Sergej Prokofiev. La vita, la poetica, lo stile 8887203229, 9788887203226

Se si scorre il catalogo delle opere di Prokofiev si capisce subito quanto vasti fossero i suoi interessi di creatore: o

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Sergej Prokofiev. La vita, la poetica, lo stile
 8887203229, 9788887203226

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LA VITA, LA POETICA, LO STILE Zecchini Editore

PIERO RATTALINO

Prokofiev La vita, la poetica, lo stile

Zecchini Editore:

È vietata la riproduzione sia pure parziale di testi, fotografie, tavole o altro materiale contenuto in questo libro senza autorizzazione scritta dell’Editore. Per eventuali e non volute omissioni di fonti citate e per gli aventi diritto l’editore dichiara la propria completa disponibilità.

© 2003 Zecchini Editore Zecchini Editore srl - Via Tonale, 60 21100 Varese (Italy) Tel. 0332 331041 - Fax 0332 331013 http://www.zecchini.com - e-mail: [email protected] (R) Tutti i diritti riservati Terza edizione: novembre 2005

ISBN 88-87203-22-9

Impaginazione, impianti pre-stampa-. Datacompos - Varese Questo volume è stato stampato presso-. Luinostamp srl - Brezzo di Bedero (Va)

Stampato in Italia - Printed in Italy

I RACCONTI DEUA MUSICA M

I Racconti della Musica

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Per Ilia, pensando alla sua interpretazione delle

Visions fugitives

PREMESSA

Mosca, 5 marzo 1953, ore 21: Sergej Sergejevic Prokofiev, da tempo sofferente di cuore, soccombe ad un violento, repen­ tino attacco del suo male. Mosca, 5 marzo 1953, ore 21,30: un annunciatore della ra­ dio comunica con voce grave una notizia che fa tremare il mondo: è scomparso Josef Visarionovic Dzugeshvili detto Stalin. La morte di Stalin è come l’esplosione di una gigantesca isola vulcanica che provoca in tutto il pianeta maremoti e terre­ moti e che oscura per giorni il sole. I mezzi di informazione si scatenano: la vita del dittatore viene prima passata al setaccio e poi al microscopio, i suoi rapporti con i grandi della terra e la sua politica sono analizzati con accanimento, si prospettano tutti i panorami virtuali che al di qua e al di là della Cortina di Ferro si aprono con la sua scomparsa, si gioca tutti assieme ap­ passionatamente al toto-successione, Malenkov Beria Molotov Gromyko... Per la morte di Prokofiev non resta spazio: solo quattro giorni più tardi, il 9 marzo, ne parla un giornale americano, solo dopo sei giorni, 1’11 marzo, ne parla la Pravda. La stampa a grande tiratura se la sbriga con poche righe e la stampa spe­ cializzata, al di qua e al di là della Cortina di Ferro, non sa bene che pesci prendere: Prokofiev, in fondo, è morto - non aveva ancora compiuto sessantadue anni - nel momento per lui peggiore, e in senso cronachistico e in senso storico. Che egli sia stato un abile architetto del suono lo sanno tutti. Ma nel 1953 l’ideologia condiziona - eccome! - i giudizi sull’artista, e così.... vn

Per i sovietici Prokofiev è l’uomo che, espatriato con rego­ lare permesso nel 1918, dopo aver fatto una tournée nell’Unione Sovietica nel 1927 e dopo esservi ritornato più volte è rientrato definitivamente in patria nel 1936 ed ha espresso pub­ blicamente nel 1948 la sua piena adesione alle superiori diret­ tive in materia d’arte. Uomo di buona volontà? O astuto simu­ latore? Le deviazioni di Prokofiev dalla retta via sono state nu­ merose, e due sue sonate per pianoforte che pochi anni prima erano state insignite del Premio Stalin si sono dimostrate nel 1948, ad un più attento esame, quanto mai infide, tanto che ne è stata sconsigliata l’esecuzione. Quindi, uno che ha predicato bene e razzolato male: se si deve parlarne bisogna separare il grano dal loglio, il Prokofiev buono dal Prokofiev riprovevole, Vhomo novus sovieticus dal vecchio incorreggibile borghese. Il giudizio al di qua della Cortina di Ferro è anche più crudo, per opposte e insieme identiche ragioni: Prokofiev ha predicato male e razzolato peggio. La critica di destra non può giustificare un opportunista che ha scritto una cantata per il sessantesimo compleanno di Stalin: non è il caso di parlarne. Per la critica di sinistra Prokofiev è uno che non ha mai voluto prendere in considerazione la crisi del sistema tonale, che non ha meditato sulla dodecafonia e sulla serialità (persino Stravin­ sky, più vecchio di lui di nove anni, sta licenziando nel 1953 il Settimino zeppo di seriali canoni e fughe con inversione), che ha chiuso il suo catalogo con una sonata in mi minore, che nel 1937 si era vantato di puntare sulla «melodiosità». Come Hin­ demith, come Shostakovic, come il Bartók degli anni quaranta, gli anni «americani», Prokofiev è uno che non è salito sull’ul­ timo autobus per la Storia, rimanendo impalato alla fermata: non c’è bisogno di parlarne. Facciamo due esempi significativi di protocritica prokofieviana. Nell’Unione Sovietica usciva nel 1946 una breve mono­ grafia di Israel Nestiev, tradotta in francese nel 1948, che rap­ presenta il punto di vista politico ufficiale sul Nostro. Che l’au­ tore fosse o no convinto delle tesi critiche che esponeva, che

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fosse un filone o che fosse un uomo di buona volontà intento a fare per Prokofiev il meglio e il massimo che gli era consentito è questione per noi irrilevante. Del resto, il Nestiev modificò al­ cuni dei suoi giudizi nelle successive edizioni della monografia. Ma ancora nel 1956, in un saggio pubblicato in una raccolta cu­ rata dallo Shlifstein egli così si esprimeva: «Alexandr Nevsky e l’opera Semyon Kotko possono essere considerate come il com­ pimento e il bilancio delle linee portanti del periodo cosiddetto sovietico: l’elemento nazionale vi si rivela con ampiezza pari alla tendenza pittorica, drammatica e teatrale. Inoltre, queste due composizioni fanno valere la preveggenza profetica del genio di Prokofiev perché, benché scritte prima dell’invasione della pa­ tria sovietica ad opera delle orde tedesche fasciste, riflettono un odio feroce per la barbarie teutonica». Tutto bene. Però: « [...] la scelta di un argomento contemporaneo mette in evidenza con una particolare crudezza i punti deboli dello stile di Prokofiev perché, disgraziatamente, le sue velleità moderniste riposano quasi sempre su degli elementi di calcolo costruttivista, soppri­ mono la naturalezza del pensiero musicale e si risolvono in ec­ centricità, in un rumorismo artificiale che il contenuto dei testi raramente giustifica». In Italia usciva nel 1961 un numero dell’approdo Musicale dedicato a Prokofiev, esemplare sotto l’aspetto e della ideazione e della completezza dell’informazione. Il saggio di base era affi­ dato a Guido Pannain, critico insigne, che pur professando un’alta e sincera ammirazione per Prokofiev non poteva fare a meno di distinguere crocianamente fra espressione e non­ espressione, cioè fra arte e non-arte: «Nelle musiche di Proko­ fiev che attuano la loro finalità artistica si avverte come, nella sua costituzione di musicista moderno, tradizione e modernità, nel loro storico compenetrarsi, si compiono sinteticamente, sono gradi, cioè, di un identico svolgimento. In tal caso la rap­ presentazione artistica non retrocede ma nasce dai solchi del passato che si è riversato nella rinnovata esperienza del far mu­ sica nella quale convergono le energie vitali dell’artista, e dal IX

quale è insano proposito volersi distaccare con programmata violenza. Questa potrebbe diventare essa stessa gesto lirico ma rimane, col suo carattere di negazione, dialetticamente connessa al passato. [...] Ciò che distingue e qualifica Prokofiev come musicista artista è un suo spiccato modo di essere in cui mo­ menti distaccati ed anche contrastanti si compongono in indivi­ duale armonia». Tutto bene. Però: «Allo spregiudicato umori­ sta, ideatore scaltro d’impennate timbriche e di armonie ro­ venti, si contrappone, come in penitenza, l’asciutto artefice di macchinose strutture (es. Quinto Concerto per pianoforte, Con­ certo per violoncello); alle volate estrose e al celiare elegante del suo schietto operare, dalla Sinfonia classica alla Terza sinfonia, a Cenerentola, a Matrimonio in convento, sta di contro il ripie­ garsi in sentimentali ingenuità, quali le effusioni liriche del Prin­ cipe Andrea [in Guerra e pace] e gli striminziti semplicismi della sua ultima maniera. Non sono mutamenti essenziali di conce­ zione e di gusto ma segni coesistenti di una interna indecisione che porteranno ad una conturbante vicenda di atteggiamenti ibridi, persino in una stessa composizione, come nella Quinta Sinfonia ».

Ciò accadeva negli anni immediatamente successivi alla morte di Prokofiev. I critici hanno spesso la per me cattiva abi­ tudine di tenere in non cale le opinioni degli interpreti. Richard Strauss, ad esempio, fu trafitto da mille strali critici in un pe­ riodo in cui i Furtwangler, i Krauss, i Mengelberg, i Reiner, i Klemperer, i Kleiber, gli Stokowski, i Karajan e altrettali geni dell’interpretazione ne dirigevano regolarmente i lavori, né la stima di Toscanini o di de Sabata valse ad evitare a Puccini la crocifissione. E i critici che trovavano ragioni a palate per pas­ sare nel tritacarne Strauss e Puccini non si chiedevano se per caso non fossero da prendere in considerazione le motivazioni dei Furtwangler e dei Toscanini, liquidate come frutti di narcisi­ smo direttoriale e di acquiescenza bovina verso i bassi istinti del popolaccio.

Verso il 1950 alcune composizioni di Prokofiev erano già po­ polari: il Terzo Concerto e la Settima Sonata per pianoforte, la So­ nata n. 2 e il Concerto n. 1 per violino, la favola Pierino e il Lupo, il balletto Romeo e Giulietta, la Sinfonia n. 1 e la n. 5 facevano ormai parte del repertorio, Dimitri Mitropoulos, Eugene Ormandy, Vladimir Horowitz, Nikita Magaloff, Friedrich Guida, Isaac Stern, Jascha Heifetz, Yehudi Menuhin, Josef Szigeti, Ser­ giu Celibidache, Charles Munch, Sergej Kussevitzki, Leopold Stokowski, Ernest Ansermet, Hermann Scherchen, Igor Markevitch eseguivano ed incidevano le opere di Prokofiev. E le ese­ guiva il genio pianistico più alto del secolo, Sviatoslav Richter, ancora sconosciuto in Occidente, e le eseguiva il genio del violino David Oistrakh, anche lui ancora sconosciuto, nonché, come so­ pra, il genio del violoncello Rostropovic. Nel 1960 Richter esordiva a New York: il suo primo reci­ tal, il 19 ottobre, era interamente dedicato a Beethoven, il se­ condo, il 23, era interamente dedicato a Prokofiev. Richter non era il tipo che obbediva a ordini di scuderia politica, né l’im­ presario Sol Hurok che scommetteva su di lui rischiando la sua reputazione e qualche capitale gli avrebbe permesso di farlo. La scelta di Richter era mirata ed era evidente per chi sapeva leg­ gere dentro la filosofia del recital: Richter affermava che Bee­ thoven era stato il maggior compositore del XIX secolo e che Prokofiev era il maggiore del XX, che Beethoven aveva incar­ nato in musica l’umanesimo dell’ottocento e che Prokofiev in­ carnava lo spirito del Novecento. Era una tesi dettata da af­ fetto, dall’affetto e dalla devozione filiali di chi aveva goduto dell’alta stima di Prokofiev? Era una sparata sciovinistica? Era la profezia di un illuminato? A cinquant’anni dalla morte di Prokofiev siamo in possesso dei mezzi di verifica critica e ab­ biamo il dovere morale di rispondere, o di avviarci a rispondete a questo interrogativo. Il salto di qualità nell’indagine critica avviene quando un autore che è sopravvissuto al suo tempo viene considerato come personalità artistica di cui si deve ricostruire l’evoluzione e non XI

valutare invece le singole opere sotto la categoria dell’estetico (o, peggio, dell’ideologico). Quando parliamo di Beethoven sap­ piamo bene che tutto è in lui coerente, che anche le opere di fronte alle quali ci arrestiamo perplessi e che non compren­ diamo rivestono un carattere assoluto di necessità nel cammino che parte dalle Variazioni su una Marcia di Dressier e arriva fino al Quartetto op. 135. Ciò non significa che non si possa poi preferire l’una o l’altra composizione, che non si possa conside­ rare più significativa l’una o l’altra. Ma è secondo me fonda­ mentale che tutte vengano viste come tasselli di un mosaico che va guardato, analizzato, valutato nel suo insieme. Prokofiev me­ rita che ci poniamo di fronte alla sua opera con questa disposi­ zione d’animo? Indubbiamente sì.

N.B. - La traslitterazione dei nomi russi, che sono scritti in carat­ teri cirillici e che vengono trasferiti in caratteri latini, ha sempre presen­ tato e ancora presenta dei problemi. Esiste una traslitterazione scienti­ fica che viene oggi usata di norma nei dizionari e in molte pubblicazioni ma che è, secondo il mio parere, un po' complicata e non veramente utile per il lettore. Ho quindi adottato una traslitterazione non scienti­ fica che permette di leggere più agevolmente i nomi se si tengono pre­ senti alcuni particolari: la g è sempre dura (Sergej si legge Serghej), la c finale è sempre dolce (Sergejevie non è Sergejevik), sh si legge come se dittongo (Shostakovic = Sciostakovic) e eh come c dolce (Lunacharski Lunaciarski). La o non accentata suona in russo come una vocale inter­ media tra la a e la o: Prokofiev suona quasi come Prakòfiev. Ma non mi sembra che il lettore si debba molto preoccupare di ciò, così come gli stranieri non si preoccupano troppo della corretta pronuncia italiana: Horowitz, che aveva sposato la figlia di Poscanini, per tutta la vita con­ tinuò a pronunciare il nome del Maestro e suocero come Pascanini. XU

Parte Prima:

S. PIETROBURGO

«Il GIGANTE» La miglior fonte di notizie sulla giovinezza e sulla maturità di Prokofiev è ancora la sua autobiografia, iniziata nel 1937 e mai completata. Chi ne curò la pubblicazione vi rilevò alcuni errori e alcune inesattezze, marginali e di poco conto. Ma il racconto vivace, arguto, essenziale, spesso autoironico, rivela in Prokofiev quelle qualità di autentico scrittore che ne rendono divertente ed emozionante la lettura. Su di essa mi baserò lar­ gamente per il mio lavoro: Mio padre, Sergej Aleksievic Prokofiev, era nato a Mosca 1'8 luglio 1846. Questa la data secondo il Vecchio Calendario [Giuliano]. Per trasformarla nel Nuovo Calendario [Gregoriano] bisogna ag­ giungere dodici giorni, così che la sua nascita cade il 20 luglio. Ho pochissime informazioni a proposito dei genitori di mio padre. Essi morirono [di colera] quando lui era in età di quattordici anni. Per di più, io fui un figlio tardivo perché quando nacqui mio padre aveva quasi quarantacinque anni. Solo circa mezzo secolo dopo la morte dei suoi genitori cominciai a porgli seriamente delle do­ mande sul contesto della mia famiglia, ed è del tutto naturale che a quel tempo la sua memoria si fosse indebolita. I Prokofiev erano proprietari, ma ben poco colti. Credo che posse­ dessero una piccola manifattura.

Così comincia, dopo una breve Introduzione e apologia, l’autobiografia. Che così risponde alla prima classica domanda delle biografie: il talento artistico del biografato era ereditario, era un tratto caratteristico dei suoi antenati? Non lo era, nel caso di Prokofiev, sulla linea paterna. Né lo era per parte di 3

madre. La famiglia del nonno materno, Grigogy Nikitic Zhit­ kov, era di origine contadina, ma il nonno, dopo l’abolizione della servitù della gleba, era diventato impiegato nel Palazzo d’inverno di S. Pietroburgo, mentre della famiglia della nonna, Anna Vasilievna Inshtetova, si diceva discendesse dai conti sve­ desi Instedt, emigrati in Russia. Sebbene le sue finanze fossero tutt’altro che prospere Grigory Zhitkov mandò due delle sue cinque figlie alla scuola secondaria superiore. La madre di Pro­ kofiev, Maria, aveva così ricevuto l’educazione delle ragazze di buona famiglia borghese, conosceva il francese e il tedesco e suonava il pianoforte. Il padre di Prokofiev, dopo essersi diplomato alla scuola di agraria di Mosca, acquistò una piccola fattoria nella provincia di Smolensk e il 7 settembre 1877 sposò la ventunenne Maria Zhitkova. Qualche tempo dopo, avendo ricevuto un’allettante offerta per dirigere una grande tenuta nella provincia di Ekaterinoslav in Ucraina, vendette la proprietà e si trasferì a Sontsovka, dove il 23 aprile 1891, terzo rampollo della coppia Pro­ kofiev dopo due figlie morte in tenerissima età, nacque Sergej. Sergej Prokofiev figlio - lo dico per i cultori di astrologia venne al mondo alle 17 di un mercoledì, sotto il segno del Toro con ascendente Scorpione: «[...] il Toro-Scorpione», commenta Michel Dorigné, «fa pensare ad una macchina infernale che il primo, infaticabile, riempie di un carburante che il secondo brucia a mano a mano con la stessa tenacia». Per quanto ri­ guarda il carattere di Prokofiev, una diagnosi perfetta, da ma­ nuale. « Sontsovka », scrive Prokofiev, « era un posto molto iso­ lato. La ferrovia distava venticinque chilometri, il medico e l’o­ spedale ventitré. Dovevamo fare otto chilometri per prendere la posta, e l’ufficio postale era aperto solo due giorni alla setti­ mana». In questo solitario angolino ai confini della steppa crebbe Prokofiev, educato dai genitori e avviato alla musica dalla madre, che « aveva difficoltà a dominare la tecnica » ma 4

che possedeva «tre virtù musicali: perseveranza, amore e gu­ sto». La mamma suonava molto spesso il pianoforte (specialmente Beethoven e Chopin), Sergej ascoltava, talvolta pestava sui tasti nel registro superiore. Quando aveva cinque anni pre­ sentò alla mamma un foglio di carta coperto di segni dicendo «ho composto la Rapsodia di Liszt ». La genitrice gli spiegò che la Rapsodia l’aveva già composta Liszt, e che la scrittura di que­ sta pretesa Rapsodia di Liszt era comunque sbagliata perché, ad esempio, mancavano le divisioni in battute e le dieci righe non erano divise in due pentagrammi. Il bimbo compose allora, ma lasciò alla mamma il compito di scriverlo, un Galop indiano di nove battute, in un fa ipolidio in cui la mancanza del bemolle al si era forse da attribuire, dice Prokofiev, più alla difficoltà di toccare il tasto nero che alla passione per la modalità antica. Pa­ zientissima, la mamma spiegò che il Si bemolle era meglio e senza tante cerimonie tentò di apportare al Galop indiano la correzione... che lo rendeva banale. Apriti cielo: Prokofiev pro­ testò, seccatissimo. Non sappiamo come finisse la disputa: sta di fatto che nella autobiografia le nove battute sono riportate senza il bemolle. A sei anni Prokofiev componeva un valzer, una marcia e un rondò, e continuava poi regolarmente con altri pezzi per pianoforte a due e a quattro mani. Nel 1899 il bambino soggiornò per alcune settimane a Mo­ sca con i genitori e... vide a teatro il Faust, il Principe Igor e il balletto La bella addormentata\ La sua fantasia esplose come una bomba ad alto potenziale, e appena tornato a Sontsovka cominciò a scrivere un’opera in tre atti, libretto e musica: Il Gi­ gante.

Una ragazzina, Stenya, sta leggendo un libro. Arriva il Gi­ gante (l’Orco, diremmo noi), che tenta di rapirla. Accorrono Prokofiev e un altro ragazzino, Egorka, armati di pistole, e il coraggioso Gigante fugge come una lepre mentre Stenya sviene. I due eroi la adagiano su un divano e se ne vanno dopo aver la­

sciato bene in vista i loro biglietti da visita. Stenya rinviene e canta un’aria di ringraziamento per lo scampato pericolo. Il giorno dopo Stenya, mentre beve il tè mattutino, prepara gli inviti a pranzo per i suoi salvatori, poi va a spedirli all’ufficio postale. Torna il Gigante, sempre con le sue cattive intenzioni, ma non trovando Stenya divora tutto il cibo che era stato pre­ parato per gli ospiti e fracassa le stoviglie. Stenya e i ragazzi ar­ rivano, constatano il disastro, lei sviene di nuovo, i due la soc­ corrono e il prode Prokofiev dichiara che bisogna andare dal Re a reclamare giustizia. Il Re concede udienza ai due, ne ascolta le lagnanze, parte con i suoi soldati per ristabilire con la cattura del Gigante l’or­ dine violato. Ma invece di una battaglia c’è una singoiar ten­ zone che inaspettatamente si conclude con la sconfitta del Re. Il quale, non reggendo l’onta, si suicida. Fine dell’opera con il corale «Lunga vita al nostro Gigante». Il papà, sebbene libero pensatore, tentò di convincere il fi­ gliolo a cambiare il finale, suggerendo non tanto il castigo del Gigante quanto un onorevole accomodamento. Era ben peggio che aggiungere un bemolle al Si: il drammaturgo in erba rifiutò seccamente di prendere in considerazione il pacioso suggeri­ mento. E l’opera fu eseguita in casa di uno zio così com’era stata pensata, con la zia Tanya, sorella della madre, nelle vesti del Gigante, la cugina Katia come Stenya, il cugino Shurik come Egorka, Prokofiev come Prokofiev (l’interprete del Re ri­ mane sconosciuto); il cugino Andrej sedeva al pianoforte e la regia era stata curata dall’Autore. Non credo sia necessario evidenziare lo stupore che ci prende quando, arrivando alla fine del Gigante, ne compren­ diamo la morale. Il prevaricatore, il predone, la personificazione del Male vince: a nove anni Prokofiev era più realista di tutti i drammaturghi del suo tempo ed entrava nel nuovo secolo, che avrebbe visto affermarsi il teatro della crudeltà, volgendo sde­ gnosamente le spalle alle favole del secolo vecchio. 6

STUDI DI COMPOSIZIONE Appena sfornato il Gigante Prokofiev metteva in cantiere una nuova opera, Sulle isole deserte, che non avrebbe mai ulti­ mato. Ma nuovi input stavano arrivando per corroborare la sua fantasia. Nel dicembre del 1901 Maria e il marito condussero il figlioletto a S. Pietroburgo e poi a Mosca, portandolo a teatro per fargli vedere la Vita per lo zar di Glinka, la Russalka di Dargominski, il ~Demone di Anton Rubinstein (uno degli autori preferiti dalla mamma), la Traviata e la Carmen. Maria Proko­ fieva, donna bella e volitiva, con imperiosi tratti somatici nei quali si rispecchiavano quelli del figlio, aveva per anni trascorso a S. Pietroburgo un paio di mesi durante l’inverno, e a S. Pie­ troburgo aveva preso lezioni di pianoforte, accrescendo le sue capacità di educatrice alla musica. Tuttavia il suo ragazzo faceva progressi troppo rapidi per le forze materne. Nel gennaio del 1902 la famigliola tornò a Mosca - che distava da Sontsovka due giorni e mezzo di viaggio in treno - e il piccolo Sergej fu « esaminato » prima da un allievo dei corsi superiori del conser­ vatorio, Yuri Pomerantsev, poi dal più importante professore di composizione, il dottissimo, barbutissimo, corpulentissimo e mi­ tissimo Taneiev. Questi consigliò di prendere lezioni da Pome­ rantsev durante la permanenza a Mosca e, al momento della partenza, chiese ai Prokofiev di scritturare per l’estate, come in­ segnante di composizione e di pianoforte per Sergej, un diplo­ mato. La scelta, propiziata da Taneiev, cadde su Reinhold Morisevic Glière, nato nel 1874, futuro autore di un balletto molto popolare, Il papavero rosso, e del singolare Concerto per so­ prano di coloratura e orchestra. L’undicenne Prokofiev lavorò 7

per due o tre ore al giorno con Glière durante i mesi d’estate, trovandosi benissimo: sotto la guida del maestro arrivò a com­ porre addirittura una sinfonia: quattro tempi, con il primo, e parte del secondo e del terzo in partitura. Alle lezioni di piano­ forte - non a quelle di armonia, di forma e di strumentazione assisteva Maria Prokofieva, che facendo tesoro di quanto ascol­ tava da Glière proseguì poi l’insegnamento durante l’autunno e l’inverno. « La permanenza di Glière a Sontsovka », scrive Prokofiev, « ebbe un’enorme influenza sul mio sviluppo musicale, non solo perché acquisii la comprensione dell’armonia e imparai qualcosa in nuovi settori della composizione come la forma e la strumen­ tazione. Di primaria importanza fu il fatto che passavo dalle mani di mia madre - didatta-nata, ma dilettante e non composi­ trice - nelle mani di un professionista che aveva un atteggia­ mento verso la musica del tutto diverso e che, senza neppure rendersene conto, mi aprì nuovi orizzonti». L’insegnamento proseguì per corrispondenza, e in novembre Prokofiev, la mamma e l’istitutrice francese che seguiva come un’ombra il suo pupillo andarono a Mosca e incontrarono Taneiev, che suonò a quattro mani con l’Autore la neonata sinfonia lodan­ dola moderatamente, cosa che fece infuriare il permalosissimo Sergej. A teatro ascoltarono la Valchiria. Poi si recarono a S. Pietroburgo e rientrarono a casa nel gennaio del 1903. In giugno Glière tornò a Sontsovka, lesse e corresse i lavori composti da Prokofiev, tra i quali una sonata per violino e pia­ noforte, e suggerì come soggetto per un’opera II festino in tempo di peste di Pushkin: alla fine dell’estate l’opera era termi­ nata. La scelta di questo testo (in realtà un frammento, sia pure autonomo, adattato da Pushkin da un dramma inglese) dimo­ stra la spregiudicatezza di Glière e la maturità di Prokofiev. Quando si è detto che il festino si svolge in una via di una città in cui la pestilenza fa strage, che vi si canta un inno in onore del morbo, che un prete ammonitore viene messo a tacere e scacciato, si è detto quanto basta per capire che non un dodi­ 8

cenne qualunque avrebbe potuto appassionarvisi. Quale dodi­ cenne poteva musicare un testo come «In tutto che minaccia morte / si celano per noi mortali / inesplicabili delizie, / piaceri arcani - pegno, forse / di immortalità. Beato l’uomo / che tra le ansie potè gustare. / E dunque a te sia gloria, Peste! / La fine immonda non ci pesa. / Non ci trattiene il tuo richiamo. / Be­ viamo dalle coppe piene / il fiato di Fanciulla-Rosa / forse già gravido di morte»? Il Gigante rappresentava un buon preludio per il bestino. Ma erano pur sempre rose e fiori rispetto ad un lezzo nauseante. Mentre la guerra russo-giapponese spargeva i semi della ri­ voluzione, i Prokofiev avevano altro a cui pensare. Nell’inverno del 1904 Maria Prokofieva preparò l’entrata del suo ragazzo in conservatorio. Dopo molte esitazioni e dopo molte discussioni anche drammatiche con il marito optò per S. Pietroburgo, scar­ tando Mosca, vi andò con Sergej e ottenne un’audizione privata con Glazunov, che consigliò di fare l’esame di ammissione al conservatorio. Nel corso della primavera Prokofiev scrisse parte di un’altra opera, Undine, su un testo offertogli da una poe­ tessa, e il 23 agosto arrivò con la mamma a S. Pietroburgo, che da Sontsovka distava un migliaio di chilometri.

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ESAMI DI AMMISSIONE Maria e Sergej si presentarono in conservatorio il 26 per l’esame di teoria elementare ma vennero rimandati indietro: Glazunov, professore influente, aveva esentato Sergej da questa prova preliminare. Il 15 settembre ebbero luogo gli esami di geografia e di francese, il 16 di russo e tedesco, il 20 di reli­ gione, il 22 di teoria della composizione, il più importante. Ma­ dre e figlio vagarono come pellegrini dal terzo al secondo piano, al primo, di nuovo al terzo, senza trovare un’anima buona che sapesse dir loro in quale stanza dovevano sostare gli esaminandi. Finalmente, dopo aver girovagato per un’ora, in­ contrarono Glazunov e Rimski-Korsakov e vennero indirizzati allo studio del direttore. Per quanto riguarda l’esame vero e proprio è il caso di leggere il colorito resoconto che Prokofiev mandò a suo padre in quello stesso giorno: Dopo poco fummo chiamati ed entrammo nello studio del direttore. Non era realmente il suo studio ma per così dire l’anticamera: una stanza lunga e stretta con una finestra e senza mobili (solo più tardi portarono qualche sedia). Tutti quelli che dovevano sostenere l’esame di teoria, circa 20 persone, erano in questa stanza. Glazu­ nov uscì dalla porta [dello studio]. Noi eravamo seduti proprio ac­ canto alla porta. Egli mi strinse la mano e proseguì oltre, muoven­ dosi tranquillamente. Strinse la mano ad alcuni altri, parlò un poco con loro e poi tornò nello studio. Poi venne fuori Rimski-Korsakov e semplicemente alzò la mani con un gesto di sorpresa. «Siete tutti qui per l’esame? Tutti per la teo­ ria della composizione? ». «Sì», risposero tutti. Lui se ne andò. 10

Più tardi Glazunov ed altri professori andarono avanti e indietro per la stanza varie volte, parlando con gli esaminandi, e poi se ne andarono. Fu chiamato uno di noi. «Avete portato qualche composizione?». «Sì, una canzone». «Una canzone?». «Sì». « Non è molto ». «E una canzone, ma veramente non ci ho ancora scritto l}accompa­ gnamento». « Questo è veramente poco ». Alla fine chiamarono un Burgov o Kurdov, poi altri due, e quindi per quarto me. Presi le mie due buste (una contenente tutte le cose che ho scritto quest’anno, e l’altra le cose degli altri anni) ed entrai nell’ufficio. Nelle buste non c’era posto per il volume rilegato con le ventiquattro piccole canzoni, così lo portai a parte. Rimski-Korsakov mi chiese: «Sono tutte composizioni vostre?». «Sì», risposi. «E suonate il pianoforte?». «Sì, lo suono». «Questo mi piace», esclamò. E, indicando il pianoforte, disse, «Se­ dete e suonate! ». Sul leggio c’era una sonata di Mozart. Era una di quelle che avevo suonato un po’, molto tempo addietro. « Questo?». «Sì». Cominciai a suonare. «Benissimo. E ora suonate questo». E, voltando alcune pagine, mi indicò un pezzo che non mi era assolutamente familiare. Pure, lo suonai. V’erano altri dieci professori, oltre a Rimski-Korsakov e Glazunov. Sedevano ad un tavolo all’altra estremità della stanza, bevendo tè e mangiando ciambelle. Per quanto ricordo c erano Lyadov, Vitols, Soloviev, Petrov, il direttore Bernhard ed altri. A questo punto Glazunov disse a Rimski-Korsakov che ero allievo di Glière.

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«Su che cosa avete lavorato con lui?», mi chiese Rimski-Korsakov. «E stato da noz l'estate scorsa e l'estate prima, e mi ha insegnato la musica». «Che cosa avete fatto in materia di teoria?». «Abbiamo fatto l'armonia dal principio. Abbiamo usato gli esercizi dal metodo di Arensky. Ma siccome studierò l'armonia qui non vi ho lavorato nell'estate scorsa ». «Sì», confermò Glazunov, «gli ho detto che avrebbe dovuto fare il corso di armonia ». «Dobbiamo provare l'orecchio, ora», disse qualcuno. «Avete l'orecchio assoluto?», chiese Rimski-Korsakov. «Sì». «Che nota è questa?», mi chiese dopo avermi fatto voltare la schiena [al pianoforte]. E in questo modo mi chiese di riconoscere diverse note. Allora qualcuno disse che avrei dovuto riconoscere un intero ac­ cordo. Rimski-Korsakov batté un accordo in basso. «Che cosa è questo? Non nominate le note, ditemi soltanto che specie di ac­ cordo è questo, qual è la sua denominazione». «E... una settima diminuita» [fa-la bemolle-si-re]. «Giusto. Ed ora ascoltate. Che è successo?». «Il re di sopra è diventato do diesis». «E che specie di accordo abbiamo ora?». «Una settima di dominante» [mi diesis-sol diesis-si-do diesis, con trasformazione enarmonica di due suoni]. Tutti quanti decisero che ne sapevo abbastanza e che non era neces­ sario farmi altre domande. «Ed ora dovrebbe cantare un esercizio di solfeggio». « Non ho mai cantato un solfeggio », dissi. « Questo non ha importanza », disse Rimski-Korsakov. « Qua, can­ tatemi la parte del basso». Siccome la parte era troppo bassa per me cominciai a cantare un'ot­ tava sopra, e il risultato fu una nota strozzata. Dissero che avevo azzeccato la nota giusta ma che non sapevo veramente cantare e che avrei dovuto fare il corso di solfeggio. « Oltre al corso di armonia, ovviamente », disse qualcuno.

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«Ma non sarebbe meglio per lui mettere insieme il solfeggio con l’armonia? In questo modo imparerebbe tutto in quattro settimane. L’alternativa è di impiegarci un anno intero, e sarebbe un sacco di tempo perduto». «Sì, si può fare così». « Che canti in diverse chiavi », disse il direttore. « Conoscete le chiavi? », chiese Rimski-Korsakov. «Ovvio che le conosce», disse Glazunov. « Scrive partiture d’orchestra». «Anche partiture?». «Sì, ed opere». «Anche opere?». Cercarono qualcosa in chiave di contralto, ma a tutta prima non trova­ rono nulla. Alla fine, tuttavia, qualcosa saltò fuori. «Ma questo richiede un virtuoso», obbiettò Glazunov. Cominciai a cantare « o », ma Rimski-Korsakov pensò che stessi can­ tando «do», e disse: «Non cantate do, visto che non è affatto un do. Cantate senza nominare le note». Dopo che ebbi cantato chiesero di vedere le mie composizioni. Aprii la busta con le cose scritte quest’anno. «Questa è la lista delle mie composizioni», dissi, mostrandola loro. Rimski-Korsakov rise: «Una lista?». Sotto la lista cera la partitura di Undine. Rimski-Korsakov la prese e la posò sul tavolo del direttore. Alcuni professori si affollarono intorno a lui. Intanto Glazunov mi disse: «Non l’ho mai vista. L’avete scritta du­ rante l’estate? ». «Sì. Questo pacco contiene solo cose che ho scritto quest’anno. Non le avete viste». Allora Rimski-Korsakov venne avanti e mi chiese di suonare Undine. «E di cantarla», disse qualcuno. «Ma come può cantarla?», osservò Rimski-Korsakov. « Canta le sue musiche benissimo », disse Glazunov, al quale avevo cantato nell’inverno passato il Festino in tempo di peste. Cominciai a suonare gli abbozzi manoscritti. Rimski-Korsakov stava in piedi vicino a me e mi voltava le pagine. Quando ebbi suonato tre pagine - quasi alla prima entrata del Cava­ liere - disse «Può bastare». 13

Poi mi chiese quanta parte dell’opera avevo scritto. « Un atto ». «Perché solo uno?». «Perché non ho ancora ricevuto il libretto del secondo atto». «E chi scrive per voi il libretto?». « Una signora che è poetessa». Uno degli esaminatori disse: « Fategli suonare qualcosa per piano­ forte». Dopo Undine cera lo spartito di NUo, il mio miglior pezzo per piano­ forte, quello che Mikhail Mikhailovic [Cernov, compositore, allievo di Glazunov] aveva apprezzato. Glazunov lo prese e lo diede a RimskiKorsakov. Questi mise lo mise sul leggio e mi chiese di suonarlo, cosa che feci. Con ciò l’esame terminò. Putti quanti si riunirono attorno alla tavola dei professori all’altro lato della stanza e cominciarono a discutere come avrei potuto combinare lo studio della musica con le materie di cultura generale. Non ne uscì nulla di concreto. Poi Rimski-Korsakov esclamò: « Forse possiamo lasciar da parte le le­ zioni di religione. E russo ortodosso?». «Sì», gli fu detto. Glazunov si avvicinò a me: « Conoscete il francese?». «Lo conosco». «Lo parlate?». «Sì». «E il tedesco?». « Pure il tedesco ». Ritornò verso Rimski-Korsakov. «Le sa tutt’e due», disse. Poi parlarono a lungo a bassa voce.

Non so quanti esami come questo si svolgessero nel conser­ vatorio di S. Pietroburgo, ma penso che il tredicenne Sergej Pro­ kofiev stupisse, per lo meno un po’, i suoi dodici illustri esami­ natori. Fu ammesso, e il direttore consentì persino a fare un pic­ colo strappo alle regole per dargli un orario di lezioni più co­ modo: cominciava per Prokofiev il corso di studi che avrebbe fatto di lui un vero professionista. 14

GIOIE E TORMENTI A S. PIETROBURGO Il conservatorio di S. Pietroburgo, fondato da Anton Ru­ binstein nel 1862, era giovane, molto giovane. Ma aveva già uguagliato la fama degli antichi conservatori italiani e poteva competere vittoriosamente con le scuole inglesi e tedesche e con il conservatorio di Parigi. Rubinstein aveva dapprima ingag­ giato a suon di sonanti rubli molti insegnanti stranieri di fama, i quali avevano formato e allievi e insegnanti di grande talento. Nel 1904 i docenti erano in grande maggioranza russi e gli al­ lievi non solo russi ma anche polacchi e tedeschi. Prokofiev fu assegnato alla classe di composizione di Lya­ dov e alla classe di pianoforte complementare di Alexander Winkler. Il primo, nato nel 1855 e allievo di Rimski-Korsakov, non aveva ancora scritto le due composizioni sinfoniche, Il lago incantato e Kikimora, che di lì a poco gli avrebbero dato una fama internazionale. Il secondo, tedesco di origine ma nato a Kharkov nel 1865, aveva studiato anche a Parigi e a Vienna. Non si era imposto come concertista. Poteva invece vantare una buona fama, oltre che come didatta, come compositore, avendo brahmsianamente iniziato con delle Variazioni e fuga su un tema originale op. 1 ed avendo poi ottenuto successo con pezzi carat­ teristici che piacevano ai dilettanti. Sentito Prokofiev gli disse: « Bene. Posso prendervi nella mia classe. Leggete a prima vista abbastanza correttamente e non suonate male, sebbene ci sia bi­ sogno di più tecnica». Risiedere a S. Pietroburgo voleva dire, per Prokofiev, pas­ sare dalla inesistente vita musicale del villaggio natale alle dovi­ zie della capitale. A S. Pietroburgo egli poteva andare a teatro 15

quanto voleva e poteva seguire sia i concerti sinfonici e da ca­ mera della vecchia Società Musicale Russa, molto tradizionalisti, sia quelli, innovativi, fondati da Alexandr Siloti, « buon pianista e cattivo direttore» (Prokofiev). Il rovescio della medaglia fu rappresentato, paradossalmente, dall’insegnamento. Prokofiev capì ben presto quale enorme differenza separasse le lezioni personalizzate di Glière dalle lezioni di routine del conservatorio, e quale fosse la diversità di atteggiamento umano fra l’inte­ resse paterno di Taneiev, Glazunov e Rimski-Korsakov, e l’in­ differenza burocratica di Lyadov e di Winkler. Se ne accorse Prokofiev, che in verità non se ne preoccupò più di tanto. E se ne accorse la mamma, che viceversa - un cuore di mamma non si smentisce mai - ne soffrì moltissimo. Maria Prokofieva, donna ambiziosa oltre che volitiva, iden­ tificava probabilmente nella carriera dei figlio il riscatto di una vita che le aveva dato un’insperata agiatezza confinandola in un buco di campagna. Iscrivere un ragazzino di tredici anni in una scuola di S. Pietroburgo significava o farlo ospitare da una fa­ miglia fidata o trasferire la propria famiglia. Rachmaninov era stato affidato, diciotto anni prima, ad un maestro di pianoforte che teneva pensione in casa sua, Arthur Schnabel e Arthur Ru­ binstein erano stati ospiti, rispettivamente a Vienna e a Berlino, di famiglie che affittavano a studenti e gli garantivano i pasti. A S. Pietroburgo vivevano le sorelle di Maria Prokofieva, tra le quali l’amatissima zia Tanya che aveva impersonato il Gigante nel Gigante. Sergej avrebbe potuto essere affidato alla zia, la mamma sarebbe potuta rimanere presso il marito e fare di quando in quando una capatina a S. Pietroburgo. Maria Pro­ kofieva scelse invece la soluzione più radicale: affittò un appar­ tamento in coabitazione con la sorella Tanya (Maria pagava mensilmente cinquanta rubli, Tanya venti), e rimase nella capi­ tale, con il marito che si sorbiva lui di tanto in tanto i mille chilometri da Sontsovka a S. Pietroburgo. Sergej e la mamma passarono in Ucraina i periodi delle vacanze scolastiche, e quindi la coesione della famiglia venne mantenuta fino a un

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certo grado. Tuttavia Sergej, dai tredici anni in poi, crebbe sotto l’influenza della madre ansiosa ed esclusiva più che del pacifico e accomodante padre. Sotto l’influenza della madre che vigilava amorosamente su di lui, com’era ovvio e naturale e giusto per Maria Prokofieva. Non solo, però: anche dei maestri che sottoponevano il giovane virgulto ad una disciplina tanto severa quanto impersonale, e dei compagni... brrr!... che potevano essere i classici cattivi compagni di cui son piene le storie per ragazzi nella letteratura ottocentesca. Già nei primi giorni di scuola l’ispettore di Disci­ plina convocò la signora Prokofiev: «Ho deciso di disturbarvi, signora, perché Vostro figlio si è aggregato ad una indesidera­ bile compagnia. Vedo che è un ragazzo di buona famiglia. Ma si sta legando con un certo Potemkin, che con noi ha un cattivo curriculum, E un giovanotto molto dissoluto. Inoltre è molto più anziano di Vostro figlio» (aveva tre anni di più). La povera mamma arrivò a casa in uno stato pietoso: « Con che razza di persona hai fatto amicizia? Ho smesso di tenerti d’occhio solo per due settimane e tu ti mischi con Dio sa chi, un qualche buono a nulla. E a causa di ciò sono stata chiamata dall’ispet­ tore». «Ma Potemkin, mammina, è persona molto gradevole». « Mi farai il piacere di rompere immediatamente questa amici­ zia. Se non lo fai, lui potrebbe insegnarti Dio sa cosa. Ti ha mai detto cose cattive?» «No, assolutamente. Non cose cattive». «Comunque, rompi con lui. Non parlargli mai più. Ci sono molti bravi ragazzi nel conservatorio ». «Non avevo la più pallida idea», conclude Prokofiev, «del perché Potemkin fosse cattivo, ma lo stato di agitazione della mamma mi convinse. Potemkin era stato dipinto come una spe­ cie di lebbra [l’omosessualità?] da cui bisognava guardarsi». E Sergej si adeguò: girò al largo dall’amico di fresca data, non gli rispose e si allontanò quando questi lo affrontò dicendogli: «Non capisco che cosa ti sia accaduto». E ruppe brutalmente il legame, come voleva la mamma.

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Non è difficile immaginare che cosa fossero le « cose cat­ tive». Non è difficile immaginarlo quando pensiamo a Nicolai Zverev, l’abilissimo primo maestro di pianoforte di Rachmani­ nov, quello che teneva ragazzi a pensione e provvedeva ad edu­ carli alle cose del mondo non solo insegnandogli a stare a tavola e a stare in società ma accompagnandoli anche a tempo debito, sebbene fosse personalmente omosessuale, in case di tolle­ ranza... di immacolata reputazione. Maria Prokofieva, che cono­ sceva S. Pietroburgo, dovette temere disastri per il suo ragazzo giunto fresco fresco dalla steppa, e sicuramente tenne gli occhi ben spalancati. Ma Prokofiev era nelle cose del sesso l’ingenuità fatta persona. E comunque, se per avventura non lo era, appar­ teneva ad una generazione per la quale certi argomenti costitui­ vano un tabù anche nelle autobiografie. Il tentativo rivoluzionario del 1905 non fu avvertito dal quattordicenne Prokofiev, che avvertì invece la turbolenza degli studenti del conservatorio: Rimski-Korsakov, avendo pubblica­ mente criticato la conduzione dell’istituto, fu licenziato, Glazu­ nov, Lyadov e alcuni altri, solidali con Rimski, diedero le dimis­ sioni, e Sergej pensò di abbandonare un conservatorio privato dei migliori professori. Ci fu uno scambio di lettere con il pa­ dre, che predicava il mota quietare, e la situazione rimase per il momento bloccata. Durante le vacanze Sergej imparò da solo ad andare in bici­ cletta, imparò a sviluppare le fotografie sotto la guida della zia Tanya che soggiornava a Sontsovka, e fece amicizia con il gio­ vane veterinario Vasily Morolev, grande appassionato di musica (e di scacchi). In autunno il tormentone del conservatorio fu ri­ solto transitoriamente nel senso che Prokofiev sostenne l’esame per il corso principale di pianoforte ed entrò nella classe di Winkler sotto una nuova veste, mentre continuava privatamente gli studi di composizione con il dimissionario Lyadov. Winkler così impartì i nuovi ordini: « Le vostre lezioni saranno il merco­ ledì e il sabato alle dieci. Non portate nessun pezzo alla pros­ sima lezione. Per cominciare lavoreremo sulla tecnica per fortifi18

care le vostre dita. A tutta prima ciò sarà un po’ noioso, ma non possiamo farci niente». Prokofiev, docilissimo, obbedì, e quando dopo trentanni scrisse l’autobiografia aggiunse queste parole come commento alla lettera che 1’11 settembre 1905 aveva mandato al padre per informarlo dell’accaduto: «Qualcuno mi aveva finalmente messo le briglie. Fino ad allora avevo suonato tutto quello che volevo, ma sempre piuttosto trascuratamente, e avevo tenuto le dita diritte e rigide. Winkler mi chiese di suonare con più preci­ sione, di tenere le dita curve e di metterle sulla tastiera con at­ tenzione». Winkler «non aveva talento ma era coscienzioso ed era un uomo di buona volontà», e grazie a lui, ritengo, Proko­ fiev potè più tardi affrontare con successo la carriera di piani­ sta-compositore.

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VITA SCOLASTICA La stretta sorveglianza della mamma non poteva impedire che qualcuna delle «cose cattive» giungesse fino airorecchio castissimo di Sergej. Prokofiev racconta che alla prova di un concerto sinfonico uno studente chiese ad un altro: «Perché hanno scritturato un soprano come questo?» Risposta: «Perché il Tal dei Tali ha fatto qualcosina per lei», e, dice Prokofiev, lo studente «fece il nome di uno dei finanziatori del concerto». «Ma perché lui ha fatto qualcosina per lei?» «Probabilmente perché lei ha fatto qualcosina con lui». E i due scoppiarono a ridere. « Stavo seguendo la conversazione con evidente atten­ zione», dice Prokofiev, «ma non capivo che cosa significasse». Uno degli studenti osservò: «Prokosha è un buon ragazzo, non sa nulla a proposito di queste faccende». E i due si allontana­ rono doverosamente da «Prokofievietto» per continuare in pace a spettegolare. Commento di Prokofiev: «In effetti, la mia innocenza era allora quasi totale. Per esempio, io pensavo che le uova grandi fossero scodellate dai galli e quelle piccole dalle galline». Ma che cosa aveva visto o non visto quest’adolescente, vien fatto di chiedersi, nella fattoria in cui aveva trascorso l’in­ fanzia, nella fattoria piena di galli, stalloni, tori, becchi e mon­ toni? Quando un compagno di giochi di un anno e mezzo più giovane - ma assai più smaliziato - gli chiese se avesse qualche flirty Sergej rispose balbettando che la cosa non gli interessava. La mamma e la zia Tanya chiamata a consulto giudicarono pre­ feribile far cessare i rapporti con quel ragazzo, « di cattivi co­ stumi, giovane ma ormai scurrile», e Prokofiev pensò «per 20

molto tempo ancora» che «flirtare fosse un qualcosa di non particolarmente simpatico e che fosse meglio non averci a che fare ». Un giorno Lyadov chiese a Prokofiev quali fossero i suoi compositori preferiti. «Ciaikovsky, Wagner e Grieg », fu la ri­ sposta. «I primi due vanno bene», replicò Lyadov, «ma il terzo è un’influenza dannosa». «Avevo risposto sinceramente quanto a Ciaikovsky», commenta Prokofiev, «sebbene fossi ben lontano dal conoscerne tutte le opere. Delle sue sinfonie conoscevo solo la Seconda e non conoscevo affatto la sua mu­ sica da camera. Avevo citato Wagner per ragioni snobistiche: avevo sentito dire che la sua musica era buona e che era molto discusso nei circoli musicali, ma non avevo mai sentito né il Ring né il Tristano, e la mia comprensione dei Maestri cantori era limitata. Per quanto riguarda Grieg, ne conoscevo abba­ stanza bene le opere pianistiche. Ma Lyadov non lo stimava particolarmente. Riteneva che la condotta delle parti fosse in Grieg povera, che egli mancasse di tecnica e che in generale fosse un dilettante». Strano che Prokofiev non citasse Rimski-Korsakov, di cui aveva ammirato diverse composizioni sinfoniche e diverse opere. Non strano invece che non citasse Scriabin, detestato da Lyadov, sebbene fosse rimasto molto impressionato, nell’estate precedente, dalle Mazurche op. 3. Prokofiev assistette a tutte le prove della Terza Sinfonia di Scriabin, il Poema divino, che non riuscì a capire del tutto. Ma vedremo più avanti come Scriabin fosse in realtà il primo compositore contemporaneo di cui si av­ verta nel giovane Prokofiev l’influenza. Nell’autunno del 1906 la lunga crisi del conservatorio venne salomonicamente quietata: Glazunov fu nominato diret­ tore, Rimski e Lyadov ripresero il loro insegnamento, rientra­ rono anche il celebre professore di violino Leopold Auer e la celebre professoressa di pianoforte Annette Essipova nella cui classe sarebbe poi approdato Prokofiev stesso. Prokofiev studiò 21

con Lyadov contrappunto e fuga, e con Rimski-Korsakov orche­ strazione. Lyadov non era un apostolo dell’insegnamento: «Pensate davvero», diceva ai suoi studenti, «che se avessi denaro inse­ gnerei a voi? Eccettuati due o tre, nessuno di voi diventerà co­ munque compositore». Incoraggiante, non è vero? Lyadov non era noto come contrappuntista (un famoso contrappuntista era invece Taneiev), ma il suo insegnamento in questa delicata ma­ teria doveva essere di prim’ordine, a giudicare dall’abilità com­ binatoria che si riscontra nella Sonata op. 14 di Prokofiev, che è il suo primo capolavoro. Rimski-Korsakov era un famosissimo orchestratore e le sue scintillanti partiture sinfoniche erano con­ siderate, ed erano effettivamente dei modelli. Tuttavia Proko­ fiev - e la sua Sinfonia in mi minore del 1908 lo dimostra non trasse un gran profitto dalle lezioni di un tale maestro. Rimski-Korsakov insegnava per quattro ore consecutive ad un uditorio affollatissimo. «Il lungo tempo passato in classe», scrive Prokofiev, « era stancante ed era difficile prestare atten­ zione per tutto il tempo. Per dirla alla svelta, gli studenti che si impegnavano, comprendendo quanto potevano imparare sull’or­ chestrazione dalle lezioni di un uomo come Rimski-Korsakov, si concentrarono sul lavoro e in effetti ne ebbero profitto. Ma io avevo solo quindici anni. Sebbene trovassi interessante RimskiKorsakov, e sebbene cercassi di fare gli esercizi correttamente, non mi preoccupavo di prestare attenzione quando venivano di­ scussi i lavori degli altri studenti. In conclusione, non ricavai molto da queste lezioni». Ricavò invece molto dalla Leggenda della invisibile città di Kitesh e della vergine Levronia di Rimski, che andò in scena nel 1907: Prokofiev assistette alla prova gene­ rale e a tre recite, ricavandone un’impressione indelebile. Tra gli allievi di Lyadov e di Rimski-Korsakov c’era Nicolai Miaskovsky, nato nel 1881 e quindi di dieci anni più anziano di Prokofiev. Miaskovsky aveva alle spalle una carriera militare perché era stato arruolato in un battaglione del genio. Come molti compositori della vecchia generazione - Mussorgski, Bo-

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rodin, Cui, Rimski-Korsakov - si era dunque votato alla musica dopo aver intrapreso un’altra professione, e con uno studio in­ defesso stava riguadagnando il tempo perduto. Del resto, che avesse la stoffa del compositore lo avrebbe dimostrato: scrisse — caso unico tra gli artisti del ventesimo secolo - ventisette sinfo­ nie, e tredici quartetti per archi e nove sonate per pianoforte e tanta, tanta altra musica. Miaskovsky e altri due amici di Prokofiev, Boris Zakharov e Anatoly Kankarovic, parlavano molto di musica e non parla­ vano affatto di ragazze, o per lo meno non ne parlavano in pre­ senza del loro compagno, più piccolo d’età e totalmente disinte­ ressato rispetto al gentil sesso. La mamma poteva quindi ripo­ sare fra due guanciali. Prokofiev e Miaskovsky cominciarono in­ vece a leggere musica sinfonica in riduzione per pianoforte a quattro mani. Il primo pezzo scelto - scelta di Miaskovsky - fu la Nona Sinfonia di Beethoven: « Suonammo il primo e il se­ condo tempo con entusiasmo, trovammo il terzo difficile e non interessante, ma il nostro entusiasmo si riaccese con il quarto ». Continuarono poi con la Settima Sinfonia di Beethoven, la Quinta e la Settima di Glazunov, che era allora considerato il Brahms russo, con Shéhérazade di Rimski-Korsakov, con la Sere­ nata op. 95 di Reger, traendo da queste letture molta gioia e molti stimoli musicali. Daniel Jaffé enfatizza anzi l’influenza di Reger su Prokofiev fino al punto di dire che « il ricco lirismo cromatico del terzo tempo della Serenata sembra aver fatto su di lui una profonda impressione: la sua influenza sarà evidente quasi trent’anni più tardi nella musica d’amore del suo balletto Romeo e Giulietta». I meetings a quattro mani di Prokofiev e Miaskovsky durarono a lungo, e la loro amicizia rimase salda per tutta la vita. Agli insegnamenti che già riceveva Prokofiev si aggiunse nel 1907 la lettura della partitura. Il corso era affidato a Nicolai Cerepnin, nato nel 1863, che teneva anche il corso di direzione d’orchestra. Gli studenti, dice Prokofiev, facevano carte false per accedere alla direzione d’orchestra, ma Cerepnin era estre-

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inamente selettivo, ne escludeva uno perché non abbastanza svi­ luppato come musicista, un altro perché leggeva male a prima vista, un altro perché era magari passabile nella lettura ma suo­ nava mediocremente il pianoforte... Mentre Prokofiev frequen­ tava da uditore le lezioni di direzione d’orchestra Cerepnin, mettendogli un giorno una mano sulla spalla, gli chiese se gli sarebbe piaciuto diventare direttore. « In verità non ci ho mai pensato », rispose Prokofiev. « Vi piacerebbe entrare nella classe di direzione?», incalzò Cerepnin: «Non lo so», ammise candi­ damente Sergej. E Cerepnin, incanaglito: «Bene, come vi piace». Commento di Prokofiev: «Mi aveva fatto la proposta ed io non avevo saputo rispondere né sì né no. Che stupido! Ero veramente stupido, si capisce, ma a quel tempo non me ne rendevo conto». Cerepnin, sbollitagli la rabbia del mancato ef­ fetto-sorpresa, tornò all’attacco, e Prokofiev, come vedremo, si rese conto dei vantaggi che avrebbe avuto studiando la dire­ zione. Tuttavia le sue doti naturali di direttore - era un genio della musica, non un vaso di perfezioni - non erano grandi.

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ALL’OMBRA DELLE FANCIULLE IN FIORE (I) Era stato anche stupido - senno di poi - a trascurare le ra­ gazze. Ma a sedici anni, entrando nei corsi superiori delle mate­ rie di cultura generale, si trovò in una classe di diciassette fem­ mine e tre maschi, tutti della stessa età. «Ero come un monaco che capita in un gineceo invece che in un monastero», dice Prokofiev. E decise, anche perché non poteva ragionevolmente farne a meno, che avrebbe... fraternizzato con le compagne di corso. Del resto si era tolta la frangetta da bambolotto, aveva adottato una tenuta dei capelli con la scriminatura, teneva un diario (com’era di gran moda), indossava la divisa paramilitare di allievo del conservatorio di S. Pietroburgo con tanto di tar­ ghetta SPC, Conservatorio di S. Pietroburgo, ed era diventato così pronto di lingua che quando un compagno pretese di fargli un piccolo scherzo idiota sul significato di quelle tre maestose lettere rispose che potevano essere Sergej Prokofiev Composi­ tore.

Prokofiev ricorda, e descrive brevemente, sette su dicias­ sette delle sue compagne di scuola. La prima che gli sfiorò il cuore fu una Anisimova, « piccola, vivace e attraente (dapprima mi interessai a lei e le dedicai un’intera pagina del mio diario) ». La Bessonova, « ragazza volubile che aveva sempre da correre da qualche parte », puntò diritta su di lui al Ballo del Conservatorio del 2 gennaio 1908, lo prese sotto braccio, lo trasse in di­ sparte e cominciò a ciarlare di sé, dei suoi ammiratori, di uno

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spasimante deciso ad ucciderla se lei non gli dava retta, e finì con una filosofica domanda: « Qual è la vostra idea sull’amicizia tra un uomo e una donna? A che punto l’amicizia diventa amore? » La ragazzina era un rullo compressore. Ma Prokofiev restò fermo come un baccalà e la Bessonova approfittò del pas­ saggio di un conoscente per piantarlo in asso. Poco più in là sedeva Sonya Eshe, sorella minore di una delle sette che Prokofiev, in classe, aveva estratto dal mazzo: «Sonya era una brunetta con la fronte piuttosto bassa ma promi­ nente, occhi obliqui che spesso lanciavano sguardi sospettosi, linea­ menti irregolari ma graziosi, una figura snella e flessuosa e una lin­ gua tagliente come un rasoio: un interessantissimo diavoletto. Piegò lievemente il capo e mi gettò uno sguardo tenero, come una scim­ mietta. «E il caso che andiamo a mettere un po’ di vita in questo ballo?», mi chiese. Gettai un occhiata verso la Bessonova. Stava seduta in un angolo e chiacchierava con lo stesso giovanotto di prima. « Con il massimo piacere», risposi. Ed aggiunsi (usando un’espressione che avevo rac­ colto da [mio cugino] Shurik Rayevsky), «Sono terribilmente lusin­ gato per la vostra attenzione». Le offersi il braccio e ci dirigemmo verso la sala dove continuavano le danze. Durante il tragitto Sonya fece ogni sorta di spiritose osser­ vazioni, alcune delle quali assai audaci. Per esempio: « Quella in verde è la moglie, e quella con i pizzi è la moglie di ricambio». Oppure: « Guardate come il suo viso è truccato. Questo è il cosid­ detto rosso del legno di sandalo. Ma il vantaggio di questo rosso è che non si stacca quando si bacia». Io ero un ragazzino innocente, e tutto quello che potevo rispondere alle sue osservazioni era di balbettare: «Do-dove avete appreso tutto ciò?». Ma la sua compagnia mi rallegrava. I suoi commenti mi ronzavano nelle orecchie, ma alla fine non dovetti riflettere se potesse esserci amicizia tra un uomo e una donna e come l’amicizia si trasforma in amore. Non ricordo come finì la serata. Ma arrivai a casa alle tre del mat­ 26

tino, stanco e tuttavia contento, perché questo era stato il mio primo ballo in grande stile».

Nel 1908 il diciassettenne Prokofiev venne presentato a un gruppetto di intellettuali che da poco organizzavano le Serate di Musica Contemporanea, Gli chiesero di suonare le sue compo­ sizioni. Un successo folle. Viacheslav Karatygin, critico musicale noto e per la sua serietà e per la sua severità, espresse l’opi­ nione che la musica di Prokofiev fosse «l’antitesi di quella di Scriabin» e «ringraziò il Cielo per l’apparizione di una tale an­ titesi», aggiungendo che il giovane genio era «un compendio di Reger, Mussorgski e Grieg»: «Questi», concluse sapientemente, «sono gli elementi da cui è nato». Alfred Nurok pro­ pose addirittura a Prokofiev, in un successivo incontro, di scri­ vere una pantomima su una sua storia. Mentre l’autore leggeva il testo Prokofiev cominciò ad improvvisare, delineando musi­ calmente le varie situazioni, e venne acclamato all’istante. Ma la musica della pantomima non fu mai scritta. Sebbene avesse ormai scoperto che l’umanità femminile non si esauriva in mamma e zia Tanya, Prokofiev aveva cose più importanti a cui dedicarsi mentre le puledrine in fiore scor­ razzavano per i corridoi del conservatorio. Karatygin e soci gli aprivano la prospettiva di far ascoltare la sua musica, la musica di chi compendiava in sé Reger, Mussorgski e Grieg, fuori dalle aule scolastiche. Il Teatro Marinski gli offriva l’opportunità di ascoltare tutto intero l’Anello del Nibelungo di Wagner sotto la direzione di Felix Blumenfeld, futuro maestro di pianoforte di Horowitz. Grazie ad uno speciale permesso di Blumenfeld, Pro­ kofiev potè seguire le prove, e grazie ad uno speciale permesso di Glazunov potè avere in prestito dalla biblioteca del conservatorio le partiture delle quattro opere. Ascoltò le prove e ascoltò un ciclo. Lo riascoltò l’anno dopo e ancora due anni dopo. «Tutto quello che posso dire», commenta Prokofiev, «è che a quel tempo Wagner ebbe su di me una tremenda influenza». 27

ALL’OMBRA DELLE FANCIULLE IN FIORTE (II) Leonida Glagoleva, «bella, sebbene i suoi lineamenti fos­ sero un po’ irregolari», «alta e scura come l’asso di picche» e «temperamento ardente», gli chiese di prepararla per la Valchi­ ria, che doveva andare a vedere. Lusingato dall’attenzione della ragazza, Prokofiev le parlò del mito, della vicenda dell’opera, dei Leitmotive, prese uno spartito in biblioteca, andò al piano­ forte, suonò i brani salienti: quando finì la bella Leonida lo rin­ graziò caldamente e da quel momento i loro « rapporti furono più amichevoli di quanto erano stati prima». Il limite fatato tra amicizia e amore, sembra, non venne tuttavia varcato. Verso la fine di marzo cominciavano gli esami. Prokofiev ottenne il punto massimo, 5, nella tecnica pianistica (scale sem­ plici e in doppie terze, arpeggi, studi vari), un 5 nella esecu­ zione {Studio in fa minore di Kessler, Fuga in do minore dal se­ condo libro del Clavicembalo ben temperato di Bach, Fraumeswirren op. 12 n. 7 di Schumann), un 4 nell’interrogazione orale di strumentazione, un 3 (al limite della insufficienza) nella stru­ mentazione per orchestra della Novelletta op. 1 n. 6 di Grieg. Gli esaminatori, considerando il lavoro svolto con Rimski-Kor­ sakov e la prova orale, tirarono il collo al 3 e lo portarono ad un 4. « [...] superai il corso di strumentazione», commenta Pro­ kofiev, « ma solo cinque o sei anni più tardi, quando composi ogni anno un pezzo per orchestra, imparai a strumentare in modo decente. Sebbene fossi sinceramente preso da Rimski28

Korsakov, non ero a quel tempo capace di approfittare dello splendido sapere che emanava da lui». Ultimo esame, quello di fuga. Gli venne assegnato un soggetto dal Messia di Hàndel, con il quale cercò di lavorare nello stile più classico possibile, ed ottenne un 4+. Un sorridente Glazunov gli comunicò l’esito e Prokofiev, con la mamma e la zia, partì per il Mar Nero, dove per tre settimane sarebbe stato ospite di una vecchia amica della mamma. Vita di società, gite..., proprio come nei romanzi russi dell’ottocento. Nel viaggio verso Sontsovska lesse nel giornale la notizia della morte di Rimski-Korsakov, e ne fu molto addolorato. Ma appena arrivato a casa si mise alle spalle i pensieri melanconici: lui e Miaskovsky si erano accordati per scrivere ciascuno, durante le vacanze, una sinfonia. Per Miaskovsky si trattò della prima di ventisette sorelle, in do minore op. 3. Per Prokofiev si trattò di un fallimento. La Sinfonia in mi minore composta durante l’estate del 1908 fu eseguita a S. Pietroburgo in ottobre, in un’audizione privata pa­ trocinata da Glazunov. Glazunov aveva ritenuto che la musica di Prokofiev fosse piena di verve ma troppo dissonante, mentre Karatygin e i suoi amici l’avevano giudicata non interessante dal punto di vista «modernista». Alexandr Siloti l’aveva ascoltata, eseguita da Prokofiev al pianoforte, e dopo la classica frase « i miei programmi per questa stagione sono ormai completi» aveva aggiunto: «La vostra sinfonia è troppo immatura per un esordio di fronte a un grande pubblico. Scrivete qualcosa an­ cora, e poi vedremo». Tuttavia Glazunov, a cui Prokofiev risul­ tava ancora - per poco, come vedremo - simpatico, combinò una lettura del pezzo durante le prove di un concerto dell’or­ chestra di corte. Gli ascoltatori rimasero sconcertati e Prokofiev stesso comprese di non aver ben calcolato i rischi che aveva corso, affrontando un genere onusto, anche in Russia, di tradi­ zioni gloriose ed illustri. « Avrei dovuto scrivere una nuova sin­ fonia», concluse Prokofiev. Tuttavia ritenne dieci anni più tardi di poter far sopravvivere il secondo tempo della Sinfonia', lo tra­ 29

scrisse per pianoforte solo e lo inserì nella Sonata n. 4 op. 29, e nel 1934 lo ritrascrisse per orchestra {Andante op. 29 bis). Nel 1896 la prima esecuzione pubblica della Sinfonia n. 1 di Rachmaninov si era risolta in un tale fiasco colossale da pro­ vocare nel compositore uno stato depressivo così distruttivo da richiedere le cure di un medico ipnotista. Prokofiev era di pelle più dura, e senza scoraggiarsi cominciò a lavorare con Lyadov la «composizione libera». Ma il maestro gli disse, al primo in­ contro: «Che cosa sarei mai capace di insegnarvi? Per la razza di cose che scrivete non potrei darvi alcun consiglio, e ciò non ci porterebbe da nessuna parte». Siccome Prokofiev insisteva, Lyadov così concluse: «Bene, proviamo per qualche lezione. Ma io sono convinto che non se ne farà nulla». Dopo qualche settimana anche Prokofiev capì che il maestro aveva fiutato giu­ sto, e così passò nella classe di Joseph Vitols, compositore let­ tone che nominalmente insegnava le forme ma in realtà «di rado spiegava le forme stesse, e talvolta non spiegava nulla». Con Cerepnin, invece, le cose andavano splendidamente: «[...] un poco alla volta divenne chiaro [per me] che la pratica costante di studio delle partiture e poi il lavorarle con l’orchestra per prepararne l’esecuzione non era utile soltanto per la direzione ma anche per aiutarmi ad imparare di più sull’orchestrazione». Frequentando il corso di estetica del professor Sakketti, «che in un lontano passato era stato italiano», Prokofiev notò Vera Alpers, una bruna, languida e sospirosa sedicenne che di­ venne la sua prima (molto moderata) cotta. Diversi anni più tardi Vera mostrò a Sergej il suo diario, e Sergej le chiese di co­ piarne certe parti che incluse nella autobiografia. «In una prova per il concerto», scriveva la ragazza 1’1 dicembre 1908, «egli guardò attentamente le mie lunghe dita, prese la mia mano, la studiò, disse che era graziosa. Ero imbarazzata. E quando os­ servò che arrossivo divenne imbarazzato lui... In verità, non ca­ pisco perché mi sento attratta da lui. Innanzitutto, è terribil­ mente egoista; in secondo luogo... ci sono in lui molte cose spiacevoli, ma allo stesso tempo...». Tipico di un tipo come

Prokofiev, cantare il suo «Che gelida manina» con la scusa di esaminarla, la manina, dal punto di vista professionale del piani­ sta. Il 6 dicembre Vera confessa al diario tutta la sua ammira­ zione per il talento pianistico di Prokofiev, che « suona con una tale concentrazione e con una così grande comprensione che talvolta sembra fondersi con il pianoforte e la musica». E il 17 gennaio 1909: «L’altra sera alla soirée del conservatorio ero ter­ ribilmente felice. Non so perché e non voglio saperlo. Ho pas­ sato la maggior parte della serata con lui... Eppure gli piacciono molto i visetti graziosi, e ciò significa molto per lui. Apparente­ mente è uso a non negarsi nulla, e le ragazze del conservatorio che conosce - quelle da cui si sente attratto, come la Eshe, la Sadovskaya, la Glagoleva - sono piuttosto disinvolte nel loro comportamento ». Nel suo diario Prokofiev sbrigava la faccenda con queste due righe lapidarie: «Veroska non è realmente gra­ ziosa, ma vista da dietro appare molto armoniosa». La fotografia di Vera che abbiamo - vista di fronte! - ci dice che la ragazzina, mollemente adagiata al fianco della ma­ dre, era decisamente bella. Ma l’ironia di Prokofiev non si smentiva mai, e se per Veroska aveva preso una cotta si guar­ dava bene dal confessarlo. Con Vera e un amico di questa che sarebbe diventato poi un suo grande amico, Max Schmidthof, fece lunghe passeggiate in maggio. I due maschi si punzecchia­ vano continuamente, mentre Vera li osservava: «In generale [Vera] non disse nulla durante queste passeggiate. Ma conside­ rava se stessa come un arbitro, quella che era corteggiata da tutt’e due noi, quella in onore della quale i galletti da combatti­ mento stavano battagliando. Non era così. Nessuno di noi due la stava corteggiando. L’avevamo presa con noi in queste pas­ seggiate come un partner femminile, una che capiva la musica e con cui era piacevole stare insieme durante un’escursione». Impagabile! Con sottile perfidia Prokofiev si procura una vec­ chia dichiarazione d’amore che soddisfa la sua vanità e se ne serve proditoriamente per mettere alla berlina la poveretta che gliela aveva ingenuamente e devotamente fornita. Impagabile! E crudele! 31

LIBERO ARTISTA Prokofiev partiva per le vacanze, il 20 maggio 1909, avendo in tasca il diploma, il diploma di Libero Artista in composi­ zione. Gli esami comprendevano quattro materie: storia della musica, estetica, pianoforte, composizione. Prokofiev ottenne 5 nelle prime tre (all’esame di pianoforte presentò il Concerto op. 30 di Rimski-Korsakov). Per l’esame di composizione presentò la Sonata op. 1 per pianoforte e l’opera in un atto II festino in tempo di peste, composta nel 1903, come abbiamo visto, su sug­ gerimento di Glière. Il breve testo di Glière era già stato musicato nel 1900 da Cui, ma Prokofiev, nel 1903, non lo sapeva: lo aveva saputo più tardi e non si era affatto spaventato. L’opera era stata suonata per Glazunov nell’audizione privata che aveva preceduto l’e­ same di ammissione al conservatorio, poi era stata abbandonata. Non sappiamo esattamente in quale misura venisse rielaborata nel 1909, ma sta di fatto che Prokofiev presentò all’esame una composizione non recente, senza del resto che la giuria ci tro­ vasse nulla da ridire. La Sonata op. 1, un po’ più giovane dell’opera, non era neppur lei fresca di giornata: era stata composta nel 1907 ed era al­ lora in tre tempi. Nel 1909 Prokofiev ne riprese il solo primo tempo, lo rimaneggiò e lo pubblicò poi, nel 1911, con il titolo So­ nata e con il fatidico numero d’opera 1. Forse senza saperlo, Prokofiev si comportava nel 1909 esat­ tamente come sedici anni prima si era comportato Scriabin, che 32

aveva riconsiderato e lavorato il primo tempo di una sonata scritta da ragazzo. Scriabin aveva però pubblicato l’ex-primo tempo di sonata con il titolo meno impegnativo, Allegro appas­ sionato (op. 4). Prokofiev decise invece per il titolo pieno di So­ nata y anche se si trattava in realtà di un primo tempo. La ra­ gione di questa scelta risiede probabilmente nel fatto che pro­ prio nel 1911 Scriabin pubblicava la sua Sonata n. 5 op. 53, scritta nel 1907; del resto, già la Sonata n. 4 op. 30 di Scriabin, pubblicata nel 1904, era in un tempo solo. Nel 1910 era inoltre uscita a Berlino - ma in verità non sappiamo se Prokofiev ne fosse a conoscenza - la Sonata op. 1 di Berg, che è un primo tempo di sonata. E certamente singolare il fatto che i cataloghi di Berg e di Prokofiev inizino con un’op. 1 che è una sonata li­ mitata al primo tempo. Ma in realtà ciò avviene perché nella forma del primo tempo di sonata, bitematico e tripartito con esposizione, sviluppo e riesposizione, risiede la particolarità ar­ chitettonica e drammaturgica più sorprendente, risiede l’essenza stessa della sonata. La Sonata op. 1 di Prokofiev segue in generale lo schema che i teorici avevano considerato esemplare, ricavandolo da certe - non tutte - sonate di Beethoven. Tonalità di fa minore, secondo tema in la bemolle maggiore, sviluppo assai più breve dell’esposizione, coda conclusiva che riequilibra architettonica­ mente la brevità dello sviluppo, due temi secondari (di collega­ mento e di conclusione) ben definiti, contrasto tra un primo tema fiero, appassionato e «maschile» e un secondo tema so­ gnante e «femminile», punto culminante alla fine dello svi­ luppo (ma non, come in Berg, là dove cade la divisione dell’o­ pera secondo la sezione aurea). Irregolare, rispetto alla norma accademica, è però la riesposizione: il primo tema, sfruttato nel punto culminante dello sviluppo, viene appena accennato nella riesposizione, e il secondo tema viene presentato in re bemolle maggiore invece che in fa maggiore. Quest’ultima singolarità, che in astratto è certamente la più notevole, dipende dal fatto che Prokofiev era pianista e che 33

pensava la musica in senso pianistico. Proprio in quegli anni un insigne teorico come Vincent d’Indy, pubblicando il Cours de composition musicale, osservava acidamente che Chopin sce­

glieva le reti tonali non in funzione della logica musicale ma della comodità di esecuzione sul pianoforte. In realtà Chopin pensava le reti tonali in rapporto con il timbro pianistico. E così si era comportato Rachmaninov (nel Concerto n. 2), e così si comportava Prokofiev: il re bemolle maggiore prevede l’impiego di tutti i tasti neri, il fa maggiore di uno solo, e il re be­ molle maggiore, con le dita del pianista in posizione più allun­ gata, «suona» diversamente dal fa maggiore. La logica della musica invocata dal d’Indy, che è logica del pensiero, viene sop­ piantata dalla logica della sensazione. Che è principio squisita­ mente «moderno». La scrittura pianistica della Sonata op. 1 è nettamente riferi­ bile allo Scriabin delle prime quattro Sonate, con momenti di vero e proprio ricalco stilistico, soprattutto in relazione con la Quarta. L’espressione è sempre diretta, tesissima, appassionata, in sostanza « romantica », anche se, rispetto ad una vera musica romantica, mancano le indicazioni di carattere (Prokofiev si li­ mita ai segni per la dinamica e l’agogica). Prokofiev, che di lì a poco verrà considerato un iconoclasta, apre dunque il suo cata­ logo con un lavoro «antiquato» che non tiene conto di De­ bussy, di Ravel, dello Scriabin più recente, di Reger, di Busoni, di Albéniz. La Sonata op. 1, insomma, è un po’ come una tesi di laurea che dimostra la bontà degli studi fatti e la conoscenza del linguaggio e della forma-regina della tradizione, e che spera­ bilmente non farà arricciare il naso a nessun professore. Queste le intenzioni. In realtà il professor Lyadov resterà scandalizzato, osservando - del resto giustamente, dal suo punto di vista che i giovani scimmiottano Scriabin, il direttore Glazunov mo­ strerà silenziosamente il suo malumore, il professor Vitols ri­ marrà neutrale, e Prokofiev avrà il diploma di Libero Artista con un 4 invece che con un 5. 34

PREMIO RUBINSTEIN Durante l’estate Prokofiev compose gli Studi op. 2 per pia­ noforte e la Sinfonietta op. 5, la cui esecuzione sembrava garan­ tita da Anatoly Kankarovic, compagno di studi nel corso di Lyadov, al quale era stata affidata la direzione dei concerti sin­ fonici di Voronez. Ma la Sinfonietta rimase inascoltata fino al 6 novembre 1915, quando fu diretta da Prokofiev a S. Pietro­ burgo. La sinfonietta sta alla sinfonia un po’ come l’operetta sta al­ l’opera: musica di intrattenimento rispetto a musica poematica. Rimski-Korsakov aveva composto la sua Sinfonietta, op. 31, nel 1884, e Reger aveva composto la sua, op. 90, tra il 1905 e il 1906. La Sinfonietta op. 5 di Prokofiev è spigliata e gradevole. Dal punto di vista estetico preannuncia la Sinfonia classica del 1916-17. Ma Prokofiev la rimaneggiò due volte, nel 1914 e nel 1929, e nel 1929 aggiunse al 5 un altro numero d’opera, 48. Siccome non conosciamo la prima versione non siamo in grado di collocare con sicurezza la Sinfonietta nella evoluzione creativa di Prokofiev, né per quanto riguarda l’estetica né per quanto ri­ guarda - e questo ci interesserebbe ancora di più - la strumen­ tazione, che era stata il punto debole della Sinfonia in mi mi­ nore. Gli Studi op. 2 nascevano come omaggio e congedo da Winkler, al quale sono dedicati. Prokofiev aveva già da tempo capito che dal suo primo maestro non aveva più nulla da impa­ rare, e diversi amici gli consigliavano insistentemente di passare 35

in un'altra classe. Annette Essipova, pianista celebre, aveva ascoltato Prokofiev in un concerto studentesco ed era disposta a prenderlo come allievo ma non voleva urtarsi con il collega Winkler. Confortato dal saggio parere di Miaskovsky « Quando marci verso la tua meta non devi guardare i corpi su cui stai camminando » - Prokofiev affrontò Winkler con imba­ razzata determinazione. Sorpresa: la porta che gli sembrava dura da scardinare era in realtà aperta, perché Winkler gli chiese solo di completare Tanno nella sua classe. Accompagnò Prokofiev al secondo pianoforte (« in modo piuttosto pallido ») durante l'esecuzione del Concerto di Rimski-Korsakov, poi «con un debole sorriso» gli consegnò il «vostro passaporto», la dichiarazione che per lui nulla ostava al trasferimento nella classe della Essipova. Prokofiev studiò con la Essipova dall’autunno del 1909 alla primavera del 1914. Dicevo prima che Annette Essipova era una pianista celebre. In verità era qualcosa di più di una piani­ sta celebre. Nata nel 1851, aveva studiato nel conservatorio di S. Pietroburgo con Theodor Leschetizki e dopo essersi affer­ mata in patria aveva esordito a Londra nel 1874, a Parigi nel 1875, a New York (con ben sette programmi di recital, due dei quali interamente dedicati a Chopin) nel 1876, a Vienna nel 1878, conquistando una fama internazionale solidissima. Nel 1880 aveva sposato il suo maestro, che era alle seconde nozze e che da due anni si era trasferito a Vienna per aprirvi una scuola privata, ne era diventata l’assistente, aveva sostenuto gli inizi della carriera di Paderewski eseguendone varie musiche e il Concerto, lavorato con molti allievi di Leschetizki, tra i quali il giovanissimo Arthur Schnabel. Nel 1892 la coppia era approdata al divorzio e Annette era rientrata a S. Pietroburgo, occupando una cattedra di pianoforte nel conservatorio. Non si era risposata (Leschetizki, maggiore di lei di ventun'anni, sa­ rebbe convolato a nozze altre due volte ancora) e a poco a poco aveva abbandonato la carriera concertistica, votandosi all'inse­ gnamento. 36

Per molti anni il concertismo pianistico femminile si era retto su un solo nome, quello di Clara Schumann. Ma nell’ul­ timo trentennio del secolo si era imposto un intero quartetto femminile, un quartetto formato dalla Essipova, da Sophie Menter (nata nel 1846), da Teresa Carreno (nata nel 1853) e da Vera Timanova (nata nel 1855). Paderewski dice che la Essi­ pova « era molto femminile nel suo modo di suonare e poteva eseguire mirabilmente i piccoli pezzi poetici. Era una donna in­ telligente e attraente, e inoltre la sua era una personalità simpa­ tica, cosa che la avvantaggiava molto sul podio concertistico ». Il critico svizzero R. Aloys Mooser, che visse a S. Pietroburgo dal 1896 al 1909 e a cui la Essipova stava antipatica, parla delle «vibrazioni cristalline», dei «mormorii poetici e conturbanti», delle « sfumature diafane di cui questa brillante virtuosa si com­ piaceva quando traduceva [in suoni] i Notturni, i Valzer e le Ma­ zurche di Chopin di cui - la verità obbliga a riconoscerlo - era l’interprete penetrante». Un curioso parere di Hans von Bùlow ci viene riferito da José Vianna da Motta: «Io credo che Ma­ dame Essipov sia un grande virtuoso, ma come musicista - ed egli enfatizzò ognuna delle parole seguenti - è uno dei maggiori mostri che io abbia mai conosciuto ». Le cronache giornalistiche del tempo sono però piene di inni laudatori per le virtù di An­ nette. Che, come le sue colleghe che ho prima citato, era oltre­ tutto una bella donna (« Ci furono parecchie Signora Leschetizki», scrive Paderewski, «tutte musicali e tutte incantevoli»), A cinquantotto anni Annette Essipova aveva lasciato da qualche parte la sua antica venustà. Molto appesantita nel fi­ sico, sembrava una matrioska, vestiva in modo trasandato e si era tagliati i capelli così corti da mettere in evidenza la testa massiccia. Come insegnante, ovviamente, era autoritaria. «Dap­ prima andammo perfettamente d’accordo», ricorda Prokofiev. « Ma ben presto cominciarono i contrasti. Il metodo pedagogico della Essipova era di tentar di adattare tutti ad un modello fisso. Si trattava effettivamente di un modello complesso e se il temperamento dell’allievo coincideva con esso i risultati erano 37

eccellenti. Ma se le capitava un allievo con una individualità autonoma la Essipova, invece di aiutarlo a svilupparla, faceva quanto poteva per eliminarla. Per di più, per me era molto dif­ ficile di non suonare come mi veniva, e i Mozart, gli Schubert, gli Chopin sui quali lei insisteva non mi erano del tutto conge­ niali. A quel tempo ero troppo assorbito nella ricerca di un lin­ guaggio armonico nuovo per capire come qualcuno fosse inte­ ressato alle semplici armonie di Mozart ». Dal canto suo la Essi­ pova scrisse di Prokofiev, come giudizio conclusivo alla fine dell’anno accademico: «Non ha assimilato il mio metodo che parzialmente. Ha molto talento, ma piuttosto allo stato grezzo». Sarebbe secondo me sbagliato concludere che Prokofiev era un genio e che la Essipova era una miope didatta incapace di vedersela con un genio. Il concetto di «metodo» non va in­ teso, come in genere si fa oggi, in riferimento alla tecnica, ma nel senso molto più vasto che aveva nell’ottocento: metodo come sistema didattico globale che investe, oltre alla tecnica, la qualità del suono e le sue mutazioni timbriche, il fraseggio, la concezione del tempo e dell’agogica, il significato dell’armonia, il pedale, il calcolo dei punti culminanti, la accentuazione e la declamazione, insomma tutto il processo dell’interpretazione in­ tesa come arte. Per di più bisogna tener conto del valore che ancora all’inizio del Novecento si attribuiva alle tradizioni (un po’ come oggi si venerano la tradizioni nell’arte culinaria). La Essipova era stata allieva e assistente di un grande maestro come Leschetizki, che aveva studiato con Carl Czerny, autore di un monumentale e intelligentissimo e sottilissimo Metodo e allievo a sua volta di Beethoven. Di Beethoven1. La Essipova non poteva evidentemente ammettere che Prokofiev suonasse Beethoven « come gli veniva » senza per lo meno confrontarsi con ciò che di Beethoven era pervenuto alla Essipova stessa per li rami. Prokofiev parla però solo del primo impatto con il «metodo» della Essipova, la Essipova dà un giudizio su Proko­ fiev dopo averlo avuto in classe per un anno. Non conosciamo i 38

suoi giudizi degli anni successivi e non abbiamo l’elenco delle composizioni che fece studiare all’allievo recalcitrante. Ma io ri­ tengo che Prokofiev, dato il carattere piuttosto bisbetico che or­ mai gli conosciamo, non sarebbe rimasto nella classe della Essi­ pova per cinque anni se non avesse verificato di star traendo vantaggi dalla permanenza. Le composizioni pianistiche scritte da Prokofiev tra il 1909 e il 1914 sono la dimostrazione di una «presa di possesso» del pianoforte che ha del prodigioso, ed io ritengo che questo risul­ tato venisse ottenuto grazie al repertorio che la Essipova fece studiare all’allievo e al suo modo di affrontarlo. Nel 1914 Pro­ kofiev era pronto a scommettere sul pianoforte più di quanto non avesse scommesso nel 1909 sulla composizione e più di quanto scommetteva sulla direzione d’orchestra. Una certa esperienza come direttore se l’era fatta: nei saggi del conservatorio: aveva diretto concerti per pianoforte di Weber, Liszt, Saint-Saèns e Ciaikovsky, i concerti per violino di Beethoven e Brahms, composizioni sinfoniche di Haydn, Beethoven {Settima Sinfonia), Schubert, Glazunov, Rubinstein, Dargominski, Karlowicz, Shaposhnikov, Prokofiev {Sogni op. 6 e Schizzo autunnale op. 8), e il secondo e il quarto atto dell’Aida. Il 6 aprile 1914 ottenne il diploma dirigendo una rappresentazione studentesca delle Nozze di Figaro. Archiviato il corso di direzione restava il pianoforte. « Mi importava ben poco dei voti mediocri che figuravano nel mio diploma di composizione», scrive Prokofiev. Ma quando si trattò di affrontare il diploma di pianoforte «l’ambizione si im­ padronì di me, e così decisi con totale impegno di farmi attri­ buire la più alta ricompensa», cioè di vincere il Premio Rubin­ stein, consistente in un pianoforte da concerto marca Schròder assegnato al migliore tra i candidati che si presentavano annual­ mente all’esame di diploma. Devo aprire una parentesi per chiarire un punto su cui spesso si equivoca. Il Premio Anton Rubinstein, annuale ed aperto solo agli allievi del conservatorio di S. Pietroburgo, era 39

ben altra cosa rispetto al Concorso Anton Rubinstein, di piano­ forte e di composizione per pianoforte, che si svolgeva ogni cin­ que anni e che era aperto a tutti i pianisti, di qualsiasi naziona­ lità, di età compresa fra i ventuno e i venticinque anni. Nel 1910 Prokofiev, diciannovenne, non aveva potuto prendervi parte (nella sezione di pianoforte aveva vinto il tedesco Alfred Hoehn e si era segnalato Arthur Rubinstein, nella sezione di composizione aveva vinto lo svizzero Emil Frey). Nel 1915, quando Prokofiev sarebbe stato in età per partecipare, il con­ corso venne sospeso a causa della guerra (e non fu mai più ri­ preso). Il Premio Anton Rubinstein prevedeva prove preliminari durante l’anno accademico e la finale in maggio. Il programma della finale consisteva in una fuga di Bach, un concerto e, facol­ tativo, un grande pezzo romantico. Prokofiev, invece di sce­ gliere come di norma una fuga del Clavicembalo ben temperato, andò a pescare un brano delTArte della fuga, e come pezzo ro­ mantico presentò la spettacolare ouverture del Tannhauser di Wagner trascritta da Liszt. E il concerto? Il regolamento lasciava la più ampia libertà di scelta ma richiedeva che una settimana prima dell’esame ve­ nissero consegnate venti copie della partitura per uso della giu­ ria. Prokofiev attuò un piano diabolico: « Mentre non sarei stato in grado di competere con successo nell’esecuzione di un concerto classico, c’era una possibilità che il mio [concerto] po­ tesse impressionare gli esaminatori per la novità della sua tec­ nica; semplicemente, essi non sarebbero stati capaci di valutare se stavo suonando bene o no! D’altro canto, se non avessi vinto la sconfitta sarebbe stata meno mortificante perché nessuno avrebbe saputo se avevo perduto perché il concerto era cattivo o perché la mia esecuzione era insufficiente». C’era da rispet­ tare la clausola della pubblicazione. E nel tempo canonico Pro­ kofiev consegnò venti copie del suo Concerto op. 10, appena stampate dall’editore Jurgenson di Mosca. 40

Era una vera e propria sfida alla giuria. Il Concerto, di cui parleremo più avanti, venne eseguito il 5 maggio da Prokofiev con accompagnamento di pianoforte. Ma «quando apparvi sulla pedana vidi aprirsi la mia partitura su venti paia di ginoc­ chia, spettacolo indimenticabile per un esordiente che ha ap­ pena pubblicato le sue prime opere». La giuria discusse a lungo e accanitamente, mentre Prokofiev giocava tranquilla­ mente a scacchi con la sua più quotata concorrente, Nadia Golubovskaja, «allieva di Liapunov, pianista molto fine e intelli­ gente». Violentemente contrari a Prokofiev erano il direttore Glazunov, la cui antica benevolenza si era un poco alla volta squagliata completamente, e poi Liapunov, rispettato autore di musiche per pianoforte, e Nicolai Dubassov, la cui autorevo­ lezza derivava dal fatto di aver vinto nel 1890 il Concorso An­ ton Rubinstein, allora alla sua prima edizione (il vincitore della sezione di composizione era stato Ferruccio Busoni). La Essi­ pova combattè come una leonessa per il suo campioncino e tra­ scinò dalla sua parte la maggioranza: un furibondo Glazunov, a cui competeva in quanto direttore del conservatorio, dovette annunciare l’esito, cosa che fece, dice Prokofiev, «in un modo vago e incomprensibile». L’11 maggio il Concerto n. 1 fu ese­ guito da Prokofiev, nel saggio finale dei diplomati, con l’orche­ stra degli allievi diretta da Cerepnin. E fu un trionfo. Tre mesi più tardi, il 18 agosto, moriva a sessantatré anni la fata dai ca­ pelli turchini Annette Essipova.

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IL LABORATORIO Da Beethoven fino a Shostakovic la numerazione delle opere ha un significato preciso: l’autore assegna il numero d’o­ pera a ciò che, per così dire, consegna non solo al pubblico ma alla Storia. Orbene, dieci dei primi venti numeri del catalogo di Prokofiev hanno come protagonista il pianoforte. Ciò significa, come nei casi di Beethoven, di Schumann, di Brahms e di altri, che lo stile di Prokofiev si forma sul pianoforte, che il piano­ forte è il laboratorio sperimentale in cui egli mette a punto, con la immediata verifica sonora, la componenti del suo linguaggio, del suo stile, della sua poetica. Nel 1914 Prokofiev pubblicò la sua op. 12, Dieci Pezzi. Si tratta di una raccolta di composizioni scritte in un lungo arco di tempo, dal 1906 al 1912: una raccolta non organica, che pro­ prio per questo motivo ci permette di scoprire, messi un po alla rinfusa, atteggiamenti poetici molto diversificati. Ecco così ap­ parire la componente neobarocca dello stile di Prokofiev {Ga­ votte, Rigaudon, Caprice, Allemande), la componente neoroman­ tica (il famoso Prelude per pianoforte o arpa, lo Scherzo), la componente «grottesca» {Marche, Scherzo Humoristique, poi trascritto per quattro fagotti), e la componente simbolista {Ma­ zurca, Legende), con le sue quarte e le sue quinte e i suoi ac­ cordi paralleli. Gli aspetti neobarocchi, notissimi, garantirono a Prokofiev il successo a partire dalla Gavotta della Sinfonia classica. Gli aspetti neoromantici nell’arte del giovane Prokofiev non ven­ 42

nero in genere colti dai contemporanei, inclini piuttosto a bol­ lare il Nostro come iconoclasta e modernista ad oltranza. La ce­ lebre Suggestione diabolica (sarebbe però meglio tradurre Sugge­ stion con Ossessione) op. 4 n. 4, troppo spesso eseguita isolatamente, viene però dopo il Ricordo, lo Slancio e la Disperazione*. un seguito di pezzi - ordinato secondo una logica narrativa che non sarebbe dispiaciuto a Schumann e ai tanti Schumanniani di quarantanni prima (parlo di poetica, si capisce, non di linguaggio). E schumanniana è Top. 3 con i suoi quattro pezzi intitolati Favola, Scherzo, Marcia, Apparizione. Del tutto prokofieviani sono invece il Concerto op. 10 e la Toccata op. 11. Prokofieviani, innanzitutto, per quanto riguarda la sonorità. Prokofiev padroneggiava benissimo la scrittura vir­ tuosistica romantica, segnatamente quella di Liszt. In fondo, egli era un contemporaneo di Rachmaninov, di Medtner, di Bortkiewicz, e in fondo era un pianista « russo », non francese o tedesco. Però le sue caratteristiche più peculiari si staccano net­ tamente dalla « scuola » e dalla tradizione russa, nella quale tro­ vano un aggancio solo nel Concerto n. 3 di Ciaikovsky. Per quanto si può capire dalle descrizioni di chi lo vide suonare sembra che Prokofiev, molto alto di statura (sfiorava i due metri) e con braccia lunghissime, agisse soprattutto con avambraccio e dita e poco o nulla con braccio e spalla, e cioè che agisse preferibilmente dall’articolazione del gomito. Da qui la sua predilezione per il suono «percussivo», che doveva riu­ scirgli, a parte le sue scelte di natura estetica, più istintivo e spontaneo. Dire suono percussivo, naturalmente, significa usare una metafora, perché nel pianoforte il suono è sempre prodotto da una corda percossa. In realtà, per quanto riguarda Prokofiev (o Bartók), si dovrebbe dire «tasto percosso», tasto sbilanciato mediante un forte impulso e non accompagnato durante la di­ scesa. Lo studio della vibrazione dell’asta del martelletto e dello schiacciamento del rivestimento in feltro del martelletto stesso aspetta ancora chi voglia affrontarlo scientificamente. Empirica­ 43

mente sappiamo tuttavia che il tasto percosso raggiunge rapida­ mente la velocità massima di movimento e poi decelera, mentre l’accelerazione del tasto accompagnato è progressiva e quasi istantanea è la sua decelerazione. Empiricamente sappiamo inol­ tre che i due modi di trattare il tasto ottengono effetti sonori diversi (bisogna anche considerare il fatto che la percussione comporta un rumore dovuto all’urto del dito contro la superfi­ cie del tasto e che i rumori della meccanica sono diversi nell’un caso e nell’altro). Suono percussivo, forte transistore d’attacco, una tastiera - come dire? - che lampeggia, un suono aguzzo che disegna per punti e linee e non per volumi, un suono « neo­ classico» che regge bene la trasparenza della scrittura a due voci, con o senza raddoppi, e che regge altrettanto bene le più complesse combinazioni polifoniche. Di solito il pianista-compositore dell’ottocento sceglieva lo studio come manifestazione di una sua personale concezione del pianoforte. Così si erano ad esempio comportati Chopin, Liszt, Henselt. E riferendoci all’area e all’epoca culturale in cui Prokofiev muove i primi passi possiamo notare che Scriabin... rispetta la tradizione creando nel 1894, con gli Studi op. 8, il manifesto del suo pianismo, mentre lo stile pianistico di Rach­ maninov si definisce solo nei Momenti musicali op. 16; Szyma­ nowski compone gli Studi op. 4 fra il 1900 e il 1901, e Stravin­ sky, che in realtà non è pianista, scrive gli Studi op. 7 nel 1908 (non vorrei fare dello psicologismo, ma non posso escludere che con gli Studi op. 2 Prokofiev intendesse... dare una lezione al non-pianista Stravinsky; la rivalità con Stravinsky, di cui avremo occasione di parlare più avanti, sarebbe del resto stata una costante nella vita di Prokofiev). I Quattro Studi op. 2 di Prokofiev (1909) impiegano invece una scrittura in gran parte tradizionale, cosa che non limita in verità la loro qualità este­ tica, già straordinaria nel terzo pezzo. Tuttavia il Nostro non impiega molto tempo per creare una scrittura pianistica che, sebbene ricca di agganci con il passato, è tuttavia inconfondibil­ mente sua, inconfondibilmente personale, proprio perché ri­ 44

spetto al recente passato, tutto teso nella ricerca del suono paravocalistico, innova il concetto stesso di suono. Il Concerto op. 10 (1911-12) è un piccolo gioiello di costru­ zione architettonica e di continuità discorsiva. Prokofiev parte dall’idea di sintetizzare in un movimento continuato i quattro tempi della sonata, prendendo come punti di partenza il Con­ certo n. 1 di Liszt e il prediletto Concerto op. 30 di Rimski-Kor­ sakov, ma soprattutto la Sonata in si minore di Liszt. Lo schema formale si snoda con introduzione, esposizione di due temi principali, intermezzo (tempo lento della sonata), sviluppo (scherzo), riesposizione e coda. Lo schema è nettamente lisztiano. Prokofiev sa però calcolare esattamente le sue forze, le sue forze di giovane compositore: rispetto alla Sonata di Liszt il Concerto op. 10 dura circa la metà ed è costruito con un nu­ mero maggiore di temi e con un lavoro di trasformazione tema­ tica più elementare. Ma Prokofiev scrisse il Concerto quando aveva vent’anni, Liszt scrisse la Sonata a quarantadue anni. Pro­ kofiev evita dunque il pericolo del voler fare troppo in grande, del velleitarismo e della gonfiezza retorica in cui era invece ca­ duto Eugène d’Albert, allievo di Liszt, nel Concerto op. 2 scritto a vent’anni e tanto ricco di idee quanto immaturo ri­ spetto alle ambizioni. Prokofiev è padrone del suo materiale, è padrone della forma e sa come condurre il discorso con attica concisione: straordinario, in un ventenne. La Toccata op. 11 (1912) divenne in breve tempo celebre e venne valutata, insieme con VAllegro barbaro di Bartók (1911), come il manifesto di un nuovo pianismo, del pianismo del No­ vecento, e anche, in senso poetico, come la musica della « civiltà delle macchine». In verità, se di civiltà delle macchine si tratta si dovrebbe citare, prima della Toccata, lo Studio in do minore op. 2 n. 3, in cui si può sentire, come nel Pacific 231 di Honeg­ ger (1923), il lento mettersi in moto della locomotiva. Prokofiev prospetta una derivazione della sua dalla Toccata op. 7 di Schu­ mann, « forse per la profonda impressione che questo pezzo de­ stò in me la prima volta che lo udii». Ma questa derivazione 43

sembra a me del tutto indiretta e limitata al solo aspetto «motorico» della Toccata di Schumann, che formalmente è un primo tempo di sonata mentre la Toccata di Prokofiev è mono­ tematica. Altrettanto probabile potrebbe essere la derivazione dalla Toccata op. 92 di Czerny o dallo Studio op. 26 n. 2 di Ru­ binstein che Prokofiev aveva eseguito in un concerto di studenti il 5 dicembre 1908 o da qualsiasi altro studio a moto perpetuo. La differenza sostanziale che separa la poetica della Toccata op. 11 da quella di tutti i suoi possibili modelli risiede secondo me nel fatto che Prokofiev adopera il modo minore invece del modo maggiore. Tutto quello che di luminoso e di gioioso si trova nelle toccate di Czerny e di Schumann e nello studio di Rubinstein diventa oscuro e angoscioso nella Toccata di Proko­ fiev, e anche la conclusione in modo maggiore perde qualsiasi significato catartico perché il tema sull’accordo di re minore viene sì trasferito in maggiore ma distorto, con la modificazione di un intervallo (fa diesis-si bemolle invece di fa diesis-la) che lo rende, da angoscioso che era, orrorifico. La «civiltà delle macchine» viene qui celebrata? E viene celebrata nello Studio op. 2 n. 3? Forse. Ma se sì, si tratta di una celebrazione in ne­ gativo: una condanna, non un’esaltazione.

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PRIMI PASSI DEL LIBERO ARTISTA Tra il 1909, quando si diplomava in composizione, e il 1914, quando si diplomava in direzione d’orchestra e in piano­ forte, Prokofiev era un allievo del conservatorio di S. Pietro­ burgo che cominciava a muoversi nella professione ma senza immergervisi dentro. Di norma il giovane musicista si diplo­ mava prima in pianoforte e poi in composizione, e dopo il di­ ploma in composizione si buttava alla ricerca del successo. Il cursus studiorum di Prokofiev è invece atipico e gli anni tra il 1909 e il 1914 sono quelli in cui, paradossalmente, il composi­ tore si forma sotto la guida di due interpreti, la Essipova e Cerepnin, e di se stesso. Il 31 dicembre 1908 Prokofiev aveva suonato per la prima volta per un pubblico che non era quello familiare e studente­ sco del conservatorio: aveva eseguito, nelle Serate di Musica Contemporanea dei suoi amici Karatygin e Nurok Alfred, Sette Pezzi per pianoforte, cioè sette degli otto pezzi che avrebbe poi distribuito nelle opere 3 e 4, ed aveva ottenuto una bella recen­ sione di Karatygin (firmata con uno pseudonimo), in cui si par­ lava di lui come di un artista della «scuola più d’avanguardia». Il suo primo concerto fuori da S. Pietroburgo ebbe luogo a Mosca il 6 marzo 1910 {Sonata op. 1, Studi op. 2); il 10 aprile 1911 tornò alle Serate di Musica Contemporanea con i suoi Studi op. 2 e i Pezzi op. 3, e con i Drei Klavierstucke op. 11 di Schonberg. 47

Come si vede, la sua attività di concertista era del tutto epi­ sodica. E anche come compositore, nei due anni dopo il di­ ploma, fu poco attivo: due brevi pezzi per orchestra {Sogni op. 6 e Schizzo autunnale op. 8), le Due Liriche op. 7 per coro fem­ minile e orchestra su testi di Balmont, i Due Canti op. 9 per canto e pianoforte su testi di Balmont e di Apuchtin. Interes­ sante il lucido commento di Prokofiev sui pezzi per orchestra: Sogni è « un tributo al mio entusiasmo per Scriabin e specialmente per la sua Terza Sinfonia », e la « cupezza dello Schizzo autunnale « deriva da « alcune opere di Rachmaninov, soprat­ tutto L’isola dei morti e la Seconda Sinfonia». Interessante an­ che il commento di Leonid Sabaneiev quando, nell’estate del 1911, i due pezzi per orchestra di Prokofiev furono eseguiti al Circolo Sokol di Mosca: «Ho l’impressione che tutto il moder­ nismo di Prokofiev sia cucito con un filo grosso, perché il suo animo non ha nulla di moderno, non possiede quell’affinamento sentimentale, quei nervi scoperti che trovano sfogo nell’estetica della dissonanza». Il testo della prima lirica dell’op. 9 basta del resto da solo a farci capire come Prokofiev fosse preso in quel momento dalla poetica del simbolismo: Ci sono altri pianeti, In cui i venti melodiosi sono più dolci, In cui il cielo è più pallido, In cui i colori si mescolano in un flusso e riflusso carezzante e ridente.

Se si leggono le composizioni di Prokofiev dall’op. 1 all’op. 9 si deve dire che Sabaneiev aveva ragione e che Karatygin aveva torto. Il giovane Prokofiev poteva scandalizzare Glazunov e Lya­ dov, ma nella pentola della musica russa stava bollendo ben al­ tro che la fantasia finlandese del primo e Kikimora del secondo. Bolliva ad esempio - e chiedo scusa per il bisticcio verbale - il Poema del fuoco di Scriabin, che Kussevitzki avrebbe diretto il 15 marzo 1911 e di cui Prokofiev non fa parola nell’autobiogra­ fia. Prokofiev e Miaskovsky avevano ammirato incondizionata­ 48

mente, di Scriabin, la Terza Sinfonia (Poema divino). Il Poema dell"estasi li aveva lasciati a tutta prima perplessi: Ci eravamo aspettato (per così dire) un passo in avanti rispetto al Poema divino, che conoscevamo benissimo e che ci piaceva. Ma sia il materiale armonico che il materiale tematico [del Poema dell’e­ stasi], nonché la condotta delle parti nella scrittura contrappunti­ stica erano completamente nuovi. In realtà, Scriabin stava tentando di trovare nuovi fondamenti per l'armonia. I principi che egli scopriva erano molto interessanti, ma per la loro complessità erano come un sasso legato al collo di Scria­ bin che rendeva impacciata la sua creatività in merito alla melodia e (specialmente) al movimento delle parti. Tuttavia il Poema del­ l’estasi era probabilmente il suo lavoro più riuscito, perché in esso tutti gli elementi del suo modo di comporre erano evidentemente equilibrati. Ma alla prima audizione era difficile immaginare quel che egli stava tentando di fare. In febbraio [in gennaio, in realtà] il Poema fu nuovamente ese­ guito nella Sala delle Colonne, sotto la direzione di Blumenfeld. Mentre Miaskovsky ed io eravamo usciti dopo la prima esecuzione [...] perplessi e chiedendoci dove la sua creatività lo stava chia­ mando, dopo la seconda esecuzione [...], quando l'orchestrazione di Scriabin, nuova nelle sue linee portanti, si era rivelata a noi in tutto il respiro della sua sonorità, uscimmo esclamando « Che opera geniale». Ma più tardi, quando la freddezza intellettuale di certi « voli » di Scriabin divenne evidente, questa opinione dovette essere ridimensionata.

Dopo il Poema divino, dunque, Scriabin si era messo su una strada nella quale Prokofiev non si sentiva di seguirlo. Né lo impressionava Stravinsky, di lui più anziano di nove anni. In una delle Serate di Musica Contemporanea Stravinsky e Proko­ fiev suonano a quattro mani Pintroduzione (PPTUccello di fuoco. Stravinsky dice al pubblico che la riduzione pianistica non può veramente sostituire P effetto dell’orchestra. Prokofiev, che non pratica lo sport di tenere a freno la lingua, sussurra che manca 49

sì l’orchestra, ma che «manca anche la musica, e il poco che ce n’è è preso da Sadko [di Rimski-Korsakov] ». La maligna bou­ tade fa infuriare Stravinsky e i due non si parlano per alcuni anni. Nel 1913, quando ascoltò il Petruska, Prokofiev ne ap­ prezzò la vivacità e la strumentazione ma nell’insieme lo valutò come un «fallimento musicale». Doveva esserci di mezzo uno zinzino di invidia... Oltre a Scriabin e a Stravinsky bollivano nel pentolone della musica russa anche Vladimir Rebikov, nato nel 1866, che sperimentava nuove armonie in un modo diverso da quello di Scriabin, e Nicolai Roslavets, nato nel 1881, che seguendo una sua propria via sarebbe arrivato a soluzioni linguistiche vicine a quelle dello Schonberg atonale, mentre cominciava ad agitarsi Ivan Wyschnegradsky, nato nel 1893, che partendo da Scriabin sarebbe approdato ai microintervalli. Bolliva anche Rachmaninov, nella pentola. Prokofiev, come abbiamo visto, era rimasto impressionato dall’Iso/# dei morti e dalla Seconda Sinfonia, e ammirava il Concerto n. 2 ma, mentre gli piaceva il Rachmaninov melodista - «Mi sembrava che nella musica di Rachmaninov ci fossero certe curve melodiche intera­ mente sue che erano straordinariamente belle » - era del parere che mancasse in Rachmaninov la ricerca del nuovo e che le stesse belle melodie difettassero di espansione. Del capolavoro di Rachmaninov, la cantata Le campane op. 35 su testo di Poe tradotto da Balmont (1913), non si fa cenno nell’autobiografia. Miaskovsky, riferisce Prokofiev, gli disse una volta di aver con­ templato una cartolina con la fotografia di Rachmaninov e di averla guardata e guardata, «incapace di decidere se la sua fac­ cia fosse quella di un genio o di un criminale». Sembra che Prokofiev fosse d’accordo con l’amico. Anche con Rachmani­ nov, detto per inciso, Prokofiev trovò il modo di guastare i rap­ porti per una sciocchezza. Nel 1915 Rachmaninov eseguì a S. Pietroburgo un recital interamente dedicato a Scriabin, scom­ parso da poco. Gli «scriabinisti» duri e puri ritenevano che Rachmaninov fosse incapace di eseguire comme il faut la musica 50

del loro idolo e perciò c’erano stati bollori e polemiche prima che il concerto avesse luogo. Prokofiev, sentito il recital, si recò nel camerino per complimentarsi con Rachmaninov: «Alla fin fine, Sergej Vasilievic», disse, «avete suonato molto bene». «Voi pensavate che io potessi suonar male?», fu la gelida rispo­ sta. E Rachmaninov voltò le spalle all’incauto Prokofiev. Se non si riconosceva in nessuno dei contemporanei russi (tranne l’amico Miaskovsky, che proseguiva una sua carriera tranquilla ed ancora oscura), Prokofiev non legava spiritualmente con nessuno dei contemporanei stranieri. Non gli piaceva Strauss (aveva letto molto per tempo la Salome, e l’aveva but­ tata via), non gli piaceva Debussy, che conobbe nel 1912 e al quale fece sentire la sua - simbolista - Legende op. 12 n. 6, non gli piaceva Schonberg, la sua ammirazione per Reger era svanita molto presto, non conosceva Mahler e non conosceva Bartók, conosceva poco Ravel, non era interessato a sperimenta­ zioni linguistiche troppo ardite, era strettamente legato - non nell’apparenza ma nella sostanza - alle tradizioni dell’Ottocento, era un indipendente che cercava la sua strada. E che la trovò: con il Concerto op. 10, la Toccata op. 11, l’opera Maddalena op. 13 e la Sonata n. 2 op. 14 Prokofiev si presentava alla Storia come personalità matura, come uno Chopin, come uno Schu­ mann, come un Brahms ventenni che dal passato avevano preso molto ma che non dovevano più nulla a nessuno.

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MATURITÀ

Il padre di Prokofiev, dopo anni di lontananza dalla fami­ glia e in pratica di separazione dalla moglie, raggiunge a S. Pie­ troburgo Maria e Sergej nel febbraio del 1910. Da tempo è ma­ lato di cancro al fegato e poco barrivo a S. Pietroburgo il suo stato si aggrava. Viene ricoverato in ospedale e all’inizio dell’e­ state viene operato due volte. Maria resta accanto al marito, Sergej va e viene da S. Pietroburgo: trascorre qualche giorno a Teriki, dove incontra la bella Leonida Glagoleva che vi passa le vacanze, è ospite a Pavlosk nella dacia degli Alpers e passeggia con la Vera dall’armonioso posteriore nel giardino inglese della cittadina. Visite casuali o visite mirate? Mah... Sergej Prokofiev padre spira il 3 agosto. Dopo la sepoltura Maria e Sergej si recano per l’ultima volta a Sontsovka, imbal­ lano ciò che desiderano tenere e, probabilmente, trovano con il proprietario della tenuta, diventata con il lavoro di Sergej padre un’azienda agricola modello, un accordo finanziario, una specie di postuma buonuscita che permette loro di traslocare in un ap­ partamento migliore, un appartamento, nota Prokofiev con pia­ cere, con portineria e stuoie sulle scale. Il 1911 trascorre tranquillamente per i Prokofiev, ma Sergej ritenta per l’ennesima volta l’opera lirica. Non così il 1912. Il 7 agosto Prokofiev esegue per la prima volta - e per la prima volta suona in pubblico con l’orchestra - il suo Concerto op. 10, a Mosca, e lo esegue di nuovo dopo pochi giorni a Pavlosk. 52

Nel 1912 nascono, oltre al Concerto, la Toccata, la Sonata n. 2 e la Ballata per violoncello e pianoforte op. 15. L’opera lirica in un atto è intitolata italianamente, perché la vicenda si svolge a Venezia nel XV secolo, Maddalena. Autore del testo è un barone Liven sotto cui si cela in realtà « una gio­ vane donna più graziosa che talentosa» (Prokofiev). Il libretto di Magda Gustavovna Livenorlova, o barone Liven che dir si voglia, come taglio scenico e come tipo di vicenda aveva un precedente nel teatro d’opera: Dona Fior di Niccolò van Westerhout (1896), ambientata a Venezia (la protagonista è moglie dell’ambasciatore spagnolo). Ma la truculenza della conclusione appartiene solo al barone Liven. Un atto, quattro scene. La bellissima Maddalena sta atten­ dendo, in un palazzo sul Canal Grande, l’arrivo del marito Ge­ naro (sic). All’esterno, canti di gondolieri. Due amanti, Geninea e Romeo, che passano beati in gondola sotto le finestre del pa­ lazzo, invitano Maddalena ad unirsi a loro, ma la donna rifiuta perché è ansiosa di rivedere il dilettissimo sposo. Gli amanti si allontanano e Maddalena filosofeggia poeticamente sul loro de­ stino: «Essi fluttuano, essi scivolano silenziosamente sulla su­ perficie specchiante nei raggi del sole di porpora carezzevole, come petali di una grande rosa profumata. E come quei petali la loro passione è passeggera». No comment. Giunge Genaro: grande, intensissimo, incandescente duetto d’amore con reci­ proci giuramenti di eterna fedeltà (negli occhi di Maddalena, dice la proprietaria dei medesimi, sono stampati quelli di Ge­ naro, e il suo nome è inciso sulle labbra di lei). Qualcuno bussa alla porta e Maddalena si nasconde dietro un tendaggio. Il qual­ cuno è un amico di Genaro, l’alchimista Stenio. Disperato, il povero Stenio, per la irreperibilità di una inebriante sconosciuta che per tre mesi era stata la sua amante ma che gli aveva detto: «Prendetemi, voglio essere vostra. Ma se mi chiedete chi sono il mio amore sparirà. Per voi devo restare un grande, eterno mi­ stero». Il grande, eterno mistero è acquattato dietro il trabal­ lante tendaggio che malauguratamente cade per un forte colpo 53

di vento. Genaro e Stenio vorrebbero uccidere all’istante la fe­ difraga che ha tradito entrambi, ma la diabolica Maddalena rie­ sce a metterli l’uno contro l’altro: duellano e si sbudellano vi­ cendevolmente, cadendo a terra stecchiti. La femme fatale sen­ tenzia, da quella inguaribile filosofa che è: «Il bene e il male hanno scelto la mia anima come dimora ». E rivolta ai cadaveri: «Chi di voi due era amato da Maddalena? Forse nessuno». Poi si affaccia alla finestra gridando ad accorruomo. Sipario. Intreccio truculento e inverosimile, e di significato simbo­ lico, se c’è, incertissimo. Prokofiev, che sperava di poter fare eseguire l’opera dagli allievi del conservatorio, la compose tutta durante l’estate in versione per canto e pianoforte e ne stru­ mentò la prima scena. Ma le parti vocali erano tremendamente impegnative e la benevolenza di Glazunov si era ormai tramu­ tata nel suo opposto: niente da fare. Né andarono a buon fine le trattative intavolate con vari teatri fino al 1918. Poi Prokofiev smarrì partitura e spartito, che vennero ritrovati solo negli anni settanta dal direttore d’orchestra inglese Edward Downes, il quale completò la strumentazione e diresse l’opera alla BBC il 25 marzo 1979. Maddalena è stata scelta da pochissimi teatri negli ultimi anni del XX secolo e nel primo scorcio del XXI, ma è stata pubblicata due volte in disco e può quindi essere re­ perita da chi vuole conoscere questo primo saggio maturo del teatro di Prokofiev: Saggio maturo, dico. Di opere liriche costruite su libretti sgangherati è piena la storia e nel parto del barone Liven biso­ gna, come sempre, fare una distinzione fra testo e drammatur­ gia. Prokofiev era affascinato dalla «mescolanza di conflitto, amore, tradimento e assassinio: tutto ciò poneva a un composi­ tore problemi nuovi». E in Maddalena come nel Gigante, non dimentichiamolo, l’incarnazione del Male è vittoriosa. La musica della prima scena dipinge molto efficacemente, se non il XV se­ colo come luogo storico, il mito decadentistico della Venezia ri­ nascimentale come specchio di passioni deliranti e di delitti ef­ ferati. Il personaggio di Maddalena, misto di bene e male o, 54

meglio, di innocenza e perversione, è delineato in modo com­ piuto e le atmosfere delle quattro scene - attesa sognante, tra­ volgente erotismo, ansiosa ricerca, odio mortale - trovano pre­ cise definizioni musicali. Anche qui, come nel Concerto op. 10, Prokofiev dimostra di saper misurare le sue forze e di saperle gestire sagacemente. Tuttavia Maddalena è una partitura incom­ piuta e la strumentazione del Downes per la seconda, terza e quarta scena, per quanto sapientemente costruita, manca della spontaneità e della freschezza che troviamo invece nella prima scena. Per questo motivo, credo, Maddalena ha avuto pochis­ sime esecuzioni. Ma nella evoluzione creativa di Prokofiev rap­ presenta secondo me un punto fermo, non un punto di pas­ saggio. Altro punto fermo è la Sonata n. 2 op. 14 del 1912. La scrittura pianistica del Concerto op. 10 è sostenuta e integrata dall’orchestra, quella della boccata op. 11 è monocroma, mentre la scrittura della Sonata fa fronte a situazioni espressive molto differenziate e persino opposte. Quando scrive la Sonata 2 Pro­ kofiev ha appena ventun’anni. E a ventun’anni uno solo dei suoi grandi predecessori, Chopin, era stato altrettanto geniale e altrettanto novativo. La strumentazione pianistica è lineare: niente broderies ro­ mantiche, niente agilità drammatica, pochi raddoppi, incroci delle mani che non raggiungono i vertici di difficoltà di Dome­ nico Scarlatti ma che gli si avvicinano molto. La maggior parti­ colarità di questa strumentazione risiede in una tecnica che era stata accuratamente investigata e sperimentata negli ultimi de­ cenni dell’ottocento, a partire dallo Studio op. 52 n. 2 di SaintSaèns pubblicato nel 1877: la capacità di differenziare dinami­ camente e timbricamente, e quindi di rendere chiaramente per­ cepibili due linee diverse affidate alla stessa mano (in Prokofiev, in genere, la destra; con la sinistra il Nostro è meno esigente). E su tutto ciò, come dire?, plana il suono «percussivo» di cui ho già parlato.

Il primo tempo della Sonata, in re minore, è una forma-so­ nata perfettamente individuabile anche al semplice ascolto: il primo tema (una piccola canzone A-B-A) è nettamente separato dal tema di transizione, oltretutto in tempo Tiù mosso, il se­ condo tema dolorosamente sognante (Tempo primo) non po­ trebbe essere... più secondo tema di com’è, tema «femminile» contrapposto al primo tema «maschile»; altrettanto differen­ ziato espressivamente è il brusco tema di conclusione. Lo svi­ luppo, molto ampio, è condotto magistralmente, dapprima con il secondo tema e il tema di conclusione, poi con la sovrapposi­ zione di elementi tematici diversi: sapienza contrappuntistica e strumentazione pianistica di una chiarezza abbagliante sono qui dispiegate, direi, con regale noncuranza. La riesposizione, ab­ breviata, è regolare, e la coda sul primo tema, sintetica e dura, conclude in modo perfetto una composizione che, rapportata all’età dell’autore, ci lascia sbalorditi. Notiamo ancora che Pro­ kofiev, romantico nella radice della sua creatività, non si vergo­ gna di usare qui didascalie tritamente tardoromantiche come tri­ stemente e dolce, oltre allo scherzando che rivela la sua inclina­ zione al grottesco. Grottesco-macabro che esplode nello Scherzo in la minore, feroce nella prima e nella terza parte, derisorio nella parte cen­ trale, molle e sensuale danza con andamento di gavotta. Il terzo tempo, in sol diesis minore, è cupo, ipocondriaco: due didasca­ lie - con tristezza e il basso tenebroso - ci sorprendono se pen­ siamo alla fama di lucido « modernista » che circondò Prokofiev ma non se ascoltiamo questa pagina con il cuore oppresso, ap­ punto, da una cosmica tristezza. Più volte si è accostato questo Andante al Vecchio castello dei Quadri di una esposizione di Mussorgski. La densità della scrittura è tuttavia in Prokofiev molto maggiore, e molto maggiore è l’impressione di desola­ zione che si riceve: qui appare secondo me chiaramente quel che Prokofiev aveva appreso da Rachmaninov. La costruzione formale è singolare: primo tema, secondo tema, variazione del primo tema, variazione del secondo tema. 56

Il primo tema del finale nasce, anche se la derivazione è molto sottile, dal primo tema del primo tempo, ed è sviluppato come una tarantella tragica. Il secondo tema è costruito su un elemento ritmico martellato e su un elemento melodico « sguaiato » che ricorda la canzoni popolari russe eseguite con la fisarmonica. Ma riappare - dolcissimo e molto espressivo - il secondo tema del primo tempo, prima esposto, poi distorto grottescamente. Lo sviluppo è un’altra dimostrazione della ma­ turità di Prokofiev come contrappuntista e come strumentatore per pianoforte. Terrificante un suono di campana - in un episo­ dio indicato con giocoso - che risuona più volte con una vio­ lenza estrema: alla faccia del giocoso! La riesposizione è rego­ lare ma viene variata nell’ultima parte con altri virtuosismi con­ trappuntistici. La citazione nel finale del secondo tema del primo tempo non può non essere legata ad una intenzione programmatica, e l’apparizione di Margherita nel Sabba Infernale del 'Pausi è la prima immagine che viene alla mente. Più che ad una specifica opera letteraria bisogna però far riferimento secondo me ad un mito, quello della fanciulla perseguitata e rapita... che in questo caso non viene liberata.: la «crudeltà» come segno distintivo della poetica del giovane Prokofiev non si smentisce.

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OCCASIONI MANCATE Nel 1913, prima di comporre Maddalena, Prokofiev si recò a Parigi, a Londra e in Svizzera per un viaggio-premio offertogli dalla madre, che lo accompagnò Salirono in treno a S. Pietro­ burgo, madre e figlio, il 12 giugno, ne discesero il 13 a Parigi e presero alloggio in una pensione del boulevard Malesherbes: « La vivacità dei francesi, il loro ritmo di vita, il loro livello di cultura generale sono affascinanti», scrisse Prokofiev al suo amico Miaskovsky. I due turisti visitarono coscienziosamente il Louvre, andarono a Versailles, assistettero alle rappresentazioni dei Balletti Russi di Diaghilev (Daphnis et Chloé da Ravel, Shéhérazade di Rimski-Korsakov, La Tragedie de Salomé di Florent Schmitt, Petruska di Stravinsky: l’opinione di Prokofiev sul Pe­ truska già la conosciamo), ma npn poterono vedere il Sacre du printemps, che pochi mesi prima aveva suscitato un memorabile scandalo. Dopo una settimana Prokofiev andò a Londra mentre la madre si recava a Royat per la cura delle acque, tornò a Pa­ rigi, vi si fermò per pochi giorni e partì a sua volta per Royat. Finita la cura, i due visitarono rapidamente la Svizzera e torna­ rono a S. Pietroburgo, poi Prokofiev passò per Mosca e con­ cluse le vacanze con un soggiorno a Gursuf, stazione di villeg­ giatura in Crimea sulle rive del Mar Nero. Gursuf era una località molto nota e molto frequentata da­ gli artisti già nell’ottocento. Mussorgski c’era capitato nel 1879 e aveva scritto due pezzi per pianoforte, Sulle coste meridionali della Crimea, il primo dei quali intitolato appunto Gursuf. Un posto molto chic, dunque, adatto ad un Prokofiev che in quel 58

tempo vestiva da elegantone e, dopo Parigi, si cospargeva di Guerlain. A Gursuf, poi, c’era un’esca piuttosto ghiotta che... Prima e durante i vari viaggi Prokofiev aveva composto il Concerto n. 2 op. 16 per pianoforte, il pezzo che dopo il suc­ cesso dell’anno precedente con il Concerto n. 1 era in pro­ gramma a Pavlosk per il 5 settembre. Tanto serrato, tanto attico era il Concerto n. 1, tanto ciceroniano, tanto debordante di alta oratoria era il Concerto n. 2. In verità noi non conosciamo la versione del 1913 perché Prokofiev smarrì la partitura quando nel 1918 si allontanò dalla Russia. La versione a noi nota, del 1923, è posteriore al Concerto n. 3, ed è quindi probabile che tra la prima versione e la versione definitiva non manchino dif­ ferenze anche rilevanti. Tuttavia l’ossatura del Concerto n. 2y che non venne di sicuro cambiata, ci dimostra come Prokofiev intendesse riallacciarsi alla grandiosità magniloquente del tardo romanticismo. Lasciamo dunque la parola a Prokofiev: Mi sembra che (fatta eccezione per gli ottimi e i pessimi) vi siano due tipi di concerto: nel primo tipo Fautore riesce a far collaborare lo strumento solista e l’orchestra) ma allora la parte solistica non è molto interessante per l’esecutore (Concerto di Rimski-Korsakov); nell’altro tipo la parte solistica è magnifica ma noi sentiamo l’or­ chestra come un di più (Concerti di Chopin). Il mio Primo Con­ certo era più vicino al primo tipo, il Secondo Concerto all’altro tipo.

Su un tenue sfondo orchestrale (con gli archi in sordina) il pianoforte espone un tema eroico e protervo a cui Prokofiev as­ segna una didascalia molto rara: narrante. Il pianoforte è una creatura sovrumana che domina superbamente la massa orche­ strale, la quale non è però affatto, come in Chopin, il supporto cortigiano del sovrano ma, anzi, lo costringe a dare la dimostra­ zione della sua superiorità. A un certo punto l’eroe spicca il volo per una Cadenza tra le più ardue che la storia conosca, una Cadenza in cui Prokofiev prescrive a ragione un con effetto 59

e poi, nel punto culminante, una colossale del tutto inconsueto, anzi, unico nella letteratura pianistica. Il carattere di questo primo tempo è veramente sorpren­ dente e suscita in noi un perché a cui non basta secondo me ri­ spondere «perché così è». Perché Prokofiev, a ventidue anni, costruisce un tale monumento di magniloquenza? L’unica rispo­ sta che io trovo riguarda l’indirizzo che Prokofiev intendeva forse dare alla sua carriera, una carriera che nel 1913 egli pro­ gettava senza ovviamente immaginare che dopo un anno sa­ rebbe scoppiato un conflitto talmente deflagrante da cambiare la faccia al mondo. Ho già attirato l’attenzione del lettore sul fatto che Proko­ fiev si diploma prima in composizione e poi in pianoforte, e che con il pianoforte ambisce a strappare in sede di esame sco­ lastico finale il massimo riconoscimento possibile. Secondo me egli puntava ad inserirsi, almeno inizialmente, nella « specializ­ zazione» del pianista-compositore, del pianista che, senza tra­ scurare del tutto le musiche del comune repertorio concerti­ stico, presentava soprattutto le sue composizioni. Ora, in questo settore dell’attività concertistica avevano operato e operavano a livello internazionale vari artisti, ma nel 1913 ce n’era uno, Rachmaninov, che superava tutti gli altri. Il Terzo Concerto di Rachmaninov, vecchio di soli quattro anni perché composto nel 1909, rappresentava il culmine supremo della grande oratoria romantica. Secondo me Prokofiev mirava a misurarsi con Rach­ maninov, e se con il Trimo Concerto vm sfidato una giuria, con il Secondo gettava il guanto in un terreno ben più vasto. Con il Concerto n. 2 Prokofiev tenne in effetti testa a Rach­ maninov, storicamente, senza «monetizzare» tuttavia il suo la­ voro con altre scritture. Si trattava ora di catturare Sergej Kussevitzki, direttore d’orchestra che, avendo sposato una ricchis­ sima ereditiera, aveva fondato un’orchestra, la allenava in modo esemplare e la tiranneggiava come un satrapo orientale. Kussevitzki aveva organizzato nel 1910 una tournée di diciannove concerti sulle rive del Volga: l’orchestra si spostava in battello, 60

fermandosi nelle città rivierasche, e alla tournée aveva parteci­ pato, come solista nel suo Concerto op. 20, Scriabin. Questa ini­ ziativa di Kussevitzki avrebbe potuto essere replicata con un al­ tro pianista-compositore? Forse, se... Nel dicembre del 1913 Kussevitzki invitò a S. Pietroburgo Debussy, al quale riservò un intero programma di musiche per orchestra. Una rivista musicale organizzò in onore dell’ospite francese un concerto di musica da camera a cui Prokofiev par­ tecipò con uno degli Studi op. 2 e, come già detto, con la Le­ gende op. 12 n. 6. Kussevitzki sapeva dunque chi era Prokofiev. Ma fino alla morte di Scriabin non guardò al di là del suo idolo e solo nel 1916, avendo acquistato la casa editrice Gutheil, di­ mostrò il suo apprezzamento per Prokofiev diventandone - fino al 1936! - l’editore esclusivo. Il 25 dicembre 1916 Kussevitzki aveva messo in programma, per un concerto a Mosca, la Suite scita, ma il richiamo alle armi di molti dei suoi musicisti mandò a monte l’esecuzione: Kussevitzki diresse così per la prima volta una composizione di Prokofiev solo nel 1921 (proprio la Suite scita}. Prima la guerra e poi la Rivoluzione misero dunque i ba­ stoni fra le ruote alla carriera di Prokofiev, e per di più il suo Concerto n. 2, «superato» dal n. 3, non divenne mai popolare e lui stesso lo eseguì raramente (il Concerto n. 2 di Rachmani­ nov fu del resto molto più popolare del n. 3 per almeno cin­ quantanni). Il Secondo Concerto è in quattro tempi. Dopo il grandioso primo tempo viene lo Scherzo, appartenente a quella linea «toccatistica o motoria » che Prokofiev indica come una delle lineebase del suo stile: per quanto originale nel linguaggio questo se­ condo tempo si riallaccia nettamente alla parte centrale del se­ condo tempo e ad un episodio del finale del Concerto n. 1 di Ciaikovsky, ed a noi fa un po’ l’effetto di essere, come dire?, gattopardesco. Nel terzo tempo, a modo di marcia, ritorna il virtuosismo eroico del primo tempo, virtuosismo che aumenta fino al delirio nel drammatico finale, Allegro tempestoso. 61

Alcuni commentatori hanno visto nel finale una premoni­ zione della guerra, altri lo hanno legato alla tragica morte del dedicatario, quel Maximilian Schmidthof che noi abbiamo già incontrato come partner delle passeggiate di Prokofiev con Vera Alpers. Lo Schmidthof si suicidò nel maggio del 1913 in Fin­ landia, in un bosco. Ma Prokofiev racconta di aver ricevuto, il 9, una cartolina dell’amico, che diceva: «Caro Sergej, ti comu­ nico l’ultima novità: mi sono tirato un colpo di pistola. Non rat­ tristarti, resta indifferente: onestamente, è tutto ciò che l’inci­ dente merita. Addio, Max. Le cause non sono importanti». Il corpo del suicida venne ritrovato alcune settimane dopo che Prokofiev aveva ricevuto la cartolina. Non sappiamo a quale stadio fosse giunta in maggio l’ideazione del Concerto e non possiamo dire se il carattere dell’ultimo tempo rifletta l’impres­ sione violentissima provata da Prokofiev quando ricevette l’ag­ ghiacciante cartolina, ma senza dubbio il procedere dei primi tre tempi non lasciava prevedere l’atmosfera tragica della con­ clusione, che ideologicamente non segue la tradizione del con­ certo romantico. Per dovere di cronaca bisogna dire che in una conversa­ zione con Harvey Sachs citata da David Nice la prima moglie di Prokofiev, Lina, accennò misteriosamente, ma senza affer­ mare nulla di preciso, al fatto che l’attrazione di Prokofiev verso Schmidthof poteva essere stata di natura omosessuale. Siccome Lina entrò nella vita di Prokofiev molti anni più tardi non si capisce su che cpsa basasse le sue supposizioni e sembra piuttosto che volesse rendere più eccitante il suo discorso intro­ ducendovi un argomento, per la sua generazione, « scabroso ». La prima esecuzione del Concerto n. 2 fu quello che si usa definire un «successo di scandalo»: fischi e proteste di una parte del pubblico, applausi e grida d’ammirazione di un’altra parte. La Gazzetta di S. Pietroburgo ci dà una colorita descri­ zione della serata: 62

Il giovane artista conclude il Concerto con una spietata combina­ zione cacofonica di ottoni. L'uditorio è scandalizzato. La maggio­ ranza fischia. Dopo un beffardo inchino, Prokofiev riprende il suo posto e suona un bis. L'uditorio fugge verso l'uscita gridando: «Al­ l'inferno questa musica futurista! Siamo venuti per divertirci. I no­ stri gatti, sui tetti, fanno musica migliore di questa! », mentre i pro­ gressisti, affascinati, tentano di sommergere le grida con: « Questa è l'opera di un genio!», «Che freschezza, che novità!», «Che tem­ peramento! Che originalità! ».

Chissà quanto c’è di vero in tutto ciò, chissà quanto c’è di amplificato. Ma per lo meno nella versione a noi nota il Con­ certo n. 2 non termina con una « spietata combinazione cacofo­ nica di ottoni», bensì con una riconoscibilissima cadenza piagale.

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ALL’OMBRA DELLE FANCIULLE IN FIORE (III ED ULTIMO) Gursuf, agosto 1913: ospite per tre settimane nella sontuosa villa dell’ingegner Mesherski, direttore della più grande fabbrica russa di locomotive, Prokofiev impara a giocare a tennis (a Lon­ dra ha acquistato una racchetta), fa gagliarde nuotate nel Mar Nero, gioca a bigliardo con un altro ospite, gioca a scacchi, guida calessi trainati da veloci cavalli tartari, studia il Concerto che deve eseguire a Pavlosk e aggiunge alle sue tante attività sportive il flirt', flirta con la figlia del padrone di casa, Nina, pit­ trice dilettante che adora i cubisti. I biografi non si soffermano molto su questo flirt, che fu anche più d’un flirt, di Sergej e Nina. Io mi baserò soprattutto su un breve articolo, poco noto, di Anna de Lozena, che di Nina Mesherskaja era stata compagna di scuola al liceo. La de Lozena ricorda le divertenti improvvisazioni di Prokofiev: Eg/z amava ritrarre, sulla tastiera, i tipi che frequentavano il salotto dei genitori della mia amica. Questi ritratti musicali avevano sem­ pre una marcata, palese punta di crudeltà; erano acri, geniali, pun­ genti caricature: ecco il signore che zoppica, quello che sospira senti­ mentale e lacrimoso, quello là in fondo presso la finestra con un naso troppo lungo per la sua piccola testa; ecco la signora che ha varcato la giovinezza ma ha serbato un modo di civettare che gli ospiti del salotto ben conoscono e al quale, fra di loro, a tratti am­ miccano, o queiraltra signora dalla penetrante e irrefrenabile loqua­ cità. E così, nell"affollato salotto di Ninoshka, nasceva la musica dei Sarcasmi, composti proprio in quegli anni (1912-1914) e anche 64

certi tratti delle Visions fugitives (mi pare ancora di sentire certe inflessioni schumanniane delinearsi sotto la mani del compositore) che Prokofiev avrebbe messo in carta più tardi dal 1915 al 1917.

«Inflessioni Schumanniane». Il lettore ricorda certamente che Prokofiev aveva improvvisato della musica mentre Nurok Alfred gli leggeva la «tela» di una pantomima che restò allo stato di progetto. Le parole della de Lozena ci aprono un altro e più preciso squarcio su un mondo in cui la musica nasceva anche dalla realtà quotidiana e da occasioni che la vita offriva alla fantasia dell’artista. Ma ci fanno inoltre venire in mente che un qualcosa di analogo lo troviamo nella biografia di Schu­ mann, il quale, da ragazzo nella natia Zwickau, mieteva tributi di ammirazione perché creava all’impronto dei ritrattini musicali ispirati alle persone del suo piccolo mondo. Interessante è anche, nelle parole della de Lozena, una breve analisi del carattere di Sergej che, come ormai ben sap­ piamo, era complesso e anche ricco di mascherature: Vivace, impertinente, audace (e ormai musicista di prima gran­ dezza) Serioja era in fondo un sentimentale; ma faceva di tutto per mascherare questo aspetto del suo temperamento. Strozzava sul na­ scere le effusioni di tenerezza, si ribellava e, in costante conflitto con se stesso, si rifugiava nell'ironia e nel sarcasmo. Quasi calvo sotto un velo di pochi capelli biondi, Serioja non era bello di volto e le sue fattezze lo facevano somigliare a un anatroccolo. Noi ami­ che di Ninoshka l'avevamo addirittura battezzato a un certo mo­ mento «il brutto anatroccolo di Nina». Ciò avvenne quando, a scuola, il nostro professore di tedesco [...] ci lesse la fiaba di Ander­ sen Il brutto anatroccolo, la ben nota storia dell'infelice animale che, dopo innumerevoli sofferenze e spaventi, alla fine si trasforma in cigno. Serioja, accettando l'epiteto che avevamo foggiato, soleva dire a Nina: «Sono il vostro brutto anatroccolo, ma verrà il giorno che, come il vero brutto anatroccolo, per virtù del mio genio musicale io mi trasformerò in un magnifico cigno».

Si era nel 1914 e la storia del brutto anatroccolo diede lo spunto al piccolo capolavoro che Prokofiev compose in quell'anno: Il brutto anatroccolo (da Andersen) per canto e pianoforte, dedicato a N.M. (Nina Mesherskaja). Ricordo di aver avuto una parte, se pur pic­ cola, nella nascita di quest'opera: conoscendo molto bene il tedesco ebbi I'incarico di tradurre in russo alcune parti del testo.

Il Brutto anatroccolo, op. 18, è uno dei lavori più delicati

ed intimi di Prokofiev, ed è anche per certi tratti il più vicino a Ravel, musicista per il quale Prokofiev nutriva una viva ammira­ zione, testimoniata da un breve articolo-necrologio del 1938, ma per il cui linguaggio non mostrò mai un vero interesse. C’è da chiedersi se Prokofiev conoscesse di Ravel le Histoires natu­ relies, composte nel 1906 e pubblicate nel 1907. Sembra a me probabile che le avesse lette e che da esse prendesse lo spunto per il suo... autoritratto. Il Brutto anatroccolo rappresenta co­ munque, quale che ne sia l’origine, un momento del tutto ati­ pico nel panorama della creatività di Prokofiev tra il 1911 e il 1914: è una specie di breve vacanza del suo spirito, in cui la malinconia prende il sopravvento e non scompare nemmeno nella conclusione - felice - della favola che, come subito notò acutamente Boris Asafiev, « non sottolinea il cambiamento nella visione del mondo del brutto anatroccolo quando si rende im­ provvisamente conto di essere un cigno». Proseguiamo con il racconto della de Lozena: L'amore tra Serioja e Ninoshka durava ormai felicemente e quasi clandestinamente da qualche anno. Ricordo di aver aiutato spesso la mia amica nella trasmissione di lettere e messaggi amorosi, nell'arrangiare piccoli quanto complicati sotterfugi per favorire fuggevoli incontri. Invero i nostri movimenti - per quanto fossimo ormai diciottenni - erano controllati molto da vicino dalle nostre gover­ nanti. Il giovane musicista non era considerato, dai genitori di Nina, un marito desiderabile: il suo livello sociale era meno elevato del loro e non gradivano certe ruvidezze del suo temperamento. Tuttavia nel 1914 acconsentirono al matrimonio. Serioja e Ni66

noshka divennero così ufficialmente fidanzati. Ricordo di essere stata invitata con pochi intimi al magnifico pranzo di fidanzamento in casa di Nina: da Mosca fu fatto arrivare per l'occasione del buo­ nissimo caviale che accompagnò, al posto del solito burro, la pizza rustica; gustammo il gelato e il semifreddo di pistacchio, cioccolato e vaniglia — come usava — con la forchetta... L'uso della forchetta per il gelato, ricordo, piaceva a Serioja «perché era una cosa pun­ gente». (Egli amava i sentimenti «pungenti», che «feriscono »). Ma non trascorse molto tempo, da quel giorno di festa, che av­ venne la tragedia. Il matrimonio doveva farsi entro il 1915. Al principio di quell'anno Diaghilev, che si trovava in Italia con la Compagnia dei Balletti Russi, invitò Prokofiev a raggiungerlo a Roma.

I biografi non prendono in genere per buona la notizia del fidanzamento e asseriscono invece che i genitori di Nina non s’erano accorti di nulla fino al febbraio del 1915. Ma ciò non ha molta importanza. Molto importante è invece rincontro con Diaghilev. Prokofiev, lo abbiamo visto, aveva assistito nel 1913 a Parigi alle rappresentazioni dei Balletti Russi. Nel 1914, dopo il felice esito del Premio Rubinstein, Maria Prokofieva offrì al figlio un viaggio-premio a Londra, che Sergej raggiunse via mare partendo da S. Pietroburgo, toccando Stoccolma, Copen­ hagen, Amburgo e Amsterdam e arrivando a destinazione il 22 giugno. Il viaggio-premio era anche un viaggio-d’affari o un viaggio-speranza perché a Londra c’erano Diaghilev e la sua compagnia. Prokofiev assistette al Gallo d'oro di Rimski-Korsakov (in forma di balletto) e ad altri spettacoli, tra cui la Leggenda di Giuseppe di Strauss e Narciso di Cerepnin: «Si trattò vera­ mente», dice Prokofiev, «di una stagione molto interessante: Scialiapin cantava, Richard Strauss dirigeva e fu eseguita molta musica nuova. Diaghilev stesso in frac e cilindro, monocolo e guanti bianchi, faceva spettacolo da solo ». 67

Il 3 luglio Prokofiev incontra Diaghilev e gli suona il suo Concerto n. 2, L’impresario, detto familiarmente Cincillà, dap­

prima pensa di trarne un balletto, poi cambia idea, poi rifiuta il progetto di un’opera dal Giocatore di Dostoievski, poi, avendo evidentemente in mente una nuova Sagra della primavera, consi­ glia a Prokofiev di scegliere per un balletto un argomento tratto dalle antiche leggende russe. Da Londra Prokofiev parte anche con una promessa del compositore inglese Granville Bantock, che ha conosciuto, con cui ha simpatizzato e che ha battuto in una partita a scacchi: Granville Bantock si interesserà - e nel mondo londinese egli è potente - per procurare in autunno a Prokofiev un’esecuzione del Secondo Concerto. Un appunta­ mento con il direttore d’orchestra Thomas Beecham va pur­ troppo a vuoto, ma la gita a Londra è stata positiva. Alla fine del mese Prokofiev torna a S. Pietroburgo, giusto nel momento in cui la Germania dichiara guerra alla Russia. Figlio unico di madre vedova, egli sfugge alla coscrizione, mentre Miaskovsky parte per il fronte. E Sergej va in vacanza presso i Mesherski. Prokofiev aveva scelto come soggetto del balletto un rac­ conto fantastico di ambientazione scita: Ala e Lolly. Il lavoro cominciò a prender forma ma procedette molto lentamente, tanto che Diaghilev, non ricevendo notizie rassicuranti, affidò a due suoi... plenipotenziari la missione di una verifica sul campo. I due scoprirono che Prokofiev aveva ultimato solo quella sciocchezzuola del Brutto anatroccolo e riferirono a Diaghilev, che convocò imperiosamente Prokofiev a Roma. E qui riprendiamo il racconto della de Lozena: [Prokofiev] pretese di sposare immediatamente Nina [che non vo­ leva lasciarlo partire] e di condurla con sé in viaggio di nozze a Roma. La Russia era ormai in piena guerra con la Germania; si prevedeva prossima l’entrata nel conflitto dellLtalia; lo stesso viag­ gio alla volta di Roma si presentava complicato e avventuroso: at­ traverso la Romania e la Bulgaria. I genitori della ragazza si oppo­ sero al precipitato matrimonio e al folle viaggio di nozze nell’ignoto di un’Europa, di mese in mese, sempre più coinvolta nella guerra. 68

Per contro Prokofiev pose ai genitori e alla povera Ninoshka un preciso aut-aut: «o subito o mai più». La ragazza, infatuata d'a­ more, acconsentì al progetto di fuga da casa, di nozze segrete e fi­ nalmente di viaggio in Italia. Ma quando Nina si accinse alla fuga per raggiungere Serioja in una pasticceria poco lontana dalla sua abitazione, i genitori la fecero acciuffare a pochi passi dalla porta di casa dal loro maestoso ed energico portiere. E fu posta sotto chiave, in casa, senza possibilità di comunicare con l'esterno ed avvertire Serioja del contrattempo. Alcuni giorni dopo, riuscendo a raggiun­ gere il telefono, chiamò il fidanzato per spiegare piangendo quel che era accaduto. Il «sentimentale» Serioja gelidamente rispose (queste parole esatte mi riferì qualche giorno dopo la mia amica): «Mia cara, quando la merce non è pronta all'ora indicata non si acquista più... ». Così finì quel lungo grande amore.

Il susseguente commento della de Lozena è un po’, anzi, più che un po’ melodrammatico, ma vai la pena di leggerlo, a conclusione di questa romantico-romanzesca e assai poco prokofieviana vicenda: Per quel che mi fu dato di conoscere del temperamento di Proko­ fiev, oso pensare che egli abbia compiuto allora un gesto di autopu­ nizione sentimentale: di fronte all'alternativa tra una grande, estrema felicità e la difficile e avventurosa carriera dell'arte rinun­ ciò freddamente all'amore.

Nina e Sergej-Alberich si rividero fuggevolmente a Parigi, circa dieci anni più tardi, e con la sua ex-fidanzata, al contrario di quel che avvenne con Vera Alpers, Prokofiev non mantenne più nessun legame affettivo.

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LA GUERRA Arrivato a Roma dopo un viaggio avventuroso, Prokofiev potè constatare che l’accorto Cincillà aveva mantenuto la pro­ messa di finanziare il lungo trasferimento dalla Russia e il sog­ giorno italiano ottenendo per il suo pupillo una scrittura dall Ac­ cademia di S. Cecilia: il 7 marzo 1915 Prokofiev suonò il Con­ certo n. 2 sotto la direzione di Bernardino Molinari ottenendo, insperatamente, un grande successo. Cito il ricordo di un ascol­ tatore, Rodolfo Caporali, che in realtà si riferiscie probabilmente alla seconda visita a Roma di Prokofiev, nel 1926, ma che metto anche in relazione con quanto dicevo a proposito del significato del Concerto n. 2 di Prokofiev rispetto al Terzo di Rachmaninov: «La ricchezza, la potenza e il colore del pianismo di Rachmani­ nov, che avevo ammirato nei suoi dischi, stranamente manca­ rono quasi del tutto nell’autointerpretazione del suo Terzo Con­ certo e il successo fu tiepido. Prokofiev invece ci colpì subito tutti con quel suo personalissimo pianismo luminoso, martellato, potente, in un giuoco di braccio ancora ignoto da noi e con la sua musica così «nuova», cui l’apporto di linfe barbariche dava una aggressività e una freschezza affascinanti ». Diaghilev, avendo ormai capito che non poteva esserci una... Sagra della primavera clonata, liquidò in un battibaleno Ala e Lolly ma fece firmare a Prokofiev un contratto per un al­ tro balletto, che fu poi II buffone, tratto dalle favole russe rac­ colte da Afanasiev. Insieme con Prokofiev era stato convocato Stravinsky, residente allora in Svizzera. Racconta Prokofiev: Io avevo incontrato Stravinsky a S. Pietroburgo due anni prima. L'introduzione ^//'Uccello di fuoco, che aveva eseguito al pianoforte, 70

sofferse della mancanza dell’orchestra; gli dissi che mancava anche la musica, e la poca che cera derivava da Sadko. A quel tempo Stravin­ sky si offese [era umanamente possibile il contrario?] e Diaghilev temeva ora uno scontro con noi. Ma Stravinsky non parve serbare rancore; lodò il mio Secondo Concerto e suonammo insieme una ri­ duzione a quattro mani di Petruska per i futuristi. Di tutti i futuristi quello che m’impressionò di più fu Marinetti, che parlava un francese svelto, volubile, cui riusciva quasi impossibile tener dietro. Ma ciò rappresentava qualcosa di affatto nuovo per me e trovai molto eccitante frequentare un personaggio così straordinariamente «progressista», sebbene le sue idee non mi toccassero... Scrissi allora un articolo per Muzika sugli strumenti musicali, specie i più sonori, per i quali si battevano i futuristi.

Prokofiev aveva incontrato i futuristi a Milano e aveva visi­ tato Napoli, Sorrento e Pompei, abbinando i doveri e i piaceri. Tornò in Russia con il contratto in tasca e con un curioso me­ mento di Diaghilev: « Le sue opinioni erano taglienti quanto pa­ radossali. Mi rimproverava di essere tenero verso troppo diverse specie di musica: “In arte dovete sapere odiare”, diceva, “altri­ menti la vostra perderà ogni carattere originale”. “Ma questo conduce certamente a una limitazione”, obbiettai. “Il cannone colpisce lontano perché non spreca il fuoco”, mi rispose». Durante Pestate Prokofiev lavorò al Buffone ma riprese an­ che in mano gli abbozzi di Ala e Lolly e scoprì che salvo pochi passaggi la musica meritava di essere salvata. Rividi qualcosa qua e là e il risultato fu la Suite scita in quattro movi­ menti, basata su un materiale che approssimativamente segue lo stesso ordine del balletto. Ormai sapevo abbastanza di strumenta­ zione per poter scrivere per grande orchestra, e avevo qualche idea mia che desideravo mettere alla prova. I primi due movimenti mi riuscirono facili; gli altri due mi dettero un po’ da fare, ma riusci­ rono molto più interessanti nel contesto. La levata del sole finale mi costò quasi altrettanto tempo che metà della suite e Siloti m’in­ vitò a dirigerla nella stessa stagione».

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Scriabin, era morto il 27 aprile, a quarantadue anni, e la sua scomparsa lasciava libero il posto - come dire? - del capofila della modernità in Russia. Il «naturale» aspirante alla succes­ sione era Stravinsky, ma Prokofiev, pare a me, decise di met­ tersi in lizza con lui con il Buffone, la Suite scita e l’opera 11 gio­ catore, alla quale cominciò a lavorare nell’autunno: Incoraggiato dall’interesse acceso dalla Suite scita scelsi un linguaggio ultramoderno per il Giocatore. «La sua immaginazione creativa non ha limiti ed è impossibile prevedere dove lo porterà » aveva scritto Muzika per sostenermi. « Una catarsi di risate paniche per i canoni tramontanti dell’idioma artistico», farneticò Karatygin. «Stu­ pendo!», giudicò Igor Glebov, ma un errore di stampa fece sì che la parola «stupendo » suonasse come «stupido ». Entrando una volta nella mia stanza mentre stavo lavorando al Giocatore, mia madre esclamò disperata: « Ti rendi conto realmente di quello che stai pe­ stando sul nostro pianoforte? ». Ragion per cui non ci parlammo per due giorni. In effetti, l’impegno di ottenere un linguaggio potente trovò la sua espressione fondamentalmente nella forma delle emo­ zioni forti o burlesche. Nello stesso tempo seppi dare in termini di musica l’immagine russa della nonna (babulenka; quando l’azione che ha luogo all’estero descrive l’improvviso arrivo di una vecchia nonna russa da Mosca). Devo peraltro ammettere la grande parte fatta ai remplissage modernistici, implicanti solo delle difficoltà gratuite senza aggiungere nulla, salvo il fatto di complicare la scrittura vocale.

Non è qui il luogo per esaminare la prima versione del Gioca­ tore, che Gennadi Rodzhdestvensky fece conoscere nel 2001 al Bolshoi di Mosca, e della versione del 1927 parlerò più avanti. Mi interessava però di far notare come Prokofiev confessasse di aver forzato un po’ la sua poetica verso una scrittura espressionistica. Il buffone (Chout nell’originale), terminato in versione per pianoforte nell’estate del 1915, fu strumentato solo nel 1920 e andò in scena a Parigi il 17 maggio 1921. Per la «prima» Dia­ ghilev chiese a Prokofiev qualche ritocco e qualche aggiunta,

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ma la musica mantiene interamente i caratteri del 1915. La sto­ ria è paradossale e surreale. Un buffone invita a casa sua sette buffoni, e quando arri­ vano finge di infuriarsi con la moglie e di ucciderla; poi la resu­ scita toccandola con una frusta miracolosa. E così vende sette fruste ai sette buffoni creduloni. I quali, tornati a casa, ucci­ dono le loro mogli e... non riescono a resuscitarle con il tocco della magica frusta. Infuriati come tori i sette tornano dal buf­ fone per farlo fuori, ma trovano solo una cuoca, che in realtà è il buffone travestito. La cuoca sembra brava ed è piacente, i sette la rapiscono per tenerla al loro servizio. I sette buffoni hanno sette figlie. Al momento in cui queste sono in età da ma­ rito arriva un ricco mercante che vuole scegliere una sposa. Na­ turalmente... sceglie la cuoca, e la porta in camera da letto. Imbarazzatissima, la sposa chiede di uscire per un momento per­ ché non si sente bene e il mercante la cala con un lenzuolo dalla finestra; quando la ritira su trova al posto della sposa una capra. Chiama i sette buffoni, che tentano con sortilegi e parole magiche di ritrasformare la capra in sposa, ma la scuotono tal­ mente da farla morire. La si seppellisce. Reclamando la restitu­ zione della sua cuoca, arriva il buffone con sette soldati. I sette buffoni gli offrono la capra morta e il buffone li fa arrestare mentre il mercante si salva sborsando cento rubli. Il buffone e la sua compagna buffona si sollazzano con i cento rubli, e i sette soldati con le sette figlie dei sette buffoni. La musica, spiritosa e leggera ma «graffiarne» (com’è ovvio in Prokofiev), impiega melodie ispirate al folclore russo, è con­ dotta con mano sicurissima e dipinge un quadro sonoro perfet­ tamente in accordo con la surreale vicenda. La Suite scita è la partitura di Prokofiev che più si avvicina alle partiture del «periodo russo» di Stravinsky: ottavino, tre flauti (il terzo suona anche il flauto contralto), tre oboi e corno inglese, tre clarinetti (il terzo suona anche il clarinetto piccolo) e clarinetto basso, tre fagotti e controfagotto, otto corni, quat­ tro trombe (la terza suona anche la tromba piccola in mi be­

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molle) e tromba in fa, quattro tromboni, tuba bassa, timpani, un mare di percussioni, campanelli, silofono, celesta, pianoforte, due arpe, archi. E facile immaginare come il Prokofiev ormai maturo, e che ha sicuramente studiato sia il Petruska che il Sa­ cre, manovra questo esercito: un’orgia faune di sonorità. La prima parte della suite è intitolata L'adorazione di Vélèss e di Ala ed ha per argomento una cerimonia di invocazione al dio del sole Vélèss con sacrifici alla figlia di questi, Ala; nella se­ conda parte, Il dio nemico e la danza degli spiriti, compaiono l’antagonista Cuzborg e il suo seguito, sette mostri pagani usciti dal sottosuolo che eseguono con lui una danza selvaggia; la terza parte, La notte, evoca il tentativo del dio nemico di rapire Ala; nella quarta parte, La partenza gloriosa di Lolly e il corteo del Sole, l’eroe scita, il gigante Lolly, combatte con le forze del male perdendo la vita ma protraendo la battaglia fino a che il sorgere dell’astro diurno disperde le creature della notte. Pro­ kofiev, più che appassionarsi alla vicenda, simbolista ma dram­ maturgicamente inconsistente, sfruttò le occasioni che lo scena­ rio barbarico offriva alla sua fantasia musicale, ma non tentò mai, anche quando la sua fama glielo avrebbe permesso, di ri­ proporre il balletto che Diaghilev aveva rifiutato. Con Ala e Lolly egli scrisse musica che voltava la schiena al Sacre e al Pe­ truska, che aveva qualche contatto con ^Uccello di fuoco e che semmai, per lo meno nei primi tre tempi, guardava indietro: in­ dietro, verso l’orientalismo di Balakirev e di Rimski-Korsakov e magari verso la recente Terza Sinfonia (1909-11) di Glière, sot­ totitolata Ilya lAurometz, nome di un leggendario guerriero. La... metabolizzazione di questo stile ormai datato avviene però nel quarto tempo, quello su cui Prokofiev dovette accanitamente lavorare e che tanto spiacque a Glazunov da indurlo a uscire polemicamente dalla sala: nel Corteo del Sole si delinea e si forma uno stile che, mentre sfugge all’abbraccio mortale del Sacre, inaugura una nuova forma di « russismo », quella che ri­ troveremo ancora nelle musiche per il film Alexandr Nevsky. 74

Prokofiev lavorò al Giocatore per gran parte del 1916, a S. Pietroburgo e poi a Kuokkala in Finlandia, nella proprietà dei genitori di un suo amico, il poeta Boris Verin (nome d’arte di Boris Bashkirov), del quale aveva frequentato nell’inverno i «lu­ nedì » incontrandovi poeti, filosofi, letterati, pittori e musicisti. Il Verin, poeta simbolista di cui Prokofiev musicò la lirica Credimi inclusa nei Cinque Poemi op. 23 per canto e pianoforte era, sia detto per inciso, lo zio materno di Nikita Magaloff, il quale ri­ cordava bene l’arrivo di Prokofiev a Kuokkala perché un tavolo della veranda adibito al sacro rito del tè pomeridiano era stato sgombrato e messo a disposizione del Maestro che vi aveva col­ locato la partitura del Giocatore. E il bambino di quattro anni che era allora Magaloff era rimasto enormemente impressionato dal potere di questo gigante a cui era concesso di sequestrare un tavolo così importante nella vita sociale della famiglia. Dell’indirizzo poetico del Giocatore ho detto prima, citando le parole stesse di Prokofiev. L’opera, grazie alle pressioni di Si­ loti e di Albert Coates, direttore del Teatro Marinski, fu inserita nel cartellone della stagione 1916-17 e fu messa in prova. La re­ gia era stata affidata a Vsevolod Meyerhold. Ma le solite vocife­ razioni parlate e scritte - « Non ci resta che compiangere gli ab­ bonati che, volenti o nolenti, saranno costretti ad ascoltare que­ st’opera futurista», scrisse la Gazzetta di S. Pietroburgo -, non­ ché l’aggravarsi della situazione politico-militare fecero fallire il progetto. Prokofiev potè solo consolarsi con la partecipazione ad un torneo di scacchi in cui il futuro campione del mondo Alekin giocò ventinove partite contro altrettanti avversari, vin­ cendone ventotto e pareggiandone una. Lascio al lettore di im­ maginare chi fu l’invitto. Il quale non era nuovo a queste pro­ dezze perché il 16 maggio 1914, dopo essere stato sconfitto il 14, aveva vinto la sua partita contro un altro futuro campione del mondo, il cubano Capablanca di cui, come di Alekin, di­ venne amico. Un terzo campione del mondo, Botvinnik, ci dice: «Giocai a scacchi con Prokofiev alcune volte. Giocò una partita vigorosa e decisa. Il suo metodo ordinario era di lanciare l’at­ 75

tacco e di condurlo con abilità e ingegnosità. Ovviamente non era interessato alle tattiche difensive». Insomma, se non fosse stato musicista una qualifica di Gran Maestro se la sarebbe con­ quistata.

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RIVOLUZIONE ED ESPATRIO «La rivoluzione di febbraio che mi trovò a S. Pietro­ burgo», scrive Prokofiev, «fu accolta a braccia aperte da me e dai circoli a cui ero più legato. Ero nelle vie di S. Pietroburgo mentre la lotta incalzava, al riparo degli angoli delle case quando gli spari s’avvicinavano troppo. Il n. 19 delle Visions fu­ gitives composte a quel tempo riflette parzialmente le mie im­ pressioni; il sentimento della folla, piuttosto che l’intima essenza della Rivoluzione ». La « rivoluzione di febbraio », cioè il passaggio dalla auto­ crazia zarista al governo liberale presieduto da Kerenski, è ciò che Prokofiev accoglie «a braccia aperte», mentre più proble­ matica sarà per lui la rivoluzione proletaria. Non potendo viag­ giare per concerti all’estero e potendo muoversi poco anche in Russia, nel 1917 Prokofiev componeva a tutto spiano: finiva il Concerto n. 1 op. 19 per violino, iniziato nel 1916, finiva le Vi­ sions fugitives op. 22 per pianoforte, iniziate nel 1915, compo­ neva gli splendidi Cinque Canti op. 27 per canto e pianoforte su testi della Achmatova, la Sonata n. 3 op. 28 e la n. 4 op. 29 per pianoforte, iniziava il Concerto n. 3 op. 26 per pianoforte e conduceva a termine la Sinfonia classica op. 25. Sentiamo Pro­ kofiev: L'estate del 1917 la trascorsi solo in campagna, vicino a S. Pietro­ burgo, leggendo Kant e lavorando moltissimo. Di proposito non avevo portato con me il pianoforte, perché desideravo di provare a comporre senza di esso. Sino a quell'epoca avevo sempre composto al pianoforte, ma avevo pure notato che il materiale tematico com­

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posto facendone a meno era spesso migliore; bizzarro dapprima quando lo provavo sul pianoforte, appena lo suonavo più volte tutto finiva con l’andare a posto. Di qui nacque la tentazione di scrivere un’intera sinfonia senza ricorrere a questo strumento nella convinzione che l’orchestra potesse così suonare più naturale. Di qui anche l’origine del progetto di una sinfonia nello stile di Haydn; giacché avendo molto approfondito la tecnica haydniana con Cerepnin, sapevo di muovermi su di un terreno sufficientemente familiare da potermi avventurare nel difficile viaggio senza il pianoforte. Viaggio che intrapresi inoltre nella convinzione che se Haydn fosse vissuto ai nostri giorni avrebbe serbato parte del suo vecchio stile, pur accettando nello stesso tempo qualcosa di nuovo. Questo è il tipo di sinfonia che volli scrivere: una sinfonia nello stile classico, come infatti la chiamai quando mi accorsi che l’idea stava prendendo corpo; innanzitutto perché il titolo Sinfonia clas­ sica era il più semplice, poi per la malizia di «gettare nello scompi­ glio le oche» con esso e infine nella segreta speranza di attestare di essere nel giusto se la sinfonia si fosse realmente affermata come pezzo di musica classica. La composi a mente durante le mie passeggiate in campagna. [...] parte della Sinfonia classica, la Gavotta, era stata scritta anterior­ mente, indi, nel 1916, avevo abbozzato il primo e il secondo movi­ mento. Ma parecchio restava da fare quando tornai ad occuparmene nell’estate del 1917; cancellai la prima versione del finale e ne scrissi una del tutto nuova, impegnandomi tra l’altro ad evitare tutti gli accordi minori.

La Sinfonia classica fece scorrere fiumi d’inchiostro. Come la si deve collocare storicamente?, ci si chiedeva. Come ultimo prodotto del neoclassicismo dell’Ottocento, di quel filone che parte dalla Holberg Suite di Grieg, o come preannuncio del neoclassicismo degli anni venti del Novecento, e quindi di Stra­ vinsky? La discussione su questi punti avveniva quando la di­ stinzione di classico e barocco non era ancora entrata nel lin­ guaggio critico comune, e quindi quando si parlava generica­ mente di « classico » per indicare Bach e Haydn, Hàndel e Mo­ 73

zart. Ma il «neoclassicismo» dell’ottocento è in realtà neoba­ rocco e il neoclassicismo degli anni venti del Novecento oscilla ancora fra classico e barocco. Della Sinfonia classica di Prokofiev si potrebbe dire che na­ sce come neobarocca, perché neobarocco è il suo terzo tempo, la Gavotta che venne scritta per prima, e che si sviluppa come neoclassica, perché neoclassici sono gli altri tre tempi, con il primo e il quarto in forma-sonata. Ma in un’intervista del 4 feb­ braio 1930 Prokofiev dichiarò: «Non voglio niente di meglio, niente di più flessibile o di più complesso della forma-sonata, che contiene tutto il necessario per i miei intenti strutturali». L’adozione della forma-sonata non basta dunque per definire il neoclassicismo di Prokofiev, e infatti l’abbiamo ritrovata sia nella Prima che nella Seconda Sonata per pianoforte, che non sono assolutamente neoclassiche nel linguaggio. Il neoclassici­ smo della Sinfonia classica riguarda invece altri due aspetti es­ senziali della composizione, inediti in Prokofiev fino al 1917: la strumentazione orchestrale e l’armonia. Dopo il gigantismo « stravinskiano » o « straussiano » della Suite scita l’orchestra della Sinfonia classica è formata da due flauti, due oboi, due cla­ rinetti, due fagotti, due corni, due trombe, timpani e archi; l’ar­ monia è molto semplificata rispetto al più recente passato e la sua stretta base tonale appare più evidente, con riconoscibilis­ sime cadenze perfette e con aree tonali definite con abbagliante chiarezza. A me sembra che la poetica di Prokofiev, nella Sinfo­ nia classica ma anche più in generale, sia assimilabile al concetto di «Giovane Classicità» di Busoni («il dominio, il vaglio e lo sfruttamento di tutte le conquiste di esperienze precedenti; il racchiuderle in forme solide e belle»), che sia riallacciabile alla Lustspielouverture op. 38 composta nel 1904 e che preceda di poco, sempre di Busoni, il Concertino op. 48 per clarinetto (1918) e il Divertimento op. 52 per flauto (1922). A questa poe­ tica, un po’ edulcorata per la mancanza dell’ironia, possono es­ sere anche accostate certe pagine di Ermanno Wolf-Ferrari come la Sinfonia da camera op. 8 (1901), l’ouverture delle

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Donne curiose (1903) e le varie opere goldoniane di inizio se­ colo, nonché la Lustspielouverture op. 120 di Max Reger

(1911). Le novità di poetica e di scrittura non compaiono però solo, in realtà, nella Sinfonia classica, ma anche nel Concerto n. 1 op. 19 per violino. Tre tempi, poco più di venti minuti. L’ul­ timo concerto violinistico entrato in repertorio prima di questo di Prokofiev, il Concerto op. 47 di Sibelius (1903-1905) era anch’esso in tre tempi ma durava una volta e mezza in più ed era romanticamente turgido, mentre il Primo di Prokofiev è elegan­ tissimo ed intimo nell’espressione. Anche le esigenze virtuosisti­ che del Primo di Prokofiev, per quanto alte, non sono parago­ nabili con quelle del contemporaneo Primo Concerto, op. 35, di Karol Szymanowski. Prokofiev rifiuta dunque sia il grande pa­ thos (significativa è in questo senso anche la mancanza del tempo lento: il secondo tempo del suo Concerto è uno Scherzo), sia il gigantismo architettonico e il virtuosismo « sovrumano » del Concerto n. 2 per pianoforte. Insomma, Prokofiev va qui ol­ tre gli ultimi resti della poetica di Scriabin e di Rachmaninov, e con un altro capolavoro del 1918 liquida il «russismo» di Stra­ vinsky, dal quale era stato tentato per un momento. Sto riferen­ domi alla cantata per tenore, coro misto e orchestra Sette, sono sette, op. 30, su testo di Balmont. « Cantata » è il termine tecnico con cui si usa designare, del resto giustamente, questo lavoro, tanto breve di durata (sette minuti) quanto intenso di espressione ed esigente sul piano della strumentazione (quattro flauti, quattro oboi, quattro clari­ netti, quattro fagotti, otto corni, quattro trombe, quattro trom­ boni, due tube, timpani, percussioni, due arpe, celesta, archi, un coro adeguato a questa grande orchestra). Prokofiev prefe­ riva il sottotitolo « Invocazione caldea per orchestra, coro e te­ nore». La fonte del testo di Balmont sarebbe - uso il condizio­ nale perché non si ha certezza di nulla - una preghiera caldea, incisa in caratteri cuneiformi sul muro di un tempio assiro. Vera o no che sia la notizia, non c’è dubbio però che il testo di Bal80

mont la rende verosimile. Per quanto riguarda Prokofiev, la scelta di questo testo viene spiegata con un riferimento alla si­ tuazione politica della Russia nel 1917: «Gli avvenimenti rivolu­ zionari che travagliavano la Russia si ripercuotevano in me in modo inconscio ed esigevano una manifestazione musicale. Non sapendo come fare mi ispirai a temi antichi che erano sopravvis­ suti all’usura dei secoli». «Avvenimenti rivoluzionari». Che non erano più quelli di febbraio ma quelli che culminarono in ottobre con la presa del potere da parte dei bolscevichi (detto per inciso, la data in cui i bolscevichi occuparono la fortezza di Pietro e Paolo, dando la spallata definitiva al governo Kerenski, è il 24 ottobre secondo il calendario giuliano e il 6 novembre secondo il calendario gre­ goriano, ma nessuna forza al mondo potrà far diventare Rivolu­ zione di novembre la Rivoluzione d'ottobre). Gli avvenimenti ri­ voluzionari, se trovarono una rispondenza - e non abbiamo mo­ tivo per dubitarne - nell’animo di Prokofiev, non provocarono però nessuna sua scelta di campo pubblica. Dopo aver trascorso l’estate del 1917 vicino a S. Pietroburgo, in autunno egli rag­ giunse la madre in una stazione termale del Caucaso, Kislo­ vodsk, che era in mano ai controrivoluzionari, e lì si fermò fino al marzo del 1918, terminando la Sinfonia classica, la Sonata n. 3 e la n. 4 per pianoforte, la cantata Sette, sono sette, e suo­ nando con la locale orchestra il suo Concerto n. 1, cosa che gli permise di intascare qualche utile rublo. Leggiamo il testo di Sette, sono sette'.

Non conoscono il bene, Non conoscono la vergogna, Non saprebbero ascoltare le preghiere Perché esse non giungono mai alle loro orecchie, Rimpiccioliscono il cielo e la terra, Chiudono paesi interi come si chiude una porta, Macinano i popoli come i popoli stessi Macinano il grano, Sono sette! Sono sette! Sono sette! 81

Sette come i sette buffoni, le sette figlie dei sette buffoni, i sette soldati che si sollazzano con le sette figlie dei sette buf­ foni. Ma anche come i sette mostri del dio Cuzbog. E i sette spiriti caldei ispirano una partitura in cui il grottesco è comple­ tamente bandito e il terrore ancestrale domina da un capo al­ l’altro. «[...] a Kislovodsk», dice Prokofiev, «lavorai alla se­ conda fase di Sette, sono sette, ma questa risultò più difficile; trovai degli ostacoli nell’armonia, poiché a quel tempo comin­ ciavo a pensare che dovevo produrre idee, non solo musica ». Idee? Questa affermazione, se presa in senso assoluto, può far discutere molto. La autobiografia fu scritta e in parte pub­ blicata nel periodo della dittatura staliniana e Prokofiev sapeva bene che ogni sua frase sarebbe stata passata al setaccio della «correttezza» politica. Sembra evidente che con il suo com­ mento alla cantata egli volesse dimostrare o adombrare una sua adesione alla Rivoluzione. Ma l’adesione alla Rivoluzione avrebbe dovuto muovere speranze, non terrore. Maxim Gorki scriveva, da vero rivoluzionario, che «il nuovo secolo sarà in ve­ rità il secolo di un rinnovamento spirituale e finalmente bellezza e giustizia vinceranno». Prokofiev era ideologicamente tiepido, anzi, era freddo, e se l’arte può parlare in vece dell’artista direi che Sette, sono sette denuncia non l’adesione ma lo smarri­ mento, per non dire la visione profetica del tragico futuro di fronte alla Rivoluzione d’ottobre. Sentiamo del resto Prokofiev stesso: Dopo aver terminato la partitura della cantata rimasi senza niente da fare e il tempo mi pesò assai. Non avevo la minima idea della por­ tata e del significato della rivoluzione d'ottobre, né mi accadde mai di pensare che come altri cittadini potesse tornarmi utile. Quindi l'i­ dea di andare in America si radicò nella mia mente. [...] L'estate prima avevo conosciuto un americano di nome McCormick [...], un grande industriale di macchine agricole [...]. Egli si interessava alla musica e mi chiese di dargli un elenco del meglio prodotto dalla no­ stra musica nuova, nonché una copia della partitura della Suite scita fatta a sue spese. Io me ne rallegrai con lui e McCormick nel salu82

tarmi aveva detto « se mai desideraste di venire in America, telegra­ fatemi; ho delle conoscenze nel mondo musicale».

Kislovodsk era stata nel frattempo occupata dai rivoluzio­ nari. Munito di un salvacondotto del Soviet Operaio e Conta­ dino della città, Prokofiev partì in treno per Mosca, impiegando otto giorni per raggiungerla. A Mosca ottenne un congruo anti­ cipo dal suo editore - che, come sappiamo, era Kussevitzki -, incontrò Maiakovsky, che aveva conosciuto Fanno prima e con il quale aveva stretto amicizia, e arrivò sano e salvo a S. Pietro­ burgo. Il 15 e il 17 aprile tenne due recital eseguendo la Sonata n. 3 e la n. 4 e le Visions fugitives, il 21 diresse la prima esecu­ zione della Sinfonia classica. Erano presenti Gorki e il Commissario per l’istruzione Po­ polare Mikhail Lunacharski. Presentato pochi giorni dopo da Gorki al Commissario, Prokofiev gli chiese il permesso per l’e­ spatrio. Il colloquio, come lo riferisce Prokofiev, fu di una con­ cisione tacitiana: «“Ho lavorato piuttosto duro” gli dissi “e vor­ rei respirare una boccata d’aria fresca”. “Vi sembra che qui oggi non ce ne sia abbastanza?”. “Sì, ma vorrei l’aria naturale del mare e degli oceani”. Lunacharski rifletté per qualche minuto, poi disse gaiamente. “Voi siete un rivoluzionario in musica, noi nella vita. Dobbiamo lavorare insieme. Ma se vi occorre andare in America io non ostacolerò la vostra via”. Così persi l’occa­ sione di partecipare alla vita della nuova Russia dalla sua nascita. Ricevetti un passaporto per viaggi all’estero corredato dalla di­ chiarazione che partivo per una missione artistica e per ragioni di salute, senza limitazioni circa la durata. Inutilmente un saggio amico mi ammonì: “State fuggendo la storia, e la storia non ve lo perdonerà mai”. Senza farvi alcun caso il 7 maggio 1918 par­ tii con l’intenzione di tornare entro pochi mesi». Se avessimo avuto qualche dubbio sul fatto che scrivendo l’autobiografia Prokofiev teneva d’occhio le possibili reazioni del governo sovietico, l’ultima parte di quel che abbiamo letto or ora fugherebbe ogni nostra perplessità. Prokofiev, comun­ 83

que, si allontanò dalla Russia con tutte le carte in regola e potè poi rientrare ed uscire dall’Unione Sovietica a suo piacimento, evitando la scomoda posizione dell’emigrato e dell’apolide. I « pochi mesi » si allungarono fino a quasi dieci anni, ma non di­ rei che la profezia del « saggio amico » si avverasse. Essendo insicura e pericolosa la via verso Occidente, Pro­ kofiev parte con la Transiberiana - con l’ultimo treno utile, poi il servizio verrà sospeso! - il 7 maggio e arriva in Giappone 1’1 giugno. Aveva pensato di prendere un piroscafo per Valparaiso, in modo da tenere concerti nell’inverno dell’emisfero australe per poi passare negli Stati Uniti. Ma scopre che non ci saranno partenze per il Cile fino a luglio. Accetta allora la proposta di tenere due concerti a Tokyo (6 e 7 luglio) ed uno a Yokohama. Successo tiepido a Tokyo, cordiale a Yokohama. Poco importa: quel che conta è di rastrellare denaro in attesa del visto per gli Stati Uniti. Parte da Tokyo, fa sosta a Honolulu (che lo entusia­ sma), sbarca a S. Francisco il 21 agosto, viene trattenuto per ac­ certamenti - politici - per tre giorni nella Treasure Island, alla fine può salire sul treno e all’inizio di settembre è a New York, con meno di cinquanta dollari in tasca. Per la prima volta nella sua vita deve guadagnarsi da vivere da solo, e da solo deve sbri­ garsela in un mondo sconosciuto: per la prima volta, a venti­ sette anni, non ha più su di sé l’occhio vigile di Maria Proko­ fieva, che è restata a Kislovodsk.

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Parte Seconda:

NEL MONDO

PROKOFIEV PIANISTA A New York si sono rifugiati molti russi emigrati, a comin­ ciare da Rachmaninov e da un ballerino di Diaghilev che ospita Prokofiev nel suo appartamento, ma esiste anche un’orchestra russa fondata nel 1903 dal violoncellista Modest Altschuler che la dirige con successo. Prokofiev non ha difficoltà a prendere contatti con i suoi compatrioti (aveva anche scritto all’industriale delle macchine agricole) ed ottiene preziosi appoggi: il 19 settem­ bre il New York Times annuncia che è arrivato un musicista « dei più promettenti dopo Stravinsky». Non credo che a Prokofiev facesse molto piacere di esser collocato al seguito dell’Igor con il quale aveva però scambiato qualche lettera cordiale dopo rincon­ tro in Italia. Tuttavia un trafiletto sul New York Times è real­ mente una manna. Il 19 ottobre Prokofiev si presenta al Brook­ lyn Museum con uno strano programma: un pittore ha dipinto dei quadri ad hoc, Prokofiev suona le Visions fugitives, il danza­ tore che lo ospita le interpreta coreuticamente. Il pubblico resta esterrefatto. Ma il 20 novembre Prokofiev esordisce nella Aeolian Hall, presente Rachmaninov, il 6 e il 7 dicembre dirige a Chicago la Suite scita, il 10 e 11 suona il Concerto n. 1 con l’Orchestra Sinfonica Russa sotto la direzione di Altschuler (« buon musicista e mediocre direttore», dice il Nostro, implacabile come sempre). Prokofiev si presentò negli Stati Uniti non solo come compo­ sitore e come pianista che eseguiva le sue opere, ma anche come pianista-interprete. Era la scelta che aveva fatto, a ragion veduta, l’« esule » Rachmaninov, il quale avrebbe raccolto i suoi maggiori successi (e i suoi onorari più alti) proprio come interprete. Pro­ kofiev non avrebbe perseguito fino in fondo la carriera del piani­ 87

sta-interprete. Ma non sarà fuor di luogo vedere, sulla scorta dei rulli di pianoforte automatico che «bucò» tra il 1919 e il 1930, quali fossero le sue caratteristiche in questo campo. Prokofiev fu pianista-compositore al modo di Mozart, Bee­ thoven, Mendelssohn, Chopin, Liszt, Brahms, Scriabin, Rachma­ ninov, Bartok. Non fu anche pianista-interprete al modo di Liszt e Rachmaninov, ma, come Brahms e Bartók, ebbe in repertorio parecchi pezzi di altri autori e tra il 1918 e il 1920, risiedendo negli Stati Uniti, affrontò programmi di recital in cui le sue musi­ che non facevano la parte del leone. Vediamone due: New York, Aeolian Hall, 17 febbraio 1919: Beethoven: Sonata op. 101 Schumann: Favola op. 12 n. 6, Fine della canzone op. 12 n. 8 Chopin: Studio in mi maggiore [op. 10 n. 3, op. 25 n. 5?] Scriabin: Poema op. 32 n. 2 Prokofiev: Gavotta op. 32 n. 3, Suggestion diabolique op. 4 n. 4, Sonata n. 1 op. 14

New York, Aeolian Hall, 22 novembre 1919: Schumann: Carnaval op. 9 Borodin: Au Couvent Mussorgski: Samuel Goldenberg e Schmuyle, da Quadri di una esposizione Glazunov: Gavotta op. 49 n. 3 Scriabin: Désir op. 57 n. 1 Rachmaninov: Preludio op. 32 [n. ?], Preludio op. 23 n. 5 Prokofiev: Sonata n. 3 op. 28, Racconti della nonna op. 31 nn. 3 e 4, Toccata op. 11.

E vediamo un programma tutto russo a New York negli anni trenta (la data precisa non è nota): Prokofiev: Sonata n. 4 op. 29 Scriabin: Preludio op. 45 n. 3, Désir op. 57 n. 1, Studio op. 8 n. 12 Prokofiev: 10 Visions Fugitives dall’op. 22 Ciaikovsky: Sonata op. 37. 88

Saremmo molto curiosi di conoscere Prokofiev interprete della Sonata op. 101 di Beethoven, del Carnaval di Schumann, della Sonata di Ciaikovsky che venne considerata un lavoro mi­ nore fino a che Richter non si incaricò di dimostrarne l’impor­ tanza. Chissà: Prokofiev potrebbe esser stato un... precursore di Richter. E come eseguiva Schumann? E Beethoven? Ma queste domande - o curiosità - sono destinate a rimanere senza rispo­ sta. Di Prokofiev interprete abbiamo solo alcuni rulli Duo Art con questi pezzi: Buxtehude-Prokofiev: Preludio e fuga in re minore Glazunov: Gavotta op. 49 n. 3 Miaskovsky: Grillen op. 23 nn. 1 e 6 Mussorgski: Promenade, Il vecchio castello, Bydlo, Balletto dei pul­ cini nel loro guscio Rachmaninov: Preludio op. 23 n. 5 Rimski-Korsakov - Prokofiev: Fantasia su Shéhérazade (improvvi­ sazione) Scriabin: Preludio op. 45 n. 3, Poema alato op. 51 n. 3.

Non è molto. Tuttavia è abbastanza per capire qualcosa, qualcosa che, come vedremo, non è affatto di secondaria impor­ tanza. Ciò che salta subito all’occhio, anzi, che fa fare un vero e proprio balzo sulla sedia a chi l’ascolta per la prima volta è il Balletto dei pulcini nel loro guscio. Il pezzo è un po’ come una toccatina, e da Prokofiev ci aspetteremmo un’esecuzione in tempo rigoroso, magari meccanico. Invece ci troviamo di fronte ad un rapinoso, incredibile gioco di accelerazioni e di rallenta­ menti che squassa ogni battuta... senza scardinarne nessuna. La spiegazione di un’esecuzione così singolare me la fornì indiretta­ mente Vladimir Delman durante una sua concertazione dei Quadri nella trascrizione di Ravel. Siccome Delman cercava eroicamente di ottenere un impossibile tira e molla da un’orche­ stra che né capiva l’intenzione musicale né riusciva a seguire il gesto del direttore gli chiesi a che cosa mirasse. Mi spiegò il si­ gnificato simbolico dei pulcini nel guscio: pulcini nel guscio 89

siamo tutti noi quando ci muoviamo a tentoni per conquistare la libertà del volere. Questa idea del muoversi a tentoni è espressa realisticamente dai goffi ballonzoli dei pulcini che si li­ berano del guscio e, musicalmente, dal tactus instabile. Non so, naturalmente, se questa fosse anche l’idea di Prokofiev, ma la sua esecuzione del Balletto rende benissimo l’intenzione di Del­ man..., il quale con l’orchestra non riuscì a realizzarla. Nella Promenade iniziale, molto mossa, sorprende nelle ul­ time battute il tempo più lento con un grande diminuendo: è come se il vivace corteo inneggiante di dignitari, soldati e po­ polo entrasse dopo la sfilata nella Cattedrale di S. Basilio per la cerimonia dell’incoronazione. Peccato che manchi Gnomus. E qui ritorno a quello che mi spiegava Delman, secondo il quale lo gnomo deforme è lo zar usurpatore Boris Godunov, deforme moralmente. Delman detestava l’idea che un drammaturgo come Mussorgski, pochi mesi dopo aver ascoltato per la prima volta il suo Boris ed avendo già messo in cantiere la Kovancina, si baloccasse con dei bozzetti pianistici: per lui i Quadri erano i Paralipomeni del Boris Godunov, e devo dire che le sue spiega­ zioni suonavano convincenti. Mi sembra, da quel che posso ca­ pire, che Prokofiev non fosse lontano da questa posizione cri­ tica, anzi, che le fosse molto vicino. Il tactus del Balletto, dicevo, è un optional. Ma quasi lo è anche il tactus di By dio. In un seguito regolare di ottavi che si modifica solo nell’ultima battuta ci aspetteremmo - da un Pro­ kofiev! - un ritmo ossessivo. La scansione degli ottavi è invece irregolare. By dio è il pesante carro polacco trainato da buoi... e non su una strada asfaltata ma su un tratture. Con la scansione ritmica di Prokofiev lo vediamo, il carro che avanza, faticosa­ mente traballando. E se, come faceva Delman, attribuiamo al carro un significato simbolico vediamo il contadino russo op­ presso... Gli accordi del basso sono spesso arpeggiati, spesso le note della melodia non arrivano in sincrono con il basso. Pro­ kofiev scampana quasi come Paderewski! E scampana a tutto spiano nel Vecchio castello, lentissimo - per Mussorgski sarebbe 90

un Andantino - e grondante di pathos epico: non si tratta di un trovatore che fa la serenata alla castellana ma di Pimen nella sua cella, tutto intento ad evocare i disumani dolori della storia russa. I rulli Duo Art del 1919-20 non sono completamente affi­ dabili ma non sono nemmeno inaffidabili, ed io non ho dubbi per quanto riguarda la scansione ritmica irregolare e lo scampanamento: il Prokofiev di quegli anni è proprio così, questo è il suo stile. Posso invece avere qualche dubbio per quanto con­ cerne i rapporti tra i piani sonori. Ad esempio, non so se il non mettere in primo piano la melodia nella parte centrale del Pre­ ludio op. 23 n. 5 di Rachmaninov sia una scelta di Prokofiev o un difetto della macchina, e non tanto per quanto concerne il rapporto fra la melodia acuta e la melodia in registro centrale (che è molto in evidenza), quanto per la presenza in primo piano, secondo me disturbante, degli arpeggi composti del basso. Non so inoltre se la mancanza di colori molto variati nella Pantasia sulla Shéhérazade (che dovrebbe essere addirittura un’improvvisazione) sia dovuta ad una scelta dell’interprete, ad una manchevolezza del pianista, ad un difetto della macchina. Per concludere il discorso vediamo ora il Prokofiev inter­ prete di se stesso. Tra i vari rulli di pianoforte meccanico che egli « bucò » eseguendo musiche sue il più interessante è quello con la Toccata op. 11: interessante perché questo celebre ed emblematico pezzo non fu poi inciso in disco dal suo Autore. Se confrontiamo l’esecuzione sopra citata del Preludio op. 23 n. 5 di Rachmaninov con le esecuzioni dello stesso Rachmaninov, di Hofmann e di Lhevinne capiamo subito che Prokofiev era un eccellente pianista ma non un grande virtuoso. E nella Toc­ cata egli non appare attrezzato per rivaleggiare con Horowitz. Però non è questo il punto. Il punto è che anche qui la scan­ sione del valore dominante, in questo caso il sedicesimo, non è sempre perfettamente isocrona e che il tactus non è privo di qualche oscillazione. Insomma, in un pezzo che è ritenuto un

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modello di «musica della macchine» del Novecento, la mac­ china, nell’esecuzione di Prokofiev, non ce la sentiamo proprio. Nel 1932 Prokofiev incise il Concerto n. 3 con la London Symphony Orchestra diretta da Piero Coppola e nel 1935 un bel mazzetto di pezzi suoi per pianoforte solo. Scorriamo l’e­ lenco: Suggestion diabolique op. 4 n. 4 Visions fugitives op. 22 nn. 9, 3, 17, 18, 11, 10, 16, 6, 5 Gavotta dalla Sinfonia classica op. 25 Andante dalla Sonata n. 4 op. 29 Racconti della nonna op. 31 nn. 2 e 3 Gavotta op. 32 n. 3 Studio op. 52 n. 3 Pay sage op. 59 n. 2 Sonatina pastorale op. 59 n. 3.

Due cose ci colpiscono, in queste incisioni, la chiarezza estrema nella percepibilità del tessuto sonoro e la estrema flessi­ bilità della ritmica. L’Andante della Sonata n. 4, di scrittura complessa perché si tratta della trascrizione di un tempo di sin­ fonia, viene eseguito in modo da rendere plasticamente evidenti tutte le linee. La tecnica della sonorità di Prokofiev si basa tut­ tavia, e ciò conferma quel che s’era visto nella Fantasia su Shéhérazade, sul dominio di un’ampia gamma di livelli dinamici più che sulla timbrica. La ritmica è molto spesso sorprendente e tal­ volta, al confronto con ciò che fanno gli interpreti posteriori, persino sconvolgente rispetto a radicate abitudini che sono di­ ventate un poco alla volta, per la musica del Novecento, veri e propri canoni di Auffùhrungpraxis. Ad esempio, il tempo muta sensibilmente dalla seconda battuta dell’op. 22 n. 9, Allegro tranquillo, e muta ogniqualvolta ritorna l’elemento tematico della prima battuta. E curioso, ma in senso stretto Prokofiev sembra riferire il tranquillo alla prima battuta e simili, e VAlle­ gro alle altre battute, guardandosi tuttavia bene dal mantenere nell’Allegro un tactus regolare.

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Questa è sicuramente una delle più affascinanti, anzi, entu­ siasmanti esecuzioni di Prokofiev. In un altro caso, Top. 22 n. 5, l’esecuzione di Prokofiev scioglie un enigma di scrittura che senza questo documento sarebbe rimasto insolubile. Il cambia­ mento di tempo nella seconda parte del pezzo non è neppure lontanamente riferibile alla didascalia di movimento, Molto gio­ coso, ma solo alla diversità di tessitura: la tessitura della seconda parte, più densa e a mani alternate nello stesso registro e con dinamica al massimo, comporta necessariamente un tempo più lento. Ma su quel necessariamente si potrebbe discutere all’infi­ nito. Di quale necessità si tratta? Della necessità di non far di­ ventare caotica la percezione e di far capire chiaramente la struttura bitonale del passo. Altri compositori intendono tutta­ via la bitonalità non come sovrapposizione di due strati ma. come macchia sonora complessiva o come timbro artificiale (si veda un celebre passo di Stravinsky nel secondo dei Tre Movi­ menti da Petruska). E qui, davvero, Prokofiev si affida eccessi­ vamente all’intuizione e alla sapienza dell’interprete: una dida­ scalia aggiuntiva per la seconda parte sarebbe stata la bene­ detta. Nel Concerto n. 3 si nota soprattutto ciò che si era notato nella Toccata, e cioè la non perfetta regolarità del tactus nei lun­ ghi tratti a moto perpetuo che danno luogo a quelle progressive accelerazioni bollate dall’accademismo come incapacità di te­ nere il tempo. Prokofiev non tiene il tempo. In realtà, non te­ nere il tempo significa però in questi casi evitare la meccanicità e la monotonia ritmica. L’espressione è sempre molto contenuta, la sensibilità di Prokofiev è vibratile ma mai esibita, anzi, è come coperta da un sottile velo di pudicizia. Lo stile di Prokofiev è però composito perché mentre l’espressione conduce l’ascoltatore verso la con­ templazione, meditativa e pacata, non verso il coinvolgimento emotivo, l’agogica molto elastica è quella della precedente gene­ razione di pianisti slavi, capaci con la loro declamazione di inca­ tenare emotivamente il pubblico. I pochi rulli di pianoforti 93

automatici che ci restano di Annette Essipova non sono vera­ mente affidabili ma ci permettono di dire che il Prokofiev ma­ turo non seguì l’estetica della sua più famosa insegnante. Mi sembra invece che il suo stile derivi da quello di Josef Hof­ mann, interprete-ponte fra due generazioni, in cui troviamo ap­ punto un strano ma fascinoso mix di nuovo e di antico. Se Pro­ kofiev ci avesse lasciato le sue esecuzioni di alcune sonate po­ tremmo capire di più, e di più potremmo capire se avessimo esecuzioni più distanziate nel tempo. Ma è inutile fantasticare: dobbiamo solo essere molto grati a Prokofiev, alla DuoArt e alla His Master’s’ Voice per gli spiragli che ci vengono aperti.

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NEW YORK Prokofiev pensava di ritrovare negli Stati Uniti un’organiz­ zazione della vita musicale simile a quella russa, nella quale aveva cominciato a muoversi con disinvoltura. La realtà che gli si parò davanti era invece diversa: Nel mio paese i compositori avevano per un intero secolo creato qualcosa di nuovo, proponendo al pubblico nuovi problemi da risol­ vere e dando origine a nuove controversie. Il risultato di queste controversie non era sempre lo stesso: talvolta i compositori dice­ vano cose senza senso che venivano subito dimenticate, talvolta era il pubblico che diceva cose senza senso e i compositori venivano ri­ cordati. Ma le discussioni su nuova musica, nuove tendenze e nuovi compositori erano diventate parte integrante della nostra vita musi­ cale. L'America, al contrario, non aveva compositori suoi, non te­ nendo conto di quelli che erano arrivati dall'Europa con una fama già fatta, e tutto l'interesse della vita musicale era concentrato sul­ l'esecuzione. In questo campo lo standard era piuttosto alto: una trascuratezza di esecuzione che a Mosca sarebbe stata tollerata, qui non veniva perdonata.

La situazione si presentava dunque tanto favorevole per Rachmaninov, il quale già prima dell’espatrio aveva rallentato la sua attività di compositore ed aveva cominciato a farsi un reper­ torio di concertista, quanto sfavorevole per Prokofiev, che con­ tinuava ad eruttare musica come un vulcano. Prokofiev accettò quindi, quando arrivavavano, i contratti per concerti, accettò un contratto di lunga durata con la DuoArt, ma puntò, mal­ grado tutto, sulla composizione. Scrisse due cicli pianistici, i

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Racconti della vecchia nonna op. 31 e i 4 Pezzi op. 32 (per i

quali non trovò peraltro l’editore), ma, attraverso l’industriale delle macchine agricole che lo proteggeva fraternamente, riuscì già nel gennaio del 1919 ad ottenere dall’Opera di Chicago il contratto per un’opera. L’op. 31, formata da quattro pezzi di media difficoltà senza titoli caratteristici, adotta un linguaggio « russo » senza eccessive tensioni armoniche e senza asprezze melodiche, l’op. 32 è una vera e propria suite con Danza, Minuetto, Gavotta, Valzer. Pro­ kofiev, che era uno spirito pratico e che si trovava nella neces­ sità di affermarsi e di guadagnare, tenne sicuramente conto delle esigenze di un ipotetico editore e di ipotetici dilettanti, ma non dovette né sforzarsi né violentare la sua natura perché la composizione della Sinfonia classica lo aveva portato nell’ot­ tica del recupero del passato. L’opera, L'amore delle tre mela­ rance, scaturì spontaneamente dalla sua fantasia, anche se, « te­ nendo conto del gusto degli ascoltatori americani», il composi­ tore scelse « un linguaggio musicale più semplice che nel Gioca­ tore».

Il contratto era stato firmato da Prokofiev e da Cleofonte Campanini, direttore dell’opera di Chicago. Nato nel 1860 e fratello del celebre tenore Italo, che era stato il primo Lohen­ grin in Italia, Campanini aveva diretto le prime esecuzioni asso­ lute della Butterfly di Puccini, (LAPAdriana Lecouvreur di Cilea e di Siberia di Giordano ed era molto aperto verso la musica contemporanea. A tutta prima Prokofiev gli aveva proposto il Giocatore. Ma siccome egli aveva con sé solo lo spartito dell’o­ pera, mentre la partitura era difficilmente recuperabile perché giacente negli archivi del Teatro Marinski, prevalse l’idea di comporre un’opera nuova. Già durante il viaggio verso gli Stati Uniti Prokofiev aveva letto la favola di Carlo Gozzi, rielaborata da Meyerhold e pubblicata in una rivista teatrale di S. Pietro­ burgo, ed aveva meditato sulla possibilità di trarne un libretto. «Gozzi, il nostro caro Gozzi! Ma è meraviglioso! », esclamò, se­ condo il racconto di Prokofiev, Cleofonte Campanini. E il No­ 96

stro si mise al lavoro, prima sul libretto, poi sulla musica, men­ tre i produttori di agrumi della California e della Florida si en­ tusiasmavano all’idea di pubblicizzare i loro prodotti attraverso un’opera in musica. In marzo Prokofiev si ammalò di scarlattina, poi di difterite con un ascesso in gola e dovette passare qualche settimana in ospedale, ma il lavoro sulTAmore delle tre melarance proseguì così speditamente che in autunno l’opera era pronta. La morte di Cleofonte Campanini, scomparso il 19 dicembre, bloccò il naturale iter verso la conclusione dell’impegno perché l’ammini­ strazione del teatro propose una dilazione di un anno per l’an­ data in scena; Prokofiev, a corto di quattrini, chiese un inden­ nizzo per accettarla, ricevette un rifiuto, si infuriò e... si accorse di non avere armi legali a cui appigliarsi. I concerti vennero a salvarlo dal disastro finanziario. Torno adesso indietro per riprendere ordinatamente il filo dell’esistenza di Prokofiev negli Stati Uniti. Poco dopo l’arrivo egli fece molte conoscenze e alcune amicizie. Divenne amico di Arthur Rubinstein, che così ce lo descrive: « Con quell’aria da ragazzo che mantenne per tutta la vita, Prokofiev sembrava più giovane di quel che era. Piuttosto alto, robusto, timido e malde­ stro, aveva i lineamenti di un negro bianco, naso appiattito e spesse labbra rosse. Le sue sopracciglia erano quasi invisibili a forza d’esser chiare e i suoi capelli chiari. Il suo colorito era così chiaro che la più piccola emozione lo faceva arrossire». Prokofiev fece amicizia con la soprano greco-brasiliana Vera Janacopoulos, che in una lettera a Stravinsky del 19 dicembre 1919 definiva «cantante di talento», mentre Rubinstein, dopo aver detto di lei che « cantava le melodie di Prokofiev in un modo che a lui piaceva molto », aggiungeva più prosaicamente che «per disgrazia aveva un marito, un russo spaventoso che beveva vodka a litri ». Il marito, Alexei Stai, era cantante, e an­ che con lui Prokofiev fece amicizia. Ma un’altra e più impegnativa amicizia era... in agguato: una giovane ammiratrice che aveva assistito al suo concerto con

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Altschuler e che forzando la sua timida natura si era recata nel camerino per complimentarsi con lui. Si chiamava Lina Codina: una ragazza graziosissima figlia di uno spagnolo e di una russa entrambi cantanti, un bel tipo di madrilena dagli occhi neri e dal sorriso malizioso e che cantava, anche. Prokofiev non ac­ cenna nemmeno di sfuggita al flirt e si limita a registrare il ma­ trimonio, che ebbe luogo nel 1923. Ma molti anni dopo la morte del marito la prima moglie di Prokofiev rilasciò un’inter­ vista a Harvey Sachs, dalla quale apprendiamo parecchie cose che il Nostro riteneva evidentemente troppo intime per essere spiattellate in una autobiografia. Prokofiev invitò subito Lina a pranzo per la domenica. Lina accettò e si recò all’appunta­ mento, sebbene non le piacesse l’umorismo sarcastico di Sergej e sebbene sua madre opinasse che non era bene uscire con un uomo con cui «non era ancora fidanzata». Seguirono un invito ad un concerto di Rachmaninov, ad una serata al cinema, ad una serata e teatro, ad una cena in un ristorante in cui si imbat­ terono in Rubinstein l’intenditore, il quale chiese subito a Pro­ kofiev dove aveva pescato «una tale bellezza». Qualche screzio, come il rifiuto di Sergej di accompagnare Lina a casa e il la­ sciarla partire da sola in un taxi, raffreddarono un po’ i rap­ porti. Ma evidentemente Lina, come a suo tempo Vera Alpers, trovava in Sergej argomenti di attrazione maggiori di quelli di repulsione. Il primo bacio schioccò in casa della Janopoulos e di Stal. Il post, come nei vecchi film, sprofonda nel buio. Ag­ giungo, per finire, che l’unico visibile omaggio di Prokofiev al­ l’amica che gli aveva rubato il cuore è curioso, è tipico del suo carattere riservatissimo: la prima delle tre principesse che stanno chiuse nelle melarance, a cui Meyerhold aveva dato il nome di Violette (per Gozzi era un’innominata), si chiama Li­ nette.

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ANNUS MIRABILIS Dicevo prima che Prokofiev era un vulcano in eruzione e che la musica scorreva in lui a penna corrente. Appena ultimato VAmore delle tre melarance ebbe una «ordinazione» dallo Zimro, un complesso di strumentisti russi, ed ebrei, che fiducio­ samente tenevano concerti per finanziare l’apertura di un con­ servatorio a Gerusalemme. I componenti il gruppo (quartetto d’archi, clarinetto e pianoforte) potevano presentare programmi da camera - rigorosamente ebraici! - molto variati, ma in realtà stentavano a trovare concerti e non riuscivano ad accantonare nemmeno un dollaro per l’erigendo conservatorio gerosolimi­ tano. Per questi sfigati e simpatici utopisti Prokofiev scrisse la Ouverture su temi ebraici op. 34. I musicologi non sono ancora riusciti a dimostrare se i temi impiegati Ouverture siano au­ tentici, come Prokofiev afferma nell’autobiografia, o se siano ri­ calchi stilistici, molto ben riusciti, effettuati da chi già aveva di­ mostrato di saper metabolizzare qualsiasi linguaggio. Quale che sia la verità, la composizione è perfettamente calibrata struttu­ ralmente e molto piacevole all’ascolto. Finita l’Ouverture Prokofiev, in attesa che si risolva la dia­ triba con Chicago e senza contratti di concertista, è disoccu­ pato. Ma, come dice il Dorigné, «un giorno senza comporre non è mai per lui un giorno in cui c’è veramente stato il sorgere del sole». Girellando nelle librerie di New York scopre un vec­ chio numero di una rivista russa in cui trova notizia di un ro­ manzo di Valery Brjusov, L'Angelo di fuoco. Brjusov, riadot­ tando un vecchio e sempre efficace espediente letterario, aveva dichiarato di aver scoperto e tradotto un manoscritto tedesco 99

del XVI sec. e di pubblicarlo con tanto di prefazione e di eru­ ditissime note. Il titolo completo era molto suggestivo: «L’An­ gelo di fuoco, o romanzo veridico in cui si parla del diavolo che è apparso più volte a una giovane donna sotto l’apparenza di uno spirito della luce, che l’ha sedotta e spinta a commettere colpevoli atti peccaminosi, in cui si parla di pratiche magiche sacrileghe, di astrologia, di goezia [esorcismo che evoca spiriti diabolici] e di negromanzia, del processo della giovane donna presieduto da Sua Eminenza l’arcivescovo di Treviri, ed inoltre degli incontri e delle conversazioni tra il cavaliere e tre volte dottore Agrippa di Nettersheim e il dottor Faust, romanzo scritto da un testimone». E Prokofiev, istantaneamente innamo­ ratosi del sulfureo racconto, comincia ad abbozzare il libretto di un’opera in cinque atti. Più tardi così commenterà la deci­ sione di intraprendere un enorme lavoro senza avere all’oriz­ zonte l’esecuzione e il gratificante guadagno: « Sfortunatamente il mio interesse [per VAngelo di fuoco} non era tempestivo. Quando avevo cominciato a lavorare Amore delle tre mela­ rance avevo un contratto in tasca, e [ciò malgrado] non ci avevo cavato niente. Cominciare adesso un grosso lavoro senza alcuna prospettiva era, per lo meno, imprudente. Ma evidentemente la vena cocciuta della mia natura stava sostenendo che se un’opera era andata male avrei dovuto scriverne un’altra! ». Il demone interiore, insomma, non tollerava di non veder sorgere il sole tutti i giorni. Ma senza uno specifico contratto Prokofiev dovette conciliare la sua passione per l’Angelo di fuoco con le necessità esistenziali. E così, mettendo e togliendo il tappo alla sua fecondità, ultimò l’opera solo nel 1927... e non riuscì mai a vederla realizzata su un palcoscenico. Nel gennaio del 1920 Prokofiev tenne dei concerti in Ca­ nada, a Montreal e Quebec. Avvisato dal suo agente di New York del pericolo di non ricevere a Quebec l’onorario pattuito, chiese ed ottenne di essere pagato prima del concerto. Il leale impresario gli presentò l’incasso in monete da un dollaro, mezzo dollaro e un quarto di dollaro. Un bel mucchio di de­ 100

nato che riempiva una valigetta. Prokofiev non riuscì a trasfe­ rirlo per intero nelle sue tasche e l’impresario gli propose cortesemente di cambiare durante il concerto in pezzi più grandi ciò che era rimasto nella valigetta. Il lettore immagina già l’esito di questa iniziativa: Prokofiev ritornò a New York con un terzo dell’onorario. In aprile, privo com’era di ingaggi e deluso dal­ l’indifferenza del pubblico americano, si spostò a Parigi in cerca di Diaghilev. I Balletti Russi, ricostituiti dopo la guerra, aprivano il 4 maggio alYOpéra la loro dodicesima stagione. Il 18 veniva pre­ sentata una serata dedicata a Stravinsky con Pulcinella, Le Chant du rossignol e Petruska. Prokofiev incontrò Stravinsky e conobbe Ravel. Nel 1938 egli così ricordò quel momento: Lo incontrai per la prima volta a Parigi nel 1920, in una riunione musicale dove si trovavano Stravinsky, Ansermet e altri eminenti musicisti. Fece il suo ingresso un uomo piccolo dai lineamenti an­ golosi e marcati, e con folti capelli che cominciavano a diventar grigi: era Ravel. Qualcuno mi presentò. Quando gli espressi il pia­ cere che provavo per l’opportunità di stringere la mano ad un com­ positore del suo rango e lo chiamai maitre (la forma d’uso comune, in Francia, per gli artisti noti) Ravel ritirò subito la mano come se fossi stato sul punto di baciarla ed esclamò: « Oh, vi prego, non chiamatemi maitre». Non ho il minimo dubbio che egli fosse perfettamente cosciente del suo grande valore, ma odiava ogni specie di omaggio e faceva tutto quello che poteva per scansare ogni tentativo di onorarlo.

Per incontrare Diaghilev, Prokofiev dovette recarsi a Lon­ dra, dove i Balletti Russi si sarebbero spostati una volta esaurite le recite a Parigi. Cincillà era disposto a produrre il Buffone nella successiva stagione e a versare un anticipo ma chiedeva vari aggiustamenti. C’era da lavorare, e Prokofiev lavorò. C’era anche da andare a Marsiglia per incontrare la madre, che aveva potuto fuggire dalla Russia imbarcandosi in un porto del Mar Nero e raggiungendo fortunosamente un arcipelago greco prima 101

di proseguire tranquillamente per la Francia. A Parigi capitò per poche settimane Lina Codina, che fu presentata alla futura suocera. Le due donne, sorprendentemente, simpatizzarono al­ l’istante. Ultimati gli aggiustamenti e l’orchestrazione del Buffone du­ rante l’estate, Prokofiev tornò in autunno negli Stati Uniti, accolto a New York da Lina; litigò di nuovo con l’Opera di Chicago, trascorse il dicembre e il gennaio in California, dove aveva dei contratti come concertista. In quel periodo compose un lavoro singolare, i 5 Canti senza parole op. 35 che, al contra­ rio delle Romanze senza parole di Mendelssohn, non facevano cantare senza parole il pianoforte ma la voce. Prokofiev apriva così la strada all suo vecchio maestro Glière, futuro autore di un Concerto per soprano di coloratura (senza parole) o, più esat­ tamente, riprendeva un’idea di Rachmaninov, il cui Vocalise op. 34 n. 14 (1915) aveva entusiasmato il pubblico. I 5 Canti, ese­ guiti da Nina Koshetz a New York il 27 marzo 1921, passarono però nella generale indifferenza, e così Prokofiev li... salvò tra­ scrivendoli nel 1925 per violino. Apro qui una piccola parentesi a proposito della Koshetz, grande isterica primadonna e... donna ardentissima. Prokofiev l’aveva conosciuta nel 1917 e, se­ condo quanto lui stesso dice in una lettera all’arpista Eleonora Damskaja, dedicataria del Prelude op. 12 n. 7 e sua confidente per lunghi anni, Nina Koshetz, appena uscita da una relazione amorosa con Rachmaninov, non avrebbe disdegnato l’idea di sostituire l’altra Nina, la Mesherskaja... fino in fondo, diven­ tando la prima signora Prokofiev. Prokofiev restò insensibile al fascino della cantante che gli ricordava la Renata dell’Angelo di fuoco, ma Lina Codina tenne gli occhi bene aperti... Intanto, perché la ruota della vita gira, cominciavano tutta­ via a fioccare le buone notizie. Kussevitzki aveva messo in pro­ gramma per il 29 aprile all’Opéra di Parigi la Suite scita, Dia­ ghilev stava preparando per il 27 maggio il Buffone, a Chicago veniva nominata come direttrice dell’opera una cantante tuttora attiva, la scozzese Mary Garden, grande interprete di Massenet 102

e di Charpentier, grande Salome e grande Melisande nella prima esecuzione assoluta dell’opera di Debussy. Prima di ri­ partire per la Francia in aprile Prokofiev firmò con la Garden un nuovo contratto per la produzione dell’Amore delle tre mela­ rance.

La Suite scita fu accolta benissimo dal pubblico e da una parte della critica. La «prima» del Buffone fu un vero e pro­ prio evento mondano a cui assistette il Tout-Paris. Il Buffone (Chout) va in scena il 17 maggio al Théàtre de la Gaité-Lyrique. Prokofiev dirige l’orchestra, le scene e i costumi sono di Mikhail Larionov, la coreografia è di Larionov e Taddeus Slavinsky, sul frontespizio del programma di sala si trova uno splendido disegno di Matisse che raffigura Prokofiev. Il pubblico decreta il trionfo al nuovo balletto, la stampa è favore­ vole, le quattro recite in programma vanno che è una meravi­ glia: si parla di ingresso nel balletto dello « stile cubista », giudi­ zio che in verità estende all’insieme l’impostazione della messa in scena, perché né la coreografia né la musica presentano ele­ menti di novità tali da giustificare la nascita di un nuovo stile. Però le parole, si sa, hanno un loro irresistibile fascino. Il 9 giu­ gno il Buffone va in scena a Londra, sempre sotto la direzione di Prokofiev, con uno schietto successo di pubblico e con re­ censioni non favorevoli o addirittura ingiuriose della stampa. Prokofiev è comunque salito sulla ribalta della musica europea e non è più considerato come un promettente giovinotto nella scia di Stravinsky: anzi, ed è Diaghilev in persona che si affretta a dichiararlo all’Observer, «l’unica somiglianza fra Prokofiev e Stravinsky è che entrambi sono russi e vivono nello stesso se­ colo ». Cosa singolare, il primo vero successo internazionale di Prokofiev gli verrà imputato in senso... patriottico quando, nel 1938, il balletto apparirà nell’Unione Sovietica: «La messa a nudo della stupidità e della crudeltà del contadino russo, la mi­ nuziosa perfezione delle scene di cinismo e di grossolanità, la meccanicità, sottolineata dai ritmi, l’abbondanza delle maschere 103

stereotipe, grottescamente eccessive e caricaturate senza indul­ genza, tutto ciò produce un’amara impressione sul pubblico so­ vietico dei giorni nostri» (Nesteiev). In estate Prokofiev soggiorna con la madre in Bretagna, ospite di Boris Verin, vi incontra Balmont e lavora al Concerto n. 3 per pianoforte per il quale aveva annotato alcuni temi e scritta una parte del secondo tempo fin dal 1917 e che porta il numero d’opera 26 proprio perché era uso del Nostro di iscri­ vere le sue composizioni in catalogo quando le progettava, non quando le finiva e tanto meno quando le pubblicava. La vicinanza di Balmont, la cui villa si trova a qualche chi­ lometro da quella di Verin, lo induce a scegliere cinque liriche dell’amico. Nascono così le Cinque Melodie su poemi di Bal­ mont op. 36 dedicate a Carolina, cioè Lina, che in vista di una auspicata carriera di cantante lascia cadere il prosaico Codina e prende il nome d’arte di Lina Liubera. Non vorrei apparire pet­ tegolo, ma il fatto che queste delicate Melodie per soprano non oltrepassino il si bemolle 4 mi fa supporre che Prokofiev te­ nesse nel debito conto i mezzi vocali della fidanzata. In ottobre Prokofiev tornò negli Stati Uniti e il 16 e il 17 dicembre eseguì per la prima volta il Concerto n. 3 a Chicago, sotto la direzione di Frederick Stock. Se consideriamo il Nove­ cento come secolo a tutti gli effetti, il suo concerto pianistico più celebre è il Secondo di Rachmaninov (che ha resistito all’as­ salto del Terzo, diventato Rakh 3 al tempo del film Shine). Se consideriamo invece il Novecento come «secolo breve» segnato dalla affermazione e dalla caduta del comuniSmo, il suo con­ certo pianistico più celebre è indubbiamente il Terzo di Proko­ fiev. Il primo tempo comincia, in modo inusuale, con un An­ dante introduttivo, molto lirico e nostalgico, si potrebbe dire paesistico, che fa da lever du rideau all’irrompere del primo tema «motorio» delTyd/Zegro. Il secondo tema ha andamento di gavotta, il tema che conclude l’esposizione, bizzarro e grottesco, avrebbe potuto entrare nella partitura del Buffone. Nello svi­ luppo Prokofiev riprende il tema dell’introduzione (era stato 104

Beethoven a scoprire come si può integrare l’introduzione nello sviluppo, e Prokofiev fa tesoro della lezione) e procede poi con estrema sicurezza a costruire l’architettura, da quell’assoluto maestro della forma-sonata che è. Il secondo tempo, Andantino con variazioni su un tema di marcia seguito da cinque variazioni di carattere molto differenziato, si richiama a strutture coreo­ grafiche ed evita il patetismo che tradizionalmente veniva asso­ ciato al tempo lento del concerto. Ballettistico anche il finale, Allegro ma non troppo, in cui Prokofiev usò due temi di un so­ gnato Quartetto bianco, cioè interamente diatonico, che non aveva mai visto la luce. Non costruito secondo schemi formali tradizionale, il finale del Concerto è abilmente condotto verso un punto culminante in cui Prokofiev sfodera sorprendente ­ mente un tema intensamente lirico e amoroso, esposto prima dai legni e poi dagli archi, un tema che tiene ben conto del pubblico americano e dei successi in America di Rachmaninov. Il Concerto, eseguito a Chicago durante le prove dell’Amore delle tre melarance, ottenne un buon successo (Prokofiev si aspettava in verità un’accoglienza più calorosa) e fu assai lodato dalla stampa, tanto che il Daily Herald ne parlò come del « più bel concerto moderno per pianoforte». Il 30 dicembre Proko­ fiev fece il suo esordio di operista dirigendo l’Amore delle tre melarance, che ottenne un trionfo. Esaurite le due recite a Chi­ cago la Garden azzardò la mossa audace di portare la produ­ zione a New York. Sembrava che si ripetesse il copione di Chi­ cago perché Prokofiev suonò a New York il Terzo Concerto il 26 e il 27 gennaio 1922, sotto la direzione del suo vecchio amico di S. Pietroburgo, Albert Coates, ottenendo un successo molto notevole. Ma il copione si rovesciò ben presto. L’unica rappresentazione a New York dell’Amore delle tre melarance ebbe luogo il 14 febbraio. Pubblico non sfavorevole, critica fe­ rocemente avversa. Mary Garden, che nella produzione aveva investito una grossissima somma e che dopo tre sole esecuzioni vedeva svanire la speranza di noleggiarla, fu costretta a dare le dimissioni, e Prokofiev ritornò in marzo in Europa ben sapendo 105

che gli spiragli apertisi in dicembre per VAngelo di fuoco si erano serrati. Ad annus mirabilis 1921 era sepolto, il 1922 si pre­ sentava denso di incognite, e quando ripartì per TEuropa Pro­ kofiev non potè pagare la percentuale alla sua agenzia di con­ certi e lasciò un debito con il suo dentista, un dottor Hussa di New York che è passato alla storia per questo motivo.

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DA VENEZIA (O DA NAPOLI?) A S. PIETROBURGO

Prima di proseguire il racconto biografico dobbiamo soffer­ marci a parlare dell’/L/wre delle tre melarance, opera che nel teatro musicale del Novecento spicca per una inconfondibile luce propria. Il conte Carlo Gozzi, nobile veneziano che nelle antiche fiabe popolari vedeva l’antidoto delle «plebee e trivialissime opere del Goldoni», era certamente un fior di reazionario in politica e in arte, un reazionario che perdette la sua battaglia di retroguardia. Perdeva in Italia e vinceva in Germania. Le fiabe teatrali di Gozzi venivano tradotte in tedesco nel 1779, veni­ vano lodate dal Lessing, Goethe le leggeva nel 1786, nel 1802 Friedrich Schiller, muovendo nella nuova ottica della riscoperta della cultura popolare, faceva rappresentare a Weimar, con la regia di Goethe, il suo adattamento della Turandone, adatta­ mento per il quale Cari Maria von Weber scrisse nel 1809 le musiche di scena. Nel 1809 August Wilhelm von Schlegel, che teneva a Vienna un corso sulla letteratura drammatica, innal­ zava Gozzi al rango di Shakesperare e di Calderón de la Barca. Hoffmann riscontrava la «musicalità» di Gozzi e i musicisti... si adeguavano: Friedrich Heinrich Himmel già aveva scritto nel 1806 Die Sylphen dalla Donna serpente, Franz Danzi scriveva nel 1817 la Turandot, Peter Emilius Hartmann dava vita nel 1817 a Ravnen, sfruttando un adattamento di Andersen del Corvo, tra il 1833 e il 1834 il giovane Richard Wagner affron107

tava per la prima volta il teatro con Die Feen, traendone il li­ bretto dalla Donna serpente. Nessuna di queste opere lascia in verità una traccia pro­ fonda nella storia del teatro musicale, né ve la lascia la Turanda che Antonio Bazzini fece rappresentare nel 1867. Ma se non è presente nella musica, Gozzi è presente nella cultura teatrale ed a lui si rivolgono all’inizio del Novecento gli artisti che si op­ pongono al naturalismo del tardo Ottocento. Tra il 1904 e il 1905 Busoni scrive una suite per orchestra Turandoti che nel 1911 trasforma in musiche di scena e nel 1917 in un’opera. Nel 1907 Max Reinhardt mette in scena a Berlino la Turandot. La Turandot diventa un cult della intellighenzia europea a tal punto da entrare di straforo nella Sonatina per pianoforte (1916) di Alfredo Casella, nel cui finale troviamo appunto una didascalia tratta dalla vecchia fiaba cinese. Inutile ricordare, ben s’intende, che la Turandot sarà l’ultima opera di Puccini. L'Amore delle tre melarance che Gozzi aveva tratto proba­ bilmente da Lo cunto de li cunte del napoletano Giambattista Basile mutando il titolo domestico Le tre Cetra (I tre cedri) in uno più esotico, viene pubblicata nel 1914 a S. Pietroburgo da Meyerhold. Il lavoro del regista russo va ben al di là della sem­ plice traduzione e dell’adattamento. Carlo Gozzi aveva fornito nel 1761 il canovaccio dATAmore delle tre melarance alla com­ pagnia di Antonio Sacchi, ultimo grande rappresentante della Commedia delTArte. Nel 1772 aveva pubblicato l’Analisi rifles­ siva della fiaba «L'Amore delle tre melarance». Rappresenta­ zione divisa in tre atti in cui si trova il canovaccio mischiato con

il racconto della rappresentazione: il tutto in prosa, tranne il prologo recitato da «un ragazzo nunzio all’uditorio» e pochi esempi di dialoghi in versi. Meyerhold crea una commedia scritta ma, prendendo lo spunto da una discussione di alcuni personaggi che si trovava nel canovaccio di Gozzi, muta genial­ mente la prospettiva teatrale della fiaba mediante la sostituzione del prologo originale con un suo prologo in cui si affrontano I Tragici, I Comici, I Lirici, Gli Scervellati, Gli Originali (Gli Ori­ 108

ginali nella traduzione italiana di Rinaldo Kiifferle, ma Les ridi­ cules nell’originale francese di Prokofiev e Vera Janacopoulos). Questi gruppi, protagonisti assoluti del Prologo, intervengono

anche nella vicenda, o per riaffermare i loro principi o per dare consigli nei momenti difficili o addirittura per scongiurare l’in­ combente catastrofe. Non più teatro, dunque, ma metateatro. Che cosa esigono i Tragici? «Tragedie! Tragedie! Sublimi tragedie! Coturnate risposte agli eterni perché! Sangue! Orrori La morte degli eroi!» E i Comici? «Commedie! Commedie! Vivaci commedie! Salubrità di fresche risa! ». I Lirici vorreb­ bero « drammi all’acqua di rose coi romantici sospiri, la luna, i fiori, l’estasi dei baci! Languor d’innamorati! Delicatissima li­ rica! ». Ma gli Scervellati reclamano «Farse! Farse! Damine, ci­ cisbei! Salaci ambiguità! Sfarzosi costumi! ». Più forti di tutti questi scalmanati sono gli Originali, che « spalano i contendenti, ammucchiandoli dietro tutt’e due le quinte» ed annunciano: «Ora vedrete! Vi mostreremo del teatro autentico, di primis­ simo ordine! ». E la rappresentazione comincia. Il figlio del Re di Coppe è affetto secondo i sapienti medici da una sfilza lunghissima di mali che si compendiano in uno solo: ipocondria all’ultimo stadio. Il Re è disperato e il suo mi­ nistro Pantalone si affanna a scoprire per l’infermo una via di salvazione. Secondo il parere dei medici la malattia sarebbe de­ bellata se il Principe riuscisse a ridere, e perciò il solerte mini­ stro chiama Truffaldino, abile organizzatore di spettacoli. Tutta­ via il Re, a cui le maniere spicce di Truffaldino danno sui nervi, gli mette alle costole il ministro Leandro. VAmour des trois oranges è una Opera en quatre actes et dix tableaux avec un prologue d’après Carlo Gozzi, e dunque è un melodramma ricavato da una farsa. Ma è subito evidente che l’adattamento della farsa segue un archetipo, sia pur rove­ sciato, quello della tragedia greca classica: la coorte dei Tragici e compagni assolve alle funzioni del coro, i personaggi sono «alti», sono eroi. Mancavano finora gli dei. E gli dei com­ paiono nel secondo quadro sotto le vesti caricaturali della Fata 109

Morgana e del Mago Celio. La prima protegge Leandro, che d’intesa con la nipote del Re, Clarice, sta avvelenando il Prin­ cipe per ereditare il regno, il secondo protegge il Principe. I due, invece di combattersi in campo aperto, trovano più sbriga­ tivo il metodo di giocarsi a carte la sorte dei loro rispettivi pro­ tetti: vince Morgana. Gli spettacoli comici predisposti da Truffaldino sono impo­ nenti ma non hanno successo. La Fata Morgana vi assiste, trave­ stita da vecchia pezzente, per godersi il suo trionfo. Truffaldino la vuol cacciar via, la vecchia resiste, i due questionano, Truffal­ dino dà uno spintone alla megera che precipita a terra a gambe all’aria. Ed avviene il miracolo: il Principe scoppia a ridere, la ri­ sata omerica si propaga a tutta la corte (tranne, ovviamente, che a Clarice e Leandro). Ma non ride di certo la Fata Morgana che, rialzatasi lentamente, scaglia la sua maledizione: il Principe, gua­ rito, amerà le tre melarance fatate possedute dalla terribile strega Creonta e andrà a cercarle. Scompare Morgana, il Principe, folle d’amore e insensibile a tutte le preghiere e suppliche dei corti­ giani, parte con Truffaldino. Perché i due raggiungano più presto la loro meta fatale arriva il diavolo Farfarello che con un mantice provoca un vento così forte da farli volar via. E evidente che sulla prima favola se ne innesta una se­ conda, ed è evidente che le forze soprannaturali sono imperso­ nate da due pasticcioni (se esistesse la tragedia eroicomica così come esiste il poema eroicomico noi avremmo trovato la defini­ zione più appropriata). Celio, sconfitto alle carte, strafottendo­ sene del diritto che non sta dalla sua parte evoca all’inizio del terzo atto Farfarello per chiedergli come stia andando il viaggio del Principe e di Truffaldino e per indurlo - o costringerlo - a metter da parte il mantice. Farfarello ha dovuto smettere di fare vento perché « l’inferno lo chiamò », ma intende riprendere ad assolvere il suo compito e a Celio che gli impone di desistere ri­ sponde (giustamente: la sua logica è impeccabile): «Ricorda, mago: tu hai perduto al gioco, ed è perciò che i tuoi scongiuri sono vani ». E sparisce. 110

Arrivano il Principe e Truffaldino. Celio cerca di spaven­ tarli raccontando loro di Creonta e della sua gigantesca Cuoca che con un gigantesco mestolo può spiaccicarli. Qui noi ci fer­ miamo un momento per dire che l’invenzione di Gozzi era più brillante di quella di Meyerhold. In Gozzi non c’è la Cuoca con il mestolo ma la Fornaia « che per non avere scope, spazzava il forno colle proprie poppe » e che si lagnava con Creonta « che son tanti anni, e tanti mesi, e tanti, che le mie bianche poppe logoro in doglia, e pianti». Personaggio felliniano ante litteram, la Fornaia. Peccato che Meyerhold non l’abbia offerta a Proko­ fiev: chissà quale musica gli avrebbe suggerito! Ritorniamo a noi. Celio le tenta tutte. Niente da fare, il Principe deve trovare la melarance. Allora il buon mago conse­ gna a Truffaldino un nastro che servirà a distrarre la tremenda ma volubile Cuoca. E la Cuoca si innamora del nastro e ne è tanto affascinata che il Principe può entrare nella cucina, pren­ dere le melarance e fuggire insieme con Truffaldino. C’è però un problema. A mano a mano che i due si allontanano dal ca­ stello di Creonta i frutti crescono di volume e di peso. Farfa­ rello non è più lì a soffiare con il mantice, il Principe e Truffal­ dino sono assetati e stremati. Il Principe si addormenta, Truffal­ dino, scordando un avvertimento di Celio (« Sappiate poi, sven­ tati ragazzi: quando in mano s’abbiano le melarance, non si può aprirle che vicino all’acqua; se no succede un guaio»), pensa bene di tagliare una delle melarance per dissetarsi. Dall’enorme frutto esce una fanciulla, la principessa Linetta, anche lei asse­ tata da non dirsi. Truffaldino, non potendola aiutare altrimenti, taglia impulsivamente la seconda melarancia, da cui esce la principessa Nicoletta..., assetatissima. Morte delle due tapine, fuga di Truffaldino, terrorizzato. Si sveglia il Principe, vede i due cadaveri, li fa portar via da quattro soldati di passaggio, taglia l’ultima melarancia da cui esce la principessa Ninetta, assetata (c’è bisogno di dirlo?). Mo­ rirebbe anche lei se non si mettessero in moto gli Originali, che portano un secchio d’acqua. La fanciulla è salva, e Prokofiev si 111

concede un vero e proprio duetto d’amore..., in cui possono dire la loro, finalmente, i Lirici, debolmente contrastati dagli Originali, anch’essi commossi. Tutto filerebbe verso il lieto fine se Ninetta, coperta solo da una camiciola bianca, non rifiutasse di seguire il Principe verso la corte del Re di Coppe con un abito inadatto. Galantemente il Principe va in cerca degli abiti lasciando così l’innamorata in ba­ lia della Fata Morgana e della schiava nera Smeraldina, complice di Leandro e Clarice. La schiava, indottrinata dalla Fata, trafigge alla nuca con uno spillone Ninetta, che si trasforma in un topo­ lino. Arriva il Principe, senza recare gli abiti da cerimonia ma con il Re e tutto il seguito. Al posto di Ninetta trova Smeraldina, che si proclama sposa del Principe. Orripilato, questi rifiuta il connubio, ma il cavalleresco Re di Coppe costringe il figlio a mantenere la parola data: le nozze s’han da fare. Prima dello scioglimento ci sono ancora da regolare i conti tra Morgana e Celio. I due litigano come comari al mercato e gli spettatori capiscono che la partita non è chiusa (Celio l’a­ veva persa alle carte, ma su questo particolare i librettisti sorvo­ lano elegantemente). La soluzione la trovano gli Originali in ve­ ste di dei ex machina, che distraggono Morgana, la fanno avvici­ nare ad una torre e con una mossa a sorpresa riescono a rin­ chiudercela dentro. Siamo all’ultima scena. In una sala sfarzosa tre troni, celati da drappi, sono pronti per il Re, il Principe e la Principessa. Quando i drappi vengono tolti la corte constata con orrore che sul trono della Principessa siede « un enorme topo, più grande della statura di un uomo» che «muove i baffi». È il momento del Mago Celio: il topo, colpito dalle fucilate delle guardie, si ritrasforma in Ninetta, Smeraldina, Clarice e Leandro vengono dal Re condannati a morte ma - è l’estremo colpo di scena - la Fata Morgana (uscita non si sa come dalla torre) li salva scom­ parendo con essi sottoterra tra fiamme e fumo infernali. Alle­ gria generale. I cadaveri di Linetta e Nicoletta - crudeltà delle 112

favole - sono spariti per sempre insieme con i soldati, e nes­ suno recita per loro un requiem. In Gozzi interessavano a Prokofiev « i tre diversi piani in cui si sviluppava Fazione: 1) i caratteri della fiaba, il Principe, Truf­ faldino, ecc., 2) le forze del mondo sotterraneo (il Mago Celio, Fata Morgana), e 3) i caratteri dei buffoni come rappresentanti del potere direzionale, che commentano tutto ciò che accade». Aggiungo che non poteva non piacergli il fatto che le forze del male vengono sconfitte ma non distrutte. Le maschere della Commedia dell’Arte hanno in verità perduto la loro specificità: Pantalone non è avaro, Truffaldino è un sollecito e devoto servi­ tore. E c’è un punto-chiave su cui Prokofiev si scosta da Gozzi: in Gozzi anche il Principe è una maschera, è Tartaglia. Ma con un principe balbuziente si sarebbe potuto fare un bel duetto d’a­ more? «Ardua impresa sarebbe», direbbe Jago. Così, il Principe diventa per Prokofiev un vero principe, anzi, un principe az­ zurro. Ed è, ovviamente, un tenore. Ovviamente, Ninetta è un soprano, il Re un basso, e viene rispettata la tipologia dei cattivi (Clarice contralto, Leandro baritono, Smeraldina mezzosoprano, la Cuoca un travesti alla rovescia, un basso, anzi, una basse entrouée, roca). Solo la Fata Morgana è un po’... fuori parte, perché Prokofiev sceglie per lei la corda sopranile invece della contraltile. In totale abbiamo sedici personaggi, equamente divisi fra le varie corde: due soprani, due mezzosoprani, due contralti, due tenori, tre baritoni, cinque bassi (in generale due dei bassi sosten­ gono due ruoli ciascuno, così che i cantanti sono quattordici). Dovrei ora parlare della musica, ma so che ben pochi tra i miei lettori, a parte la Marcia, hanno familiarità con quest’opera di Prokofiev. Vediamola allora per ciò che non è, la musica, nel con­ testo storico in cui nasce. YAmore delle tre melarance non ha nulla a che vedere con il Wozzek che Berg aveva cominciato a comporre nel 1914 e che avrebbe ultimato nel 1922, non ha nulla a che ve­ dere con il Mandarino meraviglioso a cui Bartók aveva lavorato fra il 1918 e il 1919. Né ha a che vedere con la Katia Kabanova di Janàcek (1919-1921), con Intermezzo di Strauss (1918-1923), con la 113

Turandot di Puccini. Ma ha ben poco a che spartire anche con YHistoire du soldat (1918) e con il Pulcinella (1919-1920) di Stra­ vinsky. Anzi, proprio il confronto fra VAmore e il Pulcinella pro­

vocò un raffreddamento dei rapporti fra due compositori che, dopo le antiche scintille, avevano stabilito una non belligeranza non immune da una vena di simpatia. Sentiamo Prokofiev: In giugno [1922] Diaghilev riprese a Parigi il Buffone e mi chiese delle Tre melarance, ma quando gli suonai la musica Stravinsky, che per caso era presente, la criticò aspramente e rifiutò di ascol­ tarne più di un atto. Per certi aspetti aveva ragione: il primo atto è il meno riuscito. Ma in quel momento io difesi la mia opera e il ri­ sultato fu un litigio. Per parte mia non approvavo la predilezione di Stravinsky per lo stile pseudo-Bachiano, o meglio non approvavo che si adottasse un linguaggio di qualcuno dicendo che era il pro­ prio linguaggio. Io stesso avevo scritto una Sinfonia classica, ma questa era solo una fase passeggera [della mia evoluzione]. Con Stravinsky il « bachismo » stava diventando la linea di base della sua musica. Dopo questo incontro le nostre relazioni divennero tese e per alcuni anni Vatteggiamento di Stravinsky verso di me fu cri­ tico, sebbene non del tutto sfavorevole.

Il rapporto di Prokofiev con la tradizione è di continuità, non di straniamento, è, busonianamente, di « dominio, vaglio e sfruttamento di tutte le conquiste precedenti». La base linguistica dello stile di Prokofiev nATAmore - basta pensare alla Marcia, a tutti nota - è la tonalità, l’armonia è funzionale, non coloristica, le linee vocali, molto variegate a seconda delle situazioni, manten­ gono la linearità e l’ancoraggio » all’armonia, il ritmo non conosce le complessità e le asprezze comuni a quel tempo e l’orchestra, coloritissima e sfruttata con estrema maestria, non prende mai il sopravvento. I critici italiani del tempo che fu accusavano gli ope­ risti stranieri («oltramontani») di mettere la statua in orchestra e il piedistallo in scena. In questo senso VAmore delle tre melarance è un’opera veneziana, o napoletana..., o forse mozartiana, visto che è Mozart il maggior operista italiano del suo tempo.

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INTERMEZZO BAVARESE Su una casa di Ettal, villaggio bavarese nel distretto di Garmisch-Partenkirchen, troviamo una lapide che dice: « Qui visse dal marzo del 1922 all’ottobre del 1923 il compositore russo Sergej Prokofiev che divenne celebre soprattutto per la sua fa­ vola musicale Pierino e il Lupo». A Ettal era arrivato in compa­ gnia della madre, malandata in salute, e del fido Boris Verin. Ma perché Prokofiev sostò per un anno e mezzo in un villaggio tra i monti bavaresi? A tre chilometri da Ettal si trova Oberam­ mergau, sede della più famosa tra le varie rappresentazioni della Passione di Cristo che si tengono periodicamente nelle valli ba­ varesi e austriache. Atmosfera medievale, luoghi nei quali, dice Prokofiev, «avrebbe potuto aver luogo» il «Sabba delle stre­ ghe» dell’Angelo di fuoco. Per di più, l’ultimo processo per stregoneria, celebrato nel 1749 a Wurzburg, aveva visto la con­ danna e l’esecuzione di una suor Maria Renata Singerin che portava i nomi della protagonista dell’Angelo di fuoco, «suor Maria, al secolo Renata». A Ettal Prokofiev lavora ALAngelo di fuoco, mette in ordine gli spartiti del Buffone e delTAmore delle tre melarance, trae dal Buffone una suite sinfonica, riscrive la strumentazione del Se­ condo Concerto la cui partitura era andata smarrita, compone la Sonata n. 5 op. 38 per pianoforte. E viaggia: nell’aprile del 1922 suona il Terzo Concerto a Parigi e a Londra, suona nel Belgio e in Spagna, riprende i contatti epistolari con l’Unione Sovietica e manda corrispondenze a riviste russe. La sue com­ posizioni vengono eseguite in Russia, la Filarmonica di Lenin­

grado lo invita per concerti. E qui troviamo nell’autobiografia un’altra, penosa captatio benevolentiae\ Perché non ritornai nel mio paese nativo? Credo che la principale e fondamentale ragione fu che non avevo ancora afferrato intera­ mente il significato di ciò che stava accadendo nell" URSS. Non mi era chiaro che gli avvenimenti richiedevano laggiù la cooperazione di tutti i cittadini, non solo dei politici, come pensavo, ma anche degli artisti.

A Ettal giunge, non sappiamo esattamente quando, Lina Codina, che all’inizio dell’estate del 1923 è incinta. Sergej e Lina si sposano a Ettal, con rito civile, 1’8 ottobre: Boris Bashkirov (cioè Verin) è il testimone dello sposo, Maria Grigorievna Prokofieva è la testimone della sposa. Pochi giorni dopo i Prokofiev partono per Parigi, dove il 18, direttore Kussevitzki, ha luogo la prima esecuzione del Concerto n. 1 per violino. Il destinatario «natu­ rale» del Concerto sarebbe stato il compagno di conservatorio Ja­ scha Heifetz, che però era emigrato negli Stati Uniti. Se la prima esecuzione avesse avuto luogo a S. Pietroburgo nel 1918 l’inter­ prete deputato sarebbe stato Pavel Kochanski, polacco che inse­ gnava nel conservatorio e che aveva dato a Prokofiev qualche consiglio tecnico. Ma la guerra aveva mandato all’aria tutto... Dopo la guerra il Concerto, racconta Prokofiev, fu proposto a Hubermann e ad altri violinisti di fama, che la rifiutarono sde­ gnosamente, tanto che Kussevitzki affidò la parte solistica alla « spalla » dell’orchestra, il diciottenne Marcel Darrieux (il quale, dice Prokofiev, «se la sbrigò bene»). Solo sette mesi più tardi, 1’1 giugno 1924, Szigeti suonò «superbamente» il Concerto al Festival di Praga sotto la direzione di Fritz Reiner, e lo tenne in repertorio rendendolo in breve tempo popolare... o quasi. Prokofiev ebbe solo più tardi notizia di un’altra esecuzione del 1923 che dovette essere molto interessante e che, se fosse stata registrata, sarebbe divenuta più tardi celeberrima. Sen­ tiamo come la racconta il solista, Nathan Milstein:

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Una delle nostre più importanti esecuzioni a Mosca fu un concerto tenuto nel 1923, tn cut Horowitz ed io demmo in prima esecuzione in Russia del Concerto per violino n. 1 di Karol Szymanowski e del Concerto per violino n. 1 di Sergej Prokofiev. In entrambi i concerti Horowitz suonò la riduzione per pianoforte della partitura orchestrale (credo che avendo un pianista come Horowitz non ci sia bisogno deirorchestra!). La nostra esecuzione moscovita seguì di pochi giorni la prima asso­ luta tenuta a Parigi. Tutta l’élite artistica di Mosca era presente al concerto [...] In realtà il Concerto per violino n. 1 di Prokofiev è uno dei migliori concerti del Novecento per violino. E una compo­ sizione geniale, forse la migliore di Prokofiev. Spesso penso che sia il suo autoritratto. Come freschezza e originalità è paragonabile ai Concerti di Mozart.

Autoritratto? Milstein aveva conosciuto anni prima Proko­ fiev a S. Pietroburgo: « [...] mi fece una strana e quasi terribile impressione, specie per le sue insolite labbra. Erano rigonfie, quasi turgide di sangue e una sorta di schiuma ne imperlava gli angoli. Prokofiev era permaloso, goffo e brutto, con gli oc­ chi incolori tipici dei biondi ma la sua energia lo compensava della goffaggine. Era evidente che si trattava di un giovane ge­ nio». Il dolcissimo, fatato Concerto n. 1 assomiglia a questo ri­ tratto? Nel periodo di Ettal, o perché era immerso nell’atmosfera dell’Angelo di fuoco o per altri motivi, si manifestò l’interesse di Prokofiev per la Christian Science fondata da Mary Baker Eddy. Prokofiev aveva acquistato negli Stati Uniti molti scritti della Eddy e possedeva un commento della Kabbala e vari testi di ar­ gomento esoterico. Questi materiali furono chiusi in una valigia che Prokofiev depositò nelle cantine della sede parigina della Boosey & Hawkes, la casa editrice inglese che rilevò la sue opere dalla Gutheil di Kussevitzki. Quando nel 1959 la valigia venne ritrovata da Claude Samuel si scoprirono, oltre ai libri, dei fogli firmati su cui Prokofiev aveva trascritto, in inglese, venti precetti 117

tratti dal Credo della Christian Science. Ne riporto alcuni che mi sembrano perfettamente in linea con il carattere e la psicologia di Prokofiev, ed alcuni altri, contrastanti invece con la consueta immagine che di lui ci siamo fatta: 1. Io sono l'espressione della vita, cioè dell'attività divina. 2. Io sono l'espressione dello spirito che mi dà il potere di resistere a tutto ciò che è diverso dallo spirito. 4. Io sono l'espressione dell'amore che sostiene il mio costante inte­ resse per il mio lavoro. 5. La mia individualità mi è data per esprimere la bellezza. 8. Io sono l'espressione della gioia che è più forte di qualunque cosa. 9. Io sono l'espressione della perfezione e ciò mi conduce all'uso perfetto del tempo. 10. Io sono in possesso della salute, e perciò lavoro con facilità. 14. Siccome l'attività è la qualità inerente a me, il mio desiderio di lavorare è naturale. VI. La vita eterna è la fonte della mia vitalità. 19. Io desidero lavorare, poiché l'azione è l'espressione della vita.

Della Christian Science non troviamo alcun cenno nell’auto­ biografia e in altri scritti di Prokofiev e non sappiamo fino a qual punto giungesse il suo coinvolgimento nella attività della setta e se egli vi fosse affiliato. Certo che non riusciamo ad immaginare un Prokofiev intento a trascrivere certi articoli di quel Credo, che ci sembra più scriabiniano che prokofieviano. Nell’autobiografia troviamo invece un preciso accenno, tutt’altro che benevolo, ai musicisti francesi che Cocteau aveva chiamato Les Six\ La Francia, essendo stata vittoriosa nel campo di battaglia, voleva del pan vincere nel campo dell'arte. Da qui le eccezionali attenzioni riservate ai «Six» [...], attenzioni che i «Six» non meritavano af­ fatto.

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Con almeno uno dei Six, Poulenc, Prokofiev ebbe tuttavia un rapporto che, per quanto gli era consentito dalla sua natura orsesca, fu di amicizia. E la musica di Poulenc non gli fu estranea quanto potremmo sospettare. La Sonata n. 5 per pianoforte, scritta a Ettal, rappresenta in questo senso un momento nuovo, e che non resterà episodico, dello stile di Prokofiev. Il primo tema del primo tempo e il primo tema del finale di questa sonata potrebbero benissimo appartenere ad una so­ nata per flauto e pianoforte di Poulenc. La costruzione del primo tempo è, come sempre in Prokofiev, classica fino allo schematismo. Lo sviluppo è tutto calcolato in funzione di un punto culminante raggiunto alla fine, con rapidissima discesa di tensione e tranquillo passaggio alla riesposizione, regolare. Una piccola e gaia coda sul primo tema, leggero e veloce, conclude il primo tempo. Il secondo tempo è un incantevole momento mu­ sicale umoristico e grazioso, con un primo tema assai svilup­ pato, un secondo tema episodico, una riesposizione abbreviata e variata del primo tema e una coda che svanisce nel nulla. L’atmosfera bucolica del primo tempo ritorna nel finale, un rondò-sonata (rondò con un episodio di sviluppo tematico) tutto sorridente e gradevole. La coda, stranamente, è però oscura e minacciosa. E come se questo Prokofiev pariginizzato si togliesse la maschera e ricomparisse con il suo vero volto. Ma l’atmosfera di tutta la sonata è bucolica, come dicevo, e favoli­ stica: il Prokofiev dell’Amore delle tre melarance è ancora lì die­ tro l’angolo, e la fiaba Pierino e il Lupo è all’orizzonte. Sviato­ slav Richter parla della Nona come della Sonata domestica di Prokofiev: a me sembra che questa denominazione convenga semmai alla Quinta, e il fatto che la Quinta sia stata scritta mentre l’Autore era in attesa di diventar padre non dovrebbe essere estranea alla sua natura. Uno studioso dell’opera pianistica di Prokofiev, Stephen C. E. Fiess, richiama la nostra attenzione sull’invenzione melodica negli anni trascorsi all’estero: «Nelle opere pianistiche del pe­ riodo all’estero di Prokofiev predomina la melodia lirica. Seb­ 119

bene anche la melodia motivica vi abbia la sua parte, le opere di questo periodo dimostrano l’allontanamento dalla ripetizione primitivistica dei motivi. Inoltre, nelle opere del periodo all’e­ stero, si nota una maggiore enfasi sulla melodia diatonica». Il Fiess osserva anche una semplificazione del ritmo e della scrit­ tura pianistica. Per quanto riguarda l’armonia dice: «Prokofiev [...] si appoggia largamente sulle tecniche sviluppate nelle opere del suo periodo russo. Tuttavia si può riconoscere nel suo trat­ tamento dell’armonia una certa tendenza neo-classica per il più frequente uso del diatonismo in luogo del cromatismo». Presso­ ché inspiegabile il commento di Prokofiev, che colloca la Sonata n. 5 insieme con le «più cromatiche di tutte le mie composi­ zioni». Ed aggiunge: «Questo era l’effetto della atmosfera pari­ gina in cui disegni complessi e dissonanze erano la cose mag­ giormente bene accette, e che incoraggiava la mia predilezione per il pensiero complesso». Sembra, ed è, un mea culpa. Ho accennato alle amichevoli relazioni di Prokofiev con Poulenc, e non mi lascio sfuggire l’occasione per mettere il naso nel concetto prokofieviano di amicizia. Si è parlato molte volte dell’arroganza di Prokofiev. Certamente egli non faceva mai ri­ corso alla diplomazia ed esprimeva le sue opinioni e i suoi giu­ dizi con rude (o rozza) schiettezza. Vediamo queste due letterine a Poulenc da Ettal, dell’8 dicembre 1922 e del 21 agosto 1923: Caro Poulenc, un giornale di Mosca, di gusti modernissimi, s interessa molto alle vostre composizioni come a quelle di Milhaud e dei vostri amici del gruppo dei sei. Se volete mandarmi qualche fascicolo di musica io lo passerò a Mo­ sca.

[...]. Caro Poulenc, grazie per la vostre Promenades. Mi piacciono molto la prima e la terza. Nelle altre ci sono troppe voci parallele e troppo Chopin. Le mando a Mosca. 120

Al piacere di rivedervi in ottobre Tutto vostro Serge Prokofieff Perché lento e allegro? Siete nato a Modane? Perché accelerare e rallentare? Perché un punto dopo Poulenc?

Se questa è amicizia.,. Poulenc, dal canto suo, mostrò sem­ pre verso Prokofiev una vera e propria devozione.

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ANNI PARIGINI La famiglia Prokofiev venne «completata» il 27 febbraio 1924 con la nascita di Sviatoslav, primo figlio di Sergej e Lina. Maria Prokofieva, che era andata a visitare gli Stati Uniti negli ultimi mesi del 1923, tornò a Parigi in tempo per il parto. E quel momento di gioia fu l’ultimo della sua vita perché morì il 30 novembre. «Vivere a Parigi non ti fa diventare parigino», scrive Pro­ kofiev immediatamente prima della frase sui Six che ho citato poc’anzi. E prima aveva osservato che la Sonata n. 5, da lui ese­ guita per la prima volta a Parigi il 9 marzo 1924, era stata «ac­ colta freddamente». Freddezza che si sarebbe ripetuta durante la tournée concertistica nell’Unione Sovietica del 1927. Nei dia­ rio tenuto da Prokofiev in quell’occasione troviamo annotazioni molto eloquenti. Il 23 gennaio, dopo una riunione privata con vari musicisti, egli scrive: « [...] suono la Quinta Sonata. Se non la suono qui, dove potrei suonarla? Ascoltano in silenzio, con intensa attenzione, e non esprimono le loro impressioni. Mi chiedono di suonare ancora qualcosa - suono la Terza». Poi, il 28 gennaio: « Il primo pezzo in programma è la Terza Sonata tempo fa Suvchinski mi ha raccomandato di cominciare i miei recital con la Terza Sonata. Poi, dieci Visions fugitives. L’acco­ glienza è molto favorevole. Il pezzo seguente, la Quinta Sonata, è accolta in modo evidentemente riservato, sebbene un gruppo d’una cinquantina di persone applaudano fragorosamente e gri­ dino, chiamandomi senza sosta». E il 9 marzo: «[...] nessuno capisce la Quinta [...]». Infine, il 13 marzo, da Kharkov: «Ec­ cettuata la Quinta Sonata, tutti i pezzi ottengono un colossale

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successo». Nel 1953 Prokofiev riprese la Sonata n. 3: ne modi­ ficò qualche tratto e ritenne che questa versione ritoccata do­ vesse avere un nuovo numero d’opera, 135. Ma la Quinta, in­ sieme con la Prima, resta la sonata di Prokofiev meno eseguita. Parigi, Sonata n. 5 a parte, non era avara con Prokofiev. L’8 maggio 1924 egli vi eseguì con successo il Concerto n. 2 con la nuova strumentazione, il 19 maggio Kussevitzki vi diresse (due volte nella stessa sera) la cantata Sette, sono sette, con grande successo. Nella stessa serie di concerti diretti da Kusse­ vitzki veniva però eseguito per la prima volta, solista l’Autore, il Concerto per pianoforte e strumenti a fiato di Stravinsky, che divenne il clou della stagione. Commentando l’avvenimento in una lettera a Suvchinski Prokofiev prese lo spunto per affer­ mare una contrapposizione di poetica, o persino di deontologia artistica fra Stravinsky e se stesso. Secondo Prokofiev, Stravin­ sky « desidera terribilmente che la sua creatività sia aderente alla modernità», mentre «se io voglio qualcosa è che la moder­ nità sia aderente alla mia creatività». Negli anni venti la «mo­ dernità» non era più quella del periodo della guerra, e i pari­ gini la cui opinione faceva testo, pur riconoscendo il successo, ritennero che Prokofiev vivesse di rendita sulle sue «vecchie composizioni». Ciò lo indusse a «scrivere una grande sinfonia «fatta di ferro ed acciaio»». Era la Sinfonia n. 2 op. 40 in re minore, che si distaccava bruscamente dall’atmosfera idilliaca della Sonata n. 5. La Seconda è sicuramente la meno nota tra le sette sinfonie di Prokofiev. L’autore dice che il tema principale del primo tempo è simile a quello della Sonata op. Ili di Beethoven, ma in verità questa asserita somiglianza non è affatto evidente. E evidente invece la somiglianza con l’architettura dell’op. Ili: due tempi, il primo in forma-sonata, il secondo in forma di tema con variazioni. Si è spesso voluto accostare la Sinfonia n. 2, specie il suo primo tempo, a Pacific 231 (1923) di Honegger, a Hyperprism (1922-23) e a Octandre (1923-24) di Varèse, al Ballet mécanique (1926) di Antheil, a Fonderia d'acciaio (1926123

28) di Mossolov. A me non sembra che questi paragoni abbiano una basa reale. Le motivazioni psicologiche profonde che muo­ vono la nascita della Sinfonia n. 2 rimangono misteriose, ma la saldezza della costruzione «classica» non viene meno. Semmai, rispetto ai suoi più recenti lavori, Prokofiev ritorna verso la complessità costruttiva, in senso contrappuntistico, che era stata una sua caratteristica giovanile e che io avevo fatto notare al mio lettore nella Sonata n. 2 per pianoforte. Se il primo tempo può effettivamente ricordare in qualche momento il clima della «macchina», il secondo tempo se ne al­ lontana completamente, così come nella Sonata op. Ili, nella quale il contrasto tra i due tempi non potrebbe essere più radi­ cale. Già il tema di Prokofiev, esposto dai «pastorali» oboi, apre il secondo tempo in un’atmosfera paesistica, un’atmosfera in cui restano immerse, sebbene ben differenziate tra di loro, le sei variazioni. La musica - caso raro, in una sinfonia - svanisce alla fine in un evanescente pianissimo. La Sinfonia n. 2 fu eseguita per la prima volta a Parigi, di­ rettore Kussevitzki, il 6 giugno 1925. Passò inosservata e gli amici di Prokofiev «mantennero un imbarazzato silenzio». Nella sua laconicità - e lo faccio notare perché su questo tema dovrò tornare poi - l’autobiografia ci apre uno spiraglio sull’in­ teriorità del Nostro: «Fu forse la prima volta in cui mi capitò [di pensare] che forse il mio destino poteva essere quello di un compositore di second’ordine». In una lettera a Miaskovsky del 4 agosto 1925 Prokofiev si mostra in preda a dubbi, per un ar­ tista come lui, atroci: «[...] la sinfonia non ha risvegliato negli ascoltatori altro che una grande perplessità: è così complessa che io stesso, ascoltandola, non arrivo a fare il punto della si­ tuazione. Non si può pretendere che lo facciano gli altri. [...] È possibile che in età matura e al culmine delle mie capacità tec­ niche io sia potuto arrivare ad uno scacco così cocente dopo nove mesi di accanito lavoro? ». Insieme con la Sinfonia n. 2, «per guadagnare un po’ di denaro», Prokofiev scrisse un quintetto per oboe, clarinetto, 124

violino, viola e contrabbasso, op. 39, intitolato Le Trapeze, Il trapezio. Si trattava di una commissione arrivata dal coreografo Boris Romanov per la compagnia dei Balletti Ambulanti, avente per argomento il circo. Prokofiev scrisse una suite in sei parti, una specie di divertissement da un balletto più che un balletto, pieno di humour e molto impegnativo per gli esecutori. Il para­ gone con VHistoire du soldat di Stravinsky è ovvio e viene fatto regolarmente dai commentatori, ma è tutto di superficie perché l’amaro pessimismo di Stravinsky (e di Ramuz, creatore del te­ sto) è del tutto estraneo al programma del Trapezio, che è spet­ tacolare. Piuttosto è da notare come il Quintetto, sia concettual­ mente che poeticamente, abbia a che vedere con l’estetica della semplicità parigina, con le sue simpatie per il jazz, il music-hall, il circo. Il 21 gennaio 1924 era morto Lenin, nel corso dell’anno la Francia riconosce l’Unione Sovietica, si aprono le rispettive am­ basciate nelle rispettive capitali, Prokofiev ha in Francia lo sta­ tus di cittadino sovietico e non più di «rifugiato». L’Occidente accetta e legalizza il fatto compiuto: dalla Rivoluzione è nato un nuovo stato. E Diaghilev, fiutando il vento, propone a Proko­ fiev un balletto che celebri il lavoro nell’Unione Sovietica: Pas d’acier, Passo d'acciaio.

Balletto in due parti, una specie di ieri e oggi. La prima parte si articola in sette scene: «La battaglia di Baba Yaga con il coccodrillo», «Gli ambulanti e le contesse», «Il marinaio e i tre diavoli», «Il gatto, la gatta e i sorci», «La leggenda dei be­ vitori», «L’operaia e il marinaio», «Finale». Il significato sim­ bolico di questa parte del balletto è evidente, ma i simboli sono nebulosi: viene presentata la vecchia Russia di prima, destinata all’estinzione, ma che cosa rappresentino la strega Baba-Yaga e il coccodrillo (coccodrillo fantasma, che non compare mai), i diavoli, i gatti e i topi e i bevitori è un mistero: « [...] soggetto quasi incomprensibile», scrive Pierre Lalo recensendo lo spetta­ colo su Comoedia. La seconda parte è in tre scene: «La cuffia, Il passaggio degli operai, L’officina in marcia». Qui si celebra 125

l’industrializzazione, cominciando con un danzatore-lingotto tornito da quattro operai e proseguendo con la glorificazione della macchina. Prokofiev rivendica e «Porientamento verso una lingua mu­ sicale russa, non, questa volta, quella delle Favole di Afanasiev [nel Buffone} ma quella che poteva descrivere la vita contempo­ ranea [dell’Unione Sovietica] » e «un passo molto decisivo che mi portava dal cromatismo verso il diatonismo ». Superamento della Sinfonia n. 2, insomma. E Pas d'acier, rappresentato a Pa­ rigi il 7 giugno 1927 e ripreso il 4 luglio a Londra, ottenne un clamoroso successo (e la piena riprovazione di Stravinsky). Non si trattava tuttavia di un successo decisivo perché il bal­ letto non entrava nel repertorio di altre compagnie, come non en­ trava in repertorio VAmore delle tre melarance che aveva avuto il suo battesimo europeo a Colonia il 14 marzo 1925 e che veniva ripreso a Leningrado e a Berlino nell’ottobre del 1926. La suite tratta dall’opera veniva presentata a Parigi il 25 novembre 1925 senza successo, una tournée negli Stati Uniti all’inizio del 1926 era stata favorita da Kussevitzki, diventato direttore stabile del­ l’orchestra sinfonica di Boston, ma gli onorari non erano vera­ mente soddisfacenti (Prokofiev riesce tuttavia a saldare il vecchio debito con il dentista dottor Hussa), e insoddisfacenti erano i guadagni di una tournée primaverile in Italia, una tournée du­ rante la quale i Prokofiev furono presenti ad un’udienza del Papa Pio XI e incontrarono Maxim Gorki, vecchia conoscenza di Ser­ gej. Nella recensione del «futurista» Silvio Mix si parla delle «ot­ time qualità del meccanismo tecnico » e, sorprendentemente, del «giuoco personale e interessante nell’uso del pedale». Prokofiev stava in realtà ritrovando in Europa, per ragioni diverse, la stessa situazione che aveva trovato nel 1918 negli Stati Uniti: il pubblico era più interessato al passato e all’esecu­ zione che al presente o, meglio, il gusto per la musica del pre­ sente si era indirizzato verso il jazz e verso, come diceva Bartók, il «colto-popolaresco». In verità Prokofiev aveva svolto una gran parte della sua attività non solo grazie a se stesso ma so­ 126

prattutto grazie a Diaghilev e a Kussevitzki, e l’aiuto fornitogli dal secondo era stato di duplice natura. Kussevitzki dirigeva molte musiche di Prokofiev facendogli incassare i diritti d’au­ tore, ma dirigendo Prokofiev incassava a sua volta, in quanto editore, i diritti dell’editore e i proventi dei noleggi delle parti­ ture e delle parti d’orchestra. Proprietario di una sua orchestra a Parigi, direttore stabile a Boston dal 1924, Kussevitzki poteva programmare tutta la musica che voleva e le sue esecuzioni erano come una «vetrina», una «mostra» per ciò che gli agenti della sua casa editrice proponevano poi ai teatri e alle società di concerti. Noi non sappiamo quale parte ebbero i public rela­ tions men di Kussevitzki nelle produzioni delVAmore delle tre melarance a Colonia e a Berlino, ma è certo che ad essi è da at­ tribuire la promozione di quelle esecuzioni. Però le musiche di Prokofiev, una volta avviate, non camminavano purtroppo an­ cora per virtù propria. La differenza in termini di carriera tra il ricercatissimo Stra­ vinsky e Prokofiev era che Stravinsky si era affermato prima della guerra con partiture - L'uccello di fuoco, Petruska, La sa­ gra della primavera - entrate ben presto in repertorio e che ve­ nivano eseguite da direttori non legati ai Balletti Russi: nessuna delle nuove musiche di Stravinsky otteneva successi «popolari» paragonabili a quelli delle composizioni ora menzionate, ma il suo nome era ormai prestigioso ed egli era conosciuto e rispet­ tato anche all’infuori dei circuiti specializzati e dei festival. Pro­ kofiev si affacciava veramente alla ribalta internazionale dopo la guerra e, come prima dicevo, non otteneva nessun successo de­ cisivo per la sua carriera. Per di più (per quanto ciò possa sem­ brar banale) egli era tutt’altro che «mondano», non frequen­ tava a Parigi né Nadia Boulanger, maitre à penser della musica, né Jean Cocteau, maitre à penser della poetica musicale, non era assiduo nei salotti della principessa di Polignac e di Darius e Madeleine Milhaud nei quali si produceva consenso. Non na­ scondeva il suo disinteresse per i Six, diceva che la musica di Debussy era «invertebrata», non si faceva vivo con gli inter­

preti più coccolati dal gran mondo e ad una cantante celebre che aveva scelto alcune sue liriche consigliava di lasciarle da parte, visto che non ci aveva capito proprio niente. Dall’Unione Sovietica giungevano invece richiami gratifi­ canti. Nel 1926 usciva nella rivista La vita artistaca un articolo di Vladimir Maikov che diceva: «L’astro di Prokofiev declina rapidamente e i circoli estetizzanti, non avendo trovato nella sua musica quell’odore di formaggio marcio caro al cuore della borghesia parigina, parlano di lui come d’un morto ». Invitato nell’Unione Sovietica, Prokofiev rimise il piede in patria il 18 gennaio 1927, raggiunse Mosca il 20 e venne accolto come un trionfatore. Mosca, Leningrado, dove si rappresentava VAmore delle tre melarance, Kharkov, Kiev, Odessa, ancora Mosca... Con l’eccezione della Sonata n. 5 e della Ouverture op. 42 scritta negli Stati Uniti nel 1926, tutte le musiche di Prokofiev vennero ammirate e applaudite da un pubblico entusiasta. A Odessa i musicisti locali offrirono a Prokofiev una serata con musiche sue, una serata in cui il diciottenne David Oistrakh, allievo del conservatorio, fu scelto per eseguire lo Scherzo del Concerto n. 1. Durante l’esecuzione il giovane violi­ nista vide che l’Autore faceva la faccia scura. Finito il pezzo vi fu un grande applauso a cui Prokofiev non si unì. Anzi. Si avvi­ cinò al podio, sedette al pianoforte e disse tranquillamente al povero Oistrakh: «Giovanotto, voi non lo suonate per niente nel modo giusto». E procedette a dimostrare come il pezzo an­ dava fatto, svergognando Oistrakh, il suo famoso insegnante Stoljanov e tutti gli entusiasti ascoltatori. Molti anni più tardi il violinista ormai celebre ricordò a Prokofiev l’incidente. Proko­ fiev aveva ben presente lo «sfortunato giovane» a cui aveva dato «una bella bastonatura», ma quando capì chi fosse quel tapino mostrò «genuino imbarazzo e pena», facendo capire, dice non senza ironia Oistrakh, « quanto caldo ed umano po­ tesse essere quando gli garbava». Di un altro simile incidente parla Prokofiev stesso nel dia­ rio di viaggio del 1927. Il 25 marzo, di ritorno dall’URSS, i Pro128

kofiev sostano a Berlino ed incontrano Alexandr Cerepnin, fi­ glio di Nicolai, in compagnia della moglie di parecchio più an­ ziana di lui. Cerepnin dice a Prokofiev di aver eseguito con un violoncellista la Ballata op. 15 e Prokofiev risponde: «Senza dubbio Pavere suonata così male come a Parigi». Lina, testimo­ nia Prokofiev, «è indignata per la mia condotta: io rispondo che non sopporto di vederli insieme». Il primo passo verso il ritorno in URSS è dunque com­ piuto. Ma intanto arriva una notizia che mette l’argento vivo nelle vene di Prokofiev. Bruno Walter, direttore della Stàdtische Oper di Berlino, ha sentito parlare (da Kussevitzki? dai suoi agenti?) dell’Angelo di fuoco ed è disposto a metterlo in scena. Prokofiev si rimette al lavoro e durante l’estate termina la parti­ tura.

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RENATA Come ho già detto, Brjusov costruì il romanzo L'angelo di fuoco sulla finzione letteraria del manoscritto antico, trovato, tradotto e commentato ma, come appare dalla spiegazione che ho prima riportato, a questa iniziale finzione ne aggiunse una seconda: il manoscritto era opera di un «testimone», cioè di Ruprecht, il protagonista maschile della vicenda che parlava in prima persona. Il racconto espone dunque la vicenda dal punto di vista del « testimone » ed è tutto orientato su questi. E sic­ come il «testimone» è l’Autore, 1 Autore parla, mascherato, in prima persona. Tanto in prima persona che il romanzo nasce da una vicenda nella quale erano stati coinvolti Brjusov (in veste di Ruprecht), il suo amico Belyi (nelle vesti dell Angelo) e Nina Petrovskaja (in veste di Renata). Brjusov (1873-1924), gran maestro del simbolismo russo, aveva protetto gli esordi letterari di Andrej Bugaev (1880-1934), a cui aveva dato il nome d’arte di Belyi (cioè «bianco»). Nina Petrovskaja (1884-1928), moglie di un editore che pubblicava le opere dei simbolisti, si era inna­ morata del biondo, efebico Belyi, disponibile per parte sua ad imbastire una storia di amore platonico ed ascetico da cui do­ veva restare escluso il sesso che viceversa l’ardente donna, pazza di lui, reclamava imperiosamente. Belyi, messo alle strette, si sottrae, Brjusov gli rinfaccia il rifiuto, l’amicizia tra i due si rompe e Brjusov... approfitta dell’esaltazione di Nina per il sim­ bolismo divenendone l’amante. Nelle lettere che Brjusov scam­ bia con Nina - versione russa, questa, delle Lou Salome e delle Alma Mahler - si parla esplicitamente del «Tuo romanzo» che sta nascendo. E Nina, rievocando molti anni più tardi quei mo­ 130

menti, esporrà tutto il campionario degli spunti che Brjusov aveva trovato in lei ed aveva trasferito nel romanzo, «la dispe­ razione, la nostalgia mortale per un passato meraviglioso e fan­ tastico, la capacità di gettare la propria vita priva di senso su qualsiasi rogo, le idee e le speranze religiose buttate all’aria, av­ velenate da tentazioni diaboliche, il distacco dalla vita e dalla gente, l’odio per il mondo materiale, il vagabondaggio spiri­ tuale, la smania di condanna e di morte». Noi restiamo in dub­ bio nel decidere se Renata sia la proiezione di Nina o se Nina sia la postuma proiezione di Renata: sta di fatto che la Petrovskaja descrive benissimo il personaggio del prodotto letterario da lei ispirato. Questo il nocciolo autobiografico del romanzo. Che è però un romanzo storico in cui la Germania del secolo XVI viene descritta con un’erudizione senza pecche e in cui Brjusov sfog­ gia una sorprendente conoscenza degù antichi testi sulla strego­ neria. La vicenda di Renata è però solo una parte della vicenda e non s’arresta con la morte della donna. La stessa morte di Re­ nata è in Brjusov meno drammatica e più romanzesca che in Prokofiev. Ruprecht, con l’aiuto di un aristocratico, riesce a pe­ netrare nella cella in cui Renata è imprigionata in attesa dell’e­ secuzione e la scongiura di salvarsi fuggendo con lui. Ma Re­ nata - come la Margherita del Yaust - rifiuta e muore tra le braccia di Ruprecht, rivolgendogli dolcissime parole. Ruprecht lascia la Germania, incontra casualmente il conte Heinrich a cui dà notizia della scomparsa di Renata, e nel nome della donna amata da entrambi i due si separano senza rancore. Infine, a Grenoble, assiste alla morte di Agrippa di Nettesheim e scrive il suo racconto mentre attende di imbarcarsi per l’America. Questa fine quieta, che traspone nel romanzo la riconcilia­ zione di Brjusov e Belyi, non poteva soddisfare Prokofiev per­ ché non poteva soddisfare le ragioni spettacolari di un’opera teatrale. E quindi, riducendo a libretto l’enorme materiale del romanzo, egli si concentrò su Renata e concluse l’opera con la sua condanna (in qualche realizzazione scenica, facendo vio­

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lenza al testo ma ottenendo un effetto indubbiamente impres­ sionante, Renata viene mostrata sul rogo). Ciò porta ad un mu­ tamento di prospettiva narrativa e modifica l’equilibrio generale del romanzo, come avviene quasi sempre, del resto, quando un romanzo viene ridotto a libretto d’opera. Il finale dell’Angelo di fuoco presenta diverse incongruenze e la stessa comparsa dei personaggi di Faust e Mefistofele, come vedremo fra breve, non si giustifica interamente sul piano drammaturgico. Tuttavia, come tante volte prima di Prokofiev era accaduto nel teatro d’opera, la musica s’incarica di rendere saldo un libretto scric­ chiolante. Il primo atto, in un’unica scena, si svolge in una sordida locanda, di notte. Ruprecht, cavaliere tedesco appena tornato dall’America, viene accompagnato dalla Padrona in una camera nel sottotetto. Gettatosi sul giaciglio e avvoltosi nel suo man­ tello, lo stanco Ruprecht sta per addormentarsi profondamente quando viene bruscamente disturbato da grida provenienti dalla camera accanto: Renata, in preda ad ossessione, tenta di scacciare il demonio («Vattene [...] empio [...] dannato [...]. Via di qui, maledetto, via di qui! [...] Fuori di qui, non mi toccare»). Il cavaliere sfonda la porta e Renata corre verso di lui, chiamandolo per nome come se lo conoscesse: «Ruprecht! Ruprecht! Non ce la faccio più!» Ruprecht traccia con la spada nell’aria una croce e recita una preghiera, Renata si calma e, senza rispondere alla domanda del cavaliere («Chi le ha rivelato il mio nome? ») racconta la sua storia. Quando aveva otto anni le era apparso un «angelo tutto di fuoco», Madiel (nome modellato evidentemente su quello dell’arcan­ gelo Gabriel), che per molto tempo era ritornato da lei, con­ fortandola, educandola a diventare «santa» ed assistendola ne­ gli esercizi di ascesi. «In quei giorni guarivo i malati», rac­ conta Renata, «e tutti dicevano che ero un’anima eletta». Ma a sedici anni l’ingenua giovinetta chiese a Madiel di «unirsi a Lei carnalmente», e l’angelo, adirato, «si mutò in una colonna di fuoco e sparì». Qualche tempo più tardi l’angelo le apparve 132

in sogno, promettendole che sarebbe ritornato a lei in «aspetto umano», e Renata credette di riconoscerlo nel conte Heinrich, di cui divenne la felicissima amante. Ma Heinrich abbandonò il castello «senza avvisare nessuno», e Renata va ora errando in cerca di lui, tormentata di notte da « spaventose visioni ». Il lunghissimo monologo si conclude, Renata, allo stremo delle forze, si assopisce. Arriva la Padrona che spiega a Ru­ precht come Renata abbia « stregato il conte a tal punto che si è dato all’alchimia, alla magia e a simili pratiche diaboliche». Esce la donna, Ruprecht, che in fondo è un soldataccio, tenta di violentare Renata, ma desiste vedendola terribilmente scon­ volta e indifesa («Sola... Abbandonata... in una disperazione in­ consolabile. E intorno nessuno»). E scoccata la scintilla di un amore vero, Ruprecht accompagnerà Renata nella ricerca dell’a­ mante sparito. Ma rientra la Padrona, tremenda pettegola. Ha chiamato una Indovina, che in trance («Rista, pista... rista, zista... xista, xista... Sista, pista, rista, xista! ») vede sangue sulla blusa di Renata («Sangue, sangue! E puzza, puzza, puzza! »). Renata e Ruprecht fuggono, la Padrona rimbrotta l’indovina («cosa strilli come un’oca! Non sei all’osteria ma in un albergo per bene. [...] Hai predetto l’avvenire, ma adesso basta»). Questa scena è miracolosamente equilibrata in una mistura di fantastico, di demoniaco e di grottesco, un grottesco che è tutta farina del sacco di Prokofiev perché in Brjusov la scena è semplice. Drammatico il racconto di Renata, grotteschi i due ingressi della Padrona accompagnata da un servo sciocco che la prima volta ripete come un’eco le sue parole e la seconda volta commenta i rugli dell’indovina e alla fine la ammira («Come se li è messi in tasca») perché è stata pagata da Ru­ precht. E lo spettatore resta incerto se credere o non credere a Renata: il soprannaturale è forse illusione o è attribuibile alla isteria della donna. Ma nello stesso tempo c’è da chiedersi come Renata conoscesse il nome del cavaliere che scaccia da lei il demonio. 133

La prima scena del secondo atto si svolge a Colonia, nella camera in cui vivono Renata e Ruprecht. Renata, « china su un grande libro con rilegatura in pelle», si prepara ad evocare gli spiriti per sapere dov’è il conte Heinrich. Il libraio ebreo Jakob Glock le porta dei testi di magia, testi proibiti che potrebbero procurare a chi li possiede i rigori dell’inquisizione. Renata li sfoglia, ne consulta uno con estrema attenzione, inizia l’esorci­ smo. Si odono dei colpi contro la parete. E anche qui Prokofiev mischia il magico e il grottesco: Ruprecht Hai sentito il colpo? Cosa può essere? Renata (senza voltare la testa) Non è nulla, succede spesso. Sono i piccoli... Ruprecht I piccoli? Cosa vuoi dire? Renata I piccoli demoni. Ruprecht Quali piccoli demoni? Renata Ah, lasciami tranquilla.

Ruprecht pone delle domande, i demoni rispondono «sì» battendo i classici tre colpi alla volta e confermano che il conte sta arrivando. Folle di passione e di speranza, Renata vola alla porta, ma... non trova nessuno. Arriva invece Glock, che non avendo reperito l’ultimo proibitissimo testo magico richiestogli da Renata ha rimediato un appuntamento da Agrippa di Nettesheim, un « grande, potentissimo mago » i cui « trattati sono già stati più volte bruciati dall’inquisizione». Nel secondo quadro Ruprecht incontra Agrippa, che a sentirsi chiamare «grande mago» ri­ sponde «non sono un mago, sono uno scienziato e un filosofo», e all’obbiezione «Lei ha pubblicato un libro sulla magia rituale» controbatte « Sono stato indotto a farlo da varie ragioni che è inu­ tile le spieghi». Insomma, con Agrippa Ruprecht non cava un ra­ 134

gno dal buco, sebbene tre scheletri, « Facendo sbattere le ossa », rinfaccino continuamente al loro padrone il suo ambiguo compor­ tamento con dei clamorosi «Menti! ». La tensione emotiva è in questo quadro altissima ed è prepa­ rata da un intermezzo di allucinata potenza. La tessitura acuta della parte di Agrippa e la pesantissima orchestrazione richiede­ rebbero un tenore drammatico in grado di cantare V Otello, cosa evidentemente impossibile in teatro per ragioni economiche, sic­ ché il ruolo viene solitamente ricoperto da un tenore leggero la cui voce dev’essere amplificata, cosa che intensifica l’atmosfera magica in contrasto con le parole di Agrippa. In Brjusov il fisolofo, che abita a Bonn, e Ruprecht, che lo incontra dopo un’attesa di quasi due giorni, dibattono con forza il tema della magia in presenza dei discepoli di Agrippa, il quale, rispondendo con irri­ tazione alla domanda sul perché avesse pubblicato il trattato Della filosofia occulta, dice: «Avevo dei buoni motivi per stam­ pare la mia opera, e voi, giovanotto, non ne avete neanche l’idea. Sarebbe fuor di luogo spiegarvelo adesso, per non dire che un giuramento specifico mi vieta di toccare alcune questioni in pre­ senza di profani». Ovviamente, nello studio di Agrippa non vi sono scheletri, e tanto meno parlanti; c’è un cane nero, che se­ condo la vox populi è un diavolo servente ma che... si comporta irreprensibilmente da cane. Uscito dalla casa di Agrippa, Ruprecht trova per strada Re­ nata e « con tono tranquillo, quasi allegro » le comunica l’esito del colloquio con il mago: «Renata, mi sei venuta incontro? Sono stato ricevuto da Agrippa. Mi ha illuminato la mente, mi ha purificato l’anima. Dimentica colpi alle pareti e spiriti: sono tutti deliri e chiacchiere di ciarlatani». Povero ingenuo Ru­ precht! Renata ha visto Heinrich, gli ha parlato, lui l’ha respinta sprezzantemente, lei ha capito che «è solo un uomo, un sem­ plice uomo, che si può sedurre, irretire e distruggere... E io nella mia esaltazione ho immaginato ch’egli fosse il mio angelo, il mio Madiel, eternamente puro, eternamente inaccessibile! » Ruprecht, perdutamente innamorato, vorrebbe portar via Re­ 135

nata, ma la donna gli chiede di uccidere il conte in cambio del suo amore (« [...] sarò tua, ti sarò fedele, ti amerò, ti seguirò do­ vunque, dovunque»). Il buon cavaliere accetta il baratto, bussa alla porta della casa di Heinrich, entra. Renata, intanto, invoca Madiel, che le appare ad una finestra del secondo piano..., col volto di Heinrich. E quando Ruprecht le annuncia che il conte ha accettato la sfida a duello, la donna invasata, com’è ovvio, gli vieta di uccidere il rivale («Ruprecht, Ruprecht! Giurami che non lo toccherai. Muori tu piuttosto, Ruprecht, Ruprecht, ma non toccare Madiel! »). E anche qui non c’è bisogno di far no­ tare come Prokofiev si mantenga in bilico tra il demoniaco e il grottesco. Seconda scena del terzo atto. Il duello si è appena con­ cluso, Ruprecht è stato gravemente ferito. Arriva Renata, che ha improvvisamente capito di amare il cavaliere: «Sappi, Ru­ precht, gli spiriti mi hanno detto che mi sarebbe stato mandato il coraggioso Ruprecht, che solo il coraggioso Ruprecht sarebbe stato il mio paladino. [...] è forse colpa mia se tu mi hai conqui­ stato con la tenerezza, la fedeltà, la forza del tuo amore trasci­ nante e potente come un torrente tra le rocce, (abbracciando ap­ passionatamente Ruprecht) Ti amo, Ruprecht! » Ma un coro di voci femminili, «imitando ironicamente», ripete «Ti amo, ti amo, ah, ah, ah, ah!» Ruprecht delira, vede i pellerossa che aveva incontrato in America... Mathias, suo amico dai tempi dell’università e suo assistente nel duello, era andato a cercare un medico con cui ritorna: Mathias A destra, signor dottore. Lo abbiamo lasciato dove è caduto. Lo salvi, faccia tutto il possibile! Medico Mio giovane amico, non siamo nel decimo secolo. Nel sedicesimo non c’è nulla di impossibile per la medicina.

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E qui ci sentiamo per un momento in Gianni Schicchi, con il sentenzioso Maestro Spinelloccio che predica « a qual potensa l’è arrivata la sciensa». Tn Brjusov il dialogo tra Mathias e il Medico non esiste af­ fatto: il tuffo finale nel grottesco è una scelta di Prokofiev. Il quarto atto si svolge su una piazza di Colonia, con la casa di Ruprecht e Renata a sinistra e una taverna a destra. In un drammatico colloquio Renata respinge violentemente Ruprecht: «Ero in delirio quando ti ho detto che ti amavo, in delirio e nella più assoluta disperazione. Che cos’altro mi rimaneva da fare? Ma tremavo dal disgusto quando tu mi abbracciavi». E fugge. Ruprecht la insegue, ma è ancora convalescente, cam­ mina aiutandosi con il bastone e non riesce quindi a raggiun­ gerla. Entrano Faust e Mefistofele questionando comicamente tra di loro. Ritorna Ruprecht, ordina all’oste del vino ed è subito servito; perciò Mefistofele, a cui non è ancora stato portato il piatto di montone richiesto, «divora in un boccone» il ragaz­ zino negligente che non era stato sollecito con lui. «Possibile che non ti sia venuto a noia ripetere sempre gli stessi trucchi? », sbotta Faust. E infatti, pregato dall’oste perché «domani è fe­ sta, ci sarà molta gente... Ridatemi il ragazzino, da solo non ce la faccio proprio », Mefistofele indica il secchio della spazzatura in cui viene ritrovato, intatto, il piccolo garzone. Ruprecht è sbalordito dal prodigio, Mefistofele attacca discorso con lui e lo ingaggia come guida per una visita alla città di Colonia. Come ho già detto, l’incontro di Ruprecht con Faust e Me­ fistofele è aneddotico, e ancor più aneddotica è la comparsa di Faust, Mefistofele e Ruprecht nel convento in cui si consuma nel quinto atto il martirio di Renata. I tre assistono da una gal­ leria alla scena di possessione diabolica e c’è un intervento di Mefistofele che potrebbe portare ancora una volta lo spettacolo verso il grottesco, ma è talmente breve ed irrilevante da non mutare il clima allucinato della scena. Siamo nella cripta di un convento femminile in cui si è rifugiata Renata, vestita da novi­ 137

zia. Dopo il suo arrivo si sono verificati nel convento strani fe­ nomeni (« Misteriosi colpi alle pareti, invisibili dita che toccano nell’oscurità, visioni e tremende convulsioni perseguitano le so­ relle», come dice la Superiora), ed è stato perciò chiamato Finquisitore, che interroga Renata ottenendone risposte soddisfa­ centi. Ma si sentono colpi alle pareti, due giovani monache ca­ dono in preda al demonio, l’Inquisitore cerca invano di eserci­ tare i suoi poteri di esorcista mentre la possessione diabolica progressivamente si estende a tutte le suore e alla stessa Renata. Inizia una danza orgiastica, le monache e Renata si gettano sull’Inquisitore, lo accusano di aver «venduto l’anima a Satana», di essere un «diavolo con la coda, coperto di peli», tentano di denudarlo. Il seguito dell’Inquisitore chiama le guardie che tra­ scinano via le monache, la scena si chiude con l’Inquisitore che, «tenendo inchiodata a terra Renata con la sua croce», grida: «Questa donna è colpevole di rapporti carnali con il diavolo. Sarà sottoposta al giudizio dell’inquisizione. Torturarla imme­ diatamente! Bruciare la strega sul rogo! ». Si è parlato spesso, per la musica dell’Angelo di fuoco, di Leitmotiv e e quindi di latente wagnerismo. Ma in Prokofiev manca del tutto l’uso di «motivi conduttori» come elementi strutturali del discorso sinfonico. Si tratta invece, in lui, dei co­ siddetti motivi di reminiscenza che appartengono alla tradizione teatrale non-wagneriana e che trovano un’ampia applicazione, ad esempio, in Puccini. Un’analisi anche superficiale della bo­ hème e soprattutto della Tosca dimostra quanto Prokofiev abbia adottato nell’Angelo di fuoco questa consolidata tecnica di co­ struzione drammatica. I motivi, brevi, caratterizzano con forza icastica i personaggi e il loro ritorno orienta emotivamente lo spettatore con una forza coinvolgente enorme. La scena finale è un miracolo di costruzione contrappuntistica, molto più com­ plessa del primo tempo della Sinfonia n. 2 ma chiarissima nel suo significato drammatico; tutta la musica ha una scorrevolezza discorsiva che mantiene costantemente alta la tensione. Il tratto più singolare dell’Angelo di fuoco è tuttavia da ricercarsi nella 138

non-identificazione dell’Autore, e quindi dello spettatore, nella vicenda: come ho fatto notare, si resta incerti se prestar fede o no all’apparire delle forze del male, che sono il riflesso di cre­ denze superstiziose diffuse ancora nel XVI secolo ma non realtà esistenti. Da qui le oscillazioni fra gli estremi del realismo e del grottesco. Persino il solenne Inquisitore, che recita le formule dell’esorcismo come filastrocche (« Spiriti maligni, damnati, ex­ terminati, extorsi, jam vobis impero et praecipio, in ictu oculi discedite») ci appare come un cugino del mago Celio che si fa prendere in giro da Farfarello. E non solo il grottesco, ma an­ che il farsesco non è assente nell’Angelo di fuoco, che a buona ragione è comunemente ritenuto uno dei maggiori capolavori del Novecento: non del teatro musicale in genere, ma proprio del Novecento che inventa, o sviluppa al massimo grado il metateatro.

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ANCORA PARIGI «Nell’estate del 1927», scrive Prokofiev, «completai l’or­ chestrazione dell’Angelo di fuoco. Lo spartito per canto e piano­ forte con testo tedesco fu stampato per la produzione di Ber­ lino, ma le parti d’orchestra arrivarono troppo tardi e la produ­ zione fu cancellata». Questa ricostruzione della mancata messa in scena dell’opera sembra molto strana o, per dirla tutta, sem­ bra tirata per i capelli. Se le parti orchestrali arrivano troppo tardi per la data fissata, ma se la produzione è già stata avviata, come solitamente accade, la rappresentazione non viene cancel­ lata, viene posposta. E probabile invece che Bruno Walter, dopo aver Ietto lo spartito, fosse stato preso da dubbi o avesse valutato come eccessivo il costo della produzione. In una lettera del 25 gennaio 1928 a Miaskovsky, citata dal Nice, Prokofiev disse che il ritardo nell’arrivo delle parti era «una scusa schi­ fosa di Walter», il quale «se non poteva darla in autunno avrebbe potuto darla in primavera ». Il Nice commenta che affi­ darsi a Walter equivalse a «puntare sul cavallo sbagliato» men­ tre la Kroll Opera era diretta da Klemperer e la Staatsoper da Kleiber, « uomini di una generazione più giovane e più disponi­ bile verso l’opera moderna». Fatto sta che l’Angelo di fuoco non andò in scena a Berlino né nel 1927 né più tardi. Nel 1930 fu il Metropolitan di New York che mostrò un certo interesse per l’opera. Prokofiev, riletto il suo lavoro, pensò di apportarvi alcune modifiche. La versione progettata nel 1920 era in tre atti e undici scene, la versione del 1927 era in cinque atti e sette scene. Nel 1930 Prokofiev decise di ritor­ nare ai tre atti con dieci scene, due delle quali nuove. Questa 140

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terza versione, che rimase allo stato di abbozzo, prevedeva la ri­ comparsa nel secondo atto dell’indovina, una scena di massa nella quale i contadini accusavano Renata di aver stregato il conte (si trattava, com’è evidente, di un ampliamento del breve dialogo tra la Padrona della locanda e Ruprecht nel primo atto), più una scena, senza riscontri nel romanzo, in cui Renata por­ tava Ruprecht a vedere un affresco in cui era raffigurato l’an­ gelo di fuoco. Questa scena, in una notte di luna, avrebbe dato in un certo senso una spiegazione realistica dell’ossessione di Renata ed avrebbe rinforzato il sospetto che le sue visioni aves­ sero un’origine isterica. L’interesse del Metropolitan svanì però ben presto e Prokofiev non rimise mano ALAngelo di fuoco. Nell’autobiografia, scritta nel 1941, egli asserì di voler an­ cora riprendere l’opera. Anche questa affermazione ci stupisce perché tutto il materiale &ALAngelo di fuoco era stato lasciato a Parigi e nel 1941, in piena guerra, non avrebbe potuto esser re­ cuperato. Insomma, malgrado tutti i suoi sforzi, Prokofiev potè ascoltare dell’Angelo di fuoco solo una parte del secondo atto, diretta a Parigi da Kussevitki in forma di concerto il 14 giugno 1928 (Nina Koshetz cantò la parte di Renata; ma ormai il suo astro era tramontato e Lina stava piuttosto attenta a rintuzzare le mire della moglie di Alexandr Borovsky, Maria Baranovskaja detta Frou-Frou). La prima esecuzione scenica ebbe luogo al Festival di Musica Contemporanea di Venezia il 14 settembre 1955 nella versione in lingua italiana di Mario Nordio, con la regia di Giorgio Strehler, le scene di Luciano Damiani, i co­ stumi di Ezio Frigerio e la direzione di Nino Sanzogno. Faccio notare un particolare curioso: il libretto venne stampato con il titolo L'angelo di fiamma e solo nel manifesto comparve il defi­ nitivo Angelo di fuoco. L’opera ottenne un grandissimo successo e fu subito ripresa da vari teatri. Oggi viene eseguita non rego­ larmente ma neppure raramente; in genere è divisa in due parti, raggruppando i primi tre atti e gli ultimi due, in modo da avere due finali «forti». Riprendiamo l’autobiografia di Prokofiev: 141

Dopo il successo delle Tre melarance il teatro di Leningrado voleva produrre il Giocatore e in questa occasione decisi di rivederlo. Erano passati dieci anni da quando lo avevo scritto ed ora vedevo chiaramente che cosa c era in lui di genuino e cos’era puro riempi­ tivo camuffato da fragorosi accordi. Scartai queste parti e le rim­ piazzai con altre costruite specialmente con il materiale che ritenevo degno di essere conservato. Inoltre ripulii le parti vocali e semplifi­ cai l’orchestrazione.

Come al solito - il destino di Prokofiev era di non poter mai mandare pacificamente in scena un’opera - a Leningrado non se ne fece nulla di nulla. Il Giocatore andò in porto due anni più tardi, il 29 aprile 1929, a Bruxelles. Anche la vicenda del Giocatore, in Dostoievski, viene nar­ rata dal protagonista, e quindi i problemi della riduzione a li­ bretto del romanzo si presentano allo stesso modo in cui si pre­ sentano nell’Angelo di fuoco. Ma il racconto di Dostoievski è breve, la vicenda, pur con aspetti paradossali, è realistica e non è complicata dalla marea di personaggi che popolano il ro­ manzo di Brjusov. Il libretto del Giocatore è quindi molto più compatto e cattura emotivamente lo spettatore anche di per sé. L’azione si svolge a Roulettenburg - nome che è tutto un programma - nel 1858. Aleksej Ivanovic lavora come istitutore nella famiglia di un generale russo, un buono a nulla, giocatore e pieno di debiti. Il gioco è però un vizio di famiglia, e la figlia­ stra del generale, Poiina, affida ad Aleksej, che di lei è innamo­ rato alla follia, una somma con cui tentare la fortuna al casinò: la vincita servirà per saldare i debiti che la ragazza ha contratto con il marchese De Grieux di cui è invaghita. Il giovane gioca, vince, rigioca, perde tutto. Il marchese e la sua amica Bianche formano una coppia poco raccomandabile, ma il generale man­ tiene con loro buoni rapporti perché anche lui ha avuto dei prestiti dall’uomo, che ha acceso un’ipoteca sulle sue proprietà, e non sarebbe alieno dallo sposare la donna, che come sua mo­ glie acquisterebbe uno status sociale rispettabile. Il generale,

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economicamente rovinato, cova una grande speranza, l’eredità della ricchissima nonna che un provvidenziale telegramma arri­ vato dalla Russia dà per morente. Purtroppo la morente arriva di sorpresa a Roulettenburg e a sua volta - il vizio di famiglia! - si precipita al casinò per lasciare sul tavolo da gioco tutto il denaro che ha portato con sé. Poco male, per lei: le restano in Russia due palazzi e tre villaggi (siamo nel 1858, prima che ve­ nisse abolita la servitù della gleba). Riparte, la tremenda vecchiarda, offrendo a Poiina di portarla con sé, ma la ragazza de­ clina l’invito. Poiina è molto turbata perché il marchese, di cui è stata l’amante, intende riprendersi il denaro dato in prestito allo stolido generale deducendone la dote di lei, anch’essa sfu­ mata sulla roulette. Offesa da questo mercanteggiamento, la giovane si confida con Aleksej, che decide di ritentare la for­ tuna e questa volta non solo vince ma fa saltare il banco. Porta il denaro a Poiina. Ma questa, benché ormai incline a corri­ spondere il suo amore, lo rifiuta e se ne va, disperata. Aleksej ritorna alla roulette. Questo il finale dell’opera. Nel romanzo Aleksej si fa accalappiare da Bianche, parte con lei per Parigi e in breve tempo consuma tutta la vincita, che in gran parte fini­ sce nelle tasche della ragazza. Una volta spogliato Aleksej, Bian­ che sposa il generale, che finalmente ha ghermito l’eredità della nonna, resta vedova molto presto ed eredita a sua volta il mal­ loppo. E Aleksej naviga tra piccole vincite e piccole perdite al gioco, sempre sognando di incocciare il gran colpo e di ricon­ quistare Poiina. Bianche, che impersona la disonestà vittoriosa, avrebbe po­ tuto essere drammaturgicamente la versione matura del Gi­ gante, ma nell’opera è un personaggio di fianco. Sarebbe stato del resto molto difficile, e forse impossibile spostare su di lei l’asse portante del racconto. Prokofiev, inoltre, era affascinato dal personaggio della nonna ed era molto orgoglioso di come l’aveva caratterizzato musicalmente. Ci sono dunque varie ra­ gioni perché la creazione di Prokofiev abbia ricevuto la sagoma­ li

tura che ha. Ma resta il fatto che la vicenda del Giocatore, nel­ l’opera, sembra troncata più che conclusa. Né il finale di Dostoievski né il finale di Prokofiev sono in realtà melodrammatici. Un melodramma tradizionale si sarebbe chiuso su un bel duettone d’amore, magari dopo un serrato dia­ logo chiarificatore tra Poiina e Aleksej, e il pubblico sarebbe uscito contento dal teatro. Invece... Succede con il Giocatore, in fondo, ciò che succede con la Rondine di Puccini, che essendo stata rappresentata per la prima volta nel 1917 è contempora­ nea della prima versione dell’opera di Prokofiev. In Puccini Magda - la rondine migrante - ritorna nel nido dell’amante ricco dopo aver vissuto un’avventura d’amore con il provinciale Ruggero, in Prokofiev la fuga di Poiina delude le aspettative dello spettatore. La vita, la vita reale fa irruzione negli schemi consueti del melodramma, che vuole o la tragedia o il Leto fine. La rinuncia a questi meccanismi, che sia Prokofiev sia Puccini conoscevano benissimo, dipese forse dal momento in cui le due opere furono composte, il momento in cui infuriava una guerra terribile? Difficile dirlo, ma la coincidenza non sembra a me priva di significato. La bella musica non è bastata alla Rondine per farsi amare dal pubblico, e la bella musica non è bastata al Giocatore’, mentre l’Amore delle tre melarance e l’Angelo di fuoco possono contare sempre su un successo assicurato in par­ tenza, il Giocatore resta nel limbo delle opere lodatissime dalla critica e guardate dal pubblico con sospetto. Il 1928 è un anno felice, per Prokofiev: viene al mondo il 14 dicembre il suo secondo figlio, Oleg, vengono scritti la Sinfo­ nia n. 3 op. 44, i due pezzi per pianoforte intitolati Cose in sé op. 45 e il balletto 11 figliai prodigo op. 46, la Sinfonia n. 2 viene eseguita per la seconda volta a Parigi il 16 febbraio e per la prima volta a Leningrado il 28 novembre. L’impressione de­ stata dalla Sinfonia, diretta da Walther Straram dopo ben otto prove, non è più così negativa e lo stesso Prokofiev si ricrede un po’ sulla qualità di questo lavoro, già fonte di tanti dubbi. Nel 1953 farà un abbozzo di revisione del primo tempo e pen144

sera di aggiungere un terzo tempo ma la morte gli impedirà di condurre a termine il progetto. Il materiale della Sinfonia n. 3 è in gran parte quello dell’Angelo di fuoco, tanto che il pezzo viene anche chiamato Sinfo­ nia dell"Angelo di fuoco, denominazione che a Prokofiev non piaceva affatto: «Il materiale più importante era stato composto indipendentemente dall’opera. Usato nell’opera aveva natural­ mente acquistato la sua caratterizzazione dalla vicenda, ma la perdeva quando veniva trasferito dall’opera alla sinfonia. Io ri­ tengo, e comunque preferisco che la Terza Sinfonia sia conside­ rata come pura sinfonia». Vana speranza. Chi conosce l’opera la ritrova nella sinfonia e chi non la conosce trova la spiega­ zione nel programma di sala o nel booklet del disco. La Sinfo­ nia n. 3, eseguita per la prima volta a Parigi il 17 maggio sotto la direzione di Pierre Monteux, ottenne un tiepido successo di stima, e solo molti anni più tardi entrò in repertorio. Choses en soi, Cose in sé, sono due pezzi per pianoforte nati perché, dice Prokofiev, « avendo scritto una gran quantità di musica semplice e comprensibile potevo occasionalmente permettermi il lusso di comporre qualcosa per me stesso ». Ma il titolo non ha giovato ai due pezzi, peraltro molto belli, che vengono eseguiti rarissimamente. Il successo di Pas d’acier non aveva indotto Diaghilev a commissionare a Prokofiev un altro balletto. Quando si apre a Montecarlo la nuova stagione dei Balletti Russi Prokofiev sale in macchina e raggiunge la riviera dopo aver messo a terra - la sua mediocrità come pilota era proverbiale e ben nota a tutti coloro che avevano avuto la sventura di salire in vettura guidata da lui - dopo aver messo a terra, dicevo, due ciclisti. Assiste così alla prima rappresentazione europea Apollon musagète di Stravinsky ed avvia con Diaghilev una trattativa che si con­ creta dopo qualche mese nel Figliol prodigo. La partitura fu scritta in autunno, il balletto andò in scena a Parigi il 21 mag­ gio 1929, quattro giorni dopo la prima esecuzione della Sinfonia n. 3. 145

Due lettere di Diaghilev a Serge Lifar, il ballerino scelto per interpretare la parte del protagonista, ci dicono quale rap­ porto di sudditanza si stabilisse tra il compositore di musica e l’onnipotente impresario che la musica la commissionava. «Pro­ kofiev ha ormai compiuto una buona metà del suo balletto. Una gran parte è molto buona. Siccome [la musica per] il ruolo femminile non è riuscita proprio bene lui è ben disposto a ri­ scriverla» (25 novembre 1928). L’1 dicembre, dopo un’altra au­ dizione al pianoforte, Diaghilev metteva i cartellini con i suoi giudizi sui vari pezzi: « L’ultima scena, il ritorno del Prodigo, è molto bella. La vostra variazione, il risveglio dopo l’orgia, è per Prokofiev proprio una stoffa nuova, una specie di profondo e maestoso notturno. Anche buono è il tenero tema delle sorelle, e molto buono, nella genuina maniera-Prokofiev, la scena del furto: tre clarinetti compiono miracoli di agilità» (entrambe le lettere sono citate da David Nice). Con Diaghilev, evidente­ mente, Prokofiev doveva passare ogni volta l’esame. 21 maggio 1929. La serata, molto mondana, comprende il balletto di Prokofiev diretto da Prokofiev e Renard di Stravin­ sky diretto da Stravinsky. «Rachmaninov, che sedeva in prima fila » racconta Prokofiev, « applaudì con condiscendenza alcuni numeri». Il pubblico va in delirio e il balletto viene portato poi a Londra e a Berlino. L’accoppiata Stravinsky-Prokofiev fun­ ziona, e Prokofiev ha anche la soddisfazione di leggere un grati­ ficante commento di Pierre Lalo su Comoedia\ « [...] dopo Re­ nard, in cui la musica è quasi del tutto assente, fa piacere ascol­ tare il Figliolprodigo e ritrovarla». Il trionfo riguardava sì la musica ma riguardava soprattutto le scene di Roualt, la coreografia di un Balanchine ancora alle prime armi e la presenza del danzatore, Serge Lifar, che nel cuore e nelle speranze di Diaghilev aveva preso il posto del transfuga Nijinsky. Prokofiev dichiara di non essere stato intera­ mente soddisfatto della coreografia, Lifar asserisce di essersi im­ pulsivamente staccato da ciò che aveva provato con Balanchine e di aver improvvisato tutta l’ultima scena. Resta il dubbio se a 146

Prokofiev non fosse piaciuto Balanchine o non fosse piaciuto Lifar. Nemmeno Stravinsky era del resto rimasto soddisfatto: « Senza voler fare un apprezzamento della nuova messa in scena devo dire che rimpiangevo la prima versione, creata nel 1922 da Bronislava Nijinska». I nuovi poulains di Diaghilev non vale­ vano dunque i vecchi. Ma il successo ci fu, grandissimo: gran­ dissimo e, purtroppo, non durevole, anche perché Diaghilev morì il 19 agosto e la sua compagnia si sciolse. La musica del Figliol prodigo, che è funzionale al balletto, resta secondo me stilisticamente un po’ incerta. Per taluni aspetti Targomento biblico stimola Prokofiev nella ricerca di at­ mosfere musicali nuove sospese e rarefatte, ma in altri momenti (nelle scene di seduzione della cortigiana) ritroviamo i tratti dell’Angelo di fuoco. Questa oscillazione stilistica non sparisce nemmeno nella suite sinfonica, op. 46 bis, che Prokofiev ricavò dal balletto nel 1929. Né più riuscita appare la Sinfonia n. 4 op. 47, composta tra la fine del 1929 e la primavera del 1930 su commissione di Kussevitzki per il cinquantenario dell’Orchestra Sinfonica di Boston e basata su materiale, appunto, del Fi­ gliol prodigo. Prokofiev dice che la prima esecuzione, a Boston il 14 novembre 1930, «non fu un successo». E l’insuccesso della Sinfonia n. 4 in un’occasione celebrativa non giovò alla carriera di Prokofiev, tanto più perché il suo lavoro era in con­ correnza con la Symphonic des Psaumes di Stravinsky, capola­ voro del Novecento musicale che venne eseguito il 13 dicem­ bre, e con la Konzertmusik di Hindemith. Nel 1947 Prokofiev rielaborò radicalmente la Sinfonia, portandone la durata da circa 25 a circa 40 minuti, senza tuttavia riuscire a renderla più attraente.

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LA «NUOVA SEMPLICITÀ»

Tanto fecondo è per Prokofiev il 1928, tanto... striminzito è creativamente il 1929, anno in cui vedono la luce due soli la­ vori minori, il Divertimento per orchestra op. 43, iniziato già nel 1925 e in gran parte ricavato dal Trapezio e dal Figliol pro­ digo, e la seconda revisione della Sinfonietta op. 5/48. Del Di­ vertimento dice Prokofiev: «Il colore dell’orchestrazione era moderato, sebbene vi trapelasse qualche traccia dell’influenza di Stravinsky, con il quale ero di nuovo in buoni rapporti. In que­ sto periodo Stravinsky insisteva sulla strumentazione austera». I buoni rapporti erano stati originati dal ritorno di Stravinsky alla fede ortodossa o, per lo meno, così sembra da una lettera, pub­ blicata nel catalogo di una mostra parigina dedicata a Stravinsky e riportata dal Dorigné. Val la pena, tanto è sorprendente, di leggerla per intero: Caro Serge, nella speranza che queste linee ti arrivéranno in tempo ti scrivo con la certezza che riconoscerai la buona fede di ciò che ti scrivo. Non mi comunicavo da vent’anni ed è a causa di un estremo bisogno spirituale che ora lo farò. In questi giorni andrò a confessarmi e prima della confessione vorrei, nella misura del possibile, chiedere perdono a tutti. Chiedo anche a te, caro Serge, a te con cui ho lavorato tanto tempo, di perdonare le of­ fese di tutti questi anni che sono passati senza pentimento di fronte a Dio, e di farlo sinceramente e di tutto cuore, come io te lo chiedo oggi. Rispondi con una sola parola, ti prego, io la riceverò ancora in

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tempo. Ti prego di non parlare a nessuno di questa lettera. Il me­ glio sarebbe di distruggerla. Ti abbraccio fraternamente.

Pare che Prokofiev non ricevesse mai questa lettera, ma sembra tuttavia certo che l’atteggiamento di Stravinsky verso di lui mutasse in coincidenza con la rinata fede religiosa. In un’in­ tervista citata da Gerald Abraham, Lina Prokofieva ricordò le frequenti visite di Stravinsky, con la moglie e i figli, nell’appar­ tamento dei Prokofiev a Parigi e nel castello di Montveran vi­ cino a Culoz, affittato per le vacanze estive. Proprio ritornando in macchina da Montveran alla fine del­ l’estate Prokofiev sbandò per il distacco di una ruota, uscì di strada mentre viaggiava - eccezionalmente! - a 80 chilometri al­ l’ora, e si arrestò miracolosamente sulla scarpata. I bambini grida­ vano terrorizzati, Lina aveva un occhio terribilmente tumefatto, Prokofiev era semisvenuto. Ma appena ripresosi, senza affatto oc­ cuparsi degli altri, egli chiese: «Dove sono i miei manoscritti?» In conseguenza dell’incidente Prokofiev non potè suonare il pia­ noforte per un paio di mesi e quindi non fu attivo come concerti­ sta nel viaggio che era stato fissato nell’Unione Sovietica per l’au­ tunno di quell’anno. A Mosca ebbe occasione di ascoltare per la prima volta la Sinfonietta nella nuova versione, di vedere al Bols­ hoi la produzione AATAmore delle tre melarance, e di incontrare senza impegni pressanti i vecchi amici. Ma ebbe anche l’occa­ sione per capire come il clima politico fosse cambiato dal 1927: l’Associazione Russa dei Musicisti Proletari condusse una campa­ gna contro il Pas d’acier che il Bolshoi aveva messo in prova e pose a Prokofiev delle domande provocatorie («[...] nella scena della « fabbrica » si tratta di una fabbrica capitalista in cui l’ope­ raio è schiavo o di una fabbrica sovietica in cui è padrone?»), tanto che il teatro stimò prudente di annullare la produzione. Nell’inverno del 1930 i Prokofiev (Lina si esibiva come can­ tante) effettuarono una importante tournée negli Stati Uniti e toccarono anche il Canada e Cuba. Fu in quell’occasione che il 149

Metropolitan dimostrò un certo interesse per YAngelo di fuoco ma, come ho già detto, le trattative non si conclusero positivamente. Si concluse invece positivamente la commissione di un quartetto per archi da parte della Library of Congress di Wash­ ington, Prokofiev studiò «i quartetti di Beethoven soprattutto nei trasferimenti in treno da un concerto all’altro » e terminò il Quartetto op. 50 al ritorno in Europa. Si tratta di un capola­ voro della musica da camera, un capolavoro in cui i problemi stilistici del Figliol prodigo e della Quarta Sinfonia vengono su­ perati. Il Quartetto fu eseguito a Washington il 25 aprile 1931 dal Quartetto Bros e fu poi portato in tournée in Europa dal Quartetto Roth. Prokofiev ne trascrisse il secondo tempo, An­ dante, sia per pianoforte (includendolo nei Sei Pezzi op. 52), sia per orchestra d’archi perché la tonalità di si minore creava dei problemi, in quanto la nota più grave del violoncello è il do, ma ritenne alla fine che la versione per quartetto fosse quella preferibile. Dopo l’America Prokofiev percorse l’Europa (Bruxelles, Torino, Milano, Montecarlo). Il 23 maggio 1930 eseguì a Varsa­ via il Terzo Concerto con un tale successo da esservi richiamato il 21 novembre per un intero programma di musiche sue, com­ prendente il Secondo Concerto diretto da Fitelberg. Durante l’e­ state aveva lavorato al balletto Sur le Borysthène che gli era stato commissionato da Serge Lifar, neodirettore del balletto dell’Opéra. Sur le Borysthène (l’antico nome del fiume Dniepr), costruito su uno scenario banalissimo, andò incontro ad un fia­ sco colossale quando, il 16 dicembre 1932, venne rappresentato a Parigi. La musica, tuttavia, segna un altro passo in avanti di Prokofiev verso la definizione di uno stile nuovo. Il 1931 è ricco di creazioni. Nascono i Quattro Ritratti ed un epilogo op. 49, basati sulla musica del Giocatore ma non come semplice suite sinfonica dal balletto, nascono le sei trascrizioni per pianoforte riunite, come già detto, sotto il numero d’opera 52, Ciascuna di esse, salvo l’Andante dal Quartetto op. 50, è de­ dicata ad un grande pianista: Y Intermezzo dal Figliol prodigo ad 150

Alexandr Borovsky (il marito di Frou-Frou), il Rondò (dal Figliol prodigo) ad Arthur Rubinstein, lo Studio (sempre dal Figliol pro­ digo) a Vladimir Horowitz, lo Scherzino (dai Canti senza parole) a Nicolai Orlov, lo Scherzo (dalla Sinfonietta) a Horowitz. Nasce infine il Concerto n. 4 op. 53 per pianoforte, commissionato dal

pianista austriaco Paul Wittgenstein, fratello del filosofo Ludwig. Paul Wittgenstein, che aveva perduto in guerra il braccio de­ stro, aveva chiesto a vari compositori, a cominciare da Richard Strauss, dei concerti o dei pezzi da concerto con i quali intendeva riprendere la carriera, stroncata dall’incidente. Alla fine degli anni venti si rivolse a Ravel e a Prokofiev, ed entrambi accetta­ rono la proposta. Il risultato fu in entrambi i casi insoddisfacente per Wittgenstein, che era artista dai gusti piuttosto antiquati, ma a noi interessa qui di capire come Ravel e Prokofiev risolvessero il problema di far ben figurare un pianista privo di un braccio senza tenere in conto, anzi, scartando decisamente la prospettiva pietistica di suscitare la compassione del pubblico verso il povero mutilato che alla Patria aveva sacrificato un braccio. Le due soluzioni sono radicalmente diverse. Ravel scrisse in pratica un pezzo da concerto in tre parti collegate, con una stru­ mentazione pianistica imponente nella prima e nella terza parte, che sono in movimento lento, e una strumentazione leggera nella parte centrale, che è in movimento mosso. I rapidi spostamenti lungo la tastiera combinati con Fuso del pedale di risonanza, nei movimenti lenti, permettevano di costruire un oggetto sonoro di spettro acustico molto ampio, mentre nel movimento rapido il pianoforte veniva integrato nell’orchestra. Si poteva sì pensare ad un concerto per violoncello trascritto per pianoforte, ma il tutto suonava tanto logico come se Ravel non avesse dovuto rinunciare a nulla. La limitazione fisica del pianista mutilato veniva invece per­ fettamente in taglio alla poetica della semplicità e della traspa­ renza che Prokofiev stava in quegli anni scandagliando. La scrittura pianistica del Concerto n. 4 è per lunghi tratti orna­ mentale, il pianoforte è quasi costantemente integrato in orche­ 151

stra e il virtuosismo del solista viene messo in evidenza solo in qualche momento del terzo tempo: troppo tardi per provocare nel pubblico la più istintiva delle reazioni, lo stupore, che viene indotta dalla drastica ed artificiosa riduzione dei mezzi di esecu­ zione senza la diminuzione dell’effetto. In realtà Ravel riprende i miracoli coloristici di Scriabin nel Preludio e Notturno op. 9 e l’incredibile virtuosismo di Felix Blumenfeld nello Studio op. 36, portandoli in una dimensione iperbolica, mentre Prokofiev riprende la spoglia scrittura degli Studi op. 135 di Saint-Saèns. Insomma, il francese guarda alla tradizione russa e il russo alla tradizione francese... Prokofiev racconta di aver spedito il Concerto a Wittgen­ stein e di averne ricevuto la seguente risposta: «La ringrazio per il Concerto, ma non ci ho capito nemmeno una nota e non lo suonerò». Dimentica di dire, il Nostro, che la commissione prevedeva la corresponsione di una forte somma e l’« esclusiva » a Wittgenstein per sei anni. Wittgenstein non eseguì mai il Con­ certo n. 4 e Prokofiev non lo eseguì una volta passati i sei anni; anzi, quando rientrò nell’Unione Sovietica lasciò la partitura in Francia. Il pezzo ebbe il suo battesimo solo nel 1956 a Berlino con Siegfried Rapp, mutilato della seconda guerra mondiale. La struttura del Quarto Concerto è in quattro tempi: 1) una forma-sonata atipica, 2) una forma di canzone atipica, 3) un am­ plissimo terzo tempo che sembra un finale e che termina in fortis­ simo, 4) un postludio rapidissimo, a modo di studio, molto breve e con dinamica piano dall’inizio alla fine. C’era di che sconcertare non solo Wittgenstein ma gli ascoltatori degli anni trenta, e non solo gli ascoltatori degli anni trenta ma anche quelli del duemila. Il Concerto, pur così semplice nel linguaggio e lineare nella scrit­ tura, alla fine risulta oscuro, enigmatico. E certamente il concerto di Prokofiev più pensato e più meditato, ed è il più genialmente costruito; manca completamente di quei caratteri - tematici e ge­ stuali - che possono immediatamente colpire l’ascoltatore e gui­ darlo nella comprensione dell’opera. Pochissimo eseguito, è però da annoverare sicuramente tra i capolavori assoluti del concerto 152

per pianoforte e orchestra, e nella evoluzione poetica e stilistica di Prokofiev rappresenta il luminoso punto di arrivo delle ricer­ che condotte negli anni precedenti. Come ho detto prima, Prokofiev non curava a Parigi le fre­ quentazioni sociali che giovano anche alla carriera di un musici­ sta. Ma riceveva volentieri in casa sua i rari amici, giocava a scacchi, giocava a bridge e addirittura organizzava dei tornei di bridge, prendendoli molto seriamente. Nell’estate del 1931, da Ciboure (dove era nato Ravel), scriveva a Poulenc per invitarlo a partecipare al torneo che avrebbe avuto luogo in novembre, diceva che si stava esercitando con il violinista Jacques Thibaud e il basso Scialiapin e informava che anche il campione del mondo di scacchi Alekin sarebbe stato della partita. Il 22 otto­ bre consigliava a Poulenc, che attraversava un periodo di diffi­ coltà economiche, di prender parte ad un concorso di bridge bandito da una rivista di New York, con 2500 dollari di pre­ mio. «Rifletteteci bene! », concludeva. Da Poulenc, che posse­ deva una proprietà agricola (e che con il gioco d’azzardo ne di­ sperdeva la rendita), trattava anche l’acquisto di vini e chiedeva consigli per il reperimento di buoni piselli in scatola. Amante della buona tavola, trascinava la moglie in tournée gastronomiche in provincia, viaggiando in automobile alla media di trenta chilometri all’ora e facendo sosta in tutti i ristoranti raccoman­ dati dalla Guida Michelin. Nel 1932 compose la Sonata op. 56 per due violini per una piccola associazione parigina di musica da camera di cui era stato socio fondatore, le due Sonatine op. 54 per pianoforte e il Concerto n. 5 op. 55 per pianoforte. Tutti questi lavori, come il Concerto n. 4, sono scritti con mano maestra e con ammirevole purezza stilistica, tutti mancano di quei caratteri di umana cor­ dialità che coinvolgono emotivamente l’ascoltatore non profes­ sionista. Prokofiev si rendeva conto dello sconcerto che queste sue musiche provocavano nel pubblico rispetto, ad esempio, al Concerto n. 3, ma ne faceva un problema di assuefazione piut­ tosto che di espressione.

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A proposito del Concerto n. 5 egli espone nell’autobiografia queste riflessioni: Non avevo l'intenzione di scrivere un concerto particolarmente dif­ ficile e dapprima volevo chiamarlo Musica per pianoforte e orche­ stra, in parte per evitare una confusione con la numerazione dei miei concerti; ma alla fine avvenne che la mia opera si complicò, come fu in verità il caso di molte composizioni di questo periodo. Qual era la spiegazione [di ciò]? Nel mio desiderio di semplicità ero intralciato dalla paura di ripetere le vecchie formule, di ritor­ nare verso la «semplicità antica» che tutti i compositori moderni cercano di evitare. Cercavo dunque una «nuova semplicità», con il risultato di scoprire che essa, con le sue forme originali e soprat­ tutto con la sua nuova struttura tonale, non veniva capita. Il fatto che i miei sforzi per scrivere con semplicità non fossero co­ ronati dal successo resta secondario. Non abbandonai [questa via], sperando che quando l'orecchio si fosse assuefatto alle nuove melo­ die, vale a dire quando queste melodie fossero diventate un lin­ guaggio accettato, l'insieme della mia musica avrebbe dimostrato di essere semplice.

La prima esecuzione del Quinto Concerto ebbe luogo a Ber­ lino il 31 ottobre 1932, direttore Wilhelm Furtwangler. Proko­ fiev, che era stato in tournée nell’Unione Sovietica, arrivò solo in tempo per l’ultima prova e Furtwangler gli disse: «Ho te­ nuto per Lei una prova, che ovviamente non è abbastanza per un lavoro così difficile. Ma tutti cercheremo di fare del nostro meglio». Il «meglio» - «andò molto bene», dice Prokofiev venne offerto ad una platea che comprendeva Stravinsky e Schonberg, e il successo fu diviso con Hindemith, solista nell’Aroldo in Italia di Berlioz che completava il programma. Entro l’anno il Concerto fu eseguito da Prokofiev a Varsavia, Mosca, Leningrado, e nella primavera del 1933, sotto la direzione di Frederick Stock e di Kussevitzki, negli Stati Uniti. Non si può dunque dire che mancassero a Prokofiev le scritture, e a quale livello! Né si può dire che non ricevesse at­ 154

tenzioni dai più grandi direttori del momento. Però... A New York i Quattro Ritratti dal «Giocatore» op. 49, composti nel 1931 su materiale dell’opera, furono diretti da Bruno Walter, che già li aveva presentati « con un certo successo » a Lipsia e a Berlino. «L’esecuzione fu eccellente, ma la reazione del pub­ blico fu misera », e mentre Prokofiev usciva dal suo palco sentì «uno splendido tipo di prosperoso americano» dire ad alta voce: «Mi piacerebbe di incontrare questo ragazzo. Avrei da dirgli una o due cose a proposito della sua musica». La stima dei musicisti nel mondo occidentale faceva sì che a Prokofiev non mancassero le scritture come pianista. Ma senza i guadagni del concertista non sarebbe stato possibile mandare i bambini alla scuola privata di Christian Science, avere un’istitutrice che insegnava loro l’inglese, organizzare i tornei di bridge, possedere l’automobile e concedersi le tournée gastronomiche. E Prokofiev viaggiò, viaggiò molto in Europa e negli Stati Uniti. Si recò più volte anche nell’Unione Sovietica, dove la sua musica veniva accolta dal pubblico con maggior ca­ lore e dove stava diventando addirittura popolare. La composi­ zione nel 1933 del Canto sinfonico op. 57 per orchestra rientra ancora nel duro cammino che Prokofiev percorreva in solitu­ dine; la composizione delle musiche per il film sovietico Luogotenente Kijé rappresenta nella vita di Prokofiev una svolta deci­ siva.

SULLA STRADA DEL RITORNO Il Canto sinfonico è una specie di trittico alla francese (Trots Nocturnes, La Mer di Debussy), di durata che non rag­ giunge i quindici minuti e densissimo di contenuti sia sul piano compositivo che sul piano emotivo. Nell’autobiografia Prokofiev dice che le tre parti di questo lavoro, pur non avendo un pro­ gramma preciso, possono essere definite come « tenebre-lottacompimento», un contenuto, questo, che ideologicamente sem­ brerebbe appartenere ad un poema sinfonico di Strauss. Non è improbabile che il Canto sinfonico nascesse da un momento esi­ stenziale di Prokofiev particolarmente sofferto, ma siccome egli non ci dà altro che uno spiraglio per capirne il contenuto è bene che rispettiamo la sua riservatezza e che ci limitiamo a quelle tre parole. Non sarà però fuor di luogo ricordare che fra il 1929 e il 1930 Schonberg aveva scritto la Musica d'accompa­ gnamento per una scena di film op. 34 in tre parti, indicate nel sottotitolo come Pericolo incombente, Angoscia, Catastrofe. E non sarà fuor di luogo osservare che l’enigmatico Canto sinfo­ nico nasce nel momento in cui Prokofiev stava prendendo inte­ resse al cinema. Il Luogotenente Kijé non è certamente un film espressioni­ sta. Ma scrivendo musica da film Prokofiev teneva conto di contenuti espliciti e di immagini. Nella autobiografia egli cita suo articolo pubblicato su una rivista di Mosca il 6 dicembre 1932: Quale specie di soggetto sto cercando? Non caricature dei difetti che ridicolizzano i tratti negativi della nostra vita. Mi sto invece in­

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teressando a soggetti che mettano in evidenza gli aspetti positivi, gli aspetti eroici della costruzione socialista, I’uomo nuovo, la lotta per superare gli ostacoli. Questi sono i sentimenti e le emozioni che mi piacerebbe esprimere in grandi affreschi musicali.

E così prosegue, esaurita la citazione: [...] non era ancora chiaro per me quale fosse il linguaggio musicale con cui si poteva parlare della vita sovietica. A quel tempo non era chiaro per nessuno, e io non volevo commettere errori. Perciò fui contentissimo quando gli Studi Belgoskino mi chiesero di scrivere la musica per il film Luogotenente Kijé. Questo mi offriva una gradita opportunità di provare la mia mano, se non in un soggetto sovietico, per lo meno per un pubblico sovietico, e di massa.

Il film, tratto da una novella di Yuri Nikolaevic Tinianov e diretto da Alexandr Feinzimmer, sviluppa una vicenda che è senza dubbio quanto di meno « sovietico », in senso celebrativo, si possa immaginare. Uno scrivano distratto, maneggiando i re­ gistri di un reggimento, invece di scrivere porutciki-je (e i luogotenenti) scrive porutcik Kijé (luogotenente Kijé) e piuttosto di correggere Terrore crea la matricola e la carriera del luogote­ nente fantasma, che scontando una pena di altri viene esiliato in Siberia, è graziato, si sposa, ottiene brillanti avanzamenti di grado, si copre di gloria in battaglia ed è... coperto da un dilu­ vio di medaglie. A quel punto lo Zar vuole conoscere Kijé (che è diventato generale). Per cavarsi dall’impaccio lo scrivano non ha che un mezzo: Kijé muore. E lo Zar, alzando la spada sulla vuota bara infiorata declamerà commosso: «I miei uomini mi­ gliori se ne vanno. Sic transit gloria mundi». Satira al vetriolo della burocrazia alla prussiana, introdotta in Russia alla fine del Settecento da Paolo I, grande ammiratore di Federico II e dei suoi successori, il Luogotenente Kijé offre a Prokofiev l’occasione per sciorinare melodie e danze popolare­ sche e soldatesche con eroiche cornette, fischianti ottavini, rul­ lanti tamburi, nonché un saxofono tenore che sembrerebbe in­

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carnate Kijé. Non faccio riferimento al film, che non conosco, ma alla suite sinfonica in cinque parti, op. 60, composta nel 1934 e formata da Nascita di Kijé, Romanza, Matrimonio di Kijé, Troika, Sepoltura di Kijé. Credo che Prokofiev non abbia mai composto musica più divertente di questa, diretta, gioiosa, appena spruzzata da una patina di ironia bonaria. Nella Ro­ manza viene citata una canzone russa, « Geme la colomba gri­ gia», e per l’occasione Prokofiev adotta moduli stilistici che prende a prestito da Mahler, artista da cui, al contrario di Shostakovic, non fu mai influenzato. Tra il 1933 e il 1934 Prokofiev compose due serie di pezzi per pianoforte. I Tre Pezzi op. 59 sono quasi come un omaggio all’amico Poulenc, tanto spoglia è la loro scrittura e cordiale il loro contenuto, mentre i Pensieri op. 62 appartengono al Pro­ kofiev introspettivo e tormentato del Canto sinfonico. Nel 1934 il direttore del Teatro da Camera di Mosca, Alexandr Jakovlevic Tairov, propose a Prokofiev di comporre le musiche per uno spettacolo sulla figura di Cleopatra, comprendente parti ALTAntonio e Cleopatra di Shakesperare, del Cesare e Cleopatra di Shaw e della novella Le notti egiziane di Pushkin (intitolata in un primo momento Cleopatra). La produzione ebbe successo, fu rappresentata per settantacinque sere a Mosca e fu ripresa a Londra. Dalle musiche di scena Prokofiev trasse una suite op. 61 dal titolo Le notti egiziane, un titolo che in verità fa pensare a Ketelbey e ai suoi celeberrimi In un mercato persiano e Nel giardino di un tempio cinese. Un certo sforzo per scrivere mu­ sica di quel tipo che si suole chiamare classico-leggera Prokofiev lo aveva in verità fatto, e due dei sette numeri della suite - il primo, Notte in Egitto, con il malinconico flauto, e il terzo, Al­ larme, con protagoniste le percussioni - sono tra le sue pagine di più immediata «presa» sull’ascoltatore. Le notti egiziane ap­ paiono tuttavia molto di rado nelle stagioni sinfoniche. Nell’Unione Sovietica Prokofiev si recava sempre più spesso, e l’Unione Sovietica faceva grandi sforzi per attirarcelo. Gli fu persino proposto di insegnare composizione nel conser-

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vatorio di Mosca. Non accettò. Ma non rifiutò l’invito ad esami­ nare i lavori degli allievi di Miaskovsky. Katciaturian ricorda che «Prokofiev entrò in classe nel preciso momento in cui era atteso, salutò con un cenno della testa e sedette subito al piano­ forte». Le sue osservazioni erano «strettamente professionali» ed egli « fissava la sua attenzione su certi procedimenti armonici o polifonici». Meyerhold tentava intanto di far accettare a Le­ ningrado, senza riuscirci, il Giocatore, si cominciava a discutere di un balletto Romeo e Giulietta per il Teatro Kirov (l’ex-Teatro Marinski), si parlava di canti per le comunità agricole, due pittori bene accetti al regime, Piotr Kontchalovsky e Igor Gra­ bar, gli facevano il ritratto. Il 16 novembre 1934 Prokofiev pub­ blicava sulle Istvestia l’articolo La via della musica sovietica, cer­ tamente non privo di ingenuità sul piano strettamente teoretico ma molto sincero: Per molti compositori sovietici è oggi questione di grande impor­ tanza quale musica si debba scrivere. Ho molto riflettuto su questo problema negli ultimi due anni e credo che la seguente soluzione possa essere quella giusta. Quel che occorre è innanzitutto della grande musica, della musica, cioè, che tanto nella forma quanto nel contenuto risponda alla grandezza dell'epoca. Essa dovrebbe costituire uno stimolo per il nostro sviluppo musicale e rivelare la nostra realtà all'esterno. Di­ sgraziatamente c'è per i moderni compositori sovietici il serio peri­ colo di diventare provinciali. Allo stesso tempo, volgendo la sua attenzione sulla musica seria, si­ gnificativa, il compositore avrà presente che nell'Unione Sovietica la musica si indirizza a milioni di persone prive in passato o quasi di ogni contatto con essa: il nuovo, immenso uditorio che il mo­ derno compositore sovietico dovrà sforzarsi di raggiungere. Quanto al tipo di musica che necessita di più, penso sia quella che chiamerò «leggermente seria» [cioè seria con leggerezza] o «seria­ mente leggera» [cioè leggera con serietà]. Non è certo cosa agevole trovare il linguaggio conveniente. Esso dovrà essere innanzitutto melodico, e dalla melodia chiara e semplice, senza peraltro cadere

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nel derivato o nel triviale. Per molti compositori è già piuttosto dif­ ficile trovare qualsiasi tipo di melodia, una melodia che presa in sé abbia una qualche definita funzione da svolgere. Lo stesso vale per la tecnica e la forma, che esigono chiarezza e semplicità, ma non al­ cunché di stereotipo. E ciò può esser raggiunto soltanto dopo che il compositore sia divenuto padrone dell’arte di comporre seriamente, significativamente, che è la premessa indispensabile per acquisire la tecnica di esprimersi in termini semplici e tuttavia originali. Se mi si chiedesse come classificherei la mia musica porrei nel primo gruppo le sinfonie, il Canto sinfonico, Sul Dniepr e pochi altri lavori la cui forma rappresenta un taglio definitivo con il passato e che può creare qualche difficoltà anche ai maggiori interpreti. Nel secondo gruppo porrei il Luogotenente Kijé e Le notti egiziane (da cui ho tratto delle suite sinfoniche) ed anche i canti per collettività agricole che sto ora scrivendo per Radio Mosca.

Le trattative con il Kirov non ebbero buon esito, il Bolshoi di Mosca accettò il Romeo e Giulietta ma dichiarò poi che era «impossibile danzarlo» e ruppe il contratto. Si aggiungano a ciò i vani tentativi di Meyerhold... Non tutto andava dunque li­ scio nemmeno nell’Unione Sovietica. Tuttavia Prokofiev non si scoraggiava e dopo la Quattro Marce op. 69 per ottoni scriveva nel 1936 la musica per un film sovietico, La Dama di picche, e la musica di scena per Boris Godunov e Eugenio Onegin, in at­ tesa di impegnarsi sulla Cantata per il XX anniversario della Ri­ voluzione d’Ottobre.

Ormai l’asse maggiore dell’attività di Prokofiev si era spo­ stato verso Oriente, ma non mancavano in Occidente le tournée e le commissioni e i riconoscimenti. Un riconoscimento gli ar­ rivò dall’Italia: il 21 gennaio 1934, dopo un concerto di musi­ che sue in cui apprezzò molto la direzione di Bernardino Molinari, fu nominato membro ad honorem dell’Accademia di S. Ce­ cilia. Per se stesso o per il suo editore (Prokofiev non lo spiega) scrisse i Dodici Pezzi infantili op. 65 per pianoforte che si inse­ rivano nella grande tradizione della musica didattica - ma con 160 E5SEZ3K5ZS3--

finalità artistiche - di Schumann e di Debussy, e che potevano avere un mercato. Per il violinista belga Robert Soetens, che con Samuel Dushkin aveva tenuto la prima esecuzione della So­ nata per due violini, scrisse il Concerto n. 2 op. 63. Prokofiev dice di aver lavorato al Concerto durante le tour­ née concertistiche che lo impegnavano quasi costantemente: « [...] il tema principale del primo tempo fu scritto a Parigi, il primo tema del secondo tempo a Voronez, l’orchestrazione fu completata a Baku, mentre la prima esecuzione ebbe luogo a Madrid 1’1 dicembre 1935. Questa [esecuzione] faceva parte di un giro di concerti estremamente interessante che feci con Soe­ tens in Spagna, Portogallo, Marocco, Algeria e Tunisia. Oltre alle mie composizioni eseguimmo sonate di Debussy e di Bee­ thoven ». Il Concerto n. 2 rappresenta secondo me la perfetta attua­ zione dei propositi che abbiamo appena letto nell’articolo pub­ blicato sulle Istvestia. Non tutti i commentatori consentono in verità con questa opinione, che è tuttavia molto diffusa. David Nice, ad esempio, è del parere che si tratti «per molti aspetti» dell’« ultimo lavoro nella linea delle opere ambigue appartenenti al tardo periodo parigino». Non è il caso però di discutere le diverse opinioni sulla collocazione del Concerto n. 2 nella evolu­ zione di Prokofiev. Il punto secondo me importante è che per la prima volta dopo parecchi anni una sua composizione ot­ tenne un immediato e, come dirò fra breve, non effimero suc­ cesso. Il Concerto inizia con una melodia esposta dal violino sulla quarta corda, una melodia che oggi ci appare affascinante e che convinse gli ascoltatori fin dalla prima esecuzione. E nei due primi tempi - il secondo è una vera e propria serenata un lirismo intenso e vario percorre incessantemente la musica. Il finale prende caratteri di danza, non senza qualche spagnoli­ smo (in orchestra vengono impiegate le nacchere) che probabil­ mente dipende dalla sede della prima esecuzione. Il Concerto ottenne un grande successo e Soetens lo eseguì in varie città durante il periodo, un anno, in cui gli era stata riservata la

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esclusiva. Ma il salto di qualità, per lo meno nella considera­ zione del pubblico, avvenne nel 1937 quando Pantico compa­ gno di conservatorio Jascha Heifetz lo incluse nel suo repertorio e, fatto ancor più straordinario, lo incise in disco sotto la dire­ zione di Kussevitzki il 20 dicembre, poco più di due anni dopo la prima esecuzione. Il Concerto n. 1 era stato spesso eseguito da Szigeti, che lo aveva inciso sotto la direzione di Beecham vincendo la resistenza della casa discografica alla quale si era ri­ volto. Egli racconta che il responsabile della produzione, som­ merso dalle sue insistenze, gli aveva cortesemente detto: « Sta bene. Vuole farmi lo spelling del nome del compositore? » Le vendite del disco, continua Szigeti, ripagarono però la decisione coraggiosa, e chi aveva ceduto alle insistenze del violinista non ebbe a pentirsene. Ma se Szigeti era un artista di fama, Heifetz era un mito, secondo solo al decano Kreisler neirimmaginario del pubblico. La sua decisione di incidere il Concerto n. 2 por­ tava dunque Prokofiev ad un livello che metteva a tacere molti oppositori, e Heifetz gli dimostrò la sua stima eseguendo il pezzo non solo con le grandi orchestre ma includendolo anche, con accompagnamento di pianoforte, nei suoi recital. Quando poi Prokofiev si recò per Pultima volta negli Stati Uniti, nel 1938, Heifetz, assicura Herbert R. Axelrod, gli chiese di com­ porre per lui un nuovo concerto. Sempre nel 1938 negli Stati Uniti - anticipo una notizia su cui ritornerò più avanti - Proko­ fiev ebbe contatti con Hollywood per scrivere musiche per film con un compenso settimanale di 2500 dollari. Insomma, se avesse voluto e saputo sfruttare i « crediti » apertigli da Heifetz, Prokofiev avrebbe probabilmente reso così solida la sua fama in Occidente da poter limitare le tournée gagne-pain e da potersi dedicare intensamente alla composizione. Ma il dado era ormai tratto: nel 1936 la famiglia Prokofiev si stabilì a Mosca pochi mesi dopo quel 28 gennaio in cui la Pravda aveva pubblicato Particelo ispirato da Stalin Caos al posto della musica che met­ teva sotto accusa Shostakovic, e proprio nel momento in cui stavano partendo le prime «purghe» staliniane. 162

Parte Terza:

MOSCA

FANTASIE E REALTÀ

Vladimir Dukelski, compositore russo che visse a Parigi e a Londra negli anni venti e che, emigrato poi negli Stati Uniti e divenutone cittadino, assunse il nome d’arte Vernon Duke, as­ serì di aver ascoltato da Prokofiev una dichiarazione, citata dal Dorigné, che sembra a me illuminante di uno stato d’animo tur­ bato ed incerto: «Risponde perfettamente ai miei desideri un governo che mi lasci comporre in pace, che mi lasci pubblicare tutto quello che scrivo prima ancora che l’inchiostro si sia sec­ cato e che faccia eseguire tutto quello che esce dalla mia penna. Per essere eseguiti dobbiamo in Europa intrigare, dobbiamo adulare i direttori d’orchestra e di teatro». Non giurerei affatto sulla assoluta autenticità di queste parole, ma ritengo che la loro sostanza corrisponda ai sentimenti, alle preoccupazioni e ai fa­ stidi che Prokofiev provava negli anni immediatamente prece­ denti il suo ritorno in patria. Questa mia convinzione si basa anche su un dato statistico. Il catalogo di Prokofiev dal 1909 al marzo del 1936 va dall’op. 1 all’op. 65, mentre il periodo dall’aprile 1936 al 1953 va dal­ l’op. 66 all’op. 131: sessantacinque numeri d’opera in ventotto anni, sessantasei in diciassette anni, il che dà una media annuale di 2,23 nel primo caso e di 3,88 nel secondo. Il governo deJl’Unione Sovietica mise dunque Prokofiev nella condizione di pro­ durre quanto voleva, ma non, come vedremo, quel che voleva, e non gli garantì affatto né le pubblicazioni né le esecuzioni rego­ lari e sicure. Abbiamo già visto che motivazioni economiche e motiva­ zioni ideologiche favorirono il ritorno di Prokofiev nell’Unione

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Sovietica. Le motivazioni economiche vennero enfatizzate da Solomon Volkov, non insospettabile estensore delle Memorie di Shostakovic. Shostakovic avrebbe asserito che Prokofiev era rientrato perché gravato da debiti di gioco, ma nulla prova né che l’affermazione sia di Shostakovic né che sia in assoluto veri­ tiera. Molti testimoni parlano delle partite a bridge di Prokofiev a Parigi, e sarebbe puerile immaginare che le poste, dice ancora il Dorigné, si limitassero «a dei fagioli secchi». Il Dorigné ha anche scoperto un divertente appunto, scritto sulla ricevuta di un versamento postale di 150 franchi inviati da Poulenc a Pro­ kofiev: « Caro Serge, i debiti di gioco si pagano entro 48 ore. Ecco qui. Com’ero contento di vedervi a casa mia! Questo è l’indirizzo dei piselli: Maison Le Henaff a Quimper. Con amici­ zia, Francis ». Che nehe partite casalinghe a bridge - tre tavoli, dodici giocatori - si vincesse e si perdesse denaro è quindi fuor di dubbio, ma che Prokofiev impersonasse l’Aleksej del suo II Giocatore è pura fantasticheria - che sia essa attribuibile a Sho­ stakovic o a Volkov - tanto maligna quanto infondata. Secondo me sarebbe invece piuttosto da enfatizzare la no­ stalgia che trovo espressa nelle parole di un compositore russo emigrato, Sergej Bortkiewicz: Soltanto coloro che sono stati costretti a lasciare a forza la propria terra sanno quanto possa essere doloroso il sentimento dell’esilio. E la nostalgia per la patria è avvertita con pena ancor maggiore da un artista, da uno scrittore, da un compositore. Egli vorrebbe « tor­ nare alla madre», come dice Goethe... Alla sorgente, al suolo na­ tivo per trovare nuova forza, per rinfrescare la propria fantasia e per riprendere a vivere.

E probabile che Prokofiev fosse certo o per lo meno spe­ rasse di godere nell’Unione Sovietica, per graziosa concessione ad personam, di una situazione simile a quella di prima della Ri­ voluzione: gli era stata data la promessa verbale di poter tenere ogni anno qualche tournée dove voleva, gli era stata concessa Tautorizzazione per mantenere all’estero un conto corrente ban166

cario. Non avrebbe incassato nelTUnione Sovietica i diritti d’au­ tore perché questo istituto giuridico era ritenuto immorale, ma avrebbe ricevto delle somme come una specie di premio di pro­ duttività, sia pure con l’obbligo di sottoporre i suoi nuovi lavori al vaglio dell’Unione Compositori. In un certo senso, almeno in apparenza, l’Unione Sovietica gli conferiva lo status di composi­ tore sovvenzionato, affrancandolo dalla condizione di libero professionista. Nulla, in verità, garantiva che questo trattamento di favore sarebbe stato mantenuto, e nulla garantiva che, se non fosse stato mantenuto, Prokofiev avrebbe potuto andarsene a cercare cieli migliori. Era un po’ come se ad un capriolo aves­ sero offerto di pascolare in un recinto, al sicuro dai predatori. Se avesse però cercato di ritornare nella prateria era pronta per lui la gabbia. Prokofiev non vide il pericolo, o lo trascurò, o lo accettò fidando nelle sue forze. Nei primi mesi del 1936 effet­ tuò una tournée con Soetens che toccò Anversa, Bruxelles, Poi­ tiers, Praga, Budapest, Sofia, Varsavia, Parigi, si fermò a Varsa­ via per un altro concerto durante il viaggio verso Mosca. A Mo­ sca abitò nell’Hotel Métropol, dove scrisse Pierino e il Lupo. Il 15 maggio venne raggiunto dalla moglie e dai figli, e alla fine di giugno tutta la famiglia prese possesso dell’appartamento di quattro camere e servizi - non in coabitazione! - messo a di­ sposizione dal governo. Fino al 1938 Prokofiev potè effettivamente comportarsi, sotto il profilo della libertà personale, come più gli piaceva. Alla fine del 1936 diresse un concerto di musiche sue alla radio di Bruxelles, passò a Parigi per suonare il Concerto n. 3 e dirigere la versione per orchestra della Ouverture su temi ebraici, poi andò a Bordeaux, Losanna, Praga. Nel gennaio del 1937 suonò a Chicago, Saint Louis e Boston. E quella volta percepì com­ pensi più che soddisfacenti, anzi, tanto soddisfacenti da permet­ tergli di acquistare una Ford blu modello 37 e di spedirla a Mosca. I compositori russi più famosi nel mondo erano incontesta­ bilmente, negli anni trenta, Rachmaninov, Stravinsky e Proko167

fiev. Rachmaninov aveva firmato insieme con Ivan Ostromislensky e Ilya Tolstoy una durissima lettera-manifesto contro l’Unione Sovietica, pubblicata nel New York Times il 15 gennaio 1931, e avrebbe preso durante la guerra la cittadinanza ameri­ cana. Stravinsky non si schierava apertamente contro i sovietici ma non manteneva contatti con la madrepatria e nel 1936 di­ ventava cittadino francese. Prokofiev... Beh!, per i russi emigrati egli era una specie di collaborazionista, per i sovietici era un prezioso ambasciatore della confederazione nata dalla Rivolu­ zione: assicurargli certi privilegi era una mossa politicamente non solo opportuna ma anche sagace. Però i privilegi dovevano essergli concessi, non essere decisi da lui. La pretesa di girare su una Ford in una Mosca deserta di auto private non era, dicia­ molo pure, la mossa più astuta che Prokofiev potesse escogi­ tare. Né era una mossa astuta iscrivere i figli alla scuola anglo­ americana, tanto più perché la scuola stessa venne chiusa già alla fine del 1937 e i genitori di molti allievi furono... passati al setaccio e in qualche caso arrestati. Né era astuto vestirsi in modo sgargiante, con cappotto di pelo di cammello, scarpe gialle e cravatta arancione quando i confratelli avevano assunto l’aspetto e i modi di grigi funzionari statali. Né era astuto per­ mettere alla moglie, per di più spagnola, di vestire elegante­ mente alla parigina, di profumarsi alla parigina, di frequentare assiduamente i diplomatici e i banchieri occidentali. Né era astuto - e con ciò ho finito - portare a Mosca dischi americani di fox-trot e di Duke Ellington. Tutte queste erano piccole cambiali che prima o poi sarebbero arrivate all’incasso, tanto più perché, mentre marito e moglie andavano all’estero nel 1937 e poi nel 1938, i figlioli rimanevano a Mosca. All’inizio del 1938 Sergej e Lina partivano per una tournée che li avrebbe portati in Cecoslovacchia, Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Kussevitzki aveva diretto a Boston e a New York la suite dal Luogotenente Kijé, una musica che aveva messo la pulce nell’orecchio al regista di origine georgiana Rouben Mamoulian, autore della Regina Cristina e di Sangue e arena. Pro-

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kofiev venne invitato a un banchetto in suo onore in cui i com­ mensali erano non solo Arnold Schonberg, che nel contesto fi­ gurava proprio come l’ultima ruota del carro, ma Marlene Die­ trich, Mary Pickford, Gloria Swanson, Edward G. Robinson, Douglas Fairbanks jr. Sviatoslav Prokofiev, figlio maggiore di Sergej, mostrò a Michel Dorigné una lettera del 7 marzo 1938, indirizzata ai figli, che dice tra l’altro: Qui a Hollywood si gira la maggior parte dei film americani. Per far questo si costruiscono delle intere case, dei castelli e delle città di cartone. Oggi ho assistito ad una seduta. In un enorme, altis­ simo hangar era stata costruita la piazza d’una antica città che gli attori traversavano galoppando a cavallo. Sono stato anche a tro­ vare il «papà di Topolino», cioè colui che lo ha inventato.

Vernon Duke fece sapere a Prokofiev, come ho già antici­ pato, che una casa cinematografica era pronta a garantirgli 2500 dollari alla settimana. Prokofiev rifiutò l’offerta e, in quel momento, non senza ragioni. Mosca gli assicurava una tran­ quilla vita di lavoro, l’Occidente dei giri di valzer ben remune­ rati. Che più? La poetica e lo stile a cui era pervenuto e che dominava perfettamente lo rendevano bene accetto in patria e all’estero. Si sentiva sicuro. Leggiamo un articolo che pubblicò nella rivista Europa nell’aprile del 1936, rispondendo a chi lo aveva accusato di essere «privo d’anima, di sentimento e del dono della melodia» e di non desiderare che la sua musica fosse «bella»: Risponderò innanzitutto che nessuno può conoscere le mie inten­ zioni. Dirò poi che nella musica ricerco sempre la bellezza e che alla melodia, da me considerata come l’elemento primordiale della mia opera, riservo una particolare attenzione. Se la mia musica mancasse di bellezza non avrebbe degli ammiratori, e fra questi an­ novero [invece] alcuni dei più grandi musicisti del mondo.

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I grandi musicisti - i Furtwangler, i Walter, i Kussevitzki, gli Ansermet - sono visti da Prokofiev come gli esploratori che cercano e scoprono le miniere doviziose e che indicano al grosso della truppa la strada giusta. C’è in verità anche chi, non essendo grande musicista, prende fischi per fiaschi. Prokofiev offre pazientemente agli sprovveduti soloni la sua posizione: Mi si consiglia senza sosta di rendere la mia musica melodiosa, piena d'anima e d'emozione mentre essa lo è già. Ma sembra che nessuno abbia orecchie per capirla. Perché? Perché pare troppo nuova. Beninteso, io potrei continuare a scrivere, come altri hanno fatto, delle melodie che piacciano sicuramente; ma il pubblico se ne stancherebbe presto. Il compositore che lavora per l'avvenire deve dunque scoprire delle melodie nuove e dotarle di curve sconosciute ai suoi predecessori. Bisogna lavorare per trovarle e ci vuole un certo grado di ricettività per apprezzarle.

L.J Per quanto mi riguarda ho cercato dopo la Seconda e la Terza Sin­ fonia di comporre cose più accessibili, [...] e nessuno sembra averci capito nulla. Dieci anni or sono la ricerca in musica della novità ha condotto a tali complicazioni che ben a ragione certi compositori tentano oggi di praticare un linguaggio più chiaro e comprensibile [...]. E tempo ormai che gli ascoltatori dimentichino le dichiarazioni ste­ reotipe e le classificazioni arbitrarie e che tentino di considerare con occhi nuovi ciò che il compositore stesso vede. Allora non sa­ ranno più nella situazione dell'uomo a cui gli alberi nascondevano la vista della foresta. Essi ameranno la musica contemporanea non solo perché è alla moda, divertente o di bon ton, ma perché capi­ ranno ciò che veramente contiene e ciò che offrirà alle future gene­ razioni. Ma ciò richiede orecchie attente.

La risposta del pubblico americano al Luogotenente Kijé e a Pierino e il Lupo diretti da Kussevitzki dimostrò due anni dopo a Prokofiev di esser giunto al traguardo prefissato. Ma il suo cammino non era più soltanto determinato da ciò che il 170

suo animo sentiva e perseguiva: l’Unione Compositori alla quale lo Stato affidava il controllo doganale della musica e la sua pu­ rezza «sovietica» non intendeva affatto apporre il timbro alle valige di Prokofiev senza esaminare ciò che contenevano. E così per un motivo o per l’altro, e sia pure con la complicità della guerra, dopo l’aprile del 1938 Prokofiev non varcò più la fron­ tiera dell’Unione Sovietica.

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MUSICA VISIVA Al traguardo della « nuova semplicità », in verità, Prokofiev era già giunto con il balletto Romeo e Giulietta, iniziato nel 1935 e completato nel 1936, ma che sarebbe andato in scena solo nel 1938 e che sarebbe stato ritoccato nel 1940. Prokofiev aveva ricevuto l’incarico di scrivere un nuovo balletto dal Tea­ tro Kirov ed aveva lavorato alla sceneggiatura insieme con il re­ gista Sergej Radlov, l’allievo di Meyerhold che nel 1926 aveva curato la messa in scena a Leningrado Amore delle tre me­ larance.

Il maggior problema drammaturgico che i due incontrarono - non farò al mio lettore il torto di narrargli la vicenda della tragedia di Shakesperare - riguardava il finale: morte dei giova­ nissimi amanti o lieto fine? Prokofiev, in tono umoristico, spiega che il lieto fine - «questo bocconcino di barbarie» - na­ sceva da esigenze coreografiche - «i vivi possono danzare, i morti non possono». La spiegazione, che sembra umoristica, è più probabilmente menzognera: i morti, che non possono dan­ zare, non possono neppur cantare, ma ciò non impedì a Bellini e a Gounod e a Zandonai di mantenere il finale tragico di Sha­ kesperare. E un balletto su Romeo e Giulietta esisteva del resto già, e Prokofiev non poteva non averne notizia perché era stato prodotto nel 1926 da Diaghilev: Romeo et Juliette, musica di Constant Lambert, scene e costumi di Max Ernst e Joan Miro, coreografie di Bronislava Nijinska e Georges Balanchine, prota­ gonisti Tamara Karsavina e Serge Lifar. Non è perciò improba­ bile che nella incertezza fra tragedia e lieto fine giocasse invece una qualche preoccupazione di natura ideologica: in una 172 W-ZSMìiH-aiiBQ--

Unione Sovietica in cui il libretto del Taust di Gounod veniva modificato e Mefistofele diventava l’eroe positivo che libera Margherita dai pregiudizi religiosi e borghesi, in una Unione Sovietica in cui la Tosca era diventata La battaglia della Co­ mune, in una Unione Sovietica cosiffatta Romeo e Giulietta po­ tevano simboleggiare la gioventù impetuosa (leggi il bolscevi­ smo) che s’oppone ad un ordine sociale imbalsamato (leggi lo zarismo). Ma Prokofiev, ammesso che lui e Radlov ci avessero pensato, non s’addentra però su questo terreno infido, e spiega invece che le voci sulla decisione di scegliere il lieto fine non provocarono reazioni a Londra, mentre «i nostri studiosi shake­ speariani, più papisti del papa, si precipitarono alla difesa di Shakespeare». Ed aggiunge: Ma ciò che veramente mi indusse a cambiare opinione riguardo a tutta la faccenda fu l’osservazione che qualcuno mi fece a proposito del balletto: «La vostra musica, parlando a rigor di logica, non può esprimere nel finale una vera gioia». Dopo alcuni abboccamenti con i coreografi si scoprì che il finale tragico poteva essere realiz­ zato con la danza e nel tempo debito fu scritta la musica per questa fine.

Questa la spiegazione « ufficiale » della esitazione di Proko­ fiev tra i due finali. « Ufficiale », dico, perché come il lettore ha ben capito sembra a me un po’ di comodo. Vero è che se Ro­ meo non fosse morto il balletto sarebbe finito in gloria con un travolgente pas des deux. Ma queste erano ragioni spettacolari, non coreografiche. Ed è ben strano che fossero necessarie le consultazioni con i coreografi per stabilire che Romeo poteva danzare la sua disperazione e poi uccidersi, e che Giulietta po­ teva risvegliarsi e danzare a sua volta la sua disperazione e poi morire: l’eventuale colpo di scena finale, la vittoria dell’amore, non dipendeva da necessità coreografiche ma semmai da oppor­ tunità politica. E per fortuna Prokofiev, non ancora messo sotto accusa, scelse la via giusta. 173

Il balletto, pensato per il Kirov, passò come già detto al Bolshoi e lì si impantanò, tanto che la prima esecuzione ebbe luogo a Brno nel dicembre del 1938. La vera e propria, e grande «prima» ebbe però luogo a Leningrado nel 1940 con la coreografia di Leonid Lavrovski e con Gaiina Ulanova protago­ nista. Già nel 1936 Prokofiev aveva però tratto dal balletto due suite, op. 64 bis e op. 64 ter, ciascuna in sette parti, e nel 1937 aveva trascritto per pianoforte, come op. 75, dieci pezzi. Egli confidava dunque, ed aveva ragione, nel valore assoluto della musica: le due suite orchestrali fanno parte da molto tempo del repertorio sinfonico tradizionale e la suite op. 75 del repertorio pianistico. Nel 1946 Prokofiev preparò una terza suite orche­ strale, op. 101, molto meno nota delle altre due. La prima suite comprende: Danza popolare, La strada si ri­ sveglia, Madrigale, Minuetto, Maschere, Romeo e Giulietta, Morte di Tebaldo. La seconda comprende: Montecchi e Capuleti, Giulietta bambina, Frate Lorenzo, Danza (dalla Danza delle cin­ que coppie), Addii di Giulietta e Romeo, Danza delle fanciulle,

Romeo alla tomba di Giulietta. La suite pianistica è formata da Danza nazionale, Scena, Minuetto, Giulietta, Maschere, Montec­ chi e Capuleti, Frate Lorenzo, Mercuzio, Danza delle fanciulle, Addii di Romeo e Giulietta.

Ritorniamo ora alla prima rappresentazione leningradese del Romeo e Giulietta, che fu preceduta da seri contrasti con il coreografo e da qualche momento di difficoltà con i danzatori. Lavrovski voleva più musica di quanta ce ne fosse e, dopo il netto rifiuto di Prokofiev, cercò di salvare capra e cavoli an­ dando a prendere da altre composizioni prokofieviane quel che secondo lui serviva alla buona riuscita dello spettacolo. Egli rac­ conta di aver scelto per la prima scena del primo atto lo Scherzo della Sonata n. 2 per pianoforte. «Non avete il diritto di far ciò», gridò Prokofiev, «e io non orchestrerò il pezzo». «Lo eseguiremo con due pianoforti», fu, secondo Lavrovski, l’imperturbabile risposta. Prokofiev cedette, scrisse un nuovo pezzo 174

e poi ne scrisse altri. Cedette anche su un altro fronte. Ma prima di proseguire vediamo quel che dice lui: Il Teatro Kirov mise in scena il balletto nel gennaio del 1940 con tutta la maestria per cui i suoi danzatori erano famosi, sebbene con qualche leggera divergenza rispetto alla versione originale. Si sa­ rebbe potuto apprezzare di più la loro valentia se la coreografia fosse stata più aderente alla musica. Tenendo conto della partico­ lare acustica del Teatro Kirov e della necessita di rendere percepi­ bili i ritmi il più chiaramente possibile fui costretto ad alterare una buona quantità dell"orchestrazione. Ciò spiega perché nelle suite la strumentazione sia più translucida che nella partitura [del balletto].

In un articolo del 1954 Gaiina Ulanova ci dà spiegazioni meno... tacitiane su ciò che avvenne: Non ricordo esattamente quando vidi Prokofiev per la prima volta. So solo che in un certo momento durante le prove di Romeo e Giulietta divenni conscia della presenza in sala di un uomo di alta statura e dallo sguardo un po’ disgustato che pareva disapprovare con forza tutto quello che vedeva, e specialmente noi, gli artisti. Era Prokofiev. Avevo sentito che nei primi momenti della produzione Lavrovski e Prokofiev avevano avuto alcune accese discussioni a proposito della musica. Lavrovski aveva detto al compositore che nel balletto di musica non ce nera abbastanza per una serata completa e che biso­ gnava aggiungerne. Prokofiev aveva replicato testardamente: « Ho scritto esattamente tanta musica quanta è necessaria e non aggiun­ gerò una sola nota. Il balletto è completo così com’è. Voi potete prenderlo o lasciarlo». Dopo molte dispute si trovò alla fine la strada per uscire dall’im­ passe rendendo la partitura più aderente alla linea drammatica del libretto e cambiando qua e là l’ordine dei pezzi. Il risultato è la produzione come la conosciamo. [...] le prove erano in pieno svolgimento ma noi eravamo ancora terribilmente imbarazzati per la inusuale orchestrazione e per la qualità cameristica della musica. Anche i frequenti cambiamenti di 175

ritmo ci davano un gran quantità di travagli. Per dir proprio la ve­ rità, non eravamo avvezzi a musica come questa e in effetti era­ vamo per ciò un po’ spaventati. Ci sembrava, provando ad esempio /'Adagio del primo atto, di dover seguire qualche nostro modello melodico, più vicino di quello contenuto nella «strana» musica di Prokofiev alla nostra concezione di come poteva esser reso l’amore di Romeo e Giulietta perché devo confessare che allora nella sua musica non sentivo quell’amore. Non dicemmo a Prokofiev nulla di tutto ciò, lo temevamo. Rutti i nostri dubbi, le nostre perplessità e i nostri suggerimenti venivano trasmessi al compositore attraverso Lavrovski. Prokofiev sembrava inavvicinabile e altezzoso e noi sentivamo che non aveva fiducia nel balletto o negli artisti di balletto. Ciò alla fine feriva la nostra vanità. Giovinezza e orgoglio professionale ci impedivano di capire che Prokofiev aveva certe ragioni per non fidarsi del teatro di danza, non avendo avuto fortuna con i suoi balletti - nessuno di quelli che aveva scritto prima di Romeo e Giulietta era sopravvis­ suto. Lascerò ai musicologi di spiegare la ragione di ciò e conti­ nuerò il racconto della mia conoscenza di Prokofiev.

Nella scena degli addii, continua la Ulanova, la posizione dei danzatori era molto arretrata rispetto all’orchestra: i due ballerini non sentivano niente. «Perché non cominciate?», gridò Lavrovski. «Non possiamo sentire la musica». E Proko­ fiev, furioso: «Io so quel che volete. Volete tamburi, non mu­ sica». «Non raccogliemmo l’offesa», dice la Ulanova, «Lo invi­ tammo a salire sul palcoscenico e a sedere accanto a noi. Così fece e durante l’intera scena sedette sul letto ascoltando attenta­ mente l’orchestra senza dire una parola. Ma andandosene, e ap­ parendo ancora quanto mai seccato, disse «molto bene, riscri­ verò qui la musica aggiungendovi qualcosa ». Una volta rotto il ghiaccio Prokofiev cominciò ad ascoltare «con crescente interesse ed attenzione» le osservazioni dei bal­ lerini e tutto filò a meraviglia. Prokofiev, come abbiamo visto, non fu tuttavia interamente soddisfatto della coreografia e non 176

spese una parola per gli interpreti. Ma forse forse era stato preso in contropiede da novità che ancora non conosceva. Egli aveva visto realizzare i suoi precedenti balletti dai coreografi di Diaghilev, e lo stile diaghileviano era sicuramente molto diverso da quello del Kirov. Anche la musica di Prokofiev era però un po’ diversa, e diversa era la struttura di Romeo e Giulietta. La differenza fondamentale, di cui non sempre si tiene conto, è che il Romeo e Giulietta occupava tutta la serata o, come si dice in gergo, faceva spettacolo, mentre 11 buffone o Ras d’acier o II figliai prodigo entravano in una serata composée nella quale si equilibravano con altri balletti di altri compositori. In un bal­ letto che fa spettacolo gli aspetti coreutici si mischiano con gli aspetti pantomimici. La Ulanova parla della «espressione vi­ siva» della musica e parla della «nuova coreografia» che per lei era cominciata con un balletto, La fontana di Bakhisarai (mu­ sica di Asafiev, coreografia di Zakharov), poco noto fra noi ma ancor oggi molto popolare in Russia. Ed osserva giustamente: Prokofiev, con la sua musica vigorosa, dinamica, realmente visiva, nello stesso tempo così moderna e pure così shakespeariana in spi­ rito e gusto, ci guidò con mano sicura attraverso razione, conferen­ dole significato e fine. Le sue caratteristiche vividamente tese detta­ rono, alla lettera, il modello della danza, rendendo incomparabil­ mente più facile il nostro compito. A tutta prima, come ho detto più sopra, la musica ci sembrò incom­ prensibile e impossibile da danzare. Ma più la ascoltavamo e più la­ voravamo e sperimentavamo e cercavamo, più chiaramente emerge­ vano le immagini create dalla musica. E a poco a poco, mentre arri­ vavamo a capire la musica, non trovavamo più difficile danzarla: ciò divenne chiaro coreograficamente e psicologicamente. E se ora mi si chiedesse quale musica mi piacerebbe per Romeo e Giulietta risponderei senza esitazione: quella di Prokofiev, perché ora non posso concepire l'idea di nessuna altra musica.

Avevo prima fatto notare quale importanza rivestisse se­ condo me l’accostamento di Prokofiev al cinema. E ritengo ora 177

importante tener conto di quel concetto di «musica visuale» di cui parla la Ulanova. Il compositore che scrive per il teatro opera o balletto che sia - immagina un’espressione scenica che non esiste ancora, mentre chi scrive per il cinema vede prima di scrivere. In un’intervista del 1936, Il compositore e il teatro dramma­ tico, Prokofiev rispose in questo modo alla domanda «Come concepite l’idea dell’accompagnamento musicale di un testo tea­ trale? »: Quando mi si chiede di scrivere musica per una produzione dram­ matica o per un film io raramente acconsento subito, anche se il te­ sto mi è ben familiare. Di solito mi prendo cinque o sei giorni per «vedere» la produzione, al fine di visualizzare i caratteri, le loro emozioni e le loro azioni in termini musicali. A questo punto, di solito, i principali temi musicali mi vengono in mente, così che quando dò veramente il mio consenso ho ben presente lfidea gene­ rale del materiale tematico ed ho qualcosa con cui cominciare.

Alla successiva domanda « Che cosa chiedete in questo rap­ porto con l’autore e il regista? », Prokofiev rispose: Preferisco che l'autore o il regista del film mi chiedano esattamente quel che vogliono. E di grande aiuto per me sentirmi dire « Qui ho bisogno di un minuto e 15 secondi di musica», o «datemi qui qualcosa di tenero e melanconico».

L’esperienza filmica del Luogotenente Kijé dovette rappre­ sentare molto per Prokofiev, dovette secondo me indirizzare la sua immaginazione in un modo più concreto e più realistico. E, mentre la musica del Romeo e Giulietta non perdeva la sa qua­ lità assoluta, acquistava una dimensione immaginifica nuova. Tutti i commentatori riconoscono nel Romeo e Giulietta uno dei punti più alti non solo della musica di Prokofiev ma della musica del Novecento. «Le implicazioni armoniche e stili­ stiche spariscono in favore di una semplicità e di un lirismo ca-

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paci di toccare il pubblico il più largo possibile», dice Michel Dorigné. Ebbene, io credo che ciò non basti a spiegare la popo­ larità del Romeo e Giulietta', credo invece che vi si debba ag­ giungere la qualità di una musica nata dall’immagine e capace di suscitare immagini per chi la danza e, nel concerto sinfonico, per chi l’ascolta.

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MUSICA EDUCATIVA Ho ricordato prima i Dodici Pezzi infantili op. 65, scritti nel 1935. Bisogna a questo proposito fare una distinzione: tutti i pezzi infantili sono di facile esecuzione ma non tutti i pezzi facili sono infantili. Ad esempio, Charles Acton scrisse nella seconda metà dell’ottocento una serie monumentale di pezzi facili. Facili ma non infantili perché infantili non possono essere brani di musica intitolati Penso a te, Lontano da te, Seguimi, Non dimen­ ticarmi, Rispondimi, Dimenticarti?... Giammai! I pezzi infantili devono essere sì facili ma anche tali da risultare educativi. Le composizioni che rispondono a questi requisiti sono rarissime. Ho già citato Schumann e Debussy. Posso aggiungere Clementi, Mendelssohn, Ciaikovsky, Bartók..., e basta. Osserverei piuttosto che in alcuni di questi autori, compreso Prokofiev, il pezzo in­ fantile nasce quando il compositore è diventato padre. Schu­ mann scrive per educare le sue bambine, Debussy dedica il Chil­ dren s corner a Chouchou, Prokofiev è padre di due maschietti quando mette sulla carta i Dodici Pezzi. Non che Prokofiev fosse un padre molto sollecito, non che si occupasse dell’educazione musicale dei figli. Ma la sua op. 65 nasce, credo, dalla osserva­ zione dei suoi bambini - bellissimi, tra l’altro - e fonde insieme la psicologia infantile, l’arte, la proposizione di problemi tecnici a livello elementare. Nel 1941 Prokofiev trascriverà per orche­ stra, con il titolo Giorno d'estate, sette dei dodici pezzi op. 65. Nel 1936 Prokofiev scrive due delle Pre Canzoni infantili op. 68 (la terza verrà aggiunta nel 1939), e sempre nel 1936 compone quel Pierino e il Lupo che insieme con Romeo e Giu­ lietta diventerà il suo lavoro più famoso. La prima canzone, La 180

chiacchierona, testo di Agnia Barto, parla di una scolaretta dalla lingua inarrestabile, la seconda, Canzoncina dello zucchero, testo di una signora Saksonskaia, fa scherzosamente la pubblicità a dei bonbon venduti - ai bambini - durante gli intervalli degli spettacoli. La terza è intitolata I porcellini, con testo di L. Kvitko tradotto da S. Mikhailkov. Mi è già capitato di dire che Pierino e il Lupo, testo e mu­ sica, fu scritto a Mosca nell’aprile del 1936 nel giro di due sole settimane. Il lavoro era stato richiesto dalla direttrice del Teatro Centrale per ITnfanzia e Prokofiev aveva perfettamente capito che si trattava di immaginare una storia che essendo nello stesso tempo affascinante, emozionante, educativa, si uniformasse alla teoria barocca della musica come arte che persegue il delectare insieme con il movere e con il docere. Pierino (Petya) è il pic­ colo eroe, i suoi amici sono il Gatto, PUccellino, l’Anatra, i suoi alleati il Nonno e i Cacciatori, il suo nemico il Lupo. Il Lupo divora P Anatra, la inghiotte tutta intera (tanto che lei continua a borbottargli nella pancia), il Nonno aiuta Pierino a trovare i Cacciatori, questi catturano il Lupo e recuperano PAnatra, e alla fine tutti sfilano in parata. La favola ha di per sé una sua morale, una morale quanto mai... antiprokofieviana perché que­ sta volta il cattivo della vicenda viene severamente punito. Ma lo scopo educativo non è tanto etico quanto piuttosto artistico: come tutti sanno, ognuno dei personaggi è incarnato musicalmente da uno strumento o da un gruppo di strumenti, e così gli archi sono la raffigurazione di Pierino, il flauto dell’Uccellino, Poboe dell’Anatra, il clarinetto (in registro basso, staccato) del Gatto, il fagotto del Nonno, i tre corni del Lupo, i timpani e la grancassa dei Cacciatori. «Prima dell’esecuzione», dice Prokofiev, « questi diversi strumenti venivano presentati ai bam­ bini e si faceva loro ascoltare i temi conduttori, durante l’esecu­ zione i bambini ascoltavano i temi ripetuti alcune volte e impa­ ravano a riconoscere i vari strumenti dell’orchestra. Il testo ve­ niva letto tra un brano e l’altro della musica, che era spropor­ zionatamente più lunga del testo stesso, ma per me la storia era 181

importante solo come mezzo per indurre i bambini ad ascoltare la musica». E la musica aveva i caratteri della «nuova sempli­ cità » istantaneamente comprensibile, e la storia - Prokofiev la sottostima, in verità - era costruita come crescendo emozionale fino alla catastrofe e rovesciata poi in distensivo e catartico lieto fine, e la fissazione dei timbri strumentali nella memoria era ga­ rantita dalla estrema chiarezza espositiva. La prima esecuzione, «piuttosto mediocre e che non at­ trasse molta attenzione», ebbe luogo a Mosca il 2 maggio 1936. Il vero successo arrivò con le repliche e il trionfo assoluto scop­ piò negli Stati Uniti, tanto che il coreografo Adolphe Bolm, cioè quell’amico che aveva ospitato Prokofiev a New York nel 1918, creò a Chicago il balletto Pierino e il Lupo. A Boston il testo venne pubblicato in edizione di lusso e certi critici paragonarono Prokofiev a Walt Disney. Chissà se nel loro colloquio del marzo 1938 Prokofiev e Disney parlarono di Pierino e il Lupo e di qualche progetto comune. Ma sulla visita a Disney Prokofiev svolazza come l’Uccellino... Alcuni commentatori si sono affannati a cercare in Pierino e il Lupo un significato simbolico: Pierino come il giovane sovietico coraggioso, l’Anatra come il borghese codardo, il Gatto - pove­ retto, non si sa bene perché - come la Gepeù, la polizia segreta, l’Uccellino come la fede innocente, i Cacciatori come i burocrati, il Lupo come il capitalismo. Secondo questa (bislacca) teoria crip­ tica Prokofiev avrebbe tributato il suo omaggio al regime sovie­ tico prima di conoscerne le trappole. Ma la forzatura mi sembra talmente evidente che non vale nemmeno la pena di discuterla. Non vai la pena di discuterla perché nei primi due anni della permanenza a Mosca Prokofiev celebrò il regime sovietico apertamente e, si potrebbe persino dire, senza pudore. Del 1936 sono i Sei Canti op. 66 per coro e pianoforte e la Ouverture russa op. 72, nel 1936 viene iniziata la Cantata per il XX anniver­ sario della Rivoluzione d'ottobre che sarà ultimata nel 1937, nel 1937 vengono condotte a termine le Quattro Marce op. 69 per banda, nel 1937 nascono i Canti dei nostri giorni op. 76. 182

Per i Sei Canti Prokofiev scelse e testi di poeti sovietici (Golodni, Afinogenov, Sikorskaja) e testi della tradizione popo­ lare. I titoli sono molto significativi rispetto alle intenzioni: Il Partigiano Jalezwiak, Aniuska, Il paese si solleva, Attraverso nevi e nebbie, Dietro la montagna, Canto su Vorochilov. «Ad Aniu­ ska», dice Prokofiev, «fu assegnato il secondo premio in un concorso della Pravda (il primo premio non fu assegnato) ». La

musica non è di certo indegna di Prokofiev e la sua intenzione di educare con la sua arte un pubblico di formazione culturale recentissima è evidente al di fuori di qualsiasi dubbio. Tuttavia la mancata vittoria nel concorso della Pravda è indicativa del ri­ serbo con cui la burocrazia valutava gli sforzi di Prokofiev. La Ouverture russa, che impiega temi estratti da raccolte di canti popolari, è coloritissima, spettacolare, anzi, eccitante, ed è costruita con grandissima sapienza. Prokofiev si riallaccia alla tradizione del suo vecchio maestro Rimski-Korsakov e crea un lavoro sinfonico programmaticamente «popolare» che passa tuttavia inosservato nell’Unione Sovietica. Né ci risulta che le bande adottassero le Quattro Marce. È curioso notare che la cri­ tica sovietica aveva apprezzato di più l’Ouverture americana op. 42, composta nel 1926 su commissione per un gruppo ristretto di strumenti e trascritta per grande orchestra nel 1928. Il Canto dei nostri giorni, formato da introduzione e otto pezzi per soli, coro e orchestra su testi di autori sovietici oscuri o su poesie popolari, intende esaltare la realtà sociale sovietica ma non trova consenzienti i critici ligi alle direttive ufficiali: Nestiev nega che Prokofiev sia arrivato a « scoprire lo stile della ballata popolare che evidentemente ricerca». La Cantata fu bocciata dal Comitato delle Arti e, vivente l’Autore, non fu mai eseguita. Ciò, secondo Daniel Jaffé, fu una fortuna perché tutti si sarebbero accorti che il carattere celebra­ tivo del pezzo era soltanto una maschera: « Ben lungi dal glorifi­ care gli eroi della rivoluzione bolscevica la stridente musica del­ l’orrore che apre la cantata “Ottobre” fa presagire qualche terri­ bile calamità». Un po’ come Sette, sono sette... La Cantata rap­ 183

presenta comunque e il maggior tentativo di Prokofiev di inserirsi autorevolmente a livello dell’ufficialità di regime e la sua maggiore sconfitta. L’idea germinale risaliva al 1935. Prokofiev aveva chie­ sto al critico e suo vecchio amico, nonché dedicatario della Sonata n. 5 per pianoforte Piotr Suvchinski di cercargli nelle opere di Marx, Lenin e Stalin dei testi adatti alla circostanza. A questi venne poi aggiunto Engels, e su questa base venne costruita una composizione, babilonese come talune di Berlioz, che impiegava orchestra sinfonica, complesso d’ottoni, complesso di fisarmoni­ che, complesso di percussioni e doppio coro misto. La Cantata è in dieci parti. La prima parte è un poema sin­ fonico ispirato a due frasi di Engels: «Uno spettro spaventa l’Europa, lo spettro del comuniSmo. Tutte le potenze della vec­ chia Europa sono unite in una santa crociata per braccare que­ sto spettro: il papa e lo zar, Metternich e Guizot, i radicali della Francia e i poliziotti della Germania». La seconda parte, corale, impiega un testo di Marx: «Ogni filosofia spiega il mondo a modo suo, ma si tratta di cambiare il mondo più che di spie­ garlo». La terza parte è un interludio sinfonico, la quarta è co­ rale su testo di Lenin, «Noi marciamo in ranghi serrati su un cammino aspro e difficile». Altro interludio, altro brano corale su testi di Lenin tratti da articoli di giornali e intitolato La Rivo­ luzione. La settima parte è una marcia corale, La Vittoria, su te­ sti di Lenin, l’ottava è II giuramento di Stalin su testo tratto dal discorso pronunciato dal dittatore sul mausoleo di Lenin. Segue il poema sinfonico La costruzione socialista, nel quale interviene il complesso di fisarmoniche, e poi un coro conclusivo, La costi­ tuzione di Stalin, il cui testo è tratto dal discorso all’Vili Con­ gresso Straordinario dei Soviet. E molto difficile valutare la Cantata al di là delle intenzioni celebrative di Prokofiev e del suo sforzo per rendere epici gli av­ venimenti che avevano profondamente trasformato la sua patria. Il modello di riferimento erano state evidentemente le musiche per cerimonie all’aperto e con grande partecipazione popolare della Rivoluzione Francese, come la cantate di Gossec (UOffrande 184

à la Patrie, Le Triomphe de la République), di Lesueur {Chant des Triomphes de la République, Ode pour la Fète de la Liberte), Méhul (Hymne à la raison, Chant national du 14 juillet 1800). E al­ lora evidente che per valutare la Cantata in termini non astratta-

mente estetici bisognerebbe ascoltarla in un’esecuzione che ripro­ ducesse le condizioni di spazialità e di partecipazione di foUa per cui Prokofiev l’aveva pensata. La composizione fu eseguita sol­ tanto il 5 maggio 1966 per un ben diverso scopo celebrativo, e cioè per il settantacinquesimo anniversario della nascita di Proko­ fiev. Si può ascoltarla in disco, si può leggerne la partitura. L’im­ pressione che si riceve non è positiva, non sembra che la musica trascenda l’occasione. Ma non si può nemmeno dire, a parte la tesi del Jaffé che non mi sentirei di condividere interamente, che l’enorme partitura odori di insincerità e di opportunismo. Proko­ fiev si era impegnato a fondo nello sforzo non di guadagnarsi il favore di Stalin, che in effetti non si guadagnò, ma di affermare una fede a cui era pervenuto attraverso un lungo travaglio spiri­ tuale e che lo portava a non vedere o a non considerare per quello che realmente significavano i segnali terrificanti ormai sparsi ovunque nel regime sovietico. Maiakovsky si era suicidato nel 1930, Meyerchold, arrestato nel luglio del 1939, verrà condannato a morte 1’1 febbraio 1940 e sarà fucilato il 2. L’ultima pagina dell’autobiografia di Proko­ fiev inizia così: «Nel 1936 cominciarono i preparativi per due grandi giubilei, il ventesimo anniversario del potere sovietico e il centenario della morte di Pushkin. Per il secondo io...» ecc. ecc. E dopo aver parlato brevemente del suo contributo al cen­ tenario pushkinano Prokofiev depone nel 1941 la penna e tronca l’autobiografia senza minimamente accennare al suo im­ pegno per il ventennale della Rivoluzione d’Ottobre. Nel 1944 scriverà un lungo articolo, L'artista e la guerra, che riprenderà esattamente il tono narrativo della autobiografia. Eccone l’inizio: «Nell’estate del 1941 mia moglie ed io vivevamo nella foresta di pini di Pratovo, vicino a Mosca»: sulla mancata esecuzione della Cantata Prokofiev non ci ha lasciato la sua testimonianza. 185

MUSICA FUNZIONALE L’autobiografia di Prokofiev si conclude così: « [...] nessuno dei mie pezzi pushkiniani fu mai eseguito. La musica giacque per lungo tempo nel cassetto e fu gradualmente utilizzata in al­ tre composizioni. Solo tre miei canti (op. 73) furono eseguiti durante il centenario di Pushkin: il mio solo concreto contri­ buto per l’occasione». Nel 1936 Prokofiev lavorò contemporaneamente a tre lavori commissionati per il centenario Pushkiniano del 1937: musiche di scena per {'Eugenio Onegin (per il Teatro da Camera di Mo­ sca che aveva prodotto le Notti egiziane), musiche per il film di Mikhail Romm La dama di picche, musiche di scena per il Boris Godunov (per il Teatro Meyerhold). L'Eugenio Onegin è un romanzo in versi, in otto capitoli. Ciaikovsky ne aveva tratto un libretto d’opera, cercando e tro­ vando una traccia drammaturgica coerente attraverso la com­ plessità della vicenda narrata da Pushkin. Prokofiev lavorò su un adattamento scenico del regista S.D. Krishanovski che, dice, conteneva «parti del poema di Pushkin non comprese nell’o­ pera di Ciaikovsky». «Scrivere la musica per V Eugenio One­ gin », aggiunge Prokofiev, « è una proposta allettante ma nello stesso tempo è forse un’impresa senza speranza. Che io possa riuscirci o no, i nostri appassionati di teatro amano Ciaikovsky troppo bene per aver voglia di distaccarsi dalle immagini musi­ cali familiari». La musica di scena per l'Eugenio Onegin comprende ben quarantaquattro numeri, tutti brevi o brevissimi, tanto che la durata totale supera di poco i sessanta minuti. Sicuramente per 136

questa ragione Prokofiev non ne trasse una suite sinfonica, limi­ tandosi invece a riprenderne un tema (il Minuetto) nel secondo tempo All'Ottava Sonata per pianoforte. La brevità dei pezzi fa pensare che Prokofiev avesse trovato in Krishanovski il suo ideale di regista, quello che gli chiedeva x secondi di musica e y precise caratterizzazioni espressive. Dall’intervista prima citata traspare chiaramente l’atteggiamento che Prokofiev assumeva nei confronti del regista, cioè lo stesso atteggiamento, in pratica, che i librettisti dell’Ottocento assumevano nei confronti dei compositori. Donizetti, Verdi, Puccini chiedevano talvolta un certo numero di versi di un certo metro e di un certo carattere, e non davano tregua ai librettisti finché non avevano ottenuto quel che volevano. Abbiamo già visto come Prokofiev conce­ desse obtorto collo a Lavrovski un po’ di musica in più e alla Ulanova una strumentazione meno raffinata. Ma in questi casi «concedeva», mentre nel caso della musica di scena e del film «si concedeva» ai voleri del regista. E, nell'Eugenio Onegin, ne trasferiva disciplinatamente nella musica le esigenze senza mini­ mamente perdere la qualità artistica. Ho paragonato Prokofiev al librettista. Avrei potuto para­ gonarlo, e forse meglio, al giornalista che con uno spazio e un argomento assegnatigli, e al cartellonista che con un prodotto da reclamizzare in un formato predeterminato creano ugual­ mente dei capolavori. Ed è singolare che mentre in Occidente la musica da film diventata una specializzazione a cui i composi­ tori «classici» si dedicarono occasionalmente e gli specialisti veri (Korngold, Rosza, Tiomkin, Herrmann, ecc.) perdevano ipso facto la qualifica di « classici », nell’Unione Sovietica Proko­ fiev e Shostakovic scrissero musiche di scena e per film perfet­ tamente funzionali e perfettamente rientranti nell’alveo consueto della loro creatività. Nell’intervista prima citata Prokofiev dice tranquillamente di voler tener conto, per la musica di scena, anche delle condi­ zioni acustiche e degli aspetti economici: 187

L’acustica dei teatri di prosa spesso non è pensata per esecuzioni or­ chestrali. Capita che mentre le voci rispondono bene sulla scena, l’orchestra o è o troppo forte o troppo leggera, o l’una e l’altra cosa insieme. Nei teatri di prosa l’orchestra tende ad essere terribilmente chiassosa e l’ascoltatore aspetta con impazienza che la musica fini­ sca. Ciò è spesso dovuto non solo all’acustica che non ha tenuto conto della musica [e delle sue esigenze], ma alla «quantità e qua­ lità» della stessa orchestra. Il compositore deve tener bene in mente il fatto che scrivendo musica per orchestra sinfonica ha 40 o 50 strumenti ad arco contro due trombe, mentre ha solo otto, o al massimo quindici archi contro gli stessi due ottoni, e che per di più gli ottoni suonano eccezionalmente rumorosi. Prima di scrivere la musica il compositore deve farsi un dovere di sentire qualche pro­ duzione in quel determinato teatro, prendendo nota delle virtù e dei difetti dell’orchestrazione per i diversi drammi. Ciò lo aiuterà ad adattare se stesso alle premesse e alle capacità degli strumentisti. E una cosa senza senso scrivere un passaggio difficile per il clari­ netto se il clarinettista di quel tal teatro non è particolarmente ca­ pace e farà solo un pasticcio. Studiando le condizioni dell’orchestra e del teatro si può raggiun­ gere con qualsiasi orchestra un forte morbido e non troppo duro, e anche un pianissimo che non interferisce con le voci degli attori, specialmente se l’orchestra può essere collocata in scena, dietro a paraventi o nelle quinte.

Alto artigianato? Arte applicata? Sembra di ascoltare i com­ positori che negli anni cinquanta si facevano dare la formazione dell’orchestra - non sempre identica - per ogni servizio di regi­ strazione, sembra di sentire Nino Rota che, potendo fruire in una certa sera di Severino Gazzelloni scrive subito subito un as­ solo di flauto per Otto e mezzo di Fellini... In questo senso Pro­ kofiev non è paragonabile a Beethoven ma semmai a Mozart o a Haydn. Per il Boris Godunov Prokofiev scrisse ventiquattro pezzi. Anche le richieste di Meyerhold erano molto precise: « un har­ monium con due tipi di registri», «non più di quindici se­ 188

condi», «un coro, con strumenti mugghiami come contrab­ bassi, violoncelli, ecc. ». Il Boris Godunov restò in prova dall’11 al 22 dicembre 1936, ma non andò in scena, il film La dama di picche non venne ultimato. Le Tre Melodie op. 73 («Gli abeti», «L’aurora imporpora l’Oriente» e «Nella tua camera»), ese­ guite come abbiamo visto nell’ambito delle celebrazioni Pushkiniane (alla radio, da Lina e Prokofiev), non vengono general­ mente considerate rilevanti nel panorama della pur ristretta pro­ duzione liederistica di Prokofiev. Un anno dopo aver preso stabilmente dimora a Mosca Pro­ kofiev poteva dunque già constatare che il governo sovietico... non rispondeva perfettamente ai suoi desideri. Ma non risulta che pensasse di modificare la decisione presa nel 1936. Tra il 1937 e il 1938 compose le musiche di scena per VAmleto e tra il 1938 e il 1939 la musica per il film Alexandr Nevsky. I dieci pezzi BATAmleto (circa venticinque minuti in tutto) furono composti su commissione di Sergej Radlov, amico di Prokofiev, suo collaboratore per il libretto del Romeo e Giu­ lietta e regista che, essendo in linea con le direttive ufficiali, non rischiava di finire sotto accusa come Meyerhold. I dieci pezzi appaiono perfettamente adatti alla tragedia shakespea­ riana, anche se, essendo brevi, ne punteggerebbero appena qua e là una rappresentazione; il n. 8, Gavotta, fu trascritto da Pro­ kofiev per pianoforte. Diventato famosissimo dopo aver diretto il film La corazzata Potemkin, Sergej Eisenstein, quando propose a Prokofiev la col­ laborazione per 1’Alexandr Nevsky, aveva già provato i rigori della sorveglianza burocratica sugli artisti ed aveva già fatto nel 1937 l’autocritica di prammatica: «L’illusione che si possa com­ pire un’opera veramente rivoluzionaria da soli, fuori dal seno della collettività, è stata sempre denunciata come tale da Lenin ed è stata costantemente messa in rilievo da Stalin ». Perdonato e autorizzato a girare VAlexandr Nevsky, sia pure avendo al fianco due cani da guardia incorruttibili nelle persone di un aiuto regista e di una responsabile del cast, Eisenstein si mette 189

al lavoro. Il soggetto affonda le sue radici nella storia e nell’epo­ pea russa. Alexandr, principe di Novgorod, dopo aver cacciato i mongoli e dopo aver sgominato nel 1240 gli svedesi in una battaglia sul fiume Neva (e perciò viene detto Nevsky), batte spettacolarmente i prussiani Cavalieri Portaspada nel 1242 nello scontro sul lago ghiacciato Peipus. Verrà canonizzato dalla chiesa ortodossa (per iniziativa di Ivan il Terribile), nel suo nome verrà fondato un ordine cavalleresco, al suo nome ver­ ranno intitolate cattedrali... Ma tutto questo non rientra nello scenario del film, che si conclude con il trionfo militare. Soggetto patriottico, dunque..., un po’ guastato nel 1939 dal patto russo-tedesco, il patto Molotov-Ribbentrop, ma che ri­ diventerà d’attualità nel 1941, quando le divisioni corazzate te­ desche di Hitler attaccheranno l’Unione Sovietica. E in quel momento, non del tutto impropriamente, la figura di Stalin si sovrapporrà nell’immaginario popolare alla figura del principe di Novgorod. Eisenstein immaginò il film come chanson de geste in cui il mondo veniva diviso nettamente, da una parte i buoni e dall’al­ tra i cattivi, da una parte i messaggeri della luce, dall’altra i messaggeri delle tenebre. Per realizzare musicalmente questa di­ cotomia Prokofiev aveva sotto gli occhi due esempi, due mo­ delli nel Gallo d'oro di Rimski-Korsakov e nell’ Uccello di fuoco di Stravinsky (il secondo, ovviamente, influenzato dal primo), nei quali il positivo era simboleggiato dal diatonismo e il nega­ tivo dal cromatismo. Due modelli felicemente riusciti, e da evi­ tare proprio per questo, e proprio perché risalenti a soli tren­ tanni prima e proprio perché russi. La soluzione di Prokofiev fu di usare come simboli musicali dei due mondi la consonanza e la dissonanza. Come avevo detto a suo tempo VAlexandr Nev­ sky ha in parte la sua origine nel finale della Suite scita ma si mantiene nel solco della «nuova semplicità», e la partitura è un modello assoluto di musica funzionale, di musica, come si sa­ rebbe detto un tempo, ancella di un’altra arte: della poesia nel Seicento e nel Settecento, del cinema nel Novecento.

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Vogliamo dire che però la musica àsAfAlexandr Nevsky è una serva padrona? Possiamo dirlo nel senso che Serpina è tal­ mente indispensabile per Uberto da diventare non la padrona di Uberto ma padrona Serpina accanto a padron Uberto. La musica di Prokofiev arriva dopo il film di Eisenstein ma il film non esisterebbe qual è, un capolavoro cinematografico del No­ vecento, senza la musica di Prokofiev. Come argomenta benis­ simo il Dorigné, «la musica è il commentario dell’immagine, o rimmagine è il commentario della musica? ». Il metodo di lavoro scelto da regista e compositore per rag­ giungere questo risultato era razionale e fu rigorosamente ri­ spettato. Ogni sera Prokofiev vedeva due o tre volte, proiettato per lui, il risultato del lavoro svolto dalla équipe cinematografica durante il giorno. Guardava, prendeva annotazioni sulle durate e sul carattere delle sequenze, se ne andava mormorando « L’a­ vrete a mezzogiorno», e a mezzogiorno meno cinque entrava nello studio. Con il permesso del lettore apro qui una breve digressione per dire che l’organizzazione del tempo di lavoro (e di svago) di Prokofiev era proverbiale. Nikita Magaloff raccontava che durante un viaggio in transatlantico aveva verificato come la giornata di Prokofiev fosse regolata e quanto rigidamente ve­ nisse rispettato il programma stabilito. Se dall’ora x all’ora y aveva stabilito di giocare a scacchi per poi comporre fino all’ora z, allo scoccare dell’ultimo minuto dell’ora x Prokofiev lasciava la scacchiera anche se stava per fare la mossa dello scacco matto, e allo scoccare dell’ora z smettava di comporre anche se si trovava a metà di una battuta perché l’ora successiva doveva essere dedicata al film che veniva proiettato nel cinema di bordo. Nicolai Nabokov, che secondo me è una fonte un po’ sospetta ma che non può essersi inventato tutto, racconta di aver accompagnato una volta Prokofiev nella passeggiata salvi­ fica che questi faceva ogni mattina compiendo un certo per­ corso in un tempo variabile fra ventisei minuti e diciassette se­ condi e ventisei minuti e trentacinque secondi e di essere stato 191

accusato di aver marciato troppo lentamente perché nella prima parte del percorso c’era stato un ritardo di un minuto e quattro secondi sul tempo massimo. Lo stesso Nabokov racconta di una sua partecipazione ad una tournée gastronomica durante la quale lui e Lina Prokofieva, avendo voluto visitare la casa natale di Jeanne d’Arc a Domremy, si erano presentati all’appunta­ mento con Prokofiev con cinque minuti di ritardo. Vedendo il «viso blu per la rabbia» del marito Lina era subito scoppiata in pianto dirotto, cosa che aveva portato all’acme il furore di Sergej. Il quale, prima di calmarsi un po’, aveva snocciolato per un quarto d’ora un fiotto di geremiadi accusatorie. Ogni giorno a mezzogiorno, dunque, Prokofiev consegnava ad Eisenstein la musica che aveva composto durante la notte. Il rapporto con l’immagine era così esatto che per l’episodio della battaglia sul lago ghiacciato fu poi possibile stampare uno sopra l’altro, e perfettamente corrispondenti, il rigo musicale e i foto­ grammi della pellicola. Prokofiev scrisse così la musica per i 3044 metri della pellicola e il film fu terminato entro la data prefissata, il 3 novembre 1938. Nel 1939 Prokofiev scelse sette episodi del film per una cantata per mezzosoprano, coro e orchestra, divenuta celeber­ rima, con un testo di Vladimir Lugovski. Il primo episodio è in­ titolato La Russia sotto il giogo dei mongoli e rievoca i tempi lontanissimi della dominazione asiatica, il secondo, Canto di Alexandr Nevsky, inneggia alla vittoria sugli svedesi, il terzo, I Crociati a Pskov, descrive l’invasione dei Portaspada, il quinto, Alle armi, popolo russo, parla della mobilitazione e della distri­ buzione delle armi, il quinto, culmine della cantata, è La batta­ glia sul lago ghiacciato, con inizio nella livida mattinata e svi­ luppo in cui si « affrontano » il motivo dei crociati e il motivo dei seguaci di Nevsky finché il primo violino da solo, ripren­ dendo il motivo di Alle armi, popolo russo, simboleggia la vitto­ ria. Nel sesto episodio, Il Campo dei morti, interviene il mezzo­ soprano, simbolo dolente della donna, che potrebbe anche es­ sere una russa valchiria perché canta fra l’altro «Colui che no192

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bilmente morì sarà il mio sposo e il mio amante; non sposerò un bel ragazzo, la grazia e la bellezza periscono, sposerò un uomo valoroso: sappiatelo, guerrieri dal cuore di leone». Non mi sembra dunque improbabile che, se non avesse dovuto pen­ sare a!T«esame» da passare presso l’Unione Compositori, Pro­ kofiev avrebbe evocato una figura femminile della mitologia slava. Il brano conclusivo è intitolato L'ingresso di Alexandr Nevsky a Pskov, con l’ovvio trionfo ma anche con l’ammonimento a chi osasse ancora invadere il suolo russo. La Cantata, diretta da Prokofiev a Mosca il 17 maggio 1939, riscosse un successo trionfale: durante la guerra il suo n. 4, il canto «Alle armi, popolo russo», venne radiodiffuso molte volte: alla fine, dopo tanti tentativi andati a vuoto, Prokofiev era diventato an­ che ufficialmente, e non solo sostanzialmente, l’epico cantore del suo popolo.

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L’OPERA SOVIETICA Il successo trionfale deWAlexandr Nevsky era stato prece­ duto da un insuccesso non propriamente... trionfale ma certa­ mente mortificante. Come ho già detto, Prokofiev era uso a iscrivere nel suo catalogo le nuove composizioni non appena co­ minciava a progettarle e poi impiegava magari anni e anni, preso com’era da tante incombenze, prima di condurle a ter­ mine. Nel 1917, il lettore lo ricorderà, aveva annotato alcune idee per il Concerto n. 3 per pianoforte, che era poi stato ulti­ mato solo nel 1921. In quel caso il ritardo era dovuto in una certa misura alla Rivoluzione e al viaggio verso gli Stati Uniti e in una misura maggiore alla commissione dell’Amore delle tre melarance. Altre volte il ritardo dipese sia da circostanze casuali sia da un momentaneo calo di interesse. Nel 1933 fu iniziato, subito dopo il Canto sinfonico op. 57, il Concerto op. 58 per violoncello e orchestra che rimase... im­ pantanato sebbene nessun altro lavoro delle dimensioni e del­ l’impegno creativo di un’opera fosse stato intrapreso da Proko­ fiev. Il ritardo nel comporre il Concerto troncò la collaborazione avviata all’inizio con un violoncellista celebre, Gregor Piatigorski, il cui patronage avrebbe sicuramente richiamato sul lavoro l’attenzione del mondo musicale internazionale e la cui assi­ stenza sarebbe stata preziosa nella stesura della parte solistica. Terminato solo nel 1938, il Concerto venne eseguito a Mosca il 26 novembre, nell’ambito del Festival della Musica Sovietica che si teneva per la seconda volta, dal violoncellista Lev Bere­ zovsky e sotto la direzione di Melik-Pashaiev. Il violoncellista aveva preparato il Concerto con uno squattrinato allievo del

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conservatorio, Sviatoslav Richter, che era ben lieto di guada­ gnare qualche soldino. Dice Richter: «A Berezovsky faceva pia­ cere di aver ricevuto l’incarico ma nello stesso tempo la musica era estranea alla sua natura., [...] alla fine la mandò a memo­ ria». Il Concerto, eseguito all’Unione Compositori con accom­ pagnamento di pianoforte, racconta sempre Richter, ebbe ina­ spettatamente un successo pieno. L’esecuzione pubblica fu in­ vece «un fiasco totale», anche per colpa di Melik-Pashaiev che non capì «l’intima essenza dell’opera». Prokofiev si arrabbiò; ma nel 1940 ritoccò il suo lavoro in modo non superficiale..., con lo stesso risultato. Tra il 1950 e il 1952, stimolato come ve­ dremo da Rostropovic, riscrisse il Concerto, che divenne la Sin­ fonia concertante op. 125. Il Concerto, in tre tempi {Andante, Allegro giusto, Tema con variazioni}, avrebbe probabilmente trovato posto nel repertorio - e Piatigorski lo eseguì negli Stati Uniti nel 1940 - se non fosse esistita la Sinfonia concertante. La sua funzione, nel 1938, fu quella di trasporre in campo sinfonico la « nuova semplicità » del Romeo e Giulietta e di Pierino e il Lupo. Ma l’operazione non riuscì e Prokofiev non ritrovò d’altronde l’equilibrio poe­ tico, stilistico e architettonico del Concerto n. 2 per violino del 1935. Il rimaneggiamento profondo del 1950-52, di cui parle­ remo più avanti, portò al conseguimento di un risultato ben più alto. Il successo dell’Alexandr Nevsky ripagava Prokofiev della delusione del Concerto per violoncello. Ma non del tutto perché nel 1938... aveva luogo la prima esecuzione della Quinta Sinfo­ nia di Shostakovic. Dopo il famoso attacco devastatore che aveva subito nel 1936 Shostakovic si era tenuto in disparte ed essendo stato nominato professore di composizione nel conser­ vatorio di Leningrado sembrava avviato verso una carriera un po’ grigia come quella del suo pendant nel conservatorio di Mo­ sca, Miaskovsky. Il trionfo della Quinta Sinfonia, sottotitolata «risposta pratica ad una giusta critica», lo riportava alla ribalta e proiettava su Prokofiev un cono d’ombra. Prokofiev ascoltò la

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Quinta Sinfonia e con una lettera del 5 giugno 1938 si compli­ mentò con il più giovane collega. Disse di aver ascoltato il la­ voro in condizioni ambientali non buone (all’aperto, con rumori vari, con zanzare fastidiose) e lo lodò, non senza punzecchiare i burocrati che l’avevano sdoganato prendendo, secondo lui, fi­ schi per fiaschi: Mi sono molto piaciuti diversi passaggi di questa Sinfonia, sebbene sia diventato per me molto chiaro che «loro» non la valutano in ragione delle qualità per le quali dovrebbe essere lodata. Tuttavia è bene che « loro » ne tessano le lodi perché, dopo tutti i piatti riscal­ dati serviti dai nostri compagni compositori, l'apparizione di qual­ cosa di autenticamente fresco conforta il nostro lavoro. Si può spe­ rare che « loro » finiranno per capirla.

Non starò a far notare al lettore quale trama psicologica percorra queste dichiarazioni. E evidente però che Prokofiev colloca Shostakovic e se stesso in una categoria a parte, quella degli artisti veri, anzi, dei due soli veri artisti esistenti nell’U­ nione Sovietica. Due soli sì, ma con un primo e un secondo, come il seguito della lettera non manca di precisare: Posso farvi un'osservazione? Perché così tanti tremoli negli archi come nell"Aida? Se, beninteso, il vostro punto di vista coincide con il mio ciò può essere facilmente corretto.

Shostakovic prende nota e alla prima occasione renderà pan per focaccia. Abbiamo già visto come Prokofiev avesse « ripiegato » sul Luogotenente Kijé per prepararsi ad un lavoro di argomento so­ vietico. L'Alexandr Nevsky era un grande canto alla gloria della nazione russa e poteva sicuramente simboleggiare la situazione presente. Ma non era «sovietico». Il 4 aprile 1939 Meyerhold, fresco della nomina a direttore deJl’Opera di Stato Stanislavsky, annunciava ai dipendenti di aver commissionato quattro opere, una delle quali avrebbe portato la firma di Prokofiev. Il Nostro 196

si era già messo al lavoro e 1’8 aprile faceva ascoltare a Meyerchold, a Miaskovsky e al librettista Valentin Kataiev i primi due atti di una opera che più tardi avrebbe ricevuto il titolo Semyon Kotko.

Kataiev aveva pubblicato nel 1932 la novella Io, figlio del popolo operaio (o Io, figlio del popolo lavoratore), da cui aveva tratto la commedia Un soldato torna dal fronte-, da queste due fonti deriva il libretto dell’opera. Sembra che il librettista, es­ sendo uomo d’apparato, pensasse ad uno spettacolo popolare basato soprattutto su canzoni e danze (Hary Jànos di Kodàly, 1926, poteva essere il modello di riferimento). Prokofiev riuscì invece ad indirizzare il lavoro verso quel che voleva, cioè verso un’opera vera e propria. Il contadino Semyon Kotko, che ha servito per quattro anni nell’esercito, torna nel suo villaggio e incontra la madre che lo attendeva, poi si reca nella sala del Piano Quinquennale dove il soviet rurale lo riceve per assegnargli un pezzo di terra e un po’ di bestiame. Semyon ama ed è riamato da Sophia, che disgrazia­ tamente è figlia di un antico proprietario, il kulak Tkatchenko, ostile e al nuovo ordine sociale e alle nozze. Nel villaggio vi­ vono il marinaio Tsarev, fidanzato con Liubka, il giovane sposo Nicolai ed altri. Inizia la festa di fidanzamento di Semyon e So­ phia, con canti e danze, e con Tsarov che suona da virtuoso l’armonica a bocca. Ma la giocosa riunione viene bruscamente interrotta da una masnada di tedeschi invasori, i quali fucilano Tsarev ed altri mentre Semyon si salva fuggendo e Liubka im­ pazzisce per il dolore e l’orrore. È il momento di Tkatchenko, che diventa subito collaborazionista mettendosi agli ordini del tenente Werkov e che combina per la figlia un ben diverso ma­ trimonio con uno della sua stessa risma, l’ex-proprietario ter­ riero Rabotnik. Mentre si svolge la cerimonia del matrimonio Semyon e i partigiani piombano nel villaggio ma il giovane viene fatto prigioniero (e i tedeschi si danno al loro sport prefe­ rito, la fucilazione dei contadini, aggiungendovi l’incendio delle loro case). Semyon, sul punto di essere giustiziato anche lui, 197

viene salvato dai suoi compagni partigiani, i tedeschi vengono cacciati, il traditore collaborazionista Tkatchemko è arrestato e Sophia è lì a riprendersi il suo vero fidanzato. Gioia generale. Si è incerti se definire questa vicenda più ingenua o più mediocre. E sicuro però che l’eccesso di schematismo e la man­ canza di trapassi drammaturgici sfumati la rendono amorfa. Questa è per lo meno la mia impressione di ascoltatore, devo dirlo per onestà, occidentale. I russi sentono oggi nel Semyon Kotko l’opera nazionale nel solco del teatro di Mussorgski. Ed io, pur mantenendo la mia impressione non positiva, non posso esimermi dal citare ciò che sul Semyon Kotko scrive un musici­ sta della statura di Sviatoslav Richter: Con Semyon Kotko Prokofiev seguì il sentiero tracciato da Mus­ sorgski. Altri compositori avevano fatto preccedentemente così, cia­ scuno a suo modo. Debussy e Janàcek, per esempio — ma io penso che il discendente diretto di Mussorgski nel campo della musica na­ zionale popolare sia il nostro Prokofiev. La sua musica è fondata sui modelli di intonazione del linguaggio parlato, e a ciò egli confe­ risce i contorni più perfetti. Ascoltando quest'opera si diventa tutt'uno con essa, si diventa tutt'uno con un lavoro che traspira non solo giovinezza ma anche il tempo e il periodo storico che dipinge. Quest'opera è così perfetta e così accessibile che l'apprezzamento su di essa dipende soltanto dalla volontà dell'ascoltatore di ascoltare. E un tale ascoltatore c'è sempre. Questa la mia profonda convin­ zione. Basta per lui o per lei aver la fortuna di ascoltare questa perla del repertorio operistico. La sera in cui ascoltai Semyon Kotko per la prima volta capii che Prokofiev era un grande compositore.

A Prokofiev il libretto dell’opera piaceva perché per intanto gli poneva dei problemi: Scrivere un'opera su soggetto sovietico non è, senza dubbio, un compito semplice. Entrano qui in gioco un popolo nuovo, nuove emozioni, un nuovo modo di vita, e perciò molte delle forme con­ suete nell'opera classica si dimostrano impraticabili. Per esempio,

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un aria cantata dal capo di un villaggio sovietico può, se capita la più lieve goffaggine da parte del compositore, diventare estremamente sconcertante per l’ascoltatore. Anche il recitativo di un com­ missario che sta facendo una telefonata può essere equivocato. Da lungo tempo volevo scrivere un’opera sovietica, ma esitai nell’intraprendere il compito fino a quando non ebbi una chiara idea di come affrontarlo. Tuttavia non fu facile trovare un intreccio. Non volevo un intreccio comune, statico, triviale o, al contrario, un intreccio che mostrasse una morale troppo ovvia. Volevo uomini vivi di carne e sangue con passioni umane, amore, odio, gioie e pene che sorgessero con naturalezza dalle nuove condizioni [di vita].

La esigenza poetica è chiara: non manichini, non simboli, ma personaggi. In questo senso Prokofiev poteva dormire sonni tranquilli perché toccava a lui creare delle figure umanamente credibili. E lo sapeva fare. Quel che non poteva superare era la meccanicità della vicenda, con schematismi simili a quelli delV Alexandr Nevsky ma con avvenimenti troppo vicini storica­ mente per potersi sciogliere nell’epopea e nel mito. I problemi che Prokofiev si poneva erano però soprattutto di natura formale. Forte delle sue esperienze cinematografiche egli non voleva che fazione ristagnasse mai: «Componendo la mia opera ho tentato di non lasciare che l’azione sulla scena ve­ nisse meno per un solo momento. Ma che fare con le arie? » Le arie, si badi, non le canzoni, che fanno parte dell’azione. Le considerazioni di Prokofiev sono piuttosto singolari perché egli non vede nell’aria l’arresto del tempo cronologico e lo svela­ mento dell’interiorità del personaggio ma, stranamente, un’occa­ sione di gratificazione professionale per il compositore e per il cantante: L’aria ha nell’opera un posto legittimo: essa dà modo al composi­ tore di sviluppare una larga melodia e dà al cantante un’opportu­ nità per esibire i suoi talenti vocali. Che si può fare se, mentre viene cantata l’aria, per cinque minuti (e in scena cinque minuti 199

sono un'eternità) non accade nulla eccetto il fatto che il cantante alza un po' di volte le braccia? Da questo punto di vista io divido le arie in due tipi: il tipo dell'aria di Lenski [nell'Eugenio Onegin di Ciaikovsky] durante la quale non accade nulla, e quello della scena della lettera nella stessa opera. La seconda è in realtà niente più che un'aria molto lunga che si sviluppa per quasi tutta la scena. Ma malgrado il fatto che durante la scena cè poco movimento fi­ sico, il dramma è così teso che non possiamo staccare gli occhi dal palcoscenico e che non notiamo la lunghezza dell'aria.

Il secondo tipo, ovviamente, è quello scelto da Prokofiev. Altro problema, i recitativi: Ho evitato il recitativo come l'elemento meno interessante dell'o­ pera. Nei momenti più intensamente emotivi ho tentato di fare un recitativo melodico, creando una sorta di melodia-recitativo. D'altra parte ho usato un parlato ritmico nei momenti più « con i piedi per terra ». C'è nell'opera la tradizione del parlato: le arie e gli assiemi [dei Singspiele] di Mozart sono costantemente intercalati da scene di recitazione. Tuttavia devo ammettere che l'alternarsi di cantato e parlato non è sempre piacevole, e perciò ho preferito il parlato rit­ mico, qualcosa nella natura del canto. In ogni singolo caso ho cu­ rato di far parere naturale il passaggio dal cantato al parlato.

Ultimo problema, la melodia, « uno degli elementi basilari di ogni composizione musicale». Ma su questo punto abbiamo già visto come Prokofiev la pensasse. E molto strano per noi trovare un compositore, che già aveva maneggiato da padrone tutti gli ingredienti dell’opera nel Giocatore, nell’Amore delle tre melarance, nell’Angelo di fuoco, smarrirsi con problemi di questo tipo. La mia impressione per­ sonale è che Prokofiev, messo di fronte a quello che lui riteneva essere il «popolo nuovo» con le «nuove emozioni» e il «nuovo modo di vita», più che preoccuparsi di problemi stili­ stici e formali sentisse l’esigenza di giustificare l’esistenza stessa dell’opera come genere, di giustificare il fatto che una vicenda 200

contemporanea fosse rappresentata cantando invece che sempli­ cemente recitando (con canzoni e danze intercalate). Il pro­ blema, secondo me, era di non far sentire come artificioso il re­ citar cantando originario dell’opera e tutti i suoi sviluppi storici. Zangolatura delle critiche che seguirono la prima esecuzione dimostra del resto che Prokofiev non si preoccupava a torto e che per lui erano pronte le forche caudine dell’ortodossia sovie­ tica. Un problema, marginale ma che poteva diventare politicamente scottante, era costituito dalla presenza nel Semyon Kotko - come Alexandr Nevsky - dei tedeschi in veste di feroci in­ vasori. Come tutti certamente ricordano, il 24 agosto 1939, una settimana prima che Hitler invadesse la Polonia, i ministri degli esteri Molotov e Ribbentrop firmavano il patto russo-tedesco e veniva fotografata e diffusa in tutto il mondo la calorosa stretta di mano fra Ribbentrop e Stalin. Andrej Vishinski, procuratore generale nelle «purghe» e uomo di fiducia di Stalin, comparve al Teatro Stanislavsky durante le prove del Semyon Kotko e, se­ condo Shostakovic (o Volkov), suggerì - e il suggerimento venne seguito - che si potevano sostituire i tedeschi con i russi bianchi, i controrivoluzionari. Ma intanto Meyerhold era stato arrestato il 20 giugno, tra luglio e agosto aveva accusato sotto tortura se stesso ed altri di crimini antisovietici, avrebbe ritrat­ tato la confessione nel gennaio del 1940 ma, come già detto, sa­ rebbe stato fucilato il 2 febbraio. Per salvare l’opera di Prokofiev fu interpellato Eisenstein, che prudentemente rinunciò. La regia venne allora affidata a Serafina Birman e l’opera andò in scena il 23 giugno 1940. Il verdetto della critica fu secco: troppo recitativo, mancanza di melodie facilmente apprendibili, mancanza del folclore. Di ciò che scrisse più tardi il Nestiev ho già dato notizia al lettore. L’opera sovietica, in fin dei conti, continuava per Prokofiev a baluginare all’orizzonte come un semplice miraggio, mentre tutti gli onori andavano a Nella tempesta di Khrennikov, che di­ ventava il fiduciario del Potere in seno all’Unione Compositori. 201

L’OPERA NON-SOVIETICA Nel 1939 cadeva il sessantesimo compleanno di Stalin. Pro­ kofiev scrisse per l’occasione la cantata per coro misto e orche­ stra Augurio op. 85 su testi popolari e con temi folcloristici. Fra i testi si trova anche una poesia della kolkoziana Martha Ossiki che è un piccolo capolavoro adulatorio: Se i miei occhi brillassero ancora come a diciassette anni Se le mie guance fossero ancora rosse come mele ben mature Andrei nella Grande Mosca A ringraziare il compagno Stalin.

Nemmeno questo omaggio al dittatore, peraltro musicalmente vivacissimo e che per Sviatoslav Richter è « un lavoro di genuina ispirazione», placa però i sospetti dei censori, anche se viene approvato e ripetutamente eseguito. Nel 1939 Eisenstein riceve l’Ordine di Lenin come premio per il film Alexandr Nev­ sky. A Prokofiev non bastano la Cantata per il XX anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, i Sei Canti op. 66, l’Ouverture russa, i Canti dei nostri giorni, i Sette Canti op. 79 per canto e pianoforte, Semyon Kotko e Augurio, per non parlare della can­ tata Alexandr Nevsky, per ottenere il solenne riconoscimento uf­ ficiale al suo sforzo di allineamento. Il 1939 è un anno di intensa operosità. Ma è anche un anno di tormenti esistenziali. Nell’agosto del 1938, in villeggiatura in quella caucasica Kislovodsk in cui si era rifugiato nel 1917, Pro­ kofiev conosce una ragazza ventiquattrenne, Maria-Cecilia Abramova Mendelsohn detta Mira, studentessa di letteratura 202

nell’istituto Gorki di Mosca e figlia di un professore di econo­ mia politica, fortemente impegnato in attività di partito. Della vita amorosa di Prokofiev non sappiamo praticamente nulla e suU’^/fazre che causò la rottura del suo primo matrimo­ nio abbiamo pochissime informazioni. Mira Mendelsohn, che scrisse del marito nel 1956, comincia dicendo: Avendo vissuto vicino a lui per dodici anni so che per lui vita signi­ ficava lavoro. [...] Sergej Sergejevie non poteva concepire un solo giorno senza lavoro. [...] Lavorava in ogni circostanza, in momenti di euforia spirituale e in momenti in cui si trovava senza forze e de­ presso, quando si sentiva così energico e vigoroso che anche i suoi medici sarebbero stati soddisfatti e quando doveva cambiare tutto quanto il suo modo di vivere per essere in grado di comporre. [...] La malattia che rattristò gli ultimi anni della sua vita non diminuì la sua capacità di lavorare: al contrario, proprio per questo motivo tutte le sue energie fisiche e mentali erano concentrate sull'arte. [...] Sacrificò volentieri molti dei piaceri della vita per il fine di ciò che per lui era la gioia suprema, la gioia della creazione.

L’arte, insomma, appartiene alla vita, l’amore all’esistenza: è accidente, non sostanza. Lina Codina era una donna molto bella..., e non solo. Arthur Rubinstein chiese in russo a Proko­ fiev dove aveva trovato «una tale bellezza», e quando s’accorse che la bellezza capiva la lingua mostrò grande imbarazzo. Ci si imbarazza per aver definito «bellezza» una donna? O l’apprez­ zamento di Rubinstein era stato in realtà più forte e più maschi­ lista? Lina, diciamo pudicamente così, era bella e sexy? Par­ rebbe. Ed era molto estroversa, spumeggiante, ed adorava la compagnia, e sapeva stare in società e tener testa agli uomini senza cessare di attirarli. Mira Mendelsohn era una ragazza seria e seriosa, introversa, riservata, viso e figura non appariscenti, abiti castigati e collettino bianco, modi e presenza, direi, da isti­ tutrice o da segretaria, «una donna abbastanza piacente», se­ condo Richter, «ma noiosa e con una voce insopportabile». La prima era una madrilena cosmopolita che aveva ancora colto 203

una fetta della belle epoque, la seconda era una figlia della Rivo­ luzione che nel Komsomol, l’Unione della Gioventù Comunistaleninista, era entrata non appena aveva avuto l’età per entrarci. In passato i biografi si sono fatti un dovere di essere pro-Miram o contra-Miram sulla base di notizie non controllate né con­ trollabili, un po’ come era avvenuto - per o contro Konstanze per i biografi di Mozart, un po’ come’era avvenuto - per o con­ tro George Sand - per i biografi di Chopin. Oggi, secondo me, è bene limitarsi ai fatti ed evitare l’arroganza dei giudizi morali che del resto non potrebbero riguardare soltanto Mira ma anche Prokofiev. I fatti sono che nel 1938 il matrimonio era in crisi e che le liti - testimonianza dei figli - erano all’ordine del giorno. Per le vacanze dell’estate 1940 venne affittata come di consueto una casa a Nicolina Gora, dove soggiornarono però soltanto i ra­ gazzi, affidati ad uno studente di medicina amico di Lina. Sem­ bra che Lina e Sergej non venissero più visti insieme in pubblico dopo il marzo del 1940. Un anno più tardi Sergej lasciò l’appar­ tamento in cui viveva con la famiglia, passò qualche settimana in albergo, prese alloggio in una delle due stanze che i Mendelsohn avevano in coabitazione, una stanza che era insieme la camera da letto di Mira e la sala da pranzo della famiglia. In queste condizioni scomodissime visse per qualche mese. Ma, come sap­ piamo bene, la sola cosa per lui irrinunciabile era il lavoro. E di lavoro ce n’era a josa. Nel 1938 Prokofiev era ritor­ nato alla musica strumentale da camera, a cui si era sempre de­ dicato solo nei ritagli di tempo, cominciando la Sonata per vio­ lino, op. 80, che sarebbe stata ultimata solo nel 1946. Nel 1939 ritornava al pianoforte mettendo in cantiere ben tre Sonate, op. 82, 83 e 84. La prima di queste sarebbe stata completata nel 1940, la seconda nel 1942 e la terza nel 1944. Il pianoforte era stato il suo strumento di lavoro e per un certo tempo il suo maggior sostegno materiale. Ma la sua vocazione profonda ri­ maneva - era iniziata da quando aveva nove anni! - il teatro. L’opera del 1939, Semyon Kotko, rappresentava l’adempimento di un dovere, del resto sinceramente sentito, verso la colletti204

vita. L’opera del 1940, Matrimonio al convento, rappresentò l’e­ vasione dalla grigia realtà sovietica. Dopo Semyon Kotko Prokofiev si mise alla ricerca di un soggetto senza più pensare, se i ricordi di Mira Mendelsohn sono esatti, ad un altro argomento sovietico. Mira racconta che uno gli suggeriva Re Lear, un altro II mercante di Venezia, un terzo un qualche dramma di Ostrovsky. Prokofiev pensava all’Amleto e soprattutto a II fannullone di Nicolai Leskov, l’autore della novella da cui era stato tratto il libretto della « famigerata » Lady Macbeth del distretto di Mtsenk. Ma il caso volle che ad in­ dirizzarlo sulla via sicura fosse Mira. Leggiamo il suo racconto: Una mia amica, un tempo compagna di scuola nell'istituto [Gorki] di Letteratura ed ora traduttrice di talento, mi chiese se mi sarebbe piaciuto tradurre le parti in poesia rimata della commedia di Sheri­ dan The Duenna mentre lei stessa traduceva le parti in prosa. Il compito di tradurre qualcosa per il teatro era di per sé attraente, ma leggendo il testo io fui dopppiamente deliziata nel trovarlo così allegro e brillante, e così lirico. Seguendo un impulso veramente ir­ resistibile esposi a Sergej Sergejevic la trama. Al principio mi ascoltò con distacco, ma vidi poi che il suo interesse aumentava progressivamente. Quando terminai disse: «Diamine, spumeggia come champagne, si potrebbe farne un'opera nello stile di Mozart o di Rossini! » Sergej Sergejevic lesse tutta la commedia e decise lì per lì di trarne un'opera.

Richard Sheridan, nato a Dublino nel 1751, era diventato famoso con la commedia La scuola della maldicenza. The Duenna, La governante, era stata pensata, sembra, come libretto d’opera, e Prokofiev l’adattò facilmente alle sue esigenze. Più volte in passato aveva in verità tuonato contro i libretti d’opera in versi. Ma per il Matrimonio al convento accettò anche i versi rimati, che del resto erano tradizionale nell’opera buffa e che inoltre - se ci è permesso di sospettare una qualche minima de­ bolezza sentimentale in un uomo tutto d’un pezzo - erano opera di Mira. 205

Non è facile riassumere la trama di quest’opera, come non è del resto facile riassumere Le nozze di Figaro. Anche il Matri­ monio al convento, come le Nozze di Figaro, è situato cronologi­ camente alla fine del sec. XVIII e geograficamente in Andalu­ sia: a Siviglia invece che vicino a Siviglia. Il pescivendolo arric­ chito Mendoza cerca di farsi un socio nella persona del genti­ luomo Don Geronimo, il quale accetta la proposta e per meglio serrare il patto promette di dare in sposa la figlia Luisa al neo­ socio, che pur non avendola mai vista scoppia dalla contentezza per l’offerta. Luisa, ovviamente, è già amata da un altro, non ricco, anzi, povero, cioè da Antonio, amico di Ferdinando, fi­ glio di Don Geronimo. Il quale Ferdinando ama non riamato la capricciosa Clara d’Almanza. Luisa, non avendo la minima in­ tenzione di sposare il volgare pescivendolo, si confida con la sua governante, Margherita, che escogita un piano di battaglia sia per la ragazza che pro domo sua. Ferdinando perora inutilmente presso il padre la causa della sorella. La governante, invece, si fa sorprendere da Don Geronimo mentre porta a Luisa un biglietto amoroso di Anto­ nio. Il bollente padrone la caccia fuori issofatto ma... sotto le vesti e il velo della governante c’è Luisa. Camminando rapida­ mente sul lungofiume - dove i pescivendoli magnificano « la pe­ sca del Guadalquivir, la pesca del Guadalimar, la pesca del Guadalcaciucco » - si imbatte in Clara d’Almanza, anche lei fuggita di casa in compagnia della servetta Rosina. Clara ha potuto fuggire perché Ferdinando era entrato in casa sua aprendo la porta con una chiave falsa: offesa per l’improntitudice del giovane spasimante, che dice di non amare, Clara ha però colto l’occasione per svignarsela. Su proposta di Luisa le due ragazze si scambiano l’abito, ragion per cui Luisa sarà Clara, Clara - ricordiamoci che Luisa indossava il vestito della governante Margherita, se no perdiamo del tutto il filo sarà Margherita. Mentre Clara-Margherita si rifugia in con­ vento, Luisa-Clara va a chiedere al pescivendolo Mendoza di aiutarla a trovare Antonio; Mendoza si impegna e il cavalleresco 206

Don Carlos prende la ragazza sotto la sua protezione (questo Don Carlos non è come Don Giovanni che dicendo a Zeriina «vi esibisco la mia protezione» intende tutt’altro) A casa di Don Geronimo arriva Mendoza, che deve incon­ trare Luisa. La servetta di questa, Lauretta, annuncia però che la sua padroncina vuol vedere il promesso sposo da sola. Don Geronimo esce, entra Margherita-Luisa. Il buffo corteggiamento si conclude con la bizzarra richiesta di Margherita-Luisa di es­ sere rapita perché il rapimento è più romantico del semplice matrimonio. Mendoza acconsente, esce Margherita-Luisa, rien­ tra Don Geronimo: finale del secondo atto con i due che vuo­ tano in un comico duetto una bottiglia di champagne. Mendoza conduce Antonio da Luisa-Clara, scortata dall’im­ pagabile Don Carlos. Il giovane - siamo in pieno Così fan tutte - si innamora all’istante di Luisa-Clara, tradendo così LuisaLuisa, e Mendoza confida agli altri la sua decisione di rapire ro­ manticamente la sua Luisa, cioè Margherita-Luisa. Effettuato il rapimento, sia Mendoza che Margherita-Luisa mandano mes­ saggi scritti a Don Geronimo, implorandolo di consentire alle nozze riparatrici. Costui, naturalmente, non ha obbiezioni di sorta e, anzi, predispone tutto per un grande banchetto. Clara-Margherita, Luisa-Clara e Antonio si ritrovano nel giardino di un convento. Arriva un ragazzo, che consegna per sbaglio a Luisa-Clara il biglietto di perdono e di felicitazioni di Don Geronimo: Luisa-Clara ridiventa allora Luisa e Antonio non trova sconveniente accettare la trasformazione e tornare al­ l’antico amore. Ma arriva anche Ferdinando e Clara-Margherita, che ha sentito un moto di cocente invidia nel vedere la felicità dell’amica, ridiventa Clara: anche la seconda coppia va così a posto. L’azione si sposta nel convento, dove i monaci frate Bénédictine, frate Chartreuse e altri consimili cantano le lodi del vino, «sole della nostra vita». Ma il guardiano annuncia che è stata richiesto di celebrare due matrimoni: i monaci accolgono gli sposi al canto di un corale di penitenza e di contrizione e le

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nozze, dopo qualche malinteso e un bisticcio di cui faccio gra­ zia al lettore ma che provoca momentaneamente una sfida a duello tra Fernando e Antonio, le nozze, dicevo, vengono cele­ brate. Resta da sistemare la terza coppia. Mendoza e MargheritaLuisa si presentano in casa di Don Geronimo. Stordito e sba­ lordito, questi svela 1’arcano a Mendoza, il quale tenta di fug­ gire come una lepre ma viene acchiappato al volo da Marghe­ rita: anche il terzo matrimonio viene celebrato e Don Geronimo perdona la figlia: l’opera finisce con un gran ballo di tutti i per­ sonaggi. Prokofiev dice di aver dovuto scegliere se accentuare «l’a­ spetto comico della storia o Zangolatura amorosa» e confessa di aver puntato sulla seconda opzione e di essere convinto di «non aver sbagliato enfatizzando l’aspetto lirico della Duenna, l’amore delle due giovani, briose, fantasiose coppie Luisa-Antonio e Clara-Ferdinando, gli ostacoli al loro amore, i felici matri­ moni, il poetico sfondo di Siviglia in cui l’azione si svolge, il tranquillo paesaggio serotino che si dispiega sotto gli occhi degli innamorati, il carnevale notturno, l’antico monastero abbando­ nato». Ma asserisce di aver considerato attentamente anche «l’elemento comico in cui Sheridan eccelle». Questo sottile equilibrio di comico e lirico (e anche lirico-paesistico) era stato secondo Prokofiev trascurato dal Teatro da Camera di Mosca che mettendo in scena la commedia originale aveva talvolta spinto la comicità fino alla «mera buffoneria». Detto in altri e più antiquati termini, Prokofiev aveva inteso fare non un’opera buffa ma un’opera semiseria. L’opera è costruita secondo gli schemi formali del teatro musicale settecentesco, ma Prokofiev, preoccupato per un’ipotetica accusa di mancata continuità del­ l’azione, sente il bisogno di giustificarsi: La struttura della commedia di Sheridan, con la sua abbondanza di strofette, mi autorizzava ad introdurre molti numeri chiusi - sere­ nate, ariette, duetti, quartetti, assiemi - senza interrompere l'a­ zione.

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« Scrissi il libretto io stesso », dice ancora Prokofiev, ma ca­ vallerescamente riconosce che «il testo di alcuni numeri fu scritto nello stile di Sheridan da Mira Mendelsohn, che più tardi collaborò con me per il libretto di Guerra e pace». La prima rappresentazione, programmata al Teatro Stani­ slavsky per l’autunno del 1941, fu sospesa perché i tedeschi at­ taccarono l’Unione Sovietica il 22 giugno. Nel 1943 fu pro­ grammata al Bolshoi di Mosca e sospesa un’altra volta. Vide fi­ nalmente la luce della ribalta il 30 novembre 1946 al Kirov di Leningrado, rinnovando, e con piena ragione, il successo dell’ylmore delle tre melarance. L’opera arrivò in Occidente un po’ più tardi, ottenendo il pieno successo e i riconoscimenti critici che erano stati negati al teatro « sovietico » di Prokofiev.

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LE «SONATE DI GUERRA» Vengono così denominate in genere la Sesta, Settima e Ot­ tava Sonata per pianoforte, sebbene tutte e tre venissero iniziate e la Sesta anche finita prima che scoppiasse il conflitto fra l’Unione Sovietica e la Germania. Mira Mendelsohn racconta che Prokofiev, letto il Beethoven di Romain Rolland, pensò di scri­ vere una gigantesca sonata in undici tempi. La Sesta, Settima e Ottava Sonata assommano dieci tempi... Ma non si tratta tanto di dare o no credito alla affermazione della Mendelsohn. E im­ portante invece notare che la Sesta, la Settima e V Ottava Sonata furono pensate come ciclo, allo stesso modo delle op. 109, 110 e 111 di Beethoven, allo stesso modo delle tre ultime Sonate di Schubert, D 958, 959 e 960. Il primo interprete della Sesta, Sviatoslav Richter, dice di aver ascoltato due volte nel 1940 la Sonata eseguita privatamente da Prokofiev in casa del musicologo Pave Lamm e di aver subito deciso di studiarla. La studiò durante l’estate - su una copia manosctitta, evidentemente, perché la pubblicazione a stampa è del 1941 - e la eseguì in pubblico a Mosca il 24 no­ vembre senza averla fatta prima ascoltare al compositore. Pro­ kofiev, molto soddisfatto, propose a Richter di studiare il Quinto Concerto, « che è sempre stato un fiasco », e di eseguirlo sotto la sua direzione: come poi avvenne. La Sonata n. 6 ottenne un grande successo. Prokofiev la spedì negli Stati Uniti e Horowitz la eseguì nella Carnegie Hall il 30 gennaio 1942, ma poi le preferì la Settima. Victor Merzhanov e Josef Palenicek la eseguirono e la incisero in disco. Tutta­ via la Sesta Sonata non entrò in repertorio e solo dopo le esecu-

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zioni di Richter in Occidente negli anni sessanta cominciò a di­ ventare popolare. Oggi, insieme con la Seconda e la Settima, è la più eseguita fra tutte le Sonate di Prokofiev. Avendo fatto prima conoscere un... saggio dell’arroganza di Prokofiev verso Poulenc e verso Shostakovic mi sembra giusto far conoscere adesso una lettera di Shostakovic a Prokofiev, del 14 gennaio 1941, nella quale il più giovane si permette di bac­ chettare come un maestro di scuola il più anziano, pur conclu­ dendo con grandi lodi per la Sonata n. 6\ Caro Sergej Sergejevic, ho recentemente sentito il vostro Alexandr Nevsky diretto da Stassevic. Malgrado tutta una serie di momenti meravigliosi l’insieme dell’opera non mi è piaciuto. Mi sembra effettivamente che vi siano state violate certe norme artistiche. C’è troppa musica fisicamente forte (nel senso proprio del termine) e illustrativa. Mi è sembrato in particolare che numerose parti finiscano ancora prima di aver co­ minciato. L’inizio della battaglia sul ghiaccio e tutto il canto per la voce di contralto mi hanno molto impressionato. 'Disgraziatamente non posso dire altrettanto del resto. Sarei tuttavia contentissimo se l’opera ricevesse il Premio Stalin. Effettivamente, malgrado questi difetti, ha meriti molto maggiori di quelli di ogni altro candidato., La vostra Sesta Sonata è magnifica. Dal principio alla fine. E stata per me una gioia ascoltarla due volte, e una tristezza non averla ascoltata che due volte. Vi stringo calorosamente la mano.

Sarebbe molto interessante aver visto la faccia di Prokofiev quando lesse questa lettera sentenziosa. Detto per inciso, la can­ tata Alexandr Nevsky non ottenne il Premio Stalin. Lo avrebbe ottenuto la Settima Sonata, ma... di seconda classe. Sonate di guerra. Certamente l’atmosfera guerresca del primo e del quarto tempo, l’atmosfera idilliaca del secondo e del terzo tempo della Sesta fanno pensare all’opera Guerra e pace, di cui parleremo fra breve. Musica in senso lato « patriot­ tica » è la Sonata n. 6. Non credo sia invece da seguire l’idea di 211

Evgeny Kissin, che vede nella Sonata la critica violenta al « culto della personalità» e nel primo tema il «leitmotiv di Stalin», messo alla gogna alla fine dell’ultimo tempo. Non mi sembra, in altre parole, che si debba interpretare retrospettivamente la composizione alla luce del post-1989, limitandone così il signifi­ cato di alta e nobile e serena testimonianza di fede nella patria in pericolo. Il primo tempo della Sesta, in la maggiore, è, come spesso in Prokofiev, un modello di forma-sonata con due temi princi­ pali constrastanti («maschile» e «femminile»), un tema di col­ legamento e un tema di conclusione. Lo sviluppo, straordinaria­ mente ampio, è basato sul secondo tema, che perde il suo carat­ tere sognante per diventare alla fine urlato. E raro trovare nella musica strumentale una simile espressione del terrore, ed è come se davanti ai nostri occhi passasse, e s’allontanasse, una cieca forza distruttrice. La riesposizione è molto abbreviata. Il secondo tempo, in mi maggiore, è una breve marcia che può ricordare certo Schubert, strumentata pianisticamente con una genialità sconcertante. La forma è quella tradizionale: mar­ cia, trio, marcia. La funzione drammaturgica del secondo tempo è di spazzare via le immagini di morte e di disperazione del primo tempo, aprendo il varco al terzo tempo, Tempo di valzer lentissimo in do maggiore, tutto immerso in un’atmosfera di so­ gno, di reminiscenza degli anni felici. Il finale, vastissimo rondò, inizia in la minore e termina in la maggiore. I contrasti tematici sono molto forti, ma la citazione di temi del primo tempo in movimento rallentato {Andante) è veramente sinistra. Nell’ul­ tima sezione domina l’inciso melodico caratteristico del primo tema del primo tempo in una parossistica sonorità con squilli di trombe che richiamano irresistibilmente l’immagine di una bat­ taglia mortale. A proposito della Settima Sonata, ecco quel che scrive Rich­ ter: 212

Un avvenimento particolarmente importante ebbe luogo nella mia vita nel 1943. Prokofiev aveva appena scritto la sua Settima Sonata e aveva deciso di affidarmene la prima esecuzione. Ricevetti la mu­ sica, manoscritta, solo poco avanti la prima esecuzione ed ebbi sol­ tanto quattro giorni di tempo per mandarla a memoria. Fui quasi responsabile della morte della seconda moglie di Neuhaus, Silvia Fiodorovna, che era malata con temperatura a 40 gradi e il cui ap­ partamento era il solo posto in cui potevo studiare. Il pianoforte era collocato nella sua camera da letto. La povera donna venne sot­ toposta agli assalti dell'ultimo tempo per tre o quattro ore, e per un periodo di quattro giorni interi. La sonata ebbe un immenso successo [Richter la « bissò » intera­ mente]. E un lavoro fantastico, ma io ancora le preferisco la Quarta e, soprattutto, /'Ottava [...].

La Sonata n. 7 fu eseguita da Horowitz nella Carnegie Hall di New York il 14 marzo 1944, dopo alcune audizioni private ed una audizione semipubblica al Consolato Sovietico. Notevole il commento di Toscanini, riferitoci da Glenn Plaskin: «Non è grande musica. Lui la fa grande». Eseguita nell’Europa occi­ dentale, nel 1946, da Nikita Magaloff e da Friedrich Guida, la Sonata n. 7 divenne in breve tempo popolarissima. Horowitz e Guida l’incisero in disco. Malgrado ciò la critica, come spesso accade con i lavori che ottengono immediatamente successo e popolarità, sfoderò la faccia feroce: «Il signor Horowitz fece tutto ciò che è umanamente possibile per il nuovo lavoro, ma né nella sostanza né nello stile esso può essere paragonato al meglio di questo compositore », scrisse il New York Herald Tri­ bune il 15 marzo 1944. E ancora nel 1955 l’autorevole The Re­ cord Guide così liquidava il pezzo: «La Settima Sonata è un esempio particolarmente arido di un compositore che in certe occasioni può’ superare in aridità ogni altro. Tuttavia [...] può interessare agli appassionati della scrittura pianistica. Il finale a modo di toccata [...] è eccitante come una cinematografica cac­ cia all’uomo». 213

Caccia all’uomo. E perché no? Il ritmo implacabile e osses­ sivo che percorre tutto il finale (nove pagine a stampa), la mi­ sura irregolare di sette/ottavi, l’insistenza su due suoni al basso (si bemolle e do diesis), la dinamica di potenza apocalittica delle ultime pagine sono ben degne di una caccia all’uomo. E quel tanto di spregiativo che nel 1955 era ancora appiccicato al «cinematografica» è scomparso per noi, dopo tanti film di 007 et similia. La didascalia generale di movimento, Precipitato (qui come in altri momenti - Sonata n. 4, Quintetto op. 39 - in cui viene usata), può però prestarsi a qualche equivoco. Precipitato non è Precipitoso, ammoniva saggiamente Magaloff. E non è nemmeno Precipitando. Però Precipitato, in realtà, si riferisce a qualcosa di statico. Penso perciò che Prokofiev, il quale parlava bene il francese ma non conosceva l’italiano se non da musici­ sta, avesse in mente il significato di precipite nel senso di affan­ noso {respiration précipité, respirazione affannosa). E il carattere espressivo del finale è secondo me proprio quello dell’affanno e dell’angoscia di chi fugge. Nel secondo tempo, in mi maggiore, colpisce il caloroso che Prokofiev aggiunge ad Andante', un termine non facilmente as­ sociabile ad un uomo e ad un artista come Prokofiev, e che qui viene speso a ragion veduta. Pagina lirica, superbamente co­ struita e che recupera certi tratti di scrittura pianistica molto spaziata e « romantica », il secondo tempo svolge una funzione drammaturgica analoga a quella del valzer nella Sonata n. 6. Nei primi tempi delle sue sonate Prokofiev differenzia tal­ volta il movimento del secondo tema rispetto a quello del primo tema {Poco più mosso nella Sesta, Moderato nella Terza), ma con scarti di velocità non vistosi. Il primo tempo della So­ nata n. 7 è invece costruito su una radicale contrapposizione, oltre che di carattere espressivo, di movimento: Allegro inquieto e Andantino. La struttura diventa così ancora più evidente e il ritmo di tarantella tragica del primo tema viene contrapposto al ritmo da ninna-nanna del secondo tema {espressivo e dolente). Come già nella Sonata n. 6 il secondo tema compare nello svi­ 214

luppo, riconoscibile ma «urlato». Unica particolarità della co­ struzione architettonica: il primo tema, che domina tutto lo svi­ luppo, ricompare nella riesposizione dopo il secondo tema. Anche il primo tempo della Sonata n. 8 è costruito sui con­ trasti tematici di movimento, oltre che espressivi, con il primo tema, però, in movimento più lento (Andante dolce e Allegro moderato}. Il lontano modello a cui Prokofiev può aver fatto ri­ ferimento - si tratta di una pura supposizione, beninteso - è la Ballata n. 2 op. 38 di Chopin, lavoro formalmente singolaris­ simo in tutto il panorama dell’Ottocento pianistico. Il secondo tema di Prokofiev nasce però all’interno del primo tema, e in questo modo la coerenza formale del primo tempo diventa più salda e più sicura, mentre Chopin... corre maggiori rischi. La scrittura pianistica alterna momenti di rarefazione e momenti di estrema densità, tanto che in un episodio Prokofiev deve far ri­ corso alPutilizzo di tre righi invece che di due. Nell’Andante che conclude lo sviluppo troviamo una disposizione pianistica nettamente lisztiana, del tutto insolita in Prokofiev. Dopo l’Andante caloroso della Sonata n. 7 e dopo l’Andante dolce del primo tempo Prokofiev fa ricorso nel secondo tempo a un Andante sognando i cui si alternano i colori caldi delle to­ nalità di re bemolle maggiore e re maggiore. Il tema principale, come già detto, è ricavato dal Minuetto delle musiche di scena per l’Eugenio Onegin, e anche questo particolare è indicativo del clima da Guerra e pace di questa come delle due precedenti sonate. Il secondo tempo è costruito su un solo tema principale e su un tema secondario episodico, praticamente come tema e variazioni. La scrittura pianistica è anche qui complessa e in so­ stanza romantica. Il finale, vastissimo, è costruito su due temi, il primo toccatistico e rapinoso, il secondo (in re bemolle maggiore) ritmicamente implacabile e con andamento (malgrado la misura terna­ ria) di marcia. La parte centrale si conclude con una citazione in pianissimo del tema secondario della prima parte, in tempo più lento (Andantino} e con una didascalia molto rara, irresoluto. E 2D

ben difficile non supporre che questa particolarità sia legata ad una intenzione programmatica, ma non abbiamo alcuna testimo­ nianza documentaria del pensiero di Prokofiev in proposito. L’ultima pagina del finale, sia detto per inciso, è una delle più ar­ due che Prokofiev abbia mai scritto ed è ben degna del sommo virtuoso a cui fu affidata la prima esecuzione, Emil Gilels. Prokofiev eseguì privatamente nel 1944 la Sonata n. 8, co­ m’era di prammatica, all’Unione Compositori. Sentiamo ancora Richter, nostro preziosissimo informatore: Prokofiev la suonò due volte. Dopo la prima esecuzione fu chiaro che si trattava di un'opera notevole, ma quando mi fu chiesto se avevo in animo di suonarla non seppi rispondere. Sergej Sergejevic aveva adesso delle difficoltà nel suonare. Gli mancava la sua passata sicurezza e le sue mani fluttuavano incerte sui tasti. Dopo la seconda esecuzione decisi fermamente di imparare il pezzo. Qualcuno cominciò a ridacchiare: «E del tutto antiquata. Davvero volete suonarla?». Questa è la più ricca di tutte le Sonate di Prokofiev. Ha una vita interiore complessa e profonda e piena di contrasti. Talvolta sembra crescere come intorpidita, come abbandonandosi alla marcia infles­ sibile del tempo. Talvolta è inaccessibile a causa della sua ricchezza, come un albero stracarico di frutti.

Richter incluse la Sonata n. 8 nel programma del Concorso Pansovietico, che nel 1945 vinse ex-aequo con Merzhanov, e il 9 maggio 1946 eseguì tutte insieme le tre Sonate di guerra, ren­ dendo palese il loro carattere di ciclo. La Sonata n. 8 fu pre­ sentata da Horowitz al pubblico della Carnegie Hall di New York 1’8 aprile 1945, dopo un’audizione semipubblica al Con­ solato Sovietico. Ma, come ho già detto, Horowitz mantenne poi in repertorio solo la Sonata n. 7. Neppure Gilels eseguì frequentemente la Sonata n. 8, e anche Richter tornò di prefe­ renza sulla Sesta e sulla Seconda. Solo negli ultimi anni del No­ vecento la Sonata n. 8... cominciò ad allargare il suo mercato (a scapito un po’ della n. 7), ed è oggi la preferita di parecchi giovani pianisti.

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«GUERRA E PACE» Nel 1940, appena finito il Matrimonio al convento, Proko­ fiev comincia a lavorare al balletto Cenerentola op. 87. Ma nel 1941 scoppia la guerra con la Germania e il Nostro si dedica lo dico senza alcuna ironia - alla patria. « L’intero popolo sovie­ tico», racconta Prokofiev, «si levò in difesa della sua terra. Ognuno voleva compiere senza indugio il suo dovere. Noi com­ positori cominciammo immediatamente a scrivere canti e marce di tipo eroico, musica che potesse essere cantata al fronte». Nel 1941 Prokofiev scrisse così la Marcia sinfonica op. 88, i Sette Canti popolari op. 89 per voce solista, coro e pianoforte e la suite sinfonica Anno 1941 op. 90 in tre episodi, Durante la bat­ taglia, La notte, Fraternità dei popoli. Nel 1941 cominciò a com­ porre l’opera Guerra e pace. In agosto gli artisti più in vista dell’Unione Sovietica ven­ nero evacuati da Mosca, frequentemente bombardata dai tede­ schi, e portati al sicuro nel Caucaso. Prokofiev, Miaskovsky, Shaporin, Alexandrov ed altri raggiunsero, con un viaggio in treno di tre giorni, la piccola città di Naltchik, capitale della re­ pubblica della Kabardin-Balkaria, mentre a Shostakovic e ad al­ tri veniva assegnato il soggiorno a Kuibichev sul Volga. Lina Prokofieva rifiutò di muoversi (avrebbe incontrato Mira) e restò a Mosca con i figli. Il soggiorno a Naltchik diede occasione a Prokofiev e ai suoi colleghi di conoscere il folclore locale, appartenente a quel filone caucasico che i musicisti avevano avuto caro fin dai tempi di Balakirev. Miaskovsky cominciò subito a comporre la sua Sinfonia n. 23 utilizzando temi popolari, Prokofiev scrisse in po217

diissimo tempo il Quartetto n. 2 op. 92, traendo dai temi popo­ lari tutte le possibilità di sviluppo « classico » e dagli strumenti ad arco tutte le possibilità coloristiche che evocano gli stru­ menti popolari. Il 5 settembre 1942 il Quartetto n. 2 venne ese­ guito per la prima volta dal Quartetto Beethoven nella Sala Pic­ cola del conservatorio di Mosca con un successo contrastato e con critiche contrastanti. La composizione non è entrata in re­ pertorio ed è un peccato che così sia accaduto: avrebbe potuto, e potrebbe ancora essere un pendant del Quartetto Americano di Dvorak. Contrasti per il Quartetto, fiasco totale per la suite sinfonica Anno 1941, anch’essa eseguita per la prima volta a Mosca: per­ sino il vecchio fedelissimo amico Miaskovsky dichiarava il suo disaccordo. Nel dicembre del 1942 Prokofiev riciclò la musica dellAnno 1941 nel film I partigiani nelle steppe dell’Ucraina. Dopo pochissime settimane trascorse a Naltchik gli artisti dovettero spostarsi a Tbilisi in Georgia perché i tedeschi ave­ vano occupato TUcraina e puntavano sul Caucaso (arrivarono a Naltchik e vi furono bene accolti dalla popolazione, che dopo la guerra fu perciò duramente punita). Tbilisi era una città più grande ed era la capitale di uno stato in cui esisteva una vita culturale sviluppata. Prokofiev vi diresse un concerto di musi­ che sue, vi tenne due concerti pianistici e alcuni recital radiofo­ nici, ascoltò musica sinfonica classica nonché la Sinfonia n. 22 di Miaskovsky e la Quinta e la Settima dell’antipatico Shostako­ vic, assistette a rappresentazioni della Scuola della maldicenza di Sheridan, di opere russe, di opere georgiane. Però egli dice che il suo « compito principale a Tbilisi era di finire l’opera Guerra e pace».

L’idea di ricavare un’opera dal romanzo di Tolstoj aveva in verità preceduto l’inizio della guerra. Secondo Mira Mendel­ sohn, dopo un tentativo del 1940 su u’na Resurrezione (proba­ bilmente senza sapere che già esisteva da quasi quarant’anni la Risurrezione di Franco Alfano), nell’aprile del 1941 Prokofiev tracciò il primo abbozzo del libretto di Guerra e pace, a luglio 218

lo definì per bene, prima di partire per Naltchik lo sottopose al Comitato delle Arti, ne incassò l’approvazione ottenendo la commissione, e a Naltchik, il 15 agosto, cominciò il vero e pro­ prio lavoro: Mira e Prokofiev scrivevano il libretto, Prokofiev scriveva la musica, ma secondo i figli Prokofiev rifaceva quel che Mira aveva fatto e poi scriveva la musica. Mira dice che «nell’aprile del 1941 lui schizzò il primo abbozzo di libretto e noi ci lavorammo insieme». Prokofiev dice che «Mira Mendel­ sohn collaborò con me per il libretto». E aggiunge: Cercammo di mantenere lo stile e il linguaggio di Tolstoj. Là dove il dialogo [scritto da Tolstoj] non era bastevole ne costruimmo uno fuori dal testo del romanzo e dalla descrizione tolstojana dei carat­ teri. Facemmo uso, oltre a Tolstoj, delle annotazioni sul 1812 del poeta-partigiano Denis Davidov e studiammo il materiale trovato in alcuni libri sulla storia della guerra del 1812. Spendemmo ore nella bella biblioteca pubblica di Tbilisi studiando il folclore russo, i proverbi, i detti e le canzoni composte dal popolo durante la guerra patriottica del 1812. A parte le arie e i duetti, gran parte dell'opera è presa dai cori dei soldati, dei contadini, dei cosacchi e dei partigiani.

Prokofiev vuole evidentemente dimostrare di non aver sem­ plicemente ridotto un romanzo a libretto d’opera ma di aver anche fatto, dal punto di vista del musicista, quel lavoro di do­ cumentazione storica che Tolstoj aveva fatto dal punto di vista dello scrittore. Un romanzo può però svilupparsi in una dimen­ sione senza limiti rigidamente predeterminati, mentre un lavoro teatrale, dramma o opera che sia, deve tener conto di una du­ rata che non può’ in nessun caso eccedere la... tolleranza fisica dello spettatore. Il testo di un’opera dev’essere inoltre di circa due terzi più breve dei quello di un dramma recitato perché la parola si stende sulla musica in un tempo di sviluppo molto più lento. L’unica alternativa, quando la vicenda è talmente com­ plessa da non poter essere rinserrata in una sola serata, sarebbe di estenderla su più serate, oppure di rinunciare all’opera e di 219

optare per il grande affresco oratoriale con l’inserimento dello storico. Ma di Anello del Nibelungo ce n’è uno solo e per l’altro verso Prokofiev, lo sappiamo bene, voleva l’azione, non la nar­ razione. Preparando un libretto da un romanzo come Guerra e pace Prokofiev doveva forzatamente scindere i due piani, quello in­ timo delle vicende private dei personaggi aristocratici e quello epico della guerra di popolo, che nel romanzo si intersecano e interagiscono. Il risultato è un’opera bifronte, che nella prima parte si basa su un intrigo amoroso senza pervenire alla sua lo­ gica conclusione drammaturgica e che nella seconda parte si presenta come un seguito di quadri guerreschi senza una chiara linea e un chiaro sviluppo drammaturgico. Ma c’è una domanda che bisogna porsi: fino a che punto Prokofiev potè permettere all’opera di crescergli tra le mani se­ condo un suo interno modulo di sviluppo, e fino a che punto dovette intervenire per soddisfare le esigenze del committente, il Comitato delle Arti? O anche: fino a che punto il Prokofiev patriota sincero concesse piena libertà al Prokofiev artista? Pro­ kofiev dice che per lui l’opera doveva essere basata sulle « pa­ gine che descrivevano la lotta del popolo russo contro le orde napoleoniche nel 1812 e la cacciata dell’esercito napoleonico dalla Russia». Mira racconta che quando, leggendo ad alta voce il romanzo, arrivò « al punto in cui viene descritto l’incontro tra il principe Andrej ferito e Natasha », Prokofiev disse che «que­ sta era una perfetta scena d’opera». La morte di Andrej po­ trebbe in realtà essere la conclusione drammaturgica di una prima parte autonoma, ma viene inserita in una seconda parte dove secondo me trova una collocazione posticcia e forzata per­ ché la maturazione umana del principe attraverso l’esperienza traumatica della guerra non costituisce la linea portante della seconda parte stessa. Ma il 1941 non era evidentemente il mo­ mento adatto per analizzare la guerra dei sentimenti privati senza dar spazio, o lasciando ai margini gli eventi luttuosi e glo­ 220

riosi delle circostanze storiche in cui la vicenda intima si collo­ cava. Prokofiev terminò la stesura per canto e pianoforte di Guerra e pace a Tbilisi e subito spedì lo spartito a Mosca. Rice­ vette, sorprendentemente, una lettera di Shostakovic datata 4 maggio 1942 da Kuibichev, che diceva: Caro Sergej Sergejevic, colgo l'occasione per inviarvi i miei saluti e i miei migliori auguri. Mentre mi trovavo a Mosca ho avuto occasione di conoscere la vo­ stra Guerra e pace. Disgraziatamente questa presa di contatto con il vostro spartito è stata relativamente superficiale e frettolosa. Me ne è rimasta una profonda impressione. Non tenterò qui di analiz­ zarla, ma devo dire che le quattro prime scene sono assolutamente superbe. Mentre le suonavo avevo il fiato sospeso per la meraviglia. Ho suonato più volte qualche passaggio, cosa che ha ritardato la mia conoscenza dell'opera intera perché non avevo il tempo di suo­ nare tutto. Tutto quello che avviene prima della battaglia di Boro­ dino mi ha fatto una fortissima impressione. La scena dei francesi a Mosca mi è sembrata meno soddisfacente. Tuttavia, in ragione del tempo troppo breve di cui disponevo, non posso essere su ciò cate­ gorico. Vi stringo calorosamente la mano Dmitri Shostakovic P.S. - Apprezzerei una parola di risposta. [...] Mia moglie vi manda il buongiorno.

Prokofiev rispose da Tbilisi il 24 maggio: Caro Dmitri Dmitrievic, molte grazie per la vostra gentile lettera. La vostra opinione su Guerra e pace mi colma di gioia: non ero del tutto sicuro che la mia opera vi sarebbe piaciuta! Shilifstein è stato a Tbilisi per qual­ che tempo in febbraio e mi ha mostrato la partitura della vostra Settima Sinfonia che ho avuto in mano per tre buoni minuti [...]. Attenderò [adesso] una lettera da chi mi ha commissionato l'opera con le raccomandazioni per i cambiamenti del mio lavoro. [...]. 221

Il committente raccomandò di curare di più il carattere eroico e patriottico dell’opera, di aumentare il lirismo, di segna­ lare maggiormente la parte avuta dal popolo russo negli avveni­ menti del 1812. Con questo viatico Prokofiev procedette a fare gli aggiustamenti richiesti mentre strumentava l’opera. La prima rappresentazione era prevista al Bolshoi per l’au­ tunno del 1943, direttore Samuel Samosud, regista Eisenstein, ma fu cancellata. La prima esecuzione, in forma concertistica e con molti tagli, ebbe luogo a mosca il 7 giugno 1945, sotto la direzione di Samosud. Gli otto primi quadri (l’ottavo è la batta­ glia di Borodino) furono eseguiti in forma scenica al Malyi di Leningrado il 12 giugno 1946 con un incredibile successo (nel corso dell’anno si ebbero cinquanta repliche). La seconda parte era pronta nel 1947 ma l’esecuzione fu cancellata per le ragioni di cui diremo a suo tempo. E Prokofiev non potè mai vedere in scena la sua opera tutta intera. Tra un progetto di esecuzione e l’altro Prokofiev continuò a ritoccare, aggiungere, togliere, e lavorò a Guerra e pace anche dopo il 1947. La versione originale era in undici quadri più l’ouverture, l’ultima versione fu in tredici quadri più l’ouverture ed un’epigrafe corale prima della seconda parte. Tutto il mate­ riale, a cura di un comitato presieduto da Shostakovic, fu pub­ blicato nel 1958: 1166 pagine. L’inserimento di due nuovi quadri rispondeva in un caso ad esigenze di continuità del racconto e nell’altro a motivazioni propagandistiche. Nella stesura originale, che dava evidente­ mente per scontata la conoscenza del romanzo da parte dello spettatore, nel primo quadro si assisteva all’incontro indiretto di Natasha e Andrej, affacciati entrambi alle finestre delle loro ri­ spettive stanze nel castello del padre della ragazza. Incontro fuggevole, sospeso magicamente nella notte («E un giardino che si stende sotto la finestra? Oh, no, è un reame incantato », dice Natasha). Nella scena successiva, la terza della versione de­ finitiva, Natasha e Andrej erano già fidanzati e Andrej era già partito per un lungo soggiorno all’estero. Nella versione defini­

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tiva la prima scena è appesantita da un duetto tra la sognante Natasha e la cugina Sonja che sta bene con i piedi per terra, la scena aggiunta ci fa assistere al successivo incontro di Natasha e Andrej durante un ballo c ci presenta alcuni altri personaggi: logica dal punto di vista pedestre del racconto (e dello spetta­ colo), superflua dal punto di vista del nocciolo drammaturgico. L’altra scena aggiunta, la decima della versione definitiva, ri­ guarda il consiglio di guerra del comando militare russo e ri­ sponde allo scopo di mettere in ridicolo Napoleone (leggi Hi­ tler), incerto e smarrito nel quadro precedente di fronte all’inat­ tesa resistenza del nemico, e di evidenziare per contrasto la sicu­ rezza e il genio del generale Kutuzov (leggi Stalin), che abbandonando e incendiando Mosca prende la decisione strate­ gicamente giusta, quella che porterà i russi alla vittoria. La durata complessiva dell’opera è di poco superiore alle quattro ore effettive di musica. Senza le due scene aggiunte e senza il duetto della prima scena questa durata si riduce a circa tre ore e venti. Prokofiev, vecchio uomo di teatro, aveva dun­ que costruito uno spettacolo lungo ma non debordante. Sugge­ rimenti e pressioni di vario genere lo indussero e ad aggiunte non significative (anche se musicalmente eccellenti) e a rendere secondo me più retoricamente gonfiata sia la figura del generale Kutuzov che la cieca, sacrale devozione per lui dei soldati e del popolo. Certe caratteristiche estrinseche - settanta personaggi, tre­ dici diverse scene - mettono certamente in seria difficoltà chi pensa di produrre in teatro Guerra e pace. Ma la rarità delle esecuzioni deve secondo me essere attribuita innanzitutto ai nodi drammaturgici irrisolti. La desolante constatazione è che anche quando era condiscendente, anche quando si lasciava condizionare dalle circostanze, Prokofiev non riusciva a gher­ mire un esito gratificante: con Guerra e pace, poi, egli pregiudi­ cava anche il suo futuro. 223

«SERIAMENTE LEGGERO» Abbiamo visto come Prokofiev numerasse le sue opere non appena ne aveva definito il progetto. Guerra e pace porta il nu­ mero d’opera 91, il Quartetto n. 2 è Pop. 92: Pop. 93 è la can­ tata per soprano, tenore, coro misto e orchestra intitolata La Ballata del fanciullo rimasto sconosciuto, su testo di Pavel Anto­ kolski. Questo l’argomento: rimasto privato della madre e della sorella, uccise dai nazisti, il ragazzo senza nome lancia una gra­ nata che fa saltare in aria l’automobile del comandante tedesco le cui truppe si stanno ritirando. «Il nome del ragazzo e il suo destino restano ignoti », dice Prokofiev, « ma la gloria e il valore della sua azione si diffondono nei battaglioni, al fronte come nelle retrovie, e danno [ai soldati] più coraggio per combattere il nemico». Venti minuti di musica densissima e tesissima e continuamente cangiante, che non piace a Shostakovic e che non piace all’Unione Compositori. Composta fra il 1941 e il 1942, viene eseguita a Mosca 1’1 febbraio 1944 senza lasciar traccia di sé. Nel 1942 Prokofiev si era spostato da Tbilisi ad Alma-Ata, capitale del Kazakistan, dove erano stati trasferiti gli studi della Mosfilm e dove viveva Eisenstein. Scrivendo la musica per tre documentari {Kotovski, Tonia, I partigiani nelle steppe dell’Ucraina che s’aggiunsero al Lermontov realizzato nel 1941) Pro­ kofiev, che doveva provvedere a se stesso e a Mira e ad inviare sussidi pecuniari a Lina e ai ragazzi, guadagnò del denaro che gli tornava comodo. Eisenstein lo aveva però chiamato perché voleva da lui le musiche per il film Ivan il Terribile. 224

La identificazione tra Ivan IV e Stalin è talmente evidente che non vai la pena di insistervi troppo: Ivan IV vince i tartari, Ivan IV unifica la Russia, Ivan IV combatte e doma la classe feudale (i boiari), Ivan IV elimina fisicamente migliaia e migliaia di persone, la moglie di Ivan IV muore avvelenata, Ivan IV uc­ cide uno dei suoi figli, Ivan IV è paranoico, Ivan IV... Eisen­ stein aveva scelto un personaggio storico perfetto, per simboleg­ giare il presente: restava da vedere se la censura e lo stesso no­ vello Ivan IV avrebbero gradito interamente il paragone sottin­ teso. La prima parte della trilogia su Ivan il Terribile venne poiettata a Mosca il 30 dicembre 1944: nel 1946 fu insignita del Premio Stalin di prima classe. La seconda parte del film, finita nel 1945, fu condannata il 4 settembre 1946 dal Comitato Cen­ trale del Partito Comnista e la pellicola venne confiscata. La terza parte non fu girata. La musica per Ivan il Terribile porta il numero d’opera 116, corrispondente all’anno 1947. Sembra certo che Prokofiev avesse assegnato questo numero d’opera nel momento in cui, svanito il completamento del film, intendeva ricavare una can­ tata da ciò che aveva scritto. Questo lavoro, ammesso che Pro­ kofiev ci pensasse, non fu mai avviato ma nel 1961 Abraham Stassevic, che aveva diretto l’orchestra per la colonna sonora, preparò lui una cantata per soli, coro, voce recitante e orche­ stra. Sono ventisei pezzi, scelti sagacemente in vista di un ef­ fetto spettacolare complessivo che viene raggiunto ma con un’articolazione drammatica interna troppo grezza e che resta ben lontana da quella &ATAlexandr Nevsky. L’introduzione della figura del narratore diventa un espediente per dare unità alla cantata e sposta fin dall’inizio l’angolatura del racconto sul periodo storico invece che sull’eroica malvagità atemporale e so­ vrumana del protagonista. Basta l’inizio per far capire quali fos­ sero gli intenti dello Stassevic:

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All'epoca in cui in Europa c erano Carlo V e Filippo II Caterina dei Medici e il Duca d'Alba Enrico Vili e Maria la Sanguinaria, i roghi dell'inquisizione e la notte di S. Bartolomeo, sul trono dei gran principi di Mosca salì colui che per primo divenne Zar e sovrano di tutta la Russia! Lo Zar Ivan Vassilievic il Terribile!

Peccato però che la cantata non abbia unità architettonica e drammaturgica profonda, perché contiene alcune pagine Inno, I Tartan, Canzone del castoro, Canzone di Fedor Basmanov

- in cui la « nuova semplicità » di Prokofiev tocca uno dei suoi culmini più alti. Qualche commentatore ritiene invece che la « nuova sem­ plicità» oltrepassi nel balletto Cenerentola op. 87 il limite del «seriamente leggero» e invada il campo del «leggero» tout court. La composizione del balletto era iniziata già nel 1940, ma la guerra, come ho detto, ne ritardò il compimento fino al 1944 e la prima rappresentazione ebbe luogo al Bolshoi di Mosca il 22 novembre 1945; sulla coreografia di Rotoslav Zakharov, Ga­ iina Ulanova e Olga Lepecinskaja impersonarono alternativamente Cenerentola. Già nel 1942 Prokofiev aveva trascritto per pianoforte, con il numero d’opera 95, ^Intermezzo, la Gavotta e il Valzer lento del balletto, nel 1943 ne aveva trascritto altri dieci pezzi (op. 97) e nel 1944 VAdagio (op. 97 bis) per violon­ cello e pianoforte e sei pezzi per pianoforte (op. 102). Nel 1946 Prokofiev preparò tre suite per orchestra (op. 107, 108 e 109), la prima di otto pezzi, la seconda di sei e la terza di otto. Ventidue pezzi in tutto, in parte riadattati e riorchestrati. Ma la par­ titura del balletto comprende ben cinquanta pezzi. La trama, preparata da Solomon Volkov, non si discosta da quella della celebre fiaba e l’aggiunta più rilevante, chiaramente dovuta a ragioni coreografiche, riguarda nel primo atto la scena

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della preparazione delle sorellastre per il ballo e la vestizione di Cenerentola ad opera di quattro fate (della Primavera, dell’Estate, dell’Autunno, dell’inverno). La storia di Cenerentola dava modo a Prokofiev di esplicare totalmente i suoi doni e per il li­ rismo (l’amore del Principe e di Cenerentola) e per il grottesco (la matrigna e le due sorellastre, che sono impersonate da dan­ zatori maschi). Nel breve scritto di presentazione del balletto Prokofiev insiste però sul primo aspetto: Ciò che volli esprimere sopra tutto il resto nella mia musica di Ce­ nerentola fu l'amore poetico di Cenerentola e del Principe, la na­ scita e il fiorire di questo amore, gli ostacoli sul suo cammino e alla fine il compimento del sogno. [...] N.D. Volkov ed io riflettemmo molto sull'aspetto drammatico del balletto. [...] Oltre a preoccuparci della struttura drammatica io ero ansioso di fare un balletto quanto più possibile « danzabile », con una varietà di danze che si insinuassero nel corso della storia, e of­ frire ampia opportunità ai danzatori di dare spiegamento alla loro arte. Scrissi Cenerentola secondo la tradizione dell'antico balletto classico, con i suoi pas des deux, adagi, gavotte, diversi valzer, una pavana, un passepied, una bourrée, una mazurca e un galop. Ogni personaggio ha la sua variazione.

La Sinfonia classica era stata a suo tempo una scommessa di questo genere: « Mi sembrò che se Haydn fosse vissuto ai nostri giorni avrebbe mantenuto il suo stile accettando nello stesso tempo qualcosa di nuovo ». La Cenerentola nacque dalla scom­ messa di fare come -avrebbe fatto Ciaikovsky se fosse disceso dall’Eliso negli anni quaranta del Novecento. E il famoso valzer lento finale, che Prokofiev chiama Amoroso (e che conclude an­ che la terza suite), dimostra bene come l’operazione che in an­ tico si chiamava «parodia», nel senso di rifacimento stilistico privo di intenzioni satiriche, fosse in Cenerentola pienamente riuscita. Certamente più riuscita (Prokofiev ci avrà pensato di sicuro) del balletto II bacio della fata che Stravinsky aveva scritto nel 1928 su musiche di Ciaikovsky (in quell’occasione 227

Prokofiev, in una lettera ad un amico citata dal Nice, aveva detto sarcasticamente: «Non mi stupisce che il balletto di Stra­ vinsky vi sia piaciuto. Ho sempre stimato Ciaikovsky come un ottimo compositore»). Il lirismo doveva però essere diventato per Prokofiev, mi sia permesso di dirlo, una vera e propria fissazione. Il primo ca­ pitolo dell’autobiografia breve si conclude infatti con una rifles­ sione sulla propria arte, una riflessione che si riferisce al 1914 ma che fu scritta tra il 1937 e il 1941 e che fu pubblicata nel 1941: Vorrei sostare qui per analizzare le linee basilari secondo le quali il mio lavoro si era sviluppato fino a questo punto. La prima era la li­ nea classica [...]. La seconda, la tendenza moderna [...], prese dap­ prima la forma di una ricerca per il mio proprio linguaggio armonnico e si sviluppò più tardi nella ricerca di un linguaggio con cui esprimere forti emozioni [...]. La terza linea è la toccatistica o «motoria» [...]. Questa linea è forse la meno importante. La quarta linea è quella lirica [...]. Questa linea non fu notata che molto più tardi. Per lungo tempo non mi fu dato credito di alcun dono lirico, e per mancanza di incoraggiamento questo si svilupplò lentamente. Ma col tempo io dedicai sempre maggior attenzione a questo aspetto del mio lavoro. Preferisco limitarmi a queste quattro «linee» e considerare la quinta linea che qualcuno mi attribuisce, la «grottesca», come una semplice deviazione dalle altre. In ogni modo io mi oppongo fiera­ mente all'esatto significato di «grotesque» che è diventato trito fino alla nausea. In effetti l'uso della parola francese « grotesque » in questo senso è una distorsione del suo significato. Preferisco che la mia musica sia descritta come di qualità «Scherzo-ish », oppure con le tre parole che descrivono i vari gradi dello Scherzo - bizzar­ ria, riso, ironia.

L’ultima parte di questo scritto meriterebbe una analisi della psicologia di Prokofiev negli anni sovietici più che una in­ dagine critica. E evidente come egli rifiuti con fastidio il cliché, 228

che gli era stato appiccicato addosso, di «motorista» e di cari­ caturista, mentre rivendica a fondamento della sua arte il liri­ smo inteso come manifestazione dell’umano nei suoi aspetti profondi e veritieri, e quindi non necessariamente esplicantisi nell’amore ma anche nell’odio. Noi potremmo di sicuro ade­ guarci al suo rifiuto del «grotesque», e certamente ricono­ sciamo che egli non deforma gli stili musicali che vengono da lui parodiati (pensava egli forse a Stravinsky?). Tuttavia la sua poetica acquista le sue caratteristiche essenziali nella compre­ senza e nell’equilibrio del lirico e dello Scherzo-ishy neologismo che possiamo tradurre con scherzevole. La commozione, la ma­ nifestazione degli affetti non diventa bruciante e non si traduce in pianto ma si rovescia nel sorriso autoironico del saggio - non nel ghigno del « grotesque » - prima che venga raggiunto il cli­ max. Prokofiev è un maestro dell’anticlimax e rappresenta il sentimento senza restarne travolto: sente da uomo e nello stesso tempo vede l’uomo da dio, il leggermente serio e il seriamente leggero sono due poli, vicini tra di loro, tra i quali egli oscilla nella sua età matura senza perdere mai l’equilibrio e il con­ trollo. Alla categoria del seriamente leggero appartiene la Sonata op. 94, scritta nel 1943 per flauto e pianoforte, adattata come op. 94bis nel 1944 per violino e pianoforte. A «provocare» Prokofiev era stato David Oistrakh dopo che aveva ascoltato la versione originale, eseguita nella Sala Piccola del conservatorio di Mosca dal flautista Nicolai Charkovsky e da Sviatoslav Rich­ ter. Autorizzato da Prokofiev, Oistrakh preparò - lo racconta lui stesso - più versioni diverse dei punti che riteneva violinisti­ camente poco efficaci, e l’Autore scelse, magari modificandola, quella che lo convinceva maggiormente: il 17 giugno 1944 Oi­ strakh eseguiva nella Sala Piccola la versione violinistica, accom­ pagnato al pianoforte da Lev Oborin. La costruzione della Sonata è «classica»: Moderato in forma-sonata in re maggiore con secondo tema in la maggiore, Scherzo-Presto in la minore in forma di scherzo con trio, ripeti229

zione dello scherzo e coda, Andante in fa maggiore in forma di canzone, Allegro con brio in re maggiore in forma di rondò. Avevo detto che l’inizio della Quinta Sonata per pianoforte sem­ bra quasi una sonata per flauto di Poulenc. Questa volta il flauto c’è davvero... e c’è un poco di Poulenc: tenerezza buco­ lica, rusticità danzante, umorismo sorridente si alternano e si mischiano nella Sonata che, come il balletto Cenerentola, è an­ che scritta in modo da valorizzare la valentia dei due esecutori. Sviatoslav Richter ritiene che la versione con flauto sia « incom­ parabilmente migliore » di quella con violino, ed io sono incline a dargli sostanzialmente ragione. La versione violinistica è meno rilassata e giocosa perché il suono più denso e più voluminoso dello strumento ad arco aumenta la tensione emotiva e per­ mette, anzi, richiede maggior robustezza nel suono pianistico (la parte pianistica rimane, nella trascrizione, invariata). Sia nell’una che nell’altra versione la Sonata è entrata trionfalmente a far parte del repertorio concertistico dei due strumenti. L’arrangiamento per canto e pianoforte di canti popolari russi, op. 104, e la Marcia op. 99 per banda appartengono ai «doveri» degli anni 1943 e 1944. Un altro, ma penoso dovere del 1943 fu quello di abbozzare un nuovo Inno Nazionale delrUnione Sovietica, I poeti di regime scrissero le parole, che al centro della patria ponevano Stalin, i compositori parteciparono in massa ad un concorso. Prokofiev non andò oltre uno schizzo e dal concorso si tirò dignitosamente fuori.

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DUE SINFONIE Alla produzione del 1944 appartiene anche la Sinfonia n. 5 op. 100, di gran lunga la più celebre di Prokofiev. La Sinfonia fu scritta durante l’estate nei pressi di Ivanovo, dove molti mu­ sicisti - Glière, Miaskovsky, Shostakovic, Shaporin, Katciaturian, Kabalevsky e molti altri - soggiornavano nella Casa di Ri­ poso e Creatività messa a loro disposizione dall’Unione Compo­ sitori. Oltre a lavorare ciascuno per proprio conto facevano pas­ seggiate e gite e giocavano a volley (Prokofiev, miope e non più giovane, al volley era una schiappa). La sera si riunivano nella sala comune per ascoltare... in anteprima le composizioni che stavano nascendo. E a Ivanovo Prokofiev suonò il 14 agosto 1944 al pianoforte, prima di iniziare il lavoro di strumentazione, la Quinta Sinfonia. Apro qui una piccola digressione sul metodo di lavoro di Prokofiev. La prima stesura della composizione veniva da lui scritta su due pentagrammi ed era eseguibile al pianoforte. Agli inizi egli scriveva stando al pianoforte e quindi « sonorizzando » immediatamente ciò che gli veniva in mente. Al tempo della Sinfonia classica, come abbiamo visto, rinunciò allo strumento e constatò che « il materiale musicale, composto senza pianoforte, era assai spesso di qualità superiore». Tuttavia, anche senza stare al pianoforte, di norma Prokofiev scriveva materialmente la composizione su due pentagrammi prima di orchestrarla. Du­ rante il soggiorno negli Stati Uniti prese invece l’abitudine di annotare sui due pentagrammi - talvolta su tre o quattro - an­ che le indicazioni per la strumentazione. 231

Se il mio lettore ha una qualche esperienza della musica stampata pensi alle riduzioni per canto e pianoforte dei melo­ drammi: in molti casi, anche se non sempre, vi si trovano delle abbreviazioni, come fi. per flauto, cl. per clarinetto, v.ni per violini, e magari fl.+v.ni, fl.+cl.+v.ni. Chi legge la riduzione pia­ nistica si forma così un’idea della partitura e in una certa mi­ sura potrebbe essere in grado di realizzarla lui materialmente. Sui due pentagrammi Prokofiev scriveva le note e le annotazioni per la strumentazione, fissando subito le sue idee in timbri ben definiti, e così facendo rendeva più rapida la successiva stesura della partitura. I colleghi musicisti per i quali suonò ad Ivanovo la Quinta Sinfonia potevano perciò farsi un’idea non solo della musica ma anche di come sarebbe suonata in orchestra. L’ap­ prezzamento fu unanime e, data la rappresentatività dei conve­ nuti, Prokofiev potè star certo che nessun siluro sarebbe arri­ vato dall’Unione Compositori. La Sinfonia ebbe il suo battesimo a Mosca il 13 gennaio 1945, sotto la direzione dell’Autore, con grande successo. Il lettore ricorderà forse che quando venne eseguita per la prima volta la Sonata n. 2 per violino e pianoforte di Brahms una ascoltatrice, insieme ingenua e saccente, osservò che il primo tema somigliava al cosiddetto Preislied di Walther nei Maestri cantori di Norimberga di Wagner. E Brahms, seccato, ri­ battè che questo particolare poteva notarlo chiunque. Non di rado anche i musicologi cadono nello stesso tranello e si fanno un vanto di dire che in una certa battuta di Wagner o di Brahms si trova nella parte più acuta un seguito di note che si trova pari pari nella parte più bassa di una certa battuta di Mo­ zart. Nella Sinfonia n. 5 di Prokofiev sono state rinvenute così tracce di influenze beethoveniane, schumanniane, brahmsiane, mahleriane, borodiniane, mussorgskiane, nonché una certa «aura» riferibile a Shostakovic. Se il lettore rammenta il con­ cetto di « giovane classicità » di Busoni, che io ritenevo e ritengo in senso generale applicabile all’opera di Prokofiev, capirà, senza bisogno di altre spiegazioni, perché nella Sinfonia n, 5 si

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possano trovare le più disparate «influenze», che vanno viste nel senso di una progressiva autostoricizzazione del creatore. A cinquantatré anni e con alle spalle un passato ricco di espe­ rienze Prokofiev, ritornando al genere della sinfonia dopo sedici anni, non poteva che ambire a far grande. La Sinfonia, dice Pro­ kofiev, «fu da me intesa come un inno all’Uomo libero e felice, ai suoi alti poteri, al suo puro e nobile spirito ». Opera, dunque, di sintesi storica, opera che ripercorre il lungo cammino del genere partendo dalla prima sinfonia «moderna», V Eroica di Beethoven. Ciò non esclude qualche singolarità: ad esempio, il primo tempo è un Andante invece che un movimento mosso e gli svi­ luppi tematici sono molto più semplici di quanto ci si potrebbe astrattamente attendere in un’opera dichiaramente ambiziosa. A parte questi particolari, ed altri di minor conto, Prokofiev segue gli schemi formali usuali per una composizione in quattro tempi di durata «normale» (circa quaranta minuti), compattissima e tumultuosa, e che oltre a tutto - Prokofiev era anche un arti­ giano e sapeva come collocare sul mercato il suo prodotto mette in luce il talento del direttore d’orchestra. Al ritorno da Ivanovo Prokofiev e Mira Mendelsohn occu­ parono un piccolo appartamento (con telefono!) che era stato loro assegnato. Era un segno di grande favore e un riconosci­ mento indiretto della considerazione in cui il Nostro - musicista « sovietico » malgrado qualche « deviazione » - era tenuto nelle alte sfere. Il 1945 è l’anno in cui il successo di Prokofiev nell’Unione Sovietica tocca il culmine, ed anche nei paesi alleati, Gran Bretagna e Stati Uniti, la sua musica viene eseguita fre­ quentemente: Pierino e il Lupo è addirittura, come si direbbe oggi, un must internazionale. Nel 1945 si manifestano però i primi gravi sintomi della malattia cardiaca. Prokofiev soffriva da molto tempo di iperten­ sione vascolare. Sembra, anzi, che i livelli raggiunti dalla sua pressione sanguigna facessero addirittura di lui un caso clinico. Impaziente per natura, e poco fiducioso nella medicina, Proko-

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fiev non si era mai curato seriamente e, come il lettore può ben capire, aveva fatto per decenni una vita quanto mai stressante. Nel 1945, non si sa bene in quali circostanze, ebbe uno sveni­ mento e, cadendo, si procurò una non lieve commozione cere­ brale. Fu ricoverato in ospedale e da quel momento in poi do­ vette ritornarci periodicamente, facendo disperare i medici con il suo comportamento da... paziente impaziente. Dopo aver diretto all'inizio dell’anno la Quinta Sinfonia Prokofiev mise in cantiere in estate, a Ivanovo, la Sesta op. Ili, che dedicò a Beethoven. Dopo la prima esecuzione egli dicharò di aver voluto esprimere «l'ammirazione per la forza spirituale dell’uomo che si è manifestata così vivamente nella nostra epoca e nel nostro paese». Ma mentre la Quinta gli era fluita sponta­ neamente dalla penna, la Sesta avanzò molto lentamente: venne iniziata nell’estate del 1945, venne condotta a termine due anni più tardi e fu diretta per la prima volta da Mravinsky, a Lenin­ grado, 1'11 ottobre 1947. Una fotografia presa al termine dell'e­ secuzione ci mostra il direttore e il compositore che, tenendosi per mano, ringraziano il pubblico. Sul bavero della giacca di Prokofiev sono appuntate quattro medaglie, sul bavero della giacca di Mravinsky una sola. Come vedremo, il poker di meda­ glie non bastò per mettere Prokofiev al sicuro dagli attacchi ideologici. Nel 1946, beninteso, aveva anche lavorato ad altro. Ho già ricordato le tre suite da Cenerentola} aggiungo la Suite di valzer op. 110 (temi di Cenerentola, Guerra e pace, Lermontov) e il completamento della Sonata n. 1 op. 80 per violino e piano­ forte. Nel 1945 aveva inoltre composto VOde alla fine della guerra op. 105 per otto arpe, quattro pianoforti, quattro saxo­ foni, vari strumenti a percussione e sedici contrabbassi: una specie di ouverture che per la sua semplicità formale, per la ica­ sticità dei temi e per la mancanza di sviluppi corrisponde per­ fettamente alla estetica del cartellone propagandistico. Ben diversa è la Sonata n. 1 per violino e pianoforte, ini­ ziata otto anni prima, nel 1938, durante l’ultimo viaggio negli 234

Stati Uniti. Non sappiamo a quale punto del lavoro fosse arri­ vato Prokofiev nel 1945 > quando riprese in mano gli abbozzi dopo essere stato ricoverato in ospedale, ma è pressoché inevi­ tabile che si attribuisca alla riflessione sullo stato di salute il ca­ rattere fortemente introspettivo e talora tormentato della So­ nata. Prokofiev disse di aver voluto scrivere il pezzo dopo aver ascoltato una sonata di Hàndel per violino e basso continuo. Se così fu - e non c’è ragione di dubitare che così non fosse - la prima suggestione barocca fu poi completamente sciolta in una composizione che non ha nulla di arcaicizzante, che si presenta molto complessa e che nei suoi quattro tempi tocca gli estremi della ipocondria, e della esaltazione eroica con tutta una gamma intermedia di situazioni espressive. Il barocco può essere adombrato all’inizio del primo tempo dall’andamento a modo di austera passacaglia della parte piani­ stica (non della parte violinistica, che è completamente «folle» e disarticolata), ma ciò che più colpisce l’ascoltatore è il terzo tempo, una vera e propria riflessione su o presa di possesso del tardo Debussy. Anche questo momento rientra secondo me nel­ l’ambito della Giovane Classicità. Appena ultimata la Sonata Prokofiev telefonò a Oistrakh chiedendogli di venire a Nicolina Gora, dove aveva acquistato una dacia e dove avrebbe passato fino alla fine della sua vita l’e­ state. All’incontro era presente Miaskovsky. Narra Oistrakh: Prima di cominciare a suonare Prokofiev parlò di tutti i [quattro] tempi, dopodiché eseguì per intero la sonata senza mai fermarsi. Mi fece un’impressione profonda, malgrado egli la suonasse con bril­ lantezza minore del solito. Si sentiva subito che era veramente grande musica, e inoltre che nulla di paragonabile ad essa per grande, assoluta bellezza e profondità era stato scritto da decenni per violino. Miaskovsky pronunciò una sola parola: « Un capola­ voro ». E poi: « Caro compagno, tu non capisci ancora quel che hai scritto». Naturalmente Prokofiev rimase molto commosso.

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Oistrakh parla delle successive visite a Prokofiev mentre lui e Oborin studiavano la Sonata. Per un passo del violino nel primo tempo, pianissimo e freddo, l’Autore suggerì di trovare un’espressione «come il vento su una tomba». Mira Mendel­ sohn conferma indirettamente la testimonianza di Oistrakh quando riferisce di aver sentito dire da Prokofiev che un passo della Sonata somigliava al finale della Sonata in si bemolle mi­ nore di Chopin. E si sa che Anton Rubinstein qualificava il fi­ nale chopiniano come «il vento fra le tombe». Oistrakh così continua: Dopo osservazioni di questo genere l’intero spirito della sonata as­ sunse per noi un significato più profondo. Non ero mai stato così completamente assorbito da un pezzo di musica e fino alla prima esecuzione pubblica non potei suonare altro, non potei pensare ad altro.

Il lettore capisce bene ciò che significano queste parole, dette da un grande interprete delle sonate di Beethoven, Franck, Brahms! Oistrakh così conclude: «Considero la dedica a me della Sonata n. 1 in fa minore come il più grande onore che mai mi sia stato conferito». La Sonata fu eseguita per la prima volta nella Sala Piccola del conservatorio di Mosca il 23 ottobre 1946. Ritorno adesso alla Sesta Sinfonia. Nell’estate del ’46 Proko­ fiev e Shostakovic furono convocati al Cremlino da Andrej Zdanov, che dopo esser stato per anni il consigliere politico di Sta­ lin aveva assunto anche, scalzando Malenkov, le funzioni di consulente culturale. Zdanov, comportandosi come un vero e proprio Grande Inquisitore, ammonì i due musicisti dicendo che nelle loro opere permanevano tracce di formalismo, cioè, in altre parole, che erano in odore di eresia. L’ammonizione confi­ nava evidentemente con la minaccia di pesanti interventi cen­ sori. Non sappiamo quale fosse la reazione intima di Prokofiev. Ma fu notato che in quel tempo egli aumentò il consumo gior­ naliero di sigarette, cosa dovuta probabilmente a nervosismo e 236

che non poteva certamente giovare alla sua salute già compro­ messa. Alla Sesta Sinfonia Prokofiev lavorò intensamente durante l’inverno 1946-47, inverno che venne trascorso nella dacia di Nicolina Gora, senza telefono e con un insoddisfacente riscalda­ mento. La luminosa tonalità della Quinta Sinfonia, si bemolle maggiore, venne sostituita dal cupo mi bemolle minore della Se­ sta, i cui tre tempi seguono un cammino progressivo dal pessi­ mismo più profono alla liberazione, alla catarsi, contraddetta tuttavia dalle ultime pagine del finale: dopo l’ipocondriaco Alle­ gro moderato iniziale in mi bemolle minore costruito su lunghe melopee, il Largo in mi bemolle maggiore, con una parte a modo di marcia, appare più sereno, e il Vivace finale in mi be­ molle maggiore è festoso e fastoso ma, come dicevo, non si con­ clude positivamente. Il Nestiev riferisce che Prokofiev gli avrebbe così spiegato il carattere della Sesta-, «Oggi ci ralle­ griamo della nostra grande vittoria, ma ciascuno di noi porta in sé delle ferite incurabili. Uno piange i suoi cari, un altro ha per­ duto la salute. Non dobbiamo dimenticarlo». Saranno vera­ mente parole di Prokofiev? Mi permetto di dubitarne.

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IL GRANDE INQUISITORE Oltre a terminare la Sesta Sinfonia Prokofiev scrive nel 1947 due lavori patriottici come la cantata per coro misto e or­ chestra fiorisci, paese potente op. 114 e il Poema di festa per or­ chestra op. 113, quest’ultimo sottotitolato Prent'anni (trent’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre), Scrive inoltre la breve Sonata op. 115 per violino solo, pensata come opera didattica, e che è un’opera didattica da eseguire con due violini all’unisono, e la Sonata n. 9 op. 103 per pianoforte, dedicata a Richter. Così come la Sonata n. 2 per violino era il corrispettivo delle turgide Sonate nn. 6-8, la Sonata n. 9 è per certi versi il corrispettivo della Sonata n. 1. Richter racconta che Prokofiev gli fece vedere gli abbozzi del pezzo dicendogli: «Sarà la vostra sonata. Ma non pensate che sia intesa per creare un effetto. Non è la specie di lavoro da far saltare il tetto della Sala Grande [del conservatorio di Mosca] ». La prima esecuzione ebbe luogo nella sede dell’Unione Compositori. Prokofiev, già malato, la ascoltò per telefono: « [...] suonai per la prima volta la Nona Sonata, un la­ voro raggiante, semplice e addirittura intimo. In un certo senso è una Sonata domestica. Più la si ascolta, più ci si innamora di lei e si avverte il suo magnetismo. E più appare perfetta. Mi piace molto ». Richter ha senza dubbio ragione. Ma la Sonata n. 9 è pres­ soché sconosciuta, oggi come sempre. Singolare la sua costru­ zione: alla fine del primo tempo viene preannunciato il secondo, alla fine del secondo il terzo, alla fine del terzo il quarto, e alla fine del quarto viene richiamato, ovviamente, il primo. Ma ben difficilmente il pubblico può cogliere all’audizione questa idea 238

di circolarità, di eterno ritorno, e ben pochi dei temi presentano quei caratteri di estrema plasticità e di icasticità che colpiscono così vivamente nelle precedenti sonate. E la fine così evane­ scente del quarto tempo con il da lontano delle ultime righe non è fatta, per quanto ciò possa sembrare banale, per muovere l’entusiasmo dell’uditorio. Nel 1947 Prokofiev riprende infine, e riscrive, la Sinfonia n. 4 op. 47, assegnandole il nuovo numero d’opera 112. I maggiori interventi sulla Sinfonia riguardano il primo tempo, Andante-Al­ legro eroico, la cui dimensione risulta in pratica raddoppiata; ma anche gli altri tre tempi vengono ampliati. Sparisce quel tanto di un po’ dimesso e di un po’ frettoloso che aveva nuo­ ciuto alla prima versione, e tuttavia la Sinfonia rinnovata man­ tiene pur sempre l’impronta del lavoro nato per onorare una commissione e immaginato più per forza di volontà che per forza di ispirazione. Il ciclone che si abbatte su Prokofiev alla fine del ’47 e che travolge la Sesta Sinfonia appena data in prima esecuzione, travolge a maggior ragione la Quarta, che verrà eseguita solo nel 1957. Zdanov attacca nel novembre del 1947 un’opera teatrale di Vano Muradeli del tutto innocua e del tutto - apparentemente! - in linea con le direttive ufficiali, La grande amicizia. La Sesta Sinfonia di Prokofiev, eseguita a Mosca il 25 dicembre (tutti i biglietti erano andati esauriti già due settimane prima), riceve una freddissima accoglienza e non sarà più udita nell’Unione Sovietica fino al 1960. Nel gennaio del 1948 una sessione del Comitato Centrale del Partito Comunista, durata tre giorni, prende in esame la situzazione della musica sovietica. Zdanov impugna l’ascia e ai musicisti presenti, tra i quali Prokofiev e Shostakovic, spiega le malefatte degli eretici: Nell’attività dell’Unione Compositori il ruolo direttivo è tenuto oggi da un gruppetto. Si tratta dei compagni Shostakovic, Proko­ fiev, Miaskovsky, Katciaturian, Popov, Kabalevsky e Shebalin. Quando si parla del gruppetto dirigente che tiene tutti i fili e le chiavi del Comitato Esecutivo delle Arti vengono citati sempre que-

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sti nomi. Noi ammetteremo che questi compagni sono le principali figure dirigenti della tendenza formalista in materia di musica. E questa tendenza è totalmente falsa.

Degno di Hitler e della sua crociata contro l’« arte degene­ rata». Zdanov non si esime nemmeno dal tirare il colpo basso: Per questo gruppetto dirigente dei nostri compositori del clan for­ malista il regime che fino ad ora regnava nelle organizzazioni musi­ cali non era - e la mia espressione è moderata - affatto sgradevole.

Deviazionisti e profittatori. Il 10 febbraio il Comitato Cen­ trale emette la condanna senza appello: viene pubblicato un elenco di opere macchiate di eresia, e per quanto riguarda Pro­ kofiev la sfilza comprende persino le sonate per pianoforte Set­ tima e Ottava alle quali era stato assegnato il Premio Stalin. Ma chi era stato il pollo che glielo aveva assegnato, il Premio Sta­ lin? E chi era stato il pollo che aveva da poco nominato Proko­ fiev « artista del popolo »? Mistero. «Ma che cosa vuole mai questo Zdanov?», si sarà chiesto Prokofiev. Al di là di tutte le sparate, di tutti i paroioni, di tutte le invettive zdahoviane traspare oggi una finalità tanto banale quanto antistorica: Zdanov voleva resuscitare nell'opera lirica la categoria dell’«orecchiabile», voleva resuscitare i tempi in cui la gente, depo aver ascoltato la Molinara di Paisiello, usciva dal teatro cantando «Nel cor più non mi sento», i tempi in cui si canticchiava «La donna è mobile» appena udita, e così via. Ora, quel tempo era morto nel 1924, con «Nessun dorma». E se Zdanov fosse stato sincero avrebbe dovuto dire: « Composi­ tori, studiate, imitate Puccini, e sarete salvi». Non poteva, per­ ché Puccini era stato uno sporco piccolo borghese simpatiz­ zante con il fascismo. Peccato! Oppure si sarebbe dovuto met­ tere la pietra tombale sull’opera e imitare il musical americano, perché lì sì che il pubblico usciva dal teatro canticchiando Ehe man I love. Esempi appetitosi di arte popolare. Ma americani. 240

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E Zdanov si awilupppava in trappole ideologiche e sociologiche invece di dire papale papale «Bisogna essere orecchiabili». Intanto però i maggiori compositori sovietici erano entrati nella gabbia degli imputati, e sebbene non ci fosse alcun for­ male divieto di eseguirne le composizioni messe all’indice nes­ suno, come ci dice Richter, avrebbe mai avuto l’idea fantastica di andare controcorrente. I nemici del « gruppetto » gongolano, gli amici taccioni. Boris Asafiev, critico musicale che sotto lo pseudonimo di Igor Glebov aveva da sempre sostenuto Proko­ fiev manifesta la sua convinzione che il « gruppo dirigente » sia «contaminato dal formalismo borghese contemporaneo». Sarà un caso, ma di lì a poco la monografia su Glinka di Igor Gle­ bov riceve il Premio Stalin. Il Grande Inquisitore sapeva bene che la condanna sarebbe stata tanto più esemplare e più foriera di frutti se i condannati avessero recitato l’abiura dei loro trascorsi. Vennero perciò con­ vocati presso l’Unione Compositori gli iscritti alla sezione di Mosca. Pare che Prokofiev si presentasse in ritardo e che, per incoscienza o per sfida, tenesse attaccata al bavero della giacca la medaglia d’oro conferitagli nel 1945 dalla British Royal Phil­ harmonic Society di Londra invece delle medaglie del Premio Stalin. Sembra anche che si addormentasse sulla sua sedia e che venisse richiamato dal presidente della riunione: «Compagno Prokofiev, voi disturbate la seduta. Se il discorso del compagno Zdanov non vi dice nulla, nessuno vi impedisce di andarvene». E Prokofiev se ne sarebbe andato. Il dibattito durò tre giorni e tutte le magagne formaliste vennero denunciate una per una. Prokofiev, se voleva sopravvi­ vere professionalmente - per non dire fisicamente - doveva fare l’abiura..., che si chiamava autocritica. E mandò una lettera in­ dirizzata a Polycarpe Lebedev, presidente del Comitato degli Affari Artistici, e a Tikhon Khrennikov, segretario generale dell’Unione Compositori. La lettera venne pubblicata nella rivista Sovietskaja Mmka di cui Khrennikov era direttore: 241

La Risoluzione del CCPS [Comitato Centrale del Partito Socialista] del 10 febbraio 1948 ha diviso il buono e il cattivo nelle opere dei compositori. Ciò è stato naturalmente molto penoso per un gruppo di loro, un gruppo a cui appartengo. Tuttavia devo essere ricono­ scente a questa Risoluzione del Partito che permetterà di rendere effettivo il ritorno allo stato normale dell'insieme organico della musica sovietica. Questa Risoluzione è di un'importanza fondamentale. In effetti essa ha dimostrato che il popolo sovietico bandisce ogni tendenza formalista perché il formalismo rovina e imbastardisce la musica. Inoltre essa ci ha chiarito gli obbiettivi da realizzare per servire al meglio gli interessi del nostro popolo. Circa quindici o vent'anni or sono la mia musica, è vero, si faceva notare perché alcuni degli elementi formalisti che avevo contratto in Occidente la caratterizzavano. Dopo che la Pravda aveva esposto [nel 1936] gli errori formalisti dell'opera Lady Machbeth del distretto di Mtsenk, composta da Shostakovic, ho molto riflettuto sui miei particolari processi di crea­ zione musicale ed ho concluso che questo mio metodo di composi­ zione era mal fondato. Perciò ho cominciato a tentar di trovare un linguaggio più evidente e più significante.

Proseguendo, Prokofiev ritiene di essere riuscito ad elimi­ nare « almeno in parte » il formalismo in alcune delle sue com­ posizioni, si flagella confessando che il formalismo procura «una certa autosoddisfazione d’autore», rivendica di non aver « mai trascurato l’importanza melodica di un’opera » ed espone a questo proposito le teorie che già conosciamo. Riconosce an­ che di essere «sovente caduto nelle trappole dell’atonalità, spesso molto apparentata con il formalismo», ma afferma di aver capito che «la musica tonale e diatonica offre molte più possibilità delle musiche atonali o cromatiche», poi getta a mare «Schónberg e i suoi discepoli» finiti in un’«impasse», parla del recitativo e dell’aria ripetendo quel che già sappiamo, annuncia di voler scrivere una nuova opera su soggetto « con­ temporaneo e sovietico ». E conclude dicendo: 242

[...] voglio esprimere la mia riconoscenza al nostro Partito per le di­ rettive presice emesse nella sua Risoluzione. Queste mi aiuteranno nella mia ricerca per trovare i mezzi d’espressione comprensibili perché vicini al nostro popolo, in un linguaggio musicale degno di lui e della nostra grande patria.

Sembra improbabile che Prokofiev abbia potuto scrivere un simile trattato penitenziale e si suppone che abbia firmato un testo preparato da Nestiev o da Mira aiutata dal padre. Quale che sia la verità, l’autocritica fu ritenuta sufficiente e Prokofiev, sempre sofferente per l’ipertensione, si mise a scrivere l’opera Storia di un vero uomo. Shostakovic venne «dimissionato» dalla cattedera di composizione nel conservatorio di Mosca. Alla fine dell’anno, in tempo per passare alla storia e troppo tardi per evitare all’Unione Sovietica una pagina di vergogna, moriva Zdanov.

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LINA Lasciato l’appartamento di famiglia, Prokofiev aveva inviato regolarmente a Lina del denaro. Aveva chiesto più volte il di­ vorzio ma la moglie aveva sempre rifiutato di concederlo e così gli anni erano passati, con Mira in una posizione irregolare di concubinaggio che non garbava né a lei né al padre. Durante la guerra, come già detto, Lina non aveva rinunciato alle sue fre­ quentazioni pericolose, che d’altronde le offrivano l’opportunità - parlava sei lingue - di fare delle traduzioni retribuite. Finito il conflitto chiese di uscire dall’Unione Sovietica e preparò la do­ cumentazione che le veniva richiesta: il permesso le fu negato. Al suo avvivo a Mosca nel 1936 era stata registrata come citta­ dina sovietica. Era un errore burocratico, perché il matrimonio contratto in Germania con un cittadino sovietico non era stato registrato né a Mosca né, prima, presso un consolato sovietico. Una legge emanata durante la guerra aveva per di più vietato ai cittadini/e sovietici di sposare cittadine/i stranieri. Prokofiev, di­ ciamo così, si trovava perciò senza saperlo in una botte di ferro. Quando lo seppe ne approfittò: Mira Mendelsohn divenne Mira Mendelsohn-Prokofieva. Il 20 febbraio 1948 uno sconosciuto telefona a Lina dicen­ dole di averle mandato da Leningrado, approfittando della ve­ nuta a Mosca di un amico, un pacco: può scendere e andare a ritirarlo nella vicina stazione? Benché raffreddatissima la povera donna cede alle insistenze dello sconosciuto, scende in strada, viene afferrata e gettata in un’automobile nera che la porta alla Lubianka, la famosissima prigione. I poliziotti perquisiscono in­ tanto l’appartamento, requisiscono documenti e oggetti che, se244

condo Sviatoslav Prokofiev, non vengono elencati tutti quanti nel verbale di sequestro. Quando la perquisizione finisce, e alcune camere vengono sigillate, Sviatoslav e Oleg raggiungono il padre - a piedi, tre­ dici chilometri, perché i mezzi pubblici non circolano a causa del ghiaccio. Prokofiev si rivolge ad amici e poi ad un avvocato per avere informazioni, ma per parecchi giorni non riesce a sa­ per nulla di preciso. Interrogata con i metodi che la polizia ben conosceva e ben sapeva come applicare - luce violenta in faccia per parecchi minuti, risvegli improvvisi nel cuore della notte Lina «confessa» quanto basta per il tribunale che dopo pochi minuti di dibattimento la condanna, per spionaggio e tradi­ mento, a ventanni di lavori forzati. Lina fu deportata in Siberia e di lei non si ebbero praticamente più notizie fino alla morte di Stalin (e di Prokofiev), per­ ché le sue lettere non venivano inoltrate o venivano consegnate con enormi ritardi: una lettera del 31 ottobre 1949 al figlio maggiore arrivò a destinazione nel 1956! Nel 1953 Oleg Proko­ fiev potè avere un colloquio con la madre dopo aver viaggiato in treno per tre giorni. Lina aveva esplicato i suoi doni di donna attiva e socievole anche nel gulag-, insegnava il canto, aveva formato un coro e organizzava manifestazioni musicali. Le sue condizioni di salute erano buone, i suoi rapporti con i guardiani cordiali. I figli poterono scriverle due volte all’anno e inviarle pacchi con abiti e cibi. Nel 1954 la detenuta fu trasfe­ rita in un altro campo e il 30 giugno 1956 fu rilasciata, avendo scontato otto anni della pena. Era una donna indomita, Lina Codina, ed essendo indomita ed odiando dal profondo del cuore Mira Mendelsohn-Proko­ fieva voleva a tutti i costi ridiventare Lina Codina-Prokofieva. Si presentò al giudice con dei testimoni, produsse copia del cer­ tificato di matrimonio di Ettal, fu redarguita, non cedette di un millimetro... e ridivenne Lina Codina-Prokofieva. Con l’aiuto di Khrennikov ottenne persino una sia pur minima indennità per la perquisizione del 1948 che si era trasformata in razzia, una 245

sia pur minima pensione e una sia pur minima fetta dei diritti d’autore che le opere di Prokofiev percepivano all’estero. Non si sa come venisse giustificata legalmente l’esistenza di due «ve­ dova Prokofiev», ma le due menarono ciascuna la propria vita come «vedova Prokofiev». Nel 1959 Lina venne invitata ad assistere a Parigi alla ceri­ monia per la posa di una lapide in rue Valentin-Hauy 5 dove i Prokofiev avevano abitato dal 1930 al 1935. Non ottenne il per­ messo per l’espatrio. Potè lasciare l’Unione Sovietica nel 1974 e visse un po’ a Londra e un po’ a Parigi, non senza fare viaggi a New York, a Barcellona, a Salisburgo, in Svizzera, in Germania. Oleg Prokofiev racconta che parlava di preferenza il russo e che lo rimproverava per aver sposato una inglese e per non aver insegnato il russo ai suoi figli. Rilasciò qualche intervista ma non scrisse le sue memorie e fu sempre evasiva sugli anni pas­ sati nel gulag. Nel settembre del 1988 si ammalò mentre si tro­ vava a Bonn. Rimase in ospedale per tre mesi, fu operata (aveva un cancro al pancreas) e poi trasportata a Londra dove morì il 3 gennaio 1989, a novantun’anni. Aveva chiesto di essere sep­ pellita vicino alla suocera e perciò, dopo la cremazione, le sue ceneri furono portate a Parigi, nel cimitero di Meudon: sulla la­ pide è scolpito il nome di Lina Prokofiev. Mira Mendelsohn-Prokofieva era morta nel 1968, a cinquantacinque anni, ed era stata seppellita accanto al marito.

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DOPO LA TEMPESTA Nell’autocritica di cui ho appena detto Prokofiev annun­ ciava di essere occupato con un’opera di soggetto contempora­ neo e sovietico. Non si trattava in verità di una decisione presa a seguito del processo a cui il suo lavoro era stato sottoposto perché già nell’ottobre del 1947 egli aveva manifestato la sua ammirazione per il romanzo Storia di un vero uomo di Boris Po­ levoi, pubblicato nel 1946. Il soggetto trattava del coraggio e della forza d’animo straordinarie di un aviatore che, abbattuto dal nemico e grave­ mente ferito alle gambe, si era trascinato per tre giorni fino a raggiungere le sue linee, aveva subito l’amputazione degli arti inferiori, era riuscito cocciutamente a riprendere il comando di un aereo, era ritornato al combattimento comportandosi da eroe ed aveva alla fine sposato la bella fidanzata che lo aveva fe­ delmente atteso. Prokofiev e Mira trassero dal romanzo un li­ bretto d’opera in quattro atti e dieci quadri. Forse Prokofiev avrebbe scritto comunque l’opera, ma pro­ babilmente, senza la bufera scatenata da Zdanov, non avrebbe composto la stessa musica. Il libretto è tagliato con abilità, e per questo aspetto il fiuto teatrale di Prokofiev non si smenti­ sce. Il male e il bene sono anche qui divisi e contrapposti, e per il primo Prokofiev si sente in un certo senso giustificato a com­ porre senza condizionamenti ideologici. Del resto, in un passo dell’autocritica che non avevo riportato egli diceva di aver uti­ lizzato l’atonalità «perché essa mi ha permesso d’ottenere dei contrasti spettacolari, cosa che del resto dava ai passaggi di scrittura tonale un maggior realismo». La musicologa Natalie 247

Savkina, che ha studiato l’opera nel 1991, sostiene in un ampio saggio che Prokofiev utilizzò melodie del canto popolare e spe­ cialmente «i meravigliosi modelli del folclore contadino». A me non sembra che musicalmente il contrasto tra male e bene si ri­ solva a vantaggio del secondo, né che tra i due si stabilisca un equilibrio complessivo. Il 3 dicembre 1948 l’opera fu eseguita per inviti a Lenin­ grado, in forma di concerto e con accompagnamento di solo pianoforte, in modo molto sommario. Subito dopo l’Unione Compositori si riunì per esaminare - e l’esame durò nove giorni - i lavori che gli iscritti presentavano al suo giudizio. La rivista Sovietskaja Muzika recensì, sempre in dicembre, l’esecuzione di Leningrado, rivelando di aver riscontrato « caos, grossolano na­ turalismo, assenza di melodia caratterizzata, stupide intrusioni di canzoni scritte in uno stile non compatibile con il soggetto, confusione armonica, gusto dubbio, assenza di elevazione musi­ cale » in un lavoro « totalmente perverso » e « scandaloso ». Pro­ kofiev protestò il 28 dicembre con una lettera alla direzione dell’Unione Compositori, il segretario generale Khrennikov gli rispose il 4 gennaio 1949 con una dura requisitoria pubblicata dalla Pravda. E l’opera non andò in scena (la prima esecuzione, con un testo ritoccato da Mira, ebbe luogo al Bolshoi di Mosca nel 1960). Val qui la pena di soffermarsi per un attimo sulla figura di Tikhon Khrennikov. La critica vede in lui l’anima nera del com­ plotto contro Prokofiev e gli altri, e certamente egli non si sot­ trasse al compito odioso che Zdanov gli assegnava. La storia del tremendo anno 1948, per quanto mi risulta, non è stata ancora studiata a fondo e non sono ancora stati esaminati, se pure esi­ stono, gli incartamenti delle fasi istruttorie di quello che fu un vero e proprio, brutale processo condotto su un’accusa di ere­ sia, il formalismo, priva di un reale contenuto scientifico ma uti­ lizzata scientificamente a scopo intimidatorio. Alcuni musicisti russi da me conosciuti, e che avevano vissuto a Mosca negli anni della Guerra Fredda e dei rigori del tardo stalinismo, so­ 248

stenevano però che Khrennikov aveva sparato grosso contro Prokofiev e Shostakovic, a salve, perché altri non sparasse loro addosso a palle. Prokofiev non si era reso ben conto, anche a causa del suo carattere altero, del pericolo gravissimo che cor­ reva. Se non fosse stato tenuto al guinzaglio, carico com’era non solo dei suoi trascorsi «formalisti» ma anche dei lunghi anni passati all’estero e del matrimonio con una straniera con­ dannata per spionaggio, avrebbe potuto a sua volta essere accu­ sato di crimini non musicali e ritrovarsi gradito ospite di un gu­ lag. Questa teoria può essere o non essere vera, ma la convin­ zione con cui la esponevano i miei interlocutori, tutti ebrei ed espatriati prima del 1989, me la fece sembrare non irrealistica. Infaticabile come sempre malgrado la salute vacillante, Pro­ kofiev cominciò a comporre nel 1948 il balletto II fiore di pietra che avrebbe ultimato nel 1950. Alla stesura del libretto avevano lavorato, basandosi su due favole degli Urali contenute in una raccolta di Pavel Bejov, il coreografo Lavrovski e Mira. Il racconto è simbolico, ma i simboli restano nascosti sotto la superficie di una trama semplice e fantasmagorica. I Monti Urali sono ricchi di malachite, pietra verde che gli artigiani la­ vorano per farne monili. Il giovane Danila vorrebbe scolpire in malachite un fiore assolutamente perfetto, ma per riuscirvi deve trovare una pietra già in sé perfetta. Lascia perciò la fidanzata Katerina e si mette alla ricerca del filone di malachite corrispon­ dente ai suoi desideri. Un altro lapidario, Severion, interessato tanto alla pietra preziosa quanto a Katerina, lo segue per deru­ barlo, ma Danila viene catturato dalla Regina della Montagna di Rame e sparisce nelle viscere della terra. La Regina fa vedere a Danila i suoi tesori, tra i quali un meraviglioso fiore di mala­ chite. Intanto Severian continua a cercare Danila ma vede an­ che lui la Regina, la segue e muore. Katerina non desiste e gui­ data dagli Spiriti del fuoco trova la Regina, che comprendendo il suo amore e la sua innocenza le risparmia la vita e la fa ricon­ giungere con Danila. 249

Il simbolo dell’artista che cerca la perfezione e la trova, gui­ dato dal suo genio a superare tutti gli ostacoli, potrebbe essere apparentato a quello del Mazeppa di Hugo e di Liszt ma, ri­ peto, lo spettatore può anche non accorgersene affatto, così come può non accorgersi affatto del programma di cui parla Prokofiev: « Il tema centrale [del Fiore di pietra} è la gioia del lavoro creativo per il vantaggio della società, la bellezza spiri­ tuale del popolo russo, il vero e tenace amore di Katerina e Da­ nila ». La tenue vicenda si presta invece, come quella della Bella addormentata di Ciaikovsky, alla creazione di divertissement (danze delle varie pietre preziose, danze dei lapidari, ecc. ecc.) e di musica caratteristica. Nel 1951 Prokofiev trasse dal balletto tre suite, op. 126, 127 e 128, intitolate rispettivamente Suite nuziale, Fantasia tzi­ gana e Rapsodia degli Urali. Queste musiche tendono allo scopo di soddisfare immediatamente il gusto dell’ascoltatore ingenuo. Si tratta in verità di un ritorno, non più mediato come nella Ce­ nerentola, ma diretto, verso il balletto ciaikovskiano e verso le fantasmagorie musicali di Rimski-Korsakov. La volontà di « far facile» invece che di «far grande» non convinse però nem­ meno il pubblico sovietico degli anni cinquanta. Dapprima ac­ cettato dal Bolshoi, poi messo in quarantena, il balletto fu rap­ presentato con vari tagli e aggiustamenti un anno dopo la morte di Prokofiev, il 12 febbraio 1954, senza successo. Tra il 1950 e il 1951 Prokofiev scrisse alcuni lavori dimo­ strativi della sua riconquistata ortodossia: il Canto di marcia op. 121 per coro maschile, il Fuoco d'inverno op. 122 per recitante, coro di voci bianche e orchestra, l’oratorio A guardia della pace op. 124 per soli, recitanti, coro misto, coro di voci bianche e orchestra, il poema sinfonico II Volga incontra il Don op. 130; dal Matrimonio al convento fu tratta la suite Notti d'estate op. 123. Fuoco d'inverno è un racconto di un poeta di regime, Sa­ muel Marshak, di cui la storia ha... perduto le tracce. Il testo vorrebbe richiamarsi a Fierino e il Lupo, che viene esplicita­ 250

mente citato all’inizio, con la differenza che l’iniziazione agli strumenti d’orchestra si trasforma in iniziazione all’ideologia, o per meglio dire alla propaganda ideologica sovietica. Un gruppo di sovietici balilla va a passare le vacanze invernali in campagna: partono in treno, arrivano in un villaggio, pattinano sul ghiac­ cio, incontrano i locali balilla contadini, accendono il fuoco di bivacco, cantano, ammirano le belle casette nuove, il falegname che costruisce una sala per giochi, i maialini i polli le mucche, riprendono il treno e tornano a Mosca lieti di aver conosciuto le bucoliche realtà rurali sorte per volere di Stalin in un paese che era stato devastato dalla guerra. Un testo da far venire il latte alle ginocchia. Ma una musica freschissima. La poetessa A. Mashistova cambiò la parole di Augurio, la cantata per il sessan­ tesimo compleanno di Stalin, facendolo diventare il Canto di gioia. Si potrebbe tentare la stessa operazione di, come si diceva nel Cinquecento, travestimento spirituale per il Fuoco d'inverno. Più difficile sarebbe trasformare le parole, sempre di Sa­ muel Marshak, dell’oratorio A guardia della pace. Il messaggio dell’oratorio potrebbe essere riassunto nel motto «non più guerre»: si rievocano gli orrori della conflagrazione bellica da poco conclusa e in particolare l’assedio di Stalingrado, si prende il solenne impegno di salvaguardare la pace. Non si può certa­ mente non consentire con frasi come « che il suono della sirena ossessiva non cacci mai più la gente nel ventre della terra » o «Gli scolari lavorano, scrivendo nero su bianco e bianco su nero con penne o gesso. Essi scrivono: Non abbiamo più biso­ gno della guerra». Ma si resta di stucco quando al bimbo ad­ dormentato si sussurra che i guardiani della pace sono sempre più numerosi e che «Colui che li guida è l’amico lunare dei bambini e abita al Cremlino». La musica, certo, mantiene l’im­ pronta di Prokofiev. E però penoso - nel senso che suscita un profondo sentimento di compassione e di solidarietà - il consi­ derare che l’autore &AFAlexandr Nevsky si piegasse a musicare un testo come questo. Vero è però che nel 1951 l’oratorio rice­ vette il Premio Stalin... di seconda classe. 251

Prokofiev era «riabilitato». Il 23 aprile 1951 Sviatoslav Richter eseguì per la prima volta la Sonata n. 9 a lui dedicata, che era stata composta nel 1947. Parecchi commentatori riten­ gono che il pianista avesse impiegato quattro anni a meditare su una composizione che a tutta prima lo aveva un po’ soncertato. Mi pare che questa tesi sia del tutto gratuita. In realtà la Sonata era già in programma all’inizio del 1951 ma fu sostituita senza spiegazioni da una Sonata di Schubert: Richter aspettò dunque tre anni prima di azzardare un’esecuzione che avrebbe potuto danneggiare sia lui che Prokofiev. L’ultima «penitenza» dopo la buriana del 1948 fu il poema sinfonico II Volga incontra il Don, commissionato dalla Radio dell’URSS. Prokofiev così spiega la sue intenzioni: Il soggetto di questa composizione mi è stato suggerito dalla realtà. Ci sono molti vecchi canti popolari russi a proposito del Volga e del Don, e a questi sono ora stati aggiunti nuovi canti che inneg­ giano alle imprese dell’uomo, rimodellatore della Natura. Molto è stato detto in America e nell’Europa occidentale sulla mis­ sione dell’artista e sulla sua libertà di creare. Ma può il vero artista starsene fuori dalla vita e confinare la sua arte nei ristretti limiti delle sue emozioni soggettive, o non deve piuttosto egli essere dove più necessita la sua presenza, dove la sua arte può aiutare il popolo a vivere un’esistenza migliore e più bella? [...] Ricordate le vite di Beethoven e Shakesperare, di Mozart e Tolstoj, di Ciaikovsky e Dickens, questi giganti della mente e dello spirito umano. Non furono essi grandi precisamente perché, seguendo i dettami della loro coscienza, dedicarono il loro talento al servizio dell’uomo? Quand’ero negli Stati Uniti e in Inghilterra udivo molto parlare della musica e per quale scopo essa doveva essere intesa, che cosa un compositore doveva scrivere e su che cosa la sua musica doveva essere indirizzata. Secondo me il compositore, come il poeta, lo scultore e il pittore, è in dovere di servire l’Uomo, il popolo. Egli deve abbellire la vita umana e difenderla, deve essere per prima cosa e soprattutto un cittadino, così che la sua arte possa coscienzio­

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samente esaltare la vita umana e condurre l uomo verso un radioso futuro. Questa è l'immutabile legge dell'arte come io la vedo.

Prokofiev aggiunge di rendersi ben conto del fatto che qualcuno potrebbe qualificare le sue parole come «pompose banalità». Le solenni dichiarazioni di principio possono in ve­ rità sembrare sempre banali, retoriche, bombastiche. Ma il punto non è questo. Il poema sinfonico II Volga incontra il Don rendeva migliore resistenza di quei rimodellatori della Natura che, congiungendo il Volga con il Don mediante un canale arti­ ficiale di un centinaio di chilometri, avevano lavorato in condi­ zioni di schiavitù e ci avevano lasciato a migliaia la pelle?

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L’ULTIMO AMORE Non si tratta di eros o, se eros è, si tratta di eros musicae. L’ultimo amore di Beethoven fu il quartetto d’archi, l’ultimo amore di Brahms (e anche di Mozart) fu il clarinetto, e il vio­ loncello fu l’ultimo amore di Prokofiev. Prokofiev aveva trovato poco prima della guerra i suoi in­ terpreti di elezione: Samuel Samosud per la direzione d’orche­ stra, David Oistrakh per il violino, Sviatoslav Richter per il pia­ noforte. Il 21 dicembre 1947 un violoncellista ventenne, Msti­ slav Rostropovic, nato a Baku, ha il coraggio di scongelare il Concerto per violoncello che nel 1938 era stato accolto fredda­ mente e che si era ibernato. La suona nella Sala Piccola del conservatorio di Mosca con accompagnamento di pianoforte perché non ha la forza di imporlo a nessuna orchestra. Ma lo suona. Prokofiev lo ascolta e... Ecco il racconto di Rostropovic: Quando il concerto fu finito Sergej Sergejevic venne nel retropalco e mi disse che dopo aver ascoltato attentamente il Concerto aveva deciso di riscriverlo. Glielo ricordai ogni volta che lo incontrai di nuovo, ma senza successo. Un anno dopo lo vidi nuovamente nella Sala Piccola del conservatorio. Era venuto per ascoltare l'ultima sonata per violoncello di Miaskovsky. Mi disse che anche lui stava scrivendo una sonata e che me l'avrebbe mandata non appena l'avesse finita. Qualche tempo dopo ricevetti il manoscritto insieme con l'invito ad andare a Nicotina Gora a suonarla per lui e con l'offerta di darmi tutti i suggerimenti che potevano occorrermi mentre la studiavo. Nel giorno stabilito mi recai nella casa di campagna di Prokofiev

[...].

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[...] sedette al pianoforte e cominciò a suonare. Fui molto sorpreso nel constatare quanto rapidamente aveva dimenticato la sua musica - suonava l’accompagnamento come se non l'avesse mai visto prima. Ciò accadeva evidentemente perché a quel tempo stava com­ ponendo una gran quantità di musica nuova. [...] Lo stesso giorno a Nicolina Gora Sergej Sergejevic espresse il desi­ derio che la parte pianistica della Sonata fosse eseguita da S. Rich­ ter.

Rostropovic e Richter eseguirono privatamente la Sonata il 18 dicembre 1949 e in pubblico, nella Sala Piccola del conser­ vatorio, 1’1 marzo 1950. Negli Stati Uniti la Sonata £u presen­ tata da Gregor Piatigorski. La Sonata op. 119 è in tre tempi. Nel primo Prokofiev alterna due movimenti - come già nella Sonata n. 8 per pianoforte - con il primo più lento del secondo. La forma è quella di un’ampia canzone con coda: Andante grave, Moderato animato, Andante grave, Allegro moderato. Ho già parlato di un uso secondo me improprio di un termine ita­ liano di movimento, il precipitato. Anche il grave accostato all’andante mi sembra da intendere cum grano salis-. non come una indicazione di movimento ma come una indicazione di ca­ rattere espressivo, nel senso di gravemente, con gravità. E forse i termini più appropriati sembrano a me essere quelli di Andante serioso o di Andante pensoso. E pensoso è il tema - più melodia che tema - con cui si apre la Sonata, esposto dal violoncello su un sobrio accompagnamento del pianoforte. Un’altra melodia, più calda, viene esposta prima del cambiamento di movimento. Il Moderato animato è in contrasto con la prima sezione per il suo carattere più «leggero». Non c’è un vero e proprio svi­ luppo perché il materiale tematico, come dicevo, è melodico. Ritorna invece, variata, la prima sezione e il tempo si conclude con la coda, che termina svanendo nel nulla. Il secondo tempo, Moderato, è uno scherzo in tempo bina­ rio con trio {andante dolce in tempo ternario), ed è danzante nella prima parte, lirico e tenero e bucolico nella parte centrale. 255

Il finale, lo scherzoso, schubertiano Allegro ma non troppo, è ta­ gliato in una forma di rondò non del tutto tipica: primo tema, secondo tema {andantino meno mosso) in cui il violoncello suona con sordina e quindi con un colore come di pastello, primo tema, terzo tema poco a poco più tranquillo e coda che ri­ prende, in modo più solenne, il primo tema del primo tempo. La struttura è quindi nettamente classica, cosa del resto abituale in Prokofiev. Il linguaggio non è quello volutamente «popo­ lare» dei contemporanei lavori con i quali il Nostro cercava di riscattarsi agli occhi del Potere, ma nello stesso tempo sembra esser stato controllato in modo da non ricascare sotto le cen­ sure che avevano bollato senza appello la Sesta Sinfonia. Come abbiamo visto prima, Prokofiev aveva manifestato a Rostropovic, alla fine del 1947, l’intenzione di riscrivere il Con­ certo per violoncello, e tre anni dopo, nel 1950, si mise al la­ voro, ma le cattive condizioni di salute e la vecchia abitudine di portare avanti più composizioni contemporaneamente ritarda­ rono fino al 1952 il compimento della Sinfonia concertante op. 125 {^-Concerto op. 58) per violoncello e orchestra. La compo­ sizione, dopo l’audizione nell’Unione Compositori con Richter al pianoforte, fu eseguita per la prima volta a Mosca il 18 feb­ braio 1952, con Rostropovic solista e sotto la bacchetta di Rich­ ter, che in quell’occasione diresse per la prima ed unica volta in vita sua un pezzo sinfonico. Richter racconta che nessun direttore voleva impegnarsi con la Sinfonia concertante perché si sapeva che « il Ministero della Cultura non era d’accordo », e che lui si assunse l’incarico perché, essendosi fratturato un dito della mano destra, inventò per la autorità la favola che « non avrebbe mai più potuto suo­ nare il pianoforte ». Assistito dai consigli di Kondrashin diresse « non troppo male » l’Orchestra Giovanile di Mosca ed ebbe i complimenti di Prokofiev. Richter riferisce anche che dopo la prima esecuzione Rostropovic convinse Prokofiev a cambiare un passo del finale: « Di questo non lo perdonerò mai. Lui fece il suo interesse e la nuova versione è innegabilmente d’effetto, 256

ma la musica perdette qualcosa nella scrittura e la fine del con­ certo divenne in un certo qual modo quasi ordinaria». Rostropovic raccontò di aver trascorso le estati del 1950 e del 1951 a Nicolina Gora, ospite di Prokofiev, il quale deside­ rava conoscere a fondo le potenzialità tecniche del violoncello. Volle anche vedere musiche violoncellistiche per eccellenza, e Rostropovic gli fornì i pezzi dei grandi virtuosi dell’ottocento come Popper e Davidov. Rostropovic riferisce che Prokofiev non scriveva tutta di seguito una composizione di ampia archi­ tettura ma che il suo lavoro creativo procedeva per così dire a macchia di leopardo: Nell’Allegro della Sinfonia concertante per violoncello, ad esem­ pio, il tema principale e la coda furono composti per primi, il se­ condo tema e alcune parti dello sviluppo più tardi. Quando mi chiamava per farmi provare una nuova sezione non sapevo mai quale potesse essere.

Si potrebbe anche pensare che questo metodo di lavoro ri­ guardasse la Sinfonia concertante, basata sul vecchio Concerto per violoncello. Ma Rostropovic asserisce di aver visto nascere nello stesso modo il poema sinfonico 11 Volga incontra il Don e la Settima Sinfonia. La struttura generale della Sinfonia concertante (che Proko­ fiev preferiva in realtà denominare Sinfonia-Concerto) resta nei primi due tempi la stessa del Concerto'. Andante, Allegro giusto. E resta in realtà la stessa anche nel terzo tempo, salvo il fatto che la didascalia generale Tema con variazioni dell’op. 58 di­ venta Andante con moto nell’op. 125. Anche il materiale di base è lo stesso (le aggiunte di qualche rilievo riguardano soprattutto il secondo tempo), ma le esperienze compositive maturate con la Quinta e con la Sesta Sinfonia, nonché la più approfondita conoscenza della tecnica violoncellistica, acquisita grazie alla in­ tensa collaborazione con Rostropovic, fanno sì che tutti gli aspetti compositivi della Sinfonia concertante risultino perfezio­ 257

nati in rapporto con quanto di non risolto si trovava nel Con­ certo,

Si potrebbe dire che la Sinfonia concertante è in realtà non solo un concerto per violoncello ma anche un concerto per vio­ loncellisti. Però il suntuoso dispiegamento dei mezzi violoncellistici, degno di Popper o di Davidov, virtuosi romantici che con il più anziano Servais appartenevano ancora alla razza dei Paganini e dei Wieniawski, non va a detrimento, non sbilancia il rapporto fra il solista e l’orchestra. Quando Brahms presentò al pubblico il suo Secondo Concerto per pianoforte ci fu chi disse che non di un concerto si trattava ma di una sinfonia concer­ tante. Lo si era detto anche dei maggiori concerti per piano­ forte di Mozart, e nell’un caso come nell’altro lo si era detto per sminuire l’importanza di quelle composizioni nell’ambito della letteratura dello strumento. Questo era in verità un invete­ rato pregiudizio al quale non era sfuggito lo stesso Prokofiev quando, in una corrispondenza del 1932 per l’Almanacco Musi­ cale di Mosca, aveva parlato in questi termini del Concerto in sol di Ravel: [...] al Concerto per pianoforte di Ravel fu qui riservata una acco­ glienza rumorosa sia da parte del pubblico che della critica. Le ac­ clamazioni avevano un tocco un po' patriottico («il nostro Ravel ha creato un concerto veramente classico»), ma per amor di giusti­ zia bisogna dire che il Concerto è un pezzo musicalmente interes­ santissimo e che è scritto in modo veramente brillante. Nello stesso tempo bisogna aggiungere che, se questo vuole essere un concerto, la parte del pianoforte difficilmente può attrarre un concertista; d'altro lato, se vuole essere semplicemente un pezzo per pianoforte con orchestra i due [elementi] vi sono così abilmente combinati in­ sieme che anche la povertà della tecnica pianistica passa inosser­ vata.

Il lettore ricorderà come proprio nel 1932, mentre mandava a Mosca questa corrispondenza, Prokofiev scriveva il Quinto Concerto per pianoforte che in un primo momento intendeva 25S

chiamare Musica per pianoforte e orchestra. Il Quinto Concerto fu alla fine più concerto che sinfonia, il Concerto per violoncello fu più sinfonia che concerto. La Sinfonia-concerto era veramente e concerto e sinfonia, come il Secondo di Brahms, e Prokofiev aveva tutte le sue buone ragioni per volere quel titolo. Pur­ troppo - e non ci si può più porre rimedio - il titolo Sinfonia concertante ha prevalso ed è diventato inamovibile. L’ultimo, breve articolo di Prokofiev, pubblicato nel 1953 nella Sovietskaja Muzika, inizia così: Dopo aver completato la revisione del mio Concerto per violon­ cello (ora Sinfonia-Concerto per violoncello e orchestra) ho sentito un forte desiderio di continuare a lavorare su musica per questo strumento e di scrivere un delicato Concertino per violoncello e or­ chestra. Adesso ho un rudimentale abbozzo della prima parte; la se­ conda parte è finita. Ho cominciato la terza e mi riprometto di ter­ minare rintero pezzo nel 1933.

Il Concertino a cui Prokofiev aveva assegnato il numero d’opera 132 non fu ultimato. E non fu ultimata la Sonata per violoncello solo op. 134, della quale esistono pochi abbozzi.

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GIOVENTÙ

Gli ultimi anni di Prokofiev furono turbati e dall’aggravarsi della malattia cardiaca, che lo costrinse a ripetuti ricoveri nell’o­ spedale del Cremlino, e da gravi preoccupazioni economiche. Rostropovic, un po’ blandendo e un po’ minacciando Khrenni­ kov, ottenne per Prokofiev la somma di 5.000 rubli (una miseria: il Premio Stalin per la musicologia assegnato a Igor Glebov era di 100.000 rubli; i quattro Premio Stalin assegnati a Prokofiev nel 1946 avevano portato nelle tasche del compositore 300.000 rubli e gli avevano permesso di acquistare la dacia a Nicolina Gora). E Prokofiev non cessò di ricercare la strada per... riconci­ liarsi con il Potere dopo aver umilmente pronunciato quell’a­ biura che forse lo salvò dal condividere il destino di Lina. La ri­ conciliazione piena e solenne ci fu, ma venne siglata quattro anni dopo la morte di Prokofiev: riabilitazione postuma. La Settima Sinfonia op. 131, dedicata alla gioventù sovietica, viene scritta fra il 1951 e il 1952. Prokofiev non è in grado di eseguirla per l’Unione Compositori che deve emettere il verdetto di congruità e viene sostituito dal pianista Anatoly Vedernikov che da un paio d’anni gli fa da segretario. Racconta Kabalevsky: Sapendo con quale ansia Prokofiev aspettava notizie sul suo ultimo la­ voro, [il musicologo] G.N. Khubov ed io andammo a Nicotina Gora il giorno dopo l’audizione. Lo trovammo a letto, ammalato. Ci interrogò ansiosamente sull’audizione e si rallegrò subito quando sentì che era andata bene. Ci fece domande più e più volte perché sospettava che stessimo solo tentando di metterlo tranquillo. «La musica non è troppo semplice?», ci chiese. Ma non aveva dubbi sulla correttezza del 260

suo operare per una nuova semplicità: voleva soltanto avere la sicu­ rezza che le sue ricerche creative fossero state capite e apprezzate.

I frati dell'inquisizione al capezzale del peccatore pentito ! La prima esecuzione della Settima Sinfonia ha luogo F11 ot­ tobre 1952 con un clamoroso successo a cui Prokofiev, allo stremo delle forze fisiche, assiste di persona con uno sforzo su­ premo. Il giorno dopo Shostakovic, Famico-nemico che dopo il 1936 ha sostituito Famico-nemico Stravinsky, così gli scrive: Caro Sergej Sergejevic, le mie calorose felicitazioni per la vostra magnifica nuova sinfonia. L'ho ascoltata ieri con grande interesse e piacere dalla prima all'ul­ tima nota. La Settima Sinfonia si rivela per essere un'opera nobile, di pro­ fonda sensibilità e frutto d'un immenso talento. E veramente un'o­ pera superba. Io non sono critico musicale, e perciò mi guarderò bene da commenti più particolareggiati. Io non sono che un ascoltatore che ama la musica in generale e la vostra in particolare. Mi spiace che solo l'ultimo movimento sia stato rieseguito come bis. Si sarebbe dovuto rieseguire il lavoro per intero. In effetti, le opere nuove dovrebbero essere eseguite due volte, e una terza come bis! Mi sembra che 5.A Samosud abbia di­ retto magnificamente la vostra Settima. Vi auguro cent'anni ancora di vita e di creazione. Ascoltare opere come la vostra Settima Sinfonia rende la vita più facile e più lieta da vivere. Vi stringo calorosamente la mano. I miei saluti a Mira Alexandrovna.

«Rende la vita più facile e più lieta». Erano più o meno le parole che Prokofiev aveva siglato nel 1951 come sua estrema professione di fede. Kabalevsky, eminenza grigia dell’Unione Compositori e autore di tre concerti per la gioventù (uno per pianoforte, uno per violino, uno per violoncello), approva: Gli eroi della Settima Sinfonia sono gli adolescenti [sovietici] i cui sentimenti e pensieri sono maturati e il cui mondo interiore è così

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ricco [...]. Può darsi pure che il contenuto dell1 opera sia più ampio ancora perché Prokofiev non ci parla qui soltanto dei giovani. Egli illustra la giovinezza di spirito degli uomini sovietici anche quando hanno superato lo stadio dell'adolescenza.

Si potrebbe dire volgarmente che con la Settima Sinfonia Prokofiev aveva saputo brillantemente fregare l’establishment da cui era stato perseguitato per anni ed anni. Il conferimento alla Settima del Premio Lenin, assegnato per la prima volta nella storia ad un musicista, arrivò nel 1957, e Prokofiev, nel Parnaso in cui non aveva certamente mancato di stringere amicizia con il suo prediletto Haydn, accorto servitore di un principe e astuto navigatore nell’arcipelago dell’aristocrazia austriaca, rise di sicuro, omericamente. Quel tanto di furbesco che occhieggiava nel Fuoco d'inverno e in altre opere di regime non fa però la sua comparsa nella Set­ tima Sinfonia. Prokofiev aveva scritto la Sinfonia classica prima di intraprendere il lungo e periglioso viaggio verso l’Eldorado, verso l’America. Scrisse la Settima Sinfonia - viennese di spirito ma imparentata più con Johann Strauss (e un po’ con il Mahler sorridente) che con Beethoven - prima di intraprendere un altro viaggio, ancora più lungo e ancora più periglioso, quello verso l’immortalità. Fiaccato nel corpo, giovane di spirito, Prokofiev muore il 5 marzo 1953. Il caso fa coincidere la sua morte con quella di Stalin e gli evita tutta l’ufficialità delle esequie dovute al, come dicono i giornali una settimana più tardi, « compositore sovietico ». Alla stazione di partenza, il cimitero di Novo-Devizki in cui riposa da tempo Scriabin, lo accompagnano i musicisti, uno dei quali, il grande Oistrakh, suona due tempi della Sonata n. 1. Il viaggio che inizia nel 1953, come dicevo all’inizio, non è ancora finito. Tocca al sec. XXI decidere in quale stazione scen­ derà Sergej Sergejevic Prokofiev. Ma che egli sia già entrato nella contrada di quegli Immortali che hanno « dedicato il loro talento al servizio dell’uomo» è per noi una certezza.

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INDICE DELLE OPERE DI PROKOFIEV CITATE NEL TESTO A guardia della pace op. 124 250251 Ala e Lolly 70-71 Andante per orchestra op. 29 bis 30, 92 Anno 1941 op. 90 217-218 Augurio op. 85 202 Ballata per violoncello e pianoforte op. 15 53, 129 Cantata per il XX anniversario della Rivoluzione d'Ottobre op. 74 160, 182-185, 193, 202 Canti dei nostri giorni op. 76 182183, 202 Canto di marcia op. 121 250 Canti senza parole op. 35 102 Canto sinfonico op. 57 155-156, 158, 160, 194 Cenerentola op. 87 x, 217, 226-227, 230 Cinque Canti op. 27 77 Cinque Melodie su poemi di Balmont op. 36 104-105 Concerti per pianoforte: - n. 1 in re bemolle maggiore op. 10 40-41, 43, 45, 51-52, 55, 59, 77, 80-81, 87 - n. 2 in sol minore op. 16 59-63, 68, 70-71, 80, 115, 123, 150 - n. 3 in do maggiore op. 26 xi, 77, 92-93, 104, 115, 150, 153, 167, 194

- n. 4 in si bemolle maggiore op. 53 151-153 - n. 5 in sol maggiore op. 55 X, 153-154, 210, 258-259 Concerti per violino: - n. 1 in re maggiore op. 19 XI, 116-117, 128, 162 - n. 2 in sol minore op. 63 161162, 195 Concertino per violoncello e orchestra op. 132 259 Concerto per violoncello in mi minore op. 58 x, 194, 195, 254, 257, 258, 259 Cose in sé op. 45 144-145 Dieci pezzi op. 12 42 Divertimento per orchestra op. 43 148 Dodici Pezzi infantili op. 65 160, 180 Due canti op. 9 48 Due liriche op. 7 48 Fantasia tzigana op. 127 250 Fiorisci, paese potente op. 114 238 Fuoco d'inverno op. 122 250, 262 Galop indiano 5 Giorno d'estate op. 65 180 Guerra e pace op. 91 x, 209, 217224 Il brutto anatroccolo op. 18 66 Il buffone op. 21 70-73, 101-103, 113, 177

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Il festino in tempo di peste 8, 13, 32 Il figlici prodigo op. 46 144-147, 177 Il fiore di pietra op. 118 249-250 1/ gigante 5-6 Il giocatore op. 49 72, 75, 142-144, 150, 159, 200 Il Volga incontra il Don op. 130 250, 252-253, 257 Inno nazionale deU’Unione Sovietica op. 98 230 La ballata del fanciullo rimasto scono­ sciuto op. 93 224 L’amore delle tre melarance op. 33 96-97, 103, 105, 107, 109115, 119, 126-128, 142, 144, 149, 172, 194, 200, 209 L’angelo di fuoco op. 37 115, 129, 132, 138-141, 144-145, 147, 150, 200 Le pas d’acier op. 41 125-126, 145, 149, 177 Le Trapèze (v. Quintetto} op. 39 125 Maddalena op. 13 51, 53-55 Marcia sinfonica op. 88 217 Marcia per banda op. 99 230 Matrimonio al convento op. 86 X, 205-208, 217 Musiche di scena: - Amleto op. 77 189 - Eugenio Onegin op. 71 186-187, 215 - Boris Godunov op. 70 bis 186187, 189 - Le notti egiziane op. 61 158, 160 Musiche per film: - Alexandr Nevsky op. 78 ix, 189194-196, 199, 201-202, 211, 225 - Ivan il terribile op. 116 224-225 - La dama di picche op. 70 186 - Luogotenente Kijé 155-158, 160, 168, 170, 178, 196 Notti d’estate op. 123 250

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Ode alla fine della guerra op. 105 234 Ouverture americana op. 42 128, 183 Ouverture russa op. 72 182-183, 202 Ouverture su temi ebraici op. 34 99, 167 Pezzi per pianoforte: - op. 3 47 - op. 32 92, 96 - op. 59 92, 158 - Pensieri op. 62 158 Pierino e il lupo op. 67 xi, 115, 119, 167, 170, 180-182, 233, 250 Poema di festa op. 113 238 Quartetto per archi in si minore n. 1 op. 50 150 Quartetto per archi in fa maggiore n. 2 op. 92 218, 224 Quattro marce op. 69 160, 182-183 Quattro ritratti ed un epilogo (Il gio­ catore) op. 49 150, 155 Quintetto in sol minore op. 39 125, 214 Racconti della nonna op. 31 88, 92, 96 Rapsodia degli Orali op. 128 250 Romeo e Giulietta op. 64 xi, 23, 159-160, 172-180, 189 Schizzo autunnale op. 8 39, 48 Sei Canti op. 66 182-183 , 202 Sei trascrizioni per pianoforte op. 52 92, 150 Semyon Kotko op. 81 ix, 197-198, 200-202, 205 Sette canti op. 79 202 Sette canti popolari op. 89 217 Sette, sono sette op. 30 80-82, 123, 183 Sinfonie: — n. 1 «Classica» in re maggiore op. 25 x, xi, 35, 42, 77-81, 83, 92, 96, 114, 262

- n. 2 in re minore op. 40 123-124, 126, 138, 144, 170,211 - n. 3 in do minore op. 44 x, 144145, 170 - n. 4 in do maggiore op. 47 147 - n. 4 in do maggiore op. 112 239 — n. 3 in si bemolle maggiore op. 100 x, xi, 231-234, 237, 257 - n. 6 in mi bemolle minore op. Ill 22, 29, 35, 211, 234, 236239, 256-257 - n. 7 in do diesis minore op. 131 211, 257, 260-262 - Sinfonia concertante per violoncello e orchestra (Sinfonia-Concerto) op. 125 195, 256-259 - Sinfonietta in la maggiore op. 5 35 - Sinfonietta in la maggiore op. 5/ 48 148-149 Sogni op. 6 39, 48 Sonata per due violini in do maggiore op. 56 153, 161 Sonata per flauto e pianoforte in re maggiore op. 94 228-229 Sonata per violino e pianoforte n. 1 in fa minore op. 80 228-229, 234236, 262 Sonata per violino e pianoforte n. 2 in re maggiore op. 94 bis 229, 238 Sonata per violino solo in re maggiore op. 115 238 Sonata per violoncello e pianoforte in do maggiore op. 119 255-256 Sonata per violoncello solo op. 134 259

Sonate per pianoforte: - n. 1 in fa minore op. 1 32, 3334, 47, 79, 238 - n. 2 in re minore op. 14 XI, 22, 51, 53, 55-57, 79, 174 - n. 3 in la minore op. 28 77, 81, 83, 88, 122, 214 - n. 4 in do minore op. 29 30, 77, 81, 83, 88, 213-214 - n. 3 in do maggiore op. 38 115, 119-120, 122-123, 128, 184, 230 - n. 6 in la maggiore op. 82 204, 210, 212, 214, 238 - n. 7 in si bemolle maggiore op. 83 xi, 204, 210, 212-216, 238, 240 - n. 8 in si bemolle maggiore op. 84 204, 210, 213-216, 238, 240 - n. 9 in do maggiore op. 103 119, 238-239, 252 - Sonatine op. 54 153 Storia di un vero uomo op. 117 243, 247-248 Studi per pianoforte op. 2 35, 44-47 Suggestione diabolica op. 4, n. 4 43, 92 Sur le Borysthène (Sul Dniepr) op. 51 150, 160 Suite di valzer op. 110 234 Suite nuziale op. 126 250 Suite scita (Ala e Lolly) op. 20 61, 71-74, 79, 82 , 87, 103, 190 Tre canzoni infantili op. 68 180 Tre melodie op. 73 189 Toccata in re minore op. 11 43, 45, 51, 53,55, 88, 91, 93 Undine 9, 13 Visions fugitives op. 22 77, 83, 8788, 92, 122

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INDICE DEI NOMI Abraham Gerald 149 Achmatova Anna 77 Acton Charles 180 Afanasiev Aleksandr 70, 126 Afinogenov Alexandr 183 Albéniz Isaac 34 Alekin 75, 153 Alexandrov Anatoli] 217 Alpers Vera 30-31, 52, 62, 69, 98 Alpers, famiglia 52 Altschuler Modest 87, 98 Andersen Hans Christian 65-66, 107 Anisimova 25 Ansermet Ernest xi, 170 Antheil George 123 Apuchtin Aleksej 48 Arensky Anton Step anovic 12 Asafiev Boris Vladimirovic 66, 177, 241 Auer Leopold 21 Axelrod Herbert R. 162

Bach Johann Sebastian 28, 40, 78, 114 Baker Eddy Mary 117 Balakirev Milij Alekseievic 74, 217 Balanchine Georges 172 Balmont Konstantin Dmitrievic 48, 50, 80-81, 104 Bantock Granville 68 Baranovskaja Maria 141, 150 Barca Calderon de la 107 Barto Agnia 181

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