La morte e il morire 8830802476, 9788830802476

Perché non siamo capaci di affrontare questo evento umano senza paure e senza difese? Quali sono i bisogni e i diritti d

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La morte e il morire
 8830802476, 9788830802476

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cittadella editrice

LA MORTE E IL MORIRE

Elisabeth Kubler_Ross

DELLA STESSAéOLLANA

M. e G. Abiven • VIVERE A DUE, 2*

ed.

-

pagg. 112

-

L. 1.500

O. Cotinaud

• L'INCONTRO CON LO PSICOLOGO, pagg.' 184 L. 2.000

J.P. Deconchy •• SVILUPPO PSICOLOGICO DEL BAMBINO E DELL’ADOLESCENll, pagg. 272 --L.- 3.000

G. Delpìen-e -•

AFFRONTARE L'INQUIETUDINE, pagg. 228

-

L. 2.500

M. Gueneau • RIUSCIRE NEL MESTIERE DI GENITORI, pagg. 208

-

L. 2.000

J. Faure - R. Lafon ' •• INTRODUZIONE ALLA COMPRENSIONE PSICOLO­ GICA, pagg. 228

P.

-

L. 2.000

Hanry

•• L’INCONSCIO

AUO

pagg.

SCOPERTO,

144

-

L. 1.600

].G. ■ Lemaire * •

*

LE TERAPIE DI COPPIA, pagg. 280

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L. 4.0QO .

M. Oraison • l CONFLim DELL’ESISTENZA, pagg. 104

L. 1.200

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M. Oraison. •• st:IPERARE LA PAURA, pagg. 100- L. 1.200 J. Sarano * L’EQUILIBRIO UMANO,

pagg. 224 - L. 1.800

A. Schneiders

.

L’ANARCHIA DEI SENTIMENTI, pagg. 184

P. Vellay • IL VISSUTO DELL’ABORTO, pagg. 168

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-

L. 2.000

L. 2.000

. T. e D. Pfrimmer * VIVERE E AMARE L’avventura della copia pagg. 216 - L. 2.200 (segue

pag.

4)

ELISABETH KUBLER-ROSS LA MORTE E IL MORIRE

seconda edizione

CITTADELLA EDITRICE

(cont. da pag. 2) ]. Sarano ** LA SEPARAZIONE Le partenze e le rotture nella vita, pagg. 192 - L. 2.200

G. Mauco * * l CELIBI,

pagg. 180

-

L. 2.500

M. Gueneau IL BAMBINO E IL SUO DESIDERIO DI AMARE, pagg. 124 - L. 1.800 ■

. *

E. Kubler-Ross LA MORTE E IL MORIRE,

*

M. Oraison

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L. 5.000 .



VIVERE DA ADULTO pagg. 96 - L. 1.500

*

pagg. 320

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Immaturità e

maturazione

M-. Teiera. de. Meer * IL BAMBINO E l SUOI CONFLITTI, L. 2.400

pagg. 160

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M. Teiera, de Meer *

IL BAMBINO E l SUOI PRIMI RAPPORTI UMANI, - L. 3.000

pagg. 240 F. Frisch *

ELEMENTI L. 2.300

DI

PSICOSOMATICA,

pagg.

Autori Vari

LA STANCHEZZA DELLA VITA,

* *"

B. Bettelheim - D. Karlin

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160

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pagg. 264

-

L. 4.800

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BRUNO BmELHEIM: UNO SGUARDO DIVERSO SULLA FOLLIA, pagg. 260 - L. 5.500

titolo originale

On death and dying traduzione di

Clara di Zoppola © per la lingua inglese

'EIIsabeth KObler-Ross © per la lingua italiana

Cittadella Editrice - Assisi

Ringraziamenti

Sono troppe le persone che hanno direttamente o indirettamente contribuito a questo lavoro, per­ ché io possa esprimere singolarmente a ciascuna di loro la mia riconoscenza. Il dottor Sydney Margolin ha il merito di aver stimolato l’idea di in­ tervistare malati vicini alla morte alla presenza di studenti, ritenendo che ciò potesse essere una lezione di profondo significato. Il dipartimento di psichiatria dell’università al­ l’ospedale Billings di Chicago ha fornito l’ambien­ te e ha fatto tutto il possibile per rendere tecni­ camente possibile un seminario sull’argomento. I cappellani Herman Cook e Cari Nighswonger hanno in modo prezioso aiutato e incoraggiato le interviste, visitando i malati in un momento in cui ciò era immensamente difficile. Wayne Rydberg e i primi quattro studenti, con il loro interesse e la loro curiosità, mi hanno aiutato a superare le dif­ ficoltà iniziali. Sono stata aiutata anche dall’appog­ gio del Seminario Teologico di Chicago. Il reve­ rendo Renford Gaines e sua moglie Harriet hanno passato innumerevoli ore a revisionare il manoscrit­ to e hanno sostenuto la mia fiducia nel valore di un’impresa di questo genere. Il dottor C. Knight Aldrich ha appoggiato questo lavoro in questi tre anni. II dottor Edgar Draper e Jane Kennedy hanno re5

visionato una parte del manoscritto. Bonita McDaniel, Janet Reshkin e Joyce Carlson meritano di es­ sere ringraziati per aver scritto a macchina i capitoli. I miei ringraziamenti ai molti malati e alle loro fa­ miglie sono forse meglio espressi dalla pubblica­ zione di quanto essi ci hanno comunicato. Sono molti gli autori che hanno ispirato quest’ope­ ra. Un ringraziamento va infine a tutti coloro che hanno rivolto un pensiero e prestato attenzione ai malati inguaribili. Ringrazio il signor Peter Nevraumont che ha sug­ gerito di scrivere queste pagine, come pure il signor Clement Alexandre della Macmillan Company per la pazienza e la comprensione dimostrate durante la preparazione del libro. E infine, ma con pari calore, desidero ringraziare mio marito e i miei figli per la loro pazienza e il continuo appoggio che mi danno, per cui, oltre a essere moglie e madre, riesco a occuparmi in un lavoro a tempo pieno.

ELISABETH KUBLER-ROSS

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Prefazione

Quando mi hanno chiesto se- ero disposta a scrivere un libro sulla morte e sul suo approssimarsi, ho acceJ:tato la sfida con entusiasmo. Quando poi mi sono seduta e ho cominciato a do­ mandarmi a' che cosa mi ero mai impegnata, la fac­ cenda è cambiata. Da dove comincio? Che cosa scrivo? Quanto posso dire agli estranei che legge­ ranno questo libro, quanto posso comunicare loro dell’esperienza fatta con i moribondi? Quante cose non si comunicano a parole, e dopo averle sentite, vissute, viste, difficilmente si possono tradurre in parole? Lavoro con malati inguaribili da due anni e mezzo e questo libro vuol raccontare l’inizio di questo esperimento che si è rivelato un’esperienza signifi­ cativa e istruttiva per tutti coloro, che vi hanno par­ tecipato. Non 'intende essere un libro di testo sul modo di trattare i malati destinati a morire né uno studio completo di psicologia del morente. È sem­ plicemente il racconto di un’occasione nuova e cri­ tica per focalizzare il malato come essere umano, per dialogare con lui, per apprendere da lui le forze e le debolezze del nostro trattamento ospedaliero. Gli abbiamo domandato di essere nostro maestro in modo che noi potessimo imparare qualcosa di più sulle tappe finali della vita con tutte le sue ansie, timori e speranze. Io racconto semplicemente le 7

storie dei malati che hanno condiviso con noi le loro angosce, le loro attese e le loro frustrazioni. Speriamo che ciò incoraggi altri a non sfuggire i malati « senza speranza », ma ad avvicinarli di più, poiché si può essere loro di grande aiuto durante le ultime ore. I po^i che sapranno farlo scopriranno anche che può essere un’esperienza reciprocamente gratificante; essi impareranno molto sul funziona­ mento della mente umana, sugli aspetti umani ec­ cezionali della nostra esistenza, e usciranno da que­ sta esperienza arricchiti e forse con minori ansie riguardo alla propria fine.

ELISABETH KUBLER-ROSS

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_______________________ Capitolo primo

LA PAURA DELLA MORTE Non voglio pregare di esser protetto dai pericoli, ma di sfidarli Impavido, Non voglio implorare alleviamento di pena, ma cuore per vincerla, Non voglio cercare alleati nelle battaglie della vita, ma il mio rinvigorimento. Non voglio gemere nell'ansioso timore di non salvarmi, ma spero d'aver pazienza per ottenere la mia redenzione, Concedimi di non esser codardo sentendo la tua misericordia soltanto nel mio successo, ma di riconoscere il soccorso della tua mano anche nella mia sconfitta,

TAGORE, Recepita votiva

Le generazioni passate hanno pagato alle epidemie un grande tributo di vite umane. La morte era fre­ quente fra i bambini ed erano poche le famiglie che non perdevano in tenera età uno dei loro mem­ bri. Negli ultimi decenni la medicina ha apportato grandi cambiamenti. La diffusione delle vaccina­ zioni ha praticamente sradicato molte malattie, per lo meno nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti. L’impiego della chemioterapia, specialmente degli antibiotici, ha contribuito a una costante diminu­ zione della mortalità nelle malattie infettive. Una miglior cura ""dei bambini e una migliore educazione hanno contribuito alla diminuzione delle malattie e della mortalità fra i bambini. Gran parte delle malattie che colpivano in modo impressionante i giovani e le persone di mezza età sono state vinte. Il numero degli anziani è in au­ mento e di conseguenza parecchie persone in età avanzata possono essere affette da malattie a ca­ rattere maligno e cronico. I pediatri hanno meno lavoro per quanto riguarda le situazioni acute e critiche, ma hanno un numero sempre crescente di pazienti con disturbi psicoso9

matici e problemi di adattamento e & comporta­ mento. I medici hanno nelle loro sale d'attesa più persone con problemi di ordine psicologico di quan­ te ne abbiano mai avute prima, ma hanno anche un maggior-numero di pazienti anziani che non solo cercano di vivere con le loro diminuite capacità fisiche e le loro limitazioni, ma che affrontano an­ che la solitudine e l’isolamento con tutte le soffe­ renze e le pene che ne derivano. La maggior parte di queste persone non viene vista da uno psichia­ tra. Altri professionisti vengono a conoscenza dei loro bisogni e cercano di aiutarli, per esempio cap­ pellani e operatori sociali. È per loro che io cerco di cogliere i cambiamenti che hanno avuto luogo negli ultimi decenni e - che in definitiva - sono respon­ sabili dell'accresciuto ' timore della morte, del cre­ scente numero di problemi emotivi, e della maggior necessità di comprendere e di affrontare i problemi della morte e del suo avvicinarsi. GJardando.indietro . nel . tempo e studiando. .le.. civiltàe..ip^^lla^^^m,...abbiamo.l'impressione che la morte sia, sempre, stata.Ripugnante .per l’upmo e probabilmente lo sarà sempre.' Da ùn punto di vista psichiatrico ciò - è molto comprensibile e può forse essere meglio spiegato dalla nostrajdea fondamen­ tale ' che,j nel nostro .inconscio, la morte non è mai possibile, .per noi stessi. Per 'ilrn^^o.inconscio è. inconcepibile, immaginare una . .fine,' . reale .della no­ stra . vite qui.auffa terra,. e .se. questa- nóstra . vita.deve finire,... la:. .fine,. è. sempre, attribdita a ..unpete!Yent.o malignoo. .esterno.;.. .. per. .. opera... di. *uakun. q . .altro. In pàrnle_semplici, nel nostro inconscio noi .possiamo splo_.e,sse,re ^cicìsi ; è. ,. inconcepibile., morire _ di una .caus.anaturallao.di . vecchiaia. Perciò la morte _ift se H.esl'J!. è collegata con unatto cattivo, un aweni,'pento, spaventoso., qualcosa .chernséredama. ven-

pettà e punizione./ pe(., In primo luogo .è utile ricordare questi fatti fonda­ .

u

.

mentali, -poiché sono .essenziali per capire qualcuna delle più importanti comunicazioni dei nostri mala­ ti, altrimenti incomprensibili: IO

Il secondo fatto che dobbiamo comprendere è che nel nostro inconscio noi non sappiamo distinguere" ' fra un desiderio e un fatto. Noi siamo tutti consa­ pevoli dei nostri illogici sogni in cui possono esi­ stere una accanto all’altra due situazioni completa­ mente opposte, cosa molto accettabile nei nostri sogni, ma impensabile e illogica se siamo svegli. . Così come il nostro inconscio non può distinguere fra il desiderio di uccidere qualcuno nell’ira e l’atto di averlo fatto, il bambino è incapace di fare questa distinzione. Il bambino . che desidera con rabbia che sua madre caschi morta perché non ha soddisfatto i suoi bisogni, riceverà un grosso trauma dalla mor­ te reale della madre, anche se questo evento non è strettamente collegato nel tempo con i suoi desi­ deri di distruzione. Si sentirà sempre responsabile della perdita della madre. Dirà sempre a se stesso, e raramente ad altri’. « L’ho fatto io, io sono re­ sponsabile, sono stato cattivo, perciò la mamma mi ha lasciato ». È bene ricordare che il bambino reagirà allo stesso modo quando, la perdita del genitore sia dovuta al divorzio, alla separazione, o alla fuga. Spessola mMre_è„vista..dal.^Lhambmo....rnif..una cosa non, du­ ratura e quindi poco, diversa.. dal divorzio, in cui può avere l’occasione di rivedere il genitore. Molti genitori ricorderanno certi commenti dei figli, come per esempio: «Voglio seppellire il mio ca­ gnolino adesso, e la primavera prossima quando ri­ torneranno i fiori si alzerà ». Forse era lo stesso desiderio che spingeva gli antichi Egizi a circonda­ re i loro morti di cibo e di cose per farli felici, e i vecchi Indiani d’America a seppellire i loro pa­ renti con i propri beni. Quando diventiamo vecchi e cominciamo a render­ ci conto che la nostra onnipotenza non è in realtà così onnipotente, che i nostri desideri più forti 'non sono potenti abbastanza da, rendere l’impossibile possibile, il timore di aver contribuito alla morte. di una persona cara diminuisce, e con esso il senso di colpa. Il timore è in qualche modo diminuito 11

soltanto a condizione che non sia troppo fortemente preso' in considerazione. Se ne possono vedere ogni giorno le tracce nei corridoi degli ospedali e in co­ loro che hanno perduto qualche persona cara. Marito e moglie possono aver litigato per anni, ma quando il coniuge muore, quello che sopravvive si strapperà i capelli, si lamenterà e piangerà forte, e si batterà il petto con rimpianto, paura e dolore, e dal quei momento temerà la sua propria morte più di prima, credendo ancora nella legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente: « Io sono re­ sponsabile della sua morte, toccherà anche a me’ una morte dolorosa per punizione ». Forse sapere questo ci aiuterà a capire molti dei vecchi usi e rituali che hanno resistito attraverso i secoli e il cui scopo è quello di diminuire l’ira degli dei o della gente secondo il caso, riducendo in tal modo la punizione prevista. Sto pensando alle ce­ neri, agli abiti strappati, al velo, alle Klage Weiber di un tempo: sono tutti modi per invocare pietà su coloro che sono in lacrime, e sono espressioni di tri­ stezza, dolore e vergogna. Se qualcuno si affligge, si batte il petto, si strappa i capelli o rifiuta di man­ giare, è un tentativo di autopunizione per evitare o ridurre la punizione prevista per la sua responsa­ bilità nella morte della persona cara. Questa tristezza, vergogna e senso di colpa sono seguite, a non molta distanza, da sentimenti di ira e di collera. Il processo del dolore include sempre un po’ di collera. Dato che nessuno di noi vuole ammettere di sentirsi in collera verso una persona morta, questi sentimenti sono spesso mascherati o repressi e prolungano - il periodo di dolore o emer­ gono in altri modi. È bene ricordare che non tocca a noi giudicare tali sentimenti come cattivi o ver­ gognosi; noi dobbiamo capirne il giusto significato e l’origine come qualcosa di veramente umano. Per illustrare questo, utilizzerò di nuovo l’esempio del bambino, e del bambino che è in noi. Il bambino di cinque anni che perde la mamma, biasima se stesso per la sua scomparsa e' allo stesso tempo si 12

arrabbia perché essa lo ha lasciato e non ha più soddisfatto i suoi bisogni. La persona morta divie­ ne allora qualcosa che il bambino ama e desidera moltissimo, ma che pure odia con pari intensità per il fatto di esserne così duramente privato.. Gli antichi Ebrei consideravano il corpo di un mor­ to come qualcosa di immondo, da non toccarsi, I vecchi Indiani d’America parlavano degli spiriti cattivi e lanciavano frecce in aria per cacciar via gli spiriti. Molte altre civiltà hanno dei rituali per sor­ vegliare il « cattivo » morto, e tutti traggono origine da questo senso di collera che ancora esiste in tutti noi, anche se ci dispiace ammetterlo. La tradizione della pietra tombale può derivare da questo deside­ rio di tener sotto terra in profondità gli spiriti cat­ tivi, e i sassi che molti, in lacrime, vi buttano al momento ' dell’addio sono tracce simboliche dello stesso desiderio. Quando ai funerali militari si sca­ ricano i fucili, noi didamo che è per l’ultimo salu­ to, ma è lo stesso rituale che usavano gli Indiani g_1;1ando lanciavano in cielo lance e frecce. Faccio questi esempi per far rilevare che l’uomo non è fondamentalmente cambiato. La morte è àn­ cora un Qll.mueldiayg^la,.dQminatar.a...moltì^v^^

tare e_di trattarela morte .e il suo approssimarsi ei nostri malati destinati aderire. Essendo cresciuta in un paese dell’Europa in cui la scienza non è tanto avanzata e le tecniche mo­ derne hanno appena iniziato a servire la medicina e la gente vive ancora come viveva in quel paese cinquantanni fa, ho potuto avere l’opportunità di studiare una parte dell’evoluzione dell’umanità in un periodo piuttosto breve. Ricordo la morte di un contadino avvenuta quand’ero bambina. Cadde da un albero e non . ci fu spèranza per lui. Chiese solo di morire a casa, deside­ rio che fu soddisfatto senza discutere. Chiamò in camera le figlie e parlò pochi minuti da solo con eia13

scuna di loro. Sistemò tranquillamente i suoi affari, benché avesse grandi dolori, e distribuì i suoi averi e la terra, che non dovevano essere divisi finché la moglie non l’avesse seguito nella morte. Chiese anche-a ciascuno dei figli di assumersi il lavoro, i com­ piti e i doveri in cui era impegnato lui fino al mo­ mento dell’incidente. Chiese agli amici di andare a trovarlo ancora una volta per dir loro addio. Ben­ ché a quell’epoca io fossi piccola, non escluse né me né i miei parenti. Potemmo partecipare ai prepa­ rativi della famiglia così come potemmo soffrire con loro fino al momento della morte. Quando poi morì, fu lasciato a casa, nella sua amata casa da lui stesso costruita, e in mezzo agli amici e ai vicini, che an­ darono a vederlo per l’ultima volta, circondato di fiori, nel luogo dove era vissuto e che aveva tanto amato. In quel paese oggi non si usa più una finta camera da letto, né l’imbalsamazione, né il make up per far credere che il morto dorma. Soltanto quando il morto è molto sfigurato dai segni di certe malat­ tie, si copre con bende, e solo i casi infettivi sono rimossi da casa prima della sepoltura. Perché descrivo queste usanze « sorpassate »? Pen­ so che siano indicative della nostra accettazione di una conseguenza fatale e aiutino il morente, come pure la sua famiglia, ad accettare la perdita di una persona cara. Permettendo a un malato di finire la sua vita nell’ambiente amato e familiare, gli si chie­ de un minor sforzo di adattamento. La famiglia lo conosce abbastanza bene per sostituire un sedativo con un bicchiere del suo vino preferito; oppure il profumo di una minestra fatta in casa può stimo­ largli l’appetito per sorseggiare qualche cucchiaiata di liquido che ritengo sia più gradito di una flebo­ clisi. Non voglio minimizzare il bisogno di sedativi e’ di fleboclisi e, per la mia esperienza personalecome medico di campagna, comprendo benissimo che qualche volta essi salvino la vita e siano spesso assolutamente necessari. Ma so anche che la pa­ zienza, i familiari e il cibo consueto potrebbero so­ stituire molti flaconi di fleboclisi, somministrati per 14

la semplice ragione che ciò soddisfa il 'bisogno fisio­ logico senza coinvolgere troppe persone e/o ren­ dere necessaria l’assistenza individuale per dar da mangiare al malato. Il fatto che si permetta ai bambini di rimanere in casa quando un incidente mortale si è abbattuto su di essa, che siano inclusi nella conversazione, nelle discussioni e nei timori, dà loro la sensazione di non esser soli nella sofferenza e il conforto di sentire condivisa la responsabilità e la tristezza. Li prepa­ ra gradualmente e li aiuta a considerare la morte come facente parte della vita: un’esperienza che può aiutarli a crescere e a maturare. Ciò è in grande contrasto con una società in cui la morte.è considerata un., tabù,il_p^inin^ini_g.iudinito morboso,, e , in cui. i bambini Lon­ tani con., la presunzione , e iL pretesto., che perloro .sarebbe « ttoppO-»., Vengono mandati dai parenti, spesso accompagnati con qualche poco convincente bugia del tipo: « la mamma è partita per un lungo viaggio » o altre storie incredibili. Il bambino av­ verte che c’è qualcosa di sbagliato e la sua sfiducia negli adulti finirà solo col crescere se altri parenti aggiungeranno nuove variazioni alla storia, evite­ ranno le sue domande o i suoi sospetti, lo riempi­ ranno di regali come magro surrogato per la perdita che non gli si permette di affrontare. Presto o tardi il bambino si renderà conto della mutata situazione familiare e, a seconda dell’età e della personalità, avrà un trauma non risolto e considererà questo in­ cidente come qualcosa di terribile e misterioso, co­ munque un’esperienza molto traumatica, con adulti indegni di fiducia, contro cui egli non può lottare. È stato parimenti irragionevole dire a una bambina piccola cui era morto il fratellino, che Dio amava tanto , i ragazzini che aveva portato il piccolo Gio­ vanni in cielo. Quando quella bambina crebbe e divenne una donna, non superò mai la collera verso Dio, il che si tramutò in una depressione psichica quando, trenta anni dopo, perse ii suo bambino. Pensiamo che la nostra considerevole emancipazio15

ne, le nostre conoscenze della scienza e dell’uomo ci abbiano fornito modi e mezzi migliori per pre­ parare noi e le nostre famiglie a questo inevitabile avvenimento. Invece sono passati i tempi in cui un uomo poteva morire in pace e con dignità nella propria casa. •X

,e.. rifiutareHjtealti della morte. Com’è possibile? 'Usiamo degli eufemismi, Facciamo in modo che i morti sembrino persone che dormano; mandiamo via i bambini per proteggerli dall’ansia e dall’agita­ zione che ci sono in casa, se il malato è abbastanza fortunato da morire a casa; non permettiamo che i bambini vadano a trovare i loro genitori mori­ bondi all’ospedale, facciamo lunghe e controverse discussioni per sapere se ai malati si dovrebbe dire la verità, problema che sorge raramente quando il morente è assistito dal medico di famiglia che lo conosce fin dalla nascita e sa i punti deboli e le ri­ sorse di ogni membro della famiglia. • Penso che siano molte le ragioni per cui evitiamo JLafitontare ja morte-con calma. Uno dei fatti più importanti è che oggi morire è per molti aspetti più

disumanizzaLo;^qu^lc.he^volta.è.dif5cileperfino._deierminare_tecnicamente il momento in cui è avve-

ìte impersonale. perché _ il lo dall’amhiente familiare e portato in fretta al pronto soccorso. Chiunque sia stato molto ammalato e abbia avuto bisogno dì ri­ poso e di assistenza, può ricordare in modo parti­ colare la sua esperienza: essere messo su di una ba­ rella, il rumore assordante della sirena dell’ambu­ lanza e la corsa precipitosa fino ai cancelli dell’ospe­ dale. Solo coloro che l’hanno vissuto possono co­ noscere il disagio e l’inevitabile freddezza di tale trasporto, che è soltanto l’inizio di una lunga prova, dura da sopportare quando si sta bene, difficile da esprimere in parole quando il rumore, la luce, le

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scosse e le voci superano la capacità di sopportazio­ ne del paziente. Forse potremmo prendere in mag­ gior considerazione il paziente sotto le lenzuola e le coperte, e frenare la nostra bene intesa efficienza e la nostra fretta, per tenere la mano del paziente, sorridere o ascoltare una domanda. &^idorc>..il viaggioalbospodale_.coine.ilprimoepisodin.del_mo- • rire, come lo è per molti. Lo descrivo — in manie­ ra un po' esagerata — in contrasto con il quadro' del malato lasciato a casa, non per dire che non si do­ vrebbero salvare le vite, se con un ricovero ospe­ daliero si possono salvare, ma per fissare l’atten­ zione sull’esperienza del malato, sui suoi bisogni e sulle sue reazioni. Qu^do. andcum.paziente. . è.. ser^m^ente. ammalato,.spesso .l.tat..dLat.dLaCOme.J.mapers.O.na che non dobin^enn di­ che decide se e quando e dove un paziente dovrpb-

poco ..a. rricordore. .che.la.pe.rsona,.^^^..k,deLsentimenti. dei .desideri e.delle..opininni.e. saprat.tut.tQ._ha il. diritto. di essere ascoltato. Ebbene, il nostro presunto malato ha ora raggiunto il pronto soccorso. Sarà circondato da infermiere af­ faccendate, da inservienti, studenti, assistenti, medi­ ci, forse da un tecnico del laboratorio che preleverà del sangue, da qn tecnico dell’elettrocardiogramma che farà il cardiogramma. Forse lo porteranno in ra­ diologia e sentirà pareri sulla sua condizione, discus­ sioni e domande rivolte ai membri della sua fami­ glia. A.pocoa.poco, mainesorabilmente, si comin­ cia a trattarho.^na. una..^^ ^inn_è.più una..per„sona. Spesso .si prendono denicioin senza.il . suo pa­ rere.. Se tenterà di ribellarsi, verrà trattato a base di sedativi e dopo ore di attesa, in cui ci si domanda se egli ha la forza sufficiente, sarà trasportato nella sala operatoria o al centro di rianimazione e diverrà un oggetto di grande interesse e di grande investi­ mento finanziario. Egli può ben invocare il riposo, la pace e la di­ gnità, ma avrà medicine, trasfusioni, un cuore arti17

ficiale o la tracheotomia, se necessario. Può ben desiderare che una sola persona si fermi un minuto per poterle chiedere una cosa soltanto, ma avrà una dozzina di persone sempre intorno, tutte affaccen­ date e preoccupate del suo ritmo cardiaco, del pol­ so, dell’elettrocardiogramma o delle funzioni pol­ monari, delle sue secrezioni o escrezioni, ma non di lui come essere umano. tere cQil!roaue§.l:o modo di fare, ma .sarebJx:. una lott^aJnutile..poiché. questo rientra . neUa.battaglia. per la. sua vim,_.e se. si .può . salvare la .su^yhaLsi prende­ rà in . considerazione. . la sua persona in un secondo tempo. .

questo sembra essere l’elemento razionale o giusti­ ficativo esistente dietro questo atteggiamento: non è così? È forse questa la ragione per cui avvicinia­ mo i nostri meccanismi di difesa in questo modo sempre più meccanico, spersonalizzato? È questo il nostro modo di affrontare e di reprime­ re le ansietà che un paziente destinato a morire o particolarmente grave evoca in noi? La nostra con­ centrazione sull’attrezzatura, sulla pressione del san­ gue è forse un disperato tentativo di rifiutare la morte che ci sovrasta ed è per noi tanto spaventosa e sgradevole da indurci ad affidare tutto il nostro sapere alle macchine, in quanto queste sono meno vicine a noi del volto sofferente di un altro essere umano, che ci ricorderebbe una volta di più la no­ stra non-onnipotenza, i nostri 'limiti e fallimenti, e in fondo anche la nostra mortalità? Forse dovremmo chiederci: stiamo diventando me­ no umani o più umani? Benché questo libro non intenda affatto dare giudizi, è chiaro che, qualun­ que sia la risposta, il malato soffre di più, non forse sotto l’aspetto fisico, ma psicologico. E quello che è cambiato attraverso i secoli non sono i suoi biso­ gni, ma la nostra capacità di soddisfarli.

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_______________________ Capitolo secondo

ATTEGGIAMENTI VERSO LA MORTE E IL MORIRE Gli uomini sono crudeli, ma l'Uomo è gentile, TAGORE, .Uccelli migranti, CCXIX

Contributi della società ai meccanismi di difesa Fin qui abbiamo considerato le reazioni umane indi­ viduali verso la morte e il morire. Ora, prendendo in esame la nostra società, potremmo chiederci che; cosa succede all’uomo in una società che tende a ignorare o a evitare la morte,, Quali sono i fattori, se mai ce ne siano, che contribuiscono a una cre­ scente inquietudine nei confronti della morte? Che cosa succede in un campo della medicina che è in evoluzione, in cui dobbiamo chiederci se la medici­ na deve rimanere una professione umanitaria e de­ gna di rispetto o una scienza nuova ma spersona­ lizzata avente lo scopo di prolungare la vita piutto­ sto che quello di diminuire la' sofferenza umana? Quando gli studenti di medicina hanno a disposizìone dozzine di conferenze su ^NA e DNA, ma hanno una esperienza molto ridotta della semplice relazione medico-malato, che un tempo si conside­ rava fondamentale per la normale riuscita del me­ dico di famiglia? Che cosa succede in una società che si preoccupa più del QI e dell’estrazione socia­ le piuttosto che di semplici argomenti di tatto, sen­ sibilità, intuizione e buon gusto nel trattare i soffe­ renti? In una società che dà tanta importanza alla 19

professione e in cui il giovane studente di medicina è ammirato per le ricerche e per il lavoro di labora­ torio che fa durante i primi anni di università, men­ tre si trova imbarazzato e non sa cosa rispondere quando un malato gli pone una semplice domanda? Se noi potessimo combinare l'insegnamento dei nuovi ritrovati scientifici e tecnici con un pari en­ tusiasmo per le relazioni interpersonali umane, fa­ remmo realmente dei progressi, che invece non faremo comunicando allo studente nuove cognizioni al prezzo di un sempre minore contatto interperso­ nale. Che diverrà mai una società che dà più impor­ tanza ai numeri e alle masse che all'individuo, in cui le scuole di medicina sperano di aumentare le clas­ si, in cui non si cerca il contatto fra insegnanti e studenti, sostituito dall’insegnamento televisivo a circuito chiuso, dalle registrazioni e dai films, che possono raggiungere un maggior numero di stu­ denti in modo più spersonalizzato? Questo spostamento di fuoco dall'individuo alle masse è stato più drammatico in altri campi dell'in­ terazione umana. Osservando i cambiamenti avve­ nuti negli ultimi decenni, possiamo notarlo ovun­ que. Un tempo l’uomo poteva affrontare il suo nemico faccia a faccia. Correva il suo rischio in un incontro personale con un nemico visibile. Ora il soldato, come pure il civile, deve aspettarsi le armi per la distruzione di massa che non presenta­ no per nessuno un rischio motivato; spesso non si ha neppure la consapevolezza che stiano arrivando. La distruzione può piombare dai cieli azzurri e di­ struggere migliaia di persone come la bomba di Hiroshima; può venire sotto forma di gas o piut­ tosto di guerra chimica, invisibile, ma capace di colpire, di uccidere. Non è più l'uomo che lotta per i suoi diritti, per le sue convinzioni o per la sal­ vezza o l'onore della sua famiglia; è la nazione, comprese le donne e i bambini, che è in guerra, colpita direttamente o indirettamente senza una probabilità di sopravvivenza. Ecco come la scienza e la tecnologia hanno contribuito a una sempre 20

maggior paura della distruzione e quindi alla paura della morte. Può sorprendere allora che l’uomo cerchi di difen­ dersi di più? Se la sua capacità a difendersi fisica­ mente diminuisce sempre più, le sue difese psico­ logiche devono aumentare in maniera molteplice. Egli non può per sempre mantenere il rifiuto. Non può' continuamente e con successo pretendere di essere al sicuro. Se noi non possiamo negare la morte, possiamo cercare di dominarla. Possiamo partecipare alla corsa sulle grosse strade, possiamo leggere il tributo mortale che si paga nei giorni festivi e rabbrividirne, ma possiamo anche ralle­ grarci: « È toccata a un altro e non a me, io ce l’ho fatta! ». Gruppi di persone, dalle bande di strada fino alle intere nazioni, possono usare la loro identità di gruppo per esprimere la paura di essere' distrutte attaccando e distruggendo altre persone. La guerra è forse solo un bisogno di affrontare la morte, dì vincerla e dominarla, di venirne fuori vivo, uno strano' modo di negare la propria mortalità? Uno dei nostri malati di leucemia disse con assoluta incredulità: « È impossibile che io muoia ora. Non può essere la volontà di Dio, poiché mi ha fatto sopravvivere quando durante la seconda guerra mondiale sono stato colpito da alcune pallottole cadute a pochi passi da me». Un’altra donna espresse stupore e senso di incre­ dulità descrivendo la « ingiusta morte » di un gio­ vane che era venuto in licenza dal Vietnam e aveva trovato la morte in un incidente automobilistico, co­ me se, una volta tornato a casa, il fatto di essere sopravvissuto sul campo di battaglia fosse una ga­ ranzia di immunità dalla morte.

Una probabilità di pace si potrebbe allora trovare studiando l’atteggiamento che hanno verso la morte i capi delle nazioni, coloro che prendono le ultime decisioni di guerra e di pace fra le nazioni. Se tutti noi facessimo il massimo sforzo per contemplare la 21

nostra morte personale, per lottare contro l'inquie­ tudine che ci prende pensando alla nostra morte, e per aiutare altri a familiarizzare con questi pen­ sieri, forse ci sarebbe meno potenza distruttiva intorno a noi. I giornali potrebbero dare il loro contributo nell’aiutare la gente a guardare in faccia la realtà della morte evitando termini spersonalizzati quali: « La soluzione della questione ebraica » per parla­ re dell’assassinio di milioni di uomini, donne e bambini; o, per usare un argomento più recente, la conquista di una collina nel Vietnam raggiunta di­ struggendo un covo di cannoni e con gravi perdite fra i Vietcong, si potrebbe descrivere in termini di tragedia umana e di perdita di esseri umani da éntrambe le parti. Ne troviamo così tanti esempi su tutti i giornali e negli altri mezzi di comunicazione, che è superfluo dilungarsi in proposito. In conclusione, penso che con il rapido progresso tecnico e i nuovi ritrovati scientifici gli uomini ab­ biano potuto non solo sviluppate nuove capacità ma anche fabbricare nuove armi per la distruzione di massa, che aumentano la paura di una morte violenta, dovuta a una catastrofe. L'uomo deve difendersi psicologicamente in molti modi contro questa accresciuta paura della morte e questa au­ mentata incapacità a prevederla e a proteggersene. Psicologicamente egli può rifiutare per un po' di tempo la realtà della sua morte personale. Dato che nel nostro inconscio noi non possiamo percepire la nostra morte e crediamo nella nostra immortalità, mentre possiamo concepire la morte del nostro vi­ cino, la notizia di numerose persone uccise in bat­ taglia, in guerra, sulle strade sorregge la nostra inconscia fede nell'immortalità e ci permette, nel se­ greto del nostro inconscio, di rallegrarci che « toc­ chi all'altro, non a me ». Se il rifiuto non è più a lungo possibile, possiamo cercare di dominare la morte sfidandola. *Se pos­ siamo guidare sulle autostrade a grande velocità, 22

se riusciamo a tornare a casa dal Vietnam, dobbia­ mo proprio sentirci immuni dalla morte. I nemici che abbiamo ucciso sono dieci volte più numerosi delle perdite che abbiamo avuto noi: lo sentiamo ogni giorno al telegiornale. Forse è questo il no­ stro intimo desiderio, la proiezione del nostro in­ fantile desiderio di onnipotenza e di immortalità? Se una nazione intera, una società intera, soffre una simile paura e un simile rifiuto della morte, -de­ ve usare delle difese che possono essere solo di­ struttive. Guerre, disordini e un numero crescente di assassinii e di altri crimini possono essere indi­ cativi della nostra diminuita capacità di affrontare la morte accettandola con dignità., ' Forse dovremmo ritornare all’essere umano individuale e ripartire da zero, per tentare di concepire la nostra morte personale e imparare ad affrontare questo tragico ma inevitabile evento con meno irrazionalità e paura. Che ruolo ha avuto la religione in questi tempi tanto soggetti a cambiamenti? Una volta sembra­ vano più numerose le persone che credevano in Dio senza contestare; credevano in un aldilà, che doveva liberare la gente dalla sofferenza e dal dolore, Se avevamo sofferto molto qui sulla terra, ci sarebbe stata in cielo una ricompensa, saremmo stati ricompensati dopo la morte in proporzione del coraggio e della disponibilità, della pazienza e della dignità con cui avevamo portato il nostro ■ fardello. La sofferenza era più comune, come il parto era . un evento più naturale, lungo e dolo­ roso, ma quando il bambino nasceva la madre era sveglia. Nella sofferenza c’era un fine e una ri­ compensa futura, Ora noi alle madri diamo seda­ tivi, cerchiamo di evitare il dolore e lo spasimo; possiamo perfino far in modo che la nascita avven­ ga per il compleanno di un parente o evitare che avvenga quando possa interferire con un altro im­ portante avvenimento. Molte madri si svegliano solo alcune ore dopo la nascita dei loro bam­ bini, troppo narcotizzate e sonnolente per godere 23

la nascita del figlio. Non c'è molto senso nel sof­ frire, da quando si possono dare calmanti per il dolore, lo spasimo e altri disturbi. L’idea che la sofferenza sulla terra sarà ricompensata in cielo è svanita da molto tempo. Il soffrire ha perduto il suo significato. Ma con questo cambiamento è accaduto anche che un minor numero di persone crede nella vita dopo la morte, che in sé è forse una negazione della nostra mortalità. Ebbene, se non possiamo aspet­ tarci la vita dopo la morte, allora dobbibio pren­ dere in considerazione la morte. Se non siamo più ricompensati in cielo per le nostre sofferenze, il soffrire diviene, in sé, senza scopo. Se parteci­ piamo ad attività religiose, al fine di socializzare o di andare a una festa, siamo privati del fine pri­ mario della chiesa, quello cioè di dare una speran­ za, uno scopo alle tragedie che avvengono qui sulla terra, e di cercare di comprendere e di dare un significato agli avvenimenti dolorosi, altrimenti inaccettabili, della nostra . vita. Per quanto paradossale possa sembrare, mentre la società ha contribuito al nostro rifiuto della morte, la religione ha perduto molti dei suoi se­ guaci che credevano nella vita oltre la morte, vale a dire nell’immortalità, diminuendo così il rifiuto della morte sotto quell’aspetto. Per il malato è stato un misero cambio. Mentre il rifiuto religioso, cioè la. credenza nel significato della sofferenza qui' sulla terra e nella ricompensa in cielo dopo la morte, offriva una speranza e uno scopo, il rifiuto della società non ha dato né speranza né scopo, ma ha solo aumentato la nostra inquietudine, con­ tribuendo alla crescita del nostro potere distrut­ tivo e aggressivo: uccidere per evitare la realtà e non affrontare la nostra morte personale. Un’occhiata al futuro ci mostra una società in cui si « tiene in vita » un numero sempre maggiore di persone, sia con macchine che sostituiscono or­ gani vitali sia con calcolatori che controllano pe­ riodicamente se debba essere sostituita con uno 24

strumento elettronico qualche altra funzione fi­ siologica. Si possono fondare centri sempre più numerosi in cui si raccolgono dati tecnici e dove, quando il malato spira, si possa accendere una lu­ ce per arrestare automaticamente le macchine. Altri centri possono godere di una sempre mag­ giore popolarità: quelli in cui i defunti sono ve­ locemente congelati per essere posti in uno spe­ ciale edificio a bassa temperatura, in attesa del giorno in cui la scienza e la tecnologia siano suf­ ficientemente progredite da scongelarli, riportarli alla vita e alla società, la quale sarà forse - così spaventosamente sovrapopolata da rendere neces­ sarie speciali commissioni per decidere a chi si possa dare un organo disponibile e chi invece debba morire. Può sembrare tutto molto orribile e incredibile. La triste verità tuttavia è che tutto ciò sta già ac­ cadendo. In questo paese non c'è nessuna legge per impedire alla gente con il bernoccolo degli affari di far soldi sfruttando la paura della morte, e per negare agli opportunisti il diritto di recla­ mizzare e vendere a caro prezzo la promessa di una possibile vita dopo anni di ibernazione. Tali organizzazioni esistono già, e mentre noi possiamo ridere quando qualcuno chiede se la vedova di un ibernato abbia il diritto di ricevere la pensione o di risposarsi, i problemi sono tutti troppo gravi per ignorarli. In realtà essi dimostrano fino a che punto incredibile certa gente rifiuti la morte tan­ to da evitare di affrontarla come una realtà, e sem­ bra giunto il momento in cui la gente di qualsiasi professione e formazione religiosa debba unire - le forze prima che la nostra società divenga tanto pietrificata da autodistruggersi.

Ora che abbiamo dato un’occhiata nel passato alla capacità umana di afrontare la morte con equa­ nimità, e uno sguardo un po’ terrorizzato al fu­ turo, torniamo al presente e chiediamoci molto seriamente che cosa noi, come individui, possiamo 25

fare a questo proposito. È chiaro che non possia­ mo impedire la tendenza complessiva a. crescere numericamente. Viviamo in una società di massa più che di individui. Nelle scuole di medicina le classi diventeranno più numerose, lo vogliamo o no. Il numero delle automobili sulle strade au­ menterà. Crescerà il numero delle persone man­ tenute in vita, considerando solo il progresso avve­ nuto nel campo della cardiologia e della chirurgia cardiaca. Inoltre, non possiamo tornare indietro nel tempo. Non possiamo offrire a ogni bambino l’esperienza positiva di una vita semplice in una fattoria vicino alla natura, l’esperienza della nascita e della morte nell’ambiente naturale del bambino. Né gli uo­ mini delle varie chiese possono riuscire a riportare molte persone a credere nella vita dopo la morte, il che renderebbe il morire più consolante per quanto, in un certo senso, sarebbe attraverso una forma di negazione della mortalità. Noi non possiamo negare l’esistenza di armi per la distruzione di massa, né possiamo retrocedere nel tempo in alcun modo o senso. La scienza e la tec­ nologia ci permetteranno di sostituire altri organi vitali e aumenterà molto la responsabilità nelle questioni concernenti la vita e la morte, i dona­ tori e i destinatari. Problemi di natura legale, mo­ rale, etica e psicologica sorgeranno per la gene­ razione presente e quella futura, che deciderà su questioni sempre crescenti di vita e di morte, fin­ ché anche queste decisioni saranno probabilmente prese dai computers. Benché ogni uomo cerchi di posporre a modo suo tali problemi e le loro soluzioni fin quando non .sia costretto ad affrontarli, egli potrà cambiare le cose solo se comincerà a prendere coscienza della sua morte personale. Questo non si può fare a li­ vello di massa, né con i computers: deve esser fatto da ogni essere umano individualmente. Cia­ scuno di noi vorrebbe evitare questo passo, ep­ pure presto o tardi ciascuno di noi deve affrontar­ 26

lo. Se tutti noi cominciassimo a contemplare la possibilità della nostra morte personale, potrem­ mo effettuare molte cose, la più importante delle quali è il benessere dei nostri malati, delle nostre famiglie e infine forse della nostra nazione. Se potessimo insegnare ai nostri studenti il valo­ re della scienza e della tecnologia insieme all’arte e alla scienza delle relazioni interumane, di un mo­ do umano e globale di curare il malato, ci sareb­ be un reale progresso. Se della scienza e della tec­ nologia non si facesse cattivo uso, servendosene per aumentare la capacità distruttiva, prolungan­ do la vita invece dì renderla più umana; se ce ne potessimo servire per una maggiore liberazione in vista di contatti individuali da persona a persona," potremmo realmente parlare di una grande società. Infine, possiamo raggiungere la pace, la nostra pace interiore come pure la pace fra le nazioni, af­ frontando e accettando la realtà della nostra morte. " Il caso seguente del sig. P., ci offre un esempio di alto livello medico e scientifico e insieme di umanità.

Il signor P. era un malato di 51 anni ricoverato con una sclerosi laterale amiotrofica rapidamente evoluta con interessamento bulbare. Non poteva respirare senza un respiratore, aveva difficoltà a espettorare e gli venne una polmonite e un’infe­ zione in sede di tracheotomia. A causa di quest’ultima non poteva parlare; così giaceva a letto, ascol­ tando l’orribile suono del respiratore, impossibi­ litato a comunicare a chiunque i suoi bisogni, i suoi pensieri e i suoi sentimenti. Non avremmo mai fatto visita a questo malato se non fosse stato per un medico che ebbe il coraggio di chiedere aiu­ to. Un venerdì sera venne da noi e con semplicità chiese aiuto, non tanto per il malato, quanto per se stesso. Mentre, seduti, lo ascoltavamo, sentimmo parlare di sentimenti di cui non si parla spesso. Il dottore 27

era stato assegnato a questo malato al momento dell’accettazione ed era ovviamente impressionato dalle sofferenze di quell’uomo. Il suo malato era relativamente giovane e aveva una malattia neuro­ logica che richiedeva un’immensa attenzione e as­ sistenza da parte del medico per prolungare la sua vita solo di poco tempo. La moglie del malato aveva una sclerosi multipla e da tre anni aveva tutti gli arti paralizzati. Il malato sperava di mo­ rire durante il ricovero essendo inconcepibile per lui essere a casa in due persone entrambe para­ lizzate, che si guardano l’una l’altra senza potersi aiutare. Questa duplice tragedia emerse dall’inquietudine del medico e dai suoi vigorosi sforzi per salvare la vita dell’uomo « in qualsiasi condizione ». Il dot­ tore era consapevole che ciò era contrario ai desi­ deri del malato. I suoi sforzi continuarono con successo anche dopo un’occlusione delle coronarie che complicò il quadro. Là vinse come aveva vinto la polmonite e le infezioni. Quando il malato inco­ minciò a guarire da tutte le complicazioni, sorse la domanda: «E adesso? ». Egli poteva vivere solo con il respiratore e l’assistenza ventiquattr’ore su ventiquattro, incapace di parlare o di muovere un dito, intellettualmente vivo e pienamente consape­ vole della sua situazione, ma altrimenti inabile alla vita. Il medico colse un’implicita critica ai suoi tentativi di salvare quell’uomo. Intuì anche la frustrazione e la rabbia del malato verso di lui. Che cosa poteva fare? Oltretutto era troppo tardi per cambiare le cose. Come medico aveva deside­ rato di far del suo meglio per prolungare la vita, e ora che c’era riuscito, non sentiva altro che un senso di critica (reale o no) e di rabbia da parte del paziente. Decidemmo di tentare di risolvere il conflitto alla presenza del malato, dato che egli ne era una parte importante. Quando gli dicemmo il motivo della nostra visita, il malato sembrò interessato. Fu ovviamente soddisfatto di essere stato incluso, con­ 28

siderato e trattato come una persona, nonostante la sua incapacità di comunicare. Introducendo il problema, io gli chiesi di annuire con la testa o di darci un altro segno se non voleva discutere l’ar­ gomento. I suoi occhi furono più eloquenti delle parole. Ovviamente lottava per dire qualcosa di più e noi cercammo i mezzi che gli permettessero di partecipare. Il medico, sollevato per il fatto di condividere con altri la sua inquietudine, divenne inventivo e per pochi minuti sgonfiò il tubo del respiratore per permettere al malato di esprimere alcune parole mentre espirava. In queste intervi­ ste furono espressi moltissimi sentimenti. Egli sot­ tolineò che non aveva paura di morire, ma aveva paura di vivere. Dimostrò di capire anche il medico, ma gli chiese di « aiutarlo a- vivere ora che con tanti sforzi aveva cercato .di salvarlo ». Il malato sorrise e anche il medico sorrise. Quando i due poterono intendersi, la tensione si allentò molto. Io narrai i conflitti del dottore che il malato ascoltò con simpatia. Gli chiesi qual era il mo_do migliore per aiutarlo ora. Egli descrisse il crescente panico che lo invadeva quando era in­ capace di comunicare con le parole, con lo scritto o con altri mezzi. Ci fu riconoscente per quei po­ chi minuti di sforzo congiunto in cui avevamo po­ tuto comunicare, il che rese molto meno penose le settimane seguenti. In un incontro successivo notai con piacere come il malato considerava per­ fino la possibilità dì andarsene e programmava di trasferirsi alla West Coast « se posso avere là il respiratore e l’assistenza ».

Questo esempio forse dimostra nel modo migliore la situazione in cui si trovano molti giovani me­ dici, che imparano a prolungare la vita, ma sono poco preparati a discutere che cos’è la definizione di « vita », Questo malato si considerava giusta­ mente’" « morto fino alla testa » e la tragedia era che intellettualmente era del tutto consapevole della sua situazione e incapace di muovere un solo 29

dito. Quando il tubo lo premeva e gli faceva male, non poteva dirlo all’infermiera, che stava sempre con lui, ma non era capace di comunicare con lui. Spesso riteniamo scontato che « non c'è nulla da fare » e concentriamo i nostri interessi sulle attrez­ zature più che sulle espressioni del viso del ma­ lato, che può dirci cose più importanti della mac­ china più efficiente. Quando il malato aveva pru­ rito non poteva muoversi né grattarsi né soffiare il naso e si preoccupava di questa impossibilità fino al panico che lo portava « vicino alla follia >>. L’intro­ duzione di queste regolari sedute della durata di cinque minuti aiutò il paziente a essere più calmo e .a sopportare meglio i suoi disagi. Questo liberò il medico dai suoi conflitti e gli as­ sicurò un miglior rapporto con il malato senza senso di colpa o di pietà. Dopo aver visto quanto agio e conforto potevano venire da tali dialoghi di­ retti ed espliciti, li continuò da solo; egli si era servito di noi soltanto come di un catalizzatore per ottenere l’innesto della comunicazione. Sento profondamente che dovrebbe essere così. Non mi sembra utile che si chiami uno psichiatra ogni volta che il rapporto medico-malato è in pe­ ricolo o che un medico non è capace o non vuole discutere con il suo paziente importanti soluzioni. Ho considerato molto coraggioso e segno di una grande maturità da parte di quel giovane medico il fatto di riconoscere i suoi limiti e i suoi con­ flitti e di cercare aiuto, invece di evitare le solu­ zioni e il paziente. Dovremmo mira^ non tanto ad avere specialisti per malati vicini alla morte, , quanto a preparare il nostro personale ospedaliero a essere in grado di affrontare queste difficoltà e a cercarne le soluzioni. Io credo che questo gio­ vane medico sarà meno agitato e meno turbato la prossima volta che incontrerà tragedie del genere. Cercherà di essere un medico e di prolungare la vita, ma anche di considerare i bisogni del malato e di discuterli francamente con lui. Quel malato, che era ancora una persona, era soltanto incapace 30

di sopportare l’idea di vivere, perché era incapace di usare le facoltà che gli erano rimaste. Con sforzi congiunti molte di quelle facoltà possono essere ancora usate, se non ci lasciamo spaventare dalla semplice vista dì un individuo così impotente e sofferente. Forse quello che sto dicendo è che noi possiamo aiutarli a morire cercando di aiutarli •a vivere invece che a vegetare in- modo inumano.

Inizio di un seminario interdisciplinare sulla morte e sul morire Nell’autunno del 1965 quattro studenti del Semi­ nario di Teologia di Chicago chiesero la mia col­ laborazione per svolgere il lavoro di ricerca che essi avevano scelto. La loro classe doveva fare una relazione scritta sulle « crisi della vita umana » e i quattro studenti consideravano la morte .. la crisi più grossa che la gente dovesse affrontare. Al­ lora sorse ovviamente la domanda: come fare una ricerca sul morire quando è così difficile avere dei dati? Quando non si possono verificare i dati e non si possono fare esperimenti? Per un po’ di tempo ci incontrammo e decidemmo che il miglior modo di studiare la morte e il morire era quello di chiedere a dei malati inguaribili di essere i no­ stri maestri. Avremmo osservato alcuni malati gra­ vi, studiato le loro- risposte e i loro bisogni, valu­ tato le reazioni della gente intorno a loro e ci sa­ remmo avvicinati ai morenti quanto essi ce lo avrebbero permesso. ’ Decidemmo di intervistare un malato vicino alla morte la settimana seguente. Ci accordammo sul­ l’ora e il luogo e tutto quanto avevamo progettato sembrava piuttosto semplice e privo di complica­ zioni. Gli studenti non avevano alcuna esperienza clinica né avevano mai incontrato malati senza spe­ ranza negli ospedali; ci aspettavamo quindi da par­ te loro qualche reazione emotiva. Dovevo fare la intervista" io e loro sarebbero stati intorno al letto 31

osservando e guardando. Poi ci saremmo ritirati nel mio studio per discutere le nostre reazioni e la risposta del malato. Credevamo che, facendo molte interviste del genere, avremmo acquisito una sensibilità per i malati vicini a morire e i lo­ ro bisogni, che avremmo poi, appena possibile, cercato di soddisfare. Non avevamo altre idee preconcette né avevamo letto scritti o pubblicazioni su questo argomento. Potevamo quindi avere la mente aperta e regi­ strare solo quello che potevamo notare noi, sia nel malato sia in noi stessi. Di proposito non studia­ vamo _ la cartella clinica del malato in quanto ciò avrebbe potuto diluire o alterare le nostre osser­ vazioni. Non volevamo avere nessuna idea precon­ cetta riguardo alle eventuali reazioni del malato. Eravamo assolutamente preparati, tuttavia, a stu­ diare tutti i dati disponibili dopo aver registrato le nostre impressioni. Questo, pensavamo, ci avreb­ be sensibilizzato ai bisogni dei malati gravi, avreb­ be acuito le nostre capacità percettive e, sperava­ mo, desensibilizzato gli studenti, piuttosto spaven­ tati, attraverso una sempre maggiore possibilità di confronto con malati inguaribili di diverse età e di diversi ambienti. Eravamo molto soddisfatti del nostro piano e le nostre difficoltà ebbero inizio solo alcuni giorni dopo. Incominciai a chiedere a medici di diversi servizi e reparti il permesso di intervistare un loro ma­ lato in fin di vita. Le reazioni furono diverse, dal­ la stupefatta occhiata di incredulità al brusco ta­ glio dell’argomento nella conversazione; il risul­ tato finale fu che non ottenni alcuna possibilità, nemmeno di avvicinare un solo malato del genere. Alcuni dottori « proteggevano » i loro pazienti di­ cendo che erano troppo malati, troppo stanchi o deboli, o che non amavano la conversazione; altri ottusamente rifiutavano di partecipare a tale pro­ getto. A loro difesa devo aggiungere che in qual­ che modo erano giustificati, in quanto io avevo ap32

pena iniziato il mio lavoro in quell’ospedale e nes­ suno aveva . avuto la possibilità di conoscere né me, né lo stile e il genere del mio lavoro. Non aveva­ no nessuna certezza, se non quella che davo io, che i malati non sarebbero stati traumatizzati, che, ignorando la gravità della loro malattia, non ne sarebbero stati informati. Inoltre, quei medici non conoscevano la mia precedente esperienza con i .morenti di altri ospedali. Ho aggiunto questo per presentare le loro reazioni nel miglior modo possibile. Quei dottori, quando si venne a parlare della morte e del suo avvicinarsi, volevano difendere e anche proteggere i loro pa­ zienti per evitare un’esperienza traumatica con un membro ancora sconosciuto della facoltà, che era appena entrato a far parte dei loro quadri. Parve . improvvisamente che non ci fosse nessun malato in fin di vita in quell’immenso ospedale. Le mie telefonate e le visite fatte personalmente nei re­ parti furono tutte vane. Alcuni medici dicevano cortesemente che ci avrebbero pensato, altri dice­ vano che non volevano esporre i loro malati a que­ sti interrogatori in quanto avrebbero potuto stan­ carsi troppo. Un’infermiera rispose rabbiosamente e con estrema incredulità' se trovavo divertente dire a un uomo di ventun anni che aveva solo due settimane di vita! Se ne andò via prima che po­ tessi dire qualcosa di più sul nostro programma. Quando finalmente si ebbe un paziente, questi mi accolse a braccia aperte. Mi invitò a sedermi ed era ovvio che desiderava molto parlare. Gli dissi che non volevo ascoltarlo subito, ma che sarei ri­ tornata il giorno seguente con i miei studenti. Non avevo la disponibilità sufficiente per -cogliere quan­ to mi comunicava. Era stato cosi difficile avere un paziente, che dovevo dividerlo con i miei stu­ denti. Non compresi che quando un malato del genere dice: « Per favore, si sieda ora », domani può essere troppo tardi. Quando tornammo da lui il giorno dopo, era steso sui cuscini, troppo debole 33

per parlare. Fece un piccolo tentativo di alzare il braccio e mormorò: «Grazie del tentativo! ». Mo­ rì poco meno di un’ora dopo e tenne per sé quello che voleva comunicarci e che noi così disperata­ mente volevamo apprendere. Fu la nostra prima e più penosa lezione, ma anche l’inizio di un semi­ nario che doveva cominciare come un esperimento e che per molti finì per essere veramente un’espe­ rienza .di vita. Dopo quell’incontro gli studenti si riunirono con me nel mio studio. Sentivamo il ^^^no di par­ lare dalla nostra esperienza e volevamo, manifesta­ re le nostre reazioni per poterle comprendere Que­ sto modo di procedere è continuato fino a oggi. Tecnicamente è cambiato poco sotto questo aspet­ to. Ancor oggi noi facciamo visita a un malato grave una volta alla settimana. Gli chiediamo il permesso di registrare il dialogo su un nastro e parliamo con lui finché egli si sente di farlo. Ci siamo spostati dalla stanza del malato a una pic­ cola sala dalla quale- possiamo essere visti e sen­ titi, ma noi non vediamo il pubblico. Il gruppo dei quattro studenti di teologia è diventato una classe di cinquanta, .il che .ha reso.necessario ave­ re una specie di schermo divisorio. Quando veniamo a sapere che c’è un malato di­ sponibile per il seminario, fo avvicino da sola o con uno degli studenti e con il medico del reparto, o con il cappellano dell’ospedale, o con entrambi. Dopo una breve presentazione, esponiamo lo sco­ po e il metodo della nostra visita, chiaramente e concretamente. Racconto a ogni paziente che ab­ biamo un gruppo interdisciplinare di personale ospedaliero desideroso di apprendere dal malato. Sottolineiamo che abbiamo bisogno di sapere di più sui pazienti gravi e vicini. alla morte. Poi fac­ ciamo una pausa e aspettiamo le reazioni verbali o non verbali. Facciamo questo soltanto dopo che il malato ci abbia invitato a parlare. Ecco un dia­ logo tipico: 34

Dottore- Buon giorno, signor X. Io sono il dottor

R. e questo è il cappellano N. Si sente di parlare un po'? Malato;. Sì, ad ogni modo accomodatevi. Dottore: Siamo qui con una richiesta particolare. Il cappellano N. ed io stiamo lavorando con un gruppo di persone dell’ospedale che cercano di sa­ pere qualcosa di più sui malati molto gravi e desti­ nati a morire. Si sentirebbe di rispondere a qualche nostra domanda? Malato: Chiedete e vedrò se posso rispondere. Dottore: Che malattia ha? Malato: Sono pieno di metastasi ... (un’altra malata può dire: «Vuole davvero parla­ re a una donna vecchia e in fin di vita? Lei è gio­ vane e sana! »). Altri non sono cosi accoglienti al primo momento. Cominciano a lamentarsi dei loro dolori, del loro scoraggiamento, del loro rancore, finché arrivano a parlare della loro angoscia. Allora ricordiamo loro che questo è esattamente quanto volevamo che gli altri sentissero e li preghiamo di voler ri­ petere le stesse cose un poco più tardi. Quando il malato è d'accordo, il dottore ha dato il permesso e -tutto è pronto, conduciamo noi per­ sonalmente il malato nella sala delle interviste. Pochissimi camminano, la maggior parte sono sul­ la carrozzella, alcuni devono essere portati in ba­ rella.. Quando sono necessarie fleboclisi e trasfu­ sioni, si portano appresso. I parenti non sono stati ammessi, benché siano stati occasionalmente inter­ vistati dopo il dialogo con il malato. Le nostre interviste tengono presente che nessuno sa molto, se pur sa qualcosa, sull'ambiente da cui proviene il malato, Di solito, andando verso la sala delle interviste, ripetiamo lo scopo dell'inter­ vista e sottolineiamo il diritto del malato a inter­ rompere la seduta in qualsiasi momento e per qual­ siasi ragione. Descriviamo di nuovo lo specchio sulla parete che rende possibile al pubblico di ve­ 35

dere e sentire noi e questo permette al paziente un momento di intimità con noi, che spesso viene utilizzato per alleviare le ansietà e i timori dell’ul­ timo minuto. Una volta nella sala delle interviste, la conversa­ zione fluisce facilmente e rapidamente, iniziando con informazioni di ordine generale e proseguen­ do con relazioni molto personali, come è dimo­ strato nelle interviste registrate, alcune delle quali sono presentate in questo libro. Dopo ogni seduta, dapprima si riaccompagna il paziente nella sua stanza, dopo di che il seminario continua. Non si tiene mai il malato ad aspettare. nei corridoi. Quando l'intervistatore è ritornato nell'aula, si unisce al pubblico e insieme discutia­ mo l'avvenimento. Si esprimono le nostre reazioni spontanee, siano essere adeguate o irrazionali. Di­ scutiamo le nostre diverse risposte, sia quelle emo­ tive, sia quelle intellettuali. Discutiamo la rispo­ sta del malato ai diversi intervistatori e alle diver­ se domande e ai diversi modi di avvicinarlo, e in­ fine cerchiamo di comprendere in modo psicodi­ namico quanto ci ha comunicato. Studiamo le sue foforze.e leaie.debAged », Relazione dell’incontro della Gerontological Society, Frontiers of Hospital Psychiatry (1966), p. 3. Zilboorg, Gregory, « Differential Diagnostic Types of Suicide », Archives of Neurology and Psychiatry, Vol. 35, n. 2 (febbraio, 1936), pp. 270-291. —, « Fear of Death », Psychoanalytic Quarterly, Vol. 12 1934), pp. 465-475.

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INDICE

Prefazione

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capitolo primo LA PAURA DELLA MORTE

capitolo secondo

ATTEGGIAMENTI VERSO LA MORTE E IL MORIRE

Contributi della società ai meccanismi di difesa Inizio di un seminario interdisciplinare sulla morte e sul morire - L'insegnamento dei mo­ renti capitolo terzo

PRIMA FASE': RIFIUTO E ISOLAMENTO capitolo quarto SECONDA FASE: LA COLLERA

capitolo quinto TERZA FASE: VENIRE A PATTI

capitolo sesto QUARTA FASE: LA DEPRESSIONE

capitolo settimo

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QUINTA FASE: L'ACCETTAZIONE capitolo ottavo LA SPERANZA

capitolo nono LA FAMIGLIA DEL MALATO

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Cambiamenti in casa e risvolti sulla famìglia • Problemi di comunicazione - Come si affronta nella famiglia la realtà di una malattìa ingua­ ribile - La famiglia dopo l’evento della morte • Sentimenti dì dolore e di collera capitolo decimo

ALCUNE INTERVISTE CON MALATI VICINI ALLA MORTE

202

capitolo undicesimo REAZIONI AL SEMINARIO SULLA MORTE E SUL MORIRE '

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Reazioni del personale addetto all’assistenza Reazioni degli studenti - Reazioni dei malati capitolo dodicesimo TERAPIA DEI MALATI INGUARIBILI

Il silenzio che va oltre le parole BIBLIOGRAFIA

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