La corda tesa. Stile e realtà 9788855294355, 9788855294362

L’indagine da cui parte questa raccolta di saggi segue linee di ricerca che intrecciano principalmente letteratura e cin

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Italian Pages 276 Year 2023

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Introduzione
Parte I Critica, stile, realtà
Mescolanza
Punctum fluens
Carpaccio
Intermezzo
Parte II La corda tesa Oltranze stilistiche e ricerca del senso
Traumi?
Rabbia
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La corda tesa. Stile e realtà
 9788855294355, 9788855294362

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ALESSANDRO CADONI

La corda tesa Stile e realtà

Assaggi

Collana diretta da Giorgio Ficara e Raffaele Manica

Assaggi | 8

Alessandro Cadoni

La corda tesa Stile e realtà

© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma

www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Assaggi ISSN: 2612-0283 n. 8 – maggio 2023 ISBN – Edizione cartacea: 9788855294355 ISBN – Ebook: 9788855294362 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Paesaggio Immaginario: Un Viaggio Iniziatico © Roberto – stock.adobe.com

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Introduzione

La vera via passa per una corda che non è tesa in alto, ma appena al di sopra del suolo. Sembra destinata a far inciampare più che a essere percorsa. F. Kafka, Aforismi di Zürau Rispettare il reale non significa, in effetti, accumulare le apparenze, ma al contrario spogliarle di tutto ciò che non è l’essenziale, pervenire alla totalità nella semplicità. A. Bazin, Difesa di Rossellini

Siano la parola e la cosa indissolubilmente vicine, in virtù di inequivocabile elezione semantica, oppure misteriosamente legate dagli «anelli necessari dello stile» dei quali dice Proust, è certo che ogni convocazione della realtà dentro l’arte passa attraverso un problema di forma e di forme. I saggi raccolti in questo volume, già pubblicati in diverse sedi nel corso di una decina di anni, si aggirano tutti, in qualche modo, attorno a questo problema, affrontato a partire dal confronto con testi o pratiche letterarie e cinematografiche. Certo, si dovrà riconoscere in partenza la genericità di alcuni spunti, giacché tutto ciò che si aggira attorno al concetto di realismo è destinato a vaghezza. Ma allo stesso modo, non è possibile eludere lo spazio di compromissione esistente tra vita ed espressione artistica. Nel solco di queste direttrici, ho scelto di dividere questa raccolta di studi in due parti, distinte nella sostanza ma tematica-

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mente percorse dalle medesime tensioni che attraversano i vari testi. La prima si sofferma in larga misura sulla forma del saggio, quand’anche formalmente spurio, come il caso del Carpac­ cio di Roberto Longhi, o nella sua declinazione di fondamento metodologico, come l’Auerbach di Pasolini. La seconda è invece quasi interamente dedicata all’analisi stilistica e tematica di alcuni testi narrativi, con la parziale eccezione dei due scritti su Pasolini che aprono e chiudono la sezione, nei quali l’indagine è allo stesso tempo letteraria e cinematografica. Uno individua una sorta di “funzione Bach” nella sua opera, andando a sondarne l’origine: il tutto con l’obbiettivo sotteso di verifica della disposizione stilistica, per così dire, auerbachiana dell’autore di Ragazzi di vita. L’altro si approccia a un ulteriore saggio spurio, il film La rabbia, nel quale la ricerca stilistica è alimentata dalla dialettica tra il montaggio di materiali audiovisivi preesistenti e la “voce poetica” d’autore chiamata a commento di tali immagini. Tra le due sezioni, un rapido intermezzo testimonia una più ampia attività militante, corsa accanto alla scrittura dei saggi e sorretta dalle stesse fondamenta critiche e teoriche. Tra i tanti, ho scelto due articoli il cui tema risulta qui di particolare rilievo. Il primo è un pezzo che, leggendo gli atti di un importante convegno su Auerbach, ricapitolava lo stato degli studi italiani sul grande saggista tedesco, con l’attenzione ancora sul rapporto tra la “realtà rappresentata” e l’indice delle mescolanze stilistiche: il tutto con l’occhio centrato sulle possibilità attraverso le quali la critica stilistica, nell’avvicinarsi a una comunità di lettori non esclusivamente specialistica, si può fare critica del reale, magari della vita. Il secondo è invece un articolo (rimasto sinora inedito) scritto in occasione della traduzione italiana di un bel saggio divulgativo – nato da letture radiofoniche – di Antoine Compagnon su Montaigne. In queste pagine, che sono qui un’occasione per risalire alle radici del saggismo moderno, il grande teorico della letteratura spigola, con vivo piacere del

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testo, tra quelle di Montaigne, del quale, in un sapido passaggio, sottolinea una rara dimenticanza. Starà a lui, ora, tentare di emendare questo lapsus dell’autore degli Essais. Per tornare alla parte principale del volume e ai saggi restanti, si va da alcuni ragionamenti sul tema del realismo cinematografico in un critico di vaglia come Barthélemy Amengual ad altri sul rapporto tra figurazione e astrazione nel cinema sperimentale degli anni Venti, a partire da un saggio (Punctum fluens) di Antonio Bisaccia, per continuare con due affondi nella scrittura “saggistica” e di “invenzione” di Mario Soldati e di Cesare Cases – i due termini intesi come endiadi. La sezione successiva, in due scritti, segue il filo della crisi e della conseguente ricerca del senso in scrittori moderni e contemporanei, da Grazia Deledda a Salvatore Mannuzzu, passando per Emanuele Trevi e Nicola Lagioia. In tutti i romanzi di cui si parla c’è un punto di partenza comune, siano essi percorsi dalla tensione tragica di Deledda o da quella antitragica ed elegiaca di Mannuzzu, innervati su una ricerca controstorica come quello di Lagioia o saggistica come quello di Trevi: quello di una crisi di senso del reale, intesa come spia che colloca questi autori, di generazioni radicalmente diverse, agli antipodi d’una medesima, lunghissima modernità. Il problema della frattura insanabile che si dà tra le cose e le loro rappresentazioni, siano esse immagini o parole, sta alla base di una ricerca stilistica che permette ai modi dell’espressione di incunearsi in quegli spazi interstiziali che stanno tra realtà e arte. L’impossibilità a raggiungere un’assoluta coincidenza tra i diversi poli espressivi alimenta il nuovo linguaggio critico sperimentato da Roberto Longhi attraverso la pellicola, complicando lo statuto di quella che potrebbe tranquillamente essere definita la sua tecnica di base, l’ékphrasis. Analizzando i rapporti complessi tra immagine dell’opera studiata, parola del critico e immagine filmata, ho provato a individuare nel Car­

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paccio una sutura fra parola e immagine, in una sorta di sintesi provvisoria attraverso la quale Longhi, sfruttando le potenzialità espressive dell’immagine in movimento, fornisce un esempio di saggismo multimediale, capace di evidenziare con nettezza ancora più flagrante la natura conoscitiva – di invenzione del vero – della sua prosa ecfrastica. In modo non così diverso, nel parlare dei film degli altri, Mario Soldati prova a mettersi di taglio, così assumendo un punto di vista defilato che gli permette però di andare al di là sia delle apparenze che degli aspetti tecnici di ciò che ha visto e di cui s’è messo a scrivere. L’autore di Vino al vino affronta l’attività di critico cinematografico e punta al giudizio di valore con una sorprendente semplicità – a volte persino banale – di strumenti, bilanciata però dall’acume analitico dell’ex regista e, come nel caso di Longhi, dalla sagacia prosodica del grande scrittore. Per Cesare Cases, del quale si affronta qui la parte forse a più alto indice di finzione del suo vasto catalogo saggistico, la satira è un grimaldello d’accesso al reale, in un senso allegorico che risente certo di Kafka e delle successive letture di Benjamin, ma che è forse anche un modo giocoso – e serissimo – di accostarsi a quel “pathos della distanza” che, secondo una sua lettura giustamente nota, era peculiarità di Italo Calvino. Tra loro associate, le categorie di satira e distanza offrono al saggista quella libertà d’invenzione che gli permette di scorgere un curioso – e kafkiano – antesignano di ChatGPT in una macchina capace di leggere e digerire tutti i libri, per poi restituire saggi belli e pronti. Se di gioco si parla, sarà necessario, passando alla seconda sezione, richiamare le pagine sulla narrativa storica di Andrea Camilleri che qui sono incluse. Partendo da una certa tendenza metaletteraria presente nell’autore, ho osservato il modo in cui Camilleri si muove nella dialettica tra vero e invenzione, tipica del romanzo storico. Attraverso una ricerca sulle fonti e un loro uso libero, lo scrittore siciliano innesta sul fondo

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storico una serie di invenzioni che, con un gusto acuto per il gioco, rovesciano l’andamento dei fatti accertati. Ma della storia e, soprattutto, del reale, ha inteso restituire la complessità qualitativa attraverso gli arabeschi dello stile – spesso tradotti in strutture marcatamente barocche. Torniamo ora da capo, alla scelta, non casuale, di aprire il libro con le pagine su Pasolini lettore di Auerbach. In questo lavoro sono analizzate presenza e influsso di Auerbach in Pasolini, alla luce dell’«idea direttiva» di Stilmischung, tratta da Mime­ sis: categoria che Pasolini adotta non tanto come metro unico di misurazione del linguaggio (e di conseguenza del pensiero), quanto piuttosto come strumento che, accordato ad altri, gli permette di creare quel ponte, per lui fondamentale, tra rappresentazione e realtà. L’idea-guida della «mescolanza degli stili», mutuata da Auerbach e filtrata – ma prima ancora sperimentata – dalla teoria del plurilinguismo di Contini, è infatti il compasso con cui Pasolini mette a contatto le due istanze, sia dal punto di vista critico – come osservatore e commentatore – che da quello creativo, in quanto poeta-artista. Un saggio teorico, dalla forte vocazione linguistico-stilistica, come Il cinema di po­ esia risulta uno dei documenti più evidenti di questo contatto, attraverso l’analisi della mescolanza dei punti di vista narrativi e rappresentativi che diviene, in definitiva, mescolanza di diversi linguaggi e stili. Date tali premesse, l’idea auerbachiana di “realtà rappresentata” torna utile in altre occasioni: si vedrà come da essa si può prendere spunto nell’analizzare la contraddizione solo apparentemente insanabile tra film narrativo e film sperimentale; o come possa risultare preziosa per commentare la concezione di realismo di saggisti come Bazin o Amengual. In sostanza, la trama concettuale che ruota attorno alle categorie di separazione e mescolanza degli stili può essere valida in un discorso comparatistico che dalla teoria letteraria si accosta all’analisi dello stile filmico, in funzione d’un allargamento del concetto di realismo.

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Questa prospettiva peculiare consiste nell’analizzare il regime realistico della rappresentazione attraverso un concetto aper­ to di stile. Auerbach affronta la teoria antica dei diversi livelli stilistici della rappresentazione letteraria e centra l’attenzione sull’utilizzo della mescolanza degli stili (Stilmischung) rispetto alla separazione (Stiltrennung), posta dall’estetica antica come principio retorico della scrittura. Per Auerbach, la mescolanza degli stili è uno degli elementi – forse quello fondamentale – attraverso cui valutare un possibile indice di realtà nella rappresentazione. Ma prima ancora del dato stilistico inteso come pura traccia testuale, ciò che il critico sottolinea come «idea direttiva» dei suoi saggi è l’inserimento della problematicità tragica all’interno dell’ordine quotidiano, evento culminante nel realismo moderno dell’Ottocento francese. Ecco dunque chiarirsi quella qualità dello stile alla quale sopra accennavo: l’apertura. Lo stile come modus della scrittura, perciò, risponde anche alla radiografia della struttura di un’opera, dove i temi si intrecciano con il sistema dei personaggi nel complesso non preordinato della rappresentazione. È questo, in sostanza, ciò che Auerbach vuol dire, quando scrive che «Stendhal e Balzac, facendo oggetto di rappresentazione seria, problematica o addirittura tragica, persone comuni della vita quotidiana […], infransero la regola classica della separazione dei livelli stilistici». Da qui raccoglie lo spunto Pasolini, mostrando come un «magnaccia del Pigneto» possa essere «visto come un’architettura romanica o un personaggio masaccesco». Si sa come un simile discorso sia da Auerbach ben inquadrato in un’ottica storicistica, per cui il testo non può in alcun modo essere considerato come un elemento svincolato dal proprio autore né dal tempo storico in cui è stato scritto. Ad Auerbach interessa la realtà che agisce al di là del testo, da riscontrare attraverso gli indici di rappresentazione. Cosciente, qui con Lukács, che questa stessa realtà è un complesso impossibile da afferrare in tutte le sue sfumature e rappresentare in forma

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sintetica, la mescolanza degli stili – intesa come correlativo oggettivo di tale complessità – può essere utilizzata come un indicatore di realismo: quasi non fosse (insieme all’altra categoria auerbachiana di figura) che un’allegoria, una rappresentazione allegorica – in termini modali – di quel plesso che è il reale. Auerbach parte dal prepon, il fondamentale concetto dell’estetica e della retorica antiche, su di esso soffermandosi anche negli Epilegomena a Mimesis, testo del 1953 nel quale discuteva le critiche mosse al suo grande volume, non sempre positive. Scrive Auerbach che dalle «sue più remote origini, da Aristotele in poi, il prepon è il fondamento della teoria dei tre tipi di stile», riferendosi ovviamente allo stile alto o sublime, medio o quotidiano, basso o umile: per poi chiudere sulla «separazione degli stili, che si fonda sul prepon: a una gerarchia di oggetti corrisponde una gerarchia di possibilità espressive». Ecco che in un volume dalla struttura estremamente originale e aperta (un insieme di saggi che prendono spunto da altrettanti brani: Omero, le Sacre Scritture, Petronio, La Chanson de Roland, Dante, e poi su fino a Montaigne, Cervantes, i Goncourt, Woolf ecc.), il tema fondamentale è la verifica delle rispondenze e delle compromissioni tra arte letteraria e realtà, attraverso una costante: la negazione di questo concetto di prepon e la mescolanza degli stili. Ecco: come provo a dimostrare anche con le pagine su Bazin e Amengual e sul “loro” neorealismo, un simile spettro di indagine può far luce anche sulla realtà che passa attraverso lo schermo. In ogni caso, quella auerbachiana non è l’unica lente d’osservazione adoperata, ma agisce, indirizzandole, su diverse prospettive. «L’idea è precedente a tutti i modi di esprimerla, essa è di per sé valore dell’anima, motore del mondo e formazione di vita, perciò questa critica parlerà sempre della vita più viva». Le parole di Lukács, tratte dalla famosa lettera a Leo Popper sulla forma e l’essenza del saggio, idealmente guidano il ragionamento sulle pagine di indagine saggistica di questo libro, in

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qualche modo rimandando al discorso sul rapporto tra realtà e rappresentazione. Potremmo dire che tra opere e realtà, tra testi e vita, c’è sempre la critica, l’attività di un lettore (o spettatore) che, nel tentativo di avvicinare i due poli, intensifica il senso della propria esistenza: quantomeno attraverso la ricerca di tale senso. Per dirla in altre parole, la disposizione critica e saggistica – costruita su una calibrata tensione stilistica – permette di riempire lo spazio di divaricazione tra cose e parole: o quantomeno, di arrischiarsi su questa via. Scrive Benjamin, nel suo saggio su Kafka, che «la dimenticanza riguarda sempre il meglio, poiché riguarda la possibilità della redenzione». In altri termini, la redenzione può rimandarci al senso dell’esistente, alla sua ricerca magari vana, ma indefessa, nelle tenebre della crisi del senso stesso. Il saggio, con la sua natura spuria; lo stile, coi suoi dettagli; il fulgore del frammento – per parafrasare ancora il Benjamin del Dramma barocco tedesco –, con la sua misteriosa ma inconfutabile appartenenza al mosaico: sono tutte tracce che ci indirizzano alla ricerca di ciò che si è dimenticato, sulla vera via di cui ha scritto Kafka, là dove son protette da una corda, tesa in basso, per farci inciampare. La caduta – il lapsus – ci aiuterà però a tenere gli occhi aperti.

Parte I

Critica, stile, realtà

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Mescolanza e contaminazione degli stili Pasolini lettore di Auerbach

Ma l’essenziale diceva che era questo: Socrate li costringeva ad ammettere che è proprio dello stesso uomo il saper comporre commedie e tragedie, e che chi è poeta tragico per arte è anche poeta comico. Platone, Il convito (223 d) Lo trágico y lo cómico mezclado, / y Terencio con Séneca, aunque sea / como otro Minotauro de Pasife, / harán grave una parte, otra ridícula, / que aquesta variedad deleita mucho: / buen ejemplo nos da naturaleza, / que por tal variedad tiene belleza. Lope de Vega, Arte nuevo de hacer comedias en este tiempo (vv. 174-180)

L’azione è quella d’una rissa, il proscenio uno spiazzo in terra battuta, polveroso, bruciato dal sole che vi si riverbera, inasprito dalla pellicola sovraesposta. Due uomini si buttano uno contro l’altro, s’avvinghiano, cadono a terra senza abbandonare la morsa in cui sono stretti: vani i tentativi di separarli di alcuni giovani spettatori. Chi legge avrà forse indovinato di cosa sto parlando. Lo spiazzo è quello «miserabile» su cui affaccia la casa di Ascensa, la rissa quella tra Accattone e il fratello di lei, Giovanni. La situazione è, letteralmente, umile: basso è l’ambiente, i personaggi, il linguaggio da questi utilizzato. Eppure – e non solo per l’elemento altisonante, la musica di Bach che scorre in colon-

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na sonora –, la percezione del quadro d’insieme è di tutt’altro tenore. Innanzitutto i movimenti, quelli dei soggetti delle inquadrature: abbiamo un uomo, Accattone, che s’avventa sopra un altro. Ha perduto «di colpo la testa: ha inghiottito troppo. Urlando e sbavando, come preso dalle convulsioni, si butta sul cognato, prima che questi se ne renda conto»1: così in sceneggiatura. Ci aspetteremmo forse una volgare zuffa, con tanto di pugni, calci, spinte. I due invece s’allacciano in una stretta, si lasciano andare in terra e – sinché non verranno a fatica divisi – si muovono a scatti, però ritmicamente, alternando alla presa delle braccia quella delle gambe. Pare di trovarsi di fronte alla teomachia di Giacobbe, o a una lotta di eroi antichi: vi è come un contegno laocoontico in questa stretta che sembra quasi un abbraccio doloroso. Il resto lo fanno la musica e i piani di contorno degli spettatori (in particolare Ascensa col bimbo in braccio, una Maestà povera). È chiaro, e Pasolini stesso lo ha spiegato in via definitiva: si tratta dell’«amalgama (il magma) del sublime e del comico di cui parla Auerbach» (SPS, p. 1510). Questa scena può tranquillamente essere il punto di partenza per indagare il rapporto tra Auerbach e Pasolini e l’influenza che il primo esercita sul secondo2, essa stessa costituendo un

1.  CI I, p. 54. Per quanto riguarda le citazioni dalle opere complete di Pasolini pubblicate nei Meridiani di Mondadori, si sceglie di adottare delle sigle, alle quali ci si riferirà anche nel corpo del testo: CI: Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Mondadori, Milano 2001, 2 voll.; SPS: Saggi sulla politi­ ca e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999; SLA: Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, 2 voll.; PO: Tutte le poesie, a cura e con uno scritto di W. Siti, Mondadori, Milano 2003, 2 voll.; RR: Romanzi e Racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1998, 2 voll. 2.  Ho percorso questa strada, anche attraverso analisi dettagliate, nel volume Il segno della contaminazione. Il film tra critica e letteratura in Pasolini, pref. di H. Joubert-Laurencin, Mimesis, Milano 2015.

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dato concreto capace di condurre a una costatazione: tramite la «mescolanza degli stili» come spettro della «realtà rappresentata», «idea direttiva» che cuce la trama concettuale di Mimesis3, Auerbach agisce dentro il cinema di Pasolini. Naturalmente, questo rapporto nasce dal Pasolini lettore di Auerbach, e particolarmente – lo vedremo – di Mimesis. E però, come è vero che il fondamento critico di Mimesis è coltivato dentro il cinema di Pasolini, altrettanto vero è che gli stessi spunti ermeneutici lasciano tracce anche dentro la sua letteratura. I romanzi, ad esempio: Ragazzi di vita, apparso un anno prima della traduzione italiana del grande saggio, lo dimostra chiaramente. Potremmo perciò azzardare un’ipotesi: Auerbach, nella sua analisi di forme della rappresentazione realistica attraverso la lente della mescolanza degli stili, avrebbe potuto osservare anche il lavoro di Pasolini. In un suo saggio, Corrado Bologna ha infatti sostenuto che, già prima della lettura di Mimesis e della conoscenza del suo autore, sopiva in Pasolini una sorta di «auerbachismo trascendenta­ le»4. Questa del filologo romanzo è una delle annotazioni più interessanti sul binomio Pasolini-Auerbach, da sempre accennato o messo in evidenza ma solo più di recente affrontato da studi puntuali5. Se di auerbachismo trascendentale si può per-

3.  Cfr. E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, vol. II, Einaudi, Torino 1956, pp. 339-343, e Id., Epilegomena a Mimesis, in Id., La corte e la città. Saggi sulla storia della cultura francese, Carocci, Roma 2007, pp. 183-199; si veda anche Id., Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Feltrinelli, Milano 1960, p. 26. 4.  C. Bologna, Le cose e le creature. La divina e umana Mimesis di Pasolini, in I. Paccagnella - E. Gregori (a cura di), Mimesis. L’eredità di Auerbach, Esedra, Padova 2009, pp. 445-466: p. 454 (in corsivo nel testo). In questo stesso volume, la medesima idea di Bologna è condivisa da S. De Laude, Pasolini lettore di Mimesis, pp. 467-482: p. 472. 5.  In questo senso, la letteratura critica s’è probabilmente avvantaggiata delle numerose occasioni scientifiche relative al cinquantenario della pub-

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ciò parlare – e le argomentazioni di Bologna senz’altro lo confermano, così come la presenza di mescolanze stilistiche nel primo Pasolini –, pare interessante vedere anche come questa intuizione si rinfocola attraverso un certo “immanentismo” auerbachiano, e cioè quale sia lo sviluppo critico e poetico pasoliniano dopo la lettura di Mimesis. Per fare ciò, mi soffermerò sul nodo centrale della mescolanza degli stili. In uno scritto su Le notti di Cabiria6, Pasolini racconta di quando conobbe Federico Fellini, in occasione della collaborazione alla sceneggiatura di quello stesso film: e lo fa col tono vivacemente aneddotico che si confà a una prefazione amichevole7. Nella cronaca lo scrittore dice di essersi recato al primo incontro col già celebre regista con «in tasca Auerbach». L’episodio

blicazione italiana di Mimesis (2006) e della morte di Auerbach (2007). Alle “segnalazioni” – a iniziare da Dante Della Terza che, nel 1963, prefà gli Studi su Dante di Auerbach per Feltrinelli, per finire con l’introduzione di Mario Mancini all’edizione del 2007 dei saggi “francesi” di Auerbach, La corte e la città, cit., pp. IX-X – s’aggiungono, oltre ai già citati studi di Bologna e De Laude, L. Gasparotto - A. Panicali, Conversazione su Auerbach e Pasolini, in I. Paccagnella - E. Gregori (a cura di), Mimesis. L’eredità di Auerbach, cit., pp. 493-508 e, sempre di A. Panicali, Pasolini e Auerbach, in R. Castellana (a cura di), La rappresentazione della realtà. Studi su Erich Auerbach, Artemide, Roma 2009, pp. 183-195. Ancora più recenti, E. Patti, Pasolini intellettuale mimetico, in «Studi Pasoliniani», n. 7, 2013, pp. 89-100; Ead., Pasolini after Dante. The Divine Mimesis and the Politics of Representation, Legenda, Oxford 2016; G.L. Picconi, Aroma di Vico. Appunti su Pasolini e Auerbach, in S. De Laude - P. Desogus - L. Gasparotto - S. Rimini, Il Medioevo secondo Pasolini, Edizioni Engramma, Venezia 2022, pp. 11-44. 6.  SLA I, pp. 699-707, con il titolo Nota su Le notti. Il testo fu scritto per il volume di F. Fellini, Le notti di Cabiria, a cura di L. del Fra, Cappelli, Bologna 1957. 7.  Franco Zabagli, al cui saggio si rimanda per il rapporto Pasolini-Fellini e in particolare per l’apporto del primo alle Notti, ha parlato di un «tono di felicità affettiva» raramente riservato da Pasolini ad altri, cfr. F. Zabagli, Pasolini per Le notti di Cabiria, in «Antologia Viesseux», I, n. 2, 1995, p. 178.

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è databile nella primavera del 19568, quando il film – che uscirà in Italia nel maggio del ’57, dopo l’anteprima al Festival di Cannes – era ancora in fase di scrittura: in un momento, dunque, in cui i saperi dell’autore di Ragazzi di vita – la conoscenza del romanesco e del sottosuolo delle borgate – erano, per Fellini, un prezioso serbatoio. Pasolini porterebbe dunque con sé Auerbach – per metonimia Mimesis, certamente –, appena uscito in traduzione italiana: oggetto che, per Fellini, ha tutta l’aria di apparire misterioso o di incutere una certa diffidenza, ma che, innanzitutto, fornisce al futuro regista lo spunto per una briosa descrizione, con similitudine allegorica, del riminese: Immaginate un lumacone grande come una città – Cnosso o Palmira – nel cui interno entrare come eroi di Rabelais: e lì dentro ritrovare cose dapprincipio deludenti come un benzinaro o una puttanella che batte in costume da vignetta: provare un senso di sproporzione tra l’enormità dell’ambiente e la meschinità del concreto-sensibile ivi trasferito; ma poi un po’ alla volta accorgersi che la lumaca-labirinto digerisce e assimila tutto nei suoi visceri, orrendi e radiosi: digerisce anche voi, se non state attenti (SLA I, p. 700).

L’accostamento nasce, pare ovvio, dalla fresca lettura di Mi­ mesis, più precisamente del capitolo dedicato al Gargantua rabelaisiano dove, attraverso il consueto metodo del campione testuale, Auerbach parte da un determinato brano, che appunto dà il titolo al capitolo, «Il mondo nella bocca di Pantagruele». Meravigliosamente, Alcofribas, voce narrante del romanzo, entra nella bocca del gigante, ma ciò che vi trova dentro non lo meraviglia affatto, proprio come accade all’immaginario visitatore del lumacone-Fellini: non si tratta che d’un altro mondo, copia di quello reale là fuori, come ha modo di constatare parlando con un contadino che zappa la terra: «– Amico, che 8.  Cfr. P.P. Pasolini, Lettere 1955-1975, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1988, p. 196.

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fai qui? – Lo vedi – mi disse – pianto cavoli»9. Si tenga presente, però, che la citazione esibita non è che la traccia più visibile di una lettura ben assimilata, nel metodo, dell’opera di Auerbach: è la scrittura stessa che, nel tono stilistico e ancor più nell’argomentazione concettuale, la evidenzia, andando a coltivare aspetti che, in nuce, Pasolini aveva già sperimentato: auerbachismo trascendentale, per l’appunto. Si notino, infatti, gli aspetti descrittivi tendenti alla sfera del corporale (es. “digerire”; “visceri”) assieme alla predominanza del tono comicogrottesco, da Auerbach sottolineato in più punti nel suo scritto su Rabelais; e infine – fatto che mi pare ancora più importante, giacché si entra nel vivo della questione della scrittura delle Notti – l’attenzione a miscelare i diversi aspetti e registri della rappresentazione, cosa di cui Pasolini si preoccupa, pensando al film a venire: Temevo, al suo referto sulle Notti, la sproporzione tra il concreto-sensibile e di tono, ambito e gusto realistico, e l’immaginario di provenienza quasi surreale, sia pure modificato dall’humour: e questo, annotato, dissi a lui, la sera dopo: sempre dentro il budello della sua macchina, ferma e illuminata in un vialone balordo […]. Lui mi ascoltava accovacciato, acciambellato sul sedile rosso, come una chioccia, come una Madonna del Manto, col guancione, l’occhio bistrato, su cui si stampava la balenante attenzione o l’ansia, come una tinta più opaca, rendendolo a tratti così umano, con la sua retina, la sua pupilla nocciola, da farlo parere quasi buffo, e enormemente affettuoso se per caso fosse un po’ spaventato dal mio Auerbach (SLA I, pp. 700-701).

Fellini avrebbe certamente sbilanciato la rappresentazione dalla sua parte, deformando il carattere realistico della cui responsabilità Pasolini si sentiva investito: poiché proprio lì, secondo

9.  F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, a cura di M. Bonfantini, Einaudi, Torino 1953, p. 300.

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l’autore di Accattone, si annida il valore poetico di un’opera, strettamente legato alla penetrante forza del vero. Temeva, appunto, «la sproporzione» tra i due caratteri del discorso: in sostanza, lo preoccupava il rischio della separazione degli stili. Il riferimento ad Auerbach, in questo episodio, assume contorni a dir poco emblematici: col suo volume da Pasolini ostenso come un amuleto utile a esorcizzare il deragliamento onirico dell’immaginazione felliniana e a difendere la sua idea di realismo, certo più auerbachiana che, per dire, lukácsiana: «l’amore per la realtà è più forte della realtà»10. Ma «forse – conclude Pasolini – non era necessario», dapprincipio, porsi questo patema (SLA I, p. 707): giacché quell’«amore per la realtà» più «forte della realtà» stessa che Fellini avrebbe imparato da Rossellini, e che Pasolini filtra appunto attraverso l’idea auerbachiana di realtà rappresentata, è nell’autore di 8½ inconsciamente nutrito da una sensibilità “creaturale” (altra categoria desunta da Auerbach, e sulla quale tornerò poco oltre). È subito all’indomani dell’apparizione in traduzione italiana, dunque, che Pasolini legge Mimesis11. I suoi interessi sono, sin da quegli anni, a dir poco eclettici: pubblica il primo romanzo senza trascurare la scrittura poetica; inizia l’attività di sceneggiatore per il cinema; profonde energie e concentrazione nel progetto di «Officina»; il suo lavoro di linguista e filologo è all’apice di una lunga e importante ricerca: sono gli anni dei fondamentali saggi introduttivi, per Guanda, alle antologie del10.  Ivi, p. 702. D’altronde la voluminosa prima edizione di Mimesis difficilmente sarebbe entrata nelle tasche di una giacca, cfr. S. De Laude, Pasolini lettore di Mimesis, cit., p. 474. C. Bologna, Le cose e le creature, cit., p. 447, s’è spinto oltre, riservando all’oggetto-libro la stessa funzione, allegorica, che per Petrarca assunsero Le confessioni agostiniane nella sua ascesa al Mont Ventoux. 11.  Se ne trova conferma anche nella corrispondenza di quei giorni, cfr. la lettera indirizzata ai redattori di «Officina» e datata Roma, 16 ottobre 1956 (Lettere, cit., p. 237).

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la poesia dialettale novecentesca (1952) e della poesia popolare italiana (1955). La tempestiva ricezione dell’opera del grande studioso tedesco appare perciò come un fatto naturale, che rimarca l’impatto di Mimesis nel quadro intellettuale italiano: restano da appurare il grado di attenzione speso in questa lettura e la lezione critica e teorica che, di qui, Pasolini farà propria. Nella già menzionata lettera agli amici di «Officina», nella quale Auerbach è nominato per la prima volta, il giudizio – quasi a caldo – su Mimesis è ancora incerto; un iniziale entusiasmo lascia il passo a una certa perplessità, forse suggerita da una recensione di Fortini per la rivista «Ragionamenti»12: «Quanto a Auerbach, se proprio L. [Leonetti] vuole conservarlo, non insisto: ma lo invito alla prudenza, a possibili pentimenti futuri, quando, come ora succede a me, il primo entusiasmo per A. cominci a stingere. Su Auerbach, L. potrebbe sempre riservarsi di scrivere un pezzo per la “Cultura”. (ha visto la recensione di Fortini su “Rag”?)»13. Questo primo resta, però, un episodio isolato che lascia spazio a successive, numerose attestazioni di stima. L’ho già detto, ma non sarà inutile prestarvi nuova attenzione: l’aspetto di Mimesis a cui Pasolini dà maggiore risalto è l’idea direttiva di “mescolanza degli stili”, spesso declinata sub spe­ cie della “contaminazione”14. In numerosi luoghi ne troviamo prova: iniziamo da un passaggio del film-intervista della serie Cinéastes de notre temps, Pasolini l’enragé (1966), realizzato da Jean-André Fieschi. Parlando del suo Vangelo secondo Mat­ teo, Pasolini dice di avere adottato, nel film, la mescolanza degli stili («J’ai fait un mélange de styles»); egli sostiene poi che 12.  Anche in F. Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e istituzioni lette­ rarie, Einaudi, Torino 1989, pp. 171-177. 13.  P.P. Pasolini, Lettere, cit., p. 237. 14.  Cfr. ad es. CI II, p. 2871: «Il segno sotto cui lavoro è sempre la con­ taminazione».

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«quand il y a mélange de styles, ça signifie qu’il y a un mélange dans la structure idéale de l’œuvre»15. Accanto alla mescolanza degli stili e dei linguaggi, il materiale di laboratorio, troviamo infatti una mescolanza profonda – mentale, si direbbe – che è quella di due diversi punti di vista: il primo, interno, cerca di approssimarsi per quanto possibile allo spirito del testo; il secondo, esterno, è quello del narratore marxista. Continua infatti Pasolini: C’est impossible que moi qui ne suis pas croyant, qui je suis marxiste, je puisse raconter l’histoire du fils de Dieu, avec la fidélité que je voudrais appeler prosodique à l’Evangile de Saint-Matthieu. Alors je ne suis pas seulement moi qui raconte l’histoire du Christ. Je suis moi à travers les yeux d’un autre homme, d’un croyant, d’un croyant du peuple italien. De là découle le mélange de styles.16

Anche da un simile passaggio risulta chiaro come Pasolini, scegliendo di adottare la mescolanza come dominante stilistica del suo cinema, avesse bene in mente le teorie di Auerbach, seppure qui non direttamente citato; le tracce stilistiche miste sono lo spettro della complessità delle situazioni rappresentate: rifiutata l’impostazione pittorica e manierista a favore di quella “documentaria”, un Cristo ripreso con canoni anticonvenzionali viene problematizzato e dunque storicizzato, al di là del suo statuto di personaggio sublime e tragico. Al contrario, un personaggio miserabile come il povero cristo di Accattone, col solo ausilio di musica sublime e inquadrature di gusto pittorico, assurgeva, al di là del piano etico, alla sfera del tragico. Un elemento decisivo è sottinteso nel brano di intervista sopra riportato: Pasolini dichiara che la mescolanza degli stili è una 15.  La trascrizione dell’intervista è leggibile nel fascicolo Hors Série, n. 9, 1981 dei «Cahiers du Cinéma» dedicato a Pasolini cinéaste, pp. 43-54: p. 46. 16.  Ibidem.

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soluzione scelta coscientemente, necessaria tanto nella lettura quanto nella riscrittura del testo, in tal modo dimostrando un’assimilazione del pensiero critico di Auerbach: sia nel metodo ermeneutico-filologico, per cui si sa calare nell’ottica del “credente”, visto come destinatario ideale del testo di partenza; sia dando vita a una dialettica visiva che, nutrendosi di contaminazioni, può attingere all’etimo remoto dell’opera; ancora, nell’interpretazione narrativa e visiva delle scritture evangeliche, modello originario, per Auerbach, di quella tradizione pluristilistica che culminerà nel realismo moderno. Che poi l’idea della mescolanza degli stili provenisse direttamente da Auerbach, Pasolini stesso ha più volte avuto modo di ribadirlo17; ancora verso la fine del 1956 – freschissima la lettura di Mimesis – Pasolini scrive La confusione degli stili (SLA I, pp. 1070-1088), saggio che, già dal titolo, risuona di echi auerbachiani. In esso viene affrontato, sotto il magistero gramsciano, il problema linguistico italiano, con l’ausilio di categorie critiche che rimandano alla lettura di Auerbach: L’abbassamento linguistico verso il parlato – nel Manzoni tendente a una «mescolanza degli stili» di tradizione biblico-cristiana, in cui, però, la semplicità del tono sostituisca la tipica paratassi di tale tradizione; nel Verga tendente a una «separazione degli stili» […] – tale abbassamento linguistico alle soglie del Novecento si effettua specialmente nella lingua poetica e, nella fattispecie, nella ricerca pascoliana (SLA I, p. 1076).

In seguito Pasolini spiega come la mescolanza ottocentesca rispecchi nuove situazioni politico-economiche che si affermano in Europa e Italia (e qui s’appoggia alla storiografia, sia di matrice stilistica che lukácsiana), mentre in Pascoli assume aspetti 17.  L’analisi più completa dei luoghi in cui Auerbach è citato da Pasolini è quella di S. De Laude, Pasolini lettore di Mimesis, cit., che riprende e amplia, tra l’altro, un lavoro di alcuni anni prima, Ead., Due note su Pier Paolo Pasolini, in «Strumenti Critici», XVI, n. 3, 2001, pp. 457-472.

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più individuali, tendendo poi a una giustapposizione piuttosto che a una vera e propria mescolanza: si preoccupa dunque, secondo l’insegnamento di Auerbach, di mettere in relazione gli eventi stilistici di un testo al mondo in cui quel testo è stato prodotto, arrivando a osservare, attraverso la mescolanza degli stili, quella porzione storica di realtà. Ma, soprattutto, riconduce tutto ciò, in senso propriamente militante – questo era, in sostanza, il presupposto etico e politico del gruppo di «Officina» –, a una linea letteraria che, in polemica con un novecentismo neoclassicista «ordinante dall’alto», è caratterizzata proprio dalla mescolanza degli stili18: siano esempio le contraddizioni del neorealismo tra l’attinenza al concreto-sensibile (in termini di urgenza politica) e le forme liricizzanti di classicismo residuale19. C’è poi in questo scritto un altro elemento che deriva dall’autore di Mimesis: l’importanza attribuita da Pasolini al dettaglio, inteso come porzione di testo, nel discorso globale su un’opera. Al centro del discorso critico, dunque, sta il fondamento metodologico di Auerbach e, in generale, della critica stilistica: il dettaglio – lo stile della scrittura – rimanda, nel circolo ermeneutico testo-interprete-contesto, all’oggetto nella sua globalità. 18.  Gianfranco Contini, in un’intensa commemorazione, ha definito come «la virtù preclara» di Pasolini fosse «l’amore dell’umile e dell’autentico». A questo proposito – considerato il rifiuto del neoclassicismo reazionario della letteratura di primo Novecento e la cauta osservazione dell’ermetismo – Contini vede in Pascoli «l’unico suo antenato sopportabile, fra tanto fasto (e soprattutto aspirazione al fasto) della tradizione prossima», G. Contini, Testimonianza per Pasolini, in A. Panicali - S. Sestini (a cura di), Pier Paolo Pasolini. Testimonianze, Salani, Firenze 1981, pp. 13-15: p. 14. 19.  SLA I, pp. 1083-1084. L’esempio è quello di Bassani; è interessante notare che tali elementi del neorealismo sono stati messi in evidenza anche da un osservatore come Barthélemy Amengual, interprete non secondario del cinema pasoliniano, cfr. B. Amengual, D’une résistance l’autre: notes sur la genèse du style néoréaliste italien, in Id., Du réalisme au cinéma, Nathan, Paris 1997, pp. 31-43.

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Lo si può verificare anche nel saggio su La dolce vita, scritto da Pasolini nel febbraio 1960 (SLA II, pp. 2269-2279). In un primo momento è qui lamentata la divisione netta e contraria al segno antispecialistico del saggismo fra critica cinematografica e letteraria, involute nel vortice autoreferenziale di «una critica tecnicistica, che implica necessariamente i generi, magari non come distinzioni retoriche, ma come distinzioni stilistiche» (SLA II, p. 2269); date simili premesse, Pasolini propone un rimedio: impiantare criticamente, con gli stessi interessi estetici e ideologici, lo studio su un libro o su un film, tenendo conto appunto che la differenza è semplicemente tecnica, e che l’analisi descrittiva – pur descrivendo processi espressivi diversi – ha la stessa funzione critica […]. Ecco, ora, se si trattasse di un’opera dello scrittore, io partirei subito da un esame stilistico: magari mi prenderei il mio bravo campione linguistico, una frase «tolta a caso» (come si dice) dal contesto, la metterei sul tavolino del laboratorio, la smonterei, l’analizzerei. Dall’analisi stilistica potrei così lecitamente giungere alle implicazioni psicologiche, ideologiche e storiche (SLA II, p. 2270).

Un’anamnesi testuale che rimbalza, insomma, tra Auerbach e Leo Spitzer, altro critico-teorico al quale Pasolini guardò non occasionalmente. Spitzer avrebbe, in questo caso, parlato di ricostruzione dell’“etimo spirituale”: quel valore profondo che lega opera (partendo dalla radiografia stilistica d’un frammento), contesto e psicologia dell’autore20. La lezione della stilistica – di Auerbach, poi, nella fattispecie – è dunque presente anche in questo scritto critico di Pasolini, che tra i primi ne riporta gli orientamenti all’analisi del film: in un senso che potrebbe ancor oggi rivelarsi fecondo per la critica e la teoria del cinema, che hanno sempre guardato alla letteratura come a un 20.  Cfr. L. Spitzer, Critica stilistica e storia del linguaggio, a cura di A. Schiaffini, Laterza, Bari 1954, passim, e specialmente pp. 113 e ss.

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terreno di scambio, anche in senso critico, ma raramente vi hanno visto un vettore teoretico. Un’altra categoria critica che, in Pasolini, deriva direttamente dall’autore di Mimesis è quella di “realismo creaturale”, alla quale egli fa ricorso, a distanza di molti anni l’una dall’altra, in almeno due occasioni differenti. La prima, nel 1961, in un saggio introduttivo a un’antologia poetica concentrata su testi della tradizione letteraria dialettale italiana attraverso la lente del realismo21. La seconda, più interessante poiché traccia di un nitidissimo itinerario critico, nello scritto dedicato a Corporale, il romanzo-saggio di Paolo Volponi uscito nel 1974 per Einaudi: In Corporale di Volponi, sotto il romanzo che vedremo – e che è quello che si presenta come «ufficiale», come «valore culturale» – scorre un secondo romanzo. Forse è ad esso che si riferisce il titolo […]. Questo secondo romanzo «sotterraneo» è infatti di carattere fisiologico, corporeo […]. Esiste tuttavia una qualificazione che fa perfettamente al nostro caso, garantendoci di restare immuni da ogni genericità e ambiguità. Si trova in Auerbach: secondo il grande stilcritico esiste infatti un tipo di realismo (che si occupa in stile comico del quotidiano) il cui senso profondo consiste in una «pietà creaturale» verso gli uomini, sia come principio prerazionale sia come ultima risoluzione di una ideologia (non necessariamente cristiana). Il mondo sociale di tale «realismo creaturale» è il «coin detourné de la nature», dove secondo Pascal si trova a vivere l’uomo, ma che ha tuttavia tutte le connotazioni dell’usuale, del normale, del quotidiano (ed è proprio per ciò che commuove).

21.  SLA II, p. 2325. Un altro accenno era dato anche nel già citato saggio La confusione degli stili, SLA I, p. 1970. In generale, sull’argomento, si veda anche J. Simonini, Villon-Pasolini. Tra forme poetiche e “realismo creaturale”, in S. De Laude - P. Desogus - L. Gasparotto - S. Rimini, Il Medioevo secondo Pasolini, cit., pp. 71-92.

32 Dalla prima pagina all’ultima di questo libro di più di cinquecento pagine assistiamo all’interminabile srotolarsi di un palinsesto creaturale, che, ripeto, scorre contemporaneamente allo svolgersi del romanzo (il quale, peraltro, non è ordinato o preordinato, ma è a sua volta magmatico) (SLA II, pp. 2020-2021).

La presenza del creaturale nel romanzo di Volponi traccia, secondo Pasolini, un percorso sotterraneo che corrisponde a una sorta di sottoromanzo, o un palinsesto, appunto. Esso consiste in un rivo di luoghi e personaggi che renderebbero Corpora­ le «un romanzo-fiume di creature italiane ammassate alla soglia del racconto»: «giovani, uomini, ragazze, puttane, carabinieri, camerieri, cassiere, sconosciuti che passano casualmente di lì, contadini, clienti di bar, passeggeri di stazioni» (SLA II, p. 2021) non sono presenze di puro sfondo, ma elementi che entrano nella scena della rappresentazione letteraria con un altissimo tasso di fisicità, di «carattere fisiologico, corporeo». Su di essi si piega lo sguardo di compassione dell’autore (parla Pasolini di «pietà creaturale», ma non solo: di «simpatia, di affetto, di tenerezza sviscerata e quasi impudica»22) che ricalca, in certa maniera, quello del protagonista del romanzo, Gerolamo Aspri. Egli vive in mezzo ai sentimenti che questi esseri provano, si getta in mezzo alla loro sofferenza. Di qui proviene il senso della categoria “creaturale”, da Auerbach ricondotta a quella sfera – quotidiano-realistica – della rappresentazione letteraria che racchiude i personaggi-uomini in quanto creature sensibili ai patimenti della loro natura fisiologica23. Il romanzo secondario, quello creaturale, convive parallelamente sotto quello principale: ma non si tratta – si faccia attenzione – di operazione dialettica o di strategia allegorica. Al di sopra, infatti, si staglia la vicenda di Aspri, a sua volta divisa in due par22.  Ivi, p. 2022. 23.  Cfr. E. Auerbach, Mimesis, cit., vol. I, pp. 268 e ss.

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ti. Ma laddove nel romanzo “inferiore” si ritagliano una serie di figure che danno vita a un brusio vitale, a un concatenarsi di casualità, nel romanzo superiore si trovano alcuni elementi motori di una vera e propria azione narrativa: «tali elementi – scrive Pasolini – Volponi è andato a ricercarli nella realtà storica, e sono due […]: primo il terrore della distruzione atomica, secondo, il disagio alienante causato dal mondo industriale-consumistico» (SLA II, p. 2024). Questo bivio causa la lacerazione psicologica del protagonista volponiano, gettato in un vortice di schizofrenia: anticipatore di ciò che sarà Carlo in Petrolio, personaggio ancipite, sdoppiato nel luciferino Carlo di Tetis e nell’urbano Carlo di Polis, protagonista del romanzo sul quale Pasolini stava lavorando al momento della lettura di Corporale. Eccoci, dunque, al nodo critico di questo scritto pasoliniano: lo sguardo ermeneutico sullo scritto dell’amico Volponi rimanda, in maniera non certo pretestuale, a un’autoanalisi della sua opera o, meglio, della sua attività creativa. Attraverso il riconoscimento del «romanzo inferiore» di natura creaturale, Pasolini traccia una nitida lettura strutturale del romanzo: bipartito nella trama, attorno alla figura di un personaggio psicologicamente sdoppiato, conosce un’ulteriore biforcazione proprio tramite l’utilizzo di una categoria estetica auerbachiana. Passiamo oltre e a un’altra categoria, quella sotto cui viene rubricata la scrittura del romanzo di Volponi. La complessità della struttura, i suoi blocchi contrapposti e contraddittori, sono uniti da una scrittura che non è ordinata, bensì magma­ tica. Ecco, un altro nodo critico auerbachiano, se è vero che per Pasolini il magma sarebbe da intendere come sinonimo di “amalgama” degli stili24, di mescolanza, di contaminazione di linguaggi e punti di vista. Ed è proprio l’aggettivo magmatico che spesso, nei consueti slanci autoesegetici, egli associa al proprio stile. Se la maniera in cui aveva girato Il Vangelo se­ 24.  Cfr. SPS, p. 1510.

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condo Matteo viene infatti così definita25, Pasolini, che in Una disperata vitalità scrive «sono tornato tout court al magma!» (PO I, p. 1185), arriverà all’affermazione radicale di questa forma nella scrittura: con Trasumanar e organizzar, La Divina Mimesis, sino a quell’ammasso di appunti, scorie, frammenti, documenti scritti in forma di saggio, comunicato o trattamento che è Petrolio. Insomma, la recensione a Corporale pare doppiamente importante: primo, perché l’itinerario critico che Pasolini traccia in Volponi tende ad accentrare sulla sua stessa opera, e in quel senso, lo sguardo dell’interprete; secondo, e di conseguenza, perché essa porta con sé una serie di problemi teorici e critici che spingono il ragionamento sui modi pasoliniani del fare critica, quegli stessi modi insolubilmente amalgamati alla sua produzione artistica: pensiero critico e creazione sono, in Pasolini, le due facce di un magma intellettuale. A tale proposito, anche Gilles Deleuze, in L’immagine-movi­ mento (1984), ci offre un’importante riflessione sulla mescolanza come elemento fondamentale (e trait d’union) fra pensiero critico e poetica in Pasolini. Parlando dei problemi dell’enunciazione nel film a proposito dell’“immagine-percezione”, il filosofo francese si sofferma sulle teorie cinematografiche pasoliniane, prendendo in esame il discorso sulla “soggettiva libera indiretta” e sulla problematizzazione dello sguardo del personaggio interno al film e dell’autore che dà vita al personaggio; attraverso tale formula, tempestivamente Pasolini coglie e argomenta uno dei punti nodali del cinema moderno: l’incrocio fra soggettività e oggettività nella loro contraddittoria connivenza. Nel fare ciò, tenta di arrangiarsi con gli strumenti della critica letteraria. Così come in letteratura esiste un discorso libero indi­ retto, nel cinema possiamo avere una soggettiva libera indiretta.

25.  Cfr. CI II, p. 2771.

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Semplificata ai minimi termini, questa teoria pasoliniana – che ha trovato attenzione continua, fra perplessità e plauso, nella storia delle teoriche filmiche – rischia di venire banalizzata: ciò su cui voglio adesso soffermarmi è però la prospettiva da cui Pasolini affronta un problema, per specificare che essa è sempre la stessa, che sia, analiticamente, in un saggio o uno scritto critico di altra forma, oppure attraverso un film o un’opera letteraria. Questa prospettiva è sempre corrispondente alla sua idea e alla sua messa a fuoco della realtà. Il legame con il discorso indiretto libero appare evidente, ma non esaurisce le possibilità di traduzione filmica di una tecnica letteraria. Bisogna innanzitutto specificare che esso consiste, secondo Pasolini, nell’«immersione dell’autore nell’animo del suo personaggio», implicando perciò «l’adozione, da parte dell’autore, non solo della psicologia del suo personaggio, ma anche della sua lingua»26: ciò sta a significare che all’atto di creazione (scrittura o impressione della pellicola) corrisponde l’unione verticale di una psicologia e di una tecnica “d’autore” con la psicologia e la lingua dei personaggi (mimesi). I casi di mescolanze stilistiche sono, di conseguenza, infiniti: gli esempi presentati a questo punto da Pasolini, Dante e Verga, sono nitidamente centrati. Ma come si arriva, nello specifico, alla rea­ lizzazione di questa tecnica nel film? Che tuttavia anche al cinema sia possibile un discorso libero indiretto è certo: chiamiamola «soggettiva libera indiretta» questa operazione (che, rispetto all’analoga letteraria, può essere infinitamente meno articolata e complessa). E, visto che abbiamo stabilito una differenza tra «libero indiretto» e «mo-

26.  SLA I, p. 1473; il saggio è, naturalmente, Il «cinema di poesia» (ivi, pp. 1462-1488); cfr. poi quanto Pasolini, in modo ancora più significativo, aveva affermato nel 1964 (PC II, p. 2872): «Nel discorso libero indiretto […] la contaminazione avviene in maniera chiara, cioè il dialetto, il gergo si contaminano con la lingua parlata. Questa contaminazione avviene anche a livello più alto cioè a livello della parte descrittiva e narrativa».

36 nologo interiore», occorre vedere a quale delle due operazioni la «soggettiva libera indiretta» è più prossima […]. Se […] non corrisponde del tutto al «monologo interiore» essa corrisponde ancor meno al vero e proprio «libero indiretto». Quando uno scrittore «rivive il discorso» di un suo personaggio, si immerge nella sua psicologia, ma anche nella sua lingua: il discorso libero indiretto è dunque sempre linguisticamente differenziato, rispetto alla lingua dello scrittore […]. Ogni realtà linguistica è un insieme di lingue differenziate socialmente: e lo scrittore che usi il «libero indiretto» deve avere soprattutto coscienza di questo: che è poi una forma di coscienza di classe (SLA I, pp. 1475-1476).

Il problema che si pone, ora, è questo. Se un personaggio, oggettivamente, parla una lingua diversa da quella dello scrittore – se il primo appartiene a una classe subalterna costretta nell’analfabetismo e il secondo alla borghesia colta (è il caso di tanta letteratura realista ottocentesca) –, quest’ultimo può calarsi, attraverso la mimesi, nella lingua del personaggio. Nel passaggio al cinema, però, un discorso pronunciato da un personaggio non è certo – banalmente – la traduzione di un discorso pensato dall’autore: di ciò siamo sicuri, se consideriamo quella visiva come prima istanza linguistica del cinema. Semmai il problema coinvolge lo sguardo del personaggio: al discorso diretto della letteratura corrisponderebbe, dunque, una “soggettiva” al cinema. Ma non sempre – questo ci dice Pasolini nel suo saggio – l’inquadratura “oggettiva” corrisponde a uno sguardo esterno, quello del narratore-regista. C’è una possibilità che questi si cali, indirettamente, nello sguardo del suo protagonista, del suo personaggio: vi è dunque, sostiene Pasolini, una possibilità indiretta di mimesi dello sguardo27. Ma come?

27.  Non sarà certo inutile notare – anche da un punto di vista auerbachiano – che La mimesi dello sguardo è il titolo originario del saggio sul cinema di poesia, letto, nel 1965, alla tavola rotonda sulla “Nuova critica” durante

37 Praticamente dunque, a un possibile livello linguistico comune fondato sugli «sguardi» alle cose, la differenza che un regista può cogliere tra sé e un personaggio, è psicologica e sociale. Ma non linguistica. Egli è perciò completamente impossibilitato a ogni mimesis naturalistica di un linguaggio, di un ipotetico «sguardo» altrui alla realtà. Quindi, se egli si immerge in un suo personaggio, e attraverso lui racconta la vicenda o rappresenta il mondo, non può valersi di quel formidabile strumento differenziante in natura che è la lingua. La sua operazione non può essere linguistica ma stilistica […] La caratteristica fondamentale, dunque, della «soggettiva libera indiretta» è di non essere linguistica, ma stilistica […]. Questo, almeno teoricamente, fa sì che la «soggettiva libera indiretta» nel cinema implichi una possibilità stilistica molto articolata: liberi, anzi, le possibilità espressive compresse dalla tradizionale convenzione narrativa, in una specie di ritorno alle origini: fino a ritrovare nei mezzi tecnici del cinema l’originaria qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria (SLA I, pp. 1476-1477).

Lo spirito dell’autore di cinema, insomma, condensa la propria individualità attraverso lo sguardo mediato da un personaggio. Questa tesi dimostra pienamente come anche la teoria del cinema pasoliniana sia filtrata dalla stilistica. È difficile, infatti, leggere queste pagine senza pensare ad alcuni passaggi di Spitzer, in una traiettoria che porta ancora verso Auerbach e il nodo critico sin qui individuato, ora attraverso la lettura di Deleuze28:

la I Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro e con quel titolo pubblicato nel volume che raccoglie gli atti dei primi, memorabili, convegni pesaresi: L. Micciché (a cura di), Per una nuova critica. I convegni pesaresi 1965-1967, Marsilio, Venezia 1989. 28.  Sulla lettura deleuziana del Pasolini teorico, cfr. H. Joubert-Laurencin, Le dernier poète expressioniste. Écrits sur Pasolini, Les Solitaires Intempestifes, Besançon 2005, pp. 68-74. Su Pasolini teorico del cinema si vedano, tra le altre cose, A. Costa, Immagine di un’immagine, UTET, Torino 1993,

38 Si può dire che un’immagine-percezione soggettiva è un discorso diretto; e, in modo più complicato, che un’immagine-percezione oggettiva è come un discorso indiretto […]. Pasolini pensava che l’essenziale dell’immagine cinematografica non corrispondeva né a un discorso diretto né a un discorso indiretto, ma a un discorso libero indiretto […]. Bachtin […] evidenzia bene il problema: non vi è semplice mescolanza tra due soggetti di enunciazione del tutto costituiti, di cui uno sarebbe enunciante e l’altro enunciato. Si tratta piuttosto di un concatenamento enunciativo, che opera allo stesso tempo due atti di soggettivazione inseparabili, uno che costituisce un personaggio alla prima persona, l’altro che assiste alla sua nascita o lo mette in scena. Non c’è mescolanza o media tra due soggetti, ognuno dei quali apparterrebbe a un sistema, una differenziazione di due soggetti correlativi in un sistema anch’esso eterogeneo.29

Deleuze mette a confronto le posizioni di Pasolini e di Bachtin: e specifica che non ci sarebbe, in questa prospettiva di fuga, mescolanza fra i due soggetti dell’enunciazione, ovvero l’autore e la sua creatura, che attraverso il primo prende vita e parla. Ma da un altro punto di vista, le potenzialità di questo sdoppiamento esplodono nella creazione di enunciati in cui il doppio carattere si biforca in vie che corrono, orizzontali e parallele, su livelli differenti: qui si manifesta, nella sua forza, la contaminazione. Anche Deleuze ne è convinto: Perché Pasolini pensa che tutto ciò possa concernere il cinema, a tal punto che un equivalente di discorso libero indiretto, nell’immagine, permetta di definire il “cinema di poesia”? Un personaggio agisce sullo schermo ed è supposto vedere il mondo in un certo modo. Ma nello stesso tempo la cinepresa

pp. 128-158, e E. Dagrada, Sulla soggettiva libera indiretta, in «Cinema e Cinema», XII, n. 43, 1985, pp. 48-55. 29.  G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Ubulibri, Milano 1984, pp. 92-93.

39 lo vede, e vede il suo mondo da un altro punto di vista, mentre pensa, riflette e trasforma il punto di vista del personaggio […]. Non ci troviamo più davanti a immagini soggettive o oggettive; siamo presi in una correlazione tra un’immaginepercezione e una coscienza-cinepresa che la trasforma […]. Il che permette a Pasolini di condurre l’immagine-percezione, o la nevrosi dei suoi personaggi, a un livello di bassezza e di bestialità, nei suoi contenuti più abbietti, pur riflettendoli in una pura coscienza poetica animata dall’elemento mitico e sacralizzante.30

In quest’ultima affermazione Deleuze registra un dato non secondario della poetica di Pasolini, da lui, in altri termini, già annunciata: una visione del mondo in cui convivono, assieme a un’alta coscienza poetica (consapevole e razionale), elementi triviali o ferini, irrazionali; una contraddizione insanabile che rivela l’essenza intima della poesia e della realtà, tanto da dirottare i suoi rapporti con il mondo e con le persone. È significativo, a questo proposito, uno stralcio dal noto intervento televisivo in un programma di Enzo Biagi: Il tipo di persone che amo di gran lunga di più sono le persone che possibilmente non abbiano fatto neanche la quarta elementare, cioè le persone assolutamente semplici […]. Non lo dico per retorica, ma lo dico perché la cultura piccolo borghese […] è qualcosa che porta sempre a delle corruzioni, a delle impurezze. Mentre un analfabeta, uno che abbia fatto i primi anni delle elementari, ha sempre una certa grazia che poi va perduta attraverso la cultura. Poi si ritrova a un altissimo grado di cultura, ma la cultura media è sempre corruttrice.31

Tralasciando il fatto che Deleuze ha probabilmente utilizzato Pasolini per fortificare la sua teoria del cinema e dare spessore 30.  Ivi, pp. 94-95. 31.  Registrato nel 1971, ma andato in onda solo all’indomani della morte di Pasolini. Si trattava della trasmissione III B: facciamo l’appello, visibile anche su YouTube.

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alla categoria di immagine-percezione (superando, in qualche modo, il concetto di soggettiva), pare opportuno riflettere sul fatto che, anche secondo il filosofo, tutta la visione estetica e poetica del cineasta-letterato si basa sulla sovrapposizione di diversi punti di vista, che dal primo strato, che è linguistico, naturale potremmo dire, si propagano su livelli successivi, di ordine stilistico e ideologico: quello della contaminazione è sempre il segno distintivo di Pasolini. Carattere di peso notevole, se anche l’estetica di Deleuze gli assegna un posto di rilievo, in una struttura di pensiero pure tutt’altro che empirica: È questa permutazione del triviale e del nobile, questa comunicazione dell’escrementizio e del bello, questa proiezione del mito, che Pasolini diagnosticava già nel discorso libero indiretto come forma essenziale della letteratura. E giunge sino a farne una forma cinematografica, capace tanto di grazia che di orrore.32

A tal proposito, verrebbe da pensare anche al flaubertiano su­ blime d’en bas che Gianfranco Contini, filtrato attraverso la critica pascoliana, recupera per Pasolini33: Ubbidiente al canone del flaubertiano «sublime dal basso» invocato dal più acuto dei critici pascoliani, che frattanto Pascoli attuava scendendo con irreprensibile pulizia semplicemente sotto il livello umano, il Pasolini dei romanzi delle borgate si chiude rigorosamente entro un orizzonte di «mondezza».34

Torniamo a un passo già citato, per chiarire definitivamente che cosa Pasolini intenda per magmatico. Nel libro-intervista Il so­ 32.  G. Deleuze, L’immagine-movimento, cit., p. 95. 33.  G. Flaubert, Correspondances, Conard, Paris 1926, p. 159: «L’ignoble me plaît: c’est le sublime d’en bas. Quand il est vrai, il est aussi rare à trouver que celui d’en haut». 34.  G. Contini, Testimonianza per Pasolini, cit., p. 14; il critico a cui si riferisce Contini è Domenico Pietrini, cfr. G. Contini, La letteratura italiana. Otto-Novecento, Rizzoli, Milano 1992, p. 154.

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gno del centauro – siamo nel capitolo dedicato a «Questioni di metodo» estetico-cinematografiche –, a un Jean Duflot incuriosito dal particolare uso di musiche nei suoi film, e specialmente dalla scelta di accompagnare Accattone con musiche di Johann Sebastian Bach, Pasolini spiega che «la Passione secondo Matteo di Bach, nel momento della rissa di Accattone, […] produce una sorta di contaminazione fra la bruttezza, la violenza della situazione, e il sublime musicale. È l’amalgama (il magma) del sublime e del comico di cui parla Auerbach». All’intervistatore, che gli fa notare come «questa composizione contrappuntistica del sublime e del triviale […] sia una costante della sua tecnica sonora», egli risponde ancora: «È quello che Auerbach chiama “scrittura magmatica”, ossia scrittura generata dalla mescolanza degli stili. Dal canto mio, ricerco spesso questa mescolanza di stili» (SPS, p. 1510). Anche se il termine “magmatico” non fa parte del vocabolario auerbachiano35, Pasolini chiarisce qui – come già detto – che è per lui sinonimo di “misto”; e ancora, se mai ce ne fosse bisogno, come il suo interesse nella lettura di Mimesis sia attratto proprio alla categoria della Stilmischung, dal nostro autore costantemente usata nella sua invenzione a tutto tondo della realtà: basterà pensare, in tal caso, al passo da una nota di chiusura della Divina Mimesis (datata 1° Novembre 1964): «avrà insieme la forma magmatica e la forma progressiva della realtà (che non cancella nulla, ma fa coesistere il passato con il presente ecc.)» (RR II, p. 1117). E, se ancora ci fosse bisogno di dimostrazioni, a un passo di Teorema (romanzo) che nasconde una sottile citazione dallo Shakespeare di Auerbach, come già nel brano sulle Notti di Fellini – meno celatamente – si intrometteva Rabelais. Si pensi al brano dell’Enrico IV da cui si dispiega il capitolo shakespeariano di Mimesis, quello del

35.  Cfr. anche S. De Laude, Pasolini lettore di Mimesis, cit., p. 479.

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principe stanco Enrico che si chiedeva se fosse poi così volgare il desiderio di una birra: «Does it not show vilely in me to desire small beer?»36. In Teorema l’ospite e Pietro, il figlio della famiglia borghese, legano immediatamente. Il quindicesimo capitolo del romanzo è una lirica che irrompe nella prosa del precedente, dove i due giovani giocavano a pallone, con altri, in un prato, per poi fermarsi, sfiniti e doloranti, a discorrere di letteratura e pittura. In questi versi – che rispondono a chiacchiere di ribellione, balde illusioni giovanili – risalta un distico che rimanda inequivocabilmente al passo di Shakespeare: «I poeti giovani che chiacchierano / dopo una vile bevuta di birra…»37. Pare difficile, insomma, che l’equivalenza lessicale del binomio “birra”/“vile” non sia un richiamo indiretto alla lettura di Auerbach. Per concludere queste osservazioni sulla “funzione-Auerbach” in Pasolini, non dovremo tralasciare il fatto che il tema e la pratica delle mescolanze e della contaminazione fanno parte dell’attrezzatura critica dei due maestri riconosciuti di Pasolini: Roberto Longhi e Gianfranco Contini. Già il primo va costantemente ricercando, nella sua indagine sull’opera d’arte culminante nelle “equivalenze verbali”, le stridenti compatibilità che possono accomunare immagine e modello38. Pensiamo, ad esempio, a un passo da un saggio su un San Tomaso del Velázquez: 36.  Cfr. E. Auerbach, Mimesis, cit., vol. II, pp. 63-87: p. 63 (corsivo mio). 37.  RR II, p. 1930 (corsivo mio). 38.  Su questo tema, che risulta ancora più lampante, ad esempio, nel Ca­ ravaggio longhiano, cfr. le sottili annotazioni di C. Garboli, Longhi, in Id., Falbalas, Garzanti, Milano 1990, pp. 29-34. In particolare, Garboli nota le rifrazioni che le ricerche longhiane ebbero in Pasolini, il quale nei film e nei romanzi romani pareva lavorare «allo specchio del Caravaggio romano così come ci è stato dipinto dal Longhi: quello […] che finge per Maddalena la povera ciociarella tradita […] o quello dei Bacchi rifatti su torpidi e assonnati garzoni d’osteria», ivi, p. 34.

43 Ecco dunque il «San Tomaso di Orléans», una di quelle figurazioni di energia brutale ed enormemente popolana che il libero esame pittorico del Caravaggio aveva permesso di instaurare anche nella presentazione di personaggi sacri. […] Questo potrebb’essere infatti anche il profilo di un giocatore di ‘naipes’ attento e che bada a non scoprire il gioco […]. Il notevole, dunque, non è già l’espressione, ma la scelta, per un «San Tomaso», di un modello dove la fisicità dei riflessi sia così patentemente visibile…39

Se Longhi è attento a questo tema, in Contini esso è costantemente materia di indagine, a iniziare dall’ostinata attenzione al filone cosiddetto espressionistico, laddove nella parola è sempre sottinteso un surplus, sia esso un gesto o un’intonazione (qui la filiazione pasoliniana sarà certo più diretta), rispetto alla propria sfera semantica. È significativo, in proposito, un passaggio da un suo breve saggio dantesco, Dante oggi, scritto per il Corriere della Sera in occasione del settimo centenario dalla nascita. Qui Contini compendia le sue idee fondamentali sui registri linguistici (e stilistici, in seconda istanza) utilizzati da Dante: l’accento sarà posto, naturalmente, sul plurilinguismo dantesco, la capacità del fiorentino di passare dal tono sublime al comico, senza tralasciare quello medio che così grande parte ha nel discorso diretto della Commedia («O mantovano, io son Sordello / della tua terra»). Dopo aver sottolineato come tutta la letteratura italiana manifesti sbocchi verso i due estremi, del sublime e del comico (malgrado Croce sostenesse che fosse un’apertura risalente al barocco), Contini, in conclusione, afferma: «E se Dante abbonda tanto in vitali e contraddittorie virtualità da lanciare agganci verso tutte le direzioni, l’esempio più vivo che se ne può ricavare è pure quello d’un’incontenibi39.  R. Longhi, Un «San Tomaso» spagnolo del Velázquez e le congiunture italospagnole tra il Cinque e il Seicento, in Id., Saggi e ricerche. 1925-1928, Sansoni, Firenze 1967, pp. 113-127 (pubblicato per la prima volta nella rivista «Vita Artistica», da lui condiretta con Emilio Cecchi, nel 1927).

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le sperimentalità, d’una totale spregiudicatezza verso il reale»40. Anche qui è possibile evidenziare l’influsso di tali affermazioni (l’approccio verso il reale, nella sua totalità e vitalità, spregiudicato e sperimentale) sul pensiero – critico e poetico – di Pasolini. Influsso, poi, ancora più evidente all’inizio dello scritto, dove l’atteggiamento linguistico di Dante è letto da Contini in chiave sociale: di qui Pasolini argomenterà le sue tesi nel saggio La volontà di Dante a essere poeta, pubblicato su «Paragone» nel 196541. La sperimentalità del Dante plurilinguista e pluristilista e questa stessa lettura in chiave sociale – al di là del testo, verso la realtà in cui è stato concepito – sono argomenti critici comuni al dettato di Auerbach, alla cui fonte anche Contini, evidentemente, attingeva: Il libro di Dante sembrerebbe essere l’Eneide, che pure non esibisce tale artificio, poiché l’esordio contiene una sorta di protasi introduttiva al racconto degli avvenimenti. Dante, al contrario, inizia fornendo tutte le coordinate […] fino a quasi esaurire il catalogo dei quesiti previsti dalle categorie aristoteliche. Ebbene, questo non si verifica nell’Eneide, ma nel grande libro che per Dante era anteposto ad ogni altro, cioè nella Bibbia: «in principio creavit Deus coelum et terram…» (Genesi I I). La vicinanza è dunque piuttosto alla Bibbia che all’Eneide, al grande testo teologico e rivelato piuttosto che al grande testo umano. Il tutto enunciato tuttavia con parole piane, in perfetta aderenza al sermo humilis, distintivo – come ha ben visto l’Auerbach – della lingua cristiana e quindi della Bibbia, che non è provvista delle veneri della retorica, o almeno di quelle della retorica mondana.42

40.  G. Contini, Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Einaudi, Torino 2001, p. 68 (corsivo mio). 41.  Poi raccolto in Empirismo eretico, leggibile anche in SLA I, pp. 1376-1390. 42.  G. Contini, La forma di Dante: il primo canto della «Commedia», in Id., Postremi esercizî ed elzeviri, Einaudi, Torino 1998, pp. 63-82: p. 73.

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Ecco: nell’analizzare il rapporto dantesco col decoro (prepon) delle forme linguistico-stilistiche (lexis), Contini non può non rimandare agli studi di Auerbach. In fin dei conti, è probabile – si può dire – che Pasolini trovi in Auerbach e nella sua concezione di mescolanza degli stili un rafforzamento della sua visione del mondo, culturalmente filtrata anche da una delle principali categorie critiche del suo maestro Contini: quel plu­ rilinguismo (altra faccia del pluristilismo) che Pasolini ha ampiamente assimilato e rielaborato, tanto nei suoi saggi quanto nelle sue opere. Per chiudere: ha scritto Auerbach, in una nota dei suoi Epile­ gomena a Mimesis: I lavori su figura e passio potei scriverli perché in una soffittabiblioteca del convento domenicano di San Pietro di Galata esisteva un’edizione completa della Patrologia del Migne. La biblioteca del convento non era pubblica, ma il delegato apostolico di allora, Monsignor Roncalli […], ebbe la bontà di permettermi di usarla.43

Pasolini recupera questo aneddoto, dal quale tratteggia la figura di Giovanni XXIII “ascoltatore” di Auerbach: quello stesso papa alla cui memoria «cara, lieta e familiare» aveva dedicato Il Vangelo secondo Matteo, come già Mamma Roma a Roberto Longhi. Il fatto è accennato in un saggio sui motti di spirito di Roncalli44 e ripreso in più di un testo della sezione Poesie mar­ xiste (parzialmente inedite, pubblicate nelle Opere complete)45. Ne sia esempio il seguente passo da Papa Giovanni che ascol­ ta Auerbach46, dove è sbozzata la figura del papa che, secondo 43.  E. Auerbach, Epilegomena, cit., p. 191. 44.  SPS, pp. 1020-1024. 45.  PO II, pp. 889-990. 46.  Ivi, p. 957.

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Pasolini, seppe guardare tanto al lato spirituale quanto a quello fisico – di pietà creaturale, potremmo dire – del suo compito: anche grazie, pare suggerire Pasolini, ancora sub allegoria, all’ascolto di Auerbach: A Istanbul Auerbach era in esilio, l’andare ad ascoltarlo era un atto politico. Adesso capisco il timbro del motto di spirito del nonno-figlio: il timbro, cioè, di chi sa anche il sapere.

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Per un canone realista Barthélemy Amengual scrittore di cinema (dalla parte di André Bazin)

Forse il nome di Barthélemy Amengual (1919-2005) non dirà molto, oggi, al lettore o allo spettatore italiano: legato, com’è, a una stagione ormai trascorsa, quella d’una critica militante severa ma insostituibile, e di fatto insostituita, che ha condotto una serie di battaglie culturali importanti, certo non tutte condivisibili, tra il secondo dopoguerra e il tragico limine degli anni ’90. Il riferimento d’obbligo va a Guido Aristarco e alla rivista «Cinema Nuovo», della quale Amengual fu a lungo collaboratore. A che giova riprendere in mano i suoi saggi? In un tempo avaro di riflessione sullo stile, l’opera di questo impareggiabile saggista francese riporta a galla un legame possibile tra teoria e pratica critica, analisi dello stile e costituzione di un canone. Tra le tante, una sua opera in particolare rimanda a questo orizzonte: Du réalisme au cinéma, edito da Nathan nel 19971. Parto da una constatazione: si tratta di un libro che, di per sé, corrisponde a un’operazione in funzione del canone critico. Nelle sue oltre mille pagine sono raccolti numerosi saggi brevi 1.  B. Amengual, Du réalisme au cinéma, Anthologie établie par S. LiandratGuigues, Nathan, Paris 1997.

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di Amengual, che, nell’ambito degli studi sul cinema, ha saputo portare questa forma della scrittura critica a un notevolissimo livello di compiutezza. Si pensi anche a chi ha operato, negli effetti del volume, tale scelta antologica (non d’autore, dunque), Suzanne Liandrat-Guigues, la curatrice, e Michel Marie, direttore di collana e autore di uno scritto introduttivo: si tratta di critici accademici interessati tanto alle teorie quanto al pensiero espresso attraverso il film: penso agli interessi di Liandrat-Guigues per il saggismo cinematografico e per il filmsaggio, testimoniati da un’importante raccolta di saggi da lei curata (con Murielle Gagnebin)2. Ora: basta questo interesse, diciamo così, autorevole, basta l’uscita di un’antologia come questa a far entrare un critico nel canone? Un’altra constatazione, per iniziare a rispondere, è il fatto che Amengual non ha goduto della stessa fortuna di altri classici (come ad esempio Bazin, da lui stesso sentito assai vicino). Ma un’operazione editoriale del genere è però un primo passo, cui deve seguire un riscontro e un approfondimento sul metodo. Quella di Amengual è una figura di critico e saggista capace di suscitare viva ammirazione; eppure, una seria riflessione è forse frenata dalla difficoltà di sistematizzare il suo pensiero, improntato a un pragmatismo testuale di natura materialista unito a una cultura umanistica di respiro non comune: e in più caratterizzato – da critico di razza qual è – da una scrittura di fine composizione lessicale e sintattica, oltre che carica di immaginazione. Per inciso, il valore conoscitivo della scrittura in Amengual è confermato, se mai ce ne fosse bisogno, da una bella intervista della maturità in cui il critico, parlando della sua giovinezza cinematografica (era nato e s’era formato ad Algeri, dov’era vissuto sino al 1968, per poi spostarsi in Francia), ammette che, nella primissima «età della ragione», sui vent’anni, 2.  S. Liandrat-Guigues - M. Gagnebin (a cura di), L’essai et le cinéma, Champ Vallon, Seyssel 2004.

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aveva tentato la via narrativa, scrivendo un romanzo, poi rimasto inedito3. Ma è necessario fermarsi ancora un poco su questa «felicità della scrittura» (così Liandrat-Guigues nell’introdurre Du realisme au cinéma), ove nulla vi è di bellettristico, o di puramente formale. Lo spiega Hervé Joubert-Laurencin, in un intenso profilo parallelo di Bazin e Amengual: la sua scrittura, prendendo vita dalla visione dei film, presuppone il cinema come una realtà inseparabilmente sensuale e intellettuale proiettata verso l’uomo. «La funzione del critico non è quella di portare su un piatto d’argento una verità che non esiste affatto, ma piuttosto quella di protrarre il più a lungo possibile in chi legge, sia a livello razionale che emotivo, lo choc dell’opera d’arte». [Questa definizione di Bazin] va al di là della semplice funzione del critico quotidiano o settimanale, o specialistico: dice qualcosa di profondo sul ruolo dello scrittore di cinema.4

Ciò detto, resta da chiarire quale sia il posto di Amengual nella storia della critica. L’attenzione, in Francia o in altri paesi francofoni, di critici come lo stesso Joubert-Laurencin o di François Albera aiuta a far luce5. In più, una serie congiunta di convegni di studio organizzati tra 2010 e 2011 a Lausanne, Perpignan e Montpellier rinsalda la sua sistemazione nel canone critico. In Italia, però, sarà forse per la sua vicinanza con Guido Aristarco, ormai da tempo relegato aprioristicamente in soffitta, la sua opera è dimenticata se non pressoché sconosciuta. Un solo libro, Clefs sur le cinéma (1971), è stato tradotto, per De3.  Cfr. B. Amengual, Une jeunesse cinématographique, entretien par P. Guibert, in «Archives», 94, Septembre 2003, pp. 11-12. 4.  H. Joubert-Laurencin, Barthélemy Amengual en vérité des descriptions baziniennes, in Id., Le Sommeil paradoxal. Ecrits sur André Bazin, Editions de l’oeil, Montreuil 2014, pp. 196-210: p. 198 (traduzione mia, corsivo nel testo). 5.  Cfr. F. Albera, Le fonds Barthélemy Amengual, in «1895», n. 48, 2006, pp. 74-115, dove è descritto il Fondo Amengual conservato presso l’Università di Lausanne.

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dalo, proprio in una collana diretta da Aristarco (1981, Capire il cinema): anche se, come già accennavo, alla forma dello studio sistematico o tematico, comunque monografico, Amengual prediligeva la forma del saggio breve (ma son diverse le eccezioni, tra le quali si annovera ¡Que viva Eisenstein!, un monumentale volume sull’autore dell’Aleksandr Nevskij). Tuttavia, come dicevo, molti suoi scritti sono stati tradotti e pubblicati da «Cinema nuovo» (e prima ancora da Cinema), alcuni altri da «Filmcritica», mentre Edoardo Bruno ha incluso un suo intervento nell’antologia sulle Teorie del realismo6. Ma che tipo di critico è Amengual? Nei suoi saggi l’argomentazione è distesa su un attaccamento al testo, eticamente rivendicato come punto di partenza. Si può rinvenire nel suo lavoro – ancora in parallelo ad André Bazin – uno dei primi esempi della moderna analisi del film. A un’erudizione di stampo accademico si uniscono il rifiuto di un a priori teorico e uno spirito militante – già notato da Michel Marie – che fanno di lui un critico aperto, attento com’è alle mutevolezze dell’humaine condition, unico dogma del suo pensiero. Per rispondere alla precedente domanda mi pare utile porne un’altra: all’operazione di canone della critica sopra descritta – la pubblicazione della scelta antologica di saggi brevi – corrisponde una critica attenta al canone? Non credo di sbagliare dando a questo quesito una risposta positiva, rivelata implicitamente tra le linee dello stile argomentativo. Bisogna però specificare che Amengual non si pone mai come un’autorità che impartisce dall’alto: il giudizio di valore non è affatto rifiutato, ma è spesso da osservare nella filigrana di una scrittura carica di tensione conoscitiva, tra le righe dell’analisi, nel metodo e nella scelta dei temi di lettura piuttosto che in dichiarazioni esplicite e chiuse. Il suo non è un canone autoritario, ma piuttosto, in senso benja-

6.  E. Bruno (a cura di), Teorie del realismo, Bulzoni, Roma 1977.

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miniano, una costellazione, dove i testi (i film) sono le stelle, i dati oggettivi, mentre al critico spetta il compito di tracciare i percorsi, secondo argomentazioni, nelle parole di Massimo Onofri, «chiare e dichiarate»7. Ciò che ne risulta è una sorta di biblioteca Warburg, una cineteca ideale dove i rapporti di vicinanza tra i film sono attraversati da linee di pensiero che ne mostrano, in un percorso di storia culturale ancora vitale, la loro importanza estetica e storica. Andiamo allora a vedere queste linee di raccordo del canone amengualiano di testi e autori. La prima, che qui interessa particolarmente, è indicata nel titolo stesso della raccolta di saggi: il realismo, concetto troppo normativo, oppure per sua natura fluido e ambiguo, sacco onnicomprensivo in cui infilare, all’occorrenza, qualsiasi cosa, come ebbe a scrivere Roman Jakobson8. Ma qual è, per Amengual, lo spazio della realtà nella rappresentazione filmica? In che rapporto ci si pongono gli autori da lui presi in considerazione? Per tentare di arrivare a una prima verifica è opportuno, avendo a che fare con una gran mole di testi, selezionare un campione. Sia un primo esempio l’analisi di Les Amants, il film del 1958 di Louis Malle. Amengual parte diretto, elencando una serie di «difetti» di cui il film è stato accusato: su tutti, la mancanza assoluta di coerenza estetica in una rappresentazione che peccherebbe di «confusione». Il critico si chiede però se tali difetti non possano tradursi in pregi; e se, ancora, una simile confusione non sfoci in mescolanza, affermandosi come tratto distintivo d’una paradossale coerenza rappresentativa. Una volta rilevato l’ibridismo stilistico di Malle – il classicismo della Carte de Tendre; un certo romanticismo veicolato dalla musi-

7.  M. Onofri, Il canone letterario, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 45. 8.  R. Jakobson, Il realismo nell’arte, in T. Todorov (a cura di), I formalisti russi, Einaudi, Torino 1968, pp. 95-107: pp. 106-107.

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ca di Brahms; una tipologia narrativa che passa liberamente e arbitrariamente dal tono minuzioso e memoriale della cronaca a esaltazioni lirico-erotiche – egli giunge infatti a una sintesi: «sorto da una giustapposizione meccanica, un movimento dialettico trasforma un assemblaggio eteroclito in unità eteroclita» (p. 830)9. Attraverso lo stile, dunque, il dispositivo sa dar vita non già a un assemblaggio, vale a dire a un insieme abborracciato di elementi differenti, quanto piuttosto un carattere nuovo e unitario, seppur composito. La mescolanza non causa la convivenza degli stili, ma ne facilita la fusione in uno nuovo, misto. È un movimento orizzontale – di affiancamento dei linguaggi disparati – che si trasforma in verticale, con la fusione che segue alla sovrapposizione. Questo stile misto può rendere conto di quei segreti che infine, secondo Amengual, originano il misterioso eppure inequivocabile rapporto con la realtà che caratterizza lo statuto della rappresentazione nel film di Malle. Un canone attento al binomio realtà/rappresentazione dovrà abbandonare, almeno parzialmente o in taluni casi, l’urgenza politica, o, diciamo così, il rispecchiamento lukácsiano. E può invece abbracciare – sconfinando in campo letterario – il sistema estetico fondato da Mimesis di Erich Auerbach: saggio che corrisponde, in certa misura, a un canone, nella sua ostinata alternanza di acume analitico e tensione militante. Parte dell’attenzione di Auerbach è centrata sull’irruzione della mescolanza degli stili (Stilmischung) rispetto alla separazione (Stiltrennung), posta dall’estetica antica come principio della scrittura. La mescolanza degli stili è, per Auerbach, lo spettro attraverso cui valutare un possibile indice di realtà nella rappresentazione. Ciò che dal critico, nelle sue conclusioni, viene sottolineato come «idea direttiva» dei suoi saggi è l’innesto della tensione tragi9.  Nel testo, tutti i numeri di pagina senza altra indicazione si riferiscono a Du réalisme au cinéma. Le citazioni son proposte in traduzione mia.

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ca nell’ordine quotidiano. È questo, in sostanza, ciò che Auerbach vuole dire quando scrive che «Stendhal e Balzac, facendo oggetto di rappresentazione seria, problematica o addirittura tragica, persone comuni della vita quotidiana […], infransero la regola classica della separazione dei livelli stilistici»10. Allo stesso modo Malle, per Amengual, inventa nel suo film un mondo che è autorizzato dalla giustapposizione degli stili. E quello che appare come «l’habite d’Arlequin» del film è anche «la condizione della sua verità, del suo realismo, della sua qualità» (p. 829). Opportunamente collocato in apertura della raccolta, il saggio D’une résistance l’autre: notes sur la genèse du style néoréaliste italien (1970) costituisce l’architrave del discorso di Amengual, inaugurando allo stesso tempo il suo interesse privilegiato per il cinema italiano moderno o, tout court, per il cinema della modernità. Anche qui la composizione filmica nasce dalla mescolanza di elementi eterogenei. C’è forse una ragione per la quale, in Malle, possono convivere Carte du Tendre e letteratura, diciamo così, nobile, musica romantica e intrusione brutale del reale: e Amengual ne individua il principio nell’effetto stilistico globale inaugurato dalle pratiche realizzative del Neorealismo, in sé edificato su istanze disparate: in primis le idee importate – in ottica di politica e resistenza culturale – dalla letteratura nordamericana durante il fascismo; in secondo luogo, la fotografia del reale in chiave sociale, ricomposta, però, in funzione del racconto. Oltre il neorealismo, negli sviluppi del cinema italiano moderno Amengual individua nuove forme di rapporto con la realtà. Fra gli altri casi – Pasolini, Antonioni, il primo Bertolucci – lo sguardo si posa su quello esemplare di Fellini, autore al quale

10.  E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, vol. II, Einaudi, Torino 1956, p. 339.

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nel volume sono dedicati tre saggi. In particolare, i primi due tracciano un percorso netto che va dallo spettacolo come movimento interno alla narrazione (il circo, il varietà, il fumetto, il fotoromanzo) allo spettacolare che informa, prima della trama, la struttura del film (es., la metafora del luna-park in 8½)11. Anche in questo turbine mentale, in questa tensione surreale d’aspetto solipsistico, Amengual individua le tracce della realizzazione d’una realtà rappresentata: certo nei suoi aspetti di opposizione, tradotti qui stilisticamente. «Vi sono – secondo Amengual – ineluttabili nozze tra il reale e l’immaginario» (p. 410). Insomma, il cammino di Fellini andrebbe dalla parte di Lumière alla parte di Méliès: ma non è detto che questi siano i due vertici di un’opposizione. Può rivelarsi infatti quel fenomeno che, a proposito di Pasolini, aveva in mente Franco Fortini, quando parlava di «duplicità nell’ubiquità polare»12. Scrive Amengual: Gli operatori Lumière giravano il mondo per documentarne l’insolito e il quotidiano: l’insolito nel quotidiano. Il nomadismo e l’erranza sono temi del primo Fellini, «vitellone spirituale». Egli viaggia attraverso i diversi strati sociali dello spazio geografico italiano; esplora i diversi ambienti della Città eterna. Si pone al vaglio come su un banco di prova […]. Da ogni parte resta affascinato dall’esotismo di ciò che gli è prossimo; dappertutto la realtà è, per lui, prodiga di sorprese (pp. 409-410).

Esiste in Fellini un rapporto solido con la realtà, pure se osservata nei suoi innumerevoli aspetti di stravaganza. Ed è forse questa insistenza felliniana sul versante irrazionale – vista come deterioramento d’una possibile lente sociale – ad aver causa-

11.  Itinéraire de Fellini du spectacle au spectaculaire, del 1963 (pp. 379-399), e Fin d’itinéraire. Du «côté de chez Lumière» au «côté de chez Méliès», del 1981 (pp. 401-424). 12.  F. Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993, p. 24.

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to la messa in discussione del realismo felliniano (a proposito del côté Lumière). Amengual si interroga a fondo su tali critiche. Se la mancanza totale di un’autocondanna inchioderebbe Fellini, secondo Renzo Renzi, nell’immobilità e nel conforto spirituale, per Amengual invece il regista di 8½ «esclude ogni autocondanna radicale, che sarebbe di per sé antivitale, ma non bara in alcun modo a proposito dell’esigenza di cambiamento» (p. 412). Secondo Fellini, lui pure attento alle mutevolezze dell’humaine condition, il movimento di cambiamento è il motore del realismo. È inutile, per Amengual, negarlo: Fellini, anche quando passa al côté Méliès, «proviene dal neorealismo»: e in questo itinerario resta sempre visibile la stella d’un suo realismo. Tutto ciò è ravvisato in un passaggio fugace ma, per così dire, epifanico. Dopo aver descritto la sequenza in cui il padre di Marcello, nella Dolce vita, ha un malore che fa precipitare le illusioni d’una notte brava, Amengual si focalizza su un gesto compiuto da quest’uomo, piccolo borghese penitente: «E, prima di uscire – come ripensandoci –, egli torna sui suoi passi per rassettare le pieghe del letto. Un intero mondo è contenuto in questa sorta di azione riflessa» (p. 414). Simili dettagli pongono Amengual su una linea dialettica di fertile contraddizione con un interlocutore come Aristarco e con la posizione, se così si può dire, di «Cinema nuovo»: spesso tutt’altro che tenera nei confronti di Fellini. Ancora in questo stesso saggio, a margine di alcuni passaggi stralciati dal IV tomo di Qu’est-ce que le cinéma di Bazin, dedicato, com’è noto, a Un’estetica della realtà: il neorealismo13: «Non trattare mai questa realtà come un mezzo»; non ignorare «che prima di essere condannabile, il mondo, semplicemente, è» e che condannare la realtà «non costringe in alcun modo alla cattiva fede»; accordare il primato «alla rappre13.  Cfr. A. Bazin, Che cosa è il cinema, tr. it., a cura di A. Aprà, Garzanti, Milano 1999 (19731), pp. 275-333.

56 sentazione della realtà rispetto alle strutture drammatiche»; dar prova che «il meraviglioso non è né soprannaturale né gratuito e neppure per forza poetico», ma che deve piuttosto apparire «come una qualità possibile della natura» e degli uomini (del reale insomma): alcune delle esigenze che un Bazin riconosceva nel neorealismo non mancano nell’arte di Fellini (pp. 412-413).14

Si tratta di un passaggio fondamentale in cui si condensano metodo e pensiero di Amengual. Un materialista dialettico che spesso richiama Lukács non esita, al momento di formulare il giudizio di valore, a fare proprie posizioni opposte come quelle di Bazin. Pur essendo vicino, in Italia, alla critica militante di «Cinema Nuovo», che ha combattuto tante battaglie, anche per il canone, Amengual, nel suo giudizio su Fellini, ne rovescia la prospettiva. Insomma, la sua posizione sul neorealismo si approccia senz’altro più a quella della Difesa di Rossellini di Bazin che a quella di Aristarco, che con l’autore di Che cosa è il cinema, su questo tema, diede vita a una memorabile polemica. Ma, in definitiva, nella vicinanza tra Amengual e Bazin – e a margine di Guido Aristarco – si evince anche il fondo materialista del pensiero di André Bazin, ottimamente dimostrata, nel saggio sopra citato, da Hervé Joubert-Laurencin. Si potrebbe parlare di «realismo ontologico», la nota categoria di Bazin, come neorealismo trascendentale, al di là della pura etichetta: su una simile linea Amengual si avvicina anche a Pasolini, prendendo in esame Edipo re e Il fiore delle mille e una notte. Tra i due film egli propone un rapporto di valore tutt’altro che scontato a favore del secondo: il primo, analizzato sotto la lente psicanalitica, è visto come un deterioramento 14.  Per la traduzione italiana delle prime tre citazioni ho fatto riferimento all’edizione italiana: ivi, pp. 280 e 329; le ultime due, nelle quali il fondatore dei «Cahiers du cinéma» si riferisce alla Strada, non sono, mi pare, lì incluse.

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individualistico del mito, laddove nel secondo viene individuato un esempio di mirabile dialogo critico fra due culture mediterranee, quella araba e quella latina. Al di là delle motivazioni alla base di questa scelta, anche qui è presente un’attenzione ai tratti di mescolanza (contaminazioni diremmo, con Pasolini stesso): mescolanza stilistica, certamente, ma anche tematico-culturale. Ciò è evidente da quanto Amengual nota nella traduzione pasoliniana delle novelle orientali: fin dalla scelta degli interpreti e dei décors si intuisce quella «confusione culturale» che pure a Pasolini – come Amengual ricorda – è stata spesso rimproverata (proprio come accadeva a Malle). In realtà questa confusione dà luogo a una «fusione»: un racconto e uno stile nuovo. La figura di Ninetto Davoli ne è la dimostrazione: «Crespo, d’un olivastro assai bruno, rapido e lento, pesante e leggero, questo attore-mascotte del poeta traccia un legame tra l’Italia meridionale e quell’Oriente di cui essa fu parte» (p. 464). Del resto, il riferimento a Pasolini è più che occasionale. Il poe­ta e regista, e prima ancora il saggista, non è per Amengual solo uno degli oggetti d’analisi d’uno sguardo critico fondato sul realismo, ma ne è anche un fondamento teorico. È proprio in Pasolini, infatti, che Amengual riconosce l’origine del suo concetto di realismo: e lo fa in un saggio del 2000, dunque verso la fine della sua infaticabile riflessione sui film e sul cinema. Con lo sguardo rivolto al proprio percorso critico, inizia con un’ammissione: Curiosamente, avevo dimenticato che, se pure la mia nozione di realismo al cinema proviene, incontestabilmente, da Bazin – il sentimento del realismo, quello lo possedevo già dal “mio” primo film –, tale nozione si è seriamente rinforzata attraverso la riflessione ‘eretica’ di Pasolini quando, tra gli anni ’60 e ’70, regnava l’imperialismo della semiologia. Con Pasolini ho pensato, allora, che tentare di comprendere il modo in cui

58 comprendiamo un film non è né più né meno complicato che tentare di comprendere la realtà.15

Torniamo ad Auerbach, che per Pasolini è un riferimento tra i più nitidi: se dunque noi, per capire la realtà, dobbiamo smontarne i meccanismi e vederne le diverse forze in gioco, allo stesso modo, nel leggere un film, dobbiamo essere in grado di comprendere l’interazione conciliante o conflittuale dei diversi livelli della rappresentazione. Per Pasolini il discorso libero indiretto, in letteratura, fa sì che l’autore si immerga nel personaggio, dando origine a una contaminazione linguistica e psicologica. Tornando al cinema, nota ancora Amengual, «Pasolini constata che il discorso indiretto libero, col suo carico di materialità e di sintesi di oggettivo e soggettivo, si trasforma in ciò che egli chiama la ‘soggettiva libera indiretta’»16. Si tratta di una sintesi di sguardi che è all’origine d’una sintesi dei livelli della rappresentazione. Pasolini credeva che ciò potesse rendere possibile una «lingua tecnica della poesia», attraverso una regressione del livello culturale-tematico dell’autore «in una sorta di ritorno alle origini: fino a ritrovare nei mezzi tecnici del cinema l’originaria qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria»17. Lo aveva bene in mente anche Deleuze, quando, a proposito delle teorie di Pasolini, scriveva: «È questa permutazione del triviale e del nobile, questa comunicazione dell’escrementizio e del bello, questa proiezione del mito, che Pasolini diagnosticava già nel discorso libero indiretto come forma essenziale della letteratura. E giunge sino

15.  B. Amengual, Pasolini, le discours indirect libre et le cinéma de poésie, in «Positif», n. 467, Janvier 2000, pp. 78-80 (traduzione mia, corsivi nel testo). 16.  Ivi, p. 79. 17.  P.P. Pasolini, Il cinema di poesia, in Id., Empirismo eretico, pref. di G. Fink, Garzanti, Milano 2000, pp. 167-287: p. 179. Questo famoso saggio, scritto nel 1965, fu raccolto nel 1972 in Empirismo eretico.

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a farne una forma cinematografica, capace tanto di grazia che di orrore»18. Alla luce, dunque, dell’ammissione secondo cui il discorso sul realismo si rinforza grazie al cinema di poesia di Pasolini, possiamo meglio capire l’attenzione di Amengual per i tratti di mescolanza stilistica e per la continua dialettica tra piano della rappresentazione e piano della realtà. Non si può qui aggirare un discorso preciso, che riguarda l’abbattimento delle barriere che dividono testo dal contesto, tanto da far sì che il testo stesso sparisca nella nuova vita delle interpretazioni o, peggio ancora, nell’astrazione di griglie analitiche. La realtà è un testo parlante che offre al cinema il lessico del suo linguaggio. Per quanto potente sia la sintassi, il lessico, al di là della dittatura dei significanti e se è vero che al cinema il lemma corrisponderebbe all’oggetto fisico, resta la parte basilare di qualsiasi messaggio, se almeno con l’Amengual di Clefs pour le cinéma siamo convinti che ogni sera ci corichiamo sul letto, e non sulla parola letto19. E allora, al di là della semiologia imperante e delle teorie sull’effetto del reale, c’è sempre, in critici come Amengual, la convinzione, prima di tutto etica, che il linguaggio non sia una barriera, ma un ponte di collegamento fra atto di rappresentazione e realtà.

18.  G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Ubulibri, Milano 1984, p. 95. 19.  B. Amengual, Per capire il film, Dedalo, Bari 1981, p. 8 (l’originale si intitola Clefs pour le cinéma, Seghers, Paris 1971).

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La corda pazza: il Punctum fluens di Antonio Bisaccia* 20

Sì, è nata un’arte, forse la maggiore, ma è ancora in una stalla; non ha avuto la visita dei re Magi alla sua nascita. Vogliono farne, da grande, un prestigiatore da music hall o un interprete. Siamo pochi in tutto il mondo a vegliarla gelosamente, prosternati davanti alla culla come pastori di Betlemme, e se necessario la difenderemo usando il bastone.

Siamo nel 1928. Con queste parole, non senza un filo di retorica, Abel Gance intendeva riassumere la propria idea di cinema, al contempo esponendo una poetica, mettiamola così, operativa e militante. Ed è proprio in tal senso che quel tono retorico si mostra funzionale all’oggetto polemico, ovvero il cinema stesso, col suo linguaggio conteso tra una direzione mercantile e un’altra pura. La nuova arte è d’altronde poco più che neonata, creatura di quel secondo Ottocento capace, col suo senso del-

*  Antonio Bisaccia, studioso di estetica cinematografica e delle arti contemporanee, direttore dell’Accademia di Belle Arti «Mario Sironi» di Sassari, presidente del Cnam (Consiglio nazionale per l’alta formazione artistica e musicale), è scomparso improvvisamente a Sassari nel marzo di quest’anno, proprio mentre questo volume era in fase di allestimento. A lui dedico queste pagine.

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la téchne, di concepirla, per poi consegnarla, immane infante, al nuovo secolo che la lascia sospesa tra interesse economico e possibilità puramente artistiche, fratturato – com’è – tra vecchio slancio capitalistico e nuovi umori angosciosi. Per dire: emessi i primi vagiti, proprio nel momento dello sviluppo del linguaggio, il cinema incrocia immediatamente la strada delle altre arti, laddove, apertasi la voragine modernista, a un’espressione ancora incertamente strutturata è imposta la riflessione sulla rottura con la tradizione. Il secondo e il terzo decennio del Novecento sono segnati dal solco delle sperimentazioni e delle avanguardie. Eppure è innegabile che negli anni di Proust e Joyce, in quelli di Schönberg o Kandinskij, tra espressionismo e cubismo, futurismo e dadaismo, le due tensioni immediate e fondamentali del cinema – quelle che Barthélemy Amengual ha chiamato il coté Méliès e il coté Lumière – parrebbero principalmente indirizzate in un senso narrativo e rappresentativo tutto ottocentesco, filoletterario e teatralizzato. Ci sono tuttavia, in questo fiume apparentemente placido, increspature di non poco conto: con le avanguardie storiche, come si accennava poc’anzi, in soccorso del film; e, più in generale, con l’universo delle sperimentazioni. È questo, relativamente proprio agli anni ’20, il campo di ricerca del saggio di Antonio Bisaccia intitolato Punctum fluens1. Uscito in prima edizione nel 2002, questo lavoro, come nota Rumble, ha da subito «contribuito alle riflessioni estetiche e al dibattito critico […] a proposito del cinema sperimentale» (p. 7), e in generale sulle arti delle avanguardie storiche: proponendosi come uno studio originale, per di più considerata la provenienza, quella degli studi cinematografici italiani 1.  A. Bisaccia, Punctum fluens. Comunicazione estetica e movimento tra cine­ ma e arte d’avanguardia, pref. di P. Rumble, postfazione di R. B. Elder, Meltemi, Milano 2017. Altri riferimenti a questo volume saranno dati, oltre che in nota, nel testo tra parentesi, senza altra indicazione che il numero di pagina.

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che, storicamente, non hanno troppo battuto questo campo d’indagine. Mio obiettivo è qui restituirne la lettura non tanto in senso globale o riepilogativo, soffermandomi piuttosto su alcuni spunti, tentando in questo modo di ragionare sul rapporto tra cinema e realtà, su ciò che resta di tale rapporto una volta che i fatti della realtà sian stati fotografati e sia stato loro restituito il movimento (problema che, con gli opportuni passaggi mentali, può valere anche per il film astratto o di animazione, se teniamo il movimento e la luce come comuni denominatori di cinema e realtà). Torniamo allora al nodo su cui abbiamo esordito, e alle parole di Abel Gance, richiamate in epigrafe. Il cinema, nel dialogo con le altre arti, possiede un senso di perenne instabilità perché, pur crescendo (ed essendo nato già bello pasciuto), è rimasto bambino, mortificato «dall’esercizio dell’enterteinment o imbalsamato nel coagulo del manufatto rassicurante» (p. 109). Una simile preoccupazione, che si potrebbe definire pedagogica (il cinema stesso la creatura da educare), muoveva l’autore di Napoléon: quella non tanto di stabilire un dialogo (che resta innato) con le altre arti, quanto di partecipare con mezzi propri al rinnovamento radicale dei linguaggi che vede le arti protagoniste. Dietro un simile intento c’è un’intera truppa di cineasti e teorici, che spesso in una sola persona sono l’una e l’altra cosa, e Punctum fluens traccia con chiarezza quali sono le disposizioni al suo interno. Nulla è tralasciato, dagli esordi del cinema all’esperienza dell’espressionismo tedesco, dalla cosiddetta première vague, con lo stesso Gance, Epstein, Delluc, Dulac, al dadaismo e al surrealismo, passando per futurismo e formalismo russo. Il campo è ben chiaro dall’inizio, quando, dopo un’informata rassegna sulle principali catalogazioni storiografiche del cinema d’avan­ guardia, l’autore preferisce da subito, nonostante il sottotitolo del saggio, avvalersi di un concetto più aperto come quello di sperimentazione.

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Secondo una tale ottica, implicitamente, è esposta una delle idee direttive di questo studio, quella che poi muove principalmente le presenti riflessioni: la sperimentazione, in ottemperanza alla propria radice, diciamo così, empirica, rientra nella necessità teorica e pratica di mettere a contatto arte e realtà, anche attraverso l’abbandono, paradossalmente, di forme immediatamente imitative. Vediamo in che modo, con alcuni riferimenti al testo. Constatato, valgono ancora le parole scritte da Jacques Brunius (cfr. pp. 29-30), che concetti come avanguardia e sperimentazione non sono facilmente definibili, Bisaccia scrive: Cominciamo col dire che la parola sperimentale è costellata da un’idea che appartiene al percorso pensato dell’avventura, e alla folgorazione improvvisa di nuove soluzioni. Il verbo sperimentare definisce un indirizzo metodologico per l’attuazione di ricerche fondate sull’esperienza, sull’osservazione di fenomeni iterativi, e sull’attività analitica che li descrive. Le continue prove nell’uso di una materia calda da forgiare come il cinema, con un linguaggio ancora tutto da consolidare, sono il segno evidente delle frenesie conoscitive di molto artisti che si dedicano alla nuova musa modernista (p. 30).

Ecco, è ancora nell’alveo modernista che dobbiamo cercare, seguendo la nuova linfa che, in tale prospettiva, alimenta ora la realtà rappresentata. Sì, perché, tra le altre cose, si può in Pun­ ctum fluens trovare riprova – le verifiche non sono in questo caso mai abbastanza – del rapporto inequivocabile tra realtà e rappresentazione: rapporto al quale il cinema non può in alcun modo sfuggire. In tal senso, nella selva di rimandi a quelle che potremmo definire paleo-teorie cinematografiche, l’occhio mi va a cadere sulla posizione, per certi versi insuperata (non lontana da quella di André Bazin), di Umberto Barbaro: il quale da subito mette opportunamente in guardia dalle manie di purezza del linguaggio cinematografico, dagli eterni equivoci sullo specifico filmico, demistificando al contempo gli eccessi

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di sovranità della tecnica. A pensarci, parrebbe sorprendente leggere in un saggio sulle avanguardie primonovecentesche la posizione di un critico che, pur non essendo (come sarà Guido Aristarco) un lukácsiano di ferro né un seguace delle teorie del rispecchiamento, da marxista si aggira assai spesso attorno al tema chiave del realismo. E però, a una lettura più profonda, ciò non sorprende affatto, e le idee di Barbaro, qui pure citate a margine di altre, risultano capaci di correggere le posizioni contrarie ma – egualmente al contrario – tutt’altro che laiche, d’un credo fideistico: quelle sulla aprogrammaticità assoluta delle forme e sul rifiuto di ogni sudditanza del significato rispetto al significante. Se è vero che tale sudditanza va giustamente contrastata, lo è altrettanto il fatto che liberazione da essa non significa remissione di ogni vincolo. Bisaccia ne pare convinto, ad esempio mentre, richiamando le parole di Barbaro, parla proprio di uno specifi­ co che «molti ancora oggi cercano», ma che non è «che la pelle disidratata di un dogma classificatorio di superficie» (p. 34); oppure altrove, col rimando a un punto di vista apparentemente defilato, invece di assoluto rilievo, come quello di Massimo Bontempelli, il quale era alla ricerca di una mediazione tra il concetto, chiuso ed elitario, di cinema puro e la condizione ancillare rispetto a letteratura e, soprattutto, teatro (cfr. p. 115). Su quale invece sia la complessità del viaggio del film sperimentale e al contempo la difficoltà d’una sua definizione univoca, mi pare faccia luce un altro passaggio: «Film sperimentale è allora quel film in cui il messaggio è in qualche modo autoriflessivo, richiamando l’attenzione sulla sua stessa struttura. Ovvero quando è costruito in maniera ambigua» (p. 36). Così scrive l’autore, reiterando la visione classica per cui nella modernità la rottura formale arriva anche attraverso la riflessione della forma su sé stessa, attraverso, cioè, la funzione metalinguistica. Ma subito dopo corregge, o quantomeno bilancia, la precedente affermazione: «non tutto il film sperimentale è co-

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struito in maniera ambigua». A dimostrazione del fatto che la categoria di sperimentalità non risieda nella sola rottura come neppure nell’esposizione della struttura di pensiero, un suggestivo richiamo al Berretto a sonagli di Pirandello e alla teoria delle tre corde, che, come è noto, suscitò l’attenzione non occasionale dello Sciascia saggista. Bisaccia traccia un parallelo fra le tre corde e le funzioni linguistiche di Jakobson, facendo corrispondere alla corda civile la funzione fàtica, «con la necessità di mantenere aperto il canale della comunicazione», e a quella seria proprio la funzione metalingusitica, «in quanto in ambedue si cerca di mettere in chiaro, di far luce, di stabilire significati». Resta la corda pazza, per la quale «si tratta di abbattere un modo (una morale) di vivere convenzionale straripando dagli argini consentiti»; a essa corrisponderebbe la funzione poetica, per la quale «si tratta di svellere l’ordine costituito della lingua sgominando l’assetto vincolante del codice». Se è vero che a questo codice «il film sperimentale guarda con sospetto», lo è pure il fatto che ciò che ne consegue, il film stesso, non è qualcosa di staccato dalle idee del mondo, che non restano avvolte in un «sudario delle vanità, e non sono neanche passeggere di una chimera irraggiungibile». La corda pazza funge dunque da correlativo oggettivo del vero e più profondo senso del cinema, nel suo essere dotato di una potenzialità capace di coprire l’intera gamma espressiva, dal senno alla follia, dalla «mimesi dello sguardo» – per dirla col Pasolini del Cinema di poesia – alla mimesi espressionistica del caos interiore. In tal senso, i film e i movimenti che sono oggetto di studio di questo volume si possono leggere come mezzi privilegiati di questa infinita potenzialità espressiva. Poiché scevri di coercizioni narrative o stilistiche, essi sono attraversati da «un’energia cinetica estrema e da una prorompente e non conoscibile libertà permanente», prossimi allo stesso tempo all’errore e alla perfezione. Conclude in tal senso Bisaccia: «Coerenze e incoerenze, nel film sperimentale, sono figlie del-

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lo stesso nume: quello che rilascia la licenza di metamorfosare o eludere la realtà»2. Perciò non è facile, né tantomeno lecito farlo a prescindere, stabilire dove si trovi la già menzionata categoria di sperimentalità. Sperimentale è il film che non si contenti di mostrare, ma che voglia anche scoprire, sviluppandosi nel senso di un viaggio di andata e ritorno dai significanti ai significati. E la corda pazza, in tal senso, è lo strumento che, nella realtà fluente e fotografata del film, ci mostra un imprendibile punctum barthesiano. È così spiegato anche il titolo. Il punctum del quale l’autore di Mythologies parla nella Camera chiara è a prima vista incompatibile con le immagini in movimento, perduta la fissità d’origine della fotografia. Tale incompatibilità è però subito corretta nel momento in cui il punctum del fermo immagine diviene, nel flusso cinetico dei fotogrammi, «momento e attimo ad interim»: fluens, insomma. Lo ripeto: siamo sempre nei dintorni della nascita del cinema e dell’era che lo ha allevato, quella modernista, con la teoria elaborata da Bisaccia avvitata attorno a Barthes (e, in secondo termine, al saggio Forma fluens di Ruggero Pierantoni) e appoggiata, come fa anche notare Elder nel saggio che chiude il volume, alla filosofia bergsoniana (e, implicitamente, a quella deleuziana). Senza qui inoltrarsi nella spessa coltre teorica che si materializza di fronte a tali riferimenti, voglio apportare un dato che mi pare venga incontro al presente discorso. Con Bergson, la durata – la concezione e la percezione del tempo – cessa di essere, positivisticamente, mero dato quantitativo, determinato, com’è, dalla coscienza individuale, in senso qualitativo. Ecco dunque che il cinema, se ha la coscienza della soggettività del reale, contribuisce a una sua rappresentazione peculiarissima,

2.  Per questa e le precedenti citazioni, A. Bisaccia, Punctum fluens, cit., pp. 37-38.

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antirealistica e veritiera al tempo stesso. Ancora Abel Gance, che con la sua polivisione – la speciale tecnica attraverso la quale, in senso orizzontale, giustapponeva tre differenti bobine, anticipando, in punto di vista frammentato, il cinerama o il cinemascope – non intendeva semplicemente allargare lo specchio del visibile, ma formare una sorta di sintassi dello sguardo. Per Gance, si diceva, «la realtà è insufficiente», motivo per il quale egli usa tutta una serie di strategie per arrivare a una diversa realtà, una superiore «verità cinegrafica» (p. 114). In tal modo si arriva a tradirla, ma non per abbandonarla per altri territori: anzi, l’obbiettivo è scardinarla, romperne il guscio e puntare al fondo, verso l’essenza, tradendo l’involucro del rea­ lismo ingenuo (rannicchiato nel suo rispecchiamento inerte). A proposito di Jean Epstein, altro autore centrale, al pari di Gance, della “prima avanguardia”, si fa riferimento a un metodo che si potrebbe definire “radiologico”: il concetto di cinema mistico elaborato dall’autore francese si avvicinerebbe, secondo Bisaccia, alle «pratiche della radiologia medica» (p. 97), alla ricerca «delle intenzioni liriche nascoste sotto le cose» (p. 88). È qui che si manifesta il mondo della lirosofia, dove suggestivamente son fuse due attività dell’intelletto, ove si recupera il senso altrimenti ottuso da un iter percettivo regolare. Radiologia, dunque, dove per arrivare alla rappresentazione è necessario attraversare il tessuto della realtà. Tale la direzione, s’è detto, delle correnti moderniste. Mi pare che si possa in tal senso sconfinare in campo letterario, e chiamare in causa, seppur rapidamente, le teorie critiche di Auerbach. In Mime­ sis il saggista tedesco traccia una vera e propria storia letteraria indirizzata alla ricerca della realtà attraverso la letteratura, quella che chiama con l’espressione che in italiano suona appunto come «realtà rappresentata». Sostanzialmente, quando tale categoria agisce efficacemente, significa che la scrittura non è passata a registrare gli avvenimenti solo esteriormente. In essa agiscono, invece, elementi compositi e complessi, dalle

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mescolanze stilistiche – indice primario di realtà rappresentata – al rovesciamento delle soluzioni narrative classiche tipico del modernismo, con le epifanie, il flusso di coscienza, il logoramento delle trame e del romanzesco tout court, la dilatazione temporale ecc. Ecco, anche il cinema, con le avanguardie storiche e la storia delle sperimentazioni filmiche, si inserisce in questa linea. La realtà non è solo fatto, accadimento. È anche il sommerso. È pure ritmo, suono, luce che si ricompatta, ottica. In tal modo può restituire un’idea di realtà anche la sovrimpressione, così diffusa nella première vague, magari nella sua corrispondenza, così scrive l’autore, a «una sorta di cassa armonica che amplifica i concetti» (p. 116). Il cinema, nella dialettica tra spazio e movimento, tra continuità e dettaglio, trovando nel montaggio il suo gesto sovrano, è l’arte del frammento. In una visione del mondo fratta come quella novecentista, il frammento è il principio di leggibilità di qualsiasi realtà da rappresentare, Pound ed Eliot docent. Si tratta di un’altra questione, a dir poco cruciale, che innerva le pagine di Punctum fluens. Come si evince dalle pagine su Fernand Léger, l’autore milita per un cinema dalla parte del frammento. E questo, se ci pensiamo, è in un certo senso ovvio. Il cinema illude di riportare indietro la realtà, ma vive di soli frammenti: e il frammento, nei fotogrammi, insiste anche nell’illusione della continuità. E però, la realtà si ricompone proprio nei frammenti e attraverso di essi, magari dietro l’astratto, magari anche nel «cinema puro e/o astratto» (p. 81). Accanto all’astrazione del frammento c’è la ricomposizione della cosa. Materialisticamente, il cinema sperimentale, specialmente negli esiti dadaisti e surrealisti, diventa il cinema degli oggetti. Il frammento, vivo, si ricompone in oggetto, gli oggetti, col loro respiro, compongono il reale. Quella che potremmo chiamare biologia delle cose si evince, qua e là, nelle pagine del saggio: «Si assiste durante il periodo delle avanguardie storiche a un brusco, instancabile, dinamico e reiterato risveglio dell’og-

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getto», che si trova a passare così da «una vita inorganica alla vita organica» (p. 151). Si tratta di oggetti che «operano una distinzione netta tra significato e significante», alterando «il senso delle cose, fuori dai luoghi che sono loro pertinenti». Il caos, gli oggetti, diciamo così, decontestualizzati, non sottraggono credibilità al reale, tutt’altro. Dimostrano semplicemente che la realtà funziona secondo leggi caotiche, indistinte, alchemiche. Attraverso la filza di oggetti, l’enumerazione recupera il rapporto con la stilistica, di cui dicevo poc’anzi. Ripensiamo ad Auerbach, che avrebbe forse sottoscritto (almeno nella parte che evidenzio in corsivo) questa affermazione di Tristan Tzara: «Libertà: Dadà, Dadà, Dadà, urlo di colori contratti, groviglio degli opposti e di tutte le contraddizioni, del grottesco e dell’in­ congruenza: la vita»3. «Ciò che è reale è il continuo cambiare delle forme: la forma è solo un’istantanea del mutamento», scrive Bergson, nell’E­ voluzione creatrice. In questo mutamento tambureggiante, per cogliere il punctum ci vuole quello che ancora Barthes, in un saggio del 1971 su Ivan il terribile di Ėjzenštejn, chiamava il senso ottuso, contrapponendolo all’ovvio. L’area di tale senso apre il campo all’interpretazione: ma ciò non avviene in modo segnaletico, ovvero attraverso la traduzione di un significante in significato e viceversa, bensì secondo quello che lo stesso Barthes chiama “approccio poetico”: ciò che, al di là dell’ovvio “intellegere”, eccede, «come un supplemento che [l’]intellezione non riesce bene ad assorbire, ostinato e nello stesso tempo sfuggente, liscio e inafferrabile»4. L’ottuso sta all’ovvio come il punctum allo studium: il suo strumento di conoscenza è la corda pazza, il modo squisitamente saggistico.

3.  Ivi, pp. 171-172. 4.  R. Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 1985, p. 45.

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Quella battuta da Punctum fluens è una strada lunga e tortuosa, che a un primo sguardo pare ripercorrere ogni snodo in cui rappresentazione – mettiamo anche linguaggio – e reale si divaricano, si sentono irriducibili l’uno all’altro. Eppure, quando i frammenti si ricompongono in opera, sia pure dichiaratamente opera di frammenti; laddove non esiste obbiettivo e tutto si fa eccentrico: ecco, proprio in questo punto quell’irriducibilità vacilla. Seguire una simile strada ha richiesto all’autore uno sforzo di coerenza. Sì, perché il saggio di Bisaccia pendola tra una chiarezza di intenti e tesi e un’oscurità – linguistica, sintattica, affabulativa – che pare prossima al suo stesso oggetto di ricerca. Per cogliere le tracce del senso ottuso occorre forse la corda pazza, e Bisaccia tenta di farlo attraverso uno stile particolare. Non dimentichiamo le moltissime pagine analitiche e informate, proprie di un saggismo di nobile stampo accademico, nelle quali i testi sono messi al vaglio degli strumenti stilistici, al servizio di una ricostruzione critica e storiografica; nondimeno, a tali pagine si alterna, risultando poi preponderante, una prosa contratta, fratta, con certi tratti di sapore espressionistico, altri con venature metalinguistiche: come quando, nel tentare il compito – impossibile, ormai lo sappiamo – di definire coerentemente il film sperimentale, si abbandona al linguaggio avanguardista dei manifesti. Facciamo nostra, per poi integrarla con un’osservazione finale, la suggestiva ipotesi espressa da Elder. Tale stile, inequivocabile protesta del corpo dello scrittore, sarebbe un’intromissione dello studioso in carne e ossa nella sua opera critica. Così come un cortocircuito crea sempre l’intromissione della realtà nella finzione, del movimento vero nel movimento rappresentato (vuoi pure attraverso l’intuizione di un punctum fluens), allo stesso modo la complessa e informata struttura dello studio teorico viene retta da lacerti di vita che, parassitariamente, penetrano tra i suoi tessuti, creando un misto di teoria e biologia.

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Anche in questo senso, allora, funzionerebbe la linea di lettura del saggio che ho voluto inseguire in queste pagine: e che potrei riassumere come l’intromissione della realtà nell’antirealistico. Come ciò possa funzionare, e quale sia la radiografia del saggio, mi pare lo si possa intravvedere tra le citazioni in epigrafe, in apertura del libro, ben quattro. Le riporto, per spiegarmi meglio: Il mondo è cartaceo e lo sfiora un gran fuoco (Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa). Si danno definizioni soltanto per disperazione. […] Le cose che tocchiamo e quelle che concepiamo sono improbabili quanto i nostri sensi e la nostra ragione; noi siamo sicuri soltanto del nostro universo verbale, maneggiabile a piacimento – e inefficace. L’essere è muto e lo spirito è ciarliero. Questo si chiama conoscere (E.M. Cioran, Sommario di decomposizione). L’infinito, mio caro, è ben poca cosa: è una questione di scrittura. L’universo esiste solamente sulla carta (Paul Valéry, Mon­ sieur Teste). Ma siate esecutori della parola, e non uditori soltanto (Lettera di Giacomo I, 22).

I primi tre stralci svelano un mondo apparentemente fatto di sole parole, senza le quali oggetti o concetti non potrebbero esistere. Nell’ultimo si compie – o meglio, si auspica – il ritorno della parola all’oggetto, al gesto, nella ricomposizione di linguaggio e reale, nel lungo viaggio di significanti e significati in cui oggetti e parole sono in qualche modo destinati a una nuova approssimazione. A questo punto scopriamo, dietro alle quattro epigrafi, un’altra citazione, in calce, questa volta di Tommaso Landolfi: laddove, nella prosa diaristica di questo grande scrittore di parole, lo strappo tra parola e cosa è riparato proprio nella paradossale affermazione del contrario: Riuscirò, qui almeno, a non scegliere le parole? (Tommaso Landolfi, Rien va).

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Oltre l’ékphrasis Il Carpaccio di Roberto Longhi

Nella Ricotta Pasolini ci ha dato un netto esempio di ritorno – potremmo chiamarla ritraduzione – dell’ékphrasis alla natura originaria di immagine. Partendo dalla celebre Deposizione della Cappella Capponi in Santa Felicita del Pontormo, Pasolini scrive in sceneggiatura una lunga ékphrasis, poi nuovamente tradotta in scena nel film: abbiamo però, inizialmente, un’immagine totale che restituisce il punto di vista del regista del “film nel film”. Questa immagine d’affettata calligrafia sarà poi frammentata in dettagli che sorprendono gli attori deconcentrati, scanzonati, incapaci di interpretare l’idea pittorica dell’immagine manierista. L’autore di Accattone, lo sappiamo, da allievo di Roberto Longhi, dichiara una lunga fedeltà nei confronti del maestro, del quale in alcune occasioni s’è fatto pure esegeta. La pagina di sceneggiatura – pure nella sua rapidità di scrittura – è intarsiata di venature longhiane: ne sia esempio l’uso lessicale prezioso nella descrizione dei colori. Anche quella filmica – lo vedremo – ritrova, nella frantumazione del campo totale, un correlativo longhiano. Il terreno critico e teorico in cui, in queste brevi note, voglio porre la scrittura sull’opera d’arte è appunto quello dell’ékphra­ sis, l’«equivalenza verbale», secondo il noto modulo longhiano.

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Tra i tanti, è stato Foucault ad avvertire l’irriducibilità dell’immagine alla parola: «il rapporto da linguaggio a pittura è un rapporto infinito. Non che la parola sia imperfetta e, di fronte al visibile, in una carenza che si sforzerebbe invano di colmare. Essi sono irriducibili l’uno all’altra: vanamente si cercherà di dire ciò che si vede»1. L’ékphrasis resterebbe perciò, all’ultimo scatto, inerte. In Longhi, spesso, l’ékphrasis corrisponde al punto in cui si risolve la prosa critica o, meglio, alle sue punte di letterarietà. Non è un caso che qualcuno abbia parlato di «barocco moderno»2: l’esposizione dell’argomento è sondata attraverso un percussivo accumulo lessicale e un controllato viluppo sintattico condotto con virtuosismo tale da poter considerare la prosa longhiana, letterariamente, autonoma: il Meridiano, peraltro curato da Gianfranco Contini, ne è una prova, che però inferisce una mutilazione non da poco all’opera, privandola delle tavole illustrative, come lo stesso Pasolini ha avuto modo di notare recensendo quel volume3. In Longhi l’ékphrasis è allevata dall’immagine: da essa prende vita e con essa si integra, restando però, infine, attaccata alla pagina, schiava di un rapporto dialettico non completamente risolto – da questo punto di vista – con l’illustrazione: a fianco, nel migliore dei casi, oppure in volume a parte o in appendice finale, come accade in alcuni tomi delle edizioni Sansoni delle Opera omnia. È forse con il film, però – ecco il riferimento iniziale alla Ri­ cotta –, che può essere tentato uno scatto in avanti nella risoluzione di questa impasse dialettica. Nel 1948, con Umberto 1.  M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, BUR, Milano 1996 (19671), p. 23. 2.  E. Raimondi, Barocco moderno. Roberto Longhi e Carlo Emilio Gadda, a cura di J. Sisco, Bruno Mondadori, Milano 2003. 3.  P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, vol. II, Mondadori, Milano 1999, p. 1979.

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Barbaro, Longhi produce il suo Carpaccio. Sopra le immagini, che ricalcano la già forte propensione narrativa del pittore veneziano, scorre la voce di Longhi, che – salve piccole differenze, ma significative – potrebbe essere lettura d’un suo brano: basti, a riprova, un confronto con le pagine dedicate al Carpaccio nel Viatico per cinque secoli di pittura veneziana4. A livello stilistico, la presenza di elementi deittici nel brano letto sulle immagini equivale a un gesto – un’indicazione – che in qualche modo illustra l’ékphrasis. Si tratta di una semplificazione linguistica dovuta alla naturale specificità, quella multimediale, del mezzo cinematografico: laddove nella pagina scritta l’accostamento parola–immagine si traduce nella riproduzione iconografica a lato della scrittura – in senso orizzontale dunque –, nell’audiovisivo si ha un senso di verticalità immediata. Se nella scrittura Longhi rincorre, con l’ékphrasis, l’immagine, cercando di estendere il più possibile le capacità del linguaggio letterario, in quello cinematografico egli trova immediatamente, grazie al montaggio, l’aderenza dell’oggetto di descrizione al mezzo della descrizione stessa, pur senza perdere la qualità della pagina. È, in fin dei conti, quanto notava lo stesso Pasolini, descrivendo il professore che nell’auletta seminascosta di via Zamboni azionava il montaggio tra le diapositive, innescando un conflitto di forme in evoluzione: il cinema, in sostanza, già era in atto5, nel susseguirsi di immagini commentate dalla voce di Longhi. Ma restava ancora saldato a quella fiducia – che potremmo definire platonica – nella parola detta. Con l’incisione di parola e immagine nelle due bande della pellicola si tenta invece di riannodare il rapporto descrittivo fra parola e opera d’arte, mossa che, se non risolve la frattura di cui dice Foucault, ne lenisce quantomeno l’effetto, attenuando 4.  R. Longhi, Da Cimabue a Morandi, a cura di G. Contini, Mondadori, Milano 2001, pp. 637-640. 5.  Cfr. P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., vol. II, p. 1978.

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il paradosso secondo cui ogni arte figurativa può essere criticata solo attraverso il linguaggio letterario. Eccoci, dunque, al centro del problema estetico e teorico di queste pagine: sconfinando nell’audiovisivo, Longhi libera quelle potenzialità multimediali (o meglio, quegli sconfinamenti da un medium all’altro) già insite nella sua prosa critica. Siamo di fronte a un saggismo che non è errato definire multimediale. Longhi, che interpreta con la parola la staticità di un quadro – regalandogli, o restituendogli, un certo dinamismo – sfrutta ora la dinamicità del montaggio video per tradurre, di ritorno, il suo pensiero in immagine6. E dunque – con l’ausilio, non dimentichiamolo, di Umberto Barbaro, tra i primi lettori della teoria cinematografica russa e dunque testimone di un interesse esemplare verso il montaggio – Longhi riduce il quadro a dettagli che, attraverso opere diverse, restituiscono alla pittura il dinamismo solo in parte espresso. Non faceva la stessa cosa Pasolini, nella Ricotta? Parlo ora, si faccia attenzione, del regista della Ricotta: poiché è da notare che l’insieme, il quadro iniziale, era del personaggio-regista, un Orson Welles neomanierista, pedissequamente colto – perlomeno dal punto di vista figurativo. È invece nei dettagli che il Pasolini allievo di Longhi frammentava lo sguardo, distanziandosi dall’alter ego, tutto d’un colpo divenuto nemesi. Ma così facendo, attraverso questa divisione – questo montaggio critico – il Longhi narra il Carpaccio? È stato ancora Garboli a parlare dell’autore dell’Officina ferrarese come di «un romanziere lucidissimo e pieno d’immaginazione tenebrosa»7. Se infatti nel Viatico Longhi scriveva: «Il Carpaccio narra, in6.  Già per l’equivalenza verbale c’è chi aveva parlato di «traduzione», cfr. C. Garboli, Longhi scrittore, in Id., Pianura proibita, Adelphi, Milano 2002, pp. 11-25: p. 15. 7.  C. Garboli, Longhi lettore, in G. Previtali (a cura di), L’arte di scrivere sull’arte, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 108-125: p. 110.

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stancabilmente narra, tutti son d’accordo»8, subito dopo, nel film, sottolineando la complessità di questo sistema narrativo (le sue misteriose «legature”), egli stesso si corregge, forse ponendosi, grazie al linguaggio in corso di sperimentazione, nella giusta ottica filologica che consente di leggere l’interezza delle tele che ha davanti, e cioè «di punta anziché in estensione». E si corregge, dicevo, osservando Il ricevimento degli ambascia­ tori alla corte di Bretagna, il telero del ciclo di Orsola conservato all’Accademia di Venezia su cui si apre il film. Qui Longhi nota subito che «più che narrare […] il Carpaccio presenta, riassume l’azione in uno spettacolo aperto, profondo, sincrono». Sta invece all’immaginazione del critico decifrare gli indizi narrativi: isolandoli nel dettaglio (del montaggio) appunto, e dando loro un senso, un momento di autonomia che – a ben vedere – non astrae la scaglia dall’insieme. È il caso di una serie di ritratti che si affacciano dentro la scena del quadro, e che il Carpaccio, secondo il suo critico, non poté certo apprendere da Gentile Bellini, il quale ci presenta nella famosa Processione di San Marco un catalogo di volti che Longhi definisce «un’incerta cartografia di particolari». I volti del Carpaccio mostrano invece le potenzialità ritrattistiche (autonome, dunque) di un diverso magistero, quello di Antonello da Messina. E Longhi, nient’affatto incurante del mezzo linguistico che sta sperimentando, è capace, tramite la grammatica del montaggio, di sviluppare queste potenzialità: mentre il catalogo di Gentile merita prima una svagata carrellata e poi un rapido raggruppamento di tre ritratti, gli stessi volti del Carpaccio sono isolati e elevati – da Longhi – a rango di personaggi: come lo «strabico che non sa di esserlo», il re e i ministri «che ci par di conoscere nel loro sussiego», il «senatore, forse eletto per censo». 8.  R. Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana in Id., Da Cimabue a Morandi, cit., pp. 622-679: p. 637.

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Ecco l’immaginazione critica di cui parlava Garboli. Vi è da parte di Longhi un movimento continuo di rimbalzo tra dettaglio e insieme che risponde all’esigenza di restituire filologicamente l’oggetto dello studio, e però di addentrarsi criticamente – attraverso l’inventiva – nei suoi misteri9. Tutto ciò sfruttando appieno le potenzialità saggistiche che, grazie al montaggio, il cinema gli offre: il ritmo binario a tratti impartito dai riferimenti ad altri pittori (il Gentile, appunto, Piero, Paolo Uccello, su sino a Manet) segna quello che Metz avrebbe catalogato come “sintagma alternante”, e che altro non è se non la realizzazione filmica – in simultaneità verticale – dei riferimenti ipertestuali (nota a piè di pagina; illustrazione; divagazione) già presenti nella pagina scritta. O ancor di più, la specificità del linguaggio filmico aiuta a comprendere più precisamente ciò che Longhi, in effetti, vuole narrare. Con questo non si vuole ora intendere o affermare una superiorità o un maggiore stadio evolutivo del saggio audiovisivo longhiano rispetto a quello scritto, che costituisce d’altronde la totalità della sua mole di lavoro critico; piuttosto, costatare come l’incursione – seppur breve10 – nella critica attraverso il cinema abbia consentito a Longhi di esplorare in altro senso la potenza della propria immaginazione e di ricollocare in una campitura concreta l’iconismo insito nella sua prosa11. Sia chiarito quanto appena affermato con un paio di esempi tratti dal testo.

9.  Sullo scatto dell’inventiva nel circuito filologia/critica cfr. C. Bologna, Officina ferrarese di Roberto Longhi, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. L’età contemporanea. Le opere 1921 – 1938, Einaudi, Torino 2007, pp. 375-452: pp. 392-393. 10.  Longhi e Barbaro hanno prodotto anche un Caravaggio che ha però meno circolazione, non essendo stato editato e riprodotto in supporti video: probabilmente perché l’unica copia di cui si ha conoscenza – conservata presso la Cineteca di Bologna – è priva della colonna sonora. 11.  Su tale aspetto si veda G. Fichera, Longhi nell’ombra della pittura, in Id., Le asine di Saul, Euno, Leonforte 2016, pp. 133-142.

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Il cagnolino12: Nel Miracolo della reliquia Longhi ammira, tra le altre cose, il dettaglio di «un cucciolo maltese» che, adagiato «sul bordo della gondola, è un portento di impressione diretta, un intrigo di bianchi arruffati, di tocchi essenziali». Un altro miracolo, quello dell’immaginazione critica, è reso verosimile dalle – qui pur rudimentali – potenzialità del linguaggio filmico. Questo cucciolo, nota Longhi, «tanto piacque a Tiziano, cinquant’anni dopo, e […] anche un Manet avrebbe potuto accoglier[lo], come vedete, senza mutare un sol tocco, nel suo famoso Balcone che viene quattrocento anni più tardi». Come vedete: su questo passaggio, con una sovrimpressione di immagini più che credibile – almeno sul momento –, il cucciolo del Carpaccio appare dietro la ringhiera del balcone di Manet, perfettamente a suo agio ai piedi dei suoi ipotetici padroni ottocenteschi per i quali sostituisce il loro più esile spaniel: il tutto a culmine d’una panaromica a svelare, dall’alto verso il basso del celebre dipinto. Il leone: siamo sulla tela di San Gerolamo e il leone nel convento (Venezia, ciclo di San Gerolamo alla Scuola degli Schiavoni). Il commento di Longhi è strettamente legato alla regia. Uno zoom affonda su un dettaglio centrale: le corna del cervo al centro del quadro. Solo con un siffatto movimento di macchina – ancor più che con un dettaglio diretto, montato – possiamo notare veramente ciò che Longhi stesso nota, ossia la continuità dinamica tra le corna e le figurette dei frati pavidi, già scappati alla vista del leone.

12.  Su questo dettaglio, e in generale per un’analisi approfondita del lavoro filmico di Longhi e Barbaro, cfr. A. Uccelli, Due film, la filologia e un cane. Sui documentari di Umberto Barbaro e Roberto Longhi, in «Prospettiva», n. 129, gennaio 2008, pp. 2-40.

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Non mangiare il pesce col coltello Soldati scrittore-spettatore

Anche se camperò cent’anni, anche se l’Italia diventerà una Repubblica Popolare altrettanto disciplinata della cinese, anche se corrisponderemo regolarmente con Marte, anche se i nostri uomini d’affari, e primissimi i nostri produttori cinematografici, non esiteranno a farsi disintegrare e trasmettere, nell’etere, sotto forma di onde o ioni, con l’identica velocità di un belinogramma, fino a Los Angeles o a Ceylon, dove l’apparecchio ricevente li reintegrerà istantaneamente nella loro carne e nel loro sangue, sia pure, specialmente nei primi tempi dell’invenzione, con il lieve rischio di qualche errore, deformazione o dispersione, che i nostri uomini d’affari, e primissimi i nostri produttori cinematografici, affronteranno a cuor leggero e col sorriso sulle labbra: ebbene, anche allora, mangiare il pesce col coltello mi parrà una costumanza strana e inaccettabile. Mario Soldati, Da spettatore

Sulla fine del 1959, Mario Soldati ripubblica su «Cinema Nuovo», col titolo Elogio dell’operatore, un suo vecchio saggio del 19431. Lo scritto è accompagnato da una lettera al direttore Guido Aristarco, che acclude, a sua volta, una postilla di risposta. Nello scambio amichevole si fa riferimento a una vecchia polemica: Soldati parla della «letteratura che resiste alla 1.  M. Soldati, Elogio dell’operatore, in «Cinema Nuovo», n. 142, novembredicembre 1959, pp. 491-498.

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moda e al tempo meglio […] del cinema»2; Aristarco è d’accordo, ma ha gioco facile nel rispondergli che opere come quelle di Dreyer o Chaplin sanno «resistere al tempo come la grande letteratura»3. In quello stesso anno, nelle sale – e a Cannes, in concorso –, esce il suo ultimo lungometraggio, Policarpo, ufficiale di scrittu­ ra. Già da un po’ Truffaut, ormai esordiente alla regia, furoreggiava sui «Cahiers», imbeccato da Astruc, il quale, non meno astrattamente, aveva consegnato all’autore cinematografico – il metteur en scène, sarà il caso di ricordarlo? –, con la camérastylo, lauro e stiletto. Un concetto ingombrante, quello di autorialità, si andava rinforzando. Appena trasferitosi da Roma a Milano e, per l’appunto, in procinto di allontanarsi dai set, è proprio in un simile contesto che Soldati riesuma questo scritto: con una certa dose di orgogliosa inattualità. Questione di politiques: l’autore cinematografico in quel momento trionfa, il moderno irrompe. Il vecchio allievo di Camerini, di contro, ricorda la sua prima sortita in uno studio cinematografico, e la figura misteriosa dell’operatore: «per il mio istinto, i miei nervi […], l’operatore restò e resta il centro tecnico, magico e affascinante del cinematografo»4. Sia chiaro, al di là di questo passo carico di suggestione: non è che Soldati fraintenda il ruolo dell’operatore in rapporto a quello del regista. C’è, tuttavia, la traccia d’una sua tendenza a porsi, rispetto ai problemi del film, non frontalmente ma di taglio, come pure dimostra un articolo del 1964, I cameramen della grande guerra5, scritto dopo la visione d’un film assembla2.  Ivi, p. 491. 3.  Ivi, p. 498. 4.  Il passaggio è tratto dal saggio appena citato, leggibile anche in M. Soldati, Cinematografo. Racconti, ritratti, poesie, polemiche, a cura di D. Scarpa, Sellerio, Palermo 2006, pp. 360-372: p. 363. 5.  Ivi, pp. 225-230.

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to su materiali d’epoca, Il Piave mormorò, e sempre dedicato alla centralità dell’operatore. Si tratta, più che d’una recensione, di un saggio, breve ma densissimo, nel quale Soldati mostra la sua capacità, che direi fulmineamente ecfrastica, di tradurre in parole il concetto tecnico: Quanti cadaveri, quante spaventose visioni in questo film. E tuttavia, in quell’orrore, quale costante bellezza. Sì, anche, o soprattutto, trovandosi a fotografare la morte, lo strazio, l’assurdità, l’atrocità, i nostri operatori si sono preoccupati del primo piano, della quinta, del terzo forte, dello sfondo: di inquadrare bene il soggetto, quasi di comporlo: classicamente, freddamente, razionalmente. Operatori di oggi si sarebbero affidati alla ricetta contraria. Avrebbero cercato di ripetere la realtà senza calmarla, di gettarvisi dentro mimeticamente, di fotografare il caos della guerra con un caos cinematografico.6

Prendiamo il brano riportato in epigrafe, un lungo periodo che, già a una rapida occhiata, manifesta una prospettiva, anche stilistica, tutta particolare, sbilanciatissima verso una reggente che arriva solo alla fine, a soppesare un viluppo di concessive delle quali l’ultima dà luogo a un’ulteriore espansione ipotattica, con tanto di periplo (il ritorno ai «nostri uomini d’affari, e primissimi i nostri produttori cinematografici»). Tanto più che questa reggente arriva, infine, non per spiegare, ma per spiazzare ulteriormente. Ci chiediamo: è questo il testo che ci si aspetterebbe per introdurre una raccolta di recensioni7? Che Soldati scarti la norma, certo non stupisce. A Milano, rafforza le collaborazioni giornalistiche, inizia a lavorare per la TV e lascia da parte il cinema. Tiene però sull’«Europeo», per quasi due anni, dalla fine del 1963 al ’65, una rubrica settimanale di critica cinematografica per la quale prende il posto di Peppino Ma6.  Ivi, p. 122. 7.  M. Soldati, Da spettatore, Mondadori, Milano 1973.

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rotta, appena scomparso. Sia detto per inciso che, pur avendo sempre scritto sul cinema, solo in questo periodo Soldati lo fa a cadenza regolare. Nel 1973 raccoglie in volume parte di quei pezzi. Nasce così, per Mondadori, Da spettatore. Il volume è introdotto da un breve pezzo che si apre, appunto, così. Ma che significa, al di là del dilettevole esito della pagina, questo rifiuto a una pratica, tutto sommato non così peregrina, come aiutarsi col coltello per pulire il pesce dalle spine? Certo, non gli daremmo gran peso: se non fosse che, in quel rapido, efficacissimo, bozzetto fantascientifico, una tale ostinata devozione alla tradizione («Mio padre e mia madre mi hanno insegnato a non mangiare mai, cascasse il mondo, il pesce col coltello», ivi, p. 8) è collegata a un altro insegnamento fondamentale, subito seguente: «E a non parlare mai, cascasse il mondo, con un critico, mi ha insegnato il mio maestro Mario Camerini» (ibidem). Il regista non deve mai incontrare il critico, secondo il monito del direttore di Gli uomini, che mascalzoni…. Ma cosa accade se è il regista che si fa critico? Facile sarà dire che avremo un critico nel quale convive un regista, e la sua posizione, s’intende, sarà quanto meno singolare. Va bene che il caso non è unico: se poc’anzi ho citato Truffaut, si pensi, nei soli confini italiani, a Lizzani, De Santis e, più avanti, Pasolini. E però, se si opera un rapido confronto con quello degli scrittori-critici, ci si rende subito conto di come la schiera dei Calvino, Pasolini stesso, Fortini, Zanzotto, Sciascia, Volponi, Moravia – rimaniamo alle coincidenze eclatanti – sia ben più folta. L’ovvia fratellanza tra l’attività dello scrittore e quella del critico è un primo indizio: a differenza del regista, che non è necessariamente tenuto a scrivere. Il caso di Soldati, già regista, scrittore che scrive di cinema, è invece senz’altro più raro. E proprio dal suo passato scaturisce quella tendenza, nel recensire o analizzare il lavoro degli ex colleghi, a porsi di taglio. Passiamo a un brano del 15 dicembre 1963, quello d’esordio nella rubrica dell’«Europeo». Non si tratta di una recensione,

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ma di una dichiarazione, se non di poetica, più sommessamente d’intenti. Un passaggio colpisce, e ha colpito molti8: la sistemazione dei film in quattro categorie di valore: a) belli e divertenti; b) belli e noiosi; c) brutti e divertenti; d) brutti e noiosi. Già questo basterebbe a decretare l’anomalia d’un critico, allorché impazzava l’analisi strutturale del racconto, ivi compreso quello cinematografico, e si fondava una semiologia del cinema. Soldati, per fugare ogni dubbio, appesantisce il carico, eleggendo a metro di valutazione l’invidia che prova – o non prova – nei confronti del vecchio collega. Ecco: nell’elaborazione del giudizio di valore Soldati parrebbe ispirarsi unicamente al senso comune, comportandosi, per parafrasare la celebre definizione del critico data dal sodale Garboli9, da scrittore-spettatore. Ma è semplicemente così? In realtà, l’abbiamo già detto, Soldati si mette di taglio, non ama la facile sintesi, fa convivere, inconciliati, senso comune e affondi analitici. È una posizione naturale, la sua: ora glielo impone lo scrittore con formazione da critico d’arte, più spesso ancora l’ex regista; vediamo come, procedendo per salti sui testi raccolti in Da spettatore e nel più recente, «apocrifo» (così il curatore nel saggio introduttivo), Cinematografo, prezioso assemblaggio a tema, latamente, cinematografico messo insieme, per Sellerio, da Domenico Scarpa. Questo per tentare di capire come Soldati mescola – in modo non solo comunemente dettato dal buon senso – le due attività: scrivere e spectare. Bond, James Bond. Alla celeberrima saga, quella cinematografica ancora agli albori, l’autore di America primo amore dedica due scritti, a distanza di un paio di mesi uno dall’altro. Il primo 8.  Ad es., cfr. E. Morreale, Mario Soldati. Le carriere di un libertino, Cineteca di Bologna-Le Mani, Bologna-Genova 2006, p. 413; B. Falcetto, Mutare vi­ suali, in M. Soldati, America e altri amori, Mondadori, Milano 2011, pp. XILVIII: p. XLII. 9.  C. Garboli, Scritti servili, Einaudi, Torino 1989, p. VIII.

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è un articolo apparso sull’«Europeo» il 31 gennaio 1965 col titolo significativo 007: un eroe del nostro tempo prodotto dall’i­ ronia inglese che, in volume, diviene l’ancor più significativo 007, il gusto del momento (così ripreso anche in Cinematogra­ fo). Queste sparute notizie filologiche, riscontrate nelle note ai testi di Scarpa e Falcetto, non sono occasionali. Già sul settimanale si nota un elemento rilevante, l’ironia inglese. Il gusto del momento, poi, non è semplicemente quello che orienta le mode, o che da esse è orientato. Il fenomeno globale di James Bond – con la serie cinematografica che potenzia la già fortunatissima opera di Fleming – non costringe Soldati al sospetto, non lo induce, di per sé, alla decostruzione: semmai alla ricostruzione del suo senso sociale. Sociale e culturale: sia esempio questo passaggio che ad alcuni, allora, parve un’oziosa provocazione: «Questa indagine [sulle fonti di James Bond], questo lavoro di confronti, questa ricerca, dovrebbe essere condotta con lo stesso rigore di metodo che presiedette al capolavoro della nostra filologia, Le fonti dell’Orlando Furioso. Ma chi potrebbe essere il nuovo Pio Ràjna? […]. È certo che ne varrebbe la pena: perché 007 è un’opera altamente significativa del nostro tempo»10. Nell’aprire il secondo pezzo, Soldati avverte del fatto che, nel giro di un paio di mesi, si sono accumulate «paurosamente» sulla sua scrivania lettere di risposta al suo articolo, tra cui quelle di Moravia, Aristarco, Piovene ecc. Moravia afferma che «la sola maniera di occuparsi dei libri di Fleming è quella in chiave psicologica e sociologica»11. Eppure – Soldati stesso ne dà qui e nell’altro articolo notizia – il fenomeno Bond alletta gli intellettuali, da punti di vista anche distanti: da Eco ad Arbasino, da Garboli a Bassani, solo per dire di due coppie che stanno, per sensibilità critica, una agli antipodi, l’altra decisamente in prossimità dell’autore delle Lettere da Capri. Li alletta, 10.  M. Soldati, Cinematografo, cit., pp. 270-271. 11.  In M. Soldati, Da spettatore, cit., p. 236.

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si capisce, in sensi molto differenti. Se ad esempio Eco, da un lato, si concentra sulla costruzione strutturale del racconto o sull’esito pratico dello stile, restando sbilanciato verso una teoria della ricezione, dall’altro a Soldati interessa, sì, la ricezione, ma nel senso d’una sua eziologia: il perché e il come un’opera siffatta possa giungere ai quattro angoli del pianeta. È per questo motivo, dunque, che si accinge, seppur per sommi capi, a fare ciò che auspicava nell’articolo precedente, ossia a indagare le fonti di James Bond, e dunque di Fleming prima ancora che dei registi-traspositori: giacché questi ultimi – ora Soldati ne è sicuro, alla luce dei primi tre film della serie – mantengono, più o meno consapevolmente, un alto grado di fedeltà al modello di partenza. Vi è alla base dell’inventiva e dello stile di Fleming una legge fondamentale, che secondo Soldati rinvia a Poe: «quando la trovata centrale è fantastica, dice il Poe che se ne intendeva, bisogna che lo svolgimento sia, in tutti i più minuti particolari, rigorosamente realistico. Da questo contrasto si possono cavare effetti surrealistici: è il caso del Poe stesso. Oppure anche effetti ironici: è il caso, appunto, di Fleming»12. L’ironia sortirebbe dallo scontro tra gli elementi fantastici e la precisione nella descrizione di ambienti, situazioni, caratteri. E qui Soldati, bacchettato da Aristarco e da Enrico Emanuelli, rincara la dose: al secondo che gli dice che l’ironia, in James Bond, può esser colta solo da certi intellettuali desiderosi «di evasione, o di umiliazione, o di vendetta contro il cinema», egli risponde così: «sono sicuro che, ai tempi dell’Ariosto, la maggioranza dei lettori lo leggeva allo stesso modo con cui, oggi, la maggioranza dei nostri spettatori assiste ai film di 007: senza rendersi conto dell’ironia, e tuttavia, inconsciamente, gustandola»13. Insomma: il razionalista, ottocentesco Soldati si fa qui più moderno di ogni moderno, assimilando un pro12.  Ivi, pp. 237-38. 13.  Ivi, p. 240.

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dotto dell’industria culturale a un grande classico. Non, ovviamente, nel giudizio estetico, ma per quanto riguarda «i riflessi sul costume». Se dunque è vera questa prospettiva, diciamo così, laterale del Soldati critico cinematografico, questa provocazione, pur nel suo esito pacato, ne è un segnale. Altri si rivelano, però, anche più significativi. Tra questi, ce n’è una serie che si potrebbe riportare a un’unica categoria: il tratto distintivo, a mio avviso, della sua critica. Ancora il primo articolo su 007, dove riporta uno stralcio di conversazione telefonica con Bassani: si trattava, nello specifico, di Missione Goldfinger: [Bassani]: «tutto il film […] appartiene al […] gusto di oggi: staccato dalla realtà e insieme carico di particolari realistici: assurdo e violento anche vero: gremito fitto di invenzioni e divertentissimo…». Ecco, io qui interrompo e osservo che, questo, è, appunto, l’unico difetto che trovo in Missione Goldfinger: la stipatura di invenzioni che, succedendosi senza respiro, finiscono un po’ «per stingere» l’una sull’altra e per dare allo spettatore un senso stucchevole, come di una lunga mangiata di frutta candite…14

In termini sbrigativi, c’è sempre un “ma” – come in questo caso, espresso con similitudine gastronomica – nell’elaborazione critica, e dunque del giudizio di valore, di Soldati. Siano esempio alcuni pezzi, come quello su Tinto Brass e il suo Chi lavora è perduto; quello su I compagni di Mario Monicelli; Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci; la recensione del Vangelo pasoliniano, a confronto con il Cristo di Carlo Levi; la visione, ritardata di un anno, di 8½ ecc. Il primo è un articolo del 29 marzo 196415. Brass si mescola e si perde eccentricamente nell’ondata nuova del cinema euro-

14.  Ivi, pp. 210-211. 15.  M. Soldati, Da spettatore, cit., pp. 79-84.

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peo. Soldati chiama in causa Godard col Disprezzo, Ferreri e L’ape regina, This Sporting Life di Lindsay Anderson. Peculiare, nel giovane regista veneziano, è il trattamento del personaggio, lavorato in modo non soltanto potentemente soggettivo ma addirittura divagatorio, nel solco, per dire, della modernità letteraria. Per inciso, e ci tornerò: quello di trattare insieme, mescolandole, la materia letteraria e quella cinematografica è un vizio tutt’affatto malizioso. E così, «il modo di girare è perfettamente conseguente a questa concezione diaristica, soggettiva, corsiva del cinema […]. La macchina da presa guizza in mano di Brass più veloce di qualunque penna e, caso mai, come un pennello». Ma questo correlativo visivo di monologhi o flussi interiori è, manco a dirlo, problematico, quantomeno qui, dove «c’è un limite: ed è quando il movimento della macchina da presa dà la nausea, il mal di testa, il mal di mare allo spettatore»16. Si può immaginare un passo critico più empirico, più dettato dal senso comune di questo? Eppure, poco prima, sempre nel tracciare il quadro europeo in cui Brass muove i suoi primi passi, Soldati butta giù alcune righe che sembrano precorrere le più moderne teorie cinematografiche: basti pensare al celebre saggio sul Cinema di poesia presentato da Pasolini un anno dopo alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro col titolo La mimesi dello sguardo17: Ma è certo che, in questi dieci anni, a poco a poco, tutta una schiera di registi, sempre meno timidamente, ha svincolato il cinema dalla maniera rigorosamente oggettiva di un’azione drammatica che si svolga attraverso personaggi apparentemente autonomi, per avvicinarlo alla maniera di un racconto, di una divagazione, di una serie di riflessioni, che avvengano

16.  Le due citazioni appena date si leggono ivi, p. 81 e p. 82. 17.  Come si apprende dal volume che raccoglie gli atti delle tavole rotonde pesaresi di quegli anni, cfr. L. Micciché (a cura di), Per una nuova critica. I convegni pesaresi 1965-1967, Marsilio, Venezia 1989, pp. 17-36.

90 nell’animo di un personaggio che dice «io», e che è, più o meno, assimilato all’autore medesimo del film, ossia al regista.18

Tracce e segnali son disseminati ovunque. Abbiamo il senso comune dello spettatore, che si affida all’azione narrativa, ai suoi turbamenti visivi ed emotivi. Abbiamo lo scrittore, col carico della sua prosodia, così oggettivante quando la scrittura è descrittiva. Infine, il regista, che nell’andamento lucido della terza persona inserisce le sue analisi, che corrispondono al mai sopito “io” soldatiano19. Si tratta di un viluppo dialettico insolubile: nella critica di Soldati c’è la tendenza a fissare i meriti di un film, per poi inquadrarne l’imperfezione, come se un possibile etimo spirituale dell’autore filmico dovesse sortire dalla connivenza di pregi e difetti. I compagni sarebbe un capolavoro. Ma il condizionale parla chiaro: a Monicelli manca l’orecchio per rendere davvero credibile la Torino di fine Ottocento; quando richiama il suo entusiasmo all’uscita del Cristo di Carlo Levi, non scorda una riserva che già allora lo lasciò perplesso: com’è possibile che l’uomo di scienze e lettere rimanga inerte di fronte alla potenza irrazionale delle magie lucane? In quest’interstizio, un fondo di inverosimiglianza tra pensiero e azione, si agita una discrasia: la stessa che, in qualche modo, contamina il Vangelo secondo Mat­ teo di Pasolini: soltanto che, se in Levi essa nasce dall’innesto del magico – o meglio, dalla sua accettazione – nel razionale, in Pasolini divampa per il fatto di aver voluto trattare – e rappresentare – come cosa vera un fatto sacro, rituale. È qui doverosa una breve parentesi: che ritengo significativa per accorciare la distanza tra i due autori antimoderni, o, di-

18.  In M. Soldati, Da spettatore, cit., p. 81. 19.  Cfr. a tal proposito le belle pagine di Garboli sul rapporto, in Soldati, tra prima e terza persona, C. Garboli, Pianura proibita, Adelphi, Milano 2002, pp. 35-37.

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rei meglio, diversamente moderni: tanto più che da questo che ritengo un abbaglio di Soldati (non tra i più evidenti: si pensi a una corrosivo scritto del 1973 Contro Bergman) si evince, in realtà, una corrispondenza; Pasolini lo ricorda in alcune memorabili pagine di Confessioni tecniche: gli esiti stilistici da cinéma vérité – la macchina traballante e mobile, l’alternanza di focali lunghe e corte ecc. – sono intenzionali proprio perché contraddittori rispetto alla materia trattata. Se già in Accattone egli aveva ripreso la materia delle borgate, volgare, con uno «stile sacrale» – fissità e ricerca di effetti pittorici –, nell’affrontarne una già di per sé sacra evita gli effetti di ridondanza illustrativa20: non è un problema simile a quello che Soldati aveva sollevato nel saggio sui Cameramen della grande guerra, e proprio nel passaggio che s’è letto sopra? Una maniera, forse, di ricercare il vero, in entrambi i casi, da una prospettiva di taglio. Ma andiamo avanti: cosa non va nel film di Bertolucci, che pure ha una trama «coerente, personaggi azzeccati, ambientazione esatta, squarci lirici»? Ciò che non funziona è «il dialogo. Dal principio alla fine, il dialogo è sbagliato: più che sbagliato, è inerte, superfluo, ridicolo»21. Bertolucci, che arriva al cinema attraverso Pasolini, è però, per Soldati, consentaneo ad Antonioni, come dimostra uno stralcio da La pietà di Michelangelo, piccolo gioiello letterario e d’intelligenza, una recensione in forma di dialogo (ancora con Bassani) pubblicata il 7 marzo 1965. È Soldati, l’io che parla: «L’elemento, nei film di Antonioni, che più mi offende [è] il dialogo, che resta inerte, imbecille, casuale, rozzamente trasferito dalla vita». Eppure, tale inerzia è uno dei punti di forza di Antonioni; Soldati lo capisce ma non può ammetterlo: il suo “io” così lucido non può accettare un tale livello di opacità; per questo motivo il giudizio analitico e di valore è 20.  P.P. Pasolini, Confessioni tecniche, in Id., Uccellacci e uccellini. Un film di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano 1966, pp. 44-56. 21.  M. Soldati, Da spettatore, cit., p. 131.

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affidato, indirettamente, a Bassani. L’inerzia, poco importa se in questo caso drammaturgica, è una componente essenziale dell’immagine cinematografica, diciamo così, non ricomposta nel montaggio. Sta all’autore farne buon uso, come nel caso di Antonioni. Lo affermava Giacomo Debenedetti, tempestivamente, nel 1931, in una memorabile conferenza, sintetizzata da Guido Aristarco nella sua Storia delle teoriche del film e ripresa, molto tempo dopo, nelle smaglianti pagine cinematografiche del saggio sul Personaggio-uomo (1965)22. Sono ancora molte le strade che si dipartono dall’attività critico-­ cinematografica di Soldati. Ma, in base a quanto ho cercato di mostrare – e stante il fatto che un breve ma esaustivo profilo, in tal senso, l’ha tracciato Emiliano Morreale23 –, mi pare opportuno fermarmi a questa posizione su Antonioni. Se, per quanto riguarda Fellini, l’invidia è il sintomo d’una avvertita fratellanza, Antonioni resta comunque agli antipodi: nel suo essere un cineasta puro, nel fare direttamente con l’immagine – restituendo forza al brandello inerte – ciò che il letterato fa col pensiero, scrivendo. Antonioni, insomma, ricompone l’opera d’arte senza passare per un’elaborazione letteraria, mentre Soldati fa di tutto per ricondurre a tappe distinte e susseguenti le due istanze, restituendo a quella letteraria la priorità: o, perlomeno, restando tiepido rispetto a qualsiasi idea di specifico linguistico-filmico. Ha ragione Scarpa quando dice che la scrittura sul cinema separa Soldati dal cinema stesso, riconsegnandolo, in qualche modo, alla letteratura. Preso pienamente dalla sua attività letteraria e giornalistica (che è tutt’uno), per quanto riguarda l’im-

22.  Cfr. G. Aristarco, Storia delle teoriche del film, Einaudi, Torino 1963, pp. 271 e ss. 23.  E. Morreale, Le carriere di un libertino, Cineteca di Bologna-Le mani, Bologna-Genova 2006, pp. 423-426.

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magine in movimento trasferito alla televisione, ora il cinema è da Soldati guardato, pensato, scritto. E se lo era da sempre – si pensi alle 24 ore in uno studio cinematografico o ai passaggi cinematografici di America primo amore – il superamento è ora conclamato. Per finire, il bel passaggio finale di un’intervista del 1992 a Jean A. Gili si chiude con un’affermazione lapidaria: «Sì, il cinema è un sogno»24. Ecco: c’è un fondo di platonismo nel cinema: sogno di un sogno, o immagine d’una realtà che segue il ritmo d’una scrittura a monte. Soldati lo sa bene, guarda alla realtà, esterna o interiore, attraverso romanzi e racconti e lascia il sogno rappresentato, si dedica, per un po’ sistematicamente, a raccontare quello degli altri: dandosi, anche qui, a un’attività, anch’essa inevitabilmente platonica, come la critica cinematografica, che riconduce a traduzione letteraria la copia della realtà. Il Soldati critico si mette di taglio e allarga il raggio della sua prospettiva. Non mangerà il pesce col coltello, ma sa vedere lontano, nonostante il suo sguardo provenga dal passato. E, critico/ex regista, non ha problemi a parlare coi registi. Antepone sempre un “ma” rispetto all’effettiva realizzazione, al cinema, di un capolavoro: sarà l’antidoto filo-letterario. Ma proprio in una lettera aperta, tutt’affatto empatica, a Ermanno Olmi sull’Albero degli zoccoli raggiunge forse l’apice nel parlare dei film degli altri. E in un pezzo sull’ampex, col solito misterioso mélange di acume e senso comune, riesce a prevedere il futuro dell’immagine in movimento, ridotta all’astrazione dei minimi termini del fotogramma, magari semplicemente restituita alla sua inerzia di fondo.

24.  Ivi, p. 122.

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Cesare Cases scrittore satirico

Anche in questo senso la tecnica ha ucciso l’uomo, ammesso solo come variante fisiologica nelle orecchie a punta dei personaggi di Star Trek. C. Cases, Confessioni di un ottuagenario

Parlare della critica degli scrittori non è diverso dal parlare della scrittura dei critici: se è vero che, in entrambi i casi, il fine coincide col mezzo, ovvero una scrittura movimentata da tensione conoscitiva. Nel caso di Cesare Cases, una simile tensione emerge anche dalle venature satiriche della sua prosa, oggetto d’indagine delle pagine che seguono. Di Cases, del saggista prima ancora che del grande germanista, ha tracciato due righe d’abbozzo, molto efficaci, Alfonso Ber­ardinelli in uno scritto del 1996, poi raccolto nello studio sulla Forma del saggio. Il critico viene qui incluso nel novero dei «saggisti più consapevoli» del ’900, che son poi, non a caso, pure «teorici del genere letterario che praticano»1. Partiamo da queste poche parole, che permettono però di scorciare un ritratto anticipando e isolando in dettagli i caratteri della prosa critica, e dunque del profilo intellettuale, di Cases. Siamo di fronte a uno «[s]tudioso e seguace sia di Lukács sia di Karl Kraus», a un «polemista originale e brillante»2: a un seguace di Lukács, si potrebbe riformulare, corretto con Karl Kraus, dal quale è rinvigorita la vena satirica 1.  A. Berardinelli, La forma del saggio, Marsilio, Venezia 2008, p. 90, nota. 2.  Ibidem.

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della sua prosa. Ma c’è da dire qualcosa sulla tipologia peculiare di questo suo passo satirico. Se andiamo a leggere alcuni dei testi più interessanti di Cases, non casualmente noteremo che la satira diviene spesso vera e propria distopia. E d’altra parte è doveroso notare come il genere dell’utopia negativa, che è per propria natura rivolto a una deformazione allegorica – oltre che a una traduzione fisica in altri spazi e luoghi – della realtà del proprio tempo, possa tranquillamente imparentarsi con la satira: intesa sia come tono che come genere. Ma Cases è stato un classicista: nel senso d’una cultura, la sua, permeata dai classici; e in quello, ancora, d’una cultura fermamente decisa a resistere alle sirene delle avanguardie: in ciò lukácsiano sino all’ultimo. Ma anche qui il genio della satira gli si addice perfettamente: quella satira, ad esempio, declinabile sotto la forma del dialogo, con Orazio o Luciano di Samosata. Che non si corra il rischio, però, di vedere in lui un passatista, o di rovesciarne la posizione politica in quella di un conservatore. Tale posizione contraddittoria è messa in luce dallo stesso Cases in una lunga intervista di Luigi Forte, suo collega germanista all’Università di Torino, il quale lo incalza, ricordandogli che in lui «il passatista era non di rado eclissato dall’intellettuale ironico con un debole per la satira». «L’ironia – ribatte Cases – è sempre una forma di conservatorismo, un fatto che Adorno spiegò molto bene parlando di Karl Kraus»; poi, complice vuoi il fascismo, vuoi un dopoguerra in cui il posizionamento, nell’ambito del pensiero di sinistra, è tutt’altro che privo di implicazioni problematiche, sopraggiunge l’adesione al marxismo critico, grazie soprattutto alla lettura di Lukács, mediata dall’incontro con Lucien Goldmann, avvenuto in Svizzera, dove Cases s’era iscritto all’Università, lì rifugiato per sfuggire le persecuzioni razziali (giacché, com’è noto, proveniva da una famiglia della borghesia ebraica milanese). Ancora dall’intervista a Forte: «ero diventato rivoluzionario con una coda di classicismo. E lì mi fu molto utile Lukács: mi

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permise di conciliare l’aspirazione alla ribellione con un certo classicismo»3. Ecco, arriviamo a un primo nodo di ordine stilistico – quello che salda ironia e classicismo – che mi permetterà di analizzare la scrittura di questo saggista: schermo che spesso indirizza la scelta anche in campo lessicale. Da questo punto di vista la scrittura di Cases meriterebbe senz’altro un referto accurato. Illuminanti sono gli accenni di Mengaldo, il quale ad esempio, sul fondo di una serie di campioni testuali di sapore aforistico, ha individuato nettamente l’ombra dell’ironia4. È appunto in tal senso che Cases fa uso abbondante di arcaismi, spesso di diretta derivazione letteraria, da un «fornir l’opra» di memore discendenza leopardiana (e petrarchesca) al dantesco «fiero pasto»: nel primo caso per rafforzare l’invettiva, giocosa invero eppur serissima, contro Un filosofo in svendita (dal titolo di un dialoghetto il cui bersaglio polemico è Armando Plebe); nel secondo per dar smalto a un attacco mirato alla moda irrazionalistica capeggiata da Roberto Calasso5. Ma andiamo con ordine, per focalizzarci su un fatto di non secondaria importanza, ricostruibile, purtroppo solo parzialmente, grazie a una lettera datata 26 febbraio 1951 – Cases, che era nato nel ’20, era ancora pressoché sconosciuto alla società letteraria – e spedita da Italo Calvino, allora già redattore da Einaudi. Si tratta di una lettera esclusa dall’epistolario di Calvino pubblicato per i Meridiani, ma recuperata, all’Archivio Einau3.  L. Forte (a cura di), Intervista a Cesare Cases, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2006, pp. 3-4. 4.  Cfr. P.V. Mengaldo, Profili di critici del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 67. 5.  C. Cases, Il boom di Roscellino. Satire e polemiche, Einaudi, Torino 1990, p. 84 e p. 113. Altri riferimenti a questa raccolta fondamentale, al centro del mio scritto, saranno dati, oltre che in nota, nel testo tra parentesi, senza altra indicazione che il numero di pagina.

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di, da Michele Sisto, che la ripropone nel saggio introduttivo a un volume nel quale son raccolti i pareri di lettura che Cases consegnerà allo stesso editore per cui lavorava l’autore di Mar­ covaldo, nell’arco d’una quarantennale collaborazione. In questa lettera Calvino risponde all’invio da parte del giovane Cases di un «romanzo satirico sul mondo culturale» intitolato Cronica del finimondo6: testo che però è andato perduto. Le parole di Calvino sono lusinghiere, di auspicio per la pubblicazione di quel romanzo; cosa che presso Einaudi, per alcuni vizi persistenti del manoscritto, forse qualche barlume di schematismo o di acerbezza, non può avvenire: lo spirito del libro è un po’ tutto nella trovata o nel complesso delle trovate iniziali e sulla pagina, per la lettura distesa, resta solo l’applicazione abile e diligente di quella trovata. Per reggersi come lettura il libro avrebbe dovuto svolgere tutta una più particolareggiata descrittiva di quell’ipotetica società, in un fuoco di fila di fantasia, dove anziché un ritorno tout-court a un modello medievale, con solo ogni tanto qualche richiamo alla nostra realtà d’oggi, ci fosse più posto per un gioco più fitto tra l’oggi e quell’ieri-domani.7

Poco oltre, un’affermazione di Calvino dà ancora da pensare: «Certo, abbiamo riflettuto un po’ prima di dare un parere negativo, perché ci rincresceva. Ma d’altronde, dove pubblicarlo? Nei saggi? È un rischio, anche editoriale, troppo grosso»8. Concentriamoci su due dati: il primo, appena emerso, è quella che pare essere la natura spuria dello scritto di Cases: un libro che non si sa in quale collana pubblicare, evidentemente per la sua difficoltà di rubricazione in un genere definito. Un 6.  M. Sisto, «Spianare le strade al futuro», in C. Cases, Scegliendo e scartando. Pareri di lettura, a cura di M. Sisto, Aragno, Torino 2013, pp. xxiii-lxxiii: p. xxvii. 7.  Ibidem. 8.  Ibidem.

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libro, ancora, che ha senz’altro del saggistico, forma evidentemente da subito congeniale all’autore. Il secondo dato, il genere di fondo di questa prosa di finzione, stando a ciò che si intuisce, pochissimo in verità, della trama: una situazione – Sisto sostiene di «satira culturale» – ambientata in una «ipotetica società», un ritorno a un «modello medievale», una dialettica «ieri-domani» con rimandi, non sufficienti per Calvino, all’oggi. Insomma, ce n’è abbastanza per ipotizzare che si trattasse d’una satira declinata in senso distopico. Si tratta di un’ipotesi che, dal poco che abbiamo, potrebbe forse apparire azzardata. Non lo è per nulla, invece, se andiamo a ragionare su alcuni testi del Cases, già noto saggista, d’una decina di anni più tardi: scegliendo proprio quelli che portano con sé un maggiore indice di finzione. Nella gran mole della sua produzione – lui che è sempre stato portato più alla forma del saggio breve, direi alla saggistica pura, che a quella del trattato sistematico, pure percorsa9 –, la mia scelta verso testi di tal guisa è orientata dall’intentio auctoris. Saggista perfettamente a suo agio sulla forma breve, s’è detto: ma altrettanto abile a dar vita, tramite l’avvicinamento di questi testi, a volumi di sorprendente unità tematica e metodologica come Patrie lettere (1974 e 1987), Il testimone secondario (1985) o Il boom di Roscellino. Libro, quest’ultimo, del 1990, significativamente messo insieme all’alba di quel decennio in cui tutto, nel mondo culturale e oltre, cambia. E proprio sul Boom, che ha per sottotitolo l’eloquente formula Satire e polemiche, vado a concentrare la scelta, qui ritrovando quasi per intero quella tipologia di prose di cui ho detto, traducibile in una formula chiastica del genere: saggi

9. Un’accuratissima Bibliografia degli scritti di Cesare Cases 1947-2009, consistente in 751 voci tra cui una quindicina di volumi e decine di traduzioni e curatele, si trova, ancora a cura di M. Sisto, in A. Chiarloni - L. Forte U. Isselstein (a cura di), Per Cesare Cases, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2010, pp. 119-221.

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satirici/satiriche distopie, laddove una situazione o una figura contemporanea son strettamente legate – dopo esser state opportunamente deformate – a un ipotetico futuro-passato di negazione dell’utopia. Come si vedrà, questa lente deformante che Cases applica alle sue satire – risolte, come sono, in una veste straniante –, non giunge a un rovesciamento vero e proprio ma trova comunque qualcosa in comune con l’idea di letteratura (e realtà) carnevalizzata di Bachtin. E non è forse casuale che a fondamento della sua notissima categoria il saggista russo ponga proprio il genere satirico, se così si può dire, alle sue origini: la menippea10. «Racconto fantascientifico, ma non troppo»: si tratta di un altro sottotitolo, sempre apposto a Il boom di Roscellino, questa volta però inteso come lo scritto che dà il nome all’intera raccolta, originariamente uscito nel gennaio 1963 nella sezione “noterelle e schermaglie” del numero 1 (anno XVIII) di «Belfagor»: rivista notoriamente avvezza alla polemica salace. In questo testo Cases tesse una sapidissima satira del mondo editoriale attraverso una sorta di parallelo, senza manie di costruzioni simmetriche eppure sapientemente strutturato, tra un editore e un pubblicitario: entrambi, in qualche modo, dipendenti dalla figura di un celebre critico letterario, noto al lettore come Abrasati – in questa invenzione onomastica presente una fusione, divertita e un poco maliziosa, di Arbasino e Citati. L’ultima moda lanciata da costui o, meglio, l’indicazione che egli dà alla moda – sulla scorta d’un rinato interesse per la filosofia medievale e in barba alla sciocca e boriosa cultura italiana che «ha sempre accuratamente ignorato queste opere fanciullesche e pugnaci che sembrano scritte ora» – è la riscoperta di Roscellino:

10.  Cfr. M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 2002 (19681), pp. 140 e ss.

101 Ci sembra di averlo davanti a noi, questo francese duro e volubile, arcigno e ridanciano, pronto alle più colossali orge rabelaisiane e agli estremi eccessi della mortificazione ascetica. La sua opera è una scoppiettante girandola di fuochi d’artificio che fanno strazio della realtà e la riconvertono in una miriade di nomi […]. Questa furia annientatrice, terribile e sorridente, bisogna aspettare Gadda e Joyce per ritrovarla allo stesso grado di parossismo. Basta sfogliare le pagine squisite della sua lettera ad Abelardo… (p. 71).

Parole convincenti, nutrite di ars retorica, tutt’altro che avare di aggettivi: sono quelle scritte da Abrasati e citate dal narratore sull’incipit del racconto; il critico spinge i lettori a scovare in biblioteche ammuffite le pagine di Roscellino di Compiègne e gli editori, soprattutto, ad assoldare filologi che le possano riproporre in finissime edizioni critiche. Peccato che di questo Gadda d’inizio millennio, lo scorso, ci sia giunta soltanto quella succitata lettera, certo opportunamente menzionata, all’allievo Abelardo. Di ciò, peraltro, poco importa a un secondo personaggio, che il narratore designa, genericamente, come «l’editore», il quale, dopo aver letto, «depose il giornale, si asciugò il sudore della fronte e sospirò. Il giovane critico Abrasati era certo molto bravo e gli editori facevano a gara per seguirne le indicazioni, ma bisognava dire che le sue scoperte li sottoponevano a una doccia scozzese alquanto faticosa» (ibidem). Non era poi passato molto tempo da quando egli, tuonando contro i moderni in una bellicosissima riscoperta degli antichi, aveva parlato di Nonno di Panopoli in tali termini: questo grandioso pittore del demoniaco, più crudele di Bosch, più ingenuo del doganiere Rousseau, quasi un Landolfi dell’età ellenistica che resta a noi così vicina nel suo miscuglio di docile sensualità e di misticismo frenetico, mentre i barbassori della nostra cultura vengono a proporci di continuare a dormire su libri come La noia o Il giardino dei Finzi-Contini che sono più lontani da noi della stella Sirio… (pp. 71-72).

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E poi, a ruota, di settimana in settimana, «erano venuti Manilio, Pompeo Trogo, il Beowulf, Nivelle de la Chaussée, Ulpiano e Papiniano» (p. 72). Ma ecco che a completare il quadro interviene l’altro personaggio chiave, dal nome, che è tutto un programma, di Miracolato De Alienatis, direttore dell’Ufficio Pubblicità d’una famosa marca di dentifricio e, ciò che conta, tifoso sfegatato di Abrasati, del quale non perde un articolo e al cui ingegno delega ogni scelta in campo culturale. Ora la sua ditta è in crisi a causa della mirabolante offerta d’una concorrente, che «estraeva a sorte ogni settimana, davanti al notaio, il nome di un fortunato che avrebbe fatto gratuitamente un viaggio in aereo alle Hawaii per constatare che l’Atomodont produceva artificialmente sui denti europei gli stessi effetti che la clemenza della natura elargiva senza sforzi alle bellezze hawaiane» (p. 74). Immerso nelle preoccupazioni, al pubblicitario – che, se ci pensiamo (anche con Orwell, o con Bianciardi), è la perfetta sintesi, in senso negativo, dell’homo industrialis e dell’homo intellectualis – non resta che vagheggiare l’uscita di Roscellino. Che puntualmente arriva, ma solo dopo alcuni mesi. Si sa che la filologia ha i suoi tempi. De Alienatis, giustamente, compra tutto: al design del suo ufficio non può mancare il Roscellino, né la Patrologia. E però, giusto al momento di «accingersi a questa corroborante lettura», si trova a leggere un nuovo articolo di Abrasati, che ha appena scoperto i «diciassettemila versi che si leggono in un fiato e che costituiscono un unico, immenso, canular, una beffa ai danni della storia» (p. 75). Si tratta della Kaiserchronik di anonimo tedesco della metà del XII secolo, al confronto della quale scrittori come Roscellino non son null’altro che «aridi filosofi, rispettabili finché si vuole […] su cui al di là delle Alpi si è cessato di sbadigliare un secolo fa» (p. 76). Poco male che adesso il povero De Alienatis si trovi con in mano una novità assoluta dell’industria editoriale che, alla prova del grande critico, è già vecchia: Abrasati ha sempre ragione, è sempre in anticipo sulle tendenze. D’altronde è lui che gli ha insegnato che

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l’antico è sempre meglio del moderno, con un abbacinante suggerimento indiretto: «Valorizzare il presente col passato… De Alienatis aveva promesso ad ogni consumatore di Leucodontal che raccogliesse cinquanta etichette di regalargli un fiasco di vino purissimo, marca Merum, e aveva lanciato lo slogan: “col dentifricio dell’era atomica, il vino dei nostri nonni”» (ibidem). Di una cosa, il narratore – continuo a dire il narratore: Cases arriva dopo – è certo, almeno sino a che la sua lente è focalizzata sul pubblicitario. Il mercato è una scienza, una scienza esatta: e lì la «ragione pianificatrice» è destinata ad avere «la meglio sulle tendenze anarchiche» (ibidem). Ma allora perché, spostandoci sull’altra scienza, quella letteraria, l’ultimo ritrovato, la vera téchne – oggi la Kaiserchronik – non è ancora disponibile all’acquisto? Forse perché «c’era qualcosa che non andava proprio nella cultura stessa, un potenziale di disorganizzazione e di anarchia di cui De Alienatis intuiva per la prima volta l’oscura, irriducibile presenza […]. Quel ramo della produzione non poteva più tenere il passo con la vita moderna» (p. 77). Era, questo, un «racconto fantascientifico: ma non troppo». Una distopia già in parte realizzata (l’autore allude al proprio presente), sì: ma destinata a un’ancor più amara realizzazione, senza neanche quel balsamo del lazzo satirico. Cases ci aveva visto bene: e se anche oggi siamo abituati a certa critica esclamativa e sempre pronta a fiutare, nell’aroma della carta stampata di fresco, il capolavoro mensile se non settimanale, nella più ottimistica delle ipotesi; se pure, come d’altronde ovunque in occidente, non abbiam potuto far altro che constatare la suprema affermazione dell’ideologia di mercato come pensiero unico e dei tycoon della tecnologia come eroi intellettuali del nostro tempo: ecco, nonostante tutto, non abbiamo saputo trovare un antidoto contro la tecnica – o, meglio, la tecnicizzazione –, vero bersaglio della satira del Boom. Basti pensare alle pratiche pedagogiche, a cosa sono diventate. A come, negli ultimi tre o quattro lustri, s’è svenduta, par-

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cellizzata in crediti e gettoni, l’istruzione universitaria; per non parlare dell’istituzione scolastica: ieri come oggi, che abbiamo una buona scuola, così nell’originale titolazione d’una riforma ministeriale, che esorta a seppellire ogni residuo di fascino del sapere sotto montagne di formule fatue, laddove al contrario, la scorpacciata di razionalizzazione mostra le ferite purulente della ragione. Tutto questo sulla scorta, pare, della più moderna scienza pedagogica. Non sto divagando: si tratta di argomenti che hanno interessato, e non poco, Cases. Il problema è piuttosto prendere atto di quanto la sua e altre voci siano state ascoltate. Ma, ripeto, lo hanno interessato eccome: tanto da dispiegare in essi la miglior parte del suo talento di saggista satirico, ad esempio nel prendere parte a una polemica epocale – nata in seno alla rivista «Quaderni piacentini» nel 1978 – che, partendo dai metodi di analisi del testo, investiva pienamente i luoghi in cui tali metodi si apprendono (scuola e università). Partiamo dallo scritto che, a tal proposito, risulta fondamentale, oltre che ricchissimo di spunti e divertente, come spesso accade in virtù di un’ironia tagliente: Il poeta e la figlia del macellaio (pp. 195-216)11. La genesi dello scritto muove da un paradosso che ha del comico, e la si ritrova nel numero precedente dei «Quaderni piacentini». Ci riferiamo a uno scritto di H.M. Enzensberger che, sull’incipit, entra subito nel vivo: Sono passato poco fa […] nella macelleria qui all’angolo per comprare una bistecca. Il negozio è strapieno di gente, ma la moglie del macellaio, appena mi vede […] mi lancia uno sguar-

11.  E originariamente proprio nel n. 69 dei «Quaderni». Altrove sono partito da questo saggio anche per alcune osservazioni (da cui riprendo qui qualche passaggio funzionale al mio discorso odierno) sulla critica, metodologicamente antitetica, dello stesso Cases e di Cesare Segre, cfr. A. Cadoni, Ideologia, me­ todo, stile. Cases e Segre in S. Lutzoni (a cura di), La critica come critica della vita. La letteratura e il resto, Donzelli, Roma 2015, pp. 69-78.

105 do per così dire di fuoco […]. Senza averne avuto il minimo sospetto, io sono entrato nella vita della figlia del macellaio che si sta preparando all’esame di maturità. L’insegnante di tedesco le ha messo davanti una poesia che avevo scritto molti anni fa con l’invito a mettere nero su bianco qualcosa in proposito. Risultato: un bel quattro, pianti e scenate a casa del mio macellaio, […] sguardi accusatori […] e, per concludere, una bistecca più dura del solito nel mio piatto.12

Per il poeta tedesco questo sapido aneddoto non è che lo spunto per una polemica contro il dilagare delle scienze esatte in letteratura e il loro uso oppressivo nella scuola, dove si pratica quell’arte, l’interpretazione, che «permette di ricavare da ogni poesia una specie di manganello»13: polemica subito rintuzzata, nelle pagine che seguono, da Alfonso Berardinelli, pure traduttore del saggio di Enzensberger, secondo il quale lezioni e seminari universitari «funzionano per lo più come sale chirurgiche in cui il corpo della lettura viene amputato dei suoi membri incontrollabili»14. Nel numero successivo è la volta di Cases, ora pronto a spingere ai limiti dello sberleffo il suo acume metaforico; e c’è da notare che il suo stile dialoga finemente con quello di Enzensberger, proprio sul filo, se così si può dire, di un’ironia talora tagliente, talaltra sottile. E anche sulle forme della scrittura, in tempi diversi, i due hanno saputo confrontarsi; basti pensare a un testo di Cases del quale, in questa sede, avrei potuto dire di più, poiché decisamente in tema: alludo al già citato Un filosofo in svendita. Dialoghetto su Armando Plebe (1972), in cui si affronta senza mandarla a dire un trasformista,

12.  H. M. Enzensberger, Una modesta proposta per difendere i giovani dalle opere di poesia, in «Quaderni piacentini», n. 67-68, giugno 1978, pp. 135142: p. 135. 13.  Ivi, p. 137. 14.  A. Berardinelli, Chirurgia estetica, in «Quaderni piacentini», n. 67-68, giugno 1978, pp. 143-148: p. 144.

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diciamo così, della filosofia accademica, attraverso quella forma del dialogo letterario alla quale sopra accennavo: forma nella quale il passo argomentativo, così come vuole la regola classica del genere, si sposa al respiro corrosivo della satira, tutt’affatto krausiana; e alludo anche a un saggio-dialogo di Enzensberger, un testo dal retrogusto metalinguistico su Jaques le fataliste et son maître di Diderot15. Ma torniamo al poeta e alla figlia del macellaio. L’idolo polemico contro cui Cases si rivolge è, adornianamente, proprio la tecnica che, se applicata in modo pervasivo al discorso letterario, dà luogo a una vera e propria logotecnocrazia. È proprio questo termine che salta ora agli occhi: sia per il carico inventivo dello scrittore, giacché si tratta d’un neologismo a dir poco icastico; sia perché, pur trovandosi nel testo con meno indice di finzione tra quelli che qui analizzo, tale termine rimanda di per sé a una distopia fatta e finita, ridotta ai minimi termini. I logotecnocrati agitano il metodo come un’arma, una sorta di affettatrice pronta a martoriare i prosciutti testuali (p. 215). E chi da essi è oppresso si trova indotto a «cercare la salvezza nell’applicazione meccanica di un metodo» (p. 209). Ma «non c’è metodo che precostituisca l’esperienza anziché essere plasmato da essa» (p. 216). Tutto ciò in spregio al lettore comune, il «lettore in carne e ossa», se vogliamo16. In questa tipologia di lettori si colloca la figlia del macellaio, a favore della quale Cases si schiera apertamente: vittima dell’autoritarismo tecnico, alienata da una lettura che non le appartiene in alcuna misura, espressione, com’è, di una massa subalterna.

15.  H. M. Enzensberger, Cinque conversazioni su «Jaques il fatalista e il suo padrone», in F. Moretti - P.V. Mengaldo - E. Franco (a cura di), Il romanzo. Lezioni, Einaudi, Torino 2003, vol. V, pp. 139-151. 16.  Un tipo di lettore che è convocato a più riprese in M. Onofri, La ragione in contumacia, Donzelli, Roma 2007.

107 L’obiettivo finale di queste tendenze è sempre lo stesso: la distruzione e l’espropriazione dell’esperienza, la sua tecnicizzazione e monopolizzazione da parte di un’élite onnisciente che regna su una massa di iloti […]. Che, a differenza di altri tecnocrati, quelli della parola non perseguano coscientemente tale obiettivo e anzi teorizzino una loro funzione illuministica, non cambia nulla alla sostanza delle cose: la prassi smentisce questa funzione e basta avere a che fare con qualche presuntuosissimo giovane semiologo per capire che, se illuminismo c’è, è quello che, riscontrando negli uomini scarsa virtù, si affretta a proclamare il terrore (p. 205).

Se l’ilota è destinato a soccombere a tale alienazione, o se anche vi si sottrae in virtù di quella “lettura anarchica” difesa, nella Modesta proposta, da Enzensberger, la scuola e l’università hanno già pronto un esercito di riserva: sciami di studenti pronti a farsi riempire di letture a direzione interpretativa forzata; plotoni di docenti pronti ad applicare la loro scienza al testo. Certo, se oggi pensiamo al crollo dello spazio del letterario all’interno dell’immaginario collettivo, potremmo anche avere nostalgia di quelle interpretazioni autoritarie, nutrite però, e perlomeno, di letture piuttosto corpose. Ma sarebbe come nascondere la testa sotto la sabbia per non incrociare il problema. La tecnicizzazione di ieri nel leggere la poesia, oggi per fortuna dimenticata (anche grazie a un engagement polemico-satirico come quello di cui sto parlando), equivale, forse, alla burocratizzazione disanimante, all’annichilimento dello spirito di oggi. Lo leggiamo tra le righe di un Cases: e così, sia ieri che oggi, l’involucro illuministico si rompe diffondendo una sostanza autoritaria che rende i logotecnocrati funzionari, magari inconsapevoli, del monopolio capitalistico17. 17.  Cfr. G. Fichera - L. Giustolisi (a cura di), Repertorio bibliografico ragio­ nato. La teoria letteraria marxista e materialista (1970-2006), in «Moderna. Semestrale di teoria e critica della letteratura», X, n. 1, 2008, pp. 141-189: p. 149.

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La scuola, s’è detto: un luogo fondamentale per un professore e saggista come Cases, che tra le diverse sue inclinazioni vede preponderare quella pedagogica. È qui che questo discorso dev’essere recepito; perciò –in tono faceto sì, ma serissimo – il saggio si chiude con alcuni «consigli a un giovane docente» (pp. 209-216). C’è un altro racconto satirico che non può restare fuori da questo breve itinerario nella scrittura di Cases, forse perché è il più convincente nella costruzione d’uno spazio dichiaratamente distopico. Si intitola Due gatti accademici ed è stato pubblicato per la prima volta nel 1977, ancora sui «Quaderni piacentini» (una nota avverte, però, che la prima parte del racconto è stata concepita nel 1964). Si tratta, in effetti, d’un testo che unisce in sé due racconti diversi che hanno lo stesso tema, ovvero – si torna sempre lì – l’alienazione, la soccombenza di fronte alla tecnica: questa volta nell’ambiente universitario. In sintesi, i fatti. Nel primo racconto (intitolato Un gatto in cattedra) siamo nel 2020; le facoltà umanistiche sono accorpate, ridotte a un’unica «Facoltà di Scienze Umane e sociali che comprendeva solo quattro materie obbligatorie: fumettologia, pubblicità, cosmetica e scienza del petting. Ora avvenne che un ordinario di fumettologia di un’università di provincia, noto per ripetere da quarant’anni lo stesso corso su “Umberto Eco e le origini della fumettologia scientifica”, andò in pensione» (p. 177). Per farla breve: il decano, giacché egli stesso ha facoltà di proporre il proprio successore, presenta il suo candidato, un comunissimo esemplare di gatto soriano; ma la cosa che diverte e ugualmente stranisce il lettore è che nessuno – dato che il felino ha cofirmato molte insigni pubblicazioni – ci trova nulla da ridire. Nel secondo racconto (intitolato Un gatto in cattedra, ma quale?) la distopia, satiricamente, è ancor più patente. Siamo sempre nell’«anno di grazia 2020», cui segue una filza di dettagli da racconto fantascientifico. C’è un edifi-

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cio che ha «tutto l’aspetto di un fortilizio; munito agli angoli di quattro torri di guardia, circondato da un profondo fossato e da una settemplice rete di filo spinato ad alta tensione», che corrisponde, nientemeno, che al «palazzo dei dipartimenti umanistici dell’università»; ci sono alle spalle anni terribili di «guerre civili tra le varie fasce di docenti universitari; in esse i cosiddetti precari erano stati pressoché distrutti» (p. 182). Ma, soprattutto, c’è Acadèmo, il portentoso cervello elettronico capace di assimilare all’istante tomi teorici e letteratura primaria, riplasmandoli subito dopo in volumi già belli e stampati: una macchina spaventosa messa a disposizione della comunità scientifica dal dipartimento centrale del Ministero. Chi la userà avrà un riscontro oggettivo, di quelli che oggi chiameremmo criteri bibliometrici; più alto il numero di metodi differenti dato in pasto alla macchina, maggiore sarà la valutazione: ma c’è la fregatura. Usarla costa: ma che c’è poi di male se «la carriera [universitaria] era stata affidata a un criterio […] sicuro e obbiettivo [come…] il censo»? Così, un vecchio docente di bassa fascia, autore di buoni saggi e di qualche onesta edizione critica ma che non era mai riuscito a far carriera perché incapace di adattarsi all’era metodologica, dopo la riforma vendette tutti i suoi vasti possedimenti e con il cospicuo ricavato poté incaricare Acadèmo di eseguirgli una ricerca usando tutti i trentasette metodi contemplati nell’ultima edizione del volume I metodi attuali della critica letteraria in Italia, dal sociologico allo psicanalitico al semiologico, senza dimenticare l’algoritmico, il micrometrico e l’idropneumatico. Sia pure cigolando e surriscaldandosi, Acadèmo obbedì e il committente si ritrovò issofatto nella categoria A/I. Ma morì dalla gioia, e il figlio non poté ereditare il posto (p. 185).18

18.  C’è spesso come un moto autoironico nel sorriso seminascosto di Cases. Non sarà inutile rammentare che al volume qui citato, e curato nel 1970 da Segre e Corti, contribuì anche lui col saggio La critica sociologica, poi incluso in C. Cases, Il testimone secondario, Einaudi, Torino 1985, pp. 300-312. Su

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Cosa accade? Che naturalmente, al posto lasciato vacante, il decano della facoltà, Amfortas è il suo nome, propone un gatto. Questo personaggio di cervello elettronico, Acadèmo, quasi uno stereotipo fantascientifico, assolve di nuovo a una sua funzione di negazione dell’utopia e, allo stesso tempo, di affermazione satirica di uno stato criticabile delle cose. Ma la sua funzione è duplice e travalica il proprio tempo: cosa che, leggendo Cases, accade spesso. In primo luogo, Acadèmo è la figura che rappresenta il carattere alienante della tecnica, sub specie del metodo; in secondo luogo, è figura – in senso negativo – di quella grande ipocrisia dell’oggettività che, in nome di una non meglio specificata meritocrazia, annienta lo spirito personale alla base di ogni saggismo, inventando di sana pianta meccanismi di valutazione di cui si millantano scientificità e infallibilità. Ecco: Amfortas potrebbe dire, parafrasando il celebre motto dei Viceré, che ora che l’università è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri. Per chiudere: invero ironico, dunque non troppo turbato, Cases esprime una sua preoccupazione, cioè che questa seconda parte del racconto possa «essere accusata di nostalgie reazionarie» (p. 177, nota). Ecco, alla luce di questa seconda, possibile, funzione satirica del racconto, tale preoccupazione non ha oggi alcuna ragione di essere.

questo taglio di autoironia – come, del resto, su ogni aspetto dell’autore del Testimone secondario – si può rinviare al bellissimo epistolario con Sebastiano Timpanaro, dove la densità dello scambio politico e intellettuale è di regola condita da finissime arguzie. Basti pensare, nel nostro caso, a una lettera (spedita da Lipsia il 4 aprile 1957) in cui Cases sfoggia un divertito maccheronico, forse, come nota il curatore Luca Baranelli, «per eludere il controllo censorio dei burocrati della DDR», forse per far sorridere di sé, «latinista improvvisato», il «latinista di professione»; cfr. C. Cases - S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990, a cura di L. Baranelli, Edizioni della Normale, Pisa 2015 (20041), p. VII.

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Una postilla sul rapporto tra Cases e Fortini19: sempre uniti, sempre divisi, come sovente accade con simili personalità, dotati entrambi di ironia acuminata: tendente però alla satira, nella sua declinazione apocalittica20, quella di Cases; al servizio di una costruzione figurale – è proverbiale la sua famigerata oscurità – quella di Fortini. Nel saggio Astuti come colombe (1962), dove il tema di fondo (letteratura e industria, per dirla alla grossa) non è poi distante da quello qui affrontato, Fortini scrive, tra le altre cose: «Lo scrittore di cui dico, proprio perché sa cosa l’industria sia, sa che parlarne è come parlare del proprio io più profondo e che dunque solo una lunga catena di metafore può rischiarare quel discorso»21; e poco più avanti, dopo aver invocato, non senza una certa autoironia, un nuovo straniamento, di marca brechtiana ma da esso diverso: «Vorrei che a leggere una mia poesia sulle rose si ritraesse la mano come al viscido di un rettile»; e per chiudere: «Allora in quello che scrivo, o che altri scriverà, ci potrà essere, come la lima fine d’acciaio nascosta nella pagnotta dell’ergastolano, una parte metallica»22. Ecco, astuto come colomba, candido come volpe, la filza satirica della prosa di Cases è più vicina di quanto si possa immaginare a quella «lunga catena di metafore» evocata da Fortini.

19.  Su cui cfr. anche C. Cases, Confessioni di un ottuagenario, 2a ed. accresciuta, Donzelli, Roma 2003, pp. 73-74. 20.  Cfr. ivi, p. 166, dove Cases afferma di aver trovato in Kraus il suo ideale di uomo, satirisch bis apokalyptisch. 21.  F. Fortini, Astuti come colombe, in Id., Verifica dei poteri, Einaudi, Torino 1989, pp. 34-53: p. 50. 22.  Ivi, pp. 52-53.

Intermezzo

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L’eredità di Auerbach, il lapsus di Montaigne

L’eredità di Auerbach (2011) La vitale attualità della lezione di Erich Auerbach (A., d’ora in poi) è recentemente testimoniata, in Italia, da diverse occasioni editoriali e scientifiche. Nel 2007 «Allegoria» (n. 56) ha dedicato all’autore di Mimesis un dossier; un’altra rivista di forte vocazione teorica come «Moderna», nel 2010, gli ha consacrato un fascicolo monografico; ancora nel 2007, a Siena e alla Scuola Normale di Pisa sono stati organizzati due convegni e, sempre in questo stesso anno, l’eredità culturale di A. è stata al centro del Convegno Interuniversitario di Bressanone, i cui atti sono raccolti nel volume dei Quaderni del Circolo Filologico Linguistico Padovano intitolato L’eredità di Auer­ bach, curato da Ivano Paccagnella e Elisa Gregori e pubblicato dall’editore Esedra. I saggi di A., lo scrive Gianfelice Peron nell’introduzione, sono «ricchi sempre di grande umanità e tesi a dimostrazioni nelle quali la letteratura non si separa dalla vita, ma aiuta a comprenderla» (p. XVI). In tale affermazione è sintetizzata l’apertura teorica di A.: che tipo di volume, dunque, può essere introdotto da una simile premessa? Qual è la linea interpretativa che dell’autore vien qui tracciata? Non certo una linea retta, quanto

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piuttosto percorsa da diverse tangenti, numerose quante sono le direzioni di un saggismo aperto e, per certi versi, antispecialistico. Lo dimostra l’eterogeneità dei saggi qui raccolti, suddivisibili in ideali sezioni, queste, sì, legate a varianti specialistiche: abbiamo un nutrito gruppo di studi medievistici, alcuni focalizzati sul versante più propriamente romanistico dell’indagine critica di A., altri su quello mediolatino; sono poi raggruppati saggi sui suoi interessi secenteschi, specialmente all’interno di Mimesis, ma che pure contribuiscono in misura decisiva agli studi su A. filologo romanzo e insieme teorico della letteratura e della critica letteraria (Mancini: «La critica deve saper rinunciare al jargon, al linguaggio troppo specializzato, se vuole riuscire a parlare al pubblico delle persone vive», p. 351); in ordine più o meno sparso nel volume, poi, risaltano i contributi teorici sulla critica di A. e su A. teorico della letteratura, in particolare quelli di Rico e Bertoni. Secondo lo studioso catalano Mimesis resta, sì, un capolavoro, ma è allo stesso tempo un «libro incompiuto», che ha saputo tracciare vie che non ha però, in sé, sufficientemente percorso. Eppure, proprio per questo, è un saggio che parla più che mai all’oggi, lasciando intuire, in scorcio, sempre nuove prospettive, impermeabilizzato – si può dire – agli effetti deteriori del classico. Di notevole interesse è anche il saggio di Federico Bertoni (autore di Realismo e letteratura. Una storia possibile, uscito per Einaudi in quello stesso 2007), il quale, leggendo Mimesis, si pone una serie di domande che possono riflettere, piuttosto che una sola, una serie di risposte coincidenti all’ampio spettro teoretico di un concetto “onnicomprensivo” come quello di realismo. Non mancano poi, sempre sul versante teorico, interventi che rivendicano alla teoria della letteratura di A. uno spirito militante, d’altra parte già riconosciuto, nel 1956, da Aurelio Roncaglia nella sua introduzione alla traduzione italiana di Mimesis, che proprio quell’anno vedeva la luce (da segnalare, in questo senso, anche i saggi di Bosco e Castellana). Non mancano, d’altra

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parte, studi sull’influenza, così decisiva, del pensiero di Vico nell’opera di A. Ecco: quanto sinora detto, seppur sinteticamente, può dar conto della complessa eredità lasciata dall’autore degli Studi su Dante, testimoniata pure dalla sezione sulla letteratura italiana contemporanea, in particolare dalle rifrazioni auerbachiane nell’opera dell’autore più gettonato del convegno di Bressanone, Pasolini, al quale sono dedicati ben tre saggi. La non casualità di questa elezione è chiara: la polivocità dell’opera saggistica e artistica di Pasolini è il correlativo – e se vogliamo indiretta conseguenza – dell’apertura teorica di un’opera come Mimesis, lettura fondamentale nella formazione dell’autore di Ragazzi di vita. Uno degli strumenti critici più flagranti della stilistica auerbachiana è l’analisi dei campioni di testo attraverso la lente della separazione o della mescolanza degli stili (Stiltrennung e Stilmi­ schung). Queste categorie del testo rispondono a una delle idee direttive del metodo critico-analitico: è A. stesso a dichiararlo, nelle famose pagine conclusive di Mimesis, dove la «mescolanza degli stili» illumina tre momenti interdipendenti (e fondamentali per la storia letteraria occidentale): «la storia di Cristo, con la sua spregiudicata mescolanza di realtà quotidiana e d’altissima e sublime tragedia» (Mimesis. Il realismo nella lettera­ tura occidentale, Einaudi, Torino 1956, p. 340); la concezione figurale medievale, dove pure – nel contatto tra figura terrena e compimento ultraterreno – si mescolano il concreto-sensibile e il divino; «il realismo moderno, quale si formò in Francia al principio del secolo XIX», per cui Stendhal e Balzac fecero «oggetto di rappresentazione seria, problematica, o addirittura tragica, persone comuni della vita quotidiana» (ivi, p. 339). Se tali argomenti non sono alieni al saggio di Angelo Pagliardini sulle tipologie e le formule di preghiera nei Sonetti del Belli (che appunto si prestano, secondo l’autore, «a far da campione per studi sugli strumenti espressivi del realismo e sulla mescolanza

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degli stili», p. 399), essi diventano decisivi nell’opera di Pasolini, come per prima evidenzia Silvia De Laude, che compie una panoramica completa sui luoghi auerbachiani in Pasolini. Ecco: già dal primo sguardo ai passi di saggi pasoliniani citati dall’autrice, così come dalle acute osservazioni da essi suggerite, noteremo come l’attenzione ai tratti della mescolanza auerbachiana si traduca in attività critica e insieme poetica. La mescolanza è, per Pasolini, strumento di lettura del rapporto tra la realtà e la sua traduzione in termini linguistici: una correlazione che terrà ben presente anche al momento di impressionare la pellicola. Allo stesso modo, Corrado Bologna presta attenzione alle mescolanze stilistiche – “contaminazioni”, in termine pasoliniano –, curandosi però di metterle in dialogo con altre categorie auerbachiane come creaturalità e figuralità. La Mimesis, nota Bologna, è per Pasolini Divina proprio perché «umanissima» (p. 456; il riferimento è chiaramente a una delle opere più magmatiche, e auerbachiane, di Pasolini, La Divina Mimesis), in quanto rivolta, nell’intento di rappresentazione della realtà (“realtà rappresentata”), alla sfera della creatura, a tutto ciò che, dell’essere umano (ma anche animale), protesta il passaggio fisico sulla terra: il peso, i bisogni materiali, la fame e la sete, il respiro, l’affanno e, non ultima, la sofferenza: tutto ciò, insomma, che rende la vita un informe caos di violenza e te­ nerezza. Bologna dedica, in tutto il corso del suo saggio, una serie di preziose notazioni a questa endiadi (violenza/tenerezza), trovando palese riscontro in un punctum che corrisponde al cuore pulsante di un «auerbachismo trascendentale» (cioè precedente alla lettura di Mimesis, pp. 454 e ss.) individuato in Pasolini: la «replica speculare», ma rovesciata, di due episodi di Ragazzi di vita: alla fine del primo capitolo, il Riccetto si tuffa nel fiume, a rischio d’affogare, per salvare una rondine; lo stesso personaggio, nella chiusa del libro, non ripete l’impresa, lasciando andare a fondo l’amico Genesio, in un compimento prefigurato dal primo episodio.

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Il terzo saggio pasoliniano è scritto a quattro mani da Lisa Gasparotto e Anna Panicali (la parte di Anna Panicali – parr. 2 e 3 – riprende un altro scritto della stessa autrice, Pasolini e Auerbach, in La rappresentazione della realtà. Studi su Erich Auerbach, a cura di Riccardo Castellana, Artemide, Roma 2009, pp. 183-195; questo volume raccoglie gli atti del convengo senese citato inizialmente). Partendo dalle concezioni linguistiche e stilistiche pasoliniane affermate nei saggi degli anni ’50 raccolti in Passione e ideologia (spec. La confusione degli stili, 1957), le due autrici – presente il quadro sinottico delle diverse forme espressive praticate da Pasolini – individuano un allontanamento dal concetto di realismo, corrispondente a un’adesione più profonda alla realtà: quello della Divina Mimesis, strutturata su un disegno figurale auerbachiano, è, da questo punto di vista, l’esempio più limpido. Il saggio di Carlo Mathieu è invece dedicato a Fortini lettore di Mimesis, in riferimento alla nota recensione del 1956 scritta per la rivista «Ragionamenti» e poi raccolta in Verifica dei po­ teri. Qui Fortini, pur dichiarando ammirazione per il saggio di A., si sofferma principalmente sui paradossi in esso riscontrati: il fatto che sia sorretto da un a priori, consistente «in una visione storico-progressiva della realtà che comporterebbe in letteratura una visione sempre più approfondita attraverso tappe progressive e graduali» (pp. 511-512); il fatto, ancora, che questa visione appiattisca l’individualità dell’opera d’arte su uno sfondo unitario. È altrove, però, che Fortini affina la sua lettura auerbachiana, e precisamente in un corso di critica letteraria su Mimesis tenuto a Siena nel 1973-74, dai cui appunti Mathieu riporta un ampio stralcio. Fortini recupera qui il concetto di “figura” come categoria capace di far comprendere il mondo anche da un frammento, come “metonimia”, in qualche modo, dell’azione critica, che vede la letteratura come «metafora della vita» (p. 514, dallo stralcio di Fortini riportato da Mathieu. Sul medesimo argomento è da segnalare un altro saggio che offre

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una puntuale argomentazione a proposito di questi appunti di Fortini, Alessandra Reccia, Fortini e Auerbach. Tra simbolo e allegoria: la figura come metodo, in Castellana, Erich Auerbach cit., pp. 197-205).

Un’estate con Montaigne (2014, inedito) In un passo dei Saggi Montaigne parla d’un incontro con tre indios avvenuto a Rouen nel 1562, in presenza di Carlo IX, allora dodicenne. Ai tre viene chiesto che cosa ne pensano della Francia. La risposta è sconcertata, per tre volte: innanzitutto non si capacitano di come un manipolo di uomini aitanti e armati sino ai denti accetti ordini da un fanciullo (in riferimento, evidentemente, alla guardia del re); il secondo fatto per loro incomprensibile è la coesistenza di uomini pasciuti accanto ad altri emaciati: impossibile, a loro vedere, che i secondi tollerino una simile ingiustizia. Montaigne dice d’aver scordato, però, la terza. Di cosa poteva trattarsi? Antoine Compagnon, il grande teorico della letteratura, un’idea se l’è fatta e l’ha esposta, tra le altre cose, in Un’estate con Montaigne, volumetto pubblicato in Italia nei tipi di Adelphi, nella “Piccola Biblioteca”. Va subito detto che si tratta di pagine preziose, testimoni di come certa saggistica sappia coniugare il passo denso d’una prosa argomentativa e mai assertiva con i piaceri del testo e la qualità della divulgazione: già il gradimento dei lettori francesi ha dimostrato come anche la prosa non narrativa possa porsi, e assai felicemente, un problema terreno come quello della classifica. Ma cos’hanno a che vedere con Montaigne l’estate e le letture da ombrellone, cui il titolo pare alludere? Nel 2012 Compagnon ha tenuto una rubrica radiofonica quotidiana: grande radio, senz’altro, come peraltro da noi l’appuntamento giornaliero di «Wikiradio» sul terzo canale Rai. Nel giro di pochi minuti, il professore del Collège de France leggeva e

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commentava brevi brani stralciati, rapsodicamente, dalla mole proteiforme dei Saggi. Una sfida, Compagnon ne è consapevole, quella di sbambagiare la matassa di quest’opera immane, in virtù della comunicazione a un pubblico generalista e non specialistico, ma a rischio d’esser deriso dal mondo accademico. Rischio che però regge a un tale urto, sostenuto, com’è, dalla forma stessa dell’opera di Montaigne. Ma torniamo al problema iniziale: quale sarebbe la terza bizzarria che colpì gli indios? Compagnon se n’è persuaso: la presenza del corpo di Cristo nell’ostia. Quello religioso, con tutte le sue contraddizioni, è uno dei molti temi che innervano l’opera di Montaigne. Precursore del libertinismo e dello spirito del secolo dei lumi, Montaigne – che d’altra parte prodiga la propria vita pubblica nella mediazione politica tra cattolici e protestanti – è radicalmente scettico, pur definendosi, al fondo, religioso nonché credente. Ciononostante, dei misteri religiosi egli evidenzia la natura simbolica, allegorica, riducendoli a qualcosa di simile alle figure del discorso attraverso le quali la grande letteratura, diciamo così, si svela. Proprio su esempio di Montaigne, non farà una simile operazione Eric Auerbach in Mimesis, dove, non casualmente, un capitolo tra i più ispirati è dedicato proprio agli Essais e al loro autore? Oltre a quello religioso, son percorsi tutti gli altri grandi temi dei Saggi, dalla morte all’ozio, dalle letture ai medici e la medicina. Proprio a tal proposito, è interessante vedere come Compagnon sia lontanissimo da una possibile religione di Montaigne, sarebbe a dire da quella tendenza a prendere per oro ogni suo passo. Secondo il grande cinquecentesco, i medici sarebbero perlopiù ciarlatani e la medicina nient’altro che un’affezione addirittura peggiore dei mali dell’uomo. Ecco, qui Compagnon ci mostra Montaigne come un uomo del proprio tempo: conservatore, antimoderno nella condotta morale e politica quanto rivoluzionario – in questo modernissimo – nell’espressione d’una sensibilità individuale che, attraverso il medium della

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scrittura, anticipa di tre secoli Freud o la narrativa primonovecentesca: che non a caso – pensate a Proust o a Musil – innesta nel romanzo la forma del saggio. E su questo aspetto chiudo: uno degli interventi di Compagnon è legato a una metafora cara a Montaigne, la bilancia. Montaigne, in fondo, ha una sola religione: contraria alla certezza, prossima al dubbio, la ragione di Montaigne esamina e soppesa gli argomenti. Etimologicamente torna tutto: saggio – stabilito che di tale forma, fecondissima, Montaigne è, diciamo così, il profeta –, dal latino tardo exagium, peso, misura.

Parte II

La corda tesa Oltranze stilistiche e ricerca del senso

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Pasolini e Bach Una lunga fedeltà

Possiamo pensare il percorso del cinema pasoliniano alla pari d’una nuova “conversione alla rovescia” (l’altra quella di Giasone, nel film Medea), per cui dal sublime d’en bas di Accattone (anche qui una sorta di conversione, seppure inconsapevole) si arriva alla desacralizzazione dei corpi di Salò, dove s’invera, nella violenta e sadica mercificazione della carne umana, quella reificazione di cui, da Marx, parlavano Lukács e Debord1. Detta così, la filmografia di Pasolini pare compiere un percorso inverso a quello che Vittore Branca individua nel Decame­ ron, dove, nella distanza che va dal violento libertinaggio di Ser Ciappelletto alla santità tragica di Griselda, lo studioso riconosce brani di una visione del mondo, quella del Boccaccio,

1.  Vi fa accenno anche V. Cerami, La trascrizione dello sguardo, in CI I, pp. XXVII-XLVI: XLVI). Per quanto riguarda le citazioni dalle opere complete di Pasolini pubblicate nei Meridiani di Mondadori, si sceglie di adottare delle sigle, utilizzate anche nel corpo del testo: CI: Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Mondadori, Milano 2001, 2 voll.; SLA: Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, 2 voll.; RR: Romanzi e Racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1998, 2 voll.

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affacciata sul moderno sviluppo borghese ma ancora in bilico sul confine con la mistica medievale2. Nella prima fase del suo cinema, che egli stesso – per impronta gramsciana – aveva voluto definire “nazional-popolare”, Pasolini intraprende un epos degli umili e degli emarginati, incentrandosi su una rappresentazione, diciamo così, sacralizzante delle borgate sottoproletarie, grazie anche all’apporto della musica sublime di Bach. Questo periodo si apre con la Passione di Ac­ cattone e si chiude con quella del Vangelo secondo Matteo. Molti sono i temi e i motivi che legano le due opere e i loro protagonisti: non ultimo il comune utilizzo della musica bachiana, in particolar modo del Coro finale della Matthäus Passion. La musica è una componente tutt’altro che trascurabile nell’edificio poetico pasoliniano, già a iniziare da una veloce lettura delle sue sceneggiature, dove numerose indicazioni musicali (almeno in alcuni film) riempiono le didascalie: il film nasce, già in fase di scrittura, con un’idea musicale di fondo, spesso anche più precisa che nella realizzazione: basti pensare a quei casi in cui Pasolini pensa una sequenza accompagnata da un brano di cui poi non si trova traccia, come, ad esempio, un Adagio di Telemann che, nel Vangelo, non sentiremo mai (CI I, pp. 556-557). Alla musica da film, inoltre, Pasolini dedica un breve saggio ad alta densità teorica: una piccola dichiarazione di poetica, in guisa di vademecum della musica cinematografica3. Ma è principalmente dalla visione dei suoi film – dalla ricchezza di spunti musicali presenti – che ci si rende conto di quanta importanza Pasolini attribuisse alla scelta delle musiche. Attingendo in gran parte al repertorio preesistente, il poeta delle Ceneri fa riferimento a tradizioni diverse, senza 2.  Cfr. V. Branca, Boccaccio medievale, intr. di F. Cardini, Sansoni, Firenze 2010 (19561), pp. 40-41. 3.  Questo breve scritto (leggibile in CI II, pp. 2795-2796) fu redatto per la copertina di un LP di Ennio Morricone.

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pregiudizio estetico o culturale; si rivolge così ai cataloghi di musica popolare (anche extra-europea) come a quelli di musica colta, passando per la canzonetta e brevi incursioni nell’universo popular. All’interno di un simile quadro, la presenza di brani del repertorio bachiano è uno degli elementi peculiari (oltre che di rottura linguistica) della prima fase del cinema pasoliniano. Una tale scelta richiede, innanzitutto, un preciso affondo nell’in­ tentio auctoris: quella di Bach è la musica che Pasolini ha maggiormente amato, sin dai tempi della sua formazione giovanile.

La scoperta di Bach Dopo l’8 settembre 1943 Pasolini, da poco chiamato alle armi, giunge nella friulana Casarsa della Delizia, paese d’origine della madre, dove trova rifugio in seguito allo scampato pericolo di cattura da parte dell’esercito tedesco4. Da questo momento si stabilisce qui per diversi anni (fino al 1950) che risulteranno decisivi per la sua formazione. Ciò vale anche per la musica, se è vero si sviluppa allora il grande interesse di Pasolini per le forme e i modi della cultura popolare, accanto alla scoperta di Bach che, nel panorama della sua esperienza estetica, assume il carattere di una vera e propria folgorazione, che affianca quella figurativa per la quale Pasolini s’è sempre detto – lo affermerà nella dedica di Mamma Roma – debitore di Roberto Longhi. Si può attribuire il merito di tale scoperta a Pina Kalč, una violinista slovena, come lui rifugiata a Casarsa (e poi a Versuta, frazione del centro friulano) verso la fine della guerra. Di lei Pasolini parla in diversi scritti di quegli anni:

4.  Cfr. E. Siciliano, Vita di Pasolini, Mondadori, Milano 2005, pp. 70 e ss.

128 P. [Pina] con la sorella, il cognato e un nipotino, Gianni, era sfollata anch’essa a V. [Versuta]; sembrava una coincidenza cercata da ambedue e dalle nostre famiglie. […] Era P. soprattutto che mi offriva l’occasione di riscattarmi dalla mia < > o, per dirlo in termini più chiari, dalla mia bassezza: P. e il suo violino. […] Ma che Domeniche dolcissime passammo quell’inverno e quella primavera in grazia della poesia friulana e della musica di P.! Io e mio cugino N. [Nico] le ricordiamo come le più belle che abbiamo mai trascorso.5

I due diventano amici. Pasolini descrive enfaticamente l’attrazione emotiva per il violino di lei, e i loro incontri gli diventano indispensabili. Lo slancio verso la musica si impone, in quel momento, sul piano istintivo e sensuale. In un altro passo dei Quaderni Rossi, Pasolini presenta in questi termini Pina e la sua musica: Aveva trent’anni ma pareva una giovinetta. […]. La conobbi nel febbraio del ’43. Subito dopo mi divenne necessaria per il suo violino; mi suonò dapprima il moto perpetuo di Novacek [Janacek] che divenne quasi un motivo del nostro incontro, e si ripeté in molte occasioni. La ricordo perfettamente nell’atto di suonarlo, con la gonna blu e la camicetta chiara. Ma presto cominciò a farmi udire Bach: erano le sei sonate per violino solo, su cui emergevano, ad altezze disperate, la Ciaccona e il Preludio della III; il Siciliano della I.6

5.  RR I, pp. 150-151. È un brano tratto dai Quaderni Rossi, diari autografi tenuti dall’autore fra l’estate del 1946 e l’autunno del 1947 (cfr. note al testo, ivi, pp. 1655-1661), pubblicati a estratti scelti per la prima volta in N. Naldini, Pasolini. Una vita, Einaudi, Torino 1989, poi (parzialmente) in RR I (pp. 131157) come appendice ad Atti impuri (anche questo postumo, pubblicato da Garzanti nel 1982 insieme a un altro romanzo giovanile, Amado mio), dove, in prosa narrativa, sono raccontati alcuni degli stessi fatti. In entrambi gli scritti, a Pina (Dina in Atti impuri) viene dedicato ampio spazio. 6.  Sempre dai Quaderni rossi, citato da N. Naldini, Cronologia, in P.P. Pasolini, Lettere. 1940-1954, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1986, pp. XI-

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Si tratta, con esattezza, della serie delle Tre Sonate e Tre Parti­ te per violino solo (BWV 1001-1006), che il musicista tedesco compose negli anni in cui fu Kappelmaister a Köthen. Pasolini si riferisce, con qualche imprecisione, alla Siciliana della I So­ nata BWV 1001, alla Ciaccona della II Partita BWV 1005 e al Preludio della III Partita BWV 1006. Queste opere per violino non accompagnato sono fra le pagine più intense, e note, di Bach; Pasolini ne rimane fortemente colpito, così esprimendo gli effetti di questa folgorazione: Bach rappresentò per me in quei mesi la più forte e completa distrazione: rivedo la stanzetta dei Cicuto, il leggio aperto alla luce della finestra, P. che dà la pece all’arco, e lo spartito delle «sei sonate»… Rivedo ogni rigo, ogni nota di quella musica; risento la leggera emicrania che mi prendeva subito dopo le prime note, per lo sforzo che mi costava quell’ostinata attenzione del cuore e della mente. La piccola stanza spariva, sommersa dall’argento freddissimo e ardentissimo del Siciliano: io lo ascoltavo e lo svisceravo, particolare per particolare; avevo scritto degli «studi» interpretando l’Adagio e il Siciliano della prima sonata, la Ciaccona della terza, il Preludio della sesta; e ogni volta verificavo in re le mie approssimazioni estetiche, torturato dal disagio elementare che dà una bellezza intera e reale. Era soprattutto il Siciliano che mi interessava, perché gli avevo dato un contenuto, e ogni volta che lo riudivo mi metteva, con la sua tenerezza e il suo strazio, davanti a quel contenuto: una lotta, cantata infinitamente, tra la Carne e il Cielo, tra alcune note basse, velate, calde e alcune note stridule, terse, astratte… come parteggiavo per la Carne! Come mi sentivo rubare il cuore da quelle sei note, che, per un’ingenua sovrapposizione di immagini, immaginavo cantate da un giovanetto. E come, invece, sentivo di ri-

CXXXII: pp. XLIV-XLV; si tratta di un brano non incluso nella selezione di RR I.

130 fiutarmi alle note celesti! È evidente che soffrivo, anche lì, d’amore; ma il mio amore trasportato in quell’ordine intellettuale, e camuffato da Amore sacro, non era meno crudele (RR I, pp. 152-153).

La disperata lotta fra “Carne” e “Cielo” e il sofferto amore cui qui è fatto accenno trovano riscontro anche negli avvenimenti biografici di quel periodo. Nel periodo in cui il rapporto con Pina è più stretto, e maggiore la familiarità con la musica bachiana, Pasolini è innamorato di un giovinetto, suo allievo nella scuola allestita nella casa di Versuta7. Ma è un amore che non gli dà pace, sofferto e combattuto, nel quale, accanto alla costante attrazione fisica, scorre il senso di colpa nei confronti del giovane compagno. Assillante è il pensiero di averlo traviato, così come lo sgomento di fronte alla prospettiva del giudizio divino. Un simile rovello traduce letterariamente la musica nelle immagini di Carne e Cielo, con una tendenza figurale di derivazione tardo-romantica: il doppio registro del violino, che nelle note gravi incarna il corpo, in quelle disperatamente alte tende invece al cielo8, per poi incontrarsi negli intervalli patetici di sesta, e continuare ancora questo straziante, irrisolvibile dialogo. Non stupirà qui che Pasolini, affascinato dalla sintesi armonica dell’incontro di note, preferisca interpretarla come scontro piuttosto che come conciliazione, leggendovi un impa-

7.  Su tali fatti è appunto incentrato Atti impuri. Al centro della storia il rapporto fra l’autore e Nisiuti. Un terzo personaggio, quello di Dina, ruota attorno a tale rapporto. 8.  Cfr. anche RR I, p. 194: «In quelle pagine di Bach egli vedeva rappresentata una lotta fra la Carne e il Cielo. La prima cantata da note basse, profonde, velate, quasi da violoncello: veramente carnali. Il secondo espresso da note alte, di testa, celesti e vibranti. Questa drammatica lotta era patita da una figura umana: il Siciliano, un giovinetto bruno e florido che, appoggiato alla Pila di una chiesa barocca, offriva il suo corpo pinguemente e ardentemente terreno in olocausto alle forze celesti» (Pagine su Dina e Olga, in «Appendice a Atti impuri»).

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sto stilistico dominato da una contraddizione espressa in termini di letterarietà. Nelle pagine finora riportate si trovano dunque diverse considerazioni sui moduli della musica di Bach che, malgrado il carattere lapidario e stringato, offrono numerosi spunti di analisi. Ma per capire quanto effettivamente Pasolini amasse Il Siciliano – che la Kalč non esita a scegliere come colonna sonora di quel periodo9 – e gli altri brani delle sei Sonate, è necessario arrivare ai coevi Studi sullo stile di Bach10. Si è detto dei quotidiani incontri fra Pier Paolo e Pina: nelle ore passate insieme lui parlava a lungo di arte e di poesia, di Leopardi e di Pascoli; si discorreva di Freud e dei suoi Tre saggi sulla sessualità, che Pina «leggeva in tedesco, e Pier Paolo, in stralci, su dispense universitarie»11; il momento topico era, però, il violino, strumento che Pasolini aveva studiato in modo superficiale negli anni dell’adolescenza. L’effetto della musica di Pina lo aveva portato a riprendere in mano lo strumento, deciso a migliorare le proprie capacità tecniche. Lei gli impartiva lezioni e insieme eseguivano esercizi e «qualche duetto, portato a termine con visibile emozione»12. Tuttavia, come ricorda la stessa violinista, egli si stancava piuttosto in fretta degli esercizi, dello studio normativo, e insisteva affinché Pina suonasse da sola13: smaniava per ascoltare e riascoltare quel9.  Cfr. F. Cadel, Le parole di Pina Kalč, in Ciasarsa, a cura di G. Ellero, Società Filologica Friulana, Udine 1995, pp. 411-420: p. 420. 10.  Pubblicati integralmente per la prima volta in SLA, pp. 77-90. Per una lettura approfondita di questo scritto pasoliniano si rimanda a A. Carnevale, Studi sullo stile di Bach di Pier Paolo Pasolini, in «De Musica», IX, 2005, disponibile online: https://sites.unimi.it/gpiana/dm9/carnevale/pasolini.pdf (ultimo accesso: marzo 2023). 11.  E. Siciliano, Vita di Pasolini, cit., p. 93. 12.  N. Naldini, Cronologia, cit., p. LX. 13.  Cfr., a tale proposito, le parole della stessa Kalč: «Se veniva col violino suonava un po’ anche lui. Avevamo delle musichette scritte per due violini

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le note da Bach, si sforzava per seguire le note sulla partitura e, con tutta probabilità, iniziava a buttare giù gli appunti e a elaborare le idee che sarebbero state alla base del suo saggio14. Ecco, dunque, l’origine di questo scritto. Ma vediamone, in breve, anche la destinazione e le impressioni critiche che in esso trovano soluzione. All’inizio del 1945 si costituisce a Versuta l’Academiuta di len­ ga furlana, il cui scopo era la valorizzazione della lingua e della cultura friulana. Di essa facevano parte, assieme a Pasolini, il pittore Federico De Rocco, Nico Naldini, i poeti Riccardo Castellani e Cesare Bortotto, la stessa Kalč, oltre a un nutrito gruppo di ragazzi, uditori delle lezioni che Pasolini teneva nella scuola improvvisata fra le mura domestiche15. Essi si riunivano nella stanza di una casa, la domenica pomeriggio; i membri dell’Academiuta leggevano i propri scritti e – come ricorda Nico Naldini –, durante una di queste riunioni, Pasolini lesse uno studio sulle sei Sonate per violino di J.S. Bach, pezzi che spesso Pina eseguiva nel corso di quelle «domeniche dolcissime»16. Senza dubbio, Naldini fa riferimento al saggio in questione. Pasolini non era esperto di teoria e pratica musicale. Inutile aspettarsi dal suo scritto un’analisi approfondita in questo sen-

che gli davano una grande soddisfazione. Però non studiava, non gli interessava veramente migliorare. Mi diceva: “Ma no, Pina, questo non ha scopo, non ho gran che da riacquistare, e progredire sicuro no, mi suoni Lei, e mi suoni Bach”. Sempre finiva così. Metteva il violinetto nell’astuccio, si metteva a sedere: “Mi suoni Bach”», F. Cadel, Le parole di Pina Kalč, cit., p. 420. 14.  Cfr. RR I, p. 194, dove Pasolini, parlando in terza persona, scrive: «Ella suonava ed egli seguendo sullo spartito l’esecuzione prendeva qualche rapido appunto. Aveva un forte mal di testa perché avendo poco orecchio, l’ascoltare musica era per lui una grande fatica fisica» (Appendice a Atti impuri). 15.  Cfr. E. Siciliano, Vita di Pasolini, cit., pp. 92-95. 16.  N. Naldini, Cronologia, cit., p. LXXVII.

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so. Inoltre, a tratti, carica la musica e la figura di Bach di tinte romantiche che, a detta di Roberto Calabretto, «fanno sorridere la nostra sensibilità ormai abituata a un rigore filologico ed interpretativo che evita» questo approccio17. Eppure, questa mancanza di attenzione filologica – chiamiamola così, questa destorificazione della musica bachiana – non impedisce a Pasolini di avvicinarsi ad essa con acume e sensibilità, integrando con pensieri e idee più compiute e risolte le considerazioni che su di essa aveva già espresso, rendendo così più immaginifico il suo approccio18. Kalč stessa si rende perfettamente conto di ciò, e di quanto fosse efficace l’idea impressa nelle pagine del giovanissimo poeta19. Pasolini stesso, comunque, esordisce denunciando i propri limiti in campo musicologico, sgravandosi così da ogni obbligo di oggettivazione: confesso senz’altro che non solo conosco rozzamente la biografia di Bach, ma ben poco il suo tempo, cioè i rapporti

17.  R. Calabretto, Pasolini e la musica, Cinemazero, Pordenone 1999, p. 155. 18.  Proprio quella di destorificazione sarà una delle principali accuse mosse contro le scelte musicali dei suoi primi film, cfr. ad es. V. Gelmetti, La musica nei film di Pasolini, in «Filmcritica», n. 151-152, novembre-dicembre 1963, pp. 570-573. Ma è proprio nell’intentio auctoris alla base delle scelte bachiane che si può controargomentare a tali critiche, che peccano, se così si può dire, di impressionismo ideologico. 19.  A questo proposito cfr. le parole della violinista rilasciate in un’intervista del 1984 riportata in R. Calabretto, Pasolini e la musica, cit., pp. 262-263: «Egli amò Bach al punto da dedicargli due scritti inediti e che conservo: uno Studio sullo stile di Bach e un’analisi del Siciliano, che è il terzo tempo della Sonata n. 1 in Sol minore. Le confesso che quando lo lessi, dapprima rimasi abbastanza sconcertata per alcune considerazioni che mi parvero irriguardose e libere nei confronti del maestro e, soprattutto, contrastavano troppo con quello che avevo appreso a scuola. Rileggendoli successivamente, alla luce della critica musicale contemporanea, capii che aveva ragione. Sapeva precorrere i tempi, era più giovane di me, ma lo sentivo tanto superiore e preparato intellettualmente, dotato di straordinaria capacità di intuizione».

134 con la storia. E questo sarebbe ancora nulla in confronto alla mia quasi assoluta ignoranza di tutta la sua opera musicale, eccettuate le sei sonate per violino solo, che io conosco limitatamente alle mie capacità di conoscere musica, cioè alle mie capacità di esprimere criticamente quel poco che capisco (SLA I, p. 77).

Procede poi col ricercare equivalenti fra musica e poesia, spostando così il discorso su un terreno per lui meno scivoloso. Qui egli dimostra come il punto in comune fra i due linguaggi artistici consista nei rapporti fra ritmo e sintassi, e nel modo – peraltro comune ad ogni forma artistica – di entrare immediatamente nel cuore del discorso: Prima il silenzio, poi il suono, o la parola. Ma un suono e una parola che siano gli unici, che ci portino subito nel cuore del discorso. Discorso, dico. Se c’è un rapporto tra musica e poesia questo è nell’analogia, del resto umana, di tramutare il silenzio in discorso (SLA I, p. 79).

Da qui si entra nel vivo del saggio, essenzialmente incentrato sulla contrapposizione fra il Siciliano (dalla I Sonata) e il Pre­ ludio (dalla III Partita). Egli considera il Preludio come un’opera perfettamente risolta, classica per antonomasia nella sua misura e compostezza. Di contro, vede in Bach, attraverso il Siciliano, un sintomo di crisi; in questo movimento esprime un «contrasto, cioè dramma», esemplificato dalle due voci, una grave, umana, carnale, «calda», l’altra acuta, celeste, eterea, «fredda». Più oltre, il discorso di Pasolini continua a battere su motivi simili, l’interesse concentrato sugli effetti di senso generati dall’ascolto musicale. Malgrado alcune imprecisioni nella terminologia, la qualità delle considerazioni rende questo lavoro interessante almeno dal punto di vista della semantica e della ricezione musicale, se non proprio da quello strettamente musicologico: un esempio per tutti è l’acume con il quale sono individuati gli effetti sinestetici che, nell’interpretazione del testo

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musicale, coinvolgono, oltre all’udito, gli altri sensi. Una frase musicale dai toni gravi, con andamento antitetico (v. batt. 1)20, richiama elementi sensoriali visivi e tattili, simboleggia la carne, dà l’idea del caldo. Un’altra, formata da note acute (batt. 2), dà l’idea del cielo, del freddo: se è vero che un suono, quanto più è acuto, tanto più perde la sensazione di fisicità che noi di esso percepiamo21.

Ma, al di là di tutto, questo saggio vive di una propria intensa e pulsante poetica, costituisce un inno alla capacità di evocare sensazioni e immagini partendo da un brano strumentale; esso è un tentativo di drammatizzazione di un testo musicale, basato sull’immaginazione (vista proprio come facoltà di creare immagini) scaturita da una sensibilità poetica. L’attività estetica dell’ascoltatore, filtrata da un punto di vista come quello pasoliniano, diviene attività poetica, atto di creazione tout court per via saggistica.

20. Un’Antitheton (successione di una frase melodica ascendente e di una discendente), con il suo carattere ad andamento parabolico, può figurare, in questo caso, la crisi, l’indecisione nella scelta fra Carne e Cielo. 21.  In questo caso si può parlare di “fonosimbolismo sinestetico”, su cui cfr. C. Cano, Simboli sonori. Fondamenti antropologici per una didattica dell’approccio semantico al linguaggio musicale, Franco Angeli, Milano 1985, pp. 47-59.

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Matthäus Passion e altre reminiscenze bachiane Questi presupposti sono il preludio, biografico e insieme estetico, alla scelta dei brani del repertorio bachiano che Pasolini adotterà nei suoi film, da Accattone a Salò22. Tale presenza, e in particolare l’utilizzo del corale finale della Matthäus Pas­ sion, si concentra però soprattutto in Accattone e nel Vangelo secondo Matteo. Se nel Vangelo l’utilizzo della Matthäus Passion appare logico, e quasi scontato il richiamo ad un precedente basato sullo stesso soggetto, in Accattone assume invece le tinte d’una potente contaminazione stilistica. Ma è proprio la musica che contribuisce a sollevare Accattone, povero cristo e pappone di borgata, dalla miseria che lo circonda; è la musica che lo mostra al mondo, senza sconti per la sua meschinità, innalzandolo, in punto di morte dal suolo polveroso (lo «spiazzo miserabile» di cui si legge in sceneggiatura) in cui ha sempre vissuto. I titoli di testa, in cui già troviamo il coro finale della Matthäus Passion, vero e proprio leitmotiv del film, si chiudono con un’epigrafe dantesca, dal Purgatorio (V 104-107, riporto il cartello, così come appare nel film): 22.  Qui un elenco completo: Accattone: Coro n. 68 “Wir setzen uns mit Trä­ nen nieder” dalla Matthäus Passion BWV 244; Adagio dal Concerto Brandebur­ ghese n.1 BWV 1046; Andante dal Concerto Brandeburghese n. 2 BWV 1047; Sonatina dalla Cantata BWV 106 “Actus Tragicus”; Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo: brani dalla Matthäus Passion BWV 244; Il Vangelo secondo Matteo: Coro n. 68 dalla Matthäus Passion BWV 244; Adagio dal Concerto per violino, oboe, archi e basso continuo BWV 1060; Fuga ricerca­ ta dall’Offerta musicale BWV 1080 di Johann Sebastian Bach (nella trascrizione per orchestra di Anton Webern); Aria n. 39 “Erbarme dich” dalla Matthäus Passion BWV 244; Dona nobis pacem dalla Messa in Si minore BWV 232; Adagio dal Concerto per violino, oboe e basso continuo BWV 1042; Appunti per un film sull’India: Sonatina dalla Cantata BWV 106 “Actus Tragicus”; La sequenza del fiore di carta: Coro n. 68 dalla Matthäus Passion BWV 244; Salò o le centoventi giornate di Sodoma: Pastorale in fa maggiore BWV 590 (eseguita alla fisarmonica).

137 … l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno gridava: “O tu del Ciel, perché mi privi? Tu te ne porti di costui l’eterno per una lacrimetta che’l mi toglie…

La lacrima è quella di Buonconte da Montefeltro il quale, in un passo tra i più noti della seconda Cantica, racconta a Dante come, alla fine della battaglia di Campaldino, l’angelo e il demonio si siano contesi la sua anima; e di come il demonio, avendo perso proprio in virtù di tale lacrima di pentimento, si sia vendicato sul suo corpo, abbandonato all’Arno e poi seppellito dai detriti del fiume in piena. È dunque lo stesso Pasolini ad anticipare, con questa citazione, la conclusione del film, fornendo una chiave di lettura dell’epilogo: una spoglia apoteosi del miserabile, realizzata con l’aiuto del sublime bachiano. Come Buonconte, Accattone si salva, non già acquistando la salvezza eterna, ma piuttosto riacquistando quell’umana dignità che fino ad allora gli era stata negata. Allo strazio del corpo conosciuto in morte si contrappone una palingenesi, per così dire, rappresentativa. La musica sottolinea tutto ciò, dando spessore emotivo e cromatico all’immagine. Nel saggio che apre questo volume ho accennato a come nella sequenza della lotta la contaminazione degli stili assuma i tratti più evidentemente ossimorici: una volgare zuffa nella polvere dello spiazzo miserabile, commentata da una musica sublime, diventa una lotta epica, «che sbocca nel sacro, nel religioso»23. Malgrado la confusione degli stili, il film mostra una coerenza espressiva perspicua, costruita con rigore. Anche Il Vangelo se­ condo Matteo non sfugge alla regola della contaminazione degli stili come sintesi espressiva; qui, come poc’anzi specificato,

23.  Così l’autore in una famosa conversazione con Jean Duflot, P.P. Pasolini, Il sogno del centauro, a cura di J. Duflot, intr. di G.C. Ferretti, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 109.

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le strategie sono differenti rispetto al primo film. Nel rappresentare e narrare la quintessenza del sublime, ossia la vita e la Passione di Cristo, Pasolini rinuncia a quel facile descrittivismo già, implicitamente, ripudiato nella Ricotta. Nel Vangelo, al corale della Matthäus Passion, affianca il Gloria dalla Missa Luba congolese, con la sua carnalità percussiva: alla manifestazione di una religiosità sublime e celeste ne affianca una tutta terrena, coreutica, spiccatamente popolare. Allo stesso modo sfugge alla tentazione di rappresentare le scene della Passione con un gusto estetizzante da tableau vivant e rispetto al suo primo film, dove dominava un senso di fissità visiva, alterna ora l’uso di grandangoli e zoom per lo stesso dettaglio, piani fissi e camera a mano. Da tutto ciò prende forma la variante marcatamente pasoliniana di mescolanza di stile sublimis e piscatorius. Nonostante queste sostanziali differenze, il commento musicale (e nella fattispecie l’utilizzo del corale bachiano) è certamente sotteso a una funzione non dissimile, traccia di un legame ideologico fra le due opere. In Accattone esso compare fin dai titoli di testa e accompagna diverse sequenze, fino a quella finale, con la morte, già scritta nel destino, di Accattone. Ognuna di queste sequenze rende in qualche modo l’idea dell’incedere di tale destino, lascia un segno del suo passaggio. Il Coro è dunque un vero e proprio Leitmotiv d’una morte già segnata, di un tragico che deve solo inverarsi. Con la stessa funzione ricorre più volte nel Vangelo, a segnare alcuni passaggi della trama. Anche nel testo, e non solo nell’impianto musicale, il brano evidenzia una certa referenzialità. Wir setzen uns mit Tränen nieder («In lacrime, ci sediamo a terra»): la musica e le parole ci portano alla fine della Passione, al pianto corale, al lamento ai piedi della croce. Niente, dunque, di più adatto per la premonizione della morte di Cristo. L’elemento di maggiore interesse è però il valore che il brano assume in relazione al suo utilizzo in Accattone, in una prospettiva ricorsiva all’interno dell’opera pasoliniana. La musica ferale che annuncia il desti-

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no di Accattone è la stessa che conta le ore della vita di Cristo. Con queste notazioni non si vuol certo trattare d’una mera intertestualità auto­referenziale. Penso ad Auerbach, a quando scrive che Cristo «era un uomo […] uscito dall’infimo gradino sociale», che «si muoveva entro la vita ordinaria del popolino palestinese, parlava con pubblicani e con prostitute, con poveri, con ammalati, con fanciulli»24. Nessuna affermazione potrebbe adattarsi meglio al Cristo pasoliniano, rappresentato nella sua umanità, col carico sociale della sua predicazione e ora – indirettamente, proprio attraverso la musica – accostato a un emarginato, a un sottoproletario. Accattone è un film agiografico sui generis, spogliato di retorica e ricoperto del velo del sublime musicale. Una simile contaminazione non è solamente una scelta estetica, né un vezzo intellettualistico di marca estetizzante. Si tratta invece di un’operazione etica e politica, di riscatto sociale. Applicata al mondo della borgata, la musica di Bach, tradizionalmente emblema della classe colta borghese, crea un punto di rottura con la convenzionalità descrittiva imperante nel cinema, con quei cliché che prevedevano musiche popolari per commentare scene di gente comune, musiche di chiesa per scene religiose ecc. Una siffatta strategia oggi appare scontata, ma allora poteva anche sembrare eversiva, tanto da collocare Pasolini tra quegli auteurs che hanno contribuito al rinnovamento linguistico del cinema degli anni Sessanta. Se la Passione secondo San Matteo costituisce senza dubbio l’elemento musicale di maggiore interesse nei due film, la presenza di altri brani bachiani offre comunque altri spunti di analisi. In Accattone i movimenti lenti dei primi due Brandeburghesi contrappuntano il rapporto del protagonista con i personaggi

24.  E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, vol. I, Einaudi, Torino 1956, pp. 81-82.

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femminili del film; i due brani commentano, infatti, tutte le scene in cui Accattone è in compagnia di Maddalena o di Stella: la musica, placida eppure carica di pathos, con gli strumenti solisti (flauto, violino, oboe) che dialogano amabilmente, diviene proiezione sonora dei sentimenti dei protagonisti. Ne è esempio la sequenza del primo incontro con Stella, nello spiazzo delle bottiglie: l’Andante dal Secondo Brandeburghese, con il suo carattere mesto, estremamente meditativo, rappresenta l’amore nascente di Accattone per Stella – tradotto, anche visivamente, nei termini di un’Annunciazione – ma proietta nello stesso tempo un’ombra tragica su questo rapporto. Nel Vangelo la musica di Bach non è una costante quasi esclusiva come in Accattone, ma scorre accanto ad altre, pure di grande importanza tematica, con le quali convive in perfetta armonia. L’importanza dei brani bachiani sta infatti anche nell’alternarsi alle altre musiche: siano esempio gli interventi ravvicinati del corale della Matthäus Passion e del Gloria africano o del Dona nobis pacem che segue immediatamente la chitarra sincopata, dal suono terroso e distorto, di un blues di Blind Willie Johnson. Notevole, e non solo dal punto di vista della scelta musicale, è poi la sequenza delle tentazioni nel deserto, per la raffinatezza con cui è utilizzato il Ricercare a sei dall’Offerta Musicale, nella trascrizione per orchestra di Webern. Il puntillismo alla base della ricerca timbrico-melodica di Webern risponde a un criterio di scomposizione e disgregamento del suono che stabilisce un collegamento materico con il paesaggio vulcanico lunare in cui Pasolini identifica il deserto evangelico, ripreso dalla macchina da presa in campi lunghi e lunghissimi. La forma stessa del brano, quella della fuga, dove i nuclei tematici si rincorrono senza mai incontrarsi, ricalca inoltre il dialogo-scontro fra Cristo e il Diavolo25.

25.  Cfr. R. Calabretto, Pasolini e la musica, cit., p. 397.

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Ho già parlato dell’utilizzo del Dona nobis pacem nella sequenza della guarigione dello storpio; all’intervento iniziale del blues di Blind Willie Johnson segue l’attacco, nel momento in cui l’uomo getta le stampelle, della musica di Bach. A uno stile visivo minimale, lavorato per sottrazione, fa da contrappunto una musica che dice di più, diffonde il messaggio e produce uno sfondamento nelle immagini26, costruendo un nesso narrativo ed emotivo. Nel cinema pasoliniano, in alcuni casi (come nella sequenza appena citata), la musica può far emergere isolate tracce di quello “stile trascendentale” teorizzato da Paul Schrader in un suo celebre saggio. Per tentare di rappresentare il trascendente – nelle sue manifestazioni – il cinema classico, specie nella declinazione hollywoodiana, si è sempre servito di strategie “immanenti”, effetti speciali e spettacolari. Al contrario, autori come Bresson o Ozu, mettendo in atto una sorta di de-spettacolarizzazione, portano avanti una strategia di rappresentazione per sottrazione, convinti che, in questo caso, il senso si affidi meglio al non detto e all’invisibile. Per Pasolini, sempre in un’ottica di contaminazione degli stili, la vita quotidiana, bassa e miserabile, è costellata di piccoli eventi a loro modo sacri, di ierofanie, direbbe Mircea Eliade. Ecco che la Matthäus Passion, in Accattone, assume anche questo significato: il sacro e il sublime entrano in diretto contatto con l’umile, profano e volgare. Il Coro n. 68 può sembrare una sorta di ierofania, intesa come manifestazione del destino – o meglio del tragico – di Accattone: una musica che anticipa, durante tutto il film, ciò che è scontato debba accadere.

26.  Cfr. quanto Pasolini scrive nel suo saggio sulla musica per film: «La fonte musicale – che non è individuabile sullo schermo, e nasce da un “altrove” fisico per sua natura “profondo” – sfonda le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita», CI II, p. 2796.

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Pasolini concepisce il film come uno spettacolo multimediale completo che rappresenta la realtà attraverso una sintesi di mezzi e forme espressive mutuate dalla realtà e dalle altre arti: egli è stato, secondo Gian Piero Brunetta, «uno straordinario uomo orchestra, un re Mida che domina […] i materiali espressivi più eterogenei, trasformandoli al minimo contatto»27. Il confronto con la più alta tradizione assume, perciò, un significato molto particolare. Entra infatti in gioco la questione dell’utilizzo di materiale musicale preesistente. Il classico e inossidabile Bach viene a contatto col contemporaneo, in un meccanismo di scambio reciproco, di osmosi. La sua musica, da un lato, dà rilievo al film, arricchendolo di svariate sfumature. Dall’altro, adattata a una situazione diversa dai contesti tradizionali, trae nuova linfa vitale, dimostrandosi perfetta anche in ambiti difficilmente immaginabili. Scriveva così Filippo Sacchi, recensore del film, che nel 1961 fu uno dei pochi a non storcere il naso per l’ardito accostamento al mondo sottoproletario: Curiosamente, Accattone è stato sonorizzato con musiche di Bach. L’andante in re minore del II Concerto Brandeburghese, messo a fare da sfondo ai colloqui fra Stella e Vitto’, tra un’inquadratura dei magnaccia al baretto e un campo lungo delle passeggiatrici in attesa, ha l’aria di un ticchio da discomani snob, e invece, pare impossibile, è perfetto. Perché Bach è eterno, come il sole, la luna, il mare, il vento. Va bene con tutto.28

Anche un critico occasionale ma illustre come Hans Werner Henze parte da un simile presupposto, certo con maggiore sensibilità e profondità d’ascolto. Cogliendo il nodo musica-immagine, il grande compositore attribuisce infatti il merito estetico 27.  G.P. Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, vol. II, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 217. 28.  F. Sacchi, Bassifondi romani con musiche di Bach, in «Epoca», XII, n. 594, 1961.

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del film non solo al classico, Bach, ma al riuso e alla nuova forma che deriva dall’impasto tematico e stilistico: Questa musica perdona noi poveri diavoli e ci promette una nuova felicità, piange per noi con tutta l’anima. «Wir setzen uns mit Tränen nieder», con essa, per essa. Colui che comprese benissimo questo nesso fu Pier Paolo Pasolini, che attorno al 1960 nel suo film Accattone – che trattava della vita e della sofferenza del sottoproletariato romano, disoccupato e criminalizzato – ricorse all’aiuto di musiche dalle Passioni bachiane. Muovendo dal suo punto di vista estetico e politico, aveva lo scopo di promuovere ancora una volta il messaggio protocristiano-comunista dell’amore per il prossimo e della solidarietà, di dimostrare quanto la musica di Johann Sebastian Bach fosse adatta a prendere la parola in un contesto reale del genere e quanto irrilevante il pericolo di equivoci su questa musica o di un suo cattivo uso. Questa musica sta, come il suo autore, dalla parte del popolo, degli umiliati e degli offesi, e parla la loro lingua. Tutti i martiri del mondo si possono riconoscere e ritrovare in queste richieste di soccorso e lamentazioni.29

Una postilla su Die Zweite Heimat (1992), l’immortale capolavoro di Edgar Reitz. Penso a Juan, l’eterno emigrante, il ragazzo che conosce tutte le lingue, forse il personaggio più struggente della serie di film, limpido e misterioso allo stesso tempo. Non ha la fortuna del protagonista Hermann, il tedesco di provincia che, arrivato in città, ha l’ambizione assoluta di stravolgere il linguaggio musicale corrente, di sposarsi all’avanguardia, non conoscendo ancora quello spazio interstiziale in cui arte e vita agiscono in combutta l’una con l’altra. Juan sarà escluso dal consorzio umano-artistico, vale a dire dalla realtà dei suoi giorni, quelli che ha deciso di vivere. Infatti, al contrario dell’amico appena incontrato, il giovane cileno sarà bocciato all’esame d’ammissione al conservatorio, colpevole, alla prova di 29.  H.W. Henze, Johann Sebastian Bach e la musica del nostro tempo, in E. Restagno (a cura di), Henze, EDT musica, Torino 1986, pp. 386-392: p. 391.

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ingresso, di aver suonato – come si farebbe in cielo – un pezzo di Bach trascritto per marimba. Queste le parole che aprono Due occhi da straniero, l’episodio a lui dedicato: «Ero giunto fino al paese di Johann Sebastian Bach per studiare musica. A casa, a Santiago, spesso avevo suonato Bach alla marimba. Al conservatorio però non ero stato ammesso. Dissero che il mio pezzo per marimba era folclore. Era una falsità. Ma c’era anche un altro motivo per il mio viaggio: Sehnsucht, così si chiama in tedesco»30. La nostalgia dell’ineffabile («del futuro»): questo è il desiderio che si materializza attraverso gli occhi dello stranie­ ro, animato da un’inesausta sete, incompresa e insoddisfatta, di arte e vita, mescolate in un filtro magico, contaminato.

30.  Cito dal volume che raccoglie la sceneggiatura dell’immane ciclo, E. Reitz, Heimat 2. Cronaca di una giovinezza in tredici libri, intr. di B. Bertolucci, Bompiani, Milano 1994, p. 81.

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Fughe in Egitto: il lutto delle radici

La fuga in Egitto esce in appendice nel 1925, sulle pagine del «Secolo XX. Rivista popolare e illustrata», periodico dell’editore Treves che subito dopo, nel corso di quello stesso anno, stamperà questo romanzo in volume1. Vi si narra del maestro elementare Giuseppe De Nicola, uomo tanto sobrio quanto solo. Va detto da subito che si tratta di un personaggio deleddiano, diciamo così, tipico: che mutamente trascina con sé il fardello d’una colpa, per la quale ha inteso tutta la sua vita come un cammino di espiazione. Al pari di molti altri romanzi dell’autrice di Canne al vento, c’è anche qui, alla base, un lutto, un’assenza o una perdita: preludio a un tentativo estremo, ineluttabilmente vano e allo stesso modo coscienziosamente perseguito, di ristabilire qualcosa che non c’è più. La colpa, inizialmente celata nell’esposizione dell’antefatto2, sarà svelata solo a metà romanzo, attraverso anacronie ben calibra-

1.  Lo leggiamo qui nella seguente edizione: G. Deledda, La fuga in Egitto, pref. di F. Angelini, Ilisso, Nuoro 2008, alla quale ci riferiremo, anche nel corpo del testo, con la sigla FE. 2.  Sul quale, nell’incipit, si dice soltanto dell’adozione e del susseguente abbandono del figlio adottivo, FE, p. 23.

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te. Figlio d’una madre premurosa ma poco incline a mostrare affetto, Giuseppe si abbandonerà alla prima occasione tra le braccia d’una parente non più giovane, già madre, chiacchierata. Quando costei si renderà conto che tra loro non sarebbe potuto esistere altro legame si impicca, in una pagina dalle sfumature espressioniste3, filtrata dal ricordo vivido e insieme allucinato del maestro. La colpa pare quella di non aver sposato la donna; ciò che segue diviene dunque espiazione, o tentativo di espiare: il primo intendimento dell’uomo era stato quello di adottare il figlio di tre anni della compagna morta; l’altro, di condurre una vita sobria, votata alla serietà e al lavoro con i suoi studenti, che non lo amavano ma lo rispettavano e, non conoscendo il suo segreto, lo chiamavano «mezzo prete» (FE, p. 83). Questo figlio, Antonio, viene allevato con rigore e cura, ma senza amore. Perciò, mosso da un carattere ardimentoso, appena possibile scapperà di casa per condurre una vita avventurosa e sregolata che lo porterà infine a sposare la vedova benestante di un commerciante di barche, del quale erediterà lavoro e posizione agiata, in una cittadina adriatica nella quale, trascolorata e però concreta, si riconosce la Cervia a lungo frequentata da Grazia Deledda4. È a questo punto che la narrazione, se così si può dire, passa al tempo presente, con i fatti sullo svolgersi, pur con le deroghe d’una naturale tendenza alla rievocazione propria di una prosa di esplorazione dell’interiorità, quale è sempre stata – in questi anni più che mai – quella di Deledda. È qui che Antonio, convintosi d’essere maturato, vorrà anche lui, in qualche maniera, espiare: d’accordo con Marga, sua moglie, invita il padre ad andare a vivere da loro, con la primogenita, 3.  Cfr. F. Angelini, Prefazione, in FE, pp. 7-16: p. 15. 4.  Per una lettura critica dei romanzi che hanno in comune l’ambientazione cervese (oltre a questo Il segreto dell’uomo solitario e La danza della collana) si veda E. Gagliardi, I romanzi cervesi di Grazia Deledda, Longo, Ravenna 2010.

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la piccola Ola (diminutivo di Giuseppina Nicola, in omaggio al genitore abbandonato). Il maestro tituba, non ha mai lasciato il suo paese, i suoi monti; e quel borgo è lontano, bisogna prendere cinque treni per raggiungerlo: ma dopo quarant’anni di insegnamento è in pensione, e forse gli pare di aver espiato davvero, magari si illude di poter risalire la china. Venduta la casa, mette il poco che gli serve in valigia e si appresta al suo «viaggio di nozze con la vita» (FE, p. 23). La situazione appare però tutt’altro che idilliaca, già dall’arrivo, quando, giunto alla stazione, si rende conto che nessuno s’è preoccupato di accoglierlo. Marga è cronicamente colpita da febbri malariche che la costringono quasi sempre a letto e Antonio è spesso assente; abita con loro, a servizio, Ornella, una giovane donna che emana un fascino ambiguo, capace di infondere una sottile inquietudine nel maestro, che si ostina a percepire in lei qualcosa di selvaggio. La casa, poi: all’apparenza una grande villa affacciata sulla spiaggia e sulle distese blu di mare, che inizialmente abbacinano l’uomo di montagna; in realtà decadente: e per di più abitata soltanto nell’umido, freddo e buio pianterreno, con il piano nobile interamente destinato alla locazione a una famiglia che si presenta solo nella stagione dei bagni. La gioia – potenziale stato di grazia – è data solo da Ola, con la quale il nonno instaura da subito un rapporto di complice tenerezza, a lei dedicando anche il suo spirito pedagogico, con la correzione di quell’empatia che gli difettava nel rapporto con gli studenti. Ma a ben pensarci, anche la piccola espone alla luce certe ugge, figurativamente tradotte in talune descrizioni sapide (la danza di morte di un pesce appena pescato, che la nipotina chiede al nonno di comprare, FE, p. 58) o in certe pagine dal gusto gotico, ben accordate alle frequenze deleddiane (tra le altre, alcuni passaggi degli episodi della casa in cui s’era tempo prima consumato un parricidio, FE, pp. 85-86). Si tratta di una villa tetra – d’una tetraggine diversa, non tanto decadente quanto ominosa – situata all’uscita del borgo, già

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verso la campagna. Posta sotto sequestro dalle autorità, la custodia è affidata a una vecchia e a suo figlio; la donna pare uscita da un romanzo francese dell’Ottocento, con quella sua aria da megera, un po’ da stracciaiuola5: monito per i bambini del paese, che la temono come fosse il diavolo. Loro della cronaca non percepiscono che lo strascico di dicerie; mentre lei, la vecchia, semplicemente non regge la coltre di male che adombra la casa in cui s’è trovata a vivere. L’idillio, si capisce da subito, è guasto: a più chiara dimostrazione, la malattia di Marga, laddove si intuisce che l’origine malarica delle febbri è elevata a potenza da una fragilissima condizione dei nervi. Nonostante tutto ciò, si va avanti, e dall’arrivo del maestro, «due settimane passarono così, liete e movimentate nei buoni giorni di salute della mamma» (FE, p. 67). In certi passaggi che seguono si fa più evidente il carattere di Antonio, gagliardo e spaccone, al pari di tanti maschi giovani che altrove popolano i romanzi di Deledda, come il Paulu dell’Edera o lo stesso Giacinto in Canne al vento: tutti, in certo senso, discendenti di quel fratello, Andrea, così descritto – anche se più avanti nel tempo – in Cosima. Ma dicevo di Antonio: giovane uomo puerile, ogni suo gesto pare amplificato scenicamente, come a preludere a un futuro fallimento. Durante le lunghe e allegre cene nelle quali scorre il vino, il maestro, nonostante le liete apparenze, si ostina a vedere un alone di ombra. Assodato che la malattia nervosa di Marga è data da una motivata gelosia, tutto precipita quando diventa chiaro che Antonio ha un rapporto adulterino con Ornella. Ma oltre alla violazione d’una supposta sacralità del nido, il vero cruccio del padre è che Ornella è incinta di Antonio: il quale già una volta l’aveva costretta ad abortire clandestinamente.

5.  Cfr. A. Dolfi, Grazia Deledda, Mursia, Milano 1979, p. 166, dove son fatti i nomi di Sue e Balzac.

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Marga e la bambina si trasferiscono per un periodo in una località di montagna, dove è dato sperare che l’aria giovi alle febbri, e soprattutto ai nervi, della donna; in questo modo si consuma un dramma, nella divisione del nonno dalla nipote. Lui s’è nel frattempo reso conto che quel cammino di espiazione non era che all’inizio; in questo periodo di vacanza della casa – anche Antonio è via per lavoro – egli intenderà dare un contributo per la risoluzione della situazione, trovandosi però a convivere con Ornella, il cui temperamento, in qualche modo misterioso e inespresso, continua a spaventarlo. Decide di lasciare il tetto che lo aveva accolto per prendere il ruolo di custode della casa del parricidio, andando ad abitare nei locali di servizio della villa, ridotti dalla vecchia e dal figlio a una specie di antro primitivo. Nel podere annesso alla villa vivono e lavorano anche due fittavoli, fratelli, i contadini Proto – vedovo, burlone, vitale – e Gesuino, schivo, musone, religiosissimo: confrontandosi con lui, il maestro rende meno vano il dialogo che cerca di intraprendere con Dio. Con loro attorno si appresta alla nuova tappa dell’espiazione. Per prima cosa sarà necessario rendere l’antro un’abitazione civile; considerato che già nella villa del figlio s’era preso il compito di rinfrescare il piano nobile prima dell’arrivo degli inquilini, quella di migliorare le stanze in cui si abita appare evidentemente come una necessità intimamente avvertita dal maestro, il quale forse, da instancabile lettore della Bibbia, ha in mente l’ammonizione che ci è pure nota dall’aria di una bellissima cantata di Bach (Actus Tragicus): Bestelle dein Haus, «metti in ordine la tua casa»6. Sin dal suo trasferimento nel borgo di mare, ancora dentro la valigia «dalla quale non si decideva a toglierlo quasi per un sen-

6.  Si tratta dell’ammonimento divino, per tramite di Isaia, a Ezechia, re del Regno di Giuda: «Metti in ordine la tua casa, perché morirai e non guarirai».

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so di superstizione», per «paura che glielo rubassero», egli aveva un vecchio arazzo, il più caro tra i tanti che la madre aveva ricamato. Finalmente si decide a toglierlo e ad appenderlo. In ciò che vi è rappresentato – una Fuga in Egitto – risiede, assieme al titolo, il senso ultimo del romanzo: Il quadretto rappresentava una spiaggia arida: la sabbia, ricamata con la seta grezza, segnava il primo piano; dopo veniva la striscia verdastra del mare, sullo sfondo grigio-azzurro del cielo. Su questo paesaggio, che con sole tre linee segnava una immensità ariosa e profonda, due figure camminavano. Sì, pareva proprio di vederle camminare, coi piedi sollevati, e dietro di loro le orme sulla sabbia: una rappresentava un uomo calvo, con un lungo camice stretto alla cintura e i sandali di corda: aveva in mano un fardello e precedeva una donna più alta di lui, che teneva in braccio un bambino (doveva essere un bambino dal modo come lei lo reggeva) tutto ricoperto di un drappo scuro. Lei era vestita di rosso, coi sandali di corda, la testa avviluppata di treccie mirabilmente imitate con la seta giallo-oro. Sotto, sul margine ancora vuoto del canavaccio, ricamato con la seta nera, si leggeva il titolo: La fuga in Egitto. Con quattro chiodetti il piccolo arazzo fu attaccato alla parete sopra il lettuccio, e tutta la stanza parve illuminarsene (FE, p. 104).

Capita a Deledda, da scrittrice per certi versi paesaggista, di incrociare la forma dell’ékphrasis: in questo libro accade un paio di volte, una nel passo appena citato. E in una scrittura animata da tensione, l’ékphrasis non è mai priva d’un qualche senso, recondito o profondo. Qui, lo ha notato Franca Angelini, l’araz­zo della fuga è una sorta di mise en abîme: Ornella, per fuggire la furia violenta di Antonio, che si fa sempre più palese, chiede infatti rifugio al padre di costui, presso il quale si stabilisce. Fanno pienamente ingresso nel romanzo le sfumature cromatiche della tragedia: un padre contro un figlio; una sorta di catastasi che piega il senso della trama e prepara l’esplosio-

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ne della violenza. Nel nuovo ménage familiare, Giuseppe e Ornella ricevono alcune visite: quella del parricida, inizialmente temutissimo, latitante che desidera visitare per un’ultima volta la casa della sua infanzia. Temuto, dicevo, e poi inerme: pallido, magrissimo, «era il viso stesso del castigo» (FE, p. 143). Rivela la sua intenzione di scappare in Sudamerica, in un altro percorso di espiazione: «può chiamarsi libertà il vivere in paesi lontani, fra gente sconosciuta» (FE, p. 145)? Lui pure, in quelle che forse sono le pagine più significative del libro, rivela i suoi tentati dialoghi con Dio. Parla a lungo, si prende la scena per un monologo, in atmosfera di delirio: «Ma questo Dio, questo Dio che ci ha creato tutti per farci soffrire? Che ci fa continuamente soverchiare dal male?» (FE, p. 146). Queste parole, nelle quali è possibile vedere in controluce la Deledda lettrice di Dostoevskij, possono far pensare al celebre dialogo tra fratelli nei Karamazov, là dove Ivan, la mente razionale e cinica, incalza Alëša, l’asceta, con un’interrogazione cruciale: «Ascolta: se tutti devono soffrire per acquistare con la sofferenza l’eterna armonia, che c’entrano qui i bambini? Dimmelo, ti prego!»7. La seconda visita – in essa tutti i segni del tragico – è quella di Antonio, che non solo colpisce Ornella, ma la minaccia con una rivoltella, in una sorta di trance ossessiva: tutto, poi, per il tentativo di mostrare al padre d’essersi fatto uomo, di sapersi assumere le proprie responsabilità. Ma il maestro sa che se pure Antonio, così facendo, mandasse la sua ex amante a partorire da qualche parte per poi destinare il figlio a un collegio, si rischierebbe il peggio: giacché Ornella – con quel suo temperamento selvaggio, tacitamente temuto8 – sarebbe capace di tutto per difendere, questa volta, la sua creatura.

7.  F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, intr. di F. Malcovati, Garzanti, Milano 1974, p. 260. 8.  Nel personaggio di Ornella è stata da più parti notata una sorta di materializzazione di forze oscure, addirittura dell’Es, cfr. ancora A. Dolfi, Grazia

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Così la scelta estrema è quella di ripercorrere, per finire, il cammino iniziale, controcorrente: tornare al paesello da cui era partito e dare una possibilità a questa famiglia nascente, prendendo sotto la propria cura la donna e il neonato (sottraendo, tra l’altro, Ornella alle attenzioni dei due generosi contadini, che probabilmente vorrebbero sposarla e adottare la creatura). Ecco, dunque, la fuga in Egitto, della quale si riferisce anche nella giudiziosa citazione evangelica del maestro, che subito dopo il parto legge a Ornella il passo evangelico corrispondente (FE, p. 185); una fuga per la salvezza, diremmo, ma anche un ritorno alle radici, ritorno a quella dimensione di su connottu, così peculiare e problematica in Deledda. Nel Settimo sigillo un cavaliere, al ritorno a casa da una crociata, trova la sua terra devastata da una tremenda epidemia di peste. Dopo gli orrori della guerra santa, gli si spalanca dinnanzi un’altra apocalisse, proprio quando la salvezza pareva raggiunta. Il duello di scacchi ingaggiato lungo tutto il corso del capolavoro di Ingmar Bergman gli consente di guadagnare tempo, non per salvare sé stesso – inutile anche solo pensarlo –, piuttosto per proteggere una coppia di attori col loro figlio poco più che neonato, nottetempo favorendo un’avventurosa fuga nella foresta. Si tratta di Mia (Bibi Andersson, uno dei volti del femminino bergmaniano), eterea e allo stesso tempo dotata d’una vitalità pratica e schietta; del burlone Jof, attore comico e acrobatico, eppure mistico, visionario; infine del piccolo Mikael, futuro acrobata o – chissà – cavaliere: quasi una sacra famiglia, insomma, però desacralizzata. O dove il sacro è riportato ai valori di umanità e tenerezza. Se anche un parallelo tra Deledda e Bergman potesse sembrare azzardato, i problemi agitati sono in fondo simili, come simiDeledda, cit., p. 152 e M. Abdel Moneim Tantawy, Un forte senso morale dell’umano vivere ne La fuga in Egitto di Grazia Deledda, in «Rivista di studi italiani», XXXVIII, n. 2, 2019, pp. 130-144: p. 134.

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le è la prospettiva aperta dalle azioni dei loro protagonisti. Il cavaliere Antonius Block (Max Von Sydow) è la figura dell’incessante dissidio di chi ha sempre cercato, senza mai trovare. Atterrito di fronte al nulla e al silenzio di Dio, egli prova ora ad aiutare degli innocenti, scommettendo sulla qualità salvifica del suo gesto. Ma illusione o realtà possibile, il cavaliere apre la prospettiva a un futuro, punta, seppure ciecamente, verso un orizzonte di senso. Allo stesso modo, brancolante in una dimensione di crisi – sia essa esistenzialista o religiosa –, anche il maestro cerca di aprire una prospettiva di salvezza, punta verso la grazia dell’altro. Se da un lato la fuga in Egitto era necessaria, nel Vangelo di Matteo, per la salvezza dalla strage degli innocenti, dall’altro prelude al compimento figurale del ritorno in Terra Santa, guidato da Mosè. Se ci pensiamo, in Deledda il momento della fuga corrisponde di per sé al nostos: alla dimensione, come dicevo prima, di su connottu. Marwa Abdel Moneim, in una lettura giustamente incentrata sulla sfera etica del personaggio principale del romanzo, sembra però lasciarlo intendere come un ritorno alle origini della concezione del mondo deleddiano, quell’universo sardo che però in realtà non è qui neppure lontanamente evocato. In un suo precedente romanzo, Sino al confine (1912), la protagonista Gavina – in una serie di allusioni autobiografiche – compiva un percorso à rebours, da Nuoro a Roma e ritorno. Le fasi della sua vita sono scandite dal consueto pattern di colpa ed espiazione; in tale percorso Gavina si avvale di un nuovo tipo di conoscenza, che aggiorna l’iniziale stadio del tremore religioso ai principi della scienza moderna. Sul finale, scampata la tragedia ma in un’atmosfera di delirio, Gavina si propone di agire, d’ora in poi, solamente per il bene. Si tratta però essenzialmente d’una proposizione astratta, vincolata a un fideismo rinnovato, questa volta, nella ragione. Allo stesso modo il protagonista della Fuga va a ricercare un astratto bene futuro, rinunciando però alla realtà della grazia terrestre, di quella felicità realizzata nel rapporto con

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Ola, condannandosi nel presente a un ritorno alle sue origini che non farà nient’altro che amplificare la sua condizione di crisi permanente. Per un simile motivo, la scelta di decodificare a un grado di irriconoscibilità il luogo d’origine di Giuseppe – il cui nome rimanda chiaramente a quello del padre della Sacra famiglia – è specchio d’una rappresentazione universale della condizione della crisi. Anche in un romanzo di Salvatore Mannuzzu, Le fate dell’in­ verno9, abbiamo per protagonista un nonno – il giudice Franz Quai, già presidente del tribunale – che avanza decisamente verso la vecchiaia, che pure in questo caso porta il peso di un passato pieno di tragedie famigliari. La moglie, Nora, si era uccisa molto tempo prima, impiccandosi nel bagno della sua antica casa delle vacanze, a Bosa marina. In seguito era morto, neppure trentacinquenne, suo figlio Giacomo, medico e brillante ricercatore universitario – «per un ictus, una malformazione ignota finché non s’era manifestata tragicamente» (FI, p. 38) –, lasciando la moglie, Bia, e la figlia neonata, Nora come la nonna, ma per tutti Chichi. Dopo la morte dell’uomo, madre e figlia avevano continuato a vivere nella stessa casa: una porzione della grande – ormai malandata – villa della famiglia Quai, suddivisa in quattro appartamenti. Per un periodo erano stati tutti occupati. Uno appunto da mamma e figlia; un altro da Franz, che ci viveva con Toia, la vecchissima governante con la quale diceva quotidianamente il rosario: «la mezz’ora […] in cui litighiamo di più» (FI, p. 20); un altro da suo fratello, Maurizio, scapestrato, eterno perdigiorno. L’ultimo era invece affittato ad Hani, un egiziano omosessuale, studente di medicina nell’università cittadina, che spesso ospitava il suo compagno Oleg, uno steward russo.

9.  S. Mannuzzu, Le fate dell’inverno, Einaudi, Torino 2004 (FI, d’ora in poi).

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Nella ricostruzione dell’intreccio, al contrario di quanto generalmente accade nella Fuga, ho qui usato verbi al passato perché, nel momento in cui il romanzo inizia, tutto è già accaduto, e il lettore si trova di nuovo di fronte a rievocazioni e anacronie. La voce narrante è quella di Franz, ma ci sono delle eccezioni piuttosto significative. Dei dodici capitoli che formano il romanzo, tre sono infatti affidati a diverso narratore; in Barba­ blù (terzo capitolo) abbiamo una narrazione esterna. Franz va tutti i giorni di fronte a una scuola elementare e osserva l’uscita dei bambini, cosa che lo rende oggetto di sguardi tutt’altro che amichevoli: quelli beffardi di un gruppo di studenti della scuola superiore che si trova nelle vicinanze – il liceo «Principe della città: l’Asproni» (FI, p. 38) –, che lo additano come pedofilo, e quelli preoccupati – più che per i fatti, per le dicerie che volano di bocca in bocca – dei genitori dei bambini. Si scoprirà poi che Franz cerca di vedere, almeno da lontano, la sua Chichi, con la quale aveva un rapporto affettuosissimo e che nel frattempo ha lasciato la grande casa. Si è evidentemente consumata una terribile rottura tra suocero e nuora. Altri due capitoli registrano un cambiamento di voce: il quinto, La neve di marzo, è composto sul modello di un’escussione di teste – «a domanda risponde» –, un po’ come in tante altre pagine di Mannuzzu, dalle Ceneri del Montiferro (1994) a Pro­ cedura (1988). Infine, Ritorno da Balena, penultimo capitolo in cui la parola «io» attraversa lo specchio e viene detta ora da Maurizio, la pecora nera della famiglia, giocatore incallito ed eterno debitore che alla fine ha ceduto la sua metà della casa a Franz ricevendone in cambio un vitalizio, peraltro regolarmente insufficiente. Franz e Maurizio: due fratelli e due diversi modi di vedere il mondo. Più la vecchiaia del primo si fa tormentata e carica di dubbi e tensioni verso l’assoluto, più quella del secondo diventa disincantata, feroce. E feroci – d’un’ironia crudele – sono quei dialoghi che li mettono di fronte in numerose scene del romanzo, che sembrano preludere ad altri che

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si leggeranno nell’ultimo romanzo di Mannuzzu, Snuff o l’arte di morire (2013): dove finalmente ci si renderà conto che i due personaggi sono il riflesso di un io dimidiato, irrimediabilmente scisso, di fronte a uno specchio. Qualcosa di tremendo, dicevo, è successo tra Franz e Bia. Inaspettatamente, dopo lo sconvolgimento famigliare, s’era diffusa una quiete nella quale poteva ancora trovare spazio l’amore: una passione scandalosa, e però estremamente delicata tra suocero e nuora, nelle pagine idilliache di una gita al mare di Bosa o di un viaggio in Egitto. Siamo di fronte a una nuova sorta di fuga in Egitto: i due prendono parte a un viaggio organizzato, visitano Cairo e Alessandria, risalgono il Nilo in un battello che, a conti fatti, anni dopo, Franz scoprirà essere naufragato, con tante vittime (forse memore, Mannuzzu, d’un fatto di cronaca dei tardi anni ’80); vivono giorni di vera felicità: una grazia che Franz, «cristiano senza qualità»10, non pensava più di potersi aspettare: né tantomeno di meritarla. E infatti, passato tutto questo, gli resta solo il rimorso di non aver saputo trattenere il passaggio della grazia terrestre, toccata e perduta; non gli resta che il dubbio in cui lo lascia, ineluttabilmente, il desiderio. Un dubbio accompagnato dalla lettura di Pascal e da quella, pure ricorrente, dell’Edipo a Colono di Sofocle, col suo cammino bendato di vecchio esule che è stato incapace, in vita, di vedere e capire. Un rimorso è anche quello di non aver prestato maggiore attenzione a Giacomo, suo figlio; e ancora più da lontano viene un debito che sa di non aver assolto a pieno con la moglie suicida. Ultima cosa, ma più importante per intensità: dopo la fuga in Egitto, Bia è in attesa di un bambino, ma decide di interrompere la gravidanza. Dati i lutti familiari e questa scelta di Bia, per lui inaccettabile (il bambino era in qualche modo un segno della grazia), egli si sente assediato dalle Erin10.  La formula è di S. Mannuzzu, Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio (con G. Fofi), Lindau, Torino 2012.

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ni, o da qualche altra forza oscura che viene dal passato, o da un altrove invisibile: cadenza martellante di tutto il romanzo è un rumore, simile a una palla che batte contro un muro. Un rumore che ossessiona Franz, che è tra l’altro l’unico a sentirlo (insieme a Maurizio). Questa presenza inquietante lo mette a dura prova, ma egli persevera, nell’attesa. La lezione di Giobbe, sempre così viva in Mannuzzu, è più presente che mai, a iniziare dalla soglia del testo, con l’epigrafe: «Egli distende sul vuoto il settentrione e tiene sospesa la terra sul nulla». La lezione resta, dicevo: lui nell’attesa ha deciso di ospitare la domestica Viola, che è rimasta sola con un bambino che sta per nascere, nell’appartamento che fu di Giacomo e Bia. Ma ciò di cui ha bisogno è un altro segnale, specie ora che i rumori della palla sono cessati. Segnale che arriverà, pur foriero di sofferenza, sotto forma di una macchia bianca, sintomo della contrazione della lebbra, avvenuta – chissà – ai tempi della vacanza in Egitto («Possibile che il contagio […] sopravviva per tanto tempo?», FI, p. 237). Infine, segnale sul quale, una volta andato a Cagliari per curare la malattia, continuerà a interrogarsi: Ma poi dico, che importa? Non contano le strade che la lebbra ha percorso per raggiungermi. Conta invece da dove è venuta, fino a me: da chi è venuta […]. Quanto alla gallabiya, dovrò bruciare molte cose appena tornerò. Se tornerò? Però di questo, vada come vada, non ho paura. Ho paura d’altro («È immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dall’accampamento»). Ecco: soprattutto non voglio lasciare sola Viola senza di me, col suo bambino. Che farà, senza di me? (FI, p. 237)

Si sarà capito che molti elementi, tematici o di dettaglio, corrono parallelamente nei due romanzi. In entrambi i casi, abbiamo una storia di generazioni a confronto o in conflitto. Due figure di protagonista in età avanzata con alle spalle un passato tragico, su tutto il suicidio delle donne da cui erano amati, per impiccagione (come anche Giocasta, moglie dell’Edipo che ricorre

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nelle letture e nei rovelli di Franz); entrambi hanno un rapporto di autentica tenerezza con una nipotina, ugualmente vissuto nel teatro d’una grande villa in disarmo. Nelle Fate come nella Fuga abbiamo un racconto permeato di una forte tensione morale: qualità sicura che il giovane Mannuzzu, in un articolo peraltro non sempre indulgente su Elias Portolu, attribuiva alla grande scrittrice nuorese11. Ma c’è un altro particolare, decisamente più significativo, che sinora ho omesso di ricordare: così come Bia dopo la fuga in Egitto – degradata a una sorta di fuitina, in una sorta di compimento figurale all’inverso –, anche la moglie del maestro Giuseppe De Nicola, al momento della sua morte, aspettava da lui un bambino. Ecco che Ornella e Viola, accolte con i loro bambini, neonati o nascituri che siano, sono testimoni di una vera tangenza. Entrambe peraltro sono descritte – seriamente in Deledda, ironicamente in Mannuzzu – con riferimento a una natura in certo modo selvaggia. Un altro dettaglio, partendo da un breve passo dalla Fuga: «È l’uomo che spesso si trasforma in lupo –, spiegò [il maestro] non senza ironia; ma lei [Ornella] non capiva neppure lontanamente certe cose, e al simbolo sovrapponeva sempre la realtà» (FE, p. 142). «La lettre tue», si legge all’inizio di un pensiero di Pascal, che spiega come tutto accada «in figure»12. Cosa di cui è invece consapevole Franz Quai: «Dio è troppo buono per prenderci alla lettera» (FI, p. 218). La domanda che è naturale porsi, ipotizzando una risposta positiva, è se Mannuzzu avesse letto, o avesse in qualche modo 11.  Cfr. S. Mannuzzu, Appunti per Elias Portolu, in «Ichnusa», III, n. 7, 1951, pp. 43-6: p. 43, ove già l’incipit parla da sé: «Elias Portolu è libro di intonazione preminentemente morale», per poi continuare, parlando di un romanzo che «attinge ad una solida moralità in quanto rappresenta fedelmente la vita». 12.  B. Pascal, Pensieri e altri scritti, a cura di G. Auletta, con un saggio di T.S. Eliot, Mondadori, Milano 1994, p. 683.

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presente, il romanzo di Deledda13. Altre sono infatti le coincidenze che si potrebbero notare; per esempio alcuni riferimenti danteschi: diversi quelli al Purgatorio in Mannuzzu (a proposito di espiazione); all’Inferno invece, correlativo letterario degli incubi del parricida Adelmo Bianchi, in Deledda14. E si potrebbe continuare: ma al di là del mero dato intertestuale, è possibile fare alcune considerazioni su una consonanza profonda tra questi due testi. Divisi i due scrittori da circa sessant’anni di differenza, la forbice si allarga ulteriormente se si considera che la quasi totalità della produzione di Mannuzzu, fatto salvo un romanzo degli anni ’50 pubblicato nel ’62 e una serie di poesie15, sta nei trent’anni a cavallo tra i due secoli, a partire dal 1988. E però, tra inizio e fine del secolo, mi pare che una categoria, quella del moderno, unisca i due grandi scrittori. Un moderno solo intuito, avrebbero detto i tanti critici positivi, mai però entusiasti, e in questo senso un po’ maliziosi, per la Deledda – sia l’esempio di Emilio Cecchi o di Luigi Russo. Un tardo modernismo quello di Mannuzzu: di chi ancora, partendo dai frammenti, tenta di ricomporre il senso perduto. E lo

13.  Circolante, dopo le prime edizioni di Treves, nella collezione di opere curata per Mondadori da Eurialo De Michelis, La fuga in Egitto non ha però conosciuto la stessa fortuna editoriale di altre opere deleddiane. Eppure, nel nostro secolo, significativo è che la prima riproposizione sia stata proprio nel 2003 (in una serie di volumi allegati al quotidiano «L’Unione sarda»), in mesi nei quali, presumibilmente, Mannuzzu era impegnato nella scrittura delle Fate dell’inverno. 14.  Altro rimando a Dante, in Mannuzzu, è l’ironico riferimento a Maurizio, inquadrato come Farinata nel decimo canto dell’Inferno, «dalla cintola in su», FI, p. 121. L’espiazione è poi, nelle Fate dell’inverno, una condizione permanente, mentre quella del Paradiso (pp. 43-85), titolo di uno dei dodici capitoli, è correlativa del passaggio momentaneo della gioia, nei panni di una grazia terrestre. Numerosi i richiami danteschi in altri romanzi di Mannuzzu, da Procedura (1988) a Il terzo suono (1995). 15.  Più tardi raccolte, come sempre per Einaudi, nel volume Corpus (1998).

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fa alla fine del secolo della modernità e della post-modernità, e nella sua propaggine vissuta in quello successivo. Sistematizzare Deledda dentro rigidi schemi di storiografia letteraria è pressoché impossibile. Felicissima, e infatti da più parti ripresa, la formula di Pampaloni, secondo il quale l’autrice di Cenere «sulla carta millimetrata del romanzo del Novecento non collima mai», renitente, com’è, «alla cittadinanza negli ismi e a chiunque pretenda di chiarirla per via di sistemazioni»16. È così che le categorie di verismo, decadentismo o simbolismo le stanno strette, tutte al limite concorrenti, nella mescolanza di fonti e voci, alla costruzione di un profilo di scrittrice affacciata sulla modernità. Si pensi alla particolare declinazione del tragico, così come si realizza nelle sue trame: una tensione che nasce «nella rappresentazione di un universo regolato da oscuri poteri che si oppongono, vincitori in partenza, alla fragile volontà umana»17. È vero che essa si sviluppa in un quadro ancora tutto ottocentesco, tardo romantico: laddove la potenza ammaliante del simbolo si scontra con l’arido vero. Lo è però altrettanto il fatto che, a un certo punto, la dialettica del tragico inizia ad abitare i romanzi solo come nuance, non avendo più modo di esplodere, resistendo come pura tensione. Si prenda l’esempio di due personaggi, Annesa nell’Edera (1909) e la già citata Gavina dell’immediatamente successivo Sino al confine (1910)18. La prima vive a fondo tutta l’esperienza del tragico, che si manifesta nell’atto sacrilego dell’omicidio da lei compiuto, per poi sopravvivere nella vanità di un’espiazione che la restituirà all’amore, già ardentemente voluto, ora totalmen-

16.  G. Pampaloni, Solitaria Deledda, in «Corriere della sera», 26 settembre 1971. 17.  A. Dolfi, Grazia Deledda, cit., p. 18. 18.  Riprendo, a tal proposito, alcune mie considerazioni sulla categoria del tragico in Grazia Deledda, cfr. A. Cadoni, Ipotesi sul tragico in Grazia Deled­ da, in «Paragone/Letteratura», LXIX, n. 135-137, 2018, pp. 149-161.

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te stinto, inaridito; fermiamoci però sulla seconda: già spettatrice e mai artefice dell’azione tragica, si spinge sino al confine della tragedia, senza che questa esploda. Religiosissima, e però legata da amore scandaloso e impossibile al seminarista Priamo, Gavina lascerà Nuoro per trasferirsi a Roma, sposata a un medico al quale la lega un affetto tiepido. Girando per la città, quasi da flâneuse, fa esperienza dello choc della vita moderna; legge libri di psicologia e collega i propri stati d’animo a quelli descritti nei grandi romanzi europei della biblioteca del marito, colto e razionalista. Tornata in Sardegna per un periodo di vacanza, tutto le appare diverso, ora che crede d’aver strappato il velo di superstizione religiosa che l’obnubilava. Pensando di aver risolto i propri conflitti, vorrebbe pacificare quelli degli altri per mezzo del logos: scacciare i demoni del fratello alcolista; riavvicinarsi a Michela, l’antica amica che ha nel frattempo avuto una bambina, orfana di Priamo, il quale – non potendo più avere Gavina – aveva trovato conforto in lei, prima di mettere fine alla propria vita. Nella sua parabola di formazione Gavina non ha però calcolato che il suo mutamento non corrisponde a quello della sua terra, né di chi la abita. L’incontro finale con Michela è, da questo punto di vista, significativo: la parola annichilita lascia spazio allo scontro fisico: Gavina è colpita dall’ex-amica con un coltello. Sanguinante, convulsa, ritorna a casa. Cosciente d’aver rischiato la morte, di essersi spinta «sino al confine», la donna decide di dedicare la sua vita a «fare il bene», convinta di avere finalmente compreso le regole che governano gli individui e il loro stare al mondo19. Giuseppe Antonio Borgese ha dato un giudizio tempestivo e lusinghiero su questo romanzo, lamentando però questa parte finale, per cui la conciliazione dei conflitti della protagonista ne annacquerebbe il

19.  G. Deledda, Sino al confine, pref. di D. Maffìa, Ilisso, Nuoro 2008, p. 243.

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senso tragico20. Ma si tratta davvero di conciliazione? Parrebbe invece che la neofita Gavina abbia fideisticamente convertito il tremore religioso in logos, sempre tormentata da un dover agire (o pensare) imposto dall’esterno, ancora fatalistico, che viene a sostituire un dover credere. Non ripete, insomma, il percorso dell’io narrante delle Nourritures terrestres (1897) di André Gide, che prima di incontrare Menalca partiva da una situazione simile a quella in cui Gavina aveva trascorso la prima parte della sua esistenza: «Castigavo con allegrezza la mia carne, e nel castigo trovavo più voluttà che nella colpa – tanto m’inebriavo d’orgoglio nel non peccare semplicemente», dice sull’inizio, per continuare, immediatamente appresso, col racconto di un’avventurosa esplorazione della libertà21. Si tratta d’un nodo, pare di capire, che per la protagonista deleddiana è impossibile sciogliere: Gavina resta così avvinta a un particolare stadio del tragico, inteso come tensione permanente: schiacciata tra due vuoti di senso, si configura, in diverse direzioni, come un personaggio squisitamente moderno. Col tempo, del tragico resiste soltanto questa tensione, filtrata dallo sguardo – e soprattutto dalla memoria – d’un personaggio protagonista che sempre più visibilmente frappone una lente soggettiva di fronte all’occhio del narratore. A tal proposito si potrebbe notare, come pure qualcuno ha fatto, che con l’incedere della modernità le trame in Deledda si sono asciugate; drasticamente diminuite le dramatis personae22, l’attenzione di dette trame s’è inevitabilmente concentrata sulla psicologia del personaggio: è il caso della Fuga, così come dell’altro e più cele-

20.  Cfr. G.A. Borgese, La vita e il libro. Seconda serie, Fratelli Bocca, MilanoRoma 1911, pp. 95-104. 21.  A. Gide, Paludi. I nutrimenti terrestri, Garzanti, Milano 1998, p. 91. 22.  Il riferimento è a Pietro Pancrazi, tra gli esponenti di spicco della critica, diciamo così, storica di Grazia Deledda, cfr. P. Pancrazi, Ragguagli di Parnaso (1918-1922), Laterza, Bari 1941, p. 49.

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brato romanzo ispirato dai paesaggi di Cervia, Il segreto dell’uo­ mo solitario (1921). Anche in Mannuzzu – e in modo ancor più evidente – ci troviamo di fronte a veri e propri drammi, lavorati sul filo di dialoghi, ora frivoli, spesso brucianti: mai però capaci di affondare totalmente, almeno non in modo diretto, in ciò che è assoluto23. Il senso del tragico resta dunque sempre sospeso, oppure sepolto da un continuo lavorio della memoria: il soggetto, io narrante e protagonista, non fa che rammemorare24: le tragedie le ha lasciate dietro di sé, stinte e al tempo stesso incandescenti. Vive in perenne ricordo, in uno stato di elegia che alterna momenti di idillio guastati dalla presenza di fantasmi, dal ricordo di tragedie passate. Non è casuale il riferimento a Giocasta e a Edipo, ora a Colono, nella tragedia scritta da un Sofocle novantenne, che lì era nato. Il re, ormai cieco, vaga e arriva in questa città accompagnato da Antigone; parla con Teseo, si reca nel bosco sacro alle Eumenidi, che lo inghiottirà per sempre: ma la tragedia per lui si è consumata, o ancora si consuma lontano, nella città insanguinata – Tebe – che s’è lasciato dietro. La tragedia è ricordo anche per il protagonista della Fuga. Fortissima – vera presenza – è la già menzionata immagine di forza espressionista, la donna impiccata che penzola come una marionetta.

23.  È caro all’autore un altro pensiero di Pascal, rielaborato nelle parole del protagonista/narratore di un suo racconto: «Secondo Pascal abbiamo il torto di essere troppo sensibili alle cose piccole e troppo poco alle grandi», S. Mannuzzu, La figlia perduta, Einaudi, Torino 1992, p. 146. Di conseguenza Mannuzzu, rielaborando ad arte un passo di Persio – circum praecordia ludit –, sosteneva che per arrivare al cuore di ciò che è assoluto si dovesse attendere la fine dell’incandescenza, cfr. S. Mannuzzu, La vergogna, in M.T. Serafini (a cura di), Come si scrive un romanzo, Bompiani, Milano 1996, pp. 89-104: p. 100. 24.  Cfr. M. Pala, Mannuzzu. La memoria di Sisifo, in «La grotta della vipera», n. 74, 1996, pp. 9-24.

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«La vita è un dramma continuo, di cui noi siam gli eterni personaggi»: con queste parole, pronunciate indirettamente, Lia, la protagonista di Nel deserto, muove un rimprovero a Piero Guidi, l’uomo col quale, rimasta vedova, potrebbe ancora essere felice: ma che deciderà di abbandonare, replicando il pat­ tern, così consueto in Deledda, di sentimento della passione e annullamento del desiderio in funzione di autocastigo. L’uomo sarebbe stato colpevole d’essersi contraddetto25. In realtà, da ciò che si può intendere dal dialogo tra i due personaggi – uno di quei dialoghi ai quali sopra facevo riferimento –, non sembrerebbe che il signor Guidi si contraddica, sostenendo anzi proprio quella stessa tesi: «la vita è bella, signora Lia, ma bisogna denudarla di tutte le sue vesti goffe, dei suoi gioielli falsi». Emerge comunque una radicale opposizione di punti di vista: quello ottimistico dell’uomo, convinto che, una volta liberata la vita dalla coltre di illusioni, sia possibile attingere alla felicità, alla bellezza della vita stessa; quello melanconico della donna, spinta alla scoperta da un desiderio costantemente vanificato: a iniziare dal trasferimento dalla Sardegna a Roma, in una dialettica di illusione/delusione che parrebbe squisitamente leopardiana, già sperimentata, peraltro, dalla Gavina del precedente romanzo26. D’altra parte, il senso d’una vita intesa come dramma, donne e uomini in un giuoco delle parti, è un altro segnale di adesione a una concezione moderna dell’esistenza, vuoi scespiriana, vuoi 25.  «Avrebbe voluto dirgli che egli si contraddiceva, poiché fino a quel momento aveva sostenuto che la vita è un dramma continuo…», G. Deledda, Nel deserto, Treves, Milano 1911, p. 173. 26.  Vista come una sorta di cassa armonica in grado di amplificare il senso di spaesamento del personaggio, anche la rappresentazione di Roma trova maggior compimento nel passaggio da Sino al confine a Nel deserto. Sulla rappresentazione della città in quest’ultimo romanzo, cfr. P. Benigni, La let­ teratura italiana per il turismo culturale. Luoghi, forme e modelli, Universitalia, Roma 2018, pp. 137-144.

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pirandelliana27. Si tratta d’una venatura metalinguistica riscontrabile anche nella Fuga in Egitto, ad esempio nella scena madre, quella in cui Antonio piomba a casa del maestro con l’idea, tutta sua, di riparare alla situazione di Ornella. È il momento in cui il figlio si scontra, per la prima volta apertamente, col padre. Alla ferma decisione di quest’ultimo, Antonio risponde con una punta di ironia rabbiosa: «questi sono romanzi bell’e buoni, che da queste parti non usano» (FE, p. 166). Nondimeno, anche Giuseppe De Nicola s’era sentito al centro della scena. Accortosi della relazione tra il figlio e Ornella e persino del fatto che Marga ne fosse a conoscenza, deluso dal comportamento del figlio, su cui avrebbe voluto proiettare una perfezione etica che lui non aveva saputo incarnare, egli pare, a un dato momento, guardare il fondo della verità: quando «il dramma del quale si sentiva come il personaggio centrale gli appariva nella sua cruda naturalezza» (FE, p. 81). Un simile passaggio ci permette di ritornare sulla questione delle coincidenze tra La fuga e Le fate, dove anche Franz rievoca un giuoco delle parti che lo vedeva impegnato assieme a Bia: «sempre fingevamo ci fosse fra noi qualcosa che non c’era, finendo col crederci; e fingevamo di essere chi non eravamo, convincendoci alla fine d’essere noi stessi» (FI, pp. 137-138). Anche la questione del dialogo o conflitto generazionale è presente in entrambi gli autori. Se in Mannuzzu prende la forma rovesciata dell’amore impossibile e fantasmatico tra Franz e Bia, in Deledda è più chiaramente e classicamente declinato il rapporto padre/figlio: tema universale, e particolarmente caro,

27.  Per quanto i mondi di Deledda e di Pirandello possano essere incommensurabili, e nient’affatto simpatetici, simili risonanze sono state più volte notate, cfr. ad es. M. Manotta, Il sole opaco della narrazione nelle tarde novelle di Grazia Deledda, in Id. - A. M. Morace (a cura di), Grazia Deledda e la so­ litudine del segreto, Ilisso, Nuoro 2010, pp. 199-208: p. 208, e E. Gagliardi, I romanzi cervesi di Grazia Deledda, cit., p. 40.

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per la sua capacità di mostrare in controluce uno snodo epocale, al primo Novecento, Kafka (tra l’altro: Franz) e Svevo su tutti. Anche in Deledda è operato un interessante rovesciamento del paradigma, laddove troviamo un figlio energico, attivo, ormai votato agli affari e un padre contemplativo, esitante, che solo alla fine si risolve a fare l’unica azione del romanzo: paradossalmente, quella della fuga. Intellettuale, peraltro, nel suo ruolo di maestro: sarebbe lui l’inetto, se volessimo parlare di inettitudine come d’una funzione drammatica. E inetti, se ci pensiamo, sono tutti i personaggi che dicono «io», cioè tutti i protagonisti, dei romanzi di Mannuzzu. Inetti che dicono «io», elegiaci votati alla meditazione e al ricordo. Se è vero, come ha sostenuto John B. Vickery, che ogni elegia, specialmente nella prosa moderna, nasce da una perdita28, la domanda d’obbligo è questa: cosa è perduto nei romanzi di Mannuzzu? Forse le radici. Prendiamo un passo da Finis Sar­ diniae, uno scritto cruciale per intendere l’autore di Procedura: Comunque, trattandosi di lutto delle radici, la Sardegna è il luogo ideale, anche in termini d’immediato buon senso: tanto soggetta com’è a trasformazioni e precarietà; tanto contaminata, aggredita nell’identità sua. E forse è inevitabile l’emergere degli intrecci famigliari. Sappiamo che le radici stanno più in fondo; e rispetto a esse le famiglie sono una species: anzi, magari un post, una conseguenza – nemmeno la prima. Ma nella riduzione di tutto al particulare, come ci tocca, se la spina familiare punge tanto, là nell’isola, è segno che son entrate in sofferenza le radici. E in ogni caso sono tagliate le vie che portano all’altro: qualsiasi altra persona.29 28.  Cfr. J. B. Vickery, The Prose Elegy. An Exploration of Modern American and British Fiction, Louisiana State University Press, Baton Rouge 2009. 29.  S. Mannuzzu, Finis Sardiniae (o la patria possibile), in L. Berlinguer A. Mattone, Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, Einaudi, Torino 1998, pp. 1223-44: p. 1238.

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Tra le diverse cose, salta qui agli occhi il riferimento alla famiglia, «con le sue dolci, irrinunciabili, eppure oscene, strozzate, verità», da intendersi come «luogo privilegiato dell’ambivalenza e dell’ambiguità, […] cassa d’infinite e inquiete risonanze»30. Senso della famiglia che si ritrova, con le dovute differenze, sia in Mannuzzu che in Deledda. La ricomposizione del nucleo tende nella Deledda verso una figuralità da sacra famiglia: il nonno è il vecchio Giuseppe che prende in sposa una giovane gravida, mentre la fuga in Egitto prelude a un ritorno possibile alle radici. Al contrario, per Mannuzzu, da questo punto di vista non c’è niente da fare. In un intervento del 2007 egli riconosceva alla Deledda uno straordinario «senso del bene e del male»: quello che, per tanti motivi, manca al presente. Uno tra i tanti, forse, è dato da quella crisi del senso di vivere in un mondo nel quale si cerca di far riemergere un passato ormai sepolto, in cui si è rotto il rapporto con il materiale identitario, con «tutto quel che succedeva – o non succedeva – in Sardegna, su connottu»31, ormai perlopiù abitato da fantasmi (i fantasmi dell’identità, per citare il titolo di un altro suo saggio)32. Per questo motivo la ricomposizione del nucleo famigliare si accompagna al manifestarsi di una malattia biblica, anzi evangelica; e le radici, davvero, non ci sono più, o almeno non sono più visibili. Eppure abbiamo visto che anche per Grazia Deledda il ritorno alle radici è problematizzato. Non si tratta soltanto dell’offuscamento della riconoscibilità del luogo operato col ritorno nella Fuga in Egitto, in questa sorta di deterritorializzazione: ma anche del 30.  Così ha scritto, a proposito dell’immagine della famiglia restituita dalla narrativa mannuzziana, M. Onofri, Procedura Mannuzzu, in Id., Altri italiani. Saggi sul Novecento, Sette Città, Viterbo 2010, pp. 173-181: pp. 176-177. 31.  S. Mannuzzu, La rete strappata, in D. Caocci (a cura di), Il fantasma di Grazia. I narratori parlano di Grazia Deledda, Aipsa, Cagliari 2007, pp. 4955: p. 51. 32.  S. Mannuzzu, Il fantasma dell’identità, in F. Abate  et al., Cartas de logu. Scrittori sardi allo specchio, Cuec, Cagliari 2007, pp. 140-44.

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nostos amaro di Sino al confine o Nel deserto, per rimanere soltanto alle opere di cui s’è già fatta menzione. Un altro nostos, in Deledda, è stato quello, letterario, di Cosima: romanzo nel quale al racconto di formazione dell’adolescente che contro ogni convenzione desidera perseguire la sua vocazione di scrittrice corrisponde il racconto di un altro mutamento, causato – nelle parole di Giovanna Cerina – dalla «tensione tra l’immobilità di un sistema antropologico chiuso e la pressione di un sistema culturale nuovo». Ma fare ritorno «alle origini, dal punto massimo della sua parabola intellettuale, significa per la Deledda rivendicare senza complessi provinciali, ma anche senza enfasi, la propria identità»33. È così che Cosima diviene anche il modo suo di fare i conti con i propri ricordi, di risistemare il proprio materiale identitario, come lo stesso Mannuzzu avrebbe chiamato quel coacervo di ricordi e testimonianze materiali del passato. Colpisce, nell’opera postuma della grande scrittrice, la presenza ricorrente di un grande pino, costante nelle descrizioni della tanca frequentata dalla famiglia (alla sua ombra sarà anche costruita una casetta), in sé assommante qualità realistiche e figurali, con tendenza a personificazioni uggiose: Durante la notte si scatenò una forte bufera: la grandine mitragliava la piccola casa, e il pino urlava come un mostro […]. Il vento gridava e piangeva nella pianura come nel mare, e solo il pino pareva potesse combattere così con l’uragano come un eroe inferocito contro un intero esercito […]. All’alba il tempo si calmò, d’un tratto […]. Solo il pino continuò in un suo lieve brontolio, quasi pensieroso. Cosima lo sentiva, nel sonno lieve del mattino: e le pareva che il pino mormorasse: perché tutto questo?34 33.  G. Cerina, Il favoloso apprendistato di Cosima, in U. Collu (a cura di), Grazia Deledda nella cultura contemporanea, Consorzio per la pubblica lettura “S. Satta”, Nuoro 1992, pp. 203-230: pp. 204-205. 34.  G. Deledda, Cosima, ed. critica a cura di D. Manca, Edes, Sassari 2016, pp. 70-71.

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Cosima/Grazia, evidentemente legata al ricordo del pino, alla sua presenza così come al simbolo, lo trasfigura in un eroe, baluardo a fronte di forze superiori, saggio sussurratore di verità esistenziali. Il pino è una pianta ricorrente anche nella narrativa di Mannuzzu. Una città, quasi sempre la stessa, è il palcoscenico delle sue vicende: mai nominata («T.»), trascolorata come la Cervia deleddiana, eppure oggettiva, specchio di quella Sassari in cui l’autore ha vissuto la gran parte della sua vita35. Più d’una volta – tra gli innumerevoli riferimenti alla presenza cittadina dello stile Liberty – torna la Villa Mimosa. Nel racconto Dedica (1992) l’abbattimento di un vecchio pino è al centro delle discussioni tra il narratore e sua moglie; stessa villa, altro romanzo, ancora quel pino: ricordiamo, nelle Fate dell’inver­ no, il tonfo che ossessiona Franz Quai a tal punto da dar retta a un’idea inverosimile del fratello Maurizio: che fosse prodotto dal gigantesco pino accanto alla villa. La pianta viene fatta tagliare, ma questo non basta. In quello che forse è l’episodio più significativo del romanzo, i due fratelli faranno scavare la terra per diversi metri, attorno alle immani radici, ormai morte: e ci getteranno cinque litri di nafta, per poi innescare un’atroce, ridicola cerimonia del fuoco. E della cenere.

35.  Sulla peculiarità dei luoghi, e in particolare della città di Sassari, nella narrativa di Mannuzzu rimando alle considerazioni pubblicate in un mio studio generale sull’autore di Procedura, A. Cadoni, Il fantasma e il seduttore. Ritratto di Salvatore Mannuzzu, Donzelli, Roma 2017, pp. 31-46 e passim.

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«Più non cercate, lontano andò» Su Procedura di Salvatore Mannuzzu

1. Genesi «Ma sarebbe inutile cercare tra i tanti volti, sotto il cono di luce dell’abat-jour, anche quello della goffa, pigra, svogliata e timida Natalia. Quel volto è tutto in penombra, si nasconde, si ritira. Si restringe a due occhi neri e pungenti, mobilissimi, innamorati e impietosi». Con queste parole Cesare Garboli, in una prefazione a Lessico famigliare del 1971, riconosceva nella scrittura di Natalia Ginzburg la marca, tra le altre, della reticenza. Curioso che si tratti della stessa categoria figurale che la critica ha costantemente rinvenuto nell’opera di Salvatore Mannuzzu. Curioso, ma non casuale, se è vero che fu proprio Ginzburg artefice, perlomeno in parte, del peculiare successo letterario di Mannuzzu. Già autore di racconti, saggi, traduzioni e soprattutto liriche per la rivista «Ichnusa» – la memorabile avventura culturale, faro Antonio Pigliaru, alla quale il giovanissimo Toti, suo allievo e poco più che ventenne, prese parte, e non in secondo piano, all’inizio degli anni Cinquanta –, Mannuzzu aveva scritto, nelle more d’un concorso che nel 1955 lo avrebbe fatto diventare giudice, un romanzo, Un Dodge a fari spenti, che avrebbe però pubblicato soltanto nel 1962, da Rizzoli: sotto pseudonimo, per

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di più, giacché sua preoccupazione – allora e oltre – era che le sue sentenze non venissero confuse coi suoi racconti, magari considerati brutti. Per lo stesso motivo aveva smesso di scriverne, solo riservandosi di pubblicare certe poesie che destinava, anche con una certa continuità, a riviste prestigiose come «Nuovi Argomenti» o «Paragone». Ma ogni rinunzia, si sa, dura sinché dura: in questo caso sino al 1966, quando – lo racconta l’autore stesso, reticentemente celato dietro la terza persona – decide di tentare «una sortita», ubbidendo «anche a un’ulteriore sollecitazione: mesi prima gli era morto tragicamente un fratello», fatto di cui «bisognava trovare una metafora». A questa contingenza risale il più enigmatico tra i romanzi di Mannuzzu, Le ceneri del Montiferro: per il quale si trattò, a dire il vero, d’un voto sciolto a metà, giacché quelle pagine di arduo sperimentalismo, calibrate e frammentarie, rimasero in un cassetto per quasi trent’anni. Iniziava poi per Mannuzzu una nuova stagione, quella della politica attiva, dove il ruolo da deputato (1976-1987) era inteso allo stesso modo: inconciliabile con il romanzo. Fu però caso che dal 1983, negli stessi banchi della Camera, dalla parte del Pci, sedesse anche Natalia Ginzburg. Spesso impegnati su stessi temi (su tutti, la riforma del sistema carcerario), ai due scrittori restava il tempo per parlare di letteratura; ciononostante, Mannuzzu non s’azzardava a menzionare i suoi trascorsi da narratore, né a parlare delle sue poesie con l’affermata collega, per via di quella sua natura – si sarà già intuita dalle sparute notizie appena riportate – così poco incline all’autopromozione. Nel frattempo aveva «però […] scoperto il computer; e gli era venuta voglia di ritornare sulle Ceneri del Montiferro»; inoltre «avvertiva che l’esperienza parlamentare volgeva al termine e bisognava trovare altro cibo per il vorace verme solitario che mordeva dentro». Vinta dunque la vergogna – quale miglior cifra esistenziale per l’autore reticente? – fece leggere Le cene­ ri a Natalia Ginzburg, a patto che il giudizio fosse determina-

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to da assoluta, finanche brutale, sincerità. Giudizio che, con un certo sollievo, arrivò, assai positivo. Il romanzo fu dunque proposto a Einaudi, presso il quale la Ginzburg era autrice e consulente preziosa, ma restò inedito ancora per sette anni; la vena narrativa di Mannuzzu era però riaffiorata, né più esisteva alcun conflitto, di interesse o etico. Risale dunque a quei mesi del 1987 la scrittura di Procedura, che l’editore accolse invece quasi immediatamente, già pronto per la fortunata uscita dell’anno successivo, che valse al romanziere rinnovato una serie di premi (Viareggio e Dessì, tra gli altri) e il plauso quasi unanime della critica.

2. Oltre il genere Un altro riconoscimento fu il Premio Gran Giallo Città di Cattolica, evenienza che ci porta a un fatto discusso sin dalle origini: Procedura è effettivamente un giallo? Su questo punto battono i testimoni della più immediata e interessante ricezione critica. Oreste Del Buono, in un articolo capace di innescare un dibattito, leggendo questo romanzo a fianco a un altro uscito negli stessi giorni per Editori Riuniti, L’oro di Fraus di Giulio Angioni, si chiede, sin dal titolo, se sia nato un giallo sardo; un paio di settimane dopo, dalle colonne del «Giornale», gli fa eco Geno Pampaloni. A questo punto, anche Mannuzzu decide di intervenire, reclamando la sua parte sulle pagine della «Nuova Sardegna», accanto a un’intervista allo stesso Del Buono: e lo fa, come di consueto, rimescolando le carte, pacatamente dissimulando. Cosa certa è che al centro di Procedura c’è una detection: con­ dicio sine qua non, ma non esclusiva, del genere. Tutto parte da un omicidio nella piccola città di provincia, il cui nome è nella sola iniziale, T.: solo la prima, forse la più vistosa, d’una serie di reticenze o ellissi; la vittima è Valerio Garau, consigliere stima-

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to nel locale tribunale, conosciutissimo in città, generalmente benvoluto, morto «per maleficio: un grano bastante di cianuro». Il fatto avviene il 17 marzo del 1978, ventiquattr’ore dopo il rapimento Moro. Coincidenze cronologiche – ora diremmo storiografiche – a parte, ogni successivo dettaglio è affidato alla memoria del protagonista e narratore in prima persona, che compone una sorta di diario in cui i fatti sono rigorosamente datati, ma con un diffuso senso di vaghezza, forse per via d’una certa inaffidabilità, mnemonica o professionale, mai celata: «Non sono stato un buon giudice: o, almeno, non un giudice diligente, operoso, affidabile; ho ceduto continuamente a distrazioni». Eppure è a lui che spetta l’ufficio ingrato di indagare sull’omicidio: proprio a lui, giudice forestiero, destinato per una qualche non specificata penitenza al tribunale di questa innominata Sassari, evanescente e però inequivocabile, città che sente «non proprio inospitale, forse, ma chiusa». Attraverso le sfumature del suo tono passano le inclinazioni dell’autore: l’affidare a una iniziale i nomi di luogo, accanto alla T. di Sassari una C. che sta per Bosa, quasi che l’ellissi del toponimo sia il correlativo figurale dell’atopia, intesa come quella perdita di identità dei luoghi che per Mannuzzu è al centro dell’esperienza di crisi del senso; il dire di sé per allusioni, celando peraltro quasi tutto, a iniziare dal nome; l’avanzare ipotesi sempre per formule dubitative. «Ma non voglio parlare di me – incalza da principio –. La storia che intendo consegnare a questo quaderno è un’altra: e non mi appartiene affatto». Affermazione, quest’ultima, sulla quale a nostra volta ci sarà dato di dubitare. Di sicuro appartiene, a tale storia, la sequela di personaggi secondari, alcuni indimenticabili, come lo zio della vittima, il Monsignor Pietro Garau, fama di impareggiabile esorcista in città, noto per le sue stravaganze; per non dire della di lui sorella, Teresita, la «zia cieca», che in una pagina «da antologia» (Pampaloni) scorre l’album di famiglia di Valerio, popolato di morti, spesso in maniera tragica: come Biba, la carismatica so-

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rella che – prematuramente scomparsi i genitori – seppe essere amica, madre e padre del giudice assassinato. Biba che, attratta da forze oscure, sprofondò in un abisso di dipendenze, per darsi infine la morte, «per mare». Ci sono poi gli amori di Valerio Garau: Niki, l’ex moglie dalla quale non aveva mai divorziato; l’amante Lauretta Oppo, anche lei giudice, a sua volta sposata con il barone Giomaria Martinez, «fama di vero giurista, vecchia nobiltà cagliaritana, top in utroque nell’isola». Va da sé che tutti questi personaggi – per ragioni passionali o economiche – sono potenziali sospettati; su nessuno grava però la minima traccia di evidenza. Disorientato, sbalzato da un sopralluogo all’altro, preso tra le tante testimonianze – quali affidabili? – di chi ha conosciuto Garau, per di più incalzato da un superiore interessato più ai rapporti di corridoio o alle dicerie che alla verità dei fatti, l’investigatorenarratore gira a vuoto, alimentato dal dubbioso carico di ipotesi. In questa giostra, il nostro protagonista si fa largo attraverso la figura che l’autore – metaforista sapiente – gli ha cucito addosso, quella d’un cacciatore dal carniere vuoto.

3. Musica senza suono E vuoto, questo carniere, sarà destinato a restare, persino a fronte d’una soluzione del caso, con l’impossibile ingresso in scena di un colpevole plausibile, vero convitato di pietra del romanzo. Torniamo allora alla questione del genere; il giallo c’è, con delitto e investigazione conseguente che garantiscono la tenuta, diciamo così, editoriale. Ma quella offerta al lettore di Procedura è una struttura senza appigli, se non addirittura un’opera destrutturata, privata delle evidenze del codice. Ancora nel suo già menzionato, brevissimo scritto, Mannuzzu ha scritto che «il “giallo” è un percorso logico e necessitato dentro realtà capaci di significati precisi (le prove e gli indizi) e verso

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una realtà finale (la soluzione) che raccoglie tutte le precedenti». Qui invece «prove e indizi sono per definizione equivoci e la strada che segnano è tanto incerta che può apparire vana; porta solo a sé stessa e poi davvero non si sa dove». Il nodo cruciale si trova proprio nella guisa di quell’attività venatoria, nella maschera del cacciatore. Si prendano le pagine del primo sopralluogo nella casa di Viale Caprera nella quale abitava il giudice Garau: il personaggio che qui dice «io» è investito dai dettagli, senza che questi siano in grado di parlare. Oggetti desueti, rari e preziosi, insistono nella casa del morto, incapace di rinunciare a ciò che desiderava. Un’enigmatica gouache di Paul Klee, una vetrina piena di antichità e reperti archeologici (tra cui un magnifico bronzetto d’età nuragica, una navicella votiva), alcuni ereditati, altri forse procurati illegalmente da un certo Pons, suo lontano parente, personaggio dal fascino ambiguo, santone e chiffonnier, che pare uscito da quell’Ottocento francese da Mannuzzu così amato, tra I misteri di Parigi o certe pagine di Balzac: prossimo, paronomasticamente, allo scespiriano Poins, ancor più al suo chiassoso sodale Falstaff. Oggetti desueti, dicevo: metafore, sul momento, impossibili da decifrare. C’è in vista anche un impianto stereo, col giradischi vuoto: notai un nastro, dentro il registratore, accesi e premetti «play»: venne subito il crescendo di archi e del flauto che annunzia l’entrata di Papageno, «ricoperto di piume dalla testa ai piedi, con la sua grande gabbia, di uccelli»: «Der Vogelfänger bin ich ja, Stets lustig, heisa, hopsasa!» «Ha importanza?» mi si avvicinò subito Masu, con qualche preoccupazione […]. «Non credo». Ma quella musica («heisa, hopsasa!»: «ohé, evviva!») mi restò nelle orecchie a lungo.

Ha importanza? Non c’è in Procedura – ma credo valga per tutta l’opera mannuzziana – una singola nota che si perda nel vuoto, sia il sublime Bach, sia l’elegia più minimale di certe canzoni, dal Gardel della Figlia perduta al Leonard Cohen del Catalogo, siano le frasi del sassofono di Charlie Parker in Un

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morso di formica. E pure il tentativo vano di decifrare gli indizi, sarebbe a dire saltare il vuoto tra metafora e verbum proprium, si traduce a sua volta in una paradossale equivalenza sonora: quando l’oscuro viaggio di quella navicella votiva giungeva al protagonista «come una musica senza suono». Allo stesso modo, le inconfondibili scale del flauto di Pan che, sullo stacco degli archi, anticipano l’entrata in scena di Papageno, non fanno che accrescere lo spaesamento, non solo professionale, del giudice investigatore.

4. Fonti Al di là dei fatti, ciò che più conta in Procedura affiora con gli altri testi, musicali o no, che scorrono sotto il romanzo, lo animano e brulicano, nella veste discreta che perfettamente si adatta allo stile preciso, controllato e inquieto, dell’autore. La storia del giudice investigatore è quella di Papageno, goffamente al passo del suo Tamino, tendente invece all’assoluto; ma mentre quest’ultimo sarebbe lo sfuggente Garau, morto eppure vivissimo nel romanzo e nella memoria chi lo ha conosciuto – coro di un romanzo antitragico –, è però il primo dei due personaggi a dire «io», a sobbarcarsi il carico narrativo: e non può che farlo nel segno dubbioso, timido, a tratti comico di un Papageno. O di un Leporello. L’autore trasmette a questo suo narratore l’accortezza di chi sa che alle cose che bruciano bisogna girare intorno, aspettando che si raffreddino; i due, autore e personaggio, non potranno che confermare il pensiero in cui Pascal osserva come gli uomini si accendano così facilmente per le quisquilie, restando freddi di fronte alle cose assolute. Il nostro io senza nome allora segue le tracce con una guida del tutto particolare come Papageno, l’uccellatore dal carniere vuoto: con la sua allure tutt’altro che da maestro. Ma se è vero che i maestri son mangiati in salsa piccante, sarà meglio resta-

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re nell’ombra, osservare le cose senza declamare verità incerte. Non è stato un caso che la cassetta con Il flauto magico fosse ferma proprio su quel punto, come se il morto l’avesse lasciata su quella traccia proprio per lui. D’altronde Procedura è un romanzo nel quale i morti fanno cose particolari, delle quali è meglio non dire qui oltre, per lasciare a chi ancora non l’avrà letto il gusto del mistero, che comunque in queste pagine non manca; ma sono comunque loro a compiere ogni azione rilevante: ecco perché parlavo di romanzo antitragico, dove tutto è in qualche modo dato prima dell’inizio. Si è detto di Papageno e del Zauberflöte, ma ci sono altri sottotesti, chiamiamoli così, persino più importanti. Un precedente riferimento era andato a Leporello, altra possibile guida di un’indagine condotta se non pavidamente, tiepidamente: dentro una concezione della vita binaria, tra chi la brucia e chi lentissimamente protegge lo stoppino che consuma la cera, osservando e tentando di stare alla larga da ciò che è incandescente. Mannuzzu valuta ogni sfumatura ed è in possesso di tutta la malizia del narratore: così mostrando che il solo testimone che possa tentare di inseguire il senso sfuggente di ogni cosa – mostrando la fatica di tale inseguimento – debba forzatamente propendere verso la seconda declinazione. Ho già detto delle innumerevoli volte in cui, col suo fare distaccato, fintamente svagato, il giudice investigatore ostenta la sua estraneità alla storia narrata: e ho già detto anche che di ciò è lecito dubitare. Egli è in fondo il Leporello del suo Don Giovanni: la chiusa della prima parte del romanzo – Actus Tragicus – non mente, così come l’epigrafe: «Più non sperate / Di ritrovarlo, / Più non cercate. / Lontano andò». Un monito iniziale, che però nell’opera di Mozart arrivava alla fine, pronunziato proprio da Leporello dopo il consumarsi dell’atto tragico, in scena, su quelle note profondissime già anticipate nell’Ouverture. In Procedura, ho già detto, non c’è tragedia, ma solo l’elegia d’una

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ricerca vana, o quanto meno interminabile, dato che nessuna risposta è definitiva: e che non si può davvero riavere ciò che è perduto. La domanda cruciale, prima ancora di chi abbia ucciso Valerio Garau, è infatti un’altra: chi è stato Valerio Garau? Domanda impossibile: ma il narratore non ha seguito il monito di Leporello, che l’autore ha invece inciso sulla soglia d’ingresso. Il Don Giovanni di Mozart e Da Ponte è stato per Mannuzzu una sorta di ossessione; per lui che ha lavorato sempre, come un compositore, sul concetto di variazioni sul tema, è stato un vero e proprio filo narrativo, nascosto in quasi tutti i suoi romanzi, evidente invece nel Catalogo (2000), vera e propria parodia. C’è sempre un protagonista-io narrante tiepido, osservatore, a tratti pavido, che insegue vanamente un alter-ego che invece vive (o ha vissuto) a ritmi sfrenati, bruciando tutto: seduttore e fantasma. Ma fantasma, per certi versi, coi suoi tratti evanescenti, è lo stesso io narrante che, come in uno specchio, si direbbe platonicamente, si riflette nel suo alter ego. Prendete l’ultimo Mannuzzu, il suo capolavoro estremo, in ogni senso. In Snuff o l’arte di morire (2013) il protagonista e narratore è scherzosamente chiamato Amadè, a causa della sua mania per Mozart e le Nozze di Figaro; l’altro, Beau (Beaumarchais?) ha invece vissuto come un personaggio mozartiano, ovviamente in quella declinazione oscura del Mozart-Tamino, contrapposta a quella leggera del Mozart-Papageno di cui ha parlato Massimo Mila.

5. Titoli d’una procedura L’io narrante di Procedura; Amadé (Piero) in Snuff; Farci, l’insegnante continentale del Catalogo, e tanti altri gli esempi che si potrebbero fare: tutti questi personaggi che in Mannuzzu dicono «io» hanno inseguito il loro fantasma, costretti nel costume di un Papageno. Di più: tutti hanno narrato le gesta del loro Don Juan, autori, ognuno a suo modo, d’una sorta di catalogo.

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Quello di Procedura è nel diario scritto dal giudice investigatore, consegnato agli atti, o ai lettori. Ci sono i tanti atti, quelli relativi all’indagine (seconda parte), e c’è il già menzionato Ac­ tus Tragicus, titolo dell’incipit e magnifica cantata di Bach (Got­ tes Zeit ist die allerbeste Zeit), la cui sonatina iniziale per flauto a becco qualcuno ricorderà su alcune scene dell’Accattone di Pier Paolo Pasolini; più oltre nella partitura, un’aria per basso ammonisce: «Bestelle dein Haus!» («Metti in ordine la tua casa!»). Alla fonte di questi versi si trova una pagina biblica, con l’ammonimento divino, per tramite di Isaia, a Ezechia, re del Regno di Giuda: «Metti in ordine la tua casa, perché morirai e non guarirai». Anche queste note risuonano più di una volta nelle pagine di Procedura, tra quelle che l’investigatore ascolta, non per caso. E non sarà fortuna neppure se la sua casa, come da titolo della quinta e ultima parte del romanzo, resterà in disordine, serbato per lui altrove un nuovo «campo di sangue» – il campo del vasaio acquistato dai sacerdoti col denaro restituito da Giuda, nel quale venivano seppelliti gli stranieri e che dà il titolo alla terza parte – disponibile ad accogliere le sue spoglie viventi.

6. L’inetto ancora all’opera Abbiamo aperto su Natalia Ginzburg: né si può fare a meno di ricordare che il bellissimo testo da lei scritto per la quarta di copertina della prima edizione costituisce, pur nella sua brevità, la pietra angolare della critica su Salvatore Mannuzzu. A lei, che ben lo conosceva, era parso naturale sentire, dai fogli sparsi del manoscritto, certi echi: «schiocchi di merli, frusci di serpi». Seguendo questa sollecitazione, altri versi del Montale degli Ossi risuonano come armonici in Procedura, tagliati sulla misura del protagonista e narratore, postrema incarnazione dell’intellettuale-inetto novecentesco: «Avrei voluto sentirmi

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scabro ed essenziale / […] Altro fui: uomo intento che riguarda / in sé, in altrui, il bollore / della vita fugace – uomo che tarda / all’atto…». Un altro poeta affiora invece apertamente in Procedura: Eliot, con la sua Death by Water, la quarta sezione di The Waste Land. Con quei versi trascritti in una fotografia, omaggio commosso e beffardo, Valerio ricordava Biba, che si diede la morte, appunto, per mare, gettandosi da una motonave. Tra Eliot e Montale, Mannuzzu sbozza un quadro di ispirazione modernista, nel quale la costruzione del mistero tipica del meccanismo poliziesco, una volta destrutturata, diventa correlativo di un tema, paradossalmente, molto chiaro: quello della crisi del senso. In tale direzione, finemente incastonato, leggiamo anche un passo (ripreso poi nel Catalogo) che Mannuzzu stralcia da un altro suo faro, il Quijote: «Ormai nei nidi di ieri oggi non c’è più passeri»; sulla fine della seconda parte del «romanzo immortale», queste parole suonano profetiche, tanto più pronunciate in un momento di lucido delirio che precede la morte: come se il cavaliere dalla trista figura avesse in qualche modo realizzato, in quell’attimo, tutta l’illusione nella quale aveva inteso vivere. Perché soffermarsi a lungo su queste trame di sottotesti e citazioni, su questa linea che un tempo si sarebbe detta intertestuale? Procedura arriva verso la fine di un decennio che, in qualche modo, era inaugurato da romanzi come Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) e Il nome della rosa (1980). Un decennio, insomma, che si apriva nel segno di una certa iperletterarietà, o di una forte tendenza allo studio delle strutture narrative in funzione della messa in atto delle trame. A uno sguardo superficiale, anche il gusto di Mannuzzu per il pastiche potrebbe andare in tali direzioni. Ma sono anche gli anni Ottanta del postmodernismo che sfocerà nel pulp, del citazionismo, d’un universo linguistico chiuso in sé stesso: nei quali «i produttori di cultura non possono che rivolgersi al passato» (per usare le parole di Fredric Jameson), alla ricerca di rappresentazioni che siano

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bene di scambio in un commercio alimentato dalla nostalgia. Gli anni in cui più apertamente si manifesta l’atteggiamento cinico dello scrittore/intellettuale: ove il senso di crisi e la difficoltà di orientamento – caratteristiche generalmente intrinseche di qualsiasi esperienza intellettuale, spaventosamente amplificate nella cassa di risonanza del primo Novecento – sono obliterate con una battuta dallo scrittore-intellettuale tardo novecentesco. Niente di tutto ciò in Mannuzzu, esordiente maturo e inattuale. I costanti riferimenti al rapimento Moro – al centro della ricerca empirica di un altro grande libro sulla crisi e la ricerca del senso, L’affaire Moro di Leonardo Sciascia – rimandano forse al tentativo di non essere travolti dai fortunali del reale. Si pensi alle osservazioni che il narratore affida alla nota datata 4 maggio 1979, magari filtrandole attraverso l’autore, allora deputato, intento a scrivere il suo romanzo: «Non consentirò a nessuno, mai, di ripetermi nemmeno una battuta della contesa, fervida nei giorni che viviamo, tra “fermezza” e “trattativa”: per paura di non reggere alla malinconia e all’indignazione, tanto meno sopportabile quando sarà sbiadita». Sono gli anni che sembrano decretare la perdita definitiva del mandato intellettuale dello scrittore: ma Mannuzzu, a modo suo, non ci sta, e neppure, più avanti, si arrenderà. Ripubblicando, questa volta a suo nome, Un Dodge a fari spenti per l’editore Ilisso (2004), in una delle consuete clausole ai suoi romanzi, preciserà che (corsivo nel testo) «alla politica spetta allargare le proprie orbite, raccogliere obiezioni soggettive e impolitiche; e che alla letteratu­ ra invece tocca essere sleale e irriducibile sino in fondo: insistere definitivamente nel dire di no (non avendo altro modo di riusci­ re “positiva”. Ma l’unico epos possibile resta, comunque, quello della ragione)». Discorso quanto mai attuale, in tempi di messa in discussione a priori di ogni oggetto culturale, su presupposti puramente moralistici (spesso anacronistici): la letteratura, nella concezione di Mannuzzu, non deve fare alcuno sconto sulla rappresentazione del male, né dell’osceno. Si legga in tal sen-

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so, riportandola a questo discorso, una nota da lui pubblicata poco dopo l’uscita del suo ultimo romanzo, il primo ottobre del 2013: «l’arte di morire è l’altra faccia dell’arte di vivere, il suo buio pedale. Esercitarla significa capire che qui sulla terra la vita continua infinitamente a scorrere, splendida e terribile». Ancora a questa altezza, e si potrebbe dire negli estremi cronologici del quarto di secolo che da Snuff guarda indietro a Procedura, Mannuzzu si pone pienamente in quel Novecento problematico aperto, tra i tanti, dal Processo di Kafka. Il romanzo di Mannuzzu, per rispondere a una serie di questioni poliziesche, non trova altra soluzione che chiudere con un’altra domanda, semplicissima ma di complesse implicazioni: quid est veritas? Nel Processo, nel geniale rovesciamento di ogni domanda poliziesca, si ha un colpevole alla ricerca della propria colpa, allo stesso tempo imprigionato dalla sua inconoscibilità.

7. Parà odè Ho poc’anzi detto del gusto di Mannuzzu per il pastiche; occorre qui negare questa categoria, parlando piuttosto di parodia: intesa, ancora con Jameson – senza affermazioni passatiste di supreme qualità morali – come pratica modernista, contrapposta a quella tipica della postmodernità, dove la produzione culturale è alimentata dalla nostalgia. Non c’è in Mannuzzu nostalgia per un passato edenico, tantomeno felice. Nella sua prospettiva di cristiano (per di più gauchista), se mai un eden possa esistere, questo è spostato perennemente in avanti, in un futuro indefinito e vago, alimentato dal desiderio, inteso come pratica opposta ai sentimenti di vuota nostalgia o di consolazione. In questo senso le variazioni sul tema proposte da Mannuzzu, a iniziare da quella sulla figura del seduttore, si propongono come parodie: storie – o canti, etimologicamente – che corrono accanto, o nei pressi, di altre storie. Circum praecordia ludit:

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Mannuzzu, che aveva una vera passione per le citazioni latine, probabilmente anche di marca stilistica giuridica, amava questo motto, che traeva – ritagliandolo anche a costo di travisarne il significato originario – dalla prima satira di Persio. «Gioca attorno alla membrana del cuore», si potrebbe tradurre: senza penetrare, ripeto, dove il materiale è incandescente. Questo vale anche per le sue parodie e per le sue variazioni sul tema, nelle quali non è possibile rappresentare l’abisso dal profondo; dove l’assoluto, Don Giovanni non può essere che visto dalla prospettiva di un tiepido Leporello, di un «cristiano senza qualità» che a questo abisso si avvicina, ma non troppo, per non rischiare di cadervi dentro. Il rischio che però si corre è quello del vertiginoso senso di solitudine che Kafka ha saputo tradurre nei suoi capolavori, e che ha mostrato a Mannuzzu, a suo dire, «l’idea più esplicita di letteratura»: e dunque, si potrebbe aggiungere, di vita: quella vita che è come una corda tesa, legata in basso, per farti inciampare, per parafrasare un aforisma di Kafka che Mannuzzu amava citare.

8. Il viaggio di Nansen «Il titolo Procedura […v]iene dal sostantivo francese procédu­ re, a sua volta derivante dal verbo procéder. Proprio qui cade l’accento e non c’è punto di arrivo, o non si vede o comunque conta meno; procedura come mezzo senza fine (nei due sensi)». Nella Notizia sul testo che chiude il romanzo, Mannuzzu svela una chiave interpretativa che vale anche per la sua successiva produzione letteraria. Il «giudice senza qualità» di Proce­ dura è impelagato in un cammino senza fine, convinto, com’è, che «ogni impresa conoscitiva» sia come «svuotare il mare con un cucchiaio». Alla piena costatazione della crisi di senso non segue però una resa incondizionata. Né Mannuzzu né il suo

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giudice cedono al gioco della solitudine, e neppure al giogo di quella kafkiana, nonostante un ulteriore paradosso che amplifica la crisi, notato da un altro romanziere e giudice, Gianni Caria, che ha parlato di requiem per una procedura: laddove il lavoro d’indagine del giudice istruttore era messo in pagina dall’autore di Procedura proprio nel momento in cui, per via di una riforma del codice di procedura penale, quella figura andava a scomparire. La procedura del narratore, tuttavia, continua. «Non mi sento vecchio», afferma, negando quel patema, ormai quasi di resa, che Achab, schiacciato dall’impari lotta, confidava al suo onesto Starbuck: per poi trascrivere il «brano di una lettera spedita da un altro carcere, in altri tempi», convinto che essa sia «la parabola del massimo di speranza che ci è consentito»: Nansen, avendo studiato le correnti marine ed aeree dell’Oceano Artico ed avendo osservato che sulle spiagge della Groenlandia si ritrovavano alberi e detriti che dovevano essere di origine artica, pensò di poter giungere o al Polo o almeno vicino al Polo, facendo trasportare la sua nave dai ghiacci. Così si lasciò imprigionare dai ghiacci e per tre anni e mezzo la sua nave si mosse solo in quanto si spostavano, lentissimamente, i ghiacci.

La parabola dell’esploratore, così come è stata tramandata da Gramsci in una lettera a Julca (18 aprile 1927), è per Mannuzzu, e per il suo personaggio-giudice, misura del coraggio di provare a «svuotare il mare con un cucchiaio». La sua memoria è quella di Sisifo, del supplizio di un’infinita ricerca del senso: il senso non esaurito, non definito da un’ipotesi di colpevolezza, dalla ricostruzione solo tentata dell’identità di un fantasma, o di un luogo. C’è ancora un dettaglio, non indifferente. Se rileggiamo con attenzione lo stralcio della lettera di Gramsci, un particolare non quadra. L’esploratore si trova in Groenlandia e deve raggiungere il Polo Nord. Per farlo decide di viaggiare passo a passo

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tra i ghiacci, trasportato dalle correnti: è chiaro che un flusso proveniente dall’Artico, come si legge, lo porterebbe in direzione opposta. A una rapida verifica, il tiro è subito corretto: la corrente è infatti di origine opposta, «asiatica» e non «artica», come si legge in qualsiasi edizione delle Lettere dal carcere. Ora, le ipotesi sono due. La prima, tutt’altro che improbabile, è che Mannuzzu sia occorso in un refuso: mai emendato nelle ristampe Einaudi (2001 e 2015) o nelle diverse edizioni, come quella Utet del 2007. La seconda è che il narratore abbia, nella sua trascrizione, volutamente sbagliato: in modo che, pur nella chiusura del cerchio, si continuasse però a girare a vuoto. Magari ce n’è una terza: Mannuzzu, che questo passo l’ha probabilmente mandato a memoria e lo cita, altrove, correttamente, è il responsabile di quel lungo viaggio intrapreso dal suo narratore. Probabilmente è il suo stesso viaggio. Così facendo, disperato ma ostinato a resistere, egli intende inaugurare tale viaggio sotto il segno dell’errore.

Nota bibliografica Lo scritto di Cesare Garboli citato in apertura è l’Introduzione a Lessico famigliare, Mondadori, Milano 1971. Della genesi di Un Dodge a fari spenti Mannuzzu (M. d’ora in poi) ha parlato in vari luoghi, tra i quali un’intervista a M. Demartis, Certo, dannati. Parole con Salvatore Mannuzzu (in «Barta», , ultimo accesso aprile 2023) e il suo La vergogna, in Come si scrive un romanzo, a cura di M.T. Serafini, Bompiani, Milano 1996, pp. 89-104. Sempre da questo peculiare scritto autobiografico (e autointerpretativo) è tratto il riferimento al lutto per la perdita di un fratello alla base della scrittura delle Ceneri del Montiferro e alla ripresa, alla fine dei mandati parlamentari, del manoscritto di questo romanzo; ancora da qui il passaggio

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sull’idea di letteratura derivante dalla solitudine di Kafka e il motto «circum praecordia ludit». Sul rapporto tra M. e Natalia Ginzburg, si veda l’articolo di S. Fiori, Scrivere, che vergogna!, in «La Repubblica», 11 novembre 1989. Per quanto riguarda gli articoli di Del Buono e Pampaloni, i riferimenti sono rispettivamente: È nato il giallo sardo?, in «Panorama», 6 novembre 1988, pp. 20-21; Sardegna calibro nove, in «il Giornale», 20 novembre 1988; l’intervista a Del Buono è di C. Cossu, Se i sardi vanno a scuola di «giallo», in «La Nuova Sardegna», 22 novembre; accanto, nello stesso foglio, lo scritto di M. sul problema del genere, dal titolo Cane mangia cane. Di atopia M. ha parlato in Finis Sardiniae (o la patria possibile), in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, a cura di L. Berlinguer e A. Mattone, Einaudi, Torino 1988, pp. 1223-1244. Di controllo inquieto si parla nel più completo studio stilistico sulla prosa di M., M. R. Fadda, Il controllo inquieto. Note stilistiche su Salvatore Mannuzzu, in «Stilistica e metrica italiana», n. 19, 2019, pp. 181-199, dove peraltro è notato come alcuni tratti – di punteggiatura, ad esempio – siano comuni a M. e Ginzburg. Ho analizzato le categorie di “elegia” e “tragedia” in relazione alla narrativa di M. nel mio Il fantasma e il seduttore. Ritratto di Salvatore Mannuzzu, Donzelli, Roma 2017. Il riferimento al Mozart di M. Mila è in Mozart. Saggi 1941-1987, a cura di A. Mila Giubertoni, Einaudi, Torino 2006, p. 42. Sulla posizione defilata di Procedura all’interno della narrativa italiana degli anni Ottanta cfr. il saggio introduttivo di M. Onofri all’edizione UTET di questo stesso romanzo (Torino 2007). La citazione di F. Jameson è tratta da Postmodernismo, ovvero La logica culturale del tardo capitali­ smo, postfazione di D. Giglioli, Fazi, Roma 2007, p. 35. M. ha parlato dell’«arte di morire» in una rubrica quotidiana su «Avvenire» i cui articoli (una serie del 2010 e un’altra del 2013) son stati raccolti nel volume Testamenti, Il Maestrale-Edizioni dell’asino, Nuoro 2017. Quando scrivo «cristiano senza quali-

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tà», il riferimento va alla sezione scritta da M. di Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio (con G. Fofi), Lindau, Torino 2012. Di «giudice senza qualità» ha invece parlato B. Zizi, Un lettore a lezione di “procedura”, in L. Muoni, G. Cerina et al., Incon­ tro con Salvatore Mannuzzu, in «Quaderni dell’Associazione Nuovi Scrittori Sardi», n. 1, 1991, pp. 30-36. Gianni Caria ha parlato di «requiem per una procedura» a un convegno tenutosi al Palazzo di città di Sassari il 10 settembre 2020. Il riferimento a Sisifo rimanda a un saggio di M. Pala, Mannuzzu: la memoria di Sisifo, in «La grotta della vipera», n. 74, 1996, pp. 9-24. Tra i vari luoghi in cui M. cita correttamente la lettera di Gramsci, vedi Cenere e ghiaccio, Edizioni dell’asino, Roma 2009, pp. 131-132.

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Traumi? Note su Trevi, Lagioia e alcuni romanzi degli anni Dieci

Al di sopra di quegli abissi dove di volta in volta sarebbero sprofondate la storia, il romanzo o, addirittura, l’arte tout court, resta la realtà, sempre più complessa, capace di assorbirli in sé. E non c’è dubbio che, assieme all’altro grande medium narrativo, il film, il romanzo continui ad avvicinarla, a scrutarla, a cercare la vena che pulsa. Certo, nel quadro di un’epoca sen­ za trauma, laddove il Reale tende a piegare la Realtà – irriducibile, com’è a qualsiasi forma di simbolizzazione e dunque di astrazione intellettuale che verta sulla verità –, e dove l’immaginario è saldamente in mano ai (diversi) mass media, quella crisi di esperienza di cui già scriveva Walter Benjamin all’inizio del secolo scorso si eleva al quadrato. Di tutte queste cose ha parlato con chiarezza Daniele Giglioli, in un saggio di una decina di anni fa: la cui lente d’analisi – per l’appunto l’assenza del trauma nel contemporaneo – andrebbe ora peraltro rimessa in discussione. Non è però compito delle poche pagine che seguono sondare come la nuova manifestazione di un trauma collettivo – sotto la veste pandemica – abbia influito sull’immaginario rappresentativo e sulla produzione artistica dall’interno dell’opulenza occidentale. Si potrebbe semmai, nell’introdurre le opere sulle quali mi soffermerò – essenzialmente due roman-

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zi italiani degli anni Dieci – tentare di capire cosa soggiaceva sotto l’apparente tranquillità di quel decennio. Vero è che, a pensarci, il precedente era inaugurato dalle repressioni di Genova, immediatamente seguite dall’attacco alle torri gemelle. Il trauma dunque s’affacciava, eccome, al nuovo millennio: però rifratto in una proliferazione di immagini tale da produrre un’ipertrofia capace di depotenziarle. Per altre strade, la società continuava – e continua – a consumare i riti di produzione e consumo, sugli abissi affacciata solo distrattamente e in modo indiretto, ancora mediato da schermi. Le arie di guerra, prossime o lontane – tra i Balcani e il Golfo –, erano accompagnate da slogan di esportazione della democrazia. D’altra parte, all’assenza di trauma si contrappone una differente e sempre più incipiente convinzione: quella d’aver inferto agli altri – soggetto sottinteso l’Occidente – un’infinita serie di traumi. C’è dunque l’assenza del trauma, e la colpevolezza per il trauma altrui. Giglioli sostiene da principio come «il tempo in cui stiamo vivendo possa essere definito l’epoca del trauma senza trauma; meglio ancora, del trauma dell’assenza di trauma»1. Ecco che tale processo paradossale si produce in una tensione, quella che nel saggio viene chiamata scrittura dell’estremo. Ma a ben pensarci, proprio la paradossalità di una simile tensione raddoppia quella sensazione di essere pienamente immersi, ancora, nella crisi del senso. L’utilizzo del linguaggio del trauma, quasi a volerlo convocare in contumacia, rimanda al tentativo della scrittura di farsi correlativo oggettivo di un’assenza, o allegoria dell’incapacità di farsi largo nella realtà. Ecco che prende così senso l’idea, poco sopra richiamata, del trauma inferto, della sopraffazione mascherata da insegnamento, del dominio che so-

1.  D. Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo mil­ lennio, Quodlibet, Macerata 2011, p. 8.

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stituisce l’aiuto: cosa che vale nell’epoca neoimperialista (o del multinazionalismo), così come in quella del vecchio imperialismo. Non si tratta, nota ancora Giglioli, di «mero voyerismo di fronte» a quello che Susan Sontag ha chiamato «il dolore degli altri»2. Penso a un capolavoro della modernità (riduttivo parlare di capolavoro filmico), Persona (1967) di Ingmar Bergman: al centro anche, non casualmente, degli interessi della stessa Sontag3. Precisamente, penso al brano in cui Elizabeth Vogler (Liv Ullmann), l’attrice che nel bel mezzo d’una rappresentazione dell’Elettra aveva scelto di non parlare più, assiste sgomenta alle immagini televisive di un monaco buddista vietnamita che, in mezzo a una strada di Saigon, s’è volontariamente dato alle fiamme. In questo caso il trauma riflesso (il mutismo) risulta essere l’unico commento possibile di fronte a un così potente dolore altrui, l’unica risposta possibile di fronte a un senso perduto, impossibile da ricostruire. L’assenza del trauma all’interno della società del neocapitalismo egemone è perciò anche senso di colpa, ma d’altro canto la sua evocazione è la rielaborazione dell’interminato, vano tentativo di ricostruzione di un senso vacante che va avanti da oltre un secolo. Come a dire che i problemi della nostra epoca sono gli stessi dell’inizio del Novecento; d’altronde anche gli anni luminosi della Belle époque erano sotterraneamente percorsi di tensioni ferali; la pace relativa che gran parte d’Europa conobbe tra il 1871 e il primo decennio del XX secolo – mai così lunga per le grandi potenze storiche – era in realtà il nembo, pronto a esplodere, che covava in sé quelle tensioni. Come se ciò non bastasse, l’esperienza del mondo cambiava radicalmente: in modo così rapido da trasformarsi, ex abrupto, in quella crisi dell’esperienza di cui dicevo. Ecco che anche allora le scritture – di 2.  Ivi, p. 9. 3.  Cfr. S. Sontag, Stili di volontà radicale, Mondadori, Milano 1999, pp. 163-192.

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ogni linguaggio – cambiavano pelle, nel tentativo di raccontare un’assenza e al tempo stesso, paradossalmente, per riapprossimarsi alla realtà. La necessità è ancora la stessa, e forse è sempre stata questa: scrivere per rappresentare la realtà, tentare di esporre alla luce quelle tensioni che in qualche modo conducano verso una possibile verità delle cose. In tal senso può venirci in soccorso un’ipotesi che si potrebbe dire teorica e allo stesso tempo storiografica, quella che «modernismo, postmoderno e ipermoderno siano le età culturali in cui si articola in modi diversi una modernità mutevole ma perdurante»4. Ecco che in questo quadro la narrativa continua a proporsi come strumento di approssimazione alla realtà. Sulla scorta di simili ragionamenti, vorrei provare a riprendere in mano la lettura di due volumi che in qualche modo hanno lasciato un segno – che per più motivi si può immaginare duraturo – nella letteratura italiana dello scorso decennio: Qual­ cosa di scritto di Emanuele Trevi e La ferocia di Nicola Lagioia. Il primo dei due, uscito nel 2012, ha conosciuto un’immediata e fortunata ricezione. Un utile suggerimento di lettura è subito dato dall’elaborazione grafica della copertina della prima edizione, dove, a sinistra del titolo, si legge: «La storia quasi vera di un incontro impossibile con Pier Paolo Pasolini». Sul fondo, un’immagine, scattata nel 1969 da Elisabetta Catalano, nella quale Laura Betti, lo sguardo intenso e drammatico, si fa largo in primo piano. Leggermente discosto, un passo indietro, Pasolini scruta lo spazio tra sé e l’obbiettivo, come fosse lui, e non la macchina, a dettare lo sguardo, a forgiare l’immagine. A quella plastica della Betti, che determina la necessità di impadronirsi dello spazio, si contrappone la figura

4.  R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Il Mulino, Bologna 2014, p. 116.

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bidimensionale di Pasolini, quasi una sagoma di cartone, vagamente spettrale. Il titolo, infine, rimanda alla formula con la quale Pasolini stesso – in vari luoghi, a partire dall’omonimo Appunto 37 – si riferisce al suo romanzo incompiuto, Petrolio, scritto tra il 1972 e il 1975, anno della sua morte, e pubblicato postumo solo nel 1992. Ma che Qualcosa di scritto sia, come pare naturale credere, un libro – romanzo, divagazione, saggio? Se ne discorrerà oltre – su Petrolio è vero solo in parte: e in quella, forse, più superficiale. La trama, se di trama si può parlare, è sintetizzabile in pochi passaggi. In un lasso di mesi che va dal 1992 al 1994, il giovane Trevi lavora presso il Fondo Pasolini (allora a Roma, oggi presso la Cineteca di Bologna), dove si trova a curare una raccolta di interviste all’autore delle Ceneri di Gramsci, su incarico affidatogli da Laura Betti, che quell’archivio lo aveva messo su, con sede in un appartamento dalle parti di Piazza Cavour. Qui il giovane scrittore è quotidianamente alla mercé dei lazzi, spesso d’inaudita violenza verbale, della «Pazza», come presto inizierà a chiamare, tra sé e sé, la Betti. In quei mesi incontra anche Dragan e Ljuda, due giovani rifugiati politici di Sarajevo e, per loro tramite, una ragazza di nome Maria. I tre, specialmente quest’ultima, gli svelano la conoscenza dell’universo sadomaso, senza che egli vi sia, tuttavia, iniziato. Durante un viaggio in Grecia per un convegno organizzato dal Fondo, a Betti e Trevi si unisce un giovane studioso, Massimo Fusillo5, il quale, oltre a mansuefare – vero miracolo – la ferocia della giaguara (altro nomignolo, e ben noto, di Laura Betti), si rivela anche lui un iniziato alle pratiche sessuali del sadomaso. Ciò

5.  In quegli anni prossimo autore di un saggio fondamentale nella letteratura critica pasoliniana, dedicato proprio al rapporto dello scrittore e regista con la cultura greca classica, M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, La Nuova Italia, Firenze 1996.

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lo ha portato – questo è ciò che Trevi ora intuisce – a capire a fondo le trame d’un testo misterioso come Petrolio6. Questa serie di eventi, narrati secondo un filo cronologicamente poco rigido, è continuamente interrotta da divagazioni, in buona parte dedicate al misterioso romanzo postumo di Pasolini, a iniziare da questo passo: Petrolio è un grosso frammento, quello che resta di un’opera folle e visionaria, fuori dai codici, rivelatrice […]. Petrolio è una bestia selvaggia. È la cronaca di un processo di conoscenza e trasformazione. È una presa di coscienza del mondo e un esperimento su se stessi. Tecnicamente: un’iniziazione […]. Si può leggere Petrolio come una provocazione, come una confessione, come un’esplorazione. E ovviamente, come un testamento.7

Per la precisione, questa è la pagina in cui Petrolio s’affaccia a Qualcosa di scritto. Trevi, nel presentarlo come tema dominante dell’avventura conoscitiva che informa le sue pagine, ha cura di inquadrarlo – quantunque in modo rapido – sia storiograficamente che filologicamente: a tali note aggiungendo queste dense righe, nelle quali anticipa – in modo analogico, sibillino, proteso a successive chiose – tutto quanto sarà poi detto su Pe­ trolio. Lo strumento retorico è quello appunto dell’accumulo e della condensazione: nel resto del libro, senza rinunciare alla densità, Trevi entra nei meandri di quest’opera in senso capilla6.  Molti anni dopo, lo stesso Fusillo, da personaggio a studioso, farà in qualche modo chiarezza su un simile passaggio: «Trevi insiste molto sulla questione del sadomasochismo, che è in effetti importante in Petrolio e, per quanto ne sappiamo, anche nel vissuto di Pasolini. Certo, le allusioni al fatto che solo chi è ‘iniziato’ al sadomasochismo può capire veramente Petrolio sono in realtà un’iperbole, una visione estremizzata, da scrittore», in A. Cadoni, Petrolio nell’estetica del romanzo contemporaneo. Conversazione con Massi­ mo Fusillo, in Id. (a cura di), Petrolio e dopo, in «Parol. Quaderni d’arte e di epistemologia», n. 29, 2018, pp. 325-336: pp. 330-331. 7.  E. Trevi, Qualcosa di scritto, Ponte alle Grazie, Milano 2012, p. 17 (QS, d’ora in poi).

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re. E lo fa appunto partendo da due termini chiave: iniziazione8, sul quale tornerò tra poco; e frammento, termine che coglie l’essenza del processo Petrolio, e che penetra a fondo nella scrittura di Trevi: laddove «il valore dei singoli frammenti di pensiero è tanto più decisivo quanto meno immediato è il loro rapporto con l’insieme, e il fulgore della rappresentazione dipende dal valore di quei frammenti come lo splendore del mosaico dipende dalla qualità del vetro fuso»9. Questo passaggio di Walter Benjamin può dire molto sul doppio processo, di Petrolio e della scrittura spuria di Trevi: che dall’immane romanzo di Pasolini prende quel respiro di incontrollato brulichio10, quella tendenza particellare che lo conduce su una direzione divagatoria a lui congeniale, tracciata su due vie che si incrociano continuamente tra Trevi autore e Trevi personaggio: Bighellonare è sempre stata la mia specialità. Genera l’illusione che la vita è abbastanza lunga, che c’è tempo per tutto. Come tutti sanno a Roma, in qualsiasi zona e in qualsiasi ora del giorno o della notte, sono più le persone che vanno a zonzo senza uno scopo che quelle impegnate in qualcosa di concreto (QS, p. 29).

Allo stesso modo, Trevi si aggira nei meandri delle scritture di Petrolio, commentandone alcuni passi oscuri per poi perdersi

8. Su Qualcosa di scritto come esempio di “letteratura di iniziazione” e sulle peculiarità che tale categoria comporta nel rapporto tra rappresentazione letteraria e reale rimando ad A. Rondini, Emanuele Trevi e la teoria iniziatica della letteratura, in «Enthymena», XII, 2014, pp. 139-167. 9.  W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, in Id., Opere complete. II. Scritti 1923-1927, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2001, pp. 69-268: p. 70. 10.  Pasolini parlava, in una pagina schematica di raccordo preparativa agli Appunti 20-30, di «romanzo non tanto ‘a schidionata’ quanto ‘a brulichio’», con riferimento alle categorie di Šklovskij, cfr. P.P. Pasolini, Petrolio, a cura di S. De Laude, con una nota filologica di A. Roncaglia, Mondadori, Milano 2005, p. 126.

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tra le fumose esalazioni che questi emanano. L’incompiuto pasoliniano è dunque il centro, non l’argomento principale del lavoro (non lo chiameremo, ancora, né romanzo, né saggio)11: laddove però al centro – inteso come divergenza – s’è indirizzati da una sorta di bussola impazzita, capace di spostare repentinamente ogni punto d’arrivo. Trevi procede infatti per analogie. Ancora meglio: per trasporto di senso, per diversificate vie tropologiche. Petrolio – sorta di correlativo oggettivo di quell’ombra di Pasolini evocata in copertina – è l’effigie di un daimon bifronte di cui l’altra faccia è Laura Betti. Per intendersi: Laura Betti, qui nelle spoglie di personaggiomostro dantesco, e Petrolio, come romanzo-iniziazione/bestia selvaggia, formano, assieme, un monstrum: l’«incontro impossibile» di cui s’è letto in copertina, o, ancor più a fondo, il rapporto impossibile tra Pasolini e Trevi: da intendersi però non banalmente come una linea di discendenza tra maestro e allievo, bensì come radiografia del fosso che separa un intellettuale del 1975 da uno del 1992, anno in cui usciva Petrolio e Trevi era impegnato nel suo lavoro al Fondo Pasolini. Si legga un altro passaggio dalle pagine già citate sopra: nel 1992, quando Petrolio viene strappato al beato sonno degli inediti, di libri così non se ne fanno più. Sono cose diventate incomprensibili alla stragrande maggioranza del mondo. Qualcosa è accaduto. Confrontata alla letteratura del 1975, la letteratura del 1992 appare molto più – come dire? – striminzita. La varietà dei generi, con tutta l’infinita gamma di sfumature, contaminazioni, variazioni individuali, sembra quasi scomparsa, ridotta a una sola esigenza, a una sola preoccupazione: 11.  Quello della rubricazione formale è il primo problema posto dalla lettura di Qualcosa di scritto, al di là della calcolata mistificazione della dicitura romanzo campeggiante in copertina. Molti commentatori lo hanno da subito notato, a iniziare dalle più acute e tempestive recensioni (tra tutte, cfr. N. Scaffai, Iniziazione narrativa sulla pelle di Petrolio, in «Alias», 25 marzo 2012).

197 raccontare delle storie, fare un bel romanzo. […] Fatto sta che a metà degli anni Ottanta, lo scrittore più significativo della sua epoca è sicuramente Raymond Carver. Artista tutt’altro che modesto […], Carver rappresenta alla perfezione lo straordinario cambiamento che si è verificato. Nei suoi libri, noi assistiamo allo sconcertante spettacolo di una letteratura che non pensa più nulla. L’unico compito che lo scrittore si assegna è quello di essere uno storyteller. L’unico mondo di cui parla, è quello che conosce empiricamente – la porzione di gabbia che gli è toccata in sorte (QS, pp. 19-20).

Il centro dell’argomentare divagatorio di Trevi è dirottato sul tempo che intercorre tra il 1992 e il 2012, e sul tentativo di mettere in crisi l’impossibilità di quell’incontro, di quel rapporto. Questi vent’anni corrispondono a un possibile percorso di coscienza, accompagnato da Petrolio: un libro misterioso, senza dubbio. Ma davvero così indecifrabile, nella ridda di ipotesi più o meno plausibili, in quell’ampia forbice che va dalla filologia alla cosiddetta teoria del complotto? Oppure una lettura che necessita di un tempo, per quanto lunghissimo, di consuetudine e comprensione? Petrolio e Laura, così come il rapporto che Trevi costruisce con Pasolini, sono in realtà allegorie: in questo caso, di un passaggio di tempo, di un cambiamento avvenuto, e allo stesso modo d’un cambiamento maturato nell’autore. Però egli non è rappresentante solo di sé, ma di un’intera generazione che ha potuto guardare a Pasolini solo a partire dalle ceneri. Come accennavo, Trevi è un intellettuale che nel 1992 sta entrando nell’età della propria maturità, sui trent’anni. Il 1975 è passato remoto: detto in termini, mi rendo conto, necessariamente sbrigativi, in questi diciassette anni interviene un crollo delle certezze, o perlomeno di certi punti saldi, accompagnato a un supposto inabissamento delle ideologie. L’intellettuale di fine secolo guarda alle rovine – alle macerie di quella che è stata un’idea di mondo, di società – non più con l’orrore che incita alla resistenza, alla

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militanza, alla ricostruzione. Piuttosto alla rassegnazione: è disincantato, depresso, cinico; non vuole sentire il peso della responsabilità civile della scrittura, né del carattere, diciamo così, pubblico del ruolo dell’intellettuale12. Il suo libro d’esordio, in uscita proprio durante i mesi di lavoro al Fondo, Istruzioni per l’uso del lupo, dimostra pienamente questa tesi; Trevi stesso lo ammette: in quel momento è più interessato a “scrivere bene”. Il binomio Betti-Pasolini è invece un’iniziazione all’autenticità. Betti e Petrolio sono due espressioni, in vita e letteratura (da intendersi come endiadi), del senso della catastrofe (QS, p. 27 e passim). Ovvero il senso dell’autenticità in vita, e dunque in letteratura: cosa più di una catastrofe è maggiormente oggettivo, rumoroso, percepibile, percussivo eppure d’origine misteriosa? Questo è in sostanza il punto cruciale sul quale batte Trevi, convinto che in Petrolio si annidi una scrittura di iniziazione. Fondamentale, da questo punto di vista, è l’atteggiamento dei due giovani bosniaci, personaggi di Qualcosa di scritto (profughi a Roma e ospiti di Laura), che guardano attoniti le immagini della tragedia che, in quel momento, si sta consumando nel loro paese. Qual è, per loro, la forma dell’impegno? Quale l’azione di resistenza? La pratica sadomaso. Parrebbe una scelta nichilistica, avvolta di decadenza. Invece è la potente allegoria di un mondo intuito come affermazione della violenza, dello scambio di violenze. Petrolio, più in grande, è ancora questa allegoria. Tuttavia, così pare, l’impegno – inteso genericamente come azione – sparisce: resta solo il segno, la figura. Ora, qualcosa è cambiato nei vent’anni che corrono tra il 1992 e il 2012. La curiosità stralunata del giovane Trevi – specchia-

12.  Sul cambiamento delle posizioni dell’intellettuale nell’epoca della postmodernità e del riflusso cfr., tra le altre cose, R. Luperini, Postmodernità e postmodernismo. Breve bilancio del secondo Novecento, in Id., Controtempo. Critica e letteratura fra moderno e postmoderno: proposte, polemiche e bilanci di fine secolo, Napoli, Liguori 1999, pp. 169-178.

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ta in quella nichilistica dei coetanei serbi –– va oltre sé stessa, e come già emergeva in alcune sue opere degli anni Zero quali I cani del nulla (2003) o Senza verso. Un’estate a Roma (2004), superando l’inerzia iniziale, pur non risolvendo l’impasse che le sta alla base. Ciò avviene, nell’autore, indagando appunto il concetto di iniziazione, senza rinunciare – con l’aiuto delle preziose edizioni di Petrolio, in particolare l’ultima del 2005 a cura di Silvia De Laude – a un’innata disposizione a comporre i diversi materiali: frugando, in sostanza, nei materiali stessi di Petrolio, come i saggi di Alfonso Di Nola o di Norman O. Brown13. Ma di che tipo di iniziazione stiamo parlando? Leggiamo due passi distinti: Che la partita, che è un vero spareggio secco, senza possibilità di rivincita, si giochi su un solo tavolo, né esattamente il «cinema», né esattamente la «letteratura», noi lo possiamo verificare anche considerando tutto da un’altra prospettiva, che è quella del rifiuto dell’opera compiuta. Quando invece – suprema intuizione realista – non c’è niente che inizia e niente, meno che mai, che finisce. Tutto ribolle nella sua demenza da serpente primordiale, nella sua luce iniziatica (QS, p. 93). Il tenace tarlo del ridicolo corrode tutti i monumenti, fino a che basta un soffio per ridurli in polvere. La pienezza dell’umano, al contrario, non è frutto né dell’eufemismo né della censura. I suoi principali ingredienti sono la sofferenza e la comicità, talmente impastate e confuse che è impossibile, ormai, distinguerle. La nostra vita, unica in questo tra tutte le forme di vita conosciute, è tale che, a considerarla per quello che è, suscita simultaneamente il riso e il pianto (QS, pp. 122-123).

Si parla nel primo caso dello statuto incompiuto di Petrolio; nel secondo della tragicomica implosione della monumenta-

13.  A.M. Di Nola, Antropologia religiosa. Introduzione al problema e cam­ pioni di ricerca, Vallecchi, Firenze 1974; N.O. Brown, Corpo d’amore, SE, Milano 1991 (19661).

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lità bettiana. La presa di coscienza di Trevi consiste nell’aver intuito la forza di verità quanto quella di realtà presenti nelle contaminazioni (per dirla con termine pasoliniano), a due livelli distinti ma strettamente accomunati: vita e letteratura. Allora, l’iniziazione alluderebbe a una mescolanza di tragico e comico o, ancor più radicalmente – in senso linguistico e fattuale –, di opposti quali femminile e maschile: la glande, in Petrolio, per Pasolini figura quel grottesco compimento, espresso con forza sublime, della cazza in Laura Betti14; o, in definitiva, a quella mescolanza indivisibile tra romanzo e saggio che informa Pe­ trolio e tocca tutte le scritture di Emanuele Trevi, al di là delle definizioni di fiction, non fiction, autofiction15. E dunque, come si rappresenta, come si accede alla materializzazione, pure opaca nebulosa, di questa iniziazione? Proprio attraverso le contaminazioni: la pietà e la sofferenza nella comicità del mostro Laura, l’ibrido in Petrolio, che è ibrido mascolino-femminino in Laura, la scrittura ibrida di romanzo e saggio. Una delle acquisizioni critiche del romanzo-saggio di Trevi è quella di aver ricercato nelle contaminazioni pasoliniane, nello stile dunque – togliendo alla stilistica quel velo di angusto tecnicismo, appunto per soli iniziati –, la via d’accesso all’autenticità. Al rapporto sempre sfuggente, però oggettivo, della

14.  Cfr. P.P. Pasolini, Petrolio, cit., p. 217, e QS, p. 229. 15.  A tal proposito Massimo Onofri posiziona Qualcosa di scritto su una linea che parte da Petrolio e passa per un’opera di pochi anni successiva, L’affai­ re Moro (1978) di Leonardo Sciascia, per arrivare poi a opere di scrittori e critici come Albinati, Franchini, Nigro o Ficara: con l’idea che si tratti di libri in cui «la digressione sistematica, la contestazione di ogni narratologia (sia tradizionale che d’avanguardia), la riflessione etica e filosofica, l’impiego d’una materia spuria e qualche volta di risulta, convergono in direzione di un’alta temperatura gnoseologica, ma dentro uno statuto epistemologico incerto, problematico», M. Onofri, L’invenzione di una tradizione. Pasolini, Sciascia, Trevi e tutti gli altri, in A. Cadoni (a cura di), Petrolio e dopo, cit., pp. 435-438: p. 437.

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letteratura col reale. Non a caso, perciò, la tensione di ricerca di Qualcosa di scritto culmina nell’ékphrasis, forma emblematica – e già familiare all’autore di Senza verso – attraverso cui la scrittura si sdoppia: parola e immagine, ovvero parola che insegue l’immagine nella convinzione di un potere conoscitivo della descrizione, del commento: della scrittura, in definitiva. Due i momenti basilari (come quelli che intervallano Petrolio, con le metamorfosi sessuali del protagonista) che, in tal senso, marcano la narrazione; il primo, oltre la metà del libro, è la descrizione dell’affresco di Verghina raffigurante il ratto di Persefone (QS 2012, pp. 163-164); il secondo, alla fine, di una statua che rappresenta il ricongiungimento di Persefone e Demetra (QS 2012, pp. 221-222). È nello spazio tra rapimento e ricongiungimento – intesi come separazione e mescolanza –, così come in quello tra immagine e parola, che si misura il tentativo d’adesione a realtà e verità. È necessario però sottolineare quest’ultimo termine, tentativo: Trevi ricorre alla forma, diciamo così, metatestuale, del romanzo sul romanzo, cercando di adattarsi, in senso metamorfico, alla materia stessa della quale parla16. Petrolio diventa così il faro mobile della sua inesausta ricerca: «Mi interessa solo il disordine – scrive –, ciò che è instabile ed approssimativo. I metodi e i processi, molto più che i cosiddetti risultati. La pari dignità dell’abbozzo e del prodotto rifinito» (QS, p. 100). Da questo punto di vista può avere senso parlare di un possibile magistero, d’una linea maestro-allievo che va da Pasolini a Trevi (ivi includendo, magari, anche Walter Siti)17: coscienti che parlare di un’opera che è un’immen-

16.  Cfr. L. Gasparotto, Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto. Un romanzo di iniziazione. Storia quasi vera di una visione, in A. Cadoni (a cura di), Petrolio e dopo, cit., pp. 339-349: pp. 342-343. 17.  Su tale aspetto, non certo privo di rimandi problematici, si veda G.L. Picconi, L’adempimento del maestro: appunti su Pasolini, Siti, Trevi, in A. Cadoni (a cura di), Petrolio e dopo, cit., pp. 351-364.

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sa allegoria, Petrolio, sia un atto critico rimandante esso stesso all’allegorismo trascendentale della critica. Vale a dire parlare di un’opera d’arte per parlare di tutt’altro: del mondo, del reale, della realtà. Veniamo al romanzo del 2014 di Nicola Lagioia18. Ora più che mai lontano da un politicamente corretto che rischia sempre di tradursi in un engagement zoppo, l’autore continua un discorso che mi pare contribuisca a una “controstoria” del presente e che già aveva inaugurato con il precedente Riportando tutto a casa (2009). Certo, non è il primo libro – né sarà l’ultimo: si pensi, solo per restare all’esempio più noto, al Gomorra (2006) di Roberto Saviano – che affonda lo sguardo sugli scempi dell’Italia in cui industriali o palazzinari son collusi con la criminalità organizzata, muovendosi magari nel marciume interstiziale tra gestione politica e istituzioni: ma vi si addentra rischiarando fatti oscuri con una prosa nettissima e precisa – seppur carica di evidenze figurali –, offrendo in tal senso un contributo conoscitivo, un lume per la struttura opaca di trame economico-politiche, sociali e familiari. Sarà utile richiamare, in breve, personaggi e fatti di questo affresco che ha per protagonista la famiglia Salvemini. Vittorio, il patriarca, è un ricchissimo costruttore di Bari, un self-made man capace di muoversi ad occhi chiusi nella terra di nessuno, là dove la rapacità anticipa la norma. I suoi soldi – i suoi affari «con i signori dell’acciaio, vecchi satrapi dell’aristocrazia industriale che metteva nell’angolo raccontandogli una barzelletta e ritornando subito dopo sull’esigenza di abbassare i prezzi» (FE, pp. 52-53) – son fatti su una consapevolezza iniziale: «che dietro i piani regolatori c’era la legge, e dietro quella (che loro consideravano la terra da sempre ferma sotto i piedi) non c’era nulla a parte un ini-

18.  N. Lagioia, La ferocia, Einaudi, Torino 2014 (FE, d’ora in poi).

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ziale atto d’arbitrio», FE, p. 26); la moglie e due dei quattro figli, il primo e l’ultima, contribuiscono, per dirla alla grossa, alla pasta cromatica di apparenze e ipocrisia: a quell’immagine che una famiglia ricca deve dar di sé. I due di mezzo, Clara e Michele, sono invece gli outsider, quelli usciti male: la prima assume quasi l’aspetto d’una «creatura sacrificale», nel tentativo di ricreare il rapporto idillico che l’ha legata al fratello negli anni precedenti all’età adulta e alle imposizioni familiari e sociali19; il secondo è il figlio illegittimo nato da un rapporto extraconiugale del padre. Da sempre alieno, ai limiti della follia, ai meccanismi del contesto in cui è nato, fallirà nel tentativo di allontanarsi dalla città natale, giacché la protesta del suo rifiuto dell’universo paterno andrà ad annullarsi nell’inerzia – ai limiti dell’inettitudine – con la quale tenterà di aprirsi strade alternative. In questo ritratto di famiglia, tra abbozzo e figure a tutto tondo, domina una disposizione all’approssimazione realistica; c’è però un personaggio che, sulle prime, potrebbe apparire meno convincente, magari per una maggiore tendenza allo stereotipo. Se però ci si pensa, è proprio lo stereotipo – con la sua capacità di farsi modello, di incidere sul comportamento – a contribuire a quell’ondata di irrealtà che travolge la realtà: tema, questo, corrispondente a una sottotraccia che scorre lungo tutto il romanzo. Il personaggio in questione è Ruggero, dottore in carriera, il più grande dei fratelli, l’adulto nell’esercizio della ricchezza, il più determinato nel risentimento verso il nucleo familiare ma pure, allo stesso tempo, il più cinico nella difesa del clan; sintomo di un’ancor più spiccata crisi di 19.  Cfr. S. Lucamante, Una Waste Land barese: La ferocia di Nicola Lagioia fra spreco e abbondanza, in «Annali d’italianistica», n. 37, 2019, pp. 471-502: p. 473. Qui l’opera di Lagioia, letta proprio sotto la lente del romanzo di famiglia, è ricondotta in senso controstorico – per dire ancora della ricostruzione storica a dispetto dell’opacità – al tema degli scempi ecologici come conseguenza della speculazione edilizia e dello smaltimento illegale di rifiuti tossici.

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senso del reale è Gioia, la più piccola, poco più che adolescente, la cui figura assume, specie nel rapporto post mortem con la sorella, la funzione più significativa. Clara muore, pare suicida, nelle prime pagine: Gioia aprirà un profilo Twitter in cui interpreta il ruolo, diciamo così, del fantasma. Clara, si diceva, muore nelle prime pagine: ma la sua immagine, fantasmatica appunto, «nuda e pallida, e ricoperta di sangue» (FE, p. 7), persiste «come negativo» in tutto il romanzo20: rievocata e ritratta per frammenti, frastagliata da una serie di punti di vista ai quali s’avvita lo sguardo del narratore. Tanto nel punto di vista schizofrenico di Michele quanto in quello dei suoi diversi amanti, rivive l’esistenza contraddittoria di Clara, avvinta com’era in un rapporto – tenerissimo e violento – proprio con Michele: il quale, nel cercare di sbrogliare il mistero della sua morte, proverà in qualche modo a vincere quell’inerzia in cui si bloccava la tensione tra la sua ipersensibilità psicologica e il suo mondo di provenienza familiare: in tale tentativo restando egualmente ancorato a una specie di ostinazione che si potrebbe definire myskiniana. Ecco, Michele, con la sua adolescenza taciturna, con il suo interesse per la filosofia e per la saggistica coltivati fuori da qualsivoglia canone scolastico, e dunque destinati ad acuirne l’isolamento; Clara, da sempre libera, liberissima, nel rapporto col proprio corpo: superficialmente promiscua, in realtà pure lei irriducibile al recinto della norma socio-familiare. Michele e Clara, dunque: due funzioni, mente e corpo, interscambiabili. Parlavo della persistenza, anche di tipo analettico, di Clara dentro il romanzo, rifratta in diversi punti di vista, interamente filtrati dalla sintassi, precisa e insieme frastagliata, del narrato20. FE, p. 43: rubo, dove nel testo è riferita a un altro episodio, una delle molte, eppure misurate, metafore: laddove il metaforismo, in questo modo, concorre alla tessitura di questa prosa precisissima (si pensi anche al riferimento ai satrapi che ho riportato poco sopra).

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re esterno. Michele emerge nel secondo dei tre macrocapitoli, «Divenni pazzo, con lunghi intervalli di orribile sanità mentale». E lo fa esercitando sul narratore una pressione intensa, quasi nel tentativo di romperne la lente. In una sezione del romanzo che rompe la frammentazione tardo-modernista della trama fino a quel punto sperimentata, Michele si fa carico di indagare sul suicidio, forse omicidio, della sorella, portando il libro dentro un’atmosfera che si tinge, in qualche modo, di noir21. Ecco, fondendo il proprio punto di vista in quello del personaggio Michele – eccentrico, ribelle –, il narratore porta alla luce, a tratti, un sottoromanzo, deviato da un punto di vista alternativo, folle se vogliamo, ma nel senso d’una lucida follia, sempre à la Dostoevskij (per non tacere il riferimento – credo esplicito – nel titolo del capitolo appena citato al per intervalla insaniae di Lucrezio, di cui si legge nel Chronicon di Gerolamo). Un sottoromanzo che affiora, ad esempio, in certe pagine dove la ferocia è tradotta, allegoricamente, al piano animale: sia esempio la gatta smarrita di Michele, mite e dolcissima, messa alle strette dall’attacco di un ratto: Entrambi gli animali si arrestarono. Si acquattarono uno di fronte all’altro. A dividerli, non più di dieci metri. Il topo di fogna la mise a fuoco coi suoi occhietti. Gli incisivi erano così grossi da costringerlo a tenere la bocca semiaperta. Le si scagliò contro. Prima che potesse azzannarla, la gatta saltò in alto, lambì il corpo del topo, e quando ricade sull’erba aveva gli artigli fuori dalle guaine […] La gatta si portò la zampa destra sul muso, la leccò […]. Il sapore del sangue la sconvolse […]. Si scagliò in avanti. Il topo a propria volta si lanciò contro di lei […]. Il felino gli fu addosso. Affondò i denti nella dura pelle del collo. Mentre lottava sapeva, sapeva e ricordava al tempo stesso. Il topo squittiva disperatamente.

21.  Tendenza notata ancora da S. Lucamante, Una Waste Land barese, cit., p. 498.

206 Nella gola della gatta gorgogliò qualcosa di denso e profondo. Aveva trovato la vena. Era eccitata, elettrica. Lo sentì dare l’ultimo sussulto sotto i raggi della luna (FE, p. 400).

«Lo sai qual è la disciplina che spiega meglio il nuovo secolo? […] L’etologia», si legge in un passo poco distante (ivi, p. 404). Infatti nessuno, così pare, può dirsi immune da una ferocia che pare venga da territori insondabili; si tratta di una categoria che Filippo La Porta, con uno spunto interessante, ha fatto risalire all’universo concettuale di Simone Weil, capace di informare la scrittura di alcuni dei più interessanti narratori italiani che hanno esordito tra gli anni Zero e gli anni Dieci22. Si pensi in tal senso al romanzo del 2012 di Christian Raimo, pubblicato nella stessa collana dei Supercoralli, da Einaudi. Qui si parlava di un fisico precario, Giuseppe, trentenne appena convertitosi alla fede cattolica, (forse perché) dedito a una ricerca sulla turbolenza delle fiamme, dopo anni indirizzata in un vicolo cieco. Per una qualche forma di auto-costrizione, si cura di Lubo, un clochard che non sa stare lontano dai guai. Anche lui è soggetto tiepidamente passivo nel rapporto contraddittorio e conflittuale con l’autorità: tanto con la famiglia, quanto con il suo capo all’Università. Tali dinamiche si allentano solo grazie alla nascita – casuale, proprio grazie a un guaio di Lubo – dell’amore con Fiora, coetanea, oculista. Anche qui siamo di fronte a una trama esile che nasconde tutta la complessità latente, ma affatto percepita, della realtà. La storia è tutta nell’incontro dei due amanti, nell’abbandono e nel ritrovamento: materiale che magari un tempo sarebbe stato buono giusto per un racconto breve. Ogni pagina è invece percorsa da digressioni, enumerazioni caotiche, speculazioni filosofico-religiose (il riferimento a Simone Weil di cui si diceva non è solo nel titolo) o specie di intermittenze del cuore

22.  F. La Porta, La ferocia di questa borghesia, in «Left», 4 novembre 2014.

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di ispirazione proustiana23: il tutto a trascrivere il pensiero di un protagonista (anche io narrante) incapace di mantenere la concentrazione. Questa sua incapacità di concentrazione, l’incedere per frammenti della scrittura allude, qui, all’encefalogramma dell’esistenza precaria. Anche Raimo, come Lagioia, non nasconde l’ambizione di raccontare processi e contraddizioni del presente. Ma più che di ambizione, sarebbe meglio parlare di una vera e propria necessità generazionale, per due autori nati negli anni Settanta dello scorso secolo. Tornando alla Ferocia, e a quelle categorie weiliane lì implicite, si pensi ancora al personaggio di Gioia, e a quel passaggio mentale oscenamente contraddittorio in cui la coglie la morte violenta della sorella: «Sentiva crescere dentro di sé il potere, la grazia. Lo spirito della sorella morta riempiva tutti i vuoti» (FE, p. 62, corsivo mio). Nessuno, dicevo, può dirsi immune alla ferocia: eppure c’è in Michele quasi una forza che lo ha tenuto lontano dal suo nucleo, dal suo mondo d’origine, resistente a farsene contaminare. Lui che s’era trasferito a Roma per lavorare nell’editoria e nel campo della critica, lui che aveva persino seguito la chimera dell’autodisciplina, il desiderio d’una carriera militare. E ora che, a questo mondo, è di nuovo attratto, come per inesorabile forza centripeta che risucchia tutto alla radice del male, al gorgo oscuro di una trazione tribale – quella feroce e familiare –, la resistenza agisce ancora; nulla cambia il fatto che questo calzante esempio di idiota contemporaneo smetta alla fine i suoi panni di intellettuale irrealizzato, di militare fallito, tornando a Bari, in famiglia, e improvvisandosi detective, in quella sezione noir che sa di ritorno al romanzesco di cui parlavo poco sopra. Roma, con i suoi impegni di lavoro e scrittura critica tanto rap-

23.  Cfr. ad es. C. Raimo, Il peso della grazia, Einaudi, Torino 2012, pp. 6162 e 82-83.

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sodici quanto inconcludenti e precari, è abbandonata insieme a quella patina, diciamo così, modernista, da inetto. Ecco, Michele – tranne alcuni brevi frangenti, di «sanità mentale» – è sempre stato estraneo alla ferocia. Ma in un finale chiuso, che pure si finge aperto, la vede ora realizzata, la riconosce: e, ironia della sorte, essa è perfettamente coincidente alla scomparsa della metà di sé, Clara, che alla ferocia, in certo senso, lo immunizzava. Coincidente ancora, tale realizzazione, alla risoluzione di un mistero: «Dopo essersene stato nascosto tanto tempo, iniziò a prendere forma. A Michele sembrava finalmente di vederlo. Il futuro. Splendido e feroce come la bocca spalancata della tigre di cui aveva letto da ragazzo» (FE, p. 405). Emanuele Trevi, Nicola Lagioia, passando rapidamente per Christian Raimo. Si può dire che siamo di fronte a diversi tipi di scrittura dell’estremo, diversi esponenti del linguaggio del trauma in un’epoca senza trauma, oltre che – come ho sin qui tentato di far emergere – ad autori che, ognuno a proprio modo, si richiamano alla tradizione modernista novecentesca. I linguaggi e gli stili che nascevano con le avanguardie novecentesche anticipavano, oppure registravano in diretta, la tempesta della prima guerra mondiale, figli, com’erano, di un’epoca di squassanti cambiamenti percettivi, filosofici, scientifici; allo stesso modo i narratori attivi nel quarto di secolo a cavallo tra i due millenni, e specialmente negli anni Dieci, scrivono in un’epoca senza trauma, simbolicamente anticipando la materializzazione di un nuovo, forse non inaspettato, trauma collettivo che nel proprio nome, Covid-19, porta incisa l’ultima cifra di quel decennio. Ma già accennavo, all’inizio di queste pagine, all’affacciarsi del trauma nell’epoca dell’assenza di trauma. Si diceva di Genova o New York: per non parlare della cupa, pressoché indifferente Parigi di Houellebecq, il quale in Soumission, nel pieno del decennio in cui in Europa s’è visto montare lo smantellamento del dialogo in grazia del conflitto accanto all’esplosione di una

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polarizzazione tra identitarismo e paura d’una supposta sostituzione etnica, cinicamente metteva in scena la rappresentazione d’un abbandono nichilistico e patriarcale alla seconda. E però, chiunque abbia un’idea minima della storia e dei nodi geopolitici che l’hanno percorsa – anche senza addentrarsi nelle opacità del presente – non può incorrere nell’errore di pensare che la reazione identitaria possa essere una risposta alla presenza, ad esempio, del terrorismo fondamentalista in seno all’occidente; o che alle migrazioni si possa rispondere coi muri (problema già noto al Kafka di Durante la costruzione della muraglia cine­ se). Già accennavo all’inizio, e in relazione alle pagine di Giglioli lo ha notato anche Scaffai, che solo da una prospettiva prevalentemente eurocentrica si è potuto parlare del «trauma dell’assenza di trauma»24. Ma non si può cancellare quello che si potrebbe definire come trauma assistito: preludio, forse, alla materializzazione del trauma del presente. Mi spiego con un esempio, un brano particolarmente significativo stralciato dai Cani del nulla, altro romanzo spurio di Trevi. Qui il narratore, nuova ékphrasis, descrive una fotografia appesa al frigorifero con un magnete a forma di ananas sotto il quale è retto anche il testo di un’enigmatica lirica di D’Annunzio che, al pari di Petrolio per Qualcosa di scritto, detta temi e tempi del volume: C’è un ragazzo steso per terra, su un qualunque pezzo d’asfalto di un qualunque luogo del mondo. Anche così, sdraiato sulla schiena, con le braccia un poco staccate dal busto, si capisce che il suo corpo è agile e snello. Indossa una canottiera bianca, e poco sopra il gomito, sull’avambraccio, si nota qualcosa che, all’inizio, potrebbe sembrare uno strano monile barbarico, un pesante bracciale, l’anello di una catena. In effetti, è un rotolo di nastro adesivo da pacchi […]. Il volto del ragazzo è coperto da un passamontagna aderente, di stoffa scura. Nel momento

24.  N. Scaffai. Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma 2017, p. 136.

210 in cui la foto viene scattata, la vita lo sta abbandonando. Da un punto dell’apertura del passamontagna, forse dall’arco delle sopracciglia, sprizza uno zampillo di sangue scuro, che descrive una curva di una ventina di centimetri prima di riversarsi sull’asfalto, formando una pozza che si allarga sempre più.25

Il narratore non dà maggiori informazioni, ma si capisce chiaramente che l’immagine è una delle tante che ritraggono la morte di Carlo Giuliani durante gli scontri del luglio 2001, a Genova. Il trauma assistito di cui parlo, insomma, si fa sempre più vicino. A questa pagina – che fa pensare al monaco vietnamita di Per­ sona – se ne può accostare un’altra, tratta da un romanzo di Salvatore Mannuzzu, Il terzo suono, ove la voce narrante si soffermava su una foto di giornale, una «donna – come in controluce, un po’ curva, di profilo: nell’atto di brandire una scure con le due mani», in un «incomprensibile sterrato» che è in realtà il cimitero di Sarajevo. In piena guerra, la donna è spinta da orribile povertà e necessità estrema, a «spigolare fra le rovine delle tombe». Pur nella brevità del passaggio, i dettagli si moltiplicano, quasi a cercare una longhiana equivalenza verbale attraverso la quale svelare, in rimando misterioso, l’universo orrendo stagliato di fronte all’obiettivo nel suo legame con la storia torbida del romanzo: «Mi pareva che la donna stesse scavando, dentro quel cimitero, fra tutta quella polvere, uno dei buchi per i quali si svuota il mondo». È così che si doveva presumere che in lei «fosse cancellata, finita – morta, a quei cupi colpi ritmici di scure, in una giornata d’incipiente autunno, uguale a tante altre – la pietà: la pietà minima e più antica, verso i morti»26.

25.  E. Trevi, I cani del nulla. Una storia vera, Einaudi, Torino 2003, p. 124. 26.  Questa e le precedenti citazioni son date da S. Mannuzzu, Il terzo suono, Einaudi, Torino 1995, pp. 56-57.

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Chiudiamo allora su Salvatore Mannuzzu, classe 1930, emblematicamente di generazione diversa rispetto a Trevi: ma ideale anello di congiunzione, per maggiore prossimità anagrafica, formazione e informazione tematico-stilistica con la lezione del modernismo. Quello stesso Salvatore Mannuzzu che, tra Qual­ cosa di scritto e La ferocia, ha sempre da Einaudi dato alle stampe il suo romanzo-testamento, Snuff o l’arte di morire: dove ancora una volta la rappresentazione, incompiuta e riflessa, della morte o della violenza si carica del peso allegorico della ricerca di senso, specchio, com’è, di un’assenza: Prima di giungere al cuore del carciofo, ho notato i sintomi presto univoci del guasto sulle foglie interne, gialline e pallide, morbide pareva fino alla spina. Macchie nerastre, forature, erosioni, sapore d’amaro: tracce che lascia solo il baco. E il baco era lì […]. Proprio nel cuore: un vermiciattolo minuscolo, tra il grigio e il rosa, che si torceva, rivelato. Beau, adesso tutto mi sembra chiaro: non voglio bestemmiare ma Dio è quel verme.27

In pagine come questa emerge netta la disposizione, così tipica in Mannuzzu, all’uso di figure retoriche. Il suo motivo ricorrente, all’interno di un’opera complessivamente da lui stesso avvertita come una serie di variazioni sul tema, è quella della mancanza, dell’assenza, della perdita. È il soggetto, o l’oggetto, di tale perdita, a essere sempre misterioso. La direzione tende all’assoluto: la perdita della capacità di comunicare, di amare, il silenzio di Dio, la vita che passa, che muore. Il narratore e i suoi personaggi ci girano però attorno, devoti a un’altra figura retorica, la reticenza. Sarà per questo che a Mannuzzu è caro il pensiero di Pascal, riadattato all’io narrante d’un racconto tratto dalla Figlia perduta (1992), secondo il quale mostruoso è affidare uguale affanno alle cose minime e insensibilità a quelle importanti. È qui che le metafore s’accumulano: oggetti de27.  S. Mannuzzu, Snuff o l’arte di morire, Einaudi, Torino 2013, pp. 178-179.

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sueti, perduti, scomparsi, sberciati, invecchiati, svenduti. Qui prende vita una città trasfigurata e precisa, riconoscibile eppure mai nominata, con le sue quinte naturali di ville liberty cadenti abitate da testimoni attoniti – e conniventi – del lento, inesorabile degrado. Un altro tropo è il rumore misterioso, come il rimbombo d’una palla che rimbalza su un muro, che angoscia il protagonista delle Fate dell’inverno (2004), il quale lo ritiene imputabile a un qualche cedimento strutturale d’una di quelle ville, da lui abitata in solitudine. Ma è chiaro che quel rumore, quella stessa villa, la città (T. che starebbe per Sassari), l’intera Sardegna – e poi via, naturalmente, su scala sempre maggiore – sono tutte metafore, dietro le quali si scorge sempre una realtà sanguinosa. È in un saggio, genere solo all’apparenza meno disposto all’ornato retorico, che Mannuzzu ha riunito in una sola immagine metafora e oggetto reale: in Finis Sardiniae, alcuni vagoni merci contenenti rifiuti tossici e stazionanti da chissà quanto in binari morti nei pressi di una riserva naturale erano segno visibile di un’insensata liquidazione materiale del presente28. Senza autoassoluzione, i personaggi di Mannuzzu sono testimoni di una logorante perdita di senso, che non è però mai resa, per cui un carciofo non è soltanto un carciofo, e il verme che ne rode il cuore è la radiografia d’una qualche manifestazione divina: dove però «l’amaro di ogni perdita è il suo sapore»29. La tendenza figurale di Mannuzzu – con la scelta di parole sospese tra la propria oggettiva futilità e i temi assoluti ai quali esse rimandano – è forse la pratica di quell’arte su cui egli stesso ha ragionato, in certe note estreme, affidate ad alcuni elzeviri del 2013, poi pubblicate anche in volume nel 2017: «l’arte 28.  Cfr. S. Mannuzzu, Finis Sardiniae (o la patria possibile), in L. Berlinguer - A. Mattone (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, Einaudi, Torino 1998, pp. 1223-1244. 29.  S. Mannuzzu, Snuff, cit., p. 179.

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ufficialmente assegnata ai vecchi, quella di morire, non è solo materia loro […]. Perché l’arte di morire è l’altra faccia dell’arte di vivere, il suo buio pedale»30. Il titolo Snuff è suggerito da un personaggio, Beau, ricercatore in campo medico ormai sessantenne, che ha un’idea fissa: quella di rappresentare la morte, attraverso un documentario. Inizialmente – lui, ch’era stato pescatore provetto – filma gli spasmi di una triglietta o gli ultimi momenti di un agnellino al macello. Ma la sua ossessione è quella di registrare la morte di Piero, vecchio professore di anatomia, suo maestro all’Università, colpito da una grave malattia, presumibilmente vicino alla fine: e, non ultimo, voce narrante del romanzo. Ecco: in un rovesciamento della logica (ma paradosso affatto logico, se si ha consuetudine con la narrativa di Mannuzzu), Piero sopravvive a Beau, facendosi testimone indiretto della morte di colui che anche in vita (se mai un personaggio di finzione possa aver avuto vita) ha sempre rappresentato per lui un fantasma. Allo stesso modo, Trevi, ovvero il personaggio e narratore di Qualcosa di scritto, è testimone indiretto delle pratiche sadomaso di Dragan, Ljuda e Maria. Quella violenza – che è racconto, messa in scena, rovesciamento, riflesso indiretto, rappresentazione del concetto di violenza – non può che essere assistita. L’iniziazione è un processo che principia ma non arriva a compimento: resta la traduzione in termini figurali di un processo di approssimazione al senso. Violenza, ferocia: come quella della gatta di Michele, che prelude in modo misterioso, sulla linea di una traduzione etologica dell’esperienza umana, all’indagine disturbante condotta da Nicola Lagioia nel suo La città dei vivi: non più un romanzo, e tra tutti i titoli sin qui evocati, il primo appartenente al presente decennio.

30.  S. Mannuzzu, Testamenti, Il Maestrale/Edizioni dell’Asino, Nuoro 2017, p. 93.

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Tra vero, gioco e invenzione Camilleri negli interstizi della storia

Faisons venir quelques romans historiques! Gustave Flaubert, Bouvard et Pécuchet

In un intervento ricco di spunti, Gioacchino Lanza Tomasi ha individuato nel Re di Girgenti (2001) un approdo della narrativa camilleriana: una sorta di nuovo esordio in cui l’autore della serie di Montalbano, già allora consistente d’una decina di titoli, da «scrittore di intrattenimento» giunge a compiere la «sua prima opera ambiziosa». Un’osservazione, questa, preceduta da una costatazione che, in controluce, tratteggia il giudizio: «La sua natura di narratore non arretra di fronte a un avvio imitativo, pare erompa senza un progetto ordinato, premia la comunicazione diretta sulla ricerca stilistica». Poi un’altra annotazione, dalla quale trarre spunto: questo testo svilupperebbe «la possibilità di una riproposta della grande narrativa popolare, senza lo iato della letteratura al quadrato, caratteristico dei tempi moderni»1. Siamo di fronte a due nozioni – “letteratura al quadrato” e “tempi moderni” – che potrebbero assomigliare a quel sacco nel quale infilare di tutto, come già diceva Jakobson a proposito del concetto di reali-

1.  G. Lanza Tomasi, Invenzione e realtà ne «Il re di Girgenti», in Aa. Vv., Il caso Camilleri. Letteratura e storia, intr. di A. Buttitta, Sellerio, Palermo 2004, pp. 76-86: p. 85.

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smo2. Due categorie sfuggenti e che a prima vista si definirebbero sbrigative. Eppure è il caso di fermarsi per un momento almeno sulla prima, anche alla luce di tutto ciò che in Camilleri è venuto dopo (Lanza Tomasi diceva e scriveva queste cose nel 2004). Effettivamente, se ci pensiamo, l’idea di letteratura al quadrato è onnipresente in Camilleri. E però bisogna notare che nei suoi romanzi si complica ulteriormente, se possibile, rispetto a uno stato già, per propria natura, complesso. O perlomeno si diversifica. Anche sconfinando dall’oggetto centrale di analisi di queste pagine, la si ritrova di frequente nella sua serie di romanzi polizieschi. C’è sempre un libro aperto sul comodino del commissario Montalbano; e se il libro è stato riposto, gli ronza in testa un autore, prediletto o anche solo fiocamente rammentato: sia un solo esempio la costruzione ariostesca, già dal titolo, del Sorriso di Angelica (Sellerio, 2010). E se non è un libro, sarà un film: ad esempio La signora di Shanghai di Orson Welles che fa capolino nel Gioco degli specchi (Sellerio, 2011)3. Ma sarebbe una lunga cernita, ad andare a fondo: e non sarà inutile ricordare che già il nome del più famoso commissario dei nostri tempi è un omaggio letterario. Ma dicevo del carattere metaletterario ulteriormente complicato della narrativa di Camilleri, dove tale complicazione è data, appunto, dal gioco di specchi, da quella marcatura barocca, così siciliana, della sua scrittura e della struttura di molti suoi roman-

2.  Cfr. R. Jakobson, Il realismo nell’arte, in T. Todorov (a cura di), I formalisti russi, Einaudi, Torino 1968, pp. 95-107: pp. 106-107. 3.  Sui rimandi letterari in Camilleri, che opera una sorta di continua riscrittura, si veda necessariamente S.S. Nigro, Le «croniche» di uno scrittore maltese, in A. Camilleri, Romanzi storici e civili, a cura e con un saggio intr. di S.S. Nigro, cronologia di A. Franchini, Mondadori, Milano 2004, pp. XILVI, in part. pp. XXI-XXXVIII.

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zi4. Prendiamo, ad esempio, la disposizione alla teatralità che attraversa le sue storie, ripensando anche a quella propensione per la parola detta, per lo scambio di battute, su cui si soffermava Lanza Tomasi; prendono vita, così, i dialoghi, accompagnati da una caratterizzazione forte dei personaggi, a volte – penso a La concessione del telefono (Sellerio, 1998) o all’Intermittenza (Mondadori, 2010) – presentati come drama­ tis personae in una pagina a inizio volume. Dati ancora più salienti, altro spiccato accento di sicilitudine, sono la ricorrenza della figura del puparo e il richiamo al teatrino dei pupi: ancora Montalbano, che non di rado – e sempre più con l’avanzare dell’età del dubbio5 – è mosso attraverso fili, in una trama intessuta da un ignoto colpevole che lo mette in scacco e lo fa agire secondo logiche da lui stabilite. Che poi il commissario riesca il più delle volte a tagliare quei fili è dato da esigenze di genere, di cui però Camilleri, sapientemente, svela la struttura, rovesciando parzialmente – senza raggiungere, né mirare, in verità, alla decostruzione del giallo-poliziesco già percorsa da Sciascia – i ruoli tra detective e sospettato. In questa tensione si dialettizza, nella propria insolubilità, il rapporto tra ciò che è vero e ciò che è inventato: che è poi, se ci pensiamo, il succo del romanzo storico, oltre che di ciò di cui nelle prossime pagine si va a trattare. Si vedano a tal proposito altri due esempi, uno tratto dalla produzione, chiamiamola così, generale, l’altro dalla serie poliziesca: il primo è il già citato L’intermittenza, con l’inconsueto

4.  Si tratta di un elemento che, assieme ai vari gradi di teatralità presenti in Camilleri narratore, la critica ha da subito messo in luce, si veda ad es. G. Capecchi, Andrea Camilleri, Cadmo, Fiesole 2000, pp. 26-29. 5.  Per riprendere un noto titolo dell’autore nel quale, con una sottile incrinatura del meccanismo seriale, il commissario Montalbano inizia a sentire la fatica dell’età, A. Camilleri, L’età del dubbio, Sellerio, Palermo 2008.

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italiano standard richiesto dall’intreccio, e alcune delle persone del dramma: Licia, venticinque anni, spregiudicata manager rampante, il Nonno Birolli, vecchia volpe dell’industria italiana, ma troppo stanca, ormai, per guardarsi da giovani lupi come Mauro, direttore generale di una grande azienda fondata da Manuelli, altra vecchia volpe senza denti. Si tratta di un romanzo strutturato, appunto, come una sorta di dramma: le azioni sviluppate attraverso dialoghi secchi e rapidi – e raccordi del narratore che sanno tanto di copione cinematografico – si avvitano, per dirla in breve, attorno a una trama tipica dello stato delle cose nell’era del tardo capitalismo: una crisi industriale da affrontare tramite licenziamento di lavoratori e frode a danno di altri imprenditori. Per risolverla, Mauro firma un accordo truffaldino per salvare sé stesso e l’azienda, incurante del danno arrecato agli operai e al vecchio padrone: come riuscirà a passarla liscia? L’accordo firmato è vero ma egli fa in modo che venga fatto passare per falso. In modo non dissimile, nella Caccia al tesoro, uno scellerato antagonista di Montalbano anelava a «il vero in simil vero tramutare»6. Da bravo studente di filosofia, dopo aver visto in televisione una bambola gonfiabile martoriata, decide di acconciare allo stesso modo un corpo in carne e ossa, senza curarsi di dover seviziare e uccidere una giovane donna. Ecco, in questi due romanzi – pur così diversi tra loro – il rapporto tra vero e verosimile è decisamente problematizzato. Ma veniamo ai tre libri su cui mi voglio soffermare più a lungo, e alla presenza o meno, in essi, di quella natura metaletteraria della quale s’è detto: due, Il colore del sole e Inseguendo un’ombra, sono senz’altro appartenenti a questa categoria. Per La rivoluzione della luna, romanzo di eccellente riuscita,

6.  A. Camilleri, La caccia al tesoro, Sellerio, Palermo 2010, p. 216.

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può valere il discorso di Lanza Tomasi a proposito del Re di Girgenti. Il primo dei tre titoli inizia con un vero e proprio racconto a cornice. Andrea Camilleri, il personaggio è lo scrittore, si reca a Siracusa per assistere alla rappresentazione di una tragedia classica al teatro greco. Finito lo spettacolo, trova nella tasca della giacca un biglietto, messo lì, evidentemente, da un tale che gli si era seduto accanto, nei gradoni del teatro. Misterioso e vagamente inquietante il contenuto: «Telefonare subito… Chiamare da una cabina pubblica» (p. 13). Il mistero, ammette, è stuzzicante, specialmente per uno scrittore come lui «portato a vedere possibili intrighi in ogni fatto che non sia subito chiaro, addirittura non illuminato in ogni angolo da una luce solare» (p. 14). E in effetti l’intrigo c’è. Con un depistaggio da spy story, Camilleri viene accompagnato in un casale di campagna, dalle parti di Bronte. Lo accoglie un ospite enigmatico che gli spiega il perché di tanta precauzione e il motivo reale della visita: vuole mostrargli un diario autografo di Caravaggio di cui è casualmente entrato in possesso, attraverso l’eredità d’una vecchia villa della famiglia di sua moglie, legata al nome di Mario Minniti, il pittore sodale di Caravaggio. Il racconto corrisponde, in pratica, alla trascrizione dei diari del grande secentesco, data dal narratore solo parzialmente, giacché non ha potuto lavorarci su che per qualche ora. Da buon barocco, Camilleri ha le qualità del mistificatore e, prima ancora, quelle del falsario – in quello stesso 2007 si dilettava nella scrittura d’una novella apocrifa del Boccaccio7 –, capace di evocare una lingua secentesca, col suo personaggioalter-ego intento, nella fretta di cui dicevo, a restituirla, attraverso un processo di reinterpretazione d’una parlata aspra, «irta

7.  A. Camilleri, Boccaccio. La novella di Antonello da Palermo, Guida, Napoli 2007.

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e spigolosa» come poteva essere quella del non letterato pittore (p. 33)8. L’escamotage, il ritrovamento del manoscritto, è puramente da romanzo storico, in modo finanche banale: ma la ricostruzione (inventata) di lingua e ambienti (verosimili o documentati) in cui agisce il protagonista Caravaggio offre a Camilleri l’occasione per riflettere ancora sul rapporto tra vero e falso, realtà e apparenza9. O, peraltro, sul rapporto tra luce e ombra, così decisivo nell’opera caravaggesca. Si pensi a queste parole, pronunciate dal narratore nel dialogo con l’ospite: anche io ho sentito questa storia degli errori [di prospettiva] nella Cena. La mano destra di Pietro che essendo più arretrata dovrebbe essere più piccola di quella di Cristo, oppure un cesto e un piatto che sono orizzontali rispetto allo sguardo dell’osservatore mentre il tavolo sul quale poggiano è invece visto dall’alto… Certo, per un geometra sono errori pacchiani. Ma a nessuno viene in mente che siano errori voluti? (p. 29).10

Mi pare che in questo breve passaggio si annidi l’essenza della narrativa di Camilleri: l’errore significativo, l’errore voluto dall’autore stesso prefigura l’irruzione dell’invenzione nel vero. Là dove ci sia solo il vero, la storia narrata rischia di soffrire di sclerotizzazione, di inerzia. È qui, allora, che l’intrusione di un 8.  In un’approfondita indagine stilistica e linguistica sull’opera di Camilleri, Luigi Matt fa in realtà notare come l’operato linguistico dell’autore sia molto più credibile nell’apocrifo del Boccaccio, laddove invece il lavoro sulla lingua secentesca del pittore, della quale nulla si sa, è semplicemente caratterizzato da una sorta patina antichizzante, più che da una ricerca lessicale – invero quasi inesistente – o da una mimesi sintattica: il tutto con l’obbiettivo sotteso di non essere d’intralcio alla scorrevolezza della lettura. Si veda L. Matt, Lingua e stile della narrativa camilleriana, in «Quaderni camilleriani», n. 12, 2020, pp. 39-93: pp. 73 e ss. 9.  Cfr. G. Dell’Aquila, L’ossessione del ‘sole nero’: il Caravaggio di Andrea Camilleri, in «La nuova ricerca», n. 17-18, 2008-2009, pp. 197-207. 10.  Questa e le precedenti citazioni (i numeri di pagina tra parentesi senza altra indicazione, nel testo) son date da A. Camilleri, Il colore del sole, Mondadori, Milano 2007.

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errore attiverà un clic: avviatore, se mai, d’un processo problematico di riflessione sul rapporto tra verità e possibilità. Inseguendo un’ombra si sofferma su una figura particolare di protagonista, il giovane ebreo siciliano Samuel ben Nissim Abul Farag; suo padre, rabbino di Caltabellotta (paesino del girgentano), confida in lui come futuro faro della famiglia e della propria gente e si fa assistere in ogni pratica cultuale e teologica, a iniziare dalla cabbala. Proprio esercitando su sé stesso tale arte, il ragazzo scopre che già il suo nome porta impresso un carattere di doppiezza tale da tracciare un destino, recando in sé «gloria e infamia», decretando che in lui, in Samuel, «era scritto che […] il confine tra verità e menzogna fosse così labilmente tracciato da essere di difficoltosa visibilità»11. Sfumato un piano che aveva in mente (e soprattutto dopo aver perduto il suo amico e amante), si converte anzitempo – anticipando una mossa già preparata – al cattolicesimo, prendendo il nome di Guglielmo Raimondo Moncada (come uso dell’epoca, dal nome del nobile suo padrino, appartenente a una delle famiglie più potenti del Regno di Sicilia). «Altamente stimato per la sua cultura e per la perfetta padronanza della lingua ebraica, caldea, araba e latina»12, fu ineguagliabile predicatore e umanista dottissimo ma, secondo la ricostruzione di Camilleri, uomo del tutto privo di moralità, parato persino all’omicidio; lo si ritroverà per varie corti europee e poi a Firenze, come Flavio Mitridate, nella cerchia di Pico della Mirandola, di cui pure fu maestro di cabbala, insegnante di lingue orientali e traduttore dall’ebraico. Svanirà,

11.  A. Camilleri, Inseguendo un’ombra, Sellerio, Palermo 2014, pp. 33 e 35-36. 12.  F.P. Castiglione, Dizionario delle figure, delle istituzioni e dei costumi della Sicilia storica, Sellerio, Palermo 2010, p. 174.

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infine, senza lasciar tracce. Una figura proteiforme, addestrata a sparire ma che non cessa di proiettare la propria ombra. E Inseguendo un’ombra è il titolo che Sciascia, che pure scrisse su Samuel-Guglielmo-Flavio13, ha ispirato a Camilleri; l’autore empedoclino tenta qui di superare, o per lo meno di porre a un vaglio teorico, i propri moduli espressivi, granitici e seriali. Non faccio naturalmente riferimento al giallo ma al filone storico, genere in cui la cronaca di questo coltissimo furfante parrebbe porsi. Riprendiamo Il birraio di Preston o ancora La rivoluzione della luna, romanzo a cui sto per arrivare: su fondo manzoniano, Camilleri lavora, nel senso del vero poetico, sul vero storico. In questo caso, però, il paradigma indiziario è del tutto particolare. Siamo di fronte a un personaggio storico uno e trino, di grande interesse ma non tra i più celebri (quantomeno se lo confrontiamo col precedente di Caravaggio); di lui la storiografia ha studiato le diverse facce ma non gli stadi metamorfici. Per un simile motivo a Camilleri, romanziere e non storico, interessa il processo della trasformazione, cosa porta un uomo a diventare altro da ciò che è: edificando, in tal modo, una sorta di allegoria del narrativo. Eppure decide – qui il superamento di cui dicevo – di non lavorare narrativamente, di non scrivere un romanzo storico classico, imponendosi «due propositi dai quali non derogare»: Il primo è di non scrivere un romanzo storico, vale a dire un racconto in cui la vicenda dei protagonisti fosse sontuosamente avvolta in un contesto, di usi, costumi, rituali, abitudini e ancora di moda, cucina, svaghi, insomma di vita quotidiana dell’epoca, allo scopo di rendere più vicino al vero il verosimile.

13.  Si tratta di un testo scritto per accompagnare un catalogo di Arturo Carmassi, L. Sciascia, La faccia ferina dell’Umanesimo, in Id., 27 Disegni di Carmassi, Edizioni 32, Milano 1972, pp. 5-7.

223 Il secondo è di puntare tutto su un unico personaggio, lasciando gli altri a fare da sfondo, per seguirlo senza distrazioni nel tentativo di capire, e quindi di raccontare, le motivazioni essenziali delle sue sconvolgenti metamorfosi.14

A una immediata verifica stilistica, nelle sei sezioni in cui è ripartito il volume15, la ricostruzione biografico-narrativa tende in qualche modo verso un grado neutro, di cui è possibile testimonianza l’uso della terza singolare (al presente) del narratore, in un italiano senza particolari picchi, col classico impasto linguistico camilleriano usato solo nei discorsi diretti ed esclusivamente nelle prime due parti, per ragioni d’intreccio16; tali sezioni sono, per di più, intervallate da brani (differenziati in corsivo, come quello appena citato) di riepilogazione bibliografica sul personaggio frammisti a una sorta di vademecum operativo dello stesso Camilleri: brani che interrompono tale ricostruzione narrativa e che strutturalmente rispondono a micro-cornici saggistiche focalizzate sul narratore. Una simile operazione equivale a una gran complessità letteraria, «alla Borges,

14.  A. Camilleri, Inseguendo un’ombra, cit., p. 86 (l’intera citazione in corsivo nell’originale). 15.  Le prime tre, che corrispondo a circa quattro quinti del romanzo, son consacrate alle fasi della vita, sotto i tre diversi nomi, del protagonista; la quarta si intitola «L’eclisse», la quinta «Le conclusioni», mentre nella sesta, «L’ultima apparizione», è riprodotto un trafiletto di quotidiano – presumibilmente risalente alla seconda metà degli anni Ottanta – che pubblicizza la presenza del «[famoso] mago di Perugia Raimondo Moncada» al Circo Orfei, a Roma, ivi, p. 239. 16.  Si tratta di quelle ambientate in Sicilia. Alcune deroghe, poi, anche nella lingua del narratore, in regime, diciamo così, di discorso indiretto libero: «Mentre sua madre finisce d’appuntargli la rotella sulla camicia, Samuel, per la prima volta, riflette su quel segno di diversità che dovrà portare sempre ben visibile sul petto. Che minchiata sulenni! Che grannissima fissaria! Come può un pezzettino di panno colorato segnare veramente una differenza?», ivi, p. 15.

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tanto per intenderci» (così Sciascia su Mitridate)17. In sostanza, Camilleri rifiuta di scrivere un romanzo storico addentrandosi, però, nelle modalità attraverso cui si scrive un romanzo storico: quelle stesse che trasformano l’uomo in carne e ossa in personaggio. Il rischio di una simile operazione, come peraltro gli errori di Caravaggio, è ben calcolato: si perde il mistero d’una vicenda di per sé tutt’affatto misteriosa. Ma com’è abbandonato – parzialmente – il genere storico, allo stesso modo l’autore evita le altre strade a lui più familiari, quelle del giallo. Interrompendo a lungo la narrazione, per almeno tre volte attraverso le parentesi saggistiche alle quali poc’anzi accennavo, egli offre un’informata ricognizione delle fonti secondarie su azioni e opere del suo personaggio, sulle sue diverse facce; di conseguenza, il lettore lo vede sparire e riapparire, trovando nello spazio vuoto tra le metamorfosi le note dell’autore che avanza le sue ipotesi, muovendosi tra lo scritto di Sciascia, repertori di storia siciliana, la «deliziosa Vera relazione sulla vita e i fatti di Pico conte della Mirandola» di Giulio Busi18. Va detto che, lì in mezzo, il mistero resta, mentre ciò che viene svelato è soltanto il metodo attraverso il quale è indagato; la costruzione narrativa – con le libertà d’invenzione che l’autore avverte d’essersi preso – è avviata e inconclusa: e al lettore resta il riflesso delle sistematiche metamorfosi di questo umanista, la cui natura ferina tanto aveva incuriosito Sciascia. Un riflesso che dalle pagine narrative passa attraverso le fonti e le ipotesi di Camilleri, che a un certo punto, citando Calvino, offre quella che è forse la più utile chiave di lettura di tutto il complesso groviglio: «un falso, in quanto mistificazione d’una mistificazione, equivale a una verità alla seconda

17.  Cit. ivi, p. 79. 18.  Ivi, p. 158.

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poten­za»19. In qualche modo, l’oltranza barocca dei materiali di scrittura e il gioco di specchi e riflessi rimandano sempre alla «letteratura al quadrato»: valida qui ancora per riflettere sul rapporto tra vero e invenzione. Veniamo ora all’ultimo romanzo di questa piccola rassegna. Stando al narratore, che, come di consueto, chiude il libro con una nota, verso la fine del Seicento la Sicilia fu governata per ventisette giorni – e assai bene, pare – da una donna: siamo nel 1677 e il fatto è unico per il tempo. Su questa vicenda è imbastita la trama della Rivoluzione della luna20. Va detto che Camilleri si sarà divertito, e non poco, a scriverla; allo stesso modo il lettore, nel muoversi in questo gioco romanzesco: dove per gioco s’intenda non pura evasione ludica ma rivoluzione simbolica, capace di isolare e riallineare i caratteri del potere in senso non autoritario, di apprendimento piuttosto che di imposizione21.

19.  Ivi, p. 86. Si tratta di una chiave peraltro puntualmente richiamata nell’ala di copertina da Nigro, che parla di «geometrizzazione di un principio barocco passato attraverso l’illuminismo del Consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia»; anche Matt ne fa menzione, a tal proposito notando come il romanzo si chiuda, perfettamente, con un altro falso, la riproduzione d’una lettera quattrocentesca (ivi, pp. 234-235) che fa riferimento alla definitiva sparizione di Samuel-Guglielmo-Flavio, scritta dal Conte Guglielmo Raimondo Moncada, figlio di quel Giovanni Tommaso che tenne a battesimo il giovane ebreo Samuel, in occasione della sua conversione, L. Matt, Lingua e stile della narrativa camilleriana, cit., p. 75. 20.  Si tratta del fatto reale, «di un punto di partenza, minimo, se vuoi», del quale Camilleri stesso diceva di non poter fare a meno per dare inizio alla sua costruzione narrativa, cfr. ad esempio G. Capecchi, Andrea Camilleri, cit., p. 43 e A. Santoro, Camilleri tra Montalbano e Patò, Guida, Napoli 2012, p. 135, da dove provengono le parole citate. Santoro sottolinea inoltre un fatto di sicuro rilievo, notando come nei romanzi storici di Camilleri tale «spunto iniziale è costituito da documenti o atti ufficiali», ibidem. 21.  Cfr. P. A. Rovatti - D. Zoletto, La scuola dei giochi, Bompiani, Milano 2005, pp. 73-74.

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E in fin dei conti Camilleri – col potere pieno del narratore di innestare l’invenzione, addirittura giocosa, nel vero – altro non fa, qui, che giocare coi ruoli di nobili e popolo, di buoni e cattivi. Ma andiamo con ordine. Alla morte del Viceré, onesto ma aggiogato – a causa della malattia – da un manipolo di consiglieri corrotti (tra i quali spicca il Vescovo di Palermo), il trono è assegnato, per volontà testamentaria, alla moglie Eleonora, donna di qualità fuori dal comune. Governo breve ma intenso: tempo d’un giro di luna attorno al globo, finiscono in manette – o al patibolo – un pugno di ufficiali statali o ecclesiastici accomunati da sete e abuso di potere e arroganza da impunità. Sempre in questo breve lasso viene calmierato il prezzo del pane e si rafforzano le opere in favore dei bisognosi. In tal senso il gioco è anche un rovesciamento di potere rispetto ai ruoli iniziali o prestabiliti. Mettendo d’accordo molti suoi critici, Camilleri dà il meglio di sé nel romanzo storico: e, in tale attività, non ha mai fatto mistero del fondo d’ispirazione manzoniana, qui evidentissima a iniziare dalla campitura secentesca del malgoverno spagnolo22. E, ovviamente, manca la Provvidenza, per un certo verso sostituita dall’incantevole Eleonora, che oltre a essere una specie di personificazione del Bene è anche – luogo ricorrente nella scrittura di Camilleri – personaggio-puparo: è grazie a lei che i fili son sciolti dal groviglio di fraudolenti bizantinismi. È infine, lo ha notato Silvano Nigro nella consueta ala di copertina del volume, «un omaggio alla regalità della donna» da parte di un Camilleri, dicevo prima, più divertito del solito, capace, e magari ardito, nell’unire alla manzoniana mescolanza di vero storico e vero poetico l’estro – geniale e infantile – di un Taran-

22.  Sui debiti manzoniani in Camilleri cfr. E. Paccagnini, Il Manzoni di An­ drea Camilleri, in Aa. Vv., Il caso Camilleri, cit., pp. 111-137.

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tino: quell’estro che gli fa stravolgere la storia armando i buoni contro i cattivi, così come il regista di Pulp Fiction faceva nel successivo Unglorious Basterds, operando un paradossale rovesciamento che anticipava la fine del secondo conflitto mondiale. Ma qui, in un gioco di citazioni che rifrange un universo chiuso, di rimandi a una letteratura cinematografica ben definita, tutto è rimescolato da un’immaginazione fervida e smaccatamente infantile dove i nazisti sono l’emblema della malvagità e la storia va riscritta dando loro una sonora lezione per mano di un gruppo di protagonisti da action movie. Questa parentesi serve a introdurre, per contrasto, il gioco orchestrato da Camilleri, così differente, perlomeno nei presupposti: è un gioco, in effetti, basato sul rimescolamento delle fonti storiche. Ritorno, per cercare di spiegarmi, sulla questione dell’omaggio alla regalità dell’universo femminile sollevata da Nigro. Prendiamo la già citata nota in coda al testo: In tutte le cronologie dei Viceré di Spagna in Sicilia, fatta eccezione di una sola, arrivati al 1677, si trova puntualmente scritto che in quell’anno muore a Palermo il Viceré don Angel Guzmán e che gli succede nella carica il cardinale Luis Fernando de Portocarrero. Ma in realtà viene commessa, inspiegabilmente o troppo spiegabilmente, una grave omissione. E cioè non viene detto che tra la morte di Don Angel e l’arrivo del cardinale Portocarrero, sia pure per soli ventisette giorni, la Sicilia venne governata da una donna. Don Angel, morendo, aveva lasciato scritto nel suo testamento che voleva come successore la propria vedova, donna Eleonora di Mora […]. Va detto che non era la prima volta che un Viceré, in punto di morte, nominasse come successore un suo congiunto. Nel 1627 il Viceré Antonio Pimentel, marchese di Tavora, nominò il figlio suscitando la reazione dell’arcivescovo di Palermo Doria, che a quella carica aspirava.

228 Anche nel 1677 il vescovo di Palermo aspirava a diventare Viceré. Comunque il Sacro Regio Consiglio, vescovo di Palermo compreso, dovette inchinarsi alla volontà testamentaria e donna Eleonora divenne Viceré, unica donna al mondo in quell’epoca ad assurgere ad un così alto incarico politico e amministrativo.23

Camilleri prosegue la nota dicendo di essersi imbattuto nella figura di Eleonora leggendo un’opera uscita recentemente per Sellerio, il Dizionario delle figure, delle istituzioni e dei costu­ mi della Sicilia storica di Francesco Paolo Castiglione, dove si rimanda spesso e volentieri all’altra fonte citata da Camilleri stesso, il volume tardosettecentesco di Giovanni Evangelista Di Blasi, Storia cronologica de’ Viceré, luogotenenti e presiden­ ti del Regno di Sicilia. I pochi accenni presenti in queste due opere bastano però a Camilleri per ricavare, si legge, «l’immagine di una donna straordinaria che seppe meritarsi ampio rispetto per tutto quello che fece nel suo brevissimo periodo di governo della Sicilia»24: l’abbassamento del prezzo del pane, la ristrutturazione del Conservatorio per le vergini pericolanti, la riduzione del numero di figli per l’ottenimento dei benefici concessi ai padri onusti. Ma attenzione a ciò che scrive immediatamente dopo: «Trattandosi di una narrazione romanzesca, mi sono preso numerose libertà. Non starò a dire quali. Ne svelerò solo due minori»25. La prima è l’accenno a un personaggio, il visitatore Regio don Francisco Peyró che all’epoca era già morto; la seconda la partenza immediata, a giochi finiti, di Eleonora per la Spagna. Appare chiaro, a questo punto, che le libertà che Camilleri non ha 23.  A. Camilleri, La rivoluzione della luna, Sellerio, Palermo 2013, pp. 273275. 24.  Ivi, p. 275. 25.  Ibidem.

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voluto svelare devono certamente essere molto più interessanti: sarà dunque il caso di operare un confronto con le fonti storiche sopra citate, dove si scoprirà subito un’omissione evidentissima in questa nota; Camilleri ci tiene a farci sapere che non era la prima volta che la carica di Viceré si trasmetteva per via ereditaria o testamentaria: non ci dice però che un caso simile si era verificato ai tempi del re aragonese Martino il Vecchio, e di suo figlio Martino il Giovane, il quale regnava in Sicilia (che nel frattempo da Regno diventava Vicereame, dipendente dalla corona di Aragona); Martino il Giovane, tra il 1408 e il 1409, va a combattere in Sardegna per la conquista dell’isola. La Sicilia, a quel punto, resta governata da Bianca, un’altra «importante figura femminile della storia di Sicilia […], giovane e bella moglie di Martino il Giovane»26, come scrive Castiglione nella voce del suo Dizionario dedicata a “Donne di Sicilia”: la stessa in cui trova luogo, con meno abbondanza di dettagli, Eleonora di Mora. Inoltre, Castiglione rimanda a Di Blasi, che descrive Bianca come una «principessa adorabile non meno per la sua bellezza, che per le virtù, che a dovizia l’adornavano»27. Ecco: per quanto riguarda Eleonora, nessuna delle due fonti dichiarate da Camilleri fa riferimento alla bellezza né tantomeno alle virtù nell’arte di governare: caratteristiche, entrambe, peculiari della paridignitaria di quasi tre secoli prima, sulla cui vicenda il trattato del Di Blasi, autore tra l’altro di una monumentale Storia del Regno di Sicilia, si sofferma lungamente. Le due storie hanno in effetti qualcosa in comune: il fatto che la funzione viceregia ereditata dalle due donne sia stata, in entrambi i casi, ferocemente contestata da fazioni politiche opposte (e tutta la trama d’intrighi di Camilleri va a parare là). Ancora, è mantenuto dalla fonte il motivo per cui, a norma di legge, il governo di Eleonora poté essere impugnato perché «pues de mas que sien­ 26.  F. P. Castiglione, Dizionario delle figure, cit., p. 163. 27.  Ibidem.

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do el Virrey de Sicilia en lo ecclesiastico dessa Monarchia legado nato de sù santitad»28. In quanto donna, insomma, la viceregina non poteva esercitare il ruolo di Legato nato del Papa: motivo per cui fu estromessa dalla carica, in favore del designato della corona, il cardinale Ludovico Fernandez Portocarrero, che dovette giungere in Sicilia circa un mese dopo la morte del Viceré marito di Eleonora. Queste le righe del Di Blasi a conclusione del paragrafo dedicato alla vicenda: «Per altro questo governo donnesco fu assai breve; né durò che ventisette giorni, come or ora saremo per dire, nel quale spazio, aspettandosi di momento in momento il luogotenente interino destinato dal re Cattolico, nulla di nuovo vi fu fatto»29. Dunque, al contrario di quanto sostiene Camilleri, non successe nulla di memorabile durante quei ventisette giorni, e l’unica rivoluzione fu effettivamente quella della luna attorno alla terra. Parrebbe, insomma, che egli abbia voluto assommare in un’uni­ ca figura le caratteristiche e le vicende relative alle due donne, aggiungendo al gusto per il rovesciamento dei ruoli una tendenza ludica, consapevole e divertita, al rimescolamento, sottotraccia di quell’altra tendenza «a darsi come gioco, spesso al limite, su una pluralità di fonti», notata da Ermanno Paccagnini tra le pagine del Re di Girgenti30. Si parlava, in tal senso, di omaggio alla potenza del femminile: omaggio che, fuse in una sola le caratteristiche di due viceregine, acquista intensità. Nella nota di chiusura, non meta-testuale come una cornice ma evidenza dell’autore in carne e ossa in una tardiva protesta paratestuale, Camilleri tradisce un patto, questo sì veramente tacito, col lettore: il quale dovrebbe credere, alla fine di un romanzo storico,

28.  G. E. Di Blasi, Storia cronologica de’ Viceré, luogotenenti e presidenti del Regno di Sicilia, Stamperia di Pietro Pensante, Palermo 1867, p. 410. 29.  Ibidem. 30.  E. Paccagnini, Il Manzoni di Andrea Camilleri, cit., p. 125.

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alla veridicità delle fonti citate in un’avvertenza finale che ha la funzione di dispiegare gli agganci saggistici su cui verificare il tessuto dell’invenzione. Camilleri si dimostra in possesso delle qualità del vero mistificatore, ancora più di quando fa il falsario (Caravaggio); ancor più di quando inventa una vita letteraria ricalcando l’ombra, mettendo in luce gli interstizi oscuri nei vuoti biografici di un personaggio storico-letterario (MoncadaMitridate). Paradossalmente, tanto più mistificatore, dunque, nella misura in cui maggiormente rinuncia alle venature del dato metaletterario. Per quale motivo, viene da farsi un’ultima domanda, Camilleri propende, tra le due figure, per Eleonora, sulla quale ci son così poche notizie? Forse proprio perché son così poche, e dunque inversamente proporzionali alla forza d’invenzione e immaginazione. Sicuramente, poi, per mantenere il fondo secentesco – spagnolo e non aragonese: manzoniano – della narrazione. E il motivo è appunto Camilleri stesso a svelarlo, in una nota che chiude il volume del 2004 (che ospitava anche il più volte citato intervento di Lanza Tomasi) Il caso Camil­ leri. Letteratura e storia, atti di un convegno dello stesso anno in cui si ratificava l’interesse della critica più avvertita sul padre di Montalbano (con, tra gli altri, interventi di voci diverse come quella di Nino Borsellino, Angelo Guglielmi, S. Silvano Nigro, ecc.). Chiudendo queste giornate di studio, pure dando conferma alle tesi dell’intervento di Paccagnini poc’anzi richiamato, Camilleri ha tenuto a precisare: «la prima cosa di cui vorrei parlare è che questo scrittore che usa il dialetto, la lingua vigatese o tutto quello che volete voi, vuole dichiarare quello che è il debito grosso che ha non verso Verga ma verso Don Lisander»31.

31.  A. Camilleri, Conclusione, in Aa. Vv., Il caso Camilleri, cit., p. 222.

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«Acume» e «senso comune» Saggio e poesia nella Rabbia di Pasolini

Nei saggi ideologici ci metto il mio senso comune: solo per quelli poetici, oh Tetis, il mio acume. P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni … alla politica spetta allargare le proprie orbite, raccogliere obiezioni soggettive e impolitiche; […] alla letteratura invece tocca essere sleale e irridu­ cibile sino in fondo: insistere definitivamente nel dire di no (non avendo altro modo di riuscire “po­ sitiva”. Ma l’unico epos possibile resta, comunque, quello della ragione). S. Mannuzzu, Un Dodge a fari spenti

Tetis è, in una misteriosa invenzione linguistica di Pasolini, parola che, in greco antico, starebbe a indicare il «sesso, sia maschile che femminile»1. Da dove nasca tale errore, se da un’etimologia immaginaria e volontaria o da un refuso mentale, inconscio e persistente, resta un mistero, su cui alcuni pure

1.  EE, p. 69. Per quanto riguarda le citazioni da opere di Pasolini, in questo testo verranno utilizzate le seguenti sigle, date anche nel corpo del testo tra parentesi, oltre che in nota: CI: Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Mondadori, Milano 2001, 2 voll.; EE: Empirismo eretico, pref. di G. Fink, Garzanti, Milano 2003 (19721); PO: Tutte le poesie, a cura e con uno scritto di W. Siti, Mondadori, Milano 2003; RA: La rabbia, a cura di R. Chiesi, Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna 2009; SLA: Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, 2 voll.

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si sono interrogati2. Tale entità, sul limitare della sua opera, in Petrolio, sarà il nume tutelare del personaggio ancipite, Carlo, nella metà ferina e istintuale di quel doppio. Sin qui, a leggere l’epigramma sopra riportato, concepito per aprire la prima edizione di Descrizioni di descrizioni, pare che Tetis sia guardiana d’un passaggio celato, interstiziale, in cui l’ideologia fronteggia la poesia. Siamo nei dintorni di una lettura classica dell’opera di Pasolini, donde sempre, ineludibile, ci si approssima una questione: quella sulle modalità di convivenza degli opposti. Proverò allora ad accostarmi ancora a questa domanda ravvicinando all’epigramma in questione un’affermazione da Pasolini data nel 1963, in occasione dell’uscita del film La rabbia: «La mia ambizione è stata quella di inventare un nuovo genere cinematografico. Fare un saggio ideologico e poetico con delle sequenze nuove»3. Nel catalogo del saggio, forma centrale nella sua produzione, Pasolini aveva già incluso un titolo esemplare come Passione e ideologia: laddove, avvertimento dell’autore, la congiunzione che unisce i due termini «non vuole costituire un’endiadi (passione ideologica o appassionata ideologia)», né «una concomitanza, ossia: “Passione e nel tempo stesso ideologia”. Vuole essere invece, se non proprio avversativo, almeno disgiuntivo: nel senso che pone una gradazione cronologica: “Prima passione e poi ideologia”, o meglio “Prima passione, ma poi ideologia”» (SLA I, p. 1238). A un primo sguardo, siamo di fronte a una situazione speculare, in posizione magari chiastica, 2.  Si veda, ad esempio, H. Joubert-Laurencin, Cucina della strega. Petrolio e il cinema, in A. Cadoni (a cura di), Petrolio e dopo, in «Parol», XXVII, n. 29, 2018, pp. 287-440: pp. 423-432, in part. pp. 423-425. 3.  In CI II, p. 3067. Si tratta di un’intervista da Pasolini rilasciata a Maurizio Liverani per «Paese Sera» e uscita il 14 aprile del 1963, riportata nelle Note e notizie sui testi del doppio Meridiano cinematografico: ripresa, tra l’altro, dai numerosi interventi che, negli ultimi anni, si sono soffermati su questo film di Pasolini prima dimenticato o ingiustamente liquidato tra le opere minori e non riuscite.

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dove il sostantivo passione e l’aggettivo poetico occupano le caselle estreme di questa sorta di equazione retorica. Ecco che La rabbia, questo film letteralmente eccezionale, sarebbe un saggio ideologico ma poi poetico. Come possa nascere, nel corpo della pellicola, un saggio, e in che modo questo possa essere poetico sarà la domanda al centro di queste pagine, alle quali credo sia opportuno anteporre una noterella storiografica. La rabbia è infatti un film eccezionale, come dicevo, all’interno della filmografia pasoliniana, dove pure non mancano altri esempi di film-saggio o di genere spurio. Il fatto è che a far eccezione sono la tipologia di lavoro filmico e la fonte delle immagini a cui Pasolini ha attinto. Ma anche il contesto in cui l’opera ha preso forma: contesto che proprio per tale motivo, come hanno fatto di recente altri studi, ritengo giusto richiamare brevemente4. Nel 1962 Gastone Ferranti, un piccolo produttore cinematografico che, nel decennio passato, aveva prodotto e curato un cinegiornale di grande popolarità, Mondo libero, concepisce il progetto di un film che parta dai materiali di repertorio del suo rotocalco. Stando a un’ipotesi di Chiesi, è in realtà probabile che Ferranti, sull’onda del grande successo commerciale di Mondo cane, pensasse a un film “bizzarro”, magari spettacolare, pur senza curarsi del rischio d’un deteriore qualunquismo: partendo però da un assunto, forse casuale, e però non del tutto privo d’interesse: un soggettino «sulle vicende di alcuni marziani che, discesi sulla terra, scoprivano le contraddizioni della vita moderna…»5. Nelle intenzioni del 4.  Dopo un oblio più che quarantennale sul film, considerato in coda alla filmografia pasoliniana, diversi studi ne hanno portato alla luce la genesi e analizzato vari tratti. Tra questi, specialmente per la ricostruzione storiografica, si rimanda principalmente a R. Chiesi, Il ‘corpo’ tormentato de La rabbia. La genesi del progetto, la ‘normalizzazione’ del 1963, l’ipotesi di ricostruzione del 2008, in «Studi pasoliniani», n. 3, 2009, pp. 13-26. 5.  Ivi, p. 14. La banalità di questo assunto – Chiesi definisce l’idea “debole” e “puerile”– può però trovare sorprendente risonanza nella forma del

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produttore, si sarebbe trattato di un film collettivo, con Pasolini tra le firme (insieme, tra gli altri, proprio a Gualtiero Jacopetti, regista di Mondo cane). Le cose, evidentemente, andarono diversamente, e la cosa rimase nelle sole mani di Pasolini, il quale, trovatosi a visionare l’immane mole (si parla di novantamila metri di pellicola) di fatti filmati – per lo più in maniera rozza o convenzionale –, intravvide da subito le potenzialità liriche del montaggio, attraverso l’accostamento di un commento squisitamente letterario che si apprestava a scrivere per l’occasione. Inizia così, già dalla scelta personale del titolo, la realizzazione di un’opera fondata sulla dialettica fra testo e immagine dove, a un lungo e faticoso lavoro di sottrazione e taglio sul repertorio delle immagini6, viene aggiunta la parte scritta, affidata a due voci, distinte – con alcune deroghe – in prosa e poesia: rispettivamente quella di Renato Guttuso e quella di Giorgio Bassani. A progetto già avviato il produttore, angustiato dalla certezza di un insuccesso commerciale, decide di rimodellare la composizione del film. Dando vita a una sorta di contraddittorio stilistico e ideologico, sotto un’etichetta che potrebbe suonare «i fatti di oggi visti da sinistra e da destra», egli commissiona a Giovannino Guareschi una seconda parte. Dopo averla vista – e ritenendola un lavoro qualunquista e reazionario – Pasolini è fortemente tentato di ritirarsi; ma alla fine il film prenderà vita, previo uno scambio polemico con l’inventore di Don Camillo e Peppone (cfr. CI I, pp. 412-413 e CI II, pp. 3073-3074). L’effetto finale è quello di «una sorta di cine saggio, nelle sue radici; pensiamo infatti non tanto alle Lettere persiane di Montesquieu, quanto a un loro possibile antecedente in una pagina dei Saggi nella quale, rovesciata la prospettiva di osservazione, Montaigne rivanga un suo incontro, a Rouen nel 1562, con tre indios della Francia antartica, trovatisi – sotto precisa domanda – a dover esprimere la propria opinione sui costumi dei colonizzatori. 6.  CI II, p. 3067: «Ho lavorato per settimane e mesi; è stato un lavoro massacrante, perché la moviola è un lavoro terribile di per sé».

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monstrum bicefalo»7, che comunque non salva il film dal temuto insuccesso commerciale. Qui si ferma la prima parte di questo piccolo memento; mentre La rabbia, quella di Pasolini, sprofonda nell’oblio, vista pochissimo e liquidata come opera trascurabile o mal riuscita anche dai critici più attenti8. La seconda appartiene invece alla storia recente dove, grazie anche alla sempre crescente mole critica di studi su Pasolini, si assiste a una vera e propria rinascita di questo lavoro. Innanzitutto, con il restauro della pellicola, nel 2007, da parte della Cineteca di Bologna; in secondo luogo, con quella che davvero si potrebbe considerare come una nuova vita del film, alimentata dal progetto di Giuseppe Bertolucci intitolato La rabbia di Pasolini. Qui si impone un altro piccolo passo indietro. Dopo l’aggiunta del lavoro di Guareschi, il produttore decise di tagliare una consistente fetta della pellicola di Pasolini, che fu così costretto a rinunciare a tutta la parte iniziale, già scritta, del suo film. Di questa, perciò, restò testimonianza soltanto in sceneggiatura. È così che, partendo da un’idea di Tatti Sanguineti (RA, p. 219), Giuseppe Bertolucci ha frugato tra i materiali di Mondo libe­ ro sui quali aveva lavorato Pasolini e, seguendo gli impulsi dei testi, ha tentato un’«ipotetica ricostruzione» culminata nella distribuzione, a fine 2008, di questo film effettivamente nuovo. Si tratta, se ci pensiamo, di una felicissima operazione di filologia impossibile, o utopica: un tentativo di ricostruzione, un’ipotesi, appunto, di un film che si può solo immaginare. Un

7.  M. Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema, Marsilio, Venezia 2008, p. 181. 8.  Tra tutti, faccio gli esempi di A. Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia 2005 (19771) e di A. Tricomi, Sull’opera mancata di Paso­ lini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Carocci, Roma 2005, p. 312. Tra le eccezioni, invece, possiamo annoverare H. Joubert-Laurencin, Pasolini. Portrait du poète en cinéaste, Cahiers du cinéma, Paris 1995, pp. 137-149, e S. Mariniello, Pier Paolo Pasolini, Cátedra, Madrid 1999, pp. 209-216.

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testo utopico che non ha altra destinazione se non quella ideale di un’ipotesi di film. È dunque in questo modo che la critica, nell’immensa mole di studi su Pasolini, ha iniziato a guardare con maggiore attenzione a questo film eccentrico. Ma chiuso il preambolo storiografico, non resta che tornare alla domanda iniziale: in che modo possiamo considerare La rabbia alla stregua d’un saggio poetico? Una siffatta questione è immediatamente preceduta da un’altra, tutt’altro che oziosa o puramente teorica, poiché senza dubbio, insieme a quanto appena detto, concorre alla nuovissima fortuna del film. Il “film-saggio”, con il suo statuto complesso, estetico ed epistemologico, è infatti uno dei temi più vivi negli studi cinematografici contemporanei9. È anche grazie a questo interesse, diciamo così, nel campo generale che si è riacceso l’interesse attorno al film. Si impone allora la partenza dall’intentio auctoris della primissima ora, da quell’ambizione di creare, attraverso questo saggio ideologico e poetico, un nuovo genere cinematografico. Restiamo, per il momento, sul testo10. Accanto alle composizioni originali di Pasolini, divise, come s’è detto, tra voce in prosa e voce in poesia, appare una «voce ufficiale»: laddove in colonna sonora sia mantenuto il commento dello speaker ai brani di Mondo libero scelti e rimontati. Va da sé che, considerata la natura del mezzo a cui son rivolte, spesso si tratta di discorsi superficiali o corrivi. In che modo interviene la nuova voce, quella – poetica o prosastica – di Pasolini? Per meglio capire la dialettica di 9.  Alla varietà degli studi inclusi in S. Liandrat-Guigues - M. Gagnebin, (a cura di), L’essai et le cinéma, Champ Vallon, Seyssel 2004 si vanno recentemente ad aggiungere due importanti volumi: T. Corrigan, The Essay Film. From Montaigne, After Marker, Oxford University Press, New York 2011; L. Rascaroli, How the Essay Film Thinks, Oxford University Press, New York 2017. 10.  Leggibile, come si è detto, in CI I, pp. 353-404 (da dove saranno tratte le citazioni), e poi nel bel volume del 2009 curato da Roberto Chiesi per i tipi della Cineteca di Bologna (RA).

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questo innesto, soffermiamoci su una scena non inserita nella prima Rabbia, costretti dunque a concentrarsi sul solo testo (a prescindere dunque dall’ipotesi realizzata di Bertolucci). Siamo alla sequenza numero XVI in sceneggiatura, significativamente intitolata «Televisione»: Voce ufficiale Il sogno di Verne e di Robid – assistere a quello che avviene nel mondo standosene comodamente a casa – sta per diventare realtà anche per voi… Voce in prosa Finalmente un accento di soddisfazione sincera (voce dell’insincerità, voce della menzogna)! Eh sì, possiamo essere soddisfatti, nunc est bibendum, come diresti tu, voce del cattivo latino! Infatti una nuova arma è stata inventata per la diffusine dell’insincerità, della menzogna, del cattivo latino! Voce ufficiale A Milano e a Torino stazioni televisive funzionano già in via sperimentale… Voce in prosa Sperimentano modi per dividere la verità e per porgere la mezza verità che rimane attraverso l’unica voce che ha la borghesia per parlare: la voce che contrappone un’ironia umiliante a ogni ideale, la voce che contrappone gli scherzi alla Tragedia, la voce che contrappone il buon senso degli assassini agli eccessi degli uomini miti. Voce ufficiale Per ora solo quattromila abbonati hanno il telecinema in casa: tra un anno si conteranno a decine di migliaia. Voce in prosa No, a milioni. Milioni di candidati alla morte dell’anima.11

11.  CI I, pp. 366-367. Con “Robid” si fa riferimento senz’altro allo scrittore di letteratura fantastica e fantascientifica Albert Robida, come pure è opportunamente corretto in RA, p. 50.

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In un passo ternario, la fiducia euforica della voce ufficiale è sistematicamente schiacciata dagli interventi d’autore, dai quali si inizia a scorgere una certa, e decisiva, policromia tonale, di cui siano alcuni esempi: gli accenti di vaga marca leopardiana, nella declinazione propria dell’autore delle Ceneri di Gramsci, con la polemica contro il fatuo ottimismo di un progressismo deteriore; a essa immediatamente conseguenti, certe note estetiche e sociologiche che saranno richiamate negli scritti dell’ultimo Pasolini, il quale troverà nella televisione uno di quegli idoli negativi atti a riflettere le sue idee sulla contemporaneità: i modi per dividere la verità e per porgere la mezza verità; l’ironia, probabilmente non tra gli elementi più ricorrenti in Pasolini, ma che quando compare dà luogo a passaggi sempre assai significativi (e comunque sempre pronta a mutarsi in sarcasmo: penso alla Ricotta o, inaspettatamente, a certi spunti in Salò o in Petrolio): nunc est bibendum, come diresti tu; infine, lo stato, diciamo così, anamorfico, d’una prosa che, a seconda della prospettiva da cui la si guarda, si deforma in poesia: per esempio attraverso la ricorrenza dell’anafora (figura principe, non solo a livello di retorica testuale, della Rabbia12: voce dell’insinceri­ tà, voce della menzogna… voce del cattivo latino), ovvero nella chiusa sentenziosa: Milioni di candidati alla morte dell’anima. Altrove, si rilevano ancora effetti stilistici dati da finezze di montaggio visivo e sonoro: nel cuore di un lavoro sul found footage che, come si capisce anche dal brano appena analizzato, tende alla riutilizzazione non soltanto dell’immagine, ma anche, in chiave retoricamente strutturata, della voce ufficiale. Ancora, per parafrasare il «cattivo latino» di cui sopra, la voce della cattiva letteratura:

12.  Come hanno notato anche R. Chiesi, Il ‘corpo’ tormentato, cit., e M. Rizzarelli, Un blob su commissione: ‘La rabbia’ di Pier Paolo Pasolini, in I. Crotti - E. Del Tedesco - R. Ricorda - A. Zava (a cura di), Autori, lettori e mercato nella modernità letteraria, ETS, Pisa 2011, pp. 267-276: pp. 274-275.

241 Voce ufficiale Il divin dono dell’acqua, per il progresso si muta in numero: per l’industria elettrica, ad esempio, l’eccitante orrido di una cascata si traduce in chilowatt e ampères […]. Ma una volta all’anno, anche gli industriali, anche gli uomini che misurano persino i fenomeni naturali in cifre e li fanno schiavi dei dividendi, diventano poeti…13

Su quest’ultima parola, l’immagine che scorreva, l’ultima di una serie di inquadrature della cascata delle Marmore, si risolve in un’«immagine statizzata della cascata» alla quale segue il contrappunto della voce in prosa: «Sì, voce degli industriali, voce della finta imparzialità… essi diventano poeti, […] purché la poesia sia pura forma, voce dell’incoercibile formalismo». Il breve stacco – segue immediatamente una nuova sequenza, quella sull’incoronazione di Elisabetta II – è accompagnato da tre piani, che riprendono altrettanti quadri astratti, in riproduzioni a colori: probabilmente presi da altro repertorio preesistente rispetto a quello di Mondo libero, che non è dunque la sola fonte di composizione visiva. Anche qui il dettato in prosa è incrinato da una tenue intonazione poetica: cosa che giustifica parzialmente la deroga alla regola che lo vedrebbe assegnato alla voce di Guttuso anziché, come qui accade, a quella di Bassani. In realtà, l’emergenza di simili venature liriche nell’impianto prosastico è solo una delle tante increspature che agitano, qui come altrove, l’espressione pasoliniana. Se ne potrebbe parlarne a lungo, iniziando da lontano, ma restiamo nei dintorni di ciò che stiamo vedendo, leggendo e ascoltando: e ripartiamo dalla sceneggiatura.

13.  Cfr. CI I, p. 378 (p. 379 la successiva citazione). Le omissis segnalano direttamente il taglio operato nel montaggio finale del film, i corsivi (miei) leggerissime varianti (divino > divin) dalla sceneggiatura al film.

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In un saggio cruciale del 1965 poi incluso, nel ’72, in Empiri­ smo eretico14, Pasolini sosteneva – e come dargli torto – una sorta di irriducibile vanità della sceneggiatura, privata del suo complemento, l’immagine. Risulta però allo stesso tempo patente, insieme ad alcuni casi esemplari15, una possibile vita autonoma della Rabbia, alimentata proprio dalla natura spuria e incrinata di un genere labile ma preciso come il prosimetro. La rabbia, dunque, mostra il proprio carattere ancipite già allo stadio in cui potrebbe persistere un’autonomia drammaturgica, e lo fa a partire dallo stile e, ancor prima, dalla scelta della forma della scrittura. Se pure ho parlato di autonomia, questa non nega, d’altro canto, le acquisizioni del saggio pasoliniano. Perché proprio la peculiarità dell’integrazione figurale che l’immagine cinematografata va a compiere rispetto alla parola scritta scopre alla luce il metodo di lavoro pasoliniano16: prettamente stilistico. Ma ne dirò più avanti. Per ora si tenga presente che anche in questo film, dove l’inquadratura non sottostà a un progetto d’autore a monte – è l’ovvio, almeno superficialmente, principio del found footage –, possiamo trovare tutti i caratteri di un plausibile “fotogramma Pasolini”. È stato scritto che La rabbia è un film che si guarda con le orecchie17. Di sicuro dall’udito non si può prescindere, e non solo per le voci; sulla colonna sonora, sulla sua parte musica14.  La sceneggiatura come «struttura che vuole essere altra struttura», in EE, pp. 188-197. 15.  Penso ad esempio ai volumi einaudiani che raccolgono i testi per film di Ingmar Bergman, con i quali, assieme a capolavori di scrittura cinematografica, ci si trova tra le mani drammi che non ci stancheremo mai di leggere. 16.  Cfr. EE, p. 188. Sull’«integrazione figurale», concetto che Pasolini “adatta” da Auerbach, cfr. G. Picconi, Aroma di Vico. Appunti su Pasolini e Auer­ bach, in S. De Laude - P. Desogus - L. Gasparotto - S. Rimini, Il Medioevo secondo Pasolini, Edizioni Engramma, Venezia 2022, pp. 11-44. 17.  Cfr. Z. Baross, In praise of La rabbia, in «La Rivista», n. 4, 2015, pp. 8292: p. 92.

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le, si sofferma a fondo anche Laura Rascaroli18. Si resti per un momento sulla forma fluens, per dirla con Ruggero Pierantoni. E pensiamo all’espressione poetica: l’orecchio si tende là dove la forma si trascolora, restando però aderente alla sua essenza. Siamo alla sequenza della visita alla pinacoteca sovietica, con la voce in poesia che sembra quasi doppiare il protagonista dei filmati scelti da Pasolini, un “cicerone” che illustra i quadri a un gruppo di giovani, lì in visita; l’attacco è piano, discorsivo, spezzato nel ritmo dall’imbarazzo segnico dei punti di sospensione, come di chi stia cercando le parole per dire qualcosa di scomodo. La scena è quella di una visita guidata in una sala museale. Il piano del montaggio letterario-visivosonoro è percorso dalle increspature di cui dicevo prima, qui avviluppate in un’onda che scuote e dà vita al puro stile pasoliniano. Il cicerone illustra a un gruppo di giovani uomini e donne la grandezza della pittura realista sovietica: così immaginiamo, almeno dall’attacco: «Giovani compagni e compagne… io… / io sono qui in nome del nostro Comitato, / e… e… a voi così pieni di desiderio di sapere, / dovrei insegnare le glorie della pittura sovietica». Dell’audio d’origine, ovviamente, nulla rimane; la scena, in guisa d’un placido epos, è accompagnata da una canzone corale russa, simile a quei brani dell’Armata Rossa che si sentiranno, un anno più tardi, nel Vangelo secondo Matteo. Quello che parrebbe essere un banale tappetino sonoro è in realtà una transizione, un elemento di montaggio interno verso il rovesciamento dato dalla voce titubante, umanissima che Bassani presta al cicerone: «Guardate come sono ben eseguiti / questi nostri compagni minatori, / queste nostre compagne colcosiane… / Questo vi dico… Eppure qualcos’altro mi pesa nel cuore / di funzionario che fa il suo dovere come ai giorni di Stalin!»

18.  Cfr. L. Rascaroli, How the Essay Film Thinks, cit., pp. 124-141.

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Il punto esclamativo è l’accento su un’altra incrinatura, questa volta tonale, laddove l’officiante di una lunghissima elegia inizia a intaccare la sua ossessiva e ininterrotta tendenza a cantare di ciò che s’è perduto, o che si sta perdendo19: «… Ma / sudo e arrossisco nel dirvi questo, / come un personaggio buffo di Chêcov… come / un ragazzo che parla per la prima volta col padre / di cose d’amore – in questi quadri c’è il nostro errore». Siamo verso la fine del film, e come in molti altri passi la voce lirica arretra nelle fila generali della critica politica, qui con i toni pacati e metaforici d’una polemica di marca, diciamo così, estetica. L’errore di cui si parla è quello, rappresentativo, messo in atto dalla scuola del nuovo realismo sovietico: laddove la realtà rappresentata, privata dell’espressività, si autocondanna all’inerzia. Il discorso è senz’altro, dal verso opposto, quello stesso a cui si accennava poc’anzi, e con esso fa il paio: con questo realismo sterile che si accompagna alla normalizzazione dell’avanguardia, la quale, perduta la sua forza di rottura, una volta stinti i suoi urli contro la forza schiacciante del Capitale, viene assimilata, per mezzo del denaro, al tempo libero e a un piacere degli occhi, anch’esso inerte, del gusto borghese (voce degli industriali). Ecco allora che, in una tenue climax della voce di Bassani, l’accensione politica e critica del dettato poetico si ricopre della veste d’una vera e propria necessità: quella della riappropriazione dell’espressività, attraverso la quale, sola, Pasolini sa intendere la realtà, nella sua declinazione rappresentata (intesa tale rappresentazione, almeno a quest’altezza, come l’unica forma di realtà che si possa restituire, nella sopravvivenza oltre il tempo che l’ha manifestata). A una rivoluzione avvenuta e tradita, a una teoria della rivoluzione destinata a cambiarsi d’abito, sbiancando i colori, Pasolini oppone una forza rivoluzionaria 19.  Chiesi parla, per il commento del film, di «un poema elegiaco […] che assume tinte epiche», Il ‘corpo’ tormentato, cit., p. 22.

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che, libera da sofismi, si immerge – col rischio cosciente di annegare – nelle contraddizioni della storia. E la voce del cicerone della pinacoteca si anima in uno di quegli adagi così peculiari tra i versi di Pasolini: «Dovremo ricominciare da capo, da dove / non c’è certezza, e il segno è disperato, / e il colore stridente, e le figure / si contorcono come i cremati di Buchenwald, / e una bandiera rossa ha il tremore / di una vittoria che non può essere mai l’ultima. / Perché non è finita la lotta di classe» (CI I, pp. 386-387 per questa e le precedenti citazioni). E qui, ripeto, si torna alla polemica con un formalismo che, trincerato nella sfera dell’autonomia del significante, diventa – per parafrasare un passo del saggio sul cinema di poesia – espressione media del capitalismo industriale, con le possibilità ma insieme con i rischi che ciò comporta20. E in virtù di questa polemica assume ora, a corredo dei versi appena citati, certe opere dello stesso Guttuso, come simbolo di un nuovo slancio verso il domani, contrapposto tanto a un realismo (quello sovietico) che, dopo l’Ungheria, dopo Stalin, ha smesso di parlare al presente, quanto a un avanguardismo che, pura forma ormai rivoluzionariamente sfiatata, diventa motivo di legittimazione

20.  Cfr. EE, spec. pp. 186-7. Si pensi, a tal proposito, anche a una pagina del Lukács maturo: «Ciò che bisogna assolutamente evitare è proprio ciò che svolge solitamente la parte principale nella teoria borghese-avanguardistica dell’arte: la separazione delle vie sul piano formale, soprattutto nel modo di scrivere, nella tecnica letteraria, nella formulazione immediatamente tecnica. Ciò procura bensì una chiarezza a buon mercato nella separazione del «moderno» dall’“antiquato”, dalla semplice eredità dell’ottocento, ma in realtà oscura proprio i problemi formali decisivi ed essenziali, confonde la dialettica essenziale interna dei trapassi. La polarizzazione apparentemente chiara che risulta da un siffatto modo di vedere, determina una falsa fissazione di trapassi come poli, e oscura i principi che determinano le vere opposizioni», G. Lukács, Le basi ideologiche dell’avanguardia, in Id., Arte e società, Editori Riuniti, Roma 1977 (19721), pp. 115-156: pp. 115-116; questo saggio già si poteva leggere in Id., Il significato attuale del realismo critico, Einaudi, Torino 1957.

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di un potere economico autodefinitosi democratico. Lo stesso potere che, nel frattempo, è capace di inglobare quella bellezza che, in un precedente stato di innocenza, era capace di sottrarvisi: pensiamo alla struggente sequenza dell’ode a Marilyn (CI I, pp. 397-399), la cui bellezza lacerata dall’esposizione sarà figura di un’altra bellezza strappata, annegata nella reificazione dei corpi innocenti in Salò. Più che in quest’ultima sequenza, di marca prettamente elegiaca, e che di poco segue nel film, è nella precedente che si realizza il pieno recupero di un’espressività puramente pasoliniana: con un passo ternario di intensità crescente – il segno disperato, il colore stridente, le figure contorte – che si risolve nel tremore della bandiera rossa, in primo piano la gamma cromatica, con un impatto enormemente icastico. Accompagnato, per di più, al montaggio sulle opere di Guttuso, riprodotte rigorosamente a colori, in una scala dalla dominante vividamente purpurea. Siamo nello stesso clima di intensità ideologica ed emotiva, lo accennavo prima, di altri passi pasoliniani: tra tutti, l’adagio con reiterazione formulare – Stupenda e misera città, / che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci / gli uomini imparano bambini… – nel Pianto della scavatrice; ma soprattutto, attraverso la forma sopravvissuta e morente delle bandiere, la chiusa di un altro testo chiave, Le belle bandiere, dalla sezione Una dispera­ ta vitalità in Poesia in forma di rosa, laddove il tono altamente espressivo puntella una costruzione onirica e uno scorcio d’angolatura espressionistica: «E, su tutto, lo sventolio, / l’umile, pigro sventolio / delle bandiere rosse. Dio!, belle bandiere / degli Anni Quaranta! / A sventolare una sull’altra, in una folla di tela / povera, rosseggiante, di un rosso vero, / che traspariva con la fulgida miseria / delle coperte di seta, dei bucati delle famiglie operaie / – e col fuoco delle ciliege, dei pomi, violetto / per l’umidità, sanguigno per un po’ di sole che lo colpiva, / ardente rosso affastellato e tremante, / nella tenerezza d’un’immortale stagione!» (PO I, p. 1181). Sulla scorta

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del metodo longhiano – un metodo che, attraverso la breccia conoscitiva della prosa, si fa equivalenza dello stile –, Pasolini guarda alla realtà come se si trovasse di fronte a un quadro, e preso nota dei dettagli che incrinano l’armonia dell’insieme, li restituisce attraverso immagini vivide o pungenti, capaci di scuotere il passo lento del dettato. Dettato che nei brani citati dalla Rabbia e da Poesia in forma di rosa – opere entrambe uscite nel 1963 – mostra simili tratti e decisiva affinità, dalla concitata emozione dei punti esclamativi alla dominanza di elementi cromatici, per non dire degli elenchi aggettivali ordinati in sequenze di climax ascendente o discendente. Solo che ora, con la mescolanza tra poesia e audiovisivo, l’espressione si completa, e la parola trova la propria integrazione. Abbiamo detto, raccogliendo la suggestione di un saggio ormai classico di Walter Siti, che la parola in Pasolini scaturisce dall’osservazione del mondo, come se si trattasse di un quadro21. Il cinema, infatti, si pone come il correlativo oggettivo di quell’ideale membrana che divide lo sguardo sul reale dalla parola che lo connota. Il lavoro sui materiali di Mondo libero è però ancora diverso. Come peraltro nei film precedenti, con la differenza che qui s’è eliminato l’ulteriore velo del soggetto di finzione, la realtà è ridotta a equazione di quadri filmici. Ma non vi è più spazio (profilmico) da plasmare o ricreare, né attori-uomini che debbano ripetere davanti al velo le azioni che scandiscono le loro giornate (Accattone). Vi è, più semplicemente, una fonte. Ruolo della letteratura, nell’incrocio con la pellicola già impressionata e catalogata, è quello di squarciare

21.  W. Siti, Il sole vero e il sole della pellicola, o sull’espressionismo di Pasolini, in «Rivista di letteratura italiana», VII, n. 1, 1989, pp. 97-131 (a tal proposito si veda pp. 104 e ss.). Questo saggio – col titolo Sull’espressionismo di Pasolini – è ora leggibile, insieme a tutti gli altri scritti pasoliniani di Siti, in Id. Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini, Rizzoli, Milano 2022, pp. 127-160.

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tale fonte: la parola scritta e detta, con i suoi accenti critici, va a riplasmare l’immagine a cui allude (e che di contro, rifrange la sua luce e ne amplifica la forza): va a riplasmare, dunque, la realtà, che si trova abitata da nuovi significati. In tal senso, per usare ancora le parole di Siti, «il cinema pasoliniano è prosecuzione dell’espressionismo […] portando all’estrema conseguenza l’idea del ‘forare’ o del ‘catturare’»22. Ecco, la realtà preesistente – dico preesistente in quanto già catturata da altri obbiettivi – viene riconvocata dai cataloghi della più corriva banalità estetica e ideologica e, attraverso la parola, forata. La forzatura dell’ordine comune delle cose avviene in Pasolini attraverso le mescolanze stilistiche, che il regista della Ricotta desume dal bagaglio stilcritico di Erich Auerbach e riusa in funzione di una sua adesione non illustrativa alla rappresentazione della realtà. In Accattone ciò accadeva attraverso un turbinio di conflitti stilistici che, nel contrasto tra colonna sonora e visiva – e anche all’interno della sola colonna sonora – vedevano convivere il sublime della musica di Bach con il volgare del dialetto, la selva di riferimenti pittorici di ispirazione religiosa con azioni terragne o violente, ma allo stesso tempo tragiche, magari di classica compostezza; per cui un’evidente Madonna con bambino è in realtà una donna sottoproletaria che, col figlio neonato in braccio, assiste a una comune scazzottata ipso facto mutata in una lotta tra eroi tragici, sullo sfondo campito dall’intonaco sbrecciato o dalle lamiere rugginose delle baracche23. Nella Rabbia, invece, tutto inizia dal contrasto, almeno ideale, tra testo e immagine, tra il tono elevato o sostenuto della voce poetica e la convenzionalità o la rozzezza di alcuni piani di cinegiornale; eppure, Pasolini stesso già avvertiva 22.  Ivi, p. 125. 23.  Su questo aspetto rimando a un mio studio, A. Cadoni, Il segno della contaminazione. Il film tra critica e letteratura in Pasolini, pref. di H. JoubertLaurencin, Mimesis, Milano 2015, pp. 141-162.

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che in fase di progettazione del film, in qualsiasi inquadratura “dal vero”, anche la meno consapevole, può scattare un clic: un volto, un dettaglio strisciante o celato, un gesto, fosse magari il semplice «sorriso di uno sconosciuto», o quello, di tartaruga, di un Papa – Roncalli – appena eletto (CI II, p. 3067). A quel punto la mescolanza stilistica – e dunque l’indice di efficacia, diciamola così, della realtà rappresentata – diviene interna allo stesso found footage, e l’aggiunta sonora avrà il merito, nell’incontro tra il dettaglio visivo e la nota vocale, di far emergere certi armonici altrimenti inaudibili. Si aggiunga poi che, in questa tendenza alle contaminazioni entra anche la mescolanza dei generi e delle tonalità a essi legate. Ricordiamo la tendenza all’anafora, che già sull’inizio del film (in realtà alla scena XX in sceneggiatura, CI I, p. 368) insiste in un modo che va al di là di una semplice ricorrenza retorico-figurale: «Neri inverni d’Ungheria: / è scoppiata la Controrivoluzione. // Nere città d’Ungheria: i fratelli bianchi uccidono. // Neri ricordi d’Ungheria: i fratelli borghesi non perdonano». E ancora, poco oltre: Nera serata di Parigi… Nero frastuono di Parigi. Le ricorrenze sono innumerevoli, se ne contano quasi in ogni sezione o sequenza. Per ora restiamo su questa, centrale sia per la sua posizione in apertura che per il tema cruciale, quello della repressione sovietica in Ungheria nel 1956, fatto che dà vita a una crisi d’identità della sinistra italiana ed europea e alla successiva necessità di ripensare la propria posizione politico-culturale24. Siamo subito oltre i titoli di testa, che scorrono sul sublime dell’Adagio in sol mino­ re (lo pseudo-­Albinoni, per intenderci). Proprio sullo stacco

24.  Come si vede dalle successive sequenze, Pasolini inizia proprio in questi primi anni ’60 ad allargare il proprio raggio e decentrare la propria posizione, attraverso uno sguardo rivolto al di fuori dell’Europa. Una simile lettura del film è proposta da M. Jaran, Pasolini, Fanon e l’umanesimo transnazionale, in «Studi pasoliniani», n. 7, 2013, pp. 49-62.

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tra l’ultimo cartello e il primo fotogramma del film attacca il violino, con la celebre, struggente melodia che tanto ricorda quella di un altro adagio, il movimento finale del quintetto per archi «K 516» di Mozart, che Pasolini utilizzerà in una delle sequenze più belle e misteriose del suo repertorio, quella delle marionette morenti di fronte al cielo, da esse visto per la prima volta, in Che cosa sono le nuvole? (1967). Questa prima immagine non è, però, un filmato. La rabbia si apre infatti su una serie di fotografie che documentano le azioni militari a Budapest, la prima delle quali ritrae un cadavere, supino in una pozza di sangue, trucidato e trafitto, fra le macerie di un interno e col lugubre particolare di un ritratto (un’altra foto) incorniciato di Lenin, caduto dal muro ma rimasto in verticale e visibile, tra le braccia contratte che sembrerebbero conservarlo, quasi fosse l’ultimo, remoto idolo, custode della libertà annichilita. Il montaggio delle fotografie, sulle quali – un po’ come faceva il maestro Longhi nel suo saggio filmico sul Carpaccio (1950) – però la macchina da presa compie i suoi movimenti (è il caso qui dell’immagine che ritrae un altro cadavere, pubblicamente esposto, appeso per i piedi), ci riporta ad alcune esperienze del film sperimentale e del film-saggio di quegli anni: prima tra tutte, La jetée (1962) di Chris Marker, interamente costruito sullo scorrere di immagini fotografiche accordate a una voce narrante. In Pasolini l’indice di sperimentalismo è però dato dall’eterogeneità delle fonti: in primis, i quadri di cui si diceva, dalle forme astratte all’espressività di Guttuso, passando per l’inserimento di altre opere di Ben Sahn o di George Grosz, con la loro pungente e ironica critica alla borghesia moderna a contrappuntare una voce in prosa (ancora affidata a Bassani, anziché a Guttuso) che attacca sulla foto di un teschio tenuto in mano, al centro dell’inquadratura, da un uomo il cui volto è nascosto: «Voce dell’umorismo sciocco, della paura della cultura […] La tragedia è scongiurata. Tira il tuo sospiro di sollievo, voce della quotidiana volgarità» (CI I,

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p. 376, passo in corsivo non presente nel film). Questo in un taglio di montaggio che vira d’improvviso dalle scene di festeg­ giamenti per la vittoria a Cuba, con relativa musica rivoluzionaria (que viva Fidel, vivan los barbudos…). Al popolare brano cubano segue, sotto le parole urticanti scritte da Pasolini e lette ancora da Bassani, un brano di jazz orchestrale che si accompagna alle successive scelte tratte da Mon­ do libero e accompagnate dalla voce ufficiale: l’arrivo di Ava Gardner all’aeroporto di Ciampino, Sofia Loren che, in una pausa del set di La donna del fiume di Mario Soldati, assiste alla cattura e alla lavorazione delle anguille in una peschiera del Polesine ecc. Ecco che assistiamo all’intreccio e al successivo complicarsi delle fonti pasoliniane della Rabbia. Notiamo innanzitutto un microscopico dettaglio, magari casuale, ma di un certo impatto stilistico: se è vero che la voce poetica o prosastica predilige l’anafora, il passaggio su quella ufficiale vede qui la manifestazione di un’epanadiplosi – «Ava Gardner ama molto il nostro paese: e tutte le occasioni sono buone perché, in un ritaglio di tempo, tra un film e l’altro, si imbarchi su qualche aereo diretto a Ciampino. Anche quest’anno ha preso l’aereo per Roma. Dunque, ben tornata, Ava!» (CI I, p. 377) –, come a evidenziare anche linguisticamente il cerchio chiuso di un’ottusità stilistica in urto con le potenzialità introduttive e aperte, se così possiamo dire, di un’anafora che, nella ripetizione di un membro linguistico – sia in funzione di soggetto o vocativo –, mostra combinazioni di lettura diverse, capaci di approfondire criticamente o di illuminare altri dettagli. Quell’anafora che, si diceva, non è una semplice figura retorica nel testo letterario/colonna sonora; ad esempio, può essere accompagnata da una sorta di anafora visiva (gruppi iconografici che si ripetono, come il teschio a cui accennavo)25;

25.  Cfr. ancora M. Rizzarelli, Un ‘blob’ su commissione, cit., p. 275.

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ma, soprattutto, assurge, nella sua ossessiva cadenzatura, a una vera e propria reiterazione formulare, tipica della sfera stilistica del sacro (i salmi, ma anche le scritture evangeliche), da Carla Benedetti ricondotta invece, con analisi che non nega ma integra tale sfera, a quella del tragico26. C’è poi, è già emerso, il persistente, tenue e martellante tono dell’elegia. La sequenza di Marilyn è emblematica: «Del mondo antico e del mondo futuro / era rimasta solo la bellezza, e tu, / povera sorellina minore, / quella che corre dietro i fratelli più grandi, […] tu sorellina più piccola, / quella bellezza l’avevi addosso umilmente, / e la tua anima di figlia di piccola gente, / non ha mai saputo di averla, / perché altrimenti non sarebbe stata bellezza» (CI I, pp. 397-398). Queste pagine, scritte per la morte di Marilyn Monroe, tra le poche non composte appositamente per il film, sono forse tra le più belle nell’intera produzione poetica di Pasolini, al pari della celebre Supplica a una madre. Due cose, ora, colpiscono: innanzitutto la tensione verso una prosa lirica, data da quell’adagio ritmico che non sentiamo dalla sola lettura piana e sottilmente commossa di Bassani, ma che, se così si può dire, è tutto già dentro la prosodia di quei versi; in secondo luogo, ancora la reiterata traduzione formulare di quella bellezza perduta – sparita come pulviscolo d’oro, come una colombella d’oro – su cui è innervato il canto elegiaco: perdita27 che allo stesso tempo vede, nella lettura data da Sandro Bernardi, la sopravvivenza del mito antico, in questo caso di quello di cui parla Ovidio all’inizio

26.  C. Benedetti, La rabbia di Pasolini: come da un film sperimentale di mon­ taggio può rinascere l’antica forma tragica, in «Arabeschi», n. 6, luglio-dicembre 2015, pp. 40-53: p. 43 e passim. 27.  L’elegiaco, inteso come tono, come nuance stilistica, prende piede quasi sempre, almeno nella modernità, dalla categoria esperienziale della perdita, cfr. J.B. Vickery, The Prose Elegy. An Exploration of Modern American and British Fiction, Louisiana State University Press, Baton Rouge 2009.

253

delle Metamorfosi28: protagonista Astrea, la dea che, abbandonando la sfera terrestre, dà il segnale che l’età dell’oro sta volgendo al termine. In definitiva, abbiamo registrato la consueta tendenza pasoliniana alla mescolanza: elegia? Tragedia? Poesia? Saggio polemico o ideologico? Uso, in senso estetico ed etnologico, del concetto di sopravvivenza delle forme dell’antico? Tutto ciò bolle nel calderone dell’espressione pasoliniana, sorvegliato da Tetis, l’entità misteriosa. C’è la tendenza a polarizzare toni e forme in tale espressione, utilizzando il materiale che si ha davanti, il materiale del reale e il materiale del reale filtrato attraverso il linguaggio. Siamo insomma di fronte a una contaminazione totale dell’esistente dentro l’espressione, che qui prende la forma di un saggio ideologico e poetico, con le sue fonti imprescindibili di materiale preesistente. Mi viene da pensare a una delle angolazioni attraverso le quali il giovane Lukács, nella famosa lettera a Leo Popper, ci parla del critico, del saggista, della forma del saggio: Negli scritti del critico la forma è la realtà, la voce con cui rivolge le sue domande alla vita […]. Il saggista infatti ha bisogno della forma solo come esperienza, solo come vita vivente, ha bisogno di ciò che in essa è realtà vitale dell’anima. Ma questa realtà si può trovare in ogni manifestazione diretta, sensibile della vita […]. [I]l saggio parla sempre di qualcosa che è già formato o almeno di qualcosa che è già esistito una volta; è proprio della sua essenza non “ricavare nulla dal nulla” ma “dare un nuovo ordine alle cose già esistite”. Proprio perché le 28. Cfr. S. Bernardi, Pasolini, Marilyn e la partenza degli dei dalla terra, in «Fata Morgana», n. 10, 2010, pp. 115-138. Su come il concetto, non soltanto warburghiano, di sopravvivenza agisca più a fondo in Pasolini, si veda G.L. Picconi, La ‘sopravvivenza’ di Pasolini: modernità delle tradizioni po­ polari, in L. El Ghaoui - F. Tummillo (a cura di), Le tradizioni popolari nelle opere di Pier Paolo Pasolini e Dario Fo, Serra, Pisa 2014, pp. 69-78: p. 77.

254 mette in un ordine nuovo, esso non plasma qualcosa di nuovo dall’informe, è legato ad esse.29

Il regista-saggista, per dar forma all’opera che si appresta a realizzare, si mette di fronte alla realtà dalla prospettiva più defilata possibile, guardandola attraverso materiali già girati da altri, anche se fossero i più volgari che esistono. Li prende, li riplasma, li forgia attraverso la “rabbia poetica” di alcuni accenti critici in versi o invettive – o acuminate pagine ironiche – in prosa. È un vero saggista: prende l’esistente e lo ripropone per parlarci del mondo; nasce così in un primo momento il saggio allo stato ideologico. L’innesto poi sull’esistente, e sui detti accenti di commento, della voce poetante porta le osservazioni a un altro livello di acume critico, attraverso le armi dello stile e della retorica (l’anafora e la ripetizione, la metafora, l’analogia visivo-verbale ecc.). «Ronza / nel cielo d’Algeria, / una crisi che ricrea la morte // e nella ricerca / d’una nuova libertà, / vuole vittime / la cui vittoria è certa! // Ah, Francia, / l’odio! // Ah Francia, / la peste! // Ah Francia, la viltà!» (p. 391). In una simile cadenza, infine, si manifesta la suddetta rabbia poetica, così peculiare in Pasolini, che vive la propria esperienza vitale in un corpo a corpo permanente con l’ordine delle cose, in un clima tragico che però non si risolve, nelle cui maglie resta impigliato – come i corpi dei sottoproletari ed eroi greci di Ac­ cattone, avvinghiati nella lotta. Vi è in questi due momenti la differenza tra rivoluzionario e arrabbiato, su cui Pasolini si è diverse volte soffermato, alla base di una lettura dell’opera fatta da Georges Didi-Huberman30. Rischio del rivoluzionario, una volta sovvertito il potere, è quello di farsi a sua volta potere.

29.  G. Lukács, L’anima e le forme, tr. e nota di S. Bologna, con uno scritto di F. Fortini, SE, Milano 2002 (19721, Sugar), p. 24; cit. successiva, p. 27. 30.  G. Didi-Huberman, Rabbia poetica. Nota su Pier Paolo Pasolini, in «Carte semiotiche», ottobre 2013, pp. 70-79.

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La rabbia invece è figura di una critica permanente, sublimemente incarnata, secondo Pasolini, da Socrate: quello stesso Socrate di cui parla anche Lukács, sempre nella lettera a Leo Popper sul saggio sopra citata, per il quale la rabbia potrebbe corrispondere al desiderio, alla Sehnsucht, a quella ricerca del dettaglio – del montaggio come connessione di dettagli – dietro il quale si annida l’assoluto o l’urgenza31. Il saggio ideologico diventa dunque saggio poetico. Ma in un turbinio di stili, di immagini filmate da altri, interpolazioni di fotogrammi fissi e dipinti fotografati, nella rifrazione pendolare del senso tra immagine e parola: qui il poetico torna a essere ideologico, per poi cambiarsi ancora in poetico. Le istanze convivono, si annientano, si conciliano, rinascono. Lo dimostra perfettamente, così mi pare, un’immagine chiave, una sorta di punctum mobile, che ritorna mascherato in altri fotogrammi, in altre sequenze: un ragazzo che urla con bandiera rossa, tipico soggetto di Guttuso, il cui impeto rivoluzionario si incrina però nell’incertezza d’uno sguardo interrogativo, il cui grido si concilia nell’acceso refrain della voce in poesia – e una bandiera rossa ha il tremore di una vittoria che non deve essere mai l’ul­ tima –, la cui rabbia rivoluzionaria si contamina poeticamente con l’innocenza violenta dei garzoncelli pasoliniani di Ragazzi di vita o delle Ceneri di Gramsci, eredi diretti di quelli caravaggeschi, modelli di quadri celebri (penso al giovane morso da 31.  Sulla funzione poetica del montaggio nella Rabbia, e in Pasolini in generale, cfr. anche M.A. Bazzocchi, Costellazioni di immagini: tracce di Walter Benjamin in Pasolini, tra La Divina Mimesis e La rabbia, in «Studi Pasoliniani», n. 13, 2019, pp. 13-27, dove, tra le altre cose, un simile processo è ricondotto alla lettura pasoliniana dei saggi di Benjamin raccolti, per la cura di Renato Solmi, in Angelus Novus, uscito in quello stesso 1962. Questa lettura tempestiva, con certi suoi decisivi influssi in Poesia in forma di rosa (raccolta sulla quale Pasolini stava, in quel momento, lavorando), è per primo dimostrata da A. Sichera, La consegna del figlio. “Poesia in forma di rosa” di Pasolini, Milella, Lecce 1997.

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un ramarro) ai quali l’espressività di questo soggetto guttusiano pare direttamente rimandare. Su tutto, infine, la musica: «l’unica azione espressiva / forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà» (PO II, p. 1288). Mi pare che un passo che sunteggia il breve, ma intensissimo, scritto pasoliniano sulla musica da film possa da sé chiosare sulle diverse istanze – le abbiamo sintetizzate, sempre con parole d’autore, in ideologia e poesia – che si alternano, si scambiano, si annullano e convivono dentro La rabbia: La funzione principale [della musica del film] è generalmente quella di rendere esplicito, chiaro, fisicamente presente il tema o il filo conduttore del film. Questo tema o filo conduttore può essere di tipo concettuale o di tipo sentimentale. Ma per la musica ciò è indifferente: e un motivo musicale ha la stessa forza patetica sia applicato a un tema concettuale che a un tema sentimentale. Anzi, la sua vera funzione è forse quella di concettualizzare i sentimenti (sintetizzandoli in un motivo) e di sentimentalizzare i concetti. La sua è quindi una funzione ambigua (che solo nell’atto concreto si rivela, e viene decisa): tale ambiguità della funzione della musica è dovuta al fatto che essa è didascalica ed emotiva, contemporaneamente. Ciò che essa aggiunge alle immagini, o meglio, la trasformazione che essa opera sulle immagini, resta un fatto misterioso, e difficilmente definibile (CI II, p. 2795, corsivi miei).

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Notizie sui testi

Mescolanza e contaminazione degli stili. Pasolini lettore di Auerbach Con lo stesso titolo, pubblicato in «Studi Pasoliniani», n. 5, 2011, pp. 79-94. Per un canone realista. Barthélemy Amengual scrittore di cinema (dalla parte di André Bazin) Con lo stesso titolo, pubblicato il 17 febbraio 2016 in «L’ospite ingrato. Rivista online del centro interdipartimentale di ricerca Franco Fortini». La corda pazza: il Punctum fluens di Antonio Bisaccia Pubblicato con il titolo Su «Punctum fluens» di Antonio Bisaccia. Osservazioni sull’antinomia tra realtà e astra­ zione nel film sperimentale, in «L’ospite ingrato. Rivista on line del centro interdipartimentale di ricerca Franco Fortini», n. 2, 2017, pp. 1-11. Oltre l’ékphrasis. Il Carpaccio di Roberto Longhi Pubblicato con il titolo L’“ékphrasis” oltre l’“ékphrasis”: due ragionamenti sul saggismo di Roberto Longhi (autore della parte successiva Gabriele Fichera) in «Mantichora», n. 1, dicembre 2011, pp. 118-128.

258

Non mangiare il pesce col coltello. Soldati scrittore-spettatore Con lo stesso titolo, pubblicato in «Lettera zero», n. 2, novembre 2015. Cesare Cases scrittore satirico Con lo stesso titolo, pubblicato in A. Cadoni - L. Curreri - D. Dalmas et al., La scrittura che pensa: saggismo letteratura e vita, con un saggio intr. di G. Fichera, Nerosubianco, Cuneo 2016, pp. 102-115. L’eredità di Auerbach Pubblicato in «Oblio», I, n. 1, 2011. Il lapsus di Montaigne Scritto nel 2014, inedito. Pasolini e Bach: una lunga fedeltà Estratto dal volume Il segno della contaminazione. Il film tra critica e letteratura in Pasolini, pref. di H. JoubertLaurencin, Mimesis, Milano 2015. Fughe in Egitto: il lutto delle radici Con lo stesso titolo, pubblicato in D. Manca (a cura di), Sento tutta la modernità della vita. Attualità di Grazia De­ ledda a 150 anni dalla nascita, Isre-Aipsa, Nuoro-Cagliari 2022, pp. 169-190. «Più non cercate, lontano andò». Su Procedura di Salvatore Mannuzzu Pubblicato come saggio introduttivo a S. Mannuzzu, Pro­ cedura, Il Maestrale, Nuoro 2021. Traumi? Note su Trevi, Lagioia e alcuni romanzi degli anni Dieci Con titolo leggermente diverso (Traumi? Note sparse su Trevi, Lagioia e alcuni romanzi degli anni Dieci, pubbli-

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cato in D. Manca (a cura di), Studi di filologia, linguistica e letteratura italiana, Edes, Sassari 2021, pp. 569-592. Tra vero, gioco e invenzione. Camilleri negli interstizi della storia Con lo stesso titolo, pubblicato in «Testo», n. 79, gennaio-­ giugno 2020, pp. 127-137. «Acume» e «senso comune». Saggio e poesia nella Rabbia di Pasolini Con lo stesso titolo, pubblicato in «L’Ulisse», n. XXI, 2018, pp. 24-58.

261

Indice dei nomi

Abate Francesco: 167 n. Abdel Moneim Tantawy Marwa: 152 n., 153. Abelardo: 101. Adorno Theodor Wiesengrund: 96. Albera François: 49 e n. Albinati Edoardo: 200 n. Albinoni Tomaso: 249 n. Amengual Barthélemy: 11, 13, 15, 29 n., 47-59, 62. Anderson Lindsay: 89. Andersson Bibi: 152. Angelini Franca: 145 n., 146 n. Angioni Giulio: 173. Antonello da Messina: 77. Antonioni Michelangelo: 53, 91, 92. Aprà Adriano: 55 n. Arbasino Alberto: 100. Ariosto Ludovico: 87. Aristarco Guido: 47, 50, 55, 56, 65, 81, 82, 86, 87, 92 e n. Asor Rosa Alberto: 78 n.

Astruc Alexandre: 82. Auerbach Eric: 10, 13-15, 19-46, 52, 53 n., 58, 68, 70, 115-121, 139 e n., 242 n., 248. Auletta Gennaro: 158 n. Bach Johann Sebastian: 10, 19, 41, 125-144, 149, 176, 180, 248. Bachtin Michail Michailovič: 38, 100 e n. Balzac Honoré de: 14, 53, 117, 148 n., 176. Baranelli Luca: 110 n. Barbaro Umberto: 64, 65, 75, 76, 78 n., 79 n. Baross Zsuzsa: 242 n. Barthes Roland: 67, 70 e n. Bassani Giorgio: 29 n., 86, 88, 91, 92, 236, 241, 243, 244, 250-252. Bazin André: 9, 13, 15, 47-50, 55 e n., 56, 64. Bazzocchi Marco Antonio: 255 n.

262 Beaumarchais Pierre-Augustin Caron de: 179. Belli Giuseppe Gioachino: 117. Bellini, Gentile: 77, 78. Benedetti, Carla: 252 e n. Benigni Paola: 164 n. Benjamin, Walter: 12, 16, 189, 195 e n., 255 n. Berardinelli Alfonso: 95 e n., 105 e n. Bergman Ingmar: 91, 152, 191, 242 e n. Bergson Henri: 67, 70. Berlinguer Luigi: 166 n., 187. Bernardi Sandro: 252, 253 n. Bertolucci Bernardo: 53, 88, 91, 144 n. Bertolucci Giuseppe: 237, 239. Bertoni Federico: 116. Bertozzi Marco: 237 n. Betti Laura: 192, 193, 196, 198, 200. Biagi Enzo: 39. Bianca di Navarra: 229. Bianciardi Luciano: 102. Bisaccia Antonio: 11, 61-72. Boccaccio Giovanni: 125, 126 n., 219, 220 n. Bologna Corrado: 21 e n., 22 e n., 25 n., 78 n., 118. Bologna Sergio: 254 n. Bonfantini Mario: 24 n. Bontempelli Massimo: 65. Borges Jorge Luis: 223. Borgese Giuseppe Antonio: 161, 162 n. Borsellino Nino: 231. Bortotto Cesare: 132.

Bosch Hyeronymus: 101. Bosco Lorella: 116. Branca Vittore: 125, 126 n. Brass Tinto: 88, 89. Bresson Robert: 141. Brown Norman O.: 199 e n. Brunetta Gian Piero: 142 e n. Brunius Jacques: 64. Bruno Edoardo: 50 e n. Busi Giulio: 224. Buttitta Antonino: 215 n. Cadel Francesca: 131 n., 132 n. Calabretto Roberto: 133 e n., 140 n. Calasso Roberto: 97. Calvino Italo: 12, 84, 97-99, 224. Camerini Mario: 82, 84. Camilleri, Andrea: 12, 215-231. Cano Cristina: 135 n. Caocci Duilio: 167 n. Capecchi Giovanni: 225 n. Caravaggio: 42 n., 43, 78, 219, 220 e n., 222, 224, 231. Cardini Franco: 126 n. Caria Gianni: 185, 188. Carlo IX di Valois, re: 120. Carnevale Alessandra: 131 n. Carpaccio Vittore: 73-79, 250. Carver Raymond: 197. Cases Cesare: 12, 95-111. Castellana Renato: 22 n., 116, 119, 120. Castellani Riccardo: 132. Castiglione Francesco Paolo: 221 n., 228, 229 e n. Catalano Elisabetta: 192. Cecchi Emilio: 43 n., 159.

263 Cerami Vincenzo: 125 n. Cerina Giovanna: 168 e n., 188. Cervantes Miguel de: 15. Čechov Anton Pavlovič: 244. Chaplin Charles: 82. Chiarloni Anna: 99 n. Chiesi Roberto: 233 n., 235 e n., 238 n., 240 n., 244 n. Cioran Emil M.: 72. Citati Pietro: 100. Cohen Leonard: 176. Collu Ugo: 168 n. Compagnon Antoine: 19, 120122. Contini Gianfranco: 13, 29 n., 40 e n., 42, 43-45, 74, 75 n. Corrigan Timothy: 238 n. Corti Maria: 109 n. Cossu Costantino: 187. Costa Antonio: 37 n. Croce Benedetto: 43. Crotti Ilaria: 240 n. Curreri Luciano: 258. Dagrada Elena: 38 n. Dalmas Davide: 258. Dante Alighieri: 15, 22 n., 35, 36, 44 e n., 137, 159. Da Ponte Lorenzo: 179. Davoli Ninetto: 57. Debenedetti Giacomo: 92. De Laude Silvia: 20-22, 25 n., 28 n., 31 n., 41 n., 74 n., 118, 125 n., 195 n., 199, 233 n., 242 n. Del Buono Oreste: 173, 187. Deledda Grazia: 11, 145-169. Deleuze Gilles: 34, 37-40, 58, 59 n., 67.

Del Fra Lino: 22 n. Dell’Aquila Giulia: 220 n. Delluc Louis: 63. Del Tedesco Enza: 240 n. Demartis Matteo: 186. De Michelis Eurialo: 159 n. De Rocco Federico: 132. De Santis Giuseppe: 84. Desogus Paolo: 22 n., 31 n., 242 n. Di Blasi Giovanni Evangelista: 228-230. Diderot Denis: 106. Didi-Huberman George: 254 e n. Di Nola Alfonso M.: 199 e n. Dolfi Anna: 148 n., 151 n., 160 n. Donnarumma Raffaele: 192 n. Doria Giovanni: 227. Dostoevskij Fêdor Michajlovič: 151 e n., 205. Dreyer Carl Theodor: 82. Duflot Jean: 41, 137 n. Dulac Germaine: 63. Eco Umberto: 86, 87, 108. Ėjzenštejn Sergej Michajlovič: 50. Elder Randle Bruce: 62 n., 67, 68. El Gahoui Lisa: 253 n. Eliade Mircea: 141. Eliot Thomas Stearns: 69, 158 n., 181. Elisabetta II, regina: 241. Ellero Gianfranco: 131 n. Emanuelli Enrico: 87. Enzensberger Hans Magnus: 104107. Epstein Jean: 63, 68. Fadda Maria Rita: 187.

264 Falcetto Bruno: 85 n., 86. Fellini Federico: 22-25, 41, 5356, 92. Ferranti Gastone: 235. Ferreri Marco: 89. Ferrero Adelio: 237 n. Ferretti Gian Carlo: 137 n. Ficara Giorgio: 200 n. Fichera Gabriele: 78 n., 107 n., 257, 258. Fieschi Jean-André: 26. Fink Guido: 58 n., 233 n. Fiori Simonetta: 187. Flaubert, Gustave: 41 e n., 215. Flavio Mitridate (Šemu’el ben Nissim Abū l-Farağ, Guglielmo Raimondo Moncada): 221225, 231. Fleming Victor: 86, 87. Fofi Goffredo: 156 n., 188. Forte Luigi: 96, 97 n., 99. Fortini Franco: 26 e n., 54 e n., 84, 111 e n., 119. 120, 254 n. Foucault Michel: 74 e n., 75. Franchini Antonio: 200 n., 216 n. Franco Ernesto: 106 n. Freud Sigmund: 122, 131. Fusillo Massimo: 193 e n., 194.

Gasparotto Lisa: 22 n., 31 n., 201 n., 242 n. Gelmetti Vittorio: 133 n. Gerolamo, santo: 79. Gide André: 162 e n. Giglioli Daniele: 187, 189-191. Ginzburg Natalia: 171-173, 180, 187. Giovanni XXIII, papa (Angelo Roncalli): 45, 249. Giuliani Carlo: 211. Giustolisi Lorenzo: 107 n. Godard Jean-Luc: 89. Goldmann Lucien: 96. Goncourt Edmond de: 15. Goncourt Jules de: 15. Gramsci Antonio: 185, 188. Gregori Elisa: 21 n., 22 n., 115. Grosz George: 250. Guareschi Giovannino: 236, 237. Guglielmi Angelo: 231. Guibert Pierre: 49 n. Guttuso Renato: 236, 241, 245, 246, 250, 255. Guzmán Angel: 227.

Gadda Carlo Emilio: 74 n., 101. Gagliardi Elena: 146 n., 165 n. Gagnebin Murielle: 48 e n., 238. Gance Abel: 61, 63, 68. Ganni Enrico: 195 n. Garboli Cesare: 42 n., 76 n. 78, 85 e n., 86, 90 n., 171, 186. Gardel Carlos: 176.

Isselstein Ursula: 99 n.

Henze Hans Werner: 142, 143 n. Houellebecq Michel: 208.

Jacopetti Gualtiero: 237. Jakobson Roman: 51 e n., 66, 215, 216 n. Jameson Fredric: 181, 183, 187. Jaran Mahmoud: 249 n. Johnson “Blind” Willie: 140, 141.

265 Joubert-Laurencin Hervé: 20 n., 37 n., 49 e n., 56, 234 n., 237 n., 248 n., 258. Joyce James: 62, 101.

Lumière Auguste: 54, 55, 62. Lumière Louis: 54, 55, 62. Luperini Romano: 198 n. Lutzoni Silvia: 104 n.

Kafka Franz: 9, 12, 16, 166, 183, 184, 187, 209. Kalč Pina: 127, 131-133. Kandinskij Vasilij Vasil’evič: 62. Klee Paul: 176. Kraus Karl: 95, 96, 111 n.

Maffìa Dante: 161 n. Malcovati Fausto: 151. Malle Louis: 51-53, 57. Manca Dino: 168, 258, 259. Mancini Mario: 22 n., 116. Manet Édouard: 78, 79. Manganelli Giorgio: 72. Manilio: 102. Mannuzzu Salvatore: 11, 145188, 210-213, 233. Manotta Marco: 165 n. Manzoni Alessandro: 28, 226 n., 230 n., 231 e n. Marie Michel: 48, 50. Mariniello Silvestra: 237 n. Marker Chris: 238 n., 250. Marotta Peppino: 83, 84. Martino il Giovane: 229. Martino il Vecchio: 229. Marx Karl: 110 n., 125. Mathieu Carlo: 119. Matt Luigi: 220 n., 225 n. Mattone Antonello: 166 n., 187, 212 n. Méliès, Georges: 54, 55, 62. Mengaldo Pier Vincenzo: 97 e n., 106 n. Metz Christian: 78. Micciché Lino: 37 n., 89 n. Mila Massimo: 179, 187. Mila Giubertoni Anna: 187. Minniti Mario: 219.

La Chaussée Pierre-Claude Nivelle de: 102. Lagioia Nicola: 11, 189-213. Landolfi Tommaso: 72, 101. Lanza Tomasi Gioachino: 215217, 219, 231. La Porta Filippo: 206 e n. Léger Fernand: 69. Lenin (Vladimir Il’ič Ul’janov): 250. Leonetti Francesco: 26. Leopardi Giacomo: 131. Levi Carlo: 89, 90. Liandrat-Guigues Suzanne: 4749, 231 n. Liverani Maurizio: 234. Lizzani Carlo: 84. Longhi Roberto: 10-12, 42 e n., 43 e n., 45, 73-79, 127, 250. Lope de Vega: 19. Lucamante Stefania: 203 n., 205 n. Luciano di Samosata: 96. Lucrezio: 205. Lukács György: 14, 15, 56, 95, 96, 125, 245 n., 253-255.

266 Moncada Giovanni Tommaso: 225 n. Moncada Guglielmo Raimondo: 225 n. Monicelli Mario: 88, 90. Monroe Marilyn (Norma Jeane Mortenson Baker): 246, 252. Montaigne Michel de: 10, 11, 15, 115, 120-122, 236 n., 238 n. Montale Eugenio: 180, 181. Mora Eleonora di: 226-231. Morace Aldo Maria: 165 n. Moravia Alberto: 84, 86. Moretti Franco: 106 n. Moro Aldo: 174, 182, 200 n. Morreale Emiliano: 85 n., 92 e n. Morricone Ennio: 126 n. Mozart Wolfgang Amadeus: 178, 179, 187, 250. Muoni Leandro: 188. Musil Robert: 122. Naldini Nico: 23 n., 128 n., 131 n., 132 e n. Nansen Fridtjof: 184, 185. Nigro Salvatore Silvano: 200 n., 216 n., 225-227, 231. Nonno di Panopoli: 101. Olmi Ermanno: 93. Omero: 15. Onofri Massimo: 51 e n., 106 n., 167 n., 187, 200 n. Orwell George: 102. Ovidio: 252. Ozu Yasujirō: 141.

Paccagnella Ivano: 21 n., 22 n., 115. Paccagnini Ermanno: 226 n., 230 e n., 231. Pagliardini Angelo: 117. Pala Mauro: 163 n., 188. Pampaloni Geno: 160 e n., 173, 174, 187. Pancrazi Pietro: 162 n. Panicali Anna: 22 n., 29 n., 119. Paolo Uccello: 78. Papiniano: 102. Parker Charlie: 176. Pascal Blaise: 31, 156, 158 e n., 163, 211. Pascoli Giovanni: 28, 29 n., 40, 131. Pasolini Pier Paolo: 10, 13, 14, 19-46, 53, 54 e n., 56-59, 66, 73-76, 84, 90, 91 e n., 117-119, 125-144, 180, 192-198, 200 e n., 201 e n., 233-256. Patti Emanuela: 22 n. Peron Gianfelice: 115. Persio: 163 n., 184. Petrarca Francesco: 25 n. Petronio: 15. Peyró Francisco: 228. Picconi Gian Luca: 22 n., 201 n., 242 n., 253 n. Pico della Mirandola: 221, 224. Pierantoni Ruggero: 243. Piero della Francesca: 78. Pietrini Domenico: 40 n. Pigliaru Antonio: 171. Pimentel Antonio: 227. Piovene Guido: 86. Pirandello Luigi: 66, 165 n.

267 Platone: 20. Plebe Armando: 97, 105. Poe Edgar Allan: 87. Pompeo Trogo: 102. Popper Leo: 15, 253, 255. Portocarrero Luis Fernando de: 227, 230. Pound Ezra: 69. Previtali Giovanni: 76 n. Proust Marcel: 9, 62, 122. Rabelais François: 23, 24 e n., 41. Raimo Christian: 206-208. Raimondi Ezio: 74 n. Rajna Pio: 86. Rascaroli Laura: 243 e n. Reccia Alessandra: 120. Reitz Edgar: 143, 144. Renzi Renzo: 55. Restagno Enzo:143 n. Rico Francisco: 116. Ricorda Ricciarda: 240 n. Rimini Stefania: 22 n., 31 n., 242 n. Rizzarelli Maria: 240 n., 251 n. Robida Albert: 239 e n. Roncaglia Aurelio: 116, 195 n. Rondini Andrea: 195 n. Roscellino di Compiègne: 97, 99102. Rossellini, Roberto: 9, 26, 56. Rousseau Henri Julien Félix (il doganiere): 101. Rovatti Pier Aldo: 225 n. Rumble Patrick: 62 e n. Russo Luigi: 159. Sacchi Filippo: 142 e n.

Sahn Ben: 250. Sanguineti Tatti: 237. Santoro Antonella: 225 n. Saviano Roberto: 202. Scaffai Niccolò: 196 n., 209 e n. Scarpa Domenico: 82 n., 85, 86, 92. Schiaffini Alfredo: 30 n. Schrader Paul: 141. Schucht, Julca: 185. Schweppenhäuser Hermann: 195 n. Sciascia Leonardo: 66, 84, 182, 200 n., 217, 222 e n., 224. Segre Cesare: 104 n., 109 n. Serafini Maria Teresa: 163 n., 186. Shakespeare William: 41, 42. Sichera Antonio: 255 n. Simonini Jessy: 31 n. Sisco Jonathan: 74 n. Sisto Michele: 98 e n., 99 n. Siti Walter: 20 n., 74 n., 125 n., 201 e n., 233 n., 247 e n., 248. Šklovskij Viktor Borisovič: 195 n. Sofocle: 156, 163. Soldati Mario: 11, 12, 81-93, 251. Solmi Renato: 255 n. Sontag Susan: 191 e n. Spitzer Leo: 30 e n., 37. Stalin Iosif: 243, 245. Stendhal (Marie-Henri Beyle): 14, 53, 117. Sue Eugène: 148 n. Svevo Italo: 166. Tarantino Quentin: 226, 227. Telemann Georg Philipp: 126. Tiedemann Rolf: 195 n.

268 Timpanaro Sebastiano: 110 n. Tiziano: 79. Trevi Emanuele: 11, 189-213. Truffaut François: 82, 84. Tummillo Federica: 253 n. Uccelli Alessandro: 79 n. Ullmann Liv: 181. Ulpiano: 102. Valéry Paul: 72. Velázquez Diego: 42, 43 n. Verga Giovanni: 28, 35, 231. Verne Jules: 239. Vickery John B.: 166 e n., 252 n. Vico Giambattista: 22 n., 117, 242 n. Volponi Paolo: 31-34, 84. Von Sydow Max: 153. Warburg Aby: 51. Webern Anton: 136 n., 140. Weil Simone: 207. Welles Orson: 76, 216. Woolf Virginia: 15. Zabagli Franco: 20 n., 22 n., 125 n., 233 n. Zanzotto Andrea: 84. Zava Alberto: 240 n. Zizi Bachisio: 188. Zoletto Davide: 225 n.

Indice

p. 9

Premessa

Parte I Critica, stile, realtà

Mescolanza e contaminazione degli stili. Pasoli­ ni lettore di Auerbach

p. 19

Per un canone realista. Barthélemy Amengual scrittore di cinema (dalla parte di André Bazin)

p. 47

La corda pazza: il Punctum fluens di Antonio Bisaccia

p. 61

Oltre l’ékphrasis. Il Carpaccio di Roberto Longhi

p. 73

Non mangiare il pesce col coltello. Soldati scrit­ tore-spettatore

p. 81

Cesare Cases scrittore satirico

p. 95



Intermezzo

L’eredità di Auerbach, il lapsus di Montaigne

p. 115

Parte II La corda tesa Oltranze stilistiche e ricerca del senso

Pasolini e Bach. Una lunga fedeltà

p. 125

Fughe in Egitto: il lutto delle radici

p. 145

«Più non cercate, lontano andò». Su Procedura di Salvatore Mannuzzu

p. 171

Traumi? Note su Trevi, Lagioia e alcuni romanzi degli anni Dieci

p. 189

Tra vero, gioco e invenzione. Camilleri negli in­ terstizi della storia

p. 215

«Acume» e «senso comune». Saggio e poesia nel­ la Rabbia di Pasolini

p. 233

Notizie sui testi

p. 257

Indice dei nomi

p. 261

Assaggi Collana di saggi di Critica Letteraria Diretta da

Giorgio Ficara e Raffaele Manica

1. Massimo Onofri, Fughe e rincorse. Ancora sul Novecento. 2. Luca Doninelli, Tre lezioni sul Romanzo. 3. Raffaello Palumbo Mosca, L’ombra di Don Alessandro. Man­ zoni nel Novecento. 4. Paolo Febbraro, Poesia allo stato critico. Saggi e interventi. 5. René de Ceccatty, Sibilla Aleramo. Notte in un paese stra­ niero. 6. Massimo Raffaeli, Compagni di via e altri scritti di lettera­ tura. 7. Alfonso Berardinelli, Antinomie. Letteratura, intellettuali, idee. 8. Alessandro Cadoni, La corda tesa. Stile e realtà.

La corda tesa L’indagine da cui parte questa raccolta di saggi segue linee di ricerca che intrecciano principalmente letteratura e cinema. I diversi temi e problemi affrontati (dalla narrativa contemporanea allo stile cinematografico, dal saggismo letterario a quello cinematografico) portano tutti verso una stessa direzione: il problema della rappresentazione del reale, il rapporto tra realtà e realtà rappresentata, i limiti del realismo e le scappatoie a tali limiti. Tra queste, lo stile, che agisce possibilmente come la corda di Kafka, simile alla verità: tesa in basso, per farti inciampare. Lo stile, con i suoi eccessi, pare allontanare dal reale: eppure sono a volte proprio tali oltranze a rendere rappresentabile ciò che non sembra possibile rappresentare. Raggruppati in due sezioni, il volume raccoglie, dodici saggi già apparsi in diverse sedi, ma accomunati da una stessa tensione conoscitiva. Su un arco che copre tutto il Novecento, sino alla contemporaneità, diversi sono gli autori affrontati, da Pasolini a Longhi, da Deledda a Mannuzzu, da Trevi a Lagioia, passando per Cases, Soldati, Camilleri, e per le vie battute da inimitabili saggisti cinematografici come Amengual e Bazin.

Alessandro Cadoni (1979) è attualmente docente di Estetica all’Accademia di Belle Arti “Mario Sironi” di Sassari. Con la sua tesi di dottorato discussa presso l’Università di Siena ha vinto il Premio Pasolini 2010. Tra le sue pubblicazioni, Il segno della contaminazione. Il film tra critica e letteratura in Pasolini (Mimesis, 2015) e Il fantasma e il seduttore. Ritratto di Salvatore Mannuzzu (Donzelli, 2017). Tra i suoi interessi di ricerca, la narrativa italiana contemporanea, il rapporto tra letteratura e paesaggio, il saggismo letterario e cinematografico.

Collana diretta da Giorgio Ficara e Raffaele Manica

€ 12,00

Assaggi | 8

ISBN ebook 9788855294362