuale di tale posizione generalizzata, un gruppo di cosmologi più intelligenti si sono riuniti nella cosiddetta “Gnosi di Princeton”, ipotizzando una intelligenza ordinatrice immanente al cosmo, perciò comunque antimetafisica, assumendo con il tempo sfumature sempre più marcatamente New Age. L’ipotesi del Big bang, attualmente fortemente criticata in sede sperimentale, è una contraddittoria teoria di creatio ex nihilo priva di Creatore. Tuttavia questa teoria ammette almeno che spazio e tempo sono situati all’interno del mondo manifestato. Probabilmente il sospetto che questa teoria nasconda una vaga tendenza creazionistica sta all’origine dei forti attacchi a cui è oggi sottoposta dalla scienza ufficiale, che, per essere ritenuta tale, deve essere atea. Ciò non toglie che nelle altre tradizioni si possano riscontrare sporadicamente tracce di metafisica pura, a testimonianza della presenza di persone che ivi hanno raggiunto una conoscenza del Supremo. Tuttavia questi affioramenti sono accuratamente mascherati o nascosti, per evitare l’ostilità dell’essoterismo corrispondente che così si rivela dichiaratamente antimetafisico. Cfr. Ƭ Palingenius, “Les conditions de l’existence corporelle”, Paris, La Gnose, Jenvier-Février 1912. BSŚBh I. 1. 2.
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metodicamente questo principio, il maestro di Vedānta guida i suoi iniziati nel seguente modo: l’intero mondo della veglia si limita a questo stato di veglia che emerge dal Sé, che è mantenuto nel tempo e che, infine, è dissolto in Lui non appena lo stato di veglia scompare. Proprio per questo il Vedānta afferma che Brahman è la causa dell’universo, in quanto esso è Ātman. In questo caso il termine causa non è usato nel senso corrente. Nella nostra esperienza di vita quotidiana la causa è posta al passato e l’effetto è attuale, nel presente. Così la causalità, considerata all’interno del mondo, inevitabilmente richiede la condizione temporale; ma quando consideriamo il problema della manifestazione, allora le parole causa ed effetto devono essere interpretate in un altro modo. Nel linguaggio vedāntico causa significa la realtà ed effetto, di conseguenza, significa falsa apparenza (adhyāsa). Per essere più chiari, per l’effetto non c’è esistenza separata dalla causa. Inoltre, l’effetto è una cosa immaginata e perciò è soltanto un nome e una relazione apparente. Per esempio, nel caso di una sedia di legno, la sedia non ha una esistenza indipendente dal legno di cui è fatta. L’idea della sedia e delle sue relazioni con il legno, in ultima analisi, sono immaginate sulla sostanza del legno 1. Così è anche la relazione tra il mondo e Brahman. Si deve comprendere che il mondo è reale in quanto Brahman, ma che il mondo in quanto “mondo” è irreale. Questa verità è proclamata da Śaṃkara con queste parole: È come lo spazio che si trova dentro a vasi e giare non è differente dallo spazio cosmico, o come l’acqua in un miraggio non è differente dal deserto. Per questa ragione essi talvolta appaiono e talvolta scompaiono, e la loro natura non può essere realmente definita. Allo stesso modo si deve capire che questo mondo fenomenico differenziato in esperienze, cose sperimentate e così via, non ha alcuna esistenza al di fuori di Brahman.2
A questo scopo Śaṃkara ha anche aggiunto quanto segue, basandosi sul sillogismo in uso nel primo livello della logica (śuṣka tarka): Poiché la manifestazione è stata originata dal Brahman, e poiché per la legge di causalità causa ed effetto non sono tra loro differenti, la manifestazione non dev’essere differente dal Brahman.3
Se un sādhaka investiga sulla causa dell’universo seguendo questa volta lo strumento della logica upaniṣadica (śrauta tarka) mentre legge e riflette su testi di Vedānta basandosi su una visione onnicomprensiva della vita, scoprirà alla fine della sua cerca d’aver automaticamente 4 demolito l’apparenza dell’universo. Al tempo stesso, con la cancellazione della falsa apparenza (adhyāsa), egli ottiene l’intuizione della natura non duale del Brahman come proprio Sé. Questo è il benefico risultato dell’uso dello śrauta tarka. Maitreyī, che non aveva ottenuto la Liberazione (mokṣa) con la semplice audizione (śrāvaṇa) dell’insegnamento di Yājñavalkya, raggiunse il mokṣa grazie alla riflessione (manana).5
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La sedia è tale perché la si usa per sedersi. Ma se una sedia è usata come sostegno per una lampada, allora non è più una sedia, poiché il suo uso è mutato. In tal caso la chiamiamo sgabello o comodino. Ma la relazione con la sua sostanza lignea permane inalterata anche se le abbiamo cambiato funzione e nome. BSŚBh II. 1. 14. BSŚBh II. 2. 10. Automatico insenso etimologico, ossia “fatto da se stesso”. “Abbiamo già visto che Yājñavalkya non andò mai oltre śravaṇa e manana nella sua spiegazione e che Maitreyī fu capace di raggiungere l’immortalità unicamente per mezzo di tale insegnamento”. Svāmī Satcidānandendra, Dottrina e Metodo, cit., p. 172.
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8. ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL METODO VEDĀNTICO: NIDIDHYĀSANA Se il sādhaka mediamente qualificato non avesse raggiunto il mokṣa durante manana, potrà cogliere una ulteriore opportunità per mezzo della tecnica dell’attenzione contemplativa o nididhyāsana. Non si tratta affatto della concentrazione (dhāraṇa) tipica dello Yoga darśana, che consiste nello sforzo di focalizzare la mente su un unico punto (aikāgrya). La contemplazione vedāntica, che è della natura dell’Intuizione, tende ad allargare ad infinitum l’attenzione senza sforzo alcuno, in modo da inglobare e integrare la manifestazione universale, come un tutt’uno, nella Coscienza-esistenza (sattā caitanya) del Sé. Il nididhyāsana è spesso chiamato anche adhyātmika yoga. Adhyātman è un termine molto in uso nella dottrina dell’Advaita Vedānta, composto da adhi, prefisso sanscrito che significa “che si riferisce a”, e ātman, il Sé, ovviamente inteso non tanto come pronome riflessivo, ma piuttosto per designare la reale natura degli esseri. Adhyātman, dunque, significa quello che si riferisce al Sé nel senso più completo, ossia ciò che è di pertinenza di un essere considerato nella sua totalità, l’essere totale. L’essere totale, quindi, viene così considerato come metafisicamente identico a Brahman. Tuttavia, dal punto di vista del metodo vedāntico, l’essere totale sarà considerato in particolare relazione con un singolo individuo 1 e, precisamente, col discepolo che si rivolge a un maestro per ottenere la conoscenza del Brahman-Ātman. È solo a partire dalla condizione dell’essere umano vivente che è possibile intraprendere quella via che il Brahma Sūtra descrive nel verso: “Atātho brahma jijñāsā”, ossia “quindi, dopo di ciò, inizia la conoscenza del Brahman” 2. Atha significa ‘ora’, alludendo alla presente nascita umana, indipendentemente dal fatto che l’altro avverbio ataḥ, ‘dopo di ciò’, possa essere interpretato in due modi diversi, ma entrambi validi, per indicare due categorie di discepoli. Vale a dire i discepli che hanno purificato la mente in esistenze precedenti oppure quelli che hanno ottenuto tale purificazione tramite una via iniziatica già percorsa, ma sempre durante la vita attuale. L’importante è che l’aspirante alla conoscenza si presenti al maestro di Vedānta provvisto delle qualifiche richieste, sia che queste siano innate 3 sia che siano state acquisite con una sādhana nella vita presente. Indipendentemente da queste premesse necessarie, il singolo iniziato (sādhaka) potrà ottenere la conoscenza del Brahman, vale a dire la Liberazione (mokṣa), solamente a partire dalla sua apparente nascita umana. 4 Perciò l’essere totale (Adhyātma puruṣa), inteso in questo modo, oltre alla sua natura essenziale metafisica (pāramārthika svarūpa), include anche lo stato causale, gli stati sottili e il corpo, per esprimerci secondo la dottrina dei quattro pāda di Ātman come descritti nella Māṇḍūkya Upaniṣad. Il corpo (sthūla śarīra) è l’involucro individuale di ciò che appare come un singolo essere totale durante la sua vita nello stato di veglia (jāgrat avasthā). In questo modo Adhyātman è sinonimo sia di Puruṣottama in senso assoluto, sia di Viśvānara, l’uomo universale, se considerato più specificatamente allo stato di veglia 5. Come abbiamo visto, talvolta Adhyātman può essere assimilabile al termine ermetico di microcosmo, considerato alla stregua di sintesi dell’esistenza universale.
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È evidente che questo punto di vista è del tutto apparente; tuttavia è da tale punto di vista che parte la cerca del Brahman, poiché il jijñāsu è ancora sottposto a ignoranza. BSŚBh I. 1. 1. Ossia con cui si nasce. Un discepolo eccezionalmente dotato di qualifiche intellettuali in ragione della conoscenza raggiunta in nascite precedenti, ma che non avesse seguito un preliminare insegnamento iniziatico di una via di conoscenza non suprema (aparavidyā) durante questa stessa vita, potrà in ogni caso purificare la sua mente nel corso dell’insegnamento vedāntico per mezzo di śrāvaṇa o, in seconda battuta, con manana. Il sādhaka di Advaita Vedānta deve essere consapevole fin dall’inizio della via d’essere il Brahman. Tuttavia egli è ancora sottoposto all’illusorietà della sua esistenza individuale causata dall’ignoranza (avidyā), che corrisponde alla sua esperienza empirica quotidiana (vyāvahārika anubhava). Egli utilizzerà strumentalmente questa avidyā, seguendo gli insegnamenti del maestro, per mettere in atto il metodo adhyāropāpavāda, ossia la sovrapposizione (adhyāsa) intenzionale della falsa apparenza sulla realtà, per poi confutarla. In questo caso “[...] avidyā [...] è soltanto una concessione alla mente impreparata di chi anela a raggiungere la Liberazione finale.” Svāmī Satcidānandendra, Dottrina e Metodo dell’Advaita Vedānta, cit., p. 111. Pur essendo sinonimi, il secondo termine dà maggior enfasi al corpo, poiché nara rappresenta l’essere umano in quanto provvisto di questa modalità. Per questa ragione vaiśvanara, nella Māṇḍūkya Upaniṣad, è il nome con cui è definito lo stato di veglia di Ātman nella condizione corporea, ovvero come Virāṭ.
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Per non interrompere il fluire dell’argomentazione, affidiamo alla nota in calce le considerazioni relative a questa concezione.1 Come s’è già dichiarato, il corpo, il soffio vitale (prāṇa), le facoltà di sensazione e d’azione (jñānendriya e karmendriya) la mente (manas) che include la sfera dei sentimenti, l’intelletto discriminativo (buddhi) produttore delle volizioni individuali, e l’“io” (aham), sono aggregati assieme a formare quel tutt’uno apparente che conosciamo come individuo. Ogni persona s’identifica istintivamente a questo aggregato pensando di essere tale. L’uomo ordinario, specialmente, s’identifica prevalentemente con il proprio corpo2, com’è il caso di chi soffre per una ferita o una malattia (“Mi fa male, io sto soffrendo” ecc.). Spesso, però, l’uomo estende questa sua identificazione erronea non soltanto al proprio corpo, ma addirittura agli oggetti esterni che non fanno nemmeno parte del suo aggregato individuale. Questo è evidente soprattutto nei confronti della proprietà, in base alla quale ciascuno si definisce o ricco o povero, potente o impotente. La proprietà diventa così un’estensione dell’ego; in questo modo si rafforza la convinzione sulla reale esistenza dell’individualità illusoria, espandendo il senso dell’“io” (aham) per mezzo del senso del mio (mama), l’“io sono” con l’“io ho”, che costituiscono quella forma estrema di ignoranza (avidyā) conosciuta come asmitā, egoismo o egocentrismo, di cui s’è trattato in altri scritti. Tuttavia, l’identificazione con le componenti individuali che si estendono dal corpo all’aham è predominante, mentre quella con gli oggetti esterni rimane secondaria, perché prevale la concezione che la natura propria dell’uomo sia il corpo, piuttosto che le rimanenti proprietà dell’“io”. Talvolta anche le componenti che si trovano comprese tra il corpo e l’aham appaiono come fossero “mie”: un “mio” ricordo, un “mio” ragionamento, una “mia” sensazione3. Si assume questo atteggiamento nei loro confronti a seconda di come si affronta la propria vita. Per esempio, quando si afferma: «Io sono bello, alto, magro, vigoroso», allora ci si identifica al proprio corpo; mentre se si dice: «Il mio corpo sta indebolendosi», allora si oggettiva il corpo, distinguendolo dal proprio aham. In questo secondo caso inconsapevolmente si intende fare una certa distinzione tra quello che si ritiene essere la propria vera persona e il corpo. Per quanto si considerino gli oggetti esterni come “propri”, nessuno potrà mai identificarsi agli oggetti esterni fino al punto di concepirli realmente come aham, cioè come se stesso. Invece, le componenti interne comprese tra il corpo grossolano e il proprio “io”, sono generalmente incluse dal pensiero individuale nel concetto dell’“io sono”. Così questo stato di esistenza caratterizzato dalla vita nel corpo e che comprende tutte le componenti sottili a partire dal corpo fino all’aham, è definito ādhyātmika prapañca, manifestazione microcosmica4.
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In aggiunta a quanto s’è detto in precedenza, c’è da sollevare una riserva a questo riguardo: infatti microcosmo (d’altra parte questa considerazione vale anche per il Macrocosmo o “l’Universale”), come è evidente dall’etimo, denuncia un punto di vista cosmologico e non metafisico, com’è invece il significato primario dell’Adhyātman vedāntico. Questa restrizione è necessaria, considerando che l’ermetismo non aveva alcuna concezione paragonabile a quella del puro Ātman, essendo quella dottrina occidentale limitata a una prospettiva di conoscenza non suprema (aparavidyā), oltre a tutto con propensioni piuttosto accentuate al naturalismo. Alla stessa stregua, anche le vie hindū che appartengono al dominio della conoscenza del Brahman non-Supremo, sono limitate a una analoga prospettiva non metafisica; anch’esse, perciò, interpretano il termine upaniṣadico Adhyātman come limitato alla sola integralità dell’essere individuale e alla sua estensione all’Universale. Perciò sarà opportuno citare questo uso del termine con l’iniziale minuscola e racchiuso tra virgolette “adhyātma”, per distinguerlo dalla omofona concezione della pura metafisica advaita. La prova di questa identificazione, generalmente poco chiara agli occidentali, apparirà in tutta la sua evidenza se si considera che l’“io” è vincolato inesorabilmente al punto dello spazio corrispondente al corpo. I testi vedāntici raramente prendono in considerazione la possibile sovrapposizione del prāṇa sul Sé. Svāmī Satcidānandendra afferma a questo proposito: “ [...] quando noi diciamo: «Io compio questa o quell’azione», l’aspetto che assume il ruolo di agente dell’azione (kartṛbhava) è ahaṃkāra; lo strumento o mezzo che concepisce l’azione è manas, e quello che prende la responsabilità della decisione di compiere l’azione è buddhi. In questo modo il prāṇa inizia a funzionare solo dopo una definitiva decisione a compiere una determinata azione. Il fatto che ahaṃkāra ecc. siano anātman è stato già determinato prima. Perciò anche prāṇa, che funziona con il supporto di quegli anātman è necessariamente solo anātman e non il mio Sé reale. Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, in Le cinque gemme dell’Advaita, trad. Maitreyī, www.vedavyasamandala, 3, p. 11. Prapañca significa letteralmente composto da cinque parti. Infatti il numero cinque appare ripetutamente nella composizione dell’essere individuale: sono cinque gli elementi, le condizioni dell’esistenza corporea, i mahābhūta (i taṅmātra del Sāṃkhya), i prāṇa, i sensi, le facoltà d’azione, gli arti, le dita d’una mano, d’un piede. Si potrà facilmente notare che l’“adhyātma”, manifestato e composito di cui si tratta in questa prospettiva, appare con la limitazione tipica delle dottrine del non-Supremo, come da una nota precedente.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 8. Alcune considerazioni sul metodo vedāntico: nididhyāsana
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La conoscenza il cui fine è la ricerca della vera natura del Sé è chiamata Adhyātma Śāstra o semplicemente Adhyātman. Adhyātman dunque definisce anche quella scienza che permette di riconoscere alla vera natura dell’Ātman e d’identificarsi a lui, che è lo stesso Brahman. Tradizionalmente è contemplato un gruppo di scienze che ha come oggetto di studio le diverse componenti dell’aggregato umano. Per quello che riguarda il corpo, con il quale, come abbiamo detto, la maggior parte della gente ordinaria s’identifica, quelle scienze sono la fisiologia, l’anatomia, la medicina e altre ancora, tutte raggruppate nell’ambito dell’Āyur Veda in quanto disciplina del benessere corporeo. Altre scienze ancora si occupano di studiare le facoltà di senso e di azione e il loro uso corretto, quali la fonetica (śikṣā), la scienza della vista1 (dṛṣṭividyā), la logopedia2 (śabdavidyā), lo studio che spiega i rapporti tra le vibrazioni sonore del linguaggio e il loro significato (nirukta), ecc. Le scienze psicologiche che studiano il funzionamento della mente, in quanto coordinatrice delle informazioni sensorie, delle corrispondenti reazioni istintive a quelle percezioni, e dei sentimenti, sono raggruppate nelle discipline gnoseologiche3 (manovijñāna) lo studio delle passioni (kāmaśāstra), l’etologia in quanto studio del comportamento (vyāvahārika vidyā) ecc. Il quarto gruppo di scienze studia il funzionamento delle attività intellettuali, quali la speculazione analitica, le volizioni, la discriminazione: esse sono, per esempio, la logica, tarkaśāstra, la dialettica, hetuvidyā, la scienza dell’esercizio del potere, arthaśāstra e così via. Infine, le Upaniṣad investigano sulla reale natura del Sé, che trascende il senso dell’“io”, aham. A quello scopo l’insegnamento del Vedānta, che altro non è se non la scienza upaniṣadica, prenderà come base sia la capacità intuitiva universale dell’aspirante qualificato per tale conoscenza,(jijñāsu), sia i mezzi conoscitivi atti a procurare una visione reale del mondo che ci circonda. In questo modo la ricerca sull’Ātman culmina nell’Intuizione finale che è il mokṣa, in cui non rimarrà alcun residuo di dualità, quali il cercatore, il cercato e la cerca stessa. Perciò gli insegnamenti upaniṣadici sulla reale natura del Sé consistono nell’unica scienza dell’Adhyātman, senza l’ausilio e al di là di tutte le scienze summenzionate e radunate in quattro categorie, che indagano sulla costituzione dell’individuo. In alcuni passi delle Upaniṣad si prescrivono e s’ingiungono certi metodi che appoggiano l’esercizio della meditazione su concetti e qualità che riguardano la Persona divina, o su simboli come i mantra, gli yantra e i tantra. Ebbene, queste ingiunzioni scritturali devono essere intese come indirizzate a discepoli che sono incapaci di concepire la vera natura del loro proprio Sé. Per costoro le scritture prescrivono specifici tipi di meditazione adatti alla condizione individuale. Per esempio, se si parte dal pensiero che la mente è illimitata e si medita sui Viśve Deva4 che sono in numero illimitato, con questa meditazione si “conquista un mondo illimitato” 5; “La mente è il Brahman”6; “L’aria è certamente il luogo dove riassorbirsi” 7. “Il prāṇa è certamente il luogo dove reintegrarsi”8. Per distinguere la meditazione sugli oggetti appartenenti al Macrocosmo, adhidaiva,9 e porre attenzione sugli oggetti analoghi appartenenti al microcosmo, “adhyātman”, la śrūti comincia dicendo:“Ora vi è un analogo 1
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Questa scienza non può essere identificata con l’oculistica, in quanto quest’ultima si limita all’aspetto fisiologico dell’organo della vista, e non al senso in quanto tale. Anche per questo caso dobbiamo distinguere questa scienza dalla moderna disciplina medica corrispondente, che s’occupa prevalentemente dell’aspetto patologico, mentre śabdavidyā si avvicina maggiormente alla fonologia quale scienza che studia il modo in cui il pensiero si traduce in suono-parola. Evitiamo accuratamente il brutto neologismo “epistemologia”, il cui uso, così di moda al giorno d’oggi, denuncia la sua origine dallo scientismo positivista. I Viśve Deva sono tutta la categoria degli dei menzionati negli inni ritualistici del Veda. BU III. 1. 9. ChU III. 21. 1. ChU I. 3. 1. ChU IV. 3. 4. A proposito del significato di queste tre citazioni si ricordi il seguente passo di Śaṃkara: “«Senza prāṇa, senza mente, puro» è una śruti che parla del puro Brahman, mentre quest’altra śruti: «costituito dalla mente, avendo il prāṇa come suo corpo» si riferisce al Brahman qualificato, il Saguṇa.” BSŚBh, I. 2. 2. Adhidaiva, come s’è detto, può ben tradurre la concezione occidentale di Macrocosmo. La traduzione “piano divino” spesso usata da studiosi studiosi anglofoni appare inesatta e ambigua. La distinzione tra adhidaiva e “adhyātma” corrisponde esattamente a quella che, nel linguaggio di R. Guénon, intercorre tra “grado d’esistenza” e “stato dell’essere”, tra “universale” e “particolare”. Vi è stretta analogia, quindi, tra gli
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insegnamento che riguarda il microcosmo: si tratta del fatto ben noto che la mente pare andare [verso il Brahman]1 quando essa Lo ricorda ripetutamente pensando all’idea che si è fatta di Lui [Brahman]” 2. Qui il testo upaniṣadico stabilisce le istruzioni circa la meditazione e l’uso del mantra adatto all’“adhyātman”3. Al fine di distinguere chiaramente tra la prospettiva individuale e quella macrocosmica, la śruti s’esprime nei termini di meditazione sull’“adhyātman”, spiegando così che in questo caso gli oggetti su cui meditare sono la mente, i sensi e il corpo, con il desiderio di avvicinarsi al Brahman, ossia alla reale natura del Sé 4. Quindi viene dichiarato che, sia nel caso della conoscenza della natura reale dell’Ātman sia in quello dei vari metodi meditativi, le componenti sottili e il corpo dell’uomo sono chiamate ādhyātmika prapañca. Ma quando ci si imbatte nel termine inconfondibile Adhyātma Śāstra o, più semplicemente, Adhyātman, allora, senza dubbio questo si riferisce esclusivamente alla ricerca della conoscenza di Ātman. Negli studi indologici e filosofici, è uso comune interpretare la parola Adhyātman come se volesse genericamente esprimere il senso del termine “spirituale”. Questo ultimo termine allude a un non ben identificato “spirito”, ricalcato sull’anima delle concezioni religiose ccidentali, che dimora nel corpo e che, dopo la morte, da esso si diparte. Per questa ragione gli eruditi definiscono la disciplina che si dedica allo studio dell’anima o spirito come una “scienza spirituale”, traducendo Adhyātma Śāstra in questo modo. Ma non tengono in considerazione il fatto che l’origine di tutti i molteplici spiriti, anime, energie o forze vitali è soltanto l’unico Sé che è al di là del senso dell’“io” (aham). Perciò il termine “scienza spirituale” è troppo impreciso ed equivoco per essere adottato come equivalente di Adhyātma Śāstra. Le stesse Upaniṣad rivelano la suprema Realtà solamente quando insegnano la vera natura del Sé, e non quando, in talune parti, si soffermano a descrivere altre scienze di portata ridotta, come la cosmologia o qualche scienza del non-Supremo. La śruti, quando insegna lo sviluppo del mondo in quanto tale, non ha in realtà lo scopo di insegnare lo sviluppo in quanto tale, perché si sa che questa conoscenza non porta a nessun risultato 5: Lo scopo è piuttosto quello di insegnare che Ātman è della natura di Brahman, perché si sa che questa Conoscenza produce il buon risultato.6
Naturalmente l’insegnamento upaniṣadico deve necessariamente essere impartito dalla viva voce d’un guru che sia anche un adepto, e presuppone che il discepolo l’apprenda sulla base di uno scrupoloso esame della realtà apparente, tramite una profonda riflessione appoggiata all’esperienza intuitiva universale. 7 L’Adhyātma Śāstra quindi deve essere coltivato personalmente, perché concerne l’interiorità del singolo aspirante alla conoscenza. Gli insegnamenti (upadeśa), impartiti dal guru e ascoltati singolarmente dal discepolo come audizioni di verità (śravaṇa), si devono appoggiare sui tre testi fondamentali (Prasthāna Traya) che sono le dieci Upaniṣad maggiori, la Bhagavad Gītā e i Brahma Sūtra, completi dei loro commentari (bhāṣya) elaborati da Śaṃkara. Infatti, le Upaniṣad sono gli unici testi sacri che hanno come scopo l’insegnamento dell’identità di Ātman e Brahman e il modo in cui attivare la presa di coscienza di questa verità. La Bhagavad Gītā è considerata dal Vedānta come una ripresa della medesima dottrina in una forma più discorsiva e metodica. I Brahma Sūtra ne
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oggetti che compongono il Macrocosmo e le componenti del microcosmo umano. Perciò chi medita sul sole secondo rituali sacrificali che si rivolgono all’ambiente esterno, nell’ambito della sua individualità vivente compie il corrispondente rituale interiore, assumendo come supporto di meditazione il cuore. Si profila così una distinzione tra due metodi, kriyā yoga e dhyāna yoga, entrambi caratteristici della conoscenza non suprema (aparavidyā). Abitualmente il kriyā yoga è più adatto allo stadio di vita del gṛhastha, mentre il dhyāna yoga a quello appartato del vānaprastha. Per quello che riguarda il “metodo” advaita, l’Adhyātman indaga sulla natura dell’Ātman senza discriminare quei due punti di vista, ma inglobandoli procedendo per sintesi non duale. Si noti he questo testo upaniṣadico descrive un metodo per il quale Brahman è una meta da raggiungere e non esprime l’identità eterna tra l’Ātman e Brahman. KeU IV. 5. Ovviamente in precedenza il testo aveva descritto la meditazione basata sugli oggetti del Macrocosmo. Non si tratta evidentemente della prospettiva vedāntica, poiché si parla di ingiunzioni scritturali e di meditazione. Perciò in questo caso “adhyātman” è inteso nel senso più ristretto, in senso individuale. Per questa ragione lo abbiamo scritto al minuscolo tra virgolette. Ovviamente questa via procedente per gradi potrà far raggiungere dopo la morte e a conclusione del devayāna soltanto il Brahman non-Supremo come Hiraṇyagarbha. Nella prospettiva della Realtà assoluta, la purificazione della mente, ovvero il perfezionamento dell’individualità integrale, non può essere considerata una realizzazione, ma semplicemente la restaurazione del normale stato naturale dell’uomo. Svāmī Satcidānandendra, Dottrina e Metodo dell’Advaita Vedānta, cit., p. 59. Si riconoscerà facilmente in questa descrizione i tre “strumenti” che il Vedānta definisce śrāvaṇa, manana e nididhyāsana.
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sono invece un’esposizione sintetica, e quest’ultimo testo, senza il commento di Śaṃkarācārya, appare davvero incomprensibile. Di fatto il suo imponente Brahma Sūtra Bhāṣya rappresenta la trattazione più ampia, articolata, ed esaustiva dell’Adhyātma Śāstra. Però l’intero Prasthāna Traya Bhāṣya è davvero tutto già contenuto nelle Upaniṣad, che, tra quei tre testi, è l’unica ṣruti. La Bhagavad Gītā e i Brahma Sūtra appartengono alla smṛti, categoria di testi sacri di minore importanza, mentre i commentari, pur autorevolissimi, non sono annoverati nemmeno tra le śruti né tra le smṛti1. Sul primato delle Upaniṣad Śaṃkara afferma: Ora, di questo Puruṣa che è conosciuto solo per mezzo delle Upaniṣad e che non è un jīva trasmigrante, ma che è il Brahman stesso, non si può asserire né che non esiste né che non possa essere conosciuto. Perché nel passaggio “Ora, questo è l’Ātman, descritto come né questo né questo [neti neti]”2, questo Puruṣa è chiamato con la parola Ātman; ed è impossibile negare il proprio Sé, perché anche chi lo nega è l’Ātman.3
Quanto è affermato in questo importante passaggio vuole sottolineare che l’Ātman assume la forma dell’“io” (aham) per conoscere il mondo tramite i jñānendriya e interagire con esso per mezzo dei karmendriya. È invero ben noto che l’uomo ordinario ha un’idea troppo vaga del proprio Sé. Senza dubbio egli sa di esistere e di avere qualcosa che chiama Sé, ma non s’interroga mai sulla vera natura di quel Sé; dalla nascita alla morte [durante lo stato di veglia], si dedica ai fenomeni oggettivi con alcuni dei quali di tanto in tanto s’identifica, eccezion fatta per quando si trova negli stati di sogno e sonno profondo. È evidente che Yājñavalkya non ha mai pensato a questo sé apparente quando affermava che tramite la conoscenza dell’Ātman tutto diventa conosciuto.4
Quindi, poiché l’“io” è la forma che il Sé assume nell’individuo, pur essendo la sua vera natura l’Ātman stesso, è un errore considerare l’“io” come qualcosa di indipendente e separato dal Sé. L’“io”, in quest’ultimo caso, è una vera e propria sovrapposizione (adhyāsa) sulla realtà dell’Ātman, come l’immagine del serpente è sovrapposta alla corda. Però il profano obietterà alla dottrina del Vedānta come segue: Oppositore: Non è per nulla provato che il Sé sia conosciuto soltanto per mezzo delle Upaniṣad, poiché anche il solo concetto di “io” (aham) lo contiene già. Risposta: Non è così, perché abbiamo già confutato questa obiezione dicendo che il Sé è il Testimone (Sakṣin), di questo concetto di “io”. Respingiamo l’erronea nozione del Sé come produttore d’azioni, cosa che riguarda il solo “io”. Il Sé reale è il Testimone dell’“io”; esso è presente in tutti gli esseri, è privo di parti, è uno, immutabile, eterno, Coscienza onnipervadente. Nessuno lo può conoscere come il Sé di tutto basandosi su quella parte del Veda dedicata alle azioni meritorie5, o per mezzo dei testi dei logici6: Quindi il Sé non può essere negato da alcuno né può essere raggiunto come come punto d’arrivo di una ingiunzione [scritturale o da parte di un guru]. E poiché esso è il Sé di tutto, è al di là della possibilità di essere attratto o respinto.7
I risultati delle meditazioni, come quelli prodotti dalle pratiche segrete del Rājayoga e da pratiche simili, alla fine producono dei frutti. Per esempio il prodigio di śaktipatha8 e altri ancora, che la gente comune definisce
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Questa restrizione non è valida per il sādhaka che ha purificato la mente, poiché allora egli può verificare che la verità descritta nella ṣruti, nelle smṛti o nei bhāṣya è sempre la medesima, unica e non duale. BU IV. 2. 4. BSŚBh I. 1. 4. Svāmī Satcidānandendra, Dottrina e Metodo dell’Advaita Vedānta, cit., p. 59. Il Karma khaṇḍa del Veda, comprendente gli inni vedici, le Saṃhitā, cantate o recitate durante i sacrifici; i testi ritualistici, i Brāhmaṇa; i testi dedicati ai riti interiorizzati, Āraṇyaka. I testi, i commentari e i trattati di Nyāya. BSŚBh I. 1. 4. Śaktipatha consiste nel trasferimento dei poteri, siddhi, da un iniziato a un profano. Si tratta di un caso di possessione, āveśa, per cui un profano appare in grado di compiere prodigi di magia senza alcuna preparazione preliminare. Da non confondere con śaktipāta, l’influenza spirituale, nel linguaggio tantrico, conferita con l’iniziazione.
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“doni spirituali”.1 In qualche misura questi possono essere comodi nella vita ordinaria e avere anche una certa attrattiva. Ma tutti questi risultati, dal punto di vista della vera scienza dell’Adhyātman sono meramente transeunti. La regola generale è che tutte le cose che sono fatte poi s’esauriscono. Perciò chi aspira alla Verità eterna che sta al di là del triplice tempo, deve dedicarsi agli insegnamenti delle Upaniṣad sulla natura del Sé, l’Essere interiore, insegnamenti che conducono al più sublime scopo della vita. Tuttavia non è possibile raggiungere la Verità eterna finché non si trascenda la dualità, che consiste nel corpo, mente, intelletto e nell’“io”, nell’aggregato microcosmico; e nelle false idee di infinità del tempo, dello spazio e della causalità, per quanto riguarda il Macrocosmo. L’aspirante alla Verità dovrà distogliere la sua coscienza da tutti questi risultati transitori, cosmologici, empirici o visionari che siano. Dovrà prestare tutta la sua attenzione alla comprensione della vera natura del Sé. Solamente così potrà ottenere totale libertà dalle limitazioni del saṃsāra. Questo è chiaramente affermato da Yama, il dio della morte, nella Kāṭha Upaniṣad, rispondendo a Naciketas: Dopo averlo ascoltato [fase di śrāvaṇa], dopo averlo compreso a fondo [fase di manana], dopo averlo distinto da ciò che non è [fase di nididhyāsana], dopo aver raggiunto questo principio impercettibile, quel mortale prova gioia, poiché ha ottenuto la sorgente stessa della gioia...2 Ciò che sai essere differente da meriti e demeriti, dalla causa e dall’effetto, dal passato e dal futuro, chiamalo Quello (tat). Dopo aver meditato sull’Ātman incorporeo tra gli esseri corporei, immutabile tra le cose transeunti, grande e diffuso, il saggio è libero dal dolore. Questo Ātman non può essere raggiunto né con lo studio né con speculazioni, né con il semplice ascolto. Può essere raggiunto, in vero, solamente per mezzo del Sé di chi lo cerca. In suo favore Quello riveste la forma corporea.3
È importante rendersi conto che non è difficile stabilirsi fermamente nella vera natura del Sé per mezzo dell’ascolto [śrāvaṇa] di un insegnamento [upadeśa] di un maestro4 sull’Adhyātma Śāstra. Maestro, in questo caso, è chi è fermamente stabilito nella sua vera natura di Sé, come s’evince dalla seguente śruti: Quello non è affatto comprensibile quand’è spiegato da un uomo che non sia all’altezza del compito. Per questo motivo su di Lui si creano le teorie più diverse. Quando però è insegnato da chi si è identificato a Quello, allora non si tratta più di alcuna speculazione, perché Esso è più sottile di quanto sottile si possa immaginare. Questa conoscenza non può essere raggiunta con la speculazione, e t’induce, o diletto, a lodarla quando è impartita da ben altra persona. 5
Perciò è impossibile raggiungere la meta suprema dell’Adhyātman per l’uomo comune senza l’aiuto degli insegnamenti upaniṣadici ottenuto dalla viva voce d’un maestro qualificato per questa conoscenza. Colui che ha l’esatta idea di cosa sia la rinuncia a tutti gli oggetti transeunti del desiderio, e ha una ferma intenzione (śraddhā) di conoscere il Signore, allora certamente incontrerà il giusto maestro e facilmente comprenderà la propria vera natura, quel Sé che è eterno, non duale, il Brahman. Questa è la meta finale di nididhyāsana.
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Naturalmente quelli di cui stiamo presentemente parlando sono prodigi autentici, ancorché si tratti di fenomeni di basso psichismo. Qui non alludiamo affatto alle soperchierie della “Meditazione Trascendentale” e di altre trappole per allocchi, che non sono in grado nemmeno di istruire i loro seguaci a diventare “fenomeni da baraccone”. KU I. 2. 13-14. KU I. 2. 22-23. Il Maestro interiore, sadguru, prende la forma del guru umano. In questo contesto è privo di senso distinguere tra guru e istruttore spirituale. KU I. 2. 8-9. Si veda il commento di Śaṃkara a questi due śloka.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 9. Significato vedāntico di Yoga
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9. Significato vedāntico di Yoga In generale si suole collegare, in prima battuta, la parola Yoga alla dottrina di Patañjali e, in secondo luogo, al Rāja yoga, allo Haṭha yoga, al Laya yoga e ad altre discipline che da quella dottrina rilevano. Tuttavia nelle Upanisad, nella Bhagavad Gītā e nei Brahma Sūtra, cioè nella prospettiva vedāntica dei Prasthāna Traya, il significato di Yoga è alquanto differente, come si è potuto leggere nel capitolo precedente in cui abbiamo descritto nididhyāsana in quanto adhyātmika yoga. Nel Brahma Sūtra Bhāṣya, infatti, Śaṃkara ha dichiarato che della dottrina degli Yoga Sūtra di Patañjali possono essere accettabili soltanto i primi cinque “membri” (aṅga) dello Yoga darśana. Il primo aṅga corrisponde alle istruzioni per controllare le facoltà di senso (jñānendriya), raggruppate in ciò che si denomina autocontrollo (yama). Il secondo membro è definito “freno” (niyama), che è l’insieme delle regole per raffrenare le facoltà d’azione (karmendriya). Āsana, posizione, è l’aṅga per mezzo del quale si deve scegliere per la pratica la postura del corpo più comoda, prevalentemente da seduto, quella che si può mantenere più a lungo senza provar dolore o cadere in assopimento. Il quarto membro corrisponde al prāṇāyāma, il rallentamento della respirazione, al fine di pacificare la mente. Infine il quinto aṅga è pratyāhāra che consiste nel distaccare e ritrarre la mente dal desiderio di fruire degli oggetti esterni, impedendo così anche l’attaccamento ai risultati delle azioni compiute. Anche se il modo con cui sono messi in pratica nell’ādhyātmika yoga è diverso1, questi cinque aṅga del Pātañjala yoga possono essere considerati indispensabili anche per una certa categoria di discepoli del Vedānta che faticano a passare direttamente alle tecniche puramente conoscitive2. Per sviluppare le qualità che i cinque aṅga summenzionati procurano, può essere utile all’uomo comune praticare preliminarmente Karma yoga e varie tecniche di meditazione (upāsanā). Anche la Bhagavad Gītā sostiene qualcosa d’analogo quando afferma che il Karma yoga conduce al “Dhyāna yoga”. Lo stesso testo aggiunge che il Bhakti yoga, avviando al “Dhyāna yoga”, fa, alla fine, ottenere la conoscenza. È però necessario precisare che nel linguaggio della Gītā, “Dhyāna yoga” non ha il significato in uso negli Yoga Sūtra, ma è sinonimo di Adhyātman o nididhyāsana. Vale a dire che questo “Dhyāna yoga” della Bhagavad Gītā fa parte del metodo del Vedānta e non delle sādhanā basate sulla meditazione (upāsanā). In breve, upāsanā, dhyāna o cintana, che dir si voglia [ovvero la meditazione], è un’azione mentale, mentre jñāna è una idea mentale che insorge in quanto corrisponde a una cosa. [...] I termini upāsanā e dhyāna sono talvolta anche usati per nididhyāsana.3
Ciò significa che la meditazione è una azione mentale operata con sforzo e concentrazione su un unico oggetto, al fine di ottenere un risultato che, all’inizio di tale indagine, non esisteva. Al contrario, jñāna consiste nel riconoscere e nello sperimentare intuitivamente una verità che è tale per natura ed eternamente presente in chi contempla. Per questa ragione l’Adhyātma Śāstra respinge i tre ultimi “membri” dello Yoga darśana, vale a dire dhāraṇā, dhyāna, e samādhi, poiché, riconoscendo che la meditazione è una azione, la relega al mondo del divenire. Può accadere, in ogni caso, d’imbattersi in queste tre parole nei Prasthāna Traya Bhāṣya. Per esempio all’inizio del suo commento al nono capitolo della Bhagavad Gītā, Śaṃkara afferma: 1
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Nel Vedānta, yama, niyama e pratyāhāra sono attuati per mezzo della discriminazione intellettuale e non tramite uno sforzo di controllo psicologico. Gli aṅga che sono considerati più elevati negli Yoga Sūtra, vale a dire dhāraṇā, la concentrazione della mente, dhyāna, la meditazione e samādhi, la “congiunzione” (che, per Patañjali è sinonimo di yoga, unione), sono invece considerati ingannevoli. In particolare il concetto di samādhi che, per Patañjali, rappresenta la fusione dell’anima individuale con il Signore, è considerato un errore grave, poiché per il Vedānta ciò che è relativo non può unirsi, fondersi o identificarsi all’Assoluto. Per questa ragione, al giorno d’oggi, i maestri vedāntin, al fine di ridimensionarne la portata, definiscono il samādhi dello Yoga darśana con la parola trance (dal fr. transe), assunta dall’inglese, a causa dell’annullamento della coscienza durante questa esperienza del tutto paragonabile allo stato di sonno profondo. Infatti l’esperienza del samādhi è così descritta da Prakāśātman: “... durante il samādhi, nello stato privo di coscienza, in quel momento è ottenuta la visione dell’Ātman, ma in un altro momento [negli stati di veglia e di sogno] è percepita la dualità, a causa della coscienza empirica proiettata dal karma che continua a produrre effetti.” Pañcapādikā Vivaraṇa, Madras, T. R. Chintamani, 1935-1939, II vol., p. 1240. A dimostrazione che il samādhi è solo uno stato transitorio da cui si ritorna dietro impulso del karma, sta il fatto che tale esperienza accade in forma naturale anche all’uomo ordinario quando ogni mattina si sveglia dal sonno profondo; o come accade ad ogni jīva in trasmigrazione che, dopo il pralaya, si rimanifesta in un altro corpo. Confondere il samādhi con il mokṣa è dovuto alla limitazione, all’ignoranza e all’illusorietà da cui le vie della conoscenza del non-Supremo non sono esenti. Svāmī Satcidānandendra, Dottrina e Metodo dell’Advaita Vedānta, cit., p. 170.
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Nell’ottavo discorso ho insegnato lo Yoga della concentrazione o dhāraṇā...1
Anche nel Taittirīya Upaniṣad Bhāṣya egli stabilisce che: Certamente non è una regola per tutti che la conoscenza sorga dalla semplice eliminazione degli ostacoli senza l’aiuto della grazia del Signore e della pratica dell’ascesi (dhāraṇā). Perché il non nuocere (ahiṃsā), la castità (brahmacarya) ecc. possono essere di un qualche aiuto [all’inizo del procedere] all’illuminazione; ma śrāvaṇa, manana e nididhyāsana sono i mezzi indispensabili per raggiungerla.2
In questi passaggi particolari, il senso di dhyāna e di dhāraṇā corrisponde a quello che dà Patañjali, poiché Śaṃkara sta descrivendone l’uso in senso meditativo che è proprio dello Yoga darśana. Egli dunque, in questo caso, si riferisce alla ripetizione del monosillabo Oṃ come mantra e alla meditazione su di esso quale simbolo di Īśvara, com’è ingiunto dal Veda. Sulla base di tali caratteristiche, Śaṃkara afferma senza mezzi termini che il Pātañjala yoga è una dottrina dualistica, dacché Patañjali considera che i Sé sono molteplici ed eterni, accetta l’esistenza ab æterno della sostanza universale (prakṛti) che è caos primordiale (nirṛti), principio non cosciente (acetana) e ignoranza (avidyā), sostenendo, inoltre, l’eternità di Īśvara come loro Signore. Invece il Vedānta insegna che c’è solo il Brahman non duale che può apparire sotto quelle forme a causa dell’ignoranza. Ciò è quanto brevemente, ma inesorabilmente, afferma Śaṃkara: I seguaci del Sāṃkhya e dello Yoga sono dei dualisti perché non comprendono che il Sé è unico.3
Perciò quando il Vedānta usa termini come Yoga e Sāṃkhya, non lo fa allo stesso modo del Pātañjala yoga o del Kāpila sāṃkhya; ma, in accordo con i suoi stessi principi, se ne serve per indicare i processi di discriminazione (viveka), e d’attenzione (nididhyāsana), basati sull’esperienza dell’Intuizione universale (sarvānubhāva) e sulla chiara comprensione dell’illusorietà del mondo. L’ādhyātmika yoga è descritto nella Kaṭha Upaniṣad come l’attenzione nei confronti del Sé: Il saggio rinuncia a piacere e dolore ponendosi in uno stato di attenzione sull’adhyātman, meditando sulla divinità principiale imperscrutabile...4
Poiché l’attenzione è comunque una funzione della mente, essa può essere anche definita meditazione, upāsanā, o contemplazione, dhyāna, tenendo sempre presente il significato upaniṣadico5 di questi termini, ben distinto da quello in uso nei sūtra6, com’è appena stato spiegato. In questa prospettiva Śaṃkara aggiunge: L’attenzione della mente sul Sé, dopo averla distolta dagli oggetti esterni, è l’ādhyātmika yoga.7
Sempre nella medesima Upaniṣad il fine dello Yoga vedāntico è sintetizzato in modo chiarissimo: Si deve conoscerLo per mezzo dell’identità dei due [Ātman-Brahman], affermando che Esso esiste. Chi Lo conosce affermando che Esso esiste avvera l’Identità.8
Queste ultime affermazioni della śruti devono essere interpretate come segue: chi desidera ardentemente la Liberazione (mumukṣu) deve partire dalla ferma consapevolezza dell’identità tra Ātman e Brahman9. Userà, 1
BGŚB IX. 1. Taittirīya Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya (TUŚBh) I. 11. 4. 3 BSŚBh II. 1. 4. 4 KU I. 2. 12. 5 Vale a dire śrauta, in quanto appartenente alla śruti. 6 Vale a dire smarta, in quanto appartenente alla smṛti, come sono effettivamente i sūtra dello Yoga e del Sāṃkhya. 7 Kaṭha Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya (KUŚBh) I. 2. 12. Effettivamente l’attenzione, pur essendo una funzione intellettuale, è uno stato non agente di adesione alla realtà e non uno sforzo mentale come la concentrazione meditativa. L’attenzione contemplativa può anche essere talora definita comprensione profonda. 8 KU II. 3. 13. 9 Come abbiamo fatto notare altrove, Michel Vâlsan arrivò a sostenere che il mahāvākya “Ahaṃ Brahmāsmi” (io sono Brahman) è soltanto una formula metodica e che nessun discepolo di Vedānta si considera davvero identico a Brahman. Cfr. Ibn ‘Arabi, Livre de l’Extinction dans la Contemplation, a cura di M. Vâlsan, Paris, Éd. de l’Oeuvre, 1984, p. 14, n.1. Oltre al fatto che i mahāvākya non sono affatto delle formule mantriche, la verità è esattamente il contrario di quanto afferma Vâlsan: infatti la Liberazione è possibile soltanto se c’è la preliminare intuizione intellettuale della propria eterna identità con Brahman. Ma per comprendere questo è necessario un minimo di qualifiche e di conoscenza metafisica. 2
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 9. Significato vedāntico di Yoga
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quindi, la discriminazione (viveka), ossia l’uso metodico del “neti neti”, rinunciando a farsi coinvolgere dal mondo esterno, distaccandosi dagli stimoli provenienti dagli oggetti visibili, udibili, tangibili ecc., che gli si presentano per mezzo delle percezioni dei sensi (jñānendriya)1. Per fare un esempio, la vista percepisce un oggetto che appare appare “bello”: nell’uomo ordinario questa percezione stimola la mente a godere del piacere di quella visione. La mente, quindi, lo spingerà ad avvicinarsi a quell’oggetto (condizionamento spaziale), e, per goderne più a lungo (condizionamento temporale), desidererà impadronirsi di quell’oggetto (il “mio” usato per il piacere dell’“io”). Al contrario, la percezione di un oggetto sgradevole farà sì che la mente reagisca respingendo lontano quell’oggetto (condizionamento spaziale), cercando di dimenticarlo relegandone la memoria in un passato lontano (condizionamento temporale), rifiutandone così il possesso. Il “mio” (mama), dunque, è difeso dall’intrusione dell’oggetto sgradevole, al fine di preservare il piacere dell’“io” (aham). Il vedāntin, invece, rinuncia agli stimoli piacevoli e spiacevoli provenienti dal mondo esterno per mezzo del distacco discriminativo, che è il vero saṃnyāsa. C’è ancora da precisare che le vie iniziatiche a tappe facenti parte della conoscenza del non-Supremo, ingiungono un metodo di meditazione che conduce al riassorbimento in successione delle facoltà individuali, quali sono i sensi, le facoltà d’azione, i prāṇa (che mettono in opera i karmendriya) e la mente che tutto coordina. In questo modo, la vista e gli altri sensi sono riportati ai prāṇa, i prāṇa al manas, il manas all’ahaṃkāra, l’ahaṃkāra alla buddhi, come effetti che rientrano nelle loro cause2. Operando così s’ottiene un isolamento progressivo dell’aham dal mondo esterno (dal “mio”) e dagli stimoli mentali che ne derivano (i “desideri”), per giungere a uno stato di concentrazione unificata dell’individualità integrale. Questa situazione dell’aham, isolato dai suoi naturali oggetti, è ciò che il Pātañjala yoga definisce samādhi3. Al contrario il metodo vedāntico consiste in una discriminazione di quelle medesime componenti dell’individualità dal vero Sé tramite il “neti neti”. Io non sono il corpo, non sono i sensi, non sono la mente, non sono l’ego, non sono i prāṇa, non sono l’intelletto. Io sono quello che è lontano dalla moglie, dai figli, dal podere, dalla casa ecc. In verità io sono quello Śiva che è Testimone diretto, che è l’eterno e intimo Sé.4
Naturalmente la presa di coscienza d’essere eternamente il Brahmātman comporta a fortiori anche il riconoscimento che tutto quanto è stato discriminato altro non è che il medesimo Principio supremo, poiché nulla esiste al di fuori di Lui. Infatti: Chi usa la discriminazione (viveka), riconduce la facoltà della parola (vac) alla mente (manas), il manas all’intelletto (buddhi), la buddhi al mahān Ātman [il jīvātman], e quest’ultimo all’immutabile Ātman [Śāntātman].5[17]
Ciò differenzia definitivamente il samādhi ossia l’unione yogica com'è concepito da Patañjali, dalla Liberazione (mukti o mokṣa).
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I jñānendriya sono i recettori delle percezioni che provengono dagli oggetti; proprio perché non agiscono nel mondo esterno, ma svolgono in qualche modo una funzione “contemplativa”, che giustifica il loro nome di facoltà di conoscenza, jñāna indriya. Chi invece interviene attivamente sugli oggetti esterni, sono i karmendriya, attività (karma) da cui deriva la loro denominazione. 2 In realtà questo punto di vista della conoscenza non-suprema non è del tutto esatto, poiché i prāṇa non sono affatto causa degli indriya. 3 Vale a dire lo stato di sonno profondo (suṣupti avasthā) in cui l’individuo s’immerge come effetto nella sua causa. D’altronde questo stato di “transe” è reversibile con il ritorno naturale allo stato di veglia (jagrat avasthā). In termini sufici, le varie tappe sopra descritte rappresentano una serie di “estinzioni” (fanā) delle componenti individuali. 4 Śaṃkara, Advaita Pañcaratnam, 1, in Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī Mahārāja, Commento a “Le cinque Gemme dell’Advaita”, 0, introduzione, Maitreyī (tr.), www.vedavyasamandala.com. 5 KU I. 3. 13.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 10. Gradi di discriminazione tra Sé e non-Sé
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10. GRADI DI DISCRIMINAZIONE TRA SÉ E NON-SÉ L’iniziato al Vedānta, seguendo il suo proprio metodo, dovrà comportarsi in modo del tutto diverso sia dal profano sia dal sādhaka che segue una via del non-Supremo. Anzitutto, durante la prima fase di viveka, egli deve discriminare tra il Sé e gli oggetti esterni, mantenendo verso di loro un atteggiamento di distacco e indifferenza, respingendo in questo modo la tendenza istintiva a percepire in modo differente quanto ai sensi appare piacevole o spiacevole. Questa indifferenza consiste propriamente nella discriminazione sensibile tra sé e gli oggetti. Naturalmente questo sé non è l’Ātman in quanto tale, ma un sé relativo che comprende tutte le componenti manifestate dell’essere totale (ādhyātmika puruṣa), vale a dire quelle che compongono il corpo (sthūla śarīra) e la psiche (sūkṣma śarīra) fino al senso dell’ego (aham), a esclusione del Sé supremo. I sensi, quindi, continueranno a vedere, udire, toccare ecc., gli oggetti grossi del mondo esterno, ma senza partecipazione, come lo spettatore (draṣṭṭa, dṛk o vṛttāntadarśin), assiste allo spettacolo, dṛśya, senza esserne coinvolto. 1 Questo primo gradino corrisponde allo yama dello Yoga, il controllo dei sensi. La seconda fase o secondo gradino di viveka corrisponde alla presa di coscienza di non essere il corpo, cioè di non essere l’involucro grosso, sthūla śarīra, che da questo punto di vista non si distingue dalla medesima modalità grossolana degli oggetti esterni. La tecnica usata è quella dell’adhyāropāpavāda. All’inizio il sādhaka dà per scontato di essere identico al corpo 2, per poi, in seguito, mettere alla prova questa convinzione erronea: utilizzando il “neti neti”, prende coscienza che il dolore, la malattia, la morte colpiscono il corpo e non il proprio Sé, il quale rimane inalterato nonostante malattia, ferite, stanchezza, debolezza o senescenza 3. Questo gradino corrisponde al membro (aṅga) dello Yoga chiamato āsana, cioè la determinazione della posizione del corpo rispetto al sé relativo. Il testo dell’Upaniṣad citato a chiusura del capitolo precedente 4 comincia, però, dal terzo gradino, dando per scontato che il distacco dagli oggetti esterni e dal corpo sia già stato effettuato 5. Ora, qui si tratta di ricondurre alla mente, manas, tutte le facoltà di azione sintetizzate dalla più elevata tra esse, la parola (vac). Il sādhaka, a questo punto, non reagisce più nel mondo esterno tramite i karmendriya, in base alle scelte istintive prodotte dalla mente o a quelle ponderate dall’intelletto, in quanto non prova più per gli oggetti esterni né attrazione né repulsione6. Le sue azioni, corporalmente compiute nel mondo, si riducono perciò esclusivamente alle attività che permettono la propria sopravvivenza, come mangiare, bere, respirare, riposare; cui s’aggiungono altre azioni esteriori (kriyā) occasionalmente compiute senza desiderio del risultato, come insegnare, lavarsi, alzarsi, rispondere, spostarsi, sedersi ecc. La produzione di tutti gli altri karma, sia quelli riprovevoli (adhārmika) sia quelli virtuosi (dhārmika), ivi compresi anche i rituali, deve essere abbandonata, poiché essi producono comunque risultati, repellenti o attraenti che siano. Arrivati a questo punto il sādhaka non può fare a meno di comprendere che gli indriya non sono oggetti interni che hanno una loro realtà indipendente (tattva), come insegnano il Sāṃkhya e lo Yogadarśana, 1
In ciò consiste la vera rinuncia (vairāgya) ai beni tearreni, vale a dire la rinuncia al concetto di “mio”. Il saṃnyāsa è dunque solo il segno
esteriore di questa vera rinuncia. Ma il re Janaka aveva raggiunto questo stato di rinuncia senza assumere esteriormente il saṃnyāsa. 2
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Ripetiamo che adhyāropa è la fase metodica in cui intenzionalmente si accetta come reale una falsa apparenza. Nel caso specifico, nella cerca spirituale si parte dalla condizione di ignoranza che è propria dell’esperienza quotidiana caratteristica dell’uomo ordinario. “Io sono questo corpo” è il pensiero dovuto allo stato di ignoranza, avidyā, in cui il profano permane. Al contrario, il sādhaka usa questa ignoranza, al fine di rimuoverla, come primo passo per raggiungere la conoscenza. Questa è la fase metodica dell’apavāda, con cui si demolisce la primitiva credenza; così si rimuove l’ignoranza che consiste nell’identificazione con il proprio corpo. Va da sé che tutti i gradini che qui prenderemo in esame vanno compiuti metodicamente per mezzo della tecnica dell’adhyāropāpavāda. KU I. 3. 13. Per la verità, questo distacco dal corpo è il passaggio più difficile, in quanto l’identificazione con il corpo comporta il legame (baṅdha) di tutte le componenti sottili all’attuale posizione spazio temporale ecc., della propria modalità corporea nel mondo dello stato di veglia (jagrat prapāñca). Disfarsi da questo legame grossolano è così importante dal punto di vista della realizzazione che colui che è riuscito a ottenerlo può essere considerato già virtualmente liberato (videha mukta, libero dalla forma corporea). Tradizionalmente il distacco è descritto in questi termini, partendo dal basso verso l’alto come ordine d’importanza: distacco dai propri beni, dal proprio corpo, dalla propria posizione sociale, dalla propria famiglia, dalla propria casta, dal proprio dharma (riti e doveri compresi), da tutte le sacre scritture, dalla devozione per gli dèi, dal desiderio di raggiungere i cieli e perfino dalla devozione per la persona del guru.
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ma sono soltanto dei pensieri del manas. Quando quest’ultimo produce il pensiero della vista, allora esso è in grado di vedere attraverso l’occhio corporeo, e così via. Il manas produce il pensiero della deambulazione, e allora esso è in grado di muovere le gambe. Quando si conosce ciò, allora gli indriya-pensieri ritornano a essere, (o, meglio, ci si rende conto di) quello che sono sempre stati: soltanto manas. Considerato da un punto di vista più esteriore questa presa di coscienza appare come fosse una reintegrazione degli indriya-effetti, nel manas-causa. Questo terzo gradino corrisponde a niyama, il controllo dei karmendriya, e a prāṇāyama, con cui lo Yoga riconduce tutti gli indriya alla mente tramite il riassorbimento dei prāṇa. Tuttavia, come appare evidente, yama e niyama del Vedānta sono invero molto diversi dalle prescrizioni dello Yoga di Patañjali. Infatti, in quest’ultimo caso si tratta di ingiunzioni da parte di un guru di Yoga, ovvero di ordini, ai quali l’iniziato accetta di sottoporsi, esercitando uno sforzo corporale e mentale, e regolando dettagliatamente le energie vitali, prāṇa, in modo da evitare con yama di compiere azioni negative e d’acquisire virtù con niyama. Ma come abbiamo visto, il Vedānta insegna il distacco sia dai vizi sia dalle virtù. Perciò la riconduzione vedāntica dei karmendriya (e, preliminarmente, dei jñānendriya) al manas non è una pratica meditativa per il riavvolgere le facoltà individuali in modo progressivo nel corso d’un certo periodo di tempo. Al contrario significa che il sādhaka comprende per conoscenza intuitiva che quelle facoltà non possono essere considerate come oggetti separati (tattva) dotati di una loro realtà. Esse sono, invece, delle sovrapposizioni illusoriamente attribuite al Sé. Vale a dire che gli indriya risultano appartenere alla categoria dei non-Sé (anātman) sovrapposti al sé, e che devono perciò essere discriminati in quanto tali tramite viveka1. Anche in questo caso il sé di cui si tratta non è l’Ātman come tale, ma un sé relativo che comprende tutte quelle parti manifestate dell’essere totale che sono comprese tra il manas e l’ego. In maniera analoga, il quarto gradino, quello cui si riferisce la medesima śruti che continuiamo a commentare, corrisponde all’affermazione: “... il manas all’intelletto...”. Esso consiste nella presa di coscienza che il manas non è il Sé, in quanto le sue attività, i suoi pensieri, le sue emozioni sono passeggeri, contraddittori e, comunque, sempre rivolti verso il mondo grossolano in modo immaginifico e mnemonico, anche durante il suo stato di separazione dall’esperienza diretta degli oggetti esterni. Le forme degli oggetti esterni vi sono radicate come ricordi, e queste stesse forme appaiono comunque piacevoli o spiacevoli alla mente. Allo stesso modo, la mente rielabora i ricordi sgradevoli trasformandoli in qualcosa di piacevole per mezzo dell’immaginazione. Discriminando così, il jñāni riconosce che la mente è oggetto di giudizio da parte di qualcosa che lo supera e che appare come fosse il sé del manas. E di nuovo dobbiamo affermare che questo sé non è l’Ātman in quanto tale, ma un sé relativo che comprende tutto ciò che sta tra l’intelletto (buddhi) e l’aham. Questo gradino è ciò che anche il Pātañjala yoga conosce come pratyāhāra 2. Nell’Advaita, però, il ritiro della mente da tutti gli oggetti sia esterni sia interni avviene per discriminazione. E la mente come produttrice di pensieri mutevoli ed emotivi, s’immerge anch’essa in buddhi, poiché l’iniziato ha verificato l’inesistenza di un manas separato; perciò la mente appare per quello che è, ossia una temporanea modificazione (vṛtti) dell’intelletto. Qui le analogie tra la via proposta dallo Yoga darśana e la conoscenza vedāntica s’arrestano definitivamente. 3 Infatti, la comprensione di come la buddhi sia pur sempre soltanto una facoltà di giudizio e di scelta d’ordine
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Questa è la ragione per la quale il vedāntin non acquisisce poteri (siddhi), come accade ai sādhaka dei diversi tipi di Yoga. D’altra parte le siddhi non sono nient’altro che l’estensione artificiale delle caratteristiche naturali delle facoltà di sensazione e d’azione. Lo sforzo impiegato per l’acquisizione delle siddhi è, dunque, soltanto una perdita di tempo, in quanto non permette di raggiungere e risolvere neppure quello che qui definiamo terzo gradino. L’acquisizione delle siddhi significa in realtà l’estensione massima delle possibilità degli indriya, che non permette di superare il livello noto come manomaya koṣa (involucro fatto di manas). Le siddhi, inoltre, sono considerate negativamente qualora non siano usate da adhikārī, persone incaricate di qualche specifica missione. Ciò si sperimenta, nella fase di pratyāhāra, quando il pātañjala yogi si concentra su un unico punto, chiudendo tutte le “bocche”, ovvero gli organi corrispondenti alle facoltà di sensazione rivolti verso il mondo esterno, rimanendo così isolato. In questa fase yogica il meditante (upāsaka) dovrà lottare solo contro la continua interferenza di questi pensieri prodotti dal manas. Lo Yoga di Patañjali e le vie analoghe, tantriche o meno, sono caratterizzate da uno sforzo progressivo ingiunto da un maestro, per ottenere, in modo dettagliato e progressivo, il riassorbimento delle facoltà individuali nell’organo interno, antaḥkāraṇa. Il percorso dell’Adhyātma yoga è del tutto conoscitivo e basato su prese di coscienza, ossia intuizioni. Qualora fosse necessario, esso compie in modo sintetico la parte che si riferisce alla via della conoscenza non suprema (aparavidyā), per poi giungere alla vera e propria conoscenza del Supremo.
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individuale, è del tutto preclusa a una via che fa parte del dominio della conoscenza non suprema (aparavidyā)1. Per andar oltre a questa restaurazione dello stato primordiale o purificazione della mente (antaḥkāraṇa śuddhi) e raggiungere il mokṣa per mezzo dell’Adhyātma yoga, è necessario ottenere l’insegnamento (upadeśa) che riguarda la conoscenza del Brahman supremo. Solamente in questo modo si sarà in grado di riconoscere la limitazione della funzione intellettuale, reintegrandola nel grande Sé, il Mahān Ātman, che altro non è se non l’“io” (jīvātman). Questo jīvātman è il Testimone (Sākṣin) inteso come Coscienza cosmica (Prājña), che corrisponde allo stato di sonno profondo (suṣupti sthāna), e che è concepito per mezzo del nididhyāsana come più sottile del sottile (sarvasūkṣma). Di tutte le apparenti “parti” dell’Essere totale, dunque, solamente il jīvātman è in grado di stare coscientemente nel sonno profondo, suṣupti avasthā, proprio perché è di natura universale, mentre tutte le altre componenti individuali ne sono escluse. Una volta “rientrato” in suṣupti, il jīvātman non è più un sé trasmigrante: esso è l'immutabile coscienza universale stessa, Caitanya, il Testimone, Sākṣin, l’Ātman in quanto Sé supremo.2 E per chi così ha realizzato il mokṣa, il terzo stato di sonno senza sogni (suṣupti avasthā) non è più uno stato, ma è l’Assoluto, l'Ātman, il Brahman non duale. Esso è in realtà il Quarto (Turīya), che non è altro che il BrahmanĀtman, comprendente in una sintesi suprema tutti i mondi (loka), tutti gli stati (avasthā), tutti gli esseri totali (sarva sattā). Su questo ultimo passaggio, che l’Upaniṣad descrive così “Colui che usa la discriminazione (viveka) riconduca [...] quest’ultimo [il jīvātman] allo Śāntātman”, dovremo soffermarci più a lungo, dato che questo è il vero risultato dell’Ādhyātmika yoga. Il riassorbimento delle facoltà individuali, descritto secondo la dottrina dei quattro pāda di Ātman della Māṇḍūkya Upaniṣad, è indicato nella Chāndogya Upaniṣad3 come insegnamento caratteristico dell’Ādhyātmika yoga. Riassumiamo i passaggi più importanti di quest’ultima śruti: vi si narra come Virocana, Re dei titani (asura), e Indra, Re degli dèi, si recassero presso Prajāpati per diventare suoi discepoli. Gli chiesero di spiegar loro come conoscere l’Ātman. Prajāpati rispose che l’Ātman è questo corpo come lo si conosce in stato di veglia (jāgrat avasthā). Soddisfatti, i due discepoli se ne ritornarono ai loro rispettivi regni. Virocana raggiunse l’asura loka e insegnò a tutti i suoi titanici sudditi che l’Ātman non è altro che il loro corpo 4. Perciò chi s’identifica al corpo è di natura asurica. Indra, invece, strada facendo, fu colto da molti dubbi 5, perciò ritornò indietro per chiedere chiarimenti al guru. Prajāpati, allora, gli insegnò che, in verità, l’Ātman è quella mente che fruisce dei sogni durante lo stato onirico, svāpna sthāna. Anche questa volta Indra fu colto da dubbi lungo la via di ritorno. Tornato dal guru, ricevette un altro insegnamento da Prajāpati: l’Ātman è ciò che si sperimenta durante il sonno senza sogni, suṣupti. Indra se ne andò, per ritornare subito sui suoi passi e obiettare al maestro quanto segue: «In quello stato, o maestro, l’Ātman non conosce se stesso come un “io” individuale, non conosce gli altri esseri, è come fosse ottenebrato; in ciò non trovo alcun beneficio.»6
A questa obiezione Prajāpati rispose: «In realtà le cose stanno proprio così, o Magnifico, ma dovrò spiegarti meglio questo Ātman...»7 1
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In questa prospettiva più limitata, la buddhi individuale è spesso confusa con la Buddhi universale. In realtà questa Buddhi, il vero e proprio Mahat, nella prospettiva macrocosmica (adhidaivika dṛṣṭi), rappresenta l’intelletto divino di Hiraṇyagarbha. Ma, una volta compreso lo stato di veglia (jāgrat avasthā) nella sua totalità, si realizza la non distinzione tra buddhi e Buddhi. Il jīvātman è in realtà l’Ātman; ma senza la consapevolezza di esserlo, esso appare illusoriamente come l’“io”, aham. In modo simile la Buddhi universale appare sotto la forma dell’intelletto individualizzato, che in realtà non ne è che il riflesso microcosmico. ChU VIII. 7. 2; VIII. 15. 1. L’āsura loka, esattamente come l’inferno dantesco, allude spesso nel linguaggio iniziatico al dominio profano. Si devono notare, in questo racconto, due cose. La prima consiste nel fatto che il maestro risponde sempre commisurando il suo insegnamento alla domanda del discepolo; la seconda è che il discepolo, se vuole ottenere la dottrina più elevata, deve essere sempre attivo nei confronti del guru. Deve perciò porre la domanda, come ci insegna la saga del Graal. I dubbi di Indra rappresentano la sua riflessione, manana, e la sua capacità di discriminazione, viveka. Ibid. VIII. 9. 3. Ibid. VIII. 11. 3. Infatti, quando si sono superati i primi due stati di veglia e di sogno, suṣupti non appare più come uno stato, ma è Turīya, ossia l’Ātman stesso.
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«... ciò che comprende tutto è Brahman, è l’immortalità, è l’Ātman.»1
Come s’è già detto ripetute volte, l’Ādhyātmika yoga non insegna la meditazione (upāsanā) come fanno le vie della conoscenza non suprema (aparavidyā), le quali sono della natura del kratutantra. Quest’ultimo termine vuol dire “basato sulla volontà”, dipendente cioè dalla determinazione e dall’impegno, dallo sforzo di chi vi si dedica. L’Adhyātman è invece della natura del vastutantra, che vuol dire “ciò che è aderente alla realtà in quanto tale”. Ciò significa che, in questo caso, il sādhaka deve osservare i fatti per quello che sono, prestando una profonda attenzione dell'intelletto su essi per comprenderli e per porli nella loro corretta prospettiva. Come si diceva, questa speciale attenzione contemplativa, nididhyāsana, con il nome di dhyāna yoga, è l’argomento dell’intero sesto capitolo della Bhagavad Gītā, in maniera particolare negli śloka che seguono: Quando chi s’è liberato dalla dipendenza nei confronti degli oggetti desiderabili, si rivolge con la mente controllata al solo Ātman, allora si dice che è identificato all’Ātman.2 Dopo aver ritirato mentalmente le facoltà di senso e d’azione, chi ha completamente abbandonato tutti i desideri che scaturiscono dalla mente, a poco a poco si fisserà nell’intelletto con fermezza. Avendo riassorbito stabilmente l’organo interno (antaḥkāraṇa) nel Sé, egli non contemplerà null’altro.3
E altrove: Alcuni realizzano il Sé nel Sé con l’aiuto del Sé per mezzo del dhyāna. Questi si dedicano al Sāṃkhya yoga, altri invece al Karma yoga.4 Avendo respinto il senso dell’“io”, ahaṃkāra, la forza [d’attrazione e repulsione], l’orgoglio, il desiderio, l’ira, il senso del “mio” ed essendo pacificato, costui è qualificato per identificarsi al Brahman. 5
L’Ādhyātmika yoga è menzionato anche nelle Māṇḍūkya Kārikā6 di Gauḍapāda con il nome Manonigraha yoga, yoga del controllo della mente. In questi passaggi citati sia della smṛti sia della śruti, l’Ādhyātmika yoga è trattato descrivendone l’uso, le tecniche, gli ostacoli in cui ci si può imbattere e il modo con cui rimuovere quest’ultimi.
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Ibid. VIII. 14. 1. BhG VI. 18. BhG VI. 24-25. BhG XIII. 24. Con Karma yoga qui s’intende qualsiasi via di conoscenza non suprema (aparavidyā), mentre Sāṃkhya yoga è l’Adhyātman. BhG XVIII. 53. In particolare MāUGK III. 41-48.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 11. Da manana a nididhyāsana
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11. Da manana a nididhyāsana In qualunque modo nididhyāsana sia chiamato nei diversi testi, il punto di partenza su cui si basa è sempre l’Ātma pratyāya, vale a dire la certezza d’essere il Sé esistente e cosciente; questa è una esperienza indiscutibile, condivisa anche tra gli uomini comuni (sarvaloka prasiddhānubhava). Ma l’uomo comune confonde la certezza di esistere come Sé cosciente con il proprio senso dell’“io”. L’iniziato all’Advaita Vedānta deve invece corroborare questa esperienza assumendo la consapevolezza che il Sé non è l’“io”, bensì il Brahman, com’è dimostrato dalla conoscenza della propria vera natura (Ātma svarūpa). Il sādhaka, cioè, deve anzitutto riconoscere l’assolutezza della prospettiva metafisica (pāramārtika siddhānta) che riguarda il Brahman Supremo (Parabrahman), distinguendola da qualsiasi altro punto di vista fino a quel momento condiviso, che appare allora come parziale e illusorio. Tuttavia questo rovesciamento di prospettiva si può presentare spontaneamente solo a conclusione di un percorso di conoscenza non suprema (aparavidyā), prenatale1 o compiuto durante la vita attuale, come purificazione attraverso gli elementi grossi e sottili della propria individualità, ciò che costituisce la catarsi della mente (mānasa śodha) o restaurazione dello stato mentale primordiale (ādya sthāna). Ciò predispone l’iniziato a mettersi in contatto con un maestro di Vedānta realizzato, dal quale ottenere l’insegnamento (upadeśa) del metodo discriminativo per mezzo del “neti neti” upaniṣadico2. Vale a dire che dal guru dovrà imparare l’uso di manana in accordo con la dottrina3, al fine di procedere per intuizione. Infine dovrà collocarsi in una prospettiva tale da identificarsi con la propria coscienza del Sé, in modo da riconoscere l’onnipervadenza dell’Ātman in tutti i fenomeni duali, praticando così nididhyāsana, o ādhyātmika yoga. Passiamo ora a descrivere più tecnicamente come, attraverso manana, s’arrivi all’Adhyātma. Tutta l’esperienza del mondo esterno è garantita esclusivamente dalle cinque facoltà di senso: l’udito (śrotra), che recepisce i suoni acuti o gravi, continui o ripetuti, in tonalità diverse, prodotti nell’ambiente esterno al nostro corpo; la vista (cakṣus), che ravvisa le forme e i colori; il tatto (tvak), che degli oggetti che entrano in contatto con la pelle afferra le sensazioni di caldo-freddo, morbido-duro, liscio-scabro, leggero-pesante; il gusto (rasanā), che assapora il dolce, il salato, l’aspro, l’amaro, il piccante, l'astringente; l’odorato (ghrāṇa), che riceve il fragrante, il fruttato, l’agro, il pungente, il mucido e il rancido. Al di fuori di queste esperienze sensoriali, non si può aver alcun contatto con gli oggetti esterni. Inoltre, possiamo affermare che se non ci fossero questi cinque strumenti di sensazione, non avremmo alcuna prova dell’esistenza del mondo esterno. O, per meglio dire, il mondo esterno non esisterebbe in quanto tale. I jñānendriya quindi sono ciò che fa esistere il mondo. Perciò le facoltà di senso sono il “Sé” del mondo. Tutto questo4 in verità è il Brahman: questo Ātman è Brahman e questo Ātman ha quattro piedi (pāda).5 Il primo pāda è Vaiśvānara, il cui dominio è lo stato di veglia. Egli conosce gli oggetti esterni.6
Quando è messo in relazione con ciò che gli è diverso (anātman) l’Ātman, appare all’uomo ordinario in quattro forme differenti: sembra che dimori all’interno del proprio aham; sembra pervadere le cose esterne; rimane
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A differenza delle vie del non-Supremo, che attribuiscono le qualifiche dell’iniziato esclusivamente agli effetti del karma operato in passate esistenze, l’Advaita Vedānta riconosce la priorità su di essi della conoscenza raggiunta negli stati prenatali. Tale conoscenza appare sotto forma di saṃskāra mentali, che costituiscono ciò che definiamo qualifiche intellettuali. 2 Qualora ciò non accadesse, l’iniziato dovrà percorrere il sentiero postumo del devayāna che lo condurrà a incorporarsi al jīva ghana nel Brahma loka. A proposito di questo destino postumo, le Upaniṣad affermano che da là “non si ritorna, non si ritorna”. Questo non è ancora il mokṣa: tuttavia i jīva che si trovano in questa situazione hanno ancora la possibilità di ottenere ivi la conoscenza del Supremo Brahman e di raggiungere, alla fine del kalpa, la Liberazione differita. Ovviamente, a raggiungere la krama mukti saranno avvantaggiate quelle anime che in vita, pur avendo seguito una via iniziatica del non Supremo, erano pervenute a conoscere teoricamente la Parabrahman vidyā. 3 Ciò, ovviamente, non vale per quegli adhikāri eccezionalmente qualificati ai quali è sufficiente l’audizione per realizzare il mokṣa. 4 Come l’ego, aham, è il soggetto, questo, idam, è l’oggetto. In questo caso con “tutto questo” si definiscono tutti gli idam, gli oggetti, vale a dire la totalità del mondo esterno. 5 Questa dottrina considera che Ātman ha quattro pāda, piedi o quarti. I primi tre pāda sono denominati sthāna, luoghi, o avasthā, stati. Per il quarto pāda, Turīya o Caturthā, invece, non sono mai usate tali denominazioni, trattandosi dell’Ātman incondizionato e libero da qualsiasi luogo o stato. 6 MāU I. 2. 3.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 11. Da manana a nididhyāsana
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comunque indipendente da esse; e, infine, si rapporta con tutti gli oggetti riconosciuti come anātman, come un’essenza a essi superiore1. La mente è superiore ai sensi, l’intelletto è superiore alla mente, il mahān Ātman [il jīvātman] è superiore all’intelletto e l’Indifferenziato supremo è superiore al mahān Ātman.2 Si dice che i sensi sono superiori [agli oggetti], che la mente è superiore ai sensi, che l’intelletto è superiore alla mente, che il Sé è superiore all’intelletto...3
Naturalmente, le caratteristiche principali dei non-Sé sono diametralmente opposte a quelle dell’Ātman. Perciò gli anātman appaiono come esterni, sono pervasi dall’Ātman, dipendono dall’Ātman e risultano inferiori e più grossolani del Sé. Procedendo in conformità a questi quattro criteri, l’inziato advaitin sarà in grado di riconoscere la natura del Sé riflettendo su tutta la gradazione degli oggetti manifestati a partire dal mondo esterno, fino a raggiungere l’Ātman interiore. In questo modo di procedere per mezzo del manana, il primo gradino consisterà nel rimuovere il mondo esterno per mezzo dei jñānendriya. Ovvero, dopo aver riconosciuto che si può avere l’esperienza del mondo esterno solamente attraverso le vibrazioni sensibili che sono recepite dai sensi, si arriva alla consapevolezza che non c’è alcun mondo esterno che sia indipendente da queste sensazioni sperimentate dai jñānendriya. Avendo compreso a fondo ciò, il sādhaka non si rivolgerà più al mondo, poiché non potrà più essere attratto degli oggetti esterni. Il risultato di questa ferma presa di coscienza è definito come “eliminazione del mondo esterno per mezzo delle facoltà di senso”. Questo è un primo passo sulla via della rinuncia (vairāgya o saṃnyāsa). Dopo questo primo gradino preparatorio, si deve individuare qual è la fonte dei jñānendriya. Procedendo allo stesso modo, il sādhaka arriverà alla conclusione che la mente è il Sé delle facoltà di senso, in quanto coordina e unifica le informazioni che riceve. Anche in questo caso il manas appare risiedere nei sensi, pervadendoli interamente, pur rimanendone distaccato, poiché risulta comunque sempre superiore ai jñānendriya. Di converso si procederà a considerare che i sensi sono esterni alla mente, pur essendone pervasi; le facoltà di senso, perciò, appaiono dipendenti dal manas che è loro superiore. Perciò lo stesso rapporto di sudditanza che hanno gli oggetti esterni nei confronti dei sensi si ritrova nella subordinazione dei jñānendriya alla mente. Ciò comporta la ferma presa di consapevolezza da parte del sādhaka che è la mente che prende l’apparenza non solo delle facoltà di senso, ma anche del mondo esterno, ivi comprese la concezione della perennità temporale, dell’immensità spaziale, della causalità e delle altre condizioni dell’esistenza corporea. Questa presa di coscienza è definita come “eliminazione dei sensi per mezzo della mente”. Dopo di ciò si dovrà procedere per questa via d’introspezione a esaminare l’intelletto. La buddhi è la facoltà di decisione che delimita e oggettiva l’agitazione e l’emotività del manas. L’intelletto, perciò, è il Sé della mente. Con acuta attenzione, si eliminerà la mente per mezzo dell’intelletto, procedendo grazie alle osservazioni già usate nei gradini precedenti. Il discepolo arrivato a questo livello s’identifica alla buddhi. Per lui non ci sono più né mente né sensi né mondo esterno che possano sussistere indipendentemente dall’intelletto. Questa presa di coscienza è definita come “eliminazione della mente per mezzo dell'intelletto”. A questo punto il sādhaka discriminerà l’intelletto (buddhi) dal suo substrato, ovvero l’aham, il senso dell’“Io”4. L’aham oggettiva l’intelletto in questo modo: «Il mio intelletto è capace di comprendere questa e quella cosa, mentre è incapace di comprendere tal’altra. Invece l’“Io” mi è sempre ugualmente 1
Invece di superiore, para, si può trovare altrove anche il termine sūkṣmantara, più sottile, con il medesimo significato. KU II. 3. 7. 3 BhG III. 42. 4 Si noterà che qui scriviamo “Io” con la maiuscola, in quanto, in realtà il jīvātman, per sua natura, non è null’altro che l’Ātman stesso. Esso appare individualizzato e distinto dall’Ātman soltanto per ignoranza. Questa idea distorta dell’“io” minuscolo o aham è in realtà un prodotto dell’immaginazione della buddhi (ricordiamo che la buddhi, quando produce questo falso oggetto della sua conoscenza, è detta ahamkāra, ciò che produce l’“io”) e, come tale, è davvero l’unico oggetto che non solo è illusorio, ma assolutamente irreale. 2
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presente». Da ciò deriva che l’ego è l’essenza interiore all’intelletto: inoltre, a questo punto, ci si accorgerà che è l’aham che gode o soffre per le scelte della buddhi. Ciò sta a dimostrare che l’intelletto è strumentale nei confronti del senso dell’“Io”, e che quanto la buddhi considera piacevole o spiacevole, in realtà diventa esperienza dell’aham, e l’aham s’identifica in qualche modo con quelle sensazioni piacevoli o spiacevoli. Perciò l’“Io” ne è il vero fruitore. Quando questo senso dell’“Io” è considerato nella dimensione microcosmica, cioè nel particolare, esso è chiamato jīvātman. Quando questo medesimo senso dell’ego si riferisce alla prospettiva macrocosmica o universale, esso è chiamato Hiraṇyagarbha. La distinzione tra jīvātman e Hiraṇyagarbha, tuttavia, ha senso soltanto per coloro che sono impegnati in vie che appartengono al dominio del Brahman non-Supremo. Infatti, nelle vie della conoscenza non suprema (aparavidyā) il sādhaka può superare quella distinzione solo nei prolungamenti della vita postuma quando, a conclusione del devayāna, egli si universalizzerà incorporandosi a Hiraṇyagarbha, considerato come jīva ghana. In jīva ghana, come dice lo stesso termine, i jīva sono reintegrati in una unica “nube” vitale, un “insieme sintetico di vita” per “non più ritornare”. Non è così per il Vedānta. Quando, durante la vita nel corpo, l’advaitin arriva a quel grado di coscienza in cui si discrimina tra aham e intelletto, il suo jīvātman appare allora identico a Hiraṇyagarbha1. L’identità jīvātman-Hiraṇyagarbha è denominata in termini vedāntici mahān Ātman, il grande Ātman. Questo significa che qui il sādhaka ha realmente inglobato in Sé tutti i mondi (loka) e gli stati (avasthā) individuali di veglia e di sogno2. A questo punto l’intelletto è del tutto rimosso per mezzo dell’aham. Ovviamente per arrivare a questa rimozione si deve riflettere per mezzo dei medesimi quattro criteri esposti nelle righe precedenti. Quindi l’aham, considerato nella sua dimensione di mahān Ātman, appare evidentemente essere il Sé di tutti gli oggetti formali, sia esterni sia interni. Questa presa di coscienza è definita come “eliminazione della buddhi per mezzo del mahān Ātman”. Quando si considera il senso dell’aham, esso appare invariabilmente accompagnato da tutto il corteo degli oggetti appartenenti al suo proprio mondo. E qui sarà essenziale ricordare e ragionare intuitivamente che il nostro aham nello stato di veglia (jāgrat avasthā) e quello nello stato di sogno (svāpna avasthā) non sono il medesimo “io”. Infatti, essi non hanno alcuna relazione reciproca, per quanto strano possa sembrare all’esperienza ordinaria, vyāvahārika anubhāva: [L’Ātman], dopo aver fruito e aver vagato in stato di sogno, dopo aver sperimentato lì buone e cattive azioni, torna indietro alla sua condizione precedente, cioè allo stato di veglia, procedendo in senso contrario [rispetto a quello in cui era entrato in stato di sogno]. Non si porta dietro nulla di tutti gli oggetti che aveva visto durante il suo vagare, perché questo Puruṣa rimane incontaminato. E allo stesso modo, dopo aver fruito e aver vagato in stato di veglia, dopo aver sperimentato lì buone e cattive azioni, torna indietro alla sua condizione precedente, procedendo in senso contrario [rispetto a quando era entrato in stato di veglia], allo stato di sogno.3
L’Ātman assume nel sogno un senso dell’ego tipico di quello stato che proietta un suo proprio mondo onirico: Questo autoluminoso [Deva], assumendo parvenze talvolta nobili e talvolta animalesche, proietta innumerevoli forme: talvolta gode ridendo della compagnia di fanciulle, talvolta presenziando a scene orribili.4
1
Per la verità nel Vedānta vicāra, anche la reintegrazione degli oggetti esterni negli indriya, degli indriya nel manas, del manas nella buddhi avviene in forma non duale; perciò il metodo conoscitivo rimuove fin dall’inizio ogni illusoria distinzione tra macrantropo, macrocosmo e microcosmo (adhibhūta, adhidaiva e adhyātman). 2 Nelle vie della conoscenza non suprema (aparavidyā), come s’è già accennato, ciò viene raggiunto solamente dopo la morte. Perciò la restaurazione in vita dello stato primordiale (ādya avasthā) per l’iniziato alla conoscenza non suprema si limita allo sviluppo delle possibilità di quell’individuo particolare, senza giungere a reintegrare in sé l’intero grado universale di esistenza a cui appartiene. Quella reintegrazione avverrà dunque nel post mortem, a conclusione del “viaggio divino dell’essere” (devayāna). 3 BU IV. 3. 15-16. Si noti che chi apparentemente passa attraverso gli stati non è l’aham ma l’Ātman, qui chiamato Puruṣa. 4 BU IV. 3. 13.
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Naturalmente ciò avviene in maniera analoga di quando l’Ātman si ritrova nello stato di veglia. E dove non c’è senso dell’“io” non vi è alcuna traccia di nessun mondo, com’è il caso della suṣupti avasthā. Per questo motivo il Macrocosmo e il microcosmo devono essere considerati in modo unitario: e questo è peculiare del Vedānta. Per ottenere conferma di ciò, dobbiamo considerare la vita in questo mondo da un punto di vista onnicomprensivo sulla base dell’esperienza intuitiva universale. Quando appare l’aham dello stato di veglia, viene in esistenza l’intero mondo della veglia. Esattamente allo stesso modo quando compare l’“io” dello stato di sogno, assieme a lui prende esistenza il mondo del sogno. Ma, quando nello stato di sonno profondo questi due tipi di aham, accompagnati dal loro seguito di buddhi, manas, e sensi, scompaiono, non vi è più alcuna traccia di qualsiasi mondo e di qualsiasi dualità. Perciò è evidente che questi aham sono il sé di tutti i fenomeni manifestati. Che ovviamente non è ancora l’Ātman in quanto tale. A questo punto il sādhaka dovrà oggettivare il suo senso dell’“io”, “collocandosi” nella vera natura del proprio Sé che è il Testimone (Sākṣin) dell’“io”. Per fare del senso dell’“io” un oggetto, l’unico metodo da usare è la discriminazione1. Quando per mezzo dell’attenzione contemplativa (nididhyāsana) si arriverà a riconoscere il grado di realtà dell’aham, ovvero quando lo si considererà come un oggetto altro da Sé, allora ci si troverà nella propria vera natura di Ātman, poiché solo quest’ultimo è il Testimone dell’ego. Non c’è necessità di alcuno sforzo per “collocarsi” nella vera natura del Sé, poiché essa è la nostra stessa natura come Essere totale, il quale è sempre Quello (tat). Ci si forma l’errata idea che “io sono così e così” a causa della falsa identificazione con i non-sé, come l’ego, la buddhi ecc. Assumendo questo processo di discriminazione con la mente (antaḥkāraṇa) concentrata su questo Ādhyātmika yoga, come è stato descritto qui in poche righe, si cancella la propria identificazione con l’aham e con tutto il suo seguito. Per esempio, quando il sādhaka discrimina il senso dell’ego come appare nello stato di veglia dal diverso senso dell’ego che appare nello stato di sogno, mentre scompaiono del tutto nello stato di sonno profondo, in quel momento egli rinuncia alla sua identificazione con l’idea di “io”. Ma quando egli volesse esprimere questa intuizione, allora immediatamente egli si riapproprierebbe del suo senso dell’“io” e degli strumenti che sono usati da quest’ultimo, proprio per poter spiegare la sua intuizione. Ciò lo può portare a essere confuso e potrebbe pensare: «Ho conosciuto l’assenza del senso dell’“io” nel sonno profondo per mezzo del mio intelletto e della mia mente». Invece non può essere così, perché suṣupti non è manifestato e in quel dominio le facoltà individuali non hanno accesso per poter indagare. Quindi, per “collocarsi” nella vera natura del Sé, non c’è altro mezzo se non quello della discriminazione. Ciò è spiegato molto chiaramente da Śaṃkara2. Una citazione summenzionata si conclude in questo modo: Chi usa la discriminazione, viveka, riconduca [...] il mahān Ātman [il jīvātman] all’immutabile Ātman [Śāntātman].3
Vediamo ora, dunque, qual è il significato di questa frase. Per mezzo dell’Adhyātman il sādhaka giunge a conoscere che la propria natura è al di là dell’“io”. Quando diventa cosciente di questa verità, allora rimane in se stesso come Testimone dell’ego. Perciò conoscere il Sé vuol dire essere il Sé; ed essere il Sé vuol dire cessare di identificarsi con il non-Sé. Qui il sādhaka è penetrato all’interno di se stesso riflettendo intensamente con discriminazione ed è arrivato al limite estremo della dualità, al centro stesso dell’esistenza, dove sta come puro Ātman o Testimone dell’ego. In seguito, allo stesso modo con cui aveva proceduto anteriormente, ma in senso inverso, egli dovrà osservare la natura onnipervadente del Testimone in tutte le cose, a partire dall’ego fino al mondo esterno. In questo modo prenderà coscienza che ciò che fino a quel momento aveva considerato non-sé, (anātman) non ha 1
Alcuni sādhaka intellettualmente qualificati possono raggiungere la Liberazione a conclusione di manana, com’è attestato nel caso di Maitreyī. Non si deve però cadere nell’errore di credere che śrāvaṇa, manana e nididhyāsana siano tecniche diverse per natura o fasi in successione, poiché in realtà si tratta sempre della medesima contemplazione considerata da tre angolature diverse. In realtà esse corrispondono alle tre caratteristiche dello yogi perfetto o kevala, denominate pāṇḍitya, bālya e mauna. 2 BSŚBh I. 1. 4. 3 KU I. 3. 13.
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alcuna esistenza indipendente dalla vera natura del Sé. Né è possibile a questo punto distinguere il Sé da tutto il resto in base alle concezioni di tempo e di spazio, perché tempo, spazio e causalità fanno parte esclusivamente del dominio dell’aham. Perciò nemmeno il non-sé è nel tempo e nello spazio, poiché la vera natura dell’Ātman, da cui l’anātman è indistinguibile, non è sottoposta alle condizioni di tempo e spazio. Quindi non è possibile affermare che il Sé viene prima e il non-sé viene dopo, o che il Sé sta qui e il non-sé lì. Rigorosamente parlando tutte le apparenze di non-sé sono pervase solo dall’Ātman, esattamente come l’acqua pervade le onde e la creta ogni tipo di vasellame. Perciò non c’è alcun anātman che esista in quanto tale diverso da Ātman. Quando non si conosce la vera natura del Sé, allora ci si forma un’idea errata del Sé, come se esso fosse non-sé. Da qui l’errore di credere che il mondo non sia il Sé e perciò che sia inesistente. Questa verità è confermata dal seguente passaggio della śruti: Perché il fatto è che dove c’è dualità là uno vede l’altro, là uno annusa l’altro, là uno gusta l’altro, là uno parla all’altro, là uno ascolta l’altro, là uno pensa all’altro, là uno tocca l’altro, là uno conosce l’altro. Ma quando per quella persona tutto è diventato il solo Ātman, chi si potrebbe vedere e con che cosa? Chi si potrebbe annusare e con che cosa? Chi si potrebbe gustare e con che cosa? A chi si potrebbe parlare e con che cosa? Chi si potrebbe toccare e con che cosa? Chi si potrebbe conoscere e con che cosa? Con cosa si potrebbe conoscere Quello per mezzo di cui si conosce tutto?1
Proprio per questa ragione Śaṃkara ha dichiarato quanto segue a proposito della relazione causale che intercorre tra Brahman-Ātman e il mondo: Perciò si deve concludere che, come lo spazio in una giara e lo spazio in un vaso e altri apparenti spazi conclusi, non sono nient’altro che l’unico spazio cosmico, proprio come l’acqua e altre apparizioni in un miraggio non sono nient’altro che il deserto, perché quello spazio, quell’acqua ecc. sono di tale natura da poter apparire e scomparire, e quella loro apparenza è indefinibile; così anche questo mondo molteplice di esperienze e di cose sperimentate, altro non è in essenza che Brahman.2
Da quanto precede, si può giungere alla conclusione che il Brahman, ossia il Sé, è la realtà e il mondo è una falsa apparenza. Attraverso questo processo investigativo, quando il discepolo arriva a comprendere la falsità dei fenomeni del mondo sottoposto alla dualità, compreso il senso dell’“io”, allora egli s’identifica del tutto naturalmente nell’assoluto Sé non duale. E, avendo riconosciuto che anche i non-sé non esistono separatamente, ma sono parte integrante dell’Ātman, egli realizza la totalizzazione dell’Essere o aiśvarya3. Questo è il risultato finale dell’Ādhyātmika yoga, ossia di nididhyāsana.
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BU IV. 5. 15. BU IV. 5. 15. 3 Ovviamente questa è la Signoria suprema, in cui non esiste null’altro che Īśvara non duale, poiché signoria e sudditi non sono distinti da Lui. Altrimenti si dovrebbe dare una impossibile risposta alla domanda: “Chi potrebbe essere signoreggiato e con che cosa?”. 2
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 12. Superamento delle opinioni erronee e delle difficoltà
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12. Superamento delle opinioni erronee e delle difficoltà Questo capitolo è espressamente dedicato a coloro che sono già discepoli di Advaita Vedānta o che, perlomeno, siano dei mumukṣu1 già iniziati che si trovino in una situazione spirituale di ricerca di un maestro qualificato e realizzato. Queste note, tuttavia, possono anche essere di un certo interesse per coloro che desiderino avere una informazione più completa sulla via della conoscenza. Colui che intraprende il jñāna mārga non deve coltivare opinioni erronee a proposito del fine di questo metodo diretto (sākṣāt sādhanā) poiché gli sarebbero di totale impedimento per la realizzazione finale. Tra queste le più frequenti sono: 1. Credere che alla fine della cerca operata tramite Ādhyātmika yoga si entri nel nirvikalpa samādhi, vale a dire in quello che lo Yoga darśana considera come uno stato d’unione intima tra l’ego e il Sé. In questo stato transitorio (anitya sthāna) o di transe, non c’è alcuna esperienza immaginativa né alcun grado di coscienza, corrispondendo, come s’è già detto, a una immersione temporanea in suṣupti. 2. Aspettarsi che, come risultato dell’Adhyātma, si fruirà di esperienze inusuali e straordinarie, come udire musiche celestiali o godere di visioni divine. 3. Sperare che, alla fine della pratica dell’Ādhyātmika yoga, si possano acquisire permanentemente le siddhi o, in altre parole, i poteri miracolosi. Queste siddhi sono poteri che esercitano un’attrazione per taluni insuperabile e le loro esperienze appaiono seducenti e gravide di potenza e affermazione nel mondo; perciò molti vanno alla ricerca di queste siddhi aspettandosi risultati che rafforzino il proprio aham ed estendano il proprio mama. Ma deve essere chiaro che tutto ciò non ha nulla a che fare con nididhyāsana, perché tutto ciò che s’inizia a intraprendere e che in seguito si porta a compimento non è eterno, ma è cosa transitoria, limitata nel tempo. Ciò che si deve conoscere con la contemplazione vedāntica è la propria eterna natura in quanto Brahman, che è al di là dei concetti mentali di spazio e tempo. L’unico scopo è rimuovere la dualità nella sua integralità per mezzo della conoscenza e perciò si deve arrivare a capire che questo comporta, alla fine, anche la rimozione del proprio senso dell’“io” e del “mio”, e non il loro illusorio potenziamento. Il sādhaka deve, quindi, indagare con l’Ādhyātmika yoga fin quando, senza alcuno sforzo di facoltà individuali, non si stabilirà nella pura Coscienza (śuddha caitanya) dell’Ātman. Ciò è chiamato jñāna niṣṭhā, conclusione del desiderio di conoscere (jijñāsā), e il mezzo più diretto per raggiungerla è proprio l’attenzione contemplativa. Quando si parla di questa conclusione del desiderio di conoscere si deve stare ben attenti a distinguerlo dalla meditazione continuata e dallo sforzo per avere “l’impressione di essere il Sé”. Infatti, jñāna niṣṭhā consiste nell’attenta contemplazione della propria esistenza come un tutt'uno. Ciò vale a dire che le singole esperienze della propria vita e di quelle dell’intera manifestazione non hanno più senso se non vengono inglobate in una visione totalizzante sintetica (aiśvarya). A questo si giunge esercitandosi a essere cosciente del Tutto, non come composto d’innumerevoli particolari, ma come un’unica esistenza cosciente. Così, con la consapevolezza non duale di “essere” esattamente come anche l'intera esistenza “è”, dopo aver portato a conclusione il processo di discriminazione, bisogna arrivare a riconoscersi come il Testimone cosciente di Tutto. Oggi, a causa della decadenza generale, ci sono molti guru, anche di Vedānta, che raccomandano la meditazione, upāsanā, e le tecniche per indurre la meditazione, che sono in una certa misura utilizzabili nella vita profana. Con upāsanā s’intende uno sforzo di concentrazione mentale su un unico oggetto, sia esso un pensiero, una parola pronunciata o un’attività rituale. Vale a dire che, in questo caso, si medita compiendo un’azione mentale (mānasa kriyā), verbale (śābdika kriyā) o corporea (daihika kriyā), impegnandosi per un lasso di tempo più o meno lungo, azione che si deve ripetere regolarmente ogni giorno a un orario stabilito. Per mantenere questa concentrazione sono anche impartite da quei maestri alcune tecniche sussidiarie, al fine di non permettere ai 1
A proposito di superamento di opinioni erronee, cogliamo l’occasione per specificare che mumukṣā, il desiderio ardente del mokṣa, non è affatto un desiderio (kāma) che spinge a una azione (karma) volta a ottenere un risultato (phala). Si tratta, al contrario, dell’intuizione intellettuale che il “proprio” Sé è eternamente il Brahman, pura Coscienza, unica Esistenza. Ciò induce il mumukṣu a rimuovere qualsiasi altro desiderio che coinvolge fatalmente gli individui nella ricerca di risultati contingenti.
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pensieri di andare e venire incontrollati, o di passare inconsapevolmente dalla meditazione al torpore della sonno, nidrā. Queste istruzioni sono illustrate dai guru dettagliatamente nel loro funzionamento e nel modo corretto con cui si deve metterle in pratica. Ma non è mai data una precisa spiegazione sul loro significato dottrinale, rimanendo un tale insegnamento, tutt’al più, nell’ambito del simbolismo e del mito. Esse perciò sono della natura delle ingiunzioni e non di quella dell’insegnamento della conoscenza. Nididhyāsana è del tutto distinto da questi metodi. Infatti, l’insegnamento dell’Advaita Vedānta da parte del guru consiste nella dottrina metafisica stessa basata sulle Upaniṣad. La dottrina, attivata dalle parole del maestro 1, risveglia l’attenzione del discepolo non su un singolo oggetto, ma sull’esistenza universale presa nella sua totalità. In questo modo si giungerà a non considerare più se stesso come una particella minuscola e transitoria di questo immenso e perpetuo mondo in divenire. Si maturerà, invece, la coscienza che è il mondo a esistere all’interno del proprio Sé. E una volta inghiottito 2 l’universo nel proprio Sé, la dualità scompare, come anche scompare la triade composta da conoscitore, conoscenza e oggetto conosciuto. Infatti, una volta raggiunta quella realtà, “Chi si potrebbe conoscere e con che cosa?” In questa prospettiva, ogni azione mossa da desiderio deve essere abbandonata. Ciò significa che persino le azioni operate con il desiderio di raggiungere il più elevato dei cieli, il Brahma loka, devono essere evitate in quanto, seppure al sommo livello, anche il Brahma loka è uno stato saṃsārico, frutto del karma. Le sole azioni che permangono sono quelle che si svolgono naturalmente senza l’impulso del desiderio: respirare, nutrirsi, riposare, rispondere a domande 3, ecc. Tali azioni non costituiscono né producono karma. Dopo aver sentito di questo Adhyātma, alcuni possono pensare di averlo capito come se si trattasse di una materia di studio che può essere compresa intellettualmente, come se fosse qualcosa di filosofico e di libresco. Avendo verificato che, dopo averlo capito, essi rimangono esattamente nella medesima condizione di prima, allora si chiedono che cos’altro c’è da fare per realizzare, oltre a capire. Questo dubbio indica che essi non hanno ancora acquisito le qualifiche necessarie per avere l’intuizione che la loro propria natura è l’Ātman. Per loro il Vedānta si limita soltanto a essere argomento per esercizi di noetica teorica. Alcuni di questi, desiderosi di passare dalla teoria all’operatività, pensano che dopo essersi impadroniti della dottrina speculativa si debbano praticare certi esercizi e discipline al fine di raggiungere, nel corso di un certo periodo di tempo, certi risultati concreti e persino tangibili. Essi distinguono la teoria dalla pratica per abitudine mentale derivata dall’evidenza della vita ordinaria sotto la spinta di una certa inerzia prodotta dagli studi scolastici. Tuttavia, qui abbiamo già dichiarato che ciò che ha inizio, si sviluppa e si conclude, è necessariamente qualcosa di non eterno e limitato nel tempo 4. Questa loro dimenticanza rappresenta una vera e propria squalifica per la conoscenza pura, poiché non arrivano a comprendere che tutto quello ch’è sottoposto a limitazioni temporali è non-Sé. Soltanto ciò che è della natura impermanente (anityā) dell'anātman può essere prima conosciuto teoricamente o virtualmente, e successivamente effettuato o realizzato con una pratica. Nel caso dell’Ātman, che è il centro del proprio essere e la cui conoscenza è di natura immediata e diretta, non può esistere alcuna distinzione tra teoria, virtualità ed effettività, poiché il proprio Sé è la Realtà (Satya) delle realtà. In questo caso l’unico sforzo, se tale lo si vuole considerare, che si deve affrontare è quello di cancellare con il “neti neti” l’impulso naturale di identificare se stessi con i non-Sé, a partire dal senso dell’“io” fino ad arrivare al corpo grossolano. Su ciò Śaṃkara dichiara:
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Ciò implica, ovviamente, che la sola lettura testuale della dottrina metafisica upaniṣadica è insufficiente per far superare il livello dell’apprendimento teorico. L’ascolto dell’insegnamento orale da parte del guru, come si è ripetuto varie volte, è già contemplazione e ha il potere di mettere in diretto contatto con Īśvara, il maestro interiore. Abbiamo volutamente impiegato questo termine in luogo di quello più in uso di ‘riassorbito’, alludendo all’episodio mitico in cui Yaśodā, guardando nella bocca di Kṛṣṇa bambino, vi scorge l’intera esistenza universale. Ciò comporta una notevole differenza tra la funzione di un maestro di Vedānta e quella di qualsiasi altro guru. Quante volte ci si è imbattuti in persone, anche iniziate, che apparivano come se dominassero le dottrine tradizionali e che, alla fine, hanno imboccato una strada diversa, se non opposta? Tale conoscenza non era altro che il risultato di una azione conoscitiva paragonabile a qualsiasi altra investigazione profana, filosofica, teologica o scientifica: l’azione che ha inizio fatalmente finisce.
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Pertanto, noi dobbiamo soltanto eliminare quello che l’ignoranza attribuisce al Brahman: non c’è alcun ulteriore sforzo da compiere per acquisire la conoscenza di Brahman che è per sua natura evidente. 1
A conclusione di questa esposizione sulle opinioni erronee è necessario prendere in esame per sommi capi quali possano essere le difficoltà e gli ostacoli che talvolta si presentano al jijñāsu e quali siano gli accorgimenti per superarli, appoggiandoci principalmente alle Kārikā che Gauḍapādācārya aggiunse a commento della Māṇḍūkya Upaniṣad e alla Bhagavad Gītā. Ovviamente questa parte sarà trattata in poche righe al solo scopo illustrativo, visto che l’affioramento d’un ostacolo appartiene all’esperienza iniziatica di ciascun sādhaka, e che perciò dovrà essere sottoposto solo all’esame del guru al fine di trovarne la soluzione caso per caso. Gauḍapāda menziona i seguenti ostacoli: la distrazione (vikṣepa), l’assopimento (laya), l’ottundimento (sakaṣāya o kaṣāya) e, infine, il compiacimento (rasāsvāda). 1. Vikṣepa, la distrazione. Quando un sādhaka inizia ad applicarsi all’Ādhyātmika yoga, talvolta la sua mente divaga pensando a oggetti o situazioni mondane che lo distraggono, spinto dal desiderio inconsapevole di godere dei piaceri prodotti dagli oggetti esterni. Questo lo conduce ad aver una mente agitata e poco controllata. Per vincere questo ostacolo, l’iniziato dovrà dedicarsi al vairāgya, ossia al distacco e alla rinuncia. Il vairāgya è di due tipi. Il primo consiste nell'osservare incessantemente che gli oggetti sono limitati e che quindi i piaceri da loro provenienti sono scarsi e transeunti 2. Allorché si osservano gli aspetti di scarsezza e transitorietà nella fruizione delle cose mondane, l’attrattiva diminuisce e il desiderio viene a cadere. I buddhisti e gli iniziati ad altri sampradāya mettono in pratica soltanto questa tecnica di rinuncia. Ma questa è solo metà della rinuncia. Invece, nel Vedānta si prescrive ai discepoli la rinuncia completa. Questa rinuncia suprema può essere descritta semplicemente nel modo seguente: il sādhaka deve ricordare che tutta l’apparenza di dualità è falsa. Pur essendo il Sé la realtà dell’intero universo, si è portati dall'ignoranza a confondere il Sé con il mondo. Il Sé è non duale, senza origine e assoluto anche quando appare come questo mondo. Perciò la Realtà è sempre senza inizio (anādi). Nella prospettiva della Realtà, anche adesso il mondo come appare non esiste. Questo secondo tipo di vairāgya è chiamato “ricordo della Verità senza inizio”. Quando il sādhaka contempla questa verità sulla stabile base di una visione sintetica dell’esistenza, allora può raggiungere la completa rinuncia, il vero vairāgya3. 2. Laya, l’assopimento. Durante la cerca conoscitiva com’è indicata dall’Ādhyātmika yoga, alcune menti sono prese dalla noia e cadono in sonno profondo. L’ostacolo è causato dall’inerzia, tamas. Per superarlo si deve allertare la mente impegnandola a fondo nella discriminazione sia nei confronti del mondo esterno sia al proprio interno. Si dovrà regolare la vita con una dieta appropriata, e disciplinare il ritmo delle proprie attività naturali di veglia, di sogno e di sonno profondo. In questo modo si potrà equilibrare tamas con la corretta compresenza di sattva e rajas. 3. Sakaṣāya o kaṣāya, l’ottundimento. Alcune volte capita che la riflessione della mente arrivi a un punto morto o s’imbatta in qualche intoppo durante la discriminazione. Questa è la condizione mentale in cui si è trovata Maitreyī4, quando non riuscì a seguire il senso profondo dell’insegnamento trasmessole oralmente da Yājñavalkya. Anche se in questa condizione d’ottusità della mente non si cede al sonno, qualora non si trovi una pronta soluzione, si può essere indotti al vikṣepa. Vale a dire che, in tale situazione, la mente è pronta a rivolgersi verso l’esterno non appena l’attenzione viene a cadere o s’allenta. Per vincere questo ostacolo si deve ripetere manana sullo stesso punto da cui è sorta la difficoltà, fino a riuscire a risolverla e a riprendere la discriminazione interrotta. 1 2
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BhGŚBh XVIII. 50. Ricordiamo, a questo proposito, quanto abbiamo scritto sopra sull’Ātmā pratyaya. Per esempio, per ridurre l’attrazione della gola, basta considerare che il piacere derivante dall’ingestione del cibo si limita, in spazio e tempo, soltanto al suo passaggio sulla superfice della lingua. Il risultato sarà un distacco dal piacere e, perciò, da allora si mangerà soltanto per nutrirsi. Il vero vairāgya è la povertà interiore, che può portare anche spontaneamente all’assunzione del saṃnyāsa. Tuttavia diventare saṃnyāsin non sarà altro che il segno esteriore di aver già raggiunto il vairāgya. E qui con saṃnyāsin intendiamo il vero rinunciante, che non deve essere confuso con colui che entra nel quarto stadio della vita (āśrama). Per la medesima ragione, quest’ultimo tipo di saṃnyāsin non può essere considerato del tutto al di là delle caste e degli stadi della vita, (ativarṇāśrami). BU II.4.13.
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4. Rasāsvāda, il compiacimento. Quando la mente (antaḥkāraṇa) s’è riavvolta durante il processo di discriminazione, si può provare un senso di benessere e di godimento derivato dalla comprensione folgorante d’un singolo passaggio di viveka, a seguito dell’attenzione contemplativa. Benessere e godimento sono un impedimento allo stabilirsi nella reale natura del Sé. La parola rasāsvāda è composta da rasa che significa gusto, piacere e da āsvāda, assaporare. Per superare questo ostacolo ci si deve dedicare a un attento processo di discriminazione nel modo seguente: Questo compiacimento è un riflesso del Sé nella mente, prodotto dalla contemplazione. Poiché io sono il Sé, io sono il Testimone di questa sensazione di compiacimento. Ma, poiché io sono il Sé non duale, non può esistere la triplice idea di godimento, gaudente e goduto. Io sono della natura della beatitudine (ānanda), che è permanente nello stato di sonno profondo. Invece, questo godimento è un concetto che appare e che scompare, quindi nella sua vera essenza è soltanto una falsa apparenza.1
Solamente riflettendo in questo modo si può superare l’ostacolo. Tutta l’argomentazione che riguarda il superamento degli ostacoli è riscontrabile nella Bhagavad Gītā2, che suddivide i rimedi in due gruppi. Il primo gruppo corrisponde ad abhyāsa, l’intensificazione del metodo atto a purificare la mente. Esso consiste nella pratica dell’umiltà, considerando che la mente, pur essendo lo strumento della discriminazione, è una falsa apparenza sovrapposta al Testimone come l’immagine del serpente sulla corda; in questo modo la mente purificata ritorna a essere un prezioso mezzo di discriminazione interiore tra Ātman e anātman. Il secondo gruppo di rimedi è rappresentato dalla rinuncia (vairāgya), che, oltre a essere trattata nei medesimi passaggi della Gītā testé menzionati, è anche un argomento importante delle Kārikā di Gauḍapāda3. Seguendo i consigli di questi due testi si può vincere qualsiasi ostacolo s’opponga all’Adhyātma yoga. Inoltre, per penetrare i misteri degli insegnamenti vedāntici si deve forzatamente realizzare questi quattro punti fondamentali: - Si deve avere l’intuizione del Sé come Testimone eterno dell’“io”; - Si deve mettere in pratica il metodo adhyāropāpavāda: in altre parole accettare intenzionalmente la sovrapposizione di false apparenze su ciò che è reale, per poi in seguito confutarne la veridicità tramite discriminazione; - Si deve distinguere con certezza tra questo metodo dell’attenzione od osservazione della realtà (vastutantra) e i metodi che si basano sullo sforzo per raggiungere una meta (kratutantra), utilizzati dalle vie iniziatiche che fanno parte del dominio della conoscenza non suprema, e capire la differenza tra i loro risultati; - Infine si deve comprendere con chiarezza la differenza tra la vera visione metafisica (paramārta dṛṣṭi) e il punto di vista diveniristico dell’esperienza empirica (vyavahāra dṛṣṭi). La tecnica adhyāropāpavāda dovrà essere impiegata su qualsiasi argomento metafisico presente nelle Upaniṣad. La discriminazione che riguarda gli stati di veglia, sogno e sonno profondo e l’accertamento di quale sia la causa dell’universo, si basano prevalentemente su questa tecnica. Per esempio, gli stati della manifestazione sono cose apparenti sovrapposte alla reale natura del Sé come il serpente alla corda; questa sovrapposizione (adhyāsa) è imputabile all’ignoranza di chi immagina che sia così. Questa fase iniziale d’ignoranza (avidyā), che è naturale nell’uomo ordinario, per l’iniziato vedāntin è il punto di partenza per la cerca conoscitiva: cio è quanto costituisce l’adhyāropa. A conclusione dell’indagine spirituale, il sādhaka conosce che tutto nella sua essenza è il Brahman. In virtù di questo accertamento, allorché alla fine, l’insieme delle false nozioni è stato rimosso, questa distruzione delle false cognizioni è chiamata apavāda. All’inizio dell’insegnamento, tutte le cose sono accettate come reali, perché la via della conoscenza comincia da quello stato nel quale si è nati come esseri umani, in cui la sovrapposizione dovuta all'ignoranza (avidyā) nasconde la verità. Questo stato, che è sempre quello di veglia, è definito visione empirica (vyāvahārika dṛṣṭi) del mondo in quanto sottoposto all’azione e ad altri condizionamenti, quali il tempo, lo spazio, la causalità, il numero ecc. Invece, a conclusione dell’insegnamento del guru ed, 1 2 3
MUGK III. 44-47. BhG XIII. 7-11; XVIII. 51. MUGK III. 38-43.
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eventualmente, anche a seguito di manana e nididhyāsana, tutte le convinzioni erronee precedenti sono eliminate dal raggiungimento della visione dell’Assoluto. Questa negazione di tutte le sovrapposizioni (adhyāsa), raggiunta per mezzo del “neti neti”, è chiamata visione assoluta, metafisica (paramārta dṛṣṭi). Aggiungeremo, infine, che quest’ultima non è affatto un semplice “punto di vista” (dṛṣṭi), come lo è la vyāvahārika dṛṣṭi, ma è l’unica e incomparabile visione dell’Assoluto.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 13. Significato vedāntico di alcuni termini ricorrenti nei testi
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13. Significato vedāntico di alcuni termini ricorrenti nei testi Nell’Advaita Vedānta sono in uso molti vocaboli che si trovano ovunque nella śruti e nella smṛti. Essi, tuttavia, devono essere interpretati, in questo caso, sotto una luce del tutto particolare se si vuole comprendere a fondo la dottrina śaṃkariana. Per esempio, abbiamo già rilevato brevemente quanto l’uso vedāntico dei termini yoga e samādhi sia differente per significato da ciò che s’intende usualmente nelle numerose organizzazioni iniziatiche che si rifanno al Pātañjala yoga e presso gli Yoga tantrici. Sarà dunque necessario ritornare su questo tema, in modo da offrire al lettore gli strumenti necessari per una interpretazione corretta qualora volesse approfondire gli argomenti che abbiamo affrontato finora, con una lettura diretta dei Prasthāna Traya. I Prasthāna Traya, vale a dire le dieci principali Upaniṣad, i Brahma Sūtra e la Bhagavad Gītā, sono i testi che la Tradizione ha riservato al Vedānta come suoi fondamenti dottrinali. Ciò significa che il Vedānta darśana (spesso chiamato anche Uttara Mīmāṃsā) ha come fonti primarie i testi della sezione conoscitiva della śruti (jñāna kāṇḍa), le Upaniṣad, oltre a due libri appartenenti alla smṛti, per l’appunto i Brahma Sūtra e la Bhagavad Gītā. Per quanto riguarda gli altri darśana, tutti le vie di Yoga hanno nello Yoga Sūtra di Patañjali il loro testo fondante, oltre a un folto numero di trattati appartenenti alla smṛti o ai Tantra. Il Sāṃkhya si basa fondamentalmente sulle Sāṃkhya Kārikā di Īśvarakṛṣṇa, sui Sāṃkhya Sūtra e i loro commentari. Similmente il Vaiśeṣika si rifà ai Vaiśeṣika Sūtra di Kaṇāda e il Nyāya ai Nyāya Sūtra di Gautama e ad altri trattati. La Pūrva Mīmāṃsā si basa sui Mīmāṃsā Sūtra di Jaimini e sulle parti rituali del Veda (karma kāṇḍa), vale a dire Samhitā o inni vedici, Brāhmaṇa e Āraṇyaka1. Come si può notare, quindi, solamente il Vedānta e la Mīmāṃsā hanno il privilegio di appoggiarsi direttamente all’autorità del Veda2, mentre tutti gli altri darśana appartengono alla tradizione smārta (della smṛti).3 Ritornando al Vedānta, si potrà notare che se le Upaniṣad4 rappresentano il testo di massima autorità dottrinale, questo darśana fonda la sua dottrina anche su due smṛti, come sono sia i Brahma Sūtra sia la Gītā. I Brahma Sūtra rappresentano un brevissimo sunto a scopo mnemonico della dottrina upaniṣadica del Brahmātman, estremamente sintetica e incomprensibile alla lettura senza il commento di Śaṃkarācārya. La Bhagavad Gītā è, al contrario, un testo che riunisce in un’unica narrazione le diverse componenti del Vedānta Siddhānta che, nelle varie Upaniṣad 1
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La Pūrva Mīmāṃsā richiede perciò che gli iniziati alle sue paramparā siano di casta brāhmaṇica o, perlomeno, appartenenti alle tre caste superiori, poiché devono avere accesso ai riti vedici. Questa è l’unica sādhanā preclusa ai non hindū. Non si deve però pensare che un non hindū non possa assolutamente entrare nel Sanātana Dharma ed essere aggregato a una casta anche dal punto di vista esteriore. “Manu è dell’avviso che se un Re giusto conquista un regno straniero, anche la popolazione di quel paese è abilitata a seguire i sāmānya dharma (le regole generali di condotta) presctritte dai sūtra. In base a ciò, siamo pronti a considerare hindū quegli stranieri che credono nella nostra religione.” (Jagadguru Sri Abhinava Vidyatheertha Mahaswamigal, Exalting Elucidations, Chennai, Sri Vidyatheertha Foundation, 2004, p. 66). Tale possibilità è principalmente presa in considerazione per intere comunità o villaggi. Tuttavia, perquanto rare, sono previste anche aggregazioni individuali a una determinata casta, il che permette l’accesso anche all’iniziazione fondata sui riti vedici. All’uopo esiste un rito chiamato hiraṇyagarbha, l’“embrione d’oro”, che riproduce in forma sacrificale la rinascita nel Dharma. Rinascita, perché l’Induismo, essendo la tradizione naturale dell’umanità primordiale, considera che, in linea di principio, tutti siano nati hindū, poi artificialmente convertiti dai genitori alle tradizioni o religioni sorte nel corso della storia, a cui hanno aderito. Tuttavia queste conversioni tramite rituali caratteristici di ogni tradizione, si sovrappongono alla condizione originale ottenuta con la nascita umana, senza stravolgerne o sradicarne la natura. Perciò: “Un hindū è sempre un hindū. Nessuno può convertire un hindū.” (Ibid. p. 67) E, “... se costui s’immerge nel sacro Gange e mantiene la sua adesione ai nostri śāstra, non c’è alcuna obiezione per trattarlo di nuovo come un hindū.” (Ibid. p. 65). Ciò ha permesso qualche sconfinamento indebito dei mīmāṃsāka nel terreno upaniṣadico, con il pretesto che, per esempio, la Bṛhadāraṇyaka appartiene sia al genere Āraṇyaka, sia a quello delle Upaniṣad. In realtà, le dieci maggiori Upaniṣad rappresentano il vero jñāna kāṇḍa, e tutto ciò che in esse appare ritualistico è menzionato all’unico scopo di dimostrarne la limitatezza in paragone con la visione conoscitiva. Alcune vie iniziatiche più intellettuali, ma comunque appartenenti alla conoscenza del non Supremo, poggiano la loro dottrina su alcune Upaniṣad minori loro dedicate, come la Tripurarahasya o la Bhāvana Upaniṣad per Śṛī Vidyā. Ciò le rende prossime alla prospettiva vedāntica. Ovviamente, se le scuole di conoscenza non suprema volessero interpretare le Upaniṣad attribuendo al lessico di quelle śruti i significati propri alle loro dottrine, ne stravolgerebbero il senso invadendo il dominio che la Tradizione assegna al Vedānta.
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sono esposte in ordine sparso come insegnamenti dei grandi jñāni del passato, quali sono stati Yājñavalkya, Uḍḍālaka, Śvetaketu e altri ancora. La Gītā, perciò, è un validissimo strumento conoscitivo per i sādhaka, una smṛti di tale autorità dottrinale da essersi meritato il titolo di Quinto Veda. La Gītā, tuttavia, ha anche un’altra caratteristica del tutto unica: essa è un testo sacro valido non soltanto per il Vedānta vicāra, ma anche come strumento di meditazione per tutte le numerosissime correnti iniziatiche e non iniziatiche del Sanātana Dharma. Per questa ragione i singoli termini del lessico della Gītā devono essere riportati ai significati che le differenti correnti attribuiscono loro, significati che possono variare anche nel corso dello sviluppo del medesimo testo. È nostro impegno, dunque, spiegare questi termini nell’ottica vedāntica, seguendo l’interpretazione fornita da Ādi Śaṃkarācārya in persona, e distinguendone il senso da quello proprio di altri saṃpradāya. Śaṃkara, nel suo commento a un passaggio della Gītā, interpreta la parola samādhi nel modo seguente: Samādhi qui significa intelletto (buddhi) od organo interno (antaḥkāraṇa), verso cui convergono tutte le sensazioni provenienti dagli oggetti piacevoli al puruṣa individuale.1
Egli intende dire con ciò che samādhi è la scelta dell’intelletto determinata dalla natura di quel puruṣa: vale a dire la scelta sia a rivolgersi verso i piaceri mondani offerti dagli oggetti esterni, sia a propendere per la Liberazione, scelte che dipendono rispettivamente dall’inclinazione naturale o dalle qualifiche che hanno la loro principale sede nell’intelletto (buddhi). Perciò in questo caso samādhi sta per buddhi. Nondimeno, in un altro passaggio della Gītā, Śaṃkara attribuisce al termine samādhi un’interpretazione diversa: Quando la tua mente è disattivata dalla śruti [cioè śrāvaṇa], diventa incrollabile e fissata nel samādhi, allora raggiungi lo Yoga [l’ādhyātmika yoga] che segue la discriminazione.2
La mente e l’intelletto diventano assolutamente stabili quando si conosce la vera natura del Sé a seguito della discriminazione. In questo caso, dunque, samādhi significa il Sé. Dhī, con cui termina la parola samādhi, significa conoscenza, cioè a dire, il Sé. E non esiste alcun mezzo con cui equilibrare e pacificare la mente, risolvendo tutte le sue antinomie, paragonabile alla conoscenza della vera natura del Sé. Perciò nella strofe successiva con samādhi sthasya s’indica colui che è già fissato nella sua vera natura di Sé: O Keśava, come si può descrivere chi possiede la salda conoscenza, (samādhi sthasya) di chi è identificato al Sé?3
Rimanendo sempre ai significati speciali che il Vedānta conferisce al termine samādhi, c’è da citare anche il passaggio che segue: Il Sé è libero da tutte le facoltà di sensazione e di azione, ed è al di là di tutti i sensi interni 4. Esso è totalità di pace, luce eterna, assorbimento principiale (samādhi), immutabilità, assenza di timore (abhayaḥ).5
Qui, per Śaṃkara, l’unico termine samādhi assume due significati. Il primo riguarda il punto di vista dell’approccio dottrinale intellettuale (bodhaka vicāra) consistente nella ferma convinzione che la reale natura del Sé deve essere raggiunta con mente e intelletto tesi a quello scopo: in questo senso questa consapevolezza del Sé è chiamata samādhi. Il secondo significato di samādhi in questo stesso passo, invece, riguarda il Sé inteso nella sua realtà assoluta come “punto” dove si superano tutte le antinomie.
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BhGŚBh II. 44. BhG II. 53. BhG II. 54. Il senso interno in generale è il manas. In questo caso, per estensione, questa determinazione al plurale comprende anche ahaṃkāra, buddhi e citta, ovvero l’intero organo interno (antaḥkāraṇa). MāUGK III. 37.
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Un altro termine che è passibile di differenti interpretazioni è Yoga, come s’è già accennato in precedenza. Nel passaggio della Gītā1 citato qualche riga sopra, Yoga è interpretato da Śaṃkara come quella coscienza della vera natura del Sé che è il risultato della discriminazione “neti neti”. Invece in quest’altra strofe: O Pārtha [Arjuna], questa dottrina intellettuale ti è stata insegnata nella prospettiva della realizzazione del Sé. Ma ora ascolta questa [altra] dottrina che riguarda il punto di vista dello Yoga, che ti libererà dalle limitazioni karmiche e che serve per arrivare [poi] a quella dottrina intellettuale.2
In questo contesto, Yoga chiaramente allude ai mezzi preliminari usati per raggiungere la conoscenza, jñāna. In altre parole, in questo caso lo Yoga della Gītā corrisponde a ciò che il Vedānta definisce Karma yoga. Bisogna però precisare che con Karma yoga qui non s’intende un preciso ramo ritualistico tra le tante discipline yogiche, bensì in generale il compimento iniziatico dello svadharma3; esso ha lo scopo di purificare la mente per renderla capace di uscire dai limiti delle dottrine del non-Supremo e di stimolare nel sādhaka il desiderio di conoscenza (jijñāsā)4. Ed è del tutto indifferente per il Vedānta se questa purificazione ottenuta con il Karma yoga sia stata operata nella presente vita o in esistenze precedenti. Però, nell’introduzione al quarto capitolo della Bhagavad Gītā, Śaṃkara descrive lo Yoga come un’attività superiore a quello del Karma yoga: Questo Yoga di cui s’è trattato negli ultimi due capitoli, e che è caratterizzato dall’impegno verso la conoscenza e la rinuncia, può essere ottenuto per mezzo del Karma yoga.5
Perciò un altro significato che la parola Yoga può assumere è tutto l’insieme dell’ascolto (śrāvaṇa), della riflessione (manana) e della contemplazione (nididhyāsana o ādhyātmika yoga), ossia gli strumenti d’indagine conoscitiva e coscienziale che costituiscono il metodo dell’Advaita Vedānta. Questo metodo, nella terminologia della Gītā, è chiamato anche Sāṃkhya o Sāṃkhya yoga6. Ciò ha provocato molteplici sviste nelle traduzioni dei sanscritisti occidentali che, pur rendendosi conto che con quel termine nella Bhagavad Gītā non si intendeva affatto il Sāṃkhya darśana di Kapila, non hanno mai compreso esattamente di che cosa si trattava. Nella Gītā con Sāṃkhya si intende la conoscenza metafisica, il jñāna o jñāna yoga. Per completare questa panoramica di significati della parola Yoga come sono spiegati da Śaṃkara, con la prossima citazione forniremo un esempio alquanto raro, ma concettualmente il più elevato: [...] e nemmeno gli esseri dimorano in me. Contempla il mio divino Yoga. Io sono origine e substrato di tutti gli esseri, ma il mio Sé non è contenuto negli esseri.7
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BhG II. 53. BhG II. 39. Nel caso della Gītā, il svadharma di Arjuna (Pārtha) è quello del guerriero. Qualsiasi dharma di altra casta è definito paradharma. Quello che qui è definita purificazione della mente, in grado di avviare alla conoscenza suprema, consiste nel raggiungimento della piena coscienza dell’intero stato di veglia preso come un tutt’uno. Ciò significa includere nella totalità dello stato sia il soggetto sia l’oggetto, cioè sia il propio jīva sia il mondo della veglia. In termini che sono forse più familiari al lettore, si tratta dello stato di Uomo Universale (Viśvanara) che corrisponde alla coscienza dell’intero stato di veglia. Dal raggiungimento della coscienza dell’intero stato chiamato Vaiśvanara, ha inizio la conoscenza del Supremo Brahman. Al contrario, la mente purificata che rimane collocata al centro dello stato di veglia, quello che usualmente si definisce come stato primordiale (ādya sthāna), non avendo ancora raggiungiunta la totale universalità di quello stato, continua a mantenere una distinzione (viśeṣa) tra soggetto (jñātā) e oggetto (jñeya). Questo è il massimo livello di reintegrazione a cui arrivano i sādhaka per mezzo delle vie della conoscenza non suprema. Non si deve però pensare che la conoscenza non suprema sia qualcosa da sottovalutare, tanto meno da trascurare: senza questa preparazione iniziatica compiuta in precedenti esistenze o nell’attuale, l’Advaita Vedānta sarebbe irraggiungibile. Senza una approfondita conoscenza della dottrina dei tre stati di coscienza, le nozioni esposte in questa nota possono apparire complesse. Ci ripromettiamo perciò, in un prossimo futuro, di fornire gli strumenti necessari per accedere a questa comprensione. BhG IV, Prasthāva. Soprattutto in BhG V. In BhG VI, il metodo del Vedānta è preferibilmente definito Dhyāna yoga. BhG IX. 5.
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In questo śloka con Yoga s’intende il divino mistero del Brahman, l’infinità dell’Ātman, l’identità non duale di Brahman, Ātman, pura Coscienza ed totale esistenza. Il fatto che esso sia il sostrato di tutti i fenomeni del mondo duale, che simultaneamente appaia sotto forma della manifestazione esistenziale e che sia libero totalmente da ogni fenomeno dualistico, è espresso dal termine Yoga, sintesi del suo mistero. Le citazioni tratte da Śaṃkara e presentate in queste righe sono del tutto conformi all’uso della parola Yoga da parte dell’Advaita Vedānta. Non sono, invece, mai tenuti in considerazione gli stati transitori (samādhi) in quanto sinonimi di yoga come sono descritti nei testi e insegnati dai guru di Pātañjala yoga, Rājayoga, Dhyānayoga, Haṭayoga, Layayoga, Sphoṭayoga (o Mantrayoga) e di altre mille varianti di Yoga e di Vidyā. Quindi negli autentici insegnamenti advaita a commento della Gītā che trattano della conoscenza del Sé, non si fa mai menzione di centri sottili, ruote o fiori di loto (cakra o kamala) che dir si voglia, d’arterie sottili (nāḍī), di potenza individualizzata (kuṇḍalinī), di prodigi (adbhuta), di poteri (siddhi) ecc. Ogni tanto, ma soltanto quando sono menzionati nelle Upaniṣad o in altre parti della scrittura, si accenna ad alcuni tipi di meditazione, come la Oṃkāra upāsanā, o la ahaṃgraha upāsanā. Talora sono citate le nāḍī, come Iḍā, Piṅgalā, Suṣumṇā. Ma nei brani che sono dedicati esclusivamente alla conoscenza del Sé non viene ricordata nessuna di queste cose. Concludendo, qualcuno potrà interrogarsi se l’Advaita Vedānta, dando una interpretazione dei termini aderente alla sua dottrina e in contrasto con quella delle scuole di conoscenza non-suprema, non è per caso che forzi il senso dei testi. La risposta è negativa, in quanto il Bhagavad Gītā Śaṃkara Bhāṣya rimane ancor oggi il commento principale riconosciuto e usato presso tutte le vie iniziatiche dell’India, senza contestazione o riserva alcuna1. Gli altri numerosi commenti sono riconosciuti e usati soltanto degli aderenti di un singolo saṃpradāya.
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Forse qualche obiezione potrà essere mossa da qualche indologo o sanscritista nato o formato in occidente. Ma il peso di tali sciocchezze è assolutamente irrilevante. 66 This article is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License
Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 14. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (I)
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IL SERPENTE E LA CORDA II PARTE 14. COMMENTO AL “TATTVAMASI” DI ŚAṂKARĀCĀRYA (I) Dedichiamo questa seconda parte alla traduzione e commento del capitolo XVIII dell’Upadeśa Sāhasrī, intitolato “Tattvamasi”. L’Upadeśa Sāhasrī è l’unico testo, assieme ai commenti ai Prasthāna Traya, incontestabilmente attribuito a Śaṃkara Bhagavadpāda. Abbiamo selezionato questo capitolo tra gli altri, per la straordinaria importanza dottrinale del suo contenuto e per il fatto che molti degli argomenti fin qui trattati vi trovano conferma, in modo particolare per quanto attiene alla spiegazione dell’apparente relazione tra Sé e “io”. Gli altri capitoli, pur essendo sempre di un livello elevatissimo, riguardano principalmente i dubbi che possono cogliere il discepolo, principalmente durante la pratica del manana. Le loro domande e le risposte ricevute dal guru, tuttavia, sono di argomento quasi esclusivamente metodico. Perciò abbiamo ritenuto che potessero essere d’utilità solamente per i sādhaka già avanzati nel processo del viveka vicāra, rappresentando per tutti gli altri lettori soltanto un’occasione di curiosità. Inoltre, abbiamo considerato che i sādhaka regolarmente collegati al Vedānta in grado di leggere l’italiano del nostro scritto, essendo in quantità così esigua da non superare il numero delle dita di una mano, hanno l’opportunità, qualora s’imbattessero i dubbi, di rivolgersi direttamente al loro istruttore spirituale per trarre le soluzioni adeguate. In secondo luogo, abbiamo valutato sufficienti gli accenni puramente metodici accennati nei capitoli precedenti, non volendo violare la consegna per la quale i trattati scritti (siddhānta) evitano di soffermarsi su argomenti metodici (sādhana pradhāna)1. “Tattvamasi”, ossia “Tu sei Quello”, è un testo che contiene un argomento compiuto, e che perciò tradizionalmente è spesso estrapolato dal contesto dell’Upadeśa Sāhasrī e usato come un trattatello autonomo. Abbiamo conservato tutte le obiezioni (pūrvapakṣa) degli occasionali oppositori all’Advaita Vedānta, siano essi buddhisti, sāṃkhya o rappresentanti di correnti vedāntiche devianti, non per indulgere a inutili comparazioni erudite proprie della cosiddetta “storia delle religioni”, ma perché quelle posizioni possono coincidere con eventuali difficoltà da parte del lettore. In questo modo le obiezioni degli oppositori e le puntuali risposte di Śaṃkara rappresentano una applicazione metodica dell’adhyāropāpavāda al fine di risolvere le difficoltà logiche e intuitive che possono insorgere nel corso della lettura. Non si stupisca il lettore se si imbatterà in nozioni che sono già state affrontate nella prima parte di questo libro. Non si tratta mai di ripetizioni, ma di descrizioni dell’unica realtà partendo da angolature differenti. D’altronde l’unico argomento del Vedānta vicāra è di una semplicità sconvolgente, dedicandosi esclusivamente alla conoscenza dell’unico Brahmātman non duale. Tanto sconvolgente da essere compreso quasi da nessuno, pur essendo la sua evidenza davanti gli occhi di tutti. * *
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L’Advaita Vedānta riconosce sei mezzi di valida conoscenza per esaminare il mondo, detti pramāṇa, che sono per natura a disposizione della ragione umana e che si possono usare a qualsiasi livello individuale per svolgere indagini conoscitive. Essi sono: śabda (lett. la parola), ossia gli autorevoli testi vedici; pratyakṣa, la percezione degli oggetti esterni tramite i sensi (jñānendriya); anumāna, la deduzione logica o inferenza; upamāna, l’analogia basata sulla comparazione; arthāpatti, la supposizione, l’ipotesi; anupalabdhi, la constatazione dell’assenza d’un oggetto2. Tuttavia, a differenza di come si comportano gli altri darśana nell’applicazione dei loro pramāṇa, il Vedānta stabilisce tra essi una gerarchia di autorevolezza. Śabda è ritenuto il pramāṇa incontrovertibile e di 1
“Tuttavia, Śrī Śaṃkara, in questa poesia, non ha menzionato il termine sādhana catuṣṭaya, in quanto i suoi versi non vogliono essere d’argomento metodico (sādhana pradhāna). Essi sono stati scritti dal punto di vista del siddhānta pradhāna, cioè d’un approccio principalmente dottrinale al Vedānta”. Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, Le cinque gemme dell’Advaita, tr. di Maitreyī, 0.
Introduzione, p. 6, pubblicato in questo medesimo Sito di rete. 2
Questo strumento di prova, generalmente sconosciuto ai logici occidentali, si basa sulla constatazione, operata per mezzo dei sensi, dell’assenza di un oggetto e si esprime negativamente come, per esempio: “In questa stanza non c’è alcun serpente”.
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massima autorità: con śabda s’intende, infatti, l’insegnamento vedāntico che si riscontra nelle Upaniṣad1, spesso definito in questo contesto semplicemente come śāstra, l’insegnamento. E per una buona ragione è così denominato, poiché questo insegnamento deve obbligatoriamente essere udito dalla bocca di un maestro adepto 2, riconosciuto come upādhyāya o, più popolarmente, come guru, dato che le Upaniṣad trasmettono la loro efficacia soltanto se tramandate oralmente 3 da persona qualificata. Afferma la Kaṭha Upaniṣad: “Questa conoscenza, o mio caro, non può essere acquisita né confutata per mezzo della speculazione, ma può condurre alla certezza solamente se è insegnata da un maestro che non sia un teorico.”4
E ancora: “Insegnato da una persona di conoscenza inferiore, questo Ātman non può essere ben conosciuto anche qualora si ragionasse su di lui con differenti teorie. Non può esserci, invece, nessuna falla nella conoscenza, quando è insegnata da un maestro che è diventato uno con questo Ātman, perché [quest’Ātman] è più sottile di tutte le cose più sottili ed è al di là della ragione.”5
Come si potrà leggere nel testo dell’Upadeśa Sāhasrī, lo strumento valido di conoscenza (pramāṇa) e autorevolmente provato come valido (prāmāṇika), lo śabda, altro non è che l’ascolto (śrāvaṇa) della parte gnostica (jñāna kāṇḍa) della śruti6, cioè la conoscenza vedica illustrata da un maestro illuminato. La garanzia di tale indiscutibile autorevolezza consiste nel fatto che questo insegnamento è trasmesso attraverso un’ininterrotta catena di maestri che, da tempo immemorabile fino al più recente guru vivente, hanno sperimentato realmente quanto insegnano. Da ciò si trae che la conoscenza metafisica, pāramārtika vidyā, è sperimentabile ed è il fine più elevato a cui si possa ambire durante la vita, fine che induce il discepolo a essere un aspirante alla Liberazione (mumukṣu). Tuttavia, come sarà spiegato più avanti, la conoscenza che viene trasmessa non riguarda precisamente la natura dell’Assoluto, che è del tutto incomunicabile, quanto, piuttosto, il metodo per rimuovere l’ignoranza. Dopo di ciò, ora inizia la cerca del Brahman sulla base dell’Upadeśa Sāhasrī scritta dall’Ādi Śaṃkarācārya Bhagavatpāda: 1. Mi prosterno all’eterna Intuizione, il Sé delle apparenze individuali, quel Sé da cui esse emergono e in cui si dissolvono. 2. Mi prosterno al grandissimo Maestro7, l’Indra8 degli illuminati, dotato di illimitata conoscenza, che per primo ha sondato l’intimo significato del Veda e lo ha difeso, sconfiggendo centinaia di suoi nemici per mezzo della spada dello śāstra rafforzata da argomentazioni folgoranti. 3. Se non fosse possibile raggiungere la certezza che “Io sono veramente l’esistenza e sono sempre libero” perché mai la śruti ce la dovrebbe insegnare con tanta premura materna? 1
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È patetica l’insistenza con cui i filologi occidentali, che si denominino indifferentemente sanscritisti o indologi, insistono a proporre la loro interpretazione del termine Upaniṣad improntato alla vita ordinaria, composto, secondo loro, da sad [sedere] e dai prefissi upa e ni [vicino], ossia “sedersi ai piedi del al maestro”, benché né “piedi” né “maestro” compaiano nel termine in esame, essendo solo ipotizzati dalla fantasia degli stessi filologi. Essi volutamente ignorano la spiegazione fornita da Śaṃkarācārya e unanimemente accettata da tutti i paṇḍita tradizionali: “La conoscenza del Brahman è chiamata Upaniṣad, in quanto rimuove totalmente questo mondo contingente e la sua causa da colui che si dedica alla Sua cerca, perché la radice sad [rimuovere], preceduta da upa e da ni [insegnamento] significa esattamente ciò [: insegnamento che rimuove]” (BU, Upoddhātaḥa). Ma ben si sa che gli eruditi profani sono scioccamente convinti di saperne di più di chi il sanscrito lo parla e lo studia sin dalla più tenera infanzia, avendolo appreso “ai piedi” di insegnanti qualificati per davvero, invece che da studiosi o manualetti accademici. Con adepto s’intende “perfetto” (lat. adeptus, realizzato), e non, come impropriamente nell’uso volgare, per indicare un seguace di checchessia. D’altra parte la versione per iscritto delle Upaniṣad o Vedānta risale soltanto al 1657, quando il principe ereditario mughal Dara Shikoh, di tendenze sincretistiche, diede ordine di tradurle in persiano, provocando grande scandalo nell’ambiente brāhmaṇico. KU I. 2. 9. KU I. 2. 8. Śruti e śrāvaṇa, infatti, derivano entrambi dalla radice śru, ascoltare. Si tratta di Gauḍapādācārya, il paramguru di Śaṃkara Bhagavadpāda e autore delle Kārikā della Māṇḍūkya Upaniṣad. Come Indra è il Re degli dèi, così Gauḍapāda è Re degli illuminati.
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4. Nell’esempio della corda e del serpente, allorché il serpente è rimosso dalla corda, così dal Sé eternamente esistente è rimossa ogni cosa che è non-sé, ossia ciò che appare come ego [l’aggregato individuale], [rimozione che avviene] sulla base dell’evidente insegnamento “tu sei Quello” e per mezzo della riflessione.
Premettiamo che nel linguaggio vedāntico con śruti s’intendono le dieci principali Upaniṣad1 e null’altro. La Śruti, dunque, testimonia in linea di principio l’esistenza del Brahman-Ātman, ma fondamentalmente insegna la discriminazione (viveka) dall’Ātman di tutto ciò che non è Ātman (anātman), per mezzo dell’uso metodico del “né questo né questo” (neti neti). Una volta discriminato ciò che è anātman, rimane solamente la pura realtà dell’Ātman non duale: ossia, eliminata l’ignoranza, ciò che persiste è soltanto conoscenza. Solamente per errore di conoscenza (bhrama, mithyā), indotto dall’ignoranza (avidyā), l’Ātman appare come fosse un “io” individuale, come una entità separata dal suo principio. Infatti Śaṃkara altrove afferma: “[...] la śruti, in realtà, non si propone d’insegnare il Brahman come un certo oggetto; al contrario, insegna che il Brahman non è un oggetto poiché è il Sé interiore; ed Esso rimuove tutte le distinzioni prodotte da avidyā, come, per esempio, il conoscitore, la conoscenza e il conosciuto.”2
La testimonianza testuale dell’esistenza di Brahmātman ha la semplice funzione di richiamarla alla mente, perché in realtà ciascun essere umano gode di essa come intuizione iniziale (sarvaloka prasiddhānubhava, lett. intuizione condivisa da tutti). Il fatto che il nostro vero “Io”, che è il Sé, intuisca che “Io esisto” e che “Io sono cosciente” è un’esperienza comune a tutti 3. Ed è questa l’unica certezza che tutti hanno. Non si può essere altrettanto certi che “tu esisti”, che “il mondo e i suoi oggetti esistono”, che “piacere e sofferenza esistono”, che “questo è vero o è falso” perché queste intuizioni sono mediate dai sensi, dalla mente e dall’intelletto; e anche perché nessuno può sperimentare le esperienze altrui 4. Al contrario, sapere che “esisto e che sono cosciente” è una una esperienza diretta di ognuno. Inoltre, da ciò si trae la prova che esistenza e coscienza sono una sola e unica cosa. Quanto poi alla natura di quello che il Vedānta intende precisamente con “io”, su ciò ritorneremo tra breve seguendo il filo dell’argomentazione vedāntica (vicāra) dell’Upadeśa Sāhasrī. Per il momento basterà sottolineare che quando parliamo di “vero Io”, di “Io reale”, di “vera natura dell’Io” 5 intendiamo l’Ātman come appare nel preciso attimo della presa di coscienza interiore della propria esistenza. Tuttavia questa intuizione liminare6, sperimentata in un attimo privo di durata (akṣaṇa)7, è travolta all’istante (kṣaṇa) dal divenire dei momenti temporali8, che coinvolgono l’“io” nel movimento e che lo inducono a prestare attenzione esclusivamente al mondo esterno9. Comunque sia, non si può in alcun modo negare l’evidenza di questa intuizione, perché: “[...] non è possibile asserire che non esista o che non possa essere conosciuto. Perché nel passaggio “Ora, questo è l’‘Io’, descritto come né questo né questo”, il Puruṣa è chiamato con la parola Ātman, ed è impossibile negare il proprio Sé, perché anche chi lo nega è il Sé.”10 1
Esse sono: Bṛhadāraṇyka, Chāndogya, Māṇḍūkya, Kaṭha, Muṇḍaka, Praśna, Aitareya, Kena, Taittirīya e Īśā Upaniṣad. Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya, I. 1. 4. 3 Sebbene ben pochi si soffermino a riflettere su questa esperienza. 4 Esempio classico per questa affermazone è che nessun uomo, per quanta immaginazione possa impiegare, è incapace di capire i dolori del parto provati dalle madri. 5 Dobbiamo anche ricorrere alla maiuscola iniziale per sottolineare la differenza l’“Io” inteso come il proprio Sé e l’“io” individuale. 6 Liminare significa che è al di fuori dello spazio sia del mondo della veglia sia di quello del sogno, ossia che non è sottoposto alle condizioni d’esistenza di questi due stati di coscienza parziale. La “situazione” liminare è quella tipica del Sākṣin. Si deve dunque considerare liminare il sonno profondo, alla luce di ciò che si dirà alla fine di questa traduzione. 7 Usiamo volutamente “attimo” per la sua origine etimologica comune ad Ātman. 8 Momento significa, in realtà, ‘movimento’ e istante vuol dire ‘incalzante’. Ciò sottolinea che solo l’attimo è davvero atemporale, mentre quelli che sono comunemente considerati suoi sinonimi, momento e istante, altro non sono che minime misure di tempo. 9 In tal caso si tratterà dell’apparenza del Sé o del suo riflesso, definito “io apparente o individuale”, o semplicemente come “io”, aham, o ego. 2
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BSŚBh ibid.
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Per questa ragione il Vedānta pone l’intuizione di esistere dell’autentico “Io” cosciente al di fuori della portata dei pramāṇa, perché senza un “Io” cosciente, un Testimone, un pramātṛ (o pramātā), che li utilizzi come strumenti di conoscenza, essi sarebbero inutili. “La śruti non è il solo mezzo di conoscenza [pramāṇa] per la ricerca sulla natura di Brahman, come invece accade [per la ricerca] sulla natura del Dharma [delle azioni rituali]. Ma nel primo caso la śruti, assieme all’Intuizione e agli altri strumenti, è il mezzo più valido possibile, perché la conoscenza del Brahman deve culminare nell’Intuizione che raggiunge l’Essere realmente esistente. Per quel che riguarda i doveri rituali, non c’è alcun bisogno di nessuna intuizione: [in questo caso] la śruti anche da sola può essere considerata un mezzo valido...”1
Perciò, seppure la śruti affermi l’esistenza del Brahman-Ātman non duale, le Upaniṣad non insegnano la corrispondente conoscenza, poiché l’Assoluto non può essere oggetto di alcun atto di conoscenza, né di alcuna altra azione, essendo Esso è al di là di qualsiasi azione, movimento, mutamento o divenire che dir si voglia, ossia al di là di tutto ciò che è indicato dal termine vyavahāra2. È pur vero che spesso anche nella śruti si descrive l’azione (karma) e il dominio del saṃsāra in cui essa si sviluppa; tuttavia le Upaniṣad sottolineano sempre con cura che la portata di quei brani si limita al divenire del mondo manifestato. 5. [Le Upaniṣad non soltanto affermano l’esistenza del Brahman in quanto Sé], ma anche descrivono la scienza ritualistica (dharmajñāna) finalizzata alle vite future che sono il risultato del karma. [Con la conoscenza del Sé o brahmajñāna] quell’ignoranza saṃsārica [che è il dharmajñāna] svanisce come l’effetto del veleno quando si pronuncia il mantra [di Garuḍa]3.
Per quale ragione, allora, le Upaniṣad si attardano spesso a descrivere la manifestazione sottoposta all’azione e gli atti rituali impartiti da organizzazioni iniziatiche di portata minore che conducono a mondi (loka) superiori, ma pur sempre limitati? Le ragioni sono due: a proposito della prima Śaṃkara afferma: “L’esistenza di oggetti [esterni], come le scritture, il guru e il discepolo, è dovuta all’esperienza empirica (vyāvahārika) che è illusoria. La conoscenza empirica che si attribuisce alle scritture, al maestro e al discepolo è irreale ed è immaginata soltanto come mezzo per avviarsi verso l’ultima Realtà. Di conseguenza la śruti ecc., che esistono solo in virtù di esperienze illusorie, non hanno una esistenza reale. D’altronde è stato stabilmente affermato che ogni dualità scompare non appena la Realtà ultima è conosciuta. Perciò quegli oggetti ritenuti realmente esistenti da quelle altre organizzazioni iniziatiche, sono nondimeno inesistenti se si procede a considerarli dal punto di vista della Realtà ultima.”4
Perciò la prima ragione per la quale la śruti tratta del divenire e delle azioni rituali di vario genere consiste nel fatto che questa scienza del dharma (dharmajñāna) può essere considerata utile per avviare verso la cerca dell’ultima Realtà coloro che non possono ambire a un approccio diretto. “Le Upaniṣad contengono due insiemi d’insegnamenti che riguardano il Brahman, cioè la Realtà, indirizzati a due differenti livelli mentali. Al più elevato livello di aspiranti appartiene sia il discepolo che in questa vita ha raggiunto la purificazione mentale necessaria per affrontare questo tipo di cerca, sia colui che è dotato di una mente rivolta all’interiorità come risultato di una disciplina eseguita nelle sue ultime esistenze [...] Secondo Śaṃkara, la seconda categoria d’insegnamenti upaniṣadici consiste nelle ingiunzioni alla meditazione di ciò che si definisce Aparabrahman, il Brahman non-Supremo. [...] Come la meditazione insegnata nelle religioni non hindū, anche la meditazione upaniṣadica di Brahman [non-Supremo] assicura il raggiungimento postumo del Cielo supremo, qui chiamato Brahmaloka.”5
La seconda ragione per la quale le Upaniṣad descrivono diffusamente il divenire e, su quella base, impartiscono l’ingiunzione di azioni rituali, quasi fossero testi del karma kāṇḍa vedico, invece, va cercata nell’espressa volontà 1 2 3
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BSŚBh I. 1. 2. Il significato primario di vyavahāra è per l’appunto cambiamento, divenire, modo d’agire. Garuḍa è la mitica cavalcatura del dio Viṣṇu. Si tratta di un’aquila divina, venerata come distruttrice dei cobra (nāga). Basta pronunciare il suo nome come mantra per annullare l’effetto intossicante del veleno. Māṇḍūkya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā Śaṃkara Bhāṣya (MāUGKŚBh), IV. 73. Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, Dottrina e Metodo, cit., pp. 37-38.
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di mettere questi argomenti in contrasto con la cerca della conoscenza del Brahman (Brahmajñāna). Lo scopo, in questo caso, consiste nell’evidenziare la superiorità assoluta della conoscenza sull’azione, spronando così l’iniziato (sādhaka) ad abbandonare la prospettiva vyāvahārika e ad ambire alla realizzazione metafisica: “La śruti, quando descrive lo sviluppo del mondo, non ha in realtà lo scopo di insegnare lo sviluppo in quanto tale, perché si sa che questa conoscenza non porta a nessun risultato. Lo scopo è piuttosto quello di insegnare che Ātman è della natura di Brahman, perché si sa che questa conoscenza produce buon risultato.”1
Tra l’insegnamento della conoscenza del Brahman-Ātman e l’insegnamento dell’azione rituale si pone una netta distinzione poiché si tratta di due concezioni tra loro incompatibili. La prima si basa sull’Intuizione primigenia che tutti hanno (sarvaloka prasiddhānubhava), ossia sulla certezza di esistere e di essere l’Io cosciente. L’altra invece è frutto di una constatazione successiva, in cui l’“io” è proiettato verso l’esterno diventando un individuo (aham, jīva o jīvātman2) coinvolto nel divenire e che, erroneamente, si definisce l’“io” agente (kartṛ o kartā) semplicemente perché così appare. 6. Tra le due idee “Io sono il Brahman” e “io sono un agente”, entrambe testimoniate dal Sé, è ragionevole rinunciare a quella che ha la sua radice nell’ignoranza.
Quando l’“io” (aham) guarda all’esterno allora esso pensa di esistere in quanto individuo vivente (jīva) e crea il pensiero o l’idea (vāsanā) chiamata asmitā, egoismo. Quest’ultimo è composto da due sensazioni: la prima è la convinzione della propria esistenza come fossimo un ego separato dal Sé, ossia il senso dell’ego (ahambhāva). E, in seconda battuta, questo aham, agendo verso il mondo esterno, crea il senso del “mio” (mama). Infatti l’azione nel mondo esterno è motivata dal desiderio (kāma) di estendere l’ego agli oggetti che compongono quel mondo per farli rientrare nella sfera di dominio dell’“io” individuale, ossia il senso della proprietà (mamatā). L’egoismo desidera tutti gli oggetti che trova piacevoli e utili all’“io”, e pretende di conquistarli e di assimilarli tramite il “mio”. Per attuare questo desiderio d’assimilazione, l’ego utilizza le facoltà di sensazione e azione (indriya), coordinate dalla mente (manas) e guidate dall’intelletto (buddhi), tutte modificazioni dell’“io” rivolte verso il mondo esterno. 7. Quella nozione [dell’io] che sorge da evidenze che sono tali solamente in apparenza, come le percezioni sensoriali ecc., sarà rimossa in quanto erronea da quell’altra nozione che trae la sua evidenza reale dalla śruti. 8. Quando la śruti afferma: “Tu agisci così”, o: “Tu sei l’agente”, essa riporta l’opinione della gente ordinaria. Invece la conoscenza che “Io sono l’Esistenza” scaturisce davvero dalla śruti stessa. Quest’ultima affermazione confuta l’altra.
Le percezioni sensoriali (pratyakṣa), rielaborate dai pensieri della mente (anumāna), sembrerebbero fornire prove di valida conoscenza (pramāṇa) all’esistenza reale dell’aham come individuo esistente in modo indipendente da qualsiasi principio. La śruti stessa, in molti casi, sembrerebbe sostenere questa convinzione in forza del fatto che essa è il pramāṇa più autorevole in quanto śabda. Ma sarà compito del discepolo qualificato distinguere tra i due diversi messaggi che la śruti offre ai suoi ascoltatori. Infatti quando le Upaniṣad affermano che l’“io” individuale è colui che agisce, che esso è l’agente che mette in opera azioni rituali e non rituali, esse riportano soltanto l’opinione degli ignoranti. Con ignoranti s’intende coloro che sono ingannati dalle apparenze e che vivono prigionieri del divenire e dell’azione. A loro è consacrato il karma kāṇḍa vedico3. Come s’è detto in precedenza, le Upaniṣad illustrano talora queste concezioni 1 2
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BSŚBh II. 1. 27. La buddhi impartisce un nome a ogni oggetto che si trovi sotto il dominio della sua indagine conoscitiva. L’Ātman non fa parte di questo dominio; tuttavia l’intelletto s’illude di poterlo oggettivare e lo immagina come “io”. Ma siccome a ogni nome deve corrispondere un oggetto, il concetto di “io” è del tutto irreale. Quindi se con jīvātman s’intende l’ego, allora il jīvātman è irreale. Ma se con jīvātman s’intende il proprio vero “Io”, cioè il Sé, allora si deve considerare jīvātman identico al Ātman. La combinazione di questi due pensieri formulati dall’intelletto fa apparire jīvātman come fosse satasat, reale e non reale a un tempo. “Sezione rituale”, che comprende gli inni vedici, Saṃhitā, i testi rituali, Brāhmaṇa, i testi di rituale interiorizzato, Āraṇyaka. Il più esteriore tra tutti questi testi, quello che più s’avvicina al dominio dell’essoterismo com’è inteso in Occidente, è proprio la Ṛgveda Saṃhitā (così cara
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ordinarie allo scopo di confrontarle con il loro vero contenuto che riguarda la conoscenza del Brahmātman. Questa conoscenza confuta quella più esteriore e rimuove l’ignoranza insita in essa. La conoscenza del Brahmātman è la vera fonte d’autorità della śruti in quanto pramāṇa infallibile o śabda, e non le citazioni che riportano l’opinione degli ignoranti. E la vera sintesi di tutto l’insegnamento metafisico upaniṣadico riguardante l’identità tra Ātman e Brahman è contenuta nel mahāvākya1 “tu sei Quello”2. 9. Oppositore: Quando si dice: “tu sei Quello”, non avviene la Liberazione assoluta. Si dovrà perciò ricorrere alla sua ripetizione [usandolo come un mantra] con l’aiuto della meditazione. 10. Quand’anche ci si renda conto del significato del mahāvākya pronunciato una volta sola, non se ne può cogliere il vero senso, poiché ciò richiede, come s’è detto, altre due cose: 11. come è necessaria un’ingiunzione che impone di compiere i riti vedici, così anche in questo caso sarà necessaria un’altra ingiunzione, almeno finché la persona non abbia conosciuto direttamente il Sé e finché non si sia fermamente stabilita in lei la conoscenza del Sé. 12. Tutti i propri sforzi d’autocontrollo e altri ancora, sarebbero resi inutili se si potesse conoscere il Brahman senza averne ricevuto l’ingiunzione da parte di un maestro. Si dovrà, perciò, proseguire con la ripetizione per tutto il tempo che sia necessario per conoscere il Sé. 13. Le chiare impressioni prodotte dai sensi confutano con certezza quella Conoscenza di “io sono il Brahman” che si trae dalla śruti. Inoltre un cercatore è attratto dagli oggetti esterni a causa delle impurità [interiori], quali l’attaccamento ecc. 14. La conoscenza proveniente dai sensi e che ha per oggetto le caratteristiche dettagliate degli oggetti esterni, sicuramente contraddice ciò che è riportato dalla śruti e dalla deduzione, in quanto è connesso solamente a caratteristiche generali. 15. Non s’è mai visto nessuno liberarsi dalla sofferenza della trasmigrazione solamente per aver capito il senso di una frase. Se, comunque, eccezionalmente c’è stato un uomo [Vāmadeva]3 che ha ottenuto la Liberazione solo con l’ascolto della śruti,4 si deve dedurre che egli avrà dovuto praticare la ripetizione [del mantra] in vite precedenti. 16. Inoltre, nel caso che non s’ammettesse la necessità dell’ingiunzione, la nostra posizione dovrebbe essere considerata contraria al Veda. E questo sarebbe deprecabile5. 17. Proprio come nella śruti i mezzi per raggiungere uno scopo sono imposti solo dopo aver stabilito quale risultato debba essere raggiunto, così anche qui si deve stabilire qual è il risultato di “tu sei Quello” e quali mezzi usare a tale fine; essi non sono nient’altro se non la ripetizione, che deve essere considerata la sola cosa capace di rivelare qualcosa d’eternamente esistente. 18. Perciò, praticando l’autocontrollo ecc. e rinunciando a ogni cosa incompatibile con questo fine e con i mezzi per raggiungerlo, si dovrà praticare la summenzionata ripetizione allo scopo di poter conoscere direttamente il Sé.
Questi śloka 9-18 espongono un’obiezione sollevata da un oppositore della dottrina advitīya. Abbiamo ritenuto importante commentare questa obiezione, non perché interessante di per sé, ma perché la risposta fornita da Śaṃkara aggiunge alcune osservazioni che possono essere di grande utilità. L’oppositore di cui si tratta, sostiene una teoria vedāntica opposta all’Advaita, chiamata prasaṃkhyānavāda (interpretazione meditativa) secondo la quale il metodo del Vedānta dovrebbe consistere nella meditazione (upāsanā); ossia in quell’azione che avviene per uno sforzo di concentrazione della mente individuale (mānasa abhyāsa) rivolto a un simbolo che rappresenta il Brahman. Ovviamente, come è evidente dalle premesse, questo non può essere il Brahman assoluto in quanto
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all’indologia accademica che considera quella raccolta di inni come la vetta intellettuale del Veda) tant’è che è simboleggiata da un asino. Al contrario le Upaniṣad sono definite jñāna kāṇḍa, “sezione conoscitiva”. “Il Grande Detto”, uno degli aforismi che sintetizzano l’intera dottrina vedāntica. Essi sono popolarmente considerati in numero di quattro, sebbene, in realtà, ogni Upaniṣad maggiore ne contenga almeno uno. Tat tvam asi, ChUVI. 8. 7. AiU II. 5. BU I. 4. 10. Deprecabile è definito l’atteggiamento di chi non accetta gli insegnamenti della śruti, che è il pramāṇa più autorevole.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 14. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (I)
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tale, Parabrahman, che non può mai essere considerato oggetto di qualsivoglia azione né rappresentabile da alcun simbolo, ma bensì ciò che si definisce come Brahman non-Supremo, Aparabrahman, nei testi vedāntici definito anche Brahman qualificato, Brahmasaguṇa, oppure, ancora, Brahman-effettuato o attuato, Kāryabrahman. Questo non-Supremo altro non è se non una rappresentazione che la mente dell’individuo umano si crea per immaginare il Brahman assoluto1. Perciò la meta a cui si ambisce per mezzo di un metodo meditativo non può oltrepassare i limiti del mentale. Questa teoria prasaṃkhyānavāda, la cui origine va fatta risalire al maestro preśaṃkariano Bhartṛprapañca della scuola del Bhedābheda Vedānta, godette di vasto consenso anche ai tempi di Śaṃkara; tant’è che anche Maṇḍana Miśra, pur essendo diventato discepolo dell’Advaita, la sostenne in contrasto con il suo grande maestro Ādi Śaṃkarācārya. Nel corso della storia, questa teoria è riaffiorata ripetutamente e, riformulata da Vācaspati Miśra, ancor oggi influenza alcune frange deviate dell’Advaita Vedānta, il neo-Vedānta vivekānandiano e quello dei guru del neo-Induismo e della new age. Questa teoria dimostra la più totale incomprensione del metodo conoscitivo śaṃkariano e, copiando dallo Yoga, dal tantrismo e dalle altre numerose correnti appartenenti al dominio della conoscenza del non-Supremo (aparavidyā), adotta il metodo meditativo basato sulla ripetizione del mantra (jāpa). In questo modo il mahāvākya, nella fattispecie, “tu sei Quello” (tattvamasi), invece di essere considerato la summa della conoscenza upaniṣadica che si deve comprendere, è ridotto dai prasaṃkhyānavādin a un semplice mantra da ripetere per imposizione del guru, senza esercitare alcuna indagine sul suo vero significato.
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Il Brahman non Supremo è una proiezione mentale di portata universale che corrisponde esattamente all’idea microcosmica dell’ego. Perciò, per analogia con l’aham, se l’idea del non Supremo, o di Hiraṇyagarbha, è considerata come una oggettivazione del Brahman al fine di poterlo conoscere, essa è affatto irreale; al contrario se Hiraṇyagarbha è considerato identico al Brahman, e come tale impossibile da oggettivare, allora esso è davvero il Supremo, l’Ātman.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 15. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (II)
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15. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (II) 19. Risposta del vedāntin: Non è affatto così, perché la vetta delle Upaniṣad è il “Neti neti” e nient’altro. Nella prima parte della śruti l’argomento tratta dei risultati che si ottengono per mezzo delle azioni rituali, ma non della Liberazione che è l’Esistenza eterna non raggiungibile con i mezzi dell’azione. 20. Come il padre, pur non avendo alcun dolore, partecipa al male di un figlio sofferente, tanto che [quel male] gli si sovrappone, così l’ego si sovrappone al Sé che è eternamente libero da qualsiasi sofferenza. 21. La sovrapposizione dell’ego sul Sé, anche se non è reale, appare come reale, ed è confutata per mezzo della discriminazione della śruti [,vale a dire il] “neti neti”. Dopo tale confutazione, nessuna imposizione d’un metodo ripetitivo che avalla la realtà della sovrapposizione potrà mai essere considerata ragionevole.
Il vedāntin, nel confutare l’oppositore, parte dalla constatazione che le Upaniṣad, come abbiamo già dichiarato in precedenza, contengono due argomenti diversi in opposizione tra loro. Quasi tutte le Upaniṣad, infatti, a eccezione della Māṇḍūkya Upaniṣad, iniziano descrivendo delle vie che si basano su azioni rituali, siano esse azioni compiute con il corpo, con la parola o con la mente. Cioè vi si illustrano metodi che conducono al nonSupremo. Ma nella parte centrale e conclusiva, tutte le Upaniṣad prendono le distanze dai metodi basati sull’azione, mettendo in luce l’assoluta superiorità della via della conoscenza. La conoscenza, che prescinde da qualsiasi legame con l’azione, è ciò che permette di riconoscere l’eterna identità del “proprio” Ātman con il Brahman. Il metodo conoscitivo consiste nella discriminazione (viveka) di ciò che è non reale dalla Realtà, che si attua per mezzo del “non questo non questo” (neti neti). La discriminazione è l’insegnamento supremo delle Upaniṣad, e non, come qualcuno pensa, l’affermazione dell’identità Brahman-Ātman: questo perché l’ultima è soltanto una affermazione di principio che non consente di realizzare la conoscenza di quell’identità. Invece il “neti neti” è lo strumento efficace per rimuovere l’ignoranza sulla natura del Sé. La differenza tra le vie del non-Supremo e la conoscenza del Supremo Brahman consiste nel fatto che le prime non rimuovono la sovrapposizione (adhyāsa). Questo argomento è stato da noi già accennato quando abbiamo dichiarato che ciascun essere ha la consapevolezza, come intuizione primordiale (sarvaloka prasiddhānubhava), dell’“io esisto” e dell’“io sono cosciente” che rappresenta un’esperienza liminale dell’identità del “proprio” Ātman con il Brahman. L’esperienza intuitiva, qui descritta, è travolta all’istante dal divenire, che trascina l’“io” nel mondo dell’azione coinvolgendolo nell’esclusiva sperimentazione del mondo esterno 1. L’“io” empirico, in realtà, non è altro che una falsa apparenza che si sovrappone alla reale natura dell’Ātman. Questa sovrapposizione (adhyāsa) dell’“io” sul Sé è illustrata nel nostro testo con l’esempio di un padre che partecipa nella propria carne alla sofferenza dei dolori del figlio malato essendone emotivamente coinvolto, anche se egli, in realtà, è completamente sano. Una via basata sulla meditazione rituale di un simbolo che vorrebbe rappresentare il Brahman, agisce nell’ambito di questa sovrapposizione accettandola come reale. Perciò, non liberando dall’illusorietà della sovrapposizione, una tale via non potrà condurre a riconoscere la propria identità con il Sé, vale a dire la propria vera natura che è l’Esistenza cosciente, rimanendo così limitata al dominio dell’azione. E con l’azione non si esce dal mondo dell’azione. Perciò la śruti, nella sezione dedicata alla conoscenza, promuove come unico metodo la discriminazione del Reale dal non reale (satasat viveka), che collocherà anche la meditazione basata sulla ripetizione nell’ambito del non-reale. La spiegazione della ragione per la quale le Upaniṣad prima affermano e, apparentemente, indicano le vie della conoscenza non suprema (aparavidyā) come metodo raccomandato, per poi, di seguito, denunciarne l’insufficienza, si ritrova nell’applicazione dell’adhyāropāpavāda usato come “metodo”. Questa tecnica consiste in una intenzionale accettazione di false apparenze sovrapposte alla realtà, per poi procedere alla conseguente loro confutazione. In tal modo si imposta il vicāra, iniziando dall’esperienza dell’ignoranza ordinaria (avidyā) da cui parte il principiante, per poi smantellarne i presupposti, rivelando così la realtà soggia cente all’apparenza (adhyāsa).
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Quello della veglia. Anche il mondo del sogno, apparentemente interno se considerato dalla veglia, appartiene a questa esperienza esteriore agli occhi del sognatore.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 15. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (II)
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22. Come è facilmente confutato il colore che gli ignoranti sovrappongono al cielo, come se quest’ultimo fosse colorato di celeste, così è rimossa la sovrapposizione dell’ego sul Sé. 23. In questo modo si respinge non la realtà, ma soltanto ciò che falsamente le si sovrappone, come quando la śruti proibisce di accendere un fuoco in cielo, cosa evidentemente impossibile. Infatti se si negassero cose davvero esistenti, la Liberazione sarebbe fatalmente qualcosa di transitorio.
Se s’immerge una stoffa in una vasca d’acqua colorata d’azzurro, la si ritira poi macchiata di quel colore. Se invece si lancia una stoffa verso il cielo, essa ritorna giù dello stesso colore che aveva prima di esservi lanciata: non ritorna dipinta di celeste. Con questo esempio classico si dimostra che il colore del cielo è una sovrapposizione mentale degli ignoranti. Indagando in tal modo, si rimuove ciò che si sovrappone alla realtà, liberando la realtà dall’apparenza. Quando la śruti proibisce di accendere il fuoco sacrificale in cielo non fa altro che rimuovere una autentica impossibilità, in quanto il fuoco può essere acceso soltanto sulla terra, non in cielo. Si possono rimuovere soltanto cose apparenti, irreali, perché la rimozione di cose realmente ed eternamente esistenti porterebbe come conseguenza a rimuovere anche l’eternità della liberazione: infatti, avendo negata l’esistenza di cose reali e immutabili, allora la liberazione sarebbe certamente transitoria. È perciò possibile rimuovere l’apparenza del serpente sovrapposto alla corda: questa rimozione sarà dunque permanente. Se invece si riconosce la realtà della corda, non si potrà rimuovere la corda se non transitoriamente chiudendo gli occhi o uscendo dalla stanza in cui giace. Ma la realtà della corda rimarrà immutata. 24. Si può attribuire una parola o un pensiero solamente a oggetti conoscibili, ma non a ciò che non è un oggetto. Il Brahman, che è il Sé di tutti essi, ego compreso, non rientra in questa categoria.
Se si considera il verbo ‘conoscere’ come un’azione investigativa che si esercita nei confronti di oggetti conoscibili, allora questi oggetti potranno essere passibili di una descrizione. Il conoscitore potrà perciò attribuir loro un nome, un’idea, un ricordo, un giudizio, una caratteristica, ecc. Colui che si pone come soggetto agente può dunque attribuire agli oggetti della sua azione cognitiva le percezioni, i concetti, le utilità che ne derivano. Questo vale per l’azione della conoscenza come per qualsiasi altra azione. Così anche l’azione di mangiare induce il mangiatore a dare al cibo mangiato un nome, una descrizione, associargli il giudizio se è “buono o cattivo” e a riservargli un posto nella memoria.1 Il Brahman però non fa parte della categoria degli oggetti, in quanto esso è l’unico soggetto per sua natura non oggettivabile. Il Brahman è il soggetto reale, che rimane soggiacente a tutti gli oggetti senza esserne mai alterato, poiché esso è il Sé di tutto, anche dell’ego2. Perciò al Brahman non possono essere attribuiti né corpi, né parole né pensieri: ciò vuol dire che tutto quello che lo simboleggia, pur rappresentandolo in qualche misura, non è che una falsa apparenza (mithyā, adhyāsa). 25. Qualsiasi cosa che venga sovrapposta dall’ego al Sé, che è pura Coscienza, come la funzione di agire, è confutata, assieme al medesimo ego, dalla discriminazione della śruti “neti neti”.
La sovrapposizione è causata dallo stato di ignoranza (avidyā) in cui versa l’ego. Questa attribuzione di apparenza che l’ego sovrappone alla realtà delle cose, si spinge fino al punto da accollare all’Ātman la funzione di agente, com’è il caso di coloro che sono limitati al punto di vista essoterico. Costoro, infatti, sostengono erroneamente che “Dio”, com’essi si figurano il Brahman, ha volizioni, ha senso d’attrazione (rāga) e di repulsione (dveṣa), di piacere (sukha) e dolore (duḥkha), e, di conseguenza, interviene nel mondo agendo come fosse un essere soggetto al divenire, al saṃsāra, perdonando o punendo, preferendo gli uni e respingendo altri per mezzo della grazia o della sua folgore, in modo spesso arbitrario o, come si dice, “imperscrutabile”. Persino i 1
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Queste considerazioni valgono per qualsiasi altra azione, anche quella espressa da un verbo intransitivo, seppure in modo meno evidente. In questo caso il complemento oggetto è sostituito da altri complementi indiretti. Per esempio: “una vita sana giova alla salute” significa che la salute fruisce degli effetti di una vita sana. La buddhi, grazie all’apparente coscienza che la anima, e che le è prestata dal Sé per riflesso, può attribuire agli oggetti della sua azione cognitiva un nome, un’idea, un ricordo, un giudizio, una qualità. Ma non può agire nello stesso modo nei confronti dello stesso Sé, poiché quet’ultimo non è oggettivabile. Tuttavia l’intelletto non ammette questa sua limitazione e immagina l’Ātman come fosse l’ego. L’ego, dunque, non è un oggetto, non è un soggetto, ma è solo falsa immaginazione (mithyā).
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sādhaka intenti a seguire una via del non-Supremo (anche per molti di loro il non-Supremo appare come fosse il Dio degli esteriori!) cadono in una simile illusione. Costoro immaginano che il Brahman abbia una collocazione, che può essere descritta come la vetta del cielo o come la caverna del cuore, comunque un “luogo” verso il quale essi procedono al fine di raggiungerLo, superando un certo numero di tappe intermedie. Per raggiungere questa sede del Brahman non-Supremo essi impiegano un periodo di tempo e s’impegnano in uno sforzo nel procedere verso di Lui, superando molteplici ostacoli. Tutto questo è semplice immaginazione (kalpanā), errore (mithyā), illusione (Māyā), perché è l’ego ad attribuire falsamente al Brahman-Ātman caratteristiche che lo collocano nel tempo, nello spazio e nel dominio del movimento. Tutte queste false apparenze sono distrutte dall’uso discriminativo del “neti neti” che, eliminando anche il pensiero che l’ego sia una realtà separata dal Sé e che è il responsabile per tutte le attribuzioni ingannevoli, rendono evidente che l’unica realtà soggiacente al di là di esse è l’Ātman, pura Coscienza. 26. Il Sé è Onnicomprensivo, Interiore, Auto luminoso, Veggente, Esistente, Libero da azione, Esperienza diretta, Sé di tutto, Testimone, Distributore di coscienza, Eterno, Privo di qualità, Non duale.
Questa elencazione non deve essere considerata composta da attributi o qualità (guṇa), poiché questo di cui si tratta è il Supremo Brahman Nirguṇa. Infatti ciascuna delle qualità che determinano il non-Supremo Brahman Saguṇa descrive una e una sola caratteristica che appare diversa per natura da ogni altra qualità. Per esempio, quando si dichiara che il Brahman non-Supremo è beato (ānandin) non si afferma con ciò che è anche potente (prabhu) o giusto (dharmya), in quanto beatitudine, potenza e giustizia non sono sinonimi. Invece, quando si dice pura Coscienza, Onnicomprensivo, Interiore, Auto luminoso, Veggente, Esistente, Libero da azione, Esperienza diretta, Sé di tutto, Testimone, Distributore di coscienza, Eterno, Privo da qualità, Non duale, queste apparenti attribuzioni sono esattamente sinonimiche tra loro e rappresentano l’unica reale natura advaita del BrahmanĀtman. Ciò vuol dire che la pura Coscienza è l’onnicomprensività, perché non c’è nulla al di fuori della Coscienza; e la Coscienza è interiore perché è la vera natura onnicomprensiva di tutto, e via di seguito. 27. Poiché è costantemente a contatto con il Sé cosciente, anche l’ego appare come fosse cosciente, come un cristallo trasparente sembra rosso se addossato a un fiore rosso. Perciò si attribuiscono al Sé due parole: il senso dell’“io” e il senso del “mio”, come apparenza Sua e delle cose che a questa apparenza si riferiscono.
Date queste premesse, Śaṃkara inizia ora a esaminare che cosa sia realmente l’ego (jīva), che costituisce l’argomento principe del trattato e la chiave di retta interpretazione del mahāvākya “tu sei Quello”. Lo śloka afferma che l’ego, pur essendo non cosciente (acit), sembra dotato di coscienza in quanto è la cosa (tattva) più prossima al Sé cosciente (cit); inoltre propone, per far capire il senso della sovrapposizione, l’esempio di un cristallo traslucido e incolore. Se si accosta a questo cristallo un fiore di colore rosso, il cristallo apparirà anch’esso rosso. Tuttavia, pur apparendo rosso a chi guarda per sovrapposizione di colore, il cristallo mantiene la sua natura trasparente. Il cristallo qui sta per l’ego e il colore rosso che gli viene falsamente attribuito, è quell’apparenza di coscienza che gli deriva dalla sovrapposizione del fiore rosso, il quale, a sua volta, simboleggia l’Ātman cosciente. Tuttavia questo classico esempio vedāntico è usato spesso anche in senso inverso: in tal caso il cristallo limpido e inalterato rappresenta il Sé e il colore che gli proviene dal contatto con un oggetto colorato è la sovrapposizione che la mente individuale per ignoranza attribuisce all’Ātman stesso e non a quell’oggetto. La ragione di questo rovesciamento continuo di prospettiva deve essere trovata nell’evidenza che la sovrapposizione (adhyāsa) è biunivoca, nel senso che l’errore mentale consiste simultaneamente nel sovrapporre l’irreale (asat) al reale (sat) e il reale all’irreale. Il lettore è perciò invitato a considerare entrambi i due punti di vista con l’elasticità mentale richiesta, al fine di non lasciarsi imprigionare da una unica visione schematica. Infatti la seconda parte dello śloka, a differenza della prima parte, sottolinea che l’errore consiste nell’attribuire al Sé eterno il senso dell’“io” individuale e del “mio”; e con “mio” s’intendono tutte le cose di sua proprietà o gli oggetti di cui desidera appropriarsi.
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28. Si possono attribuire queste due parole1 all’ego perché è dotato di nascita, d’azione ecc. Ma nessuna parola si confà al Sé interiore poiché Esso è privo di quelle attribuzioni, non essendo un oggetto. 29. Le parole che definiscono l’ego [come “io individuale”] e le altre cose a questo riferite [il “mio”], che sono il riflesso (ābhāsa) del Sé interno, designano quest’ultimo solo indirettamente, poiché nessun mezzo lo può descrivere direttamente 30. perché nulla che sia privo di nascita, d’azione ecc. può essere descritto per mezzo di parole. 31. Come le parole che indicano l’azione del fuoco possono essere applicate alle torce accese, non direttamente, ma esclusivamente in senso indiretto, poiché la luce appartiene al fuoco e non alle torce, così le parole che vorrebbero descrivere il Sé sono invece attributi dell’ego che è solo un riflesso del Sé e che, perciò, appare come se fosse il Sé.
Le parole aham e mama definiscono due pensieri che l’intelletto (buddhi) sovrappone al vero “io” considerandolo come fosse un’anima individuale (jīva) e riducendolo così a un’entità apparentemente separata dalla sua vera natura di Ātman. In questo modo la buddhi è come se “creasse” l’“io” individuale, e per questo motivo essa assume il nome di ahaṃkāra2, ossia “produttrice del senso dell’io”. Questo “io” appare così come qualcosa di impermanente (anitya) che nasce, agisce, cresce, decresce, si trasforma, trasmigra. Come s’è già dimostrato, nessuna parola o pensiero può invece essere attribuita direttamente al Sé eterno e immutabile. Per questa ragione il Sé può essere descritto soltanto indirettamente attribuendo qualità e condizionamenti al suo riflesso (ābhāsa) individuale, l’aham, e alle sue pertinenze, mama. Come si dice: “le torce illuminano nel buio”, attribuendo alle torce quella proprietà luminosa che appartiene soltanto alla natura del fuoco, così, per descrivere il Sé, ci si avvale delle qualità caratteristiche soltanto dell’ego, trasponendole apparentemente al livello dell’Assoluto. Questa descrizione simbolica è resa possibile dal fatto che l’ego è un riflesso del Sé.3 32. Il riflesso di una faccia in uno specchio è differente dalla faccia, perché ne è una imitazione che compare sullo specchio. Anche la faccia, che non dipende dallo specchio per la sua esistenza, è differente dal suo riflesso. Allo stesso modo l’ego in quanto riflesso del Sé deve essere considerato differente dal Sé in quanto tale, come la faccia riflessa è differente dalla faccia vera.
Inizia qui l’argomentazione dell’importante Dottrina del Riflesso (ābhāsavāda), che è un vero pilastro portante dell’Advaita Vedānta per comprendere che cos’è l’ego. La faccia è reale mentre il suo riflesso è apparente. È apparente perché ne è una copia, in quanto, sebbene il riflesso imiti la forma della faccia nei limiti delle sue possibilità, esso è pur sempre concettualmente differente: il riflesso, infatti, è differente in quanto è evidentemente altro dalla faccia, in quanto giace sulla superficie dello specchio e non sulla parte frontale del capo, dove invece è situata la faccia. Il che vuol dire che ha una collocazione diversa da quella della faccia, occupando un punto diverso dello spazio. Perciò il riflesso è separato dalla faccia da una distanza. Inoltre, essendo una imitazione, mostra dei segni particolari che lo distinguono dalla faccia anche in alcuni dettagli: anzitutto è ben noto che la destra e la sinistra del riflesso sono rovesci rispetto quelli della faccia originale. Ma a questo si aggiungono le alterazioni, talvolta così minuscole da non essere percepite a uno sguardo affrettato, che dipendono da deformazioni della superficie dello specchio. Perciò una bolla d’aria, una macchia, una ondulazione della superficie, s’imprimono sul riflesso, diventando altrettanti particolari di differenziazione dall’originale. Questa metafora vuole dimostrare che se il volto corrisponde al Sé e il volto riflesso corrisponde all’ego, l’ego dovrà essere considerato concettualmente differente dal Sé e, come tale, dovrà anche essere segnato da un certo numero di particolari che aiutano a provarne la differenza. 1
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Ricordiamo che queste due parole o due pensieri sono aham, il senso dell’io, e mama, il senso del mio, che compongono l’asmitā, l’egocentrismo. Letteralmente “produttore” (kāra, dalla radice verbale kṛ, fare, produrre, agire) dell’aham, del senso dell’io. Secondo la concezione analitica che fa il Sāṃkhya dell’organo interno (antaḥkāraṇa), con ahaṃkāra s’intende proprio l’aham, l’ego individuale, distinto dalla buddhi. Il Vedānta, tuttavia, considera sia ahaṃkāra sia manas come modificazioni (vṛtti) della buddhi. Si sarà potuto notare che anche in questo caso è stata usata la biunivoca sovrapposizione di sat su asat e di asat su sat. Infatti nell’esempio il fuoco è sat e le torce su cui avviene la sovrapposizione, sono asat; al contrario nella seconda parte l’ego è asat e sovrappone i suoi attributi sul Sé, che è sat.
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33. E, di converso, il Sé in quanto tale deve essere considerato differente dal suo riflesso, come la vera faccia è differente dal suo riflesso. Comunque, il Sé e il suo riflesso sono distinti in modo puramente illusorio. Infatti se la faccia, il riflesso e lo specchio dell’esempio sono tre oggetti distinti, nel caso del Sé, l’ego come suo riflesso e l’intelletto (buddhi) su cui il Sé si rispecchia, non hanno una esistenza indipendente. La pura Coscienza immutabile si riflette nell’ignoranza (avidyā) come se fosse l’ego soggetto a mutamento. La fruizione [bhukti]1 dell’esistenza trasmigratoria a cui è sottoposto il riflesso del Sé è perciò dovuta alla mancanza di discriminazione tra il Sé e il suo riflesso.
Lo stesso procedimento è valido anche invertendone i termini: infatti non soltanto il riflesso deve essere ritenuto differente dalla faccia, ma anche la faccia dal riflesso, proprio perché la faccia è priva delle deformazioni differenzianti che fanno del riflesso un riflesso. Perciò anche il Sé, che nell’esempio è rappresentato dalla faccia, è differente dal suo riflesso. Tuttavia c’è una sostanziale differenza tra l’esempio della faccia, dello specchio e del riflesso da una parte, e la realtà che vuole rappresentare simbolicamente, dall’altra. Infatti nel mondo empirico (vyāvahārika prapāñca) la faccia, il riflesso e lo specchio sono tre oggetti distinti. Invece dal punto di vista metafisico (pāramārtika darśana) l’ego si distingue dall’Ātman in modo del tutto illusorio. O, per meglio dire, l’ego (aham, ahaṃkāra o jīva) come riflesso del Sé e l’intelletto (buddhi) in quanto piano di riflessione, che nell’esempio corrisponde allo specchio, non hanno un’esistenza reale e indipendente. Perciò non sono realmente differenti dall’Ātman se non dal punto di vista dell’ignoranza (avidyā). La pura Coscienza, il Brahmātman senza inizio né fine (anādi-ananta), se è “guardato” attraverso le lenti dell’ignoranza è “visto” come se fosse l’ego mutevole (anitya) che nasce, cresce, agisce, decresce e si trasforma. L’ignoranza dimora nell’intelletto stesso, principio di separazione e differenziazione, che induce il jīva a rivolgere la sua attenzione alla molteplicità della manifestazione. Come si potrà notare, anche in questo caso Śaṃkara accuratamente discrimina tra simbolo e simboleggiato. Il simbolo è utile come strumento per comprendere realtà ineffabili, ma si deve essere sempre in grado di non confondere il simbĀtmanolo con il simboleggiato. Altrimenti si dà realtà ontologica al simbolo che è pur sempre soltanto una sovrapposizione: una tale conoscenza erronea porta inevitabilmente a una prospettiva che conduce al massimo alla conoscenza del non-Supremo. Come si sa, attraverso la meditazione del simbolo ci si “incammina” verso il non-Supremo, cosa che costituisce la via dell’aparavidyā. Per questa medesima ragione, la mancanza di discriminazione tra l’ immutabile e il suo riflesso simbolico individuale, vale a dire l’ego mutevole, induce a utilizzare metodi (sādhana, prakriyā) basati sull’azione (corporea, verbale o mentale, daihika, śābdika o mānasika kriyā). In questo modo si conferma che con l’azione non si esce dal mondo dell’azione, che è il medesimo saṃsāra. 34. Alcune obiezioni: All’oppositore2 che sostiene che l’ego considerato come distinto dal Sé sia lo sperimentatore della trasmigrazione, noi chiediamo come fa il riflesso, che non è una realtà, a sperimentare qualcosa. L’oppositore, allora, dirà che il riflesso è una realtà, come lo sono le ombre3 che, secondo la smṛti, sono reali, tanto che un testo proibisce di calpestare l’ombra del maestro o dei superiori4. La realtà dell’ombra, inoltre, sarebbe confermata dal fatto che ci conforta con la sua frescura. 35. Altri5 affermano, invece, che l’anima trasmigrante è una parte o una modificazione della pura Coscienza. Altri6 ancora, sono dell’opinione che l’ego considerato come se avesse in sé il riflesso della pura Coscienza è l’anima individuale. Infine c’è chi afferma che l’ego altro dal Sé è lo sperimentatore del saṃsāra7. 36. I buddhisti pensano che la serie di coscienze momentanee che si susseguono incessantemente [durante il fluire del tempo] formi l’anima che trasmigra, poiché per loro non esiste nessun Sakṣin che stia dietro ai fenomeni momentanei in qualità di Testimone. Ora, giudica tu quale di queste dottrine sia razionalmente sostenibile. 1
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Talora la bhukti è tradotta come esperienza. Non si deve confondere l’uso di questo termine, che esprime la sperimentazione trasmigratoria nel tempo e nello spazio di fruizioni favorevoli e sfavorevoli, con anubhava che esprime la folgorante esperienza intuitiva liminale. Si tratta del commentatore preśaṃkariano, noto semplicemente come Vṛttikāra, che sosteneva l’effettiva realtà dell’ego. L’abhāsavāda, detto anche pratibimbavāda, dottrina del riflesso, è stata spesso identificata con il chāyāvāda, dottrina dell’ombra. Cfr. Yājñavalkya smṛti, I. 152. Qui si allude a Bhartṛprapañca, esponente del Bedhābheda Vedānta (dottrina vedāntica della differenza-non-differenza), poco anteriore a Śaṃkarācārya Variante del Bedhābhedavāda contemporaneo di Śaṃkara. Opinione del mīmāṃsaka Kumārila Bhaṭṭa.
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Questa prima panoramica delle diverse posizioni dottrinali è qui abbozzata allo scopo di dimostrare che tutte errano non tanto perché danno realtà all’ego come una entità separata, quanto piuttosto perché sono del tutto ignoranti sulla natura dell’Ātman. Proprio perché non sanno bene o non conoscono affatto cosa sia l’Assoluto, danno realtà al saṃsāra, che invece è pura illusione. Persino i buddhisti, la cui dottrina avrebbe lo scopo dichiarato di denunciare l’illusorietà del saṃsāra, negando l’esistenza dell’anima individuale e di quella del Sé, alla fin fine ammettono esclusivamente l’esistenza sconclusionata di un divenire formato da momenti discontinui. Davanti a tante assurdità, Śaṃkara retoricamente sfida il lettore a scegliere quale gli possa sembrare più logica tra esse.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 16. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (III)
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16. COMMENTO AL “TATTVAMASI” DI ŚAṂKARĀCĀRYA (III) 37. Interrompiamo qui la discussione sulle diverse dottrine circa l’anima in trasmigrazione, e torniamo all’argomento principale. Il riflesso della faccia nello specchio non è attributo né della faccia né dello specchio, perché se fosse attribuito alla faccia o allo specchio, continuerebbe a essere presente nell’uno o nell’altro anche quando i due fossero separati.
Davanti alle assurdità degli oppositori, Śaṃkarācārya decide di tagliar corto e di proseguire nel suo vicāra. Tuttavia, come ci si accorgerà facilmente, egli non rinuncerà del tutto a demolire la posizione dei suoi avversari, e più avanti ritornerà su quegli argomenti offrendo la corretta soluzione vedāntica ai quesiti da loro sollevati. Tornando alle considerazioni che riguardano l’abhāsavāda, egli afferma che il riflesso della faccia nello specchio non è un attributo né della faccia né dello specchio. Se fosse un attributo della faccia, il riflesso dovrebbe esservi presente anche in assenza dello specchio. Se fosse un attributo dello specchio, il riflesso dovrebbe esservi presente anche in assenza della faccia. 38. Se si pensa che il riflesso sia una proprietà della faccia per il fatto che è chiamato “riflesso della faccia”, si è in errore. Perché il riflesso si adatta alle caratteristiche dello specchio; d’altra parte, se si sposta lo specchio il riflesso non compare anche se la faccia rimane al suo posto.
Poiché il riflesso non è un attributo della faccia, non si può nemmeno ritenerlo di sua pertinenza, in quanto il riflesso del volto si modifica adattandosi alle caratteristiche dello specchio, come, per esempio, il fatto che la parte a sinistra del riflesso, nella faccia stia a destra. Ma anche ondulazioni, impurità e bolle d’aria nella superficie dello specchio alterano l’immagine riflessa permettendo, a chi osserva con attenzione, a distinguerla dal volto. Tuttavia il riflesso non può nemmeno appartenere allo specchio, perché se si sposta lo specchio in una posizione diversa da quella di fronte alla faccia, il riflesso non appare. 39. Anche qualora si dicesse che il riflesso è pertinente sia alla faccia sia allo specchio insieme, noi diremmo di no, perché anche se sono presenti entrambi, ma non esattamente affrontati, il riflesso non si produce. Oppositore: Però si può dire che Rahu [il demone divoratore che produce le eclissi], sebbene sia invisibile, può essere visto quando si sovrappone al sole e alla luna. Analogamente si può dire che il riflesso della faccia, reale sebbene sia invisibile, può essere visto nello specchio in certe occasioni.
Se appartenesse sia alla faccia sia allo specchio, il riflesso dovrebbe apparire indipendentemente in entrambi e in qualsiasi posizione essi assumessero nello spazio. Invece non è così perché il riflesso appare soltanto quando faccia e specchio sono entrambi presenti e correttamente affrontati. L’oppositore bedhābedhavādin, a questo punto, avanza un’obiezione portando l’esempio di Rahu, il demone delle eclissi. Costui, sebbene solitamente invisibile, può apparire visibilmente quando assume la posizione celeste che gli permette di divorare il sole e la luna. Così anche il riflesso della faccia, solitamente invisibile, nelle occasioni in cui il viso e lo specchio si trovino nella giusta posizione affrontata, potrà apparire visibile. 40. Risposta: Che Rahu sia reale lo si sa dalle scritture prima ancora di poterlo vedere sul sole e sulla luna. Ma secondo coloro che sostengono che è l’ombra della terra, non lo si considera come una cosa reale. Quanto all’irrealtà del riflesso, è già stata provata prima negli śloka precedenti.
Quanto afferma il sostenitore del bedhābedha non è logico: il fatto che Rahu sia visibile in occasione delle eclissi non è una prova che esista invisibilmente in tutte le altre occasioni. Che Rahu esista invisibilmente è una informazione proveniente dai testi mitologici, senza la quale si potrebbe tranquillamente negarne l’esistenza al di fuori del tempo dell’eclissi (pīḍā kāla). Sta di fatto che gli astronomi che sostengono che si tratta dell’ombra della terra proiettata sulla luna, negano l’esistenza reale di Rahu. Allo stesso modo è stata negata la realtà del riflesso negli śloka 25-31 e 36-37. 41. È vero che c’è la proibizione di attraversare l’ombra del maestro e di altri superiori, ma ciò non prova la realtà dell’ombra, poiché un ammonimento che indica un comportamento da seguire non può contenere contemporaneamente un altro significato probatorio sulla realtà o irrealtà dell’oggetto citato.
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42- La frescura di cui si gode quando si siede all’ombra non è effetto dell’ombra in quanto tale. La sensazione di fresco è dovuta al fatto che si è al riparo da fonti di calore. Se ci si siede all’ombra d’una pietra rovente, non si gode di alcuna frescura. Il fresco è una caratteristica dell’acqua, non dell’ombra.
La Yājñavalkya Smṛti (I. 152) raccomanda di non calpestare l’ombra del guru, dei Re e di altre persone autorevoli in segno di rispetto. Ma una norma di comportamento non può essere portata come una valida prova di conoscenza (pramāṇa) per stabilire la reale esistenza di checchessia. Allo stesso modo non è un fatto reale che l’ombra produca frescura. Infatti è l’oggetto che si interpone tra noi e una fonte di calore che fa da scudo all’irraggiamento del caldo. Non è l’ombra che produce la frescura, perché quest’ultima è una caratteristica dell’elemento acqua, come il calore lo è dell’elemento fuoco. E così Śaṃkara risponde ad alcune obiezioni che apparentemente aveva tralasciato nello śloka 35. 43. Il Sé, il suo riflesso e il piano di riflessione, cioè la buddhi, sono paragonabili alla faccia, al suo riflesso e allo specchio. Che il riflesso sia illusorio è dimostrato sia dallo śāstra sia dal ragionamento.
Dopo essersi cautelato di distinguere il simbolo, che è un esempio e, pertanto, un’apparenza, dalla realtà che intende simboleggiare, Śaṃkara Bhagavatpāda riprende la discussione riguardante la dottrina del riflesso (abhāsavāda), sottolineando che il Sé è la realtà assoluta, il piano di riflessione, la buddhi, una realtà relativa, mentre il riflesso non ha realtà, è pura illusione. 44. Dubbio del vedāntin: Ma se il Testimone è immutabile, il riflesso è irreale e l’ahaṃkāra 1 è un oggetto privo di coscienza, chi è allora lo sperimentatore dell’esistenza trasmigratoria?
Śaṃkara stesso si pone retoricamente questo dubbio per poter procedere con la spiegazione della dottrina. Infatti, posto che l’Ātman è l’immutabile testimone (Sākṣin) ed eterno osservatore (dṛś) di tutto, è evidente che nella sua assolutezza non può essere considerato lo sperimentatore e fruitore (bhoktā o bhoktṛ) delle molteplici esistenze limitate che si succedono nel saṃsāra. Nemmeno il riflesso, d’altra parte, essendo illusorio e irreale, può essere tale fruitore. E neppure l’ahaṃkāra (la buddhi che produce l’aham) può esserlo, perché è privo di coscienza, e ciò che è privo di coscienza non può essere fruitore di nulla. A questo punto si pone l’interrogativo: chi mai può dunque essere lo sperimentatore dell’esistenza trasmigratoria? 45. Risposta: Considera la condizione saṃsārica come una mera ignoranza dovuta alla mancanza di discriminazione tra il Sé e il non-Sé. Questa comunque sembra essere come fosse esistente, la cui esistenza dipende dalla reale Esistenza del Sé immutabile. Per questa ragione l’esistenza trasmigratoria appare falsamente attribuita al Sé.
La condizione saṃsārica è il risultato di non aver discriminato tra ciò che è il Sé e ciò che non è il Sé. Colui che è in preda a questa ignoranza, sovrappone reciprocamente Ātman e anātman confondendo caoticamente l’“io” individuale con il Sé. Similmente sovrappone la transitoria esistenza mondana all’eterna immutabile Esistenza dell’Ātman. Di converso, per sovrapposizione si dà una falsa realtà eterna all’esistenza empirica prendendone in prestito l’eternità dalla Realtà dell’Essere. Questa è la ragione per la quale chi si colloca all’interno di questa illusione considera che il mondo relativo e transitorio è senza inizio e senza fine. Così si attribuisce anche all’“io” limitato ed effimero l’eternità del Sé. Da questo groviglio di sovrapposizioni (adhyāsa) causato dall’ignoranza, ossia dalla mancanza di discriminazione (aviveka), sorge l’illusione fantasmagorica della manifestazione composta da una illimitata molteplicità di gradi d’esistenza in cui l’“io”, falsamente identificato all’eterno Sé, in continuazione trasmigra dall’uno all’altro. 46. Quando la corda erroneamente è presa per un serpente, quest’ultimo ha un’esistenza apparente prestatagli dalla corda. Questa illusione dura almeno finché non si discrimina tra serpente e corda. Analogamente il saṃsāra, sebbene illusorio, è dotato di una apparente esistenza che dipende da quella del Sé immutabile.
Quando qualcuno entra in una stanza semibuia, sul pavimento della quale giace una corda, costui può prendere la corda per un serpente. Il serpente è un’illusione; tuttavia per colui che è sottoposto a quell’illusione, il serpente sembra reale, mentre la corda non gli appare per nulla. Il serpente ha un’esistenza talmente reale, per colui che è 1
Qui con ahaṃkāra s’intende la buddhi nell’individuo considerata come piano di riflessione, e non l’aham che è il riflesso del Sé.
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preso dall’illusione, che egli prova tutti gli effetti che gli procurerebbe l’incontro con un serpente vero: si spaventa, gli si rizzano i peli del corpo, s’imperla di sudore freddo e prova l’impulso di fuggire. Se costui fuggisse davvero, senza voler verificare con una luce più forte di che si trattava, egli andrebbe in giro a raccontare del suo scampato pericolo, e non verrebbe mai a sapere che tutto quello spavento era stato causato dall’equivoco per cui aveva scambiato una corda per un serpente. Ma se per caso la medesima persona, colta dal dubbio sulla veridicità della sua prima impressione, rientrasse nella stanza semibuia portando con sé un lumino, allora si renderebbe conto del suo errore (bhrāma) e vedrebbe soltanto la corda. L’illusione del serpente è dunque rimossa dalla discriminazione tra reale e non reale: alla fine appare evidente che in verità ciò che si vedeva nel buio era una corda e che il serpente non era mai esistito. Tuttavia fino a quel momento quella persona aveva creduto all’esistenza del serpente e l’esistenza del serpente è durata, nella sua immaginazione, fino a quando la vera conoscenza non ne ha smentito l’esistenza reale. Perciò l’esistenza del serpente, pur apparente, è durata per un certo periodo. Questa esistenza apparente da dove proveniva? Proveniva dall’esistenza reale della corda 1. Così è anche per quello che riguarda l’esistenza del saṃsāra. Finché si è coinvolti nell’illusorietà della sua esistenza, la sua esistenza sembra reale, perché la sua esistenza è presa in prestito dalla vera Esistenza del Brahman. Ma quando la sovrapposizione scompare grazie alla luce della discriminazione, quell’esistenza fasulla scompare assieme all’ignoranza che l’aveva prodotta. 47. Alcuni2 credono che il riflesso del Sé sia lo stesso Sé e che anche il piano di riflessione sia il Sé. In questo modo reputano che il Sé, pur essendo eterno, subisca le modificazioni della mente come “Sono felice” o “Sono infelice” e così faccia esperienza della trasmigrazione. 48. Costoro, privi di conoscenza dello śāstra, sono ingannati dalla mancanza di corretta conoscenza riguardo il Sé e il suo riflesso, e così arrivano a considerare l’ahaṃ come fosse il Sé. 49. Per loro l’esperienza trasmigratoria che consiste nell’agire e nello sperimentarne gli effetti, è una realtà. Privi di discriminazione, non sanno distinguere l’esistenza del Sé dal suo riflesso e dal piano di riflessione e, in questo modo, continuano a trasmigrare.
Il riflesso del Sé non è altro dal Sé, in quanto non c’è nulla al di fuori del Sé. “Il jīva [l’ego] è solamente un’apparenza del sole reale, come il riflesso del sole nell’acqua; tolta l’acqua, il riflesso del sole torna al sole originale e rimane identico a quello.”3
Tuttavia è un errore considerare il riflesso del Sé come identico al Sé; allo stesso modo anche la buddhi è compresa nel Sé totale, ma non può essere considerata identica al Sé. Un tale errore, che condurrebbe a una concezione panteistica, è effetto dell’incapacità di discriminare. Infatti Kṛṣṇa, rivolgendosi ad Arjuna, afferma: “Io pervado tutto questo mondo nella mia forma non manifestata: tutte le cose sono in me, ma io non sono in ciascuna di esse.”4
Attribuendo al Sé una identificazione con gli oggetti contingenti, ci si fa dell’Ātman eterno un’idea errata: è come se esso fosse coinvolto nel divenire e soggetto a mutamento. Alcuni che la pensano in questo modo sono arrivati a sostenere che il Sé subisce i risultati delle modificazioni (vṛtti) mentali, provando piaceri o sofferenze causate da esperienze del mondo esterno, sperimentando anche gli effetti delle modificazioni intellettuali, provando il senso di utilità o di nocività, vale a dire di attrazione o repulsione, provocato da oggetti o da 1
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4
Se una persona non avesse mai visto, letto o sentito parlare di serpenti, non potrebbe sovrapporre alla corda l’apparenza di un serpente. Tuttavia, in tal caso, egli avrebbe potuto prendere erroneamente la corda per un bastone, per una ghirlanda, per un filo d’acqua o una breccia del terreno. Perciò la sovrapposizione non dipende dalla memoria, ma all’ignornza che induce la mente a sovrapporre immagini note a una realtà non riconosciuta come tale. Ciò sta anche a dimostrare che la percezione dei sensi è più fedele della mente alla realtà oggettiva. Infatti il senso della vista ha informato correttamente la mente (manas) di aver scorto nel buio un oggetto lungo, stretto e sinuoso che giaceva a terra: ma è stata la mente a creare la falsa apparenza del serpente, scegliendone la forma dal bagaglio dei suoi ricordi. Tra cui Bhartṛprapañca. Bhagavad Gītā Śaṃkara Bhāṣya (BhGŚBh), XV. 7. Ciò vuol dire che il riflesso non ha reale esistenza, come il serpente, una volta scoperta l’esistenza reale della corda, risulta in tutta evidenza non essere mai esistito. Bhagavad Gītā (BhG), IX. 4.
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avvenimenti esterni. Questo errore di prospettiva conduce a sostenere che l’Ātman sia sottomesso a continua trasmigrazione. Come se l’Essere potesse essere in divenire! Chi sostiene questa posizione non conosce le Upaniṣad, non ha una corretta comprensione di ciò che sono il Sé e il suo riflesso, e arriva perfino a confondere il Sé cosciente con l’ahaṃkāra [la buddhi] non cosciente, errore ancor peggiore di quello di non saper distinguere tra l’Ātman e il suo riflesso. In questo modo chi dà realtà all’esistenza trasmigratoria, di conseguenza ne subisce gli effetti, continuando a trasmigrare; esattamente come colui che prende falsamente la corda per un serpente, sperimenta paura, con tutti gli effetti corporei che la paura stessa gli provoca. 50. Se, al contrario, si accetta che l’intelletto è illuminato dal riflesso della Coscienza, che è la reale natura del Sé, allora si arriva a capire in che senso la śruti si riferisca al Sé per mezzo di parole che significano “Conoscenza” (jñāna-śabda).
Lo specchio privo di un riflesso, appare come uno schermo vuoto, una lavagna nera. Così anche la buddhi è inerte e non cosciente per sua natura. Ma quando il riflesso del volto appare sulla superficie dello specchio, lo specchio sembra illuminarsi e animarsi. Così l’intelletto, illuminato dal Sé cosciente auto luminoso, appare animato e acquista una parvenza di coscienza grazie al riflesso che in esso si rispecchia. Il Sé cosciente, che è pura conoscenza senza oggetto, riflettendosi nell’intelletto, rende “parzialmente” cosciente la buddhi e da questa coscienza proviene la capacità di conoscere dello stesso intelletto. Tuttavia questa coscienza è riflessa, perciò non è la pura Coscienza dell’Assoluto. La pura Coscienza è priva di oggetto. E a livello metafisico, pāramārthika, Coscienza e Conoscenza sono una stessa e unica cosa. Invece l’apparenza di coscienza della buddhi, che dipende dal riflesso, consiste nella consapevolezza dell’“io” e del “mio”, ed è per questa ragione che la buddhi è denominata “colei che produce l’aham” (ahaṃkara). Cioè questa coscienza riflessa ha un oggetto che è l’asmitā. Analogamente la conoscenza intellettuale è una azione conoscitiva analitica nei confronti di oggetti altri da sé. Quando si ha ben chiara questa discriminazione tra Conoscienza-Coscienza assoluta e conoscenza-coscienza applicata a oggetti si capirà in che senso la śruti rivolge all’Ātman parole il cui significato è Conoscenza nel senso reale e non apparente. 51. Oppositore: È noto che il significato d’un verbo al modo infinito esprime un’azione in quanto tale e il significato dello stesso verbo coniugato a una persona [per esempio alla terza singolare], sono tra loro differenti. Per esempio “andare” [all’infinito] è un’azione non attribuita a nessuno in particolare, mentre “egli agisce” o “egli va” significa che quella persona “è un agente” o è colui che “compie l’azione di andare”; ovvero che “egli è uno che sta agendo” o che “egli sta andando”. 52. I grammatici e la gente comune non usano mai le forme verbali in modo da distinguere l’azione in quanto tale [espressa dal verbo all’infinito] dall’azione compiuta da un agente [cioè il verbo coniugato in un certo modo, tempo, persona]. Ora mi si spieghi la ragione per la quale, secondo il Vedānta, l’azione intesa nella forma verbale “egli conosce” dovrebbe comportare una discriminazione tra l’azione in quanto tale e l’azione compiuta da quell’agente 1.
L’obiezione dell’oppositore è semplice: un verbo al modo infinito esprime un’azione e le diverse persone con cui lo si coniuga rappresentano altrettanti soggetti che agiscono di conseguenza. Così quando si considera il verbo andare all’infinito, esso esprime l’azione di muoversi, mentre “egli va” significa che quella data persona (rappresentata qui dal pronome “egli”), è il soggetto dell’azione di andare; cioè che quella persona è un andante, che sta andando. Per i grammatici e per il senso comune della gente, l’azione in quanto tale e la stessa azione attribuita a “egli” non cambiano di natura. Allora perché, secondo il Vedānta, il verbo “conoscere”, quando è usato per il Brahman-Ātman nella formula “Esso conosce”, dovrebbe avere un significato diverso dal verbo che rappresenta l’azione di conoscere? Vale a dire, perché mai “Esso conosce” dovrebbe significare “Esso non compie l’azione di conoscere”? Per l’oppositore “Esso conosce” significa, invece, “Esso compie l’azione di conoscere, esattamente come “egli va” significa esattamente “egli compie l’azione di andare”. 1
Abbiamo adattato per quanto possibile lo śloka 51 alla struttura grammaticale italiana, per rendere comprensibile il suo senso. Alludendo alla struttura verbale sanscrita, l’originale letteralmente appare come segue: “È noto che il significato della radice verbale e quello del suffisso che indica la persona del verbo, sebbene tra loro differenti, nelle varie voci verbali quali “egli agisce”, “egli va”, vogliono dire che qualcuno, essendo un agente, compie un’azione, o, essendo un andante, stia andando.”
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53. Risposta del vedāntin: Il soggetto del verbo, [come anche] il suffisso verbale, in questo caso indica il riflesso del Sé nell’intelletto, mentre il verbo in quanto tale si riferisce all’attività dell’intelletto. Non riuscendo a distinguere il Sé non agente dal suo riflesso nell’intelletto agente, essi dicono “Egli, il Sé, conosce”. Ma questo pensiero è falso perché si basa sulla sovrapposizione.
Nella forma verbale “egli conosce” il soggetto “egli” è il riflesso del Sé nell’intelletto, cioè l’ego. Invece il verbo “conosce”, inteso nel senso di una attiva investigazione svolta allo scopo di conoscere, si riferisce all’attività dell’intelletto. Ma, poiché il Sé è la Conoscenza stessa, quando con “egli conosce” s’intende che è l’Ātman a conoscere, allora in questo caso non può significare “egli agisce al fine di conoscere”. Infatti il Sé non agisce perché è al di fuori del mondo dell’azione, del mutamento, del divenire. Perciò “egli conosce”, in questo caso, significa che la natura dell’Ātman è quella di conoscere. Coloro che non discriminano tra il Sé non agente e il suo riflesso nell’intelletto agente, pensano che il riflesso sia lo stesso Sé. Ora, poiché il riflesso subisce delle modificazioni da parte della buddhi, esattamente come il riflesso della faccia assume le deformazioni dello specchio, il riflesso, ossia l’ego, a costoro appare come fosse un agente. Ma questo pensiero, formulato da una mente non discriminante, è falso, perché si basa sulla sovrapposizione dell’ego sul Sé: in questo modo l’apparenza di attività del riflesso è attribuita erroneamente al Sé non agente, esattamente come la pericolosità del serpente è attribuita a quella che non è altro che una innocua corda. 54. L’intelletto, in quanto tale, non può conoscere dato che è privo di coscienza. Di converso, il Sé non agisce. Perciò l’espressione “egli conosce” (jñapti) non può riferirsi correttamente a nessuno dei due.
L’intelletto, in quanto tale, ossia come un semplice oggetto, non può conoscere perché è privo di coscienza. Si deve ricordare che l’intelletto sembra essere parzialmente cosciente quando è illuminato dal riflesso del Sé. Solo in questo senso possiamo dire che la buddhi è apparentemente in grado di conoscere: vale a dire, grazie a questa sovrapposizione. Ma la buddhi per sua natura è incosciente (acit), come il Sé è non agente. Perciò “egli conosce”, nel senso di “egli sta investigando al fine di conoscere” non può essere attribuito con esattezza a nessuno dei due, né al Sé né alla buddhi. 55. La parola jñapti, che esprime la conoscenza come una azione intesa a conoscere, non può essere applicata al Sé. Perché il Sé non è sottoposto ad alcun cambiamento, poiché sappiamo dalle Upaniṣad che egli è immutabile.
La parola jñapti significa sforzo per apprendere, perciò non può essere applicata all’Ātman, in quanto lo sforzo per apprendere indica una azione o un mutamento nella natura di chi s’impegna in jñapti. Perciò, in luogo di jñapti, nel caso dell’Ātman è più appropriato l’uso di jñāna (conoscenza) e caitanya (coscienza). Oltre tutto, se fosse come crede l’oppositore, si dovrebbe supporre che l’Ātman dovrebbe partire da uno stato d’ignoranza per raggiungere la conoscenza, cosa che sarebbe contraria sia alla śruti sia alla ragione, perché si sa che il Sé è pura Coscienza-conoscenza ed è immutabile. Infatti la Kaṭha Upaniṣad afferma a questo proposito: “Il Sé cosciente non nasce né muore, non è originato da nulla e nulla ha origine da lui. È non-nato (aja), immutabile (nitya), esente da decadenza, antico…”1 E ancora: “La pace eterna non spetta ad altri se non a coloro che discriminano e realizzano nei loro cuori l’Essere immutabile tra gli esseri mutevoli, che è Coscienza pura tra gli oggetti che appaiono coscienti, che elargisce a molti ciò che massimamente desiderano [il mokṣa].”2
Per questa ragione la śruti dice dell’Assoluto: “satyam jñānam anantam Brahma”3, Esso è Realtà, Conoscenza e Infinito e non attribuisce al Brahman nulla che lo coinvolga con alcuno sforzo, azione, movimento, o con l’idea di mutamento, di tempo, di causalità, ovvero con il divenire.
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KU I. 2. 18. KU II. 2. 13. Taittirīya Upaniṣad (TU), II. 1. 1.
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17. COMMENTO AL “TATTVAMASI” DI ŚAṂKARĀCĀRYA (IV) 56. La conoscenza intesa come strumento dell’azione di conoscere, è applicabile all’intelletto e non al Sé, poiché non esiste uno strumento senza un agente che lo utilizzi. La medesima parola “conoscenza” non può nemmeno essere applicata al Sé quando con essa s’intende l’oggetto dell’azione di conoscere. 57. Il Sé non può mai essere conoscibile né può essere indicato direttamente con parole [verbi], essendo, com’è, eternamente immutabile, libero da sofferenza e piacere, e assolutamente Uno.
Se si suppone che esista qualcosa che, usando come strumento l’azione conoscitiva, s’appresta a conoscere qualcosa di conoscibile, ossia di un oggetto che alla fine di questo processo d’indagine diventa conosciuto, con questo “qualcosa” si può intendere l’intelletto (buddhi)1, non certamente l’Ātman. Infatti l’Ātman non è agente, perciò non può essere ridotto a qualcosa che usa uno strumento conoscitivo per conoscere. Se con conoscenza s’intende un’azione volta a conoscere, questo tipo di conoscenza non può dunque essere attribuito all’Ātman. Allo stesso modo in cui non si può attribuire all’Ātman alcuna azione, nemmeno quella conoscitiva, così esso non può essere oggetto di alcuna azione: perciò nemmeno dell’azione di conoscere. L’Ātman perciò non può essere conoscibile né tanto meno conosciuto. Non può essere né soggetto né oggetto di alcun verbo che indichi azione, essendo immutabile, uno e al di là della dualità. Se potesse essere soggetto o oggetto di modificazione, allora non dell’Ātman si tratterebbe, ma dello sperimentatore del saṃsāra come erroneamente sostengono alcuni. 58. Se l’ego fosse il Sé, allora una parola potrebbe descrivere il Sé in senso letterale. Ma secondo la śruti, l’ego non è il Sé, dal momento che è sottoposto a fame ecc.
L’ego è il riflesso del Sé nella sfera individuale. Se l’ego fosse identico al Sé, quest’ultimo sarebbe facilmente identificabile tramite una parola corrispondente a un’idea. Perché qualsiasi nome evoca una idea a cui necessariamente corrisponde un oggetto. Come, per esempio, “albero” evoca l’idea di albero che corrisponde effettivamente all’oggetto albero. Ātman o Brahman non sono affatto nomi, né idee o pensieri della mente e neppure oggetti passibili di conoscenza 2. Perciò ego non può essere considerato un nome per definirli. Infatti, sull’autorità della śruti, l’ego non è il Sé, essendo sottoposto a tutte le limitazioni derivanti dalla sua esistenza empirica, fame, sete, piacere, dolore ecc. 59. Oppositore: D’accordo, ma se le parole “egli conosce” non possono essere usate direttamente in nessun caso, non potranno essere applicate in modo metaforico nemmeno per il Sé. Perciò ora devi spiegare qual è il senso del verbo “egli conosce” [quando è applicato al Sé]. 60. La śruti perderebbe evidentemente tutta la sua autorevolezza se le sue parole non avessero senso. Ma questo è da respingere. Dovremo, dunque, accettare il significato del verbo “egli conosce” nel suo senso usuale.
Dopo che Śaṃkara ha affermato che: 1) il Sé, poiché è puro essere, non è un agente e che perciò non gli si può attribuire l’azione di conoscere; 2) l’intelletto è in grado di agire in quanto sottomesso al divenire, ma, allo stesso tempo, essendo privo di coscienza, non ha la capacità di conoscere; 3) infine, l’ego è pura apparenza, perciò è privo di esistenza (asat) e nemmeno è un agente (akartṛ), l’oppositore del Vedānta si chiede quale mai interpretazione si dovrà dare allora all’affermazione upaniṣadica “egli conosce”. Eppure le Upaniṣad ripetono con fermezza che “egli conosce”, e la loro autorevolezza non può essere messa in discussione. Perciò “egli conosce” dovrà essere inteso nel suo senso primario, cioè secondo l’uso comune e in senso letterale, ossia che l’ego è l’Ātman e, come tale è sia esistente (sat) sia agente (kartṛ). 1 2
Oppure, in subordine d’importanza, la mente (manas) o, ancora, le facoltà di senso (jñānendriya). Da ciò deriva che il Sé (Ātman) o “Io” maiuscolo, non sono altro che forme convenzionali adottate per indicare la reale natura essenziale che appare illusoriamente come “io” (aham). Similmente Brahman, “Grande”, è soltanto una forma convenzionale per designare l’Esistenza totale o pura Coscienza assoluta. Non essendo nomi, queste designazioni non possono nemmeno essere considerate come fossero simboli; infatti il simbolo deve partecipare parzialmente della natura del simboleggiato.
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61. Risposta del vedāntin: Se si accetta la sciocca opinione del popolo ignorante, si arriverà alla conclusione dei cārvāka1 che sostengono che non c’è altro Sé se non il corpo. Questo sì è da respingere.
Se si sostiene che il Sé è l’ego, si arriva a pensare che il Sé è il corpo, poiché l’ego si identifica con il corpo. Qualcuno potrebbe dire che l’uomo comune sa ben distinguere tra l’ego e il corpo, in quanto in tutta apparenza è capace di comprendere che le proprie modalità sottili non s’identificano con il corpo stesso. Anzi, soprattutto gli occidentali che considerano l’anima o la mente 2, a seconda delle loro credenze religiose o laiche, come il motore del corpo grosso, sono convinti di saper discriminare tra queste due componenti dell’individuo. Chi la pensa così si illude di discriminare, perché in realtà l’ignorante si identifica esclusivamente al proprio ego e, così facendo, si pone spazialmente nel corpo. Se l’individuo discriminasse effettivamente tra sé stesso e il corpo egli sarebbe capace di liberarsi dalla propria collocazione spaziale nel corpo 3. Perciò l’uomo ordinario che crede di essere in grado di distinguere tra la propria mente e il corpo, ipotizza semplicemente questa discriminazione con il pensiero, senza riuscire a rendere reale tale distinzione. L’ego e il corpo, in realtà, formano un tutt’uno, come due facce d’uno stesso foglio; perciò chi condivide questo errore confina tutta la sua esistenza al solo corpo 4. Questa concezione materialistica si basa esclusivamente su un errore di prospettiva dovuto all’ignoranza. Perciò è questa la concezione che deve essere respinta fermamente, e non la ricerca del vero significato della frase “egli conosce”. 62. D’altra parte, se si accetta il punto di vista dei grammatici che non usano mai le forme verbali in modo da separare l’agente dall’azione, allora non sarà mai compreso l’uso upaniṣadico della parola “conoscenza”, come abbiamo sopra segnalato.
Lasciando da parte le idee degli ignoranti, si potrebbe allora supporre che il punto di vista dei grammatici, che sono dotti e che conoscono i testi sacri, sia più corretto. Questa correttezza grammaticale li induce a interpretare secondo le regole per le quali ogni verbo è un’azione 5 e che la forma coniugata non è altro se non l’applicazione a un tempo e a una persona del significato del verbo all’infinito. Ciò è errato, perché i grammatici seguono delle regole generali in modo meccanico e sistematico, e tendono a piegare il significato metafisico della śruti a tali regole. Invece il vicāra vedāntico privilegia la ricerca del vero significato del testo anche al di là dei limiti dogmatici della regolarità morfologica, che stanno dalla parte dell’apparenza. Seguendo la linea d’indagine dei grammatici non si potrà mai comprendere il significato delle parole che riguardano la conoscenza6. Perciò si dovrà procedere in un altro modo per spiegare cosa la śruti intenda con “egli conosce” e cosa voglia dire con le parole che significano conoscenza (jñāna śabda). 1
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Composto di “cara”, mutevole, e “vāk”, parola: insegnamento o dottrina diveniristica. Antica scuola eterodossa indiana prebuddhista che sostenne un materialismo estremo, basandosi sulla concezione che la percezione sensoriale fosse l’unico pramāṇa veridico. Il materialismo “pratico” che risulta istintivo nei moderni, arriva perfino a confondere la mente con il cervello e i pensieri con i suoi impulsi nervosi. Ossia esso confonde la facoltà con l’organo corrispondente, come se la vista, per esempio, fosse solo il globo oculare. L’unico modo riconosciuto dagli ignoranti (ajñāni) per uscire da questa identificazione (abhimāna) consiste nella morte intesa come caduta del corpo (dehānta). Ma questa “uscita” avviene senza alcuna garanzia di sopravvivenza, ragion per cui quest’ultima diventa articolo di fede per il “credente”, o oggetto di diniego da parte del “non credente”. Il Vedānta, invece, insegna la dottrina dei tre stati di coscienza (trayāvasthāvāda) proprio per indicare altre modalità in cui quotidianamente si sperimenta la disidentificazione dell’ego dal corpo. Nel sogno il jīva non si identifica con il corpo grossolano, ma si “plasma” un corpo sottile a suo piacimento. Nel sonno profondo, poi, non è presente alcun tipo di corpo. Per chi sa discriminare (viveki) il risveglio prova inequivocabilmente che è possibile l’esistenza indipendentemente del corpo. Questa prospettiva erronea porta a pensare che ci sia un’unica vita collegata indissolubilmente al corpo grossolano. Perciò la “resurrezione della carne”, invece di essere considerata correttamente come un’allusione all’assunzione di un nuovo involucro di trasmigrazione, è intesa come se a ritornare in vita fosse il medesimo corpo già morto. Questa affermazione, dal punto di vista gnoseologico, è comunque errata, poiché sono almeno due i verbi che non implicano azione alcuna: essere (as) ed esistere (bhū). Questa affermazione di Śaṃkara sembra davvero denunciare definitivamente, con un anticipo d’un millennio, l’approccio filologico-glottologico degli indologi e sanscritisti accademici. Tra costoro non abbiamo identificato nessuno che abbia davvero capito qualcosa del Vedānta; al contrario, possiamo affermare che coloro che oscuramente hanno presentito qualcosa del suo vero senso, si sono volutamente adoperati per travisarlo.
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63. L’ignorante prende il riflesso della faccia nello specchio come fosse proprio la faccia, dato che quel riflesso sembra avere la forma della faccia.
Per capire come procedere correttamente si dovrà riprendere daccapo l’esempio del riflesso nello specchio. Quando l’ignorante si guarda allo specchio, crede di vedere la sua faccia e non si accorge che si tratta solo d’un riflesso. 64. In realtà, ogni volta che c’è il riflesso d’una cosa, la cosa e il riflesso vengono identificati per mancanza di discriminazione. In questo modo tutti istintivamente dicono che “egli conosce” vuol intendere l’azione impiegata per conoscere. 65. Sovrapponendo al Sé una azione che è propriamente una caratteristica dell’intelletto, allora si dice “egli conosce” come fosse “egli fa conoscenza di”, e lo si definisce “conoscitore”. E, sovrapponendo all’intelletto la coscienza, che invece è propria del Sé, si chiama anche la buddhi cosciente e conoscitrice.
Il riflesso, si diceva, è erroneamente considerato essere la stessa cosa che si riflette, come nell’esempio della faccia di cui sopra. Allo stesso modo il verbo “egli conosce” considerato come una azione che conduce alla conoscenza di qualcosa, è avventatamente attribuito per errore alla cosa che si riflette, mentre, invece, l’attività è propria solo dell’intelletto. Tuttavia il vero errore (adhyāsa) consiste nel fatto che con “egli conosce” si attribuisce al Sé una attività conoscitiva che è propria della buddhi, sovrapponendo quest’ultimo oggetto coinvolto nell’azione al Sé non agente; e, di converso, s’attribuisce alla buddhi la capacità d’essere cosciente e conoscente, capacità che è della natura del Sé, sovrapponendo il Sé, Coscienza pura, alla buddhi che, invece, è acit. Come si può notare la sovrapposizione è sempre illusoriamente reciproca. 66. Invece la śruti ci insegna che la Coscienza-conoscenza è proprio l’immutabile ed eterna natura del Sé. Di conseguenza questa non può mai essere il risultato di una azione, né da parte del Sé né dall’intelletto, né da null’altro.
Śaṃkara ribadisce per l’ennesima volta che con l’affermazione upaniṣadica “egli conosce”, non si vuole attribuire all’Ātman l’azione di conoscere, poiché esso è fuori del dominio dell’azione; e che non si vuole nemmeno attribuire la formula “egli conosce” all’intelletto, poiché esso non è cosciente. Perciò l’azione di conoscere non può essere attribuita a nessuna altra cosa, essere od oggetto. Śaṃkara lo ribadisce prima di elencare tutta una serie di errori d’interpretazione compiuti da altri darśana, dai soliti sofismi dei buddhisti o da altre correnti vedāntiche limitate o deviate: 67. Con l’espressione “egli conosce”, gli ignoranti intendono che sia il Sé sia la buddhi sono gli agenti dell’azione di conoscere, compiendo una sovrapposizione analoga a quella per la quale s’identificano con il loro corpo.
Questa interpretazione tipica degli ignoranti è già stata presa in considerazione e parificata di fatto a quella dei cārvāka; si tratta di una posizione che nel linguaggio moderno si definisce materialismo “pratico”1. 68. I logici [nayāyka] sostengono che la conoscenza è l’effetto di una causa. Ma essi sono ingannati dalle modificazioni dell’intelletto (vṛtti) che sono chiaramente dei risultati dell’azione e che hanno solo un’apparenza di coscienza. 69. Perciò le parole “egli conosce”, l’apparente esperienza di aver prodotto della conoscenza e la memorizzazione di quell’esperienza, dipendono tutte dal fatto che i logici sono incapaci di discriminare tra la Coscienza-conoscenza, il suo riflesso nell’intelletto e l’intelletto stesso. 70. Come le modificazioni del riflesso della faccia, condizionate dallo specchio, sono attribuite erroneamente alla faccia stessa, così le modificazioni del riflesso del Sé, condizionate dalla buddhi, sono attribuite erroneamente al Sé. 1
Con materialismo “pratico” non intendiamo riferirci qui alla scuola filosofica cirenaica o edonistica del V-IV sec. a. C., ma più semplicemente al comune sentire dell’uomo moderno, totalmente incapace di qualsiasi speculazione e che si contenta, come massima “astrazione”, al pensiero tecnologico, a quello psicologico e a quello sociologico. Nel materialismo “pratico”, perciò, va anche inserita la teologia cattolica contemporanea in cui non c’è più alcuna traccia di Θεός.
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71. Per questa ragione i pensieri dell’intelletto, illuminato dal riflesso del Sé, sembrano dotati della capacità di un’azione cognitiva, come le torce sembrano possedere un’attività illuminante [mentre questa è attribuibile solamente alla natura del fuoco].
I logici sostengono che la conoscenza è il risultato di una causa, ossia che c’è un agente che è la causa di un’azione la quale conduce all’ottenimento della conoscenza. In realtà quello che essi chiamano conoscenza sono soltanto le modificazioni (vṛtti) dell’intelletto e della mente 1. Quando l’intelletto (buddhi) valuta un oggetto, esso prende la forma dell’oggetto e questa forma intellettuale è poi depositata nella memoria (citta). Queste forme sono dette vṛtti, modificazioni, o, più letteralmente, vortici mentali. La stessa cosa vale per la mente (manas), i cui pensieri si distinguono da quelli della buddhi perché si rapportano alla sfera emozionale piuttosto che a quella concettuale. Dunque i nayāyka prendono queste modificazioni come fossero conoscenze. Inoltre considerano questi pensieri dell’intelletto e della mente come fossero coscienti, mentre, al contrario sono oggetti di una coscienza parziale che è quella prestata alla buddhi e al manas dal Sé. Il medesimo errore lo compiono anche i pātañjala yogi. Infatti, come vedremo più avanti, “La modificazione mentale, che è prodotto della sua [dell’Ātman] apparizione, è definita come suo anubhava [esperienza intuitiva].”2 Ragion per cui Svāmī Satcidānandendra commenta così: “Lo yogin che crede di aver realizzato l’Ātman in una particolare modificazione della mente, o anubhava, non conosce la verità.”3 La gravità della posizione dello Yoga darśana, rispetto a quella del Nyāya, che è un darśana puramente speculativo, è imputabile al fatto che questa prospettiva è dotata di un metodo. Ciò significa che i pātañjala yogi confondono la conoscenza del Supremo (paravidyā) con la conoscenza non suprema (aparavidyā). Ma ben più grave è la medesima confusione tra i due domini operata da due advaitin, com’è il caso di Maṇḍana Miśra e di Vācaspati Miśra. I nayāyka riducendo tutta la realtà a un’attività logica, non conoscono altro tipo di conoscenza se non quella sperimentata intellettualmente o mentalmente come frutto di un atto d’indagine. Questa non è conoscenza nel senso proprio del termine, poiché dipende da un’azione della ragione. Se ne ha la riprova constatando che se questa fosse conoscenza nel senso vero del termine, essa sarebbe eternamente presente in chi l’avesse riconosciuta; invece in questo caso l’esperienza dell’atto conoscitivo deve essere ripetutamente richiamata dalla memoria (citta), dove è stata depositata. E di nuovo torniamo a constatare che questa erronea teoria della conoscenza è dovuta alla confusione che i logici fanno tra la Coscienza-conoscenza, il suo riflesso e l’intelletto. Ossia attribuendo a oggetti individuali una capacità conoscitiva, mentre sono solo degli agenti, i nayāyka si comportano esattamente come coloro che assegnano a delle torce accese l’azione di illuminare, quando invece la luce non è un’azione delle torce, ma è la natura stessa del fuoco. 72. I buddhisti sostengono che i pensieri sono auto luminosi e sono dotati di una attività cognitiva e negano l’esistenza di un Testimone che li conosca come oggetti. 73. Ora, questa teoria è sostenibile solo se non si riconosce che i pensieri, che sono oggetti privi di coscienza (acit), sono illuminati dal Testimone, totalmente diverso da loro per natura.
I buddhisti negano l’esistenza dell’Ātman e, quindi di conseguenza, negano che esso possa essere il Testimone (Sākṣin) degli oggetti manifestati. Devono perciò attribuire una realtà cosciente alle modificazioni intellettuali e mentali. Al tempo stesso, essi conferiscono però a queste modificazioni e agli altri oggetti (dharma) una esistenza priva di essere, tutti travolti in un flusso di divenire peraltro temporalmente discontinuo. Tutta questa serie di 1
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Da questo momento in poi nel testo si sussegue una continua menzione delle modificazioni della mente o “mentalizzazioni” e delle modificazioni dell’intelletto o intellezioni. Poiché “mentalizzazioni” nel linguaggio comune ha assunto abusivamente un significato attinente alla “mentalità” piuttosto che alla mente, abbiamo preferito descrivere le attività o modificazioni di mente e intelletto con la parola “pensieri”, per coprire sia il dominio del manas sia della buddhi. Śaṃkara, US XVIII. 201. Svāmī Satcidānandendra, Dottrina e Metodo, cit. p. 135.
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assurdità può essere razionalmente sostenuta soltanto se si parte da un principio falso, che, in questo caso, è la negazione del Testimone cosciente, soggiacente a tutta la manifestazione1. 74. Né sarà più corretto sostenere che c’è un conoscitore che in continuazione compie l’azione di conoscere le varie modificazioni della mente e che osserva la loro presenza e assenza (sat e asat)2. Perché un tale conoscitore, essendo un agente, per la medesima ragione sarebbe anch’esso privo di coscienza come lo sono quelle modificazioni che sta conoscendo e perciò si dovrebbe presumere l’esistenza di un altro ulteriore conoscitore che lo conosca.
Non è nemmeno corretta la posizione di certi vedāntin come Bhartṛprapañca, che criticano la negazione buddhista del Testimone, considerandolo però come un principio agente. Poiché in tal caso il Testimone agente non potrebbe essere l’Ātman pura Coscienza; allora sarebbe necessaria l’esistenza di un altro Testimone del Testimone e via dicendo, ricadendo così nell’errore logico definito regressus ad infinitum (anavasthāprasaṅga), che è un tipo di dispersione razionale nel molteplice. 75. Saresti in errore anche qualora tu [accettassi che il Testimone sia non agente e differente dalle modificazioni mentali, ma] sostenessi che la conoscenza è possibile [non per mezzo del riflesso, ma] per la semplice contiguità del Testimone alla presenza e all’assenza delle modificazioni. Perché la semplice contiguità del Testimone [senza la mediazione del suo riflesso di coscienza] non sarebbe di alcuna utilità per comprendere quelle modificazioni. Se fosse vero che la sua contiguità potesse rendere cosciente l’intelletto, la stessa contiguità potrebbe rendere cosciente qualsiasi altra cosa.
I sāṃkhya sostengono che i puruṣa, pur essendo molteplici (che da sola è chiaramente una affermazione errata), sono di natura completamente distinta da Prakṛti e da tutte le sue produzioni (tattva), ossia dagli oggetti manifestati (e questo è, invece, una affermazione condivisibile). Secondo loro i puruṣa sono i testimoni che illuminano la buddhi e gli altri oggetti senza però che essi si riflettano nei tattva. Questo in quanto il Sāṃkhya, rifiutando la dottrina del riflesso, nega ogni contatto tra i puruṣa, concepiti come le monadi assurdamente “impermeabili” di leibniziana memoria, e le produzioni non coscienti di Prakṛti. Al posto della dottrina del riflesso essi sostengono la dottrina della contiguità o prossimità (sānnidhyavāda). La semplice contiguità del puruṣa sarebbe in grado di influenzare un oggetto trasferendo a quest’ultimo la sua capacità conoscitiva. Questa dottrina presta il fianco a molteplici obiezioni, tra cui, principalmente, quella per la quale la prossimità dipende dalla condizione spaziale. Basta la seguente considerazione su questa teoria, per la quale la trasmissione della capacità cognitiva sarebbe dipendente da tale condizione corporea, per respingere questa tesi definitivamente. Inoltre, se così fosse, la semplice contiguità potrebbe rendere coscienti e conoscenti anche oggetti universalmente riconosciuti dai diversi pramāṇa come non coscienti (acit), quali, per esempio, una pietra o una brocca 3.
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Ananda Kentish Coomaraswamy è stato senza dubbio una fonte autorevole per quello che si rapporta al simbolismo vedico. Tuttavia, ogni qualvolta egli si sia inoltrato nel dominio della metafisica, ha commesso considerevoli errori di valutazione. Il suo sostegno alla discontinuità del tempo della dottrina buddhista e la conseguente critica a Śaṃkara rilevano dalla sua istintiva attrazione mentale per il theravāda singalese, piuttosto che dalla sua consueta discriminazione d’indagine intellettuale. Cfr. A. K. Coomaraswamy, Time and Eternity, Ascona, Artibus Asiæ Pbls., 1947, pp. 17-19. Per esempio quando si è negli stati di veglia e di sogno, seppure in modi diversi, la mente, il mondo, gli oggetti, lo spazio, il tempo, la quantità appaiono come presenti (sat), mentre nel sonno profondo sono del tutto assenti (asat). Che questi oggetti facciano parte della natura cosciente del Testimone è fuori di dubbio. Ma essi allora devono essere considerati come facenti parte di un tutto e non presi singolarmente.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 18. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (V)
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18. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (V) 76. Inoltre, il cercatore che ascolta l’insegnamento della śruti, che è sottoposto alla sofferenza della trasmigrazione e che cerca la liberazione da questa, secondo te è lo stesso Testimone o è diverso da lui? Tu [che neghi la dottrina del riflesso, ābhāsavāda] non concepisci in che modo il Sākṣin possa essere sottoposto a sofferenza e, quindi, desideri la Liberazione.
La dottrina della contiguità impedisce ogni contatto tra il suo Puruṣa-Testimone e il mondo in divenire. Perciò, per un sāṃkhya chi è colui che ascolta da un guru l’insegnamento della śruti, ascolto che costituisce ciò che il Vedānta definisce śrāvaṇa? Chi è che, consapevole della limitazione dell’esistenza trasmigratoria, cerca la liberazione da essa? Costui è il Testimone o no? Negando la dottrina del riflesso, che riconosce il contatto tra Testimone e mondo in divenire, il sāṃkhya non riesce a concepire come il Sākṣin possa essere sottoposto a sofferenza e quindi come possa essere esso stesso il cercatore della Liberazione. 77. Se, d’altra parte, il cercatore è diverso dal Testimone ed è solo qualcuno che agisce in quanto sperimentatore dell’esistenza empirica, tu non potrai accettare l’affermazione “Io sono il Testimone, io sono il Brahman”. Da questo punto di vista l’affermazione della śruti “tu sei Quello” sarebbe falsa, il che non è accettabile.
Se il cercatore non fosse il Sākṣin, ma soltanto l’ego empirico, sottoposto all’esistenza saṃsārica in quanto agente, perciò un oggetto privo di coscienza, non si potrebbe accettare che il Brahman, il Testimone, e il Sé siano tutt’uno con questo individuo; il mahāvākya “tu sei Quello”, perciò, sarebbe falso. Tale idea è un errore. 78. Si può comprendere l’affermazione della śruti solamente quando si capisce che essa è fatta senza discriminare l’ego dal Sé. Se, invece, si discriminasse un soggetto empirico dal puro Testimone e si attribuisse il “tu” del mahāvākya all’ego, allora vi si insinuerebbero i summenzionati errori d’interpretazione.
Ecco dunque che Śaṃkara qui affronta la spiegazione chiave del problema, che comprende non più un punto di vista dottrinale soltanto teorico, ma che ora implica soprattutto l’aspetto metodico e realizzativo. Il cercatore (jijñāsu), anche se deve intraprendere la sua cerca sulla base di una incrollabile preparazione dottrinale che lo ha persuaso dell’identità tra l’Ātman e il Brahman, tuttavia ancora sperimenta il mondo da un punto di vista empirico e duale. Ed è proprio utilizzando come punto di partenza questo errore innato 1 (naisarga mithyā, avidyā), che il jijñāsu può procedere sulla via della discriminazione (viveka). Questa fase costituisce l’adhyāropa, vale a dire l’accettazione volontaria di un’apparenza illusoria come se fosse realtà. L’apparenza illusoria è, infatti, ciò che il neofita del Vedānta continua a percepire quotidianamente con i sensi ed elaborare con la mente, anche se appare in contrasto con l’incrollabile convinzione già ottenuta tramite la speculazione intellettuale. Per questo motivo si tratta di una accettazione volontaria dell’apparenza, perché il jijñāsu è già teoricamente a conoscenza che il suo Sé è il Brahman. Seguirà, però, le parole del suo maestro che lo induce a riflettere sull’illusorietà delle sue percezioni e dei suoi pensieri2. Questa è la ragione per la quale l’affermazione “tu sei Quello” rappresenta l’insegnamento di base che il maestro dà al discepolo, come fece Uddālaka quando istruì Śvetaketu 3. Questo primo insegnamento non discrimina se questo “tu” significhi il Sé o l’“io” individuale, proprio perché il discepolo ancora non li distingue se non teoricamente, in quanto è ancora legato alla sua esperienza quotidiana dipendente dall’ignoranza: 1
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L’aggettivo “innato” (naisarga), applicato all’ignoranza, significa soltanto “che non è nato con questo corpo, che proviene da esistenze precedenti”. Ciò non significa che avidyā possa essere eterna, come afferma Vācaspati Miśra, associandola incautamente all’eternità del Brahman e convergendo così all’errore dottrinale definito mūlāvidyā. Infatti se si attribuisce l’avidyā all’“io” illusorio, l’ignoranza non è mai separata dall’individuo in quanto tale. Non può essere, invece, mai attribuita all’Ātman perché esso è pura Coscienza-conoscenza. E noi, in realtà, non siamo l’ego, perché esso è anātman e, come tale, non esistente (asat). Perciò il problema su cui alcuni s’interrogano “Com’è che l’Ātman è sottoposto all’ignoranza che gli fa credere di essere un ego individuale?”, è semplicemente una questione mal posta. Ben diverso è il termine aja rivolto all’Ātman che non significa innato, ma mai nato, ossia eterno. Sebbene riferita prevalentemente a un percorso di conoscenza non suprema (aparavidyā), abbiamo descritto questa illusione iniziale da cui parte un sādhaka nel nostro Discesa agli Inferi, cit., pp. 93-102. “Questo Essere sottilissimo, è ciò che fa esistere tutto questo. Esso deve essere inteso come il Sé. Quella è la Verità, Quello è il Sé, tu sei Quello, o Śvetaketu” (ChU VI. 15. 3).
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“L’altro concetto, vale a dire quello di avidyā, a differenza di quello di Ātman, è soltanto una concessione alla mente impreparata di chi anela a raggiungere la Liberazione finale. Avidyā, secondo Śaṃkara, è, come abbiamo visto, la nozione istintiva dell’“io” e del “mio” condivisa da tutti gli esseri umani che mantengono la mutua sovrapposizione di Sé e non-Sé. Nessuno sospetta che questa sia ignoranza, finché lo Śāstra e un maestro di Vedānta non ne denunci la sua natura illusoria. Questo concetto di avidyā è uno strumento usato dalle Upaniṣad per insegnare la Verità. Tutti gli altri concetti, come quello di causa, manifestazione, Īśvara, disciplina spirituale, saṃnyāsa e Yoga compresi, persino la validità della stessa śruti come mezzo di corretta conoscenza, come pure la distinzione tra punto di vista empirico e metafisico, hanno come presupposto il concetto di avidyā. Senza un preliminare concetto di avidyā, non può esserci alcun discorso sulla conoscenza vedāntica, nessun rapporto tra un guru e un discepolo che aspiri a quella conoscenza.”1
Alla fine della discriminazione, quando ci si rende conto, grazie al neti neti, di non essere questo corpo (deha), questi sensi (indriya), questa mente (manas), questo intelletto (buddhi), questo ego (aham), allora si conclude la fase apavāda, che contraddice l’errore e l’ignoranza. Questo processo discriminativo culmina con la cancellazione dell’illusoria immagine riflessa del Sé, dell’aham, o, meglio, dell’ahamkṛta, quell’“io” prodotto dalla buddhi chiamata “produttrice dell’aham” (ahaṃkāra). A questo punto sussiste soltanto la pura Coscienza d’esistere. Vale a dire che a questo punto il cercatore si rende conto d’esistere come coscienza sia durante la presenza di tutti quegli oggetti, compreso il mondo, il tempo, lo spazio ecc. durante la veglia e il sogno, sia in loro assenza nel sonno profondo, e così raggiunge l’Intuizione illuminante (prakāśi anubhāva) d’essere il Testimone 2. Ciò è anche definito nella śruti come mokṣa, la Liberazione dall’ignoranza. 79. Se tu [sāṃkhya] sostieni che la parola “tu” [del mahāvākya] indica indirettamente il Testimone, dovrai allora spiegare la relazione tra l’ego e il Testimone in modo tale per cui con “tu” si possa alludere simbolicamente al Testimone.
Da quanto precede si deduce che la parola “tu” nella frase “tu sei Quello” indica il Testimone, il quale è eternamente identico all’Assoluto Brahman-Ātman. Se il seguace del Sāṃkhya, insiste a sostenere che con quel “tu” la śruti intende l’ego individuale, e che attraverso quest’ultimo vuole alludere simbolicamente solo al vero “Io” che è il Sé, costui dovrà spiegare quale relazione deve intercorrere tra “io” e Sé affinché il primo possa essere simbolo del secondo. 80. Se obietterai che la relazione tra il Testimone e l’ego è quella tra colui che vede (dṛś) e quello che è visto (dṛśya) noi chiederemo come possa l’azione di vedere essere ascritta al Testimone non agente. 81. Anche se si supponesse che il Testimone, pur non agente, abbia una relazione di identità (tādātmya) con l’ego, la conoscenza di tale identità non potrebbe sorgere senza la consapevolezza che il Testimone, cioè il mio Sé, è reale”.
Anche qualora si pensasse che la relazione tra il Sākṣin e l’ego è quella tra chi vede e chi è visto, si attribuirebbe l’azione di vedere al Testimone, che, invece, è non agente; perciò questa è una idea da respingere. Allora si potrebbe correggere questa affermazione sostenendo che il Testimone non compie alcuna azione di vedere, e che si usa il verbo vedere soltanto in senso metaforico, come un gioco di parole, perché è noto che il Sākṣin ed aham sono una unica e identica cosa. Ma se si riconosce che il Sākṣin è non agente, allora vuol dire che si ha già coscienza del Testimone e s’accetta che egli è davvero l’Ātman, anche se lo si identifica con l’ego. 82. Se tu pensi che l’unica fonte che permette di conoscere questa identità è costituita dalla śruti, non può essere così. Perché in quel caso si tornerebbero a sollevare tutte e tre le obiezioni di cui abbiamo già trattato. E anche se non si sollevassero quelle obiezioni, la conoscenza che tutti avrebbero della relazione Sakṣin-ego sarebbe pensata come “C’è un qualcuno che testimonia su di me” e non “Io sono il Testimone”.
Alcuni pensano che sia la stessa śruti a sostenere questa identità tra l’ego e il Sé quando ci si imbatte in affermazioni come la seguente: 1 2
Svāmī Satcidānandendra, Dottrina e Metodo, cit. pp. 111-112. Vedi “Alcune note sull’Intuizione”.
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“Egli, che appare come mente, ha il prāṇa come corpo, appare come cosciente, prende decisioni, è della natura dell’etere, è l’agente di ogni azione, preso da tutti i desideri, fruitore di tutti i profumi, fruitore di tutti i sapori, è privo di parola, privo di desideri. Questo mio Ātman nel cuore è più piccolo di un chicco di riso, più piccolo di un seme di orzo, più piccolo d’un seme di senape. Questo mio Ātman nel cuore è più grande della terra, più grande dell’atmosfera, più grande del cielo, più grande di tutti questi mondi messi assieme. Questo mio Ātman nel cuore è quello che compie tutte le azioni, che è preda di tutti i desideri, che è inebriato da tutti i profumi, da tutti i sapori, e che, allo stesso modo, pervade tutto questo, privo di parola, privo di desideri. Questo è il Brahman.”1
Ma se lo si esamina con maggiore attenzione, il testo afferma che il Sé appare in questo modo, mentre in realtà è privo della facoltà della parola ed è privo di desideri. Lo scopo dell’Upaniṣad non è tanto quello di descrivere l’ego confondendolo con l’Ātman. Il testo vuole principalmente evidenziare che il Brahman sembra dotato di qualità a coloro che meditano su di esso. Le qualità, allora, diventano i simboli che fungono da supporto ai meditanti, ovvero ai sādhaka che seguono una via appartenente al dominio della conoscenza non suprema (aparavidyā). Tuttavia costoro non sono dei jñāni e non sono in grado di riconoscere che il realtà il Brahman è eternamente nirguṇa. La citazione tratta dalla Chāndogya Upaniṣad non può quindi essere portata a riprova che la śruti sostiene che l’ego e il Testimone siano identici. Anche perché, se così fosse, contro questo testo si solleverebbero le tre obiezioni che sono già state esposte sopra, ossia: 1- L’ego non è in grado di conoscere la relazione che intercorre tra se stesso e il Testimone perché non è cosciente. 2- Il Testimone non può farsi conoscere perché non è un agente. 3- La śruti non può insegnare all’ego perché quest’ultimo è non cosciente. Anche qualora non si sollevassero queste obiezioni, che sono da sole risolutive, l’identificazione dell’ego con il Sākṣin sarebbe contraria allo scopo del metodo discriminativo, che è quello di riconoscere l’ego come non-Sé. Solamente a seguito di questo supremo atto di definitivo viveka si potrà prendere coscienza d’essere il Testimone e non l’“io”. Per concludere questo argomento citeremo un altro brano di Śaṃkara: “Obiezione: Se Ātman è l’oggetto noto come ego, non è ragionevole sostenere che esso sia conosciuto solamente dalle Upaniṣad. Risposta del vedāntin: Non è così, perché abbiamo già confutato questa posizione affermando che questo Ātman è il Testimone di quell’ego. [Per spiegare meglio:] Diverso da quell’agente che è l’oggetto noto come ego, è il Testimone che risiede in tutti gli esseri, il medesimo in tutti, l’unico, immutabile, eterno Puruṣa, Sé di tutti e di ciascuno, che non è mai rivelato ad alcuno per mezzo della sezione rituale del Veda o da vie meditative.”2
Continuiamo con la nostra trattazione: 83. Ma il nostro punto di vista è che quando l’intelletto, di per sé non cosciente, è illuminato dalla Coscienza per mezzo del riflesso, anche le sue modificazioni brillano3 di coscienza riflessa, come le scintille che sprizzano da una palla di ferro incandescente sono luminose per il fuoco che è all’interno [del ferro].
Il riflesso trasmette all’intelletto e a tutte le sue deliberazioni (intellezioni), come anche alla mente e alle sue emozioni, ai sensi e alle loro percezioni e al corpo, la luce della Coscienza. In questo modo tutti quegli oggetti, di per sé privi di coscienza, brillano di una coscienza riflessa. I pensieri, le intellezioni, le deliberazioni, le scelte, le percezioni, appaiono come fossero illusoriamente coscienti. Il fuoco, che è rosso, rende incandescente il ferro, che è nero e lo permea del suo colore rosso, tanto che un ignorante potrebbe pensare che il rosso sia il colore del ferro. Così la Coscienza permea l’intelletto, la mente ecc., in modo tale che l’intelletto ecc. appaiono coscienti. Anche le scintille che scaturiscono dal ferro hanno il colore del fuoco. Similmente anche i pensieri che scaturiscono dalla mente, dall’intelletto ecc. paiono come fossero coscienti. Ma l’intelletto ecc. è come la luna che appare luminosa. In realtà essa non è luminosa, ma risplende, vale a dire, riflette la luce del sole. Lo splendore lunare che a sua volta sembra riverberare sulla terra durante la notte, è paragonabile alle modificazioni (vṛtti). Ma pur sempre si tratta solo ed esclusivamente di prestiti di luce proveniente del sole. 1 2 3
ChU III. 14. 2-4. BSŚBh I. 1. 4. Bhāti, brillano, ha la stessa radice di ābhāsa, riflesso.
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84. Il fatto che la gente talvolta sperimenti la presenza (sat) del riflesso di coscienza, come nella veglia e nel sogno, e talaltra sperimenti la sua assenza (asat) come nel sonno profondo, può essere spiegata soltanto se esiste un innegabile Testimone sia della presenza sia dell’assenza [satasat]. Da questa intuizione iniziale deriva il riconoscimento che il Testimone esiste.
Tutti gli esseri umani, anche quelli ordinari, hanno quotidianamente delle esperienze di stati (avasthā) diversi. Nella veglia e nel sogno essi sperimentano l’ego come riflesso del Sé, seppure in forme e modalità diverse. In apparenza l’ego della veglia si rivolge agli oggetti esterni che costituiscono il mondo di cui si fa esperienza durante la veglia. Altrettanto apparentemente l’ego del sogno si rivolge agli oggetti interni, che costituiscono il mondo che si sperimenta nel sogno. Sia nella veglia sia nel sogno l’esperienza dell’ego si basa sul riflesso della Coscienza che dimora in esso. Nel sonno profondo non si sperimenta nulla. La ragione sta nel fatto che l’ego appartiene al dominio individuale e l’individualità non ha accesso al sonno profondo. Lì non c’è neppure il mondo, un qualsiasi mondo, perché il sonno profondo che, quando si è svegli1, appare come lo stato causale (kāraṇāvasthā, cioè la Māyā) della altre due avasthā, in realtà è il non-manifestato, come si vedrà in seguito. Eppure, anche se svegliandosi si dice di suṣupti: “Lì non c’è nulla, lì c’è solo tenebra, silenzio”, si sa con certezza di esserci stati. Lì l’aham, il riflesso del Sé, non ha accesso, perché quello è il dominio della pura Coscienza, del Sākṣin. Si ha dunque una consapevolezza apofatica di essere stati in sonno profondo. Da questa consapevolezza deriva l’intuizione che il Testimone esiste. 85. Se ci si chiede: “C’è forse un cambiamento del Sé quando pervade l’intelletto, come il fuoco quando pervade la palla di ferro?”, si risponderà che questa argomentazione è già stata confutata in precedenza con l’esempio della faccia e del suo riflesso nello specchio. 86. Il fatto che il nero ferro appaia di colore rosso è solo un esempio per spiegare come la buddhi non cosciente appaia come fosse cosciente. Un simbolo non è mai identico in tutti gli aspetti con ciò che vuole simboleggiare. 87. Similmente l’intelletto appare essere cosciente quando riceve il riflesso della Coscienza, come il riflesso della faccia nello specchio sembra essere la faccia. Ma, come s’è detto, il riflesso è illusorio.
L’argomento di questi tre śloka è già stato ampiamente trattato. L’autore si ripete al fine di cancellare ogni dubbio al riguardo. Importante è l’affermazione che il simbolo non è mai identico in tutti gli aspetti a ciò che vuole simboleggiare. Se fosse identico in tutti gli aspetti, il simbolo e il simboleggiato sarebbero la stessa e medesima cosa. Questa osservazione è diretta a coloro che meditano sul non-Supremo per mezzo di simboli percepiti, pronunciati o pensati. Essi attribuiscono al Brahman qualità da cui Esso è libero nella sua pura natura. Per esempio considerano che Brahman manifesti il mondo, lo mantenga in esistenza e, infine, lo dissolva. Ma ciò è effetto d’una illusione, perché il Brahman non agisce e, in se stesso, è privo di qualsiasi funzione e attributo. Gli ignoranti che sono coinvolti nel divenire, gli attribuiscono queste qualità (guṇa) e immaginano che esista un Brahman qualificato (saguṇa), quando, invece, c’è soltanto un Brahman privo di qualifiche (nirguṇa), immutabile e non duale. Tuttavia coloro che ambiscono a raggiungere quella loro idea (o ens rationis) chiamata Brahman non-Supremo, tramite la meditazione sui simboli che rappresentano le sue qualità, funzioni e attributi, si avviano e procedono nel divenire illusorio verso una meta, che in realtà è soltanto un riflesso macrocosmico del Parabrahman sul piano di riflessione della Buddhi universale, ossia Hiraṇyagarbha. Da ciò deriva che Hiraṇyagarbha è l’Ego generale del mondo della veglia, definito anche jīva ghana, agglomerato di vita. Di fatto, coloro che procedono a tappe in direzione di ciò che considerano sia il Brahman, e che la śruti definisce saguṇa o Aparabrahman, finiscono semplicemente a “incorporarsi” nel jīva ghana.
1
Si presti attenzione a questa affermazione: infatti suṣupti appare come lo stato causale della veglia e del sogno solamente per chi si pone al punto di vista dello stato di veglia. Perciò il pensiero che il sonno profondo sia “stato causale” è una “apparenza illusoria”, poiché non è la reale natura di suṣupti, la quale, invece, è il Sākṣin (l’Ātman). Credere il contrario darebbe eterna realtà alla Māyā (producendo una dualità con la realtà del Brahman) la quale appare reale soltanto a causa dell’ignoranza. La stessa argomentazione può essere applicata all’avidyā: l’ignoranza, infatti, appare reale solo illusoriamente. Sostenere il contrario, cioè che l’avidyā sia reale per sua natura, rappresenta l’errore della dottrina detta mūlāvidyāvāda.
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88. Affermare che l’intelletto è cosciente contraddice sia la śruti sia la ragione. Questa confutazione è valida anche per ciò che riguarda il corpo, i sensi e la mente.
L’intelletto per sua natura è privo di coscienza: questo lo afferma la śruti come segue: “Quando è separato dalla Coscienza, l’intelletto non può discriminare né può avere consapevolezza di alcun oggetto.”1
Persino la ragione, sulla base dell’esperienza quotidiana del sonno profondo, è obbligata a dedurre che si continua a esistere anche in assenza di qualsiasi consapevolezza da parte della buddhi. L’intero brano parzialmente citato dalla Kauṣitakī Upaniṣad afferma che nemmeno il corpo, i sensi e la mente sono coscienti. 89. In caso contrario, che cosa succederebbe? Si ricadrebbe nell’errore dei materialisti (cārvāka). E nemmeno ci potrebbe essere l’intuizione d’essere il Testimone se non ci fosse il riflesso della Coscienza nell’intelletto.
Se si considera che intelletto, mente, sensi e corpo possano essere coscienti per loro conto, si rimarrebbe prigionieri della collocazione nel corpo grossolano di tutte quelle componenti individuali, e quindi si negherebbe l’esistenza di qualsiasi entità diversa dal corpo, come fanno i materialisti. Inoltre, se l’intelletto fosse autocosciente esso lo sarebbe anche durante il sonno profondo, perciò non sarebbe possibile sostenere che in suṣupti esso sia non cosciente. Invece nella veglia non si può ricordare di aver avuto, in sonno profondo, alcun pensiero o alcuna percezione di un mondo e dei suoi oggetti; tuttavia si è consapevoli di esserci stati e di continuare a esistere anche dopo tale esperienza. Perciò in suṣupti si esiste anche se lì non c’è la mente, l’intelletto né altre componenti individuali che gli ignoranti considerano “coscienti”. Questa è l’intuizione e la prova che la nostra vera natura è il Testimone, cioè la pura Esistenza, pura Coscienza. 90. Senza questa intuizione preliminare l’insegnamento “tu sei Quello” sarebbe inutile. Questo mahāvākya pregno di significato sarebbe senza senso se non si distinguesse già tra Sé e non-Sé (ātmānātman).
La certezza di esistere e di essere cosciente (Ātmā pratyaya) è l’intuizione primordiale d’essere il Sākṣin. Da questa certezza primordiale derivano successivamente, a causa dell’ignoranza, le sensazioni di essere un “io” individuale (aham) e di possedere un “mio” (mama), che costituiscono l’errore dell’asmitā. Tutto questo, sia la certezza inconfutabile sia le sensazioni erronee, procede dal Testimone che, come s’è già detto, è l’unica consapevolezza di vera conoscenza. Senza questa intuizione il mahāvākya “tu sei Quello” non avrebbe alcun senso. E con l’uso metodico della discriminazione, applicato alla comprensione di cosa significhi esattamente “tu”, si potrà sceverare l’Ātman, il Testimone, da ciò che non è Ātman, l’anātman, ovvero l’asmitā. 91. Tutto ciò che è conosciuto come “mio” (mama) e come “questo” (idam) si basa evidentemente su ciò che è non-Sé [mentre l’idea dell’ego, distinta da ogni attribuzione, si basa sul Sé di cui è l’immagine]. Ciò che si conosce come “io sono così e così” è, dunque, attribuibile sia al Sé sia al non-Sé: l’“io” preso singolarmente è attribuibile al Sé, e “sono così e così”, al non-Sé.
Tutti gli oggetti che sono dominio dell’aham, ovvero quelle cose che sono possedute dall’“io”, assieme a tutte quelle che l’aham desidera possedere, sono compresi nel termine “mio”. Sia gli oggetti compresi nel concetto di mama sia tutti gli altri oggetti appartenenti al mondo della veglia o del sogno, sono denominati “questo” (idam). Essi si basano tutti sull’anātman; perciò idam, definisce tutto ciò che è contingente (vyāvahārika), la cui esistenza apparente dipende dall’esistenza reale dell’Ātman. Idam, “questo”, sta in contrapposizione con “Quello” (tat, come nel mahāvākya “Tat tvam asi”), che indica l’Ātman, ossia la realtà assoluta, pāramārtika sattā. Quando il guru spiega al discepolo il mahāvākya “tu sei Quello”, con il “tu” (tvam) egli intende l’Ātman o l’anātman? Per rispondere alla domanda si devono fare alcune considerazioni preliminari. L’esistenza dell’ego si basa sull’Ātman reale, di cui è un’immagine riflessa, com’è stato ampiamente argomentato in precedenza. Si può descrivere il proprio “io” come segue: “Io sono così e così”. In questa frase, “io” riguarda propriamente l’“io” reale, vale a dire il Sé, giacché afferma semplicemente la sua esistenza. Invece, “così e così” sono gli attributi, le funzioni, le attività, le descrizioni, il mama, che si sovrappongono all’“io” individuale. Come si è già anticipato, quando il discepolo riceve da un maestro di Vedānta quel mahāvākya, egli non ha ancora usato la discriminazione 1
Come, appunto, durante il sonno profondo. Kauṣitakī Upaniṣad, III. 7.
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“neti neti”, e non è in grado di discernere a quale “io” si riferisca il “tu” (tvam). Perciò, per il discepolo quell’“io” gli apparirà come fosse insieme della natura del Sé e del non-Sé (Ātmānātman). In altri termini egli sta confondendo ancora il reale con l’apparente e viceversa.
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19. COMMENTO AL “TATTVAMASI” DI ŚAṂKARĀCĀRYA (VI) 92. Tutti questi pensieri devono essere considerati come espressioni attribuite al Sé in modo più o meno diretto. Il problema di quali fra essi qualifichi che cosa e quale è qualificato da che cosa, va risolto secondo ragione.
In questa prospettiva, tutti i pensieri o idee, sintetizzati dalla formula “così e così”, devono essere considerati come sovrapposizioni (adhyāsa) al Sé, in modo diretto se riguardano la buddhi: il suo potere discriminante, le valutazioni riguardanti l’utilità o la nocività, le volizioni ecc. Si potrà facilmente riconoscere che queste qualità della buddhi sovrapposte al Brahmātman costituiscono quell’idea che gli esseri umani chiamano “Dio”1, che lo si chiami indifferentemente Bhagavān, Hiraṇyagarbha o Brahmā. Altri pensieri, emozioni o sensazioni, invece, che provengono dalla mente, sensi, prāṇa, corpo e oggetti, sono sovrapposti all’Assoluto per via indiretta, perché necessariamente devono essere mediati dalla buddhi stessa, in quanto essa rappresenta per il Sé il piano di riflessione più diretto. In questo caso si tratterà per esempio, di attribuire al Brahman la compassione, che è un sentimento della mente; la visione, che è una caratteristica percettiva dei sensi; la grandezza, che è una qualità dell’estensione corporea2. Si deve però saper discriminare per mezzo della riflessione (manana) tra le qualifiche che sono attribuite all’Assoluto e l’Assoluto stesso. 93. “Mio” e “questo” nella frase “Io sono così e così” [cioè rappresentati dalle parole “sono così e così”], sono attributi che qualificano l’io, proprio come ricchezze e armenti sono qualità attribuite ai loro proprietari. Similmente il corpo è qualità attribuita al senso dell’ego, ahaṃkāra. 94. Tutto ciò che rientra nell’intelletto, compreso l’ahaṃkāra, è, secondo questo ragionamento, qualità attribuita al Testimone. In questo modo la pura Coscienza, senza mai venire in contatto con nessuna cosa, illumina tutto per mezzo del suo riflesso.
Come le ricchezze e il bestiame sono beni che qualificano come abbienti e benestanti i loro padroni, così “mio” e “questo” (idam3) sono qualità che vengono attribuite al Sé. Similmente il corpo è attribuito come qualità all’ahaṃkāra, ossia alla buddhi in quanto produttrice dell’“io” individuale. Il corpo, infatti, non può essere collegato direttamente al Sé perché è in contatto con l’Assoluto soltanto in forma mediata per le ragioni di cui sopra. Il corpo grossolano, inoltre, è il luogo in cui l’ahaṃkāra si colloca spazialmente, perciò le sovrapposizioni indirette si situano sempre nel corpo, il che è esattamente quello che trae in inganno i materialisti. Ciò che compone e caratterizza la buddhi in quanto ahaṃkāra 4, comprendente anche tutti i suoi derivati, mente, sensi ecc., appare all’uomo ordinario come fosse una serie di qualità. Ma, in realtà sono proiezioni nel molteplice del loro principio, il Testimone. Così la pura Coscienza, senza mischiarsi ad alcunché, illumina tutto per mezzo del suo riflesso: vale a dire, per essere più precisi, microcosmicamente per mezzo dell’ego e macrocosmicamente per mezzo di Hiraṇyagarbha5. 95. Tutto quello che precede, secondo le esperienze dell’uomo ordinario, è il rovescio della realtà. Per chi non ha capacità di discriminare, ogni cosa esiste in quanto tale. Ma per coloro che hanno capacità discriminante niente di questo esiste davvero, eccetto il Sé.
I quattro śloka precedenti illustrano la visione empirica (vyāvahārika darśana) dell’uomo ignorante (ajñāni), che però rappresenta anche il punto di partenza per il cercatore della conoscenza (jijñāsu). Ebbene, questa prospettiva è esattamente il rovescio della realtà. Per coloro che sono sprovvisti di discriminazione (viveka), l’“io”, il “mio” 1
2
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4
5
“Dio è il Sapiente, il Giusto, il Volente”. Il concetto teologico, perciò, descrive la Divinità per mezzo delle facoltà di indagine, giudizio e volontà, caratteristiche della buddhi. “Dio è compassionevole, Dio vede tutto, Dio è grande, l’Altissimo”. È l’attitudine devozionale che attribuisce alla Divinità funzioni emotive, percettive e persino aspetti dimensionali. Idam comprende, oltre al mama, anche tutti le cose esterne che, anche se non appartengono fattualmente all’aham, sono comunque oggetto di desiderio. Ricordiamo che la buddhi diventa ahaṃkāra solamente allorquando è illuminata dal riflesso del Sé; cioè quando appare come se fosse dotata di una coscienza individuale. Hiraṇyagarba, l’embrione d’oro dell’Uovo del Mondo (Brahmāṇḍa), è simboleggiato dal sole che tutto illumina.
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esistono, e persino l’idam, vale a dire anche tutti quegli oggetti che sono fuori dall’immediato interesse e dalla avidità dell’ego; per gli ignoranti ogni sovrapposizione (adhyāsa) e ogni qualità distintiva (viśeṣaka guṇa) che essi attribuiscono alla realtà, esistono davvero. Il cercatore, quindi, dovrà discriminare tra reale e irreale (satasat) per mezzo del “neti neti”, e alla fine riconoscerà che niente di quello che all’inizio credeva reale esiste davvero, eccetto l’Ātman. 96. Perché solamente ragionando sulla concordanza e sulla discordanza tra le parole e il loro significato si può determinare il significato di “io” in questo contesto.
Non si può capire il significato di una frase se non si comprendono a fondo i significati di ogni singola parola che la compongono. Inoltre si devono distinguere con precisione le parole dal loro significato, perché la parola è un simbolo che allude a un concetto simboleggiato, il quale ne costituisce propriamente il significato. Si dovrà anche in questo caso distinguere in cosa la parola concordi con il suo significato e in cosa se ne discosti. Per esempio quando si dice “in questo piccolo loto che sta nel cuore, che è all’interno della cittadella di Brahman”1 si dovrà verificare che cosa significhino le parole “loto” e “cittadella”, perché tutti sanno che nel muscolo cardiaco non c’è nulla di simile. Perciò “loto” e “cittadella” non dovranno essere intesi nel loro senso primario e letterale, ma in senso secondario e analogico, se si vuol capire che cosa simboleggino. Solamente procedendo in questo modo si potrà capire il “tu” (tva) a quale “io” corrisponda nel precipuo contesto del mahāvākya, ossia se all’ego o al Sé. 97. Quando ritorno allo stato di veglia e asserisco di non aver visto niente durante la mia esperienza di sonno profondo, nego soltanto ogni modificazione mentale di conoscitore-conoscenza-conosciuto; ma non nego affatto la presenza della mia Coscienza in quello stato.
Quando si ritorna allo stato di veglia2 a conclusione dall’esperienza dello stato di sonno profondo, si suole affermare che in suṣupti non si era veduto nulla, udito nulla, conosciuto nulla, e che per quella ragione da svegli non si può ricordare nulla. Ma in realtà né la buddhi né tantomeno il manas hanno accesso all’informale (arūpaka bhava). I pensieri intellettuali e mentali prendono la forma dell’oggetto con cui entrano in contatto e questa forma, poi, è conservata nella memoria, come esperienza passata, o rielaborata dall’immaginazione come ipotesi di una futura esperienza. Ma in sonno profondo non ci sono oggetti, perciò le facoltà preposte al pensiero, anche se potessero avervi accesso, lì non potrebbero attivarsi come conoscitrici, né attuare una conoscenza, né riscontrare qualcosa da conoscere, né prendere la forma di alcunché. Questa assenza di ricordi, pensieri, forme, dovuta al fatto che le facoltà individuali ne sono escluse, non è tuttavia in grado di negare il fatto che si ha piena consapevolezza di aver sperimentato lo stato di sonno profondo. Pare anche di sapere di “esser stati in sonno profondo per un certo tempo”, anche se in realtà suṣupti è priva di tempo, essendo eterna. Questa idea di aver passato qualche ora in sonno profondo è un’idea di chi è sveglio e che, perciò, quantifica quell’esperienza secondo le condizioni temporali della veglia. Anche se la consapevolezza si basa su parametri erronei tipici della veglia, nondimeno l’esperienza del sonno profondo è cosa certa e acquisita. Perciò, riconoscendo l’esistenza di quella esperienza, si ammette anche l’esistenza del Testimone di quell’esperienza. Perché se suṣupti fosse davvero “nulla”, come pare, sarebbe impossibile andare in sonno profondo e il sonno profondo non esisterebbe affatto. Ma ciò è contrario alla śruti e alla ragione. 98. Proprio la śruti discrimina tra la Coscienza stessa da una parte e le modificazioni mentali dall’altra e dichiara che solo la prima è immutabile e realmente esistente, e che c’è una frattura tra la Coscienza e gli oggetti che le sono attribuiti, quando sulla Coscienza afferma: “la conoscenza del Conoscitore non cessa d’esistere” 3; e quando dice: “In sogno questo puruṣa s’illumina di luce propria”4, riferendosi agli attributi che le sono sovrapposti. 1 2
3 4
ChU VIII. 1. 1. In realtà si rimane sempre nello stato di suṣupti, poiché gli stati di veglia (jāgrat avasthā) e di sogno (svapna avasthā) sono eternamente contenuti nel sonno profondo come effetti (kārya) nella causa (kāraṇa). L’entrare e l’uscire da uno stato all’altro costituisce propriamente l’illusione del saṃsāra. BU IV. 3. 30. BU IV. 3. 9-13.
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Secondo le Upaniṣad solo la Coscienza-conoscenza è immutabile e realmente esistente. Al contrario, tutte le sovrapposizioni che la mente attribuisce all’Assoluto, sotto forma di sue modificazioni, idee e pensieri, sono mutevoli ed esistenti soltanto in apparenza. La śruti afferma che tra la Coscienza e gli oggetti che la mente ignorante le attribuisce si pone una frattura incolmabile. A proposito della Coscienza essa insegna che “Anche se non compie alcuna azione conoscitiva, Egli rimane un Conoscitore pur essendo privo di qualcosa da conoscere. La conoscenza del Conoscitore non cessa d’esistere perché è immutabile: infatti non esiste un secondo oltre a Lui, un oggetto altro e distinto da Lui che Egli possa conoscere”.1
Per dimostrare che gli attributi che la mente (antaḥkāraṇa) sovrappone al Sé sono irreali, la śruti fa l’esempio delle modificazioni mentali sia nella veglia sia nel sogno: “Quando sogna, per il fatto che si è impossessato di elementi tratti da tutto questo mondo, crea e dissolve a sua volontà, dimorando nella propria luce, nel suo splendore. In sogno questo puruṣa s’illumina di luce propria. [...] Volando su e giù mentre sogna, come fosse Dio, assume forme diverse: certe volte si diverte e gode con delle donne, altre volte subisce delle visioni terrificanti”.2 99. Una volta che è stato capito il significato di “tu sei Quello”con l’aiuto della grammatica e della śruti, allora l’insegnamento del “tu sei Quello” rimuove definitivamente l’illusione dal discepolo.3
Quando si è compreso a fondo il significato del mahāvākya “tu sei Quello” sia nelle tre parti del discorso di cui si compone, sia nell’insieme della frase, allora la discriminazione avrà rimosso per sempre l’ignoranza (avidyā) illusoria (mohana) dal cercatore. La grammatica e la riflessione sulla śruti rappresentano le basi per la comprensione di ogni singola parola, mentre l’insegnamento orale (śrāvaṇa) da parte di un maestro è lo strumento per la comprensione dell’intera frase. 100. È come quando Brahmā rimosse l’ignoranza di Rāma con queste semplici parole “Tu non sei il figlio di Daśaratha, tu sei Viṣṇu”. Egli non fece riferimento ad alcuna azione che Rāma dovesse compiere per risvegliare la sua natura come Viṣṇu. A Rāma bastò soltanto ascoltare quelle parole. 101. Allo stesso modo, senza che sia richiesto nient’altro che ascoltarla, la parola “tu” rivela il Sé interiore auto luminoso del mahāvākya “tu sei Quello” il cui “risultato” è la Liberazione.
Non si deve compiere alcuna azione per uscire dal dominio dell’azione. Il metodo si basa esclusivamente sulla Coscienza-conoscenza di essere, di esistere. Perciò, almeno in linea di principio, basta ascoltare l’insegnamento del maestro (śrāvaṇa) per capire che “tu” significa il Sākṣin e non l’“io” empirico. In questo modo il Testimone è dichiarato identico al Sé proprio affermando “tu sei Quello” e così si verifica la Liberazione dall’ignoranza. 102. Se la sacra conoscenza non affiora al semplice ascolto (śrāvaṇa) del mahāvākya, si dovrà certamente presumere che debba essere compiuto qualcos’altro. Tuttavia, per coloro a cui la completa conoscenza non sia venuta subito dopo l’ascolto dell’insegnamento, non esiste alcuna ingiunzione del tipo [di quelle che i maestri delle vie della conoscenza non suprema impongono ai loro discepoli], poiché per loro, anche prima che ne abbiano l’intuizione immediata, è ovvio che il Sé esiste comunque.
Solamente i jijñāsu particolarmente qualificati, grazie alla purificazione avvenuta nella presente esistenza o in esistenze precedenti, hanno la possibilità di ottenere la conoscenza suprema semplicemente ascoltando l’insegnamento del guru. Coloro che non hanno raggiunto la Liberazione con il solo ascolto, dovranno dedicarsi alla riflessione (manana) e all’attenzione contemplativa (nididhyāsana), che sono azioni mentali (mānasa kriyā) discriminative (vivekavat), sulla base del contenuto dell’insegnamento ricevuto. Queste attività, però, non consistono nella meditazione su un simbolo che rappresenta una meta da raggiungere positivamente, come sono la 1 2
3
BU IV. 3. 30. BU IV. 3. 9; IV. 3. 13. Quando questa esperienza onirica si applica all’“io” generale, a Hiraṇyagarbha, che è propriamente il Dio dei profani, questo suo sogno piacevole costituisce i cieli e il suo incubo, gli inferni, a cui partecipano salvati e dannati allorché vi sono incorporati alla sua forma di jīva ghana. Śaṃkara, US XVIII. 99.
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ripetizione di un mantra o la concentrazione mentale su uno yantra, da mettere in pratica in obbedienza al comando (vidhi) del maestro. Queste ingiunzioni da parte di un guru della conoscenza non suprema, sono sempre accompagnate da spiegazioni sull’uso di tali tecniche, ma scarsamente dotate di spiegazioni sul significato dottrinale del simbolo messo in pratica. “Invece si deve riflettere sull’argomento rispettando esattamente le conclusioni dei testi sacri in conformità con il solo ragionamento e la cosa che è determinata dalla logica e dagli Agama [le Upaniṣad] dovrà portare anche alla pratica di nididhyāsana. Considerare nididhyāsana come un’ingiunzione ulteriore sarà perciò certamente inutile.”1
La tecnica usata dal brahmajijñāsu, com’è stato detto, sarà sempre quella della discriminazione; cioè la rimozione dell’anātman per arrivare a riconoscere l’Ātman eternamente esistente e cosciente, illuminazione suprema, di cui egli già conosce, peraltro, la verità dottrinale. 103. La reale comprensione del senso di frasi2 come “tu sei Quello” sorge immediatamente dal loro ascolto e libera da tutte le limitazioni trasmigratorie come la fame ecc. Non vi è quindi alcun dubbio sulla verità del loro significato nel passato, nel presente e nel futuro.
La conoscenza reale del significato dei mahāvākya non è il risultato della più accurata comprensione dottrinale possibile. La conoscenza teorica, per quanto estesa e precisa, deve essere considerata soltanto una fase preliminare, poiché essa non ha il potere di attuare la realizzazione spirituale. Molti conoscitori teorici del Vedānta si convincono di essere dei jñāni per la semplice ragione che nella loro mente tutta la dottrina appare armonica e non contraddittoria, e si stupiscono di non aver raggiunto con ciò il mokṣa. Ma la Liberazione avviene solamente quando, rimanendo in vita, si riesce a sfuggire alle limitazioni del proprio corpo, sede dell’ego, dei sensi ecc. Per questa ragione lo śloka afferma che mokṣa è la Liberazione permanente dalla fame e da tutte le altre condizioni limitative, vale a dire spazio, tempo, mente, intelletto, corpo ecc. Essa è realizzata dall’ascolto della dottrina nascosta nel mahāvākya, confidata espressamente a ogni singolo discepolo e che consiste nella “vera natura del proprio Sé per mezzo dell’insegnamento della śruti impartito da un maestro qualificato, che sia un adepto e che abbia fatto di persona l’esperienza delle verità del Vedānta”3. Perciò la comprensione della natura del proprio Sé è indipendente dalle condizioni temporali. Non ha importanza in quale momento della successione cronologica ciò avvenga; ciò che importa è che il mokṣa cancelli l’ignoranza. La Liberazione che avviene quando si è ancora un embrione, come fu il caso di Vāmadeva, o quella che avviene un istante prima di lasciare questo corpo, è sempre la medesima eterna Coscienza d’essere il Brahman. Come pure se essa avviene direttamente dall’ascolto (śrāvaṇa) della parola del guru, durante la riflessione (manana) sugli insegnamenti ricevuti, o esercitando l’attenzione cosciente (nididhyāsana) come Sākṣin, perché la sua verità è immutabile indipendentemente dal triplice tempo (trikāla). 104. La retta conoscenza del Sé, che è della natura della pura Coscienza, emerge senza alcun dubbio in modo immediato all’ascolto dell’insegnamento, perché gli ostacoli alla sua comprensione devono essere già stati rimossi in precedenza per mezzo della riflessione sul senso grammaticale [del mahāvākya] e per mezzo della discriminazione.
Coloro che sono tanto qualificati in virtù delle loro azioni e conoscenze passate da realizzare con il solo śrāvaṇa, in realtà non hanno saltato a piè pari manana e nididhyāsana, ma semplicemente hanno compiuto questi passaggi durante un’esistenza precedente; oppure in questa vita durante la purificazione della mente, seguendo un metodo basato sulla meditazione. Ma ciò può anche accadere durante lo stesso ascolto. Pur essendoci una successione logica tra queste tre tecniche, esse sono comunque libere per loro natura da una ferrea concatenazione cronologica, in quanto non si tratta di tappe che corrispondono ai gradi d’un percorso né di fasi temporali. In questo śloka, con riflessione sul senso grammaticale s’intende manana e con discriminazione, nididhyāsana. 1 2
3
BUŚBh II. 5. 1. Oltre al mahāvākya “tu sei quello” la śruti ne enumera almeno altri tre: ahaṃ brahmāsmi, “Io sono Brahman” (BU I. 4. 10); ayam ātmā brahma, “questo Ātman è Brahman” (MU I. 2); e prājñānam brahma, “Brahman è Coscienza-conoscenza” (AiU III. 3). Svāmī Satcidānandendra, Dottrina e Metodo, cit. p. 37.
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Ovviamente gli ostacoli alla comprensione sono rappresentati dal dubbio, dalla conoscenza erronea e dall’ignoranza, che sono tutti eliminati tramite il “neti neti”. 105. Questa frase suggerisce che “Io” sono davvero la Realtà assoluta o qualcos’altro? Se suggerisce che “Io” sono davvero la Realtà assoluta, il significato di “Io” dovrà essere identico a quello di “Realtà assoluta”.
Il mahāvākya “Tat tvam asi”, dunque, insegna che “Io” sono davvero nient’altro che il Brahman. Ovviamente questo “Io”, vale a dire il Testimone, deve essere considerato eternamente identico al Brahman, per cui questa conoscenza non è qualcosa che prima non c’era e poi si è acquistata, perché in questo caso si parlerebbe di una “azione volta a raggiungere la conoscenza”. Il Sé, il Testimone, se è identico eternamente al Brahman, non compie alcuna azione. Perciò la vera Coscienza-conoscenza di cui si tratta è la reale natura dell’“Io”. 106. Ma se questo Grande Detto suggerisce qualcos’altro, in tal caso la convinzione che “io sono la Realtà assoluta” dovrebbe essere falsa. Perciò quando la parola “io” è presa in senso letterale per significare qualcosa d’altro dalla “Realtà assoluta” appare evidente la contraddizione con quanto ci mostra l’esperienza.
Se invece si pensa che il “tu” del mahāvākya sia l’“io” individuale, per cui l’“io” sarebbe l’Assoluto, allora il senso della frase sarebbe erroneo (bhramati). Anche in questo caso una simile idea appare in contraddizione con le affermazioni della śruti e con l’esperienza quotidiana, che dimostrano che l’“io” è contingente (prasaṅgin) e transitorio (anitya). L’illusione cosmica (moha, māyā) agisce sull’“io” individuale per mezzo di tre fattori: il primo è il dubbio (śaṃkā, sandeha), il secondo è la falsa conoscenza o interpretazione erronea (bhrama, mithyā), il terzo l’ignoranza (avidyā, ajñāna), che è l’origine dei due precedenti 1. Prendere l’“io” per l’Assoluto è una erronea interpretazione di una corretta affermazione scritturale, per cui va annoverato come mithyā. 107. Ora, l’intelletto e le sue modificazioni, riflettendo in loro il Sé, esistono grazie a Quello. Poiché non sono coscienti, si dice in forma immaginifica che la Liberazione, quale “effetto” della conoscenza liberatrice è dovuta alla pura Coscienza. 108. In realtà, le due supposte cause dell’“effetto-Liberazione”, cioè l’intelletto e le sue modificazioni, non sono coscienti e perciò non sono della medesima natura dell’“effetto”. Si dovrà dunque attribuire quest’ultimo all’Immutabile non agente, come la vittoria, ottenuta dai semplici combattenti, è giustamente attribuita al Re.
L’intelletto e le sue modificazioni appaiono nell’Essere e sembrano coscienti grazie all’esistenza e alla Coscienza di Quello, del Sé. L’intelletto e le sue modificazioni non sono coscienti per natura; perciò si usa dire solo in senso metaforico che è questa coscienza, che la buddhi e le sue vṛtti hanno preso in prestito, a dover essere considerata causa della Liberazione. Ma la causa e l’effetto devono essere della medesima natura. L’intelletto e le sue modificazioni non sono della natura della Liberazione. Invece, la Liberazione, o meglio, la Libertà, è la stessa natura dell’Assoluto. Perciò sarà corretto affermare non che è la buddhi e le sue vṛtti a essere la causa, e la Liberazione l’effetto della loro azione, bensì l’Ātman non agente e immutabile. Allo stesso modo la vittoria sul campo di battaglia non deve essere mai attribuita al singolo soldato combattente, ma al Re, anche se egli fosse stato assente dalla lotta. 109. L’aspirante alla conoscenza afferma: “Quel riflesso per mezzo del quale lo specchio assume la forma della faccia, è esso stesso la faccia”. Con ciò egli vuol dire che quel riflesso, per mezzo del quale lo specchio, la buddhi, e le modificazioni mentali, danno origine al senso dell’ego (asmitā), è veramente il Sé. 110. Solamente questo è il modo in cui deve essere intesa la frase “io sono Brahman”, e nessun altro. Senza questa “mediazione” il mahāvākya “tu sei Quello” sarebbe inutile.
Il jijñāsu, come s’è già detto, deve forzatamente partire nella sua cerca da una premessa erronea; ossia dalla credenza che l’aham è realmente il Sé. In seguito all’esercizio della discriminazione egli comprenderà che l’ego è inesistente (abhava) e che il vero “Io” è il Testimone. Perciò all’inizio il mahāvākya “ahaṃ brahmāsmi”, “io sono il Brahman” è interpretato in modo che quell’“io” sia considerato l’ego individuale. Questo equivoco (mithyā) è usato come uno strumento di mediazione al fine di raggiungere la vera conoscenza. Senza questa mediazione 1
Da ciò si trae che la māyā è nel macrocosmo ciò che nel microcosmo è avidyā.
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l’uomo ordinario considererebbe soltanto l’ego e non avrebbe alcuna possibilità di contatto con il suo vero Sé. Perciò rivolgerebbe la sua attenzione esclusivamente agli oggetti del mondo esterno in stato di veglia e agli oggetti interni nello stato di sogno, mentre escluderebbe ogni realtà al sonno profondo. Per essere più chiari, l’ignorante si trova nella medesima situazione di Indra quando ancora non aveva ottenuto da Prajāpati l’insegnamento del Vedānta: “Quando [si è in stato di veglia] il corpo è ingioiellato, allora anche l’ātman è ingioiellato; quando il corpo è ben vestito, allora anche l’ātman è ben vestito; quando il corpo è cieco, allora anche l’ātman è cieco; quando il corpo è deforme, allora anche l’ātman è deforme; quando il corpo è mutilo, allora anche l’ātman è mutilo. 1 [...] Quando [, invece, si è in sogno] se il corpo è cieco l’ātman non lo è; se il corpo è deforme l’ātman non lo è; se il corpo è ferito l’ātman non lo è; se il corpo è malato l’ātman non lo è. Tuttavia [sempre in sogno] sembra essere ucciso, sembra soffrire, sembra provare infelicità, sembra piangere.2 [...] Quando [, infine, si è in sonno profondo] l’ātman, come “io” individuale della vita presente, non conosce se stesso, non conosce altri esseri. Quello [per lui] è davvero il nulla.”3
Perciò ritenere erroneamente che il riflesso sia il vero Sé costituisce un pensiero mediatore tra l’apparente coscienza individuale e il Testimone. Si tratta della necessaria fase di adhyāropa, senza la quale i mahāvākya sarebbero inutili. L’insegnamento ha un senso solamente se è indirizzato a un cercatore che lo ascolta. Certamente, se il cercatore che ascolta non fosse il Testimone, chi altri potrebbe esserlo? L’insegnamento di śrāvaṇa, perciò, non è indirizzato all’“io” individuale, perché il Brahman non può essere l’oggetto della sua cerca, perché allora quest’ultima sarebbe un’azione conoscitiva. Perciò il cercatore a cui è indirizzato l’insegnamento non può essere che il Sākṣin, perché la conoscenza che il Testimone ha del Brahman è la conoscenza di se stesso. Il Brahman, dunque, non può essere l’oggetto di una cerca da parte del Testimone, in quanto Sākṣin e Brahman sono un tutt’uno non duale. 112. Se sostieni che l’intelletto potrebbe essere questo cercatore che ascolta l’insegnamento, per il fatto che è contiguo al Testimone, dici una cosa sbagliata, perché il Testimone in quanto tale non può aiutare l’intelletto ad ascoltare più di quello che potrebbe fare un pezzo di legno. 113. Inoltre, se il Sakṣin potesse in qualche modo essere d’aiuto all’intelletto per conoscere, ciò implicherebbe l’inaccettabile conseguenza ch’egli compirebbe un’azione, sottoponendosi così a una modificazione. Ma se si ammette la dottrina del riflesso non si porrà alcuna difficoltà del genere. Oltre a tutto la dottrina del riflesso è sostenuta dalla śruti e da altre fonti tradizionali.
Di nuovo Śaṃkara, rivolgendosi a un oppositore sāṃkhya, nega che il beneficiario dello śrāvaṇa possa essere la buddhi grazie alla presunta “contiguità” con il Testimone, poiché quest’ultimo, essendo non agente, non potrebbe essere d’aiuto all’intelletto più di un pezzo di legno, ossia di qualsiasi cosa impossibilitata ad agire. Se si considera che il Sākṣin possa essere coinvolto in un’azione, ciò comporterebbe necessariamente ch’egli sarebbe mutevole. Invece, la dottrina del riflesso permette di mantenere il Testimone come non agente, in quanto egli è per sua natura esente da qualsiasi cambiamento. L’abhasavāda spiega come il riflesso fornisca alla buddhi e alle sue modificazioni una parvenza di consapevolezza, in accordo con il rigore logico richiesto e con le affermazioni della śruti e della smṛti. Portiamo come esempio la Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad quando afferma: “Quella Sua forma riflessa esiste al fine di farlo conoscere. Perciò il Signore è recepito come molteplice a causa della Māyā”4.
E anche la Bhagavad Gītā: “Un raggio proveniente da me stesso, riflettendosi come jīva perenne nel mondo dei molteplici jīva, raccoglie intorno a sé i sensi, il sesto dei quali è la mente, che provengono da Prakṛti.”5 1 2 3 4 5
ChU VIII. 9. 1. ChU VIII. 10. 1-2. ChU VIII. 11. 1-2. BU II. 5. 19. Lo stesso concetto è sostenuto anche in Brahmabindu Upaniṣad, XI. BhG XV. 7. Oltre a questa smṛti, v. Kālidāsa, Raghuvaṃśa, X. 65.
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Nel suo commento Śaṃkara aggiunge: “Il jīva è solamente un’apparenza del sole reale, come il riflesso del sole nell’acqua; tolta l’acqua, il riflesso del sole torna alla sua origine, al sole e rimane identico a quello.”1
1
BhGŚBh, XV. 7.
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20. COMMENTO AL “TATTVAMASI” DI ŚAṂKARĀCĀRYA (VII) 114. Sbagli se pensi che la dottrina del riflesso implichi una modificazione per l’entità che si riflette, perché tale modificazione è illusoria come l’apparenza del serpente sulla corda e come l’esempio, già illustrato, del riflesso della faccia nello specchio.
Il riflesso del sole sulla superficie d’uno stagno può essere deformato e mosso dalle increspature del piano di riflessione acqueo. Il sole non viene intaccato da questi movimenti della superficie, perché l’increspatura delle onde appartiene alla natura dell’acqua e non a quella del sole. Il riflesso si muove e si deforma a causa della capacità di muoversi e modificarsi dell’acqua su cui si riflette. Ma le sue modificazioni e movimenti sono illusori, perché il riflesso è solo apparenza, come il serpente sovrapposto alla corda, come la faccia sovrapposta allo specchio. 115. Obiezione:1 Tu, obiettore, sostieni che la nozione del riflesso del Sé non può aver fondamento, a meno che lo si concepisca come indipendente dal Sé. Mentre la faccia e lo specchio li si concepisce indipendenti l’una dall’altro, il riflesso del Sé può essere accettato soltanto per mezzo di una dimostrazione basata su un circolo vizioso, in quanto la conoscenza del riflesso dipende da quella del Sé e quella del Sé dipende da quella del riflesso;
Secondo questo obiettore sia la faccia sia il riflesso della faccia nello specchio sono provati in tutta evidenza dalla percezione sensoria. Quell’esempio però non è applicabile a ciò che gli advaitin chiamano “riflesso del Sé”. Infatti si ha consapevolezza dell’esistenza dell’aham, mentre non c’è alcuna prova dell’esistenza del Sé di cui l’aham sarebbe il riflesso. Perciò è impossibile stabilire che l’aham sia di fatto un riflesso di qualcos’altro senza cadere nell’errore logico del circolo vizioso (anyonyāśrayadoṣa). Perché l’advaitin afferma di conoscere il Sé per stabilire che l’aham è un riflesso del Sé. Ma, allo stesso tempo, afferma anche di conoscere l’aham per stabilire l’esistenza del Sé che si riflette. Quindi per questa via non si può provare né che l’aham sia un riflesso del Sé, né che esista un Sé reale di cui l’aham dovrebbe essere un riflesso. 116. perché sostieni che noi [vedāntin] pretendiamo di conoscere che il Sé esiste indipendentemente dal riflesso prima ancora di affermare che il riflesso è realmente un riflesso del Sé. E, sempre secondo te, noi pretendiamo di conoscere che il riflesso è realmente un riflesso del Sé prima di affermare che il Sé esiste indipendentemente dal riflesso.
La scuola di Bhartṛprapañca sostiene che il riflesso, cioè l’ego, è una parte del Sé, come se il Sé potesse avere parti; perciò l’ego, essendo una parte del Sé, ha una sua realtà distinta e non è una mera apparenza riflessa. Questi bhedābheda vedāntin2 rimproverano agli advaitin di cadere nell’errore logico detto anyonyāśraya, “mutua dipendenza dell’effetto e della causa” o “ragionamento circolare” oppure, usando il corrispettivo della retorica classica, διάλληλος, “circolo vizioso”. Errore che non si presenta nell’esempio della faccia e dello specchio, in quanto, nell’esperienza comune, la faccia, lo specchio e il riflesso hanno tutti un’esistenza reale verificabile tramite i sensi e l’indagine mentale. 117. Risposta del vedāntin: Ma non è affatto così, perché nello stato di sogno l’intelletto e le sue modificazioni, da una parte, e il Testimone cosciente dall’altra, sono chiaramente distinti. In quello stato non ci sono né carri né altri oggetti esterni3 [poiché quegli oggetti che si vedono in sogno sono solamente interni], perciò il Sé lì deve avere direttamente per oggetti le modificazioni mentali. 1 2
3
L’obiezione corrisponde al pensiero di Bhartṛprapañca. Sostenitori del Bhedābhedavāda, dottrina della distinzione-indistinzione: per costoro l’“io” è parzialmente identico al Brahman e parzialmente se ne distingue. Per esempio l’“io” è della stessa natura del Sé perciò ne è indistinto. Ma non ha il potere di manifestare il mondo, perciò in questo caso se ne distingue. “Lì non ci sono carri, né cavalli da aggiogare [ai carri], né strade; ma egli [il Sakṣin] fa apparire i carri, i cavalli e le strade. Lì non ci sono piaceri, né gioie, né godimenti, ma egli fa apparire piaceri, gioie e godimenti. Lì non ci sono stagni, né piscine lustrali, né fiumi, ma egli fa apparire stagni, piscine lustrali e fiumi. Perché egli ne è la causa.” BU IV. 3. 10. “A questo proposito ci sono questi brevi versi: l’infinito Essere auto luminoso, durante il sogno rende inconsapevole il corpo e, rimanendo in se stesso sveglio, osserva le forme del sogno come modificazioni mentali [da lui stesso] illuminate.” BU IV. 3. 11. Quest’ultima citazone non è una traduzione letterale, che altrimenti sarebbe inintelligibile al lettore.
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Nello stato di veglia si vedono carri, cavalli e altri oggetti esterni al corpo del cercatore che osserva (dṛś) il mondo intorno a sé. Questi oggetti appaiono dotati d’una loro esistenza reale e indipendente. Nel sogno non ci sono oggetti esterni, ma solo oggetti che dimorano all’interno del sognatore che è il Testimone e il soggetto che osserva il sogno. Cosicché, quando si ritorna alla veglia, risulta certo che, quando si era in sogno, l’intelletto, la mente, i sensi e le loro modificazioni, carri cavalli ecc., erano gli stessi oggetti testimoniati direttamente dalla luce dell’Ātman. In altri termini, il Sé e l’intelletto, in sogno, sono rispettivamente il soggetto e l’oggetto chiaramente distinti, senza ulteriori oggetti che, come avviene nel caso della veglia, appaiano come fossero realmente esterni e distinti dal Sé e dalla buddhi. Nel sogno il Sé si manifesta in tutta evidenza come Coscienza auto luminosa 1, perché lì non ci sono oggetti esterni che siano fonti di luce, come il sole, la luna, le stelle e il fuoco. E nemmeno la vista, che, essendo una modificazione mentale, nello stato di sogno è un oggetto del sogno. Perciò non è possibile che la luce che illumina i sogni possa avere una fonte diversa da quella della Coscienza, cioè del Testimone. Quindi in sogno si ha esperienza sia dell’Ātman auto luminoso sia degli oggetti illuminati, che sono modificazioni mentali. Perciò non si può sostenere che in svapna avasthā questa esperienza diretta del Sé auto luminoso che osserva (dṛś) gli oggetti, cioè la fantasmagoria onirica di carri, cavalli ecc. (dṛśya), ricada nel caso del “circolo vizioso”. Questo perché in sogno, a differenza di ciò che sembra apparire nella veglia, non si presuppone una ipotetica esistenza del Sé, ma la si riconosce direttamente come l’osservatore (dṛś) del sogno. La prova dell’esistenza del Sé non dipende dunque affatto dall’esperienza del riflesso, poiché il riflesso è sperimentato separatamente dal Sé e in simultaneità. E questa è un’esperienza che anche la gente comune fa ogni volta che sogna. 118. Nello stato di veglia quando si sperimentano le percezioni sensorie, le modificazioni mentali, pervase dalla Coscienza, vengono in esistenza in forma di oggetti. Ora, ciò che imprime le loro forme a queste modificazioni si dice che siano gli oggetti esterni.
Dopo che si è dimostrato, attraverso l’osservazione della svāpna avasthā, che il Sé, pura Coscienza, è direttamente sperimentato come Testimone del sogno e che è distinto dalle modificazioni mentali che sono la visione onirica (svāpna darśana), si procederà ad attestare la medesima cosa analizzando la natura dello stato di veglia. Riportando dunque all’esperienza della veglia le deduzioni tratte dall’esame dello stato di sogno, si potrà verificare che nemmeno nel jāgrat avasthā esiste l’errore del “circolo vizioso”. Nello stato di veglia quando si sperimentano le percezioni tramite i sensi, si dice che esse siano prodotte da oggetti esterni. La mente e l’intelletto svolgono un ruolo apparente di conoscitori grazie al fatto che la Coscienza li rende parzialmente capaci di conoscere, tenendo sempre ben presente che non si tratta di vera conoscenza, ma di una azione investigativa. Così, si dice che, per mezzo dei sensi, la buddhi entra indirettamente in contatto con degli oggetti esterni. Sono i sensi che, avendo percepito direttamente, “informano” la mente e l’intelletto dell’esistenza di quegli oggetti presuntamente esterni; nel senso che trasmettono quelle forme (ākāra) degli oggetti al manas e alla buddhi che non hanno la capacità di percepirle direttamente. A questo punto è necessario sottolineare che per il Vedānta le facoltà di sensazione (jñānendriya) e le facoltà di azione (karmendriya), a differenza di quanto sostiene il Sāṃkhya, non sono affatto delle entità od oggetti separati (tattva), ma delle semplici modificazioni mentali. Quando la mente guarda, appare la sua modificazione chiamata “vista”; quando ascolta, la mente prende la forma dell’“udito” e così via. La mente è messa al corrente dell’esistenza di oggetti esterni solo per mezzo di quelle sue modificazioni che sono i sensi. E la mente, perciò, non può avere alcuna certezza della reale esistenza degli oggetti esterni. Quando la mente guarda, gli oggetti sono presenti, quando non guarda gli oggetti non ci sono. Le modificazioni mentali assumono perciò tali forme che sono indirizzate a due diverse destinazioni: esse diventano ricordi (smaraṇa) depositati nella memoria (smṛti), o idee (kalpa) da elaborare con l’immaginazione (kalpanā). Su questa base l’uomo ordinario crede che ogni sua forma mentale sia un oggetto esterno, mentre invece è solo frutto delle modificazioni del suo pensiero. Concludendo, il Testimone ha conoscenza degli oggetti del mondo esterno in quanto forme assunte dalle modificazioni dell’intelletto e della mente ecc. Perciò anche nella veglia gli oggetti di 1
“Come una spada sguainata, la luce del Sé, l’eterno Testimone, non dipendente da nulla, distinto dal corpo e da sensi come la vista, è sperimentato com’è, mentre illumina tutto”. BUŚBh IV. 3. 9.
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conoscenza del Testimone sono direttamente la buddhi, il manas e le loro rispettive modificazioni quando assumono quelle forme: esattamente come nello stato di sogno. Perciò la śruti afferma: “[...] ma, Yājñavalkya, quando il sole e la luna sono tramontati, il fuoco è spento, e ogni suono tace, quale luce illumina questo puruṣa?» «O Re, è la luce dell’Ātman. Illuminato dalla luce dell’Ātman il puruṣa sta, si muove, agisce e torna a casa.»”1.
Ribadiamo, dunque, che anche nello stato di veglia, in realtà, la luce non proviene dai luminari celesti né dal fuoco né dalla voce che la sostituisce, ma dallo stesso Testimone, il soggetto auto luminoso. E poiché gli oggetti di tale illuminazione sono invero le forme assunte dalla buddhi, dal manas, dagli indriya e dalle loro modificazioni (e non direttamente gli oggetti presuntamente “esterni”), è dimostrato che lo stato di veglia non differisce da quello di sogno. Perciò anche nello stato di veglia non si presenta affatto l’errore del “circolo vizioso”. 119. Quest’ultimo [l’oggetto “esterno”] è l’obiettivo di una azione [conoscitiva] da parte di un agente che desidera ottenerlo. A chi ha un tale desiderio viene ingiunto di compiere le azioni stabilite. Nel contesto dell’azione per conoscere un oggetto, l’intelletto che subisce la modificazione in forma dell’oggetto, è considerato lo strumento per conoscere l’oggetto.
Si aspira a conoscere un oggetto esterno quando si è mossi dal desiderio di ottenerlo, ovvero di farlo diventare parte del “mio”. Questo vale sia per il profano sia per il sādhaka che medita sui simboli, mosso dal desiderio di raggiungere e “conquistare” il Brahman saguṇa. In questo secondo caso l’azione di investigare, invece di sorgere spontaneamente dall’avidità dell’ahaṃkāra, avrà come origine l’ingiunzione da parte di un guru2. Tuttavia, in quest’ultimo caso, l’intelletto, che subisce la modificazione nella forma dell’oggetto presentatogli dagli indriya, che sia questa la forma percepibile tramite la vista, yantra, oppure quella vibratoria attuata tramite la parola, mantra, l’intelletto, si diceva, agisce semplicemente come strumento d’indagine, il cui soggetto è l’ego. La modificazione intellettuale, allora, deve essere considerata come una creazione immaginifica della forma suggerita simbolicamente dagli oggetti “esterni”, e apparirà mentalmente a ciascun sādhaka come una sintesi del cosmo proiettata a livello sottile, corrispondente al metodo impartito dal proprio guru. 120. Concludendo, l’intelletto pervaso dal riflesso della Coscienza è chiamato “conoscitore” nel senso di soggetto dell’azione di conoscere. Chiunque sappia discriminare i tre [conoscente, azione per conoscere e conosciuto] dal Testimone è un vero conoscitore del Sé.
L’intelletto pervaso del riflesso della Coscienza assume una parvenza di coscienza. In questo modo sembra essere il conoscitore (jñātṛ o jñātā) degli oggetti “esterni”, come soggetto (grāhaka, pramātṛ o viṣayin) di una azione volta a conoscerli. Ma il cercatore, dotato di discriminazione, rimuove come illusoria la triade composta da un soggetto che agisce per conoscere degli oggetti conoscibili per mezzo di una azione conoscitiva; questo perché riconosce che l’unico conoscitore del Sé è il “tu” (tva) in quanto Testimone. 121. Le modificazioni dell’intelletto sfumano l’una nell’altra e sono dette “idea veridica”, “idea dubbia” e “idea errata”. La Coscienza [che si riflette] in tutte loro è unica e la differenziazione è esclusivamente dovuta alle modificazioni.
Le modificazioni dell’intelletto che assumono le forme degli oggetti “esterni” hanno come base unica la stessa buddhi; però man mano che assumono le forme degli oggetti “esterni”, si allontanano progressivamente dalla loro stessa origine. Le forme che si producono per prime appaiono come “idee veridiche”, per poi sfumare in “idee dubbie” e infine in “idee errate”, seguendo il processo dinamico dei tre guṇa, sattva, rajas e tamas. Questa progressiva differenziazione delle idee dovute alle modificazioni mentali è illimitata come la produzione della serie numerica, mentre la Coscienza che vi si riflette è unica. 1 2
BU IV. 3. 1-6. Naturalmente questo desiderio deve essere considerato di natura particolarmente sāttvika.
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122. Come il cristallo assume diversi colori che compaiono [sulle sue sfaccettature] come apparenze (upādhi) proiettate dal contatto con oggetti che hanno tinte diverse, così ogni impurità e modificazione attribuite alla Coscienza, appartengono in realtà alle modificazioni dell’intelletto.
La medesima argomentazione si trova nel Sūtra Bhāṣya in forma leggermente ampliata, che qui può essere menzionata a commento di questo śloka 122: “Quando un cristallo [è posato sopra un oggetto colorato], la trasparenza e l’assenza di colore che sono la sua natura essenziale, appaiono indistinguibili dal rosso, dal blu e da altre forme e colori che gli si associano, prima che lo si riesca a distinguere [dall’oggetto colorato su cui giace]. Ma quando, con l’aiuto della discriminazione, che nasce dall’uso dei validi mezzi di conoscenza, si riesce a distinguerlo, il cristallo pare aver recuperata la sua vera natura di trasparenza e assenza di colore. In realtà esso è esattamente com’era prima. Questo è anche un esempio di come, nel caso del jīvātman, che appare indistinguibile dai condizionamenti che gli sono associati, come il corpo ecc., la conoscenza discriminante [neti neti], proveniente dall’apprendimento della śruti, lo distingue dal corpo. Il risultato di quella conoscenza discriminante è la realizzazione della propria vera natura.”1
In questa ultima citazione è affermata l’identità del jīvātman con il Testimone. Solamente gli ignoranti possono supporre che il jīvātman sia l’“io” individuale2, proprio perché attribuiscono al cristallo le tinte dell’oggetto a cui è appoggiato. Va da sé che ciò che qui è definito upādhi, apparenza, è esattamente sinonimo di adhyāsa, sovrapposizione. 123. Le modificazioni dell’intelletto sono manifestate, conosciute e dotate d’esistenza grazie a un principio da loro differente, quel Sé che è conosciuto immediatamente. Questa deduzione è illustrata con l’esempio della lampada, per provare che il Testimone deve necessariamente esistere al di là delle modificazioni dell’intelletto.
Le modificazioni della buddhi devono la loro apparente esistenza e realtà al fatto di essere oggetti di cui il Sé è Testimone, esattamente come l’apparente esistenza, realtà e percettibilità del serpente dipendono dalla reale esistenza della corda. Alcuni [gli yogacāra buddhisti] pensano che la realtà della corda dipenda dalla luce che, illuminando meglio l’ambiente permette di far svanire il serpente illusorio. A sua volta, la luce è più forte e in grado di illuminare meglio in ragione di una ulteriore causa; così questa dimostrazione cade nell’errore logico del regressus ad infinitum (anavasthāprasaṅga). Invece all’esempio della lampada com’è usato da Śaṃkara non può essere imputato tale errore, perché la luce della lampada altro non è se non l’azione della discriminazione che fuga le tenebre dell’ignoranza, mentre l’occhio che vede la corda illuminata è il Testimone della realtà. 124. Si può indurre una persona a conoscere quel Principio che è differente dalle modificazioni per mezzo di strumenti di prova positivi, oppure è soltanto per via negativa, ossia rimovendo tutto quello che non è quel Principio senza mai usare alcun mezzo positivo?
A questo punto si ripropone la questione se il Sé, che è differente dalle modificazioni dell’intelletto, mente, sensi, corpo ecc., possa essere conosciuto con l’uso dei pramāṇa; ossia se possa essere provato e realizzato per mezzo dello studio della śruti, della deduzione, dei sensi ecc. Oppure, se il Sé possa essere conosciuto solo ed esclusivamente per via negativa, rimovendo tutto ciò che è anātman senza mai usare nemmeno una volta alcun mezzo positivo. 125. Se su questo argomento tu sostenessi che si deve usare esclusivamente la negazione, il “neti neti”, per il fatto che si tratta d’un metodo basato in tutto e per tutto sull’autorità della śruti, risponderemo che in questo caso alla fine arriveresti solo al puro vuoto, poiché non avresti preso per nulla in considerazione l’intuizione dell’esistenza del Testimone.
Nonostante le apparenze, chi opta per un metodo esclusivamente negativo, a esclusione di qualsiasi intuizione positiva, commetterebbe un grave errore, paragonabile soltanto a quello dei buddhisti. È vero che la śruti insegna questo metodo, ma se si accettasse soltanto questo insegnamento si farebbe della śruti un testo eterodosso e si 1 2
BSŚBh I. 3. 19. Il significato del termine può essere espresso nei seguenti termini: l’Ātman apparentemente sottoposto alla condizione della vita (jīvan). Quando questa apparenza è presa come fosse reale, allora si usa definirlo con il termine di jīva, il vivente, sinonimo di ego (aham).
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arriverebbe a pensare che, dopo aver discriminato tutte le apparenze e le falsità, non rimarrebbe altro che il nulla, il vuoto (śūnya). Infatti il vedāntin, prima di discriminare, deve partire dall’intuizione dell’esistenza del Testimone. Altrimenti chi mai sarebbe colui che discrimina? Infatti, dopo aver discriminato e rimosso tutte le false apparenze, il Vedānta arriva alla conferma che l’unico esistente che rimane, alla fine, è l’unico cosciente, il Sākṣin. La śruti certifica l’esistenza della pura Coscienza, ma non può insegnarla, perché il Testimone non può essere conosciuto, perciò non può essere insegnato. La śruti può solo insegnare il metodo della discriminazione, ma, al tempo stesso, afferma l’esistenza del Brahman-Ātman sulla base dell’intuizione universale, non la teoria negativa (nāstika) del vuoto. 126. Se tu rispondessi: “Tu sei cosciente, come potresti allora essere questo corpo non cosciente?” noi replicheremo che obietti in questo modo perché non ti è nota l’esistenza del Testimone. Anche questa tua argomentazione procede dalla mera negazione di ciò che è non-Sé e potrebbe essere valida solo se tu avessi già riconosciuta l’esistenza della pura Coscienza per qualche altra via.
Un obiettore del Vedānta che volesse negare l’esistenza del Testimone cosciente può arrivare a dire che i sensi, oppure la mente, o l’intelletto e infine l’“io”, sono realmente coscienti, mentre il corpo non lo è. Per la verità costui, seguendo questo ragionamento, potrebbe anche affermare che persino questo corpo è dotato di una sua coscienza organica, se paragonato agli oggetti inanimati in cui ci si imbatte nel mondo esterno. Ma questo procedimento logico non è valido a dimostrare l’inesistenza del Sākṣin; semplicemente prescinde dalla conoscenza che il Testimone esista. Infatti, qualora si cominciasse dall’evidenza dell’esistenza del Sé, allora tutto il processo deduttivo summenzionato sarebbe accettabile e ricalcherebbe il metodo del “neti neti”. Dopo che si è dimostrato che il corpo è privo di coscienza, si potrebbe allora procedere per esclusione provando successivamente che sensi, mente, intelletto sono anch’essi privi di coscienza, fino ad arrivare all’aham. Perché mai, allora, l’obiettore dovrebbe fermarsi a questo punto, senza concludere il suo procedimento discriminativo e risparmiando l’ego da un simile atto discriminativo? L’unico motivo che spieghi questa interruzione della dimostrazione va imputato al fatto che costui ignora l’esistenza del Testimone. Il vedāntin, invece, arriva a questa meta rimovendo tutto ciò che è anātman dall’Ātman. 127. Se qualcun altro dicesse che il Testimone è immediatamente evidente (aparokṣa), noi gli ribatteremo che allora dovrebbe essere evidente anche agli ignoranti, come, per esempio, ai buddhisti.
Ci potrebbe essere anche qualcuno convinto che l’intuizione dell’esistenza del Testimone sia evidente a tutti. Secondo questo punto di vista tutti sanno di esistere e di essere coscienti. Ma ciò non corrisponde al vero, perché altrimenti tutti sarebbero dei jijñāsu e non potrebbero esistere né profani, né, tanto meno, sostenitori del materialismo (cārvāka) né seguaci delle teorie buddhiste del vuoto (śūnyavādin) o della negazione dell’Ātman (anātmakavādin). Di fatto tutti hanno questa esperienza, ma, con l’eccezione dei jijñāsu, quasi nessuno si rende conto che quell’intuizione è la prova dell’esistenza del Sākṣin. 128. Potrai anche dire che qualcuno ricorda d’averlo visto. [Secondo te] questo ricordo, in questo stesso momento presente, proverebbe la simultaneità di chi compie l’azione di conoscere, della conoscenza e dell’oggetto di conoscenza, in quanto è l’esperienza del Conoscitore permanente, che è colui che conosce. 129. Ma, dato e non concesso solo per amor di discussione che la memoria sia un valido mezzo di conoscenza, questi tre, cioè l’agente che si è impegnato nell’atto della conoscenza, l’atto di conoscere e l’oggetto conoscibile che alla fine diventa conosciuto, si sono tuttavia svolti in successione temporale. Anche il ricordo, che arriva per ultimo nel tempo [a conclusione dell’azione conoscitiva], deve aver ugualmente registrato a suo tempo la successione di questa azione cognitiva. La loro simultaneità nel ricordo attuale deve quindi apparire tale a causa della rapidità con cui, nel momento attuale, si richiamano alla mente le tre fasi.
L’oppositore potrebbe anche sostenere che ci possono essere delle persone che in passato hanno avuto una certa esperienza del Sākṣin, espressa dalla formula “averlo visto”. Il ricordo di questa esperienza, all’attimo presente, appare come un’immagine simultanea, come se l’esperienza fosse rimasta immutabile e permanente nella coscienza di quelle persone. Essi sosterrebbero che la conoscenza è sì una azione da parte di un agente nei confronti di ciò che deve essere conosciuto, ma che questa azione sarebbe atemporale, senza fasi e, perciò, 107 This article is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License
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permanente; affermazione di per sé contraddittoria. Tuttavia la memoria non è un pramāṇa, è soltanto un deposito di forme illusorie assunte dalle modificazioni dell’intelletto e della mente. Perciò la memoria non può essere considerata una prova valida di conoscenza. Essa infatti non fa conoscere nulla che in precedenza fosse sconosciuto. In ogni caso, l’esperienza del Testimone che certa gente sostiene di aver fatto 1, si è verificata nel corso di un certo periodo, perché il conoscitore deve aver comunque espletato l’azione del conoscere nel tempo; e, tramite questa conoscenza l’oggetto, prima conoscibile, potrà alla fine diventare conosciuto. Lo stesso ricordo di quell’esperienza non potrà però non aver registrato le fasi di questa azione. Perciò il fatto che il ricordo affiori alla memoria come se fosse quello di un’esperienza atemporale è dovuto al fatto che la memoria accorcia i tempi di ciò che essa ha a suo tempo ha sperimentato e registrato in una progressione temporale normale. Ovviamente l’esperienza che quelle persone hanno fatto in passato non concerne il Testimone, che è esente da ogni azione e non è sottoposto al cambiamento e al tempo; l’esperienza di cui si tratta consiste semplicemente in un’estensione dei limiti dell’“io” individuale fino a poter sperimentare al massimo l’“io” cosmico generale, cioè Hiraṇyagarbha. Coloro che sostengono questo errore, come i mīmāṃsaka Prabhākara e Śālikanātha, tendono a sostenere che ogni esperienza compiuta dall’“io” è della natura dell’illuminazione, ed è raggiunta per mezzo di una azione conoscitiva incomprensibilmente considerata atemporale in forza di una supposta “legge di apprendimento simultaneo” (sahopalambha niyama)2. È noto che la Pūrva Mīmāṃsā sostiene il primato del divenire sull’essere, dell’azione sulla contemplazione. Questa posizione è anche sostenuta da alcuni seguaci dello Yoga darśana che, in questo modo, confondono il raggiungimento dei poteri (siddhi) con l’ottenimento della conoscenza, quando invece quelli sono soltanto l’estensione della portata dei loro indriya fino ai limiti del dominio “generale” della manifestazione individuale 3. La tendenza di questi oppositori è quella di separare artificialmente l’“esperienza”, considerata “azione atemporale”, dalla dottrina, allo scopo di sostenere l’inutilità del vicāra vedāntico.
1
2 3
La memoria, d’altra parte, è una facoltà tipica della mente. Non è un caso che queste richiami mnemonici di un’eventuale esperienza “mistica” del Testimone, avvenuta nel passato, avvengano in uno stato mentale di veglia alterato. Cfr. Śālikanātha Miśra, Prakaraṇa Pañcikā, Varanasi, BHU Ed., 1961, p. 334. A questa convinzione di superiorità dell’azione sulla conoscenza s’aggiunge, in alcuni ambienti tantrici, la conclamata superiorità della casta guerriera su quella brāhmaṇica, quindi dell’ars regia sull’ars sacerdotalis.
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21. COMMENTO AL “TATTVAMASI” DI ŚAṂKARĀCĀRYA (VIII) 130. Nella frase “io conobbi questo”, tra “questo” che è ciò che si conosce, e l’“io”, in quanto agente della conoscenza, intercorre una relazione reciproca. Dove troviamo una distinzione dovuta a una relazione reciproca non può esserci simultaneità1.
Quando quelle persone affermano “io ho conosciuto questo”, esse affermano che “questo” non è l’“io” e, di converso, che “io” non è “questo”. Laddove si riscontri questa distinzione tra aham e idam, quella conoscenza non può essere atemporale e simultanea, perciò si tratta senza alcun dubbio di un atto conoscitivo dell’“io”. 131. Inoltre, tre fattori dell’azione conoscitiva, ossia un agente, uno strumento e un oggetto, saranno necessari per percepire in sequenza ciascuno di essi, ossia il conoscitore, la conoscenza e il conosciuto. Quando il conoscitore sia impegnato a percepire se stesso, esso non sarà capace di percepire simultaneamente la conoscenza e il conosciuto.
I fattori dell’azione conoscitiva sono un agente, uno strumento e un oggetto. Perciò per definire chi è il conoscitore si dovrà necessariamente usare i tre strumenti. Ma anche per definire quale è l’agente che deve definire il conoscitore si dovranno usare tre strumenti. Questo procedimento è viziato dall’errore logico del regressus ad infinitum (anavasthā), che qui sta a dimostrare che questa conoscenza non è la vera Conoscenza atemporale, ma soltanto una azione che si volge in una certa indefinità temporale. Questo spiega perché la mente non possa elaborare se non un pensiero alla volta. Se accade che quando si pensa a una cosa, un altro pensiero s’affaccia alla mente, quest’ultimo interromperà il filo del primo. Perciò i pensieri che corrispondono al conoscitore, alla conoscenza e al conosciuto devono forzatamente svilupparsi in tre fasi successive. 132. Si conferma ulteriormente che un oggetto è ciò che un soggetto agente cerca di ottenere. Perciò un oggetto si relaziona con un soggetto agente e non con il Testimone che è tutt’altro che agente.
Qualsiasi azione sia intrapresa dall’“io”, compresa l’azione di conoscere, ha come movente il desiderio e come scopo quello di includere l’oggetto dell’azione nel dominio del “mio” (mama). Perciò l’oggetto, essendo la meta dell’azione, dovrà per forza essere messo in una relazione di complementarietà con il soggetto agente e non con il Sākṣin che non è affatto agente. 133. A colui che ancora non li conosce, gli oggetti si rivelano per mezzo della śruti, o della deduzione (anumāna), o con qualsiasi altro valido mezzo di conoscenza (pramāṇa), come la percezione sensoria (pratyakṣa), e in nessun altro modo.
Il soggetto che intraprende l’azione di conoscere deve forzatamente essere considerato ignorante nei confronti dell’oggetto su cui desidera indagare. Egli, al fine di conoscere un oggetto, dovrà fare affidamento sui pramāṇa, gli strumenti di conoscenza riconosciuti dalla tradizione. Potrà usare il più autorevole pramāṇa, la śruti, per poi utilizzare in ordine decrescente d’importanza, l’anumāna, la deduzione logica, il pratyakṣa, la percezione ottenuta tramite i sensi, l’upamāna, l’analogia basata sulla comparazione, l’arthāpatti, l’ipotesi e l’anupalabdhi, la constatazione dell’assenza d’un oggetto. L’essere umano non ha a disposizione altri strumenti oltre a questi. 134. L’esistenza del Testimone, che non è un oggetto, può essere provata per mezzo di un qualche pramāṇa oppure no? L’ignorante può essere messo al corrente dell’esistenza del Sé senza il supporto di un valido mezzo di conoscenza? 135. Se si pensa che lo stesso Testimone cosciente sia ignorante della sua propria natura, allora [anche il Sākṣin] avrebbe bisogno dei pramāṇa per sapere ch’egli stesso è Conoscenza. Se invece è qualcun altro, diverso dal Testimone, cioè l’ego, a ignorare che la natura del Testimone è la Conoscenza, altrettanto [erroneamente] si potrebbe pensare che questo ego avrebbe bisogno almeno di un pramāṇa [per conoscerlo].
1
La vera simultaneità essendo non duale.
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Sebbene il Sé non sia affatto dipendente da un pramāṇa che dia la prova della sua esistenza, si potrebbe pensare che uno strumento valido di conoscenza sarà invece utile all’ignorante per arrivare a conoscerne l’esistenza. Sarebbe però assurdo sostenere che con “ignorante” s’intenda il Testimone in quanto non conoscerebbe la sua propria natura. In tal caso si arriverebbe a pensare erroneamente che il Sākṣin debba far ricorso a degli strumenti empirici per compiere un azione conoscitiva volta a scoprire che egli è eternamente Coscienza-conoscenza per sua stessa natura. Se invece con “ignorante” si intende chi è diverso dal Testimone, ossia l’“io” individuale, che non sa che il Sākṣin è Coscienza-conoscenza, allora si potrebbe pensare altrettanto erroneamente che, per conoscerlo come se fosse un oggetto, possa essere utile all’indagine dell’ego almeno un pramāṇa. 136. Cosa significa “essere provato”? Significa che dev’essere conosciuto? Oppure che viene a esistere? O vuol dire qualcos’altro? Se pensi che significhi che deve essere conosciuto, devi tenere a mente le due opinioni che abbiamo appena confutato. 137. Se invece “essere provato” significa “venire all’esistenza”, allora ogni sforzo teso a questo scopo sarebbe inutile. Infatti tutti sanno che un oggetto viene all’esistenza dalle sue proprie cause spontaneamente, indipendentemente dallo sforzo che si fa per provarne l’esistenza tramite i pramāṇa.
Essere provato significa diventare oggetto di una indagine conoscitiva tramite uno strumento di prova (pramāṇa). Se “essere provato” vuole dire la stessa cosa di “essere conosciuto”, allora si ricade nelle due opinioni già confutate. Ovvero; se il Sākṣin deve “provare” di essere tale, supponendo che sia ignorante di se stesso, allora questa idea è in contraddizione con il fatto che la conoscenza è la sua vera natura. Se, invece, si supponesse che sia l’“io” individuale che debba provare l’esistenza del Testimone, allora si entrerebbe in contraddizione con il fatto che il Sākṣin non può essere oggetto di conoscenza, e che perciò non può essere indagato tramite alcun pramāṇa. Se invece con “essere provato” s’intende far sì che un oggetto, che prima non c’era, venga a esistere, questo tipo di azione conoscitiva sarebbe del tutto inutile, in quanto un oggetto compare quando è manifestato dalla sua causa materiale e non dalla volontà di chi lo vuole conoscere per mezzo dei pramāṇa. Per esempio, non è che lo sforzo di veder meglio per mezzo di un lumino faccia venire in esistenza la corda. La corda c’era già da prima: lo sforzo ha avuto come risultato quello di far sparire il serpente illusorio. Così la conoscenza del Testimone non vuol dire affatto che da quel momento il Sākṣin sia venuto in esistenza. 138. Per coloro che sostengono la teoria del conoscitore-conoscenza-conosciuto, “essere provato” significherà “essere oggetto di conoscenza”. In questo caso “essere provato” si riferisce sia alla conoscenza del Testimone sia di ciò che è testimoniato; ma per loro non significherà che [Testimone e testimoniato] debbano con ciò cominciare a esistere.
Per i sostenitori della teoria secondo la quale la conoscenza è una azione, “essere provato” significa che la cosa da conoscere è un oggetto di una indagine basata sui pramāṇa; e questo indipendentemente che questa cosa sia il Testimone, o sia tutto ciò che può essere testimoniato, cioè il mondo della veglia e del sogno, oppure ogni singolo oggetto compreso in quei mondi 1. Secondo questa teoria “essere provato” non può mai significare “venire in esistenza”. 139. Se tu sostieni che “essere provato” significa che l’agente della conoscenza, l’atto di conoscere e l’oggetto da conoscere siano distinti, ti risponderemo che “essere distinti o indistinti” devono apparire tali a qualche entità cosciente che è da quelli differente.
1
Ciò che è testimoniato è così definito nella Māṇḍūkya Upaniṣad: “Il primo pāda [di Ātman] è Vaiśvānara, il cui dominio è lo stato di veglia, in cui egli conosce gli oggetti esterni [...] Il secondo pāda [di Ātman] è Taijasa, il cui dominio è lo stato di sogno, in cui egli conosce gli oggetti interni” (MāU I. 3-4).
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140. Un cieco non può distinguere un vaso per il fatto che non può vedere. Se agente, strumento e oggetto d’una azione conoscitiva devono essere distinti, ci dovrà forzatamente essere dietro di loro un Testimone che attesti questa distinzione.
Chi sostiene che la frase “essere provato” vuol dire che la cosa da conoscere è un oggetto d’indagine basata sui pramāṇa, afferma necessariamente che c’è una distinzione di natura tra l’agente della conoscenza, l’azione del conoscere e l’oggetto. Infatti il soggetto dell’azione è un essere, l’oggetto un altro essere distinto e l’azione del conoscere non è un essere, ma una relazione di attività e quindi una modificazione dei due esseri. A costoro si risponde che chi giudica se questi tre siano distinti o indistinti deve essere forzatamente un essere cosciente, che non può che essere il Testimone. Un cieco non può vedere un vaso perché è impedito nello strumento della vista. Chi invece vede un vaso non può essere cieco, ma un vedente. Perciò chi testimonia se agente, strumento e oggetto siano o non siano distinti, non può essere che il Testimone. 141. Obiezione di un buddhista vijñānavādin: “Spiegami perché hai bisogno di sostenere che l’esperienza empirica [oggetto di testimonianza] debba apparire a un Testimone che è differente da essa. Se sostieni che l’esperienza dipende da uno sperimentatore, noi ribattiamo che la stessa esperienza è lo sperimentatore. 142. Ciò che è davvero indifferenziato, della natura della coscienza, sebbene sia una visione illusoria, appare come se fosse differenziato in conoscitore, conoscenza e conosciuto. 143a. Chi, come noi, sostiene che la coscienza è la sola realtà, afferma che la coscienza sola è sia l’atto sia tutti gli altri elementi dell’azione.
I buddhisti vijñānavādin (o yogacāra) sostengono che l’esperienza empirica è una modificazione della coscienza individuale, la quale, come l’esistenza stessa, è affatto illusoria ed è composta da una mutevole serie di apparizioni istantanee in una sequenza temporale discontinua. Da questo punto di vista la coscienza individuale, la sua azione e il divenire cosmico sono indifferenziati e le distinzioni di conoscitore, conoscenza e conosciuto sono soltanto effetto di una visione del tutto illusoria del mondo. Perciò non esiste alcuna differenza tra sperimentatore ed esperienza. Non esiste alcun Testimone, ma solo l’illusorio mondo dell’esperienza, identico all’illusorio ego individuale. 143b. Risposta del vedāntin: Non puoi sostenere che la coscienza è l’unica realtà e poi affermare che è anche soggetta a distruzione in ogni attimo, perché con questa ultima affermazione presupponi che ci sia un agente che la faccia venire in esistenza.
Se la coscienza è l’unica realtà, allora essa deve essere immutabile (nirvikāra). Sostenere che la coscienza è anche soggetta a continue distruzioni tra un istante 1 e l’altro, com’è affermato dalla concezione buddhista del tempo discontinuo, significa che è mutevole (vikāra), in palese contraddizione con quanto affermato sopra. Se a ogni istante la coscienza di cui parla l’obiettore viene rimanifestata, allora si dovrà ammettere che c’è un agente, a essa superiore, che la fa ritornare in esistenza. 144. Se ribatti che quella coscienza individuale non richiede alcun agente che la faccia venire in esistenza, perché essa è priva di qualunque caratteristica reale, entri in contraddizione con te stesso che affermi la sua realtà nella sequela dei diversi momenti. 145. Controbiezione del buddhista vijñānavādin: Le caratteristiche reali, come l’esistenza (bhava), consistono nella semplice assenza delle caratteristiche opposte, cioè la non esistenza (abhava). 1
Si ricordi che per il Vedānta l’attimo è non temporale, perciò è eterno e immutabile (nitya). Invece, nella dottrina del tempo della menzionata corrente buddhista, una sequela di attimi (akṣaṇa) interrompe il flusso del divenire: quindi ogni istante (o momento, kṣaṇa) è separato dal seguente da un attimo atemporale, formando così una successione temporale discontinua.
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Risposta del vedāntin: Allora, in tal caso, non puoi provare la tua teoria secondo la quale quella coscienza è passibile di distruzione tra un istante [d’esistenza e il suo susseguente], perché sei tu che sostieni che è l’unica realtà. 146. Tu sostieni che dopo un’esistenza momentanea ogni oggetto è distrutto. E spieghi la momentanea esistenza con un circolo vizioso, definendola “assenza di non-distruzione”. È come se definissi una vacca come la non esistenza di una non-vacca. Ma questo non vale a definire cos’è una vacca. 147. Secondo te perfino l’istante (kṣaṇa) è soltanto l’inesistenza (abhāva) di ciò che gli è opposto, ossia del “nonistante”(akṣaṇa [l’attimo]). A questo punto forse sosterrai che non ci sono distinzioni nella non esistenza e pretenderai che le distinzioni vi sono introdotte dai nomi. Ma come può essere introdotta la molteplicità in ciò che tu stesso dichiari essere una unica non-esistenza? Forse per te questa molteplicità è solo basata su distinzioni puramente nominali? 148. Se una parola significa soltanto la non esistenza di cose differenti da quella che essa indica, come la si può usare in casi particolari come quelli della vacca1? Una non esistenza non può apportare alcuna distinzione, né può essere considerata mai come un oggetto.
Abbiamo tralasciato di commentare questi ultimi śloka in cui Śaṃkara si diverte a mettere in croce il Buddhismo vijñānavāda sul filo della logica (tarka), sia perché sono di scarsa importanza per la comprensione del Vedānta sia per la loro facile lettura in ragione della stringente e cristallina dialettica con cui sono redatti. Riprendiamo a commentare da questo punto perché Śaṃkara Bhagavatpāda incomincia a contrapporre la dottrina vedāntica alle concezioni dell’oppositore. 149. Come le categorie di nome, specie, ecc. non si applicano alla Coscienza poiché quest’ultima non ha attributi specifici, così secondo te non c’è nessuna distinzione fra i vari oggetti [come, nel caso della vacca, il fatto d’essere una giovenca, d’essere bianca o maculata, con o senza corna].
Le categorie che definiscono gli innumerevoli gradi e stati della manifestazione universale, come nome e forma, grossolano-sottile, singolare-collettivo, particolare-generale (ovvero individuo-specie), individuale-universale ecc., non possono applicarsi alla Coscienza pura poiché, essendo lo stesso Brahmātman, è assolutamente priva di attributi (nirguṇa). I vijñānavādin applicano agli oggetti dell’esperienza quotidiana questa nirguṇatā, negando così le categorie che distinguono stati e gradi d’esistenza. Perciò quei buddhisti, prendendo l’esempio d’una vacca, negano che esistano differenze tra essere un bovino o no, essere una vitella, una giovenca o una mucca, essere bianca o pezzata, con o senza corna, gibbosa o meno. 150. Dato che ammetti l’uso della percezione sensoriale (pratyakṣa) e della deduzione logica (anumāna) nell’esperienza quotidiana, dovrai anche forzatamente riconoscere che si possono usare questi pramāṇa grazie alle differenze, come quelle che intercorrono tra le azioni, gli elementi dell’azione, l’agente, gli strumenti, l’oggetto dell’azione ecc. 151. In questo modo devi almeno ammettere che blu, giallo, vaso ecc. sono autentiche qualità per il nostro pensiero e, inoltre, dovrai anche ammettere che è necessario avere qualcos’altro con cui sia possibile percepirle.
I buddhisti ammettono l’utilità nell’esperienza quotidiana della percezione tramite i cinque sensi e l’uso conseguente della deduzione. Ora, non si possono usare questi pramāṇa se non si accetta anche che quei cinque sensi colgono precisamente le differenze tra gli oggetti delle loro percezioni. La facoltà della vista, per esempio, vede un oggetto nero che modifica progressivamente il suo colore virando al rosso. Avvicinando qualsiasi superficie del corpo a quell’oggetto, il tatto percepisce un calore insopportabile. Queste percezioni, ricondotte alla mente (manas), e da questa analizzate, inducono a dedurre che si tratta di un pezzo di ferro che sta arroventandosi al fuoco. Perciò questi due pramāṇa identificano l’oggetto, le sue modificazioni, l’agente di queste modificazioni ecc. In questo modo anche il buddhista eviterà di scottarsi. 1
Infatti la definizione “non vacca” non si oppone soltanto al concetto di vacca, ma anche di qualsiasi altro animale, uomo, pianta od oggetto inanimato, limitandoci con questa considerazione ai soli esseri corporei.
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I colori, le forme (rūpa), i suoni, gli odori ecc. sono qualità del pensiero, o forme o figure (ākāra) di oggetti che i pensieri assumono come loro proprie modificazioni e che sono davvero distinte tra loro. Questi strumenti di valida conoscenza, però, devono presupporre anche l’esistenza di qualcos’altro che li possa utilizzare. 152. Ciò che percepisce il colore e altri oggetti deve ovviamente essere differente da essi, in quanto l’uno è un soggetto che percepisce e gli altri sono oggetti percepiti: perciò il soggetto che percepisce gli oggetti empirici è differente da essi poiché li illumina, come fa la lampada che è evidentemente differente dalle cose che illumina.
Quel qualcos’altro, che percepisce le modificazioni della mente come il colore e gli altri oggetti e assiste all’analisi che l’intelletto opera su quelle vṛtti, è il Sākṣin. Le percezioni sensoriali e le deduzioni mentali sono meri strumenti cognitivi empirici perciò necessariamente differenti dal Testimone, come gli oggetti illuminati sono differenti dalla luce della lampada che li illumina. E la luce è di natura differente dagli oggetti illuminati, perché se questi non fossero illuminati non sarebbero visibili, mentre la luce lo è sempre per sua natura. 153. Quale relazione può esserci tra l’osservatore (adhyakṣa), che è il vedente (dṛś) e la cosa conosciuta, che è vista (dṛśya) se non che l’uno vede e l’altra è vista? 154. Il conoscitore compie l’azione di vedere? Deve attivamente pervadere il suo oggetto? No, è che l’immutabile conoscitore non agente presta solo apparentemente un certo supporto all’atto cognitivo [compiuto dalla buddhi].
Vedente (dṛś), nell’uso degli advaitin, è sempre sinonimo di Sākṣin. Ovviamente si deve intendere “vedere” in senso simbolico, perché, pur avendo una somiglianza con la percezione sensoria della vista (cakṣus), la “facoltà di percezione” del Sākṣin è in realtà la sua stessa natura di Coscienza-conoscenza. Qui Śaṃkara si chiede quale relazione intercorra tra il Vedente e ciò che è visto (dṛśya), o, se si preferisce, tra il Sākṣin e ciò di cui è testimone (sākṣimat). Chi vede, compie forse un’azione? La vista si diparte dal vedente e fuoriesce per avvolgere e pervadere l’oggetto che vuole vedere? No, la vista è una facoltà di conoscenza (jñānendriya) e non una d’azione (karmendriya). La facoltà della vista dà realtà all’oggetto percepito assumendone la forma. Quello che noi vediamo non è l’oggetto, è la forma che assume la vista. Esattamente come nell’esempio della lampada. Noi non vediamo gli oggetti, vediamo la luce della lampada che presta la sua realtà agli oggetti. Gli oggetti non illuminati, infatti, non sono visibili. Però l’intelletto, che non ha se non un riflesso della conoscenza, è convinto di vedere gli oggetti e non la luce che si riflette su di essi. Questa sua apparente conoscenza si basa sulla Coscienza-conoscenza dall’eterno, immutabile e non duale Sākṣin che è la luce che illumina ciò che si vede (dṛśya). 155. Abbiamo già spiegato che questo supporto consiste nell’acquisizione da parte dell’intelletto di un riflesso di Coscienza. Dotato in questo modo di un riflesso di Coscienza, l’intelletto, come una lampada, pervade di luce gli altri oggetti.
Si è già spiegato che la buddhi priva di coscienza, ma attiva per sua natura, appare come se fosse cosciente. Questa apparente coscienza è sostenuta dal Sākṣin che si riflette nell’intelletto. La buddhi, dotata così di un riflesso della Coscienza-conoscenza, sembra la lampada che pervade di luce vasi e altri oggetti, come se fosse essa stessa la luce che illumina gli oggetti. Invece la buddhi può essere paragonata alla luna che splende di luce riflessa e di notte pare inondare di una sua luce gli oggetti. 156. Si può dire che un vaso posto al sole è avvolto dalla luce. Allo stesso modo si può dire che un oggetto posto nell’intelletto ne è avvolto. Essere avvolto significa essere pervaso dall’intelletto. Gli oggetti sono pervasi dell’intelletto uno dopo l’altro.
Si può dire che un vaso posto al sole è avvolto dalla luce solare. Per esempio un vaso invisibile nelle tenebre della notte, viene avvolto man mano dalla luce dell’alba, finché ne è del tutto circondato e reso visibile quando è
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 21. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (VIII)
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esposto alla luce del sole1. Allo stesso modo procede l’intelletto quando intraprende un’indagine conoscitiva su un oggetto. Man mano che ne analizza le caratteristiche, la buddhi sempre più pervade l’oggetto. Dopo aver conclusa quella indagine conoscitiva, l’intelletto può dedicarsi ad altri oggetti in successione. Come appare evidente dallo śloka sia la luce del sole, che rappresenta l’intelletto macrocosmico, Hiraṇyagarbha, sia la buddhi considerata a livello microcosmico, procedono agendo in successione temporale. Invece l’illuminazione dovuta al Sé auto luminoso è immediata, immutabile, eterna e della natura dell’attimo. 157. La mente pervade un oggetto prendendone la forma quando l’oggetto si rivela grazie al riflesso del Sé. Prima c’è la pervasione del vaso da parte della mente e poi viene il sostegno del Sé nella forma del suo riflesso di coscienza apparente. Ma non si può pensare che l’unico Testimone di tutto partecipi al processo cognitivo [dell’intelletto] in una successione di tempo, spazio o di altri fattori di cambiamento.
Riprendendo l’esempio tradizionale della lampada si può dire che la luce, ovvero il Testimone, l’Ātman, illumina gli oggetti riflettendosi in essi. Come si diceva innanzi, quello che si vede è luce, ma la mente invece percepisce la forma dell’oggetto tramite l’intermediazione dei sensi. Così ne registra le caratteristiche assumendone la forma come una sua modificazione (vṛtti). Successivamente interviene la buddhi a discriminare e analizzare queste percezioni, sostenuta da una sua apparente coscienza, che in realtà è dovuta al riflesso del Sé nello stesso intelletto. Non si potrà certo reputare che il Testimone unico e non duale di tutto ciò possa essere coinvolto nel processo mentale-intellettuale di investigazione, dato che quel processo si svolge nel tempo, nello spazio e in altre condizioni che comportano azione, successione e cambiamento. 158. È sottoposto a cambiamento solo l’intelletto conoscente, giacché dipende da strumenti per compiere l’azione di conoscere gli oggetti, e che perciò arriva a conoscere in successione soltanto una limitata parte del conoscibile. Ma il Sé, in quanto Testimone, è la Conoscenza assoluta, non è un agente né è sottoposto a cambiamento.
L’intelletto è mutevole perché acquisisce dati e informazioni che diventano sue modificazioni. Questo avviene perché non può conoscere direttamente, ma sempre per l’intermediazione dei pramāṇa, strumenti che necessitano di una successione temporale per offrire alla buddhi le informazioni necessarie. Poiché gli oggetti da conoscere in questo modo analitico sono in numero illimitato, l’intelletto non potrà che compiere una indagine limitata a una piccola parte del conoscibile. Invece il Sé, che non è sottoposto all’azione né al mutamento, è lui stesso la Conoscenza totale e assoluta.
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Si potrà obiettare che la base del vaso che poggia a terra rimane invisibile. Ma questo difetto dipende dal punto di vista in cui si pone l’osservatore. Infatti, se il vaso fosse poi posto su un ripiano traslucido, sarebbe possibile vedere anche com’è sotto.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 22. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (IX)
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22. COMMENTO AL “TATTVAMASI” DI ŚAṂKARĀCĀRYA (IX) 159. La frase: “io [so che] sono il Testimone” può essere attribuita soltanto all’intelletto e non al Sakṣin, poiché questi non ha differenziazioni, è immutabile né ha un altro Testimone al di sopra di lui che lo possa conoscere come un oggetto.
Se qualcuno affermasse d’essere il Sākṣin, questa illusione sarebbe imputabile soltanto a un’idea formatasi nel suo intelletto. Il Sākṣin non è differenziato in “io” e “lui” perché non è mutevole, perciò l’“io” non potrebbe indagare e alla fine riconoscere di essere il Sé; perché quest’ultimo non può essere l’oggetto di un conoscitore che lo conosca tramite conoscenza. 160. Non è in nessun caso ragionevole sostenere che l’esperienza della Liberazione spetta all’intelletto che produce l’idea dell’ego (ahaṃkāra), perché la Libertà dal piacere e dal dolore è impossibile per l’ego sottoposto all’azione.
È stolto sostenere che proprio la buddhi, che produce l’idea dell’ego e del “mio” in quanto ahaṃkāra, sia lo strumento per ottenere la Liberazione, perché la Libertà dal piacere e dal dolore, da attrazione e repulsione non può essere raggiunta dall’aham sottoposto al dominio dell’azione. 161. Quando si è liberi, la nozione illusoria di essere soggetti a dolore e piacere, che è provocata dalla propria identificazione con il corpo [, sensi, mente e intelletto] è cancellata per sempre dalla conoscenza discriminante (viveka) che rimuove ciò che occulta l’evidenza dell’identità del Sé con il Brahman, esattamente come quando, togliendosi gli orecchini, si rimuove l’idea di essere “colui che porta orecchini”.
La mente (manas) è ciò che interpreta come dolorose o piacevoli le sensazioni che le facoltà di senso (indriya) le trasmettono tramite i corrispondenti organi corporei 1. L’intelletto (buddhi) è ciò che decide di attrarre e trattenere le sensazioni piacevoli o di respingere ed evitare quelle dolorose. Queste nozioni illusorie di cui la mente e l’intelletto si nutrono, sono comunque dipendenti dalla propria collocazione nel corpo e della conseguente identificazione con quest’ultimo. Quando il jijñāsu riesce a rimuovere questa identificazione con il corpo, per poi, in seguito, procedere più speditamente a discriminare di non essere i sensi, né la mente e neppure l’intelletto e l’aham, egli riesce a eliminare totalmente questa illusione dovuta all’ignoranza che impedisce di riconoscere la sua vera natura. Rimuovendo l’ignoranza rimane in esistenza soltanto la Coscienza-conoscenza, come quando colui, che era conosciuto come “chi portava gli orecchini” se li toglie, e non può più essere considerato come “colui che porta gli orecchini”. 162. La conoscenza discriminante deve essere considerata tale da eliminare una conoscenza priva di discriminazione; altrimenti ogni autentico mezzo di conoscenza (pramāṇa) potrebbe essere contraddetto da qualsiasi falsa conoscenza e non si potrebbe stabilire nulla di reale.
La conoscenza discriminante, ben inteso, non è la Coscienza-conoscenza. Si tratta pur sempre di una azione mentale (mānasa kriyā). Ma questa azione conoscitiva si basa su quelli che sono riconosciuti quali mezzi validi di conoscenza (pramāṇa) e, tra questi ultimi, in particolare su śabda, la parola del maestro che trasmette la verità upaniṣadica proveniente da una ininterrotta catena di maestri adepti. La discriminazione agisce come un panno che pulisce lo specchio appannato, permettendo cosi l’Intuizione della propria vera natura. La discriminazione (viveka) non è causa dell’Intuizione, ma è causa della Liberazione dall’ignoranza. Perciò la discriminazione deve 1
Per esempio l’occhio è l’organo attraverso cui la vista può osservare il mondo esterno, e così via per gli altri organi corporei che corrispondono agli altri sensi. In realtà i sensi non sono altro che modificazioni della mente, ed è per questa ragione che anche il manas è considerato un indriya, il sesto, che in realtà è il primo e l’unico: un po’ come accade all’etere che è considerato la quinta essenza, mentre è il primo degli elementi grossi e la loro stessa origine. Lo strumento organico della mente è il cervello, mastiṣka. È avvilente il materialismo “pratico” con cui i moderni confondono la facoltà con l’organo. Essi arrivano persino a localizzare nella massa cerebrale alcune aree che, secondo loro, sarebbero il deposito di quello che noi sappiamo essere delle realtà sottili: idee, immagini, emozioni, ricordi ecc.; tutte queste, poi, sarebbero prodotte e messe in azione da correnti elettriche. In questa prospettiva, il corpo umano si muoverebbe come se fosse semplicemente manovrato da altre forze corporee, a loro volta messe in azione da qualcos’altro, cadendo così nel tipico errore del regressus ad infinutum. Se qualcuno non avesse ancora compreso il significato della formula evangelica “abominio della desolazione”, dovrebbe soffermare la sua attenzione su questa nota e considerare che i contemporanei non riescono più nemmeno a distinguere il sottile dal grossolano. Figuriamoci che cosa ne possano capire di metafisica!
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essere riconosciuta del tutto in grado di eliminare il dubbio, la conoscenza erronea e, infine, l’ignoranza; altrimenti non sarebbe possibile conoscere nulla di reale e la Liberazione sarebbe impossibile. 163. Quando il corpo subisce una bruciatura, una ferita, una mutilazione, non può esserci altro sofferente se non colui che s’identifica con quel corpo, perché nessuno da nessuna parte soffre per bruciature, ferite, mutilazioni che colpiscono altre persone, 164. poiché “Io” [l’Ātman] non sono il corpo e sono sempre al di là della sensazione tattile (sparśa)1 [che percepisce le bruciature ecc.]. L’idea che sia il Sé a soffrire quando il corpo è offeso scaturisce da una falsa identificazione (mithyā abhimāna). È come quando qualcuno si sente morto per il fatto che gli è morto il figlio.
L’“io” individuale che s’identifica al corpo soffre per i dolori che lo colpiscono. Nessuno soffre per ferite, bruciature o mutilazioni che colpiscono i corpi di altri individui, perché quell’“io” non è situato all’interno dei corpi altrui, e perciò non si identifica con quelli, ma soltanto con il proprio corpo. Il Sé, invece, non s’identifica con il corpo, come nemmeno con sensi ecc. né di un dato individuo, né con quello di altri: “Indiviso, dimora apparentemente negli esseri divisi”2. Non essendo identificato con il corpo di un individuo, l’Ātman è anche libero dal senso del tatto, che è quell’indriya che registra i danni corporali informandone la mente ecc. Sarà poi la mente a stabilire che si tratta di qualcosa che provoca dolore 3. Perciò è sempre e soltanto l’“io” che soffre e non il Sé. Credere che sia il Sé a soffrire è come quando si dice che il padre, a cui è appena morto un figlio, si sente anch’egli morto. Ma ciò non è reale, perché quel padre, indipendentemente dalle sue emozioni, continua a restare in vita. Si tratta soltanto di una falsa identificazione. 165. Come rimuovo l’idea di essere “colui che porta orecchini” quando discrimino tra me e gli orecchini, così l’idea di essere colui che soffre è rimossa per sempre quando emerge la coscienza d’essere l’unico esistente, il Brahman reale.
La discriminazione tra l’“io” e il Sé rimuove completamente l’idea di essere un individuo composto di corpo, sensi ecc., e cancella ogni sovrapposizione tra il Sé e le caratteristiche individuali, quali l’esperienza della sofferenza e del piacere. Questa rimozione comporta la presa di coscienza di essere eternamente e immutabilmente l’unico Cosciente, l’unico esistente, l’assoluta realtà non duale. 166. Se mai potesse essere provato che il Sé è sottoposto a sofferenza, dovremmo francamente ammettere che dovrebbe essere dotato di una qualche facoltà per provare dolore [come, per es. il tatto]. Ma la sensazione di essere sofferente viene al Sé a causa di una falsa identificazione. Soltanto questa falsa identificazione con il corpo è l’origine dell’idea che nel Sé ci possa essere una simile facoltà.
Se si potesse provare che il Sé recepisce la sensazione della sofferenza, ciò potrebbe essere accettato soltanto se Ātman fosse dotato di un facoltà di sensazione come il tatto. Ma la facoltà del tatto (sparśa), ha come organo grossolano (indriya golaka) la pelle, ossia tutta la superficie del corpo, perciò il Sé, per poter provare dolore, dovrebbe essere identificato al corpo. Ma il Sé è del tutto libero da qualsiasi indriya e non si rinchiude spazialmente nel corpo, perciò una tale ipotesi è priva di fondamento. 167. Come il senso del tatto è attribuito al Sé, sebbene sia privo di tatto, e come il movimento e altre caratteristiche del corpo ecc. gli sono attribuite anche se ne è esente, così, per mancanza di discriminazione, si attribuisce al Sé la sofferenza, che in realtà deve essere imputata alla mente. 168. Si deve respingere il dolore, il movimento e il resto grazie alla certezza d’essere il Sé che sorge a seguito della discriminazione. Per colpa dell’ignoranza la mente erra qua e là anche contro la propria volontà.
Attribuire al Sé facoltà, azioni, funzioni, percezioni, emozioni, sensazioni, volizioni, qualità e altre limitazioni è segno di mancanza di discriminazione. La sensazione della sofferenza deve essere attribuita 1 2 3
KU I. 3. 15. BhG XIII. 16. A questo proposito ricorderemo che spesso si avverte il dolore per certe ferite traumatiche soltanto quando la mente se ne rende conto, a conclusione dell’incidente o della lotta in cui si è stati coinvolti. Ciò prova che l’informazione fornita dai sensi e la sua elaborazione mentale non sono simultanee. Anche quando si è in sonno profondo indotto da una anestesia chirurgica, allorché il tatto non comunica l’informazione dell’intervento del bisturi alla mente, quest’ultima non può elaborare la sensazione del dolore.
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esclusivamente al manas. A conclusione della discriminazione, quando appare l’evidenza di essere il Sé, dolore, movimento ecc. sono definitivamente rimossi. La mente di chi non discrimina per colpa dell’ignoranza, vaga qua e là e si perde nel molteplice, tra percezioni degli oggetti esterni, pensieri, cogitazioni, emozioni, volizioni, sentimenti, istinti innati, e altro ancora. 169. Quando la mente vaga così, si sperimenta sofferenza. Ma quando si fissa la mente, il Sé non sperimenta alcuna sofferenza, Perciò la sofferenza non può esistere nel Sé interiore, 170. perché le parole “tu” e “Quello” nella frase “tu sei Quello” si riferiscono a un unico e medesimo principio, come le parole “nero” e “cavallo” nell’espressione “il cavallo nero”.
Quell’errare della mente è il saṃsāra in cui è immerso l’ego. Si tratta dell’esistenza duale; e la mente, l’intelletto, l’ego, pur provando là anche piacere, girovaga tra condizioni limitative d’esistenza in cui, alla fine, prevale la sofferenza. Quando la mente si stabilizza, tutta questa ridda s’interrompe. La fissazione della mente non avviene tramite uno sforzo di controllo analitico dei suoi sommovimenti, com’è il caso, per esempio, dello Yoga, ma per mezzo della discriminazione. Non appena il jijñāsu prende coscienza di non essere l’ego, la mente non si sovrappone più al Sé. Riconosciuta l’identità tra l’Ātman e Brahman, allora si riconosce che “il cavallo nero” è un unico animale e non una dualità composta di “nero” e di “cavallo”; quindi ogni dualità scompare e, assieme alla dualità, la sofferenza, l’ignoranza, la paura. Questo è il vero significato di “tu sei Quello”. 171. Nella sequenza logica del mahāvākya, la parola “tu” [perdendo il suo significato di sperimentatore empirico di sofferenza] significa “reale”, poiché è usato come identico a “Quello”; ossia si riferisce al Principio eternamente privo di sofferenza. Nella stessa sequenza, la parola “tu”, riferendosi al Sé interiore, significa ugualmente “reale” in quanto è conosciuto direttamente, ed è anche in questo caso usato come identico a “Quello”, per indicare che Quello è la medesima cosa direttamente conosciuta.
Nel corso della discriminazione, il “neti neti” rimuove dalla parola “tu” (tva) del mahāvākya il senso dell’“io” transeunte che l’ignoranza gli aveva sovrapposto. Perciò questo pronome personale, nella sequenza della frase, in verità indica l’“Io” reale, il Sé, di cui si proclama l’identità con “Quello”, il Brahman. Poiché il Brahman è eternamente privo di sofferenza, è così dimostrato che anche quel “tu” è eternamente privo di sofferenza. Una volta che si è riconosciuto per intuizione che l’“Io” interiore, il Sākṣin, è reale, “reale” assume anche il significato di “conosciuto direttamente”. Infatti l’“Io” reale, come anche il Brahman a cui è identico, non può essere conosciuto per mezzo di alcuno strumento intermedio, come i pramāṇa, né da alcun agente, come il manas e la buddhi. “Reale” (satya) indica perciò una conoscenza diretta non duale. 172. La frase “tu sei Quello” allude al Sé interiore, come nell’apologo conosciuto come “tu sei il decimo”.
Dieci giovani dovevano attraversare un fiume dalla corrente travolgente. Uno di essi ebbe l’incarico di controllare che nessuno di loro sparisse travolto dalle acque. Una volta attraversato il fiume, quel giovane contò ripetutamente i suoi compagni; ma gli risultava sempre che erano solo nove. Era preoccupato per quel decimo che mancava e che poteva essere stato travolto e portato via dal fiume sotto il suo stesso sguardo. Gli si avvicinò un misterioso estraneo (il sadguru) che, comprendendo la sua preoccupazione, gli disse: «Ti sei dimenticato di contare te stesso: tu sei il decimo!». Questo apologo, che Śaṃkara usa spesso, mette in evidenza che l’uomo ordinario è attratto dagli oggetti esterni del mondo della veglia e trascura il proprio Sé interiore come se non esistesse. Se invece il maestro insegna a guardare dentro se stessi al di là dell’“io” empirico, allora si riconoscerà l’“Io” reale, esattamente come fece Brahmā quando rimosse l’ignoranza di Rāma con queste semplici parole «Tu non sei il figlio di Daśaratha, tu sei Viṣṇu»1. 173. Senza rinunciare al loro senso specifico, le parole “tu” e “Quello” trasmettono tutte e due un unico significato sintetico, che consiste nell’intuizione del Sé interiore. Non potrebbe esserci alcun significato altro da questo. 1
Śaṃkara, US XVIII. 100.
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Dal punto di vista dell’esperienza empirica le parole “tu” e “Quello” hanno un significato specifico che le differenzia in modo inequivocabile. In quel caso “tu” designa l’individualità e “Quello” il Brahman; questa interpretazione rappresenta per il jijñāsu il punto di partenza basato sull’ignoranza (avidyā) accettata volontariamente durante la fase di adhyāropa. Ma nella realtà metafisica (paramārtha), che non è un punto di vista, ma la verità assoluta, le parole “tu” e “Quello” trasmettono un unico significato sintetico non duale, ossia l’identità di Ātman e Brahman, di cui ci si rende coscienti per mezzo dell’intuizione della Coscienza-conoscenza autoluminosa. Questa illuminazione, il mokṣa eterno e immutabile, è la stessa identità di cui sopra, che si riconosce con la confutazione (apavāda) per via discriminativa di ogni altra realtà. Non c’è alcun altro significato del mahāvākya. 174. Il giovane la cui mente era ingannata dall’illusione del nove per il fatto di non essere consapevole di Sé per completare il numero dei dieci, doveva solamente conoscere se stesso. 175. Come quello che non aveva consapevolezza di essere il decimo, colui il cui intelletto è fuorviato dal desiderio in quanto accecato dall’ignoranza, non riesce a vedere che il suo Sé è pura Coscienza, eternamente differente da qualsiasi altra cosa. 176. Come accade a chi arriva a riconoscere se stesso come decimo semplicemente udendo le parole “tu sei il decimo”, così succede a colui che riesce a conoscere il suo proprio Sé come il Testimone dell’intelletto e delle sue modificazioni, semplicemente ascoltando il mahāvākya “tu sei Quello”.
Il giovane che contava nove suoi compagni, perché era inconsapevole d’essere il decimo, rappresenta chi per ignoranza non riconosce di essere il Sé, ma crede d’essere l’aham. Credendosi identico all’“io” individuale falsamente prodotto dalla buddhi-ahaṃkāra, l’ignorante (ajñāni) guarda verso gli oggetti esterni. Questa sua irreale natura egocentrica è spinta dall’ignoranza nella direzione del desiderio di impadronirsi di tutto ciò che all’esterno gli appare piacevole, con la volontà di inglobare l’idam nel mama, vale a dire di impossessarsi di questi oggetti esterni facendoli rientrare nel dominio del “mio”. Ma la propria vera natura è il Sé, pura Coscienza (śuddha caitanya); e come il decimo giovane lo comprese al solo ascolto delle parole del misterioso estraneo, così il jijñāsu, ascoltando il mahāvākya dalla bocca del guru, potrà riconoscerlo come il proprio Testimone interiore, colui che osserva (adhyakṣa) l’intelletto, le sue modificazioni ecc., senza rimanerne coinvolto. 177. I testi upaniṣadici non sono dipendenti dalle regole grammaticali, per cui una frase deve cominciare con il soggetto e poi procedere con il verbo e così via. Perché la comprensione del significato delle frasi è possibile soltanto se si stabilisce la mutua relazione delle singole parti del discorso in base alla riflessione sulla concordanza o discordanza dei loro significati.
Le regole grammaticali seguono obbedientemente la logica; ma le frasi upaniṣadiche sono libere di seguirle o di non seguirle, perché, per stimolare nel cercatore l’affioramento dell’intuizione, si deve fare continuamente ricorso al simbolismo. Perciò, oltre a considerare la posizione grammaticale delle singole parole nel periodo, il jijñāsu è invitato a riflettere sulla concordanza o discordanza dei significati di quelle parole. In questo modo egli riuscirà a comprendere quei significati che vanno ben oltre la logica. Per esempio quando si dice “preparati per un sacrificio”, si capisce che ciò implica una ingiunzione per la scelta dei tempi, del luogo, del tipo di sacrificio, per la raccolta degli utensili, la preparazione dell’oblazione, la costruzione dell’altare, per i riti di purificazione ecc.; ovvero è un’ingiunzione a fare qualcosa. Ma quando si dice “prepàrati per la conoscenza” non c’è alcuna ingiunzione per il fatto che in questo caso non c’è nulla da fare, scegliere, da raccogliere, da allestire, da preparare, da costruire, da purificare; perché la conoscenza non è qualcosa che prima non c’era e poi c’è, in quanto essa è eterna. Quella frase “preparati per la conoscenza” semplicemente significa comprendi che “tu sei Quello.” 178. Perché la comprensione del significato di una frase dipende dalla conoscenza ottenuta per audizione (śrāvaṇa) dei significati delle singole parole che la compongono. 179. Nel caso di frasi che proclamano la verità eterna, una volta che il significato delle parole che la compongono è stato dovutamente discriminato al fine di comprendere la frase nel suo insieme, allora non ci sarà alcuna possibilità di discussione. 118 This article is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License
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Si comprende il significato del mahāvākya soltanto se se ne riceve l’insegnamento per audizione da parte di un maestro realizzato, che trasmette il senso delle singole parole sulla base della sua esperienza interiore. Le parole che compongono i Grandi Detti (mahāvākya), il cui contenuto è la verità eterna, devono essere comprese nel loro senso ultimo, discriminandone i significati contingenti che si sovrappongono loro. Deve essere valutata la loro posizione nella frase per comprendere che la preminenza è riconosciuta a “tat”; che “tvam” viene in second’ordine perché ancora non si è stabilito a quale “io” corrisponda; ed infine il verbo essere, “asi”, viene per ultimo perché stabilisce che la vera natura di quell’“io” è identica a “Quello”. Inoltre, il verbo “as” (essere) ci informa non solo dell’identità di Ātman e Brahman, ma anche che essi sono in essere, perciò del tutto esenti dalle limitazioni di tempo, azione, divenire. In questo modo si devono ricomporre in modo sintetico le reciproche relazioni tra le tre parole, al fine di comprendere la frase nel suo insieme. Oltre a questa intuizione non ci potrà essere alcuna altra discussione, perché la discussione si mantiene soltanto laddove sussiste una dualità. 180. Abbiamo parlato di riflessione sulla concordanza o discordanza solamente come un processo preliminare per richiamare alla mente il significato appropriato dei termini. Nessuno può capire il senso di una frase senza aver prima richiamato alla mente il significato delle parole che la compongono.
Naturalmente la riflessione sulla concordanza o discordanza nel significato delle parole costituisce la fase preliminare, quella della discriminazione, necessaria per comprendere il significato dell’intera frase: significato che è la conoscenza reale e realizzata dell’Assoluto. D’altronde, è ben noto che manana, la riflessione, come anche nididhyāsana, l’attenzione contemplativa, pur non seguendo la “logica secca” (śuṣka tarka) del Nyāya, sono pur sempre azioni mentali (mānasa kriyā)1, mentre la conoscenza dell’Assoluto è della natura dell’Illuminazione. 181. Nei mahāvākya come “tu sei Quello”, il senso non sarà chiaro finché non si sarà discriminato preliminarmente la parola “tu” come il puro “Io” sempre libero. 182. Per discriminare il significato della parola “tu” è richiesta solo la riflessione sulla concordanza o discordanza e nessun altro metodo. Perché una volta che la discriminazione abbia individuato il significato della parola “tu”, il senso della frase diventa evidente come una mela cotogna poggiata sul palmo della tua mano. 183. Diventa allora chiaro che il sacro testo “tu sei Quello” intende parlare del solo e puro “Io”, poiché il Sé interiore è stabilito nel suo vero significato grazie alla rimozione della falsa idea che il Sé sia passibile di sofferenza. 184. Quando il significato del mahāvākya è raggiunto in questo modo, non è più possibile che chi è davvero esperto di frasi e parole sostenga significati che non sono quelli della śruti e ne deformi il senso.
Il senso del mahāvākya “tu sei Quello” non sarà chiarito se non si discriminerà sul vero significato di “tu”, che è il Sé, il Testimone, pura Coscienza. Così facendo si rimuove ogni ipotesi che, invece, si tratti dell’“io” individuale. Che “tu” significhi il Sé è provato dal fatto che questa interpretazione concorda con la conclamata identità con “Quello”. Al contrario, l’idea che “tu” alluda invece all’“io” è in discordanza proprio con la medesima identità con l’Assoluto proclamata dal verbo asi; perciò è impossibile da sostenere tale supposizione. Risulta infine chiaro che “tu sei Quello” parla esclusivamente del Brahmātman e non d’altro. Questa considerazione rimuove qualsiasi possibile attribuzione di sofferenza dal “tu”. Chi procede in questo modo non può fallire nell’interpretazione sull’unico contenuto delle Upaniṣad né equivocarne il senso. 185. La percezione sensoriale e altri mezzi empirici di indagine hanno il diritto di contraddire un testo che riguarda le esperienze sensorie, come quello che tratta della bollitura di pezzi d’oro 2. Ma quando mai delle pure apparenze, quali sono le percezioni ecc., possono avere il diritto di confutare gli insegnamenti testuali sul puro Sé ascoltati dal guru?
1 2
Svāmī Satcidānandendra, Dottrina e Metodo, cit. p. 167. Pūrva Mīmāṃsā Sūtra, X. 1. 1-3.
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Gian Giuseppe Filippi - Il Serpente e la Corda 23. Commento al “Tattvamasi” di Śaṃkarācārya (X)
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23. COMMENTO AL “TATTVAMASI” DI ŚAṂKARĀCĀRYA (X) La percezione sensoriale (pratyakṣa) e gli altri pramāṇa hanno tutto il diritto di contraddire un testo che afferma cose contrarie all’esperienza dei sensi ecc. Come, per esempio, l’affermazione: “Egli dovrebbe bollire dei pezzi d'oro”1. Infatti non si può bollire l’oro. Perciò se si intende la frase in senso letterale, il pramāṇa avrà tutte le ragioni per contraddirla, a meno che non si debba intendere questa frase in senso metaforico. Infatti nel sacrificio teso ad assicurarsi una lunga vita, con “oro” si allude al riso bollito che è offerto nel fuoco dell’altare. Ma nessuno dei pramāṇa, che appartengono alla manifestazione illusoria, ha il diritto di confutare gli insegnamenti metafisici esposti da un guru che sia anche un adepto2. Ci si potrà allora chiedere: “Ma il pramāṇa conosciuto come ‘la parola’ (śabda) non è la stessa śruti? Non è un’incongruenza affermare che i pramāṇa, tra cui si enumerano le Upaniṣad, non abbiano il diritto di contraddire l’insegnamento di un guru?” La risposta è che se si tratta dell’insegnamento orale proferito da un maestro realizzato, allora lo stesso testo della śruti non ha alcun diritto di confutarlo, perché in questo caso si contrapporrebbe il semplice significato letterale del testo a quello metafisico. Infatti soltanto quando le Upaniṣad sono trasmesse oralmente da un maestro realizzato di Vedānta a un discepolo qualificato, esse sono efficaci a comunicare il vero significato dei mahāvākya. In tutti gli altri casi le Upaniṣad sono il pramāṇa noto come śabda, di utilità soltanto logica3 che, una volta conclusa la discriminazione, va rimosso. 186. Potrai dire che finché persiste la sensazione di essere sottoposti alla sofferenza dovuta all’illusione percettiva ecc., la constatazione di essere liberi dalla sofferenza non può risultare dall’ascolto degli insegnamenti testuali. Ma è un errore, perché c’è questa osservazione che ti contraddice: quando sogni di provare una sofferenza, al risveglio ti appare evidente che si trattava di una falsa esperienza. 187. In questo abbiamo la prova che in sogno sentivamo il dolore per le bruciature e le ferite. Lasciaci dire che questa esperienza, vissuta nel corso del sogno, non è in contraddizione con gli insegnamenti ascoltati, 188. poiché, quando il sogno finisce, quella sensazione di sofferenza è riconosciuta come inesistente (asat) ed erronea (bhrānta). Quella sofferenza e l’errore, una volta cancellati, non ritornano più4.
Qualcuno obietterà che l’insegnamento da parte di un guru debitamente qualificato può soltanto proporre la teoria di essere liberi dalla sofferenza; ma certamente śravaṇa non può provarlo realmente apportando l’esempio d’una esperienza condivisa da tutti circa la libertà dal dolore. Invece questa affermazione è del tutto erronea. Il maestro, al contrario, potrà portare un esempio incontestabile che anche l’uomo comune sperimenta spesso nella sua vita. Infatti quando si è in stato di sogno (svapna avasthā) capita di provare una qualche sofferenza, ma al ritorno allo stato di veglia (jāgrat avasthā) si constaterà che quella sofferenza è rimasta nel sogno e che si trattava di una falsa esperienza. Questo avviene anche in senso inverso. Un ferito, un malato, che durante la veglia è sofferente, quando va a dormire può benissimo avere dei sogni piacevoli, del tutto privi di dolore. Nel sonno profondo, come quello indotto da una anestesia, non esistono né dolore né piacere. In sogno e in sonno, dunque, la sofferenza provata durante la veglia è priva di esistenza (asat) ed è erronea (bhrānta). Questa è la prova sperimentale che il Testimone è libero dalla sofferenza in entrambe le avasthā. Chi comprende questo insegnamento cancella per sempre la sofferenza e l’errore (bhrama) e si riconosce come Sākṣin. La comparazione (upamāna) tra le avasthā è davvero uno strumento discriminativo insostituibile per provare quanto siano illusorie le certezze dell’uomo ordinario sulla realtà del mondo della veglia (jāgrat prapañca). 1 2
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Pūrva Mīmāṃsā Sūtra, X.1.1-3. Cfr.Śatapatha Brāhmaṇa, III.8.2.1;26. Ricordiamo al lettore che adeptus, participio passato del verbo latino adipiscere (ottenere, raggiungere, realizzare) indica un essere perfetto e non, com’è uso volgare, il seguace di alcunché. Nel medioevo il termine fu usato in due accezioni: adeptus minor e adeptus major. Volendolo attribuire al realizzato vedāntico, è evidente che questi non potrà essere altro che l’adeptus major. Di fatto śabda, in quanto pramāṇa, è anche di uso comune nelle speculazioni sofistiche dei naiyāyika e di altri paṇḍita esteriori. “Ciò che è privo d’esistenza all’inizio e alla fine è necessariamente asat anche nell’intervallo. Gli oggetti del mondo della veglia sono simili alle illusioni che vediamo nel mondo del sogno. E, ciò nonostante, continuiamo a considerare quegli oggetti come reali!” MāUGK II. 6.
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189. Quando un cercatore riconosce che il suo Sé interiore è il Sé supremo, a seguito della rimozione dell’idea d’essere colui che soffre, la sua conoscenza è inconfutabile, esattamente come quando l’errore di credere che ci fossero soltanto nove ragazzi è stato cancellato dalla consapevolezza di essere il decimo.
La comprensione di questo insegnamento conduce il jijñāsu a riconoscere come false le esperienze che si vivono nel corso della veglia e del sogno, la cui irrealtà è dimostrata dalla reciproca contraddizione. Il cercatore allora realizza che questa sua comprensione dell’insegnamento deve essere attribuita a “qualcuno” che non è né in veglia né in sogno, cioè al Testimone, che appare finalmente come il proprio Sé, esattamente come accadde al giovane che, alla fine, comprese di essere lui stesso il decimo. 190. La conoscenza di essere eternamente libero proviene soltanto dall’insegnamento orale di un testo. E la conoscenza del significato del testo non è possibile senza che previamente si comprenda il senso delle parole che lo compongono.
La conoscenza di essere eternamente libero proviene dall’ascolto di un mahāvākya insegnato da un guru che sia anche un adepto. Questa conoscenza è preparata per mezzo della discriminazione tra ciò che è in accordo o in discordanza sul significato da attribuire a ogni singola parola che lo compone. 191. Certamente il significato di una parola, quando è sottoposto alla prova della concordanza e discordanza, affiora alla mente. In questo modo si arriva a conoscere che si è il Sé privo di sofferenza e di attività. 192. La più chiara fonte di conoscenza autorevole sul Sé è rappresentata da un mahāvākya, come per esempio “tu sei Quello”, che equivale a dire “tu sei il Decimo”.
L’indagine per comprendere l’esatto senso di una parola nel contesto del mahāvākya si avvale anche del richiamo alla memoria di tutti i passaggi delle Upaniṣad previamente studiati in solitudine o con l’aiuto di un esperto dell’argomento, un paṇḍita. In questo modo, scartando tutto ciò che è discordante, cioè le forme esteriori del simbolo, si assumeranno soltanto i veri significati che sono in accordo con il contenuto reale, che è il proprio Sé, sempre al di là da ogni azione e sofferenza, ovvero al di fuori dal divenire saṃsārico. I mahāvākya, perciò, sono la fonte più autorevole di conoscenza perché sono il principio, la fonte e la sintesi di tutte le Upaniṣad. 193. Esattamente come ogni sofferenza che si prova nel sogno cessa al risveglio, così l’idea che sia il proprio Sé a soffrire scompare per sempre allorché si conosce di essere il Sé interiore.
Come quando ci si sveglia la sofferenza provata in sogno scompare, allo stesso modo quando si conosce il proprio Sé scompare l’idea che esso sia sottoposto alla sofferenza del saṃsāra. Per questa ragione il mokṣa è anche chiamato il grande risveglio (bodha) e il saṃsāra, il grande sogno (mahānidrā). 194. La prova cognitiva1 non può applicarsi a testi come quello [già citato] della bollitura di frammenti di oro, perché questa frase deve essere interpretata metaforicamente, come risulta evidente confrontandola con l’esperienza percettiva che la smentisce se presa letteralmente. Ma questa incapacità di produrre autentica conoscenza non si verifica nel caso dei mahāvākya come “tu sei Quello”, perché non si trova alcuna contraddizione a questa affermazione.
L’interpretazione letterale dei testi della śruti contraddetti dalla percezione, dalla deduzione e dagli altri pramāṇa deve essere respinta. In questo caso si dovrà por mano alla metafora per capirne il vero significato. La metafora, il simbolo, l’allegoria, semplicemente suggeriscono o alludono a qualcosa di reale, ma non sono in grado di spiegare direttamente il loro vero significato. E, se da una parte questi strumenti concordano con il loro contenuto, da un’altra parte ne sono in discordanza. Questa osservazione è valida anche per le singole parti di ogni mahāvākya. Però una volta che quelle parole siano state messe al vaglio della discriminazione, tramite i pramāṇa non si potrà rilevare alcuna contraddizione nel significato sintetico dei mahāvākya. 195. Nel mahāvākya “tu sei Quello”, il significato delle due parole “Quello” (tad) e “sei” (asi) è già noto. Ma la frase non si presta a una conoscenza perfetta senza conoscere il significato del “tu” (tva). 196. Lo scopo della parola “sei” è quello di mostrare che “Quello” e “tu” si riferiscono a un’unica e medesima entità. 1
Pramā: ciò che è prodotto dagli strumenti di prova, pramāṇa.
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Nel caso del mahāvākya “tu sei Quello” soltanto una parola può prestare il fianco a una erronea interpretazione. Si sa già che “Quello” significa il Brahman, e che “sei” afferma la sua identità con “tu”. Perciò soltanto il “tu” deve essere oggetto di discriminazione tramite la riflessione sulla concordanza e discordanza dei suoi possibili significati. 197. In questo modo “Quello” sta per “Sé interiore” e “tu” assume lo stesso significato di “Quello”. Presi assieme essi escludono reciprocamente [l’idea] d’essere “colui che è sottoposto a sofferenza” e [l’idea] di non essere “il Sé interiore”. 198. I due termini”Quello” e “tu”, presi assieme, esprimono la medesima realtà contenuta nella formula “neti neti”1. 199. Quando la conoscenza che scaturisce da “tu sei Quello” è ottenuta in questo modo, come si può sostenere che non sia di per sé una fonte valida di conoscenza e che perciò ci sarebbe la necessità di realizzarla per mezzo di un’ulteriore azione?
Repetita juvant: giacché “Quello” è dichiaratamente il Brahman, e il mahāvākya presenta il “tu” come identico a “Quello”, il “tu” non potrà essere confuso con l’“io” individuale. Considerati come identici, allora “Quello” escluderà che “tu” possa essere sottoposto alla sofferenza dell’esistenza saṃsārica; e il “tu”, a sua volta, smentirà ogni idea che neghi che “Quello” sia il Testimone interno. “Tu” e “Quello” devono quindi essere intesi come un unico Principio non duale, proprio perché non c’è altro oltre a questo Principio, com’è dimostrato dal “neti neti”. Questa conoscenza, raggiunta per mezzo dell’ascolto del mahāvākya insegnato dal guru, è in accordo con la śruti, con la percezione dei sensi, con la deduzione e con gli altri pramāṇa. Quindi, come è possibile affermare che questa conoscenza non è uno strumento valido di conoscenza? Questo perché la conoscenza o Intuizione del Sé deve essere considerata quasi come fosse un “pramāṇa supremo”2 (antyapramāṇa), capace di oltrepassare l’esperienza empirica. Perciò è privo di senso affermare che, oltre alla conoscenza, si debba fare ricorso a una qualche azione metodica per raggiungere la Liberazione. 200. Perciò l’ingiunzione “agisci!” è incompatibile con il senso del testo, anche se la si intendesse applicare ai tre śrāvaṇa, manana e nididhyāsana. Possiamo dunque affermare che l’azione qui non ha alcuna utilità, tanto più che neanche la śruti ne accenna. E non si deve contraddire la śruti al solo fine di sostenere la necessità dell’azione.
I mahāvākya non accennano mai alla necessità di una azione rituale, compiuta con il corpo, con la parola o con la mente, imposta come metodo da parte di un maestro. E nemmeno śrāvaṇa, manana e nididhyāsana, che pur sono delle azioni mentali, possono essere considerate delle ingiunzioni impartite dal guru, perché non sono attività tese a produrre un effetto o a ottenere un risultato, ma soltanto a rimuovere l’irreale (asat) che nasconde la Realtà (Satya). Per l’emergere della conoscenza l’azione è del tutto inutile, e per questa ragione i mahāvākya nemmeno la menzionano. Chi afferma il contrario allo scopo di caldeggiare la necessità dell’azione, si mette in contrasto con la śruti. 201. Obiezione: Non esiste nessuna esperienza prodotta dall’ascolto dell’insegnamento che possa essere paragonabile alla soddisfazione concreta che [, per esempio,] si prova dopo aver mangiato. Analizzare una frase per ottenerne un’esperienza concreta è come tentare di preparare un dolce di riso bollito nel latte con sterco di vacca.
La curiosa espressione finale, significa che non è possibile ottenere risultati positivi utilizzando mezzi inadeguati. La frase è tratta dal commento di Vyāsa agli Yoga Sūtra3, ed esprime l’atteggiamento dei pātañjala yogin e dei tantrika nei confronti della Conoscenza pura4. Secondo loro, un’esperienza reale comporta sempre una soddisfazione corrispondente. Per esempio dopo aver ben mangiato si prova un senso di appagamento e di sazietà, 1 2
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BU II. 3. 6. Ovviamente l’Intuizione del Sé è ben al di là del dominio dei pramāṇa, essendo questi dei semplici strumenti individuali di azione conoscitiva. L’Intuizione, invece, è della medesima natura dell’Ātman e non è un’azione. Perciò qui l’uso di “pramāṇa supremo” deve essere inteso in senso trasposto. Yoga Sūtra, I. 32. Come è già stato detto, le Upaniṣad sono propriamente i testi del Vedānta. Il testo di riferimento dello Yoga darśana sono gli Yoga Sūtra che non fanno parte della śruti, ma della smṛti. Quelle che gli indologi hanno voluto chiamare Yoga Upaniṣad, in realtà, sono dei testi vedāntici che spiegano la natura dello Yoga.
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in quanto si è acquisito qualcosa di piacevole che prima, a stomaco vuoto, si desiderava ottenere. Perciò l’ascolto di un insegnamento, senza l’acquisizione di qualcosa che prima non si aveva, non può essere soddisfacente. È piuttosto evidente che per lo Yoga darśana la conoscenza da acquisire è trattata come se fosse un idam, un oggetto di un desiderio che deve venire a far parte del “mio” (mama). Per questa ragione, l’acquisizione della conoscenza, per quegli yogin, consiste nel soddisfacimento di un desiderio a cui ambisce l’ego per il proprio piacere: esattamente come la soddisfazione che si prova dopo un lauto pasto. È evidente che questa non può essere la vera conoscenza metafisica, ma una scienza del tutto immersa nel fluire del saṃsāra. 202. Risposta del vedāntin: È vero che tutti gli aforismi che danno informazioni sui non-Sé (anātman) conducono a una conoscenza teorica. Ma ciò non vale per i mahāvākya che riguardano il Sé interiore. Essi permettono la vera e diretta conoscenza, come il caso di quel tale che aveva realizzato di essere il decimo.
Gli aforismi della śruti che spiegano i limiti, l’illusorietà e l’irrealtà di tutto ciò che non è l’Ātman, sono delle informazioni che fanno parte della preparazione dottrinale teorica che precede l’iniziazione. Ma i mahāvākya hanno per argomento la conoscenza del Sé, e la loro comprensione non può essere solamente teorica. Ciò si spiega perché, mentre gli anātman sono irreali, per cui la loro conoscenza non può condurre a nessuna realizzazione, l’Ātman è la Realtà assoluta e la sua conoscenza comporta necessariamente la “realizzazione”. 203. Si deve capire che il Sé è il suo stesso mezzo di conoscenza (svāpramāṇaka); il che significa che esso è direttamente conoscibile a se stesso (svayamvedyatva). Dal nostro punto di vista si realizza la conoscenza del Sé quando l’ego è dissolto.
Il Sé è del tutto autosufficiente (svastha) e indipendente (svatantrin), in quanto è l’unico esistente, l’unico reale, l’unico cosciente. Perciò esso è direttamente conoscibile da se stesso per mezzo della sua stessa conoscenza che è propriamente quel “pramāṇa supremo” a cui accennavamo commentando lo śloka 199. Ovviamente, quanto si afferma “qui ora”, ciò corrisponde al suo stato assoluto e non duale; per cui si prenderà ogni cautela possibile onde evitare di confondere quanto appena affermato con la triade conoscente-conoscenza-conosciuto, che invece si riferisce al conoscere come una azione cognitiva, di cui s’è trattato abbondantemente in precedenza. Dal punto di vista empirico la conoscenza del Sé è susseguente alla dissoluzione dell’illusione chiamata aham, l’“io” individuale. Ma questo è soltanto un modo per esprimere in forma cronologica quella che è una realtà eternamente esistente. Perciò il maestro insegnerà al discepolo desideroso di conoscere, che il “proprio” Sé ha la visione del Brahmātman stesso, o meglio, che Lo intuisce, dal momento che Esso ha la medesima natura dell’Intuizione. La modificazione mentale che è prodotta dell’apparizione dell’Intuizione è definita come Suo anubhāva, ovvero intuizione del Sé. Ma in realtà questa modificazione mentale è soltanto il riflesso del Sé nella buddhi. 204. Noi consideriamo la sofferenza come qualcosa che i sensi sperimentano come oggetto esterno. Quale contatto può esserci tra il Sé e la sofferenza, se per il Sé persino i sensi sono oggetti?
Qui con sofferenza non si deve intendere il singolo patimento tattilmente percepito dal corpo, come una ferita, un trauma, una scottatura, una malattia, un’amputazione, ma l’insieme di tutti i tormenti, il saṃsāra nella sua interezza, che appare all’uomo ordinario come una successione illimitata di esperienze mutevoli costituenti il mondo manifestato. Questo divenire travolgente, ordinariamente lo si considera composto dalla totalità degli oggetti esterni percepiti dai sensi. Per colui che ha una visione un po’ più ampia, il saṃsāra comprende anche tutto ciò che è della natura sottile di taijasa, sperimentato dai sensi interni in stato di sogno. Ma, in realtà, il Sé non è sottoposto alla sofferenza del saṃsāra, poiché, per il Testimone, perfino gli stessi sensi esterni e interni, corpo e mente e buddhi sono soltanto degli oggetti. 205. Il Vedente, in verità, è sperimentato, cioè intuito, solo da se stesso, essendo della natura dell’EsperienzaIntuizione. L’insorgere di una modificazione intellettuale cognitiva pervasa dal suo riflesso è conosciuta come un’iniziale “esperienza del Sé”.
Il Vedente (dṛś, il Testimone) non può essere oggetto di esperienza, non può essere intuito come oggetto. Il Sākṣin sperimenta e intuisce se stesso non come altro da sé, essendo esso stesso della natura dell’Intuizione. Quando nell’intelletto dell’uomo si produce una modificazione (vṛtti) illuminata dal riflesso dell’Ātman allora
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quella è conosciuta come la primordiale esperienza del Sé come intuizione evidente d’esistere e d’essere cosciente (prasiddhānubhāva). Sull’intuizione iniziale “Io esisto; io sono cosciente”, ci siamo già espressi più sopra commentando lo śloka 4. E, a partire dallo śloka 90, abbiamo anche commentato la convinzione che “io sono così e così”, pensiero della buddhi che va a sovrapporsi all’intuizione primordiale dando origine alla falsa idea dell’“io” e del “mio”. 206. Il Sé è libero dalla fame e da altre privazioni. È sempre auto esistente, perfetto (siddha), libero. In verità tu sei Lui. Quando la śruti afferma questo, come può insegnare anche l’opposta dottrina per la quale si deve agire, al fine di obbedire a un’ingiunzione, per compiere śrāvaṇa, manana e nididhyāsana?
La śruti afferma che l’Ātman è eternamente libero dal saṃsāra e dalle sue limitazioni e privazioni. Il tuo vero “Io” è di per sé esistente, libero e perfetto. Tu sei Lui, ossia “tu sei Quello”. Perciò soltanto gli ignoranti possono pensare che le Upaniṣad indichino una dottrina per cui è necessaria un’ingiunzione magistrale a compiere determinate azioni nello spazio e nel tempo, al fine di conoscere il proprio Sé: e che queste azioni cognitive che dovrebbero produrre tale effetto debbano essere śrāvaṇa, manana e nididhyāsana, quasi si trattasse d’un metodo a tappe, basato sullo sforzo meditativo su un simbolo che sta a rappresentare indirettamente l’Aparabrahman. Invece la śruti afferma: “Quando con śrāvaṇa, manana e nididhyāsana sorge la conoscenza del Sé, allora si conosce tutto”.1 207. Se la śruti dicesse: “Se vuoi raggiungere la natura dell’Assoluto allora devi compiere śrāvaṇa, manana e nididhyāsana come azioni imposte dal maestro”, in tal caso la Liberazione sarebbe transitoria, il che comporta una contraddizione. Il testo non dovrebbe essere distorto per fargli dire che si deve arrivare a un “cambiamento di stato”.
Se le Upaniṣad affermassero che per arrivare a realizzare la natura del Brahman sarebbero necessarie delle azioni chiamate śrāvaṇa, manana e nididhyāsana imposte da un guru come metodo, allora il mokṣa sarebbe transitorio. Infatti, come sostengono i pātañjala yogin, ciò implicherebbe che la natura dell’“io” potrebbe progressivamente avvicinarsi a Īśvara fino a unirsi (yuj) alla Sua natura come un tutt’uno. Gli effetti dell’azione sono sempre transitori: perciò la Liberazione sarebbe transitoria, come il nirvikalpa samādhi di quegli yogin. Oltre a tutto, la natura contingente dell’“io” è transitoria: perciò la sua unione (yoga) con il Brahman è forzatamente transitoria. Ciò è in contraddizione con l’insegnamento “tu sei Quello”, perché la śruti non afferma mai “tu diventi Quello”, ma “tu sei Quello”. Tutto ciò, quindi, è in contraddizione con l’insegnamento upaniṣadico. E non si deve alterare il senso della śruti per far sì che dica ciò che si desidera per dimostrare che è in accordo con le varie correnti dello Yoga: cioè che la realizzazione è quel cambiamento di stato che comporta l’unificazione (ekatā) del relativo con l’Assoluto, del transeunte con l’Eterno, del limitato con l’Infinito; dell’ignorante con il Coscienteconoscente, cosa evidentemente impossibile.
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BU II. 4. 5.
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24. COMMENTO AL “TATTVAMASI” DI ŚAṂKARĀCĀRYA (XI) 208. E ancora, se l’ascolto, śrāvaṇa, potesse essere interpretato come se si trattasse di una azione ingiunta, allora colui che ascolta dovrebbe essere considerato differente da ciò che si ascolta. Ma questo minerebbe dalla base la dottrina della loro identità, che persino i prasaṃkhyānavādin condividono, anche se la loro interpretazione del testo risulta una ipotesi incomprensibile. 209. Essi infatti, concepiscono il Sé come auto esistente, perfetto e libero. Ma, poiché vogliono ancora continuare a compiere azioni rituali, ricadono nell’illusione e anch’essi contribuiscono a minare la śruti dalle fondamenta, 210. perché ciò che è auto esistente, perfetto e libero non deve affatto agire; se qualcuno deve fare qualcosa, allora non è né auto esistente né perfetto né libero. Chi sostiene il contrario inganna se stesso.
Se si interpretasse śrāvaṇa come un’azione ingiunta da un guru, allora vorrebbe dire che questa azione ha lo scopo di produrre un cambiamento di stato nel discepolo che, a conclusione della sādhanā, da individuo relativo si trasformerebbe in assoluto. Ciò implica che all’inizio colui che riceve l’insegnamento per mezzo dell’ascolto deve essere differente da ciò che gli è insegnato, vale a dire differente dal Sé. Ma ciò è inaccettabile, perché śrāvaṇa si basa su mahāvākya come “tu sei Quello”, che non significa affatto "tu conosci Quello". Persino i prasaṃkhyānavādin condividono l’opinione secondo la quale colui che ascolta e l’insegnamento ascoltato sono della medesima natura assoluta; anche se, poi, contraddittoriamente sostengono che comunque si deve compiere un’azione consistente nella ripetizione del mahāvākya come fosse un semplice mantra. In questo modo, oltre a ingannare loro stessi, i prasaṃkhyānavādin contraddicono le Upaniṣad, dando così ragione a quegli ignoranti (ajñāni) che considerano che il loro contenuto, anziché essere metafisico (pāramārthika), sia d’argomento ritualistico (kalpya) come quei testi vedici che appartengono al karma kāṇḍa. 211. Obiezione: Le parole “tu sei l’auto esistente, il perfetto, il libero”, semplicemente descrivono uno stato di fatto. Allora come spieghi che colui che ascolta si sforza di comprenderle?
L’obiettore considera condivisibili le parole “tu sei l’auto esistente, il perfetto, il libero” come affermazioni di principio. Tuttavia fa rilevare che colui che ascolta l’insegnamento tramite śrāvaṇa, all’inizio non ne conosce il senso e si sforza di comprenderlo. In questo modo parrebbe che il suo comportamento sia simile a quello di coloro che si sforzano in una attività ingiunta da un guru. 212. Risposta del vedāntin: La percezione sensoria produce l’esperienza che io sono chi compie azioni e che è sottoposto a sofferenza. In seguito ci si impegna nello sforzo di rimuovere questa credenza basandosi sulla determinazione “possa io andare oltre all’idea di essere un agente e di essere sottoposto a sofferenza”. 213. La śruti ha dichiarato che manana ecc. devono essere compiuti con il fine di conoscere l’Assoluto. Questa affermazione è volutamente conforme all’illusione di essere un agente, cui è sottoposto l’ignorante che ascolta l’insegnamento; ma quella dichiarazione [della śruti] ha lo scopo di permettergli di realizzarsi come l’eterno l’auto esistente, il perfetto, il libero1. 214. Ma, dopo che con questo mezzo una persona ha capito che “io sono privo di sofferenza, non agente, senza desideri, sempre auto esistente, perfetto, libero”, allora da quel momento come potrà mai accettare l’opinione contraria2?
Non si deve dimenticare che l’inizio della cerca del Brahman corrisponde allo stato di ignoranza (avidyā, ajñāna) a cui è sottoposto l’iniziato (sādhaka); al tempo stesso questo condizionamento è assunto e utilizzato metodicamente nella fase chiamata adhyāropa, ossia accettazione volontaria di un punto di vista di partenza erroneo. Lo stato d’ignoranza di cui si tratta non esclude, però, che il cercatore abbia una preparazione dottrinale libresca sul supremo Brahman (Parabrahman). Quella preparazione, tuttavia, non ha il potere di annullare l’esperienza empirica basata sull’ignoranza, perciò il sādhaka, pur sapendo benissimo che l’Ātman è il Brahman, continua a identificarsi con il proprio corpo. Così, per esempio, quando il corpo subisce una ferita a un braccio o è affamato, il sādhaka continua ad affermare: “Ho male a un braccio”, oppure: “Ho fame”. Il cercatore perciò continua a essere dipendente dai sensi, dai prāṇa e da tutti i pensieri della mente e dell’intelletto; e ancora ritiene 1 2
Si tratta in tutta evidenza della fase di adhyāropa. Quando, cioè, si realizza l’apavāda, com’è spiegato di seguito.
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d’essere un agente in questo mondo di trasmigrazione. Il suo desiderio di conoscenza, che fa propriamente di lui un jijñāsu, lo indurrà a rimuovere queste apparenze che lo condizionano, per mezzo della discriminazione (viveka), sulla base della certezza che è possibile rimuovere l’idea di essere un agente e di essere prigioniero del saṃsāra. Riflettendo tramite il “neti neti”, che, come si è già detto ripetutamente, è un’attività mentale, costui si dedica a discriminare sinteticamente l’anātman dall’Ātman, ossia l’irreale (asat) dal Reale (sat). La śruti ha dichiarato: Quando con śrāvaṇa, manana e nididhyāsana sorge la conoscenza del Sé, allora si conosce tutto1.
In questo caso il testo upaniṣadico si conforma al punto di vista empirico, perché in apparenza sembra affermare che la conoscenza del Sé viene prodotta dalle azioni śrāvaṇa, manana e nididhyāsana; perciò chi interpretasse letteralmente questo passaggio potrebbe credere che l’“Io” del jijñāsu sia un agente. Ma questo approccio vyāvahārika dell’Upaniṣad è usato per condurre il cercatore a riconoscersi nel Sé eterno, auto esistente, perfetto, libero, per via discriminationis. Una volta che, superata la fase adhyāropa e quella successiva di rimozione dell’apparenza (apavāda), insorga la Coscienza d’essere eternamente il Sé, l’opinione affermata nell’ultima citazione upaniṣadica sarà anch’essa rimossa come erronea. Ecco perché la via del Vedānta deve essere considerata una via immediata e brusca. Immediata, perché la Coscienza d’essere il Brahman proviene senza mediazione alcuna per il fatto che la Coscienza del cercatore è lo stesso Brahman; brusca perché la Liberazione insorge solamente quando l’ignoranza è del tutto rimossa. Finché permane anche un solo granello di pulviscolo (aṇu) d’ignoranza nel cercatore, egli sarà un ajñāni. Rimosso anche quell’aṇu, egli bruscamente riconoscerà quello che è sempre stato: l’Assoluto. Il Vedānta, dunque, giocando sui due piani empirico e metafisico indica la via per la Liberazione. È grazie a questa comparazione che è possibile in primo luogo orientarsi nella giusta direzione, e in seguito realizzare l’identità Ātman-Brahman. Altrimenti sarebbero impossibili e la dottrina insegnata con śrāvaṇa e la sua realizzazione. Per questa ragione i detrattori di questa impostazione devono forzatamente essere considerati dei materialisti “pratici”, poiché tra i due piani essi sceglieranno sempre soltanto quello vyāvahārika che sperimentano nella vita ordinaria, negando la metafisica. O, tutt’al più, si potranno rivolgere a una pseudo metafisica, irrealizzabile e ipotizzata soltanto tramite una fede cieca2. 215. Obiezione: Se io sono di fatto di tale natura [assoluta] dovrai ora spiegare come, al contrario, io sperimenti di essere pieno di desideri e azioni e di non essere affatto l’auto esistente, perfetto e libero.
L’obiettore insiste contrapponendo al vedāntin l’esperienza empirica che nella quotidianità della veglia, a suo parere, smentisce la certezza che il proprio Sé sia privo di desideri, non agente, auto esistente, perfetto e libero. 216. Risposta del vedāntin: Quello che è discutibile è solo l’esperienza d’“essere pieno di desideri e azioni ecc.”, e non quella d’essere liberato. Nell’esperienza si deve mettere in discussione qualunque oggetto che sia in contraddizione con ciò che deriva dai validi mezzi di conoscenza.
La conoscenza deve essere provata dai validi mezzi, i pramāṇa. Il fatto d’essere pieno di desideri e d’azioni nel corso della vita, nel corpo della veglia e in quello del sogno, è basato sulla semplice constatazione fornita alla mente e all’intelletto dalla percezione sensoria, ma è contraddetta dall’esperienza del sonno profondo dove quelle contingenze non esistono. Eppure anche il sonno profondo è uno stato di coscienza che si sperimenta nel corso della vita nel corpo. Ora, tutti gli esseri viventi fanno quotidiana esperienza di suṣupti e in quello stato nessuno è un agente né desidera alcunché. Ciò che durante la veglia i sensi riportano alla mente come realmente presente (sat) è dunque contraddetto, nell’interezza dell’esperienza vitale, che comprende anche sogno e sonno, dal pramāṇa noto come anupalabdhi con la constatazione della sua assenza (asat). Ciò prova che quello stato non è il dominio dell’“io”, com’è nella veglia e nel sogno, ma del Sé libero da azione e da desiderio. 1 2
BU II. 4. 5. Questo è anche il caso dell’ateismo che richiede la fede cieca in una credenza antimetafisica irrealizzabile e, perciò, indimostrabile.
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217. La certezza d’essere liberato risulta da un mezzo di conoscenza ben certo, ossia dal mahāvākya “tu sei il Brahman”. È [invece] la sensazione d’essere colui che soffre ecc. che deve essere messo in discussione, perché essa deriva dalla semplice apparenza fornita della percezione.
Invece la certezza d’essere eternamente auto esistente, perfetto e libero è sostenuta da śabda, il più autorevole dei pramāṇa, cioè a dire la śruti, per mezzo della sua stessa più elevata essenza, i mahāvākya come “tu sei Quello”. Ciò che deve essere messo in discussione è, invece, il pensiero d’essere l’“io” condannato alla trasmigrazione, che si basa, come s’è già visto, sulle apparenze illusorie riportate dai sensi. 218. Allorché alla domanda segue la dovuta corretta risposta, questa sarà che la sofferenza è inesistente. 219. Infatti la stessa risposta alla domanda “Come finirà la mia sofferenza una volta per tutte?” distruggerà la sofferenza.
Quando si pone una domanda, questa deve essere formulata in un modo corretto, altrimenti nemmeno la risposta non potrà essere corretta. Per esempio: l’obiettore citato nello śloka 215 avrebbe dovuto porre la sua domanda in modo corretto come segue: «Spiegami com’è che io in questa vita corporea ho esperienza d’essere pieno di desideri e azioni e non d’essere l’auto esistente, perfetto e libero». Infatti l’obiettore non precisa in quale stato intende contestualizzare la sua esperienza contingente. Se nella sua mente egli avesse formulato correttamente la domanda, probabilmente non l’avrebbe posta, poiché nella formulazione corretta è compresa la corretta risposta. Le limitazioni dell’esperienza saṃsārica durante la veglia e il sogno cadrebbero da sole davanti all’evidente esperienza del sonno profondo e apparirebbe chiaramente, grazie alla dimostrazione della anupalabdhi, che la sofferenza non esiste (asat). La domanda, quindi, dovrebbe essere formulata in modo leggermente diverso: «Come finirà la mia sofferenza una volta per tutte?» e la medesima risposta di prima distruggerà per sempre la sofferenza del saṃsāra. Infatti quando io sono in suṣupti, mi trovo fuori dal saṃsāra, ma non come “io”, bensì come Sé. Coloro che non lo capiscono e che non lo sanno, non lo possono sperimentare, perciò al risveglio ritornano nel jāgrat avasthā, da dove considerano che il sonno profondo è “nulla, tenebra, vuoto”. Chi, invece, capisce e sa, lo sperimenta; perciò rimane eternamente nella sua natura assoluta di suṣupti anche quando, agli occhi degli altri, è in stato di veglia. 220. La śruti in quanto prova valida per la conoscenza della natura del Sé non può essere messa in dubbio perché quei testi sono il più autorevole pramāṇa. Tutti gli altri, infatti, non conducono all’esperienza del Sé. Perciò l’insegnamento delle Upaniṣad conduce alla conoscenza che il Sé è eternamente libero. Ciò deve essere ammesso come vero poiché nulla lo può contraddire.
Come s’è detto diverse volte, le Upaniṣad sono l’unico pramāṇa che insegna il metodo per la conoscenza del Sé, mentre tutti gli altri pramāṇa devono partire nelle loro funzioni di prova, confidando sulle informazioni provenienti dai sensi. La mente e l’intelletto non potrebbero dedurre nulla per mezzo dell’anumāna senza che i sensi non li informassero con le loro percezioni; non potrebbero fare comparazioni con l’upamāna tra un oggetto, un attributo o una azione e un’altra; non potrebbero immaginare ipotesi o fare supposizioni con l’arthāpatti; non potrebbero constatare l’assenza di qualsiasi cosa con l’anupalabdhi. I jñānendriya sono più affidabili degli altri pramāṇa perché hanno contatto immediato con gli oggetti della loro percezione, mentre tutti gli altri devono passare attraverso la loro mediazione per funzionare. Tuttavia i sensi hanno contatto con le apparenze, perciò sono anch’essi ingannevoli. Invece śabda, il pramāṇa che è la śruti stessa insegnata per bocca del maestro all’orecchio del discepolo, non si basa sulle apparenze, ma sulla reale esperienza del Sé trasmessa da una ininterrotta catena di maestri realizzati e sperimentabile personalmente da chiunque vi si ricolleghi. Perciò le Upaniṣad sono l’unico mezzo per ottenere, attraverso śrāvaṇa, il metodo discriminativo che alla fine fa sorgere la conoscenza del Sé eternamente auto esistente, perfetto e libero. 221. Nessuna esperienza del Sé può essere convalidata eccetto quella indicata dalla śruti. Le Upaniṣad stesse dicono: “Non è conosciuto da coloro che dicono che lo conoscono”; e: “In che modo si potrebbe conoscere Quello da cui tutto è conosciuto?
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222. Per compiere la discriminazione necessaria a trovare il significato di “tu” ci deve essere la rinuncia (saṃnyāsa) a ogni azione, dice il Dharma Śāstra. Questo è il significato corretto. Perché la śruti lo descrive come “[...] pacificato, auto controllato [...]”.
Solamente la śruti è in grado di indicare il modo in cui emerge l’esperienza o l’Illuminazione intuitiva del Sé. Questo modo è insito nel “neti neti” upaniṣadico. Grazie a questa discriminazione, si giunge a riconoscere di essere sempre stati il Brahman e di non esser mai stati altro, perché Esso è eternamente uno e non duale. Perciò la śruti non insegna a conoscere l’Ātman, ma il modo affinché tale Coscienza-conoscenza sia evidente. Infatti essa afferma: “In che modo si potrebbe conoscere Quello da cui tutto è conosciuto?”1 Perché coloro che affermano di conoscerlo, non lo conoscono affatto, dato che il Brahman non può essere oggetto di nulla, nemmeno della conoscenza: “Non è conosciuto da coloro che dicono di conoscerlo”2. Coloro che affermano di conoscerlo sono ancora prigionieri dell’“io”. È il loro ego che conosce qualcos’altro come oggetto della loro azione conoscitiva e prendono quel qualcos’altro, qualunque cosa sia, per il supremo Brahman e il loro “io” per il Sé. Invece si deve discriminare fino ad arrivare a rimuovere quell’“io”. Questa rimozione è il vero saṃnyāsa. Il vero saṃnyāsa è la rinuncia a produrre qualsiasi azione e, così facendo, si vanifica il desiderio di agire per conquistare il “mio”. Una volta che il mama è eliminato anche la falsa idea dell’ego scompare, lasciando sorgere al suo posto il vero “Io”, il Sé. Questo è il significato del testo che afferma che con la rinuncia “[...] egli diventa pacificato, auto controllato, rivolto al suo interno, mai distratto, e vede il Sé in se stesso, e lo vede in tutto, ”3. 223. Per prima cosa si deve intuire il Sé interiore come il sé del proprio composto psicosomatico che è il significato di “tu”. Allora si vede tutto come il solo proprio Sé; e questo è il significato del mahāvākya.
L’Intuizione è ciò che fa capire che quella certezza primordiale “io sono, io sono cosciente” non è l’aham, ma è il Testimone di questo composto psicosomatico. Il composto psicosomatico ha un’esistenza illusoria nello stato della veglia e in quello del sogno, ma l’“Io” reale “è” ed “è cosciente” nello stato di sonno profondo. Allora, cancellato l’ego, il Testimone appare per quello che realmente è, vale a dire l’Ātman. Questa illuminazione rivela che quell’Ātman è il Sé reale, è il Brahman, è il Tutto, e non vi è altro che questo Assoluto non duale. Finché si consideravano reali gli stati di veglia (jāgrat avasthā) e di sogno (svapna avasthā), allora anche il sonno profondo (suṣupti) appariva come fosse una avasthā; e il Sé appariva come il Sākṣin che testimoniava dal punto di vista dell’Universale la manifestazione grossolana e quella sottile. Ma quando l’Intuizione dissolve la falsa idea dell’aham, suṣupti non è più uno stato, è l’Ātman stesso: il Testimone non è più testimone di nulla, è l’unico Ātman. Il Sé non è più il “sé” del composto psicosomatico, è l’Ātman stesso, il Brahman assoluto. Suṣupti appare come uno stato quando è considerata dal punto di vista dello stato di veglia o di sogno, quando è considerata soltanto come un terza condizione “incosciente” (acit) e “tenebrosa” (tāmasika) della propria esperienza quotidiana assieme alla veglia e al sogno. Ma quando si vede tutto come il proprio Sé, allora questo è suṣupti, esistenza reale, vera Coscienza-conoscenza. Questo è il vero significato del mahāvākya. 224. Quando il significato del mahāvākya che è il più perfetto mezzo di conoscenza, è stato capito correttamente come “tutto è il Sé”, nessun mezzo di conoscenza autorevole può permanere. Allora, come si potrà impartire a un tale uomo una qualsiasi ingiunzione?
Quando si è compreso il significato del mahāvākya che tutto è Ātman, allora nessun pramāṇa, anche quello più perfetto (śabda), può più essere utile. Perciò vanno respinti tutti i mezzi validi di conoscenza, compreso anche quello più autorevole, la śruti, perché ormai sono tutti diventati inutili. Vorresti forse impartire una azione da compiere a colui per il quale anche lo stesso mahāvākya è diventato superfluo? 225. Quindi nessuna ingiunzione all’azione può essere impartita dopo che sia sorta la comprensione del significato del mahāvākya. Perché non possono coesistere le due idee contraddittorie “Io sono il Brahman” e “io sono un agente”. 1 2 3
BU II. 4. 14. Kena Upaniṣad (Ke), II. 3. BU IV. 4. 23.
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226. La reale conoscenza “Io sono il Brahman” non può essere contraddetta dall’idea che “io sono un agente, io ho desideri, io sono limitato”, perché questi pensieri sorgono al pallido barlume di un pramāṇa.
Quando si è compreso il significato del mahāvākya si è incrollabili nella consapevolezza di essere il Brahman. Perciò all’illuminato non può essere attribuita alcuna azione, come non la si può attribuire al Brahman, che è la sua vera natura. Che senso ha impartire l’ordine di compiere un’azione a un simile Grande Essere? Per chi ha la conoscenza di Brahman i pramāṇa sono del tutto inutili. E sono proprio i pramāṇa che, dipendendo primitivamente dalle facoltà di senso, ingannano la mente facendo credere che ci sono degli oggetti, che questi sono oggetti (idam) di desiderio per l’aham, che l’aham è capace d’agire per acquisirli, in modo da annetterli al “mio”. Cosicché l’aham, che si sente limitato e insoddisfatto di esserlo, s’illude di aumentare il proprio dominio ampliando i propri limiti indefinitamente, nella vana speranza di diventare l’Assoluto. 227. Quando diventa incrollabile la conoscenza upaniṣdica “Io sono il Brahman e null’altro”, l’idea d’essere un agente, di avere desideri e di essere limitato diventa insostenibile come il pensiero che il corpo è il Sé. 228. Chi dopo averlo cercato, ha raggiunto un rifugio da un pericolo, o [anche] chi sta sforzandosi per raggiungerlo [avendo avvistato il riparo], essendo in salvo non desidera ritornare in pericolo.
Chi, dopo avere raggiunto la conoscenza tramite l’insegnamento della śruti, ha certezza incrollabile d’essere il Brahman e null’altro, costui non può davvero credere d’essere sottoposto all’azione, di avere da desiderare qualcosa d’altro da Lui, d’essere limitato e che il Sé sia limitato al corpo; egli è nella medesima situazione di chi, sfuggendo a un pericolo mortale, ha trovato riparo. Egli certamente non potrebbe desiderare di ritornare in pericolo. 229. Come può qualcuno, che si è risvegliato dalla sua precedente ignoranza del significato delle parole del mahāvākya e sta cercando l’esperienza diretta (anubhava) del significato dell’intera frase, considerarsi libero di comportarsi a suo piacimento, in particolare se ha effettuato la rinuncia?
Colui che ha sconfitto la sua ignoranza sul significato delle parole del mahāvākya, e sta cercando di comprendere intuitivamente il significato sintetico della frase per riconoscersi come Brahman, si trova nella esatta situazione sopra descritta di chi, fuggendo a un pericolo, già avvista il suo rifugio. Quel cercatore non si potrà abbandonare ad azioni e desideri che lo allontanano dalla meta, soprattutto se costui ha scelto la rinuncia totale (saṃnyāsa). 230. Per concludere, tutto quello che abbiamo sostenuto prima è stato ben fondato sulla realtà. 231. Perché nessuno s’impegna nell’azione allo scopo di ottenere ciò a cui è diventato indifferente. Essendo indifferente ai tre mondi, a quale scopo dovrebbe sforzarsi chi ambisce solo alla Liberazione? 232. Anche fosse in preda alla fame un uomo non ingoierebbe del veleno consapevolmente. E se, satollo per aver assunto del cibo delizioso, desiderasse assumere inutilmente del veleno, costui sarebbe pazzo.
Tutta questa esposizione è stata perfettamente argomentata in base alla logica, alla śruti e alla Conoscenza del Supremo. Colui che ora, dopo di ciò, desidera la conoscenza del Brahman (atatho brahma jijñāsa)1 non può essere coinvolto nell’azione in quanto, privo di kāma, prova per il karma e per i suoi frutti (karmaphala) soltanto indifferenza. Coloro che desiderano ottenere ricchezza, potenza, una rinascita migliore, si sforzano di compiere azioni (karma) per ottenere la terra, l’atmosfera o il cielo. Colui che ambisce esclusivamente al mokṣa dall’ignoranza, perché dovrebbe sforzarsi a compiere azioni? Se un uomo sa che un cibo è avvelenato, anche se fosse severamente affamato, non lo mangerebbe. Chi avesse raggiunta l’intuizione d’essere il Brahman come potrebbe tornare indietro e mettersi a produrre karma per raggiungere uno dei cieli? Chi è sazio del cibo ingerito, perché mai dovrebbe assumere del veleno? Soltanto un pazzo potrebbe obbedire a ingiunzioni di compiere azioni, dopo aver raggiunto la Conoscenza suprema! 233. Mi prosterno davanti al mio vero maestro che, come un’ape, ha succhiato dai fiori delle Upaniṣad il nettare della conoscenza suprema. 1
Brahma Sūtra (BS), I. 1. 1.
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OṂ TAT SAT
Come Śrī Śaṃkara Bhagavatpāda, a conclusione del capitolo XVIII dell’Upadeśa Sāhasrī intitolato “tu sei Quello”, si prosterna davanti al suo Guru Gauḍapādācārya, sia concesso anche a noi di chinarci reverenti ai piedi di loto del nostro maestro, i cui insegnamenti hanno permesso la stesura di questo libro dal titolo Il Serpente e la Corda, comprensivo del commento al “Tattvamasi”. Sia esaltato il Guru che porta i discepoli alla conoscenza, che fornisce loro i mezzi per comprendere e condurli alla Libertà. Sia lode al Guru che trasmette la scienza delle tre avasthā, unico strumento indispensabile per discriminare l’illusorietà della manifestazione dalla Realtà assoluta. Gloria al Guru che non considera seguaci i suoi discepoli e li affranca da ogni soggezione. Sia celebrato il Guru che si compiace quando i suoi śiṣya, raggiunta l’Ātmajñānam, superano la dualità maestro-discepolo. Oṃ! Possa Quello proteggerci entrambi, Possiamo noi ottenere vīrya, La nostra cerca ci vivifichi, Non ci sia differenza tra noi. Pace! Pace! Pace!1
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