Realtà e stile nel Decameron

Roma, Editori Riuniti, 1984, 8vo brossura con copertina illustrata a colori, pp. 418 (Nuova biblioteca di cultura, 244).

197 6 20MB

Italian Pages 424 Year 1984

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Realtà e stile nel Decameron

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NUOVA BIBLIOTECA DI CULTURA

MARIO BARATTO REALIA E STILE NEL "DECAMERON'

EDITORI RIUNITI Fra?

La

Realtà e stile nel «Decameron» Da

Editori Riuniti

vi: di

METROPOLITANI sà TORONTO LIBRARY Languages

fa

Indice

Avvertenza Premessa

Il mondo

Storicità x 49

narrativo

del « Decameron »

e invenzione

Orientamenti

nel « Decameron »

morali del Boccaccio

Il diletto narrativo e stilistico Modi narrativi del « Decameron »

Il racconto

125

Dal racconto al romanzo

155

Dal racconto alla novella

EST

La novella esemplare

197

Il contrasto

259

Verso la commedia: il mimo

ZI

La commedia

ZI

Il gusto evocativo

353

I moduli popolareschi

383

Polemica e caricatura

‘90

Indice dei nomi

Avvertenza

Difficile, e in ogni caso pericoloso, giustificare la ristampa di un libro la cui età supera il decennio: equivale a considerarlo in qualche modo un « classico », sottratto nella sua sostanza all’erosione del tempo. Non sono tentato

da

simili

fantasie,

convinto

come

sono

dell’inevitabile

relatività

storica di ogni operazione critica; ma è pur vero che ho accolto — insieme con piacere e con apprensione — la proposta dell’amico Ghidetti, accettata di buon grado da altri amici della casa editrice, di ristampare il volume sul Decameron, immutato e dunque segnato dal tempo in cui è uscito, e prima ancora da quello in cui è maturato. Il libro, in realtà, mi è caro proprio per questo: per la lunga assidua presenza che ha avuto nella mia operosità di studioso. La prima idea di esso, lo schema

essenziale

del mio

discorso

critico, sono

contenuti

in una

tesi

di perfezionamento che discussi nel gennaio del 1947 alla Scuola normale superiore di Pisa; e l’attenzione vigile e sperimentata del mio maestro, Luigi Russo, accettò con generosità la distanza che giovanilmente prendevo, indagando i concreti e complessi procedimenti narrativi del Boccaccio, sia dalla crociana ricerca della « poesia » del Decazzeron, sia dalla querelle storicistica sulla collocazione

dell’opera (i’antitesi Medio

Evo-Rinascimento,

in

primo luogo). Negli anni seguenti, a contatto con gli allievi delle Ecoles normales supérieures di Parigi e poi dell’Università di Cagliari, il senso della mia ricerca si è meglio definito; e si sono nel contempo spostati gli obiettivi rispetto ai quali il mio discorso, che pur non nascondeva i propri debiti, avvertiva l’esigenza di differenziarsi. Ciò è avvenuto su due fronti essenziali, | che determinano la struttura bipartita del libro. Da una parte, rispetto alla incombenza di procedure sociologiche inevitabili e anzi auspicabili, ma troppo spesso schematiche (in particolare per quanto concerne l’indagine « marxista », che più direttamente mi interessava): e ho tentato di rispondervi con la prima parte del mio saggio, cercando di individuare rapidamente, ma sempre sulla base del testo e in funzione di una lettura più approfondita di esso, la storicità dell’opera, le aperture, le contraddizioni, l’« ideologia » presenti nell’intellettuale Boccaccio, quando si appresta a scrivere la sua opera maggiore. Dall’altra, rispetto all’ondata formalistica e « narratologica » i cui primi segni avevo avvertito a Parigi, dilagata poi anche in Italia (e il Decameron

9

non poteva non rappresentare per essa un materiale privilegiato: il libro di Todorov uscî nel 1969 e potei leggerlo quando il mio era già in bozze): e vi rispondeva la seconda parte, con l’uso volutamente e ormai forse arcaicamente ridotto, di alcune definizioni capaci di orientare il discorso critico, autorizzate del resto sia dai modelli consapevolmente usati dallo scrittore sia dai « generi » eventuali contenuti nella sua prosa. Devo aggiungere tuttavia che non ho mai saputo, né voluto, costringere il testo entro schemi ideologici o metodologici precostituiti; sono portato dai miei stessi limiti, come docente prima ancora che come critico, a diffidare non certo del metodo, ma di ogni furore teorico. Ho cercato piuttosto di interrogare il Decameron nel suo straordinario spessore sperimentale, di accertarne

tutta la «leggibilità » (il titolo che avevo

dato al mio libro era

infatti Lettura del « Decameron »; e dovetti mutarlo perché nel frattempo erano uscite tradotte in Italia, sempre nel 1969, le pagine di Sklovskij con tale titolo, del resto

indebito),

di coglierne

l’interna

dinamica

narrativa,

visibile tanto nelle aperture tematiche quanto nella ricchezza stilistica in cui esse si concretano. Ho cercato, più esattamente, di raccontare la mia lettura del Decameron, o meglio, di dare un resoconto, per quanto possibile perspicuo attraverso le varie fasi narrative di un discorso in realtà continuo, delle mie riletture dell’opera. Il libro è stato bene accolto, come mi è stato spesso

testimoniato, dagli studenti cui in varie università i colleghi benevoli lo avevano suggerito fra le possibili letture critiche sul Decameron; posso solo augurarmi che una simile attenzione esso ottenga anche dai lettori di una più giovane generazione. Venezia, gennaio

1984

M. B.

10

LA

Premessa

La lettura che qui si propone tende ad individuare, nel corpo del Decameron, alcuni modi narrativi che appaiono tipici del Boccaccio e definiscono concretamente il suo impegno di scrittore. Essa mira a cogliere alcuni procedimenti essenziali, numerosi ma non illimitati, cui ricorre il Boccaccio per raccontare le proprie novelle: procedimenti che possono permettere una prima, e ‘provvisoria, classificazione di esse nell’ambito del: sistema narrativo offerto dall'opera. Certo, ogni novella ha caratteri peculiari che la rendono diversa da tutte le altre, e gode, localmente, di un’autonomia che è simbolicamente indicata, per esempio, dalla libertà

che la brigata dei novellatori non può non concedere a Dioneo !: in questo senso, vedremo, va interpretata e valutata nella sua particolare logica narrativa. Ma è anche vero che le cento novelle sono poi inquadrate in un’architettura rigorosa, che il Boccaccio elabora con lo stesso compiacimento con cui la brigata organizza i propri riti; è vero

cioè, che il Boccaccio

stesso ci invita a una visione

relativamente organica dell’opera, a collocare le singole novelle in un insieme più vasto, entro il quale esse assumono un nuovo rilievo. E il disegno proposto dal Boccaccio è fatto di divisioni e successioni tematiche che rispondono a una riflessione, sommaria ma in ogni caso globale, sul mondo che egli descrive e rappresenta. Si tratta di schemi contenutistici, che il Boccaccio stabilisce legittimamente, e con coerenza, per fornire al lettore una prima chiave

interpretativa dell’insieme: e sono tutt'altro che irrilevanti, per una definizione del contesto culturale che condiziona la narrativa

1 E naturalmente dalla libertà concessa a tutti di ragionare «di quello che più aggrada a ciascheduno» nella I giornata, poi rinnovata nella IX.

11

boccacciana? Qui però non si seguirà il Boccaccio su questo terreno: si cercherà invece di reperire una diversa rete di rapporti tra le novelle, fondata sui concreti risultati espressivi di una ricca tematica. Nella ricerca di alcuni fondamentali tipi di racconto, interesserà, sì, ciò che il Boccaccio narra, ma soprattutto in funzione di corze lo narri. E non sarà indifferente verificare, specie per un lettore di oggi, se lo scrittore autorizzi questo diverso tipo di ricerca.

Naturalmente, ed è bene avvertirlo subito, c'è un rapporto, anche se meno

automatico di quanto possa apparire a prima vista,

tra i temi del Decazzeron e gli strumenti stilistici con cui essi vengono elaborati nella narrazione. E innanzi tutto c'è un rapporto fondamentale, perché è alla base stessa dell’opera: la varietà e la mutevolezza tematiche comportano una varietà e una mutevolezza

stilistiche. Ed è un rapporto di cui il Boccaccio è consapevole. Basti, a questo proposito, una prova orientativa per la nostra ricerca, elementare ma precisa: una testimonianza che ci viene offer-

ta agli inizi e alla fine del Decameron. Nel solenne e grave cappello della prima novella, Panfilo osserva: Manifesta cosa è che, sì come le cose temporali tutte sono transito-

rie e mortali, così in sé e fuor di sé essere piene di noia e goscia e di fatica, e ad infiniti pericoli soggiacere; alle quali niuno fallo né potremmo noi, che viviamo mescolati in esse siamo parte d’esse, durare né ripararci, se spezial grazia di Dio e avvedimento non ci prestasse (I, 1, 3)4

d’ansenza e che forza

2 In generale, lo studio di questi schemi è legato alla discussione e alla valunon vanno dimenticate, come indagine le chiama una «semplice orientazione», « Decameron », in Mélanges Hauvette, 1944, pp. 71-82.

tazione della «cornice» del Decazzeron. Ma più strettamente tematica; anche se l’autore le pagine di F. NERI, I/ disegno ideale del Paris, 1934, poi in Storia e poesia, Torino, 3 Si veda

ora

V.

Branca,

Registri

narrativi

e

stilistici

nel

«Decameron»,

in «Studi sul Boccaccio», V, 1969, pp. 29-76, che svolge la questione con nuovi argomenti e sottili rispondenze tematiche: «c'è nel Decameron chiara e risoluta la consapevolezza della varietà di materia e di svolgimento richiesti da una stessa opera narrativa, cui devono corrispondere obbligatoriamente diversi piani stilistici e diverse temperie linguistiche» (p. 33). Il saggio, che investe con precisi strumenti tecnici tutta la struttuta del Decameron, converge in parte con la mia lettura, ma ne diverge in un punto di fondo: la bifrontalità di comico e tragico, di essere e dover essere, che a me pare superata, si vedrà, da una più complessa dialettica interna. 4 Le citazioni sono tratte da G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca,

12

Il passo sottolinea, secondo una concezione cristiana del mondo

che non rimarrà estranea alla struttura della novella, la transito-

rietà delle cose temporali: ma le proietta anche in un rapporto immediato con gli eventi terrestri, che si presentano all’uomo carichi di dolorosa e angosciosa fatica, ricchi di innumerevoli insidie. A tale realtà mondana l’uomo è strettamente legato: non è solo immerso in essa, ma fa « parte » di essa, ne subisce la legge di precarietà. L'uomo è dunque innanzi tutto « cosa temporale », è un fatto prima che un fattore: è agito, come prodotto degli eventi che il mondo terreno suscita senza posa. Nella prima parte del periodo si rileva dunque un acuto senso di provvisorietà che coinvolge l’uomo, di continua e insidiosa pressione del mondo sull’uomo: e se ne deduce una prima idea generale di instabilità, che fissa il destino terreno dei mortali. D'altra parte, nella Conclusione dell’autore, nella quale il Boccaccio ribatte aggressivamente le accuse dei detrattori, si afferma, verso la fine: Confesso nondimeno le cose di questo mondo non avere stabilità alcuna, ma sempre essere in mutamento, e così potrebbe della mia lingua essere intervenuto; la quale, non credendo io al mio giudicio,

il quale a mio potere io fuggo nelle mie cose, non ha guari mi disse una mia vicina che io l’aveva la migliore e la più dolce del mondo: e in verità, quando questo fu, egli erano poche a scrivere delle soprascritte novelle (Concl., 27).

Anche qui interessa, per ora, la prima parte del passo: dove sono riaffermati, in modo netto pur nell’ironia polemica, l’instabilità delle cose del mondo e il loro perpetuo mutamento. E a tale mutamento

viene correlato, con un’ipotesi di carattere scherzoso,

il mutamento

della lingua dello scrittore, del suo modo di rac-

contare; cioè, fuori di scherzo, il mutamento continuo del suo stile.

La Conclusione collega dunque chiaramente alla mutevolezza delFirenze, 19652. I numeri indicano rispettivamente la giornata, la novella, il paragrafo; nell’analisi di una stessa novella, si indicherà in margine alla citazione solo il paragrafo.

13

la realtà mondana, fissata in apertura di libro e qui ribadita, quella dello stile che la esprime. Possiamo tuttavia notare, nei due passi citati, un elemento che si oppone, in modo e a livelli diversi, al principio di una generale instabilità. Nel primo passo, tale elemento è costituito dalla « forza » e dall’« avvedimento » che Dio ci presta per « spezial grazia », come osserva Panfilo rendendo onore alla religione tradizionale. Esso rileva subito la resistenza e la reazione dell’uomo all’instabilità del reale. Il mondo è pericolosamente imprevisto, ma l’uomo può reagirvi con alcuni strumenti che gli sono peculiari: l’energia vitale, la capacità di azione, e l’ingegno, la possibilità di prevedere e di agire consapevolmente. Forza e avvedimento costituiscono quindi la prima risposta dell’uomo alle cose temporali, sono il segno fondamentale della sua possibile affermazione -rispetto ad esse. Per questo l’uomo, se è fatto dalle cose, come prima si osservava, può anche fare le cose; può divenire, da elemento passivo della realtà mondana, elemento attivo, motore a sua volta degli eventi terreni. Gli uomini tendono allora a definirsi rispetto alle cose temporali, a presentarsi, in vari gradi, come attori del reale cui partecipano. Allo stesso modo, nella Conclusione, la lingua « migliore » e « più dolce del mondo » di cui parla il Boccaccio significa, sempre in ambito scherzoso, la capacità dello scrittore di padroneggiare un contenuto mutevole, di esprimerlo superando la confusione con cui può presentarsi in superficie, e di renderlo dilettevole e bello: della bellezza della poesia, naturalmente, come la intende Boccaccio, quando si appresta a conferire dignità letteraria alla novella. L’assunto è nuovo e tale da condizionare, talvolta persino da complessare, il Boccaccio. Ma giusto in funzione di esso può scrivere, nell’Introduzione, pure polemica, della quarta giornata, che quantunque le novelle « sieno umilissime » egli, « queste cose tessendo », non si allontana « né dal monte Parnaso né dalle Muse... quanto molti per avventura s’avvisano » (IV, 36). Non interessano,

per ora, le componenti culturali e di poetica presupposte dal discorso: basti rilevare che nell’adeguatezza della tessitura, cioè nell'elaborazione stilistica delle novelle, è riconoscibile un rap-

14

37

porto voluto, consapevole nello scrittore, tra mutevolezza del reale e mutevolezza del raccontare. Se le cose temporali sono instabili e transitorie, lo scrittore interviene a fissarle con una scelta di volta

in volta pertinente; e il suo stile le rende ai lettori piacevoli e comprensibili. Una simile impostazione dell’opera presuppone evidentemente (e basti appena accennarvi, perché è stato da tempo e in vario modo osservato) un rifiuto di costringere la realtà entro un modello fisico e metafisico di ordine generale, come avviene nella Commedia; e svela la tendenza ad accogliere il mondo (e a lasciare che si esprima) fuori degli schemi con cui l’aveva interpretato la filosofia scolastica. In questo senso il Boccaccio, tra gli altri, attesta una crisi culturale, se non filosofica, rilevante:

il mondo

si

presenta a lui come un fenomeno aperto, da riscoprire. Ma non si tratta di una svolta pacifica: e perciò il discorso va approfondito, anche sulla base dei due passi prima esaminati. È agevole infatti riconoscere in essi non solo una rispondenza tra la mutevolezza del reale e quella dello stile, ma anche l'indicazione di una struttura bipolare del Decameron, di una tensione fondamentale tra due elementi opposti, elementari ma determinanti: tensione, aggiungiamo, che costituisce pure la prova della nobiltà dell’assunto dello scrittore. Da un lato vengono rilevate l’instabilità, la fluidità, l’insidia di un mondo non più provvidenziale agli occhi dell’uomo, colto in un ambito terrestre e quotidiano; un mondo aperto e imprevedibile. Aperto è quindi il contenuto dell’opera, e tale da postulare una forma nuova, disponibile ad esso. Dall'altro lato, una capacità di affrontare e in una certa misura di dominare il reale da parte dell’uomo, di resistere al mondo per non essere sopraffatto; e, correlativa e rispondente ad essa, la capacità, da parte dello scrittore, di dominare il suo materiale con uno stile consa-

pevole di sé, adeguato al proprio contenuto. Se l’uomo ha gli strumenti per capire, e dunque per agire sulla realtà, lo scrittore sa esprimere a sua volta questo vario rapporto tra l’uomo e la realtà mondana. La bipolarità essenziale che si intravede nel testo si presenta dunque, da una parte, come varietà, al limite come imprevisto e 15

disordine, dall’altra come coerenza, al limite come ordine che l’uomo (raffigurato nel personaggio) e lo scrittore possono cpporre e immettere in una realtà apparentemente confusa. Tale bipolarità e la tensione che ne deriva segnano tutta l’opera. Ed è emblematicamente proposta, nel Decameron, fin dall’Introduzione: da un lato la peste, il rompersi di tutte le leggi naturali e umane, il sovvertimento generale, in seguito a un morbo imprevisto, di un ordine sociale e civile costituito; dall’altra la risoluzione della brigata, alla quale Pampinea propone un’evasione e poi un onesto diletto. Ed è proposta fatta in nome della « natural ragione »: quella per cui l’uomo tende ad aiutarsi, a conservare sé stesso, a salvarsi dai pericoli (Intr., 53).

Non va taciuto, però, che l’Introduzione apre uno svolgimento generale dell’opera il cui schema ha una lunga tradizione, topica e retorica, nel Medio Evo. Come nella Comzzedia, anche nel Deca-

meron si avrà un inizio duro e aspro, e si andrà poi, rapidamente per i novellatori, più lentamente e in modi alterni per i personaggi, verso un’atmosfera più distesa e serena, per giungere, nell’ultima giornata, a un clima di esemplare elevatezza. Nel rapporto aperto, che abbiamo rilevato, tra l’uomo e il mondo e tra lo scrittore e il contenuto,

si inserisce allora l’ordine evolutivo

di uno schema diverso per origine e natura: esso sta ad indicare, e vi abbiamo già accennato, che un diaframma letterario, nel senso specifico e tecnico del termine, tende a frapporsi nel meccanismo bipolare della struttura, e lo complica in modo più artificioso. Se badiamo infatti all'essenziale, il discorso di Panfilo, così come l’ab-

biamo interpretato, conferisce subito, nonostante i residui di un ° Di «ordine» e di «sistema», intesi come la «preoccupazione più viva» del Boccaccio, parla M. ApoLLonio, Uorzini e forme nella cultura italiana delle origini, Firenze, 1943, p. 371. Riprende il discorso G. GETTO, L'esperienza della realtà nel «Decameron», in Vita di forme e forme di vita nel «Decameron», Torino, 1966? pp. 188-282; che pure parla, in un contesto

più ampio, di «situazioni

simmetriche,

o meglio bipolari», non «estranee ad una volontà di raccogliere nel suo insieme, nei suoi aspetti contrastanti o complementatri, tutto il reale» (p. 201). 6 Su questo aspetto ha insistito. particolarmente V. BrancA, Boccaccio medievale, Firenze, 19642: si leggano in particolare i capp. I, II, V, e la nota su Un modello medievale per l’Introduzione ‘si tratta di un passo della Historia Langobardorum di Paolo Diacono). Ma si leggano anche i rilievi attenuativi di C. MuscettA, I/ Decameron, in AA.VV., Il Trecento, Milano, 1965, pp. 370-71.

16

moralismo più tradizionale, una connotazione « borghese » al De-

cameron.

Non a caso la-tensione, vitale e sempre rinnovata, tra

l’uomo e una realtà imprevista e insidiosa, da affrontare ogni volta con strumenti assai duttili, ha una prima grandiosa esemplificazione nella commedia di ser Ciappelletto, motivata da una situazione di pericolo per gli usurai fiorentini che lo ospitano; e si spiega apertamente in molte novelle, per esempio in quella del mercante Landolfo Rufolo (II, 4), che sembra per molti aspetti una dimostrazione esemplare, anche sociologicamente, del discorso di Panfilo. Ma è pure vero che il successo ottenuto da Ciappelletto non esaurisce la novella, e riscuote più lo stupore che l'ammirazione del narratore; così come l’avvedimento di Landolfo Rufolo nulla

può contro un elemento fortunoso che egli ha provocato, e che solo alla fine gli restituisce casualmente, con la ricchezza, la forza per sopravvivere. Il sottile paradosso della novella è allora sintomatico:

se il Boccaccio

trascrive, con insistenza ma localmente, i

molteplici aspetti di una lotta aperta tra l’uomo e il mondo, egli non coincide mai totalmente col personaggio borghese; ne assume il comportamento (e lo espande in altre classi), ma non sino in fondo l'ideologia. E più ancora che l’esperienza cortese, è un lungo esercizio letterario, a quella del resto in gran parte legato, che condiziona

in questo

caso

il Boccaccio:

un

apprendistato culturale

che preesiste e si sovrappone al suo istinto di curiosa adesione al reale, e interferisce in vario modo nei temi e nei moduli espressivi. In tale tensione tra letteratura e realismo, per esprimerci in modo semplicistico, si aprono nuovi livelli di rapporto tra lo scrittore e la sua materia: ora di felice coincidenza, per il duttilissimo strumento che la prima offre agli « stili » richiesti dal secondo, ora di sfasatura, per un eccesso di artificio della prima. Resta in ogni caso confermata, per il Boccaccio, una posizione (o un’aspirazione)

di « aristocrazia » intellettuale? che precisa la responsabilità per-

7 Di «spiriti aristocratici», e di «una volontà cosciente di superare il naturalismo dei temi attraverso l'elaborazione letteraria di essi, in uno storzo di prendere sempre le mosse dalla realtà per tradurla sempre, però, in schemi letterari», parla G. PeTRONIO, La posizione del «Decameron», in «La Rassegna della letter. ital.», A. 61°, 1957, 2, p. 204: in un’analisi rapida ma molto articolata degli atteg-

17

sonale (non esente da riflessi, e complessi, autobiografici *) dello scrittore rispetto al proprio mondo narrativo, e suggerisce implicitamente, attraverso il tentativo di un ordine più vasto e sistematico, le componenti del suo personaggio di narratore. Anche per queste ragioni egli ricorre a uno schema generale e alla compagnia dei novellatori: è con la brigata, infatti, che egli tende piuttosto a coincidere. E innanzi tutto in una condizione preliminare: il rifugio cercato dalla brigata diventa il simbolo della distanza che lo scrittore prende rispetto al mondo. Una distanza che gli permette di vedere il mondo come spettacolo umano e terreno, di capirlo e dominarlo intellettualmente, di ricomporlo stilisticamente al di là dell’affollato disordine con cui si presenta. Viene così riconfermata, per questa via, l’aspirazione unitaria sottesa alla varietà dei. temi e degli stili. Tale aspirazione, in cui è reperibile l'impegno dello scrittore a controllare la ricchezza di un mondo narrativo aperto, si riflette a sua volta nel contenuto, dirige la scelta dei temi e dei personaggi. La cultura letteraria del Boccaccio, pur depurandosi a contatto con la realtà, è segnata infatti da certi valori, di carattere generale, che sorreggono non solo le riflessioni dello scrittore, ma anche la rappresentazione dei personaggi. Su questo piano, il Boccaccio tende allora a fissare alcuni modelli essenziali del comportamento umano. Al Boccaccio narratore non interessa, di fatto, il compimento nel-

l’aldilà del destino dell’uomo; gli interessa il comportamento mondano dell’uomo, nelle sue ambivalenze di attività e di passività rigiamenti del Boccaccio, che comprende anche i complessi rapporti tra «l’aspirazione all’arte» e «la tendenza al realismo» (p. 205). Sulle «due direttive di un’autonoma letterarietà e dell'impegno di comprensione della realtà vitale», che tendono a coincidere nel Decameron, si sofferma C. SEGRE, nell’Introduzione a G. Boccaccio, Opere, a cura di C. Segre, Milano, 1963, p. IX. Un recente tentativo di dipanare tutti i fili del complesso problema della formazione culturale del Boccaccio è in G. Panoan, Mondo aristocratico e mondo comunale nell’ideologia e nell'arte di Giovanni Boccaccio, in «Studi sul Boccaccio», II, 1964, pp. 81-216. 8 Sempre essenziali, su questo terreno, i saggi del 1930 e del 1935 di S. BarTAGLIA, Elementi autobiografici nell'arte del Boccaccio e Schemi lirici nell'arte del Boccaccio, ora in La coscienza letteraria del Medio Evo, Napoli, 1965, pp. 605-644; quello del 1947 di V. BRANCA, Schemi letterari e schemi autobiografici nelle opere del Boccaccio, ora in Boccaccio medievale cit., pp. 127-183; e il volume di G. BiLLaNOvICH, Restauri boccacceschi, Roma, 1947.

18

spetto al reale. Quando Filomena osserva, nel cappello della terza novella: « Per ciò che già di Dio e della verità della nostra fede è assai bene stato detto, il discendere oggimai agli avvenimenti e agli atti degli uomini non si dovrà disdire » (I, 3, 3), non fa che

esprimere l’impulso fondamentale che muove il narratore, il suo distacco dal mondo teologico e il suo interesse per gli eventi che accadono all’uomo e per le azioni con cui egli vi risponde? In questo senso, il Decazzeron è innanzi tutto, potremmo dire, una feno-

menologia, a livello narrativo, del comportamento mondano: cioè uno studio e una rappresentazione dei modi essenziali con cui l’uomo si presenta in rapporto al mondo e ai propri simili, alla realtà naturale e sociale in cui vive. E pure in questa ricerca è la serietà sostanziale del Decazzeron. Il Boccaccio, in quanto scrittore, stabilisce dunque un rapporto complesso, e meditato, sia con la tematica sia con lo stile delle proprie novelle. Sarà perciò utile, prima di passare a un esame concreto dei modi narrativi del Decameron, cogliere sommariamente i termini del rapporto che il Boccaccio istituisce col proprio mondo narrativo: per saggiarne la storicità del contenuto e la libertà del Boccaccio rispetto ad esso, la moralità che lo sorregge, il gusto stilistico che lo esprime.

, e Si 9 Si veda, per la scomparsa della «visione figurale-cristiana» nel Boccaccio sulla terra e solo una rapida caratterizzazione dei suoi personaggi, che «vivono sulla terra», E. AUERBACH, Mimesis, Torino, 1956, p. 2351

19

bel

alte

CRE

ecameron »

Storicità e invenzione nel « Decameron »

A una prima considerazione complessiva, il contenuto del De-

cameron

non appare, per buona parte, originale:

come può atte-

stare puntualmente lo studio delle fonti. Su questo piano, il Boccaccio si rifà a un procedimento che è normale nella novellistica del Medio Evo. Lo scrittore stesso sembra farvi allusione quando nella Conclusione difende, con vivace ironia, le sue novelle: « Ma se pur presupporre si volesse che io fossi stato di quelle e lo ’nventore e lo scrittore, che non fui... » ($ 17). Il Decameron

non appare inedito, assolutamente nuovo, neppure nella scelta dei temi e nel gusto che la sorregge. Lo scrittore si definisce in un quadro culturale romanzo-fiorentino (dove confluisce, per varie vie,

lo stesso filone classico), entro il quale tendeva già a delinearsi la fisionomia dell’anonimo compilatore (o almeno raccoglitore) del Novellino. Anche nel Decameron sono presenti due nuclei essenziali di ispirazione: da una parte la memoria di un mondo, soprattutto cavalleresco, che appare al tramonto; dall’altra l'osservazione di una realtà contemporanea, che è soprattutto cittadina. . Una prima differenza è reperibile nel rapporto quantitativo tra questi due elementi di base: la realtà cittadina si afferma nel Decameron con insolito vigore, creando notevoli ripercussioni nel corpo dell’intera raccolta. Ne deriva, infatti, che la distinzione tra

passato e presente è più consapevole e netta nel Decameron

di

quanto non fosse nel Novellino, dove un re biblico, un imperatore

romano, un signore medievale, un uomo di corte sono posti su uno stesso piano, si succedono con la stessa forza esemplare, diretta! Nel Decameron, invece, l’attenzione al passato è sempre LS

! Per un approfondimento dei problemi narrativi posti dal Novellino, anche in relazione al Decameron, indispensabili sono S. BATTAGLIA, Premesse per una valu-

23

in relazione a un presente che detta i termini dell’evocazione del passato:

termini di rimpianto, di polemica, di allusione culturale,

ma sempre correlativi ad un certo giudizio del presente. Il che significa che nel Decameron una realtà sociale e culturale presente nel Novellino si rivela più evoluta, tende a riflettere su sé stessa: si fa allora più netto, rispetto a un presente cittadino consapevole di sé, il senso della storia, delle epoche. Una prova è già offerta dal fatto che nel Decarzeron il mondo biblico e il mondo classico sfumano quasi ai margini della raccolta (V, 1; VII, 9; IX, 9; X, 8), così come la materia riguardante l’alto Medio Evo (III, 2; X, 10). Si accentua al contrario l’interesse dello scrit-

tore per una nuova realtà mediterranea ed europea aperta dalle Crociate, da un contatto più intenso col mondo arabo, dalle prime manifestazioni statali delle nuove monarchie (gli Angioini a Napoli, gli Aragonesi in Sicilia, ecc.). Le stesse novelle cavalleresche, avventurose e cortesi, del Decazzeron si raccolgono in un periodo

di tempo più vicino allo scrittore: il passato remoto tende a diventare, nel Decameron, passato prossimo, dal Duecento agli inizi del Trecento. Sicché dalla figura, ormai leggendaria nel mondo mediterraneo, del Saladino (I, 3; X, 9), si arriva a quelle, storicamente più individuate e vicine, di Federico II di Svevia (V, 6), di Carlo d’Angiò (X, 6), di Pietro d’Aragona (X, 7). Si avverte, nel

Decameron, che un mondo

cavalleresco tende a precisarsi come

una realtà meno mitica, remota:

tende cioè a presentarsi con aspet-

ti più « moderni », all’interno degli stessi sopravviventi codici feudali. A questa realtà di nuovi monarchi e potenti partecipano anche i signori settentrionali, come Cangrande della Scala, che affermano il loro potere sulla liquidazione delle vecchie forme feudali (I, 7),

oppure signori-banditi come Ghino di Tacco (X, 2), espressi dalle lotte politiche cittadine nel periodo di Dante, per il quale i persotazione del «Novellino», in «Filologia romanza», II, 1935, pp. 259-286, ora in La coscienza letteraria del Medioevo cit., pp. 549-584; e C. SEGRE, Introduzione a La prosa del Duecento, Milano-Napoli; 1959, poi La prosa del Duecento, in Lingua, stile e società, Milano, 1963, pp. 13-47. E si vedano ora M. Darpano, Lingua e tecnica narrativa nel Duecento, Roma, 1969; e G. Favati, Presentazione de Il Novel: lino, Genova, 1970, pp. 7-133.

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naggi di Ghino di Tacco o di Cangrande si inseriscono in una dram-

matica cronaca contemporanea. Perciò se il Boccaccio ha costantemente, verso il mondo cortese, un atteggiamento di nostalgia, propiio di chi evoca un mondo che appare ricco di fascino, non è men vero che egli lo rappresenta, quasi sempre, seguendo il gusto di un costume a lui più vicino, un costume di corte nel senso già nuovo del termine; quel costume di cui aveva potuto fare a Napoli, alla corte angioina, esperienza diretta e vitale.! Questa tendenza all'attualità ambientale, in senso cronologico, è

confermata nel Decameron dallo sviluppo che assume quella realtà borghese e cittadina che era già individuabile nel Novellino. In quest’'ambito, è risaputo, Firenze è il campo di osservazione non esclusivo ma certo fondamentale per il Boccaccio, e basta ad attestarlo la quantità di novelle in cui essa appare. Ma non per questo va esasperata, sulla base del testo del Decazzeron, l'opposizione tra un’esperienza « democratica » (nel senso comunale e borghese) fiorentina del Boccaccio, volta alla cronaca contemporanea, e un’esperienza « aristocratica » (cortese) napoletana, tesa all’evocazione di

riti più antichi. Le interferenze tra i due momenti e tra i temi che ne derivano sono, si vedrà, numerose, e si inseriscono in una

gestazione narrativa che mira a risultati più generali. La distinzione, se netta, rischia di risultare arbitraria. Del resto, pure a

Firenze si colgono gli echi di un costume cortese che era proprio della vecchia aristocrazia (III, 7; V, 9; VI, 9). Ma è anche vero che da tempo è consolidato il prestigio di una classe mercantile, rivolta spesso alle arti sottili della diplomazia (VI, 2), che tende a nobilitarsi ed è spesso nobilitata dai principi (I, 1). E rispetto a questa

ricca classe borghese (il « popolo grasso ») gli artefici delle Arti minori rappresentano un ceto nettamente inferiore, spesso guardato con ironia (III, 3; VII, 1), mentre la plebe della città (IV, 7) o 2 Per un esame più compiuto dell'orizzonte cronologico e paesistico del Boccaccio, e della sua ampia tematica, e per i rinvii bibliografici di carattere storico ed economico, utili V. Branca, L’epopea mercantile, in Boccaccio medievale cit., pp. 71-99, e anche G. Boccaccio, in AA.VV., I Maggiori, Milano, 1956, vol. I (specialmente le pp. 227-231); e G. GETTO, L'esperienza della realtà nel « Decameron » cit., pp. 188-282. Acute osservazioni in C. Segre, Introduzione cit. alle Opere, pp. XVI-XVIII.

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del contado (VI, 10; VIII, 2) costituisce un motivo di sorriso

colorito di simpatia o di ironia, ma sempre superiore. E in questa direzione si può cogliere la storicità del Decameron, per quel che riflette della situazione sociale del comune fiorentino a metà del Trecento: situazione caratterizzata da un atteggiamento politico difensivo, rispetto ai ceti inferiori, della ricca borghesia finanziaria e mercantile, che si era ormai in buona parte assimilata alla vecchia aristocrazia di origine feudale. Il Boccaccio trascrive di fatto nelle sue novelle tale situazione contemporanea, ne anticipa in parte gli sviluppi, accettandola senza penetrarne a fondo le interne contraddizioni (che si riverseranno, invece, sul suo atteggiamento di

« intellettuale »). Tant'è vero che i termini che contraddistinguono i protagonisti più rilevanti delle sue novelle sono quelli di uomo « gentile », da una parte, e di uomo « ricco » o « ricchissimo » dall’altra; termini, gli uni e gli altri, che richiamano molto spesso quelli di uomo « savio » 0 « avveduto». Ciò significa che una certa aristocrazia della nascita e del censo tende a proporsi nel Decameron anche come aristocrazia dell’ingegno (in linea di massima, naturalmente, perché non mancano le contraddizioni). E si dovrebbe aggiungere che non c’è fusione perfetta, ma equilibrio ancora instabile tra le due aristocrazie: le « belle e laudevoli usanze » dei tempi passati vengono spesso attribuite a una nobiltà che non pare toccata dall’avarizia della nuova aristocrazia del censo (VI, 9).

Ma è pure vero che la nuova classe borghese porta una misura concreta di saviezza, una capacità di amministrazione, che la vec-. chia nobiltà non possedeva. Sintomatica, in questo senso, la novella di Federigo degli Alberighi (V 9), il quale spende, da ottimo « donzello », tutto il suo per una donna, ma poi, quando sposa monna Giovanna che gli porta una ricca dote, termina, « miglior massaio fatto », ricco e felice la sua vita. Nelle due fasi della sua

esistenza è adombrato il passaggio da una vecchia classe cavalleresca, cortese, dissipatrice e generosa, a una nuova classe aristocratico-

borghese, ben più saggia nell’amministrazione dei propri beni. Ma è un passaggio che non distrugge, per il Boccaccio, il valore esemplare di un costume aristocratico: lo corregge, piuttosto, e lo rende più accessibile a una élite cittadina. Se ne potrebbe arguire che la 26

classe borghese non ha saputo elaborate un gusto sociale e un’egemonia culturale organicamente nuovi, da opporre ai vecchi valori

ieudali e cortesi. Giunta a una fase di arresto, di sostanziale conservazione, la borghesia ricorre anche a quei miti cortesi che sa-

ranno infatti utilizzati dai nuovi signori e giungeranno a una più moderna elaborazione nelle corti rinascimentali. Il discorso, a questo punto, andrebbe ben altrimenti approfondito, perché investe,

con i limiti politici, le carenze culturali della nuova classe borgnese. Qui basti intanto accertare che sul piano del costume cittadino l’esperienza fiorentina si sovrappone, nel Decameron, all’esperienza cortese napoletana, ma non la distrugge: cerca piuttosto con essa un terreno di accordo, che risponde ai miti intellettuali dello scrittore. I due tempi dell’esperienza del Boccaccio convergono, nel Decameron, anche sul piano della tematica avventurosa, che rivela diverse stratificazioni, ma tende cronologicamente a sottolineare l’attività instancabile e spregiudicata dei mercanti dei Comuni e delle città marinare. Le suggestioni culturali e tematiche dei romanzi greci e dei racconti orientali e oitanici si rinnovano, nel Decarzeron, a contatto con una realtà meno remota, che conserva il

gusto per uno scenario vasto e romanzesco ma provoca anche l’impulso a una geografia più precisa. Il mondo italiano ed europeo

descritto nel Decameron è sempre meno quello battuto dagli antichi cavalieri, rappresentanti del vecchio mondo feudale, ed è sempre più il campo d’azione della nuova classe di mercanti e di banchieri. Nell'ambito di una più moderna avventura, la classe borghese prende il sopravvento, manifestando la sua preminenza non tanto sul piano del costume e della cultura quanto su quello dell'iniziativa pratica, dell’industria vigile e attiva. È questa classe di mercanti, con le sue consuetudini di viaggio, con le sue espe3 L’analisi più attenta dei problemi che si pongono a chi voglia individuare tutte le sollecitazioni, e le contraddizioni, che agiscono sul Boccaccio è quella di G. PerRronIO, La posizione del « Decameron » cit.: da integrare con le osservazioni (in partidi C. SaLinari, Introduzione a G. Boccaccio, Decameron, Bari, 1963 colare, le pp. VIII-XX), e di G. PApoAN, Mondo aristocratico € comunale... cit. (specie le pp. 127 sgg.).

DI

rienze, con i suoi racconti, con i suoi diari, che avvicina a Firenze,

nel Decameron, le città più lontane: la vediamo agire e conversare a Parigi (II, 9; VII, 7) come in Borgogna (I, 1), a Palermo (VIII, 10) come in Inghilterra e in Fiandra (II, 3). E l’energica

spregiudicatezza dei mercanti fiorentini, fra i più ricchi e potenti del mondo, si inserisce agevolmente nel campo d’azione della borghesia mercantile italiana ed europea, che stabilisce collegamenti tra nazioni e città, contatti più assidui tra i diversi centri della civiltà mediterranea,

da Palermo

a Marsiglia (VIII,

10; IV, 3),

e rende più familiari luoghi che avevano un fascino esotico o di conquista: l'Egitto come Rodi o Creta o Cipro (II, 4; III, 7; IV, 3;

X, 9) e magari, con i propri racconti, il più lontano Cataio (X, 3). Il Mediterraneo, in particolare, è lo spazio sempre riaffrontato da questa classe di mercanti: l’esponente più suggestivo ne è forse Landolfo Rufolo (II, 4), le cui traversie marine si accampano nel

testo del Decameron con maggior rilievo di quelle del prode Gerbino (IV, 4), valoroso e infelice rappresentante di una nobiltà al tramonto. Sono quasi due figure emblematiche, l’una e l’altra alle prese con lo stesso mare fortunoso e imprevisto: l’ultimo prode cavaliere che affronta ogni rischio per amore e l’instancabile mercante che sfida la morte per accrescere la propria ricchezza, rilevati entrambi come tipici di due classi. E all’operosità avventurosa di questi mercanti-viaggiatori risponde necessariamente un costume di vita tendenzialmente più libero, anche spregiudicato (II, 9), che si trasmette spesso al comportamento delle mogli, allentando certi vincoli tradizionali di soggezione, e liberando non solo l’« industria » dell’uomo, ma l’« ingegno », magari beffardo, della donna (III, 3, 4; VII, 1, 5, 7, 8). Il Boccaccio registra anche per questo

aspetto una realtà che non è solo fiorentina, ma europea, nei suoi elementi sia di operosità avveduta e solerte sia di costume spregiudicato; spostando dall’« esterno » (lo scenario naturale) all’« inter-

no » (la casa borghese), secondo i momenti, il proprio interesse. Ma il suo gusto di dare uno sfondo realisticamente definito ai propri racconti, anche quando essi derivano da fonti antiche (VII, 2; V, 10), risulta più chiaramente motivato. E dimostra nello scrittore

un’attenzione precisa a fatti. economici e di costume del mondo a 28

lui contemporaneo. Anche per questo lato, dunque, i riflessi storici del Decameron si rivelano sostanzialmente esatti. Tali elementi contemporanei accumulati dal Boccaccio esprimono una chiara pratica di vita della borghesia, un nuovo modo di essere e di agire, un’ideologia che investe il terreno dell’economia e del costume: non si organizzano, però, in una cultura radicalmente nuova.

È ancora

in una cultura cortese, di origine ari-

stocratica, che essi aspirano piuttosto a nobilitarsi, a cercare

dei

valori permanenti. E in essi tende a cristallizzarsi, al limite, un mon-

do che pur è rappresentato in continuo, inquieto mutamento. L’ideale sociale che implicitamente ne deriva sembra allora conservatore, fondato su una gerarchia che l’individuo può rompere solo localmente, riconoscendone la validità. Bergamino può ben pungere un grande signore come Cangrande (I, 7), o Cisti fornaio permettersi il lusso di un motto mordace con messer Geri Spina (VI, 2); ma

essi lo fanno, e lo possono fare, perché l’uno e l’altro accettano preliminarmente una distanza sociale, che colloca ciascuno al proprio posto. Tale distanza può essere eliminata solo in un momento felice, ma eccezionale: può essere cioè superata da uno scatto intellettuale, che per un attimo rende complici un uomo di corte e un Signore, un fornaio e un ricchissimo banchiere. Ne scaturisce un’amicizia locale o duratura, che non annulla le differenze sociali: questa la funzione diciamo compensatrice di un valore di origine intellettuale, in questo caso umanistico. Tale gerarchia

di fondo e tale cristallizzazione sociale finiscono col giustificare, nel Decameron, o addirittura approvare l’adulterio di una gentildonna,

quando questa è sposata ad un lanaiolo o ad un mercante (III, 3; VII, 8). È solo un esempio, sul piano del costume, dei contraccolpi che possono creare, nel Decazzeron, i diversi livelli di registrazione da parte dell’autore (schemi cortesi, mettiamo, e realtà borghese). Se la rappresentazione è socialmente aperta a tutti i temi, non lo è altrettanto la loro interpretazione. La storicità del Decameron si precisa allora come testimonianza di un complesso momento critico, a metà del secolo. 1 Rispetto a questa realtà contemporanea, che si manifesta nel Decameron con una visuale così vasta, potrebbe sembrare contra29.

stante, e in ogni caso bruscamente limitativa, una dimensione fiorentina, ora in senso municipale, che pure è evidente nell’opera. Essa si rivela innanzi tutto in una polemica più o meno scoperta contro vicine città rivali, Siena per esempio (VII, 3, 10; VIII, 8),

considerata con un’ironia che non investe solo la « bessaggine » dei senesi, ma, paradossalmente,

anche una certa dissolutezza di co-

stumi (e fino al Cinquecento la « dolce vita » di Siena diverrà quasi un topos, nella novella e nella commedia). La polemica è rivolta, in realtà, contro città rivali economicamente, come Siena, o econocamente e politicamente, come Venezia (IV, 2; VI, 4), o cultu-

ralmente, come Bologna (VIII, 9). Ed essa si traduce, più in generale, in una esplicita ironia verso i forestieri:

per esempio, verso

quei « rettori marchigiani » che portano con sé giudici simili a quello cui tre giovani fiorentini traggono le brache mentre sta amministrando la giustizia: dove il fatto comicc è sorretto da un gusto di beffa «fiorentina » contro il forestiero sciocco e presuntuoso (VIII, 5). È un clima di complicità fiorentina che non si avverte soltanto nella caricatura, nell’ironia verso l’esterno: esso può offrire la chiave di novelle molto diverse, nelle quali scene e figure sono evocate proprio per il fascino sprigionato dalla continuità di certi miti cittadini, o dalla singolarità di una cronaca fiorentina. Questo legame

dello scrittore con la propria città esprime un orgoglio municipale che prescinde, allora, da ogni differenziazione sociale, e coinvolge Firenze in quanto città, nel suo complesso; svelando; nel Decameron, un altro e più preciso retroterra culturale. Esso è così forte, soprattutto nella sesta gicrnata (quella dei « leggiadri motti », che non a caso è giornata quasi esclusivamente fiorentina), che qualche novella può restare quasi allo stato di frammento aneddotico, perché lo scrittore, ritrovando

ritmi a lui preesistenti,

va

rapido verso il motto, lasciando sottinteso il resto, data la facilità dei richiami per i destinatari: « monna Nonna de’ Pulci, cugina di messere Alesso Rinucci e cui voi tutte dovreste conoscere... » (VI, 3, 8). Non occorrono pause più lunghe, perché tutti sanno di chi si parla: e la novella può equivalere all’appunto di un diario, vista l'immediata complicità che il novellatore stabilisce con chi ascolta. La brigata parla di cose di famiglia, della propria città. 30

Questa dimensione fiorentina comprende in sé sia i miti cortesi sia il costume borghese che sono diffusi in tutta l’opera; ma esprime, rivelandone l’origine, un altro elemento peculiare, cioè un privilegio dell’ingegno che il Boccaccio si compiace di esemplificare nelle forme più varie e complesse, lungo uha scala che va dal travaglio intellettuale raffinato, esoterico, di Guido Cavalcanti (VI,

9), all’istinto sollazzevole, beffardo, giocoso di tipi come Bruno

e Buffalmacco (VIII, 3, 6, 9; IX, 3, 5). Si può accertare insomma

che alla Firenze aristocratica delle « belle e laudevoli usanze » di un tempo (VI, 9) e alla Firenze borghese « copiosa di tutti i beni » (VII, 6), si sovrappone, nel Decazzeron, la Firenze « di varie maniere e di nuove genti abbondevole » (VIII, 3): una Firenze che

offre l’occasione a un sorriso spesso raffinato o a un gusto motteggevole, arguto; sempre, in ogni caso, a un compiacimento per

la supremazia intellettuale del fiorentino, rilevato come tipo particolare della realtà contemporanea. Perché a Firenze si può non solo accertare un profondo impegno intellettuale, ma anche avvertire nella battuta, nel gusto mordace, nella beffa ingegnosa, l’espressione, talvolta del tutto disinteressata, di un’attività dell’intelli-

genza, l’abitudine insomma ad esercitare quotidianamente l’ingegno. Ciò appare evidente non solo nei grandi intellettuali e artisti (VI, 5; 9), ma anche in un angolo di Firenze, per le vie (VI, 2), in una battuta colta al volo (IX, 8), in una beffa improvvisata e archi-

tettata per una insopprimibile vitalità inventiva (VIII, 5). Perciò di questo gusto possono partecipare, nella VI, 9 per esempio, sia Guido Cavalcanti, l’intellettuale astratto nei suoi filosofici pensieri, sia messer Betto Brunelleschi, il quale guidando la brigata che tenta di dargli noia riesce a capire il motto enigmatico di Guido Cavalcanti, sia la brigata stessa, che riconosce messer Betto per « sottile e intendente cavaliere » ($ 15). La novella rappresenta in questo modo, al di là del contrasto tra un intellettuale serio e sdegnoso e alcuni giovani più sollazzevoli, un clima di complicità cittadina in cui si ritrovano tutti, sì che il motto viene apprezzato anche da chi ne è ferito o offeso. La tensione, acuta e momentanea,

dello scontro non elimina affatto il vivo riconoscimento dell’ingegno fiorentino che comprende anche gli « uomini idioti e non 31

litterati » ($ 14). Dante non avrebbe mai pensato a un simile quadro: se non altro perché non avrebbe potuto eludere, di fronte a colui che pur era stato il « primo » dei suoi amici, il dibattito e lo scontro delle idee. Al Boccaccio, per contro, basta che il Cavalcanti sia stato « un de’ migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale », oltre che « leggiadrissimo e costumato e parlante uomo molto » ($ 8); il fatto che « egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri » serve solo a rilevare che la « gente volgare » riteneva che « queste sue speculazioni eran solo in cercare se trovar si potesse che Dio non fosse » ($ 9). Per il Boccaccio, Guido

Cavalcanti è un grande intellettuale, da collocare nella galleria delle glorie fiorentine. E a questa fiorentinità dell’intelligenza partecipa, per antifrasi, lo stesso Calandrino, che vorrebbe essere astuto e beffardo, e tale si crede e si vanta:

inconsciamente

angosciato,

potremmo dire, di non essere fiorentino come molti altri, al punto da provocare le beffe dei suoi compagni (VIII, 3; IX, 5). Calandrino vive cioè un dramma esistenziale che acquista tutto il suo senso se rapportato ai numerosissimi personaggi che a Firenze espli-

cano, nel Decameron, le loro doti intellettuali: dalla gentildonna anonima che si serve del confessore come inconsapevole mezzano d’amore (III, 3) al ricco e semplice « buon uomo » perseguitato dall’inquisitore (I, 6), da Cisti (VI, 2) a Ciacco (IX, 8), fino alla semplice moglie di Gianni Lotteringhi (VII, 1). Questa arguta pron-

tezza intellettuale, i cui aspetti motteggevoli e spregiudicati sono impersonati nella brigata soprattutto da Dioneo, corre lungo tutto il Decameron, e rappresenta un sintomatico punto di sbocco della civiltà comunale fiorentina: una civiltà, ripetiamo, in cui la classe dirigente, la borghesia, non riesce a diventare totalmente una nuova

classe egemonica, a tradurre in termini culturali la propria preminenza economica, ma impone in ogni caso un senso più concreto

e quotidiano dell’ingegno. In questa situazione intermedia, critica, il Boccaccio tende a indicare, nell’unanime espansione dell’intelligenza fiorentina, un elemento sintetico che comprenda tutta la città,

e, pur lasciando intatte le differenze sociali, accomuni i fiorentini in un clima intellettuale vivace e originale. Firenze è insomma proposta, dal Boccaccio, rispetto a una Roma « la quale come è oggi 32

coda così già fu capo del mondo » (V, 3, 4), come il centro basilare di una nuova aristocrazia dell’intelligenza, della lingua, dello

stile. Il mito di una eventuale rinnovata egemonia di Roma è del tutto assente, nel Decazzeron: la capitale possibile di una moderna classicità dell’ingegno, perché alla ricchezza e alle usanze raffinate unisce i valori intellettuali più diffusi e più alti, è Firenze. Questa è nel Boccaccio una chiara indicazione, e in essa è anche il senso

profondo che egli dà alla propria opera di intellettuale, nel Decameron: porre le fondamenta di una moderna letteratura fiorentina, capace sia di vaste assimilazioni tematiche sia di larghe sperimentazioni di lingua e di stile‘ Possiamo dunque, come prima conclusione di un’analisi del contenuto, definire il Boccaccio uno scrittore europeo-municipale: il che significherà attribuire al Decamzeron una ben precisa storicità, di documento letterario ma eloquente delle conquiste, dei limiti e delle contraddizioni dell’età comunale, che ha in Firenze un mo-

dello tipico. Un’età, ripetiamo, in cui la vecchia aristocrazia impone ancora la suggestione di certi miti cavallereschi e cortesi; e nel Trecento questi miti, modificati dal costume delle nuove monarchie e filtrati e diffusi da una civiltà cittadina, assicurano la saldatura

culturale con l’incipiente e successiva civiltà signorile e poi principesca. È una traiettoria che dai vecchi miti feudali arriva alle nuovi corti rinascimentali. E abbiamo pure notato che la classe borghese incide in questa realtà soprattutto con una pratica di vita, con una morale di comportamento più aperta ed attiva, più industriosa e spregiudicata, ma senza riuscire a sostituire integralmente, con nuovi valori e nuovi intellettuali organici, i vecchi miti dell’aristocrazia; limiti che incideranno nel secolo successivo, e con-

tribuiscono a spiegare la crisi del primo Cinquecento. Per tale ragione sostanziale, nel Decameron gli elementi borghesi accettano di coesistere e di incontrarsi con gli elementi cortesi e cavallereschi. E l’incontro di queste due componenti culturali si traduce in una

di città» che ne deriva al Boccaccio, penetranti osser4 Su Firenze, e sull’«idea vazioni ha R. RAMAT, Boccaccio 1340-1344, in «Belfagor», XIX, 1964, pp. 17-30; 154-174.

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provvisoria sintesi mondana, terrestre, in cui si fondono i vecchi e i nuovi valori e da cui scaturisce e si isola, come elemento di ri-

lievo, la molteplice e determinante attività dell’ingegno: un valore ormai intrinseco sia alla tradizionale raffinatezza cortese sia alla più recente spregiudicatezza della borghesia. L’ingegno è necessario tanto ai re e ai signori quanto ai mercanti o ai mariti:

la « saviezza » diventa esplicitamente un valore sociale. Perciò la storicità del Decameron sbocca, come a un punto di sintesi ideologica, nel gusto intellettuale del Boccaccio: nel senso che egli dà all'intelligenza il posto di valore fondamentale nei rapporti dell’uomo col mondo e nei rapporti degli uomini tra loro. Controllare, però, il valore del Decazzeron in quanto documento storico non significa, evidentemente, aver esaurito il problema della storicità del Decameron, né risolto quello del suo particolare realismo. Significa solo avvertire un rapporto di contemporaneità, curioso e aperto, tra lo scrittore e il mondo in cui vive; e dunque definire una condizione preliminare del narratore di fronte alla propria materia. Si tratta, ora, di cogliere l’interesse specifico che guida il Boccaccio, non più rispetto alla propria materia,

ma rispetto all’elaborazione che di essa è portato a operare in quanto scrittore. Uno scrittore non più solo attento a un materiale, ma

uno scrittore che lo seleziona, lo dispone e lo esprime con un intervento originale. Da questo punto di vista, è chiaro che la distanza del Boccaccio rispetto allo scrittore del Novellino si accentua fortemente. Lo scrittore del Novellino tende a una precisa ed evidente trascrizione del motto o dell’aneddoto, perché il suo impegno di raccoglitore di « alquanti fiori » di bei detti e di belle azioni mira a una narrazione che possa immediatamente servire al lettore. Il Boccaccio manifesta per contro, ad apertura di pagina, una posizione più complessa: e innanzi tutto una cura dei particolari che risponde a un atteggiamento di diletto narrativo disinteressato che è meno evidente nel Novellino. La novella del Boccaccio non vale 5 U. Bosco, Il Decameron. Saggio.critico, Rieti, 1929, ha particolarmente insistito sulla «poesia dell’intelligenza» nel Decameron, opportunamente corretta in «saviezza» da G. PeTRoNIO, Il Decamerone. Saggio critico, Bari, 1935. Nuovo e forte rilievo dà a tale tema C. SALINARI, Introduzione cit., pp. XV-XVIII.

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solo come favola, come netto svolgimento di un fatto puntuale, ma anche come ritmo di vicende godute in quanto racconto-spettacolo: diciamo come un modo consapevole di ordinare e far vivere un contenuto di fronte a una brigata che ascolta, che è sentita ben presente, attiva con la curiosità e col giudizio. Ed è un giudizio attento anche al modo di esporre: il che implica un rapporto molto elaborato tra lo scrittore e la materia di una novella. Ciò definisce la novità, l'invenzione del Boccaccio. Per questo aspetto, se si esaminano più a fondo le novelle del

Boccaccio, si avverte un movimento inverso a quello finora riscontrato. Se infatti l’esperienza e la curiosità del Boccaccio sono cariche di elementi storici, reali, quotidiani, accolti con la massima apertura, il suo intervento, nel momento

in cui li rielabora nella no-

vella, tende subito a creare una dimensione particolare, delimitata da un interesse di volta in volta diverso, ma quasi sempre puntuale. Egli tende cioè ad isolare, di una data realtà, un aspetto e un momento che gli offrono lo spunto a un’invenzione che parte da elementi storici o verosimili ma non si ferma ad essi. All’inizio di una novella, per esempio, il contesto storico può essere preciso; ma la cronaca tende ad esaurirsi in poche righe: « Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, essendo di Siena cacciato e nimico de’ conti di Santafiore, ribellò Radi-

cofani alla Chiesa di Roma, e in quel dimorando, chiunque per le circustanti parti passava rubar faceva a’ suoi masnadieri » (X, 2, 5). Gli elementi storici essenziali rifluiscono, alla fine del periodo, in

un ritmo di favola che apre varie possibilità narrative, data la tematica romanzesca che esso annuncia. Tra queste, e partendo da un dato storico anche per il secondo personaggio che viene subito dopo presentato (l’abate di Clignì), il Boccaccio ne sceglie una imprevista, anche rispetto al racconto che costituisce l’avvio della novella e definisce una situazione tipica di quel tempo (un assalto di banditi a una compagnia di viaggiatori): la ricostruzione, sorprendente, dell’incontro tra due uomini di stato e carattere diversi, spinti dalla realtà oggettiva all’inimicizia, i quali si ritrovano alla fine complici e amici. Dalla storia e dalle lotte politiche di un periodo inquieto e agitato si giunga alla lezione esem35

plare, per il Boccaccio, di un rapporto imprevisto e pur plausibile tra individui: ed egli costruisce tutta la novella in funzione di questa graduale sorpresa. Certo, il carattere esemplare di un’avventura terrena, dell’aneddoto, è un fatto comune alla novellistica medie-

vale, e non solo ad essa. Così se Dante chiede a Francesca di raccontargli il momento in cui i due amanti conoscono i reciproci « dubbiosi desiri », è perché quella lettura, in cui si riassumono consuetudini e temi culturali di una certa società, diventa

esemplare per la conoscenza di una situazione, quella della tentazione amorosa, che può determinare per l’eterno il destino di una persona. Al Boccaccio, per contro, interessa la salvezza dell’uomo su questa terra, il ricorso ad alcuni valori mondani in una situazione data. Naturalmente, neppure tale laicizzazione del procedimento figurale-cristiano è una novità del Boccaccio, anche se è già notevole, nel Decazzeron,la coerenza con cui si manifesta. Quello che è tipico invece del Boccaccio è il nesso motivato, preciso, che

egli stabilisce tra le dimensioni concrete in cui l’uomo si trova ad operare e il momento singolare in cui egli rivela le proprie doti: le strutture oggettive, necessitanti, del reale danno maggior rilievo, in questo senso, alla sorprendente libertà dello scatto individuale di affermazione. L’efficacia relativamente astratta dell’exerzplum e la suggestione « meravigliosa » dei racconti romanzeschi e della casistica, situate in campi diversi, trovano quasi sempre nel Decameron un punto nuovo di coincidenza nell’articolata correlazione dei livelli narrativi. Il Boccaccio indaga il senso tipico dell’inesauribile avventura terrena; e il quotidiano rivela tutte le possibilità di straordinario che contiene. Così nella X, 2 nulla potrebbe far pensare a un reale incontro tra i due personaggi, viste le circostanze e le loro caratteristiche personali. Eppure la bizzarria di Ghino di Tacco otterrà la riconoscenza signorile dell’abate di Clignì, e in un contesto imprevisto, quasi eccentrico. Contesto che serve a moti-

vare, sottilmente, l’atteggiamento insolito sia di un signore-pre6 A conclusioni in parte simili, pur nell’impostazione radicalmente diversa dell'inchiesta, vedo che arriva H. J. NEUSCHAFER, Boccaccio und der Beginn der Novelle, Miinchen, 1970, che non ho potuto consultare prima dell’elaborazione di queste pagine.

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done sia di un ricco e potente abate abituato a comandare e ad essere obbedito. L’imprevisto colto dalla novella non è dunque di ordine fiabesco, magico o provvidenziale, ma è verificabile con la logica mondana che presiede all’incontro di due forti perso: nalità. E questo incontro fa scattare a sua volta una serie di reazioni psicologiche e morali che svelano aspetti normalmente nascosti dei due individui che si incontrano: con un effetto di indubbia sorpresa. Si può riconoscere per questa via uno scarto tra il momento di preparazione della novella (la realtà storica, un fatto o una leggenda, una fonte culturale) e il momento della sua realizzazione espressiva, dove il Boccaccio tende a dar rilievo, in modo personale, a una sorpresa sempre diversa, provocata dalla realtà esterna o dagli stessi personaggi (nel nostro caso dalle due cose: il territorio in cui viaggia l’abate, e l’idea bizzarra di Ghino). L’invenzione del Boccaccio non è dunque un’invenzione esterna, applicata solo a varianti di trama o di personaggi; è un’invenzione successiva e più interna, che scatta quando il Boccaccio utilizza in altra prospettiva i dati storici o culturali che egli ha davanti a sé. Si legga, per un caso minimo, la novella più breve del Decameron, la I, 9, indicativa per il confronto che è possibile stabilire con la redazione del Novellino (LI). Qui essa è schematica,

rapidissima, perché punta sull’efficacia straordinaria delle parole della « guasca ». Nel Decameron, la storia della donna di Guascogna e del re di Cipri acquista una vibrazione nuova, perché il Boccaccio, pur raccontando molto velocemente il fatto, punta, come

scrittore di un esempio già noto, sulle motivazioni del discorso della gentildonna: un discorso che nasce dalla ribellione inventiva di un attimo alla malvagità altrui, e da uno scatto quasi disinteressato di affermazione intellettuale (disinteressato, perché la donna non spera realmente giustizia, ma vuole almeno consolarsi con la propria arguzia mordace). Il Novellino presenta la scarna ? Tanto più esatti, a questo proposito, sono i rilievi di Sì BATTAGLIA, Premesse per una valutazione... cit., pp. 563-566, quanto più si guardano dall’imporre

a una delle due novelle la logica dell'altra. Stimolanti sono state per me le osser-

vazioni sulla novella di L. Russo, Postilla critica alla donna di Guascogna e il re di Cipri, in G. Boccaccio, Il Decameron, Firenze, 1939, pp. 361-62, poi in Letture critiche del Decameron, Bari, 1956, pp. 148-150.

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notazione del fatto e arriva subito al secco discorso della donna offesa, che ha un esemplare risultato didattico, se esso serve a rimettere in moto la giustizia e a ricollocare il re sul trono del perfetto sovrano. Il passo del Novellino è cioè sorretto da una precisa fiducia nell’apologo, nel quale il motto di un suddito può contribuire al ristabilimento di un ordine giusto, provocando l’immediato risentirsi di un re. Mentre il Boccaccio rivela un intento più complesso, se comincia fin dal cappello introduttivo a giustificare non in astratto, o sociologicamente, ma psicologicamente la con-

versione del re, perché « spesse volte già addivenne che quello che varie riprensioni e molte pene date ad alcuno non hanno potuto in lui adoperare, una parola molte volte per accidente, non

che

ex proposito, detta l’ha operato » ($ 3). Interessa dunque al Boccaccio questo attimo rivelatore di una storia interna, questa frazione brevissima, nella psicologia degli individui, in cui un’azione suscita improvvisamente una reazione positiva, quando nulla poteva far pensare che questa reazione avvenisse. Non il re in quanto tale (anche se la reazione è tipica di una « cattiva coscienza » . regale) lo attira in primo luogo, ma un individuo che a un certo

punto sa reagire bene e si trasforma, pur non avendo mai agito bene in precedenza. Qui scatta l’imprevisto, il momento rivelatore di una forza interna all’individuo che va esplorata e messa in luce. Ed è una sorpresa anche per la donna, che non sperava di ottenere un risultato concreto. La novella è sì storicamente situata (il che non avveniva nel Novellino) nei tempi seguenti la

prima crociata, e riportata alla consuetudine dei pellegrinaggi al Sepolcro (il che dà all’avventura una motivazione plausibile); ma

insieme, grazie al cappello, si accentua una curiosità per il comportamento psicologico degli individui nei loro rapporti, quale che sia la situazione in cui si trovano. I due livelli si compenetrano, si garantiscono vicendevolmente: e la storia viene ravvicinata, quasi attualizzata per un insegnamento più generale. Si parla certo della gentil donna di Guascogna e del re di Cipri; essi restano però anonimi perché si parla, esemplarmente, di un incontro « strano » tra due esseri, in una situazione eccezionale. Per questo il Boccaccio amplia la parte introduttiva; perché 38

la gentildonna offesa, attraverso i discorsi che le vengono riportati su un re « di sì rimessa vitae da sì poco bene » ($ 5), possa maturare in sé il proposito polemico, pensare alla sola vendettagiustizia che le resti. ‘Si giunge così al nucleo essenziale della novella: « La qual cosa udendo la donna, disperata della vendetta, ad alcuna consolazione della sua noia propose di voler mordere la miseria del detto re » ($ 6). In queste righe è la chiave nuova della novella. È creato da quel proposito un personaggio, appena profilato ma autentico: si tratta di una « intellettuale », nel senso boccacciano, di cui si potrà capire, pur nella levità del disegno della novella, la finezza del discorso. La costruzione retorica di esso, nel senso della mordacità, costituirà la consolazione della gentildonna, il risarcimento che le è concesso, visto che essa ha almeno fiducia

nei valori dell’intelligenza, e decide di affermarli anche quando questi valori offrono una consolazione gratuita, priva di effetti pratici. Di qui la finezza polemica del breve discorso della donna, che nel Novellino è rapidissimo e brutale, perché l’effetto ne è scontato; mentre nel Decazzeron è elaborato, costruito con grande accortezza polemica in una serie di subordinate, di incisi sapienti,

di pause sottintese. Tale re esaurisce l’azione della che non è più quello della zia,ma quello di un’attrice stizia e vuole solo ottenere che intende pungere:

modo sapientemente retorico di parladonna; ed è preparato da un pianto donna offesa che va a supplicare giustiche piange perché sa che non avrà giuun certo effetto scenico davanti al vile

Signor mio, io non vengo nella tua presenza per vendetta che io attenda della ingiuria che m'è stata fatta; ma in sodisfacimento di quello ti priego che tu m’insegni come tu sofferi quelle le quali io intendo che ti son fatte, acciò che, da te apparando, io possa pazientemente la mia comportare: la quale, sallo Iddio, se io far lo potessi, volentieri la ti donerei, poi così buon portatore ne se’ ($ 6).

Allora l’incontro, che nel Novellino è contrasto esemplare tra suddita offesa e sovrano garante della giustizia, si risolve nel Decameron nella lunga pausa creata da un monologo che si inscrive in una ellittica ma eloquente dimensione scenica: una donna oltrag39

giata, la virtù apparentemente solitaria dell’ingegno, la redenzione apparentemente casuale di un re. L’invenzione trasporta la funzione ottimistica dell’apologo dal piano dei rapporti gerarchici a quello dell’efficacia retorica della parola, se l’individuo sappia farne il debito uso: tanto che il narratore finisce col gareggiare con la stizza caricaturale della donna quando descrive, con una serie di maliziose sottolineature, la reazione del re: « Il re, infino allora stato tardo e pigro, quasi dal sonno si risvegliasse, cominciando dalla ingiuria f4rta a questa donna, la quale \agramente vendicò, rigidissimo persecutore divenne... » ($ 7). Dove, al di là del super-

lativo, spicca la relazione tra l’aggettivo verbale usato dalla donna, « buon portatore » di offese, e il « rigidissimo persecutore » in cui il re si trasforma. Dall’astratta efficacia dell’apologo preesistente il Boccaccio arriva, in una novella brevissima ma con gusto patente di singolarità, all’individuazione di un ritratto di donna intellettuale da una parte, e alla sorpresa psicologica provocata da un momento eccezionale di incontro tra due individui dall’altra. Ne risalta l’efficacia che può avere la parola, quando è sapientemente, e consapevolmente, elaborata dall’individuo; ed è lezione più sottile se legata a quella di un re che si riscuote « per accidente ». La novella, proprio perché brevissima, si affida a uno schema che fa meglio risaltare l’intervento, complesso e qui al limite artificioso, del Boccaccio. Ma è l’interesse psicologico e morale a stabilire il nesso tra una remota dimensione storica e la proposta di una funzione più quotidiana della retorica. Su questo terreno gioca la « sorpresa » del Boccaccio, quando individua, in uno spunto rece. pito dalla tradizione, un nuovo nucleo narrativo. Non è questa, naturalmente, l’unica direzione in cuî si manifesti il movimento inventivo del Boccaccio. Per un caso addirittura opposto, si legga la V, 3, ambientata nel territorio laziale, attorno a una Roma di « poco tempo fa » (verso i primi del Trecento) lace-

rata, nel periodo avignonese del papato, da lotte di potenti famiglie rivali, e in piena decadenza. Si tratta dunque di un tempo ravvicinato e di una realtà che si può considerare contemporanea, disponibile alla curiosità dello scrittore: non è un caso che non si siano potute indicare, per la novella, fonti precise. Il riferimento 40

storico a tale situazione è però rapido, può sembrare quasi distratto, e la presenza di Roma suscita una battuta tanto più maliziosa (« la quale come è oggi coda così già fu capo del mondo ») in quanto è la virgiliana Elissa che racconta la novella. I dati storici e di cronaca, insomma, sono qui utilizzati non per rilevare lo stato di anarchia in cui versano Roma e la regione che la circonda, né tanto meno per un’indagine di carattere politico e sociale, ma solo per garantire la plausibilità della notte avventurosa dei due giovani, anche nei particolari più minuti e apparentemente irrilevanti: se i fanti che hanno preso Pietro vogliono « impiccarlo per dispetto degli Orsini » ($ 12), ecco che i documenti vengono a confermarci che la famiglia dei Boccamazza apparteneva, effettivamente, al loro partito.® Ma tutte le peripezie dei due giovani trovano, in questo quadro storico e paesistico, una motivazione che, se appare naturale e spontanea, rivela in realtà nello scrittore una calcolatissima attenzione al verosimile. Attenzione che costituisce un presupposto indispensabile della novella e ne sorregge tutta la trama: nella quale una precisa situazione storica è verificata dall’avventura notturna di due giovani fuggitivi, che ne subiscono ignari le conseguenze. In questa dimensione storica il Boccaccio immette, con la variante pure non nuova della disuguaglianza sociale tra i due protagonisti, uno schema cortese che gli viene da un lungo esercizio letterario, dal Filocolo fino ad altre novelle del Decameron: quello di un amore contrastato e alla fine vittorioso di due giovani. Qui lo schema è contratto, si riduce alle avventure perigliose di una notte e costringe ai margini i precedenti della fuga e poi la lieta soluzione: il « fervente amor » da cui Pietro è « costretto », che l’Agnolella ricambia, è soltanto un dato, che non interessa qui al Boc8 Si veda, a questo proposito, la nota di V. Branca al commento cit. del Deca(p. 606, n. 3); e anche C. C. COULTER, 1'he road to Alagna, in « Philological Quarterly », XVIII, 1939; e P. P. TrompEO, La Torre dell Agnolella, in « Sette giorni », VII, 3, 1943, poi in La scala del sole, Roma, 1945. Fini osservazioni, pur nell’incomprensione ribadita per altre « novelle volgari di avventure » (p. 212), sono nel commento di A. MomigLiano a G. Boccaccio, Il Decameron, 49 novelle commentate, Milano, 19362, pp. 211-219. E afferra, in poche righe, tutti i significati della novella N. SAPEGNO, I? Boccaccio, in Il Trecento, Milano, 1942°, p. 360. meron

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caccio in funzione della psicologia e del tormento dei due amanti. È, anch’esso, un presupposto della novella, necessario a motivare l'iniziativa e l’ingenuità dei due personaggi, a sottolinearne le angosce durante la separazione, la gioia finale; ma non comporta eccessi retorici o pause liriche, e anzi non esclude, per l’Agnolella, una punta di popolana saggezza: « è molto men male essere dagli uomini straziata che sbranata per li boschi dalle fiere » ($ 29). I perso-

naggi, una volta decisa la fuga, vivono psicologicamente in uno stato di immediata reazione all'ambiente, che sono costretti a subire, piuttosto che rispetto a un sentimento interno, che è immobile e

scontato. La novella ha dunque una duplice origine, storica e letteraria, che ne rappresenta, per così dire, la fase di preparazione. Ma il senso di essa è altrove: è nella scoperta delle possibilità di straordinario, di meraviglioso, che la realtà terrena e quotidiana può presentare (offrire o imporre) all’agire dell’uomo. Non sono più necessarie le foreste magiche dei romanzi francesi, i prodigi che esaltano le avventure degli antichi cavalieri: bastano, alle peripezie di due « giovanetti poco discreti » ($ 3); le foreste del Lazio contemporaneo, così come basterà all’incauto Andreuccio una notte passata nei bassifondi di Napoli (II, 5). E il racconto del Boccaccio

diventa allora l’attuazione narrativa di un paesaggio storico-geografico che contiene in sé, naturalmente, una qualità « romanzesca ». Gli elementi realistici, ben determinati, messi a contatto col tema

della fuga di due amanti, sono l’occasione che fa scattare, pur nell’esiguità dell'avventura, tale meccanismo inventivo: le lotte intestine, il disordine generale che producono, l’insicurezza delle foreste

percorse da bande di soldati, da briganti e da lupi, sono normali, accertabili con l’esperienza, e pur aprono attorno alle peripezie dei due giovani una dimensione allucinante. La struttura della novella,

tutta a rapidi colpi di scena, costruita sull’accavallarsi continuo delle sorprese, è solo in funzione di un ambiente per sua natura fondato sul pauroso, sull’imprevisto, e tale da ridurre tutti gli esseri viventi (i protagonisti come i soldati, i due vecchi che ospitano l’Agnolella come i banditi, le stesse fiere) al medesimo livello di subordinazione agli eventi. Tale ambiente, nell’incoerenza impreve42

dibile che esso prospetta all'avventura, è l’occasione di una delle

più alte prove narrative, del Decazzeron

(quasi stendhaliana ante

litteram, nell'animazione romanzesca delle pagine): ed è subito visto in atto, nella sua logica casuale, non appena i due giovani, di poco «dilungati» da Roma, sbagliano la via: né furono guari più di due miglia cavalcati, che essi si videro vicini ad un castelletto, del quale, essendo stati veduti, subitamente uscirono da dodici fanti. E già essendo loro assai vicini, la giovane gli vide, per che gridando disse: «Pietro, campiamo, ché noi siamo assaliti», e come seppe, verso una selva grandissima volse il suo ronzino ($ 10).

Nel fitto, affannoso incrociarsi del vedersi, dell'essere veduti, del vedere è lo scatto stilistico che apre la vera novella: è la prima immagine di un ambiente riportato in una serie di rapide successioni (di sequenze quasi cinematografiche, diremmo oggi), con le quali lo scrittore, accompagnando ora l’uno ora l’altro dei due amanti divisi, insegue, in brevi frasi che il polisindeto basta per lo più a coordinare, gli spostamenti delle figure umane: ma veggendosi molti e costoro a seguirgli; se le cose sue e salì a fuggire per quella fuggita ($ 14).

meno che gli assalitori, cominciarono a fuggire, la qual cosa Pietro veggendo, subitamente presopra il suo ronzino e cominciò quanto poteva via donde aveva veduto che la giovane era

Il verbo fuggire, ripetuto tre volte, fissa il disperdersi movimentato del gruppo che dà vita alla prima scena: da questo momento il vagare, l'incertezza, la disperazione dei due giovani sono sempre soggetti al paesaggio, e ad esso danno costante rilievo. Il loro affanno, per esempio, è reso spesso da una serie di gerundi e di participi che frazionano l’azione in una serie di frammenti reattivi, di riflessi

immediati all'ambiente: E vedendo la notte sopravvenuta, non sappiendo che altro consiglio pigliarsi, trovata una grandissima quercia, smontato del ronzino a quella il legò, e appresso, per non essere dalle fiere divorato la notte, su vi montò ($ 18);

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La giovane fuggendo, come davanti dicemmo, non sappiendo dove andarsi, se non come il suo ronzino stesso dove più gli pareva ne la portava, si mise tanto fra la selva, che ella non poteva vedere il luogo donde in quella entrata era: per che, non altramenti che avesse fatto Pietro, tutto ’1 dì, ora aspettando o ora andando, e pian-

gendo e chiamando e della sua sciagura dolendosi, per lo salvatico luogo s’andò avvolgendo ($ 20).

La conclusione lascia al periodo un tono sospeso, carico di paurosi presen;imenti: nell’affinità delle due situazioni, ugualmente motivate da:l’orrido paesaggio, lo scrittore può accumulare con coerenza le proprie invenzioni. Elemento del paesaggio, in questo senso, è anche il dialogo dell’Agnolella coi due vecchi: la loro esitazione e i loro avvertimenti, la rassegnata acquiescenza che qualifica

la loro umanità, aprono intorno un orizzonte di abbandono, di insidie e di agguati che si concretano subito nell’irruzione movimentata, nella c: sa e nella corte, di una «gran brigata di malvagi uomini» ($ 32.. E la scena segna il culmine inventivo del racconto,

nelle secche battute tra vecchi e aggressori, nel terrore della giovane che quasi sì tradisce gridando, nella pittoresca essenzialità degli elementi visivi («poste giù lor lance e lor tavolacci») nell’imprevisto di ogni gesto (la lancia che strappa Je vesti di Agnolella nascosta nel fieno, che è il punto di massima tensione nella vicenda: il rischio suscitato dal reale sta per investite e distruggere il personaggio). Concludendo, mentre nella I, 9 la lontananza storica e geografica

si trasforma in teatralità contemporanea, diventa presenza esemplare, psicologica e morale, di un ritratto di donna intellettuale, nella V, 3 il presente storico e geografico sfuma e si allontana in una dimensione avventurosa, la cui logica casuale e imprevedibile si appoggia, sì, alla credibilità dell'’ambientazione, ma apre un nuovo tipo di invenzione narrativa, volta a cogliere tutte le possibilità di meraviglioso sprigionate dalla realtà mondana. Si individuano così i due poli essenziali entro i quali si muove l'invenzione del Boccaccio, una volta che l’esperienza culturale e storica gli ha fornito i materiali della narrazione: da una parte il fluire straordinario e impreveduto delle «cose temporali», fonte inesauribile di eventi (V, 3); dall’altra il rapporto tra individui (I, 9),

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e il modo pure straordinario e impreveduto con cui l'individuo può rivelarsi, in momenti particolari e decisivi, nel contatto con gli altri.

Nelle singole novelle i risultati saranno mobili e vari: ma lo schema di base è sempre offerto dalla relazione tra gli uomini e il reale da una parte, e tra individui e individui dall’altra. E in questo duplice rapporto il legame tra personaggi e vicende, nella favola, è sempre regolato da una legge di più o meno forte novità, da un margine almeno di imprevisto: perché, se le situazioni possono essere analoghe, diversa è sempre la concatenazione degli «avvenimenti» e degli «atti» degli uomini, anche se i primi si possono descrivere logicamente, e i secondi definire psicologicamente.

A queste innumerevoli combinazioni è appunto diretta la narrativa del Boccaccio, e di conseguenza la logica stilistica di una novella. Nella I, 2, per esempio, i due mercanti sono entrambi

definiti all’inizio da qualità positive, e analoghe:

«lealissimo e

diritto» è Giannotto, come Abraam è «diritto e leale uomo assai» ($ 4). Eppure il tema topico della satira della Chiesa romana serve

al Boccaccio per individuare, in tale comune atmosfera di amicizia e di solidarietà, non solo la superiorità intellettuale di Abraam su Giannotto, ma anche la singolare acutezza logica con cui si manifesta tale superiorità. Sempre, anche nelle novelle più brevi, il Boccaccio tende a isolare e rilevare quanto di originale è in un accadimento o in un personaggio: e perciò il modo della presentazione può variare indipendentemente dal contenuto, perché mutano di volta in volta le motivazioni e l’interesse del narratore. Lo abbiamo già accertato: la figura della donna di Guascogna è approfondita, se pur in poche righe, con un’analisi ellittica ma verticale, sul piano della psicologia, che non è invece applicata alle figure di Pietro Boccamazza e dell’Agnolella, che pur rappresentano due tipi di eroi dell'amore cari allo scrittore e le cui vicende occupano pagine e pagine. E tale indagine non è applicata perché al Boccaccio interessa, nella novella, la straordinarietà del paesaggio, portato a un limite, quasi, di irrealtà che non riscontriamo nell’accenno a Cipri della I, 9. La struttura della novella è dunque determinata da un atto di libertà dello scrittore, che adegua di volta in volta a un nucleo narrativo essenziale il proprio stile. Il che non ci impedisce 45

di definire, nell'esame del rapporto tra storicità e invenzione del Decameron, una prima e tipica caratteristica dello scrittore: la volontà di penetrare oltre la superficie della società, del costume,

della cultura del proprio tempo, che si presentano con aspetti vari e anche contraddittori, per cogliere il comportamento di individui sempre diversi (che hanno tutti qualcosa di irrepetibile nonostante le affinità che li uniscono) in un mondo terreno che si rivela altret-

tanto mobile e imprevisto. Il Boccaccio scopre cioè la prospettiva, tutta mondana, dell’avventura dell’individuo a contatto con la real-

tà e con i propri simili: e scopre per questa via la ricchezza di aperture dell'avventura terrestre. E solo su questa scoperta potrà formulare il nucleo di una nuova moralità. Osservato in questo modo, misurato da una realtà più circoscritta e quotidiana, empirica per definizione)’ l’uomo comincia ad essere valutato con strumenti immanenti a questa stessa realtà. Cade di fatto, nel Decameron, ogni metro di valutazione trascendente: l’uomo è definito, d’istinto ma con sicurezza, quale uomo terreno.

E sembra difficile negare o attenuare la portata storica e il significato ideologico di questa visuale, nuova perché coerente in tutta

l’opera: l’autonomia della realtà mondana implica infatti la scoperta di temi, valori, rapporti che erano prima sminuiti o coartati

in funzione di una concezione metafisica del mondo. Essi non si organizzano ancora in una visione chiaramente sistematica: spiegano però, nell'ambito del nostro discorso, il diletto narrativo del

Boccaccio, il suo impulso a raccontare in modi sempre diversi. La mobilità analitica del diletto narrativo è cioè la conseguenza di una scoperta intuitiva della realtà, di uno sguardo nuovo, e latamente comprensivo, che si posa sul mondo, sugli uomini e sulle cose. In questo senso, il Boccaccio è veramente quale lo vide, ammirato, Benvenuto da Imola: «curiosus inquisitor omnium delectabilium historiarum».' Aggiungiamo ora che tale diletto e tale modo di 3 All’« atteggiamento empirico» (p. VIII) del Boccaccio, ai suoi risultati narrativi e al suo significato ideologico ha dato felice risalto C. SALINARI, Introduzione cit., pp. VIII-XI. 10 BENVENUTI pe RAMBALDIS DE ImoLA, Commentum super Dantis Aldigherii Comoediam, Firenze, 1887, III, p. 392.

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guardare alla realtà significano anche un certo modo di distanziarsi non solo, come è stato già rilevato, ma di distaccarsi da essa. Significano, al limite, una visione più contemplativa della realtà. Il che implica una contraddizione, rispetto al moto innovatore che abbiamo individuato: perché si fa luce l’atteggiamento di un nuovo tipo di intellettuale, tendenzialmente meno compromesso nelle lotte politiche della città, meno attivamente inserito, in ogni caso, nelle

difficoltà di un concreto processo storico. Un intellettuale che osserva, giudica, sceglie, opera una sintesi della realtà con strumenti

che sono propri alla casta cui appartiene: non a caso, pur affermando di scrivere per le donne (ed è già il segno di una nuova richiesta di un pubblico più vasto), il Boccaccio sente il bisogno di difendere e di valorizzare la sua opera agli occhi dei dotti, dei letterati. Anche nell’ambito di un’opera scritta «non solamente in fiorentino volgare e in prosa », ma «ancora in istilo umilissimo e rimesso» (IV, Intr., 3), egli non solo rende omaggio alla tradizionale poetica degli stili, ma svela alcune condizioni di un atteggia mento umanistico cui la realtà serve di supporto a una superiore e raffinata elaborazione letteraria. Ritroviamo così nuovi elementi di quella crisi complessa che il Boccaccio riflette in vari modi nel Decameron.!! In conclusione, ricchezza e ampiezza di osservazione storica e concreta, da una parte; inventività rispetto a un mondo

sentito

come spettacolo mobile e vario, dall’altra: questi i termini entro i quali può avanzare una lettura del Decazzeron che dia al testo un valore storico e critico, che chiarisca cioè il valore del Decazzeron

rispetto sia al proprio tempo sia alla posizione dello scrittore verso il proprio contenuto. E non a caso questa posizione conferisce unità al Decazzeron (esso ha origine da una stessa attenzione al mondo e da uno stesso gusto di narrarlo, cioè da un’unica gioia contemplativa e narrativa) e insieme lo dissolve nelle minori unità novellistiche (il rapporto tra lo scrittore e il reale nasce da una ll Per questo aspetto, si rinvia ancora a G. PETRONIO, La posizione del « Decameron » cit., pp. 203-206; e a G. Papoan, Mondo aristocratico € comunale... cit., pp. 203-216.

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curiosità sempre rinnovata, ma circoscritta da un’intuizione particolare, locale). Unità e varietà sono, nel Boccaccio, strettamente

correlate. E l'invenzione della brigata dei narratori, che cerca un rifugio dal turbamento e dal disordine del mondo esterno (la peste) per dedicarsi al «diletto» sereno e distaccato del racconto, traduce, sim-

bolicamente, la condizione dello scrittore (la brigata che conosce il mondo e, ritirata in un’oasi di pace, favella e si ascolta). Lo schema,

caro al Boccaccio dal Filocolo all’Amzeto ma sempre all’interno di un’opera, di un’aristocratica compagnia che racconta e discute, diventa ora, per lo scrittore maturo, lo strumento più adeguato per esprimere la poetica unitaria del libro, cioè la condizione unica da cui sorge, senza negargli un movimento di contenuto e di stile. La cornice, nella sua unità strutturale, traduce un atteggiamento globale verso la realtà, e permette insieme un’estrema varietà nell’esprimere con le novelle tale realtà. In questo senso, l’architettura dimostra un pieno adeguamento dell’intelligenza tecnica, costruttiva dello scrittore alla coscienza che egli ha della propria opera. Le singole novelle possono sviluppare un tema in modo autonomo e concluso, ma si staccano da uno sfondo che esprime la sorgente comune di gusto, la felicità narrativa che tutte le sorregge.

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Orientamenti morali del Boccaccio

Nella sua apparente dispersione e nella sua varietà, non solo di motivi ma di stili, il Decameron è solidamente architettato come

organica opera narrativa: l'autonomia dei frammenti (le novelle) non esclude una concezione unitaria del libro. E non solo per la latitudine tematica, che esige, contrariamente a quanto avveniva nei romanzi precedenti, una frantumazione consapevole del materiale in misure minori e ben delimitate; ma anche per la presenza di una certa visione dell’uomo e della realtà, diciamo pure di una complessiva moralità! La novella, sappiamo, si rivolge ai « casi fortunosi », all’imprevisto che rinasce spontaneo dalla realtà; coglie l’individuo nei suoi moventi concreti, nel rapporto con gli altri uomini; fissa un personaggio e lo rivela in un episodio critico della sua vita. La durata e il peso dell’intreccio nascono da una logica interna: dal prevalere degli eventi o dall’individuazione rapida o graduale del personaggio; ma il metro generale è solo l'avventura, mai simile e necessariamente delimitata. Ora, rispetto a quali punti di riferimento ha un senso l’avventura? E perché interessa al Boccaccio? Si noti innanzi

tutto che essendo

determinante,

nel Decarze-

ron, la logica della narrazione, in cui il personaggio è spiegato da quanto fa e dice, si giustifica la sobrietà degli epiteti che caratterizzano inizialmente un personaggio, e più in generale delle formule che fissano una situazione oggettiva o psicologica. Il fatto 1 Secondo la limpida espressione di N. Sapegno, I/ Boccaccio cit., p. 351: ma tutte le pagine sul Decameron resistono ancora con forza sintetica e persuasiva (pp. 344-366). Dello stesso si legga anche il più recente Boccaccio, in Storia letteraria del Trecento, Milano-Napoli, 1963, pp. 275-333.

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ovvio che interessi al Boccaccio narrare, e dunque spiegare in con-

creto,

legittima e anzi valorizza

tica, una certa monotonia

una

relativa

povertà

seman-

nelle definizioni di base. Situazioni e

qualità sono definite da un lessico che è quasi logorato, nel corso del libro, dalla consuetudine, e offre solo i segni di un orienta-

mento generale che non temono di apparire insistenti, per così dire automatici. Così ad esempio la gioia (« lieto », « contento », « feste grandissime », ecc.) e il dolore (« doloroso », « dolente », « tristo »), l’ira (« d’ira acceso », « turbato » o « fieramente turbato ») e la letizia (« con lieto viso », « lietamente »), la malinconia (« malinconico », « fiera malinconia ») e l’amore (« fieramente innamorato », « ferventemente s’innamorò »; con formule che com-

portano leggere varianti), l’agilità mentale o fisica (« prestamente »,

« subitamente », che sono avverbi tra i più frequenti del libro) e la finzione (« sembiante faccendo », « faccendo vista », « mostran-

do »), sono sempre espressi con moduli comuni; solo il movimento e il contesto della novella ne chiariscono la specifica funzione. E allora il « sembiante faccendo d’andare a suo diporto » applicato al re Piero d’Aragona (X, 7, 31), quando decide di ren-dere cavalleresco omaggio alla giovinetta borghese che si è innamorata di lui, preoccupandosi di arrivare casualmente da lei per non comprometterla, prende luce nella novella da una discrezione regale, da una raffinata esperienza psicologica cortese, che nulla hanno a che fare col « sembiante faccendo di cercarne » di Andreuccio quando si trova nell’arca (II, 5, 78), che svela il sorgere improvviso e vitale, in un uomo mediocre, di un’astuzia che gli è suggerita e quasi imposta dall'ambiente in cui è capitato. L’identica formula di finzione esprime due atteggiamenti lontanissimi l’uno dall’altro. Così il « subitamente » con cui Bergamino inizia la sua novella (I, 7, 11) esprime la prontezza di chi ha meditato a lungo,

nella malinconia della propria solitudine, per dare una lezione a messer Cane (e il Boccaccio stesso non manca di rilevarlo); e ha

un peso del tutto diverso dal « subitamente », mettiamo, con cui Chichibio risponde, in modo avventato, al signore che lo coglie in

fallo di furto (VI, 4, 10). Anche in questo caso c’è un’enorme distanza tra il « subitamente » di Bergamino, preparato da una lun50

T

ga riflessione su sé stesso e sui rapporti dell’intellettuale col signore, dal « subitamente » di Chichibio, che introduce l’involontaria battuta di un uomo impaurito e irriflessivo. Si tratta dunque di moduli espressivi che richiamano necessariamente attorno a sé tutti gli elementi di un tessuto narrativo, entro i quali si possono capire e valutare. Ciò significa che l’estrinsecazione di certi sentimenti e di certi impulsi è sì uguale negli uomini, ma differiscono profondamente le motivazioni interne ed esterne di essi. E la novella, in modo analogo per il procedimento ma opposto per gli intendimenti e i risultati a quello degli exemzpla o delle questioni della casistica, svolge uno schema di partenza nel movimento concreto della prosa: ridefinisce e diversifica gli elementi comuni, affrontando il paesaggio umano in tutta la sua complessità. Il tracciato stesso della novella ripresenta allora uno schema bipolare, si fonda sulla relazione di due elementi: una mobilità irrepetibile di figure e di vicende empiriche, una staticità di definizioni generali che riportano quelle figure e quelle vicende a un nucleo comune di giudizio. Da un lato il reale, sempre diverso e particolare, esprime una continua varietà, cui risponde la serie delle novelle; dall’altro il giudizio generale del Boccaccio fissa alcuni punti di riferimento, che aiutano a situare e a interpretare i vari casi delle novelle. Tale giudizio generale del Boccaccio è un giudizio insieme orientativo e conclusivo, che si manifesta cioè, in modo per lo più esplicito, prima della narrazione, e poi la chiude reinserendola in una misura costruttiva più ampia. Individuare la mobilità della narrazione

boccacciana,

cioè il carattere

aperto

dell’opera,

significa dunque escludere, tutt'altro, la presenza di una del mondo propria dello scrittore, o più semplicemente moralità del Boccaccio, anteriore alla libertà del racconto tintesa ad esso. È però necessario avvertire che il modo

non

visione di una e sotaperto

2 Per l’esempio, e per l'evoluzione dall'esempio alla novella, preziosi gli studi, del 1959 e del 1960, di S. BATTAGLIA, L'esempio medievale e Dall’esempio alla novella, ora in La coscienza letteraria... cit., pp. 447-537; da integrare, per quanto si dirà nelle pagine che seguono, con La coscienza del realismo nell'arte del Boccaccio, pp. 669-684.

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con cui Boccaccio rappresenta gli « avvenimenti » e « gli atti » degli uomini (I, 3) risponde a una moralità pur essa aperta, cui bastano pochi riferimenti di carattere generale. Il che è inevitabile, se la rottura di fatto con un ordine morale tradizionale permette al Boccaccio, e se ne è fatto cenno, solo l’indicazione di alcuni valori naturali e sociali, di alcune norme morali; non invece l’elaborazione di un nuovo sistema ideologico globale. Ciò significa che i limiti di provvisorietà della morale boccacciana non sono separabili dal momento di scoperta di un nuovo campo di attenzione esclusiva: l’interesse, ripetiamo, per l’individuo colto autonomo nel mondo, tra avvenimenti esterni e forze naturali interne, e misurato

nella società dalle sue doti vitali e intellettuali. L’uomo è ora giudicato dall’uomo; vien meno un fine di edificazione che vada oltre

il reale. Solo la realtà mondana fornisce il metro di giudizio; ma appunto per questo i valori sono provvisori e generali. Tant'è vero

che il giudizio sintetico, anteriore al racconto, è sempre monotono e fin generico: qualificazioni come « onesto », « costumato », « valente », « valoroso », « discreto », « savio », « ben parlante », « libe-

rale », « magnifico », « di grande animo » creano solo una trama di richiami, un accordo di ideali che provengono via via da una tradizione classica, cortese

e comunale, ma cercano di trovare un

nuovo equilibrio in una visione puramente mondana dell’agire umano. Solo la concretezza specifica della novella li può verificare. Anche in questo campo, del resto, l’architettura rivela l’equilibrio e anzi la coscienza che ha lo scrittore della propria situazione. I temi delle varie giornate indicano solo delle vie generali, dei campi di riflessione, stabiliscono collegamenti sintomatici, per analogia e per opposizione, tra gruppi di novelle; e i singoli cappelli introduttivi liberano le riflessioni di una brigata che immette nel suo nobile gioco non solo un impegno estetico, volto alla narrazione, ma anche la propria saggezza morale. Tuttavia le proposte tematiche delle varie giornate e le considerazioni dei cappelli sono per lo più ai margini e hanno un forte stacco nel testo, perché lo scrittore avverte sia la serietà. della propria posizione sia la necessità che le riflessioni siano convalidate dal racconto, che l’orientamento

preliminare lasci libero lo sviluppo di un tema. Ed è un atteggiaD2

mento diverso da quello tradizionale: cade ormai ogni intransigenza programmatica, perché non ci sono verità da rivelare, valori da imporre, ma solo situazioni da verificare, norme da commisurare

con le vicende aperte degli uomini. Ecco perché il cappello di Panfilo nella I, 1, molto spesso liquidato come un’ambigua professione di galateo religioso, ha un forte risalto, all’inizio dell’opera, ed è strettamente connesso alla novella che introduce. Questa separa, in un caso-limite, il giudizio di Dio, imperscrutabile per l’uomo, dal giudizio dell’uomo sugli uomini, che è invece possibile. Da una parte la realtà terrena, che appartiene all'uomo; dall’altra una sovrarealtà che appartiene a Dio e, pur non venendo negata, è svincolata dalla prima. Non si tende a fissare concettualmente una doppia realtà, perché il testo è certamente interpretabile in ambito cristiano, ma piuttosto a stabilire, mediante la vivacità della rappresentazione, una separazione sintomatica, sul piano morale,

tra il mondo della storia umana e il mondo ultraterreno. Il Boccaccio avverte che l’esercizio del racconto apre nuovi orizzonti alla propria indagine: di qui il lungo discorso cautelativo di Panfilo, che giustifica in apertura un nuovo ed esclusivo interesse per gli

atti mondani. Interesse esplicitamente denunciato, come pure si è notato, nel cappello della terza novella: « Per ciò che già e di Dio e della verità della nostra Fede è assai bene stato detto, il discen-

dere oggimai agli avvenimenti

ed agli atti degli uomini non si

dovrà disdire » (I, 3, 3). È un’affermazione complessa e fin ambi-

gua, se si pensa al significato delle prime tre novelle del Boccaccio: una netta divergenza tra effetti terreni e risultati ultraterreni nella I, 1; una conversione raggiunta con un giudizio individuale, arguto e paradossale, sulla realtà mondana della Chiesa di Roma, nella seconda; l’equivalenza terrena delle religioni giudaica, saracena e cristiana nella terza, e la necessità che ne deriva di una reciproca tolleranza che abolisca la distinzione, ancora essenziale per Dante, tra fedeli e infedeli.

I temi non sono nuovi in sé, come stanno ad

indicare le fonti: nuova però ne è l'integrale assunzione da parte di personaggi concreti, e tutti borghesi, che utilizzano una tematica in funzione dei loro rapporti, e dei loro affari, terreni, con un capovolgimento sintomatico di prospettiva, sul piano della narraDa

zione. L'uomo non sembra più assumersi la responsabilità del giudizio di Dio: conta ora il giudizio che gli uomini possono dare di sé, nel commercio con gli altri. È dunque innegabile, agli inizi del Decameron, un’implicita tensione immanente, che svela la gestazione, su vecchi temi, di nuovi interessi, che contengono soluzioni anche inaspettate. È una cautela che non si riscontrava nello scrittore del Novellino, la cui sensibilità laica non ha bisogno, per il proprio

intento edonistico e didattico, di un inquadramento di carattere preliminare e generale. Quali sono, allora, gli elementi orientativi di una moralità del Decameron?

Sono elementi che rispondono, in termini concettuali

semplificati, alla visione aperta e intuitiva che del mondo ha il Boccaccio: elementi che il lungo esercizio delle opere giovanili aveva approfondito con vaste indagini tematiche, nelle quali la cultura medievale, soprattutto cortese, si andava rinnovando a contatto

con la lezione moralistica dei classici. I cardini di questa visione del mondo sono essenzialmente due: Fortuna e Natura, « le due ministre del mondo » (VI, 2, 6). La vita è avventura fortunosa,

che impegna tutte le risorse dell’uomo; ed è senso che non va negato o eluso, ma disciplinato con un intervento razionale dell’uomo sulla propria reale natura. L’uomo si definisce, innanzi tutto, entro queste due forze: una a lui esterna, la Fortuna, che lo condiziona continuamente; l’altra interna, la Natura, con istinti e appetiti che deve riconoscere per farne l’uso migliore. Ecco perché l’uomo, colto tra queste due componenti fondamentali, ha bisogno di « avvedimento », di intelligenza per capirle, e di « forza », di industriosa energia per sfruttarle ed agire. E infatti dopo la I giornata, dove una situazione di scontro tra protagonista e antagonista

le richiama continuamente, queste due forze vengono chiaramente proposte, come temi generali, rispettivamente nelle giornate II e III, dove domina la lotta tra l’uomo e la Fortuna, e nella IV e V, dove domina l’aspetto essenziale, l’Amore, con cui si manifesta l’azione della Natura. Dopo una prima esplorazione di carattere 3 Per la prima giornata, nuovi e interessanti i rilievi di G. PADOAN, Mondo aristocratica... cit., pp. 164-165.

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generale, ben quattro giornate danno rilievo, a coppie correlate da analogie e da antitesi tematiche, alla funzione determinante delle due « ministre del mondo ». La Fortuna è tra le maggiori presenze, anche verbali, del Decameron:

ed è un tema caro al Boccaccio almeno fin dal Filostrato,

evocato in termini pessimistici che domineranno poi, concettual-

mente, il De casibus. Nel Decameron, la Fortuna interviene insistentemente come rivelazione sensibile del mondo esterno, e delle possibilità ambivalenti di sorpresa che esso offre all’agire degli

uomini. Essa costituisce subito l'animazione profonda della descrizione della peste, nell’Introduzione, ed è implicitamente e dolorosamente ammessa come determinante nei primi rilievi di Panfilo (I, 1). L’individuo potrà reagirvi in varia misura: il Decameron rassegna tutti gli aspetti di tale reazione, da quelli più miseri e locali a quelli più alti e generosi, da quelli che suscitano il riflesso di un attimo a quelli che riguardano tutta una vita. Resta però fondamentale che il mondo esterno, nel Decameron, costringe gli uomini a un continuo gioco rischioso, a una vigilanza e a una tensione che difficilmente si possono allentare, se si riflette, quando « si parla de’ fatti della Fortuna », che « tutte le cose, le quali noi scioccamente

nostre chiamiamo,

sieno nelle sue mani, e per

conseguente da lei, secondo il suo occulto giudicio, senza alcuna posa d’uno in altro e d’altro in uno successivamente, senza alcuno conosciuto ordine da noi, esser da lei permutate » (II, 3, 4). Sembra un concetto analogo a quello esposto da Dante nel canto VII dell'Inferno (vv. 61-96), dove la Fortuna è « ministra » di Dio: in realtà, manca nel Boccaccio un riferimento al trascendente. Il

« giudicio » della Fortuna è solo ritenuto « occulto » per gli uomini, frustrati nelle loro brame di possesso e pur capaci di affermarsi anche quando tale « giudicio » sembra contrastare con i doni della Natura (VI, 2, 3-6): la problematica è soltanto mondana,

e implica l’abbandono, per un’analisi degli eventi, di ogni logica provvidenziale.‘ In questo senso il disordine e il mutamento con 4 Troppo rigido ed esterno, in questo senso, mi sembra il richiamo alla « con-

cezione tomistica e dantesca » della Fortuna di V. BRANCA, Tradizione medievale, in Boccaccio medievale cit., p. 16; da consultare peraltro per i temi qui accennati.

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cui si presentano all’uomo le cose temporali non solo legittimano la struttura di novelle in cui le vicende si svolgono come concatenazione imprevedibile di « casi » e di « accidenti », ma spiegano anche come l’uomo, se dev'essere consapevole di una legge generale intrinseca alle cose, non possa sempre dominarne il corso: può tut-

tal più non provocarle, o adattarsi ad esse. La soluzione del rapporto tra uomo e Fortuna resta aperta nel Decameron, perché l’uomo non è signore dell’universo, e riesce ad affermarsi momento per momento, in modo più o meno duraturo a seconda delle proprie qualità: nella X, 1, per esempio, il re Anfonso può rivelare la grandezza del suo animo proprio riconoscendo abilmente questi limiti umani, questo margine di rischio che l’uomo ha sempre rispetto alla Fortuna. Il che significa, almeno per il Decameron, che tra La Fortuna e l’energia più o meno avveduta dell’uomo non esiste armonia, ideale pacificazione, ma lotta continua e serrata. In tale permanente dissidio tra uomo e fortuna consiste l'autenticità anche morale del racconto boccacciano, che testimonia la sincera ade-

sione dello scrittore al meraviglioso terreno, all’imprevisto immanente alla realtà mondana. La Natura è la seconda grande presenza del Decameron: l’apologo delle papere, nell’Introduzione della IV giornata, pure non nuovo nel tema ma isolato esplicitamente dalle novelle, rivela tale forza nella sua centralità, quando Filippo Balducci sente « incontanente più aver di forza la natura che il suo ingegno » (IV, 29). La Natura è il secondo aspetto di una realtà affrontata in tutta la sua concretezza: una realtà, ora, interna all’uomo, vitale e possente, non tanto esaminata in una concezione complessiva e con un rigo-

roso approfondimento concettuale, quanto intuita nella sua forza senza ombre di pregiudizi o mortificazioni. In questa recisa affermazione degli istinti naturali non è tanto la malizia più o meno sensuale che ha reso equivoco l’aggettivo « boccaccesco », quanto una sorta di limpida e comprensiva saggezza, che da una parte si fonda sull’esperienza, e dall’altra riconosce la validità di uno studio iniziato fin dal giovanile Fi/ocolo, e reso più sensibile dalla lezione dei classici (e innanzi tutto del prediletto Ovidio). La realtà naturale

serve a stabilire un nuovo rapporto tra l’individuo e sé stesso, e 56

dunque tra l’individuo e il mondo, perché questa realtà libera nuove energie dell’uomo, anche quando viene in conflitto con un codice di convenzioni sociali. Essa apre nel Decameron un orizzonte tematico molto vasto, che va dall’innocente gioco di Alibech (III, 10) al sacrificio eroico di Ghismonda (IV, 1), che ne è la più eloquente teorizzatrice, dall’istintiva astuzia di Masetto (III, 1) al leggiadro idillio di re Carlo (X, 6). La natura si presenta come una

realtà primordiale — « tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere », ricorda al padre Ghismonda

(IV, 1, 39) —

la cui

espressione prima è Amore, impulso comune agli uomini, fonte di diletto e anche di dolore, quando non può realizzarsi, occasione di inganno e di sacrificio, di elevazione e di morte; perché si tratta

di una forza insopprimibile la quale, agendo nelle situazioni più varie e nei più diversi strati sociali, può scontrarsi con inveterati

pregiudizi culturali e di costume. L’avventura è sollecitata, in quest'ambito, dal carattere univoco e comune a tutti, e quindi potenzialmente eversore di un ordine costituito, del desiderio amo-

roso. Proprio su questo tema, più che sull’atto sessuale, insiste anzi il Boccaccio. Non sono reperibili nel Decameron, ed è stato più volte notato, compiacimenti di natura procace o morbosa (l’attività sessuale è colta con schemi rapidi e topici, ravvivati solo dal gioco linguistico e metaforico): è vero piuttosto che il Boccaccio ha individuato con chiarezza, senza ipocrisie, senza mistificazioni o su-

blimazioni, l’esigenza sessuale che anche la più alta passione contiene in sé. Tale esigenza può essere dominata e superata, ma amore è sempre, all’origine, impulso erotico: è questa una convinzione fondamentale del Boccaccio. Ed essa è all’origine di estese prove psicologiche: da un mondo di istinti elementari, quale è quello di Masetto (III, 1), alla consapevolezza di Ghismonda, che difende

la propria scelta fino al suicidio fermo e dignitoso (IV, 1); dalla favola di Cimone (V, 1), che coglie tale impulso anteriormente a ogni sovrastruttura sociale, e fa nascere l’uomo con l’amore, all’educazione del tutto sorvegliata di Federigo degli Alberighi (V, 9), in cui l’amore è costretto e sublimato da un codice raffinato di comportamento. Ma sempre, alla base, è riscontrabile, in modo esplicito o implicito, la forza istintiva della Natura. 5I

Le donne, cui il Decameron è dedicato, trovano in questa valorizzazione di forze naturali, comuni a tutti, la possibilità di un’autonomia psicologica e sociale, e quindi, sul piano narrativo, di una reale consistenza di personaggio. Già intuita nell’Elegia di Madonna Fiammetta, la figura femminile ha una vitalità quotidiana, nel Decameron, che colpisce anche rispetto alle opere precedenti del Boccaccio:

non è più soltanto occasione di miti cortesi, filosofici,

poetici. Nel Decamzeron la donna rivendica le proprie capacità di intelligenza, esige un nuovo codice di rapporti civili (VI, 7). Dall’ir-

ruenza polemica della giovane Bartolomea (II, 10) all’eloquenza più raffinata ed esaltante di Ghismonda (IV, 1), la donna chiede una libertà che rompe le barriere sociali, e si afferma, sul piano narrativo, lungo una linea ascendente che va dal comico all’elegia alla sfida tragica. Ed è rivendicazione così forte ed insistente da richiamare, in alcune novelle, un intervento più diretto dello scrittore (0 delle novellatrici, che non a caso costituiscono la netta maggioranza della brigata), con un’oratoria di tipo chiaramente «femministico»

(VII, 5, 3-6). Il che permette alle gentildonne di usare argomenti borghesi per difendere la propria libertà amorosa: come avviene non solo all’intellettuale Ghismonda (IV, 1) ma anche alla più vicina e verosimile Madonna Filippa, colta in flagrante adulterio e pronta a difendersi davanti al «potestà» (VI, 7). Colpisce, anzi,

nella novella, la frattura tra la presentazione sostenuta e nobile di Madonna Filippa (l’aggettivazione e le definizioni richiamano a più riprese il personaggio di Ghismonda) e il discorso giuridicamente e utilitaristicamente concreto con cui si difende, concluso da una «piacevol risposta» di tono popolaresco ($ 17-18) che raccoglie le risa e i suffragi dei suoi concittadini. L’arringa di Madonna Filippa è in realtà quella del Boccaccio in difesa delle «donne tapinelle» ($ 14): anche nel cappello della VIII, 1, dopo una difesa d’ufficio della «castità», riafferma che chi la contamina «per amore, conoscendo

le sue forze grandissime..., da giudice non troppo rigido merita perdono», mentre è «degna del fuoco» colei che «a ciò per prezzo 5 Per il problema generale del « naturalismo » del Boccaccio, si vedano le puntigliose analisi di A. D. ScagLIONE, Nature and Love in the Late Middle Ages, Berkeley and Los Angeles, 1963, specie le pp. 48-82.

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si conduce» ($ 3-4). «Disonesta» è dunque la donna che si vende,

non la donna che ama: Ghismonda può affermare sinceramente la propria «onestà». Non a caso Neifile ricorda Madonna Filippa ($ 4): la condanna di madonna Ambruogia, «cattiva femmina» ($ 9), presuppone la giustificazione di madonna Filippa e di tutti i personaggi femminili che le assomigliano, senza esclusioni di classe. È

un'apertura notevole, per la coerenza con cui viene rappresentata, e vi contribuiscono echi ovidiani o cortesi e riflessi borghesi: precaria nello stesso Boccaccio, come parrebbe indicare la conturbante aggressività della VIII, 7, che già prelude, forse anche per motivazioni autobiografiche, all’aspra misoginia del Corbaccio. Nel Decameron, in ogni modo, resta acquisito che di fronte al pessimismo provocato nella vita umana dal caso, dalla Fortuna, si spiega la bontà dell’esistenza vissuta come natura, come ottimistica liberazione di forze a lungo compresse. Parole come «piacere»,

«diletto», «sollazzo» e simili ricorrono nel libro con gioia inesausta, e hanno la luce della sanità non avvilita, la limpidezza di una ragione che stabilisce una nuova armonia tra istinto naturale e virtù. Perché la virtù non è più mortificazione dell’istinto, ma capacità di riconoscere, di appagare e di dominare, gli impulsi naturali. Fin dall’Introduzione, quando parla secondo la «natural ragione», Pampinea indica il nuovo equilibrio in cui consiste la virtù, e fissa la temperie della brigata e del libro: e subito si presenta il simbolico contrasto tra fortunosa tragedia (la peste) e serenità naturale (la proposta di Pampinea, corretta dalla «discretissima» Filomena). E l’«ordinato disidero», che il Boccaccio distingue dal «fanciullesco appetito» (III, 10, 6) contrassegna i migliori personaggi del Decameron: il termine, frequentissimo, discreto indica innanzi tutto questa saggezza naturale, che il contatto con gli uomini rende agile e accorto. Ma in ogni caso la saggezza di vita deve poggiare sulla fondamentale bontà della natura, «alle cui leggi... voler contrastare», osserva il Boccaccio nell’Introduzione della IV giornata, «troppo gran forze bisognano, e spesse volte non solamente invano, ma con grandissimo danno del faticante s’adoperano» (IV, 41). Se queste due forze sono essenziali, al punto che Fortuna e Natura indicano una nuova struttura bipolare, di carattere morale, DI

dell’opera, l’avvedimento dei personaggi migliori del Decameron si precisa in primo luogo come un costante e vigile riconoscimento

di una duplice realtà, esterna e interna, che condiziona la vita dell’uomo. Si tratta, si noti, di un riconoscimento affidato ai singoli, tutt'altro che facile da trasformare in abito culturale da tutti riconosciuto: pure esso segna, storicamente, un momento delicato nello

svolgimento di una civiltà. Si afferma il gusto dell’agire pratico, ma esso non è ancora in rapporto con una conoscenza più siste-

matica, scientifica dell’uomo: non a caso il Boccaccio ricorre, per i propri strumenti interpretativi, a valori derivati da una cultura classica, di tipo umanistico, sovrapposti per così dire alla realtà. L’individuc è liberato, e nello stesso tempo si trova in un mondo che non può ancora «comprendere» nella sua totalità. Perciò, nel Decameron, il personaggio ora è fiduciose nella propria forza, ora patisce rassegnato l'aggressione di eventi insuperabili; ora è combattivo, ora quasi disarmato; ora è padrone di sé, responsabile dei propri atti, ora invece è schiavo di impulsi e passioni indomabili; ora rompe con audacia le convenzioni sociali, ora vi si sottomette e vi si adatta. L'azione degli uomini è sempre, nel Decazzeron, in rapporto col mutevole divenire delle cose terrene, con le sorprese e le insidie che provengono dagli altri. Rotti i legami con Dio, gli uomini cercano di affermarsi con le proprie forze sulla realtà; e trovano ad ogni passo degli ostacoli, perché contro la fortuna non valgono talora «forza», «avvedutezza», «ingegno», ed essa può togliere di colpo quello che ha dato per imperscrutabile capriccio. Solo la grandezza d’animo (un’altra virtù di ascendenza classica) può renderci «fermi e costanti a tutti i casi» (V, 1, 55): ma è una virtù,

anche se rapportata a un ideale pratico, inevitabilmente elitaria. Al fondo del Decameron c'è dunque un intimo travaglio, per $ Utili osservazioni, per la distinzione tra « tipi umani » e « tipo sociale » nel Boccaccio, e per i problemi qui suggeriti, in F. TATEO, I/ « realismo » nella novella boccaccesca, in « Retorica » è « poetica » fra Medinevo

e Rinascimento,

Bari, 1960,

pp. 197-202. Al maturare, nel « dissidio tra antico e moderno », di una « decisione in senso umanistico », allude, nel contesto di una diversa problematica, G. Di Pino, ne del Boccaccio, in AA. VV., Scritti su Giovanni Boccaccio, Firenze, 1964, p. ;

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quanto concerne la rappresentazione dell’uomo. Tant'è vero che quasi tutti i protagonisti della I giornata trovano sempre di fronte a sé individui più sicuri, pronti a ritorcere un progetto o un’azione; e le giornate II e III mettono a dura prova l’ottimistica fiducia nel «senno» umano, e la lotta tra l’«industria» dell’uomo e i «for-

tunosi casi» è animata da un senso sempre rinnovato .di affanno, di errore, di incertezza. Così nella IV e nella V giornata l’impulso erotico non è soltanto gioia, possibilità di appagamento degli istinti naturali, ma è anche rinuncia malinconica o dolorosa, e spinge spesso all'avventura insidiosa e mortale. Una tematica che si svolge lungo sintomatiche antitesi. Il seguito del libro ripresenta nuovi tentativi dell’individuo, spesso in lotta con i propri simili: «ingegno»

e «astuzia»,

«sagacità»

e «cautela»,

«accortezza»

e «mali-

zia» rinnovano ad ogni novella la prova e la sfida. Quotidianamente gli uomini si affermano o soccombono; chi è sciocco e beffato, chi è «astuto e avvenevole», appunto (VIII, 3, 5). Ma resta sempre

un margine di incertezza: una professionista d’inganni, pure scaltrita, può essere a sua volta giocata da un «uomo di grande intelletto e di sottile ingegno» (VIII, 10, 42). Mancano punti fermi e saldi, per l’individuo;

il gioco della vita esige, anche al livello

«comico», una vigile tensione. Per cui il «valore» dei più consapevoli personaggi boccacciani è una forza di adattamento, di resistenza, di equilibrio, entro costanti determinate ma mobilissime. Alla manifestazione locale dell'avventura corrisponde, cioè, il segno puntuale del senno umano. Landolfo Rufolo, per esempio, moltiplica i suoi «avvisi», attua i suoi progetti, ma essi vengono smentiti dalla realtà fortunosa (II, 4). Ancora una volta ritroviamo, nella no-

vella, un’indicazione sintomatica: all’operosità infaticabile, coraggiosa ma empirica, di una classe mercantile, l’intellettuale Boccaccio ama congiungere una paradossale lezione, grazie alla quale Landolfo

termina felicemente i suoi giorni «senza più volere mercatare» (S 30). È una cultura più antica che colma i vuoti di una nuova ideologia: e resta confermata la posizione critica che il Decameron attesta nel Boccaccio. Ma la conoscenza di sé e della propria natura, per mirare a un dominio delle proprie passioni, e la vigile attenzione agli altri e al mondo, per non farsene sorprendere, bastano a 61

definire, anche in questa fase di trapasso, la nobiltà della morale boccacciana. Una volta accertata la provvisorietà della visione morale del Decameron (provvisorietà, ripetiamo, propria di un mondo che si libera dei vecchi schemi, e scopre e intuisce nuovi valori non ancora sistematici), va però aggiunto che certe qualità mirano a consolidarsi in un codice sociale, a esprimersi come proprie di un gruppo più vasto. Al di là della Natura e della Fortuna, che costringono l'individuo a consistere e a risentirsi,

è fondamentale

nel Deca-

meron una terza dimensione, che potremmo chiamare della socialità, entro la quale le prime due forze tendono a comporsi in norme di convivenza tra gli uomini. Anche su questo piano il Decazzeron suggerisce una serie di valori e miti sociali, riferimenti di gusto e di costume che pure attestano tendenze storicamente significative. Il Boccaccio elabora nelle novelle un ideale di morale sociale (o me-

glio socievole) che ha la sua origine prima in un costume cortese di origine feudale, ma si va ora trasformando in un'esigenza di galateo, di saper vivere,’ propria di gruppi sociali e culturali moderni, di una élite cittadina di «signori» e di «valenti uomini» (I, 7) ad essi legati. Sono i rapporti di questi gruppi, e i modelli che possono derivarne, che attirano l’interesse del Boccaccio sul piano della socialità: come prova, tra l’altro, la quantità delle novelle in cui tale interesse si manifesta. L’aggettivo «costumato», frequente nel Boccaccio, indica innanzi tutto l’armonia che l’individuo riesce a stabilire col proprio ambiente, il modo con cui sa collocarsi in una gerarchia sociale, con un’avveduta conquista di riflessi socievoli che sono sentiti come essenziali al proprio perfezionamento: si potrebbe anzi affermare che nel Decazzeron l’educazione è il risultato di un’ascesi morale. Si legga la conclusione della X, 6, il commento al gesto del re Carlo che sa vincere i propti istinti e condursi da gran signore: «Così adunque il magnifico re operò, il nobile cavaliere altamente premiando, l’amate giovinette ? Di « arte del vivere » parla G. GETTO, L'esperienza della realtà... cit., p. 282, a conclusione di una fine analisi di tutti gli elementi pratici e culturali che agiscono nel Boccaccio. Ancora utili le intelligenti osservazioni di M., BONFANTINI, Boccaccio e il « Decamerone », in « Pegaso », II, 1930, pp. 15-28.

62

laudevolmente onorando e se medesimo fortemente vincendo» Da

6, 36). Si noti come le sequenze parallele degli avverbi e dei gerundi puntino in climax, grazie allo scarto della rima, sul verbo finale, che conferisce retorico rilievo a una conquista di carattere personale, ricca di risonanze umanistiche, e insieme la lega strettamente a gesti tipici di un codice rituale di comportamento, di origine feudale. La novella si inscrive nell’ambito di una tensione esemplare che contraddistingue l’ultima giornata: ma la ricerca esclusiva di modelli normativi, che in essa si manifesta, se accentua l’aspetto mitico, di memoria culturale e sociale, che assumono tanto le virtù individuali, classiche, quanto le virtù sociali, cavalleresche, non si isola però, in modo netto, dalle rappresentazioni più quotidiane che la precedono. È anzi ripercorrendo a ritroso il libro che possiamo situare la decima giornata: e riconoscere come dal ricordo sublimato di una civiltà cavalleresca tramontata affiori e si precisi nel Decameron un nuovo gusto cortese, proprio di élites sociali e intellettuali, che troverà nella trattatistica del Rinascimento

la

sua sistemazione conclusiva. Nell’elaborazione aperta dal Boccaccio si intrecciano così le leggi di una cavalleria più delimitata ma concreta, l'esercizio più quotidiano della cortesia e della liberalità, l’abitudine, spinta talvolta al limite dello stoicismo, al dominio di sé, un galateo di rapporti più ravvicinati tra re, signori, nobili e intellettuali, la raffinatezza anche esteriore di una casistica amorosa

e di una gerarchia di gruppo. È un altro indizio della gestazione critica che il Decamzeron documenta: rispetto all’affermarsi di nuove signorie, al consolidarsi dei primi nuclei di corte, all’affacciarsi di una più moderna ideologia elitaria, l’attività economica e il senso utilitario del mercante tendono a collocarsi su un piano subalterno, costituiscono il supporto indispensabile più che l’ideale normativo della convivenza umana, il segno di una vitalità naturale più che il fondamento di un modello culturale. Una spia, in questo senso, può essere la polemica contro l’avarizia, che si rifà ad arcaici temi culturali, e valorizza di contraccolpo la funzione dell’«uomo di corte», che prefigura per alcuni aspetti il nuovo intellettuale cortigiano. Guglielmo Borsiere, che punge l’avarizia di un nobile degenerato (I, 8), è il portavoce esplicito del «giusto sdegno» 63

dell’autore ($ 11), il quale tendea trasformare la novella in un’arringa. È infatti essenziale che in essa si rappresenti lo scontro, il contrasto tra un intellettuale depositario di certi valori culturali e un ricchissimo patrizio che vien meno al proprio dovere, che accumula come un mercante più che spendere come un signore, che non conosce, appunto, la «Cortesia» ($ 16). La classe borghese non distrugge i miti cortesi, non sa opporre ad essi un galateo esemplare: spetta dunque all’intellettuale, in quanto elaboratore specifico di valori, operare la sintesi tra la vitalità naturale che agisce in tutti e una socialità decorosa, raffinata, cortese, in cui quella vitalità deve comporsi, per chi ha la ricchezza e il potere, e sublimarsi come prestigio. In questo senso l’ultima giornata del Decameron è una sorta di ponte mitico lanciato tra una vecchia aristocrazia feudale e la nascente aristocrazia politica e del censo delle corti moderne: annunciando, per questa via, l’involuzione e la crisi della borghesia italiana. Questo olimpo di virtù umane e sociali si definisce anche rispetto | ad antitesi negative: non solo l’avarizia, ma la «viltà» d’animo, la

«slealtà», soprattutto l’« ira» (si legga il cappello della IV, 3), in quanto provoca un turbamento che impedisce il controllo dei propri atti, l'equilibrio «discreto» delle capacità morali e intellettuali. Perciò l’ira è spesso caratteristica di esseri inferiori, che non sanno

dominare gli istinti che affiorano tumultuosamente, e vengono così a trovarsi in situazioni tragicomiche (come Calandrino nella VIII, 3,

quando batte la moglie); ma è più grave quando rivela le qualità deteriori di persone abituate alla raffinatezza e al potere, come la regina di Francia

(II, 8) o Mitridanes

«in rabbiosa

ira acceso»

(X, 3, 11), perché spinge alla crudeltà contro inferiori o benefattori, e contro chi è indifeso. E la stessa polemica anticlericale e soprattutto antifratesca si colora, in questa prospettiva mondana, di una nuova avversione, che non colpisce solo «la malvagia ipocresia de’ religiosi» (I, 6, 1), ma prelude anche al disprezzo che l’attiva virtù rinascimentale manifesterà per l’ignavia dei rinunciatari, di coloro che «per viltà d'animo non avendo argomento, come gli altri uomini, di civanzarsi, si rifuggono dove aver possono da mangiar, come il porco» (III, 3, 3). C’è sempre un rapporto tra il 64

ricupero e la trasformazione di virtù cavalleresche, cortesi, e la valorizzazione di virtù di carattere umanistico, attinte ai classici

ma rimesse alla prova della società. L'esame, anche sommario, dei grandi temi che caratterizzano la moralità del Decameron, porta, se non erro, a stringere più da presso la responsabilità personale del Boccaccio, a cogliere interventi precisi e chiari del personaggio del narratore. Pur dissimulato nell’apparente oggettività del racconto, il Boccaccio svela assiduamente la sua presenza (e i suoi riflessi) di intellettuale, che impone le norme della casta cui appartiene. Per questo, per fare un primo esempio, sono strettamente funzionali a un ideale civile il gusto della parola e l’importanza che essa assume, negli aspetti ambivalenti con cui si manifesta nella vita umana. Di qui la nobiltà della retorica: se la parola, elaborata secondo certe regole, è un tipico prodotto dell’intellettuale. Anche per questo lato è riconoscibile

l’autenticità

dell’architettura:

talvolta, come

nella storia di Tito e di Gisippo (X, 8), la retorica è la vera protagonista della novella, perché vale a consolare e a rafforzare l’infermità della natura umana. E il gusto della parola si espande mobilmente dal Boccaccio (e dai novellatori) ai personaggi: epiteti come «ben parlante», «presto ed ornato parlatore», «bellissimo favellatore», hanno nel Decameron un’insolita vibrazione, un valore non solo intellettuale ma morale e sociale, poiché la parola è uno degli elementi precipui che definiscono l’ingegno dell’individuo e lo situano nella società. I personaggi possono dunque partecipare, a vari livelli, a questa preminenza dell’intelletto nella vita terrena: anche se poi non mancano riflessi umanistici di tale atteggiamento, per esempio nell’ammirazione tradizionale, negli intellettuali, per il lavoro mentale disinteressato, per la cultura speculativa e astratta, correlativa a una certa avversione per le professioni (di medico, giurista, ecc.) nelle quali la cultura ha una funzione pratica, meccanica. Basta pensare, da una parte, al tono chiaramente ammirativo con cui viene evocata la figura di Guido Cavalcanti (VI, 9), e

dall’altra, all'apertura sarcastica e sprezzante della novella di maestro Simone: « Si come noi veggiamo tutto il dì, i nostri cittadini da Bologna ci tornano qual giudice e qual medico e qual notaio,

65

co’ panni lunghi e larghi, e con gli scarlatti e co’ vai, e con altre assai apparenze grandissime, alle quali come gli effetti succedano anche veggiamo tutto giorno » (VIII, 9, 4). Sono temi tradizio-

nali, e non meno tradizionali ritmi giocosi: che pure confermano le contraddizioni, i limiti dell’apertura « borghese » del Boccaccio. Il che non significa che egli non valorizzi, e anzi richieda, la presenza dell’ingegno a tutti i livelli della vita quotidiana; solo che egli riferisce questo valore a chi lo detiene, per così dire, per essenza, all’intellettuale, che acquista così una preminenza non solo nella società, ma quasi sulla società. Scatta qui un riflesso autobiografico (si pensi al risentimento dello scolare, nella VIII, 7): importante da valutare per il senso più profondo che egli conferisce a tutta l’opera. Il Decamzeron suggerisce una nuova funzione dell’intellettuale, che propone un ideale di disciplina morale, di galateo sociale, di costume culturale che non rimarrà senza sviluppi, fino al Cinquecento. Vengono cioè indicati i compiti di una élite intellettuale capace di organizzare e sistemare i valori di una società. Questa indicazione generale, che riguarda i modi con cui l’intel-

lettuale raccoglie l’eredità dell'Europa romanza, non esclude, come abbiamo accennato, una più comprensiva democrazia dell’ingegno, attestata dal netto predominio semantico che l’aggettivo « savio » (col sostantivo « senno ») ha nel Decazzeron.

Si riscoprono qui le

componenti borghesi che agiscono nel Decamzeron: non a caso il termine « ingegno » (che è sempre colto nel suo manifestarsi in una situazione concreta, nella sua esplicazione immediata) è atte-

stato ben più frequentemente di « intelletto » (che concerne una qualità preliminare, astratta). Ed è una tematica che non nasconde nel libro le proprie origini: ben connotate, se è vero che sono rintracciabili, nel Decameron, simpatie di costume e di gusto che ancora una volta ci riportano a una visuale fiorentina, a un clima cittadino che fin dall’Amzeto agisce con forza sul Boccaccio. A Firenze sono riferite le manifestazioni più insistenti di un’intelligenza aperta e quotidiana, che investe tutti i ceti di una città privilegiata, si sa, nell’esercizio dell’ingegno; non solo per gli aspetti di avvedutezza, di cautela, di discrezione generali nel Decazzeron, ma anche per quelli che concernono più particolarmente l’arguzia, il 66

motto, l’ironia, la beffa. Il piacere di parole reperibili ad aper-

tura di pagina (« motteggevole », « sollazzevole », « piacevole »

uomo, ecc.); l’importanza conferita, nella VI giornata, alle novelle dei « leggiadri motti », quasi tutte di ambiente fiorentino; il

risalto della figura di Dioneo, il più spregiudicato ed estroso della brigata: tutto questo deriva da una tradizione fiorentina, che stabilisce ammiccanti legami tra novella e novella. Attraverso il filtro di questo clima municipale il Boccaccio giunge pure ad individuare, nelle giornate VII e VIII, il tema (e il gusto) della beffa

(delle mogli ai mariti, e poi generale). Si trovava già scritto, nella terza giornata: « Nella nostra città, più d’inganni piena che d’amore e di fede... » (III, 3, 5); e non c’è reale amarezza, in queste parole, ma piuttosto consenso, ambiguamente divertito, a una delle

avventure più personali dell’uomo, perché da lui interamente provocata e costruita. La beffa è il prodotto, anche locale ed estemporaneo, di una singolare intelligenza in agguato: nella breve frazione della beffa cominciano a misurarsi i « valenti » e i « savi » da una parte, e i « semplici » e gli « stolti » dall’altra. Aggettivi che propongono un’altra verità di base, già enunciata nella prima giornata: « sì come la sciocchezza spesse volte trae altrui di felice stato e mette in grandissima miseria, così il senno di grandissimi pericoli trae il savio e ponlo in grande e in sicuro riposo » (I, 3, 4). Ecco una discriminante, una distinzione fondamentale, spesso crudele e impietosa, nel Boccaccio: l'ingegno può determinare la salvezza o la dannazione terrena dell’uomo. Si precisa, nel Decameron, una morale di natura intellettuale, se l’intelligenza si pone come un valore decisivo anche nell’ambito della vita quotidiana. In questo senso la beffa contiene in sé, pur nella sua località, un contrasto insopprimibile di livelli umani, colto anch’esso come esemplare. Certo, essa può avere un fine economico, un interesse con-

creto, può essere necessaria per salvarsi da un pericolo: ma essa si risolve sempre, agli occhi del narratore, in un contrasto esemplare per classificare gli uomini. Esemplarità che si traduce a sua volta in un gusto estetico della beffa e in una gratuita ammirazione per l’esercizio dell'ingegno che pure vengono riferiti, nel Decameron, a un costume municipale. Firenze non è solo la prima de67

positaria dei valori moderni dell’ingegno: è anche la si elabora una tematica che sarà particolarmente fertile ri » che la svolgeranno, dalla novella alla facezia alla Dall’analisi degli ideali morali e dei gusti sociali del

sede in cui nei « genecommedia. Decazzeron

viene dunque confermata l'impostazione cosmopolitico-municipale

dell’opera. Ed è un panorama che attesta in altro modo il momento critico vissuto ed espresso dal Boccaccio. Nell'ambito di una prospettiva europea, ma sulla base di un’esperienza fiorentina, egli tende ad assegnare all’intellettuale una precisa funzione: additare i valori-base della convivenza umana, essere di nuovo «savio» delle virti terrene. E poiché tale nuova saggezza è in fieri, puramente orientativa, essa si esprime, in concreto, nella breve misura della novella; ma trova anche nelle riflessioni dei novellatori una base

di consapevolezza, il segno indiretto ma preciso della responsabilità che si assume l’autore.

68

Il diletto narrativo e stilistico È

Pur presupponendo un giudizio, il gusto narrativo del Boccaccio si risolve tutto nella prosa, nell’esito stilistico di motivi che determinano la logica di un racconto. La novella è il risultato di una ricerca rivolta al modo con cui si può narrare da « scrittore » (Concl., 17): e ciò costituisce la reale novità del Decameron,

la

complessità del tentativo del Boccaccio. L’autore si rivolge a un pubblico più vasto, simboleggiato dalle donne; eppure, educato sui classici e su una ricca letteratura romanza, pensa di non allontanarsi « né dal monte Parnaso né dalle Muse » (IV, Intr., 36), di

fare dunque opera d’arte, di poesia sempre nel senso medievale del termine.! Sono, nel Decazzeron, gli elementi di una nuova tensione,

che definisce l'impegno più arduo del Boccaccio. Un impegno che implica, per la prosa, un nuovo atteggiamento stilistico, cioè la mobile e puntuale aderenza della parola, della frase, dello stile nel

suo complesso al motivo specifico di una novella. Non solo, si noti, la rispondenza canonica a un contenuto propria degli stili della poetica medievale: ma anche, tra i poli del « comico » e del « tragico », una gamma molto più estesa di espansioni e di interferenze stilistiche, che rendono tutt’altro che univoca o automatica quella rispondenza, e puntano a effetti di commistione e a sorprese di traslazione nello stesso campo espressivo. Tale disponibilità è 1 Per il problema cui si accenna, si vedano, in particolare, G. BILLANOVICH, Scuole di retorica e stella di Venere, in Restauri boccacceschi cit., pp. 3-13; V. BRANCA, Tradizione medievale, in Boccaccio medievale cit., pp. 3-28; G. Di Pino, La polemica del Boccaccio, Firenze, 1953; F. TATEO, Poesia e Favola nella Poetica del Boccaccio, in « Retorica » e « Poesia »... cit., pp. 67-160; R. RAMAT, L'’introduzione alla quarta giornata, in Scritti su Giovanni Boccaccio cit., pp. 93-107. 2 Si vedano le acute osservazioni di E. AuerBACII, Frate Alberto, in Mimesis cit., pp. 222-228; e di V. Branca, Registri narrativi... cit., pp. 29-37, 52-69.

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suggerita, fin dal Proemio, dalla sintomatica apertura con cui il Boccaccio presenta, pur con definizioni esatte, le sue « cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo » ($ 13). Questa sicurezza tipica del Decazzeron è preparata, come è risaputo, da un lungo tirocinio retorico, da un esercizio stilistico che va dal Filocolo ai volgarizzamenti di Livio. Le premesse culturali e gli sviluppi tecnici di tale esercizio, e i modi con cui confluiscono e si risolvono nel Decazzeron, costituiscono uno dei capitoli più ricchi, e ancora aperti, dalla critica boccacciana.? Qui basta

rilevare come l'ambizione stilistica sia presente, nel giovane Boccaccio, con un ardore che riassorbe e compone in moduli letterari la stessa urgenza del materiale autobiografico, che pure è esplicitamente denunciato. Cosî, nel Filocolo, l'omaggio cortese a Fiammetta, il cui « priego » egli accoglie « in luogo di comandamento », è subito legato a un impegno di dittatore, al proposito di distaccarsi dai « fabulosi parlari degli ignoranti »:' il Boccaccio è un cavaliere-scrittore, che combatte per la sua donna non in un torneo, ma nella giostra della letteratura. Il tema dell’errore amoroso, 0ggetto di una tradizione canterina come di una vasta produzione romanzesca, è ora la materia scelta da uno scrittore che intende emulare le grandi opere dei classici. E la vocazione narrativa assorbe subi3 Basti qui rinviare ad alcune

tappe fondamentali

di tale ricerca:

E. G. Pa-

roDI, La cultura e lo stile del Boccaccio e Osservazioni sul “Cursus” nelle opere latine e volgari del Boccaccio (1913), ora in Lingua e Letteratura, a cura di G. Folena, Venezia, 1957, vol. II, pp. 470-492; A. ScHIAFFINI, Lo stile latineggiante dei traduttori dai classici e il volgarizzamento liviano di G. Boccaccio, e Boccaccio

(1932), poi in Tradizione e poesia nella prosa d’arte italiana dalla latinità medievale a G. Boccaccio, Roma, 1943?, pp. 127-197; F. Maccini, Le prime traduzioni di Tito Livio (1916) e Il Boccaccio traduttore dei classici (1932), poi in I primi volgarizzamenti dei classici latini, Firenze, 1952, pp. 54-96; G. PETRONIO, I modi del raccontare, Le parole e lo stile, in Introduzione a G. Boccaccio, Il Decameron, Torino, 1950, vol. I, pp. 44-94; V. Branca, Strutture della prosa: scuola di retorica e ritmi di fantasia (1951), poi in Boccaccio medievale cit., pp. 29-70, è Registri narrativi... cit., pp. 29-76. Né vanno dimenticate le brevi ma acute ossetvazioni di C. DionIsoTTI, Per una storia della lingua italiana (1962) e Tradizione classica e volgarizzamenti (1958), ora in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, 1967, pp. 75-144 (in particolare le pp. 93-96 e 113-117).

4 Cfr. Filocolo, a cura di A} E. Quaglio, in Tutte le opere di G. Boccaccio, vol. I, Milano, 1967, pp. 65-66. Per l’atteggiamento del Boccaccio verso la materia cavalleresca, si veda R.M. RuGGIERI, L’umanesimo cavalleresco italiano da Dante al Pulci, Roma, 1962, pp. 109-134,

70

E la vocanione narrativa assor De

subi

to la testimonianza autobiografica della passione: se già nel Filostrato l'intento di « cantando-natrare li suoi martiri » viene realizzato « in persona d’alcuno passionato », che trasporta l’espressione dalla prima persona propria della lirica alla terza propria della narrazione. E creata una distanza tra la passione del poeta e quella del personaggio che farà « scudo » al suo « segreto amotoso dolore »: e tale schermo narrativo si traduce « in leggier rima e nel suo fiorentino idioma, con stilo assai pietoso », elegiaco, conferito all’ottava.5

Filostrato e Filocolo presentano subito un ritmo di singolare alternanza di strumenti espressivi che è stato più volte rilevato. Le opere in prosa, fino all’Arzeto e alla stessa Fiammetta, svelano sem-

pre un divario tra la tematica, prevalentemente amorosa, e la resa stilistica, a vantaggio di quest’ultima. Sono opere realizzate, per così dire, per eccesso di ambizione stilistica, lungo una linea dove è significativo che l’ottava, strumento del racconto, assuma via via una funzione di alleggerimento e di decantazione rispetto all’ampio canto delle opere in prosa: canto nel senso con cui l’autore designa il Filocolo come « nuovi versi »,° perché sa che la propria prosa, già legittimamente definita in tal modo in quanto prosa d’arte, è anche la traduzione di poeti come Ovidio. L’ottava ha pure la funzione di depurare le liriche e artificiose esuberanze di tale prosa, e pone le premesse di quello che nel Decazzeron è designato « istilo umilissimo e rimesso » (IV, Intr., 3): perché concer-

nente, al di là della topica protesta di umiltà, la vita quotidiana, comico dunque nel senso medievale del termine. In questa prospettiva l’ottava smussa, con una progressione che è avvertibile dal Filostrato al Ninfale feesolano, l’enfasi retorica delle opere in prosa: e non solo per la struttura più decisamente narrativa che le è propria, ma perché in essa l’indagine delle motivazioni psicologiche e delle situazioni topiche e rituali è meno astratta, meno artificiosa5 Cfr. Filostrato, a cura di V. Branca, in Tutte le opere... cit., vol. II, Milano, 1964, pp. 21-22. Non interessa, in questa sede, il problema della priorità cronologica del Filostrato, per il quale si veda P. G. Ricci, Per la dedica e la datazione del «Filostrato », in « Studi sul Boccaccio », I, 1963, pp. 333-347, e V. Branca, Introduzione al Filostrato cit., pp. 3-5. 6 Filostrato cit., p. 67.

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mente convenzionale che negli schemi casistici del Filocolo e dell’Ameto. Ma va subito aggiunto che tale casistica morale-psicologica, che aveva a suo fondamento l’amore, rispondeva alle consuetudini di gruppi aristocratici e intellettuali, al gioco delle « questioni»

care a un costume di corte, il cui riflesso è ancora vivo nel

Decameron, e non solo nelle novelle esplicitamente riprese dal Filocolo (X, 4; X, 5) Anche per questo aspetto il Decamzeron è un momento risolutivo: perché in esso una brigata colta e aristocratica assume la responsabilità del racconto (liberato dalla rigida necessità di esemplificare una questione astratta) e con esso la responsabilità di tutta l’opera. La quale si pone dunque esplicitamente come risultato dell'impegno narrativo di un gruppo, di una compagnia intellettualmente esperta: i « conversari » non si manifestano più all’interno dell’opera (Filocolo o Amzeto), ma tutta l’opera nasce come espressione del conversare di una brigata. L’impegno narrativo, identificandosi per la prima volta con la struttura del libro, implica una coscienza ormai sicura dello scrittore, che coincide ormai con la brigata dei novellatori. Il gusto della novella, che nel Proemio del Decameron trova le sue remote premesse nel ricordo dei « piacevoli ragionamenti d’alcuni amico » ($ 4), si inscrive ora in una collettiva consuetudine aristocratica, e si defi-

nisce come « diletto » di favole raccontate da una compagnia esperta, educata all’arte della parola.’ Svincolato dall’applicazione di schemi cortesi, il Boccaccio propone ora, col Decameron, un testo esemplare per i diletti di una civiltà cittadina. ? Per il complesso problema dell’ottava rima, si vedano almeno A. LIMENTANI, Struttura e storia dell'ottava rima, in:« Lettere italiane », XIII, 1961, pp. 20-77; C. DronIsoTTI, Appunti su antichi testi, in « Italia medievale e umanistica », VII, 1964, pp. 99-131; A. BaLpuino, Tradizione canterina e tonalità popolareggianti nel « Ninfale Fiesolano », « in « Studi sul Boccaccio », II, 1964, pp. 25-79, cui si «rimanda anche per un’aggiornata bibliografia. 8 Utili le osservazioni di G. Papoan, Mondo aristocratico... cit., pp. 93-96 9 Si veda la nota, perspicua ed essenziale, di V. PERNICONE, in G. Boccaccio, Il Decameron e antologia delle opere minori, Firenze, 1943, pp. 27-28, conclusa dalla seguente fine osservazione sull’arte del Boccaccio nel Decameron: «è soprattutto arte di un grandissimo narratore che sente il fascino della novella nell’atto

di essere raccontata » (p. 28). Il disegno più limpido, per lo svolgimento dell’arte del Boccaccio fino al Decameron, resta quello di N. SAPEGNO, Storia letteraria del Trecento cit., pp. 275-317.

72

Questo diletto narrativo costituisce l’animazione profonda dell’architettura del Decameron, e del suo consapevole frantumarsi e proliferare negli stili delle novelle. Un gusto e una letizia del raccontare sempre ribaditi nelle parentesi tra novella e novella, continuamente riaffermati: dalla proposta di Pampinea di novellare, « il che può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto » (Intr., 111) alle nuove regole poste da Filomena,

alla fine della prima giornata, al novellare, « nel qual mi par grandissima parte di piacere e d’utilità similmente consistere » ($ 9),

secondo una trama che ormai si svolge compiaciuta secondo un ritmo preciso; alle conclusioni delle varie giornate e alla stessa impaziente rapidità delle introduzioni: -« con disiderio aspettarono la domenica » (II, Intr., 16), scrive il Boccaccio quando la brigata interrompe per due giorni il proprio esercizio. I giovani della brigata sono unanimi almeno in questa inesauribile gioia di narrare: le novelle sono davvero al centro della loro lieta giornata, e presuppongono una complicità che è spesso avvertibile nel corpo stesso del racconto. Non solo nello schema della novella dentro la novella (I, 3; I, 7), già sintomatico di tale preminente funzione del raccontare, ma anche in particolari minimi, come la relativa che definisce Giotto in una celebra novella: «e messer Forese ca-

valcando

ed ascoltando

Giotto,

il quale bellissimo

favellatore

era... » (VI, 5, 12). Dove l’aggettivo, di uso normale, è voluta-

mente cui si antico non è

usato in antitesi all’aspetto fisico di Giotto: se la parola in esprime il pensiero diventa segno di bellezza, secondo un insegnamento platonico. Solo che il clima della novella platonico, ma argutamente fiorentino; e l'ammirazione di

Forese si tradurrà in una battuta ironica, impietosa, cui Giotto sa-

prà rispondere con una pronta ritorsione. Le battute sferzanti non distruggono, del resto, un’atmosfera di complicità: non distruggono l'ammirazione di Forese, espressa in quella relativa che sospende per un momento la novella in una zona di adesione assoluta, totale, da parte del narratore. È un altro modo per cogliere, attorno e dentro le novelle, quella preminenza della parola cui già si è accennato, in tutti i suoi aspetti: dall’oratoria appassionata alla retorica sinuosa e cattivante, dall’eloquenza dignitosa al linguaggio fur73

besco e allusivo, dalla meditata risposta al motto arguto e pungente. È una retorica in funzione di personaggi sempre diversi, si tratti di eroi astratti come Tito o Gisippo (X, 8) o di eroi comici come Fra Cipolla (VI, 10), che conosce la caduca labilità ma anche

l’efficacia di una parola usata come menzogna e sopraffazione: e sempre ottiene l’adesione, l'impegno stilistico dei narratori. I giovani della brigata non solo lo manifestano narrando, ma ne discutono durante le pause del loro esercizio di novellatori: nei sereni riposi del mattino (« d’una e d’altra ‘cosa vari ragionamenti tenendo, e della più bellezza e della meno delle raccontate novelle disputando... »: VI, Intr., 2), quando si ricordano le novelle del pomeriggio precedente e si stabiliscono gerarchie tra esse, oppure negli echi più tranquilli della sera (« motteggiando e cianciando di ben mille cose, così di quelle che il dì erano state ragionate come d’altre... »: VII, Concl., 7). Discutendo sulle novelle, valutandone

la raccontabilità e il risultato, i giovani esprimono anche in queste parentesi l’animo dello scrittore. Una novella, nella VI giornata, è anzi fondata su questo tema.

È la novella di apertura, quella del breve apologo di madonna Oretta e del cattivo favellatore (VI, 1): una novella, si può dire,

che dimostra le difficoltà della novella e il cui effettivo contenuto è l’esercizio stesso del novellare. Interessante allora perché rivelatrice della coscienza del Boccaccio, della sua acuta vigilanza sui propri modi stilistici: quasi poetica tradotta in limpida rappresentazione, e collocata con rilievo a mezzo del libro. Lo schema può

apparire rudimentale, appena l’espansione di qualche rapido appunto del Novellino, che corre al motto come al punto di massimo rilievo. In realtà il Boccaccio va oltre, e il bozzetto garbatissimo accenna a un vero contrasto tra due persone, inquadrato in una brigata signorile e in un’aura di decoro e di intelligente diporto. E la vicinanza cronologica la rende esemplare per i contemporanei: viene proposto il gusto di un ambiente nel quale il motto è il segno di un’agilità mentale, di una capacità di esprimersi al momento giusto nel modo giusto (e Filomena deplora che poche donne abbiano conservato simile dote), e dove la proprietà del favellare è sentita ed apprezzata come una raffinata qualità dello spirito. E 74

tale la considera il Boccaccio, ben lontano dal dire « malcompostamente » ($ 1) le proprie storie: perciò la novella è per antifrasi una viva esaltazione della tecnica del narrare. Per queste ragioni il periodo centrale, che descrive il modo tenuto dal cattivo favellatore, è il più lungo e complesso della novella: Messer lo cavaliere, al quale forse non istava meglio la spada allato che ’1 novellar nella lingua, udito questo, cominciò una sua novella, la quale nel vero da sé era bellissima, ma egli or tre e quattro e sei volte replicando una medesima parola, ed ora indietro tornando, e talvolta dicendo: « Io non dissi bene », e spesso ne’ nomi errando, un per un altro ponendone, fieramente la guastava ($ 9).

Dove la serie affollata dei gerundi che impacciano il periodo esprime lo stento narrativo di chi, come scriverà più oltre, « era entrato nel pecoreccio » ($ 10); perfetta traduzione stilistica di una mancanza di stile, essa sfocia, dopo tanto affanno, nella

forte clausola « fieramente la guastava »: condanna irreparabile, che esprime lo sdegno di chi assiste a una profanazione. Seguirà una seconda precisazione: « senza che egli pessimamente, secondo le qualità delle persone e gli atti che accadevano, proffereva » ($ 9): frase esemplare, ad esprimere il necessario adeguamento dello stile ai personaggi e agli eventi. E non si dimentichi il dubbio che il Boccaccio esprime sulle qualità del cavaliere («...al quale forse non istava meglio la spada allato che ’1 novellar nella lingua... »): la relativa, che sembra una pura battuta polemica, è in realtà sto-

ricamente importante, perché il pregio della spada, che era valore tipicamente cavalleresco, deve allearsi, per il Boccaccio, al pregio

della parola chiara e pertinente: e testimonia, in modo emblematico, il trapasso da una nobiltà feudale, guerriera, a una nobiltà cittadina, intellettualmente raffinata. È questo uno dei più sinceri giudizi di valore del Boccaccio, che suggerisce gli attributi di una nuova aristocriazia intellettuale, e lega ad essi la propria nobiltà di narratore. Perciò la tecnica della novella, tipica di un nuovo costume, è espressa, indirettamente ma con efficacia, attraverso la rappresentazione di un cavaliere che è pessimo favellatore; è proposta e contrario, per negazione e per condanna. Ritraendo un nonda

novellatore, egli indica le qualità del vero novellatore, del cui pubblico madonna Oretta, « costumata donna e ben parlante » ($ 5), è un simbolo privilegiato. Un pubblico esigente ed acuto: il motto di Oretta, che riprende con agilità la metafora del cavallo usata dal cavaliere, contrappone alla grossolanità dell’interlocutore un’arguta intelligenza critica che risponde a quella del Boccaccio. Quel motto, dopo quell’affannato raccontare, è una sorta di liberazione: tant'è vero che esso ottiene il suo effetto pedagogico, perché riscatta il cavaliere almeno come intenditore, se non come novellatore,

e lo reinserisce nel suo ambiente aristocratico. Anche in una novella dal profilo narrativo semplice e rapido l’arte del Boccaccio si rivela ricca di sfumature, proprio perché egli vi immette l’acuta coscienza della funzione e delle esigenze della sua tecnica di narratore. Ma l’architettura fornisce altre importanti indicazioni: sia per la consapevolezza riflessa che il Boccaccio dimostra della propria novità di narratore, sia per il significato storico che essa comporta. Il diletto del racconto non solo sposta su un nuovo piano la tensione stilistica del Boccaccio,

ma

annuncia

una

concezione

della

forma artistica che va oltre i canoni tradizionali. Si pensi, ad esempio, al modo con cui il Boccaccio giustifica l’audacia contenutistica di certe novelle: opponendo una difesa di ordine edonistico a un’accusa di ordine moralistico. Fin dalla prima giornata, infatti, egli affida a Dioneo una maliziosa argomentazione, che nel giro prudente delle subordinate e degli incisi insiste soprattutto sull’impegno della brigata di « novellando piacere », e di conseguenza, « solamente che contro a questo non si faccia », sulla convinzione che a ciascuno debba « esser licito... quella novella dire che più crede possa dilettare » (I, 4, 3). Dopo tre novelle in cui è sempre presente il motivo religioso, Dioneo rompe con l'atmosfera sostenuta creata da Panfilo, con l’alta considerazione dell’uomo trava-

gliato dalle cose umane, e introduce di colpo una novella di tipo diverso, che può quasi apparire una piccola pochade, dove i protagonisti sono un monaco e il suo abate. E Dioneo non esita a stabilire un rapporto tra Abraam, che « per li buoni consigli di Giannotto » ha « l’anima salvata », e la « cautela » con cui « un monaco 76

il suo corpo di gravissima pena » riesce a liberare ($ 3). Non si avvertono solo l’ironia-e la spregiudicatezza di Dioneo; c’è anche una prima messa a punto di ordine espressivo, che impone il diletto come fine del novellare. Apuleio suggerirà più tardi a Dioneo un quadro di commedia volgare, del tutto coerente come novella furfantesca, e tra le più audaci del Decarzeron: e ancora una volta Dioneo si difende affermando che quantunque la materia « ...sia in parte meno che onesta, però che diletto può porgere, ve la pur dirò » (V, 10, 4). Anche qui la preoccupazione moralistica è esplicitamente subordinata all'intento edonistico. Ora, che la spregiudicatezza di Dioneo non sia semplicemente di tipo edonistico (il piaciere in sè, che è pure esigenza importante) ma coinvolga un diletto di natura estetica, concernente l’autonoma validità dello stile

narrativo, è confermato dall’Introduzione della IV giornata e dalla Conclusione del Decameron, dove il Boccaccio assume direttamente

la difesa dell’opera, con più risentita eloquenza nella prima, con toni prevalentemente caricaturali e ironici nella seconda, ma sem-

pre insistendo sul valore di invenzioni poetiche, nel senso che abbiamo già chiarito, delle sue novelle. Egli rivendica cioè la libertà dell’espressione poetica, in questo caso della prosa narrativa, con argomenti interni alla prosa stessa, inerenti allo stile di essa, e tali da mettere in secondo piano, al limite da rendere inutile, l’ingegnosa difesa dalle accuse di immoralità. E lo stile, cioè la capacità di raccontare con arte una data materia, che è determinante nella

giustificazione dell’opera: il che è evidente nella Conclusione, quando esclude la disonestà delle novelle: « Primieramente se alcuna cosa in alcuna n'è, la qualità delle novelle l'hanno richiesta, le quali se con ragionevole occhio da intendente persona fien riguardate, assai aperto sarà conosciuto, se io quelle della lor forma trar non avessi voluto, altramenti raccontar non poterle » (Concl., 4). Non

è solo riaffermata la raffinatezza di uno stile che è aderente alla « qualità » sempre diversa delle novelle: ma si postula anche una realtà mondana valida in sè, la cui varietà, per essere espressa, cri una scelta dello scrittore, una « autorità », come egli scrie ($ 6), un diritto a usare segli diversi secon il giudizio che egli stesso è portato a formulare sulla propria materia. Materia N.

vastissima, come sappiamo, e di origine eterogenea:

ma sottratta

dalla legge essenziale del diletto a ogni finalità moralistica, come è spesso ribadito, e affidata solo al tentativo dello scrittore di ela‘borarla in una prosa d’arte, sotto la protezione delle Muse. Perciò questi stili diversi costituiscono anche i modelli di nuovi « generi », costruiti dall’intellettuale con le proprie scelte: non è più una realtà interpretata secondo Dio, ma una realtà assunta dall’uomo, il che implica una materia soggetta all'invenzione stilistica dello scrittore. Muteranno perciò le prospettive stilistiche delle singole novelle, anche dove il nucleo narrativo è tematicamente affine: come è dimostrato dal rapporto tra gli argomenti obbligati di una giornata e la libertà espressiva dei singoli novellatori. Il Decameron contiene in sé, potenzialmente, i vari generi di una prosa ordinata a un fine terreno, in cui lo stile è l’espressione di una scelta,

al limite di un arbitrio dello scrittore, che individua soggettivamente varie direzioni del narrare." Si può dunque individuare, nel tessuto teso e problematico delle affermazioni, polemiche o difensive, del Boccaccio, il germe di un concetto nuovo di letteratura, che risiede nella libertà inventiva di

un linguaggio che è solo aderente alla dimensione dei propri oggetti interni, di quelli puntuali scelti per il narrato. Il che è altra cosa dall’invenzione linguistica di Dante, il cui postulato ideologico è il riconoscimento, il più comprensivo possibile, di un mondo creato da Dio; l’organizzazione degli stili risponde al tentativo di esprimere in modo adeguato non solo la ricchezza inesauribile, ma l’ordine del creato. Il Boccaccio è invece al livello di un mondo che gli si presenta come disponibile: egli lo può ritagliare, selezionare, inquadrare e descrivere con la massima libertà espressiva. Non narra più solo per insegnare, ma anche per insegnare, per così

dire, le leggi del narrabile. La distanza tra la prosa schematica, mettiamo, del Novellino, che pur è un libro chiaramente laico, e l’elaborazione complessa del Decameron, si spiega, innanzi tutto, 10 Non sembra perciò che il Decameron possa essere interamente risolto nell'ambito delle poetiche medievali, pure presenti con l’ampiezza che ridocumenta V. Branca, Registri narrativi... cit., pp. 29-44, cui si rimanda anche per la bibliografia essenziale sulla questione.

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con uno spostamento dell’impegno dello scrittore, il quale non scrive più ad honorem Dei (e Dio può essere un qualsiasi valore, anche laico, che trascenda il racconto e ne spieghi la necessità). Si

racconta per fissare insieme uno stile e un effetto nuovi. È dunque un racconto antidogmatico, aperto, rinnovato secondo i personaggi, le qualità e i valori messi in gioco, la situazione in cui essi si manifestano, l’azione che determinano. In questa mobile attenzione risiede appunto il diletto narrativo. E il limite storico di tale narrare sarà soltanto il limite ideologico della casta di intel-

lettuali che lo propone alla società. In simile prospettiva anche l’attenzione alla parola e alla costruzione, cioè la cura che il Boccaccio manifesta per gli elementi

lessicali e sintattici, va valutata come la spia più sensibile di questa ricca sperimentazione stilistica del Boccaccio. Non si tratta tanto del gusto analitico, circoscritto, che è stato spesso rimproverato allo scrittore: lo stile del Boccaccio non si frantuma nel particolare, ma piuttosto motiva l’elemento lessicale e sintattico in funzione della coerenza espressiva di tutta la novella. È raro che la novella sia cronaca indiscriminata e casuale, fedele agli oggetti locali del racconto, sviata da una digressione o indugiante secondo i capricci dell’immaginazione: essa è un organismo che obbedisce a una logica essenziale, che varia di novella in novella, ma deter-

mina un canone usato quasi sempre in modo vigile ed esperto." Una vigilanza che si può riscontrare già nella felicità apparentemente isolata di un vocabolo, di pochi termini i quali bastano a creare una certa dimensione narrativa. È sufficiente, nella prima. novella, una definizione storicamente pregnante come « questi lombardi cani » (I, 1, 26) per suscitare la reale dimensione scenica della commedia di Ciappelletto, per suggerirne la necessità, il ‘ pericolo che essa tenta di sventare, e dunque la tensione del gioco sostenuto dal protagonista in funzione dei due usurai che egli vuole aiutare: per dare quindi anche al finale (i Borgognoni raccolti in chiesa a venerare il nuovo santo) una malizia più profonda. La 11 Felici osservazioni, sul lessico e sullo stile del. Decazzeron, sono reperibili in G. PerronIO, Introduzione... cit., pp. 62-94.

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confessione di Ciappelletto non appare un puro gioco intellettuale fatto in punto di morte, che coinvolge il suo destino; è anche, e innanzi

tutto,

un’invenzione

rischiosa,

attuata

per salvare

due

compatrioti in un paese straniero e ostile: il che non impedisce che essa riveli in profondità la psicologia del protagonista. L’invenzione comica e linguistica, insomma, prende luce da un contesto preciso. Così il valore più generale, di apologo del senso cui il narratore aderisce, che assume nella II, 10 la necessità di appagare gli istinti naturali, si risolve, nel discorso della giovane Barto-

lomea che spiega al marito perché preferisca il giovane corsaro che l’ha rapita, in un’orazione costruita su una trama di metafore sessuali e di incisi estrosi che volutamente rovesciano gli insegnamenti devoti impartiti da Ricciardo, e dimostrano così la felicità anche intellettuale della rivolta maturata dalla moglie. Perciò la giovane Bartolomea afferma i propri diritti naturali con una esuberanza stilistica che dà polemico rilievo a un'intelligenza capace di ribattere gli argomenti di un marito « intellettuale »: opponendo la retorica di una nuova, laica sapienza, ricca di verve e di inven-_

zioni espressive, a quella ambigua e contorta di una vecchia sapienza dogmatica e astratta, che strumentalizza i testi sacri per coartare la vitalità naturale. Per analoghe ragioni la caricatura di un frate ipocrita, nella I, 6, è ottenuta con l’insistenza retorica di

superlativi, di antitesi e di parallelismi che si sviluppano lungo tutta la novella, ed esprimono, per così dire, la solidarietà stilistica dello scrittore col « valente uomo » perseguitato, sottoponendo la narrazione di un fatto al continuo commento, nella pagina, di esso. Così, nella VI, 8, il maligno ritratto di una ragazza ritrosa

e bisbetica si traduce in uno stile tutto aggressivo e ritmato, fin dalla prima sequenza trimembre di aggettivi che definisce il personaggio —

« spiacevole, sazievole e stizzosa » (VI, 8, 5) —,

che

proietta una luce quasi livida su tutto il bozzetto. Lo stile ci avverte allora che si tratta non tanto di una novella fondata sul motto quanto di una pagina polemica che esige un ritratto caricaturale: e la caricatura è appunto ottenuta con l’eccesso aggressivo, aspro dello stile. Fuori di questa prospettiva, suggerita dal registro 80

-

stilistico, la novella rischierebbe di risultare insipida, priva di rilievo. Sono esempi di interventi per così dire esterni dello scrittore sulla pagina, diversi da quelli funzionali a un ritratto interno alla rappresentazione: si pensi, per ritornare alla I, 1, al sapore untuosamente equivoco che assumono, nel linguaggio confessionale di Ciappelletto, certi diminutivi che ritornano con un aspetto di suadente efficacia sul frate, e insieme di sottile ironia per il lettore più distanziato. Se Ciappelletto parla dei suoi peccati di gola, confessa di aver desiderato più volte « cotali insalatuzze d’erbucce » (I, 1, 4): è proprio il diminutivo, il portare un oggetto al suo limite minimo, a ingrandire la scrupolosità della coscienza morale, a produrre sul frate l’effetto cui mira Ciappelletto. Così egli parlerà di « picciole mercatantie » ($ 46), così un brutto pensiero respinto sarà un « pensieruzzo » ($ 51). Non si dimentichi che Ciappelletto è un ometto, carico di vizi ma « piccolo di persona » oltre che « molto assettatuzzo » ($ 9): c’è quindi un rapporto di correlazione tra il personaggio e lo stile che usa, e nello stesso tempo di sorprendente capovolgimento, perché quello stile ingigantisce il rigore di una coscienza morale che sappiamo grandiosamente deforme e degradata. Il linguaggio dello scrittore è sempre sensibile ai particolari lessicali, per raggiungere un effetto complessivo che è determinato dalla logica propria di una novella. La stessa attenzione è reperibile al livello della costruzione del periodo, dei movimenti sintattici più ampi come degli incisi e delle rotture che spesso si riscontrano all’interno della stessa novella, perché mettono volutamente in rilievo il salto di ritmo narrativo prodotto da una vicenda. Così, nella II, 5, il discorso ampio e dignitoso della giovane ciciliana, quando riceve Andreuccio, si appoggia a un periodare nobile e solenne, fondato sull’ipotassi, ricco di subordinate e di incisi sapienti, che rispondono alla commedia della commozione e della nobiltà che la donna sta recitando (II, 5, 18-23). Ebbene, da questo clima di alta retorica, o meglio di commedia della retorica, scatta improvvisamente, una volta che Andreuccio è caduto nel chiassetto, un nuovo ritmo sintattico, che si risolve in una evidente e voluta rapidità narrativa,

quasi frenetica, perché l’azione scopre ora la trivialità e la cupidigia 81

della donna, e squarcia di colpo, con un effetto di sorpresa anche per il lettore informato, il velo della finzione. ma il fanciullo, come sentito l’ebbe cadere, così corse a dirlo alla donna, la quale, corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni v’erano; e frovati i panni e con essi i denari, ...più di lui non curandosi, prestamente andò a chiuder l’uscio... (II, 5, 40}12

Si passa, nel giro di un periodo, regolato dall’ipotassi ma in una serie di frasi brevissime, a un’azione rapida e improvvisa, che svela la reale dimensione in cui agisce la ciciliana. La donna, dopo la commedia degli affetti, rientra cioè nell'ambiente equivoco che è il vero protagonista della novella. E perciò nella seconda parte, una volta che si è passati dall’interno della casa della ciciliana all’esterno della città notturna, il racconto procederà in modo veloce e serrato, con periodi spesso paratattici e frasi legate dal polisindeto: E senza più parole fare, essenda già mezza notte, n’andarono alla chiesa maggiore, ed in quella assai leggermente entrarono, e furon all’arca, la quale era di marmo e molto grande; e con lor ferri il coperchio, che erà gravissimo, sollevaron tanto quanto uno uomo vi potesse entrare, e puntellaronlo. E fatto questo, cominciò l’uno awdiressi(IIL05071272):

Si noti la quantità di azioni che si succedono in un solo periodo. Ma appunto questa è la normalità dell'ambiente rappresentato: la banda dei ladri ha fretta, tutto è organizzato. È la logica incalzante dei miserabili dei bassifondi, cui Andreuccio dovrà adeguarsi. Così quando il periodo si amplia, si costruisce e insieme si rompe in subordinate e in membri paralleli, esso è sempre in funzione di un natrato, esterno o interno, più complesso, perché segue una pro-

gressione di atti o di pensieri spesso complicati o tortuosi: e allora il periodo del Boccaccio non teme la lunghezza né le inversioni, né gli stessi calcolati anacoluti. Si leggano, per esempio, le parti iniziali della I, 1 o della I, 3, quando si parla di Musciatto 12 I corsivi

82

sono

ovviamente

miei.

Franzesi, che non sa chi scegliere per riscuotere i crediti fatti ai

borgognoni, « uomini riottosi e di mala condizione e misleali » (I, 1, 8), o del Saladino, che si trova in difficoltà finanziarie, e pensa

ai denari del giudeo Melchisedech e insieme non vorrebbe estorcerli con la forza: ogni membro del periodo segue sinuosamente il lungo giro del pensiero di Musciatto Franzesi e del Saladino. E si legga, su un altro piano, il periodo che segue l’andirivieni sconnesso dei pensieri che si agitano nel cervello pazzo e allucinato di maestro Simone, un medico che vorrebbe far parte della compagnia di Bruno e Buffalmacco (VIII, 9, 8-10). Da una parte il pensiero

di uomini avveduti, dall’altra i pensieri di un cervello malato: ma essi traducono in ugual misura la capacità analitica del Boccaccio, e ci fanno capire come essa si risolva sempre in narrazione, anche

quando oggetto del racconto non è l’agite dell’individuo, ma lo sviluppo interno dei sentimenti e dei pensieri che preparano un’azione. Si legga l’inizio della I, 3: Il Saladino, il valore del quale fu tanto che non solamente di piccolo uomo il fe’ di Babilonia soldano, ma ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani gli fece avere, avendo in diverse guerre ed in grandissime sue magnificenze speso tutto il suo tesoro, e per alcuno accidente sopravvenutogli bisognandogli una buona quantità di denari, né veggendo donde così prestamente come gli bisognavano avergli potesse, gli venne a memoria... (I, 3, 6).

Si parte dal Saladino, dal suo valore, dalla sua magnificenza, dalla sua grandezza. È un aspetto importante, per dar rilievo a ciò che segue: quest'uomo che è diventato potente, che ha riportato tante vittorie, che è magnifico (in modo anzi eccessivo), si appresta

a commettere un atto contrario a quanto egli è. Si parte dunque da questo ritratto generale, per accumulare poi, rispetto ad esso, gli elementi della circostanza particolare in cui viene a trovarsi il Saladino, di una situazione improvvisamente difficile. In questo lento accumularsi di dati, ecco lo scatto di un’idea: « gli venne a memoria un ricco giudeo, il cui nome era Melchisedech, il quale prestava ad usura in Alessandria... » ($ 6). Il pensiero sbocca, con finezza, in un personaggio che appare antitetico a quello del Sala83,

dino: grande e generoso signore, questi; un mercante quello, i cui connotati non suscitano alcuna simpatia, sia a causa dell’antisemitismo largamente diffuso nel Medio Evo cristiano, sia per la natura del mestiere particolarmente odioso che esercita. La situazione di partenza oppone dunque un personaggio positivo, il Saladino, e un personaggio tendenzialmente negativo, Melchisedech, di cui verrà anzi sottolineata, subito dopo, l’avarizia: e pensossi costui avere da poterlo servire, quando volesse; ma sì era avaro che di sua volontà non l’avrebbe mai fatto, e forza non gli voleva fare; per che, strignendolo il bisogno, rivoltosi tutto a dover trovar modo come il giudeo il servisse, s’avvicinò di fargli una forza da alcuna ragion colorata ($ 6-7).

Si precisano qui, con un effetto di sorpresa, gli elementi di una contraddizione: l’ingegno del Saladino tende a trasformarlo in un sopraffattore, il che colloca di colpo Melchisedech al posto della vittima. E l’ondeggiare del pensiero del Saladino, che è consapevole di usar male la propria sottigliezza, svela un’intima debolezza cui si contrapporrà, con un nuovo rovesciamento di rapporti, la finezza della risposta di Melchisedech, cioè la forza di un’intelligenza. Sono tutti elementi indicati da un periodare che segue il progredire del pensiero del Saladino, e prepara la doppia sorpresa della novella: perché l’idea del Saladino otterrà un risultato del tutto diverso da quello che egli si proponeva, ma proprio per questo, grazie allo stabilirsi di nuovi rapporti di complicità intellettuale, egli potrà avere i denari cui mirava. Ed è in questo interferire di piani interni ed esterni, legati da correlazioni e opposizioni, che si costruisce la narrativa del Boccaccio.

Allo stesso

modo nella VI, 2, introdotta da un impegnativo cappello di ordine morale, l’azione è aperta da un periodare interno, di natura psicologica, che è un ritratto indiretto della vigile discrezione del fornaio Cisti: Il qual, veggendo ogni mattina davanti all’uscio suo passar messer Geri e gli ambasciadori del papa, ed essendo il caldo grande, s’avvisò che gran cortesia sarebbe il dar loro da bere del suo buon vin bianco; ma avendo riguardo alla sua condizione ed a quella di messer

84

Geri, non gli pareva onesta cosa il presummere d’invitarlo, ma pensossi di tener modo il quale inducesse messer Geri medesimo ad invitarsi (VI, 2, 10).

L’articolazione del periodo riflette la complicata, quasi tortuosa discrezione di Cisti, nel quale matura lentamente un’idea singolare: i due 724, che sembrano indicare una fatica sintattica del Boccaccio, esprimono in realtà il modo con cui tale idea si fa strada tra gli elementi di una situazione contraddittoria, che pur eccita la curiosità del personaggio. Il tempo narrativo interno non solo prepara l’azione, ma è il ritratto indiretto di un personaggio: ed è svolto secondo un ritmo di progressione che risponde alla graduale ricezione di chi ascolta (o legge). Un ritmo che è conservato quando si passa, nel periodo immediatamente seguente, a uno stile descrittivo, rappresentativo, nel quale l’idea, che non è stata chiarita come progetto, si traduce in azione: Ed avendo un farsetto bianchissimo indosso ed un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali più tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l’ora che egli avvisava che messer Geri «vin gii ambasciadori dovesser passare, si faceva davanti all’uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d’acqua fresca ed "in picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevan d’ariento, sì eran chiari: e a seder postosi, come essi passavano, ed egli, poi che una volta o due spurgato s’era, cominciava a ber sì saporitamente questo suo vino che egli n’avrebbe fatto venir voglia a’ morti (VI, 2, 11).

Il periodo accumula puntualmente i particolari della messa in scena (l’attore, gli oggetti, l’azione) e insieme li lega tutti, ipotatticamente,

quali estrinsecazione

di un pensiero preciso. Il ritmo

è uguale: ma mentre nel primo periodo si avvertiva l’elaborazione graduale di un’idea strana e singolare, qui il nitore eloquente delle immagini e il forte rilievo degli oggetti e dei gesti traducono in atto un tentativo di seduzione, che sboccherà del resto nell’effetto previsto. La novella si costruisce lentamente su questo duplice registro narrativo (interno ed esterno, psicologico e rappresenta-

tivo), che permette al lettore di afferrare i termini di un rapporto

85

umano minimo, il quale però, nella sua apparente stranezza, offre uno spunto concreto e quotidiano a una lezione di carattere sia morale (il rapporto tra Fortuna e Natura) sia sociale (il rapporto tra individui di classi diverse).

L’analisi potrebbe continuare a lungo, spaziare dall’ampio giro oratorio dell’eloquenza alla duttilità di un dialogo appena interrotto da essenziali didascalie: ma avremo il modo di verificare in concreto la mobilità dello stile boccacciano, l’attenzione con cui lo scrittore sceglie, dispone e gradua i propri elementi espressivi. Qui è sufficiente rilevare che la latitudine narrativa, e la molteplice articolazione di registri stilistici che ne deriva, è la cifra essenziale del Decameron. Grazie al gusto narrativo che lo sorregge, la novella è per la prima volta, in modo organico e coerente, un m70d0

di essere raccontata. È in questa sede che si chiarisce definitivamente la differenza sostanziale tra il Novellino e il Decameron: all’anonimo scrittore del Novellino, pur stilisticamente provveduto, interessa essenzialmente quanto è narrato, l’eloquente utilità di un detto o di un fatto notevole, mentre al Boccaccio interessa anche

come è narrato. Ed è un come mutevole e sorprendente: perché è lo scrittore a stabilire, di volta in volta, il nesso tra un’occasione

tematica e la sua realizzazione espressiva. In conclusione,

schematizzando

al massimo

i risultati del no-

stro esame, potremmo dire che se il reale conferisce alla prosa delle novelle i presupposti di solidità e di verità, e le riflessioni morali del Boccaccio offrono le motivazioni di base alla loro tematica, solo

l'invenzione soggettiva conferisce alla novella la legge ritmica di un motivo; e la tecnica stilistica assicura ad esso un movimento

concreto nella pagina. È indubbia l’attenzione alla realtà, che viene in ogni momento interrogata per la mobile novità delle sue proposte; ma solo la coscienza stilistica del Boccaccio permette a una proposta di esplicarsi con altrettanta novità. Sono questi i punti estremi che definiscono il lavoro narrativo del Boccaccio, fra i quali è possibile cogliere strati intermedi di interessi e di sollecitazioni. Ma definitivo resta in ogni caso l’esito stilistico di un motivo che si impone come logica del racconto. 86

Tutto questo spiega perché la novella del Boccaccio non possa definirsi con formule di.contenuto: non solo per la grande varietà dei motivi, ma per il linguaggio diverso che di volta in volta li esprime. Nella zona del gusto, si possono certo suggerire preferenze tematiche o tonali: dare via via rilievo all’intelligenza o alla saviezza, alla sensualità o alla finezza cortese, alla beffa o all’umana cavalleria, al comico o al patetico. Si tratta di notazioni giuste, che esauriscono però quella che potremmo chiamare la preistoria della novella, cogliendo ciò che ha spinto lo scrittore a narrarla: ma la vera storia della novella si esprime nelle variazioni narrative che ogni tema propone al Boccaccio. Perciò novelle di argomento affine sono in realtà profondamente diverse sul piano dello stile. Il Boccaccio sapeva bene di non ripetersi: per questo, ripetiamo, egli può raccogliere alcune novelle nell’ambito di uno stesso tema; il tema è unico, ma le varianti sono numerose. Potremmo riunire,

per esempio, con la categoria della sensualità, o magari, come alcuni hanno fatto, con il gusto della metafora oscena novelle come quella di Alibech e del romito (III, 10), quella dell’usignolo (V, 4), e quella di Donno Gianni (IX, 10). Sono certo tre novelle audaci,

dove è esplicito il tema della sensualità, anzi della sessualità. Eppure le tre novelle rivelano tre diversi interessi, e aprono quindi tre diversi modi narrativi. La prima (III, 10) è un apologo malizioso e fiabesco, che subordina le figure, appena delineate, di Alibech e di Rustico a una metafora che è il simbolo di una insopprimibile legge di natura: tale metafora è il nucleo narrativo deila novella, ne regola il ritmo e la sorridente conclusione. La seconda (V, 4) risolve invece la metafora dell’usignolo e la parabola

sessuale che ne deriva in un quadretto di interno familiare discreto e affettuoso, che dà risalto al rapporto fra genitori e figli: è la domestica dialettica di autorità e libertà a dare vita e senso ai personaggi. La terza (IX, 10) risolve il termine equivoco della « coda » nel sorprendente bozzetto di un ambiente popolare, miserabile e. arretrato, che giustifica ogni superstizione, la fiducia nella magia come il riflesso istintivo che interrompe l’operazione: lo scherzo sessuale è subordinato alla caratterizzazione di un mondo subalterno,

dove animali e uomini si equivalgono, che costituisce il raffinato 87

divertimento del narratore. Le tre novelle, apparentemente affini, si svolgono dunque secondo tre divergenti direzioni narrative. Analoghe considerazioni sono possibili se si riferisce un tema a una disposizione morale o ideologica del Boccaccio. Così la tematica comica e sensuale, rapportata alla satira anticonventuale, basta a collegare le novelle del giovane monaco (I, 4), di Masetto da Lamporecchio (III, 1), della badessa e delle giovani monache (IX, 2)?

Ci impediremmo un’esatta comprensione di esse; anche se la malizia ironica di chi smaschera l’ipocrisia della-vita di convento, mediante l’esaltazione delle forze della natura, è comune alle tre

novelle. Ma è pur vero che esse si concretano in tre diversi modi narrativi. La prima (I, 4) è un coperto contrasto di due uomini, una

schermaglia che è tutta azione sorretta da tacite riflessioni; e la giovinetta che entra in convento è l’oggetto preciso ma anche l'occasione di questo rapido duello intellettuale, che riconcilia alla fine i due contendenti nel complice riconoscimento della legge del senso. La seconda (III, 1) è un racconto più complesso, nel quale

il convento delle monache costituisce una sorta di dimensione scenica che accoglie la commedia del protagonista, impasto contadinesco di senso e di furberia; e la stessa forza della natura stringe e allarga il rapporto tra il personaggio e il coro di monache che gli sta attorno, secondo un ritmo di commedia che si svolge da un prologo alla paradossale conclusione. La terza (IX, 2) trova il suo significato nella mimica trascrizione di un ambiente di monache, irrequiete e pettegole; e l’esilissima favola è solo la molla per sommuovere una collettività repressa e maligna. Anche in questo caso la tematica conventuale è fonte di tre diversi divertimenti stilistici. Solo nella mutevole espansione stilistica dei vari motivi sembra possibile cogliere uno sviluppo interno al Decameron, tale da indicare una ricerca espressiva che non coincide con le divisioni tematiche delle giornate. Un'analisi di modi narrativi sembra dunque 13 È quasi inutile avvertire che l’analisi che ne deriva è opposta, nel metodo e nelle prospettive, a quella di T. Toporov, Grammaire du Décameron, The HagueParis, 1969: il quale, nella sua ricerca narratologica, mira più a una grammatica del racconto in generale che a quella del Decamzeron, pur assunto a esempio privilegiato per lo studio della narrazione (pp. 10-11). La ricerca è legittima, anche se

88

giustificata dal movimento della prosa boccacciana, dall’aspirazione che essa rivela a fornire alla trascrizione del reale alcuni essenziali moduli espressivi. A tale analisi ci volgeremo ora: con schemi provvisori, con classificazioni puramente orientative per una lettura puntuale del Decarzeron.

la sua riduttività, esplicitamente dichiarata come funzionale alla definizione di un congegno narrativo (pp. 11-14), rischia subito alcuni controsensi sulla natura dell’opera (predominanza dell’azione e dell’intrigo, causalità evenemenziale e non

psicologica, ecc.), e la semplifica in modo indebito, risolvendo un’opera letterariamente complessa in un nucleo primitivo di narratività (p. 11). Si leggano, a questo proposito, i precisi rilievi contenuti nella recensione di L. Rossi, in « Cultura Neolatina », XXIX (1969), 3, pp. 287-290. Cerca invece, sia pure sotto forma

di appunti, di porsi il problema della varietà stilistica e ideologica delle novelle, della costruzione aperta del libro (p. 173) in rapporto a una nuova coscienza che si rivela in fieri durante la creazione dell’opera (p. 230), del mutamento non solo « dell’oggetto del racconto » ma anche del « mutamento di relazione col racconto stesso » (p. 209) V. SkLovsKkiJ, Lettura del Decameron, Bologna, 1969: con notazioni divaganti ma spesso acute. Ma su questi due studi, di cui non ho potuto tener conto nell’elaborazione di queste pagine, ritornerò in altra sede.

89

SE È È o:We

DD

Il racconto

Uno dei linguaggi più legittimi del Boccaccio (e la prima novità del libro, se rapportato alle opere precedenti) è il racconto: con esso, indichiamo un narrato risolto senza residui in un puro fluire di vicende, di fatti. È un tipo di narrazione che accoglie il mondo esterno nella sua eventualità: nelle possibilità che contiene di un sorgere continuo di eventi, spesso imprevisti. Non contano tanto

le figure umane, i personaggi, quanto i fatti cui essi sono soggetti, e il susseguirsi di questi secondo un ritmo che è insieme di sorpresa e di casualità. In questo senso, il racconto rappresenta visibilmente uno degli estremi stilistici della prosa del Boccaccio, è il segno evidente di una curiosa adesione al reale; e il punto di partenza, anche, di un complesso sviluppo, che giunge all’attualità teatrale di altre novelle. È bene perciò fissare subito, con esattezza, quest’apertura nuova dello stile del Boccaccio, da cui si sprigionano altre soluzioni narrative. Superato il lirismo delle opere giovanili, il romanzo, depurato per lo più dall’enfasi retorica e da macchinosi elementi magico-fiabeschi, si fa novella lunga, il cui ritmo temporale acquista una stretta e serrata causalità. Quanto accade è plausibile, motivato

com’è da una dimensione ambientale e dagli impulsi naturali: non è straordinario perché prodotto da forze esterne o trascendenti il mondo umano. Nel racconto i casi hanno un’origine tutta terrena; e la prosa del Boccaccio si presenta allora, sul piano della struttura narrativa, come duttile rispondenza verbale al flusso della vita, colto in un tempo avventuroso ma esplicabile, in una lucida concatenazione di eventi. Paesaggio,

ambiente,

uomini, oggetti, sono

visti, a tale livello, nella loro interazione, senza ulteriori approfondimenti: è una legge di relazione che regola sostanzialmente il 93

racconto. E se si obietta che non è un avventuroso fresco o ingenuo

ma minuto e realistico, anche in ambito romanzesco, a ispirare il

Boccaccio, è subito possibile rispondere che quel particolare realismo interno al racconto, cioè la ricchezza di elementi e la monda-

nità del rapporto tra eventi e persone, è la novità del Decazzeron, la prima conquista del Boccaccio, che crede al meraviglioso della vita terrena, nella quale l’uomo agisce con le proprie prerogative e magari provoca le vicende, e poi vi resta costretto e sottomesso,

talora vinto, quando non riesce a superare l’aggressione esterna degli eventi. L’accadimento, come netto valore narrativo, si impone al Boccaccio:

lo dimostra la novella di Alatiel (II, 7), col suo sottile

significato in una prova-limite del Decameron, dove individuo ed evento, personaggio e destino terrestre possono trasmutarsi e com-

penetrarsi. È difficile dire se Alatiel sia un personaggio o un elemento delle avventure che sprigiona naturalmente il mondo mediterraneo; se desideri e voglia o sia semplicemente voluta, manovrata dalla successione ritmica degli eventi. Il Boccaccio avverte ora d’istinto, fuori di schemi preesistenti o nonostante la loro so-. pravvivenza, la forza suggestiva dell'avventura che uno sguardo al reale sollecita. Perciò l’intrinseca avventurosità del reale costituisce la vera scoperta del Boccaccio, la forza vitale del racconto. In questa prospettiva, il racconto si presenta necessariamente con

un’ambivalenza di piani narrativi: è da una parte preciso nei particolari e rigoroso nei passaggi, è spinto dall’altra fino al limite dell’assurdo e dell’illogico che pur offre lo spettacolo della vita. Per tale ambivalenza, il racconto corrisponde, in sede strutturale e letteraria, alla visione della Fortuna che è centrale nel Decameron.

La Fortuna è insieme incoerenza e logica degli avvenimenti; o meglio, è logica dell’incoerenza, dell’imprevisto, che si oppone continuamente ai tentativi di ordine e di stabilità dell’agire individuale. ! La condanna

del racconto

boccacciano

(che ha una

lunga

tradizione,

anche

per la confusione operata tra modo narrativo e tematica avventurosa e romanzesca), consolidata involontariamente, potremmo dire, dal commento del Momigliano, che parla a questo proposito « di abilità tecnica » (Il Decameron cit., p. 129 e passim), fu ripresa esplicitamente da U. Bosco (I! Decameron cit., p. 90 sgg.), ed è divenuta quasi un luogo comune della critica.

94

L’uomo tende in generale a un disegno preciso, al progetto; la Fortuna sovverte tale disegno, porta spesso un elemento imprevedibile di turbamento. Perciò il racconto si costruisce su una im-

prevedibilità di fatti e di oggetti, pur analizzabili e descrivibili nella loro assurda realtà. Se il racconto è delimitato dalla misura della novella, è perché l’avventura è colta nella sua inevitabile episodicità. Non si tratta di un meraviglioso fiabesco, di un’evasione

psicologica dello scrittore verso lo straordinario, ma piuttosto di un'improvvisa probabilità suscitata dal fluire stesso del reale, afferrata dalla novella in una trama cronologico-causale.? Il racconto risponde a uno spalancarsi della fantasia del Boccaccio sul miracolo quotidiano, terrestre: una stanza di osteria, nella notte, (IX, 6), può suscitarlo quanto le sterminate distese del Mediterraneo (II, 7). È dunque necessario parlare, più che di avventuroso (che è definizione esterna, di contenuto, collegata a una tematica romanzesca),

di racconto puro, fedele alla logica dei propri oggetti mondani. L’essenza narrativa del racconto è fluida e sottile, spesso diffi-

cilmente afferrabile nella sua consistenza: perché risiede nella limpidezza quasi geometrica della sua dimostrazione, nel veloce fervore con cui coordina gli avvenimenti, spiegandone il nesso, riportando l’ordine causale in una estrinseca sequenza di fatti meravigliosi. Si manifesterà poi, sulla base del racconto, il risentimento

graduale del personaggio: ma ogni soluzione trova la sua origine in esso, nel rapporto primario dell’uomo con la successione dei fatti reali. Questi contano in sé, fuori di ogni disegno. La corrente immagine critica dell’individuo come centro ispiratore, unico, del Decameron ha dissipato la possibilità di capire troppe pagine di esso: pagine in cui la figura umana coincide con la trama, e i valori psicologici si piegano a una cadenza tutta oggettiva di vicende. Non sappiamo di fatto chi sia Alatiel, come personaggio: non è quanto Alatiel sente e prova a interessare in primo luogo il Boccaccio; è piuttosto la moltiplicazione di vicende spesso terribili, che lasciano però intatta la natura di Alatiel, e disponibile la 2 Cfr. C. GraBHER, Boccaccio, Torino, 1945; il quale, pur tra esatte osservazioni, tende a vedere l'avventura come evasione e espressione di « sogni inappa-

gati nella realtà quotidiana» (p. 162).

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sua bellezza. In questo senso, il personaggio e la trama sono i termini di un’equazione: Alatiel è gli avvenimenti che le accadono (II, 7). Nel racconto i sentimenti diventano essi stessi cose,

eventi, vibrazione volutamente attenuata di una trama che procede impassibile, nella risoluzione esterna di impulsi naturali e di passioni tipiche che si ripetono e pur si rinnovano, in modo inaspettato, nella molteplicità delle vicende. Il racconto è dunque l’espressione narrativa dei modi con cui l’uomo subisce e patisce il mondo, con cui è condizionato dalla realtà in cui vive; del modo, insomma, con cui è fatto dal mondo. E mondo può essere il mare avventuroso (II, 4), una foresta (V, 3), ma anche una donna che per disfarsi

di due corteggiatori impone loro una stranissima prova notturna d’amore: a uno di far da cadavere, all’altro di trasportarlo (IX, 1). Messo in moto un meccanismo, anche l’uomo può essere mondo per altri, realtà che costringe improvvisamente un individuo in una situazione motivabile certo, ma del tutto assurda.

Tipico racconto puro è la II, 7, quasi impenetrabile nell’ambigua oltranza della sua tecnica astuta: una tecnica che si direbbe portata al limite della provocazione. Fortuna esterna e impulsi ‘comuni, « fortunosi casi » e « umani disideri » ($ 6) si incontrano in uno

degli esercizi più tesi tentati dal Boccaccio:

Alatiel è davvero il

« trastullo della fortuna » ($ 92) e insieme del narratore.

I due

livelli, infatti, coincidono: la remissiva passività di Alatiel agli eventi acquista un senso dalla molteplicità delle prove che subisce; e il personaggio-trastullo, quasi fuscello in mezzo ad avvenimenti turbinosi e incessanti, esce intatto da questa lunga prova. Il personaggio, simbolo della fragilità umana, è anche, grazie alla sua naturale sensualità, simbolo di resistenza agli eventi. Fortuna e Natura conferiscono così ad Alatiel una emblematica duplicità. In nessun’altra novella, forse, il Boccaccio ha proposto con più rigorosa coerenza una delle sue tecniche di narratore: quella appunto del racconto lungo e veloce, nel quale solo qualche rappresentazione « maravigliosa » interrompe il ritmo delle vicende, e dà rilievo all’automatismo di certe azioni, di certi impulsi che risorgono uguali. Il diletto inventivo del Boccaccio (il trastullo del narratore) è dissimulato da una tecnica magari semplificata sino a un effetto 96

stridente di forzatura: ma sempre il Boccaccio, dalla drammatica scena iniziale del naufragio alla sorridente conclusione, dal cappello impenetrabile di Panfilo alla nota maliziosa che chiude la novella, sa conservare l'ambiguità necessaria a un racconto ugualmente lontano da impegni tragici e comici. La storia conta nella sua totalità, e ogni quadro vale nell’insieme: l’accavallarsi imprevisto degli eventi è tutt'uno col loro assiduo sottintendersi alla monotonia di un destino fatale e inesorabile, ma non tragicamente definitivo. È la gioia narrativa del puro racconto: un episodio incalza l’altro, senza respiro: Dove col fedito insieme discese in terra, e con lui dimorando in albergo, subitamente corse la fama della sua gran bellezza per la città, ed agli orecchi del prenze della Morea, il quale allora era in Chiarenza, pervenne: laonde egli veder la volle, e vedutola, ed oltre a quello che la fama portava bella parendogli, sì forte di lei subitamente s’innamorò, che ad altro non poteva pensare; ed avendo udito in che guisa quivi pervenuta fosse, s’avvisò di doverla potere avere ($ 44).

In un solo periodo Alatiel scende a terra, prende dimora in un albergo, fa parlare di sè e conquista un nuovo innamorato. Letto in una visuale psicologica, il periodo appare sciatto, proprio di chi tira via alla svelta: ma non è questa la prospettiva del Boccaccio. È un ritmo di ripetizione, il veloce susseguirsi delle relazioni, ad attirare il narratore: non a caso egli duplica un avverbio (« subitamente corse la fama »; « di lei subitamente s’innamorò ») che sottoli-

nea la straordinaria normalità, potremmo dire, con cui si ripetono le vicende? Nella trasparenza di queste pagine, dove il ritmo è contratto a significare la ripetizione che risorge automatica da certe qualità umane (Alatiel è bella, e gli uomini soggiacciono natural. 3 U. Bosco, Il Decameron... cit., pur penetrante per altri aspetti, non avverte la « gioia » narrativa del racconto boccacciano, che è quasi sempre per lui avventura deteriore, non conforme al genio del Boccaccio: eppure proprio il numero delle avventure (p. 97) poteva indicare un’esatta interpretazione della novella, se colto come numero narrativo. Anche per C. GRABHER, Boccaccio cit., gli spunti autentici della novella « sono sopraffatti dal meccanico succedersi e ripetersi di elementi casuali » (p. 163).

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mente a impulsi uguali), si coglie la logica narrativa della novella, che sovrappone rapidamente un fatto o un personaggio al successivo, e appena lo fa conoscere che già lo costringe a scomparire. Anche il piacere dei sensi, in questa visuale, è appena un momento (salvo che nella maliziosa scena del mercante, dove c’è una pausa

più compiaciuta) sempre fugacemente accennato, perché conta anche in questo caso il succedersi di un’esperienza con cui Alatiel, che non è di per sé un personaggio avventuroso, tende a consolarsi e a rasserenarsi: Quivi la sua su la tema fosse nersi;

in terra discesi.e riposandosi, Constanzio colla donna, che sventurata bellezza piangea, si sollazzò; quindi, rimontati in barca infra pochi giorni pervennero a Chios, e quivi, per delle riprensioni del padre e che la donna rubata non gli tolta, piacque a Constanzio, come in sicuro luogo, di rimadove più giorni la bella donna pianse la sua disavventura,

ma pur poi da Constanzio riconfortata, come l’altre volte fatto avea, s'incominciò a prende? piacere di ciò che la fortuna avanti l’apparecchiava ($ 75).

Il narratore stesso sottolinea la ripetizione (« come altre volte fatto avea »), insiste sulla monotonia dell’atteggiamento di Alatiel, che piange la propria bellezza, si lamenta dell’aspra sventura, e finisce col consolarsi con l’uomo con cui di volta in volta si trova. L’esito è appena accennato (« colla donna si sollazzò »): non -il sollazzo dei sensi attira il Boccaccio, ma piuttosto il ripetersi di esso. La novella procede impassibile nel ritmo delle esperienze amorose di Alatiel, delle passioni e dei delitti che suscita la sua bellezza, con una adesione narrativa che non vien mai meno, pur logorabile com'è dalla tensione e dalla lunghezza della prova. Naturalmente la lucidità del discorso narrativo dà una motivazione alla debolezza-resistenza di Alatiel, bella e monotona nelle sue lacrime, da cui spunterà sempre il saggio sorriso di chi sa accogliere il mondo (e il sesso degli uomini) come si presenta, e all’impersonalità, per altro lato, degli uomini che la posseggono: non importa al Boccaccio far vivere i personaggi, quanto gettarli nel giro delle avventure, piegarli a una cieca forza interna (la passione, l’eros) e esterna (le traversie, gli spostamenti, i gesti efferati che ne derivano), co98

glierli in pochi gesti ripetuti e quasi irrigiditi (subiti innamoramenti, stupore per la meravigliosa bellezza di Alatiel, ansia del pos-

sesso, delitti, fughe, pianto e consolazione della donna). Sono le

formule cui si riduce tutta la novella, e comportano solo leggere varianti. Gli uomini hanno tutti un solo desiderio, come sottolinea il Boccaccio stesso (« non altramente a lui avvenne che al duca avvenuto era »), un unico comportamento; la donna è sempre uguale nella sua debolezza e nella sua sensuale vitalità: La donna amaramente e della sua prima si dolse molto; ma Marato, col santo diè la cominciò per sì fatta maniera a lui dimesticatasi, Pericone dimenticato bene quando la fortuna l’apparecchiò contenta

sciagura e di questa seconda cresci in man che Iddio ci

consolare, che ella, già con avea; e già le pareva star nuova tristizia, quasi non

delle passate ($ 37).

Lo schema iterativo è evidente, voluto (come dubitare della co-

scienza stilistica del Boccaccio in una prova così « estrema »?), sempre ribadito: e l’accenno malizioso al santo consolatore sarà ripreso alla fine dalla stessa Alatiel, nel discorso ironico al padre, con una lieve variante ($ 109). Ne sarà così chiarito il significato

nella novella: l’irresistibile impulso delle forze di natura che apportano saggezza, che costituiscono una sorgente di sorridente otti-

mismo contro il pessimismo suscitato dalla pressione dei casi fortunosi. Novella tesa e difficile, dunque, ma sintomatica di un alto impegno di stile: felice nel cogliere il senso di un giuoco di accadimenti che girano turbinosi, impreveduti e monotoni insieme, su uno

stesso polo. Le parentesi narrative più ampie (la scena del naufragio e lo stratagemma di Pericone all’inizio; il delitto del prenze di Chiarea e del servo traditore Ciuriaci nel mezzo;

il mimo

sen-

suale tra Antioco e Alatiel e l’incontro di Alatiel col fedele Antigono, verso la fine) interrompono il veloce fervore del tessuto discorsivo con esatta misura di tempo e di costruzione, allentando appena la tensione di un racconto tutto contrappuntato dal tono ambiguo, volutamente neutro nonostante l’apparente rilievo semantico, della « maraviglia »: « lei sì come maravigliosa cosa guardava... »; « la cominciò a riguardar pieno di maraviglia... »; « avendo 99

molte volte udita la donna di maravigliosa bellezza commendare... »; « pigliando sotto le lenzuola maraviglioso piacere... »; « ricominciò maravigliosamente a piangere... »; « fece il Soldano maravigliosissima festa », ecc. Nelle circostanze e nelle situazioni più varie, la maraviglia indica la chiave stilistica unificante di tutto il racconto. Si passa verso la fine dal malinconico, elegiaco rimpianto di Antioco al dolore dell'incontro con Antigono e al sorridente epilogo senza soluzione di continuità, grazie a una tecnica che sfuma via via con coerenza il peso e il tono dei vari motivi fino alla malizia dell’aforisma finale. Il discorso di Antigono, serio, e quello di Alatiel al padre, faceto, offrono, quasi allo stato di appunto, due soluzioni, tragica e comica, contenute nella novella ma mai prevalenti, perché si equilibrano e coesistono entrambe, a echi smorzati, nel tono neutro della narrazione. Antigono illumina il lato doloroso e sofferto di un destino fatale, Alatiel lo disperde in una sorta di ironica malizia. Sono quasi due disponibilità del racconto che il narratore annulla volontariamente, lasciando alla novella il ritmo neutro, uguale, di una trama i cui poli emblematici sono la

forza della natura e la pressione della fortuna. Il racconto è insomma la traduzione verbale di un destino riparabile, dove il pianto è sempre seguito dal piacere consolatore. Forse in alcun’altra novella il Boccaccio ha spinto più a fondo il senso istintivo, primario, che egli ha degli eventi, controllandolo in un numero tutto narrativo, fatto di accumulazioni, e dissolvendone il peso con un procedimento di eccesso, per esasperazione. Non contano tanto i dati e i personaggi quanto il loro coordinarsi nella trama di una vita, il loro affollarsi nel ritmo paratattico del racconto. In que-

sto senso, ripetiamo, la novella di Alatiel è una prova-limite del Boccaccio. Per coglierne la coerenza, basterebbe paragonarla con altre tematicamente analoghe, dove domina l’ossessiva ripetibilità, nelle vicende, di un istinto primario: per esempio, con la IV, 3, dove la passione (amore-gelosia-ira) genera un ritmo inarrestabile di casi e di delitti. I difetti. della novella non derivano da un deteriore gusto romanzesco, ma piuttosto dal sovrapporsi al racconto di elementi psicologici e schemi amorosi che restano astratti e 100

spezzano e sperdono localmente il ritmo della narrazione, il cui cupo procedere tradisce non pochi squilibri. Dopo l’avvelenamento di Restagnone, la trama precipita in una serie incalzante e quasi sconcertante di colpi di scena: proprio sulla linea delle ultime pagine, del racconto puro e veloce, poteva meglio equilibrarsi l’intera novella. Il racconto delle vicende di Alatiel presuppone una dimensione mediterranea, cui si aggiunge un fascino orientale. È una novella « marina », dove il mare è subito una presenza determinante, simbolo: concreto del reale fortunoso e suscitatore di eventi imprevisti. Ma possiamo cogliere il sorgere del racconto in tempi e in ambienti più vicini e quotidiani? Si pensi ad altre novelle: la II, 2 (Rinaldo d’Esti), la II, 5 (Andreuccio), la IV, 10 (la moglie di maestro Mazzeo), la V, 3 (Pietro Boccamazza e l’Agnolella), la IX, 1 (Madonna Francesca e i due innamorati), la IX, 6 (i due gio-

vani nell’osteria del pian di Mugnone). Apparentemente, nulla le unisce, se non alcune affinità di temi, talvolta di situazioni, 0 alcu-

ni particolari narrativi. È però rilevabile un aspetto comune, esterno ma interessante: per queste novelle le fonti sono scarse, estremamente vaghe, talvolta neppure identificabili. E un secondo aspetto è pure sintomatico: l’azione delle novelle è cronologicamente vicina, si situa verso gli inizi del Trecento; alcune (la IX, 6) sono più recenti, altre (la IV, 10) quasi contemporanee. Per i luoghi, il narratore spazia per tutta l’Italia, ma sempre all’interno di essa: nella II, 2 nella campagna di Castel Guglielmo, una borgata del Polesine; nella IX, 1 a Pistoia (che sarà lo scenario di un’altra novella, la III, 5); nella IX, 6 nel pian del Mugnore, cioè

nel contado di Firenze, dove si svolgerà anche la novella di Calandrino e l’elitropia (VIII, 3); nella V, 3, nella campagna romana, verso Anagni; nella II, 5 a Napoli, nella IV, 10 a Salerno, già luogo della tragedia di Tancredi e di Ghismonda (IV, 1). Si tratta,

dunque, non solo di tempi prossimi, ma anche di luoghi più familiari: per cui potremmo raggrupparle e definirle, in modo esterno, come novelle del Trecento italiano. Come potremmo classificare ulteriormente tali novelle? Seguendo, per esempio, un criterio tematico. È facile rilevare, su questo 101

piano, che la IV, 10 e la V, 3 si collocano nelle due giornate con-

sacrate al tema amoroso, e che l’amore è il motore principale anche nella IX, 1 e nella IX, 6. Al livello tematico, alcuni nessi sono dunque reperibili. Ma in quale misura sono novelle d’amore? Nella IV, 10 e nella V, 3 l’amore è, per così dire, un fatto scontato: nella V, 3 costituisce l'impulso alla fuga dei due giovani, e mette in moto la trama avventurosa; nella IV, 10, l’amore è già abitudine, consuetudine all’adulterio tra la giovane moglie del vecchio maestro Mazzeo e lo scapestrato Ruggieri d’Ajeroli. Nella IX, 6 l’amore è capriccio, ricerca dell'avventura da parte del giovane Pinuccio, un nobile fiorentino che vuole possedere la Niccolosa, figlia di un oste, la quale consente senza molte difficoltà; non certo il loro « piacere » rischia di far precipitare la situazione descritta dalla novella. La IX, 1 si presenta con uno schema contrario: l’amore di Rinuccio e Alessandro non è corrisposto,e il senno di Madonna Francesca ordisce una trama per sbarazzarsi di entrambi. Ne deriva che la passione dei due giovani è solo il pretesto di una singolare invenzione della donna. Sono dunque novelle d’amore solo genericamente, perché l’amore avvia la vicenda, ma non è al centro del racconto in quanto sentimento esplorato a fondo in un personaggio: è solo un dato rilevato in partenza. E si potrebbe notare che l’amore non è del tutto assente neppure nella II, 5: se è per un attimo intravisto dal vanesio Andreuccio,

che pensa subito a una piacevole avventura quando si trova di fronte alla giovane sconosciuta. Al contrario, nella II, 2, Rinaldo d’Esti neppure immagina un’avventura d’amore, quando pensa a

raggiungere la città più vicina per ristorarsi; san Giuliano gli offrirà invece una « buona notte », nel senso erotico dell’espressione. Se il tema amoroso interviene, in gradi diversi e con varie sfumature, in tutte le novelle, è solo perché l’amore è il segno della presenza di una natura da cui l’uomo è sempre sollecitato. Se il tema dell’amore si rivela generico e insufficiente a stabi-

lire un nesso concreto, possiamo ricorrere, per simili novelle contemporanee, a un’indagine dell'ambiente in cui agiscono i personaggi, caratterizzati come tipi sociali che dimostrano determinati rapporti tra le classi. In chiave sociologica, la lettura rileva 102

pure alcuni dati precisi. Nella IX, 1, per esempio, l'avventura si svolge tra nobili: tra Madonna Francesca, che appartiene a una famiglia guelfa di Pistoia, e due spasimanti che sono ghibellini banditi da Firenze. Si può cogliere, allora, una sottintesa sfuma-

tura ironica, nel senso che l’invenzione di Madonna Francesca può dare un colorito implicitamente politico al suo estro beffardo. Ma è appena una sottile allusione, perché l’avventura si svolge indipendentemente da tale dimensione politica: è lo schema-base della sollecitazione dell’uomo e del rifiuto della donna a suscitare la scommessa, che poi si presenta come il rovesciamento, duramente scherzoso, del tema della prova d’amore proprio di una società raffinata. Nella V, 3 un giovane di: casato « onorevole » vuole sposare una plebea, sia pur di famiglia onestissima: alla base della fuga dei due giovani è una precisa contraddizione sociale, una differenza di classe che costituisce l'ostacolo da superare. Ma poi, quando entrano nella foresta, essi subiscono, insieme e divisi, la

pressione di un paesaggio che annulla le differenze sociali ed è imprevisto e pauroso in sé. Nella IX, 6 Pinuccio è un « gentile: uomo » fiorentino, mentre la Niccolosa è figlia di un povero oste di campagna; e l’oste accoglie Pinuccio e il suo amico con molto rispetto, col riguardo dovuto a giovani di un certo rango. Nel corso della notte Pinuccio reagirà, in un momento critico, con aristocratica alterigia; e sarà la moglie dell’oste a salvare la situazione creata da un notturno intreccio erotico, subito assecondata dai due giovani. Le differenze sociali sono allora importanti per dare verosimiglianza all’azione, e per tendere la situazione con la giustezza di alcuni riflessi psicologici; ma non sono determinanti, vedremo,

per il gioco di ombre che avviene in una stanza nella notte. La sostanza del racconto, insomma, è offerta da un problema di disposizione di letti, più che di ceti. Nella IV, 10 si tratta di una « gen-

til » giovane, sposata ad un vecchio medico noto e stimato; una donna che ama un giovane nobile ma scapestrato, cui dà pure del denaro. Le interferenze di classe nel comportamento sono più sottili (complicità sociale degli adulteri, elementi borghesi del loro atteggiamento) e danno un ulteriore colorito al tema, determinante, delle differenze d’età tra i due coniugi, e alla spregiudicatezza della 103

moglie nel cercare il proprio piacere: La sfida sociale della donna si concreta nella scelta dell'amante, pur nobile, della cui fama la donna non si cura: ma la legge del piacere domina, più di ogni altra circostanza, la novella. Infine, nella II, 2 e nella II, 5 agiscono due

mercanti, diversi per età e per senno, e fin economicamente: Rinaldo è un vero mercante, uomo maturo e abituato a viaggiare; Andreuccio è un cozzone di cavalli, un sensale ancora giovane e inesperto, e al suo primo viaggio. Perciò la differenza sostanziale tra le due novelle non consiste nella condizione sociale dei due personaggi, ma nella loro esperienza e nella condizione diversa in cui vengono a trovarsi (un viaggiatore sorpreso in aperta campagna,

uno straniero in una città nuova per lui). Al livello sociologico, le novelle sono dunque esatte nei particolari: tutto è plausibile e, nell’ambito delle differenze sociali, graduato e rapportato alla situazione con scrupolosa giustezza. Ma è anche vero che lo statuto sociale dei personaggi è solo un elemento strutturale atto a garantire la verosimiglianza delle novelle: un presupposto di quotidianità, più che la molla delle vicende. L’esame tematico e sociologico, se ne accerta la coerenza, non

basta ad accostare le novelle in un’unica visuale. Né a questo può servire l'indagine psicologica, volta alla caratterizzazione dei personaggi: come può risultare da quanto si è detto, lo scavo dei sentimenti non è mai, in queste novelle, in primo piano. Anche la psicologia è una premessa, qualche volta un elemento concomitante dell’azione, ma non la sostituisce, non subordina a sé la vicenda né

si impone agli eventi. È una pura premessa nella IX, 6: per ritrovarsi a letto con la Niccolosa, Pinuccio escogita uno stratagemma ingegnoso. Così nella IX, 1, per quanto concerne Madonna Francesca: troppo imprudente per un certo tempo, vuole solo sbarazzarsi di due scomodi corteggiatori. Nella V, 3, l’amore indomito dei due giovani è subito scontato, e accompagna al più la loro angoscia. Nella II, 2, se c'è in Rinaldo d’Esti una coloritura psicologica, è la fiducia in San Giuliano, simbolo del suo ingenuo ottimismo; mentre, nella II, 5, il presupposto psicologico della vicenda è la credula vanità di Andreuccio da Perugia. Oltre che premessa, la psicologia può anche essere un aspetto degli eventi

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stessi: nella IX, 1, la paura dei due giovani nella notte è in lotta con l’amore che li spinge ad affrontare una prova terribile e assurda: l’audacia temeraria dell'impresa è correlativa a una tensione interna dei personaggi. Viceversa, nella V, 3, la paurosità del paesaggio è rilevata dall’inerme fragilità dei due fuggitivi: un elemento si riflette sull’altro, con un effetto di reciproco ingrandimento. Così, nella IV, 10, la sorpresa della donna prende luce da una psicologia abitualmente sicura di sé, avveduta e precisa nei progetti. Ma in nessuna delle novelle è reperibile un vero approfondimento psicologico del personaggio: si indica il movente interno di una vicenda, non si narra la storia dei sentimenti. Mentre nella V, 9,

per un diverso esempio, è chiaro che la vicenda presuppone in ogni momento la storia interiore di un personaggio, in questo caso dei sentimenti e delle sofferenze di Federigo degli Alberighi. In simili novelle, per contro, i personaggi non hanno una storia interna: la loro psicologia è solo reattiva a un ostacolo di partenza o alle vicende impreviste suscitate da un ambiente. È utile allora ritornare all'ambiente, al paesaggio cui si è fatto cenno all’inizio: pur guardandoci da facili semplificazioni anche per questo aspetto. Si rifletta alla dimensione ambientale di queste novelle. Nella IX, 6 e nella V, 3 (novelle del tutto lontane, certo, per il contenuto;

ma qui si tenta un avvicinamento

graduale ai testi con diversi tipi di classificazione dei fenomeni letterari, rispondenti ai vari livelli che essi presentano) l’azione si svolge in campagna, nel territorio circostante rispettivamente Fi-

renze e Roma. C'è, è ovvio, una differenza oggettiva: la situazione è tranquilla a Firenze, mentre a Roma regnano l’anarchia e il disordine, che si riflettono anche nella campagna laziale. È però sintomatico che in una camera d’osteria, nella notte, possano accadere a un certo punto avventure diverse certo ma ugualmente impreviste e per un certo aspetto più ricche di pericoli che nelle foreste del Lazio percorse da lupi e da banditi. Le due dimensioni possono entrambe suscitare l’avventura. L’ambiente fortunoso non basta dunque di per sé a individuare novelle avventurose; né, di per sé, il carattere dei personaggi che vi reagiscono, se una donna plebea

come la moglie dell’oste mostra una prontezza di riflessi mentali ben 105

superiore alle reazioni istintive dei due giovani eroi dell’amore. Così nella IX, 1 e nella IV, 10 l’ambiente è in entrambe citta-

dino. A Pistoia e a Salerno avvengono casi ugualmente straordinari: nella prima però tutto si risolve nel silenzio, e il fatto resta un enigma, salvo in parte per i protagonisti; nell’altra, invece, un

accidente imprevisto diventa un fatto cui partecipa tutta la città. .Uno stesso ambiente, la città notturna, suscita due storie diverse,

con risultati divergenti. D’altro canto, con diverso tipo di intersezione tra ambiente e casi, possiamo accertare, nella II, 2 e nella II, 5, che l’aperta campagna del Polesine e una città popolosa come Napoli possono provocare avventure ugualmente straordinarie, essere

entrambe

dimensioni

« maravigliose ». Napoli,

che

secondo l’avvertimento implicitamente ironico della ciciliana « non era terra da andarvi per entro di notte e massimamente un forestiere » (II, 5, 34), può essere un terreno insidioso e allucinante come la campagna deserta, esposta agli incontri imprevisti e alle aggressioni dei masnadieri. Forse, per trovare convergenze più precise fra queste novelle, va sottolineata l’importanza che in tutte ha il caso, il quale si manifesta in un oggetto, in un’apparizione, in un aspetto più generale di vita che è sempre verosimile, pur presentandosi come imprevisto. A un certo punto lo svolgimento della novella è determinato da un avvenimento perfettamente plausibile, dato il contesto oggettivo, ma insieme del tutto incontrollabile, dal punto di vista del personaggio. Il caso, nel testo del Boccaccio, nasce al punto di intersezione di due piani narrativi: l’uno già chiaro per il lettore, l’altro imprevisto per il personaggio. Ne sgorga uno straordinario effetto speculare. Ad esempio, l’apparire nella IX, 1 dei birri, della «famiglia della signoria » ($ 30), interrompe, in modo imprevisto, l'incredibile impresa di Rinuccio e di Alessandro (non dimentichiamo che si tratta di personaggi banditi da Firenze, stranieri a Pistoia). Quello che è veramente

straordinario, nella

novella, è che i due accettino la prova imposta da Madonna Francesca. Eppure proprio questo appare normale: i due l’affrontano, spinti dalla forza di amore. E perché falliscono? Per l’apparizione, in sé normale, dei birri che girano di notte per la città: questa 106

apparizione normale è l’imprevisto straordinario che manda a mon-

te, se è permesso il bisticcio, l'impresa normalmente straordinaria.

Così nella IX, 6 il muoversi di una gatta, che nel buio fa « certe cose cadere » ($ 14), suscita un « romore » che fa alzare la donna;

nello stesso tempo, una « opportunità natural » ($ 15) fa che Adriano si levi, e sposti la culla del « figlioletto ». Ebbene, questi due movimenti insignificanti, in sé normali e come tali descritti, costituiscono, per il fatto di avvenire contemporaneamente, la fonte di una serie di equivoci notturni i quali altrimenti non sarebbero accaduti. Anche qui la situazione straordinaria (due giovani che possono incontrarsi nel buio in una stanza dove altre persone stanno dormendo) è in realtà scontata come normale, in poche righe ($ 13).

Ciò che invece diventa straordinario sono due insignificanti spostamenti, del tutto plausibili, che creano di colpo una situazione diversa, e trasformano un sonno collettivo in una nuova tensione fo-

riera di gravi pericoli. Così nella V, 3 la fuga dei due giovani da Roma, che già costituisce un’avventura straordinaria per chi la decide, è improvvisamente trasformata dai fanti che li vedono da un « castelletto » e piombando loro addosso li separano. L’avventura straordinaria degli incauti protagonisti è radicalmente mutata da un fatto imprevisto ma normale, dato il contesto di lotte di fazioni cui accenna il narratore: di qui il colpo di scena subitaneo, il caso che devia tutta l'avventura. Era già straordinario che fuggissero insieme; ma non era previsto che un elemento normale di quel paesaggio li separasse e determinasse un’avventura diversa. Il caso, nel Boccaccio, risponde dunque a un’intuizione complessa, tutt'altro che meccanica. Pure nella IV, 10 il caso che avvia con una svolta imprevedibile la vicenda non è certo il convegno notturno tra i due (l’adulterio è un’abitudine scontata), ma invece

quella derisoria « guastadetta d’acqua » ($ 13) che il medico ha lasciato « in una finestra della sua camera » ($ 10) e Ruggieri, assetato, trova accidentalmente. Questo è il particolare che imprime a un usuale convegno d’amore uno svolgimento inopinato. Insieme casuali e normali sono, nella II, 2, l’incontro di Rinaldo coi

masnadieri e l'improvvisa disponibilità della vedova che sente « il pianto e il tremito » di Rinaldo fuori dell’uscio ($ 22). Sempre « per 107

ventura » Andreuccio mette il piede sopra una tavola « sconfitta dal travicello » da un lato ($ 38): ma il fatto che egli sia messo alla porta della ciciliana in simile modo determina una serie

di nuove avventure, per la condizione non solo psicologica ma anche fisica in cui egli viene a trovarsi. E spesso, in queste novelle, una volta messo in moto il meccanismo del caso, si determinano contraccolpi ulteriori, altre sorprese cui il personaggio tenta di adeguarsi: ma lo scatto che crea una situazione inedita avviene sempre per un particolare fortuito e pur plausibile, in nessun modo magico o favoloso. In quel momento preciso il personaggio e l’oggetto, quale che sia la sua natura, che origina la svolta, si compenetrano

nell’evento, interagiscono per reciproca metamorfosi: nel senso che l’oggetto determina, è personaggio, e l’uomo è determinato, diviene fatto. Di qui una sequenza di eventi straordinari-oggetti normali: le arche di un morto nella IX, 1 e nella II, 5; i birri nella IX, 1, nella II, 5 e nella IV, 10; uomini semispogli nella notte,

corpi che battono i denti dal freddo e dalla disperazione nella II, 2 e nella II, 5; ladri e masnadieri nella II, 2, nella II, 5 e nella IV, 10; rumori improvvisi in una camera nella IV, 10 e nella IX, 6,

e così via. Segni di un meraviglioso terrestre, e pur tipici di circostanze quotidiane, che si ritrovano combinati in vario modo. È l’intuizione più suggestiva del Boccaccio.

i

Questo appare il primo elemento di unificazione di tali novelle: il presentarsi di un elemento normale che appare fortuito e determina una svolta, seguito da oggetti normali ugualmente fortunosi. Se proseguiamo l’indagine in questa direzione, scopriamo ancora, al livello del contenuto, un elemento presente in tutte le novelle, e tale da conferire ad esse un’atmosfera comune

che

è anche la base della loro plausibilità: la notte. L’azione (o la parte essenziale di essa) si svolge di notte, al buio; è la notte che con-

fonde e insieme unifica gli aspetti, e suscita gli imprevisti, le paure, le meraviglie. Tutto si muove, a un certo punto, e si agita al buio, si tratti del buio di una camera (IV, 10; IX, 6), di una foresta (V, 3), di una campagna (II, 2) o di una città (IX, 1; II, 5). È la forza, che si manifesta anche altrove, del suggestivo « notturno »

del Boccaccio: la notte, in molte novelle, uguaglia e livella di colpo 108

il reale, attenuando gli aspetti e i contrasti abituali del mondo, lo spettacolo visibile duranteil giorno, e insieme trasforma l’ambiente in cui opera l’uomo in modo naturalmente misterioso, se così si può dire, aprendo una possibilità di equivoci e di imprevisti tale da giungere a un parossismo quasi surreale. La notte è un simbolo tra i più evidenti della capacità del Boccaccio di cogliere, ripetiamo, il meraviglioso della realtà, il miracolo quotidiano: è, tematicamente,

una fonte inesauribile di avventure. Da una parte la natura, la campagna, la foresta, già disponibili alle sorprese; dall’altra la città medievale, il cui paesaggio muta improvvisamente dopo il tramonto,

anche se resta brulicante di un’attività temeraria o fraudolenta, di

erotiche imprese e di furti e omicidi-Il buio e il silenzio, rotti improvvisamente da un lume di sbirri o da un grido di sorpresa, rappresentano spesso un momento di tensione nella narrativa boccacciana.' Dalla notte si sprigionano i « casi » di simili novelle: in un quadro naturale o cittadino, in modo concentrato o diffuso, in

un ambito normale o eccezionale, essa si rivela un supporto del racconto così come l’abbiamo definito, del suo ritmo plausibile e straordinario. Controlliamone ora l’articolazione concreta nelle novelie. Nella IX, 6, per esempio, il gioco dei sentimenti, o meglio degli

istinti e dei desideri, esaurito totalmente nel moto delle cose, raggiunge una perfezione quasi geometrica È un rapido racconto, tra i migliori del Boccaccio anche per lo svolgimento dell’intreccio; dove lo stesso dialogo è commedia di eventi, perché allo scrittore non interessa tanto una sostanza umana quanto cogliere e | costringere i personaggi in una situazione delimitata, in uno scambio serrato di spostamenti e di battute nel buio, e di intuitive capacità di recupero. Ogni personaggio si profila solo nella parte che 4 Suggestiva, a questo proposito, l'osservazione di J. Huizinca, L'autunno del Medio Evo, Firenze, 1966, n. ed.: « La città moderna non conosce quasi più il buio perfetto o il vero silenzio, né l’effetto di un lumicino isolato nella notte, o di un grido nella lontananza » (p. 4). ; 5 Vedo ora che di «situazicne tanto geometricamente precisa da essere allucinante » parla anche V. Branca, Registri narrativi... cit., p. 47: de aria per le origini e le radici topiche del « modulo strutturalmente combinatorio” dello scambio di persona e degli equivoci conseguenti » (pp. 46-49).

109

ha in un insieme predeterminato; e perciò la commedia degli equivoci, anche nelle battute e negli spostamenti, è in funzione di un racconto che la comprende e la supera. Per questo l’antefatto è rapidissimo, chiaro quanto basta a giustificare la scena centrale; il

racconto indugia invece sulla disposizione dei letti nella cameretta dell’oste, e conclude su quella culla che avrà una parte decisiva, simbolo quasi, irrilevante ma concreto, della logica del caso che si afferma durante la notte ($ 11-13). Il regista cura la scena del

suo gioco di ombre:

« essendo le cose in questa guisa disposte »

($ 13) — che è un modo esplicito di richiamare l’attenzione sulla scena —, il gioco s’inizia e continua serrato, in contraccolpi precisi

e in periodi che si susseguono incalzanti fino alle battute fra Pinuccio e l’oste, che segnano il punto di tensione della novella, il pericolo manifesto di una crisi violenta ($ 20-21). La rapidità della donna, che afferra « incontanente » la situazione ($ 24), rimette in

equilibrio gli elementi dell’avventura: nella misura di una scena perfetta Adriano e poi Pinuccio comprendono le battute della donna, entrano nel gioco, e riportano la logica del caso alla sua originaria, e oggettiva, natura comica. In questo moto di oggetti

e di persone non è solo l’oste, infatti, ad essere beffato: tutti sono stati sorpresi dal buio e dai mutamenti topografici. La donna è l’unica a reagire, d’istinto, al suo stato di oggetto coinvolto in un trama di malintesi: creandone altri che ricostruiscono un sistema accettabile per tutti. Il racconto non si ferma neppure per un attimo sulle reazioni interne dei personaggi; le coglie soltanto nell’esterna risoluzione in gesti e battute, nel movimento che porta dall’imprevisto dell'avventura al felice capovolgimento dell’avventura. Le figure umane sono in realtà ombre nel buio, guidate da un filo sapiente che le affida al caso e a un rapido riflesso rispetto ad esso (« subitamente si levò... »). La commedia delle cose si impone,

insomma, come modo di racconto. Svanita la notte e sciolto il nodo, il Boccaccio conclude con una notazione maliziosa, originata dai dinieghi della Niccolosa: « per la qual cosa la donna, ricordandosi dell’abbracciar d’Adriano, sola seco diceva d’aver vegghiato » ($ 33); riportando anche la donna, pur consapevole di

quanto le è accaduto, nell’atmosfera ovattata e allucinante degli 110

equivoci notturni. La finezza della conclusione sigilla un racconto che prova l’acume del Boccaccio, la coerenza della sua tecnica. Gli spunti eventualmente offerti dai fabligux sono allora di colpo superati. La tematica topica degli scambi erotici nel buio è risolta nell’indicazione di un limpido diagramma narrativo: tracciato dalla sorprendente congiunzione di uno spazio ristretto (una stanza) con una ritmica sequenza temporale di eventi (gli equivoci notturni). In uno spazio più vasto, che contrappone al chiuso di una stanza le distese di un’aperta campagna, meraviglioso e imprevedibile delle cose e degli uomini trovano nella II, 2 un riferimento emblematico in un boccaccesco San-Giuliano, che regola le avventure di una notte particolare. Il cappello ambiguamente scherzoso di Filostrato (II, 2, 3) lascia intendere l’interesse della novella: una para-

bola narrativa, leggera e maliziosa, della provvidenzialità tutta immanente e per noi illogica degli accidenti suscitati dal reale. Ad essa non sono estranei, a ben vedere, le passioni e gli impulsi degli uomini (qui, lungo una scala che va dal negativo al positivo, l’avidità di possesso, l’istinto di sopravvivenza, il desiderio dei

sensi): ma è un nesso che sfugge sovente all’uomo, il quale preferisce eludere, col ricorso a una facile superstizione, un esame più attento del mondo in cui opera. La novella risponde a tale umana inclinazione, ne traduce la visuale:

e perciò, più che Rinaldo, il

protagonista della novella è proprio san Giuliano, nella sua ambigua efficacia di distributore di « buona notte ». Un santo che non è il protagonista di un’edificante letteratura agiografica, ma il simbolo di un atteggiamento dello scrittore nell’usare una credenza | popolare e nel raccontare l’avventura: raccontata, appunto, in modo che tutto venga in un certo senso imposto al personaggio. Rinaldo subisce l'avventura, è integralmente sottoposto agli eventi: questa è la logica del personaggio, che si traduce nella tecnica del racconto. Rinaldo d’Esti è un mercante che pensa ai propri affari, e per il resto « assai materiale e rozzo » nelle cose dello spirito ($ 7): fiducioso, non sospettoso (tale appare quando si incontra con i masnadieri),

rappresenta

un

atteggiamento

ottimistico

verso

la

realtà, non elaborato ma aperto al contatto con gli altri. Di qui l’indugio dello scrittore sul dialogo di Rinaldo con i compagni di 111

viaggio, che si precisa proprio sul tema di san Giuliano: in quel dialogo l’onesta mediocrità di Rinaldo si contrappone alla spregiudicatezza dei masnadieri, che si divertono a giocare con le parole, ricche di ironici sottintesi e di altre proposte di religiose consuetudini, pregustando l’effetto del colpo che faranno. I masnadieri contestano di fatto l’ingenuo ottimismo di Rinaldo, oppongono un lucido progettare alla sommaria filosofia del mercante: sembrano padroni di una realtà che sfugge invece a Rinaldo. E la realtà li smentisce, dà ragione a Rinaldo: il prologo è l’ironica premessa della novella, in quanto rende evidente la casualità avventurosa del mondo. La conversazione è rotta, in modo fulmi-

neo, dall’aggressione che avvia lo volgersi dell’avventura: E così di varie cose parlando ed al lor cammin procedendo e aspettando luogo e tempo al lor malvagio proponimento, avvenne che, essendo già tardi, di là da Castel Guiglielmo, al valicare d’un fiume, questi tre, veggendo l’ora tarda e il luogo solitario e chiuso, assalitolo, il rubarono, e lui a pie’ e in camiscia lasciato, partendosi dissero: « Va e sappi se il tuo San Giuliano questa notte ti darà buono albergo, ché il nostro il darà bene a noi »; e valicato il fiume, andaron via ($ 13).

Avvenuta l’aggressione, ridottosi Rinaldo a elemento di un desolato paesaggio, si prepara una nuova sorpresa, cui presiede esplicitamente, nel commento del narratore, l’intervento del casosan Giuliano: « Ma san Giuliano, avendo a lui riguardo, senza

troppo indugio gli apparecchiò buono albergo » ($ 18). Per dar risalto a tale intervento, cioè, fuori di metafora, alla continua im-

prevedibilità del reale, che alterna incessantemente senza bisogno di santi il positivo al negativo, il Boccaccio indugia, dopo che il fante di Rinaldo è fuggito, a descrivere la dimensione paesistica in cui si muove il povero mercante: 6 Questi e altri indugi sono invece biasimati, come segni di superflua e inutile meticolosità, da U. Bosco, Il Decameron... cit., pp. 119-120: al quale sfugge la centralità strutturale, nel racconto, del tema di San Giuliano. Esprimo questi dissensi per l’importanza del saggio del Bosco, che ha operato alcune scelte, nel corpo del Decameron, che hanno a lungo condizionato la critica posteriore: scelte peraltro acute in altri settori della narrativa del Boccaccio.

112

Rinaldo, rimaso in camiscia

e scalzo, essendo

il freddo grande e

nevicando tuttavia forte, non sappiendo che farsi, veggendo già sopravvenuta la notte, ttémando e battendo i denti, cominciò a riguardare se da torno alcun ricetto si vedesse dove la notte potesse stare, che non si morisse di freddo; ma niun veggendone, per ciò che poco avanti essendo stata guerra nella contrada v'era ogni cosa arsa, sospinto dalla freddura, trottando si dirizzò verso Castel Guiglielmo, non sappiendo perciò che il suo fante là o altrove si fosse fuggito, pensando, se dentro entrare vi potesse, qualche soccorso gli manderebbe Iddio. Ma la notte oscura il sopprapprese di lungi dal castello presso ad un miglio: per la quale cosa sì tardi vi giunse, che, essendo le porte serrate ‘ed i ponti levati, entrar non vi poté dentro; Laonde, dolente e isconsolato piangendo, guardava dintorno dove porre si potesse, che almeno addosso non gli nevicasse; e per avventura vide una casa sopra le mura del castello sportata alquanto in fuori, sotto il quale sporto diliberò d’andarsi a stare infino al giorno; e là andatosene e sotto quello sporto trovato un uscio... tristo e dolente si pose a stare ($ 15-17).

È una sobria ma efficace evocazione di un paesaggio invernale, tra campagna e mura di un borgo: la capacità pittoresca dello scrittore ha qui una funzione narrativa. Il Boccaccio non descrive cioè un paesaggio stilizzato, con intenti esornativi e retorici come gli accade per la cornice e per alcune novelle”: presenta gli elementi, crudelmente realistici e fortemente pittoreschi, che sono funzionali allo stato di difficoltà del personaggio: la notte, la neve, il paesaggio arso dalla guerra, la sagoma del castello impenetrabile, lo sporto ‘della casa. Tutto ciò riduce gradualmente le possibilità d’azione del protagonista, lo livella nel paesaggio, ne spiega la disperazione. Come poi, al contrario, l’ambiente caldo del bagno, il comfort della « camminata » col bel fuoco acceso, la cena intima, saranno elementi non decorativi, ma essenziali a significare una vitalità e una serenità ri-

nate, a motivare il desiderio della donna e la reazione pronta di Rinaldo (« il lampeggiare degli occhi della donna veggendo... »), 7 Sarebbe utile esaminare l’ossequio, e la mobilità, del Boccaccio rispetto alle distinzioni canoniche degli stili anche per la topografia: si vedano gli accenni di V. Branca, Registri narrativi... cit, p. 52, n. 1; e, precedenti, le attente osservazioni di V. Russo, I/ senso del tragico nel « Decameron », in « Filologia e letteratura », XI, 1965, I, pp. 66-67. Per la tradizione topica del paesaggio, indispensabile E.R. CurtIus, Le paysage idéal, in La littérature européenne et le Moyen Age Latin (traduit par J. Biejoux), Paris, 1956, pp. 226-247.

LIS

a preparare la notte d’amore. Il racconto si imposta sull’efficacia di tale antitesi inaspettata: da una parte il terribile, desolato paesaggio notturno e invernale, dall’altra questo interno insperato, pieno di calore. Naturalmente, la novella si conclude con una cronaca di felici avvenimenti, scritta con una malizia che basta a dissi-

pare ogni sospetto di inutile e pedantesca meticolosità: malizia esplicita in quel paio di « cintolini » ($ 41) che sono il solo oggetto perduto dal devoto di san Giuliano, esplicitamente ringraziato in conclusione, e nella fine dei tre masnadieri miscredenti che fini-

scono « a dare de’ calci a rovaio » ($ 42). I protagonisti dell’incontro

iniziale vengono

così ricongiunti

in una

situazione

che

è rovesciata dal narratore ai fini dell’edificante leggenda di un santo utilizzato come laico e mondano garante del miracolo terrestre. Un santo che ricompensa il suo devoto, simbolo pure lui di un fiducioso rapporto dell’uomo col meraviglioso e l’imprevedibile del reale. Rapporto consolidato, in un « giovane di mezza età » ($ 35) quale è Rinaldo, da un’esperienza che manca ai due giovani amanti della V, 3: i quali pure coincidono, come già si è rilevato, con un ambiente avventuroso, colto in movimento attraverso la storia

della loro fuga. Mutano i termini dell’avventura, la qualità dei personaggi: ma sempre in tale coincidenza consiste non a caso il racconto. La natura, le campagne e le foreste di una realtà contemporanea, bastano dunque a creare una dimensione avventurosa, così ricca e complessa da poter suggerire un nuovo ciclo romanzesco, stilisticamente depurato dagli schemi dei racconti cavallereschi. Lo stesso accade, come si è detto, per la città notturna: la quale attira il Boccaccio verso un metodo, si direbbe, di radiografia narrativa, volto a scoprire quanto la notte abitualmente nasconde. Oppure, per usare sempre termini moderni, a una sorta di regia: si puntano i riflettori su certe zone di buio, si illuminano per un momento i personaggi e le scene che si svolgono, invisibili agli altri, entro le mura di una città notturna. Per questi spaccati narrativi il Boccaccio non ricorre a lunghe descrizioni, non tende a una visione pittoresca della notte in città: la città è narrata dal Boccaccio attraverso gli eventi, spiega l’azione e insieme il senso che il 114

\

x

\

narratore vuole ad essa conferire. Non è la protagonista, ma senza la città non potrebbe darsi peripezia. Si legga, a tale proposito, la IX, 1. L’avventura è interamente provocata da Madonna Francesca, e accettata e subita da Rinuccio e da Alessandro; però lo schema cortese della novella (la prova cui la donna sottopone i due uomini che protestano di amarla) è situato in un’atmosfera cittadina in cui non conta tanto l’amore, quanto l’ambiente concreto in cui ha luogo tale prova d’amore. La novella apre la IX giornata, e sembra che il Boccaccio, dopo tante pagine ricche di comica vitalità del personaggio, voglia profittare della libertà riconcessa da Emilia per tornare al racconto, per cedere a un nuovo impulso all’avventura, in cui l’individuo si attenua di fronte a elementi che

dall'interno e dall’esterno lo costringono. Il puro tempo narrativo della novella la pone fra le più tese e suggestive del Decameron, se ne afferriamo il senso sottile, le ragioni di una vicenda limpidissima appena sorretta, con fine ambiguità, dal parallelismo di sentimenti e di gesti provocato in due amanti dall’invenzione di una donna tediata. « Potenzia d’amore » e « senno » vengono proposti dal cappello come gli spunti direttivi della novella (IX, 1, 4): in realtà, sia l'espediente escogitato dal senno di Madonna Francesca sia l’incredibile impresa cui si assoggetta l'amore di Rinuccio e di Alessandro sono colti e interpretati più nel loro svolgersi in un ritmo di vicende che in funzione dei personaggi che ne assumono la responsabilità. Il personaggio è cioè sfumato nella nuda evidenza del racconto, che lo sviluppa senza residui all’esterno, anche nei moventi psicologici dell’azione: fin dall'inizio, quando Madonna Francesca si risolve tutta nella limpida esposizione del suo « pensiero » ($ 6), nelle precise istruzioni che dà alla fante per l'ambasciata che deve fare ai due amanti (dove già risalta, tra le righe, quel morto Scannadio che è l’oscura fonte di terrore di tutta la vicenda). Nell’impeccabile semplicità dell'inizio, il racconto, che presuppone certo ma non esige in primo piano l’indagine dei sentimenti, si specifica nella sua logica coerente: e nella pacatezza del periodo, nell'ampio e chiaro snodarsi delle subordinate, si accenna

a quel nesso di contrapposizione-identità tra Rinuccio e Alessandro su cui la novella è costruita con reticente avvio tragicomico: « si kb.

guardi che più né messo né ambasciata mi mandi » ($ 15); « che tu mai più non le mandi né messo né ambasciata » ($ 17). La variante è impercettibile; e dei due sappiamo appunto che accettano entrambi, senza esitare, la prova, mentre la donna sta a vedere « se sì fossero pazzi che essi il facessero » ($ 18). Qui non sono in primo piano l’amore di due rivali e l’intelligenza di una donna, ma piuttosto il loro esito reale nell'avventura, nella situazione paradossale in cui mettono e irrigidiscono, per così dire, i personaggi. I

dubbi che affiorano in Alessandro (il quale deve « andare a stare in luogo di Scannadio nello avello ») sono certo umani, realisticamente ragionati: ma si riferiscono non tanto a lui, personaggio autonomo di innamorato, quanto a un uomo lanciatosi impulsivamente in un’eccezionale imptesa notturna di cui è ormai prigio-

niero, pur valutandone ora i pericoli e la stessa assurdità. Tanto è vero che uguali dubbi e identica risoluzione mostrerà subito dopo Rinuccio. Le riflessioni e i sentimenti sono cioè dettati dalla situazione, suscitati dalla vicenda nella loro significativa analogia, nella loro inevitabile ripetibilità: le reazioni sono uguali perché sono presi entrambi nello stesso ingranaggio. L’intuizione finissima. è svolta dal Boccaccio con un insistente se pur discreto paragone, dove al parallelismo della situazione risponde quello delle espressioni: « fu tutto che tornato a casa » ($ 24); « tutto che rattenuto

fu » ($ 27). E presente nelle ansie dei due è sempre il morto Scannadio, richiamato a due riprese con una sobrietà che non disperde il terrore dell’incubo; il periodo in cui si accenna alla paura di Alessandro nella tomba riceve dalla figura etimologica un esito stilistico efficacissimo: « e parevagli tratto tratto che Scannadio si dovesse levar ritto e quivi scannar lui » ($ 25).

All’arrivo di Rinuccio il racconto precipita, sempre con sospesa rapidità nella voce del narratore: «e andato avanti, giunse alla sepoltura e quella leggiermente aperse. Alessandro, sentendola aprire, ancora che gran paura avesse, stette pur cheto » ($ 28-29). L’avventura domina ormai i personaggi, si impone come ferrea necessità,

automatizza i loro movimenti. E il Boccaccio sa afferrare, con forza sintetica suggestiva, il senso allucinante dell’impresa notturna, quando l’uno prende sulle spalle l’altro: 116

e così andando e non riguardandolo altramenti, spesse volte il percoteva ora in un canto e ora in uno altro d’alcune panche che allato alla via erano; e la/notte era sì buia e sì oscura che egli non poteva discernere ove s’andava ($ 29).

Sono intuizioni narrative che danno la misura della capacità evocativa, pittoresca nel senso forte del termine, del Boccaccio; passi che ci fanno capire il senso del meraviglioso mondano, appunto, che anima novelle di questo tipo. Lo sbattere nella notte buia di un uomo che fa da cadavere è un’invenzione sorprendente; come la

« boce grossa, orribile e fiera » che precede l’apparizione del « gran bacalare » nella II, 5; come il colpo di lancia che sfiora il petto di Agnolella nascosta nel fienile nella V, 3; come il matto che tra le rovine tira col capestro il cadavere di Ciutiaci nella II, 7. È spesso reperibile, nel Boccaccio, la capacità di cogliere in un attimo, in un aspetto, o in un gesto, la quantità di straordinario, talvolta quasi di surreale, che contiene la realtà mondana. Così pet l'evento che segue: quando « la famiglia della signoria », che è in agguato per

« pigliare uno sbandito, sentendo lo scalpiccio che Rinuccio coi piè faceva, subitamente tratto fuori un lume per veder che si fare e dove andarsi, e mossi i pavesi e le lance, gridò: “Chi è là?”» ($ 30) AI buio e al silenzio succedono il lume e il grido: il quadro, colto di scorcio con un effetto di violento chiaroscuro, sottolinea in poche righe la sorpresa introdotta dal:reale. È una peripezia minima, casuale, che scioglie di colpo il gruppo dei due uomini, prigioniero uno dell’altro per imposizione di una forza trascendente (l’ordine di una donna) che essi stessi hanno accettato,

e determina un’iden-

tità di movimenti anche ora che riconquistano un’autonomia d’azione:

« andò via »; « pure andò via altressi » ($ 31); « dolente a

casa se ne tornò »; « dolente di tale sciagura, similmente a casa sua se n’andò » ($ 34). Non interessa tanto la logica, rapida conclusione, quanto piuttosto quest’ultimo accenno di parallelismo che trasforma in automi i protagonisti di un’impresa insieme plausi-

bile e assurda, e li dissolve quasi nel nulla nel momento in cui li rinvia alla loro normalità. L’avventura irrigidisce per una notte i due innamorati, pur protagonisti volontari di essa, negli stessi pensieri e negli stessi gesti, per lo stesso scopo: lo schema del paralle417

lismo regge sintomaticamente la struttura del racconto. Ed è forse la chiave della sua sottile ironia: nel paragone tra i due si scoprono l'identità di certi impulsi generali (qui l’amore) che spingono all'avventura e insieme l’imprevisto che la rende sempre diversa. Ma la lezione di tale boccacciano je de l’amour et du hasard è discreta, si risolve totalmente nella malizia appena avvertibile di una trama limpidissima. Una trama che trova due giudici diversi: Madonna Francesca, che sa e ha veduto tutto, e rimane intellettual-

mente stupefatta dalla forza di quell’amore; la città, « tutta Pistoia », per la quale l'avventura resta inesplicabile, salvo che per gli sciocchi che stimano « lui da’ diavoli essere stato portato via » ($ 35). Dove pure affiora una maliziosa lezione, appena suggerita: l’inesplicabile terrestre, che dagli sciocchi è rinviato al soprannaturale, è perfettamente motivabile con le forze naturali e in un ambiente reale. In questo sensoil racconto diviene « parabola ». Avvenimenti analoghi, ma diversi pet i protagonisti e lo svolgimento e risolutamente piegati a una visuale comica (nel senso medievale del termine) si trovano nella IV, 10. Anche in essa la peripezia si ripercuote a un certo punto su tutta la città, tanto da aver

un movimentato strascico giudiziario; eppure la collettività cittadina non può ricuperare completamente il senso dell’avventura notturna. Qui il senno di una donna, « gentile » come Madonna Fran-

cesca ma opposta per carattere e coinvolta negli avvenimenti, riesce a ottenere che la città ricostruisca la vicenda in modo che non venga conosciuto il particolare essenziale di essa. La partecipazione del personaggio agli eventi muta la prospettiva cittadina della novella: nel primo tempo del racconto, la città (Salerno) è una dimensione generatrice di casi singolari, come nella IX, 1; nel secondo,

spettatrice e giudice dell'avventura. Ma nell’una e nell’altra parte il racconto, più lungo e intricato che nella IX, 1, più affollato di eventi e di personaggi, va ugualmente interpretato nel ritmo di imprevedibilità che regola il rapporto tra l’uomo e un ambiente, segnato dalla veloce evidenza di scene, scorci, mimi tragicomici. È quasi un racconto giallo ante litteram (che rischia di condurre Ruggieri all'impiccagione), congegnato con un’esperta malizia di orditore di trame; un giallo però che si costruisce scopertamente sotto 118

i nostri occhi: di esso viene indicato il meccanismo, che è poi rinviato a chi conduce l’inchiesta. E i disinvolti rappresentanti della giustizia subiscono intéllettualmente, dopo e più ancora che i protagonisti, una concatenazione di eventi di cui il senno umano può solo correggere e salvare il risultato finale. La narrazione, pur estesa, è perciò rapida, quasi secca nelle giunture tra periodo e periodo. (« Di che il giovane... »; « E con una sua fante tanto ordinò... »;

« Ed in questa misura perseverando.... »): il Boccaccio non si ferma, in particolare, su una precisa misura scenica, ma insiste piuttosto

sul ritmo messo in moto, dopo il sonno di Ruggieri, da una veloce successione di fatti. Si veda di quante cose possa fermentare un periodo, quando Ruggieri è catturato ancora mezzo stordito dal narcotico e non capisce dove si trova: E Ruggieri, il quale quivi vedendosi, quasi di sé per maraviglia uscito, né da qual parte fuggirsi dovesse o potesse vedea, preso dierono nelle mani della famiglia del rettore della terra, la qual quivi già era al romor corsa; e davanti al rettore menatolo, per ciò che malvagissimo era da tutti tenuto, senza indugio messo al martorio, confessò nella casa de’ prestatori essere per imbolare entrato; per che il rettor pensò di doverlo senza troppo indugio fare impiccar per la gola ($ 29).

Dal risveglio di Ruggeri, ancora stordito, si giunge in poche ri-

ghe alla dura sentenza:

e la implicata costruzione ipotattica lega

strettamente la meraviglia e la passività di Ruggieri al meccanismo autonomo delle vicende. Il racconto è sempre ricuperato con stupore dai personaggi, che hanno vissuto qualcosa che non esiste e fatto quanto non hanno fatto: « il che la donna e la sua fante udendo, di tanta maraviglia e di sì nuova fur piene, che quasi eran vicine di far credere a se medesime che quello che fatto avean la notte passata non l’avesser fatto, ma avesser sognato di farlo » ($ 30). La

realtà si impone come sogno e allucinazione. E la moglie del medico, che subendo l’imprevedibile ne ha creato un altro, è perciò costretta a ordire un nuovo intrigo, con la spregiudicata abilità di di un trecentesco detective: che agisce però per la propria salvezza e, se è possibile, per quella dell'amante. La novella si infittisce al119

lora di nuove scene e di nuovi personaggi (Maestro Mazzeo che motteggia la fante, lo « straticò » che vuole « attaccare l’uncino alla cristianella » prima di ascoltarla, ecc.): una serie di pezzi, anche di colore, che si accavallano l’uno sull’altro, secondo un meccanismo di reazioni casuali che danno rilievo al gioco serrato della donna, la

quale tenta di dominare gli eventi e di piegarli in una certa direzione. Il gioco ha però valore non tanto riferito allo schema usuale dell’adulterio, all'autonomia del personaggio femminile, quanto alla rumorosa e affollata dimensione ambientale in cui si esercita. Per-

ciò, nella novella, sono fondamentali gli elementi di un paesaggio cittadino, fisico e sociale, che si accumulano senza tregua: il medico celebre per la propria arte, il nobile rovinato come Ruggieri, i ladronecci e le zuffe per cuiè noto, il viaggio ad Amalfi affrontato dal medico per mare, gli interni delle case, le vie strette, la possibilità di trafugare nel buio un cadavere nell’arca di un legnaiuolo vicino, l’usura, i furti, i rumori notturni in una casa, il grido

di allarme che si ripercuote nel vicinato, i birri, il rettore e lo. straticò addetto alle cause criminali, le dispute familiari, la giustizia sbrigativa, e così via. Appunto nell’incessante sovrapporsi di queste sequenze narrative-descrittive consiste il racconto. La novella è ricchissima di elementi realistici, chiaramente familiari al Boccaccio: ogni particolare è vero, esatto, risponde alle strutture di vita di una cittadina meridionale del Trecento. È sempre la dimensione normale, quotidiana, che conosciamo;

ma l’affollarsi e il mesco-

larsi degli elementi, nel corso del giorno e della notte, determinano una sorta di favola tragicomica, dove tutto è straordinario e insieme esplicabile. È una trama di imprevisti colta in un tempo normale: ritroviamo il nesso che origina e dirige il racconto boccacciano. Nella IV, 10, la città AIAR una dimensione avventurosa che le appartiene naturalmente; e rispetto alla IX, 1, apre un secondo livello di avventurosità, determinato non più o non solo dal paesaggio, ma dalla fitta convivenza che in essa si istituisce. Da retroscena, la città si trasforma in scenario colto in azione, attraverso il moto e i contraccolpi degli elementi che contiene. Questo tipo di racconto, fondato sullo svolgimento narrativo di un ambiente gra120

zie all'avventura particolare di un personaggio, è portato all’estremo nella II, 5, dove la città, rappresentata come sconosciuta al personaggio che l’affronta, è riettamente il motore narrativo della novella. Ciò avviene per una scelta dello scrittore, che localizza un settore all’interno di essa individuando le possibilità meravigliose di un ambiente notturno: non il caso, ma i bassifondi napoletani che lo esprimono costituiscono il centro e la tensione di tutto il racconto, dalla mattina in cui Andreuccio è inserito in un’affollata scena di mercato all’alba in cui riesce a raggiungere il proprio albergo. È già stata accertata, con un’indagine erudita, la verità de-

gli elementi e della topografia della novella, e si è ricostruito il cammino percorso da Andreuccio *: verità che viene al Boccaccio, è ovvio, non solo dal fatto che Napoli gli è una città familiare, ma anche da una interpretazione di essa come metropoli, diremmo oggi, e come porto di mare, dove si incontrano i tipi più diversi e sono possibili tutte le sorprese. Perciò, richiamandoci a una tematica ottocentesca che il Boccaccio sembra talora anticipare nel Decameron, potremmo intitolare la novella I misteri di Napoli? Il Boccaccio è il primo grande scrittore, nel Medio Evo, che abbia colto

la natura contiene. inesperto, mente in

avventurosa della città, il potenziale narrativo che essa Un’intuizione che scatta felice grazie a un personaggio che si muove da straniero a Napoli, e la scopre gradualuna notte allucinante.

| La novella è più ricca della IV, 10, e indulge, specie nella prima

parte, a un lavoro più raffinato (l’incontro di Andreuccio con la vecchia, l’invito, il discorso della ciciliana, ecc.); però, nonostante

le aperture tematiche e dialogiche, è anch’essa essenzialmente racconto, cioè mobile rappresentazione di un ambiente equivoco che rende possibili, naturali, logicamente accettabili tutte le avventure. La struttura narrativa, anche in questa novella, è fornita dall’ambiente, che costringe, potremmo dire, Andreuccio a risentirsi, a 8 Da B. Croce, La novella di Andreuccio da Perugia, Bari, 1911, poi in Storie e leggende napoletane, Bari, 1919. 9 Meglio che Les parfums de Naples, come fa argutamente J. BOURCIEZ nella sua traduzione: cfr. J. Boccace, Le Décaméron, traduction nouvelle de J. Bourciez, Paris, 1952, p. 95.

121

individuarsi gradualmente. Egli lo subisce, anche se lo comprende sempre meglio, fino all’epilogo: si pensi all’allucinata stanchezza di quel « al suo albergo si rabbattè » che conclude l’avventura ($ 84). Ma Andreuccio è pure l’occasione privilegiata che permette il concretarsi narrativo di quell’ambiente: lo permette in quanto straniero, in quanto mercante che mostra la sua « borsa », in quanto

onesto mediocre che non conosce il mondo e capita d’improvviso in un ambiente dove i valori del suo mestiere sono disconosciuti,

dove sono capovolti i rapporti usuali della sua vita, e valgono solo la furbizia e la prepotenza, la truffa e la rapina. Il lettore fa assieme ad Andreuccio l’apprendistato di una città, anzi di un settore preciso di essa: un mondo che prima si aggira sullo sfondo, si accampa poi al centro della novella, e finisce all’ultimo coll’esprimere tutta l’azione. Andreuccio è rappresentato solo e inerme, in una zona di buio che è brulicante di agguati, di gesta di ladri e di rapinatori, di ruffiani e di prostitute. Se vuole uscirne, Andreuccio deve adattarsi alla logica e al gioco di quel mondo: e allora il racconto corre via tanto più rapido quanto più il gioco trascorre nell’assurdo, e Andreuccio tende a divenire pure lui, per necescità di cose e provvisoriamente, un personaggio della malavita. L’ambiente si risolve integralmente in racconto, si tratti di Andreuccio o dei ladri che egli incontra, in un’atmosfera ambigua di connivenza, consapevole o spontanea, di una cerchia di furfanti e di ladri. Di qui, per naturale sviluppo interno di una simile tematica, il racconto quasi riparte per aprirsi in una nuova dimensione di commedia, data dal senso corale di un ambiente (dal porto al

Malpertugio, dal chiassetto tra due mura alle finestre che si aprono nel quartiere, dal casolare al pozzo, e sempre nel buio). Diversamente dalle novelle IX, 1 e IV, 10, l’azione presuppone in ogni momento una vera dimensione scenica, dei precisi interlocutori. Quando Rinuccio e Alessandro, nella IX, 1, avanzano nelle

tenebre e urtano sulle panche, basta la dimensione della città notturna a sottolinearne la strana azione: qui invece un ambiente deve dispiegarsi in uno scenario preciso e in un coro di personaggi. La

parte iniziale, la commedia della ciciliana, ne è solo un momento più spiccatamente scenico-dialogico, necessario per inserire la per122

sonalità di Andreuccio in tale ambiente, per immetterlo nella fitta rete di inganni che esso esprime. Un critico francese," commentando la novella, l’ha divisa in atti al pari di una commedia: divisione estrinseca, certo, rivolta alla trama, ma tale da suggerire una nuova direzione possibile del racconto,

il muoversi di una successione lineare di vicende verso una più vasta dimensione scenica. Il racconto corrisponde infatti, come modo narrativo, a una linea che si costruisce per accumulazione paratattica di vicende. Vicende il cui peso è uguale, che valgono più che nei singoli episodi per il loro sovrapporsi l’uno accanto all’altro: in questa progressione orizzontale il personaggio, si è visto, tende a coincidere con gli eventi. Il procedimento esclude perciò, in linea di massima, la digressione, l’apertura descrittiva, la profondità di analisi del personaggio, il rilievo, in ogni caso, di un particolare. Mentre nella II, 5 il racconto, che pure definisce la struttura della novella, in quanto espressione di un ambiente « narrato », comincia a prolettarsi in uno spazio scenico più ampio, gremito di per-

sonaggi:

non è più soltanto l’esposizione delle traversie di An-

dreuccio a contatto con un ambiente straordinario, ma il rivelarsi

di tale ambiente in una profondità scenica, con misure di spazio e di tempo ad esso connaturate. Non a caso allora il dialogo, pur rapido, comincia ad apparire con maggior evidenza: si pensi alla pagina perfetta del colloquio tra Andreuccio e la servigiale, che richiama alla finestra, in un crescendo di voci irritate e divertite, minacciose e benevole, tutto il vicinato ($ 43-54). È una scena

traducibile immediatamente

in commedia:

e il dialogo acquista

10 H. HauvettTE, Boccace, Paris, 1914, pp. 295-297: che divide la novella in atti, con prologo ed epilogo. Di « grande commedia », con « una classica unità di luogo e di tempo », parla anche C. Muscetta, Il Decameron cit., pp. 388-390, da consultare anche per la perspicua conclusione (p. 391). Sul caso, come divinità che presiede alla « commedia degli equivoci » (p. 165), punta l’analisi di L. Russo, Letture critiche... cit., pp. 156-173, ricca di felici notazioni. Indovinate osservazioni sul rapporto « allucinante » tra realtà e immaginazione in V. BRANCA, Le nuove

dimensioni

narrative...

cit., p. 117;

cui si richiama

G. GETTO,

La compo-

sizione della novella di Andreuccio, in Vita di forme... cit., pp. 78-94, che sottolinea con nuove osservazioni, nel rapporto tra « ambiguo » e « imprevisto » dell’azione e « precise dimensioni spaziali e temporali », « la struttura unitaria » della novella (p. 90), e la collega a un concreto insegnamento di «arte del vivere» (p. 94).

123

allora una sua autonoma validità, nella stessa labile successione delle battute: E fatto questo, cominciò l’uno a dire: « Chi enterrà dentro? ». A cui l’altro rispose: « Non io ». « Né io » disse colui « ma entrivi Andreuccio ». « Questo non farò io » disse Andreuccio. Verso il quale amenduni costoro rivolti dissero: « Come non v’enterrai? in fè di Dio, se tu non v’entri, noi ti darem tante d’un di questi pali di ferro sopra la testa, che noi ti farem cadere morto » ($ 72-76).

Sono i momenti che dovettero attirare l’Aretino, il quale scorse acutamente le possibilità teatrali del racconto e lo dissolse, nel Filosofo, in una serie di scene che valgono per la fluida successione delle battute, dei contrappunti verbali che scandiscono l’avventura. Con la II, 5 siamo al limite di un nuovo modo narrativo:

il

racconto, come successione lineare e ritmica degli eventi, tende a trasformarsi nei moduli espressivi della commedia.

124

Dal racconto al romanzo

Nel racconto (inteso come nitida esposizione di eventi suscitati da una realtà che pesa, in vario modo, sull’individuo) sono contenute in potenza varie soluzioni narrative, che il Boccaccio fisserà in altre novelle. Ve ne sono alcune nelle quali proprio lungo il racconto si costruisce lentamente un personaggio che tende a equilibrarsi con gli eventi, e ne patisce o dirige il flusso. Da un tempo narrativo esterno (l'avventura come successione di fatti) il Boccaccio si volge a un tempo narrativo interno (l’avventura come evento psicologico, essenziale nella storia di un personaggio). Se nel racconto la fonte degli eventi è la realtà esterna, cioè la Fortuna con i vari modi in cui si manifesta nella realtà terrena, in

questo secondo tipo di narrazione la fonte degli eventi non è più solo la fortuna, ma una realtà interna all’uomo, una passione o un impulso che provocano le avventure; la Natura insomma, e innanzi tutto, com'è logico, l’amore che la rivela. Esso esiste certamente, ed è forza indomabile, anche nel racconto; nella IX, 1, per esem- ‘ pio, Rinuccio e Alessandro sono innamorati al punto da affrontare un’avventura perigliosa. Però di Rinuccio e di Alessandro sappiamo solo che accettano di affrontarla e poi falliscono;. non sappiamo come erano prima né come saranno dopo quella notte, cioè il significato di tale avventura nella loro storia di uomini. E non lo sappiamo perché al Boccaccio non interessa comunicarlo: gli basta averli colti in una frazione insolita, eccezionale ma esau-

rita in sé, della loro vita. Possiamo dunque dedurre che non è l’amore in quanto passione, in quanto motore di una storia interna, che lo attira nella novella. Quando invece è precipuo tale interesse, ogni atto acquista un peso e una rilevanza determinanti, si pone come esperienza irreversibile nella storia del personaggio. 125

È quanto si coglie per esempio in Federigo degli Alberighi, nel suo « mai pace con lei aver non debbo », nel suo « mai pace non me ne credo dare » (V, 9, 34 e 36): che indicano un evento il quale

incide nella storia un personaggio, segna la sua anima e non potrà essere cancellato. Quando l’amore viene assunto dal personaggio, esso non è più soltanto avventura locale e serena, come nella II, 2, né abitudine al piacere, come nella IV, 10; diventa espe-

rienza decisiva, che tende a identificarsi con una storia personale. Naturalmente il tema dell’amore, nei suoi aspetti elevati o patetici, si presenta al Boccaccio predeterminato da schemi che hanno una lunga tradizione in occidente, dalle inchieste dei romanzi cavallereschi francesi alla poesia del « fino amore », e volgarizzato (sempre a un livello aristocratico) nella zona intermedia delle questioni d’amore, care a una consuetudine cortese. È un tema, inoltre, centrale nella storia del Boccaccio fino al Decazzeron, dove sono ricor-

renti gli echi cavallereschi, stilnovistici, cortesi, e dove persiste il gusto della casistica amorosa già patente nel giovanile Filocolo. Non è dunque un caso che almeno due novelle (X, 4; X, 5) ripren-.

dano due « questioni » del Filocolo. Né stupisce che la rielaborazione nel Decamzeron di uno spunto casistico, rielaborazione evidente e anzi sintomatica, sveli una sorta di compromesso tra i riflessi astrattamente raffinati del giovane scrittore e le esigenze realistiche dello scrittore maturo. Tipica in questo senso la X, 5, dove l’ori-

gine casistica, complicata dallo sforzo che i narratori compiono nell’ultima giornata per superarsi in modelli di liberalità e cortesia, si tradisce con un certo peso. Ma è anche vero che la genesi intellettualistica fa della novella un documento privilegiato della storia del Boccaccio, nel senso che si libera, rispetto alla prima redazione, un avvio più spedito di racconto, che sfronda gli elementi superflui. Nella lontananza favolosa del Friuli, esplicita in apertura ($ 4), i personaggi tendono a districarsi dall’imposizione degli schemi casistici, e restano sospesi tra due diverse motivazioni. Così, per esempio, nell’astratto sillogizzare che caratterizza la lezione di Gilberto alla moglie la paura della magia (« inducendomi ancora la paura del nigromante... »), che immette un tema topico 126

nella consapevolezza più quotidiana di un marito ($ 15), rischia di essere la sola nota concreta della sua psicologia: ma l’accenno, che prende quasi una coloritura « comica », spezza bruscamente il tono elevato e la linea cortese del ragionamento, e sembra invilire la generosità « tragica » del personaggio. Sola si rileva nella novella, con finezza, l’inerme figura di madonna Dianora; ma non basta a conferire unità al racconto.

E rimane pure, in altre novelle, l’eco della sovrabbondanza « elegiaca » del Filocolo, sia pure filtrata dal ricordo e distanziata nella linea più limpida del racconto. Un esempio tipico è la V, 6, che pur mostra una mano più sicura nel narrare i casi fortunosi di due giovani amanti. La novella, se ha l'andamento spigliato e veloce del racconto, con un moto di depurazione stilistica rispetto al Filocolo che è già sintomatico, lascia però intravedere una cura maggiore nel disegnare i personaggi, pur sottoposti all'avventura perigliosa. L’autobiografismo elegiaco del Filocolo è ora attenuato dalla serenità del racconto, più attento ai particolari significanti: ma lo schema dell’amore nato saldo e forte nel cuore di due giovani, che sono spinti dalla passione alle peregrinazioni e ai più gravi pericoli, e alla fine si ritrovano felici proprio quando stanno per soccombere, è un tema che si rinnova più volte nella V giornata, e tal-

volta in un’aura di discreta malinconia; ed è ancora possibile riconoscervi, attraverso la trasparenza delle vicende, le postille ansiose e dolenti di Florio e Biancifiore. Così in un ambiente meridionale caro al Boccaccio, che appena svela le sue distese marine e le sue arabe architetture, è inquadrata nella'V, 6 la vicenda di Gianni da Procida e di Restituta; il colore storico e ambientale è ravvivato

da una memoria personale, e conferisce alla novella la grazia di un album che abbia fissato esperienze e conversazioni di un tempo pieno e felice. Perciò il Boccaccio insiste su schemi cari alla sua giovinezza di scrittore: la faticosa scalata di Gianni da Procida alla stanza dove è prigioniera Restituta, lo slancio dei due innamorati e la loro disperazione, il sonno che li sorprende, l’ira di re Federico,

il supplizio e la morte che vengono decretati. Ma su questo Filocolo in compendio si stende il sorriso del narratore maturo; e il motteggiare di Ruggieri dell’Oria, che salverà alla fine Gianni da Pro123

cida — « Volentieri io farò sì che tu la vedrai ancora tanto che ti rincrescerà » ($ 35) —, già annuncia il lieto scioglimento. Il distacco del narratore, la padronanza nuova della materia, risaltano ancor meglio se riferiti alla seguente V, 7: dove su un canovaccio che tende a logorarsi il Boccaccio sa sviluppare localmente qualche elemento: la scena della tempesta, cartone ritagliato da Virgilio, la crudeltà del padre offeso, borghese ripetizione dello schema topico di Tancredi, l’agnizione finale, ripresa dalla V, 5. Il tema della prima parte, che segue con finezza il nascere di un amore timido e gentile, e quello centrale della debolezza dei due giovani, di un amore che non è forza bensì paura sottomessa alle convenzioni so-

ciali, si disperdono nel fluire di schemi narrativi più convenzionali. Nella V, 2 i personaggi riescono a equilibrarsi con maggior misura nella vicenda: se Dianora e Violante non riescono, Gostanza sa invece conferire al racconto un ritmo di elegia che si espande per tutta la novella. Anche quando il racconto si svia su Martuccio Gomito, rimane nella pagina l’eco della narrazione tutta psicologica della prima parte: dall’animo fragile e insieme appassionato di Gostanza la novella riceve un unico tono sospeso, quasi di dolce fiaba idillico-avventurosa. Anteriormente alle vicende, si profila un personaggio colto in una suggestiva contraddizione: un’estrema debolezza rispetto al mondo, una forza indomabile generata dalla passione. Perciò la cronaca iniziale si ferma più su Gostanza che sull’uomo che ama; e i casi di Martuccio, a. differenza di quelli di Gianni da Procida, acquistano rilievo in quanto si ripercuotono nel cuore di Gostanza (di qui la parte quasi esorbitante che il suo colloquio col re sembra avere nell’economia della novella). La narrazione, concentrandosi sulla figura di Gostanza, sfuma le vicende in un’atmosfera più rarefatta, dove la concretezza quotidiana dei gesti è segnata da elegiaca disperazione, da una chiusa passione e da una mortale tristezza. Priva dell’uomo amato, la vita è subito negata, in Gostanza, con la tacita risoluzione propria di altri eroi dell’amore: « seco dispose di non voler più vivere » ($ 9). È un tono crepuscolare (e l’aggettivo va inteso con le cautele necessarie ad evitare i controsensi di una sensibilità moderna al contatto con lo stile: 128

« elegiaco ») non ignoto al Boccaccio: qui evidente subito nella consonanza di un paesaggio marino con lo stato segreto del cuore di Gostanza, con la su ticerca di morte: « e avviluppatasi la testa in un mantello, nel fondo della barca piagnendo si mise a giacere » ($ 12). È in pagine simili che possiamo avvertire come il movimento esterno, quello dei gesti e delle vicende, sia progressione nell’intimo del personaggio. E sono pagine in cui ritroviamo piuttosto lo scrittore della Fiammetta, che ha portato all’estremo ma ora ridotto all’essenziale l’introspezione dell’animo femminile. Tali novelle, tematicamente affini ma diverse nel tono, aprono,

sulla base delle precedenti esperienze dello scrittore, una nuova dimensione del racconto: una dimensione che possiamo chiamare di novella-romanzo. Si tratta di un racconto lungo, non solo per il numero e l’ampio respiro delle vicende, ma per una nuova tensione del personaggio, risolto certo nelle azioni e calato nei fatti, in varia lotta col reale, sempre però al centro dell’analisi. In tale tipo di narrazione psicologica, l’uomo tende a ricondurre più direttamente a sé gli avvenimenti; e il personaggio assume le vicende, la trama, va acquistando coscienza della propria originale autonomia, della propria storia individuale. L’avventura è situata ora nel personaggio; non ha più il segno uguale e ripetitivo dell’evento esterno, ma acquista il carattere dell’irreversibilità, cioè del suo decisivo significato nella vita dell’individuo. Romanzo è dunque denomina: zione che risponde insieme al supporto che tale tipo di novella ha in schemi narrativi già provati dal Boccaccio e ad una qualificazione più moderna di racconto. Il tempo della novella non è più determinato dal ritmo degli eventi, ma dall’incidenza che essi hanno nell’animo del personaggio, mutandone la storia. E tale mutamento è avvertibile nello stile del narratore, anche all’interno di una stessa novella. Si pensi a una novella apparentemente composita quale la IV, 6 (la IV e la V giornata offrono assiduamente l’incontro tra i « casi fortunosi » e la responsabilità individuale, alla luce di una esperienza fondamentale: l’esperienza d'amore): nella quale potremmo trovare, specie nella seconda parte, temi analoghi a quelli della IV, 10 (i convegni notturni, i birri, un podestà piuttosto incline alle 129

donne, le ripercussioni di un fatto in tutta la città, ecc.).! Diverso

però non è solo il personaggio femminile, qui nobile socialmente e moralmente (con un’inversione canonica di scelta amorosa:

una

nobile ama un plebeo): diversa è tout court la presenza del personaggio (Andreuola) dal quale il racconto, pur nel degradare dei toni nella seconda parte, riceve un senso fino all’ultimo, fino alla rituale conclusione. Certo, nella serie dei quadri in cui si sviluppa la novella è reperibile una frattura, che si riflette in parte nel personaggio: perché l’Andreuola della seconda parte (narrata con lo stile del racconto), costretta al contatto con la collettività, energica ma più distante e quasi fredda, è diversa dall’Andreuola della prima parte (quella del romanzo), sola con l'amante, trepida e appassionata, rilevata con forza particolare (la novella è dunque interessante anche perché ci presenta due tipi di linguaggio narrativo, coesistenti nella vicenda). Perciò la pagina più viva è appunto quella iniziale: un idillio sfumato nell’aura quasi impalpabile del meraviglioso, anche se il luogo topico che lo accoglie, un giardino, è situato in un normale ambiente urbano (qui Brescia), e non ha bisogno di essere suscitato per negromanzia (come nella X, 5). La magia è piuttosto motivata dall’interno, senza ricorso a filtri amorosi:

nasce cioè da

un’introspezione verticale dei sentimenti. Questo il fascino della figura e della storia di Andreuola: la quale esiste subito nel suo credere e temere il sogno. Proprio il tema del sogno, dell’oscuro presentimento (su cui batte il cappello di Panfilo) è il nucleo della novella e dell'atmosfera pietosa che l’avvolge. Un tema, è inutile sottolinearlo, non nuovo nei romanzi e nella poesia d’amore, e non solo in essi: si pensi all’uso che ne fa Dante nella Commedia. Qui però la premonizione non è di natura allegorica, filosofica: è il sogno presente nella vita quotidiana dell’uomo, proiezione di intime angosce. Tant'è vero che al sogno di Andreuola corrisponde quello di Gabriotto, il quale cerca anzi di dare una spiegazione scientifica, sia pur rudimentale, del proprio. Ciò lo distingue da Andreuola, ! Per un esplicito raffronto, in parte diverso nell’impostazione dell’analisi topica e stilistica ma fruttuoso per il nostro discorso, delle due novelle come « modelli della duplice realtà nel mondo umano del Decamzeron e delle sue ambivalenze espressive » (p. 69), si veda V. Branca, Registri narrativi... cit., pp. 62-70.

130

nella quale permane il presentimento di un destino che si deve compiere: il Boccaccio coglie con precisione la realtà di intuizioni vaghe e oscure, che vivono nél’campo del subconscio e appena affiorano al cuore, più che alla ragione, immotivate come sono in apparenza. Il meraviglioso ha in questa motivazione interna (avvertire il destino, anticiparlo) la sua elegiaca validità. Naturalmente, ad andare più a fondo nell’analisi, si potrebbe rilevare che Andreuola proietta nel sogno un inconscio senso di colpa che è anche di natura sociale (il giardino è « del padre di lei »: un padre che appare alla fine ben diverso da quello temuto dalla figlia: ed è una sorpresa rivelatrice, che scatta a ritroso sul testo): in questo senso la dimensione cittadina, pur ellitticamente presentata, è strutturalmente necessaria alla novella (la città facilita gli incontri tra individui di diversa condizione, ma le leggi della convivenza sociale costituiscono poi un ostacolo alla libertà dei rapporti). Tutto ciò grava sui protagonisti: e dopo la serie affannosa di polisindeti che segue il racconto dei due sogni, il periodo si costruisce lungo un tracciato interno, in uno scavare progrediente di subordinate: La giovane, per lo suo sogno assai spaventata, udendo questo divenne troppo più; ma per non essere cagione d’alcuno sconforto a Gabriotto, quanto più poté la sua paura nascose. E come che con

lui, abbracciandolo

e basciandolo

alcuna

volta

e da lui es-

sendo abbracciata e basciata, si sollazzasse, suspicando e non sappiendo che, più che l’usato spesse volte il riguardava nel volto, e talvolta per lo giardin riguardava se alcuna cosa nera vedesse venir d’alcuna parte ($ 18).

I periodi hanno una struttura ipotattica, con una subordinata che si apre sull’altra e con una prevalenza di gerundi che seguono il cammino sotterraneo, quasi tortuoso, che il sentimento della paura si apre nell’animo di Andreuola. Andreuola è presa in una contraddizione: l’amorosa volontà di non turbare Gabriotto, l’angoscia che aumenta in lei. Il primo periodo è solo una narrazione interna, concerne il tentativo di nascondere la paura mentre si accresce il turbamento. Poi i gesti usuali dell'amore, subito condizionati dal « suspicare » della donna. Il narrato procede sempre tra questi due 131

poli: l’amore, la passione; l'inquietudine, il timore. Il personaggio di Andreuola, situato nello sfondo appena stilizzato di « una bellissima fontana chiara » e delle « molte rose bianche e vermiglie » ($ 12) da lei colte per il convegno

d’amore

(che accompagnano

l'amante fino alla tomba, in trepide rispondenze visivo-elegiache

che caricano di un nuovo sentimento schemi non infrequenti di scenari amorosi), vive nell’aspettazione della disgrazia, nell’incubo imponderabile dell’ignoto: la parola « paura » suggella il suo sogno, e domina la prima parte della novella. Morto Gabriotto, cade quell'ossessione trasognata di un vago mistero che aveva dominato le pagine iniziali; la tensione interna del racconto si spezza bruscamente, in modo reso evidente da un’inutile didascalia, da una formula di passaggio tra le rarissime nel Boccaccio: « Quanto questo fosse grave e noioso alla giovane che più che sé l’amava, ciascuna sel dee poter pensare » ($ 22). Lo scarto stilistico ci avverte che lo scrittore ha esaurito il nucleo vitale della sua novella. Anche se non si esauriscono le vicende, che coinvolgono la pietà amorosa, la preoccupazione sociale, i soprusi tentati dal podestà, la reazione comprensiva del padre (una sorpresa quasi crudele, oggettivamente, per Andreuola,

quasi una beffa ritardata del destino, perché

dimostra infondati i timori della figlia), il capovolgimento rituale nell’onore dei cittadini del tema dell’amore segreto, il ritiro in un monastero di Andreuola. Ma il personaggio equivale oramai agli eventi che è costretto a subire. In altri casi, il racconto esterno coincide in modo più compatto con una realtà sentimentale, psicologica: una realtà che conferisce a tutta la novella una coerenza stilistica particolare, un’intensità di romanzo.

L’incontro tra avvenimenti e personaggio si traduce

allora in soluzioni suggestive, in prove che sono tra le migliori del Boccaccio, quando l’incontro avviene con perfezione di accordi in una compiuta misura di trama. Anche in tali novelle la realtà cittadina, fatta di convivenza e di barriere sociali, può incidere gravemente sull’individuo; ma senza riuscire a piegarne la passione. La tensione al romanzo di simili novelle nasce allora da un’interazione e da un contrasto tra l’ambiente sociale e la vita interna del sentimento: contraddizione che segna il destino di un perso132

naggio. Si legga la IV, 8, dove è già interessante che il tema cortese-cavalleresco dell'amore possente che riunisce due esseri « in una medesima sepoltura » ($ 35) venga trasposto in un ambiente borghese e cittadino, in una Firenze appena distanziata nel ricordo degli « antichi » ($ 5). In essa l’urto tra la realtà sociale e il fervore della passione è fonte di morte; una morte naturale, più che un suicidio, ottenuta volontariamente da Girolamo per inappagamento di un amore vitale che coincide con l’esistenza. Nel racconto s’innesta allora più forte il risentimento di un’individualità sofferente. La storia di Girolamo è uno studio d’anima, nel senso

che le vicende valgono solo nella prospettiva della sua personalità, contrapponendo la mutabiltà degli eventi e delle azioni degli uomini (di tutti gli altri) alla chiusa staticità della sua passione, che il volgere degli anni non vale a intiepidire. La novella si svolge in un ambiente borghese che esala la sua piatta grettezza in tutto il racconto, ora appena suggerita ora esplicitamente denunciata con

asprezza oratoria. Un ambiente, si badi, non omogeneo:

Girolamo

e figlio di un ricco mercante, Salvestra è figlia di un sarto, e si sposerà con un tendaio. In questo senso, la novella è un documento

eloquente di una distinzione tra popolo grasso e popolo minuto che è più forte, nella Firenze a metà del secolo, di quella tra

ricca borghesia e aristocrazia: distinzione che il Boccaccio coglie con grande esattezza, intervenendo non tanto con un pensiero sociale, quanto postulando un'intelligenza più aperta e disponibile alle forze della Natura.? E infatti la classe cui Girolamo appartiene è solo qualificata da un buon senso rigido e angusto, negato alla penetrazione psicologica: si tratti dei tutori o della madre, che passa dalle villanie alle lusinghe perché sogna per il figlio altro e più degno matrimonio (un tipo di madre delineato in poche righe ma osservato con grande acutezza psicologica e sociale, e denunciato espressamente nel cappello della novella). Il dramma di Girolamo 2 Si leggano, per questo aspetto, le osservazioni di R. RAMAT,

Girolamo e la

Salvestra, in Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora, Milano, 1963, pp. 340-352; a conclusione di una penetrante analisi che costituisce la prima impe| gnativa rivalutazione della novella. Né vanno trascurati i rilievi di G. GETTO, Vita di forme... cit., pp. 135-137.

493

nasce dal contrasto col mondo che lo circonda e impone la sua legge a Salvestra, più debole e remissiva; un mondo che ne ostacola l’amore e lo conduce alla morte, provocando poi la redenzione di Salvestra. Ma più che un tono tragico domina nella novella un accento di stupore per la potenza d’amore, che si apre qua e là in pause di commento: « Maravigliosa cosa è a pensare quanto sieno difficili a investigare le forze d’amore! » ($ 32); dove il verbo tradisce l’interesse psicologico del narratore. In questa prospettiva si spiega il singolare, patetico eroismo amoroso di Girolamo, quell’irrigidirsi alla fine nella disperazione morendo accanto alla donna amata, quasi per un supremo atto di volontà: Coricossi adunque il giovane allato a lei in un pensiere il lungo amor pottatole e e la perduta speranza, diliberò di non più spiriti, senza alcun motto fare, chiuse

senza toccarla: e raccolto la presente durezza di lei vivere; e ristretti in sé gli le pugna, allato a lei si

morì ($ 23).3

Girolamo è dunque la vittima borghese (preromanica, si vorrebbe dire) di quel silenzioso eroismo dell’amore di cui Federigo degli.

Alberighi è il più nobile rappresentante. Vittima chiusa e solitaria (la morte improvvisa matura in realtà dentro di lui per lunghi anni: è un problema esistenziale, ripetiamo, perché egli non può letteralmente vivere senza la donna che ama), visto che manca la possibilità di un colloquio, una comunanza di linguaggio con l’ambiente che lo opprime. La madre che conta sull’effetto del tempo, i tutori mediocri e sensati appartengono a un altro mondo; e infatti sono i soli che parlano, e Girolamo, chiuso nella sua passione, solo rifiutao acconsente. Le sue uniche battute nella novella, in discorso diretto, sono cariche di trepida delicatezza e insieme di angosciosa disperazione, sussurrate più che dette (« pianamente disse ») nel buio di una camera, dove lo ha portato l’audacia della pas-

sione:

« O anima mia, dormi tu ancora? »; e subito dopo: « Per

3 I corsivi sono ovviamente ‘miei. Per la storia e il valore dello schema dell'amante che penetra di notte nella camera della donna amata — qui però sintomaticamente rovesciato nel suo esito — si veda V. Branca, Schemi letterari... cit., pp. 142-146.

134

Dio, non gridare, ché io sono il tuo Girolamo » ($ 17-18). Nella

nudità essenziale delle, due frasi è segnato il destino di Girolamo; dopo la morte, nella novella che continua per contrapporre polemicamente il suo eroismo all’ambiente borghese, egli è ancora presente, e agisce come in un’improvvisa illuminazione d’amore su Salvestra; ma più ormai come simbolo della forza che lo ha vinto e che ora egli stesso rappresenta. Nella novella-romanzo, quale è stata rapidamente individuata, si manifesta un rapporto intenso, di interazione decisiva, tra realtà e personaggio, tra gli eventi e l’individuo che li assume e li vive. Naturalmente, tale rapporto è di varia natura: si passa dal personaggio che sconta il peso degli eventi, che li soffre e ne è vittima, cioè dall’elegia (V, 2; IV, 6; IV, 8), al personaggio che lotta con gli eventi, che non cede ad essi e vi resiste vitalmente (come nella

II, 4), a quello che li sa sfruttare e quasi creare (come nella III, 7 o nella III, 9). Questa, delineata schematicamente, la traiettoria narrativa, che comporta varie combinazioni e fasi intermedie. Al limite estremo dell’elegia, di un romanzo tutto sofferto, è Lisabetta (IV, 5): l’elegia risponde alla logica interna di questa figura di donna insieme appassionata e silenziosa, e sorregge tutta la novella. Perciò la prima parte di essa è una rapida cronaca dell’antefatto, che trapassando dal sorgere semplice e limpido di un amore

a un feroce delitto, crea il clima freddo e cupo che rinserra Lisabetta. Non a caso l’ambiente è sempre mercantile; ma i tre fratelli si preoccupano dell’onorabilità della famiglia, della « vergogna » che rappresenta l’amore della sorella per Lorenzo. È una lezione, già esemplare nella IV, 1, confermata dalla IV, 6 e dalla IV, 8: se l’amore è un istinto naturale che non conosce e anzi DI

infrange le barriere sociali, non per questo è accettato dalle cosvenzioni civili: la libertà della passione è negata di fatto tanto dall'aristocrazia (come avviene nella IV, 1) quanto dalla borghesia, se

essa rompe con un codice di onorabilità, con un modo di conce-

pire la vita, il lavoro, il matrimonio. Si rivela, fuori degli schemi canonici sull’amore, un limite di mentalità riscontrabile al livello

del costume, che può portare la borghesia a gareggiare in ferocia

con la vecchia aristocrazia feudale (IV, 1; IV, 9). Tutto questo è un

135

presupposto, e la dimensione concreta, della novella: ma il personaggio nasce quando, dinanzi alla brusca irritazione dei fratelli per

le sue domande, non sembra più esistere, tende ad annullarsi nel silenzio. Manca a Lisabetta perfino il coraggio di rinnovare le sue richieste; allora, con uno stacco netto anche dal punto di vista

stilistico, inizia il vero romanzo: Per che la giovane dolente e trista, temendo e non sapiendo che, senza più domandare si stava, e assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse, e alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva, e senza punto rallegrarsi, sempre aspettando, si stava ($ 11).

La ripresa in clausola di «si stava » sottolinea la staticità, dal punto di vista dell’azione, in cui cade Lisabetta; mentre si affollano nel periodo, rispetto a tale inerzia esterna, gli elementi di un racconto interno (« temendo »; « aspettando »; « pietosamente il chiamava »; « dolente », « si doleva »; « trista », « senza punto rallegrarsi », ecc.) che sono decisivi, nella loro ossessiva sinonimia,

per lo sviluppo della novella (dove pure l’apparizione in sogno di Lorenzo sarà la proiezione di sentimenti profondi e costanti). Il romanzo si sviluppa sul piano di questo periodo, intessuto di parole semplici e usuali, che acquistano nella loro persistenza un significato quasi inedito. Più che in altre novelle il Boccaccio ha perseguito nettamente una trama silenziosa e segreta, che sottende quotidianamente alle vicende esterne eventi intimi, senza peso come eventi e pur percepibili come accadimenti interiori. Tali eventi privi di risonanze affiorano nella narrazione, e giustificano poi, nel vaneggiamento di una crescente chiusa follia, gli eventi esterni (il ritrovamento del corpo, la decapitazione, il testo col basilico,

ecc.). Li giustificano e rivelano un’attenzione (quella di molte pagine dell’Elegia di Madonna Fiammetta) che riscatta, per la sapienza segreta del racconto, l’apparente tono di fiaba popolare che impronta la novella: e per usanza aveva preso di sedersi sempre a questo testo vicina, e quello con tutto il suo disidero vagheggiava, sì come quello che

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il suo Lorenzo teneva nascoso; e poi che molto vagheggiato l’avea, sopr’esso andatasene, cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il bassilico bagnava, piangea ($ 18)4

Dove le insistenti ripetizioni (« vagheggiava », « vagheggiato l’avea »; « piagnere », « piangea ») confermano la continuità introspettiva del racconto; e dimostrano con quale nuova intuizione il Boccaccio abbia colto lo spunto di una canzonetta popolare, accennata alla fine quasi a misurare la distanza della novella dall’esile fonte che l’ha forse suscitata. Nel Boccaccio, la fiaba patetica e paurosa è motivabile e motivata: l’ossessione amorosa, che può arrivare alla sommessa follia, apre uno spazio insospettato nell’ambito della vita quotidiana, e la trasforma dall’interno. Lisabetta, sul piano esterno, è un personaggio irrilevante; sul piano interno svela invece un nuovo meraviglioso quotidiano, il meraviglioso psicologico. La scoperta dello strano, dello straordinario, avviene ora con un'indagine verticale, che punta al fondo di un sentimento. Il che non esclude, ripetiamo, la correlazione con un ambiente reale, l’am-

biente borghese che sembra non capire la forza della passione. Per questo gli eroi borghesi dell'amore sono, prima ancora che vittime, esseri incompresi (come Girolamo nella IV, 8). La borghesia sembra dunque, in quanto classe ordinata nei suoi costumi e nelle sue leggi, negata alla passione: nei suoi schemi mentali, l’amore è matrimonio e onoratezza, correlativo a una saggia amministrazione dei propri beni. Essa potrà esprimere, in antitesi a un romanzo mancato,

solo il capovolgimento comico dei propri valori: il gusto anche intellettuale dell’adulterio, trasformato in beffa nella novella e nella commedia. La borghesia mercantile del Boccaccio, ricca ed attiva, esprime tuttavia il suo romanzo nel Decazzeron, vive un tempo interno correlativo a una passione. Ma è un tempo nel quale l’individuo si misura col mondo per ricavarne ricchezza, per sfruttarlo con le 4 I corsivi sono «la pura essenza » osservazioni di C. che contrappuntano,

sempre miei. Acute e nuove, ma tese piuttosto a sottolineare della tragedia, fuori di ogni compiacimento elegiaco, sono le MusceTTA, Il Decameron cit., pp. 417-418: tra le numerose con ricchezza di suggerimenti, la sua lettura dell’opera.

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risorse dell’energia e dell’ingegno. Non la ricchezza in sé, ma l’accumulazione di essa, grazie a un investimento che mette alla prova la virtù industriosa e instancabile del mercante, regola allora il ritmo narrativo. La roba si sostituisce all'amore, con un radicale

mutamento di prospettive: come è fatto di nulla il romanzo della IV, 5, così ricco di eventi esterni, contrassegnato in ogni momento dalla lotta col reale, è il romanzo di Landolfo Rufolo nella II, 4.

Il personaggio imprime una sicura linea dinamica a tutta la novella, proprio nel nesso serrato che stabilisce con gli eventi. L'essenza della novella è cioè nel modo con cui viene narrata: un modo che segna un felice punto d’incontro di due linguaggi cari al Boccaccio. Per cui la novella è da una parte racconto, successione limpida di fatti e avvenimenti, con un ritmo temporale ben preciso; dall’altra è romanzo, che riporta in ogni momento le vicende esterne all’individuo che affronta la realtà, e ne segue fittamente il ragionare e il conseguente operare. Il racconto si snoda insomma lungo la linea di una personalità ben definita, ma costruita senza residui sui fatti, affiorante da essi senza soverchiarli: un romanzo appena suggerito ma essenziale. Come è giusto che avvenga: l’interiorità del mercante, il pensiero del personaggio sono legati alle decisioni, sono avvertibili in quanto premessa dell’agire; un tempo interno vale nel suo immediato risolversi all’esterno. E allora in una lunga odissea, nelle distese di un Mediterraneo carico di insidie (analogamente a quanto avviene nella II, 7, la presenza del mare è insieme fonte di imprevisto e campo del fatti agire dell’uomo), si illumina, in modo che si è detto emblematico ed esemplare, la figura di Landolfo: il quale lotta fino all’esaurimento delle forze, e invano, «come usanza suole essere de’ mercatanti », fa « suoi avvisi » ($ 6) (tutto il lessico della novella è ricco di termini che trovano

nel vocabolario mercantile una precisa accentuazione) e usa accor-

tezza e audacia, fino a che riceve dal mare salvezza e ricchezza proproprio quando sta per cedere e rifiutare la vita, se questa ha da 5 L’osservazione di A. MomicLiano, Il Decameron cit., che si tratti di « un racconto dalle linee sobrie, lucide » (p. 106), appoggiato a «una generica abilità di raccontatore » (p. 103), è perciò errato, rimane esterno alla novella per eccesso di sensibilità romantica.

138

essere povera e stentata ($ 18). È quasi una passione esistenziale

della ricchezza, considerata

elemento indispensabile del vivere.

Una passione economica trascritta in un racconto « marino », che

segue il fortuneggiare di un uomo che punta sul mare tutte le sue speranze e quasi ne resta travolto. Ancor più che in altre novelle

il mare, sommosso

dalle tempeste e percorso dai corsari, manife-

sta una suggestione romanzesca che affiora di scorcio, per antitesi, fin dall’ariosa e stilizzata descrizione iniziale: Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia; nella quale assai presso a Salerno èx una costa sopra il mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la costa d’Amalfi, piena di piccole città, di giardini e di fontane, e d’uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantia, sì come.alcuni altri ($ 5).

Paesaggio e ricchezza, felicità del luogo naturale e prosperità economica si compenetrano, in questa costa pittoresca fitta di città ma-

rinare, dove la ricchezza è visibile già nel modo con cui l’uomo modifica il paesaggio. È uno sfondo necessario a dar rilievo alla brama di ricchezza del protagonista, indicata ellitticamente dal narratore; ma anche a suggerire le postille umane di Landolfo, pure sobriamente delineate con alcune notazioni essenziali. Quello che conta,

infatti, è che esse siano verificate dal racconto; che costituiscano il contrappunto intellettuale e psicologico allo svolgersi delle vicende;

che misurino in esse l’iniziativa e i risultati dell’individuo: « fatti suoi avvisi... » ($ 6); « gli convenne far gran mercato... », « gliene convenne gittar via » ($ 7); « pensò o morire o rubando ristorare

i danni suoi » ($ 8); « quello d’ogni cosa opportuna a tal servigio armò e guernì ottimamente » ($ 9); « gastigato dal primo dolor della perdita, conoscendo che egli aveva assai per non incappar nel secondo, a se medesimo dimostrò, quello che aveva, senza voler più, dovergli bastare: e perciò si dispose di tornarsi con esso a casa sua. E pauroso della mercatantia, non s’impacciò d’investire altramenti i suoi denari... » ($ 11-12); « si raccolse, quivi proponendo di aspettarlo migliore... » ($ 13), ecc. La ricchezza sostituisce l’amo-

re, ma i verbi e gli aggettivi hanno la stessa intensità, e sottolineano il nesso riflessione-azione che caratterizza il protagonista sino

139

alla fine: « dubitando della terza, pensò convenirgli molta cautela avere... » ($ 27); « Quivi parendogli essere sicuro... » ($ 29), ecc.

Soltanto nella scena centrale del naufragio, quando si vede « diserto », l’istinto vitale, più che la riflessione, vince il suo proposito di morte: Intra li quali il misero Landolfo, ancora che molte volte il dì davanti la morte chiamata avesse, seco eleggendo di volerla più tosto che di tornare a casa sua povero come si vedea, veggendola presta n’ebbe paura: e, come gli altri, venutagli alle mani una tavola, a quella si appiccò... » ($ 18).

Si raggiunge poi, nel contrasto tra la cassa che gli si avvicina in mare e Landolfo che invano tenta di allontanarla, il momento culminante della novella, che sottintende una sottile ironia, un reti-

cente pessimismo: la Fortuna procura salvezza e ricchezza quasi contro la volontà dell’uomo, il qualele aveva invano perseguite con le proprie forze fisiche e intellettuali. In questo senso, la novella si situa in un punto delicato della storia interna del Boccaccio. La narrazione tende di fatto ad esaltare l’attività, l’energia industriosa del mercante; ma la trama non cela una pessimistica visione dei casi umani che si accentuerà nel moralismo delle opere latine e si oppone all’epica tensione che anima le gesta di questo Ulisse-mercante. Tale è naturalmente il senso riposto, perché qui lo scrittore giudica e conclude solo sul piano narrativo, nella veloce evidenza con cui si accumulano fatti e pensieri. Ma scene quali l'assalto delle « cocche » genovesi al « legnetto » di Landolfo, la tempesta e il naufragio (lo « stritolarsi » della nave in una secca — « non altramenti che un vetro percosso ad un muro » ($ 17) — è un tocco di rara efficacia visiva, rivelatore di quella ca-

pacità con cui il Boccaccio sa cogliere in un particolare il pittoresco aspetto del mondo fortunoso affrontato dall'uomo), da una parte,

e la calma idillica che avvolge la « femminetta » sul lido di Gurfo, dall’altra, assumono da questa implicita lezione, pur nella loro stesura limpidamente descrittiva, una significazione più profonda. Essa dissolve, nel saggio riposo che conclude la novella, il romanzo dell'eroe borghese; ma non ne distrugge l’essenza, tutta fondata sul 140

prevedere e sul volere dell’uomo. Sono i due atteggiamenti che caratterizzano infatti Landolfo, il quale anticipa sempre l’azione con un progetto, e poi l’affronta risolutamente: sono le qualità essenziali dell'eroe borghese della ricchezza, o meglio, del processo psicologico che spinge ad accumularla. E nella situazione di crisi a metà del Trecento, Landolfo tende già a configurarsi in un modello di pioniere, lontano come i cavalieri dei romanzi avventurosi. La stessa energia che il mercante esplica nello sfruttamento economico del reale può essere impiegata per il conseguimento di un fine amoroso: ma allora il protagonista è nobile come Tedaldo degli Elisei nella III, 7, che pure s’imbarca, sotto falso nome, su una

nave, serve per anni sotto un mercante, affronta mille vicende. L’energia che potremmo chiamare « borghese » di Tedaldo è però al servizio non solo di una passione, ma di una morale amorosa che fa di Tedaldo l’eloquente oratore di un codice erotico. Anche nella III, 7, esplicitamente giustificata nella sua « lunghezza » e

risolta nella « quantità e varietà de’ casi in essa raccontati » (III, 8, 2), si risente energicamente il personaggio; ma il racconto, ben

più affollato di elementi romanzeschi, è spostato in altra direzione da un impegno ideologico-letterario. Tedaldo è infatti un eroe intellettuale dell'amore; più che dai tratti di un carattere « precocemente romantico »,° il personaggio riceve vita da miti cortesi-amorosi che sono divenuti per lui sostanza quotidiana, modello di rapporti réali. La donna che ama gli ha già « di sè... compiaciuto un tempo » ($ 5), gli ha concesso discretamente un « piacere » che poi gli toglie d'improvviso, senza motivazioni. La nobile e cortese avventura erotica si trasforma a questo punto, per Tedaldo, in un

doloroso problema esistenziale: che egli affronta secondo i miti e le regole che gli hanno prima permesso « di godere del suo disiderio » ($ 4). E questi miti e queste regole dirigono la sua azione, dettano la sua eloquenza, misurano i suoi gesti: dall’iniziale « fiera malinconia » con cui si manifesta il « suo amore cela6 Come parve a F. FLora, Guida al « Decamerone », in Storia della letteratura italiana, Milano, 1940, vol. I, p. 325: una lettura in parte convergente con la mia, al livello narrativo (cfr. per esempio, le pp. 298-303), in parte divergente per il sovrapporsi

di un’indagine

tematica

non

sempre

congruente

con

la prima.

141

to » ($ 5) al richiamo costituito da una sua canzone che egli ode a Cipro, sette anni dopo la partenza ($ 8). Una sorta di malin-

conia, di tristezza quasi cavalcantiana, che Tedaldo vive identificando una filosofia con un'etichetta, e questa d’altra parte con la propria esistenza. Il personaggio esiste in funzione di un codice erotico che egli segue con ingegnoso compiacimento; il che non esclude, ripetiamo, un’adesione vitale alla casistica che esso esprime. Il risultato è un gusto intellettuale che è inscindibile dall’agire del personaggio, dagli stessi modi polizieschi, potremmo dire, con cui prepara i suoi colpi di scena per riconquistare la donna. Il racconto, pur affollato di eventi, è così ricondotto a uno schema che lo trasforma, grazie al personaggio, in una sorta di polemico apologo di un aristocratico concetto dell'amore. Non a caso Emilia sottolinea, all’inizio, il ritorno a Firenze dell’azione ($ 3): a Fi-

renze i topoi cortesi della poesia d’amore, ormai scontati, uniti alla libertà dell'avventura erotica propria della tradizione casistica, trovano in Tedaldo una personificazione eloquente: ma calata in una concreta dimensione cittadina, dove si stanno rielaborando i miti di una nuova aristocrazia laica. Di qui la violenta polemica di Tedaldo contro i frati ipocriti, la più lunga e risentita del Decameron ($ 30-54): dove è chiaro lo scambio tra personaggio e autore. Scambio tanto più agevole quanto più Tedaldo è un intellettuale, o meglio, il simbolo di un intellettuale in azione: natura che egli rivela anche nel gusto retorico della parola, nell’eloquenza con cui vuole sempre spiegare ie proprie azioni, nel bisogno di riflettere sulle avventure

che vive. L’azione-riflessione,

che caratterizza

in

Landolfo una passione di natura economica, nell’aristocratico e amoroso Tedaldo diventa il segno distintivo di una personalità di intellettuale: al punto che rischiamo di non sapere se sia più importante, per lui, la passione amorosa o l’occasione che essa gli offre di teorizzare i rapporti d'amore. In tale ambiguità di personaggio, che vive e riflette incessantemente sul proprio vivere, è l’aspetto originale della strana figura di aristocratico che si impone nella III, 7 e conferisce unità al molteplice proliferare dei « casi ». ? Acute, al proposito, le osservazioni di P. P. Trompeo, saggio cit. di U. Bosco, in « La Cultura », 1930, p. 858.

142

nella recensione

al

Nella III, 9 gli elementi culturali, pur impliciti e numerosi, vengono depurati nella figura della protagonista, Giletta di Nerbona. Nella novella il rapporto tra la psicologia del personaggio borghese di Giletta e le regole di un ambiente feudale-cavalleresco, che determina l'atmosfera generale del racconto, è inverso rispetto alla III, 7. Non solo perché il racconto ha un’estensione meno macchinosa, ma perché in esso il gusto canonico del colpo di scena e dell’avventura non intellettualizza la passione della protagonista, si piega invece al.suo tenace temperamento. Tutto il racconto è solidamente incentrato sul fedele e paziente amore di Giletta, appassionata come altre sue compagne nel Decameron e pur forte e decisa a non perdere il suo Beltramo: una sorta di Griselda borghese che capovolge la prospettiva dell’azione, una Griselda non inerte, passiva, meno astrattamente virtuosa, esemplare. La vicenda, del resto, è ugualmente inquadrata in un ambiente feudale, qui francese, evocato con discrezione dalle venature lessicali reperibili nel racconto (« Monsignore », « Damigella », «i suggetti », « con una dama », «il re tantosto promise di farlo », ecc.). La protagonista, orgogliosa dell’« arte » medica che ha appresa dal padre ($ 12), è anzi indivi-

duata, per antitesi ma senza forzature, da un’ambientazione cavalleresca ritrascritta non solo nei termini che definiscono le regole rituali di una società (« vostro uomo », usato per il vassallo; « lei

non esser di legnaggio che alla sua nobiltà stesse bene »; « non vovendo della sua fe’ mancare »; « desiderosa di sentir novelle dal suo signore », ecc.) ma anche nel comportamento dei personaggi (la partenza di Beltramo per Parigi, la sua obbedienza di vassallo, la parola data dal re, la stessa frase irritata di Beltramo che provoca l’« industria » di Giletta per conquistarlo, il convitto finale). I gesti e i tempi dell’azione obbediscono a un codice cavalleresco di comportamento: ma l’evocazione è ottenuta con una levità che rasenta il tono ingenuo, quasi di fiaba mitica che tocca la fantasia da remote distanze. Il testo riacquista, rispetto alle fonti possibili, una sorta di calcolata freschezza: si arriva, per rarefazione stilistica volontariamente perseguita, agli esili ritmi del Novellino, i come nel fitto dialogo tra il re e Giletta: 143

Il re allora disse seco: “Forse m’è coscei inandata da Dio; perché non pruovo io ciò che ella sa fare, poi dice senza noia me in picciol tempo guerirmi?” e accordatosi di provarlo, disse: « Damigella, e se voi non ci guerite, faccendoci rompere il nostro proponimento, che volete voi che ve ne segua? ». « Monsignore », rispose la giovane « fatemi guardare, e se io infra otto giorni non vi guerisco, fatemi brusciare; ma se io vi guerisco, che merito me ne seguirà? ». A cui il re rispose: « Voi ne parete ancora senza marito; se ciò farete, noi vi mariteremo bene e altamente » ($ 13-15).

È un dialogo esemplato su precisi modelli stilistici, ispirato a un puntuale codice di rapporti: che va colto nelle risonanze suscitate dalla memoria del narratore, il quale immette eventi e parole in un’aura preziosamente fiabesca. A un tono di favola remota nel tempo tendono anche le vicende di altri personaggi, i quali nella consapevolezza di sé e magari nella voluta rinuncia raggiungono una più difficile vittoria su sé stessi; per cui, anche quando sono assenti da una trama più macchinosa e complessa, rinviano sul discorso narrativo un accento particolare, i riflessi del proprio temperamento. Tale è il conte d’Anguersa nella II, 8; novella che ha non pochi punti di contatto con la III, 9,

sia per l'ambientazione sia per i gallicismi che ne venano la sostanza lessicale. Ma la II, 8 è più lunga e complicata nella trama, e d’altra parte sorretta da un nesso profondo tra l’ambiente e il personaggio. Il conte d’Anguersa, che soffre in silenzio per trent'anni una sorte immeritata, più vicino psicologicamente al dantesco Romeo che alla vicenda pur universalmente nota di Pier della Broccia, condensa più direttamente attorno a sé gli elementi cavallereschi, in un alone di dirittura e di consapevole virilità. Nell’adesione del personaggio ai miti etici e culturali vagheggiati dal Boccaccio è evitato il pericolo del racconto esemplare; anche se il tono prevalente è offerto da una memoria storica, da suggestioni di ambiente e da schemi romanzeschi, più che da un approfondimento psicologico del personaggio. In questo senso, è una novella intermedia tra l’evocazione di un clima feudale e l’interesse per un personaggio stoicamente fermo e perseverante. Sono due piani, suscettibili però di reci-

proche rifrazioni: è la novella del conte d’ Anguersa, perché è la novella del re feudale e del ministro fedele; è la novella della re-

144

gina di Francia o di Giachetto e Violante o del conte fatto « garzone di stalla », perché è la novella sia di temi diffusi da tempo in tutta l’area romanza, accolti e filtrati da una memoria cultural-

mente consapevole, sia di schemi della casistica amorosa che la lunga prova dal Filocolo alla Fiammetta ha depurato di ogni astrattezza. Gli antecedenti culturali si concretano nella storia di una famiglia, si risolvono nelle prove affrontate dal protagonista; ma danno un’unica vibrazione agli episodi in cui si rompe la novella segnati fin tecnicamente da forti stacchi: Era già il deceottesimo anno passato poi che il conte d’Anguersa, fuggendo, di Parigi s'era partito, quando a lui dimorante in Irlanda, avendo in assai misera vita molte cose patite, già vecchio veggendosi, venne voglia di sentire, se egli potesse, quello che de’ figliuoli

fosse

addivenuto...

($ 74).

Tale racconto-romanzo a tempi diversi, a capitoli e a quadri, può coinvolgere un lungo spazio di anni, ma può anche narrare un’avventura più contratta nel tempo: come avviene nel limpido fluire della X, 4 (ripresa della XIII « questione d’amore » del Filocolo), nella quale la finezza dell’investigazione psicologica è volontariamente sottesa da convenzioni sociali raffinate, e la vita dei sentimenti è disciplinata dal codice cavalleresco di una più recente nobiltà cittadina. Una nobiltà capace di celebrare i propri riti collettivi, di preparare feste e conviti, di discutere sottili questioni (il gusto dell’ingegnosa casistica è ora inserito nel corpo stesso della novella), di apprezzare le alte esibizioni e i gesti peregrini. L’azione è situata a Bologna: una città che non è più il soggetto della novella, una dimensione avventurosa o drammatica di per sé, ma è ora oggetto di un ordinamento civile, dimensione scenica che l’individuo riconosce come il proprio campo d’azione, se appartiene

alla classe che domina per ricchezza, per prestigio sociale, per ricercatezza culturale. E infatti Gentile Carisendi è tutt’uno con l’ami per8 U. Bosco, I/ Decameron... cit., che pure ha alcune fini osservazionsul coglie questo sottosuolo evocativo-culturale, che impronta la novella e più il protagonista: un sottosuolo importante per cogliere lo specifico modo narrativo di altre novelle.

sonaggio (pp. 111), non

145

biente che lo circonda; nella sua figura i miti amorosi e cortesi si trasformano nei riti sociali di una élite cittadina. Anche Federigo degli Alberighi, nella V, 9, agisce su uno sfondo cavalleresco e cortese: ma vi si distacca poi con un rifiuto definitivo, con una solitudine in cui giocano insieme la forza della passione e l’impossibilità di esprimerla con l’omaggio fastoso e liberale. Mentre l’originalità di Gentile è proprio nel modo con cui sa superare la propria passione, con cui aderisce sino in fondo al proprio ambiente, accettandone le regole e definendosi entro di esse con ricercata discrezione. Naturalmente, si proietta nelle due novelle (come già appare dai cappelli) la nostalgia del Boccaccio per tale socialità fastosa, dove convenzioni raffinate e psicologia amorosa sono strettamente connesse e il sentimento individuale sa disciplinarsi in un’educazione sociale e intellettuale. Proprio tale controllo della passione grazie a regole accettate da tutta una comunità (che riflette il controllo più vasto, da parte di un’aristocrazia egemonica, di tutta la città) affascina il Boccaccio in simili novelle: prevalendo in questa la dimensione collettiva, al cui interno l’individuo si manifesta e si afferma con un gusto che arriva alla « sceneggiatura ». Ma nel rimpianto elegiaco e nel sottile desiderio (intellettualistico, raffinato: aprire una tomba per baciare la donna amata non è per il Boccaccio una lugubre ossessione, ma un gesto strano e peregrino, rispondente a uno schema culturale connaturato a un personaggio della levatura di Gentile) che lo spingono nella sepoltura della donna amata, nella delicatezza con cui sa ricavare una soddisfa-

zione nuova dal sacrificio del proprio amore, nella signorilità con cui prepara e conclude la scena del banchetto, Gentile conserva un suo temperamento, in una continuità di affetti umani e di sovra? Il raffronto tra le due novelle è quasi un luogo comune nella tradizione critica, a partire dall’analisi, più insufficiente in questa direzione che nel raffronto tra il Filocolo e il Decameron, di C. TraBaLza, Studi sul Boccaccio, Città di Castello, 1914°, pp. 189-218, fino alle osservazioni, spesso discutibili, di A. MoMIGLIANO, Il Decameron... cit., p. 398, di U. Bosco, Il Decameron... cit., p. 125, di G. PerronIo, Il Decameron... cit., pp. 100-101. Rapido, ma tecnicamente preciso, il raffronto tra la « questione » del Filocolo e la novella del Decamzeron di A. SCHIAFFINI, Tradizione e poesia... cit., pp. 194-196; utile, per la scena della sepoltura e i suoi antecedenti, V. Branca, Tradizione delle Opere di Giovanni Boccaccio, Roma, 1958, pp. 216-217.

146

strutture intellettuali in lui inscindibili (in lui, come in tutta la

cerchia di nobili bolognesi in cui vive). Basta leggere l’allocuzione che egli rivolge alla morta Catalina: una sorta di commento che egli sente il bisogno di fare al proprio strano e quasi vaneggiante desiderio. Lisabetta, per ipotesi, lo realizzerebbe d’istinto, e del resto va ben oltre, in questa direzione: perché è radicalmente diverso il modo di vivere un impulso irresistibile. Lisabetta lo vive sino in fondo, affettivamente, e ne muore; Gentile invece si duole,

parla a sé stesso attraverso l’allocuzione, commenta il proprio desiderio, prima di risolverlo nei gesti trasparenti dell’azione: « Ecco,

madonna

Catalina,

tu se’ morta:

io, mentre

che vivesti,

mai un solo sguardo da te aver non potei; per che, ora che difender non

ti potrai, convien

per certo

che, così morta

come

tu se’, io

alcun bascio ti tolga ». E questo detto, essendo già notte, dato ordine come la sua andata occulta fosse, con un suo famigliare montato a cavallo, senza ristare colà pervenne dove sepellita era la donna; e aperta la sepoltura, in quella diligentemente entrò, e postolesi a giacere allato, il suo viso a quello della donna accostò, e più volte con molte lagrime piangendo il basciò ($ 9).

Se accettiamo, entrando nella dimensione

della novella, il nesso

fra i due periodi (l’idea e l’azione che ne segue, che sembra poi giungere sino alla necrofilia...), accogliamo senza resistenza il resto del racconto: solo questo Gentile, che coglie i suoi unici baci nella sepoltura dell’amata, in una raffinata originalità di omaggio e di passione, può essere capace della sottigliezza generosa del finale, quando vuole fare « un caro e solenne dono » al marito di Catalina, ma « in presenza de’ migliori cittadini » ($ 20) che soli potranno apprezzare la finezza del gesto, la peregrinità della passione e del sacrificio. Vi è un gusto, potremmo dire, di regista in messer Gentile (forse, a indagare più a fondo, a compenso di una frustrazione), quando mette in scena la propria generosità; ma ciò gli permette di esistere socialmente, anche come uomo che ama e aspira a un pub-

blico riconoscimento (e ricompensa, se egli chiede a Catalina « una

grazia » che sia « guiderdone » del suo « beneficio ») della propria munificenza. In questa complessità e quasi ambiguità di piani si de-

finisce il personaggio di Gentile Carisendi.

147

Come nella novella di Tedaldo (III, 7), nella X, 4 l’amore diventa costruzione insieme intellettuale e rituale; e quindi, per Gentile, possibilità di compensare sul piano sociale uno scacco amoroso sul piano personale. A Gentile mancano la tenacia e l’aggressività di Tedaldo, che ha dietro di sé una reale storia amorosa,

e vuole riconquistare la donna amata quasi per imporre alla vita i precetti di Andrea Capellano. Altrove, in un personaggio passionale come Tedaldo ma subito crudelmente frustrato, l’amore può trasformarsi di colpo nel suo contrario, generare per antitesi odio e desiderio intellettuale di vendetta: l’amore subisce una violenta metamorfosi, è portato all’estremo dell’agressività. È il caso della VIII, 7, contrassegnata nella seconda parte da un'atmosfera cupa ed esasperata di vendetta. Nel susseguirsi degli episodi, gli elementi narrativi vengono deformati in un’unica dire‘ zione ossessiva; e per la prima volta nel Decameron in modo così scoperto e violento, l’immagine femminile viene sottoposta alla fredda ferocia dello scherno. È una misoginia non nuova nel Boccaccio, e prelude alla carica polemica più violenta del Corbaccio: dove confluiscono temi letterari di antica tradizione e, probabilmente, i riflessi di una scottante esperienza personale, schemi casistici e ossessioni autobiografiche. Non a caso è reperibile nella presentazione dello scolare, nobile e insieme intellettuale, che è . stato a lungo a Parigi « non per vender poi la sua scienzia a minuto, come moiti fanno, ma per sapere la ragion delle cose e la cagion di esse, il che ottimamente sta in gentile uomo » ($ 5), un processo di identificazione dell’autore col proprio personaggio, meglio, la proposta sintomatica di un modello.! Ma tutto ciò è solo il 10 Si legga, a questo proposito, l’acuta messa a punto di C. MuscettA, Il Demeron cit., p. 454, che richiama giustamente un passo del discorso dello scolare: « Le forze della penna sono troppo maggiori che coloro non estimano che quelle con conoscimento provate non hanno » ($ 99); e rinvia, come ad « acuto e congeniale lettore del racconto » (p. 457), ad A. Moravia, Boccaccio, in AA.VV., Il Trecento, Firenze, 1953, pp. 121-143, poi in L’uorzo come fine e altri saggi, Milano, 1964, pp. 135-158 (cfr. in particolare, sulla novella, le pp. 145-147). Il ritratto del Boccaccio, « nel fondo ‘dell'animo suo, per compenso e forse anche per sublimazione, un vagheggiatore dell’azione » (p. 135), è tra i saggi più suggestivi di Moravia, ricco di spunti non solo per la lettura del testo, ma anche ‘ per un’indagine psicologica e fin psicanalitica sullo scrittore. Utile nello stesso

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materiale della novella: che vale perché assunto integralmente dal personaggio, il quale assicura la compattezza stilistica di questo singolare romanzo. Lo scolare è sempre in primo piano: beffato dapprima, rimanda sulla vedova una luce di stupida crudeltà; beffatore poi, incrudelisce fino allo strazio. Alle due situazioni, che segnano i due tempi della novella, risponde anzi una

sorta di. antitesi tonale tra le due parti: la prima connotata dal-

l’inverno, dal freddo, dalla neve, dal bianco; la seconda dall’estate,

dal calore, dal fuoco, dal rosso: una contrapposizione netta e stridente, che ha un fotte rilievo simbolico. L’unità delle due parti, ripetiamo, si realizza nel personaggio dello scolare. Anche beffato, fa ricadere sulla vedova una pesante responsabilità, perché quel tanto di sadismo che è sempre implicito nella beffa è legato a un gioco di vanità della donna coll’amante, a un’inutile crudeltà verso il terzo. Perciò, nell’amore e nel-

l’odio, l’esperienza della donna incide profondamente sull’animo dello scolare, il quale conosce il rigore della passione univoca ed esclusiva: « seco deliberò del tutto di porre ogni pena e ogni sollecitudine in piacere a costei, acciò che per lo piacerle il suo amore acquistasse » ($ 7); dove il verbo (« seco deliberò », preceduto

poche righe avanti da « seco estimò »), frequente nel Boccaccio, richiama subito allo stile del racconto interno, a un progetto cui il personaggio intende consacrarsi. Anche in Rinieri, come in Tedaldo, la forte carica sensuale -- « seco estimò colui potersi beato chiamare, al quale Iddio grazia facesse lei potere ignuda nelle braccia tenere » ($ 6) — è connessa con una tematica cortese, è volta al

conseguimento di tatistica e poetica ramente smentiti dova scava in lui

una corrispondenza che una lunga tradizione tratrende ritualmente necessaria. Schemi culturali dudalla realtà, per lo scolare: e il solco che la venon è un’esperienza accidentale, ma la sua gran-

de esperienza: « io mi conosco, né tanto di me stesso apparai menvolume, per la distinzione di modi narrativi qui operata, il saggio Racconto e romanzo (pp. 273-278), pur posteriore (1958) alla prima articolazione della mia lettura. Per la prospettiva psicologica della novella, vedi ora R. ScHOLES - R. KEtLo, La natura della narrativa, Bologna, 1970, pp. 238-240.

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tre dimorai a Parigi, quanto tu în una sola notte delle tue mi facesti conoscere » ($ 85). L’intellettuale,

che per

flesso

ancora

amore

aveva

« la-

sciati i pensier filosofici da una parte » ($ 10), ricupera con la prassi gli elementi di un’etica meno astratta e libresca, fondata sulla conoscenza di sé: ed è lezione che l’intellettuale può allora teorizzare. Sempre nello scolare confluiscono gli elementi della novella: i mimi caricaturali della prima parte, di un’aspra comicità senza sorriso (un comico livido e stridente, che definisce il rapporto tra beffatori e vittima), le aperture paesistiche della seconda, ridi un

desiderio

che

resiste

(la visione

nottur-

na della donna che si bagna nel fiume) o proiezione di un’ossessione di vendetta (la campagna riarsa dal sole), la stessa conci-

tazione aggressiva della fine (l’eloquenza con cui lo scolare ribatte con sadico gusto i lamenti imploranti della vedova, ora vittima della beffa). Il meccanismo della beffa e della controbeffa è perciò diverso da quello di tante novelle del Decamzeron: nella vedova non ha le legittime motivazioni che spingono le donne ad affermarsi o a salvarsi rispetto ai propri mariti; nello scolare non comporta alcun divertimento intellettuale (la « gran festa », ad esempio, che. Bruno e Buffalmacco prendono della « semplicità » di Calandrino),

è solo una rivalsa il cui fine sono l’umiliazione e lo strazio della vittima, che deve pagare il prezzo di quanto ha fatto subire. La beffa è il compenso dello schernito che diventa schernitore, che raddoppia anzi lo scherno, capovolgendo la situazione. Perciò il registro cupo, violento ed esacerbato, che la definisce, il modo con cui viene condotta, prolungata e spiegata dallo scolare, sono strettamente legati allo choc traumatico subito dal personaggio e assunto totalmente dal narratore. Nella gelida atmosfera invernale del cortile, il ridicolo della situazione in cui viene a trovarsi lo scolare è correlato alla vanità dei due amanti tanto inferiori al beffato, gratuitamente crudeli e irresponsabili, i quali bamboleggiano e lo guardano da una « finestretta »: disse la "l fuoco il dì mi darono;

150

donna: « Deh! leviamci un poco, e andiamo a vedere se è punto spento nel quale questo mio novello amante tutto scrivea che ardeva », E levati, alla finestretta usata n’ane nella corte guardando, videro lo scolare fare su per la neve

una carola trita al suon d’un batter di denti, che egli faceva per troppo freddo, sì spessa e ratta, che mai simile veduta non aveano ($ 28-29).

Il tormento dello scolare è offerto nella visuale (« guardando videro... », « veduta ») dei due amanti

sadicamente

eccitati, e ri-

scattato dai giochi verbali della vedova vanitosa (che già conten: gono, emblematicamente, quell’elemento « fuoco » che segnerà il suo castigo). Sembra anzi che il Boccaccio esasperi la caricatura

fino al grottesco (« sé esercitava per riscaldarsi... »; « quasi cicogna divenuto... »; « faccendo le volte del leone... », ecc.) e incrudelisca

sullo scolare per calcar la mano, polemicamente, sulla vanità della donna, per suggerire la necessità di una rivalsa. Nasce in quella notte orribile (dove è difficile dire se sia più duro il freddo o la beffa) l’allucinazione di vendetta che non lascia più lo scolare: sdegnato forte verso di lei, il lungo e fervente amor portatole subitamente in crudo e acerbo odio transmutò, seco’ gran cose e varie volgendo a trovar modo alla vendetta, la qual ora molto più disiderava, che prima d’esser con la donna non aveva disiato ($ 40).

La superiorità dello scolare è nella capacità di riconoscere la propria sciocchezza, di prepararsi con rigore a un secondo appuntamento: « ritornato sano e fresco, dentro il suo odio servando, vie più che mai si mostrava innamorato della vedova sua » ($ 45). Il personaggio dello scolare è sempre caratterizzato, sul piano interiore, da una tensione che rende un sentimento ossessivo ed esclusivo; è un simbolo psicologico cui risponde l’oltranza formale della novella, così rigorosa nel seguire il trasmodare della passione e dei gesti dai limiti usuali. E perciò il narrato procede fino alla conclusione in una direzione di eccesso, e si risolve, oltre i discorsi dello scolare, nell’asprezza grottesca degli elementi espressivi: l’inesorabile opposizione di « acqua » e « fuoco » che ritma l’ultima parte, le sottolineature che concernono la metamorfosi fisica della donna, la cui bellezza tanto desiderata si degrada mostruosamente (« parve

nel muoversi che tutta la cotta pelle s’aprisse e ischiantasse, come veggiamo avvenire d’una carta di pecora abbrusciata, se altri la 151

tira... »; « rossa divenuta come robbia, e tutta di sangue chiazzata... »; « non corpo umano ma piuttosto un cepperello inarsicciato », ecc.), lo stesso particolare della fante che scendendo dalla scala si rompe una coscia, « e per lo dolor sentito cominciò a mug-

ghiar che pareva un leone » (paragone censurato, in realtà sottile ripresa di una metafora animalesca applicata allo scolare nel cortile), l’accumularsi senza respiro dei passaggi polemici, che rispondono alla tenacia dello scolare « che a diletto la teneva a parole » ($ 97). La logica stilistica della novella mantiene fino all’ultimo la coerenza della deformazione. Con piena adesione all’avventura vissuta dallo scolare, che subordina i momenti di fragilità, di incrinatura interiore — « veggendo lei con la bianchezza del suo corpo... sentì di lei alcuna compassione; e d’altra parte lo stimolo della carne l’assalì subitamente... » ($ 66-67); « un poco di com-

passione gli venne di lei... » ($ 124), ecc. — alla tensione di un pensiero imperioso, dominante. Nella novella dello scolare il codice cortese e cavalleresco è capovolto nello scherno della vedova e nella risposta dello scolare: e tale degradazione prepara una nuova, spesso stridente, dimensione di commedia, che si oppone in ambito cittadino ai miti dello stile « tragico », con moto storicamente significativo. Si profilano nuovi rapporti di crudeltà, di cui la beffa è un segno sintomatico. Rispetto ad essi si fanno più intense le esigenze di civiltà del Boccaccio: donde il bisogno di uha parabola che conservi la sostanza di quei miti cortesi, quanto più essi appaiono remoti e pericolanti, e li trasferisca sul piano dei rapporti individuali e del comportamento quotidiano. In questa direzione, il Boccaccio può trasformare la novella in una sorta di fiaba consolatoria, quasi in una stampa d’altri tempi che, pur evocata come tale, non esclude una funzione esemplare per uomini consapevoli e civili. Tale è il senso della X, 9, premessa con antitesi significativa, perché umanamente recepibile e utilizzabile, all’ultima novella.! Quanto sono cupi e esasperati i mezzi 11 Si legga ora l’analisi, folta e penetrante non solo per la novella, di F. Fino, Il sorriso di Messer Torello (« Decameron », X, 9), in « Romance Philology », XXIII, 1969, 2, pp. 154-171. Sempre utile la lettura di L. Russo, Letture critiche... cit., pp. 333-361, tra le migliori delle sue postille.

152

espressivi della VIII, 7, tanto sono sereni e volutamente composti

quelli della X, 9. E la tecnica del Boccaccio, come sempre duttile nel seguire un nucleo ispirativo, sottolinea il limpido itinerario delle avventure di messer Torello. Il romanzo asseconda la personalità del protagonista in un natrato ricco di oggetti e di soluzioni, di momenti lieti e tristi, sereni e duri, ma tutti sfumati nel tono della

favola (esplicito, ad esempio, nei mezzi magici che riportano a casa

messer Torello). Questi momenti diversi (e piacevoli sul piano della sorpresa romanzesca) si dispongono in grandi quadri, quasi la no-

vella fosse un breve romanzo diviso in capitoli: capitoli cui potremmo dare dei titoli, perché si susseguono i temi dell’ospitalità generosa e attenta, dell’affetto coniugale, del rimpianto malinconico suscitato dalla lontananza, del fasto orientale, del malizioso mimo comico e soprattutto, in generale, della gara di cortesia. Una gara la cui proiezione esemplare, sul piano delle aspirazioni civili e sociali del Boccaccio, è riconoscibile nella risposta di messer Torello al Saladino, quando questi afferma che egli e i suoi compagni sono mercanti cipriani: « Piacesse a Dio che questa nostra contrada producesse così fatti gentili uomini, chenti io veggio che Cipri fa mercatanti! » ($ 18). Ma è anche vero che i rapporti individuali possono prefigurare tale civiltà: si tocca qui un punto cui il Boccaccio è particolarmente sensibile. È il tema dell’attenzione reciproca, rivelata, con uno scatto pure esemplare, dal particolare minimo: avvenne un giorno che, ragionando con lui il Saladino di suoi uccelli, messer Torello cominciò a sorridere e fece uno atto con la bocca il quale il Saladino, essendo a casa sua a Pavia, aveva molto notato; per lo quale atto al Saladino tornò alla mente messer Torello, e cominciò fiso a riguardallo e parvegli desso... » ($ 53).

La novella vive all’intetsezione di questi due piani: la nobiltà esemplare del comportamento, la vitalità irrepetibile del gesto individuale. E allora, nell'ampia struttura del periodo, essa si riempie di cose e di persone: ma con un’ottimistica saggezza che segna

fa distanza tra la favola di Torello, in cui l’uomo lascia l’orma del suo valore, e quella tesa e astratta di Alatiel, dove l’individuo

soggiace al caso. Sono due casi-limite, ripetiamo: da una parte il 153

personaggio che è trastullo della fortuna, dall’altra quello che in ogni circostanza è responsabile dei propri sentimenti e del modo di esprimerli, della propria affettività e della propria educazione. Entro questi due termini possiamo seguire uno dei complessi itinerari che attraversano tutto il libro, e indicare i punti estremi di una prima storia del narratore, interna al Decazzeron. x

154

Dal racconto alla novella

In novelle quali la III, 7, la II, 8, la VIII, 7, la X, 9, la struttura del romanzo tende a rompersi, come si è in parte rilevato, in una serie di grandi quadri, di parti tecnicamente ben delimitabili. Ciò è dovuto alla logica stessa della novella-romanzo, che segue, in una successione di eventi più o meno elaborati, una progressione interna, la storia di un individuo. Ma è anche vero che in tale storia si aprono, al contrario di quanto avviene per il racconto, momenti particolarmente significanti, che attirano l’attenzione del narratore: sono i momenti che ci fanno assistere, in modo

sensibile, al sorgere di una nuova misura di novella (inserita nel romanzo come frammento di un insieme), che tende a sorprendere

l'individuo in un episodio rivelatore della sua vita. La forza dell’episodio dipende dal maggiore o minore risentimento dell’individuo rispetto al reale, o dal grado di intensità dei rapporti che stabilisce con gli altri: ma è sempre, tendenzialmente, autosufficiente, per la sua stessa esemplarità narrativa. Viene colta cioè una situazione caratterizzante, che basta insieme a definire un personaggio e a stabilire il senso di un suo casuale o voluto rapporto con gli altri. L’« istoria », se vogliamo usare in diversa prospettiva le definizioni dello stesso Boccaccio nel Proemio, si risolve nell’ambito più ristretto della « novella »: il che non toglie né all’una né all’altra un possibile significato di « parabola ». Il termine rmovella è dunque usato in senso strettamente tecnico, per indicare, rispetto alla lunghezza lineare del racconto (la successione degli eventi) e alla profondità verticale del romanzo (il peso degli eventi nella storia del personaggio), una misura più circoscritta: una rappresentazione che è delimitata da un preciso orizzonte di spazio e di tempo. Il discorso è già caduto, per esempio, 153

sulla X, 2: delle storie di Ghino e dell’abate di Clignì, indicate all’inizio e raccontate rapidamente alla fine nel loro svolgimento ulteriore, quello che interessa al Boccaccio è l’incontro dei due personaggi. Tale incontro è delimitato nello spazio (il castello di Ghino) e nel tempo (pochi giorni): il modo narrativo è dettato da tale limite, entro il quale il Boccaccio sa cogliere, con un massimo di intensità, il valore di ciò che appare solo un episodio. Sul piano tematico, la novella — nel senso specifico, ripeto, che qui le si attribuisce — è allora la traduzione espressiva dell’episodio. Ed è un episodio fissato insieme per la sua novità (il concreto come sorpresa sempre diversa presentata dal reale fisico ed umano) e per la sua pregnanza esemplare (in quanto manifestazione puntuale di valori di comportamento, utili per la ricerca di un codice di relazioni). Il concreto non è più l’aneddoto piegato a dimostrare un universale, ma è perseguito per elaborare una tematica aperta, terrena: qui si coglie la distanza tra l'esempio tradizionale e la novella del Boccaccio. Tutto ciò non significa, naturalmente, che il Boccaccio ignori uno schema che ha una lunga tradizione: che egli non si rifaccia cioè a precisi archetipi, che trasforma poi con grande ricchezza di interventi personali.' In questo senso, la rovella è un altro ma ben preciso punto di partenza della narrativa boccacciana. Ma qui interessa, più che una storia esterna (dalla fonte al Decarzeron, da uno schema alla novella) una storia interna al Decarzeron stesso. La novella rivela allora una curiosità, un’attenzione del Boccaccio al

particolare, alla sorpresa terrena. E tale attenzione, quando si manifesta nei modi narrativi lunghi che abbiamo esaminati, può apparire distrazione rispetto a un insieme:

come altri, creto, siva:

un sistema narrativo è

squilibrato da un suo elemento, che tende a prevalere sugli ad avere in ogni caso un rilievo particolare. Si assiste in conlungo la narrazione, al nascere di una diversa misura espresil Boccaccio si ferma ad elaborare uno tra gli episodi di una

1 Una prova concreta di tale trasformazione èLe offerta dall’acuta analisi di S. BATTAGLIA, La novella di Tito e Gisippo, in La coscienza letteraria... cit., pp. 509-

525: si vedano, in particolare, le pagine conclusive, e più in generale, funzione dell’aneddoto nell’eserzpio, le pp. 487-495 dello stesso volume.

156

per la

trama complessa, indugia su un quadro sviluppato con cura maggiore. Un esempio può essere la II, 3, la prima novella del Decameron in cui il Boccaccio tenti un racconto di largo respiro, esteso su vari anni. Nelle vicende dei tre fratelli fiorentini, correttamente narrate, si inserisce l'avventura del nipote Alessandro, che rallenta a un certo punto il ritmo del racconto e vi apre uno spazio particolare. Sembra anzi che il racconto abbia una funzione di cornice, e

prepari un colpo di scena valido per sé: « E per ventura di Bruggia uscendo, vide n’usciva similmente uno abate bianco... » ($ 17); avvertiamo l’irruzione di un episodio concreto, perché le vicende non sono più dette, ma sboccano nella rappresentazione. È vero che malizia erotica e oratoria stilnovistica si incontrano e giocano in modo ancora generico nell’episodio; per cui di quella Ghismonda in tono minore e ben più pratica che è la figlia del re d'Inghilterra rimane, di vivo e originale, il momento della fresca sorpresa sensuale nella camera d’albergo: ..SOrrise; e prestamente di dosso una camiscia, che avea, cacciatasi, prese la mano d’Alessandro e quella sopra il petto si pose, dicendo: « Alesandro, caccia via il tuo sciocco pensiero, e cercando qui, conosci quello che io nascondo ». Alessandro, posta la mano sopra il petto dello abate, trovò due poppelline tonde e sode e dilicate, non

altramenti

che se d’avorio

fossono

state ($ 31-32).

. Ma anche questo momento si esaurisce rapidamente. La storia stes-

sa di Alessandro non è abbastanza vivace per definirsi in modo netto all’interno del racconto: si accampa solo nell’economia della trama, per l’importanza decisiva che assume in essa. È un primo esempio, a uno stadio elementare e appena accennato.

Altrove, invece, il racconto tende in modo più esplicito a fermarsi nell’episodio novellistico: tendenza intrinseca, se si riflette a quanto detto, alla struttura stessa del racconto, che contiene in potenza varie soluzioni narrative. Si ricordi come, nella II, 5, l’avventura di Andreuccio tenda a tradursi in commedia, cioè in

una dimensione scenica e corale di un ambiente cittadino che si apre nel testo e va espressa con un adeguato linguaggio di commedia. E'si è pure rilevato, per esempio nella III, 9, e nella II, 8, 157

come il racconto sia anche evocazione, linguistica e stilistica, di ambienti remoti e stranieri: evocazione consapevole, che avvia il racconto verso un’altra direzione narrativa. Non si tratta quindi soltanto di durata esterna, di lunghezza della novella (perché tutte le novelle hanno in questo senso ùun limite interno, correlativo a un intreccio ben definito pur nella pluralità delle avventure); si tratta della potenziale ricchezza di modi narrativi che il racconto contiene, una volta che venga affrontato con la disponibilità e l'apertura del Boccaccio. E tale prospettiva va sempre tenuta presente, perché proprio dall’urto tra il racconto generale e una scena particolare, cioè dallo sviluppo che un quadro assume nell’economia dell’insieme, si origina, abbiamo detto, lo squilibrio strutturale di alcune

novelle. L’effetto di giustapposizione che molti critici hanno avvertito in esse è dovuto allo staccarsi di un episodio, con manifesta ampiezza costruttiva, dai vari che sono offerti dal ritmo del racconto. Condannare però globalmente il racconto, isolando un quadro, è semplicistico e illegittimo: è invece necessario cogliere la genesi del secondo nella concretezza stessa del primo, nella molteplicità di episodi, e di rapporti tra episodi, che esso propone. Nella mobilità dell’incontro tra misure lunghe e durate narrative brevi, nell’interferire e nel reciproco sollecitarsi di vari linguaggi legittimi, è possibile intravedere l’inquieta storia dell’autore all’interno del libro, un itinerario fatto di sperimentazioni e di conquiste che non coincide con l’architettura generale. L’incontro può apparire uno scontro, quando lo scrittore è attirato da un tema con tale intensità da proiettare su di esso la luce di tutto il racconto. Ciò avviene per esempio quando il Boccaccio usufruisce, sia pure con maggior misura narrativa, di schemi già comprovati, importanti nella sua storia di scrittore, che sollecitano ancora, all’interno di una novella, un suo gusto alessandrino di composizione a inserti e a riprese. Il che è patente nella V, 1, dove egli tenta di narrare, nell’ambito di una storia limitata, il tema dell’Ameto, dell’uomo che assurge allo stato razionale grazie alla forza miracolosa dell'amore. Ora il lungo racconto non solo si ferma in una pagina, ma parte addirittura da questa, che condensa un motivo diffuso in molte opere, dallo stesso Filocolo fino all’Azzeto e al 158

Ninfale: l’idillica rispondenza di un paesaggio, dominato dalla figura femminile, con l’animo di un personaggio. Lo schema, che sarà fertile di sviluppi sul terreno della poesia, trova in apertura della novella di Cimone una prima sistemazione narrativa. È ricelebrato il rito misterioso del sorgere di Amore in un cuore rozzo e ingenuo: e l’iniziale impegno oratorio della novella, che deve mostrare « quante sien sante, quanto poderose e di quanto ben piene le forze d'Amore » ($ 2), è dissipato dall’atmosfera insieme magica e sensuale che avvolge Cimone quando scopre la bellezza di Efigenia. Un’atmosfera, si badi bene, raggiunta mediante un finissima filtrazione di letteratura, palese nelle evidenti riprese di moduli stilnovistici e danteschi, rifusi in un naturalismo più tipicamente boccacciano. Il pericolo della pura decorazione letteraria è sventato dalla forza sintetica della pagina, animata dalla suggestione di un incanto d’amore, in un « rozzo petto » ($ 8), insieme

inesplicabile e certo, dalla metamorfosi di un « bestione » colta allo stato germinale. Poi il racconto segue altre tracce; e il mutamento di Cimone resta consegnato al retorico compiacimento per l’avvenuto miracolo: « Che dunque, piacevoli donne, diremo di Cimone? » ($ 21). La domanda sottolinea il passaggio a un altro tipo di narrazione, dove il protagonista diventa il modello del salvato da amore, di un eroe dell’eros immesso nel congegno di movimentate vicende. E la frattura stilistica, all’interno della novella, risulta

più evidente. Una finissima ripresa (non più collocata in una zona mitica ma in un preciso ambito storico) dei quadri naturalistici della giovinezza, dal Filocolo all’Ameto, offre pure la X, 6. Sulla scena del giardino,

topica nella letteratura cortese, indugia il racconto, con malcelato compiacimento descrittivo; ma anche la retorica di tipo umanistico che impronta la seconda parte si inscrive con decoro nella breve avventura d’amore del « re Carlo vecchio », colto in un attimo di turbamento psicologico durante una sosta del suo viaggio. L’innamoramento del re, insensibile e quasi inconsapevole, è giustificato con finezza dall'atmosfera rapita, idillica e sorprendente (il giardino, il pranzo, l’apparizione e i gesti delle due giovinette) e insieme pacata e familiare (le due fanciulle sono le figlie di messer Neri, dal 159

quale il re Carlo è invitato). Nella compresenza dei due aspetti è il fascino della scena da cui è preso il sovrano: nel « luogo solitario » (come il Boccaccio sottolinea più volte) irrompe improvvisa una visione di fanciulle, normale e insieme ‘sfumata nella magica irrealtà di un sogno: E mangiando egli lietamente, e del luogo solitario giovandogli, e nel giardino entrarono due giovinette d’età forse di quindici anni l’una, bionde come fila d’oro e co’ capelli tutti inanellati e sopressi sciolti una leggera ghirlandetta di provinca, e nelli lor visi piuttosto agnoli parevan che altra cosa, tanto gli avevan delicati e belli; ed eran vestite d’un vestimento di lino sottilissimo e bianco come neve in su le carni, il quale dalla cintura in su era strettissimo e da indi in giù largo a guisa d’un padiglione e lungo infino a’ piedi ($ 11).

Da notare l’avvio cantante del periodo, dove affiorano gli endecasillabi ? e le riprese discrete e allusive di moduli poetici e romanzeschi: non è soltanto una scena di seduzione, ma è una seduzione descritta con formule topiche e letterarie proprie di una cultura cortese, con elementi ricchi di echi romanzeschi (già nei nomi delle due fanciulle, « Ginevra la bella » e « Isotta la bion-

da ») che conferiscono all’apparizione una distanza evocativa. È raggiunta una difficile fusione tra la concretezza della sorpresa che ha un naturale effetto psicologico, e una scrittura di secondo grado, ricca di suggestioni culturali finemente allusive, per il vecchio sovrano: « le quali il re vedendo, si maravigliò, e sospeso attese quello che questo volesse dire » ($ 12). Il primo effetto è la meraviglia, e dunque un’improvvisa sospensione dell’animo: il contatto tra il re e le giovinette è mediato prima dai gesti nel vivavio poi dal canto aftidati alla contemplazione dello spettatore, e ritmato dal crescente piacere del sovrano interamente conquistato (« con grandissimo piacere del re »; « di che il re aveva maraviglioso piacere », ecc.). L'incanto di questa pagina si prolunga fino alla conclusione, spiega.il « dolore inestimabile » del re che parte per la Puglia ($ 35): ma agli schemi di una letteratura romanzesca 2 Indicati da V. Branca nel Decameron cit., pp. 1144, n. 6.

160

succedono nella seconda parte, specie nel discorso del conte Guido ($ 26-32) che ricorda al.rei propri doveri, i richiami di una retorica classica riscoperta con nuove prospettive psicologiche e umane: l’appello stoico alla padronanza di sé e dei propri appetiti irrompe nel codice dei rapporti feudali e conferisce un significato più profondo alle stesse virtù cortesi. Se poi tra l’ispirazione idillica della prima parte (la meravigliosa visione) e quella moralistica della seconda (il re che vince sé stesso) è avvertibile una frattura, questa

ha però un senso nella storia del re, definisce anche psicologicamente la sua avventura. La novella consegna una testimonianza storicamente significativa: a un vecchio mondo feudale, rappresentato da una letteratura cavalleresca, si salda una precettistica morale tratta da una letteratura antica, rivissuta con nuovo spirito umanistico. Due

momenti

culturali cercano,

nelle due fasi della novella, un

punto di congiunzione e di equilibrio. Più evidente è lo squilibrio tra racconto e frammento nella II, 6,

dove la tematica del solitario idillio elegiaco-paesistico e insieme dell’istinto materno, variamente trattata dal Filocolo, dall’ Amorosa Visione e dal Ninfale, è ripresa con matura complessità, ma anche con un più sottile gusto dell’inedito e dello strano. La scena iniziale di Madama Beritola, ovidianamente abbandonata in un'isola deserta, resta però isolata dalla linea narrativa della novella. Schemi e motivi cari al Boccaccio si inseriscono non sempre facilmente, e si avvertono talvolta le forzature dei giunti e dei particolari: nelle

didascalie genericamente allusive, rare nel Decamzeron (« quale la lor vita... si fosse, ciascuno sel può pensare »); nei richiami dante-

schi, inopportuni o gratuiti (« Ma poi che l’accoglienze oneste e liete furo iterate tre e quattro volte... »), motivati da un gusto dell’inserto estraneo al racconto; nelle amplificazioni retoriche, che col-

mano i vuoti di un affollato complesso narrativo: Quale festa della madre fosse rivedendo il suo figliolo, qual quella de’ due fratelli, qual quella di tutti e tre alla fedel balia, qual quella di tutti fatta a Messer Guasparrino ed alla sua figliuola, e

di lui a tutti, e di tutti insieme con Currado e con la sua donna

e co’ figliuoli e co’ suoi amici, non si potrebbero con parole spiegare; e perciò a voi, donne, la lascio ad immaginare ($ 76).

161

Dove il procedimento stilistico dell’ineffabilità tradisce la stanchezza, e l’enfasi letteraria che la compensa, della narrazione. E ne trae rilievo anche maggiore la pagina iniziale, nella quale il Boccaccio segue sottilmente la graduale adesione psicologica a un paesaggio selvatico di una delicata figura femminile priva di ricuperi, « divenuta fiera » ($ 17) con i due cavriuoli e ritrovata nell’isola « bruna e magra pilosa » ($ 20): un Cimone (o un Crusoe) alla

rovescia, che Currado fatica a riportare nel mondo civile, dalla natura alla storia. Un'esperienza voluttuosamente magica, ma del tutto nuova nella sua solida base realistica, detta invece la pagina migliore della VIII,

10:

presentata

formalmente

($ 3) come

una

novella

di

« arti » ingegnose, grazie alle quali un « sottile artefice » (Madonna Jancofiore) è a sua volta « artificiosamente beffato » (da Salabaetto,

o meglio da Pietro dello Canigiano). In realtà il gioco della beffa e della controbeffa è correttamente raccontato: ma la novella si ravviva in una misura rappresentativa, che dall'ambiente della malavita di un porto sbocca, con effetto di sorpresa, nella scena afrodisiaca del bagno. La trama resta cioè subordinata, nella prima parte, a una pittura d’ambiente (l’ambiente di un porto « orientale » quale è Palermo) su cui il Boccaccio si dilunga con felice duplicità, facendo scattare dal prosaico terreno di una dogana un’oasi improvvisa di carattere esotico le cui ambigue suggestioni costituiscono tanta parte del gioco di Jancofiore, per il modo con cui captano l’immaginazione, oltre che la sensualità, del giovane fiorentino, che ha qui la funzione dell’ingenuo straniero. La situazione può richiamare quella di Andreuccio da Perugia (II, 5); in realtà (ed

è un esempio sintomatico del diverso trattamento stilistico di un tema) il procedimento narrativo è inverso. Nella II, 5 l’ambiente

è dapprima suggerito, più che descritto, e si attua poi nello svolgimento del racconto, rivelandosi come il vero protagonista della novella. Nella parte iniziale della VIII, 10 l’ambiente è invece in primo piano, ma come misura autonoma e conclusa, della quale il racconto che seguirà sembra quasi un corollario d’intreccio. Di qui l’inconsueta lunghezza del prologo, della cronaca che indugia a scrivere il mondo del porto, dei fondachi dei mercanti, ma anche 162

delle meretrici, delle « barbiere » che vi pullulano attorno « non a radere ma a scorticare uomini date del tutto » ($ 8). Tale evidente

interesse di costume è cofinesso a uno specifico clima palermitano,

evidente nel lusso esotico del bagno e poi della camera della donna, nel suo stesso nome di Jancofiore, nei sicilianismi che affiorano nel suo discorso — « tu m'hai miso lo foco all’arma, toscano acanino » ($ 15); « allo comando tuio » ($ 25) — e ne svelano la vera perso-

nalità, pur accrescendone il fascino agli occhi di Salabaetto. Sono frammenti lessicalmente risentiti in un dialogo non molto vivace; in uno scrittore quale il Boccagcio, che raramente ma sempre per precise ragioni stilistiche fa uso di idiotismi dialettali, essi tradiscono l’interesse di costume che impronta tutta la prima parte della novella. Perciò il racconto si dilunga in particolare sulla scena del bagno: nella quale l'atmosfera esotica, carica di oggetti e di gesti precisi e insieme favolosa (« A Salabaetto pareva essere in paradiso... »), ha lo scopo di irretire il giovane, ha cioè una funzione nella beffa; ma finisce, per il modo con cui è trattata e per la stessa sensuosa lentezza della descrizione, per fare spicco a sé: con

una nota di magia tanto più forte quanto più è connessa con l’ambiente canagliesco del porto. Ogni particolare contribuisce a creare un quadro di afrodisiaca irrealtà, di sogno voluttuoso: Dove egli non stette guari che due schiave venner cariche: l’una aveva un materasso di bambagia bello e grande in capo, e l’altra un grandissimo paniere pien di cose; e steso questo materasso in una camera del bagno sopra una lettiera, vi miser su un paio di lenzuola sottilissime listate di seta, e poi una coltre di bucherame cipriana bianchissima con due origlieri lavorati a meraviglie; e appresso questo spogliatesi ed entrate nel bagno, quello tutto lavarono e spazzarono ottimamente

($ 14).

Lo scrittore indugia volutamente su ogni particolare. La scena è seguita, si direbbe, con gli occhi attoniti di Salabaetto; e il periodo progredisce sapiente, nel lento accumularsi delle sequenze visive, degli oggetti (schiave comprese) esotici e rari. E la rappresentazione del fiorentino ignaro, che si eccita al primo contatto con un mondo ignoto, non esclude una reticente malizia, carica forse di echi auto163

biografici. Se poi Jancofiore e Salabaetto appaiono meno rilevati che la ciciliana e Andreuccio nella II, 5, ciò è dovuto non tanto a carenze di ordine psicologico quanto al fatto che essi sono emblematici, nella novella, di due forze in sé meno pittoresche, che sono

in realtà le vere protagoniste del racconto e ne sorreggono la struttura. Si tratta di due organizzazioni complementari e di fatto nemiche, in un grande porto di mare: da una parte i mercanti delle dogane, dall’altra la malavita che vi prospera intorno. Non a caso la novella è tutta punteggiata di termini mercantili tecnici, concernenti le operazioni di dogana e di traffico: perché la novella punta sulle possibilità, da parte dei mercanti, di ricuperare gli incerti, di far fronte agli incidenti, di giocare sul denaro, e insieme sui pericoli e sulle tentazioni cui essi sono esposti di continuo ($ 8). Il ritmo

della beffa e della controbeffa risulta dunque da una tensione e da una lotta serrata tra due mondi rivali, che mirano entrambi al guadagno, al denaro. L'avventura di Salabaetto è sfumata perché sono questi due mondi a determinare la logica della novella, rappresentati da Jancofiore e da Pietro dello Canigiano, Salabaetto subisce il primo e poi obbedisce al secondo: è un elemento provvisorio, inserito in un meccanismo più vasto. 1 Anche in altre novelle, che raccontano vivacemente una storia

d’amore o di beffa, una scena tende ad acquistare, rispetto al resto, una dimensione più ampia. E allora, nella vitalità più scoperta di un personaggio, si scorgono tendenzialmente le premesse di un di‘verso linguaggio narrativo, che può essere quello del rapido mimo, dove le figure vengono immediatamente risolte nei gesti e nei discorsi, o quello più complesso della commedia. Che si tratti di direzioni stilistiche di cui il Boccaccio è consapevole è provato, mi pare, dal fatto che egli usi talvolta temi e linguaggi diversi all’interno di una stessa novella, con voluti effetti di contrapposizione tonale. L’esempio più sorprendente, quasi provocatorio, di compresenza tematica e stilistica è offerto dalla VII, 7. All’inizio domina il tema cortese dell’innamoramento da lontano, risolto in un racconto che 3 Si vedano però le ulteriori precisazioni di C. MuscettA,Il Decameron pp. 457-459, utili a una comprensione globale della novella.

164

cit.,

rassegna tutti i gesti rituali che ne conseguono, fino al servizio di Lodovico in casa di Egano sotto falso nome. La novella (il che

è già strano, nella VII giornata) prende l’avvio da una tematica amorosa e cortese, applicata al figlio di un nobile fiorentino che a Parigi si è trasformato in mercante, divenendo di povero ricco, ma

educa il figlio come un nobile, mettendolo « al servigio del re di Francia » ($ 5). Questa complicata interferenza di livelli sociali,

nella famiglia del protagonista, non è forse casuale, dato lo sviluppo della novella. Nella seconda parte infatti si apre il tema, borBhese e contemporaneo se pur consacrato dai fabliaux, della moglie beffarda e spregiudicata (tale si rivela ben presto la pur nobile madonna Beatrice il cui nome non sembra casuale, dato l’illustre ed elevato modello cui si richiama), fissato nella vivacità teatrale dei

gesti e delle battute (si pensi alla scena finale tra Egano e Beatrice). Si tratta quindi di due temi antitetici, che esigono due linguaggi diversi. E il loro scontro, nell’ambito della stessa novella, mediato

da una parentesi oratoria di elogio della « singolar dolcezza del sangue bolognese » ($ 21) volta a contrapporre alle « lagrime » e ai « sospir » l’arrendevole sensualità delle donne di Bologna (elogio che sembra confermare la sottile ironia implicita nel nome di questa Beatrice bolognese, così volutamente antitetica, fino al sadismo, a

quella di Dante), si risolve a tutto svantaggio della tematica elevata della prima parte rispetto a quella comica della seconda: lo stesso svolgersi « a effetto » della vicenda sembra sottolineare la distanza, anche stilistica, tra l’ambiente cortese dell’inizio (l’ambiente nel

quale nasce l’amore per fama di Lodovico) e la comica bastonatura del marito alla fine (amministrata da un Lodovico che sembra, col nome, aver cambiato anche il carattere). Lodovico, trasformato in

Anichino, riceve una sorprendente educazione sentimentale: il giovane cavalleresco e romantico di Parigi diventa un amante spregiudicato e beffardo. |

Ciò avviene non a caso, visto che l’interesse del narratore si

sposta sul personaggio di madonna Beatrice: Lodovico-Anichino, nella seconda parte, si riduce a puro strumento'del piacere quasi intellettualistico con cui Beatrice ordisce la beffa. Lo spostamento di protagonista è culturalmente significativo, e ben boccacciano: 165

la donna amata da lontano, oggetto in ogni caso dell’amore dell’uomo, si rivela autonoma nell’azione, soggetto del proprio piacere. E in un modo, si diceva, che può apparire provocatorio: tanto questa Beatrice bolognese è freddamente padrona di sé, capace di autocontrollo, sia quando si concede a Lodovico per un calcolato omaggio alle regole erotico-cortesi; sia quando spaventa e sbalordisce l'amante e schernisce il marito con la propria invenzione, servendosi della verità come pretesto e strumento di menzogna. Beatrice è intellettuale nel gusto e borghese nel comportamento: una sorta di Francesca da Rimini a rovescio, divenuta cittadina e capace di organizzare il proprio amore con vigile freddezza e quasi con cerebrale sadismo: « dirai villania ad Egano e sonera’mel bene col bastone, per ciò che di questo ne seguirà maraviglioso diletto e piacere » ($ 39). Sembra anzi, nell’affiorare di una componente sadica, di natura intellettuale, che interessi a madonna Beatrice, più

che l’amore, la possibilità di ordire una trama, l’invenzione di un’avventura erotica più complicata. Situazione che tende al paradosso, visibilmente gustato dal Boccaccio nelle battute tra i due coniugi e poi in ogni particolare (il « pezzo di saligastro » usato da Anichino per bastonare Egano) della scena che conclude il racconto. Il quale dunque non sembra ridursi a un divertimento, del resto ricco di precedenti, costituito dalla opposizione degli stili: ma appare anche, nella progressione del doppio registro stilistico, un documento storicamente indicativo, fondato sul personaggio di madonna Beatrice. Passando dal romanzo cortese, dai temi cavallereschi dell’inizio, alla commedia borghese, ai toni beffardi della conclusione, si passa da una concezione della vita a un’altra: anche se il passaggio è assicurato dall’avventura erotica, unico elemento di saldatura tra il codice cortese e la nuova libertà cittadina. Passaggio e continuità emblematicamente raffigurati all’interno della stessa novella: grazie al lucido personaggio femminile, il Boccaccio ap. pare non solo stilisticamente ma anche ideologicamente consapevole della propria tematica amorosa. E la topica situazione del triangolo è assunta da una donna autonoma,

sicura di sé, capace di

rovesciare attivamente il tradizionale rapporto con l’uomo:

una

donna che non subisce, o cerca soltanto, l’avventura, ma

la sa

166

costruire con le doti dell’ingegno. La commedia borghese nasce, nel corpo della stessa novella, sul romanzo aristocratico-cortese.! Che il Boccaccio sia attento, anche attraverso l'avventura amorosa, a una gestazione sociale più complessa, agli incontri e agli scontri di diverse mentalità nei contatti tra le classi, è provato da altre novelle, ricche di contraccolpi e di nuove divergenze stilistiche. Si legga la VII, 8, che presenta un’altra situazione tipica, sempre condannata dal Boccaccio: un matrimonio misto, in questo caso tra un mercante, Arriguccio, sia pur « ricchissimo », e una « giovane gentil donna », Sismonda, « male a lui convenientesi » ($ 4). Un

ménage stridente già nell’indicazione dei nomi. Ne scaturisce inevitabile la solita situazione triangolare, complicata dalla gelosia del marito, e raccontata ingegnosamente

con un linguaggio mosso

e

colorito, ricco di sottolineature comiche. Ma la parte stilisticamente più viva, e per alcuni aspetti imprevedibile, resta l’animata scena finale: un mimo tutto gesticolato e urlato, nel quale il marito viene svergognato e insultato dai parenti della moglie. È una beffa che ha anche il carattere di una punizione sociale. Più che personaggi concreti, sono petò tipi comici, visti in una

situazione

e in un

tempo immediatamente teatrali, in un concitato contrappunto di domande, di invettive, di recriminazioni, di battibecchi, di voci colte nella loro diretta vitalità: il marito geloso, prima furibondo e poi sbigottito fino al silenzio (« rimaso come uno smemorato »), quasi pietoso; la moglie accorta, che impassibile lo svergogna e poi lv perdona magnanima, con un volto che sa dominare ogni sentimento; i fratelli della moglie, stizziti e irosi; la madre soprattutto, che sfoga la forte ansia sofferta per la figlia in una sequenza inarrestabile di ingiurie contro il genero mercante: « Alla croce di Dio,

figliuola mia, cotesto non si vorrebbe fare, anzi si vorrebbe uccidere questo can fastidioso e sconoscente » ($ 45); e ancora:

« Frate,

bene sta! basterebbe se egli t’avesse ricolta dal fango! Col malanno possa egli essere oggimai, se tu dei stare al fracidume delle parole di un mercatantuzzo di feccia d’asino » ($ 45-46); e poi: « egli non 4 Sicura e precisa, anche se in diversa prospettiva, la recente analisi della « bifrontalità » esemplare della novella di V. BRANCA, Registri narrativi... cit., pp. 70-75, cui si rinvia anche per i precedenti studi del Branca e per la bibliografia.

167

s'è vergognato di mezzanotte di dir che tu sii puttana, quasi noi non ti conoscessimo; ma, alla fé di Dio, se me ne fosse creduto, e’

se ne gli darebbe sì fatta gastigatoia ch’e’ «gli putirebbe » ($ 47), e via di seguito. Questo gioco mimetico sul parlato, linguisticamen-

te comico e divertito, crea un impreveduto contraccolpo stilistico: gli argomenti di classe, di cui è ricco il discorso della donna e che dovrebbero esprimerne la superiorità sociale, sono negati dalla volgarità plebea del linguaggio. È una maliziosa contraddizione tra livello sociale e livello linguistico: sottolineata dall'evidenza immediata del mimo, perché si tratta di gesti e battute istintivi, colti nella loro bruta irruenza, di sentimenti e di ingiurie che la ragione non controlla. È dunque una scena che esprime, per comica antifrasi, un valore di comportamento caro al Boccacciò: la capacità di dominare sé stessi nei gesti e nelle parole, qui impersonata da Sismonda, la quale, dopo aver ricuperato una situazione pericolosissima, si apparta da tutti, con la coerente recitazione della donna onesta e ingiustamente offesa. Così lo scontro tra marito e moglie, che è anche scontro di due classi diverse, si

risolve alla fine in una scena che rimescola i linguaggi, trascrivendo un litigio di famiglia afferrato, si direbbe, col gusto pettegolo di chi orecchia dietro la porta. E il racconto sbocca e si ferma in un linguaggio mimico autonomo, che traduce un’animale esplosione di istinti. Il mutamento stilistico è più esile, ma basta a rilevare la scena dal resto della novella, a costituirne il culmine improvviso e rumoroso. i Il rilievo di una scena entro il racconto è reperibile altrove: per esempio nella V, 5, più tenue e lineare, nella quale è viva la prima parte, che si conclude in una scenetta impostata sull’effetto stilistico del parallelismo. Il misurato raffronto che si istituisce tra due situazioni (procedimento narrativo che guida con discrezione la IX, 1) ha un esito nettamente

comico:

il crescendo

del con-

trasto tra due rivali, fino alla pittoresca zuffa finale, è reso con una

tecnica molto esperta, che gioca con arguta malizia sulle analogie. Da una parte Giannole; « dimesticatosi molto » col fante Cri-

vello ($ 9), dall’altra Minghino, che « avea dimesticata la fante » ($ 12); poi, stabiliti gli accordi, Crivello, « fattolo sentire a Gian168

nole..., quando un certo cenno facesse, egli venisse e troverebbe

l’uscio aperto » ($ 13), mentre la fante « fece sentire a Minghino...,

quando vedesse un segno che ella farebbe, egli venisse ed entrassesene dentro » ($ 14). L’esatto parallelismo è ottenuto

col gioco

delle ripetizioni e delle leggere varianti. Più in là, i preparativi dei due innamorati: « Minghino co’ suoi », « Giannole co’ suoi » ($ 15),

ciascuno in una situazione identica. Poi le battute tra i due servitori: « Come non ti vai tu a dormire oramai? Che ti vai tu pure avviluppando per casa? » ($ 16); « Ma tu perché non vai pet signorto? Che aspetti tu oramai qui, poi hai cenato? » ($ 17). Infine lo scontro:

« Giannole, prestamente venuto, con due com-

pagni andò dentro » ($ 19); « Minghino, prestamente coi suoi compagni là corse » ($ 20). L’ossessiva insistenza sul parallelismo tradisce esplicitamente il calcolo stilistico del Boccaccio: è una pagina di tecnica pura, si direbbe, nella quale la progressione comica è ottenuta innanzi tutto con gli elementi formali, coll’evidenza che essi hanno nella pagina. È questa la parte più originale della commedia proposta dalla V, 5. Interverrà poi l’agnizione a sciogliere il nodo, permettendo a Minghino di sposare la fanciulla, che si scopre sorella di Giannole; e allora il racconto scorre rapido, neutro,

quasi « scenario » di una possibile commedia. Una ben diversa profondità psicologica ha la scena che apre la II, 9: quasi un atto di commedia contemporanea, da cui si svolge il racconto della seconda parte. L’inizio è certamente tra le pagine più efficaci che abbia scritte il Boccaccio: in quel dialogo che nasce, in un albergo parigino, in un circolo di mercanti che attaccano discorso dopo aver « lietamente cenato », in quel « travalicare » di argomento in argomento ($ 4) che giunge alla fine da un astratto « motteggiare » sulle mogli alla disputa tra Bernabò e Ambrogiuolo, la psicologia di un coro e di due personaggi si costruisce con sapiente, quasi inavvertibile progressione. Bernabò, semplice e onesto, sicuro della fedeltà della moglie, si oppone sempre più nettamente a Ambrogiuolo, spregiudicato e viveur: « io mi crederrei in brieve spazio di tempo recarla a quello che io ho già dell’altre recate » ($ 20). Ambrogiuolo ride e motteggia, usa la sua maligna dialettica « gabbando » Bernabò

($ 11), ma alla fine, « riscaldato » 169

(S$ 22), accetta la pericolosa scommessa; Bernabò rimane dapprima « turbatetto » ($ 12) e risponde da « mercatante » e non da fisofolo » ($ 18), e poi « turbato » ($ 21), ormai in collera, getta la

sfida all’avversario. Sullo sfondo, il coro dei mercanti italiani in una città straniera, i quali invano si ingegnano « di sturbar questo fatto, conoscendo

che gran male ne potea nascere », e non

riescono a quietare gli animi « accesi » ($ 23). Nel sapiente alternarsi del discorso diretto e indiretto, il Boccaccio supera un’alta

prova drammatica, riesce a far vivere i personaggi senza indugiare su note fisiche o morali; basta il discorso a illuminare due opposte

psicologie. Poi il racconto si complica, non senza preoccupazioni esemplari sul tema della moglie forte e onesta (quasi un conte d’Anguersa in gonnella); ma Bernabò e Ambrogiuolo conservano fino all’ultimo una loro coerenza psicologica. Certo, l’efficace scena iniziale, che sviluppa con diversa tecnica narrativa una delle situazioni del racconto, può suscitare un’impressione di frattura fra le due parti della novella:

la prima viva, attuale, drammatica, la seconda

più astratta e puramente espositiva. E il racconto di avventure, meraviglioso e straordinario, sembra incongruente, in una visuale storica, al ritmo quotidiano che avvia la novella. Questo perché la scena iniziale d’albergo è davvero un frammento, si direbbe, di

romanzo contemporaneo, che fa sentire in un certo senso superato l’usuale filone avventuroso. La frattura è avvertibile grazie alla felicità espressiva dell’inizio; non deve però indurre a negare la validità di due linguaggi narrativi, il nesso tra il racconto generale e un’invenzione particolare. Ma è anche vero che novelle quali la II, 9 propongono, sulla base del racconto, una diversa misura narrativa: la novella saldamente ancorata al segno dell’individuo, colto in profondità nell’esattezza di un limite temporale e spaziale. Si profila la struttura di un nuovo modo narrativo.

170

La novella esemplare

Nella zovella del Boccaccio, intesa nel senso tecnico con cui la

si è opposta sia al racconto sia al romanzo, si è già notato come, rispetto alla realtà mutevole e imprevista che insidia l’uomo e lo travaglia, tenda ad affermarsi, in un episodio rivelatore, l’individuo. Si può anzi affermare che in molte novelle del Boccaccio il personaggio vive, in un certo momento della sua esistenza, un’avventura che risulta per lui singolarmente importante. Importante, si può subito premettere, perché essa gli rivela un aspetto particolare, spesso nuovo, della realtà, e grazie a tale rivelazione gli permette di conoscere meglio anche sé stesso. È insomma un momento di verità, in cui il personaggio, trovandosi alle prese con un antagonista, è costretto in questa prova a misurare le proprie virtù.

Nella V, 9 la visita di monna Giovanna a Federigo degli Alberighi è un avvenimento di tale natura: si tratta di un falcone, ma esso basta a coinvolgere tutta la loro personalità, li rivela a sé come all’altro: tanto è vero che l’incontro muterà poi la loro vita. Ebbene, per l’uomo del Boccaccio, l’uomo cioè che egli fa vivere nel Decameron, si apre, in questo momento privilegiato, una pos-

sibilità di affermazione: che egli affronta in quanto individuo, e sia pure con tutte le caratteristiche sociali, morali e psicologiche che lo condizionano, e vive come destino terrestre, senza alcun riferimento all’aldilà. Tale affermazione del personaggio può esplicarsi in una gamma molto estesa di eventi, che va dall’attimo alla durata di una vita: ma solo nei casi più alti, quando il nuovo eroe terreno

sia pronto, con una

sorta di rinnovato

stoicismo, a far

getto della stessa vita pur di non cedere alla pressione dei casi o degli uomini: come sarà per Natan nella X, 3 o per Ghismonda nella IV, 1 (e qui non importa che diverso, anzi opposto, sia l’esito LA

della vicenda che li rivela). Si è pure indicato che tale tematica comporta una conseguenza di ordine narrativo: la novella, seguendo la curiosità del Boccaccio per il momento eccezionale e rivelatore,

tende chiaramente a concentrarsi, a ridurre la quantità e l’incidenza degli eventi esterni, e ad esprimere, attorno al nucleo essenziale offerto dal comportamento dell’individuo, un’indagine di tipo psicologico-morale, che richiede diversa capacità di invenzione stilistica.

Tale interesse si traduce infatti in un primo aspetto generale della novella:

le vicende, le circostanze, sono ora in funzione dell’indi-

viduo, della sua possibilità di manifestarsi ed affermarsi. E tale affermazione, tutta terrena, non può avvenire che rispetto ad altri uomini, occasioni di un contrasto o di una complicità, in ogni caso testimoni indispensabili per il personaggio. Ne deriva che la novella tende a fissarsi in una struttura bipolare: nel senso che lo schema generale è offerto da due personaggi che si incontrano o si scontrano, che in ogni caso si affrontano e poi finiscono, per lo più, col riconoscersi reciprocamente. Uno schema, aggiungiamo, che rivela con la massima intensità l’etica tutta intellettuale del Boccaccio: se è vero che la sua curiosità è rivolta, in modo precipuo, al grado di conoscenza che l’individuo ha di sé e degli altri, e quindi di consapevolezza che mostra dei contenuti e del metodo della propria esistenza. L’autocoscienza e l’attenzione costituiscono perciò il binomio essenziale che definisce la morale quotidiana del personaggio boccacciano. L'intelligenza è inscindibile da una pratica di vita: situandosi nel mondo, l’individuo può passare all’azione, affrontare il rapporto con gli altri. E verificare, in questo modo, i valori su cui fonda la propria vita: assumendoli in concreto col proprio atteggiamento. Il testimone permette dunque all’individuo un accertamento della propria personalità: il limite empirico dell’episodio sprigiona un massimo di esemplarità terrena. Al punto estremo di questa scala di valori puramente terreni sembra essere la figura di Natan nella X, 3: il saggio che ha raggiunto il massimo controllo di sé esercitando per tutta la vita la virtù del « corteseggiar » ($ 7), ed è pronto a rinunciare alla vita pur di non disperdere ciò che costituisce la sua conquista personale. Essa consiste in una cortesia illimitata e continua (il Boc172

caccio parla infatti di « corteseggiare », un verbo frequentativo che insiste su una virtù divenuta abito di vita): cortesia senza la quale

l’esistenza non avrebbe alcun valore per Natan. Tale tenacia nel considerare un valore come irrinunciabile assicura coerenza esemplare (quella cioè cui tende nella novella il Boccaccio) a un atteggiamento che potrebbe altrimenti apparirci strano, quasi la mania intellettualistica di un vecchio bizzarro: per il personaggio, in realtà, il rifiuto eventuale di assumere fino in fondo il valore (la corte-

sia) cui si è consacrato distruggerebbe, nel suo sistema morale e intellettuale, tutta la propria vita precedente. La virtù, portata al limite dell’assoluto, rischia evidentemente di confondersi con l’or-

goglio: la superiorità di Natan su Mitridanes consiste nel non essersi mai lamentato nel dare, neppure di fronte alle più pesanti richieste. La superiorità di Natan risiede sostanzialmente nel non avere mai detto no a qualcuno: non potrà dunque dirlo neppure a Midridanes. Ma a questo punto l’orgoglio ricade, in modo conturbante, sul vecchio

Natan

(che è infatti

internamente

scon-

volto, quando conosce il proponimento di Mitridanes), lo costringe a un’ardua scommessa con sé stesso: l’attimo imprevisto (l’arrivo di Mitridanes che vuole ucciderlo) e la durata di un'esistenza (il suo corteseggiare) si raggiungono di colpo e si compenetrano. Se

Natan non sapesse vivere con coerenza quell’attimo, incrinerebbe la linea della propria vita, la distruggerebbe. L’aneddoto sembra assumere il valore di una dimostrazione matematica, astratta quasi, data l’artificiosità della situazione: però il senso di esso, se applicato alla prassi quotidiana, è tutt'altro che oscuro. Proprio perché Natan accetta questa prova egli può dominare Mitridanes: e riaffermare la propria superiorità (trasformando Mitridanes in vittima, com’è giusto) nel momento in cui sembra dover soccombere. La novella non va dunque interpretata al livello di una psicologia comune, realistica: essa vuol avere, per una volta, l’aria sospesa, tesa e rarefatta, dell’apologo, della « parabola » più che di una vera « istoria », anche se non rinuncia, vedremo, a un minimo di concretezza umana e ambientale. È anzi in questa ambiguità l’unità

strutturale

della novella,

dall’avvio

favoloso

dell’inizio, 173

situato nel lontano Cataio, all’alta retorica del dibattito nel giardino fra Natan e Mitridanes, in conclusione: la vicenda è ovviamente presentata come realmente accaduta, mentre il modo di

offrirla ne accentua l’aspetto simbolico, esemplare. Un’ambiguità denunciata con discrezione dallo stesso Boccaccio, il quale, prendendo forse lo spunto dalla novellistica orientale, ambienta la novella nella lontana Cina, ma

anche

avvicina

tale ambiente

richiaman-

dosi a una fonte orale e diretta, cioè a mercanti e a viaggiatori simili a Marco Polo. Neppure in questo caso, dunque, il Boccaccio rinuncia al canone del verosimile, né a stabilire un aggancio tra il Cataio e il proprio mondo: « Certissima cosa è, se fede si può dare alle parole d’alcuni genovesi ed altri uomini che in quelle contrade stati sono, che nelle parti del Cattaio fu già uno uomo di legnaggio nobile e ricco senza comparazione, per nome chiamato Natan... » ($ 4); anche se attenua retoricamente

la verità (« cer-

tissima cosa è ») con la restrittiva che segue («se fede si può dare... »). In ogni caso, per il modo con cui è presentata, la novella sembra proporsi come simbolo di una sorta di tramite che si stabilisce tra due civiltà diverse e lontane: simbolo esplicito subito nella casa di Natan, che abita « vicino ad una strada per la qual quasi di necessità passava ciascuno che di Ponente verso Levante andar voleva o di Levante venire in Ponente » ($ 4). L’im-

magine è ribadita poco oltre, quando si parla della fama di Natan: « E avendo grande e bella famiglia, con piacevolezza e con festa chiunque andava e veniva faceva ricevere ed onorare; e in tanto perseverò in questo laudevol costume, che già non solamente il Levante ma quasi tutto il Ponente per fama il conoscea » ($ 6). È come un ponte gettato tra Ponente e Levante: gettato da una storia che giunge dall’Oriente più lontano, ma costruito sulla base di una virtù (la cortesia) che ha una precisa tradizione nello stesso

mondo europeo. Quando perciò si parla di astratto intellettualismo, che forzerebbe il tono psicologico e la verosimiglianza morale della vicenda," non si comprende che tale novella nasce appunto come 1 Le riserve più esplicite, in questa direzione, sono quelle di A. MoMIGLIANO, nel commento al Decameron cit.; il quale, pur con fini osservazioni, spezza netta-

174

costruzione intellettuale, e nell’ambito di quella decima giornata che esprime una fiducia per così dire programmatica del Boccaccio in un empireo tutto terreno. Tale empireo, tale meta quasi favolosa cui può giungere una élite umana, il Boccaccio li indica, nella X, 3, allargando al massimo l’orizzonte della novella, introducendo in essa un tema storicamente connotato quale è la cortesia, e risolvendo la vicenda nella lezione di un umanesimo più concreto, che postula una nuova dignità sul piano del comportamento e insieme un consapevole compiacimento nell’esprimere e affermare la propria etica individuale. Sono dunque avvertibili, nella genesi della novella, tre stratifi-

cazioni tematiche, che ci rinviano a-nodi anche ideologici importanti per lo scrittore. La prima è data, il che è raro nel Boccaccio, dalla fonte orientale, dal terreno esotico;

essa ha il compito di

assicurare, mediante la distanza geografica e ambientale, un valore di universalità alla vicenda, di ottenere un effetto preciso di sublimazione. La seconda è offerta da un tema storicamente convalidato,

la cortesia, riproposta come virtù-base di una élite dirigente, valida cioè tanto per i nobili ricchi quanto per i ricchi mercanti che vo-. gliono conseguire la vera nobiltà. Si noti che Natan è presentato come « di legnaggio nobile e ricco senza comparazione » ($ 4), mentre di Mitridanes si dice che « non meno ricco che Natan fosse » ($ 7): e solo più tardi, al loro primo incontro, Natan dirà a Mitridanes:

« nobile uomo

fu il tuo padre » ($ 20). L’origine

nobile è ricordata da Natan e rivelata al lettore nel momento in cui Mitridanes può conquistare, in una prova decisiva, quella vera nobiltà individuale che l’invida ancora gli ricusa. D'altra parte, lo scenario in cui agisce Natan (il palazzo bello e ricco), il suo comente la novella in due, e giudica incoerente e mancata la seconda parte (pp. 387396). Gli risponde, implicitamente, G. PeTRONIO, nel commento al Decameron cit. sottolineando la voluta « atmosfera di irrcaltà » delle ultime pagine (p. 271). Più integrale il ricupero di C. MuSceETTA,

// Decameron

(SUE ricco di nuovi

rilievi, il

quale però censura la « situazione melodrammatica» dell epilogo (pp. 474-475). Aveva già individuato, come spesso in poche righe, l'essenza della novella N. SapeGNO, Il Trecento cit., riferendosi « alle rappresentazioni della virtù sublime, che il Boccaccio non sa concepire però se non radicata nelle consuetudini umane, contesta di affetti e di ideali terreni, incarnata nella cortesia magnanima di Natan... »

(p 356).

95)

dice di comportamento (onorare «i gentili uomini »), la sua affa-

bile liberalità con tutti, sono appena la sottolineatura di riti e gesti propri di un’aristocrazia cittadina che ritroviamo in altre novelle:

il che conferma quanto si è già osservato, cioè il permanere del prestigio ideologico di virtù cortesi di origine aristocratica, correlativo alla crisi e ai limiti culturali della borghesia mercantile. Tale aspetto è qui particolarmente chiaro: nella novella è esaltato lo spendere, il donare, senza che venga

indicata la fonte della ric-

chezza, la quale è accolta come un fatto naturale (il che è tipico di un’ideologia feudale), mentre si tace dell’acquistare, del guadagnare con la propria industria (che sono elementi tipici di un’ideologia borghese). Nobiltà e ricchezza sono dunque indicati dal narratore come funzionali a una nuova egemonia culturale: non a caso Natan, nel momento più drammatico della novella, loda in Mitridanes « l’altezza dello animo », « il quale non ad ammassar denari, come i miseri fanno, ma ad ispender gli ammassati s’è dato » ($ 31). La terza stratificazione, infine, è rilevabile nell’alta

retorica sul valore della vita in rapporto alla virtù individuale, e sorregge i discorsi finali di Natan ($ 30-38). Una retorica di derivazione classica al servizio di una morale individualistica, anche se

essa è complicata dal gusto artificioso, quasi capzioso, delle questioni medievali. Una retorica che afferma la possibilità, per l’uomo educato al controllo di sé, di dominare la propria condizione terrena, di valutarla cioè alla luce di una moralità che nulla può intaccare in lui. Sono i fondamenti

di un’etica elaborata dai classici,

astratta ora dal contesto che l’ha espressa e additata come un valore positivo per tutti. Su questo piano si illumina la funzione che il Boccaccio conferisce all’intellettuale, e si rivela la genesi profonda della novella. Un uomo magnifico e liberale è presentato come un modello socialmente positivo; ma solo l’intellettuale (lo scrittore) potrà dargli una sorta di consacrazione carismatica e trasformare una virtù sociale in un valore assoluto, culturalmente egemonico. Lo scrittore, in altre parole, darà a una pratica sociale un

sigillo esemplare, che la trasforma in modello di vita. Una novella situata nel Cataio viene per così dire plutatchizzata, e proposta, grazie alla tensione eccezionale di una vicenda, come un irrefu176

tabile exemzplum terreno. Un esempio cui tutti potranno, nel loro ambito e in vari gradi, adeguarsi: da Natan, nobile e ricchissimo e pur libero dal condizionamento della ricchezza, a un fornaio come Cisti (VI, 2) che pur trova, nel consistente patrimonio che

gli procura un mestiere, uno strumento per affermare e la propria generosità e la propria dignità. Il che significa riconoscere e accettare le differenze di classe e di‘censo, e attenuarle poi grazie a valori di cui tutti, singolarmente, possono partecipare; romperle insomma al livello del rapporto tra individui. Sono le basi di un’etica umanistica ma pur quotidiana, nel senso che fa del singolo il possibile depositario di generali valori terreni, svalutando (e talvolta mistificando) le discriminanti economiche e sociali. Non

è dunque un caso che in un uomo nobile e ricco il Boccaccio additi un esempio di massima virtù. Questo il riposto senso ideologico, storicamente interessante, della novella. Tale la genesi complessa della X, 3, allontanata nel tempo e nello spazio come « favola » e insieme pregnante di significati in quanto « parabola ». Non è quindi il metro della psicologia usuale a reggere il racconto, ma quello di una psicologia portata all’estremo e dilatata, con cosciente artificio, fino al sublime. Anche nella raffi-

nata stranezza della regia che presiede all’incontro nel giardino, si può cogliere, sottintesa, l’ansia di raggiungere una perfezione che sulla terra si può conseguire solo in qualche momento privilegiato. Su questo, infatti, punta la novella. Il narratore non si dilunga sulla generosità e sulle cortesie di Natan, perché si tratta di un dato scontato: questa è tutta la vita di Natan. Inoltre, a differenza per esempio di Gentile Carisendi, Natan non ha bisogno di un pubblico per recitare, si potrebbe dire, il proprio personaggio, perché lo ha pure fatto per tutta la vita. Il Boccaccio, parlando dell’« animo grande e liberale » di Natan, sottolinea fin dall’inizio che egli era « disideroso che fosse per opera conosciuto » ($ 5). Natan, mettendo

in pratica le sue virtù, vuole anche che

siano riconosciute come tali, perché solo gli uomini possono testimoniare la grandezza dell’uomo: Dio è assente, per il personaggio terreno del Boccaccio. Tutto questo, in ogni caso, Natan lo ha già realizzato. Nella novella egli è invece rappresentato in un moLZ

mento eccezionale, e gli basta un interlocutore per recitare fino in fondo sé stesso, per mettersi alla prova quando ha ormai conseguito quanto desiderava. Si descrive cioè un’esperienza ulteriore, “che concerne il rapporto di Natan con sé stesso: egli potrà sapere se il lungo esercizio della cortesia ha davvero nobilitato il suo animo, lo ha reso sgombro dall’egoismo e da quell’istinto stesso di conservazione che è paradossalmente forte nei vecchi (non a caso Natan, nel discorso a Midridanes, rovescia il paradosso, e rifiuta

questo istintivo legame con la vita). A tale scopo, Natan sa preparare accortamente la messa in scena del suo incontro decisivo con Mitridanes. Una messa in scena che può apparire artificiosa, inverosimile a un lettore moderno: mentre è solo il caso-limite di un gusto teatrale sempre forte nei personaggi intellettualmente vigili e consapevoli del Boccaccio, i quali devono costruire sulla terra il proprio scenario, per affrontarvi una prova che va controllata nei gesti e nelle parole, che esige cioè di recitare il proprio personaggio. Un personaggio che essi devono elaborare da sé, ripetiamo, in un teatro puramente mondano. E più ancora che in Ghismonda, che pure è il modello più alto dell’eroina boccacciana (IV, 1), in Natan, nella parte finale della novella,

l’ampia eloquenza, la sapiente retorica che regola i periodi, vogliono essere, appunto, l’espressione di questa recita che egli dà a sé stesso: nel senso che egli identifica un’alta conquista spirituale con lo stile che la esprime. E lo stile « tragico » è, per alcuni personaggi, la consapevole espressione « teatrale » di una pratica di vita coerente fino al sublime. Natan è sé stesso nella misura in cui si sdoppia nel proprio personaggio: è Natan che recita il personaggio di Natan. Tale stile non è un esercizio solitario: il rapporto di Natan con sé stesso non solo non esclude, ma anzi richiede il rapporto con un altro che assume, nell’incontro e nello scontro, la posizione di

testimone. E il contatto mette sempre in rilievo una virtù o un vizio, che vengono riconosciuti tali da norme immanenti alla convivenza umana. Il comportamento esemplare di Natan esige, per essere convalidato, il rapporto con un altro: è anzi messo in evidenza, inizialmente, da un’antitesi. Alla generosità di Natan si 178

oppone l’invidia di Mitridanes. Antitesi che è poi annullata dall’incontro, dalla sorpresa che esso sprigiona e si risolve in una gara di generosità, di reciproco riconoscimento. Anche in questo senso la novella è esemplare: per la stessa tensione che la sorregge, essa rende più evidente lo schema di un modo narrativo frequentissimo nel Decameron. È il modo che potremmo chiamare della n0vella-contrasto, fondato, si è detto, su una struttura bipolare, che risponde a un rapporto rivelatore e illuminante tra due individui. In questa novella, e sia pure in un alone mitico, la storia di Natan

e Mitridanes assume presto, fin dall’apparizione misteriosa di quella vecchierella ($ 9) che annuncia a Mitridanes

la liberalità ine-

guagliabile di Natan (un topos utilizzato, si direbbe, in funzione di un « mistero » terreno), la forma del contrasto tra due individui, che si risolve poi nel dialogo di due amici. Questo lo schema essenziale. Esso ha qui una tensione, si diceva, che il rapido turbamento di Natan, quando apprende il proposito di Mitridanes di ucciderlo, rende peraltro plausibile pur nell’eccezionalità della situazione: « Natan, udendo il ragionare ed il fiero proponimento di Mitridanes, in sé tutto si cambiò... ». È questa una frase essenziale: se non

esistesse lo sconvolgimento di Natan, non ci sarebbe neppure il suo stoicismo, la sua ascesi: « ma senza troppo stare con forte animo e con fermo viso gli rispose » ($ 20). Una frazione di tempo che sottolinea alcune doti essenziali dell'eroe terreno del Boccaccio: la rapidità della reazione (« senza troppo stare »), la forza interna che la spiega, la fermezza anche esterna del comportamento. E nell’incontro diretto con questo saggio si risolve la crisi di Mitridanes, la cui generosità era infirmata da un vizio d’origine, da un’emulazione mal fondata: « divenuto della sua fama e della sua virtù invidioso » ($ 7). Mitridanes ha un comportamento

volon-

taristico, suscitato da altri, e perciò insidiato da un’intima debolezza; che si rivela dopo le parole della vecchia: « in rabbiosa ira acceso » ($ 11). E si sa che l’ira, che toglie il controllo razionale

dei propri atti, è uno dei vizi più riprovevoli, per il Boccaccio. Solo quando Mitridanes prende coscienza della propria debolezza, può scoprire, attraverso Natan, l’autonomia e il disinteresse della virtù; in quel momento, aperti « gli occhi... dello ’ntelletto » ($ 28), 1979,

egli può rovesciare la situazione, convertire « in vergogna » il « furore » e l’« ira » ($ 27), riconoscere il proprio « errore » ($ 28) e in questo modo la propria inferiorità ($ 43). Solo allora può gareggiare con Natan da pari a pari, rifiutando fermamente l’insidiosa proposta dello scambio di nomi e di persone ($ 43). Persiste,

certamente, il dislivello fra i due uomini; ma la virtù concede uno

spazio operativo a tutti. E il contrasto, giunto qui al limite del delitto, si risolve in una generosa emulazione, in un reciproco riconoscimento, in un dialogo che apre l’amicizia tra due individui. Il senso ultimo della novella coincide con la sua struttura di fondo,

cioè con lo schema di un dialogo reale, prima drammatico e poi complice, tra due personaggi. Un dialogo, nella X, 3, ad alto livello, visto che mette in causa valori elevati di comportamento. Ritroviamo

sostanzialmente

tale struttura nella IV, 1: in tut-

t'altro ambiente e con maggior verosimiglianza, e con una soluzione non più lieta ma tragica. La soluzione opposta è dovuta, certo, alla logica della novella, ma è percepibile a una prima lettura, in modo quasi preliminare, nel rapporto del tutto diverso tra tematica e ideologia. Mentre nella X, 3 è suggerita la morale di. un’élite dirigente, che distribuisce il suo e magnifica sé stessa dall’a'to della propria forza economica e sociale (un’etica che si prolunga naturalmente in uno sforzo ulteriore di perfezione personale), nella IV, 1 la morale della protagonista urta contro le re-

gole sociali della propria classe, o meglio contro un’interpretazione radicalmente diversa che di esse le viene opposta. Questa opposizione, complicata da uno scontro di natura affettiva, non è

eliminabile con un reciproco riconoscimento dei due contendenti, pur legati da vincoli di amore e di rispetto. Lo schema si rovescia: il rapporto (il dialogo tra due persone) si trasforma chiaramente in conflitto, la cui tragica soluzioneè resa necessaria dall’antitesi irriducibile rappresentata dai due personaggi. Questa antitesi, d’altra parte, è motivata da una diversa tematica. La novella apre infatti la IV giornata, già preceduta da una polemica introduzione dello scrittore sulle forze insopprimibili della natura e dell’istinto erotico. Ghismonda, nella prima novella, riprende e approfondisce, perché vi è costretta, tale polemica Haveaalia in difesa degli istinti 180

naturali. Ed è importante che la polemica venga ora assunta e condotta da un personaggio femminile; un personaggio il quale vive una condizione di inferiorità preliminare, socialmente, rispetto all’altro sesso, qui rappresentato dal padre. Ne deriva un secondo capovolgimento nella trama, che appare innaturale se raffrontato alla X, 3. Mentre questa si svolge presentando un iroso proposito di vendetta che si trasforma in vergogna e rispetto, va cioè da un assurdo conflitto a una giusta pacificazione, la IV, 1 presenta un movimento

inverso, che va da un affetto naturale a un’assurda e

ingiusta crudeltà. Il che rende subito, è utile sottolinearlo, più torbida la situazione. E lo sottolinea lo stesso Boccaccio, presentando il personaggio responsabile con una-brusca e sintomatica antitesi semantica tra principale e subordinata: « Tancredi, principe di Salerno, fu signore assai umano e di benigno ingegno, se egli nello amoroso sangue nella sua vecchiezza non s’avesse le mani bruttate »; cui segue un secondo periodo (nel quale si profila l’antagonista) costruito con voluta rispondenza sintattica e ritmica sul mo-

dello del primo: «il quale in tutto lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice sarebbe stato se quella avuto non avesse » ($ 3). È il tono grave di chi annuncia e introduce una tragedia: che resta sospesa, imprecisa per la vicenda, ma appare subito mostruosa. Quello che interessa, per ora, è l’inversione di

elementi rispetto alla X, 3: anche nella IV, 1 una vita viene messa in rapporto, attraverso un altro personaggio (la « figliuola »), con un momento eccezionale che sarà fissato dalla novella: ma tale momento, lungi dal conferire un senso più alto a quella vita, la fa precipitare in una catastrofe. Tancredi, presentato « assai umano e

di benigno ingegno », fallisce, diversamente da Natan, la prova di una circostanza eccezionale; non solo si trasforma nel suo contra-' rio, diventando crudele, ma non avrà neppure la lucidità per ca-

pire quanto gli accade, gli strumenti per riconoscersi. Rivelerà sintomaticamente una duplice infermità, morale e intellettuale. Tutto questo, naturalmente, conta nella visuale di Tancredi: il quale appare dunque, ad un'analisi preliminare della struttura della novella, un. personaggio essenziale, determinante per la situazione di conflitto che essa presenta. Si parte infatti da Tancredi e si giunge 181

a Ghismonda (nominata più tardi del resto, e prima solo « figliuola » 0 « donna »): la quale, contrariamente a quanto avviene per

Mitridanes, cerca di sottrarsi al conflitto, è costretta ad opporsi a Tancredi solo dalle circostanze create da una fortuna « invidiosa » ($ 15), da un caso che assume il peso della fatalità. Costretta a reagire, si rivela però moralmente più forte di Tancredi, pur dovendo subire il potere del padre che le uccide l’amante. Il ruolo di Natan è assunto dunque dall’antagonista, che supera la propria inferiorità oggettiva con « vere ragioni » e con la « grandezza dello animo » ($ 31). Tale coerenza morale e intellettuale la porta al suicidio, per fedeltà a una scelta insieme affettiva e di principio. Lungo la vicenda si invertono in questo modo, grazie alla rivelazione sorprendente (trattandosi di un vecchio padre e di una giovane figlia) di due opposte personalità, le funzioni che i personaggi avevano all’inizio della storia, nell’ambito della normalità. Ed è sorpresa irreparabile, che rende insolubile il conflitto. Lo schema è chiaramente quello della tragedia, opposto, pur con alcune analogie di situazione (la sorpresa drammatica) e di stile (l’eloquenza dell’eroina), a quello dell’apologo sostanzialmente sereno che è la X, 3. E della tragedia la novella ha anche la struttura teatrale, in tutti i suoi elementi; la rilevata presenza di un terzo personaggio (Guiscardo), quasi muto ma determinante (per la condizione sociale, e per la sua parte di amante avveduto e appassionato e poi di vittima infelice) nello scohtro tra i due protagonisti; la dimensione corale creata dai famigliari e dalle damigelle; lo svolgersi della vicenda in scene successive (il racconto degli antecedenti e di alcuni passaggi dell’azione, il concentrarsi di questa prima nell’imprevista scena triangolare dei due amanti con Tancredi, poi negli incontri di Tancredi con Guiscardo e di Tancredi con Ghismonda, fino alla catastrofe del suicidio di Ghismonda);

la sostanziale unità scenica assicurata dalla camera di Ghismonda (dove arriva dalla grotta Guiscardo, dove giunge inosservato Tancredi, dove avviene e si discute l’essenziale), attorno alla quale si

avvertono il paesaggio rupestre, le scale segrete e i giardini di un palazzo principesco; il forte rilievo di elementi scenografici e di oggetti simbolici o rituali (dalla grotta al letto, dalle cortine alla 182

coppa col cuore dell’amante) che accentuano la teatralità della novella.? In questa dimensione teatrale, insieme concreta e simbolicamenre espressiva, i personaggi del padre e della figlia si incontrano in vari piani di rapporto,

che interferiscono

con dinamici contrac-

colpi. Un piano affettivo, innanzi tutto; il padre ama la figlia con un eccesso che questa avverte e tenta di accettare e insieme di eludere con la scelta segreta di un amante. Questo è il piano di partenza: un rapporto strano, che poi esplode drammaticamente in un conturbante rapporto di amore-odio. Un secondo piano è offerto dal fatto che i due protagonisti, scoppiato il conflitto, cercano di giustificare la propria posizione, di razionalizzare, per così dire, il loro atteggiamento, in modi opposti e a un diverso livello (qui sarà evidente la superiorità di Ghismonda). Su questo piano, l’amore di Ghismonda è insieme il pretesto fortuito e il fulcro sostanziale di una diversa visione morale, che investe il rapporto tra esigenze individuali e norme della convivenza sociale. Il terzo piano è dato dal modo con cui la componente realistica e affettiva (due individui caratterizzati socialmente, per età, per sesso, psicologicamente, ecc.) e quella ideologica (un dibattito generale su alcuni principi di fondo) ricadono sui personaggi, li illuminano e li distinguono con precise motivazioni: Ghismonda è forte perché si conosce, sa cosa vuole, si situa nell'ambiente e nelle circostanze che

la condizionano; Tancredi è debole anche perché non si conosce, tende a mistificare i propri sentimenti e i propri gesti, confonde amore e gelosia, sollecitudine di padre e inconscia aggressività di uomo. Perciò i due livelli essenziali che si sono riscontrati anche nella X, 3, l’uno verosimile e l’altro esemplare, nella IV, 1 sono 2 Tale elemento è stato colto da G. GETTO, La novella di Ghismonda e la struttura della quarta giornata, in Vita di forme... cit., pp. 95-138, ma come proprio della seconda parte: per cui la « novella appare... bipartita fra narrazione e teatro, storia e dialogo », anche se tale divisione permette al Getto una penetrante rivalutazione della prima parte, « tutta silenzio e furtivi incontri », rispetto alla seconda, « tutta eloquenza e drammatici scontri e gesti solenni e scene corali » (p. 107). Gli elementi teatrali della novella, connessi a tutti gli aspetti tragici presenti nel Decameron (passioni, personaggi, ambienti, concezione della Fortuna, derivazioni senechiane, ecc.) vengono individuati con precisione nell’articolo ricco e ben documentato di V. Russo, I/ senso del tragico... cit., pp. 41, 44-47.

183

in continua, dinamica interazione, scandiscono la novella con un

ritmo di sviluppo cui la conclusione rituale dà solo un sigillo di esemplarità. Ciò è evidente nella stessa impostazione della novella, ravvicinata nello spazio e situata storicamente e fin onomasticamente all’epoca dei Normanni. Più che una distanza mitica, si avverte,

come in altre, uno scrupolo di realismo storico: quasi il Boccaccio volesse collocare in un mondo feudale avanzato una « istoria » emblematica di una crisi, oggi diremmo di rottura. È un contesto, d’altra parte, inventato dal Boccaccio ?: poiché si tratta di una ricostruzione arbitraria operata sulla base di elementi storici verosimili, tali da poter essere accolti senza resistenza dai lettori. Essi setvono dunque, collocati in un certo scenario, a dare rilievo e credibilità,

assunti come sono da un’eroina eccezionale, a una tematica largamente diffusa nel mondo occidentale da versi d’amore e prose di romanzo, ripresa con nuova forza dirompente. Non sembrano dunque giustificate le perplessità manifestate per lungo tempo dai critici, che hanno opposto l’aspetto esemplare, oratorio nel senso crociano del termine, del conflitto, ai connotati psicologici dei personaggi, che ne verrebbero oppressi e sacrificati. Posizione cui si è giustamente reagito con l’accento nuovo posto sulle componenti affettive dello scontro, e col conseguente rilievo dato alla figura di Tancredi, al punto da indicare in lui non solo la fonte esterna della tragedia (Tancredi è infatti colui che ha il potere, sociale e psicologico, di re e di padre, di punire chi contravviene alla norma), ma anche un reale personaggio, che vive un dramma con ‘una notevole complessità e ambiguità di sentimenti. È infatti indubbio che il Boccaccio intende fin dall’inizio presentare, con so3 Se crediamo all'indagine di B. ZumBINI, La novella di Ghismonda, in « Biblioteca degli Studiosi », I, 3-4, 1909; dalla quale risultano sia la coerenza interna degli elementi storici sia il valore fittizio di essi (Tancredi principe di Salerno, il ducato di Capua, ecc.).

4 Le riserve dei moderni sulla novella si susseguono lungo un itinerario che è « concluso, e sistemato in alcune formule essenziali (riluttanza del Boccaccio al tragico, estraneità al macabro, qualità « oratorio-poetica » della novella, ecc.) da L. Russo, Letture critiche... cit., pp. 174-181. Validi suggerimenti per una diversa interpretazione sono reperibili in G. Di Pino, Gbismonda, in La polemica del Boccaccio cit., pp. 221-227; ma una netta e consapevole inversione di tendenza è segnata da G. GETTO, La novella di Ghismonda... cit., pp. 98-119, che ricupera

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spetta discrezione, un affetto smodato, possessivo (dunque ingiusto

anche nell’ottica boccacciana, perché non equilibrato, innaturale), al

limite morboso, del padre per la figlia. Non a caso insiste, con significative ripetizioni e varianti etimologiche, e sottolineandone subito il carattere eccezionale, sul tenero amore del padre: « Costei fu dal padre tanto teneramente amata, quanto alcuna altra figliola da padre fosse giammai; e per questo tenero amore... » ($ 4); e più sotto, quando la figlia ritorna, giovane vedova, nella casa del padre: « E dimorando col tenero padre... » ($ 5). Nello spazio di poche righe, l’avverbio e l’aggettivo stabiliscono un nesso strettissimo tra l'oggetto di un affetto, la figlia che ne è investita (« teneramente amata »), la qualità di esso (« tenero amore ») e il soggetto che si impone con rinnovata presenza (« tenero padre »): ripetizione che già identifica tale affetto con una passione. E infatti Ghismonda, con una compostezza che non nasconde un’aggressiva ironia, ritor-

nerà su tale amore eccessivo quando riceve da un « segretissimo familiare » di Tancredi la coppa col cuore di Guiscardo: « In ogni cosa sempre ed infine a questo stremo della vita mia ho verso me con

acutezza

la figura di Tancredi,

il cui « carattere

consiste, in effetti, nel suo

mancar di carattere » (p. 100), il personaggio di Guiscardo, la vicenda notturna e segreta dell’amore tra Ghismonda e Guiscardo, lo scenario, l’eloquenza appassionata

e ragionata

insieme

di Ghismonda,

come

elementi

essenziali

della

com-

plessa struttura della novella; e da C. MuscetTA, Il Decameron cit., pp. 410-415, con nuove e non meno acute osservazioni sulla coerenza della novella (egli richiama il nome di Shakespeare) e sul tragico del Boccaccio, sulla sostanza ideologica sostanzialmente nuova del discorso di Ghismonda, sul carattere complesso e estremamente ambiguo di Tancredi, anche se, « come il suo personaggio, lo stesso autore non varca la soglia di questo incestuoso sentimento inconscio » (p. 413). Soglia che è invece varcata, dopo A. MORAVIA, L’uomo come fine... cit., che aveva parlato di « sapore incestuoso » per l’amore di Tancredi (p. 156), da G. ALMANSI, Lettura della novella di Tancredi e Ghismonda, in « Il Verri », 27, 1968, pp. 20-35,

il quale, partendo dalla « fascinosa ambiguità del racconto, nel suo essere mon chiaro, non esplicito » (p. 21), tenta un’interpretazione della novella in chiave psicanalitica, sia al livello dei personaggi (per cui il dramma nasce come manifestazione deviata della gelosia di Tancredi, come mascheratura della sua passione repressa, di natura incestuosa), sia al livello dell’acuta simbolicità sessuale dello scenario e degli oggetti: con proposte suggestive e raffinate. Un’indagine di tipo psicanalitico, in sé legittima e per questa novella quasi sollecitata dal testo (al di là, mi pare inutile sottolinearlo, della volontà consapevole del Boccaccio), riuscirebbe, penso, se applicata con metodo rigoroso, a risultati fruttuosi e sorprendenti, per uno scrittore come il Boccaccio, e confermerebbe lo spessore multiplo, la vitalità della sua opera.

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trovato tenerissimo del mio padre l’amore, ma ora più che giammai » ($ 50). L’aggettivo è ripreso, al superlativo, quando ormai la situazione sta precipitando verso la catastrofe; e per la prima volta viene fatto proprio da Ghismonda, rovesciato sul padre con un tono provocatorio. E fin dall’inizio il Boccaccio rivela anche la conseguenza non giusta, pure innaturale, di tale affetto nel comportamento del padre: «e per questo tenero amore, avendo ella di molti anni avanzata l’età del dovere avere avuto marito, non sappiendola da sé partire, non la maritava; poi alla fine ad uno figliolo del duca di Capova datala, poco tempo dimorata con lui, rimase vedova ed al padre tornossi » ($ 4). Dove è notevole la clausola del

periodo: il matrimonio di Ghismonda è accidentale, all’interno della frase, mentre la conclusione sottolinea il punto di riferimento basilare, ritevandone Paspetto possessivo (ritornò al padre, meglio, in dominio del padre). Un padre subito recidivo, che ricalca con monotonia il proprio atteggiamento; e anche ora il Boccaccio non esita a richiamare, come già aveva fatto (« non sappiendola da sé partire »), il movente con una causale parentetica: « E dimorando col tenero padre, sì come gran donna, in molte dilicatezze, e veggendo che il padre, per l’amore che egli le portava, poca cura si dava di più maritarla, né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo, si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante » ($-5)--Nell’insistente progredire delle motivazioni, si fa luce, con uguale e sintomatica discrezione (si tratta di un rapporto coperto, non esplicitato), un secondo elemento: il fatto che l’atteg-

giamento di Tancredi è divenuto, in un certo senso, « coscienza » di Ghismonda nei riguardi del padre. Ella ne accetta con riguardo il comportamento, ma pensa di trovare una soluzione sua, che le

convenga: segreta dunque, anche se si oppone di fatto, in piena coscienza, alla finta distrazione che motiva l’abuso del padre (si pensi alla correlazione antitetica tra il « dovere avere... marito » e il « volere avere... un amante »).

I suggerimenti contenuti nell’esordio vengono confermati, con eccezionale coerenza, in ogni particolare dell’azione. Nel fatto, per esempio, che Tancredi abbia l’abitudine di recarsi, tutto solo, nella camera della figlia per renderle visita: « Era usato Tancredi di ve186

nirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola, e quivi

con lei dimorarsi e ragionare alquanto, e poi partirsi » ($ 16). Nel fatto, ancora, che un giorno, venuto sempre solo e d’improvviso (« senza essere stato da alcuno veduto o sentito ») dalla figlia, non la voglia « torre dal suo diletto » e pur si fermi in quella camera, si copra con la « cortina » e si addormenti col capo appoggiato al letto di Ghismonda ($ 17): dove il desiderio latente sembra manifestarsi in una sorta di processo feticistico (l’oggetto della persona amata che compensa una privazione e sostituisce la persona stessa). Nel fatto, ancora, che Tancredi, « dolente oltre modo » ($ 19) e | poi « dolente a morte » ($ 21) di ciò che ha visto e sentito (sono

sottolineature significanti, visto che Tancredi si comporterà più come un uomo geloso che come un padre preoccupato dell’onore della figlia), fatto prendere Guiscardo la notte e scambiate poche

parole con lui, ritorni il giorno seguente nella camera della figlia, e « serratosi dentro con lei » le parli « piangendo » ($ 25): dove è pure notevole la progressione rispetto al « quasi piangendo » che aveva introdotto il suo discorso a Guiscardo ($ 22), conclusa in climax dall’espressione che chiude il discorso a Ghismonda: « bassò il viso, piangendo sì forte come un fanciul ben battuto » ($ 29). Nel fatto, infine, che benché Ghismonda risponda al suo « grandissimo affanno d’animo » ($ 27) con un discorso duro e intransi-

gente, che st’ultimo e titosi e da incrudelire,

contiene un impegno minaccioso, egli sottovaluti querinunzi subito a punire la figlia: « per che, da lei parsé rimosso di volere in alcuna cosa nella persona di lei pensò con gli altrui danni raffreddare il suo fervente

amore... » ($ 46) —

dove ritorna il verbo incrudelire, prima pre:

sente nel discorso del padre come scelta imposta dallo « sdegno » (S$ 29), poi rimartellato e rinviato con fermezza dalla figlia al padre ($ 44-45), e qui applicato alla « persona » della figlia, alla sostanza

fisica di lei, con un simbolo di violazione repressa che la frase che segue illumina ambiguamente —; e riservi invece la sua vendetta a Guiscardo, limitandosi a provocare (inconsciamente) la figlia col

cuore di lui. È un comportamento di uomo geloso (debole e dunque vendicativo, alienato alla persona amata), più ‘che spietata repressione di padre (simbolo dell'autorità, e garante dell’onore della fa187

miglia). Debolezza che è il segno costante di un profondo disagio interno: anche alla fine, e la cosa è esplicitamente schernita da Ghismonda, egli ricomincia « dolorosamente a piagnere » ($ 60), non trovando neppure la forza di rispondere alla richiesta della figlia né di chiederle perdono (duplice inibizione ugualmente sintomatica): « l'angoscia del pianto non lasciò rispondere al prenze » ($ 61). È vero che alla fine, « dopo molto pianto, e tardi pentuto della sua x

crudeltà » ($ 62), farà onorevolmente, e ufficialmente, seppellire i

due amanti nello stesso sepolcro: obbedisce perciò all’ultima preghiera di Ghismonda, e insieme smentisce pubblicamente le sue preoccupazioni per l’onestà della figlia. L’onore sembra dunque ridursi a ragione del tutto pretestuosa: il che conferma il carattere istintivo, solo passionale,

del comportamento

di Tancredi.

Per-

ciò le indicazioni che il Boccaccio accumula nel corso della novella sono, per quanto concerne Tancredi, di una eccezionale coerenza, e concorrono in una sola visuale: affettivamente e psicologicamente, il padre è succube della figlia, data la forza dell’amore che ha per lei; d’altra parte, ignorandone la natura, egli cerca di rovesciare la sua posizione di inferiorità affettiva (il padre che ama la figlia) con gli strumenti di potere che gli vengono dalla sua qualità di principe (garante della virtù della figlia).

Tutto ciò è importante non solo per accertare, come altri ha fatto felicemente, la coerenza psicologica dei personaggi, ma per le conseguenze che ha nella struttura esemplare della novella, introducendovi conturbanti implicazioni. I due contendenti, Tancredi e Ghismonda (perché tali sono al di là di Guiscardo, anche se non va sottovalutata la presenza di quest’ultimo), hanno un duplice statuto. Come donna e figlia del principe, Ghismonda è in posizione di inferiorità, e sa consapevolmente pagare questa sua debolezza oggettiva; ma come personaggio di amante-amata, di donna sana e consapevole, sensuale e intelligente insieme, il cui agire non si discosta dalle esigenze naturali e dalle regole sociali, Ghismonda è in posizione di superiorità, e può alla fine difendersi e contrattaccare, essere anche crudele col padre senza che questi possa reagire; proprio perché il padre è inibito, oggettivamente frustrato, mentre Ghismonda sa amare e realizzare liberamente il pro188

‘prio amore. Si crea dunque una strana ambivalenza: Tancredi, potente e inesorabile con-Guiscardo, è anche succube; Ghismonda, la vittima, è anche dominatrice. Il risultato è volutamente para-

dossale. Al livello del giudizio morale (quello che concerne la coerenza o l’incoerenza del comportamento, la forza o la debolezza del carattere), si tende a uno scambio di parti: il vero simbolo della

virilità (nel senso tradizionale del termine, certo, qui usato per dar rilievo alla novità della novella) è Ghismonda, mentre il simbolo

della fragilità femminile è rappresentato da Tancredi. Paradosso rilevato pure dal Boccaccio con la solita insistente discrezione, se è lecito l’ossimoro, che caratterizza il disegno di tutta la novella (dove lo scrittore gioca sempre al limite tra l’esplicito e l’implicito), ma con grande sottigliezza: fin da quando presenta Ghismonda, anzi la figlia di Tancredi, aggiungendo al ritratto una postilla dubitativa: « Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcun’altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda, e savia più che a donna per avventura non si richiedea » ($ 5). Ghismonda

ha la vitalità

naturale, gli attributi della sana e giovane donna boccacciana, che ritroviamo simili in altre novelle; ma è anche più savia di quanto venga richiesto a una donna, in altre parole più di quanto le conceda una struttura sociale. Vi è, implicita, una carica polemica in favore delle donne che verrà assunta dal comportamento e dai discorsi di Ghismonda: della quale vengono sempre sottolineate l’autonomia e la decisione che sono prerogativa tradizionale dell’uomo. Quando si accorge che il padre non pensa a rimaritarla, la donna provvede da sé a un giusto appagamento dei propri istinti naturali; non ritenendo onesto sollecitare il padre (glielo rinfaccerà più tardi, scoppiato il conflitto: per ora, sotto questa onestà si potrebbe già cogliere, latente, un bisogno d’indipendenza), cerca « occultamente un valoroso amante » ($ 5) per colmare un vuoto sessuale e affettivo (l’espressione vuole sottolineare la lucidità programmatica di

Ghismonda). « Occultamente », perché la segretezza non è solo un

elemento tradizionale del codice amoroso cortese (che Ghismonda, intellettuale in questo come Francesca da Rimini, ben conosce), ma

risponde alla situazione concreta in cui si trova la giovane, a una scelta consapevole che essa fa nei riguardi del padre come di sé 189

stessa. Non vanno cioè turbate le regole della convivenza sociale con un problema di ordine individuale: il problema dell’amore concerne, a questo punto, solo Ghismonda. Nella dimensione astratta del codice cortese è messa in atto {con una sottile duplicità che è di tutta la novella) un’iniziativa che si sviluppa con borghese accortezza. La figlia del principe organizza, per le proprie esigenze naturali, un’avventura personale, di vedova borghese si direbbe, che è sollecitata dapprima con il ricorso a « una nuova malizia » ($ 7) e sbocca in un « discreto ordine » dato « alli loro amori »

($ 14). Ghismonda agisce non in accordo a regole astratte ma contro le convenzioni sociali del proprio ambiente, se badiamo ai segni

del racconto: si passa, implicitamente, dalla segretezza cortese di una cultura feudale all'autonomia volontaria della gentildonna-borghese del Decameron. Tanto è vero che il Boccaccio insiste sull’aspetto volitivo, di lucida consapevolezza e di avvedutezza nella passione, dell’atteggiamento di Ghismonda: « si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante » ($ 5):

l'intelletto precede e guida, come in Landolfo Rufolo, la volontà. Perciò osserva le « maniere e i costumi » degli uomini, « gentili e altri », della corte del padre, e sceglie Guiscardo, benché sia di umi-

le condizione, per ilsuo valore ($ 6), e « spesso vedendolo » si innamora di lui (« fieramente si accese ») e raggiunge poi il suo scopo con « grandissimo piacere » di entrambi ($ 13), poiché l’amore comporta sempre l’appagamento naturale dei sensi, esclude sublimazioni o mistificazioni. È insomma, e non è poco, l’avveduta ricerca di un partner all’altezza della situazione. Proprio in tale compenetrarsi di valori culturali e istinti naturali sono reperibili le premesse del successivo eroismo femminile del personaggio: l’avventura erotica diventa il diagramma di un metodo di vita. Per questo Ghismonda, pur soffrendo terribilmente quando il padre le rivela di aver tutto scoperto e di aver preso Guiscardo, sa vincere la propria ambascia, contrapporre argomento ad argomento, accettando virilmente, come Natan, il proprio destino: Ghismonda, udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amor esser discoperto, ma ancora esser preso Guiscardo,

190

dolore inestimabile

sentì,

e a mostrarlo con romore e con lagrime,

come il più le femine fanno, fu assai volte vicina; ma pur, questa viltà vincendo il suo animo altiero, il viso suo con maravigliosa forza fermò, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sé porgere, di più non stare in vita dispose, avvisando già esser morto il suo Guiscardo. Per che, non come dolente femina o ripresa del suo fallo, ma come noncurante e valorosa, con asciutto viso ed aperto e da niuna parte turbato, così al padre disse... ($ 30-31).

Si noti che viene sottolineata a due riprese, per negazione rafforzata dalla gradatio, l’eccezionalità del comportamento di Ghismonda rispetto a quello usuale delle donne: qui Ghismonda ridiviene principessa, riscopre la sua alterezza feudale, ma con gesti e modi che ci richiamano l’eroismo umanistico di Natan, innanzi tutto nel nesso strettissimo tra pratica e principi, tra agire e co-

scienza dell’agire. E come Natan, anche Ghismonda diviene esemplare: sul terreno che per la donna è decisivo, quello dell’amoreeros, di un naturale piacere che va controllato con l’intelligenza. È anche questa una virtù di cui tutte le donne, in vario ambito e a diversi livelli di nobiltà e di‘consapevolezza, possono partecipare. Ghismonda rappresenta solo, al massimo grado, quel nesso tra passione e ragione, quel controllo di sé, quella lucida sensualità che costituiscono la novità, l’aspetto originale della donna boccacciana (non sempre facilmente afferrabili da un lettore post-romantico). È un atteggiamento che Ghismonda difende con forza di fronte a Tancredi:

« Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno,

ma con deliberato consiglio elessi innanzi ad ogni altro, e con avveduto pensiero a me lo ’ntrodussi, e con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio desio » ($ 37). La progressione ternaria, a polisindeto, delle frasi che definiscono il compor-'

tamento di Ghismonda possono richiamare la disposizione delle terzine, scandite da una forte anafora, con cui Francesca da Rimini

dichiara la propria storia: in realtà, a parte le differenze di situazione, qui nulla è rinviato ad Amore come a forza trascendente che soggioga l'individuo e ne determina il destino. Ghismonda rovescia il problema: l’amore è ricondotto, con accentuata e voluta insistenza (« diliberato »; « avveduto », « savia ») a una scelta perso-

191

nale, a una consapevole elezione. Il cosiddetto intellettualismo di

Ghismonda è inscindibile, nella novella, dalla sua autonomia di persona: il suo comportamento virile è anche una netta indicazione emblematica, di una lotta che la donna conduce per la propria emancipazione. Per questo ribatte polemicamente, quasi con crudeltà, le ragioni del padre, capovolgendo l’impostazione del discorso, rilevando gli errori di Tancredi rispetto ai diritti della carne e della giovinezza, e rinviandolo con aggressiva pedagogia alla sua condizione di vecchio: Esser ti dovea, Tancredi, manifesto,

essendo

tu di carne, aver ge-

nerata figliola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordarti dovevi e dei, quantunque tu ora sia vecchio, chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovinezza; e come tu, uomo, in parte ne’ tuoi migliori anni nell’armi esercitato ti sii, non dovevi di meno conoscere quello che gli ozi e le dilicatezze possano ne’ i vecchi, non che ne’ giovani ($ 33).

Il tema della vecchiaia prepara quello della debolezza femminile di Tancredi, esplicito alla fine del discorso di Ghismonda e già sottolineato dal Boccaccio: condizione che Ghismonda supera con la coscienza della propria « feminile fragilità » ($ 32): « Or via, va con le femine a spander le lagrime tue, ed incrudelendo, con un medesimo colpo altrui e me, se così ti par che meritato abbiamo, uccidi » ($ 45). Dove è pure notevole l’esattezza del rapporto stabilito tra lagrime e incrudelire, del nesso tra la fragitità profonda di Tancredi e la sua eventuale crudeltà: manifestazione di debolezza, ap-. punto, e non di forza e di autorità. L’ambivalenza di autorità-fragilità propria di Tancredi. è ora denunciata da Ghismonda; e si fa esplicito, anche lessicalmente, il rovesciamento di parti tra i due protagonisti. Rovesciamento ormai chiaro nella coscienza di Ghismonda, che anche nel suo letto di morente rinfaccia al padre una grave incoerenza: « Tancredi, serbati coteste lagrime a meno disiderata fortuna che questa, né a me le dare, che non le disidero. Chi vide mai alcuno, altro che te, piagnere di quello che egli ha voluto? » ($ 60). A partire da una sfuggente situazione affettiva, la struttura della novella tende costantemente, nel suo progredire, 92

a operare un capovolgimento di statuto e di ruoli tra i due antago-

nisti.

È

Il che non esclude, è chiaro, che questa duplice dimensione narrativa non apra poi un dibattito ideologico di fondo, evidente sia

nel discorso ambiguo e mistificato di Tancredi sia nell'ampia e ferma risposta di Ghismonda. E il fatto che gli argomenti di Tancredi siano pretestuosi non significa che essi non corrispondano perfettamente, pur nella loro qualità reattiva, ai pregiudizi effettivi di una classe. Egli identifica la virtù con l’onestà tradizionale, che esclude per la donna il rapporto extraconiugale; e biasima poi la « vilissima condizione » del giovane amante, che non si conviene, pur ammessa la libertà del rapporto, alla « nobiltà » della figlia

($ 26-27). In questo senso Tancredi, a differenza di Ghismonda, è

anche incolto, ignora le regole cortesi del proprio ambiente. Mentre la risposta di Ghismonda, costruita secondo logica e retorica su « vere ragioni » ($ 32), pur rifacendosi nei moduli esteriori alle teo-

rie sull’amore e sulla nobiltà d’animo diffuse nel mondo romanzo dal trattato di Andrea Capellano e trasmesse ai fedeli d’amore dalla li-

rica provenzale e stilnv istica, nella sua sostanza è polemicamente nuova, perché allarga a tutti, estende a un’etica concreta e quotidiana una teoria propria di aristocrazie intellettuali. Quello che

conta innanzi tutto nel suo discorso è l’accento messo sulla sostanza carnale dell’uomo: la legittimazione del « concupiscibile disidero » ($ 34), sul quale, quasi cavalcantianamente, insiste Ghi-

smonda, finisce col postulare una sostanziale democrazia della natura e del sesso. Non vengono certo negate le differenze sociali, che sono però rinviate ai casi della fortuna, né quelle economiche, che sono attribuite alla scarsa riconoscenza dei signori; viene riaffermata la nobiltà d’animo, ed abbozzata una teoria storica sull’origine della nobiltà: tutto questo non sembra nuovo, può essere verificato da testi ormai canonici. Resta però essenziale, come punto di partenza,

un’universale uguaglianza delle forze naturali: « Ma lasciamo or questo, e riguarda alquanto a’ principi delle cose: tu vedrai noi

d’una massa di carne tutti la carne avere, e da uno medesimo Crea-

tore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenze, con iguali virtù create » ($ 39). Questa sostanziale uguaglianza di base, que193

sta comune origine di « carne » legittimano la libertà amorosa, che il « valore » e la « virtù » degli amanti applicano poi socialmente con l’elaborazione di un codice culturale. Tutti gli elementi vengono coordinati e riferiti con fermezza a un’etica quotidiana. Come Francesca da Rimini, anche Ghismonda è un’intellettuale,

che conosce i propri testi e sa teorizzare, razionalizzare, quello che lei stessa chiama il proprio « natural peccato » ($ 35), seguito è vero da una dubitativa (« se peccato è... »): peccato non più puni-

bile, non che da Dio, dagli uomini, se realizzato senza « vergogna » di altri. E mentre Francesca insiste sull’ineluttabilità dell’amore (« Amor, ch’a nullo amato amar perdona »), sulla propria fragilità di donna rispetto alla virtù dell'amante (« mi prese del costui piacer sì forte... »), sul carattere di destino del proprio peccato e lo rinvia a un principio trascendente (Amore), Ghismonda, invece, rovescia gli argomenti, legittima la propria scelta consapevole, ed estende poi il proprio caso a una legge più generale, a un impulso all'amore che viene a tutti dalla Natura. Ghismonda è una « loica »,

inflessibile nei principi e rigorosa nell’analisi filosofica: ma assume come persona la responsabilità di tale filosofia. Mentre Francesca tende a giustificare il proprio peccato (e a mistificare la sua coscienza di peccatrice) ricorrendo ai testi di un dibattito ideale utilizzato in modo aristocratico, Ghismonda assume e difende il suo « natu-

ral peccato », opponendo alla falsa nobiltà del padre la dignità di una morale alla quale si attiene con fermezza. Poi, — ed è un « poi » fissato da Ghismonda, che « prima » deve difendere la sua fama con « vere ragioni » ($ 32) — potrà « seguire la grandezza dello animo so », esprimere la sua passione per il « dolcissimo albergo di tutti i suoi piaceri » ($ 51), per il « molto amato cuore » ($ 57), e attuare il suo proposito vivendo con tragica ritualità il proprio suicidio. Quel « poi » e quel suicidio isolano la grandezza di Ghismonda: ma il « prima » e le sue ragioni, rese più efficaci da quella grandezza, rimangono esemplari. Perciò molte figure femminili, nel Decazzeron, anche se socialmente meno elevate e intellettualmente meno consapevoli,le seguiranno; magari spiegandole con la violenta e ironica eloquenza con cui la giovane Bartolomea respinge il marito in favore di un gagliardo corsaro (II, 10). L’ora194

zione di Bartolomea è il risvolto serenamente comico dell’eloquenza nobilmente tragica di Ghismonda: ma la sostanza non muta. La magnanima

cortesia di Natan tende a una serena ascesi; il

« grandissimo piacere » di Ghismonda sbocca a una tragica conclusione. I due opposti risultati sono già ammonitori, nella sfera del sublime e del tragico, di un diverso grado e difficoltà di conquista. L’uomo nobile e ricco sfiora una tragedia alla quale la donna, eroina dell’amore, deve soccombere. Si intravede dunque il peso dei condizionamenti sociali, di strutture variamente necessitanti. Ma l’uno

e l’altra mostrano, nel momento rivelatore, « forte » e « grande animo » e « fermo viso »: sono qualità interne ed esterne che li accomunano, e costituiscono la base dell’affermazione del singolo. Sono qualità che si spiegano, tra questi due estremi esemplari, in un campo vastissimo d’azione, per gli uomini. È si rivelano nel rapporto tra individui: che è sempre, in quanto rapporto, anche dibattito, complice o teso, di due contendenti, volto a chiarire prin-

cìpi o valori più generali.

195

Il contrasto

La novella, che possiamo definire contrasto, tende ormai a pre-

cisarsi come una struttura narrativa semplificata, nella quale l’incontro di due individui è anche paragone di valori. La soluzione può essere, come nella X, 3, una superiore complicità, o invece, come nella IV, 1, un conflitto irriducibile e tragico. Quest'ultimo è un caso raro, di estrema tensione, come mostrano le numerose

novelle che assumono in modo evidente o indiretto, specie nelle giornate I, VI, X, tale schema narrativo. Ma i due casi-limite esaminati nella X, 3 e nella IV, 1 risultano utili a mettere in evidenza un modo narrativo, la novella-contrasto, che è importante e centrale nel Decameron. Non sempre si tratterà di uno scontro supremo di

principi fondamentali. L'intento del Boccaccio mira piuttosto a farci avvertiti,

attraverso

le novelle, che ogni incontro,

anche quello

meno decisivo, anche casuale, tra due uomini, è sempre importante come verifica concreta delle capacità dell’individuo, delle sue effettive virtù nei rapporti con gli altri. Il contrasto, mettendo a fronte gli uomini, ne misura la statura morale e intellettuale. La lotta tra gli uomini succede a quella degli uomini col mondo esterno; e ne nasce una nuova espressione narrativa, il contrasto, il nuovo débat boccacciano che si sostituisce a quello spesso astratto e allegorico della letteratura religiosa, o a quello più semplice della poesia popolareggiante, trasferendone sul piano dell'avventura individuale l’intima drammaticità. Il contrasto derivava da una visione dualistica, talvolta manichea, del mondo, opponendo bene e male, valori e disvalori: nel Boccaccio lo scontro tra simboli e principi diviene incontro concreto tra individui empirici, e in modo ben più elaborato che nei preesistenti schemi novellistici. La misura di novella che abbiamo colto lungo il racconto si fa autonoma: riduce 197

il segno del mondo esterno a una premessa indicativa e a un rapido epilogo, e concentra la narrazione attorno a due personaggi, investiti con forza in un momento rivelatore, si è detto, della loro

esistenza. Questo modo più conchiuso fissa dunque l’analisi su due personalità,

e non sull’accumularsi degli eventi; sul carattere dei

rapporti intersoggettivi, più che dei rapporti tra uomini e accadimenti esterni. Ne possiamo perciò parlare come di un modo narrativo perché condensa, in varie prospettive, tutti gli elementi della novella attorno a due contendenti (anche amici, perché l’amicizia

può essere emulazione, e dunque ricerca di valori). Pur nella libertà degli schemi è sempre reperibile, su questo piano, una direzione costante delle parti in una visuale precisa. Per avvertire con un raffronto la specificità di tale modo narrativo, si consideri la diversa funzione che gli elementi paesistici e romanzeschi hanno nella V, 3 e nella X, 2. Nella V, 3 gli aspetti avventurosi del paesaggio sono tutti.collocati sullo stesso piano, perché hanno tutti un’importanza essenziale: ciascuno di essi costituisce infatti una sorpresa, e ciascuno ha una funzione nell’insieme. Appunto nel loro accumularsi continuo si crea la dimensione di un ambiente imprevisto e pauroso che conferisce un senso alla novella. Nella X, 2, invece, gli elementi romanzeschi del paesaggio vengono selezionati in funzione dell’accortezza di Ghino di Tacco, che è sempre presente, dietro ai suoi uomini, nel paesaggio in cui opera: Ghino di Tacco, sentendo

la sua venuta,

tese le reti, e, senza per-

derne un sol ragazzetto, l'abate con tutta la sua famiglia e le sue cose in uno stretto luogo racchiuse; e questo fatto, un de’ suoi, il

più saccente, bene accompagnato mandò allo abate, al quale da parte di lui assai amorevolmente gli disse che gli dovesse piacere d’andare a smontare con esso Ghino al castello ($ 7).

Si intuiscono gli elementi del paesaggio e si profila alla fine il castello di Ghino: ma lo scenario è regolato dal regista, per i luoghi come per i personaggi. Tant'è vero che i verbi, tutti attivi, ci rinviano

a un

unico

soggetto:

« sentendo », « tese », « senza

perderne », « racchiuse », « mandò »; fino a che il periodo ritorna, rilevandolo in posizione forte, al motore di tutta l’azione (« con 198

esso Ghino al castello »). Gli elementi del paesaggio avventuroso

sono subito subordinati all'intelligenza (« tese le reti... ») e all’ironia di Ghino (« da parte di lui amorevolmente gli disse... »), a un

agguato che suggerisce una bizzarra figura di brigante-gentiluomo (con una nota di novità, dunque, rispetto alla « fierezza » della formula di presentazione, che richiama le « braccia/fiere di Ghin di

Tacco » del canto VI del Purgatorio). Il paesaggio, che inquadra suggestivamente la solitaria ribellione di Ghino, è al servizio di un ritratto ancora indiretto, che si sta precisando nell’azione: come avviene per la risposta data all’abate che « tutto furioso » tenta di ribellarsi: Al quale l'ambasciatore siete in parte venuto

umilmente

parlando disse:

« Messer, voi

dove, dalla forza di Dio in fuori, di niente

ci si teme per noi, e dove le scomunicazioni e gl’interdetti sono scomunicati tutti; e per ciò piacciavi per lo migliore di compiacere a Ghino di questo ». Era già, mentre queste parole erano, tutto il luogo di masnadieri circundato... ($ 9-10).

Ghino non solo sa tendere le reti, sfruttare il terreno, ma anche (perciò si parlava di regia) educare i suoi uomini, farli recitare come desidera; per questo sceglie « il più saccente », capace di opporre un discorso benevolmente ironico e persuasivamente

minaccioso alla furia dell’abate. L’ironia di gente sicura basta a rintuzzare un orgoglio impotente: la parola è accompagnata dal lento popolarsi del paesaggio, dall’apparizione di quei « masnadieri » che confermano silenziosi la validità di quegli educati sarcasmi. Il paesaggio romanzesco interessa qui al Boccaccio come sottile premessa al débat che si prepara tra Ghino e l’abate. Un confronto che nasce evidentemente

in un

clima di tensione iniziale, sotto-

lineata dalle reazioni dell’antagonista, prima « tutto furioso » ($ 8) e poi « disdegnoso forte » ($ 10). Si noti, anzi, che quando l’abate parte per i bagni di Siena, lo scrittore osserva subito: « pet la qual cosa, concedutogliele il Papa, senza curar della fama di Ghino, con gran pompa d’arnesi e di some e di cavalli e di famiglia entrò in cammino » ($ 6). Lo schema enumerativo finale dà compiaciuto rilievo alla magnificenza dell’abate, alla pompa del seguito, bot199

tino tentatore per un bandito; ma l’inciso « senza curar della fama di Ghino » è già una sfida inconsapevole dell’abate, quasi un latente

desiderio di misurarsi con Ghino (simbolo degli ostacoli di cui egli non vuol tener conto). Anche qui si costruisce indirettamente un ritratto, che viene confermato dalla reazione dell’abate:

« Il che

l’abate udendo, tutto furioso rispose che egli non ne voleva far niente, sì come quegli che con Ghino niente aveva a fare; ma egli andrebbe avanti, e vorrebbe veder chi l’andar gli vietasse » ($ 8).

I niente dell'abate, cui replicherà sottilmente l’ambasciatore (« di niente ci si teme per noi »), si riferiscono ora a un netto anche se

velleitario rifiuto di Ghino, da parte dell’abate. E l’incontro nasce da queste linee di convergenza della narrazione, stabilite sulla divergenza della situazione e dei caratteri. Il comportamento dell’abate sembrerebbe confermare l’aggressivo cappello di Elissa sui chierici, « tutti avarissimi » e inoltre, contrariamente a quanto predicano, focosi e vendicativi. In realtà, nel corso della novella, l’abate smentirà tale giudizio: ma per questo.è necessario che egli trovi sulla sua via un ostacolo eccezionale, insuperabile anche per lui, che pur è abituato solo al comando. Lo scatto della novella è in questa eccezionalità, che mette di colpo l’abate di fronte a un antagonista che egli non può distruggere. Egli deve cioè entrare in una zona particolare del mondo dove, se si teme Dio, non si teme di certo l’istituzione della Chiesa, perché possa riconoscere il meglio di sé stesso; perché, al di là del

temperamento collerico e dell’orgoglio che gli viene dal suo statuto sociale (« un de’ più ricchi prelati del mondo »), possa svelare una personalità più recondita, capace di commercio civile e liberale con gli altri, e quindi di una diversa coscienza delle proprie qualità. L’urto con un individuo singolare, in un momento critico della sua vita, farà scattare nell’abate un meccanismo di riconoscimento dell’altro e di sé stesso: è infatti nella misura in cui l’abate finisce coll’apprezzare la liberalità di Ghino che egli può riconoscere la propria generosità, superare i riflessi e le abitudini normali. È un: gioco serrato, fondato su una finezza di incisi che si riscontrano in tutto il tessuto narrativo della X, 2. Ghino e l’abate sono comple200

mentari:

in questa complementarietà, stabilita in una situazione

straordinaria, risiede la struttura della novella.

È questo un tipo di narrazione che postula, alla fine, una lettura a ritroso, capace di verificare l’esattezza di ogni particolare, la congruenza degli elementi rispetto a un risultato. In questo caso, la sapiente progressione con cui si arriva, dallo scontro iniziale tra due personalità forti e sdegnose, al consenso e alla riconciliazione di due spiriti savi e magnanimi. Ghino ‘infatti, giustificata la propria posizione, restituisce all’abate la libertà di disporre delle sue cose, con una significativa premessa: « ma per ciò che voi mi parete valente signore... » ($ 22). È un movimento cui corrisponde

una metamorfosi non gratuita dell’abate, la cui intelligenza è più forte del carattere sdegnoso. L’abate è infatti capace di ammirare un altro: di capire e anzi di stupirsi di fronte a un tipo di personaggio del quale, nel suo orgoglio, non aveva sospettato l’esistenza. Lo stupore, rispetto a qualcosa che non rientra nei consueti schemi mentali, è la premessa di una comprensione maggiore: se ci si può stupire, cogliere cioè una novità, si può allargare un campo di conoscenza, e capire meglio. Perciò il Boccaccio punta sulla sorpresa dell’abate, e lo stile subito si innalza e si amplia: Maravigliossi l'abate che in un rubator di strada fosser parole sì libere, e piacendogli molto, subitamente la sua ira e lo sdegno ca‘ duti, anzi in benivolenzia mutatisi, col cuore amico di Ghino dive-

nuto, il corse ad abbracciar, dicendo: «Io giuro a Dio che, per dover guadagnare l’amistà d’uno uomo fatto come omai io giudico che tu sii, io sofferrei di ricevere troppo maggiore ingiuria che quella che infino a qui paruta m’è che tu m’abbi fatta. Maledetta sia la fortuna, la quale a sì dannevole mestier ti costrigne! » ($ 24-25).

Ecco il punto culminante, cui tende anche stilisticamente il meccanismo della novella: costruita sul moto che si svolge dalla scena iniziale a questa conclusione, dall’agguato che oppone due uomini a questa « amistà », al reciproco riconoscimento di due individui generosi. Ed è, per il Boccaccio, un itinerario altrettanto meraviglioso che le avventure più straordinarie per mari e paesi lontani; solo che qui l'avventura si svolge nello spazio del paesaggio umano, 201

del quale: pure vanno riconosciuti tanto gli imprevisti quanto la

logica. Lo scatto (« subitamente ») che segna la trasformazione dell’abate presuppone in realtà la prova, non solo fisica, di « alquanti dì » cui Ghino sottopone il suo ospite.' ; Nello slancio di « amistà » dell’abate si esaurisce il nucleo narrativo della novella, che va dall’agguato di Ghino a questa imprevista conclusione. La vicenda ha però un epilogo, significativo sul piano ideologico. L’abate ottiene infatti da Bonifacio VIII, riconosciuto dal Boccaccio « come colui che di grande animo fu e vago de’ va-

lenti uomini » ($ 30) la grazia per Ghino e una « gran prioria »

dell'ordine dello Spedale, di cui Ghino diventa cavaliere ($ 31). Grazie ad un incontro eccezionale, Ghino viene così reintegrato nella propria classe, riacquista le qualità di « gentile uomo » che aveva ricordato con fierezza all’abate ($ 21). Il rapporto tra « valenti uomini » può dunque sanare, talvolta, le malefatte della Fortuna contro la quale aveva imprecato l’abate. In questo senso, l'epilogo è importante; non è solo lo happy end necessario alla conclusione. All’inizio, infatti, il Boccaccio punta su un dislivello sociale, anzi su una netta rottura dell’ordine esistente: da una parte un bandito, un uomo ai margini della società, dall’altra un potente abate, un uomo integrato al massimo nella società. Alla fine, divenuti amici Ghino e l’abate, il Boccaccio ricostituisce un ordine e lo

legittima: l’abate e Ghino, divenuto priore dell’ordine degli Spedalieri grazie al Papa, possono restare amici anche nell’ordine sociale esistente. Il risultato è però ottenuto mediante l’avventura di un incontro individuale: il quale, in un momento d’eccezione, può andar oltre le regole di un ordine sociale. Poi il Boccaccio può dare un senso a tale incontro in un ambito più vasto: può cioè restituirlo, grazie all’amicizia, a un ordine sociale consueto. Garante di questa soluzione è l’autorità di « Bonifazio papa ottavo » ($ 6),

qui esaltato per la grandezza dell’animo e la stima che ha « de’ valenti uomini » ($ 30). Non a caso scompare ogni elemento di lotta politica e religiosa: al Boccaccio interessa il rapporto che i potenti ! Acute osservazioni, su questo punto, sono disseminate nell’analisi di L. Russo, Letture critiche... cit., pp. 321-332.

202

stabiliscono con gli individui valorosi, i quali meritano il riconosci: mento e la ricompensa det Principi, laici o religiosi che siano. La novella è in questo senso una testimonianza importante, quasi un

diagramma dei limiti dell’umanesimo, pur molto comprensivo al livello quotidiano, del Boccaccio. Un umanesimo fondato sul rapporto tra uomini valorosi e intelligenti, tra esseri di qualità che possono secondo i casi riparare o compensare i danni della fortuna, ma non possono uscire dall’ambito di quel rapporto. Nella X, 2, per esempio, la critica di un ordine costituito, contenuta in potenza al-

l’inizio della novella, si risolve nel commosso elogio di uh contatto tra individui i quali riescono, grazie alle loro personali qualità, a superare gli ostacoli rappresentati dal loro statuto sociale. Essendo qui uguale in partenza, anche lo statuto sociale verrà ripristinato.

Ma lo schema del contrasto non presuppone, di per sé, tale soluzione: esso è caro al Boccaccio perché risolve, nell’ambito dei rapporti individuali, una contraddizione sociale che egli rinvia alla Fortuna, la quale non sempre colloca gli uomini al posto che meritano. Il topos dell’amicizia, inserito nello schema del contrasto, è la sola

soluzione permessa al Boccaccio: soluzione empirica, aperta, e perciò fertile di imprevisti, e dunque di invenzioni narrative. La X, 2 è tra gli esempi più alti della complessità costruttiva cui il Boccaccio può giungere in questa direzione. Certo, lo schema del contrasto

non

è nuovo:

esso è chiaramente

riscontrabile,

al

suo stadio più semplice ed eloquente, in molti degli apologhi del Novellino. Nel Boccaccio esso diviene però straordinariamente va-

rio e complesso: e non solo perché l'efficacia di un incontro o di uno scontro non si esaurisce. per lui nel valore apodittico dell’aneddoto o del motto, e presuppone motivazioni che spostano l’interesse sui singoli portatori, per così dire, di una sentenza: ma anche per ragioni storiche più generali. Ai tempi del Boccaccio è in piena espansione, è anzi consolidata, una civiltà cittadina che favorisce i contatti liberi, quotidiani e insieme imprevisti, tra gli uomini. È un paesaggio sociale che dà un senso nuovo ai rapporti intersoggettivi: e insieme li moltiplica, li presenta sotto numerose angolazioni, dà nuovo risalto, al di là delle strutture sociali e degli schemi culturali, alla singolarità degli individui empirici. È questo 203

un impulso che il Boccaccio trasporta altrove, in tutti i possibili scenari dell'incontro umano. L’individuo singolo sale ora in primo piano, e accentra attorno a sé la pregnanza tematica della novella, perché è la prova vivente di un valore più generale e insieme della straordinaria varietà con cui quel valore si manifesta. È la sintesi, sempre diversa, tra valore e individuo, assicurata dal personaggio: ed è invenzione tipicamente boccacciana. Perciò il senso generale del libro è dato dalla rete di rapporti che istituiscono i personaggi, più ‘che dalle scansioni tematiche: è la mobilità del paesaggio umano a illuminare l’insistente ricorrere di certi valori.

Si spiega così la predilezione del Boccaccio per una forma in apparenza semplice e schematica quale è il contrasto. Quasi tutte le novelle della I giornata sono infatti contrasti che si risolvono o si esauriscono nel dialogo, in ogni caso in un’azione che è discorso diretto o indiretto tra due individui. Perché il contrasto può attuarsi in vari modi: nell’azione che presuppone un’indagine psicologica riflessa, nel discorso, nel dialogo che già tende a richiamare attorno a sé altri personaggi e ad ampliarsi verso forme teatrali più complesse; resta però fondamentale, per la struttura della novella, il fatto che la narrazione tenda a concentrarsi attorno a due personaggi essenziali e ne differenzi le qualità. Attraverso due personaggi, l’attenzione del Boccaccio si appunta sull’individuo, che assume, con maggiore o minore consapevolezza, un tema, un’esperienza, anche un’ideologia. Per tale ragione il discorso sull’ideologia del Boccaccio, iniziato con la X, 2, va approfondito. Il fatto che sia l'individuo ad assumere tale responsabilità è infatti un punto indicativo delle contraddizioni storiche del libro e insieme degli impulsi vitali che esprime. Da una parte la preminenza del rapporto tra individui limita necessariamente l’ampiezza dello sguardo a tutta la società, o meglio, tende a cristallizzarne le strutture: i singoli prevalgono sul contesto in cui operano. Dall’altra però gli individui, istituendo un rapporto intenso, eccezionale anche nella quotidianità, scuotono per un momento una gerarchia sociale; nell’episodio, quale lo concepisce il Boccaccio, si restituisce per una frazione di tempo un’uguaglianza potenziale a tutti gli uomini, nonostante il condizionamento sociale. Lo si è notato nella X, 2° 204

in modo quasi paradigmatico: nel momento in cui Ghino e l’abate si trovano, grazie a una strana invenzione del primo, in un terreno che non ha nulla a che fare con quello delle norme usuali della società, il rapporto è solo binario. Per alcuni giorni l’abate e Ghino si ritrovano, per così dire, fuori della società, individuo contro indi-

viduo: possono così riconoscersi, e ritornare in altro modo nella società. L’episodio prevede, in quanto tale, una struttura binaria di rapporto: questa fa scattare un reciproco riconoscimento dei personaggi. Ed esso ritorna alla società con un valore didattico, diciamo con un'indicazione normativa per i lettori. Se questo è lo sviluppo del débat boccacciano, è chiaro che l’episodio scalza non l’ordine sociale, ma piuttosto il principio di autorità che è dietro la gerarchia di quell’ordine. Affermando il valore del « senno » umano e mostrandolo libero nell’iniziativa individuale, il Boccaccio rivela che esso può, per un momento o per un giorno o per una durata maggiore, ma in modo ripetuto e insistente di novella in

novella, rimettere in discussione un codice inveterato di rapporti, principi stabiliti, pregiudizi religiosi, più in generale i luoghi comuni che vengono spesso scambiati per valori morali. La forza dirompente dell'incontro, dell'avventura tra individui, è in questa frazione di libertà che misura i singoli per quel che valgono in quanto tali, anche se accettano le gerarchie sociali (come Cisti nella VI, 2). La critica del Boccaccio è cioè una critica di ordine intellettuale, non sociale; investe i principi di autorità, non ancora il potere. Né

egli può andar oltre: se questa attività critica, affidata allo scatto degli individui, divenisse coscienza collettiva, essa metterebbe necessariamente in discussione l’assetto sociale. Il che, si è visto, è

contrario al sostanziale conservatorismo del Boccaccio. Per questo limite, anzi, ‘lo scatto del senno individuale talvolta si esaspera in sé stesso, si compiace di sé, si risolve in un intellettualismo anche bizzarro. Il che non toglie che tale critica circoscritta non sia intellettualmente corrosiva, non proponga nuovi valori. Di qui

la mobilità, la contraddittoria vitalità del libro, che il contrasto

scopre in varie forme, ma in modo patente. Da tali contraddizioni viene l’ambiguità, sottile e talvolta sconcertante, di alcune novelle. Nella I, 2, per esempio, la conversione

205

di Abraam giudeo richiama, anche a non toccare il problema delle fonti, una serie di temi e di schemi certo non nuovi nella letteratura medievale: l’invettiva contro la corruzione di Roma, innanzi tutto,

che occupa una parte notevole della novella, e ancora la tipologia dell’ebreo saggio e avveduto (antitesi correlata al diffuso antisemitismo), la lingua di un uomo semplice in cui si manifesta la forza dello Spirito, lo stesso modo della conversione (che convalida e contrario la presenza della divina Provvidenza), ecc? La novella sem-

bra dunque formalmente ineccepibile, e non a caso Neifile vi pre. mette un cappello cristianamente ragionato. Eppure nel racconto fine e calcolato del Boccaccio tali elementi subiscono più sottili contraccolpi, non appena si appoggiano a due personaggi concreti. Questi dimostrano, tra l’altro, due intelligenze diverse anche

nel modo con cui si collocano rispetto a un fatto rilevante quale la religione e all’esperienza intima che essa presuppone. Si avverta che l’ambiente è parigino e mercantile (il che non è indifferente né per i risvolti intellettuali del dibattito teologico, né per il modo semplice o ingegnoso, secondo i protagonisti, con cui è affrontato); e che il contrasto si sviluppa in un contesto preliminare di profonda amicizia tra un mercante francese e un mercante ebreo. Il particolare è già implicitamente polemico: la diversa religione non impedisce l’amicizia, il rispetto reciproco tra due uomini buoni e giusti. Il punto di partenza è la « singulare amistà » ($ 4) dei due, sottolineata dallo scrittore; se ne deduce che la bontà dei rapporti individuali sfugge alle discriminazioni ideologiche e religiose, è fondata su valori comuni a tutti (un umanesimo naturale che con-

verge, in qùesto caso, con le esigenze di scambi e di rapporti cosmopolitici tipiche dei mercanti: è del resto la borghesia che aveva cominciato a corrodere i fondamenti ideologici della Romania feudale-cristiana). Che poi sia questa amicizia a spingere Giannotto a 2 Per il problema delle fonti e dei temi, sempre utili P. ToLpo, La conversione di Abraam giudeo, in « Giorn. stor. della lett. it.», XLII, 1903, pp. 355 ss.; L. DI Francia, Alcune novelle del Decameron illustrate nelle fonti, in « Giorn.stor. della lett. ital. », XLIV, 1904; pp. 94 ss.; e anche B. ZumBiInI, Studi di lette-

rature straniere, Firenze, 1907, pp. 288-293 (fondato sul raffronto col Nathan der Weise di Lessing). Ma la popolarità e la diffusione della novella richiederebbero uno studio a sé, tanto sono grandi e resistenti.

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sollecitare Abraam e a indirizzarlo sulla via della conversione, non muta la sostanza del problema: valorizza anzi tale amicizia, che preesiste autonoma alla conversione. Le definizioni che presentano i due amici rafforzano questo legame di unanime solidarietà, con ripetizioni che comportano solo leggere varianti nella disposizione: Giannotto di Civignì è detto « lealissimo e diritto e di gran traffico d’opera di drapperia »; di Abraam, subito dopo, si dice che

« similmente mercatante era e diritto e leale uomo assai » ($ 5). AI

Boccaccio basta creare questa comune atmosfera di dirittura e di lealtà (ribadita infatti, nel paragrafo che segue immediatamente, con due sostantivi: « La cui dirittura e la cui lealtà, veggendo Giannotto... »: virtù, si rilevi, care a un mercante

serio, perché

hanno per lui un valore anche « commerciale »): poi Abraam, ponderato e cauto, si distinguerà nel corso della novella da Giannotto,

più semplice nella sua mentalità di mercante. E la sapienza stilistica del narratore lo lascia subito intravedere: se nell’inversione simmetrica dei due membri della frase il chiasmo, che lega i due amici,

fa sì che la clausola punti, per Giannotto, sul « gran traffico d’opera di drapperia », per Abraam invece sul « diritto e leale uomo assai ». Un artificio retorico suggerisce una lieve discriminazione, che coglie e anticipa il tono della novella. Le figure di Abraam e Giannotto sono dunque distinte, già nella presentazione, con sottili sfumature: poi i due personaggi si attuano nel giro del loro pensiero, nell’articolazione dei loro discorsi. In Giannotto il « mercatante » equivale al « buono uomo » ($ 4), mentre in Abraam connota con ingegnosa avvedutezza la sostanziale rettitudine. Nel primo conta l’amichevole insistenza, nel secondo la riflessiva cautela. Non si tratta, in-sé, di elementi antitetici: tanto che il Boccaccio, per spiegare come Abraam ceda a un certo punto alle insistenze di Giannotto, introduce, in questo contesto di ami-

cizia, una battuta di sapore ironico: « E come che il giudeo fosse nella giudaica legge un gran maestro, tuttavia, o l’amicizia grande che con Giannotto avea che il movesse, o forse parole le quali lo Spirito Santo sopra la lingua dell’uomo idiota poneva che sel facessero, al giudeo cominciarono forte a piacere le dimostrazioni di Giannotto... » ($ 9). È un uso scherzoso di una tematica seria; ma

207

È Vai

è solo una battuta. Quello che intetessa al Boccaccio, anche in questa novella, è la logica inevitabile del rapporto: e nel serrato contrasto tra l’insistenza di Giannotto e la resistenza di Abraam, proprio Abraam, « da così continua instanzia vinto » ($ 10), sem-

bra inizialmente soccombere. In realtà, egli rovescia di colpo la situazione, quando decide di recarsi a Roma e rifiuta di istruirsi presso i grandi « maestri » di Parigi: il mercante, pur « nella giudaica legge un gran maestro » ($ 9), preferisce esaminare il « Vicario di Dio in terra, e considerare i suoi modi e i suoi costumi, e similmente de’ suoi fratelli Cardinali » ($ 10). Risoluzione che fa restare Giannotto « oltre modo dolente » ($ 12) e sfiduciato, e ne

misura, proprio perché è lucido, l’inferiorità morale. Un’inferiorità oggettiva, visto che il dibattito non nasce qui da uno scontro, poiché i due sono molto civilmente amici; nasce piuttosto da un diverso atteggiamento che essi hanno rispetto a un fatto rilevante: il rapporto tra le proprie convinzioni religiose e gli istituti e gli uomini che le rappresentano su questa terra. Su questo piano, Giannotto accetta lo scandaloso divario tra la propria fede e « la vita scelerata e lorda de’ chierici » ($ 12) che ne sono i rappresentanti. Qui si coglie la sottigliezza della novella: che si svolge, nella parte centrale, in una rappresentazione satiricamente e culturalmente risentita della « corte di Roma » ($ 12). È una variazione, stilisti-

camente efficace, su una tematica diffusa nella letteratura medievale: solo che essa, nella novella, è in funzione dell’acutezza di osservazione e di reazioni di un giudeo, che vede lo spettacolo dall’esterno, con lo sguardo distaccato e lucido di « uomo che molto avveduto era » ($ 19), e col disgusto che può provare un « sobrio e modesto uomo » ($ 22). È Abraam a tenere ormai il campo: le impressioni del suo viaggio vengono prima descritte e poi

raccontate da lui stesso. È un sostanziale monologo, cui basta, come contrappunto, la notazione che colorisce lo stupore e la lieta sorpresa di Giannotto: « Giannotto, il quale aspettava dirittamente contraria conclusione a questa, come lui così udì dire, fu il più contento uomo che giammai fosse » ($ 28). Giannotto vince dun-

que per le ragioni stesse per cui pensava di aver perduto la sua fatica: non grazie ai rappresentanti terreni della sua religione, ma 208

\ proprio perché essi la rappresentano male. L'ironia, al primo livello della vicenda, è evidente. Ma essa convoglia una conseguenza meno evidente e più nuova: quali che siano i motivi della scelta, il problema della religione è un affare individuale, ùn problema che concerne l’avvedutezza e la libertà del singolo. In altre parole, l’individuo convalida una religione scavalcando il rapporto tra religione e chiesa; introduce anzi tra questi due elementi (religione cristiana, chiesa cattolica) una scissione che contiene, potenzialmente,

sia un rapporto personale tra sé stesso e la fede, sia uno scetti-

cismo gravido di conseguenze nei riguardi dell’istituzione. Qui è anche l’ambiguità della novella. Abraam non è toccato dalla grazia; se egli avesse un’esperienza di carattere mistico, potrebbe essere

quasi un protestante arte litteram (si ricordi che la novella fu tradotta in latino da Olimpia Morata ?); in realtà, Abraam continua

ad essere un mercante razionalista anche nel suo discernere la presenza dello Spirito Santo ($ 26), un intellettuale che si fa cristiano sulla base di una lucida osservazione della realtà e di un calcolo storico spregiudicato. Sotto la sua pacata avvedutezza, corre un’ironia intellettuale quasi volterriana: solo per questa. via un ebreo riscopre la validità della religione cristiana. E allora la logica di mercante e l’acutezza di giudeo di Abraam non nascondono un fatto essenziale: il fatto cioè che il problema di Dio si rivela un problema individuale, come tutti gli altri su questa terra, al punto che la Chiesa è solo per antifrasi lo strumento per risolverlo. E questa è la differenza radicale dell’atteggiamento del Boccaccio rispetto a quello di Dante: per il quale, se l’umanità è corrotta, le cause vanno ricercate nella corruzione della Chiesa, che è l’istituzione voluta da Dio per guidare gli uomini verso la meta celeste. Non ci sono margini di scetticismo né di apprezzamento individuale, per un cristiano impegnato come Dante: il rapporto tra Dio e la Chiesa è un rapporto organico, indicato da Dio, e va restaurato nella sua originaria purezza. Rispetto a tale coerenza di cattolico — diremla scelta di 3 Correlata alla descrizione della dissolutezza delle corte di Roma, e: cfr. ]. Abraam può prestarsi infatti a un’interpretazione in chiave protestant Bonnet, Vie d’Olimpia Motata, Paris, 1851, p. 53.

209

mo oggi — integrista, si possono’ misurare tanto lo scetticismo quanto l’apertura per così dire teistica del Boccaccio, nel quale la

responsabilità della scelta religiosa è affidata alle risorse dell’individuo. Qui è reperibile l'ambiguità corrosiva della novella: si esalta la religione cristiana e insieme si distrugge l’istituzione che la rappresenta. E anche il suo limite: operato il gesto individuale, si accettano poi i « cherici » per il battesimo di Abraam: « ed a Nostra Dama di Parigi con lui insieme andatosene, richiese i cherici di là entro che ad Abraam dovessero dare il battesimo. Li quali, udendo

che esso l’addomandava, prestamente il fecero; e Giannotto il levò del sacro fonte e nominollo Giovanni » ($ 28-29). Rimane, se pur

di scorcio, il rito cristiano: il Boccaccio accetta la Chiesa purché si salvi il margine di riserva, di libera scelta, di spregiudicatezza che compete all’individuo. Tale spirito razionalistico rischia allora di implicare, ma per noi posteri, un’accettazione segnata da un più superficiale scetticismo, che avrà pure una lunga storia in Italia. Il terreno dell’amicizia, che unisce nella I, 2 i due contendenti, è invece raggiunto nella I, 3 solo alla fine. Questa infatti mette di fronte, in una gara tesa e al limite drammatica, due intelligenze,

quelle del Saladino e di Melchisedech, egualmente sottili. Sono due contendenti raffinati e intelligenti, uno musulmano e l’altro ebreo. E lo scontro allarga il problema religioso in un ambito molto più vasto: il problema della religione cristiana diventa il problema delle religioni. Ma anche in questa novella la problematica si concreta nel dialogo, nel dibattito tra due individui. Esso è preparato da due periodi, l’uno consacrato al Saladino, l’altro a Melchisedech, che sono già i ritratti interni di due personalità. Il periodare ipotattico e avvolto del primo suggerisce, come già si è rile-' vato, la capziosità intellettuale e insieme l’impaccio in cui si trova il Saladino; cui rispondono la vigilanza guardinga, la prontezza di reazione, la sottigliezza dell’avaro usuraio. Il cappello della novella aveva già annunciato il « discendere » dei narratori agli « avvenimenti » e agli « atti » degli uomini ($ 3): ma già nella I, 2, si è visto, la religione era stata rapportata all'ambito terreno in cui si muovono gli individui. E la rappresentazione del « senno », che « di grandissimi pericoli trae il savio » ($ 4), avviene in questa no210

A vella, quasi a misurare la distanza psicologica e stilistica del Boccaccio rispetto alle proprie fonti, proprio»nel corpo di uno schema consueto, quello della parabola esemplare, èsulla base di un tema largamente diffuso e attestato tanto dal Novellino quando dall’Avventuroso Ciciliano.* Il tema risponde, come purè. si è accennato, a

una profonda esigenza della borghesia, alla possibilità di commerci tranquilli nell’ambito del Mediterraneo: per questo in Europa si diffonde una parabola, sia pur rinviata al topos del giudeo ingegnoso, che è convergente con quella presente nella tradizione ebraica, dove la tolleranza religiosa risponde a un’esigenza di salvaguardia e di difesa tipica di minoranze perseguitate. Il principio è chiaramente, se pur implicitamente, recepito dal Novellino (LXXIII). Ma nel Novellino i due personaggi, generici (il Soldano, il giudeo),

sono quasi due astrazioni, emblemi di uno scontro nel quale l’aggredito sa difendersi, con l’ingegnoso stratagemma della parabola, dall’aggressore. Tant'è vero che il Soldano rimane scornato, e lascia andare il giudeo; ma non si stabilisce alcun reale rapporto tra i due. Nel Boccaccio, invece, la parabola ha valore in quanto è narrata da Melchisedech al Saladino, in una determinata circostanza,

con una determinata inflessione, in un preciso rapporto tra due personaggi. Prima cioè di affermare l’uguaglianza delle religioni, il Boccaccio rivaluta i protagonisti della novella, mostrando in concreto l’intelligenza e la generosità di un giudeo e di un musulmano (il Saladino, personaggio quasi mitico nel mondo romanzo, gli serve ottimamente in questo caso). Per cui la vera rottura delle distinzioni tradizionali avviene, preliminarmente, al livello dei personaggi: Melchisedech giudeo, avaro e usuraio, e il Saladino, capo famoso e terribile degli infedeli per eccellenza, si rivelano due uomini di grande levatura, sottili e cortesi. La prima sorpresa, ilBoccaccio la ottiene proprio situando storicamente e socialmente i petsonaggi, e assimilandoli a una dimensione che è normale, anche 4 Dopo la postilla di L. Russo, Letture critiche... cit., pp. 82-102, i cui raffronti sono ricchi di illazioni storiche, restano esemplari, per penetrazione storica, critica e stilistica, i raffronti istituiti da S. BatraGLIA, La coscienza letteraria... cit., pp. 568-576. Per tutta la questione, e per la bibliografia relativa, si veda M PENNA, La parabola dei tre anelli e la tolleranza nel Medio Evo, Torino, 1953.

211

quando è drammatica, nei rapporti tra cristiani. La prospettiva esemplare si inverte: il personaggio non è più costretto a proporre, astrattamente, uno schema situazionale che dia forza a un principio; ma diventa un individuo concreto, che si serve di un prin-

cipio generale (Ja tolleranza religiosa) per salvarsi in una circostanza difficile. Il che non significa, come si vedrà, che egli tolga efficacia a quel principio stesso. La situazione elaborata dal Boccaccio è quella di un personaggio per il quale la ricchezza diviene improvvisamente fonte di pericolo. La vittima, anche a lasciare stare il fatto che è un giudeo, non è tale, in quanto avaro usuraio, da suscitare inizialmente simpatia,

soprattutto rispetto al « valore » del Saladino, che lo giudica del resto con molta lucidità. È verso sé stesso che il Saladino si sente piuttosto a disagio, quando si avvisa « di fargli una forza da alcuna ragion colorata » ($ 7): solo questa « forza » ambiguamente

dissimulata trasforma Melchisedech in vittima, perché ci fa avvertire la sua oggettiva posizione di inferiorità. È una situazione eccezionale, che rovescia per un momento la situazione normale (Melchisedech è abituato a far soldi, il Saladino a usarli e a spenderli generosamente): il bisogno urgente del Saladino crea una situazione nuova, di grande tensione. In questo contesto, la tematica religiosa non è il motivo di fondo rispetto al quale essi si differenziano (come avveniva nel dibattito tra Abraam

e Giannotto):

è

anzi chiaramente un motivo pretestuoso, usato dal Saladino per aver denari e da Melchisedech per sfuggirgli e salvarsi. Ma è anche vero che il pretesto è verosimile, facile da escogitare, perché la religione differenzia e oppone gli uomini, è un tema di potenziale persecuzione. Il tema religioso è sì usato dai due contendenti come espediente; il che non toglie che esso non sia importante, perché solo grazie alle discriminazioni religiose il Saladino può ideare e preparare il suo colpo di forza. Questa la dialettica interna alla novella: il problema confessionale è strumentalizzato, ma la situazione è creata proprio perché esiste tale problema. Ne deriva che il tema generale.(la tolleranza) dà valore ai due personaggi nella misura in cui essi danno un senso concreto al tema generale. Quanto nel Novellino era semplice, lineare, diventa nel 212

Decameron un gioco complesso, prima a carte coperte, poi risolto amichevolmente da una complicità rispettosa dell’avvedimento dell’altro. La reciproca lealtà è una conquista: non a caso è proprio la fine a differenziare nettamente la novella dalle versioni del Novellino e dell’Avventuroso

Ciciliano. L'incontro, motivato da un

fine di inganno, si risolve in una dichiarazione di amicizia e di stima reciproca. Quello che può apparire un particolare diventa la spia dell’impostazione radicalmente diversa del Boccaccio. I due trovano nell’« ingegno » il modo per riconoscersi: Melchisedech ha capito, il Saladino capisce che Melchisedech ha capito, lo apprezza

per questo; gli apre allora il proprio animo e il giudeo lo serve « liberamente » ($ 18). Il reciproco riconoscimento annulla, nel mo-

mento in cui avviene, le distanze sociali, dissipa l’avidità momentanea dell’uno e l’avarizia dell’altro; e si conclude in un totale appagamento di sé, delle proprie qualità. Tale attimo, d’altra parte, restituisce al Saladino il suo piedistallo di superiorità sociale e morale: il potente non perde il proprio prestigio a riconoscere e ad apprezzare l’intelligenza di un inferiore; ed è pure una lezione della novella. Perciò, rotta la tensione dell’aneddoto, passato il momento eccezionale in cui i due si sono riconosciuti, la prospettiva usuale si ricompone: il Saladino e Melchisedech restano amici, ma l’uno e l’altro al proprio posto. In questa prospettiva, il rapporto di amicizia che si è creato in un brevissimo spazio di tempo non è solo l’avventura di due uomini, ma anche un modello di civiltà, fondata innanzi tutto sulla

tolleranza. È una lezione che viene presentata mediante lo schema, pure topico, della novella nella novella. La parabola dei tre anelli è elaborata dal Boccaccio con grande finezza, e volutamente costruita in una visuale aperta, quella di una « quistione » che è « in pen: dente e ancor pende » ($ 15): è cioè usata per una lezione di comportamento, che isola il problema religioso da quello di una morale terrena. È un’utilizzazione di secondo grado della novella, concepita non come immobile parabola, ma come strumento pedagogico nei rapporti umani: la novella, raccontata in un momento patticolare, è un modo efficace di dare un senso a un incontro, a un

rapporto. È una sottile, interna valorizzazione da parte del Boc20

caccio, del genere su cui l’opera è costruita. La novella non è più esemplare rispetto a principi trascendenti, assoluti; lo è invece per i rapporti e nei rapporti fra gli uomini. Personaggio e autore si congiungono nello stesso modello di intellettuale. ‘Una situazione per molti aspetti simile è nella I, 7, dove pure si ritrova lo schema-base della novella raccontata da un personaggio: valorizzazione della novella, oltre che elemento narrativo di una

novella. E anche la I, 7 avvicina, grazie ad una favola esemplare, due uomini, Cane della Scala e Bergamino, distanti sul piano sociale; per ricollocarli poi al loro posto, dopo che si è creata una simpatia di carattere morale ed intellettuale. E ancora una volta il contrasto non si risolve nella netta sconfitta di uno dei due avversari, ma è un duello, se non condotto, almeno concluso alla pari:

con un reciproco riconoscimento, che significa la conquista di una nuova fiducia tra un signore, preso da un accesso improvviso di avarizia, e un « uomo di corte », meritevole della stima dei potenti. Però, nell’analogia di struttura e di situazione con la I, 3, la

I, 7 ha uno sviluppo più ampio e una diversa vibrazione, che un amaro inciso di Bergamino, quando racconta a messer Cane la novella di Primasso, tradisce malinconicamente: « la virtà che poco era gradita da coloro che possono assai » ($ 12). Si noti che Bergamino parla di Primasso, il quale « fu un gran valente uomo di gramatica, e fu oltre a ogn’altro grande e presto versificatore » ($ 62). Non interessa qui il personaggio storico. Bergamino parla di un intellettuale, la cui tecnica dev'essere riconosciuta come vir-

tù, e la cui funzione sociale va legittimata e rispettata. È certo una tematica in sé tutt'altro che originale: ed è chiaro che nell’avvilimento di Bergamino entra un’indiretta polemica del Boccaccio, così come nella reazione di messer Cane un’implicita fiducia nel signore, nel potente avveduto e cortese. Ma una simile tematica, che pure coinvolge in modo diretto lo scrittore, dev'essere oggettivata nel racconto, affidarsi alle sorprese che possono venire dai personaggi. Perciò l’iniziale narrato « psicologico », che accom5 Per l’identificazione di Primasso, e più in generale per il contesto della no2 rante bibliografia, si rinvia alle note di V. BrANcA al Decameron cit., PP.

214

3

pagna le reazioni interne più che i pensieri di Bergamino (il quale non parte come gli altri, e ondeggia tra la speranza e lo scoramento), tende a presentare una strana scommessa di Bergamino con sé stes-

so che è già una latente volontà di contrasto, un’implicita decisione di affrontare la prova e lo scontro con Cangrande, quando se ne offra l’occasione: « incominciò a prender malinconia; ma pure aspettava, non parendogli ben far di partirsi » ($ 8). Bergamino è sorretto da un’oscura e quasi immotivata fiducia nel momento favorevole, perché non accetta l'improvvisa degenerazione di un signore. La malinconia di Bergamino è anche la tristezza di chi vede improvvisamente degradata la personalità di uno « de’ più magnifichi

signori » d’Italia ($ 5); non

è solo difficoltà sua, è

sorpresa che lo fa pensare, come avvertirà più oltre il Boccaccio. E la sorpresa, si sa, è un elemento tipico di tutto il Decameron: anche l’uomo, come

la realtà, è un elemento

sorprendente

nel

bene e nel male, è un paesaggio che va continuamente indagato e interpretato. Tale malinconia dà una profondità all’atteggiamento di Bergamino, e determina poi uno scatto nell’azione quando, accidentalmente, si scontrano un giorno la penosa malinconia di Bergamino e la distrazione offensiva di messer Cane: Ora, mentre che egli sopra la terza roba mangiava, avvenne che egli si trovò un giorno, desinando messer Cane, davanti da lui assai nella vista malinconoso; il qual messer Can veggendo, più per istraziarlo che per diletto pigliare d’alcun suo detto disse: « Bergamino, che hai tu? tu stai così malinconoso! dinne alcuna cosa ». Bergamino allora, senza punto pensare, quasi molto tempo pensato avesse, subitamente in acconcio de’ fatti suoi disse questa novella... ($ 10-11).

Tutto il passo è calcolato con sottile raffinatezza psicologica, nella presentazione degli antagonisti: da una parte Cangrande, nel quale l’istinto di schernire Bergamino implica non solo una distrax

zione, ma anche una sotterranea cattiva coscienza (di chi è in torto,

ma non vuole riconoscerlo); dall’altra Bergamino, l’intellettuale che afferra di colpo la situazione (« subitamente », « senza punto pensare ») perché ha avuto molto tempo per riflettere (« quasi molto

tempo pensato avesse »). Le espressioni sono semplicissime:

ma

215

ritroviamo. anche in una situazione minore, quel rapporto tra durata meditativa e attimo rivelatore che si era colto nel sublime della X, 3. Qui lo scatto mira a pungere, a correggere un signore: ma solo grazie ad esso, alla situazione strana in cui nasce, il Boccaccio

può ricuperare una tematica di fondo. Bergamino, si ricordi, è un «uomo di corte »: è definizione molto larga e comprensiva, che

va dal buffone al grande intellettuale. Bergamino è definito « oltre al credere di chi non lo udì presto parlatore ed ornato » ($ 7); il sostantivo è collocato tra due aggettivi che hanno grande rilievo, poiché definiscono due qualità cui il Boccaccio è particolarmente sensibile: la rapidità, la prontezza di riflessi, e la capacità di elaborare secondo uno stile il proprio discorso. Bergamino non è un buffone; è un intellettuale, se non un dotto, deluso e offeso nella propria dignità. È insomma, anche in ambito modesto, il modello di un personaggio sociale che aspira ad essere riconosciuto nella sua funzione culturale e pedagogica. Svincolato dalle contingenze politiche, tale personaggio è garante dei valori essenziali su cui deve reggersi una società civile; è, in breve, l’elaboratore di una civiltà. La discrezione del ritratto di Bergamino è in questo senso legata a un dissimulato impulso autobiografico. Nell’errare di Bergamino di corte in corte, nella curiosità goliardica di Primasso, x

[N

« che si dilettava di vedere i valenti uomini e signori » ($ 13), il

passato serve a prefigurare un diverso modello di intellettuale. Lo schema della novella in novella ricade più direttamente sul Boccaccio: se Bergamino è un personaggio che racconta la sua novella, il Boccaccio, raccontando Bergamino che racconta la sua novella, adombra la funzione dell’intellettuale non più solo verso messer Cane, ma verso un nuovo tipo di Signore, e più in generale verso tutta una comunità civile. In questa reale prospettiva il Boccaccio ricupera, in un prossimo passato, la strana avventura di Bergamino; e attraverso Bergamino che ricupera l'avventura di Primasso con l'abate di Clignì, con tale interesse si mette a interrogare la storia,

a selezionare figure e aneddoti. In modo del tutto diverso da quanto avviene nella Commedia, nel Decameron il ricupero degli aneddoti e della storia è solo in funzione della convivenza civile, e del rapporto tra individui che ne è la prima indicazione. 216

Ed è, per il narratore, un’operazione che spetta all’intellettuale. Il personaggio del Boccaccio, almeno quello che ci presenta il Decameron, frantumato e dissimulato nella brigata, più discreto (più accorto, anche) di quello di Dante nella Commedia, che accentra con

prepotenza attorno a sé la responsabilità della scelta e del giudizio della storia, è un personaggio non più coinvolto nelle lotte politiche, nell’immediata valutazione del contesto socio-economico della

propria città, ma un natratore che mira a chiarire i termini dei rapporti tra individui, a corrodere superstizioni e pregiudizi, a ricercare per questa via nuovi valori per la convivenza

umana:

l’Introduzione è subito, per tale aspetto, perentoria. È una ricerca complessa, che attesta, ripetiamolo, una fase delicata di trapasso.

Una distanza maggiore rispetto alle urgenze del contemporaneo sospinge ora il Boccaccio alla nostalgia del passato: ma in modo opposto, meno netto e rigoroso per i postulati filosofici, a quello di Dante. La mitizzazione del passato, in questo caso del rapporto Signore-uomo di corte, è cioè legata a una proposta, qui del rapporto. potente-intellettuale, che già si proietta verso una civiltà cittadina e signorile in fieri. E il passaggio daun codice cavalleresco a un codice cittadino di relazioni cortesi implica una cordialità più diretta, resa in modo sensibile e vibrante nella novella dalla risposta lucidamente coraggiosa e dal sorriso di Cangrande, che pacifica di scatto il contrasto implicito nel rapporto: Messer Cane, il quale intendente signore era, senza altra dimostrazione alcuna ottimamente intese ciò che dir volea Bergamino, e sorridendo gli disse: « Bergamino, assai acconciamente hai mostrato i danni tuoi, la tua virtù e la mia avarizia e quel che da me disideri: e veramente mai più che ora per te da avarizia assalito non fui, ma io la caccerò con quel bastone che tu medesimo hai divisato »

($ 27).

Il fine utilitario presente nell’atteggiamento di Bergamino, il quale

aveva detto la novella « in acconcio de’ fatti suoi » ($ 11), è come

riscattato dalla felice sorpresa della risposta di messer Cane, grazie alla quale Bergamino ha vinto una scommessa più ardua e sottile di intellettuale. 217

Questo contesto di rapporti, dove l’intellettuale si sente partecipe dei riti di una élite sociale, si concreta in varie direzioni. Talvolta la nostalgia di un mondo raffinato si proietta più nettamente verso il passato. È un moto evidente nella X, 1, che ci riporta dal Trecento ai tempi di Alfonso VIII di Castiglia (vissuto tra il 1155 e il 1214), narrando di un re celebre e quasi esemplare per la sua magnificenza. Il tempo più remoto conferisce alla novella una più profonda malinconia; anzi la differenza tra la malinconia locale di Bergamino e la malinconia corrucciata e sdegnosa di Ruggieri de’ Figiovanni, cavaliere « ricco e di grande animo » ($ 4), segna la distanza di tono tra le due novelle. Bergamino è l’uomo di corte, la cui virtù è volta per definizione a pungere e a battere x

l’avarizia di un signore; Ruggieri è invece un cavaliere ricco e

valoroso, che abbandona la Toscana e si reca in Ispagna perché si trova a disagio nella nuova città borghese e comunale: «e veggendo che, considerata la qualità del vivere e de’ costumi di Toscana, egli, in quella dimorando, poco o niente potrebbe del sua valor dimostrare, prese per partito di volere un tempo essere appresso ad Anfonso re d’Ispagna...» ($ 4). E la successiva silenziosa ribellione di Ruggieri al re Alfonso appare meno

utilitaria, e sembra

trapassare,

in un uomo

che non

ha

bisogno di ricchezza, nel simbolico sdegno verso l’ingiustizia umana: «e per ciò che a lui, che da quello che egli era si teneva, niente era donato, estimò che molto ne diminuisse la fama sua; per che di partirsi diliberò ed al re domandò commiato » ($ 6).

La fama, per Ruggieri, è legata a un codice cavalleresco, implica il riconoscimento del proprio valore: la sua malinconia nasce all’interno di un mondo.cortese. La I, 7 apriva invece una critica dall’esterno, correlata a un’adesione più diretta a un mondo signorile, evocato con un entusiasmo visibile già negli epiteti: « fu uno de’ più notabili e de’ più magnifici signori... » ($ 5); « una notabile e maravigliosa festa... » ($ 6). In altre parole, la novella di Bergamino è condotta nella visuale del protagonista, il quale la riflette in Primasso, ‘che ode « dire maravigliose e magnifiche cose... » dell’abate di Clignì ($ 12) e delibera « di volere andare a vedere la

magnificenza di questo abate » ($ 13). La novella di Ruggieri ha 218

invece iltono più chiuso e sospeso dell’apologo (non a caso alcuni momenti

topici di essa si rifanno a una tradizione secolare);

si

svolge nel clima più elevato degli obblighi tra sovrano e vassallo, guidati da regole raffinate e complesse; e nel cruccio di un uomo di valore ripropone il problema basilare dei rapporti tra fortuna e virtù. E perciò novella di arte più sottile, per alcuni lati quasi esoterica, e non soltanto novella di esemplare « magnificenza ».

Rispetto all’incontro tra Cangrande e Bergamino, il rapporto tra

il re Alfonso e Ruggieri appare ben più raffinato, per il codice cui obbedisce, e per alcuni aspetti ambiguo, guidato da una casistica quasi tortuosa. Il re, alla fine, ricompenserà liberalmente messer Ruggieri: ma solo al termine di una storia che implica un co-

perto e allusivo contrasto tra i due protagonisti. E infatti la vicenda è prima narrata a linee parallele, con un racconto discreto, ma calcolato e misurato in ogni espressione, che segue separatamente la logica di due personalità, ugualmente signorili e riservate; e trova un punto di convergenza nella scena finale, nell’aperto colloquio in cui i due uomini si dichiarano lealmente, svelano il loro sentire scrupoloso e risentito (Ruggieri) o acuto e fin troppo concettoso (il re): una scena che li pacifica e colma il distacco che si era creato.

La prima parte della novella suggerisce il profilo di un nobile per così dire disadattato nella sua terra, dominato da un ideale aristo-

cratico di « valore » ‘che lo spinge lontano, come un chiuso Don Chisciotte ante litteram, perché non rinuncia ai fasti della cavalleria. Un personaggio schivo e sdegnoso, cosciente della propria virtù, ma chiuso in un orgoglio discreto e silenzioso. Con un racconto in apparenza tutto esterno, il Boccaccio raggiunge subito, con tono abilmente dissimulato, la dimensione psicologica che sappiamo propria del romanzo. Si arriva in poche righe, con estrema coerenza, all’altera richiesta di commiato di Ruggieri, priva di chiarimenti o di recriminazioni: è un’amarezza che neppure vuole esprimersi, perché spiegarla significherebbe sminuire la qualità del proprio sentire. Dall’altra parte, la discreta perspicacia e la non meno discreta cortesia di re Alfonso. All’inizio, egli sembra distratto come Cangrande, quasi indifferente: ma bastano poche righe a svelare la sorpresa di una più sottile, segreta attenzione: 219

Il re gliele concedette, e donogli una delle miglior mule che mai si cavalcasse e la più bella, la quale per lo lungo cammino che a fare avea fu cara a messer Ruggieri. Appresso questo, commise il re ad un suo discreto famigliare che, per quella maniera che miglior gli paresse, s’ingegnasse di cavalcare la prima giornata con Messer Ruggieri in guisa che egli non paresse dal re mandato, e ogni cosa che egli dicesse di lui raccogliesse, sì che ridire gliele sapesse, e l’altra mattina appresso gli comandasse che egli indietro al re tornasse i ($ 7-8).

Chi determina la chiarificazione, l’incontro decisivo, è in questa novella il superiore, il re che intuisce il risentimento di Ruggieri e la propria mancanza, e scommette su un indizio offerto dal cavaliere, su una parola rivelatrice: tanto è vero che comanda al famigliare di far ritornare Ruggieri dopo una giornata di cammino. L’ordine è volutamente bizzarro, ricercato, se pur non estraneo al gusto casistico dell'ambiente: ma presuppone un’acutezza psicologica singolare, la percezione di quanto di frustrato è in Ruggieri, sognatore risentito di miti cavallereschi che non trovano rispondenza nella realtà. Si apre così, nel faticoso e obliquo rapporto tra due personalità che sembrano applicare solo un codice esterno, quasi un’etichetta, un nuovo atto di fiducia nei rapporti umani: la tensione a una moralità attenta e generosa che sorregge l'apparente astrattezza dell’ultima giornata. Solo grazie alla perspicacia psicologica, sia pur espressa in modo singolare, la magnaminitàdi un re può rivelarsi più tardi in modo volutamente rituale, e correggere la malignità della fortuna, agire «in dispetto di lei » ($ 19). L’ideologia di corte è psicologicamente ammodernata: la novella è interessante proprio per il contrasto stridente tra uno scenario feudale, rituale, e una nuova dimensione psicologica. Certo, la trama può apparire quasi illogica nel ricorso del re al topico stratagemma dei due forzieri; così come la fortuna sembra ancora pesare sui gesti che pur appartengono all’uomo, essere caso cieco, identificarsi con un destino maligno, con un cospirare sconoscente e sfavorevole delle cose contro un individuo. Ma è anche vero che da tale imperscrutabile assurdità di eventi, cui risponde la scena simbolica dei due forzieri, sorge la possibilità d’azione di un uomo magnanimo; 220

sorge, prima ancora, l’intervento di una tare o provocate il caso per deviarne e tema usuale della virtù mal compensata a doppio strato, in cui « l’avvedimento

perspicacia che può sfrutcorreggerne gli effetti. Sul nasce un racconto denso, » dell’uomo sa opporsi ai

« casi fortunosi », e arricchisce in questo modo dall'interno, senza

disperderne la ricercatezza, la stilizzata etichetta dei rapporti feudali. Ogni notazione presuppone e sottintende, nella sua limpidezza, da un lato una rara introspezione psicologica, dall’altro una esperta educazione sociale: quando Ruggieri riceve dal famigliare il « comandamento » del re, « incontanente tornò addietro » ($ 12).

Non occorrono altre parole. E così il re gli chiede s ibito ragione del paragone della mula, ma lo riceve « con lieto viso » ($ 13), a evitare il pericolo di un dissimulato rimprovero. Tra l’aspetto e la domanda non c’è contraddizione, ma calcolata correlazione: l’incontro deve servire a un chiarimento definitivo. E infatti Ruggieri risponde « con aperto viso » ($ 14), accetta la distesa franchezza del colloquio. Sorprendenti sono, in un certo senso, il « lieto viso » dell’uno e « l’aperto viso » dell’altro: in questo rituale fatto di silenzi, di cose espresse solo in modo mediato, perché i rapporti feudali hanno

escluso finora la conversazione

d’improvviso, per volontà del re, un L’« aperto viso » e il « lieto viso », Boccaccio anche per ambienti elevati, sta novella trascurata (a conferma

amichevole,

nasce

dialogo diretto e definitivo. che sono formule usuali nel appaiono, nel tessuto di quedell’eccezionale energia se-

mantica che i moduli boccacciani ricevono dal contesto), una con-

quista sorprendente, una scommessa giocata e vinta dal re sul piano dei rapporti individuali. Egli vuole arrivare a un colloquio chiarificatore, a un momento eccezionale: questo il vero movente del re, che prevale sulla stessa eccessiva ingegnosità dell’autogiustificazione e poi dell’espediente dei forzieri. E allora l’apologo si muta, nelle mani del narratore, in un concreto suggerimento di metodo nei rap6 Anche se ha avuto una sintomatica fortuna, nell’ambito della letteratura nata si vedano i cenni bibliografici di V. BRANCA, Decameron cit., p. 1100, n. 1. È giusto però ricordare, sul piano critico, dle penetranti note di A. Momistiano, Il Decameron cit., pp. 374-378, e i felici cenni di G. PeTRONIO, nel comm. cit. al Decameron, vol. II, p. 263. intorno alle corti moderne:

221

porti umani, sorto dalla stessa singolarità con cui essi possono presentarsi. |

Certo, qui il suggerimento è proposto a un alto livello sociale, dove un’educazione raffinata e un’esperta intelligenza possono congiungersi e arrivare a momenti di perfezione. Ed è inevitabile che l’incipiente crisi delle strutturè comunali, unita a nostalgie « napoletane », crei nei Boccaccio contraccolpi quasi arcaici, ritorni a un

quadro feudale regolato dall’intervento demiurgico di un sovrano. Ma si è pure notato come tale ideologia di corte, non a caso proiettata verso il futuro, tenda a schiudersi, in modi diversi nella I, 7 e nella X, 1, a una nuova cordialità di rapporti, alla cui base è riconoscibile il fermento di uno spirito borghese che porta una reale apertura nei contatti individuali. La sintesi tra queste due componenti è sempre operata dal Boccaccio al livello intellettuale, con la costituzione di modelli di comportamento che siano validi anche

fuori dell'ambiente che li ha generati. È questa anzi, come si è notato, la funzione specifica del débar boccacciano: una sorta di estrapolazione, non sul piano dell’ambientazione realistica ma su quello della lezione morale e intellettuale, del metodo di rapporti. che è suggerito da un’indagine, attenta e selettiva, del comportamento degli uomini nel loro commercio quotidiano. È un accertamento che ha un valore generale. E perciò il Boccaccio può agevolmente trasferire la carica esemplare di tale metodo, attento e raffinato, in una civiltà cittadina quasi contemporanea, e trovarvi anzi preziose conferme. Egli può fare insomma il cammino inverso a quello percorso, per nostalgia di un mondo al tramonto, da Ruggieri de’ Figiovanni dalla Toscana alla Spagna (X, 1). E quando percorre tale cammino, che lo porta dalla mitizzazione del passato alla curiosità per un presente cittadino, il presente è rappresentato per lui innanzi tutto da Firenze, la città esemplare per i rapporti di intelligenza: rapporti che possono manifestarsi in ogni ceto e rivelare in un personaggio doti insospettate, senza che questo implichi la rottura dell’ordine sociale su cui si fonda la città. Esemplare di tale traiettoria verso il presente, con un carico di raffinata saggezza che si esprime in altre sfide e in altre scommesse, colte sul ritmo del quotidiano per le strade della città e non più 222

nello scenario chiuso e regolato delle corti, è la VI, 2° E non a caso la novella di Cisti propone; nel cappello di Pampinea, il problema dei rapporti tra virtù e fortuna, ma sintomaticamente allargato in una prospettiva più generale, quella dei rapporti tra Natura e Fortuna. Il problema nasce qui da un’esplicita contraddizione, denunciata in partenza in modo epigrafico: « Cisti, d’altissimo animo for-

nito, la Fortuna fece fornaio » ($ 3). Di tale contraddizione, che si manifesta come un’ingiustizia, è tuttavia subito indicato un possibi-

le recupero: « E certo io maladicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non conoscessi la natura esser discretissima e la fortuna

aver mille occhi, come che gli sciocchi lei cieca figurino » ($ 4). La prova è fornita in realtà mediante un paragone più ingegnoso che convincente, illuminato però dalla conclusione: « E così le due ministre del mondo spesso le lor cose più care nascondon sotto l’ombra dell’arti reputate più vili, acciò che di quelle alle necessità traendole, più chiaro appaia il loro splendore » ($ 6). Proprio perché è | fornaio, Cisti, con le sue virtù, rivela più chiaro lo splendore della virtù: anche a questo fine, probabilmente, la novella ha una luminosità insolita, creata dalla lucente evidenza degli oggetti e dei movimenti. L’enunciazione iniziale del Boccaccio non è dunque separabile dalla novella. Si è rilevato, nella X, 1, come il potente possa riparare i torti della fortuna. Qui invece la riparazione è interna alla stessa contraddizione: il Boccaccio la indica in partenza, suggerendo una provvidenzialità immanente al mondo umano. La situazione di un uomo che non ha socialmente il posto cui lo designerebbero le sue virtù rende più esemplari, per tutti, tali virtù. Non è quindi necessario deprecare, né tanto meno sovvertire, un ordine sociale che può talvolta apparire ingiusto (la Natura pone infatti Cisti sullo stesso piano di messer Geri): basta che l’individuo, tenendo il proprio posto nella società, esalti la propria virtà, ? Per il clima fiorentino come per il senso della novella, si veda l’attenta analisi di G. GETTO, Culto della forma e civiltà fiorentina nella sesta giornata, in Vita di forme... cit., pp. 139-163. Piena di cordiale adesione e ricca di indicazioni felici (rapporto tra ragionamento medievale e sostanza umanistica, coerenza psicologica ed evidenza stilistica, ecc.), ma non priva di forzature in senso individualistico e antigerarchico, è l’interpretazione di L. Russo, Lesture critiche... cit.,

pp. 224-234.

223

che avrà, riconosciuta più agevolmente in quanto tale nelle persone più umili, una sua funzione didattica nella comunità civile. È un ragionamento moralistico, della cui fragilità sembra oscuramente rendersi conto anche il Boccaccio, se il suo istinto realistico, borghese, lo porta a far correggere dalla Fortuna stessa un errore di partenza, e proprio sul piano economico: « Al quale quantunque la fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna, che egli era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna

altra abbandonare,

splendidissimamente

vivea... » ($ 9).

I due superlativi non solo si rilevano rispetto all’« assai umile » iniziale, ma sembrano scattare, in antitesi al cappello, dai riflessi più spontanei del Boccaccio: una società borghese, anche ai tempi comunali, non è per questo una società democratica (e Cisti lo conferma coi propri e altrui dipendenti). Ma tale duplicità della fortuna, all’interno della stessa novella, non è solo necessaria a rendere plausibile il personaggio, a dargli oltretutto i mezzi per attirare messer Geri (« i migliori vini bianchi o vermigli che in Firenze si trovassero... »); restituisce anche al racconto una seconda verosi-

miglianza, questa tutta boccacciana, nel senso che il personaggio ne trae subito una nota di singolarità, quasi di bizzarro puntiglio, che non solo darà sapore all’aneddoto ma costituirà la vera molla dell’invenzione di Cisti (« pensossi di tener modo il quale inducesse messer Geri medesimo ad invitarsi »). Si ritrova, insomma, quasi in miniatura, quell’elemento di sorpresa individuale che è sempre il germe di un contatto eccezionale, anche nell’ambito del commercio quotidiano e cittadino. Ed è un elemento di natura intellettuale, nel senso boccacciano più volte chiarito: esso‘è all’origine della provocazione e insieme della riserva di Cisti (« per niuna condizione andar vi volle... »), della sua cortesia e della sua mordacità,

e stabilisce una reale tensione tra Cisti e messer Geri, al quale solo spetta farsi tentare e invitarsi, apprezzare la dignità e l’arguzia di Cisti e farsene un amico. Perciò anche la VI, 2, aldi là del mot-

to finale che ne è soltanto una secca puntualizzazione, è un contrasto: in apparenza occasionale, in realtà provocato da Cisti. C’è forse in Cisti un inconscio sentimento di rivalsa sociale: resta il fatto che esso è perfettamente controllato (e sublimato) in un impecca224

bile galateo. E anche nella VI, 2 il contrasto lega un momento di felice incontro alla normalità della vita, qui arricchita dall’amizia che nasce da quell’incontro (non senza una punta di paternalismo: il Boccaccio conclude la novella parlando di messer Geri, che « sempre poi per da molto l’ebbe e per amico »). In questa prospettiva il comportamento di Cisti, sorretto da un’intelligenza attenta ai rapporti, diviene esemplare: grazie all’intelligenza la virtù si trasforma in valore sociale. Questa precaria uguaglianza

dell'ingegno, sempre da riconquistare, costituisce la sola democrazia possibile per il Boccaccio. La vera società ideale, per lui, si riconosce nella fitta rete dei rapporti di consapevole amicizia. La novella, nella levità del disegno; è dunque complessa, e conferma la funzione che si attribuisce il novellatore. Solo l’intellettuale, ripetiamo, può dare un sigillo esemplare a virtù necessarie al commercio quotidiano degli uomini. È il limite ideologico, ma anche la forza del Boccaccio narratore. Egli può raccogliere un aneddoto municipale, dargli dignità d’arte, elaborarlo con cura in ogni particolare per illuminarne il senso riposto, l’irrepetibile novità. Neppure in novelle del genere, apparentemente più esili, egli vien meno al proprio impegno stilistico. Al di là dei tempi in cui essa si costruisce sapientemente, di cui già si è discorso, il tessuto della

novella si svolge con un’accumulazione di sequenze e di incisi che arricchiscono lentamente la personalità del protagonista e lo impongono, stilisticamente, a messer Geri. Si pensi soltanto alla felicità di certi avverbi che costellano la narrazione: « ber sì saporitamente » ($ 12), « levato prestamente in pié » ($ 14), « diligentemento diè bere » ($ 17), « lietamente gliela empiè » ($ 27), « fattolo soavemente portare a casa » ($ 28), in una serrata alternanza

di prontezza e di calcolo, di gioia e di meticolosità sul piano enologico. Ma quel vino è il simbolo di un rapporto sapiente, occasionale ma controllato, che dà alla struttura dei periodi la limpida nettezza del « farsetto bianchissimo » ($ 11) di Cisti o di quei « due bicchieri che parevan d’ariento, sì eran chiari » ($ 11), e

conferisce alla vicenda una leggerezza che l’uso del diminutivo e del superlativo sa contenere nei limiti di una misura netta, rap| presentativa, mai leziosa. Attraverso quei bicchieri, quell’orcioletto 225

e quel botticello, l’individuo afferma la propria personalità rispet-

tando la distanza di classe: dando, soprattutto, a un’occasione il

suo esatto valore. L’amicizia è raggiunta sul piano mentale: e Cisti rifiuterà l’invito di messer Geri per non spezzare l’equilibrio di tale amicizia, meglio, di tale complicità intellettuale. In questo quadro di rapporti sociali, animati dalle sorprese dell'amicizia, si inserisce però un sentimento che si qualifica più nettamente come un elemento di rottura, o almeno di possibile squilibrio nei rapporti abituali. Questo sentimento è l’amore, nel quale la natura si manifesta con la forza vitale, comune a tutti, degli impulsi erotici. Se ritroviamo nel Boccaccio le distinzioni, correlative alla cultura dei vari personaggi, tra il puro appagamento degli istinti sessuali e l’elaborazione di una teoria più raffinata dell'amore propria di una élite sociale (e le ritroviamo, con una gamma intermedia assai vasta, espresse nella varietà degli stili), è anche vero,

preliminarmente, che immettendo tale impulso in un concreto spazio sociale, il Boccaccio ne coglie non solo l’estensione, ma anche la forza potenzialmente eversiva. La novella di Ghismonda (IV, 1) ne è una forte dimostrazione tragica. Ma non è detto che lo squilibrio sociale che può derivarne debba sempre avere una conclusione tragica, e che la tendenziale democrazia dell’eros, esplicitamente esaltata nella IV, 7, non possa aver posto nella società, se

gli amanti sanno agire con savia discrezione. Anche nei momenti più tesi e difficili è reperibile, nella narrazione del Boccaccio, l’umorismo di chi riconosce la legittimità dell’avventura o della passione, ma cerca di situarla nella società con modelli più aperti e spregiudicati di comportamento. È una liberazione totale di impulsi da lungo tempo inibiti: ma essa comporta, all’interno della convivenza umana, una costante e vigile intelligenza per controllarne i modi e impedirne gli errori. Anche su questo terreno si avverte nel Boccaccio un’opera di sottile mediazione intellettuale tra le esigenze di libertà proprie dell'amore e un’educazione sociale che le integra, per così dire, nelle strutture esistenti. L’amore, accettato con totale adesione, cerca dunque un suo nuovo statuto, postula un equilibrio più complesso dell’assetto sociale. E perciò l’amore non esclude mai, nei migliori personaggi boccacciani, l’intervento dell’ingegno: lo 226

richiede anzi, se vuol essere appagato senza pericoli per gli amanti e senza turbamento di un.ordine civile. Anche sul piano erotico l'avventura è inscindibile da un nuovo codice di rapporti, fatti di

audacia, ma cui presiede l’intelligenza. E l’amore può essere allora l’occasione concreta, e inevitabile, di un incontro e di uno scontro di natura intellettuale. Tale per esempio è il senso inedito della III, 2, insolitamente situata in un passato remoto e tenebroso, ai tempi del re longobardo Agilulfo: ma non è la fede storica, anche per un attento lettore di Paolo Diacono, a contare in una narrazione inventata di

fatto sulla base di fonti molto diverse. È però interessante che il Boccaccio la situi nell’alto Medio Evo, quasi a farne l’archetipo di una situazione che si può ripresentare con molte varianti nella società: alcuni passi della novella sembrano anzi confermare, come si vedrà,

tale intento

didattico.

Nella

III, 2 il racconto

sceglie

significativamente, attorno ad una donna (la regina, che esiste proprio come un oggetto di contesa), due uomini (il re e il suo palafre-

niere) che sono agli estremi della scala sociale. Lo schema del contrasto è evidente, e volutamente esasperato: i due protagonisti sono tanto lontani che in realtà non potranno mai affrontarsi direttamente. Si parleranno in modo allusivo, ma l’amicizia non potrà concludere l’avventura. Eppure la III, 2, anche se manca il contatto diretto, è nella sua essenza il duello intellettuale di due savi,

e. particolarmente impegnativo e pericoloso; seguito lungo una linea narrativa che troveremo, alleggerita dal sorriso comico, nella I, 4, mentre in questa è attenta e minuziosa. La tecnica analitica

è giustificata dalla situazione del palafreniere, il quale gioca la vita per appagare il proprio amore: un amore che tiene segreto, perché egli è non solo audace ma « savio », e capisce « questo suo amore esser fuori d’ogni convenienza » ($ 6). Il desiderio sensuale, nobilmente collocato da un umile servitore nella propria regina, vissuto come amore tenace e silenzioso, necessariamente solitario, perché

egli non può «con gli occhi... discoprirlo » ($ 6) neppure alla persona amata, e pur vitale, perché egli non può vivere se non riesce ad appagarlo, provoca una rischiosa avventura che porta al vero nucleo della novella: la gara serrata di due uomini (re Agi221

lulf e il palafreniere) ugualmente dotati di savia discrezione. La democrazia erotica apre cioè, in una situazione eccezionale, quel tema dell’uguaglianza dell'ingegno che è al fondo del contrasto boccacciano. Ed è un tema di tale rilevanza esemplare che il racconto si ferma talvolta in una pausa didattica, sintomatica delle preoccupazioni del narratore (anzi della narratrice, che non a caso è la savia Pampinea). Quando per esempio il re capisce, dalle domande preoccupate della regina, che qualcuno l’ha preceduto nel letto, decide subito, « come savio » (e la formula risponde esattamente

al « sì come savio » che aveva designato la riservatezza del palafraniere, e stabilisce un’ellittica rispondenza tra i due uomini), di

non svelare alla regina l'equivoco in cui è caduta. Tale prontezza di riflessi e tale dominio di sé vengono subito commentati: Il che molti sciocchi non avrebbon fatto, ma avrebbon detto: « Io non ci fu’ io: chi fu colui che ci fu? come andò? chi ci venne? ». Di che molte cose nate sarebbono, per le quali egli avrebbe a torto contristata la donna e datale materia di disiderare altra volta quello che già sentito avea: e quello che tacendo niuna vergogna gli poteva tornare, parlando s’arebbe vitupero recato ($ 18-19).

La rottura stilistica è netta, motivata da un’interruzione del rac-

conto che rappresenta una vera nota al testo, e non concerne più un re longobardo, ma i mariti di una società contemporanea. Il che è reso più evidente dall'andamento mimico, a battute gesticolate, del periodo, che sembra colto al volo in un interno familiare. È una glossa di chi parla a uomini vivi e presenti, per rendere esplicita la necessità del dominio di sé, onde evitare scandali inutili e, come in questo caso, anche ingiusti. AI di là tuttavia di questi interventi diretti della narratrice, ogni particolare ha una funzione rappresentativa, serve cioè a dar risalto, per usare le parole che commentano la novella nel cappello seguente, all’« ardire » e alla « cautela » del palafreniere (III, 3, 2). In tale fusione di ardire e cautela è la novità, anche sociologica, della figura del palafreniere: una sorpresa cui sa reagire, con altrettanto accorto controllo di sé stesso, il senno del re. Di qui,

proprio perché tali sono i termini del contrasto, l’implacabile minu228

zia descrittiva della scena notturna, che si ripete nella sala fra le due camere reali. Una ripetizione già significativa di quella democrazia dell’eros cui si è accennato: su questo piano, un palafraniere equivale a un re (se non è anzi migliore di lui, come la narratrice saggiamente sospetta). Il re e il palafraniere fanno dunque gli stessi gesti: non per automatismo, ma perché il palafraniere ha spiato, con un'attenzione acuita al massimo dal desiderio, i gesti del re

quando entra nella camera della regina. Attenzione che non esclude, nel palafreniere, una personale finezza div'intuito: « prima in una stufa lavatosi bene, acciò che non forse l’odor del letame la reina noiasse o la facesse accorgere dello inganno... » ($ 13). Sem-

bra un particolare pedante, ed è invece l’indizio di una grande raffinatezza. Il gesto del palafreniere è accortamente strumentale (la regina non deve accorgersi che egli non è il re), ma è volto anche a non disturbare la regina: il particolare igienico dimostra l’elevatezza del palafraniere, assume il senso di un omaggio cortese verso la donna amata. E la pulizia diventa un elemento di intelligenza amorosa, di rispetto per la donna. Quindi il re e il palafreniere sono colti nei medesimi gesti, con gli stessi strumenti (la mantella, il torchietto, la bacchetta): non solo perché sono livellati

nell'avventura notturna, ma perché ciò sottolinea la tensione mimetica del secondo. Poi il parallelismo si rompe: all’ardore silenzioso del palafraniere segue ia maliziosa scena notturna tra il re e la regina, stupita dell’insolita virilità del marito. Una scena che non ricade beffarda sul re, ma ne rileva piuttosto l’avveduta prontezza, nel momento

in.cui sta per entrare in azione, con due « su-

bitamente » che si susseguono nel periodo: « Il re, udendo queste parole, subitamente presunse la reina da similitudine di costumi e di persona essere stata ingannata, ma come savio, subitamente pensò, poi vide la reina accorta non se n’era né alcun altro, di non

volernela fare accorgere » ($ 18). E allora, tra le sale della reggia e la casa vicina alle stalle (l’ambiente è qui il segno della disuguaglianza sociale, come la camera e il letto della regina erano stati il segno dell’uguaglianza erotica), la lotta si svolge nella notte, coperta e serrata fino all’ultimo, protetta dall’istanza della savia discrezione, dalla finezza del duello giocato a distanza. E se il duello 229,

non può risolversi nell’amicizia, esso genera però, tra i due contendenti, un’allusiva complicità, evidente nelle parole finali del re: Poi, veggendo che senza romore non poteva avere quel ch'egli cercava, disposto a non voler per piccola vendetta acquistar gran vergogna, con una sola parola d’ammonirlo e di mostrargli che avveduto se ne fosse gli piacque; ed a tutti rivolto disse: « Chi ’1 fece nol faccia mai più, e andatevi con Dio » ($ 30).

E il Boccaccio sente il bisogno di una nuova glossa, rivolta ora ai potenti:

« Un altro gli averebbe voluti far collare, martoriare,

esaminare e domandate: e ciò faccendo avrebbe scoperto quello che ciascun dee andar cercando di ricoprire... » ($ 31). Ma il commento trae un senso dall’indiretta e sottile complicità che conclude la vicenda: il re ha capito, il palafreniere pure. Un atto di estrema audacia è stato compiuto; però nulla è stato turbato, nella reggia o nell'ambiente che circonda il re. Il commento del narratore ne riceve una nuova luce: se la natura, mediante l’amore, stimola l’in-

telligenza degli individui e contiene dunque in sé un elemento di sfida che contesta l’autorità e l’ordine gerarchico, l’intelligenza può anche, accettata la sostanziale sanità della natura, mantenere intatti i necessari rapporti di civiltà tra gli uomini. È quanto avviene nella I, 4, ma in una ben diversa dimensione di comicità e di sensualità en plein air. Il monaco gagliardo, « fieramente assalito... dalla concupiscenza carnale », ($ 5), è immesso

in un’atmosfera più ilare e gioviale; ma non per questo è minore l’attenzione psicologica. La sensualità del giovane monaco, « il vigore del quale né la freschezza né i digiuni né le vigilie potevano macerare » ($ 4), è tutt'uno con la sua pronta intelligenza. Si potrebbe anzi dire che l’avventura sensualf non è neppure in primo piano, perché essa è pienamente accettata come un fatto naturale, è ciò che meno sorprende. Ed è questo l’aspetto sottilmente paradossale della novella: quanto avviene a una giovinetta, a un giovane monaco, a un abate il quale, « ancora che vecchio », sente « non

meno cocenti gli stimoli della carne » ($ 15), è perfettamente plausibile; non ha in sé, come

fatto naturale, nulla di straordinario.

La malizia del narratore è proprio nella limpida serenità del rac230

conto. In primo piano, invece, è il duello d’astuzia tra il monaco

e l’abate, che si conclude con la pace dei due contendenti, con una

reciproca soddisfazione. Ritroviamo lo schema essenziale del contrasto. Non a caso, del resto, la novella segue quella di Melchisedech e del Saladino, fondata sul tema della tolleranza religiosa. In questa, tra due religiosi, viene alla fine accettata una seconda tolleranza: quella fondata sulla natura, che non si può conculcare né con le preghiere né con i digiuni, e va assunta con gioviale serenità, senza inutili drammi. Questa, per il Boccaccio, l’alta lezione di un

registro comico correlato ma non opposto a quello tragico: saper situare l'avventura umana, riconoscere forze comuni a tutti, fuori

di vane ipocrisie e di vane mistificazioni (il che non sa fare, appunto, Tancredi nella IV, 1). Continua perciò in questa novella, nonostante la svolta tematica impressa da Dioneo, l’ispirazione fondamentale della prima giornata: che non è solo la dimostrazione, come è detto nel cappello della novella seguente, della « forza delle belle e pronte risposte » (I, 5, 4), ma l’inverarsi di esse nei rapporti concreti di singoli personaggi. Rapporti che sanno rispondere all’accortezza con l’accortezza; che presentano all’iniziativa dell’uno la sorpresa scattante della perspicacia di un altro, nel quale la novella o il motto costituiscono il logico epilogo di una condotta esemplare. Nella I, 4 è il senso come logica naturale, come rapporto natura-ingegno, a trionfare nella novella: e il « monisterio » in Lunigiana è assunto, per ironica antifrasi, come il luogo deputato alla negazione degli istinti naturali. Da quel luogo esce, nella campagna battuta dal sole, il giovane monaco, quando è « fieramente assalito... dalla concupiscenzia carnale » ($ 5): l'ironia è sottolineata dall’uso di una

terminologia chiesastica, che definisce un impulso naturale col vocabolario che si applica al peccato. È trascritto all’inverso il racconto di una tentazione: e infatti il giovane monaco asseconda con prudenza (« niuna persona se ne accorse ») ma rapidamente gli im-

pulsi della dea Natura. Non è questo il peccato: il pericolo può

venire solo dall’uomo, in questo caso dall’abate. Il periodo comincia allora a svolgersi in un giro ampio e sottile, che segue l’articolazione interna del pensiero e l’attuazione di un disegno: 231

avvenne che l’abate, da dormir levatosi e pianamente passando davanti alla cella di costui, sentì lo schiamazzio che costoro insieme

faceano; e per conoscere meglio le voci, chetamente

s’accostò al-

l’uscio della cella ad ascoltare, e manifestamente conobbe che dentro a quella era femina, e tutto fu tentato di farsi aprire; poi pensò di voler tenere in ciò altra maniera, e tornatosi alla sua camera, aspettò che il monaco fuori uscisse ($ 7).

Prima un’azione discreta, una tensione mentale; poi un momento di scatto possibile (anche l’abate è tentato:

ma dalla tentazione tut-

ta terrena di fare uno scandalo che prova re Agilulf nella III, 2), infine un controllo di sé e della situazione (per punire il monaco,

come Agilulf vuol punire lo sconosciuto servitore). Si delinea già in queste righe uno dei protagonisti del contrasto: l’abate, accorto ma di un’accortezza ambigua, quasi sorniona, propria di chi, come risulterà più oltre, è abituato più del monaco ai compromessi dell’ipocrisia sociale: e pensando seco stesso che questa potrebbe essere tal femina o figliuola di tale uomo, che egli non le vorrebbe aver fatta quella vergogna d’averla a tutti i monaci fatta vedere, s’avvisò di voler prima veder chi fosse e poi prender partito; e chetamente andatosene alla cella, quella aprì e dentro entrò, e l’uscio richiuse ($ 14).

Di contro il monaco, vigile e intuitivo: Il monaco, ancora che da grandissimo suo piacere e diletto fosse con questa giovane occupato, pur nondimeno tuttavia sospettava; e parendogli aver sentito alcuno stropiccio di piedi per lo dormentorio, ad un piccolo pertugio pose l’occhio e vide apertissimamente l’abate stare ad ascoltarlo, e molto bene comprese l’abate aver potuto conoscere

quella giovane esser nella cella ($ 8).

Neppure il monaco perde il controllo della situazione: non si abbandona totalmente a un piacere pur « grandissimo », ma sta in sospetto, continua a far funzionare il suo cervello. Tutta la novella, se si fa attenzione, è punteggiata da verbi e avverbi che esprimono il conoscere, il sospettare e il capire, lo stare attenti, il procedere con cautela: la nervatura del racconto è data da questi elementi, che implicano un’azione sempre sorvegliatada una pre232

liminare attività intellettuale. Tanto è vero che il giovane monaco,

sorpreso da una prima disavventura, non si perde d’animo, non lascia trapelare il suo imbarazzo neppure alla giovane: « ma pur, senza del suo animo niente mostrare alla giovane, prestamente seco

molte cose rivolse, cercando se a lui alcuna salutifera trovar ne potesse » ($ 9). L’enumerazione si snoda rapidissima: « prestamente... rivolse », « cercando... », fino alla « nuova malizia » che gli

porterà soccorso:

il piacere erotico coesiste, con singolare eviden-

za, con una tensione di carattere mentale. La lotta di astuzia tra i

due è chiaramente annunciata; su questo e di maliziose sequenze la novella fluisce conclusivo del giovane monaco. Un motto sentimento sempre più gioioso di riuscita,

ritmo di incisi interni serrata fino al motto anticipato da un predi trionfo: « tutto ras-

sicurato, estimò il suo avviso dovere avere effetto »; « l’ebbe per certissimo » ($ 19); e infine, dopo che la situazione si è rovesciata

e il monaco è andato « chetamente » a un « pertugio della cella » ($ 19), « prontissimamente

rispose » ($ 21). Tutta la struttura

della novella è fondata su questa rapidità di riflessi e di azione: che approva i due religiosi svalorizzando solo il convento. L’abate infatti non è uno sciocco; più che dal giovane monaco, è sconfitto anche lui dagli « stimoli della carne » ($ 15), cioè dalle forze incoercibili della natura. È vero che l’abate fa dapprima un tentativo di sopraffazione gerarchica, che rompe la legge naturale; ma si riconcilia col monaco quando riconosce l’intelligenza dell’avversario, e la riconosce, in quell’attimo, non più da superiore, ma da

discreto compagno di sana e intelligente sensualità: L’abate, che accorto uomo era, prestamente conobbe costui non solamente aver più di lui saputo, ma veduto ciò che esso aveva fatto;

per che, dalla sua colpa stessa rimorso, si vergognò di fare al monaco quello che egli, sì come lui, aveva meritato. E perdonatogli e impostogli di ciò che veduto aveva silenzio, onestamente misero la giovinetta di fuori, e poi più volte si dee credere ve la facesser tornare ($ 22).

L’ipotesi finale è una glossa maliziosa di Dioneo, che assolve per la prima volta la sua parte di provocatore, con un effetto scontato 233

subito nel cappello che segue (I, 5, 2-3): ma il resto sta a significare tanto l’universalità di certi impulsi quanto l’« onestà », sociale con cui essi vanno assecondati. Anche nel convento è possibile conciliare le esigenze del decoro con quelle della natura: è una prima, saggia lezione comica. Ma essa ne contiene una più importante, e

ugualmente valida in altri ambienti: la rinuncia, da parte dell’abate, a un autoritarismo che sarebbe solo ipocrita mistificazione. Il che non toglie all’abate l’autorità che gli compete (« perdonatogli e impostogli... silenzio »): solo che egli ha riconosciuto, nel momento eccezionale dell’avventura, il valore del giovane monaco, e con esso una parità naturale e intellettuale. Il contrasto si risolve in ammic-

cante complicità. Un ambiente di campagna inquadra anche il contrasto della IX, 4: ma in essa il « senno » dell’Angiulieri è sopraffatto dalla « malizia » del Fortarrigo ($ 3), e lo scontro precipita nella sconfitta del migliore e nella vittoria del più tristo. La novella, in questo senso, ci fa assistere a una svolta tematica: l’ingegno è in essa usato, consapevolmente, a scopo di inganno e di raggiro, si traduce in « malizia ». Andando oltre il segno, l’intelligenza apre un nuovo débaz, molto più crudele, irreparabile sul piano dei rapporti. E non a caso i protagonisti sono due scapestrati, due disadattati (li accomuna un medesimo odio nei riguardi del padre, ed è anzi quest’odio che li rende amici), in una posizione potenzialmente o esplicitamente irregolare rispetto alla società. Naturalmente, in questa dimensione comune,

il Boccaccio non manca di rilevare le differenze individuali: l’Angiulieri è « bello e costumato », parte per migliorare la sua posizione ($ 6), mentre il Forta:rigo è chiaramente un avventuriero, dedito

al gioco e spesso ubriaco ($ 8). Resta che nella novella l’orizzonte tematico si allarga a personaggi più pittoreschi ma anche ai margini della convivenza sociale, che si trovano in una posizione di precarietà o di rivolta nei riguardi di una civiltà comune. Ciò provoca nel Boccaccio una conseguenza rilevante sul piano narrativo, che 8 Per una diversa interpretazione, volta al gioco « combinatorio » per il testo e a una definizione « istintiva » per i personaggi, si veda ora G. ALMANSI, Lettura della quarta novella del « Decameron », in « Strumenti critici», IV (1970), 13, pp. 308-317. i

234

investe non solo lo stile « comico » ma la struttura stessa della novella. Nella VI, 2, per -esempio, attorno ai due personaggi fon-

damentali (Cisti e messer Geri Spina) si delineava un coro di comparse (gli ambasciadori del Papa, i famigliari di Cisti, il famigliare

di messer Geri): il dibattito era anche spettacolo, presupponeva gli spettatori di un rapporto eccezionale tra un fornaio e un ricchissimo finanziere e diplomatico. Però tutti gli elementi della novella si concentravano sui due protagonisti, erano in funzione del loro rapporto: tanto l’allocuzione di Cisti ai compagni, che era un’indiretta cortesia verso gli ospiti, quanto le parole di Cisti al famigliare di messer Geri, che s’indirizzavano di fatto a quest’ultimo: « subito gli occhi gli s’apersero dello intelletto » ($ 26). Nella VI, 2 il coro aveva cioè una funzione di sfondo scenico,

rappresentava la dimensione cittadina in cui tutti i ceti sociali vengono a contatto. Anche nella IX, 4 un coro (prima la famiglia dell’oste, poi i contadini) segue la tenzone tra l’Angiulieri e il Fortarrigo: ma esso è essenziale alla commedia del secondo. Pur fingendo di parlare all’Angiulieri, il Fortarrigo parla in effetti sempre agli altri, perché possono assicurare la riuscita della sua « malizia »: rifiuta anzi di ascoltare l’Angiulieri, come se questi parlasse a un altro; e il Boccaccio lo rileva con finezza: « Il Fortarrigo, non come se l’Angiulieri a lui, ma ad un altro dicesse, diceva: « Deh, Angiulieri... » ($ 15). Si crea una situazione imbrogliata (sottolineata dalla replicazione « dicesse, diceva »), dove chi rifiuta il dialogo

cerca di apparire colui che invece lo sollecita. In realtà il Fortarrigo si rivolge sempre alla folla che lo circonda, usando parole e frasi ambigue, che suonano diversamente all’Angiulieri, che conosce i fatti, e agli altri, che non li conoscono:

« fammene questo piacere,

perché io gli misi a suo senno. Deh! perché non ci miglioriam noi questi tre soldi? » ($ 15); dove il Fortarrigo cerca addirittura di

rovesciare la situazione, e di far apparire l’Angiulieri come sperperatore e imbroglione. Perciò il coro, prima nella scena dell’albergo poi in aperta campagna, permette alla truffa del Fortarrigo di avere un esito concreto, provoca la sconfitta dell’Angiulieri: diventa cioè un elemento decisivo nella struttura della novella. Ne deriva che il dialogo tra i due acquista un diverso valore: è piegato alla 250

finzione dell’attore, il quale deve ingannare non l’avversario (che è al corrente della situazione) ma la folla, per portarla dalla propria parte e in questo modo truffare l’avversario. La commedia del Fortarrigo nasce dunque da una consapevole volontà di recitare una commedia, da un impegno di attore; qui anzi, a differenza di quan-

to avviene per Ciappelletto, di recitare una commedia malgrado le proteste dell’antagonista. Mentre l’Angiulieri non vuole recitare ed esprime un sentimento reale, il Fortarrigo usa coscientemente la parola non come dialogo, comunicazione, complicità tra due esseri, ma come strumento di gioco e di finzione. La novella, sul piano strutturale, acquista allora un nuovo volume: dallo schema dialogico del contrasto si passa a una più singolare commedia della truffa; e la truffa ha bisogno di una dimensione scenica più ampia, di un coro di personaggi che assistono alla commedia, che sono prima spettatori e poi vi intervengono, ne determinano l’esito divenendo anch’essi attori. Tutto ciò crea uno serie di contraccolpi: se l’Angiulieri è truffato dal Fortarrigo, e disperato per questo, i veri beffati sono gli ospiti dell’albergo e poi i « lavoratori » della campagna. Si sovrappongono vari livelli narrativi: c’è un dialogo falso tra i due, e un coro che ascolta questo dialogo; e il rapporto fra questi due piani crea a sua volta un altro malinteso, che permette un dialogo ulteriore, vero e falso insieme,

all’interno di una nuova dimensione comica. In questo la novella è un meccanismo perfetto, pur mantenendo sempre la discriminazione iniziale tra i due personaggi. L’Angiulieri è sdegnoso e impulsivo, debole e incapace di controllo: cede dapprima alle insistenze del Fortarrigo, poi, quando si accorge di essere derubato, provoca un « rumor » grande, mette « in turbazione » tutta la casa dell’oste ($ 12), e infine, « turbatissimo », dice al Fortarrigo « una grandissima villania » ($ 14). L’Angiulieri è incapace del controllo di sé e di quell’uso strumentale della parola che è proprio dell’attore. Mentre il Fortarrigo recita imperturbabile la sua commedia, quasi gelando in sé stesso il sorriso con cui architetta la sua sottile malizia. Nel Fortarrigo si assiste ad una metamorfosi notevole del personaggio boccacciano: c’è in lui un sesto senso, la percezione di una folla intorno che è sempre pronta ad essere raggirata da un viso fermo 236

e da una parola di lusinga: « e a’ villani rivolto, disse: “Vedete, signori, come egli mi avea... » ($ 22). Basta quel « signori » a far

sì che i contadini siano subito, d’istinto, dalla parte del Fortarrigo. Il Boccaccio aggiunge ironicamente: « L’Angiulieri diceva egli altresì, ma le sue parole non erano ascoltate » ($ 23); gli manca la reto-

rica comica di cui avrebbe bisogno per esser capito. Perciò la novella, a differenza delle precedenti, non segna più tra due contendenti una discriminazione morale e intellettuale; coglie solo una diversa capacità di recitazione, di gioco verbale inventivo, rispetto a un coro che interviene e conferisce una dimensione scenica nuova al débat boccacciano. L’epilogo ristabilisce naturalmente tra i due la distanza di intelligenza e di costumatezza annunciata nel prologo; ma i due tempi centrali della novella, determinanti per la sua struttura, mostrano nel Boccaccio nuove capacità di commediografo, e proprio nel senso tecnico del termine. Siamo così al limite di un nuovo modo narrativo: sullo schema della novella-contrasto, esemplare nel rapporto tra due personaggi, nasce un linguaggio più com-

plesso, quello del racconto che ha l’evidenza scenica della commedia.

251

Verso la commedia: il mimo

Dal racconto al romanzo, dal definirsi in essi di una misura deli-

mitata di novella al tendere di questa verso la parabola esemplare, dalla conseguente elaborazione del contrasto all’aprirsi di una nuova dimensione scenica e corale, si è seguito un itinerario che non ha né vuole avere — è forse opportuno ribadirlo — alcun significato diacronico. Esso indica piuttosto la presenza, all’interno del Decameron, di una ricerca narrativa molto aperta, che non coincide con lo svolgimento del disegno tematico e neppure col valore oggettivo dei singoli temi, cui risponderebbe un’automatica adesione dello stile. Si è anzi potuto rilevare, tanto per la varietà dei rapporti dell’uomo con gli eventi esterni quanto per i gradi di coscienza che regolano gli incontri tra individui, una gamma assai ampia di soluzioni narrative, connesse alle vitali sperimentazioni che affronta lo scrittore quando scopre, seleziona e descrive la realtà terrena. Dall’ambigua neutralità con cui vengono raccontate le vicende di Alatiel (II, 7) all'immediata evidenza con

cui è invece presentata la truffa canagliesca del Fortarrigo (IX, 4), è semmai possibile riconoscere il tracciato di una curva, che parte da un punto di estrema passività del personaggio, sale verso un culmine di nobile ed eroica consapevolezza nell’azione (X, 3; IV,

1) e discende gradualmente verso un’energia più immediata e locale. È una curva che ci rinvia, certamente, al diverso risentimento

del contenuto nella pagina, ma anche a soluzioni narrative assai mobili che rispondono, nei vari segmenti di essa e all’interno di un essenziale schema strutturale, alle sollecitazioni divergenti suscitate nello scrittore dalle sorprese del reale e degli uomini, dal

vario tipo di compenetrazione tra « avvenimenti » e « atti ». E in

questa interferenza

di piani si può cogliere una storia interna

239

al Decameron, talvolta sensibile nel corpo stesso di una novella (si

pensi alla VII, 7): una storia che suggerisce un itinerario meno rettilineo e più accidentato dello scrittore, il cui impegno è segnato dalla coerenza stilistica con cui si traduce di volta in volta un motivo determinante. Si possono dunque avvertire, all’interno di un sistema narrativo e in una logica sostanzialmente sincronica, non solo un gioco di combinazioni estremamente libero ma anche una serie di contraccolpi stilistici provocati dalla diversa funzione espressiva che un tema assume nell’ambito di uno schema di base. Sono precisazioni necessarie, penso, per capire ora che la tendenza del racconto o del contrasto a risolversi in un modo narrativo di commedia (tendenza rilevabile, in diversa misura, nella II,

5 o nella IX, 4) non implica soltanto un discendere del Boccaccio verso lo stile comico, rispondente alla canonica traiettoria che porta da ambienti e personaggi elevati a elementi inferiori e giocosi della realtà. È questa un’esigenza di poetica di cui il Boccaccio è certo consapevole, e assicura una prima coerenza retorica tra la materia e

lo stile: ma l’invenzione del narratore non risiede in tale automatismo.' Si è insisito, a più riprese, sugli imprevisti di cui sono ricchi al loro interno tanto un ambiente cortese e aristocratico quanto un ambiente cittadino e borghese; può dunque risultare fallace la correlazione da tempo stabilita tra l’astratta tensione di un mondo ideale e la comica presenza di un mondo inferiore. Si tratta piuttosto di un diverso modo di affrontare la realtà: di elaborarla cioè, al

livello narrativo, come immediatamente contemporanea, traducibile nella vitalità del gesto e della parola in una precisa dimensione di spazio e di tempo. È un atteggiamento che comporta un iniziale impulso realistico: e lo schema selettivo e tendenzialmente stiliz1 Acute osservazioni sul comico del Boccaccio, sulla sua finezza tematica e stilistica, sulla fantasia che spinge all’avventura il personaggio e lo rende « attore », sono reperibili in S. BATTAGLIA, L’estro del Boccaccio, già Introduzione a Novelle burlesche del Decamerone, Roma, 1943, ora in La coscienza letteraria... cit., pp. 685703. Per la tradizione di stile e di linguaggio che è presente in molte pagine comiche del Boccaccio, indispensabile M. MARTI, Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di Dante, Pisa, 1953; e si veda anche G. PADOAN, Mondo aristocratico... cit., pp. 113-116.

240

zato del contrasto, quasi luogo deputato in sede narrativa per l’incontro di due personaggi, è.rotto da un più deciso intervento della quotidianità. Lo scenario si popola di personaggi meno eccezionali, più congruenti al normale tessuto della convivenza umana: ne scaturisce, in potenza, un’esemplarità più vicina al vissuto, subito comunicabile a un pubblico. Tale irruzione del reale, si badi, è però ben

controllata

dall’invenzione

stilistica

del Boccaccio,

convo-

gliata cioè nella ricerca di un diverso modo natrativo. La curiosità dello scrittore per lo spettacolo della vita è ora espressa più specificamente, di fronte al molteplice, al mobile e al rumoroso del quotidiano, da un’accentuata distanza (il che è solo apparentemente un paradosso), grazie alla quale la posizione del narratore coincide con quella di un autore-spettatore. E in una prospettiva ben precisa. Il personaggio è cioè rilevato, con la sua vitale novità, nel senso teatrale del termine: si muove e agisce, nell’evidenza dei suoi rapporti, in una dimensione spaziale che è una sorta di palcoscenico costruito e delimitato dal narratore; e vi è realizzato in gesti e battute sufficientemente eloquenti per non richiedere se non alcune didascalie di raccordo. Anche in questo campo il Boccaccio inventa, nel corpo del narrabile, i modi del teatrabile: elaborando uno stile di commedia che ci spiegherà, tra l’altro, le ragioni profonde dell’influsso determinante che egli eserciterà sulla commedia del Cinquecento. Egli inventa insomma un linguaggio contemporaneò nell’accezione teatrale del termine, se il teatro presuppone una relazione diretta del pubblico con l’azione, una percezione del gesto e della parola libera da mediazioni filtranti. Il lettore del Deca‘meron diventa idealmente uno spettatore: l’avventura è proposta nel momento in cui avviene, senza che nulla si frapponga a suggerirne l’interpretazione: il che non significa che l’azione rappresentata non possa poi liberare una saggia lezione morale e di costume. Come nella commedia, l’intensa località dell’accadimento è lo specchio in cui si concentrano i meccanismi che regolano la vita quotidiana dell’uomo. Quelle che si definiscono spesso, con formula esterna e logorata, novelle « comiche » rappresentano in realtà prove tra le più ardue del Boccaccio, non a caso con esiti non sempre perfetti: perché lo sguardo lucido e intenso sui frammenti di vita 241

“tnng

postula la ricerca di nuove forme espressive, di un linguaggio segnato dall’esattezza di ritmo nel nesso tra dialogo e azione. Già alcuni racconti tendono, nella stessa rapida successione dei fatti, in questa direzione: pur dominando ancora la concatenazione degli eventi, cui sono subordinati i vari personaggi. Si legga la II, 1, tra le migliori del Boccaccio:

novella veloce, animata

da

un fervore ritmico che ben risponde all’abilità mimetica e buffonesca di Martellino, il quale non a caso è un istrione, un trasforzzi-

sta per mestiere. La novella è costruita per accumulazione di quadri, meglio, a sequenze successive tutte affidate ai gesti e alle battute dei personaggi, quasi proiettati su uno schermo che ne mette in evidenza la qualità essenziale di movimento, li riduce a elementi di un ritmo temporale. Avvengono in un certo spazio, l’uno dopo l’altro, gesti e parole: per questo si può parlare della tecnica del mimo, del prevalere di movimenti cui difetta il retroterra riflessivo proprio di molti personaggi boccacciani. La tecnica è semplificata, il personaggio è subito estroverso: il gesto si identifica col personaggio. Non a caso, nella novella, personaggio, e per un certo lato protagonista, è la folla; il personaggio più impersonale, se così si può dire, spesso risolto nel Decazzeron in una facilità di reazioni irragionevoli e precipitose, che escludono gli antecedenti interni di un’azione. Non l’intelligenza è qui in primo piano *; solo apparentemente Martellino è al centro dell’azione, e la sua bravura

consiste in un riflesso di mestiere e in quella facilitàal motteggio e all’improvvisazione propria dei fiorentini. Egli non domina la folla come frate Cipolla (VI, 10), alla cui genialità istrionica essa dà rilievo: è piuttosto Martellino a dare rilievo alla folla, sulla quale si appunta ironico e curioso l’occhio del narratore (anche il giudice, alla fine, è folla, istinto irragionevole, quando vuol fare

impiccar Martellino per « odio ne’ fiorentini »). La folla non solo 2 Come inclina a credere N. SaPEGNO, in G. Boccaccio, Dal Decameron e dalle opere minori, Firenze, 19392, p. 41; e in fondo anche A. Momictiano, Il Decameron... cit., che accentra su Martellino la propria interpretazione, lo vede sicuro di sé (p. 98), ne apprezza la « destrezza intelligente » alla fine (p. 100); e trova quindi « brusco » qualche passaggio (p. 95), mentre è proprio nella rapidità dei passaggi la vitalità « tecnica » della novella. Mette finemente in rilievo il fondo « FETI » dell'ironia della novella V. PERNICONE, in I/ Decameron... cit., p. 48.

242

conferisce un ritmo incalzante al racconto, ma è intrinsecamente necessaria alla tecnica della novella: qualificata dal gusto mimetico del Boccaccio, che/tende a rappresentare insieme la contraffazione di Martellino e gli effetti di questa sugli spettatori, con un risultato di ulteriore contraffazione stilistica che si sposta mobilissima entro questi due poli. L'efficacia della novella è tutta di natura cinetica, dove l’intuizione di partenza, cioè l’equivoco che può sorgere tra un attore e la folla e le conseguenze inaspettate che un fatto minimo e casuale può imprimere a tale equivoco, si risolve in un crescendo di sequenze che danno l’immediata evidenza dell’azione rappresentata. Perciò gli uomini sono esplicitamente semplificati in tipi, e colti volutamente nella meccanica comicità di atteggiamenti comuni: già nei sapienti periodi della cronaca iniziale, che batte con malizia di incisi e di ripetizioni sui « trivigiani ». Fin dalle prime frasi risulta che Arrigo « uomo di santissima vita e di buona era tenuto da tutti. Per la qual cosa, o vero o non vero che si fosse,

morendo egli, addivenne, secondo che i trivigiani affermano...» ($ 3-4). Il suono spontaneo delle campane è rinviato alla fede dei trivigiani: « Il che in luogo di miracolo avendo, questo Arrigo esser santo dicevano tutti; e concorso tutto il popolo della città alla casa... » ($ 5). Nasce allora immediata l’idea del corpo miracoloso:

« quasi tutti dovessero dal toccamento di questo corpo divenir sani » ($ 5). C'è un’insistenza voluta (« tutti », «i trivigiani », « dicevano tutti », « tutto il popolo », « quasi tutti dovessero ») su una collettività che agisce compatta, come personaggio unico; un’insistenza che sottolinea la distanza del narratore, propria di un regista che annuncia un divertimento comico. È subito chiara la duplice visuale narrativa della novella: il fanatismo di una collettività, la distanza comica del narratore rispetto ad essa. Poi, in questa folla mossa é agitata (prosegue infatti: « In tanto tumulto e discorrimento di popolo »; che è la prospettiva del quadro scenico), vengono introdotti i tre compari fiorentini: il contatto genera d’ora in poi una serie fittissima di sequenze narrative. Prima sequenza:

1

tre, di fronte allo spettacolo insolito, « disiderosi divennero d’andare e vedere » ($ 6); e Martellino, « che di vedere questa cosa 243

at,

disiderava » ($ 8), trova l'espediente. L’unico impulso di Martel-

lino e dei compagni è godersi lo spettacolo. La loro posizione di partenza è quella del Boccaccio: la voglia di essere spettatori divertiti. Nella velocità degli enunciati, i personaggi coincidono col narratore. Ma Martellino è uno spettatore che diventa presto personaggio attivo: impedito dalla folla, ha un’idea improvvisa per arrivare alla chiesa. Ed entra subito in azione, espone la sua idea in un dialogo perspicuo, fatto di battute essenziali: « Per questo non rimanga, ché di pervenire infino al corpo-santo troverò io ben modo ». Disse Marchese: « Come? ».. Rispose Martellino: « Dicolti. Io mi contraffarò a guisa d’uno attratto... » ($ 8-10). E a Marchese e a Stecchi piace « il modo » ($ 11): non ci sono pause

superflue. Seconda sequenza: « e senza alcuno indugio usciti fuor dello albergo, tutti e tre in un solitario luogo venuti, Martellino si storse in guisa le mani... » ($ 11). Mette in atto la sua specia-

lità, si contraffà come fosse « tutto della persona perduto e rattratto » ($ 11). Il periodo è solo affidato, con visiva evidenza, ai gesti di Martellino. Terza sequenza: i tre si inseriscono nella folla « in vista tutti pieni di pietà » ($ 12): i personaggi iniziano automaticamente la recitazione per il pubblico, cui l’immagine è subito rinviata: « riguardati da tutti, e quasi per tutto gridandosi, “fa luogo, fa luogo” là pervennero...» ($ 12). Il contatto tra i tre attori e la folla è ora stabilito: e si sviluppa irresistibile l’avventura scenica. Quarta sequenza (le giustapposizioni sono rapidissime): Martellino si distende, compie l’operazione contraria a quella

eseguita alcuni momenti

innanzi:

e l’azione è ritrascritta nello

stesso modo, con le stesse frasi, ma con un movimento esattamente

inverso. Naturalmente essa si svolge in mezzo a « tutta la gente attenta a vedere che di lui avvenisse » ($ 13) — si noti « tutta la gente », variante di un modulo ossessivo della novella —; a miracolo compiuto, riuscito cioè il mimo, il pubblico risponde subito: « Il che veggendo la gente, sì gran romore in lode di Santo Arrigo facevano, che i tuoni non si sarieno potuti udire » ($ 13). La di-

dascalia sottolinea comicamente il culmine della situazione, la perfezione del « numero » eseguito dall’attore. Un passaggio rapido e brusco sposta la visuale del narratore;

244

segnato, anche stilisticamente, da una rottura:

« Era per avven-

tura un fiorentino vicino a questo luogo, il quale molto bene conoscea Martellino...

» ($ 14). Tra la folla, l’attenzione del regista

isola ora un nuovo personaggio imprevisto, un fiorentino di passaggio a Treviso: e si passa di colpo alla quinta sequenza, che coglie il dialogo immediatamente reattivo, privo di inflessioni complicate, tra il fiorentino divertito che apprezza « queste ciance di contraffarsi » ($ 16) e i trevigiani sorpresi e sbalorditi: « “Domine,

fallo tristo! Chi non avrebbe creduto... che egli fosse stato attratto da dovero?” Queste parole udiron alcuni trivigiani, li quali incontanente il domandarono: “Come! Non era costui attratto?”. A’ quali il fiorentino rispose: “Non piaccia a Dio! Egli è stato sempre diritto...” » ($ 14-16). Basta questo ad alcuni per farsi largo gridando: « Sia preso questo traditore e beffatore di Dio e de’ Santi...» ($ 17); la situazione, una

cidente, sequenza, tellino e li capelli

volta esploso casualmente

l’in-

precipita, sempre di colpo, nella mischia della sesta che capovolge il primo effetto della recitazione di Marrovescia i rapporti tra pubblico e attore: « e presolo per e stracciatigli tutti i panni indosso, gli incominciarono a

dare delle pugna e de’ calci; né parea a colui esser uomo, che a questo far non correa » ($ 18). Una seconda didascalia, che tradisce

l’interesse centrale dello scrittore per il ritratto della folla impulsiva e irragionevole: prima tutti gridavano al miracolo, ora tutti straziano Martellino, che rischia di rimaner sopraffatto: « la calca gli multiplicava ognora addosso maggiore » ($ 19). L’attore sta per scomparire, risucchiato dalla massa che torna a dominare il quadro scenico. In questo momento di drammatica suspense, lo sguardo del narratore si sposta, nella settima sequenza, su un altro primo piano, cioè sui due compari di Martellino. Stecchi e Marchese, i quali « con gli altri insieme gridavano ch’el fosse morto » ($ 20), costret-

ti come sono a fondersi con la folla per istinto di conservazione, pensano però al modo di salvare il compagno. La circostanza è espressa con brevissime didascalie: « non ardivano ad aiutarlo »; « avendo nondimeno pensiero tuttavia come trarre il potessero delle mani del popolo » ($ 20): il periodo punta, in posizione forte, 245

È 5 T

sul popolo, che è sempre il protagonista agitato del quadro. E Marchese prende infatti « subitamente » il suo « argomento » ($ 20) ricorrendo a chi gli capita sott'occhio: «la famiglia tutta della signoria » ($ 21), cui si rivolge col pretesto di essere stato deru-

bato, creando un’opportuna diversione (la quale, come in ogni buona farsa, chiama in scena i cosiddetti tutori dell’ordine). L’espediente, se risolve in tempo la prima avventura, ne provoca come è logico una peggiore. Si passa all'ottava sequenza, con una rapidità sottolineata dall’avverbio iniziale, corrispondente a quello che aveva preceduto il gesto di Marchese: « Subitamente, udito questo, ben dodici de’ sergenti corsero là dove il misero Martellino era senza pettine carminato, e alle maggiori fatiche del mondo rotta la calca, loro tutto pesto e tutto rotto il trassero delle mani e menaronnelo a palagio » ($ 22). È sempre sottolineato, nelle fatiche dei sergenti, il tema della folla, che ha ridotto davvero a mal partito Martellino, non più attore ma vittima reale: tema prolungato da quei « molti » che lo seguono, i quali, udita l'accusa, « similmente cominciarono a dire da lui essergli stata tagliata la borsa » ($ 22). L’allucinazione collettiva, caratterizzata dall’ondeggiare tra gli opposti, si trasforma ora in esplicita e sempre tipica crudeltà. Si passa alla nona sequenza. La scena muta e si sposta nel « palagio », presentando la figura, pure tipica, del « giudice del podestà »: un « ruvido uomo » brusco, il quale, « prestamente da

parte menatolo » ($ 23), non apprezza il comportamento di Martellin,, che « rispondea motteggiando, quasi per niente avesse quella presura » ($ 24). Non per nulla Martellino è fiorentino; ma applica incautamente, anche qui per istinto, un riflesso che è molto meno apprezzato a Treviso che a Firenze (non si dimentichi che siamo in area veneta, né l’aggressività del Boccaccio verso Vene-

zia: l'ironia di tipo campanilistico, un’ironia di secondo grado sottintesa al racconto, diviene più esplicita). E infatti il giudice, « turbato », lo fa « legare alla colla » e amministrare « parecchie tratte delle buone » ($ 24); e Martellino, che scherzava senza rendersi conto del pericolo, è ora costretto ad usare un argomento, del resto facile, di difesa. La situazione è apparentemente drammatica: in realtà tanto il giudice quanto Martellino sono due mac246

chiette, due figure comiche in movimento che obbediscono alla logica della farsa (dove la situazione comica sale sempre al limite del tragico, per poi risolvere le peripezie del protagonista nel lieto fine).

Tale

movimento

comincia

a delinearsi

nella

decima

se-

quenza, che sposta nuovamente la visuale (con un procedimento a sbalzi pure tipico della farsa) sui due compagni: « li quali avevan sentito che il giudice del podestà fieramente contro a lui procedeva e già l’aveva collato, temetter forte... » ($ 29). Raccontano il

fatto all’oste e poi a Sandro Agolanti, i quali ridono di buon umore; e sarà appunto l’Agolanti fiorentino, molto potente presso il « signore » di Treviso, a salvare Martellino. L’ironia si fa più evidente: non solo nel riso divertito del fiorentino, che crea tra i protagonisti una complicità municipale, ma anche nel fatto che tutto, incidente e soluzione, avviene per opera di fiorentiniin terra straniera. L’intermezzo accresce del resto la comicità della situazione: la difesa di Martellino appariva ingegnosa e onesta, eppure, eliminati di nuovo i passaggi intermedi, ritroviamo con sorpresa, nell’un-

dicesima sequenza, Martellino « ancora in camiscia dinanzi al giudice, e tutto smarrito e pauroso forte, per ciò che il giudice niuna cosa in sua scusa voleva udire » ($ 31). Lo scorcio ci fa assistere

alla metamorfosi ormai completa di Martellino, contraffatto non dalla propria arte ma dalle vicende che questa ha provocate. Il personaggio

è ora

tutt'uno

col meccanismo

che ha messo

in

moto. E allora l’ultima sequenza chiude il cerchio, e riporta logicamente la vicenda al suo tono iniziale: il buffone che ritrova a metà, perché ancora scosso dall’avventura, il coraggio di scherzare, il signore che ride divertito e ricompensa i tre, e la dissolvenza, per così dire, dei tre compari che prendono la via del ritorno: « di così gran pericolo usciti, sani e salvi se ne tornarono a casa loro » ($ 33). Si è intenzionalmente schematizzata l’analisi nel tentativo di adeguare il commento al ritmo narrativo della novella, alla sua volubile coerenza: fondata, appunto, sulla rapidità delle sorprese, sulla calcolata accumulazione di mimi comici. Calcolata, perché la novella tradisce, nella capacità di teatralizzare il racconto a sequenze successive, un precisa sapienza tecnica.

Possiamo ora definire meglio il ziz0. Esso è una forma germi247

nale di commedia, nella quale il personaggio è colto con rapida immediatezza nei gesti e nelle battute essenziali. Il personaggio è visto, osservato in movimento più che indagato; attuato nella pagina a una sola dimensione, quella che appare direttamente dal movimento e dalla parola. È un modo narrativo che dimostra un Boccaccio attento all’arte dei buffoni e dei giullari, così ricca di risonanze nella civiltà medievale. Non è forse un caso che nella II, 1 il protagonista sia Martellino: il quale sembra trasmettere allo stile del Boccaccio gli strumenti della propria arte, quasi a indicarci le possibili fonti concrete o almeno le suggestioni che il Boccaccio può avere tratte da questa elementare forma di teatro, tutta affidata alla capacità dell’attore. Anche in questo senso la novella è particolarmente interessante. Il mimo è dunque un antecedente espressivo che ha una sua autonomia, e una presenza nella società attestata da altre novelle del Boccaccio: ma non tanto il riflesso di un costume o l’attenzione esterna all’arte dei buffoni e dei giullari interessano qui in primo luogo, anche se costituiscono di per sé una spia illuminante, per un filone che si arricchirà al massimo nelle novelle del Sacchetti. Il mimo interessa piuttosto come fonte, nel Decameron, di una diversa possibilità di racconto: come simbolo eloquente di un modo narrativo che esige, per la semplicità del disegno, una raffinata sobrietà di mezzi espressivi, che sarebbe errore scambiare per esilità di strumenti e di risultati. Esso interessa in definitiva come esperienza interna alla ricerca del narratore: il quale, anche dove l’azione non richiede un insieme affollato e un meccanismo complesso come nella II, 1, sa dar vita a una serie di mimi d’ambiente dove il personaggio è visto come si/bowuette in movimento, colta in una dimensione scenica appena accennata ma essenziale. 3 Per l’importanza del mimo nel Medio Evo, e per alcune prime indicazioni bibliografiche, si leggano le pagine che vi dedica M. ApoLLonIo, Storia del teatro italiano, Firenze, 19543, vol. I, pp. 69-109: che stabilisce nessi precisi tra il mimo e la successiva produzione, non solo teatrale, ma letteraria e in particolare novellistica, e ricorda a questo proposito. il Boccaccio non solo per il gusto delle parodie dialettali (p. 94), ma per la frequenza delle novelle che attestano nel Decameron la gene degli uomini di corte e dei buffoni, tra le quali appunto la II, 1 (pp. 101102).

248

Un esempio di anesto trasferirsi della tecnica mimica nella pagina

del Boccaccio si ha nella IX, 2, che è un piccolo capolavoro di mimo

d’ambiente. È uno schizzodi interno conventuale, costruito con la

malizia di poche didascalie e con l'evidenza di alcuni gesti e battute.

Mentre la I, 4 è impostata sul duello d’astuzia tra due monaci,

nella IX, 2, il cui cappello richiama il tema del riprensore ipocrita e svergognato, la logica narrativa è data dalla dimensione corale di un « famosissimo monistero di santità e religione » ($ 5): e perciò il tentativo di sopraffazione gerarchica, che nella I, 4 si risolve nella silenziosa complicità di due monaci, sbocca nella IX, 2

in una legge collettiva, perché è « in capitolo » che la badessa è costretta a concludere « impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere » ($ 18). È il convento come coro, come coa-

bitazione coatta di figure femminili, in primo piano: e la storia della monaca Isabetta è solo il pretesto per rappresentare in movimento la vita della comunità. In questo senso non c’è personaggio che prevalga davvero sugli altri: ogni figura ha lo stesso peso nella vicenda comica, e la trovata di Isabetta è appena uno scatto di ribellione nato da un’occhiata casuale, il cui effetto è moltiplicato dalla « presenzia di tutte le monache » ($ 13). La struttura della

novella è cioè determinata dalla sorridente equidistanza dello sguardo dello scrittore rispetto a tutte le componenti della collettività: dove l’uomo (si tratti dell'amante di Isabetta o delle brache del

prete) è solo oggetto di curiosità o di sorpresa, e simbolo di costanti ossessioni femminili. Sono le monache in quanto insieme, in quanto piccola folla femminile (per richiamarci ad analoga e diversa tematica rilevata nella II, 1), con le avventure amorose, le invidie,

| i pettegolezzi, le necessarie ipocrisie e anche le improvvise compassioni ($ 14) che le caratterizzano, a regolare il ritmo della novella:

che è la rappresentazione pungente di un ambiente represso, e in uno spazio ristretto quale è il convento, dove tutto è echeggiato da tutte, in una sorta di agitazione e di nervosità generali. Tale aspetto giustifica il ritmo rapido e brusco della novella, che risponde a una tensione femminile quotidiana che non ha altre motivazioni se non quelle espresse dal convento stesso: anche l'eventuale carica polemica si disperde subito nella distanza della 249

sla

rappresentazione, appena venata di caricatura. La badessa, madonna Usimbalda, è ad esempio presentata come « buona e santa donna secondo la oppinione delle donne monache e di chiunque la conoscea » ($ 7). La notazione, è chiaro, serve a preparare la sorpresa che seguirà poco dopo (la badessa « accompagnata d’un prete »: il che è raccontato subito, prima che Isabetta si avveda delle brache, perché è sorpresa ben relativa); ma essa ricupera an-

che l’accortezza della badessa, savia, nel senso boccacciano del termine, nel regolare i propri amori come ‘tante altre donne del Decameron.

Solo il convento,

in quanto istituzione repressiva, è

messo in causa: e solo la logica del convento spinge la badessa ad uscire dalla propria discrezione, a svillaneggiare Isabetta, ad abusare ipocritamente della propria autorità. La caricatura coincide insomma con l’esattezza della rappresentazione, che coinvolge l’intera comunità. Perciò il mimo conventuale si ferma subito sull’armeggiare delle monache invidiose, quando vengono a scoprire gli amori di Isabetta, le quali dividono « tra sé le vigilie e le guardie segretamente » ($ 7) per cogliere in fallo la giovane compagna; indugia quindi, una volta scoppiato lo scandalo, sulla badessa co-. stretta ad uscire precipitosamente gridando: « Dove è questa maladetta da Dio? » ($ 10); ritorna poi alle monache che hanno occhi

solo per la colpevole, e « sì focose e sì attente erano a dover fat trovare in fallo l’Isabetta, che di cosa che la badessa in capo avesse non s’avvedieno » ($ 11), e presa e condotta in capitolo Isabetta, «solamente alla colpevole riguardavano » ($ 13); e conclude rapido con le battute tra la badessa e Isabetta, che rovesciano saggiamente la situazione: « E liberata la giovine, col suo prete si tornò a dormire, e l’Isabetta col suo amante, il quale poi molte volte, in dispetto di quelle che di lei avevano invidia, vi fé venire; l’altre che senza amante erano, come seppero il SURE segretamente procacciaron lor ventura » ($ 19). La battuta finale è quasi un topico

automatismo: che non distrugge il permanere di quell’invidia che rimette le cose esattamente al punto di prima. Il che conferma la natura della novella: un episodio di cronaca conventuale messo in moto ed esaurito velocemente. La vicenda è in funzione di un ambiente. Di qui la tecnica del mimo, che coglie in movimento 250

alcune figure e un insieme che le comprende: una giovane monaca col suo amante, un coro di monache invidiose, una badessa che

a un certo punto commette un errore ed è costretta a ripararlo. Tutto si conclude felicemente, e nulla cambia di fatto. E la novella si esaurisce in questo tenue e nervoso esercizio mimico.

In un’altra novella, la V, 4, il tema dei diritti insopprimibili della natura si esprime in diverso ambiente e in tutt'altra direzione. Una metafora sessuale (quella dell’usignuolo che la giovane Caterina vuol sentir cantare) corre lungo la novella ma non la opprime; essa sorregge piuttosto, nei rinvii e negli echi scherzosi di un’espressione che dissimula ma non nasconde una saggia comprensione dei diritti della carne e della giovinezza, un grazioso mimo domestico, colto e fissato nei rapporti quotidiani di una famiglia e nella dimensione scenica in cui essa vive (le camere, il verone, gli usci che vi portano, ecc.). Il padre, messer Lizio di Valbona, è uno dei

personaggi ricordati da Guido del Duca nel XIV del Purgatorio, quando deplora la corruzione dei « Romagnuoli tornati in bastardi » (v. 99): « Ov’è il buon Lizio e Arrigo Manardi? » (v. 97). Il Boccaccio conosceva certamente i versi di Dante (Ricciardo de’ Manardi si chiama, per ironica malizia, l'amante di Caterina): ma nella

novella la nostalgia di Dante per l’onestà e la cortesia antiche si risolvono in un’invenzione viva e immediata, dove il buon Lizio

è colto in un momento crudele e spinoso della sua vita di padre, colpito negli affetti familiari e nel suo proprio onore in modo imprevisto. L'immagine dell’usignuolo, del resto largamente diffusa in ambito popolare, è, in questa dimensione, equivoca solo per definizione retorica. Non a caso sarà costantemente rapportata ai genitori, in

particolare al padre, per sottolinearne via via la sorpresa, lo sgomento, l’indulgenza; ma la leggera malizia non turba la domestica semplicità dell’insieme. Il doppio senso non s’impone, stilisticamente, alla narrazione, come avviene ad esempio nella III, 10. La V, 4, 4 La novella ha avuto una fortuna equivoca, in questo senso, che ha condizionato per lungo tempo la critica: proprio per questa ragione va rilevata la finezza della breve analisi di C. SALINARI nel cit. comm. al Decameron, che coglie in essa « una delle prove più alte » del realismo del Boccaccio (p. 388). Ed è giusto ricordare, nell’itinerario degli approcci più esatti alla novella, le osservazioni di B. CROCE,

251

non è un divertimento faceto, una serie di variazioni equivoche sul tema sessuale, ma un breve mimo d’interno, che sfiora i sentimenti

di una famiglia cogliendoli nell’intimità della vita domestica. In questa prospettiva, i momenti scenici si susseguono con natu-

rale facilità nella novella, senza che nessuno prevalga sugli altri. Già l’amore dei due giovani, Caterina e Ricciardo, è subito sfumato

in una sorta di sorridente distanza, trattato come il pretesto di una diversa intuizione narrativa. Il dato di partenza è un altro: è il geloso amore dei genitori per la figlia: « per ciò che sola era al padre e alla madre rimasa, sommamente da lor era amata e avuta cara e con maravigliosa diligenza guardata, aspettando essi di far di lei alcun gran parentado » ($ 5). L’amabile malizia della novella nasce insieme da questo disegno matrimoniale, da un affetto possessivo soprattutto nel padre che è « vicino alla sua vecchiezza » ($ 4), e dalla « nessuna guardia » che i due prendono del giovane

Ricciardo,

che « usava

molto

nella casa di messer

Lizio »

($ 5). In effettiva antitesi alle cure dei genitori si svolge l’amore dei due giovani: e la rivelazione reciproca, che rappresenta quasi un topos nella lunga storia dello scrittore, è espressa con un massimo di rarefazione stilistica, sì che le formule consuete vengono quasi riscoperte col linguaggio di chi inventa il primo colloquio d’amore: E avendo molte volte avuta voglia di doverle alcuna parola dire, e dubitando taciutosi, pure una, preso tempo e ardire, le chiese: « Caterina, io ti priego che tu non mi facci morire amando ». La giovane subito rispose: « Volesse Iddio che tu non facessi più morir me ». Questa risposta molto di piacere e d’ardire aggiunse a Ricciardo, e dissele: « Per me non istarà mai cosa che a grado ti sia, ma a te sta il trovar modo allo scampo della tua vita e della mia ». La giovane allora disse: « Ricciardo, tu vedi quanto io sia guardata... » ($ 8-11).

Il Boccaccio

e Franco

Sacchetti,

in Poesia popolare

e poesia d’arte, Bari, 1933, cit. al Decameron, p. 495, il quale corregge nettamente la riserva espressa in precedenza sul « crudo particolare lubrico » in Il Decamerone cit., p. 41, dove aveva seguito U. Bosco, I/ Decameron cit., p. 161. pp. 85-86; di N. SapEGno, I/ Trecento cit., pp. 353-354; di G. PETRONIO, comm.

252

Il dialogo continua con questo ritmo quasi cantato, da contrasto popolareggiante, con passaggi rapidi («e io la farò... »; « subitamente disse... »), con ‘attacchi dolci e semplici (« Caterina mia dolce... »; « Se quivi ti dà il cuore di venire... »)} che esprimono l'immediatezza dell’ardire e insieme del desiderio di due adolescenti. La passione è colta, in questo Romeo e in questa Giulietta appena abbozzati, che si baciano « una volta sola... alla sfuggita » ($ 14) e si danno appuntamento sul verone, allo stato germinale, con una levità e una concretezza che si mantengono costanti nel disegno della pagina. Perciò il raffronto con due più celebri personaggi vale solo per la situazione: ché il tono ci riporta piuttosto al poeta del Ninfale fiesolano. Fino ad ora sono stati colti, in quadri successivi, gli atteggiamenti di due generazioni: ora il mimo domestico le mette a contatto fino alla conclusione, in una serie divertita di scene di famiglia. Il dialogo tra la madre e la figlia è trascritto con la stessa immediatezza: la madre è indulgente, piena di buon senso ma priva di sospetti; la figlia è irrequieta, abile d’istinto, e sa rimbeccare la madre con un’impertinenza che non disperde per questo l’amabilità del colloquio familiare: « Disse la madre: “O figliuola, che caldo fu egli? anzi non fu egli caldo veruno”. A cui Caterina disse: “Madre mia, voi dovreste dire ‘a mio parere,’ e forse vi direste il vero; ma voi

dovreste pensare quanto sieno più calde le fanciulle che le donne attempate” » ($ 16-17). Caterina rimette a posto la madre senza che la lezione turbi il garbo affettuoso del dialogo: equilibrio mantenuto per tutta la scena, fino al momento in cui la figlia lancia la sua innocente proposta: «io farei volentieri fare un letticello in sul verone che è allato alla sua camera e sopra il suo giardino, e quivi mi dormirei, e udendo cantare l’usignuolo, e avendo il luogo più fresco, molto meglio starei che nella vostra camera non fo » ($ 21). Il motivo dell’usignolo è introdotto come spunto di un capriccio di fanciulla: e quando la madre si rivolge com'è giusto (e come sarebbe piaciuto pure a Dante) all’autorità del marito, come tale lo interpreta il padre, con una sorta di burbera bruschezza che il Boccaccio giustifica con un’annotazione psicologica penetrante ma

necessariamente rapida, perché vale solo risolta nella battuta: « Le 253

quali cose udendo messer Lizio dalla sua donna, perciò che vecchio era e da questo forse un poco ritrosetto, disse: « Che rusignolo è questo a che ella vuol dormire? Io la farò ancora addormentare al canto delle cicale » ($ 23). Quando però la moglie, in seguito alla commedia di Caterina che smania tutta la notte, insiste con la mimica suadente della madre affettuosa (« Messer, voi

avete poco cara questa giovane »), secondo gli automatismi propri del sistema familiare — che continua a dimostrarsi con rara precisione: la maggior confidenza nel dialogo diretto fra madre e figlia; il dialogo tra il padre e la madre, la quale assolve il tradizionale compito di mediazione tra l’autorità del padre e i figli —, Lizio finisce naturalmente con l’acconsentire, ancora con l’usuale sbrigativa bruschezza, che non dissimula però la condiscendenza e l’affetto profondo per la figlia: « Messer Lizio udendo questo disse: “Via, faccialevisi un letto tale quale egli vi cape, e fallo fasciar dattorno d’alcuna sargia, e dormavi e oda cantar l’usignolo a suo senno” » ($ 26). Si noti che messer Lizio non è per questo una macchietta comica, le cui parole siano inconsapevolmente cariche di un futuro che dovrà poco dopo scoprire nella realtà: è un burbero frenato da quel riserbo, da quell’interno pudore che maschera spesso l’intensità degli affetti familiari. La novella, che potrebbe apparire una pochade di interno borghese, è in realtà (ed è paradosso ben sintomatico) tra le più fini e delicate che abbia scritte il Boccaccio: egli coglie con attenta penetrazione il sistema dei comportamenti e degli affetti familiari, che il mimo traduce nella precisione dei gesti e delle battute. Non c’è, su questo piano, una nota falsa. E quando i due giovani si ritrovano soli, dopo l’ardua scalata di Ricciardo, il motivo dell’usignolo è appena un commento alla naturalezza della scena: « e dopo molti baci si coricarono insieme e quasi per tutta la notte diletto e piacer presono l’un dell’altro, molte volte faccendo cantar l’usignolo » ($ 29). La prima

notte d’amore fra i due giovani è descritta in poche righe, e la metafora enfatizza in clausola solo la forza e il piacere istintivo della giovinezza. Essa comincia, allora a svelare la sua funzione ideologica, nella novella: una sorridente, serena demistificazione dei tabù sessuali, sempre più limpidamente indicata, poche righe più 254

sotto, nel modo con cui si addormentano i due giovani: « avendo la Caterina col destro braccio abbracciato sotto il collo Ricciardo,

e con la sinistra mano pfesolo per quella cosa che voi tra gli uomini più vi vergognate di nominare » ($ 30). Qui la perifrasi non rientra nel sistema consueto delle immagini e metafore scherzose, ma riporta ideologicamente i corpi dei due giovani alla sanità della Natura. Tutto avviene, ed è descritto, naturalmente.

La metafora è invece ripresa per la possibilità che contiene di commedia familiare, cioè per le scene che si possono sviluppare, più che tra i due giovani, nella schermaglia, essenziale nella novella, tra la fanciulla e i genitori. In questa intersezione di piani, che si traduce in una successione di quadri che solo alla fine ricongiunge tutti i personaggi, risulta evidente la funzione dell’immagine dell’usignuolo. Ricciardo, come appare nella scena notturna, si identifica con l’immagine, la rende concreta in quanto rappresenta le forze istintive della natura. L’usignuolo concerne in-

vece il rapporto tra Caterina e i genitori: è invenzione verbale della ragazza ‘dapprima, simbolo si direbbe di un’inconscia aspirazione, è scherzo o ruvida replica dei genitori, simbolo di un rifiuto {di diversa qualità, vedremo) di tener conto di tali forze, di capirle e averle presenti. Non è dunque soltanto ‘il tradizionale contrasto di generazioni: l’usignuolo-Ricciardo mette in evidenza, e proprio al livello più semplice e quotidiano, il-nesso, all’interno della struttura

familiare, tra un’urgenza e una diversione, tra un’inconsapevole esigenza e una consapevole ignoranza (quella dei genitori che vogliono ignorare, e non semplicemente ignorano). E perciò il mimo familiare non può risolversi che nella scoperta di Lizio e nelle reazioni dei due genitori, sempre con estrema coerenza nello sviluppo dei caratteri come nel tono delle sequenze. Quando infatti Lizio scopre i giovani amanti, dopo essersi levato e detto alla moglie: « Lasciami vedere come l’usignolo ha fatto questa notte dormire la Caterina » ($ 31), egli è insieme dolente e ironico, irritato e quasi divertito: «Su tosto, donna, lievati e vieni a vedere, che tua figliuola è stata sì vaga

dell’usignolo, che ella è stata tanto alla posta che ella l’ha preso e tienlosi in mano » ($ 33). Scherza, appena rinviando alla moglie il proprio senso di colpa (« tua figliuola »): ma è anche deciso a 255:

salvare l'onore della figlia. Quando la moglie vuol gridare e dir villania al giovane, egli la trattiene, perché ormai l’incidente può concludersi in un solo modo, secondo un codice dell’onore che non esclude un calcolo interessato. E la donna, che per istinto sta per creare lo scandalo, vedendo che il marito non è turbato, poiché Ricciardo è un « gentile uomo » giovane e ricco, si consola subito, con una sorta di ambigua e pur naturale soddisfazione, quasi di postuma omertà con la figlia: « Di che la donna racconsolata, veggendo il marito non essere turbato di questo fatto, e considerando che la figliuola aveva avuto la buona notte ed erasi ben riposata e aveva l’usignuolo preso, si tacque » ($ 39). I due genitori scoprono in fondo quanto già sapevano, e ora lo riconoscono. È il momento di massima serenità, di perfetta coincidenza tra il piano naturale e il piano familiare, tra istinto e convenzione. Poi la scoperta va fermamente reintegrata nell’istituto della famiglia: e Lizio, mentre Caterina lascia di colpo « l’usignolo » ($ 44), rimane allora in primo piano fino all’epilogo, evidentemente in una posizione di superiorità rispetto a Ricciardo, che è un giovane sorpreso e impaurito e non certo un eroe sublimato dalla passione. La novella. si mantiene sino all’ultimo nel proprio ambito quotidiano: tutti gli elementi cospirano a una lieta soluzione. Ottenutala, messer Lizio e la moglie possono motteggiare unanimi i due giovani sposi: « Riposatevi oramai, ché forse maggior bisogno n’avete che di levarvi » ($ 47). I due genitori sono pacificati: ricomposta la struttura familiare, ritrovano pure la loro matura saggezza. La novella conserva sino in fondo la coerenza di un mimo familiare, ritrascritto

immediatamente nei suoi termini quotidiani, ma anche nella complessità psicologica e sociale che essi rivelano. Il Boccaccio realizza in questo modo, nella V, 5, una sintesi rap-

presentativa nuova di fatto anche per lui: la sintesi tra la verità degli affetti familiari e la serena rottura, all’interno di essi, dei tabù sessuali. Ed è questo l’equilibrio, non solo costruttivo ma anche ideologico, della novella. Una controprova è data dalle reazioni della brigata alla novella di Filostrato, che suggeriscono indirettamente una chiave di lettura. Talvolta infatti, rispetto ad alcune novelle audaci di Dioneo, le donne trattengono il riso, sogghignano, 256

fingono lo sdegno. Qui l’effetto è diverso: « Aveva ciascuna donna, la novella dell’usignuolo ascoltando, tanto riso, che ancora, quantunque Filostrato ristato fosse -di iis non perciò esse di ridere si potevan tenere. Ma pur, poi che ua ebber riso, la reina disse...

» (V, 5, 2). È un riso diretto, che si ‘esprime HRS

ramente ed Mare la i della dignità e del riserbo femminili. Ed è reazione sintomatica, quasi un’indiretta postilla critica del Boccaccio alla serena felicità della propria novella. La V, 4 resta singolare, si potrebbe dire unica, nel Decazzeron,

per il tema che la occupa interamente e ne guida lo stile narrativo. Più numerose, ovviamente, le novelle dove il quadro d’interno è animato dal rapporto coniugale, e dalla situazione triangolare che inevitabilmente ne deriva. Tale è la VII, 4, che tende nella se-

conda parte a un mimo tutto gesticolato, dove il contrasto tra coniugi richiama attorno a sé una dimensione corale più vasta. Il racconto che precede è invece più lineare, talvolta frettoloso, anche perché la novella {il che è raro nel Boccaccio) sorge da una

situazione per così dire programmatica, nella quale i personaggi sembrano in certo modo volontaristici, quasi in funzione di un principio da dimostrare in modo irrefutabile. Monna Ghita sceglie un amante, inizialmente, per punire il marito di una gelosia immotivata: in nome di un principio che potrà almeno offrire una motivazione concreta alla gelosia di Tofano: «di che la donna avvedendosi prese sdegno, e più volte avendolo della cagione della sua gelosia addomandato né egli alcuna avendone saputa assegnare se non cotali generali e cattive, cadde nell’animo alla donna di farlo morire del male del quale senza cagione aveva paura » ($ 5). Il marito provoca paradossalmente l’avventura della moglie, e così la rivela a sé stessa. Una gelosia ossessiva e astratta suscita nella donna un intento pedagogico, che poi si riversa sadicamente sul marito, una volta avviata l'avventura, poiché la moglie, operata la propria scelta, sollecita e incoraggia in Tofano il vizio dell’ubriachezza. Il mimo finale è perciò una svelta rappresentazione tesa a dimostrare una moralità crudele e impietosa: un tema largamente diffuso (e qui forse una fonte precisa, reperibile in un libro caro al Boccaccio quale la Disciplina clericalis) serve allo scrittore per PST|

punire un marito non tanto in quanto marito, ma come

geloso,

e per questo, più in generale, come personaggio incontrollato e irriflessivo. È un punto cui il Boccaccio, si sa, è sempre sensibile. E lo si avverte nello scatto espressivo della pagina, quando una situazione concreta suggerisce, nell’evidenza dei gesti e dei discorsi, i tratti di due opposti temperamenti: Ghita, dotata di una furberia istintiva e immediata, di un « ingegno » che l’amore comincia ad aguzzare ($ 16); Tofano, risentito e impulsivo, animato da un desiderio di vendetta che gli toglie il controllo dei propri gesti e lo rende del tutto reattivo alle iniziative della moglie. Scatta così un meccanismo grazie al quale la donna, chiusa fuori di casa, trova il modo di rovesciare la situazione e di scambiare i luoghi e le parti del contrasto, concentrando su Tofano la riprovazione di tutto il vicinato. I testimoni hanno qui una funzione essenziale, perché rendono evidente lo scorno di chi voleva scornare. Tofano infatti intende svergognare la moglie « in presenza de’ parenti suoi e de’ vicini » ($ 12); e saranno proprio questi a svergognare e a punire lui: I vicini, e gli uomini e le donne, cominciaro a riprender tutti Tofano e a dar la colpa a lui e dirgli villania di ciò che contro alla donna diceva: e in brieve tanto andò il romore di vicino in vicino, che egli pervenne infino a’ parenti della donna. Li quali venuti là, e udendo la cosa e da un vicino e da un altro, presero Tofano e diedergli tante busse che tutto il ruppono; poi, andati in casa, presero le cose della donna e con lei si ritornarono a casa loro, minacciando Tofaro di peggio ($ 28-29).

Lo scioglimento dell’azione teatrale ricade integralmente su Tofano: che non a caso, con finezza didascalica, è sempre designato per nome, durante tutta la scena; mentre l'antagonista, che vuole salvarsi e conservare l'anonimato dopo la pericolosa avventura, è sempre e solo «la donna », rapida e vigile soltanto a determinare l’azione del marito. Si noti, per esempio, come la fulminea invenzione di Ghita, che nell’oscurità della notte getta una pietra nel pozzo, si ripercuota immediatamente su Tofano, suscitando una serie velocissima di movimenti. La tecnica dello scrittore risponde alla rapidità degli impulsi; e allora la novella si traduce immediata258

mente in gesto e parola, diventa mimo: « La pietra giungendo nell’acqua fece un grandissimo romore: il quale come Tofano udì, credette fermamente che essa gittata vi si fosse: per che, presa la secchia con la fune, subitamente si gittò di casa per aiutarla, e corse al pozzo » ($ 19). Il periodo traccia dei movimenti reattivi, del tutto irriflessi (« come... udì, credette fermamente...»; « su-

bitamente si gittò... »), cui rispondono fulminei i gesti premeditati di Ghita: « La donna, che presso all’uscio della sua casa nascosa s'era, come il vide correre al pozzo, così ricoverò in casa e serrossi dentro ed andossene alle finestre e cominciò a dire: « Egli si vuole inacquare quando altri il bee, non poscia la notte » {$ 20).

Scatta un meccanismo anche stilistico: il Boccaccio è preso dall’immagine del movimento immediato, o meglio, dall’incrociarsi di due movimenti rapidissimi nel buio, l’uscire e l’entrare. Tale gestualità pura sbocca nella prima ironica battuta della donna, cui rispondono in discorso indiretto le meccaniche suppliche di Tofano, in un gioco che attira gradualmente alle finestre i vicini: è creata una precisa dimensione (una strada, un pozzo, le case) che si farà materialmente visibile nella parte anteriore della scena comica del Cinquecento. Di essa è qui reperibile un antecedente espressivo: e infatti il mimo si sviluppa in un crescendo di gesti e di voci che parte dai due coniugi e attira tutto il vicinato. La notte moltiplica gli effetti di un’azione teatrale che si va esasperando nel tono: mentre Tofano torna all’uscio e cerca di entrare, la donna, « lasciato

stare il parlare piano come infino allora aveva fatto, quasi gridando cominciò a dire...» ($ 22). È sottolineato, con una didascalia di tipo teatrale, il passaggio a un tono diverso di recitazione. Ghita applica la tecnica che si è individuata nella IX, 4 nel Fortarrigo: finge di parlare all’altro, e parla in realtà a un coro che viene chiamato a soccorso: « Alla croce di Dio, ubriaco fastidioso, tu non c’enterrai stanotte; io non posso più sofferire questi tuoi modi: egli convien che io faccia vedere ad ogn’uomo chi tu se’ e a che ora tu torni la notte a casa ». Tofano d’altra parte crucciato le ’ncominciò a dir villania e a gridare ($ 22-23).

259

Il marito è sempre bestialmente reattivo rispetto alla moglie, che sa usare la parola come strumento di commedia, appellandosi alla testimonianza di un gruppo: « di che i vicini, sentendo il romore, si levarono, e uomini e donne, e fecersi alle finestre e domandarono che ciò fosse » ($ 23). Lo schema del falso dialogo, frequente nelle novelle del Decameron, crea un effetto di risonanza che aumenta secondo un preciso ritmo temporale. Questa la parte vitale della novella. Solo alla fine, non per motivazioni psicologiche ma per necessità didattiche, si giunge alla’ metamorfosi edificante di Tofano verso la moglie: « alla quale promise di mai più non esser geloso: e oltre a ciò le diè licenza che ogni suo piacer facesse, ma sì saviamente, che egli non se ne avvedesse. E così, a

modo del villan matto, dopo danno fé patto » ($ 34-31). Il proverbio chiarisce che non si tratta di una folgorazione di saggezza: e riporta il personaggio al livello in cui era apparso nel mimo. Di struttura analoga, cioè di tipo scenico-mimico, ma più fermamente conclusa nella velocità dei passaggi e delle battute, è la VIII, 5: un rapido atto di commedia, qui però situato in una scena precisa. Si tratta di un mimo municipale, animato da una divertita caricatura di tono campanilistico. La prospettiva è dunque del tutto diversa: è quella di una regia organizzata da fiorentini contro un non-fiorentino. Il tema non investe principi di comportamento,

in famiglia o tra coniugi, né richiama una sottintesa ideologia: la beffa distingue solo chi la sa fare, inventarla anzi sul momento, e chi ne è vittima e neppure la sa capire. Non a caso la scena è offerta da Firenze. Nella maligna e pungente rappresentazione dei rettori marchigiani che vengona spesso « nella nostra città » ($ 4), nel ritratto caricaturale del giudice Niccola da San Lepidio, si avverte subito un’aria di ammiccante intesa cittadina, che circolerà nel

quadro con un gusto e con una tecnica che si espanderanno nel Sacchetti. Il filo diretto che corre tra questo aspetto della narra5 Per una sottile analisi complessiva della novella, e per un discorso più generale che investe anche la VII, 8, si veda G. GETTO, Le novelle dello scambio di illusione e realtà, in Vita di forme... cit., pp. 164-187. * Per questo aspetto della narrativa del Sacchetti, le pagine più perspicue sono quelle di L. CARETTI, Saggio sul Sacchetti, Bari, 1951, pp. 140-208: in particolare,

260

DI

zione del Boccaccio e le novelle del Sacchetti è del resto già storicamente interessante: perché indica la dimensione reale di ambiente e di paesaggio umané cui va riportata la genesi di un preciso registro comico. Firenze è interpretata come

contemporanei-

tà, nel senso teatrale del termine, come scena cittadina pronta a sprigionare da ogni angolo un lazzo, una beffa, un’invenzione bizzarra, un'avventura dovuta a un estro improvviso. Scena e attori sorgono a un tempo da una città « di varie maniere e di nuove genti abbondevole » (VIII, 3, 4) e da personaggi che hanno il gusto intellettuale della beffa. È un quotidiano intreccio spettacolare che sollecita nel Boccaccio un nuovo tipo di invenzione comica. Lo scrittore rinuncia ai moduli sapientemente acquisiti in un lungo tirocinio retorico: sposta e alleggerisce l'impegno stilistico, con una duttilità che lo porta non solo al disegno rapido, ma a un nuovo uso del discorso diretto, carpito nella sua labilità col gioco reciproco del detto e del recitato, nelle molteplici sorprese del parlato. Per cogliere nel corpo stesso della novella il nascere di tale prospettiva, il processo di identificazione tra il Boccaccio e i narratori e tra questi e il personaggio, si veda come il giudice cada sotto lo sguardo di Maso del Saggio, e sia trasformato da quello sguardo in un fantoccio caricaturale, oggetto irresistibile di beffarda invenzione: E come spesso avviene che, bene che i cittadini non abbiano a fare ; cosa del mondo a Palagio, pur talvolta vi vanno, avvenne che Maso del Saggio una mattina, cercando d’un suo amico, v’andò; e venutogli guardato là dove questo messer Niccola sedeva, parendogli che fosse un nuovo uccellone, tutto il venne considerando ($ 6).

Dalla casualità puramente passiva dell’oggetto (« venutogli guardato »), che fa scattare una scintilla tra chi è guardato e chi guarda con la balenante premonizione di un’idea comica (« parendogli che fosse un nuovo uccellone »), si arriva al « tutto il venne considerando »: stabilito il rapporto, la costruzione si inverte, diviene attiva, perché per l'ambizione del Sacchetti di « interpretare e rappresentare in movimento, di perseguire un ritmo costantemente mobile e dinamico » (p. 201), e per i rapporti tra piani spaziali e temporali che ne conseguono, le pp. 198-205.

261

è Maso a controllare ora e ad esaminare il nuovo oggetto. In una brevissima frazione temporale nasce un movimento psicologico: esso si precisa in un’improvvisa curiosità che costringe la descrizione, apparentemente oggettiva, nella visuale attenta e divertita di Maso del Saggio: E come che egli gli vedesse il vaio tutto affumicato in capo e un pennaiuolo a cintola e più lunga la gonnella che la guarnacca e assai altre cose tutte strane da ordinato e costumato uomo, tra queste una, ch'è più notabile che alcuna delle altre, -al parer suo, ne gli vide, e ciò fu un paio di brache, le quali, sedendo egli e i panni per istrettezza standogli aperti dinanzi, vide che il fondo loro infino a mezza gamba gli aggiugnea ($ 7).

L’esame è fatto con gli occhi e secondo il tempo di Maso del Saggio: finché l’attenzione si cristallizza su un oggetto particolarmente strano in tale stranezza generale. Nella descrizione è implicita un’idea di scherno; la beffa che già balena nel cervello di Maso è repressa per ora dalla rapidità di un moto nuovo, che lo distrae in altra direzione: « per che, senza star troppo a guardarle, lasciato quello che andava cercando, cominciò a far cerca nuova, e trovò dei suoi compagni... » ($ 8). La giornata di Maso è sviata da un estro improvviso: e la sproporzione tra l’indagine di Maso e lo squallore del miserevole poveraccio che ne è l’oggetto fa subito di quest’ultimo una vittima predestinata. Il pretesto è derisorio: ma eccita in Maso una crudeltà che si ritrova in altre novelle fiorentine,

il bisogno istintivo di punire la sciocchezza presuntuosa. sua casuale località, è un intento vigile, sempre all’erta:

Nella la beffa

è suscitata da un impulso che il personaggio non può dominare. Il regista cerca allora gli attori: Maso trova un buffone, Ribi, e Matteuzzo, « uomini ciascun di loro non meno sollazzevoli che Maso » ($ 8): e la beffa, verbalmente voluta dal primo, nasce

spontanea pure negli altri due, dall’osservazione. E perciò possono agevolare immediatamente l’iniziativa di Maso. Lo squilibrio tra il giudice, strano ed estraneo a una città come Firenze, e il pronto accordo di gente che si intende con un'occhiata, e usa il proprio gergo per giudicarlo (« nuovo uccellone... »; « il più nuovo squasi262

modeo... »), è alla base dell’azione, che scatta in un mimico frastor-

nio di mosse e di battute. E non mancano gli oggetti teatrali: le panche su cui sta il giudicé vengono viste dai personaggi, e descritte dal narratore, come veri elementi scenici disposti per l’azione. Questa si appoggia a un gergo volutamente municipale: « Messere, non gli credete, ché egli è un ghiottoncello; e perché egli sa che io son venuto a richiamarmi di lui d’una valigia la quale egli m’ha imbolata, ed egli è testé venuto e dice dell’uose, che io m’aveva in casa infin vie l’altrieri » ($ 13). C'è un uso giocoso, e consapevole, del

linguaggio fiorentino come linguaggio incomprensibile al non fiorentino, un linguaggio che stordisce: «e se voi non mi credeste, io vi posso dare per testimonia la trecca mia dallato, e la Grassa ventraiuola e un che va raccogliendo la spazzatura da Santa Maria a Verzaia, che ’1 vide quando egli tornava di villa » ($ 13). Non

conta tanto il contenuto, quanto il linguaggio che è il vero contenuto del discorso: una tradizione giocosa, « comica », è usata coscientemente per un fine di commedia. Questo gergo stordisce e sopraffà il giudice, che sta « ritto e loro più vicino per intendergli meglio » ($ 14): rafforzato com'è da un tono che aumenta il fervore gesticolato della scena: « Maso d’altra parte non lasciava dire a Ribi, anzi gridava, e Ribi gridava ancora » ($ 14). È un meccani-

smo inarrestabile, che riduce rapidamente a grottesca nullità il giudice, « magro e sgroppato » ($ 14) al punto da facilitare l’azione di Matteuzzo che gli tira giù le brache. Un particolare che si confonde nell’allucinante incrociarsi di gesti e di parole, e acquista rilievo solo quando il giudice è abbandonato dai tre: « Messer lo giudice, tirate in su le brache in presenza d’ogni uomo, come se da dormir si levasse, accorgendosi pure allora del fatto... » ($ 19). L’improvvisa lentezza segna per un attimo la distanza tra la sonnacchiosa ottusità del giudice e la rapidità di riflessi degli attori fiorentini. Poi il giudice reagisce imprecando come un bestione: domandò dove fossero andati quegli che dell’uose e della valigia avevan questione; ma non ritrovandosi, cominciò a giurare per le budella di Dio che e’ gli conveniva cognoscere e saper se egli s’usava a Firenze di trarre le brache a’ giudici, quando sedevano al banco della ragione ($ 19).

263

La risposta del marchigiano all’intelligenza fiorentina è chiaramente inadeguata: e la pungente novella, che ha la scattante evidenza del linguaggio scenico e parlato, conferma la polemica d’apertura. Commedia di ambiente fiorentino è anche la IX, 8, che però sviluppa tra fiorentini tale tematica municipale. La crudeltà inventiva si manifesta all’interno della città; e la beffa esige la controbeffa, lo scherno una risposta adeguata. Perciò la novella è più ampia, equilibrata iri momenti successivi: ma è anch’essa composta di una serie di movimenti comico-drammatici, che si alternano al ritratto veloce di un personaggio e sono congiunti da qualche incisiva didascalia. Le stesse reminiscenze dantesche sembrano rafforzare il tono comico, in senso stilistico, della novella: anche se l’asprezza di Dante si risolve in un giuoco caricaturale più apertamente di-

vertito. Firenze non è aggredita, ma colta di scorcio nella sua intima pregnanza comica; sicché le due beffe di Ciacco e di Biondello sembrano segnare il passaggio a una forma più complessa di commedia, perché contrade e figure cittadine inquadrano il contrasto centrale, la tenzone tra Ciacco e Biondello. Intorno ai due conten-

denti si muove tutta una città, chiamata in causa, direttamente o indirettamente, anche in personaggi famosi come Messer Corso Dona-

ti e messer Vieri de’ Cerchi: una Firenze comica che trasforma l’aggressiva visuale di Dante in una dimensione ricca di quotidiane sorprese. E il dialogo che trama tutta la novella, misurato e leggermente canzonatorio in Biondello, pungente e agile in Ciacco, iroso e bestialmente aggressivo in Filippo Argenti, tende a differenziarsi, a tratteggiare personaggi diversi anche a livello della battuta e dell’estro: non tanto per approfondire psicologicamente un ritratto, quanto per stabilire un’evidente correlazione tra un aspetto fisico e un’azione in una circostanza locale ma precisa. È dunque un dialogo nel senso teatrale del termine. Lo si avverte per Ciacco, meno loquace degli altri, un parassita di classe più che un uomo di corte, quasi un’anticipazione del Ligurio della Mandragola; per Filippo Argenti, indicato con una sequenza di tre aggettivi visivi, esterni, cui corrispondono subito, in sequenza pure trimembre, tre qualità interne: « messer 264

Filippo Argenti, uomo grande e nerboruto, e forte, sdegnoso, iracundo e bizzarro più che altro... ($ 13) — corrispondenza che sì riverserà immediatamente, al di là degli echi danteschi, nell’azione scenica —; per Biondello, rappresentato con un ritratto in punta di penna dove si fa evidente una facoltà selettiva, che coglie l’essenziale appunto al livello figurativo e teatrale: « piccoletto della persona, leggiadro molto e più pulito che una mosca, con sua cuffia in capo, con una zazzerina bionda e per punto senza un capel torto avervi » ($ 5). Ed è una caratterizzazione che già contiené

implicitamente la beffa di cui il personaggio sarà vittima: perché la vera sconfitta di Biondello consiste nello strazio che Ciacco provocherà del suo assetto fisico. Perciò il ritratto iniziale è funzionale alla successiva azione scenica, a uno scempio che inizia fulmineo, con una schematica sequenza di frasi che traducono una immediata gestualità: « e in questo che egli così si rodeva, e Biondel venne. Il quale come egli vide, fattoglisi incontro, gli diè nel viso un gran’ punzone » ($ 23). Dove la sorpresa teatrale è nella rapidità del gesto, pur motivato psicologicamente dal personaggio. Questo pugno improvviso dà valore alle parole che seguono e le anticipa con la felicità irresistibile del gesto comico: di qui la scena si sviluppa furiosa, in un accavallarsi sena respiro di gesti e di battute, da cui si isola l'ossessione di quell’arrubinatemi e di quei zarzeri che sfruttano il gergo in una direzione teatrale opposta a quella della VIII, 5. L’ambasciata che Ciacco, attraverso un « saccente barattiere », aveva inviato all’Argenti —

« Messere, a

voi mi manda Biondello, e mandavi pregando che vi piaccia d’arrubinargli questo fiasco del vostro buon vin vermiglio, ch’e’ si vuole alquanto sollazzar con suoi zanzeri » ($ 14) — è sentita infatti

come offensiva da Filippo Argenti proprio perché, in quanto fiorentino, egli può interpretarne e situarne il linguaggio ($ 17). Lo scontro nasce dunque da una complicità per dir così filologica tra fiorentini: « Traditore, tu il vedrai bene ciò che questo è: che arrubinatemi e che zanzeri mi mandi tu dicendo a me? Paiot’io fanciullo da dovere essere uccellato? » (S 25). Perciò in quelle parole si concentrano l’ira dell’Argenti e lo sbalordimento dell’ignaro Biondello, vittima della genialità di Ciacco: l'invenzione mimica non 265

implica più un divario linguistico tra fiorentini e stranieri, ma comporta una tensione suscitata all’interno di un clima municipale. La commedia fiorentina nasce tra personaggi che si possono capire;

ma basta un allentamento della vigilanza, basta la distrazione dell'intelligenza per essere vittime di una comune crudeltà. Novelle del genere presentano un nuovo tipo di narratore, alla ricerca di un modulo espressivo più duttile e veloce: il che non significa, è chiaro, che la forma del racconto mimato, realizzato cioè per

l’essenziale nel gesto e nella battuta, non -sia un modo raffinato, e consapevole nel Boccaccio, di narrare, di conferire diversa evidenza a situazioni e a personaggi. L'esercizio comico implica strumenti

non meno ardui di quelli nobilmente retorici: e non solo per evidenti ragioni di poetica, ma per una sperimentazione interna alla ricerca narrativa del Boccaccio. Il dialogo, anche rapido, e il gesto, anche immediato, sono in funzione di una commedia più impegnata, sul piano espressivo: elaborano tecnicamente gli strumenti per rappresentare una scena che tende ad ampliarsi e ad arricchirsi di personaggi. Anche in novelle apparentemente lontane da questa prospettiva è infatti reperibile la tendenza dell’autore a mettere in moto un meccanismo narrativo che è poi solo affidato ai gesti e alle parole. E questi si snodano con la logica inesorabile che nel racconto, si è visto, regola la successione dei casi: solo che agli eventi si sostituisce una realtà gestuale e verbale per così dire autonoma, che subordina a sé i personaggi con la forza di un impulso non più controllabile. Gli uomini creano una situazione: ma questa impone poi la propria dinamica ai movimenti e al discorso. Il dialogo, che è il segno di un rapporto (vero o falso che sia) stabilito dall’uomo, si afferma, divenuto meccanismo oggettivo, come il protagonista della novella. Un tipico esempio è la VII, 6. In essa la situazione triangolare si arricchisce di un quarto elemento: la donna appartiene a tre uomini. Ma nonè questa struttura atipica, che sottolinea la generosa disponibilità di una donna, a interessare di per sé al Boccaccio: è piuttosto la complicazione di natura teatrale che può derivarne, e scatta infatti nella vivacità della scena finale, che si recita in un mattino d’estate nella camera di madonna Isabella. La spregiudicata 266

protagonista è al centro della novella solo perché così vuole la situazione: il Boccaccio la presenta all’inizio come « una giovane donna e gentile e assai bella, la qual fu moglie d’un cavaliere assai valoroso e da bene » ($ 4). Nessun particolare rilievo di natura intellettuale, in madonna Isabella, che sa prendere il mondo com'è e accettare, quasi gli uomini fossero per lei un problema di varianti (« come spesso avviene che sempre non può l’uomo usare un cibo, ma talvolta disidera di variare... », osserva di sfuggita lo scrittore),

una situazione più difficile che eccitante, per lei: due amanti, uno (Lambertuccio)

imposto dalla paura, l’altro (Leonetto) scelto dal

capriccio. Tutto ciò è premesso novella consiste invece in quel forza propria, con la meccanica in movimento, quando il marito

come naturale, normale: la vera dialogo che si sviluppa, quasi per perfezione di un congegno messo rientra inaspettato nel suo palagio

« in contado » ($ 7), dopo che Lambertuccio, pure arrivato d’im-

provviso, ha costretto a sua volta Leonetto a nascondersi « dietro alla cortina del letto » ($ 10). Quel dialogo, Isabella lo avvia sol-

tanto, perché non ha avuto il tempo di preparare gli attori, di provare la propria commedia: deve inventarla in un attimo, ideare un canovaccio che gli altri dovranno subito capire, per entrare nel gioco. E Isabella lo avvia in un momento di paura e di turbamento (« si tenne morta ») che invece di sconcertarla le suggerisce un’intuizione geniale: lo choc può suscitare di colpo, in chi ama, l’ingegno, l’invenzione immediata per salvarsi. L’intelligenza di Isabella nasce in questa frazione minima di tempo, quando la fante le annuncia l’arrivo del marito: « Madonna, ecco messer che torna: io credo che egli sia già giù nella corte ». La donna, udendo questo e sentendosi aver due uomini in casa, e conosceva che il cavalier non si poteva nascondere per lo suo pallafreno che nella corte era, si tenne morta; nondimeno,

subitamente gittatasi del letto in terra, prese partito, e disse a messer Lambertuccio: « Messere, se voi mi volete punto di bene e voletemi da morte campare, farete quello che io vi dirò... » ($ 14-15).

Isabella dà solo un’indicazione attoriale a messer Lambertuccio, non

può spiegargliela; una volta fornita l'indicazione, i gesti e il dia267

logo si sviluppano come commedia pura, come mascheramento di una situazione paradossale che suggerisce a tutti la misura della recitazione. La beffa al marito non nasce da una volontà di beffarlo,

ma da una necessità di commedia provocata dal suo arrivo inopinato; commedia che si impone alla donna, la quale la trasmette in un attimo a sé e ai due uomini. E il gioco della parti si svolge con una felicità mimica quasi obbligata, una volta avviato il congegno. Dapprima è Lambertuccio, col coltello in mano, a eseguire la propria parte (« come la donna gl’impose, così fece »); vi si trova bene anche fisicamente, essendo, sottolinea maliziosamente il Boccaccio,

« tutto infocato nel viso tra per la fatica durata e per l’ira avuta dalla tornata del cavaliere » ($ 17). Perciò Lambertuccio può reci-

tar bene, credibilmente, il suo falso personaggio, pronunciare poche parole minacciose e scomparire a cavallo, lasciando meravigliato e perplesso il marito. Poi è la donna, che « tiratasi verso la camera acciò che Leonetto l’udisse, rispose: « Messere, io non ebbi mai simil paura a questa... » ($ 20). La didascalia è essenziale: Isabella si ritira verso la camera dove è nascosto Leonetto, in modo

che egli possa sentire. Isabella è cioè una sorta di buttafuori, come si direbbe in gergo teatrale; prepara le uscite, dà la prima battuta agli uomini, perché sappiano recitare la parte con esattezza. E intanto recita la propria, esponendo solo ora la trama che ha inventata per rendere plausibile la presenza di due uomini: ed è operazione che compie con un intuito genialmente

matemati-

co, ricevendo le lodi del pubblico, cioè del marito. Infine è Leonetto a recitare, obbedendo istintivamente anche lui alla poetica dell’attore che deve entrare nel proprio personaggio: « Leonetto, che ogni cosa udita avea, tutto pauroso, come colui che paura aveva avuta da dovero, uscì fuori del luogo dove nascoso s’era » ($ 25). Anche Leonetto è dunque predisposto a un’ottima recitazione; tanto da suscitare la benevolenza del marito. Ognuno è buon attore perché la commedia verbale è nelle cose, nella situazione vera e insieme falsa creata da Isabella: per questo il dialogo si accampa nettamente, legato solo da alcune didascalie semplificate al massimo: « Disse allora il marito »; « Poi domandò dove fosse quel giovane » ($ 22); « La donna rispose» ($ 23); « Il cavaliere allora disse » 268

($ 24); « Disse allora il cavaliere » ($ 26); « Il giovane rispose » ($ 27), ecc. Il racconto si potrebbe tradurre immediatamente in

linguaggio scenico: sostituendo alle didascalie il nome del perso naggio, si otterrebbe automaticamente una scena di teatro. Questa l'intuizione carpita dal Boccaccio a un motivo largamente sfruttato, come dimostra la ricchezza delle fonti: le possibilità teatrali di una situazione imbrogliata. Proprio nella purezza della realizzazione dialogica si misura l’arte della novella, la distanza del Boccaccio dalle proprie fonti.” Ed è questa teatralità che si affina e si approfondisce a spingere il Boccaccio dal racconto mimato a più complessi modi narrativi di commedia.

7 Un raffronto eloquente si può stabilire, per esempio, con l’esile novella 89-94. senese riportata da L. Dr FRANCIA, Alcune novelle del Decameron... cit., pp.

269

La commedia

La ricerca comica del Boccaccio non si ferma alla vitalità diretta,

evidente, del disegno mimico. La possibile teatralità di un modo narrativo (che risponde in profondo, come si è rilevato, a un preciso atteggiamento dello scrittore verso la realtà e l’elaborazione

di tale realtà) può essere talvolta sollecitata da una tradizione let-

teraria mediolatina che riassorbe nella narrazione la dinamica teatrale degli antichi. Rispetto a tale tradizione, il Boccaccio manifesta un impulso contrario: l’impulso alla novella sceneggiata, che sulla trama del racconto faccia risorgere una più netta struttura teatrale. Tipica, in questo senso, la VII, 9, anche perché è chiara la dipendenza di essa dalla Comoedia Lydiae.! La novella del Boccaccio si costruisce nettamente per quadri scenici successivi: quasi una serie di atti in cui predomina il dialogo, collegati con nessi di ordine narrativo. Per esprimerci ellitticamente, il Boccaccio tende a passare dalla commedia raccontata al racconto sceneggiato, dove si fa più forte la lezione di Plauto e di Terenzio. Il primo atto, se si vuole fissare con termine tecnico le caratteristiche

della narrazione,

è costituito

da un’alternanza

di dia-

loghi tra Lidia e Lusca (la fante fedele, presente certo nel modello, ! Per il problema delle fonti, e in particolare della Comzoedia Lydiae, si vedano, nel commento

al Decameron

cit., p. 846, n. 2, le indicazioni di V. BRANCA;

e dello

stesso, per i rapporti tra novella e cormzoediae nella cultura mediolatina, Registri narrativi... cit. p. 34, n. 2, cui si rimanda anche per un’essenziale bibliografia. Per questa, si veda pure M. Pastore Stoccui, Un antecedente latino medievale «d’ Pietro di Vinciolo (« Decameron », V. 10), in « Studi sul Boccaccio », 1, 1963, pp. 349-362; il quale ha individuato nella V, 10, tradizionalmente rinviata ad Apuleio, una nuova testimonianza dell’influsso delle « commedie elegiache » sul Boccaccio, con osservazioni importanti anche in ambito più generale. Ma per l’« intimo gusto della teatralità, in un’epoca in cui la produzione teatrale era ancora impensabile », si veda il felice cenno

di G. Papoan,

Mondo

aristocratico...

cit., p. 134.

274

ma personaggio tipico anche nella commedia antica) e tra Pirro e Lusca (che funge, pure canonicamente, da intermediaria tra la padrona e il giovane « famigliare » di Nicostrato). Se Lidia, non

soddisfatta dal vecchio marito, ha l’appassionata spregiudicatezza della donna che ama, Pirro si comporta dapprima come un servo incredulo e sorpreso delle attenzioni della padrona, fedele al proprio signore, tenacemente diffidente per i tranelli e le insidie che la proposta può contenere: un atteggiamento al quale Lusca oppone una riflessione tra cinica e sensata;.tra brusca e suadente. Si noti che tale riassunto realistico della situazione non risponde

alla sapienza retorica dei dialoghi: dovuta non solo alle esigenze dello stile «elegiaco », ma alle suggestioni indirette dei modelli classici

(in particolare

dell'amato

Terenzio).

Non

si tratta,

del

resto, di una storia contemporanea (non a caso il Boccaccio la situa ad Argo), come in tante altre novelle:

si tratta di una storia

cui si vuole conferire un’esemplare teatralità. Il che è evidente soprattutto all’inizio, prima che si metta in moto l’azione: i personaggi parlano un linguaggio mediato, per così dire, dal linguaggio dei tipi teatrali cui si riferiscono, degli archetipi che il Boccaccio ha implicitamente presenti. Perciò, nel gusto medievale della situazione strana (la triplice richiesta di Pirro), la compostezza elaborata del dialogo sembra tradire una suggestione più profonda, il fascino esemplare di modelli comici antichi. A questo primo atto, che ha funzione di prologo, succedono quattro atti (con una partizione che pure ci rinvia alla struttura della commedia) consacrati alle tre prove imposte da Pirro a Lidia e ad una che Lidia aggiunge volontariamente, per dimostrare l’insipienza del marito. Il primo si svolge nel quadro di uno splendido convito, dove Lidia appare d’improvviso per uccidere lo sparviere « caro » a Nicostrato — il quale, non si dimentichi, « grandissimo diletto prendea nelle cacce » ($ 6) —; e profila la sicurezza della donna, che si appella ai « gentili uomini » presenti, rispetto al vecchio marito che muta presto il « cruccio » in « riso » ($ 36), comincian-

do a svelare un’interna debolezza verso la più giovane moglie. Il secondo è uno scorcio comico, risolto « prestamente » ($ 38) nella

propria camera dalla donna in un momento di ciance e di sollazzi col 272

N

%

marito, di giocosa intimità col vecchio che bamboleggia e appare uno strumento sempre più docile nelle mani della moglie. Il terzo è spiegatamente comico anche sul piano tecnico, per la presenza di attori minori (i giovanetti gabbati da Lidia), per la vivacità del dialogo tra Nicostrato e Lidia e per l’immagine conclusiva di Nicostrato, disteso « sopra un desco », che grida forte e al quale ancora « doloroso e quasi mezzo morto » è presentato un altro dente « sconciamente magagnato » ($ 53-54). Il quarto è curato da Lidia con particolare abilità registica: e si capisce il perché. È la prova che Lidia vuol offrire a sé stessa, alla presenza, contemporanea ed eccitante, di Nicostrato e di Pirro; presenza sottolineata anche

tecnicamente dall’entrata in scena di Lidia che si finge malata: « Per che Nicostrato dell’un de’ lati e Pirro dall’altro presala, nel giardin la portarono e in un pratello a piè d’un bel pero la posarono » ($ 58). I tre personaggi sono ora uniti, in uno spazio teatrale e con un elemento scenografico essenziale (il pero). I tre atti precedenti sono del resto sempre correlati, nell’azione di Lidia, ai due uomini, il primo vittima e il secondo implicitamente presente nelle invenzioni della donna: come se il crescendo tematico delle scene fosse legato a una graduale sostituzione di Pirro a Nicostrato, simboleggiata da un graduale invilimento della personalità di quest’ultimo. Ottenuto, si badi, con un’offesa sempre più netta alla sua persona fisica: Nicostrato è prima toccato (quasi nel senso schermistico del termine) nel suo sparviere, poi privato di un « lucignoletto » della « sua barba », infine, con ben maggior dolore, di un

dente sano: e ora verrà sbeffeggiato, grazie a un pero chiaramente metaforico, nella sua sessualità di marito. Anche a non voler cer-

care simboli sessuali, è chiaro che si assiste a una rappresentazione dove la perdita graduale di virilità da parte di Nicostrato prepara l’intervento di Pirro che verrà a sostituirlo: la prepara anche nella psicologia di Lidia, nella quale l’amore e il desiderio di Pirro eccitano (non solo per vendetta e per rivalsa) un gusto di flagellazione sadica nei riguardi di Nicostrato (secondo un processo già visibile nella VII, 7). Sono tutte componenti che vengono tradotte dal Boccaccio nell’evidenza teatrale dell’azione, della quale Pirro è ora complice: 273

dove stati alquanto sedendosi, disse la donna, che già avea fatto informar Pirro di ciò che avesse a fare: « Pirro, io ho gran disiderio d’aver di quelle pere, e però montavi suso e gittane giù alquante ». Pirro, prestamente salitovi, cominciò a gittar giù delle pere, e mentre le gittava cominciò a dire... ($ 58-59).

La narrazione è solo didascalia, indica i gesti e prepara o segue il discorso diretto. La scena del pero sviluppa così una commedia a tre voci che di battuta in battuta, nelle riprese maliziose o nelle inflessioni accentuate degli attori, raggiunge a un certo punto un tono magico (e in senso ben diverso dalla magia attribuita al pero): l'incanto allucinante, irreale, della parola coscientemente recitata, nel realismo non dissimulato della situazione, dello scenario, dei gesti. Mentre i tre personaggi si attengono ai loro ruoli normali, la parola recitata, usata come consapevole mistificazione crea una dimensione quasi surreale; e l’eloquio composto del prologo sbocca allora in un dialogo sempre più rapido e serrato, fondato solo sull’intensità ritmica: La donna, rivolta al marito, disse: « Che dice Pirro? egli? ». Disse allora Pirro: « Non farretico no, madonna: dete voi che io veggia? ». Nicostrato si maravigliava forte, « Pirro, veramente io credo che tu sogni ». Al quale Pirro « Signor mio, non sogno né mica, né voi anche non

farnetica non cree disse: rispose:

sognate;

anzi

vi dimenate ben sì che, se così si dimenasse questo pero, egli non ce ne rimarrebbe su niuna » ($ 60-63).

Dove si fa chiara l’allusione sessuale; che renderà più salace la successiva inversione di ruoli tra i due ùomini: ma sono tutti elementi comici cui solo le cadenze generali del dialogo assicurano una realtà labile e fittizia, quella del teatro. La novella è significativa, sta a dimostrare come il Boccaccio trasformi il racconto e lavori in senso teatrale su una trama offerta dalle fonti. Dimostrazione tanto più eloquente in quanto la novella è per una volta situata in Grecia, in una sorta di ambiente astratto, che agevola il puro processo delle situazioni sceniche e l'affermarsi di un linguaggiò comico. La novella è in questo senso esemplare, quasi modello di commedia applicabile a tempi e 274

A3x

Ma

luoghi diversi. E infatti il linguaggio comico si innesta felicemente nel racconto, quando il Boccaccio affronta ambienti più vicini e consueti: dando vita a una forma più complessa di racconto-commedia. Il che avviene ad esempio nella III, 6, dove l’ambiente è quello dell’aristocratica società napoletana, il cui vivo ricordo si avverte fin dalle prime parole («In Napoli, città antichissima e forse così dilettevole, o più, come ne sia alcuna altra in Italia...») e sprigiona, anche se in tutt’altra direzione, gli echi suggestivi di alcuni sfondi paesistici e di costume dell’Elegia di Madonna Fiammetta. I due tempi di commedia che risaltano sulla linea del racconto individuano però due temperamenti psicologici precisi, in uno schema di netto contrasto: quello di Ricciardo Minutolo, audace e spregiudicato, innamorato ma anche freddamente padrone dei propri atti (secondo un modello di comportamento, si sa, caro al Boccaccio: la passione non distrugge la freddezza controllata del giudizio e del disegno), e quello antitetico di Catella, dominata da un’esasperata gelosia per il marito e perciò credula e stizzosa, facilmente vulnerabile. L’inizio della novella insiste sulla malinconia di Ricciardo Minutolo, provocata da un amore infelice (ed è pure uno schema che definisce in partenza altri personaggi, da Tedaldo degli Elisei a Gentile Carisendi, ed è vissuto con più profondo riserbo da Federigo degli Alberighi): ma è inquadrato in una società più comunicativa e cordiale, splendida e raffinata come altrove ma rallegrata da feste e tornei, da diporti e cene collettive « a’ liti del mare » ($ 9), da avventure amorose nelle « stufe », da un continuo incrociarsi di confidenze e di allusioni. È questa la dimensione scenica e corale della commedia, che determina un uso singolare e un rovesciamento comico degli schemi cortesi tradizionali. Fin dall’inizio, per esempio, si profila un coro di donne, le « parenti » di Ricciardo, che cercano di dissuaderlo dal suo amore parlandogli della gelosia coniugale di Catella; esse offrono subito un’arma alla prontezza del suo ingegno: « Ricciardo, udito della gelosia di Catella, subitamente prese consiglio a’ suoi piaceri » ($ 7). Il subitamente è l’usuale avverbio rivelatore di un rapido riflesso dell'ingegno, che elabora un progetto in funzione del proprio piacere. Se già il coro delle donne conoscenti e amiche dell’amata, elemento 275

topico di una tradizione cortese e lirica dell'amore, ci appare caratterizzato da un intelletto d’amore molto concreto e tutto napoletano,

lo scatto di Ricciardo accentua la nota di rovesciamento comico di quegli schemi. Le donne, nella Vita rova, hanno una funzione essenziale nella crisi decisiva del poeta, nella scelta di una solitudine, di un rapporto solo poetico, di lauda oggettiva, con Beatrice: nella III, 6, la mediazione

femminile

agevola il disegno di Ricciardo,

la scelta di un’astuta conquista, di un possesso dell’amata. Lo stesso avviene per il topos della donna dello schermo, che diventa in Ricciardo strumento di simulazione per uno scopo ben preciso, espediente utilitario abilmente recitato: la commedia utilizza gli schemi cortesi, degradandoli in funzione della commedia erotica. Gli schemi vengono cioè calati in una società contemporanea, viva, in una dimensione concreta di rapporti amorosi, in un gusto dell'avventura provocato da una passione che coincide pienamente col desiderio sensuale. Non c’è solo una svolta rispetto a modelli un tempo esemplari per la sublimazione dell'amore in una ricerca morale e intellettuale; c'è pure una svolta rispetto alle raffinate astrazioni casistiche delle questioni d’amore. Irrompe nelle consuetudini aristocratiche la vitalità dell’astuzia borghese, del calcolo e dell'espediente per conquistare la donna mediante l’inganno: quella che si affermerà non solo nella novellistica posteriore, ma soprattutto nella commedia del Cinquecento. In Ricciardo Minutolo è già il Callimaco della Mandragola, però più autonomo e più deciso, perché inserito in un mondo che il Boccaccio può interpretare con lucidità: un mondo raffinato ma gaudente, cavalleresco ma corrivo all'avventura e al piacere. La straziante elegia della Fiamzzzetta si trasforma

ora, nel racconto

della narratrice

Fiammetta,

in una

raffigurazione spregiudicata, che coglie lo stesso ambiente, senza filtrazioni letterarie, nei suoi spassi quotidiani: Ora avvenne che, essendo il tempo caldo e molte brigate di donne e di cavalieri, secondo l’usanza de’ napoletani, andassero a diportarsi a’ liti del mare e a desinarvi e a cenarvi; Ricciardo, sappiendo Catella con una brigata esservi andata, similmente con sua compagnia v’andò, e nella brigata delle donne di Catella fu ricevuto, faccendosi prima molto invitare, quasi non fosse molto vago di rimanervi.

276

Quivi le donne, e Catella insieme con loro, incominciarono con lui

a motteggiare del suo novello amore, del quale egli mostrandosi acceso forte, più loro di-tagionare dava materia. A lungo andare, essendo l’una donna andata in qua e l’altra in là, come si fa in que’ luoghi, essendo Catella con poche rimasa quivi dove Ricciardo era, gittò Ricciardo verso lei un motto... ($ 9-10).

Tutti gli elementi cortesi, abilmente stumentalizzati da Ricciardo, puntano su quel « motto » che fa scattare la commedia a due, già preparata e quasi espressa da un ambiente. Ricciardo può stuzzicare e provocare, con sottile progressione, la gelosia di Catella perché gioca a colpo sicuro sulla reazione, sul dialogo appartato che ne seguirà: lanciata un’insinuazione, sa che la donna vorrà una prova, entrerà nella parte che egli le ha assegnata. Nasce il dialogo di commedia come incontro di un linguaggio falso con un linguaggio vero: Ricciardo ha il controllo dell’attore che sa dosare parole e inflessioni per suggestionare l’interlocutrice; Catella, già predisposta ad essere suggestionata, «senza avere alcuna considerazione a chi era colui che gliele dicea o a’ suoi inganni, secondo il costume de’ gelosi, subitamente diede fede alle parole... » ($ 21). L’inciso è importante: Catella esprime un reale sentimento, ma nell’esprimerlo « secondo il costume de’ gelosi » inventa un linguaggio esemplare di commedia: il personaggio concreto di Catella diventa cioè il personaggio della gelosia. È la traiettoria della commedia, che va dall’indagine sicura di un materiale psicologico a una lucida lezione di costume e di vita. E infatti la risposta di Catella è un’allocuzione al marito assente, a brusche spezzature e a frasi stizzite e aggressive, più che un colloquio con Ricciardo: il discorso è indiretto, ma basterebbe. tradurlo in discorso diretto per avere le battute del testo: « e di subita ira accesa, rispose che questo farà ella certamente, non era egli sì gran fatica a fare, e che fermamente, se egli vi venisse, ella gli farebbe sì fatta vergogna, che sempre che egli alcuna donna vedesse gli si girerebbe per lo capo » ($ 21). Si segue un discorso spezzato, reattivo e furibondo. Ormai Catella, che già durante il discorso di Riccardo aveva cominciato a interpretare gli atti del marito alla luce del nuovo sospetto gettato in lei — «certe cose state davanti cominciò adattare a questo fatto » 2

($ 21) —, agisce e riflette in una sola prospettiva. Corre in tal modo alla catastrofe, che avverrà nella seconda, vivacissima scena

del bagno. Anche in questa, dopo l’incontro d’amore insolitamente intenso e prolungato — « per grandissimo spazio con maggior diletto e piacere dell’una parte che dell’altra stettero » ($ 32) — perché l'equivoco coincide maliziosamente con la diversa realtà del piacere dei due attori, esplode nel buio la voce di Catella, e ora in discorso diretto: visto che appunto il marito ella crede di avere come interlocutore. Il lungo diletto accresce la rabbia prima compressa; e il discorso è tutto gesticolato a membretti irosi e spezzati, in una sorta di flusso incontrollato e sempre ripreso di ingiurie e di sarcasmi, che traduce anche ora il linguaggio comicopatetico della donna tradita: « teo e malvagio uom che tu se’! » ($ 33); « traditor disleale che tu se’ »; « sozzo cane vituperato che tu se’ » ($ 34); « questo can disleale... » ($ 35); « can rinnegato »

($ 36); « can fastidioso che tu se’... » ($-39), ecc. È una sequela inarrestabile di ingiurie che rivela senza pudori, e proprio all’amante, i segreti dell’intimità coniugale; la falsa scère de ménage che è il culmine della commedia, è gustata innanzi tutto da Ricciardo, che stimola la donna con baci e abbracci, e guadagna tempo per la risposta. E il buio in cui tutto si svolge isola meglio i tratti del disegno comico, l’essenzialità dei gesti e l’espressività del dialogo. Il discorso di Ricciardo è suadente — « Madonna, egli non può oggimai essere che quello che è stato non sia pure stato, se voi gridaste tutto il tempo della vita vostra... » ($ 43) —, diviso tra il buon senso e l’ardore, tra l’impeto ‘amoroso e l’ambigua cautela sociale: « voi sapete che la gente è più acconcia a credere il male che il bene, e per ciò non fia men tosto creduto a me che a voi » ($ 44). Si intravede un ricatto, fondato su una frase che potrebbe

essere una massima del Machiavelli: tutti gli elementi servono a Ricciardo ad allentare la tensione. La pacificazione non è infatti immediata, è graduale; ma dopo quel gran « diletto e piacere », l'appello alla saviezza di Catella non può cadere senza risposta. L’etica cortese trasferita nell'avventura erotica, unita a una norma

di discrezione sociale centrale nell’orizzonte del Decazzeron, porta 278

così alla felice crisi risolutiva: ma al fondo domina la logica della natura, determinata dal senso e dall’ingegno. È lo schema di soluzione che si ritroverà nélla Mandragola, ma rinviato più chiaramente alla donna, a Lucrezia, che assume volontariamente l’inganno di una notte e sceglie il proprio piacere. L’amaro giacobinismo del Machiavelli va in questo senso oltre il limite della « discrezione » boccacciana, dove motivazioni naturali e sociali si intrecciano ac-

cortamente per rivelare la donna a sé stessa e spingerla alla liberazione dell’adulterio: « e conoscendo allora la donna quanto più saporiti fossero i basci dello amante che quegli del marito, voltata la sua durezza in dolce amore verso Ricciardo, tenerissimamente da

quel giorno innanzi l’amò, e savissimamente operando molte volte goderono del loro amore. Iddio faccia noi godere del nostro » ($ 50). È l’appello che si trasmette lietamente alle commedie del Cinquecento. Il tema della gelosia si ritrova nella VII, 5, ma capovolto nella situazione ben più tipica del marito geloso che rimane beffato. E si ritrova, all’interno della novella, lo schema espressivo fondamentale

della III, 6, l’incontro dialogico tra un discorso d’istinto obbediente agli impulsi locali, dove la parola non è dominata, e un discorso invece tutto controllato, recitato per un fine preciso: qui anzi, nella scena della confessione, ulteriormente complicato da una velleità di commedia di chi non può né sa recitare (la moglie sa che il marito è travestito da prete, ma il marito non sa che la moglie sa: il rinvio tra verità e finzione è trasferito in un secondo grado di rapporto). Solo che la VII, 5 non ha la misura costruttiva della III, 6: e i personaggi anonimi della novella, ambientata a Rimini (un « mercante ricco e di possessioni e di denari assai » e « una bellissima donna » che gli è moglie), interessanti come personaggi esemplari di una commedia borghese, sono da una parte maggiormente sottoposti all’ingegnosità dell’intreccio, dall’altra a un tono didattico, da apologo, che si avverte lungo il racconto pur nella modernità dell’introspezione psicologica. Non a caso il tema della gelosia detta a Fiammetta un vivace cappello polemico, insolitamente esteso, in difesa delle donne che lavorano in casa e hanno

diritto al loro tempo libero, si direbbe oggi, nei giorni festivi:

279

Esse stanno tutta la settimana rinchiuse e attendono alle bisogne familiari e domestiche, disiderando, come ciascun fa d’aver poi il dì delle feste alcuna consolazione, alcuna quiete, e di potere alcun diporto pigliare, sì come prendonoi lavoratcri de’ campi, gli artefici delle città e i reggitori delle corti, come fece Iddio che il dì settimo da tutte le sue fatiche si riposò, e come vogliono le leggi sante e le civili, le quali, all’onor di Dio e al ben comune di ciascun riguardando, hanno i dì delle fatiche distinti da quegli del riposo ($ 4).

È un esempio notevole quente nel Decarzeron: che ha nel libro fin dal inserisce la riprovazione

di quella polemica femminista che è frenuova proprio per la centralità ideologica Proemio. In tale prospettiva generale si specifica dei mariti gelosi:

Alla qual cosa fare niente i gelosi consentono, anzi quegli dì che a tutte l’altre son lieti, fanno ad esse, più serrate e più rinchiuse tenendole, esser più miseri e più dolenti: il che quanto e qual consumamento sia delle cattivelle quelle sole il sanno che l’hanno provato. Per che conchiudendo, ciò che una donna fa ad un marito geloso a torto, per certo non condannare ma commendare si dovrebbe ($ 5-6).

La novella è strettamente legata a questa volontà programmatica: e il dialogo che ne sorge tende pur nella vivacità mimica del discorso diretto e indiretto, a una tipica esemplarità: Ora, appressandosi la festa del Natale, la donna disse al marito che, se gli piacesse, ella voleva andar la mattina della pasqua alla chiesa e confessarsi e comunicarsi come fanno gli altri cristiani: alla quale il geloso disse: « E che peccati ha’ tu fatti, che tu ti vuoi confessare? ». Disse la donna: « Come? credi tu che io sia santa perché tu mi tenghi rinchiusa? ben sai che io fo de’ peccati come l’altre persone che ci vivono; ma io non gli vo’ dire a te, ché tu non se’ prete » ($ 17-18).

Su questa evidenza tipica è costruita la scena della confessione, con un dialogo sempre più fitto, a botta e risposta, dietro il quale si indovinano il furore dell’uno e il sorriso di scherno dell’altra. Una scena tale che si può definire tale anche nel senso specifico, teatrale, del termine: un luogo scenico (la chiesa), un personaggio (il 280

marito) che si traveste e si trucca (« con alcune petruzze in bocca,

acciò che esse alquanto lafavella gl’impedissero »), un dialogo che acquista rapidamente il’tempo scandito e il ritmo lieve e preciso delle battute teatrali: « stando adunque fermo domandò la donna: “E come? Non giace vostro marito con voi?”. La donna rispose: “Messer sì”. “Adunque” disse ’1 geloso “Com vi puote anche il prete giacere?”

“Messere”,

disse la donna

“il prete...” » ($ 25-

28). La novella digrada poi, da questo momento teatrale, verso il discorso conclusivo della donna, che assume col marito l’impegno didattico annunciato nel cappello da Fiammetta. E infatti esso provoca automaticamente la conversione del marito, con voluta esemplarità: ma lasciando sul personaggio, nell’immotivata bruschezza del mutamento e nell’ironia della situazione, il peso beffardo di una punizione meritata: Il geloso cattivo, a cui molto avvedutamente pareva avere il segreto della donna sentito, udendo questo si tenne scornato; e senza altro

rispondere, ebbe la donna per buona e per savia, e quando la gelosia gli bisognava del tutto se la spogliò, così come, quando bisogno non gli era, se l’aveva vestita... ($ 59).

La beffa si prolunga non solo nella gelosia del personaggio, immotivata e irrazionale, ma nella presunzione di commedia che lascia scornato chi l’ha concepita. Ed è crudeltà più sottile, sprigionata dalla tecnica stessa della novella. Sul dialogo si regge ugualmente l’arte della III, 3, pure fondata su una confessione, in tre tempi, che coinvolge tre personaggi anonimi, emblematici ancora una volta di tre personaggi di commedia. È vero che il Boccaccio, trattandosi di un fatto recente di cronaca cittadina, avvenuto a Firenze, giustifica tale anonimato con la necessità di non suscitare lo « sdegno » ($ 5), del resto immotiva-

to per lui, di chi vive ancora: accentuando in tal modo la canonica professione sulla realtà della vicenda. Ma è anche vero che in questa dimensione contemporanea e municipale i personaggi denunciano, dimostrati come sono soltanto dalla parte che hanno nella favola, un più netto impegno teatrale: e le dramatis personae — una « gentil donna », un «frate », un « valente uomo » — si 281

rilevano in modo inconfondibile dal copione della novella. L'azione si accentra sul gioco ingegnoso di una donna energica e sottile, la

quale si serve di un frate babbeo per comunicare il proprio amore a un uomo che non se ne avvede. La fantasia inventiva della « gentil donna » sottintende sempre una coperta schermaglia col « valente uomo » cui cerca di far capire il proprio desiderio: la recitazione col frate è connessa a un dialogo indiretto con l’assente. Sono i due piani presenti nelle sue confessioni, che esigono una duttile capacità nel trasmettere un doppio contraddittorio messaggio. E la perfetta tecnica di attrice della gentildonna conferisce un ritmo preciso di progressione, con tre tempi stilisticamente distinti, alle confessioni, assicurando alla protagonista una fisionomia originale nel mondo femminile del Boccaccio. Il frate che ne è l’interlocutore è certo « tondo e grosso uomo » ($ 8): ma è come riscattato dalla bravura

della donna, che lo costringe suo malgrado a recitare una parte, l’unica che possa fare. La polemica anticlericale che fa supporre il violento cappello di Filomena è risolta nella limpida evidenza della rappresentazione, che poggia proprio sulla qualità, anche tecnica, del dialogo, e ne colma le pause con sapienti didascalie. La stessa introduzione è sobria, e insiste sul tema non nuovo di un matrimonio

mal assortito. Ma il disprezzo della donna, d’« alto legnaggio veggendosi nata e maritata ad uno artefice lanaiuolo per ciò che ricchissimo era » ($ 6), è una premessa essenziale della sua commedia:

perché il marito, che la ricchezza non vale a innalzare in un clima di nobiltà erotica, motiva il desiderio di cercare più « degno » amatore. È dunque reperibile, nel suo atteggiamento, una netta componente di classe. Perciò il marito sarà, nel corso dei colloqui col frate, materia dell’ironica e contenuta eloquenza della gentildonna — «’1 mio marito, dal quale io sono più che la vita sua amata » ($ 10), ecc. —; e sarà designato alla fine in modo indiretto: « bia-

simando i lucignoli e’ pettini e gli scardassi, insieme con gran diletto si sollazzarono » ($ 54). Il lavoro del marito è ricordato

quando la donna ha conquistato un amante degno di lei: il piacere presuppone una complicità di classe, che degrada sdegnosamente il marito al livello dei suoi strumenti di mestiere. La beffa mantiene fino all’ultimo il suo carattere di scherno aristocratico, e implica 282

nella narratrice una compiaciuta adesione. E infatti della donna

si dice soltanto, all’inizio, che è « altezza d’animo e di sottili avvedimenti quanto alcun’altra dalla natura dotata » ($ 5); e solo

alla fine, ripercorrendo la sua audace commedia, ripenseremo a questi tratti iniziali: audacia spregiudicata e accorta intelligenza. Sono in realtà, applicate come sono a una consapevole volontà di commedia, virtù borghesi, anche se non proprie forse di artefici lanaiuoli: e indicano nel personaggio, pur così risentito socialmente, un’eloquente commistione, e non importa se al livello amoroso, di virtù necessarie per il Boccaccio a un’élite cittadina. La commedia della gentildonna è infatti rifinita in ogni particolare, graduata abilmente nel tono, prima composto e poi sempre più aspro, insofferente e deciso, proprio di chi applica un piano, e manista una virtù che altri potrà rivelare in diversi campi d’azione. In tale complessità di livelli è la pregnanza della commedia: che non si esplica solo in tre momenti diversi, ma in tre diversi toni di recitazione. In questo crescendo, cui risponde una sapiente gradatio del discorso narrativo, consiste la commedia. La donna sa innanzi tutto capire l’uomo cui deve ricorrere, il frate con cui il « valente uomo », a quanto si è accorta, usa molto: « il quale, quantunque fosse tondo e grosse uomo, nondimeno, per ciò che di santissima vita era, quasi da tutti avea di valentissimo

frate fama » ($ 8).

E tale opinione comune rileva subito l’intuizione penetrante della donna: « estimò costui dovere essere ottimo mezzano tra lei ed il suo amante » ($ 8). Lo sceglie cioè proprio per quello che è, sciocco e santo insieme, per la parte che vuol fargli recitare. La comicità della situazione consiste nel fatto che il frate diventa l’involontario protagonista della commedia, che stabilisce e poi annoda sempre più strettamente i legami tra la donna e l’uomo. Comicità, si badi, non solo d’intreccio, perché, una volta capito il giuoco, si sa come finirà la vicenda: essa sgorga piuttosto dal carattere stesso del frate, quale viene delineandosi e completandosi nel corso della novella, nei colloqui con la gentildonna. Lo si osservi subito, quando essa viene a confessarsi per la prima volta: « Il frate, vedendola ed estimandola gentil donna, l’ascoltò volentieri » ($ 9). 283

L’inciso può sfuggire, ma in esso è già la vanità del frate; e insieme un vago senso utilitario, che si conferma alla fine del primo colloquio: « e conoscendola ricca molto, le lodò l’opera della carità e della limosina, il suo bisogno raccomandandole » ($ 14).

Sono le prime istintive postille di quello che diventerà il carattere più complesso, il comportamento consapevole di Frate Timoteo nella Mandragola. E questa nota utilitaria coesiste naturalmente con lo zelo del frate, tutto investito della sua parte di consigliere, sinceramente convinto dell’importanza della. mediazione che gli viene affidata. Tanto è vero che dirà alla fine al valente uomo: « ella ha infino a qui, non per amore che ella ti porti ma ad instanzia de’ prieghi miei, taciuto di ciò che fatto hai; ma essa non tacerà più: conceduta l’ho la licenza che, se tu più in cosa alcuna le spiaci, ch’ella faccia il parer suo » ($ 52). « Ad instanzia de’ prieghi miei », « conceduta l’ho la licenza »: il frate si sopravvaluta quando è ormai irrimediabilmente tagliato fuori dal gioco. È il personaggio stesso a sottolineare, per antifrasi, il grottesco della propria situazione. Il che non significa che non sia pronto — è questa anzi la sua unica prontezza — a cogliere le buone occasioni. La gentil donna, stimandolo per quel che vale e sfruttando pure questo lato del suo carattere, si mostra subito superiore ai « quasi tutti » che lo ritengono un santo:

perciò può anticiparne

a colpo sicuro le reazioni. Gli incisi, i nessi narrativi tra un dialogo e l’altro, hanno sempre una SE di didascalia, indispensabile alla STE del meccanismo comico. Quanto alla recitazione, quella della donna è davvero impeccabile, da grande attrice. Il suo primo discorso dopo la confessione comincia pianamente, con una sorta di dignitoso e onesto riserbo e insieme di cristiana speranza nell’intervento del santo frate. Captata così la fiducia — « Padre mio, a me conviene ricorrere a voi per aiuto e per consiglio di ciò che voi udirete... » ($ 9) —, si apre la via alla notizia più importante, insistendo in particolare sui connotati del persunto innamorato che urta la sensibilità di una donna riservata — « e meravigliom’io come egli non è ora qui » ($ 11) —, gelosa del proprio onore — « di che io mi dolgo forte, per ciò che questi così fatti modi fanno sovente senza 284

colpa all’oneste donne acquistar biasimo » ($ 11) —,

ma anche

femminilmente preoccupata,di evitare che la cosa venga tra uomini,

« acciò che male e scandalo non ne nascesse » ($ 12). Non ha par-

lato dunque col marito, così come Lucia non si aprirà a Renzo ma solo al confessore: il paragone, è ovvio, vuole solo sottolineare la serietà del metodo di comportamento adottato dall’attrice, cui le lacrime, alla fine, interrompono quasi il discorso: « E detto questo, quasi lacrimar volesse, bassò la testa » ($ 13). Il gesto acco-

rato dà alle sue parole un sigillo di irresistibile sincerità. La donna lascia ora parlare il frate, ma non dimentica il particolare più importante:

« Io ve ne priego per Dio; e s’egli questo negasse, sicu-

ramente gli dite che io sia stata quella che questo v’abbia detto e siamevene doluta » ($ 15). È una frase detta alla fine, da cui dipende la riuscita del suo gioco, se il valente uomo è tanto intelligente da capirlo e da assecondarlo; ma essa la getta a caso, quasi a rincalzo del suo dolore e della sua sincerità. E naturalmente non dimentica il bisogno del frate: « empiutagli nascosamente la man di denari, il pregò che messe dicesse per l’anima de’ morti suoi » ($ 16). Un gesto cristianamente motivato che compie con signo-

rile discrezione, secondo un’esperta tecnica di attrice. Conquistato il frate, la gentil donna aspetta con ansia l’esito concreto della propria recitazione: « sempre attenta ad una picciola finestretta per doverlo vedere, se vi passasse » ($ 20). E quando il valente uomo passa sotto le finestre, e insiste « assai cautamente » (S$ 21) a passarvi, una volta cioè stabilito un primo allusivo contatto, la donna accelera i tempi della commedia, con una sicurezza che giunge alla fine a beffarsi quasi apertamente dell’inconsapevole mezzano. La donna, è vero, potrebbe tentare il contatto diretto:

ma la verosimiglianza comica non risponde, è quasi inutile osservarlo, a un canone di riproduzione veristica del teale. C'è inoltre nel personaggio un movente più chiaramente bocccacciano:

si av-

verte cioè, nelle due confessioni successive, il gusto dell’intelligenza che gode di « prender festa » delia sciocchezza, proprio come Bruno e Buffalmacco con Calandrino (VII, 3, 4), e afferma la pro-

pria superiorità nella purezza dell’esercizio inventivo. Il che non esclude, nella donna, l’ansia di raggiungere uno scopo concreto,

285

come nella I, 1 in Ciappelletto. E se può effettivamente richiamare Ser Ciappelletto, per il ricorso strumentale alla confessione, è anche vero che essa resta un Ser Ciappelletto in gonnella, che recita una commedia improntata a un femminile utilitarismo, tale da escludere prolungati e conturbanti rapporti tra sé e il proprio personaggio. Perciò la beffa si risolve senza residui nella limpidezza dell’esecuzione, e nel comico parallelismo che si istituisce tra il comportamento della donna e quello del frate ?: perché le confessioni della prima sono sempre riecheggiate dai rimproveri al valente uomo del secon-

do, tanto più accesi e irritati quanto più quelle sono disperate e decise. La prima volta, ad esempio, anche il frate è cortese e discreto con l’amico: e qui manifesta la propria ottusità. Di fronte alla donna, poteva cadere anche persona più acuta di lui; ora però, dinanzi allo sbalordimento dell’amico, non solo non è neppure sfiorato dal dubbio, ma senza lasciargli il tempo di giustificarsi (« non lo lasciò dire... ») rivela il segreto che costituisce il suo orgoglio di confessore — « Ella medesima, forte di te dolendosi, me l’ha dette » ($ 18) —, concludendo con sufficienza:

« E quantunque a te

queste ciance omai non ti stean bene, ti dico io di lei cotanto, che,

se mai io ne trovai alcuna di queste sciocchezze schifa, ella è dessa » ($ 19). La donna ha agito in profondità sul frate; conquistato dalla penitente, egli giurerebbe ormai sulla sua innocenza. Non meno fine è quello che si può chiamare il secondo atto della novella, visto che i personaggi, nella sostanziale monotonia dell’intreccio, si dimostrano nell’evidenza del gesto e del discorso. Le lacrime non concludono (« quasi lagrimar volesse ») ma iniziano ora il discorso, perché il dolore e lo sdegno impediscono alla donna di parlare: « postaglisi nella chiesa a sedere a’ piedi, a piagnere incominciò » ($ 22). La recitazione si apre con un espressivo 2 Osserva acutamente a tale proposito, cogliendo sia pure in modo riduttivo il senso della novella, C. MusceTTA: « Tutto il brio della novella è nel montaggio delle battute, attraverso cui si dispiega l'industria della mal maritata, e nessun riassunto può sostituire l’azione attraverso cui il protagonista, come un docile montone, è sballottato tra i due, che egli, dopo vari sermoni, unirà in santo adulterio » (Il Decameron cit., p. 402). Alle « tante battute da commedia » in cui si esprime la « giocosità » della novella aveva già accennato G. PeTRONIO, nel commento cit. al Decameron, vol. I, p. 315.

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silenzio; e quando la donna può'rispondere alle domande pietose del frate, le parole sono più concitate, innervosite da un dolore che tende ora a trapassare nell’esasperazione: « Padre mio, le novelle che io ho non sono altre che di quel maledetto da Dio vostro amico...» ($ 23). Di fronte allo stupore del frate, il tono comincia a salire:

« per ogni volta che passarvi solea, credo che poscia vi sia passato sette » ($ 25); « quasi come se io non avessi delle borse e delle cintole, mi mandò una borsa e una cintola » ($ 26); « la mercé di Dio e del marito mio, io ho tante borse e tante cintole che io ve

l’affogherei entro » ($ 27), ecc. È il gioco comico sul parlato familiare, improntato all’ingiuria, che si è già colto nel discorso diretto di altri personaggi (per esempio, nella suocera della VII, 8); qui la donna lo usa coscientemente perché non recita più la commedia della compostezza, ma quella dell’irritazione. E perciò sa dosare i momenti aspri del linguaggio con perfetta padronanza del proprio gioco verbale, contemperarli abilmente con altri in tono minore, con proposizioni subordinate che adempiono ciascuna un delicato

ufficio di persuasiva virtù: « io credo, se io non avessi guardato al peccato, e poscia per vostro amore, io avrei fatto il diavolo » ($ 26); « temendo che ella per sé non la tenesse e a lui dicesse che io l’avessi ricevuta, sì com’io intendo che elle fanno alcuna volta, la richiamai indietro e piena di stizza gliele tolsi di mano e holla recata a voi... » ($ 27). L’alternarsi dei toni aspri e suadenti agisce sul con-

fessore, e rafforza la minaccia di parlare da parte della donna, che « piangendo forte » getta in grembo al frate il dono galante ($ 29). Il frate, reattivo anche nel tono alla recitazione della donna, ri-

sponde « turbato oltre misura » e animato da battaglieri propositi: « io gli credo per sì fatta maniera riscaldare gli orecchi, che egli più briga non ti darà » ($ 30). Ancora una volta la donna rivela la misura della propria tecnica attoriale: non insiste nello sdegno, fa anzi « sembiante di riconfortarsi alquanto » ($ 31) e passa ad argomenti più concreti: mascherando la ricca elemosina di un fiorino con la filiale devozione per i parenti in purgatorio e «spezialmente » per « la mamma sua », che le appare in sogno « sì afflitta e

cattivella, che è una pietà a vedere » ($ 31). Naturalmente, « il santo frate lietamente il prese » ($ 33); ma i suoi rimbrotti al 287

valente uomo saranno graduati sul metro della confessione della donna. E parlerà « ingiuriosamente e crucciato forte » ($ 34), e « acceso forte » gli restituirà, come prove irrefutabili, la borsa e la cintura: « come il puo’ tu negare, malvagio uomo? » ($ 35). Il periodo si adegua duttilissimo al crescendo imposto dall’attrice: svelto, lineare, scattante, quanto prima era composto e decoroso.

E il vigore più dialettale del lessico accentua la vivacità mimica del dialogo. La donna ha ormai fretta di « dare all’cpera compimento » ($ 38), e più frettoloso è il suo terzo discorso. Ma è una fretta che

si colora, agli occhi del frate, di perentoria risoluzione: « Padre mio, or vi dico io bene che io non posso più sofferire; ma per ciò che l’altrieri io vi promisi di niuna cosa farne che io prima nol vi dicessi, son venuta ad iscusarmivi » ($ 39). L’ambiguo sentimento

di pudore ferito (« ignuda come io nacqui corsi e serra’gli la finestra nel viso ») con cui narra la galante scalata del corteggiatore — che giunge a chiedere « mercé » per Dio e per il frate, mentre lei, pure « per amor » del frate, tace ($ 40) — rende quasi scoperto il tono di beffa; ma l’interlocutore, ormai « il più turbato uomo del. mondo » ($ 42), rimane costernato per la « bestialità » dell’amico,

di « questo diavolo scatenato, che egli credeva che fosse un santo » ($ 45) e propone smarrito un’ultima mediazione, mentre la donna

parte « senza più dire, quasi turbata » ($ 46), e quel che è peggio, senza elemosine. Il frate sembra quasi una vittima nelle mani di un torturatore; e sfoga la rabbia impotente con una virulenza che rende comicamente inventivo il suo collerico linguaggio, quando trasmette l’ultimo messaggio della donna con una sequenza di tre aggettivi verbali: « Hi, meccere: ecco onesto uomo! è divenuto andator di notte, apritor di giardini e salitor d’alberi! » ($ 50). La commedia giunge al limite del grottesco; il Boccaccio vi indugia brevemente, e si affretta poi verso lo scioglimento. Accanto ai due, è quell’« assai valoroso uomo e di mezza età » ($ 7) cui gli anni conferiscono esperta e discreta perspicacia. Oggetto inizialmente della commedia della donna, è pronto ad afferrarne e ad assecondarne il gioco, trasformandosi in soggetto attivo del canovaccio che gli è proposto, sia nei cauti colloqui col frate DI

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sia nei segni di complicità che invia alla gentildonna. Il suo ingegno sollecita il gioco dell’altra, avvia una schermaglia più sottile sotto il dialogo, invadente e rumoroso, tra la donna e il frate. La conclusione è rapidissima: un solo periodo, animato dalla gioia della meta raggiunta, porta il valente uomo dalle rampogne del frate « nelle braccia » della donna in attesa: « Gran mercé a messer frate, che così bene t’insegnò la via da venirci » ($ 54). Parole che

ci riportano alle lunghe scene centrali: a quel contrasto tra intelligenza e sciocchezza, ravvivato da una schermaglia d’amore, che

ferma l’interesse anche tecnico del narratore. La novella documenta la centralità del dialogo comico boccacciano, l’importanza di un nuovo mezzo espressivo che nasce nel corpo del racconto. Ridotti a didascalia i passaggi narrativi, resta una commedia in tre tempi, che punta sulle parole « o sciocche, o iniuriose, o amorose »,

come chiarirà normativamente il Prologo della Clizia, del dialogo. Il processo avviato dalla II, 1 si risolve in una complessa soluzione narrativo-dialogica, che sposta il modo del racconto. Altre novelle giocano sulle ambiguità e sulle ambivalenze della parola comica perché recitata, percepita nella sua esistenza di finzione scenica. Ambiguità, perché la parola svela un duplice spessore semantico, e nel momento stesso in cui inganna l’uno (nella III, 3 il frate) comunica all’altro (il valente uomo) un messaggio reale, decifrabile come vero attraverso la falsità della commedia.

Ambivalenze, perché la parola, labile in quanto invenzione fittizia, costretta a svanire nel nulla dalla sua stessa località, è d’altra parte straordinariamente efficace quando ricade sulla realtà: la modifica e incide sugli altri, diventa fattrice di eventi. Proprio per queste ragioni la retorica comica, la tecnica del discorso, l’articolazione di un dialogo possono non solo determinare la svolta di una vicenda, essere funzionali a un personaggio, ma porsi come l’effettivo nucleo strutturale di una novella. Uno dei casi più ambigui e complessi, in questo senso, è offerto dalla III, 5. Come nella III, 3, anche la recitazione del Zima è al servizio di una conquista amorosa: in lui anzi di un’opera diretta di seduzione, perché il discorso è rivolto a una donna da « lungo tempo amata e vagheggiata infelicemente » (S 5). Il che non comporterebbe nulla di strano, se tale discorso 289

non si collocasse in una situazione eccezionale, ben più complessa che nella III, 3: perché il téte-d-téte avviene in una sala, alla pre-

senza se non con l’ascolto di altri, e per imposizione del marito, che pur di avere in dono un palafreno ha ingiunto alla moglie, già di per sé « onesta molto » ($ 5), di ascoltare e di non parlare. Il marito, a differenza del frate, è cioè un mediatore consapevole, che cerca però di render nulla in anticipo la propria mediazione. Il protagonista deve quindi sdoppiarsi, recitare e controrecitare, far la parte dell’uomo che ama e della donna amata, parlare e risponderti: anticipando per suo conto, con l’invenzione linguistica, quando desidera nella realtà. Ma la complessità e l'ambiguità della novella non consistono solo nella situazione artificiosa creata dall’avarizia di un marito che attira gli strali dell’« acerbetta » Elissa ($ 2). Esse sono suscitate,

innanzi tutto, dal tipo stesso di discorso elaborato dal Zima: il quale non parla in modo diretto, ma mima teatralmente, con grande raffinatezza, i temi e il linguaggio della trattatistica e della lirica del fino amore. Con strani effetti speculari in tutta la novella, data la situazione e il personaggio. La situazione rinvia infatti su quel linguaggio, letterariamente ricercato, una luce comica: ma quel linguaggio nobilita a sua volta la partita d’astuzia che il Zima è costretto a giocare, Il personaggio, d’altra parte, esprime attraverso quel tessuto di citazioni e di inserti una passione reale, tende anzi a nobilitarla con la mediazione di quegli schemi; ma tale mediazione, che la sorpresa della donna trasformata in « statua di marmo » ($ 26) risolve in un soliloquio da inventare, diventa funzio-

nale a un’occasione unica, che il Zima non deve perdere. Perciò il Zima sublima una passione e insieme strumentalizza una cultura: è costretto a un’ingegnosa commedia del linguaggio cortese e stilnovistico. È il gioco obbligato di una situazione che egli stesso ha voluta, sfruttando l’avarizia del marito: egli è costretto a rivalersi

sul marito dell’inganno che questi gli tende per svalorizzare il suo tentativo, e insieme ad agire sulla donna che ha biasimato un così indegno espediente. La retorica del Zima deve tener conto dei due antagonisti, ingannare l’uno e convincere l’altra: essa sembra quasi il risultato di uno strabismo intellettuale. I contraccolpi sono evi290

denti: egli recita con la donna, a un sincero, ma deve anche chiamarla un inganno comico. Una tematica la base di una commedia borghese,

registro elevato, un sentimento direttamente alla complicità di culturalmente raffinata diventa anche se ogni gesto e ogni pa-

rola, del Zima o del Zima-donna, possono ricondursi a schemi ca-

nonici. La novella comporta dunque, grazie all’originale nucleo-dialogico di un sostanziale monologo, una continua rifrazione di piani. Già

il sottofondo sociale è sintomatico. Il Zima non è nobile, è anzi « di piccola nazione ma ricco molto » ($ 5), e ama la moglie « bellissima e onesta molto » ($ 5) di un cavaliere « molto ricco e savio

e avveduto per altro, ma avarissimo senza modo » ($ 4). Il rapporto con il denaro, non degradato nel Zima dall’avarizia, tende perciò a capovolgere la situazione sociale: la ricchezza è anche compenso, per il Zima, un dissimulato ma aggressivo bisogno di affermazione che è forse reperibile nel suo stesso bagaglio culturale. Il ritratto del personaggio non è infatti privo di ambiguità. Un amote infelice sembra avvicinarlo, inizialmente, a Federigo degli Alberighi o a Gentile Carisendi: ma la lindezza che è all’origine del soprannome — « sì ornato e sì pulito della persona andava, che generalmente da tutti era chiamato il Zima » ($ 5) — può anche ricordare un personaggio « molto assettatuzzo » (I, 1, 9) come Ser Cepperello, del quale sembra avere, in tutt'altra dimensione morale,

pure il meticoloso temperamento di attore. Non a caso il cappello biasima chi si mette incautamente « a tentar le forze dello altrui ingegno » ($ 3): la novella è presentata come novella d’ingegno, d’astuzia, e sia pure al servizio di una tematica amorosa. Questo Zima, che conosce così bene la casistica erotica e i poeti stilnovi3 Unilaterale appare dunque l’interpretazione della novella «in termini elevati

e cortesi » (p. 57) di V. BRANCA, Registri narrativi... cit., pp. 56-98. Giustamente invece C. MuscettA, Il Decameron cit., rileva che nella novella « lo stile comico sale a uno dei più alti gradi di finezza raggiunti dal Boccaccio » (p. 403) e coglie

nell’« ironico impasto di situazione realistica e linguaggio cortese » la « deliziosa coerenza strutturale del racconto» (p. 404). Alla complessità del personaggio, in quanto tale, aveva già accennato G. PeTRONIO, nel commento cit. al Decameron, vol, I, p. 330.

291

sti e cerca in essi i modelli per sublimare la propria passione, ha anche la maschera ambigua di chi sa contenere lo slancio dei sentimenti nel calcolo dei gesti e delle frasi. Lo si veda quando ha terminato il suo primo discorso alla donna: « E quinci tacendo, alquante lagrime dietro a profondissimi sospiri mandate per gli occhi fuori, cominciò ad attender quello che la gentil donna gli rispondesse » ($ 16). Dietro quelle lagrime, che traducono in recitazione espressiva le immagini dei poeti, si intravede la tensione interna dell’attore che spia l’effetto delle proprie parole. Sotto l’aspirante cavaliere, c'è insomma il nuovo e ricco borghese, attento a costruire il proprio personaggio. Il Zima mantiene sempre tale duplicità di personaggio. In questo senso, appare un Tedaldo degli Elisei capovolto. Un codice etico-amoroso

coincide con la vita di Tedaldo,

conferisce

alla sua

eloquenza un risentito, aggressivo aspetto intellettualistico: per recitare, egli è costretto a mascherarsi fisicamente, sì da essere sé

stesso apparendo un altro. Il Zima è costretto invece in prima persona alla commedia, per così dire, della serietà moralistica di Tedaldo: e a differenza di Federigo degli Alberighi, nel quale il tormento amoroso è divenuto natura, carattere, egli è un loico, che

gioca il suo linguaggio con precise proposte alla donna. Questa, d’altra parte, non è monna Giovanna, risponde subito con qualche indiretto messaggio: « E quantunque, per seguire il comandamento fattole dal marito, tacesse, non poté per ciò alcun sospiretto nascondere quello che volentieri, rispondendo al Zima, avrebbe fatto manifesto » ($ 17). Stimolato da questi segni allusivi, il Zima afferra al volo la situazione, si risponde assumendo il personaggio della donna: la malizia e la gioia della vittoria vibrano nelle sue parole, che avranno un esito ironico e beffardo nel colloquio seguente col marito: A cui il Zima rispose: « Messer sì, ma se io avessi creduto trarre di questa grazia ricevuta da voi tal frutto chente tratto n’ho, senza domandarvi ve l’avrei donato: e or volesse Iddio che io fatto l’avessi, per ciò che voi avete comperato il pallafreno e io non l’ho venduto » ($ 28).

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Il Zima finge la parte di vittima, di chi è stato gabbato; e lo è per quanto concerne il cavallo;*ma si sente già beffatore per quanto riguarda la donna, e perciò accentua ironicamente il proprio scacco. Il rapporto tra i due uomini fa vedere in un certo senso in controluce la tematica amorosa dei discorsi del Zima: e l’attesa complicità conclusiva dei due amanti, che « senza alcun indugio coricatisi, gli ultimi termini conobber d’amore » ($ 33), comporta ine-

vitabilmente una beffa per il marito (socialmente di segno contrario a quella della III, 3). E se il Zima e il suo doppio sono reintegrati nel « grandissimo piacere » ($ 33) dell’avventura erotica, il personaggio rimane sottilmente sfuggente. Il recitato, risolvendosi felicemente nel vissuto, non svela sino in fondo il proprio segreto. Le possibilità operative del verbo comico trovano nella I, 1 una sconcertante esemplificazione. Anche in essa la realtà, non amorosa ma sociale, e per di più pericolosamente collettiva, è modificata da un consapevole disegno di commedia: « ella andrà altramenti » ($ 27), dichiara il protagonista ai due fratelli fiorentini impauriti. E anche in essa la commedia ricade in modo ambiguo sul personaggio, qui chiaramente borghese, e non solo perché egli la recita in punto di morte. Ma nella I, 1 il dialogo si inserisce in una trama più vasta: si salda, con esatta rispondenza costruttiva, alla grandiosa cronaca

iniziale (che presenta un ritratto abnorme di malvagio) e al grottesco epilogo narrativo (tutta una città che si vota al nuovo santo).* La lunga introduzione punta, con una sorta di climzax narrativo, sul ritratto di ser Ciappelletto: un personaggio che comincia ad apparire nel giro del pensiero di Musciatto Franzesi, il quale cerca un uomo « tanto malvagio » da poter opporre alla « malvagità » dei borgognoni, « uomini riottosi e di mala condizione e disleali » ($ 8). Si tratta di riscuotere alcuni crediti:

la dimensione

4 I «tre tempi» della novella, e i loro esatti rapporti costruttivi, sono stati colti con sicurezza da G. Gerto, Struttura e linguaggio nella novella di Ser Ciappelletto, in Vita di forme... cit., pp. 34-77: lettura misurata e penetrante per molti aspetti. Un accenno preciso alla scansione narrativa della novella era già reperibile in G. PerronIo, nel comm: cit. al Decameron p. 130. Sull’aspetto' teatrale della confessione si era pure soffermato perspicuamente L. Russo, Letture critiche... cit., pp. 64-67: e si veda ora C. MusceTTA, Il Decameron cit., che parla « di una vera e propria commedia, col taglio e il linguaggio di un atto intero » (p. 380).

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concreta dell’azione che seguirà è subito suggerita dai rapporti duri, tesi, spregiudicati del mondo mercantile. Per questo compito la

scelta cade, con un effetto di sorpresa, su un uomo fissato dapprima con una rapida nota fisica: quella della piccolezza, curata e agghindata. Sorpresa che rimbalza subito sul testo, conferendo ambigua stranezza al contrasto tra quell’esserino « molto assettatuzzo » ($ 9) e l’inaudita perversità della sua figura morale. La pagina è tutta giocata su tale contrasto: un piccolo ed elegante personaggio è un mostro di gigantesca perversità. Ser Ciappelletto si rivela

via via nel cumulo dei suoi vizi, nella sua abnorme fisionomia di malvagio, in una progressione descrittiva dettata da un crescente stupore: « Perché mi distendo io in tante parole? egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse » ($ 15). Il ritratto è costruito

volutamente sull’enfasi, sull’ingigantimento di tutti i vizi del personaggio, con una raffinata retorica comica, nel senso medievale del termine: è un divertimento stilistico, una serie di rime aspramente giocose in prosa.î E insieme una didascalia essenziale alla commedia di Ciappelletto: la quale sarà tutta un’ironica contraffazione di questa pagina iniziale. Una contraffazione che consiste in un autorove-

sciamento di sé stesso.” Ciappelletto reciterà infatti all’inverso il proprio personaggio, e con un linguaggio opposto: rispondendo a tale ritratto « comico », basso e turpe, operato dall’esterno, con 5 È un aspetto messo

in forte rilievo da V. Branca,

L’epopea mercantile,

in

Boccaccio medievale cit., che cita la I, 1, come la novella « dove il dominio della “ragion di mercatura” è più assoluto e spietato, fino al disumano », e la situa in un preciso contesto socio-economico (pp. 86-88).

6 La lunghezza inconsueta del ritratto, e le ragioni narrative di essa, sono state acutamente rilevate da G. PeTRoNIO, Introduzione al Decameron cit., pp. 55 (e si veda anche la nota-a p. 133). Sulla tecnica del ritratto, ottime osservazioni in L. Russo, Letture critiche..., cit., pp. 59-64; e in G. GETTO, Struttura e linguaggio... cit., pp. 43-48. Sfasata nella sua finezza, si potrebbe dire per eccesso di sensibilità romantica, la nota di A. MomigLIANO nel Decameron cit., p. 34. ? Sulla tecnica del « rovesciamento » si è soffermato G. GETTO, Struttura e linguaggio..., cit., p. 46, che la estende alla struttura di tutta la novella, alla cui base egli vede, correlativo a un non-impegno religioso e morale, uno « stimolo di natura letteraria », l'applicazione cioè del « tradizionale topos del mondo alla rovescia » (p. 77). Riprende il tema del rovesciamento, verificato dal « linguaggio stravolto e quasi antifrastico », collegandolo col tema « dello stravolgimento morale e umano » (pp. 40-41), V. Branca, Registri narrativi... cit., pp. 37-44, stabilendo un nesso di antitesi tra la prima e l’ultima novella del Decamzeron: nesso cui già aveva accennato il Getto (p. 77).

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un autoritratto sublimato da un particolare « dolce » stile, nobile ed elevato. Solo che quello stile sarà funzionale a una consapevole mistificazione di sé stésso rispetto agli altri. Il personaggio entra poi in azione: e il racconto descrittivo tende

a farsi rappresentazione, a realizzarsi teatralmente, una volta spiegati i presupposti della commedia. Sono i due fratelli fiorentini ad avviarla involontariamente, parlando « assai vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo » ($ 22). Ciò è importante non solo per l’azione, così plausibile e motivata, o per lo

stesso rudimentale ma preciso scenario che suggerisce intorno al protagonista: ma anche e soprattutto per creare l’effettiva dimensione teatrale della commedia di Ciappelletto. Questa infatti non consiste nella solitaria soddisfazione di un puro esercizio verbale sul tema dell’inganno, fatto in punto di morte. C’è anche questo, è vero: lo scattodi un’ultima invenzione e di un’ultima profanazione; per tale aspetto c’è una sotterranea ma pervicace coerenza, in Ciap-

pelletto, che resiste sino alla fine, che egli denuncia quasi bonariamente:

« Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio, che, per

farnegli io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà » ($ 28). Ciappelletto deve tuttavia avere, per dare un esito con-

creto al suo personale esercizio dell'ingegno e della parola, un coro di uomini con cui misurarsi, in modo diretto o indiretto. Il frate,

in primo luogo, che è l’antagonista da raggirare; poi i fratelli usurai appostati dietro il « tavolato » ($ 78), da tranquillizzare, divertire, soprattutto stupire; i borgognoni infine (che costituiscono

il pericolo incombente sui due fiorentini), da schernire anche dopo la morte. C'è dunque un volume preciso, uno spazio che si allarga a cerchi concentrici, intorno al giaciglio di quest'uomo morente colto nel suo ultimo atto di cinismo. Perciò il discorso iniziale dei due fratelli impensieriti (la paura di un’aggressione da parte dei borgognoni) e la scena collettiva del finale (la devozione di tutta

una città a San Ciappelletto) sono strettamente legati, costitui8 Tale scatto supplementare sulla soglia della morte di Ciappelletto, che « personifica il genio della simulazione », è colto felicemente da S. BATTAGLIA, La coscienza letteraria... cit., p. 698, al quale pur non sfuggono le altre sconcertanti componenti del personaggio.

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scono il ritmo segreto e la portata operativa del dialogo centrale (la confessione di Ciappelletto), che fa seguire a un inizio così meschinamente utilitario (l’interesse di due ospiti) una soluzione così grandiosa (un collettivo slancio religioso). La commedia, anche tecnicamente, nasce dunque da un impegno da parte di Ciappel-

letto di mettere a posto le cose recitando una parte, e si sviluppa poi con un gusto personale di finzione che si sovrappone a quell'impegno, e lo porta a un esito insperato e imprevedibile. Nella

commedia di ser Ciappelletto c'è questo duplice spessore: un fine concreto e preciso da conseguire, in cui è reperibile sintomaticamente l’unico gesto di solidarietà che manifesti il personaggio (una solidarietà di nazione e di classe, che nasce tra mercanti sulla base del mestiere e dei rischi che esso comporta in terra straniera);

e una soddisfazione più personale nel modo di conseguirlo, l’esecuzione di un grande « numero » di attore. Proprio da questa duplicità di piani, suscitati da diverse motivazioni, la novella acquii sta una sfuggente ambiguità.

L’esecuzione della commedia essendo importante quanto il risultato, nella parte centrale il dialogo è spiegatamente diretto, salvo pochi raccordi in discorso indiretto: all’inizio, quando il frate avvia la sua santa inchiesta sul penitente ($ 31, 36); poi nella tortuosa

confessione di gola da parte di Ciappelletto, esasperata dall’ampio giro del discorso indiretto ($ 41); ancora verso la fine, per-riassu-

mere l’attività del frate — « il domandò il santo frate di molte altre. cose » ($ 57) — e sottolineare quasi un capovolgimento di parti, un intervento più forte di Ciappelletto. Finora egli si è infatti limitato, in apparenza, ad assecondare lo schema proposto dal confessore: prende ora l’iniziativa, sino alla confessione dell’ultimo peccato preceduta da un crescendo di sospiri e di forte pianto: « come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea » ($ 65), commenta con rapida didascalia il Boccaccio, denunciando l’inte? Di tono « estremamente sfuggente » della novella, « che resta sospeso in una certa ambiguità di significati fra tragedia e commedia », parla esplicitamente G. GETTO, Struttura e linguaggio... cit., p. 57. Ambiguità testimoniata dalla fortuna e dalla critica di questa novella celeberrima: per la prima, si veda almeno L. Fassò, La prima novella del Decamerone e la sua fortuna (1930-31), poi in Saggi e ricerche di storia letteraria, Milano, 1947.

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resse per la bravura istrionica del personaggio.! Essa si manifesta d’ora in poi gratuitamentee per eccesso: sembra ciò che Ciappelletto voglia mantenere il-colloquio più a lungo del necessario, visto che ha chiaramente vinto la sua partita. Ciappelletto appare stretto, si direbbe, alla propria confessione, se la prolunga e la rilancia sul frate ormai totalmente conquistato. Non è solo la cinica soddisfazione di un grande artefice di menzogne: c’è anche, più segreto, un fondo di gratuito disprezzo per il frate, che ci riconduce al ritratto iniziale (« Bestemmiatore di Dio e de’ Santi era grandissimo »). Tutta la scena è scritta infatti con un’attenzione estrema

per la battuta, per la sfumatura verbale, che traduce la consapevolezza dell’istrione, l’agile mimetismo nel contraffare e fin nel superare il linguaggio del santo frate. Si avverte, dietro tale mimetismo, l’intelligenza fredda e lucida di chi si impadronisce della mentalità e del frasario degli avversari, per coglierli con le loro stesse armi: di qui il fermento chiesastico del lessico, l’unzione confessionale delle inflessioni, i sospiri e le esitazioni crescenti nel confessare peccati sempre più gravi solo per una coscienza eccezionalmente scrupolosa. Il frate non può non essere commosso: ma nel momento in cui la comicità arriva di fatto a un ritmo di farsa religiosa, voluta dal penitente, essa chiama in causa motivazioni più profonde anche in quest’ultimo. Nella condotta liberamente cinica della sua finzione comica, Ciappelletto sfoga e svela un gusto privato meno limpido: è forse la zona oscura del personaggio, e lega non la commedia dell’attore ma l’attore stesso al ritratto iniziale. Perché si tratta, da parte di Ciappelletto, di una sfida suprema: che coinvolge, in punto di morte, meno Dio che gli uomini, proprio perché sul canovaccio della confessione egli sembra voler costruire un’antitesi alla propria figura, sdoppiarsi verbalmente in una vita ideale, prestando un ironico omaggio alla logica del volgo. E lo fa con un’olttanza stilistica che risponde a quella peccaminosa della sua vita reale: in modo che la morte ne possa lasciare un’immagine 10 « Questo disperato pianto del vecchio pederasta sulla madre delle finezze psicologiche più penetranti del grande Boccaccio », rileva Il Decameron cit., p. 382: da leggere anche, per quanto si dirà più effetti « di specchio deformante » che la « santità mistificata di ser ha sulla « santità reale del frate » (p. 382).

offesa è una C. MUSCETTÀA, sotto, per gli Ciappelletto »

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non corretta, ma totalmente capovolta. È l’ultima beffa, certo, che egli vuol giocare ai pregiudizi e alle opinioni comuni, rappresentati poi dalla folla dei borgognoni: ma in tale finzione comica affiora anche una perversità morale che non vuol cedere e insieme svela, di fronte alla morte, la propria impotenza. Non è tanto la sfida di un libertino ante litteram, ma il sogghigno del bestemmiatore che intende dileggiare ancora una volta, per antifrasi, gli uomini. Per questo egli vuole essere interrogato « puntualmente » dal frate « come se mai confessato non si fosse » ($ 34) — afferma ironicamente —,

con un ordine che gli permette di continuare a schernire coloro che rappresentano l’umanità (il frate, ma anche i fratelli, aiutati e pure

sbalorditi). La morte, per l’uomo che si sente solo mortale, è il problema

insolubile, e l’affare non

sbrigabile, per il mercante.

Il personaggio sconta un’impotenza che sa sviare, cogliendo con

prontezza l’occasione, verso l’esercizio della parola, e compensare col gusto dell'inganno perfetto, della beffa giocata a tutti gli altri. È un po’ lo stesso modo con cui, appena giunto in Borgogna, aveva avvicinato « benignamente e mansuetamente » i borgognoni, « fuor di sua natura » appunto, quasi si riserbasse l’adirarsi al da sezzo » {S 19). Si ricordi che egli era stato presentato prima come bestemmiatore: « e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcun altro era iracundo » ($ 13). La commedia è anche il laico compenso di un’ira repressa, sotterranea, contro qualcosa che lo sovrasta: e

può rispondervi con lo scherno, non con un’ideologia. Ciò rende più ambigua, si diceva, livida a tratti, la sua sicura commedia:

un

atto di sfida che viene prolungato per una personale, impotente soddisfazione. Il che nulla toglie, conviene ribadirlo, alla netta padronanza, al-

l’estro inventivo del suo esercizio comico: la complessità dei piani non autorizza letture libertine o romantiche. Resta però tale complessità, e spiega la resistenza di alcuni margini ambigui della novella all’esegesi dei critici. Se si dovesse richiamare un modello, questo sarebbe forse il tipo corrente del bestemmiatore e del profanatore che tanto colpiva l'immaginazione medievale.! Ciappelletto è in que!! Si veda, per questo, J. Huizinca, L'autunno 240, e passim.

298

i

del Medio Evo cit., pp. 205-

sto senso una sorta di Capaneo borghese: all’origine della sua figura è anche per il Boccaccio, a-un primo livello, il sentimento che vibra in Dante davanti al gesto sacrilego di Vanni Fucci. Il sottosuolo della commedia attesta ancora la presenza di un trascendente, lo stupore che suscita chi lo spregia e lo deride: stupore, non sdegno; questo è l’effettivo distacco del Boccaccio rispetto a Dante. Lo sdegno per il bestemmiatore si trasforma in stupore per un personaggio abnorme, di inaudita perversità: un personaggio che però esiste, e viene riconosciuto in quanto tale. Questa è la svolta delicata e complessa rappresentata dalla novella: la commedia serve ad allargare il campo d’indagine sull’umanità, può dare cittadinanza al perverso, riconoscerne allora l’agilità della condotta, l’astuzia inventiva, lo stesso indubbio fascino estetico." Per questa via, attraverso l’esercizio spregiudicato della parola, il comico tende a stabilire nuove classificazioni di tipi umani; a valutare tale esercizio solo in un contesto terreno, fatto di rapporti terreni. Il comico si definisce con la logica di un mondo autonomo. Di qui la coerenza del personaggio di Ciappelletto, visto da tre angolazioni diverse: descritto nelle effettive qualità del carattere, mistificato da una consapevole commedia soggettiva, interpretato poi dal senso comune e trasmesso a una folla credula e irriflessiva. E la commedia che egli recita non cela affatto il suo valore antifrastico, conferma anzi l’essenza del personaggio: il falsario non ha mai ingannato, il seminatore di scandali o l'omicida non sopporta che si batta una moglie « cattivella », l’iracondo si adira sol12 Solo per questa via mi pare ricuperabile il tema della « vaghezza d'’artista », che recita « anzitutto pel suo proprio ed esclusivo godimento », isolato con rilievo eccessivo da B. Croce, Poesia popolare... cit., p. 87; il quale aveva però visto acutamente che non Dio era l’interlocutore vero di Ciappelletto, ma gli uomini (p. 88). Il motivo è stato utilizzato da L. Russo, Letture critiche..., CItS per cogliere la « storia della personalità del Boccaccio, come di uomo del medioevo che si affaccia, impertinente e vivace, agli orizzonti della vita moderna» (p. 314); e ripreso da C. SALINARI, Introduzione cit., che rileva come la commedia di Ciappelletto non abbia, per lui, « nessuna contropartita di carattere materiale » (p. XVIII), e accentua la coerenza di « eroe dell'inganno » del personaggio (p. 34). E si vedano le conclusioni di C. MuscetTA, Il Decameron cit., sulla « circospetta ambiguità » con cui si arriva alla conclusione, e sull’essenza del nuovo comico del Boccaccio: « È tutta qui la differenza tra il comico medievale, che si recita in presenza di Dio, e il comico moderno che si recita a “sollazzo” degli uomini » (p. 383).

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tanto per la malvagità degli « scherani » e dei « rei » uomini, il rubatore regala i « piccioli » per amore di Dio, il goloso digiuna, il sodomita è vergine, il bestemmiatore prova rimorso di uno sputo in chiesa. La coerenza del contrappunto è confermata dal modo con cui il frate ripete dal pulpito e trasmette la confessione di Ciappelletto, che ricade sul « popolo » in ascolto: « E voi, maledetti

da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra’ piedi bestemmiate Iddio e la Madre e tutta la Corte di Paradiso » ($ 85). L’esi-

to grottesco misura la portata operativa della menzogna di Ciappelletto, ma la riporta anche al suo giusto livello comico, agli effetti paradossali della parola sull'uomo e sul pubblico: al punto che il Boccaccio sembra preoccuparsi di proteggere la figura del frate da un'impressione di eccessiva sciocchezza: « e chi sarebbe colui che nol credesse, veggendo uno uomo in caso di morte confessandosi dir così? » ($ 74). Dinanzi a quella menzogna, i fratelli rappresentano la coscienza comune,

il frate l’ingenuità, la folla la credula

irragionevolezza: e l’animata scena cittadina è il logico epilogo della commedia, il commento di essa in rebus ipsis. Un atto di rottura, di ribellione alla divinità, è riportato alle sue dimensioni umane: la sfida è strettamente correlata al proprio limite comico. Ma la stupita curiosità del narratore permette una commedia che va oltre l’occasione da cui sorge, iniziando il Decameron con un effetto di voluta sorpresa: in quanto pone tra Dio e gli uomini (questo è il punto) l’esercizio del tutto laico dell’arte comica, che concerne

i rapporti degli uomini tra loro. Si tratta di un esercizio che non nega Dio né vi si oppone esplicitamente, ma apre tra Dio e l’uomo un campo in cui l’uomo è libero di usare tutti i temi, compreso quello divino, in funzione di un inganno o di altro (come è chiaro nelle novelle seguenti), ma sempre nell’ambito del commercio quotidiano coi propri simili. 1 Su questo piano ha ragione G. PapoAN, Mondo aristocratico... cit., pp. 161166, il quale riporta la struttura della novella, con nuove e pertinenti argomentazioni, agli elementi di quello che egli chiama « l’abc della religiosità medievale » (p. 164): elementi già rapidametite rilevati, come il Padoan ricorda (p. 162, n. 3), da G. PeTRONIO, Il Decameron... cit., p. 35. Ma si tratta, appunto, di coerenza formale: tanto è vero che lo stesso Padoan si affretta subito a notare che « la novella, artisticamente, vive proprio non per la linea che abbiamo qui messo in

300

Con la I, 1 si afferma, ad apertura di libro, una delle tendenze narrative più valide del Bogcaccio: quella della novella che si attua

come recitazione, spontanea o menzognera, di uno o più personaggi rispetto a un interlocutore o ad un coro, e come azione inserita in

una precisa dimensione scenica e ambientale. Dalla linearità senza rilievi del racconto si giunge (nella dinamica interna del libro, ripetiamo) a una struttura scenica della novella, al racconto-comme-

dia che è la rappresentazione attuale dell’uomo. E tale attualità esige una consistenza nuova del dialogo, che il mimo prepara, si è visto, come agile strumento tecnico. È proprio il dialogo a tradurre stilisticamente il sorgere e il costruirsi del personaggio: dalle vicende e dalle figure guidate nel racconto dallo scrittore si passa all’oggettiva rappresentazione di eventi nei quali lo scrittore-spettatore interviene esplicitamente solo con raccordi didascalici. Il senso del reale come oggettivo movimento umano tocca il suo culmine: la commedia è sollecitata da un’ùmanità contemporanea osservata con curioso e attento distacco. Un senso del reale che comporta, si è pure notato, scelte e direzioni stilistiche rilevanti. Esse sono evidenziate, se così si può dire, già nella I, 1: sia nella

grandiosa pagina iniziale, sia nella scena in cui il personaggio si realizza in un dialogo colto nel punto cruciale della sua vita. La commedia punta sulla rivelazione immediata del personaggio: e la trama della novella è sottoposta alla misura di un tempo scenico. Ed è emblematico dello spirito dell’opera che tale atteggiamento si manifesti, con tanta ampiezza, fin dalla prima novella. La commedia implica infatti uno straordinario allargamento conoscitivo del campo umano assunto dalla letteratura: si pensi, in ambito totalmente diverso, all’irruzione di realtà che l'Inferno porta nella poesia di Dante. I rapporti tra Decameron e Commedia non vanno

colti soltanto

nell’estrinseca

applicazione

di una

poetica

« co-

luce, bensì per le situazioni comiche che si creano... » (pp. 165-166). Il vero problema è cioè quello del rapporto tra questo comico e la struttura. della novella: problema da approfondire, certo, ma che conferma alcune intuizioni di L. Russo, Letture critiche... cit., pp. 68-72, e illumina le riserve, nette al punto da trasferire su un piano letterario tutta la struttura della novella, di un critico cattolico come G. Getto, Struttura e linguaggio... cit., molto perentorio per questo lato (pp. 46, DAT

ReIidel passim):

301

mica »: sotto di questa c'è un movimento più profondo, che permette tra l’altro di cogliere le sostanziali differenze. È cioè necessario, per un simile atteggiamento di stile, un interesse che superi ogni pregiudizio di contenuto: è necessaria l'apertura, non gerarchizzata in partenza, a tutti gli aspetti dell’umanità, colta nella compresenza dei livelli istintivi e razionali, animaleschi e intellettuali. Tale atteggiamento spiega e legittima la consistenza di personaggi che è propria di Masetto, Ferondo, Calandrino: ritenuti degni di studio narrativo autonomo, non -di un puro divertimento letterario e stilistico da chierici. Se alcune tra le migliori novelle del Boccaccio sono novelle comiche, di tale comico va pure illuminata la complessa radice psicologica e morale. A un limite estremo di divertimento psicologico e ambientale è la III, 1, dove una forza naturale, quella del sesso, si afferma contro ogni sovrastruttura. È un’intuizione non nuova, nel Boccaccio:

ma il limite è segnato dal fatto che tale forza è rappresentata dall’astuzia elementare di un « uomo di villa » ($ 7), che gioca sul-

l’irrequietezza sessuale di un gruppo di monache. Bontà universale della natura e istintiva sensualità-intelligenza del contadino sono i motivi affermati da Filostrato, nel cappello, in termini polemici: ed essi si incontrano e si dispiegano in una novella pregnante di terrestre naturalezza. Il senso è valutato a un livello dove appetito e intelletto coincidono a determinare la storia (e la carriera) di un singolare Cimone rusticano: « sono ancora di quegli assai che

credono troppo bene che la zappa e la vanga e le grosse vivande ed i disagi tolgano del tutto a’ lavoratori della terra i concupiscibili appetiti e rendan loro d’intelletto e d’avvedimento grossissimi » ($ 4). La novella è un’ariosa contestazione, di impianto co-

mico, di tale pregiudizio. In essa l’aria di campagna, il paesaggio estivo, il giardino del convento, le celle e le finestre delle monache,

il « capannetto » che serve alle prestazioni amorose di Masetto, da una parte, le figurine di Nuto, il vecchio ortolano, e del castaldo, 1! Le osservazioni più felici su questo piano, anche rispetto all’interpretazione fortemente « medievalizzata » di V. Branca, sono quelle di S. BATTAGLIA, La coscienza del realismo... cit. si leggano, in particolare, in La coscienza letteraria... cit., le pp. 679-683.

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il gruppo delle monache, dall’alira, si equilibrano attorno alla massiccia figura del protagonista, alla sua scaltra animalità, e conferiscono una precisa dimensione ambientale e corale alla sua azione. Ogni accenno suggerisce un personaggio, lo attua nel gesto e nelle battute. Nel primo episodio, ad esempio, il dialogo popolaresco tra Nuto e Masetto discrimina nettamente i due personaggi: un vecchio semplice e stizzito, un giovane robusto e perspicace che afferra d’istinto le ragioni dell’irrequietezza delle monache, quale traspare dal rabbioso racconto di Nuto: E oltre a questo, elle son tutte giovani e parmi ch’elle abbiano il diavolo in corpo, ché non si può far cosa niuna al lor modo;

anzi,

quand’io lavorava alcuna volta l’orto, l’una diceva: “Pon qui questo”, e l’altra: “Pon qui quello”, e l’altra mi toglieva la zappa di mano e diceva: “Questo non sta bene”; e davanmi tanta seccaggine, che io lasciava stare il lavorio e uscivami dell’orto, sì che, tra

per l’una cosa e per l’altra, io non vi volli star più, e sonmene venuto ($ 9). :

In quell’orto da lavorare, in quella zappa strappata di mano, il Boccaccio anticipa, con un discreto gioco di immagini sessualmente allusive, l’azione di Masetto:

ma non si tratta, si badi, di un cal-

colo stilistico esercitato dall’esterno sul tessuto narrativo della novella. L’intuizione è più raffinata, interna alla struttura di commedia del racconto: perché una realtà viene trasmessa da un personaggio con un discorso che è recepito dall’altro con un codice opposto, se pur istintivo e quasi dovuto a un richiamo del sangue: A Masetto, udendo egli le parole di Nuto, venne nell'animo un disidero sì grande d’esser con queste monache, che tutto se ne struggea, comprendendo per le parole di Nuto che a lui dovrebbe poter venir fatto di quello che egli disiderava ($ 11).

Desiderio, struggimento:

sono termini applicati altrove alla pas-

sione amorosa, e qui estesi, con sintomatica coerenza, al progetto

di risolvere in uno strano modo i propri problemi sessuali. Le sollecitazioni universali della natura vengono colte a uno stadio elementare che non degrada ma convalida gli impulsi che sono alla 303

base di passioni più elevate: tanto è vero che Masetto comincia « a pensare » ($ 12) e mette in atto il suo disegno con la stessa inventiva accortezza di altri amanti più raffinati (ed è questa, ribadiamo, la democrazia boccacciana della Natura; e la profonda serietà di personaggi quali Masetto o il palafreniere della III, 2). L’ingegno intuitivo di Masetto è verificato, sul piano comico, dalla ripresa, in azione, delle scene descritte prima da Nuto, con la variante introdotta dalla novità del finto mutolo: Il quale lavorando l’un dì appresso l’altro, le monache incominciarono a dargli noia e a metterlo in novelle, come spesse volte avviene che altri fa de» mutoli, e dicevangli le più scelerate parole del mondo, non

credendo

da lui essere intese ($ 20).

Le scellerate parole confermano in altro modo la vivacità mal compressa delle monache (analoga a quella della IX, 2, ma qui avviata al suo sbocco naturale): e il cerchio dovrà chiudersi, secondo un ritmo inesorabile, nella soluzione finale di un Masetto genitore di « assai monachin » ($ 42). Tutti agiscono nell’ambito di una logica

naturale, fatta di buon senso e di elementare intelligenza: non solo Masetto, che ha capito l’ambiente e fa « cotali risa sciocche » ($ 31),

recitando più che mai la commedia del sordomuto nel momento in cui sta per conseguire il suo scopo; ma anche il castaldo; abile economo che sa sfruttare all’inizio l’offerta di un mutolo; la ba-

dessa, dapprima guidata da un istintivo calcolo utilitario — dice infatti al castaldo: « ingegnati di ritenercelo: dagli qualche paio di scarpette, qualche cappuccio vecchio, e lusingalo, fagli vezzi, dagli ben da mangiare » ($ 17) —, poi, quando è vinta più che dal « caldo grande » ($ 34) dal calore generale, capace, « come discreta », di « trovar modo a questi fatti » ($ 40); infine e specialmente le due giovani monache che danno inizio all’azione, una « più baldanzosa » ($ 21), spregiudicata, l’altra più timida ma presto intimamente persuasa, e preoccupata solo di altro: « “O se noi ingravidassimo, come andrebbe,il fatto?”. Quella allora disse: “Tu cominci ad aver pensiero del mal prima che egli venga; quando cotesto avvenisse, allora si vorrà pensare...”». Costei, udendo ciò, 304

avendo già maggior voglia che l’altra di provare che bestia fosse l’uomo, disse: “Or bene;-come faremo” » ($ 27-28). È un racconto-commedia che è la rappresentazione compatta, senza ambiguità, delle forze del senso," colte volutamente in personaggi-limite: il contadino, in generale considerato grossissimo, e ricco in realtà dell’avvedimento che gli dà la sua stessa naturalezza; le monache,

che rappresentano un'istituzione dove gli stimoli della natura dovrebbero esser vinti e sublimati nell’esercizio dell’ascetismo. Tra questi due poli estremi scatta l'invenzione e si svolge una commedia che è una sorta di sacra rappresentazione all’inverso: fondata sul trionfo, seriamente comico, delle forze della natura, quando

non sono deviate o mistificate da sovrastrutture intellettuali o di costume. Questo mondo ritorna nella III, 8, con un mutamento però di prospettive. Il ruolo di Masetto è preso da un abate scaltrissimo, che si impone nettamente sugli altri: e nell’uguale volume della novella, sullo stesso sfondo conventuale-rusticano (campagna e convento

ritornano come

elementi, realisticamente

correlati, di una

naturale commedia campestre), il dialogo raggiunge, sul piano dello stile comico, effetti più estesi e divertiti. Tra Masetto e il coro delle monache è reperibile una fondamentale affinità: l’istinto sessuale determina un’azione in cui tutti i personaggi finiscono col ritrovarsi in una zona di complicità. Tra l’abate e Ferondo c’è invece un’enorme distanza: quella che corre tra l’intelligenza sempre all’ertae una sorta di indifesa opacità mentale. D'altra parte Ferondo (i particolari e le sfumature contano sempre, nel Boccaccio) non è un « giovane lavoratore », forte e povero come Masetto

(III, 1, 7); è « un ricchissimo villano », non solo « materiale e grosso senza modo » ($ 5), ma geloso, dominato cioè dal senso della

proprietà anche nei riguardi della moglie. I dati sociologici e psi15 Perciò la novella non è tanto né solo una novella di beffa e di astuzia, come vorrebbe U. Bosco, Il Decameron... cit., p. 169: la definizione risulta esterna, non coinvolge neppure tutta la narrazione. Esatto, invece C. SALINARI, nel comm. cit. al Decameron, quando osserva che il « motivo più autentico della novella sta

proprio nel modo avvertito ma anche attento e comprensivo col quale l’autore segue il nascere e lo svilupparsi del desiderio sessuale e l’inutile lotta dei pregiudizi e delle leggi contro di esso » (p. 200).

305

cologici mutano la visuale della commedia, la spingono verso la caricatura: una naturale comicità di situazione raggiunge, nell’abile gradazione dei passaggi narrativi, il grottesco, investendo l’assurda realtà che manifesta la follia del bruto, del semplice, quando è manovrata da un ingegno funambolesco come quello dell’abate. Se la novella sembra anticipare i divertimenti stilistici in chiave rusticana della letteratura toscana del secolo seguente, essa conserva in realtà un solido impianto comico-narrativo. Nei vari quadri in cui si dispone la novella, la campagna e la badia solitaria dove vive l’abate costituiscono una vera prospettiva scenica, entro la quale si moltiplicano gli attori: un abate scaltro e audace, un monaco bolognese ugualmente privo di scrupoli e di pregiudizi, un ricco villano scimunito, una moglie scontenta-e piuttosto avida anch’essa, dei mo-

naci spauriti, tutto un paese credulo e stupito. Attorno ai personaggi essenziali, il cerchio ambientale si allarga gradualmente. L’abate, per la sua stessa posizione, è lontanissimo da Masetto, nel quale appetito e astuzia si fondono in un unico istinto; l’abate deve controllare la sua debolezza nell’« opera delle femmine » ($ 4),

disciplinarla con cautela: « questo sapeva sì cautamente fare che quasi niuno, non che il sapesse, ma né suspiciava; per che santissimo e giusto era tenuto in ogni cosa » ($ 4). L’abate vive cioè di dissimulazione, e già in questo è attore: il Boccaccio gioca sottilmente tra la discrezione e la cautela, sempre positive per lui, e l'ipocrisia di cui quelle virtù si colorano in un religioso. In quanto femminiere, il personaggio è cauto, avveduto; come abate, è costretto a coprirsi, onde farsi passare per « santissimo e giusto ». Il Boccaccio si limita a rassegnare una contraddizione; ma vi aggiunge una nota diversa; un gusto disinteressato, estetico, per lo spettacolo offerto dalla sciocchezza di Ferondo: « né per altro la sua dimestichezza piaceva allo abate, se non per alcune recreazioni le quali talvolta pigliava della sua simplicità » ($ 5). È il gusto che provano Bruno e Buffalmacco con Calandrino: e spiegherà, nell’abate, un’invenzione beffarda che appare quasi gratuita, pur essendo funzionale alla conquista della moglie. Con questa l’abate sembra piuttosto incontrare, dapprima, le maggiori difficoltà: di qui la lunghezza della scena della confessione, tutta calcolata nella psicolo306

gia e nelle parole dei personaggi, dove il confessore assume ora il ruolo di profanatore proprio di Ciappelletto. E anche in questa il dialogo è essenziale, perché la genialità dell'abate non consiste tanto nella trovata in sé, quanto nel modo con cui prepara la donna alla sua proposta. La donna, semplice e insofferente della gelosia del marito, è però un’interlocutrice reale, osservata lungo la confessione nelle sue reazioni successive: prima « tutta sbigottita » ($ 24), in fondo perplessa e ritrosa, poi, via via che l’abate rincalza la sua retorica suasiva, « vergognosamente » disposta a cedere ($ 28), e infine « lieta del dono » dell’abate ($ 29). Battuta dopo

battuta, didascalia dopo didascalia, la graduale seduzione sbocca in quel « bellissimo anello » che non a caso rileva la cupidigia contadinesca della donna, e suscita in lei, per naturale contraccolpo, una scaltra omertà con l’abate: « la donna, lieta del dono e attendendo

d’aver degli altri, alle compagne tornata, maravigliose cose cominciò a raccontare della santità dello abate e con loro a casa se ne tornò » ($ 29). La donna è stata ben presto contaminata dalla re-

citazione dell’abate: e comincia a simulare a sua volta, a fingere con le amiche. Il gioco comico presuppone sempre, nel Boccaccio, una precisa coerenza psicologica.

Con uguale accortezza si comporta l’abate nell'attuazione del suo stravagante e audace stratagemma: egli è sempre presente a sé stesso, di fronte ai monaci e ai paesani, che ne misurano anzi, proprio perché esistono, e la cautela e l’audacia. La logica comica della novella non si disperde, sul piano strutturale, neppure in quel dialogo tra il monaco bolognese e Ferondo, nel buio della cella, che sembrerebbe superfluo allo svolgimento della trama. La scena è in effetti la prova concreta dell’invenzione geniale dell’abate; e raggiunge, per la stessa sospensione dell’elemento narrativo, una dimensione quasi surreale, suscitata dalla tensione tutta astratta del dialogo, dissolto e continuamente ripreso come puro meccanismo verbale: « Ferondo, piangendo e gridando, non faceva altro che domandare: “Dove sono io?” A cui il monaco rispose: “Tu se’ in purgatorio”. “Come!” disse Ferondo “dunque sono io morto?”. Disse il monaco:

“Mai sì” » ($ 39-42). Si entra fin dall’inizio in

un mondo di dialogica follia, permessa dal totale cinismo del mo-

307

naco: e in questo grottesco dialogato, che sembra piuttosto una pantomima dell’elementare pazzia, il lessico popolaresco di Ferondo illumina il discorso di un’avida materialità tutta rusticana: « e poi, gran voglia avendone, cominciò a mangiare e a bere, e non parendogli il vino troppo buono, disse: “Domine, falla trista! ché ella non diede al prete del vino della botte di lungo il muro”» (S 45). È una pagina che basta a documentare, proprio nella sua assurda evidenza, il temperamento di autore comico proprio del Boccaccio; perché nel ritmo delle cadenze dialogiche, tutte a scatti e a malintesi, si raggiunge, forse per la prima volta a tale livello nel genere novellistico, un rilievo musicale del lazzo verbale che dissolve lo stesso contenuto. Il dialogo sembra sostituirlo integralmente, appunto come oggetto di invenzione comica:

« Disse allora

Ferondo: “O quanto siamo noi di lungi dalle nostre contrade?”. “Ohioh!” disse il monaco “se’ vi di lungi delle miglia più di ben la cacheremo”.

“Gnaffe, cotesto è bene assai!” disse Ferondo

“e

per quel che mi paia, noi dovremmo esser fuor del mondo, tanto ci ha” » ($ 59-63). Questo il tono della pagina, con la quale il Boccaccio anticipa molte esperienze, anche tecniche, del teatro comico

del Cinquecento. Il racconto si conclude riunendo tutti gli attori con esatta distribuzione delle parti; ma la comicità di questo dialogo suscita un riso che trascende il peso delle parole: un riso quasi metafisico, astratto, tutto affidato alle rispondenze incoerenti’ delle battute. Siamo ai limiti estremi di un rapporto caratterizzato da un divario essenziale nel Boccaccio: quello tra l'intelligenza e la semplicità, che confina qui con la follia mentale. Da questo rapporto crudelmente grottesco tra-accortezza e semplicità si sprigiona il dialogo di commedia. La III, 8 è altamente indicativa della traiettoria che il Boccaccio

può percorrere dall’individuazione sociologica di un ambiente all’aprirsi di uno spazio quasi surreale. Si ritrova dunque, in questa direzione narrativa, quel nesso dinamico tra reale e meraviglioso che a più riprese si è rilevato come centrale nel Decameron. Lungo la linea che va dalla realtà al personaggio alla parola, si giunge gradualmente, da un dato verosimile, all’invenzione di una realtà fitti-

zia che si sovrappone a quella iniziale, ma senza distruggerne la con308

sistenza. Perciò nella III, 8 la magia verbale della scena di Ferondo « in purgatoro » non annulla l’esattezza dei riflessi, psicologici e linguistici, propri del villano: anzi li conferma con un sottinteso atteggiamento di satira, del resto tradizionale. Infatti a Firenze e in campagna, in una scena mutevole intorno allo stesso personaggio, ci trasportano le novelle di Calandrino: al limite, appunto, tra città e contado, l’una e l’altro emblematici di una contraddizione di fondo, di carattere intellettuale, di cui Calandrino è nel Decameron la vittima più famosa e proverbiale. Firenze è presentata come scena di un teatro contemporaneo: realtà e invenzione si fondono nel personaggio, ne saggiano la consistenza e lo muovono in un paesaggio più vasto. Le quattro novelle (VIII, 3; 6; IX, 3; 5) sono legate non solo

dall’identità del protagonista, ma dal fatto che egli mantiene sempre la sua logica di personaggio: si fa via via più complesso, è affrontato da un nuovo angolo visuale, ma rimane sempre sé stesso. Sono episodi della vita di uno sciocco che neppure sospetta di esserlo; e perciò, in una dimensione quale può essere offerta da Firenze, essi svolgono la commedia di Calandrino quasi come stazioni successive di una Via Crucis cittadina, di un martire inconsapevolmente comico di una civiltà fondata sui valori dell’ingegno. E sono stazioni che spiegano integralmente il personaggio: il quale nella VIII, 3, e solo in questa, è detto « uom semplice e di nuovi costumi » ($ 4). La definizione di un carattere, che è sempre nel

Decameron convalidata e spiegata dalla novella, è affidata a una formula generica: appena un’indicazione, che solo nei quattro tempi della commedia si tradurrà in una varia ma sempre attuale rivelazione del personaggio. Il quale del resto, nella sua fondamentale scioccaggine, è ricco di vizi e di difetti che la complicano: non è semplicemente uno stolto, è un uomo ricco di istinti, di esigenze, di curiosità, di bisogni che lo spingono all'avventura.” Sono anzi 16 C. Muscetta, Boccaccio e la commedia dei « cafoni » (1947), ora in Letteratura militante, Firenze, 1953, pp. 163-167, tende anzi a riportare Calandrino alla « gente nuova » venuta dal contado, e a cogliere nelle novelle il segno della superiorità dei cittadini sui « villani inurbati » (p. 163). 17 Sulla complessità del carattere di Calandrino ha insistito con particolare finezza N. SapEGNO, Il Trecento cit., p. 359; e Dal Decameron... cit., p. 145.

309

le componenti del -suo carattere a sollecitare spesso le beffe degli amici, i quali lo conoscono bene: « Tu sai, Buffalmacco, come Calandrino è avaro e come egli bee volentieri quando altri paga... » (VIII, 6, 13). Conoscendolo, gli amici possono anticiparne le rea-

zioni quasi a colpo sicuro; è perciò facile sospingerlo al gioco comico. Anzi, è Calandrino stesso che talvolta lo provoca, proprio per l'autonomia

e la costanza

dei suoi tratti morali, per la resi-

stenza stessa della sua natura a tutte le delusioni: e gli amici, che possono non solo schernirlo, ma lapidarlo; sfruttarlo, derubarlo, ne intuiscono questa tenace solidità di fondo. E perciò possono anche goderne da spettatori, avvertirne e come rispettarne la qualità comica, valida e sempre rinnovabile: « li quali con Calandrino usavan per ciò che de’ modi suoi e della sua simplicità sovente gran festa prendevano » (VIII, 3, 4) — come l’abate con Ferondo, dunque —; « il miglior tempo del mondo prendendo dei modi di Calandrino » (IX, 5, 30); « traevano de’ fatti di Calandrino il maggior piacere del mondo » (IX, 5, 41). Accanto al divertimento preliminare dell’invenzione, e poi a quello di attori della beffa, Bruno e Buffalmacco svelano sempre questo piacere di spettatori di fronte ai modi strani, ricchi di sorprese, di Calandrino. Perciò, nella dimen-

sione comica sostanzialmente uguale postulata dall’identità di fondo del personaggio, le novelle si svolgono con una notevole disponibilità narrativa al valore dell’avventura. Più lunga la VIII, 3, un racconto che si traduce in esatta misura di commedia, a quadri successivi, dove notazione gestuale e dialogo si compenetrano felicemente a delineare la maschera di Calandrino. Ancor più nettamente predomina il dialogo nella VIII, 6, costituita di due atti più lunghi collegati da brevi passaggi narrativi, con didascalie di raccordo talvolta schematiche: « Le parole furono assai, ma niente montarono. Calandrino gl’invitò a cena cotale alla trista, sì che costoro non vi vollon cenare, e partirsi da Jui » (VIII, 6, 8). La narrazione

è rapida e secca, corre al dialogo come a un momento essenziale: Sulla sua umanità, II, p. 134. Meno

C. TraBaLza,

vedi anche G. PeTRONIO, nel comm. utile, e fortemente viziato da una

La coerenza

Boccaccio cit., pp. 235-264.

310

estetica

di Calandrino

cit. al Decameron, vol. metodologia idealistica,

nel Decameron,

in Studi

sul

e il lessico si arricchisce di fermenti contadineschi, perché la scena è ora in campagna (con-esatte indicazioni tedtrali: la prova fat-

ta « dinanzi alla Chiesa. intorno all’olmo »). Dalla «chiesa di San Giovanni », da cui era partita l'avventura della VIII, 3, l’oriz-

zonte, passando per il Mugnone, si allarga a quello di un « pode-

retto » nel contado (VIII, 6, 4). A Firenze si ritorna con la IX, 3,

più breve, che racconta con paradossale sicurezza la mistificazione di cui è vittima Calandrino « pregno ». La novella ha il ritmo più tenue del mimo, risolto in un dialogo che vale nell’incalzare veloce delle btu Si ripresenta in essa maestro Simone, già duramente beffato nella VIII, 9, e ora complice di Bruno e Buffalmacco; così come Maso del Saggio, già ricordato da Frate Cipolla nella VI, 10 ($ 42), fa scattare la beffa nella VIII, 3 e ne organizzerà

un’altra nella VIII, 5: sono personaggi ricorrenti, quasi emblematici del gusto di commedia, contemporanea e municipale, che anima simili pagine. Infine nella IX, 5 è Calandrino « imbardato » a suscitare l’ultima avventura: la narrazione, apertamente divertita, si intreccia al dialogo, in un ambiente di sobborgo di collina appena suggerito ma evidente, con quel « bello casamento » solitario « in Camerata » ($ 6) sorvegliato da una « fante vecchia », dove

viene a spassarsela il figlio del padrone ($ 7), con il cortile, il pozzo, la casa della paglia a lato, e la via che al tramonto riconduce i pittori a Firenze. In tutte le novelle Calandrino è sempre al centro; e la flessuosità del periodo sa sempre adeguarsi al movimento delle sue reazioni interne ed esterne: « A’ quali ragionamenti Calandrino posto orecchie, e dopo alquanto levatosi în piè, sentendo che non era credenza, si congiunse con loro » (VIII, 3, 8); «e come scese giù, guar-. dò e non vide il porco suo, e vide l’uscio aperto: per che, domanda.

to questo e quell’altro se sapessero chi il porco s’avesse avuto;enon trovandolo, incominciò a fare il romore grande... » (VIII, 6, 16). I riflessi di Calandrino sono quasi automatici; ed essi lo mettono subito in azione. Ma il gesto lo porta al contatto, al linguaggio, al dialogo: il dialogo svela apertamente la disperata. inferiorità di Calandrino. Il che è subito patente nel primo colloquio con Maso del Saggio nella VIII, 3, tutto giocosamente comico e allu311

sivo, e pur così interno, perché pone tutte le premesse del personaggio: prologo !* della commedia costituita dalle quattro novelle. Non a caso i dialoghi si ritrovano sempre nei punti critici della novella: si pensi alla tensione comica del dialogo tra Calandrino e i compagni nella IX, 5, sulla via del ritorno, che segue e accompagna il crescente eccitarsi, sotto gli stimoli degli amici, dell’immaginazione amorosa di Calandrino, che si vede già « a’ fatti »: e venendosene verso Firenze, disse Bruno a Calandrino: « Ben ti dico che tu la fai struggere come ghiaccio a sole: per lo corpo di Dio, se tu ci rechi la ribeba tua e canti un poco con essa di quelle tue canzoni innamorate, tu la farai gittare a terra delle finestre per venire a te ».' Disse Calandrino: « Parti, sozio? parti che io la rechi? ». « Sì » rispose Bruno. A cui Calandrino disse: « Tu non mi credevi oggi, quando io il ti diceva: per certo, sozio, io m’avveggio che io so meglio che altro uomo far ciò che io voglio... Ora io vorrò che tu mi vegghi un poco con la ribeba: vedrai bel giuoco! E intendi sanamente che io non son vecchio come io ti paio: ella se n’è bene accorta ella; ma altramenti ne la farò io accorgere se io le pongo la branca addosso, per lo verace corpo di Cristo, ché io le farò giuoco che ella mi verrà dietro come va la pazza al figliuolo ». « Oh » disse Bruno « tu te la griferai... » ($ 31-37).

È un ritmo di eccitazione reciproca tra Calandrino e i compagni: Calandrino li provoca, li carica, ed essi, stando al gioco, ricaricano

continuamente la verve inconsapevolmente comica di Calandrino. E il dialogo fermenta di immagini popolaresche, di paragoni animaleschi, di termini furbeschi e ammiccanti, di grossolana retorica amorosa, che ben rispondono alla foia di Calandrino, alla sua fan-

tasia sensuale e insieme all’aria di equivoca complicità che circonda la Niccolosa, « la quale un tristo, che era chiamato il Mangione, a sua posta tenendola in una casa di Camaldoli, prestava a vettura » ($ 8), mentre Calandrino la crede innamorata. L’eccitazione di Ca-

landrino è facilmente aizzata dai compagni, perché egli ha bisogno a sua volta di spettatori amici per produrre il proprio personag. 18 Così lo ha chiamato L. Russo, Letture critiche... cit., p. 292, che è stato il primo a rilevare la vitalità anche tecnica del dialogo in queste novelle.

312

gio: è il dialogo coi « sozi » a fare scattare il suo discorso, la sua invenzione verbale. Così nella VIII, 6 la disperazione di Calandrino derubato si esprime in un dialogo serrato, tutto a cadenze di rinvio tra la finta incredulità di Bruno e la rabbia di Calandrino che non è creduto, e impreca per il contrattempo che l’incredulità dei compagni aggiunge al furto patito; ma solo in questo dialogo, qui costruito su un finto contrasto e non sulla complicità, egli può svelarsi interamente. Così nella IX, 3 la crescente suggestione di Calandrino è resa da un fitto rapporto di battute, appena interrotte da alcuni gesti eloquenti: gli si fece incontro Nello e disse: « Buon dì, Calandrino ». Calandrino gli rispose che Iddio gli desse il buon dì e ’1 buon anno. Appresso questo, Nello, rattenutosi un poco, lo ’ncominciò a guardar nel viso; a cui Calandrino disse: « Che guati tu? ». E Nello disse a lui: « Haiti tu sentita stanotte cosa niuna? tu non mi par desso ». Calandrino

incontanente

cominciò

a dubitare

e disse:

« Oimè,

come? che ti pare egli che io abbia? ». Disse Nello: « Deh! io nol dico per ciò; ma tu mi pari tutto cambiato:

fia forse altro »; e /a4-

sciollo andare. Calandrino tutto sospettoso, non sentendosi per ciò cosa del mondo, andò avanti; ma Buffalmacco, che guari non era lontano, vedendol partito da Nello, gli si fece incontro, e salutatolo il domandò se egli si sentisse niente. Calandrino rispose: « Io non so, pur testé mi diceva Nello che io gli pareva tutto cambiato; potrebbe egli essere che io avessi nulla? ». Disse Buffalmacco: « Sì, potrestù aver cavelle, non che nulla: tu par mezzo morto ». A _Calandrino pareva già aver la febbre; ed ecco Bruno sopravvenne, e prima che altro dicesse, disse: « Calandrino, che viso è quello? e’ par che #4 sia morto: che ti senti tu? ». Calandrino, udendo ciascun di costor così dire, per certissimo ebbe seco medesimo d'esser malato, e tutto sgomentato gli domandò: « Che fo? » ($ 6-14).!9

19 Il corsivo, naturalmente mio, tende a sottolineare la perfetta funzionalità di ciascun gesto (« rattenutosi un poco... », ecc.); l'immediata reattività di Calandrino (« incontanente cominciò a dubitare... »), privo sempre di dubbi, di un minimo di distanza riflessiva rispetto ai compagni; il discreto uso di espressioni equivoche (« cavelle, non che nulla... ») che stordisce Calandrino; l’esattezza di ritmo temporale che segna l’ingresso in scena dei tre burloni, cui rispondono in gradatio le espressioni (« tu non mi par desso... », « mezzo morto... », « morto... »), subito echeggiate dall’ansia crescente di Calandrino.

313

Naturalmente, Calandrino rientrerà affaticato in casa, chiamando

subito la moglie: « Vieni e cuoprimi bene, ché io mi sento un gran male » ($ 16). Il processo di suggestione psicologica si è compiuto: ormai Calandrino è malato. E in questo crescendo impetuoso si svela la sua.inerme debolezza, che ancora una volta sfogherà sulla moglie, scoprendo i segreti coniugali. Nella diversità delle situazioni, il dialogo conferma sempre l’inferiorità di Calandrino, fiducioso nei compagni perché, paradossalmente, è il solo a credere nel valore della :parola, a non sospettarne mai l’uso equivoco, mendace, strumentale. Il dialogo, concertato dagli altri a scopo d’inganno, varia secondo le occasioni: ma fa scattare in Calandrino lo stesso meccanismo. Proprio tale diversità-identità dell’elemento dialogico fa delle quattro novelle gli atti di una sola commedia, verificando l'eccezionale coerenza dello scrittore: la diversità delle situazioni non altera l'identità del rapporto tra l'invenzione dei compagni e la reazione di Calandrino. Questa è la vera forza del ciclo di novelle: la beffa è un antecedente ben architettato, di esito sicuro, cui il Boccaccio ricorre stru-

mentalmente per mettere in azione il personaggio. Un particolare strutturale sta ad indicare l’immediatezza con cui il racconto si trasforma in commedia: la celerità con cui lo scrittore accenna al modo tenuto dai compari per ordinare la beffa. Essi s'intendono al volo: « Partito Calandrino da loro, essi quello che intorno a questo: avessero a fare ordinarono fra se medesimi » (VIII, 3, 38);

« Come Brun disse, così fecero » (VIII, 6, 14); « diliberar tutti

tre di dover trovar modo da ugnersi il grifo alla spese di Calandrino. E senza troppo indugio darvi, avendo tra sé ordinato quello che a fare avessero, la seguente mattina... » (IX, 3, 6); « insieme

tacitamente ordinarono quello che fare gli dovessero di questo suo innamoramento » (IX, 5, 21). Appena una premessa; solo la com-

media svolge e dimostra il piano preordinato. Questa la sapienza tecnica: delle quattro novelle: l’intreccio come mezzo, che rivela un Calandrino nuovo e sempre uguale a sé stesso. L’automatismo di Calandrino non può infatti realizzarsi che nello schema della commedia:

essa permette al personaggio un'esistenza oggettiva, e

proprio pet questo ne impone, scenicamente, la ripetibilità. A sot314

tolineare la coerenza psicologica del personaggio non occorrono al ‘Boccaccio pause riflessive, accenni illuminanti: appena qualche raro commento attesta la felicità del creatore, che solo distaccandosi dal proprio personaggio può esprimerne tutta la sostanza umana. La

tecnica di commedia rende esplicita tale distanza rappresentativa; il Boccaccio svela il diletto di vedere Calandrino anche nei passaggi narrativi, dove il gesto o la smorfia equivalgono alla battuta, e Calandrino è il mimo della propria elementare ma vitale goffaggine:

« Calandrino

andava, come più volonteroso, avanti e presta-

mente or qua e or là saltando, dovunque alcuna pietra nera vedeva, si gittava, e quella ricogliendo si metteva in seno » (VIII, 3, 39); « Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il piè e comin-

ciò a soffiare, ma pur si tacque e andò oltre » (VIII, 3, 47); « Calandrino

tutto sudato, rosso e affannato si fece alla finestra

e pregogli che suso a lui dovessero andare » (VIII, 3, 55); « Calandrino prestamente la si gittò in bocca e cominciò a masticare; ma sì tosto come la lingua sentì l’aloè, così Calandrino, non potendo l’amaritudine sostenere, la sputò fuori » (VIII, 6, 44); « ma pur

vergognandosi di sputarla, alquanto masticandola la tenne in bocca, e tenendola cominciò a gittar le lagrime che parevan nocciuole, sì eran grosse (VIII, 6, 48); « Calandrino, tornato a lavorare, altro che soffiare non faceva... » (IX, 5, 12); « Calandrino udendo que-

ste parole, gli pareva essere a’ fatti, e andava cantando e saltando tanto lieto, che non capeva nel cuoio » (IX, 5, 38). C’è spesso,

alla base del suo agire, un movimento istintivo, un saltare e un cantare: manifestazioni di una vitalità inevitabilmente frustrata. La traiettoria va dai momenti di massima esaltazione a quelli dell’irreparabile disfatta: ed è il simbolo crudele della vita di Calandrino. Affiorano coritinuamente in lui sentimenti germinali, impulsi affettivi che tendono con prepotenza a un rapido appagamento, senza che il raziocinio venga a controllarli. Calandrino è il personaggio antifrastico per eccellenza, rispetto a tutti i savi del Decameron: è ricco come gli altri di desideri e di aspirazioni, ma gli manca l’intelligenza per soddisfarli. Ed è la presunzione di possederla a trasformarlo ogni volta in oggetto di beffa. Questo è infatti il punto cruciale della commedia. Calandrino SR)

non si conosce: tale, essenzialmente, la sua infermità mentale. Egli

si mostra inferiore e inerme proprio quando gli sembra di sostenere da solo il peso e la responsabilità di un’azione. Contraddizione che si concreta in un aspetto tipico del suo carattere, la sua istintiva e immediata confidenza, il bisogno incontrollato di rivelare subito un segreto: « ma diliberò di non volerlo fare senza saputa di Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente amava » (VIII, 3, 25).

È una didascalia tra le più raffinate e crudeli del Boccaccio, e svela la segreta incrinatura di Calandrino, la sua inconscia debolezza: quell'amore speciale è l'attaccamento alienato della vittima al proprio torturatore. È infatti un atteggiamento costante, e lo porta talora alla menzogna: « ma sopra ogni cosa li pregò Calandrino che essi non dovesser questa cosa con persona del mondo ragionare, per ciò che a lui era stata posta in credenza » (VIII, 3, 38). Il riflesso scatta sempre: « Vedendoli col prete, gli chiamò e disse: “Voi siate i benvenuti: io voglio che voi veggiate che massaio io sono” » (VIII, 6, 6). L’impulso a comunicare, dove si mescolano

ARA e biono di confidenza, suggerisce di per sé la beffa: « per la qual cosa Calandrino cominciò a dire che egli voleva comperare un podere, e con quanti sensali aveva in Firenze... teneva mer-

cato » (IX, 3, 4); « lodando molto, ovunque con persona a parlar s’avveniva, la bella cura che di lui il maestro

ta... » (IX, 3, 33); « A cui Calandrino a persona: egli è una giovane quaggiù, mia, la quale è sì forte innamorata di Fap io me n’avvidi testé quando io

Simone aveva fat-

disse: “E’ non si vuol dire che è più bella che una lamme, che ti parrebbe un gran andai per l’acqua” » (IX, 5,

15). Non solo non sa tacere, ma deve comunicare di nascosto, come

si fa tra persone avvedute, quelle cui Calandrino crede di appartenere. Perciò, nella sua aspirazione all’agire individuale e segreto, egli scopre una debolezza più profonda che la semplice vanità: afferma un’autonomia che non possiede. Risolve la contraddizione appoggiandosi agli altri, ricorrendo ai suoi « sodali », ai « sozi » amati, in un monotono, inconsapevole irrigidirsi della sua povera mente: « tutto il rimanente di quella mattina consumò in cercargli » (VIII, 3, 26); « lasciata ogni altra faccenda, quasi correndo, n’andò a costoro » (VIII, 3, 27). La beffa è inevitabile, e vi corre ogni vol316

ta indifeso, dimentico delle altre, senza che mai lo sfiori un dubbio:

la conclusione più sottile, in questo senso, è forse offerta dalla IX, 3, che lo vede lieto e soddisfatto della cura felicemente riuscita, mentre vi ha perduto i suoi denari ($ 33).

È vero che la sua vita ha un lucido testimone, la moglie: una lucidità che suscita in Calandrino un oscuro risentimento, quasi la moglie lo distogliesse spiacevolmente da quel fanciullesco oblio che gli permette di vivere. Nella VIII, 3 egli sfoga bestialmente il suo rancore con una « fiera battitura » ($ 53) di monna Tessa; ma

la moglie riaffiora nella VIII, 6, alla fine, da una serie di gerundi che rassegnano pesantemente la portata dello scacco di Calandrino: « Calandrino, vedendo che creduto non gli era, parendogli avere assai dolore, non volendo anche il riscaldamento della moglie, diede a costoro due paia di capponi... » ($ 56). La moglie è un fantasma sempre presente in lui, perché ne intuisce la superiorità, e vede in lei l’espressione sensibile, duramente coniugale, della proptia debolezza. Di qui la sottile perfidia della IX, 3: le invettive di Calandrino, le sue indelicate confidenze coniugali, rivelano simbolicamente, al livello sessuale, la sua inferiorità di marito.

L'avventura

che sogna nella IX, 5 ne acquista un sintomatico valore di compenso: ma la novella segna anche la soluzione del dramma implicito nel rapporto tra i due coniugi. Monna Tessa, che corre « con l’unghie nel viso a Calandrino » ($ 63), perde l’onesto ritegno della IX, 3: il suo linguaggio acceso, gesticolato, è il linguaggio di un rancore alienato, covato da lungo tempo. Battuta fieramente nella VIII, 3, de-

‘rubata di fatto nella VIII, 6, svergognata nella IX, 3, essa ottiene dalla gelosia, per amaro paradosso, la rivincita. L’ultima scena della prima novella aveva presentato l’immagine di monna Tessa piangente, « scapigliata, stracciata, tutta livida e rotta nel viso » (VIII, 3,

54); la quarta novella si conclude con l’immagine di Calandrino

« tristo e cattivo, tutto pelato e tutto graffiato » (X, 5, 67), con una

precisa inversione delle parti. Il ciclo si chiude con una nota tragica, che si annida necessariamente nella maschera comica del personaggio: la parte di vittima predestinata, di beffe certo giocose, è pur il segno dell'inferno terrestre di Calandrino, l'inferno dello sciocco che vuole e non può competere con gli astuti e coi savi. Per queBIT

sto è essenziale il suo rapporto con monna Tessa: esso rappresenta la dura contropartita al suo folle, tenace legame con gli amici. La lucidità dello scrittore è assoluta: ed essa gli permette di raggiungere il punto più alto, forse, toccato da un dialogo insieme comicamente inventivo e psicologicamente motivato. Non a caso lo scrittore ritorna sul personaggio, e per ben quattro volte: caso, più che eccezionale, unico nel Decameron.

Il Boccaccio sa andar oltre, ma su un piano tecnicamente teatrale. Egli ha un senso così acuto della validità del dialogo, delle sue ambivalenze semantiche e musicali, che sul dialogo puro, sul succedersi. delle. battute come segno dell’esercizio contrapposto del dire e dell’inventare, egli costruisce, si potrebbe asserire, un’intera novella. La legge che regola nella III, 8 il dialogo tra il monaco

bolognese e Ferondo determina, nella VIII, 9, la strut-

tura essenziale del racconto. La VIII, 9 è nella sua gran parte un copione teatrale, quasi un esempio da repertorio: preceduto da una breve cronaca tra polemica e caricaturale, che implicitamente contrappone l’agile e quotidiana intelligenza dei fiorentini alla presuntuosa e falsa cultura che si apprende a Bologna; e seguito da un vivace epilogo narrativo, che in una piazza deserta di Firenze, nella notte invernale, colloca l’esito concreto di una beffa lungamente protratta. Introduzione ed epilogo richiesti, certamente, dalle esigenze costruttive di una novella di beffa: e pur intimamente legati alla parte centrale, che è preparata e come anticipata dai ritmi burleschi dell’esordio e poi risolta e concretata in una sorta di surreale pantomima sulla punizione di uno stolto. ‘Il valore della VIII, 9 è stato infirmato da un raffronto con le novelle di Calandrino; ? l’accostamento è in realtà illegittimo, perché diversissimo è l’interesse dello scrittore. I due interpreti principali della novella, Bruno, che si abbandona a un fraseggiare tutto equivoco e a doppi sensi, e maestro Simone, il medico parvenu la cui vanità giunge a un limite burattinesco, non sono tanto visti nel 2 Si veda, ad esempio, U. Bosco, Il Decameron... cit., p. 170, il cui giudizio ha pesato, in modo esplicito o implicito, sui critici seguenti. Esatta, invece, pur nella sua rapidità, la nota di G. PETRONIO, nel comm. cit. al Decameron, vol. II, ji

318

=

rapporto abituale di beffatore e di beffato, né tanto meno considerati nella loro personalità sociale e psicologica, che resta solo una premessa (sia pur interessante e funzionale) della novella: sono colti piuttosto come elementi correlati di un inesauribile rapporto verbale. In questo senso, sono entrambi sullo stesso piano. La comicità della novella, più che nei personaggi, risiede cioè nel dialogo, nel ritmo delle cadenze e rispondenze del discorso. La novella è innanzi tutto una commedia di linguaggio: un giuoco da repertorio sul linguaggio comico fiorentino. Da una parte il linguaggio allusivo e sempre più scopertamente beffardo di uno spirito sollazzevole (Bruno); dall’altra il linguaggio inevitabilmente, oggettivamente caricaturale di uno sciocco che non lo afferra e finge di capirlo, contraddistinto com’è da una smisurata fatuità (maestro Simone). I due linguaggi valgono nella pagina proprio nella tensione del loro rapporto, nella felicità rinnovata dei passaggi, nello scatto continuo e sempre ripreso del lazzo verbale. L’uno provoca l’altro e l’uno resta quasi preso dal linguaggio dell’altro, in un sottile, reciproco condizionamento. Dai tipi consueti del futbo e dello sciocco sorge una farsa puramente verbale, che si costruisce nell’inarrestabile accumularsi di mimi linguistici autonomi, validi per la loro qualità di invenzioni stravaganti. La trovata imprime allora un’altra direzione al racconto-commedia del Boccaccio. Bruno comincia « ad avere il più bel tempo del mondo » coni maestro Simone; il medico « similmente » comincia « di lui a prendere maraviglioso piacere » ($ 10): in questo reciproco strano divertimento, di natura sadomasochistica, che lega in un discorso sempre ripreso vittima e aguzzino, consiste la validità della commedia. Il gergo ammiccante di un gruppo di amici sollazzevoli, che dà un’aria di famiglia a molte figure del Decameron, gioca con corposo spessore, alleggerito solo dalla velocità del ritmo, su equivoci, metafore, allusioni grottesche, si distrugge con frasi che si negano a vicenda — « senza che, quando noi vogliamo un mille o un dumilia fiorini da loro, noi non li abbiamo prestamente » ($ 28) —, si ricarica con sostantivi storpiati, privi di senso, gergali, con neologismi che neppure si lasciano afferrare nel fervore inventivo del discorso. Il medico è proprio captato, quasi nel senso medianico che il tema più,

della negromanzia introduce nella novella, dall’incanto della giostra verbale di Bruno: è preso cioè non solo dal miraggio di « andare in corso » come Bruno e Buffalmacco, ma dal discorso che anticipa e lascia intravedere quella magica condizione. E compete allora con Bruno, non solo per dimostrarsi degno del privilegio di « andare in corso », ma per dare sfogo a un bisogno più intimo, effondendo in ritmi esaltati la propria vanità. Una volta avviato, il dialogo è appena interrotto da qualche didascalia, che è già di per sé una trovata comica: E così dicendogli alcuna volta per più accenderlo, avvenne parendo a messer lo maestro una sera a vegghiare parte che il teneva a Bruno che la battaglia de’ topi e delle gatte dipignea averlo co’ suoi onori preso, che egli si dispose d’aprirgli l’animo

che, lume bene suo;

e soli essendo gli disse... ($ 40).

È un passaggio narrativo: che basta-a significare una dimensione scenica, una solitaria complicità. Risorge continua, durante quelle veglie, la tensione

comica

della battuta,

interrotta

da qual-

che indicazione, da un gesto che è pure un lazzo sorprendente e irresistibile: «“...e oltre a ciò son dottore di medicine, che non credo che voi ve n’abbiate niuno, e so di molte belle cose e di belle canzonette, e vo’tene dire una”; e di botto incominciò a cantare »

($ 45). Il lazzo svia e sublima insieme il piacere del discorso, poi subito ripreso: e finita la canzone, e l’ maestro disse: « Che te ne pare? ». Disse Bruno: « Per certo con voi perderieno le cetere de’ sagginali, sì artagoticamente stracantate ». Disse il maestro: « Io dico che tu non l’avresti mai creduto, se tu non m’avessi udito ». « Per certo voi dite vero » disse Bruno. Disse il maestro: « Io so bene anche dell’altre; ma lasciamo ora star questo... » ($ 46-50).

Si raggiunge una rarefazione verbale quasi metafisica, che insegue la logica serrata di due pazzi: perché una germinale follia è anche nell’esercizio esaltato della parola come gioco astratto, come invenzione verbale risolta in sé stessa, come pura retorica comica. 320

Perciò ogni pausa narrativa è solo necessaria a ricaricare con nuovo estro il dialogo, ad anticiparlo nella sospensione dell’attesa: 4

Bruno, udendo costui e parendogli, sì come altre volte assai paruto gli era, un lavaceci, disse: « Maestro, fate un poco il lume più qua, e’ non v’incresca infin tanto che io abbia fatte le code a questi topi, e poi vi risponderò ». Fornite le code, e Bruno faccendo vista che forte la petizion gli gravasse, disse... ($ 52-53).

Maestro Simone dà sempre corda al meccanismo verbale, nel suo struggente desiderio che Bruno si diverte a esasperare: alternando ricordi e vanti che devono completare sempre meglio la propria immagine ideale: Egli erano poche cose che messer Guasparruolo da Saliceto facesse, quando egli era giudice della podestà di Forlimpopoli, che egli non me le mandasse a dire, perché mi trovava così buon segretaro. E vuoi vedere se io dico vero? Io fui il primaio uomo a cui egli dicesse che egli era per isposare la Bergamina: vedi oggimai tu! ». « Or bene sta dunque », disse Bruno « se cotestui se ne fidava, ben me

ne posso fidare io... » ($ 56-57).

Anche quando interviene Buffalmacco, continua per pagine e pagine la pazzia delle trovate farsesche. La scena finale, che segna la crisi e raggiunge un’aria di grottesca magia, in quel « nabissare » ($ 93) di Buffalmacco nella piazza fredda e deserta mentre il povero medico seduto sull’arca trema di paura, è quasi naturalmente sprigionata dalla realtà tutta fittizia del dialogo, da questo surreale teatro di parole (e il nesso è come materializzato dalla « maschera » e dal « pilliccion nero » presi da Buffalmacco). È un finale crudele, di quella crudeltà che sempre comporta l’eccessivo divario tra ingegno e sciocchezza; ma è assai breve, nell’economia della novella. La quale trova proprio nella battuta la sua straordinaria coerenza espressiva: nella battuta che arriva dal gergo al limite del nonsenso: « Stanotte fu’ io alla brigata, ed essendomi un poco la reina d’Inghilterra rincresciuta, mi feci venir la gumedra del gran can d’Alta-

S7AI

risi ». Diceva il maestro: « Che vuol dir gumedra? io non gli intendo questi nomi ». « O maestro mio » diceva Bruno « io non me ne maraviglio, ché io ho bene udito dire che Porcograsso e Vannacena non ne dicon nulla ». Disse il maestro: « Tu vuoi dire Ipocrasso e Avicenna! ». Disse Bruno: « Gnaffe! io non so: io m’intendo così male de’ vostri nomi come voi de’ miei; ma la gumedra in quella lingua del gran cane vuol tanto dire quanto imperadrice nella nostra. O ella vi parrebbe la bella feminaccia! Ben vi so dire che ella vi farebbe dimenticare le medicine e gli argomenti e ogni impiastro » ($ 35-39).

Le invenzioni tematiche e verbali si sovrappongono e si sollecitano a vicenda. Corre nella novella il ritmo affascinante e disincantato insieme della battuta accolta nella sua labile esistenza teatrale, quasi fuori del testo: se in quell’elementare teatro che è lo sketch comico la battuta vale nel momento in cui è pronunciata, nella frazione minima della sua esistenza. Ma qui è anche l’importanza della novella: in queste pagine, prima della riscoperta di Plauto, si pongono le premesse e i modelli del teatro comico del Cinquecento. Si pensi, per convincersene, a certe scene della Calandria del Bibbiena, delle commedie dell’Aretino (quelle della follia di messer Maco nella Cortigiana), dello stesso Machiavelli (il linguaggio di messer Nicia nella Mardragola). La novella va letta con tale interesse linguistico-teatrale; perché altrimenti sarebbe impossibile comprendere e gustare la più lunga prova di scrittore comico, qui in senso nettamente teatrale, offerta dal Boccaccio.

322

Il gusto evocativo de Sons È

Tutte, o quasi, le novelle del Decameron si possono assegnare ad uno dei modi narrativi fin qui enucleati, perché partecipano, con maggiore o minore evidenza data la notevole varietà combinatoria, degli schemi essenziali reperibili all’interno dell’opera. Il consuntivo basta a rilevare la latitudine narrativa dello scrittore, conseguente all’ampiezza dei suoi interessi mondani e alla duttilità stilistica che una cultura ormai filtrata gli rende possibile. L'invenzione rispetto al reale sembra toccare il punto più alto nelle novelle cittadine, dove prende forma la commedia di un’umanità contemporanea; in realtà, non si esaurisce con esse la sperimentazione narra-

tiva del Boccaccio. Sembra quasi che lo scrittore, impegnato a raffigurare il mondo terreno, prenda coscienza delle proprie possibilità stilistiche; e tale coscienza sempre più sicura lo sollecita a un intervento supplementare, nel tessuto del racconto, rivolto a coordinate di tempo e di spazio scoperte come occasione di ulteriori. avventure narrative. Il ricupero di storie antiche, consegnate a un tempo chiaramente avvertito come passato, e la curiosità per un

‘terreno nuovo, spesso inedito, del paesaggio sociale allargano singolarmente il campo operativo entro il quale si esercita la brigata dei novellatori. Ciò risponde, è chiaro, alla complessa posizione del Boccaccio, il quale svela la spregiudicatezza e insieme la nostalgia raffinata di un aristocratico, potremmo dire, intellettuale borghese: l’apertura culturale di chi si rivolge a un nobile passato, talora volutamente mitizzato, e pur non disdegna e anzi si compiace di scrutare gli essere più umili, per coglierli nelle loro manifestazioni istintive ma autentiche. Disponibilità non casuale: essa sottintende una piattaforma di giudizio che solo la demiurgica consapevolezza stilistica del narratore permette di decifrare. 323

È infatti indubbio che da tAle duplice disposizione mentale alcune novelle ricevono un’impronta particolare. Una seconda connotazione è conferita al disporsi delle vicende nella pagina: memoria e curiosità, mito e divertimento filtrano il racconto, si fanno modo natrativo.

Il risentimento culturale, il gusto evocativo, la ricostruzione di un quadro di ambiente o di costume si impongono in alcune novelle: le quali obbediscono a una logica narrativa più sottile, talvolta in apparenza dispersa o rarefatta, dove eventi e figure sono funzionali a una tematica riproposta, con varie angolazioni, per la sua qualità di dato significante di un’età diversa perché tramontata. Le fonti storiche, reali o immaginarie, la cultura stessa che le ha ricercate assumono allora nella novella un peso determinante per gli stimoli che esercitano, mediate come sono da un gusto intellettuale ormai esperto, nell’intero sistema di presentazione delle vicende. Ne abbiamo colto alcuni sintomi in novelle quali la

II, 8 e la III, 9; in altre il reperto storico si afferma netto in un tempo evocativo di racconto, proprio di chi raccoglie le proprie immagini da una remota distanza, ma sa situare il ricordo nell’ambito di una trama conclusa. Si legga la lineare storia di Gerbino (IV, 4): le istanze di una sensibilità romantica, volta a indagare l’avventura tragica e la psicologia degli amanti, ne deformerebbero il tono, portando a ingiustificate riserve. In realtà, la novella vuol essere solo racconto, serrata successione di eventi: ma racconto dove il tessuto e il senso sono forniti dalla rievocazione

di un mondo

cavalleresco,

ottenuta con finissimi mezzi stilistici. Il racconto vale quindi nel modo stilizzato della narrazione, nel gusto letterario che propone e sorregge la trama, dissimulato da un sapiente collage di vaghi riferimenti storici, di spunti cronistici, di temi lirico-cortesi, di riprese classiche e virgiliane; la novella ne acquista la struttura di un breve poema epico in prosa, equidistante dalle folte suggestioni dei romanzi oitanici come dalle sequenze più distese e ritmate dei cantari. Lo spazio dell’azione è offerto ancora una volta dal Mediterraneo, tra le cui sponde si stringono i vincoli di vassallaggio

tra il « re di Cicilia » e il « re di Tunisi » e nasce per fama l’amore 324

dei due giovani: un mare dove si risolverà tragicamente il conflitto tra dovere e passione,.l’uno e l’altra dettati da regole di comportamento che valgono per tutti i personaggi, immaginari (salvo « Guiglielmo secondo », garante della veridicità del racconto) perché emblematici del codice preciso che rappresentano, lo seguano o lo infrangano. Ed Elissa, non a caso narratrice della novella (dato il luogo e la tematica che vi si tratta), si attiene con coerenza al meccanismo che tale codice mette in moto. Già il cappello insiste sull’usitato motivo dell’innamoramento da lontano: e la cronaca introduttiva è densa di termini cari a un ambiente cavalleresco, dove cresce e diviene « famoso in prodezza e in cortesia » ($ 4) il protagonista. La cifra stilistica è subito offerta da fitte riprese di moduli epico-romanzeschi: « la magnifica fama delle virtù e della cortesia del Gerbin » agisce sul « nobile e grande animo » della « costumata » figlia del re di Tunisi ($ 5), stringe un legame motivato dal valore più che da una bellezza solo immaginata, così come Gerbino è toccato dalla « grandissima fama della bellezza parimente e del valor di lei » ($ 7). Sono i temi cortesi e cavallereschi a determinare, con canonica esattezza, il parallelismo della situazione, volutamente sottolineato dallo scrittore quasi a indicare, come vere protagoniste della novella, delle categorie culturali: « anzi, non meno che di lui la giovane infiammata fosse, lui di lei aveva infiammato » ($ 7). E come il re di Francia per la marchesana di Monferrato (I, 5), anche Gerbino attende un’« onesta cagione » ($ 8) per recarsi a Tunisi: il

Boccaccio non approfondisce la psicologia del personaggio, perché tutto ha la lontananza del mito cavalleresco, che rileva invece lo scambio rituale e segreto dei doni e delle reciproche promesse ($ 8-9). Alla coppia dei giovani si oppone, con simmetrica rispondenza, la coppia dei sovrani, guidati da regole diverse, ma sempre coerenti allo stesso sistema feudale di rapporti: la richiesta di « sicurtà » del re di Tunisi, l’invio del « guanto » da parte di re Guglielmo, come pegno di fede ($ 13). Sono gesti irrevocabili, in tale contesto, e sono all’origine del dramma di Gerbino, il quale dovrà d’altra parte mostrarsi « valente » e provare alla princi325

pessa « se cotante l’amasse » ($ 14). L'amore ma anche la necessità di « non parer vile » ($ 15), l’onore quindi del cavaliere che

ha già offerto sé stesso « e le sue cose » ai « comandamenti » ($ 8) della donna amata, contrastano con l’onore politico del vassallo fedele, con la lealtà e col dovere di rispettare i patti stretti dal proprio sovrano. La vittoria degli imperativi amorosi segnerà il destino del « bel Gerbino » ($ 14).' Ma neppur ora il Boccaccio si ferma sulle ripercussioni interne del dramma; gli basta indicare rapidamente un momento di esitazione — « non sapeva che farsi » ($ 15) —, per passare subito agli atti che derivano dall’inevitabile scelta del protagonista. Lo scrittore punta sull’allocuzione di Gerbino ai compagni, dove si alternano sapientemente gli elementi cortesi e cavallereschi —

«Io amo, e amor

m’indusse

a

darvi la presente fatica... »; « non cerco che in parte mi venga se non una donna, per lo cui amore i’ muovo

l’arme... » ($ 17) —

e le promesse di un ricco bottino; sull’incontro delle due galee con la nave dei saraceni; sull’improvvisa visione della principessa, che infiamma Gerbino e lo porta a uno sprezzante sarcasmo sul guanto che gli presentano i saraceni (un sarcasmo che richiama l’uso aristocratico della caccia col falcone); infine sulla battaglia, descritta con la concitazione appropriata a un tema cato a una fantasia romanzesca. Tutto obbedisce alla logica inesorabile di un mondo insieme formalistico e spietato; nella cui luce appaiono coerenti le due successive catastrofi, le decisioni dei saraceni che

rispondono con « crudeltà » efferata, svenando la principessa, alla slealtà di Gerbino — « Togli, noi la ti diamo qual noi possiamo e chente la tua fede l’ha meritata » ($ 23) —, e del re Guglielmo, che non può negare « giustizia » al re di Tunisi, dolente « della 1 L’aggettivo ricorre più volte ($ 18, 19), quasi modulo epico-romanzesco che vale a suggerire, come gli altri, il clima evocativo della narrazione: e per il contesto dei passi in cui è usato, col senso, mi sembra, di « prode », sia pure al servizio dell’amata. È stato giustamente indicato un passo del Tristano Riccardiano: « Onde noi possiamo ben dire che noi unqua mai non vedemo uno cosie bello combattitore, com’egli » (Il T.R., a cura di E.G. Parodi, Bologna, 1896; CLXXXVII, 3-5, p. 327). E nel Corbaccio il Boccaccio fa un cenno al cantare del « Bel Gherardino che combattea con l’orso » (cfr. G. Boccaccio, Opere in versi, Corbaccio..., a cura di P.G. Ricci, Milano-Napoli, 1965, p. 528).

326

fede che gli era stata male osservata » ($ 26), e fa decapitare Ger-

bino, « volendo avanti senza nepote rimanere che esser tenuto re

senza fede » ($ 26). Il cerchio si chiude con l’inevitabile affermazione della ragione politica sulle ragioni dell'amore: è la prospettiva in cui si svolge l’intera novella. Sicché la « mala morte » dei

due « miseri amanti » ($ 27) ha in realtà il valore di ogni altro elemento del racconto: prima che tragedia di Gerbino e di re Guglielmo, esso è la drammatica dimostrazione del valore delle regole cavalleresche in un mondo feudale, dell'impegno sacro del patto, che subordina a sé gli stessi sentimenti motivati da una tematica cortese. Raramente il Boccaccio ha mantenuto con tanto rigore la coerenza della ricostruzione ambientale, ottenendo un filologico-storici. I personaggi si piegano a un codice che li sfuma nello schermo di una memoria culturale; e le vicende, pur strettamente circuite in un intreccio delimitato, si dispongono in un’insolita distanza, assurgono a simboli di un mondo diverso e remoto. Analogo, se non uguale, è il procedimento della IV, 9 (indicato

dalla stessa formula di generico rinvio a una tradizione: « come i ciciliani vogliono » nella IV, 4, « secondo che raccontano i pro-

venzali » in questa): più secca e intensa della IV, 4, e tale da suggerire lo schema di un tragico contrasto, non dissimile nella strut‘tura di fondo da quello della IV, 1. In realtà, lo stile della novella è fissato dal quadro ambientale in cui agiscono le figure, dai gesti tipici che compiono, dagli strumenti linguistici che li definiscono. Panfilo sottolinea subito, rispetto alla precedente storia di Girolamo e della Salvestra (IV, 8), una novità nella condizione sociale dei protagonisti (« che da più furono... ») e nel « fiero accidente » (S 3) che li colpisce. Alle sorprese del triangolo borghese succede la logica feroce di un nobile triangolo feudale. In tale prospettiva, si spiega l’intervento del Boccaccio sul materiale offerto (« secondo che raccontano i provenzali », appunto) da una delle biografie del trovatore Guillelm de Cabestaing: gli antagonisti sono due uguali, entrambi « nobili cavalieri, de’ quali ciascuno e castella e vassalli avea sotto di sé » ($ 4), « l’uno e l’altro... prod’uomo molto nell’arme » ($ 5), legati da profonda amicizia e da comuni consueI21

tudini cavalleresche. I due avvertimenti di Panfilo confluiscono dunque in una sola indicazione: lo scrittore rielabora liberamente una tradizione cavalleresca, in particolare provenzale, per evocare un ambiente feudale, con le sue regole di onore e di cortesia, con

i suoi stessi simboli culturali (come quello del cuore mangiato, trasmesso alla successiva lirica amorosa). Da tale interesse, susci-

tato probabilmente nel Boccaccio dal contatto con le fonti, la novella riceve una compatta e sospesa atmosfera di quadro feudale, delineato nei tratti essenziali di costume, di comportamento e di linguaggio. Cosicché gli oggetti della narrazione sono equidistanti dall’attenzione dello scrittore, che li accoglie e li isola tutti come elementi fortemente caratterizzanti: « l’amistà e la compagnia » ($ 6) che legano il Rossiglione e il Guardastagno, ma anche i torneamenti e le giostre cui essi usano andar « insieme e vestiti d’una assisa » ($ 5); l’amore tra il Guardastagno e la moglie del Rossi-

glione, ma anche l’etichetta di quell'amore, quando la donna attende di « esser richiesta » dal « valorosissimo cavaliere » ($ 7);

lo sdegno e il « mortale odio » ($ 8) del Rossiglione, ma anche l’agguato che egli tende al rivale « disarmato », e fin il suo irrompere dal bosco « fellone e pieno di mal talento, con una lancia sopra mano...

gridando:

“Traditor, tu se’ morto” » ($ 11); il

cuore del Guardastagno divelto dal Rossiglione, ma anche il farlo « avviluppare in un pennoncello di lancia », e lo stesso comando ai « famigliari » che « niun fosse tanto ardito che di questo facesse parola » ($ 13); il contrasto affettivo tra il Rossiglione e la moglie,

ma anche i gesti con cui si affrontano e le parole con cui lo esprimono: «il qual voi come disleal femina tanto amavate... ($ 22); « Voi faceste quello che disleale e malvagio cavalier ‘dee fare... » ($ 23). La narrazione « stilizzata » di cui si è parlato ? è dunque 2 Si veda L. Russo, Letture critiche... cit., p. 193; il quale però non deduce dall’osservazione le implicite conseguenze critiche, e preferisce puntare sulla « tenzone intellettuale » tra il marito e la moglie, concettosa al punto che « l’idillio tragico comincia a diffondersi della galanteria del madrigale » (p. 193). È in realtà difficile ricuperare la novella alla luce del tema dell’« intelligenza », così come in una prospettiva puramente psicologica: non a caso nota nel racconto solo qualche « lampo », che non basta a salvare la novella, A. MomigLiano, Il Decameron... cit., p. 187. Coglie invece con sicurezza la prospettiva della novella

328

il modo stesso del racconto, che irrigidisce volutamente i personaggi e schematizza i particolari per costringerli nell’evocazione di un paesaggio e di un costume feudali, delineati con sobrietà ma con icastica efficacia. Questi, d’altra parte, proprio per l’intrinseco

nesso che sembrano esprimere tra il rigore di un codice di comportamento e l’oscura fatalità delle passioni che lo sommuovono, rafforzano con nuovo vigore i tratti essenziali dei personaggi. L’ambiente e i protagonisti sono inscindibili, ma si rinviano con maggior evidenza la ritualità dei gesti e la risonanza interna dei sentimenti. Per questa specularità strutturale, la novella risulta ben altrimenti articolata che la IV, 4, dove i personaggi erano in funzione di un codice che finiva coll’annullarli; può dunque aprirsi a una diversa interpretazione da parte del lettore. Certo, anche in questa gli atti e i sentimenti dei personaggi sono dettati da un complesso di norme la cui logica s'impone nelle vicende come un destino inesorabile. Il dramma nasce sempre da regole di onore, lealtà, prodezza, cortesia, violate successivamente dai personaggi quasi per neces-

sità, per le interne contraddizioni che quelle leggi sembrano contenere. Rotta una regola, tutto precipita: il codice feudale non può reprimere le passioni che le sue stesse convenzioni culturali sembrano scatenare. La moglie del Rossiglione segue infatti le suggestioni del proprio ambiente, quando è indotta a riamare il Guardastagno « conoscendolo per valorosissimo cavaliere » ($ 7), cioè per le stesse ragioni che lo avevano reso amico del marito. Ma il Guardastagno, quando innamorato richiede la donna, viola le regole di « amistà » ($ 6) che lo legano al Rossiglione; e questi, per vendicarsi, infrange a sua volta le comuni leggi di prodezza cavalleresca tendendogli

un « agguato » ($ 10), attaccandolo a tradimento, e schernendo poi con la moglie, con subdola ferocia, il nobilissimo tema dell’unione di due cuori amanti. È un ciclo inesorabile di infrazioni ai patti che svela, sotto la suggestiva apparenza delle convenzioni C. SALINARI, nel comm. cit. al Decameron: « Boccaccio c'immerge in un ambiente medievale ricreato prodigiosamente nella sua particolare atmosfera...» (p. 344). E alla « virtù evocatrice di una fertile e sorvegliata fantasia come è quella del Boccaccio » ha pure accennato, proprio per questa novella, G. GETTO, Vita di forme... cit., p. 120.

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di un ambiente elevato, le contraddizioni che vi immette il moto delle passioni: cogliamo più chiaramente che nella IV, 4, dietro la

minuzia filologica dell’evocazione, la sottile denuncia di un codice paradossale, che il ritmo narrativo sembra scandire nelle sue antinomie. La vitalità della novella è tutta in questo serrato rapporto

tra moduli letterari e invenzione drammatica. E allora lo stile, ri-

dotto a brevi periodi essenziali, secchi e concentrati quasi a tradurre la ferrea necessità di quelle leggi, coglie il dramma reale nel sotterraneo vibrare dell’odio, del rancore, dell’ansia, del sarcasmo, della disperata volontà: « avvenne che il marito se ne accorse e forte se ne sdegnò » ($ 8); «e seco diliberò del tutto di ucciderlo » ($ 8); « di che la donna non

poco turbatetta

rimase »

{S 15); « La donna, udito questo, alquanto stette » ($ 21); «e dopo alquanto disse... » ($ 23); « Messer Guiglielmo, vedendo questo, stordì forte... » ($ 24). Il dialogo stesso tra i due coniugi ha la contratta sospensione di una schermaglia che lascia appena af-

fiorare la vastità delle passioni che lo muovono: ma esso porta, grazie alla reazione della donna, alla sola intensa sorpresa della novella. Nel sovrapporsi e nello scontrarsi delle due dimensioni, formalistica e passionale, del racconto, la donna appare infatti il solo personaggio che affronti alla fine tali contraddizioni, le denunci e le sconti consapevolmente. Come nella IV, 1, la vittima afferma la

propria superiorità sull’antagonista assumendo la responsabilità del proprio amore, sia al livello personale, sottolineando il libero consenso dato all’amante, sia al livello sociale, dichiarandosi la sola colpevole, agli occhi del marito, con una risposta secca ma civilissima: « che se io, non sforzandomi egli, l’avea del mio amor fatto signore e voi in questo oltraggiato, non egli ma io ne doveva la pena portare » ($ 23). Col suicidio, già maturato nella breve pausa che precede le sue parole, la donna sa pagare con un gesto

decisivo la nobile antinomia della propria situazione: ripara la slealtà del marito e onora al massimo la qualità dell'amante, rifiuta il giudizio del primo e ricompensa il valore del secondo. Ma lo scatto individuale, che dà eccezionale rilievo al personaggio e lo rende esemplare anche per un narratore moderno quale il Boc330

caccio,' non rompe per questo le convenzioni dell'ambiente, non incrina la coerenza dell’insieme. L’ultima frase della donna è affidata a un linguaggio rituale, che esalta il suo gesto con le formule di un mondo che le è familiare; un mondo che risponde con un omaggio altrettanto rituale ad Amore, unendo nella tomba i corpi dei due amanti. L’epilogo rinchiude la novella nell’ambito dell’evocazione, e suggella il tono mitico-letterario del racconto. Tale gusto evocativo non si esercita solo in novelle tragiche. Queste tendono per lo più ad accentuare la frattura tra il presente e un mondo remoto: pur restando, incoercibile, la forza metastorica di Amore, la cui tragica affermazione contro le sovrastrutture sociali, chiusa e come protetta dalla patina del tempo nella storia di Gerbino (IV, 4), si apre a una lezione più commossa nel gesto della moglie del Rossiglione (IV, 9), e ancor più nella condotta di Ghismonda (IV, 1). Il Boccaccio, tuttavia, preferisce conferire a

una vicenda una possibile esemplarità in direzione opposta: quella in cui l’intelligenza trova le vie di un ottimistico accordo tra le esigenze individuali e le convenzioni sociali. In questo campo, sappiamo, le combinazioni suscitate dall’arte inventiva del Boccaccio sono assai varie, con molteplici rifrazioni tra passato e presente. Talvolta la salvezza individuale è addirittura ottenuta grazie all’accorta utilizzazione delle convenzioni sociali: come nella I, 5, dove la perenne

« forza delle belle e pronte risposte » ($ 4) è

proposta nel cappello di Fiammetta al servizio, prima ancora che dell’onestà coniugale di una marchesana,' di una tradizionale etica cortese dell’amore, secondo la quale « quanto negli uomini è un gran senno il cercar d’amar sempre donna di più alto legnaggio ch’ella non è, così nelle donne è grandissimo avvedimento il sapersi 3 Si vedano, per questo aspetto, il fermo giudizio di N. SapeGNo, Dal Decameron... cit., pp. 75-76, e le precise osservazioni, a proposito della moglie del Rossiglione, sul rapporto tra passione, padronanza di sé e stile di un « mondo cavalleresco e feudale» (pp. 79-80). Il Sapegno richiama pure, giustamente, alcuni rilievi di G. PeTRONIO, Il Decamzerone cit., p. 71; del quale va letta anche "RR la nota nel comm. cit. del Decarzeron, vol. I, p. 451. 4 Acute osservazioni, a questo proposito, sono reperibili nell’analisi di L. Russo, Letture critiche... cit., pp. 103-113.

DIL

guardare dal prendersi dello amore di maggior uomo ch’ella non è » ($ 4). Il contesto della novella presenta dunque non un consenso, ma un rifiuto d’amore: e lo schema del contrasto, che la I, 5 ripresenta più netto, è stilizzato in un incontro tra il re di Francia e la marchesana di Monferrato che il Boccaccio situa al tempo di «un general passaggio da’ cristiani fatto con armata mano » ($ 5) durante la terza Crociata. L'atmosfera cavalleresco-

cortese sembra abbia funzione di sfondo, quasi di decorazione; in realtà guida il comportamento dei protagonisti, dà senso e sapore all’esile trama. Il motto con cui la marchesana punge il re di Francia,.e lo stesso espediente con cui lo prepara, sono soltanto momenti della novella: la quale non si costruisce sull’arguzia del motto, ma sulla raffinata ipocrisia delle regole cortesi, interpretate come segno di agilità mentale e come controllo di gesti e di parole. Il tema iniziale dell’imamoramento da lontano ha un esito ben diverso da quello della IV, 4: non una tragica storia d’amore, ma

una schermaglia sottile e riflessa, dissimulata dalla discrezione e dall’esteriore compitezza dei due antagonisti. Essi conoscono bene le convenzioni del loro nobile ambiente, ma giocano decisi le loro carte:

e la sconfitta del re è tutta interna, non incrina il sorriso

che protegge costantemente l’insidia e lo scontro. Di qui il prevalere del periodo flessuoso e articolato, di un discorso indiretto che traduce le riflessioni interne rapportandole al comportamento dei personaggi: il re, che trova «onesta cagione» ($ 7) alla sua visita, si rivela discreto e malizioso, ma subito perspicace; la marchesana, che affronta «come valorosa donna» ($ 10) la situazione,

veramente « savia e avveduta », e pronta a rispondere « baldanzosamente » ($, 15) al motteggio del re. Nulla di irreparabile è stato detto; tutto è contenuto nei limiti di un codice cortese conosciuto

da entrambi. E in questo lieve disegno si dissimula la compiaciuta adesione ai modelli di un mondo lontano, evocato per la propria disinvolta raffinatezza. La struttura di questa e simili novelle sta a indicare un fatto sintomatico: mentre sembra.cedere la narrazione (intesa come svolgimento di eventi), affiorano alla superficie del testo elementi che

pure agivano altrove in profondità. Non contano tanto la trama e 332

i personaggi, quanto l’ambiente evocato che li stilizza; il racconto

si fa più lento, quasi statico, come privo di vera invenzione d’in-

treccio. Gli scorci e i sottintesi di altre novelle, le parentesi ambientali e le vibrazioni culturali salgono in primo piano: si svelano nella loro autonomia narrativa, nella possibilità che offrono di una diversa avventura stilistica. È un gusto rintracciabile nel Boccaccio fin dal Filocolo: ma il lungo itinerario dello scrittore lo ha depurato da ogni scoria scenografica. Un ambiente può allora costituire la presenza determinante di una novella: i personaggi sono subordinati al quadro, l’aneddoto è funzionale al ritratto di una società, tratteggiato consapevolmente nell’esemplarità di un costume più che nella sorpresa dell’atto individuale. Il #70do evocativo si isola perciò come uno strumento tecnico che il Boccaccio controlla sapientemente per proporre alcune scelte: non è necessariamente la trascrizione di un passato lontano, né il rimpianto nostalgico di quel passato. L’evocazione può anzi originarsi dalla coscienza critica di una incolmabile distanza tra il presente e un mondo remoto: lo si è accertato, in varia misura, nella IV, 4 e nella IV, 9, dove un

clima di rituale ferocia è di fatto respinto, assegnato com’è a un codice feudale. Ma l’evocazione può anche cogliere nel passato un valore da consegnare intatto, per l'evidenza che assume grazie alla distanza del racconto, al presente: tipica in questo senso, più ancora che la IV, 9, la IV, 1. Per questa ambivalenza, l’evocazione può

allora divenire il modo di estrarre, da un passato prossimo, temi e consuetudini cui il tono memorativo conferisce una particolare risonanza, un valore di civiltà che supera la corta occasione dell’aneddoto. Tipica, in questa prospettiva, la I, 10, che si volge a un ambiente più vicino e a una cultura più nota: a Bologna, dove « forse ancora vive » ($ 9) il medico illustre che è il protagonista della novella. La nobiltà delle « amorose fiamme » ($ 10), che non conoscono

età, è proposta con voce sommessa e discreta, che appena dissimula, nel susseguirsi delle immagini topiche, l’adesione intellettuale dello scrittore, la proiezione autobiografica di quelle formule; sicché maestro Alberto e le donne che lo circondano ricevono dal quadro, dall'insieme, una carica simbolica che va oltre il reciproco 333

x

motteggiare che è il pretesto della novella. I personaggi vivono come esempi più quotidiani di una tematica stilnovistica divenuta ormai costume, sociale e culturale, cittadino: di maestro Alberto, che s'innamora « ad una festa » del « vago e dilicato viso » di una « bella donna », si dice che « tanta fu la nobiltà del suo spirito che, es-

sendo già del corpo quasi ogni natural caldo partito, in sé non schifò di ricevere l’amorose fiamme » ($ 10); della donna, Malgherida de’ Ghisolieri, si sceglie forse non a caso il nome, che richiama quel « Guido Ghisilerius » citato da Dante, nel De Vu/gari Eloquentia, tra gli illustri maestri « poetantes Bononie », attorno al « maximus Guido Guinizelli » (I, XV, 6). Allora la pacata saggezza di maestro Alberto, la condensazione di una casistica e di un lin-

guaggio poetico d’amore che basta a descrivere il suo comportamento, la maliziosa pittura di un crocchio femminile (quasi lo scorcio di una mondana Vita Nova), la sottile e discreta dialettica di un vec-

chio pronto e ancora agile mentalmente, sono tutti motivi che si fondono in un racconto dal moto impercettibile, privo di sussulti o di spezzature. È lo schizzo disinvolto, ma commosso, di un ambiente raffinato, nel quale si inscrivono tanto il pungente sillogizzare di maestro Alberto quanto il « lieto viso » ($ 15) con cui sa reagire

alla con con gna

provocazione, tanto le « assai belle e leggiadre parole » ($ 14) cui le donne lo motteggiano quanto la risposta fine e delicata cui « la gentil donna » è capace di esprimere la propria vergo($ 19). Nessun particolare risalta, nessun personaggio emerge,

perché niente deve urtare, trasmodare, nel clima di un’etica amorosa e di un galateo donnesco che impongono un limite ai gesti e

alle parole. Sono dissipate, nella novella, le punte oratorie del lungo cappello, pur importante per capire il sottosuolo culturale e di costume della novella: è un dialogo colto, nella labilità sintomatica dell’aneddoto, in un angolo ciarliero e cortese di Bologna. Ma in quell’atmosfera di festa, che non contrasta con un più severo clima universitario, in quel ritmo di petulanza femminile che sa pungere senza perdere il proprio ritegno, in quel gusto del motteggio che è davvero ornamento « de’ laudevoli costumi e de’ ragiona: menti piacevoli » ($ 3), si avverte ancora l’eco della poesia del pri334

mo Guido, divenuta ormai costume di un ambiente arguto e raffinato.

Direi che tale gusto ‘piò affiorare anche in momenti comici: la

VI, 6, per esempio, è un gioco municipale, fiorentino, pure rin-

viato a un passato prossimo — « Egli non è ancora guari di tempo

passato... » ($ 4) —, che ha un valore solo come sorridente boz-

zetto di costumi propri di brigate cittadine. La novella è stata aspramente censurata °, per implicito accostamento a un modello di novella del motto: in realtà, essa va apprezzata per quello che: vuol essere, per il modo con cui è narrata. Qui il Boccaccio intende non tanto ritrarre dei personaggi, o dar risalto a una frase, a un motto che illumini un individuo, quanto inquadrare in un’atmosfera cittadina uno scherzo pure cittadino: cogliere in movimento alcuni giovani che si trovano « in brigata » ($ 4), come avverrà nella VI,

9, i cui spassi hanno la stessa radice del gusto narrativo e motteggevole dei favolatori del Decazzeron (la novella è del resto suggerita a Fiammetta dall’accenno ai Baronci fatto da Panfilo nella precedente VI, 5). Il clima è dato da tali brigate di « giovani fiorentini » ($ 4), che amano divertirsi, ma anche proporre « quistioni » e scommettervi; che sanno ridere per la trovata di Michele Scalza, ma sapranno anche rispettare il motto enigmatico e sdegnoso di Guido Cavalcanti (VI, 9). Se accolgono e ricercano Michele Scalza,

« il quale era il più piacevole e il più sollazzevole uom del mondo, e le più nuove novelle avea per le mani » ($ 4), lo fanno per esperto costume di arguzia: perché sanno cogliere la sottigliezza della sua stravagante bizzarria, del suo estro ammiccante di buffone e di contraffattore, del suo linguaggio caricaturale. Michele Scalza e i giovani fiorentini si convalidano a vicenda: la « quistion » ($ 5) che sorge in seno alla brigata è solo il pretesto per sottolineare tali consuetudini di complicità. Il « ghignare » ($ 6) dello Scalza, che prelude alla sua buffonesca trovata, annuncia un riso tutto municipale fin 5 Per esempio, da A. MomigLiano, Il Decameron... cit., che la giudica« pessima », e parla di « bizzarra e goffissima trovata » (p. 263). Più equo giudizio in G. Getto, Vita di forme... cit., che parla di «ilare scherzo » (p. 152), e rinvia giustamente a un'osservazione di C. MuscETTA sul culto del Boccaccio per le stesse « glorie minori della città di Firenze» (in G. Boccaccio, Il Decameron, Sesta giornata, Milano, 1952, p. 22).

335

nel linguaggio e nelle cadenze dei lazzi — « Andate via, andate goccioloni che voi siete... »; «i più gentili uomini e i più antichi, non che di Firenze, ma di tutto il mondo o di maremma... » ($ 6); e vi rispondono prima l’esitazione, poi le beffe dei giovani — « Tu ci uccelli... » (S$ 7) —,

infine la scommessa

di uno tra essi. La

rapida cronaca che segue è strettamente connessa all’ambiente, che si diverte al gioco di un cervello balzano: non potremmo comprenderla se non in questa dimensione, e afferrando quell’espansione di riso che il solo nome dei Baronci vi doveva suscitare. La stessa trovata buffonesca dello Scalza presuppone, nel lungo giro dell’argomentazione, nello stiracchiarsi del periodo che è una mimetica contraffazione del ragionamento sillogistico, nel compiaciuto indugio sulla caricatura dei Baronci, nella lenta preparazione della boutade finale, un tempo ben preciso di ascolto negli interlocutori. Perciò il consenso della brigata si esprime con i moduli stessi del discorso dello Scalza — « non che in Firenze, ma nel mondo o in maremma » ($ 16) —: nel riso di un coro municipale si di-

sperde rapido il breve bozzetto. Pur nella diversità del tono, è evidente l’affinità con la VI, 9,

più esplicitamente rinviata alle « belle e laudevoli usanze » dei « tempi passati » contrapposte con amarezza, sulla scia di analoghe deprecazioni dantesche non irrilevanti per tale novella, alla avarizia del presente, « la quale tutte l’ha discacciate » ($ 4). In essa è dunque riproposto inizialmente lo stesso dato di costume, le « brigate » dei « gentili uomini » ($ 5) di Firenze, se pur colte qui a un livello istituzionale: ma il rimpianto nostalgico rende più esemplare — il che è importante per la prospettiva del racconto — quel dato. E la novella ne assume, nonostante la complessità dei piani narrativi, un’insolita ariosità strutturale. Da una commossa cronaca iniziale di costume si passa a una scena che mostra in atto, in una precisa topografia cittadina, quelle usanze: l’evocazione di un clima municipale aggiunge all’ideale galleria di una Firenze arguta e cortese, sempre riproposta come modello nel Decameron, un’allegra brigata da cui si stacca, solitaria e sdegnosa, la figura di un intellettuale « leggiadrissimo e costumato e parlante uomo molto », come altri, il quale però fu « un de’ migliori loici che avesse il 336

mondo e ottimo filosofo naturale » ($ 8). Tale qualità di scienziato isola nettamente il Cavalcanti dagli altri. Ma è un contrasto di ordine diverso e supplementare, che non distrugge i tratti cortesi che Guido e messer Betto, il quale non a caso cerca di averlo nella sua

brigata, hanno in comune: anzi, il quadro generale di civiltà in cui si situa lo scontro agevola, direi, il sottile ricupero, in chiave chiara-

mente ammirativa, che il Boccaccio compie della figura del Cavalcanti. La tecnica della novella punta insomma, in primo luogo, su un ambiente generale, su « belle e laudevoli usanze » che risaltano nitide nel fluire della rappresentazione, e conferiscono all’aneddoto un’equanime cifra stilistica. L'animazione del ricordo è avvertibile nel periodare mosso della novella: tanto nella cronaca d’apertura, punteggiata da un fitto succedersi di polisindeti che accentuano gli elementi positivi dell’evocazione ($ 5-6), quanto nell’« assalto sollazzevole » ($ 11) a Guido della brigata di messer Betto

Brunelleschi. In tale atmosfera comune si manifesta un’importante diversità. La speculazione apparta Guido, lo rende sfuggente ad ogni invito, ininteressante per questo aspetto ai compagni del Brunelleschi: « delle quali cose poco la brigata curava » ($ 8). È suggerita la natura oggettiva di quella distanza: che non impedisce, in messer Betto e nella brigata, un’attrazione per le qualità cortesi, sociali appunto, del Cavalcanti. Il contrasto non nasce da uno scontro, ma

dal rifiuto dell’incontro da parte di un personaggio. E la progressione del testo, nella presentazione di Guido, è calcolata con grande finezza, perché tende insieme a inserire il personaggio in un contesto ambientale e ad isolarlo, all’interno di esso, come problema non solubile per gli altri. Guido è infatti presentato, dapprima, come oggetto dell’intenso desiderio della brigata, che il Boccaccio capisce e approva:

« non

senza cagione » ($ 7). Lo scritto-

re spiega poi, con una proposizione causale, le ragioni di tale atteggiamento; ma apre subito una secondaria (« per ciò che, oltre a quello che egli fu... ») che profila, con uno scatto prolettico rispetto all’insieme del discorso, la figura di filosofo del Cavalcanti: rilevandola dunque nel periodo in prima posizione, ma nello stesso tempo subordinandola sintatticamente alle qualità mondane di Gui337

do, le sole valide nella prospettiva della brigata. Attraverso le reazioni degli altri, il Cavalcanti è così fissato nella sua doppia, affascinante personalità: l’una trascurata, l’altra ammirata dai « gentili uomini » suoi pari. Ma non si tratta di uno sdoppiamento di personalità: di qui il problema (con un ritorno dalle qualità sociali a quelle intellettuali), che i compagni di messer Betto cercano di risolvere col fatto « che Guido alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini diveniva » ($ 9). Accertamento, quello della brigata, che implica solo stupore, accettazione di una diversità: in questo senso, essa è quasi portavoce di una fitta tradizione di cronisti fiorentini. È un’indiretta recensione dei luoghi comuni sulla figura del Cavalcanti: essa continua, in gradazione discendente, con la voce sull’ateismo di Guido rinviata alla « gente volgare », pure ora anticipata, con una causale prolettica, e distinta dall’osservazione più rigorosa dello scrittore « che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri » ($ 9). L’abile contrapposizione svuota di ogni condanna gli stessi richiami danteschi: allusivamente capovolti, mi pare, anche nelle « arche » tra cui passeggia Guido e nel suo stesso motto enigmatico. Ma l’aneddoto prende luce dalla lenta preparazione di esso, dalla sottile disposizione di piani che mette in evidenza, all’inizio e alla fine della lunga sequenza, il valore intellettuale del Cavalcanti; che punta cioè, come su fatti oggettivi,

sulle sue indubbie qualità di filosofo, e lascia le interpretazioni soggettive ai vari livelli mentali degli altri. Il Cavalcanti è così immesso nel tessuto vitale della propria città, e proprio per questo si isola più fortemente in quanto ha di originale, di irriduttibile; è insieme una presenza incontestabile e un problema insolubile per i non filosofi. Questi i due temi su cui gioca la sapienza stilistica del Boccaccio: ed essi si risolvono con grande esattezza nell’episodio che segue. Non sembra dunque lecito insistere su un atteggiamento satirico del Boccaccio verso la brigata né su un romantico isolamento del protagonista °: l’appartarsi di Guido risponde alle necessità 6 È la posizione di A. MomicLIano, Il Decameron... cit., pp. 268-271, e, in modo più sfumato, di L. Russo, Letture critiche... cit.,. pp. 245-252; esatta, cit., invece, l’interpretazione antiromantica di N. SapeGno, Dal'‘Decameron...

338

meditative dell’uomo di studio; e non solo dalla « gente volgare » si distingue il Boccaccio quando guarda con simpatia al poeta e ne comprende la solitudine;-senza per questo deprimerne gli antagonisti, a lui intellettualmente inferiori. Il profilo del Cavalcanti tracciato dal Boccaccio è dunque una complessa rievocazione « critica »: l’omaggio, si direbbe, di uno studioso al filosofo di Donna me prega e insieme al poeta del sonetto a Dante. È un profilo che condensa il fascino suscitato dal testo come dal carattere del Cavalcanti. Perciò il contrasto della seconda parte, esplicitato poi da messer Betto, sul quale il motto enigmatico di Guido sembra proiettare per un momento una luce privilegiata, si chiarisce come distinzione tra « uomini scienziati » e « uomini idioti e non litterati » ($ 14). Le parti si capovolgono: « che egli era uno smemorato... » ($ 13); « Gli smemorati siete voi, se voi non l’avete inteso... » ($ 14). Un interesse intellettuale, non uno studio psicologico, sor-

regge queste pagine: e l’evidente contrapposizione tra il casuale, rumoroso assalto dei cavalieri e lo scatto mentale e fisico di Guido, che capovolge la sua iniziale condizione di inferiorità, ne è un’elo‘ quente premessa rappresentativa. L’atteggiamento di Guido è dovuto alla distante irritazione dello speculatore disturbato: ma lo scontro e il motto veloci non distruggono l’equilibrio di valutaziopp. 128-132, il quale rileva anche la simpatia che si aggiunge, nel Boccaccio, all'’ammirazione, rispetto al ritratto del Cavalcanti proposto dalla tradizione fiorentina, specie nei cronisti (p. 129). Coglie con precisione il rapporto, nella strut- tura della novella, tra la brigata e il Cavalcanti G_ GETTO, Vita di forme... cit., pp. 155-158, il quale, nella prospettiva di un « quadro sociale » che «si ricom-

pone » alla fine in una « visione ordinata e gerarchica », vede incarnato in Guido « quell’ideale di cultura armonica in cui si riassumono e si compongono in equilibrio

perfetto

tutti

i valori

della

vita»

(p. 158).

Ma

è anche

chiaro

che la

distanza storica può attenuare il valore di novità del ricupero del Boccaccio: non è inutile quindi l’avvertimento di C. MuscettA, Il Decameron... cit., che punta sull’« alto ardimento intellettuale » del poeta rilevato dal Boccaccio, e osserva che « questo Cavalcanti, che sembra volare come aquilotto sulle teste smemorate dei cavalieri fiorentini, ahimé è volato anche sulle teste dei critici estetizzanti e predicatori » (p. 438). Per questo aspetto, che coinvolge anche il problema delle fonti dell’aneddoto (per il quale si veda V. BrANCA, comm. cit. al Decameron, pp. 739-741), non va dimenticata la conoscenza, da parte del Boccaccio, del commento di Dino del Garbo a Donna me prega: per la complessa questione, e per la relativa bibliografia, si legga l'importante contributo di A.E. QuacLio, Primza fortuna della glossa garbiana a « Donna me prega» del Cavalcanti, in « Giorn. stor. della lett. ital. », CXLI, 1964, pp. 336-368 (per la novella, si leggano in particolare gli acuti rilievi a pp. 366-368).

339

ne del narratore. Perciò, « sviluppatosi da loro » ($ 12) il Cavalcanti, il ragionamento di messer Betto è essenziale per chiarire il nodo del contrasto, ma anche per chiudere il cerchio del processo narrativo con quella brigata prima stupita, poi consapevole e pronta a rispettare Guido come a tenere « messer Betto sottile e intendente cavaliere » ($ 15). Quest'ultimo, in primo luogo, e dietro di lui i suoi compagni non sono rimasti immobili: l’avventura determina in loro un progresso, una presa di coscienza, che coincide con

l’effetto voluto dal narratore. La stessa dimensione cittadina è dunque capace di suscitare il contrasto e di accoglierlo al proprio interno, di riassorbirlo e di assumerlo in una lezione di civiltà. Nella

trama limpidissima del racconto, nello scorcio di costume e nel profilo di un intellettuale, trovano un sintomatico accordo narrativo il rimpianto di consuetudini cortesi e un’ammirazione di natura umanistica. Un mondo al tramonto si proietta, in queste pagine, nella sapiente proposta di una nuova civiltà filosofica e letteraria.

La memoria evocativa e il segno culturale conferiscono a tali novelle un tempo più lento di racconto, correlativo all’esilità dell’intreccio vero e proprio: nella stessa VI, 9 l’ineguagliabile evidenza dello scontro rapidissimo, il ritmo mosso e serrato della scena, rappresentano uno scatto tanto più avvertibile, stilisticamente, se rapportato al tempo graduale e complesso di preparazione e poi di conclusione. Le vicende, in simili novelle, valgono altrettanto ma non più che il contesto, e in esso acquistano la loro vera prospettiva. In altre, invece, tale sottosuolo culturale affiora più forte, prende chiaramente il sopravvento: e l’evocazione costringe la prosa del Boccaccio a un impegno più arduo, a una strenua tensione

retorica. Sono racconti in cui è difficile allo scrittore raggiungere un uguale equilibrio: la preistoria intellettualistica della narrazione tende a svelarsi in modo più compatto e pesante, a piegare la materia a un certo effetto programmatico. Come avviene nella X, 8,

dove l’esaltazione della perfetta amicizia, che aveva una lunga tradizione esemplare, trasferisce sì l’interesse del narratore dalla generosità dei « re » a quella di « due cittadini amici » ($ 4), sia pur nobili, ma suggerisce anche una mitica retrodatazione del racconto ai tempi di « Ottavian Cesare, non ancora chiamato Augusto » 340

($ 5), e una successione di vicende che si svolgono tra Roma e Atene. Il reale oggetto narrativo del Boccaccio è in questa dimensione antica, ritrascritta innanzi’ tutto per i miti culturali che ripropone e per il gusto retorico con cui vanno espressi. L’abnorme oltranza della novella ha questa origine: l'amplificazione retorica si sovrappone alle vicende psicologiche e le porta al limite ?. Il tema della X, 8 è dato insomma più dall’emulazione di due giovani, « parimente ciascuno d’altissimo ingegno dotato », i quali salgono « alla gloriosa altezza della filosofia con pari passo e con matavigliosa laude » ($ 8), che dalla gara di due amici che si scambiano la giovane sposa e affrontano sofferenze e rinunce per la forza di una meravigliosa « fratellanza » ($ 7). È appunto la « filosofia », dottrina ed eloquenza insieme, a imporsi nella trama: e la consistenza dei personaggi è inscindibile da una retorica avvertita come strumento di affermazione individuale e come consolante protezione dalle tempeste dell’animo. Non: è che il motivo basti al Boccaccio, il quale lo complica con gli inserti e la combinazione di più tradizionali o artificiosi schemi narrativi e psicologici. Resta però innegabile che la novella è sorretta più dal lungo ragionare, interno ed esterno, di Tito e Gisippo che dalla sostanza delle loro azioni; più dalla sostenutezza formale dell’ornato periodare che dalle conseguenze che esso convoglia nelle vicende. Al fondo della novella è quell’entusiasmo culturale-stilistico, non privo di ingenuità, che è visibile nel Boc-

caccio fin dal giovanile Filocolo: donde la lunghezza retorica, non 7 Non risultano perciò convincenti i tentativi di salvare la novella sul piano della psicologia del personaggio, come fa U. Bosco, Il Decameron... cit., p. 149, o su quello più generale del verosimile, come accade ad A. MomicLiano, Il Decameron... cit., pp. 434-435: la parte più rilevata della novella è proprio il « torneo oratorio » (p. 434). Ha visto bene che la «trama ideale di queste pagine vive nelle parole, più che nelle azioni », C. Muscetta, Il Decameron, cit., p. 480; il quale cerca anche di approfondire la filosofia « nuova » dei personaggi, nella quale avverte, « in nuce, il deismo e l’empirismo moderni» (p. 481), e il sostrato sociologico di essa. Sull’utilizzazione diversa fatta dal Boccaccio di alcuni consueti schemi narrativi e sulle fonti proiettate « sul piano eroico ed emblematico » (p. 48) di altre insigni ed antiche coppie di amici, si veda V. BRANCA, Registri narrativi... cit., pp. 47-49. Esemplare, per la puntualità del rapporto con la Disciplina clericalis e per la finezza dell’analisi dei vari livelli narrativi del Boccaccio e delle contraddizioni che ne conseguono, S. BATTAGLIA, L'amico intero; La novella di Tito e Gisippo, in La coscienza letteraria... cit., pp. 504-525: cui rinvio per un esame analitico della novella.

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narrativa, della trama, e il significato centrale, per esempio, dell’orazione tenuta in un tempio da Tito, con « animo romano e senno ateniese » ($ 55), ai parenti di Gisippo e di Sofronia. Struttura retorica suggellata dalla conclusione insolitamente ampia ed elaborata:

nel suo discorso in lode dell’« amistà » ($ 111), ora-

mai « fuor degli estremi termini della terra in essilio perpetuo relegata » dalla « misera cupidigia de’ mortali » ($ 112), Filomena gareggia con gli eroi della propria novella. E conferma il fine altamente didattico cui tende il Boccaccio, quando inventa la sua classica evocazione. Se Tito e Gisippo, vivi in un’astorica dimensione solo per la

loro retorica, impongono con oratorio eccesso al lettore una lezione sull’« amistà », Gualtieri e Griselda, nella X, 10, appaiono

invece organicamente legati all'ambiente feudale in cui agiscono. L’oltranza narrativa e l’anormalità psicologica sono allora correlate a una distanza che Dioneo prende esplicitamente rispetto a un mondo estraneo e strano in cui egli si compiace di situare la storia* Ugli partecipa in questo modo alla gara nell’eccezionale in cui sorio impegnati i narratori nella decima giornata, e abbandona la su. tematica consueta, appena affiorante ai margini estremi della novella: ma l’esemplarità di questa è meno chiara, ha alla sua origine « non cosa magnifica ma una matta bestialità », e sbocca in una conclusione ch: ha un aspetto di precaria casualità, di immeritata fortuna: « come che bene ne gli seguisse alla fine » ($ 3). Ne

deriva che l’esemplarità della novella si coglie, se interpretiamo i segni che moltiplica il narratore, per antifrasi: « la quale io non consiglio alcun che segua, per ciò che gran peccato fu che a costui ben n’avvenisse » ($ 3). Solo nell’ambito rituale del proprio mondo Gualtieri può agire, suscitando via via sorpresa, ostilità, rassegnazione, e infine un’approvazione non mista di riserve: « e savissimo reputaron Gualtieri, come che troppo reputassero agre e intollerabili l’esperienze prese della sua donna, e sopra tutti savissima tenner

Griselda » ($ 66). Nel meccanismo

irrazionale

messo

in

8 Come ben vide V. PERNICONE; La novella del marchese di Saluzzo, in «La Cultura », IX, 1930, pp. 961-974: il quale spostò per primo l’attenzione su Gualtieri e sull'ambiente feudale in cui agisce.

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moto grazie a un codice feudale, l’anormalità del comportamento di Gualtieri finisce dunque col privilegiare Griselda, la popolana che sa resistere sino in fondo alle dure prove d’iniziazione cui la sottopone il marito-signore: ma è anch'essa presentata dal narratore come un esempio, più che eccezionale, unico: « Chi avrebbe, altri che Griselda, potuto col viso non solamente asciutto ma lieto, sofferire le rigide e mai più non udite prove da Gualtieri fatte? » ($ 68). Certo, di Griselda vengono sottolineati a più riprese quel controllo di sé che si è rilevato nei più alti personaggi del Decameron —

« senza mutar viso... » ($ 28, 31), « con fermo viso... »

($ 41), ecc. —, il « buon proponimento » ($ 28) in ogni atto e

discorso, sostanzialmente la « pazienza » ($ 27, 58), anzi la « lunga pazienza » ($ 60), nel sopportare le prove di Gualtieri. Ma la stoica fermezza del personaggio è legata, e il tema è esplicito nei suoi discorsi, alla sottomissione feudale del suddito, per di più di umile origine, al proprio signore: pur amando Gualtieri, Griselda gli riconosce innanzi tutto i diritti di un padrone assoluto, e solo nella prova suprema osa esprimere, in modo nobilmente allusivo, le proprie riserve sulle « punture » ($ 59) che le ha inflitte Gualtieri”. x

? Sulla figura di Griselda, data l’eccezionale fortuna della novella, esiste una cospicua letteratura: spesso interessante — dalla traduzione e dall’adattamento ben parziali del Petrarca (che hanno pesato sulla lettura del testo) alle analisi dei critici moderni — per una valutazione dei modelli socio-culturali via via proposti sulla funzione della « donna» da una civiltà di elaborazione « maschile » (per non dire dei complessi profondi degli studiosi), più che per un’indagine della reale struttura della novella; e l’estetica crociana, con le sue distinzioni tra oratoria e poesia, ha portato uno strumento solo in apparenza chiarificatore al disagio e alle perplessità dei critici. Nell’esaltazione di Griselda è del resto spesso reperibile un’inconscia aggressività di natura misogina, che si avverte anche in certe pieghe del discorso di Dioneo: e poiché tale misoginia affiora più o meno esplicitamente, dopo la libertà della VII giornata, in non poche novelle delle ultime tre giornate, ci si può chiedere se essa non sarebbe utilizzabile come uno degli elementi propri a ricostruire una storia, in senso cronologico, del Decamzeron. Raramente, in ogni caso, un personaggio è stato interpretato in modi così divergenti. Anche di recente continua a manifestarsi tale netto divario nelle analisi. Si veda per esempio la lettura di C. MuscettTA, Il Decameron cit., che nella « crudezza » del ritratto feudale vede il risultato narrativo « di un borghese, educatosi agli ideali della misura» (p. 488), collega il «fondo aspro e amaro » {p. 488) della novella a « un omaggio sincero a un ideale muliebre affatto nuovo, collocato in posizione rilevante al termine dell’opera », con « un’immagine che oggettivamente si contrappone alle sublimazioni religiose o idealizzanti nelle quali terminavano con mistico lirismo la Commedia e il Canzoniere » (p. 486),

343

Se la novella, coliocata alla fine del Decazzeron, può dunque sorprendere, riuscire ambigua o enigmatica nella sua eventuale simbolicità, essa è però chiara al primo livello narrativo: quello dell’evocazione smagata di un ambiente feudale, colto con lucida curiosità nel suo suggestivo e insieme assurdo rituale. E in esso si risolvono gli altri temi che la novella convoglia: per esempio, la polemica antiuxoria (la resistenza al matrimonio è la sola cosa che Dioneo approvi in Gualtieri), e la paradossale proposta di un modello esemplare di moglie che vi risponde, esasperato in un caso-limite. Solo in tale ambiente può sorgere e svolgersi, nell’invenzione maliziosa di Dioneo, l’eccezionale rapporto tra i due protagonisti: senza il « nuovo pensier » di Gualtieri « di volere con lunga esperienzia e con cose intollerabili provare la pazienza di %

e richiama alla fine, per la fortitudo di Griselda, «i più fulgidi aspetti di quelle virtù aristoteliche celebrate da Cicerone nelle pagine finali del De inventione (II, LIV, 163)...» (p. 488). Interpretazione laica-che si contrappone a quella di V. BRANCA, Registri narrativi... cit., dal quale la pazienza di Griselda è invece letta, anche stilisticamente, in chiave di umiltà evangelica, e ricondotta a ritmi « quasi » da «leggenda devota », analoghi alla « prosa di laude e di meraviglia della Vita Nuova » (p. 39), «o da pia ed esaltante Ietteratura di devozione mariana » (p. 40); con precise rispondenze tra l’inizio e la fine del Decameron: « dallo stile comico e umile a quello tragico e sublime, dal trionfo del vizio al

trionfo della virtù, dal mondo alla rovescia all’ “arte di ben vivere”, da Giuda a Maria » (p. 44). Più cauto G. GETTO, Vita di forme... cit., che parla di Griselda come dell’« unica autentica santa concepibile nell’universo mondano del Decameron » (p. 77): e accenna a un disegno a « scala » dell’opera che è esplicitato più nettamente che altrove nel saggio del Branca: «La dinamica ascensionale che caratterizza il Decameron si rileva esplicita e decisiva proprio in questo parallelismo, a contrasto e su due piani distanziatissimi, della novella introduttiva e di quella conclusiva » (p. 44). A parte il fatto che non sembra facile assimilare la struttura del Decameron a quella di un libro devoto, va ricordata, contro tali interpretazioni che legano più o meno direttamente il Decameron alla Commedia, la vigorosa polemica, contenuta in un nutrito saggio interessante anche per altri aspetti culturali e, tematici. del Decameron, di M. MARTI, Interpretazione del « Decameron », in « Convivium », XXV (1957), 3, pp. 276-289; poi Introduzione a G. Boccaccio, Decameron, Milano, 1958, pp. 9-31; il quale afferma: «AI rigidissimo sillogizzare s'è andato contrapponendo l’appello alle ragioni dell’individuo e dell’esperienza. La struttura del Decamzeron non è ascensionale, verticale, ma piuttosto orizzontale, ed è analitica nei reciproci rapporti fra i suoi vari componenti...» (p. 18). Di Griselda «come figura Christi» (p. 523), ma in tutt'altra prospettiva e col metodo della critica archetipica, e con interessanti osservazioni sui rapporti e sulle contraddizioni tra il livello « mitico » e quello « realistico », parla M. CortIno-Jones, Realtà e mito in Griselda, in « Problemi », 11/12, 1968, pp. 522-523; della quale si veda pure, per altre novelle del Decameron (I, 1; II, 2; IV, 2; IV, 9; VI, 4), An anatomy of Boccaccio’s style, Napoli, 1968.

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lei » ($ 27), non ci sarebbe il martirio di Griselda; senza la cru-

deltà gratuita (almeno al livello apparente: ci sono poi sospetti e sadismi di classe) del primo, non ci sarebbe la forza sorprendente

(ma pure legata a un complesso sociale) della seconda. L’esemplarità dell’una è inseparabile dalla bizzarria dell’altro. Il che proietta sulla novella, nonostante la limpidezza del disegno, molteplici rifrazioni speculari, non tutte esplicitate: tra cultura cavalleresca e natura popolare; tra rito nobiliare e idillio rustico, tra stranezza

feudale e stoicismo classico, tra superbia dell’uomo e dignità della donna: che lasciano alla novella non pochi margini di ambiguità. Resta però il fatto che da tale contrasto tra nobiltà e plebe, da tale prova di forza in cui si affrontano un signore potente e un’umile popolana, sorge, alla fine, l’immagine di una perfetta famiglia borghese: e Dioneo fornisce maliziosi avvertimenti sui pericoli che potrebbe correre un ménage contemporaneo per un comportamento simile a quello di Gualtieri ($ 69). Resta pure, nettamente affermata, l’idea che non c’è automatica

correlazione

tra ordini

sociali e doti individuali: « Che si potrà dir qui, se non che anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini spiriti, come nelle reali di quegli che sarien più degni di guardar porci che d’avere sopra uomini signoria? » ($ 68). È questa, sappiamo, lezione non

nuova nel Decazzeron: non a caso Griselda, divenutà sposa di Gualtieri, « non figliola di Giannucole e guardiana di pecore pareva stata, ma d’alcun nobile signore » ($ 24). In questi sorprendenti rapporti tra classi e individui si cela il principio di una metamorfosi più vasta del mondo, il cui movimento non si arresta: dopo averlo fissato paradossalmente in un rapporto tra estremi, Dioneo chiude la narrazione riaprendone di fatto la problematica, proiettandola in una civiltà în fieri. L'adesione a una civiltà cavalleresca più avanzata, dove il rituale cortese risponde all’elevatezza del sentire, sorregge invece la X, 7, nella quale evocazione e racconto raggiungono una limpidissima sintesi narrativa. Gli elementi della novella si compongono nella misura di un trittico insieme storico e favoloso: il romanzo dell’amore disperato della Lisa, la mediazione musicale di Minuccio, la ricompensa cavalleresca del re Pietro. Il racconto non ha cedimenti, 345

perché si affida alla logica di una ricostruzione autonoma in ogni elemento, ma coerente nello svolgimento della trama; la prospettiva stessa della novella esige un tempo più lento, l’arresto nel quadro ambientale. Variamente valutata !°, essa è in realtà tutta conclusa in un unico clima di romanzo cavalleresco: i tratti psicologici dei personaggi sono proiettati su questo sfondo suggestivo.

Si noti come siano correlati gli estremi della novella: la « maravigliosa festa » fatta dal re Pietro « co’ suoi baroni », durante la quale, « armeggiando egli alla catalana » ($ 5), nasce il fervente amore della Lisa; lo splendido scenario di pubblico — il re « con molti de’ suoi baroni » e la « reina con molte donne » — che dà rilievo alla « maravigliosa festa » che il re prepara nel giardino dello speziale, quando si appresta a consacrare e ad appagare quella passione nell’unico modo possibile; quello del rito cavalleresco. Arbitraria sarebbe dunque una lettura in chiave preromantica: l’amore di Lisa, pur nella violenza psicologica con cui è vissuto e sofferto, è innanzi tutto « magnifico e alto amore » ($ 6): e perciò, una volta riconosciuto dal sovrano, deve e può acquetarsi alla fine nel bacio rituale del re, che si proclama davanti alla regina e ai baroni suo cavaliere. Anche nella prima parte, quando la lenta consunzione della Lisa esige un racconto tutto psicologico, la volontà di morte dell’eroina è inserita e come sfumata nei moduli di un romanzo cavalleresco: è lei a ricordare le circostanze dell’innamoramento, quando « il nostro signor re Pietro fece la gran festa della sua esaltazione » e le « venne, armeggiando egli, in sì forte

punto veduto, che dello amor di lui » le « s’accese un fuoco nell’anima » che non può « non che cacciare ma diminuire » ($ 13). E se la Lisa conosce « quanto male il suo amore ad un re si con.

1° Ma sono almeno da ricordare il sicuro giudizio di N. SAPEGNO, Dal Decameron... cit., il quale considera la X, 7 « quella che forse meglio di tutte incarna l'ideale di magnificenza cavalleresca dello scrittore... » (p. 192), la perspicuo nota di G. PeTRoNIO nel comm. cit. del Decameron, sulla logica della « raffigurazione » di un mondo «in cui alla raffinatezza dello spirito s'accompagna naturalmente una raffinatezza di contegno e di parola » (vol. II, p. 302), e la netta rivalutazione di C. SALINARI nel comm. cit. al Decameron, che sottolinea la complessità dei toni linguistici e dei temi psicologici di una novella «che può degnamente stare accanto a quella di Federigo degli Alberighi » (p. 721).

346

venga » ($ 13), Minuccio si maraviglia in primo luogo « dell’altezza dello animo di costei e del suo fiero proponimento » ($ 15), e ne loda, offrendole il.suo aiuto, la « sì alta impresa » ($ 16). Il destino di una passione è inscindibile dalle norme rituali di un mondo cavalleresco. In esso si colloca pure l’inserto letterario della seconda parte. La « canzonetta » di Mico da Siena, sia essa originale e abbia dato lo spunto al narratore o sia invece esercizio arcaicizzante del Boccaccio, sottile contraffazione poetica, si inscrive nel lento progredire del racconto:

nella sua tematica duecentesca, nel suo lessico

sicilianeggiante, conferma la vibrazione evocativa della novella, spostandola nella visuale dei rapporti tra poeti, cantatori e sovrani. Il « suono

soave e pietoso », richiesto dalla « materia » ($ 23),

con cui Minuccio sa musicare la canzone diffonde nel testo l’atmo-

sfera rapita che suscita a corte: Laonde egli cominciò sì dolcemente sonando a cantar questo suono, che quanti nella real casa n’erano parevano uomini adombrati, sf tutti stavano taciti e sospesi ad ascoltare, e il re per poco più che gli altri ($ 24).

In questa tacita sospensione degli ascoltanti la saturazione culturale degli strumenti stilistici impiegati dal Boccaccio si risolve in un’inedita limpidezza, suscita echi di remote distanze. È una pausa narrativa da cui riparte lento il racconto, con la domanda del re e col successivo colloquio tra il re e Minuccio. Il sovrano dimostra una finezza psicologica pari alla sua regale discrezione; ma anche in lui la prima reazione di consenso e di pietà obbedisce a un comportamento di natura cavalleresca: « di che il re fece gran festa e commendò la giovane assai, e disse che di sì valorosa giovane si voleva aver compassione... » ($ 27). E come a « Madon-

na » si rivolge a lei ($ 33), che attende la visita del« suo signor » ($ 30); e al sapiente e affettuoso motteggiare del re la Lisa ri-

sponde con un « coperto parlare » ($ 35) che la innalza al livello del sovrano. Nella lontananza mitica della storia, la figlia dello speziale fiorentino si nobilita, assume il posto, nel pensiero e nel rammarico del re, che la « fortuna » le ha negato ($ 35). L’« uma347

nità » cortese del re, l’« onor » reso alla Lisa e allo speziale ($ 36), bastano alla gioia e alla guarigione della giovane: ma il rituale cui il racconto è improntato deve completarsi, nella terza parte, nel fasto cavalleresco con cui il re deve renderle il « merito di tanto amore », nel modo da lui « diliberato ». con la regina ($ 37). In

tale atmosfera, la tensione interna implicita nel colloquio e nei gesti dei due personaggi, durante la visita del re, si placa nella profonda validità del rito cavalleresco. Validità confermata dall'osservazione didattica e polemica che chiude la novella — « ...essendo li più de’ signori divenuti crudeli tiranni » ($ 49) —, che rende esplicito il tono di rimpianto, la voluta idealizzazione mitica del dato storico evocato. Cultura e nostalgia danno pure il ritmo alla novella di Nastagio degli Onesti (V, 8): ma i temi letterari hanno un esito nar-

rativo più inciso, si inseriscono in quadri disegnati in modo meno sfumato, con un chiaroscuro più forte nella scena della caccia infernale; e un sorriso la chiude, quasi a delimitarla nella sua qualità di evocazione disincantata e giocosa. Non a caso Filomena parla di « novella non men di compassion piena che dilettevole » ($ 3): preludendo al duplice aspetto dell’evocazione, costruita con la sapiente contaminazione di fonti leggendarie e trattatistiche, di inserti lirici e narrativi, i cui risvolti si rafforzano e insieme si di-

struggono reciprocamente nella novella. Certo, al fondo della novella si avverte la commozione del cronista di memorie antiche: quel rimpianto di « amore e cortesia » che « la casa Traversara e li Anastagi » avevano già suggerito a Dante nel XIV del Purgatorio (vv. 107-111). Ma i richiami danteschi, il motivo stesso della vi-

sione sono ripresi nell'impegno di un gioco culturale sottile e demistificante, che sbocca nella malizia dell’apologo erotico sulla « crudeltà » delle donne e sfuma nel sereno matrimonio finale.!! 1! « Nello stesso momento che rappresenta la caccia, Boccaccio la vede già in funzione del suo sorridente finale », osserva con finezza C. SALINARI, comm. cit. al Decameron; per il quale il «centro ideologico del racconto... va trovato nel capovolgimento operato dal Boccaccio rispetto alle sue fonti» (p. 411). Sullo « spirito borghese » del Boccaccio, che gli permette « quell’audacia senza precedenti nel ricuperare al reale ciò che era stato sublimato nel figurale dal suo grande maestro », si sofferma pure, con perspicue osservazioni, C. MuscetTA, Il

348

Il gusto mondano e concreto del Boccaccio supera una delle prove

più ardue, data l’eterogeneità dei piani narrativi: ma dalla mescolanza, quasi dal collage, ‘dei temi evocati esce vittorioso e intatto, più leggero e sicuro. L’avventura di Nastagio, quasi riflesso della sua trasognata malinconia, quando s’addentra nella pineta — « comandato a tutta la sua famiglia che solo il lasciassero, per più potere pensare a suo piacere, piede innanzi piè se medesimo trasportò, pensando, infino nella pigneta » ($ 13) —, traduce ed esprime l'avventura del Boccaccio nel campo della visione medievale, della stessa lezione dantesca. E lo scrittore ne ricava una pagina di rara efficacia rappresentativa, ma affidata alla labilità di un sogno che rapido svanisce: « e in picciola ora si dileguarono in maniera che più Nastagio non gli poté vedere » ($ 31). Un sogno dal quale Nastagio si riscuote « tra pietoso e pauroso » ($ 32), per trasformarlo poi in astuto espediente:

e nel digradare

del racconto, esso si ripeterà come stimolo alla più quotidiana acquiescenza in cui si risolvono l’iniziale durezza e l’innaturale ritrosia di una fanciulla. La logica femminile si piega, canonicamente e ottimisticamente, alla tenacia di una passione.

La visione segna un momento di sospensione, l’acme di dolore dell’appassionato Nastagio: in Federigo degli Alberighi il Boccaccio fissa la medesima passione nella malinconia della rinuncia, nell’abnegazione quotidiana a un sogno inappagato. Se il dramma di Nastagio si risolve rapidamente nel quadro di un fastoso convito sotto i pini, quello di Federigo comporta una lunga e paziente assuefazione alla povertà. Il nucleo narrativo della V, 9, « simile

in parte alla precedente » ($ 3), è costituito da termini analoghi alla situazione di Nastagio, e i dati iniziali presentano ugualmente un amante generosoe sfortunato: ma la pensosa sobrietà della novella non permette la provocazione di un ironico sorriso, coinvolgendo ben altri elementi economici, di costume, di rapporti soDecameron cit., p. 431. È poi evidente che non si può tacciare il Boccaccio di incoerenza, quando parla di caccia infernale: il Purgatorio delle visioni medievali è in funzione di uno scopo edificante, del rimorso e della purgazione del l’anima, mentre l'Inferno dello scrittore è solo il pretesto per una civile lezione terrena.

349

ciali. La V, 9 è in questo senso il risultato più alto raggiunto dalle novelle che trovano la loro origine nell’evocazione del passato: la memoria e il rimpianto si concretano nella struttura del romanzo, si appoggiano a una dimensione umana che risorge completa, in modo emblematico, dalle linee sfumate del mito. La nostalgia di un mondo cortese è subito indicata da un processo di duplice memorizzazione: perché la storia è rinviata ai racconti del vecchio e autorevole Coppo di Borghese Domenichi, che « spesse volte delle cose passate co’ suoi vicini e con altri si dilettava di ragionare » ($ 4), è rimandata a ritroso al suo « ornato parlare » delle « belle cose » ($ 5) di Firenze. L’antica famiglia fiorentina è

dunque idealmente vicina preistoria narrativa delle stume cortese subiscono mente posti in crisi dai l’amore di Federigo: « e

a quelle di Romagna, svela l’affinità della due novelle. Ma in questa i fasti del couna brusca incrinatura, vengono chiarapunti estremi che segnano la storia delacciò che egli l’amor di lei acquistar po-

tesse, giostrava, armeggiava, faceva feste e donava, e il suo senza

alcun ritegno spendeva » ($ 6); « Quivi, quando poteva, uccellando e senza alcuna persona richiedere, pazientemente la sua povertà comportava » ($ 8). L’evocazione, situata in un terreno così

concreto, sembra allora connettersi a una memoria più attiva, rivolta a un contatto più vigile col presente: che supera lo stesso ammonimento iniziale (pur importante anche per la conclusione) di Fiammetta alle donne perché sappiano coi loro « guiderdoni » riparare ragionevolmente gli errori dell’indiscreta fortuna ($ 3). Il tessuto della novella è infatti sottoposto a una continua, e inedita, tensione, che distrugge nel disinganno e nella frustrazione la nobiltà di ogni comportamento: l’amore generoso di Federigo lo porta a una povertà di cui egli avverte affannosamente il peso quando monna Giovanna arriva nella sua casa; l'onestà e il ritegno della donna cedono all'amore materno, che la spinge a una visita che non potrà appagare il desiderio del figlio; il controllo di sé, la finezza dei gesti e dei discorsi, la pratica di un raffinato galateo si risolvono per entrambi in un risultato infruttuoso, in sforzi o in sacrifici inutili, in un’amara solitudine. Tutti gli elementi di comportamento vengono sublimati e insieme messi in crisi dal lento 350

progredire del racconto, dallo stesso raffronto stilistico tra la nobiltà del periodare e la nudità del lessico quotidiano che fissa i termini della nuova vita di Federigo. Perciò la sofferenza del protagonista non può avere, in questa prospettiva, compensi di sorta,

è anzi accresciuta dagli esiti inani della propria generosità: la perfezione di un codice cortese non protegge Federigo da una totale frustrazione. Si noti tuttavia che ciò non implica, nel Boccaccio, alcun atteggiamento preromantico: il comportamento di Federigo propone un modello di generosa civiltà cui il narratore aderisce incondizionatamente. Ma è necessario che Federigo rompa quel codice, per esprimersi completamente

(e perché monna

Giovanna

possa più

tardi ricuperare il valore dell’uomo al di là dell’abnegazione dell’amante): il che avviene, con mirabile intuizione psicologica, nel pianto improvviso di Federigo dinanzi all’ultimo colpo dell’avversa fortuna: « cominciò in presenza di lei a piagnere anzi che alcuna parola risponder potesse » ($ 33). Quel pianto si ripercuote per un momento in monna Giovanna con un equivoco, l’ultimo della loro storia e insieme il primo non formalistico: « il qual pianto la donna prima credette che da dolore di dover da sé dipartire il buon falcon divenisse, più che da altro, e quasi fu per dire che nol volesse... » ($ 33). Quel pianto e quell’equivoco rompono l’involucro formale del rapporto: in essi si svelano la modernità del Boccaccio, la novità di un interesse psicologico che matura sul terreno di convenzioni sociali e di schemi lirico-cortesi pur sentiti come intima nobiltà di costume. Il « donzel » ($ 5) cede all’uomo: e monna Giovanna può allora capire « la grandezza dell’animo suo » ($ 37). È una scena in cui si manifesta, emblematicamente, la crisi di un’aristocrazia cittadina che aveva rinnovato in ambito comunale la pratica dei miti cavallereschi: e si apre un’affermazione più risentita dei rapporti individuali. La novella di Federigo porta alla resa narrativa più alta la posizione « critica » del Boccaccio: nel venir meno di un mondo cui si volge la sua nostalgia di favolatore, si delinea la fiducia nell’uomo che assume, prima solitario e poi nei rapporti con gli altri, tutto il peso della propria responsabilità. E perciò la massima umanistica di monna Giovanna, 331

la quale chiude la vicenda con un'iniziativa che premia la generosità di Federigo, ha forse importanza maggiore di quanto le si riconosca di solito: ! la sicurezza di un’intuizione storica calata nella borghese concretezza della clausola: « il quale così fatta donna e cui egli cotanto amata avea, per moglie vedendosi, e oltre a ciò ricchissimo, in letizia con lei, miglior massaio fatto, terminò gli anni suoi » ($ 43). Nella saggezza del narratore, la malinconia suggestiva dell’evocazione si risolve e si prolunga in una consolante « letizia ».

12 Nota però con sicurezza C. SALINARI, nel comm. cit. al Decameron: «la frase è ripresa, probabilmente, da Cicerone; ma risuona nuova, vergine e forte, nella bocca di un uomo che apre la civiltà rinascimentale » (p. 420). L’intervento dello scrittore, del resto, appare antor più significativo se si avverte che è Fiammetta a raccontare la storia singolare di un amore che, in quanto tale, finisce infelicemente, ma viene ricuperato in una nuova, civile prospettiva di rapporti umani.

397

I moduli popolareschi

Federigo degli Alberighi è una figura collocata a un punto estremo del Decameron, il più alto nell’ambito di una nobiltà quotidiana. All’estremo opposto sono figure più semplici, ignare di raffinatezze sociali o di complicazioni culturali: personaggi colti con esattezza nell’affiorare degli istinti, delle passioni naturali, delle astuzie elementari. Essi appartengono per lo più a un mondo socialmente inferiore, spesso plebeo: osservato dal Boccaccio con consapevole curiosità, con un’attenzione che va dal disegno impassibile alla sorridente simpatia, pur comportando sempre una posizione di demiurgica superiorità. È un atteggiamento, questo, che presuppone una lunga e varia sperimentazione stilistica, attestata dagli antecedenti popolareggianti rintracciabili dal Filostrato al Ninfale fiesolano agli spunti realistici e alla spregiudicatezza verbale di una tradizione comico-giocosa toscana fino alle suggestioni popolaresche più dirette, al limite dell’osceno e del plebeo, dell’ambiente fiorentino.! Nel Decameron tale gusto si manifesta, a

1 Un recente bilancio, con un’essenziale bibliografia sull’argomento, di tali componenti è reperibile in G. Papoan, Mondo aristocratico... cit., pp. 96-116. Alla «tradizione letteraria giocosa » (p. 10) accenna M. MARTI, Introduzione... cit., il quale osserva che non è dal Boccaccio « disdegnata la tecnica dei giocosi nell’uso impertinente del gergo e nella rappresentazione farsesca o nella parodia linguistica. Altrove ecco affiorare il dialetto toscano e non toscano per animare un personaggio, per dar luce ad una pagina; o la gustosa storpiatura plebea, piegata talora ad effetti paretimologici, cioè di comica etimologia popolare » (p. 31). Ma non è certo la sola componente, come talvolta si tende a rimproverargli, cui il Marti dia rilievo, quando analizza con rapida efficacia l’« impasto sapientissimo » (p. 31) della prosa del Boccaccio, citando molto a proposito un giudizio di L. Russo (che conclude la postilla alla VIII, 6) importante anche nella nostra prospettiva: «In ogni momento dunque, nell’arte boccaccesca — scrive ottimamente il Russo — il diverso paesaggio del racconto si colorisce come diverso paesaggio linguistico » (pp. 26-27). Vero è piuttosto che la lunga frequentazione

353

un primo livello, come divertimento stilistico di un intellettuale ormai esperto dei temi e dei ritmi propri di un materiale « comico »: lo indica il Boccaccio stesso in alcune pause del novellare della brigata, che risaltano con un moto di sorpresa nel decoroso tessuto della cornice. Per esempio nella Conclusione della quinta giornata, quando Dioneo, che ha raccontato una novella particolarmente scabrosa (V, 10), svela in una vivace scena con le donne i

reali punti di riferimento dei moduli equivoci o gergali del proprio narrare; quasi il Boccaccio volesse suggerirci, attraverso i rapidi e impertinenti richiami di Dioneo a canzonette popolari ($ 6-13), i presupposti culturali di alcuni inserti e fin di intere novelle del Decazzeron. La cornice diventa una sorta di commento indiretto, il segno di una vigile coscienza riflessa sulle proprie avventure narrative, correlativa a una graduale liberazione psicologica di tutta la brigata: proprio in apertura della sesta e ben fiorentina giornata, il Boccaccio si sofferma su « cosa che ancora addivenuta non v'era » (Intr., $ 4) e ritarda l’esercizio del novellare. Si tratta

di una vivace « questione » tra Tindaro e Licisca, che libera appunto il riso delle donne e la cui soluzione è demandata dalla regina a Dioneo: e pur raccontato col malizioso distacco richiesto dall’apologo salace, il mimo popolaresco ha una sua autonoma evidenza. Licisca è più che una macchietta, nella sua stizzosa impron| titudine, nella sua esperienza popolare, nel suo linguaggio proverbioso: un linguaggio colorito e mosso, metaforico e gergale, che nasce dallo stesso gioco stilistico sul parlato che già si è colto in altre novelle (per esempio, nella VII, 8). Il letterato saggia con discrezione i propri mezzi, documenta i propri pretesti narrativi, quasi con cartoni e schizzi di avventure più vaste e complesse tentate nel corpo novellistico. Nel Decameron tuttavia tale interesse non si contiene nei lidella letteratura giocosa serve spesso al Marti, nelle note, per alcuni rinvii sobri ma puntuali: come ha visto bene A.E. QuagLio, Rassegna bibliografica - Studi sul Boccaccio, in « Giorn. stor. della lett. ital.», LXXVII, 1960, p. 424. Ai vari documenti della storia di tali interessi dello scrittore, molto agili e spesso nuovi anche linguisticamente, si potrebbe aggiungere la cosiddetta lettera napoletana inviata a Franceschino de’ Bardi (piacevole contraffazione dialettale di un fatto di cronaca), se davvero si potesse attribuire al Boccaccio.

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miti di un lieve se pur sapiente scherzo di letterato. Il divertimento linguistico popolaresco è correlato in realtà a un notevole allargarsi del campo tematico, complementare a quel nuovo senso del reale e dei rapporti umani che la struttura della commedia ha messo in evidenza. Analogamente a quanto avviene per il mimo, anche l’attenzione al popolare può tradursi in una diversa coerenza della pagina narrativa: modo esperto di racconto, insomma, attento alla prospettiva e dunque al tessuto stilistico di una novella. La linea aristocratica di alcune novelle trova nel Decameron un dialettico accordo col tono popolaresco di altre: l’apertura della prosa boccacciana ha sempre una prima motivazione nella logica di una curiosità preesistente ed esterna ad essa. Un mondo inferiore, proposto da un’osservazione larga ed aperta, è un contenuto che non va disconosciuto, ma controllato, anche ideologicamente, con appropriati strumenti narrativi.’ Il mz0do popolaresco non è più gioco estemporaneo, scherzo incidentale, in ogni caso esercizio letterario raffinato: la curiosità mondana dello scrittore, pur non disgiunta dall’esigenza di un’implicita classificazione sociale, è sempre animata, al livello dell'indagine psicologica, dallo scatto di chi riconosce l’autenticità e la consistenza di un personaggio. Tale stimolo positivo, che sa rapportare gli elementi individuali ai dati sociali e culturali ma non li distrugge, crea nuove dimensioni stilistiche. Lungo questa costante popolare, si può allora. accertare la validità di una serie tutt'altro che uniforme o univoca di novelle. 2 Sull’«esempio di ricca ambivalenza» dato da tale Boccaccio «bifronte», capace, a differenza del Petrarca, di «essere insieme “nobilis” e “popularis”», «epico e insieme scrutatore del quotidiano» (p. 19), e sulla notevole gamma degli strumenti popolareggianti e popolareschi dello scrittore è ritornato di recente, con persuasivo vigore, U. Bosco, Rinascimento non classicistico, in Atti del convegno sul tema: La poesia rusticana nel Rinascimento (Quad. N. 129 dell’Acc. Naz. dei Lincei), Roma, 1969, pp. 11-26 (si vedano in particolare le pp. 16-19); poi in Saggi sul Rinascimento italiano, Firenze, 1970, pp. 33-51. Per i riflessi di costumi e temi più propriamente folcloristici, popolari, nel Decameron, si veda il primo bilancio tentato da M.P. GrarpINI, Tradizioni popolari nel «Decameron», Firenze, 1964. ; c 3 Osserva con finezza a questo proposito, parlando della «maggior parte dei tipi» boccacceschi, S. BATTAGLIA: «a qualunque ambiente sociale o morale essi appartengano, anche nella loro modestia paesana o rustica o anche nella loro limitatezza mentale o spirituale, hanno tutti una scintilla di genialità, o meglio, di estrosità» (La coscienza letteraria... cit., p. 697: ma la pagina va letta interamente).

355

L’intervento dello scrittore su un certo materiale può essere, in

questo senso, discreto, quasi inavvertibile: ma è decisivo. Si legga la VII, 2, chiaramente ripresa da un capitolo di Apuleio (IX, 5-7), « imitato e a tratti quasi letteralmente tradotto »* nel Decameron. Ma

il Boccaccio

non

è mai

trascrittore

passivo di una

fonte:

e infatti una lettura parallela dei due testi, che interpreti le abbreviazioni e le aggiunte dello scrittore, ci fa assistere in modo sensibile al rigoroso lavoro di chi afferra in un modello un particolare nucleo narrativo, rapportando ad esso.e trasformando ogni altro elemento del racconto. La correzione diventa invenzione, ela-

borazione di un testo originale. La storia che Apuleio inserisce nel nono libro delle Metazzorfosi ha il sale dell'avventura adultera, ma anche un senso coperto dovuto al risentito moralismo che non sempre si dissimula nelle memorie che Lucio-asino intende comuni-

care: « cognoscimus lepidam de adulterio cuiusdam pauperis fabulam, quam vos etiam cognoscatis volo ».° Il Boccaccio interpreta la storia nella sua quotidianità, banale e fin meschina, punta sull’aggettivo che subito illumina uno dei protagonisti (« pauperis »), e adegua il racconto al mondo elementare di esseri condizionati dalla propria povertà, creduli (il marito) e semplici tanto nell’astuzia provocata dalla paura quanto nella sensuale meccanicità dell’istinto (Peronella). La stessa ambientazione, trasportata da un

indeterminato « pagus » a Napoli, con grande esattezza topogra4 Così si esprime anche l’ultimo studioso che si è occupato della novella, M. SToccHI, Note e chiose interpretative. - I. Le cavalle di Partia («Decameron», VII, 2, 34), in «Studi sul Boccaccio», II, 1964, pp. 235-239: il quale ha colto e finemente analizzato un inserto (e un controsenso) ovidiano della novella. Per l'ambientazione napoletana, del resto molto coerente, della VII, 2 (su cui non mi soffermerò, perché è il dato più appariscente dell’adattamento boccacciano), rinvio a F. ToRRACA, Giovanni Boccaccio a Napoli, Napoli, 1915, pp. 156-157; e più in generale, per un minuzioso raffronto tra i due testi, a L. Di FRANCIA, Alcune novelle... cit., p. 1 ss., e a G. Petronio, Da Apuleio a Boccaccio..., in «Italica» (Jassi), II, 1942: del quale si legga pure, per le divergenze che avrò occasione di manifestare sui personaggi femminili dei due autori, la nota nel comm. cit. al Decameron, vol. II, p. 61. Per analoghe ragioni mi sembra che vadano sfumate, per questa novella, le osservazioni, pure esatte per le altre da lui citate, sulla «crudeltà» del Boccaccio verso gli sciocchi di C. SALINARI, nel comm. cit. al Decameron, p. 483. 5 Le citazioni sono tratte da ApuLer Metamorphoseon libri XI, edidit Caesar Giarratano, Torino, 1929, pp. 227-230; ai cui capitoli mi riferisco. I corsivi, tanto per il testo di Apuleio quanto per quello del Boccaccio, sono naturalmente miei. PastoRE

356

fica e linguistica, è ancora un dato esterno dell’adattamento del Boccaccio: acquista una funzione solo nella prospettiva che appare determinante nel racconto. Manca in Peronella un’intelligente superiorità sul marito, sulle sue stesse avventure amorose: agisce sempre d’istinto, con tranquilla giovanile condiscendenza, e l’istinto la salva nel momento critico della sorpresa e dello sbigottimento. Che è quanto sembra avvertire Filostrato, nella precisa osservazione critica che precede la novella: « È adunque mia intenzion di dirvi ciò che una giovinetta, quantunque di bassa condizione fosse, quasi in un momento di tempo, per salvezza di sé, al marito facesse » ($ 6).

Fissato questo punto, le divergenze dei due testi appaiono sintomatiche. Si guardi subito alla presentazione dei personaggi. Apuleio insiste sulla libidine della donna, cui ha procurato fama l’abitudine alla corruzione: Is gracili pauperie laborans fabriles operas praebendo paruis illis mercedibus uitam tenebat. Erat et tamen uxorcula etiam satis quidem tenuis et ipsa, verum tamen postrema lascivia famigerabilis (5).

Apuleio, nell’ambito dell’essenziale condizione di povertà, stacca i due periodi e dà rilievo alla donna, con un diminutivo il cui senso spregiativo, caricaturale, è illuminato dall’antitesi creata dalla clausola enfatica. Il Boccaccio accomuna invece in un solo periodo i due coniugi, senza discriminazioni o sottolineature polemiche, nella piatta povertà della loro vita, cui la stessa vicinanza temporale conferisce un aspetto di banalità quotidiana: Egli non èx ancora guari che in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovinetta chiamata Peronella, ed esso con l’arte sua, che era muratore, ed ella filando, guadagnando assai sottilmente, la lor vita reggevano come potevano il meglio ($ 7).

L’avventura di Peronella, in quest'ambito di lavoro e di miseria

comuni, accade, si direbbe, con la naturalezza di un fatto di cro-

naca popolare, che non implica né resistenze eccessive della donna né sussulti particolari della narrazione:

357

Avvenne che un giovane de’ leggiadri, veggendo un giorno questa Peronella e piacendogli molto, s’innamorò di lei, e tanto in un modo o in un altro la sollecitò, che con esso lei si dimesticò ($ 8).

In Apuleio,

scontata

l’insaziabile

sensualità

della donna,

l’appa-

rizione dell'amante ferma con voluta, stridente solennità il periodo: sed die quadam, dum matutino ille ad opus susceptum proficiscitur, statim latenter inrepit eius hospitium temerarius adulter (5).

Ma nella donna l’inganno è abitudine, la malizia nasce da una corruzione da tempo messa alla prova: sicché, quando sopraggiunge il marito, essa, « callida et ad huius modi flagitia perastutula » (5),

nasconde senza esitazione l’uomo nel doglio, e aggredisce il coniuge. Il piano è già chiaro nella sua mente. Ben diversa è Peronella: si spaventa e impreca, e il doglio quasi per caso le suggerisce un provvisorio espediente, la possibilità di una dilazione: Peronella, sentito il marito, ché al modo del picchiare il conobbe, disse: «Ohimé, Giannel mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che tristo il faccia Iddio, che ci tornò, e non so che questo si voglia

dire, ché egli non ci tornò mai più a questa otta: forse che ti vide egli quando tu c’entrasti! Ma, per l’amor di Dio, come che il fatto sia, entra in cotesto doglio che tu vedi costì, e io gli andrò ad aprire, e veggiamo quello che questo vuol dire di tornare stamane così tosto

a casa»

($ 12-13).

Le spezzature del periodo, l’ossessione del verbo tornare, l’andirivieni sconnesso del ragionamento tradiscono l’affanno di una giovane donna scossa da un incidente che turba l’ordine quotidiano, l’abituale tranquillità della consuetudine amorosa. Il doglio, in tale situazione, è solo un elemento, il primo che le cada sott’oc-

chio, per parare provvisoriamente il colpo; come più tardi costituirà lo stratagemma offerto inconsapevolmente (ma naturalmente,

in questo contesto di povertà) dal marito, e afferrato quasi d’istinto da Peronella. La logica diversa dei due racconti conferisce luce diversa tanto al mimo della scenata coniugale quanto alla malizia dell’incontro sessuale che lo conclude. Per quest’ultimo, il Boccaccio ci presenta 358

dapprima Peronella curva sul doglio, mentre partecipa automaticamente, con i suggerimenti al marito, alla commedia del negozio avviata dalla paura di Giannello; poi ritorna a Giannello, cui la posizione della donna dà il ER di soddisfare il suo « Fionnil desiderio » ($ 34): modo che Peronella accoglie con una passività sottolineata dal paragone con « le cavalle di Partia » ($ 34). In Apuleio la scena è prolungata con un sadismo pur non ignoto (ma altrove: ecco un’altra spia, minima ma eloquente, del rigore della novella) al Boccaccio: i suggerimenti della moglie, quando il sollazzo degli adulteri ha già avuto inizio, lo complicano con un ghigno beffardo, di libidine perversa: ast illa capite in dolio demisso maritum suum astu meretricio tractabat ludicre: hoc et illud et aliud et rursus aliud purgandum demonstrat

digito suo... (7).

La vicenda è sempre sottolineata polemicamente: così per l’amante, che apostrofa motteggiando il marito — « quin tu, quicumque es, homuncio...» (7) —, mentre Giannello preferisce recitare, e con l’attenzione che gli viene: dalla paura, la parte proposta in un lampo da Peronella; così per il marito stesso, oggetto di frasi ironiche e caricaturali — « nec quicquam moratus

ac suspicatus

acer

et egregius

ingiurie da parte della moglie —

ille maritus...»

« ara

(7)—,di

istum virum ac sr

nuum negotiatorem... »; «inepte...» (6) —, mentre il Boccaccio descrive impassibile le sani del « buon uomo » ($ 10),

e adegua i termini del litigio alla realtà dell'ambiente narrato: « tu che se’ uomo e vai attorno, e dovresti sapere delle cose del mondo... » ($ 21). Apuleio aggredisce i propri personaggi: il Boccaccio colloca le tre figure in una dimensione oggettiva, che motiva i gesti e i discorsi. Egli sfiora con un sorriso la situazione piccante: e la scioglie con un periodo maliziosissimo, che esprime e condensa con la propria struttura la meccanicità elementare del comportamento dei personaggi: « il quale quasi in un medesimo punto ebbe perfezione e fu raso il doglio, ed egli scostatosi, e la Peronella tratto il capo del doglio, e il marito uscitone fuori » 359

(S$ 34). Il Boccaccio può concludere con l’impassibilità degna di un bozzetto « verista »,° che sigilla la coerenza stilistica dell’intera

novella:

|

Per che Peronella disse a Giannello: « Te’ questo lume, buono uomo, e guata se egli è netto a tuo modo». Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene e che egli era contento; e datigli sette

gigliati, a casa sel fece portare ($ 35-36).

Apuleio invece, pure coerente, sottolinea la sventura del fabbro, con un aspro sottinteso antiuxorio: « Calarzitosus faber collo suo gerens dolium coactus est ad hospitium adulteri perferre » (7). Nasce dunque nel Decazzeron, dalle suggestioni pesanti del testo di Apuleio, un originale bozzetto popolaresco: coerente anche nel mimo centrale, meno calcato che nella V, 10, disegnato con

sicurezza nella battuta spontanea e quasi automatica, nell’enfasi primitiva della voce, in ritmi uguali e veloci. La discrezione schematica del mimo, pur condotto con l’usuale abilità tecnica dello scrittore comico, non intende indagare gli stati psicologici: perché manca, a tali esseri istintivi, una profondità in questa direzione. Da una trama suscettibile di trasformarsi in una moderna pochade il Boccaccio ha saputo ricavare, con eccezionale coerenza, un lieve, riparabile aneddoto di vita coniugale, fondato su una popolana sensualità e su un’astuzia elementare. La stessa intuizione è reperibile alla base della IX, 10: ma in questa la malizia del mimo popolaresco è spinta più oltre, sbocca in una scena comico-sessuale in cui una grossolana superstizione

popolare rasenta effetti di magica irrealtà. La novella, che è l’ultimo exploit di Dioneo, va interpretata nella sua vicinanza espressiva con la VII, 2: nell’esasperazione comica della medesima curiosità narrativa. Il racconto non converge sul particolare lubrico: il quale è piuttosto l’esito irresistibile di una situazione perfettamente motivata. La cronaca iniziale è ora ambientata tra Barletta 6 A un’«arte narrativa che potrebbe legittimamente definirsi entro le formule del “realismo” e perfino del “verismo”» accenna acutamente, nel contesto di un diverso discorso, S. BATTAGLIA, La coscienza letteraria... cit., p. 697.

360

e Tresanti, « per le fiere di Puglia » ($ 6), con minuta esattezza di particolari linguistici e di costume: « donno Gianni » ($ 6); « Pietro da Tresanti » il‘quale, « in segno d’amorevolezza e d’amistà, alla guisa pugliese », è chiamato dal primo « se non compar Pietro » ($ 7); la moglie che per onorare il prete vuol « andare a dormire con una sua vicina, che aveva nome Zita Carapresa di Giudice Leo » ($ 10); « Comar Gemmata » ($ 11), e così via. Ma tale paesaggio pugliese, inedito nel Decazzeron, prende un senso, come quello napoletano nella VII, 2, dalla povertà di un paesaggio sociale. È tutto un insistere su note di miseria, di squallore, di dimessa angustia quotidiana: « il qual, per ciò che povera chiesa avea, per sostentar la vita sua con una cavalla cominciò a portar mercantantia in qua e in là... » ($ 6); « quivi il teneva seco ad albergo e come poteva l’onorava » ($ 7); « essendo poverissimo ed avendo

una piccola casetta in Tresanti, appena bastevole a lui e ad una sua giovane e bella moglie e all’4sizo suo... » ($ 8); « e come poteva, in riconoscimento dell’onor che da lui in Barletta riceveva, l’onorava » ($ 8); « non avendo compar Pietro se non un piccol letticello... conveniva che, essendo in una sua stalletta allato all’asino suo allogata la cavalla di donno Gianni, che egli allato a lei sopra alquanto di paglia si giacesse » ($ 9). In queste righe scarne, .nella ripetizione di moduli uguali e senza luce, nell’oggettiva equivalenza di uomini e di animali (compagni e strumenti essenziali, questi, della vita di quelli) che si stabilisce, è condensato il tema

della novella: vi sono già implicite l’avidità e la credulità dei due coniugi, la furberia rudimentale di donno Gianni. Il momento assurdo e grottesco della scena dell’incantesimo nasce quasi insensibilmente, per forza di cose, da tale misera realtà. Donno Gianni, che lancia gratuitamente una battuta goffamente umoristica, è indotto controvoglia alla beffa dalla semplicità dei due coniugi: una moglie che ha il senso istintivo, e il miraggio, del buon affare che la miseria può suggerire, e un marito, « anzi grossetto uom che no » ($ 13), che docile l’asseconda. Sollecitato dagli ospiti, donno 7 I corsivi, in questo e nei passi che seguono, sono miei.

361

Gianni è trascinato suo malgrado in un’avventura che neppure gli si prospetta chiara nella conclusione, ma solletica la sua animale sensualità: « donno Gianni s'ingegnò assai di trarre costui di questa sciocchezza, ma pur non potendo, disse... » ($ 13). Avverte,

soltanto, che nella « coda » potrà forse essere la sua salvezza (e soddisfazione): « È il vero che quello che più è malagevole in questa cosa si è l’appiccar la coda, come tu vedrai » ($ 13). Il Boccaccio, sapientemente, non precisa:

è l’avventura oscura e as-

surda di un mondo primitivo (non a caso espressa nel rituale dell'incantesimo con moduli di fiaba popolare), non il frutto di una beffarda intelligenza. Di qui la scena si sviluppa sospesa, allucinante pur nella pesante lentezza dei gesti e delle frasi rituali, fino a che Pietro avverte oscuramente il sentimento della gelosia, e rompe l’incantesimo. Ma le motivazioni non salgono al livello della coscienza, rimangono allo stato istintivo, nell’ambito animale cui sono circoscritti i personaggi e la vicenda. Un indizio è nella reazione della moglie, che sensualmente si direbbe più cavalla che donna, ed è. solo scossa dalla disavventura economica: « La giovane, queste parole udendo, levatasi in pie’, di buona fé disse al marito: “Deh! bestia che tu sè, perché hai tu guasti li tuoi fatti e’ miei? qual cavalla vedestù mai senza coda? Se m’aiuti Iddio, tu se’ povero,

ma egli sarebbe ragione che tu fossi molto più” » ($ 23). Di qui la perfetta coerenza del periodo conclusivo: ella dolente e malinconosa si rivestì, e compar Pietro con un asino, come usato era, attese a fare il suo mestiere antico; e con donno Gianni insieme n’andò alla fiera di Bitonto, né mai più di tal servigio il richiese ($ 24).

Nel periodo, che riporta i personaggi alla loro vita usuale, alle loro misere faccende, l’ultima frase fa appena affiorare un oscuro risentimento che compar Pietro non sa definire neppure a sé stesso: e la novella si conclude dimessa, senza battute maliziose, esplicita sino in fondo nella sua linea narrativa. Essa implica una tensione stilistica non meno forte che in altre; solo uno scrittore così 362

attento e sorvegliato poteva fermare in un’esile misura narrativa e risolvere in una sorta di naturale grottesco un motivo che appare

nuovo proprio per la sua autonomia: la mortificazione di un mondo senza ragione perché condizionato dalla miseria; la logica di esseri primitivi che può sconfinare in una dimessa, opaca follia. L’orrore della povertà, fortemente sentito nella civiltà medievale, diventa così il presupposto sociale di un’organica intuizione psicologica: e fa della novella un documento narrativo che va ben oltre l'esterna comicità dell’intreccio. La stessa carica polemica, avvertibile implicitamente nella figura di un povero prete come nell’uso

antifrastico di fonti devote, è resa più sottile dalla neutralità livellatrice del racconto. La logica dei semplici, indagata in simili novelle con rigorosa obiettività sociale, può arrivare ai confini dell’idiozia fanciullesca,

della quieta e quotidiana follia. Ne abbiamo colto un esempio singolarissimo in maestro Simone, nella VIII, 9: e non è irrilevante che si tratti di un medico agiato. L’opacità mentale, radicalmente irrecuperabile alle imprese dell’intelligenza, non è infatti l’automatico correlato di una condizione plebea: si sa che nel Boccaccio le doti individuali possono superare o contraddire i limiti posti da uno statuto sociale. Non a caso la crudeltà del Boccaccio verso lo sciocco si esercita di preferenza in ambiente borghese, e tende a colpire una presunzione agevolata dalla ricchezza, dal posto occupato nella scala sociale. Allora il tono popolaresco, che altrove traduce gli istinti elementari di un mondo subalterno, si colora, applicato a un ambiente diverso, di esplicita ironia, diventa lo strumento stilistico dello scherno: è ricuperato cioè in funzione polemica, non descrittiva e socialmente caratterizzante.

Un esempio patente è offerto dalla VII, 1, dove l’ironia verso una devozione contaminata dalla superstizione, che rimane implicita nella IX, 10, si traduce, già nel pungente cappello di Emilia, in aperta caricatura: sicché la comicità della scena finale, quando monna Tessa e Gianni Lotteringhi si levano a incantare la fantasima, è Si veda per questo |. Huizinga, L'uurunno del Medio Evo cit., p. 1 e passim.

363

è esplicita, sollecitata dal narratore. Su Gianni, che è sì un agiato « stamaiuolo » ma

tiene soprattutto

« del semplice » ($ 4), si

appunta l’interesse del narratore: la semplicità isola il personaggio, lo rende, al livello dell'argomento proposto dalla giornata, vittima naturale della moglie e dell'amante. Lo stile caricaturale può ricordare la tecnica di novelle fondate, come la III, 4, su analoga tematica: in realtà, il personaggio è qui individuato nella logica del bozzetto popolaresco-cittadino, che lo situa in un certo ambiente di Firenze e insieme accresce il tono di scherno. Più che un personaggio, il marito è la personificazione di una categoria mentale e di costume. Tanto è vero che il Boccaccio aggiunge, insolitamente, una postilla alla novella, offrendo una variante della vicenda narrata: lo scrittore rassegna con un sorriso le proprie fonti, accenna a una tradizione orale e popolare — « Vera cosa è che alcuni dicono... » ($ 31) — che gli offre il pretesto per un malizioso aneddoto municipale. In effetti, assicura il Boccaccio sulla fede di una « vicina, la quale è una donna molto vecchia », la variante andrebbe applicata a « Gianni di Nello, che stava in porta san Piero, non meno sofficente lavaceci che fosse Gianni Lotteringhi » ($ 33): la diversa redazione è spiegata con gli strumenti di una divertita filologia di quartiere, che mantiene e rafforza il tono di maligno divertimento municipale. La postilla, in questo senso, agisce a ritroso sulla novella, ne sottolinea il significato. Si respira subito un’aria di quartiere cittadino: Gianni è uno « stamaiuolo » della « contrada di San Brancazio » ($ 4), la moglie è « figliuola di Mannuccio della Cuculia »

ed è « innamorata di Federigo di Neri Pegolotti », col quale si ritrova in « un luogo molto bello che il detto Gianni aveva in Camerata » ($ 6): la precisione dei richiami, facilmente afferrabili

dalla brigata, ricorda non a caso la novella di Simona e Pasquino (IV, 7), con l’avvio divertito del fatto salace di cronaca cittadina.

Ma sul dato di cronaca gioca più netto un esercizio di stile caricaturale, indicativo dell’atteggiamento dell’aristocratica brigata verso una certa borghesia, piagnona avant-lettre: sulla bigotteria e insieme sulla presunzione di Gianni Emilia indugia a costruire 364

alcuni periodi ricchi di sottintesi popolareschi e di sottolineature polemiche: Tenendo egli del semplice, era molto spesso fatto capitano de’ laudesi di Santa Maria Novella, e aveva a ritenere la scuola loro, e altri così fatti uficetti aveva assai sovente, di che egli da molto più si teneva: e ciò gli avvenia per ciò che egli molto spesso, si come agiato uomo, dava di buone pietanze a’ frati. Li quali, per ciò che qual calze e qual cappa e quale scapolare ne traevano spesso, gli insegnavano di buone orazioni e davangli il paternostro in volgare e la canzone di Santo Alesso e il lamento di San Bernardo e la lauda di donna Matelda e cotali altri ciancioni, li quali aveva egli molto cari, e tutti per la salute dell'anima sua se gli serbava molto diligentemente

($ 4-5).

È una pagina che regola, anzi impone il ritmo narrativo della novella, fatto di rinvii maliziosi e di incisi salaci: Gianni che « la

mattina se ne tornava a bottega e talora a’ laudesi suoi » ($ 7) dalla casa di campagna dove la moglie « si stava tutta la state » ($ 6); monna Tessa che la notte insegna all'amante « da sei delle

laude del suo marito » ($ 8); Gianni ancora il quale, quando l’uscio è tocco una notte, conforta la moglie che finge di aver paura della fantasima: Disse allora Gianni:

« Va, donna, non aver paura se ciò è, che’ io

dissi dianzi il Te lucis e la ’ntemerata e tante altre buone orazioni, quando a letto ci andammo, e anche segnai il letto di canto in canto

al nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, che temere non ci bisogna: ché ella non ci può, per potere ch’ella abbia, nuocere » ($ 20).

Attorno alla credula sufficienza di un emblematico « lavaceci » la novella trova il suo ritmo di racconto narrato e distanziato insieme dall’ironia, la ragione di certi indugi, la specifica comicità di una situazione di beffa per altri versi non nuova. Il tono di pettegolezzo popolare filtra la caricatura del laudese: e l’esile aneddoto, pur ben situato in un ambiente di campagna e di villeggiatura, si inserisce nella serie delle divertite invenzioni polemiche. Altrove l’istinto sessuale, non mistificato dalle superstizioni re365

ligiose ma neppure sorretto dall’intelligenza, deviato invece talvolta dalla sua naturale sanità, può essere colto proprio nella sua brutale presenza, indagato nelle sue affermazioni animalesche e primarie. È un caso opposto e raro, che smorza il riso dello scrittore, attirando un’attenzione lucida ma diversa. Infatti livida e ambigua, senza spiragli di simpatia e di sorriso, è la V, 10: un raccontocommedia ancora di ambiente borghese ma di tono nettamente canagliesco, che rappresenta un estremo interessante della sperimentazione narrativa del Botcaccio. Dagli spunti offerti da un episodio delle Metamorfosi

di Apuleio (IX, 14-28)

narrato

in

modo più risentito e con diverso svolgimento, il Boccaccio ricava gli elementi di un’avventura affidata all’enfasi volgare di un linguaggio popolaresco e gergale. L'ambiente ambiguo e corrotto è rappresentato con un segno stilistico più forte, con lucida violenza di tratti e di situazioni. Il distacco evidente che il narratore assume rispetto alla trama gli permette di creare un clima pesante e opaco, di sottolineare la vitalità animalesca o la corrotta astuzia dei personaggi, di incidere mimicamente la brutalità degli atti e dei discorsi: e la malizia della fine non vale a dissipare la compatta fisionomia stilistica, l’oltranza aggressiva della novella. Il racconto si spezza in grandi quadri discorsivi: prima il monologo di una moglie insoddisfatta, poi il dialogo con una vecchia mezzana, infine la commedia di una coppia che stabilisce sull’in: ganno e sull’equivoco sessuale i propri rapporti. La malizia delle immagini e delle metafore non libera qui, come avviene in altre novelle, un gioco divertito e brioso: è legata al peso determinante che ha nella novella la sodomia del protagonista. Pietro di Vinciolo ? Contaminato con un poemetto anonimo in distici elegiaci, appartenente al genere medievale della cosiddetta «commedia elegiaca», come ha dimostrato in modo del tutto persuasivo M. Pastore SToccHI, Un antecedente latino-medievale... cit., pp. 349-362, interessante anche per alcune indicazioni sul metodo di lavoro del Boccaccio: al quale si rinvia per gli altri aspetti della novella (il significato dell’ambientazione perugina, ecc.) e per la bibliografia essenziale. Perspicua e centrata la nota di G. PeTRONIO nel comm. cit. al Decameron, il quale corregge, mi sembra, le sue precedenti affermazioni sulla simpatia con la quale il Boccaccio guarderebbe alla donna (cfr. Il Decameron... cit., p. 40), coglie il tono «distaccato» con cui lo scrittore caratterizza i personaggi, e aggiunge: «In armonia con questo spirito è il tono linguistico, risentito, vivacissimo, popolaresco, tutto parole e frasi intonate alla bassa mentalità degli attori...» (vol. I, p. 534).

366

è presentato con un rapido sottinteso, e la battuta allusiva sarà poi

illuminata dal triviale proverbiare della moglie; egli manterrà in tutta la novella il suo carattere sfuggente, obliquo, di chi cerca di celare fuori di casa il proprio vizio ma non esita poi a soddisfarlo tra le stesse pareti domestiche. La moglie, « una giovane compressa, di pelo rosso e accesa, la quale due mariti più tosto che uno avrebbe voluti » ($ 7), è dipinta per antitesi con colori più marcati: non è tanto la moglie « savia » di molte novelle, quanto una donna in calore che compensa la propria sensualità con un linguaggio popolano e aggressivo, primitiva nella sua stessa astuzia e nella commedia col marito. Più che per un’iniziativa autonoma,

vale anch’essa nel clima di inferiore umanità che impronta tutto il racconto: i personaggi contano soprattutto per il linguaggio che è comune a tutti, pur nella varietà delle inflessioni, e caratterizza le

figure solo in funzione di un ambiente guasto in partenza. La donna ha dapprima col marito « di sconce parole » ($ 8), e si esprime poi con un soliloquio che è tutto un gioco di stile popolano, intessuto di frasi gergali e proverbi allusivi: « Questo dolente abbandona me per volere con le sue disonestà andare in.zoccoli per l’asciutto, e io m’ingegnerò di portar altrui in nave per lo piovoso... » ($ 9). Il fatto stesso che il Boccaccio, invece di arrivare

velocemente al concreto, senta il bisogno di attardarsi sul monologo della donna, indica il suo vero interesse: un gusto mimetico dell'ambiente, e del linguaggio che ne è l’espressione più significante. A tale gusto sono dovuti il modo e il tempo di presentazione di un terzo personaggio: la vecchia, beghina e ruffiana, che rinnova la figura della lena classica con le nuove ipocrisie confessionali della letteratura medievale, e sarà trasmessa alla novella e al teatro del Cinquecento. È anch’essa introdotta con aspri sottintesi caricaturali: si dimesticò con una vecchia che pareva pur Santa Verdiana che dà beccare alle serpi, la quale sempre co’ paternostri in mano andava ad ogni perdonanza, né mai d’altro che della vita de’ Santi Padri ragionava e delle piaghe di San Francesco, e quasi da tutti era tenuta una santa. ($ 14).

367

L’untuoso effetto prolettico è illuminato dal lungo discorso in cui pure si risolve il personaggio: i savi consigli della vecchia rivelano una corruzione il cui cinismo si complica del piacere dell’ipocrisia. Anche ora conta il linguaggio, lavorato, si direbbe, per essere trasmesso come modello espressivo di una figura socialmente tipica: un linguaggio sorretto da un estro immaginoso e popolaresco, sottolineato da una serie di metafore lubriche e di proverbi furbeschi, costruito su ammiccanti cenni d’intesa: « ché non vorrei che tu credessi che io fossi stata una milensa... » ($ 17).

Da tale esercizio mimetico è condizionato tutto il racconto che segue. Le prime battute tra i due coniugi, l’una stizzosa e l’altro noncurante, hanno la secca evidenza di un usuale linguaggio di interno familiare. La stessa disavventura di Ercolano, breve no-

vella inserita nella novella, vale appunto come racconto di Pietro di Vinciolo: movimentato, a strappi e a ritorni, animato da un’equivoca soddisfazione per la disgrazia del marito, suggerisce il carattere di un tristo che si atteggia a furbo, guidato da una prudenza — « temendo per me medesimo la signoria » ($ 41) — che appena dissimula un’incontrollabile avversione per le donne. Il clima è sempre segnato da un linguaggio canagliesco: l’espediente elementare della moglie, la quale aggredisce una donna che in cuor suo avrebbe voglia di lodare, non solo ne ribadisce i tratti istintivi e plebei, ma s’inserisce nel gioco dei campioni linguistico-stilistici che compongono per accumulazione la novella. E infatti le spezzature del suo discorso, trivialmente gesticolato, trovano poi un’eco nelle invettive di Pietro, dove lo sfogo misogino prevale sul risentimento del marito ingannato. Lo svilupparsi dell’azione, assai breve rispetto alla prolissità dei discorsi, non rompe la linea equivoca della novella: scoperto l’amante, Pietro lo tranquillizza impassibile, e lo porta su « lieto » ($ 53) nella camera della donna. Il

racconto si illumina, dal sarcasmo della moglie all’acquiescenza di Pietro, di una luce sempre più ambigua: la cena, a pacificazione avvenuta, fa presentire la conclusione, il mzénage a tre. Presentire, perché il Boccaccio, a differenza di Apuleio, elude con una battuta il momento erotico: resta definitiva l'impressione di un ambiente volgare, di un’atmosfera pesantemente equivoca. Il Boccaccio stes368

so mostra di aver coscienza della compattezza del suo studio canagliesco: si pensi al circospetto cappello di Dioneo, e alla notazione sugli echi della novella, « meno per vergogna dalle donne risa che per poco diletto » (V, Concl., $ 1). Egli tocca, in effetti, un estremo del suo esercizio narrativo: ma la novella pone le premesse di tanta letteratura posteriore, e attesta tra l’altro, tematica-

mente e linguisticamente, lo spessore del diaframma che il Boccaccio interpone tra i comici antichi e il teatro del Cinquecento.

La VII, 1 e la V, 10 costituiscono, ai punti estremi del gioco

caricaturale e della figurazione canagliesca, due esempi rilevanti del gusto popolaresco del Boccaccio. Rivolto al linguaggio e applicato a un ambiente borghese, tale gusto ottiene festosi o stridenti effetti di contrasto: un tema e un intreccio consueti vengono connotati in modo nuovo da un gioco consapevole di rifrazioni tra ambiente e linguaggio, opposto nel procedimento al tono neutro, ottenuto con la stretta correlazione tra tematica e tessuto narrativo, che si è riscontrato nella VII, 2 o nella IX, 10. Ma l’atten-

zione del Boccaccio al costume, alla psicologia, al linguaggio popolari non si esaurisce nelle avventure del divertimento stilistico. Egli può avvicinarsi a un’esile vicenda e a semplici figure di un mondo subalterno per coglierne, con simpatia raffinata di intellettuale, un altro significato: la partecipazione, da parte di un mondo popolare, di valori che il narratore considera essenziali. I personaggi popolari possono insomma ripetere corî le loro azioni, sia pur

inconsapevolmente, le gesta dell’intelligenza e dell’amore. Lo scrittore può allora garantire, al livello individuale s’intende, l’essenza democratica di certe categorie, ne illumina l’universale espansione. Tra l’oggettività della trascrizione sociale o psicologica e l’implicita

carica simbolica di una vicenda si frappone la coscienza dello scrittore: il quale interviene più o meno apertamente in un modo narrativo, prospettandolo in una luce diversa, in una sintomatica ambivalenza di disegno comico e di alta e fin tragica interpretazione. La simpatia introduce in questo caso un elemento che modifica la struttura dell’intera novella. L’intervento può essere leggero e sottile; ma è la condizione indispensabile di un modo narrativo. Per quanto concerne l’in369

telligenza, un esempio irrefutabile è offerto dalla novella di Chichibio (VI, 4), che è un prodigio di nitida evidenza: una storia che si direbbe risolta, senza residui, in rappresentazione e in mo-

vimento. Lo schema essenziale è quello del contrasto. È uno schema che sembra però inadeguato a render ragione del valore dello scontro, data l’estrema diversità dei contendenti: un celebre personaggio come Currado Gianfigliazzi, che « sempre della nostra città è stato nobile cittadino, liberale e magnifico » ($ 4), e « un suo buon cuoco, il quale era chiamato Chichibio, ed era viniziano » ($ 5). Al netto dislivello sociale, aggravato nella visuale del Boccaccio dalla diversità tra un fiorentino e un veneziano, si aggiunge un divario di natura mentale implicito nel racconto e chiaro alla fine, quando Currado assume un atteggiamento che coincide con quello dello scrittore: l’aristocratica superiorità, per un momento offuscata dall’ira, di chi sa cogliere e gustare il motto straordinariamente felice, nella sua quasi surreale inventività, di un cuoco impaurito, ristabilendo la distanza tra l’intelligenza riflessa e l’arguzia inconsapevole (dettata, in questo caso, dalla paura: che è il tema proposto nel cappello). Ma è anche vero che Currado, di fronte all’improntitudine di Chichibio, reagisce irosamente: « turx

bato » ($ 11), si controlla durante la cena « per amor dei forestieri che seco aveva » ($ 13), ma minaccia il cuoco imprecando, e si leva il mattino « tutto ancor gonfiato » ($ 14); solo alla fine « tutta la sua ira si convertì in festa e riso » ($ 19). Currado è dunque

condizionato dalla tenace resistenza del suo cuoco: se egli ricupera la risposta arguta di Chichibio, è però innegabile che la vitale ostinazione di questo agisce su Currado, gli toglie la padronanza di sé e lo spinge a una derisoria scommessa. L’iva di Currado rivaluta insomma Chichibio, lo porta per un momento al livello 41 signore, in un contrasto comico ma reale, che sarà Chichibio a risolvere e

Currado ad assumere. Esiste dunque, tra i due personaggi, un più sottile rapporto speculare: ira e paura, minaccia e sbigottimento 10 Proprio per questa novella parla di «intelligenza democratica, a cui tutti, nella vita moderna, possono e debbono aspirare» (p. 236), L. Russo, Letture critiche... cit.; che primo ha rivalutato acutamente il personaggio di Chichibio, in un’analisi articolata dall’intera novella (pp. 235-244).

370

sono in costante interazione. È un meccanismo che regola il ritmo

della novella, e precisa la posizione del Boccaccio rispetto a Chichibio: un distacco che pérmette la comprensione, una curiosità che non esclude, in un disegno così lieve, una simpatia più complessa per il personaggio." Le tre scene in cui si divide la novella definiscono allora Chichibio, lungo la linea essenziale tracciata dal tema della bugia, con notevole mobilità:

un bravo cuoco, innamorato di una « femmi-

netta della contrada » ($ 7), semplice e scoperto nel suo cantante motteggiare come nel cedere alla donna, bugiardo e ostinato fino all’incoscienza nella bugia, avventato nel difenderla, incerto e pau-

roso nel pericolo, pronto a cogliere il primo pretesto per guadagnar tempo, irriflessivo nella stessa risposta dettata dallo sbigottimento. È reperibile, al fondo di questa figura primitiva, una popolare coerenza: la capacità di resistere, di improvvisare gli strumenti di difesa, in un mondo che non concede molto spazio all’iniziativa dei subalterni. Il « nuovo bergolo » ($ 6) interessa al Boccaccio soprattutto in quanto è « nuovo », strano e inventivo:

la stessa carica polemica implicita nella definizione di « vinizian bugiardo » ($ 10) affiora appena, e l’inserto dialettale è trattato con mano sicura e leggera (il che non avviene nella IV, 2). Perciò la cantilena di Chichibio si innesta felicemente nella rapidità dello scorcio popolaresco: l’incontro e lo scontro tra i due popolani sono disegnati in modo più festoso e meno calcato che nel litigio tra servi che apre la sesta giornata. E il dialogo delle due scene con Currado svilupperà con sicurezza, in un meccanismo inarrestabile, i tratti irriflessivi, a impulsi tutti immediati e locali — 1! La centralità e la finezza del rapporto tra Currado e Chichibio sono state individuate nelle due letture più fini e recenti della novella: quella di G. GETTO, Vita di forme... cit., pp. 146-149, il quale analizza l’«avventura di gesti e parole» che «fa precipitare il-protagonista in una posizione sempre più difficile», fino alla «conquista inattesa della parola giusta», e coglie nell’atteggiamento finale di Currado «come un’investitura» data a Chichibio «da un alto e qualificato rappresentante» della civiltà fiorentina (p. 149); e quella di C. MusceTTA, Il Decameron cit., pp. 440-441, il quale rileva la «sorridente simpatia per un debole, uno spaurito, di fronte a un padrone reso ancor più temibile per l’ira», del Boccaccio, nota

«che la comicità rimbalza dall’uno all’altro», e si ferma, forse forzando volutamente il testo, su Currado, «vera macchietta di signorotto feudale» (p. 440).

STA

« subitamente

rispose... » ($ 10);

« prestamente

mostratele... »

($ 16) —, di questo singolare bugiardo, innocente e vitale. L’equilibrio del sorriso trapassa altrove a un più forte intervento dello scrittore nella pagina: come nella vicenda di Simona e Pasquino (IV, 7) che è posta tutta, pur nella rigorosa coerenza di una storia popolana, sotto il segno di Amore. La novella resiste nel fascino inconfondibile di un’eccezionale ambivalenza: l’ambivalenza dell’omaggio cortese a due umili amanti e della cronaca impassibile di un amore plebeo. Lo scrittore interviene su un fatto di cronaca in duplice modo: lo ricostruisce attraverso la passione di due personaggi, e lo interpreta dando un significato alla loro avventura; espone la storia, e ne offre alla stesso tempo la chiave. Nell’affinità della situazione con altre della quarta giornata, la novella acquista un originale rilievo. Nelle precise notazioni del racconto si avverte la misura del narratore che appena sottolinea, con un rinvio aulico e letterario, il valore simbolico della vicenda. Si pensi alla reminiscenza dantesca utilizzata per la morte di Pasquino: «e appresso il cambiamento non istette guari che egli perdé la vista e la parola, e in brieve egli si morì » ($ 13). Non c’è ombra di scherno né di parodia: appena il sorriso ironico di chi guarda con simpatia al destino infelice di due giovani e ne nobilita l’ingenua passione, ma pur la riconduce alla sua prospettiva quotidiana e plebea. L’inserto gioca dunque sulla pagina a un duplice livello, comprensibile per chi ascolta: non a caso ad Emilia « piace nella nostra città rientrare » ($ 5), situare a Firenze il suo insolito eser-

cizio. Il senso di questa novella municipale è tutto nell’inconsapevole eroismo di personaggi elementari: nella ripetizione che un mondo popolano opera suo malgrado di avventure più alte e gentili. Simona, benché sia costretta « colle proprie braccia il pan che mangiar volea guadagnare, e filando lana la sua vita reggesse, non fu perciò di sì povero animo che ella non ardisse a ricevere Amore nella sua mente... » ($ 6). È sempre lo scarto sapiente tra i due piani del narrato: c’è la novella raccontata nella sua dimensione

oggettiva, e c'è la novella che il Boccaccio vede e comunica alla brigata. E le « care compagne » ($ 3) cui Emilia si rivolge sono 372

invitate a interpretare la storia non in senso populista, ma nella visuale della forza universale, rivoluzionaria, di Amore. Emilia infatti, sottolineando nel cappello le analogie e le differenze con la precedente storia dell’Andreuola e di Gabriotto, insiste proprio su tale principio, del resto non nuovo nel Decameron: « quantunque Amor volentieri le case de’ nobili uomini abiti, esso per ciò non rifiuta lo ’mperio di quelle de’ poveri, anzi in quelle sì alcuna volta le sue forze dimostra, che come potentissimo signore da’ più ricchi si fa temere » ($ 4). Il principio, rinviato per la sua utilizzazione a un pubblico di élite, si rifà, come è stato più volte rilevato, ai canoni di una tradizione trattistica cortese. Ma una cosa è l'ammissione, del resto restrittiva, di un Andrea Capellano, e altra cosa è la democrazia

amorosa

affermata

nella con-

cretezza del racconto, che sembra piuttosto richiamarci alle risentite dichiarazioni di Ghismonda all’inizio della giornata: « tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere, e da uno medesimo Creatore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenzie, con iguali virtù create... » (IV, 1, 39). Il canone, insomma, non

esaurisce neppure la preistoria della novella; ne garantisce solo la liceità nell'ambito delle convenzioni culturali della brigata. La teoria è trasformata dalla pratica quotidiana, e il contatto col reale impedisce ogni processo di sublimazione: la tragedia di Simona, per esempio, si consuma alla fine « con morte inoppinata » ($ 3), è dovuta alla « maraviglia » ($ 18) che può suscitare la più quotidiana contingenza. Lo scrittore è del tutto consapevole dell’originalità della propria novella, della forza inedita del paradosso che esprime: un amore appassionato sorto in un ambiente plebeo. Perciò la racconterà obbedendo strettamente alle leggi imposte dal contenuto. È una storia quasi banale, che esclude in modo assoluto l’idealizzazione di un ambiente. In questa prospettiva, lo stacco narrativo rispetto alla novella 12 Per i molteplici significati del rapporto autore-pubblico, contenuti nell’invenzione della «brigata», si vedano ora, su un piano più generale che investe tutta la struttura del Decazzeron, le acute notazioni di CL. PeERRUS, Remarques sur les rapports entre écrivain et public dans le «Décameron» de Boccace, in Littérature et idéologie (Colloque de Cluny II. 2, 3, 4 avril 1970), « La Nouvelle Critique », spécial 39 bis (1971), pp. 294-299.

373

precedente si dimostra subito più netto. Andreuola e Gabriotto, segretamente sposi, vivono il loro dramma nell’imponderabile di un’ansia psicologica: essa irrompe improvvisa nel solitario convegno d’amore, ambientato nell’atmosfera notturna e sospesa del giardino, tra le rose bianche e vermiglie colte da Andreuola. Il convegno: della Simona e di Pasquino ha tutt'altra ambientazione, ed è altrimenti preparato e troncato. In primo luogo, i due amanti appartengono alla stessa classe: la Simona è « di povero padre figliuola », Pasquino « di non maggior peso di lei»-($ 6). L’amore nasce tra i due naturalmente, non implica il dramma che la differenza di classe o di posizione sociale crea spesso in questa giornata (IV, 1; 5; 6; 8). Si tratta di'un ambiente omogeno di operai della lana, come, all’estremo opposto della scala sociale, è omogeneo nella IV, 4 e nella IV, 9. Ed è, nona

caso come in queste ultime novelle,

un amore profondo, anzi appassionato: non è una banale avventura tra servi come nella VI, 4, né un adulterio prosaico come nella VII,

2, e neppure una storia « da ridere » come l’« amorazzo contadino » della VIII, 2 ($ 5). La molteplicità dei riscontri, che i lettori

come la brigata sono indotti facilmente a stabilire, conferma dunque la novità irriduttibile della novella. Essa è d’altronde confermata da un altro particolare. In generale, in novelle del genere, lo scrittore presenta un amore rapidamente, come un dato scontato, per giungere all’incidente o al conflitto doloroso che lo mette alla prova. In questa l’amore è, diremmo,

tessuto;

viene esposta, in-

nanzi tutto, l’elaborazione della sua trama. La metafora risponde all’insistito gioco stilistico del narratore sulla lana che Pasquino porta da filare alla Simona; per incarico del suo « maestro lanaiuolo » ($ 6): l’amore cresce nei due parallelamente agli umili riti di una tecnica artigianale. La sorridente ironia non distrugge la giustezza del rilievo: ai due modesti lavoratori mancano le occasioni offerte ad altri dagli svaghi, dal tempo libero; il loro ambiente di lavoro è il solo terreno di possibile incontro. Sono certo giovani, belli, e l’amore usa anche in essi i suoi procedimenti abituali: si manifesta a Simona « con gli atti e colle parole piacevoli d’un giovinetto » ($ 6), entra in lei « col piacevole aspetto del giovane che l’amava » ($ 7), si consolida nello stato del desiderio e dell’at374

tesa. Ma la discrezione del registro lirico-cortese non stilizza la vicenda amorosa: la lana è il solo oggetto che abbia per la Simona e per Pasquino la funzione di transfert affettivo; la lana sarà

il loro Galeotto, strumento di rapporto e insieme simbolo di un

amore sempre più acceso. Una volta che le sollecitazioni di Pasquino avranno vinto « molta della paura e della vergogna » ($ 9) della Simona, il consenso sarà nei due amanti reciproco e totale. A tale pisa e sapiente premessa si connette il racconto che segue. È, ripetiamo, un fatto di cronaca cittadina, preciso negli stessi riferimenti ambientali: la storia di una popolana partie de campagne. Nulla rompe nel racconto la coerenza del quadro plebeo: i due amanti si danno appuntamento « una domenica dopo mangiare », e la Simona fa credere al padre « che andar voleva alla perdonanza a San Gallo » ($ 11); i due, prima di appartarsi, fanno «uno

amorazzo nuovo » ($ 11) tra lo Stramba, che accompagna

Pasquino, e la Lagina, che accompagna la Simona; Pasquino (come poi Simona) morirà per il « venenifero fiato » di una « botta », che rende « velenosa », come si scoprirà alla fine ($ 23), la salvia con cui si comincia « a stropicciare i denti e le gengie », dopo aver a lungo parlato con la Simona « d’una merenda che in quello orto ad animo riposato intendevan di fare » ($ 12); e resta « tutto

enfiato e pieno di oscure macchie per lo viso e per lo corpo » ($ 14). Inoltre, quando sopravviene l’incidente, la Simona è accu-

sata « subitamente » ($ 14) dallo Stramba, e poi, « al palagio del podestà », dagli altri « compagni di Pasquino che sopravenuti erano » ($ 16). La reattiva istintività popolare non concede alla Simona alcuna complicità, in tale ambiente. Si ritrova subito sola, col suo turbamento e la sua paura; e morirà ripetendo gli stessi gesti dell'amante sotto gli scherni degli « amici e compagni di Pasquino » ($ 18). I due personaggi non possono sottrarsi al loro ambiente: solo in quanto amanti possono essere isolati, e Amore infatti li unisce, li separa e li riunisce nella morte con un accidente fortuito, strano ma banale. Tutto è al livello plebeo: salvo il destino che i due hanno in quanto soggetti di Amore. Il Boccaccio rinuncia dunque a un’esterna idealizzazione della trama; moltiplica anzi, volutamente, i dati derisori. La Lagina, lo 375

Stramba, l’Atticciato, il Malagevole, il giudice stesso che « senza dare indugio alla cosa... » ($ 16) si mette ad esaminare la Simona, la « botta » e la salvia velenosa che richiamano credenze popolari: tutto ciò è la dimensione reale di una semplice passione, e insieme ne misura il fervore e lo slancio, l’interna inconsapevole superiorità. Nell'ambito di una cronaca volgare si svolge e si conclude l’amore dei due giovani: ma essi sono anche gli eroi

e le vittime di una forza più alta, che sovrasta le accuse dello Stramba e l’inchiesta di un giudice, e conferisce un significato diverso ed emblematico al veleno di un rospo annidato tra le radici di un cesto di salvia. E perciò, nella stessa pagina, possono coesistere senza stridori la patetica allocuzione ai due amanti — « O felici anime, alle quali in un medesimo dì addivenne il fervente amore e la mortal vita terminare!... » ($ 19 —,

sottratti alle ac-

cuse di « scardassieri o più vili uomini » ($ 20), e la nuda verità dell’epilogo, che riporta la vicenda ai suoi termini reali: fatto un rogo della botta e della salvia, « fu finito il processo di messer lo giudice sopra la morte di Pasquino cattivello » ($ 24). La storiadi due esseri privilegiati ridiviene cronaca; eppur conserva ancora un segno di quel privilegio. Le ultime righe traducono così l'equilibrio della novella, la misura della sua duplice risonanza: Il quale insieme con la sua Simona, così enfiati come erano, dallo Stramba e dallo Atticciato e da Guccio Imbratta e dal Malagevole furono nella chiesa di San Paolo sepelliti, della quale per avventura erano popolani ($ 24)

Perché, se tale comune funerale può richiamare quello di Ghismonda e di Guiscardo (IV, 1), di Girolamo e della: Salvestra (IV, 8), del Guardastagno e della -moglie ‘del Rossiglione (IV, 9) — e il richiamo è evidente —, è anche vero che lo strano corteo

di miserabili riporta gli amanti nella loro dimensione quotidiana, in una sorta di pittoresco squallore che sigilla l’assoluta novità della novella. Il Boccaccio mantiene fino all’ultimo la coerenza stilistica del bozzetto popolare:. nel modo narrativo si può cogliere il valore della vicenda, di una storia che si svolge tra « vili uomini », in tono minore, e pur esprime una tragica nobiltà. 376

Ugualmente nuovo, in questa direzione, lo stile della VIII, di che trasporta le vicende. nel contado, a poca distanza da Fi-

renze: ma il divario tra città e campagna suscita un divertimento più distaccato, visibile nella ridda delle invenzioni linguistiche. Il popolaresco si esercita in una diversa direzione, quella rusticana; e l'avventura di un prete con una sua sensuale e arrendevole parrocchiana suscita un riso più diretto, dove la simpatia si mescola a una cittadina ironia. Ma la tecnica espressiva, che asseconda agilissima l'interesse del narratore, costruisce due figure ben rilevate, e un’azione che s’inscrive con esatta misura nell’aria campestre della novella. Se da un lato la corposa ed esasperata consistenza del linguaggio svela il gusto mimetico del Boccaccio, qui applicato a un ambiente rusticano, dall’altro la verità della dimensione psicologica e di costume in cui agiscono i personaggi documenta l’eccezionale curiosità che sorregge questi esercizi popola-

reschi. Il campo linguistico si allarga correlativamente a un’attenzione creativa, che fa scattare il bisogno di diverse cifre stilistiche. Il paesaggio umano non è nel Boccaccio il pretesto per uno scherzo o uno scherno da letterato, come avverrà in tanta letteratura dal Quattro al Cinquecento: egli non apre solo un gusto stilistico, ma inventa una dimensione narrativa cui neppure la Nencia, nella sua ricerca formale e nella sua misura caricaturale, saprà giungere. Perciò l’enfatizzazione rusticana del linguaggio, l’affollarsi dei termini agresti, i sottintesi equivoci del mimo dialogato tra il prete e la Belcolore, le storpiature linguistiche dei villici non escludono la delineazione di un ambiente paesano, colto di scorcio nei suoi problemi economici e nei suoi costumi, nel suo lavoro e nei suoi schemi mentali. È un ambiente compatto, da cui non emerge neppure il prete: è anzi questa la prima, sostanziale differenza con la III, 8, dove l’abate domina con la sua commedia tutto il paese.

Ed è pure un ambiente più misero, legato nella sua esistenza al volgere delle stagioni; che non comporta lo scherno usato dal Boccaccio per il ricco e avaro Ferondo. Perciò la presentazione del « valente prete e gagliardo della persona ne’ servigi delle donne » (S$ 6) prospetta subito, attorno a lui, una dimensione scenica paesana: « il quale, come che legger non sapesse troppo, pur con molte STE|

buone e sante parolozze la domenica a piè dell’olmo ricreava i suoi popolani... » ($ 6). È il mondo un po’ grosso dei villici come Bentivegna del Mazzo, come gli altri richiamati nel corso della novella, Lapuccio o Naldino, Buglietto d’Alberto, Binguccio del Poggio e Nuto Buglietti: al prete, che li conosce tutti, non bisogna gran sapere per contentarli. Sono piuttosto le donne a stimolare in lui maggiori iniziative e una commedia più impegnata: « e meglio le lor donne, quando essi in alcuna: parte andavano, che altro prete che prima vi fosse stato, visitava; portando loro della festa e dell’acqua benedetta e alcun moccolo di candela talvolta infino a casa, dando loro la sua benedizione » ($ 7). È la commedia collettiva di una parrocchia di campagna, che stimola l’inventività di questo frate Cipolla in tono minore; e vi appartiene monna Belcolore, « piacevole e fresca foresozza, brunazza e ben tarchiata e atta a meglio saper macinare che alcuna altra... » ($ 9):

sopra tutte desiderata dal prete, al punto da suscitare in lui estri

linguistici ($ 35) che più esplicitamente ricordano la retorica di frate Cipolla. Ed è un personaggio colto non solo dall’esterno, nei gesti abituali, o nei canti e nei balli che costituiscono la sua specialità, ma anche dall’interno, nella sua elementare ma mossa psicologia rusticana: cedevole e avida, e incolpevole in realtà di ogni peccato del senso e della venalità, facile all’ira stizzosa ma anche alla paura superstiziosa, insolente e pur pronta alla riconciliazione, « col mosto e con le castagne calde » ($ 46). Dove

basta un accenno per suggerire l'atmosfera autunnale della vendemmia: mentre il calore sensuale dell’estate è in quel « fitto meriggio » ($ 13) nel quale il prete va a tentare la sua Belcolore, che scende dal « balco »($ 17) e comincia « a nettar sementa di cavo-

lini » ($ 19). E il dialogo si sviluppa con perfetto tempo teatrale, rivelando come il ghigno segreto che sta sotto la rustica schermaglia verbale: il prete le cominciò pre morire in questo dire: «O che ve fo tu non mi lasci fare

378

a dire: « Bene, Belcolore, de’ mi tu far semmodo? ». La Belcolore cominciò a ridere e a io? ». Disse il prete: « Non mi fai nulla, ma a te quel ch’io vorrei e che Iddio comandò ».

Disse la Belcolore:

« Deh!

fatte cose? » ($ 19-22).

andate, andate:

o fanno i preti così

Ma tutta la novella, in cui le parole e i gesti hanno il sapore di terra, sviluppa con impeccabile tensione farsesca i termini dell’amo-

razzo rusticano. Il Boccaccio apre un nuovo capitolo di letteratura popolaresca.* La stessa aria di campagna circola in una novella che è tra i capolavori del Boccaccio, la VI, 10, che pur mostra altro impegno e ha diverso sviluppo. Ma il sale della beffa, la logica che avvia e sviluppa la trama, la ragione stessa di certe pause descrittive si spiegano in un gusto popolaresco che deriva dal medesimo rapporto tra città e campagna, tra Firenze e il contado: un rapporto non più solo assunto dall’avventura stilistica del narratore, ma vis-

suto dal protagonista della novella. La vita del « castel di Val d’Elsa posto nel nostro contado » ($ 5) — ritratta di scorcio ma con fitta precisione di tratti paesistici, topografici, sociali, di costume — conferisce, innanzi tutto, una dimensione ben concreta all’impresa di frate Cipolla, dà il sigillo del quotidiano alla sua avventura di parole, rilevandone ancor meglio l’astratta genialità e il risultato quasi surreale. La struttura della novella è in un gioco di specchi che moltiplica gli effetti grotteschi e i rinvii allusivi. La « predica » e il cerimoniale di frate Cipolla sono rivolti a « tutto il popolo » di Certaldo, « ragunato » ($ 33) per « veder... la penna dello agnolo Gabriello » ($ 30); * ma l’episodio è anticipato, e degradato nel grottesco, dalla rozza retorica del fante di frate Cipolla, Guccio Imbratta, che cala come un avvoltoio nella cucina 13 Ancora valida, tanto sul piano stilistico quanto su quello tematico, l’analisi di U. Bosco, Madonna Ambruogia e Monna Belcolore, in «La Cultura», VIII, 1929, pp. 28-34: il quale è stato il primo a rivalutare la novella. Dello stesso, per l'individuazione nel Boccaccio dei «precisi incunaboli della poesia nenciale» (p. 40) e per i conseguenti raffronti, si veda Rinascimento non classicistico, in Saggi... cit., pp. 40-42 e 45. ul 14 La funzione di tale ambiente è stata intravista da L. Russo, Lesture critiche... cit. «il protagonista in penombra della novellaè il popolo di Certaldo» (p. 253); affermazione che tende però a spostare l’attenzione in senso opposto, più che a cogliere l’intrinseco rapporto tra i due termini, e viene poi corretta dal rilievo che «qui è tutto il mondo fracipollesco che ci interessa, da Guccio Imbratta al popolo di Certaldo, l’impostore e le sue vittime, e non già l’isolata figura dell’impostore» (p. 254).

DVD

dell’albergo per circuire la Nuta; il fatto che Guccio sia « intorno alla Nuta occupato » ($ 25) agevola d’altra parte la beffa dei due « giovani astuti » che l’avevano ideata fin dal primo annuncio di frate Cipolla, dopo aver « tra sé... riso » della reliquia ($ 13); il tema delle reliquie, sul quale il frate improvvisa con un’ironia ben fiorentina nelle immagini e nelle metafore gergali, si riversa sui paesani « sciocchi » nel far le « limosine » ($ 6), sulla « stolta moltitudine » ($ 53) dei certaldesi che finiscono tutti « crociati » col carbone ($ 55); il sarcasmo

satirico è però attenuato, pure in an-

ticipo, da una credulità che il Boccaccio riconosce inevitabile in una « contrada » dove dura « ancora la rozza onestà degli antichi » ($ 28), perché non vi sono penetrate le rovinose « morbidezze d’Egitto » ($ 27); e tale onestà illumina infine la disinvolta impostura di frate Cipolla. Prima che si giunga al pezzo di bravura finale, insomma, la narrazione si svolge e indugia ad arte su tale gioco di incastri e di richiami, dove corposa realtà e follia verbale si intersecano in grotteschi contraccolpi: fin dall’inizio, quando è presentato « frate Cipolla, forse non meno per lo nome che per altra divozione vedutovi volentieri, con ciò sia cosa che quel terreno produce cipolle famose per tutta Toscana » ($ 6). L’ambiente certaldese è dunque essenziale all’avventurosa escursione del protagonista, abituato del resto ad andarvi a « ricogliere le limosine » ($ 6). Tutta la prima parte è costruita, con compia: ciuta retorica comica, su tale lunga, reciproca conoscenza: « e quasi

di tutti quegli della contrada era compare o amico o benivogliente » ($ 7). Il primo annuncio di frate Cipolla a « tutti i buoni uomini e le femine delle ville dattorno venuti alla messa nella calonica » ($ 8) è certo l’orazione di un ciarlatano:

ma nella sua con-

cretezza paesana sembra escludere la sorpresa del contrattempo, dell’imprevisto, che scatterà infatti per opera di due giovani « suoi amici e di sua brigata » ($ 13). La beffa e la risposta vittoriosa di frate Cipolla concernono, di fatto, un gruppo beffardo e complice di amici; passano sopra la testa dei certaldesi, e solo per necessità ricadono su di essi. Il funambolesco virtuosismo verbale di frate Cipolla, pure lui « di persona piccolo » ($ 7), non ha dunque le motivazioni di quello di ser Ciappelletto: e non può averle, per380

ché frate Cipolla è « di pelo rosso e lieto nel viso, e il miglior brigante del mondo » ($ 7), mentre Ciappelletto è un cinico malvagio. Perciò Ciappelletto, nella progressione del dialogo, sta sempre attento a non commettere

errori; al contrario di frate Cipolla, che

di fronte al suo uditorio paesano si sente sicuro, e gioca con le parole sfiorando continuamente lo scherno e la beffa. Nella I, 1, la commedia è in funzione di un personaggio che concentra l’attenzione stupita dello scrittore; nella VI, 10 la situazione comica è l’occasione della volubile giostra verbale di « un gran retorico » ($ 7) per burla. L’estro linguistico di frate Cipolla si accorda allora col divertimento stilistico del Boccaccio, svela la stessa matrice fio-

rentina: non a caso il frate ricorda nella sua orazione Maso del Saggio ($ 42). Sembra che personaggio e scrittore si diano la mano: come avviene per la figura di Guccio, prima presentato da frate Cipolla, poi rappresentato in azione dal Boccaccio. Il divertimento gergale e il tratteggiare furbesco si incontrano e si sommano nella lunga pausa che l’intervento di Guccio Imbratta provoca nel racconto. La natura compagnevole e l’estro retorico di frate Cipolla risaltano nel ritratto che egli fa del proprio fante e della sua brutale psicologia popolana; una figura quasi animalesca, come sembra suggerire lo scrittore quando descrive il comportamento di chi è tra l’altro chiamato Guccio Porco: « non altramenti che si gitta l’avoltoio alla carogna... » ($ 21). Ma la pesante esasperazione caricaturale con cui vengono indicati i movimenti di Guccio si riversa, a ritroso, sull’animo divertito di frate Cipolla, illumina la

loro complicità. Il padrone e il fante, già accostati in pittoresco chiaroscuro dal « pelo rosso » ($ 7) del primo e dalla « barba grande e nera e unta » ($ 18) del secondo, formano una coppia inscindibile di avventurieri itineranti, di innocenti ciarlatani. Non a caso, anche se vengono rispettate le distanze intellettuali e psicologiche

tra i due, li accomuna, nella girandola delle menzogne e degli equivoci, lo stesso gusto dell’avventura retorica. Guccio è misurato alla scena con la Nuta: frate Cipolla dalla predica finale. Che è tutta uno scoppiettare, fragoroso e inconsistente, di lazzi verbali, ricca certo di allusioni gergali e furbesche ma davvero « moneta... senza conio » ($ 39): l’itinerario linguistico di un ciarlatano « in Truffia 381

e in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli » ($ 39). Frate Cipolla deve convincere, meglio stordire, i suoi devoti uditori, e

insieme non può non ammiccare a coloro che lo hanno beffato; e si prende il lusso di aggredire i « frati » e le « altre religioni » ($ 39), di affrontare gli equivoci più osceni, con la gioia quasi fanciullesca dell’istrione sicuro di sé. Il discorso finale ricupera in questo modo quello di Guccio alla Nuta: servo e padrone sono due figure di pittoreschi e pur abituali ciarlatani, tipici di un mondo contemporaneo. In questa felice intuizione ‘è l’unità del grottesco della VI, 10; il senso laterale, a differenza che in altre, che vi ha la beffa. Prima dei picari e degli straccioni della letteratura europea, il Boccaccio ha portato sul piano dell’arte narrativa, con precoce modernità, il mondo pittoresco degli esseri istintivi e degli avventurieri quotidiani.

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Polemica e caricatura

Prima di iniziare la VI, 10, Dioneo avverte l’esigenza di una rapida indicazione di metodo narrativo: « Né vi dovrà esser grave, perché io, per ben dire la novella compiuta, alquanto in parlar mi distenda... » ($ 4). La novella di frate Cipolla porta in effetti al limite del grottesco il divertimento stilistico del Boccaccio, prolungandolo in modo insolito, rispetto alle novelle della sesta giornata; e la brigata mostra di apprezzarne la particolare lunghezza: « Questa novella porse igualmente a tutta la brigata grandissimo piacere e sollazzo, e molto per tutti fu riso di fra Cipolla e massimamente del suo pellegrinaggio e delle reliquie da lui vedute come recate... » (VI, Concl., 1). Tale divertimento stilistico, che nella VI, 10 sem-

bra proliferare in modo autonomo, è in realtà correlativo a quel gusto caricaturale, riscontrato altrove (si ricordi la VII, 1), che è sempre pronto a scattare nella pagina quando lo scrittore intende sottolineare, per ingrandimento o per antifrasi, un valore essenziale o una situazione propria ad indicarlo. Talvolta, tale intervento supplementare del narratore è meno scoperto, ma più globale: investe la costruzione dell’intera novella, assoggetta personaggi e vicende a un intento apologistico o polemico che diventa, concretato in una labile favola o in un espressivo gioco verbale, il vero protagonista del racconto. Ciò richiede un tipo e una misura diversi di invenzione: la narrazione tende a valere esplicitamente come «parabola», denunciando il fittizio ma eloquente valore strumentale degli eventi. Si pensi all’apologo delle papere, che il Boccaccio sottrae volutamente ai novellatori, assumendolo polemicamente in proprio all’inizio della quarta giornata: «mi piace in favor di me raccontare, non una novella intera, acciò che non paia che io voglia le mie novelle con quelle di così laudevole compa333

gnia... mescolare, ma parte d’una, acciò che il suo difetto stesso sé

mostri non esser di quelle... » (IV, Intr., 11). È una favola esem-

plare, che punta sulla mimica scena finale tra padre e figlio per rilevare la «forza» incoercibile della «natura» ($ 29); e la fiducia

nel valore dell’apologo contiene il racconto in una misura tanto più eloquente quanto più è chiaramente scherzosa. Ancora una volta la cornice offre preziose indicazioni di metodo narrativo. Ed è infatti un’intelligenza che il Boccaccio manifesta altrove, in qualche novella più esile e lieve: un Boccaccio minore, si direbbe, che

sa costruire attorno a figure appena profilate, a una dimensione, una storia il cui senso è denunciato dalla sua stessa semplice evidenza. L’apologo si impone come modo narrativo. Un limpido esempio è offerto dalla III, 10, il cui ritmo (nonostante il solenne e più tradizionale cappello di Dioneo sull’espansione delle forze d'Amore in tutti i ceti e luoghi) è assicurato dal gioco di una metafora equivoca («il diavolo in inferno », proposta fin dal titolo) che non esaurisce la propria carica per la finezza con cui l’invenzione narrativa si adegua al malizioso pretesto stilistico. La metafora sta ad indicare l’atto sessuale colto al suo stadio primordiale, il più sano e naturale possibile: ed è infatti assunta dall’innocente figura di Alibech, «che semplicissima era e d’età forse di quattordici anni» ($ 6). E le «solitudini de’ diserti di

Tebaida» ($ 5), dove Alibech fugge e s’inoltra mossa dal «fanciullesco appetito» ($ 6) di servire Dio secondo la fede cristiana, costi-

tuiscono il simbolo paesistico del tono della novella: in esse sono la distanza volutamente inverosimile e l’illogica facilità della favola. Ma è anche vero che la metafora sessuale è carica di una seconda malizia, ricavata com’è da un’immagine di natura chiaramente religiosa” Tale ambiguità suscita una nuova figura, «uno romito giox

! Osserva C. SALINARI: «L’atto sessuale è qui ridotto alle sue proporzioni naturali, quelle che lo fanno essere fonte di vita e di gioia. E l’autore, dall’alto della sua esperienza, può guardare questa candida e risentita figura di fanciulla con un misto di divertita tenerezza e sorridente malizia» (comm. cit. al Decameron, p. 274). 2 Nota C. MuscettA che la vicenda «dell’ingenua Alibech è costruita sull’ambivalenza equivoca di un’immagine ineccepibilmente pia, adoperata dal protagonista della novella», e che i motti di Dioneo, «dovendo convenirsi all’eremita, devono essere sempre giocati su un’anfibologia che non è solo oscena (come, met-

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vane, assai divota persona e buona, il cui nome era Rustico» ($ 9). La metafora determina allora un’inversione di ruoli provocatoria-

mente dinamica: la fanciulla, che davvero era «semplice come parea» ($ 11), non è la tentatrice abituale di una letteratura devota;

è invece il romito a incaricarsi dell’iniziazione sessuale della giovane, fingendo di avviarla al servizio di Dio. Inversione che giustifica, appunto, la metafora, usata strategicamente da Rustico dopo aver pensato «come, sotto spezie di servire a Dio, lei dovesse recare a’ suoi piaceri» ($ 11). L’espediente fa coincidere le vicende erotiche dei due giovani con una durata narrativa della metafora, sottolineata da un giocoso proliferare di metafore secondarie attorno a quella fondamentale. Tale gioco di metafore allusive, che esaurisce l'avventura di Rustico e di Alibech, porta a un secondo,

malizioso capovolgimento di situazione, dovuto all’ardente devozione della giovane iniziata: La qual, poi che vide che Rustico più non la richiedeva a dovere il diavolo rimettere in inferno, gli disse un giorno: « Rustico, se il diavolo tuo è gastigato e più non ti dà noia, me il mio ninferno non lascia stare: per che tu farai bene che col tuo diavolo aiuti attutare la rabbia al mio ninferno, com’io col mio ninferno ho aiutato a trarre la superbia al tuo diavolo» ($ 29).

È, quello di Alibech, un fervore tutto naturale; che non solo smaschera l’espediente religioso del romito, ma demistifica con un ironico sorriso la superiorità del cosiddetto sesso forte, quando Rustico soccombe alla forza insopprimibile dell’istinto naturale, rappresentata da Alibech: Rustico, che di radici d’erba e d’acqua vivea, poteva male rispondere alle poste: e dissele che troppi diavoli vorrebbono essere a potere il ninferno attutare, ma che egli ne farebbe ciò che per lui si potesse. E così alcuna volta le soddisfaceva, ma sì era di rado, che altro non era che gittare una fava in bocca al leone: di che tiamo, in Apuleio), ma oggettivamente profanatrice» (Il Decameron, cit., p. 408). Ma si legga tutta l’analisi, sia per il «particolare sapore libertino» del racconto (p. 408), sia per lo svolgimento di esso, in cui «la malizia del romito e l’ingenuità si rispecchiano e si rimandano le scintillanti arguzie, in un gioco di una leggerezza comica nuova» (p. 409).

385

la giovane, non parendole tanto servire a Dio quanto voleva, mormorava

anzi che no ($ 30).

Il gioco serrato della metafora, destinata a ridursi «in volgar motto» ($ 35), che i due giovani si rinviano lungo la vicenda, e

l’ariosa evidenza delle immagini bastano all’intento dell’apologo: la novella va gustata nell’esito stilistico del pretesto allusivo, dell'occasione scherzosa, cui fanno eco, alla fine, le fragorose risate delle donne alle quali Alibech, ricondotta a casa per prender marito,

racconta come ha servito Domeneddio. L’apologo si proietta nella serena sensualità del matrimonio di due giovani sposi. Per apprezzare la finezza del disegno della III, 10, basterebbe paragonarla con un’altra novella chiaramente esemplare, ma chiusa e oppressa nell’armatura dell’apologo, la IX, 9: che per alcuni aspetti si potrebbe ricollegare, benché in essa un’aspra polemica si sostituisca all’indulgente sorriso, alla lezione della III, 10, almeno

per «chi volesse sollazzevolmente interpretare» ($ 8) il popolare proverbio secondo il quale «buona femina e mala femina vuol bastone » ($ 7). In realtà, nella IX, 9 la sottomissione della donna è

di ordine diverso da quella ricercata da Alibech: concerne l’intera vita sociale, e implica un’irrimediabile inferiorità naturale che Emilia teorizza in una lunga, elaborata e capziosa introduzione. È una tematica sconcertante, che si appoggia di fatto a un misoginia affiorante a più riprese nelle ultime tre giornate. Che essa non sia suscettibile, a tale livello, di reali aperture narrative, lo dimostra

la novella stessa, costruita sulle risposte sibilline a due giovani di Salomone, che verranno poi spiegate meccanicamente nella novella: faticosa e priva di imprevisti, scontata nella stessa scena della bestiale battitura della moglie da parte di Giosefo — l’unica che stranamente attiri l’attenzione (se non l’inconscio piacere) dei cri-

tici —, sintomaticamente correlata alla complice amicizia sorta tta Melisso e Giosefo. Novella opaca e artificiosa, dove il significato mortificante e repressivo dell’apologo spegne non a caso nel Boccaccio l’invenzione narrativa. Tematicamente essa si può accostare,

per l’avversione, questa ben comprensibile, a più riprese manifestata dal Boccaccio per le donne bisbetiche e scontrose, alla IX, 386

7, situata invece a Firenze e ricondotta ai moduli di una popolare

tradizione orale. Benché finga di parlare di quanto è accaduto «ad

una sua vicina» ($ 3), il’racconto di Pampinea ha il tono cupo e

sospeso di una fiaba popolare, fondata su misteriose coincidenze. La struttura della novella è anticipata dall’eloquente schematismo del titolo: «Talano d’Imolese sogna che uno lupo squarcia tutta la gola e ’l viso alla moglie: dicele che se ne guardi: ella nol fa, e avvienle» ($ 1). Lo spunto aggressivo e polemico, chiaro nel ritratto iniziale della moglie, «bella tra tutte l’altre... ma sopra ogni altra bizzarra, spiacevole e ritrosa» ($ 4), si mescola col tema del

sogno premonitore, con l’iroso mimo coniugale di Margarita, e si risolve e si esaspera alla fine nello strazio fisico della bella donna, «poi sempre sozzissima e contraffatta» ($ 13). Conclusione impietosa e sadica, congruente al distaccato livore polemico che guida tutto il racconto. Se una novella quale la III, 10, per usare la distinzione usata dal Boccaccio alla fine del libro, è di «quelle che dilettano», la IX, 9 e la IX, 7 sono tra «quelle che pungono» (Concl., 19). La distinzione coglie anche una discriminante di tipo narrativo. In questa pungente direzione si profilano non poche novelle, dove una polemica ben definita regola la logica del racconto. Uno schema consueto, comprovato, e una situazione reale vengono allora affrontati attraverso uno schermo che tende ad alterarne le dimensioni normali;

sono

filtrati dal risentimento

stilistico, deformati

nelle

asprezze più o meno violente e visibili della caricatura. Ma anche in tali modi di rappresentare il Boccaccio dimostra ricchezza tematica ed agilità stilistica: l'angolo visuale da cui gli oggetti sono colti e aggrediti non li irrigidisce in uno schema fisso, univoco. La satira non si sovrappone dall’esterno al racconto: sposta invece la presentazione della vicenda, stabilisce un rapporto più stridente tra i piani della narrazione, ma inserendosi con naturalezza nel fluire degli elementi comici. Il presupposto satirico e l’esercizio caricaturale si incontrano nell’autonoma validità di un modo narrativo. Un saggio per eccesso, risolto nel rumoroso divertimento popolaresco, è stato offerto dalla VII, 1. Un avvio simile, pur nella di387

versità dell’intreccio, presenta la III, 4. Uguale l’atmosfera di cronaca municipale; «vicino di San Brancazio» ($ 4) pure Puccio di Rinieri, un bigotto come e più di Gianni Lotteringhi: poi, essendo tutto dato allo spirito, si fece bizzoco di quegli di San Francesco, e fu chiamato frate Puccio: e seguendo questa sua vita spirituale, per ciò che altra famiglia non aveva che una sua donna e una fante, né per questo ad alcuna arte attender gli bisognava, usava molto la chiesa. E per ciò che uomo idiota era e di grossa pasta, diceva suoi paternostri, andava alle prediche, stava alle messe, né mai falliva che alle laude che cantavano i secolari esso non fosse, e digiunava e disciplinavasi, e bucinavasi che egli era degli scopatori ($ 4-5).

La novella si mantiene su questa linea ironica di rappresentazione: essa non vuole tanto mostrare in azione, come altrove, un

uomo astuto e intelligente che si beffa di uno sciocco, quanto subordinare la trama e i personaggi al ritmo caricaturale di questa apertura. Il raffronto con altre novelle di-beffa coniugale potrebbe creare un equivoco nella lettura: qui è al centro la credula superstizione di un bigotto, che proprio da un monaco riceve, senza po- . terla utilizzare, una lezione di naturale e sensuale spregiudicatezza. Gli indugi del racconto, le sottolineature comiche, contrapposti alla rapidità con cui viene ideato con reciproco consenso l’adulterio, nascono da questa grottesca inversione di ruoli tra un laico-e un religioso, sottolineata dall’antitesi tra due diverse concezioni del paradiso: accennata nel cappello, e ripresa con sardonico compiacimento nella conclusione: «avvenne che, dove frate Puccio faccendo penitenzia si credette mettere in paradiso, egli vi mise il monaco» ($ 33). Si badi come il narratore non si fermi tanto su don

Felice, che pur ordisce la trama, quanto su frate Puccio: come cerchi di colorire, più che l’inventiva scaltrezza dell’uno, la credula bigotteria dell’altro. Fatti e discorsi sono graduati nella prospettiva ‘del povero «bizzoco»: sul quale si riversa, prima ancora che il salace motteggiare della moglie, l’allucinante comicità della situazione di penitente, indicata in anticipo da don Felice: E oltre a questo si conviene avere nella tua propria casa alcun luogo donde tu possi la notte vedere il cielo: e in su l’ora della

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compieta andare in questo luogo, e quivi avere una tavola molto larga ordinata in guisa che, stando in piè, vi possi le reni appoggiare, e tenendo gli piedi-in terra distender le braccia a guisa di erucifisso; e se tu quelle volessi appoggiare ad alcun cavigliuolo, puoil fare; e in questa maniera guardando il cielo, star senza muoverti

punto insino a mattutino

($ 17).

La proposta di don Felice, che rivela non solo il suo «aguto ingegno» ma anche una ben mondana padronanza della sua «profonda scienza» ($ 7), costituisce la parte più lunga della novella, perché ne contiene il succo paradossale. La teologia di don Felice è tutta antifrastica:

è una divertita contraffazione, che fa indovi-

nare la bocca aperta e l’aria incantata di frate Puccio. La maliziosa parodia contenuta nel discorso, intonato periodo dopo periodo a una chiesastica e pedagogica solennità, moltiplica i propri effetti nella risonanza che trova in un «uomo idiota» ($ 5) e non «litte-

rato» ($ 18): la disinvolta improntitudine dei religiosi è strettamente connessa, nel sottinteso sarcasmo della novella, alla sciocca

credulità dei laici. Lo stesso dialogo notturno di frate Puccio con la moglie «motteggevole» ($ 25), che era stata presentata con cantanti moduli popolareschi — «fresca e bella e ritondetta che pareva una mela casolana» ($ 6) —,

non conta tanto per la trama

quanto per la possibilità che esso offre di prolungare nel ritmo assurdo delle battute la flagellazione caricaturale del protagonista. La novella potrebbe finir prima o continuare, perché ogni sequenza è un pretesto di malizia stilistica: e perciò il Boccaccio conclude quasi noncurante, col motto ghiribizzoso rivolto da Panfilo alla brigata. Più disuguale, ma ricca di validi spunti comici, è la VII, 3; si passa dalla rapida cronaca di un corteggiamento a una lunga invettiva contro i religiosi, da un insinuante dialogo di seduzione di frate Rinaldo con madonna Agnesa a un mimo a tre rarefatto fino all’assurdo, infiorettato di lazzi, di smorfie e ghigni repressi. I vari obiettivi della polemica (Rinaldo, Agnesa, il marito) possono provocare un’impressione di frattura nei giunti tra le varie parti. Ma c'è, sottintesa, una polemica che le unisce tutte, e ritornerà anche

altrove: una polemica contro i senesi, che coinvolge appunto i tre 389

personaggi e connota la comicità del Boccaccio con riferimenti maligni, spesso stridenti. Lo si coglie anche in particolari minimi, magari topici, che assumono un peso diverso che in altre novelle analoghe. Così dopo aver accennato alle sfortunate sollecitazioni di Rinaldo nei riguardi di Agnesa, della quale è divenuto compare, il Boccaccio aggiunge: «quantunque d’averlo udito non dispiacesse alla donna» ($ 5); dove l’esattezza della notazione psicologica, che

indica una donna solleticata nell’amor proprio e prima o poi destinata a cedere, accenna a una vanità che si.preciserà meglio in seguito. Quando poi si rinnova il colloquio tra la donna e Rinaldo, ormai divenuto frate, il Boccaccio vi premette insolitamente una didascalia: « a quello ricorse che fanno tutte quelle che voglia hanno di concedere quello che è addimandato... » ($ 14). Sembra che lo scrittore voglia condizionare il pubblico, anticipare l’impressione che si trarrà dal dialogo: pure concluso da un distaccato commento: « La donna, che loica non sapeva e di piccola levatura aveva bisogno, o credette o fece vista di credere che il frate dicesse vero... » ($ 22). Sicché lo stesso sfrontato sillogizzare di

Rinaldo, non solo frate ma compare della donna, viene irriso, a . ritroso, dalla sostanziale arrendevolezza della comare. Questo tono

ambiguo, obliquo, una polemica più giosi ben nutriti e essa non è meno

è di tutto il racconto: se frate Rinaldo provoca scoperta, nell’aspra invettiva contro i falsi. relilisciati (polemica del tutto assente nella III, 4), pungente nella sprezzante rappresentazione del

marito, il « bescio santio » che « tutto svenne » ($ 29) a sentire il

pericolo corso dal figlioletto. Il senesimo apre con acre ironia la scena: che raggiunge, nella sua pesante goffaggine, momenti di raffinata crudeltà, puntualmente commentati dal narratore: « Il santoccio, credendo queste cose, tanto l’affezion del figliuol lo strinse. che egli non pose l’animo allo ’nganno fattogli dalla moglie, ma, gittato un gran sospiro, disse... » ($ 33). Si giunge, con voluta lentezza, alla derisione grottesca: Il fanciullo, veggendo il padre, corse a lui e fecegli festa, come i fanciulli piccoli fanno; il quale, recatoselo in braccio, lagrimando non altramenti che se della fossa il traesse, il cominciò a basciare e a render grazie al suo compare che guerito gliele avea ($ 38).

390

La sottintesa polemica contro la generale vanità dei senesi affiora nella conclusione: « senza alcun indugio fatta fare la immagine di cera, la mandò ad appiccare con l’altre dinanzi alla figura di Santo Ambrogio, ma non a quel di Melano » ($ 41): allusione al culto del beato Ambrogio Sansedoni da Siena. Comicità tesa, maligna: il beffato tende a irrigidirsi nell’automatismo del burattino, mosso e subornato dagli altri. Se la si avvicina a questa, è possibile interpretare con maggior esattezza anche la VII, 10, generalmente giudicata tra le più goffe e incolori del Decameron. Si noti che il richiamo è esplicito nel cappello di Dioneo: la novella detta da Elissa del compare e della comare, e appresso la bessaggine de’ sanesi hanno tanta forza, carissime donne, che, lasciando stare le beffe agli sciocchi mariti fatte dalle lor savie mogli, mi tirano a dovervi contare una novelletta di loro, la quale, ancora che in sé abbia assai di quello che creder non si dee, nondimeno sarà in parte piacevole ad ascoltare ($ 7)3

Dioneo, prima di iniziare una novella che sembra contraffare beffardamente un tema caro alla letteratura religiosa, vuole quasi dissipare i possibili dubbi scontandola come piacevole scherzo, e chiarendo il proprio impegno di narratore. La visuale comica in cui è prospettato il ritorno dall’aldilà di Tingoccio è il risultato di un “meccanismo narrativo più sottile, non il centro della novella. Il racconto è cioè sottoposto a una deformazione caricaturale, appena

afferrabile ma essenziale nella sua malizia polemica; non tanto contro le superstizioni popolari, come parodia degli exempla medievali, quanto contro i senesi, in cui l’altra si risolve e acquista sapore.' In questo senso; Dioneo è critico preciso della propria novella: è davvero « novelletta di loro », dei « sanesi », che rende più ambigua la provocazione antireligiosa. Ciò non significa, evidentemente, che la satira dei senesi costituisca di per sé un valido tema narrativo: significa soltanto che d 3 I corsivi, in questo e nei passi che seguono, sono miei. 4 Hanno colto acutamente tale aspetto della novella G. PETRONIO, comm. cit. al Decameron, vol. II, p. 109; e C. SALINARI, comm. cit. al Decameron, p. 531.

SCR)

tale disposizione determina un modo generale di raccontare, di usare il pretesto della visione, di irrigidire le due figure in un meccanico rapporto di interdipendenza, di piegare ad esso lo stesso avvio di bozzetto popolaresco. Tingoccio e Meuccio, due giovani

popolani di Siena abitanti « in porta Salaia », sono visti subito come coppia, legata da un’amicizia stretta ed esclusiva: « e quasi mai non usavano se non l’un con l’altro, e per quello che paresse s’amavano

molto » ($ 8). Sono

sempre

assieme,

assieme

vanno

« alle chiese e alle prediche »: da tale consuetudine nasce la promessa vicendevole, sigillata « con giuramento », della visita dopo la morte di uno dei due, perché l’altro possa « saper certa novella » ($ 9) dell’aldilà. Desiderio che nasce da una superstiziosa cre-

dulità: tutto il periodo, nel suo giro formalmente solenne, tende a rilevare per antifrasi la comica amistà di due babbei, e ne anticipa in modo ancora dissimulato lo svolgimento grottesco. La stessa storia del comune amore dei due per la comare di Tingoccio sviluppa, in un gioco volutamente schematico di analogie e di antitesi, di tacite riserve e di desideri comuni, l’insistente correlazione Tingoccio-Meuccio, che finisce coll’irrigidire a poco a poco i personaggi, col portarli gradualmente all’automatismo del fantoccio.

Malizia coperta e dissimulata, che si svela più chiaramente nella scena dell’apparizione che essa prepara. Dioneo rinuncia volutamente a un clima pauroso, spettrale (clima non ignoto al Boccaccio, come mostra la V, 8): la scena, nella sua illogica semplicità,

vale soltanto come proiezione di una lunga consuetudine di vita e insieme di un assurdo desiderio, e perciò si dispone senza forzature nella linea caricaturale del racconto: « E trapassato, il terzo dì appresso, ché forse prima non aveva potuto, se ne venne, secondo la promession fatta, una notte nella camera di Meuccio, e

lui, il qual forte dormiva, chiamò » ($ 16). È il fare amichevole di un vivo: e il dialogo, fin in qualche brusca battuta, si svolge con sbrigativa monotonia. È in realtà il sogno di un dialogo con un amico, adeguato al livello mentale di chi sogna. Il meccanico rimbalzare delle battute porta al limite la caricatura dei due sciocchi, che parlano e rispondono rapidi, con la rigida gesticolazione di marionette. La delineazione di un popolaresco Purgatorio è inscin392

dibile da tale ritmo burattinesco, che si sostiene imperterrito fino alla boutade conclusiva: Alquanto si spaventò Meuccio veggendolo, ma pure rassicurato disse: « Tu sia il ben venuto, fratel mi0! », e poi il domandò se egli era perduto. A/ qual Tingoccio rispose: « Perdute son le cose che non si ritruovano: e come sarei io in mei chi, se io fossi perduto? ». « Deh », disse Meuccio « io non dico così; ma io ti domando se tu se’ tra l'anime dannate nel fuoco pennace di ninferno ». A cui Tingoccio rispose: « Costetto no, ma io son bene, per li peccati da me commessi, in gravissime pene e angosciose molto ». Domandò allora Meuccio particolarmente Tingoccio che pene si dessero di là per ciascun de’ peccati che di qua si commettono, e Tingoccio gliele disse tutte. Poi il domandò Meuccio s’egli avesse di qua per lui a fare alcuna cosa; 4 cui Tingoccio rispose di sì...; a cui Meuccio disse di farlo volentieri. E partendosi Tingoccio da lui, Meuccio si ricordò della comare, e sollevato alquanto il capo disse... ($ 19-24).

Nella dimessa scaltrezza delle sequenze, non contano tanto le notizie che i due si scambiano, lo stesso lazzo finale, il dialogo come

tale, quanto il modo stilistico con cui il dialogo è presentato: visibile nell’affiorare degli idiotismi senesi, nell’uso discreto e sardonico di reminiscenze dantesche, nell’incalzarsi delle didascalie e

delle battute attorno al binomio Tingoccio-Meuccio (già foneticamente giocoso), esasperato fino allo schematismo. L’invenzione ca-

ricaturale è sempre controllata: il motto sulle comari come il congedo vagamente dantesco di Tingoccio prima di sparire — « Meuccio, fatti con Dio, ché io non posso più esser con teco » ($ 29) — sono momenti di un’unica linea narrativa. La grossolanità della novella è solo apparente: essa è in realtà una dissimulata e abilissima contraffazione caricaturale, spinta fino all’irrigidimento burattinesco. Perciò, quasi a indicarne la matrice, Dioneo ricorda alla fine frate Rinaldo e il suo « andare sillogizzando » per convertire «a’ suoi piaceri la sua buona comare » ($ 30): che è pure un

modo, per il Boccaccio, di richiamare l’attenzione su uno dei suoi scherzi comici più rarefatti. Con un accostamento alle novelle senesi, e in particolare con la precedente, si può forse valutare anche il veloce schematismo 393

della VIII, 8: pure definita « novelletta » dalla narratrice, quando contrappone la misurata vendetta di un giovane alla « severità dell’offeso scolare » della VIII, 7: « intendo di dirvi una novelletta d’un giovane, il quale con più mansueto animo una ingiuria ricevette, e quella con più moderata operazion vendicò » ($ 3). Ep-

pure la mansuetudine e la moderazione, giustamente elogiate (sul piano dei principi) da Fiammetta, non solo sboccano in una salace partie carrée, nuova nel Decameron, ma vengono ambiguamente illuminate dalla rapidità stessa della storia di una nuova coppia di senesi, « due giovani assai agiati e di buone famiglie popolane... e amenduni... vicini a casa in Cammollia » ($ 4): una storia che

mostra non pochi contatti stilistici con la VII, 10, fin dai moduli della cronaca iniziale: « Questi due giovani sempre usavano insieme, e, per quello che mostrassono, così s’amavano, o più, come

se stati fosser fratelli; e ciascun di loro avea per moglie una donna assai bella » ($ 5). La novità è costituita dalle mogli, e avvia quello che potrebbe apparire solo il canovaccio di una originale pochade. Ma l’automatismo della vicenda, il susseguirsi dei fatti e dei contraccolpi senza eccessive reazioni psicologiche dei personaggi, fanno sorgere il sospetto, inducono a una più cauta rilettura. Ritornano, è vero, schemi di atteggiamento cari al Boccaccio, come l’ingegno dell’espediente bene organizzato o la padronanza di sé nel momento di scoperta della propria disavventura coniugale; ma in modo neutro, oggettivato nel racconto senza una glossa di consenso da parte del narratore (come nella III, 2): « Ma conoscendo che per far

romore né per altro la sua ingiuria non ne diveniva minore, anzi ne cresceva la vergogna, si diede a pensar che vendetta di questa cosa dovesse, fare, che, senza sapersi dattorno, l’animo suo rimanesse contento... » ($ 9). E ancora colpisce, come in questo caso,

la facilità con cui i personaggi passano tra stati psicologici opposti.

Lo Zeppa, pur adirato per il tradimento — « di che egli si turbò forte » ($ 8) —, sa perdonare presto alla moglie, se si presta ad

attuare il piano di vendetta: « Vedi, donna, tu hai fatto male;il quale se tu vuogli che io ti.perdoni, pensa di fare compiutamente quello che io ti impotrò, il che è questo... » ($ 13). Spinelloccio, che quando l’amico e la moglie gli avevano ballato « la danza tre394

vigiana... soprail capo..., una grandissima pezza sentì tal dolore che parea che morisse » ($ 28), ricupera rapidamente la situazione, ed esce dalla cassa « senza far troppe novelle » ($ 34). La donna

del Zeppa, « di se stessa

temendo

e per ciò molto ubbidente

divenuta, fece quello che il marito le ’mpose » ($ 22); la moglie di Spinelloccio si presta « contenta » ($ 26) alla vendetta del Zeppa, e non dimentica di chiedergli «il gioiello promesso » ($ 30). La labile vita narrativa dei personaggi è in una sorta di maschera che uguaglia rapidamente tutti i sentimenti. Gli esasperati contrasti coniugali, le forti ripulse, le vendette irreparabili non vengono neppure accennati:

sono ipotesi estranee a personaggi

che si acconciano a una situazione creata dalla loro stessa cedevolezza. La situazione li avviluppa tutti, e basta solo a suscitare un momento di reciproca perplessità: « E lungo sarebbe a dire qual più di lor due si vergognò, o Spinelloccio vedendo il Zeppa e sappiendo che egli sapeva ciò che fatto aveva, o la donna vedendo suo marito e conoscendo che egli aveva udito e sentito ciù che ella sopra il capo fatto gli aveva » ($ 32). Poi tutti si dispongono docili, con popolare saggezza, al reciproco scambio di mogli e mariti. E i periodi per lo più brevi, a membretti staccati, i dialoghi privi di particolari superflui, che escludono ogni ritegno interiore, si adeguano alla corriva acquiescenza dei personaggi, alla pura località delle reazioni. Questo mimico schematismo assicura alla no-

vella un’ambigua, particolare coerenza. Tale tono neutro, distaccato, di racconto è reperibile in altre novelle: ma esso non gioca più nel senso di un intento caricaturale più o meno scoperto. È piuttosto una freddezza narrativa che non riesce a dissimulare una più netta avversione satirica dello scrittore: il che avviene quando vengono offesi principi e valori che si pongono nel Decameron come irrefutabili. Un esempio tipico è offerto dalla VIII, 1, dove il racconto è volto a schernire una donna che vien meno « per prezzo » ($ 4) alla propria onestà. È uno degli atteggiamenti più aborriti dal Boccaccio, perché infrange insieme un codice di cortesia e l’innocenza naturale delle forze d'Amore. Una prova è già nell’acredine pungente, per esem-

pio, della VI, 3: dove il motto, che pure « se come il cane mor-

395

desse..., non sarebbe motto ma villania » ($ 3), si trasforma in

risposta aspramente offensiva, perché monna Nonna de’ Pulci viene a trovarsi nella situazione di chi deve mordere « come cane, essendo come da cane prima stato morso » ($ 4). Perciò la « pic-

cola novella » ($ 5) è cupa e tesa, maligna come un pettegolezzo e inflessibile come la dimostrazione di un principio: sia quando descrive il miserabile imbroglio escogitato da un « gentil uomo catalano », venuto a Firenze « maliscalco per lo re Ruberto » e « vie più che grande vagheggiatore » ($ 6), ai danni di un marito « avarissimo e cattivo » che vende la moglie per « cinquecento fiorin d’oro » ($ 7); sia quando riporta la battuta irrispettosa di un vescovo, amico del nobile donnaiuolo e complice col suo silenzio della brutta avventura toccata alla nipote, il quale vien meno, non che alla finezza di tatto, alla stessa discrezione che la vicenda do-

vrebbe suggerirgli. La battuta del vescovo rischia di « contaminare » l’« onestà » della giovane sposa: la quale è costretta « a render colpo per colpo », a ribattere « prestamente » con una risposta sferzante ($ 10), che costringe i due ad andarsene,

« senza

guardar l’un l’altro, vergognosi e taciti » ($ 11). Battuta e con- clusione brutali, che rispondono al contratto risentimento stilistico della narratrice. La « buona moneta » ($ 10), che nella VI, 3 costituisce il ve-

leno della risposta della giovane fiorentina, è la reale protagonista della VIII, 1. Il denaro, quei « fiorini dugento d’oro » ($ 7) che

ritornano con formula immutabile per tutta la novella, richiesti da madonna Ambruogia al tedesco che la desidera, da lei versati « sopra una tavola » ($ 14) e ben contati prima di cedere, chiesti

in prestito da Gulfardo al marito, « un ricco mercatante che aveva nome Guasparruol Cagastraccio » ($ 6), e poi abilmente restituiti con beffa della donna « rimasa scornata » ($ 18), determinano tutto

lo svolgimento di questa sordida storia milanese. Se lo schema del contrasto tra Ambruogia e Gulfardo sembra risolversi a favore di

quest’ultimo, descritto come « assai leale a coloro ne’ cui servigi si mettea, il che rade volte, suole de’ Tedeschi avvenire » ($ 5), in realtà Gulfardo stesso, abitualmente « lealissimo renditore » nelle « prestanze de’ denari » ($ 5), è contaminato dalla venalità della 396

donna. La lealtà di Gulfardo e fin la prontezza e la meticolosa precisione del mercante vengono coinvolte nel congegno che solo il denaro mette in moto: l’avidità di Ambruogia compromette tutti, riversa sul marito il peso di una beffa inutile, colora di luce ambigua lo stesso espediente di Gulfardo. Il racconto, subito improntato dallo scontro aspro e chioccio dei nomi, si attiene, nel suo ritmo compatto e livido, a questo giro di richieste, di prestiti, di restituzioni, alla logica dei conti, della « ragione » ($ 17): aprendosi appena in alcuni espliciti sarcasmi verso il personaggio responsabile della vicenda: « la ’ngordigia di costei », « la viltà di lei » ($ 8), la « donna, anzi cattiva femina » ($ 9), « il disonesto prezzo

della sua cattività » ($ 18). Certo, « il sagace amante senza costo godé della sua avara donna » ($ 18): ma è anche vero che la secca clausola è condizionata dal modo dell’intero racconto. L’amore e la beffa sono stati ugualmente degradati dal denaro, che non concede alla novella spazi psicologici né imprevisti narrativi. Più scopertamente polemica, tutta aggressiva, è invece la VIII, 4: il cappello pungente contro «i preti e’ frati e ogni chierico », importuni « sollecitatori » delle donne ($ 3), qui imposta subito i termini della novella, e riversa sul proposto di Fiesole il suo veleno. Il proposto è il vero nucleo del racconto: non in quanto personaggio esaminato con distacco, ma ora come oggetto di maligna

caricatura, ora come soggetto di una cronaca sprezzante. Le note del ritratto introduttivo annunciano, con enfasi consapevole nel registro « comico », il leitmzotiv di tutta la novella: Era questo proposto d’anni già vecchio ma di senno giovanissimo, baldanzoso e altiero, e di sé ogni gran cosa presummeva, con suoi modi e costumi pieni di scede e di spiacevolezze, e tanto sazievole e rincrescevole che niuna persona era che ben gli volesse... ($ 7).

La presunzione, l’antipatica affettazione del personaggio vengono sottolineate a più riprese nel racconto: « non fece come sbigottito o vinto al primo colpo, ma usando la sua trascutata prontezza, la sollecitò molte volte... » ($ 9); « come far soleva, per un modo

parentevole seco entrò in parole » ($ 10). Anche le sue parole 397

sono grossolane e offensive, stolidamente inopportune, specie quando la donna finge di cedere: « Madonna, gran mercé; e a dirvi il vero, io mi son forte maravigliato come voi vi siete tanto tenuta, pensando che mai più di niuna non m’avvenne; anzi ho io alcuna volta detto: “Se le femine fossero d’ariento, elle non varrebbon denaio, per ciò che niuna se ne terrebbe a martello”. Ma lasciamo andare ora questo: quando e dove potrem noi essere insieme? » ($ 13).

Tale obliqua rappresentazione di un prete goffamente motteggevole, che occupa la prima parte, è la cosa migliore della novella; poi il racconto saorre piano ma generico, e solo si ferma sulla stridente caricatura della Ciutazza. È un’esasperazione grottesca del ritratto della Nuta (VI, 10), e si capisce il perché: la Nuta è un particolare, anzi un caso-limite, di un mondo pittoresco colto con spassoso divertimento; la Ciutazza serve invece a rendere la beffa più feroce, è in funzione dell’implacabile asprezza polemica del narratore: « e cominciossi il proposto a sollazzar con lei, la possession pigliando de’ beni lungamenti disiderati » ($ 28); « la camera dove messer lo proposto giaceva con la Ciutazza »; « avendo, nonostante il caldo, la Ciutazza in braccio, si riposava » ($ 32); « gli

fu mostrato il proposto con la Ciutazza in braccio » ($ 33). La Ciutazza, non il topico scambio di persona, è, più che strumento di beffa, il vero castigo del proposto: « “Vedi colui che giacque con la Ciutazza” il che gli era sì gran noia che egli ne fu quasi in su lo ’mpazzare » ($ 37). L’inclemenza aggressiva è la linea stilistica della novella, sino alla formula brutale della conclusione

secca e

sbrigativa: « in così fatta guisa la valente donna si tolse da dosso la noia dello impronto proposto, e la Ciutazza guadagnò la camiscia » ($ 37).

La VIII, 1 e più ancora la VIII, 4 sono indicative di un preciso movimento stilistico del Boccaccio: la satira e la polemica determinano un modo più risentito di raccontare, nel quale la narrazione è tutta contrappuntata» dall’inciso immediato e sarcastico di chi sta narrando. L’intervento dello scrittore nel tessuto novellistico si fa più diretto, è denunciato con prepotenza: nasce una nar398

razione polemicamente commentata nel corso stesso del suo svolgimento, che vale per l’arguzia mordace, la verve inventiva, l’ica-

stica felicità delle sottolineature aggressive o caricaturali. Nel Decameron, diversamente dalle opere che lo precedono, le intrusioni, le digressioni, le glosse dirette dell'autore sono rare; ma quando emergono, nette o insistenti, dalla pagina, denunciano un interesse diverso rispetto alla trama, un impegno stilistico che subordina il racconto a un valore o a un disvalore da affermare o rifiutare con chiarezza. La polemica (apologia o satira, o le due contrapposte) sale in primo piano, prova e compromette stilisticamente una moralità nell’articolazione narrativa: il Corbaccio, in questo senso, non farà che esasperare la struttura di alcune novelle del Decameron, con un uso assai scaltro del linguaggio vituperoso e deformante. Sono le novelle in cui polezzica e caricatura assorbono l'esercizio stilistico del Boccaccio, imponendosi nettamente come modo narrativo. Si legga la IV, 2, che potrebbe sembrare, a una prima lettura, una comica e avventurosa novella di beffa, ricca di stravaganti

peripezie (del resto non ignote a una tradizione narrativa antica e medievale): ed è invece novella aspra e livida, quasi cupa, senza luci di simpatia e di sorriso. Prima che per una situazione concreta e una salace vicenda, essa vale per il sarcasmo e per l’ironia con cui è presentata da Pampinea: sarcasmo verso frate Alberto, ironia verso madonna

Lisetta, che coinvolgono una polemica più

generale contro i veneziani, sottintesa ma affiorante talora in alcune glosse perentorie: « sì come colei che viniziana era, ed essi son tutti bergoli » ($ 12), secondo un giudizio che ritornerà per Chichibio (VI, 4); « e fu lealtà viniziana questa » ($ 52). La verve polemica si esercita insistente su Lisetta, la cui sciocca vanità è

ripetutamente ribadita con una serie pungente di epiteti, di definizioni e di commenti che ritma tutto il racconto: « bamba e sciocca » ($ 12); « che fu un fastidio ad udire » ($ 13); « che costei sentia dello scemo » ($ 14); « donna mestola » ($ 16); « Donna

zucca al vento, la quale era anzi che no un poco dolce di sale » (S 20); « Madonna baderla » ($ 24); « donna pocofila » ($i2735

« faccendo sì gran galloria che non le toccava il cul la camiscia » 399

($ 29): « sì come colei che poco sale aveva in zucca » ($ 39); « la donna, che piccola levatura avea...» ($ 41). Lisetta è assalita, prima che rappresentata: con un’ironia resa più maligna dallo strumento linguistico, perché il personaggio veneziano è investito da un

vituperio costruito sul parlato fiorentino e toscano. La fitta rete delle varianti insegue e avvolge Lisetta: la formula di scherno la perseguita senza posa, anticipandone ogni gesto e discorso. E il dialogo, che rivela una vanità al limite dell’idiozia, ribadisce l’effetto caricaturale, è usato anch’esso in funzione polemica. La polemica, in realtà, si estende a tutti i veneziani, « bergoli »

e leggeri, sciocchi come Lisetta, pettegoli come la comare, sleali come il « buon uomo > ($ 46) in cui incappa frate Alberto nella ‘sua fuga, curiosi e poi crudeli come la folla che lo circonda. Non a caso, secondo una tecnica discreta ma non nuova in lui, il Boccaccio introduce termini e frasi dialettali, sia nei discorsi di Lisetta —

«una candela d’un mattapan » ($ 24); « per le plaghe di Dio, egli il fa meglio che mio marito...: mo vedì vu? » ($ 43) —, sia | nelle esclamazioni della folla stupita — « che xè quel? » ($ 53) —: alla pungente arguzia fiorentina rispondono, con eco grottesca, i rozzi moduli della credulità veneziana. Il gioco delle rifrazioni linguistiche è sempre in funzione della maligna caricatura di un ambiente, suggerito del resto con pittoresca evidenza di elementi topografici e di costume:

i canali, il bando « al Rialto » ($ 52),

la festa e la caccia « in su la piazza di San Marco », con i travestimenti « a modo d’orso » o « a guisa d’uom salvatico » ($ 49). La commedia dell’agnolo Gabriello è di fatto commedia di una città che suscita sempre l’avversione del Boccaccio: non è un caso che l’avventura di madonna Lisetta si ripercuota a un certo punto in essa, grazie alla comare con cui la donna si confida: « e ragunatasi ad una festa con un gran brigata di donne, loro ordinatamente 5 Perciò «il metodo della caratterizzazione diretta» non è soltanto «un giuoco piacevole che il Boccaccio conduce con la sua grande conoscenza delle espressioni scherzose del popolo», né serve solo «a descrivere l’umore vivace di Pampinea, la narratrice, che con questa novella risolleva gli spiriti della brigata commossa fino alle lagrime dalla storia precedente», come vorrebbe E. AUERBACH, Mimesis cit., p. 232, nella sua famosa lettura della IV, 2 (Frate Alberto, pp. 212-240): ma si inserisce con coerenza nella struttura stilistica dell'intera novella.

400

raccontò la novella. Queste donne il dissero a’ mariti e ad altre

donne, e quelle a quell’altre, e così in meno di due dì ne fu tutta ripiena Vinegia » ($ 44). La progressione strutturale della novella comporta il risolversi della pochade in un più diffuso pettegolezzo cittadino, che coinvolge lo stesso frate Alberto, ai cui orecchi ne viene « alcuna novelluzza » ($ 45); e la sua disavventura si risolverà, coerentemente, in un’animata scena collettiva. Lo

svolgersi della vicenda si adegua sottilmente allo spirito del rac-

conto: un’avventura amorosa, che per canonica discrezione è destinata a rimanere segreta, echeggia rumorosamente in tutta una città. « Vinegia, d’ogni bruttura ricevitrice » ($ 8), su cui batte

stizzita Pampinea, è la vera protagonista della novella. Rivalità politiche e commerciali, i cui echi sono reperibili al fondo di queste pagine, si traducono

in un eccezionale risentimento

stilistico

del testo. L’intervento polemico non è dunque sovrapposto al racconto, ma ne determina lo svolgimento e i nessi essenziali: e il veleno della rappresentazione si riversa su frate Alberto, degnamente accolto in tale città, dove pensa « di trovare altra maniera al suo malvagio adoperare che fatto non avea in altra parte » ($ 8). Il nesso di stretta interdipendenza tra il frate e Venezia è anzi volutamente sottolineato da Pampinea con una frase che ritorna a breve distanza con una leggera variante: « di quelli che de’ maggior ch’ ha Ascesi era tenuto a Vinegia » ($ 7), nel vivacissimo cappello polemico contro « la ipocresia de’ religiosi » ($ 5); « era la sua fama di santità in quelle parti troppo maggior che mai non fu di San Francesco ad Ascesi » ($ 11), a conclusione del ritratto tracciato nella

cronaca introduttiva. Più che sulla destrezza con cui sa «li viniziani adescare » ($ 11) o sull’intelligenza inventiva dell’espediente usato con Lisetta, che del resto la sciocchezza della donna tende a

facilitare, lo scrittore insiste sulle « vituperose opere » ($ 8), sulla malvagia metamorfosi di un ribaldo. La sua stessa doppiezza di religioso, che si riflette nella credulità collettiva dei veneziani (i

quali ricordano i trivigiani della II, 1), non è considerata con spregiudicata simpatia neppure sul piano erotico (come avviene, per esempio, per l’abate della III, 8): è anzi legata, in modo ambix

401

guamente rapido ed ellittico, alla sciocchezza della donna: « Frate Alberto conobbe incontamente che costei sentia dello scemo, e parendogli terreno da’ ferri suoi, di lei subitamente e oltre modo

s’innamorò » ($ 14).f Perciò egli non sembra controllare totalmente la propria avventura, che in effetti finisce col renderlo imprudente: prevale piuttosto, nella novella, l’impressione di una grande forza fisica (correlata del resto alla sua grossolana impostura), di

una

sensualità

quasi animalesca,

che pare prolungarsi nell’ab-

norme grottesco travestimento da « uom salvatico » cui è costretto

alla fine, e nel tormento che lo punisce: « al quale le mosche e’ tafani, per ciò che di mele era unto, davan grandissima noia » (S 54). Il castigo e la vergogna pubblica sono descritti con sadico compiacimento, e con non minore disprezzo per la folla; e il Boccaccio se ne sbriga quasi con fastidio: « dove, incarceratolo, dopo misera vita si crede che egli morisse » ($ 57). Eppure Pampinea sente il bisogno di apporre una coda alla novella, di riassumere le vicende di un personaggio che « vituperato senza pro pianse i peccati commessi » ($ 58): fino all’ultimo gli eventi sono descritti

e insieme illustrati da chi narra. Nella presentazione costantemente acre e polemica è la coerenza stilistica del racconto. Sono novelle, queste, che valgono per il modo eloquente con cui vengono esposte, comunicate:

fissate, si direbbe, nel momento

stesso del loro esser dette a una brigata, cui si rivolgono con continui cenni d’intesa, con sorridenti o maliziose sottolineature. La

IV, 2, per esempio, è presentata e insieme rifiutata nella sua totalità: l’esercizio stilistico invita in questo caso a un distacco globale. In altre novelle, invece, la vicenda è presentata in uno schema di voluta bipolarità: i due antagonisti, rispettivamente di segno positivo e negativo, permettono al narratore un intervento di tipo diverso, di parteggiare per l’uno e di infierire sull’altro, squilibrando consapevolmente l’intero raccolto. Il narratore tende a coincidere, senza remore né dissimulazioni, con un personaggio: se ne 6 Osserva acutamente C. MuscettA, Il Decameron cit.: «È il sadico attaccamento che nel Decameron lega il torturatore alle sue vittime: si tratta di una passione particolare, dove la sensualità si confonde col gusto della beffa e dell’impostura» (p. 416).

402

a è colto un esempio rapido ma eloquente nella struttura della VI, 7, dove una situazione drammatica è capovolta pubblicamente a

proprio favore da una donna audace e spregiudicata. E la reazione

dei pratesi traduce il pieno consenso dello scrittore all’arringa di madonna Filippa. La difesa dell’adulterio, in nome delle necessità naturali, è concentrata nella VI, 7 in un caso-limite: ma la lezione si ritrova in altre novelle, determina talvolta la presentazione di una vicenda avventurosa e movimentata. Il che avviene nella II, 10, più aperta e ariosa: tutta percorsa da un riso sano e giovanile che si espande irrefrenabile sulla materia, a esaltazione del senso e dei diritti della natura. La succosa arguzia oratoria di madonna Filippa è qui dilatata da Dioneo nel gioco prolungato di uno stile parlato e acceso, nell’uso instancabile di un gergo denso di lepide metafore; e concretata nello schema di un contrasto coniugale, dove la malizia narrativa serve alla polemica contro « coloro li quali, sé più che la natura possenti estimando, si credono quello con dimostrazioni favolose potere che essi non possono, e sforzansi d’altrui recare a quello che essi non sono, non patendolo la natura di chi è tirato » ($ 4). La premessa annuncia già la forma di un dibattito tra due contendenti: dibattito però non astratto, raziocinante, ma tradotto in un agilissimo piacere mimetico, che

tende a disegnare i personaggi contraffacendoli nei gesti e più nelle sfumature linguistiche, nei vezzi lessicali, nel giro della frase che illuminano per ingrandimento i loro schemi mentali.’ La novella prende l’avvio, per tale contrasto, dal personaggio negativo. Il giudice Ricciardo di Chinzica è definito « più che di corporal forza dotato d’ingegno » ($ 5): il racconto si atterrà a tale maliziosa apertura, svilupperà le conseguenze di questo squilibrio. La caricatura non è grossolana: Ricciardo rappresenta una sapienza specialistica e libresca (dove non è da escludere una più sottile ? Acute osservazioni sulla funzione della lingua nel disegnare, «con sbalorditiva ricchezza di voci di gergo, di doppi sensi schetzosi, di espressioni vivaci, di parole frizzanti», la varia natura dei personaggi e la stessa situazione sono reperibili in G. PeTRONIO, comm. cit. al Decameron, vol. I, pp. 292-293. Per il significato ideologico di questa che «è una delle grandi novelle “pagane del Boccaccio», si vedano però le integrazioni e le nette precisazioni di C. SALINARI, comm. cit. al Decameron, p. 188.

403

polemica contro i giuristi, quella di una pagina famosa del De casibus), cherion lo salva dalla presunzione di cercare « d’avere bella e giovane donna per moglie, dove e l’uno e l’altro, se così avesse saputo consigliar sé come altrui faceva, doveva fuggire » ($ 5). E i rapporti coniugali tra Ricciardo e Bartolomea, dopo la difficile impresa della prima notte, sono il pretesto di un pungente mimo linguistico-caricaturale, fondato su quella trovata del calendario che ritorna nel racconto carica di echi maliziosi. La pagina precede la narrazione spiegata: ma l’una e l’altra, la prima nel compiacimento stilistico e la seconda nello svolgimento dell’azione, sono legate dalla stessa polemica inventiva, che sarà poi assunta consapevolmente dalla moglie, quando comincerà a raffrontare i « fatti » di Paganino col « giudice e le sue leggi » ($ 16). In tale prospettiva, non ci sono imprevisti nell’azione, perché il destino di Ricciardo è già segnato. Contano piuttosto le diverse funzioni dei tre personaggi, quando il giudice arriva a Monaco per riscattare la moglie. Ricciardo, prima gongolante e poi deluso e infine supplichevole, rappresenta un’impotenza che non ha il coraggio di riconoscersi; Paganino è la lieta forza virile; Bartolomea, che potrebbe apparire la semplice posta di un gioco di rivalità, diviene con sintomatica sorpresa l’arbitro della situazione, il personaggio decisivo perché autonomo. Si trasforma così, prima con atteggiamento schernevole poi con virulenza polemica, in un’oratrice intransigente dei propri diritti di donna, che coincidono con le esigenze stesse della natura e della gioventù. Il personaggio assume in proprio, con più risentita eloquenza, l’ufficio caricaturale fin qui tenuto dal narratore: « E s’egli v’era più a grado lo studio delle leggi che la moglie, voi non dovevate pigliarla; benché a me non parve mai che giudice foste, anzi mi paravate un banditore di sagre e di feste, sì ben le sapavate, e le digiune e le vigilie » ($ 32).

Rafforzati dall’esperienza diretta, i suoi raffronti frustano il giudice senza pietà: « né mai dentro a quello uscio entrò né sabato né vigilia né quat tro tempora né quaresima, ch’è così lunga, anzi di dì e di notte

404

ci si lavora e battecisi la lana; e poi che questa notte sonò mattutino, so bene

come

il fatto andò da una

volta in su. E però con

lui intendo di starmi è di lavorare mentre sarà giovane, e lc feste e le perdonanze e i digiuni serbarmi a far quando sarò vecchia; e voi colla buona ventura sì ve n’andate il più tosto che voi potete, e senza me fate feste quante vi piace » ($ 33-34).

L’esuberante giovinezza di Bartolomea amplifica ed enfatizza il gioco stilistico del narratore:

le metafore, concluse da un’inclemente

frecciata, si susseguono con veloce fervore, in crescendo, ma sempre lungo la linea stilistica della novella. La quale si tende ormai nel grottesco: alle promesse accorate di Ricciardo — « io da quinci innanzi, poscia che io conosco il tuo disidero, mi sforzerò... »

($ 36) — Bartolomea ribatte implacabile: «Anche dite voi che vi sforzerete: e di ehe? di farla in tre pace e rizzare a mazzata? io so che voi siete divenuto un pro’ cavaliere poscia che io non vidi! Andatevi, e sforzatevi di vivere; ché mi pare anzi che no che voi ci stiate a pigione, sì tisicuzzo e tristanzuol mi parete » ($ 39).

Il peso e la violenza degli argomenti sono motivati dall’estro vendicativo della moglie; ma essi toccano qui, una volta portati all'estremo, un dramma esistenziale, vitale, mai affrontato con tanta crudeltà. Il Boccaccio avverte, con singolare finezza, che a questo

punto non sono più in gioco vizi o disvalori: e la festevolezza comica dello stile non impedisce l’affiorare di una reticente tragedia, quando Ricciardo, tornato a Pisa dopo la requisitoria della moglie, impazzisce dal dolore. È appena il barlume di un’intuizione più complessa: ma quella « mattezza »($ 42), che per la prima volta avvolge il giudice di un’incolpevole tristezza, è come il riscatto dell’asprezza polemica e dell’acredine caricaturale che lo hanno investito; è lo scotto drammatico pagato dalla sua presunzione.

Allo stile caricaturale è pure affidato l’aneddoto della I, 6, più esile e lieve, che è un tipico esempio di narrazione commentata, dove lo scrittore sembra quasi venirein soccorso, all’interno del contrasto,

a un personaggio più modesto

ma

ingiustamente

per-

seguitato. Qui il parteggiare del narratore non è brutalmente de405

nunciato, introdotto dall’esterno come avviene, per esempio, nella I, 8: dove la satira dell’avarizia e il rimpianto di una civiltà cor-

tese squilibrano la novella verso l’elogio di Guiglielmo Borsiere, introducono una frattura nel racconto, e portano a una battuta secca e inesorabile, anche se pedogicamente fruttuosa. Nella I, 6, invece, non c’è riscatto possibile, perché essa si esaurisce nella storia di un sopruso fallito, che lascia scornato ma non muta il personaggio che ne è responsabile. E la vendetta che ne trae il narratore è tutta nello stile ironico e nervoso, ricco di sottintesi sferzanti e di pungenti didascalie, che contrappuntano la pagina con un gioco insieme fitto e pieghevole di variazioni stilistiche. Spiccano, via via, gli inserti giuridici: « cum gladiis et fustibus » ($ 6); i superlativi correlati in funzione caricaturale: « impetuosissimamente corse a formargli un processo gravissimo addosso » ($ 6); le antitesi immediatamente espressive: « non meno buono investigatore di chi piena aveva la borsa che di chi di scemo nella fede sentisse » ($ 4); le rispondenze rimate:

« avvisando non di

ciò alleviamento di miscredenza nello inquisito, ma empimento di fiorini nella sua mano ne dovesse procedere » ($ 6); i maliziosi richiami: « divoto di San Giovanni Boccadoro... » ($ 8), « della grascia di San Giovanni Boccadoro... » ($ 9); le parentesi enfa-

tizzate dall’improvvisa citazione dotta: « col viso dell’arme, quasi costui fosse stato Epicuro negante la etternità delle anime, gli parlava » ($ 9). La sapienza retorica è al servizio di uno

stile

mosso e pungente: si pensi ancora alla pregnanza comica di certi participi alla latina, o all’effetto stridente delle metafore. È una novella che Emilia racconta davvero « baldanzosamente » ($ 2):

e il Boccaccio, quasi a esprimere soddisfazione per questa prima prova, ne loderà la « piacevolezza » all’inizio della novella seguente ($ 2), riferendola appunto alla narratrice. Il contrasto tra l’inquisitore ipocrita e il « buono uomo, assai più ricco di denari che di senno » ($ 5), il quale trova nel suo stesso semplice buon senso l’arguzia che colpirà in pieno la « brodaiuola ipocresia » ($ 20) del suo giudice, è solo un momento

della novella:

un aspetto più risentito dell’intreccio, che suggerisce in un dialogo incalzante le postille di due macchiette, più che di due 406

personaggi, ma basta a definire l'atteggiamento degli antagonisti, l’uno tronfio e sicuro di sé, l’altro tranquillo e quasi sornione. Nella novella di Abraam la sottile polemica era in funzione di un rapporto umano che metteva in causa dei principi; qui la caricatura, attenuato e quasi dissolto il valore del contrasto, smaschera

invece direttamente « la malvagia ipocresia de’ religiosi » ($ 1).

Un limite estremo di asprezza lessicale e di aggressiva tensione stilistica è raggiunto dalla VI, 8: come la IV, 2 colpisce la vanità e la schiocchezza femminili e la ciurmeria dei falsi religiosi, la II, 10 l’innaturale disconoscimento dei diritti della carne, la I, 8 l’avarizia, la I, 6 l’ipocrisia, così questa prende di mira un vizio apparentemente minore, insieme di carattere e di comportamento, che pure, sappiamo (IX, 7; IX, 9), è tra i più detestati dal Boccaccio: la ritrosia femminile, la mancanza di senso sociale. E anche nella VI, 8 la polemica si risolve in coerente esercizio stilistico: solo esternamente appartiene alle novelle dei motti, e non si può giudicarla in tale prospettiva senza svisarne il carattere.* La novella concentra in una pagina un’implacabile caricatura, il cui effetto è affidato all’acre stridore delle immagini, che ritornano ossessive con suoni aspri e con parole ripetute in una sorta di martellante accentuazione; ché per il resto è quasi priva di trama, e il motto stesso è un accidente privo di conseguenze per i personaggi. Il profilo di una giovane boriosa va valutato per la chiusa monotonia del linguaggio, per l’aggressività mordace dello stile, teso da un capo all’altro della pagina: questa la coesione di una novella così strana, quasi eccentrica. Essa ha però un movimento, esile ma preciso: un ritratto, un aneddoto che manifesta il personaggio, un motto sbrigativo che rinvia inesorabile l’aneddoto al ritratto iniziale. È l’emblematico disegno di un circolo chiuso. Il narrato si configura subito in un ritmo di stridenti sottolineature, di pungenti subordinate: la gio8 Come accade ad A. Momictiano, Il Decameron... cit., il quale non vi trova nulla di «concreto» né di «vivo» (p. 267): giudizio frettoloso, che sembra chiedere alla novella ciò che essa non vuol dare. Si legga invece la rapida ma felicissima valutazione di S. BATTAGLIA, La coscienza letteraria... cit., pp. 687-688, al solito acuto lettore.

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vane è « chiamata per vezzi Cesca »; la sua bellezza è indicata con una concessiva: « ancora che bella persona avesse e viso », subito accompagnata da una stizzosa restrizione: « non però di quegli angelici che già molte volte vedemo » ($ 5). Le sue fisime di no-

biltà, il suo ingiustificato disprezzo per gli altri ricadono sul personaggio, fissato da tre aggettivi ritmati con maligna energia fonetica: « spiacevole, sazievole e stizzosa »; seguiti da un fraseggiare tutto sarcastico:

« e tanto, oltre a tutto questo, era altiera, che se

stata fosse de’ Reali di Francia sarebbe stato soperchio » ($ 5). Si presentono gli icastici moduli caricaturali del Corbaccio. La giovane è aggredita senza sosta; e le sferzate si susseguono ritornando agli stessi epiteti o a sinonimi sgradevolmente rimati: « Ora, lasciando stare altri suoi modi spiacevoli e rincrescevoli... » ($ 7). La stessa scenetta della festa ne è come costipata, oppressa da ogni parte: « tutta piena di smancerie... » ($ 7); « tutta cascante di vezzi... » ($ 8). Il discorso di Cesca è un’autocaricatura, feroce per-

ché involontaria; la giovane si esprime esasperando i termini già usati per lei dalla narratrice (ancora Emilia, che sembra avere il ge-

nio del racconto sprezzante): « tanto spiacevoli e rincrescevoli... », « che non mi spiaccia... », « noioso il vedere gli spiacevoli... » ($ 8). Sono frasi tutte a scatti, improntate a stizzosa vanità: e l’in-

tervento di Fresco vi risponde condensando e quasi contorcendo la base lessicale di tutta la novella: « Alla qual Fresco, a cui li modi fecciosi della nepote dispiacevan fieramente, disse: “Figliuola, se così ti dispiaccion gli spiacevoli, come tu dì, se tu vuoi vi-

ver lieta, non ti specchiare giammai” » ($ 9). Nella sua aggressività stilistica, e solo in essa, il motto è il punto culminante della novella; e la sua forza è proprio nella sua inutilità, perché Cesca,

« più che una canna vana e a cui di senno pareva pareggiar Salamone », lo intende come avrebbe potuto intenderlo un « montone », ribattendo con stupida malagrazia: « e così nella sua gros| sezza si rimase e ancora vi si sta » ($ 10). Il personaggio è irrecuperabile. Si conclude brusca, con uguale inclemente ferocia, una delle novelle più aspre e livide del Decarzeron: il profilo di un carattere è ottenuto, stilisticamente, attraverso il prisma deforman-

te della caricatura. 408

La VI, 8, segna il massimo di mordacità cui può giungere l’arguzia fiorentina del Boccaccio: lo scherno stilistico traduce una condanna definitiva. Ma Firenze gli offre anche l’occasione per trasformare la crudeltà intellettuale in strumento di lucida e pur comprensiva saggezza: il tratto caricaturale si unisce al sorriso di chi sa cogliere, nella luce dimessa di un quadro quotidiano, un singolare moto psicologico. La novella, limpida nel disegno e sottile nelle allusioni, indaga allora in profondità, senza forzature polemiche. Tale è la VI, 5, nella cui corta misura l’arguta sagacia del ritrattista sa individuare, in un aneddoto quotidiano, un attimo di rilassamento e di abbandono di due grandi ingegni. La punta discretissima dell’ironia si allea all'evidenza del bozzetto e al piacere del ritratto: perché questo concerne due personaggi illustri, Forese da Rabatta e Giotto, il secondo dei quali « meritamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote » ($ 6). Ma il

lungo cappello non è soltanto un prologo encomiastico, un documento della costante ammirazione del Boccaccio per il pittore:° esso propone già il tema del contrasto tra « turpissime forme » e « maravigliosi ingegni » ($ 3), tra bruttezza fisica e bellezza intellettuale, che la novella riprenderà con singolare penetrazione, concretandolo in un momento di stanchezza che un paesaggio provoca in due amici. Non solo: la novella, che suggerisce implicitamente una sottile discriminazione tra i due personaggi, è anticipata dalla stessa sapienza stilistica del prologo. Il cappello, costruito a chiasmo, distingue infatti Forese da Giotto: si ferma dapprima, con insistenza grottesca, sull’aspetto fisico di Forese, « di persona piccolo

e sformato, con viso piatto e rincagnato », e ne rileva poi il « sentimento nelle leggi », che lo fece riputare « uno armario di ragione civile » ($ 4); passa quindi a dilungarsi sull’« eccellenza » dell’« ingegno » di Giotto ($ 6), con un commosso ritratto critico, per

ritornare solo alla fine, e per un rapido raffronto con Forese, al suo aspetto fisico. È chiara dunque una preferenza che ritroveremo nell’articolazione della novella: è individuata in germe la re> Per il significato e per la stessa novità del giudizio su Giotto, si leggano i precisi rilievi di N. SapEGNO, Dal Decameron... cit., pp. 124-126.

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sponsabilità di Forese, che motteggia Giotto « senza avere a sé niuna considerazione » ($ 13); ed è anticipato il leggero ritratto di Giotto che sarà tracciato in punta di penna, con una devozione che attenua e rasserena la caricatura. Le due parti della novella sono così improntate alla stessa pungente e commossa felicità: e la « gloria » di Giotto, che risuscita l’arte della pittura sepolta « molti secoli » sotto l’errore, e pur si mantiene umile e modesto ($ 6), è

trattata con un’adesione che non nasconde un’ansia autobiografica. Giotto è una figura in cui si proietta la personalità del Boccaccio: e anche un simbolo dell’umanistica novità del ritratto e insieme della realistica concretezza della novella. In questa sembra che il Boccaccio, il quale nella Conclusione del libro paragonerà la propria « penna » al « pennello del dipintore » (Concl., 6), voglia gareggiare con quella verità che nel cappello, in termini concettualmente naturalistici, egli esalta in Giotto. La scena è inquadrata in un paesaggio toscano che esprime concreta-

mente l’intima consonanza dello scrittore coi due personaggi (l’uno e l’altro, si badi, originari del contado): il viaggio di ritorno dal Mugello a Firenze, l'improvviso temporale estivo, la sosta in « casa

d’un lavoratore amico e conoscente » ($ 10) sono rappresentati con un’insolita evidenza visiva. E nell’identità della situazione si profila lo spunto caricaturale della novella: « in su un cattivo ronzino da vettura venendosene... »; « né in cavallo né in arnese es-

sendo in cosa alcuna meglio di. lui... »; « sì come vecchi, a pian passo venendosene, insieme s’accompagnarono » ($ 9); ma il periodare quieto e piano traduce la discrezione stilistica, la misura di tale improvviso e pur verosimile quadretto grottesco. La pittura si arricchisce lentamente di tinte (la pioggia, la casa del contadino, la fretta di ritornare a Firenze); e converge sui « due mantellacci vecchi di romagnuolo » e sui « due cappelli tutti rosi dalla vecchiezza » ($ 15) con cui i viaggiatori riprendono il cammino.

La progressione è quasi inavvertibile: ma è accentuato con malizia quel senso di sporco e di disagio, di mortificazione fisica, che comporta una stanchezza psicologica: « tutti molli veggendosi e per gli schizzi che i ronzini fanno co’ piedi in quantità zaccherosi... » ($ 12). L’aspetto della natura condiziona lo stato dei due 410

uomini; e infatti la stanchezza tende a scomparire col rasserenarsi

del cielo: « rischiarandosi alquanto il tempo, essi, che lungamente erano venuti taciti, cominciarono

a ragionare... » ($ 12). La sor-

presa scatta nella pagina legata a un’intuizione finissima, anche se risolta nella semplicità del disegno. Ne può infatti sfuggire il li-

vello secondo, dissimulato, che è all’origine stessa dei due rapidi motti: perché, se quel sereno improvviso è come una liberazione, questa è pur legata a quanto la precede, segnata da quel processo insensibile di mortificazione. In questo nesso si spiegano insieme l'osservazione di Forese, quel suo cogliere con critica acutezza l’umoristico contrasto che gli presenta Giotto — « bellissimo favellatore » e pur in ogni cosa « così disorrevole e così disparuto » ($ 13) —, l’estro improvviso e sorridente del motto e il contorto

compiacimento nell’esprimerlo — « credi tu che egli credesse che tu fossi il miglior dipintor del mondo, come tu se’? » ($ 14) —, la mancanza di tatto sovrapposta all’ammirazione, e infine quel dimenticare sé stesso. Giotto può ribattere « prestamente », riprendendo e amplificando il bisticcio di Forese: « Messere, credo che egli il crederebbe allora che, guardando voi, egli crederebbe che voi sapeste l’abbicì » ($ 15). Il pittore sa pungere seccamente, quasi a richiamare Forese a un’autocritica discrezione: e la breve frazione di tempo della risposta basta a capovolgere le parti, a dare all’artista (che pur dà a Forese del Messere e del voi) il sopravvento sul giurista (che dà a Giotto del tu, chiamandolo per nome).

È anche questo un movimento appena avvertibile, ma sottile: la parola è il segno di una superiorità che oltrepassa le convenzioni di uno statuto sociale. Eppure una sfumatura d’irritazione è anche nella bruschezza di Giotto: il paesaggio ha agito pure su lui, e l’acutezza non è priva di veleno, svela un segreto dispetto, che la conclusione del narratore sembra confermare. Forese, certo, comprende: « Il che messer Forese udendo il suo error riconobbe, e videsi di tal moneta pagato, quali erano state le derrate vendute » ($ 15). Ma il riconoscimento interrompe di colpo il dialogo. Lo

scrittore conclude con secca coerenza, lasciando in sospeso un aneddoto che ha appunto il valore dell’aneddoto, la profonda saggezza di una caricatura che sorprende sì un attimo di stan-

411

chezza e di tensione di due nobili ingegni, ma con la coscienza della labilità di quell’attimo, della sua accidentale motivazione in un paesaggio instabile e in un disorrevole arnese. Le glorie di Firenze possono

sopportare una momentanea

caricatura:

e l’ironia

si trasforma, con singolare modernità, nella sagace acutezza dell’umorismo. Nel clima della propria città, che pure gli fornisce la lingua e le immagini per i suoi strali polemici e caricaturali, il Boccaccio trova ancora una volta un originale equilibrio tra il disegno della natura e il ritratto degli uomini: quasi egli volesse riconoscere in essa la matrice dell’intelligenza come dell’apertura del proprio libro. Non a caso si è reperita, nella normale verità dell’aneddoto, una complessità di movimenti che è una spia, esile ma significativa, della singolare penetrazione dello scrittore: se l’aneddoto ha la fugacità dell'’aneddoto, non

è men

vero

che esso

sottintende

e richiama

una somma considerevole di elementi psicologici, morali e intellettuali. E l’accidentalità del quotidiano basta a rivelarli, a coglierli nelle loro interazioni. In questo scatto, dovuto a un’attenzione più profonda della semplice curiosità, è la vera, e continua, invenzione del narratore. Ed è coincidenza forse non casuale che sia Panfilo a raccontare la novella di Giotto e di Forese: quel Panfilo che aveva aperto solennemente l’esercizio del novellare con un’alta meditazione sul destino dell’uomo terreno, sulla forza e sull’avvedimento con cui egli può opporsi alle insidie della realtà, e sa ora cogliere, lungo l’esile tracciato degli impulsi e dei contraccolpi quasi impercettibili suscitati da un incontro banale di due nobili ingegni, gli elementi di una mondana mietamorfosi, minima ma sintomatica. Il

contatto degli uomini col reale e coi propri simili ci riporta così, anche in una breve frazione di tempo, a quel rapporto di passività e di attività, di necessitazione e di iniziativa, da cui siamo partiti:

in breve, alle continue relazioni e alle sorprendenti interferenze tra « avvenimenti » e « atti » degli uomini. Se all’inizio Panfilo aveva indicato tale rapporto partendo da una riflessione globale, nella VI, 5 egli lo dimostra fondandosi su un’avventura irrilevante. Ogni novella sembra allora riavviare il movimento che è di tutta l’opera, e la sottrae alle formule fisse e schematiche: la lettura del 412

paesaggio terreno e umano è aperta, sempre ripresa al di là delle indicazioni tematiche generali, e sollecita una ricca mobilità dei modi atti a raccontarlo. L’indagine di una realtà tutta mondana è inscindibile, nel Boccaccio, dalla sperimentazione della sua molteplice narrabilità;

ed è invenzione

che va ben oltre le fonti, e

le stesse combinazioni di schemi e di situazioni topiche. Non potremmo altrimenti spiegarci la straordinaria latitudine di avventure narrative che il Decazzeron propone, col vigore felice della scoperta, alla letteratura europea dei secoli venturi.

413

Pot

ab P)

Indice delle novelle Si citano le pagine dove si fa cenno la novella è analizzata.

della novella;

Proemio,

70, 72, 155, 280 Introduzione, 16, 18, 59, 73, 217

28, 364, 387-389, 390 101, 289-293 275-279 25, 28, 135, 141-142, 143, 148, 149, 155, 275, 292 141, 302, 303-309, 310, 318, 377, 401 135, 143-144, 157, 324

I, Introd., 73

» 1

12-14, 16-17, 25, 28, 53, 55, 79, 80, 81, 82, 83, 286, 291, 293301, 307, 344, 380, 381 45, 53, 205-210, 407 19, 24, 52, 53, 67, 73, 82-84, 210-214, 231 76, 77, 88, 227, 230-234, 249 231, 234, 325, 331-332 32, 64, 80, 405-407 24129) (50,51. 64.34, 214 217, 218, 219, 222, 406 63-64, 406, 407 37-40, 44, 45 , 333-335

II, Let 73 242-247, 248, 249, 289, 401 N 101-109, 111- 114, 126, 344 » 28, DIL1% 228 Dì 17,28; 61,-96; 135; 138-141, 190 42, 50, 81, 82, 101-109, 117, 121-124, 157, 162, 164, 240 liLi Di 161-162 94, 95, 96-101, 117, 138, 153, » 154, 239 64, 144-145, 155, 157, 170, D 324 28, 169-170 58, 80, 194, 195, 403-405, Hi 00 PNE 0 Na A 407

57, 88, 302-305, 306 24, 227-230, 232, 304, 394 MI 28) 2932, 64, 07, 228; 281-289, 290, 293

in corsivo, le pagine dove

0, 57, 59, 87, 251, 384-386, 387

IV, Introd.,--14; 475-5613539, (69341; 77, 383, 384 31,438; DI MIOLI2813> 157, 171, 1780380195019 226, 2319239 052/9330/234.5 3IS CITI MEIVASSS70 30, 344, 371, 399-402, 407 28, 64, 100-101 28, 324-327, 329, 330, 331, 332033334 135-137, 138, 147, 374 129-132, 135, 373, 374 25, 226, 364, 372-376 Di 133-135, 137, 327, 374, 376 135, 327-331, 333, 349/314; HHHUHH SZZL oa Di \0 376 118-120, 121, 122, H< A (©) 101-109, 126, 129 24, 57, 60, 158-159, 302 128-129, 135 32, 33, 40-44, 96, 101-109,